Rapporto sull'Europa


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CULTURA E REALTÀ

74

Serie pubblicata in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti / 5

ALTIERO SPINELLI

RAPPORTO SULL'EUROPA

EDIZIONI DI COMUNITÀ

©

EDIZIONI DI COMUNITÀ - MILANO

1965

INDICE

Prefazione

7

1. LE FONTI IDEALI DELLE COMUNITÀ EUROPEE

La mutazione nella coscienza politica europea Le alternative dell'europeismo I cicli dello sviluppo europeo 2. GLI

> MINORI

L'Alta Autorità della CECA La Commissione dell'Euratom

3.

33 39

LA COMMISSIONE DEL MERCATO COMUNE

Il compito del Mercato comune Le leggi del trattato Le leggi-quadro del trattato Le promesse intergovernative del trattato

4.

11 18 24

51 58 61 70

BUROCRAZIA E BUROCRAZIE NAZIONALI

La scelta della Commissione I rappresentanti permanenti Belgio Olanda Italia Repubblica federale tedesca Francia Osservazioni conclusive

75 79 83

85 88 91 94 97

5.

LA FORZA DEGLI INTERESSI

Nascita dell'economia comunitaria Le associazioni professionali comunitarie 6.

103 113

LE COMUNITÀ E IL MONDO POLITICO

La Commissione di fronte alla politica I governi Il parlamento europeo I Partiti I movimenti europeistici

13 3 140 150 170 187

Epilogo L'ORA DELLA VERITÀ DEGLI BUROCRATI

199

PREFAZIONE

Fra la fine di luglio e il principio di agosto del 1952, alla vigilia dell'inaugurazione dell'Alta Autorità della CECA, trovandomi a c·ollaborare per qualche tempo assai da vicino con Jean Monnet, mi accadde di ascoltare la risposta che egli diede, con l'intensità di espressione che gli è caratteristica, ad un giornalista il quale gli aveva posto la domanda, quasi rituale allora fra quanti si accostavano per la prima volta ai problemi della unificazione europea, cosa dovesse veramente intendersi per Europa. Come accingersi alla sua costruzione senza saperne prima dimensioni e contenuto? L'Europa, aveva replicato Monnet, è l'Europa unita che sta ora per nascere; è l'insieme di queste istituzioni che stiamo mettendo in piedi. È ancora poca cosa, ma è il solo centro reale di azione e di costruzione europea. Potrà arricchirsi di nuove funzioni, potrà estendersi geograficamente, ma oggi è solo questa Comunità e quel che sapremo fare di essa e partendo da essa. Nella dozzina d'anni successivi molte altre cose sono accadute in Europa. Alcuni z,lteriori tentativi di unificazione sono falliti. Altri hanno av1,to successo, spin_gendo nell'ombra l'iniziale esile e ambiziosa costruzione di Jean Monne!. Ma non è finora possibile dare altra definizione che sia insieme più semplice e più densa di significati impliciti di questa: l'Europa è ancora solo l'insieme aleatorio dei centri di azione europea effettivamente impegnati a costruire la sua unità. Centri vari; alcuni dei quali possono essere chiamati motori primi, mentre altri sono, per così dire, motori derivati; centri incompleti, talvolta contraddittori; ora in ascesa, ora in

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declino; sempre ancora oscillanti fra il successo e il naufragio. Il presente saggio è un tentativo di descriverli, mostrando il modo in cui sono connessi fra loro~ e quali siano le loro possibilità ed i loro limiti, oggi alla fine della prima metà degli anni '60. Lo studio è stato reso possibile dall'aiuto della Fondazione Adriano Olivetti, la quale ha coperto le spese necessarie per portarlo a termine, ed alla quale vanno .' . . . . . . . perczo anzitutto t mzez rzngrazzamentt. Preziosi suggerimenti mi sono stati dati, nella messa a punto del piano di ricerca da alcuni eminenti studiosi, fra i quali ricordo qui con gratitudine il professor Georges Goriely dell'Università di Bruxelles, U. W. Kitzinger del Nuffield College di Oxford e Alfred Mozer, capo gabinetto del commissario Mansholt della CEE. Prima di procedere alla redazione del libro molte informazioni hanno dovuto essere raccolte nelle capitali dei paesi membri della Comunità sotto forma di documenti e di numerose interviste con funzionari delle amministrazioni comunitarie e nazionali, delle associazioni professionali, dei partiti e movimenti politici. La dottoressa Gerda Zellentin ha compiuto questo lavoro in Germania; André Thiéry in Francia; Piet Houx nel Benelux; Massimo Bonanni e Roberto Aliboni in Italia; Ludo Diericks presso le amministrazioni comunitarie. Naturalmente tutte le conclusioni cui giungo sono mie, e non coinvolgono in alcun modo la loro corresponsabilità, ma senza queste collaborazioni il libro non sarebbe mai nato. Desidero perciò qui esprimer loro la mia . ' . . ptu viva riconoscenza. Sono consapevole dei difetti e delle lacune di questo tentativo. In non pochi punti la ricerca avrebbe dovuto essere approfondita e precisata. E fra qualche anno il 8

quadro europeo sarà sicuramente assai diverso. Ma non è forse inutile per coloro che seguono con il pensiero o con l'azione il faticoso processo della costruzione ettropea, avere dinnanzi agli occhi il quadro generale delle forze che stanno oggi effettivamente operando per la realizzazione di un'idea che ha simultaneamente le caratteristiche di una fredda attività burocratica e di una straordinaria avventura politica.

A. S.

CAPITOLO PRIMO

LE FONTI IDEALI DELLE COMUNITÀ EUROPEE 1. La mtttazione nella coscienza politica europea

L'idea che gli europei, benché divisi in più nazioni ed in più stati, costituiscano idealmente un'unica famiglia e debbano quindi essere uniti un giorno o l'altro in un modo o nell'altro in una qualche forma di comunità, non è affatto un'idea recente. Essa si aggira nella nostra storia come uno spettro in cerca di incarnazione da un millennio e mezzo, cioè praticamente dalla caduta dell'impero romano d'occidente. Come tutti gli spettri, anche questo conduceva una vita assai umbratile. Appariva di tanto in tanto a qualche sognatore, a qualche avventuriero della politica e della guerra, a qualche studioso di scienze politiche, ma non lo si incontrava mai nella vita comune. Recente, perché risale alla fine della seconda guerra mondiale, è invece il fatto che l'idea dell'unità europea sia diventata insieme un obiettivo effettivamente perseguito ed un sentimento popolare diffuso. All'improvviso, verso la fine del conflitto, uomini politici di provenienze nazionali, culturali e ideologiche diverse, che non si conoscevano nemmeno fra loro, hanno cominciato a concepire l'unità europea non come la visione di una meta che sarebbe stata provvidenzialmente raggiunta in un futuro imprecisabile, ma come una soluzione da dare oggi a problemi europei attuali. Ed hanno cominciato a pensare in cuor loro di adoperare quella poca o molta influenza di cui avrebbero disposto per promuoverne la realizzazione. Ancor più straordinaria è, in un certo senso, la rapi11

dità con cui l'idea è divenuta popolare in alcuni paesiw Da un secolo e mezzo i vari popoli europei erano stati sottoposti ad un metodico e crescente lavaggio di cervelli nazionalista, mediante la scuola, il servizio militare, la vita politica, la stampa, poi la radio, e via dicendo. L'importanza suprema della solidarietà nazionale ed il valore politico assoluto dello stato nazionale erano stati confermati da cruente ma esaltanti periodiche guerre nazionali. Ed ora di colpo si diffondeva, senza incontrare forti resistenze sentimentali, quest'idea che implicava una svalutazione energica di tutti i miti nazionali, Non ci sono state finora spinte popolari nel senso dell'unificazione europea, ed invero non potevano esserci, perché mancavano ancora le tradizioni, le istituzioni e lo stesso linguaggio politico comune, cioè gli strumenti necessari per la trasformazione dei sentimenti in forza politica. La popolarità dell'idea europea è stata sinora relativamente passiva, ma pur sempre talmente diffusa da dare costantemente ai politici europeisti il senso di trovare, sl, dinnanzi a sé ed entro di sé, molti e possenti ostacoli alla realizzazione del loro scopo, ma non fra essi quello dell'ostilità o anche solo della diffidente incomprensione popolare. Uomini politici e statisti hanno invece sempre saputo e sentito che l'Europa, benché fosse ancora inesistente, benché fosse difficile comprenderne le implicazioni politiche, era quasi istintivamente sentita dalla maggior parte degli europei come qualcosa di fondamentalmente positivo. Questa vera e propria mutazione verificatasi in importanti settori della coscienza politica di alcuni paesi era un'evidente risposta creatrice ad alcune deprin1enti ed umilianti esperienze dei popoli europei prima, durante e dopo la guerra. Nell'interludio fra le due guerre mondiali il nazionalismo aveva furiosamente distrutto le istituzioni de-

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mocratiche e suscitato tirannidi in una serie crescente di paesi. Poi, ad eccezione dell'Inghilterra e di pochi piccoli stati miracolosamente salvatisi, tutti gli orgogliosi stati-nazione, che avevano preteso ed ottenuto il lealismo più totale da parte dei loro cittadini, erano crollati ignominiosamente sotto il brutale dominio tedesco, fossero essi nemici o alleati della Germania. Ed infine lo stesso stato nazionale tedesco si era coperto di tali crimini che i suoi vincitori avevano deciso di sopprimerlo del tutto, convertendo la Germania in puro e semplice territorio di occupazione militare. Dopo la liberazione dal dominio nazista gli stati europei, restaurati con alcune variazioni di frontiera relativamente secondarie, si trovavano in una tale condizione di sfacelo economico, sociale, politico e militare da riuscire a reggersi in piedi solo grazie all'aiuto esterno americano ad occidente, ed all'imposizione esterna sovietica delle dittature comuniste ad oriente. Tutte queste circostanze avevano ridotto a ben poco il rispetto abituale dei cittadini verso il loro stato ed i suoi miti, ed aperto il varco alla mutazione europeista. È significativo che britannici, svedesi, svizzeri, i quali sia pure in modi molto differenti, hanno sormontato, ciascuno a modo suo, la prova della seconda guerra mondiale senza aver conosciuto l'esperienza della disfatta totale e senza avere perciò perso il rispetto per il loro stato, sono anche i popoli nei quali la mutazione europeista non ha avuto luogo, alla fine della guerra, né nella classe politica né nell'opinione pubblica. Anzi in Inghilterra quel tanto di mutazione europea che si era manifestato alla vigilia della guerra fu riassorbito quasi completamente negli anni in cui l'Europa continentale andò sommersa sotto il diluvio hitleriano e l'Inghilterra rimase sola a resistergli. Più tardi anche l'Inghilterra ha scoperto in sé una vocazione europea,

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ma le sue motivazioni sono ormai diverse da quelle drammatiche che stanno all'origine dell'europeismo dei continentali. È assai probabile che la mutazione europeista si sarebbe manifestata anche nei paesi dell'Europa orientale, se essi avessero avuto un tipo di sviluppo analogo a quello dell'Europa occidentale. Ma non si possono fare che supposizioni. Essendo stati assorbiti nella assai diversa esperienza comunista sotto la guida imperiale di Mosca, questi paesi non hanno potuto partecipare in alcun modo al moto verso l'unificazione europea. Sia qui accennato solo di passaggio che malgrado il loro professato internazionalismo i comunisti non sono riusciti finora a trovare altra forma di unione sovrannazionale per i paesi da loro dominati fuorché quella imperiale della dipendenza diretta dei singoli stati da quello sovietico, e che perciò non hanno saputo nemmeno tentare una versione comunista dell'idea dell'unità europea. In queste circostanze si comprende come il campo d'azione dell'europeismo sia stato limitato all'Europa occidentale, e in un primo tempo solo a sei paesi. I successi dei Sei hanno poi esercitato una forza d'attrazione sull'Inghilterra, sugli altri paesi dell'EFTA, su Grecia e Turchia, sulla Spagna. Questa mutazione innovatrice nella coscienza politica di molti europei si è rivelata un fenomeno non effimero. Se l'europeismo fosse stato solo una moda, o una risposta d'emergenza data ad una situazione d'emergenza, esso si sarebbe dissolto da un pezzo, poiché le condizioni interne ed esterne dell'Europa sono oggi assai di verse da quelle che erano alla fine della guerra. Non pochi pubblicisti, rimasti fedeli a più antiche categorie politiche, hanno effettivamente considerato l'europeismo una moda e, dopo esservisi adeguati per qualche

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tempo, si sono affrettati periodicamente a proclamarlo superato ogni volta che qualche situazione è cambiata o che qualche imprevista difficoltà è sorta. L'europeismo ha invece mostrato di essere un vero e proprio abito politico e dottrinale, uno schema di azione politica capace di offrire un'interpretazione ed una soluzione ai problemi di un'Europa nella miseria e di un'Europa nel benessere, di un'Europa nell'impotenza politica e militare e di un'Europa ridivenuta fattore importante della politica mondiale, di un'Europa nella guerra fredda e di un'Europa nella coesistenza pacifica. Contrariamente a quanto affermano le dottrine che vedono come sorgenti prime delle avventure politiche dei popoli le grandi forze anonime dei sentimenti popolari e degli interessi economici, l'avventura europea è cominciata con il tiepido favore popolare ma priva di ogni pressione popolare, intorno a problemi economici ma priva di ogni pressione da parte di forze economiche. È cominciata perché alcuni uomini, che contavano nella vita politica di alcuni paesi europei, hanno scoperto la prospettiva intellettualmente esaltante della costruzione europea, hanno sognato di realizzarla, hanno saputo cogliere se non tutte almeno alcune occasioni favorevoli, ed hanno cominciato a tradurre questa visione non solo in fugaci atti politici europei ma in • • • • 1st1tuz1on1. Aver compreso l'importanza delle istituzioni, esser riusciti a crearne alcune, sia pure incomplete e insufficienti è stato il tratto essenziale della costruzione europea, perché, come ricordava Jean Monnet nell'inaugurare la prima di esse, l'Alta Autorità della CECA, solo mediante le istituzioni le esperienze si accumulano e si trasmettono nel tempo. Da quando esistono le istituzioni della CECA, ed ancor più da quando esistono quelle del Mercato comune, la costruzione europea non

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dipende infatti più solo dalle iniziative rapsodiche di uomini politici nazionali di orientamento europeista, ma anche dall'operosità quotidiana della burocrazia comunitaria e dalla massa di interdipendenze che essa è riuscita a suscitare ed a sviluppare. Ci si sarebbe potuto attendere che l'azione europea incontrasse come ostacolo fondamentale il nazionalismo aperto, schietto, deciso a ristabilire per la propria nazione l'apartheid degli anni '20 e '30. Non l'ha invece incontrato perché questo nazionalismo esasperato è stato travolto nell'ignominia durante la guerra, ed è a tutt'oggi coltivato solo da pochi nostalgici di quell'epoca. il nazionalismo dei nostri giorni, che è pur ricomparso ed è pericoloso, non si presenta come antieuropeo, ma come sostenitore di una particolare concezione dell'Europa, tende cioè ad assumere anch'esso re· gole di condotta europea. L'avversario permanente> tenace, proteiforme, sempre rinascente della costruzione europea è costituito dal fatto che in ognuno dei nostri paesi, in ogni corrente politica, in ogni associazione professionale, in ogni università, insomma in ogni europeo ed ogni sua istituzione c'è l'abitudine - radicata al punto di essere ormai quasi un riflesso condizionato - a concepire leggi, costumi, solidarietà, interessi, attività politiche entro le tradizionali e ben note categorie dello stato-nazione. L'operosità conforme a quest'abitudine dà a chi vi si trova impegnato un senso di pienezza, di fronte al quale l'operosità europea si regge, in chi le si dedica, perché sorretta da una visione politica molto stimola-nte, ma appare, e finora è, fatalmente lacunosa, oscura, incerta sul da fare, priva del sostegno di tutte quelle regole ben note e di quei riferimenti tradizionali che limitano, sl, la libertà effettiva di chi agisce, ma gli danno anche tranquillità e sicurezza. L'operosità europea non si muove fra istituzioni conso16

lidate, ma deve costruirle e consolidarle; non ha alternative politiche ben delineate ed esprimentisi in precisi partiti europei, ma deve scoprirle; non ha nemmeno un suo linguaggio politico già formato, ma deve inventarlo. Le forze politiche che hanno assunto la direzione dei paesi europei occidentali dopo la guerra sono state molto sensibili alla mutazione europeista; anzi alcuni fra i loro capi - Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, Beyen sono stati per alcuni anni fra i corifei se non nel pensiero per lo meno nell'azione europea. Ciò nonostante per loro tutti ricostruire lo stato nazione significava muoversi nel noto, mentre costruire l'Europa significava muoversi nell'ignoto, o quanto meno nell'oscuro e nell'enigmatico. Ciò spiega come sia accaduto che essi hanno compiuto o almeno tentato imprese europee in circostanze eccezionali, ma la pienezza del loro lavoro politico è stata dedicata non alla costruzione dell'Europa, bensì alla restaurazione dei vecchi stati-nazione. Ricostruzione nazionale e costruzione europea sono però complementari solo fino ad un certo punto, fino a quando cioè si giunge dinnanzi ad un qualche problema o complesso di problemi, per il quale occorre decidere se affrontarlo sul piano nazionale con strumenti nazionali e su quello europeo con strumenti europei. Oltre quel punto le due attività diventano alternative: l'una soffoca o quanto meno ostacola l'altra, e i risultati dell'una sono diversi dai risultati dell'altra. Tuttavia la vita politica europea ha avuto proprio questo andamento paradossale e contraddittorio: da una parte restaurazione degli stati-nazione, e perciò anche delle categorie politiche ed economiche nazionali, dei miti e tabù nazionali; dall'altra instaurazione di istituzioni e di politiche sovrannazionali. Se la costru-

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zione europea si ridurrà ad una superficiale, fragile e perciò effimera sovrastruttura delle restaurazioni nazionali, o se queste finiranno per spiegarsi e subordinarsi alla instaurazione europea, è un problema ancora aperto, che sarà deciso non da ragionamenti ma da una lotta politica.

2. Le alternative dell'europeismo Per valutare con qualche precisione quale sia la volontà politica che sta dietro alla costruzione europea, conviene soffermarsi sulle idee politiche che sono state finora seguite nell'affrontarla. Durante tutto questo ventennio il processo di unificazione europea si è ispirato e continua a ispirarsi a tre diverse tendenze: il federalismo, il funzionalismo ed il confederalismo. Esse si presentano ora chiare, ora confuse, ora antagoniste, ora alleate, ma differiscono nel loro modo di affrontare i problemi istituzionali, nel compito ideale che esse assegnano all'Europa, e nella posizione che i loro promotori occupano nella vita politica europea. Riassumiamo anzitutto i diversi modi in cui le tre tendenze affrontano i problemi istituzionali. I federalisti chiedono che si costruiscano anzitutto le istituzioni politiche di una democrazia europea, sottraendo certi poteri di elaborazione, di deliberazione, di decisione e di esecuzione a governi, parlamenti e magistrature nazionali, per affidarli ad un governo, un parlamento e una magistratura europei. Queste istituzioni devono trarre la loro legittimità dal consenso espresso direttamente dai cittadini europei, ed esercitare i loro poteri direttamente sui cittadini europei, senza interferenza degli stàti, nelle materie di compe-

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tenza della federazione. I loro modelli sono la piccola Svizzera e gli immensi Stati Uniti. Per i funzionalisti si tratta anzitutto di affidare l'amministrazione di alcune concrete attività pubbliche ad una apposita amministrazione europea. Questa riceverà le direttive comuni dagli stati nazionali che le avranno formulate in appositi trattati ed in ulteriori decisioni intergovernative, ma nell'ambito di tali direttive l'amministrazione europea deve essere separata e indipendente dalle amministrazioni nazionali. I modelli del funzionalismo sono le agenzie interalleate sperimentate con successo durante le due guerre mondiali, e che bisognerebbe ora costruire a scopi di pace. Per i confederalisti si tratta anzitutto di costruire una cooperazione intergovernativa europea mediante una lega permanente di stati che conservino la loro . ' . . . . . . sovran1ta, ma 1 cui governi siano unpegnat1 a cercare di raggiungere decisioni comuni in certe materie riconosciute di comune interesse. In altri termini: tutt'e tre le tendenze pensano che occorrano decisioni comuni negli affari di interesse comune. I funzionalisti sono d'accordo con i confederalisti nel rinunziare ad un potere politico comune che prenda tali decisioni, e si rimettono per esse all'accordo fra i governi dei paesi associati. Essi sono invece d'accordo con i federalisti contro i confederalisti nel chiedere che comunque, una volta presa la decisione, l'esecuzione ed il controllo di essa siano affidati ad un'amministrazione comune indipendente dagli stati membri. A queste diverse concezioni istituzionali corrispondono concezioni diverse del compito ideale, della vocation, come sogliono dire i francesi, che la nuova comunità europea dovrebbe avere. Se ben si riflette, si scorge anzi che in misura assai larga, e di solito determinante, è la visione del compito che induce questo 19

e quell'europeista a far propria questa o quella concezione istituzionale. Il compito dell'unione europea consiste per i federalisti essenzialmente nella creazione di una nuova società politica impegnata a costruire una convivenza de~ mocratica moderna fra popoli che finora hanno saputo vivere al livello sovrannazionale solo in comunità sottoposte alla legge del più forte, ed impegnate quindi a vivere nel sospetto reciproco in attesa di periodiche inevitabili guerre, e che devono invece ora affrontare in comune tutta una serie di nuovi problemi interni ed internazionali. Per i funzionalisti la vita politica e le sue istituzioni sono sovrastrutture meno importanti di quel che si crede normalmente; fondamentale è l'ordinata vita quotidiana degli uomini; e quindi il compito dell'unione europea sarà per un lungo tempo non già l'effervescente, superficiale e poco conclusiva lotta politica, ma la lenta progressiva coagulazione di abitudini e di interessi intorno ad una burocrazia europea più lungimirante e più razionale di quelle nazionali. Per i confederalisti il compito dell'unione europea torna ad essere, come per i federalisti, di natura politica, ma con una impostazione alquanto diversa. Si tratta di ritrovare al livello europeo quella gloria, potenza e grandezza che gli stati nazionali europei hanno avuto, o cui hanno aspirato, e che sono andate perdute in seguito agli eventi di questo mezzo secolo di anarchia europea. Poiché i naturali depositari di questa gloria sono i vecchi stati-nazione, essi non possono rinunziare al fondamentale segno del loro rango, che è la sovranità. Poiché però siamo in un'epoca nella quale la scena politica è dominata da colossi quali gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, gli stati europei per tener loro testa devono associarsi in una lega o confe20

derazione. E poiché, infine, nessuna lega fra stati del tutto uguali fra loro ha mai prosperato, occorre che nella confederazione europea uno stato eserciti in un modo o nell'altro una naturale egemonia sugli altri. Un'Europa impegnata a costruire le libertà democratiche moderne del multinazionale popolo europeo; o un'Europa che viva quieta e prospera sotto la guida silenziosa ma efficiente dei saggi mandarini di un'amministrazione sovrannazionale; o infine un'Europa che chiami i vecchi nazionalismi a rinascere trasfigurandosi in un nuovo nazionalismo europeo; questi sono i tre diversi compiti ideali che le tre correnti assegnano all'unione europea da loro auspicata, e che spiegano le tre diverse concezioni istituzionali. Il nesso fra concezione istituzionale e compito ideale di ciascuna di queste tendenze appare anche evidente, quando si passa a considerare la posizione politica e sociale dei sostenitori di ciascuna di esse. Il pensiero federalista si manifestò durante la guerra prevalentemente nei settori della sinistra democratica delle varie Resistenze, e le sue tracce si ritrovano per lo più in volantini, giornali ed opuscoli clandestini di quell'epoca. I federalisti hanno cominciato subito dopo la fine della guerra a conoscersi fra loro, a formulare con precisione il loro programma e ad organizzarsi come movimento aspirante a diventare una forza popolare autonoma. In alcune determinate circostanze questo movimento ha esercitato una non trascurabile influenza sull'azione europea. Di regola i federalisti non hanno occupato finora posizioni nelle quali si decideva, ma solo posizioni dalle quali potevano agitare idee e formulare suggerimenti a chi decideva. La federazione è per loro un tema importante, anzi decisivo della vita pubblica europea nel contesto politico attuale, ma è pur sempre solo l'aspetto istituzionale della visione di

