Relazioni perverse.La violenza psicologica nella coppia


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Relazioni perverse.La violenza psicologica nella coppia

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RELAZIONI PERVERSE

La violenza psicologica nella coppia

Psicoanalisi contemporaneci: sviluppi e prospettive

FrancoAngeli

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Sandra Filippini

RELAZIONI PERVERSE

La violenza psicologica nella coppia

FrancoAngeli

In copertina: particolare tratto da Egon Schiele, la donna e la morte Grafica della copertina: Elena Pellegrini Copyright IO 2005 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, ltaly Ristampa O I 2 3 4 5 6 7

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"... oggi è soltanto infinitamente più dif­ ficile commettere delitti, ed ecco perché questi delitti sono tanto sublimi che quasi non riusciamo ad accorgercene e a com­ prenderli, benché vengano commessi ogni giorno nel nostro ambiente, tra i nostri vici­ ni di casa. Anzi io affermo - e tenterò sol­ tanto di fornire una prima prova - che anco­ ra oggi moltissime persone non muoiono ma vengono assassinate". Ingeborg Bachman, li caso Franza

Indice

Ringraziamenti Introduzione

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1. Perversione e narcisismo 1. Una precisazione 2. Una questione di termini 3. Alcuni cenni sul tema del narcisismo 4. La perversione

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2. Dalla perversione sessuale a quella relazionale 1. Perversioni sessuali 2. Dalla perversione sessuale alla perversione relazionale 3. Le forme della perversione relazionale 4. Due termini della perversione relazionale: gaslighting e cini­ smo

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3. Uomini che maltrattano le loro compagne I. Pervertire: controllare e dominare 2. Perversione relazionale e maltrattamento 3. Due esempi tratti dalla clinica 4. Lettera al mio giudice 5. La verità su Bébé Donge 4. La dinamica perversa vista più da vicino I. L'inizio del rapporto 2. Il "lato buono" 3. Il problema dei figli 4. Il legame della sofferenza

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5. Jl problema economico del masochismo 6. Ancora a proposito di masochismo 7. Le personalità dipendenti 5. Perché le donne subiscono? 1. Subire la dinamica perversa 2. La collusione 3. L'ambiguità 4. Spostare il limite del possibile 5. Lei dubita, lui sa 6. La malattia 7. Verso l'uscita dal tunnel

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6. Per concludere

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Bibliografia

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Ringraziamenti

Questo libro non sarebbe stato scritto se non avessi avuto l'opportunità di interrogarmi, riflettere e discutere sull'argomento del maltrattamento nella coppia con le operatrici dell'Associazione Artemisia - Centro contro la violenza Katia Franci. A loro, e alle donne che con la loro dolorosa e­ sperienza mi hanno insegnato, va il mio ringraziamento. Desidero inoltre esprimere la mia profonda gratitudine a Giangaetano Bartolomei, amico e collega, che mi ha incoraggiato e sostenuto in tutte le fasi della preparazione di questo saggio, discutendo con me ogni nuova i­ dea e formulando critiche tanto stimolanti quanto necessarie.

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Introduzione

Il fatto che esistano coppie che non riescono a funzionare se non produ­ cendo dolore in uno o in entrambi i componenti è cosa ben nota. Su questo aspetto della vita di relazione sono stati versati fiumi di inchiostro ed i poe­ ti e gli scrittori lo hanno descritto meglio di come qualunque psicoanalista potrebbe mai fare. Anche la cronaca quotidiana, la "nera" in particolare, pone sotto gli occhi di tutti gli esiti del malfunzionamento di coppie che non riescono a risolvere il conflitto tra il bisogno di rimanere unite e le dif­ ficoltà, a volte drammatiche, della convivenza. Nel campo professionale della psicoanalisi e delle psicoterapie questo tema si è venuto imponendo negli ultimi anni, in seguito a movimenti cultu­ rali di vario tipo. Il movimento femminista, innanzi tutto, pretendendo per le donne pari condizioni anche all'interno deJle relazioni familiari, ha portato alla luce situazioni che paritarie non sono affatto, ma nelle quali, al contra­ rio, la donna si trova a vivere in condizioni di svantaggio, di sfruttamento, se non di vera e propria violenza. Così, in ambito femminista sono cominciate a sorgere, onnai da molti anni, associazioni di tutela e di aiuto alle donne che subiscono maltrattamento in famiglia (così come ne sono sorte per la tutela di minori maltrattati, o, come si dice oggi, con un anglicismo che si è ormai imposto nell'uso, e che pertanto adotterò, "abusati" sessualmente). Anche la psicoanalisi ha registrato, nelle forme e nei modi che le sono propri, l'esistenza di tale realtà: sono infatti cominciate ad apparire rifles­ sioni sparse su questi temi - di cui darò conto più avanti. Tuttavia spesso, in questo campo, il punto di vista femminista e quello psicoanalitico - an­ che degli psicoanalisti che si dedicano alle nuove fanne di terapia di cop­ pia - in genere non coincidono: per gli psicoanalisti - a maggior ragione se praticano la terapia di coppia - l'assunto di base non può che essere a quel­ lo di un ascolto non pregiudiziale delle risonanze emotive dei problemi di li

entrambi i membri della coppia, un ascolto per definizione "neutrale" e, nei limiti del possibile, non coinvolto. Diverso è l'atteggiamento delle or­ ganizzazioni di aiuto che sono sorte nell'alveo femminista, proprio a causa della loro storia. Il loro atteggiamento è, infatti, davvero pregiudiziale, e parte dalla constatazione che la donna rappresenta il soggetto debole e che, nella grandissima maggioranza dei casi, interpreta il ruolo della vittima. Pertanto la sua cura inizia proprio dal prendere coscienza del proprio valo­ re e della propria pari dignità. "Io valgo!" è l'affermazione che rappresenta il punto di partenza del percorso di uscita dal maltrattamento, così come viene proposto da queste associazioni. In questo lavoro intendo avvicinarmi al tema del maltrattamento all'in­ terno della coppia da un punto di vista psicoanalitico perché questa è la mia origine e la mia formazione, ma terrò conto, nello stesso tempo, della esperienza che ho maturato lavorando con donne vittime di violenza in am­ bito familiare presso un centro antiviolenza. Cercherò dunque di accoppia­ re questi due punti di vista che ho già premesso essere conflittuali.· Non mi propongo di fornire una trattazione sistematica dei vari aspetti del problema: ne darò piuttosto una visione parziale, mettendone in luce sin­ goli aspetti. Non mi soffermerò, per esempio, sul problema della terapia: come psicoanalista penso che non siano necessarie modifiche della tecnica classica della psicoanalisi individuale e che le persone che hanno problemi come quelli che tratterò possono trovare aiuto in quest'ultima o nelle altre forme di psicoterapie psicoanaliticamente orientate. È piuttosto agli psicoa­ nalisti e agli psicoterapeuti ·che intendo rivolgermi, esponendo il punto di vi­ sta che è maturato in me dalla congiunzione tra la pratica di lavoro con don­ ne che subiscono maltrattamento da parte dei loro compagni, da un lato, e l'abitudine al modo di pensare proprio della psicoanalisi, dall'altro.

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J. Perversione e narcisismo

1. Una precisazione Approfondirò dunque lo studio di alcuni aspetti psicodinamici implicati nelle relazioni di maltrattamento all'interno della coppia. Farò riferimento in modo particolare alla coppia eterosessuale, pur considerando che dinamiche analoghe a quelle che cercherò di mettere in evidenza si possono riscontrare anche in coppie omosessuali maschili e femminili, di cui, però, non ho espe­ rienza. Inoltre parlerò, in generale, del "perpetratore" riferendomi all'uomo. So di fare, anche in questo caso, una certa forzatura alla realtà, che non è sempre di questo tipo (penso infatti che esistano - per quanto con una fre­ quenza assai minore - anche situazioni del tutto opposte, dove il "perpetrato­ re" è la donna, ma anche queste ultime esulano dalla mia esperienza). Mi avvicinerò quindi al tema delle relazioni perverse cominciando con il descrivere i tipi di personalità che si incontrano più di frequente tra gli uomini che intrattengono tali relazioni, e che, in particolare, hanno comportamenti di maltrattamento nei confronti delle loro compagne. Mi occuperò soprattutto del maltrattamento psicologico perché, come dirò meglio in seguito, tra que­ sto e quello fisico intercorrono, al di là delle evidenti differenze sul piano fe­ nomenico, diversità pure per quanto riguarda i meccanismi ad essi soggiacen­ ti e le caratteristiche della personalità del perpetratore. Mi rendo conto che il fatto di cominciare in questo modo costituisce già una dichiarazione della mia scelta di campo che, come dicevo, consiste nel pormi questioni nate in ambito femminista e nel cercare di rispondere usando strumenti psicoanalitici. Mi interrogherò, in particolare, sulle caratteristiche peculiari della per­ sonalità dell'uomo che maltratta la compagna e dei meccanismi che ne stanno alla base. A questo scopo mi soffermerò sui concetti di narcisismo e di perversione, perché è proprio all'incrocio tra questi due concetti che mi pare si possa situare il punto di origine delle dinamiche in esame. Farò ri13

ferimento ai concetti di "perversione narcisistica" (Racamier 1992) e di "perversione relazionale" (Pandolfi 1999, Filippini 2005), ancoraggi prin­ cipali a partire dai quali cercherò di sviluppare le mie ipotesi. Se questo è il mio punto di partenza, non mi sottrarrò comunque al compito di cercare di rispondere alla domanda successiva: perché le donne subiscono, perché accettano, a volte per lunghissimo tempo, tali relazioni, perché non si difendono, e infine, quale tornaconto ne ricavano?

2. Una questione di termini All'origine di questo libro c'è, tra Paltro, la considerazione che gli stru­ menti concettuali della psicoanalisi, ma più ancora il modo di pensare psicoanalitico, si rivelano preziosi per approfondire il tema del maltratta­ mento - un tema che si è imposto all'attenzione soprattutto in seguito al dibattito teorico in campo femminista e alle pratiche che ne sono derivate. Così, è dal connubio - del resto non nuovo - tra idee presenti nella cultura di un certo periodo, movimenti di opinione, pratiche politiche, da un lato, e riflessione psicoanalitica, dall'altro, che osservazioni nuove possono pren­ dere forma. Certo, in questo incontro i concetti della psicoanalisi vengono sottoposti ad una tensione che ne mette alla prova i limiti e la coerenza. Mi sono resa conto, nel riflettere sul mio tema, che spesso il linguaggio psico­ analitico comunemente usato, il "gergo" psicoanalitico, insomma, ha biso­ gno di venire precisato, e a volte ripensato. Così è per quanto riguarda il concetto di relazione oggettuale. In psico­ analisi si usa il termine "relazione d'oggetto" o "relazione oggettuale" e si parla di "soggetto" e di "oggetto" di una relazione. Si dovrebbe chiarire, in via preliminare, che una relazione umana è - o dovrebbe essere - una rela­ zione tra due soggetti. Il termine "oggetto", infatti, non coincide con quello di "altro", ma ne indica casomai il versante endopsichico. Il term.ine di "oggetto"è stato introdotto in psicoanalisi - dove ha fatto fortuna - per fare riferimento all'oggetto interiorizzato o interno, cioè alle rappresentazioni oggettuali interiorizzate che rimangono tali (rimangono cioè rappresenta­ zioni) per tutta la vita. L"'altro" nella relazione (che qualche volta, anche in questo libro, viene impropriamente chiamato "oggetto") è e resta invece un "soggetto": uno dei due poli della relazione. Difficoltà terminologiche - ma anche concettuali - come questa sono ubiquitarie in psicoanalisi e spesso nascono dal fatto che il gergo psicoana­ litico sopravvive alle teorie che lo hanno prodotto e che vengono nel frat­ tempo modificate o sostituite. In questo caso, nel caso della sopravvivenza 14

impropria del termine di "oggetto" per riferirsi ad uno dei due contraenti, per così dire, di un rapporto tra persone, si deve citare una storia non breve (molto nota in ambito psicoanalitico, meno, forse, al suo esterno). Si tratta del fatto che la psicoanalisi è stata pensata all'inizio da Freud, in linea con il pensiero fisico-biologico del suo tempo, come una teoria pulsionale, in cui l'individuo, visto come un soggetto isolato, è mosso dalle sue pulsioni verso una meta, un oggetto e uno scopo. Le relazioni che il soggetto crea, e nelle quali vive, non rifletterebbero, dunque, altro che un mezzo necessario perché la pulsione, attraverso l'op­ portuno oggetto, possa raggiungere la sua meta, e dunque il suo scopo. Co­ sì, se la pulsione è quella di succhiare (nel caso del neonato), la meta è il seno, la madre è l'oggetto necessario e lo scopo è quello di nutrirsi. La teoria delle relazioni oggettuali, come proposta da Fairbaim o da Me­ lanie Klein, ha dato maggior rilievo e valore all'oggetto, inteso però non co­ me persona reale - uno dei due poli di una relazione - ma, soprattutto, come sua rappresentanza endopsichica: il cosiddetto "oggetto interno" o "interio­ rizzato". Una valorizzazione dell'oggetto come vero e proprio "altro" - "l'al­ tro da me" in una relazione - è merito dell'approccio intersoggettivo, una scuola di pensiero che si è affermata (tra molti contrasti) negli ultimi venti an­ ni. Se la presenza e l'importanza del concetto di relazione in psicoanalisi si è affermata pienamente, tanto da essere presente, in modo implicito, perfino nei riferimenti di coloro che esplicitamente non aderiscono alle teorie intersog­ gcttive, tuttavia il vocabolario corrispondente non è stato aggiornato. Così ac­ cade che con il termine "oggetto" di una relazione si possa intendere, contem­ poraneamente, l'altro come persona reale, ma anche l'oggetto interno del soggetto, cioè la rappresentazione endopsichica dei primi oggetti, diventata nell'adulto struttura stabile, sulla quale si fissa, come un farmaco sul recettore cellulare, il rapporto reale, attuale, con l'altro. Analoghe precisazioni saranno fatte, nel corso di questo lavoro, riguardo all'uso di altri concetti, come quelli di narcisismo, perversione e masochismo.

3. Alcuni cenni sul tema del narcisismo "Don Giovanni abiura a tutti doveri che lo legano al resto dell'umanità. Nel grande mer­ cato della vita, è un commerciante in malafede che prende sempre e non paga mai". Stendhal, Dell'amore

Poiché considero Don Giovanni come uno dei più riusciti esempi letterari di narcisista, ho voluto indicare, ponendo in epigrafe a questo paragrafo la 15

frase di Stendhal, l� mia scelta di campo consistente nel privilegiare, nel ma­ re magnum del concetto di narcisismo, gli aspetti che hanno a che fare con l'individuazione di un tipo di personalità e dei suoi rapporti con gli altri. Quello di narcisismo costituisce infatti uno dei concetti psicoanalitici in­ sieme più fecondi e più difficili da definire (Turillazzi Manfredi 1998). Si può dire anzi che esso, al pari e forse in maggior misura di altri concetti psi­ coanalitici, rappresenti un concetto "ibrido" (Slap e Levine 1978) in quanto include, spesso ponendoli sullo stesso piano, elementi osservativi ed ipotesi metapsicologiche. In un articolo del 1970, per esempio, Pulver indica quat­ tro diverse accezioni del tennine presenti nella letteratura psicoanalitica: 1) narcisismo come perversione sessuale caratterizzata dal trattare il proprio corpo come un oggetto sessuale; 2) come fase di sviluppo caratterizzata dal­ la presenza della "libido narcisistica", cioè dall'investimento libidico sul proprio sé; 3) come tipo di scelta oggettuale, in cui il sé gioca un ruolo più importante di quello dell'oggetto, oppure come modo di rapportarsi all'am­ biente caratterizzato da una relativa mancanza di relazioni oggettuali e, infi­ ne 4) narcisismo come sinonimo di sistema dell'autostima. Baranger (1991) elenca nove usi del termine, riuniti in tre gruppi prin­ cipali: nel primo, il termine narcisismo identifica una forma della libido, nel secondo, la natura del! 'oggetto e, nel terzo, un tipo di carattere. Brit­ ton (2003) invece sostiene che il termine viene usato nella letteratura psi­ coanalitica soprattutto in tre sensi: come fenomeno - la mancanza di inte­ resse per gli altri, insieme con una preoccupazione eccessiva per se stessi; come jòrza o tendenza all'interno della personalità, che si oppone alle re­ lazioni all'esterno di sé; infine come disturbo di personalità. La complessità del concetto di narcisismo è evidente già nel saggio In­ troduzione al narcisismo (1914), che può essere considerato come il suo atto di nascita. Infatti, sebbene ne avesse già parlato in Un ricordo d 'infan­ zia di Leonardo da Vinci (191 O) e nel Caso Schreber (1911), è a partire dal 1914 che Freud affronta questo tema in modo più approfondito: pèr indica­ re sia un tipo di scelta oggettuale in cui l'altro, l'oggetto, rappresenta ciò che il soggetto è stato o vorrebbe essere, sia la scelta d'oggetto omosessua­ le, sia uno stadio dello sviluppo libidico, sia, infine, un meccanismo pre­ sente nella schizofrenia e consistente nel ritiro della libido dal mondo e­ sterno sull'Io (Sandler et al. 1991 ). Sul tema del narcisismo si trovano in letteratura ottime trattazioni (Green 2002, Akhtar e Thomson 1982, Morrison 1986, McWilliams 1994, Ronnin­ gstam 1998): per quanto mi riguarda, mi limiterò a metterne a fuoco alcuni aspetti e a sottolinearne certe funzioni, considerandolo soprattutto come un tratto distintivo di un tipo di personalità e del suo stile relazionale. La mia

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ottica, più che metapsicologica, è clinico-descrittiva, "vicina ali' esperienza". È difficile identificare, nella personalità narcisistica, una netta linea di de­ marcazione tra normalità e patologia. Esiste, infatti, oltre al narcisismo pato­ logico, un narcisismo "sano" o "normale". Il termine "narcisismo normale" indica gli aspetti nonnali degli atteggiamenti che le persone hanno verso se stesse, la loro autostima, la preoccupazione per il proprio sé fisico e mentale, il senso di autoconservazione, il senso dei propri diritti ecc. Il narcisismo coincide insomma con il normale meccanismo di regolazione dell'autostima. Nello stesso tempo, il narcisismo è la malattia della nostra epoca (Lasch 1979), così come l'isteria era la malattia del diciannovesimo secolo. È stato considerato anche alla stregua di una "passione" (Pulcini 2001) - una delle poche passioni di una cultura, e di una società, altrimenti poco passionali. La IV edizione del Manuale Diagnostico Statistico per i Disturbi Men­ tali, meglio nota come DSM-IV, elenca alcuni criteri piuttosto grezzi - e soprattutto insufficienti a comprendere tutta la gamma della fenomenolo­ gia narcisistica - la cui presenza (o meglio la presenza di un certo numero di essi) è necessaria per porre diagnosi di disturbo narcisistico di persona­ lità. Il Manuale fa riferimento soprattutto ,alla grandiosità narcisistica, ed elenca una serie di tratti di carattere tra cui il senso grandioso di importan­ za, le fantasie di illimitato.successo, potere, fascino, la convinzione di es­ sere "speciale" e unico, la mancanza di empatia ecc. Fra le tante critiche che si possono muovere al DSM, decisiva mi sembra quella secondo cui questi criteri permettono di identificare un solo tipo di narcisista, quello caratterizzato da grandiosità, arroganza e presunzione, mentre non rendono conto del fatto che esiste anche un altro tipo, schivo, si­ lenziosamente grandioso, ipersensibile alla critica e al rifiuto. Gabbard ( 1989) ha definito questi due tipi rispettivamente inconsapevole e ipervigile, mentre Akhtar (1989) ha chiamato overt il tipo di narcisista inconsapevole e grandioso, e covert o timido l'ipervigile e introverso. Anche Rosenfeld ( 1987) ha proposto di dividere i narcisisti in due tipi, che ha denominato a pelle spessa e a pelle sottile: Entrambi sono accomunati da una grave diffi­ coltà nell'area della identità personale e in particolare nella regolazione del­ l'autostima; ma mentre nei primi (il tipo denominato a pelle spessa) il mec­ canismo adottato per fronteggiare le ferite. narcisistiche consiste soprattutto nella formazione reattiva, per cui essi diventano arroganti e aggressivi, nei secondi (tipo a pelle sottile) è caratteristico invece un senso di vulnerabilità e di fragilità, di costante preoccupazione per le possibili offese narcisistiche. II tipo inconsapevole o overt o a pelle spessa è un individuo arrogante, invadente, esibizionista, spesso superficiale. Desidera essere considerato speciale, ha bisogno di ammirazione, sembra pensare che tutto gli è dovu17

to, tende a invidiare e denigrare gli altri. Prova sentimenti di noia e di vuo­ to, mentre esibisce comportamenti da Don Giovanni: tende a sfruttare il partner, per poi abbandonarlo se pensa che non gli serva più o se è attratto da una nuova preda. Non parla, ma pontifica. È incurante degli altri e dei loro sentimenti: se ne serve, piuttosto, come di una platea, aspettandosi che essi ammirino e rispecchino il suo sé grandioso. Manipola a proprio van­ taggio, seduce ed intimidisce. Come difese prevalenti usa l'onnipotenza e l'idealizzazione di sé insieme alla svalutazione dell'oggetto. La sua gran­ diosità è ego-sintonica, il suo senso di superiorità è ovvio. Questo tipo di narcisista può avere delle somiglianze con la personalità psicopatica. Il tipo covert o ipervigile o a pelle sottile invece è estremamente sensibile alla reazione e al giudizio degli altri che idealizza considerandoli perfetti ed è pronto a cogliere in loro qualunque minimo accenno alla critica, da cui vie­ ne drammaticamente ferito; tende quindi a sentirsi continuamente offeso. È timido e inibito e di conseguenza sfugge i rapporti sociali, soffre di cronici sentimenti di inadeguatezza, impotenza e disperazione. È afflitto da un pro­ fondo senso di vergogna che rappresenta la parte emergente del desiderio di apparire splendido, grandioso. Questi due tipi rappresentano i poli estremi di una gamma in cui i caratteri della grandiosità esibita e della ipersensibilità egocentrica si fondono e si mescolano in proporzioni variabili: "in ogni nar­ cisista fatuo e grandioso si nasconde un bambino impacciato e vergognoso e in ogni narcisista depresso e autocritico è latente un'immagine grandiosa di ciò che la persona dovrebbe o potrebbe essere" (Mc Williams 1994, p. 193). Una caratteristica comune a tutta la popolazione narcisistica è la diffi­ coltà nelle relazioni oggettuali, l'incapacità di amare: "L'individuo con un disturbo narcisistico di personalità si accosta agli altri trattandoli come og­ getti da usare e da abbandonare secondo i bisogni narcisistici, incurante dei loro sentimenti. Gli altri non sono vissuti come persone che hanno un'esi­ stenza separata o bisogni propri" (Gabbard 1990, p. 353). Da questa inca­ pacità di amare, unita al piacere di trattare gli altri secondo il proprio tor­ naconto, prende origine, tra le altre, la personalità del Don Giovanni, di co­ lui che "delle donne fa conquista pel piacer di porle in lista" - come dice Da Ponte nel libretto dell'opera mozartiana. Una manifestazione della difficoltà nello stare in relazione, della mancan­ za di empatia, è l'incapacità di provare sia rimorso che gratitudine, l'incapacità di ringraziare e di chiedere scusa (McWilliams e Lependorf 1990). Sia il ringraziare che il chiedere scusa, infatti, implicano la capacità di preoccuparsi per l'altro e di riconoscere un proprio errore - quando ci si scu­ sa - o un proprio stato di bisogno (ti ringrazio perché mi dai qualcosa che a me manca) - quando si ringrazia. Il narcisista non può riconoscere il proprio 18

bisogno - sarebbe troppo doloroso, o addirittura catastrofico - come non può riconoscere un proprio errore. Ciò potrebbe sembrare in contraddizione con certe modalità di auto-umiliazione e del narcisista covert: a ben vedere, però, le sue preoccupazioni riguardano lui stesso, la sua indegnità, la sua vergo­ gna... è assente, invece, un'autentica preoccupazione per l'oggetto. Un'altra peculiarità della patologia narcisistica è rappresentata da Ila re­ lativa mancanza det'senso di colpa, che, si può dire, viene sostituito dalla vergogna; mentre il senso di colpa implica la convinzione di avere compiu­ to qualcosa di sbagliato e di dannoso, la vergogna consiste nella sensazio­ ne di essere profondamente difettoso e quindi nel timore di essere conside­ rato in termini negativi - debole, brutto, impresentabile... La vergogna è un sentimento più autoreferenziale: ci si vergogna per la propria inadegua­ tezza (sebbene ci si vergogni davanti agli altri, gli altri rappresentano la cassa di risonanza di una vicenda interna al soggetto). Nella letteratura psicoanalitica sono comparse molte divergenti ipotesi patogenetiche a partire dall'Introduzione al narcisismo. In questo saggio Freud afferma l'esistenza di un narcisismo primario, "un investimento li­ bidico originario dell'Io di cui una parte è ceduta in seguito agli oggetti, ma che in sostanza persiste e ha con gli investimenti d'oggetto la stessa re­ lazione che il corpo di un organismo ameboidale ha con gli pseudopodi che emette" (p. 445). Il teorizzare che nello sviluppo normale l'individuo passi attraverso una fase di narcisismo permette di spiegare la patologia narcisistica dell'età adulta come una regressione ad un periodo di sviluppo anteriore, sul modello del meccanismo patogenetico della nevrosi. In una ricca discussione sul saggio freudiano, Mitchell (1988) sottoli­ nea l'idea, esposta nell "' Introduzione", secondo la quale lo "stigma del narcisismo", il suo tratto distintivo, è rappresentato dall'elemento del.la "sopravvalutazione". Freud parla infatti di sopravvalutazione come ele­ mento caratteristico dell'atteggiamento dei genitori nei confronti dei figli (con cui si identificano), e a proposito dell'importanza attribuita, dai bam­ bini o dai popoli primitivi, ai propri desideri e atti psichici. Come un meccanismo regolatore dell'autostima, che in alcune situazio­ ni si può sbilanciare, lo considera Storolow (1975), che si è chiesto non che cosa sia il narcisismo, ma piuttosto a che cosa serva. Lo ha quindi pa­ ragonato ad un termostato che regola la temperatura di una stanza: quando la temperatura scende il termostato fa partire il riscaldamento in modo da riportare la stanza alla temperatura desiderata. Quando l'autostima è mi­ nacciata, diminuita o distrutta, allora la funzione narcisistica entra in gioco per ripararla (Ponsi 2004). Per descrivere lo stato di "non rapporto" del narcisista rispetto all'am19

biente, Modell (1975) ha proposto la metafora del "bozzolo". L'autore de­ scrive i narcisisti come persone che hanno adottato stabilmente meccani­ smi di difesa derivanti dall'esperienza di rapporto con genitori che non so­ no stati protettivi ma hanno invece usato il figlio come un'estensione nar­ cisistica, come un oggetto, cioè, da ammirare e da cui aspettarsi prestazio­ ni. Rimane incolmata, nel soggetto narcisista, una lacuna affettiva di base. Fra gli autori kleiniani, Rosenfeld (1965, 1971, 1989) in particolare ha approfondito il tema del narcisismo e ne ha sottolineato sia gli aspetti libi­ dici che quelli distruttivi. A proposito di questi ultimi, ha posto in rilievo l'elemento della rabbia narcisistica reattiva a situazioni di frustrazione: "Il paziente narcisista distruttivo [ ... ] prova piacere a ferire gli altri, disprezza chi è gentile, affettuoso, comprensivo con lui, e impiega tutte le sue ener­ gie per restare sadicamente forte, considerando un segno di debolezza qualsiasi traccia di amore conservi ancora dentro di sé" (1989, p. 33). Anche Britton (2003), nella linea di Rosenfeld, parla di narcisismo libi­ dico e distruttivo e si pone inoltre il problema se il narcisismo, inteso come forza o tendenza che si oppone alla relazione con gli altri, abbia un signifi­ cato difensivo rispetto alle inevitabili frustrazioni che si accompagnano al­ lo stare in relazione, o non sia piuttosto espressione di una ostilità di base alle relazioni stesse. Quest'autore solleva insomma la questione, presente benché implicita anche in altri, sull'origine innata o ambientale del caratte­ re narcisistico. Il carattere narcisistico si sviluppa come reazione ad un ambiente frustrante, come sostengono, tra gli altri, Kohut e Modeli (oppu­ re, ed è lo stesso - come esito di un'educazione eccessivamente gratifican­ te sul piano della stima - "ti stimo in quanto rappresenti la parte migliore di me", potrebbe essere il motto del genitore di un paziente narcisista), o, invece, è un carattere congenito, come congenita è l'ostilità che lo caratte­ rizza? Britton sembra ammettere entrambe le possibilità, poiché afferma che il narcisismo è nello stesso tempo libidico/difensivo e ostile/distruttivo. Una visione sempre dualista, benché basata su concetti diversi rispetto a quelli descrittivi, che identificano nell'overt e nel covert i due tipi princi­ pali di narcisismo, viene proposta da Rosine Jozef Perelberg (2004). L'au­ trice fa riferimento infatti a due tipologie di pazienti narcisisti, ponendo l'accento sul modo in cui essi si manifestano nella situazione analitica: il primo dei due "riempie" - con le emozioni che prova e che proietta sull'a­ nalista - la stanza di analisi, mentre l'altro vi porta un senso di vuoto. Nel­ le relazioni significative il primo può mettere in atto comportamenti vio­ lenti, mentre il secondo si ritira e tende a sconfinare, piuttosto, nella de­ pressione. Per entrambi il problema di base risiede nella difficoltà nel rap­ porto con l'altro: in un caso questa difficoltà - una vera e propria "intolle-

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ranza" - dà origine a comportamenti espulsivi e violenti, nell'altro ad un atteggiamento di ritiro ed evitamento. La questione del peso relativo da attribuire ai fattori innati rispetto a quelli ambientali fa capolino anche nella ben nota contrapposizione tra Kohut (1969, 1971) e Kernberg (1974, 1975, 1991). Mentre il primo consi­ dera il narcisismo come il risultato di una carenza nel rapporto genitori­ bambino, e del conseguente arresto evolutivo, il secondo ne ha invece una visione di tipo strutturale, e, prendendo in considerazione soprattutto i nar­ cisisti grandiosi, ipotizza c·he abbiano una forte pulsione aggressiva conge­ nita: pensa cioè che il narcisista adotti difese primitive che differiscono dalla normalità più in qualità che in quantità. Quest'autore sottolinea infatti l'invidia e l'aggressività primarie, mentre Kohut concettualizza l'aggressi­ vità come secondaria ad una ferita narcisistica. È probabile, ed è stato più volte ricordato, che le ipotesi di Kohut e Kernberg siano così divergenti perché i due autori prendono in considerazione tipi diversi di pazienti nar­ cisisti; in particolare Kohut sembra avere in mente un tipo di narcisista più depresso, impacciato e vergognoso, il tipo covert, mentre il narcisista di Kernberg sembra essere più apertamente grandioso ed arrogante, overt. Gli analisti che hanno lavorato con pazienti che, come i narcisisti, i bor­ derline, i perversi o gli antisociali, hanno in comune i caratteri dell'indiffe­ renza verso l'altro, dell'aggressività, della manipolazione, dello sfruttamento, della distruttività e della crudeltà, si sono interrogati circa la loro origine. La psicoanalisi, nel corso del tempo, ha tentato di chiarire l'enigma dell'aggres­ sività-distruttività, a cominciare da Freud, che ha proposto la teoria dell'istin­ to di morte. Questa è stata ripresa da Melanie Klein, che ne ha sottolineato in modo particolare l'origine costituzionale. Oggi molti analisti, soprattutto tra coloro che si collocano in una prospettiva relazionale, propendono piuttosto per una visione ambientalista, considerando l'aggressività come il prodotto di un mancato attunement tra caregiver e bambino, come un fallimento relazio­ nale. Questi ultimi analisti, infatti, negano l'esistenza dell'istinto di morte e accentuano al contrario l'importanza del mondo esterno. Tra questi due estre­ mi si colloca una terza possibilità: che certe manifestazioni aggressive, ostili o distruttive non siano né innate, né costituiscano reazioni pure e semplici a frustrazioni provenienti dal mondo esterno. Tali manifestazioni potrebbero piuttosto essere considerate come il risultato del fallimento della funzione di­ fensiva dell'aggressività (un carattere di cui la specie umana ha bisogno per la sua sopravvivenza), e della sua trasformazione maligna - nello stesso mo­ do in cui il meccanismo "normale" della proiezione può diventare elemento portante della condizione paranoica (Lingiardi, 2000).

