Ricercare I problemi filosofici della teoria della relatività. Lezioni 1920-1921 9788857530628

Scienza e filosofia vivono da secoli un rapporto conflittuale. Grande interprete di questa relazione, Cassirer si dedica

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Table of contents :
I PROBLEMI FILOSOFICI
DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ
I PROBLEMI FILOSOFICI DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ
INDICE
INTRODUZIONE Una nuova immagine del mondo1
AVVERTENZA
[29] PREMESSA
[31] I PROBLEMI FILOSOFICI DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ
[49] CAPITOLO 1
IL CONCETTO DI VERITÀ E IL CONCETTO DI REALTÀ IN FISICA1
[88] CAPITOLO 3 SPAZIO E TEMPO
[107] CAPITOLO 4
IL PROBLEMA DELL’OGGETTO NELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ
[109] CAPITOLO 5
LA DOTTRINA KANTIANA DELLO SPAZIO E DEL TEMPO E LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ
[46] APPENDICE
INDICE DEI NOMI
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I problemi filosofici della teoria della relatività. Lezioni 1920-1921
 9788857530628

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ERNST CASSIRER

I PROBLEMI FILOSOFICI DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ LEZIONI 1920-1921 A CURA DI RENATO PETTOELLO

MIMESIS/RICERCARE

Ernst Cassirer

I PROBLEMI FILOSOFICI DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ Lezioni 1920-1921 a cura di Renato Pettoello

MIMESIS

Titolo originale: Die philosophischen Probleme der Relativitätstheorie, contenuto in E. Cassirer, Nachgelassene Manuskripte und Texte, Bd. 8: Vorlesungen und Vorträge zu philosophischen Problemen der Wissenschaften 1907-1945, hrsg. von J. Fingerhut, G. Hartung und R. Kramme, Meiner, Hamburg 2010, pp. 29-116.

MIMESIS EDIZIONI (Milano - Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected]

Collana: Ricercare, n. 10 Isbn: 9788857530628

© 2015 - MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935

INDICE

Introduzione Una nuova immagine del mondo di Renato Pettoello

7

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Avvertenza Ernst Cassirer

I PROBLEMI FILOSOFICI DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ Premessa

33

I

37

problemi filosofici della teoria della relatività

1. Il concetto di

57

verità e il concetto di realtà in fisica

2.1 fondamenti concettuali e sperimentali della teoria della relatività speciale e generale

3. Spazio e tempo

81

103

4. Il problema dell’oggetto nella teoria della relatività

125

5. La dottrina kantiana dello spazio e del tempo e la teoria della relatività

129

Appendice

139

Indice dei nomi

143

Renato Pettoello

INTRODUZIONE Una nuova immagine del mondo1

«Der gesunde Gelehrte, der Mann, bei dem Nachdenken keine Krankheit ist». (G. Ch. Lichtenberg)

1. Nel 1905 Einstein pubblica, insieme ad altri fondamentali lavori, una memoria di una trentina di pagine dal titolo Elektrodynamik bewegter Körper. È l’atto di nascita della teoria della relatività12. Il giovane scien­ ziato, impiegato all’ufficio brevetti di Berna, risolveva così arditamente alcuni dei più tormentosi problemi lasciati in eredità dalla ricerca fisica del XIX secolo ed in particolare quelli legati all’elettrodinamica e all’ot­ tica. E lo stesso Einstein ad ammetterlo apertamente, rivendicando nel contempo la grande semplificazione delle teorie precedenti: la teoria della relatività (ristretta) si è sviluppata dall’elettrodinamica e dall’ottica. In questi campi essa non ha modificato in modo apprezzabile gli enunciati della teoria (di tali fenomeni), ma ne ha considerevolmente semplificato la costruzione teorica, cioè la derivazione delle leggi e - cosa di gran lunga più importante - ha ridotto in misura notevole il numero delle ipotesi fra loro indipendenti su cui tale costruzione si basa3. 1

2

3

Per le sigle utilizzate in questa Introduzione e nel corso dell’opera, così come per l’indicazione della traduzione delle opere di Einstein cui si è fatto ricorso, si veda V Avvertenza, a p. 29. Bisognerebbe aggiungere anche il brevissimo lavoro dal titolo Ist die Trägheit eines Körpers von seinem Energieinhalt abhängig?, CP, voi. 2, pp. 312-314. A. Einstein, Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie. Geme­ inverständlich, CP, voi. 6, pp. 453-454; tr. it. cit., p. 419.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

L’elettromagnetismo di Faradey e Maxwell aveva minato pro­ fondamente il modello meccanicistico di spiegazione del mondo, anche se Maxwell stesso non lo abbandonò mai del tutto. Inoltre la teoria del campo elettromagnetico metteva fondamentalmente in crisi l’idea, centrale nella meccanica newtoniana, dell’azione a distanza, istantanea. È ormai evidente che l’azione può propagarsi soltanto attraverso un corpo intermedio e con un tempo finito e che, per così dire, il “protagonista” degli eventi fisici non sono i corpi, ma, appunto, il campo. Bisogna inoltre ricordare che lo studio dei fenomeni elettromagnetici evidenziò l’affinità dei feno­ meni elettrici e di quelli magnetici che, fino ad allora, sembravano distinti e che la velocità di propagazione di tali fenomeni è pros­ sima a quella della luce. Quest’ultimo aspetto rese evidente che i fenomeni elettromagnetici non sono invarianti rispetto alle tra­ sformazioni classiche o galileiane. Di qui la necessità di elaborare delle nuove trasformazioni per le quali i fenomeni elettromagnetici risultassero invarianti. Al grande scienziato olandese Hendrik A. Lorentz si deve appunto la formulazione di queste trasformazioni, note oggi come trasformazioni di Lorentz, che costituiranno parte integrante della struttura matematica della relatività ristretta. Ve­ diamole brevemente: x-vt

y'=y, z =z,

Nella colonna di sinistra, prima dell’uguale, sono riportate le tra­ sformazioni galileiane, vale a dire le tre coordinate spaziali e la coor­ dinata temporale, a destra dell’uguale le trasformazioni di Lorentz. In entrambi i casi si tratta di moti rettilinei uniformi e in entrambi i casi

R. Pettoello - Una nuova immagine del mondo

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si tratta di mettere in relazione distanze e tempi osservati su sistemi in quiete, con quelli osservati su sistemi relativamente in moto. Ma, mentre nella fisica classica, distanze e tempi non vengono alterati dal­ la velocità del sistema in questione (come evidenziano chiaramente le trasformazioni galileiane), le trasformazioni di Lorentz riducono le distanze e i tempi osservati nei sistemi in moto alle condizioni dell’os­ servatore in quiete, mantenendo la velocità c della luce costante per tutti gli osservatori. È evidente che, trattandosi di moto traslatorio, come per le leggi di trasformazione classiche, le dimensioni y' e z , vale a dire le dimensioni misurate relativamente al sistema in moto ad angoli retti rispetto a x e ad angoli retti l’un rispetto all’altro (cioè altezza e larghezza), non subiscono variazioni per effetto del moto. È importante osservare che quando la velocità del sistema in moto v è molto piccola, rispetto alla velocità della luce c, le equazioni delle tra­ sformazioni di Lorentz si riducono sostanzialmente alla relazione del principio classico della somma delle velocità. Quando però la velocità v è molto elevata e prossima alla velocità c, allora i valori di x' e di t' cambiano in modo radicale. Tutto ciò è particolarmente evidente nella quarta trasformazione, quella relativa al tempo, dove peraltro si ottiene un altro significativo risultato: il tempo non è più un concetto assoluto e indipendente, come avveniva nella fisica classica, ma dipende dal sistema di riferimento. Ho ritenuto opportuno soffermarmi brevemente sulle trasformazio­ ni di Lorentz, in considerazione dell’importanza che esse hanno avuto per l’elaborazione della relatività ristretta, tanto che Einstein scriverà, ancora molti anni dopo, che «il contenuto della teoria della relatività ristretta può [...] essere sintetizzato in una sola proposizione: tutte le leggi naturali devono essere invarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz»4. Un altro rilevante problema, rimasto aperto nella fisica classica ed al quale la relatività ristretta darà risposta con un vero e proprio colpo di spugna, è quello relativo alla natura dell’etere. L’ipotesi di un etere luminifero pare infatti ormai del tutto superflua ad Einstein, in quanto la teoria della relatività ristretta non ha bisogno di «uno “spazio assolu­ tamente stazionario” corredato di particolari proprietà, né di un vettore 4

A. Einstein, The Fundamentais of Theoretical Physics, in Id., Out ofMy Later Years, Thames & Hudson, London 1950, p. 104; tr. it. cit., p. 570.

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/ problemi filosofici della teoria della relatività

velocità assegnato a un punto dello spazio vuoto nel quale abbiano luo­ go processi elettromagnetici»5. La necessità di spiegare la propagazione della luce e poi delle onde elettromagnetiche aveva indotto i fisici ad ipotizzare l’esistenza di una sostanza materiale che riempie lo spazio e penetra i corpi. La natura ondulatoria della luce sembrava infatti richiedere, sul modello del moto ondulatorio dei fluidi, la presenza di questo mezzo. Si trat­ tava però di capire quali proprietà fisiche esso dovesse avere e qui la questione s’ingarbugliò ben presto: a seconda delle esigenze, l’etere venne infatti interpretato ora come un fluido, ora come un solido ela­ stico, ora come un corpo rigido. La sostanziale identità di natura dei fenomeni elettrici e magnetici con quelli della luce, cui conduceva la teoria di Maxwell e Faraday, sembrava appianare, almeno in parte, le difficoltà, in quanto il concetto di etere finiva col coincidere sostan­ zialmente con il campo elettromagnetico, che possedeva un più chiaro significato fisico. Restavano però da chiarire almeno due aspetti non certo secondari: si trattava di capire per quale motivo non fosse pos­ sibile rilevare alcuna resistenza del presunto mezzo materiale al moto dei corpi e se l’etere fosse trascinato dai corpi oppure no. Per dare risposta a questi problemi era necessario elaborare un’elettrodinamica dei corpi in movimento. Il primo a tentare di costruire una dinamica del genere, su basi classiche, fu Hertz che, pur separando radical­ mente etere e materia, era però costretto a supporre 1’esistenza di un movimento dell’etere da parte dei corpi materiali. Questa complessa teoria venne tuttavia ben presto abbandonata, perché si scontrava con l’evidenza sperimentale. Non meno problematici risultarono gli altri tentativi di comprendere il presunto trascinamento dell’etere. I due esperimenti più rilevanti e in contraddizione tra loro, in quest’am­ bito, furono quello di Fizeau che mostrava come l’etere luminifero non possa essere trascinato completamente dalla materia in moto (in questo caso un fluido) attraverso di esso; e quello, notissimo, di Michelson-Morley che dimostrava che il “vento d’etere”, ipotizzato da Hertz, non esiste e che l’etere non può essere trascinato dal moto della terra. L’ultimo tentativo di salvare l’etere fu fatto da Lorentz, che lo identificava col campo elettromagnetico nel vuoto, deprivan­ 5

A. Einstein, Elektrodynamik bewegter Körper, CP, voi. 2, p. 277; tr. it. cit., p. 149.

R. Pettoello - Una nuova immagine del mondo

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dolo sostanzialmente di ogni proprietà meccanica. Ancora una volta Lorentz avrà un ruolo importante nell’elaborazione della teoria della relatività, questa volta della relatività generale, tanto che Einstein ar­ riverà ad affermare che «l’etere della teoria della relatività generale», perché, come vedremo tra breve Einstein recupererà il concetto di etere, «è idealmente riconducibile a quello di Lorentz»6, naturalmente sostituendo le funzioni spaziali che lo descrivono con altre costanti e prescindendo dalle cause che ne determinerebbero lo stato. L’esperimento di Michelson-Morley aveva mostrato, contro ogni aspettativa, che la velocità della luce rimaneva invariata, sia che il rag­ gio luminoso fosse lanciato nella presunta direzione del vento d’etere, sia che fosse lanciato nella direzione opposta. Il risultato evidente, an­ che se sconcertante, era che non esisteva alcun vento d’etere: la velocità della luce era del tutto indipendente dalla direzione. In sostanza l’espe­ rimento dimostrava che tutti i fenomeni ottici si comportano come se non vi fosse una traslazione della terra rispetto all’etere. Per rispondere all’esperimento di Michelson-Morley, e salvare la fìsica classica e il concetto di etere, - seguendo una strada già proposta autonomamente qualche anno prima da George F. Fitzgerald - Lorentz avanzava l’ipo­ tesi che un corpo in movimento subisca una contrazione della propria lunghezza nella direzione del moto. Tale contrazione coinvolgerebbe le forze che mantengono coese le molecole che costituiscono i corpi. L’e­ laborazione definitiva di questa teoria di Lorentz, così come delle sue trasformazioni è del 1904. È a questo punto che entra in campo la teo­ ria della relatività. Senza voler togliere nulla alla genialità di Einstein, bisogna però dire che - come avviene spesso - la teoria della relatività era, per così dire, nell’aria. È innegabile, ad esempio, che Poincaré, pur non elaborando una teoria compiuta, si era spinto già molto avan­ ti in questa direzione. Né erano mancati lavori di rilievo che avevano preparato il terreno alla nuova teoria, dai lavori sulla deformazione dei campi generati da cariche ad altissima velocità e sulla simmetria forma­ le nella formulazione delle equazioni di campo di Heaviside e Hertz, ai lavori dello stesso Lorentz di cui parlerò tra breve. E però innegabile anche che soltanto Einstein fece il passo decisivo, avanzando una teoria che risolveva con grande “semplicità” ed eleganza alcuni dei problemi 6

A. Einstein, Äther und Relativitätstheorie, CP, voi. 7, p. 318; tr. it. cit., p. 514.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

rimasti irrisolti nella fisica classica e apriva prospettive nuove ed una nuova immagine del mondo.

2. La teoria della relatività ristretta che si applica soltanto ai sistemi inerziali, cioè a sistemi in moto rettilineo uniforme e al caso limite in cui sia assente il campo gravitazionale, si basa su due postulati (così li definisce lo stesso Einstein) fondamentali, sufficienti ad elaborare una teoria elettrodinamica dei corpi in movimento: 1) il «principio di rela­ tività», o, come dirà più tardi, per distinguerlo dal principio della rela­ tività generale, il «“principio di relatività ristretta”»: «per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazioni della meccanica varranno anche le stesse leggi elettrodinamiche e ottiche»7, ovvero: «se un siste­ ma di coordinate è scelto in modo tale che le leggi fisiche siano soddi­ sfatte nella loro forma più semplice, le stesse leggi debbono essere sod­ disfatte se riferite ad ogni altro sistema di coordinate K' che si muova di moto traslato rettilineo uniforme rispetto al sistema Ä»8; 2) il postulato secondo il quale «la luce, nello spazio vuoto, si [propaga] sempre con una velocità determinata, c, che non dipende dallo stato di moto del corpo che la emette»9. Da questi due postulati discendono conseguenze apparentemente paradossali. Innanzitutto, e questa è la «chiave di volta dell’intera costruzione teorica» della relatività, in natura non esistono stati di moto privilegiati: due sistemi simultanei in un sistema di riferi­ mento possono non esserlo in un altro. Non esistono azioni istantanee a distanza, come pretendeva Newton: «il concetto di simultaneità di eventi spazialmente distanti», osserva Einstein, si riduce «a quello di simultaneità di eventi che avvengono nello stesso punto (coincidenza), vale a dire l’arrivo del segnale luminoso in C e la lettura fatta su C [ove 7 8

9

A. Einstein, Elektrodynamik bewegter Körper, CP, voi. 2, pp. 276-277; tr. it. cit., pp. 148-149. A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, CP, voi. 6, p. 285; tr. it. cit., p. 283. Più tardi ne darà questa definizione: «le leggi di natura sono invarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz (vale a dire, una legge di natura non muta forma se si introduce in essa un nuo­ vo sistema inerziale mediante una trasformazione di Lorentz su x, y, z, f)» (A. Einstein, The Theory of Relativity, in Id., Out ofMy Later Years, cit., p.44; tr. it. cit., p. 588). A. Einstein, Elektrodynamik bewegter Körper, CP, voi. 2, p. 277; tr. it. cit., p. 149.

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C indica l’orologio di riferimento]»1011 . Nella teoria della relatività, che anche in questo sviluppa le idee fondamentali dell’elettromagnetismo di Faraday e Maxwell, l’azione a distanza attraverso un mezzo interme­ dio con velocità della luce, quindi finita, sostituisce l’azione a distanza istantanea nel vuoto, con velocità di propagazione infinita. Tempo e spazio sono relativi. Mentre per la fisica classica la posizione di un oggetto in movimento è descritta dalla tre coordinate dello spazio più la coordinata del tempo che trascorre durante il moto dell’oggetto - sono quindi grandezze indipendenti e distinte - per la teoria della relatività gli intervalli di spazio e gli intervalli di tempo sono strettamente corre­ lati tra loro. Ad un evento relativistico debbono dunque essere associate quattro coordinate per descrivere uno stato fisico. Nella fisica classica il continuo quadridimensionale si scindeva oggettivamente in un tempo unidirezionale e in sezioni spaziali tridimensionali che contengono sol­ tanto eventi simultanei. Nella teoria della relatività invece, «il continuo quadridimensionale non può più [...] essere scisso oggettivamente in sezioni, tutte contenenti eventi simultanei; il termine “adesso” perde per il mondo spazialmente esteso il suo significato oggettivo». Quindi «spazio e tempo debbono venir considerati come un continuo quadri­ dimensionale che è oggettivamente inscindibile, se si desidera espri­ mere il contenuto delle relazioni oggettive senza un’inutile arbitrarietà convenzionale»11. Spazio e tempo sono dunque grandezze relative, cioè dipendono dal sistema di riferimento nel quale vengono misurati. A ve­ locità prossime a quella della luce si assiste ad una dilatazione dei tempi e ad una contrazione degli spazi e un aumento della massa dei corpi (come si vede, sia pure in un contesto del tutto mutato, viene ripresa l’ipotesi delle contrazioni di Lorentz). Analogamente a quanto avvie­ ne per spazio e tempo si ha anche una relativizzazione del concetto di massa. Diversamente dalla fisica classica il principio di conservazione dell’energia e il principio di conservazione della massa non sono due principi distinti ed indipendenti. Per la teoria della relatività si tratta di un unico principio. La massa non è più una grandezza costante. Una 10 11

A. Einstein, The Theory ofRelativity ( 1949), in Id., Out ofMy Later Years, cit., p. 43; tr. it. cit., p. 587. A. Einstein, Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie. Ge­ meinverständlich, Anhang: Relativität und Raumproblem, CP, voi. 6, p. 528; tr.it. cit., pp. 497-498.

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/ problemi filosofici della teoria della relatività

conseguenza necessaria delle equazioni della teoria della relatività è che la velocità della luce è la velocità limite e «velocità superiori a quel­ la della luce non hanno [...] alcuna possibilità di esistenza»12. Quindi la velocità di un corpo non può più aumentare, oltre la velocità della luce. Ne consegue che il lavoro compiuto sul corpo aumenta la sua massa, mentre normalmente il lavoro compiuto su un corpo aumenta la sua energia. Massa ed energia finiscono così per essere grandezze intercam­ biabili. Di qui la famosa formula E = me2. Si tratta, a detta dello stesso Einstein, del «risultato più importante di carattere generale» cui abbi condotto la relatività ristretta: il risultato più importante della teoria della relatività ristretta riguar­ dava la massa inerziale di un sistema materiale. Risultò evidente che l’inerzia di un tale sistema deve dipendere dal suo contenuto energetico, di modo che fummo costretti alla concezione secondo cui la massa iner­ ziale non è altro che energia latente. Il principio della conservazione della massa perse la sua indipendenza e si fuse con quello della conser­ vazione dell’energia13.

Quanto alla vexata quaestio relativa alla natura dell’etere, Einstein come abbiamo visto, crede di poterla risolvere con un tratto di penna, dichiarando l’etere un’ipotesi inutile e quindi da eliminare. E tuttavia, già nel 1920 egli ammetterà che «la negazione dell’etere non è neces­ sariamente richiesta dal principio di relatività ristretta»14, a condizione, naturalmente, che all’etere non venga attribuito un determinato stato di moto. Se dunque in un primo tempo l’ipotesi dell’etere non poteva non risultare un’«ipotesi vuota», questa ipotesi, osserverà Einstein, «in sé, non contraddice la teoria della relatività ristretta»15. Il problema si ri­ presenterà passando alla relatività generale. La necessità di riconoscere allo spazio delle proprietà fisiche sembra implicare la reintroduzione del concetto di etere, un etere, dedotto da quello di Lorentz, ma che ha 12 13

14 15

A. Einstein, Elektrodynamik bewegter Körper, CP, voi. 2, p. 305; tr. it. cit., p. 176. A. Einstein, Time, Space and Gravitation, in Id., Out ofMy Later Years, cit., p. 56; tr. it. cit., p. 582. A. Einstein, Äther und Relativitätstheorie, CP, voi. 7, p. 314; tr. it. cit., p. 511. Ivi, p. 315; tr. it. cit., p. 512.

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perso ormai ogni proprietà meccanica e cinematica, e che tuttavia deter­ mina i fenomeni meccanici ed elettromagnetici. In sostanza: secondo la teoria della relatività generale lo spazio è dotato di proprietà fisiche; in tal senso un etere esiste, e anzi uno spazio privo di etere è incon­ cepibile, perché non solo la propagazione della luce vi sarebbe impossibile, ma neppure avrebbe senso, per un tale spazio, parlare di regoli di misura e di orologi e neppure, di conseguenza, di distanze spazio-temporali nel senso della fisica16.

È evidente però che in questo modo l’etere gravitazionale finisce col coincidere con lo spazio: «secondo la teoria della relatività generale», dirà ancora più chiaramente Einstein, «lo spazio non ha un’esistenza se­ parata rispetto a “ciò che riempie lo spazio” e che dipende dalle coordi­ nate. [...] Non esiste un qualcosa come uno spazio vuoto senza campo. Lo spazio-tempo non pretende di avere un’esistenza per proprio conto, ma soltanto una qualità strutturale del campo»1718 . Nel 1916, dopo un lungo e complesso lavoro, finalmente Einstein pubblica la prima versione completa della teoria della relatività gene­ rale, col titolo Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie. Come abbiamo visto la teoria della relatività ristretta risolveva i proble­ mi dell’elettrodinamica dei corpi in movimento, limitatamente al moto rettilineo uniforme. Ora la relatività generale intende dare conto di ogni tipo di moto, perché «le leggi della fisica debbono essere di natura tale che le si possa applicare a sistemi di riferimento comunque in moto»16. A questo scopo saranno necessari profondi mutamenti rispetto alla teo­ ria del 1905, tra l’altro sarà necessario abbandonare il postulato della costanza della velocità della luce. Ciò non significa, però, che allora la teoria della relatività ristretta sia “falsa”. La teoria della relatività ge­ nerale presuppone infatti la validità della teoria della relatività ristretta come «caso limite» (essa infatti rimane valida per regioni quadridimen­

16 Ivi, p. 320; tr. it. cit., p. 516. 17 A. Einstein, Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie. Ge­ meinverständlich, Anhang: Relativität und Raumproblem, CP, voi. 6, pp. 532-533; tr. it. cit., pp. 502-503. 18 A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, CP, voi. 6, p. 287; tr. it. cit., p. 285.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

sionali infinitamente piccole, purché le coordinate siano scelte conve­ nientemente) e ne «rappresenta il logico sviluppo»19. Uno dei primi risultati cui porta la teoria della relatività generale è che spazio e tempo non possono venire definiti in modo tale che le differenze tra le coordinate spaziali possano venire misurate direttamente, ricorrendo ad un regolo campione, scelto come unità di misura, come avveniva nella relatività ristretta, e che le differenze tra le co­ ordinate temporali possano venire misurate direttamente, ricorrendo ad un orologio campione. Spazio e tempo perdono «l’ultimo avanzo di obiettività fisica». Non rimane altro da fare, a parere di Einstein, che considerare, per principio, tutti i sistemi immaginabili di coordi­ nate come ugualmente idonei per la descrizione della natura. Vale a dire: «le leggi generali della natura debbono potersi esprimere me­ diante equazioni che valgano per tutti i sistemi di coordinate, siano cioè covarianti rispetto a qualunque sostituzione (covarianti in modo generale)»20. Si tratta del tanto discusso «postulato della covarianza generale» che occuperà Einstein fino agli ultimi anni di vita. La di­ scussione, inaugurata fin dal 1917 dal notissimo intervento dell’allora giovanissimo matematico Erich Kretschmann, verteva principalmente sulla natura puramente matematica o anche fisica della covarianza ge­ nerale. Come scrive giustamente Thomas Ryckman, ma lo vedremo meglio in seguito, sia nel caso di Einstein, sia nel caso di Cassirer, il postulato della covarianza generale va interpretato come un'«esigen­ za costitutiva a priori, benché con un valore guida regolativo», sulla quale non può non poggiare la concezione dell'oggettività fisica. «Un siffatto ruolo può essere giocato soltanto da principi di metalivello, quali i principi di invarianza delle leggi»21. In ogni caso, «l’obiettivo della teoria della relatività generale», osserva Einstein, consiste nella realizzazione del seguente programma, espresso dal postulato secondo cui «le leggi naturali devono essere formulate in maniera tale che la

19

20 21

A. Einstein, The Theory of Relativity, in Id., Out of My Later Years, cit., p.44; tr. it. cit., p. 586. A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, CP, voi. 6, p. 291 ; tr. it. cit., p. 289. T. Ryckman, The Reign of Relativity. Philosophy in Physics 1915-1925, Oxford University Press, Oxford-New York ecc. 2005, p. 24, ma in proposito si veda l’intero Capitolo 2, pp. 13-46.

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loro forma sia identica per sistemi di coordinate dotati di uno stato di moto qualsiasi»22. Una delle prime conseguenze della nuova teoria, come si è accenna­ to in precedenza, è l’abbandono del secondo postulato della relatività ristretta: la velocità della luce resta la velocità limite, ma non è più un valore costante, in quanto la luce viene attratta dai campi gravitazionali e quindi assume velocità diverse. Ma una conseguenza ancora più ge­ nerale della relatività generale è il principio di equivalenza, in base al quale «il sistema inerziale perde il suo significato, mentre si giunge ad una “spiegazione” dell’uguaglianza numerica fra massa gravitazionale e massa inerziale: è una medesima proprietà della materia ad apparire come peso o come inerzia a seconda della modalità di descrizione»23. In sostanza la massa inerziale di un corpo, come Einstein mostra anche grazie ad un famoso esperimento mentale, è uguale alla sua massa gra­ vitazionale. Nei campi gravitazionali, però, non esistono corpi rigidi con proprietà euclidee. Infatti il comportamento dei regoli campione e degli orologi è influenzato dai campi gravitazionali, cioè dalla distribu­ zione della materia, e «le proprietà geometriche dello spazio non sono autonome, ma sono determinate dalla materia»24. La domanda quindi se la geometria euclidea sia valida, osserva Einstein, acquista un signifi­ cato fisico. II movimento del punto materiale libero, osserva Einstein, in base alle nuove coordinate, assumerà l’aspetto di un moto curvilineo non uniforme e la legge di questo movimento non sarà dipendente dalla natura fisica del punto materiale in movimento. La luce dunque, come dimostrerà sperimentalmente Eddington nel 1919, subirà necessaria­ mente una curvatura passando per un campo gravitazionale. A questo punto Einstein aveva due possibilità: o «introdurre precise ipotesi circa la natura fisica della materia», analogamente a quanto aveva fatto New­ ton con la forza di gravità, ma poi avrebbe dovuto dare conto della loro origine e della loro natura; o ipotizzare che l’universo non sia euclideo,

A. Einstein, The Fundamentais of Theoretical Physics, in Id. Out ofMy Later Years, cit., p. 42; tr. it. cit., p. 571. 23 A. Einstein, The Theory of Relativity, in Id. Out ofMy Later Years, cit., p. 44; tr. it. cit., p. 586. 24 A. Einstein, Über die spezielle und die allgemeine Relativitätstheorie. Gemeinverständlich, CP, voi. 6, p. 500; tr. it. cit., p. 466. 22

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I problemi filosofici della teoria della relatività

ma curvo, e venga descritto da una geometria di tipo riemanniano, una geometria con curvatura non costante che costituisce una generalizza­ zione della geometria riemanniana. La geometria euclidea continua ad essere valida come eccellente approssimazione in domini arbitraria­ mente piccoli. In questo modo trovano piena realizzazione le parole quasi profetiche con le quali Riemann concludeva la sua famosa me­ moria Über die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen, dopo aver sottolineato la liceità di ricorrere a postulati diversi da quelli euclidei, se questo «permettesse di spiegare in modo più semplice i fe­ nomeni»; ma questo, osserva dunque Riemann, «ci conduce nell’ambi­ to di un’altra scienza, nell’ambito della fisica»25. A sua volta dichiarerà lapidariamente Poincaré: «una geometria non può essere più vera di un’altra; può soltanto essere più comoda»26. Einstein stesso interverrà in prima persona a proposito del rapporto tra geometria e fisica. Egli riconosce che il processo di assiomatizzazione ha segnato una svol­ ta fondamentale in matematica e in geometria, liberandole una volta per sempre da ogni riferimento a contenuti materiali intuitivi: la mate­ matica e la geometria sono ormai delle scienze rigorosamente logicoformali e gli assiomi che le fondano, liberi prodotti della mente umana. Gli “oggetti” della geometria, dunque - punti, rette, ecc. - vanno ormai considerati dei semplici «schemi concettuali, privi di contenuto» e ven­ gono definiti unicamente dagli assiomi stessi27. Se però la geometria vuole dire qualcosa del mondo reale, deve necessariamente spogliarsi del suo carattere esclusivamente logico-formale. La geometria si deve trasformare in una scienza naturale, tanto che la si potrebbe addirittura definire «il ramo più antico della fisica». Questa «geometria pratica» si differenzia dalla geometria logico-formale, perché si basa sull’indu­ zione e sull’esperienza. Soltanto l’esperienza può dunque decidere se il mondo è “fatto” secondo la geometria euclidea o secondo un’altra ge­ 25

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B. Riemann, Gesammelte mathematische Werke und wissenschaftlicher Nachlaß, hrsg. von H. Weber, R. Dedekind, M. Noether und W. Wirtinger, Dover, New York 1978, pp. 285,286; B. Riemann, Sulle ipotesi che stan­ no alla base della geometria e altri scritti scientifici e filosofici, a cura di R. Pettoello, Bollati Boringhieri, Torino 20082, pp. 19,20. H. Poincaré, La Science et l’hypothèse, Flammarion, Paris 1938, p. 67; H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, a cura di C. Sinigaglia, Bompiani, Milano 20062, p. 87. A. Einstein, Geometrie und Erfahrung, CP, voi. 7, p. 387.

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ometria: «la questione se un continuo spazio-temporale sia strutturato in modo euclideo o secondo lo schema generale riemanniano o anche altrimenti, è [...] una questione propriamente fisica, che trova risposta soltanto nell’esperienza». Tuttavia, osserva Einstein, prendendo qui le distanze da Poincaré, la scelta di uno schema euclideo, riemanniano o d’altro tipo non avviene per convenzione: si tratta di un problema di fisica che trova la sua ragion d’essere esclusivamente nei problemi posti dalla fisica28. Einstein sottolinea l’importanza di questa concezio­ ne della geometria, perché senza di essa, come egli stesso ammette, non gli sarebbe stato possibile sviluppare la teoria della relatività ed in particolare la relatività generale. Un’ulteriore, evidente, conseguenza della teoria della relatività generale e dell’applicazione della geometria riemanniana è l’ipotesi che l’universo sia illimitato, ma finito.

3. A dispetto dell’apparente paradossalità delle sue tesi, la teoria del­ la relatività si presenta come il coronamento della fisica classica. Que­ sto non toglie però che il suo impatto sia stato notevolissimo e che abbia costretto tutti, scienziati e filosofi, a riflettere sulla portata della nuova teoria. Come osserva giustamente il grande matematico Levi-Civita29, nel presentare la prima traduzione italiana della versione divulgativa della teoria di Einstein, nonostante l’apparente semplicità ed il fatto che, appunto, la nuova teoria si presenta come la naturale prosecuzio­ ne della fisica classica, «l’importanza speculativa della relatività è [...] enorme»30. In effetti la portata speculativa della teoria della relativi­ tà venne riconosciuta immediatamente e si avviò immediatamente un dibattito accesissimo sulla interpretazione filosofica della nuova teo­ ria che coinvolse quasi tutte le “scuole” filosofiche più rappresentati­ Cfr. ivi, p. 392. Com’è noto, e come riconosce apertamente lo stesso Einstein (A. Ein­ stein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, in CP, voi. 6, p. 284; tr. it. cit., p. 282). i due grandi matematici padovani Gregorio Ric­ ci Curbastro e Tullio Levi-Civita, soprattutto grazie ai loro fondamentali contributi allo studio del calcolo tensoriale, ebbero un ruolo determinante nel risolvere i problemi matematici sollevati dalla teoria della relatività generale. 30 A. Einstein, Sulla teoria speciale e generale della Relatività (volgariz­ zazione), tr. it. di G. L. Calisse, prefazione di T. Levi-Civita, Zanichelli, Bologna 1921, p. VII. 28 29

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ve dell’epoca3'. Nel mare magnum della pubblicistica strettamente fi­ losofica dell’epoca, spiccano senz’altro Die philosophische Bedeutung des Relativitätsprinzips ( 1915)31 32 e Raum und Zeit in der gegenwärtigen Physik (1917)33 di Moritz Schlick, Relativität und Erkenntnis apriori ( 1920)34 di Hans Reichenbach e Zur Einsteinschen Relativitätstheorie (1921)35 di Emst Cassirer. Qui mi limiterò a dar conto soltanto di alcuni aspetti essenziali dell’interpretazione filosofica della teoria della relatività proposta da Cassirer. A questo scopo seguirò sostanzialmente l’esposizione conte­ nuta nel volume del 1921, al quale le lezioni del Semestre Invernale 1920-1921 che presento qui in traduzione italiana si rifanno esplicita­ mente, pur non essendone una semplice ripetizione. La teoria della relatività, osserva Cassirer, ha annunciato una rivolu­ zione nella nostra immagine del mondo, ha profondamente modificato il concetto stesso di natura e della conoscenza della natura ed è questo che la rende particolarmente significativa per la filosofia: «qui sta», egli 31

Una ri costruzione veramente eccellente del dibattito filosofico intorno alla relatività, si trova nel già ricordato testo di T. Ryckman, The Reign of Relativity. La prima presa di posizione filosofica, di qualche rilievo, in Italia, si deve ad A. Aliotta, La teoria di Einstein e le mutevoli prospettive del mondo, Sandron, Milano-Palermo-Napoli-Genova- Bologna-TorinoFirenze 1922. 32 M. Schlick, Die philosophische Bedeutung des Relativitätsprincips, in „Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik“ CLXIX (1915) 2, pp. 129-174; Id., Il significato filosofico del principio di relatività, a cura di R. Pettoello, Morcelliana, Brescia 2014. 33 M. Schlick, Raum und Zeit in der gegenwätigen Physik, Springer, Berlin 1917; Id., Spazio e tempo nella fisica contemporanea, tr. it. di E. Galzenati, Prefazione di L. Geymonat, Bibliopolis, Napoli 1979. 34 H. Reichenbach, Relativität und Erkenntnis apriori, Springer, Berlin 1920; Id., Relatività e conoscenza a priori, a cura di P. Parrini, Laterza, Roma-Bari 1984. 35 E. Cassirer,Zur Einsteinschen Relativitätstheorie. Erkenntnistheoretische Betrachtungen, B. Cassirer, Berlin 1921; Id., Sulla teoria della relatività di Einstein, in Sostanza e funzione * Sulla teoria della relatività di Ein­ stein, tr. it. di E. Arnaud e G. A. De Toni, Presentazione di G. Preti, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 457-613; Id., La teoria della relatività di Einstein, a cura di G. Raio, Newton, Roma 1997; Id., La teoria della relatività di Einstein, tr. it. di N. Zippel, Prefazione di G. Giorello, Castelvecchi, Roma 2015.

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dice, «l’interesse essenziale che la filosofia deve avere per i pensie­ ri fondamentali e le teorie fondamentali della teoria della relatività»36. Non è infatti pensabile che la filosofia ed in particolare il Criticismo ignorino quanto sta avvenendo nei saperi particolari e specificamente nelle scienze. Infatti «ogni risposta data dalla fisica intorno al carattere ed alla particolare natura specifica dei propri concetti fondamentali, per la gnoseologia toma di fatto ad assumere, automaticamente, la forma di problema»37. Questo non comporta però una confusione di piani: le differenti metodologie della scienza e della filosofia debbono rimanere indipendenti. Ancor meno comporta che la filosofia possa pretendere di intervenire sul lavoro dei fisici: la trattazione filosofica di una teoria fisica non può mirare a innalzare un criterio proprio e indipendente per la valutazione del suo contenuto che possa affiancarsi con uguale diritto ai criteri che la singola scienza stessa stabilisce. Perché il contenuto di una teoria fisica è soggetto soltanto ad una singola regola che deriva puramente dalla metodica della fisica in quanto tale. Accanto a questa norma non vi è spazio per un altro modo “speculati­ vo” di trattazione38.

La filosofia, insomma deve abbandonare la pretesa di essere la scientia scientiarum ed assumere, kantianamente, un molo eminentemente “critico”. La filosofia non ha più un oggetto suo proprio e le scienze par­ ticolari hanno da tempo raggiunto una piena consapevolezza metodolo­ gica che le ha sostanzialmente emancipate dal pensiero filosofico. Alla filosofia, si potrebbe dire, forzando leggermente il dettato cassireriano, spetta esclusivamente il compito di svolgere un’attività di metariflessione, prendendo le mosse dai dati che vengono fomiti dalle scienze parti­ colari, per analizzarne e chiarirne i concetti fondamentali che, in quanto tali, non rientrano nella pratica scientifica e sono appunto per questo problemi filosofici. Solo in questo senso la scienza non è sufficiente a se stessa e solo in questo senso limitato la filosofia può continuare a 36

37 38

E. Cassirer, Philosophische Probleme der Relativitätstheorie, ECW, voi. 9, p. 218. E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, ECW, voi. 10, p. 6; tr. it. cit., p. 468. E. Cassirer, Philosophische Probleme der Relativitätstheorie, ECW, voi. 9, p. 217.

