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Italian Pages 176 [168] Year 2021
Francesco Borrasso
Restare vivo
Margini
Collana diretta da Filippo La Porta
Margini | 7
Francesco Borrasso
Restare vivo
© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 7 – aprile 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-232-0 ISBN – Ebook: 978-88-5529-233-7 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Hand of man want to helping after drown in the lake © sawitreelyaon – stock.adobe.com
A mia moglie Daniela, per tutto
Ma per me scrivere è una matzeva, una tomba invisibile, eretta alla memoria dei morti insepolti. Ogni parola corrisponde a un volto, a una preghiera, al bisogno che abbiamo l’uno dell’altro per non affondare nell’oblio […]. Pertanto l’atto di scrivere per me spesso non è altro che il desiderio segreto o conscio di incidere delle parole su una tomba: in memoria di una città scomparsa per sempre, in memoria di un’infanzia vissuta in esilio, in memoria di tutti coloro che ho amato e che, prima ancora che potessi esprimere il mio amore, sono scomparsi. (Elie Wiesel, Legends of Our Time, Avon, New York 1968, pp. 25-26)
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I morti non scompaiono, vanno solo da un’altra parte. Faccio un giro su me stesso e cado sull’erba, un sole gigante e tu, mio padre, che da lontano mi guardi, sorridi e avvicini la sigaretta alle labbra e con un passo leggero mi vieni incontro. Cosa resta di tutto quello che abbiamo vissuto? Qualche foto, delle vecchie VHS che probabilmente non guarderò più, un filmato in cui si sente la tua voce; restano poi i miei ricordi, le immagini bambine, le immagini di me che cresco, dove c’eri, dove sapevi essere vivo. Sei morto dieci anni fa, il tempo è fatto in questo modo, appena ti distrai ti porta indietro e ti ritrovi a camminare sopra una terra paludosa, barcolli nell’incertezza, con i dolori antichi che appaiono brillanti, freschi, come appena nati dentro gli occhi. Si invecchia in fretta, i miei movimenti a rincorrere una palla restano vivi ma non si possono toccare, il giubbotto rosso e la mamma che mi prende per mano e mi spiega i pesci nella vasca circolare della villa comunale, in una mattina che esplode di luce, con le foglie secche che fanno rumore sotto passi e il mio sorridere incerto. L’acqua nei vasi e l’odore dei cimiteri, le porte a vetri, le immagini della Madonna, il Crocifisso a scuola sopra la testa della maestra, i viali silenziosi; leggere una poesia davanti a una lapide per restituire alla memoria tutte le cose perdute.
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Mi nascondevo nell’armadio prima che tu tornassi dal lavoro, c’era la mamma che cucinava la pasta con il sugo e mia sorella E., nel girello, che imparava l’equilibrio. Mi chiudevo nel buio e aspettavo che si aprisse la porta di casa, apparivo all’improvviso e nella mia fantasia mi piaceva credere di essere un fantasma. Correvo a stringermi contro la tua gamba e ti chiedevo cosa mi avessi portato di bello. Il tuo sorriso era, per me, un rifugio. Delle volte aprivi la tua borsa di stoffa nera, tiravi fuori le barrette di cioccolata: «Quelle al latte, queste si mangiano dopo pranzo», dicevi. Mi solleticava la pancia, sentivo il corpo diventare leggero e tutto mi pareva possibile. Poi ho capito che le buche nella pancia sono strane, la felicità e la paura hanno lo stesso modo di comunicare con il corpo. Si formano voragini, come quando ho scoperto che le cose muoiono, quando un pomeriggio di fine marzo ho visto il mio gatto finire sotto un’auto, l’ho guardato attentamente saltellare sulla schiena, aveva il sangue che veniva via dalla bocca, c’era la mia immobilità, la necessità che sentivo di non dovermi muovere, la pelle mi formicolava come se tanti piccoli insetti mi avessero improvvisamente ricoperto e una sofferenza accesa, viva, mi era entrata dentro la bocca. Piansi tutta la notte, imprecando contro Dio, maledicendolo, chiedendomi perché mai Dio avesse voluto far morire il mio gatto. Nessuno mi ha risposto, c’era solo un grande vento contro le vetrate, c’era il freddo e il buio e il mio corpo piccino avvolto nelle coperte e la mia faccia bagnata, c’era il silenzio delle ore quando tutti dormono. Nessuno mi ha risposto, anche se mi avevano raccontato di Dio, io da quel giorno ho incominciato a sentire la sua assenza. Ti osservavo sdraiato sul letto, avevi sempre un libro aperto davanti agli occhi, te ne stavi lì, in silenzio, concentrato, e allora io incominciavo a interrogarmi, che cosa stavi facendo? Un giorno, stufo di fare supposizioni, dopo aver messo il pigiama,
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venni da te e mi fermai ai piedi del letto: «Che fai?», chiesi, stringendo nella mano destra il mio peluche, era un panda, si chiamava Bobby. «Sto leggendo», mi rispondesti. «Che vuol dire? Che stai leggendo?». «Un libro. Vieni, ti faccio vedere». Feci una piccola corsa fino a saltare sul materasso, mi mettesti tra le mani quell’oggetto, facendomi vedere la copertina e le righe, e poi dicesti: «Ascolta». Leggevi piano, per non farmi perdere nessun accadimento. Da quel giorno, ogni volta che ci trovavamo a letto, la domenica pomeriggio, per riposare, ti chiedevo di inventarti una storia, come quelle che leggevi dentro i libri. Ho letto il mio primo romanzo a vent’anni. Ho avuto bisogno di molti anni di distanza per avere voglia di capire un libro, di comprenderlo, di interrogarlo; e se non ci fossero stati i libri, molte cadute sarebbero state disastrose. Ci sono quelle volte in cui mi fermo e mi accorgo di non ricordare la tua voce, che tono aveva? Come parlavi? Quante volte usavi il dialetto e quante invece un perfetto italiano? E sento lo stesso brivido che mi faceva affogare da bambino, sento la strega che si avvicina e io devo stare attento, potrebbe venire fuori da sotto al letto o potrebbe essere nascosta appena lì, dietro la porta. Non ricordo quante volte sono venuto sulla tua tomba, ma so con certezza che in quel luogo di confine ti ho fatto visita in poche occasioni e forse sempre e solo per un moto egoistico. Sono venuto a trovarti tutte le volte che qualcosa, nella mia vita, non andava; tutte le volte che mi trovavo sotto a una frana, la pelle graffiata e le ferite sul punto di infettarsi. Davanti alla tua foto, davanti alla tua lapide, con un silenzio irreale che cascava dal cielo e con delle lacrime quasi isteriche che provavo a cacciare dagli occhi con forza, con costrizione, ti chiedevo il conto dei miei disagi, delle mie sfortune, dei miei dolori. Sapevo che nessuno avrebbe risposto e questa cosa mi dava la forza di continuare a renderti colpevole delle mie sofferenze.
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È giusto che un figlio pianga sulla bara del padre, è giusto che un figlio soffra, stia male, è giusto che un figlio, arrivato a un certo punto, vada avanti. Se ho pianto l’ho fatto sempre di nascosto, per non togliere forza alle persone che mi circondavano, quelle stesse persone di cui io stavo cercando di avere cura. Il 26 dicembre era il tuo compleanno, c’era la tavola imbandita nel salotto di casa, la mamma passava la giornata in cucina, c’era da preparare la cena per te, suo marito, c’era quella festa che oramai era diventata un rito, quando la sera ci sarebbero stati gli amici e i fratelli per aiutarti a soffiare via un altro anno di vita. Tu ed io, durante quei pomeriggi in preparazione alla festa, restavamo davanti alla televisione per guardare una partita di calcio del campionato inglese. Oggi la mamma passa questa giornata in salotto, con le tapparelle abbassate per non far entrare la luce, con la televisione accesa per avere compagnia, ma tutte le volte che la osservo, la vedo perduta dentro dei momenti che non sapranno tornare più e la vedo ricacciare le lacrime nella gola e la vedo aspettare paziente che il tempo passi, che la giornata finisca, che un nuovo mattino arrivi in fretta, affinché lei possa farsi gioco della memoria. Avevamo una casa in campagna, c’erano tante stanze e una grotta, c’era un prato verde, di un verde che da bambino mi sembrava fatato. Ci andavamo quasi tutti i fine settimana e sia io sia mia sorella protestavamo sempre in maniera vibrante. Tu e la mamma ci toglievate ai giochi della casa e ai nostri amici piccini per portarci in quel luogo tetro e desolato, dove la sera c’era una tenebra fitta e dove durante il giorno avremmo dovuto inventarci passatempi, saremmo stati costretti all’ingegno. Io mi posizionavo tra due alberi di ciliegio, e oggi ripenso a quei fiori bianchi che sembravano petali di neve, quella sarebbe stata la porta, tu ti mettevi a distanza, davanti ai piedi il pallone di cuoio. E passavamo un paio d’ore così, tu e mia sorella
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tiravate calci al pallone ed io provavo a parare; la cosa che mi divertiva di più non era tanto andare a impattare contro quella sfera di cuoio, quanto lanciarmi nel vuoto, cadere sulla terra, provare quell’adrenalina del salto e il più delle volte il mio piccolo corpo veniva attutito dall’erba e nemmeno mi facevo male. Il tempo che passa è il mio personale tormento, la mia ossessione, una di quelle cose che continua a scavare sotto la pelle fino a rovinarmi le ossa. C’è la mamma e c’è il suo corpo che di giorno in giorno invecchia, la guardo in viso e ci vedo la caduta, la resa ai giorni che consumano, e c’è il mio cane, a volte lo osservo e sento il dolore, tra un po’ di tempo non ci sarà più, sarà morto e io non posso fare nulla per evitare tutto questo, la vita mi strugge. Lo abbiamo preso in casa venti giorni prima che tu morissi, ricordi? È un bassotto ed è cresciuto da solo. Durante il periodo cruciale in cui avremmo dovuto fargli capire chi comanda e in cui avremmo dovuto dargli delle regole ci siamo trovati travolti dall’uragano, e lui è cresciuto in maniera confusa. Appena prima che tu morissi io stavo dormendo, ho aperto gli occhi perché avevo sentito dei rumori venire da lontano. Nel corridoio c’era la luce accesa e sentivo che qualcuno aveva aperto il rubinetto del lavandino. Mi sono alzato e dopo qualche passo ti ho trovato davanti allo specchio del bagno, il tuo corpo era piegato in avanti, eri sudato, arrossato, sembravi in preda a uno sforzo che non potevi gestire, la mamma alle tue spalle con un panno ti frizionava la pelle per asciugarti. Avevi vomitato parecchie volte, venni a sapere. Ho un grande mal di testa, dicesti tu. Dopo qualche minuto ti vidi vestito e subito dopo esserti infilato le scarpe mi chiedesti le chiavi dell’auto. «Ce la fai?», ti chiesi. «Certo», rispondesti, provando a sorridere per farmi intendere che andava tutto bene. Ma forse quest’ultima domanda non te l’ho mai fatta, forse quando mi hai chiesto le chiavi, io te le ho date e ti ho guardato mentre
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sparivi sul fondo del corridoio. Quelle sono state le ultime cose che abbiamo fatto insieme, se l’avessi saputo ti avrei detto ti voglio bene, ti avrei stretto in uno di quegli abbracci che non ci siamo mai dati, che tra di noi sono sempre mancati. Dopo qualche minuto è squillato il telefono di casa, mia sorella era ancora a dormire nella sua cameretta. Guardai l’ora, le tre di notte erano passate da poco. Dall’altra parte del telefono c’era la mamma che mi diceva di chiamare un’autoambulanza, la sua voce era debole, priva di dramma. Eri svenuto mentre stavi guidando e vi eravate andati a schiantare contro un muro. Feci la telefonata avvolto da una sensazione molto forte di irrealtà, subito dopo svegliai mia sorella e le dissi che saremmo dovuti scendere e andare all’ospedale. Nostro padre non stava bene, nostro padre era svenuto, dentro di me avevo capito che l’uomo nero stava arrivando.
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Mentre sono a lavoro avverto una sensazione di estraneità, ho delle piccole vertigini che mi costringono a sedermi. Mangio una barretta di cioccolato, credo possa essere un calo di zuccheri. Aspetto qualche minuto ma la sensazione di cedevolezza che sento nel corpo non passa. Mi alzo dalla sedia, tutto quello che mi circonda mi appare distorto, i colori sembrano troppo vividi, le voci troppo alte, osservo i miei colleghi e i loro movimenti sembrano degli scatti o, a tratti, paiono dei gesti troppo lenti, esasperanti. Esco fuori cercando un po’ di aria, ma devo mantenermi vicino a una colonna di cemento per non svenire e intanto passano le auto, clienti della sala scommesse sono a pochi metri da me mentre fumano, parlano o bestemmiano per un cavallo che hanno perduto alle corse. Chiudo gli occhi e mi dico: adesso svengo. Perdo la sensibilità della mano sul cemento della colonna, inizia a formicolarmi la faccia, la mia faccia inizia a diventare un movimento, qualcosa di instabile. Per qualche secondo, senza rendermene conto, trattengo il respiro e quando ricomincio a prendere aria le vertigini aumentano tanto che devo sedermi su uno scooter parcheggiato davanti all’ingresso. Porto una mano sul petto e sento il battito cardiaco come fosse collera mentre il rumore del traffico aumenta, mentre credo di essere sul punto di morire e allora
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mi faccio coraggio, mi alzo e torno dentro. Sono sudato, ho il cuore in gola e lo sento rimbombare nelle tempie, sta andando troppo veloce, veloce che mi consuma il fiato, veloce che innesca una paura solida che fa diventare le gambe prima di ferro e poi molli, gelatinose e il corpo continua a darmi segnali che non conosco. «Devo andare a casa, mi sento male», dico rivolgendomi al direttore. Mi guarda per qualche secondo come se volesse pesare le mie parole. «In effetti hai la faccia molto bianca», dice. Non so perché, quelle sue parole sono una sorta di sigillo, inizio a sentirmi ancora peggio, sono sul punto di crollare. Lascio alle spalle la sala scommesse e piano, piano, mi incammino verso l’automobile che ho parcheggiato a duecento metri, in una piccola strada poco illuminata. Da lontano la notte si mischia all’illuminazione elettrica e tutto sembra vibrare. È inverno e sono bagnato dal sudore sotto il cappotto. A metà strada sento che il mio corpo non esiste più, non ho più le gambe, non ho più le braccia, provo con le mani a tastarmi la faccia ma al contatto non avverto niente, tutto è anestesia; il panico inizia a diventare un materiale duro, somiglia a una frana, devo sedermi sul cemento freddo del marciapiede e mi si affollano gli occhi di lacrime. Mi sento come fossi uno schermo, come se fossi diventato solo i miei occhi, il resto di quello che c’è sempre stato non c’è più, le mie sensazioni fisiche sono sparite. Telefono a un mio collega di lavoro, ho la pelle ghiacciata e sudata e tremo, le mie dita fanno fatica a pigiare i tasti del telefonino. Quando risponde devo sforzarmi per parlare, nella gola le parole si strozzano, vanno in frantumi e devo concentrarmi per dirgli che sono quasi svenuto, che sono fuori, in strada e che ho bisogno che qualcuno mi accompagni all’ospedale.
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Quando il mio collega arriva sto meglio, è tornata la forza nelle gambe e riesco ad alzarmi; decido di lasciare perdere il pronto soccorso, tutto quello che voglio fare è andarmene via da questa strada, da questo posto. Racconto l’accaduto a mio padre e a mia madre, ed entrambi tendono a sminuire. Un calo di zuccheri, poi ti sarai spaventato, dicono. Io incomincio a tradurre in maniera diversa la parola “spavento”, non lo sapevo che la paura poteva essere capace di togliermi le forze, di farmi soffocare il respiro nella gola, non sapevo che avere tanta paura potesse essere come sentirmi vicino alla morte. Mangio e vado nella mia camera, sono ancora confuso, spossato, mi fanno male i muscoli della schiena come se avessi fatto degli sforzi fisici notevoli. Sono a letto per cercare di dormire. Non lo potevo sapere che stava iniziando la mia vita con gli attacchi di panico, non potevo sapere che sarebbe arrivata la depressione e che avrei pensato, come fosse un riflesso involontario, a togliermi la vita. È passato qualche giorno, vado a giocare a calcetto, verso la fine della partita sento il cuore che inizia a pompare furioso contro le ossa, mi guardo intorno per cercare un appiglio sulle facce dei miei amici, ma li vedo come fossero degli estranei, i loro volti si deformano, perdono rilievo, le gambe mi cedono e devo inginocchiarmi sul campo di erba sintetica, il profumo del freddo mi entra nel naso, questa volta sono convinto di morire, che mi stia venendo un infarto, sento sotto i palmi delle mani il gelo dell’erba bagnata, poi più niente. Mi ritrovo nello spogliatoio, non so come ci sono arrivato, disteso sopra una panca di legno con le luci bianche del soffitto che pesano sulle palpebre, l’odore di muffa e l’umidità. Intorno a me ci sono visi preoccupati, mi alzo, dico di sentirmi meglio e che probabil-
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mente è stato un calo di pressione. Quando torno a casa entro nella stanza dei miei genitori e quasi urlando dico che non sto bene, che c’è qualcosa che non va, che vedo tutto come se mi trovassi in un luogo staccato, distorto, che ho paura. Il giorno dopo mio padre ed io siamo in ospedale per un check up completo, faccio un elettrocardiogramma, una visita neurologica, le analisi del sangue, faccio una visita dall’otorino. Da tutti i test e le analisi non risulta niente, sto bene, dal punto di vista organico non c’è niente che non vada. Passo qualche giorno a convincermi che tutto quello che mi sta accadendo è solo nella mia testa, che posso controllarmi, che ho la possibilità di comandare il mio corpo, ma appena lascio casa e scendo in strada arrivano le vertigini e sono costretto a tornare indietro. Da quel momento casa sarebbe diventata la mia prigione, non avrei avuto più la capacità di uscire per molto tempo se non accompagnato da qualcuno. Continuo a giocare a calcetto ma devo passare quasi tutta l’ora di gioco in porta, non appena tento di correre il panico mi afferra dietro la testa e allora sento la paura come fosse un buco nello stomaco, sento la paura che diventa come la fame, forte come la fame. Ogni volta che torno al lavoro, non appena metto piede nella sala scommesse per prendere posto dietro al terminale, il mio corpo diventa denso, diventa un pasticcio, lo sento scivolarmi via e allora sudo, poi ho freddo, poi faccio una gran fatica a respirare, porto continuamente le dita al collo per ascoltare il cuore. Andare alla sala scommesse per il mio turno sta diventando uno sforzo insostenibile, il tragitto, da solo in auto, è come uno spavento terrificante che non riesco a gestire. All’improvviso è cambiata la mia visione della realtà. Un giorno sono in auto, guardo il cielo e il cielo non è più il mio cielo, abbasso lo sguardo e le auto, i passati, gli edifici, la
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luce del sole di un pomeriggio di gennaio, niente è più mio, niente è più come prima. Mi dico: tutto questo passerà. Ma non passa niente, il cervello inizia a friggere. Sono staccato da tutto, i palazzi sono lontani, le mani sopra il volante sono un ritaglio separato da me, muovo la testa ma non so se la sto muovendo veramente, il colore dei miei pantaloni è un colore che mi sembra di non aver mai visto, mi sento dentro un videogioco, mi sento come dentro un videogioco in prima persona, forse è così che si muore, penso, con queste sensazioni, sganciandosi da tutto e restando per qualche secondo sospeso. Parto per le vacanze estive, mi convinco che un po’ di svago, qualche giorno lontano dal lavoro (che è diventato un posto nemico, un luogo stregato dove i miei malesseri aumentano) mi farà sicuramente bene. I primi giorni faccio fatica anche a scendere in spiaggia, vedo di riflesso sull’acqua delle scie luminose, biglie come fossero delle lucciole, ma molto più grandi, che si muovono sul mare, velocissime. A volte guardo un braccio mentre lo muovo e il gesto mi appare come fosse al rallentatore, i miei spostamenti motòri sembrano artefatti, finti. Visioni di palline d’acqua che galleggiano a mezz’aria e di voci sconosciute che mi finiscono direttamente nella testa iniziano a ossessionarmi. Devo resistere, penso: tutto questo passerà, devo solo cercare di calmarmi, di riposare. Una sera i miei amici decidono di andare a ballare in discoteca, io non me la sento, ci ho provato già qualche giorno prima e sono dovuto ritornare in camera, sono dovuto fuggire con le vene del collo che quasi mi scoppiavano e la saliva nella bocca che mi stava solidificando la lingua. Da quando sono qui passo gran parte dei pomeriggi a piangere, chiuso in camera, con la faccia sul cuscino, da solo, spaventato dagli eventi. Decido di guardare la televisione, so che se non rientrano non riuscirò ad addormentarmi. Su un canale stanno dando un film con Renato Pozzetto e Adriano Celentano. Qui, per la prima volta, mi accade una cosa nuova, vedo un’automobile verde che passa
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sullo schermo del televisore, ma io quell’automobile la vedo poi uscire fuori dal televisore, diventare una scia luccicante che fa il giro della stanza, si arrampica sui muri fino a scomparire fuori dal balcone e dopo sento un suono, un fragore come di uno schianto e le orecchie iniziano a fischiarmi e forse perdo conoscenza, so solo che quando apro gli occhi il film che stavo provando a guardare è quasi finito e che ho la bocca aperta e sulla federa del divano c’è una piccola pozza di saliva. Mi asciugo il sudore con un fazzoletto e mi guardo allo specchio, non riesco a mettere a fuoco il mio volto e faccio fatica a capire se sto sognando o sono sveglio. La confusione tra sonno e realtà la trascinerò con me per molto tempo, da quel momento, ogni giorno; passerò interi mesi a non comprende se dormo o se sono sveglio, se quello che sto vivendo è reale o se sono a letto addormentato.
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La prima cosa era il gelo non appena scendevamo dalla tua automobile, un freddo antico e poi l’oscurità, fitta, che veniva smorzata solo dalla luce calda che si spandeva piano dai vetri di una porta pittata di bianco, scrostata. Dietro quella porta c’era un camino acceso e c’erano i miei nonni materni. Mia sorella ed io scendevamo dall’auto e ci sembrava di essere dentro un incantesimo; nella corte dove vivevano nonno N. e nonna V. c’era un freddo solido e, tra i cespugli appena oltre il giardino, ci sembrava di vedere delle strane figure fatte di ombre che si muovevano e si rincorrevano e volevano aspettare insieme a noi l’arrivo della mezzanotte. Era la sera della vigilia di Natale e la meraviglia si attaccava ai muscoli, facevamo a gara a chi riusciva a fare il fantasma più grande con il fiato e nello stomaco c’era già l’attesa per i regali sotto l’albero. Tu e la mamma entravate per primi, l’odore del baccalà fritto, l’odore delle melanzane, della pizza con la scarola, mia nonna indaffarata vicino ai fornelli. Quelle ore che precedevano la cena erano un rituale, ogni gesto, ogni movimento, era simile a una danza, a un segreto tramandato di generazione in generazione che non sarebbe mai dovuto andare perduto. Mentre guardo la neve venire giù dalla finestra so che c’è una parte di me che è perduta, ed è quella parte che sapeva stare
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al mondo restando in equilibrio; i miei capelli bianchi hanno poco in comune con il bambino che correva a buttare le bucce dei mandaranci nel fuoco del camino. Mio nonno, durante quelle ore di festa, mi raccontava le storie sulle janare e sui licantropi e sugli spettri. C’erano i miei capelli che diventavano sottili e si raddrizzavano come se un’energia li muovesse, era una paura che mi rendeva felice, sapevo che tutti quei mostri erano lontani, che io ero al sicuro. Mentre qui le strade sono completamente bianche e questa prima neve ha chiuso tutta la città dentro un silenzio che appare quasi sacro, so che i mostri che temevo da bambino sarebbero stati almeno battibili. E invece ci sono le assenze, ci sono le telefonate che tu non puoi più farmi, ci sono le tue camice che ho dovuto buttare perché erano troppo grandi, le cravatte che ho voluto conservare anche se alcune non le metterò mai, i tuoi orologi e il tuo dopobarba e la tua schiuma e quelle mattine che ti radevi e io entravo in bagno e ti chiedevo di impiastricciarmi la faccia con il pennello. Ci sono io e tu non ci sei più, e non c’eri quando ho sofferto di attacchi di panico e non potevi esserci quando mi sono sposato. I mostri bambino vorrei che tornassero, vorrei fare a cambio con questi mostri che delle volte, oggi, mi tolgono l’aria, mi ghiacciano il sangue. Mia nonna metteva un coccio pieno di lenticchie sui tizzoni ardenti del camino, nella stanza c’era odore di pane abbrustolito e di ragù, tu sedevi sempre a capotavola, incrociavi le gambe e accendevi la televisione, nonno N. ed io ci sedevamo vicino al fuoco del camino e con lui parlavamo per ore; poi c’era mia sorella che un po’ stava seduta in braccio a te e un po’ mi veniva vicino per sentire le favole che raccontava nonno N. con il suo cappello a tesa larga, le sue mani grasse, il suo ventre prominente che immaginavo sempre pieno di vino, o di pane, o di pasta al sugo con le polpette; era un uomo burbero, che quando sorrideva diventava prezioso, si trasformava
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in una figura che riusciva a meravigliarci. Spesso mi alzavo e raggiungevo la porta per guardare attraverso i vetri e capire se nel buio fuori ci fosse qualcosa che si muoveva. Respiravo in modo grave, dandomi spinta con la gola e con i polmoni e facendo finire l’aria nella pancia, fino a quando non cacciavo tutto il respiro fuori dalla bocca e appannavo le vetrate e mi affrettavo a passare sull’alone l’indice della mano, per scrivere o provare a disegnare una faccia; nonna V. si arrabbiava, diceva che le sporcavo i vetri, faceva finta di rincorrermi con il cucchiaio di legno, sporco di salsa, in mano, era bassa, i capelli ricci e bianchi, tonda, con una voce sottile e quando si muoveva appariva compatta, perfettamente in asse con il mondo. Mettevi il pandoro nel forno e poi preparavi il barattolo di Nutella, sorridevi, con i denti un po’ storti, ingialliti dal fumo delle sigarette. Giravi e rigiravi lo scatolo tra le mani, c’era la televisione accesa e il telegiornale in sottofondo a cui tu non davi mai attenzione, poi guardavi noi, la mamma ti diceva che avresti potuto mangiare solo una fetta di dolce, perché altrimenti ti avrebbe fatto male, io non capivo il male, né come, una cosa da mangiare, potesse essere il male. C’è una grazia arcaica nelle notti passate vicino alle persone che ti vogliono bene e c’è una sconfitta pesante, che taglia le gambe, quando il bene e le sue forme vengono a mancare; quando arriva la morte, che da bambino credevo somigliasse a uno spirito nero e strappa via quella carne che tu, non ci credi, non potrai più toccare. A volte, di notte, mi sveglio sudato e non riesco ad avere controllo del mio corpo; sento il cuore che accelera e sento l’aria che entra a fiotti nelle narici, i muscoli mi raccontano una tristezza pesante, una tristezza di cemento, e faccio quasi fatica a mettermi seduto e anche quando riesco a togliermi di dosso il lenzuolo e mi alzo in piedi, mi sembra di svenire, le gambe diventano liquide e il ritmo cardiaco rimbomba nelle orecchie.
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Tutte le volte penso a te e a come sei morto. Penso a quella sera, quando non appena finimmo di vedere la partita in televisione, mi dicesti: «Buonanotte», e andasti a dormire. Non lo sapevi che quella sarebbe stata la tua ultima buonanotte, né potevi sapere che saresti morto di lì a poco. E mi chiedo, nella confusione della notte, se avevi capito che stavi morendo mentre vomitavi nel bagno, mentre sudavi, mentre la testa ti scoppiava per il dolore, o se ti sei reso conto di essere sul punto di svenire mentre guidavi l’automobile per andare al pronto soccorso. Mi sento un debole, tutto mi appare come un enorme fallimento. Prima, nella testa, mi scoppiavano dei segnali impazziti che non mi permettevano di orientarmi e allora imprecavo, tremavo, sudavo (come te, quella notte) e soprattutto, piangevo. C’erano delle sere dove io ero piccolo e tu passavi tutto il tempo nel letto, una lampada accesa di fianco, sopra un comodino, e il resto della mobilia in ombra. Avevi il viso rosso, o almeno questo è il ricordo bambino che adesso mi torna indietro, i tuoi lineamenti facciali erano sofferenti, la mamma andava e veniva dalla camera da letto con il termometro, a volte tra le mani le vedo una siringa. Io mi nascondevo in un angolo del corridoio, all’inizio del sentiero che mi avrebbe condotto alla tua stanza che per terrore non mi accingevo mai a percorrere fino in fondo e guardavo tutto in silenzio, cercando di non disturbare nemmeno con il respiro; una volta ho chiesto alla mamma perché ogni settimana, almeno un giorno, passavi tutta la sera a letto e stavi male, era forse colpa di quella fetta di pandoro che non avresti dovuto mangiare? Lei sorrideva e tutta la dolcezza le si posava sopra un neo bellissimo, appena sopra le labbra, dalla parte sinistra del viso. No, diceva, papà ha la bronchite. Quella parola, bronchite, per me non voleva dire niente; cos’era? Avrei potuto prenderla anche io? E se sì, come? E allora quando andavo a dormire diventavo il tuo
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malessere, diventavo la tua bronchite, quell’oscura parola era come un’animale che si posava sopra il mio petto costringendomi a restare sveglio. Dopo, molto dopo, seppi che avevi l’Epatite C e che stavi facendo una cura sperimentale. Ogni settimana, dopo la siringa, ti saliva una febbre altissima e il corpo cedeva. C’è stato il giorno del funerale e quello della tua morte, che non combaciano. Sono due giorni diversi, sono due giorni che hanno un differente spessore. Il giorno del funerale, per me, è stato quasi indolore, c’era solo molto trambusto nella pancia e più niente. Il giorno della tua morte, una parte di me è morta con te, la parte che hai messo al mondo, la parte che hai curato, che hai coccolato, la parte cui hai voluto bene e che hai rimproverato e che hai educato. La parte che hai preso in braccio e che hai accarezzato. Ogni parte di me che hai reso tua l’ho perduta quella notte.