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una società democratica nuova da instaurare e non di vecchie società, poco o superficialmente o falsamente democratiche, da restaurare e da proteggere. Non è difficile riconoscere il noto atteggiamento mentale del radicalismo democratico, che si trova di regola come pensiero politico creatore all'origine di tutti i revivals e progressi democratici 1• La tendenza funzionalista, nata nell'ambiente degli alti funzionari internazionali, ha avuto la sua più originale e più forte espressione nella persona e nell'opera di Jean Monnet, che sommava in sé l'esperienza di amministrazioni internazionali in tempi di pace e in tempi di guerra e l'esperienza della secolare amministrazione francese con la sua capacità di amministrare ed amalgamare il paese con imperturbabile continuità attraverso il succedersi di regni, di rivoluzioni, e di repubbliche. Monnet si è trovato a disporre, in determinati momenti decisivi dello sviluppo europeo, di una posizione assai forte nell'amministrazione francese, e di un'assai grande influenza su alcuni uomini politici del suo paese. Le proposte cruciali del piano Schuman, del piano Pleven, dell'Euratom, portano tutte il sigillo della sua mentalità: creare solidarietà di interessi concreti attorno ad amministrazioni europee specializzate e dotate non già di autonomia politica, ma di autonomia Il modo di pensare radicale, che propone il cambiamento di ciò che esiste ogni volta che esso non regge più alla critica degli ideali di giustizia democratica, si trova spesso mescolato con il modo di pensare utopistico che propone di trasformare ciò che esiste in 110 tipo di società completa, perfetta e immobile. Anche al federalismo radicale è toccato di convivere nello stesso movimento con il federalismo utopistico, per il quale la federazione non è una formula istituzionale atta a risolvere alcuni problemi della nostra epoca, ma è la descrizione totale di una società perfetta da realizzare. Per la storia interna del Movimento federalista europeo la presenza di queste due mentalità ha avuto una notevole importanza, ma l'influenza del federalismo utopistico, detto comunemente integrale, sulla costruzione europea è stata nulla, ed è questa la ragione per la quale qui non se ne parla. 1

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amministrativa. L'Europa sarebbe cosl stata fatta da questi uffici, quasi all'insaputa di tutti, anche se alla fine il merito se lo sarebbe poi arrogato più o meno abusivamente un qualche uomo o partito politico. Il funzionalismo ha trovato il suo naturale terreno di espansione fra quegli alti funzionari delle amministrazioni nazionali, i quali, dotati di spirito più moderno, hanno del tutto o in parte superato l'orizzonte nazionale, sono capaci di mettere la loro abilità amministrativa a disposizione della nascente comunità sovrannazionale, e vedono il problema europeo con tecnocratica indifferenza per le istituzioni politiche e con estrema fiducia nella forza delle istituzioni amministrative. Mannet ha di fatto trovato collaboratori intelligenti e volonterosi dapprima nelle delegazioni diplomatiche di tutti i paesi che andavano preparando i successivi trattati delle Comunità, e poi nei funzionari delle Comunità stesse, nelle mani dei quali si trova oggi quel tanto di Europa che è stato creato sinora, e i quali non a torto sono stati battezzati con il significativo neologismo di eurocrati. La tendenza confederale è stata espressa da questo o quello statista che ha creduto nella possibilità di associare consensualmente vari stati sotto la guida del proprio. I due eminenti statisti che hanno avuto questa visione e l'hanno espressa, in circostanze diverse e in modi diversi, sono stati Churchill e de Gaulle. Il primo l'ha formulata con retorica inglese ed il secondo con retorica francese, ma le due versioni differiscono solo perché l'una assegna la direzione della confeclerazione europea a Londra e l'altra a Parigi. Poiché l'obiettivo di questi progetti è la volontà di potenza, essi risvegliano simpatia ed adesione anzitutto, anche se non esclusivamente, fra quelle correnti politiche che più hanno il culto della potenza e per le quali tale culto 23

appare un efficace fattore di conservatorismo sociale. La tesi confederale piace, perché congeniale, alle diplomazie nazionali, le quali vedono in essa una forma di collaborazione internazionale che non intacca la sovranità nazionale affidata alle loro cure; e dalle diplomazie essa trapassa facilmente ai ministri degli esteri, come è accaduto ad esempio nel caso di Bevin, quando questi non hanno idee particolarmente innovatrici nel campo della politica europea.

3. I cicli dello sviluppo europeo Il corso della costruzione europea è stato e continua ad essere condizionato in larga misura da queste idee e da questi uomini. In questo o quel momento storico ha predominato una certa tendenza, ma mai le altre sono state del tutto assenti, ed in ciascun concreto tentativo accanto al tratto centrale, derivante da una di queste tendenze, si sente la presenza delle altre idee, ora come freno, ora come aspirazione non ancora tradotta in realtà. Per avere una prima immagine di queste strane mescolanze, vale la pena di riassumere in modo assai rapido il ciclo, o, per essere più esatti, i cicli delle realizzazioni europee. Nei primi due anni successivi alla guerra si stabilisce la cornice geografica entro la quale si svolgerà successivamente l'impresa europea. Le occupazioni militari, americana dell'Europa occidentale e sovietica dell'Europa orientale, dalle quali si sviluppano le restaurazioni democratiche ad ovest e le instaurazioni comuniste ad est, fanno della divisione delle due Europe un dato che durerà verosimilmente finché durerà l'equilibrio mondiale fra Stati Uniti e Unione Sovietica. A differenza dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti 24

decidono di adoperare l'egemonia di cui dispongono non già per sviluppare un nuovo sistema imperiale, ma per promuovere un't1nità europea che non sia quella provvisoria ed esteriore imposta dalla loro presenza, ma sia voluta e costruita dagli europei stessi. Questo atteggiamento americano, rimasto costante fino ad oggi, malgrado delusioni e dubbi, ha costituito senza alcun dubbio la più importante delle carte di cui gli europeisti hanno disposto nel loro giuoco, anche se, paradossalmente ma comprensibilmente, un'altra carta favorevole è stata la reazione antiamericana generata dalla perdurante egemonia degli Stati Uniti. Fra il 194 7 ed il 19 50 la scena europea è dominata dalla propaganda di Churchill e dalle iniziative di Bevin. All'ombra della retorica churchilliana gli statisti inglesi, consapevoli del prestigio morale di cui il loro paese gode in Europa, utilizzano con decisione la politica filoeuropea degli americani per puntare alla realizzazione di legami europei di tipo confederale sotto la guida britannica. Il patto di Bruxelles, l'OECE, il Consiglio d'Europa, sono le realizzazioni di questa azione. Poiché però l'egemonia inglese è ormai più un'illusione delle classi dirigenti del Regno Unito che una realtà, queste organizzazioni si rivelano tutte assai poco efficienti. Ottimi studi ed ottimi dibattiti avvengono nel loro seno; nell'OECE si raggiungono talvolta alcune decisioni comuni, ma esse non hanno continuità e non generano alcun senso di comunità. Nelle prime sessioni dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa si delinea un vivace tentativo di rivendicare per il Consiglio >, ma il dibattito finisce nel nulla, soffocato dall'opposizione inglese. L'Europa continua a restar divisa. Durante questo periodo i fautori dell'approccio federalista e di quello funzionalista mettono a punto le loro idee, ma restano

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completamente coperti dall'ombra del confederalismo di Churchill e di Bevin. Nel 1950-51 erompe la prima iniziativa funzionalista. Sotto l'ispirazione di Monnet, Schuman propone la creazione di un Mercato comune dell'acciaio e del carbone sotto il controllo di un'Alta Autorità sovrannazionale, e pochi mesi dopo Pleven propone la creazione di un esercito comune europeo, che sia organizzato, armato e tenuto insieme da una Commissione sovrannazionale. La Gran Bretagna rifiuta di partecipare ad entrambe le comunità, ma le proposte sono accolte da sei stati. Lunghi e complessi negoziati diplomatici hanno inizio per tradurre i progetti in trattati internazionali. Il piano Schuman è ratificato nel corso del 1952 e diventa una realtà nell'estate dello stesso anno. Nel 1952-53 emerge dall'oscurità dei piccoli movimenti d'opinione il p11nto di vista federalista e si impone all'attenzione dei ministri e delle loro diplomazie. L'intrinseca difficoltà di creare un esercito comuqe senza che ci sia un potere politico comune cui quell'esercito appartenga, costringe i governi dei sei paesi ad accogliere la richiesta federalista. Nel settembre 1952 i governi, senza attendere la ratifica del trattato che istituisce la CED, affidano ad un'assemblea ad hoc, derivata da quella della CECA, il mandato di redigere lo statuto di una Comunità politica. Sei mesi dopo il progetto di statuto, nel quale, sia pure in modi contraddittori, molte esigenze federaliste sono accolte, è pronto ed è consegnato dall'assemblea ai ministri dei sei paesi. Nel 19 54 la resistenza congiunta delle tradizioni nazionaliste di larghi strati di destra e di sinistra della classe dirigente francese porta alla caduta della CED, ed insieme ad essa anche della Comunità politica. Malgrado la grave sconfitta cosl subita, l'europeismo

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mostra di essere ormai t1na categoria ineliminabile dalla vita politica europea, e rinasce dalle sue stesse ceneri. Mentre la CECA comincia quietamente ad impiantare il ~1ercato comune del carbone e dell'acciaio, un nuovo ciclo di azione europea comincia, ancora una volta con un piano confederale inglese. Nel 19 54-5 5 il governo Eden riesce a realizzare al posto della CED la Unione europea occidentale, composta non solo dei Sei, ma anche della Gran Bretagna. Poiché però ancora una volta il governo inglese risulta incapace di esercitare alcuna guida europea, anche l'UEO mostra rapidamente la stessa inconsistenza politica delle altre costruzioni confederali di cinque o sei anni prima. Con la conferenza di Messina nel 19 55 ha inizio il nuovo impulso funzionalista. Monnet propone una nuova autorità specializzata per lo sviluppo dell'energia atomica. I governi olandese e belga propongono di estendere il metodo di Monnet non solo a questo o quel settore dell'economia, ma all'economia nel suo insieme allo scopo di giungere alla sua unificazione. Fra il '55 e il '58 i sei governi elaborano lentamente ed infine ratificano i trattati dell'Euratom e della Comunità economica europea, correntemente chiamata Mercato comune. Tutte le manovre inglesi dirette ad opporre uno schema confederale di zona di libero scambio allo schema funzionale del Mercato comune, falliscono~ Ancor più inascoltate sono le critiche federaliste 1 dirette a costruire non solo una burocrazia europea, ma anche e soprattutto un potere governativo e legislativo europeo. I sei governi iscrivono nel trattato un preciso programma di progressiva unione doganale, si scambiano nello stesso trattato una promessa formale di progressiva unione economica, ed affidano ad una Commissione sovrannazionale il compit.o di vegliare sulla realizzazione 27

progressiva di quanto è stabilito nei trattati e di formulare proposte per le successive decisioni del Consiglio dei ministri nazionali della Comunità. Fra il '58 e la fine del '62, mentre la CECA e l'Euratom mostrano assai forti limiti nella loro capacità di espansione, il lVIercato comune, ha un enorme successo, ed il suo metodo di lavoro sembra dover diventare la via maestra della costruzione europea. Gli aspetti più propriamente politici della costruzione europea sembrano ridursi davvero a qualcosa di relativamente secondario rispetto al lavoro dell'amministrazione europea. È l'apogeo degli eurocrati. Agli inizi del '63 i limiti dell'approccio funzionale, che si erano già manifestati nelle due Comunità specializzate, appaiono bruscamente anche nel Mercato comune. Il suo successo ha creato una notevolissima interdipendenza fra i vari paesi, ed ha perciò rafforzato in molti ambienti la tendenza a vedere tutta una serie di importanti problemi come problemi da affrontare sul piano europeo; ma le decisioni da prendere vanno ormai molto al di là del mandato e delle capacità degli euro• crat1. Alcuni di questi problemi, quali la politica comune agricola e la politica commerciale comune, sono conseguenze dello sviluppo interno della Comunità stessa, ma per ciascuno di essi le decisioni in un senso o nell'altro dipendono dalla volontà politica di assegnare questo o quel compito generale alla Comunità e non dalla preferenza per questa o quella tecnica integrativa. Si tratta, ad esempio di decidere se l'economia europea dovrà avere un forte grado di autarchia in agricoltura o un forte grado di interdipendenza mondiale: se bisognerà affrontare una profonda ristrutturazione sociale ed economica dell'agricoltura, oppure assicurare la permanenza delle attuali classi sociali agricole tenendo

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scarso conto della loro produttività e della competitività dei loro prodotti, e mirando solo ad assicurare loro un tenore di vita decente a spese dell'assai più ricco settore dell'industria europea. Altri problemi sono addirittura esterni allo sviluppo dell'integrazione economica. L'adesione della Gran Bretagna al Mercato comune, la riforma dell'Alleanza atlantica, la questione del deterrente nucleare - nazionale, europeo o atlantico - sono problemi per i quali risulta ancor più evidente che solo la visione che i detentori del potere politico hanno del compito storico dell'Europa può determinare la risposta da dare. Il Mercato comune tutto intero, con la sua massa di interdipendenze e con i suoi uffici è qualcosa che può essere subordinato all'una o all'altra meta politica, e non ha in tutte queste materie alcuna competenza per dire alcunché. Gli eurocrati devono attendere a capo chino ed accettare la scelta che sarà fatta da chi ha il potere di fare scelte politiche. Tutta la costruzione funzionale era fondata sull'ipotesi che il potere di decidere sarebbe rimasto, sl, nelle mani dei governi, ma che nel frattempo la burocrazia europea avrebbe creato solidarietà concrete di interessi e regole comuni, condizionando in misura crescente le decisioni dei governi. Finché si è trattato delle conse-guenze amministrative che la burocrazia europea doveva trarre da scelte comuni già fatte e già iscritte nei trattati, il metodo ha funzionato; ma esso ha cominciato ad incepparsi quando si è trattato di scelte politiche nuove. Ha dato inizio il governo francese oppo-nendosi all'ingresso inglese nel Mercato comune, perché ciò non corrispondeva all'idea che esso si faceva dell'Europa. Hanno fatto seguito il governo tedesco e quello italiano con la lunga e tenace opposizione a prezzi comuni dei cereali che non corrispondevano alle poli-

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tiche agricole conservatrici sostenute da questi paesi. Gli ostacoli frapposti da questo o quel governo hanno generato gravi tensioni nell'interno del Mercato comune, hanno rallentato e talvolta fermato il processo di integrazione economica, ma non sono finora stati tali da disfare quel che era stato creato. Le istituzioni comunitarie e le interdipendenze fra le sei economie non sono qualcosa di irreversibile, potendo ancora essere spezzate ed annullate dalla riottosità eventuale di uno o più stati, poiché la Comunità non dispone di alcun mezzo per imporre il rispetto delle sue leggi. Tuttavia l'interdipendenza creata dal Mercato comune è ormai tale che le forze politiche predominanti nei sei paesi hanno continuato a sentirsi impegnate alla costruzione ulteriore dell'unità anche quando si è sviluppata questa o quella tendenza centrifuga. Le intrinseche deficienze del metodo funzionale stanno tuttavia facendo tornare ancora una volta alla ribalta il problema del potere politico. Da una parte de Gaulle ha ripresentato la tesi confederale, proponendo di riunire i paesi della Comunità in una associazione di stati sotto la guida francese. Risentimenti nazionalisti, sogni autarchici, autoritarismo, disprezzo per la democrazia, volontà di potenza specie in campo nucleare, sono gli sgradevoli, ma vigorosi ingredienti di tale politica. D'altra parte, in modo per ora meno chiaro, si assiste, questa volta in seno alle sinistre democratiche dei vari paesi, ad una ripresa di interesse per l'impostazione federalista. Si parla di Europa dei popoli da opporre all'Europa degli stati o delle patrie, di democratizzazione delle Comunità, di elezioni europee. Se si confronta questo nuovo ciclo dell'avventura europea, appena iniziatosi e del quale non si possono perciò ancora conoscere gli sviluppi, con i cicli prece30

denti, si scorge una differenza fondamentale. Prima del Mercato comune l'unità europea era una meta ideale, ma nella realtà non esisteva nulla. Confederalismo, funzionalismo, federalismo erano tre inizi dal nulla. Oggi, inizio del 1965, un'iniziale realtà europea unificata esiste. C'è la grossa realizzazione funzionalista di una burocrazia europea indipendente dalle amministrazioni nazionali, diretta da quegli strani e difficilmente definibili organi sovrannazionali che sono i cosiddetti >. Intorno a questo centro c'è un insieme di centri d'azione che subiscono gli impulsi provenienti da quella burocrazia, e reagiscono ad essi in modi vari, ma comunque muovendosi sul piano europeo. L'Europa non ha ancora una testa politica, ma ha ormai un corpo, che è quello delle Comunità. Sono stati i funzionalisti a vincere la gara della prima creazione europea vitale, e perciò quel tanto di Europa che è nato non è né l'Europa del popolo, né quella degli stati, ma quella degli uffici sovrannazionali. Il tema politico posto dai federalisti e dai confederalisti è tutt'altro che scomparso, ma la realtà eurocratica ha indotto gli uni e gli altri a metter da parte le loro vecchie polemiche contro il metodo funzionale. Entrambi accettano ormai l'Europa degli uffici con la loro tenace costruzione di minuziose regole comuni. Ma entrambi chiedono che questa amministrazione sia subordinata ad un potere politico: ad un governo federale nel primo caso, ad un consesso di capi di governi nell'altro. Volendo descrivere, come ci proponiamo di fare nelle pagine seguenti, i principali centri di azione europea oggi esistenti, è quindi del tutto naturale che l'indagine prenda le mosse dall'operosità del corpo degli eurocrati. I loro più caratteristici modi di comportarsi costituiscono anche, come vedremo, un criterio valido per la valutazione degli altri centri di azione europea.