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svolgere la sua funzione fondazionale. Neppure la scienza, però, può avanzare la pretesa di proporsi come l’unica forma lecita di razionalità e presentare il suo oggetto e il suo metodo d’indagine come gli unici veramente validi, come in fondo pretendevano positivisti e neopositivi­ sti. Ogni sapere particolare ha la sua specificità che va salvaguardata e difesa da ogni atteggiamento scientistico, dogmatico o unilaterale. «Il contenuto delle conclusioni che si tirano nella scienza fisica», osserva Cassirer, «non si può ridurre semplicemente nel linguaggio di campi intenzionati e atteggiati a un principio strutturale talmente diverso, sen­ za incorrere nell’errore logico di una peTdßatJtc eie ctÀXo yévoc»39. Così, ad esempio, non ha senso affermare che l’unica concezione lecita dello spazio e del tempo è quella proposta dalla fisica: la concezione dello spazio e del tempo della psicologia, della fenomenologia, ecc. conserveranno la loro piena validità nei loro differenti ambiti. L’erro­ re consiste nel pensare di poter trasferire semplicemente una specifica concezione da un ambito a un altro. Questo perché non esiste una re­ altà assoluta. Anticipando quanto svilupperà nella sua Philosophie der symbolischen Formen, Cassirer estende il concetto di relatività a quello di “realtà concreta”, denunciando rillusorietà di credere che si tratti di un concetto semplice e di un unico tipo. Ogni ambito della cultura umana implica una differente concezione della realtà. Ogni pretesa as­ solutistica, dogmatica o unilaterale va rigettata. Liberare il quadro dell’universo da questa unilateralità è il compito della filosofia sistematica - un compito che oltrepassa di gran lunga quello della gnoseologia. La prima deve abbracciare il tutto delle forme simboliche dal cui impiego ci proviene il concetto di una realtà in sé articolata - per cui soggetto e oggetto, Io e mondo si dividono e si contrappongono in una strutturazione determinata - e assegnare ad ogni singola forma il suo posto fisso in questo complesso40.

La teoria della relatività generale apre la strada, però, secondo Cassi­ rer, almeno «dalla parte negativa», alla «conciliazione tra fisica e filoso­ fia». Come già per la filosofia, ora anche per la fisica i concetti di tempo

39

40

E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, ECW, voi. 10, p. 117; tr. it. cit., p. 605. Ivi,pp. 113-114; tr. it. cit., p. 600.

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e di spazio hanno perduto per sempre l’aspetto cosale di questi concetti che caratterizzano «la rappresentazione ingenua delle cose»41. Già in Substanzbegriff und Funktionsbegriff, Cassirer aveva mostrato come lo sviluppo tanto della scienza quanto della filosofia moderne assumesse sempre più una caratterizzazione funzionalistica ed antisostanzialistica. La teoria della relatività generale segna una sorta di compimento di questo processo. Lo stesso concetto di verità si trasforma nella pura espressione di una funzione. È un’assurdità pensare che l’oggetto della fisica coincida con l’oggetto della concezione ingenua del mondo. L’oggetto della scienza è un oggetto ideale, un concetto limite. «Nessuna teoria della scienza della natura», osserva Cassirer, «si riferisce direttamente ai fatti della percezione come tali, bensì ai limiti ideali che noi col pensiero poniamo in luogo di essi»42. Quindi, «le fondamentali leggi teoriche della fisica parlano continuamente di casi che non si sono mai dati, né si potrebbero dare nella esperienza: nella formula della legge, infatti, il vero e pro­ prio oggetto della percezione è sostituito e rappresentato dal suo limite ideale»43. Non si ha mai a che fare dunque con l’esistenza di “cose”, bensì con la validità oggettiva di certe relazioni. La nostra conoscen­ za dell’oggetto si estende esattamente fino a dove possiamo denotar­ lo mediante relazioni definite e, quanto più il sistema delle equazioni che definiscono l’oggetto si amplia, tanto più rigorosa è la definizione dell’oggetto. Lo stesso vale per la realtà concreta di cui parla il fisi­ co che si contrappone apertamente alla realtà, così come si presenta alla percezione immediata, in quanto «qualcosa di profondamente e progressivamente mediato: come un insieme non di cose o di qualità esistenti, ma di astratti simboli ideali che servono per dire determinati rapporti metrici di grandezze, determinate corrispondenze e dipendenze funzionali dei fenomeni»44. La teoria della relatività di Einstein porta 41

42 43

44

E. Cassirer, Philosophische Probleme der Relativitätstheorie, ECW, voi. 9,p. 233. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, ECW, voi. 6, p. 140; Id. Sostanza e funzione * Sulla teoria della relatività di Einstein, cit., p. 178. Ivi, p. 189; tr. it. cit., p. 235. Naturalmente questo vale anche per resperi­ mento e per il concetto di cosa. Cfr. ivi, pp. 273 e 298; tr. it. cit., pp. 337 e 366. E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, ECW, voi. 10, p. 8; tr. it. cit., p. 470.

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alle estreme conseguenze questo processo di decosalizzazione e deantropomorfizzazione della fisica. In questo Cassirer vede una sostanziale coincidenza tra la teoria della relatività e il criticismo. Quello che infatti risulta veramente oggettivo alla conoscenza moderna della natura, non sono tanto le cose quanto piuttosto le leggi. Pertanto il variare degli elementi dati dall’esperienza e il fatto che ciascuno di essi non sia mai dato in sé ma sempre solo in relazione ad altri, non costituisce obie­ zione di sorta contro la possibilità di una conoscenza reale-oggettiva solo in quanto per l’appunto non variano le leggi di queste stesse relazioni. Si lasciano cadere la costanza è [Konstanz] e l’assolutezza degli elementi per ottenere in cambio la costanza [Betsdndigkeit] e la necessità delle leggi45.

«Per noi», dirà Cassirer altrove, «non c’è altra “realtà” fisica che quella di cui ci sono mediatrici le determinazioni fisiche di misura e quelle di legge, che in tanto risultano “oggettive” in quanto sono fondate sulle prime»46. Siamo in presenza di un circolo, che però non è un circolo vizioso: non è più possibile separare nettamente le osserva­ zioni sperimentali e gli enunciati di leggi e di principi che non possono esibire le prime nel loro puro “darsi” fattuale, indipendentemente da ogni assunto teorico. Naturalmente tutto ciò ci allontana sempre più dalle semplici im­ magini intuitive, ma l’oggettività fisica non ne viene diminuita, bensì aumentata. Così non ha più senso chiedersi che cosa sia la «cosa» al di fuori delle circostanze d’osservazione realizzabili nelle diverse serie di esperimenti. «La rinunzia alla determinazione assoluta reinstaura il maximum di determinazione relativa di cui sia capace la conoscenza fisica»47. Questa è l’unica via che può condurre ad un’autentica ogget­ tività. A questo punto però sembra sorgere un problema: il problema de­ gli invarianti ultimi. Per Cassirer, com’è noto, la filosofia critica si presenta essenzialmente come una «teoria generale degli invarianti Ivi, pp. 44-45; tr. it. cit., p. 515. E. Cassirer Determinismus und Indeterminismus in der modernen Physik, ECW, voi. 19, pp. 163-164; Id., Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna, tr. it. di Gian Antonio De Toni, Presentazione di Giulio Preti, La Nuova Italia, Firenze 1982, p. 200. 47 Ivi, p. 230; tr. it. cit., p. 281.

45 46

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dell 'esperienza». Lo stesso vale per la scienza: ogni teoria presuppone questi invarianti ultimi che soli legittimano poi l’osservazione e le misurazioni concrete. Il fìsico, insiste Cassirer, non può accontentarsi della concezione ingenua del mondo, ma neppure della costanza delle determinazioni metriche particolari e, dopo la relatività, nemmeno delle determinazioni metriche particolari di spazi e tempi ottenute a partire da un unico sistema. Nonostante questo, però, il fìsico «afferma come condizione della sua scienza il sussistere di “costanti universali” e di leggi universali che conservano lo stesso valore in tutti i sistemi assunti per la misurazione»48. Naturalmente non è possibile rimanere fermi alla pretesa kantiana di fornire l’elenco completo ed immutabile di questi invarianti, le categorie. Così, già in Substanzbegriff und Funktionsbe­ griff, Cassirer aveva parlato di un senso rigorosamente circoscritto dell 'a priori, per cui «possono essere chiamati a priori soltanto gli ul­ timi invarianti logici che stanno alla base di ogni determinazione delle leggi di natura»49, ove «ultimi», va inteso nel senso di ultimi nel tempo, non di definitivi e immutabili, perché: il nucleo teorico centrale via via adottato dal pensiero si sposta sempre di nuovo; ma al tempo stesso soltanto in questo progredire il pensiero colma sempre più l’ambito dell’essere, la sfera della conoscenza oggettiva. Ogni qual volta il pensiero sembra scardinato da nuovi fatti e osservazioni che si sottraggono alle leggi da esso formulate fin qui, altrettante volte è chiaro che in realtà in quei nuovi fatti esso ha trovato un nuovo cardine, su cui d’ora innanzi s’impernia e gira la totalità dei “fatti” sperimentabili50.

Non meno chiaramente si esprimerà, più tardi, nella Philosophie der symbolischen Formen'. non si tratta di mostrare gli ultimi e “assoluti” elementi della realtà, nel­ la cui considerazione il pensiero possa per così dire acquetarsi, ma di un processo progressivo e senza fine, in virtù del quale il relativamente “ne-

48

49 50

E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, ECW, voi. 10, p. 77; tr. it. cit.,p. 555. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, ECW, voi. 6, p. 290; tr. it. cit., p. 357. E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, ECW, voi. 10, pp. 1819; tr. it. cit., p. 482.

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cessano” sottentra in luogo del relativamente contingente, il relativamente “invariabile” in luogo del relativamente variabile. Mai si può affermare che questo processo è definitivamente giunto fino a quelle ultime “invarian­ ti dell’esperienza”, che ormai sottentrano in luogo dell’immutabile realtà delle cose51.

Ora, abbiamo visto come la relatività generale abbandoni i due po­ stulati della relatività ristretta; sembra dunque che vengano a mancare del tutto gli invarianti ultimi. Secondo Cassirer, al contrario, proprio per questo la relatività generale si presenta come il risultato logico e la naturale conclusione di quel processo che, come abbiamo visto, caratte­ rizza a suo avviso l’intero pensiero filosofico e scientifico. Essa concen­ tra tutti i principi sistematici particolari, compresi i due postulati della relatività ristretta, nell’unità di un postulato supremo che non contiene più la costanza tra cose, ma «l’invarianza di certe grandezze e di certe leggi nei confronti di ogni trasformazione dei sistemi di riferimento»52. Insomma, «quella in cui d’ora in poi dobbiamo riconoscere il vero e proprio invariante e la vera e propria struttura logica di base della natu­ ra, è la forma generale delle leggi di natura»53. «La sola norma valida resta l’idea della unità della natura»54. E nell’ambito di questa problematica che trova spazio la valorizza­ zione del postulato di covarianza. Se la nostra conoscenza fisica, cioè le leggi di natura fossero valide soltanto per certi sistemi di riferimento privilegiati, non possedendo nessun criterio sicuro per riconoscere tali sistemi di riferimento, non potremmo mai giungere ad una descrizione univoca e di validità universale degli eventi naturali. Al contrario, ciò sarà possibile soltanto se si potranno mostrare delle determinazioni che si comportino allo stesso modo, indipendentemente dal sistema di rife­ rimento scelto. Ciò comporta che dovremo definire delle leggi caratte­ rizzate da «universalità oggettiva», indipendenti dalle particolarità dei­ fi 1

52 53 54

E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen. Dritter Teil: Phäno­ menologie der Erkenntnis, ECW, voi 13, p. 552; Id., Filosofia delle forme simboliche, voi. III. 2: Fenomenologia della conoscenza, tr. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 266. E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie,ECW, voi. 10, p. 63; tr. it. cit., p. 537. Ivi, pp. 28-29; tr. it. cit., pp. 495-496. Ivi, p. 78; tr. it. cit., p. 556.

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le nostre misurazioni empiriche. L’obiezione di Kretschmann potrebbe far pensare che il postulato di covarianza abbia una natura meramente analitica; ma, secondo Cassirer, esso conserva appieno il suo carattere sintetico. Insomma, la teoria della relatività ha il merito, tra l’altro, di aver espresso «nell’assunto fondamentale della covarianza delle leggi generali della natura rispetto a tutte le sostituzioni adottabili ad arbitrio, un principio in forza del quale il pensiero è in grado di dominare da sé quella relatività che esso stesso da sé esige»55. Il postulato della cova­ rianza generale è dunque per Cassirer una «“regola dell’intelletto”»56, assunta come «un principio basilare che l’intelletto usa ipoteticamente quale norma dell’indagine nell’interpretare le esperienze». Solo così si può raggiungere l’«“unità sintetica dei fenomeni secondo rapporti temporali”»57. Si tratta dunque di un principio regolativo, nel senso pie­ namente kantiano dell’espressione, di una «massima generale per lo studio della natura»58. Qui si trova per Cassirer il nucleo filosofico fon­ damentale della teoria della relatività, senza per questo negarne in alcun modo i fondamenti sperimentali ed empirici.

Ivi, p. 83; tr. it. cit., p. 563. Qui e poco sotto, Cassirer cita il seguente passo di Kant: «è invece la regola dell’intelletto, senza di cui 1’esistenza dei fenomeni non può per­ venire all’unità sintetica secondo relazioni temporali» (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A.215/B 262, Ak, Bd. Ili, p. 184; Id., Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 2011, p. 244). 57 E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, ECW, voi. 10, p. 77; tr. it. cit., pp. 554-555. 58 Ivi, p. 32; tr. it. cit., p. 500. 55 56

AVVERTENZA

La traduzione è stata condotta sul testo di Ernst Cassirer, Die philo­ sophischen Probleme der Relativitätstheorie, contenuto in E. Cassirer, Nachgelassene Manuskripte und Texte, Bd. 8: Vorlesungen und Vorträ­ ge zu philosophischen Problemen der Wissenschaften 1907-1945, hrsg. von J. Fingerhut, G. Hartung und R. Kramme, Meiner, Hamburg 2010, pp. 29-116. Si tratta delle lezioni che Cassirer tenne nel Semestre Invernale 19201921. Il corso iniziò il 13 ottobre 1920 e terminò il 26 gennaio 1921. Le lezioni si svolgevano il mercoledì dalle 18:00 alle 20:00. Salvo indicazione contraria, le note sono tutte dei Curatori dell’edi­ zione tedesca, anche se talvolta mi sono discostato dalle loro indicazio­ ni. In generale ho integrato tacitamente le note, aggiungendo l’editore al luogo di pubblicazione e segnalando, ove possibile, le corrispondenti traduzioni italiane. Le note dello stesso Cassirer, quando non risulta chiaro dai rimandi presenti nel testo, sono contrassegnate da (Nota di Cassirer). Le note del traduttore sono indicate con la sigla (N.d.T.). Tutte le citazioni sono state controllate sugli originali e, ove necessario, tacita­ mente corrette.

Nelle lezioni che presentiamo qui, Cassirer fa sovente riferimento al manoscritto del suo saggio Zur Einsteinschen Relativitätstheorie che, benché fosse pronto già da tempo, verrà pubblicato soltanto nel 1921, quindi a corso pressoché finito. Nella traduzione ho segnalato il rinvio all’opera del 1921 soltanto in un paio di casi che mi sembravano parti­ colarmente importanti.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

Trattandosi di una traduzione e non di un’edizione critica non ho ri­ tenuto opportuno segnalare le varianti che possono interessare soltanto lo specialista e per le quali rimando all’edizione tedesca. Infine non mi sono attenuto alla punteggiatura originale che, facen­ do tra l’altro larghissimo uso della lineetta renderebbe inutilmente faticosa la lettura. I numeri tra parentesi quadre rimandano alle pagine dell’edizione dei Nachgelassene Manuskripte und Texte ricordata sopra.

Sigle utilizzate nel corso dell’opera: ECW = E. Cassirer, Gesammelte Werke, hrsg. von B. Recki, Meiner, Hamburg 1998 e ss.

CP = A. Einstein, The Collected Papers, ed. by J. Stachel, Princeton University Press, Princeton 1987 e ss. Diels-Kranz = Die Fragmente der Vorsokratiker, hrsg. von H. Diels, Weidmann, Berlin 19123

WA = J. W. Goethes Werke, hrsg. im Auftrag der Großherzogin So­ phie von Sachsen, Böhlhaus, Weimar 1887-1919, ristampa anastatica DTV, München 1987. Ak = I. Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preu­ ßischen (poi Deutschen) Akademie der Wissenschaften, de Gruyter, Berlin 1968.

Ad eccezione di Geometrie und Erfahrung, tutte le traduzioni italia­ ne delle opere di Einstein sono tratte da A. Einstein, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri 1988.

Ernst Cassirer

I PROBLEMI FILOSOFICI DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ

[29] PREMESSA

Il termine di Goethe: velocifero [«Devo considerare come la massima sventura del nostro tempo il fatto che non lascia arrivare nulla a maturazione, che nell’istante presente si consumi ristante precedente, che si sprechi il giorno nel corso del giorno stesso e si viva sempre così alla giornata, senza mettere niente da parte. Abbiamo persino giornali per le varie ore del giorno! Un cervello ingegnoso potrebbe certo inserirne qualche altro qua e là. Così tutto ciò che uno fa, combina, scrive, e perfino ciò che si propone vien messo in piazza. Nessuno ha il permesso di soffrire o gioire se non per divertire gli altri e così tutto rimbalza di casa in casa, di città in città, di regno in regno e infine di continente in continente, tutto in modo velocifero»1]. Quanto queste frasi, scritte da Goethe quasi esattamente 100 anni fa, siano a maggior ragione e in misura maggiore valide per noi ancora oggi, è dimostrato con rara evidenza dal destino della contemporanea teoria fìsica della relatività. Come poche altre questa teoria è andata incontro alla benedizione e alla maledizione della considerazione e dell’attenzione pubbliche. Essa in sé e per sé è quanto di meno adatto vi sia a tale considerazione: in essa ci si presenta infatti - e non soltanto nei suoi risultati, bensì già nei suoi primi concetti fondamentali e nella posizione dei suoi problemi - un culmine dell’astrazione matematica. Il senso della teoria può dunque essere valutato appieno soltanto se la si svolge partendo da questi suoi propri presupposti, se non la si circoscri­ ve ai suoi risultati, bensì la si deriva dai suoi motivi, dalle sue proprie sorgenti concettuali. Ma è appunto peculiarità dei processi di pensi e1

WA, Abt. I, Bd. 42.2, p. 171; J. W. Goethe, Massime e riflessioni, a cura di S. Seidel, tr. it. di M. Bignami, Introduzione di P. Chiarini, Theoria, Roma, 1983, voi. I, pp. 120-121, Massima n° 479 (traduzione leggermen­ te modificata).

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I problemi filosofici della teoria della relatività

ro matematici che in essi non si possano separare forma e contenuto. Ciò vale evidentemente per la matematica “pura”, ma vale altrettanto per quella applicata. Non possiamo rappresentarci il concetto di “fisica matematica”, quasi che qui convergano in un’unità estrinseca due mo­ menti eterogenei, quasi che il contenuto fisico venga solamente rifuso netta forma del calcolo matematico e del procedimento matematico. Da quando Kant ha posto la domanda: “com’è possibile la scienza mate­ matica della natura”? Da quando egli ha analizzato il fatto della scienza matematica della natura e ha cercato di risolverla nelle sue condizioni ultime, si dovrebbe comprendere in modo più profondo e più rigoroso questa unità. Nella fisica matematica non si tratta di un tutto composto da differenti elementi, per così dire da un elemento empirico e da uno a priori, da esperimento e calcolo, da induzione e deduzione, bensì di un procedimento unitario, di una determinata direzione fondamentale [30] della conoscenza, che noi distinguiamo da altre direzioni che ugual­ mente non scomponiamo in due metà, bensì nella quale noi al massimo possiamo distinguere due momenti differenti, ma correlati tra di loro e che si appartengono a vicenda. Se però si coglie in questo senso la rap­ presentazione matematica di una teoria fisica, non come una mera scor­ za, che avvolge il nocciolo concettuale della teoria, bensì come il suo necessario, intimo momento essenziale, allora risulta evidente che non si può pensare di spogliare una teoria della sua “forma”, senza distrug­ gerla. Ciò che Goethe dice della natura, che essa non ha né nocciolo né guscio, è tutto in una volta sola2, vale anche per le autentiche, veridiche teorie della natura. Anch’esse, considerate dal punto di vista puramente logico, puramente metodico, sono «tutto in una volta sola». Perciò, così come non vi è una via regia per la matematica, non vi è una via regia per la teoria della relatività. Ci si presenta però un’altra questione, quando parliamo dei “pro­ blemi filosofici della teoria della relatività”. In che rapporto pensiamo qui filosofia e fisica? Vi è stato un tempo, dopo il crollo della filosofia della natura schellinghiana e hegeliana, in cui la separazione tra di esse*3 2

«ALLERDINGS. Dem Physiker / Natur hat weder Kern / Noch Schale, / Alles ist sie mit einemmale [INDUBBIAMENTE. Al fisico / Non ha na­ tura nocciolo / né guscio, / ella è tutto in una volta sola]» (WA, Abt. I, Bd. 3, p. 105, vv. 15-17; J. W. Goethe, Tutte le poesie, a cura di R. Fertonani e E. Gannì, Mondadori, Milano 1989, voi. I, tomo II, p. 1031).

Premessa

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sembrava definitivamente consumata. Poi sembrarono riavvicinarsi: la concezione di Ostwald della filosofia della natura. Ma com’era inteso qui il rapporto tra fisica e filosofia? Caratteristica esigenza di Ostwald nella sua filosofia della natura: alla filosofia della natura viene affidata la parte incerta della conoscenza3. La scienza avanza dunque sempre più ... la filosofia si ritira via via sempre più ... In generale vi sarebbe qui concorrenza tra due forme, tra due diversi approcci al medesimo contenuto. Diversamente la nostra considerazione: \a forma. Non il contenuto paradossale e sorprendente - relatività della simultaneità, superamento della vecchia forma dello spazio, curvatura dello spazio - noi cerchia­ mo qui piuttosto la continuità della metodica... Intendiamo interpretare qui dunque la teoria della relatività come modello di formazione di ipotesi in fisica. Essa non ci introdurrà tanto nell’essere della natura, in quanto cosa in sé e cosa per sé; qui il filosofo vuole piuttosto studiare il carattere della conoscenza fisica. Si riassume nell’ipotesi. Origine filosofica, significato fisico del con­ cetto di ipotesi. Keplero, Apologia Tychonis contra Ursum, p. 2034.

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Cfr. W. Ostwald, Vorlesungen über Naturphilosophie, gehalten im Som­ mer 1901 an der Universität Leipzig, Veit, Leipzig 19053, pp. 1-13. J. Kepler, Apologia Tychonis contra Nicolaum Raymarum Ursum, parti­ colarmente, Caput I: Quid sit hypothesis astronomica, in Id., Opera Om­ nia, edidit C. Frisch, Heyder & Zimmer, Frankfurt a. M.-Erlangen 18581871, voi. I, PP- 238 e ss.

[31] I PROBLEMI FILOSOFICI DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ

1. Difficoltà già nella formulazione del tema. Rapporto della filosofia con la scienza ed in particolare con la scienza esatta della natura. Si ha qui una duplice concezione: in base all’una, la trattazione filosofica e quella scientifica si trovano sulla stessa linea; esse si occupano del medesimo ambito di problemi, del medesimo contenuto e dei medesimi oggetti che tutt’al più trattano e ordinano da differenti punti di vista. Questa concezione del rapporto tra filosofia della natura e scienza della natura si presenta, storicamente, fin dall’inizio. Presso i Greci i primi scienziati della natura sono anche i primi filosofi naturali; le due cose non sembrano affatto separabili. Così, presso gli Ionici, i 4>voioÀóyoi, come li ha chiamati Aristotele. Caratteristico per loro non è che pongano come “principio”, come “sostanza” del mondo, questa o quella materia, che pongano questo principio nell’acqua, nell’aria, nel fuoco, nell’infinito; ciò che è caratteristico è piuttosto il comune metodo della loro “fisiologia”, metodo che consiste nel fondere in unità immediata la “physis” e il “logos”. Significato duplice di ctpx'n; essa è inizio fisico e principio della spiegazione del mondo; in base a ciò da cui le cose sono divenute, debbono anche essere spiegate, “concepite”. La descrizione del loro divenire, dei loro mutamenti, delle loro trasformazioni le une nelle altre; ciò costituisce anche la loro propria spiegazione concettuale, condiziona la comprensione “filosofica” del mondo. Il mutamento degli elementi fisici: è nel contempo la loro derivazione in senso razionale; chi possedesse l’una cosa, possederebbe anche l’altra. Questo rapporto unitario lo si può vedere da due lati, ma rimane, in quanto tale, sempre lo stesso. Da un lato la rappresentazione del mutamento empirico della materia produce nel contempo la conoscenza della sua intima connes­ sione, quindi della struttura dell’universo; il mondo si trasforma per noi in un tutto articolato, in un kosmos, purché non lo cogliamo nella

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sua mera consistenza fattuale presente, nella sua nuda esistenza, bensì in questo suo essere divenuto. In questa visione ha origine il concetto di storia naturale, che nel contempo deve essere teoria della natura. Alla lunga [32] i due concetti non soltanto procedono paralleli l’uno all’altro, bensì passano immediatamente l’uno nell’altro: la “historio naturalis” diventa teoria della natura, la teoria diventa storia. Con Eraclito si affaccia per la prima volta nella filosofia greca il tipo di una nuova trattazione della natura, contrapposto al precedente. Una trattazione nella quale la filosofia instaura un rapporto del tutto nuovo con la natura, la storia naturale, la descrizione fattuale dei suoi muta­ menti e delle sue trasformazioni. Ad un primo sguardo, a dire il vero, sembra che Eraclito si limiti a tirare le somme della filosofia naturale io­ nica; egli presenta il “divenire”, che quelli tacitamente presuppongono, come il principio filosofico, lo eleva a principio consapevole del mondo stesso e della spiegazione del mondo. Se vi è una qualche spiegazione della natura, sembra questa che prende le mosse dal divenire e che si ferma all’immagine del divenire, come unica cosa certa, orientata sto­ ricamente. Che cos’altro significa il pensiero eracliteo del “flusso delle cose”, se non questo consapevole fermarsi a quella parte degli accadi­ menti del mondo che ci si presenta immediatamente nel su e giù degli elementi, nel loro sorgere e svanire, nell’andare e venire dei fenomeni naturali? Eraclito, a quanto pare, non vuole spingersi indietro, oltre que­ sta facciata esterna del “divenire” delle cose; egli si rifiuta di “porre a fondamento” di essa un essere stabile, sostanziale. L’autentico, verace fondamento dei fenomeni - sembra dire - non si trova più in profondità di essi stessi, non è dietro di essi, bensì in essi; non è un che di esterno, di al di là, bensì la misura interna, il ritmo interno del loro divenire stesso. Chi è capace di udire, di percepire questo ritmo, ha colto anche la loro interna struttura concettuale, il loro logos. Non deve essere posto come un concetto astratto; deve piuttosto essere afferrato intuitivamen­ te, sensibilmente, quasi. Eraclito lo dice espressamente: «öowv ÒKoq pdöqoic, TaÙTa èyù irpoTLpew» (Diels, Fr. n° 55)'. La dottrina eraclitea del logos si sviluppa in questa doppia direzione. La direzione verso il fondamento del mondo, la direzione speculativa del pensiero 1

«Preferisco quelle cose di cui c’è vista, udito ed esperienza» (DielsKranz, Bd. I, p. 88, Fr. B 55; l Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1981, voi. I, p. 209).

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sulla natura - così pare affermare questa dottrina - non esclude il fer­ marsi all’apparenza e l’accontentarsi in essa del puro fenomeno, bensì al contrario: noi perveniamo a questo fondamento del mondo soltan­ to se non ci lasciamo trascinare oltre le apparenze, verso un “essere” astratto, oscuro, incomprensibile, bensì se, restando nella corrente del divenire stesso o piuttosto non restando in questa corrente, bensì la­ sciandoci andare ad essa, impariamo a conoscerne la legge, la misura interna di questo divenire. Ora soltanto sembra veramente raggiunto ciò cui i “fisiologi” ionici avevano soltanto aspirato. La “Physis'" è di­ ventata “logos", il “logos", “physis". i fisiologi videro l’elemento logi­ co [33] sempre soltanto in una parte del fisico, nell’acqua, o nell’aria, o nel fuoco, ecc. Anche in Anassimandro che eleva l’infinito, l’aTreipov, a “principio”, questo modo di trattare viene superato solo apparentemen­ te. Egli esige l’infinito come materia fondamentale per ogni divenire; egli richiede espressamente che debba essere posto «iva p yéveoic p.f] cTTiXeLTTTQ»2, affinché non cessi il divenire, affinché non venga mai a mancare ad esso la “materia”. In Eraclito questa visione è superata: il “divenire” non può estinguersi, non può concludersi e non necessita neppure di alcun infinito, come mera materia, come vuoto substrato: esso è piuttosto l’infinito stesso. Non in una parte della natura o in una delle sue materie fondamentali, in modo privilegiato rispetto a tutte le altre; il logos va colto piuttosto in essa come un tutto. La sua totalità, però, la sua veridica unità, non è un aggregato di materie, una delle qua­ li, in qualche modo, è in tutte le altre (cioè è contenuta in esse come loro elemento originario), bensì è l’intima legge dell’accadere. Ogni mate­ ria ha soltanto un essere relativo; per così dire, è soltanto un punto di passaggio del continuo accadere, del mutarsi delle cose l’una nell’altra. «Il fuoco vive la morte della terra e l’aria la morte del fuoco; l’acqua vive la morte dell’aria e la terra la morte dell’acqua»3. Così nessuna cosa e nessuna materia resta quello che è, anche solo per un attimo, e tuttavia, soltanto in questo ininterrotto passaggio ed in forza della sua

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II testo cui fa riferimento Cassirer recita propriamente: «oììtc yùp iva r) yéveoLC pi) emAeimy, dvayKaiov évepyebai cnreipov eivai owpa aioOpTÓv [in realtà, perché la generazione non venga meno, non è ne­ cessaria 1’esistenza di un corpo sensibile che sia infinito in atto]» (DielsKranz, Bd. I, p. 17, Fr. B 14; tr. it. cit., voi. I, p. 100). IPresocratici, cit., voi. I, p. 212, Fr. B 76; cfr. Diels-Kranz, Bd. I, p. 93.

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singolarità, cessa di essere meramente singolare: si unisce al tutto e diventa espressione, simbolo del tutto. Tutto Tibiov si muta in kolvóv. E questa è la via che deve percorrere l’autentica filosofia, la trattazione speculativa della natura. La risoluzione dell’ÌStov nel kolvóv, soggetti­ vo come oggettivo, nel sapere come nell’essere, è la via che percorre il logos. Cogliere e descrivere il logos oggettivo-comune, che è la misura di tutte le cose e di tutto l’accadere, nella totalità del pensiero, è il vero senso della filosofia, «[etveti yùp] èv tò croopai»), grazie alle quali spiegare tutte le differenze delle cose (Cfr. Aristotele, Metaphysica, I (A), 4.985 b)13. 2.1 medesimi momenti fondamentali della considerazione filosofica della natura ci si presentano poi nello sviluppo della filosofìa moderna. La considerazione empirica della natura, nella quale la scienza della natura si trasforma in “historia naturalis” è incarnata in Bacone. Baco­ ne combatte le “vuote astrazioni” dei matematici, così come combatte la metafisica scolastica, che crede di potersi liberare dalla guida della natura, dalla guida dell’esperienza. La natura può essere conosciuta soltanto enumerando “induttivamente” i casi particolari, connettendo­ li, ordinandoli secondo somiglianze e differenze; cogliendoli sistema­ ticamente, cioè in modo empirico-enciclopedico. Così VInstauratio magna, il grande rinnovamento, prende le mosse dall’enciclopedia, per giungere, attraverso la dottrina del metodo, che contiene la dottrina dell’induzione come sua parte principale, alla storia della natura e da questa alla “philosophia realis”. E così Bacone, conformemente a que­ sto ideale materiale della conoscenza della natura, come storia della natura, compone una Historia ventorum, una Historia densi et rari, una Historia gravis et levis, una Historia sympathiarum et antipathiarum rerum, una Historia sulfuris, mercurii, salis, una Historia soni et auditus. Tutte queste trattazioni cercano di spingersi fino alla conoscenza della forma (dei «viscere naturae»), così come la comprensione della forma (ad es. della forma del calore) costituisce il fine dell’induzione 10 11

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«Cattivi testimoni» (Diels-Kranz, Bd. I, p. 98, Fr. B 107; tr. it. cit., voi. I, p. 217). «Preferisco quelle cose in cui c’è vista, udito ed esperienza» (DielsKranz, Bd. I, p. 88, Fr. B 55; tr. it. cit., voi. I, p. 209). «Opinione il dolce» (Diels-Kranz,Bd. II, p. 85, Fr. B 125; tr. it. cit., voi. II, p. 775). «Totùrac [tòc Sia^opàc] pévTot rpeic elvai Àéyouot, oxfittd re ical tcì£lv rat 0€olv [E quelle essi affermano che [le differenze] sono tre, la figura, l’ordine e la posizione]» (Diels-Kranz, Bd. II, pp. 2-3, Fr. B 6; tr. it. cit., voi. II, p. 647).

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baconiana. Ma la precondizione per poter ottenere la forma è innanzi­ tutto il puro accumulo dei dati materiali. Silva silvarum (silva = vXr|), materia delle materie, così William Bawley, il segretario di Bacone, intitolò la raccolta di saggi di storia naturale che egli editò. A questo ideale della storia naturale si contrappone in Descartes quello pitago­ rico-democriteo, l’ideale matematico della conoscenza della natura. Tutte le qualità dell’essere si trovano nella materia e nel movimento, la materia stessa però si risolve in pura estensione («apud me omnia sunt mathematice in natura»14). E dietro l’estensione geometrica [36] vi è nuovamente l’originario concetto pitagorico del numero', infatti mediante la geometria analitica le differenze spaziali stesse vengono superate e risolte in differenze numeriche. In questo modo la filosofia si è trasformata in fisica matematica e viceversa la fisica in filosofia. L’opera principale di Descartes nega immediatamente entrambe le cose: la parte di gran lunga più ampia dell’opera alla quale Descartes ha dato per titolo Principia philosophiae, tratta dei principi della fisica, vale a dire la derivazione e la spiegazione meccanica di tutto l’accade­ re, in base esclusivamente all’estensione, alla forma e al movimento. Alla concezione meramente empirica, come a quella matematico-mec­ canica della natura, si contrappone infine nuovamente, nella filosofia della natura di Schelling, l’ideale eracliteo, l’ideale della comprensio­ ne e dell’esperienza vissuta della natura nella pienezza concreta delle sue manifestazioni. Soltanto qui dev’essere trovata la conciliazione tra universale e particolare, tra intuizione e concetto. L’intuizione filoso­ fica della natura (che non è volta all’universale-analitico del concetto matematico, bensì alTuniversale-sintetico, che procede non dalle parti al tutto, bensì dal tutto alle parti), quella intuizione che Schelling trovò incarnata nella visione poetica, nella visione goethiana della natura, è l’unità di universale e particolare; in essa l’intuizione stessa appare come “intellettuale”, l’intelletto stesso come “intuitivo”.

14

«Per me tutte le cose in natura hanno carattere matematico» (R. Des­ cartes, (Euvres, publiées par C. Adam et P.Tennery, Vrin Paris 1966, voi. Ili: Correspandane e Janvier 1640-Juin 1643, p. 36, nota 7. Lettera a Mersenne dell’11 marzo 1640). È molto probabile che Cassirer si sia servito dell’edizione delle (Euvres di Descartes, curate da V. Cousin, ove il passo latino citato è inserito nel corpo della lettera. Cfr. R. Descartes, (Euvres, éd. par V. Cousin, tome Vili: Lettres, Levrault, Paris 1824, p. 205.

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3. In contrapposizione a queste tre concezioni fondamentali della natura che si erano presentate nella filosofia teoretica, la scienza della natura vera e propria si era incamminata sempre più verso una posizio­ ne autonoma e verso una fondazione metodica indipendente. L’opera di Newton che porta la moderna scienza della natura ad un primo compi­ mento sistematico, si annuncia nel suo titolo ancora come filosofia della natura: Philosophiae naturalis principia matematica. E questo titolo di "Naturai Philosophy', com’è noto, è usato ancora oggi in Inghilterra per indicare parti della teoria matematica o empirica della natura. Ma proprio Newton, nella sua battaglia contro le ipotesi, si sforza di libe­ rarsi dal dominio della metodica filosofica in generale. Le sue Regulae philosophandi nelle quali presenta le “massime” generali delle induzio­ ni, sono volte all’eliminazione dei momenti meramente ipotetici, pura­ mente speculativi della filosofia della natura. Così egli crede, rigettando le ipotesi [37] cartesiane dei vortici, ecc., di poter fare a meno di tutte le componenti ipotetiche in generale. L’espressione «hypotheses non fingo» costituisce la sua divisa e il suo motto. L’allievo di Newton, Keill, è colui che, nel suo scritto Introductio ad veramphysicam, conia un termine che da quel momento, in sempre nuove variazioni, verrà usato per indicare il metodo rigorosamente scientifico nella conside­ razione della natura, in contrapposizione a quello “filosofico”. Non si tratta della spiegazione degli effetti, muovendo dalle loro cause ultime, che piuttosto, come ad esempio la causa della gravità, ci rimarranno per sempre ignote, bensì semplicemente di una descrizione dei feno­ meni («descriptio phaenomenorum»). Con ciò è fornita la definizione che poi è stata accolta quasi generalmente dalla scienza naturale con­ temporanea. È espressa nel modo più chiaro e pregnante nella ben nota definizione della meccanica di Kirchhoff, in base alla quale essa non ha altro compito che «descrivere compiutamente e chiaramente»15 i moti che ci si presentano in natura. Qui vediamo dinnanzi a noi il concetto di natura specificamente scientifico, il concetto di natura propriamen­ te “positivista”. Esso si differenzia notevolmente allo stesso modo dal concetto di natura dell’empirismo filosofico (Bacone), dal concetto di natura del razionalismo e da quello della filosofia della natura schel­ 15

G. Kirchhoff, Vorlesungen über mathematische Physik, I: Optik, Teubner, Leipzig 1876, p. 1. Il passo recita esattamente: «descrivere compiutamen­ te e nel modo più semplice».