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Torno a casa e so che le cose stanno degenerando, ho delle allucinazioni, la mia mente vacilla in continuazione, non riesco più a guidare, non posso passeggiare, il mio corpo è diventato un nemico. I miei genitori decidono di contattare una psichiatra, la dottoressa accetta di vedermi, ma di lì a poco sarebbe andata in ferie, quindi decidiamo di fare quattro colloqui conoscitivi per capire quale possa essere il problema che mi sta invalidando la vita. Mia madre mi accompagna per raggiungere lo studio della dottoressa e mi aspetta in auto, guidare da solo è diventato impraticabile, quando ci ho provato ho fallito e mi sono consumato mentre il fiato si rompeva dentro il petto e battevo i denti e le dita delle mani mi si attorcigliavano per il terrore e allora dovevo lasciarmi stare, posarmi da qualche parte in attesa che tutto passasse. Prima di bussare alla porta leggo la targhetta: dottoressa D., neurochirurgo, neurologo, psichiatra. Penso: sto andando dal medico dei pazzi. Ho ventisei anni e ho paura di non poter essere mai più un ragazzo normale.
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Quando entro nello studio la dottoressa mi accoglie con un sorriso di plastica, forzato, io provo a ricambiare il sorriso e non so che cosa ne venga fuori dal mio volto straziato, tirato, inebetito. «Dimmi le tue generalità», chiede sedendosi dietro una scrivania e invitandomi a fare altrettanto sulla sedia davanti a lei. Alla mia destra ci sono due poltrone, credo che sia lì che si faccia psicoterapia. «Penso di avere degli attacchi di panico, mi sento di svenire tutte le volte che provo a uscire di casa, mi manca l’aria, ho la tachicardia, non riesco a guidare, non ho idea di che cosa mi stia succedendo, talvolta ho anche delle allucinazioni, vedo scie luminose che mi passano davanti agli occhi, sento sapori in bocca quando non sto mangiando, non dormo, non ho più una vita sociale». «Ti avevo chiesto le generalità: nome, cognome, data di nascita». Resto qualche secondo senza parlare, le dico il mio nome, il cognome e mi sento un cretino. La dottoressa mi dà un foglio di carta bianco e una penna, mi chiede di disegnare un uomo, io le dico che non so disegnare, non importa, risponde. Nello studio c’è il condizionatore acceso, fuori fa caldo, è quasi arrivato agosto e io sto male da sette mesi. La dottoressa osserva il mio disegno e poi mi chiede di raccontarle i miei disturbi. Riprendo da dove avevo interrotto qualche minuto prima, ma mentre parlo è come se io non fossi me stesso, è come se mi vedessi parlare da fuori, come se quel corpo su quella sedia fosse un estraneo, una sagoma sconosciuta e poco a fuoco e mentre vedo e penso tutto questo devo fermarmi, devo provare a respirare piano perché la stanza inizia a girare e ho i palmi delle mani sudati e i muscoli della schiena rigidi e i muscoli del cranio stanno stringendo talmente forte che sento la testa sul punto di esplodere.
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«Dobbiamo fare altre tre sedute, dopo potremo parlare del tuo disturbo e di che strada possiamo percorrere», mi dice alla fine del primo colloquio. «Adesso sto prendendo uno spray omeopatico che mi hanno consigliato in farmacia, lo metto sotto la lingua prima di fare qualcosa, prima di uscire, o prima di provare a giocare a calcetto». «Ho fatto anni di medicina, specializzazione e master e non mi risulta che i farmaci omeopatici possano realmente essere utili», mi risponde. Mentre scendo le scale per raggiungere l’uscita mi sento rincuorato senza un reale motivo. Le cose continuano ad aggravarsi, inizio a declinare tutti gli inviti degli amici per uscire a bere una birra o per fare una partita di calcetto. Non posso dirlo a nessuno che non riesco a stare in mezzo alla gente, non posso dirlo a nessuno che basta un attimo e il mio cuore inizia a premere furioso contro tutto quello che fino a qualche mese fa era normale, non posso dirlo a nessuno che ho paura di svenire o di morire o di impazzire, non posso dirlo a nessuno che apro il frigorifero per bere dell’acqua e quando la bevo sento il sapore della Coca Cola, non posso dirlo a nessuno che mio padre l’altro giorno mi ha abbracciato nel corridoio, stringendomi forte e dicendomi con una voce bassa: «Ce la faremo». Al quarto incontro con la psichiatra ad accompagnarmi ci sono mio padre e mia madre, questa volta non ho voluto nemmeno guidare. Scendono dall’auto e vanno al bar a pochi metri dal parcheggio, io salgo le scale evitando l’ascensore (come sempre, da quando sto male), busso alla porta e mentre aspetto sento che l’aria che sto respirando diventa sempre più solida, è un’aria che sa di ferro e zolfo, è un’aria che non ho mai respirato, i
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miei polmoni hanno un modo nuovo di raccogliere ossigeno, un modo che mi affatica e invia dei segnali di pericolo al cervello. «Sei pazzo», dice la psichiatra non distogliendo nemmeno per un attimo i suoi occhi dai miei. «Sono pazzo?», chiedo terrificato. «Sì, sei pazzo Francesco, hai bisogno di un percorso di psicoterapia lungo, faticoso, un percorso che non ti guarirà mai del tutto, ma attraverso il quale potrai migliorare». Vorrei piangere e urlare, vorrei dirle che si sbaglia, che io non sono pazzo, che non posso essere pazzo perché per ventisei anni non lo sono stato e non si diventa pazzi all’improvviso. Vaffanculo brutta stronza, vorrei dirle. «Non so se voglio fare questo percorso», le dico con la paura che come un’infezione si mischia al sangue. Pensando: io non sono pazzo. «Tra due settimane tornerò dalle ferie, telefonami e fammi sapere». Le stringo la mano e vado via. Passo tutta la giornata a piangere, ripentendomi che no, non sono pazzo, col cazzo che sono pazzo, io sono una persona normale, ho solo bisogno di qualcosa che mi faccia tornare quello di prima. Dopo due settimane una mattina prendo il telefono e compongo il numero della psichiatra. «Pronto?». «Sono Francesco, il ragazzo che ha fatto le quattro sedute conoscitive due settimane fa». «Salve Francesco, dimmi». «Volevo dirle che ho deciso di non fare la psicoterapia».
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«Sei sicuro Francesco? Io penso che tu ne abbia molto bisogno». «Sono sicuro, grazie, buona giornata». Dopo due mesi muore mio padre e io sono peggiorato ancora, i miei contatti con il mondo esterno sono diventati nulli, passo tutta la giornata in casa, ho perso il lavoro e non faccio altro che guardare la televisione e piangere. Una notte vado in bagno, mi lavo la faccia e mi avvicino alla finestra, la apro, ogni cosa è muta, vedo l’immagine di me che cado nel vuoto, vedo la mia figura che si lancia dalla finestra, mi vedo mentre precipito, mentre tutta la sofferenza e tutta la pazzia stanno scomparendo, stanno diventando passato, e sento un pizzico di dolcezza nello stomaco, sento un’eco di qualcosa che c’era, di una condizione in cui vivevo inconsapevole del disastro che sarebbe arrivato. Mi avvicino ancora, c’è qualche auto che passa in strada, mi sporgo con la metà del busto nella notte, nel buio, nell’aria ancora mite di inizio novembre, dal mio quinto piano vedo le lucine del palazzo di fronte, le finestre accese e sento la mia gamba che fa uno scatto, come se da sola avesse deciso di scavalcare, poi mi fermo, mi fermo quasi a metà del vuoto, mi fermo quando sarebbe bastato un alto movimento per precipitare e ritorno dentro, ritorno dentro per mia madre e per mia sorella, lo faccio per loro, perché dopo la morte di mio padre non ce la farebbero a sopportare anche questo.
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Un uomo non è mai quello che dice, non è mai quello che potrebbe diventare; un uomo fa un patto con le ore per poterne avere sempre una in più prima di accomodarsi sotto serra; resta qualcosa che abbiamo scritto, qualcosa che abbiamo vissuto, resta quella volta che abbiamo sorriso guardando un film in bianco e nero. C’è una foto senza colori di te bambino che soffi sopra una torta gigante, soffi i desideri di un bimbo, le aspettative, soffi per andare incontro a una vita che da lì in basso sembra un luna park. Ricordo le strade di Napoli, l’immondizia che usciva fuori dai cassonetti, l’aria che veniva dal mare e l’odore dei panzarotti fritti, ricordo via Caracciolo, tu indicavi con il dito il Vesuvio, mi dicevi che dentro c’era la lava, mi dicevi che tutte quelle piccole case che vedovo sotto il vulcano erano abusive e quando ti chiedevo del significato di quella parola, tu mi dicevi che in quel caso significava che se il vulcano fosse eruttato, sarebbero morti tutti. Anche se abitavamo lontano, quando di notte andavo a dormire pregavo che il Vesuvio non eruttasse, non si sa mai che la lava possa arrivare fino al quinto piano del nostro palazzo. Mi piaceva il silenzio e guardare i gabbiani, le loro evoluzioni a pelo d’acqua, oggi sento il peso di tutto quello che di bel-
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lo c’è stato e mi crocifigge, certi giorni mi sembra non ci sia scampo. Ricordo tutto, o forse mi sembra di ricordare tutto, probabilmente tralascio molte cose che devo credere poco importanti. Non lo so come si fa a lasciar andare via un’immagine, ci ho provato tante volte; ma poi spesso, di notte, me la ritrovavo davanti, magari durante un risveglio brusco o nell’ozio di un pomeriggio mentre pensavo a tutt’altro. Quando conosci il bene, quando l’hai vissuto e quando appartiene solo al passato, può diventare qualcosa di insopportabile. Non c’è separazione dai morti e durante i primi giorni del lutto mi fu chiaro; i morti continuano a parlarci e a guardarci e a farci sentire dolore, lo fanno comparendo sui volti dei sopravvissuti, lo fanno lasciando in eredità espressioni del viso, movimenti del corpo, toni di voce e modi di mandare giù un sorso d’acqua. Era tutto sbagliato, è tutto sbagliato. Quando una persona cara muore, accade qualcosa nella tua esistenza; uno strappo, un crollo silente che invade il corpo; dopo poco ritorna ciò che era ordinario, ma ogni azione che hai sempre fatto appare diversa. Ti ritrovi a camminare su una strada che hai percorso molte volte, eppure sembra un luogo straniero, trovi diversi i colori e gli odori e la maniera in cui la luce del tardo pomeriggio colpisce l’asfalto. Bevi il caffè o fumi una sigaretta e ti accorgi improvvisamente che ogni cosa sembra più intensa, forse più viva. È come se la morte desse risalto a tutto ciò che le sopravvive. C’era un libro che stavi leggendo prima di morire, un libro che è rimasto sul comodino, con un segnalibro nel mezzo e molto silenzio; quel libro lo ritenevo noioso, non lo avrei letto, poi molti mesi dopo la tua scomparsa, durante una sera in cui non pioveva e l’aria odorava di pioggia e pensavo: forse tra un po’ pioverà molto forte, ho riguardato quel libro e ho avuto voglia
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di leggerlo, ma no, non l’ho fatto. Perché la morte fa anche questo, crea illusioni e piccoli rituali, e io quel libro voglio che resti così, letto a metà. E ancora, vedevo la morte ovunque, in ogni luogo su cui posavo lo sguardo, negli oggetti e sopra gli oggetti, sui dischi in vinile, nelle foto dai colori sbiaditi per la vecchiaia, sul tavolo e sui fogli scritti mai per intero, sulla mia faccia riflessa su una superficie, sul calendario vecchio di tre anni. Spiegami la morte, ho chiesto a Dio, perché in quella camera ero da solo. Il mare mi ricorda te, quelle volte che di notte mia sorella ed io dovevamo svegliarci, l’auto carica di valigie e tutto era pronto per partire. Ci portavamo dietro i cuscini, perché sapevamo che avremmo continuato a dormire, con un solletico nello stomaco e una felicità dentro lo sguardo assonnato, al risveglio ci sarebbe stato il primo bagno dell’estate. C’era la mamma che era bellissima, con il viso lungo e bianco e una cascata di capelli neri e un’espressione severa, e tu con «La Gazzetta dello Sport», l’Inter, la campagna acquisti e la tua maniera di sorridere, di essere sempre felice. Tutte le volte che mi ritrovo sopra una spiaggia, la memoria fa un gioco strano e senza che me ne accorga mi riporta un’immagine, una canzone, una frase, e allora mi si chiude appena lo stomaco. Cantavi sempre un motivetto dei Pooh: La donna del mio amico; oggi quella canzone la conosco quasi a memoria; anche se non l’ho mai ascoltata attentamente, anche se nemmeno mi piaceva nei miei dieci anni. La mamma partecipava ai balli di gruppo, tu non ballavi mai, io qualsiasi cosa facessi avevo sempre mia sorella dietro, che sembrava un ometto e mi seguiva imitando i miei modi. A casa ci sono le fotografie: i volti e i corpi, qualche filmino, e mi accorgo che lo spazio tra quello che siamo e quello che siamo
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stati diventa sempre meno; la vita va avanti e più il tempo passa più noi ci trasformiamo in reminiscenza, anche per gli altri. Ieri ho ripensato a mia nonna, al suo Alzheimer e a quanto possa essere bastarda la vita. Ho ricordato quando lei mi chiedeva cose che non avevano logica, quando, nel frigorifero, metteva le scarpe; quando la geografia dei suoi luoghi e dei suoi oggetti era andata in frantumi; e ricordo la mia insofferenza in determinate giornate, quando proprio non ce la facevo a sopportarla, e ripensando a tutto questo mi si è aperto un buco nello stomaco, sarei voluto tornare indietro, abbracciarla e non arrabbiarmi con lei quando insisteva a non voler scendere di casa perché doveva aspettare il marito, deceduto, che era andato a fare la spesa e ancora doveva rientrare. Ieri la memoria mi si è aperta come una crepa e mi ha sommerso una sensazione di sconfitta, tutte le rabbie inutili, tutte le rabbie ingiustificate, tutte quelle rabbie che se ci avessi pensato meglio non sarebbero arrivate. E avrei voluto chiedere scusa a mia nonna, o a te per quel giorno in cui ti tenni il broncio perché mi avevi fatto aspettare troppo alla stazione. Scivola tutto via, continuamente, e le mani non servono a trattenere il passato, quello è un posto dove non puoi tornare, lo puoi guardare da lontano, magari mentre piove e la frase di un libro ti riporta a quando eri bambino, alla mattina di Natale quando ti svegliavi all’alba perché volevi giocare con la Playstation che i tuoi genitori ti avevano fatto trovare sotto l’albero. Si può trattenere l’aria nei polmoni, si può trattenere un braccio o una parola, non si può trattenere un bambino di nove anni che aspetta la notte horror in tv su Italia 1, e non si può fermare la morte. Ieri sei entrato nei miei occhi, è stato come affogare, e poi riprendere a respirare con il diaframma compresso e lo stomaco chiuso come un pugno. Ero a un matrimonio e ho visto una sposa danzare con un padre; è stato tutto improvviso e fuori controllo, il mio sguardo si è bagnato e sono dovuto uscire fuori, perché non riuscivo a sciogliere il nodo che mi teneva
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ferma la gola. E mi tremava la voce e mi tremava il torace e ho acceso una sigaretta per cercare di passare avanti, per provare a fermare quel dolore di non averti visto ballare con mia sorella, con tua figlia, il giorno del suo matrimonio. Non piangevo per te da otto anni, ma ho capito che a volte basta un movimento, basta riconoscere uno spostamento e le cicatrici si riaprono. Ma in maniera strana, quel dolore che è fuoriuscito così prepotente, quel dolore che in un attimo mi ha tirato indietro di dieci anni, in quel momento lì, in quel ballo dove ho riveduto una bimba abbracciare per la prima volta un papà commosso e inesperto, ho provato anche piacere, ho trovato bellezza, intensità, e sei tornato di nuovo vivo. Sto scrivendo una cosa da qualche giorno, scrivere è un lavoro di immersione, è qualcosa che ha a che fare con lo scavare, con il cercare a fondo la verità. Mentre scrivevo mi è tornato alla mente un episodio che accadde qualche mese dopo la tua morte; ricordo che c’era la mamma in cucina e una luce spietata che cadeva dentro casa dalle finestre, lei mi guardò come si guarda un fantasma e non disse niente; c’era troppo silenzio, di quel silenzio che fa quasi chiasso; mi avvicinai e le chiesi cosa avesse, cosa stesse pensando e senza girare lo sguardo verso di me mi disse che non ricordava più la tua voce né come ti muovevi. Il mio corpo sta iniziando a proteggermi, concluse. Quella sera presi una vecchia VHS della mia prima comunione coperta di polvere, la misi nel videoregistratore e la chiamai nel salotto; c’eri tu che ridevi, fumavi, parlavi e le dissi che a volte il corpo sbaglia, che certe voci vanno recuperate e portate dentro il sonno. Avevo un giubbotto di jeans e i capelli ricci e biondi e quando la mamma ci portava in villa, mia sorella ed io correvamo a guardare da vicino i gusci, pieni di spine, delle castagne. C’erano queste giornate gonfie di luce e c’era mia sorella con le
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guance rosse per via del vento, provavo a spiegarle che quelle spine che vedeva non andavano toccate, altrimenti si sarebbe fatta male, ma lei per partito preso non mi ascoltava mai e puntualmente, dopo, iniziava a piangere. Dalla finestra della mia stanza, quando avevo cinque anni, restavo sempre a guardare i tramonti, sul pavimento c’erano i giocattoli che avevo smesso di usare, dalla cucina ruzzolava nella mia stanza il vocio di un televisore acceso che mia madre teneva per compagnia mentre preparava la cena. Spalmavo la faccia sul vetro e aspettavo che il cielo, piano, diventasse scuro. Inconsapevolmente si va avanti senza sapere quando tutto questo finirà, viviamo con l’illusione di un per sempre che non esiste e ci affatichiamo e cerchiamo in tutti i modi di non pensare alla morte e a quello che prima o poi capiterà a tutti.
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Inizio a farmi domande da pazzo e siccome sono pazzo tutto quello che vedo fa parte della pazzia o è infettato dalla pazzia o è pazzia pura. Come faccio a muovermi? Mi chiedo. Secondo quale meccanismo? Come faccio a spostare un braccio o una gamba? Mi si ingolfa il cervello di cose inutili, senza senso, decido di telefonare alla psichiatra, decido che l’unico modo per non morire, per non uccidermi, è provare con la psicoterapia, perché la donna che mi ha detto che sono pazzo aveva ragione. «Mio padre è morto», le dico non appena mi siedo sulla poltrona di fronte alla sua. La dottoressa D. mi guarda per lungo tempo senza parlare, nello studio ci sono dei quadri e una libreria e delle piante, c’è odore di pulito, di disinfettante. In questo primo giorno di seduta il pomeriggio entra dalla finestra alla mia sinistra e mi dà fastidio agli occhi, sono diventato ipersensibile a qualsiasi tipo di illuminazione, a qualsiasi rumore. «Cos’è successo?». Perde un attimo la sua compostezza, si scioglie per qualche secondo quel muro, quella distanza tra paziente e dottore.
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Le racconto dell’aneurisma, della notte che si è svegliato con il mal di testa e poi ha perso coscienza dopo un’ora; della degenza in ospedale, in coma, del funerale, della mia lucidità, del fatto che io non avessi pianto, non durante la funzione religiosa. «Questa tua condizione, adesso, è un bene», mi dice. «Gli attacchi di panico?». «Io non parlerei di attacchi di panico, parlerei come ho detto poco fa di “condizione”. In questo momento la vita ti scorre di fianco, ma tu non la senti, e tutto questo ti sta proteggendo dal dolore per la morte di tuo padre». Mi chiede poi se io sappia cosa sono e quali siano le sfere emozionali, io faccio un gesto di negazione con la testa. «Ogni essere umano è composto da quattro sfere emozionali: paura, rabbia, tristezza e gioia. Ma non tutti le sanno riconoscere e non tutti le posseggono già formate. Quando ti senti male è perché non riesci a riconoscere l’emozione che stai provando, e cosa succede quando non riusciamo a capire quello che sta accadendo? Succede che iniziamo ad aver paura, e la paura, poi, fa gran parte del lavoro. Pensa che quando un animale sta per essere catturato da un predatore, sviene, il suo corpo lo protegge da una fine brutale». La guardo e cerco di decifrare le sue parole, per qualche secondo mi concentro sul movimento delle sue labbra e sparisce il suono, pare che io abbia smesso di respirare. «Io ce le ho formate queste sfere emozionali?», chiedo. «Credo di sì, ma non sono al proprio posto, sono mischiate, confuse». «Io ho bisogno di qualcosa che mi aiuti a uscire di casa, da solo». «Cosa vorresti?». «Una medicina».
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«Non vogliamo provare a resistere per un mese e vedere come va? Ne possiamo riparlare tra qualche giorno? Che ne dici?». «Dottoressa, io non sto più vivendo e se non cerco di uscire di casa anche solo per una passeggiata come farò a trovare un lavoro?». Lei mi guarda come se le sue parole fossero state sconfitte, io respiro veloce, rischio di andare in iperventilazione. «Ti prescrivo delle gocce, si chiamano EN, devi prenderne dieci la mattina e dieci la sera, e otto, nel caso ti trovassi da qualche parte e dovessi sentirti poco bene. Cerca di portarle sempre con te». Sono sul divano della cucina, mia madre è nel salotto, c’è la radio accesa ma so per certo che lei non la sta ascoltando, mio padre è morto da meno di un mese e ogni sera lei la accende solo per compagnia, guarda fisso nel vuoto, credo la colpiscano i ricordi, credo che la memoria faccia qualche giro, come una giostra, e si fermi a caso, da qualche parte, su qualche sorriso, di traverso a qualche gesto che ha il sapore di una felicità che ormai non potrà ritornare mai più. Prendo la boccetta di EN e ne lascio cadere dieci gocce sopra un cucchiaino, ho la testa talmente intasata che il riflesso della luce al neon del soffitto che batte sul metallo del cucchiaino mi causa un’allucinazione, vedo una massa d’aria che si sposta trascinandosi dietro pezzi di muro. Che cosa accade adesso che prendo le gocce? Sono spaventato, non so che cosa sentirò a livello corporeo, non so come reagirò a questa medicina e poi mi dico: psicofarmaci, si chiamano psicofarmaci. Rompo gli indugi e porto il cucchiaino alla bocca, lascio scivolare le gocce sotto la lingua e subito un sapore amaro mi impasta la carne azzerandomi la salivazione, poi arriva un sentore di chiodi di garofano, una strana scia dolciastra. Resto immobile sul divano in attesa di qualcosa che deve arrivare e poi, a poco a poco,
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il mio corpo sembra mollare la presa, i miei occhi diventano gelatinosi, lo sguardo liquido, i muscoli iniziano a slegarsi, la testa diventa leggera e le palpebre iniziano a pesare come se non dormissi da settimane. Mi alzo e riesco a raggiungere la camera da letto, steso sul materasso è come se non esistesse più niente, non c’è il dolore del lutto, non c’è la paura, lo spavento di domani, non c’è il pensiero di non poter uscire di casa, non esiste la paura di guidare, di morire, di svenire. La depressione è una terra continuamente esposta, è un luogo bagnato, umido, è portare una croce senza un gesto che possa farti capire che prima o poi ci sarà la quiete; la depressione è stata come una colata di cemento dentro i muscoli, sopra le ossa, è stata guardarmi allo specchio e vedere una faccia estranea, osservarmi nel riflesso e non riuscire a riconoscermi e piangere e disperarmi; è stata guardare i volti di persone familiari e vedere volti sconosciuti, è stato depersonalizzarmi, morire lentamente di una morte che colpisce la parte emotiva, la corteccia solida del sorriso. Che fossi depresso l’ho dovuto capire un po’ per volta. Un male buio che mi aveva abbracciato perché non potevo uscire di casa, non potevo lavorare, perché ero diventato un fallimento, ero un pazzo che non vedeva la salvezza, perché la salvezza aveva un suono che io non riuscivo a sentire, perché le lettere delle parole che mi hanno sempre aiutato a capire sono diventate mute. La malattia è come un veleno, lentamente ti si infila sotto la pelle, e all’inizio appare quasi come un’amica, per non farti rinvenire ti coccola, ti tiene al caldo e pian piano, senza che tu te ne accorga, inizia a cambiare tutto quello che hai sempre vissuto; cambia le tue coordinate, cambia le tue percezioni, spegne tutte le lampadine e azzera ogni tipo di piacere. I sapori scompaiono, come scompaiono gli odori, i posti familiari diventano di metallo, diventano freddi al contatto, le persone della tua vita sono ma-
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nichini, sono plastica, un silenzio profondo striscia sulle corde vocali fino a farti perdere la voglia di spiegare. Mi convinco che le gocce di EN possano aiutarmi, mi convinco di un potere miracoloso e cerco di uscire, i primi giorni le cose sembrano migliorare, la sera e la mattina mi imbottisco di delorazepam e provo ad affrontare il mondo. Ma ho sempre la testa troppo leggera, faccio fatica a concentrarmi, non riesco a leggere. Sono sempre qualcosa che non so riconoscere. Da tre mesi faccio psicoterapia due volte alla settimana, da tre mesi prendo venti gocce di EN ogni giorno, le cose più difficili sono guidare per lunghi tratti, e lunghi tratti sono per me più di dieci minuti, e camminare, mi basta essere da solo e provare a fare una passeggiata per ritrovarmi a terra senza stabilità. La psicoterapeuta mi ha suggerito di non farmi più accompagnare quando vado da lei per la terapia, di provare a guidare da solo fino a lì, da casa mia sono all’incirca quindici minuti. Entro in auto e tento di controllare la respirazione, non può succedere niente, mi ripeto. Sono a metà strada quando inizio a sudare, faccio fatica a tenere le mani sul volante e dietro di me ci sono automobili che tentano di superarmi, che suonano il clacson, automobilisti che imprecano. Tutti questi segnali mi destabilizzano, alcune automobili iniziano a sorpassarmi ma io non riesco a metterle a fuoco, non so se sono ancora in marcia con l’auto o se mi sono fermato, riesco solo a vedere le mie braccia che sono tese per permettere alle mani di tenere il volante, sono diventato etereo, non ho consistenza, sono uno schermo che si accende e che si spegne a seconda del movimento delle palpebre, sento un urto, un rumore di ferraglia, mi guardo in giro e mi accorgo di essere fermo vicino a un guardrail, non penso a come ci sono finito, non riesco a mettere a fuoco niente se non l’idea e la convinzione di dover prendere le gocce e di doverle prendere in fretta. Infilo la
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mano nella tasca del giubbotto e devo faticare tantissimo per tenere fermo il cucchiaino che mi sono portato dietro, conto le gocce che cadono mentre in auto fa caldo, mentre sento il traffico che mi scivola di fianco ma ogni suono mi arriva da lontano, come se ci fossero vetri spessi che mi tengono lontano dalla vita. Non vorrei morire così, mi dico, anche se so che non sto morendo, anche se conosco il mostro, lo sento alitarmi sulla faccia, un mostro che non si fa vedere, un mostro di cui non conosco i contorni e forse sarebbe più facile se fosse fisico, tangibile, corporeo. Sento le EN che mi scivolano sotto la lingua, le dita delle mani sono attorcigliate fino quasi a illividirsi, ma stanno smettendo di tremare e tra poco riuscirò ad averne di nuovo il controllo, penso a mio padre e alla morte, penso a mia sorella che è andata lontana, penso a mia madre e a mia nonna, e ricordo quando un giorno di maggio eravamo andati tutti insieme in montagna con il cestino con il cibo e una borsa frigo con le bevande, con un sole maturo che provavo a guardare infilandomi gli occhiali da sole di mio padre, i suoi vecchi Persol; mia madre che era elegante con un viso fiero e latteo che mi piaceva guardare, possedeva nei suoi gesti qualcosa che apparteneva alla terra, all’erba bagnata; correvo sfrenato sudando sotto la maglietta con i capelli biondi e ricci che si incollavano alla fronte e il pallone tra i piedi da calciare come vedevo fare durante le partire di calcio; e tutto questo mi casca addosso in maniera desolante, tutte queste immagini formano un nodo nella gola, un nodo di carne, e sento i polmoni pieni di passato, un passato che faccio fatica a cacciare fuori e le gambe pesanti, spesse, si gonfiano di paura e di tristezza. La medicina inizia lentamente a fare effetto, ho schiantato l’auto contro il guardrail e me ne accorgo solo adesso.