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4. La perversione "Non c'è essere più infelice, sotto il so­ le, di un feticista che brama la scarpa di una donna e si ritrova ad avere a che fare con la donna intera". K. Kraus, Detti e contraddetti "Era una persona di molte parole e senza parola. Cioè un perverso". J.P. Racamier, Il genio delle origini.

Che cosa si intende con perversione? Anche questo termine, come quel­ lo di narcisismo, ha una molteplicità di significati ed è usato per riferirsi e fenomeni diversi e a differenti meccanismi sottostanti ai fenomeni stessi, tanto che molto spesso non è chiaro di quale dei due livelli (dei fenomeni oppure dei loro meccanismi causali) si stia parlando. Nella letteratura psicoanalitica il termine ha, appunto, diversi significa­ ti: di perversione sessuale, prima di tutto, ma anche di tratto di carattere, di modo di relazione oggettuale, di stile di rapporto, di modalità difensiva, di forma di pensiero, di aspetto del transfert. Questi significati del termine ·perversione sono qualitativamente diversi: sia la relazione con gli oggetti interiorizzati che la perversione come difesa si possono considerare infatti come meccanismi causali di quei fenomeni - come il tratto di carattere, lo stile di relazione, la forma di pensiero e la stessa perversione sessuale che i primi due elementi dovrebbero spiegare. C'è, intendo dire, una inde­ bita collocazione dello stesso termine su piani logico-concettuali differenti. Questa confusione, più volte segnalata, rende faticoso il dialogo tra scuole psicoanalitiche (oltre che tra psicoanalisi e discipline affini o limitrofe). Il termine perversione fu usato da Freud, all'inizio, per indicare le per­ versioni sessuali; successivamente - e soprattutto a partire dagli autori di scuola kleiniana - il suo significato è andato estendendosi, fino a coprire tut­ ta l'area semantica che il vocabolo ha nel linguaggio comune. Alla voce perversione il dizionario italiano Treccani riporta: "Qualsiasi modificazione, in senso ritenuto deteriore, patologico, di un processo psichico, di un senti­ mento o comportamento, di una tendenza istintiva", mentre al .verbo per­ vertire spiega: "Determinare una deviazione, un mutamento in senso de­ teriore; guastare, corrompere". Così Meltzer ( 1973) dilata il senso del termi­ ne perversione quando afferma che "non c'è attività umana che non possa venire pervertita, dato che l'essenza dell'impulso perverso consiste nel tra­ sformare la parte buona in cattiva, conservando l'apparenza della bontà". 22

C'è insomma, nella storia dell'uso di questo termine, una sorta di va-e­ vieni tra il livello descrittivo, dei fenomeni, e quello esplicativo, delle cau­ se'. Tuttavia, per quanto insaturo e di incerta definizione, il concetto di perversione si riferisce a fenomeni che il clinico riconosce immediatamen­ te, ed ha una portata intuitiva tale da renderlo difficilmente sostituibile, sebbene ogni volta che lo usiamo siamo obbligati a ridefinirlo.

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Questo slittamento tra livelli logici diversi, per cui il fenomeno viene spesso confuso con la sua causa, non è infrequente in psicoanalisi, con il risultato che la spiegazione è una pseudo-spiegazione, in quanto si basa su di un ragionamento circolare; inoltre, essa prende origine da una modo erroneo di fare inferenze, di dedurre le cause dai fenomeni. Nisbett e Ross ( 1980) descrivono gli errori di inferenza che lo "scienziato intuitivo", ov­ vero l'individuo qualunque, compie nel formulare spiegazioni causali del comportamento, proprio e altrui. Essi affermano che lo scienziato intuitivo opera le sue inferenze servendosi di alcune strategie principali. Una di queste è denominata ''euristica della rappresentatività": quando un individuo applica tale euristica nel formulare un giudizio, egli "valuta la misura in cui le caratteristiche salienti dell'oggetto sono rappresentative, o si presentano simili" (p. 62), a caratteristiche presunte in una certa categoria. L'euristica della rappresentatività costituisce una modalità di giudizio largamente usata, a volte con successo; essa però è, altre volte, fonte di errore. Consideriamo il seguente problema, proposto dagli autori: gli autori hanno per ami­ co un professore. A questi piace scrivere poesie, è un tipo timido ed è basso di statura. Qua­ le dei seguenti è il suo campo di studi: a) letteratura cinese; b) psicologia? (p. 65). Coloro che rispondono "letteratura cinese", dicono Nisbett e Ross, sono stati sedotti dall'euristica della rappresentatività. Essi, cioè, hanno valutato se le caratteristiche della persona descritta si adattano meglio agli stereotipi di "professore di letteratura cinese" o di "psicologo", invece di prendere in considerazione l'informazione statistica da essi possedu­ ta. È più probabile, infatti, che gli autori, che sono psicologi, abbiano un amico psicologo, e del resto la popolazione costituita da questi ultimi è più numerosa di quella dei professori di letteratura cinese. Nell'euristica della rappresentatività viene inoltre considerato il peso de­ gli antecedenti. "L'individuo che debba rendere conto di una qualche azione o risultato os­ servati, cerca immediatamente nella lista degli antecedenti disponibili quelle che gli sem­ brano le 'cause' più rappresentative dei risultati che gli è dato conoscere" (p. 66). Inoltre, come già detto, i criteri di rassomiglianza sembrano grossolanamente influenzare le valuta­ zioni di causalità. Spesso, in psicoanalisi, si adottano argomentazioni che, partendo da teo­ rie deboli, ed applicando l'euristica della rappresentatività in modo non abbastanza control­ lato, giungono a conclusioni inevitabilmente non sostenibili. Si può aggiungere d'altro can­ to che il fatto di applicare con tanta abbondanza tale euristica costituisce un motivo di po­ polarità della psicoanalisi: nello stesso modo infatti pensa lo "scienziato intuitivo".

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2. Dalla perversione sessuale a quella relazionale

1. Perversioni sessuali Freud descrisse le perversioni sessuali nei Tre saggi sulla teoria sessua­ le (1905) in cui istituì una distinzione tra aberrazioni riguardanti l'oggetto sessuale, (omosessualità, pedofilia, zoofilia), e aberrazioni che si riferisco­ no alla meta (esibizionismo, voyeurismo, sadismo e masochismo). Descris­ se inoltre le diverse pulsioni parziali, corrispondenti a differenti zone ero­ gene, che, a conclusione del processo di sviluppo della psicosessualità, si sottomettono al primato genitale. Il fallimento di questo processo determi­ na un conflitto che può produrre due esiti diversi: la nevrosi o, in alternati­ va, la perversione. Da qui deriva l'aforisma secondo il quale la nevrosi è il

negativo della perversione.

Successivamente Freud (1924) indicò nella scissione dell'Io e nel mec­ canismo del diniego - diniego della castrazione e dunque diniego della re­ altà - i meccanismi basilari. Nel saggio sul Feticismo (1927) afferma che il feticcio rappresenta un sostituto del pene, di un pene particolare però, quel­ lo della madre. Il bambino si rende conto che la mamma non ha il pene, ma non vuole ammettere tale conoscenza. (Ricordo a questo proposito un bambino che, messo di fronte alla necessità di riconoscere l'assenza di pe­ ne della madre, tentò di consolarsi dapprima dicendo che le sarebbe cre­ sciuto; in caso contrario egli avrebbe chiamato un falegname e gliene a­ vrebbe fatto costruire uno di legno!). Freud dice che avviene, in questo momento cruciale, una rimozione dell'affetto ed un rinnegamento, un di­ ni�go della rappresentazione. Il feticista evita la sofferenza che derivereb­ be dal riconoscere l'assenza di pene nella donna, e dunque l'angoscia di castrazione, perché per lui essa lo possiede. Il pene femminile si trasforma così nel feticcio. 24

Attraverso il meccanismo della scissione dell'Io possono dunque coesiste­ re, nello stesso tempo, la percezione e il diniego della mancanza del pene nel­ la donna. Nello stesso modo viene negata la differenza tra i sessi e tra le ge­ nerazioni (Chasseguet-Smirgel 1978, 1985, McDougall 1986). La perversio­ ne come difesa consiste quindi nel tentativo di evitare la realtà della mancan­ za del pene nella donna e quindi l'angoscia di castrazione nell'uomo, e nel tentativo di evitare la frustrazione prodotta dalla constatazione dell'impotenza infantile e dalla perdita della grandiosità narcisistica. Nella perversione il di­ niego della realtà della castrazione evita la perdita totale del rapporto con la realtà, che avviene invece nella psicosi. In questo senso, si può dire con Freud, che la perversione rappresenta anche una difesa dalla psicosi. Quest'ultima osservazione mi sembra di grande rilevanza clinica: chi ha esperienza di soggetti perversi sa come la perversione sessuale rappresenti spesso - a volte in modo cosciente - uno stratagemma, ma direi quasi l'ultimo argine prima del croJlo psicotico. Una manovra necessaria per prendere fiato e andare avanti ancora per un po'. Mi vengono in mente, a questo proposito, certe perversioni sessuali masochi­ stiche, che ho avuto occasione di conoscere, in cui le persone si infliggono dolore, mettendosi in situazioni rischiose per la vita (soffocandosi o tagliandosi), insce­ nando copioni in cui un altro/a fantasticato li tormenta fino alla morte, al fine di ottenere il piacere sessuale attraverso la masturbazione. Ricorrono a queste prati­ che quando l'angoscia è maggiore: ne escono stremati, ma con un indubbio calo di tensione, che permette loro di andare avanti per qualche giorno con un'apparenza di vita normale. Sono spesso consapevoli e preoccupati di dovere ricorrere a que­ ste pratiche per ottenere un po' di sollievo, ma d'altro lato, ne traggono un tale senso di sicurezza, anzi, nell'immediato, di trionfo, che l'idea di rinunciarvi è im­ pensabile. Il diniego della realtà è un meccanismo cosi potente da indurre a sfidare la morte con l'intenzione inconscia di trionfare su di essa e su qualunque altro pe­ ricolo: l'orgasmo finale è la prova della vittoria sulla realtà. Ricordo in particolare un paziente che aveva subito, durante )'infanzia e l'ado­ lescenza, un grave maltrattamento da parte della madre. Ella gli rinfacciava aper­ tamente di essere nato, perché la sua nascita aveva cementato l'unione infelice con il marito, lo insultava e lo picchiava nei modi più diversi Il paziente aveva svilup­ pato una perversione sessuale masochistica che metteva in atto ogni volta che sen­ tiva crescere dentro di sé la tensione in modo insopportabile. Allora si travestiva da donna (con gli abiti della madre) e inscenava complicati drammi in cui inter­ pretava contemporaneamente il ruolo di una donna sadica e di se stesso. La donna lo insultava, lo umiliava e minacciava di ucciderlo. In un crescendo di esaltazione, ella passava dalle minacce alle percosse fino al tentativo di dargli la morte, spesso per strangolamento. Giunto all'estremo, il paziente otteneva, attraverso la mastur­ bazione, l'orgasmo, che provocava un sensibile calo di tensione; questo gli per­ metteva di andare avanti ancora per un po'.

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Ricorrendo alla perversione, egli riusciva a tenere a bada i suoi forti impulsi suicidari, e a conservare un rapporto, per quanto difficile, con la realtà della vita quotidiana. Benché sapesse di mettersi in grave pericolo per la vita, questo pazien­ te aveva la convinzione che sarebbe riuscito ad evitare la morte, a trionfare su di lei. Anche in questo senso (oltre al fatto che nel rituale perverso la donna sadica era lui stesso), la perversione masochistica rappresentava per lui il diniego della morte e della sofferenza, e, tramite ciò, la possibilità di riprendere per un po', do­ po ognuno di questi episodi, il rapporto con la realtà della vita quotidiana. Attra­ verso la messinscena della perversione masochistica egli rimetteva in atto il terro­ re provato verso la madre fallica, ma, interpretando il ruolo femminile, si identifi­ cava con il persecutore invece che con la vittima. Nello stesso tempo, dimostrava di poter sopravvivere alle sue minacce e aggressioni che, anzi, non facevano altro che dargli piacere. Trasformava, si può dire, in libidici gli aspetti aggressivi della relazione con lei e ne prendeva il controllo. Quando riusciva a ottenere il piacere masturbatorio, aveva dimostrato il suo teorema: non era in pericolo, non doveva sottostare ad angosce catastrofiche (che avrebbero potuto condurlo alla psicosi, intesa come perdita di rapporto con la realtà), aveva il controllo della situazione e così poteva riprendere la sua vita - almeno fino ad un nuovo aumento di tensione e di terrore.

Dopo Freud, e con lo svilupparsi di diverse scuole psicoanalitiche, le perversioni hanno ricevuto attenzione e considerazione diversa. Melanie Klein non ha affrontato questo argomento; tuttavia, con la sua teoria delle posizioni schizoparanoide e depressiva, e con la descrizione del meccani­ smo dell'identificazione proiettiva, ha posto le basi per un allargamento della sua comprensione. Si può affermare che in generale i kleiniani consi­ derano le perversioni come manifestazioni dell'istinto di morte (Hinshel­ wood 1989). Secondo Meltzer (1973) la sessualità perversa si sviluppa su una struttura narcisistica. Per il perverso è come se l'oggetto non esistesse perché esso è affettivamente indifferente per il soggetto, che lo usa per i propri scopi e lo svaluta. Meltzer aggiunge: "L'impulso perverso si lega a quello criminale attraverso il desiderio di svalutare e disprezzare gli oggetti buoni". Anche Rosenfeld (1971) ha sottolineato l'importanza del narcisismo in particolare del narcisismo distruttivo - nella vita sessuale perversa. L'oggetto nella relazione perversa rappresenta, per la parte più infantile del soggetto, un sostituto del seno o della coppia parentale. In modo particolare, va osservato come, presso gli autori di derivazione kleiniana, vi sia un viraggio nel modo di intendere le perversioni: da mec­ canismi e fenomeni che rimangono comunque nell'area deJla sessualità a sintomi causati da un disturbo non della libido ma dell'aggressività. In questa linea va infatti collocato il concetto di distruttività a cui tali autori 26

fanno molto spesso riferimento. È da notare altresì che essi parlano spesso di perversioni come di un tutto unico, con poche differenziazioni al suo in­ terno, transitando con disinvoltura, si può dire, dalla perversione come di­ fesa o come tipo di transfert, alla perversione sessuale. Nella linea di pensiero kleiniano va collocato il libro di De Masi La per­ versione sadomasochistica. L'oggetto e le teorie (1999). ln questo studio l'Autore si è proposto di fare di questa perversione sessuale una sorta di "ti­ po ideale" che consenta di distinguere nettamente tale entità psicopatologica da tutta una serie di comportamenti sadomasochistici riscontrabili in altre condizioni psichiche, come le strutture borderline e psicotica, nelle quali es­ si svolgerebbero funzioni difensive, finalizzate a evitare l'angoscia e a man­ tenere l'integrità psichica. Nella perversione sadomasochistica propriamente detta, invece, lo scopo fondamentale del perverso consiste, secondo De Ma­ si, nel dominio sull'oggetto e nel trionfo, di qualità maniacale, che ne deriva. L'autore distingue nettamente la perversione sadomasochistica dalle altre espressioni della sessualità, e giunge ad affermare che la prima, la perversio­ ne, non ha nulla a che fare con la sessualità condivisa. Come fa rilevare Ba­ rale, nella intelligente prefazione al volume, la teoria delle perversioni che De Masi propone è, in modo apparentemente paradossale, "non erotica, non sessuale e, direi, non oggettuale" (p. 1 O). De Masi ritiene infatti che, ai fini della comprensione della patogenesi della perversione sadomasochistica, sia più utile rivolgere lo sguardo alle vicissitudini dell'aggressività che a quelle della sessualità (Bartolomei e Filippini 2001). È da citare inoltre il noto concetto di trauma cumulativo di Masud Khan (1974) - eventi traumatici ripetuti che hanno luogo nelle relazioni tra il bambino e chi si prende cura di lui - un meccanismo che l'autore ipotiz­ za essere alla base della perversione. Del suo libro, Le figure della perver­ sione (1979), è da sottolineare l'idea della perversione come difesa dal rapporto attraverso una apparen_za di intimità; il soggetto perverso ha biso­ gno di detenere il controllo della relazione e non è capace di reciprocità. L'autore descrive alcuni casi tratti dal suo lavoro clinico con pazienti per­ versi. Per l'agente della perversione, egli dice, l'oggetto non è altro che il proprio "oggetto soggettivo", per usare l'espressione di Winnicott - ma si potrebbe forse dire più semplicemente che per il perverso l'oggetto o è proprio o non è. Il perverso ha bisogno di negarne la separatezza e la stessa esistenza autonoma. D'altra parte l'oggetto, la vittima, con la sua "volontà passiva", rende possibile l'attuarsi della relazione perversa. In sostanza il problema a cui l'Autore tenta di dare una risposta è quello della acquie­ scenza della vittima. Che essa per il perverso non abbia diritto al ricono­ scimento della propria autonomia, non è cosa che possa stupire: fa parte 27

della natura stessa della perversione. Ma come spiegare la partecipazione della vittima e la sua accettazione del proprio ruolo? Masud Khan formula, appunto, l'ipotesi di una "volontà passiva" inconscia e scissa dal resto del­ la personalità. Se, da un lato, questa spiegazione mi pare insufficiente a rendere conto appieno del fenomeno da spiegare, essa ha però il merito di metterne in evidenza l'importanza e la complessità. Del tema della perversione si è occupata, in numerosi articoli e libri, Ja­ nine Chasseguet-Smirgel (1978, 1985, 1991). In estrema sintesi, l'autrice so­ stiene che in tutte le perversioni, indipendentemente dal loro contenuto spe­ cifico, c'è uno sfondo sadico. Lo scopo del perverso è la distruzione della realtà intesa come differenza tra i sessi e tra le generazioni, come necessario riconoscimento delle capacità generative dei genitori e dell'impotenza del bambino. La distruzione della realtà ha appunto lo scopo di annullare queste differenze, attraverso un processo che tende a rendere tutto uguale: ano e va­ gina, feci e latte, defecazione e nascita, pene e scibale fecali. L'autrice cita spesso l'opera di de Sade per mostrare come, nell'universo sadico, l'appa­ rente molteplicità (che diventa invece monotona ripetizione) dei vari atti perversi rimanda in realtà ad un tentativo di sminuzzare, distruggere e aboli­ re le differenze, come avviene nel processo digestivo in cui le feci diventano omogenee e non si può di certo più distinguere il lesso dall'arrosto! C'è in­ somma una focalizzazione che annulla le differenze - odiate dal perverso. Chasseguet-Smirgel fa propria l'affennazione di StoJler (1994) secondo il quale la perversione è una fonna erotizzata di odio. Cooper ( 1991), a proposito del comportamento perverso, adopera il termine "disumanizzazione". Egli ipotizza che la perversione rappresenti un tentativo di riparare la ferita narcisistica determinatasi nelle prime rela­ zioni oggettuali, in particolare nella relazione con la madre. Questo tenta­ tivo si basa, secondo l'autore, su tre fantasie fondamentali: "Di fatto il bambino dice: 1) lei non esiste, 2) io non esisto, 3) io la costringo - aven­ dola così ridotta a una 'cosa' non umana - a darmi piacere" (p. 25) Un pane/ (1998) del Congresso dell 'International Psychoanalytic As­ sociation di Barcellona del 1997 è stato dedicato al tema delle perversioni sessuali. In esso Goldberg ha spiegato la perversione come un fenomeno consistente in tre elementi: il primo è rappresentato dalla sessualizzazione, intesa come un meccanismo difensivo presente in soggetti con un difetto strutturale del sé; il secondo è una scissione ("a vertical split" p. 121 7) tra una parte "normale" della personalità ed altre vissute come più egodistoni­ che; il terzo ha a che fare con dinamiche individuali, diverse quindi caso per caso. Non ci sono insomma, sostiene Goldberg, •dinamiche specifiche sottostanti ad ogni particolare tipo di patologia sessuale. 28

C'è da notare infine come, nel significato di deviazione sessuale l'uso del termine perversione sia diventato, rispetto al passato, meno frequ�nte, a causa delle sue connotazioni moralistiche, di giudizio di valore, tanto che si è proposto di sostituirlo con "neosessualità", un neologismo coniato da McDougall, (1986, Panel 1998), oppure con "disfunzioni sessuali", "para­ filie" e "disturbi dell'identità di genere" (DSM-IV). 2. Dalla perversione sessuale alla perversione relazionale

Adopererò, d'ora in avanti, il termine perversione nel suo significato letterale di atti o comportamenti o stili di relazione che determinano una deviazione, un mutamento in senso deteriore, che guastano, corrompono. Nella letteratura psicoanalitica viene spesso usato anche il termine di per­ versità per riferirsi ad alcuni tipi di comportamento, di personalità o di le­ game. Il termine ha un'implicazione non sessuale e si avvicina al concetto di distorsione, rovesciamento, pervertimento di ciò che è reale, vero o giu­ sto. È sinonimo insomma di perversione morale (Cohen 1992, Hirigoyen 1998, De Masi 1999, Eiguer 1999, Celenza 2000). In questo stesso senso e per evitare ridondanze, userò il solo termine di perversione. Ma come si collegano il tennine e concetto di perversione a quelli di nar­ cisismo? Da un lato, il collegamento è presente in letteratura. Esso è propo­ sto da Racamier che, in modo molto chiaro, fa riferimento alla patologia per­ versa non sessuale: "Non sessuale, ma morale, non erotica, ma narcisistica". Danno per scontato tale collegamento anche Anna Maria Pandolfi (1999) e Marie-France Hirigoyen (1998). Esso è presente, benché in una prospettiva parziale, nel lavoro di altri autori, tra i quali Cooper (1989), che mette in e­ videnza lo stretto legame tra narcisismo e perversione masochistica, Gold­ berg (1995), che affronta il tema delle perversioni all'interno della teoria del narcisismo di Kohut, e Gear e Liendo (1981), i quali stabiliscono un colle­ gamento tra strutture narcisistiche e relazione sadomasochista. Esiste inoltre una necessità logica di presupporre tale collegamento. Una caratteristica essenziale dell'assetto narcisistico di personalità consiste infatti nell'indifferenza verso la relazione oggettuale. Il narcisista non riconosce l'esistenza dell'altro. Maldonado (1987) sostiene anzi - in modo apparente­ mente paradossale - che il narcisismo "compiuto" richiede la presenza di una relazione d'oggetto, con un oggetto però che non è riconosciuto come tale, ma che serve al soggetto per mantenere l'illusione di potere fare a meno di qualunque oggetto. Così tra i due membri della relazione narcisistica scor­ re una comunicazione "vuota" un discorso che non trasmette niente. Detto in 29

altri termini, il narcisista ha relazioni con oggetti-sé, in quanto non instaura una vera relazione con l'altro, ma Io usa come specchio in cui verificare la propria identità e come sostegno all'autostima. Vi è insomma un'indifferen­ za verso l'altro e un mancato riconoscimento dei suoi bisogni e sentimenti. L'altro è lì per essere usato dal narcisista per le sue necessità. D'altro lato, l'essenza del modo perverso di relazione - o perversione relazionale - consi­ ste proprio nel trasformare la relaziòne d'oggetto in relazione di potere, nel disconoscere l'alterità, nell'usare l'altro a proprio piacere. Nel corrompere la relazione per ottenerne il controllo.

3. Le forme della perversione relazionale "Lui non poteva ammettere che una per­ sona si dilatasse oltre i confini che le aveva fissato[ ... ] Si, lui è malvagio, anche se oggi non si deve dire malvagio, si può solo dire malato, ma che genere di malattia è quella che fa soffrire gli altri e il malato no?". Ingeborg Bachmann, Il caso Franza In questi ultimi anni ho avuto la possibilità di conoscere donne maltratta­ te nell'ambiente familiare; qualche volta, anche se più raramente, ho anche avuto l'opportunità di curare uomini che maltrattano le loro compagne. Ho sentito il bisogno di disporre, per comprendere questi ultimi, di descrizioni più dettagliate e di un inquadramento teorico più convincente. Quella del maltrattamento è una tematica enorme che la psicoanalisi non ha ancora af­ frontato in modo specifico, tranne poche eccezioni (per esempio Levine 1990, Fonagy 200 I). Il maltrattamento, di certo, include una certa varietà di modi e di forme: non così ampia, però, come si potrebbe immaginare: la "banalità del male" è anche limitatezza, mancanza di fantasia, ripetitività. Mi pare che si debba distinguere, come prima cosa, il maltrattamento psicologico da quello fisico, non soltanto per l'evidente diversità ne11a fe­ nomenica di tali atti, ma soprattutto perché essi identificano profili e tratti diversi per quanto attiene alla personalità di colui che li commette. Nel ca­ so del maltrattamento fisico, dell'usare violenza sul corpo di un'altra per­ sona, si tratta di situazioni più gravi, e non soltanto per le conseguenze sul­ la vittima. Non è questa la sede per approfondire il tema del maltrattamen­ to fisico; tuttavia si può almeno accennare che esso si sviluppa, per quanto riguarda il perpetratore, soprattutto nell'ambito della patologia borderline, del narcisismo maligno - come definito da Kernberg (1992) - e del distur30

bo antisociale di personalità 1 • Molto spesso il perpetratore riesce a rendere nuovamente vittima una donna che è già stata tale, avendo già subito abusi o maltrattamenti nel corso dell'infanzia ed essendo già stata profondamen­ te danneggiata. Sul tema dell'abuso e del maltrattamento fisico esiste or­ mai una vasta letteratura non psicoanalitica sebbene, spesso, ispirata dalla psicoanalisi (vedi per esempio de Zulueta 1993, Malacrea 1998, Lewis Herman 1992). Le perversioni relazionali, invece, sorgono sul terreno della struttura narcisistica della personalità, e, anche se non giungono ad espressioni tanto gravi, alla violenza fisica, minano tuttavia la vittima attraverso l'uso siste­ matico della violenza psicologica. Questa si manifesta, nel rapporto di coppia, nel controllo e nel dominio, esercitati dal perpetratore, sulJa sua compagna. (Ricordo che la mia esperienza riguarda coppie eterosessuali in cui il perpetratore è l'uomo). La fenomenica del maltrattamento psicologi­ co include il controllo e l'intrusione nelle frequentazioni e amicizie, o nelle attività, della donna; il controllo (e/o l'appropriazione) del suo denaro. Consiste nel provocarne l'isolamento, come pure nell'uso di minacce e di intimidazioni; in un comportamento possessivo, e, nello stesso tempo, de­ nigratorio e svalutante; nella colpevolizzazione e nel ricatto. In un libro intitolato Molestie morali. La violenza perversa nella fami­ glia e nel lavoro ( 1998), Marie-France Hirigoyen, una psichiatra che si oc­ cupa delle vittime della violenza dei perversi, traccia un sintetico excursus della fenomenica della perversione. Ella afferma come prima cosa la stabi­ lità del tratto di carattere in questione: si potrebbe dire anzi che la perver­ sione è stabile proprio perché rappresenta un tratto di carattere - tratto de­ cisivo nella personalità di cui ci stiamo occupando. L'autrice dichiara inol­ tre che il perverso non si mette mai in discussione in quanto non può vive­ re il conflitto nella propfia interiorità; deve espellerlo, collocarlo all'ester­ no, in qualcun altro. Questo ricorda la nota affermazione di Kurt Schneider secondo cui psicopatici sono quegli individui che a causa della loro patolo­ gia soffrono e fanno soffrire gli altri - nel nostro caso è necessario sottoli­ neare soprattutto il secondo termine: "fanno soffrire". Hirigoyen afferma I Si potrebbe pensare, ad esempio, che in questi casi vi sia un insufficiente funziona­ mento dei meccanismi di controllo degli impulsi. Sappiamo però, e lo stesso Fonagy (2001) ce lo ricorda, che spesso gli episodi di violenza fisica sono di lunga durata: dalle due alle ventiquattro ore; questa constatazione toglie forza alla spiegazione fornita dal mancato o impossibile controllo degli impulsi, o meglio, le toglie il carattere della generalità, anche se non si può escludere che a volte sia proprio questo il meccanismo in gioco. Di certo si deve considerare il fatto che, in modo particolare in questi casi, non c'è nessuna capacità di pro­ vare compassione o rimorso, di mettersi nei panni dell'altro, di comprenderne empatica­ mente la sofferenza.

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che essi fanno soffrire gli altri "distruggendoli", e suscitano intorno a sé un'atmosfera di disagio e di paura. "Un individuo perverso è perverso sempre; è bloccato in questa modalità di re­ lazione con l'altro e non si rimette mai in discussione. Anche se la sua perversità passa inosservata per un po', si manifesterà in tutte le situazioni in cui dovrà im­ pegnarsi e riconoscere le proprie parti di responsabilità, perché gli è impossibile rimettersi in discussione. Individui del genere possono esistere soltanto 'distrug­ gendo' qualcuno: hanno bisogno di sminuire gli altri per acquisire una buona sti­ ma di sé e conquistare il potere, perché sono avidi di ammirazione e approvazione. Non hanno né compassione né rispetto per il prossimo, perché il rapporto non li coinvolge. Rispettare l'altro vuol dire considerarlo come un essere umano e rico­ noscere la sofferenza che gli si infligge. La perversione affascina, seduce e fa pau­ ra. Qualche volta si invidiano i perversi, perché si immagina che dispongano di una forza superiore, che consente loro di essere sempre vincenti. In effetti sanno manipolare con naturalezza, il che nel mondo degli affari o della politica sembra essere una carta vincente. Li si teme anche perché istintivamente si sa che è me­ glio stare con loro che contro di loro. È la legge del più forte ..." (pp. XI-XII).

Tra gli psicoanalisti Cohen (1992) ha parlato di perversione e special­ mente di perversità, per riferirsi al maltrattamento (mis-use) di una persona da parte di un'altra. L'Autore descrive le perversioni come forme di dipen­ denza patologica, come organizzazioni difensive stabili e molto resistenti al cambiamento: le persone che maltrattano gli altri allo scopo inconscio di es­ teriorizzare i propri conflitti tendono a diventare dipendenti dalle loro vit­ time. Lo sfruttamento di un'altra persona per mettere il conflitto fuori di sé può essere considerato perverso, secondo l'autore, indipendentemente dal fatto che la relazione sia vissuta sul piano sessuale o meno. Cohen dice che in queste relazioni l'altro viene "deumanizzato" e degradato al livello di og­ getto parziale, ricettacolo dell'identificazione proiettiva del soggetto, della sua manipolazione onnipotente e del suo sfruttamento. Lo scopo di chi mal­ tratta un altro è ottenerne il controllo negandone separatezza e autonomia. Racamier (1992) sostiene che il principale obiettivo dell'azione perversa è quello di calpestare la verità e di manipolare cose e persone ai propri fini, pri­ mo fra tutti l'evitamento di ogni conflitto interiore. Usando l'altro, il perverso si risparmia del lavoro psichico, o meglio se ne difende, in quanto si difende dalla sofferenza che il lavoro psichico comporta, e fa pagare il conto ad altri. Mentre nella relazione con il narcisista l'altro, l'oggetto, può non accorgersi dell'uso che di lui viene fatto, anzi talora può provare piacere, almeno inizial­ mente, partecipando al senso di eccitazione grandiosa del partner, nella rela­ zione narcisistico-perversa c'è un vero e proprio maltrattamento: l'oggetto as­ sume in modo più chiaro la connotazione di vittima. D'altra parte il perverso 32

non può agire da solo, ha bisogno di un altro, di qualcuno cioè che entri in una specifica relazione con lui. In questo senso la perversione è davvero una patologia relazionale: non la si vede che nel rapporto con un altro, una vera e propria preda che il perverso soggioga e sfrutta a proprio vantaggio. "La perversione narcisistica è caratterizzata dal bisogno e dal piacere di far va­ lere se stessi a spese di altri. Si tratta di un piacere specifico. Certo non è erogeno, anche se qualche aspetto di perversione sessuale vi è spesso, se non sempre, asso­ ciato. Tale piacere è ottenuto con manovre e comportamenti pragmaticamente or­ ganizzati a detrimento di persone reali. Quanto al bisogno che sottende questa . perversione, le sue sorgenti inconsce, certamente complesse e parzialmente pul­ sionali (parzialmente è qui una parola che conviene doppiamente), sono fonda­ mentalmente contro-depressive e anti-conflittuali" (Racamier, 1992, p. 304).

