Ragazze perdute. Sesso e morte nella Firenze del Rinascimento 8843077201, 9788843077205

Nella Firenze del 1554, in uno dei quartieri più malfamati, un gruppo di donne fondò un ricovero per adolescenti abbando

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Ragazze perdute. Sesso e morte nella Firenze del Rinascimento
 8843077201, 9788843077205

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Frecce·

�o1

Nicholas Terpstra

Ragazze perdute Sesso e morte nella Firenze del Rinascimento

Carocci editore

@ Frecce

Traduzione di Barbara Donati T itolo originale: Lost Girls. Sex and Death in Renaissance Florence ©2.oro The Johns Hopkins Universiry Press Ali Righrs Reserved. Published by Arrangemenr with The Johns Hopkins University Press, Baltimore, Maryland r• edizione

italiana, maggio 2.015

©copyright 2.015 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nel maggio 2.015

da Eurolit, Roma ISBN

978-88-430-772.0-5

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge

2.2.

aprile 1941, n. 633)

Siamo su: www.carocci.it www.facebo ok.com/caroccieditore www.twitter.com/caroccieditore

Indice

Ringraziamenti

9

Annotazioni su date, monete e sistemi di misurazione

I3

I.

Silenzi misteriosi

I5

2.

L'ambiente. n sesso in città

29



Adolescenti nel Rinascimento. Ragazze al lavoro

73



Adolescenti e sistemi di controllo della natalità

III



Radicalismo religioso nel Rinascimento. Giovani donne nei guai

145

6.

Giovani vergini e malattie veneree

I87



Conclusioni. Le verità degli archivi. n sesso e la ragion di stato: Giulia e il principe ereditario Vincenzo Gonzaga

213

Note

23 3

Bibliografia

267

Indice analitico

28 I

Ringraziamenti

Questo libro è come un albero che ha messo radici molti anni fa e che nel tempo è cresciuto soltanto grazie alle amorevoli cure di molte persone, istituzioni ed enti finanziatori. Nel tempo è germogliata anche la tesi di fondo, di pari passo con l'avanzamento delle ricerche, certo, ma anche con l'infittirsi delle conversazioni, delle critiche e dei suggerimenti ricevuti da un numero crescente di persone. Ci sono state discussioni che si sono pro­ tratte per anni, altre che, invece, hanno richiesto tempi piuttosto brevi. Alcune si sono svolte davanti a un computer, altre faccia a faccia. Per il tempo, l 'attenzione, la collaborazione e il sostegno ricevuti, ringrazio Ser­ gio Ballatri, Cristian Berco, Peter Blanshard, Judith C. Brown, Gian Ma­ rio Cao, Anne Dillo n, Nicholas Eckstein, John Edwards, Konrad Eisenbi­ chler, Ali so n Frazier, Davi d Gentilcore, Laura Giannetti, Lisa Goldenberg Stoppato, Richard Goldwaite, Allen Grieco, Carol Lansing, Alexa Mason, Sara Matthews-Grieco, Luca Mola, Nerida Newbigin, Lorenzo Polizzot­ to, John Riddle, Michael Rocke, Guido Ruggiero, Kevin Siena, Patrizia Urbani e David Wilson. Un particolare ringraziamento va a Natalie Ze­ mon Davi es, che mi ha aiutato a trovare un modo migliore per raccontare questa storia misteriosa, lasciando che a farlo fossero direttamente le ra­ gazze e le donne della Casa della Pietà. Ancora una volta, Angela, Alison, Christopher e Nigel hanno dimostrato una grande capacità di sopporta­ zione; nulla sarebbe stato possibile senza il loro affettuoso sostegno. L'opera, poi, non avrebbe fatto passi in avanti senza la collaborazione degli assistenti di ricerca John Christopoulos, Sheila Das, Amanda Lepp, Sarah Melanie Loose e Sandra Parmegiani. A titolo diverso, sono stati tutti coinvolti nel progetto e attendo con impazienza di sapere che cosa alcuni di loro vorranno farne. Le risorse economiche necessarie al loro compenso e a molte altre necessità della ricerca sono state messe a disposizione in modo assai generoso dalla Fondazione Hannah degli Associated Medicai Services, attraverso due borse di studio, da un assegno di ricerca per Senior

IO

RAGAZZE PERD UTE

Scholar stanziato dalla Renaissance Society of America e da uno Standard Research Grant offerto dal Consiglio per le ricerche in scienze sociali e umanistiche del Canada. Diversi passaggi del libro erano già stati presen­ tati nel corso di conferenze e seminari e sono particolarmente debitore per una discussione nata a Sarasota (FL), nel 2004, durante la conferenza di studi medievali e rinascimentali promossa ogni due anni dal New Col­ lege, in Florida, e per un altro dibattito che, invece, risale al Convegno di Studi sul Cinquecento tenutosi ad Atlanta ( GA ) , nel 2oos, senza contare i semi nari all' Università di Toronto, di Sidney, al Victoria College, all' Uni­ versità di Warwick, a quella ebraica di Gerusalemme e a quella di Tel Aviv. li libro è una sorta di opera aperta, non conclusa, nata da un antico progetto. Ringrazio Henry Tom per avermi sostenuto e consigliato fin dal primo momento e ancora di più lo ringrazio per la pazienza che ha dimo­ strato quando il mio lavoro non arrivava sulla sua scrivania con la rapidità che gli era stata promessa. Alcune parti del libro sono già state pubblica­ te. Qualche lettore potrebbe avvertire una certa, fastidiosa sensazione di "già sentito': riuscendo a scovare alcuni passaggi a lui familiari inMothers, Sisters and Daughters: Girls and Conservatory Guardianship in Late Re­ naissance Florence, in "Renaissance Studies", 17, 2, 20 03, pp. 201-29, e in Abandoned Children ojthe ltalian Renaissance: Orphan Care in Florence and Bologna, Johns Hopkins University Press, 2005. Penso di aver detto tutto. Tutto ciò che sta dietro al libro ha avuto inizio ai tempi in cui ero bor­ sista al Centro per gli Studi sul Rinascimento Italiano dell'Università di Harvard, nel 1 9 94-95, a Firenze. Pochi, meravigliosi mesi trascorsi a Villa I Tatti nel 20o8 mi hanno finalmente permesso di riordinare tutto quan­ to avevo trovato. Ringrazio particolarmente il direttore del centro, Joseph Connor, per la Visiting Professorship che ha reso quei mesi tanto fruttuosi e tutti i ricercatori, gli insegnanti, i visitingprofessors, gli amici e la famiglia che ne hanno fatto un periodo stupendo. Ho voluto raccontare una storia e ho voluto anche capire come si fa a farlo quando ciò che ne resta è frammentario, contraddittorio, pieno di omissioni. Ci sono quattro professori che, in scuole e momenti differenti della mia vita, sono stati maestri e guide sicure per capire che cosa sia la storia e in che modo gli storici debbano lavorare. Gary Van Arragon era pronto a scovare metodi non ortodossi per evitare che uno studente delle scuole superiori cadesse preda della noia, durante una lezione in classe, e allo stesso modo sapeva che gli alunni vanno sfidati a misurarsi con la vita,

RINGRAZIAMENTI

II

con la fede e con il mondo intero. Richard Rempel ha ampliato gli oriz� zonti di quelle fonti primarie attraverso cui le civiltà del passato si raccon� tano, mostrandomi come curiosità, sensibilità e cultura ci aiutino ad ascol� tare, a interpretare, a dare un senso a quelle voci lontane. Richard Allen fu la guida di un mio breve excursus sulla storia del pensiero canadese, nel quale la paleografìa incontra ancora grandi difficoltà e dove sono radicati i pregiudizi non solo verso la ricerca in questo ambito disciplinare, ma verso la stessa materia. Allen mi ha mostrato come e perché la paleografìa do� vrebbe essere affrontata, portando le sue convinzioni fuori dalle aule uni� versitarie, fin sulla pubblica piazza. Paul Grendler mi ha insegnato, diret� tamente e indirettamente, a leggere un documento, a valutarlo, ad andare dritti al punto della questione che esso sottende. Mentore non solo della disciplina e della ricerca storica, ma dell'intero ambito della professione, Paul Grendler ha costantemente lavorato perché a molti venissero aperte le porte della ricerca, del lavoro e della vita in genere. Tutti questi quattro professori di storia hanno sempre accompagnato le loro notevoli capacità professionali a un'altrettanto importante generosità personale. Leggendo questo libro, potrebbero chiedersi che cosa è andato storto. Sono comun� que grato a ognuno di loro per aver creduto che potessi cimentarmi in questo genere d' impresa e per avermi incoraggiato a farlo, in molti modi, e concreti.

Annotazioni su date, monete e sistemi di misurazione

Per i fiorentini il nuovo anno iniziava con la Festa dell'Annunciazione, il 2..5 marzo: in quel giorno, ogni contabile e scrivano cambiava la data sui propri registri. Le date di questo libro, invece, sono state tutte rese secon­ do lo stile moderno e, quindi, il IS marzo 1566 dei fiorentini è qui diventa­ to il IS marzo dell'anno successivo. Per i loro scambi commerciali internazionali, i mercanti e i banchieri di Firenze si avvalevano di una moneta d'oro (il .fiorino, durante l'età re­ pubblicana, lo scudo, dopo il 1530 ), ma per gli acquisti giornalieri ogni fio­ rentino teneva nel proprio borsello un vasto assortimento di monetine di rame e d'argento. Nei loro libri mastri, i contabili utilizzavano una valuta particolare, la cosiddetta ccmoneta di conto", che risaliva al tempo dei Ro­ mani e che ritroviamo, sotto varie forme, in tutta l'Europa del Medioevo e del Rinascimento. Si contava in base a tre monete: lire, soldi e denari; I lira valeva 2..0 soldi e 2..0 soldi equivalevano a 2..4 0 denari. Le somme potevano essere registrate specificando, attraverso simboli da tutti riconosciuti, la tipologia di moneta in questione (ad esempio, E 2... 14s.9d) o semplicemen­ te inserendo le cifre separate da segni d' interpunzione (e, quindi, 2... 14.9 ) Lo stesso sistema, sotto forma di sterline, scellini e penny, fu adottato in larga parte d' Europa, dal Medioevo fino alla prima età moderna, e in In­ ghilterra rimase in vigore fino al 1971. Negli anni Cinquanta e Sessanta del Cinquecento, cioè per tutto il periodo in cui si svolgono i fatti narrati in questo libro, il valore di uno scudo oscillava dalle 7 alle 7,5 lire. Un lavo­ ratore non specializzato poteva guadagnare 100 lire all'anno, mentre uno qualificato poteva arrivare a incassarne il triplo. Per ogni staio di grano (cioè per 2..4 ,4 litri), ne avrebbe spese 2.., di lire, insieme a IO soldi; 3 lire per un barile di vino (circa 46 litri) e 16 per un barile di olio d'oliva (ossia per 32.. litri d'olio). I mercanti misuravano le stoffe in braccia (braccio al singolare). Il braccio in uso a Firenze era di s8,36 cm, all'incirca 2.. piedi, ed era ge.

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RAGAZZE PERD UTE

neralmente utilizzato per misurare la lunghezza di panni già tagliati. n tessuto intero si misurava in cannae, dove una canna equivaleva a 2,9 2 metri, cioè 5 braccia. Diverse manifatture fiorentine valutavano le merci in libbre. La libbra toscana era pari a 0,3 4 kg e, proprio come la libbra attualmente in uso, veniva suddivisa in 12 once.

I

Silenzi misteriosi

Sullo sfondo della nostra storia, la disperazione; al centro, un mistero e una fitta rete di segreti. Nella Firenze del Cinquecento la furia di una carestia spazzò via il cibo dalla tavola di contadini e salariati; la carestia la­ sciò, poi, il passo a un'altrettanto impetuosa epidemia. Molti dei soprav­ vissuti alla prima trovarono la morte con la seconda. Un gruppo di donne caritatevoli decise allora di aprire una casa per le centinaia di adolescenti rese orfane o abbandonate dopo questo duplice flagello. Le ragazze accor­ sero in gran numero : morirono a decine, però, a volte nel giro di poche settimane. Passarono quattordici anni e questo istituto, tanto funestato da morti precoci, cambiò sede; una volta trasferito, nessuno dei vicini volle ammettere che esso fosse mai esistito. Centinaia di donne avevano contribuito allo sforzo di aprire e far funzionare questo ricovero, eppure, nello spazio di un solo decennio, tutte scomparvero dalla scena. È qua­ si incredibile: in una città che vive di dicerie e pettegolezzi, nessuno sa riferire qualcosa sulla questione - nessuna predica appassionata, nessun poernetto volgare. I manoscritti rinvenuti negli archivi della casa restitui­ scono un racconto che lascia perplessi. Qualcuno sembra rivelare molto, altri davvero poco. L'unica cosa chiara è che narrano storie molto diverse. Questo non fa che infittire il mistero : che cosa uccideva le ragazze della Casa della Pietà? Mi sono imbattuto in quest'enigma mentre conducevo alcune ricer­ che sulle strutture pie costruite dai fiorentini per ospitare ragazze rimaste orfane o, più spesso, abbandonate dai loro genitori. La Casa della Pietà fu una delle prime. Aprì i battenti attorno al Natale 1 5 5 4 e ben presto de­ cine di giovani, per la maggior parte appena adolescenti, presero ad affol­ larne i letti. Un logoro registro manoscritto restituiva nome e identità a queste ragazze, talvolta offrendo qualche ulteriore indicazione. Marghe­ rita, 9 anni, figlia di Monna Betta di Firenze, fu tra le prime registrate, il 2.5 gennaio 1555. Un mese dopo era morta. Passarono poche settimane e la

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RAGAZZE PERD UTE

quattordicenne Maria, figlia del soldato Negrante, di stanza nella valle del Mugello, a nord di Firenze, fece il suo ingresso nella Casa della Pietà. Un anno dopo morì in un letto del più importante ospedale della città, Santa Maria Nuova. Con ogni probabilità le infermiere dell'ospedale la misero vicino, o persino nello stesso letto, della tredicenne Maddalena, dal nome di Maria Maddalena, la santa che compendiava l'intero immaginario di prostituzione, tentazione e peccato di ogni italiano del Rinascimento. n padre di Maddalena era un frate, padre Billi, dell'importante monastero della Certosa, appena fuori le mura cittadine. Le madri di Maria e Mad­ dalena avrebbero potuto essere delle prostitute; su questo, il registro tace. A prescindere da ciò, la figlia del frate andò incontro allo stesso destino della figlia del soldato: Maddalena entrò nel rifugio della Pietà quattro mesi dopo Maria, intraprese lo stesso viaggio di sola andata alla volta dell' Ospedale di Santa Maria Nuova e morì solo quattro settimane dopo Maria'. Bartolomea, u anni, morì in sedici mesi. La dodicenne Caterina in do­ dici. Elisabetta, 10 anni, in sei. La quattordicenne Agnola in due, mentre per Lucrezia, 12 anni, e Brigida, di s, bastò un solo mese". In ogni orfano­ trofio c'erano bambini che morivano in età prematura, ma ciò che desta sconcerto in questo caso sono i numeri. Molto più della metà delle cin­ quantadue adolescenti registrate nel giorno in cui la Casa della Pietà aprì si spense sotto le sue cure, molte entro pochi mesi o addirittura settimane dopo l'arrivo. Questo non sarebbe dovuto accadere a delle adolescenti, neppure in un orfanotrofio. Solo i neonati abbandonati morivano in que­ ste percentuali. Nella più importante casa per trovatelli di Firenze, l'Ospe­ dale degli Innocenti, situata appena pochi isolati più in là della Casa della Pietà, un tasso di mortalità così elevato sarebbe stato considerato quasi nella norma. La maggior parte dei bambini dell'Ospedale degli Innocenti erano neonati illegittimi, abbandonati nel cuore della notte per proteg­ gere l 'identità di madri probabilmente non molto più grandi di Maria e Maddalena. In quell'asilo stracolmo e privo di fondi sufficienti, malattia e malnutrizione conducevano numerosi bambini a una morte prematura e solo una minima parte di quelli che erano entrati nell'Ospedale degli Innocenti viveva abbastanza a lungo per valicarne i cancelli da adulto. n sovraffollamento dell'ospedale non faceva che acutizzare un problema che tutti i genitori del tardo Rinascimento sapevano di dover affrontare nel momento in cui nasceva loro un figlio: l'alta probabilità che la denutri­ zione, la peste o qualche malattia gastrointestinale si sarebbero portate via

SILENZI MISTERIOSI

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il bambino prima che questi raggiungesse i s anni d'età. I putti angelici e paffutelli che aprono le tende o sbirciano al di sopra dei davanzali in cosl tanti dipinti rinascimentali sono graziosi, a volte un po' manierati. Eppure i loro volti tratteggiati su affreschi e pale d'altare rappresentavano forse qualcosa di simile a una supplice speranza per genitori che avevano sep­ pellito un bambino e cercavano di trarre conforto dal pensiero che il loro piccolo fosse, oltre ogni sofferenza, in paradiso. Le città del tardo Rinascimento erano luoghi pericolosi se si era bam­ bini, ma quelli che riuscivano a valicare le porte dell' infanzia avevano maggiori possibilità di sopravvivere fino ali' età adulta. Non c'era, dunque, alcuna valida ragione che spiegasse un così grande numero di decessi tra le ragazze entrate nella Casa della Pietà. Innanzitutto, perché erano finite lì ? L'Ospedale degli Innocenti era stato istituito per salvare le vite di quei neonati che, senza di esso, sarebbero stati gettati nel fiume Arno o abban­ donati sulle strade da madri non sposate o genitori disperati. Margherita, Maria e Maddalena erano state accolte in una nuova forma di ricovero isti­ tuzionale che la città di Firenze aveva cominciato a sperimentare solo dalla metà del XVI secolo : case per ragazze più adulte rimaste orfane, o più spes­ so abbandonate, quando genitori come Monna Betta, il soldato Negrante o padre Billi non potevano più tenerle con sé. Le famiglie si disgregavano quando i genitori, di solito i padri, migravano o morivano a causa di inci­ denti sul lavoro, oppure uccisi dalla violenza di strada o dalla peste. Una madre abbandonata o rimasta vedova a stento poteva mantenere sé stessa, figuriamoci dei figli. Se, poi, entrambi i genitori erano scomparsi o morti, i bambini ormai soli potevano essere accolti dagli altri componenti della famiglia, dai vicini o dai membri di una corporazione o confraternita. Ma anche queste persone, attanagliate dalle medesime ristrettezze, potevano decidere di chiudere le loro porte, lasciando questi fanciulli sulla strada. Le ragazze andavano incontro alle insidie maggiori. Nella sola prima metà del ISSO, i fiorentini aprirono tre case e voluta­ mente accettarono solo ragazze appena adolescenti. Era in atto un calcolo della cui esattezza moralisti, predicatori e funzionari di governo erano as­ sai sicuri: prendi una famiglia terribilmente indigente, aggiungi una figlia sulla via della maturità sessuale e il risultato non potrà che essere uno, la prostituzione. Ogni volta era sempre così. Nel I S6s, i giudici fiorentini ac­ cusarono Silvio Divettino di San Miniato e sua moglie di aver fatto prosti­ tuire le loro due giovani figlie allo scopo di guadagnare un po' di soldi. Un anno dopo, gli stessi giudici multarono Caterina da Siena, in Borgo Stella,

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perché invitava i giovani ragazzi del quartiere a fare un giro a casa sua e a pagare per un po' di sesso con sua figlia Betta. All'incirca nella stessa data, essi condannarono la vedova Lionarda di Empoli per aver indotto la figlia sposata a prostituirsi per qualche mese, mentre il genero era fuori città3• Case come quella della Pietà aspiravano a liberare le ragazze dalla morsa di genitori disperati, di zii profittatori o di suadenti sconosciuti che vedevano nella verginità delle adolescenti un rimedio ai loro guai fi­ nanziari. Ma se la Casa della Pietà esisteva per allontanare lo spettro della prostituzione minorile, o almeno per proteggere quella verginità da molti bramata, allora perché così tante ragazze come Margherita, Maria e Mad­ dalena morirono ? È particolarmente sorprendente, dal momento che le adolescenti ospitate all'interno degli altri due ricoveri istituiti dai fiorenti­ ni più o meno nello stesso periodo e con la medesima finalità, riuscivano a sopravvivere e a lasciare l'istituto entro la fine dell'adolescenza. Potevano così tornare alle loro famiglie d'origine, divenute ormai più stabili, oppure trovare lavoro come domestiche, o sposarsi, avviando una propria fami­ glia. Qualche ragazza della Pietà seguì quest'itinerario, ma la maggior par­ te non ne ebbe la possibilità. Se si cerca di capirne il perché, si scopre che la Casa della Pietà fu tra i più singolari istituti fondati nell' Italia del XVI secolo, ben lontana dai con­ sueti ricoveri per ragazze abbandonate che molte città, da un capo ali' altro del paese, stavano aprendo in quello stesso periodo. Si tratta di istituti per sole ragazze che furono più tardi chiamati conservatori, perché destinati a conservare l'onore, cioè la verginità, di adolescenti rese improvvisamente vulnerabili dal tracollo economico delle loro famiglie. I fondatori dei con­ servatori non intesero mai trasformare questi rifugi in dimore permanenti, come i conventi. Si trattava piuttosto di stazioni temporanee che avrebbe­ ro protetto giovani ragazze dalle violenze e dalla prostituzione di strada, fino a quando avrebbero trovato un marito o un lavoro, o finché le loro famiglie d'origine si fossero abbastanza risollevate da riprenderle con sé. Dozzine di case aprirono i battenti dagli inizi del XVI secolo, nelle gran­ di città così come nei piccoli centri. Alcune accolsero poche ragazze, altre qualche decina, altre ancora varie centinaia. La maggior parte degli istituti riusciva a reinserire in società le proprie protette dopo sei o sette anni. Que­ sti ricoveri lavoravano sodo per salvare dalla strada molte dodicenni; poi, però, quando le ragazze di anni ne avevano ormai 18 o 19, cambiavano idea e cominciavano a traffìcarne la verginità all'interno di rituali tanto bizzarri che avrebbero suscitato il biasimo persino delle prostitute. I conservato-

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ri di Bologna raccoglievano richieste da potenziali mariti che bussavano alle loro porte, facendo penzolare doti davanti ai loro occhi per favorirne l'adescamento. Le ragazze del conservatorio di Firenze indossavano divi­ se mentre marciavano in pubbliche processioni, portandosi la dote nella borsetta. Le giovani romane, poi, potevano essere selezionate direttamente dalle @e di simili cortei e condotte dritte all'altare da un uomo a caccia di moglie. Soltanto alcune delle ragazze ospitate nei conservatori diventavano suore. La maggior parte delle amministrazioni cittadine era disposta a tut­ to pur di incrementare la popolazione all'interno della sua giurisdizione e aveva, quindi, bisogno che le giovani donne divenissero mogli e madri il più presto possibile. In istituti come quelli descritti, le autorità scorgevano un eccellente strumento per mantenere le candidate idonee al matrimonio ben nutrite, attive, sane e caste, fino al momento in cui fossero state finalmente pronte a sposarsi e a generare figli4• In apparenza, la Casa della Pietà non sembrava molto differente da tutti gli altri conservatori. Diversamente da questi, però, essa aveva una propria storia manoscritta, le Croniche delle Suore della Pieta, stesa da alcune delle sue giovani ospiti e dei suoi cappellani e avviata soltanto pochi decenni dopo la sua apertura\ In linea con la tradizione delle cronache di conven­ to, è opera di numerosi autori, attraverso più generazioni. A iniziare le Croniche fu il cappellano Giovan Battista Bracchesi, negli anni Ottanta del Cinquecento, e una giovane della Casa, Caterina, gli subentrò un de­ cennio più tardi, dopo aver preso i voti come suora terziaria. Molte ragazze presero voti simili negli anni che seguirono, cosicché la Casa della Pietà si trasformò gradualmente in convento; eppure nessuna di queste suore rimise mai mano alla penna. Fu di nuovo un frate, Romano Felice Viccio­ ni, che, a partire dal 1700, spinto dal timore che le storie della Pietà an­ dassero perdute, iniziò a riscrivere e aggiornare le Croniche, arricchendole con piccole biografie di alcune delle ragazze. Nessun altro si preoccupò di proseguire l'opera negli anni a venire, anche per il fatto che padre Romano aveva lasciato il quaderno delle Croniche nel convento di San Marco. Fu qui che la badessa della Pietà, Maria Teresa Petrucci, andò a recuperarle qualche decennio più tardi, quando decise di riscrivere l'intera narrazione in modo ordinato, aggiungendo frammenti e dettagli alla storia che, men­ tre scriveva, prendeva vita davanti ai suoi occhi. Le Croniche delle Suore della Pieta potrebbero, dunque, sembrare quan­ to di più vicino a una fonte di prima mano uno studioso possa desidera­ re di trovare; le loro ambiguità, poi, non sono immediatamente evidenti.

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Solo dopo aver rovistato più approfonditamente in altri documenti diven­ ta davvero chiaro che l'elemento più degno di nota di queste cronache sta in ciò che esse non dicono. Padre Giovan Battista e suor Caterina non fanno cenno a tutte le Margherite, Marie e Maddalene che morirono a decine, talvolta solo qualche settimana dopo il loro ingresso alla Pietà. Fu­ rono soprattutto i frati a essere reticenti sulla vita nella casa e ancor più sui suoi primi, tormentati anni. Come molte altre storie redatte all'interno di monasteri e conventi, le Croniche delle Suore della Pieta sono un'ope­ ra più sulla provvidenza di Dio che sulle concrete attività dell'uomo. Per questa serie di autori, Dio avrebbe concesso alla Pietà di aprire le sue porte in qualità di conservatorio, ma fin dali' inizio Egli l'avrebbe pensata come convento. Tenendo bene in mente questo concetto, essi scrissero molto poco di tutto ciò che non fossero pratiche devozionali e miracoli, men­ zionando pochi individui, se si eccettuano i primi religiosi che aprirono la casa e i successivi che la diressero verso il suo ultimo destino, spesso a dispetto di molte contraddizioni. Assolutamente nessun cenno a un padre come il soldato Negrante, ancor meno all'errante fra' Billi o alle donne equivoche che partorirono i loro bambini. Questi soggetti affiorano solo in altri documenti, e quanti più se ne leggono, tanto più cresce il sospetto che le suore e i frati narranti misero mano alla penna più per nascondere, che per raccontare i primi anni della Pietà. Se questa fu la storia scritta dai vincitori, allora chi furono gli sconfitti e che fine avevano fatto ? Perché era importante narrare una storia "emendata': che riportasse così poco delle tragedie che gridano dalle pagine di altre fonti d'archivio ? Più andavo in cerca di risposte, più cresceva lo spazio del non detto tra le righe di quella cronaca manoscritta e più le questioni si facevano complesse. Mano a mano che proseguiva la mia ricerca, un gruppo di personaggi assai più nutrito affiorava dalla lettura di altri documenti : decine di donne, di ogni provenienza sociale, che avevano lavorato incessantemente e con­ tro grandi avversità per aprire la Casa della Pietà, come Marietta Gondi, signora dell'alta società fiorentina che andò porta a porta raccogliendo sol­ di e mantenendo vivo l'interesse dei benefattori per la casa; e come man­ na Alessandra, la vedova di un falegname che per quasi tre decenni visse come guardiana alla Pietà e fece di tutto per farne una vera casa per ragazze. Emergono uomini come il nuovo duca di Firenze, Cosimo 1 de' Medici, discendente dei quattrocenteschi e famosi principi-mercanti Cosimo e Lo­ renzo, che aveva trasformato la città in un centro di cultura ed erudizione, e che si era fortemente impegnato per assicurarle un governo più intransigen-

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te di quanto i suoi predecessori avessero mai fatto; ritorna anche l' appassio­ nato predicatore Savonarola che, a dispetto della sua esecuzione sul rogo nel 1498, continuò a ispirare i riformatori del secolo successivo; e ancora affiorano le vicende di frati domenicani come il carismatico e ambizioso Alessandro Capocchi, che cercò di gestire quell'eredità savonaroliana, e le suore e le vedove che sfidarono i frati come Capocchi per impossessarsene. E una folla di prostitute, nutrici, lavoratori del tessile e mercanti la cui vita quotidiana s'imbatté con quella delle ragazze della Pietà. Sarà utile ripercorrere le varie fasi di questa ricerca per arrivare a svelare il mistero della Pietà, pensando e ripensando a tutti i suoi segreti. Que­ sto ci permetterà anche di capire qualcosa di più sia sull'ambiente con cui le adolescenti della Firenze del Rinascimento dovevano misurarsi, sia sul modo ossessivo, sconcertante e spesso contraddittorio, con cui gli indivi­ dui di allora vivevano il problema della verginità, tentando di preservarla e, al tempo stesso, di farne merce di scambio. Alcuni, infatti, cercavano di difenderla, altri di trame profitto; la maggior parte di averla sempre sotto controllo, in un modo o nell'altro. La verginità aveva un suo valore economico, una sua rilevanza sociale e un potere curativo quasi magico. La verginità delle donne era in grado di sanare l'onta del loro abbandono, se preservata fino al matrimonio. Proteggerla comportava isolare le ragazze all'interno di un'istituzione che, se correttamente governata, poteva an­ che risolvere i problemi di manodopera dell'industria tessile locale. Impa­ dronirsene significava, agli occhi di alcuni uomini disperati, assicurarsi un rimedio per le malattie trasmissibili per via sessuale. Talismano, risorsa, investimento o rimedio che fosse, la verginità delle adolescenti era tanto preziosa e per così tante persone, che nessuno sareb­ be stato disposto ad affi darne il controllo alle ragazze stesse. Ci restano interminabili sermoni e manuali ricchi di consigli sul modo in cui le ri­ spettabili famiglie patrizie avrebbero dovuto trattare la verginità delle loro figlie, cioè come un capitale da preservare finché non potesse essere conve­ nientemente investito nel mercato matrimoniale. Sappiamo poco, invece, delle ragazze "ordinarie", quelle i cui genitori erano semplici braccianti, soldati, prostitute oppure erano già defunti. Questo era il genere di don­ na che varcava la soglia della Casa della Pietà. In che modo, poi, ragazze come Margherita, Maria e Maddalena vi entrassero e se mai ne uscissero, era materia determinata dalla politica sessuale della Firenze del Rinasci­ mento. Mentre togliamo a uno a uno gli strati superficiali per arrivare al cuore di questa domanda, otteniamo molte possibili risposte sul perché

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così tante donne morirono. Quello della Pietà è una sorta di precedente, un caso esemplare su come debbano essere letti e interpretati i documenti, il cui esame non solo rende le edificanti verità delle Croniche sempre più sospette, ma soprattutto, alla fine, non ci restituisce alcuna risposta certa. Le Croniche offrono al lettore un racconto leggibile, a prima vista com­ pleto ed esaustivo. Se confrontati con esso, i documenti tramandati da istituzioni analoghe alla Pietà risultano frammentari e discontinui: una sfida leggerli e comprenderli. n primo contabile e scrivano della Pietà, An­ drea Biliotti, scrisse con mano ferma e decifrabile, ma morì soltanto due anni dopo aver intrapreso il lavoro. n suo successore, Pier Giorgio Ughi, continuò registrando l'ammontare degli acquisti, le ragazze che entravano e le donazioni di viveri e denaro. A giudicare dalla sua grafia, Ughi era sempre di fretta; la penna svolazza sul foglio e scarabocchia dati senza pre­ occuparsi troppo del fatto che potesse poi leggerli anche qualcun altro. L'unica consolazione per i ricercatori che si affannano sui suoi rendiconti sta nel fatto che egli tenne la contabilità per meno di dieci anni. Intorno all'estate 1565 fu sostituito da Giovanni Bencini, che rimase al suo posto per decenni, e che, a differenza di Ughi, aveva una grafia chiara quanto un'opera a stampa, almeno all'inizio. Con il passare degli anni, vari di­ sturbi neurologici costrinsero l'invecchiato Bencini a rallentare il passo, e fu così che cominciò a scrivere con mano sempre più tremante. Malgrado la loro illeggibilità, Ughi conservò i suoi registri con grande competenza, in grandi volumi rilegati che potevano essere impilati ordinatamente sugli scaffali. All'inizio Bencini fece lo stesso, ma, come andò peggiorando la sua grafia, così fu anche della sua abilità di mantenere riunite tutte le carte: lentamente, fu circondato da cumuli di fogli sciolti e il meglio che sep­ pe fare fu di radunarli insieme periodicamente, incurante dei contenuti e dell'ordine cronologico. Li mischiava in fasci abbastanza curati, con pezzi di cartone in cima e in fondo, fasci che poi forava al centro con un grande ago e legava con una corda perché restassero uniti, prima di gettarli sullo scaffale accanto alle filze ben ordinate di Biliotti e Ughi. Anche a prescindere dalle manie dei loro contabili, case come quella della Pietà affrontarono prove senza fine per conservare i propri documen­ ti. A Firenze, il fiume Arno periodicamente cresceva fin sopra i suoi argini e inondava parti della città, talvolta anche le stanze in cui erano depositate le raccolte di documenti: i vecchi, fradici manoscritti correvano allora il rischio di essere buttati via. Tra le piene più eccezionali si annovera quella del settembre 155 7, e non possiamo neppure immaginare quali antichi fal-

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doni abbia potuto trascinare lontano dai magazzini della Casa della Pietà, situata soltanto un isolato a nord del fiume. A volte era lo stesso continuo ingrossamento dei fondi documentari a minacciare di sommergere le an­ guste stanze di deposito; un incaricato poteva allora decidere di sfrondare i manoscritti ritenuti non più utili. Quando i soldi scarseggiavano, poi, sembrava più sensato portare alcuni dei vecchi e massicci libri mastri a un fabbricante di carta o a un rilegatore che avrebbe pagato un bel po' di soldi per riciclarne le pagine o per utilizzarle come imbottitura delle coperti­ ne dei volumi. Alcuni documenti divennero cibo per vermi, altri furono distrutti dal fuoco, altri ancora furono venduti; è degno di nota che così tanti siano di fatto rimasti ragionevolmente integri. Ma che cosa è rimasto ? Soprattutto documenti di natura legale e con­ tabile, giacché questi seguivano i movimenti di denaro, vera linfa vitale di ogni istituzione caritativa: lasciti promessi o ricevuti; soldi presi in pre­ stito o prestati; proprietà comprate, affi ttate o vendute; entrate; benefici spirituali che, come le indulgenze e i privilegi di varia natura, potevano generare profitto; e, chiaramente, le uscite, che sovente eclissavano tutte queste fonti di reddito. La maggior parte degli orfanotrofi teneva registri con elenchi dei bambini accolti, perché anche questi costituivano una voce di bilancio attivo e passivo. Rimane talvolta anche qualche raccolta di cor­ rispondenza ufficiale, in parti colar modo quando c'erano petizioni da fare o giustificazioni da offrire al duca e ai suoi burocrati, o ali' arcivescovo e ai suoi preti. Oltre a tutto ciò, di solito si ritrovano gli statuti o i regolamenti interni alla casa, spesso in svariate versioni. Che fossero trascorsi pochi de­ cenni o un secolo dall'apertura di una casa come la Pietà, poteva verificarsi il caso che le mutate circostanze o l'insorgenza di problematiche inattese, o di nuove convinzioni, fossero alla base di un crescente e rischioso divario tra le regole delle origini e la quotidiana realtà. Le prediche di un sacerdote o le disposizioni di un burocrate potevano apportare cambiamenti a questi regolamenti, anche se la ragione più diffusa per procedere a una revisione statutaria era quella di porre fine a una serie di scappatoie amministrative attraverso le quali alcuni abili funzionari ordivano frodi per sottrarre all'i­ stituto grandi somme di denaro. I nuovi statuti moltiplicavano le rettifi­ che, senza necessariamente aggiungere una maggiore efficienza. Malgrado tutto, le svariate versioni statutarie erano spesso raccolte in una scatola per una più facile consultazione e comparazione. Ciò che spesso non rimane è quel genere di documentazione che risve­ glia subito il nostro interesse su come concretamente si vivesse all'interno

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di questi ricoveri: ricordi scritti da bambini e bambinaie, lettere e diari che narrino avvenimenti quotidiani. Di questo a volte sopravvivono flebi­ li tracce, come il ritratto di un orfanello disegnato sul retro di una richie­ sta d 'ammissione al più importante orfanotrofio di Firenze, l'Ospedale degli Abbandonati, o una lettera al granduca nella quale le ragazze della Pietà lamentano le loro condizioni di lavoro e minacciano uno sciopero. Più spesso, però, la ricostruzione dei fatti implica un minuzioso lavoro tra i manoscritti che può non sembrare promettente, almeno all'inizio. Potremmo non trovare il menu giornaliero, ma ripercorrere gli acquisti di frutta e verdura annotati nei registri contabili ci darà comunque un'idea di che cosa mangiassero i bambini di stagione in stagione, evidenziando come, anche nel Rinascimento, grandi quantità di zucchine fossero una sorta di destino ineluttabile, almeno sino alla fine dell'estate. Gli acquisti di stoffe, invece, possono fornire un quadro dell'abbigliamento dei bam­ bini, ma devono essere indagati con attenzione, perché spesso i rotoli di tessuto entravano nei registri contabili e ne uscivano subito dopo essere stati lavorati dai bambini, pronti per essere venduti perché qualche soldo in più arrivasse all'orfanotrofio. Alcuni fanciulli varcavano la soglia del ricovero senza nemmeno un paio di scarpe decenti ai piedi : questo era sovente il primo capo d'abbigliamento fornito, con tanto di costo atten­ tamente registrato. Attraverso l'annotazione degli stipendi o dei paga­ menti di lavori a cottimo sappiamo i nomi dei dottori e dei cerusici che prestarono servizio alla Pietà, del fornaio che cuoceva l'impasto prepara­ to dalle ragazze, del carpentiere che costruiva mensole, o del tuttofare che riparava porte e fissava sbarre alle finestre. Gradualmente, pezzo per pez­ zo, possiamo ricostruire lo scenario dei lavori ordinari di una casa come quella della Pietà. Ma anche quei libri mastri che a un primo sguardo sembrano coerenti, attendibili e oggettivi possono alla fine rivelarsi gravati da quello stesso di­ vario tra il detto e il non detto che si ritrova nelle Croniche delle Suore del­ la Pietà. I manoscritti sono contenitori d'informazioni, ma hanno anche molte vicende da raccontare sul proprio conto, cose che emergono molto lentamente. Soltanto una piccola percentuale della popolazione sapeva scrivere: chi prendeva una penna d'oca e l' intingeva nel calamaio era mos­ so da differenti incarichi e premure. Talvolta si scriveva per altri, altre volte per sé stessi. Alcuni manoscritti erano accessibili, altri, invece, erano ben riposti per essere tenuti nascosti. Qualcuno fu opera di un solo autore, altri di molti. Con pagine di carta fatte a mano e copertine sagomate con pelle

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di vitello finemente levigata, un registro, per quanto piccolo potesse esse� re, poteva costare più di quanto un salariato guadagnasse in pochi giorni o addirittura settimane. Conservati o perduti, fatti circolare o custoditi gelosamente, rubati o riciclati, i manoscritti trasmettono tanto dalle loro copertine scolorite e dalle loro logore rilegature, quanto dalle parole e dai numeri scritti sulle loro pagine. Solo dopo aver messo insieme le storie dei documenti con le vicende che essi raccontano, si arriva a intravedere tutto un altro livello di questio� ni. Leggendo un manoscritto in relazione con un altro e usandone uno per colmare le lacune dell'altro, a poco a poco si delinea un quadro che speriamo dia senso a entrambi. Dettagli, intuizioni e ipotesi conducono lungo una pista d'indagine, ma a volte un'unica, nuova scoperta, trovata casualmente all'interno di un manoscritto, può cambiare il corso dell'in� tera ricerca: un singolo dettaglio può, infatti, far variare aspetto e colloca� zio ne a ogni altra informazione, con la stessa rapidità con cui la rotazione di un caleidoscopio fa cambiare le immagini al suo interno. Le cose che un tempo sembravano chiare diventano ora improvvisamente complesse, confuse, e la scoperta appena fatta o l'idea appena sopraggiunta possono gettare una luce radicalmente nuova sull'interpretazione formulata all'i� nizio. Nasce un livello completamente inedito di domande e di nuove, possibili risposte. A questo punto, c 'è bisogno di cambiare direzione e di seguire l'ultima pista. Tali repentini avvicendamenti si sono ripetuti spes� so nel corso della mia indagine per svelare il mistero della Pietà, e i capitoli che seguono vorrebbero ripercorrerli. Di fronte a tante lacune e silenzi, l'approccio più responsabile è quello cauto di chi non specula troppo. Tuttavia, buona parte della sfida e dell'en� tusiasmo propri della ricerca storica sta proprio nello spingersi oltre i li� miti. Questa ricerca seguirà alcune delle intuizioni, false piste, deviazioni e suggestioni che ho vagliato e a volte ho lasciato cadere, altre volte ho solo accantonato. Ho anche provato a comunicare alcune delle mie sor� prese e frustrazioni. Durante il percorso, ho sondato interpretazioni che sono ai limiti estremi della probabilità e che addirittura li oltrepassano. Mi sono avventurato tanto in forza di quell'evidenza che talvolta si ritro� va solo negli elementi marginali del contesto. Questo modo di procedere può condurre il lettore attraverso interpretazioni che confliggono con le sue idee sul Rinascimento. Idee che possono sembrare troppo bizzarre, anacronistiche, persino irritanti e più vicine a un romanzo storico che a una responsabile indagine scientifica, un racconto le cui consapevoli e ses�

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sualmente aggressive eroine sono impegnate a infrangere pregiudizi e a portarsi a letto pittori e papi. Eppure questa è la via migliore per leggere attraverso il silenzio che sigilla la storia della Pietà. Forzando le frontiere interpretative, si rivela una società che va molto al di là delle nostre aspettative. A volte questo richiede la capacità di leg­ gere tra le righe, altre volte attraverso il non scritto, quei silenzi in cui ci si imbatte in ogni occasione e di cui, in ogni occasione, ci si chiede il perché. Perché c'è qualcosa di cui si sceglie di non raccontare esplicitamente ? Si tratta di un presupposto comunemente condiviso ? O di un fatto delibe­ ratamente nascosto ? O, più semplicemente, di una vicenda mai accadu­ ta? È particolarmente difficile avere a che fare con i codici morali, perché talvolta il muto riserbo è sopraffatto dalle voci potenti di coloro che, dai pulpiti o attraverso i libelli, proclamano un più restrittivo codice compor­ tamentale. Modelliamo i nostri presupposti attorno alle prescrizioni di un predicatore o attorno alla realtà? Gli italiani del Rinascimento condivide­ vano un severo codice morale e almeno qualcuno aborriva la promiscuità. Eppure tutti mettevano in conto che la frenesia sessuale potesse essere tan­ to forte da consumare gli adolescenti e condurre al contagio le loro giovani coetanee. Molti davano per scontato che le serve fossero proprietà sessuale dei loro padroni; che i ragazzi, essendo tali, potevano spingersi fino allo stupro, talvolta persino allo stupro di gruppo; e che la risposta alla gestio­ ne dei loro impulsi di natura erotica non si trovasse nei voti di castità, ma nell'uso di denaro pubblico per la costruzione di bordelli cittadini, dove gli adolescenti potessero godere del sesso in forma anonima e a buon mer­ cato. Così, in modo paradossale, una morale sessuale fortemente limitativa poteva coesistere con un approccio talvolta disinvolto ali'atto sessuale. Se si vogliono intravedere gli orizzonti dell'esperienza e dell'aspettativa ses­ suale degli italiani del Rinascimento, bisogna ricordare che sia le compas­ sate madonne dei libri antichi, sia le invasate virago dei moderni romanzi storici hanno più a che fare con le nostre ansie che con le loro6• Proiettare la moralità borghese in epoca rinascimentale non è meno anacronistico che proiettarvi l'attuale promiscuità. È ambizione general­ mente condivisa quella di ricostruire un intero codice morale a partire da poche prescrizioni, colmando le inevitabili lacune con il non dichiarato utilizzo del proprio punto di vista. Ma questo può portare a trascurare il fatto che gli attori di un tempo riuscissero ad armonizzare in una singola struttura morale ciò che per noi risulta radicalmente incompatibile. Sof­ fermandoci sui documenti con una mente libera da pregiudizi, ciò che

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all'inizio poteva sembrare un'eventualità assolutamente improbabile può, invece, davvero aiutarci a dare un significato compiuto a una situazione molto confusa. Questo, però, solo se si è disposti a forzare i vincoli dell'in­ dagine scientifica. ll mistero celato dietro la Casa della Pietà si rivela durante questo pas­ saggio da un manoscritto ali' altro, da una domanda all'altra, da un'ipotesi a un'altra. Alcuni problemi possono essere risolti, altri verranno lasciati in sospeso. Più si scava in profondità all'interno di questi e di altri documen­ ti, più si incontrano reticenze e ci si imbatte in domande ancora più com­ plesse (e inquietanti) di quelle che le devote Croniche nascondono. Ma­ rietta Gondi, la signora della buona società fiorentina, e la vedova Monna Alessandra erano anch'esse coinvolte in quest'opera d'insabbiamento? E questi due eventuali interventi di occultamento erano in qualche modo collegati ? E perché alla Pietà morivano cosl tante ragazze?

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La prima ru.lfiana Io sono il diciannove, e fui puttana nella mia gioventù molto onorata, perfino ai 3 8 anni stetti sana, poi venni come gazzera pelata. Per sostentarmi mi feci rufliana, d 'una figliola ch'i' m'ero allevata, e perché male ella non capitassi la presto a chi la vuole, e m eco stassi. La Pierina lo so n di Braccio quella poverina, m' hanno fatto il dieci e messomi in carretta, e per nome mi chiaman la Pierina, a gran trionfo il lastrico m'aspetta, Braccio m'ha fatto far la cassettina per pormi poi co' poveri a l'offerta, i' sono il dieci, e esser non vorrei, basta, con quattro punti piglio il sei.

Una rumorosa parata di carnevale raffigurante le migliori quaranta prosti­ tute di Firenze ondeggia attraverso le strade della città, tra le beffe e i fischi di garzoni e lavoratori a giornata schierati su entrambi i lati delle vie. A ogni prostituta è riservato un carro, o meglio, a ogni travestito, giacché i ruoli più disdicevoli del carnevale, oggi come nel Rinascimento, erano affidati a uomini mascherati da donna. Un calvo lanaiolo di mezza età in pianelle1 dalla zeppa altissima, abito giallo scollato e ben imbottito, una montagna di trucco, si esibisce davanti alla folla come la Puttana numero 1 9 . ll mal fran­ cese le ha fatto perdere tutti i capelli e, con essi, i clienti, così offre in vendi­ ta, al suo posto, una giovane novizia. Pochi carri più in là, un'altra ragazza muove i genitali avanti e indietro come farebbe un uomo; Pierina non è

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un nome consueto per una donna, e le meretrici più rinomate erano quelle che sapevano fingersi giovani maschi. Desiderosa di scalare le classifiche, "Pierina/ o" ruota i fianchi e improvvisamente protende il posteriore, invi­ tando gli uomini assiepati lì intorno a salire sul carro e a metterlo in questa particolare "cassetta delle offerte". Per i fiorentini, di sesso non ce n'era mai abbastanza. Ogni epoca ha le proprie, affascinanti ossessioni e, nella Firenze di metà Cinquecento, era la connessione sesso-denaro a risvegliare gli appetiti di ognuno, soprattutto di sordidi adulti a caccia di giovani ragazze. Uomini che fantasticavano di insaziabili adolescenti pronte, se ne avessero avuto occasione, a lanciarsi su un letto in compagnia di qualunque individuo di sesso maschile, proprio come Pierina. Pierina e la Puttana 19 fecero la loro comparsa in un volu­ me di canti carnascialeschi pubblicato in forma anonima nel 155 3 con il titolo I germini sopra le quaranta meretrice della citta di Firenze. Si tratta di versi satirici che facevano da canovaccio agli attori improvvisati del car­ nevale, chiamati a interpretare personaggi oltre le righe per alimentare gli applausi, le risa e il numero di spettatori in strada. In quegli stessi anni, An­ tonfrancesco Grazzini (150 3 -1584), speziale, commediografo e letterato di modesto profilo, scriveva commedie la cui articolata struttura rimandava al modello del Decameron boccaccesco1• All'interno di intrecci molto più complessi dei profili dei suoi personaggi, maliziose prostitute, suore fru­ strate e "ragazze per bene" s'imbattono in frati menzogneri, vecchi perver­ titi e giovanotti insaziabili, spesso sotto la complice direzione di servi tori totalmente privi di ogni morale. Nelle poesie e nelle commedie burlesche, la prostituzione assumeva le sembianze di un gioco di carte in cui le ragaz­ ze erano il premio, ma a giocare erano i grandi: qualche volta nel ruolo di giocatori ritroviamo i genitori delle stesse ragazze, altre volte i loro tutori, altre ancora uomini o donne pronte, con le loro lusinghe, a trasformare una giovane orfana nella posta in gioco. Al termine della lettura di questi sfrenati canti e commedie carnascialesche, il riso lascia il posto a una sorta di percezione delle ansie profonde e persino della rabbia che agita i fio­ rentini. TI padre di Pierina, Braccio, probabilmente non era così a corto di denaro come le vedove indaffarate nella disperata ricerca di mezzi per so­ pravvivere in città, ma certamente era disposto a vedere sua figlia fare sesso a pagamento per un po' di soldi facili. "Pierina'' ha finito per indurirsi, è diventata un'insensibile calcolatrice, animata da un unico obiettivo, avere successo nella sua professione prima dell'ineluttabile declino, quando il suo fascino e, di pari passo, i suoi proventi avrebbero iniziato a scemare.