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linghiana. Dall'“empirismo”, nel senso di Bacone e di Hume, perché l’istanza di compiutezza e chiarezza della “descrizione” impone ad essa delle condizioni logiche del tutto determinate e la rinvia a mezzi co­ noscitivi del tutto determinati. La “descrizione” di cui si parla qui non può mai essere una semplice riproposizione, una riproduzione del dato, al quale piuttosto imprime già sempre una forma concettuale del tutto determinata, che consiste ad esempio nel ricondurre il movimento, in quanto totalità complessa, ai suoi “elementi” ed alla connessione con­ forme a leggi di questi elementi, così come si esprime nelle equazioni differenziali della fisica. Dalla visione della natura del razionalismo filosofico (Descartes) però questa concezione della natura si differen­ zia per il fatto che i concetti fondamentali che poniamo alla base della descrizione dei fenomeni, essa li intende come simboli ed in questo modo rinuncia ad ogni interpretazione e significato ontologico di essi. In Descartes il punto di vista del fisico matematico trapassa immedia­ tamente in quello ontologico-filosofico: «les règles des Méchaniques, qui sont les mesmes que celles de la nature»16, così si dice in un passo del Discours de la méthode. Noi possiamo indicare come esistente sol­ tanto ciò che siamo in grado di pensare in concetti “chiari e distinti”, in concetti matematici; ma d’altra parte ogni pensiero chiaro e distinto contiene anche, nel contempo, l’assicurazione, la garanzia dell’essere. Questo è il nocciolo della dimostrazione ontologica [38], così come la intende Descartes. Dio stesso diventerebbe ingannatore, se la “ve­ rità” che noi dobbiamo ascrivere ai concetti matematici, in base alla loro evidenza, non significasse nel contempo la certezza della loro re­ altà effettiva, della loro incondizionata applicabilità: «a nasse ad esse valet consequentia»17. Ciò che in conclusione separa la visione spe­ culativa, la visione intuitiva della natura da questo concetto di natura della scienza “positiva” è la circostanza che quest’ultima rinuncia fin dall’inizio, in linea di principio, ad ogni pretesa di penetrare all’«inter­ 16

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«Le regole della meccanica, che sono le stesse della natura» (R. Des­ cartes, Discours de la méthode, in Id., (Euvres, publiées par C. Adam et P. Tennery, Paris 1897-1909, voi. VI, p. 54; Id., Discorso sul metodo, in Opere 1637-1649, a cura di G. Beigioioso, con la collaborazione di I. Agostini, F. Marrone, M. Savini, Bompiani, Milano 2009, p. 89). «Dal conoscere all’essere non vale la conseguenza» (R. Descartes, Meditationes de prima philosphia, in Id., (Euvres, cit., voi. VII, p. 520; Id., Meditazioni. Obiezioni e risposte, in Opere 1637-1649, cit., p. 1340).

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no della natura»18 e di spiegare questo interno della natura sulla base del nostro proprio interno, della nostra propria fondamentale esperien­ za spirituale. Nella conoscenza della natura non si tratta di fondersi in qualche modo con la natura, di diventare intuitivamente una cosa sola con essa risolvere, come fa Schelling, soggettività e oggettività l’una nell’altra ed in questo modo pervenire al loro punto assoluto d’unità, al loro ultimo punto d’indifferenza. La scienza esatta della natura si accontenta piuttosto di «compitare i fenomeni per poterli leggere come esperienze»19. Essa realizza un determinato sistema di segni, un «alfa­ beto del pensiero»20 (Leibniz) e cerca, in qualche modo, di correlare con chiarezza la totalità dei fenomeni alle lettere di questo alfabeto. Così viene definito questo suo alfabeto da Hertz: «noi ci raffiguriamo oggetti esterni attraverso simulacri o simboli, e li raffiguriamo in modo tale che le conseguenze logiche di queste immagini raffigurino le conseguenze naturali degli oggetti raffigurati»21. Se questa concezione dell’essenza della teoria scientifica è corretta - e di fatto è accolta quasi concordemente dai fisici contemporanei sorge la domanda se e in che misura il problema della filosofia, che co­ munque è rivolta alla realtà e il problema della fisica, che si accontenta

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Probabile riferimento a Goethe: «ALLERDINGS. Dem Physiker / „Ins Innere der Natur - „ / O du Philister! - / „Dringt kein erschaffner Geist“. [INDUBBIAMENTE. Al fisico / “All’interno della natura” - / o filisteo! - / “nonpenetra nessuno spirito creato”]» (WA, Abt. I, Bd. 3, p. 105, vv. 1-3; J. W. Goethe, Tutte le poesie, cit., voi. I, tomo II, p. 1031). I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wis­ senschaft wird auftreten können, § 30, Ak, Bd. IV, p. 312; Id. Prolegomeni ad ogni futura metafisica,a cura di P. Carabellese, revisione di R. Assunto e H. Hohenegger, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 137. «Alphabetum cogitandi» (G.W. Leibniz, De Synthesi etAnalysi Univer­ sali seu arte inveniendi et judicandi, in Die philosophischen Schriften, hrsg. von C.J. Gerhardt, Berlin 1875-1890, Bd. VI, p. 292; Id., Sul­ la sintesi e sull’analisi universale, ossia sull’arte dello scoprire e del giudicare, in Scritti di logica, a cura di F. Barone, Laterza, Roma-Bari 19922, voi. I, p. 150). H. Hertz, Die Prinzipien der Mechanik in neuem Zusammenhänge dar­ gestellt, mit einem Vorworte von H. von Helmholtz, Barth, Leipzig 1894, p. 1 ; Id., I principi della meccanica delineati in una nuova forma, a cura di A. Zampini, Prefazione di A. O. Barut, Prefazione alla prima edizione tedesca di H. von Helmholtz, Bibliopolis, Napoli 2010, p. 5.

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di siffatti simboli astratti e di siffatti “simulacri”, possano in qualche modo entrare ancora in contatto tra loro. Se si decide di rinunciare al significato ontologico delle ipotesi fisiche, in base a quel nominalismo che è stato perseguito con grande rigore nella filosofia moderna per primo da Hobbes, non si vede nei concetti fisici nient’altro che segni aritmetici che possiamo scegliere a piacere e per i quali il criterio di misura non consiste nel fatto che ad essi corrisponda qualcosa nella “realtà effettiva delle cose”, bensì nel fatto che sono sufficienti allo sco­ po di articolare in modo chiaro i fenomeni e coordinarli sistematicamente22; se così fosse, non vi potrebbe più essere, a quanto pare, alcun punto di contatto e di conseguenza neppure conflitto tra la considerazio­ ne filosofica della natura e la considerazione fisica, puramente “positi­ vistica” di essa. Esse starebbero allora semplicemente l’una accanto all’altra, [39] apparterrebbero a due differenti dimensioni e sarebbe quindi semplicemente ozioso, sarebbe una pcTaßacnc etc aÀÀo yévoc volersi interrogare ancora sul significato filosofico di una determinata teoria fisica, ad esempio della teoria della relatività. Non è un nuovo problema metodico che incontriamo qui; esso, ad una più attenta consi­ derazione, attraversa l’intera storia della fisica contemporanea e dell’a­ stronomia contemporanea. Fin dal suo apparire, si è paragonata la teoria della relatività all’ipotesi copernicana e si è visto in essa una “rivoluzio­ ne nel modo di pensare” altrettanto penetrante, un mutamento ancora più profondo di tutti i nostri presupposti fondamentali, di quanto si sia compiuto nella concezione copernicana. Ma proprio quando ci si rifà a questo paragone, bisogna ricordarsi che anche l’ipotesi copernicana, fin dal suo primo apparire, ha conosciuto un’interpretazione e una valuta­ zione del tutto diverse da parte dei fisici e dei filosofi. Giordano Bruno la salutò come una vera azione di liberazione dello spirito. Questa teoria «ha disciolto l’animo umano e la cognizione, che era rinchiusa ne l’a­ trissimo carcere de l’aria turbolento; onde a pena, come per certi buchi, avea facultà di remirar le lontanissime stelle, e gli erano mozze l’ali, a

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Cfr. T. Hobbes, Leviathan. Sive de materia, forma et potestate civitatis ecclesiasticae et civilis, in Id., Opera philosophica quae latine scripsit omnia, in unum corpus nunc primum collecta studio et labore, G. Molesworth, voi. Ili, Bohn, London 1841, p. 28; Id., Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, a cura di A. Pacchi, con la collaborazione di A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 30.

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fin che non volesse ad aprir il velame di queste nuvole e veder quello che veramente là su si ritrovasse, e liberarse da le chimere [...], smor­ zando quel lume, che rendea divini ed eroici gli animi di nostri antichi padri, approvando e confirmando le tenebre caliginose de’ sofisti ed asini. [...] or ecco quello, ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discor­ se le stelle, trapassati i margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decine ed altre, che vi s’avesser potuto aggiungere, sfere, per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari; [...] le rende non men presenti che si fussero propriii abitatori del sole, de la luna ed altri nomati astri [...]. Conoscemo, che non è ch’un cielo, un’eterea reggione inmensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità de la partecipazione de la perpetua vita» (G. Bruno, Cena de le ceneri, 126-128)23. Ma a questa concezione filosofica e “eroica” del pensiero fondamentale del coperni­ canesimo, a questi “eroici furori” che essa accende in Bruno si contrap­ pone un’altra interpretazione astratta-scientifica e spassionata del suo contenuto. Copernico stesso ha proposto la sua teoria espressamente come ipotesi matematica. Il suo valore va giudicato in base a ciò che realizza per il calcolo astronomico e questo punto di vista alla fine deve essere quello decisivo; perché, [40] come si legge nella dedica di Co­ pernico al Papa Paolo III: «mathemata mathematicis scribuntur»24. Questo pensiero poi si trova espresso in una versione decisamente più radicale nella Prefazione anonima con la quale veniva introdotto lo scritto De revolutionibus orbium coelestium al suo apparire nel 1543. Questa Prefazione non è opera di Copernico stesso, bensì dell’editore dell’opera, Andreas Osiander. Un’ipotesi astronomica - vi si afferma non è necessario che sia vera, nel senso che concordi con la realtà effet­ tiva, con la natura delle cose; non è neppure necessario che sia verosi­ mile', è sufficiente che si dimostri utilizzabile e valida per l’interpretazione delle osservazioni e per il calcolo preventivo dei feno­ meni. «Neque enim», vi si legge, «necesse est,eas hypoteses esse veras,

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G. Bruno, La cena de le ceneri, in Id. Opere italiane, hrsg. von O. de Lagarde, Dieterichsche Universitätsbuchhandlung, Göttingen 1888, voi. I,pp. 126-128. «La matematica si scrive per i matematici» (N. Copernico, De revolutio­ nibus orbium caelestium. La costituzione generale dell'universo, a cura di A. Koiré, tr. it. di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1975, p. 22/23).

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imo ne verisimiles quidem, sed sufficit hoc unum, si calculum observationibus congruentem exhibeant»25. Questo passo della Prefazione di Osiander ha generato un vivace dibattito che si è protratto fino ad oggi. Keplero, ad esempio, l’ha contrastato vivacemente. Per lui la teoria di Copernico è più di uno strumento metodico-matematico per facilitare il calcolo, più dell’introduzione di un nuovo sistema di coordinate, capace di dare una forma più semplice e chiara alle equazioni dell’astronomia; per lui è invece una nuova, anzi la vera immagine della natura stessa e delle forze fondamentali che agiscono effettivamente nell’universo. Tutto il materiale relativo a questo conflitto tra due concezioni metodi­ che fondamentali si trova ora raccolto e ordinato nella presentazione di un fisico contemporaneo, nel libro di Pierre Duhem, Sw^eti/ tù aivópeva. Essai sur la notion de théorie physique de Platon à Galilée, Paris 1908. Qui Duhem ha seguito l’intero sviluppo àeWipotesi astro­ nomica dall’antichità fino ad oggi. La limitazione dell’ipotesi alla pura interpretazione e riproduzione calcolistica dei fenomeni fattuali può essere individuata già fin nell’antichità. In base ad un passo di Simpli­ cio nel suo Commentario all’opera di Aristotele De coelo, era Platone stesso a dare agli astronomi antichi il compito di valutare quali moti ordinati e uniformi dovessero essere posti a fondamento, per salvare i fenomeni celesti («[Tlvwv viTOTeQévTwv Si’ ópaXwv kql éyKUKXiwv KCti TeTaypévojv Kivqoeojv bwrjoeTai] 5iaaco0f|vai tò Kepi toùc iTÀavw|iépovc [41] ÓGiuópeva»26). La decisione che la scienza moder­ na ha adottato in questo conflitto sembra essere andata del tutto a van­ «Non è infatti necessario che queste ipotesi siano vere, e persino nemmeno verosimili, ma è sufficiente solo questo: che presentino un calcolo conforme alle osservazioni» (Ivi, p. 4/5). Cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit. Erster Band, ECW, voi. 2, p. 287; Id., Storia della filosofia moderna, I: Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dall’Umanesi­ mo alla scuola cartesiana, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1952, p. 385. Il richiamo alla sua opera è dello stesso Cassirer. 26 «In base a quali ipotesi circa i moti uniformi, circolari e ordinati sia possibile salvare i fenomeni relativi ai pianeti» (Simplicii In Aristotelis de Caelo Commentario, edidit I.L. Heiberg, Reimer, Berlin 1894, p. 493. Citato in P. Duhem, XcZeiv tù cpciL.vópeva. Essai sur la notion de théo­ rie physique de Platon à Galilée, Hermann, Paris 1908, p. 3; Id., Salvare i fenomeni. Saggio sulla nozione di teoria fisica da Platone a Galileo, a cura di F. Bottin, Boria, Roma 1986, p. 24). 25

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taggio della concezione matematico-nominalistica, così com’era propo­ sta nella prefazione di Osiander e del tutto contro la concezione realistico-fìlosofica di Keplero. Soprattutto se si prendono in considera­ zione i risultati della teoria della relatività, tutto ciò salta all’occhio. Se questi esiti sono legittimi, non ha più alcun senso parlare della conce­ zione del mondo copernicana come quella “vera” e contrapporre ad essa la più antica concezione tolemaica come quella “falsa”. Perché tutto ciò che ha fatto Copernico consiste semplicemente nell’aver scelto un nuovo sistema di coordinate per descrivere i moti celesti, nell’aver spostato il centro delle coordinate dalla terra al sole. In questo modo tutte le equazioni astronomiche assunsero senz’altro una forma più semplice e chiara; tuttavia nessuna singola spiegazione o descrizione dei fenomeni celesti, quella copernicana non diversamente da quella tolemaica, può essere ritenuta “vera”. Infatti, in base al postulato fonda­ mentale della teoria della relatività, tutti i sistemi di coordinate a piace­ re sono equivalenti e ugualmente autorizzati a descrivere i fenomeni naturali e ad enunciare le leggi fondamentali che li regolano. «I fisici del nostro tempo», così conclude Duhem, «hanno pensato più minuzio­ samente dei loro predecessori l’esatto valore delle ipotesi impiegate in astronomia e in fisica: essi hanno visto dissipare molte illusioni che fino a poco fa passavano per certezze. Grazie a loro oggi possiamo ricono­ scere ed affermare che la logica era dalla parte di Osiander, di Bellarmi­ no e di Urbano Vili e non dalla parte di di Keplero e di Galileo. I primi avevano compreso l’esatto valore del metodo sperimentale; questi ulti­ mi in proposito si erano ingannati» (Duhem, op. cit., p. 136)27. Così risulterebbe dunque che Keplero, schierandosi per la verità del sistema copernicano, contro la dottrina aristotelico-scolastica, aveva combattuto inutilmente, che Giordano Bruno e Galilei, nella loro lotta contro le dottrine astronomiche ecclesiastiche, avevano sofferto inutil­ mente, erano morti per nulla. La tragica fatalità, il tragico fraintendi­ mento della loro vita sarebbe consistito nell’aver creduto di vedere, là dove veniva fornita solamente una nuova, sorprendentemente facile formula di calcolo, una nuova concezione del mondo e il fondamento di una nuova visione complessiva e conoscenza filosofica complessiva del cosmo. Quando oggi parliamo del contenuto filosofico della [42] fisica contemporanea, del senso filosofico della teoria della relatività non in­ 27

P. Duhem, SióCclv tù cjxnvógeva, cit., p. 136; tr. it. cit., p. 142.

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corriamo nel medesimo fraintendimento? Non costituisce un criterio di misura del tutto errato appoggiarsi ai “simulacri e ai simboli” dei quali la fisica può e deve servirsi per i suoi scopi? I simboli non hanno alcun’altra ambizione ed alcun altro senso e scopo che di “salvare i feno­ meni” (apparentias salvare); dobbiamo interpretarli diversamente in enunciazioni sui fondamenti ultimi dell’essere, sia che cerchiamo que­ sto fondamento dell’essere nelle cose, come vuole il realismo, sia che lo cerchiamo nella coscienza, come vuole l’idealismo? Quando, ad esem­ pio, la teoria della relatività, in uno dei suoi esiti più noti e paradossali, ci insegna che tra i valori temporali e spaziali non sussiste “alcuna salda differenza di significato”, che, nella misura in cui si tratta della pura interpretazione fisica degli eventi naturali, essi sono intercambiabili, sembra in effetti, già al primo sguardo, che vi sia un mutamento sempli­ cemente rivoluzionario, un rovesciamento di tutti i concetti fondamen­ tali entro i quali noi fino ad ora pensavamo “mondo” e “coscienza”. Infatti se si dà qualcosa di saldo, di evidente per la coscienza, per la nostra immediata comprensione ed esperienza vissuta, questa è la pecu­ liarità della forma dello spazio e del tempo e la peculiare, insuperabile differenza di queste due forme. Qui si trova un fondamento di tutta la diversità dei contenuti che non si può scuotere, senza che il nostro mon­ do si trasformi in caos, senza che tutto ciò che è formato rovini in un’u­ nica massa informe. A quanto pare, non si può più definire, determinare concettualmente questa specificità, in particolare del tempo, come for­ ma del “senso interno”; sennonché esso costituisce tuttavia un fenome­ no originario, immediatamente certo della stessa vita cosciente e con ciò anche un presupposto fondamentale di tutta la conoscenza coscien­ te. Qui ha validità l’espressione di Agostino: «si non quaeris, scio; si quaeris nescio»28. La trattazione della fisica si spinge fino a questi ele­ menti fondamentali, a questi fondamenti della coscienza? Per il mo­ mento non possiamo ancora tentare di rispondere a questa domanda e 28

II passo di Agostino suona propriamente: «Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio [Che cos’è, al­ lora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi ne chiede, non lo so]» (Sancii Aurelii Augustini Confessionum Libri Tredecim, Lib. 11, cap. 14, in Id., Opera Omnia, accurante J.-M. Migne, voi. 1, Migne, Paris 1877 - Patrologia latina, voi. 32, col. 816; Id., Le confessioni, tr. it. di C. Vitali, introduzione di C. Mohrmann, Rizzoli, Mi­ lano 1985, p. 320).

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tuttavia essa ci si presenta già qui in tutta la sua incisività. La fisica re­ lativistica è in effetti caratterizzata dal fatto che essa spinge la dissolu­ zione dei fatti fondamentali della coscienza, del “dato” ben al di là di quanto avvenisse nella concezione meccanicistica del mondo. Questa risolve tutte le “qualità soggettive” in grandezze, tutto ciò che è oggetto di sensazione in qualcosa di numerabile e misurabile. La “visione del giorno” si trasforma in “visione della notte”29; il mondo dei colori e dei suoni scompare per noi e trapassa in un mondo di pure quantità. Ma se si guarda con maggiore attenzione, si vede che a fondamento di questo mondo di mere grandezze vi sono ancora delle differenze qualitative del tutto determinate. Si tratta di quelle differenze che sono poste pro­ prio [43] nei concetti fondamentali del meccanicismo stesso. Il moto, al quale vengono ricondotti tutti i contenuti sensibili e tutte le differenze sensibili, non lo si può pensare, senza che noi poniamo un qualcosa che si muove, una massa, come “soggetto del moto”, quand’anche pensas­ simo a questa massa come ridotta ad un mero “punto materiale”; senza che inoltre pensiamo uno spazio omogeneo, uniforme, continuo, nel quale essa procede e un tempo uniforme, nel quale essa scorre. In queste tre differenze fondamentali e nel loro reciproco rapporto, nelle differen­ ze di spazio, tempo e massa sono dunque dissolte tutte le differenze di contenuto della sensazione. Esse restano come differenze della “forma” e dunque della qualità, anche nella concezione del mondo puramente quantitativa del meccanicismo, in quanto presupposti di esso. La teoria della relatività però spinge sostanzialmente oltre la dissoluzione della forma, della qualità esperibile e non si acquieta finché non le è riuscito di dissolvere la differenza fondamentale di spazio e tempo in una mera differenza di numero. Ogni “spiegazione” fisica dell’accadere naturale, essa dice, non consiste in altro e non può consistere in altro se non nel fatto che noi pensiamo la totalità di ciò che chiamiamo “eventi natura­ li”, come un tutto unificante. Questo continuo forma una varietà quadri­ dimensionale, cioè ogni punto in esso (ogni singolo “evento”) è com­ piutamente definito dalla indicazione di quattro valori numerici x x2 x3 x4. Questi valori non hanno alcun significato intuitivo ed alcun signifi­ cato fisico immediato, bensì hanno come unico scopo - così chiarisce espressamente Einstein - «di numerare i punti del continuo in maniera 29

Probabile richiamo all’opera di G.T. Fechner, Die Tagesansicht gegen­ über der Nachtansicht, Breitkopf und Härtel, Leipzig 1879.

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univoca ancorché arbitraria»30. E in questo numerare arbitrario i singoli numeri, grazie ai quali esso ha successo, gli xt x2 x3 x4,non indicano più in alcun modo delle differenze interne tra di essi. Essi non sono appun­ to nient’altro che numeri e perciò del tutto omogenei tra loro, perché uniformità e omogeneità sono il carattere precipuo del concetto di nu­ mero. Differenze interne, differenze qualitative si possono dare sempre soltanto nel contato, nel misurato, ma non nel puro numero; questo non conosce più alcuna differenza di contenuto, bensì soltanto la differenza della pura posizione, del “prima” e del “dopo”, non in un qualche senso temporale, bensì nel senso del puro ordine all’interno della serie nume­ rica. Conformemente a questo principio e a questo ideale della teoria della relatività generale non è più possibile in essa distinguere le “coor­ dinate spaziali” di un “evento” dalle sue coordinate temporali; tutti i valori numerici x{ x2 x3 x4 entrano uniformemente e con valore equiva­ lente nella [44] determinazione dell’evento, in quanto evento fisico. Anche “lo” spazio e “il” tempo appartengono a quel contenuto che, come il contenuto della sensazione immediata, scompare nella definiti­ va forma logico-matematica della fisica. Ciò che rimane sono soltanto enunciati su valori numerici e determinate coordinazioni funzionali, determinate “coincidenze” di questi valori numerici. «Tutte le nostre verifiche spazio-temporali», dice Einstein, «si riducono invariabilmen­ te a una determinazione di coincidenze spazio-temporali. [...]! risulta­ ti delle nostre misurazioni non sono niente altro che verifiche di certi incontri di punti materiali di nostri strumenti di misura con altri punti materiali, o coincidenze tra le lancette di un orologio e punti sul qua­ drante dell’orologio, o punti-evento osservati che cadono nello stesso posto e nel medesimo istante. L’introduzione di un sistema di riferimen­ to non serve ad altro scopo che a facilitare la descrizione della totalità di tali coincidenze. Si distribuiscono ordinatamente sull’universo quat­ tro variabili spazio-temporali xt x2 x3 x4 in modo tale che per ogni punto rappresentante un evento vi sia un sistema corrispondente di valori del­ le variabili xì ... x4. Se due punti (rappresentanti due eventi) coincido­ no, ad essi corrisponde un unico sistema di valori delle coordinate x} ... x„, vale a dire la coincidenza è caratterizzata dall’identità delle coordinate. [...] E poiché tutta la nostra esperienza fisica può in definitiva ri­ 30

A. Einstein, Über die spezielle und die allgemeine Relativitätstheorie, CP, voi. 6, p. 488; tr. it. cit., p. 453 (traduzione leggermente modificata).

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dursi a tali coincidenze, non vi è alcuna ragione immediata per preferire certi sistemi di coordinate ad altri» (A. Einstein, Grundlagen, p. 86)31. Così vediamo: si tratta di un ideale conoscitivo del tutto determinato, saldamente delineato da un punto di vista metodico, col quale la contem­ poranea fisica relativistica non solo lavora, ma che espone con assoluto rigore e consapevolezza e di un concetto di realtà del tutto determinato che essa pone a fondamento, in conformità a questo ideale conoscitivo. Questo concetto di realtà si accorda con quello della filosofia, con il criterio di misura col quale questa, nella sua forma dell’analisi concet­ tuale, misura le “cose” della natura e i contenuti della coscienza, oppure essi sono già originariamente, già come criteri di misura pensabili, con­ trastanti tra loro? Questo è l’essenziale problema epistemologico che la teoria della relatività solleva. Il suo essenziale contenuto filosofico e il suo merito filosofico, come cercheremo di mostrare, non consiste tanto nei suoi risultati ultimi, quanto piuttosto nel fatto che essa ha sollevato con piena determinatezza questa domanda. «Confondere i confini delle scienze non significa accrescerle ma deformarle»32, dice Kant. E qui, nella teoria della relatività, si può finalmente fare chiarezza [45] sui confini tra fisica e filosofia, tra il problema della natura, la conoscenza oggettiva, così come si presentano al filosofo e al fisico. I primi grandi fisici dell’Età moderna, Galilei e Keplero, non avevano ancora tracciato rigorosamente questi confini. Non ne avevano bisogno, perché si senti­ vano in tutto e per tutto portatori e annunciatori di una nuova, compiuta e semplicemente unitaria concezione del mondo e della natura. Così Galilei si contrappone, in quanto platonico, alla Scolastica aristotelica dei suoi contemporanei e in questa lotta contro di essa egli si può vanta­ re di aver dedicato più mesi alla filosofia che giorni alla fisica33. Anche Keplero dice espressamente nel suo scritto sull’ipotesi che il fisico, che 31 32

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A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, CP, voi. 6, pp. 291-292; tr. it. cit., pp. 289-290. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B Vili, Ak, Bd. Ili, p. 8; tr. it. cit., p. 40. Evidente richiamo alla lettera di Galilei del 7 maggio 1610 a Belisario Vinta, ove si legge: «finalmente, quanto al titolo e pretesto del mio servi­ zio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S. A. ci aggìugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura» (G. Galilei, Opere. Ed. Nazionale, voi. X, p. 353). (N.d.T.).

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l’astronomo che calcola non può essere escluso dal novero dei filosofi che cercano di scoprire la natura delle cose. «L’astronomo che prevede quanto più precisamente possibile i moti e le posizioni delle stelle ha svolto bene il suo compito: ma fa meglio ed è più degno di lode colui che, oltre a questo, avanza giudizi veri sulla forma del mondo. Là cer­ tamente si conclude al vero in quanto è visto; qui non ci si accontenta di concludere soltanto in base a ciò che si vede, bensì, concludendo, si comprende anche la forma più interna della natura»34. Questa tensione faustiana verso la parte più interna della natura - «naturae penitissima forma»35, come dice Keplero - è presente e vivo anche nei grandi ma­ tematici del Rinascimento. Per questo essi lottano appassionatamente, affinché la loro concezione della natura, la concezione copernicana del sistema del mondo sia più di una mera formula, più di un comodo stru­ mento di calcolo; affinché essa ci fornisca l’essere stesso nei suoi fon­ damenti ultimi e nella sua costituzione e forma reali. Oggi siamo lonta­ ni da questo “realismo” e proprio il progresso della fisica più recente e la riflessione epistemologica che è insita in essa ci ha insegnato sempre più chiaramente a comprendere ed apprezzare tutte le ipotesi, anche quelle più generali e fondamentali della fisica, come ad esempio il prin­ cipio della conservazione dell’energia, il principio d’inerzia, il princi­ pio dell’equivalenza di azione e reazione, il principio della costanza della velocità della luce, in quanto ipotesi. Ma la domanda che mosse interiormente questi uomini, anche se non possiamo più accoglierne e riconoscerne senz’altro la soluzione, non è per noi in quanto tale affatto superata. Anche se noi tracciamo i confini tra fisica e filosofia [46] più nettamente di quanto abbiano fatto loro, l’esigenza di un’unità ultima tra di esse, conserva per noi ancora piena validità ed è inevitabile per il modo filosofico di trattare le questioni, proprio perché il principio vitale della filosofia stessa si trova appunto nel presupposto di una tale unità. Ma un’unità siffatta è davvero ancora raggiungibile, tenuto conto della svolta che la fisica contemporanea ha compiuto? Vi è una pos­ sibile conciliazione tra il concetto di realtà della fisica e quello della filosofia? Non vogliamo anticipare la risposta a questo interrogativo, ma non possiamo rinunciare a cercare almeno una tale conciliazione. 34 J. Kepler, Apologia Tychonis contra Ursum, in Id., Opera Omnia, cit., vol.I,p.242. 35 «La forma più interna della natura». Cfr. la nota precedente.

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Qualcosa in noi si oppone a vedere nella soluzione puramente nomina­ listica, verso la quale propendono tanti fisici contemporanei, l’ultima spiaggia; a credere che Keplero e Galilei lottassero veramente per meri nomi, che combattessero per ombre e fantasmi, quando sostenevano la verità del sistema copernicano contro quello tolemaico. E d’altra parte non può più tuttavia bastarci la soluzione realistica, assolutistica, che vede fondata questa “verità” nel fatto che il sistema copernicano soltan­ to spiegherebbe e riprodurrebbe i moti assoluti nel cosmo assoluto. Non soltanto la filosofia critica, bensì quasi ancor più il progresso immanen­ te della fisica stessa ci ha resi sospettosi e scettici nei confronti di que­ sto assoluto. Ecco dunque il compito che questo sviluppo della fisica contemporanea ci consegna: trovare una via che conduca alla “verità” filosofica e alla “realtà”, che ci guidi tra la Scilla del mero nominalismo e relativismo, per i quali tutta la verità diventa un mero “Als-Ob”, una mera finzione3637 , e la Cariddi della concezione ingenuamente assolutisti­ ca del mondo e delle cose. Per tracciare questa via dobbiamo innanzi­ tutto sottoporre ad una più precisa analisi metodica il concetto di verità e il concetto di realtà della fisica31.

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Evidente richiamo al finzionalismo di H. Vaihinger, autore di Die Philo­ sophie des “Als Ob”, Meiner, Leipzig 19183. Oskar Kraus ad esempio, tra gli altri, fornirà un’interpretazione della teoria della relatività sulla base del finzionalismo di Vaihinger (cfr. O. Kraus, Fiktion und Hypothese in der Einsteinschen Relativitätstheorie. Erkenntnistheoretische Betrach­ tungen, in “Annalen der Philosophie” Bd. 2 (1921) H. 3, pp. 335-396). (N.d.T.). A questo punto Cassirer introduce una Bibliografia, per la quale si riman­ da a\VAppendice (cfr. infra, pp. 139-141). (N.d.T.).

[49] CAPITOLO 1 IL CONCETTO DI VERITÀ E IL CONCETTO DI REALTÀ IN FISICA1

1. La prima concezione relativa all’essenza e al significato dei con­ cetti fisici che si presenta è la teoria realistica della copia: i concetti fisici posseggono “verità” nella misura in cui riproducono l’oggetto “reale” presente in natura. La concezione ingenua del mondo ritiene di cogliere immediatamente la realtà delle cose, [50] della natura nelle percezio­ ni sensoriali; ma già fin dai primordi delle considerazioni scientifiche del mondo si scopre la relatività e la mutevolezza dei contenuti della percezione sensibile e si mostra con ciò che essi non possono essere at­ tribuiti all’oggetto “stesso”. Tipico l’esempio di Locke: l’acqua appare calda ad una mano, fredda all’altra; la proprietà che chiamiamo caldo o freddo non riguarda l’oggetto in quanto “in sé”, altrimenti si darebbe la contraddizione che la stessa cosa dovrebbe essere nel contempo calda e fredda1 2. Ma Locke ne trae ancora la conclusione che, al contrario, le qualità primarie appartengono all’oggetto stesso; le rappresentazio­ ni del numero, della forma, del movimento sono negli oggetti, nell’o­ bietto così come sono “in noi”: qui ha luogo una somiglianza perfetta. Su questa conclusione si trovano d’accordo Tempirismo filosofico e il 1

2

Scegliamo di fare un ampio giro e di non cominciare col problema della teoria della relatività, bensì col problema generale della formazione dei concetti in fisica; ma speriamo di garantirci così nel modo più sicuro l’ac­ cesso metodico a questa teoria. Ed è questo che conta per noi dal punto di vista filosofico-, si possono affrontare questi problemi da due punti di vi­ sta: matematico-fisico e logico metodico-, tutto il resto rimane un’illustra­ zione divulgativa che tuttavia favorisce più Voscurità che il chiarimento. Signore e Signori, non si lascino dunque confondere da quest’apparente deviazione; essa è l’unico mezzo, ecc. (Nota di Cassirer). Cfr. J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, Book 2, Cap. 8, § 21, in Id., Works, voi. 3, ed. by P. H. Nidditch, Clarendon, Oxford 1975, p. 139; J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, UTET, Torino 1971, p. 174.

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razionalismo filosofico. Anche Descartes, ricordiamo, aveva poggiato la sua dimostrazione dell’esistenza del mondo dei corpi sul fatto che non le nostre rappresentazioni sensibili, ma certo quelle matematico­ meccaniche debbono essere adeguate riproduzioni degli oggetti. Signi­ ficherebbe fare di Dio un ingannatore, voler negare questa adeguatezza, questa perfetta concordanza delle nostre rappresentazioni dell’estensio­ ne, della forma e del movimento con gli oggetti “esterni”. 2. Ma nello sviluppo ulteriore si vide sempre più chiaramente che la medesima relatività che in precedenza era testimoniata dalle percezioni sensibili, riguarda anche le cosiddette qualità primarie e che quindi an­ che queste minacciano di risolversi in mere qualità “soggettive”, in im­ magini che ci facciamo delle cose. Già Berkeley obietta a Locke che, considerate dal punto di vista della loro origine psicologica, le cosiddet­ te qualità primarie e le secondarie si equivalgono totalmente. Ad un soggetto le cose possono apparire con questo, ad un altro con quel co­ lore-, ma non vale assolutamente lo stesso anche per V estensione! Non ci sembra forse rotondo un oggetto in distanza, che poi da vicino vedia­ mo quadrato; non confondiamo forse, a causa della distanza, dell’illu­ minazione o della prospettiva, dalle quali vediamo le cose, anche la loro dimensione spaziale? Non ci sembra forse la medesima durata tempo­ rale ora breve, ora lunga, a seconda del nostro stato psichico, della sog­ gettività dell’esperienza vissuta? Nello spazio e nel tempo, nell’esten­ sione e nella durata vi è tanto poco un mezzo per spingersi al di là della rappresentazione, della percezione, per giungere a ciò che ad essa cor­ risponde nell’oggetto, nell’assoluto [51] obietto, quanto tale possibilità si dà coi colori e coi suoni. A partire da qui Berkeley intraprende la sua lotta contro Newton ed in particolare contro i suoi concetti di spazio assoluto e tempo assoluto (Cfr. The Analist, De mota)3. Nulla sarebbe più sciocco, nulla un più grande errore dogmatico che, come fa Newton, vedere in questi concetti meccanici l’espressione della realtà, che pen­ sare che lo spazio matematico e il tempo matematico siano nel contem­ po il vero spazio e il vero tempo! Il dogmatismo del fisico che vi si troverebbe, non sarebbe migliore neppure di una briciola, rispetto al più 3

Cfr. G. Berkeley, The Analyst, e De motu, in Works, voi. 4, ed. by A. A. Luce, Nelson, London 1951, rispettivamente, pp. 68-69 e pp. 24-26; G. Berkeley, Sul movimento, in Opere filosofiche, a cura di S. Parigi, UTET, Torino, pp. 446-448.

Il concetto di verità e il concetto di realtà in fisica

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forte dogmatismo metafisico e teologico. Chi è in grado di digerire le astrazioni della meccanica e della fisica di Newton, dice Berkeley, non può più essere schizzinoso nei confronti di alcun mistero delle dottrine di fede rivelate e tramandate. Infatti neppure tutti i misteri religiosi po­ trebbero avanzare maggiori pretese nei confronti del nostro intelletto, di quanto avviene qui. Dovremmo immaginarci uno spazio che non ha più assolutamente nulla in comune con la percezione sensibile dell’esten­ sione, che non è né visibile, né palpabile, né intuibile sensibilmente; tutte le sue proprietà, ad es. la sua assoluta uniformità, la sua continuità, la sua infinita estensione e la sua infinita divisibilità contrastano con ogni possibilità di farsene un’immagine sensibile. E questo modello, questo prototipo di concetto assoluto viene considerato dal matematico la forma fondamentale della realtà; questi schemi, queste ombre, questi fantasmi dello spazio assoluto, del tempo assoluto e della materia asso­ luta si trasformano per lui semplicemente nell’oggettivo, nell’ens realissimum'. E anche da un altro lato si indirizza la critica alla rappresen­ tazione secondo la quale quantomeno nei nostri concetti meccanici, nei concetti di forma, di moto e di estensione possederemmo fedeli ripro­ duzioni, copie compiute e perfette degli oggetti esterni. Se queste ripro­ duzioni fossero uguali o simili all’oggetto, dovrebbero essere uguali o simili anche tra di loro. Ma che cosa ci mostra a questo proposito la storia della scienza? Vi è forse dissenso maggiore di quello che si ma­ nifesta a proposito dei concetti fondamentali proprio della cosiddetta scienza “esatta” e delle sue ipotesi? Quando Democrito ricondusse il mondo della percezione agli atomi, questi atomi, che egli s’immagina­ va caratterizzati da una determinata grandezza, da una determinata for­ ma e che si troverebbero tra loro in una determinata posizione spaziale e in un determinato ordine, erano per lui l’autentica espressione del vero essere: «“vópwi xpoif|, vópwi yÀvKÙ, vópwi iriKpov”, [...] “éTefji 8’aTopa iccti Kevóv”»4. Negli atomi [52] soltanto era fondata la verità dell’essere, perché soltanto essi - contrariamente ai contenuti sensibili sempre trascorrenti e mutevoli che non possono essere mai afferrabili - sembravano evidenziare una chiara determinatezza, una determinatezza nella quale il pensiero poteva acquietarsi, nella quale esso soltanto poteva rafforzarsi e stare saldo. Ma che cosa ne è stato di 4

«Opinione è il colore, opinione il dolce, opinione l'amaro, verità gli atomi e il vuoto» (Diels-Kranz, Bd. II, p. 85, Fr. B 125; tr. it. cit., voi. II, p. 775).