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Tu non ha mai creduto a questa mia vocazione per la scrittura, l’hai sempre vista una cosa fine a sé stessa, un hobby. Il mio scrivere era per te una sostanza fragile. Quando è uscito il mio primo romanzo eri già morto. Sarei voluto venire sulla tua tomba, con una copia del libro in mano, ma a cosa sarebbe servito? Non credo alla vita dopo la morte, non credo che tu sia ancora vivo da qualche parte, non credo che tu possa sentirmi quando ti parlo, né che tu possa in qualche modo essermi d’aiuto in questa vita. Ma, nonostante tutto questo, mi ritrovo a parlarti, spesso prima di dormire; lo faccio perché delle volte abbiamo bisogno di una figura, qualcosa a cui fare riferimento, e prima del sonno, preferisco te e non i miei maestri letterari. Guarda, papà, sono uno scrittore! Ci hanno fatto aspettare tre giorni e una mattina è arrivata la telefonata in cui, dall’ospedale, ti dichiaravano clinicamente morto. Mi sono alzato dal letto con una leggerezza inconsueta, era come se quell’annuncio fosse stato irrilevante, era come se la tua dipartita, per me, fosse già una cosa concreta da quella notte in cui eri entrato in coma. Aprii il tuo armadio e scelsi una giacca e una camicia e un pantalone da portare all’ospe-
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dale di Benevento. Ti serviva il vestito a festa per il tuo rito funebre. Cercare tra i tuoi panni fu come perdere terreno sotto i piedi, ma lentamente, un po’ alla volta. Capii che stavo scegliendo cosa avresti dovuto indossare nella bara, realizzai il momento grottesco che stavo vivendo e dovetti sedermi qualche secondo sul letto per non cascare. Feci una doccia bollente, era il tre novembre, il freddo stava iniziando a colorare l’aria e quella mattina, dalla piccola finestra del bagno, c’era un cielo di piombo, vidi la fine di tutte le cose e mi chiesi se dentro di me ci potesse essere una forza che avrebbe potuto salvarmi. Il giorno prima, una dottoressa ci era venuta vicino per chiederci se volevamo vederti. Mia sorella ed io restammo qualche secondo a osservarci, come due animali selvatici che fiutano il pericolo e restano fermi, in attesa di capire la prossima mossa da fare. Ci bloccammo davanti a una porta grande, a scorrimento automatico. Ci diedero degli indumenti di plastica, una cuffia e ancora plastica da mettere intorno alle scarpe e addosso e delle mascherine da posizionare davanti alla bocca. Né io né mia sorella sapevamo a cosa stavamo andando incontro, ma ci sentivamo obbligati a farlo spinti da una forza antica che lega i padri ai figli. Una volta dentro c’era un gran caldo e, alla nostra destra e alla nostra sinistra, una schiera di lettini con corpi fermi, fissi, densi; carne da macello: pensai. Tutto quello che c’era intorno a noi si muoveva al ritmo dei respiratori automatici, di suoni artificiali, elettrici, che si ripetevano nel mutismo di quella stanza gigante con una regolarità esasperante. Arrivammo davanti al tuo lettino. Mi sentivo sconfitto. Alzai la testa che avevo tenuto abbassata per non dare importanza agli estranei in rianimazione, ti vidi e l’acqua mi affollò gli occhi e divenne quasi densa, quasi rischiai che il mio sguardo affogasse. C’era un tubo che ti entrava in bocca, avevi un’espressione quasi terrificante, quel tubo credo ti finisse poi nella gola e aiutasse il tuo torace, che pareva di cartone, a gonfiarsi e a sgonfiarsi. Era un grande errore,
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quello che vedevo non poteva essere nient’altro che uno sbaglio, un refuso; ti guardai fisso per qualche secondo e fui il primo ad abbandonare il campo di battaglia, ti accarezzai una mano quasi con reticenza e ti dissi: «Se non puoi tornare, vai, non preoccuparti». Lasciai tua figlia lì, ancora al tuo capezzale. Raggiunsi la porta automatica, mi strappai di dosso quella plastica verde e asettica, uscii all’aria aperta e bestemmiai pesantemente, con le lacrime che mi entravano in bocca e con le mani che tremavano tanto e dovetti metterle nelle tasche dei pantaloni. In un angolo della sala d’aspetto, mia madre stava crollando dentro una posizione di sconfitta: il capo chino, le spalle verso il basso, le gambe senza forza e al suo fianco c’era la mia nonna paterna che passava tra le dita i grani del rosario e con lo sguardo spalmato nel vuoto pareva non esserci, non appartenere. Forse sarei dovuto andare lì, raggiungere il dolore e mischiarlo al mio. Aspettai che mia sorella venisse fuori dalla sala rianimazioni e appena vidi che anche lei era in salvo, tornai nuovamente fuori; le prime gocce di una pioggia sottile stavano iniziando a cadere sul cemento di quella giornata fatta di incubi, alzai sulla testa il cappuccio della felpa, feci qualche passo e andai a ripararmi sotto la tettoia del bar, accesi una sigaretta e il primo tiro fu un addensarsi di fumo e aria che mi fece tossire ripetutamente. Non credevo più a niente, non sapevo più che cosa fare, non avevo il coraggio di immaginare domani, e poi dopodomani, non avevo i mezzi per pensare a quella nostra vita che sarebbe dovuta proseguire con il posto vuoto vicino alla tavola, nel letto, al nostro fianco. Ho conosciuto il tuo corpo nel pieno vigore, l’ho incontrato quando mi prendevi tra le braccia, quando mi facevi volare, quando mi muovevo perché tu camminavi; ho visto il tuo corpo invecchiare, ingrassare, diventare rosso per le scottature del sole e bianco per la paura. Poi, quel tuo corpo, l’ho visto morente, l’ho visto deturpato, violentato dagli aghi e dai tubi e dalle medicine che ti hanno gonfiato il viso.
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Mi hai voluto un bene incondizionato e potente. Mi sbucciavi la frutta, mettevi in ordine la mia camera, accomodavi la mia pigrizia quando non mi andava di uscire di casa e delegavo a te le cose che avrei dovuto fare io. Mia sorella ed io giungemmo al pronto soccorso, mia madre era ferma sulla porta, guardava verso la corsia e all’inizio nemmeno si era accorta che eravamo arrivati. Nessuno dei due le chiese niente, fu lei a parlare, dopo aver preso fiato, per bene; sembrò, quel suo movimento, come una rincorsa: vostro padre è in coma, ha avuto un’emorragia celebrale. Ho riflettuto molto su quel vostro, era come se con quella parola avesse provato a prendere una distanza dalla tempesta che ci stava girando intorno; quel vostro era, per mia madre, un primo tentativo, fallimentare, di difesa. Dopo qualche ora, il tuo corpo è passato davanti ai nostri occhi, sopra una barella, avrebbero dovuto portarti in un altro ospedale; a Santa Maria Capua Vetere, in sala rianimazione, non c’era posto. Quando ti caricarono sopra l’autoambulanza, ti tolsero le scarpe, erano le mie scarpe nere della Nike, le misero tra le mie mani e mi dissi che per morire le scarpe non servono. Chiusero le porte e io feci in tempo a vedere le tue braccia di gomma, senza vita, che gli infermieri prendevano e spostavano e infilzavano con gli aghi. Tornai a casa all’alba, vidi i netturbini lavorare vicino ai cassonetti dei rifiuti e i gatti scappare via dal rumore di ferraglia, i cani pisciavano vicino agli alberi e vidi i fantasmi fuggire dalle tenebre consunte e vidi mia sorella, che in quel silenzio gelido, tremava dentro, moriva piano. Mi dissi: la notte è finita. Mi dissi: da qui in avanti niente potrà essere peggio della tua morte. Era comunque una certezza in quei momenti senza bussola. Non eri ancora morto, ma sentivo che la tua vita non c’era più.
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Mi chiedo adesso che cosa accade esattamente quando un essere umano muore. Mi domando se davvero è come un click, acceso/spento; senti/non senti. E rabbrividisco. Per molto tempo, nel tuo armadio, le giacche e le camicie e i pantaloni sono rimasti al loro posto, sopra le stampelle, come se tu, da un momento all’altro, potessi tornare. Ho fatto subito miei i tuoi orologi, ho messo nella tua bara un crocifisso d’oro (sono ateo, ma quel Cristo in croce era, per me, una maniera per non farti sentire solo) e la maglia dell’Inter. Il tuo profumo l’ho conservato, come ho conservato alcuni fazzoletti di stoffa con le tue iniziali. Ho tenuto le videocassette delle partite di calcio che tu devi aver registrato quando io ero piccolo, partite di cui non ho alcuna memoria. Lutto, depressione, elaborazione. C’è una forma di depressione che è ben diversa dalla malattia. È quel movimento che fa la vita quando fa scomparire una persona dalla tua esistenza. I primi giorni vagavo per le stanze e credevo di poterti vedere spuntare da ogni parte. I primi giorni, tutte le volte che verso ora di pranzo sentivo l’ascensore arrivare al quinto piano e poi il rumore della porta che si apriva, ero convinto che di lì a qualche secondo avresti aperto la porta di casa. I primi giorni, quando la mattina mi svegliavo, ero certo che ti avrei trovato in cucina vicino alla moka, già vestito, ché altrimenti avresti fatto tardi a lavoro. Se non impazzisci in quei primi giorni hai buone possibilità di continuare a vivere.
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Arrivo all’appuntamento con la psicoterapeuta con venti minuti di ritardo, mi siedo e la guardo come se tutta la colpa dei miei dolori fosse la sua. «Cos’è successo?», chiede. «Io sto male! Sto sempre più male, questa terapia serve a niente… a niente. Stavo per fare un incidente, anzi, l’ho fatto l’incidente, sono andato a sbattere, non mi passa niente… niente». Lei mi guarda senza dire nulla, nello studio c’è un silenzio sintetico, un silenzio di plastica, si sentono bene i rumori che provengono dalla strada appena sotto. La dottoressa D. continua a fissarmi e non parla. «Non dice niente?», chiedo, questa volta senza alzare la voce. «Tu non puoi venire qui e sfogarti delle tue frustrazioni, non è colpa mia se ti ritrovi a ventisei anni in queste condizioni. La terapia è una cosa seria e lunga, molto lunga, se pensi che le cose si possano risolvere in pochi mesi credo che tu debba smettere immediatamente questo percorso». «Io sono stanco», dico mentre non riesco a trattenere le lacrime e allora tutto quello che guardo diventa umido, l’acqua scorre ovunque.
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«Lo so, ma devi capire che la tua struttura mentale è sballata. Hai vissuto in un castello per troppo tempo, piano piano devi imparare a sentirti e a capire cosa sei e cosa vuoi». Non rispondo. «Che emozione hai sentito prima, quando sei stato male?». «Paura». «Questo è un ottimo punto di partenza». «Cosa?». «Il fatto che tu abbia saputo riconoscere che tipo di emozione stavi provando. Vedi Francesco, la paura fa questo, fa venire le gambe molli, fa tremare, fa sudare, fa accelerare il battito cardiaco, la paura in casi limite fa svenire. Tu stavi avendo paura, ma il tuo corpo adesso sente tutte le emozioni che provi, hai vissuto per ventisei anni come se fossi stato in un congelatore, adesso inizi a provarle sulla pelle e tutti i segnali che ti arrivano sono sconosciuti e una semplice rabbia o anche una semplice sensazione di felicità possono spaventarti, perché ti arrivano input stranieri che non conosci». «Sono stremato». «Devi restare in contatto con il tuo corpo. Quando inizi a sentirti strano, quando capisci che sta per arrivare un attacco, quando senti che stai per uscire fuori dal tuo corpo, è lì che devi resistere. Non devi scappare Francesco, devi provare a restare dentro di te e a vivere quello che ti succede». Ho bisogno di comprare alcuni libri e decido di prendere l’auto, di tentare di arrivare in libreria. Mi concentro sui titoli che voglio prendere (anche se non leggo da mesi) e riesco ad arrivare al parcheggio prima della zona pedonale. Per la prima volta mi accorgo che la depressione mi ha tolto i colori, io guardo la strada, guardo il cemento davanti a me e il grigio non è più grigio, cammino e il ronzio della città è diverso,
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sento di non appartenere, di non essere più funzionale, sento che il mio equilibrio precario e le mie pulsazioni e la paura sono le uniche cose vere, tutto è coperto da una patina densa e allora provo a pensare al piacere che prima mi dava entrare in libreria, cercare tra gli scaffali, comprare; prendo questo pensiero e provo a farlo diventare compatto, provo a farlo diventare consistente, tangibile, ma non c’è niente da fare, che io entri o no in libreria, ciò che provo non cambia. Una volta dentro, una rabbia improvvisa e invalidante viene a colpirmi appena dietro la schiena e sento tutti i muscoli del corpo duri, si tendono che quasi riescono a spezzarsi. Prendo i libri che avevo segnato ed esco dalla libreria provando a prendere aria, è cambiato tutto, mi sento un alieno, tutti i miei luoghi, le mie passioni, tutto quello che ero e che volevo essere, non c’è più niente, sono un burattino, una figura inutile e priva di spessore sballottolata a destra a sinistra dagli eventi. Mia sorella mi chiama su Skype dalla Cina, in Italia è tardo pomeriggio, io sono sul letto a fissare il vuoto, sono sei mesi che non leggo un libro. Sono sei mesi che non vedo un amico, nessuno a parte mia madre e la psicoterapeuta. «Devi assolutamente leggere un libro», mi dice. «Lo sai che non leggo più». «Sì, ma prova a leggere questo, fidati». Riluttante segno il titolo su un foglietto di carta. «Come stai?». «Come sto? Sempre uguale, non cambia mai niente, i farmaci che prendo mi hanno aiutato un po’ all’inizio, ma adesso sembra che non facciano più alcun effetto e allora ogni tanto ne aumento la dose». «Ne parli con la dottoressa quando aumenti le dosi?». «Tu come stai? Tra due mesi torni».
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«Non so quello che mi aspetta». «Hai lasciato le macerie». «Com’è casa senza papà?» Vorrei rispondere subito ma le parole mi si intrappolano nella gola, diventano ruggine, diventano una marea che mi sale dentro la testa. «Tu non puoi saperlo, sei andata via subito dopo», le dico. «Appunto per questo te lo sto chiedendo». «Uno schifo, è uno schifo». «Che cosa dice la tua psicoterapeuta?». «Che è un percorso lungo, che non devo mollare». «Tra poco torno». «Sì, lo so». «Mamma? Come la vedi?». «La vedo molto preoccupata per me, forse i miei problemi l’hanno aiutata, l’hanno fatta distrarre dalla morte di papà, per quanto possa essere possibile». «Tu ce la fai». «Non lo so… lo spero». «Dov’è finita la tua voglia di diventare uno scrittore?». A questa domanda non rispondo e dopo poco chiudiamo la conversazione. Un pianto distante e robusto mi invade la bocca e gli occhi e il naso, mi ingolfa il fiato e devo cercare di frenarlo per non rischiare di affogare, affogare di dolore e tristezza, affogare di rabbia e allora prendo la scatola rossa di metallo dei biscotti alla cannella dell’Ikea e la lancio con forza contro l’armadio, la scatola si apre e i biscotti finiscono sul pavimento, frantumandosi; mi avvicino all’armadio e inizio a prenderlo a pugni fin quando la mia mano non sanguina e la porta di legno dell’armadio non è coperta da macchie rossastre, continuo a colpire fino a romperla, fino a farmi diventare le dita livide e
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intanto nella foga calpesto i biscotti, sbriciolandoli e piango e ancora piango maledicendo mio padre, maledicendo la sua morte, chiedendogli aiuto, pregandolo di aiutarmi perché da solo non ce la posso fare. Quando mi fermo e mi siedo sul letto devo tenermi la mano destra, cola sangue ed è gonfia, la porta dell’armadio è sfondata, il pavimento è un pasticcio di biscotti polverizzati, ma ho smesso di piangere, la faccia bagnata e calda, il fiato potente, la rabbia che con lentezza emigra, con la mano ancora sana prendo le EN, svito il tappo e le faccio cadere direttamente sotto la lingua: una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette, diciotto, diciannove, venti. Mi fermo, aspetto, mi risiedo, aspetto, accendo una sigaretta. Che io adesso possa morire non mi interessa, il mondo non esiste più già da molto tempo.
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Eravamo sulla spiaggia e faceva caldo, la mamma, sotto l’ombrellone, stava leggendo un libro. In acqua c’eravate tu e mia sorella con i braccioli. Mi dicesti: «Vieni, ti insegno a nuotare. Dovrai pur imparare, prima o poi». Mi feci coraggio, negli occhi avevo degli strani riflessi bianchi, il riverbero della luce sull’acqua mi dava una sensazione di sogno. Mi mettesti una mano dietro la schiena e mi dicesti che mi sarei dovuto sdraiare sopra l’acqua e che tu, comunque, mi avresti tenuto. Mi fidai di te, con il sole che mi entrava negli occhi e l’acqua che batteva sulla schiena. Dopo qualche secondo mi accorsi che ti eri allontanato, ti eri messo a distanza. E sì, stavo galleggiando, sapevo restare a galla. Ma tu mi avevi tradito e da quel giorno ho capito che non mi sarei più fidato delle cose umane. Mentre restai sull’acqua, mi sentii solo, credevo che tu saresti stato sempre pronto a proteggermi e invece, in quel momento, mi avevi abbandonato agli eventi. E se fossi affondato? Se il mio corpo non fosse riuscito a restare a galla? Dicono che la voce è il fulcro del ricordo. Oggi faccio fatica a recuperare la tua, di voce; spesso sei solo immagine, sei movimento, sei un’espressione del viso. Mi trascino dietro, in alcuni giorni, la delusione cocente di essere al mondo, di essere fragile, di essere mortale e in quei
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giorni l’idea che io debba prima o poi morire rende inconcepibile tutto ciò che mi circonda. Il lutto è quel momento in cui il dramma familiare si mischia al sacro. Per la perdita di un genitore, la gestazione del lutto è di diciotto mesi. Ma io mi chiedo, in che senso? Si supera per caso il dolore? Si supera lo sconforto? Cosa esattamente dovrebbe cessare dopo diciotto mesi? Rendere il vuoto un materiale aritmetico. Il giorno del tuo funerale c’era un fiume di gente riversa nell’atrio della chiesa; tutti mi guardavano con tristezza, avranno pensato sicuramente: povero ragazzo. Io portavo gli occhiali da sole, una giacca nera, la camicia bianca e un pantalone nero. Mi fermai con mia madre e mia sorella al primo banco, davanti all’altare, quasi all’altezza della tua bara. Era di un legno scuro ed era chiusa, e di questa cosa, un po’, restai deluso. Avrei voluto poterti guardare in viso un’ultima volta. L’omelia del prete non la ricordo, tendo a dimenticare le cose di poca rilevanza, ma ci sono altre cose che invece trattengo bene nella memoria: la luce che entrava dalle vetrate colorate e giocava con le ombre fitte che si accumulavano sotto i banchi e negli angoli; i volti delle persone che davvero ti hanno voluto bene; la mano di mia madre che stringeva forte la mia; le lacrime di mia sorella accumulate sul fondo degli occhi; l’abbraccio del mio miglior amico; il bacio sulla guancia di mio zio; i miei muscoli rigidi; il mio mal di stomaco; il mio senso di estraneità; l’eco dei passi lungo il corridoio che portava all’altare per la comunione; la lettera che ho scritto a mio padre e che, dal pulpito, ha letto mia zia; la chiesa vuota, pochi minuti dopo la fine della messa, la chiesa vuota tranne che per il mio corpo, il tuo corpo, la tua bara, il mio respiro e non il tuo, mai più. Dopo il funerale ho dovuto aspettare che tutti venissero da me per farmi le condoglianze, fuori dalla chiesa un mare di
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persone era in attesa del feretro, anche se era novembre non faceva freddo, l’aria era quasi calda, non esisteva vento e ricordo quanta luce ancora ci fosse all’esterno nonostante fossero quasi le sei di sera. L’unico momento in cui sono rimasto solo, durante quel giorno, è stato quando tutti sono usciti dalla chiesa; in quel silenzio, in quell’attimo monotono e ustionante, mi è cresciuta dentro la consapevolezza che per morire non serve niente e che la morte è una questione privata, nessuno può capire cosa prova un uomo quando muore. Lo scorso anno sono andato a posare un mazzo di fiori sulla tua tomba, era una mattina di sole e c’era un’aria gelida che quasi si poteva toccare e all’ingresso del cimitero c’erano poche auto. Davanti alla cappella mi è tornato in mente quando ci dissero che avrebbero dovuto tagliare la tua bara perché altrimenti non sarebbe entrata nel loculo, ricordo che pensai a quanto possa essere una beffa vivere, anche quando si è morti. Ho messo i fiori in un vaso senza accertarmi che ci fosse dell’acqua e sono rimasto qualche minuto in silenzio, pensandoti, riflettendo su ciò che sei stato, su tutte le occasioni in cui sei mancato; mi sono chiesto quante cose sarebbero andate allo stesso modo se tu fossi stato ancora vivo, a quante persone continui a mancare, quante persone una volta al giorno ti pensano ancora, anche solo per qualche secondo. Quello che mi è mancato è la religione, la fede, è stato poter mettere il mio dolore nelle mani di qualcosa, di poterlo lenire, diluire. I primi giorni dopo il tuo funerale veniva sempre un prete a casa, era il sacerdote che aveva officiato la tua funzione funebre. Entrava cercandomi, veniva solo per me, perché io ero quello che non aveva pianto durante il funerale. Mi faceva sedere sopra il divano del salotto e mi diceva di guardare la luce, mi diceva: «Guarda, la vedi la luce?». Io mi sentivo in imbarazzo e ogni volta non vedevo l’ora che quel momento finisse. Dopo qualche giorno ho incominciato a non rispon-
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dere al citofono quando qualcuno suonava a quell’ora, e diedi ordine a mia madre di dire che non c’ero, se mai qualcuno mi avesse cercato. Retroattivamente i gesti di quel sacerdote, la sua cocciuta insistenza, mi hanno provocato molta rabbia che non sono riuscito a espellere del tutto. Quando incontro i tuoi amici vedo nel loro sguardo sempre una patina di dolore, è come se vedendomi si ricordassero di te, di quello che sei stato, di che ruolo hai svolto nella loro vita e allora mi fissano con insistenza, come non vorrei mai essere guardato, come se la mia presenza fosse causa di una particolare sofferenza. So che quella è la dimostrazione che ti hanno voluto bene, e so anche che nei miei movimenti rivedono la tua andatura, che i miei gesti sono la tua più grande eredità. Tu sei morto a novembre, qualche mese prima ho avuto il mio primo attacco di panico. Adesso mi chiedo spesso cosa faccia chi resta, che ruolo abbia, che tipo di forza o di debolezza lo debba caratterizzare. Credo che chi resta diventi un baluardo della memoria, chi resta non può fare altro che ricordare, che portare la tua prece nel portafoglio o tenerla sulla scrivania, non può fare altro che commemorare con una messa o una preghiera laica nel buio di una notte dove non arriva il sonno, chi resta fa tutto quello che non ha fatto, dice tutto quello che non ha detto, piange le lacrime che avrebbe voluto conservare ed è sempre pronto a scagliarsi contro Dio. Ricordo la maniera con la quale mi dimostravi la tua preoccupazione, il tuo angosciarti per me diventava una pressione, era come una mano che cercava di tenermi fermo e allora se tardavo a rientrare a casa mi chiamavi sul telefonino fin quando non rispondevo, se frequentavo amici nuovi cercavi di capire se mai fumassi l’erba, se non studiavo provavi a parlarmi per vedere quale potesse essere il problema. Il problema, papà, era
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che ero un ragazzo e prima ancora un adolescente e la vita era un gioco e ai giochi si partecipa con leggerezza, senza pensare poi a quando il gioco finirà, a quando ci sarà la delusione del fischio finale, quando toccare le cose ti potrà far sanguinare. Il limite tra il gioco e la sua fine, per me, è la conoscenza della morte, l’incontro con la morte, il sapore della morte, l’odore della morte, il pensiero costante della morte e di essere mortali, diventare mortali nell’ipocondria o nella morte di un amore o nella morte di un caro, l’incontro con la morte di un animale, di un giorno, la morte di un idolo, la morte che diventa un oggetto, materia, peso. Nella tua bara ho fatto mettere la maglia dell’Inter e un crocifisso d’oro; da ateo, il gesto di lasciare la croce è stato un movimento magico, una moneta sugli occhi per farti varcare il confine. Poco dopo il funerale ci siamo ritrovati al cimitero, ti hanno messo in una stanza e lì saresti rimasto fino al mattino dopo, quando avrebbero provveduto a metterti nella cappella. Quello è stato l’ultimo momento di vicinanza che ho sentito, l’ultimo gesto di un padre che saluta il figlio, l’ultimo dramma che mi si rompeva nelle ossa; sono entrato nella stanza, vicino alla bara c’era un tuo amico che quando mi ha visto ha baciato il legno che ti conteneva ed è uscito fuori. Siamo rimasti soli io e te, il mio fiato e il tuo che non c’era più; ho fatto qualche passo per avvicinarmi ma poi sono tornato indietro e mi sono chiesto dove mai fossero finite tutte le volte che mi hai preso in braccio e mi ha fatto quasi toccare il cielo, le ore passate sul divano di casa a vedere le partite di calcio a imprecare, a gioire, i pranzi dei giorni di festa e i tuoi dolci al cioccolato, le magliette che ti compravi e che poi mi regalavi, dove sono finiti i giorni di vacanza, i giorni al mare, il mare che mi hai insegnato ad amare, il modo in cui mi hai insegnato ad amare, dove sono finiti i giorni tristezza, i giorni in cui ti ho odiato e quelli in cui non ho saputo abbracciarti, dov’è finito il tempo bambino, le scuole medie e tu che venivi a prendermi quando suonava la
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campanella ed io che restavo sempre in fondo alla fila con la cartella che pesava sulla schiena e una nota sul diario, il tempo delle fotografie, delle immagini sempre insieme, della foto in Sardegna dove tu, io e E. sorridevamo piano con un mare infinito alle spalle e la luce del sole a pruderci la faccia. E forse tutto è caduto nell’ultima volta che hai preso fiato, nell’attimo prima che ti scoppiasse una vena nel cervello, in quell’istante in cui eri vivo e poi sei entrato in coma e nelle ultime parole che mi hai detto e negli occhi della mamma che trattengono il riflesso del tuo sorriso e lo tratterranno per sempre.
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Riprendo a uscire con qualche amico, provo a fingere che le cose possano tornare alla normalità, anche se nella corteccia della mia testa, nel mio retropensiero, c’è sempre l’idea del suicidio, la consapevolezza che morire potrebbe essere l’unico modo per fermare l’incubo. Ho aumentato la dose delle gocce, adesso ne prendo quindici al mattino e quindici alla sera, ma alla psicoterapeuta non ho detto nulla. La mattina mi alzo a ora di pranzo anche se avrei voglia di restare a letto; dormire è l’unica cosa che mi dà sollievo, ci sono state giornate che ho passato steso a letto, sotto le coperte, con gli occhi chiusi da mattina a sera. Apro gli occhi, guardo l’orario, più per abitudine che per interesse, e mi rimetto a dormire; mi alzo per andare al bagno e poi torno a letto, lì, nel sonno, nell’attimo che precede il sonno, penso a tutte le cose passate, a tutte le cose belle che non mi appartengono più, penso a quando potevo giocare a calcetto o a quando potevo andare al cinema, a quando potevo essere un uomo o un ragazzo o a quando potevo lavorare; e tutti questi pensieri sono dolci, sono soffici, mi accompagnano a dormire e quando poi mi risveglio, questi stessi pensieri, sono delle lame, sono pietre che mi ruzzolano sulla faccia spellandomi, colpi che mi lasciano sanguinante e senza respiro e con la voglia di non risvegliarmi più. Mia ma-
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dre prova a spronarmi, a darmi forza, a iniettarmi una fiducia che manca persino a lei, e allora quando ci incontriamo nelle stanze della casa mi guarda come si guarda un peccato, come si potrebbe osservare una colpa, è come se sentisse il peso della mia condizione, le ferite della mia malattia, è come se le mie lacrime fossero i suoi errori. La psicoterapeuta mi ha detto che posso telefonarle in caso di emergenza, lei non lo sa, ma spesso l’ho chiamata quando avevo voglia di farla finita, la sua voce è sempre fredda, monocorde, sempre distante, ma per uno strano sortilegio che si forma nella mia mente tutte le volte che faccio terapia o tutte le volte che la sento, le ore successive sto meglio, la sua presenza, la sua voce, quello che ci diciamo, diventano delle ali a tempo che per un po’ mi permettono di non cadere. Sono nella mia camera, credo sia tarda mattina, la tapparella è abbassata a metà e la lampada sulla scrivania è accesa. Com’era prima? Mi chiedo. Prima che diventassi così, prima che impazzissi, com’era? Io, com’ero? Che facevo? Com’è possibile che cose normali, naturali, come camminare, o guidare o stare con gli altri, siano diventate gesti per me impossibili? Piango, su questi pensieri piango in silenzio, di quel pianto senza forza, senza singhiozzo, di quel pianto dolce, di quelle lacrime che scendono piano e quasi si vaporizzano prima di cadere via dal mento; penso che potrei davvero non farcela, penso che mi odio perché sono un debole, perché non riesco a fare cose semplici che sanno fare tutti, mio odio perché in queste condizioni non posso nemmeno provare a cercarmi un lavoro, mi odio perché faccio piangere mia madre, la sento dalla sua camera, anche se lei è convinta di soffrire in privato, che io non lo sappia. La mia vita è davvero finita a ventisei anni? Mentre continuo a farmi queste domande mi cadono gli occhi sul libro che mia sorella mi aveva consigliato, non leggo da mesi e mesi. Lo prendo, leggo l’incipit, leggo la seconda pagina,
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la terza e dopo un’ora ho letto più di cinquanta pagine, e in quelle cinquanta pagine non ho più pensato a niente, non c’è stato nulla se non la storia che stavo leggendo e sento la testa meno stanca, meno pesante e anche se voltandomi vedo delle forme che prendono corpo nel vuoto e sento dei rumori e del vocio appena vicino alle orecchie, sono per qualche istante più sereno. I libri, leggere e scrivere, mi avrebbero salvato la vita. Continuo a imbottirmi di gocce ma ormai sembra che il mio corpo non si pieghi più a questo farmaco, come un tossico devo aumentare sempre più la dose per provare a sentirne gli effetti. Provo a tagliarmi i capelli da solo perché non sono in grado di stare fermo e seduto sopra la sedia di un parrucchiere, delle volte accompagno mia madre a fare la spesa per la casa, ma è sempre un gesto difficilissimo, è sempre uno sforzo, uno spostamento che sembra essere contro natura: le luci dei supermarket che mi abbagliano e mi stordiscono, le persone che sono sempre troppe e troppo vicine, l’aria che mi manca, le gambe che tremano e che diventano man mano sempre più molli. Delle volte mia madre mi abbraccia, lo fa quando piango, o quando mi vede stremato. Io in quell’abbraccio ci vedo l’esasperazione, la violenza di pensieri che non possono essere nominati. Chiuso in casa da mattina a sera non faccio altro che leggere, ci sono delle settimane in cui riesco a leggere due libri. Passano così due anni, due anni di nulla, di vita non vissuta, di sofferenza, di dolore massiccio, di lacrime, di tristezza, di rabbia, di paura, due anni di angoscia, due anni di “adesso passa”, tra un po’ finirà, due anni in cui ho allontanato gli amici, ho perduto il lavoro, sono diventato uno spettro, sono diventato qualcosa di goffo che va in giro cercando di non svenire, cercando di non guardarsi allo specchio per paura di non riconoscersi nel riflesso, due anni di imprecazioni a denti stretti e con la bava
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che scorreva lungo il mento, due anni di depersonalizzazione, di allucinazioni, di ferite che mi si aprivano sulla pelle, ferite finte, sangue finto, che a me sembrava talmente reale da farmi disperare, due anni di corse al pronto soccorso perché convinto di un infarto, di un aneurisma, due anni di insetti immaginari che passavano sulle lenzuola del letto, che si infilavano sotto le unghie. Ho la possibilità di fare un colloquio di lavoro, avrei questa possibilità ma non credo di farcela, non credo di riuscire a gestire il mio corpo, non penso di avere la forza e la capacità di affrontare una situazione del genere. Non è quanta forza ci metti, la depressione non è una volontà, la depressione è una condizione, è una malattia, e quando con la depressione ci sono gli attacchi di panico non esiste voglia, non esiste provarci, i tentativi non servono a niente. Essere depressi è come rompersi una gamba, se ti rompi un arto devi andare dal medico, farti curare, mettere il gesso, se sei depresso devi andare da uno psichiatra, farti curare, prendere le medicine; la depressione non finisce quando decidi tu, non sei tu a dire: ora basta, oggi esco e non avrò attacchi di panico, oggi smetto di dormire tutto il giorno e vado al bar con gli amici, no, non è così. La depressione è organica, la depressione è fisica e mentale al tempo stesso, la depressione ti asfalta, ti riduce a un fantasma. Devi essere forte, mi hanno detto; mettici un po’ di impegno, e io allora mi sentivo inutile, perché giuro su Dio che mi impegnavo ma i risultati non arrivavano e c’erano dei giorni in cui tutte le pressioni esterne mi facevano venire voglia di fare quel salto dal balcone, tutte le voci inutili di chi non sapeva e non voleva sapere mi costringevano a parlar da solo nella mia stanza e a sentire le risposte del vuoto, a guardare il vuoto come se fosse una forma concreta, a provare empatia per il vuoto, a sentire il vuoto come fosse qualcosa di pieno tanto da riuscire ad abbracciarlo e a provare meno solitudine.