L'AMBIENTE. IL SESSO IN CITTÀ Avrebbe allora potuto diventare come l'intraprendente e infetta Puttana numero 19, che aveva fatto da balia e allevato una bambina con il solo in­ tento di trasformarla in una sorta di pensione di anzianità. Questa prosti­ tuta divenuta ruffiana non è molto diversa dalla vedova Monna Antonia, indimenticabile personaggio della Pinzochera di Grazzini. Fingendosi una donna devota e virtuosa che vive di sola elemosina (unapinzochera, appun­ to), i n realtà spende tutto il suo tempo nella solerte attività di protettrice della figlia Sandra. Balie e pinzochere erano figure cui i fiorentini volevano, avevano bisogno di credere; per questo le loro risate sembrano tradire l'a­ mara condanna di questo "mondo alla rovescià'. Di chi davvero ci si poteva fidare ? Esisteva un limite oltre il quale i familiari o i tutori non si sarebbero spinti o che queste ragazze non avrebbero valicato? Com'era la vita delle giovani donne e, in particolare, delle adolescenti fiorentine ? Le loro esistenze avevano davvero qualcosa a che fare con le parodie che ne facevano gli uomini ? Quali minacce dovevano affronta­ re ? Come riuscivano a sopravvivere ? Intorno alla metà del XVI secolo, mentre Grazzini e altri scrivevano le loro commedie, c'erano fiorenti­ ni che, non trovando in queste situazioni nulla di così divertente, co­ minciarono a riunirsi per offrire una qualche forma di protezione alle giovani che ne avessero avuto bisogno. Si trattava di persone convinte che le adolescenti fossero facili prede e che, in certe circostanze, fosse necessario difenderle dagli altri e da sé stesse. L'attività del Bargello dava loro molto di cui preoccuparsi. Questi fiorentini erano particolarmente assillati dal comportamento sessuale dei loro concittadini, come dimo­ strano le nuove misure adottate nei confronti della prostituzione e la decisione di istituire nuovi ricoveri per aiutare donne e giovani ragazze a evitare il destino del "mestiere più vecchio del mondo". Non si trattava di demonizzare le prostitute, ma nemmeno di idealizzarle. I loro sforzi per controllare le frontiere del "mestiere" furono tanto energici perché essi si rendevano conto di quanto fossero facili da valicare, quei confini. Nella finzione letteraria, era la stessa bramosia sessuale delle ragazze a trasci­ narle oltre i limiti del consentito, nella realtà di ogni giorno erano, inve­ ce, la miseria e l'assenza di alternative. Le autorità puntavano a portare allo scoperto il fenomeno della prostituzione, gettando, al contrario, un velo di discrezione su queste case di accoglienza. Ma qui, come in molti altri aspetti attinenti alla vita sessuale nel Rinascimento, c'è ben più di una differenza tra intenzioni e prassi. Come sempre, più cerchiamo ri­ sposte, più troviamo domande.

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Prostitute. Giovani da servire, donne da salvare

Camminando per le strade della Firenze di metà Cinquecento, si aveva l' impressione che intorno ci fossero soltanto persone giovani. Circa la metà della popolazione cittadina, infatti, era al di sotto dei 15 anni, e ogni individuo trascorreva la maggior parte della sua vita fuori dalla porta di casa. Le case e le botteghe erano piccole e buie e, così, il lavoro degli seri­ vani, dei falegnami, dei sarti e, soprattutto, dei loro giovani garzoni o sala­ riati si riversava in strada, dove le condizioni di luminosità erano migliori. Grazie a un'edilizia in forte espansione, schiere di manovali si inerpicava­ no sopra le case ancora in via di costruzione. Orti, vigneti e frutteti inizia­ vano all'interno delle mura cittadine e si estendevano all'esterno, lungo le vie che conducevano fuori dalla porte del centro abitato : uno stuolo di giovani percorreva questo itinerario per andare a piantare, coltivare e raccogliere ciò che questi terreni producevano. Le bancarelle del mercato allineate lungo le strade erano cariche di frutta e verdura e dovunque, per via, s'incontravano ambulanti che vendevano di tutto, dal vino, alle can­ zoni popolari stampate su larghi fogli volanti, fino ai primi giornali. Da un capo all'altro della città, giovani domestici gironzolavano dai palazzi turriti di casa Medici o Strozzi ai bilocali di piccoli bottegai e artigiani. I lavori domestici erano per molti adolescenti del Rinascimento, soprattut­ to se donne, quello che gli impieghi part-time sono oggi per i nostri liceali, cioè un'esperienza in grado di garantire un'entrata, una certa formazione e magari anche un alloggio, ma che di solito termina con la fine dell'età adolescenziale. Erano queste incombenze domestiche a condurre spesso questi giovani servitori in strada. Tra loro e gli attuali giovani studenti c'è, però, una grande differenza: per gli adolescenti del Rinascimento un lavoro di basso profilo non era il modo con cui assicurarsi la paghetta settimanale, era la vita. Ai ragazzi, la pratica in bottega o le mansioni di casa offrivano la preparazione ne­ cessaria per aspirare a qualcosa di meglio. Alle ragazze, il servizio in casa garantiva una fonte indispensabile di reddito che avrebbe aperto loro la via al matrimonio, una volta accantonati i soldi per la dote. Se, per qualche ra­ gione, l'apprendistato non avesse condotto i primi a un mestiere più qua­ lificato e le seconde all'altare, tutti indistintamente avrebbero lentamente finito per ingrossare le fila dei lavoratori a giornata, entro i 20- 3 0 anni di vita, costretti a setacciare ogni angolo della città in cerca di un'opportuni­ tà di lavoro, che si trattasse di scavare nei cantieri edili o di trascinare merci

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da un edificio all'altro, tutto per poche lire. In pochi rimanevano domesti­ ci o tornavano a esserlo quando erano ormai troppo vecchi per sostenere impieghi più faticosi. In questo modo la posta in gioco era alta, la riuscita sempre incerta. Le numerose ma precarie opportunità facevano della vita giovanile un'esperienza vissuta sempre sul filo del rasoio e rendevano gli adulti ancora più determinati a condizionarne il corso ogni volta che se ne presentasse l'occasione. Questo era soprattutto vero per le giovani donne. Mentre si riteneva che i ragazzi, qualora ce ne fosse stato bisogno, sarebbero stati in condi­ zione di badare a sé stessi, per le ragazze venivano stimate possibilità di riuscita di gran lunga inferiori. Valori culturali, attese familiari e vinco­ li giuridici operavano in modo congiunto per erigere mura attorno alle donne, non appena avessero valicato il confine tra infanzia e adolescenza. li matrimonio era ancora ciò che le ragazze desideravano, o che almeno si attendevano, e una donna cui la gente si riferisse con ammiccamenti, accennando e scuotendo il capo, avrebbe incontrato maggiori difficoltà a raggiungere tale obiettivo. Scopo di questo sistema difensivo costruito attorno alle donne era quello di tenere lontane cattive compagnie e avidi pretendenti. In alcuni casi, si trattava di mura simboliche: norme, prescri­ zioni, consuetudini. E tuttavia, quando le famiglie d'origine erano più fa­ coltose, le ragazze più ambite o maggiormente esposte e quando genitori o tutori si dimostravano particolarmente solerti, quelle mura erano più solide della pietra. C 'erano ragazze prigioniere in casa propria, altre cu­ stodite per tutta la loro adolescenza in convento, in una sorta di pensione completa nota con il nome di serbanza, diffusa e, a volte discutibile, fonte di reddito per gli ordini religiosi femminili\ Ma le mura servivano anche a proteggere le adolescenti da loro stesse. Secondo alcuni uomini di spirito, amanti della beffa, la principale causa dello sfruttamento delle donne andava ricercata nella loro insuffi ciente capacità di resistere alle lusinghe. Grazzini dissemina le sue commedie di giovani donne vogliose, come Fiammetta che, durante un breve periodo di assenza dal convento di Annalena dove alloggiava, trama per perdere la sua verginità con un giovane vicino di casa che aveva appena conosciuto. A ogni modo, il commediografo asseconda ciò che per l'uomo di strada e per il dottore era ormai un dato acquisito. Per le vie della città o nelle aule uni­ versitarie, secondo il sapere condiviso, dall'età di circa 1 2, 13 anni gli ado­ lescenti, maschi o femmine che fossero, iniziavano a fare conoscenza dei loro appetiti sessuali e ben presto avrebbero avuto un unico assillo: trovare

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un modo per saziare questa fame. Un ragazzo impaziente poteva cacciarsi nei guai, ma una ragazza pervasa dalla medesima inquietudine metteva a repentaglio l'onore dell'intera famiglia. Maschi e femmine ponevano pro­ blematiche differenti a coloro i quali erano determinati a mantenerli sulla retta (e angusta) via4• In particolare per i ragazzi, era importante che il sentiero fosse dritto, piuttosto che stretto. In tutta Europa, la città di Firenze era conosciuta come patria della sodomia, termine con cui al tempo si designavano non solo le relazioni omosessuali, ma anche una vasta gamma di abitudini e atti­ tudini sessuali non convenzionali. Orde di giovani uomini, molti dei quali mercanti o garzoni che avevano raggiunto Firenze dai paesi d'oltralpe, ri­ tornavano sulla via di casa pochi anni dopo, carichi di suntuosi abiti italiani nei loro bauli; nelle loro teste, le ultime tendenze della manifattura calzatu­ riera, della sartoria, della cucina; nelle loro fantasie, gli insoliti gusti sessuali degli italiani; sulla loro bocca, la parlata appresa in strada. Probabilmente erano questi i sodomiti che, nel gergo comune tedesco, divennero ijloren­ zen. Questa reputazione potrebbe aver indotto alcuni di questi giovani lavoranti d'oltralpe a preferire Firenze alle molte altre località considerate utili a chi volesse ampliare le proprie competenze lavorative. Ma non erano soltanto gli stranieri ad attribuire a Firenze una tale fama. Gli stessi fiorenti­ ni ritenevano che la sodomia maturasse negli ambienti di strada e nelle bot­ teghe, dove gli adolescenti, in piena tempesta ormonale, non trovavano al­ tre "vie di sfogo". L'universo femminile restava sconosciuto. Al matrimonio mancavano almeno dieci anni, il tempo necessario al giovane lavorante per completare la sua formazione e, forse, mettere su un'attività: più che un'età o un momento stabilito, era questa la soglia che segnava l'ingresso nell'età adulta. Preti e genitori predicavano la castità, ma la maggior parte dei laici, intenti a cercare altre soluzioni, accettavano la sodomia come il minore dei mali. I ragazzi rimanevano ragazzi e, una volta divenuti adulti, avrebbero convogliato sulle donne tutte le loro attenzioni; non c'era, dunque, alcun motivo di preoccuparsi, a meno che le loro inclinazioni omosessuali non si protraessero fin oltre l'ingresso nella maturitàS. Alcuni censori temevano che i giovani che avessero acquisito una pre­ dilezione per la sodomia avrebbero poi finito con l'allontanarsi definitiva­ mente dal mondo femminile e, almeno un predicatore, suggerì che questa fosse la causa del cosl basso tasso di natalità della città di Firenze. n più importante centro della Toscana, infatti, sembrava incapace di riprendersi dal crollo demografico avviato oltre un secolo prima dalla peste nera. Mal-

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grado tutta la sua frenetica e rumorosa attività, Firenze aveva ancora poco più della metà dei 12o.ooo abitanti che avevano vissuto all'interno delle sue mura nel suo periodo più fiorente. Gli alti tassi di mortalità, uniti a strategie matrimoniali pensate per destinare molte donne e uomini al ce­ libato come suore o monaci, contribuivano a rallentare la ripresa. Ricordi ancora troppo vivi avevano lasciato un sguardo carico di ansie verso il fu­ turo. C 'era bisogno di una risposta immediata ed efficace: bordelli colmi di donne nubili. Non era il sesso il pericolo da scongiurare, bensì la pro­ babilità che adolescenti o giovani di sesso maschile aggredissero le ragazze della buona e rispettabile società fiorentina o si dessero alla pratica di una vicendevole sodo mia. Un bordello pubblico e disciplinato, che fosse anche economico e facile da trovare, poteva aiutare a gestire entrambi i problemi e, magari, anche a guadagnarci qualcosa. Si trattava di una soluzione van­ taggiosa per tutti. Non c'è via migliore per chi voglia comprendere l'ambivalente atteg­ giamento dei fiorentini nei confronti del sesso di quella costituita dai loro regolamenti in materia di prostituzione, continuamente sottoposti a un'o­ pera di faticoso rinnovamento. Nel xv secolo le autorità di Firenze e di altre città europee sperarono di rendere più accessibile l'obiettivo di nor­ mare il fenomeno della prostituzione concedendo licenze alle prostitute, designando alcuni quartieri a luci rosse e aprendo bordelli cittadini. Dal secolo successivo cominciarono ad affiorare ripensamenti in merito a que­ ste pubbliche case del piacere che trasformavano le prostitute in "impiega­ te statali". In un clima culturale ormai diverso, i signori di Firenze inaugu­ rarono il tentativo di una regolamentazione più restrittiva, mai, però, allo scopo di bandire tutte le meretrici dalla città, come periodicamente fecero i papi, e certamente senza mai rinunciare alla possibilità di lucrare qualche pubblica entrata dai vizi privati. A ogni nuova serie di norme e tariffe im­ poste alle prostitute dal XVI secolo in avanti, corrispose la vendita (a prezzi esosi) di immunità ed esenzioni6• n primo bordello cittadino di Firenze aprì i battenti nel 140 3 sotto la responsabilità di una nuova magistratura, l'Onestà. n termine, che riman­ da al concetto di decoro e buon nome, può stridere all'orecchio del lettore contemporaneo, per il quale suona come l'ennesima prova dell'allusività del linguaggio della burocrazia. Ma i fiorentini non vi coglievano alcuna ironia: in gioco non c'era soltanto la reputazione delle giovani donne, ma dell ' intera città. I bordelli dell'Onestà (in origine dovevano essere tre, per facilitarne l'accesso, ma quello nel quartiere di Santa Croce, lato orientale

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della città, e un terzo sull'altra sponda del fiume Arno, in Santo Spirito, non furono mai costruiti) avrebbero costretto al silenzio quei cinici spiriti che, in altre città e paesi, ridacchiavano della sodomia di tutti i fiorentini. Malgrado nessun regolamento stabilisse in modo esplicito che la Casa in questione fosse destinata agli adolescenti, non è necessario essere parti­ colarmente abili a leggere tra le righe per capire che fossero proprio loro i primi destinatari di questo nuovo genere di centro ricreativo urbano. Gli uomini sposati non erano ben accetti, i religiosi rifiutati. Dunque, la mag­ gior parte della popolazione maschile non era ammessa. L'orario delle pre­ stazioni era rigorosamente determinato, come anche i prezzi. Per evitare che gli adolescenti si facessero strane idee sulle ragazze del posto, le prosti­ tute scelte per questo servizio dovevano preferibilmente essere forestiere. In un primo momento, in cima alla lista furono collocate le olandesi e le tedesche, forse per il successo riscosso dalle loro chiome bionde, forse per la loro capacità di soddisfare le masse di giovani lavoratori nordeuropei che avevano attraversato le Alpi per impegnarsi nelle botteghe fiorentine. Dagli inizi del Cinquecento, la maggior parte delle circa settanta prostitu­ te del bordello provenivano dall' Italia del Nord7• li bordello occupava una serie di ostelli in centro città, accanto al Mer­ cato Vecchio e con vista sulla maestosa e tondeggiante cupola della cat­ tedrale e sulla svettante torre campanaria del Palazzo della Signoria. Gli artigiani lanieri potevano facilmente raggiungerlo costeggiando l'Arno, i falegnami attraverso il quartiere di Santa Croce, i soldati al soldo del duca o al seguito di qualche nobile di passaggio, insieme ai servitori, dall'altro capo della città (qualunque persona dotata di una certa capacità d' osser­ vazione, senso dell'umorismo e un po' di pratica del dialetto fiorentino potrebbe rintracciare quest'area nella zona dove le trattorie esibiscono nomi del tipo Le Bertucce, !! Chiassolino, JlFico, JlPorco eLaMalvagia). In questo dedalo di stradine strette e chiassose, si giocava d'azzardo, si beve­ va, ci si azzuffava e si praticava la chiromanzia. Le prostitute uscivano dal bordello riversandosi nei dintorni e persino i Medici prendevano stanze in affitto per loro8• Non bisogna pensare che la legge riuscisse davvero a tene­ re lontano da tutto questo uomini sposati, preti o frati. Gli stessi moralisti che temevano per la sodomia degli adolescenti credevano anche che un po' di divertimento con un'esperta professionista avrebbe impedito alle fantasie di tanti mastri bottegai di indirizzarsi verso i loro garzoni o ser­ vitori. Ma la deliberata esclusione della popolazione adulta maschile dal bordello prevista dalle norme va messa in relazione con la composizione

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demografica della città, se si vuole comprendere per chi fu davvero pensata questa casa del piacere : anche se mai dichiarato esplicitamente, gli unici cui venisse di fatto riconosciuto un libero accesso erano gli adolescenti e i ventenni. Tenere gli adulti alla larga dai bordelli era tanto difficile quanto tenervi dentro le prostitute. Dagli inizi del Cinquecento, i magistrati dell' Onestà rivolsero le loro attenzioni alla registrazione delle prostitute e alla regola­ mentazione della loro attività, convogliando verso quest'obiettivo, con il passare dei decenni, tutte le loro energie, spinti com'erano dalla consape­ volezza che molte donne si vendevano per denaro, ma al di fuori del siste­ ma. La prostituzione, poi, non era solo qualcosa per professioniste. Uno storico sostiene che da questo momento la preoccupazione per la sodo mia lasciò spazio a quella per le numerose donne fiorentine di ogni provenien­ za sociale (domestiche, vedove, mogli di poveri artigiani e manovali) che occasionalmente offrivano sesso a pagamento per portare qualcosa in ta­ vola9. Alcune erano adolescenti, altre più adulte. A giudicare dai nomi che emergono dai registri dell' Onestà, nomi come Isabella Spagnuola, Vica Pisana, Anna Fiamminga, Maria da Siena, Laura Ferrarese, si trattava di donne venute in gran parte da fuori per provvedere alle richieste di quegli uomini che non volevano affaticarsi lungo il cammino verso il bordello di Mercato Vecchio. Era un mestiere chiassoso, o che almeno concorreva ad aumentare si­ gnificativamente il caos cittadino. Dovunque si radunassero le prostitute c'erano feste, musica, tensioni e liti tutt'intorno. Quando non erano in strada, le prostitute stavano affacciate alle finestre, urlando ai passanti o chiamandosi a gran voce attraverso il cortile. Le cose cambiavano aspetto, una volta scesa la notte. Gli uomini facevano serenate alle loro prostitute preferite, le attiravano verso di sé o, se arrabbiati, tiravano sassi alle loro finestre con un lamento da gatti in amore, quasi uno charivari; nella de­ finizione dei magistrati semplicemente «facevano baccano» . Se poi la loro rabbia non era solo un gioco notturno e davvero perdevano le staffe, accadeva come al filatore Marco di Andrea Finocchio, che irruppe nella casa di Cornelia, in Borgo Ognissanti, scagliò di lato la piccola Elisabetta che stava succhiando il latte dalla madre e proseguì gettando 8 o ducati di beni, tra mobili, vestiti, biancheria da letto e specchiere, fuori dalla fine­ stra. Erano pochi quei popolani che a Firenze potevano vantare proprietà di un simile valore, quindi è chiaro che Cornelia era una prostituta non registrata e probabilmente anche di alto rango. Chi era Marco ? Un tizio

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geloso, un vicino scocciato o un pericoloso magnaccia? Poco importava e certo non avrebbe modificato l'intensità del baccano generato dai conten­ denti suddetti, intenti a scambiarsi una raffica di colpi e a gridarsi contro, mentre l'intera mobilia si schiantava giù, in strada, e la piccola Elisabetta continuava a piangere in disparte'0• Nel 154 7 i magistrati dell'Onestà decisero di prendere in mano la situa­ zione e, nel tentativo di contenere tale caos, produssero una lista di diciot­ to vie in cui era consentito l'esercizio della prostituzione. Con cura speci­ ficarono le distanze che dovevano separare ogni taverna da ogni incrocio e aggiunsero una generale norma di tutela che impediva alla prostitute di lavorare nel raggio di cento braccia (circa sessanta metri) da un convento o monastero. Colei che vagabondava fuori dalla strada assegnatale, rischiava un periodo di soggiorno alle Stinche, il truce carcere cittadino. Chi, come Marco Finocchio, faceva i capricci poteva pagare fino a cinque scudi d'oro a titolo di penale (quattro mesi di paga di un lavoratore non specializzato) e trascorrere due mesi in prigione. Se aveva meno di 18 anni, venticinque frustate del boia avrebbero sostituito la detenzione in carcere. I magistrati dell' Onestà incrementarono in modo significativo queste ammende nella revisione normativa del 1 5 7 7, aggiungendo una maggiorazione tariffaria nel caso i trasgressori fossero sacerdoti dotati di beneficio. Sapendo che, nella maggioranza dei casi, dietro le grida, il lancio di sassi e il baccano ge­ nerale c'erano bande di ragazzi, e consapevoli anche del fatto che la solidi­ tà e il prestigio del gruppo poggiavano su un codice d'omertà, i magistrati promisero un quarto delle sanzioni previste a qualunque membro della compagnia avesse scelto di diventare una spia, aiutando a punire un atto di violenza di gruppo ai danni di una prostituta. Erano tanto rigorosi nel proteggere le prostitute quanto lo erano nel preservare la pubblica virtùn. Le carte dei procedimenti penali intentati dall'Onestà nel corso del Cinquecento sono molto lacunose e, tuttavia, ciò che ne resta basta a de­ lineare un interessante cambiamento. Durante il xv secolo, le donne che furono incriminate per i più disparati capi d'accusa, dal travestitismo alla rissa, fino alla "praticà' abusiva del mestiere (ossia senza licenza) , furono quasi il doppio degli uomini. Dalla fine del secolo successivo, uomini e donne uscirono dalle aule del tribunale dell'Onestà con la stessa frequen­ za e soltanto in piccola parte si trattava di prostitute. Solo un quarto dei settamadue imputati, multati e banditi nel 1594 apparteneva alla categoria delle "donne del mestiere': colpevoli di aver infranto le leggi. n tribunale dell' Onestà perseguiva con maggior decisione i reati d'aggressione e di

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sfruttamento della prostituzione rispetto a quelli derivanti dall'infrazione dei regolamenti da parte delle prostitute12• La metà degli imputati erano uomini. Una prostituta avrebbe dovuto pagare 15 lire ogni tre mesi per regi­ strarsi presso il magistrato dell'Onestà, all'incirca la paga mensile di un salariato. La sua licenza aveva validità soltanto per una determinata strada, e soltanto nelle ore diurne - un permesso notturno costava altre due lire e scadeva dopo quindici giorni. Doveva vivere nella stessa via per cui aveva ottenuto la licenza e non poteva affittare alloggi in un'altra zona della cit­ tà facendo avanti e indietro per lavorare. Non poteva nemmeno prendere in affitto un'abitazione d'angolo che avesse una finestra affacciata su una strada che non risultasse nell'elenco approvato delle vie riservate alla pro­ stituzione. Prima di uscire per strada, indossava un velo o un grembiule giallo, o portava con sé un fazzoletto dello stesso colore, in modo che gli uomini e i ragazzi in preda a un attacco di erotismo potessero individuarla con facilità, mentre le donne e le ragazze perbene potessero altrettanto fa­ cilmente schivarla. Quando la città di Firenze costrinse per la prima volta gli ebrei nel chiuso di un ghetto, nel 1570, l'intera comunità si trovò stipata nel labirinto di stradine attorno al vecchio bordello cittadino e gli ebrei fu­ rono obbligati - tutti, banchieri o mercanti, uomini o donne - a indossare gli stessi segni di colore giallo sgargiante13. Mentre il secolo volgeva al termine, i magistrati dell'Onestà presero di mira le prostitute d'alto bordo, le cortigiane: mai più fili di perle o abiti costosi ricamati in oro e argento; nessun giro in carrozza per la città; nes­ suna redditizia attività extra, come predire il futuro di donne e uomini. Le regole e le tariffe, le vie a luci rosse e gli abiti marcati di giallo, tutto sembra suggerire che compito dell'Onestà non fosse soltanto proteggere le prostitute, ma anche metterle al loro posto, cancellando la disti nzione tra professioniste e cultrici part-time. Anche qui bisogna saper leggere tra le righe. I magistrati approvarono nuove norme sul lusso con una frequen­ za tale da rendere evidente come fossero poche quelle prostitute che vi prestassero una reale attenzione, anche se il banditore era stato spedito per le vie cittadine per informarle delle regole appena introdotte. Le multe, in­ vece, le pagavano: per ogni tariffa non corrisposta era pronta un'ammenda che poteva essere assai gravosa. Ogni Isabella Spagnuola o Anna Fiammin­ ga che violava la disciplina dei costumi o lavorava in strada di notte senza regolare licenza poteva essere colpita con una sanzione che arrivava fino a dieci scudi d'oro. Una prostituta sorpresa a vivere fuori dalla strada in

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cui era stata registrata correva il rischio di essere punita con cinquanta lire di ammenda. Si trattava di somme importanti. La pinzochera di Grazzini, Monna Antonia, rinunciò al proprio onorario e fuggì da Firenze con sua figlia perché entrambe non erano registrate e temevano che "i birri" fosse­ ro sulle loro tracce. Se una delle due fosse stata presa, avrebbe finito con il pagare "sottobanco" a uno dei magistrati dell'Onestà una cifra che, da sola, avrebbe superato parcella e sanzione messe insieme. A Firenze, per una prostituta costretta a sbarcare il lunario da sola, queste erano tutte voci che rientravano nei costi d' impresa14• Subito dopo la sua ascesa al titolo ducale, nel 1 5 3 7, Cosimo I ravvisò quanto questa faccenda potesse essere redditizia per i magistrati dell'O­ nestà e si adoprò per assicurare alle casse statali (e possibilmente alle pro­ prie) la maggior parte delle entrate. I magistrati dell'Onestà restavano in carica per quattro mesi e gli uffici a rotazione erano ormai tra le occupa­ zioni più diffuse all'interno del governo fiorentino - anche se la rotazio­ ne avveniva non senza difficoltà, vista la disinteressata volontà dimostrata da questi magistrati di emendare la pubblica morale. O anche di mettere le strade al riparo dalle bande erranti di giovani lavoratori a giornata che tormentavano per puro divertimento le prostitute. I magistrati, infatti, trattenevano una parte delle multe come loro compenso e le opportuni­ tà di spennare le donne di strada per ricavarne ulteriori guadagni erano enormi. Il duca, appena venticinquenne, varò una raffi ca di riforme pro­ cedurali per inasprire gli interventi dell'Onestà. Dal 1544, l'accusa dove­ va essere pubblica e nessun ufficiale poteva perseguire una prostituta di propria iniziativa. Non poteva nemmeno intimidirla senza giusto motivo o prova acclarata, raccogliere multe o tasse direttamente, tantomeno sta­ bilirne l'entità - tutte pratiche di cui i magistrati avevano fatto un uso regolare per estorcere alle prostitute denaro sottobanco. Certo, qualche scappatoia ancora c 'era: una prostituta come Isabella Spagnuola poteva evi tare di indossare i segni distintivi gialli pagando un'imposta più alta. E infatti lo fece, insieme a Vica Pisana, Isabella Bolognese e tredici altre nel solo Borgo Ognissanti15• n duca Cosimo I era un maestro nel fiutare l'opportunità politica, al­ meno tanto quanto lo furono, un secolo prima di lui, i suoi predecessori Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico. Aveva la loro stessa, naturale capacità di dare al suo governo le sembianze di un esercizio volto a difen­ dere i pubblici interessi, mentre massimizzava potere e proventi. Le sue riforme, riducendo i margini di discrezionalità sia delle magistrature sia

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delle professioni, volevano dimostrare la sua solerzia verso le inquietudini del popolo in merito al fenomeno della prostituzione, ansie espresse chia­ ramente dai canti carnascialeschi presentati all' inizio di questo capitolo. Contemporaneamente, Cosimo I volle assicurarsi che gli incassi ricavati da tasse e multe non andassero direttamente nelle tasche dei magistrati dell'Onestà, ma, se possibile, nelle proprie'6• La sua volontà di estende­ re alcune scappatoie legali dovrebbe esimerci dal dipingerlo come un se­ vero moralizzatore. Alcune norme dell'Onestà erano poco più che uno specchietto per le allodole, come quella che ingiungeva alle prostitute di partecipare a una particolare funzione religiosa in Quaresima, quando un infervorato predicatore le avrebbe implorate di lasciare il loro impudico e immorale mestiere - il rito era sempre programmato per la settimana successiva alla registrazione e al pagamento del loro canone trimestrale. La mancata presenza alla funzione comportava, naturalmente, un'altra multa'7• E, secondo una tendenza che accelerò nel secolo successivo, i ma­ gistrati dell'Onestà aumentarono il numero delle immunità ed esenzioni in vendita alle prostitute, permettendo cosl a quelle più facoltose di conti­ nuare a passeggiare in carrozza e di vivere dovunque volessero. Nel contempo, il duca Cosimo I e i suoi figli, Francesco I ( 1 574-1 5 8 7 ) e Ferdinando I ( 158 7-160 9 ), non possono essere considerati nemmeno dei semplici e ipocriti "arraffa soldi", visto l' impegno che riservarono alla ri­ cerca di alternative per le donne sull'orlo della povertà. Divennero, infat­ ti, sostenitori di svariate iniziative volte a impedire alle donne indigenti di cadere nella prostituzione e, nello stesso tempo, aiutarono quelle che già vi erano cadute a ritrovare la via del ritorno. I primi duchi medicei stavano cercando di costruire uno Stato moderno e per questo andavano in cerca di risposte istituzionali che andassero oltre l'interesse dei singoli. Tra le soluzioni adottate, cinque case che miravano a tenere lontane dalla strada le ragazze orfane o abbandonate: tre aprirono negli anni Cinquan­ ta del Cinquecento, le altre due pochi decenni più tardi. Cosimo e i suoi figli realizzarono o, meglio, misero a punto tre istituti che costruivano lo stesso sistema difensivo attorno a donne più avanti negli anni: un ospizio chiamato Orbatello; un ricovero per donne prigioniere di mariti violenti, la Casa delle Malmaritate, e una casa di rieducazione per quelle che, invece, tentavano di uscire dal mercato del sesso a pagamento, la Casa delle Convertite. Tutte e tre questi ricoveri erano apparentemente riservati a donne più anziane, ma, come nel caso dei bordelli, bisogna esaminare i documenti più in profondità se si vogliono focalizzare i veri

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destinatari. Tenendo ben presente, come una sorta di sottofondo, il can­ to della Puttana 1 9 , saremo in grado di ricondurre sia le case per donne adulte, sia quelle per adolescenti all' interno di una più larga strategia vol­ ta in primo luogo a impedire l'ingresso nel mondo della prostituzione proprio a queste ultime. Le donne più mature, prive di evidenti mezzi di sostentamento, erano speso sospettate di indurre alla prostituzione le loro figlie. Se accogli la madre, salvi la figlia. Sfortunatamente i primi ma­ noscritti dell' Orbatello, delle Convertite e Malmaritate sono quasi del tutto perduti. E tuttavia, lavorando su altre fonti, possiamo mettere in­ sieme un quadro che ci restituisca la fisionomia di questi rifugi e di come essi s'inserissero in una più vasta strategia tesa a difendere le adolescenti dallo sfruttamento sessuale.

Via dalla strada

L' Orbatello era una comunità di donne, la maggior parte delle quali ve­ dove. Con le sue camere singole, affi t tate a canoni agevolati, e le sue mura di cinta, l'Orbatello garantiva a queste signore un sostentamento decoro­ so fondato sulle misere entrate prodotte dal cucito, dalla tessitura e dagli interessi sulle loro doti18• Erano poche le affittuarie anziane, contro una maggioranza di madri abbastanza giovani, quarantenni che entravano insieme ai loro bambini. Di solito provenivano da umili ma rispettabili famiglie, che non avevano vissuto a Firenze tanto da poter sviluppare una propria, solida rete di solidarietà di quartiere. Da tutti erano ritenute a ri­ schio prostituzione, sia che in strada ci andassero loro, sia che inducessero a farlo le loro figlie. L'Orbatello era un edificio d'angolo, pochi isolati a nord-est dalla cattedrale e non molto distante dall'importante Ospedale di Santa Maria Nuova. Si presentava come uno stabile a metà tra un con­ vento e una base militare, con la propria chiesa e i suoi circa trenta bilocali disposti lungo tre casermoni a due piani. Ben duecentosessanta tra don­ ne e bambini furono ammassati all'interno di questo ricovero nel primo, inquieto decennio del Cinquecento, ma, a partire dagli anni Cinquanta dello stesso secolo, per circa centocinquanta persone l'Orbatello divenne una vera e propria casa. Due terzi di queste erano donne adulte che forma­ rono una comunità autogestita di matrone sotto la fiacca supervisione di una magistratura politica e aristocratica nota come Parte Guelfa. Quando conveniva, le vedove eludevano liberamente i rigorosi regolamenti della

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Parte, come quelli inerenti l'inammissibilità di neri e schiavi, o quelli che ordinavano l'espulsione di ubriaconi e sobillatori. n tutto fatto in modo informale, senza l'ausilio di statuti scritti. Se talvolta quest'atteggiamento disinvolto verso i regolamenti finiva per metterle nei guai come nel caso in cui nascosero per sei anni a preti e ufficiali della Parte una ragazza senza i requisiti d'ammissione, Felici a - nel complesso la loro età, autorità morale e la loro capacità di difendere la comunità fecero di queste donne le effet­ tive amministratrici dell' Orbatello. Qui potevano vivere rispettate nella loro vecchiaia, riuscivano a tene­ re unite le loro famiglie allargate e a tenere al sicuro le ragazze. Le zie e qualche nonna vivevano con le loro nipoti. I ragazzi potevano rimanere soltanto fino all'età di 12 anni, le ragazze fino al matrimonio. Il ricovero dell' Orbatello aggiungeva anche cinquanta lire ai risparmi che le giovani avevano guadagnato da sé o ricevuto da altri, cosicché potessero mettere insieme doti in grado di suscitare l'interesse di probabili, futuri mariti. Era una prassi che in pratica raddoppiava le somme accantonate dalle ragazze, permettendo loro di non essere costrette a esporsi ai pericoli del servizio nelle case o all'onta del bordello19• All'Orbatello, condurre le ragazze al matrimonio era tanto importante quanto far entrare le vedove negli al­ loggi ed era questo a fare di questo ricovero un altro anello della catena di istituti che a Firenze erano sorti a tutela della verginità delle adolescentP0• Certo, non tutti i matrimoni riuscivano bene. Pur dimostrando una certa tolleranza nei confronti della violenza coniugale, i fiorentini erano convinti che una donna non dovesse rassegnarsi a un marito che continua­ mente aggredisse lei o i suoi figli. Ma il diritto canonico e le consuetudini del luogo rendevano inimmaginabile divorziare e fuggire equivaleva quasi certamente a condurre la donna con le sue figlie dritte nel mercato del ses­ so. N el 1 579 una confraternita laica di uomini e donne puntò il dito contro questa situazione, arrivando a sostenere che a Firenze c'era un gran nume­ ro di donne disoneste, molte delle quali, però, sarebbero state disposte a pentirsi e a cambiare vita, se avessero trovato un posto dove ritirarsi. C 'era il monastero delle Prostitute convertite, che, tuttavia, accoglieva soltanto le donne intenzionate a prendere i voti religiosi, cosicché le altre, sposate, rimanevano nel peccato. Per questo la Compagnia decise di costruire una Casa il cui obiettivo era contenuto già tutto nel nome, la Casa delle Mal­ maritate11. La cortigiana e poetessa Veronica Franco rese la questione in modo an­ cora più esplicito in una petizione destinata al Senato veneziano pochi -

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anni dopo: «Ci sono molte donne che, spinte dalla miseria, dalle passioni o da altro, conducono una vita riprovevole [. ] potrebbero facilmente riti­ rarsi da questa cattiva condotta se avessero qualche luogo rispettabile dove rifugiarsi, dove poter mantenere sé stesse e i propri bambini [ ] . Ma dal momento che non ci sono misure per questi casi [ .. ], esse persistono in questi misfatti, uno tra tutti detestabile: che le donne in stato di necessità vendano la verginità delle proprie figlie innocenti » 22• Né il testo della confraternita fiorentina, né quello della veneziana Veronica Franco sembrano tradire un qualche sentimento di compassio­ ne nei confronti di queste donne pestate a sangue e sbattute fuori dalla loro casa da mariti violenti; erano semplicemente «donne disoneste» che conducevano una «vita riprovevole» . Se non altro, Veronica Franco dava segno d'intendere la disperazione che stava dietro a tale condotta. Di più, sosteneva in modo esplicito questa "equazione sessuale": nega a queste donne una casa, e vedrai che venderanno le loro figlie per guadagnarse­ ne una. La confraternita fiorentina operò per introdurre un nuovo fattore in questa equazione, cambiandone, cosl, il risultato : nel 15 79, in via della Scala, aprì un ricovero per trenta donne; a nord, rasentava proprio Borgo Ognissanti, nel punto in cui taglia con una stradina il quartiere di Santa Maria Novella. Per le donne che sceglievano di rifugiarsi qui con i loro fi­ gli, questa Casa diveniva il mezzo per ricostruirsi una nuova vita partendo da un onesto lavoro. La mancanza di alternative rendeva difficile abbandonare il mestiere anche alle prostitute registrate. All'inizio del XIV secolo, un'altra confra­ ternita fiorentina aveva aperto un ricovero per dare alle prostitute e alle loro figlie la possibilità di scegliere una vita diversa. Gli diedero un nome, Casa delle Convertite, che rivelava una precisa impostazione del problema (e della sua soluzione) in termini di peccato e pentimento. La Casa si tro­ vava nel quartiere d'Oltrarno e, nel giro di pochi decenni, passò sotto la gestione dei frati agostiniani, che in breve la trasformarono in convento. Ma poteva una prostituta farsi suora? Arguti beffeggiatori come Grazzini e Pietro Aretino inventarono infinite battute e colpi di scena sull'argo­ mento, ma i fautori di questo tipo di case di conversione, spesso dedicate a santa Maria Maddalena, non trovavano in merito nulla di divertente. Replicavano, infatti, che un silenzioso convento costituiva il migliore sce­ nario per la riflessione e il pentimento di una prostituta. Su un piano me­ ramente pratico, all'interno delle sue mura si poteva dormire e mangiare a buon prezzo. Alcune donne fecero questo salto dal bordello, o dalla strada, ..

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fin dentro questo semiconvento, lo fecero, restandoci per il resto della loro vita. Altre utilizzarono la loro permanenza alle Convertite per cancellare i loro precedenti con l'Onestà, ottenendo la rimozione dei loro nomi dal registro delle prostitute, nel tentativo di riuscire a condurre una vita irre� prensibile una volta uscite fuori di ll:r.3• Dal IS40 al ISSO i sostenitori dell'utilità della Casa delle Convertite si trovarono ad affrontare due problemi tra loro intimamente legati. Stava diventando sempre più difficile ottenere donazioni dai fiorentini e questo lasciava le circa cento suore della città in condizioni tanto disperate da non poter neppure garantirsi cibo a sufficienza. Allo stesso tempo, stava diventando più semplice per le prostitute far rimuovere i loro nominativi dai registri dell'Onestà e così avevano sempre minor necessità della Casa delle Convertite. I fiorentini avevano a lungo coltivato l'antico principio di reimpiegare almeno parte del salario derivante dal peccato nel tentativo di estirparlo. Fedeli a questo assioma, gli amministratori delle Convertite ricevevano circa un terzo delle quindici lire di canone di licenza che le prostitute pagavano ogni tre mesi. Ma non era ancora abbastanza. Anche se le più o meno centotrenta prostitute registrate e portate alla luce dal censimento del 1562. avessero pagato per intero le tasse, la quota spettan� te alle Convertite sarebbe ammontata a sole 2.700 lire circa - solo una piccola porzione della spesa complessiva di gestione annua della Casa. E, cosa peggiore, nemmeno l'Onestà riusciva a far valere questo principio: nel 1569 si iscrissero centocinquantanove prostitute, versando una varietà sconcertante di tributi, in totale appena 2.soo lire, che furono destinate alla formazione degli utili. Quasi tutte servirono a coprire i costi ammini� strativi degli ufficiali dell'Onestà e alle suore della Casa delle Convertite non restò praticamente nulla:r.4• n duca Cosimo I introdusse negli ordinamenti del ISS3 una norma in base alla quale un quarto delle proprietà di ogni prostituta fosse alla sua morte devoluto alla Casa delle Convertite, ma le prostitute fiorentine erano abbastanza accorte da saper escogitare espedienti utili a mettere in salvo il loro patrimonio, destinandolo agli eredi cui avevano pensato. In preda alla disperazione, le Convertite fecero pressioni sul duca Cosimo affinché fosse loro riservata una parte dell'ammenda che le prostitute non regolari pagavano quando e se, alla fine, venivano scoperte. Se, poi, queste prostitute fossero riuscite a tenere in piedi le loro astute trovate per tutta la vita, gli ufficiali delle tasse avrebbero potuto riscuotere un canone sui loro beni alla loro morte, e tutti i proventi sarebbero andati alle Converti�

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te. Solo allora, con un'indiziata nella tomba e, dunque, ormai incapace di elaborare un qualsiasi stratagemma evasivo con il suo notaio, gli ufficiali delle Convertite avrebbero potuto raccogliere le testimonianze dei vicini, sentenziare post mortem che si trattava di una prostituta, procedendo alla tassazione del suo patrimonio2>. I sostenitori della Casa delle Convertite si adoperarono anche per ina­ sprire i criteri in base ai quali si otteneva la cancellazione del proprio no­ minativo dal libro dell'Onestà. A un certo momento, infatti, era bastato alle prostitute un breve soggiorno nella Casa delle Convertite per guada­ gnare la libertà, ma alcune di loro, le più intraprendenti, avevano utilizzato quest'opportunità come una sorta di porta girevole per ritornare al me­ stiere, o addirittura avevano orchestrato degli incontri di sesso a pagamen­ to mentre ancora vivevano nella Casa. Ma adesso, nella Casa delle Conver­ tite, le residenti erano sorvegliate con maggior attenzione, nella speranza di rendere più difficoltosa una loro eventuale partenza. Una donna che si candidava per veder cancellato il suo nome dal registro dell'Onestà doveva ora sottomettersi a un esame degli ufficiali di questa magistratura, fornen­ do una deposizione scritta di tre testimoni, incluso il prete del luogo, dalla quale risultasse che era stata "immacolata" per almeno gli ultimi sei mesi. Un decennio più tardi, un inasprimento della legge gettò una luce parti­ colarmente sospetta sulle donne che progettavano di lasciare la Casa per andare a vivere da sole. Gli ufficiali supposero che, senza un uomo in casa, queste donne potevano avere in realtà una sola fonte di reddito. Dunque, una donna che si era data alla prostituzione dopo aver lasciato il marito non poteva ottenere che il suo nome fosse cancellato dall'elenco dell'O­ nestà fino a quando non fosse ritornata con lui, indipendentemente dalla regolarità della sua condotta di vita. Allo stesso modo, una donna costretta a prostituirsi dal marito non poteva essere depennata dalla lista fino alla morte del coniuge e senza la testimonianza dei vicini e dei sacerdoti del posto'6• In entrambi i casi, le donne avrebbero dovuto continuare a pagare la tassa per la licenza, pari a 3 0 lire, per i sei o più mesi che ci sarebbero voluti per ottenere che vicini sospettosi e preti diffidenti fossero tutti con­ cordi nell'affermare che non ricevevano più alcun cliente. Attraverso le pressioni che la Casa delle Convertite seppe con successo esercitare a favore di una normativa più severa del fenomeno della prosti­ tuzione, questo istituto rese di fatto più difficile alle prostitute abbando­ nare il mestiere. Per accrescere le sue entrate, la Casa delle Convertite creò un contesto in cui le donne si vedevano costrette a scegliere tra continuare

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a prostituirsi o stare più a lungo nella Casa. C 'è bisogno di tornare alla Puttana 1 9 , la Pierina di Braccio, e all'intraprendente pinzochera di Graz­ zini, Monna Antonia, per scorgere il legame tra queste due situazioni pa­ radossali. E tale legame sarebbe il principale interesse dei fiorentini, quello di incanalare la sessualità degli adolescenti. Oltre a contenere il pericoloso modello offerto dalle prostitute d'alto bordo, una regolamentazione re­ strittiva avrebbe permesso di stanare tutte quelle prostitute "a mezzo servi­ zio': non registrate, e anche quelle che, ormai "ravvedute", si erano date al lenocinio di figlie, nipoti e domestiche. Questo è ciò che i fiorentini presu­ mevano dovesse fare una povera donna adulta intenzionata a sopravvivere e le loro convenzioni sociali rendevano così arduo per una donna imparare un mestiere e guadagnarsi da vivere onestamente che, da un certo punto di vista, non si può dire che avessero torto. Avendo creato un vicolo cieco per le donne indigenti, di fatto costrette a servirsi del proprio corpo o di quello delle minori a loro carico per mangiare e pagare l'affitto, i fiorentini misero a punto una procedura che dirigesse queste donne verso una delle tre alternative istituzionali esistenti: l'istituto del matrimonio, l'istituto del ricovero caritativo o, in alternativa, quello della prostituzione regola­ mentata. Una donna che rifiutasse le prime due possibilità, la si sarebbe indotta a scegliere la terza (cioè registrarsi e pagare il canone per la licenza come prostituta pubblica), scelta che sarebbe stata poi resa tanto punitiva da far riconsiderare alla donna le opzioni scartate. I fiorentini del XVI secolo stavano facendo marcia indietro sul sostegno offerto dai loro progenitori alla prostituzione in quanto "male necessario" ed erano più determinati a mettere sotto controllo il mondo del sesso a pagamento. Alla luce dei cambiamenti giuridici e di costume intervenu­ ti attorno alla metà del secolo, sembra proprio che essi fossero disposti a ridere della farse da camera finché le camere in gioco non fossero state le loro. Non dobbiamo perdere di vista quei consistenti regolamenti che mi­ ravano a proteggere le prostitute registrate dallo sfruttamento e dagli abusi dei magnaccia, di ragazzi accidentalmente violenti e di predicatori volu­ tamente brutali. Dobbiamo ricordare come i fiorentini tenessero sempre ben presente che si trattava di vicine di casa, conoscenti, a volte addirittura amiche. A metà del Cinquecento un codice morale sempre più austero cominciò a fondersi con le crescenti attese verso ciò che veniva considerato un duplice dovere, quello del principe, tenere a freno i disordini, e dei suoi sudditi cristiani, aiutare i poveri e gli indifesi. I fiorentini credevano che il bastone delle regole dell'Onestà e la carota della carità istituzionale potes-

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sero collaborare per inibire il reclutamento delle prostitute, in particolar modo delle giovani così facilmente esposte allo sfruttamento da parte di adulti immorali indifferenti ai richiami della legge. In pochi volevano dav­ vero eliminare del tutto il mondo del sesso a pagamento, ma molti erano quelli che speravano di poter offrire alternative soprattutto a quelle ragaz­ ze che vi erano state trascinate o che, loro malgrado, avevano finito per esserne inghiottite.