A.M. Pandolfi (1999) nota che le perversioni narcisistiche o relazionali non sono state finora studiate approfonditamente nella clinica psicoanaliti­ ca, di cui costituiscono un settore nuovo. Una prima ragione di ciò - ella afferma - è costituita dal fatto che in questo caso il concetto di perversione non viene applicato al campo sessuale. Va sottolineato che, se le perver­ sioni sessuali e quelle relazionali hanno alcune radici ed elementi comuni, nelle seconde l'elemento relazionale, duale o addirittura gruppale, costitui­ sce un tratto essenziale (mentre esistono perversioni sessuali che non han­ no bisogno di un partner - almeno di un partner reale e umano - come, per esempio, il feticismo, ma anche certe forme di perversione masochisti­ ca basate su pratiche masturbatorie, la zoofilia, ecc.). È raro, sempre se­ condo Pandolfi, che lo psicoanalista osservi direttamente questa patologia perché essa - benché connoti l'individuo - tuttavia si realizza nel gruppo, nella coppia, nella famiglia. Un altro motivo per cui è raro che uomini che hanno comportamenti di maltrattamento vengono visti negli studi psicoanalitici è che tali comporta­ menti sono in genere ego-sintonici, oltre che tipicamente clandestini e mi­ metizzati dietro facciate di nonnalità: è ben difficile che un perverso vada a consultare qualcuno per farsi aiutare, se non quando si verifichino degli scompensi nel momento in cui il patto perverso va in crisi. Per lo più i com­ portamenti perversi nell'ambito relazionale venivano rubricati sotto la cate­ goria della "malvagità": una categoria morale, non psicologica. Un terzo motivo che ha contribuito a tenere l'area delle perversioni narcisistico­ relazionali fuori dall'osservazione della psicoanalisi ha a che fare con il tipo di sentimenti che esse suscitano: "Vissuti di antipatia, fastidio, noia, talora diffidenza e/o disinteresse per il sentore di inautenticità, e spesso se noi sia­ mo disponibili ad intenderli, una certa confusione ed un vago senso di allar33

me. [ ... ] [Tali pazienti] sollecitano )e nostre stesse inclinazioni perverse più o meno clandestine e inconsapevoli delle quali nessun essere umano è esente, ma dalle quali fortemente ci difendiamo" (Pandolfi 1999, 63).

4. Due termini della perversione relazionale: gaslighting e cinismo "Il cinico è una persona che conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna": Oscar Wilde, Il ventaglio di Lady Windermere

Nel film Angoscia, Charles Boyer interpreta il ruolo di un marito che cer­ ca di fare impazzire la moglie facendo in modo che la donna (Ingrid Ber­ gman) non si fidi più delle proprie percezioni. A questo scopo, tra l'altro, al­ tera la luce delle lampade a gas della casa. Egli ha persuaso la giovane moglie ad abitare nella casa in cui è cresciuta e in cui fu assassinata (da lui) sua zia. Vuole, adesso, fare ricoverare in manicomio la moglie per rimanere solo nella casa, e cercare con calma dei gioielli che vi sono nascosti - per avere i quali ha ucciso. Il film dipinge la confusione della donna, vittima di una grave ma­ nipolazione, dei tentativi del marito di influenzarne il pensiero e di minarne la capacità di fidarsi delJe sue percezioni. Ella vive, con comprensibile ango­ scia, la sensazione di stare impazzendo. Nello stesso tempo, il marito, artefice della vittimizzazione - il perpetratore, come ho proposto di chiamarlo - ne svaluta la sofferenza, proclamandosi vittima lui stesso. Lo spettatore com­ prende, via via che la storia si sviluppa, che l'uomo è uno psicopatico crimi­ nale. Dal titolo inglese del film, Gaslight, è derivata un'espressione, gasli­ ghting, che si può trovare nelJa letteratura anglosassone per indicare compor­ tamenti messi in atto allo scopo di far sì che una persona dubiti di se stessa e dei suoi giudizi di realtà, che cominci a sentirsi confusa o a temere di stare impazzendo. Esso va distinto da) dubbio e dalla ruminazione ossessivi, che non sono dovuti alla presenza di un gaslighter (l'agente di questo particolare tipo di maltrattamento). Di gaslighting hanno parlato Calef e Weinshel ( 1981) considerandolo una sottospecie della relazione sadomasochistica. Essi affermano che il perpetratore "scarica" sulla vittima i propri conflitti per Itbe­ rarsi di essi e dell'ansia che ne deriva. Un esempio di gaslighting è fornito dal seguente resoconto di una situazione di coppia: Maria e Giacomo sono sposati da alcuni anni ed hanno un bambino. Fino dall'i­ nizio della gravidanza Maria ha cominciato a notare un cambiamento nell'at­ teggiamento del marito. Egli era diventato più critico, sempre pronto al rimprovero, svalutante nei confronti dell'aspetto che il corpo della moglie veniva assumendo. Se

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la donna si lamentava, se si risentiva o chiedeva di parlare di questi comportamenti, veniva tacitata subito: "Non ti si può dir nulla, non sai stare allo scherzo...". In parti­ colare, durante una gita in motoscafo, a gravidanza avanzata, Giacomo, che era alla guida, continuava ad accelerare in modo tale da fare battere la barca sulle onde, susci­ tando ansia e paura nella moglie, a cui continuava a rispondere che era "fifona", inca­ pace di seguirlo, di stare alla sua altezza ... In sostanza Giacomo, pur creando una si­ tuazione di oggettivo pericolo di cui la moglie si preoccupava, metteva in dubbio le percezioni di lei accusandola di esagerare, di essere, lei, in qualche modo, "sbagliata". In un interessante articolo del 1999, Eiguer afferma che il carattere del cinismo rappresenta una componente essenziale della perversione. Per il cinico non esiste nulla di buono o di nobile nell'umanità e in particolare nel suo interlocutore. Al contrario, egli trionfa nel distruggere bontà e no­ biltà, e giustifica la propria mancanza di scrupoli con varie razionalizzazio­ ni. Ciò che conta davvero per lui è il potere e il dominio sugli altri. Per Ei­ guer, il motto machiavellico secondo il quale il fine giustifica i mezzi è un'espressione di cinismo, molto comune nella vita politica. Con l'onnipo­ tenza che gli deriva dall'assetto narcisistico, il cinico riesce a convincere gli altri, ad influenzarli, ad indurre in loro sensazioni e comportamenti che essi non vogliono provare. Riesce, ad esempio, a fare sentire gli altri col­ pevoli al suo posto manipolandoli. Ha un tono sprezzante, caustico, di co­ mando. Pensa, e induce gli altri a pensare, che niente vale, ma che tutto ha un prezzo - un prezzo che lui vuol far pagare agli altri. Quanto al!'origine di questo tratto di carattere, Eiguer propone due di­ verse ipotesi: la prima, che esso prenda origine, al pari di altri impulsi di­ struttivi, dall'istinto di morte per come quest'ultimo è stato teorizzato da Freud, e, la seconda, che esso rappresenti il risultato di un tentativo di compenso rispetto alla frustrazione. L'autore suppone infatti che bambini, le cui madri non sono riuscite a "lasciarsi usare", che non hanno, cioè, of­ ferto al bambino una disponibilità, per così dire, gratuita, possono fare propria la sensazione che tutto ha un prezzo e che l "'utile" governa le rela­ zioni tra gli uomini. Non è che per il cinico l'altro non esista: esso deve pe­ rò venire ricondotto all'interno della logica cinica, deve ridurre il suo prez­ zo e vendersi alle condizioni che il cinico gli impone. Eiguer propone una lettura del romanzo di Choderlos de Laclos Les liaisons dangereuses. Que­ sto romanzo, un atto d'accusa contro i costumi della nobiltà cortigiana, di­ segna in modo realistico un mondo corrotto. È, in particolare, evidente in esso - ed è questo che Eiguer sottolinea - il sovvertimento dei valori cor­ renti e condivisi operato dalla coppia di cinici libertini rappresentata dalla marchesa di Merteuil e dal suo allievo Valmont.

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3. Uomini che maltrattano le loro compagne

1. Pervertire: controllare e dominare Per quanto riguarda la mia proposta del concetto di perversione relazio­ nale, sono in particolar modo debitrice, tra gli autori, a Eiguer e soprattutto a Racamier. Del primo mi sembra molto utile l'idea che l'azione del per­ verso mira ad un sovvertimento della verità e della stessa logica. La per­ versione, infatti, consiste soprattutto nell'indifferenza alla verità, anzi nel disprezzo di quest'ultima. La vittima deve uniformarsi alla rappresentazio­ ne che, di essa, il cinico le impone, deve piegarsi ad essa. Quanto a Racamier, egli parla di "perversione narcisistica" e ne offre una formulazione complessa, considerandone vari aspetti. Distingue tra "movimenti perversi" ed "organizzazioni perverse", per riferirsi a gradi crescenti di stabilità delle strutture caratteriali corrispondenti; descrive il tratto narcisistico perverso ("caratterosi perversa") e lo stile di pensiero che gli è proprio. Ne ipotizza una patogenesi individuandola nel meccani­ smo difensivo consistente nell'evitamento della sofferenza connessa al lut­ to, alla dipendenza e al conflitto: "C'è ancora bisogno, infatti, di una difesa specifica: una difesa tale da lavora­ re, al servizio del narcisismo del soggetto, contro un processo psichico minaccioso di lutto e di conflitto interno. Questo processo verrà subito denegato. Poi, una volta sottoposto al diniego, sa­ rà espulso in altre persone, in virtù di potenti manovre agite. [ ... ]

L'erotizzazione del sistema difensivo, il godimento ottenuto tanto dall'iperva36

lorizzazione di sé quanto dalla rovina degli oggetti utilizzati come chiavistello e come 'spalla', e di perciò stesso squalificati in quanto persone: ecco che cosa[... ] lo spinge fino alla perversione" ( 1992, p. 300).

Racamier descrive il meccanismo perverso nei nuclei familiari e nei gruppi; a me interessa mostrarne l'azione all'interno della coppia, indican­ do in esso l'origine delle dinamiche di maltrattamento psicologico e trac­ ciando nello stesso tempo un profilo della personalità del perpetratore. "Sottolineo il carattere difensivo dell'uso narcisistico-perverso della relazione con l'altro: tale uso sta alla base della perversione relazionale. Si tratta di una dife­ sa anti-oggettuale, in cui cioè il trionfo sull'oggetto serve a denegare il bisogno di quest'ultimo e la dipendenza da esso. Il perverso relazionale non ha accesso ad una vera comunicazione con l'altro, non può averlo in quanto evita ogni confronto con la verità. Ciò che può fare, e che gli interessa davvero, è imporre, di questa, alla vittima, la propria versione. Non importa che cosa sia vero, importa che di­ venti vero ciò che lui afferma essere tale. La 'vittima' è il testimone deputato e necessario di questo sovvertimento. Infatti, aderendo alla versione che della verità il partner perverso le impone, e subendone le conseguenze, ella certifica, per così dire, il successo dell'azione perversa".

La Hirigoyen (1998), nel suo studio sulla violenza esercitata dal narci­ sista perverso nell'ambiente di lavoro 1 e nella coppia, espone una serie di passaggi che il narcisista percorre nel mettere in atto la perversione. Il pri­ mo è rappresentato dalla seduzione (la parola deriva dal latino seducere, condurre via da, sviare, quindi attrarre irresistibilmente, ma anche corrom­ pere, subornare). Il perverso cerca, nell'altro/a, l'oggetto da cui è realmen­ te affascinato, cioè un'immagine ideale di sé. Di quest'oggetto la vittima deve venire derubata senza accorgersene. Ella viene influenzata e manipo­ lata, "[ ... ] immobilizzata in una tela di ragno, tenuta a disposizione, psicologicamente incatenata, anestetizzata. Non è consapevole dell'effrazione avvenuta" (p. 99).

Non è necessario distruggere la vittima, l'importante è che essa sia a di­ sposizione, che il partner ne abbia il controllo e che possa esercitare il poI Oggi si parla molto di mobbing, il maltrattamento in ambiente di lavoro, che prende origine dalle personalità che sto cercando di delineare: l'argomento richiederebbe una trat­ tazione a sé, tuttavia esso non costituisce l'oggetto del presente saggio. Anche lo sta/king rappresenta una forma a sé stante di maltrattamento, anzi la forma più grave, in quanto si traduce in comportamenti di vera e propria persecuzione nei confronti della vittima. A que­ sto proposito vedi l'esauriente trattazione di Curci, Galeazzi e Secchi (2003).

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tere su di lei. Allo scopo di mantenere il potere, egli mette in atto una for­ ma perversa di comunicazione, che consiste nel rifiuto della comunicazio­ ne diretta e nel ricorso a messaggi, per così dire, "trasversali", messaggi che minacciano e intimidiscono. Si può realizzare uno scollamento tra messaggio verbale e comunicazione paraverbale, o, come dicono i teorici della pragmatica linguistica, tra messaggio di contenuto e messaggio di re­ lazione. Il perverso, cioè, può proferire una minaccia con un tono di voce neutro e con il volto impassibile, così come può, al contrario, esprimere un contenuto leggero o indifferente con un'espressione che incute timore. L'importante è disorientare l'altro, tenerlo costantemente sotto scacco. La comunicazione non comunica, non realizza uno scambio, non pro­ duce nulla: salvo la svalutazione, la manipolazione, il controllo. Non ha né un'intenzione, né un risultato creativo. Così, quando la compagna, preoc­ cupata per la piega che sta prendendo il rapporto, chiede al partner di par­ larne, egli può rispondere "Che cosa c'è da dire? Tu sei sempre la solita esagerata! Non fai altro che lamentarti!". Il perverso travisa intenzional­ mente e invia messaggi oscuri, rifiutandosi di esplicitarli: "A una suocera che chiede al genero un piacere insignificante: 'No, non è possibile'. 'Perché?'. 'Dovrebbe saperlo'. 'No, non capisco'. 'Allora ci pensi "' (Hirigoyen 1998, p. 106).

Il perverso, inoltre, dà l'impressione di sapere. In questo modo diso­ rienta l'interlocutore, che non riesce a reagire. La menzogna, il sarcasmo, la derisione e il disprezzo, sono le armi che egli usa per squalificare e sog­ giogare la vittima. La derisione, in particolare, consiste nel farsi beffe di tutto e di tutti. Essa trascina la comunicazione in un'atmosfera viziata, nel­ la quale si avverte che per la verità non c'è posto, perché verrebbe derisa. Così lo scambio scivola su un registro insincero, in cui trovano posto sol­ tanto cattiverie e calunnie. In questo modo, per esempio, una collega che ha successo deve essere per forza andata a letto con il capo, e una donna impegnata deve essere sessualmente frustrata. La Hirigoyen dice che, per raggiungere lo scopo di destabilizzare l'altro, al perverso è sufficiente: "Farsi beffe delle sue convinzioni [...]; non rivolgergli la parola; ridicolizzarlo in pubblico; denigrarlo davanti agli altri; privarlo di ogni possibilità di esprimersi; beffarsi dei suoi punti deboli; fare allusioni scortesi, senza mai esplicitarle; mette­ re in dubbio le sue capacità di giudizio e di decisione" (ibid, p. 113).

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Tutte queste manovre, come dicevo, hanno lo scopo di conquistare e mantenere il potere sulla compagna, di controllarla e renderla un proprio oggetto. Il perverso relazionale, infatti, ha bisogno di avere il possesso di un oggetto. Ne ha bisogno non tanto per colmare un vuoto che avverte dentro di sé - e che è il risultato di una carenza di cure parentali - ma per denegarlo, trasferendolo sulla vittima designata e impossessandosi, per co­ sì dire, della sua vitalità. Egli attua una sorta di vampirizzazione della par­ tner. Per questa ragione le partner sono spesso scelte tra persone vitali, ge­ nerose, capaci di instaurare relazioni. Il narcisista perverso è come se si appropriasse dell'autostima della vittima, della sua fiducia in se stessa, allo scopo di incrementare il proprio valore. Ha bisogno di una persona stima· bile, per succhiarla e svuotarla. Una volta svuotata, il ciclo può ricomincia­ re, o con la stessa vittima, a cui viene concessa un po' di tregua, o con una nuova vittima designata. Il senso di vuoto e di mancanza (che non vengono vissuti come tali, ma denegati), danno origine all'invidia e all'odio per la donna e al tentativo di appropriarsi di ciò che lei possiede di buono e di vitale. Il trionfo (sancito dall'orgasmo nella perversione sessuale e dal dominio sulla vittima in quella relazionale) è necessario al perverso per sentirsi vivo2 • Diversi autori hanno messo in evidenza come sia inevitabile per l'anali­ sta, quando tratta un perverso, subire, almeno in un primo tempo, il tipo di relazione che il paziente instaura (Ogden 1996, Eiguer 1999, Jiménez 2004). Questo tipo di carattere, infatti, ha la prerogativa di attuare un co­ stante sovvertimento della logica e quindi del senso della realtà e di cerca­ re di attrarre gli altri nella sua logica distorta. Jiménez (2004) sostiene che il perverso (e il cinico, che del perverso è un parente molto stretto) abita in una pseudo-realtà, per lui non esiste una realtà condivisa, un mondo comu­ nemente umano: non è capace, infatti, di mettersi nei panni dell'altro e di condividerne empaticamente i vissuti. Al contrario, tenta di far mettere gli altri nei propri panni, anzi nel proprio mondo, e di indurli ad accettare il proprio punto di vista. Ciò avviene anche nel rapporto analitico in cui l'a­ nalista può raggiungere una vera comprensione del funzionamento cinico e perverso soltanto dopo avere subito gli effetti del sovvertimento della logi­ ca nella relazione di transfert-controtransfert, sperimentandone con disagio la violenza.

2 Ogden ( 1996) dice, a tale proposito, che il perverso ha bisogno di difendersi dal ri­ schio di sperimentare uno stato di "morte psicologica".

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1.1. Lolita Un esempio di perversione relazionale con esiti catastrofici è offerto dal romanzo Lolita di Vladimir Nabokov (1955, trad. it. 1993). Sebbene sia stato letto da alcuni critici come una grande storia d'amore e da molti altri come una vicenda di pedofilia (Schinaia 2001 ), a me sembra che descriva, in modo chiaro e molto persuasivo, il comportamento cinico e perverso di un uomo maturo, dalla raffinata cultura europea, nei confronti di una ra­ gazzina, una "ninfetta" come lui la chiama, della quale, si può dire, si im­ padronisce. Humbert Humbert, allo scopo di sedurre e possedere Lolita, ne sposa la madre, di cui poi causa indirettamente la morte (indirettamente, se ci si li­ mita all'osservazione dei fatti, ma direttamente per quanto riguarda le in­ tenzioni). In seguito si appropria della ragazza. Va a prenderla al campeg­ gio dove lei si trova quando la madre muore e vaga per ciue anni attraverso l'America con lei, facendone la sua amante. "Vedete - afferma cinicamen­ te Humbert che del libro è la voce narrante - non c'era altro posto al mon­ do dove potesse andare... ". La vittima è stata isolata: è sola al mondo, non ha altri rapporti al di fuori di lui che, preso com'è dall'impulso a realizzare la propria perversione, è del tutto indifferente al1a sofferenza di lei. La perversione di Humbert oltre e forse più che pedofila, è relazionale. Consiste nel detenere il potere assoluto ne1la relazione, nell'indifferenza per l'altro, anzi nell'uso e nello sfruttamento dell'altro (dell'altra) ai propri fini. Dopo avere sedotto la ragazzina, Humbert afferma: "Ciò che avevo follemente posseduto non era lei, ma una creatura mia, una Lo­ lita di fantasia forse ancora più reale di Lolita ... senza volontà né coscienza - anzi, senza nemmeno una vita propria".

Azar Natisi, in Leggere Lolita a Teheran (1993), asserisce che "la malvagità di Humbert si deduce dalla [sua] mancanza di curiosità per la vita degli altri", compresa Lolita. A lui interessa soltanto la propria visione del prossimo. La Lolita di cui egli parla è una sua creatura, non corrispon­ de a ciò che lei è in realtà, non tiene conto di ciò che lei sente; egli ne in-· terpreta e distorce i sentimenti, "ha creato la Lolita dei suoi desideri e non intende allontanarsi da quell'immagine" (p. 69). Lolita è una creatura di Humbert fin dal1a prima pagina del romanzo: "Humbert inchioda Lolita già da subito, citando per prima cosa quel nome che diventa l'eco dei suoi desideri. E li, nella prima pagina, accenna ai vari nomignoli

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di lei, diversi a seconda delle occasioni - Lo, Lola, ma tra le sue braccia sempre Lolita. Veniamo anche informati del suo 'vero' nome, Dolores, che in spagnolo evoca sofferenza" (p. 54 ).

L'appropriazione che Humbert fa di Lolita comprende anche la distru­ zione del suo passato - o meglio l'annullamento di esso. "Eppure lei un passato ce l'ha. Nonostante i tentativi di Humbert di renderla orfana del tutto derubandola anche della sua storia, riusciamo qua e là a intuirne qualche fuggevole particolare. Grazie al contrasto con l'ossessione totalizzante di Humbert per il proprio passato, l'arte di Nabokov rende questi sporadici barlumi ancora più struggenti. Lolita ha vissuto esperienze tragiche: la morte del padre, del fratellino di due anni, e adesso anche della madre. (... ) Il suo passato è qualcosa che manca, che non c'è, prima ancora di essere perduto;( ... ) Lolita diventa il pro­ dotto del sogno di qualcun altro" (p. 55).

Lolita, nel romanzo, viene raccontata da Humbert, non ha la possibilità di perorare la propria causa; l'uomo spiega e giustifica il proprio compor­ tamento, non quello di lei. Mentre infatti cerca di giustificare se stesso per la sua perversione (imputandone l'origine ad una grande passione adole­ scenziale per una bambina), di Lolita dice che è "totalmente e irrimedia­ bilmente corrotta" oppure che "dal punto di vista mentale" è "una bambina disgustosamente convenzionale". È andando al di là delle parole, analiz­ zando l'insieme della storia narrata da Humbert e valutandone i compor­ tamenti, che il lettore si rende conto, appunto, della sua perversione rela­ zionale. Una volta di più uno scrittore ci racconta, più incisivamente di molti trattati, un inquietante capitolo della psicopatologia.

2. Perversione relazionale e maltrattamento Propongo di considerare i comportamenti di maltrattamento come rife­ ribili ad una psicopatologia che si estende lungo un continuum che dal di­ sturbo narcisistico di livello alto, attraverso il disturbo borderline, giunge fino alle forme più gravi di disturbo antisociale di personalità. Questa linea continua viene attraversata in un punto da un'altra linea, quella della per­ versione, intesa come tratto o stile relazionale. Ogni volta che il tratto per­ verso impone il suo marchio alla personalità si ha un disturbo grave nelle relazioni - sempre più grave via via che ci si avvicina al polo antisociale. Nel caso del maltrattamento psicologico, il tratto perverso incide il conti­ nuum in prossimità del disturbo narcisistico. Intorno a questo incrocio di linee si forma un alone con varia densità e dispersione, che rappresenta la 41

gamma dei comportamenti che si possono denominare come ·perversione narcisistica, oppure come perversione relazionale, tennine che preferisco. Il primo termine, perversione narcisistica, denota il meccanismo intrapsi­ chico di questa perversione, mentre il secondo ne mette in risalto la feno­ menica intersoggettiva, relazionale. La letteratura ci offre esempi della continuità di caratteri che va dal narcisista al delinquente seriale della sessualità, una continuità ai cui poli estremi troviamo da un lato Don Giovanni e dall'altro Barbablù nelle varie versioni delle storie ispirate dai due personaggi. E se, come dice Stendhal, "Don Giovanni riduce l'amore a un affare di ordinaria amministrazione [ ...], uccide l'amore", Barbablù è un personaggio ancora più inquietante: per lui ciò che conta davvero è l'annientamento della donna. Tuttavia en­ trambi i personaggi hanno un tratto in comune: l'indifferenza per l'altro. "Don Giovanni, Barbablù e i loro discendenti non accettano l'altro - l'altra - come essere integro. [...] I [loro] registri interni sono regolati in modo da ammettere solo minime parti dell'altro" (Wertheimer 1999, p. 151). Anche �l cinema ha spesso rappresentato la favola nera dell'uomo che, non riuscendo a mettersi in relazione con la donna reale, tenta di trasformarla nella donna che desidera. Come un meccanico, allora, la smonta e la rimonta, ne butta via pezzi e ne conserva soltanto minime parti. Così avviene in molti film - si tratta in fatti di una sorta di storia prototipica, come lo sono quelle di Don Giovanni e di Barbablù. Ne cito una soltanto, perché il suo remake è u­ scito da poco sugli schermi: si tratta di Stepford wives (titolo italiano La don­ na perfetta). Nell'idillico paese di Stepford il club dei mariti uccide le mogli per farne dei robot domestici, sofisticate repliche, identiche nell'aspetto all'originale, ma, nel comportamento, del tutto prone ai desideri dei mariti. Si potrebbe obiettare che è inutile introdurre un nuovo concetto - quello di perversione relazionale - quando ne esiste già uno, rappresentato dal sa­ domasochismo. Tuttavia, mentre credo che non sia utile moltiplicare termi­ ni e concetti, penso però, nello stesso tempo, che il concetto di perversione relazionale si riferisca a un'area di fenomeni che non è adeguatamente de­ scritta dal termine sadomasochismo. Innanzi tutto il termine sadomasochi­ smo connota, in modo particolare, la perversione sessuale; anche quando viene usato per indicare un tipo di relazione interpersonale, non sessuale, esso mette in risalto e dà valore al piacere che entrambi i componenti della coppia traggono dal loro modo di relazione. Si può anche aggiungere che c'è spesso, nella relazione sadomasochista, inversione dei ruoli. Nel caso della perversione relazionale, invece, non c'è inversione dei ruoli: il per­ verso non lo può permettere. Egli soltanto può esercitare il potere nella re­ lazione e trarre da ciò una forma di piacere. 42

3. Due esempi tratti dalla clinica "Non sono affatto sicuro che si debba essere matti per capire gli psicotici. Di una cosa sono sicuro invece: per capire un perverso, quando non lo si è, si soffre". J.-C. Racamier, // genio delle origini "Commendatore: 'Pentiti, cangia vita: È l'ultimo momento!'. Don Giovanni: 'No, no, ch'io non mi pento; vanne lontan da me!'". Mozart-Da Ponte, Don Giovanni

3.1. Mauro Mauro è un giovane analizzando, sposato da alcuni anni. Ha chiesto un'analisi per una sintomatologia depressiva di modesta entità, collegata a certe difficoltà incontrate nell'ambiente di lavoro. Nei primi mesi di analisi, come del resto nei colloqui preli­ minari, appare corretto, intelligente, abbastanza conscio dei propri mezzi e del pro­ prio valore. Ha l'aria di pensare di non essere un paziente qualunque, ma di essere più "sano" degli altri, e certamente più interessante. Mi pare che creda che dovrei essere contenta di avere un analizzando come lui. Considera i problemi di lavoro, insorti di recente, come un fastidioso accidente, reso ancora più fastidioso dal fatto di non esse­ re riuscito a sorvolare, ma di esserci stato un po' male, fino a sentirsi, in alcune occa­ sioni, indebolito, fragile, come uno che non sa se può più contare su di sé. Nel lavoro analitico, comunque, ha, apparentemente, un atteggiamento di col­ laborazione, sebbene spesso mi dia l'impressione di essersi preparato prima, come non osando affidarsi all'improvvisazione, alla regola delle libere associazioni, ma preferendo avere il controllo sulle proprie espressioni. Inoltre, pur in modo educa­ to e corretto, spesso torna sui miei interventi per criticarli, o comunque, se non li critica, per dirmi che ci aveva già pensato lui. Tuttavia viene regolarmente alle se­ dute e parla, in modo interessante, di sé, della sua famiglia di origine, dei problemi di lavoro. È molto attento a quello che dico, e di solito commenta, nella seduta successiva: "Quello che mi ha detto ieri mi ha interessato: difatti avevo già pensa­ to che ... ", "Quello che mi ha detto nell'ultima seduta mi non mi è sembrato molto pertinente, e comunque non sono d'accordo ... ". Non parla spesso del rapporto con la moglie, come se si trattasse di un'area li­ bera da conflitti. Ho l'impressione che egli consideri quello coniugale un rapporto riuscito e soddisfacente. La moglie lavora in un ambito affine al suo o, per meglio dire, per una società che intrattiene rapporti con la sua. Può capitare quindi che marito e moglie si incontrino per motivi professionali. Hanno ruoli di pari grado e importanza, che svolgono, di solito, in luoghi diversi. A volte la moglie lo aiuta per qualche problema specifico nel quale ha una maggiore competenza, e lo fa con altruismo e senza farlo pesare.

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Dopo il primo anno di analisi la modesta depressione si può considerare superata: Mauro tuttavia rimane in analisi, come a volere "perfezionare il risultato". Vengono in scena nuovi aspetti della sua personalità, come, per esempio, il bisogno di fare bel­ la figura in società, un bisogno forte, coatto, che può dare origine, se non soddisfatto, ad una sorta di ruminazione ossessiva. Egli non sembra rendersi conto del ruolo che, a questo proposito, ha assegnato alla moglie. Me ne rendo conto io, all'improvviso e con stupore, quando ascolto il racconto di una riunione della sera precedente. Lui e la moglie erano entrambi presenti ad meeting in cui erano coinvolte varie persone delle loro rispettive aziende. Diversamente dal solito, quella sera Mauro era a disagio, non si sentiva perfettamente sicuro della sua preparazione, che di solito era invece impeccabile e tale da assicurargli il successo, come lui diceva, "a mani basse''. Era un sottile senso di disagio, tanto più avvertito quanto più gli sembrava che sua moglie si sentisse sicura e non si occupasse di lui. La riunione terminò senza che, per quanto lo riguardava, accadesse niente di drammatico. Mauro però era rimasto scontento di sé e soprattutto scontento del comportamento della moglie. Cominciò a pensare che "doveva fargliela pagare" e nelle settimane che seguirono mise in atto questo piano. Non le rivolgeva la parola, se non per cri­ ticarla o per ironizzare sui suoi comportamenti, oppure la evitava e alle sue richie­ ste di spiegazioni rispondeva che non c'era proprio nulla da spiegare ... se lei non era in grado di capire da sola. Mi sembrava di comprendere che la donna dovesse sentirsi sempre più scon­ certata - come lo ero io - per questo comportamento della cui irragionevolezza il paziente non sembrava avere alcun sentore. Venni a sapere, in questa situazione, che non era la prima volta che accadevano episodi di questo tipo: erano invero ab­ bastanza frequenti e il funzionamento normale, quello della comunicazione diretta e collaborativa, sembrava piuttosto costituire l'eccezione. Questi episodi si con­ cludevano di solito, come avvenne in questa occasione, con una sorta di perdono che dentro di sé il paziente decideva di accordare alla moglie, dopo averla vista soffrire per un tempo che considerava sufficiente. Quanto a lei, mi sembrava che lì per lì si sentisse rinfrancata dal mutare delle condizioni, per quanto non potesse mai capire che cosa fosse realmente accaduto. Avevo la sensazione, anche se Mauro non me ne parlava in modo esplicito, che la moglie uscisse da questi episo­ di ogni volta un po' più sconcertata e confusa, mentre lui non sembrava, allora, comprendere i motivi dello stato d'animo di lei. Mauro ha avuto una madre dal carattere forte ma imprevedibile. Non si poteva mai sapere che cosa i comportamenti altrui avrebbero provocato in lei. Di certo, si trattava sempre di reazioni esagerate, sia che si trattasse di collera e aggressività che di lodi sperticate. Il padre era un uomo piuttosto debole, impegnato anche lui nel compito impossibile di mantenere tranquilla la moglie. Mauro aveva scelto il ruolo del "bravo figlio", a differenza del fratello, che era invece il "figlio ribelle" e quindi emarginato (era diventato tossicodipendente). Aveva studiato con buoni risultati, ma sempre con una gran paura di non riuscire. Era riuscito, invece, sep­ pure con grande sforzo. Aveva trovato un buon lavoro e ci teneva molto ad avere successo. Era bravo, ma mancava di originalità. Mi sembrava che, nella coppia coniugale, fosse la moglie, per cosi dire, a mettere il sale. 44

Tuttavia lei lo sosteneva e lo appoggiava, aiutandolo anche nella carriera pro­ fessionale. Mauro però (lo compresi un po' alla volta riflettendo sullo sviluppo della relazione transferale), non poteva accogliere alcun dono, perché questo a­ vrebbe significato riconoscere una propria mancanza. Non poteva essere grato, né, tantomeno, dimostrare la propria gratitudine. Poteva soltanto appropriarsi di na­ scosto delle qualità della compagna, o, per dir meglio, derubarla, pretendendo che lei non si accorgesse - né se ne accorgessero altri - di ciò che gli dava. Se gli pa­ reva che lei non fosse abbastanza oblativa, o se non riusciva nell'intento di deru­ barla dei suoi preziosi contenuti, di cui tuttavia non poteva riconoscere il valore, allora si infuriava e cominciava a maltrattarla. Non le rivolgeva parola se non per offenderla, deriderla o svalutarla. In questo modo invertiva i ruoli rispetto al rap­ porto con la madre che aveva provocato in lui terrore e sofferenza. Adesso era lui a "tenere il coltello dalla parte del manico", come mi disse in un'occasione com­ mentando con me il proprio comportamento.