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1 problemi filosofici della teoria della relatività

questa chiara determinatezza nel corso dello sviluppo scientifico e in particolare dello sviluppo della scienza contemporanea? Il concetto di atomo attraversa tutta la storia della scienza della natura, ma com’è di­ verso il concetto nella meccanica di Democrito e in quella di Descartes e Newton; com’è diverso in Dalton e nella chimica contemporanea; com’è diverso infine nelle sue applicazioni in meccanica pura e in elet­ trodinamica! L’atomo esteso di Leucippo e di Democrito diventa in Bo­ scovich e più tardi in Fechner un atomo inesteso, semplice, un mero centro di forza, un punto di forza. L’atomo “indivisibile” si frantuma in componenti più semplici, in elettroni, e diventa un sistema di tali elet­ troni che per l’interna molteplicità e complessione è simile alla costitu­ zione del nostro sistema solare! Come sono differenti gli atomi di “ma­ teria”, gli unici conosciuti dalle teorie antiche, da quelli, ad es., che hanno trovato espressione classica nell’atomistica cinetica di Huygens, dagli atomi dell’elettricità; com’è differente la concezione di una strut­ tura atomica dell’energia che ci viene presentata ad es. nella teoria dei quanti di Planck, dalla immagine della scomposizione della materia in parti elementari, immutabili. E il medesimo, caratteristico mutamento ci si presenta poi per tutte le “ipotesi” e i concetti fondamentali che hanno avuto un qualche significato e una qualche fecondità nella storia della fisica. Per fare un solo esempio, prendiamo in considerazione l’immagine che la fisica ha elaborato a proposito dell'“essenza” della luce. Qui incontriamo innanzitutto la teoria newtoniana dell’emissione della luce. L’essenza della luce consiste nel fatto che dalla fonte di luce vengono emesse determinate piccole particelle che si diffondono alla velocità di 300.000 km al secondo. Ma a questa rappresentazione, già ai tempi di Newton, se ne contrapponeva un’altra, che vedeva nel moto della luce, non la diffusione di un qualcosa di corporeo, bensì un puro movimento di onde. Sulla base dell’analogia che egli assume tra luce e suono, Huygens sviluppa le idee fondamentali della teoria ondulatoria. Huygens ritiene infatti che le oscillazioni della luce, come le oscillazio­ ni del suono siano oscillazioni longitudinali: l’ulteriore [53] sviluppo insegna che, per poter dar conto dei fenomeni, dobbiamo pensare a oscillazioni trasversali. Queste oscillazioni vengono in un primo tempo concepite come oscillazioni elastiche: le onde luminose come onde ela­ stiche, in base alla teoria elaborata innanzitutto da Fresnel. Ma ancora una volta questa visione viene superata dalla teoria elettromagnetica della luce com’è stata elaborata da Maxwell e portata alla sua perfezio­

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ne teorica e alla sua più compiuta conferma sperimentale da Heinrich Hertz. Questa teoria di Maxwell-Hertz è una delle più grandiose con­ quiste del pensiero fisico contemporaneo; ma di nuovo, nei più recenti sviluppi della fisica, si mostrano già i primi segnali che sembrano chia­ ramente andare oltre e quindi fondare ancora una volta una nuova con­ cezione dell’“essenza” della luce. Sembra ripresentarsi, in una nuova forma, modificata energeticamente, la teoria emanazionista di Newton. Non è il caso che ci addentriamo qui nei particolari di questo sviluppo; rimando a questo scopo ad uno degli ultimi lavori di Max Planck, all’in­ teressante e istruttiva conferenza su Das Wesen des Lichts che egli ten­ ne il 28 ottobre 1919 aH’Assemblea generale della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft (pubblicata a Berlino nel 1920)5. E lo stesso tipico sviluppo delle fondamentali rappresentazioni fisiche ci si presenta se ci spostia­ mo dalla luce al suo ipotetico supporto, all’etere luminifero. Anche le rappresentazioni dell’etere luminifero hanno subito le più varie modifi­ cazioni. Si cercò innanzitutto di concepire la costituzione dell’etere, interpretandolo in analogia con una qualche materia determinata, empi­ ricamente nota: lo si definì ora come un fluido perfettamente incompri­ mibile, ora come un corpo perfettamente elastico. Ma quanto più si cer­ cò di rappresentarsi queste immagini, tanto più ci si involgeva in contraddizioni. Si vide che esse richiedevano l’impossibile dalle nostre facoltà rappresentative, la riunione di caratteristiche semplicemente contrastanti. Si poterono superare queste difficoltà, soltanto rinuncian­ do del tutto ad una raffigurazione intuitiva dell’etere e sostituendola con una definizione puramente matematica. «Sapremmo dunque definire l’etere», dice ad es. il fisico Lucien Poincaré nel suo libro sulla fisica contemporanea, «senza commettere dei veri errori di ragionamento, per mezzo di proprietà materiali ed è un’occupazione del tutto oziosa, con­ dannata fin dal principio alla sterilità, cercare di determinarlo per mez­ zo di altre qualità che non siano quelle di cui l’esperienza ci fornisce una [54] conoscenza immediata e precisa. L’etere è definito quando co­ nosciamo, in ognuno dei suoi punti, nella loro grandezza e direzione, i due campi, elettrico e magnetico, che possono esistervi. Questi due campi possono variare; noi parliamo per abitudine d’un movimento che si propaga nell’etere, ma il fenomeno accessibile all’esperienza è la 5

Cfr. M. Planck, Das Wesen des Lichts, Springer, Berlin 1920.

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propagazione di queste variazioni»6. La teoria della relatività dà a que­ sto sviluppo della rappresentazione dell’etere che consiste nella sua progressiva decosalizzazione, dematerializzazione, una sorprendente conclusione, semplicemente eliminando l’etere come “supporto”, sub­ strato dei fenomeni elettromagnetici e ottici. Invece di interrogarsi sulla “costituzione” dell’etere, invece di darsi pena sempre di nuovo, in modo comunque ugualmente infruttuoso, di determinare la “meccanica dell ’etere”, essa si pone addirittura il problema opposto: secondo la formula­ zione data da Planck nella sua conferenza tenuta nel 1910 davanti alla Königsberger Naturforscher Versammlung, col titolo Die Stellung der neuen Physik zur mechanischen Naturanschauung, essa non s’interroga sulla costituzione dell’etere, come una determinata cosa fisica, bensì chiede al contrario quali relazioni, quali leggi debbano sussistere tra i fenomeni, se è impossibile attribuire all’etere luminifero una proprietà materiale quale che sia7. Sulla base di questi tre esempi: l’esempio dell’atomo, della luce e dell’etere luminifero deve dunque risultarci chiaro che strane... “cose” siano quelle a cui si riferiscono le nostre ipotesi fisiche e che esse vogliono presuntivamente “riprodurre”. Quan­ to più ci si accosta a queste cose, tanto più diverse, tra loro contraddit­ torie si fanno le immagini che ci si forma di esse, fino a che alla fine ci si dissolvono completamente tra le mani; fino a che, come ha evidenzia­ to l’evoluzione della rappresentazione dell’etere, di esse non rimane più assolutamente nulla di “sostanziale”. Qui però ci si presenta un’altra, opposta considerazione dei concetti e delle ipotesi fisiche. Questi concetti, come ormai dobbiamo ricono­ scere, non possono certo essere copie di cose esistenti e tuttavia essi, se non vogliono galleggiare completamente nel vuoto, impallidire a fin­ zioni arbitrarie, debbono ben riferirsi a un reale ultimo, un dato ultimo. Queste realtà ultime, si sostiene, non sono le cose, bensì le sensazioni. In esse, nei colori e nei suoni semplici, nei [55] sapori e negli odori, nelle sensazioni tattili e muscolari, possediamo gli elementi della realtà 6

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L. Poincaré, La physique moderne. Son évolutìon, Flammarion, Paris 1906, p. 298. Cassirer rimanda però esplicitamente alla traduzione te­ desca: L. Poincaré, Die moderne Physik, hrsg. von M. Brahn, Quelle & Meyer, Leipzig 1908, p. 251. Cfr. M. Planck, Die Stellung der neuen Physik zur mechanischen Natur­ anschauung, Hirzel, Leipzig 1910, p. 20.

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effettiva, dell’unica realtà effettiva che ci è nota e ci è data. La “realtà” di tutti i nostri concetti fisici, nella misura in cui essa in generale sussi­ ste, non può dunque in ultima istanza fondarsi in nient’altro che nella realtà effettiva delle nostre sensazioni semplici. Questo è il punto di vista dell’epistemologia fisica così come in particolare Mach ha cercato di elaborare con conseguenza (Beiträge zur Analyse der Empfindungen. Erkenntnis und Irrtum. Die Mechanik in ihrer Entwicklungfi. Il per­ corso della fisica prende le mosse dalle sensazioni e toma nuovamente alle sensazioni: tutti i suoi concetti, le sue “ipotesi” altro non sono che tentativi di descrivere, valutare, ordinare i dati sensoriali. Il loro valore teoretico consiste esclusivamente nel racchiudere in sé tale riduzione, un’abbreviazione del contenuto delle sensazioni e così risparmiare del lavoro intellettuale. La funzione dei concetti fisici si risolve nell’economia del pensiero. Così l’etere, l’atomo, la forza, la massa, l’energia non sono concetti di cose, non sono riproduzioni di oggetti reali che possiamo presupporre come reali da qualche parte nella “natura delle cose”; essi non sono altro che strumenti di calcolo, che finzioni con­ cettuali - nella misura in cui possono avere in generale un senso - le quali alla fine debbono essere riconvertite in datità della sensazione, in “elementi” e rapporti tra elementi. Ma a questo punto si presenta un nuovo problema. Se la descrizione, la comprensione delle sensazioni concrete costituisce l’autentico fine del pensiero fisico, si deve ammettere che la fisica, per raggiungere que­ sto fine, deve imboccare una strada particolare, una strada che, invece di avvicinarla ad esso, minaccia di allontanarvela sempre più. Essa non dovrebbe conoscere altro compito che quello di descrivere le sensazio­ ni, secondo il loro contenuto concreto, nel modo più fedele e immediato possibile. Ma anziché anche solo tentare una tale descrizione dei dati sensibili immediati, il suo intero procedimento consiste piuttosto in un allontanamento da questo contenuto. Nella misura in cui la conoscenza 8

Cfr. E. Mach, Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physi­ schen zum Psychischen, Fischer, Jena 19116; Id., Analisi delle sensazioni e il rapporto tra fisico e psichico, a cura di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1975; Id., Erkenntnis und Irrtum, Barth, Leipzig 19173; Id., Conoscenza ed errore, tr. it. di S. Barbera, introduzione di A. Gargani, Einaudi, Torino 1982; Id., Die Mechanik in ihrer Entwickelung historisch-kritisch dar­ gestellt, Brockhaus, Leipzig 19127; Id., La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, a cura di A. D’Elia, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

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scientifica progredisce e sviluppa i metodi che le sono propri e caratte­ ristici, non può non allontanarsi sempre più dalla “realtà effettiva” che è data nella sensazione e in essa riproducibile. Contro il punto di vista di Mach, ciò è stato evidenziato con grande chiarezza e rigore da Planck (Die Einheit des physikalischen Weltbildes, Leipzig 1909). La formazio­ ne dei concetti in fisica, egli ragiona, consiste appunto nell’accantonare via via sempre più gli elementi antropologici che contiene la sensazione [56] ed allontanarsi infine del tutto dalla definizione dell’oggetto fisico e dalla rappresentazione e classificazione dei fenomeni fisici. In verità, quanto più chiaramente la fisica comprende la sua forma specificamente logica, tanto più indietro viene ricacciato l’elemento “antropologico”, puramente “umano” della sensazione; anzi il compito essenziale, anche se certamente mai portato del tutto a termine, pare quello di sostituire completamente questo elemento con elementi di un’altra specie e di un’altra dignità logica e di risolverlo completamen­ te in essi. Soltanto i livelli primitivi della fisica, riflette Planck, soltanto gli stadi iniziali della trattazione e della ricerca fisica posseggono in un certo senso un carattere “antropologico”. Il progresso dell’immagine fisica del mondo è invece sempre accompagnato da un evidente ritirarsi dell’elemento umano-storico in tutte le definizioni fisiche. «Nello stu­ dio dell’acustica, dell’ottica e del calore il fisico non tiene più nessun conto delle sensazioni specifiche, e non se ne serve più per definire i concetti di suono, di colore, di temperatura. Suono e colore vengono invece definiti da frequenze di vibrazione o di lunghezze d’onda; e la temperatura è definita, in teoria, dalla scala delle temperature assolute dedotta dal secondo principio della termodinamica, nella teoria cine­ tica dei gas dalla forza viva del movimento molecolare, ed in pratica dalla variazione di volume di una sostanza termometrica, o dallo spo­ stamento dell’indice di un bolometro o di un termoelemento; ma della sensazione di calore non si parla più affatto. [...] Il criterio sensoriale serve anzi ormai così poco a definire ed a collegare i concetti fisici che, contrariamente alla tendenza generale alla fusione e aH’unificazione, abbiamo perfino assistito allo spezzettamento in capitoli distinti di rami della fisica che prima apparivano unitari perché si riferivano ad un de­ terminata sensazione. È quanto è avvenuto alla dottrina del calore, che prima costituiva un capitolo unitario e ben delimitato della fisica, fon­ dato sulla sensibilità termica. [57] Oggi invece in tutti i trattati di fisica un intero capitolo, quello della radiazione termica, è passato a far parte

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dell’ottica. Ciò significa che il criterio della sensibilità termica non è più sufficiente a tenere insieme capitoli per altri riguardi disparati, che vengono assegnati quale all’ottica, quale all’elettrodinamica, quale alla meccanica o più precisamente alla teoria cinetica della materia»9. Quindi, per citare nuovamente Planck, 1’immagine futura, verso la quale vediamo tendere in modo sempre più determinato la fisica esatta, «ci darà del mondo fisico un quadro molto più scialbo e sciatto che non il ricco e multicolore quadro di un tempo, sorto dai molteplici bi­ sogni della vita quotidiana ed a cui tutti i sensi specifici avevano por­ tato il loro contributo; un quadro che ci apparirà privo di immediata evidenza»1011 ; ma si disegna contrapponendosi ad essa, mediante la sua totale compiutezza, la perfetta connessione sistematica di tutti i tratti singoli che garantisce ad essa il suo valore universale, in relazione a tutti i luoghi e tempi, a tutti i ricercatori, tutte le nazioni e culture. Ciò che nel senso della sensazione immediata, dal punto di vista del vedere, viene indicato come “luce” o “colore”, ribadisce Planck anche nella sua conferenza su Das Wesen des Lichtes, «è qualcosa di completamente differente dal raggio luminoso del fisico. Anche se, per semplicità, è stato conservato il nome, la teoria fisica della luce, ovvero l’ottica, pre­ sa nella sua compiuta universalità, ha così poco a che fare con l’occhio umano e con la sensazione luminosa, quanto la teoria delle oscillazioni del pendolo con la sensazione del suono e appunto questa rinuncia alla percezione sensibile, questa limitazione ai processi oggettivi, reali, che in sé significa senza dubbio un significativo sacrificio, attuato per amo­ re della conoscenza pura, dal punto di vista deH’immediato interesse umano, ha aperto la via ad un allargamento grandioso, superiore ad ogni aspettativa, della teoria»11. Un siffatto straordinario allargamen­ to della teoria ci si presenta anche nella teoria della relatività, che si allontana proprio per ciò ancor più di quanto abbia fatto la meccanica classica non soltanto dal punto di vista della sensazione, ma anche [58] da quello dell’intuizione immediata, dalla nostra consueta visione dello

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M. Planck, Die Einheit des physikalischen Weltbildes, Hirzel, Leipzig 1909, p. 7; Id., La conoscenza fisica del mondo, tr. it. di E. Persico e A. Gamba, introduzione di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 36-37 (traduzione leggermente modificata). (Nota di Cassirer). Ivi, p. 29; tr. it. cit., p. 58 (Nota di Cassirer). M. Planck, Das Wesen des Lichts, cit., p. 5.

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spazio e del tempo. Della teoria della relatività speciale si è già detto che la sua essenza consiste nel «trasformare» tutte le realtà, anche «le "realtà tangibili”» in «costruzioni matematiche»1213 e lo sviluppo nella teoria della relatività generale ha ulteriormente accentuato e rafforzato questa tendenza fondamentale. In effetti si può esprimere con una sola parola il motivo per cui la fisica, in quanto scienza, non può fermarsi al punto di vista della sen­ sazione: perché già il primo passo che essa compie, già i primi concetti primitivi che essa elabora debbono necessariamente superare e “tra­ scendere” il “dato immediato” della sensazione. Tutto ciò che ha di mira la fisica consiste nell’ottenere concetti di grandezze esatti e quindi esatti concetti di misurazione; la sensazione, però, in base al suo con­ tenuto immediato, non è misurabile né, per se stessa, può servire come mezzo e come principio di misurazione. La sensazione in quanto tale presenta soltanto differenze qualitative, le differenze del rosso e del verde, del caldo e del freddo, del liscio e del ruvido, del dolce e dell’a­ spro, ecc., nelle quali non è data per nulla immediatamente la possibi­ lità di stabilire confronti di grandezze o determinazioni di grandezze. Anche lo spazio “percepito”, cioè lo spazio vissuto immediatamente dal punto di vista psicologico, così come il tempo vissuto psicologi­ camente non contengono nulla che consenta questa determinazione di grandezze. Per il tempo questa differenza tra tempo come pura qualità, come durata vissuta, rispetto al tempo misurato matematicamente, l’op­ posizione di temps e durée, è stata fortemente sottolineata da Bergson. Rinvio alle note esposizioni nel suo Essai sur les données immédiates de la consience'3. Ma anche per lo spazio è chiaro che lo spazio della percezione e lo spazio misura della geometria pura e della fisica, lo spazio metrico non sono affatto identici. Mach stesso ha riconosciu­ to e sottolineato questa differenza tra lo spazio fisio-psicologico della percezione e lo spazio metrico che funge da schema fondamentale per tutte le misurazioni fisiche. Lo “spazio metrico” si basa sull’assunzione dell’equivalenza di tutti i luoghi e di tutte le direzioni; ne consegue, come scrive Hermann Grassmann nella sua Ausdehnungslehre, che è 12 13

A. Kneser, Mathematik und Natur. Von der Schwere. Zwei akademische Reden, Trewendt & Granier, Breslau 1918, p. 13. Cfr. H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience,A\can, Paris 1912.

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possibile portare a compimento le medesime costruzioni da ogni punto in tutte le direzioni14, mentre per il nostro spazio tattile e visivo è essen­ ziale proprio la differenza dei luoghi e delle direzioni e la distinzione dell’uno dalle altre. Il “sopra” e il “sotto”, ad esempio, la direzione che corrisponde a quella del peso e quella ad essa contrapposta costituisco­ no per la nostra percezione una differenza specifica, inconfondibile; ma la fisica matematica, la raffigurazione matematica [59] del cosmo deve rinunciare a questa differenza. Proprio il fatto che la fisica aristotelica non sia stata capace di elevarsi a questa astrazione che stabilisce l’equi­ valenza dei punti nello spazio e delle direzioni spaziali, ne costituisce chiaramente il limite intrinseco, a causa del quale essa non potè diven­ tare una autentica teoria scientifica della natura; il fatto che per essa si dessero un “sopra” e un “sotto” fisici assoluti, perché nella sensazione siffatti “sopra” e “sotto” assoluti sono senz’altro dati. Il centro della ter­ ra indica il sotto assoluto, verso il quale i corpi pesanti “per loro natura” tendono, il regno dell’etere, il sopra assoluto, verso il quale tendono il fuoco e i corpi leggeri che partecipano alla sua natura1516 . Sulla base di questi presupposti non era possibile definire il concetto moderno, matematico-fisico di pesantezza. Se prendiamo in considerazione con attenzione anche soltanto quest’unico concetto, così com’è presentato da Galilei, possiamo vedere con chiarezza, in tutti i singoli momenti che lo coinvolgono, la caratteristica “inversione” del mero percepito e il concetto fisico. (Legge della caduta di Galilei: s = j g t2, che qui né s né t siano oggetti della sensazione è già stato chiarito; ma neppure g lo è assolutamente; esso indica una grandezza costante, ma pensata come grandezza deW accelerazione; deve dunque essere definita la velocità uniforme e non uniforme: e , il primo e il secondo quoziente dif­ ferenziale dello spazio in base al tempo; difficoltà che Galilei doveva superare, per definire questi concetti di velocità e di accelerazione. E ^equazione in s = 1 g t2 è percepibile!'6). Spazi e tempi che significano

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Cfr. H. Grassmann, Die Ausdehnungslehre von 1844, in Id., Gesammel­ te mathematische und physikalische Werke, hrsg. von F. Engel, Teubner, Leipzig 1894, Bd. 1,1, p. 35. Cfr. Aristotele, Fisica, IV (A) 208b; Id., Opere, 3: Fisica, Del cielo, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 73-74. Cfr. G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, in Id., Opere, Edizione Nazionale, voi. Vili, pp. 197 e ss.

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qualcosa di completamente diverso dal punto di vista qualitativo, pos­ sono voler dire qualcosa di sensibilmente uguale o anche solo simile? Questa “equazione” ha dunque senso soltanto se vengono definiti con­ cettualmente un determinato regolo di comparazione, una forma non dell’uguaglianza sensibile, bensì della coordinazione funzionale. Soffermiamoci ancora un po’ su questo punto, perché si è dimostrato particolarmente importante per l’interpretazione del principio di rela­ tività; per avvalorare la nostra tesi, possiamo rifarci alla testimonian­ za di un fisico contemporaneo. Si veda l’eccellente esposizione della struttura della teoria fisica in Pierre Duhem, La théorie physique, son object et sa strutture, Paris 190617. Non dobbiamo temere che ci venga presentata qui una teoria astratta, “speculativa” della fisica. Duhem è in tutto e per tutto un fisico, uno scienziato empirico, assolutamente con­ vinto che tutta la fisica [60] non possa consistere in nuli’altro che nella descrizione, presentazione e classificazione precise delle osservazioni, dei “fenomeni” fisici. Ma proprio partendo da questo punto di vista egli combatte nel modo più deciso l’equiparazione di ciò che il fisico chia­ ma esperienza, ciò che egli chiama esperimento fisico, con ciò che ci è dato nella semplice percezione sensibile, ovvero con la mera somma, il mero aggregato di tali percezioni sensibili. Per rendere evidente la differenza che sussiste a questo proposito, egli prende le mosse da un esempio concreto. Immaginiamo di entrare in un laboratorio di fisica, nel quale Regnault conduce i suoi noti esperimenti per valutare la legge di Mariotte, secondo la quale nei gas ideali, a temperatura costante, il prodotto di volume e pressione è una costante. Si tratta, si dirà, di una semplice osservazione di dati di fatto; si mantiene costante la tempera­ tura e si osservano quindi i mutevoli valori che assume il volume, col cambiare della pressione. Certo! Ma in che modo si possono osserva­ re valori come temperatura, volume e pressione? Vengono forse visti immediatamente? Nient’affatto. Quello che viene visto è che una de­ terminata colonnina di mercurio in un apparato che chiamiamo termo­ metro, in un determinato tempo, ha raggiunto una determinata altezza; che in altri apparati, nel manometro, nel catetometro, potevano essere 17

Cfr. P. Duhem, La théorie physique. Son objet et sa strutture, Chevalier et Rivière 1906, pp. 233-267; Id., La teoria fisica. Il suo oggetto e la sua struttura, a cura di S. Petruccioli, tr. it. di D. Ripa di Meana, Introduzione di L. de Broglie, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 161-183.

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registrati diversi rilevamenti; ma il resoconto su questi “dati di fatto”, sulle immagini ottiche individuali che si sono offerte all’osservatore, in un determinato tempo, non rappresenta il risultato dell’esperimento di Regnault, anzi, a guardar bene, questo resoconto non è affatto ade­ rente alla descrizione che Regnault fa del suo esperimento. Egli non riferisce di percezioni sensibili, delle quali (tanto per dire il bagliore di un fulmine e il susseguente tuono) anche qualsiasi inesperto, chiunque al quale pure fosse del tutto estranea la lingua concettuale della fisica, sarebbe in grado di riferire, bensì presenta una formula matematica, un'equazione per l’esatta determinazione del rapporto tra volume, pres­ sione e temperatura. «Il valore del volume del gas», osserva Duhem, «il valore della sua pressione, il grado della sua temperatura non sono tre oggetti concreti, ma tre simboli astratti che solo la teoria fisica è in grado di collegare ai fatti realmente osservati. Per determinare la prima delle astrazioni - il valore del volume del gas - e farla corrispondere al fatto osservato - [61] cioè che il mercurio ha raggiunto quel dato livello - è stato necessario tarare il tubo, fare quindi appello non solo alle nozioni astratte deH’aritmetica e della geometria, ai principi astratti sui quali si fondano le scienze, ma anche alla nozione astratta di mas­ sa, alle ipotesi della meccanica generale e della meccanica celeste che giustificano l’impiego della bilancia per confrontare le masse. È stato altresì necessario conoscere i pesi specifici del mercurio alla temperatu­ ra della taratura e quindi il peso specifico a 0°, operazione impossibile se non si ricorre alle leggi dell’idrostatica». È stato anche necessario «conoscere la legge della dilatazione del mercurio determinata da un apparecchio munito di cannocchiale dove, di conseguenza, sono suppo­ ste determinate leggi dell’ottica. Da quanto detto consegue che la cono­ scenza di una quantità di capitoli della fisica precede necessariamente la formazione di questa idea astratta: il volume del gas»18. Lo stesso vale, come si può facilmente mostrare, anche per i concetti di pressione e di temperatura. «Così quando Regnault faceva un’esperienza, aveva fatti concreti davanti agli occhi, osservava fenomeni; ma quanto ci ha trasmesso di tale esperimento non è la descrizione dei fatti osservati, ma sono simboli astratti che le teorie accettate gli hanno consentito di sosti­ tuire ai dati concreti da lui raccolti»19. «I fatti dell’esperienza», conclu­ 18 19

Ivi, pp. 236-237; tr. it. cit., pp. 163-164. Ivi, pp. 237-238; tr. it. cit., p. 164.

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de quindi Duhem, «presi nella loro brutalità originaria, non sarebbero utili al ragionamento; per alimentarlo essi dovranno essere trasformati e messi in forma simbolica»20. In questo passaggio dallo stato della mera sensazione a quello della forma matematica, della forma simbolica con­ siste lo specifico segreto epistemologico, il problema della costituzione fisica dei concetti. Non si risolve questo problema, bensì lo si maschera, se non si vede nei concetti fisici nient’altro che delle asserzioni, più o meno condensate, sulle sensazioni, perché già questa “condensazione”, che però non sarebbe tuttavia una falsificazione, è in primo luogo un concetto assolutamente poco chiaro, dietro il quale, come vedremo, si nasconde un’ambiguità logica. Vediamo: che tutti i concetti fisici alla fine ritornino 'à\V osservazione e su di essa debbano fondarsi è ovvio; ma nella stessa osservazione, nella determinazione del suo contenuto e del suo significato non si tratta ap­ punto mai solamente de\V accaduto passivamente, bensì anche della spe­ cifica disposizione spirituale, [62] della specifica direzione dello sguardo. È questa direzione dello sguardo che distingue il procedimento del fisico da ciò che comunemente si chiama “esperienza sensibile”. Goethe, che nella Farbenlehre vuole presentare il «mondo dell’occhio»21, che non si stanca mai di sottolineare che tutta la “teoria” della natura dovrebbe ricon­ durre all’ ’AvaOewptopóc all’osservare, al contemplare, al vedere i feno­ meni22, distingue però qui nel modo più chiaro il comune “vedere”, che è un mero ricevere passivo, da ciò che egli chiama “vedere con gli occhi dello spirito”23. Anche per il nostro problema epistemologico si ha a che fare con questo “vedere con gli occhi dello spirito”. Anche per noi, nelle considerazioni sulla teoria della relatività che seguono non si tratta tanto di ciò che questa teoria ha visto di nuovo, quanto di chiedersi con quali occhi essa vede il mondo. Qui si trova infatti la domanda propriamente filoso­ lo 21 22

23

Ivi, p. 322; tr. it. cit., p. 221. Cfr. WA, Abt. IV, Bd., 11, p. 264. Lettera a Schiller del 15 novembre 1796. «Alle Hypothesen hindern den AvaSeioptogóc, das Wiederbeschauen, das Betrachten der Gegenstände, der fragilen Erscheinungen von allen Seiten [Tutte le ipotesi impediscono T’A^aSetùpiopóc, il contemplare di nuovo, l’osservare degli oggetti, dei fenomeni problematici da ogni par­ te]» (J. W. Goethe,Maximen undReflezionen, hrsg. von F. Hecker, Verlag der Goethe Gesellschaft, Weimar 1907, p. 253, Max. n° 1221; Id., Massi­ me e riflessioni, cit., voi. II, p. 252 (N.d.T.). Cfr. WA, Abt. II, Bd. 11,p. 153.

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fica. Quando Antistene obbiettò alla dottrina platonica delle idee: «'ìttttov pèv ópw, LTTTTÓTT|Ta 8è oùx ópój»24, Platone gli avrebbe risposto: «tu hai gli occhi coi quali si vede il cavallo, non però quelli con cui si contempla la cavallinità»25. Così anche noi qui dovremo distinguere gli occhi sensibili, gli occhi del fisico e, infine, anche l’occhio del filosofo e la loro propria direzione dello sguardo. Anche presso i grandi empiristi, nella misura in cui possedevano senso filosofico, nella misura in cui possedevano il senso del tutto della natura, questa distinzione era viva. Ci limitiamo a fare un unico esempio in proposito. Il rinnovamento della ricerca naturale nel Ri­ nascimento viene portato avanti nel segno della lotta della viva esperienza immediata contro l’astratto concetto. L’esperienza soltanto è la fonte di tutta l’autentica conoscenza della natura. Così la presenta ad es. uno degli spiriti più straordinari e più originali del XVI secolo, uno dei fondatori della nuova visione della natura. Il sapere, «la filosofia» così si esprime Paracelso nel Buch Paragranum (nuova edizione a cura di Strunz, presso Diederichs, Lipsia 1903) «deve essere trattata in modo tale che anche gli occhi la possano comprendere e che essa risuoni alle orecchie come la cascata del Reno; e che il suo risonare sia chiaro alle orecchie come il mor­ morio dei venti marini, e che quindi sia gustata dalla lingua come miele e ogni profumo di tutta quanta la scienza sia avvertibile dalla bile e dal naso. Al di fuori di questa conoscenza, ripugna alla natura tutto quanto ad essa si attribuisce»26. Ma lo stesso Paracelso è colui che, come Goethe, distingue due modi di vedere. Gli occhi coi quali il vero indagatore della natura, l’autentico chimico e medico vede la natura, non sono gli stessi del [63] contadino. Che cosa vede il contadino quando brucia un corpo? Null’altro che la distruzione di questo corpo, un diventare nulla. Ma il chimico e il medico vedono in questa apparente distruzione qualcosa d’altro e di nuo­ vo, perché si schiude loro in quell’esperienza la costituzione, la struttura del corpo; essa si svela soltanto agli autentici “occhi da medico”27. Così 24

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«Vedo il cavallo, ma non la cavallinità» (Simplicii In Aristotelis Categorias Commentarium, edidit C. Kalbfleisch, Reimer, Berlin 1907, p. 208, 30-31. Ivi, p. 208,31-32. Theophrastus Paracelsus, Das Buch Paragranum, hrsg. von F. Strunz, Diederichs, Jena 1903, p. 25; Paracelso, Paragrano, a cura di F. Masini, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 26-27. Cfr. Theophrastus Paracelsus, Volumen Paramirum und Opus Paramirum, hrsg. von F. Strunz, Diederichs, Jena 1904, pp. 104-105.

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ci vediamo riportati da tutti i lati al medesimo problema: determinare la forma universale del vedere fisico, della formazione fisica dei concetti, prima che ci possiamo accostare al contenuto di una qualche teoria fisica speciale e quindi anche della teoria della relatività. Finora questa forma ha ricevuto una determinazione negativa. Dob­ biamo cercare a questo punto di esprimerne anche il lato positivo. I con­ cetti fisici, abbiamo visto, sono tanto poco copie di cose, quanto di sen­ sazioni. Che cosa sono allora? Che essere si riproduce mai in essi, se non debbono essere né riproduzioni di una “realtà” esterna data, né di una interna? Non dobbiamo allora trame la conseguenza che ad essi, giacché tutta la realtà effettiva si divide senz’altro in queste due metà, dev’esse­ re negata in generale ogni contenuto reale, ogni significato oggettivo! In effetti questa conseguenza è stata tratta: si è cercato di trasformare l’intero sistema dei concetti fisici in un sistema di mere finzioni, anche se poi i fenomeni, sorprendentemente, dovrebbero comportarsi “come se” queste finzioni fossero verità. Ma in questo modo questo preteso po­ sitivismo puro ci rimanda ad un miracolo, che sarebbe più grande e più incomprensibile di tutti i miracoli che la metafisica aveva sostenuto fino ad ora, ad es. del miracolo dell’“armonia prestabilita” di Leibniz. Non potremo rinunciare dunque al senso e al contenuto oggettivo dei concetti fisici; dovremo però senz’altro indicare e definire questo senso diversamente che mediante la “corrispondenza” di questi concetti con le cose, sia dell’esperienza interna sia di quella esterna. E qui la stessa evoluzio­ ne immanente della fisica ci indica la via. La fisica, nel XIX secolo, ha via via cessato di essere una fisica di immagini, per trasformarsi invece in una fisica di principi. La fisica antica nei modelli meccanici, grazie ai quali essa descriveva un complesso ambito di fenomeni, vedeva anco­ ra immediatamente una riproduzione di questo accadere stesso. Questi modelli meccanici erano per essa I’ovtog ov, la “vera realtà effettiva” che sta a fondamento dei fenomeni. Così pensava Democrito: «tò [64] pèv axfifia KaQ’afró coti, tò 8è yÀUKÙ kgì òXcjc tò ato0r]TÒP TTpòc àXXo «ai èv äXXoix»28; ma così pensava sostanzialmente anche Helmholtz, quando nel 1847, nella Prefazione al suo saggio sulla con­ servazione della forza interpretava la riconduzione di ogni accadimento 28

«Invece la figura è assolutamente reale in sé, mentre il dolce e in generale ogni qualità sensibile sono relativi ad altro ed esistono in altro» (DielsKranz. Bd. Il, p. 45, Fr. A 135 (69), 10-11; tr. it. cit., voi. Il, p. 722).

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fisico ad un puro accadimento meccanico, a forze attrattive e repulsive, la cui intensità dipenderebbe soltanto dalla distanza dei punti materiali che agiscono tra di loro, come «condizione della completa intelligibilità della natura»29. Questa concezione si mutò soltanto dopo che con Fara­ day aH’“immagine meccanica del mondo”, si sostituì sempre più chia­ ramente e determinatamente quella “elettromagnetica”. Maxwell, il più grande estimatore di Faraday, nella spiegazione dei fenomeni elettrici utilizza i più diversi modelli meccanici, ma sottolinea espressamente che essi non designano “nulla di reale”, bensì che intendono indicare sol­ tanto una determinata rappresentazione ideale del rispettivo complesso fattuale osservato. In quanto tali possono anche cambiare (in relazione al particolare ambito fattuale che si considera), senza che questo cam­ biamento implichi nella mera rappresentazione una contraddizione on­ tologica. Così Maxwell ha cercato di spiegare i fenomeni elettrostatici ed elettrodinamici ricorrendo a “immagini” e “modelli” del tutto diversi e tra loro incompatibili, prendendo le mosse una volta dalla rappresen­ tazione di un fluido incomprimibile, senza massa, che scorre attraverso un mezzo, con una resistenza proporzionale alla velocità della corrente, un’altra volta invece ponendo a fondamento una rappresentazione del tutto diversa. Ci si deve chiedere allora, qual è la componente costante delle ipotesi e delle teorie fisiche, se certamente non lo è la loro com­ ponente sensibile? Che cosa genera ancora tra di esse un qualche nesso oggettivo! Se la luce viene interpretata ora, secondo la teoria newtoniana dell’emissione, mediante 1’emissione di corpuscoli, ora, secondo la te­ oria ondulatoria, come moto ondulatorio e qui di nuovo ora mediante le oscillazioni di un mezzo elastico, ora mediante la propagazione di onde elastiche, ciò significa che ad ogni nuova ipotesi quella vecchia viene semplicemente rovesciata, che nulla dei suoi risultati e del suo contenuto passa in quella nuova? Evidentemente no; altrimenti la fisica non sareb­ be una scienza, bensì un caos di immagini ed opinioni. In verità è facile indicare l’elemento “oggettivo” e “costante” delle diverse teorie che si cercava: esso non si trova in singole “cose”, quali che siano, alle quali i nostri concetti fisici assomigliano o che riproducono più o meno fedel­ mente, bensì nelle relazioni in base a leggi [65] dei fenomeni, che esse 29

Cfr. H. von Helmholtz, Über die Erhaltung der Kraft ( 1847), Engelmann, Leipzig 1889, p. 6; Id., Sulla conservazione della forza, in Opere, a cura di V. Cappelletti, UTET,Torino 1967, p. 53.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

esprimono. I concetti fisici non sono mai comprensibili per sé, bensì lo diventano soltanto grazie alla loro posizione nel complesso generale dei giudizi fisici', la forma del giudizio fisico è quella della legge fisica. Ogni concetto dunque ha un contenuto nella misura in cui esso rappresen­ ta una pietra di costruzione per la formulazione delle leggi. Nel nostro esempio della luce: la teoria dell’emissione è sufficiente a rappresentare la legalità di determinati fenomeni, come ad es. la propagazione rettili­ nea della luce, il confine rettilineo tra luce e ombra, l’aberrazione, ma si arresta davanti ad altri fenomeni, come i fenomeni di interferenza e di moto che trovano una spiegazione soddisfacente soltanto grazie alla teoria ondulatoria. Fin qui la scelta tra teoria elastica della luce e teoria elettromagnetica della luce sembrava comunque ancora aperta, ma ciò che decise definitivamente per quest’ultima non fu che si trovò affine la “natura”, l’“essenza” della luce con quella dell’elettricità, bensì che da entrambe le parti si presentarono le medesime costanti numeriche (in particolare la costante per la velocità di propagazione delle onde lumi­ nose e delle onde elettriche) e che le equazioni con le quali si potevano esprimere tutti i fenomeni della luce e dell’elettricità erano le medesime (Substanzbegriff, p. 216)30. In queste equazioni, per il fisico, è racchiusa l’“essenza” della luce - vale a dire ciò che per lui si può sapere e cono­ scere nel senso della fisica -, così come quella dell’elettricità. L'ogget­ tività”, che rivendicano i concetti fisici e alla quale essi nel loro sviluppo si approssimano costantemente, viene con ciò determinata: essi non si riferiscono a cose, né a sensazioni, bensì alla costanza delle relazioni, alla validità di connessioni funzionali e queste debbono essere scelte in modo da abbracciare progressivamente un ambito sempre più vasto di fenomeni. Se si comprende il compito della fisica in questo senso, si vede che, a dispetto del continuo mutamento delle “immagini” e dei modelli, le autentiche ipotesi fisiche non vengono minacciate; le ipotesi precedenti, in seguito al progresso, vengono piuttosto “superate” (nel duplice senso hegeliano). Come si possono però ottenere queste stesse relazioni costanti, come perviene il fisico alle sue leggi speciali e generali? Qui sembra che ci siamo ficcati in ima via senz’uscita del pensiero, sembra che dal punto di vista epistemologico ci siamo involti in un circolo. La risposta più facile 30

Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, ECW, voi. 6, pp. 176-177; tr. it. cit., p. 220.