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Entro nello studio della dottoressa D. e lei mi dice di accomodarmi, che arriva subito. Mi guardo intorno e questo luogo sembra sempre identico, forse è così che deve essere una terra per i pazzi, dove anche il minimo cambiamento può togliere sicurezza, dare qualche disordine. «Come andiamo?», mi chiede. «Ho un colloquio di lavoro, ma in queste condizioni non posso andare a farlo». Parlo lentamente perché per mettermi in auto e venire fino a qui ho dovuto inghiottire 20 gocce di EN. «Una notizia importante». «Sì, ma io come faccio a farlo? Dottoressa, io non ci riesco, sono due anni che ho lasciato la vita e che mi sono messo in un angolo». «Come vanno le allucinazioni?». «Continuo a vedermi da fuori… delle volte sono in camera seduto a leggere o vicino al computer e all’improvviso non sono più nel mio corpo, sono all’esterno, a volte sul soffitto, delle volte lateralmente e mi guardo leggere e mi faccio schifo, provo odio per quello che vedo». «Le voci?». «A volte, a volte». «La terapia sta andando bene». «Per me no». «Non sei certo tu che puoi dire come va o come non va la terapia». «Come fanno le cose ad andare bene se sto sempre male? Perché a volte dopo dei passi in avanti ci sono delle forti regressioni?». «Non è una formula matematica, i passi in avanti e le regressioni fanno parte del percorso».
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«Io ho bisogno di qualcosa che mi faccia stare meglio, meglio di così, qualcosa di diverso da quelle cazzo di gocce che ormai quasi non fanno più effetto». «Ti prego di non usare brutte parole durante le nostre sedute». «Mi scusi». «Ti prescrivo lo Zoloft, la mattina prendi dieci gocce di EN e mezza pillola di Zoloft, la sera fai la stessa cosa, lo fai per una settimana, passati otto giorni, vai da mezza pillola a una pillola. Lo Zoloft agisce sul lungo termine, gli effetti li potresti sentire tra qualche settimana». Ho paura di chiederle che cosa sia questo psicofarmaco, che tipo di effetti sentirò, a che livello di pazzia sono arrivato, se c’è ancora una strada per tornare indietro. Ci sono delle cose che possono avere una funzione magica, siamo noi che investiamo di magia alcuni oggetti, alcune persone, determinate situazioni e facciamo lo stesso quando si tratta di etichettare qualcosa come “sfortunato”; ci sono magliette che non metto più, sono quelle che indossavo quando ho avuto gli attacchi di panico più forti, oggetti che non indosso più o che ho gettato nella spazzatura, c’è lo studio della mia psichiatra dove non mi sono mai sentito male e c’è la mia psichiatra che con la sua voce mi pettina la paura; c’è il divano del mio salotto dove spesso ho provato a placare la rabbia, ci sono i libri che diventano, di volta in volta, posti preziosi, luoghi che mi proteggono.
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Macerie, è questa la parola che ho passato sulla lingua per mesi dopo la tua morte. Le macerie che ha lasciato la tua sedia vuota a tavola, quando si pranzava o quando si cenava; le macerie della tua assenza sul divano, al mio fianco, durante le partite di calcio in tv, le macerie di tua madre che si è aggrappata a Dio ancora più di prima, perché alcune persone hanno bisogno di rendere solida una speranza, hanno bisogno di credere in qualcosa che vada oltre quello che c’è qui. Le macerie sul viso di tua figlia, sulla sua pelle tatuata, le macerie nei suoi spostamenti pesanti, nei suoi spostamenti leggeri, nel suo spostarsi continuamente per evitare che qualcosa le potesse piombare addosso. Le macerie sul corpo della mamma, che spesso trovavo immobile, come se nell’aria stesse guardando qualcosa, mia madre che spesso vedevo in un angolo, come il pugile che ne ha prese troppe e adesso cerca di respirare, solo di respirare. La prima volta che mi hai portato allo stadio è stato per vedere una partita della Salernitana. Un tuo vecchio amico di Salerno ci aveva invitati per assistere alla sfida contro il Torino. Era il campionato di calcio di serie B, l’anno che poi la Salernitana sarebbe stata promossa in
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serie A. Non sapevo che cosa aspettarmi e quando arrivammo fuori lo stadio rimasi a bocca aperta per la maniera in cui quella struttura occupava lo spazio, per il modo in cui rendeva il paesaggio circostante qualcosa di superfluo, di ornamentale. «Hai visto che bello lo stadio», mi dicesti, specchiandoti nel mio sorriso, fiero di avermi regalato quel piccolo stupore. Non risposi, con un ridere fermo sulla faccia e un solletico marziano che mi stava mettendo in subbuglio lo stomaco. In curva c’erano tantissime persone e intorno a me si alzavano cori e urla e imprecazioni. Per tutto il tempo mi accorsi che più che guardare la partita, guardavi me, era la mia gioia che ti dava gioia, era la mia felicità che ti rendeva contento. Di quel giorno mi porto dietro l’esplosione dello stadio al goal, i tuoi occhi, chi se li dimentica quegli occhi, io ero la naturale conseguenza del tuo corpo, della tua vita, il mio star bene era più importante del tuo. Mi hai fatto capire che un figlio è un miracolo, e che a volte i miracoli sono talmente grandi che diventano difficili da gestire. Avevi sempre la maglia sudata in estate, anche quando stavi fermo, anche quando eri seduto, il tuo viso era sempre imperlato di sudore; questa è una delle eredità che mi hai lasciato, insieme all’andatura, ai movimenti delle braccia, ad alcune espressioni del viso, a pochi ma importanti atteggiamenti: come te sono ghiotto di dolci, come te leggo, come te sono molte cose ma tante altre mi allontanano da te; tu sorridevi sempre, io poco, tu riuscivi ad amare la vita in pieno, io solo in minima parte, tu sapevi essere una persona meravigliosa, io non so quando riuscirò a essere come te. Ogni immagine che ho di te, in ogni momento che ricordi, hai sempre una sigaretta accesa o spenta tra le dita, quelle sigarette che ho odiato e che poi, quando sei morto, ho iniziato ad amare, forse perché il fumo mi ricordava la tua presenza.
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Torna prepotente nella mia testa la tua immagine; è un’immagine in movimento, di te che cammini nel corridoio di casa, di te che entri nella mia camera chiedendomi di un libro che ti sarebbe potuto piacere. Ci sono dei momenti, improvvisi, in cui la mancanza di una persona prende una forma concreta e smette di essere un tormento silenzioso. Ho ripreso l’album di fotografie, dove le tue foto erano ancora vive, dove potevo ancora sentire il tuo suono, il tuo suono che a tratti mi sembrava come quelle immagini dei fumetti che da bambino mi piaceva guardare all’infinito. Mentre sfogliavo le foto, mi sono chiesto come potesse essere mai possibile che una persona sparisca. Che razza di gioco perverso è questo, dove dei pezzi di te sfumano nel nulla e non hai la possibilità di reagire? Ho pianto. Questa cosa che tu non ci sei più non è accettabile; il non averti nemmeno potuto salutare, averti visto sparire come dentro un buco nero. Mi sono trovato con le mani che tremolavano, mi ha assalito la paura di non riuscire a ricordare i tuoi gesti, il modo in cui muovevi le labbra quando parlavi, i sorrisi che mi regalavi nei momenti cupi. Non tornerà mai più nulla di tutto questo, resterai soltanto dentro di me. Ho avuto difficoltà a calmare la mente, i pensieri che cercavano di correre in troppe direzioni per confondermi. Ho chiuso l’album di foto riponendolo nel cassetto, ho lavato la mia faccia umida, raccolto l’aria nei polmoni, mangiandola a grossi morsi e ho incominciato a scrivere. La scrittura era l’unico luogo in cui riuscivo ancora a essere al tuo fianco. Bisogna celebrare i morti, non con la parola, ma con i gesti. Bisogna ricordarli da vivi, cercarne la presenza negli utensili, nei profumi; ascoltarne l’eco nei luoghi che hanno contaminato. Ho cercato le mani di mio padre in un filmato e il ricordo mi è salito su nella spina dorsale, poi è sceso nella pancia ed è stato come lava. La voce dei morti ci arriva dal futuro, dovremmo sentirci in dovere di rendere sacra la loro memoria.
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Siamo tutti in un posto preciso del passato a compiere un movimento, a sentirci protetti da due braccia, una stretta che ci ha fatto battere il fiato. Ho imparato che il lutto è un oggetto che prende spazio nel corpo e ci resta per sempre, è qualcosa che si attacca alla carne, come un tatuaggio, come una bruciatura, e non esiste separazione, non esiste fuga. Bisognerebbe raccogliere i pezzi caduti nella memoria per riuscire a dare al presente maggiore consapevolezza. Bisognerebbe, forse, avvicinare chi ci vuol bene, tenere stretto il dolore, lasciar andare il vuoto. Dovremmo rispettare il viaggio, rispettare chi ci dichiara un addio; bisognerebbe guardare il cielo senza cercare il lutto e osservare la terra senza pensare alla morte. Dovremmo, forse, pretendere di capire dove finiscono i luoghi che sono stati nel nostro corpo. Dovremmo correre da chi ci ha promesso senza mantenere, per capire quali errori sono stati nostri, dove abbiamo sbagliato e fin dove può arrivare un dolore per il quale non esiste espiazione. Verrà sempre quel momento in cui tu mi venivi incontro, sorridendo, mi dicevi che avresti mangiato le zeppole, era la tua festa. Ma io in quel giorno non ci sono voluto più entrare e allora faccio qualche passo indietro e mi fermo qui, al limite, ché se facessi un altro metro affonderei. Non esiste divisione, in ogni parte del mio corpo c’è un ricordo: nella testa riaccadono le tue facce stanche, le mani bianche con il confine giallo, la nicotina del tuo fumare. Nelle braccia succedono le tue preoccupazioni, così come nelle gambe. Nelle ossa c’è il tuo sorriso, come quel giorno in cui mi dicesti: «Bravo!», ed io nel grembiule blu della prima elementare ho conosciuto la prima felicità. Nella gola c’è l’assenza, perché anche quella è un ricordo, perché anche quella è materia; l’assenza dei giochi al parco, l’assen-
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za dei consigli, di quando volevi spiegarmi come poi si faceva l’amore. Nel petto ci sono le partite a calcio, il sudore sulle magliette sporcate dal sole, l’acqua fredda, quando mi dicevi di bere piano. Nello stomaco ci sono i passi in questa casa che fa rabbia, i passi vuoti delle tue scarpe abbandonate sul terrazzo, il rumore che continua a girare, della tua voce, quando mi chiamavi perché era pronta la cena. Nella pancia ci sono le lacrime, ci sono il bambino, il ragazzo, l’uomo. Maneggiare con cura, mi ripetevo; il tuo essere presente ancora nei muscoli, nei nervi, sotto le dita che battono su una tastiera. Ho provato a imitare il tuo modo di dare lustro al viso, con il sorriso imperfetto di quelli storti; ma non ci sono mai riuscito, ogni tentativo di renderti vivo nei miei gesti è stato un aborto pieno di dolore. Mi perdonerai se non sono felice come te, gioioso come te, innamorato della vita come te; mi perdonerai se mi trascino dietro sempre una malinconia gentile che infetta tutti i miei luoghi, i rapporti, le persone. Parlare di mancanza senza parlare di mancanza; è questo che fanno gli scrittori, no, papà? Parlarti di qualcosa senza mai nominartela. Sarebbe bello ritrovarti accanto, una sera, mentre la stanza è sommersa dall’ombra e le mie mani sono stanche di scrivere. Voltarmi e vederti lì, quasi per caso, al mio fianco; magari osservare il tuo viso attento e ridere senza pretendere parole. La mia gola avrebbe mille intoppi, il mio petto riuscirebbe, forse, a respirare piano, ma i miei occhi, quelli, non potrei lasciarli in pace. Ti chiederei cosa pensi di me, adesso, dopo tutto il tempo che ci ha tenuti distanti; mi basterebbe il vento che entra dalla finestra per avere i muscoli meno pesanti. So che mi diresti: scrivi, ancora scrivi. Sorrideresti piano, come ricordo sapevi fare tu. Avrei difficoltà a mettermi in piedi e allora mi dovrai permettere di restare seduto. Anche quando te ne andrai. Anche
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quando, piano, ti alzerai dalla sedia vicina alla mia e indicherai il buio, fuori, nella notte. Sarebbe bello se il tuo dopobarba riempisse di nuovo la stanza, come quando ero alto nove anni ed entravo nel bagno dopo che avevi fatto la barba. Rimarrei solo nella camera e avrei paura, come quando da bambino non riuscivo a dormire e volevo che tu restassi vigile a sorvegliare il mio corpo.
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È da due settimane che seguo la nuova cura, gocce di EN al mattino e alla sera, seguite da una compressa di Zoloft. Ho ripreso ad andare in bicicletta e riesco a camminare per più di cento metri senza avvertire le vertigini. Ho fatto il colloquio di lavoro e ci sono buone possibilità che io possa iniziare a breve. Il mio umore è migliorato, la stanchezza causata dalle gocce viene smorzata dallo Zoloft, che è a tutti gli effetti un antidepressivo. È da qualche giorno che non penso al suicidio, che la mattina mi alzo dal letto prima di mezzogiorno, che il pomeriggio provo a uscire di casa, che guido (in città) senza problemi. Mi sento come un drogato, i miei organi hanno bisogno di sostanze chimiche per cercare di stare in equilibrio, a tratti lo Zoloft mi esalta, mi fa fare cose che non avrei mai pensato di fare con tanta scioltezza, come leggere in pubblico o diventare il centro di un discorso tra più persone; mi ha fatto perdere la timidezza e mi ha dato la possibilità di parlare, parlare, parlare senza mai fermarmi. La psichiatra mi aveva avvisato che ci poteva essere la possibilità che il medicinale non facesse effetto e invece a me sembra quasi un miracolo; ricomincio a vedere le cose in maniera differente o, se vogliamo, ricomincio a vedere le cose in maniera normale, come prima che mi cadesse addosso il buio.
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Le mie sedute di psicoterapia si sono ridotte a una a settimana. Sono passati otto mesi da che faccio uso di Zoloft, la psichiatra mi osserva come sempre in silenzio all’inizio di ogni seduta, poi parla. «Dobbiamo pensare alla possibilità di smettere il consumo di Zoloft». Mi irrigidisco e ora che il mio corpo è acceso e sente tutto, ogni minimo spostamento organico, perché la terapia è stata utile a risvegliare delle membra che erano come finite in un freezer, avverto il cuore che accelera, ho paura. «Perché?». «Lo Zoloft non fa effetto dopo otto mesi, il corpo va in assuefazione, tu, ad oggi, non stai beneficiando degli effetti del farmaco. Stai facendo tutto da solo, al massimo è possibile che tu stia avendo giovamento a causa di un effetto placebo». Ci stavo davvero riuscendo da solo? Considerando che le gocce di EN che prendevo da due anni non avevano in pratica più alcun effetto, tutto quello che stavo facendo, le passeggiate, stare in mezzo alla gente, avere una vita che si avvicinava alla normalità, erano tutte cose che stavo portando avanti solo con la mia forza? «Ci penso». «Francesco, io sono il tuo medico e se ti dico che lo Zoloft ad oggi è inutile, ti devi fidare. Anzi, ti dirò, è pur sempre un medicinale, ed è pur sempre qualcosa che può fare danni nell’organismo». Abbiamo deciso che smetterò lo Zoloft un po’ per volta, un conto alla rovescia, ricomincerò nuovamente a prendere mezza pasticca per due settimane fino, poi, a interrompere il trattamento; le gocce di EN le posso prendere all’occorrenza, nel
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caso in cui dovessi avere un attacco di panico. Passo tutta la sera a cercare di darmi forza, di darmi fiducia; sembra che le tenebre me le sia lasciate alle spalle ma non mi fido, non posso fidarmi. I primi mesi senza Zoloft vanno bene, sento un’energia nuova, sento che c’è qualcosa di diverso che mi aspetta. Riprendo anche a scrivere, non scrivevo da tre anni. Devo andare a Napoli per un incontro di lavoro, questo significa che devo guidare in autostrada, da solo (nessuno può accompagnarmi), devo allontanarmi da casa, devo affrontare delle cose normali che per me ormai da mesi e mesi sono come ostacoli. Entro in auto e stringo forte nella mano destra la boccetta di EN, non le prendo da mesi, il mio corpo si è completamente disintossicato dai farmaci. I primi minuti in auto faccio un po’ di fatica a tenere le mani ferme sul volante, c’è un leggero tremito, qualcosa di sotterraneo che mi manda dei segnali; entro in autostrada, faccio un respiro ampio, c’è un cielo azzurro, trasparente, un sole luccicante ma non fa caldo, accendo la radio per ascoltare un po’ di musica, provo a comportarmi come una persona sana. Quando arrivo sul posto faccio fatica a trovare un parcheggio, manca poco all’appuntamento e rischio di tardare e mi accorgo che nel flusso di pensiero continuo e veloce inizio a perdere il respiro, porto una mano alla gola per sentire il battito del cuore che sta aumentando vertiginosamente, prendo la boccetta di ansiolitici, ma poi mi fermo, mi dico: calma, mi dico: non succede niente. Provo ad ascoltare il corpo, la sua voce, a comprendere la sua grammatica. Parcheggio, scendo dall’auto con le gambe che cedono appena, vado all’incontro. Dopo un’ora sono di nuovo in auto e sto andando verso casa, mi sento felice, sono emozionato, dopo tre anni ho fatto trenta minuti di autostrada in solitudine, sono andato così lontano da casa da solo e senza l’aiuto dei farmaci. Che bello, penso; e mai avrei pensato a così tanta felicità per una cosa che fino a qualche anno fa avrei fatto senza nemmeno accorgermene.
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Due mesi dopo perdo il lavoro, il mio contratto era a tempo determinato e non c’è possibilità di rinnovo, con me finiscono per strada altri due ragazzi. Mentre torno a casa penso che adesso ho trent’anni, che adesso non ho più un lavoro, che adesso non so nemmeno da dove iniziare per trovarne uno nuovo. Passo giorni tribolati, mando curricula, ma nessuno mi chiama per un colloquio, nessuno mi risponde, vago per la casa con un malessere oscuro che come un masso pesa sul petto, è la rabbia? Mi chiedo. È la paura? Durante le sedute di psicoterapia vedo la dottoressa D. notevolmente preoccupata per l’assenza di un lavoro nella mia vita. Prova a rincuorarmi, mi chiede di non lasciarmi andare adesso, che siamo a buon punto. Poi accade, e accade in modo violento, accade come un attacco animale. Mi sveglio in un bagno di sudore e sento il cuore che salta qualche battito nel petto, tempo dopo avrei saputo dare un nome a quel movimento: extrasistole. Intorno a me è tutto buio, un buio che mi pare fitto, un buio come una parete di gomma nera che emana calore, mi metto seduto e il mio cuore parte furioso, i miei battiti cardiaci aumentano spasmodicamente, i tonfi nel petto sono talmente forti che mi manca il respiro, intorno a me non vedo niente, ho degli spilli sulla fronte, c’è qualcosa che striscia sulle mattonelle vicino ai miei piedi, provo a urlare ma il suono mi si incastra nelle corde vocali, corde vocali che diventano di piombo; mi alzo e riesco a chiamare mia madre con una voce frantumata, vado in cucina e sento tutta la parte sinistra del torace che tira, il braccio, il petto, il cuore che va sempre più veloce, non riesco più a contare i battiti, non riesco più a respirare, sudo, mi contraggo, mia madre cerca le gocce di EN ma non le trova, io sono convinto che ci sia un infarto in corso nel mio corpo. Mia madre mi porta le pasticche di Zoloft, prese così, adesso, non servono a nulla, ma è l’unico modo per capire se è nella mia testa che c’è il panico o se mi si sta rompendo qualcosa organicamente. Mando giù la pillola di Zoloft, mi sdraio sul
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divano della cucina, non riesco a capire se sono vigile o se non svenuto; la luce artificiale del lampadario è come uno schiaffo, il colore del pavimento, il colore del tavolo, il colore delle mie mani che scompare diventando trasparente, la faccia di mia madre che si trasforma in una bocca sdentata, i miei piedi che diventano liquidi e iniziano a colare, la finestra spalancata e il balcone fuori, nelle tenebre gialle, sporche, piene di polvere. Tutto diventa inconsistente, ma avverto che il cuore ha preso a calmarsi, adesso va più piano, mia madre mi parla e mi aiuta a stendermi sul letto, io muovo la bocca ma non so se parlo, non so che cosa dico. L’unica cosa che mi viene in mente è che un attacco di panico così forte io non l’ho mai avuto. Assumo una posizione fetale e lascio la luce della camera accesa per paura di ritrovarmi in quel buio di poco prima, cerco una chiusura come quando da bambino vedevo un film di paura e poi mi avvolgevo nelle coperte e mettevo la testa sotto il cuscino; sono stremato ma non riesco a dormire e allora poso il palmo della mano destra sul torace per tenere sotto controllo le pulsazioni e a tratti, quando penso a quello che è appena successo, il cuore prova di nuovo a correre veloce e mi tocca respirare a fondo e concentrarmi su altro, sono le cinque del mattino, mia madre è in cucina con una tazza di camomilla davanti e da oggi credo che le cose andranno molto peggio di quanto io abbia mai potuto immaginare. La psichiatra mi dice che gli attacchi di panico non esistono, che l’ansia non esiste. Quando ci sentiamo male è solo paura, paura che viene innescata nel momento esatto in cui sentiamo un’emozione e non siamo in grado di riconoscerla. Quando diciamo: ho l’ansia, in realtà non stiamo dicendo niente, l’ansia è un’emozione a cui dobbiamo riuscire a dare un nome e solo così si può tentare di gestirla. Ho l’ansia può voler dire: sono arrabbiato, oppure, sono spaventato, o addirittura, solo felice. Tutte e quattro le emozioni possono avere valenza sia
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negativa che positiva, dipende tutto dall’uso che noi ne facciamo. Io sto morendo.
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Quando tagliavi il prato della casa in campagna ti osservavo da lontano, spingevi il tosaerba e facevi delle buffe espressioni con la faccia, sudavi, restavi a petto nudo e a volte nello sforzo fumavi una sigaretta. Partivi dal fondo, dalla porzione di terra che si trovava vicino al ruscello, io intanto giocavo con le formiche, giocavo a tagliuzzarle, a decidere della loro vita come fossi un Dio, ma ogni tanto alzavo lo sguardo per vedere dov’eri. Spesso mia sorella ti seguiva a distanza, come se i movimenti di quella macchina potessero racchiudere elementi fantastici a noi sconosciuti. La mamma restava seduta, o innaffiava le piante. Erano giornate che iniziavano con l’erba bagnata, con la rugiada che si attaccava ai petali dei fiori, con l’aria fredda che faceva il solletico nei polmoni. Compravamo il giornale sportivo perché c’era il calciomercato e allora dovevamo tenerci informati su quale giocatore avrebbe comprato l’Inter, su chi avrebbe deciso di vendere. Mi spiegavi gli alberi di noci, le castagne, mi spiegavi la terra, come si potevano ottenere i pomodori, mi spiegavi gli uccelli, i merli, le cornacchie, qualche falco, le civette e i barbagianni, alzavamo la testa verso il cielo quando la luna era rosso sangue e io ti raccontavo che in un film si diceva che era il colore con il quale gli indiani andavano a caccia.
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C’era una grotta in cui tu mettevi il vino anche se eri astemio. Ne compravi in quantità così da poterlo offrire quando sarebbero arrivati gli amici. Quando gli toglievamo il guinzaglio, correva fino allo sfinimento, non riusciva a credere a quello spicchio di libertà che gli avevamo regalato, era un cane, un Siberian Husky. Lo portasti a casa una sera di inizio autunno, io andavo alle scuole elementari e avevamo sempre parlato di voler prendere un cane. Entrasti dalla porta con una scatola di cartone tra le mani e mi dicesti: «Abbiamo un cucciolo». Posasti la scatola sul pavimento e io quasi non riuscii a credere a quello che stavo vedendo. Quello è stato uno dei momenti in cui sono stato più felice, perché la felicità è una scossa, la felicità non può essere duratura, la felicità è una botta, qualcosa che arriva e va via e proprio per questo, per la sua precarietà, è così bella. C’erano quelle sere in cui passavi le ore in cucina, fumavi una sigaretta dopo l’altra, componevi il numero di mia sorella sulla tastiera del telefono e lei non rispondeva; quando usciva con le amiche non rispondeva mai. Tu guardavi l’orologio sulla parete della cucina e più passava il tempo più ti vedevo preoccupato; la mamma ti diceva di tornare a dormire, ma tu niente, tua figlia non rispondeva al telefono, era notte fonda, c’era una paura selvaggia che ti si appendeva sul viso e ti faceva somigliare a una maschera di legno. Io inglobavo il tuo spavento facendolo mio, la tua paura diventava qualcosa che raccoglievo e mettevo sotto la pelle e fin quando mia sorella non ritornava o non rispondeva al telefono, passavamo il tempo a sbuffare, a fare zapping sul televisore, a parlare di cose banali per fingere tranquillità. Poi mia sorella rientrava, tu le dicevi poche cose, con voce ferma, come se quelle tue parole avessero potuto cambiare le cose, come se quella tua collera silente per l’ora tarda le avrebbe fatto capire che quando faceva tardi doveva avvisare; ma lei è stata sempre un’anarchica, è stata sempre una piccola
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donna che credeva nelle sue leggi e negli spostamenti soggettivi del mondo. Uno dei boati che ha provocato la tua assenza è stato quell’attesa, quell’aspettare mia sorella, quel vederci vicino al tavolo della cucina nelle ore tarde, quel farci compagnia nell’insonnia. Ho passato i primi anni di vita in un girello, nel negozio di alimentari di mia nonna paterna, di fianco a mio nonno che aveva la SLA. Secondo la psicoterapeuta questa è una delle cause dei miei problemi. Guardavo mio nonno che non poteva muoversi, lo vedevo debole, fragile, lo vedevo mentre gli portavano un bicchiere di acqua alle labbra per farlo bere, lo vedevo nelle difficoltà di deglutire e, nel mio essere bimbo, diventavo quella difficoltà, diventavo i suoi muscoli che si stavano atrofizzando, diventavo la sua paura della morte, diventavo quell’acqua che a ogni sorso avrebbe potuto dissetarlo o strozzarlo. Mi muovevo nel girello con degli spostamenti veloci, vedevo, nei suoi occhi, la disperazione di non poter prendere tra le braccia il primo nipote, aveva una patina umidiccia nello sguardo e le palpebre erano appese. La malattia era come un vestito, come un costume che non sarebbe più riuscito a mettere via. Era circondato dagli sguardi incerti dei figli e della moglie e dei parenti e dei clienti del negozio, era circondato dalle parole che nessuno riusciva a dire, da sorrisi finti, da movimenti artificiali. Mi hanno raccontato che una volta gli ho lanciato un pallone sperando che si alzasse dalla sedia a rotelle e me lo restituisse, mi hanno detto che si è messo a piangere, che quella è stata forse l’impossibilità più dolorosa da quando era malato. È probabile che in quei primi anni di vita io abbia assorbito la malattia di mio nonno, che l’abbia assorbita come ho assorbito il dolore che lo circondava, la disperazione silenziosa di mia nonna e di mio zio, le cose che non riuscivate a dirvi tu e la mamma quando parlavate di lui, ho assorbito poi il lutto, la prima morte che mi ha colpito da vicino, le voragi-
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ni della prima perdita (inconsapevole, allora) della mia vita. E tutto questo assorbire, tutto questo ingolfarmi di male, mi ha costretto, un giorno, molti, molti anni dopo, ad andare in frantumi; quel dolore che era rimasto silente ha deciso di uscire fuori, come il magma con il suo vulcano. Della morte di mio nonno paterno non ho ricordo, ma c’è una scena che continua a girarmi dentro e lo fa con una dolcezza e al contempo con una forza che ogni volta è come se la vedessi per la prima volta. Erano i primi anni delle scuole medie, ero in cucina, la luce fredda del lampadario rendeva tutto severo, fuori era notte, io stavo facendo i compiti sul tavolo di marmo; tu ed io avevamo appena avuto una discussione, avevamo parlato della scuola, delle mie insufficienze; poi ti eri alzato ed eri andato fuori al balcone, ti vedevo di spalle, la tua schiena si gonfiava e si sgonfiava a ritmo sostenuto ma violento, ricordo la mamma che venne fuori al balcone per raggiungerti lasciando la finestra aperta, ricordo che quando ti vide in viso rimase di sasso, ricordo che ti chiese: «Che succede?». E ricordo il filo di voce con cui le rispondesti: «Mi manca mio padre». Ti mancava tuo padre, dalla sua morte erano passati quasi sedici anni e la sua assenza non smetteva di creare baratri. Stavi piangendo per una morte di sedici anni prima, stavi piangendo un padre che non vedevi da sedici anni. Rimasi sulla sedia e mi sentii colpevole, con quel nostro litigio credetti di aver aperto un varco, di averti fatto cadere dentro dei ricordi, dei ricordi che si erano avvicinati troppo, fino a scuoiarti. C’era la sensazione di ferro sotto i denti, come se la mia lingua fosse diventata metallica e c’era la mano della mamma che ti carezzava dietro la schiena ad accomodare i singhiozzi e poi c’era la mia staticità, la colpa che sentivo addosso e c’eri tu che piangevi e io non ti avevo mai visto piangere e quelle lacrime erano una disillusione, quello è stato forse il primo giorno in cui ti ho visto arreso agli eventi, sconfitto, il primo giorno in cui sei diventato mortale ai miei occhi.