3.2. Bernardo Bernardo è un uomo sulla quarantina quando inizia l'analisi. Soffre a causa di una sintomatologia fobica, insorta da diversi mesi, che lo disturba soprattutto per­ ché interferisce con la sua attività di imprenditore. Si tratta infatti di una angoscia claustro-agorafobica che gli impedisce di usare ascensori, autobus, aerei e treni e, in generale di viaggiare, di allontanarsi da casa. Bernardo ha una compagna con cui convive da molti anni, e con cui dice di avere un rapporto soddisfacente. È una persona visibilmente intelligente e pronta, parla con molta proprietà, non sembra avere difficoltà a parlare di sé. È elegantemente vestito, ha un aspetto gradevole. La sua famiglia di origine è composta da un padre molto autoritario, prepotente, rissoso, violento e da una madre intelligente ma debole e distante, ansiosa, sottomes­ sa al marito e timorosa di lui: da un lato non è mai riuscita a difendere i figli dalla violenza del marito, e, dall'altro, ha attuato, nei confronti di questi ultimi, una sorta di inversione dei ruoli, in quanto li ha trattati più come uomini da ammirare e da cui aspettarsi una sorta di riscatto, che come bambini da amare. Bernardo ha un fratello: tra i due figli però è stato il paziente a rappresentare un'estensione narcisistica del padre, il figlio in cui quest'ultimo ha riposto le sue speranze. La famiglia, in passato cospicua e nota in città, era decaduta e impoverita. Il fatto di essere diventati quasi poveri era vissuto come una vergogna. Tuttavia Bernardo, con il suo ingegno, con un po' di fortuna, con un carattere leonino, e, forse, con non troppi scrupoli, è riusci­ to ad arricchirsi di nuovo, realizzando in questo modo il mandato paterno. Nel primo colloquio Bernardo aveva prodotto in me una curiosa impressione di cui per molto tempo non ero riuscita a comprendere il motivo. Era un'impres­ sione di duplicità: da un lato infatti avevo avuto la percezione di avere di fronte una persona molto sofferente per l'angoscia fobica, spaventata e bisognosa, dal­ l'altro egli mi aveva fatto provare, senza che ne capissi la ragione, una sensazione del tutto diversa: di trovarmi di fronte ad un uomo forte e seduttivo, forse addirit­ tura un po' aggressivo e sfrontato. Questa sensazione, per come erano andate le

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cose in quel colloquio, era difficile da spiegare: egli non aveva detto niente che potesse essere qualificato come sfrontato, arrogante o aggressivo, si trattava sol­ tanto di piccoli segnali non verbali: di un modo di guardare, di catturare il mio sguardo, di sorridere come d'intesa, di cercare un assenso nei miei occhi, di tenta­ re come di imporre una scontata superiorità. Si trattava, allora, soltanto di una mia sensazione. Che però mi mise in guardia: dissi a me stessa di aspettare tenendo occhi e orecchi aperti. Iniziammo l'analisi e nel giro di non molto tempo il disturbo fobico scompar­ ve. Bernardo si sentiva appoggiato e sostenuto, l'angoscia di andare in frantumi, di crollare, lui che aveva ricostruito con le sue sole forze le fortune famigliari, pareva trovare nella situazione analitica un argine e un contenimento. Intendo dire che mi sembrava che fosse proprio l'aspetto del contenimento, più che il contenuto speci­ fico delle interpretazioni, a svolgere una così evidente azione terapeutica. Il pa­ ziente ricominciò a viaggiare, a prendere aerei e altri mezzi di trasporto, ad andare in ascensore, senza provare il senso terrorizzante di stare per soffocare e di non poter scappare. La sua impresa si consolidava e i risultati economici diventavano sempre più soddisfacenti. Il rapporto con la compagna andava avanti apparente­ mente senza scosse. Procedendo però nel lavoro analitico mi rendevo sempre più conto che dietro alla patologia fobica si veniva profilando una struttura di personalità narcisistica. Dietro la facciata corretta ed educata avvertivo il fatto che Bernardo sentiva di es­ sere "speciale" e pretendeva, con una sorta di cortese ma tuttavia inflessibile de­ terminazione, di avere diritto ad uno speciale trattamento. Per esempio, dopo che ebbe ricominciato a viaggiare, gli capitava di saltare diverse sedute per impegni di lavoro. Non mise mai in questione il fatto di dover pagare per le sedute annullate all'ultimo momento, ma aveva la pretesa che io non mettessi in discussione questi comportamenti, che non entrassi nella sua mente - vorrei dire - tramite interpreta­ zioni se non era lui a chiedermelo. Desiderava che io mi limitassi ad ammirare le sue capacità, a svolgere una funzione di rispecchiamento rispetto ai suoi numerosi progressi. Quanto a lui, aveva nei miei confronti una sorta di transfert idealizzante: ero la miglior analista per il miglior paziente. In seguito intuii anche, attraverso accenni per la verità non troppo chiari, che Bernardo spendeva energie, tempo e denaro per il suo dongiovannismo. Me ne parlava poco e soprattutto faceva in modo che io non mi avvicinassi all'argomen­ to. Qualche volta riuscivo ad acchiappare una di queste comunicazioni fatte come di sfuggita. Per esempio in una circostanza mi disse che una certa signora, nota e stimata, gli aveva fatto capire che le sue eventuali avances non sarebbero state ma­ le accolte. Lasciò il discorso in sospeso, e quando io, con il proposito di avviare un'interpretazione, pur in modo prudente, dissi che, di certo, c'erano tante donne che si interessavano a lui... e del resto anche la sua analista era una donna ... la sua risposta fu garbata ma decisa: quello che dicevo non c'entrava per niente. Io per lui, a dire il vero, non ero una donna, ma soltanto uno psicoanalista! E, del resto egli, da un punto di vista formale, nei miei confronti era estremamente corretto ma per niente galante. Le cose andarono avanti così per parecchio di tempo, finché irruppe sulla sce-

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na Anna, una giovane donna di cui Bernardo cominciò a sentirsi - con suo stupore - sempre più preso (mentre precedentemente verso tutte le donne che aveva avuto aveva tenuto molto ben distinto il piacere sessuale dal coinvolgimento personale che era sempre riuscito ad evitare). Provava per Anna una forte attrazione sessua­ le, ma era nello stesso tempo molto spaventato di poter perdere il controllo della relazione e della sua stessa mente. Tuttavia non voleva rinunciare a questa relazio­ ne per le sensazioni forti che essa gli permetteva di vivere e per il piacevole stato di esaltazione procuratogli dall'innamoramento, che gli pareva di provare per la prima volta nella sua vita. Gradualmente cominciai a rendermi conto del fatto che Bernardo maltrattava la giovane amante. Per esempio in un'occasione mi disse che l'aveva chiamata "puttana" senza motivo e che lei si era messa a piangere chiedendogli perché la trattasse così. Mi associai, con una breve battuta ("già, perché?") alla richiesta di Anna ed egli, senza esitazione, mi rispose che le donne, si sa, sono traditrici, inaf­ fidabili, "tutte puttane". Aggiunse poi che, se lui la maltrattava, era perché Anna se lo meritava, anche se non era affatto chiaro che cosa di tanto grave avesse com­ messo. Dopo episodi di questo genere Bernardo si preoccupava, temeva di perdere il rapporto, ma mi sembrava che non si preoccupasse tanto di avere ferito Anna, quanto di avere commesso, lui, un errore per il quale avrebbe potuto subire conse­ guenze spiacevoli e non volute. Insomma, poneva comunque il baricentro del suo interesse in se stesso e sembrava non riuscire davvero a mettersi nei panni della donna e a provare dispiacere per averla ferita. Nello stesso tempo, però, continuava a parlarmene, a differenza dei primi anni di analisi, quando occultava tutta quest'area della sua vita. Me ne parlava perché voleva ricevere da me un aiuto per riuscire a conservare la relazione sentimentale. Invertendo la nota frase di Bion, direi che io ero "il suo miglior collega". Piano piano cominciò a rendersi conto che non lo disprezzavo, come in fondo lui temeva (devo ammettere che ciò che mi aiutava a mantenere un atteggiamento di "ascolto rispettoso" [Nissim Momigliano 200 I] e partecipe era, oltre alla possibilità di per­ cepire il bambino bisognoso dietro il narcisista perverso, il sincero interesse verso il riuscire a comprendere il suo modo di funzionare). Approfondendo il discorso sui modi e le ragioni del maltrattamento, emerse il fatto che Bernardo temeva di non potersi fidare e affidare ad una persona, una donna - inaffidabile per definizione - che lo avrebbe sfruttato, abbandonato e de­ riso. Mi citò a questo proposito il fatto che il padre dichiarava apertamente che non ci si doveva fidare delle donne: lui stesso, del resto, sembrava interessato piut­ tosto a dominarle. Bernardo era cresciuto con l'idea che non ci si potesse fidare delle persone con cui, pure, si ha una relazione intima. Era convinto che la sua fi­ ducia, se accordata, sarebbe stata tradita. Bastava quindi che Anna dicesse qualco­ sa - per quanto neutro o comunque inoffensivo - che facesse sorgere in lui un qualche sospetto, perché prendesse forma nella sua mente, subito, un'interpreta­ zione che confermava l'idea inconscia che Bernardo aveva di se stesso: di non po­ tere essere amato davvero, di venire ingannato, "fregato" proprio dalle persone più vicine. In momenti del genere si scatenava la violenza, l'insulto o la minaccia. In seguito il paziente non si pentiva del suo gesto, ma si vergognava di avere perso il 47

controllo delle proprie azioni. Temeva inoltre di venire abbandonato. Non sem· brava, invece, riuscire a comprendere davvero la sua vittima, le sue reazioni di paura ed i suoi timidi tentativi - che rientravano presto - di prendere le distanze da lui. Egli commentava, alla fine, questi episodi, in modo stranamente grossolano in confronto con l'intelligenza che era capace di dispiegare in altri campi, con frasi del genere: "in fondo se l'è voluta"... Cominciai quindi a vedere sempre più chiaramente la sua parte perversa, scis· sa, che era rimasta per molto tempo non analizzata, anche se aveva dato origine, nel primo colloquio, a quella sensazione di duplicità a cui ho accennato. Potei co· minciare ad avvicinarmi all'area della perversione soltanto quando, e perché, Ber· nardo era preoccupato sia delle possibili conseguenze del suo comportamento perdere il rapporto - ma anche della implicita e imbarazzante dipendenza da An· na. Compresi anche che il rapporto con la prima - e ufficiale - compagna era da lui considerato buono in quanto la donna si era prestata a diventare un suo oggetto e, di conseguenza, era stata considerata ed accettata nella misura del suo adatta· mento ai bisogni di lui. Un'altra ragione che aveva reso possibile a Bernardo di farmi avvicinare alla sua parte narcisistico·perversa era rappresentata dal fatto che egli aveva potuto considerare buono ed affidabile fino a quel momento il rapporto analitico che gli aveva fornito un rimedio all'angoscia fobica. Aveva potuto gode· re di un rapporto in cui non si era sentito minacciato né sfruttato. Riuscii quindi a dirgli che nei miei confronti, nei confronti di una donna· analista, egli aveva un atteggiamento duplice: da un lato, mi considerava, al pari di altre donne della sua vita, un docile ed utile strumento per i suoi scopi, come era avvenuto per la guarigione dalla angosce fobiche. Dall'altro, riguardo a quella par· te di me che avrebbe potuto impensierirlo, la femminilità, che per lui era sinonimo al tempo stesso di debolezza (la debolezza della madre), ma anche di minaccia (la minaccia della dipendenza), lui semplicemente la negava, continuando a pensarmi come di genere "neutro", come se io non fossi né una donna né un uomo, ma sol· tanto un dottore. Successivamente potei anche collegare il comportamento di Ber· nardo con quello paterno, autoritario fino al sadismo, mostrando la somiglianza e la derivazione del primo dal secondo. Comprendemmo che egli si identificava con il padre autoritario e sadico mentre proiettava in Anna una parte di sé debole e spaventata. Attraverso i comportamenti di maltrattamento, egli collocava con for· za nella partner la debolezza, l'impotenza e la paura che aveva bisogno di denega· re in se stesso e, una volta riconosciuti in lei questi sentimenti, si rassicurava.

Su questo esempio clinico si possono fare considerazioni diverse. Che in questo caso sia in gioco una patologia narcisistica mi pare indubbio: c'è il senso di umiliazione per la povertà trasmesso dai genitori, la determina­ zione ad avere un successo considerato come dovuto, la sensazione di es· sere speciale, e di avere diritto di trattare gli altri secondo il proprio torna· conto. C'è il fatto di essere stato un figlio ammirato per le proprie poten· ziali capacità e considerato come predestinato ad essere colui che avrebbe riportato la famiglia ai vecchi splendori. C'è anche il comportamento da 48

Don Giovanni, un mezzo ulteriore di strumentalizzazione dell'altro dell'altra, in questo caso. Nel caso di Bernardo, c'è pure l'associazione tra organizzazione narci­ sistica e disturbo fobico; quest'ultimo disturbo ha costituito il motivo per cui egli ha chiesto un'analisi. Se il narcisista perverso arriva in analisi è sempre per qualche problema intercorrente, non per il disturbo narcisisti­ co-perverso in sé. Questi due aspetti, fobico e narcisistico-perverso, pren­ dono origine, in Bernardo, dalla stessa matrice. Egli ha sofferto a causa del carattere autoritario e violento del padre e si è difensivamente identificato con lui. Nel rapporto con la madre, non ha potuto sperimentare un'intimità che gli desse sicurezza e conforto; ha avvertito, al contrario, il peso della dipendenza materna da lui. Ha allontanato da sé la madre disprezzandola, e ha esteso questo sentimento a tutto il mondo femminile. Il maltrattare An­ na, il dongiovannismo, )'incapacità di mettersi nei panni delle donne che seduceva, il non riconoscere l'alterità, insomma: tutto questo ha contribui­ to a negare i suoi sentimenti infantili di terrore e di dipendenza, costituen­ do, nello stesso tempo, una sorta di vendetta e di trionfo sulla debolezza della madre e delle donne in generale (ma anche del1e parti infantili e indi­ fese di se stesso). Come dicevo, anche il disturbo fobico traeva origine dalla stessa matri­ ce. Appena aveva cominciato ad avere successo, infatti, si era manifestata una forte angoscia claustrofobica. Dietro )'apparenza di un conflitto tra il desiderio di avere successo e la paura di non farcela, che ne costituivano gli aspetti di superficie, l'angoscia fobica corrispondeva soprattutto alla paura di rimanere chiuso in situazioni minacciose di dipendenza impoten­ te. Aveva il terrore di questa dipendenza, che l'avrebbe fatto sentire debole come le donne che sfruttava. Questi aspetti divennero accessibili, nella re­ lazione terapeutica, soltanto quando fu possibile analizzare il tratto perver­ so (sebbene nel frattempo l'holding, il contenimento fornito dall'analisi, avesse reso possibile il miglioramento sintomatico). Ma l'aspetto per me più interessante è rappresentato dal viraggio dallo stile narcisistico di relazione ai comportamenti e ai modi di relazione nar­ cisistico-perversi (o di perversione relazionale) che Bernardo ha messo in atto con Anna. Fonagy, in un lavoro molto ricco dal titolo Uomini che e­ sercitano violenza sulle donne: una lettura alla luce della teoria dell 'at­ taccamento (2001 ), si propone di comprendere la psicopatologia specifica degli uomini violenti nei confronti delle loro compagne, ed ipotizza a que­ sto scopo, in modo convincente, un collegamento tra stili di attaccamento, qualità delle cure parentali e capacità di mentalizzazione. Non è possibile dare conto, in modo esauriente, nel presente lavoro, della teoria dell'attac49

camento che è alla base della sua argomentazione: basti dire che gli studi compiuti da Bowlby e dai suoi successori hanno permesso di codificare di­ versi stili di attaccamento del bambino al caregiver, denominati come si­ curo, evitante, ambivalente e disorganizzato. In sintesi Fonagy afferma che lo stile di attaccamento disorganizzato rappresenta spesso il risultato di re­ lazioni di abuso o di maltrattamento da parte dei genitori nei confronti del bambino (genitori violenti tra ]oro e/o nei confronti del bambino). Sotto la pressione del bisogno, da un lato di trovare conforto e dall'altro di fuggire il genitore abusante, ]a mente del bambino trova un compromesso accet­ tando il conforto fisico e creando allo stesso tempo una distanza mentale. Ma così facendo il bambino danneggia la propria capacità di mentalizza­ zione, in quanto non può usare i genitori per la necessaria funzione di ri­ specchiamento e di interpretazione dei propri stati mentali. Di più: egli non può nemmeno permettersi di comprendere i loro stati perché si incontre­ rebbe con l'odio e con l'evidenza di non essere amato. Fonagy dice che questi pazienti da adulti possono regredire, in alcune situazioni, a un "pen­ siero non mentalizzante". "Per quale motivo le interazioni emotivamente molto ricche dovrebbero stimo­ lare la regressione a un pensiero non mentalizzante? [...] Nella vita adulta, la rap­ presentazione di sé disorganizzata si manifesta come un enorme bisogno di con­ trollare gli altri. Gli uomini violenti devono stabilire una relazione in cui la partner serva da veicolo per gli stati intollerabili del sé. Essi manipolano la relazione in modo tale da generare nell'altro l'immagine di loro stessi della quale non vedono l'ora di liberarsi. Ricorrono alla violenza, a volte, quando l'esistenza autonoma dell'altro minaccia questo processo di esteriorizzazione. In questi momenti, agi­ scono con violenza mossi dal terrore che la coerenza del sé venga distrutta dal ri­ torno di ciò che era stato esteriorizzato. L'atto violento ha quindi una funzione duplice: ricreare e risperimentare il sé alieno all'interno dell'altro e distruggerlo nella speranza inconscia che scompaia per sempre. Percependo il terrore negli occhi delle loro vittime, questi uomini so­ no rassicurati. Le loro successive suppliche sono sincere, a causa del loro inconte­ nibile bisogno di avere una relazione in cui sia possibile questo tipo di esterioriz­ zazione" (pp. 286-288). Relazioni emotivamente coinvolgenti possono essere vissute come una minaccia all'integrità di un sé precario, che ha adottato difensivamente una strutturazione narcisistica. Viene temuto i1 rischio di una dipendenza che vanificherebbe la pretesa di autosufficienza del sé. C'è il timore di una frammentazione catastrofica e di un crollo (tutto ciò era presente nel caso di Bernardo). La soluzione immediata è quella dell'esteriorizzazione del conflitto, della proiezione sulla partner del ruolo di vittima, della propria 50

identificazione con il genitore violento, e perciò stesso considerato potente, e del trionfo maniacale che ne deriva. Adopero qui l'aggettivo maniacale nel senso che gli è proprio, cioè come l'altra faccia del diniego. A questi uomini non manca del tutto l'empatia: sono però molto empa­ tici con quella parte di sé che espellono nella donna e che rivedono quando riescono a farla soffrire, supplicare, dibattersi. Gli uomini - dice Fonagy provano, dopo questi episodi, calma, calo di tensione, come il "ripristino di una Gestalt interiore", uno strano stato di tranquillità. "La calma rappre­ senta la riuscita distruzione dell'indipendenza psichica della donna. Lei è ancora una volta solo il veicolo dei processi proiettivi patologici del suo partner" (p. 290).

4. Lettera al mio giudice Nel romanzo Lettera al mio giudice Georges Simenon (1946, trad. it. 1990) racconta, secondo i suoi biografi, l'incontro con la seconda moglie, Denyse, un incontro narrato anche, sebbene in tono ogni volta diverso, in Tre camere a Manhattan e in Memorie intime (Marnham 1992). In ognuna di queste diverse narrazioni (di tono drammatico Lettera al mio giudice, sentimentale e aperto alla speranza Tre camere a Manhattan, astioso e teso a discolparsi Memorie intime) restano uguali le caratteristiche dell'incontro ed il tipo di donna. Si tratta, in ciascun caso - anche in quello reale, della vita dello scrittore - di un incontro fatale. Un uomo, in un momento diffi­ cile della propria esistenza, incontra una giovane donna di cui si innamora: il legame che si crea è drammatico, perverso e indistruttibile perché lui in­ tuisce subito, sebbene in modo non cosciente, che può servirsi della donna per proiettare fuori di sé la paura della propria insufficienza, l'angoscia, la debolezza. Lei diventa così il soggetto debole e l'uomo, tramite una scis­ sione di cui rimane inconsapevole, e identificandosi con il proprio ruolo di genere, può continuare a sentirsi forte. Mi sembra interessante soffermarmi su Lettera al mio giudice perché questo libro, pur descrivendo una storia di maltrattamento fisico che termina addirittura con l'uccisione della sua a­ mante per mano del protagonista, mette comunque in luce alcuni meccani­ smi che sono presenti pure nel maltrattamento psicologico. In questo romanzo la storia viene narrata nella forma di una lettera, scritta in tono di doloroso verismo. C'è in essa l'atmosfera pesante, dispe­ rata e nello stesso tempo perversa, dei migliori libri di Simenon. Charles Alavoine, medico nella provincia francese, ha ucciso la sua giovane aman­ te e scrive al giudice una lettera che ha soprattutto lo scopo di ripercorrere 51

la propria vicenda. Alavoine è nato in campagna da un padre-padrone, un uomo chiuso in se stesso, misantropo e gran cacciatore di donne. La ma­ dre, silenziosa, timida e tenace, che, pur temendolo, disprezza il padre, ha compensato le numerose frustrazioni della vita coniugale dedicandosi completamente a tutelare il figlio, con cui, tuttavia, non comunica davvero e verso il quale non è capace di tenerezza. È, il loro, un rapporto duro, concreto, senza parole. La donna organizza il matrimonio del figlio con una ragazza docile e dipendente; rimasta vedova, va a vivere con la giova­ ne coppia, continuando così ad essere la padrona di casa e la madre di en­ trambi. La giovane moglie muore e Alavoine si risposa, quasi per caso, ma realizzando in realtà, di nuovo, un progetto materno. (La madre si era ac­ corta infatti che egli soddisfaceva i suoi desideri sessuali senza tanti scru­ poli e ogni volta che poteva, con le sue pazienti, mettendo a rischio, in tal modo, la propria rispettabilità e la propria professione; si era quindi adope­ rata per favorire un nuovo matrimonio). Egli dunque si risposa e la sua vita scorre in un adeguamento sonnolento ai ruoli sociali e alle aspettative della madre e della nuova moglie, finché non avviene l'incontro con Martine. Che si tratti di un incontro fatale il protagonista lo capisce subito, come capisce subito che non può più liberarsene. La descrizione che lo scrittore fornisce della donna (e che è sempre la stessa, sia che sia dettata dall'amo­ re, come in Tre camere a Manhattan e nello stesso Lettera al mio giudice, o dall'odio, come in Memorie intime) è quella di una civetta, un'intrigante, una maliarda - ma non necessariamente bella - dotata di una carica sessua­ le nascosta, une femme légère, una donna con una vasta esperienza in fatto di uomini e, nello stesso tempo, una bambina. I due passano la notte in al­ bergo e fanno l'amore con una violenza quasi furiosa. In seguito, egli la porta a casa, presentandola alla moglie come la sua assistente (proprio co­ me Simenon aveva fatto con Denyse), e finisce per essere talmente preso da questa relazione da lasciare la casa e la moglie per andare a vivere con la ragazza a Parigi, dove apre un piccolo ambulatorio. Ma la gelosia lo ossessiona. Egli comincia a scindere, per così dire, la propria immagine di lei. Da un lato, c'è la ragazza pura, ingenua, che è sua, e dall'altro c'è la Martine che lui ha conosciuto in un bar, che ha avu­ to altri rapporti prima di lui, "l'altra Martine, [ .... ] quella che si era fatta insozzare con una sorta di frenesia". "Una volta che era entrata nel mio studio l'ho fissata senza vederla. Era l'altra che avevo impressa nella retina, e di punto in bianco, senza volerlo, per la prima volta in vita mia, l'ho picchiata. Non ne potevo più. Ero stravolto dal dolore. Non l'ho colpita con la mano a­ perta ma col pugno, e ho sentito l'urto delle mie ossa contro le sue.

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Subito dopo sono crollato. È stata la reazione. Sono caduto in ginocchio, non mi vergogno di dirlo. E lei sorrideva, signor giudice, guardandomi con grande te­ nerezza attraverso le lacrime. Non piangeva. Aveva gli occhi pieni di lacrime, lacrime di bambina che ha tanto male ma non piangeva: sorrideva, e le posso giurare che era triste ma felice. Mi ha accarezzato la fronte, i capelli, gli occhi, le guance, la bocca. Mormora­ va: 'Povero Charles ... "' (p. 171 ).

La storia procede in un crescendo angoscioso fino alI'omicidio di Mar­ tine (che, in fantasia, rappresenta, appunto, l'uccisione di una soltanto del­ le due, e la liberazione dell'altra), all'arresto, alla condanna, alla lettera al giudice e al suicidio di Alavoine. È molto ben descritto, in questo roman­ zo, l'aspetto impulsivo, il repentino comparire della scissione, che il prota­ gonista opera, nella propria rappresentazione della donna. Egli divide in­ fatti Martine, nella "bambina" debole e oltraggiata - il lettore è stato in­ formato che durante l'infanzia ella è stata vittima di un abuso sessuale - da un lato e, dall'altro, nella maliarda, la [emme légère. Di quest'ultima egli la vuole liberare così come vuole liberare se stesso. Come gli uomini descritti da Fonagy, Alavoine usa la ragazza come rego­ latrice degli stati intollerabili del sé. Che cosa rappresenta per lui la Martine intrigante e maliarda? Le donne di cui suo padre approfittava senza tanti complimenti? Forse: in questa prospettiva Martine rappresenterebbe dunque una persona debole, l'incarnazione stessa della debolezza femminile, equipa­ rata a quella infantile. Charles Alavoine ha conosciuto la violenza del padre - per quanto questa non fosse diretta contro di lui. Come il mio paziente Bernardo, può avere pensato che soltanto identificandosi con l'aggressore sarebbe stato ugualmente forte e virile. E soltanto essendo forte e virile a­ vrebbe potuto evitare la mancanza, o forse la nostalgia, per la tenerezza mai ricevuta dalla madre. La Martine "bambina" gli fa provare questa tenerezza, ma l'altra, la maliarda, lo fa sentire debole e impotente come un bambino. Di questo sentimento può liberarsi soltanto ricacciandolo dentro di lei, facendo diventare lei debole e impotente, spaventandola e maltrattandola.

5. La verità su Bébé Donge "A pensarci adesso, sua moglie gli ricordava la mosca che una sera aveva visto cadere nel ruscello della Chatagneraie. Sulle prime, la mosca non si era rassegnata all'inevitabile. Agi::ava le zampe, batteva le ali, come se quello sforzo potesse re­ stituirla alla libertà. I suoi movimenti convulsi la facevano girare in tondo, ma Francois era sicuro che alla fine sarebbe riuscita a issarsi su una foglia di quercia galleggiante, che per lei costituiva l'unica via di uscita.

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Poi, per qualche istante, si era immobilizzata. Stanchezza o prudenza? Voleva forse risparmiare le forze? Poi di nuovo una lotta disperata, uno sforzo prodigioso e dei cerchi sempre più larghi sulla superficie cangiante dell'acqua. Ormai le ali erano fradice. I mulinelli sempre più profondi. Quale abisso infini­ to, quale buco nero rappresentavano per la mosca quelle buie acque gelide? Francois, appoggiato al tronco inclinato di un salice, fumava una sigaretta" (p. 131 ).

Questo brano è tratto da uno da un altro dei noir di Georges Simenon, La verità su Bébé Donge, un breve romanzo scritto nel 1940 e pubblicato per la prima volta nel 1942. Lo scrittore ha narrato, nei suoi numerosissimi libri, molte storie di coppie infelici, riuscendo a rendere con abilità atmo­ sfere cupe, comunicazioni impossibili o nemmeno tentate, vizi sordidi ed egoismi spietati. È raro trovare nei suoi libri ottimismo o speranza, e mi sembra anzi che, se ciò accade, non sia nelle sue opere migliori. Le molte biografie pubblicate sull'autore e la stessa autobiografia, Memorie intime (1980, trad. it. 2003) suggeriscono con forza l'impressione che l'autore trasferisca sulla pagina gran parte delle sue esperienze e dei suoi vissuti, incluse le particolarità, il clima e la temperatura emotiva di certi suoi in­ contri sentimentali (come nel già citato Lettera al mio giudice). In La verità su Bébé Donge, i due fratelli Donge sposano due sorelle, Jeanne e Bébé, due ragazze francesi educate a Costantinopoli, città in cui il loro padre lavorava come ingegnere, e rientrate in Francia, con ]a madre, alla morte di lui. Francois Donge sposa Bébé un po' perché desidera farsi una famiglia, come suo fratello che ha deciso di sposare Jeanne, un po' perché attratto dal fascino e dalla sensibilità della giovane donna, che tut­ tavia non comprende. Ha anzi un atteggiamento sospettoso verso di lei, ac­ cusandola, nel suo intimo, di averlo voluto sposare per sistemarsi. La storia viene narrata a ritroso, cominciando dal momento in cui Bébé tenta di avvelenare il marito versandogli l'arsenico nel caffè. Francois, che è un chimico, riconosce in tempo i sintomi dell'avvelenamento e viene salvato. Tuttavia deve venire ricoverato in ospedale, mentre, nello stesso tempo, prendono avvio le indagini della magistratura che culminano in un processo in cui la donna è accusata di tentato omicidio. Mentre si svolgono questi fatti Francois ripercorre la storia della relazione con la moglie. Assi­ stiamo ad un cambiamento del suo punto di vista, ad una sorta di ravvedi­ mento, che forse non è, quanto alla sostanza dei fatti, molto credibile, ma che permette al lettore di vedere da vicino e con gli con gli occhi del mari­ to una vicenda di ordinario maltrattamento psicologico. L'autore è ben consapevole che di questo si tratti; fa dire infatti al giu­ dice istruttore, che interroga Bébé: 54

"I giudici americani ammettono come motivo di divorzio la cosiddetta 'crudel­ tà mentale', che la nostra legge, invece, non riconosce. È di crudeltà mentale che lei accusa suo marito?" (p. 147).

A questa domanda la donna non risponde: sembra infatti non essere ca­ pace di dare un nome a ciò che le sta accadendo, alla sofferenza che il rap­ porto con il marito le costa, pure ammettendo "Soffrivo troppo ... " (ibid. ).