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CAPITOLO SECONDO

GLI

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MINORI

1. L'Alta Autorità della CECA

Nel suo iniziale progetto di Comunità per il carbone e l'acciaio Jean Monnet aveva previsto un'Alta Autorità dotata di un'assai grande indipendenza, entro i limiti che sarebbero stati definiti nel trattato, e non impastoiata né da un parlamento né da un Consiglio di rappresentanti degli stati membri. Fin dagli inizi del lungo negoziato, egli si accorse tuttavia che bisognava accettare queste due istituzioni supplementari, imposte la prima da una tal quale esigenza democratica, la seconda dalla gelosia dei governi per i loro propri diritti so• vran1. L' > della CECA, confluita più tardi nel parlamento europeo delle tre Comunità è rimasta un inconsistente omaggio fatto alla democrazia. È priva di qualsiasi potere legislativo e fiscale, non partecipa alla nomina dell'Alta Autorità, ed il potere, riconosciutole dal trattato, di rovesciare l'esecutivo con un voto di censura è legato alla condizione quasi insormontabile, di una maggioranza di due terzi dei votanti. Un reale e forte freno all'indipendenza dell'Alta Autorità è invece costituito dalla presenza del Consiglio dei ministri nazionali. In generale il Consiglio non decide, ma solo autorizza con un > le decisioni le quali sono prese dall'Alta Autorità. L'art 26 del trattato precisa che questi pareri conformi sono dati specialmente allo scopo di armonizzare l'azione dell'Alta Autorità, limitata al carbone ed all'acciaio~ con quella dei governi responsabili della politica economica 3.3

generale ciascuno del proprio paese. Malgrado questi limiti l'Alta Autorità ha ricevuto un grado di autonomia formale che non è stato concesso a nessun'altra delle amministrazioni europee progettate o realizzate sue• cess1vamente. Ha anzitutto l'indipendenza finanziaria dagli stati membri, perché le sue risorse provengono da un > cioè da una tassa europea che essa stessa impone e percepisce direttamente dai produttori di carbone e • • acc1a.10. Il periodo di transizione che precede l'abolizione delle barriere interne è brevissimo. Una volta stabilito il Mercato comune, l'Alta Autorità formula piani indicativi di produzione, impartisce consigli a ditte ed a governi, emette prestiti sui mercati finanziari comunitari ed esteri, finanzia programmi di investimenti e di assistenza sociale, interviene, se necessario, in materia di prezzi e di salari, autorizza le concentrazioni industriali, proibisce e scioglie le intese che falsano la concorrenza. La missione dell'Alta Autorità di instaurare un mercato ordinato per le industrie del carbone, del minerale di ferro, della ghisa, dell'acciaio e del rottame, di garantirne la permanenza, e di assicurare il rispetto e lo sviluppo dei diritti sociali dei suoi lavoratori, è definita con molta precisione nel trattato. Poteri di decisione sono trasferiti dalle istanze nazionali all'Alta Autorità, la quale nell'ambito delle sue competenze im.partisce non solo avvisi, ma anche decisioni alle quali i destinatari, governi o ditte, sono tenuti a • sottomettersi. Nella nomina stessa dell'Alta Autorità il trattato prevede per essa garanzie di indipendenza maggiori che per le altre due Comunità. La durata in carica dei membri dell'Alta Autorità è di 6 anni. La nomina è di 8 membri su 9 (il nono essendo cooptato dagli altri) per le

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prime due volte, cioè al momento della formazione del1'Alta Autorità e sei anni dopo. Successivamente il rinnovamento avviene per terzi ogni due anni, una volta mediante nomina da parte dei governi ed una volta per cooptazione. I governi hanno quindi avuto la possibilità di decidere quale dovesse essere la composizione globale dell'Alta Autorità solo le prime due volte, nel 1952 e nel 19 5 8. Dopo di allora essi possono cambiare solo 3 membri ogni 4 anni. Se si confrontano le modalità della nomina delle Commissioni della CEE e dell'Euratom, le quali durano solo quattro anni e vengono nominate per intero dai governi, la maggiore indipendenza del primo esecutivo europeo balza evidente agli occhi. Non è nostro compito esaminare qui nei dettagli l'opera dell'Alta Autorità. Essa ha indubbiamente contribuito a far sparire molte delle discriminazioni e distorsioni che nel passato imperavano nel mercato di questi prodotti basilari dell'economia europea; ha facilitato la politica degli investimenti; si è battuta senza grande successo contro le pratiche monopolistiche, ma ha probabilmente contribuito ad attenuarle, ha promosso una non trascurabile attività sociale verso i lavoratori delle miniere e degli altiforni. Nonostante tutto ciò non si può dire che l'Alta Autorità sia stata con la sua opera un motore apprezzabile di unificazione europea. I padri della CECA avevano avuto una favolosa illusione di tipo tecnocratico. Essendo il carbone la fondamentale sorgente dell'energia in Europa, e l'acciaio la fondamentale materia prima nell'industria meccanica europea, chi avesse disposto del controllo su queste due produzioni sembrava dover essere in grado di trascinare dietro di sé l'intera economia dei sei paesi verso l'integrazione comunitaria. Carbone ed acciaio apparivano come due anelli di una catena, afferrando i quali tutta la

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catena sarebbe stata trasportata 11ella direzione voluta. In realtà, anzitutto, il controllo esercitato dall'Alta Autorità sul carbone e l'acciaio era solo una specie di polizia europea del mercato di questi due prodotti. Non determinava né il flusso della loro produzione, né la direzione della loro utilizzazione, e non poteva quindi in alcun modo esercitare quel previsto trascinamento del resto dell'economia. In secondo luogo, al di fuori del sogno tecnocratico, la realtà era che, quale che fosse l'importanza del carbone e dell'acciaio, il loro andamento rispetto all'economia nel suo complesso era assai più determinato che determinante. Nel 1956 gli uffici dell'Alta Autorità giunsero ad im·· maginare un progetto di programmazione orientativa dell'economia europea nel quale si affermava che se si voleva mantenere l'allora vigente saggio di sviluppo per il carbone, era necessario che l'economia nel suo complesso avesse un saggio di sviluppo del 3 % . L'idea, in sé strana, di dedurre non già il saggio di sviluppo dell'industria carboniera da quello dell'economia nel suo complesso, ma quest'ultimo dal primo, non poteva nascere che dall'ambiziosa convinzione che il Consiglio dei ministri nazionali avrebbe accolto dall'Alta Autorità e trasmesso ai singoli governi le direttive di fondo circa le loro singole politiche economiche. Naturalmente i governi si guardarono bene dal dare alcun seguito a questi consigli dell'Alta Autorità. Lungi dal potere espandere la propria sfera d'azione l'Alta Autorità l'ha vista progressivamente diminuire a partire dal giorno della sua inaugurazione. L'eccessiva sua specializzazione, e l'eccessiva precisione del mandato conferitole dal trattato, tolsero praticamente ali'Alta Autorità ogni possibilità anche solo di pretendere di essere un centro di decisioni che andassero al di là della stretta esecuzione del trattato. Ma persino entro 36

questo ambito la sproporzione fra la sua responsabilità di controllo di un limitato settore dell'economia e la responsabilità dei governi nazionali di controllo di tutto il resto dell'economia era tale che l'Alta Autorità cominciò ben presto a chiedere il parere del Consiglio anche nei campi in cui non era tenuta a chiederlo, mentre lentamente il potere del Consiglio di dare il parere conforme cominciò a trasformarsi di fatto in un vero e proprio potere di decisione. Il limite insormontabile di questa autorità specializzata risultò evidente quando ebbe inizio la lunga crisi di sovrapproduzione del carbone. L'Alta Autorità aveva previsto un accrescimento costante della domanda ed era convinta di dover per un lungo periodo vegliare solo acché i prezzi del carbone non crescessero troppo. Aveva quindi incoraggiato le società minerarie ad una estrazione intensificata di carbone. Quando nel 19 57 i prezzi cominciarono a crollare e le giacenze ad accumularsi sui piazzali delle miniere, essa credette in un primo momento che si trattasse solo di un ingorgo congiunturale e tentò a più riprese di proporre misure comunitarie. Fu questo un primo tentativo di politica comune nel campo del carbone, ma le misure proposte contraddicevano le politiche economiche dei governi e furono respinte dal Consiglio. Ogni stato affrontò a modo suo la propria situazione carboniera, e l'unico accordo comunitario raggiunto fu quello che consistette nell'accordare al Belgio, più gravemente colpito, il diritto di isolare di nuovo il suo mercato del carbone da quello della Comunità e di utilizzare ulteriori sussidi della Comunità, oltre quelli già ricevuti nel periodo transitorio, per tentare di raddrizzare la sorte delle proprie miniere meno redditizie. L'impossibilità di impostare una politica comune per il carbone non dipendeva solo dal fatto che l'Alta Auto37

rità non poteva influenzare la politica economica generale dei singoli paesi, ma anche in particolare dal fatto che la sua analisi iniziale della crisi come crisi congiunturale era errata, poiché in realtà si trattava di una crisi strutturale dell'industria estrattiva del carbone, dovuta all'irrompere sul mercato di sempre più grandi quantitativi di petrolio e di gas naturale. Da allora il prestigio dell'Alta Autorità è rimasto bassissimo. La sua effettiva riduzione al ruolo di poco più che semplice ufficio di collegamento e di finanziamento comune fra le industrie europee del carbone e dell'acciaio, non è diventata del tutto di pubblico dominio, solo perché a partire dal 1958, cioè praticamente dal momento della sua disfatta, essa ha potuto vivere celata nell'ombra del Mercato comune. L'influenza della CECA in generale e dell'Alta Autorità in particolare nel moto di unificazione europea non è consistito tanto nel grado di unità realizzato nel mercato del carbone e dell'acciaio, quanto nell'effetto psicologico prodotto dalla nascita di questo primo complesso di istituzioni sovrannazionali, le quali in piccola parte erano ed in parte molto maggiore sembravano essere una prima breccia nella muraglia cinese delle sovranità nazionali. Attraverso quella breccia passò ben poco, perché, come abbiamo visto, la CECA non possedeva capacità di espansione. Le nuove iniziative europee continuarono ad essere progettate e messe in moto dai protagonisti europei della prima ora, e vennero a porsi accanto alla prima Comunità senza esserne affatto sviluppi organici. Tuttavia la CECA, per il solo fatto di esistere, servl da modello agli altri progetti di unificazione funzionale. Il progetto della CED e successivamente l'Euratom e la CEE riprodussero con alcune notevoli attenuazioni, che esamineremo più avanti, lo schema istituzionale della Comunità carbosiderurgica. 38



2. La Commissione dell'Euratom Dopo il fallimento della CED e della Comunità politica, che ebbe luogo mentre la CECA era in pieno sviluppo e non aveva ancora mostrato le sue intrinseche debolezze, le grandi speranze di Monnet e dei seguaci del suo metodo andarono tutte riposte nella ripetizione, in un altro settore di importanza cruciale) del tentativo apparentemente cosi ben riuscito per il carbone e per l'acciaio. L'occasione questa volta offerta fu la messa in comune non dell'energia del presente ma di quella del futuro. L'idea di un'agenzia specializzata europea per lo sviluppo pacifico dell'energia atomica si presentava invero con tratti assai persuasivi. Studi di esperti avevano avvertito che entro pochi anni l'espansione ulteriore dell'economia europea avrebbe raggiunto un limite praticamente invalicabile a causa di una imminente e pericolosa penuria d'energia, la quale sarebbe stata mondiale, ma avrebbe colpito l'Europa prima di tutti gli altri continenti perché le riserve energetiche non ancora sfruttate erano in Europa assai minori che ovunque altrove. L'unica fonte nuova, teoricamente inesauribile, era l'energia atomica, la cui produzione a scopi industriali non era ancora redditizia, ma avrebbe raggiunto prezzi competitivi nel giro di pochi anni in conseguenza del progressivo inevitabile decrescere dei propri costi di produzione e del progressivo altrettanto inevitabile aumento dei prezzi dell'energia classica, cioè, in Europa, essenzialmente del carbone. Le spese per la ricerca scientifica, per l'acquisto del materiale fissile, per la costruzione delle centrali di potenza, per l'adozione delle misure di sicurezza, e per la copertura degli ingenti rischi economici connessi a tale impresa, sarebbero state talmente elevate, da essere assai meglio coperte 39

ed assai più razionalmente impiegate, se pi~ni, risorse ed esecuzione fossero posti nelle mani di un'agenzia europea. I poteri di un'agenzia pubblica sull'insieme della ricerca, della produzione e dell'utilizzazione dell'energia nucleare sarebbero stati inevitabilmente assai estesi, perché la natura stessa di questa nuova avventura scientifico-industriale la metteva praticamente al di fuori dell'economia di mercato. L'esclusione totale dell'impresa privata non si imponeva necessariamente, ma anche laddove questa fosse stata ammessa, essa avrebbe necessariamente assunto un ruolo subordinato rispetto ai poteri pubblici. Ora, un vantaggio provvidenziale per la costruzione di un'agenzia specializzata europea era costituito dal fatto che, al di fuori della Francia, la quale aveva già in stadio di avanzata esecuzione piani di ricerche nucleari, in nessun altro paese c'erano i11teressi costituiti nazionali, né pubblici, né privati, perché un'industria nucleare non esisteva. Il governo francese, probabilmente consapevole della impossibilità di mantenere a lungo il piccolo vantaggio iniziale, mostrava di essere assai ben disposto alla costituzione di una Co. ' . munita atomica europea. Coloro che erano convinti della possibilità di una costruzione dell'Europa mediante agenzie sovrannazionali specializzate, esercitanti il controllo su settori determinanti della vita economica, già vedevano con gli occhi dell'immaginazione come le due Comunità addette al controllo dell'energia di oggi e di quella di domani: cioè del carbone e dell'atomo, sarebbero diventate di fatto i due più importanti centri decisionali dell'economia dei sei paesi, ed avrebbero trasformato progressi-vamente questa a loro immagine. Però nel tradurre questo ideale nella realtà del trattato dell'Euratom, qualcosa è andato perduto. La caduta

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della CED avendo mostrato che le resistenze nazionali erano più forti di quanto si fosse creduto, i negoziatori dei nuovi trattati erano ormai meno disposti a concedere alle nuove amministrazioni europee un grado di autonomia simile a quello che era stato riconosciuto a).l'Alta Autorità della CECA. Anzitutto l'Euratom non ha autonomia finanziaria. Le sue risorse sono costituite da contributi degli statimembri, e non da prelievi comunitari direttamente imposti ai cittadini o a certe categorie di cittadini, come è invece il caso per la CECA. L'Euratom non ha nemmeno alcun potere di emettere prestiti sui mercati fi• • nanz1ar1. In secondo luogo il Consiglio dei ministri nazionali non è l'organo che dà > ma è senz'altro l'organo che prende le decisioni necessarie per l'applicazione del trattato, sia pure di regola su proposte della Commissione. I compiti esecutivi della Commissione restano notevoli. Assicura l'esecuzione dei programmi comuni di ricerca scientifica e tecnica. Dirige un centro comune di ricerche ~ucleari e crea nel suo ambito scuole per la formazione di specialisti. Garantisce la diffusione delle conoscenze raggiunte dal centro comune. Prepara le norme comuni per la protezione sanitaria della popolazione e dei lavoratori contro i pericoli della radioattività e veglia alla loro osservanza. Viene informata dei progetti di investimenti che vengono fatti nella Comunità per lo sviluppo dell'industria nucleare, e pubblica periodicamente programmi indicativi. Ha sotto il suo controllo un'agenzia incaricata di approvvigionare la Comunità dei minerali, materie grezze e materie fissili occorrenti per lo sviluppo nucleare. Controlla con suoi ispettori che i minerali, le materie grezze e le materie fissili speciali non siano distolte dagli usi ai quali gli

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utilizzatori hanno dichiarato di destinarli, e che siano rispettate le disposizioni particolari impartite dalla Comunità. Veglia sul rispetto delle norme di libera circolazione delle merci interessanti la produzione nucleare all'interno della Comunità, e sulla comune protezione doganale rispetto a quelle provenienti dall'esterno. Negozia, per conto della Comunità e nell'ambito delle competenze di questa, accordi e convenzioni con stati terzi e li sottomette successivamente all'approvazione del Consiglio. Dei tre esecutivi europei esistenti quello dell'Euratom è quello che più pienamente risponde alla formula di una agenzi3. specializzata, la quale gestisce direttamente o controlla strettamente un preciso settore dell'economia e della ricerca scientifica nell'interesse della Comunità. Si può dire senza tema di smentita che quel che la Commissione dell'Euratom ha realizzato nei primi sette anni della sua esistenza è senz'altro positivo. Ha facilitato la collaborazione fra gli stati nello sviluppo di una nuova attività che avrebbe potuto facilmente coprirsi di segretezza e protezionismo, con giustificazioni di sicurezza nazionale assai facili da inventare. Ha contribuito a recuperare buona parte del ritardo tecnologico e scientifico in cui l'Europa si trovava in questo campo. Ha facilitato la collaborazione fra la Comunità ed il paese più avanzato nel campo nucleare, perché gli Stati Uniti, mantenendosi fedeli al loro tradizionale atteggiamento di simpatia per ogni impresa di unificazione europea, hanno rapidamente concluso accordi speciali con l'Euratom particolarmente vantag• • g1os1 per questo. Nonostante questi innegabili risultati positivi l'influenza dell'Euratom nel processo di unificazione europea è stato praticamente nullo. Non bisogna infatti confondere l'unificazione con l'esecuzione di alcune at42

tività scientifiche od economiche per conto di stati che mantengono in proprio l'esercizio del tutto autonomo di quelle stesse attività. Le ferrovie e le poste dei paesi europei conoscono da molto tempo una complessa rete di servizi comuni, ma non per questo si può dire che ci sia mai stato un vero moto verso la formazione di una unificata amministrazione soprannazionale, postale o ferroviaria. Le ragioni del fallimento delle speranze riposte nell'Euratom come fattore di unità dipendono in parte dalla struttura stessa dell'Euratom, in parte da un motivo esterno ad esso e non previsto dagli ideatori di questa Comunità. Il motivo interno è che l'Euratom non ha avuto giurisdizione completa sull'intero campo nucleare. L'iniziale speranza di conferire all'Euratom la responsabilità complessiva di direzione dello sviluppo scientifico e industriale del settore atomico dei sei paesi è rapidamente svanita nel corso stesso dei negoziati. Era bensì vero che non esistevano praticamente interessi costituiti in materia nucleare, al di fuori di quelli francesi, ma c'erano già complessi sogni di espansione nucleare poggianti tutti su strutture nazionali. Per dare all'Euratom un controllo globale sul suo settore, analogo a quello posseduto dalla CECA, il governo francese avrebbe dovuto fare il gesto decisivo di trasferire agli organi dell'Euratom i poteri detenuti dal Commissariat pour l'énergie atomique. Solo a questa condizione esso avrebbe potuto ottenere dagli altri la rinunzia a costruire le progettate amministrazioni nazionali analoghe a quella del Commissariat. La resistenza maggiore a questo gesto veniva non tanto dall'amministrazione, il cui personale comunque poteva agevolmente prevedere che avrebbe occupato una posizione predominante per un lungo periodo in un'amministrazione atomica europea, quanto dal fat43

to che già nel periodo dei negoziati per l'Euratom i governi francesi avevano ormai deciso di costruire la loro bomba atomica nazionale, ed a questo scopo avevano bisogno di mantenere una larga autonomia di ricerche, di produzione, di investimenti. Se però lo stesso governo francese, che era stato il principale sostenitore della costituzione dell'Euratom, lo concepiva come un'integrazione e non una sostituzione delle iniziative nucleari nazionali, nessun altro, fra i governi che partecipavano al negoziato, era disposto a battersi per una autentica messa in comune dell'energia nucleare. Dietro a ciascun governo c'era soprattutto l'autorevole gruppo di pressione dei fisici nucleari dei singoli paesi, i quali sostenevano tutti l'urgenza di un assai forte impegno nucleare, scientifico ed industriale, ed auspicavano a tale fine la creazione di una centralizzata amministrazione degli affari nucleari che promuovesse con mezzi adeguati quello sviluppo. Ma al grado di avanzamento della loro coscienza di fisici nucleari non corrispondeva un uguale grado di avanzamento della loro coscienza politica; e pur essendo assai spesso di orientamento genericamente europeista e magari addirittura universalista, questi scienziati chiedevano in ogni singolo paese solo la creazione di amministrazioni nazionali, nelle quali essi avrebbero contato molto più che in un'amministrazione europea, ed avrebbero perciò più facilmente potuto promuovere lo sviluppo del tale istituto di ricerca, della tale impresa produttrice di energia, talvolta anche solo dei tali interessi economici. Poiché ciascun governo aveva la sensazione della necessaria modestia dei propri impegni nucleari, se confrontati con quelli delle tre potenze nucleari già esistenti - Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito - non ci furono opposizioni sostanziali alla creazione della Comunità atomica europea. Poiché però tutti i governi, 44

ed in particolare quello tedesco e quello italia110 oltre quello francese, avevano loro particolari ambizioni nucleari nazionali, l'Euratom fu concepito e realizzato come un impegno comune che si aggiungeva a quelli nazionali, ma non li sostituiva in alcun modo. Conseguenza di questo parallelismo è stata che mentre da una parte l'Euratom promuoveva una solidarietà • • • • • • • • • europea crescente, 1 vari comm1ssar1at1, com1tat1 e ministeri nazionali per l'energia atomica promuovevano la separazione, la gelosia e la diffidenza reciproca. Il contrasto fra sviluppo europeo e sviluppo nazionale appare evidente se si confrontano i bilanci di ricerche dell'Euratom e le spese nucleari dei paesi della Comunità. Nel presentare recentemente (marzo 1965) questi dati al parlamento europeo, il relatore on. de Groote ha giustamente sottolineato che essi servono solo a dare un'idea degli ordini di grandezza, poiché non comprendono l'ammontare delle ricerche o degli investimenti fatti dalle imprese private, e non permettono la differenziazione fra i crediti con obiettivi paM cifici e quelli con finalità militari. I dati sono in milioni di dollari (vedi le tabelle 1 e 2 a pagina seguente). Cosa è, e cosa può essere l'Euratom in queste circostanze? Nei primi rapporti annui della Commissione dell'Euratom si ritrovava regolarmente un'espressione che sottolineava bene l'ambizione dei primi anni: > (v. I Relazione generale, par. 44; IV Relazione generale, par. 86). Dietro questa formula e' era il tenace ma vano sforzo dei primi due presidenti della Commissione Louis Armand e Etienne Hirsch di subordinare i commissariati nucleari nazionali all'Euratom. L'unico risultato di questa lunga, silenziosa tensione è però stato che quando alla fine del quarto anno

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TABELLA

1

BILANCIO DELLE RICERCHE EURATOM

1962

71,4

1963

95,9

1964

94,7

TABELLA

2

BILANCI DEI SINGOLI STATI Spese pubbliche interne

Contributi • • a organ1sm1 europei• e internazionali

Centrali nucleari

Totali

Belgio

1962 1963 1964

10,6 12,4 13,3

7,310 8,774 13,100

8,0 9,0 12,3

23,910 30,174 38,700

Rep. Fed. Tedesca

1962 1963 1964

90,853 137,389 133,0

24,558 30,083 36,727

8,5 17,0 17,0

123,911 184,472 186,727

Francia

1962 1963 1964

266,4 295,0 414,0

24,930 28,986 30,0

45,2

63,4 60,0

336,530 387,386 504,0

18,564 22,000 27,788

49,5 33,0 13,6

105,542 84,282 68,588

Italia

1962 1963 1964

Lussemburgo

1962 1963 1964

Pftesi Bassi

1962 1963 1964

10,490 12,080 16,690

1962 1963 1964

415,824 486,1546 604,194

Totali

46

37,478 29,282 27,2 0,003 0,0036 0,004

0,141 0,1666 0,195

0,138 0,163 0,191

16,462 19,054 24,839

5,972

6,974 8,149 81,472 97,344 115,955

111,2 122,4 102,9

608,496 704,9986 823,049

la Commissione giunse al termine del suo mandato, il governo francese comunicò senza ambagi che avrebbe sostituito Etienne Hirsch, colpevole di eccessivo europeismo, con un altro membro francese, più docile verso le esigenze di indipendenza nucleare nazionale. I rapporti firmati dal nuovo presidente Chatenet definivano in modo sintomaticamente diverso quella che avrebbe dovuto essere la missione dell'Euratom: . Le vecchie Università si sono però opposte a questo progetto la cui realizzazione è stata sottratta alla Commissione; e quando il governo italiano ha mostrato di volersene interessare, l'ambizioso progetto iniziale di una Università europea si è trasformato in quello di una scuola di perfezionamento postuniversitario. La politica comune dell'energia, il cui controllo centrale europeo era apparso ai funzionalisti come una delle più sicure e più possenti leve con cui unificare 49

l'Europa, si è paradossalmente tradotta in organismi istituzionali irrazionali e mal coordinati fra loro. Fra tutti i fattori del processo economico proprio l'energia si trova oggi sottoposta al controllo di tre diverse e distinte Comunità: la CECA è competente per l'energia proveniente dal carbone; l'Euratom per quella proveniente dall'atomo; il Mercato comune per quella proveniente dal petrolio e dai gas naturali. Proprio nel momento in cui una visione complessiva del problema energetico si imponeva, l'organo comune europeo mancava. Nel maggio 1959 su iniziativa dell'Alta Autorità della CECA è stato costituito un gruppo di lavoro permanente >, composto di rappresentanti di tutte e tre le Comunità, ed incaricato di formulare progetti di politica energetica comune. Era il primo segno che le due Comunità specializzate non avevano più molto senso come Comunità staccate da quella economica generale. Da allora non si è riusciti ancora né ad introdurre una politica energetica comune, né a fondere in una sola le tre Comunità. Ma il problema è rimasto sul tappeto.