Adolescenti nei guai

Con simili provvedimenti, le autorità comunali di Firenze si incammina­ vano verso un disciplinamento della vita familiare secondo modalità mai tentate prima. L'impegno profuso nel dirigere le pulsioni sessuali di ado­ lescenti e giovani lontano da stupro e sodomia aveva condotto gli ammini­ stratori fiorentini ad aprire un bordello all'inizio del xv secolo e, successi­ vamente, attorno alla metà dello stesso secolo, a normare il fenomeno della prostituzione in modo più ampio. Nella Firenze del Rinascimento tutto questo si configurava come una responsabilità sociale condivisa. Ma cosa si fece per le adolescenti ? Niente. Per tutto il xv secolo, fino agli inizi del successivo, la sessualità delle ragazze era un affare di famiglia. Il magistrato dell' Onestà operava indirettamente per la protezione di queste ragazze, con il suo bordello, in­ dirizzando lontano da loro il desiderio sessuale maschile. Approvvigionare i ragazzi per proteggere le ragazze, ecco le due facce della medaglia della sessualità giovanile. Tuttavia, a parte questo, gli ufficiali comunali non as­ sunsero alcuna decisione volta in modo diretto a erigere quelle mura che avrebbero protetto le giovani donne dagli altri e da sé stesse. I regolamenti dell' Onestà, in continua espansione, e le istituzioni caritative sorte negli anni Quaranta e Cinquanta del Cinquecento ci rivelano che tutto questo era destinato a cambiare. E tale cambiamento segnò l'avvio di una rivolu­ zione sociale. Gli italiani avevano sempre operato in base al presupposto che i compo­ nenti della famiglia fossero i soggetti più affidabili per quest'opera di ere­ zione e mantenimento di barriere protettive intorno alle loro ragazze. E da sempre lo avevano fatto attraverso un'altra istituzione, il matrimonio. Le leggi e le consuetudini rendevano talvolta il matrimonio più simile a una prigione che a un rifugio sicuro27• Gli alti tassi di mortalità sconvolgevano le

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dinamiche familiari, spesso determinando il crollo delle famiglie nucleari. Allora i diversi componenti di un gruppo familiare più vasto divenivano custodi delle loro nipoti, cugine, sorelle e persino cognate. Quando moriva la madre, il padre poteva venire sopraffatto dall'impegno di crescere i figli da solo e, se non si risposava, poteva decidere di assegnarli ad alcuni parenti. Primo responsabile dell'alto tasso di mortalità femminile era il parto, un evento assai rischioso che alla fine uccideva, in modo più o meno diretto, una donna su cinque. Quando, invece, a morire era il padre, i fratelli o il pa­ dre della sposa potevano spingerla a risposarsi, cosa che l'avrebbe costretta a lasciarsi i bambini alle spalle nel momento stesso in cui varcava la soglia della casa del nuovo marito. Di solito, l'origine degli alti tassi di mortalità maschile era semplicemente l'età: i mariti morivano spesso prima delle loro mogli perché era ricorrente che le donne sposassero uomini di cinque, die­ ci, persino quindici anni più vecchi. Lo sposo era scelto dai parenti di sesso maschile della futura sposa in base a un cri terio che teneva conto dell'occu­ pazione, delle relazioni sociali e dei denari del candidato, facendo attenzio­ ne che il tutto risultasse adeguato alle aspettative. CATERINA Gli è peggio d'un barbagianni. Ben fui male arrivata, che i miei zii per miseria mi dessino a questo vecchio senza cervello che ardisce innamorarsi delle comare [ ... ]. Povero uomo! Non meraviglia che da un pezzo in qua non mi rompe più, come soleva quasi ogni notte, il sonno, né più mi fa quelle carezze solite; ma alla croce di Dio, che si vorrebbe noi donne sotterrarci vive come nate semo. Dunque io sendo giovane patirò di stare a denti secchi, e che il marito mio vecchio cerchi di provvedersi altrove ? Non sarà mai vero. E poich' io veggo la cosa in tale stato, voglio da qui pro cacciarmi anch ' io. MARGHERITA Ah! Ah! Voi dite il vero, padrona mia. Ora che voi siete fresca, giovane e bella, operate di modo che non abbiate poi nella fine a dolervi di voi, e che la carne non abbia che rimproverare allo spirito18•

E così Caterina, sposa del vecchio caprone Amerigo, cade tra le braccia vogliose di frate Alberigo grazie alla sapiente regia della serva Margherita. Questo triangolo amoroso è il cuore della forza comica della commedia Il Frate di Grazzini ed è un argomento che sia lui sia il suo pubblico fio­ rentino trovavano sempre esilarante. Nella pinzochera quasi tutta l'azione ruota attorno agli sforzi infruttuosi sostenuti dali'anziano e credulone Ge­ rozzo per portarsi a letto la vicina, imprese che portarono la sua giovane moglie a questa chiosa (più pietosa che irritata): «Pover'huomo! So dir che i miei frategli lo scelsero, ma dove mancò il cervello, sopperì la roba»19.

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Accadeva raramente che i desideri di una giovane donna prevalessero sulle volontà di padri, zii e fratelli determinati a scovare un buon partito. Si trattava di adattarsi a prendere come marito un uomo che, data l'età, avrebbe potuto essere suo padre e che, proprio come lui, sarebbe quasi cer­ tamente morto molto prima di lei. I sentimenti non erano parte del pro­ blema. I paradigmi della nascita e della morte, insieme a una cultura che individuava nel patrimonio e nella discendenza le principali ragioni del matrimonio, esasperavano la dipendenza femminile dal mondo maschile. Spesso, e in fasi diverse della loro vita, le donne si trovavano esposte all'in­ gerenza maschile: nell'adolescenza, di fronte al matrimonio; in gioventù, sole nella casa di un marito molto più vecchio di loro; poi vedove o orfane di quello stesso uomo. Vivere come sposa a fianco di un uomo più anziano era una cosa, ma sopravvivergli come vedova o orfana era un'altra. Avendone le capacità, si poteva tentare di sostenersi in autonomia, ma ciò avrebbe quasi sicura­ mente significato una misera esistenza, date le esigue opportunità di as­ sicurarsi un reddito dignitoso che al tempo erano riservate a una donna. La vedova di un artigiano poteva trovare rifugio all' Orbatello, insieme ai suoi bambini; una più giovane, proveniente da una famiglia dedita al commercio o alle professioni, poteva, invece, trovarsi costretta a tornare a casa dei genitori, di un fratello o di uno zio, e questi, a loro volta, erano liberi di reimmetterla sul mercato matrimoniale per togliersela dai piedi. La donna, insieme ai suoi figli, era in buona sostanza un patrimonio da ne­ goziare in un mercato particolarmente difficile, le cui regole erano a tutti ben note. Se non aveva ancora varcato la soglia dei 30 anni, ed era, quindi, ancora in grado di generare figli per il nuovo marito, suo padre e i suoi fra­ telli potevano servirsene per avviare alcuni contatti utili alla conclusione di un nuovo matrimonio. Avrebbero, dunque, interpellato la famiglia del defunto marito e preteso la restituzione della dote, indispensabile per la prosecuzione dei negoziati. I suoceri erano per legge tenuti a restituire tut­ to il denaro, le proprietà e i beni di varia natura che potessero essere ascritti a quella dote, ma mantenevano il controllo - e la responsabilità - di ogni patrimonio generato in seguito alle nozze. Figli inclusi. Qualsiasi giovane vedova, di qualsiasi provenienza sociale fosse, si tro­ vava così stretta tra gli interessi dei familiari e quelli dei suoceri : i suoi, d'interessi, non necessariamente stavano a cuore a qualcuno dei due. I suo­ ceri si sarebbero adoperati intensamente per convincerla a non risposarsi, promettendole di aiutarla a mantenere i bambini, semplicemente perché

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le alternative sarebbero state per loro molto meno convenienti. In caso di seconde nozze, infatti, essi avrebbero perso la possibilità di servirsi della sua dote, guadagnando di contro l'incombenza dei suoi figli. li nuovo ma­ rito non era in alcun modo costretto ad accollarsi l'onere di bambini che, in fin dei conti, rimanevano proprietà di qualcun altro. E questo particola­ re patrimonio poteva allora essere destinato alle cure di fratelli, zii e cugini del defunto marito, di parenti ancor più lontani o di qualunque altro indi­ viduo potesse essere convinto, anche a suon di quattrini, a prenderli con sé. Alcuni bambini si ritrovavano servitori, altri garzoni, ma raramente era­ no acquisti graditi per famiglie, le cui risorse erano già ridotte ai minimi termini. Questo rendeva i minori vulnerabili, esposti a enormi pressioni, dal momento che da loro, come da ogni altro patrimonio, ci si attendeva un'entrata, o perlomeno la restituzione di un favore ricevuto. I fiorentini schiamazzavano quasi fossero lupi davanti a personaggi come la Puttana 1 9 e la figlia di Braccio, la Pierina. Furono loro a decre­ tare il successo letterario di autori come Pietro Aretino e Antonfrancesco Grazzini, e se ne stavano davanti alle bancarelle dei libri in attesa di vedere quali personaggi come il vecchio caprone Amerigo o la giovane e audace Caterina sarebbero usciti dalle loro penne. Va detto che, dietro a queste maschere comiche, c'erano concreti casi giudiziari che animavano la vita cittadina e accendevano le fantasie tanto degli scrittori satirici quanto dei loro censori. Chi viveva a Firenze attorno agli anni Cinquanta del Cin­ quecento aveva certo sentito parlare di Domenico di Giovanni Scarpelli­ no, nato a Settignano, autore dello stupro di Sandra, sua illibata cognata, oppure di Giusto di Giovanni di Ciullo, nato a Battifolle, che, invece, la sua cognata Maria l'aveva messa incinta (le ragazze potevano essere spe­ dite a casa delle loro sorelle sposate nel momento in cui la madre moriva o si risposava). Senz' altro avevano anche rumoreggiato di Bartolomeo di Marco, un tessitore di panni in via Chiara, che aggredì la sua apprendista, Francesca di Tonio da Porciano, violentandola "sia dal davanti, sia dal di dietro". A differenza di molte sue colleghe, Francesca viveva in casa di Mar­ co; per questo è molto probabile che fosse un'orfana affidatagli da parenti che non potevano o non volevano tenerla in casa con loro. E così, nello stesso momento in cui quelli che lavoravano per istituire la Casa della Pie­ tà passavano il tempo raccogliendo lenzuola, letti e soldi per poter aprire il loro ricovero, il resto dei fiorentini lo trascorreva scuotendo il capo di fronte a processi come quello contro Piera di Santi Bicchieraio, colpevole di aver rimediato clienti a sua figlia Maria e di averla poi nascosta in casa

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per cinque mesi dopo aver scoperto che era incinta. Simili casi, insieme a quelli di genitori come Leonarda da Empoli, Silvio Divettino e Caterina da Siena, che già avevamo incontrato nel primo capitolo intenti a far p re­ stituire le loro figlie, sollevano una domanda imbarazzante: «Davvero ci si può fidare della propria famiglia?»30• A volte la diatriba sull' affidabilità familiare era semplicemente accanto­ nata perché di congiunti non se ne vedevano, o almeno preti e vicini non erano riusciti a scovarne nemmeno uno. A quel punto, si poteva facilmen­ te decidere di abbandonarlo, questo capitale umano. Una ragazza il cui padre fosse morto, la cui madre si fosse risposata e la cui famiglia paterna non potesse o non volesse offrirle una sistemazione poteva ritrovarsi per strada e lì cercare il modo di provvedere a sé stessa. Se non era in grado di trovarsi un riparo, doveva escogitare un suo personale sistema di produ­ zione di reddito. È fin troppo facile pensare a queste adolescenti come inerti bambole di pezza, trastullo di fratelli intriganti e zii viziosi. Capitava, invece, che fos­ sero attive promotrici della loro sessualità, o per saziare i propri appetiti, o per trasformarsi nell'esca che avrebbe incastrato un uomo intento a saziare i suoi. Nella pinzochera di Grazzini, la giovane e rispettabile Fiammetta, al­ levata in un convento, prende parte con entusiasmo alla trama che le con­ sentirà di saltare tra le lenzuola del suo giovane vicino, Federigo, che aveva visto soltanto qualche volta dalla finestra, e il cui padre aveva già rifiutato le loro richieste di matrimonio. Si tratta solo del frutto della fantasia di un anziano libertino o della volontà di addossare la colpa di uno stupro alla donna? Ancora una volta è necessario leggere tra le righe per verificare quando fossero davvero le ragazze a prendere in mano la situazione. Che cosa spinse la corte penale di Firenze, gli Otto di Guardia, a intentare cau­ se per stupro simili a quella sollevata dalle accuse del falegname Cecchino di Grazia ai danni di Gualtiero Fiammingo ? Questi era un fabbricante di vetrate che aveva derubato Cecchino introducendosi in casa sua, di notte, attraverso una finestra aperta della soffitta e che, poi, si era messo subito all'opera anche per fare bottino della verginità della figlia Alessandra. O anche un'altra causa, nata dalle accuse di Battista, battitore di lana, con­ tro un collega tessitore cremonese, Bernardino di Bilio, colpevole di essere venuto a trovarlo qualche volta solo per fare sesso con la sua sorella illi­ bata, Geva? A differenza delle ragazze assalite dai propri datori di lavoro o indotte a prostituirsi dalle famiglie, Alessandra e Geva sembrano aver accolto con favore questi uomini come amanti e potenziali mariti31•

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Un uomo poteva riuscire a introdursi nel letto di una ragazza promet­ tendole il matrimonio e, se poi fosse venuto meno alla parola data, lei avrebbe potuto trascinarlo in tribunale con l'accusa di inadempienza delle promesse matrimoniali. In questo caso, l'accusa di violenza carnale era l'e­ spediente con cui costringere un uomo a sposarsi o a mettere insieme una dote in grado di attirare le attenzioni di un altro potenziale marito. Fare esperienza dell'aula di un tribunale poteva essere l 'esito sia del tentativo di un uomo di sedurre, sia di una donna d'incastrarlo, sia l'approdo di una coppia che aveva tentato di forzare la mano dei rispettivi genitori : potreb­ be persino essere un po' di tutte queste cose messe assieme e, almeno per ciò che concerne il caso di un uomo raggirato da una donna, potrebbe suggerire l'esistenza di un disegno che implicava il coinvolgimento di più componenti della famiglia31• I due giovani amanti di Grazzini, Fiammetta e Federigo, mettono in scena la scoperta della loro presunta segreta tresca amorosa per costringere il padre di Federigo ad abbandonare ogni ostilità verso il loro matrimonio - e tutto questo con l'operoso concorso dei geni­ tori di Fiammetta, Monna Albi era e Gerozzo, che, con grande padronanza di sé, fingono il ruolo dei genitori oltraggiati33• Monna Albi era è sorpresa, ma appena turbata dall'iniziativa della figlia, e reagisce in modo tanto ra­ pido e astuto da rendere condivisibili le riserve che il padre di Federigo nutriva nei suoi riguardi. I verbali del tribunale di Firenze conservano qualcosa di questa vis co­ mica. Sulle prime, quando Gualtiero, il vetraio fiammingo, si era messo a dare una sbirciatina a ciò che c'era dall'altro lato della finestra della soffit­ ta, il signor Cecchino era forse impegnato a guardare altrove? E il battitore di lana Battista stava cercando di avviare un legame di natura professionale tra la sua famiglia e il tessitore Bernardino avvalendosi di una particolare esca, sua sorella Geva? E che dire dell'addolorata combriccola di Girolamo e della sua anonima sorella, in via Palazzuola, nel Borgo Ognissanti ? n loro dolore lasciava comunque spazio a quel tanto d'allegria che serve per organizzare un matrimonio, quello della sorella con Iacopo da Genova, anche se tutti erano a conoscenza del fatto che in quella città Iacopo aveva lasciato una moglie. Iacopo e la sorella innominata avevano regolarmente rapporti sessuali, ma i fratelli cominciarono a indignarsene e a vuotare il sacco solo quando Iacopo se ne andò per sposare un'altra donna34• n fatto che un'intera famiglia si raccogliesse in tribunale reclamando che era stato lui a prendere con la forza, a stuprare e deflorare la sorella o la figlia ancora vergine, poteva in effetti significare che le cose andarono proprio così. Ma

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poteva anche indicare che le strategie di quella famiglia avevano avuto un effetto contrario, riducendo a brandelli tanto la reputazione della figlia, quanto dell' intero gruppo familiare e che lo stupro contestato altro non era che un ultimo, disperato tentativo di riacquistare rispetto e un po' di denaro. Quando tutti questi espedienti si fossero dimostrati inefficaci al fine di conseguire un matrimonio o una dote, rimaneva pur sempre aperta un'altra via per riappropriarsi del buon nome della famiglia: abbandonare la ragazza invitandola a uscire di casa. Del resto, anche l' istituto matrimoniale aveva i suoi problemi. Era davvero così distante dal mondo del sesso a pagamento ? La pinzochera di Grazzini, Monna Antonia, induce sua figlia a prostituirsi in modo certa­ mente più esplicito di quanto facciano Monna Albiera e Gerozzo con la loro, ma entrambi mercanteggiano di buon grado con la sessualità delle figlie, esattamente come fanno Braccio e la Puttana 1 9 . I verbali giudiziari riportano storie analoghe alle loro, anche se non è altrettanto facile riderei su. Quando i fiorentini si rivolgevano a istituzioni come le Convertite, le Malmaritate o l' Orbatello, lo facevano nella speranza di risolvere difficoltà sorte da crisi coniugali. Che fosse più o meno corrispondente a realtà, la loro visione del mondo presagiva che vedove ridotte in miseria, spose mal­ trattate e prostitute divenute tali loro malgrado (tutte con molta fame, ma pochi soldi in tasca), avessero davanti ben poche speranze di sopravviven­ za, fatta salva la prostituzione, e che pertanto queste donne, ma soprattut­ to le loro figlie, sarebbero state assai meglio dietro le mura e le porte serrate di un luogo sicuro. E che dire di quelle ragazze prive persino di queste pur discutibili attenzioni ? O di coloro le quali rimanevano orfane o erano ab­ bandonate all'età di IO, 12 anni, ancora bisognose di protezione dagli altri e forse persino da sé stesse ? La stessa logica che soprassedeva all'apertura di case per donne adulte operò ancor più efficacemente nei confronti di queste ragazze: i fiorentini risposero aprendo tre case distinte per giovani orfane o abbandonate in soli quattro anni. Da quasi un decennio erano già stati sollecitati in questa direzione. Non appena salito al potere, il duca Cosimo 1 aveva cominciato a proget­ tare un miglioramento della rete delle istituzioni caritative di Firenze. Si trattava di un numero incredibile di ospedali o case, alcuni con una man­ ciata di posti letto, altri con svariate decine. Parte di queste istituzioni ave­ vano avuto origine (decenni o addirittura secoli prima) dai sensi di colpa, o dalla pietà, di singoli ricconi ed erano ancora tenute in vita, o almeno gestite, dai loro discendenti. Altre erano sorte come cooperative sanitarie

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delle Arti o delle confraternite religiose, per prendersi cura dei propri affi � liati - un artigiano feritosi sul posto di lavoro o un confratello afflitto da una malattia. Potevano ricadere sotto la responsabilità dei consigli o delle chiese di paese. Se ne contavano più di trecento all'interno dei confini del­ lo stato del duca di Toscana. Diverse erano ben amministrate, mentre in altre i finanziamenti finivano dritti nelle tasche degli amministratori, del personale o del clero, e poco o nulla rimaneva per i poveri. Cosimo I decise di affrontare con decisione i problemi sollevati da tali ruberie, assicurandosi che le risorse messe a disposizione per le opere di carità fossero impiegate in modo più funzionale allo scopo. Riprenden� do esperienze avviate in altri paesi europei già da alcuni decenni, nel 1542 nominò una dozzina di magistrati per il controllo dei registri, la revisione degli statuti e la verifica delle attività di ogni istituzione benefica in To� scanaH. In presenza di frodi, tali magistrati avevano facoltà di procedere alla confisca dei beni o alla rimozione degli affiliati o potevano decidere di destinare i fondi in eccesso a beneficio del bilancio di altri ospedali, per sostenere un nuovo istituto caritativo per orfani e mendicanti che il duca stava progettando per Firenze. I magistrati di Cosimo costituirono una nuova commissione governativa permanente e, per conferirle maggior po� tere e denaro, il duca spogliò di capitali e patrimoni una delle più antiche e ricche confraternite, mettendo tutto a disposizione della nuova commis� sione. Le apparenze potevano trarre in inganno: la confraternita di Santa Maria del Bigallo continuava a esistere e a operare al di fuori del suo im­ ponente quartier generale, di fronte alla cattedrale e a piazza San Giovan� ni, ma tutti i suoi iscritti e gli ufficiali furono destituiti e le sue numerose proprietà (e debiti) trasferiti alla neo costituita équipe di Cosimo 1. Questi aveva architettato un gigantesco gioco dei tre bicchieri in chiave burocrati� ca e, per dare pieno compimento a quest'illusoria parvenza di continuità, fece in modo che la magistratura ne ereditasse anche il nome, il Bigallo. I beni di questa particolare confraternita erano stati sottoposti a seque� stro dal momento che si trattava di un enorme portafoglio immobiliare, messo insieme nel corso degli ultimi trecento anni, un patrimonio in cui figuravano anche molti piccoli ospedali rilevati con l'aiuto di Chiesa e Sta� to. Le autorità, infatti, preferivano che un modesto ospedale delle arti o un ricovero gestito da una confraternita, trovatisi sull'orlo del fallimento per mancanza di fondi o cattiva gestione, venissero assorbiti dal Bigallo piuttosto che decretassero l'assoluta bancarotta. Alcuni facoltosi soggetti, nel tentativo di fondare qualche ospedale, avevano persino chiesto che il

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loro progetto benefico venisse accolto sotto le grandi ali burocratiche del Bigallo. In questo modo divenne una sorta di padrone dei bassifondi della carità, detentore di ospedali derelitti sparsi per tutta la Toscana, cosa che permetteva a gran parte dei suoi ufficiali di dirottare le risorse provenienti da eredità o da proprietà in affitto all'interno delle loro personalissime ta­ sche. Attraverso la confisca dei beni del "vecchio" Bigallo e la loro assegna­ zione al suo manipolo di magistrati scelti per il "nuovo" Bigallo, Cosimo I volle mandare un avvertimento: faceva sul serio. Sua intenzione era estir­ pare ogni pratica fraudolenta, centralizzando le opere di carità all'interno di un inedito modello pubblico di assistenza sociale: tre nuovi ricoveri isti­ tuzionali - il primo, per ragazzi abbandonati, il secondo, per ragazze nella stessa condizione, il terzo, per mendicanti - che sarebbero stati altrettanti gioielli sulla corona del duca. Tuttavia questo giovane e ambizioso duca perse molto del suo iniziale coraggio, o perlomeno fu assalito da vari ri­ pensamenti. I suoi fedeli magistrati del Bigallo si gettarono nell' impresa riformatrice con una foga tale da sollevare un'ondata di proteste da parte dei piccoli ospedali, delle corporazioni, delle confraternite, dei benefattori di tutta la Toscana, proprio nel momento in cui la corona ducale da cui dipendevano era troppo insicura per potersi permettere di fornire ai suoi nemici un pretesto attorno al quale focalizzare il generale malcontento. Temendo, dunque, di aver dato vita a una creatura pericolosa, Cosimo I cominciò con discrezione a sconfessare il suo sostegno politico al Bigallo, pur mantenendolo in vigore in qualità di magistratura per il controllo de­ gli ospedali e per la gestione dell'Ospedale degli Abbandonati, l'unico dei tre ricoveri istituzionali progettati che alla fine aprì. li che non significa che gli altri istituti non fossero poi sorti o che Cosimo I avesse perso interesse nei confronti della riforma del sistema assistenziale. Presto, i neodesignati magistrati del Bigallo concessero qualche parco con­ tributo a una casa privata destinata a ragazze abbandonate e fondata da una vedova aristocratica fiorentina, Lionora Ginori, nei primi anni Quaranta del Cinquecento. Quando la donna morl, i magistrati tentarono di convincere Cosimo I a permettere loro di rilevare la Casa, primo passo per far ripartire l'antico progetto dell'Ospedale delle Abbandonate. Ma il duca respinse con fermezza questa proposta. Circolava voce, infatti, che molti di coloro che gli erano politicamente ostili avevano preso parte al progetto del ricovero assistenziale della Ginori e, cosl, Cosimo I volle che quella esperienza fosse definitivamente conclusa. Tuttavia la facoltosa e amarissima moglie, la spa­ gnola Eleonora, figlia del viceré di Napoli, lo convinse a mantenere aperto

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l'istituto per amore delle ragazze che lì avevano trovato riparo - affidandone la gestione non ai fin troppo entusiasti magistrati del Bigallo, ma a una nuo­ va confraternita. Si introduceva una variante nel gioco delle tre carte avviato dieci anni prima. A subentrare nell'amministrazione della Casa sarebbe sta­ ta una nuova confraternita, dotata di un nuovo nome che ponesse l'accento sulla vulnerabilità delle ragazze sole: Santa Maria delle Vergini. L'interces­ sione di Eleonora spostò le giovani della Ginori pochi passi più in là, all' in­ terno di un piccolo ospedale situato sulla strada di fronte a Palazzo Pitti, nel quartiere Oltrarno, palazzo che la duchessa aveva comprato soltanto due anni prima e che era impegnata a ristrutturare insieme al marito, per farne la loro residenza ufficialé. Dal patrimonio immobiliare del Bigallo, Santa Maria delle Vergini ricavò i suoi nuovi alloggi, dalle migliori famiglie di artigiani e bottegai di Firenze, le ragazze. Ma tutto questo provvedeva solo parzialmente alla risoluzione di un problema in continua crescita. Quattro anni dopo, nel 1556, il duca Cosimo I, sottraendosi ancora una volta alle competenze dei magistrati del Bigallo, ordinò agli amministratori della prigione cittadina, le Stinche, di pensare a qualche soluzione per sanare la piaga delle giovani orfane o abbandonate aggredite per strada o nei mercati di Firenze. Que­ ste ragazze avrebbero potuto guadagnarsi da vivere vendendo merce di se­ conda mano al mercato; così ben presto prese forma un secondo istituto che raccolse decine di ragazze. Scelsero un nome evocativo al pari di quello di Santa Maria delle Vergini : San Niccolò, il vescovo della chiesa cristiana primitiva che era riuscito a salvare tre giovani aristocratiche dalla strada (cui il padre ridotto in miseria le avrebbe certamente destinate), gettando attraverso la finestra di casa loro una sacca contenente denari sufficienti ad accantonare una dote per ciascuna. li ricovero di San Niccolò aprì nel quartiere operaio d'Oltrarno e quando i suoi amministratori, ormai allo stremo delle forze, fecero appello al duca per un aiuto, egli li pose sotto la direzione della confraternita di Santa Maria delle Vergini37• Questa confraternita stava assumendo il ruolo di soluzione istituzio­ nale fiorentina per la cura delle vergini; nei decenni a seguire, infatti, col­ laborò alla fondazione di altre quattro case per ragazze abbandonate. Tra queste, la Casa della Pietà, terzo degli istituti fondati nella prima metà de­ gli anni Cinquanta del Cinquecento, alla cui creazione la confraternita collaborò, anche se non direttamente. La Casa della Pietà fece la sua com­ parsa in circostanze differenti, non direttamente riconducibili al grande piano organizzativo messo in piedi da Cosimo I per la creazione di un

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sistema statale di assistenza ai poveri. Eppure prese vita all'interno dello stesso contesto culturale, animato dal consueto, premuroso trasporto che solitamente i fiorentini in questi anni riservavano a tutte le ragazze or­ fane e abbandonate. Possiamo ora tornare alle Croniche delle Suore della Pieta per risalire alla storia dell' istituto o, almeno, a una versione di essa. Due sacerdoti forestieri, uno di Milano, uno di Pistoia, furono sopraffatti da ciò che videro quando giunsero in una città che consideravano la culla di ogni erudizione. Come poteva un luogo tanto raffi nato essere al con­ tempo così insensibile di fronte al quotidiano spettacolo di tante ragazze abbandonate e costrette a prostituirsi ? Isolatisi in preghiera, don Anto­ nio Cattani, milanese, e padre Girolamo da Pistoia ebbero entrambi, ma separatamente, la stessa visione: la vergine Maria che dolcemente cullava suo figlio morto, dopo la crocifissione. Per entrambi si trattò di un segno attraverso cui li si invitava ad aprire un rifugio sicuro che portasse quel nome, la Pietà. I sacerdoti si rivolsero allora alla magistratura del Bigallo e ottennero l 'uso di un vecchio ospedale, a ovest del quartiere di Santa Maria Novella, a un isolato di distanza dal fiume Arno, sulla via principale di Borgo Ognissanti. Di lì a poco sessanta ragazze affollarono le stanze della Casa. Don Antonio faceva già parte della confraternita di Santa Ma­ ria delle Vergini e reclutò Andrea Biliotti, uno dei suoi confratelli, come contabile e scrivano. Biliotti e padre Girolamo ingaggiarono a loro volta altri sacerdoti che li aiutassero nella formazione spirituale delle fanciulle, mentre, per reperire i fondi necessari al funzionamento di questo nuovo ricovero, cominciarono a formare un apposito gruppo di donne38•

In cerca di una casa

Borgo Ognissanti era un povero quartiere manifatturiero. Era uno dei sobborghi più difficili di Firenze, patria di molti dei responsabili degli stupri, delle aggressioni e delle truffe incontrati in precedenza. Alla sua estremità meridionale, una distesa di lanifici lungo le rive dell'Arno dava lavoro e miseri salari a lavandaie, follatori e tintori che, lavorando, tra­ sformavano il fiume in un grande arcobaleno. A nord, invece, si trovava uno dei più noti quartieri a luci rosse della città - proprio a pochi isolati dal bordello di Mercato Vecchio - con la concentrazione di prostitute più alta di qualsiasi altro rione cittadino. Le strade brulicavano di brac­ cianti sottoccupati, schiere di giovani garzoni e di manovali, dozzine di

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agghindate prostitute. Le carrette sferragliavano tra i banchi da lavoro messi in piedi sul fare del giorno e, sopra ogni cosa, il fragore di una moltitudine di voci: gli ordini dei padroni, i canti o le imprecazioni dei lavoratori, le strilla dei facchini intenti a trasportare mercanzie, lo stre­ pito dei bambini mentre sciamavano fuori dalle loro case affollate per giocare in strada. Con regolare cadenza, poi, i rintocchi delle campane delle chiese e del monastero di Ognissanti, fondato dagli umiliati, frati benedettini che giunsero in questo quartiere nel 1256 e vi aprirono la pri­ ma bottega di lane. Gli umiliati si fecero sostenitori di politiche radicali, promuovendo attivamente, di pari passo con la loro attività manifattu­ riera, anche le tradizioni repubblicane della città di Firenze nello stesso momento in cui Cosimo I cercava, con altrettanto vigore, di distruggere le residue aspirazioni autonomistiche del Rinascimento e d'instaurare l'era del suo governo principesco. Gli bastarono pochi anni per liberarsi degli umiliati e per far insediare nel loro monastero una più arrende­ vole compagine di francescani. In breve, si può concludere che non ci fu corrente di pensiero dinamica e vivace, in termini di concezione del lavoro, gestione del denaro, comportamenti sessuali o opinioni religiose, che non attraversò Borgo Ognissanti. E, come un'isola a galla su queste acque agitate, stava una casa per adolescenti cui la famiglia aveva, alme­ no per il momento, tagliato gli ormeggi e che per questo rischiavano di perdersi alla deriva. Ben poche di queste chiassose attività si possono immaginare dalla let­ tura delle Croniche delle Suore della Pietà, che procedono speditamente oltre gli anni della fondazione, per condurre il lettore dritto dritto all'in­ terno dell'eterno progetto di Dio, fare della Casa un convento. Lo sfor­ zo di rallentare la narrazione guardando ad altre fonti documentarie fa emergere una delle prime, misteriose omissioni che riguardano la Casa della Pietà, nonostante si tratti di un caso in cui le Croniche si dimostrano nel loro complesso esatte e i segreti vadano ricercati altrove. li censimento fiorentino del 1562 conferma che in città esisteva un ricovero con cento­ sessanta adolescenti e donne, nel quartiere di Borgo Ognissanti, ma non fornisce indicazioni sulla sua esatta ubicazione. Le Croniche lo collocano più precisamente all'interno dell'Ospedale di Santa Maria dell' Umiltà, all'angolo tra via Borgo Ognissanti e via Nuova, sostenendo che fu preso in affitto dalla magistratura del Bigallo dietro il pagamento della consi­ stente somma di ottanta scudi annui. Ma l'Ospedale dell' Umiltà, proba­ bilmente così denominato in ricordo dei fratelli umiliati del monastero di

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Matteo Fiorini, Firenze nel xvi secolo, 16oo. Attilio Mori, Giuseppe Boffito, Firenze nelle vedute e piante. Studio storico topografico cartografico, Tipografia Giuncina, Firenze 1926. Il cerchio in basso indica la sede della Casa della Pietà negli anni 1554-68, quello in alto, la sua successiva collocazione.

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S anta Maria dell' Umiltà nel XVI secolo. Archivio di Stato di Firenze, Fondo Manoscritti, 603, inserto 28.

Ognissanti collocato a meno di un isolato verso ovest, era molto piccolo. Uno schizzo del XVI secolo mostra una modesta struttura con un piano appena, e una mansarda>9. Nel disegno si apre, invitante, una porta, forse alla volta del pellegrino che cammina sulla scena in primo piano. n viandante sarebbe entrato nel grande atrio rettangolare dove di solito gli ospedali rinascimentali alli­ neavano i loro letti, lungo le pareti esterne. In base ad alcune descrizioni del tempo, sembra che l' Ospedale dell' Umiltà offrisse soltanto diciotto posti letto, che difficilmente sarebbero bastati per centosessanta ragazze, anche se avessero dormito tre o quattro per letto come faceva la maggior parte degli ospiti degli ospedali del tempo. I letti stipati all'interno del­ la mansarda, sopra l'atrio principale e dentro un attiguo secondo salone avranno alleggerito la pressione, ma in modo non significativo ; non deve, quindi, sorprendere che le Croniche sostengano che furono questi am­ bienti tanto ristretti a costringere la Pietà a trasferirsi definitivamente dal quartiere40• n vecchio Ospedale di Santa Maria dell'Umiltà si trovava a quell' ango­ lo di strada da oltre centocinquant 'anni. Venne fondato nel 1 3 8 2. da Simo­ ne di Piero Vespucci, nota famiglia di banchieri e mercanti, soprattutto di

L'AMBIENTE. IL SESSO IN CITTÀ tessuti, che da secoli viveva su quella via. Era la stessa famiglia il cui figlio Amerigo ( I4SI-ISI2.) condusse alcuni dei primi viaggi attraverso l 'Atlan­ tico e divenne tanto abile nell'arte della navigazione, della cartografia e in quella, altrettanto importante, di saper promuovere sé stesso e i suoi successi che, nel 1507, un cartografo tedesco associò il suo nome a quello che la gente cominciava a identificare come un nuovo continente. li nome rimase, esattamente come quello dei Vespucci restò attaccato a ogni an­ golo di Borgo Ognissanti. All' interno della chiesa di questo quartiere, i Vespucci avevano commissionato al più importante artista di Firenze, Do­ menico Ghirlandaio, un affresco della Pietà sopra il loro altare, appena dopo l'ingresso principale (1472.-73). Sopra di esso Ghirlandaio dipinse una Madonna della Misericordia sotto il cui largo mantello trovavano ri­ paro i componenti della famiglia Vespucci e, sotto questo affresco, fu col­ locato il sepolcro di famiglia. Una settimana prima di morire, nel luglio 1400, Simone Vespucci trasferì la proprietà dell' Umiltà alla confraternita di Santa Maria del Bigallo, facendo promettere ai fratelli laici che né frati, né sacerdoti secolari ne avrebbero mai preso il controllo e che i membri della famiglia Vespucci sarebbero stati tra i favoriti nella scelta dei suoi amministratori. Come molti mercanti del tempo, Simone Vespucci diffi­ dava fortemente di un clero ritenuto avido e intrigante. Non che lui fosse estraneo al desiderio delle ricchezze e ai maneggi fatti per attenerle; anche la sua ultima mossa era stata dettata dall'astuta intenzione di assicurare ai Vespucci il controllo e l'utilizzo dei benefici dell'ospedale, senza di fatto dover fare fronte alla sua spesa corrente. Alcune testimonianze di prima mano lasciano intravedere quanto, a partire dalla metà del Cinquecento, i Vespucci avessero lasciato che l'ospedale finisse in malora. Nel 154 3 i magi­ strati del Bigallo avevano mandato sul posto il loro cancelliere, impegnato in un sopralluogo di tutti gli ospedali fiorentini, e le sue annotazioni suo­ nano come la trascrizione di una conversazione avuta sulla soglia dell'o­ spedale con il guardiano che vi risiedeva, Domenico di Martino, anche lui iscritto all'Arte della seta di Firenze. Domenico di Martino, donzello della arte di Porta Santa Maria della città di Fi­ renze, entrò nello anno 152.9 in circa a governo dello Speciale della Humiltà di Borgo Ogni Santi et prima ti fu dato ad vita dello speciale dalla casa de' Vespuc­ ci et dipoi dalli Capitanij dello Bigallo et dal signore Lorenzo et Giuliano et in decto tempo vi entrò a governo, dixe havervj trovato letta 12. e 13 paia di lenzuola che erano istate 18 mesi in circa che mai si erano imbiancate. E al presente che

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vi si trova letta 18 fra donne e huomini et di più 36 paia di lenzuola. Et così dice volerlo mantenere mentre viverà et quando sono rotte o isdruccite le racconcia lui proprio o la sua donna con licentia [... ] di Giovanni prete dello Bigallo e detto Giovanni ne tiene conto, perché detto Domenico non sa né leggere, né scrivere e per la sua fatica gli danno l'anno so lire con questi in carri chi, cioè che detto Do­ menico tenga bianchi decti lettj, per di più comperi ogni anno una catasta di legne et la cenere che bisogna non manchassj, per di più ogni volta che fa buccato tiene una donna a sua spesa [ ...] et di più a far dire ogni anno 3 messe [... ] , per la festa della Circoncisione che la faccia dire sempre, et dipoi in detto luogo spedalingo ha trovato per legge che detto spedale debba avere ogni anno uno barile di olio che mai ha avuto sendo di due anni in qua che lo harete a fiaschi, U quale olio serve a far lume allj huomini et donne. Altro non ha da dire se non che è poverissimo et trovassj al presente figli octo41•

Pochi letti e 18 mesi senza biancheria pulita: un ospedale del Rinascimen­ to era spesso il luogo dove finivi per ammalarti davvero. In verità, Dome­ nico era arrivato a Santa Maria dell' Umiltà nel bel mezzo del devastante assedio che, nel 1530, infranse definitivamente l'ultimo sogno repubblica­ no di Firenze. Considerato il caos di quei giorni, egli potrebbe aver fatto il suo ingresso nell'edificio come occupatore abusivo, come domestico o in qualità di supervisore. Con il tempo, potrebbe anche essersi trasforma­ to in quel coscienzioso guardiano di cui, parlando con il cancelliere del Bigallo, offre il ritratto. Eppure un giorno Domenico e i suoi otto figli furono costretti a lasciare l'ospedale per fare spazio a un membro della famiglia Vespucci, Luigi di Giovanbattista. Spesso le famiglie benefattri­ ci mantenevano la possibilità di influire sulle nomine all'interno degli istituti caritativi, utilizzando questo potere per provvedere casa e sosten­ tamento ai più inetti della famiglia. Sembra che questo fosse proprio il caso di Luigi Vespucci. I magistrati del Bigallo certamente fiutarono il disastro giacché nel 1570 accusarono Luigi di non essere in grado di man­ tenere l'edificio, né di garantire l'ospitalità che gli era stata richiesta: lo volevano fuori. Vespucci rispose con una controffensiva ben orchestrata, offrendo un elenco lungo tre pagine in cui dettagliatamente rivendicava tutto ciò che aveva acquistato dal 1565 al 156 9 per mantenere e migliorare l' Ospedale di Santa Maria dell' Umiltà: trecento mattoni, dodici staia di calcina, due sbarre di ferro per le finestre e così via. Aveva speso in manu­ tenzione quasi cento scudi, quindi il doppio di quanto gli era richiesto in base agli accordi presi con il Bigallo. Luigi Vespucci aggiunse anche le testimonianze di sedici vicini, a partire da una coppia di frati francesca-

L'AMBIENTE. IL SESSO IN CITTÀ ni di Ognissanti, fino al medico della zona Elio D'Alessandro Celli (che aveva vissuto su quella strada per diciotto anni, passando ogni giorno da­ vanti all'ospedale), per arrivare a Santi Francesco Bastiero, governatore di una vicina confraternita che aveva affittato alcune stanze nell' Ospedale dell'Umiltà a partire dal settembre 1568. Tutti i testimoni sostennero in termini piuttosto vaghi che Luigi era solito offrire un'eccellente ospitalità e che per di più non si era arricchito affittando le stanze dell'ospedale a nessuno che non fosse un povero bisognoso42• È tutto molto convincente, ma manca qualcosa. Nessuno di questi testimoni fa menzione delle ragazze della Pietà. Luigi Vespucci non dice nulla sul fatto che avrebbe garantito riparo a 160 giovani - un fatto sem­ plice che, comunque lo si voglia interpretare, avrebbe inibito sul nascere le indagini dei magistrati del Bi gallo. Quello che più si avvicina a ciò che cer­ chiamo viene dalla testimonianza di alcuni che, abitando nelle immediate vicinanze, avevano notato che Luigi aveva sempre ospitato "povere donne" neU' edificio, anche se le ragazze della Pietà risultano più giovani rispetto alle donne qui indicate. Se si prova a mettere ordine in questo disordine, si rischia soltanto di accrescere il mistero. Le Croniche delle Suore della Pieta individuano nel Bigallo il locatore della casa e sostengono ne ricavasse 8 o scudi di canone annuo. Eppure un esame dei libri mastri del Bigallo per il periodo in questione non rileva alcuna entrata proveniente da locazione. Anche dalla lettura dei registri contabili della Pietà non salta fuori un solo versamento di quote d'affi tto e, se è per questo, nemmeno una qualche prova che la Pietà fosse locataria dell'Ospedale di Santa Maria dell' Umil­ tà. I registri della Pietà riportano effettivamente dei pagamenti effettuati per alcuni dei lavori di ristrutturazione che Luigi Vespucci sosteneva di aver avviato - una finestra qui, una porta là - ma stranamente nessuno precisa dove tutte queste cose furono fatte. Un fascicolo sembra andarci vicino - il suo frontespizio recita « Libro mastro delle ragazze della Pietà, alloggiate in. . . ». Tre puntini e uno spazio, vuoto. Come si fa a nascondere centosessanta ragazze e, insieme, ottanta scudi all'anno ? E, più precisa­ mente, dove? E perché? n riserbo delle fonti diventa più sconcertante soltanto quando si dà un'occhiata alle cronache coeve, che non riportano assolutamente nulla circa l'apertura di un nuovo e ampio rifugio per ragazze in Borgo Ognis­ santi; allo stesso modo, le narrazioni più tarde, come quella di Giuseppe Richa, erudito del XVIII secolo autore di un'opera in otto tomi, il quale, pur fornendo notizie dettagliate di ogni chiesa e ospedale della città, non

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fa cenno alla Casa della Pietà. Luigi Passerini, uno storico dell'Ottocento, precursore dei tempi, che andava setacciando gli archivi cittadini al fine di realizzare la prima ricerca attendibile su tutti gli ospedali e le scuole di Firenze, si sofferma su Santa Maria dell' Umiltà e cita persino Domenico di Martino, ma non dice una parola sul ricovero per ragazze abbandona­ te chiamato la Pietà. Le storie successive dell'ospedale, incluso un recente studio critico di uno storico professionista il cui lavoro è saldamente fon­ dato su fonti d'archivio, continuano a tacere sull'esistenza di un istituto chiamato Casa della Pietà43. In casi come questi, dominati dal dubbio, bisogna seguire la pista dei soldi. Firenze ha conservato un'eccellente documentazione fiscale, ma, in quanto istituzioni caritative, il Bigallo, Santa Maria dell' Umiltà e la Casa della Pietà godevano di una totale esenzione e, infatti, non compaiono nei voluminosi, pesanti faldoni della Decima Granducale, la magistratura preposta da Cosimo I alla riscossione delle tasse. Tuttavia, questi registri fiscali venivano periodicamente aggiornati con un censimento. Mentre la copia ufficiale del censimento del 1562. è di un' imprecisione esasperante, gli studi che ne introducono la lettura, ancora in corso, sono incredibil­ mente puntuali. E lì la Casa della Pietà c'è. L'inventario della Decima Granducale segnala cinque manoscritti a partire dal 1561, sotto il titolo di Ricerche delle Case di Firenze, un'i ndagine voluta da Cosimo I per de­ terminare il valore imponibile di ogni proprietà collocata in città, indi­ pendentemente dal fatto che le tasse fossero poi effettivamente versate. A ogni quartiere della città viene riservato un volume, più uno che sepa­ ratamente elenca tutte le botteghe cittadine. li tomo riguardante Santa Maria Novella ci dà finalmente le risposte che cercavamo. Quest'inda­ gine voluta dal duca setaccia in lungo e in largo ogni strada, catalogando gli immobili in base a una dicitura standard: numero civico, proprietario, inquilino, canone d'affitto e numero dei residenti (nell'elenco, le " boc­ che"). Le voci di quest'elenco stereotipato indicano accuratamente ogni immobile in relazione a quelli che con esso confinavano e che, nel censi­ mento, lo precedevano o succedevano, in modo che nulla sfuggisse alla registrazione. 68o: Giovanbattista di Domenico Sermani, contigua a la sopra detta et a una casa del Bigallo. Habita lui. Stima 20 scudi. s bocche. 6 8 1 : Casa del Bigallo contigua a la sopra detta et a' Bartolomeo di Doffo Bartoli et a' Bartolomeo di Mariotto Bartoli. Habitano l'Abbandonate. Stima 10 scudi. Bocche appariscono sotto.