Simenon non si propone qui di cesellare il ritratto psicologico dei suoi personaggi: in questo libro, come e forse più che in altri, si sente che l'autore scrive in fretta, accontentandosi, per così dire, di tratteggiarne con poche pennellate le caratteristiche essenziali e le motivazioni, di creare un'atmosfe­ ra ed uno sfondo in cui il lettore possa inserirli e ricostruirli dentro di sé. È Francois, voce narrante del romanzo, a guidare il lettore nella costruzione di ipotesi che diano senso al delitto. Mano a mano che le sue riflessioni e i suoi ricordi si sviluppano, assistiamo al graduale dénouement. Si comprende che il protagonista ha subìto, senza comprenderlo, il fasci­ no della donna, ne ha soltanto intuìto la differente sensibilità, la capacità di "metterlo a suo agio", ma è rimasto sostanzialmente estraneo, anzi diffiden­ te, rispetto alle sue diverse e non banali qualità. Francois è descritto come un uomo pratico, imprenditore di successo, dallo stile un po' arrogante, tanto da incutere timore negli altri, freddo, ironico, distaccato. Soltanto nel fratello ha fiducia, pur avendo, comunque, la leadership anche nel rapporto con que­ st'ultimo. È inoltre abituato, sulla scorta dell'esempio paterno, a considerare indiscutibile l'autorità maschile, incluso l'atteggiamento "da padrone" sulla moglie - come sulle altre donne che prende quando lo desidera. Francois ha avuto un padre autoritario (il fondatore dell'azienda che i fratelli Donge, ma in particolare lo stesso Francois, hanno sviluppato e ingrandito). La madre era una donna sottomessa al marito, ma poco tenera, anzi distante, con i figli. Il protagonista ha sposato la ragazza - quando i due si incontrano, lei ha soltanto diciassette anni - ma la differenza (di età, di sensibilità e di prove­ nienza culturale) di lei sembra dargli un senso di impercettibile disagio che viene subito trasformato in irritazione, distacco, sufficienza. Egli non la ca­ pisce, ma vuole ridurre la sua diversità a inferiorità. Gli pare nello stesso tempo ovvio averne il possesso. Si sente magnanimo però perché, insieme al fratello, contribuisce al mantenimento della suocera e perché anche alla mo­ glie dà soldi senza farsi pregare. Non si rende conto che la chiude in un mondo sempre più ristretto, permettendole soltanto di occuparsi della casa, salvo poi meravigliarsi che lei non faccia altro. Lui vive la sua vita, ha molte 55

amanti - ed è interessante il fatto che non consideri un'amante la sua segre­ taria, con cui ha rapporti sessuali quasi quotidiani. Sembra davvero conside­ rarla alla stregua di un "oggetto parziale", da sfruttare sessualmente, senza darsi la pena di riconoscerne le caratteristiche personali. La signora Flament, la segretaria, appunto, viene presentata come una di cui ci si dimentica, o meglio, come un oggetto la cui presenza si dà per scontata, tanto che non c'è alcun bisogno di tenerlo in mente. La scena in cui essa fa il suo ingresso per la prima volta nel romanzo, coincide con il ritorno di Francois in ufficio, dopo la dimissione dall'ospedale: "Francois scese dalla macchina senza bisogno di aiuto ed entrò, non dall'ingresso privato, ma dalla porta principale, quella dell'ufficio. 'Buongiorno, signor Francois ...'. 'Buongiorno, signora Flament...'. Di quella lì si era proprio dimenticato! Visibilmente commossa, con le gote in fiamme e una mano sul petto, l'impiegata lo fissava con gli occhi sgranati e umidi. Sicuramente quel mazzo di rose sulla scrivania era opera sua" (p. 81 ). li pensiero dell'uomo si posa su altri oggetti: l'ufficio, i mobili, gli ar­ redi, tra cui i ritratti dei suoi genitori...che egli ritrova dopo l'assenza cau­ sata dall'avvelenamento. Dopo circa una pagina e mezzo ci accorgiamo di nuovo della presenza della segretaria:

'"Sulla scrivania c'è una lettera per lei ...'. Ma certo, era la signora Flament! Aveva dimenticato l'odore della sua segreta­ ria: una rossa formosa, che aveva occhi penetranti, labbra carnose, seno opulento e fianchi generosi, ma sudava decisamente troppo" (p. 83). È Bébé a rendersi conto che fra i due c'è una relazione: il marito non darebbe questo nome alla cosa, anzi non gliene darebbe nessuno: '"È da molto che la signora Flament è la tua amante?'. Francois si passò una mano sulla fronte, poi tra i capelli, quindi si alzò, e restò in piedi, immobile, in mezzo alla stanza. 'Rispondimi'. 'Vado a letto con lei da anni, ma non si può definire proprio un'amante...' ( ... )

'Non l'ho mai chiamata per nome... Anzi, neanche Io conosco, il nome... E ap­ pena abbiamo finito, non le lascio neppure il tempo di riprendere fiato e mi metto subito a dettare: ' ... in risposta alla vostra pregiata del... Mi segue, signora Fla­ ment? ... Si ricordi di controllare la data sulla lettera... sono onorato di comunicar­ vi che, viste le attuali circostanze, non ci è possibile concederVi lo sconto che... "' (pp. 92-93 ). 56

La "signora Flament" non ha, dunque, nemmeno diritto a un nome. Nel suo caso, all'inferiorità subita nel rapporto interpersonale, si aggiunge un'inferiorit� sociale. Del resto, nemmeno la moglie, Bébé, ha un nome vero e proprio. Quando gli era stata presentata per la prima volta, da suo fratello, nemmeno lui se ne ricordava il nome: '"Posso presentarvi mio fratello Francois? ... La signorina Jeanne d'Onneville... [Poi, rivolto a Bébé:] Mi scusi, credo proprio di avere dimenticato il suo nome... '. 'È come se non l'avessi ... Tutti mi chiamano Bébé "' (p. 50).

La signora Flament non ha un nome, Bébé "è come se non l'avesse", Olga Jalibert, un'altra amante di Francois, viene chiamata Lulù. Della "ra­ gazzotta" che era con lui a Royan, quando conobbe Bébé, Francois dice: "C'era poi quella ballerina... Come si chiamava? Betty, o Daisy ... Una ragaz­ zotta di Parigi che ogni sera si esibiva in un locale di Royan" (p. 50).

Mi sembra che ci sia una sorta di gradiente dalla passività all'attività, dall'insignificanza all'acquisizione di significato, dal non contare nulla all'acquisire valore. La signora Flament, si può dire, non conta nulla, non ha significato per Francois, come del resto Betty, o Daisy - il vero nome il lettore non lo saprà mai. Olga Jalibert viene chiamata Lulù, ma almeno di lei sappiamo il nome. Ella è infatti un personaggio di maggior spessore, di una consistenza personale riconosciuta - nel bene o nel male. È la moglie di un dottore, amico di Francois e appartenente allo stesso ambiente socia­ le. Inoltre combatte ad armi pari in quanto, come Francois, è una narcisi­ sta, interessata agli altri nella misura della propria convenienza. "Aveva il senso degli uomini" commenta il protagonista, raccontando come lei sia riuscita a fargli finanziare la clinica del marito. Bébé all'inizio della storia non ha un nome vero e proprio, soltanto un diminutivo non sappiamo di cosa3 . È solo quando viene interrogata dall'is­ pettore di polizia, dopo avere tentato di avvelenare il marito, che veniamo a sapere che si chiama Eugénie-Blanche-Clémentine. Assume un'identità personale quando si contrappone, per quanto in modo tragico e disperato, al marito, il cui atteggiamento, fino ad allora, è stato tale da svalutarla, ne3 Curiosamente - o forse non tanto - anche Simenon soleva cambiare il nome delle donne

con cui era in rapporto. Ad esempio aveva soprannominato Tigy la prima moglie, Régine, e aveva ribattezzato Baule la cameriera (e amante per quasi tutta la vita) che si chiamava, in realtà, Henriette; aveva modificato in Denise la grafia del nome della seconda moglie, che si chiamava Denyse. Soleva chiamare per cognome le sue segretarie, ma anche in questo caso denominò Blinis una di loro, il cui cognome era invece Silberberg (Marnham P. 1992).

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garle l'identità e l'alterità stessa. Bébé non è riuscita a sottrarsi al maltrat­ tamento. Per molto tempo non lo ha compreso affatto. Ha provato a coin­ volgere il marito nel rapporto con lei, a proporgli dei terreni comuni, delle possibilità di comunicazione, ma si è sentita sempre più emarginata dalla sua indifferenza, diffidenza e arroganza. Pur non comprendendo con luci­ dità che cosa stesse accadendo, si sentiva sempre più disperata e sola. Il non dare nemmeno un nome alle donne con cui ha una relazione è un sintomo dell'atteggiamento narcisitico-perverso del protagonista: senza no­ me è come se le donne non avessero una loro identità, e dunque un'esistenza separata e dei diritti. Senza nome vengono pensate dal soggetto, appunto, co­ me oggetti; senza nome non hanno soggettività, non sono "altri". Così Bébé si presenta fino dall'inizio come la moglie ideale perché, lei, un nome "è co­ me se non l'avesse", non dice "mi chiamo", ma "tutti mi chiamano Bébé". Lei, quindi, mette subito a suo agio Francois che ne coglie intuitivamente la disponibilità. Ne disprezza, però, i tentativi di soggettivarsi, di diventare davvero partner awiando un dialogo e una comunicazione con lui. "E perché mai [egli pensa] Bébé avrebbe dovuto essere trattata diversamente dalla signora Donge, moglie di un conciatore? Forse perché si chiamava d'Onne­ ville (per di più con un apostrofo inventato!) ed era stata allevata nel quartiere più elegante e cosmopolita di Costantinopoli?" (p. 107).

Se la donna non ha un nome, pure sul cognome il marito ironizza: deve essere chiaro che egli non la riconosce come soggetto. Bébé propone a Francois dapprima una relazione d'amore basata sulla conoscenza recipro­ ca e dunque su uno scambio comunicativo, poi di essergli partner nel lavo­ ro, poi si ritira sempre più nella maternità e nella cura della casa. Quando trova un'amica in Mimi Lambert, che il marito chiama con disprezzo "la Spilungona" (di nuovo un soprannome!), egli si sente disturbato nei suoi diritti di proprietà. "Francois non era geloso. Ma lo esasperava entrare nella stanza della moglie e, in qualunque momento, avere la certezza di trovarci la Spilungona, installata come se fosse a casa sua" (p. 101).

Così un giorno passa all'azione e "Con quella calma che tanto timore incuteva ai sottoposti, Francois aveva det­ ·to, scandendo le parole: 'Signorina Lambert, per una volta le dispiacerebbe la­ sciarmi solo con mia moglie?'. E lei se n'era andata senza una parola, dimenticando perfino la borsetta. L'in-

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domani aveva mandato qualcuno a prenderla e non si era più fatta rivedere" (pp. 101-102).

Veniamo a sapere che Bébé e Mimi avevano intrecciato una profonda amicizia basata in gran parte sul comune interesse per i poeti inglesi che esse leggevano e traducevano insieme. Anche quest'interesse viene criticato dal marito come il passatempo di due sfaccendate che vi si dedicavano come se dalla loro traduzione di una poesia dipendessero le sorti del mondo. Così sua moglie si trova costretta a rinunciare all'amicizia e rimane sempre più sola. Ma soprattutto rimane sempre più sola con il marito. È interessante a questo proposito che l'interpretazione della sofferenza della donna, e quindi dell'avvelenamento, che Simenon propone al lettore consi­ sta neJl'essere stata lasciata sola dal marito. Simenon infatti fa dire a Francois, quando quest'ultimo comprende la sua responsabilità nella sofferenza della moglie, che la sua colpa consiste nell'averla lasciata sola. A me sembra che questa sia solo una parte della spiegazione, in questa come in altre vicende di maltrattamento: alla donna viene fatto il vuoto intorno; rimane sola con l'uomo che la maltratta, non ha possibilità di verifica e di confronto con il mondo esterno - a Bébé vie­ ne proibita l'amicizia. Quando lei tenta di parlare con lui, di comprendere, di chiarire, lui le lascia intendere che non c'è proprio niente da dire, e che è lei la persona difficile e magari strana. Di fatto Francois ci mostra che è proprio così, che lui non ha interesse a capire finché il suo possesso - della moglie come di qualunque altra donna - è assicurato. E perché non do­ vrebbe essere così, dal momento che è lui l'uomo e per di più il padrone? Sappiamo che Francois ha ricevuto quest'esempio in famiglia - quello ap­ punto di un marito-padrone - e si è identificato con il padre. Non ha potuto essere accolto in un rapporto tenero e affettuoso con la madre e gli manca­ no, di conseguenza, le tonalità dell'affetto e della tenerezza. Quanto alla donna, lei, come la mosca del brano citato all'inizio, si di­ batte per non affogare nell'indifferenza del marito: ["Francois, appoggiato al tronco inclin�to di un salice, fumava una sigaretta". (p. 131)]. È soltanto negli interrogatori, condotti dall'ispettore di polizia e dal magistrato, che la donna parla, anche se si rifiuta di spiegare, ad interlocutori (maschi) che pensa non le possano capire, le ragioni del suo gesto. Si limita a dire: "'( ... ) In quel modo non si poteva andare avanti... O lui o me ... Io non ho avuto il coraggio di uccidermi, forse per via di Jacques... Un bambino ha più bisogno di una madre che di un padre ... "' (p. 146). "Domanda. 'E non si è preoccupata delle conseguenze che quel gesto avrebbe comportato per lei?'.

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Risposta. 'No! Bisognava farla finita... '. Domanda. 'Farla finita con che cosa?'. Risposta. 'Non lo so... sarebbe troppo lungo spiegare... '. Domanda. 'Ci provi'. Risposta. 'Lei non capirebbe... "' (pp. 147-148).

Bébé non comprende del tutto la situazione, né riesce a rendersi conto delle cause della sua sofferenza. Intuisce soltanto che bisogna porre fine ad essa ("Bisognava farla finita..."). La sua reazione esagerata, un eccesso di legittima difesa - si potrebbe dire - è proporzionale alla sua impotenza e mancanza di çhiarezza. Il processo si conclude con il riconoscimento della colpevolezza della donna e con la concessione delle attenuanti: Bébé viene condannata a cin­ que anni di lavori forzati. Il marito pentito decide di aspettarla e di provare a ricostruire il rapporto con lei. Quando la vede passare in tribunale, dopo la condanna, le chiede perdono, ma lei gli risponde: '"È finita, capisci?'. (...) 'Credo di aver aspettato troppo, di aver sperato troppo... "'. (p. 168).

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4. La dinamica perversa vista più da vicino

1. L'inizio del rapporto Dopo avere descritto vari tipi di narcisisti perversi e avere offerto degli squarci sul tipo di relazioni che essi tendono ad instaurare con le loro com­ pagne, non si può eludere la questione che è stata continuamente evocata e lasciata in sospeso. Se quanto esposto finora vuole essere un tentativo di avvicinarsi alla personalità narcisistico perversa, considerandola come la principale responsabile dell'ins�aurarsi della dinamica del maltrattamento, esiste, nella donna che subisce il maltrattamento, una tipologia di persona­ lità corrispondente? Esiste insomma una specificità de1la vittima? Si pos­ sono individuare e descrivere tipi di personalità femminile più accessibili al maltrattamento? Marie-France Hirigoyen sostiene che non c'è specificità nella vittima: dice anzi che affermare che un certo narcisista perverso si comporti per­ versamente con una partner in particolare e non con altre equivarrebbe a giustificare il perpetratore. È vero però, nello stesso tempo, che chi lavora con le vittime trova che spesso anche il legame che unisce la vittima al persecutore è altrettanto forte e che spesso la vittima mostra una singolare e inaspettata acquiescenza, anzi un atteggiamento protettivo nei confronti dell'uomo che la maltratta. Certamente si può constatare, soprattutto nei casi più estremi di maltrat­ tamento, che c'è una categoria di donne che corrono un rischio maggiore di diventare vittime. Si tratta di donne che vittime lo sono già state, che hanno già un'esperienza di maltrattamento o di trascuratezza grave, o, co­ me si dice con una espressione non felice di "violenza assistita" (cioè di avere assistito in famiglia a manifestazioni ripetute di violenza). Queste donne hanno adottato il ruolo speculare a quello di chi diventa "abusante" 61

perché è stato ,"abusato": esse hanno un atteggiamento passivo, depresso, e continuano ad essere vittime. Il mio scopo, come ho già detto, è quello di mettere a fuoco il campo del maltrattamento psicologico - una forma, seb­ bene·grave, non così estrema come certe forme di violenza fisica e sessuale ripetuta (sulla donna, e sovente anche sui figli), in cui abusanti e abusate spesso ripetono una vittimizzazione subita precedentemente, e che li ha gravemente danneggiati, sebbene con risultati assai diversi. Nel caso del maltrattamento psicologico, come cercherò di dimostrare in questa seconda parte, se capita a volte di incontrare donne che, nel subi­ re il maltrattamento, ripetono per certi aspetti esperienze difficili con geni­ tori disturbati, che le hanno trascurate, maltrattate, colpevolizzate, ecc., ca­ pita però altrettanto spesso di non trovare elementi di trascuratezza grave e di abuso nella storia passata. Insomma l'impressione è che non esista, ne11a donna che subisce maltrattamento psicologico, una tipologia corrisponden­ te e complementare rispetto a quella dell'uomo che lo mette in atto. Fare, allora, il tentativo di dare una risposta alla domanda "perché le donne subiscono?" implica, prima di tutto, l'entrare più in profondità nella dinamica della perversione relazionale, del maltrattamento psicologico, per svelarne il funzionamento e le caratteristiche. Di certo, si tratta di un cam­ po in cui non è facile addentrarsi, e che richiede di guardare le cose con occhi diversi, di avere la capacità di lasciarsi alle spalle stereotipi rassicu­ ranti. Che cosa succede a11ora, momento per momento, nella coppia io cui il partner perverso impone la perversione relazionale come tratto caratteri­ stico, come stile e forma della quotidianità? Come inizia questo rapporto, e, soprattutto, perché la vittima "ci casca"? Le cose vanno in maniera diversa a seconda che il narcisista perverso sia un tipo overt o covert. Infatti, anche se gli esiti sono sovrapponibili, perché in entrambi i casi il marchio della perversione suggella il rapporto, le vicende, da un punto di vista fenomenico, possono differire, tanto che vale la pena di raccontarle separatamente. Il narcisista, benché perverso, ha molte carte da giocare. Che si tratti del tipo overt, grandioso, pieno di sé, oppure del covert, insicuro e timido, l'inizio della storia è comunque piacevole, in certi casi più piacevole di qualunque altra storia. Il primo tipo, infatti, l' overt, è capace di associare la compagna alla sua grandiosità: entrambi fanno parte di una coppia "specia­ le". La partner brilla di luce riflessa - ma il narcisista grandioso di luce ne fa tanta! Se si tratta di un narcisista covert l'inizio è ancora più emozionante, perché per lui, che si considera inferiore, impresentabile, incapace di rela62

zioni sociali, l'avere trovato una compagna, specialmente se lei è una don­ na di valore o almeno di successo, è come toccare il cielo con un dito. Lei lo rende invidiabile e con ciò lo fa felice, l'avere intrecciato un rapporto con lei ha il significato di un riconoscimento dei propri meriti che fino a quel momento erano stati ingiustamente disprezzati. Il covert idealizza, al­ l'inizio, la compagna che rappresenta - o meglio si mette al posto - della parte riuscita di se stesso, la interpreta e ne certifica l'esistenza (un'esisten­ za di cui egli a livello cosciente dubita, mentre inconsciamente ne è sicu­ ro). Nello stesso modo nel fondo di sé è sicuro della propria superiorità ri­ spetto alla compagna anche se all'inizio gli pare di credere (coscientemen­ te) - e riesce anche a farlo credere a lei! - che lei sia la migliore occasione che lui abbia mai incontrato. Lui la mette sul piedistallo, lei ne è felice. Pian piano però lei si accorge che lui ha rapporti non buoni, anzi, spesso cattivi, con buona parte del re­ sto del mondo. Tende a denigrare gli altri e a invidiarli, e, in generale, pas­ sa dall'idealizzazione alla svalutazione. Con la sua autentica capacità di svalutare gli altri, del cui disvalore è profondamente convinto - li fa sentire a disagio e questo, in generale, non gli viene perdonato. Finisce per di­ struggere i suoi rapporti. Perciò è generalmente solo e viene penalizzato, per esempio nel lavoro. Non ha il successo che crede di meritare, che meri­ terebbe se non fosse un narcisista covert, e questo, come in un circolo vi­ zioso, rinforza da un lato la sua idea cosciente di non valere, ma anche di essere sfortunato, e, dall'altro, l'idea inconscia di essere trattato molto al di sotto dei propri meriti. Lei è perplessa e tende a pensare che lui è davvero un po' sfortunato, oppure che, certo, ha sbagliato molte cose ne11a vita, ma può benissimo riprendersi e ripartire. Lei rappresenta un nuovo inizio, una nuova occasione: questa è la fantasia che spesso, all'inizio, entrambi con­ dividono. Piano piano però la realtà quotidiana mette la coppia alla prova. Non è possibile, come lui in fondo vorrebbe, sottrarsi alle necessità delle relazio­ ni con gli altri, ai problemi di lavoro, e, eventualmente, al rapporto con i figli. È possibile che la donna tenti di proporre sulle cose un punto di vista diverso da quello di lui e ne susciti così l'irritazione e soprattutto il senti­ mento di essere - di nuovo! - incompreso. Lei diventa allora, se non una nemica, una come gli altri, come qualunque altro di quel mondo fuori di lui che lui non ama e da cui non si sente amato. Di lei però è meno facile libe­ rarsi perché è diventata la depositaria delle parti idealizzate di lui stesso. Che fare allora? Non gli resta che agire sul meccanismo idealizzazione­ svalutazione: trasformare cioè in svalutazione la passata idealizzazione e quindi maltrattare la donna, farla sentire indegna, incapace, colpevole. 63

È in questo momento che il tratto perverso entra pienamente in azione. Il narcisista perverso, infatti, è uno specialista nel denegare le proprie man­ canze trasferendole nella compagna: è lei, quindi, che diventa, dei due, la persona senza valore, quella che non capisce, e che può, anzi deve, essere trattata come merita. La svalutazione che l'uomo mette in atto è, per lui, ego-sintonica, per quanto, a volte, si manifesti in un modo così rozzo da spiazzare la donna. (E, devo aggiungere, da spiazzare anche l'analista quando si trova improvvisamente a contatto con aspetti perversi del suo paziente che fino a quel momento non erano emersi in modo chiaro. Ri­ cordo, a questo proposito, il mio paziente Bernardo - di cui ho riferito nel­ la prima parte. Quest'uomo, per tanti aspetti raffinato, giustificava il suo maltrattamento dell'amante con una rozzezza che mi stupiva: "Le donne sono tutte puttane!" affermava senza alcuna autocritica). Lo stile perverso esce da11'ombra e imprime il suo marchio sulla relazione: ha inizio il pres­ sing sulla vittima. Lei, a questo punto comincia a sentirsi disorientata, non capisce: chi è la persona che ha vicino? È il tenero amante, il compagno premuroso, I 'uo­ mo che la stima, o invece è un uomo che la usa, magari interessato e catti­ vo? No, non può essere, si sbaglia, ha capito male, forse ha capito male perché non lo capisce. "Parliamone" pensa, ma tutte le volte che ci prova non ne viene fuori niente: scivola su una superficie viscida e torna sempre punto e a capo, sempre con la sensazione di non capire e magari di essere lei quella sbagliata - come lui, con allusioni sempre più chiare, tenta di far­ le credere. Se, come dicevo al1'inizio, il partner è, invece, un narcisista overt, do­ po la luna di miele iniziale egli continuerà ad essere ciò che è: una persona che sfrutta gli altri per i propri bisogni. La compagna sarà tenuta a soddi­ sfarli ma avrà sempre meno, con il procedere del tempo, un ritorno in ter­ mini di riconoscenza, appoggio, comprensione. Lui andrà alla ricerca di nuovi oggetti che gli diano lustro, sia sul piano erotico che delle relazioni sociali in generale, e ben presto svaluterà la donna con cui ha stabilito una relazione. Questo non significa però che sia disposto a lasciarla, perché ci sono sempre tante cose, che la compagna ha, e che lui possiede per mezzo di lei. A queste non vuole rinunciare. Roberto, per esempio, ha molte donne. Ne ha sempre avute, anche prima di sposarsi con Anna Maria. Dopo il matrimonio ha continuato a comportarsi da Don Giovanni, a volte in modo particolarmente coinvolto, a volte con un investimento minore. Per molto tempo Anna Maria non ha visto né immaginato l'esistenza di questo aspetto del carattere di Roberto. Intanto gli anni passavano e lui si com­ portava con la moglie in modo sempre più distaccato e ipercritico. Le rimprovera-

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�a il suo modo di essere, il fatto che avesse poco stile, pochi interessi, che non fosse stimolante. (Avevano avuto figli a cui Anna Maria provvedeva da sola - lui sembrava poco interessato a loro - e questo nonostante lei avesse una sua attività professionale che esercitava con impegno). La donna riusciva sempre meno a ca­ pire che cosa stesse succedendo nel rapporto. Quando gli chiedeva ragioni del suo comportamento lui negava l'esistenza del problema e la liquidava con una frase "Sei noiosa, lasciami un po' in pace!", ed ogni volta gli sforzi di Anna Maria per capire risultavano vani. Soltanto dopo molto tempo si rese conto dei tradimenti di lui e a questo punto decise di chiedere un trattamento. Ma anche quando, ancora più tardi, cominciò a pensare di interrompere la relazione, si scontrò con la tenace resistenza di lui che non poteva rinunciare a quanto la donna gli aveva sempre for­ nito, inclusi quegli aspetti del carattere che a lui mancavano totalmente. La serietà, la costanza, la considerazione e l'amore per i figli era Anna Maria a portarli nella relazione. Lui non avrebbe saputo dove trovarli dentro di sé e, per quanto non ne comprendesse la qualità, sentiva comunque, benché confusamente, che erano cose la cui privazione avrebbe potuto essere dolorosa. Questo non attivava in lui alcun senso di riconoscimento del valore di quanto Anna Maria gli aveva dato, al contra­ rio, ella continuava ad essere per lui una presenza scontata ma che, tuttavia, "do­ veva" continuare ad esserci perché così lui voleva.

2. Il "lato buono" Certamente, quando si parla di personalità narcisistica o narcisistico­ perversa, ci si riferisce comunque ad una rappresentazione schematica del­ la realtà: schematica per necessità di chiarezza. Ogni persona è un insieme complesso di tratti di carattere, di atteggiamenti, di schemi di comporta­ mento, di cui, con una definizione, si intende cogliere ciò che vi è di più caratterizzante e peculiare. Anche il narcisista perverso, al pari di qualun­ que altro tipo umano, è in realtà un amalgama di "multipli Sé" (Mitchell 1988) spesso scissi, ovvero, per quanto riguarda la consapevolezza che il soggetto ne ha, non contemporaneamente né pacificamente coesistenti. Ci sono insomma, specialmente nelle personalità meno gravemente disturba­ te, linee di funzionamento più vicine alla normalità, ma, proprio in queste personalità, gli aspetti più adattati e normali non coesistono con gli altri, quelli più patologici: piuttosto si succedono nel tempo. Così, in certi mo­ menti, il narcisista può apparire capace di una certa sintonia con gli altri con la sua compagna in particolare - e lui stesso in quei momenti ha la sensazione di essere compreso. Più precisamente, ha, di lei, una immagine completa, una rappresentazione di una "lei" completamente capace di comprenderlo. In altri momenti, però, tale rappresentazione scompare del tutto, quando la linea di funzionamento più normale, chiamiamola il "Sé 65

normale", cede il posto al "Sé patologico". Adesso lei è totalmente e mali­ gnamente incapace di capirlo, è assorbita da qualcos'altro, indifferente a lui. In questi momenti lui pensa che lei è fatta così e basta (]'altra lei, quel­ la che sta in rapporto con le parti di lui più adattate, non è più in vista: per il na rcisista è mai esistita). C'è dunque una certa mutevolezza, almeno nelle prime fasi del rappor­ to, prima che gli aspetti perversi si siano radicati e abbiano stabilmente impresso il loro marchio sulla relazione. C'è, prevalentemente all'inizio, ma non soltanto, la possibilità di vedere comparire anche gli aspetti mi.,. gliori, quelli che una mia paziente definiva "il lato buono". "Anche lui ha il suo lato buono", è una frase che ho sentito ripetere più volte da donne maltrattate dai loro compagni. Ed è vero: anche lui ha il suo lato buono direi addirittura che è un Iato, a volte, molto affascinante perché la sua ina­ spettata apparizione colpisce tanto di più in paragone agli altri lati, quelli in cui si palesano gli aspetti perversi. Questa mescolanza, negli uomini che maltrattano le compagne, di stati davvero drammaticamente diversi del1 'essere, che, benché coesistano nella stessa persona, sembrano non sapere nulla l'uno dell'altro, ha sulle donne un effetto straniante. Sembra, infatti, che lui, quando è in uno stato, non sappia nulla di sé nell'altro stato: questo è, detto in breve, l'aspetto fenomenico del meccanismo della scissione. Così il "lato buono" a volte c'è: per Renata c'è quando il compagno le parla del suo lavoro, e si capisce che gliene parla volentieri, considerandola un buon in­ terlocutore. In quei momenti lei si sente utile ed apprezzata, come in realtà è. Ba­ sta però che lei dia una risposta che non corrisponde punto per punto a ciò che lui vuole sentire, o si distragga per la presenza e le richieste dei figli, che avviene la trasformazione: lui riprende il suo fare arrogante, saccente, quello che non è più in comunicazione con nessuno, che considera anzi gli altri, i familiari, degli importu­ ni, se non dei nemici. Il "lato buono" Carla lo percepisce nel marito quando lui si occupa senza troppa impazienza dei figli, o addirittura progetta qualche iniziativa da fare con loro, e che la include. Quando mostra di apprezzarla come madre. Anche in questo caso la tregua è fragile, perché comunque dopo un po' - forse perché lui si è stan­ cato, forse perché i bambini non si sono comportati come lui si aspettava - rico­ minciano a passare le nubi e lui si richiude nel suo sprezzante mutismo. E pensa, magari, che ha sbagliato a scegliere la vita di famiglia: una vita che lo blocca in un orizzonte limitato, e in cui tutti si arrogano il diritto di seccarlo a loro piacere. Giulia invece il lato buono lo ha trovato nel compagno nei momenti in cui la sua corazza caratteriale si è dischiusa e ha lasciato intravedere gli aspetti fragili del bambino trascurato che lui è stato. Ne ha visto la sensibilità e addirittura la

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possibilità di essere in sintonia con lei. Tanto più doloroso è stato per lei il pas­ saggio agli altri aspetti: a quelli chiusi, rigidi, irragionevolmente sprezzanti. Il "lato buono" finisce però per rivelarsi una trappola per le donne mal­ trattate perché è proprio aggrappandosi a questo che le donne possono por­ tare avanti per anni un rapporto che le fa soffrire. Fa parte, come dicono le autrici femministe (Ponzio 2004), delle strategie di coping, di quelle stra­ tegie, cioè, che le donne maltrattate mettono in atto per poter resistere, per sopportare, per andare avanti nella situazione di maltrattamento, almeno finché non sono in grado di pensare di interromperla.