CAPITOLO TERZO

LA COMMISSIONE DEL MERCATO COMUNE 1. Il compito del Mercato comune Il rilancio europeo deciso nella conferenza intergovernativa di Messina del 19 55 aveva messo in moto due negoziati simultanei ma distinti, che si conclusero con la ratifica di due trattati e la· nascita di due Comunità separate: la Comunità europea dell'energia atomica (CEEA), detta anche Euratom, e la Comunità economica europea (CEE), chiamata correntemente ~lercato comune. Un minimo di razionalità avrebbe dovuto esigere che l'intero problema dello sviluppo nucleare fosse trattato come un capitolo speciale del trattato concernente il più vasto Mercato comune. Ma per le categorie mentali funzionaliste, cui ormai erano abituati i negoziatori, il Mercato comune era qualcosa di troppo vago. Era troppo sottoposto alle aleatorie esigenze della politica, e non sembrava perciò facilmente dominabile mediante il delicato meccanismo delle autorità specializzate. Queste esigevano infatti un mandato molto preciso e dettagliato, che rassicurasse i governi facendo loro sentire di non essere caduti in balìa di una autorità sovrannazionale, e che permettesse tuttavia a tale autorità una libertà di azione, limitata ma reale. Se· fosse dipeso da loro, i funzionalisti avrebbero volentieri fatto a meno del Mercato comune, rinviandone la realizzazione a dopo aver costituito varie autorità o comunità specializzate. Anche il governo francese era piuttosto reticente verso l'idea di un Mercato comune, in parte perché l'approccio funzionalista era assai radicato negli uomini

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dell'amministrazione, e attraverso loro negli uomini della politica che si occupavano delle cose europee, ma sopratt11tto perché la Francia, sola fra i paesi dell'Europa occidentale, continuava in quegli anni ad avere una moneta artificiosamente sopravvalutata, che faceva apparire scarsamente competitiva la sua economia. Il negoziato sul Mercato comune si aprì e giunse a conclusione positiva solo perché i governi olandese e belga, col sostegno di quello tedesco, preoccupati dal punto morto cui era ormai arrivata l'OECE, e scarsamente fiduciosi che le unificazioni per settore avrebbero aperto loro i mercati di cui le loro economie avevano bisogno, fecero del Mercato comune la condizione della loro accettazione dell'Euratom. Poiché però fino alla fine non svanì la speranza che forse il Mercato comune non si sarebbe realizzato, i due negoziati ed infine i due trattati furono tenuti accuratamente separati, e la CEE non fece la fine della CED o della Comunità politica solo perché gli associati della Francia fecero comprendere senza equivoci che i due trattati sarebbero stati ratificati o sarebbero caduti insieme. Del resto nel frattempo i negoziati avevano provveduto a limitare drasticamente i poteri dell'organo sovrannazionale della CEE e ad introdurre forti clausole di salvaguardia, fornendo in tal modo importanti garanzie a tutti gli stati ed in particolare alla Francia, la quale avrebbe potuto praticamente mantenere, se lo a\Tesse voluto, il proprio mercato al di fuori del processo di unificazione. Ora è accaduto che la Comunità del Mercato comune, figlia spuria del pensiero funzionalista, accompagnata nel suo atto di nascita da numerosi segni di diffidenza, e nella cui vitalità, sia pure per ragioni diverse, credevano assai poco i governi, i funzionalisti ed i federalisti, si è rivelata la più vigorosa delle tre Comunità, anzi l'unica che abbia dato vita nel suo seno ad un vigoroso 52

e decisivo centro di iniziativa europea, dotato di continuità e di forza d'espansione. Per intendere come ciò abbia potuto accadere conviene soffermarsi su alcune caratteristiche costituzionali della CEE. Le istituzioni del Mercato comune sono costruite sul modello di quelle, già esistenti, della CECA, di quelle, invano tentate, della CED, e di quelle, di simultanea elaborazione, dell'Euratom. C'è una Commissione, un Consiglio, un'Assemblea parlamentare (più tardi impropriamente ribattezzata parlamento europeo), una Corte di giustizia, una serie complessa di comitati consultivi, primo fra i quali il Comitato economico e sociale. Come nelle altre due Comunità, il dinamismo del Mercato comune è affidato essenzialmente al dialogo fra la Commissione ed il Consiglio dei ministri. I poteri di questi due organi ed i loro reciproci rapporti sono determinati nel trattato, ed è nella indicazione del loro compito che il trattato della CEE differisce non poco dagli altri due. Questi hanno infatti come loro oggetto specifici settori delle economie: la produzione ed il commercio del carbone, dell'acciaio, dell'energia nucleare. L'oggetto della CEE è invece l'economia nel suo complesso. Compito della Comunità è, secondo l'art~ 2 del trattato, con deliberazione unanime e di sua iniziativa, decidere > (art. 84 ). Non si può certo dire che si tratti di un impegno molto forte o molto preciso. 2) L'equilibrio delle bilance nazionali dei pagamenti

e il mantenimento della fiducia nelle singole monete, restano compiti dei singoli stati i quali si scambiano nel trattato la reciproca promessa di coordinare le loro politiche economiche in genere e le loro politiche monetarie in particolare. L'impegno è talmente vago che si ammette senz'altro l'ipotesi che uno stato membro, pur considerando la propria politica in materia monetaria come un problema di interesse comune, possa proce70

dere alla unilaterale decisione di modificare i propri tassi di cambio, ed anche all'unilaterale decisione d.i adottare, in caso di improvvisa crisi nella bilancia dei pagamenti, misure di salvaguardia, di natura non precisata nel trattato, ma che evidentemente consisterebbero in una qualche forma di sospensione di questa o quella, o magari anche di tutte le misure di integrazione vigenti. Per attenuare il pericolo di rottura generale di quel tanto di Mercato comune che fosse già realizzato, un modesto ruolo di consulenza o assistenza è riconosciuto al Consiglio ed in particolare alla Commissione. Questa può infatti presentare al Consiglio (art. 1O5, 1 ) ed ai singoli (art. 1O8, 1 ) raccomandazioni concernenti il coordinamento delle politiche economiche nazionali. Può, in caso di modificazione unilaterale di un tasso di cambio nazionale, autorizzare gli altri stati a prendere le misure necessarie per ovviare alle conseguenze di quella azione unilaterale, definendone però essa le condizioni, le modalità e la durata (art. 107 ,2). In caso di difficoltà grave nella bilancia dei pagamenti di uno stato, ove questo non fosse in grado di sormontarla con i propri mezzi, il Consiglio può, su raccomandazione della Commissione fissare con direttive e decisioni le condizioni e le modalità del cosiddetto >, cioè di una assistenza sotto forma di crediti, di riduzioni doganali o di altre misure di emergenza dirette ad aiutare lo stato in difficoltà. Se il concorso reciproco non è accordato o non è sufficiente, la Commissione autorizza il paese ad adottare unilateralmente misure di salvaguardia, delle quali essa definisce condizioni e modalità. Tale autorizzazione può però essere revocata o modificata, a maggioranza qualificata dal Consiglio. Se infine le misure di salvaguardia sono adottate uni-

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lateralmente da uno stato, la Commissione può proporre il concorso reciproco, e il Consiglio può, su parere della Commissione, decidere a maggioranza qualificata che lo stato debba modificare, sospendere o abolire tali misure. 3) La politica sociale, salvo alcune disposizioni con-

nesse con la mobilità della mano d'opera, con la regolamentazione del fondo sociale, e con l'impegno degli stati alla parità dei salari maschili e femminili, resta anch'essa praticamente di competenza nazionale, essendo alla Commissione affidato solo il compito di studiare la situazione sociale della Comunità, e di promuovere genericamente la collaborazione fra gli stati in questo campo. L'inerzia quasi completa che ha regnato nei settori coperti da questa categoria delle promesse intergovernative, fornisce in un certo senso la controprova dell'importanza della Commissione come forza di propulsione del moto verso l'integrazione. Abbandonati a sé, i governi nazionali non hanno mai trovato il tempo di tradurre in precise azioni comuni il loro impegno a considerare questi campi come di interesse comune. Solo negli ultimi tempi, soprattutto quando difficoltà della bilancia dei pagamenti e pressioni inflazionistiche hanno cominciato a farsi sentire in alcuni paesi della Comunità, la Commissione, andando oltre le sue competenze formali, ha cominciato a sollevare il problema della progressiva introduzione di una politica monetaria comune, e di una programmazione comune delle poli tiche economiche nazionali. Muovendosi nel quadro complesso delle misure pre-viste dal trattato, la Commissione ha saputo diventare il più importante e continuo centro di effettiva azione europea oggi esistente. Essa non ha la forza di far sì 72

che la Comunità sormonti l'eventuale resistenza decisa e recisa di un governo, ma si è rivelata capace di superare molte esitazioni di questo o quel governo, e di trasformare in atti europei precisi il generico e di per sé passivo europeismo delle varie opinioni pubbliche e dei vari governi.

CAPITOLO QUARTO

EUROCRAZIA E BUROCRAZIE NAZIONALI

1. La scelta della Commissione Nel cercare il punto su cui far leva per realizzare il compito affidatole, la Commissione ha puntato senza esitazioni soprattutto sullo sviluppo di relazioni e di collaborazione con le amministrazioni nazionali. Era anzitutto lo stesso trattato, che pur senza sbarrare la strada alla prospettiva politica rinviava in modo assai chiaro a tale collaborazione, perché buona parte delle misure comunitarie avrebbero in ogni caso continuato ad essere eseguite dalle amministrazioni nazionali. Il modo stesso di pensare funzionalista, che sta alla base dell'impresa, e che è condiviso in misura pressoché totale dai membri della Commissione, sconsigliava dall'impostare il lavoro in aperti termini politici, ed invitava a concentrarsi nella silenziosa costruzione dell'Europa degli uffici da portare innanzi in accordo con gli uffici degli stati membri. Si aggiunga che alcuni fra i principali membri della Commissione provenivano dalle carriere amministrative, ed anche quando avevano una origine politica erano ex ministri di Ministeri più tecnici che politici. Con il passare degli anni il numero dei commissari di estrazione burocratica è addirittura andato crescendo rispetto a quello dei commissari di estrazione politica. All'inizio i funzionari erano tre - Hallstein, Marjolin, von der Groben - su nove; oggi sono già diventati sei, essendosi a quelli aggiunti Levi-Sandri, Schaus, Colonna. I commissari avevano quindi, individualmente quasi tutti, e comunque collettivamente, un riflesso di

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diffidenza e fastidio verso le intrusioni del mondo politico nell'ordinata attività amministrativa. Pensando alle difficoltà cui andavano incontro nel mettere prima in piedi e poi in moto la nuova amministrazione, erano propensi a giudicare come un dato più positivo che negativo la mancanza di una vera e propria attività politica, parlamentare e di partiti, e ad essere soddisfatti di dover soprattutto trattare con i loro colleghi delle amministrazioni nazionali. Questa collaborazione non era e non è di per sé scevra di pericoli per la nascente, e perciò ancor fragile, struttura sovrannazionale dell'amministrazione comunitaria. Era anzitutto inevitabile che fossero le ammini-strazioni nazionali a fornire il grosso del personale iniziale alla Comunità, ed ancor oggi nei quadri superiori dell'amministrazione europea i funzionari provenienti dalle burocrazie nazionali sono di gran lunga prevalenti. In molti casi i funzionari nazionali che passano all'amministrazione europea, vi sono solo >, e dopo un certo tempo tornano alle loro amministrazioni nazionali originarie. Il mantenimento di buoni rapporti con queste è. importante per i funzionari di Bruxelles, perché nell'assegnare i posti si cerca sempre, nella misura del possibile, di mantenere un certo equilibrio fra le varie nazionalità, il che fa sl che la carriera nell'interno dell'amministrazione europea dipenda solo in parte dagli effettivi meriti dei singoli funzionari e in buona parte invece dalla necessità di rispettare certe proporzioni fra nazionalità diverse, e di tener quindi conto delle indicazioni provenienti dalle amministrazioni nazionali. A queste circostanze si aggiunga infine il fatto che una elementare solidarietà umana esiste sempre in misura maggiore fra funzionari connazionali che hanno fra loro_ in comune abitudini e lingua, e che correnti sottili di malumori di tipo xenofobo di fun76

zionari di un paese contro funzionari di altri paesi si manifestano con relativa facilità. Questo insieme di circostanze fa sl che nel seno dell'amministrazione una dose non trascurabile di lealismo nazionale, e talvolta persino di omertà nazionale è inevitabilmente presente. Ciononostante un osservatore obiettivo deve riconoscere che il lavoro comune, lo spirito di corpo) e la consapevolezza di partecipare ad un'impresa storica ambiziosa ha fatto nascere e mantiene fra i funzionari della Commissione un prevalente lealismo europeo. L'amministrazione della CEE ha anzi contagiato di spirito europeo le amministrazioni nazionali assai più di quanto sia stata da esse contagiata da spiriti nazionali. Ciò risulta in modo assai caratteristico specialmente fra i francesi, il cui governo è quello che in modo più deciso è tornato ad essere animato da ambizioni nazionali, mentre i funzionari europei di cittadinanza francese sono di regola fra i più decisamente e intelligentemente europei, e portano nel loro lavoro a Bruxelles quella preparazione e quella ambizione di efficienza amministrativa che avevano prima nel loro lavoro a Parigi, e che li rende in genere superiori ai colleghi degli altri • paesi. Esaminiamo con qualche dettaglio il modo in cui si svolge la cooperazione fra la Commissione e le amministrazioni nazionali. Nel preparare le sue iniziative e nel metterle a punto in modo da renderle accettabili al Consiglio, la Commissione ricorre a consultazioni innumerevoli, che vanno ben al di là di quelle prescritte dal trattato. Parecchie centinaia di incontri hanno luogo annual-mente sotto il nome di comitati o gruppi di studio, di lavoro, di coordinamento, di esperti ecc., nei quali la Commissione presenta a funzionari responsabili dei 77

vari paesi i problemi che sta cercando di mettere a punto. Poiché l'integrazione economica del Mercato comune va ben oltre i limiti di un semplice trattato commerciale, ma invade i campi di competenza di vari dipartimenti delle burocrazie nazionali, non sono solo i Ministeri degli affari esteri a mantenere i contatti con la Commissione. Tutti i Ministeri che siano in qualche modo toccati da qualche misura comunitaria - dai Ministeri economici e finanziari, a quelli dei trasporti, del lavoro, degli interni - devono seguire lo sviluppo della Comunità, mandare esperti negli incontri organizzati dalla Commissione, ricevere funzionari comunitari per esaminare questa o quella faccenda, generale o particolare. Una così in tensa e frequente partecipazione di al ti funzionari nazionali, sia pure a titolo consultivo, alla formulazione delle proposte ed iniziative della Commissione è utile per il loro successo sia nella fase preparatoria che precede le decisioni del Consiglio, sia nella fase esecutiva che segue ad esse. Essendo infatti il Consiglio l'organo deliberante, e poiché i ministri non danno il loro consenso ad una proposta prima di aver fatto studiare la pratica dai loro funzionari, è importante che questi abbiano raggiunto una conoscenza la più accurata possibile dell'oggetto in discussione, ed abbiano dato ad esso il massimo di consenso possibile, convincendosi della sua utilità e della sua fattibilità. In secondo luogo è da tener conto che, ove si eccettuino l'applicazione dei regolamenti sulle intese industriali, la gestione dei vari fondi comunitari e la manovra dei prelievi sull'importazione dei prodotti agricoli, l'esecuzione di tutte le altre misure comunitarie resta praticamente affidata alle amministrazioni nazionali, spettando a quella comunitaria essenzialmente il compito di vegliare acché gli impegni assunti siano rispet78

tati. Aver fatto partecipare uomini responsabili delle amministrazioni nazionali alla elaborazione dei progetti, significa quindi avere in esse chi ne intende la lettera e lo spirito, ed esser più sicuri di una esecuzione volonterosa.

2. I rappresentanti permanenti Le relazioni fra amministrazione europea ed amministrazioni nazionali hanno avuto una istituzionalizzazione nei rappresentanti nazionali permanenti e nel loro comitato. Il trattato ne parla quasi incidentalmente a proposito del regolamento interno che il Consiglio deve darsi: delle economie industriali più avanzate all'inizio di questa seconda metà del xx secolo è stato un fenomeno di portata mondiale, cui hanno partecipato e partecipano numerosi paesi, entro e fuori della Comunità, entro e fuori dell'Europa, paesi ad economia di mercato e paesi ad economia collettivista. Uno dei tratti comuni a tutti è l'intensificarsi degli scambi internazionali, ma ciò non prende affatto necessariamente la forma di una integrazione del tipo di quella in corso nell'Europa occidentale, e non mostra nemmeno di aver necessariamente bisogno di tale forma _per manifestarsi. Per non citare che qualche esempio, possiamo costatare che negli stessi anni del-

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la grande espansione comunitaria, il Giappone ha avuto un ritmo di sviluppo ancor più rapido di quello della CEE, che gli Stati Uniti hanno ripreso in questi ultimi anni un'impetuosa marcia in avanti, che, mutatis mtttandis, un analogo balzo innanzi si sta verificando in Jugoslavia e in Spagna. Il fatto è che la coincidenza fra lo stabilimento della CEE e l'entrata delle sei economie in una fase di grande espansione è stata in assai larga misura una coincidenza casuale, essendo quella effetto di cause essenzialmente politiche e questa di cause essenzialmente economiche. Ciò detto, bisogna tuttavia sottolineare che la coincidenza ha prodotto effetti reciproci profondi su entrambi gli avvenimenti. Che le forze economiche dei sei paesi si siano trovate, al momento del loro decollo, innanzi alle istituzioni ed agli obiettivi del Mercato comune, nonché alle misure che questo veniva man mano introducendo, ha significato per esse non solo incontrare un complesso di condizioni assai favorevoli anche se non del tutto necessarie, ma anche e soprattutto trovare condizioni che le hanno indotte a muoversi nel senso di una loro interdipendenza in modo più profondo e più fiducioso di quanto sarebbe accaduto se il Mercato comune non fosse esistito. Per converso, la progressiva realizzazione degli obiettivi della CEE, affidata dal trattato di Roma ad istituzioni comunitarie assai deboli, e al meccanismo decisionale quanto mai aleatorio del e della cooperazione fra eurocrazia e qurocrazie nazionali, assai difficilmente avrebbe potuto sormontare le prime prove, se la CEE avesse dovuto iniziare la sua navigazione non con il vento in poppa della generale alta congiuntura, ma in mezzo a tempeste economiche e politiche suscitate da congiunture divergenti fra paese e paese, o da una generale depressione.