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sembra essere che tali leggi, tanto per dire la legge della caduta di Galilei, le tre leggi di Keplero, la legge di Gay-Lussac, vengono fissate mediante misurazione. Ma con che cosa si misura? Con regoli spaziali o tempo­ rali che noi [66] presupponiamo costanti; ma l’assunzione di una tale costanza implica già sempre l’affermazione del valore universale delle leggi di natura. Così esse da una parte sono il prodotto, il risultato della misurazione e dall’altra vi rientrano come suo fattore, come condizione. Chiariamo la cosa prendendo ad esempio la misurazione del tempo! Per misurare il tempo dobbiamo porre a fondamento un moto periodico (ad es. il moto della Terra attorno al proprio asse), in base al quale presup­ poniamo che esso proceda in modo rigorosamente uniforme. Accettato questo presupposto possiamo ulteriormente suddividere il corso di que­ sto moto stesso in parti e sottoparti, che poniamo come uguali tra loro, e prendere la 84.400esima parte di una rotazione terrestre come unità di tempo, come secondo. La vera uniformità della rotazione terrestre con ciò però non l’abbiamo osservata immediatamente o misurata; essa serve piuttosto da principio di misurazione. L’unica prova che possediamo per questo principio consiste soltanto nel fatto che, nella sua fondazione, le espressioni matematiche per dare conto dell’accadere, le “leggi di natura” assumono una forma particolarmente “facile”. Ciò nonostante noi siamo consapevoli del carattere ipotetico della nostra assunzione fondamentale e, là dove ciò sembra necessario per l’unità e la semplicità dell’elabora­ zione dei teoremi, “correggiamo” anche la stessa misura fondamentale. La prima misura empirica è costituita dal “giorno siderale”, cioè dal tem­ po che intercorre tra due culminazioni, l’una susseguente all’altra, della stessa stella; ma la teoria porta all’idea che questi giorni siderali non pos­ sano essere rigorosamente uguali gli uni agli altri, perché determinati pro­ cessi, come il regolare mutamento di flusso e riflusso delle maree hanno come conseguenza una graduale diminuzione della velocità di rotazione della Terra e quindi un allungamento del “giorno siderale”. Al posto del giorno siderale subentra dunque una misura corretta: il giorno siderale medio. Sennonché in questa, come in altre determinazioni, la misura vie­ ne scelta in modo tale che restino in vigore determinate leggi generali, ad esempio la legge d’inerzia e la legge della conservazione dell’energia. Queste leggi e non un qualche criterio di misura o unità di misura ogget­ tuali sono dunque, come ha sottolineato Henri Poincaré nel suo saggio La mesure des temps, le autentiche costanti che poniamo mentalmente

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alla base della misurazione31. Così ad esempio si è proposta come unità di tempo, il tempo nel quale l’emanazione del radio perde la sua radioattività, e con ciò viene presupposta come valida la legge esponenziale, in base alla quale avviene la diminuzione della radioattività; oppure si possono introdurre le lunghezze d’onda di determinati raggi luminosi, come misura fondamentale per la misurazione della lunghezza, e con ciò vengono posti a fondamento come validi i principi e le tesi [67] dell’ot­ tica. Non sembra analogo il concetto di misura della temperatura, che sembra fissato fin dall’inizio e derivabile semplicemente dall’esperienza, grazie alla cui applicazione sarebbero state trovate le leggi della teoria del calore; sennonché proprio questo concetto di misura è soltanto il risultato e il frutto maturo della teoria, e ciò a cui l’intero lavoro della termodina­ mica alla fine spinge, a cui tende. L’ha mostrato in modo eccellente Ernst Mach nei suoi Prinzipien der Wärmelehre, nello sviluppo storico delle singole teorie. Qui risulta chiaro come l’esatto concetto moderno di tem­ peratura dovette essere acquisito passo passo, mediante l’esperimento e la teoria, e come ogni determinazione di questo concetto ed ogni “misu­ razione” della temperatura implicasse determinate assunzioni ipotetiche fondamentali. Si assume innanzitutto che la sostanza termometrica che si pone alla base, in un determinato intervallo, fornendo uguali quantità di calore, si espanda ovunque allo stesso modo; in base a questo presup­ posto, ad esempio nel termometro ad immersione, suddivide in 100 parti “uguali” l’espansione che corrisponde al punto di congelamento e al pun­ to di ebollizione, presupponendo che essi indichino 100 uguali “gradi” di temperatura. Ma la più precisa conoscenza delle singole sostanze insegna immediatamente che questo presupposto, a rigore, non viene soddisfatto da nessuna singola sostanza e empiricamente in misura molto diversa dalle singole sostanze. Si deve dunque passare dai primi termometri ad aria al termometro ad immersione e da questo al termometro a mercurio e nella misura in cui ciò avviene, si perviene per la prima volta a leggi veramente generali e semplici della teoria del calore. Anche qui si vede come le ultime unità di misura non possano mai essere derivate direttamente dall’osservazione, ma che innanzitutto dobbiamo sceglierle ipo­ teticamente e applicarle. E l’applicazione ha successo in modo tale che, 31

Cfr. H. Poincaré, La mesure des temps, in Id., Le valeur de la Science, Flammarion, Paris 1905, pp. 35-59; H. Poincaré, Zi valore della scienza, a cura di G. Polizzi, La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 27-41.

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grazie ad essa, viene ottenuta l’unità e la sistematica compiutezza di tutti i fenomeni nella forma quanto più possibile perfetta32. Vogliamo chiarire questo rapporto metodico fondamentale, solamen­ te con due importanti esempi, per poterci poi accostare adeguatamente alla teoria della relatività speciale e generale. Infatti, per quanto signi­ ficativi, sconcertanti in un certo senso, siano i risultati di questa teoria, una cosa è certa e non è mai stata messa in dubbio neppure dai suoi fondatori, che si tratta qui di una teoria fisica, una teoria dunque nella quale non viene negato lo specifico atteggiamento, il modo di pensare della “fisica in generale”, nella quale invece [68] verrà verosimilmente sviluppato fino alla massima conseguenza e quindi alla massima chia­ rezza. Proprio in essa possiamo studiare nel modo più preciso il modo di considerare i fenomeni della fisica - gli “occhi del fisico”. Bisogna però riconoscere che il modo di considerare non sorge soltanto con essa, bensì nei suoi tratti essenziali può essere individuata già nei precedenti esiti classici della fisica moderna. Scegliamo due di questi esiti: il prin­ cipio d’inerzia galileiano-newtoniano e il principio della conservazio­ ne dell’energia, per chiarire, grazie ad essi, la relazione epistemologica fondamentale che è significativa per noi; l'enunciazione del concetto d’inerzia, come viene raggiunto da Galilei e del concetto di energia, come viene raggiunto innanzitutto nell’ambito della meccanica pura da Leibniz, e poi allargato ed elaborato con un significato più ampiamente comprensivo da Robert Mayer e Helmholtz; si tratta in entrambi i casi dell’enunciazione di nuovi, fondamentali concetti di misura, ma si mo­ stra che con questo cambiamento della misura, sorprendentemente, su­ bisce un’essenziale trasformazione anche tutta quanta la nostra visione della “natura”, la nostra visione delle cose. Questo nesso nella nostra visione delle misure fondamentali della natura e nella nostra visione delle cose tende innanzitutto ad esprimersi, non solo tra gli scienziati, ma anche tra i filosofi, ingenuamente come se le nuove misure, che si sono ottenute, andassero intese immediatamente esse stesse come cose, addirittura come le cose semplicemente, come le autentiche sostanze. Pensiamo ad esempio alla moderna energetica. Di che cosa si tratta? Attraverso la teoria di Robert Mayer dell’equivalente termico mecca­ nico e le ulteriori relazioni termiche che si sono registrate non soltanto 32

Cfr. E. Mach, Die Prinzipien der Wärmelehre, historisch-kritisch entwi­ ckelt, Barth, Leipzig 1896, particolarmente pp. 39-57 (N.d.T.).

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tra calore e lavoro meccanico, bensì tra questo e determinati processi e risultati in ambito chimico, elettrico, ecc. veniva evidenziato un muovo rapporto tra differenti ambiti di fenomeni, così che i fenomeni di un ambito divennero misurabili in modo esatto e chiaro, grazie a quelli di un altro. Robert Mayer stesso aveva visto il nucleo della sua scoperta proprio qui e in questo senso aveva indicato i numeri d’equivalenza come l’effettivamente permanente e sostanziale, come i «fondamenti di una scienza esatta»3334 . La metafisica energetica però fa di questo in­ sieme di puri numeri e dei rapporti tra processi naturali, in essi espres­ si, nuovamente una cosa unitaria, una sostanza onnicomprensiva, che ormai entra in concorrenza con il concetto fisico di cosa, col concetto di “materia” invalsi finora, per accoglierli infine completamente in sé e assorbirli. La costanza della materia, della massa, [69] viene chia­ rito ora, non è più che la costante di un mero numero; si tratta qui in essa semplicemente dell’energia motrice, del fattore di capacità. Tali fattori di capacità possono essere costanti, ma non è detto che lo siano necessariamente, così come vi sono tipi di energia nei quali soltanto il prodotto del fattore di capacità con quello di intensità, non però il fattore di capacità di per sé soltanto, è sufficiente per una determinata legge di conservazione. La stessa “energia”, però, racchiude in sé più di un tale rapporto numerico; essa è piuttosto Vagente ultimo e quindi il reale effettivo ultimo; essa è il reale dal punto di vista fisico di cui le nostre percezioni in qualche modo ci danno notizia. È ciò che, ad es., Ostwald ci annuncia nelle sue Vorlesungen über Naturphilosophie e nel suo Die Überwindung des wissenschaftlichen Materialismus3^. Le roi est mort, vive le roi! La cosa, la sostanza che noi chiamavamo materia e nella quale credevamo fosse compreso tutto Tessere, è morta, viva la sostanza dell’energia! «Ciò che noi vediamo non è altro che l’energia raggiante la quale provoca degli effetti chimici sulla retina del nostro occhio, da noi percepite come luce. Quando tocchiamo un corpo solido, percepiamo il lavoro meccanico compiuto nella compressione dei nostri

33 34

J. R. Mayer, Bemerkungen über das mechanische Aequivalent der Wär­ me, Landherr, Heilbronn und Leipzig 1851, p. 7. Cfr. W. Ostwald, Vorlesungen über Naturphilosophie, Veit, Leipzig 1902; Id., Die Überwindung des wissenschaftlichen Materialismmus (1894), in Id., Abhandlungen und Vorträge allgemeinen Inhalts (1887-1903), Veit, Leipzig 1904, pp. 220-240.

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polpastrelli e in certi casi anche in quella del corpo toccato. L’olfatto e il gusto sono fondati sui processi chimici che avvengono negli organi del naso e della bocca. Si tratta sempre di energia o di lavoro il cui esplicarsi ci dà notizia del modo in cui il mondo esterno è ordinato, nonché delle proprietà che esso possiede; da questo punto di vista l’in­ tera natura ci si presenta come una ripartizione nello spazio e nel tempo di energie mutevoli sotto l’aspetto spazio-temporale, della quale noi acquistiamo conoscenza nella misura in cui queste energie passano nel nostro corpo e particolarmente negli organi di senso fatti per ricevere in modo specifico alcune di esse»35 (Substanzbegriff und Funktionsbegrijf, p. 250). Ma se Ostwald in queste righe crede di aver superato metodolo­ gicamente e filosoficamente il materialismo, è caduto certamente in un singolare autoinganno. Infatti, in senso metodico, il materialismo non si chiede che cosa è posto, bensì come è posto. Non vi è soltanto un mate­ rialismo della vera e propria “materia”, bensì anche dell 'energia, dell’e­ tere, così come all’inverso vi è un determinato impiego del concetto di “materia”, del concetto di massa, che non è in alcun modo colpito dall’accusa di materialismo. Un [70] siffatto impiego del concetto di massa è presente ad esempio nei Prinzipien der Mechanik di Heinrich Hertz. Questa meccanica, che elimina i concetti di forza e di energia e li rimpiazza col concetto di massa, è di gran lunga meno “materialistica” di quanto non lo sia la forma dell’energetica di Ostwald. Infatti non si tratta di quali concetti fondamentali vengano scelti come misure fonda­ mentali, bensì se si rimane consapevoli che si ha a che fare con misure e non le si trasforma ingenuamente in cose, in realtà astratte. Tutto ciò, invero, si è ripresentato continuamente nel corso della sto­ ria delle scienze esatte e della filosofia.

35

W. Ostwald, Vorlesungen über Naturphilosophie, Veit, Leipzig 1902, pp. 159-160. Citate in E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, ECW, voi. 6, p. 205; tr. it. cit., pp. 253-254.

[70] CAPITOLO 2 I FONDAMENTI CONCETTUALI E SPERIMENTALI DELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ SPECIALE E GENERALE

Introduzione1 Qui, naturalmente, non ci si può addentrare nei particolari dei fon­ damenti empirici e sperimentali della teoria della relatività; li do so­ stanzialmente per noti, rimando in ogni caso alla letteratura segnalata in precedenza1 2; in particolare, tra le esposizioni divulgative, all’espo­ sizione dello stesso Einstein e poi a Werner Bloch, Einführung in die Relativitätstheorie, Teubner, Leipzig und Berlin 1918 e a Emil Cohn, Physikalisches über Raum und Zeit, Teubner, Leipzig und Berlin 19204. L’esposizione più chiara e migliore, a me nota, dei fondamenti spe­ rimentali si trova nello scritto di Laue sul principio di relatività, ap­ pena uscito nella sua quarta edizione (riguarda soltanto la relatività speciale!)3. Due esperimenti fondamentali si trovano al culmine della teoria della relatività speciale: l’esperimento di Fizeau e quello di Michelson. In base ai loro risultati, sembravano entrambi del tutto incontrovertibili; ma, [71] d’altra parte, sembravano portare a risultati del tutto contrad­ dittori per quanto riguarda la loro interpretazione. È stata questa con­ traddizione, affacciatasi nell’esperienza, nell’osservazione immediata, ad aprire storicamente la strada alla teoria della relatività. Il pensiero fi­ sico non poteva acquietarsi, prima di aver superato questa contraddizio­ ne presente nelle osservazioni; ma non poteva superarla altrimenti che decidendo per una radicale trasformazione dei suoi propri presupposti, per una trasformazione che ora, diversamente da come era accaduto per 1 2 3

Cfr. E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, ECW, voi. 10, pp. 20-22; tr. it. cit., pp. 485-487 (Nota di Cassirer). Si veda V Appendice, pp. 139-141 (N.d.T.). M. von Laue, Das Relativitätsprinzip, Vieweg, Braunschweig 1911.

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il principio d’inerzia e il principio d’energia, non portò soltanto conte­ nutisticamente a nuove misure teoretiche e a nuove costanti metriche, ma portò ad una nuova coscienza critica delle forme di misurazione stessa, delle condizioni generali di ogni misurazione dello spazio e del tempo. Sia l’esperimento di Fizeau, sia quello di Michelson si riferiscono alla questione relativa allo stato di moto dell’ipotetico etere luminifero. L’etere si trova in assoluta quiete, oppure viene trascinato in parte o in tutto dai corpi in movimento che lo attraversano? Per fare chiarezza su questo punto, si dovette cercare di confrontare tra loro la velocità con la quale la luce si propaga in un mezzo in movimento e quella con la quale si propaga in un mezzo in quiete. Prendiamo in considerazione ad es. la propagazione della luce in un fluido che scorre con velocità unifor­ me, ipotizzando che la luce si propaghi nella direzione della corrente. A questo punto sono possibili due casi. O semplicemente la velocità della luce si assomma alla velocità della corrente, così che la velocità della luce c, nel caso preso in esame qui, aumenti di una grandezza v (l’entità della velocità della corrente; e rispettivamente diminuisca della stessa quantità, se la propagazione della luce si compie nella dire­ zione opposta a quella della corrente del fluido), oppure si mostra che il moto della luce non viene in alcun modo influenzato dal moto del liquido, cosa che dimostrerebbe che l’etere non partecipa al moto dei corpi. Grazie ad un metodo determinato, mediante il quale due raggi lu­ minosi, l’uno dei quali si muova nella direzione della corrente e l’altro in direzione opposta, vengono portati reciprocamente ad interferenza, l’esperimento di Fizeau mostra appunto che nessuno dei due risultati corrisponde alle aspettative. Si evidenzia cioè che la velocità della luce viene effettivamente influenzata dalla velocità della corrente, che però non si assomma ad essa per tutta la sua entità, bensì per un [72] fattore che dipende dagli esponenti di rifrazione del relativo mezzo. //T// Sia n l’esponente di rifrazione. Allora la velocità della luce nel mezzo in quiete con l’esponente di rifrazione n (cn) sarà semplicemente = dn, la velocità nel mezzo in moto c'n non sarà invece semplicemente distinta mediante l’entità v (la velocità del mezzo), ma si avrà

cA =- + v(l - 4), 11

n

n2/

Ifondamenti concettuali e sperimentali della teoria della relatività

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dove il fattore (1 - 1/n2) viene indicato come il fattore di trasmissione di Fresnel. Per n = 1 questo fattore diventa zero, cioè nei mezzi che hanno il quoziente di rifrazione 1, in generale non si assomma alcuna velocità; il moto del raggio luminoso non è influenzato da quello del mezzo. Ora, giacché i gas ed in particolare l’aria atmosferica posseg­ gono un quoziente di rifrazione che è molto prossimo a 1, se ne do­ vrebbe concludere che l’etere non è praticamente per nulla trascinato dall’aria in movimento. Saremmo dunque in presenza qui di un moto “assoluto” della Terra (o quantomeno dell’atmosfera terrestre) nella sua rivoluzione attorno al Sole, rispetto all’etere luminifero in quiete. Rendere evidente questo moto assoluto nelle sue conseguenze fisiche è lo scopo che si propone l’esperimento di Michelson. Se l’atmosfera non trascina l’etere, allora, per un osservatore che si trovi sulla Terra, un raggio luminoso che si propaghi nella direzione del moto della Terra (davanti al quale, dunque, per così dire, la Terra fugge), deve apparire ritardato; e se lo si paragona ad un raggio che si propaghi in senso verticale rispetto al moto della Terra, questa differenza, sem­ pre ricorrendo al metodo dell’interferenza, dovrebbe risultare chiara e riscontrabile4. L’esperimento di Michelson è strutturato in modo tale che anche un centesimo dell’effetto previsto dalla teoria avrebbe do­ vuto essere registrato con sicurezza. In verità, l’esperimento, quando effettivamente venne realizzato, non diede alcun risultato. Non era in alcun modo possibile registrare un influsso del moto della Terra [73] sulla velocità di propagazione della luce. I fenomeni ottici si com­ portarono esattamente come se non vi fosse affatto una traslazione della Terra. Da una parte vi era dunque l’esperimento di Fizeau che mostrava come l’etere non veniva trascinato da corpi con quoziente di rifrazione 1; dall’altra l’esperimento di Michelson, che sembrava mostrare che l’etere viene completamente trasportato insieme all’aria in movimento, insieme alla Terra. Dopo queste considerazioni fisiche, introduciamo qui innanzitutto nuovamente una considerazione metodica e filosofica generale! Essa riguarda il rapporto tra esperienza e pensiero, osservazione e teoria. L’empirismo grossolano non vi vede alcun problema. Esso fa consistere

4

Cfr. W. Bloch, Einführung in die Relativitätstheorie, Teubner, Leipzig und Berlin 1918, p. 38 (Nota di Cassirer).

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l’“esperienza” in una «rapsodia di percezioni»5, in un accumulo di espe­ rimenti, in una «experimentorum multorum coacervatio»6, come ha detto una volta un pensatore empirista. Osservazione segue ad osservazione; l’una si assomma semplicemente all’altra e al pensiero non rimane altro compito che quello di mettere in fila tutte queste diverse esperienze, come le perle in una collana. Ma già quel filosofo al quale propriamente riman­ da il nostro concetto generale di “pensiero”, di discursus, di Sidvoia, ha compreso in modo del tutto diverso da quanto avviene qui la sua funzio­ ne, il suo significato e il suo essenziale rapporto con la percezione. Che anche il puro pensiero delle idee si svolga temporalmente soltanto nella percezione, lo sapeva e lo ammetteva anche Platone: «’AXÀà pqv «ai tóò€ ópoXoyoùpev, pp äXXoOev aÙTÒ èvvevoqKévat pqSè SuvaTÒv d vai évvofpat ctXX’q èk toù ISdv f| äibaoöai q ck tlvog aXXqc tov alcröqoewv»7. Ma non ogni tipo di percezione, egli insegna, è ugualmente adatta a risvegliare il pensiero e a richiamarlo ad una autonoma attività. Piuttosto, tra le percezioni ve ne sono di quelle che non stimolano alla riflessione, perché basta il giudizio che ne dà la sensazione; altre invece che producono in tutti i modi il pensiero, quasi che in esse la percezione di per sé sola non fosse in grado di offrire delle conclusioni sane. Non stimola il pensiero, cioè, tutto ciò che non si capovolge nel contempo in una percezione opposta, ma ciò che si capovolge, lo indico come ciò che stimola il pensiero, perché la percezione qui non ci si presenta più come il suo opposto. Così vi è molto nella percezione che è una sveglia, un paracielo del pensiero ([tù pèv] TrapaKÀqTiKÒ Tqc òiavoiac [coti])8;

5

6

7

8

I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 156, B 195, Ak, Bd. IV, p. 110, Bd. Ili, 144; tr. it. cit., p. 202. «Accumulo di molte esperienze» (T. Campanella, Universalis philosophiae, seu metaphysicarum rerum, iuxta propria dogmata, ristampa ana­ statica dell’edizione Paris 1638, a cura di L. Firpo, Bottega D’Erasmo, Torino 1961, Lib. I, Proemium, p. 2; Id., Metafisica, a cura di G. Di Napo­ li, Zanichelli, Bologna 1967, p. 81). «E quindi siamo d’accordo anche in questo, che non da altro si è potuto formare in noi codesto pensiero, né da altro è possibile che si formi, se non dal vedere o dal toccare o da alcun’altra di queste sensazioni» (Platone, Fedone, 75 a, in Id. Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1971, voi. I,p. 129). «Certi oggetti invitano il pensiero ad agire» (Platone, Repubblica, 524 d, in Id., Opere, cit., voi. VI, p. 248).

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ancora una volta niente altro; vale a dire che una siffatta sveglia del pen­ siero è tutto ciò che nel contempo cade nei sensi insieme al suo opposto; ciò che non lo fa, non eccita neppure il pensiero. (Resp. 523Z24)9. Si vede come Platone comprenda il ruolo dell’osservazione, il ruolo della sensi­ bilità nel processo del pensare l’esperienza. Non è l’immediato contenuto [74] dell’esperienza sensibile, bensì piuttosto la contraddizione in essa latente, a diventare la vera sveglia, il vero paracielo del pensiero. E la dialettica (non dobbiamo aver timore di usare quest’espressione hege­ liana) è la dialettica della percezione sensibile che invita il pensiero alla decisione. Il pensiero dorme, fin tanto che non è stimolato alla sua propria attività da questa dialettica, fin tanto che non viene costretto da essa a far valere la sua caratteristica istanza di unità. E così si distribuiscono qui i ruoli: l’annuncio del problema, della contraddizione, viene dall’esperien­ za; l’istanza dell’unità, della non contraddittorietà viene dalla ragione e compito della scienza diventa allora quello di far valere sempre più que­ sta istanza, in contrapposizione ai dati sensoriali che paiono contrastare con essa e tra di loro. Con lo sviluppo della teoria della relatività abbiamo ora davanti a noi un esempio classico di come ciò possa avvenire. Gli esperimenti di Fizeau e di Michelson sono ad un primo sguardo due di tali indicazioni della percezione sensibile, totalmente in contrasto l’uno con l’altro, e ora si trasformano in sveglie, in paracleti del pensiero fisico. Il primo tentativo di superare la contraddizione si deve a Hendrik Antoon Lo­ rentz, il secondo ad Einstein e alla teoria della relatività. Lorentz cercò di spiegare l’esito negativo dell’esperimento di Michelson, ipotizzando che ogni corpo che si muove nell’etere subisca una contrazione nella direzione del suo moto. Per dar conto di questa contrazione è sufficiente introdurre un determinato valore matematico, è sufficiente, come risulta dal calcolo, ipotizzare soltanto che essa risulti in rapporto a

(dove v indica la velocità del sistema rispetto all’etere in quiete, c la velocità della luce). In questo modo con un solo colpo viene spiegato

9

Cfr. Platone, Repubblica, 523 b-524 d; tr. it. cit., pp. 246-248.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

l’esito negativo dell’esperimento dell’interferenza di Michelson. Gli effetti della traslazione della Terra per noi non sono dimostrabili, non sono misurabili dal punto di vista fìsico, perché i nostri stessi regoli vengono coinvolti nel mutamento. Anch’essi subiscono una contrazio­ ne nella misura in cui ruotano nella direzione del moto della Terra; tale contrazione però è così piccola che sfugge ad ogni accertamento della percezione immediata. Come risulta dal calcolo, in un’asta della lun­ ghezza di 1 km, che si trovi nella direzione della velocità della Terra, essa assommerebbe soltanto a 1/200 mm, «e l’intero diametro terrestre subirebbe una [75] contrazione di circa 6,3 cm» (Cfr. Bloch, p. 44)1011 . La contrazione di Lorentz riguarda tanto la misurazione delle lunghezze, quanto anche la misurazione del tempo. Consideriamo il movimento di un orologio in quiete in un determinato sistema K e immaginiamoci un osservatore in un sistema K’ in moto uniforme, con una velocità v, rispetto al sistema K: allora all’intervallo A t\ che questo osservatore stabilisce nel suo sistema K’, del cui moto prende parte, dovrebbe cor­ rispondere un intervallo A t per un osservatore nel sistema K, in modo tale che

(Laue, p. 40)". Questa ipotetica contrazione di Lorentz è sufficiente a dare perfet­ tamente conto del risultato dell’esperimento di Michelson e inoltre di tutti i fenomeni ottici ed elettrici in generale. Perché non ci si è accon­ tentati di essa? Perché Einstein l’ha sostituita con un’altra teoria nella quale non si parla più dell’esistenza dell’etere e degli effetti che esso esercita sui corpi in moto in esso, nella quale invece si viene rinviati semplicemente alle condizioni del processo di misurazione spaziale e temporale e viene mostrato che due osservatori, l’uno dei quali si trovi nel sistema K, e l’altro nel sistema K’, in moto rispetto a K, debbono usare necessariamente differenti misure di tempo e spazio? Dove sta il vantaggio della teoria di Einstein rispetto alV ipotesi della contrazione

10 11

W. Bloch, Einführung in die Relativitätstheorie, cit., p. 44. Cfr. M. von Laue, Das Relativitätsprinzip, cit., p. 40.

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di Lorentz? Dobbiamo innanzitutto affermare che non vi è un vantaggio puramente fisico-, tutti i fenomeni noti si possono spiegare sia seguendo la via di Lorentz, sia quella di Einstein. «In generale», così giudicava von Laue, uno dei principali sostenitori della teoria della relatività nel 1911, «non è possibile addurre una prova sperimentale decisiva a fa­ vore della teoria di Lorentz allargata o della teoria della relatività e se la prima, nonostante questo, è passata in secondo piano, ciò dipende soprattutto dal fatto che ad essa, per quanto si avvicini alla teoria della relatività, manca tuttavia il grande, semplice principio universale, il cui possesso conferisce fin dal principio alla teoria della relatività qualcosa di grandioso»12. E la ragione per cui la teoria di Lorentz non perviene a questo principio sta nel fatto che là dove esso, in conformità alla teo­ ria della relatività, poteva e doveva essere introdotto, al suo posto egli pone qualcosa d’altro, vale a dire una cosa ignota, in linea di principio non percepibile, l’etere, e appunto gli effetti di questo [76] etere. Que­ sto era sconveniente ed insoddisfacente non tanto dal punto di vista fisico, quanto da quello epistemologico. Per non suscitare il sospetto di un’interpretazione unilateralmente “filosofica” delle teorie fisiche su questo importante aspetto, citeremo nuovamente il giudizio di un fisico, di von Laue: «da questo punto di vista, sul quale si trova [...] il lavoro di Lorentz del 1904, vi è perciò un etere, e tuttavia gli effetti fisici del moto “assoluto” rispetto ad esso restano sempre sconosciuti. Esatta­ mente al contrario procede la teoria della relatività. Anch’essa mantie­ ne l’elettrodinamica, ma subordina entrambi gli ambiti [meccanica ed elettrodinamica] ad un principio di relatività e propriamente al mede­ simo. Ben difficilmente si potrà fare a meno di considerare quest’ulti­ mo procedimento come quello di gran lunga più soddisfacente; infatti esso si contrappone a tutti i principi epistemologici, di attribuire ad un corpo realtà fisica, se non può mai essere provato. [...] Non rimaneva al fondamentale lavoro di A. Einstein, Zur Elektrodynamik bewegter Körper, nel XVII volume degli “Annalen der Physik” (1905), che spin­ gersi, attraverso una radicale critica del concetto di tempo, fino al punto decisivo e così portare a soluzione il rompicapo con un solo colpo» (33)13. Questo è dunque il vantaggio non tanto fisico, quanto piuttosto il vantaggio fondamentalmente epistemologico della teoria di Einstein, 12 13

Ivi, pp. 19-20. Ivi, p. 33 (corsivi di Cassirer, ad esclusione di “un solo”).

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rispetto a quella di Lorentz: dove questa deve ipotizzare una cosa igno­ ta, quella se la cava con la critica di un concetto fondamentale, del con­ cetto di tempo. Se ci ricordiamo delle nostre considerazioni introduttive sul senso e il contenuto epistemologici delle ipotesi fisiche, possiamo esprimere ora il nostro risultato in una semplice formula. Sia la teoria di Lorentz, sia quella di Einstein prendono le mosse inizialmente da un nuovo, estensivo concetto di misura e principio di misura', da un prin­ cipio di misura che intende abbracciare e rappresentare uniformemente la meccanica e l’elettrodinamica, i vari moti e i fenomeni ottici ed elet­ trici. Ma il concetto di misura si trasforma per Lorentz in un concetto di cosa, mentre in Einstein va inteso soltanto in quanto tale e puramente in quanto tale applicato. È interessante inoltre osservare come il principio fondamentale al quale in qualche misura i fisici si richiamano ancora in modo esitante, per comprovare grazie ad esso il vantaggio dell’ipotesi di [77] Einstein, rispetto a quella di Lorentz, in filosofia fosse stato formulato e fosse stato elevato a criterio applicativo già da lungo tempo. Prima ci siamo richiamati a Platone, ora possiamo richia­ marci a Leibniz. Leibniz con la sua battaglia contro Newton, contro i concetti di spazio assoluto, di tempo assoluto e di moto assoluto, si trova pienamente nell’ambito problematico generale dal quale è sor­ ta la contemporanea teoria della relatività. E in questa battaglia egli definisce con consapevolezza filosofica il principio al quale si ap­ poggiano i sostenitori della teoria della relatività per sostenere che l’ipotesi di Lorentz è insoddisfacente. Leibniz ha chiamato questo principio «principio di osservabilità» («principe d’observabilité»). Clarke, il seguace di Newton, aveva parlato della possibilità che l’universo materiale, nella sua totalità, potesse subire una variazio­ ne nel suo rapporto con lo spazio assoluto, che esso dunque potes­ se muoversi ora con maggiore ora con minore velocità, rispetto a questo spazio assoluto. Leibniz gli aveva obiettato che l’ipotesi di un moto dell’universo nello spazio assoluto sarebbe completamente inconsistente, giacché non potrebbe mai essere oggetto di possibile osservazione. A ciò Clarke replica che la verità di un moto è del tutto indipendente dall’osservazione. Ad esempio una nave potreb­ be muoversi in avanti, senza che chi si trova al suo interno lo noti. Leibniz gli obbietta nuovamente che è ben vero che il moto è indi­ pendente dall’osservazione concreta e singola, ma non è per nulla

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affatto indipendente dalla possibilità dell’osservazione in generale: «le mouvement est indépendant de l’observation, mais qu’il n’est point indépendant de l’observabilité»14. «Non si ha affatto movi­ mento, quando non si ha un cambiamento osservabile. E allo stesso modo quando non si ha cambiamento osservabile, non si ha per nulla cambiamento»15. Egli precisa ancora meglio questo principio in un altro passo, richiamandosi al fatto che noi non possiamo attribuire Vessere a nessuna cosa e a nessun processo, se non si desse alcun mezzo della coscienza, della conoscenza, grazie al quale potessimo accertare questo ipotetico essere. Leibniz definisce questo argomen­ to, l’argomento decisivo, 1’«argomento erculeo» («Herculinum illud argumentum ut ea omnia quae an sint, an non isnt a nemine percipi possunt, non sint16»). Qui [78] abbiamo il principio epistemologico che in ultima istanza deve decidere anche dell’ipotesi di Lorentz: essa contrasta col principio deìV“osservabilità”. Un etere il cui es­ sere o non essere, come dimostra l’esito dell’esperimento di Michel­ son, non potrebbe mai essere osservato da noi, ha in ogni caso ter­ minato di giocare il suo ruolo in ambito fisico-, deve essere sostituito da un’altra ipotesi. Anche Minkowski, nella sua famosa conferenza su Raum und Zeit, aveva obiettato che l’ipotesi di Lorentz di una contrazione che ogni corpo subirebbe nel suo moto rispetto all’etere in quiete, e precisamente nel rapporto

suona «quanto mai fantastica»; infatti questa contrazione non sarebbe da intendersi come conseguenza di resistenze nell’etere, bensì pura­ mente come un «dono dall’alto», come circostanza concomitante del­ la circostanza del moto (Raum und Zeit, p. 59)17. Di un siffatto “dono 14 15 16

17

Streitschriften zwischen Leibniz und Clarke, in G.W. Leibniz, Die philo­ sophischen Schriften, cit., Bd. VII, p. 403. Ivi, pp. 403-404 (Nota di Cassirer). G. W. Leibniz, Miscellanea metaphysica, in Id., Nouvelles lettre et opuscules inédits, éd. par A. Foucher de Careil, Durand, Paris 1857, p. 171. Cfr. H. Minkowski, Raum und Zeit,'m H. A. Lorentz, A. Einstein, H. Min­ kowski, Das Relativitätsprinzip, Teubner, Leipzig und Berlin 1913, p. 61.