L'AMBIENTE. IL SESSO IN CITTÀ 6 82.: Bartolomeo di Doffo Bartoli, Bartolomeo di Matteo Bartoli et Simone di Luigi de Bartoli (come sta la divisione), contigua a la strada uscendo di via Nuova in Borgo Ognissanti, habitano i detti Bartolomei, et la metà, che è di Simone, l'Abbandonate. Stima 35 scudi. Bocche in casa di detti Bartolomei S· Speciale delle Abbandonate in Borgo Ognissanti, bocche r 6o. 683: Francesco da Santa Croce, contigua a' la sopra detta et a' Raffaello di Saluzzo Guiducci. Habitano le dette Abbandonate per pigione di 30 scudi. Stima scudi 30. Bocche dette (sopra)44•

A dire il vero, non viene fatto cenno alla Casa della Pietà in quanto tale, ma è soltanto qui che si menzionano il Bigallo e le «Ragazze Abbandona� te» , proprio in Borgo Ognissanti, tra via Nuova e via Fosse. Nessun altro documento fa altrettanto, tantomeno riporta insieme il nome di questi istituti, e l'angolo di strada cui fa riferimento è precisamente la sede storica di Santa Maria dell' Umiltà. L'ammontare dell'affitto è abbastanza vicino alla cifra arrotondata citata nelle Croniche delle Suore della Pieta. Alcuni Vespucci fanno la loro comparsa in questo censimento: un maschio della famiglia affitta il numero 614, lungo la strada, mentre una vedova è a capo di un nucleo familiare di quattro persone, pochi portoni più sotto, al nu� mero 622. Questa donna con la sua famiglia è l'unica Vespucci a risiedere davvero, a questa data, in Borgo Ognissanti+5• Seguire le tracce dei rileva� tori del censimento su e giù per le strade del quartiere non ci aiuta a sco� vare alcun riferimento né a Santa Maria dell' Umiltà, né a Luigi Vespucci, presumibilmente lo spedalingo lì residente. Dal momento che si tratta di un censimento e non di una documentazione fiscale, dovrebbero esserci. Senza dubbio, molte altre case e ospedali della zona in mano a istituzioni religiose o usate per scopi caritativi figurano nella lista, nonostante siano assenti dal ruolo delle imposte. Tutte queste proprietà "religiose" esentasse appaiono segnate nella ricerca cosimiana con una croce a lato, incluse le «Ragazze Abbandonate» del numero civico 682. La ricerca era parte di un'operazione burocratica estesa a tutta la città e finalizzata alla riscossione delle imposte. Senza presumere l'obiettività di tutta la documentazione di stato, possiamo, però, supporre che sia più attendibile della testimonianza orale che un facoltoso uomo, di una po� teme famiglia, ottenne dai suoi vicini mentre stava cercando di difendersi da un'accusa di truffa, e anche più attendibile di una cronaca scritta molti decenni dopo. Ma se il censimento, la ricerca, alla fine conferma l'ubica� zio ne della prima sede della Casa della Pietà indicata dalle Croniche delle Suore della Pieta, ogni sforzo poi compiuto per verificare questo fatto re�

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lativamente banale si scontra con un silenzio delle fonti che solleva una moltitudine di nuove e inaspettate domande: perché gli altri docwnenti non riportano assolutamente nulla o addirittura sembrano contraddire l'esistenza della Casa? Che cosa aveva in mente Luigi Vespucci e perché i sedici testimoni in suo favore furono tanto restii a dire tutta la verità? Che cosa poteva averli indotti a nascondere l'esistenza di un rifugio per alcune delle ragazze più indifese di Firenze ? E che dire sull' "insignificante detta­ glio" su cui divergono il censimento e le Croniche, quello del nwnero delle giovani che vivevano nel ricovero ? Perché il censimento fa riferimento alle « Ragazze Abbandonate» , ma non utilizza il termine "La Pietà''? Perché mai i libri mastri del Bigallo e della Pietà non hanno note con i versamenti d'affi tto ? Le Croniche affermano che nella Casa vivevano sessanta ragazze e che erano diciotto i posti letto messi a regime dalla Pietà. Tuttavia il censi­ mento per poco non triplica questo nwnero. Qual è la cifra esatta? Certo, tale differenza poteva essere originata da un banale errore commesso dalla badessa Maria Teresa Petrucci nel momento in cui copiava cronache che risalivano al XVI secolo. Potendo rinvenire il nwnero delle ragazze ospitate nella Casa, potremmo avere un'idea di chi e, probabilmente, anche del perché vi entrasse. Tutti questi istituti avrebbero dovuto tenere dei registri d'entrata, ma non tutti lo facevano davvero, e ciò che resta negli archivi non è sempre del tutto esaustivo. Santa Maria delle Vergini possiede gli elenchi solo per pochi anni, dal 1552. al 1556, ma questi ci permettono di sa­ pere che furono ottantotto le ragazze che entrarono durante quei quattro anni - cioè meno della metà di quelle che la Pietà avrebbe registrato solo nel suo primo anno di vita. Nel privilegiato istituto delle Vergini convive­ vano soltanto 18 giovani alla volta. Il registro di San Niccolò prende l'av­ vio soltanto alcuni anni dopo, nel 1570, ma copre un lungo periodo, fino al 1621; a questa data, in questo ricovero nella zona orientale della città, vivevano dalle cinquanta alle sessanta ragazze46• Nonostante fosse ben più misera di entrambi, la Casa della Pietà con­ servò registrazioni più accurate delle ragazze che arrivavano alle sue porte. I suoi archivi custodiscono due registri manoscritti, uno per gli anni 1554-59, l'altro per gli anni 1558-2.347. Questi i volumi da cui ricavare brandelli d'in­ formazioni su ragazze come Margherita, Maria e Maddalena, incontrate nel precedente capitolo. Ogni fascicolo contiene approssimativamente un centinaio di pagine in folio. Il primo ha per titolo Libro Segreto e una grande «A» sulla sua copertina di cuoio. La seconda raccolta, segnata da

L'AMBIENTE. IL SESSO IN CITTÀ un'altrettanto grande lettera «B», è più semplicemente intitolata Libro dellefanciulle della pieta. In questi due registri, gli scrivani della Pietà An­ drea Biliotti, Pier Giorgio Ughi e Giovanni Bencini scrissero il nomina­ tivo di ogni fanciulla che faceva il suo ingresso nella Casa, seguendo una serie di indicazioni: un numero, una data, il nome della ragazza assieme a quello del padre o della madre, l'età e la dicitura «Accolta nella Casa dalle Priore e donne della nostra Compagnia della Pietà» . Biliotti, Ughi e Ben­ cini intervallavano le voci con spazi vuoti in fondo alla pagina, in modo da poter introdurre eventuali aggiornamenti : quando una giovane veniva destinata all'esterno, al servizio domestico, quando veniva restituita alla sua famiglia e quando moriva. È abbastanza facile ricavarne una statistica generale. n Libro Segreto elenca 361 ragazze entrate dal 1554 al 155 9· n secondo registro si apre dap­ prima ricapitolando le voci di quelle 1 7 1 fanciulle che vivevano nella Casa nel dicembre 1559, e poi prosegue raccogliendo altri 7 1 9 nomi fino al 1623. Quindi, furono circa un migliaio le ragazze che, nell'arco di questi decen­ ni, passarono per la Pietà. n secondo volume fa poi riferimento a un terzo chiamato Libro Nuovo e andato perduto. Le due raccolte manoscritte so­ pravvissute fino a noi sono assai sottili, le loro voci telegrafiche, ma, se con­ siderate nel loro insieme, costituiscono il primo e più efficace strumento finora rinvenuto per penetrare nella vita della Casa della Pietà e delle sue ragazze, mettendo in ordine alcuni frammenti di questo difficile mosaico. n quadro che emerge dalla lettura delle loro pagine è piuttosto allar­ mante, soprattutto se confrontato con i dati delle case di Santa Maria del­ le Vergini e San Niccolò. All'interno del vecchio Ospedale dell'Umiltà e delle due case che la Pietà aveva affi ttato ai lati di quello, erano ammassate spesso più di centosessanta ragazze. Concentrandosi soltanto sulle giovani elencate nel Libro Segreto, si scopre che l'età media di una fanciulla am­ messa alla Pietà superava di poco i u anni, anche se se ne trovano tre più piccole e una che fece il suo ingresso all'età di 30 anni. Molte provenivano da famiglie ben poco radicate a Firenze: le giovani non sposate venivano identificate in relazione a un genitore, e quel genitore in rapporto a un me­ stiere o a un luogo. Quindi, Margherita di Giovanni tessitore o Alessan­ dra di Marco da Pontassieve. In quest'ultimo caso, Marco avrebbe potuto far parte di quella marea di lavoratori che ogni anno emigravano in città, come anche avrebbe potuto vivere lì da anni. Certo, il fatto che, fino al momento della morte, fosse ricordato in base al suo paese d'origine, rivela quanto i suoi nuovi vicini non lo avessero mai del tutto accettato come

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loro conterraneo. Poco più del 6o% delle ragazze della Pietà proveniva da famiglie simili a questa48• La maggior parte di queste adolescenti alloggiò alla Pietà appena più di quattro anni, sebbene anche qui la media statistica nasconda uno spettro molto più ampio di possibilità, che va da due sole settimane a s8 anni. L'età media a cui lasciavano la Casa si avvicina ai 17 anni e, a dispetto delle grandi oscillazioni registrate (si va dai 3 ai 69 anni), la media si assesta sui 16 anni. Soltanto una piccola manciata di ragazze uscì dalla Pietà sotto� braccio a un marito. Piuttosto tornavano alle loro famiglie - circa la metà alle madri, che magari erano riuscite a rimettersi in piedi convincendo un nuovo marito ad accollarsi la figlia una volta abbandonata, oppure che erano rimaste vedove una seconda volta. Semplicemente, non possiamo saperlo. Soltanto cinque furono restituite ai rispettivi padri, le restanti a zie, zii, nonni o perfino a sorelle o fratelli. Alla fine molte di loro riusciva� no a sposarsi. Quasi settanta ragazze furono ammesse in abitazioni private in qualità di domestiche. I soldi guadagnati potevano trasformarsi in una dote che il loro padrone avrebbe poi affidato al marito che aveva scelto per loro. Soltanto una entrò in convento. In sette decisero di decidere da sole del proprio destino, semplicemente fuggendo dall'affollato stabile ali' an� golo tra via Nuova e Borgo Ognissanti. Ma tutte queste adolescenti mes� se insieme non arrivano a formare nemmeno la metà di quelle che erano entrate nella Casa. La maggior parte di loro, quasi il 6o%, semplicemente non ne uscì viva. Una maggioranza che non ebbe modo di vivere a lungo tra le mura della Pietà: delle ragazze annotate nel Libro Segreto, quaranta� cinque morirono nei sei mesi successivi al loro arrivo, sessantasette dopo un anno, centodieci in due anni e centoventisette in tre49• Potrebbe trattarsi soltanto dei primi, difficili anni di vita della Casa della Pietà? In effetti, scorrendo in avanti le carte del secondo fascicolo, diviene evidente come le cose all'inizio andassero molto peggio. La Pietà rimase in Borgo Ognissanti per altri otto anni e, in quel lasso di tempo, furono ammesse altre 165 adolescenti. L'età media d'accesso alla Casa di questo secondo gruppo di ragazze scende di un'unità, a 11 anni. Anche il numero di coloro che divennero domestiche, che si sposarono o che ritor� naro no alle loro famiglie d'origine diminuisce. L'unico dato a crescere è la percentuale dei decessi, quasi il 70%. Alla Pietà bastò svoltare l'angolo per trasferirsi finalmente fuori da Borgo Ognissanti, sul finire del 1568. Delle cinquecentovemisei ragazze che vi abitarono nei quattordici anni in cui la Casa restò in quel quartiere, solo duecentodue ne sarebbero uscite viveso.

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Le domande si accumulano. Anche le adolescenti di Santa Maria delle Vergini e San Niccolò erano così indifese ? I documenti che le riguardano sembrano suggerire il contrario : le ragazze erano un po' più grandi al mo­ mento del loro ingresso e furono molte di meno quelle che vi morirono: poco più dell' 11% per il primo istituto, e poco meno del 20% per il se­ condo5'. Oppure l'intera vicenda si colloca sullo sfondo di un momento storico caratterizzato da particolari problemi sanitari ? I primi anni Cin­ quanta del Cinquecento erano stati anni piuttosto difficili, con carestie quasi ininterrotte, e le cose andarono peggiorando nel momento in cui il duca Cosimo I destinò ingenti risorse economiche a una dispendiosa guerra contro Siena, dal 1554 al 1559. Eppure negli anni Sessanta, relati­ vamente tranquilli, di ragazze ne morirono persino di più. Forse non è il periodo, ma il luogo a essere insalubre ? Terre basse e soggette ad alluvioni, come quella devastante del 13 settembre 1557 (la peggiore a Firenze prima di quella catastrofica del 4 novembre 19 66), terre ad alta densità abitativa e, in effetti, il misero quartiere di Borgo Ognissanti non era esattamente il più salubre tra quelli della Firenze rinascimentale. Tutti coloro che vissero lì ebbero a che fare con la malaria, o peggio. Essendo un borgo manifat­ turiero, in tempi di crisi era invaso da un numero crescente di persone a caccia di un impiego. Tuttavia, i tassi di mortalità, che avevano registrato una forte impennata negli anni Cinquanta del Cinquecento, scesero ai li­ velli consueti a partire dagli anni Sessanta dello stesso secolo. Dal ISSS in poi, la Casa della Pietà s'ingrandì occupando più immobili, inclusa l'unica casa del quartiere dotata di un giardino di proprietà, lasciata in eredità alle ragazze da uno dei vicini. Se né il contesto storico, né quello ambientale riescono a provvedere una spiegazione al fenomeno dell'eccessiva mortalità registrata all'interno della Casa della Pietà, allora dobbiamo guardare all'interno di quella Casa per verificare quali fossero le condizioni di vita e le attività quotidiane del­ le ragazze lì ospitate. E quando, dali'esame delle lettere, dei libri mastri e di tutti i documenti della Pietà, emergano nuovi elementi, abbiamo bisogno di tornare indietro a interrogare e valutare da capo ciò che già avevamo trovato nelle Croniche delle Suore della Pieta e nei suoi registri d'ingresso. Dobbiamo riflettere ancora una volta sulla Pierina di Braccio, sulla Putta­ na numero 19 e sui rozzi personaggi che si fanno strada nelle commedie di Antonfrancesco Grazzini. Che cosa uccideva le ragazze della Pietà? Molte domande discendo­ no da questa e possono più o meno direttamente essere a essa collegate:

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perché chi compilò il primo registro delle entrate decise di etichettarlo come Libro Segreto? Perché a due anni di distanza dal loro trasferimento da Santa Maria dell' Umiltà, nessuno volle ammettere che avessero mai vis­ suto là - né il loro padrone di casa assediato dalle accuse dei magistrati, né il Bigallo che riscuoteva il loro affitto e nemmeno i vicini come il dottor Celli o i frati del monastero di Ognissanti ? Che cosa accadeva tra le mura della Casa della Pietà?

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Adolescenti del Rinascimento Ragazze al lavoro

Solo dirò in una parola del moro, perché farne menzione comporta di parlare del baco da seta, di cui non posso dimenticarmi, essendo un altro dei maggiori prodotti della Toscana. Questi bachi producono nei due mesi di maggio e giugno, mentre il resto dell'anno sono solo come semi tenuti al caldo in luogo riparato, dove non possano esser danneggiati dal freddo o dai tuoni, che li distruggerebbero. Quando ha for­ mato il bozzolo lo mettono in acqua calda per svolgerlo ; ma volendo conservare il baco lo svolgono senza immergere il bozzolo in acqua calda (che uccide il baco) e, dopo averlo avvolto su una canna, fanno stare il baco su un panno di lana, finché diventa farfalla e genera un'altra infinità di uova che, come si è detto, son tenute tutto l'anno in luogo riparato fino all' inizio di maggio, quando vengono esposte al sole a schiudersi; ma in mancanza di calore e per affrettare la crescita, le donne possono tenerli in seno. Appena diventano bachi gli danno foglie di moro, di cui soltanto si cibano [ ... ] . Di questa specie d'alberi il granduca ha fatto piantare una tale quantità lungo le rive dell'Arno e lungo i fossati delle città ed altri luoghi pub­ blici, che si stima entro pochi anni renderanno 3o.ooo ducati l'anno. E mentre finora i setaioli di Firenze di solito usavano comprare, oltre che nella loro città, anche da Napoli, dalla Lombardia e dalla Grecia una quantità di seta che arrivava a 300.000 ducati l'anno, ora si pensa cha fra breve ne avranno a sufficienza della propria [ ... ] ; si stima infatti che ogni anno vengano fabbricate a Firenze stoffe di raso per il valore di 2. milioni di ducati, e di seta e di tessuti d'oro e d'argento fino al valore di 3 milioni. [ ... ] Hanno ragione quelli di Firenze ad aumentare questa produzione con ogni possibile mezzo, che senza di questa non vedo come potreb­ bero procurarsi le necessarie importazioni dagli altri paesi senza esaurire le loro risorse: grano dalla Sicilia, cuoio dalla Barberia, zinco, piombo, aringhe, caviale e altre provviste del genere dall' Inghilterra [ ... ] , non avendo il loro stato merci d 'avanzo - eccetto un po' d'allume - da bilanciare queste forti spese. Perciò s' in­ gegnano con l'industriosa e complicata fabbricazione della seta, dei tessuti d'oro e d'argento, dei rasi'.

Che cosa facevano 160 ragazze stipate all'interno della Casa della Pietà? Lavoravano. Potevano variare alcuni dettagli circa la qualità, i modi e i

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tempi dell' impiego, ma mai il perché. Era il lavoro l'unica via per colma­ re il divario tra i denari che, grazie alle donazioni, stillavano lentamente all'interno della Casa e il fiume di quelli che esondavano fuori, per com­ prare cibo, medicine, scarpe e camicie o per pagare il fornaio, il dottore, il prete. A queste mansioni che servivano ad assicurare alle ragazze e alla loro Casa qualche lira o soldo in più, andavano aggiunte le quotidiane incom­ benze: rammendare i vestiti, preparare la zuppa, lavare i pavimenti. Dome­ nico di Martino, il primo custode di Santa Maria dell' Umiltà, poteva far lavare le sue lenzuola fuori, a una lavandaia: non così le giovani della Pietà. Nei tre edifici all'angolo tra Borgo Ognissanti e via Nuova non c'erano solo letti e tavoli. Disseminati nelle vicinanze o all'interno dei locali, sopra, nelle soffitte, o fuori, nei cortili, stavano rocchetti per dipanare bozzoli di seta, filatoi per trasformare in filo la lana grezza e telai per tessere alcuni di questi fili e farne dei tessuti. La Casa della Pietà era simile a una fab­ brica, con dozzine di ragazze intente a lavorare duro per produrre i filati e le stoffe che, secondo il viaggiatore inglese sir Robert Dallington, erano necessarie alla città di Firenze se voleva, proprio come la Pietà, mantenere in equilibrio il suo bilancio economico. I libri mastri degli anni Cinquanta e Sessanta della Pietà rivelano gli acquisti di macchinari, attrezzi e abiti da lavoro che venivano utilizzati per proteggersi durante le varie fasi della tessitura. Annotano anche il via vai di cottimisti come Francesco detto Naso, che lavorava per alcune botteghe di tessuti nei dintorni di Borgo Ognissanti e che affidava alle ragazze ogni genere di lavoro a cottimo: boz­ zoli di seta da sbrogliare, da avvolgere su rocchetti per farne matasse di filo e, infine, da lavare, o balle di fibre di lana cardata da filare e da passare poi ai tessitori. I mastri lanaioli di Borgo Ognissanti e i produttori di seta che avevano il loro quartier generale alcuni isolati a est, poco lontano da Ponte Vecchio, probabilmente salutarono come una manna dal cielo quest'arrivo nei paraggi di ben oltre un centinaio di giovani ragazze pronte a lavorare. Per loro, fu certamente più comodo far recapitare davanti alla porta del­ la Pietà il grosso del lavoro, tanta era la fame lì dentro che è probabile vi spuntassero anche prezzi più bassi. Che dire se tutto questo lo guardiamo dall' interno della Casa? La manifattura tessile poteva rivelarsi un'attività assai gravosa e malsana. È possibile che alla Pietà le ragazze morissero let­ teralmente consumate dal lavoro ? Quanto era importante il lavoro di fanciulle come Margherita, Maria e Maddalena per i bilanci della Pietà? Forse, se durante il giorno non ci fosse stato abbastanza lavoro, non ci sarebbe stato neppure cibo a sufficienza la

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sera, da servire su quelle stesse tavole ormai sgombrate da cumuli e cumuli di stoffe. Possiamo iniziare tentando di capire che cosa effettivamente fa­ cessero le ragazze e dove lo facessero, calcolando poi l'entità delle entrate così prodotte e mettendo questo reddito a confronto con l'insieme delle voci di spesa. La loro attività copriva i costi del cibo, dei vestiti, delle me­ dicine e di qualunque altra loro necessità? Questa ricerca parte dai registri delle entrate e delle uscite e solo quando li avremo esaminati con attenzio­ ne voce per voce, tenendo bene il conto dei numeri che vi sono riportati, otterremo un quadro più preciso delle condizioni di lavoro e della vita quotidiana delle adolescenti della Casa della Pietà. Allora, tenendo sem­ pre bene a mente il parere di Robert Dallington, scopriremo che le ragazze della Pietà non si davano da fare solo per la loro sopravvivenza, ma anche per quella della loro città.

Per le strade, nelle case

Margherita, Maria e Maddalena con ogni probabilità lavorarono fin dal primo giorno in cui misero piede alla Pietà. Passavano quasi tutto il tempo a cucinare, a fare il bucato, a pulire i pavimenti. Pochi istituti pagavano del personale esterno per svolgere quelle mansioni che le ragazze avrebbero potuto fare da sole e la Pietà non faceva eccezione. Anche in ospedali più grandi il confine tra pazienti e personale di servizio era piuttosto labile. Privi di qualsiasi sistema pensionistico, con pochi risparmi a disposizio­ ne e ancor meno istituti per anziani dove rifugiarsi, su modello di quello dell'Orbatello, le persone più avanti negli anni, ritrovandosi con possibili­ tà di scelta assai limitate, potevano decidere di devolvere ogni loro proprie­ tà a un ospedale, per poi andarvi a risiedere. Lavorando come infermieri, come addetti alle pulizie o come giardinieri, lentamente sarebbero passati da personale volontario a pazienti permanenti dell'ospedale non appena le loro condizioni di salute avessero iniziato a peggiorare. Fin qui nulla di eccezionale, se pensiamo che anche i guardiani degli ospedali come Do­ menico di Martino facevano la stessa cosa, trasferendosi con la famiglia al completo e trasformando l'ospedale in una sorta di azienda a conduzione familiare. Senza dubbio fu così anche alla Pietà, anche se inizialmente le uniche a trasferirvisi furono donne vedove. A salutare l' ingresso alla Pietà del primo gruppo di ragazze fu la pri­ ora Manna Margherita, vedova di Lionardo Boninsegni, nel bel mezzo

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dell' inverno 1554. Probabilmente stava in piedi, davanti alla porta, più per spirito di carità che per bisogno, dal momento che proveniva da una famiglia facoltosa e stava lì da pochi mesi. Nel momento in cui la Pietà aveva ormai cominciato a camminare sulle proprie gambe, arrivò a pren� dere il posto di Monna Margherita, in qualità di priora residente della Casa, Monna Alessandra, vedova di un falegname, Girolamo, da cui, a quanto risulta, non aveva avuto figli. In lei, carità e necessità personali divennero tutt 'uno. In apparenza combattiva e certamente devota alla causa della Pietà, si mantenne al suo posto per trent'anni consecutivi, finché morì, nel 1583. E anche dopo non lasciò del tutto la Casa, poiché le ragazze vollero seppellirla presso l'altare di una cappella che la Pietà conservava nel vicino monastero domenicano di San Marco. Era stata una presenza costante, ferma sul portone d'ingresso, su e giù per i corridoi, con un occhio sempre attento alla contabilità e alle ragazze, per assicurar� si che ogni cosa andasse per il verso giusto. Quando morì, le sue mansioni ricaddero su una donna che aveva trascorso alla Pietà tutta la sua vita. Bri­ gida Pesilli aveva quasi 6o anni ed era arrivata alla Pietà quando ne aveva 1 8, nel 15;6. Brigida restò priora per vene' anni, e la donna che prese il suo posto era entrata con lei nella Casa decenni prima. Caterina, figlia del falegname Piero, aveva fatto il suo ingresso alla Pietà solo sei mesi dopo Brigida: al tempo aveva appena 11 anni. Come Brigida, non se ne andò mai. TI falegname Piero doveva essere preoccupato per il buon nome di Caterina o forse non era in grado di fare i conti con ciò che gli si prospet� tava di lì in avanti, crescere una figlia adolescente mentre era impegnato in un lavoro che non gli permetteva di tenerla sempre d'occhio. Dato il totale isolamento di una vita interamente trascorsa all'interno delle mura di un conservatorio, Caterina imparò molto da Monna Alessandra e da Brigida; lo scrivano della Pietà, dopo la sua morte, così rifletteva: «Ca­ terina è stata priora di detto luogo, maestra delli telaj, e donna savissima, di buono abacho, a leggere e scrivere e di buonissimi consigli et utilissima per la nostra Casa» 1• Vale la pena sottolineare che, per i primi sessant'anni di vita della Casa della Pietà, dalla sua apertura, nel 1554, fino al 1613, anno della morte di Caterina, tutte le priore dell'istituto provennero da quel piccolo gruppo di donne che per prime vi entrarono, proprio in quegli anni in cui la Casa era a Borgo Ognissanti. Si trattò di una prassi diffusa: le ragazze passavano da fare il bucato a tenere i registri contabili - e, se necessario, li sottopo� nevano ad analoghi interventi di "pulizià' - secondo un paradigma che

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ormai da secoli caratterizzava l'operato di ogni istituzione assistenziale e di ogni convento e che sarebbe sopravvissuto anche in futuro. li modo più facile per tagliare i costi dei salariati era quello di insegnare alle ragazze a prenderne il posto. Eppure il ricovero di cui Caterina assunse la direzione nel 1601 era abbastanza diverso da quello in cui Manna Alessandra era approdata mezzo secolo prima. Le priore Manna Alessandra, Brigida e Caterina non si limitavano a supervisionare i registri; dovevano anche preoccuparsi che ci fosse sempre qualcosa da scriverei, in quei libri. Qui interviene l'altro aspetto della loro opera. Al pari di Brigida e Caterina, le ragazze della Pietà lavoravano per guadagnare soldi utili alla Casa e, dal momento in cui assumevano il ruolo di priore residenti, facevano tutto ciò che una giovane della Pietà si sarebbe aspettata di dover fare. Tutte le ragazze di Firenze erano preparate ali' idea di lavorare appena compiuti i 6, 7 anni, indipendentemente dal fatto che vivessero con i genitori, con altri parenti o in un istituto. Nell'impostazio� ne di una piccola famiglia, erano i padri, le madri, gli zii o altri congiunti a procacciare il lavoro alle ragazze e a supervisionarne l'esecuzione, e spesso si trattava di un'attività cruciale per la sopravvivenza dell' intero nucleo fa� miliare. Analoghe occupazioni retribuite erano persino più indispensabili alla vita di un grande istituto, ma le sue dimensioni, assai più importanti di quelle di una semplice casa privata, ingigantivano le difficoltà di trovare per la ragazze abbastanza da fare - e da guadagnare. E il problema si presentò subito: nel suo primo anno di vita, ci vollero poco più di 6.ooo lire per tenere in piedi l'istituto. Più tardi, la cifra toccò le 9.ooo lire annue, per arrivare, negli ultimi anni della presenza dell' isti� tuta a Borgo Ognissanti, a circa u.ooo lire. Nello stesso periodo a Firenze si potevano comprare quattro stai a di grano con circa 2 lire e mezzo, un ba� rile di vino per poco più di 3 lire e uno d'olio d'oliva a meno di I 6 lire. Un tessitore poteva dotarsi di un nuovo telaio con so�IOo lire e, con quello, cercare di guadagnarne 300 lavorando sodo. La maggior parte degli arti� giani portava a casa soltanto ISO, massimo 200 lire all'anno, e con questa somma dava vitto, alloggio e vestiva tutta la famiglia\ Dunque, i costi di gestione della Pietà ammontavano a cifre colossali per un istituto privo di sovvenzioni, di proprietà e senza alcun tipo d'investimento. I soldi ne� cessari a coprire spese tanto elevate arrivarono da varie fonti: i benefattori della confraternita che sosteneva la Casa, la Compagnia della Pietà, in un primo periodo coprirono circa un quarto dei costi con le loro offerte an� nuali. Ma le loro donazioni diminuirono di anno in anno, mentre le spese

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continuavano a salire vertiginosamente. Altri lasciti garantirono poco più della metà delle uscite: alcuni venivano da altri istituti, chiese, conventi e monasteri che erano ben contenti di non doversi più occupare in prima persona di ragazze come quelle della Pietà. Ponevano così rimedio al loro disimpegno elargendo finanziamenti regolari di poche centinaia di lire - a conti fatti, si trattava per loro di una concreta riduzione delle spese soste­ nute in passato. Tuttavia, la maggior parte dei soldi proveniva dalle cassette per la rac­ colta delle offerte appese alle porte delle chiese dove i fedeli, al termine della messa o dell'ufficio delle orazioni, lasciavano scivolare una monetina, oppure da quegli stessi contenitori portati in giro proprio dalle ragazze della Pietà, almeno tre volte a settima e per tutte le strade della città. Que­ sto era il genere di attività che quasi certamente la futura priora Caterina, figlia del falegname Piero, si era vista affidare quando entrò nella Casa, a soli 1 1 anni, un'occupazione utile sia a far conoscere sempre di più l'istitu­ to, sia a sostenerlo concretamente. Queste piccole bambine che spingeva­ no le cassette delle offerte davanti a mercanti, artigiani e uomini di chiesa erano uno strumento efficace per veicolare l'immagine che la Pietà voleva dare di sé: un rifugio che dava riparo a ragazze deboli e indifese e di cui tut­ ti i fiorentini erano in qualche modo responsabili. L'occhio vigile di una vedova, Monna Loretta, assunta dalla Pietà in qualità di chaperon di queste piccole "raccoglitrici di denaro': si assicurava che bambine come Caterina rimanessero al sicuro, sulla buona strada4• Ancora lontane dalla pubertà, erano per il momento prive di quelle forme fisiche che avrebbero potuto attrarre gli sguardi insistenti e gli apprezzamenti dei lavoratori a giornata, le occhiate maliziose dei padroni e il mormorio dei passanti. Erano anche meno inclini a darsela a gambe in cerca di libertà, scomparendo tra la folla con in mano la cassa dei denari. A volte le ragazze raccoglievano la piccola argenteria e le monete di rame che i fiorentini tenevano nelle loro borse per farne oggetti di scambio al mercato. Per le strade di Firenze viveva anche una società del baratto, priva di contanti, in cui la gente usava ancora barili d'olio, ceste di pane o staia di castagne per saldare debiti, pagare servizi e salari. La Pietà non faceva eccezione: a un certo punto pagò dodici grembiuli da lavoro con poche staia di crusca. ll cibo era la moneta corrente dei poveri e le ragazze se lo trascinavano dietro chiuso in sacchi di tela, fino al vecchio Ospeda­ le dell' Umiltà. Capitava che quantità più consistenti di cibo provenissero dalla tenuta di campagna di qualche aristocratico e, in questo caso, erano i

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suoi servitori a consegnarlo direttamente alla Pietà. Più spesso adolescen­ ti in tutto simili all'undicenne Caterina andavano per le strade portan­ do sacchi di tela di canapa e, alla chiusura dei mercati, raccoglievano gli avanzi di ciò che era rimasto invenduto: tozzi di pane, carne al limite della putrefazione, frutta e verdura che non si sarebbero conservate per il mer­ cato del giorno successivo e che il venditore poteva, quindi, permetter si di buttare via. Oppure queste ragazze andavano porta a porta, raccogliendo resti di cibo di cui le famiglie non avevano più bisogno o che i cuochi non potevano utilizzare. Tornate alla Pietà, avrebbero cotto tutto insieme in uno stufato non tanto diverso dall'attuale ribollita, una zuppa di pane raffermo, legumi e verdure che i fiorentini più parsimoniosi avevano da sempre preparato per non gettare via i cibi più vecchi e che, ai nostri gior­ ni, è ricomparsa nei menù dei ristoranti come piatto della più ricercata cucina toscana. Monna Alessandra e coloro che la aiutavano erano solite attribuire un valore in contanti a tutto il cibo donato, fresco o stantio che fosse: tutto doveva essere annotato nei libri mastri e, dunque, comparire tra le voci di bilancio. Una scelta in parte dovuta alla volontà di evitare che si facesse la cresta su alcune delle vettovaglie raccolte, tornando al mercato e rivendendole - il modo più facile, non certo l'unico, per alleggerire i registri riempiendosi le tasche. Di tutte le migliaia di lire che anno dopo anno furono necessarie al funzionamento della Pietà, il 9 0% serviva a coprire le spese per il cibo. Ma le staia di crusca, i barili di vino, le balle di verdure marcite e di pane sec­ co che benefattori piccoli e grandi procuravano rappresentavano soltanto poco più di un quinto delle entrate della Casa, tanto che Monna Alessan­ dra era sempre alla continua, affannosa ricerca di cibo e denari sufficienti a impedire che ragazzine come Margherita, Maria e Maddalena morissero di fame. A parte la cifra che la Compagnia della Pietà si impegnava di anno in anno a versare (in costante declino), le piccole e grandi elemosine in denaro assicuravano altri due quinti delle entrate. Ciò significa che, messe insieme tutte le donazioni di ogni genere e provenienza, alla Pietà restava­ no meno di tre quarti di quanto le era necessario per far fronte alle spese quotidiane. Per colmare questo buco di bilancio, un modo c'era: fare marcia indie­ tro e rispedire le ragazze fuori di casa. A volte istituti come quello della Pietà speravano di allentare i cordoni della borsa dei loro benefattori con la minaccia di sparpagliare di nuovo in strada tutte le loro giovani ospiti, ma erano vane intimidazioni : era più probabile che le ragazze morissero

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d'inedia dentro l'istituto, preservando intatta la loro virtù, piuttosto che fossero buttate per strada dove avrebbero avuto ben poche alternative alla prostituzione. Scopo primario della Casa della Pietà era quello di tenere a bada il richiamo della strada. Monna Alessandra aveva cercato di prov­ vedere alle ragazze un'alternativa, la stessa che singole famiglie, parenti e tutori avevano imparato da tempo a non lasciarsi sfuggire, quando aveva­ no dovuto affrontare il problema di ospitare una ragazza orfana o abban­ donata: mandare le ragazze nella case di artigiani, vedove e uomini delle professioni con un contratto di domestiche. Le ragazze trasferitesi fuori erano ancora considerate ospiti della Pietà, anche se vivevano sotto il tetto di un nuovo padrone. E, cosa ben più importante, alla tavola di quel nuovo signore mangiavano e a sue spese vestivano. Dare lavoro a giovani orfane era un gesto benefico e funzionale. Quasi una ragazza su sette di quelle che giunsero alla Pietà nei quindici anni in cui l'istituto rimase a Borgo Ognissanti a un certo punto se ne andò di nuovo fuori, come domestica5• Nella Casa della Pietà si scelse di non precipitare i tempi: dal giorno dell'apertura, passarono dieci mesi pri­ ma che una ragazza fosse destinata a servizi esterni ali' istituto. È possibile che non avessero avuto altra scelta, dato che in quel tempo angosciante di carestia e peste che fu l'anno 1555 non dovevano esserci stati molti fiorenti­ ni ansiosi di aggiungere un'altra bocca alla loro tavola. Agnioletta, 10 anni, fu la prima ad andarsene e puntò dritta, o quasi, alla volta dell'abitazione di Marietta Gondi, colei che era a capo della Compagnia che si occupava della gestione dell'istituto. Un mese dopo fu la volta di Margherita, una delle prime a entrare nella Casa, e ora, a 20 anni, la più grande a uscirné. Durante il 1556, i numeri lievitarono poco a poco: sempre più ragazze, gio­ vani e non, prendevano la strada del lavoro esterno alla Pietà. In qualche occasione la lettura dei libri mastri getta una luce sulle speranze che le ac­ compagnavano. C 'era qualcosa in più della preoccupazione di assicurarsi il pane. Domenica, figlia di Biagio di San Gimignano, era stata tra le pri­ me ad arrivare alla Pietà; dopo due anni, ormai tredicenne, sottoscrisse un contratto di nove anni come domestica nella casa di un artigiano. Daria, 14 anni, ottenne un contratto della durata di quattro anni, mentre Co­ stanza, diciassettenne, fu assunta per tredici anni. I contratti di Domenica e Daria erano destinati a concludersi con un matrimonio, con il padrone che provvedeva loro un tetto, qualcosa da mangiare e con cui vestirsi per tutta la durata del rapporto di lavoro, e poi una dote - e, magari, un mari­ to - come liquidazione allo scadere del contratto. Costanza era già in età

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da matrimonio e una collaborazione tanto lunga quanto la sua era qualco­ sa che sembrava avvicinarsi di più a un surrogato del matrimonio che a una fase preparatoria7• Ma che fossero di nove, quattro o tredici anni, questi contratti fini­ vano per essere tutti un po' teorici, dal momento che molte di queste ragazze ritornarono alla Pietà nel giro di pochi mesi o pochi anni. Erano state loro a dimettersi o le avevano licenziate ? I documenti non lo spe­ cificano, ma il modello della Pietà non sembra differire molto da quello sperimentato da tanti servi tori, in tutte le regioni d' Italia. Nelle comme­ die di Antonfrancesco Grazzini i servi sono scaltri, sicuri del fatto loro e quasi sempre molto più intelligenti dei loro padroni. Nella realtà, i nvece, conducevano una vita assai precaria che semplicemente li portava a non restare mai per lungo tempo con lo stesso padrone. Era abbastanza fre­ quente, in tutta Europa, che si fermassero un anno e poi passassero oltre. Ma poteva anche accadere che ricevessero il benservito prima, quando il loro padrone li sospettava di ruberie, oppure se si erano dimostrati svogliati o insolenti, o se episodi di natura sessuale avevano cominciato a complicare le relazioni con gli altri servitori o con i membri della fa­ miglia. Qualche volta erano loro stessi a fuggire, se donne, a causa di un padrone troppo esigente nei lavori domestici, troppo severo in tema di disciplina, troppo avaro con il cibo e con i vestiti o animato da un inte­ resse eccessivo, che si esprimeva in modi che certo queste ragazze non potevano gradire8• Quasi il 70% delle giovani della Pietà si servì del lavoro domestico come via per uscire dalla Casa, ma più di un terzo di loro vi fece ritorno, a volte nel giro di qualche settimana, altre volte rientrando e uscendo di nuovo, ripetutamente9. Ci fu qualcuno, infatti, che rimbalzò avanti e in­ dietro dall'istituto: Domenica, ad esempio, figlia di Michelino Metignoli del borgo di Ancisa, entrò nella Casa della Pietà a 15 anni e poche settima­ ne dopo vi uscì per andare a servizio da un sarto. Chiuse il suo contratto di otto anni per tornare alla Pietà quando di anni ne erano passati solo due. Allora ebbe inizio una sequela di rapporti di lavoro: con il calzettaio Domenico Ubaldini, che la rimandò a casa tre anni dopo, e con Madonna Alessandra Scarlatta, che fece lo stesso. Ognuno di questi datori di lavoro versò a Domenica una modesta somma ogni anno, fermo restando che il "vero" saldo dei pagamenti, ossia la dote e il matrimonio, sarebbe arrivato allo scadere del contratto. Ma alla conclusione di un contratto Domenica non ci arrivò mai e, quando aveva 3 1 anni, un notaio, Francesco Boccardi,

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l'assunse a tempo indeterminato come governante di professione. Ma an­ che questo rapporto di lavoro andò in frantumi; alla fine Domenica tornò alla Pietà una volta per tutte e vi morì all'età di 64 anni'0• Ma Domenica è un'eccezione ; delle altre ragazze, nessuna uscì una seconda volta dalla Casa dopo aver interrotto un contratto di lavoro, o morl alla Pietà dopo avervi fatto ritorno, o lasciò definitivamente l'istituto per andare a vivere con la madre, con un fratello o uno zio. Che cosa facevano queste ragazze? Alcune andavano a lavorare da don­ ne vedove, da notai o dottori e facevano quel genere di servizi, dalla cucina alle pulizie, che dovunque, giorno dopo giorno, tutti i domestici sbrigano. Tuttavia, il numero di gran lunga più significativo delle ragazze - quasi un terzo - andava a servizio presso tessitori, sarti o da qualche altro artigiano del tessile. Dal momento che i documenti non sempre sono puntuali su questo aspetto, il numero effettivo potrebbe essere stato ancora più alto". A volte si trattava di una semplice occupazione, secondo i termini già in­ contrati e con la consueta promessa di un marito e una dote allo scadere del contratto. Ma se a entrare a far parte della famiglia di un tessitore in qualità di domestica era una giovane con una certa esperienza nella ma­ nifattura tessile, allora questa ragazza avrebbe inevitabilmente finito con il filare la lana, fissare i filati sul telaio e forse persino realizzare parte dei tessuti. Alcuni maestri fiorentini arrivarono a formalizzare questa prassi impegnandosi a concedere un contratto di apprendistato, come fece Ago­ stino Berto quando offrì a Betta di Pagolo un periodo di formazione di sei anni nell'arte della realizzazione delle tappezzerie, o anche il lanaiolo Filippo da Bologna che assicurò a Nannina di Stefano da Romita cinque anni di tirocinio"". Anche alcune di queste collaborazioni miste, a metà tra l'apprendistato e il servizio domestico, non ebbero vita lunga e le ragazze tornarono alla Pietà. Berta lasciò la bottega di Agostino dopo due anni, mentre Nannina ci mise meno di due settimane ad andarsene dalla casa di Filippo. Potreb­ bero essere state oggetto di un eccessivo sfruttamento, o magari inadegua­ te alle mansioni che erano state loro richieste. Tra coloro che furono senza ombra di dubbio sfruttate va menzionata Agniolina, spedita alla Pietà dal padre, Giorgio da Nunchiano, all'età di 8 anni. Quando di anni ne aveva r8, Agniolina fu assunta dal medico Mario Giovanni Botti, che promise i consueti nove anni di lavoro coronati da dote e matrimonio. Ma, insieme alle faccende domestiche, Botti decise di accollare ad Agniolina il lavoro di tessitura dei panni, che poi lui stesso vendeva al mercato intascandosi

ADOLESCENTI DEL RINASCIMENTO il ricavato. Quando, quattro anni più tardi, venne meno il loro accordo, Agniola si convinse di essere stata derubata. Allora trascinò Botti davanti agli ufficiali della Grascia, magistratura addetta al controllo del commer­ cio interno ed esterno allo stato, incaricata di verificare la qualità e fissare i prezzi di tutti i pannilana e delle stoffe in lino, reclamando che il medi­ co le era debitore. Una giovane donna, senza una famiglia alle spalle, non avrebbe mai avuto la possibilità di intentare una simile azione legale senza il sostegno della Pietà e, nel giro di due mesi, riuscì a procurarsi una sen­ tenza in suo favore, in base alla quale si intimava il dottor Botti a risarcirle una somma pari all'intero valore delle stoffe finite vendute al mercato13• Ma si tratta di eccezioni: di ventinove ragazze che andarono a lavorare da tessitori o sarti, soltanto otto ritornarono alla Pietà, una percentuale leggermente più bassa di quella delle giovani che, più in generale, uscirono dalla Casa per prestare servizi domestici. Un'adolescente della Pietà era indubbiamente una risorsa preziosa per questi artigiani del tessile, in particolar modo quando aveva vissuto in casa loro abbastanza a lungo da acquisirne parte della manualità. Era anche un investimento particolarmente proficuo per tutte quelle vedove di tessitori che facevano fatica a tenere in piedi la loro bottega. Le ra­ gazze della Pietà erano più preparate al lavoro e più semplici da gestire di un qualsiasi lavorante a giornata di sesso maschile, che poteva non gradire il fatto di prendere ordini da una donna o persino coltivare am­ biziosi progetti d'impossessarsi della sua attività. Per questo Domenica di Bernardino da Siena, 16 anni, di cui gli ultimi otto trascorsi alla Pietà, fu assunta da Monna Margherita, vedova di Antonio Maria, tessitore di pannilana. Camilla di Lorenzo Palazzuolo, romagnolo, era più giovane - 11 anni, di cui uno solo passato alla Pietà - quando uscì dalla Casa per aiutare Maria Domenica, rimasta vedova di un tessitore. La prassi po­ teva rivelarsi inaspettatamente controproducente quando la Pietà non riusciva a vagliare con sufficiente attenzione coloro che proponevano le assunzioni: nel marzo 1560 la tredicenne Antonia di Marco Dalloro fu mandata a lavorare in casa e nella bottega di lane di una vedova, Dome­ nica. Ritornò solo poche settimane più tardi, appena si venne a sapere che Domenica era in realtà Domenico, un tessitore il cui espediente fu quasi subito scoperto14• Fatto salvo questo episodio, sembra possibile af­ fermare che le ragazze vivessero in condizioni migliori quando prestava­ no servizio presso le vedove di tessitori, dal momento che nessuna di esse fece mai ritorno alla Pietà.

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Piccole filatrici. La manifattura della lana

Il fatto che le ragazze della Pietà fossero richieste come domestiche nelle famiglie dedite alla manifattura tessile evidenzia quanto le loro mansioni, dentro e fuori la Casa, potessero davvero costituire un unico, solido i ntrec­ cio. Restava, però, un problema: spedire una giovane fuori per farne una domestica non aveva alcun ritorno economico per l'istituto. Poteva forse aiutare un'adolescente a costruirsi una vita autonoma fuori dalla Pietà, ma certo non aiutava l'istituto a sfamare le dozzine di Margherite, Marie e Maddalene che quella ragazza si era lasciata alle spalle. Nel momento in cui Monna Alessandra e i suoi finanziatori tentarono di colmare il disa­ vanzo tra entrate e uscite, si accorsero che un impiego nella manifattura tessile pagato a cottimo avrebbe fornito la via più sicura per raccogliere i fondi necessari al mantenimento della Casa. Molte famiglie fiorentine avevano fondato i loro patrimoni sulle sete e le lane pregiate : i tessuti di alta qualità di questa città erano ricercati in tutta Europa. Tuttavia i mer­ canti di lana e di seta del XVI secolo dovettero fare i conti con una concor­ renza internazionale molto più agguerrita, cosa che li costrinse a ricercare nuovi criteri organizzativi della produzione, al fine di abbassarne i costi. Fu qui che entrarono in gioco le ragazze della Pietà. Una fanciulla della Pietà poteva anche essere una governante sfaccendata o una cuoca medio­ cre, ma sempre più spesso si dimostrò un'operaia tessile professionalmente qualificata. È precisamente questo il motivo per cui cosl tanti tessitori vol­ lero assumerle in qualità di serve-apprendiste nelle loro case e botteghe. Non ci volle molto tempo perché la Pietà iniziasse a volersi tenere soltanto per sé questa forza lavoro. A pochi mesi dall'apertura, la Casa della Pietà si era già organizzata come un laboratorio, probabilmente perché era ormai chiaro a tutti che le sole donazioni non sarebbero bastate a tenerla in vita. Quella prima estate del I SSS· una vedova con formazione ed esperienza nel campo della tessi­ tura della lana fu ammessa all'interno della comunità, appositamente per avviare gratuitamente le ragazze all'arte della tessitura. La Pietà garantiva a Monna Betta vitto e alloggio, assieme alla sua bambina di 7 anni, Vittoria. Un mese dopo si univa a loro, alle stesse condizioni, Caterina di Antonio. Betta e Caterina passavano il tempo a coordinare il lavoro delle giovani ragazze che filavano a mano la lana grezza con conocchia e filatoio. Il fatto che entrambe fossero esperte tessitrici sembra suggerire che, durante quel­ la stessa estate, la Casa della Pietà decise di introdurre al suo interno anche

ADOLESCENTI DEL RINASCIMENTO i telai, in modo che le ragazze più grandi, in particolar modo quelle che provenivano da famiglie di tessitori, facessero funzionare questo ramo, il più redditizio, dell'impresa. Solo telai di piccole dimensioni avrebbero potuto trovare spazio nel vecchio Ospedale dell' Umiltà, già stracolmo di ben oltre cento ragazze. Eppure, se queste attrezzature potevano servire per produrre reddito, era necessario trovare dello spazio dove sistemarle. Monna Berta resse solo sei mesi. Se ne andò nel febbraio 1556, dopo essersi ammalata gravemente, e sua figlia Vittoria con lei. Diciotto mesi dopo, Monna Berta giaceva morente su un letto dell' Ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova, e di sua figlia Vittoria più nessuna traccia. Rima­ neva soltanto Caterina, e così dalla Pietà fu richiamata Maddalena, una delle ragazze uscite per imparare il mestiere da un tessitore. Nonostante avesse solo 13 anni, Maddalena si mise a organizzare e insegnare il lavoro alle compagne, come assistente di Caterina. Questa sistemazione non fu duratura, perché, poco più di un anno dopo, anche Caterina si ammalò e prese la strada di Santa Maria Nuova, rifiutandosi di ritornare alla Pietà una volta guarita. Maddalena rimase sola. Prese da una certo sconforto, le donne della Pietà fecero entrare Brigida di Niccolò Mugnaio che, di­ ciottenne, era poco più grande delle ragazze di cui divenne maestra. Dal maggio 155 7 1' intera attività tessile e, con essa, la redditività della Casa era essenzialmente nelle mani di due ragazzine appena avviate al mestiere, una di 14, l'altra di 18 anni. Si inaugurava così il nuovo modus operandi della Pietà: anziché assumere maestranze adulte e qualificate per dirigere i la­ vori di tessitura, dalla Casa si richiamavano le ragazze che erano state a bottega da un tessitore, in modo che fossero loro a insegnare il mestiere alle altre ragazze e a sovrintenderne l'esecuzione, lungo i corridoi e nelle stanze affollate dell'istituto. Molte di queste adolescenti non vedevano in questo lavoro nulla di tanto eccezionale. Qualcuna era figlia di tessitori, tante di più provenivano da famiglie in cui madri, zie o nonne erano solite arrotondare le entrate domestiche filando lana grezza. Le giovani della Pietà fecero egregiamente quanto era loro richiesto. Nel caos del primo, tormentato anno di vita della Casa, riuscirono a incas­ sare poco meno di 6oo lire. Questa cifra fu più che triplicata l'anno suc­ cessivo e arrivò a 3.8oo lire tre anni dopo, divenendo la principale fonte di reddito in bilancio, pari alla somma delle entrate annuali di circa quindici tessitori professionisti15• Che genere di lavoro era? Chi lo commissionava? Quali spazi della Casa richiedeva? E che cosa significava nella vita di ogni singola ragazza?