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'fale coincidenza di circostanze è stata, in un certo senso, que!la >, che Machiavelli dice essere uno dei due fattori necessari al successo di qualsiasi impresa umana. Ai suoi inizi tuttavia il generale moto di espansione è stato una circostanza di valore ambiguo che giuocava insieme a favore e contro l'instaurazione del Mercato comune. La CEE è infatti nata nel mezzo delle trattative per la zona di libero scambio lanciate dall'Inghilterra per far fallire l'impresa del Mercato comune. Poiché le prospettive di alta congiuntura e perciò anche di intensificato commercio internazionale si aprivano ormai non solo fra i sei paesi, ma anche nell'assai più largo spazio delle economie avanzate, il Mercato comune poteva apparire assai meno allettante della zona di libero scambio a quei paesi la cui dipendenza dal commercio mondiale era maggiore, e le cui dogane erano inferiori a quella prevista dal trattato di Roma come tariffa esterna comune. Che la > dell'espansione economica abbia in definitiva giocato a favore non della diluita zona di libero scambio, ma del più impegnativo Mercato comune, è stato merito del > delle istituzioni comunitarie, ed in particolare della Commissione, la quale, appoggiata dapprima da alcuni governi ed infine anche da quelli inizialmente riluttanti, ha potuto non solo mettere in moto il meccanismo delle misure previste dal trattato, ma imprimergli anche ben presto una accelerazione, che ha messo fine alle speranze britanniche di dissoluzione dell'ambizioso progetto comunitario nella semplice liberalizzazione del commercio dei prodotti industriali. A partire dal momento in cui la volontà politica dei governi e della Commissione di procedere alla realizzazione delle misure del periodo transitorio è apparsa così forte da saper sormontare le varie esitazioni e riserve mentali manifestatesi in questo o quel

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paese, i regolamenti, le decisioni e le direttive della Comunità si sono venute accumulando sempre più fittamente, e l'economia dei sei paesi si è venuta adattando ad esse, generando una rete di crescenti interdipendenze. La compattezza delle varie società economiche nazionali ha cominciato a dislocarsi, e si è formato un inizio di società economica europea. La prima forma assunta da questa interdipendenza è stata quella provocata dallo choc della prima simultanea e generale riduzione delle barriere doganali. Di per sé questa riduzione del 10% era lieve, e il suo effetto pratico era ancor più attenuato dal fatto di essere stata estesa a tutti i paesi dell'OECE. Ma l'effetto psicologico sul mondo economico dei sei paesi, specie su quello industriale e commerciale è stato enorme. Gli operatori economici hanno cominciato a scontare la realizzazione del Mercato comune prima ancora del suo effettivo completo stabilimento. Nuovi concorrenti sarebbero apparsi, rispetto ai quali non sarebbe più stato possibile invocare la· protezione da parte del proprio stato; nuovi mercati si sarebbero aperti in modo permanente al di là di quelli nazionali. In numero crescente gli operatori economici hanno cominciato a rivedere i propri programmi di produzione e di vendita, a studiare i nuovi mercati comunitari ed a presentarvisi con loro uffici di vendita in vista non tanto delle prime lievi riduzioni delle tariffe, quanto della loro prossima scomparsa completa e della prossima costituzione di una tariffa esterna comune, entrambe le cose essendo ormai scontate come ineluttabili. A questo progettare -in termini europei ha fatto seguito un intensificarsi dei traffici che la Commissione della CEE così riassume nella sua Relazione generale del 1964 (par. 97): >. Parallellamente all'accresciuta concorrenza fra ditte di vari paesi su ciascuno dei vecchi mercati nazionali c'è anche stata un'intensificazione di accordi, fusioni, compartecipazioni a brevetti, allo scopo di meglio prepararsi al nuovo più ampio mercato. Poiché i regolamenti comunitari concernenti le intese industriali e commerciali prescrivono che tutti gli accordi che possano dar luogo al sospetto di accordi restrittivi della concorrenza siano notificati, la cifra di tali notificazioni, iniziate nel 1962, può fornire un indizio circa la dimensione del fenomeno. Sino alla fine di marzo 19 54 la Commissione ha ricevuto ben 3 7 .000 notificazioni, domande di attestazione negative e ricorsi, di cui 12.000 riguardano contratti di distribuzione esclusiva. A vendo la Commissione messo sinora a punto solo la parte formale della sua azione antimonopolistica, e avendo appena iniziato l'esame di queste notifiche, non si può dire in quale misura questi accordi mirino alla restrizione della concorrenza, ed in quale misura si tratti invece di accordi concernenti una più razionale divisione del lavoro ed una più elevata produttività. Quantunque si parli spesso, negli ambienti di ispirazione marxista, di un'> che si starebbe formando, è da dubitare che veramente le grandi industrie dei vecchi paesi abbiano già impiantato una forte rete di accordi di tipo monopolistico. Basti pensare che nell'industria automobilistica della Comunità, cioè in una delle industrie che più hanno profittato del Mercato comune, solo oggi, sette anni dopo la sua nascita, si comincia a parlare di concentra-

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zioni industriali atte a portare quest'industria al livello di quella americana. Comunque, quale che possa essere la rilevanza della rete di nuove intese industriali costituitesi sul piano europeo dal punto di vista del rispetto delle regole della concorrenza, resta il fatto che il nucleo centrale della . ' . ' . . nascente soc1eta economica europea e per ora costituito soprattutto dall'insieme delle interdipendenze di tipo commerciale. Chi nel settore industriale e commerciale, ha forti interessi come esportatore o importatore da un paese all'altro della Comunità, vive ormai nella dimensione del Mercato comune, ed è interessato alla sua conservazione, al suo sviluppo, alla eliminazione progressiva degli ostacoli ancora esistenti. Questo atteggiamento, oggi prevalente nel campo industriale e commerciale, non esisteva sin dall'inizio. L'insieme degli industriali era entrato nel Mercato comune con l'animo non privo di preoccupazioni: i francesi temevano per i loro prezzi troppo alti, i tedeschi e gli olandesi per i loro mercati extracomunitari. Per tener conto di queste perplessità la demolizione della protezione intracomunitaria e l'instaurazione della tariffa esterna comune erano state diluite in un lungo periodo di 12 o 15 anni, si era ammessa la possibilità di una pausa di ripensamento dopo i primi quattro anni, si erano introdotte larghe possibilità di ricorrere a clausole di salvaguardia allo scopo di proteggere questo o quel mercato nazionale, o anche solo questo o quel particolare prodotto nazionale da una eventuale troppo sconvolgente competizione comunitaria. Nel giro dei primi due anni di esistenza del Mercato comune, ogni timore era scomparso, e dal mondo industriale dei sei . ' . . . paesi e venuta invece una pressione in senso esattamente contrario acché le tappe dell'unificazione doganale fossero anticipate. Le clausole di salvaguardia sono

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state invocate e di regola concesse dalla Commissione, solo per casi marginali. Marginali e facilmente contenuti sono del pari stati i tentativi di ristabilire., camuffandola in qualche altro modo con tasse di effetto equivalente o con cavilli burocratici alla frontiera, una protezione nuova equivalente a quella doganale che cominciava a liquefarsi. La decisione di accelerare lo smantellamento tariffario intracomunitario è stata frutto di un complesso giuoco politico diretto soprattutto a sventare il pericolo della diluizione del Mercato comune nella zona di libero scambio, ma non v'è dubbio che in suo favore ha giocato anche la pressione proveniente dal mondo industriale e commerciale comuni• tar10. Un secondo settore nel quale l'integrazione ha proceduto in misura notevole è stato quello del mercato del lavoro. Anche i sindacati, malgrado il loro proclamato europeismo erano entrati nel Mercato comune con non lievi perplessità circa la liberalizzazione del mercato del lavoro. Ad essere fortemente interessati alla libertà di movimento dei lavoratori, erano praticamente gli italiani, a causa della loro disoccupazione e dei loro bassi salari. I lavoratori degli altri cinque paesi temevano l'invasione dei lavoratori italiani ed il conseguente effetto negativo sui loro salari. Era stata questa la ragione per la quale l'impegno alla liberalizzazione del mercato del lavoro era stato formulato nel trattato in termini così vaghi, da lasciare del tutto impregiudicata la sua effettiva realizzazione. Anche qui i timori si sono però rilevati infondati grazie all'alta congiuntura, e la Commissione ha potuto senza gravi difficoltà stabilire un mercato del lavoro comunitario corredato non solo della mobilità della mano d'opera fra i vari paesi, ma anche di un apparato di misure e garanzie sociali che mette nei vari paesi i lavoratori comunitari

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non nazionali praticamente nelle stesse condizioni di quelli nazionali dal punto di vista della sicurezza sociale. Ciò è stato possibile perché la domanda di mano d'opera è stata talmente intensa negli altri cinque paesi e nell'Italia del nord da rendere ben presto addirittura insufficiente il flusso degli operai italiani del sud, e da indurre vari paesi ad aprire le porte anche all'immigrazione di lavoratori iberici, greci, turchi e magrebini. L'interdipendenza nel mercato del lavoro non ha tuttavia raggiunto la complessità di quella del mercato delle merci, perché praticamente il solo movimento iìnportante, che andasse al di là del fenomeno dei lavoratori di frontiera, è stato quello della emigrazione italiana. In altri settori della vita economica l'interpenetrazione delle varie economie nazionali è ancora solo marginale, perché le decisioni comunitarie di fondo sono ancora in fase di progettazione, come è il caso della politica comune dei trasporti e dell'energia, o sono state prese in linea di massima, ma non sono ancora del tutto entrate in vigore, come è il caso del mercato dei capitali e dei servizi. L'organizzazione europea dei mercati agricoli è ora messa quasi completamente a punto, ma solo nel dicembre 19 64, e con decorrenza dal 1° luglio 19 6 7 sono stati infine fissati i prezzi comuni dei cereali, necessari per mettere veramente in moto il processo integrativo anche per i prodotti di origine animale. Ad eccezione quindi del mercato ortofrutticolo, nel quale vigono regole di mercato analoghe a quelle dei prodotti industriali, per gli agricoltori comincia appena adesso la fase, non ancora della integrazione, ma della preparazione ad essa, avendo finora le barriere che separano i singoli mercati, assunto il nome nuovo di >, ma essendo rimaste ancora intatte. 110

Se si aggiunge che la politica comune della congiuntura, e della programmazione, quella monetaria e quella commerciale sono ancora nella fase delle discussioni preliminari fra Commissione e governi, e che non si è quindi andati oltre occasionali raccomandazioni non vincolanti nessuno, si può concludere che il nucleo centrale della nascente società economica comunitaria è per ora costituito soprattutto dall'insieme delle interdipendenze di tipo commerciale, cioè dalla massa degli interessi connessi con il flusso crescente di beni prodotti in uno dei paesi della Comunità e smerciati con continuità anche negli altri. Tale massa di interessi, nati dall'applicazione delle regole comunitarie, potrà crescere notevolmente se saranno effettivamente smantellate le numerose barriere intracomunitarie che ancora persistono (dazi residui, differenze di legislazione commerciale e fiscale, accordi che limitano la concorrenza e via dicendo). C'è quindi una pressione continua, anonima ma possente, che va oltre la voce delle varie organizzazioni professionali, e che spinge verso un ulteriore sviluppo dell'integrazione economica comunitaria. I singoli governi si rendono ben conto delle enormi tensioni e difficoltà nelle quali le rispettive economie nazionali sarebbero immerse, ove il mercato comunitario si chiudesse, o anche solo cessasse di estendersi e diventasse troppo aleatorio. Questa pressione non è, certo, un baluardo europeo del tutto insuperabile, perché se rende poco probabile l'adozione da parte di questo o quello stato di improvvise e drastiche riduzioni della libertà commerciale con gli altri stati membri, potrebbe tuttavia essere aggirata e smontata senza eccessiva difficoltà ove qualche stato o tutti insieme> seguendo prospettive politiche diverse da quelle che sono alla base del Mercato comu-

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ne, cominciassero gradualmente a frenare l'integrazione ulteriore e a smantellare quella già realizzata. Poiché alla lunga il commercio segue la politica molto più che questa non segua quello, tutta la nascente società economica europea potrebbe dissolversi così come si è costituita. Sottolineare questi limiti dell'interpenetrazione commerciale non significa non riconoscere la sua natura di tessuto connettivo comunitario. Incapace di resistere ad una decisa e forte volontà politica, la massa degli interessi commerciali si è pur sempre rivelata capace di resistere a tentazioni meno intense. Ad esempio, quando nel 1963-1964 grossi deficit nella bilancia dei pagamenti e pressioni inflazionistiche sono apparse in Italia, nei Paesi Bassi ed in Francia, non sono mancate voci, specialmente in Italia, che proponevano misure le quali avrebbero approdato a svalutazioni monetarie, a controlli dei cambi, a limitazioni delle importazioni ed a sussidi alle esportazioni. La lettera del trattato avrebbe potuto essere rispettata, ma certamente non lo spirito, perché l'applicazione di tali misure avrebbe significato la ricerca unilaterale da parte di un singolo stato di un suo nuovo equilibrio economico senza alcun ri-guardo per i paesi associati ed a costo di spezzare anche quelle interdipendenze di mercato che si erano andate formando e di cui si era solennemente detto che avrebbero dovuto costituire il primo passo verso integrazioni più profonde, e non essere solo misure transitoriamente convenienti. Se queste tentazioni sono state superate, se le misure anticongiunturali prese sono state sostanzialmente conformi a quanto aveva raccomandato nell'interesse comune la Commissione della CEE, ciò è stato dovuto all'esistenza del Mercato comune. Le sue istituzioni e le sue regole non sarebbero forse di per sé state capaci di tanto, perché a rigore sarebbe stato possibile rispettare formalmente le une e le altre, ricor-

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rendo tuttavia ad una applicazione estesa delle clausole di salvaguardia. Ma era politicamente impossibile ai singoli governi spezzare nel proprio paese la rete, ormai troppo diffusa, delle interdipendenze commerciali comunitarie e dei correlativi interessi di larga parte della . ' soc1eta. Ove un tale sacrificio fosse stato richiesto per ragioni buone o cattive ma comunque fortemente sentite - di prestigio nazionale, di trasformazioni economiche o sociali, di cambiamenti di politica estera, di sicurezza nazionale, o altro di simile, assai difficilmente il Mercato comune avrebbe resistito. Ma poiché a spingere nel senso della rottura o anche solo del capovolgimento di direzione nel processo di integrazione comunitaria ci sono state solo ragioni economico-politiche relativamente superficiali, poco fortemente sentite, le quali miravano tutt'al più a preferire alcune misure anticongiunturali ad altre, senza che ciò implicasse alcuna vera grande alternativa politica o economica o sociale, era inevitabile che al momento delle decisioni acquistasse una notevolissima importanza il sapere quali conseguenze tale o tal'altra misura avrebbe avuto per il Mercato comune. Il peso congiunto delle istituzioni e della società economica comunitaria già costituita si è rivelato, in questo periodo di tensioni congiunturali, così decisivo da condizionare fortemente le scelte di politica economica dei poteri nazionali entro limiti tali da non mettere in pericolo quel tanto che è stato già realizzato del Mercato comune.

2. Le associazioni professionali comunitarie Se il complesso anonimo degli interessi sviluppatisi all'ombra delle realizzazioni comunitarie è una forza

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europea, passiva e con evidenti limiti, ma comunque reale, c'è tuttavia da chiedersi in quale misura ed in quale senso agisca il mondo economico dei sei paesi là dove la società comunitaria non è qualcosa di conditum, ma di condendum, ove cioè conta non la tendenza a difendere gli interessi costituiti, ma la tendenza a chiedere istituzioni e politiche che aprano il varco ad inte• • ressi nuovi. Le vie maestre, attraverso le quali questa tendenza, se c'è, si esprime, sono quelle della vita politica propriamente detta, e quelle costituite dalle organizzazioni professionali e di categoria, sulle quali ci soffermeremo qui. Abituate tutte per ormai lunga tradizione ad essere • • • • • • • energicamente presenti nei punti e nei momenti nei quali si preparano e si prendono decisioni che le concernono, tali associazioni non potevano restare e non sono restate assenti dal processo di instaurazione del Mercato comune. Lo schieramento delle loro forze, sotto forma di comitati pubblici e privati, di consulenza e di pressione è senz'altro imponente, e merita di essere brevemente descritto. C'è anzitutto lo schieramento in ogni paese delle associazioni nazionali. Loro scopo è la realizzazione di misure particolari e talvolta di politiche economiche generali che proteggano e promuovano gli interessi dei loro associati. A partire dal momento in cui un coefficiente europeo è entrato a far parte delle loro politiche, ed i ministri nazionali partecipano, nel Consiglio della comunità, all'adozione di determinate misure, nelle più importanti di queste associazioni si son costituiti uffici, più o meno sviluppati, che seguono la politica comunitaria, ed assistono gli organi direttivi nel formulare presso i ministri nazionali le loro preoccupazioni o i loro desideri. Ma poiché l'elaborazione delle misure comunitarie si svolge soprattutto per opera della Com114

missione, le associazioni di interesse sono presenti anche al livello della Comunità. Il trattato stesso riconosce il loro diritto ad essere presenti e colloca perciò fra gli organi che la Commissione deve consultare nel corso della formulazione di quasi tutte le sue proposte un Comitato economico e sociale. Come sempre accade per tali organi, l governi nell'atto stesso di istituire il comitato si sono sforzati di attenuarne il carattere corporativo e di farne il più possibile un comitato di esperti. I suoi 101 membri, distribuiti fra le varie nazioni, e fra le tradizionali grandi categorie dei datori di lavoro, dei lavoratori e dei > ( cioè agricoltori diretti, artigiani, professionisti ed esperti governativi), sono formalmente nominati non dalle associazioni, né dai singoli governi, ma dal Consiglio all'unanimità, per quattro anni, a titolo personale, senza mandati imperativi ed hanno voto singolo. Il Comitato non ha alcun diritto di iniziativa, e non può quindi fare proposte, ma solo esprimere pareri, se e quando richiesto dalla Commissione. Nonostante queste limitazioni, il Comitato economico e sociale, a parte una dozzina di funzionari statali o esperti indipendenti, è di fatto una rappresentanza ufficiale delle principali associazioni professionali e di categoria. Il Consiglio si limita infatti a ratificare le proposte dei singoli governi, i quali a loro volta scelgono di regola i nomi indicati loro dalle associazioni, limitando il proprio ruolo a quello di mediatori che distribuiscono nel modo più equo possibile i pochi posti assegnati al loro paese. Accade così che oltre settanta posti sono occupati dai massimi dirigenti - presidenti o segretari generali - di associazioni professionali ed oltre una dozzina da dirigenti di grandi aziende pubbliche o private di dimensioni nazionali. Gli unici casi rilevanti, in cui due governi hanno falsato in modo 115

sostanziale l'equità nel procedere alle loro nomine, danneggiando le rappresentanze operaie, sono quelli dei governi italiano e francese, i quali, profittando dell'atmosfera politica della guerra fredda, hanno escluso dal comitato i rappresentanti delle più forti confederazioni operaie dei loro paesi - la CGT e la CGIL - perché dirette dai comunisti. Le associazioni non potevano, naturalmente, contentarsi di questo Comitato ufficiale, la cui composizione è comunque sottoposta al crivello delle scelte governative, in cui non tutte riescono a prender posto, e che ha una assai limitata libertà di manovra. Spesso su iniziativa di membri del CES appartenenti a paesi diversi ma alla stessa professione o categoria, sempre sotto l'occhio benevolo degli eurocrati, e persino, come nel caso dell'agricoltura, sotto diretta pressione della Commissione, sono sorti comitati di collegamento, associazioni, uffici, segretariati, o come altro si chiamino, i quali, riuniscono e rappresentano collettivamente sul piano comunitario le associazioni nazionali delle singole categorie o le loro confederazioni generali. Hanno cominciato a f armarsi. sin dalla nascita della CECA nel particolare settore carbosiderurgico e si sono moltiplicati dopo la nascita della CEE. Per lo più hanno le loro sedi a Bruxelles, o comunque non lontano dalla sede della Commissione. Solo in alcuni casi minori risiedono presso una associazione nazionale la quale si assume la rappresentanza comunitaria delle consorelle degli altri • paesi. Fra questi uffici e segretariati spiccano quelli costituiti dalle grandi confederazioni nazionali: UNICE (Unione delle industrie della Comunità europea); COp A (Comitato delle organizzazioni professionali del1'agricoltura); COCCEE (Comitato delle organizzazioni commerciali dei paesi della CEE); segretariato europeo

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della CISL (Confederazione internazionale dei sindacati liberi); organizzazione europea della CISC (Confederazione internazionale dei sindacati cristiani). Ma non esistono probabilmente ormai più organizzazioni di categoria, che abbiano un minimo di consistenza nei sei paesi e non abbiano dato vita ad una loro centrale comunitaria. La sola eccezione è oggi praticamente costituita dai sindacati comunisti francesi i quali, esclusi dal Comitato economico e sociale, continuano a contraccambiare anatema con anatema e si rifiutano di fare anche solo atto di presenza a Bruxelles. La Confederazione generale italiana del lavoro, dopo aver avuto a lungo lo stesso atteggiamento, ne ha compreso la sterilità, e ha proposto alla CGT francese ed ai piccoli sindacati comunisti belgi di impiantare un segretariato comune dei sindacati comunisti. Avendo però ricevuto un rifiuto, si è decisa ad aprire da sola a Bruxelles un ufficio, mediante il quale in grande isolamento cerca di mettersi al corrente e di orientarsi sui problemi comunitari. La Commissione del Mercato comune pubblica repertori aggiornati di tutti gli organismi professiqnali istituiti nell'ambito della CEE, dai quali risulta l'esistenza di oltre un centinaio di centrali comunitarie industriali, artigianali e commerciali, e di oltre un centinaio di centrali comunitarie agricole - dal Comitato, per citare qualche esempio, delle industrie della mostarda della CEE, al Segretariato internazionale delle associazioni delle industrie chimiche dei paesi della CEE, dal Comitato permanente internazionale dell'aceto del Mercato comune al Comitato CEE della confederazione internazionale dei bieticultori europei. Questi organismi sono ora più ora meno sviluppati. Talvolta sono poco più che piccoli uffici incaricati di raccogliere documenti ufficiali della Comunità e di trasmet-

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terli alle rispettive associazioni nazionali. Ma giungono fino al livello di segreterie con uffici bene organizzati 1 con impiegati numerosi, con periodiche riunioni di comitati, di commissioni di studio e persino di regolari congressi. Scopo di ciascuna di queste centrali e rappresentanze, siano esse istituzionalizzate o private, è la sorveglianza e la promozione degli interessi della propria categoria. Per intendere in che misura nel far ciò, diventino anche centri di promozione della costruzione europea, occorre premettere alcune considerazioni di ordine generale. Se la costruzione europea lede in modo evidente certi interessi, o anche se c'è la convinzione, magari errata ma ferma, che essa possa lederli, la resistenza, aperta o camuffata delle rispettive associazioni e rappresentanze è praticamente sicura, e si dissolve solo nella misura in cui di fatto risulta successivamente che il danno temuto non si è verificato, o che nuovi vantaggi hanno compensato il danno, o che il danno è stato a breve termine ma è seguito a più lungo termine da vantaggi maggiori. L'opposizione è però vivace ed attiva solo se può sperare di influenzare nel proprio senso i centri che decidono degli affari in questione; tende a ridursi ad un semplice malumore rassegnato, se la volontà politica che sorregge quella costruzione è preponderante e non modificabile. In tal caso i gruppi economici lesi incassano il danno, e si adattano alla nuova situazione, modificando la natura e le dimensioni dei propri interessi, scoprendone magari di nuovi, prima nemmeno • sospettati. Viceversa se la costruzione europea offre evidenti vantaggi a certi gruppi, o anche solo se c'è la convinzione, magari illusoria, che ne offrirà, il loro sostegno è del pari sicuro, ma viene meno con facilità se i vantaggi sperati non si manifestano, o perché erano illu-