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dall’alto”, di un’ipotesi introdotta ad hoc la teoria della relatività non ha bisogno ed è questo che costituisce il suo vantaggio fisico ed episte­ mologico. Infatti tutto ciò che finora non era affatto spiegabile, o lo era sol­ tanto ricorrendo ad ipotesi estremamente difficili e in fondo arbitrarie, mediante l’introduzione di un etere oggettuale, inteso come sostanza particolare, si spiega purché ci atteniamo unicamente alle regole di misurazione valide per ogni sistema di riferimento fisico. In queste regole e non in una cosa sostanziale esistente assolutamente viene ora fondata l’unità dell’immagine fisica del mondo e in questa unità non vi è alcun contrasto con la diversità delle osservazioni che possono essere ottenute da differenti sistemi di riferimento in moto uniforme gli uni rispetto agli altri, bensì si trova lì piuttosto la chiave di que­ sta stessa diversità. Comprendiamo ora che e perché ogni osservatore nel proprio sistema debba compiere le misurazioni e ottenere i va­ lori di spazio e tempo che egli effettivamente ottiene e constatiamo ciò nonostante che queste misurazioni che, in base al loro principio fondamentale, alla loro “forma”, concordano, non hanno bisogno di concordare anche in base alla loro materia, ai loro singoli risultati; che alla fin fine non lo possono, proprio se questa unità della forma, se l’unità del principio di misura che sta alla base di tutti gli osservatori, deve essere garantita. Bisogna [79] mettere in conto la possibilità, anzi la necessità che, proprio sulla base di questo criterio di misura unitario, ogni osservatore raggiungerà le sue proprie misure di lun­ ghezza e di tempo, che quindi ciò che nel suo sistema può dirsi “si­ multaneo”, in un altro sistema di riferimento, in moto relativo rispetto ad esso, non può assolutamente essere detto simultaneo. I dati relativi alle misurazioni fisiche di grandezze spaziali e temporali ricevono un senso determinato e chiaro soltanto quando viene aggiunto l’indice del sistema, in base al quale sono state intraprese. Il criterio di misura unitario però, in base al quale viene affermata questa differenza dei valori materiali di spazio e tempo, lo possiede la teoria della relati­ vità speciale nel principio della costanza della velocità della luce, che essa pone come fondamento. Tutti gli osservatori - come mostra l’esito dell’esperimento di Michelson - hanno il medesimo diritto e la medesima ragione di assumere che nel loro sistema la luce si propa­ ghi con velocità costante. Se eleviamo questa assunzione ad esigenza, richiediamo dunque che la velocità della luce, che è stata trovata in un

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sistema K, valga anche per tutti i sistemi K’ in moto uniforme e retti­ lineo rispetto a K (così che lo stesso raggio di luce sembra muoversi alla stessa velocità a due osservatori che si muovano l’uno rispetto all’altro); in questo modo abbiamo già tutto quello che ci serve per completare il passaggio dei valori di misura da un sistema all’altro18. Infatti supponiamo che in un determinato istante i punti zero dei due sistemi K, e K’ si sovrappongano e che nel comune punto zero venga dato un segnale luminoso; questo deve allora propagarsi per entrambi i sistemi in modo uniforme e con la stessa velocità. La luce dunque in K si troverà costantemente sulla superficie di una sfera il cui centro è il punto zero di K. L’equazione di questa sfera viene rappresentata dalla formula:

(1) x2 + y2 + z2 = r2 dove r è il raggio della sfera. Questo aumenta proporzionalmente al tempo con cui la luce si propaga; se c indica l’entità della velocità della luce al secondo, dopo il primo secondo sarà = c, dopo il secondo secon­ do = 2c e quindi in generale = et. Se si inserisce questo valore r = et nell’equazione (1) si ha:

[80] x2 + y2 + z2 = c2t2 ovvero: x2 + y2 + z2 - c2t2 = 0

Applicando la stessa considerazione al sistema K’, si ottiene per esso l’equazione del tutto analoga: (la) x'2 + y'2 + z'2 - c2f2 = 0

18

Cfr. W. Bloch, Einfiirung in die Relativitätstheorie, cit., pp. 57-59; A. Ein­ stein, Über die spezielle und die allgemeine Relativitätstheorie. Gemein­ verständlich, Anhang: Einfache Ableitung der Lorentz-Transformation, CP, voi. 6, pp. 502-506; tr. it. cit., pp. 476-481 (Nota di Cassirer).

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Dall’esigenza che le due equazioni debbono valere simmetricamente, se si introducono ancora alcune condizioni matematiche che derivano parimenti dallo stato di fatto fisico da noi presupposto, si possono allora facilmente calcolare le equazioni di trasformazione in entrambi i sistemi, cioè le relazioni che debbono valere da una parte tra x, y, z, t e dall’altra trax',y ', z', t'. Una derivazione elementare di queste equazioni fondamen­ tali della “trasformazione di Lorentz” si trova n&W Appendice del libro di Einstein, Über die spezielle und die allgemeine Relativitätstheorie'9. Accenniamo qui almeno alle equazioni stesse. Si dà:

ovvero anche:

Si riconosce ora il decisivo vantaggio che l’impostazione della te­ oria della relatività ha dal punto di vista epistemologico, nei confron­ ti dell’ipotesi della contrazione di Lorentz. Solo essa può veramente soddisfare l’esigenza fondamentale dell’cv «al ttoXXci19 20; essa enuncia un’t/mtó [81] che contiene in sé la molteplicità, invece di contrappor-

19

20

Cfr. A. Einstein, Über die spezielle und die allgemeine Relativitätstheorie. Gemeinverständlich, Anhang: Einfache Ableitung der Lorentz-Transfor­ mation, CP, voi. 6, pp. 502-506; tr. it. cit., pp. 476-481. «In una e insieme in molte cose» (Platone, Filebo, 15 b, in Opere, cit., voi. III, p. 80.

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visi. Non appena l’unità ricercata non viene più intesa come principio, ma come cosa, in buona sostanza non comprende, ma esclude la mol­ teplicità che dovrebbe spiegare. Ce lo insegna nel nostro esempio il confronto tra il principio di relatività e l’assunzione di Lorentz di un etere cosale. Se ci immaginiamo questo etere, in base ai risultati degli esperimenti di Fizeau e di Michelson, ogni osservatore in un sistema K o K’ a piacere avrebbe il diritto di pensare il suo sistema come in quiete nell’etere, perché sulla base dei fenomeni, di quelli meccanici come di quelli ottici ed elettrici, non sarebbe mai in grado di registrare un moto del suo sistema rispetto all’etere. L’etere dovrebbe dunque es­ sere considerato in quiete, sia in relazione a K, sia in relazione ad ogni sistema K’ che a sua volta è in moto rispetto a K. Una cosa, però, che presenti questa proprietà, che si trovi in quiete rispetto ai più disparati sistemi, essi stessi in moto tra loro, in quanto tale è impensabile, è una contraddizione. Se dunque seguiamo fino alle estreme conseguenze la funzione concettuale che l’etere vorrebbe soddisfare, raccogliamo tutte le relazioni per l’espressione delle quali dovrebbe essere fatto, si mostra che la posizione di un etere oggettuale esclude proprio la validità di queste relazioni. L’etere inteso come cosa - come mostra la teoria della relatività - si trasforma esso stesso in una non cosa, ma ciò che l’etere dovrebbe significare per noi concettualmente non viene con ciò affatto perduto. Infatti il principio della costanza della velocità della luce, uni­ to al principio della relatività, si dimostra adeguato a dare pienamente conto non solo di tutti i fenomeni meccanici, bensì anche di tutti quelli ottico-elettrici. I due principi nella loro unione non presentano più una cosa unitaria, che esiste in natura, ma formulano invece una relazione fondamentale unitaria, alla quale obbediscono tutte le leggi particolari della natura: un momento universalissimo della nostra conoscenza della natura. Essi creano la cornice per la forma della legalità naturale in ge­ nerale e questa forma è veramente unitaria, anche se, proprio grazie ad essa, viene richiesto che i valori spaziali e temporali particolari, rilevati all’interno dei differenti sistemi, non si sovrappongano materialmente, bensì si trovino soltanto in un determinato rapporto della connessione funzionale, del reciproco coordinamento. Questo stato di cose metodico si esprime allora in quel principio che costituisce il vero nucleo della teoria della relatività. «Le leggi secondo cui cambiano gli stati dei siste­ mi fisici», così formula Einstein innanzitutto il presupposto della teoria della [82] relatività speciale (è l’inerzia, ecc. Relativitätsprinzip, Teub-

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ner, p. 51), «sono indipendenti dal fatto che questi cambiamenti siano riferiti all’uno o all’altro di due sistemi di coordinate che si muovono, l’uno rispetto all’altro, di moto traslatorio parallelo e uniforme»21. Con ciò, a dispetto di tutta la relatività e di tutta la divergenza nelle nostre misurazioni spaziali e temporali, siamo comunque nuovamente perve­ nuti ad un’unità che costituisce il «ruhende[r] Pol in den Erscheinungen Flucht»22; ma “immoto” certo non più in senso meccanico, in un qual­ che senso spaziale-cosale, come l’etere in quiete, bensì “immoto” nel senso della validità. Non vi sono più cose che sono in quiete nello spa­ zio; vi è piuttosto ora un’ultima generalissima condizione, un postulato, che deve essere soddisfatto da tutte le leggi di natura particolari. Per poter veramente fissare questa condizione generalissima, per poterla veramente stabilire concettualmente e metodicamente, come mostra la teoria della relatività, dobbiamo innanzitutto sciogliere e rendere fluido ogni aspetto cosale, tutto ciò che per la consueta visione sensibile è fisso. A ciò che deve essere relativizzato in questo modo, ciò che deve essere reso fluido, per poter appunto rappresentare la stabilità e l’unità della natura, la stabilità e l’unità delle leggi di natura, appartengono an­ che gli stessi singoli valori spaziali e temporali: i valori metrici che noi troviamo per le lunghezze e i tempi nei differenti sistemi. La variabilità di questi valori e la “costanza” delle leggi di natura si richiedono e si corrispondono a vicenda; diversamente da come potrebbe sembrare ad un primo sguardo, essi non sono in contraddizione tra loro, ma si trova­ no in un rapporto di complementarità e correlazione necessarie. È ap­ punto questo il senso e il guadagno della teoria della relatività che, per salvare la costanza e l’universalità delle leggi, quali autentico pilastro fondamentale della nostra conoscenza della natura, dobbiamo lasciar cadere l’esigenza di univocità dei valori spaziali e temporali e l’indi­ pendenza di questi valori dall’osservatore. L’invarianza di queste leggi e la variabilità di questi valori si condizionano a vicenda. Noi dobbia­

21

22

A. Einstein, Ist die Trägheit eines Körpers von seinem Energieinhalt ab­ hängig?, CP, voi. 2, p. 312; tr. it. cit., p. 178 (è stato ripristinato il carat­ tere tondo dell’originale). «polo immoto nel fuggire delle apparenze» (E Schiller, Sämmtliche Schriften. Historisch- kritische Ausgabe, hrsg. von K. Goedeke, Erster Teil: Gedichte, Cotta, Stuttgart 1871, p. 80, v. 134; Id., Poesie filosofiche, a cura di G. Pinna, Feltrinelli, Milano 2005, p. 67).

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mo spingere la variazione quanto più è possibile, dobbiamo spingerla oltre i confini stabiliti dalla meccanica classica, per poter giungere agli autentici invarianti ultimi della conoscenza della natura. «Ogni legge generale della natura», così richiede il principio di relatività speciale, «deve essere costituita in modo da venire trasformata in una legge aven­ te esattamente la stessa forma quando, in luogo delle variabili spazio­ temporali x, y, z, t dell’originale sistema di coordinate K, si introducono nuove variabili spazio-temporali x', y', z’, t'di un sistema di coordinate K’, dove la relazione fra le grandezze ordinarie e quelle con apice [83] è data dalla trasformazione di Lorentz. Detto in breve: le leggi di natura universali sono covarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz»23. La teoria della relatività generale allarga questo principio fondamentale nella misura in cui le equazioni che esprimono le leggi di natura univer­ sali non soltanto nella trasformazione di Lorentz, bensì anche nell’ap­ plicazione di sostituzioni a piacere delle variabili di Gauss x,, x2, x3, x4 si trasformano in equazioni della stessa forma, che quindi tutti i sistemi di riferimento a piacere, anche quelli che, rispetto al sistema origina­ rio, compiono un moto rotatorio o un moto accelerato, sono in linea di principio equivalenti per la formulazione di leggi di natura universali. Se, dopo queste considerazioni generali, ritorniamo al contenuto speciale della teoria della relatività ed in particolare alle conseguenze immediate delle equazioni di trasformazione della trasformazione di Lorentz, ci si presenta qui innanzitutto una sorprendente conseguenza che si esprime nel famoso teorema di Einstein della composizione del­ le velocità. In base ai presupposti della meccanica classica, un corpo che si muove nel sistema K’ a velocità uniforme q, se questo sistema K’ possiede la velocità q in relazione ad un altro sistema K, rispetto a K posseggono la velocità v + q. La velocità rispetto a K’ viene trova­ ta dunque mediante la semplice composizione della velocità specifica del corpo, rispetto al sistema K’ (ad esempio rispetto ad una nave in movimento) e la velocità di K’ su K (la velocità della nave rispetto alla costa). In base ai presupposti della teoria della relatività si ha un altro rapporto per la composizione delle velocità. Immaginiamoci un corpo, che in K’ abbia la velocità q, mentre K’ abbia la velocità v rispetto a K. 23

A. Einstein, Über die spezielle und die allgemeine Relativitätstheorie, CP, voi. 6, p. 453; tr. it. cit., p. 418 (la traduzione è stata integrata di una parte mancante). (Nota di Cassirer).

l problemi filosofici della teoria della relatività

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Allora se immaginiamo che il moto del corpo in K’ proceda nella dire­ zione dell’asse Kpositiva, in ÄT’misureremo x' = qt'

mentre la sua velocità Q rispetto a K, che si ottiene mediante la compo­ sizione di q e v, risulta: X

Q= t

k (xr +vtr) _ 1 ^5^ «-jqj

ovvero, se introduciamo qt' al posto di x1,

(1)

n=

+v~> - ‘i+v

clJ

cz

[84] Questa espressione della composizione delle velocità differisce dall’espressione valida nella meccanica classica per il fattore 775; una grandezza che si differenzia soltanto di pochissimo da 1, fin tanto che c, diventerebbe immaginario, cosa che porterebbe a conseguenze fisiche assurde (cfr. Bloch, pp. 69 e s.)28. Non soltanto la velocità dei corpi, bensì anche gli effetti fisici d’ogni tipo, non importa che si propaghino nel vuoto o nella materia, in base alla teoria della relatività non possono superare la velocità della luce (Laue, p. 45)29.

25 26 27 28 29

Einstein, Zur Elektrodynamik bewegter Körper, CP, voi. 2, p. 291; tr. it. cit.,p. 163. Cfr. M. von Laue, Das Relativitätsprinzip, cit., p. 45. Cfr. W. Bloch, Einführung in die Relativitätstheorie, cit., p. 71, nota. Cfr. ivi, pp. 69-70. Cfr. M. von Laue, Das Relativitätsprinzip, cit., p. 45.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

È questa conclusione della teoria della relatività che ha dato luogo a continue proteste per motivi filosofici ed epistemologici generali. Qui sono stati sollevati continuamente dubbi. L’affermazione che in natura vi sarebbe una determinata grandezza privilegiata, che in essa si dia un maximum assoluto, non superabile, ha suscitato sempre, nuovamente meraviglia. Si è rimproverato alla teoria della relatività che qui si di­ mostrerebbe infedele al suo proprio principio fondamentale, che essa, che pure nega l’assoluto” in natura, lo porrebbe poi nuovamente e lo riconoscerebbe nei suoi propri concetti fondamentali. A che serve ban­ dire lo spazio assoluto e il tempo assoluto, se poi si lascia sussistere una grandezza assoluta, come la velocità della luce, quale dato ultimo non suscettibile di ulteriore indagine e derivazione? Quando i soste­ nitori della teoria spiegarono che la circostanza che vi sia una velo­ cità privilegiata con un determinato valore finito che conserva il suo valore in ogni sistema, indipendentemente dal suo stato di moto, do­ vrebbe «essere accettato come un dato di fatto sorprendente»30, questa spiegazione parve insoddisfacente dal punto di vista filosofico, perché la semplice accettazione di dati di fatto sorprendenti, senza il tentati­ vo di una sua ulteriore fondazione e spiegazione, sembra essere poco rispondente ad un atteggiamento critico rispetto alla conoscenza. Ma non ci si deve fare ingannare dalle parole; è necessaria una più rigoro­ sa riflessione sul significato metodico che possiede l’affermazione del carattere privilegiato della velocità della luce. Abbiamo visto: questa affermazione consegue immediatamente dal generale principio metrico che viene posto a fondamento dalla teoria della relatività. E questo prin­ cipio metrico, come tutti gli autentici principi di misura universali, non è un semplice dato di fatto, riscontrabile in base all’osservazione, bensì un postulato che noi, in primo luogo a mo’ di tentativo, associamo alle “leggi di natura” e alla loro formulazione. Il teorema einsteiniano della “composizione della velocità”, dal quale deriva che la velocità della luce c non può essere raggiunta da alcuna somma di velocità inferiori a quella della luce e che essa non può essere aumentata di valore con rag­ giunta di una velocità finita, [86] è, come si è visto, una semplice de­ rivazione matematica delle equazioni della trasformazione di Lorentz; queste stesse però derivano la loro validità nuovamente dal principio 30

E. Freundlich, Die Grundlagen der Einsteinschen Gravitationstheorie, Springer, Berlin 1916, p. 20.

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della costanza della velocità della luce. È dunque soltanto questo stesso principio che ci si presenta qui in forma leggermente diversa; giacché infatti l’affermazione che l’entità di c non aumenta con l’aggiunta di una velocità finita è soltanto un’espressione diversa del fatto che ogni osservatore nel proprio sistema, indipendentemente dal moto di esso, registrerebbe sempre la medesima grandezza della velocità della luce. In questa assunzione di fondo non si tratta però di un qualche singolo fatto, stabilito in base all’osservazione che privilegiamo in certo qual modo arbitrariamente, rispetto a molti altri fatti empirici, elevandolo a norma di tutti gli altri, bensì di un presupposto sistematico generale, che poniamo a fondamento della misurazione. Che siffatti presupposti siano inevitabili in ogni sistema fìsico, non importa se strutturato in modo particolareggiato, l’abbiamo già visto e quindi qui non può suscitare certo scandalo dal punto di vista logico. Come nella meccanica galileia­ na, nello stabilire le leggi del moto, l’introduzione delle grandezze delle forze determinate veniva scelta in modo tale che il principio d’inerzia rimanesse valido, così qui viene richiesta una costituzione delle leggi di natura tale per cui la velocità della luce non venga violata. Si tratta in questo principio non tanto dell’affermazione di un fenomeno singo­ lo, per quanto ben garantito, quanto piuttosto dell’affermazione di una legalità universale, con la quale riuniamo in una sola, breve formula la totalità delle nostre conoscenze dei processi ottici ed elettromagneti­ ci. Il pensiero della costanza della velocità della luce, in altre parole, illustra certamente un fatto, ma assolutamente non un fatto percettivo isolato, bensì un autentico fatto sistematico: è il sistema delle equa­ zioni di Maxwell-Hertz che si riassume in esso. Che si siano prese le mosse innanzitutto da queste equazioni, come dal patrimonio relativa­ mente meglio garantito del nostro sapere e che poi venga pienamente realizzata l’intera costruzione del concetto di “natura” e delle sue leggi, che con ciò il patrimonio di queste equazioni venga “salvato” e venga coordinato in un complesso teoretico generale, corrisponde in tutto al procedimento metodico che la teoria fìsica persegue ovunque; [87] una filosofìa critica che non intenda ricostruire l’esperienza nei suoi rapporti particolari, ma che intenda piuttosto comprenderla soltanto in base ai suoi presupposti principali, non può qui minimamente scandalizzarsi. Ogni teoria, come abbiamo visto, dovrà introdurre ad un certo punto de­ terminati valori privilegiati che, per così dire, vengono utilizzati come saldi punti di cristallizzazione per tutte le nuove osservazioni e i nuo­

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vi fatti che si possano presentare. Il principio d’inerzia è la fissazione di un tale punto di cristallizzazione, innanzitutto semplicemente per i fenomeni meccanici; il principio dell’energia cerca di ampliare il siste­ ma della meccanica; il principio della costanza della velocità della luce cerca di costruire un’immagine complessiva e conseguente, dal punto di vista della pura elettrodinamica, dal punto di vista delle equazioni di Maxwell-Hertz. Se il pensiero fisico si vedesse costretto ad abbando­ nare anche questo punto di vista della misurazione, per sostituirlo con uno più generale, si perderebbe con ciò senz’altro anche il significato assoluto che alla velocità della luce spetta nel sistema della teoria della relatività. In linea di principio, ci si comporta con l’assolutezza della velocità non diversamente da come ci si comporta con l’assolutezza di una qualsiasi altra forma metrica, con la quale ci accostiamo al signi­ ficato teoretico dei fenomeni, non diversamente da come ci si compor­ ta con l’assolutezza del moto inerziale, della massa, dell’energia. Una qualche siffatta forma metrica che valga innanzitutto come fissa, deve certamente essere presupposta da ogni teoria empirico-fisica. E dunque anche la teoria della relatività speciale - come si può ormai facilmente capire in base a generali principi epistemologici - non può saltare ol­ tre la propria ombra, quindi deve attenersi alla costanza della velocità della luce, come al suo Sóc poi ttov otoj, al suo punto archimedeo, in base al quale si muove il suo mondo, il mondo dei fenomeni ottico­ elettrici. Ma che qualcosa in futuro, in seguito al progresso della conoscenza fisica, possa spostare questo punto, che possa esserci un altro centro, un nuovo centro concettuale, non è certo il caso che venga messo in alcun modo in discussione, neppure dalla teoria della relatività. E che essa in effetti non lo metta in discussione, l’ha [88] già mostrato in modo inte­ ressante e istruttivo il suo stesso progresso sistematico. Passaggio alla teoria della relatività generale da sviluppare secondo le pp. 27 e ss.3132 . Qui il postulato della costanza della velocità della luce si spoglia del suo significato assoluto; il principio di misura è effettiva­ mente spostato in un altro luogo. Per così dire nessun singolo procedi­ mento vale più come costante fondamentale in generale; resta piuttosto

31

Cfr. E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, ECW, voi. 10, pp. 32 e ss.; tr. it. cit., pp. 499 e ss. (Nota di Cassirer).

Ifondamenti concettuali e sperimentali della teoria della relatività

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soltanto ormai la «legge della legalità»32, la norma in base alla quale non possono non darsi degli invarianti in generale. Appunto questi chia­ miamo allora leggi di natura e appunto a questi rimandiamo come agli ideali “poli immoti”. Rapporto della meccanica classica con la teoria della relatività da questa prospettiva: il pensiero fondamentale della teoria della relatività come compimento del concetto di oggetto della meccanica classica e nel contempo come suo superamento, in quanto essa trasferisce tutta l’oggettività nelle determinate relazioni fondamentali.

32

L’espressione è tratta da P. Natorp, Platos Ideenlehre, Meiner, Leipzig 19212, p. 176.

[88] CAPITOLO 3 SPAZIO E TEMPO

1. Per avere un quadro preciso dello stato del problema relativo allo spazio e al tempo nella meccanica classica, sfogliamo alcune delle opere fondamentali di questa meccanica classica. Se cominciamo con l’opera fondamentale dello stesso Newton, vi troviamo formulati fin dall’inizio con la massima pregnanza il concetto di spazio e il concetto di tempo. Ma proprio in questa pregnanza, nella brevità matematica, nella sicurezza e naturalezza con le quali entrambi i concetti fondamen­ tali sono introdotti qui, si trovano nel contempo una difficoltà e una oscurità epistemologica. Lo spazio “assoluto” e il tempo “assoluto”, così spiega Newton, non sono mai contenuti immediati, immediate datità dell’esperienza e tuttavia sono componenti necessarie e integranti di ogni teoria della natura. «Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre uguale e immobile, lo spazio relativo è una misura o dimensione mobile dello spazio assoluto, che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione rispetto ai corpi, ed è comunemente [89] preso al posto dello spazio immobile»1. «Vero è che, in quanto queste parti dello spazio non possono essere viste e distinte fra loro mediante i nostri sensi, usiamo in loro vece le loro misure sensibili. Definiamo, infatti, tutti i luoghi dalle distanze e dalle posizioni delle cose rispetto a un qualche corpo, che assumiamo come immobile; [...] Così, invece dei luoghi e dei moti assoluti usiamo i relativi; né ciò riesce scomodo nelle cose umane: ma nella filosofia occorre astrarre dai sensi (in philosophicis autem abstrahendum est a

1

I. Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, ristampa anastatica dell’edizione Streater, London 1687, Culture et Civilisation, Bruxelles 1965, Liber I, Scholium II, p. 5; Id., Principi matematici della filosofia naturale, a cura di A. Pala, UTET, Torino 1965, pp. 102-103.

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sensihus)»1. Ciò che colpisce, ciò che in un certo senso inquieta e che ha suscitato sempre nuove questioni e nuovi dubbi nei confronti delle definizioni fondamentali di Newton si trova ne\\’ultima proposizione. Ma come, si darebbe dunque una teoria pura della natura che in linea di principio astrae dai sensi, che non soltanto trascende semplicemente l’ambito del dato sensibile, ma anche tutto ciò che possa mai essere “dato”, mediante sensazione e percezione? Qui non sorsero soltanto dei dubbi tra i fisici (questi in un primo tempo si tennero semplicemente entro i confini dell’autorità semplicemente sovrastante di Newton); qui sollevarono dubbi proprio i metafisici'. Berkeley e Leibniz, prenden­ do le mosse da presupposti completamente diversi, ma con argomenti contenutisticamente molto simili, combatterono la teoria newtoniana dello spazio e del tempo. Entrambi si attennero al presupposto di un essere assoluto, di un puro essere “intelligibile”; ma qui essi credeva­ no di vedere l’intelligibile erroneamente mescolato al sensibile, crede­ vano di vedere 1'“assoluto” trasferito immediatamente nelle forme del mondo fenomenico, nello spazio e nel tempo. Anche senza tener conto di queste obiezioni metafisiche, l’introduzione dello spazio assoluto e del tempo assoluto non contravveniva forse quelle prescrizioni metodi­ che dello stesso Newton, che egli aveva definito con grande chiarezza? Il sistema di Newton voleva essere il sistema dell’induzione', dai suoi allievi egli fu addirittura esaltato come «l’inventore dell’induzione»2 3. «La filosofia newtoniana», scrive Emerson, uno di questi allievi, «ossia l’unica vera filosofia che vi sia al mondo, è ugualmente fondata sulla meccanica. [...] Da qualcuno è stata sollevata scioccamente l’obiezione che la filosofia newtoniana, come tutte quelle prima di essa, invecchie­ rà, diventerà obsoleta e sarà sostituita da qualche sistema nuovo. [...]. Ma questa obiezione è del tutto sbagliata. Perché la filosofia, prima di Newton, non seguì mai il metodo che essa ha adottato. Perché, mentre i loro sistemi non sono altro che ipotesi, [90] opinioni, finzioni, con­ getture e fantasticherie, inventate a piacere, e senza alcun fondamento nella natura delle cose, egli, al contrario, costruì da se solo, su una base 2 3

Ivi, Scholium IV, p. 7; tr. it. cit., pp. 106-107 (corsivo di Cassirer). Cfr. E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem, Zweiter Band, ECW, voi. 3, p. 336; Id., Storia della filosofia moderna, II: Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza da Bacone a Kant, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1952, pp. 443-444 (Nota di Cassirer).

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del tutto differente. Perché egli non ammette altro se non ciò che ottiene mediante esperimenti e accurate osservazioni. E da questa fondazione, qualsiasi cosa si presenti poi, viene dedotta secondo un rigoroso ragio­ namento matematico. [...] La fondazione è ormai posta saldamente: la filosofìa di Newton può senz’altro essere perfezionata e sviluppata ul­ teriormente, ma non potrà mai essere rovesciata, a dispetto degli sforzi di tutti i Bemoulli, i Leibniz, i Green, i Berkeley, gli Hutchison, ecc.»4. Quando Emerson scrisse queste parole (si trovano nella sua opera sui principi della meccanica che è stata pubblicata a Londra nel 1773) era appunto già cominciato il lavoro del pensatore che originariamente ave­ va preso le mosse egli stesso dalla validità dei concetti newtoniani, che però sottoponeva ora ad una più rigorosa riformulazione critica, una riformulazione mediante la quale questi pretesi, saldissimi fondamen­ ti di tutta la nostra conoscenza della natura si trasformarono piuttosto in «non cose esistenti»5. Il cambiamento decisivo di Kant, che doveva portare a questo risultato, viene annunciato nella famosa lettera a Herz del febbraio 1772. Ma qui, per il momento, non seguiamo la posizione di Kant nei confronti dei concetti di spazio e di tempo in relazione alla teoria di Newton e nei confronti dei concetti della contemporanea teoria della relatività, problema al quale dedicheremo uno specifico capitolo. Qui prendiamo in considerazione per il momento soltanto la crepa che, a causa dei concetti di spazio assoluto e di tempo assoluto, minaccia di crearsi nello stesso sistema di Newton. Che lo spazio assoluto non ci possa essere mai dato direttamente in una qualche esperienza fattuale, che tutte le nostre osservazioni empiriche si limitino semplicemente a spazi e tempi relativi, viene in generale ammesso da Newton. Qui non possiamo prendere in considerazione resperimento mediante il quale egli crede di poter stabilire anche sperimentalmente almeno il moto ro­ tatorio assoluto, grazie ai fenomeni centrifughi che vi comparirebbero. Ma con tutto ciò egli non pone minimamente in dubbio l’esistenza di questo spazio assoluto e di questo tempo assoluto. Si tratta soltanto di uno stato di necessità, di una mancanza dell’esperienza stessa che si 4

5

W. Emerson, The Principles of Mechanics, Robinson London 17733, pp. V-VII. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 39, B 56, Ak, Bd. Ili, p. 63; tr. it. cit., p. 112, ove però si legge: «due non-cose (spazio e tempo) come eterne ed infinite, per sé sussistenti».

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manifestano qui; essa si deve accontentare di pure “misure relative”; ma dietro tutte queste determinazioni metriche relative vi è comunque un’assoluta determinazione dell’essere, che noi chiamiamo lo spazio e il tempo. In questo modo però il rapporto si è capovolto: non sono più l’esperienza, l’esperimento a determinare che cosa è l’essere, che cosa è la “natura”, bensì vi è un qualche essere certo, che sta prima di ogni determinazione mediante esperienza. In questo modo, però, sembra che vengano introdotti nel fondamento della fìsica matematica dei concetti [91] che non possono più in nessun modo essere resi comprensibili sulla base della metodica di questa fisica, sulla base della metodica dell’indu­ zione. Delle regole metodiche, delle regulae philosophandi che New­ ton prescrive alla ricerca, la prima richiede che siano ammesse soltanto le “vere cause”, cioè tali che possano essere confermate dai fenomeni stessi6. L’esistenza dello spazio assoluto e del tempo assoluto, però, in questo senso non è alcuna “vera causa”: nessuna esperienza ce ne può dare testimonianza, nessuna esperienza può giustificarla direttamente e certamente neppure confutarla direttamente. L’unità dell’esperienza è saltata, allorché nei suoi fondamenti dobbiamo porre ed ammettere qualcosa di cui non si può fare esperienza. «Ammettere come dato per sé uno spazio assoluto», così Kant formula questa obiezione, «cioè uno spazio tale che, poiché non è materiale, non può essere neppure un og­ getto dell’esperienza, significa ammettere qualcosa che non può esse­ re percepito né in sé, né nelle sue conseguenze (del movimento dello spazio assoluto in vista della possibilità dell’esperienza, che deve però sempre essere fatta senza di esso»7. Perché allora, nonostante tutto, l’intero pensiero matematico-fisico del XVIII secolo si ostina ad accettare questo presupposto; perché sem­ bra ad esso così difficile, addirittura quasi impossibile abbandonare l’ipotesi dello spazio assoluto e del tempo assoluto? Forse che questo pensiero non ha visto le difficoltà insite in questi due concetti? Non è

6

7

Cfr. I. Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, cit., Liber III, Hypoth. I, p. 402; tr. it. cit., p. 603: «Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e bastano a spiegare ifenomeni». I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, in Ak, Bd. IV, p. 482; Id., Primi principi metafisici della scienza della natura, a cura di S. Marcucci, Giardini, Pisa 2003, p. 38.

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assolutamente questo il caso: esso le mette invece in evidenza nel modo più rigoroso e fermo. Ma dopo aver sottolineato tutte queste difficoltà, il pensiero toma sempre comunque al suo punto iniziale, al suo punto di partenza. Per farci un’idea di questa intima lotta di due motivi contra­ stanti nella fondazione della fisica, apriamo l’opera di Eulero del 1765, la sua Theoria motus corporum solidorum seu rigidorum. L’opera si divide in due parti: una parte puramente cinematica (foronomica) ed una dinamica. La prima tratta semplicemente del moto in quanto tale, in quanto puro mutamento di luogo; l’altra si occupa delle “cause del moto”, delle forze che stanno a fondamento di esso. Ed ecco che, sor­ prendentemente, le due parti, la foronomia e la dinamica, si contraddi­ cono immediatamente, in relazione a quanto ci insegnano a proposito dello spazio e del tempo. Un fisico contemporaneo che si è occupato dello scritto di Eulero - Streintz nel suo scritto sui fondamenti fisici del­ la meccanica (1883) - definisce addirittura [92] un «enigma irrisolto, il fatto che l’autore, nella medesima opera, lasci sussistere due opinioni addirittura antitetiche sullo spazio e sul tempo, difendendole entrambe con vigore e convinzione»8. Diamo un’occhiata più da vicino a questo enigma. Eulero comincia la sua trattazione della meccanica, spiegando che intende rifiutare tutte le astrazioni pericolose e considerare il fe­ nomeno del moto così come cade immediatamente sotto i sensi. Allora non possiamo giudicare del moto di un corpo a piacere in nessun altro modo che mettendolo in relazione con altri corpi circostanti. Fin tanto che esso si mantiene nella sua posizione, possiamo dire che persiste nel­ lo stesso luogo; se però perviene in un’altra posizione, diciamo che ha cambiato luogo. Questa, continua Eulero, sarebbe una reale spiegazione della quiete, l’unica che non si perde in idee vaghe e fantasiose; essa sarebbe però necessariamente connessa all’idea di un corpo materiale determinato, al quale riferiamo il moto. Cosa sarebbe la quiete assolu­ ta, separata dal concetto di un tale corpo, non risulterebbe chiaro. Le note distinzioni tra quiete e moto, intesi come qualità essenzialmente interne dei corpi, come usano fare i metafisici, cade dunque per il fisico, che si deve attenere puramente a ciò che è dato mediante l’esperienza. Egli, senza che questo comporti la ben che minima contraddizione, può ascrivere al medesimo corpo contemporaneamente un moto con veloci­ 8

H. Streintz, Die physikalischen Grundlagen der Mechanik, Teubner, Leipzig 1883, p. 45 (in corsivo nell’originale).

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tà e direzione differenti, a seconda di come esso si relazioni a differenti corpi di riferimento. «I filosofi potranno vedere a quale tipo di predicamenti si possano ascrivere la quiete e il moto, certamente non li possono affatto chiamare qualità; nulla tuttavia impedisce di annoverarli tra le relazioni, se infatti si confronta una medesima cosa ora con questi, ora con quegli oggetti, la sua intima natura non subirà alcun mutamento»9. Questa è dunque la posizione della foronomia pura: essa non conosce altro che uno spazio puramente relativo ed un tempo puramente relati­ vo. Ma non appena passiamo alla dinamica, si cambia pagina. Le leggi della dinamica non possono essere pensate, non possono neppure essere espresse, senza che con ciò venga presupposto l’esistenza assoluta dello spazio, indipendentemente al mondo corporeo. Eulero aveva assunto questo punto di vista fin dal 1748 nel suo famoso saggio accademico Réflexions sur l’espace et le tems e lo ripete qui. La legge d’inerzia afferma che un corpo persiste nel suo stato di quiete [93] o di moto ret­ tilineo uniforme, fin tanto che nessuna forza esterna agisce su di esso. Ma quiete e moto uniforme in relazione a cosa? Per esempio alle stelle fisse? Per niente affatto, perché dobbiamo ritenere come possibile, anzi come molto verosimile il moto anche di queste. Il principio d’inerzia non è dunque valido, a stretto rigore, per alcun corpo dato empirica­ mente e considerato come centro di coordinazione, e tuttavia questo principio deve avere verità incondizionata, perché senza di esso cadreb­ be tutta quanta la scienza della dinamica, perché non sarebbe possibile formulare una qualche legge del moto. Chi in generale riconosce queste leggi, deve nel contempo riconoscere insieme ad esse anche i sistemi di riferimento, grazie ai quali soltanto esse sono valide, ed esse non sono appunto mai valide esattamente per dei corpi dati empiricamen­ te, bensì soltanto per lo “spazio assoluto”. Questo però non può certo essere percepito; può soltanto essere pensato', non per questo però è un mero concetto, una mera idea. Spazio assoluto e tempo assoluto debbo­ no essere qualcosa di reale, non possono essere mere rappresentazioni o immaginazioni, «perché sarebbe assurdo sostenere che delle pure im­ maginazioni possano servire da fondamento a dei principi reali della 9

L. Euler, Theoria motus corporum solidorum seu rigidorum, Introductio, Caput I, § 17, in Id., Opera Omnia, Series Secunda: Opera medianica et astronomica, edidit C. Blanc, Teubner-Birkhäuser, Leipzig, Berlin 1948, p. 24.

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meccanica»1011 . Anche questo risultato viene utilizzato da Eulero come arma contro le teorie filosofiche su spazio e tempo, in base alle quali essi si risolverebbero in semplici relazioni. Qui egli prende posizione in favore del “matematico” Newton, contro il “metafisico” Leibniz. Così anche il matematico o il fisico matematico, quando il loro spazio e il loro tempo vengono considerati dal metafisico, che pretende di essere in possesso dell’autentica, dell’unica “realtà” delle cose, come mere astrazioni e in quanto tali messi da parte. Essi sono certamente “astrazioni”, in quanto possono soltanto essere pensati, non percepiti, e tuttavia in essi noi comprendiamo la vera re­ altà, perché soltanto grazie ad essi siamo in grado di comprendere nel contempo le vere leggi di natura. «Il luogo», così conclude dunque Eu­ lero, «è qualcosa che non dipende dai corpi, pur non essendo un sempli­ ce concetto dell’intelletto; non voglio però tentare di determinare quale realtà esso possegga all’infuori dell’intelletto, per quanto si debba pure riconoscere ad esso una qualche specie di realtà. Quando però i filosofi dividono in determinate classi tutto ciò che è reale e dimostrano che il luogo non appartiene ad alcuna di esse, io sono indotto a credere che tali classi siano state stabilite ingiustificatamente da essi, per mancanza di un’analisi approfondita» 11. [94] È particolarmente interessante considerare qui la posizione che Eulero attribuisce ai “filosofi”. Egli non attribuisce loro un ruolo invi­ diabile; si può dire che essi fungono per lui sempre e comunque da capri espiatori e da teste di turco! Se egli si pone sul terreno dell’osservazio­ ne immediata, della pura visione “foronomica”, dalla quale consegue la relatività del moto, i filosofi vengono combattuti, perché tendono ad ipostatizzare la quiete e il moto come stati “metafisici”, interni dei corpi; se si pone sul terreno della dinamica, accogliendo i presupposti newtoninani dello spazio assoluto e del tempo assoluto, viene rimpro­ verato nuovamente ai “metafisici” di inventarsi i loro concetti di realtà, in modo arbitrario, invece di derivarli dagli unici dati sicuri, dalle “re­ ali” leggi di natura. A proposito delle realtà però, questo è il pensiero 10

11

L. Euler, Réflexions sur l’espace et le tems, in Id., Opera Omnia, Series Tertia: Operaphysica miscellanea epistolae, Réflexions sur l’espace et le tems, edidit. E. Hoppe, Teubner, Leipzig 1942, p. 377. L. Euler, Theoria motus corporum solidorum seu rigidorum, Caput III, § 128, in Id., Opera Omnia, Series Secunda, cit., p. 63.