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Solo stabilendo con precisione questi aspetti, saremo in grado di chiari­ re se la Pietà fosse da annoverare tra quei luoghi malsani che mettevano a repentaglio la salute, persino la vita di chi ci viveva. n censimento cit­ tadino registra circa centosessanta ragazze ospiti del terzetto di case tra via Nuova e Borgo Ognissanti, attorno al 1562. Si dà il caso che uno dei documenti più esaustivi circa il lavoro ali' interno dell'istituto, conservato negli archivi della Pietà, copra un periodo di circa un anno, dal 1565 al 156616• Mentre i libri mastri annotano solo voci generiche, prezzo e nome del committente, ma niente di più, questo volume sembra essere stato con­ cepito fin dall' inizio proprio come un dettagliato resoconto delle presta­ zioni tessili rese dalla ragazze e pagate a cottimo. n manoscritto in-quarto, con tre cinghie di cuoio cucite sul dorso a rinforzarne la struttura, ha tutta l'aria di essere un ambizioso tentativo di riprendere il controllo sui conti della Casa. Sulla sommità del volume, la scritta «Giornale» dà l'idea che si volesse registrare il quotidiano flusso di denaro, in entrata e in uscita. Nella parte centrale della copertina, una «A» cerchiata suggerisce anche che fosse il primo di una nuova serie di volumi. La prima riga all'interno del manoscritto recita cosl: «Questo libro è delle fanciulle della Pietà e chiamasi giornale segnato "li' tenuto per me [e qui c'è uno spazio vuoto, N.d.A. ] una di dette fanciulle»17• Due mani diverse hanno provveduto a compilare le pagine interne al volume. Una ha tenuto la contabilità in modo chiaro e a ragion veduta, dal primo novembre 1565 fino all'estate del 1566. Questa mano, da quanto risulta, non appartiene a nessuna delle ragazze della Pietà, ma a Giovanni Bencini, che quell'anno prese il posto di Piero di Giorgio Ughi, con la manifesta intenzione di dare una svolta ai criteri di rendicontazione adottati fino allora. Bencini assegnò una nuo­ va pagina a ognuno dei mercanti che regolarmente affi davano commesse alla Casa e l'abbondante numero di pagine lasciate tra ognuno di questi nominativi lascia pensare a quanto fosse ottimista in merito alla capacità della Casa della Pietà di aggiungere ancora numerosi anni di lavoro all'in­ terno delle copertine di questo libro contabile. Quantità di lana e stoffa, conteggi e pagamenti sono elencati insieme ai costi per le attrezzature e le riparazioni: 1.6.8 lire per un grembiule da lavoro, poco più di una lira per fissare una grande pentola di rame e 21 per comprarne una nuova, 3 soldi e 4 denari per acquistare alcuni rocchetti per dipanare i bozzoli di seta18• Queste annotazioni sull'attività tessile terminano un giorno d'estate, nel 1566. Da allora, il quaderno giacque inutilizzato per quattro anni prima che qualcun altro - forse la stessa anonima fanciulla che aveva preannun-

ADOLESCENTI DEL RINASCIMENTO dato sulla prima pagina del volume il suo proposito di registrare le uscite di ogni giorno - lo raccogliesse con l'intento di utilizzarlo come strumen­ to di monitoraggio di ogni sorta di spesa quotidiana, generi alimentari in testa. Questi appunti riempirono qualunque pagina del libro fosse rimasta vuota, ma non hanno niente a che fare con l'attività tessile. Spulciare all'interno della contabilità del comparto tessile ci permetterà di distinguere le varie attività delle ragazze della Pietà, inserendole poi nel contesto più generale della manifattura tessile fiorentina. È impressionan­ te ciò che riuscirono a fare. Trattarono ogni genere di tessuto - lana, seta e canapa - dimostrandosi capaci di eseguire tutti i procedimenti richiesti dalla lavorazione di ciascuno. Quasi sempre lavoravano per conto di mae­ stri lanaioli o setaioli, ma talvolta anche per proprio conto'9• La manifattura laniera richiedeva procedure molto più complesse di quelle della seta. Molte più mani avevano a che fare con la trasformazione del manto grezzo di una pecora in panno finito e spesso si trattava di mani altamente qualificate. Nella Firenze del Rinascimento, questo significava anche che erano mani maschili, soprattutto nelle fasi più avanzate (e più remunerative) della produzione, posizioni privilegiate che gli uomini di­ fendevano con leggi di settore e con specifiche norme per la fabbricazione dei tessuti, corroborate dalla mitica credenza che attribuiva alle donne una minore attitudine al lavoro e una minore resistenza fisica rispetto agli uo­ mini. A loro, e alle ragazze più giovani, si potevano lasciare le mansioni di base, più monotone e molto meno pagate. Una volta fatto il loro ingresso in città, le balle di lana grezza non si spostavano semplicemente da una bottega all'altra, attraverso tutta la città, ma passavano dagli uomini alle donne, e da qui di nuovo agli uominf''0• Il vello delle pecore arrivava a Firenze così come era stato tosato in Spagna o in Inghilterra, paesi in cui si produceva una lana più pregiata di quella toscana. Veniva quindi smistato e scaricato all'interno di enor­ mi tinozze piene d'acqua leggermente saponosa, dove i lavatori, a coppie, lo passavano avanti e indietro con un bastone. Lo ripulivano, cosl, deli­ catamente per poi risciacquarlo in Arno e appenderlo perché asciugasse lentamente su grandi sostegni metallici fissati fuori dalla case, su e giù per tutto Borgo Ognissanti - tutto questo accadeva appena fuori dalla porta della Pietà. Altri uomini, poi, tiravano giù la lana per verificare che il leg­ gero lavaggio e la lenta asciugatura non avessero disperso gli oli naturali necessari a pettinare e filare le fibre senza romperle. Nodi, frammenti di pelle e impurità di ogni sorta erano rimosse a mano e ogni manto veniva

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poi battuto e ingrassato per essere preparato alla pettinatura e cardatura. La pettinatura riduceva lalana in lunghe fibre, lo stame, usato poi come or­ dito nel processo della tessitura, mentre il rimante pelo, più corto, veniva cardato con spazzole metalliche a formare la trama. Una volta pettinata o cardata, la lana era pronta per essere filata dalle donne. Erano gli uomini a occuparsi della maggior parte di queste fasi, dal lavaggio alla lubrificazio­ ne, fino alla pettinatura e cardatura. Ed erano sempre loro a orchestrare il resto delle operazioni : i mercanti-imprenditori della lana assumevano lavoratori a cottimo detti lanini perché gestissero il trasporto dei velli car­ dati e dei filati pettinati. Per filare, andavano alla ricerca di donne, in città, ma soprattutto in campagna, scovando qua e là ogni singola donna dispo­ sta ad accollarsi il lavoro e a farlo in fretta. Ogni mercante-imprenditore lavorava in genere con un lanino e pochi stamaioli alla volta e questi, a loro volta, potevano prendere incarichi da qualche altro mercante, ma solo nel caso in cui fossero riusciti a individuare un numero sufficiente di filatrici per lavorare i filati11• Con apposite regolamentazioni, nel 154 7, nel 1556 e 155 7, il duca aveva fissato le condizioni di lavoro e le retribuzioni dei lavoratori del settore laniero, specificando, per ogni fase del processo di trasformazione, chi fos­ se il proprietario della lana, quale cifra dovesse essere corrisposta a chi la lavorava per lui, insieme alla provvigione spettante ai cottimisti. Passare dalla lana cardata al filo costava al mercante 14 soldi per ogni libbra di lana, di cui 12 destinati alla filatrice e 2 al lanino. Filare la lana pettinata costava, invece, 2 lire a libbra: di queste, una andava alla filatrice, insieme a 15 soldi; i restanti 5 soldi erano per lo stamaiolo••. Compensi tanto diversi riflettevano la grande disparità d'impegno richiesta dalle rispettive man­ sioni. La filatura della lana pettinata rendeva quasi il triplo di quella della lana cardata, dal momento che si trattava di un'operazione più laboriosa: una ragazza prendeva la lana pettinata in una conocchia e la avvolgeva a mano. Non le serviva molto spazio, né aveva bisogno di numerosi utensili, ma per produrre una certa quantità di filo impiegava un tempo di gran lunga maggiore rispetto a quello necessario alla lana cardata. Per quella, le ragazze potevano utilizzare il filatoio, riuscendo a lavorare grandi carichi di lana molto più rapidamente. Questo richiedeva anche locali più grandi, sebbene i filatoi fossero piccoli e maneggevoli e potessero, quindi, adattar­ si agli ambienti piuttosto inconsueti di un ospedale o essere portati fuori nel cortile quando le temperature si facevano più miti. Tutti i cottimisti, indipendentemente dal fatto che fossero impiegati per

ADOLESCENTI DEL RINASCIMENTO la lana cardata o pettinata, dovevano saper leggere, scrivere e far di conto: in ogni fase del lavoro, infatti, era necessario pesare attentamente la lana, con­ trassegnando con precisione balle e filati e tenendo il conto di chi doveva qualcosa e a chi. E tutti, lavoratori della lana cardata e pettinata, si fermava­ no all'ingresso della Casa della Pietà. Questa, di contro, aveva il vantaggio di non dover pagare per il materiale grezzo: i costi ricadevano sui cottimisti, mentre la Pietà provvedevala solamanodopera. I lavoratori a cottimo paga­ vano a prezzi di mercato, e in contanti. Da parte loro, i cottimisti godevano della possibilità di accedere a un'enorme forza lavoro senza il bisogno di girovagare per tutta la città o nella più remota campagna. Per tutto il 1565, un gruppo di tre lanini, al soldo di una serie di mer­ canti, consegnò con assiduità lana cardata alle ragazze della Pietà, mese dopo mese: Benedetto di Filippo, Lorenzo di Bardo e Francesco, detto "Naso", con cadenza più regolare, mentre un quarto, Pagolo, più saltuaria­ mente. Al contrario, soltanto uno stamaiolo, Andrea Parenti, anche lui in rappresentanza di più mercanti, portava la sua lana pettinata alle giovani della Pietà perché la lavorassero, ma servendosene in modo più intenso e pagando meglio. Nel corso del solo 1565, i quattro lanini portarono quasi 2..500 libbre di lana cardata pagando più di 1.500 lire, mentre lo stamaiolo Andrea Parenti ne fece arrivare più di 175, versando poco più di 2.65 lire'-3• Non possiamo sapere con certezza in che misura il lavoro occupasse le giornate delle ragazze della Pietà, dal momento che i libri mastri rivelano solo il momento in cui un conto veniva saldato, non quello in cui il lavoro era stato svolto: Parenti era solito pagare ogni due mesi, ogni volta per circa 30 libbre. Anche se non possiamo essere sicuri del tempo necessario all'esecuzione delle commesse, in media non dovrebbe essere stato molto, considerato il gran numero di ragazze della Casa. I lanini mostrano un po' più di regolarità nelle consegne, con picchi modesti in marzo e settembre che, con ogni probabilità, rappresentano più lo schema dei pagamenti che quello della richiesta dei lavori. Anche qui, 2.00 libbre di commesse mensi­ li non avrebbero dovuto prosciugare le energie di ben oltre cento fanciulle. Questo non significa che il lavoro svolto dalle ragazze non fosse di vitale importanza sia per la manifattura della lana nel suo complesso, sia per la Casa della Pietà. I fili di ordito e di trama che uscivano dalla Pietà continuavano il loro percorso verso la tessitura, divenendo raso di lana, un panno pregiato usato in larga parte per gli abiti maschili. Si tratta del panno di lana più costoso prodotto nella Firenze del tempo e, mentre la frenetica filatura delle ragazze della Pietà non avrebbe rivoluzionato la

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manifattura tessile, quello certamente fece la differenza. A metà del xvr secolo, la manifattura laniera era in piena espansione, fiorente e sicura del­ le sue possibilità. Nessuno poteva prevedere l'improvviso collasso della produzione, falcidiata della metà in pochi decenni, cui seguì un lungo e progressivo declino. Sono pochi i libri contabili appartenuti a mercanti di lana del tempo tutt'ora esistenti, sebbene uno di essi, di proprietà di Fran­ cesco de' Medici, mostri che nel 1556-s8 la filatura di lana grezza costituiva il :w% dei costi di produzione del tessuto. Niente si avvicinava a tale cifra, neppure la tessitura, che, seconda tra le voci dell'elenco dei costi di produ­ zione, rappresentava solo il 12% delle risorse necessarie alla realizzazione di una pezza di tessuto24• Ciò significa che le fanciulle della Pietà, piazzate nel cuore di un quartiere pieno zeppo di botteghe di lana, costituivano una risorsa preziosa, e a portata di mano, per un settore che era in piena espan­ sione. Mentre le tradizioni, le leggi e i pregiudizi relegavano le donne ai ruoli più infimi del processo produttivo, le ragazze della Pietà guadagnava­ no un sacco di soldi - più di 1.700 lire nel 1565, all'incirca la stessa somma guadagnata in un anno da otto o nove tessitori impegnati a tempo pieno2>.

Ragazze nel mondo della seta. La carità come strategia industriale

Nel vecchio Ospedale dell' Umiltà le ragazze come Margherita, Maria e Maddalena non filavano solo la lana. A Firenze c'era una manifattura tes­ sile i n pieno sviluppo, la seta, e le giovani della Pietà fecero anche qui la loro parte. Come per la lana, la loro principale occupazione fu quella di preparare il filo per la tessitura. Eppure la seta non avrebbe potuto essere più diversa dalla lana, per gli spazi che richiedeva, per i proventi che gene­ rava, per gli effetti che produceva nella vita delle ragazze. La seta stava trasformando l'intero sistema economico italiano. Un eccentrico erudito bolognese, Leonardo Fioravanti, illustrò le sue poche, complesse e laboriose procedure: L'arte della seta è arte nobilissima [ .. ] ella è arte che esalta i ricchi et aiuta i poveri; et è di gran magisterio nel farla però che vi entrano una infinità di operationi; e non si truova nissuno che la sappia far tutta di sua mano, per le molte fatture che si richiedono in essa, la prima delle quali è il far nascere i vermi che fanno la seta et notrirli [... ] . Vi sono dipoi maestri e maestre che, quando so n fatti i fuliselli, fanno .

ADOLESCENTI DEL RINASCIMENTO seccare quelli fuliselli al sole per uno o due giorni; et poi hanno una caldara sopra un fornello, et la fanno bollire, mettendovi dentro quelli folicelli; et con certe nappe che vi vanno ravvolgendo sopra la seta, la quale dapoi essendo fatta, va in mano alle maestre, che la fanno sopra i rocchetti; et poi va al filatoio che la fila, et filata che è, torna nelle mani delle donne, che l'adoprano pur sopra rocchetti, et torna al filatoio à torzersi. Et dipoi torta, va al Tento re, dapoi che il Mercante l'ha riveduta; et il Tentore prima la cuoce con acqua e sapone, et poi la tenge di che color si vuole, et torna al Mercante, il quale la mette alle caviglie, con le quali la distira benissimo, et la fa diventare lustra et bella; et dipoi va alle maestre, quali la raccogliono sopra certi canoni, co i quali il tessitore ordisce il lavoro che vuoi fare, et lo tesse secondo che gli piace: come veluti, rasi, damaschi, tabini, ormesini et via discorrendo; et così l'arte è finita a laude di Dio, et a benificio del mondo16• È difficile dire dove esattamente cominciasse il lavoro delle ragazze del­

la Pietà all' interno di tale sistema, sebbene, da un dato momento in poi, sembra facessero tutto quello che Fioravanti ascrive alle "maestre". A Borgo Ognissanti si allevavano i bachi e ci si prendeva cura dei bozzoli ?2.7 Queste operazioni spesso si svolgevano nello stesso ambiente in cui i bozzoli veni­ vano poi srotolati, benché sia difficile credere che ciò potesse essere fatto negli angusti alloggi dell'Ospedale della Pietà. Nel xv secolo i mercanti fiorentini della seta avevano acquistato matasse di seta grezza che venivano da allevamenti disseminati in remote località: nei dintorni del Mar Caspio, in Spagna, nelle isole greche, in Sicilia e in Calabria. Ma nel momento in cui i signori medicei scelsero, lungo tutto il XVI secolo, di promuovere l'e­ spansione della produzione toscana, la maggior parte delle procedure a bas­ so costo e grande complessità fu eseguita localmente18, in parte, alla Pietà. Le prime fasi della lavorazione della seta si concentravano in appena due mesi, in primavera, come ebbe modo di constatare sir Dallington quando prese in esame la realtà toscana. All'incirca negli stessi anni in cui Dallington stava conducendo le sue analisi, l'incisore fiammingo Jan van der Straet realizzava una serie di disegni che ritraevano ragazze e donne fiorentine intente ad allevare bachi da seta e a dipanarne i bozzoli, ope­ re che avrebbero potuto ben rappresentare il lavoro all'interno della Casa della Pietà. In uno di questi, sono all'opera più di dodici personaggi, tra bambini, adolescenti e donne un po' attempate, tutti impegnati a disporre le microscopiche uova del baco all'interno di vassoi impilati su graticci aperti, che venivano ogni giorno ricoperti con una quantità crescente di foglie di gelso fresche, o appena appassite, per tutte le sei settimane neces­ sarie al completo sostentamento dei bachi.

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La raccolta delle foglie di gelso e il loro utilizzo per sfamare i bachi da seta. Jan van der Straet, Vermis sericus, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University.

Questi crescevano secondo tempi noti, perciò era essenziale programmare il momento della loro schiusa. Dallington notò che i produttori di seta toscani si affidavano principalmente all'energia del sole per il riscaldamen­ to delle uova, ma non disdegnavano di ricorrere anche al calore sprigio­ nato dal corpo delle fanciulle. Anche se Margherita, Maria o Maddalena non avessero mai portato uova nascoste nel petto, l'intera procedura fin qui descritta sarebbe stata comunque intimamente connessa alla loro vita quotidiana. Era una sfida continua trovare spazio tra le enormi distese di bozzoli impilati e le balle cariche di foglie di gelso che quotidianamente venivano dagli alberi che il duca stava facendo piantare lungo ogni fosso libero della Toscana. C 'era poi un aspetto che l'entusiasta Fioravanti si era dimenticato di menzionare: il rombare concorde di molte migliaia di ba­ chi famelici impegnati a mangiare giorno e notte letteralmente sommersi da montagne di foglie. Dopo sei settimane di baccano in aumento costan­ te, i bachi diventavano improvvisamente silenziosi non appena iniziavano a filare i loro bozzoli. Dopo essersi lentamente trascinati sopra gli stecchì e i rami spogli che le ragazze avevano messo sui loro graticci e avviato l'in­ dolente movimento di torsione del capo a formare un otto, neli' arco di tre

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L'allevamento del baco d a seta. Jan van der Straet, Vermis sericus, Beinecke Rare Book an d Manuscript Library, Yale University.

giorni i bachi arrivavano a produrre la bianca figura ovoidale. In poco più di una settimana, la conduttora che fin qui si era presa cura dei bachi dove­ va stabilire quali fossero da salvare, per le uova future, quali bozzoli fossero invece da scartare perché ingialliti, rovinati o doppi, e quali da srotolare per farne il filo. Questi ultimi dovevano essere sottoposti a trattamento con calore a secco o bagni caldi, affinché la larva rimanesse uccisa prima di avere la pos­ sibilità di uscire dal bozzolo, distruggendolo. È molto probabile che le ragazze della Pietà, durante gli anni in cui vis­ sero nei tre edifici di Borgo Ognissanti, avessero il loro primo contatto con i bozzoli nella fase immediatamente successiva, quella dell'incannatura o trattura (avvolgimento delle matasse su rocchetti). Ai bachi allevati all' interno dell'Ospedale dell' Umiltà si aggiungeva­ no i bozzoli che arrivavano a migliaia dalla campagna toscana, trasportati in grandi ceste di legno dai grossisti della Sicilia e della Calabria, o dal Pavaglione, il celeberrimo mercato annuale di Bologna. Era allora che il lavoro delle ragazze si faceva più intenso. Si trattava di operazioni delicate, che richiedevano tempo ed erano sottopagate e, in virtù di tutto questo,

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La trattura della seta in un istituto. Jan van der Straet, Vermis sericus, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University.

venivano in gran parte riservate a giovani ragazze che, rinchiuse in conser­ vatori, ricoveri per trovatelli, ospizi di mendicità o conventi, non potevano liberamente scegliere altre occupazioni29• Nelle incisioni di van der Straet le ragazze utilizzavano fascine di ramoscelli secchi per smuovere i bozzo­ li e ammorbidirne lo spesso guscio esterno in catini pieni d'acqua calda mischiata con un po' di alcali. Trovavano poi il capo di un .filamento per due, quattro o cinque bozzoli e li allineavano per formare un solo .filo, che, una volta unificato, veniva attaccato a un rocchetto rettangolare lungo e aperto, formato da quattro aste parallele e posizionato proprio sopra le spalle delle ragazze o appena davanti alle grandi e calde vasche contenenti i bozzoli. I singoli .filamenti si vedevano appena e, persino se se ne riunivano assieme quattro o sei, non si arrivava allo spessore di un capello. Ruotando il rocchetto si srotolavano i bozzoli e le fanciulle dovevano avere un occhio sempre attento a individuare grumi, frammenti spessi o rotture nei singoli .filamenti e tenere sempre a portata di mano un .filamento fresco per rea­ lizzare giunte laddove fosse necessario. Se doppi, bucati o in qualsiasi altro modo danneggiati, i bozzoli richiedevano una più accorta trattura perché se ne potesse ricavare il filo. Una giovane ragazza avrebbe potuto filare la

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lana solo toccandola, libera di chiacchierare, cantare, persino leggere o fantasticare. La seta, invece, esigeva tutta la sua attenzione. A prima vista, sembra un'attività lenta e piuttosto svogliata, impres­ sione avvalorata dalle donne incise da van der Straet, donne che lavorano senza premura, in spaziose, aperte botteghe. Alcune cifre possono aiutar­ ci a comprendere le sbalorditive proporzioni della manifattura della seta e ad accantonare, così, qualsiasi idea bucolica in proposito. Ogni singolo bozzolo bianco, largo di solito circa un pollice e lungo uno e mezzo, è co­ stituito da un unico filamento che va dai so o ai 1.ooo metri di lunghezza, o più. Nei primi anni dell'Ottocento, l'economista e storico francese Jean Simonde de Sismondi (1773-1842), che ben conosceva la sericoltura to­ scana, stimava che occorressero IO libbre di bozzoli essiccati per produrne una di seta greggia, mentre 7,6 9 1ibbre di bozzoli doppi, forati o comunque imperfetti sarebbero bastati per una libbra di seta filata. I bozzoli erano leggeri : ognuno pesava da 1,5 a 2 grammi, il che significa che, per arrivare a una libbra, ne sarebbero serviti da due a trecento. Occorrevano 3.000 bachi per produrre 12 libbre di filo di seta finito e questi bachi, durante il loro sviluppo, avrebbero mangiato una tonnellata di foglie dei gelsi del duca. Di seta, nel 1565, le ragazze della Pietà ne produssero cento volte tan­ to - quasi 1.20 0 libbre - cavata letteralmente fuori da milioni di bozzoli per i quali servirono svariate tonnellate di foglie. Anche se non possiamo sapere quanta parte di questo processo avvenisse all'interno delle mura del ricovero di Borgo Ognissanti, l'entità del fenomeno è sconcertante e il la­ voro sarà sicuramente stato straordinariamente incenso3°. La preparazione del filo di seta poteva andare ben oltre la semplice trattura da cui aveva avuto inizio. I filamenti avvolti attorno al rocchetto erano ancora decisamente troppo fragili per essere tessuti senza rischiare di spezzarsi; per questo le ragazze li attorcigliavano per creare un filo di seta adatto all'uso - si tratta del procedimento che Fioravanti definisce "corciturà', a volte indicato anche con il termine "addoppiare". Tutti i fila­ menti venivano ritorti verso destra - almeno una volta, ma fino ad arrivare a 40-45 torsioni per pollice - e parte del filo era raddoppiato e ritorto di nuovo a sinistra. Arrivati alla fase della tessitura, questi filamenti più spessi sarebbero stati utilizzati come fili di ordito scesi longitudinalmente sui celai e qui in­ trecciati con i fili di trama, più sottili. In città come Bologna o Vicenza, in questa fase della lavorazione, alle mani femminili subentrarono imponenti ruote idrauliche che alimentavano torcitoi con decine, persino centinaia

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Donne intente a dipanare i bozzoli di seta e a farne dei fili. Georg Christoph Martini, Viaggio in Toscana, con il permesso dell'Archivio di Stato di Lucca.

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RAGAZZE PERDUTE di rocchetti, disposti in gran quantità in edifici a tre piani. Dal momento che l'Arno non aveva un regime suffi cientemente regolare, i torcitoi fio­ rentini utilizzavano un marchingegno di gran lunga più piccolo, azionato a braccia, e la Pietà ne possedeva almeno uno3\ Dipendendo da macchine manuali, la produzione dei filati fiorentini risultava alla fine più costosa, costringendo i mercanti-imprenditori a trovare altri sistemi di riduzione dei costi. Una volta che il filo era stato raddoppiato, doveva essere "cotto", os­ sia messo in grandi sacchi e immerso per breve tempo in ampie vasche di ebollizione, in una leggera soluzione di acqua e sapone che scioglieva parte delle proteine naturali della seta, la sericina, preparando il filo per la tin­ tura. Esattamente come la lanolina contenuta nella lana, la sericina, detta anche gomma della seta, conferisce alla seta la proprietà di resistere alla tensione della filatura, ma deve poi essere rimossa perché la tintura possa andare a buon fine. La seri cina rende grigio il filo di seta grezza - per que­ sto le matasse di filo appena avvolto prendono il nome di "seta grigia" - e ne determina il peso. Le matasse di filo possono perdere un quarto del loro peso dopo la cottura e, considerando il fatto che le ragazze erano pagate in base al peso della seta prodotta, dovevano procedere con cura in questa fase della lavorazione. Insieme a ogni oncia di gomma di seta evaporata, evaporavano anche i loro guadagni32• Una volta ritorte, doppiate e cotte, le matasse di seta, divenute soffici e bianche, prendevano la via dell'uscita, dritte verso la bottega del tintore. Durante il 156s, la maggior parte delle commesse nel settore della seta arrivò alla Pietà passando per le mani del sensale Francesco di Iacopo Bar­ berino, che a sua volta le riceveva da due diversi mercanti: Giovanni Sol­ dani e Baccio Comi33. Più della metà della seta di Comi proveniva dalla Calabria e dalla Sicilia e quindi, con ogni probabilità, giunse alla Pietà sot­ to forma di matasse di filo già avvolto e pronto per la filatura, la torci tura e la lavatura. La seta di Soldani, invece, era quasi tutta toscana o emiliana e, quindi, con altrettanta probabilità, arrivò in bozzoli ancora da avvolgere34• Ma Barberino non è l'unico nome che spunta tra i conti. Altri personaggi in qualche modo riconducibili alla Pietà, le prestarono servizio in qualità di intermediari e agenti, procurandole gli ordinativi e incaricandosi di ri­ scuotere quanto le era dovuto. E qui troviamo il vecchio contabile Piero di Giorgio Ughi, come ci sono anche vari appartenenti alla Compagnia della Pietà, Monna Ginevra dei Tolomei, ad esempio. Per questa ragione, le mogli di Comi e Soldani, anch'esse iscritte alla stessa Compagnia, po-

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cevano aver avuto una certa importanza nel fare i n modo che i lavorati dei rispettivi mariti finissero nelle mani delle ragazze della Pietà. Mentre la lavorazione della lana richiedeva piccoli spazi e poteva essere svolta praticamente in ogni angolo dell'edificio e in tutte le condizioni ambientali, quella della seta necessitava di locali più spaziosi, luminosi e di tempi più lunghi. Le ragazze, alle prese con ingombranti rocchetti, ave­ vano bisogno della luce del sole per seguire i sottili filamenti, di tavoli per le bacinelle d'acqua calda in cui venivano immersi i bozzoli, di spazio per i grandi filatoi a mano utilizzati per doppiare e torcere i fili dell'ordito, e anche per i fuochi sopra i quali venivano collocate le vasche per cuocere il filo già filato. Ma a fronte di tutti questi investimenti in tempo, spazio e intensità di lavoro, il guadagno per ogni libbra di seta era di gran lunga in­ feriore a quello prodotto da un'equivalente quantità di lana. Occorrevano molte più ragazze, e occorreva che lavorassero molto più intensamente e più a lungo perché fosse prodotta una libbra di seta, piuttosto che una di lana, eppure per questo lavoro erano pagate di meno - all'incirca una lira e 6 soldi a libbra per la seta tratta e ritorta, contro la lira e i 15 soldi della lana. È difficile risalire con esattezza alle cifre, poiché, diversamente dalla ma­ nifattura laniera, quella della seta non prevedeva salari fissati per legge o stabiliti in base ai nuovi statuti che l'arte aveva approvato proprio in quegli anni3s. E tuttavia, il settore laniero fiorentino stava per conoscere la stagio­ ne del suo declino, mentre quello della seta era ancora in crescita e, di qui a pochi anni, la Pietà avrebbe guadagnato sempre di più dalla lavorazione delle sue sottilissime bave. Volenti o nolenti, il futuro della Casa della Pietà stava nella seta ed è questo che avrebbe cambiato la vita delle ragazze36• La seta era una manifattura fondata sul lavoro di donne e bambini37• In tutta Europa occupava più donne che uomini, con numeri che raggiunge­ vano le mille unità in città delle dimensioni di Firenze, Venezia o Bologna, dove almeno un quarto della popolazione, almeno in un certo periodo dell'anno, veniva impiegato nel settore. Spesso si trattava di persone che lavoravano in istituti da cui non potevano uscire tanto facilmente (con­ venti, orfanotrofi, istituti correzionali), cosa che faceva della manifattura della seta una forma di lavoro forzato. Quanto rendeva tutto questo ? Men­ tre il 6o% dei costi di un rotolo di pannilana poteva essere fatto risalire ai soli costi di produzione - dai macchinari e vari strumenti del mestiere fino alla manodopera -, per la seta la cifra si riduceva al so%. Le maestranze più pagate del settore della seta, i tessitori, godevano dei compensi più elevati di tutta la categoria degli artigiani. Al vertice opposto della classifica, la

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manodopera con le retribuzioni più misere, quella delle giovani filatrici e dei ragazzi che si sedevano al telaio in qualità di apprendisti, lavoratori che guadagnavano assai meno dei loro colleghi impiegati nelle altre manifattu­ re. Lo abbiamo constatato nel settore laniero; qui l'opera di filatura esegui­ ta per mano delle fanciulle rappresentava dal z6 al 20% del valore finale del tessuto. Per l'industria della seta, che non aveva un numero di fasi di lavo­ razione equiparabile a quello della lana e, soprattutto, non doveva pagare tanti e diversi lavoratori che si occupavano di ciascuna di esse prima di pas­ sare dal filo al rotolo di stoffa, quella stessa operazione di filatura costituiva meno dello o,s% del prezzo finale del prodotto. Infatti, considerate tutte insieme, la trattura, la torcitura e la filatura di solito non raggiungevano più dell' z,s% del valore di un rotolo di seta. I mercanti spendevano persino di più per comprare il sapone con cui si lavavano le matasse di seta grigia38• Spesso i tessitori si lagnavano dei loro garzoni, inaffidabili e assenteisti, regolarmente fuori dalla bottega per una pausa e irrispettosi del termi­ ne naturale del loro rapporto di lavoro, ma è difficile nutrire un qualche sentimento di solidarietà nei loro confronti. Dopo dodici anni trascorsi in bottega come praticante e lavoratore a giornata, un lavorante avrebbe continuato a guadagnare tanto quanto un operaio non qualificato di un qualsiasi cantiere edile della città. Oltre ai tessitori, erano i mercanti a trarre i maggiori benefici da questo sistema asimmetrico di distribuzione delle ricchezze. Per mezzo degli ordinamenti cittadini e di quelli della loro corporazione, la Por Santa Maria, erano riusciti a strutturare l'attività pro­ duttiva in modo tale da risultare gli unici possibili committenti, gli unici a possedere la materia grezza e gli unici a poter rivendere il prodotto finito ai compratori. n risultato fu che la lavorazione della seta non generò un benessere diffuso in città, al pari di quanto fece la lana, anche se qualcuno che si arricchì davvero tanto ci fu. L' ingordigia dei mercanti di seta per la manodopera a basso costo fu tanto insaziabile quanto lo era quella dei bachi da seta per le foglie di gelso. Donne e bambini cominciarono a caricarsi dei mestieri un tempo svolti dagli uomini e così il lavoro andò spostandosi dalle città alle campagne39. Questo si verificò in Toscana soprattutto con l'espansione della sericol­ tura, che permise a mercanti come Baccio Comi e Giovanni Soldani di utilizzare il prodotto locale al posto del filo e della seta grigia importati. Al tempo del viaggio di Robert Dallington in Toscana, soltanto il 12% del­ la seta lavorata a Firenze proveniva da materia prima allevata in Toscana. Cinquant'anni dopo, il dato era schizzato al 75%, effetto della frenetica

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attività d'impianto delle piante di gelso voluta dal granduca per tutto il territorio toscano. Ciò significa che la parte consistente del lavoro, e dei profitti, rimaneva in Toscana. Ma a crescere in modo ancor più drastico fu la quantità dei lavori più umili messi a disposizione di donne e bambini, come la cura degli alberi, lo svolgimento dei bozzoli e la filatura - si può fa­ cilmente sostenere che questo genere di mansioni conobbe un incremento pari a circa sei volte entro il 16so, anche se il numero di stoffe prodotte dai mercanti-imprenditori fiorentini non cambiò affatto40• A quella data, più di 14.000 fiorentini, su una popolazione complessiva di circa 70.ooo, pre­ sero parte alla produzione di tessuti in seta. Per quanto incredibile possa sembrare una simile percentuale, fu al di sotto di quella riscontrata in di­ stretti a vocazione radicalmente manifatturiera come Venezia e Bologna. Eppure queste cifre, tanto spesso citate, possono essere fuorviami. La lavorazione della seta era impegnativa, concentrata ali' interno di un ciclo rigorosamente limitato a poche settimane o mesi. È vero, 8.ooo fiorentini svolgevano le bave dei bozzoli, ma si trattava sostanzialmente di un lavoro estivo. Dei restanti, meno di 3 .0 o o potevano impegnarsi tutto l'anno nel­ le operazioni più prestigiose del mondo della seta, quelle della tessitura e della tintura. Per il periodo successivo al 1 6so, parlano due dati ulteriori : quasi 12.ooo dei 14.000 lavoratori del settore erano donne, più di 6.ooo i bambini41• Parte delle operazioni avvenivano nelle cascine e nei villaggi disseminati per tutta la campagna, ma non bastava. I mercanti avevano bisogno di avere a portata di mano migliaia di persone, pronte a lavorare intensamente, nell'intervallo relativamente breve della primavera-estate e in cambio di poche lire. Per questo non sorprende scoprire che, un po' in tutta Europa, fossero i mercanti della seta ad allestire, e spesso anche ad amministrare, i grandi e chiusi istituti per trovatelli, per ragazze abbandonate, per vedove ridotte in miseria e per mogli maltrattate - in breve, per ogni genere di persona la cui attività lavorativa dovesse avvenire dietro una porta chiusa a chiave, magari in compagnia di dozzine, persino centinaia di altri soggetti nel­ le stesse condizioni. Era costoso mantenere istituti come questi, perciò le persone che vi erano ospitate lavoravano con alacrità per reperire i fondi necessari a mandarli avanti. Non è un caso che i mercanti di seta italiani iniziassero a fondare un numero crescente di queste istituzioni caritative "claustrali" proprio nel momento in cui cominciarono a procurarsi la mag­ gior parte della loro materia prima in Italia. La trattura, una volta eseguita in luoghi remoti, come le regioni sulle rive del mar Caspio, avveniva ora in

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territori come quello toscano. Furono i setaioli fiorentini a gestire il loro primo ospedale per trovatelli, l'Ospedale degli Innocenti, e furono i tro­ vateHi di quell'ospedale a dipanare la maggior parte della seta per conto di quegli stessi mercanti, prima che nascessero nuove case come quella di San Niccolò o della Pietà, negli anni Cinquanta del Cinquecento42• La magi­ stratura bolognese del Pavaglione, responsabile della fiera della seta duran­ te la quale avveniva la compravendita dei bozzoli, era anche la magistratura a capo dell'Ospedale dei Mendicanti, il primo ospizio per m endici della città, dove quegli stessi bozzoli venivano dipanati e tratti da centinaia di donne e bambini reclusi, in cambio di pochi spiccioli. Spiccioli che in re­ altà non vedevano mai, a meno che non si tenga conto del pane raffermo, "stile ribollita", delle zuppe di verdura che mangiavano a pranzo e a cena, e del letto che, in gruppi di quattro, condividevano ogni notte. Lo abbia­ mo già detto, la Pietà non fa eccezione: alcuni degli iscritti all'omonima compagnia che la finanziava trasferivano lì la seta grezza da incannare o il filo da tessere, oppure erano le mogli dei mercanti e dei cottimisti che trattavano le varie fasi della lavorazione della seta43• Era carità o sfruttamento ? Fioravanti aveva sentenziato: «L'arte della seta è arte nobilissima, et degna da essere fatta da ogni gran gentlhuomo... [buffo, no ?, N.d.A. ] et ha molte franchezze, et gode grandissimi privilegi [ ... ], percioché ella è arte che esalta et aiuta i poveri » 44• Senza ombra di dubbio i setaioli riuscirono a strappare ai governi privilegi ed esenzioni, uniti al plauso per le loro opere caritative. Ma anche la filantropia era per loro un buon affare e, alla fine, dobbiamo riconoscere che i ricoveri e le isti­ tuzioni che tanto generosamente inaugurarono e amministrarono costi­ tuirono delle convenienti soluzioni per i loro problemi di manodopera4>. Sostanzialmente, i mercanti trasformarono ragazze come Margherita, Ma­ ria e Maddalena e soprattutto la loro abitazione, la Pietà, in un' importante componente della manifattura fiorentina della seta. Un ulteriore, netto vantaggio i mercanti lo traevano dall'avere a di­ sposizione una nutrita (e reclusa) forza lavoro: l'indipendenza dai ritmi stagionali della lavorazione della seta. Quella che possiamo definire la "sta­ gione della seta" iniziava concretamente con la cura delle uova, dei bachi e dei bozzoli, tra maggio e giugno. È certo che alcuni dei più sostanziosi pagamenti effettuati dai mercanti a favore della Pietà risalgano alla fine di giugno e ad agosto, un chiaro indice del fatto che le ragazze erano coinvol­ te in queste prime fasi della lavorazione. Mai mercanti procuravano lavoro alla Casa durante tutto l'anno e le fanciulle in aprile stavano ancora filan-

ADOLESCENTI DEL RINASCIMENTO do e torcendo la produzione dell'anno precedente, quando, ecco, l'istituto stava già preparandosi a trattare quella della nuova stagione. Cosa, forse, ancor più incredibile è che persino mentre Monna Alessandra si dava da fare per tutta la Casa, organizzando ogni spazio libero per la trattura della seta, alcune delle ragazze continuavano a filare la lana. Nel complesso, lana e seta tendevano a entrare nella Casa sotto forma di commesse a caden­ ze regolari, durante tutto l 'anno, sebbene i mercanti della lana pagassero meno e a intervalli più regolari, mentre quelli della seta pagassero di più, ma in poche occasioni durante l'intero anno46• Ragazze come Margherita, Maria e Maddalena lavoravano, quindi, co­ stantemente, ma non solo per conto di altri. Assumendo Monna Betta, Caterina, Brigida e le altre tessitrici, Monna Alessandra, assieme ai suoi sostenitori, puntava con lucidità a fare in modo che le ragazze non si limi­ tassero a trarre e filare seta e lana per i mercanti, ma producessero tessuti per il loro personale profitto. Tessevano i panni in lino e lana più semplici ed economici, che poi erano cuciti per realizzare fazzoletti, bende, fasce e semplici camicie. A giudicare dalla quantità che ne produssero, le ragazze disponevano probabilmente di almeno tre o quattro telai47• Tuttavia, le somme che ne ricavarono furono piuttosto modeste se confrontate con quelle derivate dalla trattura della seta e dalla filatura della lana - di solito non più di due soldi per braccio, l'unità di misura che i fiorentini utiliz­ zavano per misurare i tessuti48• Eppure la tessitura costituiva una sorta di testa di ponte verso un mondo esterno e diverso. Mentre la maggior parte delle entrate proveniva da una manciata di imprenditori che operavano su vasta scala, intenti a concentrare la produzione dei filati, la tessitura met­ teva le ragazze in rapporto con il mondo delle fabbriche domestiche disse­ minate nei dintorni della città e disposte a pagare soltanto poche monete per le loro prestazioni. Ma soprattutto, mentre le operazioni di filatura legavano le giovani come Margherita, Maria e Maddalena alla ristretta cer­ chia maschile dei mercanti che operavano per mezzo di lavoratori a cotti­ mo, quelle di tessitura le mettevano in contatto con una folla di donne che cucivano semplici capi nelle loro case. Fu la stessa condizione della Pietà (in tutto e per tutto, fuorché nel nome, una casa manifatturiera) a permet­ tere che questi due mondi tanto diversi trovassero un punto di contatto. I tessuti uscivano dalla Casa in piccole partite, dalle 20 alle 6o braccia, alla volta di donne come Monna de Pechori o Monna Margherita de Teri o Monna Fiammetta, che in effetti cucivano fazzoletti e camicie utilizzando quelle stoffe. Soltanto una donna, Monna Nannina, sembra che operasse

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in un ambito più vasto come rivenditora, cioè una donna che rivendeva i tessuti, probabilmente ridistribuendoli a dozzine di donne sparse un po' ovunque in città, che a loro volta li lavoravano in qualsiasi ritaglio di tem­ po, per farne piccoli articoli pronti alla vendita. Anche le ragazze della Pietà cominciarono a tessere semplici stoffe di seta e fettucce, anche se su scala più piccola49• Furono gli stessi setaioli che, relegando con le loro regole di corporazione donne e bambini ai margini del processo produttivo, permisero a queste categorie di realizzare soltanto i tessuti meno costosi, che i tessitori di sesso maschile avrebbero considera­ to una mera perdita di tempo - taffetà e raso piuttosto che velluto e broc­ cato. Spesso le donne si limitavano a tessere nastri sottili su piccoli telai, e non stoffe più ampie che avrebbero richiesto macchine più grandi. Allo stesso tempo, però, questa stessa donna, pezzo dopo pezzo, avrebbe guada­ gnato il triplo, o persino di più, di quanto avrebbe ricavato dai pannilana. La tessitura era l'unico segmento manifatturiero in cui a guadagnare di più erano i lavoratori della seta. Una donna che possedesse un telaio nella propria casa con cui poter lavorare nelle poche ore lasciate libere dalle fac­ cende domestiche, poteva arrivare a produrre so braccia di taffetà in otto settimane, intascando dalle 12. alle 15 lire, quanto bastava per un barile di vino e s staia di grano. Tessere la stessa quantità di raso poteva richiedere una volta e mezzo, o addirittura il doppio del tempo, ma avrebbe fruttato circa 2.0 lire50• Le ragazze della Pietà come Margherita, Maria e Maddalena sarebbero state in grado di produrre il leggero taffetà e il raso brillante in un tempo di gran lunga inferiore, dal momento che potevano dedicare molte più ore al lavoro. Data l'opportunità di tessere molte più stoffe in seta, le giovani della Pietà avrebbero potuto ricavarne entrate significativamente più consisten­ ti. Eppure a Borgo Ognissanti la tessitura della seta non fu cosl praticata, forse perché mancavano le necessarie competenze, forse perché mancava lo spazio per i telai. Avrebbe anche potuto esserci un tacito accordo in base al quale le giovani della Pietà, tratte dal fondo della scala sociale, dovessero essere tenute anche al fondo della piramide delle retribuzioni dei lavori a cottimo. Le giovani alloggiate all'interno di più esclusivi conservatori creavano merletti, ricamavano tessuti con fili d'oro. A Firenze, erano le suore a portare avanti la maggior parte di questi lavori, che richiedevano un'esperienza più grande e producevano entrate più rilevanti. Le fanciulle della Pietà sarebbero alla fine passate a questi tipi di manufatti più remu­ nerativi, ma solo dopo aver lasciato Borgo Ognissanti.

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lavoro era ciò che teneva in vita le ragazze. Ma fu anche ciò che le uccise ? I resoconti dettagliati per il campione preso in esame, l'anno rs6s, mostrano che fu certamente intenso - molto di più di una tonnellata di lana, centinaia di migliaia e, forse, persino qualche milione di bozzoli, ol� tre un chilometro di panni tessuti - ma davvero un tale volume di impegni poté divenire fatale ? Uno storico della seta sostiene che, a forza di dipana� re e filare, una ragazza si sarebbe logorata nel giro di sei, sette anni, e molte delle ragazze che morirono all'interno della Casa non ressero nemmeno tanto a lungo. Un altro storico tratteggia un quadro ancora più fosco: ll

Le condizioni di lavoro erano pessime [ ... ] . La tubercolosi era diffusa e il tasso di mortalità elevato. Rimpiazzare quelli che morivano era forse il motivo più co­ mune per cui si assumevano nuovi lavoratori. L'industria della seta letteralmente uccideva e nell'arco di due o tre anni allo stesso posto si avvicendavano tre o quat­ tro ragazze, spesso imparentate, che entravano nel laboratorio quando quella che le aveva precedute moriva. [ ... ] E alcune sopravvivevano agli stenti e alla fatica, mettendo da parte una dote sufficiente a fare entrare nella gilda l'apprendista che sceglievano per maritoP.

Le ragazze della Pietà lavorarono altrettanto duramente nel 1565, ma forse si trattò di un anno eccezionale. Dobbiamo guardare oltre questa finestra di un anno per avere un'idea di quanto fossero gravose le loro mansioni durante l'intero periodo in cui stettero a Borgo Ognissanti; un libro ma­ stro conservato negli archivi della Pietà ci fa sperare di ottenere questa prospettiva più ampia. Diverso dalle Croniche delle Suore della Pietà, ordinatamente ricopiate dalla badessa Maria Teresa Petrucci, il volume di conti Manifatture di Tele e Pigionali I554�79 è più simile al diario rilegato in cuoio del 1565�66 che abbiamo appena utilizzato, dato che stava nelle mani di chi gestiva la Casa nei suoi primissimi anni di vita52.. Molti gli inchiostri diversi tra loro, mol­ te le mani e molte le voci di bilancio registrate: sembra che tutti, Marietta Gondi, Monna Alessandra e Giovanni Bencini, prima o poi abbiano messo mano alle pagine di questo registro. Secondo quanto riporta l'inventario dell'archivio, questo libro mastro annota il valore dei tessuti realizzati dalle ragazze insieme a tutto ciò che la Casa aveva incassato nei suoi primi venti� cinque anni di vita. Questo dovrebbe consentirci di capire come ebbe inizio l'attività tessile della Pietà e che cosa significò la sua crescente importanza nei bilanci dell'istituto in termini di libbre di lana e seta effettivamente pro­ dotte. Potremmo anche intuire in che modo le ragazze riuscissero a destreg�

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giarsi tra la lucrosa occupazione laniera e la meno proficua, più concentrata e francamente estenuante, filatura della seta. Se l'ago della bilancia dovesse iniziare a spostarsi a favore della seta, potremmo facilmente ipotizzare un peggioramento delle condizioni di vita ali' interno dell'istituto della Pietà. TI manoscritto promette bene, ma alla fine non mantiene - almeno non tutto quanto aveva lasciato sperare, proprio come le Croniche. Un registro delle dimensioni di un libro d'affari in versione tascabile, che deve aver avuto le sue belle vicissitudini. Ha una copertina in nappa di vitello, ingiallita e logora per essere stata lasciata qua e là o ficcata in tasche e cinture. n dorso è ripiegato secondo la tipica, persistente incrinatura che hanno i libri continuamente aperti per essere rimpinzati con l'ennesima serie di annotazioni. Si apre con una sequela di note che risalgono ai pri­ mi anni Settanta del Cinquecento, scribacchiate qua e là, vicino e talvolta proprio sopra a un precedente elenco di voci della metà degli anni Cin­ quanta: questo è quanto si presentò allo sguardo del contabile Giovanni Bencini nel momento in cui si affrettò ad aggiungere agli altri anche i suoi conti. Tutte le spese del giorno, cibo soprattutto, affrettate descrizioni e prezzi scarabocchiati su pagine che ancora riportano gli ordinati e ponde­ rati calcoli dell'anno precedente. Forse Bencini infilava in tasca il registro e, quando doveva scrivere, perché era arrivato il macellaio con un po' di carne di montone o il fornaio con una montagna di pane, lo sbatteva sul primo piano d'appoggio che aveva a tiro. A partire dagli anni Cinquanta del Cinquecento, le voci di bilancio non indicano i comi dell'attività tessile, ma un elenco dei benefattori che si erano impegnati a sostenere la Pietà con lasciti annuali, insieme alla re­ gistrazione di quanto questi benefattori effettivamente donarono. Anno­ tata con cura da una mano ferma e indecifrabile, la lista potrebbe essere stata redatta da Marietta Gondi in virtù del suo ruolo di governatrice della Compagnia che aveva fondato l'istituto e che ne curava l' amministrazio­ ne, la Compagnia della Pietà. Ma né il signor Bencini, né Marietta Gondi riportano cifre sulla lavorazione di lana e seta. A dire il vero, scorrendo il volume avanti e indietro, sembra che il tessile sia tra le poche cose non registrate. Qualcosa, invece, sbuca a metà del libro, ben celato dopo alcu­ ne pagine bianche, e reca questa intestazione, Del Ricettario, seguita da alcuni fogli che danno l'idea di cosa queste ricette dovrebbero essere state. n titolo potrebbe far pensare tanto a un libro di ricette culinarie, quanto a un ricettario medico e, tuttavia, le carte in questione non riportano le indicazioni per fare una buona zuppa di verdure, stile ribollita, o uno stu-

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fato di carne, ma farmaci. L' inventario disponibile in archivio non accen� na a queste prescrizioni mediche, e nemmeno sul dorso del volume, sulla sua copertina o nelle pagine introduttive se ne fa menzione. Molti istituti conservavano raccolte simili a questa, ma certo non le tenevano nascoste. Dopo l'ultima prescrizione del ricettario, riprende la decisa, indecifrabile calligrafia - stranamente Bencini aveva evitato di scrivere i suoi conti so� pra queste pagine del ricettario. Le ricette non sono tante, soltanto quindici, disseminate in più di sette pagine. Sembra siano state scritte durante un certo periodo di tempo e, a giudicare dalla calligrafia, da almeno tre mani differenti. E non le stesse che hanno compilato le altre pagine del registro. Una grafia è ragionevol� mente scorrevole, mentre le altre hanno l'andamento impacciato, quasi infantile, proprio di chi sa scrivere, ma lo fa di radon. L'autrice potrebbe essere la priora Monna Alessandra o la "medicà' Margherita, la donna che si prendeva cura delle ragazze ferite o malate. Solo su una ricetta compare la data ed è il 1567. Alcune sono semplici miscele di tre o quattro ingredien� ti, le più complesse arrivano a dodici. Tutte descrivono il procedimento da seguire per l'amalgama delle sostanze e la rapida preparazione dei medica� menti, ma, nella maggior parte dei casi, com'è prassi di tutti i ricettari, non riportano nulla sui disturbi che miravano a lenire o curare. li Ricettario diventa, quindi, un altro pezzo dell' intricato puzzle della Pietà: potrebbe, forse, stare qui la chiave della misteriosa morte di tante ragazze della Casa. Forse il Ricettario aveva a che fare con gli infortuni sul lavoro, cosa che spiegherebbe la sua presenza nel registro Manifatture di Tele e Pigionali. Potrebbe, poi, anche darci un'idea su che cosa avesse reso le condizioni di vita all' interno della Pietà tanto malsane, addirittura mortali, per le adole� scenti stipate lì dentro. A una prima lettura, le prescrizioni del ricettario sembrano piuttosto semplici da interpretare: un assortimento di unguenti, pomate e impiastri che un cerusico avrebbe potuto spalmare esternamente, insieme a un paio di sciroppi per una ragazza, da bere a piccole dosi. I cinquantaquattro ingre� dienti appartengono alla sfera dei medicamenti fitoterapici, che associano elementi ali' apparenza inerti, come !'"olio vecchio" e la farina, con altri dalle maggiori proprietà curative, come la trementina o la pece greca. Alcune ri� cette sembrano indicare terapie per quel genere di infermità che è possibile immaginare frequente in istituti estremamente affollati, in cui le ospiti dor� mono nello stesso letto, mangiano poco e lavorano tanto, per quanto ci sia una sola prescrizione direttamente riconducibile a questa situazione.