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Tu manchi da dieci anni e in quei momenti di bilico in cui avrei voluto chiederti dei consigli ti ho cercato nei luoghi che ti facevano stare sereno, come il mare, come quella volta che con una mano sotto la pancia provasti a insegnarmi le leggi della fisica, provasti a spiegarmi che il corpo restava a galla. Con quella mano sotto la pancia io davvero riuscivo a non affondare e mentre cercavo di fare qualche bracciata tu mi seguivi piano incitandomi a respirare. Togliendola mi avevi tradito, ebbi paura che il mondo fosse diventato un posto cattivo. Quella giornata di mare c’era un’acqua bianca e salmastra e c’era la mamma che indossava un costume nero a un pezzo e mia sorella che correva sulla battigia con una paletta in mano e la mutandina del costume che sembrava le andasse troppo grande. Ridevamo molto, tu eri felice, tu eri spesso felice, lo capivo dalla maniera che avevi di mangiare, o da come entravi in mare, lo capivo dal modo in cui abbracciavi la mamma e dalla maniera che avevi di leggere i libri, nel primo pomeriggio, prima di dormire. Io, invece, restavo sempre turbato, avevo sempre qualcosa di malinconico e nodoso che mi si chiudeva dentro lo stomaco, in questo tu ed io non ci siamo mai somigliati, nella gioia siamo diversi. La foto sulla tua lapide l’ho scelta io, ho preso quella che più si avvicinava alla tua morte, quella dove avevi i capelli leggermente argentati e la camicia bianca con le righe azzurre, un sorriso appena accennato che ti riempiva tutta la faccia, il viso un po’ paffuto perché negli ultimi tempi avevi messo su qualche chilo. In quella foto avevi anche delle occhiaie evidenti, forse la notte prima avevi dormito male, forse la notte prima era estate e il condizionatore in camera tua non funzionava bene e tu con il caldo non riuscivi a dormire, le notti di afa ci incontravamo sempre nel salotto, a ora tarda, a bere acqua fredda con il limone e ad asciugarci la fronte con la carta del rotolone. Nel tuo portafoglio, dopo che ti hanno seppellito,
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ho trovato una rubrica piena di numeri che non chiamerai più, una foto della mamma, una foto di noi quattro, l’immagine di un santo, alcune monete straniere e il sentore del profumo che ti mettevi addosso tutte le mattine, quel profumo che ho sentito per giorni e giorni, dopo la tua morte, per casa.
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Sembra che tutto sia ricominciato, sembra che tutto sia addirittura peggio di prima. Gli attacchi di panico hanno distrutto il fortino di casa e adesso nessun luogo è sicuro. Ho chiesto alla psichiatra di poter riprendere lo Zoloft ma non sono riuscito a convincerla. Posso fare affidamento sulle gocce di EN, mi dice. Tutta la terra che avevo guadagnato inizia a scivolarmi sotto i piedi. Scendo di casa e provo ad andare dal tabaccaio per comprare un pacchetto di sigarette, fa molto caldo e già dopo i primi due, tre passi, sento di non farcela, la sensazione di panico si arrampica appena vicino lo stomaco e mi costringe a fermarmi, sotto un sole cocente, nel bel mezzo di una strada, sono da solo e non posso muovermi, non posso tornare indietro né posso proseguire in avanti, prendo il telefonino e chiamo mia madre, non risponde. Nel petto un tonfo fortissimo mi crea un dolore sordo, poi un altro tonfo e poi il cuore inizia a battere in modo irregolare, batte, batte veloce, veloce, poi si ferma, si ferma per due tre secondi, poi riparte veloce, salta i battiti, si prende delle pause che mi consumano l’aria. Mi accascio al suolo, l’asfalto mi ustiona i palmi delle mani, sento un caldo lavico salire dal basso fino ad arrivarmi sulla faccia, con la nuca mi appoggio alla carreggiata, il mio cuore continua a essere irregolare, sto morendo. L’allucinazione di essere vivo
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è la mia figura che si stacca dalla scena e sale a qualche metro di altezza, adesso mi vedo dall’alto, vedo delle persone che si avvicinano, che chiamano un’autombulanza, vedo qualcuno che mi controlla il battito cardiaco. Io non ci sono, tutto ciò che resta di me è una paura fottuta, che pesa, sono diventato paura. Sopra l’autombulanza mi parlano, mi chiedono nome e cognome, io sono stranamente lucido, ho perso dei pezzi della realtà, non ricordo come sono finito lì, c’è puzza di alcol, io puzzo di sudore. Arriviamo al pronto soccorso e mi sottopongono a un ECG, poi a un prelievo del sangue per verificare se c’è stato un infarto. Si avvicina un medico con i capelli bianchi, lunghi, il viso stanco, il camice sgualcito e sporco in alcuni punti, come intorno ai polsi, o appena sotto il busto. Mi dice che sto bene, è stato probabilmente un attacco di panico, ne soffro per caso? Mi chiede. Io non rispondo, gli dico che sento il cuore che salta i battiti nel mio petto, continuamente, lui le chiama extrasistoli, mi dice che in questo caso sono dovute al forte stato di stress in cui mi trovo. Le extrasistoli sono durate mesi, ogni giorno, ogni minuto, ho avuto un cuore che batteva e si fermava a suo piacimento, come se nel mio torace ci fosse un perenne corto circuito. Se sono ancora vivo non è per me, se resto vivo non lo faccio perché ho voglia di continuare, lo faccio per chi mi vuole bene, per mia madre, per mia sorella, lo faccio per le persone che stanno provando a lottare insieme a me; ma la parte oscura di me, dopo questa ennesima caduta, avrebbe voluto che mi togliessi la vita, avrebbe voluto un po’ di pace, avrebbe voluto smettere di odiare le strade, le auto, le persone, la calca, i luoghi chiusi o quelli troppo aperti, avrebbe voluto dismettere le allucinazioni, smettere di dipendere dalle medicine, smettere di far soffrire chi mi vede affondare sempre di più. È sbagliato pensare che il suicidio sia il gesto di chi non ama la vita, quando io penso al suicidio ci penso in virtù di una persona
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che ama follemente vivere, che ha amato follemente la vita di prima e proprio questo amore sconsiderato lo porta a volerla fare finita, il suicido è il gesto estremo di chi non accetta la vita come percorso finito e che quindi, con quel gesto, si sbilancia verso l’infinito. In fondo uccidersi è l’unico per sempre. Sono più le ore di sonno che le ore di veglia, durante una giornata. Esco di casa solamente per andare a fare psicoterapia e anche questo percorso mi ha instillato molti dubbi e molte volte ho discusso con la dottoressa D. della possibilità di interrompere la terapia perché per me non stava servendo a un cazzo di niente. L’unica cosa che faccio oltre che dormire è scrivere. Ho incominciato a mettere giù delle idee per un romanzo e quando riesco a trovare la forza di alzarmi dal letto, quando non ho fatto il pieno di medicinali, quando riesco a mantenere la mano ferma sul foglio, mi siedo dietro la scrivania della mia camera con la lampada accesa e scrivo. Il romanzo che sto scrivendo si chiama La bambina celeste ed è la storia di un padre che in prima persona racconta la sua vita: l’incontro con una ragazza bellissima che diventerà sua moglie, l’attesa di una bambina, Giorgia, la malattia di Giorgia (tumore al cervello) e la morte della piccola. Un libro sulla sofferenza vera, dura, forse anche una maniera per sublimare la morte di mio padre. Un libro che mi sta aiutando a focalizzare i miei pensieri su un male solido che si può vedere e non su un male subdolo, un mostro invisibile contro il quale non puoi lottare a mani nude, contro il quale non puoi progettare una battaglia corpo a corpo. Mentre lo scrivo provo a pormi un obbiettivo, andare alla Fiera del libro di Roma e cercare di prendere qualche contatto con degli editori. Il romanzo, la stesura del romanzo, diventa il mio obbiettivo di vita, lascio alle spalle i pensieri di suicidio, lascio alle spalle le allucinazioni e alcune mattine dimentico perfino di fare il pieno di EN, sento le energie che ritornano piano, non sto
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più a chiedermi quando e se riuscirò a uscire di casa, quando passerà la tristezza, quando smetterà l’angoscia sul fondo dello stomaco, non sto più a domandami perché sono crollato di nuovo e più rovinosamente, non ho il tempo di farmi tutte queste domande, l’unica cosa che importa veramente, adesso, è che io riesca a finire questo libro. Mi sveglio all’alba, ho rivisto il romanzo almeno tre volte, mi guardo allo specchio, ho i capelli sporchi, luridi, la barba lunga, le occhiaie, la pelle del viso sembra guasta e i miei occhi sembrano senza luce, domani devo prendere un treno per Roma, da lì dovrò prendere la metropolitana che mi porti alla fiera, dopo di che dovrò entrare fisicamente in fiera, con il caldo, le persone, gli spazi chiusi. Un terrore preistorico mi si infila tra le ossa e i muscoli e sento ogni parte del mio corpo debole, assente. Ma mentre continuo a osservare allo specchio questo viso che non mi appartiene, questa faccia che non so riconoscere, penso che l’unica cosa che mi ha mantenuto in vita, durante questo periodo, è stata scrivere e che adesso andare a Roma è una cosa che mi devo, posso anche svenire, posso anche subire il panico, posso essere affogato dalla paura, ma lo devo fare, lo devo fare per me e per mia madre, lo devo fare per mio padre e per la sua morte, lo devo fare per le giornate passate in un letto a dormire e per la luce del sole che non vedevo mai, che avevo dimenticato; lo devo fare per tutte le medicine di cui ho abusato e per la somma di tutte le ore in cui ho pensato che lanciarmi nel vuoto dal quinto piano della mia camera sarebbe stata la soluzione più veloce per risolvere la disperazione. Lo devo fare per tutti i libri della mia libreria che mi hanno salvato la vita e lo devo fare per la scrittura che mi ha aiutato a focalizzare le mie energie sulle pagine. Siamo tutti un mucchio di parole che non corrispondono alla realtà, siamo tutti frasi spezzate, lasciate a metà, punti interrogativi messi male, periodi con la sintassi sbagliata, frasi intere senza regole grammaticali.
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Prendo il rasoio e lo passo velocemente sulle guance, sotto il mento, sopra le labbra, lo passo quasi con violenza, con la voglia di capire che forma abbia il mio volto, per capire se è ancora uguale a quello nelle vecchie foto stampate sulla pellicola, quella al parco dei mostri, quella sul lago di Sirmione dove sorrido e sembro sereno. Adesso mi accorgo che devo essere ingrassato, forse sono semplicemente gli psicofarmaci, poi riprendo il rasoio elettrico con il quale ho appena finito di tagliare la barba e regolandolo su una lunghezza maggiore lo passo sulla testa, seguo la curva del cranio, vedo i capelli cadere giù a ciuffi come debellati da un veleno. Ecco, penso, adesso se non mi riconosco allo specchio è normale. Prima di salire sul pullman faccio scivolare sotto la lingua quindici gocce di EN, aspetto che il corpo si rilassi, che le pupille si dilatino, il cielo pieno di nuvole inizia a sembrarmi più basso, le pozzanghere sull’asfalto odorano di terra bruciata, ho una sensazione di amaro nella bocca e poi nella gola e poi nello stomaco e poi un piccolo conato di vomito mi si ferma appena sopra il pomo di Adamo; calma, mi dico, calma. Sull’autobus c’è poca gente, non riesco a vedere bene i volti delle persone perché ho la mente in subbuglio e negli occhi passano strane allucinazioni di volti in disfacimento, gelatinosi, in procinto di disfarsi; mi siedo al mio posto e mi concentro su un libro da leggere per evitare di guardami intorno. Arrivo alla stazione degli autobus di Roma con il cuore che cade in frantumi a forza di scossoni, non appena sono per strada entro nel bagno di un bar per prendere altre dieci gocce di medicinale. Quando sto per entrare in metro le ombre si confondono con la luce e vedo delle forme astratte che prendono consistenza sotto i miei piedi, è come se le mattonelle si stessero muovendo mischiandosi a cose nere e vischiose; metto una mano vicino al muro per cercare di non perdere l’equilibrio, i suoni mi arrivano distorti, confusi, amplificati, le persone
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che mi passano di fianco pare mi guardino, qualcuna sembra interessarsi a questa figura scialba, insignificante, che si sente vicino a franare, che sente di non valere nulla, che avverte sotto le mani tutta la debolezza dell’essere umano. Poi penso allo zaino che porto dietro le spalle, penso che nello zaino ci sono tre bozze del mio romanzo, penso che quelle bozze io devo portarle alla Fiera del libro, che è il mio compito, che è il mio obbiettivo e che tutto il resto, tutti i problemi, tutte le pazzie della mia testa devono aspettare.
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I giorni fermi sono stati quelli dell’attesa all’ospedale di Benevento, quelli in cui a ogni risveglio ci avrebbero potuti chiamare a casa per dirci che tu eri morto; i giorni in cui ogni mattina prendevo dall’armadio il tuo abito blu scuro, la tua camicia bianca, la cravatta, perché per morire bisogna vestirsi per bene. Siamo rimasti tre giorni nel limbo di luci bianche e mura scrostate e pioggia, mentre tu eri in sala rianimazione e mentre a tutti noi era ormai chiaro il concetto che non ti avremmo più rivisto, non da vivo. Zio P. è stato sempre un uomo freddo, una persona composta che sfuggiva a qualsiasi tipo di emozione. Quella sera al pronto soccorso, tuo fratello A. era disperato, vedevo nei suoi spostamenti la scoperta del male, il ritorno di quel vento che ti spezza; mentre zio P. se ne stava seduto sopra una panchina di metallo, di fianco alla nonna, in silenzio, con la schiena dritta, con gli occhiali perfettamente posizionati sul naso, con una rigidità muscolare importante, se ne stava lì, con le braccia che gli scendevano lungo le gambe e le dita delle mani larghe, lontane l’una dall’altra. Il dolore della tua morte ci è passato addosso come un macigno e tutti, almeno nei primi giorni del coma, abbiamo pianto da soli o davanti al mondo per caccia-
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re via quella tossina che ci stava consumando gli organi uno a uno e in maniera meticolosa. Ma zio P. no, lui è rimasto sempre composto, sembrava che la tua imminente morte non lo stesse toccando, lui, il più piccolo di tre fratelli, lui, l’unico figlio che aveva dovuto dividere in casa il lutto con la madre, dopo la scomparsa del padre. Un pomeriggio zio A. gli è andato vicino mentre eravamo all’ospedale di Benevento e gli ha chiesto di seguirlo in bagno, quasi come se fosse un ordine. Io li ho fatti andare avanti, i miei zii, e dopo li ho seguiti. Mi sono fermato nell’antibagno, proprio sul limite della porta, ricordo le luci bianchissime e questo bianco che si spargeva ovunque, che si distendeva sulle pareti, sul pavimento; ricordo la voce di zio A. dire: «Forza, adesso devi piangere, non ce ne andiamo da qui fin quando non piangi». E poi ricordo il silenzio, un silenzio che nella mia testa è durato ore, ma che in quel bagno sarà durato appena qualche secondo e dopo quel silenzio due, tre respiri pieni di collera, di sofferenza, pieni di tutte le cose ingiuste che l’uomo è costretto a subire e, subito dopo, zio P. è scoppiato in un pianto disperato, tutto il bagno è diventato il suo pianto, anche i rubinetti di metallo e i lavandini e le porte di plexiglass sono diventate le sue lacrime. Ho aspettato che zio P. smettesse, ho atteso che zio A. parlasse di nuovo e poi sono andato via, tornando fuori, dove c’era un pomeriggio di inizio novembre che stava finendo, si vedeva appena una luna difettosa, si vedeva appena qualche stella, c’era poco vento, per tornare a casa ci sarebbero voluti sessantacinque minuti, tu saresti morto il giorno dopo e quella sera c’era la partita dell’Inter. Ti ricordi quando ho incominciato a scrivere? Io sì e credo anche tu, perché tutte le volte che finivo di scrivere venivo da te per farti leggere le mie pagine. Scrivevo tutte le volte che guardavo un cartone animato, avevo più o meno sette anni e, se il finale mi lasciava deluso, prendevo carta e penna e quel
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finale lo cambiavo, modificando poi anche alcuni avvenimenti nel mezzo. La scrittura mi ha insegnato che ci sono cose che si possono cambiare e altre cose che vanno cambiate, scrivere mi ha fatto capire che a volte le parole ti danno la possibilità di essere un dio, altre volte, invece, quelle stesse parole, composte sempre dalle stesse lettere, soggette sempre alle stesse regole, quelle stesse parole ti si intrappolano nella gola, ti si fermano sulla lingua, ti si impastano nella bocca come fossero una massa che ingombra, una massa che non riesci a espellere. Il bene, tu ed io, ce lo siamo sempre detti senza dircelo, ce lo siamo scambiati con i sorrisi, con le esultanze ai goal della nostra squadra di calcio, quando tornando da lavoro mi portavi le magliette per giocare a calcetto, quando rassettavi la camera; quando quella volta, nel corridoio, mi abbracciasti forte, quello è stato un contatto di disperazione, un contatto che tra noi mancava da quando ero bambino. Col tempo hai guardato in maniera sempre più curiosa quella mia voglia di scrivere, a volte entravi nella mia stanza e mi vedevi seduto alla scrivania e mi chiedevi cosa mai avessi da scrivere. Col tempo mi hai detto che la scrittura doveva essere un hobby e che mi dovevo impegnare a trovare qualcosa di serio, non sono riuscito a farti capire che per me non esisteva niente che fosse più serio dello scrivere. Uno dei rammarichi più grandi è stato non poterti far vedere che un po’ ce l’avevo fatta, sei morto troppi anni prima che pubblicassero La bambina celeste, ma forse se tu non fossi morto io quel romanzo non l’avrei mai scritto, anzi, se tu non fossi morto io non sarei mai diventato uno scrittore perché la mia materia narrativa è stata sempre un po’ la tua morte, il mio lutto, che ho sviscerato, di cui ho parlato senza parlare, che ho usato in ogni frase, dentro ogni racconto, sempre di nascosto. Ma adesso, dopo dieci anni, sento che è arrivato il momento di parlare di te senza nascondere nulla, dopo dieci anni sei arrivato a essere vivo e a diventare di carta.
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Il primo Natale senza di te lo abbiamo passato a casa di zio A. e c’eravamo tutti: la nonna, E. e la mamma, zio P. con zia I. e i cugini. Ricordo questa tavolata lunghissima nel salotto, le luci intermittenti dell’albero e i regali, i panettoni, i mostaccioli e il presepio sopra un tavolino di legno. Tu eri morto da due mesi. Cercavamo tutti di dare un senso diverso a quel cenone, era una vigilia strana, dove la tua assenza era un rumore che faceva male sulla pelle, dove la sedia in meno era una sottrazione che mi aveva fatto capire come la vita prevede molte sottrazioni e pochissime addizioni, e anche che chi sopravvive combatte con il pensiero che prima o poi toccherà anche a lui. Io quella sera avevo scritto una lettera per ogni membro della famiglia, era il mio modo per ringraziare della presenza e dell’aiuto che ci avevano dato durante quelle settimane, era l’unica maniera che conoscevo per abbracciarli, per far capire a tutti quanti che ce la stavamo facendo, per dire loro che nessuno doveva permettersi di guardarci con occhi tristi. Lasciai che ognuno leggesse la sua lettera, e quelle letture, quelle parole, sono state anche un modo per farti essere presente durante quella vigilia di Natale. Se stavamo leggendo quelle lettere era perché tu non c’eri più. Credo che ognuno di loro abbia ancora quel foglio conservato, credo che di cene così non ce ne saranno più, era come se fossimo un corpo unico, come se tutti respirassimo all’unisono e pensassimo le stesse cose. Quando finimmo di cenare ci sedemmo tutti vicino al camino, io buttavo le bucce della frutta secca nel fuoco perché mi piaceva l’odore che si sprigionava tra le fiamme e ricordai le vigilie di Natale che passavamo a Marcianise, a casa dei nonni materni, ricordai il fuoco sempre vivo e i cocci di fagioli che sfrigolavano sulle fiamme, le stecche di ferro che il nonno usava per spostare i cocci, la legna che scoppiettava, la vestaglia amaranto del nonno e il suo naso largo, le polpette al sugo e il vino rosso. La nostra insicurezza si manifesta nei progetti più grandi, la nostra inefficacia di uomini prende vita quando cerchiamo di
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spingerci più a fondo; adesso che scrivo queste pagine mi rendo conto di quanto siano poche e posizionate nella maniera sbagliata tutte queste parole, di quanto possa essere difficile parlare di te, di quanta fatica stia facendo per dare almeno un po’ di verità alla tua esistenza e soprattutto alla tua assenza. Sei mancato al mio matrimonio, sei mancato all’uscita del mio romanzo, sei mancato quando sui quotidiani nazionali uscivano le recensioni, sei mancato quando ero nel baratro e sei mancato quando ce l’ho fatta, sei mancato nelle ore disperate della mamma e nel panico di mia sorella, sei mancato nelle strette, nei gesti attenti di mettere l’acqua nel vaso del cimitero affinché i fiori rimanessero freschi; sei mancato quando l’Inter ha vinto tutto e quando è stata comprata da una società cinese; sei mancato quando volevo morire e quando invece volevo vivere per sempre, sei mancato quando sono andato a vivere lontano, quando la mamma era solo una voce al telefono e sei mancato quando mia sorella è andata a lavorare a Dubai. Sei mancato quando la mamma è rimasta sola, in casa e nei giorni, dopo molti anni. E a volte nel dirti queste cose mi sembra quasi di fartene una colpa, come se tu avessi potuto decidere di non morire, come se fosse potuto dipendere da te restare vivo. Ho sempre avvertito la solitudine come un vuoto nello stomaco, l’ho sempre vissuta come una punizione. Ho capito che nella solitudine ti fanno compagnia i morti, restano accanto a te gli esiliati, quelli che non sono riusciti a restare. Nella solitudine ho imparato a bere vino e birra, cose che tu non riuscivi a fare perché eri astemio, ho imparato a fumare, molto, molto spesso, e questa è una delle tue eredità, le tue sigarette sempre tra le dita, quel fumo che impregnava i tuoi vestiti e i sedili della tua auto e i tuoi capelli. Da solo ho imparato che i libri salvano, dal mondo fuori ma soprattutto da te stesso, e se
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leggo è perché per anni ti ho visto steso a letto, la sera prima del sonno, con un libro aperto davanti agli occhi, sorretto dalle mani e posato sul petto. La solitudine mi ha insegnato che scrivere, per me, è necessario e che passo molto tempo senza farlo perché ho bisogno di avere qualcosa da dire, qualcosa che sia vero, che sia sincero, ho bisogno, per farlo, di qualcosa di forte che mi faccia tremare appena le dita iniziano a battere sulla tastiera del computer.
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In metro fa caldo, troppa gente inizia a circondarmi, a sfiorarmi, ad accalcarsi intorno a me; mi manca l’aria, mi manca l’aria e mi mancano le forze per restare quaranta minuti sotto terra. La voce cristallina che annuncia le fermate mi arriva dentro le orecchie come un urlo, sembra tutto oscuro qui dentro, tutto opaco, la luce illumina a mala pena e pare che tutti i passeggeri mi stiano osservando, mi sento il centro esatto del mondo, un centro pieno di panico. Provo a pensare qualcosa di diverso ma ricordo che la psichiatra mi ha sempre consigliato di non agire in questo modo, così facendo la sensazione di irrealtà potrebbe aumentare. Allora tento di concentrarmi su qualche scritta all’interno del vagone, leggo il nome di tutte le fermate, leggo alcune pubblicità che scorrono sopra un piccolo televisore; questo è un modo per rimanere legato alla realtà. Dopo una ventina di minuti riesco a sedermi, il vagone è quasi vuoto, riesco a vedere, in modo prospettico, i cambi di direzione del convoglio. Stringo lo zaino al petto, stringo le tre copie del romanzo che ho portato dietro, stringo quel bambino con i boccoli biondi che aveva paura del bau bau dentro l’armadio, che sudava dietro a un pallone di tela, che manteneva saldamente il filo di un aquilone attento a non farlo impigliare negli alberi della villa comunale, la villa comunale dove c’erano due va-
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sche circolari piene di pesci rossi e io tentavo un’arrampicata, tentavo di sporgermi verso l’acqua per vedere meglio i pesci, chiedevo a mia madre di spiegarmeli, quei pesci, le chiedevo come facevano a rimanere dentro l’acqua, perché nuotavano quasi sempre in cerchio e tutti vicini. Stringo a me tutte le promesse che ho fatto a quel bambino e tutte le cose che sono andate male e tutti i sogni che sono scaduti, marciti, spariti. Una voce che arriva da lontano mi dice che sono arrivato alla mia fermata, mi alzo incerto sulle gambe e quando metto lo zaino dietro la schiena un peso forte fa pressione sul giubbino e quasi mi costringe a sedermi nuovamente. Mentre sono sulla scala mobile e sto salendo verso l’uscita vedo due ragazzi che stanno venendo dal lato opposto e cercano di accelerare il passo per non perdere la fermata e li invidio, li invidio perché sanno camminare e correre e uscire ed essere giovani senza il terrore, senza il panico, senza svenire, senza allucinazioni, e mentre penso che ho perduto gran parte della mia giovinezza chiuso in casa, al buio, a dormire e a pensare al suicidio, mi ritrovo in superficie e l’aria è tersa, solida, la luce del giorno cade perpendicolare alla mia figura; sono zuppo di sudore e respiro come se per recuperare fiato l’aria dovessi mangiarla, ma sono arrivato fin qui, da solo, e non mi pare vero. Davanti alla Fiera del libro ho le gambe pesanti e la tachicardia, mi siedo fuori a un bar e cerco di recuperare il filo dei pensieri, se non la smetto di stare male lì dentro non posso entrare, il mio libro non lo posso dare a nessuno, tutta questa fatica di essere arrivato fino a qui non servirà a niente e il viaggio di ritorno, tra metro e autobus, sarà infernale perché infettato anche dalla sensazione forte del fallimento. Subito dentro, il soffitto sembra troppo basso, ci sono troppe luci, fa caldo, tanto caldo che inizio a sudare sulla fronte, dietro il collo, dietro la schiena. Devo togliere il giubbino e il maglione di cotone e restare a maniche corte. Gli stand con gli editori mi fanno venire le vertigini, sono troppi e troppo vicini. Deci-
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do di fare un primo giro orientativo e mi tasto continuamente la gola per capire a che punto siano i miei battiti cardiaci. Mi sento stanco, sfiancato, ho messo il mio corpo a dura prova, ha dovuto resistere a degli accenni di attacco di panico e adesso tutti i muscoli sono sciolti. Vado in bagno e prendo altre quindici gocce di EN, dopo pochi minuti mi sento fluttuare, i miei passi non pestano il pavimento, lo sorvolano, i movimenti delle braccia, il movimento dei muscoli facciali, il movimento della mascella mentre provo a parlare, tutto è fumo, astratto. Mi avvicino al primo editore e mi presento, l’unica cosa che posso mettere a curriculum è il fatto che qualche settimana prima Mariasole Ariot aveva deciso di pubblicare un mio testo su Nazione Indiana. Illustro le tematiche del mio romanzo e l’editore mi dice che posso mandarglielo via email, quando gli dico che ho il cartaceo dietro, mi dice che no, rischierebbe di perderlo. Dal secondo editore va più o meno allo stesso modo, il cartaceo non lo vogliono, mi chiedono di mandarlo via email. E così anche il terzo editore. Compro due libri e abbandono la fiera, nello zaino ci sono ancora le tre bozze di La bambina celeste e sento che nessuno degli editori a cui manderò il romanzo mi darà mai una risposta. Il viaggio di ritorno è più semplice, sarà per tutte le gocce che ho preso, sarà perché adesso tutta la fatica l’ho lasciata alle spalle, sarà anche la disillusione, le aspettative cadute. Ma io non mollo, in questo romanzo ci credo, non mi arrendo. Passo giorni febbrili a contattare editori, a parlare con agenti, ma la situazione non cambia. Le case editrici con cui avevo parlato a Roma sono sparite. Si muove qualcosa il giorno che un’autrice italiana importante mi scrive congratulandosi per il mio racconto su Nazione Indiana. Mi chiede poi se per caso ho un romanzo da farle leggere, le mando, in cartaceo, La bambina celeste. Mi scrive dopo qualche giorno dicendomi di mandare il libro a Renzo Paris, di farlo leggere a lui. Man-
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do una email a Paris verso mezzogiorno, alle 13:00 mi arriva la sua risposta, io mi aspetto un testo del tipo: mi è arrivato il libro, ti farò sapere. E invece, Renzo Paris in meno di un’ora ha letto La bambina celeste, e mi scrive di essere sconvolto, di essere entusiasta del libro e fa paragoni illustri come Vasco Pratolini e lo scrittore francese Philippe Forest. Adesso ho un’altra carta da giocare, l’appoggio di Paris, l’ultimo rappresentante del gruppo di intellettuali composto da Moravia, Morante e Pasolini. La depressione alcuni giorni mi fa sentire come se fossi di marmo, adesso che sto aspettando notizie dalle case editrici tutto è diventato un limbo; mia sorella mi spinge a uscire di casa, a fare qualche passeggiata, ad andare al bar per prendere un caffè, io spesso la seguo, ma una parte di me resta senza corrente e tutte le volte che ritorno a casa piango. Al comune della mia città organizzano un progetto per la raccolta differenziata e zio A. riesce a farmi prendere parte a questo lavoro che durerà solo due mesi, qualcuno gli ha promesso un impiego per me dopo i due mesi, io non ci credo. Dobbiamo andare in giro per le case delle persone e spiegare come funzionerà la raccolta differenziata, dovrò camminare, dovrò parlare con la gente, dovrò guidare l’auto da solo. Sono giorni in cui mi riservo di piangere quando sono in auto, o quando torno a casa, Mariasole Ariot ha pubblicato altri due miei racconti su Nazione Indiana, questo è tutto quello che mi fa rimanere aggrappato alla speranza di essere pubblicato, mi ripeto che se lei e Paris hanno apprezzato la mia scrittura, vuol dire che la fantasia di fare lo scrittore non è tanto una fantasia e che questo sogno potrebbe realizzarsi davvero. Ogni mattina fatico tantissimo per percorrere le strade a piedi, spesso fa freddo, spesso piove, spesso sono costretto a fermarmi per non cadere, il mio corpo è un nemico, ciò che è stato gran parte di me per quasi tutta la vita oggi lo sento come un pezzo
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che non appartiene, io non sono più il mio corpo, il mio corpo è diventato un carico, a tratti una prigione, qualcosa che mi nuoce, il mio handicap. È passato un anno da quando ho mandato il romanzo alle case editrici, l’ultima che ho contattato è stata Ad est dell’equatore. Ho mandato un messaggio su Facebook al direttore editoriale e dopo avergli spiegato la storia mi ha dato un indirizzo email a cui mandare il romanzo. Non c’è stato giorno in cui non abbia sperato di ricevere una telefonata, una email, un messaggio, che mi dicesse che avrebbero pubblicato La bambina celeste. Non c’è stato un giorno in cui non l’abbia sognato, non c’è stato un giorno in cui non ci abbia creduto. Continuo a prendere le EN, ho ricominciato a lavorare, ma lo faccio saltuariamente, abusando di molti medicinali. La psicoterapia continua, ha ripreso a essere due volte a settimana, la dottoressa D. dice che le cose stanno andando bene, a me sembra di essere sempre allo stesso punto di un percorso dove qualche volta sono avanzato e altre volte sono tornato indietro. Al suicidio ci penso di meno, ma non è un’idea che ho accantonato del tutto. Quando mi ritrovo fuori al balcone, a casa mia, se provo a sporgermi mi vengono delle forti vertigini, la mia mente in maniera sotterranea comunica al mio corpo che possiede l’embrione di un gesto folle, distruttivo. Sono appena tornato a casa, ho il telefono che non funziona bene, spesso si spegne e per riaccendersi ci mette molto tempo. Entro su Facebook e trovo la casella dei messaggi illuminata; la apro e vedo che mi ha scritto Carlo Ziviello, il direttore editoriale di Ad est dell’equatore. È un messaggio che vorrei aprire piano ma già mentre penso a questa cosa ho il cuore che mi batte nella testa e l’ho già visualizzato: Carlo mi dice che hanno letto il manoscritto e mi lascia un numero di telefonino da contattare, vogliono parlarmi. Si spegne il telefono, si spegne mentre sto cercando di segnare il numero. Ma non me la pren-
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do, mi siedo sul divano, qualcuno ha letto il libro, qualcuno vuole parlarmi del romanzo, oggi è un giorno strano, uno di quei giorni in cui non voglio lanciarmi nel vuoto, erano anni che non sentivo di voler vivere.