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sori, o perché sono inghiottiti dal sopraggiungere di circostanze nuove e impreviste. Le prospettive di guadagno e di perdita sono però percepibili in modo approssimativo ed aleatorio, sia perché sono sempre notevoli i margini di incertezza circa i nuovi sistemi di prezzi che faranno seguito all'apertura dei mercati, soprattutto se essa è, come nel nostro caso, assai graduale, sia perché le capacità di adattamento degli operatori economici a situazioni nuove sono di solito molto più elevate di quanto essi stessi immaginano prima di essere costretti ad affrontarle. È ad esempio quasi sicuro che l'unificazione del mercato dei cereali porterà ad una drastica diminuzione delle possibilità di smercio di molti attuali granicultori tedeschi ed italiani, e ciò è più che sufficiente per spiegare la loro sorda e tenace resistenza all'unificazione dei prezzi dei cereali. È però da ricordare che alla vigilia della costituzione della CECA c'era in Italia la stessa diffusa quasi-sicurezza di inevitabile liquidazione dell'industria siderurgica nazionale, la quale aveva sempre vissuto all'ombra di forti protezioni in un paese privo insieme di miniere di ferro e di carbone. Tuttavia, una volta costituito il Mercato comune dell'acciaio, l'industria siderurgica italiana si è trovata collocata in un sistema di prezzi e di competizione tali da permetterle di avere un ritmo di sviluppo più rapido di quello di ogni altra industria siderurgica della Comunità, in modo che nel giro di pochi anni l'Italia è passata nella CECA dal quarto al terzo posto come produttrice di acciaio. Altro esempio di errata valutazione delle conseguenze del Mercato comune è quella, già citata, che avevano i sindacati non italiani circa gli effetti dell'immigrazione italiana. Questa fondamentale incertezza circa_ tutte le previsioni di mercato fa sl che i singoli operatori sono di

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regola ottimisti o pessimisti di fronte alle prospettive dell'integrazione economica a seconda che si trovino più o meno lontani dalle pericolose posizioni marginali ed a seconda che il loro ramo produttivo in genere si trovi in una fase di espansione o di depressione, cioè a seconda di circostanze che cambiano continuamente. Di conseguenza le loro associazioni di categoria o rappresentanze ufficiali hanno quasi sempre un riflesso iniziale in favore del mantenimento del sistema di mercato esistente, nel quale la prova della capacità di sussistere è, o sembra, data; ma quando il sistema viene cambiato essi tendono ad adattarvisi rapidamente, studiandosi di scoprire quali siano le migliori condizioni da realizzare nel nuovo contesto in favore della propria categoria. Si aggiunga che la percezione dei propri interessi, sia individuali che di categoria, non è condizionata solo dalle prospettive di prossime variazioni dei prezzi, ma anche, ed in un certo senso ancor più, dalle strutture istituzionali e di politica economica entro le quali si agisce. Finché tali strutture non cambiano, esse sembrano non avere un'importanza decisiva, solo perché sono calcolate come dati invariabili. Ma quando cambiano, quando varia l'insieme degli argini entro i quali si può agire, allora si modifica non solo l'entità dei possibili guadagni o perdite, ma anche il sistema stesso degli interessi, alcuni dei quali svaniscono, mentre altri nuovi emergono, e cambiano le proporzioni fra quelli che sussistono. Ora lo stabilimento della Comunità e delle sue regole, è per l'appunto l'inizio di una trasformazione del quadro istituzionale entro cui operano le forze economiche dei paesi membri~ Per queste non ci sono quindi solo interessi noti da proteggere o da promuovere; c'è anche da scoprire nuove e diverse scale di interessi. Per tornare ancora una voi-

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ta all'esempio della siderurgia italiana nella CECA, importante era non solo il nuovo sistema di determinazione di prezzi senza le distorsioni prodotte dai dazi, ma anche ad esempio l'introduzione di regole comunitarie in base alle quali ai siderurgici italiani, che non disponevano di minerale di ferro nazionale, era ormai garantito un accesso ai ricchi mercati del rottame francese, tedesco e belga senza possibilità di discriminazioni a loro danno dovute a ragioni nazionali. Gli operatori economici e i loro rappresentanti professionali, non essendo di regola né uomini di scienza, né politici, hanno idee assai precise circa il modo di trar vantaggio dalle istituzioni e dalle regole entro cui stanno agendo, ma ne hanno di assai rozze circa le ragioni che possono indurre a modificarle, e circa il senso in cui modificarle. Il loro primo riflesso è qt1indi normalmente quello conservatore della preferenza per le regole vigenti dalle quali la loro categoria trae oggi vantaggio. Normalmente solo quando le regole sono effettivamente cambiate, essi ne comprendono il significato e scoprono le possibilità aperte dal cambiamento. Tutto ciò spiega come mai in un'opera quale quella della costruzione del Mercato comune, che pure è centrata tutta sulla trasformazione delle relazioni economiche, le associazioni di categoria e professionali siano, sì abbondantemente presenti, ma non abbiano prodotto la minima idea costruttiva originale, e non siano in alcun modo centri di propulsione autonoma. La loro azione è sempre solo una derivazione delle iniziative della Commissione. Le associazioni non si muovono mai di propria iniziativa per sviluppare una vera pressione allo scopo di ottenere che la costruzione europea abbia un certo sviluppo in un certo senso. Attendono sempre che la Commissione faccia la prima mossa sollevando questo o quel problema e proponendo questa o quella

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soluzione. Il grado stesso di organizzazione europea che tali associazioni raggiungono corrisponde sempre abbastanza esattamente al grado in cui la politica comunitaria incide nel loro tradizionale mercato nazionale. Uno studio dettagliato delle reazioni di ciascuna delle innumerevoli organizzazioni professionali, nazionali ed europee, mostrerebbe certamente un'interessante gamma di atteggiamenti, ma va al di là delle possibilità del presente studio. In alcuni casi il Mercato comune ha indubbiamente spezzato o quanto meno attenuato strutture iniziali monopolistiche, oligopolistiche o corporative del mercato nazionale di questo o quel prodotto, imponendo senz'altro una più intensa competizione. In tali casi le rispettive associazioni di categoria hanno di certo dovuto smontare in parte o del tutto l'armamentario precedente diretto a difendere il privilegio che la categoria aveva nel mercato nazionale e che ora è condannato a svanire. Per non dare che un esempio vistoso, basti pensare all'intensificata competizione che il Mercato comune ha prodotto nel campo automobilistico, e che ha ridotto in modo sostanziale posizioni che erano in Italia di quasi completo monopolio e in Francia e Germania cli. notevole oligopolio. In altri casi allo stabilimento progressivo del Mercato comune i produttori nazionali e le loro associazioni hanno indubbiamente reagito stabilendo fra loro taciti accordi, diretti a trasferire sul piano europeo le precedenti organizzazioni di mercato, corporative o oligopolistiche, mediante ripartizioni di mercato o altre intese restrit• t1ve. Quale che sia la forma della loro reazione, resta tuttavia il fatto che nessuna associazione professionale ha oggi un aperto atteggiamento anticomunitario, ad eccezione del sindacato comunista francese. Tutte si sono adattate alle strutture ed alle iniziative comunitarie, ed

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hanno in qualche modo accettato di considerare i loro interessi non dal solo tradizionale punto di vista nazionale, ma anche dal nuovo punto di vista europeo. Questo adattamento passivo, ma pur sempre effettivo, è stato il principale contributo delle associazioni professionali al processo di unificazione. La Commissione ha molto favorito tale sviluppo. La sua concezione dell'unità europea come di una Comunità fondata non sul consenso popolare e quindi su istituzioni politiche, ma sul consenso di interessi economici intorno ad uffici comunitari ed alle loro regolamentazioni, l'ha istintivamente indotta a vedere con favore la costituzione di associazioni professionali europee; e questa simpatia è stata ancor più rafforzata dalla speranza di non restare in un colloquio a due con i governi, ma di avere l'appoggio attivo di questo terzo interlocutore: il mondo economico organizzato al livello europeo. La Commissione ascolta quindi con attenzione le associazioni, sia nel Comitato economico e sociale, sia al di fuori di esso, mediante contatti personali regolari, partecipazione a loro convegni, tavole rotonde, e gruppi di studio, facilitando in tal modo la formazione di uno strato di funzionari delle associazioni, i quali diventano sensibili ai problemi comunitari e contribuiscono non solo a far sentire alla Commissione gli umori della loro categoria, ma anche a far comprendere a questa nei rispettivi paesi l'importanza della prospettiva europea. Il fenomeno è simile a quello che abbiamo già visto manifestarsi nella collaborazione con le amministrazioni nazionali. Quale peso la prospettiva europea abbia acquistato fra costoro appare anzitutto nel Comitato economico e sociale. Nelle sue discussioni e votazioni le divisioni non hanno luogo di regola lungo gli spartiacque nazionali. I delegati non hanno nemmeno tentato di costituirsi for-

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malmente in gruppi nazionali. Una certa più accentuata coerenza nazionale, ma non eccessiva e non del tutto frequente, si manifesta nella rappresentanza olandese, in corrispondenza al più elevato spirito di cooperazione sociale che regna in quel paese. Anche i voti italiani sono uniformi più spesso che nelle altre delegazioni, ma ciò accade non per una tal quale maggiore solidarietà nazionale, bensì per la maggiore frequenza con cui gli italiani sostengono compatti la politica unificatrice della Commissione_ L'esistenza o meno di un atteggiamento prevalentemente nazionale si manifesta non solo e non tanto nella compattezza nazionale dei delegati, quanto nel grado in cui essi si sentono portavoci del particolare punto di vista delle loro associazioni nazionali di categoria, più che delle nuove associazioni europee. Questa dipendenza nazionale è più evidente nel Comitato consultivo della CECA, a causa della forte concentrazione nazionale delle industrie del carbone e del ferro, ma si nota di meno nel Comitato economico e sociale della CEE, più vasto e più articolato. Essa è inoltre più frequente fra i delegati che rappresentano i datori di lavoro che non fra quelli dei sindacati. L'orizzonte mentale medio del socio sia delle associazioni operaie che di quelle padronali è tuttora più nazionale che europeo, ma ciò si ripercuote più sui rappresentanti ufficiali industriali che su quelli operai, perché i primi sono assai più subordinati al modo di vedere dei loro soci, mentre i secondi ne sono in maggior misura veri capi e guide, ed hanno quindi una maggiore autonomia di giudizio. Comunque, anche con queste limitazioni, le divisioni più frequenti nelle votazioni corrispondono a divisioni per classi sociali europee. A ciò contribuisce in non lieve misura l'attività di lobbying internazionale esercitata nel Comitato dalle centrali europee, le quali alimen-

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tano sistematicamente il Comitato con i loro promemoria, gli forniscono personale per i numerosi gruppi di esperti che il Comitato mette su, e si sforzano di ottenere un minimo di disciplina europea fra i delega ti dei vari paesi appartenenti alla stessa categoria. Il lobbying presso il Comitato economico e sociale non esaurisce l'attività delle associazioni europee, qt1antunque per tutte sia importante che il loro punto di vista emerga nel momento in cui l'esame di una data proposta giunge a quel livello di consultazione. Questa più ampia sfera d'azione appare soprattutto nel caso dei segretari sindacali, dell'UNICE e del COPA, che, essendosi assegnati il compito di curare l'insieme degli interessi rispettivamente operai, industriali ed agricoli, hanno come gruppi di pressione un'attività molto più complessa che non le centrali europee delle particolari categorie. L'ONICE ed i sindacati operai hanno raggiunto un grado di sviluppo organizzativo inferiore a quello raggiunto dal COPA. I funzionari delle centrali operaie non meno di quelli della unione degli industriali, si lamentano degli scarsi poteri dell'organo europeo e della gelosia con cui le associazioni nazionali mante.ngono la loro autonomia e riducono l'istanza europea a semplice centro di collegamento; i segretariati operai sembrano persuasi che l'UNICE sia molto più solidamente organizzata di loro sul piano internazionale, ma all'UNICE si sorride di questa sopravvalutazione della loro forza. In realtà entrambe le centrali sono relativamente deboli per ragioni facilmente comprensibili. Anzitutto i contratti collettivi di lavoro, che sono il più potente motivo di concentrazione per le associazioni tanto dei datori di lavoro quanto dei lavoratori, si concludono ancora tutti sul piano nazionale. Il secondo motivo che induce alla centralizzazione dell'organizzazione è la ne-

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cessità di una pressione unitaria sul potere pubblico che prende decisioni in materia economica e sociale; tale potere è però ancora assai modesto al livello europeo proprio nei campi di azione più caratteristici delle associazioni professionali. La politica sociale resta nazionale, ad eccezione della regolamentazione comunitaria dei diritti del lavoro migrante. La politica comune commerciale, congiunturale e monetaria, nonché quella della programmazione, sono tuttora allo stadio della meditazione, o tutt'al più delle raccomandazioni, ma non certo delle decisioni e dell'esecuzione comunitaria. Le centrali europee dei lavoratori e dei datori di lavoro esauriscono quindi il loro compito, nel tallonare il cammino degli studi e delle proposte della Comunità presso le varie istanze, e nel formulare le esigenze comuni del loro settore, le quali vertono però sempre o su dettagli o su impostazioni generiche. Essendo i sindacati per loro natura e tradizione più inclini a prendere posizione aperta almeno su certi temi generali di politica democratica, i segretariati ed i convegni europei della CISL e della CISC insistono spesso sulla necessità di elezioni europee, di maggiori poteri del parlamento e del Consiglio economico e sociale, cioè di un più autentico potere politico sovrannazionale. L'ONICE è invece più incline a non compromettersi troppo sul terreno politico, preferendo apparire come un centro che veglia anzitutto sulla difesa della libertà di decisione degli industriali e ama quindi ripetere dichiarazioni libero-scambiste. Ma in entrambi i casi si tratta di dichiarazioni di principio, cui non fanno mai seguito vere e proprie azioni di pressione. Né i sindacati operai hanno mai tentato di mobilitare le loro forze in favore della democratizzazione della Comunità, né l'UNICE ha mai tentato di mobilitare le sue in favore di una accelerata realizzazione del libero mercato.

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Il COPA è ad uno stadio relativamente più avanzato di organizzazione comunitaria. Alla sua formazione ha contribuito molto più che nel caso delle centrali industriali ed operaie, un diretto impulso della Commissione attraverso la sua Divisione generale agricoltura. Il trattato che istituisce la CEE non contiene impegni precisi a compiere tale o tal'altro atto nel settore agricolo. Riconosce che l'instaurazione del Mercato comune implica anche una politica agricola comune, costata che questa non può consistere nella pura e semplice liberalizzazione, ed afferma quindi l'esigenza della messa in opera di organizzazioni di mercato complesse, diverse a seconda dei prodotti, e atte a sostituire progressivamente le organizzazioni di mercato nazionali. Poiché però la precisa definizione di tali organizzazioni andava al di là delle possibilità dei negoziatori del trattato, questi si sono limitati ad iscrivere in esso solo alcune molto generiche e variamente interpretabili direttive di massima, affidando la concreta politica agricola comune ad una futura regolamentazione che la Commissione avrebbe sottoposto all'approvazione del Consiglio. Assai presto la Commissione si rese conto che la messa in opera della politica agricola comune avrebbe implicato una forte e unitaria organizzazione di mercato dei più importanti prodotti agricoli, nonché l'avvio a trasformazioni economiche e sociali assai profonde delle esistenti agricolture dei sei paesi, e che le resistenze sarebbero perciò state molto forti, non solo da parte di parecchi governi nazionali, ma anche delle associazioni agricole che in ciascun paese erano fra i più potenti gruppi di pressione ed erano ovunque riuscite ad ottenere, dai rispettivi governi, politiche agricole nazionali assai rigide ed assai poco intercomunicanti. Allorché quindi cominciarono ad apparire a Bruxelles rappresentanti delle varie associazioni nazionali, la Commissione

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comprese il pericolo di vederle cristallizzarsi ciascuna nella difesa del rispettivo status quo nazionale, rafforzando così ancor più le già prevedibili resistenze dei Ministeri nazionali dell'agricoltura. Per sfuggire a questo pericolo o quanto meno per attenuarlo è stata costituita sin dagli inizi, nel seno della Divisione generale agricoltura della Commissione una speciale >, la quale nell'atto stesso di sottolineare l'interesse della Commissione ad avere contatti regolari con le associazioni agricole, ha anche adottato con molta fermezza le regola di essere accessibile ed attenta solo alle organizzazioni che si presentassero come organizzazioni europee e non nazionali. Si contava che in tal modo le associazioni agricole, costrette a presentarsi come comunitarie e con richieste comunitarie, avrebbero cominciato a conoscersi fra loro, a cercare quel che le accomunava, smussando così via via le loro differenze e diventando più comprensive verso la prospettiva di una politica agricola comunitaria. Qt1esto discreto ma fermo invito ha trovato le associazioni agricole nazionali ben disposte. Rapidamente si sono formate centrali comunitarie per singoli prodotti e categorie agricole, ed al disopra di esse si è costituito il Comitato delle organizzazioni professionali agricole della CEE (COPA), cui hanno aderito praticamente tutte le associazioni agricole, nazionali ed europee, di coltivatori diretti, di imprenditori, di lavoratori e di cooperative agricole. Il presidente, il presidio e l' Assemblea generale del COPA, alla quale assistono regolarmente rappresentanti di tutte le associazioni affiliate, hanno seguito diligentemente la progressiva messa a punto della politica agricola della Comunità, riuscendo ad esercitare una non trascurabile influenza coordinatrice sui rappresentanti agricoli del Comitato economico

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e sociale, ed ottenendo dalle associazioni comunitarie settoriali affiliate l'obbligo di sottoporre regolarmente agli organi direttivi del COPA le loro richieste e memorie, prima di inoltrarle agli organi ufficiali della Co. ' munita. Nell'ottobre del '60, quando l'integrazione comunitaria cominciava a dare nel campo industriale i suoi primi frutti, psicologici oltre che economici, mentre nell'agricoltura ci si trovava ancora nella lunga, difficoltosa fase della ricerca del cammino da imboccare, l'assemblea del COPA affermava solennemente che l' >. Questo bell'entusiasmo non durò tuttavia molto. Di fronte ai progetti della Commissione che chiedevano sacrifici ad alcuni settori dell'agricoltura in alcuni paesi, il COPA ha sì mantenuto la richiesta di una politica comune, ma ha mostrato una propensione ad allinearsi proprio su quel minimo comun denominatore che aveva deprecato nel '60. L'Assemblea del novembre 1963, ripeteva la sua affermazione di fede europeista, e formulava una lunga serie di richieste, atte a dare l'impressione di un piano europeo ancor più complesso di quello presentato dalla Commissione, ma nella questione cruciale della politica dei prezzi, mediante la quale solo era possibile dare il primo avvio effettivo al mercato comune agricolo; sentiva il bisogno di >.

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Se fra i funzionari di Bruxelles c'era stata la speranza di avere nel COPA non solo una generica presa di coscienza europea, ma anche un valido appoggio ai propri progetti, l'illusione è svanita. Il COPA tenta di raggiungere formulazioni comunitarie delle esigenze del mondo agricolo, ma le associazioni agricole stanno tuttora attestate sulla difesa delle posizioni nazionali, e contano soprattutto sul proprio governo per difenderle. Gli agricoltori olandesi e francesi sono sostanzialmente favorevoli alla rapida adozione della politica comune, all'unificazione progressiva dei prezzi ed a un loro livello non troppo elevato. I produttori italiani di frutta e ortaggi sono impazienti di una rapida apertura del mercato comunitario ai loro prodotti. Gli agricoltori belgi sono diffidenti ma piuttosto tranquilli perché i prezzi progettati sono all'incirca quelli vigenti nel loro paese. I granicultori italiani e soprattutto la potente organizzazione degli agricoltori tedeschi sono non solo inquieti, ma anche attivamente operanti presso governi affinché questi quanto meno rinviino al più tardi possibile l'amaro calice della riduzione dei loro prezzi attuali. La maggiore complessità organizzativa del COPA, in confronto con le altre centrali europee corrisponde al fatto che la politica agricola progettata dalla Commissione il giorno in cui diventerà realtà sarà più centralizzata della politica europea oggi vigente nel campo industriale, la quale consiste finora quasi solo nello smantellamento degli ostacoli al libero movimento delle merci e della mano d'opera. La messa in opera della politica agricola non ha tuttavia l'automatismo della messa in opera dello smantellamento doganale, ma dipende per ogni suo passo da una speciale decisione del Consiglio dei ministri della Comunità, e quindi l'apparente maggiore consistenza della centrale europea degli agricoltori, ha finora coperto un assai più tenace loro attacca-

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mento alle tradizionali politiche agricole nazionali. La battaglia finale del dicembre 1964 per la determinazione dei prezzi comuni dei cereali è stata combattuta non tra la Commissione e il COPA, ma tra il governo tedesco e l'associazione degli agricoltori tedeschi. Sormontato questo difficile ostacolo è da attendersi che nell'avvenire l'autorità del COPA rispetto alle associazioni nazionali aumenterà notevolmente. Anche in questo caso ritroviamo quindi lo schema valido per tutte le associazioni professionali europee. Esse sono centri di azione europea nella misura esatta in cui la Comunità crea per loro un campo obbligato di azione europea. Il limite cui giunge la Comunità è sempre automaticamente anche per esse il limite oltre il quale ogni loro dinamismo si spegne, ed il loro europeismo è riassorbito dall'attività particolaristica delle loro branche nazionali. La conclusione del rapido esame, compiuto in questo capitolo e nel precedente, dei centri di propulsione europea esistenti nelle amministrazioni nazionali e nelle associazioni professionali, può essere così formulata. La missione delle amministrazioni comunitarie, quale risulta dalla definizione che ne danno i trattati, e dalla loro operosità ormai pluriennale, consiste nel suscitare una coagulazione crescente e permanente di interdipendenze economiche, in parte mediante l'assunzione di alcune funzioni amministrative precedentemente espletate dalle singole burocrazie nazionali, in parte mediante la promozione di regole comuni per alcune altre funzioni che tuttavia continuano ad essere gestite dalle burocrazie nazionali. Le relazioni continue ed intense delle amministrazioni comunitarie con quelle nazionali e con le associazioni professionali rappresentative della società economica sono il corollario di tale missione. In

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queste pagine abbiamo visto la fecondità ed insieme i limiti di tali relazioni. Finché sussiste la volontà dei governi di promuovere l'unificazione, talvolta tassativamente prescritta, talvolta solo auspicata nei trattati, la Commissione ottiene dalle amministrazioni nazionali una cooperazione volonterosa e dalle associazioni professionali l'accoglimento di punti di vista comunitari. Ciò accade non senza iniziali resistenze e reticenze, ma in sostanza con notevole successo. I funzionari statali, gli esperti governativi e i rappresentanti di categorie che entrano in contatto con l'amministrazione comunitaria per collaborare con essa alla realizzazione di questa o quella misura, si lasciano regolarmente contagiare in misura maggiore o minore dal suo spirito europeo, e diventano facilmente nei loro rispettivi uffici nazionali blandi ma tenaci fautori del punto di vista della Comunità. Questa vasta e capillare rete di influenza europea ha operato come un efficace lubrificante nella pesante e debole macchina comunitaria, diminuendone gli attriti. Non è lieve merito della Commissione aver saputo tessere questa rete ed averla saputa gettare su tutti i punti nei quali essa ha intrapreso volta a volta la realizzazione del suo mandato. Il limite insormontabile di questi molteplici centri di influenza appare tuttavia sempre, non appena la volontà dei governi di portare avanti l'integrazione europea vien meno o anche solo si arresta. I funzionari nazionali ridiventano allora di colpo coscienti della priorità del loro dovere nazionale permanente su quello europeo avventizio, e le associazioni professionali si rendono conto che il vero potere di decisione, sul quale devono esercitare le loro pressioni resta ancora quello nazionale.