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Insieme ai giacigli sovraffollati, le ragazze rischiavano di condividere an­ che alcune malattie della pelle. n Ricettario menziona la tigna, un fungo assai contagioso che si sviluppa sul cuoio capelluto dei bambini sotto forma di ampie chiazze squamose, di forma circolare. La tigna si diffonde rapida­ mente su tutta la testa e altrettanto rapidamente nelle case e negli orfano­ trofi dove i bambini vivono tutti accalcati. Anche se, in definitiva, non può dirsi irrimediabilmente nociva, la perdita dei capelli e le scaglie rendevano la tigna una brutta malattia, difficile da curare. Colpiva con maggior inten­ sità soprattutto i bambini più piccoli, quasi per niente gli adolescenti. Di fronte all'insorgere di un'epidemia, la "medicà' della Pietà doveva tagliare tutti i capelli sopra le parti infette del cuoio capelluto di una ragazza, prima di spalmarvi sopra un unguento risultato dalla miscela dei principi attivi dell'altea e dell'aquilegia, uniti da una base che combinava grasso di maiale e resina di pino in parti eguali. Secondo un anonimo speziale del xv secolo, l'altea aveva proprietà lenitive vicine a quelle della malva. Riusciva a ridurre rapidamente gonfiori e infiammazioni e aiutava la d costituzione dei tessuti epiteliali. Con l'aquilegia si preparava un composto che, somministrato in piccole dosi, potenziava il trattamento contro la tigna, cui si aggiungevano olio di semi di lino per sedare le irritazioni e ossido di piombo per alleviare i dolorosi fastidi. n Ricettario non specifica per quanto tempo la ragazza colpita da tigna avrebbe dovuto tenere questo balsamo sopra la testa rasata, ma la ammonisce a non coglierlo con il sapone, perché l'operazione sareb­ be risultata troppo penosa. Sarebbe, invece, toccato alla "medicà' bagnarle il capo con una soluzione mista di malva, frassino, piantaggine (utile, tra l'altro, a disinfettare e rimarginare le ferite) e un po' d'orzata, se ce n'era, in modo che la pelle risultasse più morbida, liscia e meno irritata54• Che genere di lesioni una ragazza avrebbe potuto procurarsi lavorando ai telai e ai filatoi che avevano riempito ogni spazio e ogni momento libero della Casa della Pietà? Le ragazze della Pietà, dato il loro esorbitante carico di lavoro, potevano andare incontro con facilità a problemi respiratori le­ gati alle tante ore trascorse curve sopra i catini d'acqua calda, impegnate a dipanare bozzoli in stanze a volte torride, a volte fredde, ma sempre umide. Per alleviare questi disturbi, la "medicà' avrebbe potuto preparare uno dei due impiastri per il torace indicati nel Ricettario e frutto della miscela delle farine di alcuni cereali e legumi essiccati e macinati, come le fave, i ceci (che si riteneva fossero ricchi di ferro e altri minerali), l'orzo (apportatore di energia) e la farina d'avena. Tutti questi ingredienti venivano cotti per lungo tempo e a fuoco basso assieme all' oximele semplice, un composto di

ADOLESCENTI DEL RINASCIMENTO miele e aceto che i dottori erano soliti prescrivere per la cura della tosse fin dai tempi di lppocrate55• Nel maneggiare le grandi pentole d'ottone in cui veniva cotta la seta, alcune ragazze avrebbero certamente finito per scot­ tarsi, e c'era almeno un unguento giusto anche per quest 'evenienza. Gli occhi erano conti nuamente puntati sui fili di tessuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, e in questo sforzo si consumavano, ed ecco che nel Ricet­ tario troviamo una pomata lenitiva per occhi infiammati descritta come "magistrale". La "medicà' mescolava alcuni grassi animali essiccati con il vino di malvasia, comunemente somministrato negli ospedali per alleviare il dolore. Cuoceva tutto insieme finché, evaporato il vino, non avesse otte­ nuto un impasto denso. Poi aggiungeva un po' di cera bianca, il principale legante degli unguenti, insieme a una data quantità di tutia, un sottopro­ dotto polverizzato della lavorazione dell'ottone, molto apprezzato per le sue proprietà curative, soprattutto contro gli ematomi56• Qualche ragazza, dunque, finì in infermeria a causa del sovraffollamen­ to e del superlavoro. Altre potrebbero, invece, aver manifestato i sintomi di una strana malattia che i medici avevano appena imparato a identificare come un morbo letale che colpiva le bambine in età puberale. Emicranie e tachicardia, stati umorali altalenanti tra apatia, depressione e inquietu­ dine, disappetenza, un'incipiente anemia e amenorrea: maggiore era il numero dei sintomi manifestati da una ragazza, maggiore era la facilità con cui si capiva che stava soffrendo di ciò che alcune fonti autorevoli de­ finivano morbus virgineus, la malattia delle vergini, e che in Inghilterra finì per essere comunemente conosciuta come greensickness. La conoscenza di questa malattia si stava appena diffondendo, incoraggiata da stampatori desiderosi d'approfittare della crescente domanda di testi di medicina. Nel 1 547 una stamperia veneziana pubblicò l'edizione italiana definitiva di alcuni trattati di ginecologia attribuiti a Trotula di Salerno, da molti ritenuta una donna, insegnante di medicina dell'xi secolo. Nei decenni a venire, uno stuolo di autori fecero pubblicare in gran fretta altre opere più divulgative sui "segreti delle donne", diffondendo informazioni su sintomi e origini del "morbo delle vergini" - immancabile qualche oppressione o strozzatura dell'utero. Ma fu una cura a divenire ancor più conosciuta: il più rapido sollievo per una ragazza afflitta da clorosi veniva dal sesso. Le cure più convenzionali prevedevano ragazze in preda a emorragie rinchiu­ se in stanze buie, a regime di pane e acqua, o con una " buona razione di percosse". Potevano venire in aiuto anche unguenti a base di erbe, balsami e impiastri come quelli descritti nel Ricettario. I medici temevano che il

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morbo delle vergini potesse essere letale se non curato, ma è poco probabi­ le che alla Pietà ne avessero sofferto in molte. Con il passare degli anni, in­ fatti, i dottori notarono che sembravano esserne colpite soltanto le ragazze d'alto rango, mentre restavano incolumi quelle più povere o provenienti da famiglie di braccianti e salariati. Lagreensickness era il frutto della me­ dicalizzazione della pubertà aristocratica57• Trotula e l'anonimo speziale del Rinascimento ci aiutano a compren­ dere ciò che guaritori, infermiere e pazienti speravano di ricavare dall'uso degli ingredienti elencati nel Ricettario. E dal momento che i dottori di allora attingevano a piene mani dalle fonti classiche, è almeno altrettanto importante stabilire quale opinione avessero i medici della Grecia e della Roma antiche in merito a quegli stessi ingredienti. Con ogni probabilità, tra le autorità di riferimento figuravano Dioscoride, autore di una fonda­ mentale farmacopea, e Sorano, medico del II secolo la cui Ginecologia fu il primo, e di fatto unico, manuale sulla salute delle donne, testi assai diffusi in versione tradotta o compendiata58• Ma questa panoramica più ampia porta alla luce un aspetto singolare di queste ricette. In un certo numero di esse si ritrova la descrizione di miscele di ingredienti che Dioscoride, Sorano, Trotula e l'anonimo spe­ ziale del Rinascimento definivano abortivi - cioè talmente tossici da poter innescare un abortos9• In effetti, nove delle cinquantaquattro sostanze pre­ senti nel Ricettario avevano questa proprietà. Il problema che fin dall'ini­ zio abbiamo indagato - qual era la causa della morte delle ragazze della Pietà - improvvisamente assume contorni inaspettati, quasi inverosimili. La Pietà, con l'omonima confraternita che ne supervisionava l'attività, era forse impegnata in un'opera di sostegno alle ragazze che sceglievano di interrompere la loro gravidanza?

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Adolescenti e sistemi di controllo della natalità

LIGURIO Ma egli è necessario, prima che questa limosina si faccia, che voi ci aiutiate d'un caso intervenuto a Messere [Nicia] ; e solo voi potete aiutare, dove ne va al tutto l'onore di casa sua. ' F RA TIMOTEO Che cosa è? LI GURIO Io non so se voi conoscete Camillo Calfucci, nipote qui di M essere. ' F RA TIMOTEO Sì, conosco. LIG URIO È seguito che o per trascurataggine delle Monache, o per cervellinag­ gine della fanciulla, la si trova gravida di quattro mesi; di modo che, se non si ripara con prudenza, il dottore, le monache, la fanciulla, Cammillo, la casa de' Calfucci è vituperata; e il dottore stima tanto questa vergogna, che si è botato (quando la non si palesi) dare 300 ducati per l'amor di Dio. N I CIA Che chiacchiera! L I GURIO State cheto. E daragli per le vostre mani, e voi solo e la Badessa ci po­ tete rimediare. ' F RA TIMOTEO Come? LIGURIO Persuadere alla Badessa che dia una pozione alla fanciulla per farla sconciare. ' F RA TIMOTEO Codesta è cosa da pensarla? L I GU RIO Guardate nel far questo quanti beni ne risulta. Voi mantenete l'onore al monastero, alla fanciulla, a' parenti; rendete al padre una figliuola, satisfate qui a Messere e a' tanti suoi parenti; fate tante elemosine, quante con questi 300 du­ cati potete fare; e dall'altro canto, voi non offendete altro che un pezzo di carne non nata, senza senso, che in mille modi si può sperdere. E io credo che quello sia bene, che facci bene a' più, e che i più se ne contentino. ' F RA TIMOTEO Sia col nome di Dio, facciasi ciò che volete; e per Dio, e per carità sia fatto ogni cosa [ .. ] . L I GURIO Or mi parete voi quel religioso che io credeva voi fuste'. .

È mai possibile ? E che cosa potrebbe significare ? È certamente possibile, come avremo modo di osservare più avanti, e probabilmente significa mol­ to meno di quanto si possa immaginare. L'attuale dibattito sull'aborto ha

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finito per circoscrivere questo fenomeno a un gesto o a una pratica che po­ chi nel Rinascimento avrebbero compreso: sempre intenzionale, sempre consapevole e sempre volto a sopprimere un feto umano prima che il suo sviluppo volga a termine. Gli uomini del Rinascimento non avevano idee altrettanto chiare. La parola "aborto" era un termine piuttosto generico all'intero della vasta, indefinita area semantica dei sintomi delle malattie che una donna poteva contrarre. Si pensava che tutta la vita di una donna, insieme al suo benessere fisico, ruotassero attorno al suo utero. E così an­ che le sue infermità. Una lieve indisposizione stava a significare una sem­ plice disfunzione uterina. Una più grave affezione poteva, invece, indicare un utero in movimento - alcuni medici erano del parere che quest'orga­ no potesse viaggiare per il corpo, seminando distruzione all' intorno. Ma la più comune diagnosi per la malattia di una donna era l'ostruzione del suo utero. I suoi cicli regolari si erano per qualche ragione bloccati. E dal momento che un flusso mestruale regolare era la chiave del benessere, poi­ ché comportava lo svuotamento del corpo stesso dal sangue cattivo e dagli altri fluidi, o "umori", la prima mossa di un dottore era quella di riaprire il corpo intasato per ristabilirne le cicliche fuoriuscite. Quel semplice ge­ sto avrebbe favorito il rilascio degli umori nocivi, ripristinando il naturale equilibrio dell'utero e il generale benessere della donna. E questo richiede­ va l'uso di alcuni farmaci potenti1• Accadeva con una certa frequenza che le adolescenti soffrissero di ame­ norrea. Nel Rinascimento lo sviluppo sessuale avveniva in età più avanzata rispetto a quanto accade oggi e la malnutrizione era tanto diffusa che era­ no probabilmente davvero poche le ragazze che non soffrivano di disturbi di natura mestruale - i prontuari di medici e speziali erano pieni di ricette indicate proprio per questo genere di indisposizioni. Il problema avrebbe potuto essere persino più grave ali' interno della Casa della Pietà, dove pre­ sumibilmente le ragazze entravano malnutrite e cagionevoli, con una dieta di m era sussistenza a base di pane, fagioli e verdure, e cominciavano subito a lavorare sodo. n risultato di questa combinazione (un organismo con pochi grassi, un'alimentazione modesta e un lavoro estenuante) avrebbe potuto essere, appunto, l'amenorrea, un "blocco" del ciclo mestruale, ma anche un acutizzarsi dei dolori che ne accompagnano la comparsa ( disme­ norrea). E questo richiedeva di nuovo le stesse potenti medicine, sebbene in dosi inferiori. Questi disturbi, insieme con altri, potevano anche essere segno di una gravidanza. A ogni modo, se una donna aveva nausea e vomito, se il suo

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seno e il suo addome s'ingrossavano, se era stanca e lunatica, o era incinta o aveva un edema. Cercare di capire se alla Pietà si stava tentando di porre fine ad alcune gravidanze quando si prescrivevano queste forti terapie è questione com� plessa. Potrebbe non essere ciò che avevano in mente Monna Alessandra, o la "medica'' Margherita o Marietta Gondi, la donna a capo della Com� pagnia della Pietà. Abbiamo comunque bisogno di chiederci perché do� vremmo rifuggire da questa conclusione. Senza dubbio, la maggior parte delle coppie italiane del Rinascimento desiderava avere dei figli e ricorreva all'uso di farmaci per potenziare la fertilità e aumentare le possibilità di generare. Allo stesso tempo, novellieri come Niccolò Machiavelli e Pietro Aretino amavano ordire intrecci in cui, alle consuete storie d'amore, si me� scolavano episodi di sesso extraconiugale e, anche quando di tali episodi non si narravano le possibili conseguenze, il controllo delle nascite era sen� za dubbio una prassi abituale nel Rinascimento. Se le loro storie include� vano casi di aborto, gli scrittori erano soliti preferire le nubili alle sposate, dal momento che la quasi totalità delle coppie affrontava ogni sacrificio per averli, i bambini, non per liberarsene. Quasi, ma non tutte - nel tardo Quattrocento, il predicatore francescano Cherubino da Siena ( 1414� 1484) scriveva in volgare il suo manuale, Vitae matrimonialis regula (affinché fos� se accessibile a un pubblico più vasto) e in esso condannava gli sposi che, durante i loro amplessi, utilizzavano particolari artifizi per evitare il con� cepimento, spaventati dalla scomodità economica e sociale di una nuova nascita. Senza tener conto del fatto che un istituto come quello della Pietà, pieno di signorine adolescenti, avrebbe calzato agli stereotipi della narra� riva popolare assai meglio di un casa per donne sposate e persino di un convento di suore2• Nel Rinascimento il termine "aborto" faceva intendere molto di più di una mera tecnica per il controllo della natalità. La conversazione che Liguria ha con padre Timoteo sulla giovane della famiglia Calfucci può essere assunta a campione di ciò che le persone comuni pensavano, o im� maginavano, fosse l'aborto ? La condanna di padre Cherubino suggerisce forse che, sposati o meno, erano in molti a ritenere ragionevole una prassi di privato governo del concepimento ? Che genere di tecniche e medica� menti poteva usare una ragazza del vecchio Ospedale dell' Umiltà, all'an� golo tra via Nuova e Borgo Ognissanti, e come avrebbe potuto imparare a usarli ? Considerata la situazione dell'istituto e la vita di bambine come Margherita, Maria e Maddalena, c'era qualcosa che poteva indurre i loro

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tutori a ricorrere a queste pratiche? E rispondere a queste domande ci aiu­ terà a capire ciò che stiamo cercando : da che cosa erano uccise le ragazze della Pietà?

Fuori e dentro l' utero

Qualunque cosa stesse crescendo nel grembo della giovane Calfucci non era un essere umano, almeno secondo la gran parte delle autorità scientifi­ che del Rinascimento. Senz'altro, non per i primi mesi e non c'erano nem­ meno garanzie che lo sarebbe divenuto poi. Secondo quanto dice Ligurio, ciò che si va formando nel ventre della ragazze è solo «un pezzo di carne non nata, senza senso» . La tempistica di Ligurio era un po' più lunga del consueto. Per essere un uomo, bisognava avere un'anima e questo am­ masso carnoso nel ventre ne acquisiva una solo quaranta o novanta giorni dopo il suo concepimento, talvolta persino più tardi - alle donne, l'anima arrivava in ritardo. Aristotele, nella sua Storia degli animali, aveva soste­ nuto che il feto conosceva prima uno stadio vegetativo, poi uno animale e, finalmente, quello umano, quando l'anima razionale faceva il suo ingresso nel corpo. Mentre molti autori cristiani dei primi secoli avevano argomen­ tato che tutti gli aborti, fin dal momento del concepimento, dovessero essere equiparati a un omicidio, Agostino ritornò all'idea aristotelica di un"'animazione successiva" del feto. Mancando un magistero definitivo di riferimento, fu quest'ultima posizione a prevalere. Non si trattava di oziose discettazioni: le donne potevano generare nel loro grembo un certo numero di cose assai diverse tra loro. li ventre di una donna era un universo magico e prodigioso, ma, so­ prattutto, sconosciuto e imprevedibile. Non generava solo bambini, ma, attraverso una "falsa gravidanzà', anche la "mola", un agglomerato carno­ so solo inizialmente assimilabile a un feto, in realtà un tumore che avreb­ be i nvaso il corpo della donna se non fosse stato estirpato. Si pensava che la mola fosse il prodotto della materia marcita nell'utero, oppure che fosse dovuta a un infelice allineamento astrale; in ogni caso era comune­ mente ritenuta un feto che non si era sviluppato oltre lo stadio vegeta­ rivo. Altri feti potevano non andare più in là della condizione animale. Nel suo Tractatus de matricibus (1481) Antonio Guainerio, professore di medicina all' Università di Pavia, spiegava che una donna che conser­ vasse materia corrotta nel suo utero rischiava di concepire, insieme al

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suo bambino, anche un rospo o qualche altro animale dai veleni mortali. n professore stava così tentando di utilizzare Ippocrate e Aristotele per dare una spiegazione scientifica a un episodio che aveva sentito raccon­ tare da alcuni contadini pugliesi. Era anche del parere che un seme ma­ schile debole, o uno femminile eccessivamente vitale, potessero generare orrende creature dall'aspetto animale3• Negli stessi anni in cui la Pietà apriva i battenti, un altro medico diffuse la teoria in base alla quale avere rapporti sessuali durante il ciclo mestruale avrebbe portato alla nascita di una prole mostruosa. n concepimento di mostri - non di semplici feti umani deformi, ma di esseri con squame o parti di animali - poteva an­ che dipendere dal miracoloso intervento di Dio, che utilizzava il grembo della donna come strumento per veicolare un messaggio profetico. Così la creatura mostruosa poteva essere segno premonitore di una calamità incombente, alluvioni, guerre, terremoti, tutte risposte di Dio ai pec­ cati dell'uomo. Pochi decenni prima, nel bel mezzo dei disordini delle guerre d' Italia e alla vigilia della Riforma, molte donne italiane avevano dato alla luce mostri simili a quelli descritti, resi noti in tutta Europa da racconti inediti e opuscoli illustrati4• In breve, le persone credevano che il ventre di una donna potesse ge­ nerare molto di più che un neonato di specie umana: «un pezzo di carne ancora non nata ». La natura e lo sviluppo di questa misteriosa entità era­ no da attribuire più all'azione degli astri, della materia e di Dio che a un semplice rapporto sessuale. Mole, mostri e rospi non avevano un'anima e alcuni di coloro che erano preposti a vedere questo genere di materia vegetale o animale venire fuori dal grembo materno erano anche preparati a considerare la "purga del ventre" come una pratica terapeutica efficace e necessaria. Non bisognava mai praticarla con leggerezza, ma chi vi ricor­ reva non sarebbe stato ritenuto colpevole di omicidio. Al centro di tutto, l'anima. Mentre Aristotele scelse di vedere nello sviluppo di gambe e brac­ cia e nell'avvio delle capacità razionali i tratti distintivi dell'umana natura, i teologi cristiani si concentrarono sull'unica cosa che rendeva l'uomo si­ mile a Dio, al riparo della sua protezione e di quella della Chiesa, l' animaS. Era il suo arrivo a sancire l'umanità del feto e a rendere la sua asportazione un assassinio. Nessun'anima, nessun peccato - avrebbe potuto essere fin troppo co­ modo. Predicatori, teologi ed ecclesiastici non avallarono mai questa facile corrispondenza e cercarono di chiudere ciò che per i laici poteva divenire un'agevole scappatoia. li filosofo scolastico Tommaso d'Aquino sostenne

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che interrompere una gravidanza, in qualsiasi fase del suo naturale decor­ so, fosse sempre «un peccato grave » , anche se soltanto la rimozione di un feto "animato" implicava l'omicidio6• Furono due toscani, responsabili più di ogni altro dell'atmosfera teologica dell' Italia di metà Quattrocento, a esprimere con chiarezza le implicazioni pratiche di tali discettazioni. n predicatore francescano Bernardino da Siena (1 3 8 0-1444) condannò gli « aromatarii e pigmentarii» per aver ideato medicamenti volutamente al­ terati e nocivi, chiamando direttamente in causa i medicinali abortivi7• n domenicano Antonio Pierozzi, più tardi Antonino, arcivescovo di Firen­ ze, fu ancora più diretto: all' interno di un manuale per confessori che co­ nobbe un'ampia diffusione, scrisse che ai medici doveva essere rivolta que­ sta domanda a bruciapelo, se avessero mai eseguito pratiche che potevano porre fine a una gravidanza. Condannò gli « aromatarii » che «docent ve! vendunt ea quae procurant abortum [ ] vel vendunt venena his quos cre­ dunt abusurus» (insegnano a preparare o vendono sostanze con proprie­ tà abortive [ ] o che vendono veleni a coloro che potrebbero abusarne). L'aborto, con qualsiasi mezzo procurato, «peccatum mortale est» 8• n tema fu ripreso qualche decennio più tardi da un altro carismatico riformato­ re. n domenicano Girolamo Savonarola era il nipote di un noto medico e professore, Michele Savonarola, autore di un altrettanto noto manuale di ginecologia. Quando era alla guida del monastero domenicano di San Marco, a Firenze, padre Girolamo divenne celebre per le sue crociate con­ tro il malcostume e la corruzione e per la sua richiesta di provvedimenti apertamente cristiani volti a regolare la vita pubblica e privata dei cittadi­ ni. Come Antonino, era convinto che il confessore dovesse chiedere conto alle donne della loro vita matrimoniale e sessuale. Avevano fatto l'amore soltanto con il proprio marito? E questi aveva fatto attenzione a introdur­ re il suo seme non ritirandosi all'ultimo minuto ? Avevano avuto rapporti durante il mestruo o quando era incinta9? Questi erano alcuni dei sistemi adottati per cercare di evitare gravidanze indesiderate e, stando al parere di Savonarola, Antonino e Bernardino, con ognuno di essi si cadeva in peccato mortale. Altri teologi del XVI secolo tentarono, invece, di salvaguardare quel­ la zona grigia di cui Aristotele aveva gettato le fondamenta. Tommaso de Vio, il cardinale Gaetano (1468-I534), teologo domenicano e generale dello stesso ordine, concordava sul fatto che la pratica intenzionale dell'a­ borto su un feto vivo costituisse un omicidio. Ma volutamente egli inse­ risce l'asserzione "l'aborto è omicidio" all'interno della teoria aristotelica ...

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della generazione, arrivando a sostenere che porre termine a una gravidan­ za avrebbe significato uccidere solo dal momento in cui il feto fosse stato dotato di un'anima razionale. Se praticato prima che l'anima facesse il suo ingresso nel corpo, l'aborto non avrebbe comportato l'accusa di assassinio per l'uomo, o la donna, che lo avesse procurato. Un altro teologo, il gesuita spagnolo Tommaso Sanchez (zsso-z6zo ) , si spinse persino oltre, quando pose la domanda: « Può una donna che è stata oggetto di violenza sessuale espellere il seme ?» ( «Utrum sponsa per vim oppressa a sponso [ ... ] possit semen expellere» ) . Con una certa freddezza, egli rispose di sì, che in ef­ fetti era concesso perché la donna, durante il rapporto sessuale, non aveva perseguito il suo personale piacere e la fecondazione non era frutto della sua volontà. Lo sperma era il seme della vita, ma non la vita stessa. Certa­ mente, sia l'esercizio volontario della contraccezione, sia l'espulsione di un feto "animato", ottenuto con erbe, pozioni, azioni concrete e con qualsiasi altro mezzo, era da considerarsi tanto un reato di omicidio meritevole di castigo qui, sulla terra, quanto un peccato mortale degno degli eterni sup­ plizi nell'aldilà, dopo la morte10• Queste erano le vivaci dispute teologiche al tempo in cui le donne della Pietà escogitavano le loro ricette, a Borgo Ognissanti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Cinquecento. Se anche avessero aiutato le ado­ lescenti ad abortire nel primo trimestre della gravidanza, nessuna legge le avrebbe definite con chiarezza "assassine". Nessuna legge ecclesiastica e nessuna legge civile, almeno non in Italia. Nella legislazione di Firenze, Milano, Bologna, Venezia, Napoli, Perugia e di quella di una moltitudine di altri grandi e piccoli centri d' Italia non si trova traccia del problema del! 'aborto e senza dubbio non lo siinterpretava come una forma p unibile del reato di omicidio. C 'era un autorevole posizione scientifica e persino qualche fondato parere teologico per i quali espellere quanto stava cre­ scendo nel ventre di una donna era da considerarsi un gesto ammissibile, date certe circostanze". Nel giro di pochi decenni, un papa avrebbe cercato di fare chiarezza sulla questione, serrando i ranghi contro ogni possibile espediente, e l'esito di questi sforzi è evidente. Sisto v mise in cantina Aristotele e con estrema semplicità, nella sua bolla Effraenatam del 1588, equiparò ogni aborto a un omicidio. Egli so­ stenne che coloro i quali non temono di uccidere in modo tanto efferato feti ancora nascosti nelle viscere materne dovrebbero patire un "giusto ca­ stigo" - lo stesso che veniva assegnato ad assassini e sicari ( «homicidae poenis subiciantur » ) , sia maschi che femmine, «cuiscumque status, gra-

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dus, ordinis ac conditionis » (indipendentemente da stato, livello sociale, rango e condizione)11• Sisto v portò la questione all' interno della Chiesa, includendo espressamente nella sua radicale condanna i chierici e gli ap­ partenenti a qualsiasi ordine religioso'3, di qualsiasi dignità e illustre posi­ zione ecclesiastica o mondana godessero ( «Clericos, saeculares vel cuisvis ordinis Regularis, quavis dignitate et praeminentia Ecclesiastica vel mun­ dana fulgentes » ) . Sisto v non condivise nulla di un ambiente culturale che biasimava e puniva con assoluta prontezza soltanto il peccato delle donne. Qualsiasi terza persona fosse intervenuta per facilitare l'eliminazione del feto con percosse, veleni, farmaci, pozioni, carichi e fardelli, fatiche e lavori imposti a una donna incinta ( «percussioni bus, venenis, medicamentis, potionibus, oneribus, laboribusque mulieri praegnanti impositis » ) avreb­ be dovuto ricevere la stessa pena che le leggi civili e profane infliggono ad assassini e sicari riconosciuti colpevoli di omicidio. In più, chiunque avesse consigliato a una donna di abortire, o l'avesse aiutata a preparare o a som­ ministrare pozioni per la sterilità, medicamenti e veleni sarebbe stato allo stesso modo colpevole di omicidio e pertanto soggetto alle stesse sanzioni. Chiudendo il passo anche all'ultima scappatoia, poi, papa Sisto v affermò che le pene andavano ben oltre alle terrene sottigliezze (essere scoperti, ac­ cusati e processati) ; chiunque più o meno direttamente avesse preso parte a un aborto era automaticamente scomunicato ( «ipso facto, nunc prout et tunc excommunicamus, et pro excommunicatis declaramus» ) '4• La bolla E.Ifraenatum era l'opera di un papa riformatore che non arre­ trò mai nel suo impegno di moralizzazione dello stato, del clero e del laica­ to a lui sottoposti. Eppure, tre anni dopo, quel documento era ancora let­ tera morta. ll successore di Sisto v, Gregorio XIV, a soli cinque mesi dalla sua elezione, capovolse i contenuti dell'intransigente documento del suo predecessore. Con la bolla Sedes Apostolica (1591) riconobbe che i frutti tanto attesi da papa Sisto v non potevano essere raccolti, dal momento che il meccanismo dell'immediata scomunica stava risultando controprodu­ cente - il timore dei fedeli nei confronti di quest'estrema punizione stava diminuendo, anziché aumentare. Per questo Gregorio XIV tornò all'antica ambiguità, riservando le pene più severe ai quei soli casi in cui l'aborto fosse avvenuto ai danni di un feto animato e stralciando le minacce di tri­ bunali terreni e celesti per medici, speziali, levatrici e per qualunque altra persona avesse aiutato una donna ad abortire prima che il feto si fosse do­ tato di un'anima. Secondo alcuni, forzò l'idea aristotelica per arrivare a 116 giorni, cioè ai quasi quattro mesi che Ligurio reclama per la giovane

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Calfucci nella Mandragola di MacchiavellPs. Ciò avveniva quasi trecento anni prima che la Chiesa Cattolica ritornasse sulle posizioni volute da Si­ sto v e subito ritirate da Gregorio XIV'6• Che cosa era successo? Sulla scia del Concilio di Trento, la Chiesa cat­ tolica aveva prontamente adottato una serie di nuove, impopolari e prati­ camente inapplicabili dottrine e pareri, forse confidando nel fatto che il tempo, l'istruzione e la costante persecuzione portata avanti da vescovi e inquisitori avrebbero ricondotto nei ranghi eventuali dissidenti. Questo sta a indicare che l'intransigente posizione di Si sto v non fu ribaltata per­ ché inapplicabile. Piuttosto prevedeva sanzioni molto più severe di quelle contemplate da alcune teorie ampiamente condivise, avvalorate dagli stes­ si Aristotele e Agostino e ritenute ancora di grande buon senso da molti, religiosi o laici che fossero. Può anche darsi che la linea di papa Sisto v sfidasse alcuni consolidati interessi personali. John T. Noonan, autore di ricerche sulle dottrine cattoliche in materia di usura e contraccezione, una volta sostenne che la Chiesa abbandonò la sua posizione di severa con­ danna dell'usura, maturata in età medievale, quando, da parte del clero, iniziarono a crescere interessi di parte. Dal tardo Rinascimento, numerosi sacerdoti, in via personale, e la stessa Chiesa istituzionale cominciarono ad avere bisogno dell'usura, o a trame profitto, e questo mise in moto quel genere di costante pressione che alla fine conduce i teologi a rivedere un antico divieto. Noonan conclude che, in materia di contraccezione, gli ec­ clesiastici non ebbero un analogo tornaconto personale, e fu questa l'unica ragione per cui, tra loro, non crebbe mai alcun tipo di spinta in direzione di un cambiamento della dottrina o del diritto canonico della Chiesa in quell'ambito'7• Il rapido cambio di direzione rispetto alla bolla Effraenatam tan­ to apertamente indirizzata contro preti, frati e suore - sembra in effetti suggerire che la questione dell'aborto richiamava vicende per cui almeno una parte del clero mostrò qualche cosa di più di un teorico interesse. Spostando l'animazione del feto dal quarantesimo al centosedicesimo giorno successivo al concepimento, si trasformò un piccolo spiraglio in un portone spalancato. La possibilità di terminare una gravidanza entro i 1 1 6 giorni dal suo inizio risultò assai funzionale per qualsiasi uomo o donna che non fossero stati nelle condizioni di dover avere dei figli. Con il Concilio di Trento impegnato ad affrontare l'antica noncuranza verso il concubinato di molti preti e a imprimere un giro di vite all'altrettanta consolidata abilità delle suore d'incontrare uomini dentro e fuori il loro -

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convento, gli interessi privati del clero in fatto di contraccezione e aborto iniziarono addirittura ad aumentare a partire dal tardo Cinquecento18• Certamente la pensava in questi termini papa Sisto v quando esplicita­ mente li additò nella sua bolla. Pur condannando tutti i responsabili, spe­ se la maggior parte delle sue energie contro il clero - preti, monaci, frati e suore che, come padre Timoteo o come l'anonima badessa protagonisti della Mandragola, consigliassero, agevolassero, dirigessero o, addirittura, avessero un aborto. Dunque, Sisto v non aveva dubbi : il clero era colpe­ vole e, forse, persino il primo a peccare. La sua era una stima realistica o era frutto della lettura di troppe novelle simili ai Ragionamenti di Pietro Aretino, alle Facetiae di Bracciolini e al Novellino del Salernitano, dove si perpetua, identico, il cliché di suore e frati che fornicano allegramente? L'anticlericalismo ha nutrito la satira per secoli e furono pochi i lettera­ ti che sentirono la necessità di rimanere obiettivi mentre fantasticavano sui mille modi in cui monaci, suore e preti, persi nella ricerca dei piace­ ri della carne, potevano infrangere i loro voti sacerdotali. Era un topos diffuso nelle letteratura satirica, utile a chi voleva aumentare le vendite. Ma satira a parte, Sisto v avrebbe potuto anche rammentarsi di alcune vicende imbarazzanti, come quella di don Giovanni Pietro Lion, un sa­ cerdote pubblicamente giustiziato nel 1561 perché ritenuto colpevole di aver abusato della sua posizione di confessore del convento delle Con­ vertite di Venezia, che raccoglieva ex prostitute. Colto e ben introdotto nella buona società, Lion aveva fama di uomo buono e casto. Scelse le sue vittime spiandole mentre si spogliavano prima del bagno e poi, con lusinghe, adescamenti, minacce, reclusioni e persino percosse, costrinse le più belle ad avere rapporti con lui19• Le stesse religiose veneziane erano divenute tanto popolari per le loro prodezze sessuali che i predicatori nei loro sermoni avevano bollato i loro conventi come pubblici bordelli10• Ma la loro presunta licenziosità poteva spingersi fino all'uso di preparati abortivi ? n vescovo e novelliere Matteo Bandella (I48S-IS6I), all'inizio del XVI secolo, scrisse di una certa Pandora, disperata perché incinta, che si rivolgeva a un frate per ottenere rimedi a base di erbe, cibi e salassi con cui sbarazzarsi di un feto ormai di sei mesi"'1• Don Lion fu accusato di aver indotto ad abortire le suore delle Convertite che aspettavano un figlio da lui e, alcuni decenni dopo, la magistratura veneziana preposta al controllo della moralità degli istituti religiosi incriminò un laico, Galeaz­ zo Simitecolo, per aver preso parte, insieme ad alcune suore, a esercizi di natura tutt'altro che spirituale:

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Et per esser anco in tempo di notte andato con altri con barche alla riva della caneva di esso monasterio a portar inanzi, et solo a levar in barchetta la medesima monaca, conducendola in un casino poco discosto, nel quale hebbe copula carna­ le con persona che ivi s'attrovava. Havendo anco altra volta nel medesimo modo levata questa, et un'altra monaca, che era graveda, conducendole nel medesimo casino dove s' attrovava una comare per consigliare il modo di farla disperder. Et mentre stavano insieme la predetta comare et munega graveda habbia fatto il pos­ sibile per h aver con l'altra monaca commercio carnale••.

Si trattò di una manciata di casi, la cui esistenza ci è nota grazie al fatto che furono perseguiti e condannati con estremo vigore. La maggior parte delle suore conservò la sua castità e i loro conventi erano tutt'altro che bordelli. I crimini sessuali più singolari e brutali avvennero in larga parte altrove, fuori dagli istituti religiosi. Eppure le salaci aspettative dei lettori molti­ plicavano le ambiguità, anche se di natura puramente narrativa. Accanto alle conclusioni dell'Aquinate, ai sermoni di Bernardino, alle disposizioni di Antonino, c'erano lo scaltro teologare di Machiavelli, le suore e i frati di Aretino, dediti a un'attività sessuale assai vivace, e i casi pubblici come quello di don Lio n che si accoppiava con ex prostitute acconciate da suore. Le sue vicissitudini divennero ancora più popolari quando il boia venezia­ no preposto alla decapitazione di don Lion combinò un gran pasticcio, finendo per fare letteralmente a pezzi il prete, fino a farlo morire, davanti alla folla che, inorridita, osservava la scena. I fiorentini ascoltavano storiel­ le simili a riguardo dei loro frati, intenti a trasformare il rifugio per vedove dell'Orbatello nel loro bordello privato, o sui preti di campagna pestati a sangue quando si scopriva che avevano messo incinta una ragazza del posto. È dunque possibile che prendessero con le molle ogni direttiva dei predicatori circa le condotte sessuali da tenere"''. Le novelle e le commedie spingevano i comportamenti dei singoli oltre i limiti dell'immaginario dei loro lettori. Nel secondo capitolo, da alcu­ ni documenti legali, abbiamo ricavato esempi di stupri incestuosi; alcuni autori italiani e francesi inserirono anche questo elemento all' interno del contesto utilizzato per introdurre il tema dell'aborto. Giovanni Sercambi ( 1400 ca.) scrisse di una sposa tredicenne lasciata in custodia alla sorella del marito e poi violentata dal cognato. Questi andò dallo speziale i n cerca di un farmaco abortivo e, al suo rifiuto, si rivolse a un medico, che lo aiutò diagnosticandogli una falsa gravidanza, una mola. Egli, dunque, fece na­ scondere la ragazza, la fece partorire e diede via il suo bambino. Ristabill, poi, la generale e perduta serenità facendo sottoporre la ragazza a un trat-

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tamento che la facesse sembrare ancora vergine - «trovò la Pippa esser di sotto più stretta che una donzella di dieci anni » . All' incirca nello stesso periodo, un racconto miracolistico francese presentava uno zio tutore che abusava tanto regolarmente della sua protetta da metterla incinta per ben tre volte. Si avvalse di sostanze abortive per disfarsi dei primi due feti; la terza volta, la ragazza tentò di uccidersi, ma fu salvata per intercessione della Vergine Maria'4• In breve, i fiorentini del XVI secolo, quando si parlava di aborto, si muovevano all'interno di un ambiguo orizzonte teologico e giuridico. Se anche il clero poteva manifestare margini di dissenso su ciò che era da con­ siderarsi lecito, che libertà di azione poteva esserci per gli uomini e per le donne non consacrate ? Uno dei problemi che nascono dall'utilizzare opere letterarie come le novelle per risalire a stili di vita e costumi di questo periodo riguarda lo scarso numero di donne che, stando a questi racconti, rimanevano in­ cinte - si tratta in gran parte di storie divertenti, senza esiti negativi, che con ogni probabilità rappresentano più le pie illusioni di autori di sesso maschile avanti negli anni che la vita concreta con cui avevano a che fare ogni giorno le giovani donne. Ma ci sono alcune eccezioni, soprattutto nelle opere italiane e francesi, in cui donne come la badessa della Man­ dragola cercano di acquisire medicamenti o tecniche utili a impedire il concepimento o a indurre un aborto"'S. Medici e speziali non divulgavano ai quattro venti i sistemi anticoncezionali e abortivi, come facevano i loro colleghi in epoca classica, e questo in ragione di consuetudini, leggi e siste­ mi di censura diversi. Nondimeno, i loro manuali erano pieni di informa­ zioni in materia. Talvolta la descrizione delle tecniche atte a procurare un aborto ricadeva sotto il titolo "Precauzioni" - ossia cosa evitare per assicu­ rarsi una buona gravidanza e un parto sicuro. Altre volte, le stesse pratiche erano illustrate in modo più esplicito come operazioni e terapie volte ad affrontare comuni "disturbi del ventre" o, ancora più apertamente, utili a espellere un feto morto, una mola o una placenta. Per concludere, in ogni testo di ginecologia per levatrici e dottori si potevano scovare i sistemi per procurare un aborto, anche se non erano mai presentati in quanto tali. A una donna servivano solo un po' di fantasia e di disperazione per capire che quegli stessi rimedi potevano essere utilizzati per ottenere quei risulta­ ti cui i medici avevano soltanto alluso'6• Nel caso in cui una ragazza della Pietà si fosse rivolta alla medica Mar­ gherita per un grave "disturbo del ventre", che genere di risposta avrebbe

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potuto ricevere ? I rimedi del Ricettario della Pietà, se utilizzati appieno, si inserivano all'interno di un più ampio pacchetto di cure che risalivano all'opera di autori classici come Galeno e Ippocrate. La medica Margherita avrebbe probabilmente iniziato a trattare la ragazza lavorando con i sei principi "non naturali" che presiedevano alla salute: aria, alimentazione, sonno, movimento, evacuazione e relazioni sessuali. In base ai primi tre, si sarebbe potuto portar via la ragazza dall'affollato dormitorio verso un in­ fermeria, sebbene non sappiamo se l 'Ospedale dell'Umiltà disponesse di tante stanze da poterne riservare una a questo scopo. Indipendentemente dal luogo in cui avesse scelto di destinare la giovane, le prime mosse di Margherita sarebbero state misurate e non invasive. In mancanza di una buona risposta, avrebbe potuto disporre delle manovre fisiche per solleci­ tare l'utero: estenuanti esercizi, salti energici e ripetuti o persino starnuti a bocca chiusa. Margherita avrebbe anche potuto iniziare a purificare la ra­ gazza dagli umori tossici che aveva accumulato dentro il suo corpo. Alcuni espettoranti avrebbero indotto il vomito, pratica necessaria per svuotarle lo stomaco, mentre diuretici a base di erbe e lassativi le avrebbero ripulito reni e intestino. Ma restava la prova più difficile, l'utero. n dottor Guai­ nerio, sulla scia di alcuni autorevoli classici, raccomandava "fumigazioni", ma erano pratiche difficili da realizzare e anche costose in quanto prevede­ vano che la donna restasse sospesa sopra un letto di carboni ardenti su cui erano stati collocati vari oggetti - dagli zoccoli di un asino allo sterco di un elefante - in modo che il loro fetore pungente e nauseabondo penetras­ se nel ventre liberandolo da ciò che si trovava al suo interno. Margherita avrebbe potuto optare per l'alternativa terapeutica meno costosa, immer­ gere la vulva nell'aceto arrivando persino a masturbare la giovane perché espellesse il seme corrotto e gli umori velenosi che avevano gettato l'utero nello scompiglio, lontano dalla sua sede naturale•7• Se ancora le condizio­ ni della ragazza non avessero mostrato segni di cambiamento, Margherita avrebbe potuto rivolgersi a uno dei due medici di cui disponeva la Pietà. n cerusico Maestro Simone si occupava dei salassi, mentre il dottor Fran­ cesco Ruggieri dispensava i farmaci18• I salassi erano un rimedio diffuso che i medici utilizzavano per ripri­ stinare la circolazione, per far defluire il sangue in eccesso (responsabile delle alte temperature nei pazienti con febbre) o per espellere i veleni, o gli umori, che, accumulati, rendevano il paziente apatico, depresso o irritato. Occorreva una provata abilità per identificare le vene giuste e inciderle con piccoli tagli avvalendosi di un rasoio. In una moltitudine di testi, dai dotti

RAGAZZE PERDUTE trattati in latino, come i Muliebrium libri II del medico italiano Ludovico Bonaccioli (1566), alle più semplici opere in volgare, come il popolarissi­ mo manuale per levatrici Rosegarden, scritto in tedesco, ma tradotto in molte altre lingue, si sosteneva che i salassi fossero la miglior terapia per riattivare il ciclo mestruale di una donna, soprattutto se praticati sul piede sinistro19• Ma era proprio per questo motivo che il Protomedicato di Bo­ logna, un particolare collegio di medici con funzioni di controllo, aveva vietato l'uso dei salassi sulle donne incinte - si diceva che avrebbe potuto provocare un aborto spontaneo e che, quindi, era giusto praticarli solo in caso di necessità, per espellere una mola, un feto ormai morto o la placen­ ta, quando questa non scendeva naturalmente30• Questo convincimento circa gli effetti abortivi della pratica dei salassi può essere all'origine del comportamento delle due suore del Novellino di Salernitano, che avevano rapporti con una frequenza tale da rimanere spesso incinte e che, forse per questo, impararono con tanta maestria a brandire, l'una per l'altra, il rasoio3'. A ogni modo, i salassi erano un'impresa assai rischiosa. Religiose e monaci esperti solitamente li praticavano a consorelle e confratelli. Fuori da conventi e monasteri, soltanto specialisti come il Maestro Simone della Casa della Pietà avevano sufficiente esperienza per imbarcarsi in un'ope­ razione tanto delicata. Se il sangue fuoriusciva troppo lentamente, poteva accelerarne il flusso e, con esso, quello degli umori tossici, mettendo sopra l'incisione un tazza di vetro, che veniva poi riscaldata, per creare il vuoto e tirare così fuori il sangue con maggior rapidità. I documenti certificano senza alcun dubbio che il cerusico Simone si recava regolarmente alla Pietà per salassarne le giovani ospiti. Qualora il trattamento di una delle ragazze non avesse mostrato segni di riuscita, la medica Margherita poteva anche convocare il dottor Fran­ cesco Ruggieri. Si trattava di un uomo la cui preparazione ed esperienza erano da tutti riconosciute; per questo, avrebbe potuto presentarsi armato di una personale collezione di ricette mediche già sperimentate e raccolte in una pratico volumetto tascabile. Uno dei suoi colleghi di zona, il fioren­ tino dottor Pagolo, nel ISIS aveva commissionato un simile manoscritto allo scrivano Ettore Baldovinetti. Rilegato in resistente pelle di vitello e scritto in modo fitto, con una grafia che suggerisce il tipico intercalare fio­ rentino, con questo libri cino in formato tascabile il dottor Pagolo aveva a portata di mano tutto ciò di cui aveva bisogno. Baldovinetti aveva copiato oltre un migliaio di prescrizioni traendole dall'impressionante biblioteca del più importante ospedale di Firenze, Santa Maria Nuova, dove Careri-

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na, colei che alla Pietà insegnava a tessere, si era recata per poter guarire e dove Monna Betta, insieme a numerose altre compagne della Pietà, anda­ rono, invece, a morire3'-. Accadeva spesso che medici come Baldovinetti pagassero scrivani perché ricopiassero una rosa di ricette, a loro giudizio indispensabili, all'interno di volumi personalizzati da infilare tra gli abiti e consultare al bisogno, durante il giro delle visite. Con ogni probabili­ tà, Francesco Ruggieri fece lo stesso. Apre la raccolta del dottor Pagolo il celebre Thesaurus pauperum di Pietro Ispano, pieno di rimedi utili alla ripresa del ciclo e alla ripulitura dell'utero. Ciò che segue è l'antologia di ricette di un vero dottore, una selezione delle prescrizioni dei più insignì medici del tempo e di quelle di Madonna Caterina, «medicha di casa>> di Santa Maria Nuova. La scelta delle ricette sembra indicare che i pazienti fiorentini del dottor Pagolo lamentassero disturbi piuttosto diffusi: oltre a preparati per la febbre terzana, per il mal di testa e per tamponare le ferite sanguinanti, si trovano rimedi per imbiondire i capelli e sbiancare i denti. Le ricette sono messe assieme senza un ordine ben preciso - la stessa pa­ gina che contiene due prescrizioni volte a ripristinare il ciclo mestruale di una donna riporta anche quella per una meravigliosa pasta per denti. Que­ sto a conferma del fatto che le ricette del Ricettario della Pietà non erano parte di un sapere clandestino, ma circolavano ampiamente tra i medici fiorentini del tempo33, Abbiamo già avuto modo di notare che le ricette mediche erano tutte a base di "semplici", ossia si trattava di rimedi che associavano un ampio spettro di sostanze di origine vegetale e animale, pietre e metalli. Auto­ revoli antichi, come Dioscoride e Sorano, e medievali, come il monaco benedettino dell'xi secolo Costantino l'Mricano o il medico Arnaldo di Villanova, due secoli più tardi, avevano attribuito proprietà abortive a un quarto degli ingredienti menzionati in queste ricette. Si potrebbe rima­ nere colpiti dalla stranezza e dall' inverosimiglianza di alcune di queste prescrizioni. Olio d'oliva vecchio, farina di ceci o di lupino e fieno greco: sembrano tutti rimedi assolutamente inefficaci. Potremmo essere più in­ clini ad accordare maggior credito alle virtù medicamentose di ingredienti più esotici come la mirra, la mirra dolce o il galbano, tutte resine estratte da piante africane o asiatiche. Allo stesso modo, arriviamo a riconosce­ re l'efficacia di radici come quelle dell' iris o dell'aristolochia lunga, note anche come "ombrellini minori" o "erba della nascita'', che era, cosa cui già sembra alludere il nome, uno dei più diffusi rimedi abortivi a base di erbe34• Ci sono nove ricette che prevedono l'uso di almeno uno di que-

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sti ingredienti, che difficilmente da soli avranno sortito un grande effetto. Tre ricette contengono, invece, dai tre ai cinque di questi componenti e per questo meritano un esame più attento. Sono tutte attribuite a medici islamici del Medioevo, una ad Avicenna ( 9 8 0- 10 37) e le altre due, semplici varianti dello stesso tema, a Mesuè ( 777-8 57). Maometto aveva fissato il momento dell'animazione del feto a 120 giorni dal concepimento; prima di allora, parlava di un "coagulo di sangue" o di un "pezzo di carne", con il risultato che le società musulmane furono di gran lunga più tolleranti in tema di contraccezione e aborto. Alcuni giuristi arrivarono anche ad auto­ rizzare le donne a sottoporsi a un aborto senza averne prima informato il marito. Un'ulteriore conseguenza di questa posizione fu che i medici arabi scrissero più apertamente e con maggior frequenza di metodi abortivi e contraccettivi, attingendo da fonti classiche o da personali ricerche35• li rimedio ideato da Avicenna consisteva in un unguento o una pomata che la medica Margherita poteva spalmare o sulla pancia della ragazza o, più probabilmente, direttamente sulle pareti della vagina o al suo interno. Margherita preparava l'unguento sciogliendo i più importanti principi at­ tivi - mirra, bdellio, glabano e ammoniaca - in una soluzione con aceto bianco che poi veniva portata in ebollizione insieme a dell'olio d'oliva ran­ cido, acquaragia, resina di pino, cera bianca e litargirio, un monossido di piombo con proprietà astringenti spesso utilizzato per provocare vomito o diarrea. Quando l 'aceto era completamente evaporato, aggiungeva aristo­ lochia in polvere e mirra dolce e, continuando a mescolare, acetato di rame (verderame), fino a ottenere un impasto denso e senza grumi. I rimedi di Mesuè, invece, sono a base di diachilo, impiastri frutto dell'amalgama di estratti vegetali in una base di olio e ossido di piombo. In caso avesse dovuto prepararselo da sé, Margherita avrebbe fatto così: avrebbe unito ossido di piombo, finemente triturato, e olio rancido, mi­ schiando il tutto senza sosta, a fuoco basso, finché il composto risultasse ben cotto e perfettamente amalgamato. Lo avrebbe, poi, lasciato freddare, prima di metterlo nuovamente sul fuoco per aggiungere un po' di radice di giaggiolo in polvere ed estratti di fieno greco, semi di lino, altea e melitoto, tutte essenze che in precedenza aveva lasciato marcire per un po', fino a che non si fossero ricoperte di una viscida mucillaggine. In alternativa, poteva anche unire un po' di galbano e due estratti di linfa o resina d'albero, am­ moniaca e serapino. Per preparare medicamenti di questo tipo occorreva ben più di una pentola su un fuoco. Alcuni degli ingredienti necessari, la medica Marghe-

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rita avrebbe potuto trovarli dallo speziale, come anche avrebbe potuto sce­ gliere di prepararsi da sola queste mucillaggini vegetali; tuttavia, i principi attivi più efficaci poteva soltanto comprarli da un mediatore incaricato dall'Arte dei medici e speziali di Firenze, versando un'apposita tassa d'in­ termediazione in aggiunta al costo dei prodotti. L'unguento più costoso da preparare era quello di Avicenna, non solo perché nel complesso richie­ deva il maggior numero di ingredienti, ma anche perché la metà di questi bisognava procurarseli dallo speziale: iris, olio di lino, acquaragia, resina, incenso e verderame36• Attraverso la lettura dei libri contabili, sappiamo che Margherita acquistò regolarmente ciò di cui aveva bisogno dall'inca­ ricato dell'Arte dei medici e speziali, per tutto il tempo in cui la Casa della Pietà alloggiò in Borgo Ognissanti, sebbene i registri non specifichino mai la natura di questi acquisti. Qualche dettaglio in più risale al periodo suc­ cessivo al trasferimento dell'istituto, anche se, da allora, questo genere di spesa cominciò a scemare, fino a divenire una piccola percentuale di quella passata37• Siamo ormai abituati all'idea che i farmaci più efficaci siano quelli che polverizzano potenti prodotti chimici di sintesi compattandoli in minu­ scole pillolette da prendere con un sorso d'acqua; quindi, curarsi spal­ mandosi unguenti o impiastri a base di erbe marcite, olio d'oliva rancido e svariati tipi di linfa può apparire una ridicola pretesa. Che tali creme, poi, fossero realmente in grado d'indurre un aborto sembra impossibile da credere. Eppure il medico e professore universitario pavese Antonio Guai­ nerio, quando arrivò a trattare dell'utero, scrisse: « Ho più fiducia negli impiastri che in qualsiasi altra medicina» e nel suo De matricibus ne elen­ cò alcuni che, a suo parere, avevano l'effettivo potere di arrestare un aborto spontaneo in corso38• John Riddle, lo studioso contemporaneo che più si è speso per ritrovare ed esaminare l' intera gamma di "semplici" utilizza­ ti come abortivi dall'età greco-romana fino al Rinascimento, ha scoperto che la maggior parte di essi si erano in un certo modo dimostrati efficaci. Riddle sostiene che piante o sostanze che non avessero sortito alcun ef­ fetto sarebbero del tutto scomparse dalla circolazione; eppure numerosi autori, attraverso secoli e culture differenti, ritennero che l'aristolochia, l' iris e la mirra dolce potessero favorire un aborto spontaneo se sommini­ strate internamente, in supposte o ovuli vaginali, o anche esternamente, sotto forma di cerotti o unguenti. Odierni studi clinici hanno avvalorato questa tesi, illustrando i processi chimici coinvolti. A proposito delle for­ mule ritrovate nel Ricettario della Pietà, Riddle ritiene che «combinassero

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vari principi che a breve o a lungo termine avrebbero favorito un abor­ to, perché incoraggiavano l'insorgere di scompensi ormonali in grado di compromettere la gravidanza di una donna» J9.