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Un giorno la mamma, pochi anni dopo la tua morte, è tornata a casa con un viso sfinito, nella mano destra stringeva con forza una busta bianca, erano degli esami medici. La vidi entrare dalla porta con un passo quasi malfermo, non aveva il coraggio di guardarmi, di guardare ciò che le abitava intorno. «Che succede?», le chiesi. Si sedette senza rispondere, mise la borsa sul tavolo e raccolse la testa tra le mani, la sua era una posizione di sconfitta, i suoi movimenti somigliavano a una valanga. «Mamma, che cos’è quella busta? Che succede?», chiesi ancora. Alzò la testa e mi accorsi di quanta fatica gli ci era voluta per compiere quel movimento, per finirlo, per provare a cercare i miei occhi, stava perdendo qualcosa ma non riuscivo a capire cosa. Si toccò la guancia con una mano, quasi a volersi dare una carezza da sola. «Ho un tumore». Quelle lettere per me furono come cumuli di ghiaccio dietro la schiena. Ancora dovevamo imparare la tua morte che già c’era un altro incubo che ci aspettava.
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«Un tumore? Che tumore?». «Al seno, un tumore al seno… va asportato, va asportato con urgenza». Parlava come un automa, la sua voce sembrava la voce registrata del navigatore satellitare, non c’era inflessione, non c’era colore, era un suono freddo e sbiadito e privo di forza. Pensai a te, a quello che le avresti potuto dire; pensai alle tue mani che avrebbero preso le sue mani, pensai che ti saresti seduto di fianco a lei e le avresti detto cose che io non sarei stato in grado di dire; ma non c’eri, tu non c’eri. Le ho fatto altre domande, alle quali lei ha risposto in modo scarico. Il giorno dopo l’avrei accompagnata in ospedale, aveva appuntamento con il dottor P. che le avrebbe spiegato l’intervento e il decorso. Restammo seduti nella sala di aspetto per più di un’ora, nonostante dalle finestre entrasse un sole dorato, erano accese le luci al neon intrappolate sotto il soffitto di plastica, c’era puzza di chiuso e di disinfettante; una bambina che doveva avere all’incirca dieci anni passò davanti a me, sopra una sedia a rotelle, con il cranio completamente glabro e un corpo scheletrico, la sua pelle era bianca da sembrare trasparente, si vedevano le vene in rilievo sulle mani, intorno alla testa, sul viso due occhi che dentro non possedevano brillantezza, due occhi che somigliavano a una fine. La vidi attraversare il corridoio spingendo le ruote della sedia a rotelle, in un movimento che sembrava naturale, privo di sforzo. Mi voltai verso la mamma e anche lei la stava guardando, la stava osservando come se quell’immagine potesse essere una rivelazione del suo futuro. Un’infermiera ci invitò a entrare nello studio del medico. Il dottor P. ci spiegò per filo e per segno l’operazione che sarebbe durata due ore, ci disse che una volta guarita la ferita, la mamma avrebbe dovuto incominciare un ciclo di chemioterapia e poi un ciclo di radioterapia. Rimasi stordito da tutte le informazioni che dovetti assimilare quella mattina. Finito il consulto con il medico, la mamma passò una trentina di mi-
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nuti a colloquio con una psicologa. Aspettai fuori, nell’atrio, sapendo che avrei dovuto telefonare a mia sorella, sapendo che le prossime settimane sarebbero state difficoltose. Il giorno dell’operazione arrivammo all’ospedale che era quasi l’alba. Un cielo cianotico e sottile sembrava sul punto di precipitare. Una luce sporca e fuligginosa si attaccava ai vetri dei finestrini. La mamma era in auto al mio fianco, dietro c’era mia sorella. In quel tragitto di cemento e semafori e gomme sull’asfalto e radio tenuta a basso volume era la tua assenza la cosa che faceva più effetto. Per la prima volta dovevamo affrontare qualcosa di decisivo senza che ci fossi tu a dirci parole, a guidarci, a sorridere credendo nel bene. Prima di entrare mi guardai intorno per focalizzare il momento, per rendermi conto che fosse tutto reale, che stesse accadendo davvero; la vita segue una linea retta e a volte basta una frattura del tratto per indebolire tutto il tragitto, per rendere tutta la strada faticosa, nera, impercorribile. Ci salutammo con un abbraccio, ricordo che la strinsi come avevo stretto te l’ultima volta; le lacrime di mia sorella erano evase dagli occhi e ancora non smettevano scendere. Le due ore di operazione restammo seduti su alcuni scalini di marmo, con noi c’erano anche zio A. e zio P. e zia I. Dissi poche parole, anzi credo che per due ore non emisi alcun tipo di rumore. C’era una disperazione ampia che mi saliva nella gola e un senso di ingiustizia che era come una coperta piena di pioggia, logora d’acqua, attaccata alla pelle, difficile da far scivolare via. Stavamo tutti attenti a guardare la porta dalla quale sarebbe dovuto uscire qualcuno a darci informazioni. Non esisteva distacco da quel momento, tutto era incorporato, ogni gesto, ogni spostamento, ogni immagine, ogni albero fuori dalla finestra, ogni nuvola in cielo, ogni sguardo di un estraneo preso per strada, era tutto parte di quell’insieme, di quell’istante che durava dal mattino, un istante dilatato. Dopo che il dottor P.
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ci ebbe detto che l’operazione era andata bene, la mamma ci passò davanti sopra una barella, era ancora sotto l’effetto dell’anestesia. Era un sonno simile alla morte, c’era la stessa immobilità, lo stesso gelo, e subito mi tornò indietro l’immagine di te in sala rianimazione, con il petto gonfio e sgonfio di aria artificiale, con la stessa staticità, la stessa impossibilità di poterti svegliare con un semplice strattone. Entrammo nella sua stanza a piccoli passi, quasi con timore, come se ad aspettarci non ci sarebbe stata la mamma ma qualcosa di diverso. La vidi improvvisamente più vecchia, fu come se le fossero caduti sul viso troppi anni che non le appartenevano, mi fece paura quella faccia, mi fece paura quella fragilità corporea, mi spaventarono quei movimenti lenti, quelle espressioni facciali stanche, tristi nonostante l’operazione fosse andata bene. Non ricordo che cosa le dissi né se provai a darle un abbraccio, forse le sorrisi, consigliandole di non affaticarsi, di stare attenta ai punti. Quella prima notte le stette accanto mia sorella, io non ho mai potuto passare la notte vicino al suo letto durante quella settimana di ricovero, era il reparto di ginecologia e gli uomini non potevano passare la notte lì. L’accompagnai a fare le sedute, sia di chemioterapia che di radioterapia; le sono stato vicino a mio modo, restando sempre un po’ defilato, perché chi ti mette al mondo possiede una forza che va oltre le cose visibili, chi ti stringe tra le braccia la prima volta mentre piangi, minuscolo e sporco di sangue, è il laccio che ti tiene attaccato al mondo. I capelli le sono iniziati a cadere un po’ per volta, li perdeva a ciocche, li perdeva con onestà, con autorevolezza. Sembravano i petali di un fiore che vengono via. Cosa le avresti detto? Cosa avrei potuto dirle di diverso? Quei giorni mi sono sentito in bilico, come se qualsiasi cosa facessi potesse essere sbagliata; anche un abbraccio, anche un sorriso, non riuscivo mai a capire se fossero fuori posto. Ci sono stati momenti, in quei
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giorni, in cui ho sentito la necessità di venire sulla tua tomba e ricordo perfettamente un pomeriggio, la mamma l’avevo lasciata sul divano che guardava un film alla televisione. Io ero sceso per prendere delle pizze, mi aveva detto che voleva una Margherita. Ma prima di andare in pizzeria mi diressi verso il cimitero. Pioveva, piano, piccoli schizzi d’acqua che sulla pelle si sentivano solo per accumulo. Parcheggiai e rimasi qualche secondo sulla soglia, sentivo che se avessi messo piede nel cimitero avrei fatto fatica a non piangere, questa volta. Arrivai davanti alla cappella con il fiato che si rompeva a pezzi enormi dentro i polmoni, mi fermai dinanzi al vetro per guardare la tua tomba, per vedere bene la tua foto, come se quel contatto con il tuo viso potesse essere una possibilità di dialogo. Iniziai a parlare, molto e molto a lungo, non ricordo cosa dissi con esattezza ma per la prima volta non pensavo che tu non ci fossi e che io stessi lì a parlare con del marmo; per la prima volta restai per molto tempo, sicuramente per dirti che la mamma se la stava cavando, che era forte, per dirti che E., tua figlia, sarebbe stata il tuo orgoglio, per raccontarti i suoi sbagli, così diversi dai miei perché ognuno sbaglia a suo modo. Mi accorsi dopo un po’ che la pioggia stava venendo giù con più forza e che il telefonino stava vibrando nella tasca dei pantaloni e la mamma voleva sapere dove fossi, ché ero uscito di casa da più di un’ora. Mi sono chiesto se tu l’hai vista con il cancro, se l’hai vista in sala operatoria, se l’hai vista durante la chemioterapia, se l’hai vista piangere durante questi mesi (perché io, piangere, non l’ho vista mai). Abbiamo litigato spesso, durante la malattia, la mamma ed io, e se tu ci fossi stato, forse a litigare sareste stati voi due. Da quando sei morto la mamma ha sempre visto in me un tuo prolungamento e spesso ha cercato da me i gesti e le accortezze e i compiti di un marito più che di un figlio. Tutto questo ci ha portati a momenti di tensione, dove io le rinfacciavo cose stupide e dove lei mi scaricava addosso le rabbie e le angosce di
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una bambina troppo cresciuta che ha paura di perdere la vita. Non sarei mai potuto essere come te, né per lei né con la vita. Tu ed io non ci somigliamo, non nel senso che dico io. Certo, abbiamo molti movimenti simili, molti modi, molte espressioni, ma io sono diverso da te nell’amore e nel bene, sono diverso da te nelle dimostrazioni, sono diverso da te nei sorrisi e nella voglia di essere felice, sono diverso da te nei sogni, i tuoi bassi e raggiungibili, i miei altissimi e illusori; siamo diversi con l’alcol e siamo diversi perché io ho smesso di fumare, e tu non avresti smesso mai. Siamo diversi nella paura della morte, tu non ci pensavi, nonostante gli acciacchi e i problemi epatici, e forse non ci hai pensato nemmeno durante quegli ultimi secondi di quella notte (ti sei detto: sto per morire? Ne sei stato per una frazione di secondo consapevole?). Io, alla morte, ci penso sempre, mi sveglio con lei, e vado a letto con lei e forse, nel sonno, la sento vicina come non mai.
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Quando chiamo l’editore devo fare forza sulle corde vocali affinché non tremino. Dopo un’oretta di chiacchierata ci mettiamo d’accordo che il giorno dopo sarei andato a Napoli in casa editrice e avremmo discusso del contratto e della data di uscita. L’unico problema è che io non guido fino a Napoli, per me è impossibile pensare di mettermi in auto da solo e di raggiungere la casa editrice percorrendo l’autostrada. Passo la notte a sudare, a pensare, a cercare una soluzione. Piango perché una cosa così semplice io non la riesco a fare, piango perché è quello a cui tengo di più e non posso mandare tutto all’aria per colpa della mia pazzia. Mi addormento quando è quasi mattina, l’ultima cosa che vedo è un po’ di cielo azzurro che inizia a uscire piano dal buio. Mia madre torna da scuola e mi sveglia, mi chiede come mai stia ancora dormendo, mi domanda se per caso non mi sento bene, se ho passato una brutta nottata; io la guardo e le chiedo aiuto, le dico: vieni con me a Napoli, aspetti in un bar, o in auto, o dovunque tu voglia, ma non posso presentarmi in casa editrice se non da solo, men che meno con mia madre, a trentatré anni sarebbe una cosa ridicola. Lei resta qualche secondo a osservarmi e poi mi chiede di cosa mai io stia parlando, così mi ricordo che a lei non ho detto ancora nulla dell’appuntamento con l’editore. Ricomincio da capo, spiegandole tutto
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nel dettaglio, la seguo per casa mentre sposta dei panni dalla lavatrice al balcone, mentre cucina, la seguo con la speranza che la mia vicinanza la possa aiutare a prendere la decisione giusta. Mi dice che va bene, ma che devo guidare io. Decido di non prendere le gocce. Arrivare in casa editrice stordito non è una cosa che mi alletta; ma ho qualcuno di fianco a me e questa cosa mi infonde sicurezza, c’è mia madre che conosce il mio grado di follia, che conosce i miei limiti, il mio percorso, conosce quanto sia debole da un po’ di anni a questa parte. Arrivo a Napoli stanchissimo, i muscoli della schiena sembrano usciti da sotto una pressa d’acciaio. Parcheggio, mia madre entra in un bar, io raggiungo l’ingresso della casa editrice qualche metro più avanti. Sono qui per il mio romanzo, sono qui perché vogliono pubblicare La bambina celeste, ce la sto facendo e in questo momento il panico io non lo sento più, il dramma non c’è, la tristezza pare relegata in un angolo lontano della mia testa, il mio corpo diventa per qualche secondo di nuovo il mio corpo, smette di essere una gabbia, un macchinario difettoso. Decidiamo che il romanzo uscirà a maggio (siamo a luglio) e quindi ci aspetta quasi un anno di lavoro; prima possibile inizieremo una fase di editing e a darmi una mano scoprirò poi che sarà una delle scrittrici italiane più brave: Carmen Pellegrino. Quando prendo le scale e poi la porta che mi conduce fuori mi sembra di vivere un’altra vita, sensazioni che avevo dimenticato mi travolgono e arrivano forti e una raffica potente mi arriccia la pelle e piango per la gioia; per la prima volta dopo anni di tenebre sento che ce la posso fare, sento che posso tornare a vivere, sento che forse posso ancora sperare di guarire. Abbraccio mia madre e la sento piccola come una bimba, la tengo stretta al petto e non le dico niente, lei lo sa che se non ci fosse stata, se non fosse stata così presente, in questi anni, io qui non ci sarei arrivato; lei lo sa che se non ci fossero stati i libri e la scrittura io non sarei sopravvissuto. La sento respirare contro il mio petto e ricordo tutto, ricor-
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do la sua foto quando era andata in America, a diciotto anni, con i capelli lunghi e neri e lisci e una fierezza nello sguardo, lei in una posa naturale, con il viso rivolto verso la macchina fotografica, con un sorriso timido e un’espressione attenta, concentrata; ricordo tutto, ricordo i miei genitori che passeggiano mano nella mano, mani che per me sono state sempre un viatico. La tengo stretta e ricordo le giornate in cui spingeva il passeggino con dentro mia sorella e io le camminavo vicino e quel vecchio filmino della mia prima comunione dove, dentro un abito blu, si guardava intorno senza rendersi conto della cinepresa in azione. Non le dico niente e torniamo all’automobile, le sorrido forte e lei non sa che fare e allora mi dice che per cena vorrebbe fare il pollo con le patate. Ho una nuova emozione da gestire, un’emozione che per me era diventata straniera: la felicità. La gioia. Mentre la sento salire nelle gambe mi provoca le stesse sensazioni di panico della paura e della rabbia e allora devo mettermi seduto sul letto perché la camera inizia a girare, vortica prima lentamente poi sempre più forte. Sulla scrivania c’è il contratto per la pubblicazione del libro, provo a rimanere aggrappato a quel pensiero felice, come in Peter Pan, provo a passarmi questo pensiero tra i denti cercando di oscurare tutte le sensazioni che mi stanno togliendo il fiato. Il giorno dopo, quando entro nello studio della dottoressa D. le racconto del romanzo, le racconto del viaggio in autostrada e poi mi soffermo sul malessere che mi ha travolto una volta giunto a casa. «Non posso essere nemmeno felice?». Lei come sempre mi guarda a lungo prima di rispondere, prende una cartina, la riempie di tabacco, la rulla e la accende, fa una boccata di fumo leggero e continua a fissarmi. «La felicità è un’emozione, e tu le emozioni non le sai gestire. In questi anni hai iniziato a familiarizzare con la paura, con la
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tristezza e con la rabbia, ma di gioia ce n’è stata poca, diciamo che quasi non c’è stata. Quindi, da quando hai ripreso i contatti con il tuo corpo, questa è la prima volta in cui senti cosa voglia dire essere felice. È una cosa nuova, una cosa sconosciuta». «E quindi fa paura», intervengo io. «Sì». «Tutto si riconduce sempre alla paura». «La paura è stata l’emozione fondamentale per la sopravvivenza del genere umano. La paura ti permette di restare vivo». «Come la gestisco?». «Prima di tutto non temerla. Quello che senti a livello fisico, quello che avverti a livello organico non è il preludio alla morte o allo svenimento; sono le sensazioni che sente ogni essere umano quando è felice». Scrivo sul mio diario: sono quindici giorni che non penso al suicidio. Forse scrivendo questa notizia tutti i giorni non faccio altro che pensarci ugualmente. Delle volte mi immagino come fossi di cartone, come se io fossi qualcosa di inanimato che mi porto dietro; come se la mia pelle, la mia testa, le mie gambe e le braccia, le mie ossa, fossero un fardello, qualcosa di cui fare a meno, sono la mia difficoltà, il mio malessere. Sono dieci giorni che non prendo le gocce di EN. Da due sere per dormire bevo tre bicchieri di vino, o bevo birra, o mando giù qualche super alcolico. Ho ripreso a uscire con qualche amico, nessuno di loro ha voluto indagare molto sulla mia assenza prolungata; quando l’argomento è caduto sugli anni addietro, quando mi facevo vivo raramente, ho glissato, provato a cambiare argomento. Ho iniziato a bere molto. Mi sta capitando di non essere soddisfatto di una sera passata fuori senza ubriacarmi. Poi cade il male, e mi cade addosso ancora una volta e lo fa con ingordigia, cade il male come fosse
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una punizione. Esco a bere con un amico e torno a casa completamente sbronzo, faccio fatica a camminare, ad articolare pensieri di senso compiuto, provo a stendermi sul letto ma la stanza inizia a roteare con prepotenza e allora devo mettermi seduto e tutti i pensieri neri, tutte le cose che mi hanno tagliato e fatto a pezzettini in questi anni si uniscono, mi entrano nel cervello e io non so più dove guardare, sposto gli occhi dalla scrivania alle sedie al pavimento al computer alla libreria, ma tutto continua a essere un circo; mi alzo velocemente dal letto e un capogiro mi fa perdere l’equilibrio, riesco a non cascare mantenendomi vicino a una sedia, ho in bocca il sapore del sangue e del cemento, ho in bocca la sconfitta, la fine, la morte. Apro il borsello e prendo le gocce di EN, svito la boccetta e lascio scivolare le gocce direttamente sotto la lingua, venti, forse di più. Mai mischiare psicofarmaci e alcol, mi ha sempre detto la psichiatra, ma in questo momento non me ne frega un cazzo della dottoressa D. né di quello che potrebbe accadere, sto troppo male, voglio solo che il mondo smetta di girarmi intorno e riuscire a dormire, riuscire a dormire senza pensieri, riuscire a dormire cadendo nel nulla, voglio solo che tutto il dolore possa sparire. C’è qualcosa che non va, sento una scossa intorno al cranio e un’ondata di gelo mi sale dallo stomaco fin dentro la gola, ho la sensazione che stia masticando delle formiche. Inizio a tremare, piccole scosse di elettricità, piccoli epicentri, la pelle trema, le ossa tremano, ai lati della bocca si formano pozzanghere di saliva, densa, bianca, schiumosa. Ricordo che cado in terra, ricordo che penso di essere arrivato alla fine, ricordo il viso di mio padre, il mio essere piccino dentro il suo essere un gigante, io a cavalcioni sulle sue spalle, le sue carezze, il sorriso di mia madre che non merita tutto questo, ricordo il principio, l’inizio, ricordo la casa al terzo piano e i miei cinque anni, il taglio di capelli di mia madre, un taglio che non sarebbe stato bene a nessuna; ricordo le crêpes, i cornetti caldi al mare, le bevande gassate, i cannoli siciliani con
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la ricotta di pecora che mi piaceva mangiare piano; non vedrò pubblicato il mio romanzo, penso, prima di perdere i sensi.
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Hai un costume viola e stai innaffiando il prato, sei a petto nudo, è una foto di venticinque anni fa, hai ancora i capelli neri e sei ancora magro; sorridi appena, rivolto verso l’obbiettivo, non so chi ti stesse scattando la foto, ma ricordo che io ero appena fuori campo, che ogni tanto mi schizzavi con l’acqua che usciva dalla pompa, che era estate e la mamma mi aveva insegnato a lavare i denti con le foglie di salvia, mi aveva fatto vedere come le api fanno il miele. C’erano tantissime canne di bambù che io tentavo di spezzare per fare una spada e c’erano gli alberi di castagne e in autunno una volta caddi in un letto di ricci; un albero di noce secolare, il mio primo motorino a miscela che guidavo solamente sul prato, davanti alla casa. Ti cerco spesso nelle canzoni, in qualche parola che sembra lasciata lì per caso, ti cerco spesso nelle fotografie, come quella di cui ti parlavo prima o come quella della mia comunione, dove ho un viso pieno di collera per aver dovuto indossare un abito bianco molto simile a quello dei preti. Mi avevate pettinato i capelli con la fila di lato, con quel saio che mi sbiancava anche il viso e la fronte corrucciata. Nella foto dove siamo tutti e quattro, mia sorella indossa un abito bianco e nero, ha un sorriso parziale (mi sembra le manchi un dente), la mam-
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ma con un vestito molto anni ’80, con i capelli pettinati in modo strano e lucidissimi e la pelle che sembra abbronzata, tu nascondi una sigaretta dietro la schiena e sorridi forte, con quella consapevolezza di essere felice, con quella abnegazione nell’esercizio della gioia in cui spiccavi su tutti. Ho detto a mia sorella ti voglio bene, gliel’ho detto alcune volte, non ricordo bene quando, non ricordo da quanto tempo non glielo dico. Ho detto alla mamma ti voglio bene, soprattutto negli anni di cemento, molto spesso dopo qualche mio crollo, una volta gliel’ho scritto in un messaggio che le ho mandato con il telefonino subito dopo un attacco di panico. A te, ti voglio bene, non ricordo di averlo mai detto, perché la vita è strana e noi pensiamo di avere sempre tempo, tempo di dire le cose, tempo di fare le cose, tempo per dimostrare agli altri quello che valgono per noi. Invece no, non è vero niente, il tempo non c’è, perché il tempo non esiste e perché ogni essere umano è appeso a un filo che si può staccare senza preavviso, ognuno di noi ha la sua personale spada di Damocle che gli pende sul collo. A volte non capivo la tua rabbia, non ho saputo leggerla, non riuscivo a comprendere da dove venisse. Ho sempre pensato, da bambino, che tu non potevi avere motivi per essere triste, per essere rabbioso, per avere paura. Una volta siamo andati con alcuni vostri amici a fare una gita in campagna, diretti alla casa di una coppia che faceva parte del vostro gruppo; era una giornata senza sole, con una luce plumbea e un vento fresco che a me sembrava venire fuori dai rami degli alberi di ciliegie. Ricordo che le donne erano rimaste in casa quando gli uomini avevano deciso di andare a fare una passeggiata nei boschi; i bambini eravamo io, mia sorella e poi ce n’erano altri due, ad oggi ne riesco a vedere la presenza senza poterne distinguere i lineamenti né i nomi. Ci inoltrammo tra l’erba alta, i rami, il fogliame, vedemmo un fiumiciattolo e salimmo sopra una
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collina per poter osservare tutto dall’alto. Tu eri strano quel giorno, non sorridevi come tuo solito, avevi un viso tirato e soprattutto mi sgridavi qualsiasi cosa facessi, niente andava bene. Ci fermammo a una fontanina per bere dell’acqua, mi dicesti di non appoggiare la bocca al ferro del rubinetto, lo dicesti con una voce non tua, una voce cruda, eccessivamente autoritaria vista la situazione. Io feci la massima attenzione per seguire le tue direttive e proprio mentre stavo mandando giù le prime sorsate di acqua gelida che quasi mi stava anestetizzando la gola, mi arrivò uno schiaffo forte dietro la testa, una botta che sentii nei denti, nel collo, una botta che mi fece andare il cervello in confusione. Mi spostati dalla fontanella e incontrai il tuo sguardo colmo di collera. «Ti avevo detto di non toccarla con le labbra», urlasti. Io non capivo che cosa volessi, non l’avevo toccata, avevo eseguito i tuoi ordini e con le lacrime che mi stavano facendo affogare gli occhi ti dissi che no, non l’avevo toccata, perché mi avevi colpito in quel modo? Mi arrivò un altro schiaffo, questa volta in faccia e ancora più forte, tanto che i tuoi amici ti vennero vicino per farti calmare e qualcuno mi portò a distanza di sicurezza dalle tue mani, le tue mani che sempre erano state la mia salvezza. La guancia mi andava a fuoco, era bollente e dopo riuscii quasi a vederci la tua impronta. Adesso oltre al mal di testa sentivo anche una sensazione di dolore sulla gengiva. Piansi, ma piansi senza disturbare, piansi in silenzio lasciando che il respiro e i muchi mi si affollassero nel petto e nella gola e che il pianto mi cadesse dallo sguardo nella maniera più lenta possibile. Tornammo nella casa dopo qualche ora, io ero rimasto muto tutto il tempo, una volta dentro mi sdraiai sopra un divano e mi addormentai per la tristezza, quando mi svegliai la mamma mi venne vicino e mi sentì la fronte, poi mise un termometro sotto la mia ascella e quando lo tirò via disse che avevo la febbre. La guardai a lungo e poi le dissi che la febbre me l’avevi fatta venire tu. Tu che eri sulla porta e da
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fuori si sentivano le risate dei tuoi amici ed entrava l’odore della carne alla brace, quel giorno non eri felice e mi guardavi mentre sul divano parlavo con la mamma, pensai che non volevi che le dicessi delle botte che mi avevi dato senza motivo. Non le dissi niente, niente degli schiaffi, niente di quella tua tristezza che per me era troppo estranea. Non ti ho mai chiesto che cosa avessi quel giorno, perché eri così infelice, perché avevi sfogato tutto su di me bambino; né mai ti ho domandato perché quella volta che stavamo dai nonni materni, a Marcianise, mentre stavo giocando a buttare le carte nel fuoco mi ordinasti di smetterla e quando io invece di ascoltarti buttai l’ultima carta che avevo in mano mi prendesti per un braccio, mi alzasti da terra e mi colpisti dietro il sedere più e più volte fino a mettermi nella culla di legno, la culla molto grande che era stata già della mamma. Anche lì mi addormentai per la tristezza, come poi ho fatto spesso da uomo. Mi svegliai con i guantoni da pugilato che mio zio aveva messo vicino alla culla, tu non c’eri e lui era andato a comprarli per farmi svegliare con un sorriso dopo tutte le lacrime che mi erano cadute da dosso per quella tua, ai miei occhi, immotivata violenza. La tua rabbia l’ho conosciuta poche volte e spesso per motivi che non necessitavano di schiaffoni o tirate di capelli; in casa quella che si arrabbiava di più era la mamma, per me e mia sorella la mamma era quella cattiva, tu eri quello buono, quello a cui chiedere le cose, quello a cui domandare il permesso. Quando da piccolo ti vedevo guardare le partite di calcio insieme ai tuoi amici che venivano a casa io di calcio ne capivo davvero poco; eravate seduti sul divano, urlavate, facevate dei sorrisi grossi, vi alzavate con uno scatto e delle volte vi abbracciavate. In casa c’era un’aria di festa tutte le volte che davano una partita alla televisione; la mamma preparava le ciotole colme di tarallini e patatine e le metteva sul tavolino davanti al divano. Giocava il Napoli, giocava l’Inter, alle volte giocava
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l’Italia. Mi hai insegnato a guardare i nerazzurri di Milano, mi hai insegnato il fuorigioco, il calcio di rigore, mi ha insegnato quanti battiti può fare un cuore quando la tua squadra segna un goal insperato, all’ultimo minuto, il goal più importante. Ho pianto quando l’Inter ha perso la Coppa Uefa ai calci di rigore e ho pianto quando l’Italia ha perso i mondiali del 1994, allo stesso modo, contro il Brasile. A quel punto hai provato a spiegarmi che non bisogna arrivare a piangere per una squadra di calcio che non vince, ma ormai era troppo tardi, io quando mi davo a una causa mi ci davo totalmente e non c’era alcun modo affinché potessi tornare indietro. L’anno in cui sei morto la nostra squadra ha vinto il campionato, la Coppa Italia e la Champions League. Si chiama triplete e l’Inter è l’unica squadra italiana che è riuscita in questa impresa. Ti ho pensato molto forte, perché le coincidenze non esistono e l’ho imparato leggendo Jung. A volte ho paura di ottenere tutto ciò che desidero e di scoprirmi ancora infelice, a quel punto l’unica alternativa naturale dovrebbe essere il suicidio, dovrebbe essere qualcosa che spezzi l’infelicità, che in quel caso sarebbe palesemente un’infelicità di vivere. Ho sempre creduto che una persona sana di mente dovrebbe pensare al suicidio in maniera seria almeno una volta nella sua vita, e quando ti dissi questa cosa la tua prima reazione fu una risata copiosa, una risata che sembrava un fiume, ma quando vedesti che io non ridevo la tua espressione facciale mutò velocemente e mi chiedesti perché pensavo a certe cose. Ricordo che non seppi darti una risposta, ma che ti dissi che solo chi ama veramente la vita può decidere di farne a meno. Pochi giorni dopo la tua morte passai davanti a quel negozio di abbigliamento sul corso, dove tu amavi comprare i cappotti e i maglioni per l’inverno, e mi sono visto nel riflesso del vetro e il cuore mi si è rimpicciolito, la mia mente non aveva previsto quell’immagine riflessa senza la tua di fianco.