CAPITOLO SESTO

LE COMUNITÀ E IL MONDO POLITICO

1. La Commissione di fronte alla politica Per forte che sia l'influenza unificatrice che la Commissione ha, grazie al suo apparato burocratico centrale, alle sue iniziative, alle sue relazioni con le amministrazioni nazionali e con le organizzazioni economiche e sociali, i successi o gli insuccessi delle Comunità dipendono ancora essenzialmente dall'azione dei detentori del potere politico. Il presidente della CEE, Walter Hallstein, ha affermato con vigore il carattere politico dell'impresa comunitaria, ripetendo in varie occasioni: >. E recentemente la Commissione ha fatto proprio questo punto di vista del suo presidente, spiegando in un suo documento ufficiale ( >, ottobre 1964) che >. Non può esservi dubbio che se per politica s'intende la gestione di affari pubblici, le Comunità sono, sì, limitate alla politica economica, ma sono pur sempre autentiche unioni politiche, essendo evidente che certi importanti affari pubblici SO·· no amministrati da esse. Se però, come è più corretto, per politica s'intende l'attività diretta a creare e adoperare il potere, cioè un'attività che dispone della capacità di decidere circa obiettivi da raggiungere e della forza con cui costringere le varie parti di una comunità ad obbedire a quanto è stato deciso, e ciò allo scopo di amministrare gli affari pubblici, si scorge subito che le Comunità sono prive di questa qualifica.

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Il potere di decisione e di coazione è e resta nelle mani degli organi politici dei singoli stati. Essi hanno solo convenuto fra loro di adottare certe regole nel prendere decisioni in comune, affidando a una burocrazia europea, creata e pagata da loro, la progettazione, in qualche caso l'esecuzione, e quanto meno la sorveglianza dell'esecuzione delle loro decisioni comuni. Sono però rimasti di fatto del tutto liberi di venir meno a tale convenzione. Negli ambienti comunitari si da molta importanza alla norma contenuta nel trattato di Roma, secondo la quale alcune decisioni possono o potranno presto essere prese dal Consiglio alla maggioranza qualificata, e si spera molto nel salto qualitativo che la Comunità dovrebbe compiere il 1° gennaio 1967, quando tale norma si estenderà automaticamente a tutta una lunga serie di importanti deliberazioni. Si pensa che in tali casi una parte di sovranità passa veramente dagli stati al Consiglio come tale, il quale può imporre una decisione a un paese contro la volontà dei suoi organi politici. Ma si tratta di un'illusione, ben nota ai costituzionalisti del diritto federale e confederale, cui non conviene dare troppo peso, perché né il Consiglio né alcun altro organo della Comunità dispongono di alcuno strumento di coazione rispetto ad uno stato che decidesse di violare o di non eseguire una decisione comunitaria. Il cosiddetto voto a maggioranza nel Consiglio è in realtà solo un'estrema pressione morale che sarebbe lecito esercitare sui paesi riluttanti, la decisione diventando realmente esecutiva solo se il governo rimasto in minoranza l'accetta e la esegue, se cioè in realtà si ristabilisce l'unanimità. Contrariamente all'opinione della Commissione e del suo presidente, le Comunità non sono quindi da considerare come comunità politiche nel senso preciso di questo termine. Sono solo amministrazioni europee che 134

dipendono politicamente da un consesso di stati, e che, essendo strutturalmente separate dalle amministrazioni n.azionali, e dotate di una loro autonomia di funzionamento in certi campi, potrebbero essere messe domani facilmente e con profitto alla dipendenza di un vero e proprio potere politico europeo oggi non ancora esistente. Le Comunità dipendono dai detentori nazionali del potere politico sotto tre aspetti, complementari ma distinti, che conviene scorgere con chiarezza. In primo luogo la messa in opera degli impegni nei trattati e nelle successive regolamentazioni presuppone che tutti gli stati membri vogliano continuare a mettere a disposizione i propri uffici e la propria polizia, ed a pagare regolarmente i contributi comunitari da loro dovuti. Ciò si è finora verificato senza eccezioni. Ma la possibilità che uno stato decida di uscire dalla Comunità, o che ne saboti le decisioni prese, esiste sempre. Uno di essi, la Francia, ha già fatto negli ultimi anni ripetuti riferimenti a questa eventualità nel caso che le decisioni sulla politica agricola continuassero ad essere rimandate. In secondo luogo, a parte gli impegni incondizionati contenuti nel trattato, la cui realizzazione sta ora volgendo al termine, lo sviluppo ulteriore delle Comunità, e soprattutto di quella del Mercato comune, presuppone che i governi degli stati membri continuino a prendere in comune le necessarie decisioni: nominare i commissari, votare i regolamenti, le direttive e i bilanci. Ciò è in larga misura accaduto, ma le eccezioni hanno cominciato ad apparire quando sono giunti all'ordine del giorno problemi di integrazione che implicavano sacrifizi, tensioni o comunque trasformazioni importanti in questo o quel paese. Le riluttanze si sarebbero indubbiamente manifestate anche se le decisioni fossero state di competenza di un autentico potere 135

federale, ma il fatto che esse devono essere prese dai governi stessi i quali devono poi affrontarne le conseguenze nel loro paese in termini parlamentari o elettorali o di incidenza nella loro politica economica nazionale, rafforza tali riluttanze. È così accaduto che il piano dell'Alta Autorità per superare la crisi carboniera del 19 57 è stato respinto dal Consiglio perché nessuno degli stati era disposto a modificare la propria politica nazionale dell'energia e successivamente la stessa riluttanza ha mantenuto nel limbo dei progetti la politica comune dell'energia. La fissazione del prezzo comune dei cereali, prescritta da regolamenti comunitari approvati essi stessi in mezzo a gravi difficoltà politiche, è stata raggiunta con estrema difficoltà e dopo numerosi rinvii da una sessione all'altra del Consiglio, perché il governo democristiano di Bonn per molto tempo non se l'è sentita di affrontare le ripercussioni elettorali, negative per la CDU, che i nuovi prezzi avrebbero avuto sui contadini tedeschi. Il governo italiano ha tardato oltre un anno a riempire un posto vacante nella Commissione, e l'attuale legislatura del parlamento ita-liano ha omesso a tutt'oggi di rinnovare la propria delegazione nel parlamento europeo, perché entrambe queste decisioni comportavano complicazioni nella difficile vita parlamentare di qt1esto paese. È evidente che se la cattiva volontà o anche solo la negligenza si accentuasse, la paralisi del meccanismo istituzionale comunitario diventerebbe inevitabile. È assai difficile, ed alla lunga impossibile, restare a mezza strada con una politica economica comunitaria già nata, ma bisognosa di completamenti importanti per potersi efficacemente sviluppare, e con simulta.nee politiche economiche nazionali divenute monche a causa degli impegni comunitari, e che tuttavia sono ancora responsabili dell'andamento

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generale dell'economia. Anche quel che è stato realizzato rischierebbe di regredire e di svanire. In terzo e ultimo luogo l'approccio funzionalista, che è alla base della concezione comunitaria, ha potuto per un certo tempo trascurare il fatto che le Comunità sono solo frammenti incompleti di una più complessa e più coerente costruzione politica europea ancora da venire, ma il loro stesso successo ha riproposto il tema che si era creduto inizialmente di poter evitare. Si potevano mettere in piedi distinte Comunità carbosiderurgica e atomica, ma quando, grazie al Mercato comune, si sono cominciati a delineare i grandi contorni di un'economia europea unificata, è app8rso chiaro che le due comunità settoriali devono confluire in un'unica Comunità economica a competenza generale. Si poteva ben cominciare con una parvenza di parlamento europeo, ma quando si è cominciato a vedere che un Consiglio di sei ministri nazionali promulga, sotto il nome di regolamenti, vere e proprie leggi comunitarie, lasciandosi assistere solo da funzionari, e che per di più diventa tanto più incapace di produrle quanto più esse diventano necessarie ed urgenti; quando si è cominciato a vedere che fondi importanti e crescenti sono gestiti dalle amministrazioni europee al di fuori di ogni controllo democratico, si è visto che tutto ciò è in troppo stridente contraddizione con il costume politico europeo che riconosce come legittimato ad esercitare il potere legislativo e il controllo del denaro pubblico solo un parlamento direttamente eletto. Si poteva avviare la costruzione del Mercato comune affidandosi ad un trattato che impegna allo smantellamento doganale e si limita a raccomandare l'armonizzazione delle legislazioni e delle politiche generali, ma nella misura stessa in cui l'unione doganale avanza, si comincia a rendersi conto della necessità di un efficace potere politico comune che detti alle forze eco137

nomiche gli obiettivi, e che stabilisca e tenga aggiornati gli argini giuridici entro i quali esse devono muoversi. Si poteva, infine, prescindere inizialmente dalla politica estera e militare profittando del fatto che esse erano omogeneamente fissate per tutti gli stati membri dall'egemonia americana nel quadro dell'Alleanza atlantica, ma con il passare degli anni questa iniziale rigidità delle politiche estere e militari dei singoli stati si è molto attenuata, e si è svegliata la coscienza del reciproco condizionamento fra politica economica e politica estera e militare, quindi della necessità di predisporre l'unificazione di queste parallelamente all'unificazione di quella. In altri termini, le Comunità sono giunte al punto di avere bisogno di una profonda revisione e integrazione costituzionale. Esse vanno fuse, competenze e strutture delle loro istituzioni vanno trasformate, nuove competenze vanno trasferite dagli stati membri ad esse o ad eventuali altri istituti sovrannazionali. Ma le Comunità non contengono né quel minimo di elastit:ità costituzionale, né quel minimo di potere politico reale che sono necessari per avviare, sia pure cautamente e lentamente, una tale evoluzione per via endogena. Qualsiasi revisione costituzionale deve prendere la forma di un nuovo contratto che gli stati membri devono negoziare fra loro e ratificare. Qualsiasi decisione di avviare tali negoziati dipende dalla volontà dei detentori del potere di decisione, cioè dai governi nazionali e dall'insieme delle forze politiche che animano e condizionano la volontà dei governi. La fusione degli esecutivi e delle Comunità segna il passo, l'allargamento delle competenze del parlamento europeo e la sua elezione popolare rimangono allo stadio di progetti, il fantasma dell'unione politica non prende corpo, solo perché queste riforme cozzano contro la resistenza di questo o

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quello stato e contro l'inerzia degli altri. Se questo atteggiamento dei detentori del potere politico perdurerà, le Comunità sono condannate all'isterilimento progressivo. CECA ed Euratom hanno già di fatto raggiunto il punto morto. La Comunità del Mercato comune è ancora animata da un fervore di progetti e di iniziative, ma il flusso delle realizzazioni minaccia di inaridirsi in misura preoccupante, non solo e non tanto per la difficoltà di promuovere politiche comuni complesse quali quella agricola, o dei trasporti o dell'energia, quanto per il diffondersi della convinzione che sta scomparendo fra gli stati membri quel minimo di consenso che inizialmente sussisteva circa la politica estera, tanto nelle sue implicazioni di politica militare quanto in quelle di politica commerciale, e che facilitava l'adozione di misure dirette ad accrescere l'interdipendenza economica dei vari paesi. Abbiamo già visto come la Commissione, costretta dalle regole istituzionali della Comunità a venire regolarmente dinnanzi al Consiglio per ottenere l'approvazione dei suoi progetti, non si sia limitata a contare sulla sua capacità persuasiva rispetto ai ministri, ma abbia sviluppato una complessa tecnica di aggiramento, consistente nel far partecipare attivamente all'elaborazione dei suoi progetti rappresentanti autorevoli delle amministrazioni nazionali e, sia pure con effetti minori, delle associazioni professionali. Essa è in tal modo riuscita a condizionare entro certi limiti i ministri del Consiglio, i cui dossiers erano di regola preparati da quegli stessi funzionari che erano più impegnati nelle faccende comunitarie, e contenevano anche riferimenti alle richieste dei gruppi di pressione professionali e di categoria. Ci si sarebbe potuti logicamente attendere che la forte dipendenza della sorte delle Comunità dalla volontà politica dei governi e perciò anche dei ministri 139

del Consiglio, avrebbe indotto la Commissione a sviluppare una ancor più attenta azione in direzione del mondo politico che sta dietro a ciascuno dei governi e che ne condiziona in assai larga misura gli atteggiamenti. Nello sviluppare una tale azione la Commissione non si sarebbe trovata, come nel caso della collaborazione con le amministrazioni e con le associazioni professionali, su un terreno vergine, nel quale i centri di influenza europea erano inizialmente inesistenti, e sono stati suscitati sempre solo dall'opera della Commissione. Nel mondo politico la Commissione trovava invece centri di azione, o quanto meno di orientamento politico europeo indipendenti da essa, spesso preesistenti ad essa, e capaci di vedere al di là delle sue realizzazioni. Questi centri possono essere raggruppati in quattro categorie: i governi dei paesi membri delle Comunità, ed in particolare i ministri nazionali impegnati o comunque interessati alla costruzione europea; il parlamento europeo; i partiti nazionali; le associazioni e movimenti europeistici. Su ciascuna di queste categorie la Commissione ha esercitato o può esercitare una certa influenza grazie alle sue relazioni permanenti con il Consiglio e con il parlamento europeo, mediante i suoi uffici di informazione, oltreché con le relazioni politiche personali dei singoli commissari.

2. I governi Come abbiamo ricordato nel primo capitolo, il più importante centro di iniziativa politica europea prima della creazione del Mercato comune è stato il concerto, non istituzionalizzato ma operante, dei grandi ministri europeisti dei primi anni '50: Schuman, Adenauer, De Gasperi, Beyen, Spaak, Beck. Anche quando qualcuno 140

di costoro scomparve o comunque lasciò il governo, i successori si mossero ancora per un certo tempo sulla loro linea, ad eccezione dei successori di Schuman, i quali in parte disfecero l'opera sua. Con la costituzione della CEE questo centro di iniziativa si è dissolto. I ministri interessati all'impresa europea sono diventati privi di qualsiasi ulteriore capacità creativa nel campo • • • • • • • • europeo, e 1 governi s1 sono sent1t1 ormai 1mpegnat1 soltanto alla riuscita del Mercato comune. Vale la pena di rilevare che tale impegno è stato sentito anche dai ministri francesi, i quali hanno profittato del fatto che la questione algerina accaparrava tutta l'attenzione di de Gaulle e neutralizzava la sua vecchia avversione per le Comunità. Per alcuni anni tutta l'attività europea dei governi è consistita nel muoversi sulla scia delle iniziative della Commissione, la quale ha occupato in modo del tutto naturale il posto di primo motore della costruzione europea precedentemente occupato dal concerto dei ministri europeisti. Anche la Commissione ha tuttavia a lungo accettato che il suo dialogo con i ministri restasse limitato alla discussione delle misure da adottare per la realizzazione degli impegni contenuti nel trattato di Roma. Essa tacitamente partiva dalla doppia ipotesi che da una parte non ci sarebbe comunque stata da parte dei governi alcuna nuova iniziativa europea per il futuro prevedibile, e che d'altra parte la loro volontà di realizzare il Mercato comune non sarebbe venuta meno. Entrambe le ipotesi si sono tuttavia rivelate inesatte. Liberatosi dagli impacci algerini, e puntando sulle solidarietà create dal Mercato comune, il presidente della repubblica francese ha proposto la ricostituzione del concerto dei governi europeisti, su basi però ormai assai diverse da quelle dell'epoca di Schuman, poiché la meta cui mirare avrebbe ora dovuto essere non già

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la costruzione progressiva di un'Europa sovrannazionale, dapprima funzionalista e poi federale, ma la costruzione di una confederazione di stati aspirante a diventare" come tale, una terza potenza mondiale fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il piano Fouché, l'opposizione all'ingresso dell'Inghilterra nel Mercato comune, il patto franco-tedesco, l'opposizione alla forza multilaterale in nome dell'indipendenza nucleare della Francia, e, al suo seguito dell'Europa, i grandi gesti di politica commerciale verso l'America latina e l'URSS, fatti unilateralmente dalla Francia ma sullo sfondo di una prossima politica commerciale comunitaria e perciò allo scopo di segnare la via anche in questo campo al resto dei paesi della Comunità, sono tutte mosse politiche che mirano a sovrapporre alle Comunità economiche un'unione politica di tipo confederale sotto l'egemonia francese. Le reazioni degli altri governi a questo piano sono state finora disordinate e improvvisate. Il governo tedesco ha fatto ratificare dal proprio parlamento il patto franco-tedesco, ma rifiuta sordamente la concezione gollista che porterebbe l'Europa ad un forte antagonismo politico con l'America. Il governo italiano e quello olandese non perdonano alla Francia il suo veto all'ingresso dell'Inghilterra nel Mercato comune. Il governo belga oscilla incerto fra la posizione gollista e quella degli altri. La paradossale situazione di questi sei paesi, che non riescono ad avere una concezione omogenea della loro politica estera e militare, ma che sono impegnati a costruire un'economia unificata, ed hanno già compiuto passi non trascurabili in questo senso, ha fatto sl che la discordia non sia giunta fino alla rottura. Il piano di de Gaulle ha obbligato gli altri governi ad uscire dalla breve illusoria euforia comunitaria fondata sulla speranza di potersi contentare di una tranquilla Europa

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degli uffici e degli affari. Tutti i governi sono stati costretti a ripensare di nuovo all'Europa politica. Non manca nelle diplomazie e fra gli statisti degli altri cinque paesi chi spinge ad accettare, con qualche adattamento secondario, il piano francese, perché esso sorride a coloro cui non dispiace la prospettiva di una certa tensione con gli Stati Uniti, la quale faciliterebbe la creazione di un arsenale nucleare indipendente e l'instaurazione di una politica economica notevolmente protezionista, nonché il capovolgimento in senso reazionario della vita politica interna dei vari paesi. È però poco verosimile che questo atteggiamento prevalga nei prossimi anni nei paesi associati alla Francia, ed è quindi da prevedere che i sei governi continueranno, sì, a parlare di unione politica, ma resteranno in posizione di attesa; il governo francese contando che gli altri cederanno a poco a poco, mentre questi attenderanno che il successore di de Gaulle torni in qualche modo e in qualche misura alla politica di Schuman. In tali circostanze il Mercato comune è diventato l'arena sulla quale si svolge questa guerra politica di logorio, perché esso è l'unico tessuto connettivo reale che tiene insieme i sei paesi. Chi riesce ad esercitarvi un'influenza preponderante, ha notevoli probabilità di trascinare alla lunga gli altri anche sul terreno politico, a patto solo di saper manovrare in modo da non lacerare del tutto i nessi d'interdipendenza creati dalla Comunità. Non si può tuttavia affatto escludere che la lacerazione avvenga, e che la costruzione europea torni all'anno zero. Finora la politica più coerente e più articolata nel seno del Mercato comune è stata indubbiamente quella del governo francese. Esso è deciso a mantenere, e possibilmente rafforzare, nella Comunità il principio in base al quale il potere di decisione resta in mano ai ministri

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nazionali. Ancora recentemente ha sottolineato che la prossima estensione della regola delle votazioni a maggioranza non cambierà in nulla questo stato di cose, perché non è concepibile che uno stato che si rispetti possa essere costretto a fare, in base ad un tale eventuale voto, quel che non vuole fare. Parallelamente alla difesa della concezione intergovernativa della Comunità il governo francese dà però sistematicamente il più valido sostegno a tutte le misure di integrazione predisposte dalla Commissione, presentandosi così fra i sei governi come il paladino della realizzazione completa e con il minimo di indugi del Mercato comune in tutti i suoi aspetti. Anche quando ha impedito l'ingresso inglese, ha presentato questa sua posizione come una difesa del Mercato comune, minacciato dallo scarso o nullo senso di solidarietà europea degli inglesi. Quantunque esso sia assai freddo circa una conclusione positiva del Kennedy round, proclama che per raggiungere qualsiasi accordo tariffario con l'America occorre che si compia infine il passo decisivo della fissazione dei prezzi agricoli comuni. La realizzazione del Mercato comt1ne agricolo, che è effettivamente una pietra d'angolo di tutto l'edificio comunitario, è divenuta a tal punto una cosa che sta a cuore al governo francese, da averlo indotto a minacciare ripetutamente che la Francia uscirebbe dalla Comunità ove questa non fosse capace di adottare la politica agricola. Non vi è dubbio che, nell'assumere una tale posizione di sostegno del Mercato comune, la Francia ha due grossi vantaggi. Il primo, per così dire, formale è che, disponendo di un personale amministrativo di prim'ordine e bene informato sulle questioni comunitarie, il governo francese riesce assai di frequente ad ottenere, nei vari comitati di studio e di consulenza, che i progetti della Commissione siano molto vicini quanto meno alle procedure

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amministrative e spesso anche agli interessi particolari francesi. Il secondo vantaggio è che l'agricoltura francese, la quale si trova in una turbolenta crisi di sviluppo, ha bisogno urgente di un mercato più ampio, nel quale smerciare la sua produzione. Ma queste non sono che fortunate coincidenze; la ragione profonda del fervore comunitario del governo francese è politica, poiché esso mira ad accrescere l'interdipendenza economica, mantenendola priva di un suo autonomo potere politico, allo scopo di facilitare in tal modo la realizzazione del suo piano politico. La politica comunitaria degli altri governi è stata assai meno coerente e intelligente. Dopo il veto posto all'Inghilterra il ministro tedesco Schroder ha chiesto al Consiglio, e formalmente ha visto accolta la sua richiesta, che d'ora innanzi non si sarebbe più dovuto procedere approvando volta a volta i progetti della Commissione in base al loro merito europeo e senza curarsi troppo se i vantaggi pratici cadessero troppo spesso dalla parte dello stesso paese, ma si sarebbero dovute > le misure da prendere, in modo che vantaggi e svantaggi sarebbero stati ogni volta bilanciati fra i vari stati. Era questo indubbiamente un passo indietro rispetto alla prassi comunitaria precedente, ma il Consiglio era per l'appunto un organo intergovernativo e non sovrannazionale, ed era stato il governo francese stesso a mostrare quanto duramente esso tenesse alla sua politica nazionale. Tuttavia per sincronizzare occorre avere qualcosa di serio da chiedere in cambio di quel che si dà, e nel campo dell'integrazione economica comunitaria la Francia, avendo da guadagnare praticamente su ogni punto, è dovunque parte chiedente. La proposta di Schroder è quindi rimasta senza seguito, e la politica adottata dagli altri governi si è ridotta a quella del malumore. Mentre inizialmente