Sesso e lavoro

n solo pensiero che alcuni rimedi abortivi possano essere stati regolarmen­ te utilizzati anche ali' interno delle mura della Casa della Pietà basta a fare

di quest'istituto un bordello? Può essere questo il motivo di tanti silen­ zi, sotterfugi e insabbiamenti ? Da dove provenivano queste ricette ? Cosa sappiamo di quelli che gestivano la Casa? È certamente assai poco probabile che la Pietà fosse in realtà una casa di piacere, sebbene almeno qualcuna delle ragazze che vivevano lì dovette fare i conti con l'eventualità di una violenza sessuale. Se le giovani della Pietà avessero aperto le loro stanze a clienti a pagamento, esattamente come avveniva pochi isolati più in là, verso nord, nel bordello comunale, non avrebbero potuto evitare di !asciarne copiose tracce nei documenti del tempo, il censimento, ad esempio, o i registri dell'Onestà o la lettera­ tura popolare. Quando, alcuni anni più tardi, due sorveglianti residenti all' Hotel-Di eu di Lione avevano iniziato a gestire un bordello d'alto bor­ go fuori dallo stesso istituto caritativo, la notizia trapelò e invase tutta la città fino a che le famigerate madre Hilarie e madre Couronnyée furono bandite e scortate fino a Parigi40• Gli autori di carnasciali e di commedie erano come segugi, sempre a caccia di soggetti per le loro opere, eppure nessuno di loro fiutò mai scandali in merito a presunti traffici sessuali ali' i nterno della Pietà. Nessun autore satirico, nessun censore che punti il dito contro i commerci del sesso della Casa della Pietà; quindi, dob­ biamo guardare più da vicino a ciò che accedeva alle ragazze una volta fuori da quella casa. Abbiamo già avuto modo di vedere come alcune tra le più giovani uscissero in strada alcune volte a settimana per chiedere in elemosina pane, vino e soldi, ma si trattava di ragazze tanto piccole e, per questo, scortate con tanta attenzione che difficilmente sarebbero state fa­ cili prede di violenze. L'unico altro gruppo di donne che poteva lasciare la Casa e che, qualche volta, vi faceva ritorno, erano quelle che venivano assunte come domestiche. Forse dobbiamo soffermarci ancora una volta sulla loro condizione, per esaminare con maggiore cautela tutto ciò che comportasse e, soprattutto, per capire come mai così tante ragazze deci-

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dessero di ritornare alla Pietà ben prima della scadenza del loro contratto di lavoro, a volte addirittura nel giro di poche settimane, o mesi. All'in­ terno del terzo capitolo, la questione è stata affrontata soltanto in termini di competenze professionali delle ragazze, ma certo all'origine di questi precoci abbandoni non stavano svogliatezza, ruberie o scarsa attitudine all'impiego. A Firenze, le adolescenti che prestavano servizio nelle case come domestiche costi cuivano la categoria femminile più esposta alle vio­ lenze sessuali. Non che in Europa fosse molto diverso e la situazione era persino più drammatica se si trattava di giovani orfane o abbandonate. Senza un padre o un fratello che prendesse le loro difese o si vendicasse degli abusi subiti, queste ragazze si trovavano disarmate contro lo strapo­ tere dei loro padroni. In precedenza abbiamo anche notato come il lavoro domestico non fosse tanto un impiego, quanto una vera e propria fase della vita per molte giovani donne provenienti da famiglie di poveri braccianti delle campagne. Questo lavoro definiva il tempo che precedeva il matrimonio. E non solo per mere ragioni anagrafi che. La possibilità di sposarsi di queste ragazze derivava in modo esclusivo dai rispettivi padroni. È facile solidarizzare con le povere famiglie di braccianti e salariati, comprendere le difficoltà che incontravano per mettere da parte una dote sufficiente a dare in sposa una figlia. Tuttavia, può risultare un errore interpretare la loro condizione alla luce del lamento che, sul medesimo problema, saliva dai fiorentini di alto rango - tutti, dai maestri delle corporazioni ai mercanti, ai nobili. In ma­ teria di doti, non dobbiamo pensare che le famiglie di braccianti e salariati affrontassero le stesse contrarietà di quelle di artigiani, uomini delle pro­ fessioni o patrizi. E non perché queste avessero i soldi, ma proprio perché le possibilità di mettere da parte una dote per chi si garantiva vitto, allog­ gio e qualcosa con cui vestire sulla base di entrate provenienti da saltuari lavori alla giornata, per giunta non qualificati, erano così esigue da ridursi a un miraggio. Per molte di queste famiglie si trattava di doti modeste. In base alle ambizioni di ognuno, la dote poteva equivalere alla paga annuale di un salariato - una somma che, per questa categoria di lavoratori, era praticamente impossibile da accumulare. Per questo le famiglie univano i loro sforzi : nonne, zii e fratelli, tutti contribuivano all'impresa, come del resto facevano le confraternite, i parroci e i patrizi che volevano restitui­ re un favore o sostenere la servitù. Eppure, anche potendo contare su un impegno collettivo di queste proporzioni, una giovane con una famiglia di salariati alle spalle sapeva bene che, se davvero voleva sposarsi, la dote

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doveva procurarsela da sé. n modo migliore per farlo, praticamente l'uni­ co, era quello di farsi assumere come domestica. Così facevano le famiglie con le loro figlie, così i tutori con le bambine orfane o abbandonate che improvvisamente erano state affidate alle loro cure. E, come già abbiamo visto nel terzo capitolo, facevano lo stesso anche istituti come la Pietà nei confronti delle ragazze destinate a lasciare le camerate della Casa per fare ritorno in società. In epoca rinascimentale, quando una ragazza prendeva servizio come domestica, non si trattava semplicemente di una donna che accettava un impiego. Questa giovane veniva di fatto fagocitata da un'altro nucleo fa­ miliare e acquisiva nome e privilegi che derivavano da tale sodalizio. Da un certo punto di vista, era poco più di un patrimonio personale o di "un pez­ zo di carne frescà' che dipendeva, persino per la propria identità, dal nuo­ vo casato cui si era unita. La ragazza condivideva la casa con il resto della famiglia e, in qualche misura, era trattata al pari di una figlia adolescente, sebbene non godesse mai dei pur limitati diritti e privilegi di cui poteva beneficiare una figlia legittima. Ecco un caso limite che mette in risalto l'u­ niverso mentale che stava dietro a tutto questo. In un primo tempo, a Fi­ renze, alle prostitute non era consentito avere giovani al proprio servizio. Quando questo provvedimento si rivelò troppo rigido e difficile da fare rispettare, il magistrato dell'Onestà preposto al controllo del fenomeno della prostituzione cambiò idea, comunicando che tutte le giovani donne assunte come domestiche in casa di prostitute avrebbero dovuto registrarsi anche loro come prostitute, versando tutte le imposte del caso - anche se erano figlie, nipoti o vantavano altri gradi di parentela nei confronti di chi le ospitava. Fu certamente uno stratagemma per fare cassa che, però, rivela anche quanto fosse diffusa l'idea che una serva fosse parte integrante, in tutto dipendente dalla casa in cui abitava, completamente assimilata alle condizioni di vita e di lavoro che si vivevano là dentro41• Se Margherita, Maria o Maddalena avessero resistito all'interno della Casa della Pietà tanto a lungo da poterla un giorno abbandonare per en­ trare in altre case come domestiche, avrebbero anche loro trovato ad atten­ derle vitto, alloggio e un abbigliamento spartani, tutto in cambio del loro lavoro che, con il passare del tempo e il crescere delle competenze, sarebbe diventato sempre più difficile e impegnativo. Per sgombrare il campo da possibili contese, nel contratto di lavoro si potevano elencare con partico­ lare attenzione gli indumenti, presentati sempre in termini di un'assegna­ zione con validità annuale. Alla quasi totalità delle ragazze spettava all'an-

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no un unico paio di scarpe nuove, insieme a u n certo numero d i gonne e camicie. Non era stabilito un salario regolare, o almeno nulla che andasse al di là di una misera paghetta. n vero compenso arrivava in un unica solu­ zione, una sorta di liquidazione a fine contratto. Raramente, se si trattava di un anno soltanto, entrambe le parti si ritenevano vincolate da particola­ ri obblighi, perciò, di comune accordo, servo e padrone potevano decidere di proseguire ognuno per la propria strada. Tuttavia, come abbiamo già avuto modo di vedere, se la giovane lavorava con l'obiettivo di guadagnarsi una dote, allora il suo contratto aveva una validità di cinque o più anni e le dinamiche di fondo della sua relazione con il datore di lavoro cambiavano in modo sottile, ma definitivo. Dipendeva da lui in modo sempre più forte, sia per la dote sia per la buona volontà che egli avrebbe profuso nel cercarle un marito - perché anche questo aspetto entrò a far parte del contratto di lavoro. n padrone divenne padre, assumendosene le responsabilità, prima tra tutte quella di trovare uno sposo alla figlia "acquisirà'. Più lungo era il contratto, più aumentavano le possibilità che il datore di lavoro si comportasse in base alla convinzione che la giovane domestica fosse un bene di sua proprietà, esattamente come lo erano i suoi figli. E tuttavia una linea invisibile la manteneva a una certa distanza dal padrone e questo perché l'onore di quest'ultimo non dipendeva dai comportamen­ ti della serva come, invece, dipendeva da quelli della propria figlia carna­ le. Non che questo le garantisse libertà maggiori di quelle di cui avrebbe goduto una figlia di sangue; piuttosto finiva per aumentare quelle che il padrone avrebbe vantato nei suoi confronti, ben al di là di quanto avrebbe potuto fare un padre naturale. Talvolta ne derivavano casi che sarebbero finiti davanti alla corte penale degli Otto di Guardia. Nel 1560 Antonio di Capitan Luca Mazzaranga fu accusato di aver struprato la giovane che prestava servizio in casa sua, Maddalena di Agnola di Arianna. Un anno dopo il cittadino fiorentino Giovanni di Antonio Gherardini fu chiamato a rispondere dell'accusa di avere ripetutamente picchiato la sua domestica, Margherita da Borselli, mentre cercava senza successo di convincerla a fare cose «inoneste» con lui41• Antonio e Giovanni potrebbero essere finiti sotto processo in seguito all'intervento dei fratelli o del padre di Margherita e Maddalena. Soltanto una minima parte di simili casi di violenze arrivava in tribunale, e que­ sto perché chi le subiva non aveva un familiare che le difendesse, oppure perché lo stupratore veniva convinto, costretto o spinto dalla vergogna a provvedere una dote con cui congedare la vittima in modo rapido e di-

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screto. Rientrava tutto in una sorta di doppia morale: gli abusi sessuali perpetrati da padri, figli, parenti oppure ospiti di sesso maschile ai danni della domestica della casa erano tanto diffusi che nessuno ne sarebbe rima­ sto sorpreso, ma, se veniva alla luce qualche inattesa conseguenza, allora gli aggressori, o, nel caso di ragazzi, gli adulti che ne erano responsabili, dovevano assumersene la colpa e fare ammenda, cosa che poteva generare ulteriori tensioni, come ebbe modo di sperimentare una delle più facoltose famiglie di Firenze. Carlo Strozzi ebbe un figlio dalla sua giovane serva, Agnoletta, e fu tanto preso dal loro bambino, Paolo, da mettere madre e figlio in una casa tutta loro, a Firenze, e per giunta ordinò ai suoi eredi di lasciare a Agnoletta l'uso di una piccola casa e di qualche terreno fuori città - a loro fu persino destinata una certa quantità di vino ogni anno. La grande condiscendenza di Carlo procurò al bambino un soprannome, il pretino. Eppure una tale generosità dovette irritare gli eredi, che attesero l'uscita di scena di Carlo per avviare le pratiche per impugnare le sue vo­ lontà43. Ci fu un caso agghiacciante che, invece, avvenne più vicino alla zona dove si trovava la Casa della Pietà, una vicenda che coinvolse un'altra fami­ glia dell'aristocrazia cittadina. Nel 1559, gli Otto di Guardia chiamarono in giudizio Giovanni, figlio di Girolamo da Sommaia, con l'accusa di abu­ si sessuali a danno di due domestici, una ragazza, Susanna di Francesco da Manfriano, nel Mugello, e un maschio, Niccolò di Orlando da Portico di Romagna. Questi due servitori erano probabilmente coetanei, o poco più piccoli, del diciannovenne Giovanni. Dopo averli attirati in casa, di not­ te, Giovanni picchiò ripetutamente Niccolò. Poi spogliò completamente Susanna e cominciò a colpire più volte anche lei, a volte con una cintura, altre con una torcia. Alla fine, accostò la stessa torcia, in fiamme, alla sua vagina. Tutto questo andava ben al di là di uno stupro; erano le fantasie di uno psicopatico. Forse si immaginava come un inviato che profetizzava il giudizio divino. Varcata la soglia della Collegiata di San Gimignano, si può vedere un affresco nel quale i peccatori subiscono eterni tormenti che ripetono all'infinito il peccato che li aveva precipitati all'inferno. Nell'an­ golo in basso, a sinistra, un diavolo strazia una prostituta affondando una torcia nella sua vagina. Forse Giovanni aveva visto questo affresco, forse ne aveva visto uno simile, durante i suoi viaggi attraverso la Toscana insieme a suo padre Gi­ rolamo, senatore fiorentino e uomo di spicco nella corte del duca, al cui servizio, in uffici di primaria importanza, aveva visitato varie località del

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Donna torturata da un demonio. Taddeo di Bartolo, Ilgiudizio universale, affresco, 1393, Collegiata di San Gimignano.

ducatoH. Nella loro qualità di tribunale supremo della città di Firenze, gli Otto di Guardia non si soffermarono a considerare se Giovanni fos� se un profeta o uno psicopatico, ma lo multarono per l'enorme cifra di 6oo ducati, confinandolo in Sicilia per quattro anni. Qualche settimana dopo la condanna del figlio, il senatore Girolamo da Sommaia redasse il suo testamento. Al primo punto stava il lascito della casa di famiglia e del suo giardino di città alle ragazze della Pietà, che vivevano a un solo isolato

RAGAZZE PERDUTE di distanza. Seguivano eredità in denaro o tenute di campagna per le sue tre figlie sposate, insieme a un' immensa dote per l'unica che ancora non lo era. Al figlio Giovanni non rimasero che il patrimonio della madre e i debiti del padre, inclusa, ovviamente, la multa di 6 o o ducati. Quando compilò il suo testamento, Girolamo non sapeva se al giovane Giovanni sarebbe mai stato concesso di fare ritorno a Firenze. Dispose allora alcuni lasciti per un tempo futuro, condizionati a quella possibilità di rientro, doni che includevano una lista di animali che sarebbero stati recapitati a Giovanni dalle varie fattorie di famiglia4S. Quella domestica che subì le violenze di Giovanni, Susanna di France­ sco da Manfriano, non era una ragazza della Pietà, sebbene molte di loro fossero effettivamente originarie delle valli del Mugello, a nord di Firen­ ze, proprio come lei. Le disposizioni del senatore Girolamo da Sommaia rappresentarono la volontà di punire un figlio brutale limitando il valore della sua eredità, allo stesso tempo adempiendo a una pubblica e adeguata riparazione. I lasciti testamentari erano uno strumento diffuso per risar­ cire un torto e, insieme, per restituire alla casa l'onore perduto. Girolamo morì meno di due anni dopo, non sapendo se quell'onore sarebbe mai sta­ to ristabilito. Dunque con i soldi potevi coglierti dai piedi una domestica e potevi rendere alla famiglia il suo buon nome, ma se lo stupro finiva in una gra­ vidanza? Dalla lettura dei registri battesimali della città di Firenze, adesso accessibili online, si evince che, dei battezzati negli anni Cinquanta del Cinquecento, molti erano figli illegittimi46• Alcuni padri si occupavano in prima persona dei loro bambini, come fece Carlo Strozzi, ma la maggior parte di essi sceglieva di farlo indirettamente, attraverso istituti o aiutando economicamente le madri. Abbiamo già visto come l'orizzonte sessuale dei fiorentini avesse conosciuto un cambiamento significativo dal momen­ to in cui, un secolo prima, era stato fondato un ricovero proprio per que­ sti bambini, l'Ospedale degli Innocenti. Alcuni abbandonati dopo poche ore, la quasi totalità nel giro di poche settimane. Si trattava in larga parte di fi gli illegittimi, quasi tutti nati da relazioni con una domestica. Non possiamo esserne completamente certi perché i fondatori dell' Ospedale degli Innocenti avevano predisposto gli ambienti dell'edificio in modo che i bambini potessero essere abbandonati nell'anonimato, in un primo tempo all'interno di un fonte battesimale, subito fuori dalla porta dell'o­ spedale, successivamente nella ruota, un meccanismo girevole a fianco del-

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lo stabile. Consegnare un neonato era tanto semplice quanto girare una ruota, e lo vedevi sparire subito, al di là del muro. Furono in molti a farlo. Tra il 15 3 0 e il 1540, l'Ospedale degli Innocenti accolse 5.400 bambini, 1.ooo nel solo 1539. Un cifra che equivale quasi al 40% dei bambini battezzati in città durante quello stesso anno, il doppio rispetto ai livelli attestati all'inizio del decennio. Per qualche anno, poi, gli abbandoni subirono un calo, ma tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta del Cinquecento ripresero a crescere, oscillando tra il 2.o e il 4o% delle nascite47• Alcuni di questi bambini provenivano da fuori città, ma evidentemente molti di loro furono concepiti all'interno delle mura della Firenze di metà Seicento. Si trattava per la maggior parte di neonati frutto delle violenze ai danni delle serve. Erano questi gli anni in cui si pensò di istituire una casa come quella della Pietà, e dobbiamo tenerlo ben presente quando cerchiamo di capire se, come e per chi l'istituto avrebbe potuto preparare rimedi abortivi. Prima che venisse istituito l'Ospedale degli Innocenti, gli abitanti di Firenze erano soliti addossare la colpa della morte dei loro "innocenti" alle ragazze madri che, disperate, gettavano i loro figli illegittimi nell'Ar­ no o li abbandonavano sulla strada. Ma non si trattava di un'attribuzione di responsabilità del tutto sincera, giacché, a dire il vero, era il mancato riconoscimento e supporto economico da parte dei padri a determinare l'abbandono di questi neonati indesiderati. n ricovero per trovatelli, l'O­ spedale degli Innocenti, fu la risposta al problema, una risposta collettiva dei padri, e dobbiamo riconoscere che la decisione di finanziarlo non fu, almeno per alcuni dei suoi benefattori, un'opera di disinteressata carità cristiana. C 'erano alcuni dei loro figli e delle loro figlie là dentro. Guardando oltre l'appassionata retorica sulla virtù cristiana della compassione, si arriva a constatare che l'Ospedale degli Innocenti fu concepito sostanzialmente come un'opera di sostegno istituzionale alle relazioni extraconiugali, che operò più o meno allo stesso livello dei bor­ delli cittadini. Si trattava di due istituzioni complementari. Entrambi consentivano agli abitanti di sesso maschile e di ogni età della Firenze del Rinascimento di avere rapporti sessuali fuori dal matrimonio, senza turbare il restrittivo codice di comportamento sessuale che essi stessi aval­ lavano ogni qualvolta chiudevano le loro figlie e sorelle nubili al riparo delle mura di un convento. Grazie all 'esistenza di un istituto per trova­ telli, ogni maschio adulto poteva sbarazzarsi con discrezione dei bam­ bini nati dai suoi rapporti con le domestiche di casa. n bordello, i nvece,

RAGAZZE PERDUTE permetteva a suo figlio di sfogare tutti i suoi appetiti sessuali - bisogna rammentare che, secondo la dottrina medica del tempo, il sesso non era una semplice voglia da soddisfare, ma un bisogno fisiologico degli adole­ scenti di sesso maschile - senza mettere a repentaglio i principi morali e le prospettive matrimoniali di ragazze rispettabili appartenenti alla sua stessa classe sociale. Questi supporti istituzionali erano l'uno il completa­ mento dell'altro anche per un altro aspetto. Portare in grembo il figlio del padrone di solito per una domestica significava perdere il posto di lavoro e, se questi si rifiutava di provvedere a lei, rischiava di finire per strada, forse addirittura in un bordello. Queste sono alcune delle pratiche sociali della Firenze del Rinascimen­ to in materia di sessualità, consuetudini con cui le adolescenti dovevano fare i conti, soprattutto se erano giovani domestiche. Si tratta di questio­ ni rilevanti ai fini della domanda che ci siamo posti, se, cioè, le ragazze che lasciavano la Casa della Pietà per prestare servizio come domestiche potevano aver fatto uso di sostanze abortive. Dobbiamo definire il conte­ sto, sgombrando il campo da qualsiasi attuale pregiudizio che ci spinga a considerare che gli appartenenti alle classi sociali più misere, le donne o i bambini potessero essere considerati come persone dotate d'innati diritti. La disuguaglianza in ambito sessuale era scritta nero su bianco, all 'interno dell'ordinamento fiorentino. Se un uomo stuprava una vedova, una don­ na sposata o una vergine di rispettabile famiglia poteva andare incontro a una sanzione di so o lire, ma se la vittima della violenza era una domestica, di lire gliene bastavano 25. Se poi la donna in questione era considerata una prostituta, la multa non era proprio prevista48• La serva adolescente, estranea nella nuova famiglia, era simile a ciò che cresceva, misterioso, nel suo utero o al figlio illegittimo che aveva concepito con il suo padrone: materia vivente, è evidente, ma priva di una valore intrinseco, tantomeno di diritti inalienabili legati alla sua persona e, in quanto tali, esigibili. La rimozione - della ragazza, del neonato, del «pezzo di carne non nata» agiva nell'interesse del padrone di casa. E, dal momento che il benessere del padrone occupava il gradino di gran lunga più alto della scala valoriale di ognuno, tale rimozione non si configurava soltanto come un gesto am­ missibile, ma come la scelta morale da preferire. Un tale sistema concet­ tuale può sembrare straordinariamente crudele al lettore contemporaneo, ma in età rinascimentale furono in molti ad accettarlo come un criterio di lapalissiano buonsenso. Nel terzo capitolo abbiamo narrato delle vicende di ragazze della Pietà

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che, come Domenica di Michelino Metignoli, sottoscrissero contratti con un certo numero di padroni, senza portarne a termine nemmeno uno, o come Nannina di Stefano da Romita, che scappò via dalla casa del padro­ ne, artigiano della lana, soltanto due settimane dopo esservi entrata come domestica. Dobbiamo ritornare a queste ragazze, utilizzando le informa­ zioni contenute nei registri delle entrate per ricostruire le loro origini e occupazioni. Durante i primi anni di vita della Pietà, la priora Monna Alessandra spedì più del 1 3 % delle sue ragazze a servizio nelle case di tutta Firenze. Sapeva bene che alcune di esse, forse la maggior parte, sarebbero state vittime di violenze sessuali. Durante quegli stessi anni, un analogo istituto, quello di Santa Maria delle Vergini, cercò di fare lo stesso, ma sen­ za grandi risultati. Almeno un terzo delle sue ragazze ottenne un contratto di lavoro e, di queste, i due terzi fecero rientro nell' istituto dopo poche settimane o mesi, mentre quasi tutte le altre scelsero di fuggire. Forse si erano rivelate inadeguate alle mansioni loro affidate e per questo erano sta­ te licenziate. Sembra che al San Niccolò le cose andassero un po' meglio, che le sue ragazze riuscissero a mantenere impieghi più duraturi, sebbene il fenomeno potrebbe semplicemente essere spiegato alla luce di alcune lacune nei registri che riportano le date dei rientri delle ragazze. Quali fat­ tori sociologici determinarono un simile comportamento? Per prima cosa, le ragazze di Santa Maria delle Vergini, provenendo da contesti sociali un po' più fortunati, non erano tanto solerti a prendere servizio come dome­ stiche quanto lo erano quelle meno abbienti di San Niccolò o della Pietà. Inoltre, la maggior parte delle giovani del San Niccolò erano fiorentine e avrebbero, quindi, potuto avere qualche parente di sesso maschile in grado di aiutarle, di difenderle e di trattare per loro conto qualora ne avessero avuto bisogno. Al contrario, quasi i due terzi delle ragazze della Pietà non erano nate in città49. È possibile che i rimedi trovati nelle ricette fossero stati pensati per le ragazze che facevano rientro dal servizio domestico, oppure erano desti­ nati a quelle che erano in procinto di andare? Questi i passaggi logici da fare. Scopo primario della Casa della Pietà era quello di salvare le sue ra­ gazze dalla deriva della prostituzione. In generale, qualunque domestica era esposta al rischio di violenze sessuali, in particolar modo se era orfana. Se poi lo stupro finiva in una gravidanza, c'erano conseguenze di più lungo termine, tra cui quasi certamente un immediato abbandono, quello del na­ sci turo all'Ospedale degli Innocenti, seguito da un secondo, quello della ragazza, questa volta alla vita di strada.

RAGAZZE PERDUTE Ma conseguenze logiche e causalità storica non sempre coincidono. Prima di proseguire oltre su questa strada, dobbiamo passare alla do­ manda successiva: se queste ricette contenevano davvero rimedi abor­ tivi, come arrivarono i n mano alle infermiere della Pietà? Abbiamo già avuto modo di vedere come l'istituto si trovasse in un povero quartiere produttivo e l'angolo tra Borgo Ognissanti e via Nuova rappresentasse il crocevia tra due dei più antichi mestieri della città di Firenze, la lana e la prostituzione. La Pietà era ai margini di uno dei quartieri a luci rosse della città e il suo vicinato, proprio in fondo a via Nuova, era fatto di prostitute e cortigiane. n censimento del IS62 contò 134 prostitute. Ventuno si erano radunate nella zona tra Borgo Ognissanti, via Nuova e via Palazzuola, facendone l'area con la più alta densità di prostitute della città. E si trattava soltanto di quelle "ufficiali': ossia di quelle che esercitavano il mestiere secondo i re­ golamenti della magistratura dell' Onestà, cui pagavano 1 5 lire di permesso ogni tre mesi. In questo sobborgo le donne erano di gran lunga più nu­ merose degli uomini ed è fortemente improbabile che trascorressero tutte le loro giornate filando la lana50• Tutto l'impegno moralizzatore di Cosi­ mo I era stato finalizzato a una limitazione dell'attività di questo genere di prostitute che operavano fuori dai bordelli, attraverso l'assegnazione di un certo numero di strade ben definite in cui era concesso esercitare il mestiere. L'area attorno alla Casa della Pietà si rivelò un'ottima fonte di reddito per lui, per le prostitute e per gli ufficiali dell'Onestà. È estrema­ mente probabile che le prostitute si raccogliessero attorno a questa zona in ragione del fatto che le sue svariate botteghe di lana e seta vi avevano at­ tirato tanti lavoratori che si erano trasferiti dalle campagne, dove avevano lasciato mogli e famiglie. Ai nostri occhi può sembrare sconcertante come l'intero esercizio della prostituzione fosse considerato un dato di fatto, in cui peraltro la Chiesa si trovava fortemente coinvolta. Numerosi predicatori stigmatizzavano il mercato del sesso a pagamento e, tuttavia, questo non impediva al Capito­ lo della Cattedrale di Santa Maria del Fiore di affittare parte degli immobi­ li di sua proprietà a donne del mestiere. n Capitolo deteneva da solo il più vasto patrimonio immobiliare di via Nuova, che correva lungo il lato ovest della Casa della Pietà e i suoi inquilini erano in larga parte prostitute. Que­ sti proprietari ecclesiastici non mostravano alcun interesse per le leggi che bandivano le prostitute da un raggio di Io o braccia (20o piedi, poco più di 6o metri) da una chiesa - nelle vicinanze di chiese ce n'erano almeno tre.

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Le affittuarie sapevano cogliere l'aspetto ironico della situazione e, quanto potevano, ne approfittavano : una di loro scelse come suo biglietto da visita un nome che era una variante assai vicina a quello della chiesa cattedrale, la Maria Fiorenza. Qualcosa di simile avvenne in un'altra zona della città, dove una prostituta si faceva chiamare la Vescovina51• I frati di Ognissanti ricoprivano il secondo posto nella classifica dei più importanti proprietari della strada e dell'intero quartiere e anche loro annoveravano numerose prostitute tra i loro inquilini. È tutto scritto nero su bianco, senza troppi giri di parole, nella ricerca del 1562. Le prostitute di via Nuova erano sicuramente al corrente del fatto che, all'angolo, vivevano un gruppo di adolescenti, anche se furono in poche a offrire del denaro alla Casa o a mandarvi le proprie figlie. Ma avrebbero potuto far scivolare qualche monetina nelle cassette delle offerte che le ragazze portavano in giro per le strade. E, forse, avrebbero potuto far sci­ volare attraverso la porta sul retro dell'istituto della Pietà anche qualche consiglio per la medica Margherita su come preparare degli efficaci rime­ di abortivi. Commediografi e novellieri narrano spesso di prostitute che tentano di rimanere incinte per assicurarsi un'esca con cui estorcere soldi dai presunti padri. Lo fa assai di frequente Nanna, l'astuta puttana dei Dialoghi di Pietro Aretino; eppure, nessuna delle sue famose lezioni per aspiranti puttane dispensa consigli in materia di contraccezione o aborto. Alcune prostitute ebbero dei figli, ma non fu così per molte altre, quin­ di siamo forse rientrati ali' interno dell'immaginario maschile sui saperi occulti delle donne. I medici sostenevano che l'intensità dell'attività di una prostituta fosse inversamente proporzionale alle possibilità che aveva di concepire un figlio. Se l'esercizio del mestiere, infatti, si faceva troppo impegnativo l'utero finiva con il surriscaldarsi tanto da divenire sterile, mentre lo sperma lasciato da così tanti uomini diversi lo intorbidiva. A ogni modo, qualcuna di queste prostitute potrebbe aver fatto uso degli unguenti di Avicenna o degli impiastri di Mesuè nel momento in cui te­ meva che il suo utero fosse intasato a causa della mancanza di un ciclo mestruale regolare. E, diversamente dalla prostituta Nanna di Pietro Are­ tino, potrebbero aver condiviso questi saperi con altre donne o ragazze nelle stesse condizioni52• È una tesi allettante. Una scaltra cortigiana degna della sua reputa­ zione avrebbe dovuto conoscere la letteratura di cui era protagonista e avrebbe potuto anche sentir parlare di quei dottori arabi i cui rimedi aiutavano molte giovani in difficoltà. Sarebbe dovuto a questo il piccolo

RAGAZZE PERDUTE errore presente nel Rù:ettario, una svista che fa pensare più a una pratica di conversazione che a un esercizio di scrittura - nel libro di prescrizioni della Pietà l 'unguento di Avicenna va sotto il titolo di "da Vicennà' o "di Vicenna", e non, come sarebbe giusto, "di Avicennà'. Ma per quanto affascinante possa apparire l' ipotesi di una prostituta che segretamente si presenta alla porta sul retro della Pietà per sussurrare sconvenienti ricette, dobbiamo con sicurezza respingerla. Nonostante le donne che ricopiaro­ no il Ricettario avessero deciso di nasconderne le ricette nel bel mezzo di un vecchio libro mastro, le loro fonti erano tutte alla luce del sole. Quella che all'inizio era apparsa come una forma di cautela potrebbe, i nvece, essere semplicemente il frutto di una ricerca di pagine vuote. Tutte le ri­ cette, a eccezione di quella per la tigna, sono tratte dalla guida ufficiale di medicina redatta dall'Arte dei medici e speziali di Firenze su commissio­ ne del duca Cosimo I e pubblicata appena pochi anni prima dell'apertura della Casa della Pietà. Non si tratta certo di un manuale tascabile simile a quello pratico e maneggevole del dottor Pagolo, con un migliaio di ri­ cette buone per ogni disturbo del mondo. El Ricettario dell'Arte, et Uni­ versita de Medici, et Spetiali della citta di Firenze è un volume a stampa di duecento pagine rilegate in folio, in cui sono descritte le proprietà degli ingredienti (spesso tratte da Dioscoride), sono illustrate le procedure per preparare gli unguenti, gli infusi, gli sciroppi e simili e, alla fine, sono for­ nite per intero le ricette - 548 in tutto>\ C 'è qualche ripetizione, anche se nulla che si avvicini al disordine del manuale del dottor Pagolo. Già il titolo scelto per il manoscritto della Pietà, Del Ricettario, sembra alludere al fatto che le sue ricette siano una sorta di compendio di quelle descritte nel Ricettario. E, infatti, le ricette sono identiche, persino nella frustrante assenza di qualsiasi indicazione su quando, come, perché e per chi pote­ vano essere utilizzate. La tradizione novellistica italiana di solito prevedeva che le ragazze non sposate, ma incinte, dovessero essere messe al riparo dalla furia dei loro stessi padri e fratelli, per i quali la loro condizione costituiva un ol­ traggio all'onore dell'intera famiglia. C 'era un'unica via per ristabilire la perduta onorabilità, uccidere la giovane. Nei racconti francesi, invece, le famiglie si uniscono per proteggere la ragazza incinta. In entrambe le tra­ dizioni letterarie, sono le madri che intervengono più direttamente per aiutare le loro figlie. In un volume di novelle pubblicato postumo, nel ISS8, lo scrittore francese Bonaventure Des Périers scrive che «le madri fanno in modo che nessuno si approfitti delle loro figlie troppo presto oppure

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sanno bene come rimediare a spiacevoli incidenti quando sopraggiunge qualche sorpresa >> 54• Per questo la figlia di un vedovo finiva per trovarsi in una difficile situazione, a meno che qualche altra donna non mostrasse un po' d'interesse materno nei suoi confronti. Questo ci conduce alla terza domanda: chi c'era dietro questo istituto e i suoi tanti misteri ? Dobbiamo guardare al di là della priora residente Monna Alessandra per riuscire a capire chi davvero comandava nella Casa della Pietà. Abbiamo già incontrato Marietta Gondi, la donna a capo di un gruppo di benefattori che ogni anno si impegnava con donazioni a sostegno dell'istituto. Quello che è importante sapere su questo gruppo è che contava centinaia di aderenti, tutte donne. Le Croniche delle Suore della Pietà citano una compagnia di più di duecento donne impegnate a sostenere economicamente la Casa, ma non dicono molto su ognuna di loro. È il momento di tornare a frugare in altri manoscritti e in altri archivi storici per esaminarle più da vicino. Chi erano queste donne e che cosa facevano ? I libri contabili della Pietà si rivelano particolarmente significativi per più aspetti. Essi rovesciano la prospettiva delle Croniche, tutte tese a nar­ rare la vita degli ecclesiastici coinvolti nella vita dell'istituto. Qui, invece, sono le attività delle donne a essere sempre in primo piano, mentre i chie­ rici spuntano solo quando è il momento di effettuare il solito pagamento mensile per le funzioni religiose ricevute. In archivio non c'è manoscritto inerente questi primi anni di vita della Casa che non dichiari di essere già dalla copertina o dalla prima pagina un « Libro delle Donne e Ragazze della Pietà» . I diari della contabilità giornaliera si concludono con l'an­ notazione che gli importi erano stati trascritti sul « Libro delle Donne» , a indicare come fossero loro a tenere d'occhio i conti della Casa. I registri delle offerte si rivelano la fonte più interessante, perché mostrano come alla fine questo gruppo di donne benefattrici fosse arrivato a toccare le quasi quattrocento unità. Se si esclude un frate di Santa Croce, non c 'è traccia di un singolo appartenente alla compagnia di sesso maschile. La Pietà era, dunque, sostenuta quasi esclusivamente dalle donne. Non è pos­ sibile fare alcun parallelo con altri istituti fiorentini e molto pochi con altre regioni d' Italia. I nomi delle donne in questione sono raggruppati in tre liste distinte compilate in periodi diversi. La prima si trova all'inizio del curioso volume che al suo interno nasconde le ricette mediche. Ali' inizio il libro fu utiliz­ zato per registrare le associate degli anni 1 554-sS, per un totale di 62 nomi.

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RAGAZZE PERDUTE

La copertina del manoscritto riporta il titolo «Quartiere di San Giovanni per la Santa Pietà», intestazione che sembra suggerire l'esistenza di regi­ stri corrispondenti per i quartieri di Santa Maria Novella, Santa Croce e Santo Spirito, ma nessuno di questi è sopravvissuto. La ragione potreb­ be trovarsi nel secondo manoscritto, un singolo volume che prende avvio negli stessi anni del primo e riporta le offerte di 320 donne che, da tutta Firenze, si iscrissero a partire dall'autunno del 1554 e negli anni di rapida espansione che seguirono. Un terzo volume registra le rimanenti iscritte fino al 1567. Dopo l'esaltante avvio di questi primi tredici anni, di iscritte ne rimasero appena un decimo: soltanto 3 6, e in continua diminuzione. La Compagnia della Pietà stava precipitando. Durante gli anni Settanta del Cinquecento furono aggregate soltanto 9 donne, a cui se ne aggiunsero 17 fino al 1606, data con cui il volume si chiude55• La crescita repentina della Compagnia della Pietà e il suo lento declino racchiudono forse una qualche risposta alla nostra domanda? Possono, cioè, aiutarci a capire che cosa era responsabile della morte di tante ra­ gazze della Pietà? Poteva accadere che le associazioni femminili avessero vita breve ed è per questo che abbiamo bisogno di ricostruire un profi­ lo più definito di questo eccezionale gruppo di donne. All'inizio, poche cose risultano chiare. Che molte erano vedove, ad esempio; che la mag­ gior parte delle loro offerte non arrivavano a due lire e che solo 1 8 delle 270 associate durante il primo anno di vita della Compagnia donò più di uno scudo, cioè 7 lire e mezzo. Allo stesso tempo, si scopre che queste donne provenivano in larga parte da illustri famiglie. La lista è una sorta d'appello di tutta l'élite fiorentina: 3 Medici, 4 Antinori, 6 Ricasoli, 7 Ri­ dolfi, n Capponi. Ancora, è interessante notare che, nella maggior parte dei registri delle immatricolazioni, i nomi della donne venivano di solito annotati in maniera non conforme alla tradizione, secondo una moda che stava appena diffondendosi nell'alta società fiorentina. Mentre una vedo­ va di solito continuava a utilizzare il nome del suo ultimo marito, molte di queste donne si firmavano con il solo cognome della famiglia. Quindi, al posto di "Maddalena del quondam Piero Antinori" o "del fu Piero An­ tinori", spesso si trova semplicemente "Maddalena degli Antinori". Prima di allora, nella società fiorentina c'erano soltanto due tipi di donne che potevano evitare di identificarsi con i nomi dei rispettivi padri o mariti, le suore e le prostitute>6• Affiora, poi, un ulteriore dettaglio. La storica e archivista fiorentina Rosalia Manno Tolu ha scritto molto su alcuni conservatori della Firen-

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ze del Rinascimento, conducendo delle lunghe ricerche per ricostruire il contesto storico degli uomini e delle donne che li avevano economica­ mente sostenuti. Specialista del periodo rinascimentale, la studiosa gode anche del privilegio di una libertà senza pari n eli' accedere ai documenti manoscritti dell'Archivio di Stato di Firenze, di cui è direttrice. La sua ricerca mette in luce come le donne che finanziavano la Casa della Pie­ tà avevano effettivamente qualcosa di importante in comune, malgrado questo elemento renda ancora più difficili da decifrare i loro compor­ tamenti e le prescrizioni di rimedi abortivi di cui abbiamo parlato57• Le donne della Compagnia della Pietà facevano parte del gruppo religioso più radicale della Firenze del tempo, erano seguaci di quel carismatico predicatore che aveva tuonato contro l'immoralità e la corruzione e che per questo, sessant'anni prima, era finito sul rogo come un eretico : padre Girolamo Savonarola.

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Radicalismo religioso nel Rinascimento G iovani donne nei guai

Oh, Signore, quanto son grandi le fatiche e gli affanni di questo mondo ! Messer Domenedio, aiutateci voi: e massimamente per una mia pari, vedova, sola e abbandonata da ogniuno. Nascer, io non so se io mi ci volessi esser mai nata: pure la fidanza ch' io ho nel Salvatore, i digiuni, le mie orazioni mi danno buona speranza, se non di qua, di là haver il meno di riposarmi. Ma dovendo e volendo vivere infin che piace al Cielo, e non havendo l'entrata mia, che fu già larga e buona, più rendita, sono sforzata industriarmi e, lavorando e accomodando hor quelli, hor questi ne loro bisogni, guadagnarmi il vitto. Come h oggi con Giannino far mi conviene, il quale m'ha promesso di dar tanta moneta, ch' io ne starò bene parecchi giorni; e cosl andrò facendo, tanto ch' io mi morrò. Ma costei, perché tarda tanto à comparire? G IANNINO Venicene h oramai: egli par proprio che voi habbiate à ire a giustizia. ANTONIA Tu mi fai pur fare nella mia vecchiaia, quel ch'io non feci mai da giovine. GIANNINO Io credetti havervi pregato à bastanza; qui è l'honore, e l'util vo­ stro, che volete voi altro ? - poi rivolto a Sandra - A che fare hai eu badato tanto ? SANDRA Mi sono pur voluca rafforzare un poco ; che volevi tu, ch' io paressi una zambracca? G IANNINO So che tu hai soffiato nel bossolo'. SANDRA Che s'ha da fare? Sbrighialla oramai: Monn'A ntonia havete voi ha­ vuto i danari? ANTONIA Non io : dice che ne gli harem poi. SANDRA E quanti ? ANTONIA Due scudi per una. SANDRA To' ne ben pochi. G IANNINO Deh, succida, fa un po' il conto. ANTONIA Queste son parole d'avanzo ; Giannino cavianne le mani. GIANNINO Non accade altro, poi che noi semo cosl camminando giunti all'u­ scio, entrate qua dencro1• MADONNA ANTONIA

E così Monna Antonia, vedova devota e un tempo ricca, spingendo sua figlia a prostituirsi, si fa complice del complotto del servo Giannino, che

RAGAZZE PERDUTE vuole aiutare il suo attempato padrone, Gerozzo, a portarsi a letto la bel­ la, giovane moglie del suo vicino. Ma le cose sono persino più complica­ te - nella Pinzochera di Antonfrancesco Grazzini niente è come sembra, e questo non soltanto perché le pillole che avrebbero reso invisibile sono in realtà una m era illusione. Monna Antonia rappresentava ciò che più era detestato nella Firenze del Rinascimento: la bigotta devozione di chi predica bene e razzola male. Poteva, forse, incarnare anche il tipo di vedova che gestiva la Casa della Pietà, una che ospitava le ragazze abbandonate solo per farle poi prostitui­ re ? Che somministrava loro contraccettivi o rimedi abortivi perché conti­ nuassero a lavorare senza interruzioni dovute a gravidanze inopportune ? I fiorentini un po' lo sospettavano, a giudicare dall'uso che facevano di molti termini del volgare italiano. La parolapinzochera, ad esempio, nell'uso co­ mune indicava una vedova rispettabile che si era solennemente ripromessa di condurre una vita devota, all'insegna della povertà e della carità cristiana e che, spesso per contenere le spese, sceglieva una forma di vita comunitaria, accogliendo qualche orfano per ricavarne un po' di soldi. Ma, nel dialetto fiorentino, pinzochera significava "prostituta'' o "lenona, ruffiana''. Più avanza la nostra ricerca, più si moltiplicano gli aspetti incompren­ sibili e, di tutti, questo è il più singolare. Savonarola fu arso sul rogo, come un eretico, ma la sua "eresia'' fu appunto quella di aver denunciato con un impeto censorio senza pari i soprusi dei potenti, l'immoralità sessuale, il clero ricco e amante dei piaceri che aveva scalato i vertici delle istituzioni ecclesiastiche. In particolare, lo abbiamo visto, si era scagliato contro la pra­ tica dell'aborto. Negli anni Novanta del Cinquecento, l 'eco del messaggio savonaroliano si diffuse in tutta l' Italia del Nord e Firenze fu l'epicentro di questo movimento che al suo interno contava sbandati, castigatori di co­ stumi e delusi, ma anche filosofi del valore di Pico della Mirandola, pittori come Sandro Botticelli e molte, molte vedove. Savonarola aveva indicato le vedove come sagge, caritatevoli e caste custodi dell'ordine sociale ed esse risposero a questa aspettativa costituendo una delle più potenti corpora­ zioni tra quelle a lui dedicate3• Alcuni seguaci presero poi le distanze dal frate domenicano, ma i fedelissimi videro nell'esecuzione del 149 8 un vero esempio di martirio. n loro gruppo sopravvisse all'interno della vita reli­ giosa e politi ca degli anni che seguirono come un'organizzazione cattolica radicale, dinamica e fortemente determinata. Com'è possibile che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Cinquecento, fossero proprio loro a inter­ venire per procurare aborti ad adolescenti incinte ?