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di fondo di Eulero, e dunque anche della realtà dello spazio assoluto e del tempo assoluto, non decidono mai i filosofi, i cosiddetti metafisici, a proposito di ciò decidono esclusivamente la scienza naturale empirica e matematica. I filosofi debbono ridurre le loro pretese; non è faccenda loro rinfacciare all’esperienza, alla scienza, presunte contraddizioni, presunti contrasti con i “puri” concetti filosofici. Sarebbe impresa vana e ridicola! Essi debbono piuttosto elaborare i loro concetti in modo tale che concordino con le esperienze, con i risultati accertati della ricerca scientifica! Sembra in effetti una norma metodica del tutto sicura e chiara e in quanto tale è stata espressamente riconosciuta ed accettata da Kant, in uno dei suoi scritti precritici, nel Versuch den Begriff der negati­ ven Grössen in die Weltweisheit einzuführen-. «L’uso che in filosofia si può fare della matematica consiste o nell’imitarne il metodo, oppure nell'applicarne effettivamente le proporzioni agli oggetti della filosofia. Non sembra che finora l’imitazione sia stata di una qualche utilità, per grandi che siano i vantaggi che inizialmente ci se n’era ripromessi. [...] In compenso, il secondo uso è stato assai vantaggioso a quelle parti della filosofia cui è stato applicato, le quali, per il fatto di essersi servite ai loro scopi delle dottrine matematiche, hanno raggiunto una altezza cui altrimenti non avrebbero mai potuto aspirare. Si tratta però soltanto delle conoscenze pertinenti alla dottrina della natura. [...] Per quanto ri­ guarda la metafisica, questa scienza, invece di utilizzare taluni concetti o dottrine della matematica, si è al contrario spesso eretta in armi contro di essa, e là dove avrebbe forse potuto trovare delle basi solide su cui fondare le proprie considerazioni, la si vede invece sforzarsi di trattare i concetti del matematico come null’altro che sottili finzioni, le quali, tolte dal suo campo, avrebbero ben poco di vero. Si può facilmente ar­ guire da quale parte sia il vantaggio nella disputa tra due scienze di cui l’una supera tutte le altre per certezza e chiarezza, mentre l’altra non fa che sforzarsi di pervenire a tale certezza, la metafisica, per esempio, cerca di trovare la natura dello spazio e del tempo e il sommo principio da cui si possa comprenderne la possibilità. Nulla può essere più gio­ vevole a questa bisogna che derivare da qualche parte dei dati certi e dimostrati onde metterli a fondamento delle proprie considerazioni. La geometria ne fornisce alcuni che riguardano le qualità più generali dello spazio, per esempio, il fatto che lo spazio non consta di parti semplici; e invece i metafisici si ostinano ad ignorare questi dati, riponendo la loro

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fiducia esclusivamente sulla equivoca coscienza di questo concetto che viene pensato in modo del tutto astratto. [...] Anche la considerazione matematica del moto, unitamente alla conoscenza dello spazio, fornisce una quantità di dati atti a mantenere sui binari della verità la considera­ zione metafìsica del tempo. Tra gli altri anche il celebre signor Euler ha indicato una via in questa direzione, ma ai metafìsici sembra assai più comodo fermarsi alle proprie astrazioni oscure e diffìcilmente control­ labili, piuttosto che far lega con una scienza che si occupa soltanto di conoscenze comprensibili ed evidenti»12. Tuttavia, se ripensiamo al saggio di Eulero proprio oggi, dal punto di vista della contemporanea teoria della relatività, non possiamo non restare stupiti, non possiamo non vedere che il rapporto tra filosofìa e scienza non è così chiaro come sembra lì. La filosofìa deve senz’altro restare in costante connessione con la scienza ed in particolare con la matematica e la scienza matematica della natura, deve continuamente riferirsi ad esse, tuttavia non può assolutamente trovare nella scienza le risposte alle sue domande fondamentali. Essa si trova qui nel medesi­ mo rapporto nel quale, secondo quanto dice Kant nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, si trovano intelletto [95] e natura: essa deve accostarsi alla scienza, «per essere istruita dalla natura, ma non in veste di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piace al maestro, bensì di giudice che nell’esercizio delle sue funzioni costrin­ ge i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge»13. Che la filosofìa non possa semplicemente trarre dalla scienza la risposta ai suoi problemi ultimi, ce lo mostra con evidenza proprio la storia del problema dello spazio e del tempo. Alla domanda sulla vera natura del­ lo spazio e del tempo la scienza contemporanea ci fornisce proprio la risposta opposta a quella che ci forniva la fìsica matematica poniamo di 100-150 anni fa! Per Eulero lo spazio assoluto e il tempo assoluto - a dispetto di qualche scrupolo che anch’egli non potè sopprimere del tut­ to - erano senz’altro una realtà fìsica incondizionatamente certa, il cui

I. Kant, Versuch den Begriff der negative Größen in die Weltweisheit ein­ zuführen, in Ak, Bd. II, pp. 167-168; Id., Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto di quantità negative, in Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, R. Assunto, R. Hohenemser e A. Pupi, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 251-252. 13 I. Kant,Kritikder reinen Venjun/i, B XIII, AÀ, Bd. Ili,p. 10; tr. it. cit.,p.43.

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semplice riconoscimento egli richiedeva dal filosofo. Einstein invece, nel suo scritto Über die Grundlagen der allgemeinen Relativitätsthe­ orie, chiarisce come, in seguito al nuovo sviluppo che la teoria fìsica ha conosciuto qui, allo spazio e al tempo venga tolto «l’ultimo avanzo di oggettività fìsica»!14 Siamo dunque in presenza nuovamente di una dialettica nella stessa scienza empirica che deve diventare la sveglia, il paracielo del pensiero critico. Noi cerchiamo di capire innanzitutto come, partendo da qui, il proble­ ma si sia poi sviluppato puramente aH’intemo del pensiero fisico e come si siano creati i presupposti metodici per la teoria della relatività. Qui debbono essere ricordati soprattutto due nomi: Carl Neumann e Ernst Mach. Carl Neumann impresse una svolta nuova e sorprendente al con­ flitto intorno allo spazio assoluto e al tempo assoluto, nella sua lezione accademica inaugurale Über die Prinzipien der Galilei-Newton’schen Theorie. La sua soluzione del problema era a dire il vero un paradosso, ma uno di quei paradossi che racchiudono in sé il nocciolo di una ve­ rità fruttuosa. Il paradosso consisteva nel fatto che quel principio che finora era considerato come il fondamento della meccanica e con ciò della scienza della natura in generale, nella formulazione che ad esso viene data di solito, non solo non possiede alcun immediato significato empirico, ma addirittura nessun senso logico comprensibile. Neumann non si scandalizza di certo per questa “incomprensibilità” dei principi meccanici; spiega infatti: «per quanto in alto si possano elevare e per quale perfezione possano raggiungere le nostre teorie fisiche nel corso dei secoli e dei millenni, queste teorie dovranno pur sempre prendere le mosse da principi, da ipotesi che (considerate in sé e per sé) vanno de­ finite [96] incomprensibili, arbitrarie. [...] In senso stretto i principi, i punti di partenza di una teoria fisica non possono mai essere definiti veri o verosimili; essi sono piuttosto sempre [...] da definire come qualcosa di arbitrario e di incomprensibile»15. Spiegare i fenomeni dal punto di vista fisico non significherebbe dunque altro che ricondurli ad un nu­ mero minimo possibile di cose che rimangono incomprensibili. Ed una di queste incomprensibilità è, secondo Neumann, la legge d’inerzia, la 14 15

A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, CP, vol.6,p.291; tr.it. cit., p. 289. C. Neumann, Über die Principien der Galilei-Newton’schen Theorie, Teubner, Leipzig 1870, pp. 12-13.

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legge che dice che un punto materiale, posto che nessuna causa esterna agisca su di esso, posto che sia stato messo in moto, procede in linea retta e che in tempi uguali percorre distanze uguali. Questo principio, oltre che della sua “incomprensibilità” materiale, cioè oltre che della sua inderivabilità dal punto di vista del contenuto, soffre anche di una particolare incomprensibilità puramente formale. Esso è, così chiarisce Neumann, del tutto incomprensibile. «Noi non sappiamo che cosa dob­ biamo intendere con moto lungo una linea retta', o meglio, sappiamo che queste parole possono essere interpretate in modi molto differen­ ti, che possono assumere significati infinitamente numerosi. Infatti un moto, ad es. che, considerato dalla nostra Terra, è rettilineo, apparirà curvilineo, se considerato dal Sole e se noi sposteremo il nostro punto di vista su Giove, su Saturno o su altri corpi celesti, esso verrà rap­ presentato ogni volta da una diversa linea curva»16. Il moto circolare che possiede ad esempio la Luna, fin tanto che lo consideriamo dalla Terra, si trasforma ad esempio, non appena spostiamo il nostro punto di vista sul Sole, in un moto di carattere completamente diverso, che procede lungo una serpentina. E manifestamente allo stesso modo un moto rettilineo, in relazione alla nostra Terra, si trasformerà in un moto curvilineo, in generale in una cicloide, non appena ci poniamo dal pun­ to di vista sul Sole. Si deve dunque almeno dichiarare a quale sistema intendiamo riferire il punto libero, se vogliamo attribuire ad esso un moto “rettilineo”, definito in base al principio d’inerzia. A questa do­ manda, così semplice e così stringente, né Galilei, né Newton, né alcun fisico posteriore ha fornito una risposta chiara; se si analizzano però i principi della meccanica classica, vi si trova implicita l’ammissione che l’insieme di tutti i corpi presenti o in generale pensabili nell’universo debbono essere riferiti ad un unico, medesimo corpo. Alla domanda dove si trovi mai questo corpo, quali ragioni vi siano per attribuire ad un unico corpo una posizione così supremamente privilegiata, non otte­ niamo assolutamente alcuna risposta. Il principio d’inerzia [97] ottiene in ogni caso un senso univoco, soltanto se si assume che in un qualche luogo sconosciuto dell’universo vi sia un corpo sconosciuto, e propria­ mente un corpo assolutamente rigido, un corpo la cui forma e le cui dimensioni sono immutabili in ogni tempo. Neumann chiama questo corpo ignoto, Corpo Alfa, e formula il contenuto del principio d’inerzia, 16

Ivi, p. 14.

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dicendo che un punto materiale libero procede in linea retta rispetto al Corpo Alfa. Solo a questo punto, secondo lui, il principio acquista il suo senso determinato ed univoco e il suo saldo contenuto. Ma non è che la medicina che viene proposta qui sia quasi peggio della malattia stessa? Si pensi un po’ di quale presupposto verrebbe gra­ vato il pensiero fìsico! Tutti i suoi enunciati sono riferiti ora a qualcosa che, in linea di principio, non può essere oggetto d’esperienza', tutte le leggi esprimono qualcosa sul rapporto dei corpi a noi noti con una cosa totalmente ignota che in qualche modo e da qualche parte esisterebbe in un luogo a noi ugualmente ignoto nello spazio cosmico. In che modo sappiamo allora qualcosa circa il rapporto con questa X, che non ci può essere data in alcuna osservazione? E come possiamo affermare con sicurezza qualcosa a proposito di essa? Se noi affermassimo che tutti i corpi liberi compiono i più sorprendenti moti spiraliformi in rapporto al Corpo Alfa, questa affermazione non sarebbe altrettanto fondata o altrettanto poco fondata di quella secondo la quale essi si muovono ri­ spetto ad esso di moto rettilineo! Come si vede, si accumulano qui nella scienza che si pretende più esatta, in quella scienza che i filosofi classici del razionalismo avevano esaltato per la sua chiarezza e distinzione, misteri e oscurità. E anche la via lungo la quale sono stati trovati stori­ camente i principi, i teoremi della meccanica, contrasta completamente con l’interpretazione di Neumann. Né Galilei né Newton né alcun altro dei fondatori della meccanica hanno pensato desistenza del Corpo Alfa, quando hanno elaborato le loro leggi del moto. Perderebbero dun­ que veramente ogni senso comprensibile queste leggi, se si negasse tale esistenza? E d’altra parte, una siffatta esistenza può essere posta e affer­ mata, traendola dal mero pensiero, dall’esigenza di una formulazione chiara e rigorosa dei nostri concetti meccanici? Non ricadiamo forse così nell’errore fondamentale della metafisica astratta, non ricadiamo nel modo di pensare ontologico che è stato superato dalla critica del­ la ragione? Giacché noi vogliamo pensare e forse dobbiamo pensare la legge d’inerzia (da Galilei è stata espressamente definita come una concezione puramente ideale, come un «mente concipio»17), allora [98] avremmo diritto di supporre che da qualche parte nello spazio esista un 17

«Concepisco nella mente» (G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matema­ tiche intorno a due nuove scienze, in Id., Opere, Edizione Nazionale, voi. Vili, p. 268).

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corpo, per il resto a noi del tutto ignoto, un corpo che sarebbe materiale, che, però, considerato più da presso, possederebbe tutte le caratteri­ stiche dell’essere assoluto, metafisico?18 Esso possiede in effetti tutti i predicati che già anche l’argomento ontologico era solito proporre: è immutabile, eterno, indistruttibile; insieme ad esso verrebbero distrut­ ti nel contempo anche tutti i principi fondamentali della meccanica, perché verrebbe tolto l’unico suo senso comprensibile. D’altra parte chi non vede che in queste caratteristiche dello sconosciuto Corpo Alfa vengono nuovamente riunite le vecchie caratteristiche dello spazio as­ soluto, che era ritenuto a sua volta immutabile, indistruttibile ed eterno? La critica del concetto di spazio si è dunque infilata in un circolo19: alla fine ci troviamo esattamente allo stesso punto in cui ci si trovava all’ini­ zio. Sembra che abbiamo superato lo spazio assoluto, ma il Corpo Alfa, al quale pure vengono attribuiti dei predicati genuinamente “assoluti”, non presenta forse le stesse difficoltà, se non addirittura difficoltà mag­ giori? In effetti il concetto di Corpo Alfa e quello di spazio assoluto urta­ no contro lo stesso principio che noi in precedenza abbiano indicato come «principe de l’observabilité»20. Il compito doveva dunque es­ sere trattato in modo differente: si sarebbe dovuto cercare di ottenere una definizione del “sistema inerziale” che soddisfacesse entrambe le esigenze, quella del principio d’inerzia e quella del «principe de l’observabilité». In altre parole: si doveva cercare un qualche sistema di riferimento presentabile empiricamente, per il quale sono valide le equazioni fondamentali della meccanica galileiano-newtoniana. Qui tratteremo brevemente soltanto due di questi tentativi, quello di Mach e quello di Streintz; oltre ad essi vi è anche il tentativo di Ludwig Lange di definire il “sistema inerziale” (e la scala inerzia­ le), che però si muove in una direzione leggermente diversa21. Mach individua il sistema in relazione al quale valgono le equazioni gali­ leiano-newtoniane nel cielo delle stelle fisse: una concezione ovvia

18 19 20 21

Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, ECW, voi. 6, pp. 195-196; tr. it. cit., p. 243 (Nota di Cassirer). Ivi, pp. 196-197; tr. it. cit., p. 244 (Nota di Cassirer). Cfr. supra, nota 14, p. 89. Cfr. L. Lange, Die geschichtliche Entwickelung des Bewegungsbegriffs und ihr voraussichtliches Endergebnis, Engelmann, Leipzig 1886.

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e seducente dal punto di vista dell’empirismo, che peraltro era già stata proposta da Berkeley nel suo scritto De motti, ma che era stata combattuta da Eulero. Il cielo delle stelle fisse ci offre il sistema di riferimento in base al quale il fenomeno del moto inerziale non può certamente mai essere dimostrato con assoluta esattezza, e tuttavia può esserlo con quella precisione di cui sono in generale capaci ap­ punto le osservazioni e i giudizi empirici. Se osserviamo un “corpo libero” troviamo che esso si muove rettilinearmente e uniformemente in relazione alle stelle fisse. Questo è un fatto empiricamente osser­ vabile, è [99] runica cosa che veramente sappiamo, in base all’espe­ rienza del comportamento del corpo. Come si comporterebbe invece se le stelle fisse non ci fossero, che cosa potrebbe mai accadere se noi immaginassimo che in un determinato momento scomparissero, è una domanda del tutto oziosa. Il mondo, dice Mach, non ci è dato due volte: una volta realmente e l’altra nel pensiero; noi dobbiamo accettarlo così come ci si offre nell’esperienza, senza indagare come ci apparirebbe sotto altre condizioni, che noi immaginiamo sul piano logico. Di particolare importanza è l’applicazione che Mach fa di questo suo principio generale al moto rotatorio. In esso Newton cre­ deva di avere l’immediato contrassegno empirico dell’esistenza di un moto, rispetto allo spazio assoluto; infatti i fenomeni centrifughi, che osserviamo nella rotazione, subentrano, come egli afferma, soltanto nel caso di una rotazione “reale” rispetto allo spazio assoluto, non nel caso di un mero moto relativo. Così, in particolare, lo schiacciamen­ to che noi osserviamo in una massa rotante, può sempre essere presa come un segno della sua rotazione assoluta. Immaginiamoci ad es., che da qualche parte nel mondo, a notevole distanza l’una dall’altra, vi siano due sfere A e B, che ruotino l’una rispetto all’altra, attorno alla comune linea mediana. Da un punto di vista puramente foronomico siamo altrettanto autorizzati a descrivere il processo come rota­ zione di A rispetto a B, oppure come rotazione di B rispetto ad A. Se però si trova poi che A, nel corso del moto, conserva durevolmente la sua forma sferica, mentre B subisce un appiattimento, prendendo la forma di un elissoide di rotazione, allora sappiamo ormai, secon­ do Newton, che a B va riconosciuta la rotazione assoluta, mentre A si trova in quiete. Mach obietta a questo argomento che anche in questo caso non ha alcun senso parlare di una rotazione rispetto allo spazio assoluto e attribuire ad essa un qualche effetto fisico. Quando

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osserviamo che una sfera, nella sua rotazione rispetto a masse molto lontane, ad es. le stelle fisse, subisce determinati cambiamenti, non ci rimane piuttosto altro da fare che ricondurre questi cambiamenti aH’influsso appunto di queste masse, che costituiscono l’unico dato osservabile del nostro esperimento. Giacché noi non abbiamo alcun mezzo per escludere questo influsso delle masse lontane e per deter­ minare dunque che cosa accade, su quest’ultimo punto non possiamo neppure avanzare alcuna ipotesi sensata dal punto di vista fisico. «Si penserà dunque», dice Mach, «che questi corpi, senza dei quali non si può affatto descrivere il movimento pensato, siano senza influsso su di esso? Non appartiene forse alle condizioni essenziali, al loro nesso causale, ciò che apertamente o di nascosto si deve nominare, se si vuole descrivere un fenomeno?»22 Quindi non è la rotazione rispetto [100] allo spazio assoluto che è qualcosa di fittizio, di imma­ ginario; è piuttosto la rotazione rispetto alle masse reali delle remote stelle fisse, che anche nel nostro caso è da considerare come “causa” dei fenomeni osservati, ad es. dello schiacciamento. Certo permane anche in questo caso la difficoltà di far concordare la spiegazione empirica data qui dei principi meccanici con la loro formulazione e la loro scoperta, con il metodo che fu seguito dai creatori della mec­ canica. La legge d’inerzia non fu affatto trovata da Galilei attraverso l’osservazione empirica di corpi reali e dei loro moti rispetto al cielo delle stelle fisse; come abbiamo già visto, esso fu invece posto da lui innanzitutto come una pura esigenza, come un postulato della misu­ razione. Che cosa succederebbe se le nostre osservazioni delle stelle fisse non si accordassero più con questo postulato? Secondo Mach dovremmo allora evidentemente correggere empiricamente il prin­ cipio d’inerzia: dovremmo stabilire che nei moti rispetto alle stelle fisse il principio non è valido esattamente come si è supposto finora, bensì soltanto per una certa approssimazione. In verità la meccanica classica procede diversamente: tiene fermo il principio d’inerzia e attribuisce a ciò che finora abbiamo ritenuto una stella fissa un deter­ minato “moto proprio”, che verrà misurato in riferimento ad un altro 22

E. Mach, Die Geschichte und die Wurzel des Satzes von der Erhaltung der Arbeit, Clave, Prag 1872, p. 49; Id., La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro, in Scienza tra Storia e Critica, a cura di L. Guzzardi, Polimetrica, Monza 2005, p. 100.

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sistema, che ora consideriamo in quiete; sempre comunque con la riserva di attribuire anche ad esso un determinato moto, se soltanto in questo modo possiamo far concordare il principio d’inerzia con le osservazioni. In altre parole: noi non chiamiamo quel moto di un cor­ po libero il suo moto inerziale, che esso compie rispetto ad individui fisici del tutto determinati, le “stelle fisse”; al contrario, utilizziamo il principio d’inerzia come criterio generalissimo per decidere quali corpi dobbiamo considerare “realmente” in quiete e quali soltanto “apparentemente” in quiete. Qui dal punto di vista storico e sistema­ tico rimane dunque ancora un problema irrisolto perché il senso che il principio d’inerzia dovrebbe avere in base ai presupposti empiri­ stici non corrisponde in alcun modo al significato col quale è stato effettivamente utilizzato in meccanica classica, fin dai suoi inizi. La norma che Vempirismo stabilisce e l’effettiva empiria sono in con­ trasto anche qui. Presentare gli ulteriori tentativi: il concetto di “Corpo fondamentale” di Streintz e la definizione di sistema inerziale di Ludwig Lange, secon­ do Substanzbegriff, pp. 235-237,240-24223. [101] Come si rapporta allora - dobbiamo finalmente chiedere ora, dopo questa approfondita preparazione, la teoria della relatività con i problemi che qui erano emersi sempre più chiaramente nel concetto di moto assoluto? Essa all’inizio aumenta ulteriormente le difficoltà; infatti sostiene che si può decidere dello stato di moto assoluto di un corpo, tanto poco seguendo la via meccanica, quanto seguendo la via ottico-elettrica24. Nell’esperimento di Fizeau per un certo tempo si potè ancora vedere una dimostrazione immediata dell’esistenza fisica dell’e­ tere e dell’esistenza di una velocità assoluta; ma un’intera serie di altri esperimenti, realizzati in condizioni di gran lunga più favorevoli, nei quali si trattava appunto di provare un influsso del moto della Terra sui fenomeni elettromagnetici o ottici sulla Terra, fallirono: così innanzitut­ to l’esperimento di Michelson, un esperimento elettrostatico di Trouton e Nobel ed altri, che Laue descrive accuratamente nel suo libro. «Per la fondazione del principio di relatività» dice Laue (Bericht 1913, p. 104), 23

24

Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, ECW, voi. 6, pp. 192-194,196-199; tr. it. cit., pp. 239-241,244-246. Cfr. M. von Laue, Das Relativitätsprinzip, in „Jahrbuch der Philosophie“ I (1913), p. 103 (Nota di Cassirer).

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«questa serie di esperimenti gioca il medesimo ruolo che ebbero gli esperimenti tendenti a costruire un perpetuum mobile per la costruzione del principio di energia. La ripetuta serie di insuccessi rafforzò alla fine la convinzione che una legge di natura si oppone a tali esperimenti»25. La difficoltà dovette in effetti essere portata all’estremo, dovette essere sollevata in modo determinato per Y intero ambito dei fenomeni natura­ li, non soltanto per i processi meccanici, prima che potesse presentarsi la soluzione. E come procede questa soluzione? Essa si muove, consi­ derata dal punto di vista metodico, lungo le linee di una prescrizione che ha dato Goethe una volta: «l’arte suprema nella vita di studio e nella vita sociale», scrive dunque Goethe una volta a Zelter, «consi­ ste nel trasformare il problema in un postulato, in questo modo se ne esce»26. Questo è in effetti il procedimento della teoria della relatività; essa ha trasformato il problema del moto relativo in un postulato. Nei suoi tentativi di trovare un unico sistema di coordinate privilegiato, in rapporto al quale debbono valere le leggi di natura (ad es., i principi del­ la meccanica galileiano-newtoniana), il pensiero fisico, come abbiamo visto, si era involto in difficoltà sempre maggiori. Di questa difficoltà la teoria della relatività fece una virtù. L’esperienza aveva insegnato sempre più chiaramente che un siffatto sistema privilegiato non poteva essere trovato; la teoria della relatività pone nella sua formulazione più generale, [102] come massima euristica, che un tale sistema non si può e non si deve dare. Ora viene elevato a principio che per la descrizio­ ne fisica dei processi naturali non deve essere indicato alcun corpo di riferimento, come privilegiato rispetto agli altri. La giustificazione di questo principio, però, ecc.27. La giustificazione di questo principio poggia però del tutto con­ sapevolmente su considerazioni generali di natura epistemologica. «Tanto nella meccanica classica quanto nella teoria della relatività ristretta», si legge in Einstein, «noi perciò facciamo differenza fra i corpi di riferimento K relativamente ai quali sono valide le “leggi della natura”, e corpi di riferimento K’ relativamente ai quali tali leg­ gi non sono valide. Nessuna mente dotata di rigore logico, tuttavia, 25 26 27

Ivi, p. 104. WA, cit., Abt. IV, Bd. 44, p. 261 (Nota di Cassirer). Cfr. E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, ECW, voi. 10, pp. 38-40 (Nota di Cassirer).

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può essere soddisfatta di una simile condizione di cose. Essa chiede: “Come è possibile che certi corpi di riferimento (o i loro stati di moto) risultino privilegiati rispetto ad altri corpi di riferimento (o ai loro stati di moto)? Qual è la ragione di tale privilegio?” [...] Io cerco invano un qualcosa di reale nella meccanica classica (come del resto nella teoria della relatività ristretta) a cui poter ricondurre il diverso comportamento dei corpi considerati rispetto ai sistemi di riferimento K e K’»2S. Con questa argomentazione, basata sul principio di ragione insufficiente, il fisico sembra senz’altro muoversi su un terreno sci­ voloso. Involontariamente viene in mente qui la deduzione di Eulero, che credeva di dimostrare il principio d’inerzia della meccanica clas­ sica, affermando che, se un corpo cambia il suo stato di moto da se stesso, senza l’intervento di forze esterne, non si può addurre alcuna ragione perché dovrebbe privilegiare determinati cambiamenti di di­ rezione e di grandezza della sua velocità, rispetto ad altri. Il circolo che viene percorso qui, cioè che lo “stato di moto” di un corpo deb­ ba essere presupposto come una grandezza determinata chiaramente, mentre esso in quanto tale viene definito soltanto grazie alla legge d’inerzia, è di per sé evidente. Nel richiamo di Einstein al “principio di ragione” agisce senz’altro un motivo epistemologico più generale e più profondo. Supponiamo che le ultime determinazioni oggettive alle quali può giungere la nostra conoscenza fisica, che le leggi di natura siano dimostrabili e valide sempre soltanto per determinati si­ stemi di riferimento privilegiati, non invece per altri; allora, giacché d’altra parte l’esperienza non ci fornisce alcun [103] criterio sicuro del fatto che ci troviamo di fronte a un siffatto sistema di riferimento privilegiato, non possiamo neppure mai pervenire ad una descrizione universalmente valida e chiara dei processi naturali. Questa sarebbe possibile soltanto se si potesse disporre di determinazioni di qualche sorta che risultassero indifferenti rispetto ad ogni cambiamento del sistema di riferimento posto a fondamento. Noi potremmo appunto chiamare leggi di natura, cioè riconoscere ad esse oggettiva univer­ salità, soltanto quelle relazioni la cui struttura è indipendente dalla particolarità della nostra misurazione empirica, dalla scelta speciale* 28

A. Einstein, Über die spezielle und die allgemeine Relativitätstheorie. Gemeinverständlich, CP, voi. 6, p. 473; tr. it. cit., pp. 437-438 (Nota di Cassirer).

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delle variabili che esprimono i parametri spaziali e temporali. In que­ sto senso si potrebbe quasi concepire come un’asserzione analitica il principio della teoria della relatività generale, secondo il quale le leggi universali di natura non mutano la loro forma in presenza di trasformazioni a piacere delle variabili spazio-temporali; come una spiegazione di ciò che si deve intendere per legge di natura “univer­ sale”; sintetica è tuttavia l’esigenza che in generale si debbano dare tali invarianti ultimi. Per dare fondamento a questa esigenza, anche il fisico non può non richiamarsi alla fin fine pur sempre ad un principio “trascendentale”, al principio della “possibilità dell’esperienza”. Egli non può dimostrare come metafisicamente assoluta l’invarianza che afferma; egli può soltanto provare che la consistenza della fisica, in quanto scienza, è e rimane dipendente dalla sua assunzione. Che ne è dunque del presupposto di questo principio generale del­ la formulazione delle leggi di natura, in base ai concetti di spazio e tempo! Cerchiamo una risposta a questa domanda in primo luogo ancora all’interno della teoria della relatività speciale, nella quale il principio appena formulato viene utilizzato con una certa restrizione. Non semplicemente tutti i sistemi sono ugualmente autorizzati qui a formulare leggi di natura (escludiamo piuttosto quelli che si trovano in moto rotatorio o in moto accelerato, rispetto all’originario sistema K) e prendiamo in considerazione soltanto i sistemi che si trovano in moto di traslazione uniforme, [104] in rapporto a K. «Dalla totalità dei fenomeni naturali», così suona ora il principio nella esatta formula­ zione di Laue, si può «determinare con sempre maggiore approssima­ zione, con sempre maggiore precisamente un sistema di riferimento x, y, z, t, nel quale le leggi di natura valgono in forme definite, semplici dal punto di vista matematico. Questo sistema di riferimento non è però affatto univocamente stabilito mediante i fenomeni. Piuttosto vi è una molteplicità tre volte infinita di sistemi con uguali diritti che si muovono reciprocamente con velocità uniformi»29. Il rapporto di tutti questi sistemi di riferimento è dunque definito dalla trasformazione di Lorentz e, nella fattispecie, vale che la totalità di tutte le trasfor­ mazioni di Lorentz forma un gruppo, vale a dire che due o più di tali trasformazioni, applicate l’una dopo l’altra, possono essere sostituite 29

M. von Laue, Das Relativitätsprinzip, in „Jahrbuch der Philosophie“, cit., p. 107 (Nota di Cassirer).

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da una soltanto. Se per esempio mediante una trasformazione di Lo­ rentz passo da K a K,, da K, a K2, da K2 a K} ed infine ad un sistema Kn, si può mostrare che anche il passaggio da K a Kn è immediatamente reso possibile da una trasformazione di Lorentz. Che cosa segue ora se supponiamo che le equazioni della trasformazione di Lorentz siano valide per i concetti di spazio e tempo? Che la lunghezza di un’asta appare differente se la misuriamo nei differenti sistemi, ci è ormai chiaro; propriamente risulta che se un’asta, misurata nel suo sistema in quiete K’, risulta lunga 1, nel sistema K, che si muove rispetto a K’ con velocità v, avrà una lunghezza soltanto di

Ancor più significative e interessanti appaiono le conclusioni rela­ tive alla misurazione del tempo. Si ottiene innanzitutto il superamen­ to del significato assoluto della simultaneità. Due eventi che in un sistema K, misurati in base ad orologi di questo sistema K, appaiono simultanei, determinati in base ad orologi del sistema K’ non procedo­ no simultaneamente. «La simultaneità di due eventi che hanno luogo in differenti posizioni dello spazio non è una proprietà che spetti as­ solutamente a questi eventi; questa simultaneità è piuttosto presente soltanto in un unico sistema tra molti altri ugualmente autorizzati» (Bloch, p. 66)30. Se supponiamo, per rendere più chiaro [105] questo aspetto31, che in un sistema autorizzato K’ si trovi in quiete un orolo­ gio (va detto che con orologi non è necessario che si intendano degli orologi nel senso consueto, quanto piuttosto ogni processo nel mondo esterno, che possa essere usato per la misurazione del tempo, purché ci sia sufficientemente noto come possiamo eliminare cause incon­ trollabili del suo cambiamento). Vogliamo confrontare i suoi dati con degli orologi dello stesso genere nel sistema K e propriamente sempre con quelli rispetto ai quali esso appunto va avanti. Alla sua indicazio­ ne corrisponda il rilevamento, relativo all’orologio che al momento si trova in quiete in K nel medesimo luogo; alla sua indicazione t2, il 30 31

W. Bloch, Einführung in die Relativitätstheorie, cit., p. 66. M. von Laue, Das Relativitätsprinzip, in „Jahrbuch der Philosophie“, cit., p. 113 e ss. (Nota di Cassirer).

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rilevamento t, ecc. Le sue coordinate in K’ sono immutabili, giacché deve essere in quiete. Si ha allora:

quindi:

C *2 =(^2 + ^X^k

e giacché x', = x'2, ma il membro

x'2 viene tolto, in relazione a

x'2, si ha

t2- ti =k(t'2- t[) =-f==

Se nel momento t1 i due orologi concordano, si avrebbe allora t\ = = 0, così per il successivo momento t2 l’orologio in quiete nel sistema con apice e dunque in moto rispetto al sistema K, registrerebbe soltanto

cioè sarebbe in ritardo. Un orologio in moto con velocità q va dunque più lento nel rapporto

dello stesso orologio, se in quiete. Giacché ora il concetto “orologio” è inteso qui in senso molto generale, possiamo dire che tutti i processi,

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I problemi filosofici della teoria della relatività

tutti i processi fisici, chimici, biologici, passano più lenti nel sistema in moto che in quello in quiete, che ad esempio un [106] uomo in un si­ stema invecchia più lentamente che nell’altro. Ancora più sorprendente e paradossale appare la seguente conseguenza. Prendiamo in conside­ razione due orologi uguali, che si trovino inizialmente in quiete nel medesimo luogo, nel sistema autorizzato K; quindi diamo al secondo di questi orologi una determinata velocità q, lo lasciamo andare per qual­ che tempo a questa velocità e lo riportiamo poi nuovamente al suo pun­ to di partenza, dove ritorna allo stato di quiete. Ora il secondo orologio, giacché durante il suo moto è andato più lentamente, è rimasto indietro rispetto al primo. L’orologio che ha viaggiato ed è ritornato non segna la stessa ora di quello che è rimasto al suo posto. Ovvero per esprimersi in modo ancora più concreto: un essere vivente ritorna da un viaggio del genere “più giovane” del suo coetaneo di prima (immaginiamo due gemelli, l’uno dei quali rimanga a casa e l’altro viaggi attorno al mondo su un raggio di luce o, che so, su un raggio canale, che abbia 1/1000 del­ la velocità della luce; quest’ultimo tornerà indietro che è un giovanot­ to, mentre il suo fratello gemello è diventato un vegliardo). Lo stesso vale per l’estensione della lunghezza, la forma, il volume, addirittura la “temperatura” e l’energia di un corpo: in diversi sistemi sono misurati diversamente.

Qui abbiamo soltanto accennato a queste conseguenze della teoria della relatività per il problema della misurazione dello spazio e del tem­ po e non ce ne occupiamo oltre qui per la parte fisica. Per tutti gli aspetti fisici si rimanda piuttosto al breve scritto di Emil Cohn, Phisikalisch.es über Raum und Zeit, Teubner, Leipzig und Berlin 1911,19204. Qui dob­ biamo dedicarci ora alla specifica questione filosofica: alla questione relativa a quali cambiamenti subisce il problema dell’oggettività, in conseguenza della relatività, quali cambiamenti comporta nel concetto generale di oggetto fisico, di oggetto naturale in generale.

[107] CAPITOLO 4 IL PROBLEMA DELL’OGGETTO NELLA TEORIA DELLA RELATIVITÀ

La conseguenza più prossima che sembra derivare dalla relativizzazione di tutte le misure spaziali e temporali sembra essere che con ciò è in generale tolto il pensiero della determinazione chiara dell’oggetto. L’unità dell’esperienza, così come l’intendeva la fisica precedente e sul­ la quale la considerazione epistemologica fondava l’unità dell’oggetto, sembra ora definitivamente superata. «Non vi è che una sola esperien­ za», così Kant riassume il risultato della sua deduzione trascendentale delle categorie, che contiene la nuova determinazione critica del con­ cetto di oggetto, «e in essa tutte le percezioni sono rappresentate in una connessione adeguata e conforme a leggi, proprio come non vi è che un solo tempo e un solo spazio in cui hanno luogo tutte le forme del fenomeno e tutte le relazioni dell’essere o del non essere. Quando si parla di molte esperienze, si allude soltanto alle molteplici percezioni, le quali però appartengono a una medesima esperienza generale. Ossia, l’unità organica e sintetica delle percezioni costituisce la forma dell’e­ sperienza e questa non è altro che l’unità sintetica dei fenomeni in base a concetti»1. Ma questa unità sintetica dei fenomeni, in base a concetti, presuppone certamente, come sottolinea Kant espressamente, l’unità di spazio e di tempo. «Non c’è che un solo tempo, entro il quale tutti i tem­ pi diversi trovano posto non come simultanei, ma come successivi»12. Se non si danno più per tutti i soggetti percipienti l’unico spazio e l’unico tempo, bensì si danno tanti diversi spazi e tempi, quanti diversi siste­ mi di riferimento, quanti diversi osservatori, la comune unità sintetica dell’“esperienza” è spacciata; così, a quanto pare, rimangono soltanto

1

2

I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 110, Ak, Bd. IV, p. 83; tr. it. cit., p. 648 (Nota di Cassirer). I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 188-189, B 232, Ak, Bd. Ili, p. 166; tr. it. cit., p. 225.