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c'era nel Consiglio una forte predisposizione a giungere comunque, dopo adeguati mercanteggiamenti, a decisioni positive sulle proposte di integrazione, ora si è cominciato a rifiutare il proprio consenso o quanto meno a dilazionarlo, paralizzando quindi spesso la pesante macchina della Comunità. I primi due governi che hanno adottato tale nuovo atteggiamento sono stati l'olandese e l'italiano a proposito della ratifica della seconda convenzione con i paesi associati. L'impopolarità di questo rifiuto presso i paesi africani, che venivano in tal modo spinti ancor più a vedere nella Francia l'unico vero paese amico, ha costretto i due governi a fare più o meno elegantemente marcia indietro, ma la via della tattica dilazionatrice e paralizzatrice era ormai aperta. Con ben maggiore vigore ha agito nello stesso senso il governo tedesco opponendosi sistematicamente per due anni alla messa in opera effettiva dei regolamen ti agricoli. Certo, anche in questo caso, bisogna rilevare che il governo tedesco aveva ragioni obiettive di politica interna che facilitavano la sua resistenza ad una politica agricola cui il forte blocco, politico oltre che economico, degli agricoltori tedeschi era duramente contrario. Ma è assai verosimile che questa opposizione interna sarebbe stata sormontata con adeguate misure di transizione assai prima di quanto sia accaduto, se il governo tedesco avesse potuto e dovuto dire a se stesso ed all'opinione pubblica del suo paese che questo era un sacrificio da fare per quell'Europa sovrannazionale, ed al limite federale, alla cui realizzazione la Repubblica federale tedesca era impegnata fin dalla sua nascita. Questa giustificazione ideale era però stato il governo francese a farla venir meno, sostituendo ad essa una visione europea atta più a preoccupare che a rassicurare i tedeschi. A partire da questo momento l'accondiscendenza del governo alle richieste immobilistiche dei

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suoi contadini diventava un provvidenziale strumento di temporeggiamento politico nel seno del Mercato comune. Allo stesso modo si spiega l'analoga lunga reticenza del governo italiano in favore dei suoi granicoltori. Un tale congelamento della politica agricola era però alla lunga mal difendibile dentro un Mercato comune la cui logica interna spingeva all'integrazione progressiva di tutti i fondamentali settori dell'economia, e quando perciò alla pressione della Commissione si sono aggiunte le minacce di secessione del governo francese, l'accordo è stato infine trovato. Quel che gli altri governi, o almeno i più intelligenti fra loro, dovrebbero opporre alla politica comunitaria francese, dovrebbe consistere anzitutto nel toglierle la comoda posizione di apparente protettrice e promotrice del Mercato comune, mostrando la sua effettiva volontà sabotatrice. Bisognerebbe mostrare che il Mercato comune è giunto ad un punto in cui l'interdipendenza sta per diventare irrevocabile, e che occorre quindi sapere a quali istituzioni europee si dovrà affidare ormai la comune politica economica. Il prezzo da chiedere per l'ulteriore integrazione dovrebbe quindi essere il rafforzamento, la maggiore indipendenza e la democratizzazione delle istituzioni sovrannazionali della Comunità. È probabile che de Gaulle resti fermamente contrario ad un piano che miri a > il perfezionamento dell'unificazione economica con il perfezionamento in senso politico delle sue istituzioni, ma la sua posizione diventerebbe assai più debole tanto nella Comunità, quanto rispetto al suo stesso popolo. Certo, non ci sarebbero da attendere suoi cedimenti immediati. Ma la lotta è per l'appunto di logorio e non di successi rapidi. Alcuni primi tentativi di formulare una tale politica si sono manifestati nei governi tedesco, italiano ed

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olandese, ma timidi, contraddittori e perciò privi di quel vigore ideale che occorrerebbe avere per alimentare una lunga e difficile battaglia diplomatica e propagandistica. Il governo italiano ha ad esempio parlato di elezioni europee, ma ha subito attenuato la richiesta precisando che solo la metà del parlamento dovrebbe essere eletta. Il governo olandese e quello tedesco hanno chiesto il controllo parlamentare dei bilanci, ma hanno omesso di chiedere l'introduzione di tasse europee, senza le quali la partecipazione del parlamento europeo ad un bilancio le cui entrate dipendono dagli stati non sarebbe una cosa seria. Comunque questi sono oggi i termini della lotta politica che si sta svolgendo al livello dei governi intorno alle Comunità europee. La Commissione ha a lungo cercato di ignorarla. >, sembra abbia detto il presidente Hallstein quando, dopo il veto anti-inglese di de Gaulle, la Comunità sembrava colpita da paralisi, >. Al che sembra che il commissario Mansholt con maggiore avvedutezza politica abbia risposto che in questo momento si stavano manovrando gli scambi e che quindi non si trattava solo di marciare, ma anche e soprattutto di sapere su quali binari ed in quale direzione si sarebbe • marciato. Nella Commissione non c'è alcuna simpatia per la politica europea di de Gaulle, di cui si comprendono e si disapprovano le implicazioni non solo per l'Europa in generale, ma anche per quel tanto di sovrannazionalità che c'è nella Comunità e della quale la Commissione è a ragione assai gelosa; nel quadro del piano gollista, invero, benché ciò non sia mai stato esplicitamente detto da 11essuno, c'è evidentemente un'istituzione di

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troppo nella Comunità, ed è precisamente la Commissione, il cui ruolo dovrebbe essere invece svolto dal comitato dei rappresentanti permanenti. Tuttavia, prigioniera a lungo dell'illusione di poter fare politica semplicemente proponendo e applicando regolamenti per l'attuazione del Mercato comune, la Commissione si è venuta a trovare nella paradossale situazione di essere regolarmente sostenuta proprio dal governo francese, che in realtà mira alla liquidazione della sovrannazionalità, e di essere invece spesso paralizzata da quei gover11i che vanno, sia pur dubbiosamente, cercando il rafforzamento della sovrannazionalità. Negli ultimi tempi tuttavia la Commissione sembra aver compreso che il momento era per essa giunto di uscire da questa situazione formalmente corretta, ma politicamente equivoca ed ha cominciato ad oltrepassare nei suoi rapporti con il Consiglio i rigidi limiti ad essa impartiti dal trattato. Nella sua dichiarazione programmatica dell'ottobre 1964, che porta il nome di > e ha sottolineato l'utilità di far eleggere direttamente il parlamento europeo e di farlo partecipare alla formazione dei regolamenti e del bilancio della Comunità. Questa presa di posizione resta solo una professione di fede della Commissione, e non si inserisce ancora 149

in nessuna concreta sua attività. A tutt'oggi, inizio del '65, essa non ha osato ancora includere, sia pure con prudenza ma anche con sistematicità, completamenti istituzionali alle sue proposte di regolamentazioni del1'economia. Se essa volesse essere, sia pure soltanto in nuce, il governo economico della Comunità, e non solo un organo al servizio di quel policefalo quasigoverno europeo che è il Consiglio, essa dovrebbe sistematicamente sottolineare ad ogni proposta quali poteri vengono ad essere tolti ai governi ed ai parlamenti nazionali, e indicare le modalità concrete con cui assegnarli alla Commissione, al Consiglio ed al parlamento europeo. Senza dubbio assai frequenti tensioni si manifesterebbero in tal caso fra Commissione e Consiglio, ma solo grazie ad esse la Commissione diventerebbe un fattore di coagulazione delle tendenze sovrannazionali latenti nello stesso Consiglio.

3. Il parlamento europeo Se di una cosa ci si può meravigliare nella dichiarazione di . I tre gruppi a struttura sovrannazionale, modellati all'ingrosso sugli schieramenti nazionali, riproducono naturalmente i tradizionali atteggiamenti, conservatore 157

della destra liberale, moderato ambivalente ma con facile tendenza al conservatorismo della democrazia cristiana, incline ad un cauto progressismo dei socialisti. Il dibattito nel quale queste differenze sono emerse con maggiore evidenza è stato forse quello dell'ottobre del 1960 sui prezzi agricoli, nel quale la maggioranza democristiana e liberale si pronunziò per la fissazione dei prezzi >, cioè a quelli, più alti, della Germania, mentre la minoranza socialista, sostenuta dagli olandesi compatti, prendeva posizione a favore della proposta della Commissione di prezzi intermedi fra quelli massimi e quelli minimi vigenti nella Co. ' munita. Queste divergenze non sono tuttavia tali da oscurare il fatto che, tutti e tre i gruppi, costituenti la quasi totalità del parlamento, hanno un atteggiamento europeo sostanzialmente simile, che li porta a raggiungere quasi sempre senza troppa difficoltà posizioni comuni quando si tratta di accelerare e approfondire la messa in opera dell'integrazione, di incoraggiare e difendere la Commissione di fronte ai ministri, di vegliare con gelosia acché quel tanto di sovrannazionalità che già esiste non sia riassorbito dai governi e dalle amministrazioni nazionali, di accrescere l'importanza dell'istituto parlamentare nella Comunità. Grazie a questo permanente fronte comune di quasi tutti i suoi membri, il parlamento è riuscito ad ottenere vari successi sul piano della procedura. Ha reso più frequenti le sue sessioni, ha ottenuto di essere consultato dalla Commissione anche prima che essa formuli i veri e propri progetti di risoluzione. Si è organizzato in commissioni permanenti che sorvegliano, spronano e criticano tutto il lavoro della Commissione, e che chiamano regolarmente a riferire e a rispondere esperti,

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rappresentanti di gruppi d'interesse, funzionari delle commissioni, e gli stessi commissari, stabilendo cosi il diritto del parlamento a formarsi un'opinione non solo sulla base della documentazione fornita dalla Commissione, ma anche raccogliendo informazioni in modo autonomo. Il parlamento ha anche chiesto ed ottenuto regolari incontri periodici con il Consiglio. Ogni parlamentare ha il diritto di rivolgere interrogazioni tanto alla Commissione quanto al Consiglio, e quantunque non ci sia da parte di queste istituzioni l'obbligo della risposta, essa è normalmente data per iscritto. L'esame della vita interna di questa Assemblea mostra la possibilità, per così dire, tecniéa di un'autentica vita parlamentare al livello europeo. Se si giungerà un giorno ad una struttura federale dell'Europa, l'esperienza di questa Assemblea sarà stata preziosa, poiché essa ha suscitato nel suo seno schieramenti politici che superano le linee di divisione nazionali, ha sviluppato l'ambizione di avere una responsabilità nel controllo dell'amministrazione europea, ha introdotto un costume parlamentare europeo distinto dai costumi nazionali. Benché composto di parlamentari nazionali, nel suo seno si è imposta in notevole misura e in modo naturale la consapevolezza di dover affrontare e portare a conclusione i dibattiti, mantenendo fermo il punto di vista complessivo europeo e adattando ad esso i punti di vista nazionali anziché concepire il primo come un compromesso diplomatico fra questi ultimi. Quel che manca a questa Assemblea e che rende abusiva ed illusoria la sua denominazione di > è da una parte l'autentica rappresentatività delle forze politiche popolari e dall'altra il potere di utilizzare il meccanismo parlamentare esistente a Strasburgo per partecipare effettivamente alla formazione delle decisioni della Comunità. Finché non ci sono 159

elezioni dirette, i parlamentari europei sentono di essere anzitutto e soprattutto parlamentari nazionali che si occupano saltuariamente ed a solo titolo consultivo delle faccende della Comunità, senza avere quella piena legittimità democratica che nei nostri paesi e nella nostra epoca è data solo dal suffragio popolare. Finché la loro voce, che non è di esperti ma di politici, ha solo titolo consultivo, essi sentono di restare irrimediabilmente al margine dell'effettiva costruzione europea, avendo la possibilità di parlarne, ma non quella di determinarla in alcun modo. Il parlamento europeo ha protestato in più occasioni con vivacità contro il peso di queste due catene che lo condannano al ruolo di insignificante Assemblea consultiva. Ma mentre ha indicato la procedura da seguire per spezzarle, non è stato finora capace di condurre la necessaria battaglia politica. Il tema della rappresentatività popolare era stato posto formalmente dal trattato stesso, il cui art. 138 prevede la possibilità di elezioni europee. Il parlamento, subito dopo la sua costituzione, ha iniziato lo studio dell'argomento, e nel maggio del 1960 ha infine consegnato al Consiglio un progetto di trattato, integrativo di quelli di Roma, in base al quale il numero dei deputati europei dovrebbe essere triplicato, passando da 142 a 426; le elezioni dovrebbero aver luogo ogni cinque anni, simultaneamente in tutta la Comunità e separatamente da quelle nazionali; la legge elettorale dovrebbe in parte essere comune a tutti, ed è quindi contenuta nel progetto di trattato, in parte andrebbe integrata da ulteriori leggi nazionali le quali potrebbero, ad esempio, scegliere fra il sistema proporzionale e quello uninominale; le prime elezioni dovrebbero essere indette solo per i due terzi della nuova Assemblea, restando l'ultimo terzo nominato ancora dai parlamenti

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nazionali, e riservando alle successive elezioni la nomina popolare dell'intera compagine. Il tema dell'attribuzione di poteri reali era ignorato dal trattato, ed è stato affrontato dal parlamento stesso non già partendo da una impostazione federalista teorica, ma dall'esperienza stessa della Comunità. Man mano che dai problemi della semplice unione doganale la Comunità ha cominciato a passare a misure e progetti di vera e propria unione economica, i regolamenti da adottare sono parsi incidere sempre più nel vivo delle strutture economiche nazionali, ed i mezzi finanziari che la Commissione avrebbe di conseguenza dovuto gestire sono apparsi come destinati ad oltrepassare di molto i bilanci attuali delle Comunità. Il parlamento ha sentito l'aspetto non democratico e la intrinseca debolezza di una situazione in cui larghe fette del potere legislativo e del controllo del denaro pubblico vanno passando nelle mani dell'amministrazione europea e di sei ministri nazionali, ed ha proposto dettagliatamente ed a più riprese la sua partecipazione alla procedura legislativa, ed a quella della formazione dei bilanci. In particolare, nella seduta del 27 giugno 1963 esso ha. votato una >, nella quale si formulano alcune richieste immediate, che possono essere introdotte senza bisogno di revisione dei trattati essendo sufficiente che il Consiglio e la Commissione adottino certe procedure, ed altre richieste, a più lungo termine, di vero e proprio ampliamento istituzionalizzato di poteri, le quali esigono una revisione dei trattati. Le richieste immediate possono essere cosi riassunte. Il presidente di ciascun esecutivo all'atto della sua nomina sottoponga ad un dibattito parlamentare una sua dichiarazione programmatica; i regolamenti siano discussi nel parlamento prima di essere sottoposti alla 161

decisione del Consiglio, siano ripresentati al parlamento se il Consiglio non li adotta, e, ove siano confermati da questo con maggioranza dei due terzi, non possano essere modificati in sede di Consiglio che con decisione presa all'unanimità; il parlamento sia informato sulla evoluzione delle relazioni esterne e consultato sugli accordi di associazione; i progetti di bilancio siano presenta ti al parlamento contemporaneamente alla loro presentazione al Consiglio, ed il tasso di prelievo della CECA (cioè l'unica tassa federale finora esistente) sia stabilito dall'Alta Autorità senza discostarsi dal tasso indicato dal parlamento. Le richieste di istituzionalizzazione di più ampi poteri sono: la partecipazione efficace del parlamento alla nomina degli esecutivi, il potere di approvare tutte le misure a carattere legislativo, il potere di ratifica di tutti gli accordi internazionali della Comunità, il potere di decisione in materia di bilancio nel momento in cui la Comunità disporrà di risorse proprie, il diritto di designare i giudici della Corte di giustizia sulla base di una lista presentata dai governi. L'estrema moderazione tanto del progetto di elezione diretta, quanto delle richieste, immediate e a lungo termine, di estensione dei propri poteri è suscettibile di non poche critiche, ma la direzione generale è quella giusta: lo sviluppo dei metodi democratici nell'interno della Comunità. La formulazione precisa delle procedure da seguire per ottenere tale sviluppo è senza dubbio importante, perché nel campo della costruzione europea ci si muove su un terreno nuovo e la tendenza a ricadere negli schemi tradizionali delle relazioni di tipo diplomatico è sempre molto forte. Tuttavia formulare le procedure non basta; per farle adottare occorre un'azione politica coerente e continua, che utilizzi ogni possibilità esi-

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stente, allo scopo di sormontare le inevitabili resistenze. Tale azione è sinora mancata in tutte e due le direzioni .in cui essa era possibile, e precisamente tanto nel campo delle relazioni con la Commissione quanto in quello delle relazioni con i parlamenti nazionali, ed attraverso questi, con i governi. Del primo fallimento è responsabile la Commissione assai più del parlamento. Nell'atto stesso di stabilire il diritto di iniziativa della Commissione circa le misure da sottoporre all'approvazione del Consiglio, il trattato di Roma indica infatti anche alcune istanze che la Commissione deve obbligatoriamente consultare, pur senza esser tenuta a seguire le loro raccomandazioni, e fra esse non manca quasi mai il parlamento europeo. Se la Commissione fosse stata composta di uomini ispirantisi al.la visione di uno sviluppo essenzialmente politico e democratico della Comunità, essa avrebbe mirato a valorizzare al massimo questo legame con il parlamento, allo scopo di rafforzare non solo esso ma anche la sua propria posizione negli eventuali e probabili contrasti con il Consiglio, con i rappresentanti permanenti e con i singoli governi. Era inevitabile che nel momento stesso in cui le istituzioni comunitarie sarebbero entrate in funzione, la prassi avrebbe cominciato ad alterare in un senso o nell'altro il ruolo di ciascuna di esse, ed il loro rispettivo equilibrio. I due organi sovrannazionali sprovvisti di poteri reali di decisione, ma dotati di autonomia e, ciascuno a modo suo, di certi diritti di iniziativa - la Commissione e l'Assemblea - avrebbero potuto e dovuto fare fronte comune nei riguardi del Consiglio. Il parlamento, spronando la Commissione, difendendola contro l'invadenza dei rappresentanti permanenti e non risparmiando le sue critiche al Consiglio, si è mostrato disposto ad assumere questa posizione. Ma la possibilità di

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svilupparla dipendeva dalla Commissione. Senza violare il trattato, ma introducendo nella prassi una linea di condotta facilmente difendibile, essa non aveva che da deci-. dere di far partecipare effettivamente il parlamento alla elaborazione dei suoi progetti, collocando di fatto tale partecipazione su un piano superiore a quello delle consultazioni con il Comitato economico e sociale e con i vari comitati di studio in cui sono presenti le amministrazioni nazionali. Poteva decidere di considerarsi vincolata dai voti del parlamento ogni volta che si fosse trattato di regolamenti o direttive che avrebbero dovuto successivamente essere approvati dal Consiglio. Poteva, ove il Consiglio non avesse approvato un regolamento votato dal parlamento, utilizzare il suo diritto di emendamento non già per venire incontro al Consiglio ignorando ormai il parlamento, ma in modo tale da giungere ad un testo che avesse l'approvazione di entrambe le istanze, considerandole tacitamente come due Camere - l'una rappresentante il popolo, l'altra gli stati, entrambe necessarie per perfezionare la procedura delle decisioni. Con una tale linea di condotta, che non era prescritta dal trattato ma nemmeno proibita, la Commissione avrebbe fatto del parlamento europeo uno dei centri di decisione reale, accrescendo in esso il senso della sua importanza. Parlamentari autorevoli sarebbero stati indotti a parteciparvi, ed una tensione feconda fra parlamento e Consiglio si sarebbe formata. Il tema delle elezioni europee, della riforma dei poteri del parlamento, ed in genere della Comunità politica si sarebbe sviluppato in ben altro modo. A questa prospettiva, che è tuttora aperta, la Commissione si è tuttavia mostrata fino a recentemente del tutto cieca. Essa ha scrupolosamente rispettato la lettera del trattato, non omettendo mai di consultare il parla-

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mento, ed è anche venuta incontro alle sue richieste di più frequenti contatti ed informazioni. Ma nelle sedute del parlamento non ha mai voluto vedere altro che una fra le altre casse di risonanza con cui dar pubblicità alle sue azioni, ed uno fra gli altri organi di utile consultazione. Non è sistematicamente sorda agli emendamenti dei suoi progetti, formulati dal parlamento, ma ha s~mpre con energia ed esplicitamente riaffermato di fronte ad esso la sua piena libertà di decidere se accoglierli o meno. In una seduta del parlamento del giugno 1959 essa ebbe a dichiarare che, esigendo l'adozione dei suoi emendamenti l'Assemblea avrebbe . Evidentemente la Commissione non si rendeva in alcun modo conto dell'aspetto comico di una tale difesa delle prerogative governative fatta da chi, in realtà governo non era, e poteva sperare di diventarlo solo parallelamente all'accrescimento del ruolo del parlamento. L'atteggiamento di sospettosa difesa della propria indipendenza rispetto ai parlamenti, sentiti come fattori di disordine, è un riflesso normale di tutte le amministrazioni pubbliche, ed è naturale che si faccia sentire anche in quella europea. Resta però ugualmente grave che la Commissione non si sia resa conto che nel suo caso essa difendeva non la propria forza ma la propria debolezza. L'indifferenza sostanziale della Commissione verso il parlamento ha contribuito in modo rilevante a far sì che il peso determinante di questo nel processo 165

decisionale delle Comunità sia rimasto finora pressoché nullo, di fronte ad un accresciuto peso del Consiglio, dei rappresentanti permanenti, e dei molteplici comitati di funzionari nazionali che accompagnano e condizionano tutto il lavoro della Commissione. In