3. Il problema dei figli Un momento critico nella relazione con un narcisista perverso è rappre­ sentato dalla comparsa dei figli. Dico "comparsa" perché si può trattare di figli nati dalla coppia stessa, oppure di figli di uno dei due partner - e la vicenda è più complessa se si tratta di figli della donna - che fanno il loro ingresso nella relazione dopo un po' di tempo, quando la relazione si è, almeno apparentemente, consolidata. A me sembra che la reazione dell'uomo alla nascita di un figlio, o a11a necessità di includere ne] gruppo famigliare un figlio già nato, rappresenti un momento critico, caratteristico della relazione perversa (uso questo termine per quanto pensi che la dizione corretta sarebbe "]a relazione resa perversa dal carattere di uno dei due partner", l'uomo, nei casi di cui mi occupo). È, spesso, durante la gravidanza della donna che cominciano ad appari­ re, in modo più evidente, i segni del1a perversione. Il comportamento del­ l'uomo comincia a cambiare: è come se si staccasse, se avesse una minore considerazione per ]a donna. Spesso la prende in giro per ]a forma assunta dal suo corpo, fino all'insulto aperto: "Sei brutta, gonfia, grossa ... ". Non c'è alcuna partecipazione né alcun sostegno a questo momento della vita di lei - de11a vita della coppia. Piuttosto ci può essere un atteggiamento risen­ tito, di risentito distacco. Compaiono ora, per stabilizzarsi nel corso de] tempo, i comportamenti che trasformano il rapporto che fino a quel mo­ mento era un rapporto tra due persone, di cui una con problemi ne1la sfera del narcisismo, in relazione perversa. Tutto ciò assume forme anche più drammatiche se, come dicevo, a fare la loro comparsa nella relazione sono i figli della donna, figli nati da un precedente legame. Spesso molto presto l'uomo manifesta atteggiamenti 67

che la sua compagna credeva di non conoscere (non si può escludere che ella cercasse di tenere lontana dalla consapevolezza una conoscenza pre­ conscia del carattere deli'uomo). L'ingresso nella relazione dei figli di lei viene vissuto dal partner narcisista come elemento destabilizzante dell'e­ quilibrio - precario - della coppia. Lui teme di essere messo da parte, di "rimetterci". Ha bisogno di dimostrare subito che i rapporti di forza sono, e devono essere, in suo favore, che è lui che comanda, che ha diritto ad eser­ citare la propria autorità sulla donna. Che loro sono un'appendice inevita­ bile ma non desiderata da lui. È come se lui non riuscisse a comprendere i sentimenti che legano la donna ai figli, e comunque non gli interessano. Ciò che conta davvero è che la donna continui ad essere per lui un "ogget­ to-sé", necessità, questa, minacciata dalla presenza di figli. A causa di questo senso di minaccia lui si irrigidisce, assume un atteg­ giamento più freddo verso la donna, arrogante e prepotente verso i figli. (Quando le cose vanno meno male, se ne disinteressa, lasciando l'intero peso della loro educazione - spesso anche del loro mantenimento econo­ mico - sulle spalle della donna, e questo anche se si tratta di figli nati dalla relazione di coppia). Come avviene di solito, anche in questo caso la prima reazione della donna è di stupore e di incredulità. Poi, nella maggior parte dei casi 1 , c'è quella di difesa della prole. La donna si rimbocca le maniche e comincia ad occuparsi, da sola, dei figli e, nello stesso tempo, comincia a vivere nel terrore delle scenate che lui può fare se il bimbo non dorme la notte, se piange troppo, se è troppo vivace, se lo disturba mentre lui riposa, se fa domande, se ... è un bambino normalmente vivo. Rossella non si capacita ancora dell'atteggiamento del marito verso i loro due figli. Da quando sono nati - il maggiore ha dieci anni - lui non se ne è mai inte­ ressato davvero. Lei è una donna capace, proviene da una famiglia benestante, e non ha avuto problemi economici nell'allevare i figli - impresa a cui lui ha contri­ buito in misura assai ridotta. La donna si è completamente dedicata all'educazione dei figli, che sono ora due ragazzi belli e intelligenti. Certo, come lei dice con do­ lore, i due ragazzi non possono avere una guida nella figura paterna. Da quando lei era incinta per la prima volta, infatti, il marito ha cominciato a stare in casa il me­ no possibile, si è lasciato assorbire dal lavoro in maniera totale, ha cominciato a frequentare altre donne. Nei pochi momenti passati in casa è chiuso in se stesso, I Non parlo qui di quei casi in cui vi sia un incontro tra due perversità, in cui cioè en­ trambi i partner condividano le caratteristiche della perversione come tratto emergente di un carattere gravemente patologico (ad esempio borderline o antisociale). In questi casi si svi­ luppano quelle situazioni di maltrattamento e di abuso sui minori che la cronaca - spesso la "nera" - porta alla nostra attenzione.

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ombroso, viene infastidito da qualunque rumore. Non parla né con la moglie, né con i figli. Non ha mai permesso che venisse comprato un televisore, né che i bambini portassero a casa i loro amici. "Ragazzi fate piano, non disturbate il bab­ bo!" è la frase, che, come un ritornello, Rossella ha ripetuto loro migliaia di volte. Adesso si chiede - tra tante altre cose - come abbia potuto, lui, rinunciare all'amo­ re dei figli, a seguire la loro crescita, in una parola, alla paternità ...

4. Il legame della sofferenza Ma torniamo a interrogarci sulle ragioni che legano le donne ai loro partner perversi, che impediscono l'uscita dalla relazione e che, in sostan­ za, ne perpetuano i guasti e la sofferenza: come se la perdita del compa­ gno, benché maltrattante, determinasse l'emergere di un vissuto depressivo più intollerabile del maltrattamento stesso. Al di là di interpretazioni di tipo sociologico, come il sentirsi svalutata in quanto sola, non più parte di un nucleo familiare, non più padrona di ca­ sa, domina, madre di famiglia, dobbiamo chiederci quale potente legame tenga unita una coppia in cui uno dei due membri esercita il potere, lo sfruttamento, il maltrattamento sull'altro. Perché, insomma, le donne non scappano? Una prima risposta, che nasce dall'osservazione di molte di queste don­ ne, è che l'eventualità dell'interruzione di un legame in cui si erano riposte molte speranze, che era stato vissuto come "il rapporto della mia vita", coincidente con matrimonio, famiglia, figli ecc. rappresenta una ovvia mi­ naccia di perdita e un'altrettanta ovvia causa di vissuti depressivi. Tutto ciò, com'è noto, può valere sia per un rapporto buono che per un rapporto difficile, o addirittura per un rapporto caratterizzato dal maltrattamento, perché in quest'ultimo caso la donna ha dovuto mettere in campo tante e­ nergie, fare tanti sforzi, erogare tanto impegno, che la sua perdita rischia di lasciare la donna svuotata, di farle sentire che dopo tutte le sofferenze e gli sforzi si ritrova con un pugno di mosche in mano. La minaccia della de­ pressione è a portata di sguardo, ed è una minaccia che fa paura. "Sono stata tanti anni con quest'uomo. Per lui, per la sua tranquillità, per farlo contento, ho fatto tanti sforzi. Non avrò nessun premio" dice con amarezza Rena­ ta. In realtà gli sforzi che il marito ha richiesto a Renata sono stati così gravi da produrre in lei una sorta di scissione: per lui e in sua presenza ha dovuto imparare a comportarsi come se non avesse un legame con i figli, come se non fosse madre. Ma a dispetto di questi sforzi, che si sono declinati giorno per giorno nel fare at­ tenzione ai più minuti dettagli delle parole, delle frasi e dei gesti, a vivere con una

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costan te preoccupazione, se non con paura, a dispetto di tutto questo, la minaccia di una perdita "senza premio" viene tem uta come un dolore intollerabile.

Si può chiamare masochista l'atteggiamento di Renata? A prima vista forse sì. Ma, di nuovo, si dovrebbe distinguere con più precisione tra il ma­ sochismo come piacere di soffrire - un piacere erotico nel masochismo inte­ so come perversione sessuale - e l'atteggiamento di queste donne che non provano piacere ma, caso mai, una forma di testarda disperazione e di inca­ pacità di vedere altre soluzioni. Renata ha fatto un investimento sui propri sforzi, e quindi sulla propria sofferenza. Un investimento di cui continua ad aspettare il premio. Come un giocatore incallito che continuasse a puntare sullo stesso numero perché quel numero prima o poi "deve" uscire ...

5. Il problema economico del masochismo Non è possibile, giunti a questo punto, rimandare ancora il confronto con la teoria freudiana del masochismo, il "piacere del dolore", che il pa­ dre della psicoanalisi ha formulato nella maniera più compiuta nel saggio dal titolo, appunto, Il problema economico del masochismo (1924). In questo saggio Freud descrive tre forme di masochismo: "come con­ dizione dell'eccitamento sessuale", masochismo erogeno, come "modo di esprimersi della natura femminea", masochismo femmineo (la "forma me­ no enigmatica di masochismo"), come "norma di comportamento nella vi­ ta", masochismo morale (p. 7). Freud sostiene che il masochismo femmi­ neo, che egli ha osservato in pazienti maschi, consiste in fantasie di venire umiliati, insudiciati, maltrattati, costretti all'ubbidienza, di essere, cioè, trattati come un bambino indifeso e soprattutto come un bambino cattivo. Queste fantasie "trasportano il soggetto in una condizione tipicamente fem­ minile; esse significano cioè essere evirati, subire un coito, partorire" (p. 8, corsivo mio). "Il masochismo femmineo si fonda interamente sul maso­ chismo primario, erogeno, sul piacere del dolore" (p. 9). Una prima osservazione: la "condizione tipicamente femminile" coin­ cide con l'essere evirati, argomento che Freud ha sostenuto in molte occa­ sioni, a partire dalle sue prime formulazioni sulla psicosessualità femmini­ le, che è stata denominata, significativamente, come "teoria del monismo sessuale fallico". Su questo tema è stato scritto moltissimo, soprattutto da parte di autrici femministe, e non mi sembra necessario insistere oltre. I punti in discussione sono noti: se la donna abbia una psicosessualità pro­ priamente - primariamente - femminile, o non debba essere considerata, 70

come propone Freud, un "individuo castrato"; se, in conseguenza di ciò, la sua invidia del pene sia destinata a non essere superata ma soltanto colma­ ta nell'atto sessuale e attraverso l'equivalenza pene-bambino (cioè attra­ verso il diventare madre); e se, infine, non potendo essere attuato un supe­ ramento dell'invidia del pene, alla donna manchi un potente motivo per uscire dal complesso edipico: il Super-Io, erede del complesso edipico, ri­ marrebbe quindi nella donna carente rispetto a quello maschile (Filippini e Pazzagli 1981, Filippini e Bartolomei 1993, Filippini 1995). Sorge qui la prima difficoltà per la teoria del monismo sessuale fallico: se la donna ha un Super-Io debole, perché dovrebbe sviluppare un così for­ te masochismo, che rappresenta l'espressione di un senso di colpa incon­ scio e dunque di un Super-Io particolarmente severo, se non addirittura sa­ dico? Si deve comunque insistere sul fatto che il "masochismo femmineo" è presente indifferentemente negli uomini e nelle donne, e rappresenta una componente necessaria alla sessualità di alcuni individui. Quanto al "ma­ sochismo morale", in questo caso è la "moralità che torna ad essere sessua­ lizzata" (p. 1 S), per quanto, come dice acutamente Freud, ciò non giovi "né alla moralità né all'individuo" (ibid.). Infatti: " ... il masochismo induce nella tentazione di commettere azioni 'peccaminose' che dovranno poi essere espiate o sopportando i rimproveri della coscienza sadica ( ... ) o tollerando i castighi di quella grande autorità parentale che è il destino. Per provocare la punizione di quest'ultimo rappresentante dei suoi genitori, il maso­ chista deve agire in modo dissennato e contro i propri interessi, deve distruggere le prospettive che gli si aprono nel mondo reale, ed eventualmente deve distruggere la propria reale esistenza" (ibid.). Mi sembra che in questo saggio non vi sia alcuna dimostrazione del fat­ to che il masochismo sia un problema squisitamente femminile: quando parla di "masochismo femmineo", infatti, come già detto, il padre della psicoanalisi intende parlare di un insieme di comportamenti, di atteggia­ menti e di fantasie che il masochista, indipendentemente dal suo genere sessuale, ha bisogno di attuare per accedere alla dimensione erotica. Nem­ meno nel caso del "masochismo morale", vi è una dimostrazione che esso rappresenti un problema soprattutto femminile. Eppure la formula del "masochismo femminile" continua ad essere usa­ ta come strumento onniesplicativo. Che essa colga qualche cosa è certo: non si potrebbe spiegare altrimenti la sua fortuna. Che ciò che coglie si possa a buon diritto chiamare "masochismo", cioè piacere di soffrire, è tut­ t'altra questione. 71

Una voce autorevole, quella della psicoanalista Nancy Mc Williams (1994), sostiene che il termine masochismo in psicoanalisi "non significa amore per il dolore e la sofferenza". L'autrice afferma infatti che: "Quando un osservatore analitico definisce masochistico il comportamento di una moglie maltrattata che rimane con un uomo violento, non la sta accusando di provare piacere ad essere picchiata. L'implicazione è, piuttosto, che le sue azioni tradiscono la convinzione che la sopportazione della violenza le consentirà di ottene­ re uno scopo che giustifica la sofferenza (come, ad esempio, tenere unita la fami­ glia), o le eviterà una situazione ancor più dolorosa (come l'abbandono totale), o en­ trambe le cose. L'osservazione suggerisce anche che tale calcolo non funziona e che rimanere con il marito violento è oggettivamente più distruttivo e pericoloso di quanto sarebbe lasciarlo, e tuttavia la donna continua a comportarsi come se il pro­ prio benessere dipendesse dalla sopportazione dei maltrattamenti" (p. 284).

A questo punto l'autrice aggiunge una nota a pié di pagina, che cito di seguito: "Insisto su questo punto perché quando si discuteva se il DSM-III-R dovesse includere una diagnosi masochistica nella parte relativa ai Disturbi della Personali­ tà (con la definizione provvisoria di 'Disturbo di personalità autodistruttiva') fu evidente che i professionisti che non avevano familiarità o simpatia per la tradi­ zione psicoanalitica ritenevano che una diagnosi di masochismo equivalesse ad accusare la persona di provare piacere nella sofferenza, fosse cioè un 'biasimare la vittima' come se provocasse coscientemente la violenza per cercare qualche forma perversa di godimento" (pp. 184-185).

Mi sembra che si possa rispondere a queste affermazioni ribadendo che se, come spesso dichiarato nel corso di questo saggio, molte fonnulazioni psicoanalitiche sono mal definite, quella di masochismo è anche fuorviante, perché troppo moralisticamente compromessa, troppo legata, cioè, a giudizi di valore. In questo caso tali giudizi sono doppiamente pericolosi, perché l'argomento che la donna rimane con il compagno maltrattante perché lo vuole è l'argomento del maltrattante stesso, (e a volte anche dello psicotera­ peuta a cui la donna alla fine si rivolge). Se parliamo di intenzionalità incon­ scia, potremmo essere tentati di affermare che, se la donna subisce, è perché con una parte di sé lo vuole, ma nemmeno quest'affermazione coglie la so­ stanza del problema. Come sto cercando di dimostrare, infatti, è proprio la situazione di maltrattamento a vincolare la donna all'uomo che la maltratta, attraverso le strategie di coping che tale situazione le impone di adottare, at­ traverso l'isolamento e la defonnazione della realtà.

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6. Ancora a proposito di masochismo Cooper, in un articolo dal titolo "Narcissism and masochism: the nar­ cissistic-masochistic character" (1989) si propone di descrivere il disturbo masochistico come un disturbo di persona1ità appartenente all'insieme più ampio del disturbo narcisistico. Il disturbo masochistico è caratterizzato dalla ricerca del piacere attraverso esperienze dolorose e, in conseguenza, dal bisogno di esse. Cooper valorizza il concetto di masochismo anche se ne sottolinea l'imprecisione. Egli dice che i pazienti con disturbo masochi­ stico cercano attivamente persone o situazioni frustranti, rifiutano o rendo­ no inefficaci i tentativi fatti per aiutarli, hanno un atteggiamento provoca­ torio verso gli altri, alienandosene così la simpatia, rifiutano le opportunità piacevoli, non raggiungono i loro obiettivi pur avendone le possibilità, ri­ fuggono le persone che li trattano bene, si sacrificano in modo eccessivo e non richiesto. Tutto ciò non dipende necessariamente dal fatto che siano stati fisicamente o psicologicamente abusati, né che siano depressi. Nel tentativo di spiegare tale comportamento, Cooper si rifa ad un lavo­ ro di Bergler (1949) in cui quest'autore considerava il masochismo alla stregua di una nevrosi di base, originaria, da cui derivano tutte le altre. Bergler tentava di spiegare il masochismo a partire dal ruolo del narcisi­ smo nella formazione del carattere ed aveva elaborato sia uno schema ge­ netico, che prendeva le mosse dalle sue ipotesi sullo sviluppo normale, sia una descrizione clinica. Per quanto riguarda lo schema genetico, Bergler cominciava con l'af­ fermare l'importanza del senso di onnipotenza infantile, che il bambino a tutti i costi ce.rea di preservare nonostante le inevitabili frustrazioni. Il bambino risponde con rabbia e ansia alle minacce alla sua onnipotenza narcisistica. Quando le ferite narcisistiche superano una certa soglia, il bambino comincia ad adottare un atteggiamento masochistico allo scopo di tenere sotto controllo, in modo difensivo, le fonti di dispiacere e frustrazio­ ne. È come se dicesse: "Non vengo frustrato da qualcun altro. Sono io stes­ so a produrmi delusioni, ferite, umiliazioni perché mi piace". Egli cerca in­ somma di ricavare piacere, anche a livello sessuale, dal dispiacere, come prezzo per conservare qualche gratificazione narcisistica. Nei casi di fru­ strazioni narcisistiche gravi, anzi, questo può diventare il modo esclusivo di procurarsi piacere. Dal punto di vista clinico Bergler descrive tre momenti: nel primo, il masochista fa in modo di provocare negli altri comport�menti che susciti­ no in lui delusione, rifiuto e umiliazione. Da tutto ciò ricava piacere. Suc­ cessivamente, egli risponde alle umiliazioni e ai rifiuti con indignazione e 73

rabbia. Ha bisogno di dimostrare a se stesso di non essere colpevole di ciò che gli accade. Infine diventa depresso, si sente infelice e disgraziato: "Questo capita solo a me!". Nel masochismo c'è una componente refazionale che consiste nel bi­ sogno che un altro abbia il controllo di aspetti di sé; c'è una componente affettiva che si manifesta nell'evitamento di esperienze piacevoli e in ge­ nerale nell'incapacità di distinguere la tonalità affettiva delle esperienze; c'è una componente superegoica rappresentata dalla colpa e dalla depres­ sione; c'è infine una componente narcisistica evidente nell'esclusivo in­ teresse per il proprio sé e nella convinzione della propria, per quanto ne­ gativa, unicità. Anche la McWilliams descrive la personalità masochistica, che affonda le radici (teoriche) nel concetto di masochismo morale di Freud (1924 ). Il masochista, dice l'autrice, è "un depresso che spera ancora". Ella mette in evidenza la somiglianza di questo tipo di personalità con quella depressiva in quanto anche nel masochista, come nel depresso, c'è la presenza di un forte senso di colpa; però, a differenza del depresso, il masochista, pur sen­ tendosi infelice e sofferente, la colpa la attribuisce agli altri e considera se stesso una vittima. Il masochista "trionfa" per così dire, nella sofferenza, e ha spesso un atteggiamento sprezzante e moralistico verso coloro che non sono pari a lui nell'accettare il dolore e le avversità. Egli pone se stesso al centro del mondo, benché in senso negativo: perché tutti ce l'hanno con lui. È per questa ragione che il masochismo come tratto o stile di persona­ lità (piuttosto che come vero e proprio disturbo) va collocato all'interno della costellazione narcisistica, e più in particolare del narcisismo covert o ipervigile. Il termine masochismo, in senso stretto, dovrebbe essere riservato alla perversione sessuale, che può venire vissuta in forma masturbatoria oppure in una relazione con un partner sadico etero o omosessuale. Masochista è colui la cui sessualità non può prendere .avvio se non dal dolore fisico o mentale, da percosse, minacce, umiliazioni immaginate o realmente subite da parte del partner sadico. Comunque lo si intenda, come tratto o stile di personalità, oppure nel senso di perversione sessuale, non mi sembra che questo concetto possa rispondere in modo soddisfacente a11a domanda "perché le donne subiscono?". 7. Le personalità dipendenti

In un esauriente studio sulle personalità dipendenti, Vittorio Lingiardi 74

(2005), dopo avere tracciato un profilo di questo tipo di disturbo, ed averne proposto diverse ipotesi patogenetiche, accosta la personalità dipendente al maltrattamento. In sostanza egli afferma che donne dalla personalità di­ pendente possono più facilmente di altre finire intrappolate in legami di maltrattamento. Che cosa si intende per personalità dipendente? Lasciamo parlare l'autore: "Le persone con disturbo dipendente della personalità si caratterizzano per la profonda insicurezza nelle proprie capacità e risorse, per il bisogno eccessivo e costante di accudimento e per i comportamenti sottomessi e adesivi che ne conse­ guono. Sono incapaci di prendere decisioni in modo autonomo e di assumersi an­ che la più semplice responsabilità; non riescono a funzionare socialmente senza che qualcun altro si prenda cura di loro e, quando possono, preferiscono demanda­ re agli altri le proprie scelte (per esempio chi frequentare, come svolgere un dato lavoro, cosa fare nel tempo libero, come vestirsi ecc.). Così si affidano al partner, ai genitori, ai superiori, agli amici, sempre alla ricerca di un magie helper che li guidi e di cui incorporare la presenza, la forza e la competenza" (79-80). Anna Claudia ha vissuto, come un satellite, nell'orbita patema. È stata trattata da lui come una partner e come un "depositario" di tutte le sue ansie. Non può prendere un treno da sola per non impènsierire il padre, né può uscire la sera, né incontrare persone che il padre non conosca. La sua vita è una lunga serie di divieti, imposti non con l'autoritarismo, ma con il ricatto affettivo. "Lo vuoi proprio fare? Mi fai sta­ re in ansia... " queste le potenti armi del padre. La donna, ora quarantenne, non è mai riuscita, nel corso della sua vita, a superare il senso di colpa che sarebbe derivato da un'eventuale trasgressione della volontà del padre. Quest'ultimo inoltre ha ovvia­ mente sempre scoraggiato ogni manifestazione di autonomia: "Chi fa di sua testa paga di sua borsa" è uno dei suoi motti preferiti, espresso nel tono della minaccia. Anna Claudia, crescendo, è diventata davvero dipendente: continua ad essere legata al padre, obbligata da se stessa a compiacerlo, per quanto questo a volte le costi delle furie che ella rivolge contro di sé (si percuote e si insulta). Non riesce, tuttavia, ad uscire da sola la sera, un po' perché dovrebbe dirlo al padre - che pure non vive nel­ la stessa casa in cui vive lei - e un po' perché, a questo punto, lei stessa è intimorita del mondo esterno. Prova un senso di inferiorità nei confronti delle sue coetanee, e in situazioni sociali non riesce ad esprimere le proprie opinioni. Fa proprie quelle del padre, pur detestandosi per questo. Anna Claudia non è riuscita a trovare un partner. Ogni volta che un uomo le si è avvicinato, lei si è chiesta che cosa ne avrebbe pensato suo padre e si è scorag­ giata; è, inoltre, spaventata da ogni nuovo rapporto, dalla possibilità di sbagliare nella scelta e dalla paura di venire ingannata. Certo, si può dire che Anna Claudia, da bambina, ma purtroppo anche da adulta, pur di non perdere il rapporto con il padre si è sottomessa ad una relazione di sfruttamento, facendosi, appunto, usare dal padre come meccanismo regolatore dell'ansia, oppure, se si preferisce, come oggetto-sé.

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Anna Claudia ha sviluppato una personalità dipendente crescendo avvi­ luppata al padre come un'edera intorno al tronco. Si può dire che, nel rap­ porto con un padre che l'ha sfruttata psicologicamente, è diventata dipen­ dente. Sua sorella, che essendo la secondogenita è stata lasciata alla madre, è stata capace di maggiore autonomia. Mi pare che la vicenda di Anna Claudia esemplifichi bene come, se il rapporto affettivo si tramuta in rap­ porto di potere e di sfruttamento, la vittima, a maggior ragione in un rap­ porto bambino-adulto, possa molto facilmente diventare dipendente. Così infatti accade nel caso di donne che hanno subìto durante l'infan­ zia gravi maltrattamenti o abusi sessuali. Esse tendono, da adulte, a metter­ si in situazioni di maltrattamento grave e di rischio - a volte di rischio per la vita - in cui subiscono di nuovo la violenza (mentre, come si sa, i bam­ bini maschi che hanno subìto abuso o maltrattamento tendono, molto più spesso, a diventare abusanti\ È del tutto evidente che più la violenza, il maltrattamento, la trascuratezza, durano (e più sono gravi), maggiori e più gravi saranno gli esiti. Più le persone che provocano il danno sono vicine, anzi intime - come i genitori o il marito o il compagno - più profonda è la lesione; minore lo spazio che la vittima ha per raccontare le sue esperienze, minori la comprensione e il sostegno che riceve, più scompaginante l'effet­ to dell'abuso o del maltrattamento subìto. Ma, nel caso di un legame con un compagno perverso relazionale, e del maltrattamento psicologico che ne consegue, può l'ipotesi del disturbo di­ pendente di personalità rappresentare una generalizzazione che soddisfi la domanda sul perché le donne subiscano? Non ne sono sicura. Penso piutto­ sto che questa possa costituire una risposta parziale. Molte volte le donne che ho incontrato, pur invischiate in relazioni di maltrattamento, erano, al di fuori del legame con il partner, donne decise, realizzate; spesso erano loro a mantenere la famiglia, ad occuparsi dei figli. A volte erano addirittura donne di successo. Non erano donne dipendenti. Avevano avuto precedenti legami con uomini con cui avevano avuto un rapporto paritario. Erano diventate di­ pendenti nel rapporto con quel compagno, avendone subito, giorno dopo giorno e senza comprenderla, l'azione subdolamente demolitrice.

2 Per quali ragioni questo avviene? Sono state fomite diverse spiegazioni. Tra queste mi sembrano verisimili quelle che ne vedono le cause sia nell'identificazione con il ruolo di genere ( dal maschio ci si aspetta una maggiore aggressività, assertività, iniziativa, dalla donna un atteggiamento più accogliente e disponibile), sia nell'identificazione, per il ma­ schio, con il padre, che riveste, più spesso della madre, il ruolo di perpetratore (mentre la figlia si identificherebbe con la madre maltrattata).

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5. Perché le donne subiscono?

Se il concetto di masochismo femminile non è la risposta alla domanda sul perché le donne subiscano (e quella offerta dal disturbo di personalità dipendente lo è soltanto in misura limitata), in quale direzione si deve ri­ volgere lo sguardo? Se non riusciamo a credere che le donne che si rivol­ gono ai Centri Antiviolenza, ma anche agli studi dei professionisti, per la sofferenza derivante da situazioni di maltrattamento siano malate di maso­ chismo, se ciò non coincide con la nostra esperienza, quale alternativa pos­ siamo offrire al comodo passe-partout rappresentato da questo termine e concetto? Le donne che subiscono sono donne sfortunate oppure sono in qualche modo predisposte a subire maltrattamenti e violenze? Come ho sottolineato più volte nel corso di questa esposizione, la vio­ lenza domestica si manifesta lungo una linea continua di gravità crescente. Ad un estremo troviamo la violenza psicologica che si manifesta attraverso il mantenere il controllo ed il potere sulla compagna (spesso anche attra­ verso lo strumento economico}, all'altro estremo troviamo comportamenti fisicamente e sessualmente violenti" che mettono la donna in pericolo per quanto riguarda l'esistenza stessa. Le autrici femministe chiamano "abusi­ vi" tutti questi comportamenti, non riferendosi soltanto all'abuso sessuale, ma all'insieme dei comportamenti lesivi dell'integrità - inclusa l'integrità psicologica - delle donne. Nei casi più gravi di abuso si ha spesso a che fare con donne che sono già state vittimizzate nel corso della loro esistenza - soprattutto nell' infan­ zia - e tendono rimettersi in situazioni di rischio. Si tratta di donne che provengono da famiglie violente nelle quali hanno assistito alla violenza tra i genitori o sono state loro stesse in vario modo abusate. Queste donne non hanno imparato ad essere protettive verso se stesse e, più in generale, portano nella loro struttura di personalità le stigmate del danno subito. È 77

noto infatti come spesso la diagnosi di disturbo borderline sia molto spesso collegata al danno subito da parte di genitori violenti. Ma, come già detto, è il maltrattamento psicologico a costituire l'argo­ mento di questo libro, sono quindi le donne che subiscono violenza psico­ logica. Avendo potuto osservare un numero ormai consistente di donne che hanno subito questo tipo di violenza, ho maturato la convinzione che non si possano individuare in esse tratti comuni che orientino verso una parti­ colare diagnosi psicopatologica, cioè verso una psicopatologia predispo­ nente, mentre si possono vedere, con una certa regolarità, le forme sinto­ matiche degli esiti. Questi ultimi, gli esiti, vanno riconosciuti per potere intraprendere un cammino psicoterapeutico senza fare pesare sulla donna una sorta di colpevolizzazione. A questo proposito è importante sottolineare il concetto di responsabili­ tà. Chi lavora con bambini traumatizzati da comportamenti violenti o ses­ sualmente abusivi da parte di chi si dovrebbe prendere cura di loro, sa che è necessario avere chiaro in mente che la responsabilità non è del bambino - ma del perpetratore - perché l'oscurare questa verità equivale o ad assu­ mere il ruolo del perpetratore stesso o quello dell'adulto non protettivo a cui magari, e senza effetto, il bambino si è rivolto in cerca di aiuto. Equi­ vale a dire al bambino "non è successo niente!" quando è successo invece qualcosa di molto grave, o peggio, equivale a dirgli "è successo qualcosa, ma è anche colpa tua!", il che significa davvero a colludere con la persona che ha commesso abuso. Chi ha subito un abuso, proprio per il fatto di a­ verlo subito, ha un disturbo dell'esame di realtà che gli impedisce, tra le altre cose, di capire di chi sia la responsabilità dell'atto: dell'attore (come si dice nel linguaggio giuridico) o di chi subisce l'azione? Nello stesso modo, lavorando con donne vittime di violenza è bene te­ nere a mente che la responsabilità è del perpetratore, per gli stessi motivi appena accennati a proposito dei bambini traumatizzati. Ciò non significa, ovviamente, avere un atteggiamento buonìsta, gratificante o peggio vendi­ cativo. Non si tratta di essere per la donna ciò che il partner non è stato, di darle ciò che le è mancato. Al contrario, è necessario, con queste pazienti come con gli altri, mantenere chiari i limiti del setting, che sono poi i limiti della realtà. Non si tratta, insomma, di dire nulla di particolare alla donna, ma di avere in mente il piano della realtà e dunque dei diversi ruoli inter­ pretati dagli attori del dramma. La domanda "perché le donne subiscono?" contiene, infatti, una sfuma­ tura di giudizio, come dire che se fossero più furbe o più accorte non subi­ rebbero. Le donne stesse, via via che la loro situazione di maltrattamento si rende più evidente, tendono a colpevolizzarsi per non essere capaci di usci78

re dalla situazione, anzi per esserci cascate. Si deve quindi essere molto attenti, nel prendersi cura di loro, a non avere lo stesso comportamento colpevolizzante del partner abusivo. Anche il termine di masochismo con­ tiene una sfumatura - anzi più che una sfumatura! - di giudizio, ed è, di nuovo, un giudizio negativo, che tende a rovesciare sulla donna la respon­ sabilità: equivale a dire che la donna "subisce perché le piace" - un giudi­ zio che finisce per essere, oltre che falso, rozzamente offensivo.