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Prima, tutto quello in cui vivevo praticamente non lo guardavo, ogni cosa era evidente, ogni cosa era naturale, un fiore, un prato, il mare, i baci, ogni cosa faceva parte di un insieme, di una giostra su cui ero nato e che quindi non riuscivo a osservare né nella sua interezza né nei suoi minimi particolari. Quando sei morto è cambiato tutto, vedo i vetri appannati dell’auto quando respiro troppo veloce, vedo il verde acceso delle aiuole sotto il sole, vedo i gelsomini e ne sento il profumo e vedo il mare, vedo i colori del mare, l’azzurro, il bianco, il blu, il turchese. Ho imparato a sentire il vento, ad ascoltarlo quando arriva e quando sta per andare via. Non faccio più le cose in cui mi perdo, perché ho perso te.
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Luci bianchissime mi cascano sugli occhi e non riesco a mettere a fuoco gli oggetti. Sono su un lettino, un medico mi sta chiedendo come va, mi dice che mi hanno dovuto fare una lavanda gastrica, poi mi dice altre cose in modo veloce ma io già non lo sto più ascoltando. Mia madre si avvicina al letto, intorno a me si muovono figure, persone, si sentono voci, qualcuno urla, io sono ancora vivo anche se mi brucia la gola, anche se quando stavo per perdere i sensi ho creduto che in fondo di sofferenza ne avevo già subita abbastanza e quel morire mi stava dando sollievo. «Che cos’hai fatto?», mi chiede con una voce metallica. «Ho bevuto qualche birra e poi siccome non riuscivo a dormire ho preso delle gocce di EN». «Troppe gocce», dice il medico che adesso è al fianco di mia madre. «Il medico mi ha chiesto se sei depresso, se è il caso di preoccuparci per la tua salute», dice mia madre adesso che siamo di nuovo soli. «Non volevo uccidermi». Forse non è vero.
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«Ci sei quasi riuscito». «Mi dispiace, non era quello che volevo». Forse non è vero. «Non mi sembri molto felice di essere vivo. Ho chiamato la tua psichiatra, le ho detto quello che è successo». «Bene». «Francesco, ti ho trovato nella tua camera, disteso per terra, privo di sensi, credevo fossi morto». «Possiamo andare a casa?». «Tra poco». Fuori dall’ospedale è quasi mattina, se volevo morire ho fallito anche in questo; si vede una leggera bruma che scende piano fino a toccare i tetti delle case, fa freddo e io non ho il giubbino e allora stringo forte le braccia intorno al busto. Mia madre mi cammina di fianco ma non parla, sembra quasi che non respiri, passeggia a passo veloce con le scarpe da ginnastica che fanno un rumore di panno umido sul cemento. A casa trovo una email dell’editore in cui mi dice che è arrivato il momento di iniziare a lavorare all’editing del romanzo e allora decido di non pensare a quello che è successo stanotte, prendo la bozza del romanzo e inizio a rileggerla. Se non avessi trovato quella email che cosa avrei fatto una volta in camera mia? Per quanto tempo sarei rimasto a riflettere sul gesto che mi aveva portato al pronto soccorso? Avvicinarmi alla morte era stato un movimento dolce, un movimento morbido, quasi una coccola. In quei secondi prima di perdere i sensi l’idea di non dover più sentire tutta questa vita addosso era stata un pensiero felice. «Lo sai benissimo che non devi mischiare alcol e medicinali», dice la dottoressa D. quando ancora non mi sono seduto sulla poltrona. «Lo so, mi dispiace».
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«Niente “mi dispiace” e non sederti». «In che senso?». «Non so se voglio continuare la terapia». La dottoressa D. ha una collera viva dentro lo sguardo, i muscoli del viso duri, le dita delle mani che stringono i braccioli della poltrona, mi sento invaso da una stanchezza brutale che come un’alluvione scorre ovunque. «Sono sei anni che vengo qui in terapia, sei anni che la pago». «Francesco, il fatto che tu mi paghi non vuol dire nulla. Se io decido che la terapia è finita, è finita». Sono ancora in piedi, inizio a sudare e sento un pugno nello stomaco che spinge dall’interno verso l’esterno. «Non volevo uccidermi». In questo momento lo credo davvero, in questo momento lo devo credere davvero. «Non posso avere a che fare con un bambino». «Bambino?». «Sì, sei a tanto così da una soluzione… e lo sai bene, non guarirai mai del tutto ma starai meglio, molto meglio e molto presto, e tu che fai? Bevi alcolici e prendi i medicinali… Francesco, dovrei sbatterti fuori adesso a calci nel sedere». «Posso sedermi?», chiedo. «No, andiamo alla scrivania, oggi non facciamo terapia». Mi porto con fatica alla sedia dietro la scrivania e mi siedo, ho una parte del viso addormentata e non sento le braccia, poi ricordo come fare quando arrivano questi sintomi e allora stringo i pugni cercando di scacciare via la paura e piano piano le mie braccia tornano a essere presenti, tornano ad appartenere al mio corpo. «Cos’è successo?». «Niente».
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«Francesco, o mi dici cos’è successo o quella è la porta». «Mi sento un escluso». «Cosa intendi?». «Ho perso sei anni della mia vita, dai ventisette ai trentatré anni, li ho perduti, buttati via, e cos’ho adesso? Niente, non ho un lavoro, non ho un’indipendenza economica, non ho niente». «Hai passato sei anni per ricostruirti, per tornare a vivere, non mi sembra poco. Quando è morto tuo padre io non credevo che ce l’avresti fatta a restare, a non farti trascinare via dalla tristezza e dalla follia, e invece ce l’hai fatta. Sei forte Francesco, guardati, guarda dove sei adesso e ricordarti dov’eri quando sei venuto qui». Riprende fiato come se un grosso getto d’aria le fosse entrato improvvisamente nelle narici, ha parlato veloce, spasmodica, senza dare alla gabbia toracica la possibilità di gonfiarsi. E torno indietro, torno al primo giorno che sono entrato in questo studio, torno alla mia depressione, alla mia impossibilità di uscire di casa, ai mostri che mi aspettavano in ogni strada, su ogni volto, dentro ogni sonno, ritorno a quando il tempo per me non esisteva, a quando credevo che tutto fosse una massa compatta, a quando mi sentivo uno schermo, a quando mi sentivo solo un paio di occhi, a quando il mio corpo era anestetizzato e allora mi spunta un sorriso appena accennato sulle labbra e guardo la dottoressa. «Grazie, senza di lei non ce l’avrei mai fatta ad arrivare fino a qui». Forse nella mia voce c’è un po’ di emozione, spero si possa sentire il riconoscimento, sincero. «Ci vediamo la settimana prossima», mi dice. Io la ringrazio una seconda volta e mentre esco fuori e inizio a camminare per raggiungere l’auto sento tutto il mio corpo, sento ogni muscolo, ogni osso, ogni nervo, sento i capelli, le
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unghie e la forza di questo sentire è così potente che devo fermarmi e reggermi a un palo della luce, rido, rido perché sto tornando a vivere. Dopo alcuni ritardi esce il mio romanzo La bambina celeste. È stato per me oltre che qualcosa da scrivere anche una salvezza, qualcosa a cui tenermi, è stato qualcosa da sognare, una speranza, raggiungere una terra insperata. A pochi giorni dall’uscita arrivano le prime recensioni sui quotidiani nazionali: «Il Giornale», poi «Il Mattino», e poi «L’Espresso», e fioccano le recensioni on-line. Una di quelle che mi restano attaccate addosso è di Massimo Onofri, scrittore e critico letterario, che su «Avvenire» parla di me e del mio romanzo con dei toni entusiasti; il giorno prima della pubblicazione della sua recensione, Onofri mi scrive su Facebook, per avvertirmi, e mi dice: sei un fuoriclasse. Quelle sono state alcune delle parole più importanti, di quelle che mi porto dietro come fossero un oggetto, un talismano per scacciare i cattivi pensieri. Sono alla mia prima presentazione, ho deciso insieme all’editore di farla nella mia città, mi impongo di non prendere le gocce, posso farcela, mi dico. Una sala piena di gente e il mio editore di fianco a parlare con me delle pagine che ho scritto, della genesi, della fine, e di tutto quello che c’è stato in mezzo. A me sudano le mani e a tratti sento le vertigini, faccio fatica a controllare i muscoli, devo mantenere tutto il corpo in tensione per non rischiare che scappi via; devo bere molto perché ho la gola piena di sabbia, come se da un momento all’altro potessi strangolarmi con l’aria; mi muovo nervoso e quando rispondo alle domande la voce trema, ma riesco ad arrivare alla fine, riesco a concludere tutto senza panico, attacchi, senza scosse, senza depersonalizzazione. Firmo le copie, faccio le foto, sono stanchissimo, ma so che in quell’ora di presentazione ho combattuto una delle battaglie più importanti della mia vita.
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Torno a casa e sento una forte voglia di bere o di prendere tante gocce di EN. Cerco di tornare con la mente alla presentazione, cerco un’evasione dalla realtà e questa volta la cerco in qualcosa che ho fatto. La realtà non esiste, nella mia mente continua a girare questa frase. Suona il telefonino, rispondo, è l’editore, mi dice che ha mandato il romanzo alla giuria del premio letterario Grotte della Gurfa. Ti aggiorno, conclude la telefonata. Io prendo un respiro lunghissimo, così tanto lungo che devo sedermi per non svenire, troppa aria fa male, poca aria fa male, ma io non sono mai stato per la media, non sono mai stato uno di quelli che resta nel mezzo a vedere che succede.
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Il tempo cura tutto. Mi hanno sempre detto così, anche quando velatamente si parlava della tua morte. Io non sono mai stato d’accordo. Il dolore resta vivo, resta come se fosse qualcosa di organico, qualcosa che pretende di respirare, che esige considerazione. Il dolore per la tua perdita è stato da sempre una ferita che si è cicatrizzata dall’interno, qualcosa di invisibile agli altri. Mia sorella ha dovuto girare il mondo per cercare la maniera migliore di ammortizzare l’urto spaventoso della tua morte; credo che in fin dei conti non ci sia riuscita, non nella maniera in cui lei avrebbe voluto. C’è stato un periodo, subito dopo il ritorno dalla Cina, in cui ha dovuto fare i conti per la prima volta con la tua assenza per casa, nella routine dei giorni uguali e una sera ha avuto un attacco di panico così forte che dice di aver visto tutta la vita che le passava davanti agli occhi. Ha preso dello Xanax, per qualche settimana, forse qualche mese, non ricordo con esattezza. Poi si è adattata alla tua assenza (ci si adatta al lutto, non ci si abitua) e ha smesso le medicine, e ha smesso il panico come fosse un abito da riporre nell’armadio.
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La mattina in cui dall’ospedale ci hanno detto che eri clinicamente morto sono entrato nella mia camera per togliere il pigiama e vestirmi, in quel momento quelle mura così familiari sono diventate dapprima estranee e dopo, passato qualche secondo di sbandamento, ci ho trovato tutte le ore passate, tutto il tempo perduto, tutte le cose fatte e quelle che ho scelto di non fare; mi sono rivisto seduto sul letto con il grembiule quando mancava un’ora al primo giorno di scuola alle elementari, mi sono visto piccolo, con i capelli a caschetto e mia sorella che giocava sul pavimento con dei pupazzi di gomma. E mi sono caduti addosso i desideri che avevo sempre represso, ho sentito il sapore acquoso dell’angoscia, la sensazione di cedevolezza che ti dà la disperazione. Ho sentito dentro di me uno strappo, come se quel momento fosse un confine che avrei ricordato per sempre, il valico, quel pensiero che mi avrebbe accompagnato quando avrei pensato al “prima” e al “dopo”. La strana sensazione di non essere mai stato veramente in vita e di essere nato solo in quel momento mi ha preso alla pancia fin quasi a tagliarmi via il respiro. Tu eri morto, la mamma era in camera che si vestiva in silenzio, mia sorella piangeva in cucina con la tazza di latte colma di cereali al cioccolato mentre alla televisione passavano senza volume le previsioni del tempo; io non sapevo che maglia mettermi per venire all’ospedale e non sapevo che giubbino indossare e non sapevo in che maniera sarebbe stata la vita senza te e questa cosa mi faceva sentire di paglia, mi faceva sentire vuoto o pieno, ma pieno di rabbia e collera e tristezza, pieno delle bestemmie che appassivano nel mio cuore che stava diventando di neve. Pesavo sei anni e quel giorno mi prendesti in braccio e mi facesti diventare una giostra, mi tenevi in alto e ridevi, mi facevi girare in tondo con l’aria che mi scompigliava i capelli e con la mamma che poteva ridere spensierata e io vedevo la tua gola
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e il tuo pomo d’Adamo pronunciato che si muoveva e pensavo che la felicità era quella cosa che ti faceva muovere quella pallina nella gola. Mi sono sempre interrogato sulle tue dita grosse, sui tuoi denti un po’ storti, su come facessi a sopportare quella puzza di fumo dentro la tua auto. Non siamo capaci di capire e comprendere le leggi che ci riportano nel passato, è una materia che ci scivola via sistematicamente. Tutto quello che accade sembra essere al di fuori del tempo, sembrano pezzi sparsi di qualcosa, terre che hanno trovato collocazioni differenti, e tra queste, tra queste terre c’è quella che contiene i vivi e i morti. Vivi e morti che possono cambiare terreno, luogo, spazio, a seconda del loro animo, del loro stato emozionale. Forse siamo noi, che siamo ancora in vita, a dare fastidio ai morti, siamo noi che camminiamo sulle loro strade, che occupiamo le loro case, che beviamo il vino che loro ci hanno insegnato a fare. Forse siamo noi il pensiero irreale dei morti, siamo noi quelli a cui pensano quando devono riflettere su cosa c’è dopo la vita da morti. È possibile che loro possano vederci, in determinate circostanze, in luoghi pieni di luce o in totale assenza di luce. Noi, invece, i morti non li possiamo vedere, dobbiamo accontentarci delle fotografie che talvolta pare abbiano una propria memoria, sembra, a volte, che dentro le fotografie si agiti qualcosa, che si possa addirittura sentire un suono, un vento che c’era in quel momento o un’automobile che è passata nell’attimo esatto in cui è stata scattata la foto. Le foto potrebbero ricordarsi di come allora eravamo noi, di come eravamo fatti, di quali sogni ci fossero nei nostri occhi e allora è possibile che con un minuto mormorio provino a sussurrarci parole che possano farci ricordare di noi come eravamo e di loro, quelli che non ci sono più. Poi un giorno tua figlia si è sposata, io l’ho saputo da lontano, con una videochiamata. Da Dubai mi diceva che quella mattina aveva sposato il suo compagno. Lì, con lei, c’era anche la mam-
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ma. Lei e il compagno avevano tenuto tutto segreto, svelando la loro unione solo alle mamme e solo il giorno prima del matrimonio in comune. A me la notizia è arrivata a fatto compiuto e se all’inizio sono rimasto incredulo e subito dopo ho sentito molta felicità, quando abbiamo staccato la videochiamata ed è scomparso dallo schermo il viso di mia sorella, così simile al tuo nelle espressioni, nella dolcezza, nei tratti del naso e nella fronte, quando abbiamo staccato la videochiamata e il suo viso è scomparso, una tristezza dura, come di metallo fuso, si è formata dentro i polmoni e quasi tutte le parti di me sono diventate di marmo. Mi sono sempre raccontato che il giorno che si fosse sposata mia sorella io avrei dovuto accompagnarla all’altare, io, perché tu non c’eri più. Era un movimento scontato, un gesto naturale che mi sarebbe crollato addosso per eredità. E invece no, no, perché tua figlia si è sposata lontana, troppo lontana per uno che non ha mai volato e ha paura dell’aereo; no, perché ha deciso di non svelare nulla fino all’ultimo giorno, no, perché le cose che amiamo raccontarci a un certo punto diventano una parte di noi, le inglobiamo come fossero materiale organico e non ce le togliamo più di dosso anche quando le parole che eravamo così bravi a dirci diventano diverse e noi non siamo più capaci di gestire nemmeno il semplice alfabeto. Quel giorno ricordo di essere rimasto seduto sul letto della mia camera per molto tempo, ricordo che la luce fuori stava evaporando lentamente e che sarei dovuto scendere di casa e passare da mia nonna. Era l’ultimo dell’anno e per la prima volta da quando sei morto lo avrei passato senza la mamma e senza mia sorella e senza i brindisi e le lenticchie con il cotechino, senza l’abbuffata di pasta e pesce fritto e mostaccioli al cioccolato. Scesi per strada in un freddo massiccio, le strade già quasi vuote e i palazzi con le finestre tutte illuminate, con le persone già tutte in casa ad aspettare l’inizio dei cenoni. Feci a piedi il tratto di strada che separava la mia abitazione da quella della nonna, e quando presi le due rampe di scale per
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raggiungere il cancello di ingresso trovai lei in cima ai gradini e quando accese la luce e le vidi bene il viso ci trovai sopra l’immagine di quando tu eri in coma e nel buio di una notte fitta e tarda arrivò all’ospedale insieme agli zii. È incredibile come i ricordi arrivino quando vogliono, come siano irrispettosi, quanto se ne fottano del tuo permesso. Mentre salivo le scale ho rischiato quasi di sbandare. Davanti a me, sull’uscio della porta, non riuscivo a vedere una donna anziana con una vestaglia invernale che mi aspettava mantenendo il peso del corpo facendo pressione con una mano sull’uscio della porta, vedevo una donna anziana distrutta per la morte del figlio avvenuta otto anni prima, rivedevo i suoi passi stanchi nella chiesa, vicino alla bara, rivedevo la donna che quel morto, molto tempo prima, lo aveva tenuto in braccio e lo aveva allattato e gli aveva insegnato il mondo. Un dispiacere profondo mi fece quasi piegare le ginocchia, arrivai all’ultimo scalino e le diedi un bacio e poi le chiesi: «Hai saputo la notizia?». E lei si emozionò, si emozionò perché la sua prima nipote femmina si era sposata, si emozionò perché facemmo un’altra videochiamata con Dubai e le parlò e si parlarono e quando terminammo la videochiamata mi disse: «Quanto somiglia a tuo padre oggi tua sorella». In alcuni momenti i morti si sovrappongono a noi, diventano diapositive, vediamo il loro volto sul volto di un altro, ne sentiamo la presenza nell’aria che viene via da un movimento, da un passo, da un sorriso. I morti si sovrappongono a noi e ci fanno affogare, ci tolgono l’aria non per ucciderci ma per farci capire che respirare è importante, come importante è non smettere di parlare con loro, non smettere di fargli domande, perché le domande sono le fiammelle con le quali si orientano e riescono a tornare, talvolta, in mezzo a noi. Vorrei solo un’ora, solo un’altra ora per averti vivo, un’ora in cui poterti far vedere cosa sono oggi, cos’è diventato quel ragazzo di ventisei anni che hai lasciato. Per chiederti come stai
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e come va dall’altra parte, un’ora per darti un abbraccio che è sempre stato assente e per poter togliermi dalla testa le tue ultime parole: «Mi dai le chiavi dell’auto?».
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Ho una presentazione a Salerno Letteratura, per andarci devo prendere un treno e devo farlo da solo. Mia madre mi accompagna in stazione, devo fare due cambi e una volta giunto a Salerno devo percorrere un bel tratto di strada a piedi per raggiungere il luogo dell’evento. Il tempo in treno lo passo al telefono per non pensare a dove sono, che sono solo e a quello che sto facendo. In stazione subito sento un mancamento che riesco a ricacciare indietro a fatica, mi dico che devo presentare il romanzo, che ce la faccio, cazzo se ce la faccio. Percorro il corso principale con una serenità nuova, mi fermo a guardare le vetrine, entro in una libreria per fare un giro tra gli scaffali (cosa che non facevo da anni), sento di avere uno scopo, un obbiettivo, dentro di me si apre la certezza di non essere più fuori posto. È andata più o meno sempre così, l’idea di dover presentare il libro mi terrorizzava e al contempo mi dava forza, mi dava un’energia nuova, una convinzione quasi magica che le cose sarebbero dovute andare bene, che nella lotta ero stato bravo. È quasi da un mese che non ho un attacco di panico, sono quasi due mesi che non penso al suicido, sono più di sei mesi che non ho allucinazioni né uditive né visive né sensoriali. Ho
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imparato ad ascoltare il mio corpo, sto imparando a riconoscere i sintomi fisici della paura o della rabbia o della tristezza o della felicità, senza spaventarmi. Ho ripreso a guidare da solo, ogni piccolo passo in avanti per me è una vittoria, un piccolo briciolo di felicità che cerco di sentire a fondo. Mi comunicano di essere arrivato nella terzina finale del premio letterario Grotte della Gurfa, mi telefona Ezio Iovino, uno dei principali organizzatori del premio, e mi dà tutte le indicazioni per raggiungere Alia, la città siciliana in cui si svolgerà la premiazione, e mi fa tantissimi complimenti per La bambina celeste, confessandomi di aver fatto fatica a leggerlo avendo una figlia che più o meno ha la stessa età di Giorgia. Sono stordito dalla felicità, sono in finale a un premio letterario con il mio romanzo di esordio, una valanga mi sale dalle gambe e mi entra nel cervello in modo veloce, me la figuro come un fascio compatto che va su a velocità massima dai polpacci fino alla testa. C’è un unico grande problema. Devo prendere la nave, devo viaggiare da solo in nave, arrivare a Palermo e qui prendere un bus per raggiungere la stazione, da lì prendere il treno per Alia. Mentre ripasso queste informazioni mi assale l’angoscia e delle immagini da incubo mi fanno tremare le dita. Come faccio? Mi chiedo. Da solo, tutto da solo in un posto nuovo, stare da solo, prendere la nave da solo, prendere i mezzi da solo, solo, e se mi succede qualcosa? Se svengo? Se mi viene un attacco di panico? Come mi calmo? Come me lo faccio passare? Dopo la gioia di aver saputo del premio cado in una voragine, crollo repentinamente in una tristezza sorda che quasi mi rende insensibile a tutto quello che mi sta accadendo intorno. Passo delle ore difficoltose, mi sudano i palmi delle mani, poi senza pensarci mi alzo dal letto sul quale sono seduto, apro la
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porta, prendo le scale e sono in strada; raggiungo l’agenzia di viaggi e acquisto un biglietto del traghetto per Palermo andata e ritorno. Esco fuori dall’agenzia e vedo la città, le auto, i passanti, i negozi, vedo tutto e tutto inizia a tremarmi intorno, sono dentro un vortice, all’interno di una zona invivibile. Sento la terra tra le gengive e poi sento il ferro di un palo della luce sulla lingua; sento il sapore del cemento fresco sul palato e la nausea mi sale in bocca e un conato di vomito esplode tra i denti, mi imbratto i pantaloni e le scarpe, mi bruciano gli occhi e il sapore acido mi impasta le narici. Sono vicino casa senza ricordare come ci sono arrivato, sono sudato, stanco, stremato, ho voglia di morire, di smettere questa follia di vivere dentro qualcosa che non sono io, dentro un cumulo di macerie dove ogni volta che provo a scavare per uscire mi cade tutto addosso, ancora, ancora. Mi viene voglia di strappare i biglietti perché mi fanno rabbia, li odio, quei biglietti, perché odio me stesso, odio la mia malattia, odio Dio se mai esista e odio mio padre per avermi lasciato solo, odio la vita se è questa, odio i miei movimenti imbarazzati, le mie braccia che perdono sensibilità, la mia faccia che si addormenta e la mia gola che si stringe fin quasi a farmi morire: che lo facesse, che si chiudesse senza riaprirsi; odio i miei passi che tremano e odio le mie gambe che diventano acqua e odio i miei pensieri e odio il giorno in cui non sono riuscito a morire. Parlo a lungo con la dottoressa D. del mio attacco di panico, del fatto che non mi veniva da tanto una scossa così profonda e destabilizzante, le parlo delle allucinazioni sensoriali, piango durante tutta la seduta, piango a trentatré anni come un bimbo, come un uomo che non riesce a vivere. «Sono scosse di assestamento. Hai fatto dei passi avanti enormi e non stai prendendo più i medicinali, devi imparare a essere più tollerante verso te stesso, meno severo».
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Mentre mi dice queste cose rulla una sigaretta e ha un’aria serena, c’è una pace sulla sua faccia, sul suo sorriso, una sensazione di mare calmo, di lago. Quelle parole riescono a trasmettermi un po’ di coraggio, tra una settimana devo imbarcarmi per la Sicilia e nulla mi impedirà di farlo. Al porto mi accompagnano mia madre e mio zio, è settembre, fa ancora caldo. Scendo dall’auto e mia madre mi saluta con un bacio sulla guancia e un abbraccio deciso, come a volermi trasmettere coraggio. Li saluto e mi incammino verso la nave. Respiro, calmo, respiro. Nella borsa ho le gocce di EN che non prendo da molto tempo, ma adesso mi serve sapere di averle dietro. Salgo le scale, anche la seconda rampa e la terza, trovo una poltrona vuota e mi siedo. Dopo due ore la nave parte, io sono tranquillo, non ho tachicardia, non sudo, non mi manca il fiato, i muscoli sono saldi, ogni parte del corpo è presente, sono lucido, la nave è partita, il mare è calmo, sto andando alla finale di un premio per il mio primo romanzo, sento qualcosa di nuovo nello stomaco, come un fuoco, come un’aria caldissima che mi avvolge il torace e mi sale nella bocca e scalda tanto la bocca che devo aprirla, che devo sorridere, da solo, sì, da solo, sulla poltrona, in mezzo a degli estranei, in mare aperto. Sono sul ponte quando stiamo per arrivare in porto e c’è un’alba che spacca il cielo a metà. Ho dormito poco e ho fumato molto. Scendo dalla nave e devo raggiungere la fermata del bus, non penso alla paura, non penso ai miei terrori, in questo momento Francesco malato non esiste, cammino spedito e l’unica cosa che mi gira nella testa è raggiungere Alia. C’è uno sciopero dei bus, divido il taxi con una coppia di Roma. Arrivato in stazione prendo il treno per Alia. Quando sono in città viene a prendermi Gregorio, uno degli organizzatori della manifestazione. In auto mi parla del mio romanzo, mi fa i complimenti e mi porta a una villa appena fuori dal centro, un trilocale che dovrò dividere con Piergiorgio Pulixi, uno
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degli altri due scrittori che è giunto in finale, e con Alessio Romano, che con il suo romanzo ha vinto il premio della giuria. Il terzo finalista è siciliano e verrà direttamente il giorno della premiazione. Dopo qualche minuto sono solo, Gregorio è andato via e Pulixi non è ancora arrivato. Sono qui, mi dico, non credevo che ce l’avrei fatta. Non credevo sarei riuscito di nuovo a fare cose del genere; quando mi sono sentito più vicino alla morte, il giorno in cui per un pelo non sono saltato dalla finestra, o quello in cui i farmaci e l’alcol non sono riusciti ad ammazzarmi, ero assolutamente certo che la vita come l’avevo sempre conosciuta fosse finita e che per me ci fosse ormai un altro tipo di esistenza, qualcosa di oscuro. Quando arriva Pulixi ci portano a pranzare in un ristorante e dopo andiamo a prendere un caffè in un bar caratteristico dove costa solo 20 centesimi. A tratti mi sento strano, come fossi un bambino che sta facendo delle cose per la prima volta, il primo mare, la prima pioggia, la prima volta Babbo Natale; il corpo e la mente disimparano in fretta i movimenti, così in fretta che quando torni a compierli ti senti avulso da te stesso. Quel pomeriggio mi portano a visitare le grotte della Gurfa, e nella strada che percorriamo in auto io inizio a sentirmi male, la gabbia toracica si chiude e diventa di pietra, sento una pressione matta sul petto e riesco a respirare a mala pena. Scendiamo dall’auto e cerco di essere meno rigido con la folle rabbia che inizio a provare verso di me, facciamo qualche passo, gli altri parlano, io ascolto perché a parlare non ci riesco. Poco per volta avverto il petto che si scioglie, lo sento come un disgelo, come qualcosa di solido e ghiacciato che diventa fluido, l’aria mi torna in gola a fiotti, i muscoli della schiena allentano la presa sulle ossa e mi rendo conto di aver superato un attacco di panico mentre sono lontano da casa, in mezzo a degli estranei, senza medicine e senza allucinazioni.