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1 problemi filosofici della teoria della relatività

le singole percezioni. Ogni sistema misura ora con le sue proprie mi­ sure e per ciascuno queste sue misure sono vere. Ci troviamo davanti [108] al principio della vecchia Sofistica, al principio di Protagora, che Platone combatte così strenuamente nel Teeteto'. «“ttói/tov xPWÓtcov p.€Tpov” avOpwtrov éivai, “twv pev övtwv ojc coti, twv 8è pf] ovtwv, aie oùk coti v”»3. La “verità” vale sol tanto in relazione al punto di vista di chi la esprime; non vi è alcuna verità “generale” stringente, bensì “per ciascuno è vera la sua percezione”. In effetti si è tratta questa conseguenza dalla teoria della relatività; si sono salutati in essa, dal punto di vista filosofico, il rinnovamento e la conferma del principio di Protagora. In questo senso essa è stata chiamata in causa soprattutto da Joseph Petzoldt per il relativismo posi­ tivistico (J. Petzlodt, Die Relativitätstheorie im erkenntnistheoretischen Zusammenhänge des relativistischen Positivismus, in „Verhandlungen der Deutschen physikalischen Gesellschaft“ XIV (1912), pp. 10551064). Il mondo, la realtà oggettuale, così insegnerebbe il contempora ­ neo principio di relatività fisico, come il vecchio principio di relatività filosofico, per ciascuno sono così come gli appaiono; le percezioni di un soggetto non hanno alcun valore “oggettivo” superiore rispetto a quelle di un altro. Se un abitante della Terra con le sue misurazioni chiama simultanei due eventi che l’abitante di Marte giudica non simultanei, rispetto alle sue e non possono esserlo, è ozioso chiedersi quale dei due utilizzi le misure giuste e con queste ottenga la giusta determinazione temporale. Appunto perché - in particolare se si pensa ai risultati della teoria della relatività generale! - non vi è più alcun sistema privilegiato, rispetto ad un altro. Che misure spaziali e temporali, che “natura”, che “realtà oggettiva” troviamo, dipende semplicemente dal punto di vista che scegliamo; il cambiamento del punto di vista comporta il cambia­ mento della verità. Ogni singolo osservatore, così si esprime Protago­ ra, si deve rassegnare «a essere misura delle cose»4; ogni misura però fornisce un’altra verità. La medesima asta appare ad un osservatore più lunga all’altro più corta; il medesimo corpo ha per l’uno la forma di una sfera, per l’altro quella di un elissoide di rotazione ed entrambi hanno 3

4

«“Di tutte le cose è misura l’uomo; di quelle che esistono che esistono, di quelle che non esistono che non esistono”» (Platone, Teeteto, 152 a, in Id., Opere, cit., voi. II, p. 101). Platone, Teeteto, 167 d, in Id., Opere, cit., voi. II, p. 123.

Il problema dell’oggetto nella teoria della relatività

127

esattamente lo stesso diritto di esprimere i loro giudizi. La domanda però relativa a quale lunghezza assoluta abbia allora l’asta, quale forma assoluta caratterizzi il corpo, questa domanda [109] con i risultati con­ seguiti dalla teoria della relatività ha perso per noi ogni senso. Vogliamo ora prendere in esame non tanto la teoria della relativi­ tà stessa, quanto piuttosto questa interpretazione filosofica della teoria della relatività; a questo scopo dobbiamo però ancora tornare indietro, sia storicamente sia sistematicamente; da entrambi i punti di vista dob­ biamo cercare di ritornare fino al nocciolo del concetto di oggetto e del concetto di verità.

[109] CAPITOLO 5 LA DOTTRINA KANTIANA DELLO SPAZIO E DEL TEMPO E LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ

Qui non verrà trattata la dottrina kantiana dello spazio e del tempo in tutta la sua estensione e nella totalità della sua fondazione sistematica (per questo vedere il corso su Kant!) qui prendiamo in considerazione soltanto i suoi risultati e ci chiediamo fino a che punto i risultati della teoria della relatività concordino con quelli, oppure se ne discostino. La concezione dello spazio e del tempo di Kant si riassume nel prin­ cipio secondo il quale entrambi sono “forme dell’intuizione pura” e in quanto tali hanno significato e validità a priori. Dobbiamo analizzare con cura singolarmente ogni concetto presente in questa definizione: il concetto di forma, di purezza, di intuizione, di a priori. Bisogna innanzitutto ricordare che la dottrina kantiana dello spazio e del tempo, in linea di massima, non è sorta da considerazioni psicolo­ giche. Le osservazioni psicologiche sul senso dello spazio in ciechi nati operati, sulle quali ci si era già interrogati nel XVIII secolo, sembrano aver suscitato poco interesse in Kant. Essa è sorta piuttosto sul terreno della teoria matematico-fisica. Il richiamo di Kant alle Réflexions sur l'espace et le tems di Eulero, nello scritto sulle forze negative l’ab­ biamo già ricordato; egli vi ritorna anche più tardi, nello scritto del 1768 sulla distinzione [HO] delle regioni nello spazio. È sorprenden­ te, a questo proposito, che anche Kant, nel corso della sua evoluzione, abbia sperimentato in sé entrambi i punti di vista contrastanti che sono possibili nella spiegazione fisica dei fenomeni del moto e che li abbia formulati con il massimo rigore. Nel suo Neuer Lehrbegriff der Bewe­ gung und der Ruhe del 1758, un Kant trentaquattrenne sostiene con grande decisione il postulato generale della relatività di ogni moto e movendo da qui attacca la formulazione tradizionale nella meccanica classica del principio d’inerzia e in particolare il concetto di forza d’i­ nerzia. «Se in una quistione filosofica il giudizio concorde dei filosofi fosse tal vallo, che valicarlo dovesse ritenersi delitto da punire come

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I problemi filosofici della teoria della relatività

quello che commise Remo, mi farei certo passar la voglia di accordare a delle mie idee, in contrasto col decisivo parere della rispettabile molti­ tudine, una libertà che non è giustificata da altro che dal senso comune. Ne caso che mi venisse in mente di combattere una legge che per diritto consuetudinario ha già da secoli affermato un possesso incontestato nei trattati dei filosofi, mi rassegnerei tosto pensando che avrei dovuto o nascer prima, o starmene indietro». Tuttavia osa indagare e rigettare i concetti di moto e di quiete e quello connesso a quest’ultimo di forza d’inerzia; «sebbene sappia che quei signori che sono abituati a gettar via come pula tutti i pensieri che non sono stati ammucchiati al mulino del sistema wolffiano o di altro sistema celebre, dichiareranno, già al primo sguardo, superflua la macina dell’esame, e falsa la discussione»1. E l’inizio dello scritto sviluppa tutti i fenomeni che provano la relati­ vità del moto, nel senso della meccanica classica. (La sfera sulla nave, ecc., p. 16 e s.). «A questo punto mi vengono le vertigini, e non so più se la mia palla stia in quiete o in movimento, e verso dove e con quale velocità. Comincio ora a intendere che mi manca qualcosa nella espres­ sione di moto e di quiete. Non devo servirmene mai in senso assoluto, ma soltanto relativo. Non devo mai dire che un corpo è in quiete, senza aggiungere riguardo a quali cose, e neppure affermar mai che esso si muova, senza dire, nello stesso tempo, gli oggetti, riguardo ai quali esso muta relazione. E per quanto io volessi immaginarmi anche uno spazio matematico, vuoto d’ogni cosa creata, [111] come ricettacolo dei corpi, pur non ne sarei aiutato in nulla. Giacché come me distinguerei le parti e i luoghi diversi, non occupati da nulla di corporeo?»1 2. Un fisico contemporaneo (Steintz) ha detto di queste parole di Kant che meriterebbero di essere scritte a caratteri d’oro sulla porta d’entrata di ogni auditorio di fisica. Ma Kant che si rifiutava di accettare il con­ cetto di “forza d’inerzia”, in base all’autorità dei filosofi precedenti ed in particolare in base all’autorità del sistema wolffiano, sulla questione dello spazio assoluto e del tempo assoluto sembra non essere riuscito a sfuggire a lungo all’autorità dei fisici più significativi, in particolare all’autorità di Eulero. Nello scritto del 1768 lo troviamo del tutto in 1

2

I. Kant, Neuer Lehrbegriffder Bewegung und Ruhe, in Ak, Bd. II, p. 15 ; Id., Nuova dottrina del moto e della quiete e delle loro conseguenze rispetto ai primi principi della scienza naturale, in Scritti precritici, cit., p. 79. Ivi, p. 17; tr. it. cit., pp. 80-81.

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linea col punto di vista di Eulero: egli crede qui di aver trovato, in deter­ minati dati della geometria, una dimostrazione del fatto che «lo spazio assoluto è indipendente dalla esistenza di ogni materia ed ha anche una realtà propria come primo principio di possibilità della compo­ sizione della materia». «La prova che io qui cerco, deve fornire non ai meccanici, come aveva in animo Eulero, ma anche ai geometri, una persuasiva ragione per poter affermare, con l’evidenza loro abituale, la realtà del loro spazio assoluto»3. Ma a quanto pare questa dimostrazio­ ne ha costituito un breve episodio nell’evoluzione del pensiero di Kant; infatti già un anno più tardi, nel 1770, nella famosa e fondamentale Dissertazione inaugurale De mundi sensibilisi atque intelligibilis for­ ma et principiis, in relazione alla dottrina dello spazio e del tempo, lo troviamo ancora una volta su un terreno del tutto nuovo. Qui spazio e tempo da cose sono diventati “leges animi”. «Tempus non est obiectivum aliquid et reale [...] sed subiectiva condicio per naturam mentis humanae necessaria, quaelibet sensibilia certa lege sibi coordinandi, et intuitus purus»4. Lo stesso vale per lo spazio: «spatium non est aliquid obiettivi et realis, nec substantia, nec accidens, nec relatio, sed subiectivum et ideale et e natura mentis stabili lege proficiscens veluti sche­ ma omnia omnino exteme sensa sibi coordinandi»5. E il pensiero dello spazio assoluto come un contenitore (receptandum) non misurabile per tutte le cose, questo pensiero, che sarebbe accettato dalla maggior parte dei fisici e segnatamente dagli inglesi, viene rigettato qui come un “con­ cetto vuoto” (inane rationis commentum). Anche la Critica della ragion 3

4

5

I. Kant, Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Rau­ me, in Ak, Bd. II, p. 378; Id., Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio, in Scritti precritici, cit., p. 412. «Il tempo non è nulla di oggettivo e non è una cosa [...] è bensì condi­ zione soggettiva - che la natura della mente umana rende necessaria - in forza della quale il soggetto deve coordinarsi i sensibili - quali che siano - secondo una legge ben definita; è inoltre intuizione pura» (I. Kant, De mundis sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, in Ak, Bd. II, p. 400; Id.,La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile, in Scritti precritici, cit., pp. 437-438). «Lo spazio non è qualcosa di oggettivo e avente un contenuto come le cose: non è sostanza, né accidente, né relazione; è qualcosa bensì di sog­ gettivo e di ideale, procedente dalla natura della mente secondo una legge fissa, una specie di schema destinato a coordinare soggettivamente tutto ciò che comunque è sentito» (Ivi, p. 403; tr. it. cit., p. 441).

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I problemi filosofici della teoria della relatività

pura ripete con energia questo rifiuto: se si decidesse, con la stragrande maggioranza [112] dei fisici matematici, di affermare la realtà assoluta dello spazio e del tempo, si dovrebbero ammettere due non cose eterne e immutabili, sussistenti per sé, che esistono solo per comprendere in sé tutto il reale effettivo, senza che siano qualcosa di effettivamente reale. Cerchiamo di capire innanzitutto che “realtà” resti allo spazio e al tempo, dopo la moderna concezione critica fondamentale e quale vada negata ad essi. La dottrina di Kant afferma la «realtà empirica» [dello spazio e] del tempo, e di contro la loro idealità trascendentale. L’espres­ sione “realtà empirica”, ad un primo sguardo, potrebbe essere fraintesa in quanto potrebbe far pensare che essi siano qualcosa di empiricamen­ te reale, che siano dei contenuti oggettivi autonomi dell’esperienza. Ma non è affatto così: essi sono reali, non in quanto contenuti, bensì in quanto forme. La loro realtà empirica, dunque, come Kant aggiun­ ge espressamente, non afferma altro se non la loro «validità oggettiva rispetto a tutti gli oggetti che possano comunque esser dati ai nostri sensi»6. La realtà che può essere attribuita allo spazio e al tempo, in altre parole, non è quella di cose, bensì di condizioni. Essi sono reali, non tanto in quanto esistono in natura rerum, come oggetti essenti per sé, bensì in quanto costituiscono i presupposti a priori per tutta la nostra conoscenza empirica, per tutti i nostri giudizi sugli oggetti dell’esperienza. «Tempo e spazio sono pertanto due sorgenti conosci­ tive, da cui è possibile attingere a priori svariate conoscenze sintetiche. [...] Posti insieme, essi sono forme pure di tutte le intuizioni sensibili e in questa veste rendono possibili proposizioni sintetiche a priori. Ma queste sorgenti conoscitive a priori [...] si determinano per ciò stesso i loro limiti, consistenti nel riferirsi agli oggetti solo in quanto sia­ no considerati come fenomeni, e non pretendano esibire cose in sé»7. Con ciò Kant ha superato criticamente l’antinomia che si era genera­ ta sempre più nettamente nella scienza della natura della sua epoca. Spazio e tempo sono assolutamente oggettivi, senza per questo essere assoluti in qualche senso; essi sono oggettivi in quanto conoscenze, non in quanto cose. In essi si esprime non nn’ esistenza assoluta, bensì 6

7

1. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 35, B 52, Ak, Bd. Ili, p. 61; tr. it. cit., p. 110. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 38-39, B 55-56, Bd. Ili, p. 63; tr. it. cit., p. 112.

La dottrina kantiana dello spazio e del tempo

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un procedimento universale e necessario, uno “schema” dello spirito, in forza del quale esso ordina i fenomeni secondo la successione e la contiguità e, soltanto in forza di quest’ordine, li rende leggibili e con­ cepibili come esperienze. Da tutto ciò si capisce che al pensiero di spazio e tempo, in quanto “forme dell’intuizione”, non abbiamo bisogno di cambiare nulla, nella prospettiva della teoria [113] della relatività, a condizione che non frain­ tendiamo questo pensiero, interpretando spazio e tempo stessi come datità intuitive, come oggetti dell’intuizione, oggetti intuiti o intuibili, bensì li interpretiamo come condizioni, principi di ogni possibile intu­ izione, condizioni della “coordinazione” intuitiva dei fenomeni: «condiciones quaelibet sensibilia certa lege sibi coordinandi»8. In questo senso la dottrina kantiana dello spazio e del tempo viene brillantemente confermata dalla teoria della relatività; questa infatti ci mostra appun­ to che anche per il fisico spazio e tempo non sono mai dati come una qualche cosa, bensì che egli se ne serve soltanto come schemi di coor­ dinazione. Ciò risulta particolarmente chiaro nello sviluppo della teoria della relatività generale. «Nella meccanica classica, come nella teoria della relatività ristretta», come sottolinea Einstein (Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, 1920, p. 84), «le coordinate spaziali e temporali hanno un significato fisico immediato. Dicendo che un punto (rappresentante un evento) ha la coordinata sull’asse si intende dire che la proiezione del punto dello spazio-tempo sull’asse, determinata da segmenti rigidi e in accordo con le regole della geometria euclidea, è ottenuta riportando un segmento assegnato (il campione di lunghezza unitario) volte a partire dall’origine delle coordinate nella direzione po­ sitiva dell’asse. Dicendo che un punto dello spazio-tempo ha la coor­ dinata = t sull’asse, si intende dire che un orologio campione, costruito per misurare il tempo con assegnato un periodo unitario, che è in quiete rispetto al sistema di coordinate e coincide (praticamente) nello spazio col punto rappresentante l’evento, ha segnato = t periodi all’istante in cui il punto-evento si è verificato». Nella teoria della relatività genera­ 8

«Condizione [...] in forza della quale [...] deve coordinarsi i sensibili quali che siano - secondo una legge ben definita» (I. Kant, De mundis sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, in Ak, Bd. II, p. 400; Id., La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile, in Scritti precritici, cit., pp. 437-438).

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/ problemi filosofici della teoria della relatività

le, però, questa concezione deve essere abbandonata; qui le grandezze spaziali e temporali non possono più essere definite in modo tale che «le differenze tra le coordinate spaziali possano venir direttamente misurate mediante il regolo campione scelto come unità di misura, e le differenze tra le coordinate temporali possano venir direttamente misurate da un orologio campione». Ma la chiara coordinazione dei punti-evento resta possibile anche qui ed è sufficiente, com’è evidente, ad esprimere le leggi di natura, cioè a fondare l’esperienza come scienza. «Tutte le no­ stre verifiche spazio-temporali», come viene sottolineato, «si riducono invariabilmente a una determinazione di coincidenze spazio-temporali. [...] Inoltre i risultati delle nostre misurazioni non sono nient’altro che verifiche di certi incontri di punti materiali di nostri strumenti di misura con altri punti materiali, o coincidenze tra le lancette di un orologio e punti sul quadrante dell’orologio, o punti-evento osservati che cadono nello stesso posto e nel medesimo istante»9. Che però nel concetto di coincidenza [114] laforma dello spazio e ìa forma del tempo, in quanto tali (ancorché non spazi e tempi come oggetti intuiti), siano conservate è ormai chiaro. In questa prospettiva dunque la teoria della relatività generale, anche nella sua forma più radicale, a seguito della quale allo spazio e al tempo viene tolto «l’ultimo avanzo di oggettività fisica»!10, si muove in tutto e per tutto all’interno di queste forme. In quanto “fonti della conoscenza”, condizioni dei giudizi fisici, spazio e tempo restano dunque intatti anche nella teoria della relatività generale; benché siano eliminati come cose fisiche. Ma ora ci si presenta una seconda, assai più inquietante obiezione. In Kant ci sono due fondamentali schemi, due “leges animi” differenti e irriducibili l’uno all’altro, sui quali riposa la coordinazione dei fe­ nomeni e la loro connessione nell’unico sistema dell’esperienza; nella teoria della relatività speciale e generale però questa differenza episte­ mologica fondamentale sembra superata; le due leggi sembrano fuse in un’unica legge e appunto questo sembra essere il suo risultato decisivo; appunto qui sembra riposare la straordinaria semplificazione dell’immagine del mondo che la teoria della relatività porta con sé. «All’im­ provviso»^! legge già in Minkowski, «lo spazio per sé e il tempo per sé 9

10

A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, CP, voi. 6, pp. 288-289,290,291 ; tr. it. cit., pp. 286-287,289,289-290. Ivi, p. 291; tr. it. cit., p. 289.

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si ridurrebbero del tutto a ombre e soltanto una sorta di unione dei due conserverebbe ancora autonomia»11. Quindi ciò che per Kant significa­ va una forma fondamentale della conoscenza, una lex menti insita, ri­ schia, con la teoria della relatività, di trasformarsi in ombra, in nulla! Se con Minkowski ci immaginiamo che quattro valori: x, y, z, t definiscano un punto del mondo, e inoltre intendiamo ipotizzare di seguito che x, y, z, le “coordinate spaziali”, e t, la coordinata temporale, conservino an­ cora un qualche significato autonomo, allora possiamo chiamare mon­ do la molteplicità di tutti i sistemi di valore x, y, z, t. Se prendiamo in considerazione un solo punto sostanziale nel punto del mondo x, y, z, t, ci immaginiamo di essere in grado di riconoscere questo punto sostan­ ziale, in ogni altro tempo. Ad un elemento temporale dt corrispondano le variazioni dx, dy, dz alle coordinate spaziali del punto sostanziale. Otteniamo quindi come immagine, per così dire, della corsa del punto sostanziale, una curva nel mondo, una linea del mondo; l’intero mondo sembra risolto in tali linee del mondo e tutte le leggi fisiche non espri­ mono altro che relazioni reciproche tra queste linee del mondo. Fino ad ora, come s’è detto, i valori spaziali x, y, z e il valore temporale t erano considerati ancora come diversi. Ma una considerazione matematica ci conduce oltre. Nella derivazione della trasformazione di Lorentz, ri­ cordiamo, [115] avevamo preso le mosse dal postulato della uniformità della propagazione della luce in ogni sistema K, autorizzato a piacere, con le coordinate x, y, z, t; questo postulato si esprime nella formula: x2 + y2 + z2 = c2t2 = 0 Se ora, invece della variabile temporale t, si introduce il valore im­ maginario f- 1 et, si ottiene: x, = x,x2 = y,x3 = z,

Xj = V- 1 et

così la condizione per la costanza della propagazione della luce passa in due sistemi K e K’ che prima si esprimeva mediante l’equazione

11

H. Minkowski, Raum und Zeit, in H. A. Lorentz, A. Einstein, H. Minkow­ ski, Das Relativitätsprinzip, cit., p. 56.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

x2 + y2 + z2 - c2t2 = o (x'2 + y'2 + z'2 - c2t'2) passa nella formula più semplice che deve essere

x'21 + x' 2 + x2 + x3 2 X4 2 2 2 + x' 3 2 x' 4 2 ~x12 In questa formula, come si vede, la coordinata temporale immagina­ ria x4 subentra esattamente come le coordinate spaziali xt,x2, x3 e ciò vuol dire in generale che nella formulazione di tutte le leggi di natura, secondo la teoria della relatività, il tempo x4 subentra nella stessa forma delle coordinate spaziali. Se chiamiamo mondo il continuo quadridi­ mensionale xì, x2,x3, x4, in questa rappresentazione delle leggi di natura, la fìsica «da un “accadere” nello spazio tridimensionale [...] diventa, per così dire, un “essere” nell’“universo a quattro dimensioni»12 (Ein­ stein, Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie, pp. 82 e s.). Diventando ormai il senso del postulato di relatività, così come lo formula Minkowski, quello in base al quale mediante il fenomeno è dato soltanto il mondo quadridimensionale nello spazio e nel tempo, ma la proiezione nello spazio e nel tempo può essere ancora intrapresa con una certa libertà, (il termine “postulato di relatività” gli sembra molto debole per questa esigenza); egli chiarisce di voler dare a questa affermazione piuttosto il nome di mondo assoluto (o in breve postulato del mondo). In questa equiparazione di spazio e tempo per la rappresentazione dell’evento del mondo, però, bisogna innanzitutto distinguere rigoro­ samente tra la questione relativa al significato epistemologico di que­ ste forme e la questione relativa alla rappresentazione matematica. Il problema di Minkowski tocca soltanto questa seconda questione. Egli mostra come nelle equazioni matematiche, mediante le quali cerchia­ mo di abbracciare l’accadere, mediante le quali cerchiamo di descri­ vere le “linee del mondo” dei singoli punti e le loro relazioni, le loro “coincidenze”, i valori spaziali e temporali non entrano come datità indipendenti, bensì soltanto nella connessione e determinazione reci­ proche. «Oggetto della nostra percezione sono sempre soltanto luoghi*6 12

A. Einstein, Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie. Ge­ meinverständlich, Anhang: Minkowskis vierdimensionale Welt, CP, voi. 6, p. 507; tr. it. cit., p. 473.

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e tempi connessi. Nessuno ha mai osservato un luogo, se non in un tempo, un tempo [116] se non in un luogo»13. Questo è assolutamente corretto, almeno dal punto di vista della trattazione fisica, per il tempo, in quanto forma del “senso interno”, in quanto forma dell’immedia­ ta vita vissuta. Si potrebbero certamente avanzare alcune riserve, che però non toccano il postulato del matematico e dello scienziato. Ma dal fatto che spazio e tempo, o meglio luoghi e tempi, non si presentano mai separati alla nostra percezione, non consegue affatto che dal punto di vista analisi epistemologico-critica non vi sia alcuna differenza tra di essi. \2“abstractio rationis” tra di essi rimane in vigore; la fon­ damentale differenza tra la forma della contiguità e della successione non viene per questo tolta, così che esse per noi si presentino sempre soltanto unite al materiale empirico. Questa unione, ad esempio, viene incondizionatamente ammessa da Kant: «dare un oggetto - se questo non è inteso semplicemente in modo mediato ma è rappresentato im­ mediatamente nell’intuizione - non consiste in altro che nel riferire la sua rappresentazione all’esperienza. [...] Gli stessi spazio e tempo, pur essendo concetti esenti da ogni elemento empirico e pur essendo fuori dubbio il loro esser rappresentati nell’animo del tutto a priori, perde­ rebbero ogni validità oggettiva, ogni senso ed ogni significato se non se ne fosse dimostrato l’uso necessario negli oggetti dell’esperienza; anzi, la rappresentazione dello spazio e del tempo è un semplice schema, sempre riferito all’immaginazione riproduttiva, la quale vi riconduce gli oggetti dell’esperienza, senza di che spazio e tempo perderebbero ogni significato»14. D’altra parte, anche Minkowski ammette la differenza formale gene­ rale tra spazio e tempo e la presuppone proprio quando sottolinea che, nel particolare, l’ordinamento dei fenomeni nello spazio e nel tempo, «può ancora essere intrapresa con una certa libertà»15. Esperienza e pensiero nella teoria della relatività.

13

14 15

H. Minkowski, Raum und Zeit, in H. A. Lorentz, A. Einstein, H. Minkow­ ski, Dai Relativitätsprinzip, cit., p. 57. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 155-156, B 195, Ak, III, p. 144; tr. it. cit., p. 201. H. Minkowski, Raum und Zeit, in H. A. Lorentz, A. Einstein, H. Minkow­ ski, Das Relativitätsprinzip, cit., p. 62.

[46] APPENDICE

Avvertenza. La parte sperimentale e matematica della teoria della relati­ vità non può essere svolta qui. Siamo consapevoli di dover in questo modo rinunciare ad una parte - e forse la parte migliore ed anche metodologica­ mente più interessante - del suo contenuto, perché il suo autentico senso, la sua finezza e profondità, infine anche la sua attrattiva estetica si dischiudono sol­ tanto nello svolgimento [47] matematico. Mi vedo costretto qui a rinunciarvi. Rinviamo dunque, oltre che alle trattazioni originali di Einstein, che vengono segnalate qui di seguito, in particolare a due lavori: H. Weyl, Raum. Zeit. Materie. Vorlesungen über die allgemeine Relativi­ tätstheorie, Springer, Berlin 1918,19203. M. von Laue, Das Relativitätsprinzip, View eg, Braunschweig 1911,19214. a) Opere originali

A. Einstein, Zur Elektrodynamik bewegter Körper, in „Annalen der Physik“ XVII (1905), pp. 891-921. A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, in „Annalen der Physik“ XLIX (1916), pp. 769-822. A. Einstein, Kosmologische Betrachtungen zur allgemeinen Relativitätstheo­ rie, in „Sitzungsberichte der Preußischen Akademie der Wissenschaften zu Berlin” (1917), pp. 142-152. H. Minkowski, Raum und Zeit, in „Physikalische Zeitschrift“ X (1909) 3, pp. 26-50. H. A. Lorentz, Versuch einer Theorie der elektrischen und optischen Erschei­ nungen in bewegten Körpern, Teubner, Leipzig 1906. M. Planck, Zur Dynamik bewegter Systeme, in „Annalen der Physik“ XXVI (1908), pp. 1-34. M. Planck, Bemerkungen zum Prinzip der Aktion und Reaktion in der allge­ meinen Dynamik, in „Physikalische Zeitschrift“ IX (1908) 3, pp. 828-830. M. Planck, Acht Vorlesungen über theoretische Physik, Hirzel, Leipzig 1910.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

Una raccolta dei principali lavori originari sulla teoria della relatività:

H. A. Lorentz, A. Einstein, H. Minkowski, Das Relativitätsprinzip, Teubner, Leipzig und Berlin, mit Anmerkungen von A. Sommerfeld und Vorwort von O. Blumenthal, [48], 1913,19203.

b) Manuali H. Weyl, Raum. Zeit. Materie. Vorlesungen über die allgemeine Relativi­ tätstheorie, Springer, Berlin 1918,19203; M. von Laue, Das Relativitätsprinzip, in „Jahrbuch der Philosophie“ I (1913), pp. 99-128. M. Born, Die Relativitätstheorie Einsteins und ihre physikalischen Grun­ dlagen. Gemeinverständlich dargestellt, Springer, Berlin 1920. c) Esposizioni divulgative e chiarimenti

Innanzitutto: A. Einstein, Über die spezielle und die allgemeine Relativitätstheorie. Ge­ meinverständlich, Vieweg, Braunschweig 1917,19208.

quindi: E. Cohn, Physikalisches über Raum und Zeit, Teubner, Leipzig und Berlin 1911,19204.

Una buona introduzione anche: W. Bloch, Einführung in die Relativitätstheorie, Teubner, Leipzig und Berlin 1918.

Del tutto divulgativo e senza svolgimenti matematici, ma da usare con cautela: A. Pflüger, Das Einsteinsche Relativitätsprinzip, gemeinverständlich darge­ stellt, Cohen, Bonn 19203.

d) Problemi particolari E. Freundlich, Die Grundlagen der Einsteinschen Gravitationstheorie, Sprin­ ger, Berlin 1916,19203.

Appendice

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M. Schlick, Raum und Zeit in der gegenwärtigen Physik, Springer, Berlin 1917,19203. e) Il punto di vista filosofico

M. Frischeisen-Köhler, Das Zeitproblem, in „Jahrbuch für Philosophie“ (1913), pp. 129-166. R. Hönigswald, Zum Streit über die Grundlagen der Mathematik. Eine er­ kenntnistheoretische Studie, Winter, Heidelberg 1912. P. Natorp, Die logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften, Teubner, Leipzig und Berlin 1910. J. Petzoldt, Die Relativitätstheorie im erkenntnistheoretischen Zusammen­ hänge des relativistischen Positivismus, in „Verhandlungen der Deuts­ chen physikalischen Gesellschaft“ XIV (1912), pp. 1055-1064. E. Sellien, Die erkenntnistheoretische Bedeutung der Relativitätstheorie, „Kant-Studien“, Ergänzungsheft n° 48, Reuther & Reichard, Berlin 1919. H. Reichenbach, Relativitätstheorie und Erkenntnis apriori, Springer, Berlin 1920. E. Cassirer, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie. Erkenntnistheoretische Be­ trachtungen, B. Cassirer, Berlin 1921.

INDICE DEI NOMI

Abbagnano, M., 57n. Abbagnano, N., 57n. Adam,C.,43n. Agostini, I.,45n. Agostino d’Ippona, 51 e n. Aliotta, A., 20n. Anassimandro, 39 Antistene,71 Aristotele, 37,42,49,67 n. Amaud, E., 20 n., 26 n. Assunto, R.,46 n., Ili n.

Bacone, F., 42,43,44,45 Barbera, S., 63 n. Barone, F., 46n. Barut,A. O.,46 n. Bawley, W.,43 Beigioioso, G., 45 n. Bellarmino, R., 50 Bellone, E., 30,65 n. Bergson, H., 66 e n. Berkeley, G., 58 e n„ 59,104,105,116 Bemoulli, J., 105 Bignami, M., 33 n. Blanc, C., 109 n. Bloch, W„ 82,83 n„ 86 e n.,91 n„ 96 n., 97 e n., 122 e n., 140 Boscovich, R. G., 60

Bottin, F., 49 n. Brahn,M.,62n. Broglie, L., de, 69 n. Bruno, G., 47,48 e n., 50

Calisse, G. L., 19 n. Campanella, T., 84 n. Cappelletti, V., 73 n. Carabellese, P.,46 n., Ili n. Careil, F., de, 89 n. Chiarini,?., 33 n. Chiodi, P., 27 n. Clarke, S., 88 Cohn, E., 81,124,140 Copernico, N., 48 e n., 49,50 Cousin, V., 43 n. Dedekind, R., 18 n. D’Elia, A., 63 n. Democrito, 41,59,60,72 Descartes, R., 43 e n., 45 e n., 58, 60 De Toni, G. A., 20 n., 24 n. Diels, H., 30 Di Napoli, G., 84 n. Diogene Laerzio, 41 Duhem, P., 49 e n., 50 e n., 68 e n., 69,70

Per ragioni ovvie, nel presente indice dei nomi non compaiono i nomi di Ernst Cassirer e di Albert Einstein.

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I problemi filosofici della teoria della relatività

Ecateo, 40 Eddington,A. S., 17 Emerson, W., 104,105 e n. Engel, E, 67 n. Eraclito, 38, 39,40,41,42 Eulero, L., 107, 108 e n., 109 e n., 110,111,116,120,129,130,131 Faraday, M., 10,13,73 Fechner, G. T., 52 n., 60 Fertonani, R., 34 n. Firpo, L., 84 n. Fitzgerald, G. F., 11 Fizeau, A.-H.-L., 10,81,82,83,85, 93,118 Fresnel, A.-J., 60,83 Freundlich, E., 98 n., 140 Frisch, C., 35 n.

Galilei, G., 50,54 e n.,56,67 e n.,75, 77,113,114en„ 117 Galzenati, E., 20 n. Gamba, A., 65 n. Gannì, E., 34 n. Gargani, A., 63 n. Garroni, E., 41 n. Gauss, E, 95 Gay-Lussac, J.-L., 75 Gerhardt, C.J., 46 n. Geymonat, L., 20 n. Giannantoni, G., 38 n., 67 n„ 84 n. Giorello, G., 20 n. Goedeke, K., 94 n. Goethe, J. W., 33 e n., 34 e n., 46 n., 70en.,71,119 Grassmann, H., 66,67 n. Green, G., 105 Guzzardi, L., 117 n.

Heaviside, O., 11 Hecker, E, 70 n.

Heiberg, I. L.,49 n. Helmholtz, H., von, 46 n., 72, 73 n., 77 Hertz, H„ 10, 11, 46 e n„ 61,79,99, 100 Herz, M., 105 Hobbes, T., 47 en. Hohenegger, H., 41 n., 46 n. Hume, D.,45 Huygens, C., 60

Kalbfleisch, C.,71 n. Kant,I.,27 n.,34,41 en.,46n.,54en., 84 n., 105 e n., 106 e n„ 110, 111 e n., 125 e n., 129,130 e n., 131 e n., 132 e n., 133 n., 134,135,137 e n. Keill, J., 44 Keplero, J., 35 e n., 49, 50, 54, 55 e n.,56,75 Kirchhoff, G., 44 e n. Koiré,A.,48 n. Kraus, O., 56 n. Kretschmann, E., 16,27 Lange, L., 115 e n., 118 e n. Laue, M., von, 81 e n., 86 e n., 87, 97 e n., 118 e n., 121 e n., 122 n., 139,140 Leibniz, G. W., 46 e n., 72,77,88,89 en., 104,105,109 Leucippo, 60 Levi-Civita, T., 19 e n. Locke, J., 57 e n., 58 Lorentz,H.A.,8.9,10,11,12n., 13,14, 85,86,87,88,89 e n„ 92,93,95,98, 121,122,135 e n., 137n., 139,140 Lupoli,A.,47 n. Mach, E., 63 e n., 64, 66, 76, 77 n., 112,115,116,117en. Marcucci, S., 106 n.

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Indice dei nomi

Mariotte, E., 68 Masini, E, 71 n. Maxwell, J. C.,8,10,13,60,61,73, 99,100 Mayer, J.R.,77,78 Mersenne,M.,43 n. Michelson, A. A„ 10, 11,81,82,83, 85,86,89,90,93,118 Migne, J.-P., 51 n. Minkowski, H., 89 e n., 134,135 e n., 136,137 e n., 139,140 Mnesarco, 41 Molesworth, W.,47 n. Natorp,P., 101 n., 141 Neumann, C., 112 e n., 113,114 Newton,!., 12,17,44,58,59,60,61, 88,96,103 e n„ 104,105,106 e n„ 109,113,114,116 Nidditch, P. H., 57 n. Nobel, A„ 118 Noether, M., 18 n. Osiander, A., 48,49,50 Ostwald, W., 35 e n., 78 e n., 79 e n.

Pacchi, A.,47 n. Paolo III, Papa, 48 Paracelso,!.,71 e n. Parigi, S., 58 n. Parrini, P., 20 n. Pasquinelli,A.,49n., 104 n. Persico, E., 65 n. Petruccioli, S., 68 n. Pettoello, R., 18 n., 20 n. Pinna, G., 94 n. Pitagora, 40,41 Planck, M., 60, 61 e n., 62 e n., 64, 65 e n., 139 Platone, 49, 71, 84 e n., 85 e n., 88, 92 n„ 101 n., 126 e n.

Poincaré, H., 11,18 e n., 19,75,76 n. Poincaré, L., 61,62 e n., Polizzi, G.,76 n. Preti, G., 20 n., 24 n. Protagora, 126

Raio, G., 20 n. Recki, B., 30 Regnault, H.-V., 68,69 Reichenbach, H., 20 e n., 141 Ricci-Curbastro, G., 19 n. Riemann, B., 18 e n. Ripa di Meana, D., 68 n. Ryckman, T., 19 e n., 20 n.

Savini, M.,45 n. Schelling, F.W.J., 43,46 Schiller, E, 70 n., 94 n. Schlick, M„ 20 e n., 141 Seidel, S., 33 n. Senofane, 40 Sinigaglia, C., 18 n. Sosio, L., 63 n. Stachel,!., 30 Streintz, H., 107 e n., 115,118 Tennery, P., 43 n., 45 n. Trouton, E T., 118 Urbano Vili, Papa, 50 Vaihinger, H., 56 n. Vinta, B., 54 n. Vivanti, C.,48 n.

Weber, H., 18 n. Wirtinger, W., 18 n.

Zampini, A.,46 n. Zippel, N., 20 n.

MIMESIS Ricercare Collana diretta da Renato Pettoello e Paolo Valore

1. Paolo Valore, La sentenza di Isacco. Come dire la verità senza essere realisti 2. Johann Friedrich Herbart, Punti principali della metafisica 3. Emilio Agazzi, La filosofia della storia e della politica nel pensierio di Emanuele Kant 4. Nadia Moro, Estetica trascendentale in musica. La psicologia del suono di J.F. Herbart e C. Stumpf 5. Enrico Colombo, Pensare con Albert Schweitzer 6. Giancarlo Marchetti (a cura di), La contingenza dei fatti e l’ogget­ tività dei valori 7. Rudolf Carnap, Ricerche sull’assiomatica generale 8. Luigi Traetta, Un vivisezionista alla ricerca di Dio. La fisiologia sperimentale di Elie de Cyon 9. Hans Pichler, Leibniz. Un dialogo armonioso