1. Subire la dinamica perversa Non è possibile rispondere alla domanda sul perché le donne subiscano se non si approfondisce ancora la dinamica del maltrattamento, ponendosi nella prospettiva de1la donna che lo subisce. Ho tratteggiato in precedenza lo scenario di inizio della relazione ed alcune delle sue caratteristiche. Su questa via intendo procedere. Del fatto che "qualcosa non va" la donna può rendersi conto all'im­ provviso, magari in seguito ad un episodio apparentemente insignificante, che però si collega a tanti altri che a questo punto acquistano un senso, an­ che se è un senso inquietante e non chiaro. C'è l'irruzione nel quotidiano di un alone di minaccia, di anormalità, di perturbante - con una parola freudiana, di unheimlich - di qualcosa, cioè, che da familiare diventa stra­ no, estraneo, incomprensibile, minaccioso. Quando ciò avviene, la donna reagisce con disorientamento e confusione. Non riesce a capire la situazio­ ne che si è creata e tende, generalmente, a sentirsene colpevole. È come se in una stanza andasse all'improvviso via la luce. Dopo il primo momento di disorientamento una persona adulta si dà da fare per cercare la cassetta dei contatori e vedere, per esempio, se è saltato il salvavita... Così la don­ na, all'inizio, e a volte per molto tempo, si dà da fare per correggere la si­ tuazione che si è venuta a creare, cercando di modificare il proprio com­ portamento in modo da rendere più facile la convivenza. Le donne possono attingere, nel reagire a questo genere di circostanze, alle risorse dell'educa­ zione ricevuta e al ruolo culturalmente assegnato loro di custodi del focola­ re, tutrici del nido, garanti dell'unità familiare. Mantenere l'unità della coppia e della famiglia è infatti una responsabilità che la società e la cultu­ ra attribuiscono soprattutto alla donna. Un secondo motivo per cui le donne fanno fatica a non sentirsi respon­ sabili risiede nel fatto che così intendono farle sentire i partner che le mal­ trattano. È la arcinota storiella cinese "picchia tua moglie tutte le sere: tu non sai perché lo fai, ma lei sì". Se lui la picchia, allora vuol dire che lei è 79

colpevole. È una logica rovesciata, ma è sempre una logica, cioè qualcosa che dà ordine al mondo, e questo è comunque preferibile al caos, alla con­ fusione, alla totale incomprensione. Si può dire allora che l'assunzione di responsabilità da parte della donna per una situazione che non dipende da lei, è di cui anzi ella è vittima, oltre che coincidere con l'attribuzione di colpa fatta dall'uomo, ha un significato difensivo rispetto all'accettare la dolorosa consapevolezza di una situazione assurda, spiazzante, incompren­ sibile. Sta soprattutto in questi due elementi la spiegazione di un compor­ tamento che potrebbe altrimenti essere chiamato "collusivo". Mi propongo di tornare su questo termine che richiede una discussione a parte. Prima, è utile mettere in evidenza un altro aspetto che contribuisce alla mancata tempestiva comprensione della situazione di abuso da parte della donna che ne è vittima. Come si diceva, sotto l'effetto della violenza, le donne tendono a sentirsi responsabili e a tentare di modificare la situazione modificando il proprio comportamento. Il fatto di assumersi la colpa di quanto avviene rappresenta un meccanismo di difesa inconscio rispetto alla consapevolezza della dolorosa assurdità in cui la relazione è precipitata. Una ovvia conseguenza di tutto ciò - ma è difficile decidere se non ne sia piuttosto una causa! - è rappresentata dalla perdita, nella donna, della sicu­ rezza di giudizio e di critica, dalla perdita di un sicuro esame di realtà. Hartmann (1956) ha definito l'esame di realtà come la capacità di diffe­ renziare ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo, mentr� per Freud il ter­ mine esame di realtà indicava la capacità di distinguere tra idee e percezioni. Il mondo che condividiamo con gli altri, il mondo della famiglia, del lavoro, dell'esperienza quotidiana, la nostra realtà condivisa, cioè, alimenta di con­ tinuo il nostro mondo interno, la nostra realtà psichica, i nostri sentimenti e fantasie, sogni e pensieri. Quando vi è una perdita della condivisione con gli altri, quando la realtà si fa minacciosa e nelle stesso tempo incomprensibile, quando manca, come dirò meglio in seguito, un piano di confronto, allora i pensieri non sono più lucidi, vi è incertezza e smarrimento: si può smarrire, benché transitoriamente, la capacità di fare un sicuro esame di realtà. Giuliana Ponzio (2004), un'autrice che ha una lunga esperienza di lavo­ ro nei Centri Antiviolenza, descrive alcuni passaggi caratteristici delle rea­ zioni delle donne alle situazioni di maltrattamento. Uno di questi è costi­ tuito, appunto, da quella che Ponzio chiama "la perdita del punto di vista". "Riuscire a conservare il proprio punto di vista ha a che fare con la consapevo­ lezza e la capacità di scelta, vuol dire avere un'identità; perderlo, non riuscire più ad essere certe, essere indotte a pensare che solo l'altro sia il detentore della verità significa diventare deboli e incerte, muoversi in un territorio insicuro, perdere

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consistenza e indebolire la propria identità. Eppure questa perdita nel maltratta­ mento è condizione per sopravvivere, è un accadimento interno di cui le donne non sono consapevoli perché avviene lentamente, a piccole dosi, mascherato e co­ perto dalla relazione affettiva" (p. 99).

Un'altra ragione per cui le donne perdono il loro punto di vista, la luci­ dità del giudizio su ciò che sta accadendo, è rappresentata dall'isolamento in cui spesso la relazione abusiva le ha confinate. È una caratteristica delle famiglie con legami perversi quella di vivere nell'isolamento e nella segre­ tezza. Questa è, di nuovo, un 'imposizione del partner perverso, che spesso, come si è già accennato, è un uomo "al di sopra di ogni sospetto". Può es­ sere un professionista stimato, un artista, un uomo di successo. È infatti nient'altro che uno stereotipo fuorviante quello per cui tali comportamenti si debbano riscontrare in persone di basso livello economico, sociale o cul­ turale. Molto spesso è vero il contrario, e il fatto che il compagno sia, spes­ so, un uomo che gode di buona reputazione rende il compito di fare chia­ rezza sulla propria situazione ancora più difficile per la donna, così come rende ancora più penoso, fino a diventare impossibile, il parlare con altri dei problemi della coppia, perché questo significherebbe rendere nota l'altra faccia di lui, quella che nessuno conosce. "Non posso raccontare a nessuno come lui si comporta con me, dice Nadia che da tre anni ha un nuovo compagno, non mi crederebbero e, soprattutto, non mi va di fare sapere come lui è veramente ... Non lo posso rovinare ... ". Così Nadia non parla con nessuno del fatto che si è ritrovata in un rapporto che somiglia sempre più a un incubo, perché lui, qualunque cosa lei faccia, è sempre scontento, la rimprovera per ogni minuzia, anche se lei non riesce mai a capire che cosa avrebbe dovuto fare al posto di ciò che ha fatto, che cosa va bene e che cosa va male... Lui è diventato una specie di padrone: duro, inflessibile, ferocemente critico verso di lei, i suoi interessi, il suo lavoro, le persone che lei frequenta, anzi frequentava, perché, per compiacere il compagno, per "rabbonirlo", ha smesso di frequentarle. Però, in questo modo, Nadia è sola, non ha nessuno con cui confron­ tarsi, le manca un piano di realtà - della realtà condivisa con gli altri, che si con­ trapponga ali' incubo in cui si è ritrovata. La sua confusione e la perdita della ca­ pacità di giudizio sulla situazione sono una conseguenza del suo isolamento. Nadia è isolata anche perché sta tentando di essere protettiva verso il suo com­ pagno. Cerca di proteggerlo, appunto, dalle conseguenze - di cui lei ha cominciato ad accorgersi da poco - che il carattere di lui determina nei rapporti con gli altri. Lui è un uomo con poche relazioni, nessuna amicizia e un atteggiamento arrogante verso gli altri. Lei si è a poco a poco accorta di questo ed ha cercato di tessere di nuovo le trame lacerate, o forse inesistenti, delle relazioni di lui. Cerca di dare vita al mondo di lui, senza rendersi conto che è uno sforzo per lei dannoso perché la stessa tela del­ la loro relazione si sta lacerando - e, insieme, è lei stessa a venire lacerata.

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Ponzio (2004) fa notare come spesso le donne sono protettive con il lo­ ro compagno come se si trattasse di un figlio. "Nelle sue strategie di coping 1 , la donna è( ... ) tutta concentrata sul maltrattan­ te e sembra non avere molto spazio per altro. Il partner diventa quindi il figlio che bisogna proteggere e scusare, quello a cui dedicarsi perché 'cresca' o 'diventi re­ sponsabile' o 'risolva i suoi problemi', quello che deve essere sempre accudito a tutti i costi ... " (pp. 145-146).

È insomma come se la donna accettasse il ruolo assegnatole dal compa­ gno: quello di essere nient'altro che un suo oggetto, che lui può far muove­ re a suo piacere, come un burattinaio fa con il burattino. Ho cercato di spiegare, fino ad ora, i motivi di tutto ciò. Mi sembra, a questo punto, di dovere affrontare un'obiezione che potrebbe essermi rivolta. Si tratta del­ l'argomento, che ho già anticipato più sopra, della collusione.

2. La collusione Potrebbe dirmi infatti un mio ipotetico interlocutore: "Abbiamo rinun­ ciato al concetto di masochismo femminile, alla spiegazione, cioè, del comportamento delle vittime in termini di piacere della sofferenza. Tutta­ via, il fatto che le donne permangano, a volte per molti anni, in relazioni di abuso, fa pensare che esse colludano con i partner, diventandone oggetti­ vamente complici". Anche se non sono d'accordo con questa obiezione, anzi, soprattutto perché non sono d'accordo, mi sento obbligata dalle esi­ genze della logica a chiarire la mia posizione. Il termine collusione, per il Vocabolario della Lingua Italiana "Il Con­ ciso" ( 1998), ha il significato di "Intesa clandestina fra due o più persone per costituire un fine illecito mediante il tradimento della fiducia di terzi". Nel termine della lingua italiana è dunque implicito il senso di un'intenzio­ ne condivisa, benché segreta, verso uno scopo. È, dunque, sinonimo di complicità. In questo senso il termine, applicato alla donna che subisce violenza, ha il significato di un giudizio negativo e moralistico. In psicoa­ nalisi il termine - che tra l'altro, pur essendo molto usato, non compare in nessun dizionario psicoanalitico - conserva la sfumatura moraleggiante e I Con il termine "coping" vengono indicate tutte le strategie che le donne mettono in at­ to per resistere nella relazione di abuso (vedi Ponzio 2004, p. 128). È evidente che si tratta di strategie disfunzionali il cui risultato è quello di permettere alla donna di rimanere più a lungo nella situazione e nel ruolo di vittima.

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può indurre a pensare che la donna abbia la sua parte di responsabilità che è difficile distinguere dalla colpa - per la situazione in cui si trova. Si parla infatti di collusione quando si vuole indicare una sorta di complicità tra analizzando e analista contro il lavoro analitico, per evitarne cioè la fa­ tica e il risultato. Nel caso dei rapporti di coppia che portano il marchio della perversio­ ne, il perverso relazionale fa vivere la donna in un mondo rovesciato, sot­ tosopra, di cui, per molto tempo, la donna fa fatica a rintracciare le coordi­ nate. Paralizzata dallo sguardo del serpente, non riesce a trovare l'uscita, a distinguere il sopra dal il sotto, il davanti dal dietro. Il sovvertimento della logica e della verità, attuato dal perverso, rende la donna incapace di capi­ re, e contribuisce al1a sua difficoltà di interrompere la relazione. Ciò che potrebbe venire chiamato collusione, nelle donne con partner maltrattanti, non è, di nuovo, che uno degli innumerevoli esiti del maltrattamento. Se si sostiene che la confusione, la perdita della capacità di giudicare, il colpevolizzarsi, l'essere protettiva con il partner, tutti gli elementi, cioè, che sono stati descritti come conseguenze dell'abuso, rappresentano i modi e le forme del meccanismo della collusione della donna verso il compagno, allora si scambiano - di nuovo! - le conseguenze per le cause. Inoltre, l'adottare l'ipotesi della collusione equivale ad assumere un atteggiamento di sospetto e di colpevolizzazione nei confronti della vittima, rendendo i­ nefficace la relazione terapeutica.

3. L'ambiguità Silvia Amati Sas (1992), una psicoanalista che ha lavorato con vittime della violenza politica in Argentina, persone sopravvissute all'esperienza di essere desaparecidos, ha descritto alcuni meccanismi di difesa che ven­ gono messi in atto in situazioni estreme. Tra questi, l'autrice cita l'ambi­ guità, un tipo di difesa che, per come mi pare che l'autrice la intenda, si può osservare anche nelle vittime della violenza domestica. Per definire il concetto di ambiguità Amati Sas prende spunto da Blejer, che lo ha descritto come una fase normale e molto precoce del1a vita dell'individuo, caratterizzata da indifferenziazione tra sé e l'oggetto; tale fase viene superata, ma aree di ambiguità persistono per tutta la vita, circo­ scritte e, per dire così, collocate in certi legami che danno sicurezza. Le persone "depositano" come dice Blejer, l'ambiguità nelle relazioni familia­ ri, ma anche in quelle sociali. La famiglia, le relazioni di coppia, come le istituzioni del mondo sociale, finiscono per contenere le proiezioni di parti 83

infantili, indifferenziate di noi, e, contenendole, ci danno sicurezza, c1 permettono di essere e di mostrarci adulti. Ma che cosa succede quando il mondo esterno, la vita della nazione o le relazioni famigliari vengono sovvertite in modo catastrofico? Amati Sas dice che l'ambiguità proiettata deve venire reintroiettata, e diventa così de­ stabilizzante. La persona che non può più disporre di legami nei quali pre­ cedentemente collocava le sue parti infantili, indifferenziate, mostra i sin­ tomi dell'ambiguità non più contenuta. "In situazioni estreme, catastrofi­ che, diventare ambiguo costituisce una difesa che pennette un'accettazione non conflittuale della realtà esterna per come essa si presenta" (p. 330). La persona diventa allora adattabile, malleabile, permeabile e a-conflittuale. È confusa, perplessa, incapace di reagire, e giunge a creare un legame con l'aggressore, a familiarizzare con lui. Così persone sequestrate, incarcerate, torturate finiscono con il trovare proprio nei loro carcerieri una sorta di legame di dipendenza affettiva. L'autrice ci mostra, in modo molto intenso e toccante, come la strada suc­ cessiva dei sopravvissuti passi attraverso un forte senso di vergogna per l'ambiguità - di cui non erano certamente colpevoli. La vergogna in questi casi rappresenta il raggiungimento di una rinnovata capacità di discrimina­ re, di fare un esame di realtà, e, di conseguenza, del riconoscimento - che produce un forte senso di umiliazione - della propria realtà di vittima (con l'ambiguità a questa connessa). Sebbene non si tratti di situazioni così estreme, tuttavia credo che il concetto di ambiguità possa essere utile per aiutare a comprendere anche il comportamento della vittima di relazioni di abuso. Ho più volte accennato al fatto che le donne all'inizio sembrano non capire la situazione che stan­ no vivendo, sono confuse e perplesse. Amati Sas dice che il soggetto "am­ biguo", finché è tale, non percepisce la propria ambiguità, che è, magari, evidente ad un osservatore esterno. Nelle situazioni di maltrattamento grave e protratto, in cui è isolata e sola con un compagno di cui non capisce più il comportamento, ma che le fa paura, si può dire, con Amati Sas, che la donna reagisce reintroiettando le proprie parti indifferenziate, infantili, precedentemente proiettate sul compagno. Ma così facendo, per continuare a usare la terminologia del­ l'autrice, la donna diventa "ambigua", cioè malleabile, confusa, incerta e dipendente dal perpetratore. Se, insomma, nelle relazioni normalmente compensate o in equilibrio, possono trovare posto proiezioni reciproche di parti infantili e primitive, questo meccanismo, nella relazione con un narcisista perverso, va rapida­ mente in crisi. Quest'ultimo non può contenere le proiezioni della compa84

gna, in realtà non può contenere nessuna parte di lei. La può, anzi la vuole, possedere, controllare, ma non è disposto a contenerla. Il suo meccanismo di difesa consiste nel diniego dell'alterità e della relazione. Il trauma prodotto dal comportamento perverso del compagno, quindi, costringe (per così dire, dal momento che si tratta di operazioni largamente inconsce e dunque inferite) la donna ad una reintroiezione che la rende fragile e ambigua, e, in conseguenza, ancora più confusa ed incerta, fino a pensare, in modo paradossale, che quello con il maltrattante costituisca un legame che, comunque, le dà sicurezza. Un legame, per di più, che molto spesso è rimasto l'unico legame che la donna abbia. Ornella è sposata con un uomo che la maltratta, la offende e la denigra in mo­ do sistematico anche davanti alle figlie. Spesso la spaventa con le sue minacce, proferite con un tono molto violento e cupo. Capisco che quello di Ornella è un mondo molto buio, un labirinto di cui lei non riesce, per il momento, nemmeno a immaginare un'uscita. Al contrario, sembra che i suoi sforzi siano tutti diretti a compiacere il marito, a evitare scoppi ed offese, ma anche, in un certo senso, a far­ lo contento, come se davvero lui fosse, nella fantasia di lei, la fonte e l'origine del­ la sicurezza, mentre, al contrario, è la causa della sofferenza e dello stato di conti­ nua ansia. Ornella è presa dentro la rete della perversione, la sua capacità di com­ prendere i reali rapporti tra le persone - tra lei e il marito e le figlie - è stata incri­ nata; è indebolita, dipendente, incapace per il momento di azione autonoma. Se deciderà di compiere un percorso di uscita dal maltrattamento dovrà passare attra­ verso penosi vissuti di vergogna, da cui, comunque, già adesso si sente minacciata.

4. Spostare il limite del possibile A questo punto non posso fare a meno di soffermarmi, anche se breve­ mente, su di un caso che mi ha offerto la possibilità di capire ed esplicitare un meccanismo, a mio parere fondamentale, che scatta spesso nelle donne che subiscono per la prima volta una grave violenza psicologica da parte del proprio partner. Al contrario di quanto avevano sino ad allora creduto, queste donne non accennano nemmeno un moto di ribellione, e prendono la cosa quasi con distacco, come se fosse un incidente trascurabile che non mette in discussione la continuazione del loro rapporto. Questo è talora so­ lo il primo passo su di un piano inclinato, ripido e scivoloso, che può con­ durle in una trappola senza più uscita. A partire da quel primo "incidente" minimizzato, infatti, è probabile che accettino senza ribellione tutto il se­ guito e il crescendo di violenze di cui saranno vittime.

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Sabina è sposata da diversi anni con un uomo che ha sempre considerato supe­ riore a sé (nonostante lei stessa sia una persona di notevoli capacità� risorse). Egli è infatti una persona molto affermata, intelligente, gran parlatore. E, nello stesso tempo, in famiglia, autoritario e intransigente, tanto che Sabina si trova spesso a dover mediare tra lui e i figli. Tutto sommato però la vita familiare procede in mo­ do abbastanza soddisfacente, finché, in corrispondenza di uno snodo della carriera del marito e del sopraggiungere dell'adolescenza dei figli, Sabina comincia a per­ cepire dei segnali di allarme. Il marito diventa ogni giorno più critico nei confronti di lei, perde la pazienza per un nonnulla, la rimprovera di non sforzarsi di com­ prenderlo, ma quando lei gli chiede di aiutarla a capire, lui le risponde che è inuti­ le ... se lei non capisce da sola. La donna dapprima si allarma, poi raddoppia i suoi sforzi per superare la crisi (di cui dentro di sé attribuisce la causa al momento dif­ ficile e importante della carriera di lui). Dopo un po' di tempo, però, viene a cono­ scenza del fatto che il marito ha cominciato una relazione con un 'altra donna. Ne rimane molto ferita e offesa. Tuttavia non diminuisce gli sforzi per venire a capo della situazione di coppia. Sforzi che sembrano però destinati al fallimento. Lui la critica in modo sprezzante ogni volta che lei tenta di parlare del loro rapporto, at­ tribuendo a lei, per quanto con frasi sibilline, tutta la colpa della situazione presen­ te. "È colpa tua, del tuo carattere impossibile, sei come tua madre, non mi hai mai capito..." sono le litanie che si sente ripetere ogni volta. In una di queste circostan­ ze, Sabina, esasperata di non riuscire mai a farsi capire, né a farsi dire da lui qual­ che cosa di chiaro, prima alza la voce e poi si mette a piangere. Viene allora inve­ stita da una raffica di insulti, di offese e di minacce espresse con parole oscene e volgari. È una scena - mi dirà poi - che sembra non finire più, che la spaventa e la costringe la silenzio. Successivamente, parlando con me in seduta di quanto è accaduto, la donna commenta che non avrebbe mai pensato, prima, di poter accettare che qualcuno la trattasse come aveva fatto il marito. "Pensavo - mi dice - che se qualcuno mi a­ vesse trattato in modo così brutale e offensivo, avrei rotto il rapporto, di chiunque si fosse trattato. Oggi che è accaduto ... mi sembra come se fosse accaduto ad un'altra persona, e a me pare di potere andare avanti con lui... ma che cosa mi sta succedendo?"

Questo caso esemplare mostra con chiarezza quello che a me sembra essere uno snodo fondamentale per capire il comportamento di tante vitti­ me rassegnate. Io credo che il concretizzarsi della violenza, fisica o psico­ logica, tra i tanti suoi effetti maligni ne abbia uno di importanza decisiva, finora non abbastanza sottolineato: esso infrange il limite di ciò che i par­

tner considerano consensualmente e tacitamente leci(o nel loro rapporto.

Ma non si limita ad infrangerlo: in realtà, il massimo del suo effetto mali­ gno sta nel fatto che questo evento sposta il limite del possibile, rende cioè attuale la possibilità di superare un tabù. Da quel momento in poi, il patto tacito tra i partner è. modificato, nel senso che il loro rapporto include la possibilità che l'uno faccia violenza all'altro. E la vittima accetta tutto que86

sto in un modo che, prima, non avrebbe mai lontanamente previsto, imma­ ginato, accettato. Com'è possibile che ciò avvenga? L'umiliazione, imprevedibilmente e inaspettatamente subita, obbliga la donna, come è accaduto a Sabina, a fare i conti con una nuova immagine di sé: lei si è fatta umiliare, lei ha subito passivamente la violenza del partner. Ora non è più, come poteva invece pensare di esserlo in precedenza, una persona che non si farà umiliare, bensì una persona che ha permesso che la umiliassero. Se il gesto violento non riceve, da parte del1a vittima, un risposta immediata, decisa, drastica e mutativa2 , il "limite invalicabile" può essere valicato una seconda, una ter­ za, una quarta volta e così via, senza più limite. Quando dice: "Mi sembra come se fosse accaduto a un'altra persona", Sabina descrive un meccani­ smo di difesa messo in atto per resistere nella situazione di maltrattamento e consistente ne11o spostare l'esperienza dolorosa e umiliante in una parte di sé sentita, per così dire, come meno propria. (Meccanismi dissociativi di questo genere sono, come si sa, molto 'frequenti come risposta all'abuso protratto subito durante l'infanzia e danno origine alla psicopatologia che si sviluppa in età adulta).

5. Lei dubita, lui sa Ho parlato prima di ambiguità, di sensazioni di confusione, della perdi­ ta della capacità di fare un sicuro esame di realtà. Queste mi sembrano in­ fatti tra le caratteristiche più comuni, e più inquietanti, della relazione con un narcisista perverso. La donna che si trova a vivere in un rapporto che giorno per giorno si manifesta come più strano e incomprensibile, comin­ cia a dubitare di sé. Comincia a tessere un angoscioso dialogo con se stes­ sa, in cui le constatazioni dell'evidenza dei fatti, "lui ha fatto questo e quello, non lo si può negare ... ", si alternano al tentativo di convincersi di non avere capito bene, di avere frainteso, di non essere riuscita a sintoniz­ zarsi con ciò che lui voleva dire davvero. C'è, in molti casi, una sorta di continua discussione interiore, che è tan­ to più logorante in quanto avviene in mancanza di confronti con voci e­ sterne alla coppia, una discussione in cui la donna cerca di pensare alle 2 La risposta decisa a cui faccio riferimento è soprattutto una risposta interiore del sog­ getto al gesto violento. Può esplicitarsi, in pratica, in vari modi. Molto spesso l'unico mez­ zo possibile è rappresentato dall'allontanamento.

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buone ragioni di lui - per non dovere pensare, o meglio, per difendersi dal pensare, che lui è veramente come lei a tratti lo vede - perché quello che vede le fa paura e l'addolora. D'altronde, mentre lei si consuma nella sua ruminazione solipsistica e angosciata, lui sembra non avere dubbi ma solo certezze: lui ha tutte le ra­ gioni, mentre tutti gli altri sbagliano - inclusa lei, ovviamente. Lui sa, co­ me dice Hirigoyen, "Lui ha opinioni radicali su tutto: la politica, il divenire del mondo, che è fesso e chi no, quello che si deve e non si deve fare ... La maggior parte delle volte si ac­ contenta di dare l'impressione di sapere, cominciando una frase che lascia in so­ speso o addirittura scuotendo semplicemente la testa in silenzio" (p. 17).

Lui davvero ha opinioni su tutto e soprattutto mette in atto, nello stesso tempo, una costante squalifica delle opinioni di lei e delle persone con cui lei ha, ma spesso si deve dire aveva, rapporti d'amicizia o di parentela. Lei combatte una sua silenziosa battaglia: da un lato cerca di resistere a quelle che le sembrano essere grossolane falsificazioni della realtà e dei rapporti tra le cose, ma dall'altro cerca di avvicinarsi a lui per capire il suo modo di pensare, per verificare se davvero c'è qualcosa che a lei sfugge e che lui vede meglio di lei. "Certo, lui è un po' strano, ma a volte è più acuto di al­ tri!" mi sono sentita dire a volte da alcune donne. Spesso, a ben vedere, questo essere "più acuto" non è altro che un essere più disinibito nel giudi­ care, più tranchant, più aggressivo, e quindi, apparentemente, più sicuro. Clara ha molti amici e anche una famiglia di origine piuttosto affiatata. Quando conosce Alberto lo presenta agli amici e ai familiari. Lui viene accolto con cordialità e le cose sembrano andare bene... ma solo per poco. Ben presto Alberto comincia a squalificare le persone dell'entourage di Clara: "tua mamma è arteriosclerotica!", il fratello è presuntuoso, la sorella stupida ... insomma ce n'è per tutti. Per Clara diven­ ta difficile frequentare i suoi insieme ad Alberto, ma anche quando lo fa da sola la critica è sempre pronta. Clara all'inizio tenta di resistere, di discutere con Alberto, di cercare di capire i suoi punti di vista. Si scontra però con l'impossibilità di discutere e quindi di capire. L'unica possibilità è uniformarsi e magari credere che in quello che lui dice c'è qualcosa di vero e che magari è lei a sbagliare. "Il pensiero perverso, dice Racamier (1992), può diventare incredibilmente e­ sperto: tutto volto all'agito, all'espropriazione e alla manipolazione, abile ad uti­ lizzare i gusti e le tendenze, le debolezze e le qualità degli altri, mira solo ai fini, ponendo poca attenzione ai mezzi; così sarà socialmente efficace, ma il piacere di prevalere sarà raggiunto solo a detrimento del piacere di pensare" (p. 3 14, corsi­ vo nel testo).

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Sì, perché, se Clara si arrovella, dubita, discute con se stessa, e arrovel­ landosi perde la lucidità e finisce con il pensare che Alberto forse ha ra­ gione, lui invece non si pone nessun problema, semplicemente agisce. A lui non importa niente, come dice Racamier, della verità, "per lui conta so­ lo l'efficienza" (p. 314), cioè il risultato, che consiste nell'imporre il suo punto di vista, e quindi il suo potere. Dice ancora Racamier: "Il nostro pensiero, quando è al suo meglio, si tesse come un involucro per cir­ condare, aureolare il suo oggetto senza per questo immobilizzarlo, il pensiero per­ verso (invece) non mira che a imballare e richiudere, confondere e ferire la preda in una rete di controverità e di non-detto, di allusioni e di menzogne, di insinuazioni e di calunnie. È un pensiero che serve a fare intrusione nelle preoccupazioni altrui, un pensiero-veleno, un pensiero per dementalizzare, svalorizzare e squalificare l'altro, un pensiero tutto agiti e manovre, che frammenta, divide e disorienta" (p. 315). Il pensiero perverso, come dice Racamier, è un pensiero che non pensa. Si limita ad imitare il pensiero. Non scava, non approfondisce. Ha paura della propria interiorità ed è perciò sterile. Quello che può fare è parassita­ re il pensiero altrui, svalutandolo, però, nello stesso tempo. Tuttavia, in un primo momento - ma sappiamo che il primo momento può durare molto a lungo - la forma del pensiero è sufficiente ad ingannare, anche perché è apparentemente sicura, indefettibile, rigida. Dunque il narcisista perverso ha bisogno di una vittima che pensi per lui, che svolga per lui del lavoro psichico, un "negro" che lui non ringrazierà mai, proprio perché non può fargli sapere che ne ha bisogno. Questo "pensare per lui, al suo posto'' può costituire all'inizio, per la donna, una sorta di gratificazione, a volte parzialmente consapevole, altre volte inconscia, un modo per sentirsi utile e quindi importante, che può funzionare da cemento del legame. La donna, catturata nella rete, come la mosca nella ragnatela, si dibatte e si confonde. Molte volte, come Clara, prima di rendersi conto di come stanno veramente le cose, si ammala, cioè comincia a mostrare sintomi di vario genere.

6. La malattia Spesso la sofferenza connessa all'essere vittima di maltrattamenti psi­ cologici si traduce in veri e propri sintomi. Si può trattare di sintomi psi­ chici o psicosomatici. Molti disturbi da attacchi di panico, molte manife­ stazioni ansiose con fobie associate - specialmente claustro e agorafobia sintomi ossessivo-compulsivi, somatizzazioni (palpitazioni, nodo alla gola, 89

sudorazione), insonnie croniche, disturbi deIl 'umore, trovano la loro origi­ ne in rapporti protratti di maltrattamento psicologico. Si ha spesso l'im­ pressione che questi uomini riescano a fare ammalare le loro compagne anche fisicamente. Molto spesso, infatti, si riscontrano sintomi quali ga­ stralgie fino alla gastrite e all'ulcera, disturbi dell'alvo, aumento o perdita di peso, facilità ad ammalare (es.: prendersi di frequente l'influenza), cefa­ lee, irregolarità mestruali, disturbi pressori, mialgie, dolori osteo-articolari, ipoacusie, disturbi dell'olfatto, alopecia, disturbi su base auto-immune, ecc. - ma poiché quello tra lo psichico e il somatico rimane ancora "un mi­ sterioso salto", non mi addentrerò in quest'ultimo argomento. La diagnosi di disturbo post-traumatico da stress, a rigore, non dovreb­ be essere presa in considerazione nel caso di sintomi psichici associati a maltrattamento, in quanto, per porre tale diagnosi, è necessario che l'even­ to traumatico sia di natura estrema, implichi cioè una minaccia per la vita. È da notare tuttavia che il DSM-IV avverte che "Il disturbo può risultare particolarmente grave e prolungato quando l'evento stressante è ideato dall'uomo", e che "La probabilità di sviluppare questo disturbo può au­ mentare proporzionalmente all'intensità e con la prossimità fisica al fattore stressante" (p. 469). Il manuale cita, tra gli eventi stressanti, combattimenti militari, aggressione personale violenta, rapimento, essere presi in ostag­ gio, attacco terroristico, tortura, catastrofi naturali, incarcerazione come prigioniero di guerra o in campo di concentramento... Dal punto di vista della classificazione diagnostica, stando ai criteri del DSM-IV, si dovrebbe, eventualmente, fare diagnosi di disturbo dell'adatta­ mento, che viene definito come "lo sviluppo di sintomi emotivi o compor­ tamentali clinicamente significativi in risposta a uno o più fattori psicoso­ ciali stressanti identificabili". Tali fattori stressanti, in questo caso, posso­ no essere di qualsiasi livello di gravità. Essi possono essere ricorrenti o continui. Il manuale fornisce inoltre un elenco di sottotipi e specificazioni di questo disturbo: I) con umore depresso; 2) con ansia; 3) con umore de­ presso e ansia misti; 4) con alterazioni della condotta; 5) con alterazioni miste dell'emotività e della condotta; 6) non specificato (include lamentele fisiche, ritiro sociale, inibizione sul lavoro, ecc.). È da notare che i disturbi dell'adattamento sono associati ad un aumentato rischio di tentativi di sui­ cidio e di suicidio (attuato). Essi inoltre possono complicare il decorso del­ la malattia in soggetti fisicamente malati. Un elemento caratteristico, che mi sembra quindi da prendere in consi­ derazione, è costituito dalla "attenuazione contemporanea della reattività generale (riduzione dell'interesse in attività significative, sentimenti di di­ stacco o di estraneità verso gli altri, affettività ridotta, sentimenti di dimi-

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nuzione delle prospettive future)": sintomi questi, che fanno parte del cor­ redo del disturbo post-traumatico da stress, e che sono però spesso presenti come esito del maltrattamento protratto. Preoccupazioni classificatorie a parte, sono molte le donne che chiedo­ no una psicoterapia o una psicoanalisi, oppure un trattamento psichiatrico, per sintomi di tipo ansioso, fobico, depressivo, ma anche per stati transitori di depersonalizzazione, o a volte per disturbi delle condotte alimentari, e che, più sordamente e profondamente, soffrono per relazioni protratte di tipo abusivo e violento.