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Quanto è lontano da qui quel momento, quanto è distante quell’attimo in cui avevo deciso di morire, ma forse è tutto vicino, ogni cosa, ogni evento diventa un oggetto e tutti gli oggetti si sfiorano, a volte si toccano, a volte si scontrano e non c’è un inizio delle cose, né una fine reale, c’è solamente la sofferenza o la gioia che a caso si diluiscono in questa pozza piena di oggetti e infettano o rinvigoriscono; non ne puoi uscire, non esiste modo per sottrarsi se non il suicidio. Ritorniamo verso il centro del paese, per le strade ci sono dei poster con la foto del mio viso e il mio nome insieme a quello degli altri due finalisti. Le persone si fermano a salutarci, per parlare, per conoscerci. Sono uno scrittore, mi dico. Se sopravvivo, un giorno dovrò raccontare tutto questo.
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Siamo stati bambini insieme quando sulla spiaggia mi aiutavi a scavare le fosse o a costruire dei castelli che alla fine non stavano mai in piedi, quando mi hai insegnato come si calciava un pallone di cuoio, di collo, dicevi, non di punta; siamo stati uomini insieme quando quella sera mi chiamasti in una stanza per chiedermi se sapessi come si faceva sesso, se avessi bisogno di preservativi, quando siamo andati a vedere la mia prima auto, la mia seconda auto (perché la prima l’avevano rubata), quando mi hai accompagnato nell’agenzia di scommesse sportive per quel mio primo lavoro. I tuoi gesti continuano ad accadere perché nella stanza della memoria tutto è in continuo movimento, continui a tornare a casa alle 14:30, continui a chiedermi se per cena va bene la carne ai ferri, continui a mettermi a letto la sera e a darmi la buonanotte alzando appena il tono di voce e a chiudere gli occhi non appena io ti rispondo dalla mia stanza. Continui a morire, tutti i giorni, tutte le ore, continui a morire nell’auto che ormai ho portato allo scasso e che non ho preso per mesi e mesi dopo la tua morte, dopo che tu in quell’auto ci sei svenuto ed entrato in coma. Continuo a svegliarmi nella mia camera quella mattina e a chiedere a chi mi sta vicino di dirmi che è stato solo un brutto sogno. Ricordare è un gioco a perdere quando le cose che ti hanno ferito sono fragorose, per-
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ché per un meccanismo nero del cervello siamo sempre capaci di portare a galla il ricordo ferita e quasi mai il ricordo gioia. C’è una foto in cui hai da poco superato i vent’anni, i capelli ricci e neri, i lineamenti dolci del viso, un maglione di lana rosso scuro, il jeans, la sigaretta accesa tra le dita della mano destra, sigaretta che avrai portato alle labbra molte volte; un sorriso bianco, un sorriso pieno di una gioia recondita. Mi chiedo spesso che ragazzo sei stato, che donne hai avuto, che passioni avevi da bambino, come hai passato la tua infanzia; mi chiedo se saremmo potuti essere amici, se pensavi mai alla morte e se ci pensavi tanto quanto ci penso io. È da un po’ che non mi chiedo più niente, non su di te; le cose che non conosco resteranno buie, le cose che so di te mi rimarranno in grembo come un neonato che non crescerà mai. Ci sono dei vuoti grandi nelle ore dopo il tuo funerale, l’ultima immagine che mi ritorna è la camera ardente, poi ricordo le persone fuori ad aspettare non si sa cosa, mia madre con un vestito nero che per poco non tocca terra che prende sottobraccio mia sorella, mia nonna poco distante al centro tra i due figli, i due sopravvissuti, poi più niente. Non c’è nessuna immagine di quando sono tornato a casa, nessun momento, c’è solo il giorno dopo, quando siamo venuti di nuovo al cimitero per assistere al momento in cui avrebbero messo la tua bara dentro un loculo e la nostra sorpresa quando ci dissero che avrebbero dovuto accorciare la bara, segandola, perché altrimenti non ci sarebbe entrata. Quei luoghi muti dove non so cos’è accaduto restano dentro la pancia e formano dei buchi grandi che non si riempiranno mai e che mai avranno voce, o parole, o la possibilità di svelarsi. Ho sempre riconosciuto bene la delusione sulla tua faccia, l’ho sempre vista da lontano senza il bisogno che tu usassi delle pa-
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role. La prima volta che ti ho visto deluso, o almeno la prima volta di cui ho memoria, io avevo forse sei anni e stavo giocando con dei pupazzi sul pavimento dello studio. Tornasti da lavoro che fuori era sera, i primi tempi tu facevi due lavori, mantenendo quello di arredatore in uno studio di architettura che poi avresti lasciato. C’erano delle cose che la mamma stava preparando nella cucina e c’era mia sorella, stesa sul divano, che guardava la televisione. Apristi la porta e mi sorridesti, mi raccogliesti dal pavimento portandomi in alto, quasi alla tua altezza e mi dicesti che mi avevi portato una videocassetta, un cartone animato. La mettesti nel videoregistratore e premesti il pulsante di avvio, comparvero delle immagini, ricordo ancora adesso la mia faccia, e le mie parole: «Mi fa schifo questo Asterix». E ricordo il tuo viso, ci rimanesti talmente male che non toccasti la cena e quando andasti a dormire avesti quasi paura di avvicinarti al mio letto. Non ti dissi niente, tu non dicesti niente. Quel momento è rimasto sospeso, con il tempo, ripensandoci, avrei voluto dirti: «Mi dispiace». Avrei voluto dirti che ero stato uno stupido a disprezzare quella sorpresa, ma papà, ero un bambino, che cosa ne potevo sapere di come si fa a ferire i sentimenti? Quando mi insegnasti ad andare in bicicletta, io ero piccolo che non toccavo con i piedi a terra, o per lo meno ci arrivavo appena con le punte. Mi comprasti una BMX gialla e nera, somigliava per me alle motociclette da motocross e il mio desiderio più grande era riuscire a pedalare senza rotelle. Andammo nella corte della nonna, c’erano le nuvole in cielo che si accalcavano e tu mi dicesti che appena sarebbe venuta giù la pioggia avremmo dovuto smettere. Mettesti una mano dietro la mia schiena e con l’altra mantenevi saldo il manubrio della bicicletta. Pedalavo piano e tu mi seguivi, ma non appena ti staccavi da me, allontanandoti, perdevo l’equilibrio e un paio di volte sono cascato a terra sbucciandomi un ginocchio. Era un incantesimo, la tua presenza mi faceva tenere l’equilibrio,
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la tua assenza mi faceva precipitare. Non potevo sapere che i miei gesti, in quella corte, sarebbero stati profetici. Poi presi fiducia, pensai che prima o poi avrei voluto pedalare da solo, che prima o poi avrei voluto guidare la bicicletta in altri luoghi che non fossero quello, e allora mi staccai, ti fermasti guardandomi da lontano, io arrivai alla fine del lungo corridoio che portava all’uscita e poi tornai indietro; mentre ti venivo incontro vidi il modo in cui mi guardavi, c’era felicità e anche un pizzico di dispiacere: stavo crescendo e per molte cose non avrei avuto più bisogno di te. Tutte le volte che entro in quella corte c’è quel bambino che pedala sulla bicicletta gialla e nera, c’è quel cielo piatto e gonfio di pioggia, ci sei tu che mi aspetti alla fine del corridoio, ci sono le mie urla di gioia mentre sento il vento sulla faccia e guardo i miei piedi che si muovono svelti sui pedali. Avrei voluto ricambiare, ricambiare le carezze e la tenerezza che mi hai dato quando ero un bimbo. Avrei voluto darti tranquillità quando saresti stato anziano, ci sarei voluto essere quando avresti avuto bisogno. Ti avrei voluto vicino il giorno del mio matrimonio, avrei voluto farti conoscere mia moglie, sono sicuro che ti sarebbe piaciuta molto e che voi due sareste andati molto d’accordo. Quando mi sono sposato ed eravamo davanti al sindaco, un attimo prima che io leggessi la promessa che avevo scritto, ho guardato tra la gente che era seduta a osservarci e per un attimo ho creduto di vederti, ho creduto che per non disturbare e per non creare fragore non fossi venuto avanti, vicino a tua moglie; eri rimasto dietro, in piedi, quasi in un angolo, perché quello era un giorno che non potevi perderti e pazienza se c’era la morte di mezzo. Sul mio vecchio telefonino avevo ancora memorizzato, tra i contatti, il nome: papà. Per molto tempo sono andato a leggere quei numeri, sono andato a pigiarli sulla tastiera, ma non ho mai avuto il coraggio di telefonare. Avrei trovato il telefono
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spento. Quando andavo alle scuole elementari, perché fossi buono e per farmi andare bene a scuola minacciavi di portarmi in collegio. Immaginavo questo collegio come un palazzo largo e basso, con delle colonne all’ingresso, lo immaginavo grigio con un prato verde e umido davanti, un prato bagnato di freddo. Un giorno non ricordo che cosa feci, ma tu ti arrabbiasti molto, mi portasti nella tua camera e prendesti una valigia e la incominciasti a riempire con i miei vestiti; ti guardavo atterrito, non avevo il coraggio di parlare e quando ci provai ricordo che non riuscii a emettere nessun suono. «Domani ti porto in collegio, ho deciso, sei troppo maleducato, non mi obbedisci mai». Rimasi muto ma delle lacrime grandi come biglie iniziarono a scendermi sulle guance, lacrime forti e larghe che mi finivano in bocca e mi davano la sensazione che sarei potuto annegare. Tu non mi guardavi, continuavi a mettere i panni alla rinfusa dentro la valigia senza un ordine. Chiudesti la valigia e la mettesti di fianco al mio letto. «La metto qui, così domani mattina quando ti svegli è già pronta e andiamo direttamente al collegio». Quando uscisti dalla stanza chiudesti la porta e mi sedetti in terra di fianco alla valigia blu, era enorme e dentro ci sarei potuto entrare io. Smisi di piangere e capii che dovevo fare qualcosa, trovare un modo affinché tu potessi cambiare idea. La mattina mi svegliai prima di tutti e misi in tavola la bottiglia di latte, i piatti, la crema al cioccolato e spalmai una fetta di torta al cocco con la marmellata alle ciliegie. Misi in tavola le posate ma non riuscii ad accendere i fornelli. Tu e la mamma vi alzaste e trovaste la tavola imbandita, io ero seduto sul divano e stavo aspettando che tu dicessi qualcosa. Ti avvicinasti e ti sedesti vicino a me. «Io non voglio essere severo con te, non voglio fare il padre, io voglio essere tuo amico ma tu me lo devi permettere, perché
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se continui a comportarti male e a disobbedirmi mi costringi a fare il padre». «Va bene», dissi con una voce piccolissima che a stento mi uscì dalla bocca. «Dai, alzati, facciamo colazione e disfiamo la valigia». Ricordo il viso della mamma pieno di una luce bianca, con i capelli legati dietro la testa e l’accendino nella mano destra mentre cercava di accendere i fornelli; era quasi dicembre e dalla finestra aperta appena entrava in casa un’aria fredda e secca che mi fece pensare al Natale, al presepe che montavamo sempre insieme, all’albero e agli addobbi e oggi si è consumato tutto, Natale è a un giorno dal tuo compleanno e sono momenti tesi, giornate di dolore, giornate dove ci si racconta che sei ancora da qualche parte.
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È il giorno della premiazione, gli altri due autori ed io andiamo verso le grotte della Gurfa, luogo in cui si svolgerà la manifestazione. Ci sono tantissime persone e un cielo che promette pioggia si sta aprendo e un sole caldo quasi estivo inizia a farsi spazio. A presentare la manifestazione è l’attrice teatrale Anna Tringali. Prima che inizi la cerimonia ho due incontri. Mentre sono vicino al belvedere vedo una ragazza con i capelli ricci e neri che mi si avvicina e con lei anche il padre, la madre e la sorella; lei ha una copia del mio romanzo tra le mani e subito la riconosco, il mese prima mi era arrivato un messaggio su Facebook che mi aveva lasciato con il fiato sospeso: Grazie per l’amicizia. Sono una ragazza di diciotto anni, ho sentito il bisogno di scriverti perché il tuo libro mi ha lasciato qualcosa dentro, qualcosa che credo e spero mi rimarrà per sempre. Ho avuto un brutto approccio con la morte, un contatto che avrei preferito non stringere mai. Mi porto dentro delle ferite che fino ad adesso non sono riuscita a sanare in nessun modo. Mi piace scrivere, l’unico modo che ho trovato per liberarmi è stato questo. Ti ho scritto perché le tue parole hanno aperto in me qualcosa, mi hanno fatto piangere e sfogare. Credo di aver trovato una speranza, qualcosa che mi faccia pensare che loro lassù stiano bene.
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Volevo ringraziarti perché senza ‘La bambina celeste’ adesso io non potrei vedere le cose così come riesco a vederle. Letto tutto d’un fiato. Grazie di vero cuore! Ricordo che quando mi arrivarono queste parole ero fermo in auto e che avevo sentito miliardi di spilli entrarmi sotto la pelle; ricordo la sensazione di benessere e al contempo l’empatia, io sapevo le zone d’ombra di cui mi parlava quella ragazza, conoscevo il male di vivere e non sapevo ancora se ero riuscito a mettermelo alle spalle. Ma il mio romanzo stava iniziando a trasmettere qualcosa, stava iniziando a essere qualcosa di diverso, in questo caso era stato una sorta di salvezza così come lo era stato per me. La guardo. «Tu sei Valentina», dico. Lei sorride e dice che sì, è Valentina. Mi si avvicinano il padre e la madre e mi chiedono se possono abbracciarmi, mi dicono che la loro figlia ha passato dei momenti terribili, è caduta in uno stato depressivo per la morte di un’amica, che non usciva più di casa e che da quando ha letto il mio libro è cambiato tutto, in casa la loro vita si è trasformata in meglio, per tutti, e grazie a me. Capisco il vero potere delle parole, la vera potenza della letteratura, e resto fermo, senza sapere che cosa dire, perché che cosa vuoi dire in una situazione del genere? Ricambio l’abbraccio forte, io stretto da due estranei, mi metto in posa per delle foto con loro e li saluto. È il mio primo posto, a prescindere da come andrà la finale. Dopo poco si avvicina un’altra ragazza, esordisce dicendo che non mi ha votato (il premio funziona così: ci sono cinque giurati che scelgono i tre finalisti, il successivo voto sarà di cento abitanti di Alia) perché l’ho fatta piangere troppo, che il mio romanzo adesso non riuscirà mai a dimenticarlo. A quel punto le dico che ho fatto il mio dovere, che la letteratura ti apre qualcosa dentro, che la letteratura dentro ci resta e che se il
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mio libro non lo avrebbe più dimenticato, quello era il suo voto per me. Sono il secondo a salire sul palco, la Tringali legge un estratto del mio romanzo accompagnato dalla canzone di Niccolò Fabi Facciamo finta. Dopodiché mi siedo sopra una sedia tra lei e Ezio Iovino per un’intervista che dura una decina di minuti. Sono tesissimo ma l’idea di non farcela a parlare davanti a tutte quelle persone non mi sfiora nemmeno; rispondo alle domande, sorrido, a volte mi guardo intorno e mi estranio per qualche secondo dal discorso, le persone sono molte e tutte sedute davanti al palco, ho paura di essere felice, ma ci sto riuscendo. Danno il premio della giuria ad Alessio Romano per il suo romanzo Solo sigari quando è festa, annunciano poi il terzo classificato: Charlie non fa surf di Giuseppe Catanzaro. Siamo rimasti io e Piergiorgio Pulixi con il suo Il canto degli innocenti. A vincere è proprio lui, e ci rimango male, inizialmente sento una delusione cocente che mi sale nello stomaco fino a ustionarmi la gola, a ustionarmi la faccia. Due delle giurate che avevano scelto la terzina finale, Sara Pira e Giulia Ciarapica, subito dopo la premiazione mi vengono vicino rincuorandomi, dicendomi che il mio romanzo era stato il più votato dai cinque giudici. La sera la delusione riesco a farla scemare, non sto più pensando al panico, all’ansia, alla paura di svenire o di morire, non sto pensando a nulla di tutto questo. Non ci penso durante la cena con i presentatori, i finalisti e altre persone dell’organizzazione, sto ricostruendo me stesso, riesco a sentire da capo le sensazioni di normalità, non provo odio per il mio corpo, non sento di disprezzarmi né di voler rinunciare a essere sereno. E penso alla psichiatra, la dottoressa D., e mentre sto mangiando e la penso, la ringrazio, le dico un grazie che mi
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esplode sotto ogni strato di pelle. Penso a mia madre, alle sue battaglie, a quando non mi ha capito, a quando ha cercato di capirmi, a quando è riuscita a capirmi; a quando ha lottato con me, per me, e a volte a quando mi ha lasciato lottare da solo. Anna Tringali mi offre una sigaretta e mi chiede di fare due chiacchiere; usciamo appena fuori dal locale, c’è l’aria fresca che mi ricorda l’arrivo dell’autunno, le stelle in cielo sembrano alghe e Anna mi racconta della sua esperienza con La bambina celeste, mi dice di aver pianto, tanto, e che il mio libro le ha fatto pensare alla morte della madre e parliamo per quasi mezz’ora, dimenticandoci dei piatti in tavola, fumando un’altra sigaretta, parliamo del romanzo, della morte, e poi delle cose che danno sollievo. Mi sono arrivati in posta su Facebook molti messaggi di persone che hanno avuto malattie, che hanno avuto amici o parenti con il cancro, dicendomi che il mio romanzo per loro era stato come una cura. Non so se merito questo tipo di considerazione, è come se tutte le persone che hanno letto il libro credessero che io possa capire quello che hanno vissuto loro, privatamente. Forse questa aura non mi si addice, ma sono empatico e ascolto molto e dove posso racconto anche le mie parti oscure. Quando arrivo al porto di Napoli e metto piede sopra il cemento sento che qualcosa è cambiato, le case nel buio sembrano tante scintille, mi sono lasciato alle spalle luoghi devastanti, una parte di me, quella malata, quella detestabile, quella pazza, quella che voleva sabotarmi, si è molto rimpicciolita, sento di avere un potere nuovo, quello delle parole, sento che se il romanzo è stato importante e salvifico per delle persone allora io valgo qualcosa, allora io la devo smettere di odiarmi e di credermi un fallito. Un altro messaggio che mi arriva, questa volta su Linkedin, mi destabilizza; una donna mi scrive:
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Ho letto il tuo libro che parla della mia vita nella trama e negli elementi essenziali. La differenza è che io avevo un figlio con dinamiche diverse che lo hanno portato alla morte, ma tutto il resto è uguale. Grazie di averlo scritto. Sono passati due giorni dal ritorno a casa, guido da solo e senza problemi fino allo studio della psichiatra, salgo le scale come se mi sentissi un vincitore, quando entro la trovo seduta ad aspettarmi. Le racconto tutto quello che ho vissuto, tutto quello che ho sentito; mi sento felice e non ho paura di dirlo, mi sento fiero di me per aver fatto cose che da sei anni erano impensabili, cose banali come guidare, prendere un treno, camminare, parlare con la gente, queste cose banali per me non lo erano più, erano diventate il male, qualcosa da cui fuggire per non rischiare di morire. Vedo dentro lo sguardo della dottoressa D. qualcosa di brillante, è come se queste mie parole, questi fatti che le sto raccontando fossero anche una sua vittoria, e in fondo lo sono. È felice con me e anche se mi ascolta sorridendo e non dicendo niente, lo vedo dal suo corpo che sente di aver fatto un buon lavoro. E rivedo le volte che pensavo a quel percorso terapeutico come qualcosa che stesse fallendo, a tutti i passi in avanti e ai repentini passi indietro, a quando le ho spesso urlato che no, la psicoterapia non mi stava servendo a niente, a quando l’ho pregata di darmi dei farmaci, a quando l’ho pregata di aggiungere a quei farmaci altri farmaci, a quando ho abusato di farmaci e a quando ho mischiato i farmaci con l’alcol, a quando bevevo tutte le sere per stordirmi, per galleggiare, per non pensare al pupazzo di pezza che credevo di essere; a qualche taglio che mi sono fatto sulle braccia per far allontanare il panico, per non pensarci e restare concentrato solo sul dolore, solo su quella striscia di sangue che lentamente si gonfiava. «Tra un po’ di tempo dovremmo iniziare a pensare se vuoi continuare la terapia o se la vuoi interrompere».
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«In che senso?». «Puoi camminare sulle tue gambe e per vivere di me non hai più bisogno, potrebbe capitare qualche altro brutto periodo, potrebbe accadere, ma tu adesso hai gli strumenti e le conoscenze adatte per affrontare ciò che la vita ti vorrà riservare. Sette anni di terapia sono stati una lotta, una guerra contro te stesso e per te stesso. Potremmo continuare, ma per correggere altre cose. I problemi che verranno li saprai affrontare anche senza di me». Queste parole mi trafiggono come fossero coltelli, sento il cuore dentro un cumulo di neve e la paura che sale dietro il collo e mi porta il freddo nella testa. Queste parole mi spaventano e credo che sia giusto, ma allo stesso tempo mi rendono orgoglioso di me, perché per sei anni sono stato dentro l’inferno e adesso ne sto uscendo. «Io ho pensato in maniera seria al suicidio, a volte, in questi anni», le dico. Resta almeno un minuto senza parlare, io provo a tenere il suo sguardo che è fisso su di me ma faccio fatica perché mi vergogno di quello che ho detto, di quello che ho pensato di fare. «Lo so», dice.
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Ti ho scritto in tutti i libri abbozzati e mai finiti, perché non era il momento. Oggi che sono passati dieci anni, mi sento finalmente pronto a raccontare di te e di tutto quello che è accaduto dopo la tua morte, del lutto, della depressione, degli attacchi di panico. Se tu non fossi morto io non sarei mai diventato uno scrittore. È una specie di pegno, di baratto. È brutto a dirsi, ma questa è la mia unica verità. Mi mancherà per sempre la domenica mattina quando entravo nella tua camera per costringerti a scendere dal letto, i dolci che mangiavamo a tavola, il tuo modo semplice e leggero di stare al mondo. Da bambino ti cercavo nel buio, di notte, ti chiamavo dalla mia stanza dopo un brutto sogno e aspettavo la tua mano sul petto, la tua mano che riusciva ad addomesticare i battiti del mio terrore. La felicità passa troppo presto. La vita, arrivati a un certo punto, si divide tra cose che vogliamo dimenticare e cose che vogliamo ricordare, e io credo di non voler dimenticare niente. Nella corte della nonna, il giorno di carnevale, indossavo un costume da cowboy, avevo otto anni e mia sorella era al mio
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fianco vestita da ape. Un cappello grandissimo che spesso mi cascava e tu ci chiedevi di stare fermi che dovevi farci le fotografie. Quel giorno pranzai e cenai vestito in quel modo e dovemmo battagliare affinché mi convincessi a smettere quel costume almeno per andare a dormire. Mia sorella ed io sorridiamo timidi dentro l’obbiettivo, tutti e due indossiamo una maglia arancione, siamo scottati dal sole, con la mano sinistra le tocco una spalla, lei ha un’espressione buffa, sembra stia facendo una linguaccia, forse quella foto ce la stavi scattando tu, forse la mamma. Le ho sempre voluto un bene viscerale, un bene forte che mi ha tenuto legato a lei anche quando siamo stati molto lontani; a volte la mia collera nei suoi confronti è stata un muro, qualcosa che per dei periodi ci ha tenuti divisi. Riguardo lei bambina e ricordo quando voleva che la mamma le tagliasse i capelli corti come i miei, quando quel giorno sul balcone di casa raccolse dal pavimento una vespa morta e la mangiò. Rivedo i suoi spostamenti, il modo in cui correva dietro una palla perché voleva essere come il fratello. Oggi è lontana da quello che sono e fortunatamente ha dismesso quella voglia folle di assomigliarmi. Oggi lei è una donna in carriera e tu l’avresti guardata con orgoglio. Con certezza assoluta posso dirti che lei sarebbe stata la tua più grande soddisfazione, lei, non io, non io che quella volta, a otto anni, quando mi portasti al maneggio perché volevi che andassi a cavallo e c’era un pomeriggio d’estate che stava finendo e il rosa all’orizzonte era un ristoro per gli occhi, ed eravamo lì, salii sul cavallo iniziai a piangere, era troppo alto e troppo grosso e i suoi movimenti mi avevano atterrito. Piansi tanto che dovetti scendere, piansi tanto da tremare, da non ascoltare le tue rassicurazioni, i tuoi tentativi di farmi rimanere in groppa. È stato sempre così, io ho collezionato cadute, mia sorella vittorie.
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Faccio un altro giro su me stesso e mi vedo grande, ho i capelli bianchi e corti, le rughe di espressione, a volte mal di schiena, altre volte mi brucia lo stomaco. Mi ritrovo al tavolino di un bar mentre sorseggio del vino, leggo un libro, prendo qualche appunto. Il giorno della tua morte è lontano, alcune volte arrivano le briciole, arriva un po’ di polvere, ma io non smetto mai di pensarti. Abbiamo costruito un bene sincero, ho imparato le lettere rubandole dalla tua bocca, ho imparato il tono di voce e le parole, ho imparato a leggere e ho scoperto i libri, ora non ho più niente da dirti, ho provato a raccontarti nel modo migliore, miscelando la tua assenza con i miei anni terribili, i miei anni di lotta. Io sono la tua eredità, tu sei il mio contatto con la morte. Non so quanto possa essere giusto tutto questo. So che sotto la forza di alcune forme di dolore si può cadere nel sonno senza accorgersene; il dolore è un elemento vivo. Ho capito che c’è un male che si ciba degli esseri umani, e questo male non ha forma. Le notti del lutto erano tutte veglie, erano come campi di concentramento, dove ogni respiro era un prigioniero. Ognuno di noi si prendeva cura del lutto a modo suo. Ricordo bene quanto ogni cena assumesse sfumature tragiche, come ogni sguardo incrociato dentro casa si portasse dietro domande irrisolte. Esistono luoghi, dentro di noi, che non conosciamo, poi in un’ora imprecisata, di un giorno indefinito, si apre una porta, qualcosa si muove nel buio di una stanza, tu fai un passo, forse non dovresti entrare, poi ancora dalla stanza viene fuori una voce che pare amica, fai un altro passo ed è l’eco di quello che sei stato e una volta dentro resti senza luce. Lascio andare il destino e la mano stretta intorno alla gola; lascio andare via la pazzia e la colpa di aver rinunciato alla vita; lascio andare la mia cameretta, il letto sempre da rifare, i libri sul comodino, le stelle cadenti che venivano via dalla finestra. Lascio andare, adesso, le facce stanche dei miei amici,
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la mamma, la dottoressa D., le medicine, gli psicofarmaci, le domeniche di gita al lago, i giorni di scuola, le feste comandate; lascio andare ogni cosa che mi tiene fermo a ieri. Lascio andare il cuore e il suo battito accelerato, i muscoli e le mie mani che hanno imparato a tremare di meno. Lascio andare quel bambino che mi ha aiutato a scriverti. Se subisci una ferita la pelle si rigenera in ventotto giorni, lo strato di epidermide inizia una lenta ricostruzione; ogni minuto, in questo lasso di tempo, le cellule fanno una guerra atavica in cui ripercorrono la memoria del corpo per trovare gli strumenti necessari e arrivare alla cicatrice. Se subisci un taglio emozionale non c’è pelle, non c’è organo, non c’è nulla che sia tangibile; non vedi il nemico, non puoi studiarlo, non puoi prevederne le mosse. Perdi sangue e te ne accorgi solo perché il corpo si stanca, perché non dormi o perché dormi troppo. Ventotto giorni sono qualcosa di tangibile a cui restare aggrappato, sono un inizio e una fine, sono un dolore istantaneo e una lenta definizione della realtà che prende consistenza sotto in tuoi occhi. Una ferita emozionale possiede gradi di paura, livelli di rabbia, strati di tristezza, abissi profondi di inconsistenza. Tu sei stato il mio taglio emozionale. Ho passato molti anni in una casa isolata, al freddo e nelle tenebre, in quella casa non sentivo niente, oggi posso parlare di te perché sento finalmente il dolore della tua morte e quel dolore mi dice che sono tornato a vivere. Qui, dopo questi anni affollati, stiamo tutti bene.
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Indice
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19
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Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da
Filippo La Porta
1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo.
Restare vivo «Quelle sono state le ultime cose che abbiamo fatto insieme, se l’avessi saputo ti avrei detto ti voglio bene, ti avrei stretto in uno di quegli abbracci che non ci siamo mai dati, che tra di noi sono sempre mancati. Dopo qualche minuto è squillato il telefono di casa, mia sorella era ancora a dormire nella sua cameretta. Guardai l’ora, le tre di notte erano passate da poco. Dall’altra parte del telefono c’era la mamma che mi diceva di chiamare un’autoambulanza, la sua voce era debole, priva di dramma. Eri svenuto mentre stavi guidando e vi eravate andati a schiantare contro un muro». Dieci anni fa mio padre è morto a causa di un aneurisma al cervello, una morte rapida, improvvisa. Più o meno nello stesso periodo ho iniziato a soffrire di terribili attacchi di panico e sono stato colpito da una profonda depressione che mi ha portato ad un uso massiccio di farmaci e a manie suicide. Questa è la storia di come sono riuscito a restare vivo. Francesco Borrasso (Caserta, 1983). Si è diplomato in regia cinematografica alla scuola di cinema napoletana Pigrecoemme. Ha esordito con il romanzo La bambina celeste (Ad est dell’equatore 2016). Ha poi pubblicato la raccolta di racconti Storia dei miei fantasmi (Caffèorchidea, 2017). Ha curato due raccolte di racconti. Collabora con Nazione Indiana. È editor per due case editrici.
Margini | 7 € 8,00
Collana diretta da Filippo La Porta
ISBN ebook 9788855292337