7. Verso l'uscita dal tunnel "Nomina sunt consequentia rerum", recita un motto latino. I nomi sono una conseguenza dei fatti, vengono dopo questi. Si può dire, all'inverso, che, se i fatti non hanno un nome, rimangono senza esistenza. Così è nel caso del maltrattamento e dell'abuso. Molte volte le donne che si rivolgono agli psi­ coterapeuti, sanno di soffrire, ma non sanno di essere vittime di maltratta­ mento e possono essere elusive su di esso. È come se non sapessero che que­ ste vicende hanno un nome e possono perciò venire identificate, descritte, raccontate e comprese. Lo stesso può valere, a volte, per gli psicoterapeuti. Questi ultimi possono non essere capaci di sintonia con questo tipo di vicen­ de. E possono quindi colludere - qui è il caso di usare questo termine! - con l'abitudine delle donne a minimizzare il comportamento maltrattante del partner - un'abitudine, da un lato, indotta dal partner, e, dall'altro, assunta allo scopo di riuscire ad andare avanti con lui. (Come gli altri comportamenti che costituiscono l'insieme delle strategie di coping, anche quest'abitudine è, con tutta evidenza, controproducente per la donna: permette infatti il per­ durare del suo stato di confusione e di incapacità a distinguere tra il proprio giudizio e quello del compagno che la maltratta. Prolunga, insomma, la sof­ ferenza prodotta dal permanere in una relazione di abuso). Come è vero in medicina, è vero in ogni campo che non si possono fare le diagnosi che non si conoscono; è quindi importante che tra gli psichiatri, gli psicologi, gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti sia diffusa una approfon­ dita conoscenza del fenomeno in questione. Perché molto spesso, oltre, o magari insieme, ad altri tipi di intervento e di aiuto3, le donne possono sen3 I centri contro la violenza hanno un protocollo di intervento che prevede colloqui di accoglimento, eventualmente collaborazione con i servizi psichiatrici e sociali, gruppi di auto-aiuto, ecc. Vedi Ponzio (op. cii.).

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tire di avere bisogno di una psicoterapia. Come ho già accennato, non cre­ do che siano necessarie modifiche della tecnica: penso che, sia la psicoana­ lisi, che le psicoterapie ad orientamento analitico, siano utili nella delicata fase di uscita dal maltrattamento. E credo, nello stesso tempo, che sia ne­ cessario che lo psicoanalista o lo psicoterapeuta siano sensibili a questi problemi e avvertiti del fatto che esiste una fenomenica specifica che con­ nota il campo del maltrattamento e i suoi esiti, così come esistono, nel trat­ tamento di donne che lo hanno subito, specifiche difficoltà. Accennerò ad alcune di queste, servendomi ancora una volta di un esempio. Renata ha chiesto una psicoterapia psicoanalitica per disturbi d'ansia. Da alcu­ ni anni, infatti soffre per una sintomatologia varia: ansia, soprattutto la sera, palpi­ tazioni, nodo alla gola, preoccupazioni di tipo ipocondriaco e un atteggiamento fobico nei confronti di ogni farmaco. Una decina di anni fa si è rivolta ad uno psi­ chiatra per la stessa sintomatologia e ha ricevuto una prescrizione per un tratta­ mento misto con ansiolitici ed antidepressivi. Non è mai tornata dallo psichiatra, non ha mai assunto gli antidepressivi, ma, nel corso del tempo si è autosommini­ strata, quando stava proprio male, dosi minime di ansiolitici. Nel corso dei primi colloqui mi parla dei suoi disturbi e della sua paura dei farmaci. Vorrebbe che la consigliassi perché, pur stando male, non vuole una prescrizione farmacologica... ma non sa nemmeno se chiedermi una psicoterapia: "Magari non ho niente..." sus­ surra, come a sottintendere che non vorrebbe disturbarmi inutilmente. Con un po' di aiuto, riesce a formulare una domanda: ha bisogno di una psico­ terapia per disturbi d'ansia e dell'umore; è amareggiata dalla sua vita familiare: i figli, pur volendole bene, stanno attraversando un periodo difficile e il marito... beh, quanto a lui, lei non sa che cosa pensare. È un professionista affermato, sti­ mato, un uomo ligio al dovere ... però... forse lei ha sbagliato a sposarlo, forse non era la donna giusta per lui. Prendiamo accordi per cominciare una psicoterapia psicoanalitica a due sedute la settimana, vis à vis. Renata ha appena superato i quarant'anni, e lavora come designer per un'a­ zienda di pubblicità. È stimata dai colleghi e ha buoni rapporti nell'ambiente di la­ voro. È figlia unica. Suo padre ha sempre sofferto per la ricorrenza di disturbi de­ pressivi gravi, la mamma, morta da qualche anno, è sempre stata a disposizione del marito. Tuttavia verso la figlia entrambi i genitori sono stati affettuosi ed atten­ ti, salvo il fatto che, durante gli episodi depressivi il padre diventava affettivamen­ te inaccessibile e non disponibile ad alcun tipo di comunicazione. Renata si è spo­ sata ancora giovane, forse anche per venire via dalla casa dei genitori, in un perio­ do in cui il padre stava attraversando un episodio depressivo particolarmente grave e prolungato. Era innamorata del marito, di alcuni anni più anziano di lei. Nelle prime sedute si sofferma in modo particolare sui suoi disturbi d'ansia che durano ormai da molti anni; ha avuto la sensazione, parlando con il primo psi­ chiatra, che non sarebbe mai riuscita a liberarsene (dell'ansia) e che avrebbe fatto meglio, quindi, a cercare di convivere con essa. Adesso però è stanca, e ha accetta­ to il consiglio di un'amica, che sta facendo una psicoterapia, di provarci anche lei.

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Nelle prime sedute fa alcuni collegamenti fra l'ansia che prova oggi e il clima che si respirava nella sua casa quando il babbo stava male: la paziente ricorda la pre­ occupazione della mamma se il babbo tardava a rincasare e l'attenzione che, sia lei che la mamma, ponevano nel non disturbarlo, non fare troppo rumore, lasciarlo riposare, non porgli problemi, ecc. Soltanto dopo qualche mese Renata è tornata a parlare della sua famiglia attua­ le. Ha cominciato raccontando della figlia tredicenne e del suo carattere oppositi­ vo, in particolare con il padre. Suo marito - mi dice - non è mai stato 'paterno': si è sempre sottratto al rapporto con i figli, non li ha mai seguiti, né da piccini, né, successivamente, nella loro carriera scolastica. Era, piuttosto, disturbato dalla loro presenza, dal fatto che potessero fare rumore, che volessero portare in casa degli amici. Lui, da dopo la nascita del primo figlio, ha cominciato a tornare a casa tardi la sera, e così ha continuato a fare in seguito. Al suo ritorno pretende che i bambi­ ni abbiano già mangiato e siano già a letto, ma che la moglie lo aspetti per cenare insieme a lui. Renata è sempre stata sola con i figli e loro non si sono affezionati al padre. In particolare la bambina ha verso di lui un comportamento ostile ed astio­ so. A Renata questo dispiace: ha cercato, qualche volta, di parlarne con lui, ma lui, con il suo fare sbrigativo, ha sempre negato che ci fosse alcun problema. Renata ha smesso di parlargliene, ma si è sentita ancora più sola. Piano piano si disegna il quadro del rapporto coniugale: è un quadro a tinte gri­ gie, la storia di una sofferenza sempre più rassegnata, tanto che non si capisce nem­ meno - Renata non capisce, e all'inizio non capisco bene nemmeno io - di che cosa esattamente si tratti. Dapprincipio la paziente, parlando di questo rapporto, dice che non riesce più a sopportare che lei debba aspettare il marito a cena. Apprendo inoltre che i 1 marito ha con lei un atteggiamento autoritario. Dà per scontato che lei ci sia e che provveda alla casa e ai figli. A cena poi, lui si impadronisce del telecomando e si diverte a passare di canale in canale, rendendo così impossibile qualunque tentativo di conversazione. A meno che non sia lui a volerle comunicare qualcosa come rac­ contare problemi di lavoro. Renata dice che "non ne può più" di cenare tardi la sera e che odia la televisione, ma che non può scontentarlo perché lui si offenderebbe e metterebbe su il muso, stando senza rivolgerle la parola, magari per qualche mese. Quando lui si comporta così, nella casa c'è una tensione da tagliare a fette, e allora lei preferisce evitare... Ci sono stati, fra i coniugi, anche problemi di natura econo­ mica- "malintesi", li chiama Renata. Il fatto è che il marito ha accantonato a proprio nome dei denari provenienti dall'eredità della moglie. La paziente parla di queste vicende poco a poco, come se le ci volesse tempo, e ha una certa difficoltà nel mettere a fuoco questi fatti, a cui comunque non sa dare un nome: si tratta del fatto che il marito ha un carattere difficile? Lui ha sofferto, durante l'infanzia, per una situazione complicata: suo ppdre tradiva la moglie, e non era tenero - per usare un eufemismo - con i figli. Renata sembra molto in sin­ tonia con il bambino sofferente che lui deve essere stato, e mi sembra che proprio il fatto di essere materna con lui le abbia permesso di andare avanti. Tuttora, Re­ nata, "va avanti", anche se con le preoccupazioni per i figli, le frustrazioni nel rapporto coniugale, e la sensazione di non capire perché il marito si comporti co­ me fa: ma che cosa dovrebbe fare lei per rabbonirlo?

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Le cose sembrano procedere, nella psicoterapia, in modo un po' cauto: Renata va avanti piano piano, come se rimandasse l'incontro con qualcosa che la potrebbe spa­ ventare. In questa situazione capita un evento inatteso e imprevedibile: la paziente si accorge, per avere letto un messaggio sul telefono cellulare di lui, che suo marito ha un 'amante. Comincia a questo punto, nella psicoterapia, una nuova fase. Come se la frustrazione provata alla scoperta del tradimento avesse squarciato un velo, Renata ripercorre la storia del suo rapporto coniugale puntando lo sguardo sul comporta­ mento del marito e sulle proprie reazioni. Vengono ricordati e rivalutati, allora, tanti ,risodi che portano inconfondibilmente il segno della perversione: episodi che però, precedentemente, erano stati intesi come il risultato di qualcosa di erroneo o di mal­ destro nel comportamento di Renata stessa. La donna racconta che il marito la tra­ scurava sessualmente e le rimproverava, se lei gliene chiedeva il motivo, di essere grassa, brutta, non desiderabile. Lei aveva, allora, cominciato a fare ginnastica. Ma anche questo non andava bene, perché il marito la prendeva in giro con acrimonia davanti ai figli dicendo che lei e le donne che frequentavano la palestra erano delle vanitose sfaccendate. Tuttavia lui continuava a pretendere di raccontare alla moglie, la sera tardi, i suoi problemi professionali e di avere l'opinione di lei in proposito, pur continuando a fare zapping mentre lei gli parlava. Penso che Renata, quando si era rivolta a me, sentisse già, per quanto in modo preconscio, di stare arrivando alla fine del suo rapporto coniugale. Il fatto di scopri­ re, alcuni mesi dopo l'inizio della psicoterapia, il tradimento del marito, potrebbe fare pensare che una volta stabilita la relazione terapeutica si fosse sentita in grado di affrontare una realtà di cui aveva già una percezione non cosciente. Tuttavia, anche dopo la scoperta del tradimento, ci volle molto tempo per mettere a fuoco le molte­ plici manifestazioni della perversione relazionale e la progressiva perdita della fidu­ cia in se stessa di Renata, il fatto di avere accettato la colpevolizzazione e la svaluta­ zione. Era stata abituata, nella famiglia di origine, ad essere molto paziente con il padre depresso, a farsi carico, insieme alla madre, dei problemi di lui, e le sembrava naturale e non troppo pesante, all'inizio, farsi carico dei problemi del marito. Quan­ do poi, in modo sempre più chiaro dopo la nascita del primo figlio, avevano comin­ ciato a manifestarsi i segni della perversione relazionale, lei all'inizio aveva tentato di modificare il proprio comportamento per accontentare lui, senza rendersi conto che questo compito era comunque destinato al fallimento. Aveva tirato su i figli da sola, con la costante preoccupazione che i bambini non disturbassero il padre e, anche economicamente, aveva provveduto a loro sol­ tanto con le proprie risorse. Per molto tempo non si era nemmeno domandata che cosa stesse succedendo: affrontava le giornate momento per momento, tutta tesa ad evitare che suo marito si inalberasse e pronta invece ad accogliere ogni pur mi­ nimo gesto distensivo di lui come un fatto eccezionalmente buono. Nel corso del tempo avevano cominciato a comparire i sintomi ansiosi e fobici (la paura delle malattie e dei farmaci), e poi, un po' alla volta, si era sentita affettivamente distac­ cata dal marito, per quanto non prendesse in considerazione l'idea di separarsi: giustificandosi con se stessa con il motivo di non togliere ai bambini la famiglia e con l'idea che forse era lei che non andava bene. Nel corso della psicoterapia venne in luce anche il fatto che Renata temeva di do-

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ver dichiarare una sorta di fallimento personale, nel caso il suo matrimonio fosse fini­ to. Inoltre i suoi parenti - e in particolare quelli di lui - se lei si rivolgeva loro accen­ nando alle difficoltà del rapporto coniugale - minimizzavano dicendo: "Lo sai com'è fatto, non te la prendere. In fondo non è cattivo!". Insomma, liquidavano il problema e la lasciavano sola. Lei aveva paura di non riuscire ad affrontare i sensi di colpa che temeva avrebbe provato se avesse lasciato il marito: un po' come se si fosse rifiutata di prendersi cura del padre. L'idea di dover riparare un oggetto difettoso, di essere, si può dire, nata per questo, era, benché inconsciamente, profondamente radicata in Re­ nata. Una volta scoperto il tradimento del marito, la dinamica del maltrattamento di­ venne per lei più chiara,e, con questa, anche le ragioni per cui era rimasta con lui sen­ za prendere in considerazione la propria sofferenza. Tuttavia, la scoperta del tradimento - che, sia detto per inciso, il marito aveva ammesso dichiarando che l'amante gli aveva fatto provare emozioni che la moglie non era mai stata capace di fargli provare - aveva fatto sentire la donna davvero spiazzata. Era come se non potesse accettare il fatto che, dopo avere sopportato le angherie del marito per tanto tempo, fosse un'altra a godersi il premio. Non si capa­ citava che lui potesse scambiare qualcosa di buono, anzi di prezioso, con un'altra, dopo tutto quello che aveva fatto sopportare a lei. Emerse allora la fantasia che ave­ va permesso a Renata di sopportare per tanti anni il rapporto con il marito: quella secondo la quale alla fine ci sarebbe stato un premio, suo marito avrebbe riconosciu­ to le sue buone intenzioni, i suoi meriti, e l'avrebbe amata. Come, pensava da picco­ la, avrebbe fatto il padre, che durante le fasi di depressione si isolava e diventava affettivamente inaccessibile: Renata in quei momenti pensava che, se fosse stata molto buona con il padre, lui l'avrebbe premiata guarendo e volendole bene. Ci volle molto tempo prima che Renata potesse rinunciare al desiderio di un premio immaginario, ad un happy end in cui aveva sperato tanto a lungo. Ci volle anche il fatto che dopo la scoperta del tradimento, il rapporto continuasse, se pos­ sibile, a deteriorasi ancora di più, perché la donna potesse pensare in modo reali­ stico che forse le sue giornate sarebbero state meno tristi e la sua vita e quella dei figli più serena se lei fosse riuscita a porre fine alla convivenza con il marito - so­ luzione a cui lui si opponeva con tutte le forze. Mi chiedevo quale fosse il ruolo che, rispetto ai suoi oggetti interni, io rivestissi nel transfert. Credo che all'inizio Renata temesse di non essere compresa, come dal­ lo psichiatra precedente o dai parenti del marito. Temesse, cioè, che anch'io le po­ tessi dire che doveva curarsi e tirare avanti. Mi ha, successivamente, messo nella po­ sizione della mamma che la incoraggiava a curare il padre: perché in certi momenti ho sentito che, visto che non riusciva a lasciare il marito, sarebbe stato meglio se fosse diventata capace di sopportarlo. In questo modo la perversione allungava la sua ombra anche sulla psicoterapia e rendeva anche me, in qualche modo, una sua vittima4 • Infine, dopo avere subito io stessa l'azione perversa, ho potuto accompa­ gnare Renata attraverso l'uscita dalla nebbia della perversione relazion�le. 4 Un problema, infatti, che chi opera nel campo del maltrattamento si trova a dovere affron­ tare, è quello del burnout, della sofferenza e, si può dire, del "consumo" degli operatori stessi. La perversione viene, come in un gioco di specchi, a proiettarsi su chi cerca di aiutare la vittima.

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6. Per concludere

In questo lavoro ho voluto presentare, soprattutto a chi lavora nel cam­ po della psicoterapia, la questione del maltrattamento nelle relazioni di coppia. Ho considerato soltanto il caso in cui l'uomo è il perpetratore così ho deciso di denominarlo - e la donna la sua vittima. Non credo che relazioni di maltrattamento si realizzino soltanto in coppie eterosessuali, né che il perpetratore debba per forza essere l'uomo. Non ho preso in conside­ razione i casi di maltrattamento e di abuso tra genitori e figli, né tra fratelli. Né, infine, mi sono occupata della cosiddetta violenza assistita, cioè della violenza tra genitori a cui i bambini si trovano a fare da involontari, ma coinvolti, spettatori. Ho considerato soltanto il caso della relazione di cop­ pia tradizionale, eterosessuale, perché di questo campo, lavorando cioè con donne maltrattate dai loro partner e, sebbene più raramente, con questi ul­ timi, ho avuto la possibilità di fare esperienza. Ho deciso, inoltre, di limita­ re il mio interesse allo studio del maltrattamento psicologico, poiché mi sono accorta ben presto che tra quest'ultimo e il maltrattamento fisico e sessuale intercorre una importante differenza per quanto riguarda la psico­ patologia dei soggetti in essi coinvolti, e dunque dei meccanismi implicati. Cercando di tracciare un profilo dell'agente del maltrattamento psico­ logico, ho approfondito lo studio della patologia narcisistica, vero terreno di coltura dell'indifferenza verso l'altro e del mancato riconoscimento dei suoi sentimenti e vissuti. Mi sembra che sia nell'interazione tra il disturbo narcisistico di personalità e il tratto perverso (o stile relazionale perverso), che si può rintracciare l'origine, il punto di partenza, della perversione re­ lazionale, o perversione narcisistica, come la chiama Racamier. Con tale diagnosi mi pare che si possa esprimere, e riconoscere, il profilo di perso­ nalità dell'uomo che maltratta la sua compagna. Si tratta, come ho cercato di descrivere, di personalità che possono, per così dire, funzionare molto 97

bene in vari campi e raggiungere magari il successo, ma che, nel campo delle relazioni di coppia, mostrano un'insensibilità per gli stati emotivi de li' altra, un'incapacità a sintonizzarsi con lei,e, al contrario, una ferrea determinazione nel detenerne il possesso e il dominio. Molto spesso il comportamento del perverso relazionale si è formato in­ torno a un vuoto o a una mancanza vissuta durante l'infanzia in seguito a relazioni con genitori che hanno maltrattato o trascurato il figlio, o che non sono stati comunque capaci di sintonia emotivo-affettiva con lui. Genitori che non sono stati capaci di lasciarsi usare per i bisogni di crescita del bambino e hanno scavato in lui un senso di vuoto e di impotenza difficile da colmare. Il bambino maschio ha cercato di farlo identificandosi, nel corso del suo sviluppo, con il genitore più forte, cioè quello più aggressivo e impunito. Penso infatti che l'impunità, cioè il potere fare del male ad altri senza doverne subire conseguenze negative, rappresenti, per un bambino maltrattato, il segno sicuro della forza e della virilità. L'illusione del narcisista perverso è, inoltre, quella di non avere biso­ gno di nessuno, di potere fare a meno di tutti, mentre, al contrario, la sua dipendenza dall'altro è rafforzata dalle sue necessità difensive. Come nella dinamica hegeliana servo-padrone, il perpetratore ha bisogno della vittima, anche se in questo caso il bisogno serve a dimostrare, difensivamente, di non avere bisogno di niente e di nessuno. Il perpetratore cerca la sua preda: tanto più essa è dotata di pregi e qualità, tanto meglio per il perverso. Egli si appropria di tali qualità, le usa per mascherare il proprio vuoto, per farsi bello con le penne del pavone. Non riconosce mai il proprio debito, anzi lo nega svalutando la compagna: più la squalifica, e più può nascondere il proprio furto e le sue cause. Quanto alla vittima, il mio studio ha cercato di dimostrare che non si può procedere in parallelo a quanto fatto nel caso dello studio della tipologia del perpetratore. Nel caso del maltrattamento psicologic9, infatti, è difficile rin­ tracciare un analogo profilo della vittima - analogo o complementare; non mi sembra possibile, insomma, ricavare, dalla conoscenza di un numero consistente di vittime, un profilo riconoscibile, sebbene si possano porre in risalto alcune caratteristiche di oblatività, di capacità e di bisogni riparativi. Tali caratteristiche sono però troppo generiche e non possono, per questo motivo, permettere l'individuazione di un vero e proprio profilo. Anche la diagnosi di personalità dipendente, se può rendere conto, in alcuni casi, del perché una donna diventi vittima, non può però pretendere di rappresentare una spiegazione esauriente e generalizzabile del fenomeno. Mi _sembra più facile - e anche più interessante - invece, descrivere il modo in cui la vittima diventa tale, quali tappe percorre nel processo di vit98

timizzazione, quali gli esiti che si producono in tale percorso. In una delle arie più belle e struggenti delle Nozze di Figaro, la Contessa si domanda dove si_ano finiti bei momenti vissuti con il marito infedele: "Dove sono i bei momenti/ Di dolcezza, e di piacer,/ Dove andaro i giuramen­ ti/ Di quel labbro menzogner?/ Perché mai, se in pianti e in pene/ Per me tutto si cangiò/ La memoria di quel bene/ Dal mio sen non trapassò?".

Come la Contessa nelle Nozze, le donne maltrattate cominciano a chie­ dersi, a un certo punto, che cosa è avvenuto del loro rapporto d'amore. Le donne cominciano ad essere disorientate, a non capire, poi a darsi da fare per andare avanti cercando di migliorare il rapporto con il partner attraver­ so uno sforzo per modificare il proprio comportamento. Comincia così il percorso del diventare vittima, un percorso che lega sempre più la donna al compagno perverso relazionale. Perché, purtroppo per loro, le donne igno­ rano, all'inizio, che non è possibile cambiare un perverso: si può soltanto soffrire nel rapporto con lui. Il permanere a lungo in un rapporto caratte­ rizzato dalla perversione relazionale produce, nella vittima, esiti riconosci­ bili, che ho cercato di descrivere: il primo di essi è rappresentato proprio dall'incapacità, che dura a lungo, di riconoscere la propria condizione. Il percorso verso l'uscita dal tunnel, per le donne che vogliono intra­ prenderlo, è difficile e faticoso. Si tratta di rimettere insieme, per così dire, pezzi di un'identità che è stata lacerata dal maltrattamento. Per questo un trattamento psicoanalitico o di psicoterapia psicoanaliticamente orientata possono essere utili. Penso però che sia necessario che chi cura queste don­ ne sappia riconoscere la fenomenologia caratteristica della perversione r�­ lazionale, per potere svolgere, nel corso della terapia, anche il ruolo di un genitore che finalmente ascolta. Si tratta di riconoscere l'azione perversa, i suoi esiti, e le ragioni, ogni volta diverse, per cui le donne sono rimaste, a volte molto a lungo, all'interno di un rapporto che le ha fatte soffrire. Si tratta inoltre di tessere di nuovo, insieme a loro, la trama di un tessuto per­ sonale lacerato dall'azione perversa. Di questo percorso, per come ho po­ tuto conoscerlo trattando molte donne che ne hanno avuto esperienza, ho cercato di rendere conto in questo lavoro.

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12 I 5. Psicoanalisi contemporanea: sviluppi e prospettive Sez. I. Metodologia, teoria e tecnica psicoanalitica Wilfred R. Bion, Addomesticare i pensieri selvatici. Tre inediti Mardi J. Horowitz, Otto F. Kemberg, Edward M. Weinshel, Struttura e cambiamento psichico David Rosenfeld, Lo psicotico Harold Stewart, Michael Balint. Relazioni oggettuali pure e applicate Luis Kancyper, Il confronto generazionale. Uno studio psicoanalitico Anna Maria Pandolfi, li suicidio. Voglia di vivere, voglia di morire Joseph Sandler, Alex Holder, Christopher Dare, Anna Ursula Dreher, I modelli della mente di Freud. Un'introduzione 8. Jan Abram, Il linguaggio di Winnicott. Dizionario dei termini e dei concetti winnicottiani 9. Anna Maria Pandolfi, La vergogna. Un affetto psichico che sta scomparendo? IO. Vincenzo Bonaminio, Paolo Fabozzi (a cura di), Quale ricerca per la psicoanalisi? 11. Joseph Sandler, Peter Fonagy (a cura di), Il recupero dei ricordi di abuso. Ricordi veri o falsi? 12. Joseph Sandler, Anne-Marie Sandler, Gli oggetti interni. Una rivisitazione 13. Ferdinando Riolo (a cura di), l'analisi dei sogni 14. Paul-Claude Racamier, Incesto e incestuale 15. Fred Busch, Ripensare la tecnica clinica. Con una Introduzione dell'autore all'edizione ita­ liana 16. Luis Kancyper, Il risentimento e il rimorso. Uno studio psicoanalitico 17. Paolo Fabozzi (a cura di), Forme dell'interpretare. Nuove prospettive nella teoria e nella clinica psicoanalitica 18. forge L. Ahumada, Scoperte e confutazioni. La logica dell'indagine psicoanalitica 19. Marcelle Spira, l'idealizzazione 20. Giuseppe Berti Ceroni (a cura di), Come cura la psicoanalisi?

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Sez. 2. Il lavoro psicoanalitico con i bambini e gli adolescenti 1. John Tsiantis, Anne-Marie Sandler, Dimitris Anastasopoulos, Brian Martindale (a cura di), Il controtransfert con i bambini e gli adolescenti 2. Pietro Bria, Lucio Rinaldi (a cura di), Corpo e mente in adolescenza 3. Florence Guignard, Nel vivo dell'infantile. Riflessioni sulla situazione analitica 4. François Ladame, Maja Perret-Catipovic, Gioco, fantasmi e realtà. lo psicodramma psicoa­ nalitico nel/'adolescenza 6. Anna Nicolò Corigliano, Analisi terminabile e intrminabile in adolescenza. A proposito delle conclusioni, interruzioni e pause nel trattamento psicoanalitico con gli adolescenti 7. Simone Decobert, François Sacco (a cura di), Il bambino, il sogno e lo psicanalista 8. Ann Home, Monica Lanyado, Manuale di psicoterapia dell'infanzia e dell'adolescenza. Ap­ procci psicoanalitici 9. Salomon Resnik, Enrico Levis, Simona Nissim, Maria Pagliarani, Abitare l'assenza. Scritti sullo spazio-tempo nelle psicosi e nell'autismo infantile Sez. 3. Temi di psicoanalisi applicata 1. Jill Savarage Scharff (a cura di), /fondamenti della terapia familiare basata sulle relazioni og­ gettuali 2. Roberto Losso, Psicoanalisi della famiglia. Percorsi teorico-clinici 3. Fausta Ferraro, Diomira Petrelli (a cura di), Tra desiderio e progetto. Counseling all'univer­ sità in una prospettiva psicoanalitica 4. Paolo Valerio, Mario Bottone, Riccardo Galiani, Roberto Vitelli (a cura di), Il transessuali­ smo. Saggi psicoanalitici 5. Domenico Di Ceglie (a cura di), Straniero nel mio corpo. Sviluppo atipico dell'identità di ge­ nere e salute mentale

6. Anna Maria Nicolò, Gemma Trapànese (a cura di), Quale psicoanalisi per la coppia? 7. Anna Maria Nicolò, Gemma Trapanese (a cura di), Quale psicoanalisi per la famiglia? 8. Sandra Filippini, Relazioni pen;erse. La violenza psicologica nella coppia Sez. 4. Studi interdisciplinari I. Pietro Bria, Fiorangela Oneroso (a cura di), L'inconscio antinomico. Sviluppi e prospettive dell'opera di Matte Blanco 2. Pietro Bria, Fiorangela Oneroso (a cura di), Bi-logica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico 6. Petocz Agnes, Freud, psicoanalisi e simbolismo

1217. Psicoanalisi e psicoterapia analitica Col1ana ideata da Enzo Morpurgo e Valeria Egidi Direzione: Valeria Egidi Sezione /: Clinica 1. Franco Borgogno (a cura di), w partecipazione affettiva dell'analista. Il contributo di Sandor Ferenczi al pensiero psicoanalico contemporaneo 2. Emilio Masina (a cura di), Ln trattabilità in adolescenza. Problemi nella psicoterapia psicoa­ nalitica 3. Arnaldo Novelletto, Daniele Biondo, Gianluigi Monniello, L'adolescente violento. Riccmo­ scere e prevenire l'evoluzione criminale 4. Amando Novelletto, Daniele Biondo (a cura di),/ disturbi di personalità in adolescenza. Bor­ derline, antisociali, psicotici 5. Maria Pierri, Agostino Racalbuto (a cura di), Maestri e allievi. Trasmissione del sapere in psi­ coanalisi 6. Vittorio Volterra (a cura di), Melancolia e musica. Creatività e sofferenza mentale 7. Paolo Cattorini, Giovanni Foresti (a cura di), Gli impulsi del Signor S. Psichiatria, psicotera­ pia ed analisi etica 8. Mirella Curi Novelli (a cura di), Dal vuoto al pensiero. L'anoressia dal vertice psicoanalitico 9. Giuseppe Martini, w sfida delf'irrapresentabile. w prospettiva ermeneutica nella psicoana­ lisi clinica Sezione Il Strumenti 1. Anna Ferruta, Un lavoro terapeutico. L'infermiere in psichiatria 2. Luigi Pavan, L'identità fra continuità e cambiamento. Psicopatologia dell'attacco di panico e delle psicosi acute 3. Danielle Quinodoz, Le vertigini tra angoscia e piacere Sezione lii: Ricerche su psicoanalisi e condizione umana Antonio Di Benedetto, Prima della parola. L'ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell'arte 2. Niels Peter Nielsen, L'universo mentale "nazista" 3. Niels Peter Nielsen, Salvatore Zizolfi, Rorschach a Norimberga. I gerarchi nazisti a processo fra memoria storica e riflessione psicoanalitica l.

1950. Le vie delle psicoanalisi Sezione I Saggi l. M. Balsamo, A. Luchetti, F. Napolitano, E. Pozzi (a cura di), Sessuale, destino, scrittura. Ai

margini della psicoanalisi 2. Francesco Napolitano, La .filiazione e la trasmissione nella psicoanalisi. Sulla consegna tran­ ,\·generazionale del sapere 3. Marco Innamorati, Psicoanalisi e .filosofia della scienza. Critiche epistemologiche alla psicoa­ nalisi 4. Francesco Conrotto, Tra il sapere e la cura. Un itinerario .freudiano 5. Daniel Widlocher, Jean Laplanche, Peter Fonagy, Eduardo Colombo, Dominique Scarfone, Pierre Fedida, Jacques André, Sessualità infantile e attaccamento 6. Lina Balestriere, Freud e il problema delle origini 7. Roberto Contardi (a cura di), "L'interpretazione dei sogni" libro del secolo. L'immagine fra soggetto e cultura Sezione II Clinica I. Maurizio Balsamo (a cura di), Analisi curabile e incurabile. Sulla guarigione psicoanalitica 2. Maurizio Balsamo (a cura di), Soggetti al delirio 3. Jacques André (a cura di), Gli stati limite. Nuovi paradigmi per la psicoanalisi 4. Fausta Ferrara, Alessandro Garella, In�fine. Saggio sulla conclusione dell'analisi 5. Patrizia Cupelloni (a cura di), La ferita dello sguardo. Una ricerca psicoanalitica sulla melan­ conia 6. Adamo Vergine (a cura di), Trascrivere l'inconscio. Problemi attuali della clinica e della tec­ nica psicoanalitica 7. Paul-Laurent Assoun, La clinica del corpo. Lezioni psicoanalitiche 8. Pia De Silvestris, Adamo Vergine (a cura di), Consapevolezza e autoanalisi. Strategie di ap­ prossimazione ali' esperienza inconscia