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n fatto che, nel nostro immaginario, Savonarola rimanga un pontifi­

cante e farisaico guastafeste che, sulla piazza più importante della città, dava fuoco ai quadri, ai libri e alle carte da gioco attraverso complessi ri­ tuali, i "falò delle vanità'', dice molto più su di noi che su di lui. Savonarola è stato assunto ad archetipo del religioso "fondamentalista'', con tutte le anacronistiche implicazioni che questo termine del xx secolo porta con sé. I romanzieri più noti immancabilmente lo ritraggono come un fanatico manipolatore, fautore di un'opprimente dottrina che soffocava tutto ciò che ci sembra fosse indispensabile a un uomo del Rinascimento per essere considerato tale: emozioni, creatività, razionalità, fiducia nel progresso. Un'ipocrita opportunista che faceva uso di violente pratiche intimidatorie per ricavarne vantaggi personali, insomma lo spirito dell'ami-Rinascimen­ to fatto persona. Ma se con il pensiero riandiamo soltanto al secolo precedente, il XIX, o ancora poco più indietro, dagli stessi romanzi e racconti popolari emerge un Savonarola del tutto diverso: un uomo dalla vita semplice, convinto sostenitore del regime democratico repubblicano, della separazione tra Chiesa e Stato e fautore di una religiosità essenzialmente interiore, impe­ gnata a valorizzare la rettitudine e l'integrità individuali, sollecita verso i bisognosi e i diseredati. Questa immagine è altrettanto anacronistica di quella che le è succeduta. I patrioti italiani, impediti nel loro progetto di unificazione del paese dalla reazione ostile della Chiesa, approfittarono in modo strumentale della polemica portata avanti da Savonarola contro l'ingerenza della Chiesa nella vita politica degli Stati e, ironia della sorte, finirono così per trasformarlo in un eroe politico nazionale, paladino del principio di separazione tra Chiesa e Stato. Fuori dai confini italiani, i pro­ testanti lo arruolarono all'interno del pantheon dei loro campioni come un uomo che, generazioni prima di Martin Lutero, aveva combattuto la buona battaglia contro la Chiesa cattolica, anche se molto probabilmente il frate italiano avrebbe inveito contro Lutero con una veemenza persino maggiore di quella riservatagli dalla Chiesa di Roma4• La rappresentazione corrente di Savonarola, esattamente come quella di ogni altro personaggio controverso, è stata accuratamente modellata in base ai desideri e alle avversioni della cultura dominante. Un'identica bat­ taglia attorno al ruolo, alla personalità e al profilo di Savonarola infuriò anche lungo tutto il XVI secolo. La sua ascesa al potere e la sua esecuzione sul rogo furono intimamente legate alle vicissitudini politiche delle fazio­ ni filo e antimedicee della città di Firenze. n fatto che i suoi seguaci fossero

RAGAZZE PERDUTE stati etichettati con l'appellativo di "piagnoni" a causa della loro ostentata devozione evidenzia come molti fiorentini trovassero irritante questa loro aria da presuntuosi bacchettoni. Ed è anche la prova di quanta efficacia po­ tessero avere all'interno delle relazioni pubbliche questi insulti condensati in epiteti lapidari. I piagnoni erano fortemente determinati, uniti attorno all'obiettivo di fondare una città santa. Eppure non dovremmo proiettare su questa idea tutto ciò che essa potrebbe significare in termini attuali. Erano senza dub­ bio dei severi censori che scuotevano la testa davanti al nudo, alle derive del paganesimo e alla promiscuità. I falò delle vanità ci furono davvero. E davvero Savonarola volle che si reclutasse un'armata di teppisti adole­ scenti e assai devoti che, spediti in ogni angolo della città, terrorizzassero giocatori d'azzardo, omosessuali e bestemmiatori. Eppure, a cavallo tra xv e XVI secolo, questa improbabile alleanza tra umanisti, vedove, poli­ ticanti, suore e adolescenti raccolse il favore dei più convinti fautori della legittimità della forma repubblicana del governo di Firenze. Si trattava di uomini pronti a combattere e a morire per inseguire questo sogno di un ordine sociale più aperto e più vicino ai principi dell'egualitarismo, capace di dar voce ai soggetti più deboli, come le donne e i bambini, in grado di provvedere al povero con munifìche opere sociali e determinato a elimina­ re ogni ingerenza della logica politica dalle istituzioni della Chiesa. A un decennio dalla morte di Savonarola cominciarono a emergere differenti posizioni all'interno del gruppo e, tuttavia, i piagnoni rimasero una realtà abbastanza coesa per i primi trent'anni del Cinquecento. L'elemento di coesione era la battaglia contro il casato dei Medici. Fu durante i disordini dell'ultimo governo repubblicano, dal 1527 al 1530, che la battaglia si spo­ stò all'interno del gruppo. La rottura si acutizzò nei successivi decenni: laici contro ecclesiastici, uomini contro donne, intransigenti contro mo­ derati, con tutte le possibili varianti cui questo tema rimanda. La dottrina savonaroliana delle origini fu sostanzialmente alla base della genesi e della crescita della Casa della Pietà, mentre furono le successive divisioni a cau­ sarne la scissione, disgregandola in tante e disparate direzioni5• Se arrivassimo a stabilire che le donne che, nel 1554, aprirono la Casa della Pietà facevano davvero parte del gruppo dei piagnoni, concretamen­ te, che cosa ne deriverebbe ? Agivano segretamente come tenutarie di un bordello oppure erano convinte attiviste religiose ? Grazzini non annovera Monna Antonia tra i piagnoni, ma la sua esibita devozione punta in quella direzione, mentre la sua spudorata doppiezza morale rivela quanto ormai

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fosse grande il cinismo dei fiorentini nei confronti di queste associazioni di pie donne cadute in disgrazia dopo essere diventate vedove. Abbiamo bisogno di farci un'idea più precisa sull'identità di queste donne e su come la Pietà potesse essere diventata non soltanto un ricovero per ragazze, ma anche una pedina istituzionale all'interno di un conflitto di poteri assai generalizzato che caratterizzò la Firenze del tardo Rinascimento. Questo significa prendere in esame un più ampio ventaglio di questioni inerenti le origini della Casa della Pietà e i suoi successivi mutamenti. La conflittua­ lità tra poteri che si agitava intorno e dentro al movimento dei seguaci di Savonarola può gettare una nuova luce su alcune delle peculiarità e sugli esordi della Casa della Pietà? Prima che aprisse i battenti, nel 1554, l'edi­ ficio a che cosa serviva, e il suo successivo trasferimento fuori da Borgo Ognissanti fu in qualche modo collegato alle dispute tra le file dei savona­ roliani ? E queste condizionarono in qualche modo anche la sua definiti­ va trasformazione in convento ? Ma, soprattutto, le donne della Pietà chi erano ? Ruffiane o vedove pietose ? Un gruppo religioso tanto radicale può essere stato coinvolto nella distribuzione di rimedi abortivi ? E tutte queste domande ci aiuteranno a capire perché, all'interno della Casa della Pietà, erano in tante a morire ?

Le donne di S avonarola nella Firenze dei Medici

Padre Girolamo Savonarola arrivò a Firenze nel 1490, seguito da una soli­ da reputazione di predicatore potente, profeti co, incalzante e socialmente impegnato, fama che si era guadagnato predicando lungo le regioni del Nord Italia6• A 22 anni era entrato nell'ordine dei domenicani e, dopo un inizio difficile, si era procurato la fama di uomo dal fine intelletto e dal­ la lingua ancor più affilata. Lorenzo de' Medici fece pressioni sui vertici dell'ordine domenicano affi nché questo carismatico predicatore, che ri­ empiva chiese e piazze, fosse trasferito a Firenze. La sua presenza avrebbe fatto da perfetto ornamento alla città e al monastero di San Marco che i Medici avevano copiosamente finanziato fin dai tempi di Cosimo il Vec­ chio. Savonarola mantenne buoni rapporti con il suo protettore e, quando questi morì, nel 1492, fu tra quelli che accorsero al suo capezzale. Ma ben presto la sua veemente predicazione si sarebbe rivolta proprio contro il governo mediceo, invocando la restaurazione delle antiche tradizioni po­ litiche di Firenze, quando più persone partecipavano alla gestione degli

RAGAZZE PERDUTE affari pubblici e la città era un luogo santo. Certamente Savonarola fu un conservatore. Ma lo furono anche tutti i riformatori del Rinascimento l'unica differenza stava nella tradizione cui ognuno faceva appello e che avrebbe voluto veder rifiorire nei tempi presenti. Le consuetudini dell'an­ tica Roma? Quelle del cristianesimo delle origini ? O la vita dell'età comu­ nale ? Erano pochi quelli che perseguivano qualcosa di veramente nuovo, mai visto, perché tutti partivano dal presupposto che la direzione delle cose future conducesse dritta a ciò che le aveva precedute e che ciò che del passato doveva essere recuperato non erano tanto le procedure o le teorie, ma la virtù - ossia, l'essenza più profonda della personalità, dei convinci­ menti e della disciplina che avevano animato le passate generazioni. Dal momento che si trattava di tradizioni che erano in qualche misura reinven­ tate a partire dalle carenze riscontrate nei tempi presenti, le analisi che se ne davano e i rimedi proposti spesso finivano per sovrapporsi. Questa è una della ragioni per cui Savonarola poteva attrarre spiriti ben lontani dalle sue reali e più profonde convinzioni. Lo seguivano schiere di simpatizzanti, non certo spinti dalla loro profonda fede cristiana, ma perché nella sua predicazione avevano colto un'eco del loro ideale sociale, politico o religioso. Questo spiega anche in che modo Savonarola sia riu­ scito a mettere in discussione alcune delle conquiste della cultura e dell'in­ gegno rinascimentali, mentre altre le abbia realizzate in pienezza. Nessuno ebbe un'eloquenza o una determinazione pari alla sua nel rivendicare la necessità di un governo veramente repubblicano. Le fila dei savonaroliani si ingrossavano di sinceri sostenitori, di sognatori a occhi aperti e di op­ portunisti che pensavano di poter manovrare il frate per realizzare i propri interessi e, alla fine, sbarazzarsi di lui. Fu questa combinazione di devozio­ ne, speranza e tattica a fare del movimento un fenomeno inarrestabile. Fu la stessa miscela di dogmatismo e intransigenza propria dei savonaroliani a causarne la precipitosa rovina, a fronte delle crescenti pressioni del papa­ to e dell'aumento dei problemi interni alla città. I simpatizzati svanirono presto nel nulla o addirittura si unirono alla fazione contraria, quella che assicurò il frate al rogo, nel 149 8. Paradossalmente, fu questo supplizio tra le fiamme a garantire longevità al movimento. Quei piagnoni che, alla fine, erano forse rimasti delusi dal fallimento delle profezie, dall' i ncoe­ renza delle scelte politiche e dalla crescita delle tensioni interne al movi­ mento e alla città, adesso potevano effondere il loro lamento su Girolamo Savonarola, martire caduto sotto i colpi di poteri forti e illegittimi prima che potesse portare a compimento la sua opera. Adesso toccava a loro re-

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ISI

alizzare ciò che egli aveva promesso. Sebbene Savonarola sia una figura di grande interesse, i suoi seguaci lo sono ancor di più. Svilupparono un'am­ pia rete sotterranea che permetteva loro di operare clandestinamente per il raggiungimento dei loro obiettivi, pronti a entrare in azione in modo fulmineo non appena se ne presentasse l'opportunità, come avvenne verso la fine del primo e del secondo decennio del Cinquecento. Erano in molti, e qualcuno tra loro era persino pronto ad andare incontro al martirio. Un sentimento di venerazione per una persona, per quanto forte possa essere, non può bastare a spiegare tutto questo - essi credevano in un regime re­ pubblicano teocratico "santo" e più egualitario, che avrebbe assicurato a tutti una nuova vita all'interno di una comunità retta sulla virtù. Era un progetto che conferiva una forza straordinaria a chi lo coltivava, un'idea cui s'ispirarono riformatori di ogni genere attraverso l 'Europa intera, a cavallo tra Cinque e Seicento, e che, tra le sue prospettive di maggior ri­ chiamo, contava quella di promuovere un ruolo attivo per i laici, per le donne e persino per i bambini. Pietra angolare di questa repubblica celeste era la carità e, sotto il go­ verno di Savonarola, i piagnoni si attivarono per subentrare nella gestione di alcune delle più importanti confraternite di Firenze impegnate nel soc­ corso ai poveri. In genere promossero soltanto attività di culto molto sem­ plici che sostituivano i precedenti, macchinosi rituali civico-religiosi; si autotassarono pesantemente per reperire i fondi necessari alle loro attività e studiarono un sistema di gestione delle opere di carità che coinvolgesse numerosi affi liati. Dopo la morte di Savonarola, i piagnoni continuarono nella loro opera di istruzione e assistenza dei bisognosi attraverso le stesse istituzioni cari­ tative, collegate in una rete invisibile ma straordinariamente efficiente, in modo particolare dopo che i Medici ripresero il governo della città, nel 1512, con la chiara intenzione di fare piazza pulita di tutti i nemici interni. Con la seconda caduta dei Medici e la restaurazione della Repubblica, nel 1527, i piagnoni erano ormai pronti ad assumere le redini del governo. Il loro improvviso ritorno, quell'anno, armati di progetti chiari per concre­ te azioni politiche e assistenziali, non può essere spiegato se non con il fatto che questa compatta rete clandestina di piagnoni esisteva già dagli inizi degli anni Venti del Cinquecento. Le confraternite e le istituzioni benefiche erano, dunque, il volto pubblico di quelle indaffarate relazio­ ni sotterranee. Ma emergere dalla clandestinità per approdare a incarichi politici comunali sollevò non pochi problemi, che semplicemente si mol-

RAGAZZE PERDUTE tiplicarono quando le truppe papali e imperiali strinsero d'assedio la città di Firenze, nel 1529. I contrasti che sorsero in merito alle strategie da adot­ tare mandarono il gruppo in frantumi, alienandogli le simpatie di mol­ ti sostenitori moderati. A partire dagli anni Trenta questi moderati non appartenenti al clero a poco a poco abbandonarono la retorica e l'azione rivoluzionaria per costruire una Repubblica santa, sì, ma su scala ridotta, con un'iniziativa immediata, che mettesse al centro i laici e che non sfi­ dasse direttamente i duchi medicei, che, anzi, qualcuno sperava persino di poter guadagnare alla causa. A loro volta i Medici si dimostrarono assai vendicativi. Papa Leone x aveva provato a coinvolgere i piagnoni, ma il suo successore (e protetto) Clemente VII fu più spietato nei loro confronti quando fece insediare come duca di Firenze quello che da molti viene indicato come il figlio nato da una relazione tra lo stesso pontefice e una serva nera o mulatta, Alessandro de' Medici, detto, appunto, il Moro. Questi fece giustiziare all'istante 25 tra i più noti repubblicani e altri 200 li condannò al carcere o all'esilio. Soffocò un ultimo rigurgito del profetismo facendo imprigio­ nare e mettendo a morte un numero ancora maggiore di capi della fazione repubblicana e chiuse le confraternite. Anche Cosimo 1, assuma la dignità ducale dopo l'assassinio di Alessandro, nel 1537, ordinò l' immediata chiu­ sura delle confraternite per evitare che nel tempo ritornassero a essere una di quelle strutture clandestine di opposizione grazie alla quale i piagnoni erano diventati tanto potenti nel primo tremennio del Cinquecento7• La lotta antimedicea provocò rotture interne al gruppo dei piagnoni, in primo luogo quella tra laici ed ecclesiastici. In tutta Europa, il clero ini­ ziò a rivedere il suo entusiastico favore nei confronti dell'opera del laico saggio e onesto, soprattutto dal momento in cui divenne evidente che i ri­ formatori protestanti erano pronti a impossessarsi delle chiese, a chiudere monasteri e conventi, spingendo i preti ai margini della vita sociale. Molti chierici aspiravano a ritagliarsi un ruolo nella società come interpreti di una raffinata razionalità di matrice cristiana e di un sobrio ripensamento delle idee savonaroliane. C 'era sempre stato qualcosa di vagamente inna­ turale nell'alleanza tra clero e laicato promossa da Savonarola, a partire dal fatto che l'ordine domenicano cui egli apparteneva non si era mai rivolto specificamente ai laici come, invece, avevano fatto i francescani, i serviti e persino gli agostiniani. Per questo non desta una grande sorpresa il fat­ to che, dagli anni Trenta del Cinquecento, i padri domenicani di Firenze iniziassero a rivendicare per il loro ordine un ruolo più importante all'in-

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terno di un'opera che sarebbe stata di incoraggiamento, certo, di guida, ma soprattutto di controllo del gruppo dei piagnoni. I loro sforzi erano diretti non soltanto ai laici, ma anche ai consacrati di sesso femminile, vale a dire le suore. Eppure le seguaci di Savonarola erano attiviste convinte del fatto loro, che più di una volta si erano scontrate con i padri domenicani per questioni inerenti l'organizzazione e il controllo delle loro iniziative assistenziali e religiose8• Come possiamo ricostruire il peso dell'esperienza savonaroliana all'in� terno della Compagnia della Pietà? Una prima indicazione fondamentale ci viene dall'elenco di coloro che, nel 1497, sottoscrissero una petizione a papa Alessandro VI affi nché annullasse la scomunica che aveva decretato nei confronti del frate. Confrontando la lista degli appartenenti alla Com� pagnia della Pietà con questo secondo elenco di nomi, si scopre che più del 4o% delle famiglie menzionate nel registro della Pietà compare anche come firmataria della supplica a favore di Savonarola9• Ecco una prima, generica traccia di possibili collegamenti. Ma le famiglie, si sa, non sempre vanno d'amore e d'accordo, tanto meno quelle di una città tanto faziosa come lo era Firenze, quindi dobbiamo prestare molta attenzione ai sin� goli nomi. Questo si traduce in un'opera di dettagliata ricostruzione del contesto familiare dei singoli, dei loro legami matrimoniali, delle carriere politiche, dei loro impegni religiosi e sociali. E questo necessita anche di un attento esame degli elenchi dei titolari di cariche pubbliche, di una riproduzione degli alberi genealogici, scovando i contratti matrimoniali e passando al setaccio cronache locali, censimenti e registri d'esazione delle imposte, e, forse, anche verbali processuali. Un passo alla volta riannode� remo i fili di tutti quei rapporti personali e familiari che costituiscono il sistema di relazioni di ogni persona. Quest'opera certosina ha permesso alla storica fiorentina Rosalia Man� no Tolu di dimostrare che la Compagnia della Pietà non era una semplice adunanza di benefattrici. Si trattava delle mogli, delle figlie, delle sorelle e delle vedove degli uomini più attivi e illustri del movimento dei piagnoni e tutte avevano più o meno direttamente subito le conseguenze delle loro condanne. La cofondatrice della Compagnia, Marietta Gondi, che conti� nuò nel suo impegno assistenziale fino all'anno della sua morte, nel 158 o, era stata moglie di Federico Gondi, esponente di spicco dell'ultimo go� verno repubblicano e fiero avversario dei Medici, morto in esilio nel 1536. Non ebbero figli e Marietta spese tutta la sua vita per la Casa della Pietà, fin dai suoi esordi e, alla fine, quando nel 1580 morì, le donò anche ciò

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che rimaneva del suo patrimonio. Lio nardo, marito di Ginevra Bartolini, scappò una volta caduta la Repubblica, nel 1530, e fu condannato a morte per avere protetto Pieruccio de' Poveri, carismatica guida dei piagnoni che aveva preso parte alla riorganizzazione di una rete assistenziale per i poveri. Tra le iscritte alla Compagnia della Pietà figurano anche Lucrezia Girolami, moglie e poi vedova dell'ultimo gonfaloniere della Repubblica, Raffaello Girolami, e sua figlia, Cosa Antinori. Lorenzo Ridolfi, marito di Maria Strozzi, si era opposto all'arrivo del duca Alessandro, nel 1530, e aveva poi combattuto contro Cosimo I nella decisiva battaglia di Mon­ temurlo, nel 1537, tentando invano di arrestarne l'ascesa prima che dive­ nisse incontrastabile. Persino più vicino alla Casa della Pietà, durante i suoi primi anni di attività, fu il fratello della stessa Maria Strozzi, Piero, ufficiale al soldo delle truppe francesi e senesi impegnate nello scontro contro Cosimo per la conquista di Siena. A quanto pare Paolo, fratella­ stro illegittimo di Maria, fece altrettanto. Marietta Strozzi era la figlia di Carlo Strozzi, padre di Paolo, detto "il Pretino", nato dalla relazione con la sua domestica, Agnoletta, lo stesso Carlo che dispose che i suoi eredi garantissero a madre e figlio una casa in città e una in campagna, con qual­ che terreno. Quando il governo di Cosimo I inserì Paolo nel numero dei ribelli, la famiglia vide in questa decisione un tentativo di privare di ogni eredità il Preti no e sua madre10• Alcune donne della Pietà avevano relazioni politiche più composite. Tra le affiliate risultano tre vedove di casa Medici: Andreuola, Francesca e Maddalenau. li padre di Ginevra Sacchetti Capponi, Niccolò Sacchetti, era tra i firmatari della petizione a favore di Savonarola del 1497 e suo cognato, Niccolò Capponi, era stato uno dei funzionari più importanti dell'ultima Repubblica. Eppure un altro cognato, Luigi Guicciardini, marito di sua sorella Isabella, era un fedele alleato dei Medici e ricoprl importanti cari­ che politiche sotto il governo di Cosimo 1. L'ultimo marito di Maddalena Gondi, Pagnozzo Ridolfi, aveva esordito come seguace di Savonarola, ma dal 1530 interruppe ogni rapporto con il gruppo dei piagnoni, per servire, invece, la causa medicea; e i Medici riposero in lui abbastanza fiducia da assegnargli alcuni incarichi politici. Monaldesca Monaldeschi Baglioni era la vedova del soldato di ventura Malatesta, capo dell'esercito repubbli­ cano durante l'assedio di Firenze del 152 9 -30; dopo molti mesi, Malatesta, scorgendo nelle mura distrutte della città un infausto presagio, decise di negoziare la resa con le forze imperiali. Ma ci sono altre connessioni tra gruppi familiari che sembrano indicare come questo reticolo segreto di

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rapporti all'interno del patriziato cittadino consentisse un certo livello di coordinamento anche tra le varie istituzioni caritative. Maria da Diacceto era sposata con Piero di Bartolomeo Capponi, che, con Malatesta, aveva siglato la resa della città, ed era sorella di Dionigi da Diacceto che, dal 1561 al 1574, fu uno dei capitani del Bigallo, la magistratura che, in definitiva, vigilava sul funzionamento della prima Casa della Pietà, quella all' inter­ no del!' Ospedale di Santa Maria del!' Umiltà. Un'altra sorella di Maria da Diacceto era la matrigna della famosa suora Santa Caterina de' Ricci11• E l'elenco potrebbe protrarsi all' infinito. Dunque le donne della Pietà avevano fatto esperienza della concreta prassi di governo e dei costi che doveva sostenere chi vi si ribellava; lo avevano fatto attraverso le vite dei loro padri, dei loro mariti o fratelli. In molte pagarono un prezzo molto alto per la loro fedeltà al movimento dei piagnoni. Ma nel loro modo di gestire la Casa c'era davvero qualcosa che derivasse in modo particolare dalla loro spiritualità savonaroliana? Rosalia Mannu Tolu è del parere che sia anacronistico immaginare queste donne impegnate in prima persona sulla scena politica, malgrado le radici savona­ roliane delle loro famiglie. n comune coinvolgimento in opere benefiche aveva in qualche modo sommerso l'antica ostilità tra piagnoni e Medici. Eppure, anche in mancanza di obiettivi politici manifesti, quelle radici ali­ mentavano un diverso modo di accostarsi alla religione, alle opere di carità e alla vita in genere. Abbiamo già sottolineato come i piagnoni, una volta subentrati nel controllo di una confraternita, tendessero a semplificarne la prassi devozionale, a estenderne la gestione a un numero più consistente di membri e a investir vi somme ingenti del proprio patrimonio personale. È possibile ravvisare questi stessi aspetti nelle modalità di finanziamento, amministrazione e assistenza spirituale adottate dalla Compagnia della Pietà? Una delle ragioni per cui la versione della storia delle origini della Pie­ tà fornita dalle Croniche delle Suore della Pietd pare priva di oggettivo fondamento sta nel fatto che essa tratta l'istituto al pari di un'opera pia del tutto convenzionale, nata dalle preghiere di un manipolo di chierici devoti. Per questo abbiamo bisogno di ritornare su quelle cronache per rileggerle con più attenzione, anche alla luce delle differenti prospettive che emergono da altri documenti d'archivio. La Pietà era particolare. Era particolarmente savonaroliana. Aprì i battenti nel dicembre del 1554 ma, a quella data, Margherita Borromei e Marietta Gondi erano già al lavoro da mesi, bussando a ogni porta, insistendo per incrementare le offerte:

RAGAZZE PERDUTE 149 entro il Natale 1554• per arrivare, nel primo anno di vita dell' istitu� to, a 270 e, poi, a 320 nel 1558 e a 3 8 5 alla fine dello stesso annd3• Tutti i benefattori erano donne. Nessun altro istituto beneficiò di simili stanzia� menti, né di una simile compagnia di sostenitori. L'entità di ogni singola donazione era piuttosto esigua, ma, sommate, permisero l'apertura del ricovero14• Savonarola si era pronunciato a favore proprio di questa forma di finan� ziamento. Avvertiva, infatti, come un pericolo per la santa Repubblica che egli mirava a realizzare la presenza di lupi famelici pronti ad aggirarsi at� torno a ospedali o altre strutture caritative in cerca di facili truffe e ruberie. L'unico modo per tenerli a bada era quello di far dipendere gli istituti da una moltitudine di piccole offerte piuttosto che da pochi, enormi lasciti e sovvenzioni. Le cifre cosl raccolte avrebbero potuto non coprire la totalità dei costi, ma ciò che mancava sarebbe venuto dall' insegnare a chi benefi� ciava dell'altrui generosità a lavorare in prima persona, partecipando così al mantenimento della struttura nella stessa misura dei propri benefattori. Ragazze come quelle della Pietà avrebbero, dunque, imparato un mestiere, preparandosi alla vita che, un domani, le avrebbe attese e divenendo anche loro socie sostenitrici di una comunità che andava ben oltre il semplice istituto : persino nel Rinascimento c'era qualcuno che agitava lo spettro delle "scroccone dell'assistenza pubblica'', trasformando il sostegno ai biso� gnosi in una forma di lavoro socialmente utile, dare per ricevere, workfore e non più welfare. Anche le donne della Compagnia della Pietà dirigevano il loro istitu� to in modo diverso da quanto ci si potrebbe aspettare. Qui bisogna sta� re attenti agli indizi che trapelano da tutto ciò che manca. Ad esempio, volumi contenenti regole e statuti. È da qui che, di solito, si evincono i nomi delle persone coinvolte nell'organizzazione del ricovero assisten� ziale e le modalità secondo cui i suoi funzionari lo gestivano, ognuno in base a mansioni specificate nei minimi dettagli. Gran parte dei ricoveri amministrati da uomini non avrebbe mai aperto senza avere pronti gli statuti che li avrebbe retti. Finché l'istituto rimase a Borgo Ognissanti, le donne della Pietà non ebbero mai il tempo necessario alla loro stesura. Nel momento stesso in cui una donna elargiva una donazione, entrava a far parte della Compagnia della Pietà, potendo anche ricoprire un in� carico all'interno di quelli previsti per il governo dell'istituto15• Questo era il modo in cui gruppi di vedove pinzochere mandavano avanti i loro piccoli ricoveri, senza alcuno statuto. E questo spesso valeva per tutte le

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donne, anche quelle alla testa di istituti caritativi molto più grandP6• Dai documenti inerenti la Compagnia della Pietà non si ricava alcun cenno a quelle piccole unità di funzionari amministrativi specializzati che diri­ gevano istituti come quello di Santa Maria delle Vergini o San Niccolò, sebbene per la contabilità fosse stato assunto un uomo. Le donne della Compagnia della Pietà si riunivano nel consiglio informale delle prio­ re, convocato da Marietta Gondi, dove assumevano decisioni in modo collegiale. Tra queste, anche quelle inerenti a ciò che le ragazze avrebbe­ ro trovato nell'istituto. Potevano anche esserci molte donne riunite al tavolo delle decisioni, ma le procedure erano molto più snelle di quelle seguite in qualsiasi altra compagnia. Le priore ricevevano una ragazza per un colloquio e subito decidevano se poteva essere ammessa o no all'in­ terno dell' istituto. Al contrario, le regole statutarie dei ricoveri in mano a una direzione maschile prevedevano complicate procedure d'accesso: più colloqui per verificare la provenienza sociale e la reputazione della ragazza in questione, controlli medici utili all'accertamento della sua verginità e della sua avvenenza fisica, ripetute votazioni degli affiliati per far avanzare il suo caso di esame in esame. Ci potevano volere dei mesi per essere ammesse in un istituto retto da una compagnia maschile, solo poche ore per entrare nella Casa della Pietà. Le priore registravano nel Libro Segreto soltanto lo stretto necessario sull'identità della candidata, forse segnalando così l'inizio di una nuova vita per lei. Elenchi concisi in un libro segreto; questo significa che, entrando nella Casa della Pietà, una ragazza poteva chiudere i conti con il proprio passato17• Se poi si passa al tema della cura spirituale delle ragazze, ci si accor­ ge che le donne della Pietà camminavano sul filo del rasoio. Non rimane traccia delle loro esperienze religiose comunitarie. La Compagnia della Pietà non fa capolino tra le cronache cittadine e non figura negli elenchi di quelle confraternite impegnate a organizzare feste di quartiere per il giorno di Ognissanti o i cui membri arrivarono a ricoprire cariche poli­ tiche. Sappiamo che almeno qualche donna della Pietà raccolse opere di letteratura religiosa e contemplativa per girarle poi alle ragazze. Nella Casa potrebbe persino essere stato avviato un ciclo di studi biblici, più vicino al mondo dei riformatori protestanti e dei cattolici conosciuti come "spiri­ tuali", piuttosto che a quello dei cattolici conservatorP8• Al di là di questo, le donne della Pietà sembrano aver abbracciato la concezione religiosa di Savonarola, senza estendere il loro favore ai suoi successori domenicani, almeno in un primo momento. I padri domenicani, infatti, erano diventati

RAGAZZE PERDUTE confessori personali di numerosi piagnoni e delle loro compagnie, ma non di quella della Pietà. Per le società religiose e benefiche gestite da laici, il modo migliore per evitare di cadere sotto il controllo di un singolo ordine, come quello dei domenicani, o di un singolo istituto, come quello di Santa Maria Novella o di San Marco, era quello di scegliersi come cappellani sacerdoti prove­ nienti da luoghi diversi, a turno e con incarichi a breve termine. Savona­ cola aveva messo in guardia le donne vedove contro i pericoli derivanti dall'eccessiva vicinanza a un unico sacerdote - anche i più virtuosi pote­ vano cadere nella tentazione del sesso o nelle lusinghe scaturite dalla con­ sapevolezza del proprio ascendente su una donna, cadendo nel peccato e trascinandovi anche le vedove loro devotei9• Senza dubbio le donne della Pietà seguirono il consiglio del frate domenicano, scegliendo per le loro cure spirituali laici, ecclesiastici, tanto secolari quanto regolari, del primo, del secondo o del terzo ordine che fossero. Finché rimase a Borgo Ognis­ santi, la Compagnia della Pietà reclutò gli insegnanti per le ragazze tra i membri di una confraternita del circondario di cui non conosciamo il nome, tra le suore carmelitane di Santa Maria degli Angeli e, forse, anche tra i padri francescani del convento di Ognissanti. I loro primi cappellani furono il sacerdote secolare Antonio Cattani e il frate cappuccino Giro­ lamo Finugi da Pistoia; più tardi arrivarono i domenicani, i camaldolesi e persino i gesuiti, che certo non erano cultori entusiasti della spiritualità di Savonarola. Eppure, malgrado le apparenze, molti di questi cappellani era­ no in qualche modo riconducibili al movimento savonaroliano. Savonaro­ la contava seguaci disseminati in ogni ordine religioso, per questo le donne della Compagnia della Pietà riuscivano a mantenere il loro vitale rapporto con il movimento pur evitando di cadere sotto il controllo di un unico ordine religioso, e questo semplicemente scegliendo cappellani di diversi ordini. Così fecero anche altre confraternite e istituti caritativi, sebbene non con la stessa regolarità che si riscontra nel caso della Pietà. Si trattava di una prassi verso la quale i domenicani si dimostrarono più riluttanti ri­ spetto ad altri ordini religiosi e particolarmente ostili furono i domenicani di Firenze. È significativo che quando, alcuni decenni più tardi, i padri domenicani iniziarono le Croniche delle Suore della Pieta, minimizzarono il ruolo degli altri ordini e i buoni risultati conseguiti dagli ecclesiastici non domenicani all'interno della Compagnia, dando l'impressione che la Pietà fosse sempre stata sotto le cure di valorosi padri domenicanF0• Da quello che riusciamo a ricostruire, quello della Pietà non fu un sem-

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plice gruppo di donne con imprecisati legami familiari con il movimento savonaroliano. Era un gruppo che ordinava i bilanci, l'amministrazione e la cura spirituale dell'istituto in modo del tutto diverso da quello vigente in altri ricoveri, e gran parte di queste differenze derivavano dai princìpi dei savonaroliani, dai metodi adottati nelle loro confraternite e nei loro istituti benefici e da tutto quanto avevano imparato nei sessant'anni suc­ cessivi al rogo del loro frate. La Casa della Pietà era tutta in mano alle donne, veniva finanziata in parte con piccole donazioni provenienti da un nutrito gruppo di iscritti, in parte con il lavoro svolto dalle stesse ragazze ospiti della struttura, secondo una gestione del tutto informale. Queste benefattrici erano animate da uno spirito di profonda devozione e, tut­ tavia, stavano bene attente a evitare un'eccessiva dipendenza da un parti­ colare ordine di chierici o religiosi. Collocare l'istituto nel bel mezzo del quartiere a luci rosse di Firenze, accogliere ragazze di dubbia reputazione, un po' più grandi rispetto alla media registrata negli altri conservatori e mantenerne segreta l'identità: erano tutti comportamenti altrettanto in sintonia con la visione savonaroliana di difesa delle anime più vulnerabili della città. Certamente tutto questo poteva anche insospettire i fiorentini, insinuando in loro il dubbio che queste priore fossero ipocrite bacchetto­ ne come Monna Antonia, la pinzochera di Grazzini, e che la loro Casa, tanto misteriosa, fosse in realtà un bordello. C 'è poi la questione del nome di questa Casa. Gli incaricati del cen­ simento del 1561 la inserirono nei loro elenchi sotto il semplice nome di «Spedale delle Abbandonate in Borgo Ognissanti ». Una descrizione scial­ ba e al tempo stesso altisonante. Come già abbiamo riscontrato, lo stesso nome fu affibbiato a un altro istituto, meno di dieci anni prima. Non c'è una sola fonte manoscritta che istituisca un collegamento diretto tra queste due strutture, ma se procediamo a un esame più attento della storia di en­ trambe sarà possibile rinvenire alcuni legami significativi. Per tutti gli anni Quaranta del Cinquecento, Lionora Ginori, una donna rimasta vedova, aveva mandato avanti un piccolo rifugio, non ufficialmente riconosciuto, situato a pochi isolati da Ponte Vecchio, nella zona d'Oltrarno. Era poco più di una casa-famiglia, all'interno della quale viveva la stessa signora Gi­ nori insieme a due altre vedove, a cui alla fine si unirono anche le sue due figlie, Caterina e Maria. Si trattava di un classico esempio di piccola co­ munità "stile pinzochere". La signora Ginori riusciva a mantenere poche ragazze alla volta, scegliendole tra quelle abbandonate o che erano state og­ getto di violenze, forniva loro una dote (talvolta inviando suppliche al duca

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Cosimo I ) e poteva persino arrivare a combinarne i matrimoni. Questa sua opera cominciò attorno al 1541 e il nome "Ospedale delle Abbandonate" sembra sia spuntato un anno dopo, una sorta di appellativo ufficioso conia­ to in seguito ali' apertura di un nuovo ricovero per ragazzi, l'Ospedale degli Abbandonati, sotto l'egida dei capitani del Bigallo. Impazienti di suben­ trare a Lionora Ginori nella gestione del suo ricovero per farne il nucleo di un grande istituto femminile che costituisse il gemello di quello maschile degli Abbandonati, i capitani del Bigallo iniziarono a finanziare l'opera del­ la Ginori regalandole farina, vino e materassi. Ma Cosimo I non ne volle sapere. Dopo la morte di Lionora Ginori, nel 1549, il duca fece orecchie da mercante sia nei confronti dei suggerimenti che gli venivano dai Capitani del Bigalllo, intenzionati a prendere la Casa sotto la loro tutela, sia nei con­ fronti delle suppliche inviategli dalle figlie della signora Ginori e delle altre vedove, affi nché fossero loro dati i mezzi per mandarla avanti da soleu. A sorpresa, Cosimo I ne ordinò la chiusura. Perché ? La signora Ginori era stata una delle piagnone più in vista. La aiuta­ vano delle vedove che erano anche sue figlie e la maggior parte delle loro giovani ospiti, almeno di quelle di cui siamo in grado di ricostruire il con­ testo familiare e le relazioni matrimoniali, erano anch'esse piagnone. Ma Cosimo I non era certo uno sprovveduto. Aveva tutte le ragioni per so­ spettare che la casa di Lionora Ginori fosse l'ennesima cellula clandesti­ na del movimento dei piagnoni. Ordinando la chiusura del suo istituto, Cosimo I non stava voltando le spalle alla ragazze abbandonate, come in una lettera lo accusarono di fare le vedove; semplicemente aveva deciso che quell'assistenza per cui egli sborsava denari dovesse stare nelle mani dei suoi sostenitori piuttosto che dei suoi oppositori. Così ebbe inizio la nuova confraternita di Santa Maria delle Vergini, composta da fedelissimi del partito mediceo e con a capo il confessore di Eleonora, la moglie spa­ gnola del duca. Questa compagnia di soli uomini scrisse immediatamente i propri statuti per definire in modo ufficiale la struttura amministrativa dell'istituto, focalizzando un obiettivo specifico: accogliere giovani di fa­ miglie di un certo livello sociale. Le ragazze si trasferirono proprio davanti al palazzo del duca, a breve distanza da un vecchio ospedale in piazza San Felice. Non erano proprio sotto la sua diretta tutela, ma sotto i suoi occhi sì, quasi alla lettera. Le vedove piagnone che avevano lavorato con Lionora Ginori e le sue figlie avevano tutte le ragioni per essere arrabbiate. Cosimo I aveva loro strappato di mano l'istituto, lasciando le povere ragazze che stavano aiutan-

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do senza alcun riparo. Fu forse per questo che si misero subito a progettare una contromossa? Passarono, infatti, soltanto tre anni e la Casa della Pietà cominciò a funzionare e, come abbiamo visto, gli addetti al censimento del 1562 la indicarono con lo stesso appellativo generico utilizzato per il ricove� ro di Li onora Ginoriu. Tra le benefattrici del nuovo istituto, le figlie di Lio� nora Ginori, Caterina e Maria. Ritroviamo molti degli antichi sostenitori di casa Ginori nella cerchia di coloro che parteciparono alla rapida crescita della Compagnia della Pietà e che contribuirono economicamente alla ri� nascita dell'Ospedale delle Abbandonate in Borgo Ognissanti,.\ L'organizzazione informale della Pietà, il grande numero dei suoi affi� liati, dalle cui sole piccole donazioni dipendeva, e la sua autonomia dalle autorità ecclesiastiche e governative sono tutti elementi che possono far pensare a una strategia deliberatamente studiata per evitare che a Cosi� mo I restasse la benché minima possibilità di farla nuovamente chiudere. La Casa delle Abbandonate della signora Ginori aveva finito con il dipen� dere troppo dai denari di casa Medici per il finanziamento di tutte le sue attività e delle doti matrimoniali che distribuiva alle sue ragazze. Quella dipendenza fu tutto ciò di cui Cosimo 1 aveva bisogno per sentenziare la loro fine. Al contrario, il nuovo istituto della Pietà/ Abbandonate fu inten� zionalmente progettato per autosostentarsi : non godeva di alcun sostegno pubblico e si impegnava ad assegnare soltanto poche doti. I finanziamenti che un tempo il duca destinava alla Casa delle Abbandonate di Lionora Ginori prima presero la via dell'istituto di Santa Maria delle Vergini, poi di quello di San Niccolò, di cui Cosimo 1 ordinò l'apertura quando era trascorso poco più di un anno dall'avvio della Pietà. ll duca volle che la casa di San Niccolò si rivolgesse allo stesso tipo di famiglie di artigiani e salariati cui la Casa della Pietà prestava soccorso, ma collocò questo nuovo ricovero in un quartiere popolare all'altro capo della città. I Medici e i piagnoni si erano forse dichiarati una guerra sotterranea per la conquista dei cuori e delle coscienze dei fiorentini ? Probabilmente rischiamo di fare della dietrologia; sicuramente di fraintendere le potenti dinamiche che erano all'opera. Cosimo I avrebbe incontrato ben poche difficoltà a trovare un pretesto per chiudere la Pietà, qualora avesse voluto farlo. Ma se riusciamo a intravedere i rapporti che, celati sotto la superfi� cie dell'ufficialità, intercorrevano tra le Abbandonate di Lionora Ginori, l'istituto di Santa Maria delle Vergini e di San Niccolò del duca Cosimo e la Casa della Pietà capitanata dall'omonima compagnia, allora diventa subito chiaro che, sotto questa improvvisa fioritura di ricoveri (si parla di

RAGAZZE PERDUTE soli quindici anni), si nasconde qualcosa di più di una profonda preoc­ cupazione per la salvaguardia della moralità di giovani ragazze orfane o abbandonate. I vari istituti riflettevano differenti visioni del problema e sorsero l 'uno in risposta dell'altro. Molte donne importanti furono coinvolte nel progetto della Casa della Pietà e, avendo già sperimentato una volta la sconfitta per mano di Co­ simo I, furono stavolta ben determinate a non ripetere quell'esperienza. Avevano in mente una precisa tipologia di adolescenti : di umili origini, un po' più grandi di quelle che in media venivano accolte negli altri istituti, magari con una reputazione più discutibile e, proprio per questo, proba­ bilmente esposte ai maggiori pericoli. Cosimo tagliò fuori dai "suoi" nuovi istituti, collocati nelle migliori zone di Firenze, proprio questo genere di ragazze. Le donne della Pietà, invece, sistemarono la loro nuova casa in quel tipo di area - a metà tra un sobborgo manifatturiero e un quartiere a luci rosse - in cui era più facile si radunasse quella categoria di ragazze cui esse miravano. Le facevano entrare velocemente, registrando soltan­ to alcune delle loro generalità all'interno di un Libro Segreto. Le donne della Pietà agivano senza essere guidate da formali regole statutarie, abili nell'eludere il controllo tanto delle autorità governative, quanto di quelle ecclesiastiche. Furono davvero in grado di farlo completamente ? il primo cappellano della Pietà, come anche il suo primo contabile, risultavano tra i membri della confraternita di Santa Maria delle Vergini, patrocinata da Cosimo 1. Bastarono meno di due anni per farli uscire di scena.

Da Borgo Ognissanti a via del Mandorlo

Bisogna tenere a mente che il mondo che queste donne riuscivano a co­ struire era, nel migliore dei casi, transitorio. Fino alla fine degli anni Cin­ quanta del Cinquecento potrebbero aver aderito alla Compagnia della Pietà quasi 400 donne, ma bastarono dieci anni perché ne rimanessero poco più di 3 0. Proprio intorno a questo periodo, le ragazze furono tra­ sferite dal malfamato quartiere a luci rosse di Borgo Ognissanti (un nome che pare canzonatorio per quel genere di sobborgo) a via del Mandorlo. A seguito di questo spostamento, l 'età media delle ragazze che veniva­ no ammesse nella Casa cominciò a diminuire, così come il loro tasso di mortalità e si ridussero anche i casi di ragazze che lasciavano l'istituto per sposarsi o per andare a servizio come domestiche nelle case. Finalmente

RADICALISMO RELIGIOSO NEL RINASCIMENTO si scrissero gli statuti. Il governo della Casa si fece più rigoroso e vennero formalizzati i criteri d'ammissione. La situazione finanziaria precipitò e i contabili cominciarono a frugare tra i vecchi libri mastri e i quaderni di conto alla ricerca di pagine bianche ancora buone per il loro diario quoti­ diano delle entrate e delle uscite. Una volta che le ragazze ebbero lasciato Borgo Ognissanti, i loro vecchi vicini di casa si dimostrarono piuttosto riluttanti neli' ammettere che lì, accanto a loro, nell'Ospedale dell' Umiltà, avessero vissuto alcune ragazze abbandonate, figuriamoci poi se si spinsero ad ammettere che ce ne erano state 160. La Casa della Pietà stabilì la sua nuova residenza tra i piccoli orti di via del Mandorlo e divenne un istituto più convenzionale, decisamente più vicino all' idea di ricovero per ragazze caldeggiata da Cosimo I di quanto non lo fosse stato il ricovero aperto tra le puttane e i lanaioli di Borgo Ognissanti. Questo radicale cambiamento del contesto ambientale della Casa della Pietà fu in qualche modo legato a un altrettanto radicale cambiamento d'idee ? È tempo di esaminare più da vicino queste evoluzioni, insieme alle persone che le assecondarono. Non appena tentiamo di rimuovere quest'ennesimo strato di verità de­ positate e guardiamo più attentamente all' interno delle Croniche e dei re­ gistri contabili per ricostruire in che modo e perché la Pietà cambiò volto tra gli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento, ci troviamo di fronte a un singolare paradosso. Quello che diede forma alla Pietà fu una concezione savonaroliana del mondo portata avanti da donne seguaci del frate. Eppu­ re furono le politiche di stampo savonaroliano e gli uomini che le promos­ sero a decretare, in buona sostanza, la fine di questa loro particolare "casa della compassione". Le donne della Pietà potevano aver avuto la meglio su Cosimo I durante gli anni Cinquanta, ma furono sopraffate dall'azione congiunta di due sacerdoti piagnoni: un frate carismatico e un arcivesco­ vo. Con la collaborazione di Cosimo I, questi due uomini riuscirono a trasformare la Casa della Pietà in qualcosa di assai diverso dal progetto originario delle sue fondatrici. ll frate in questione è Alessandro Capocchi, del convento domenica­ no di Santa Maria Novella, due o tre isolati a nord-est dalla Pietà. Padre Capocchi era stato direttore spirituale di una delle più importanti con­ fraternite piagnone, quella di San Benedetto Bianco, e del convento car­ melitano di Santa Maria degli Angeli. Era un rappresentante del nuovo clero maschile di impronta piagnona che fece la sua comparsa nella Fi­ renze di metà Cinquecento, quello che proponeva un ridimensionamento del millenarismo profetico di Savonarola e del suo repubblicanesimo an-

RAGAZZE PERDUTE timediceo e che promuoveva una diversa immagine del frate, incompreso taumaturgo e fautore di una riforma spirituale14• Capocchi aveva carisma, determinazione e capacità, quante ne servono per vincere ogni opinione contraria. Aveva faticato tanto per convincere i suoi confratelli mendican­ ti a far entrare il convento di Santa Maria Novella all' interno di un ramo differente dell'ordine domenicano, in modo da poter unire le forze con la storica residenza di Savonarola, il convento di San Marco. Per assicurarsi il posto di cappellano nella Casa della Pietà, Capecchi mise ali'angolo il gesuita che allora serviva in quel ruolo, accusandolo di eresia. I sospetti in­ vestirono il gesuita, che fu spedito a Roma, e le donne della Pietà, piene di riconoscenza, nominarono al suo posto padre Capocchi. Questo episodio costituisce l'ennesimo esempio della necessità di leggere tra le righe dei documenti, quando si parla della Pietà. Le Croniche delle Suore della Pieta eludono ogni riferimento ai gesuiti descrivendo il sacerdote caduto in di­ sgrazia semplicemente come il "prete di San Giovannino", trascurando di aggiungere, con un certo riserbo, che in quella chiesa stavano, appunto, i gesuiti1>. Capocchi rimase al suo posto di cappellano per dieci anni (1558-68) e fu l'anima delle trasformazioni che cambiarono il volto della Pietà. Per lui l'assai libera gestione della Casa messa in atto da molte donne che lavora­ vano insieme senza il conforto di regole formali era una prassi disordinata, cui bisognava porre rimedio con l'istituzione di un consiglio direttivo più ristretto16• La snella procedura con cui le priore erano solite ammettere le ragazze nell'istituto andò incontro a un irrigidimento, perché intervenne­ ro i benefattori che rifiutarono quelle ai loro occhi inadeguate, presentan­ do per l'esame d' ammissione soltanto quante da loro ritenute meritevoli. Le prime a sostenere la Casa furono le donne della Compagnia della Pietà, ma, nel giro di pochi decenni, la cerchia dei finanziatori si allargò a pre­ ti e frati, uomini della corte medicea, inclusa la granduchessa. Capocchi si liberò dei libri devozionali donati alle ragazze dalle donne della Pietà e congedò la confraternita che le aveva introdotte alla dottrina cristiana, spedendo le ragazze dalle suore carmelitane di Santa Maria degli Ange­ li e iscrivendole tutte alla confraternita del Rosario sostenuta dai padri domenicani, considerata una guida sicura alle pratiche devozionali. Ma, soprattutto, padre Capecchi cominciò a impegnarsi seriamente per il tra­ sferimento da Borgo Ognissanti. Le Croniche delle Suore della Pieta ne danno una spiegazione che suona sospetta e che sembra suggerire che ali' interno della Compagnia della Pie-

RADICALISMO RELIGIOSO NEL RINASCIMENTO tà si fosse scatenata una controversia in merito alla direzione dell 'istituto. L'antica sede era probabilmente diventata troppo piccola per le esigen­ ze dell'istituto - difficile sostenere il contrario, anche si sarebbe potuto ovviare al problema con la casa e il giardino che Girolamo da Sommaia aveva lasciato in eredità alla Pietà, proprio dietro l'angolo dell'edificio. È altrettanto probabile che l'Ospedale dell' Umiltà fosse ormai troppo co­ stoso, anche se i documenti contabili della Pietà e dei suoi padroni di casa, i magistrati del Bigallo, omettono di registrare che gli 8o scudi di canone annuo di locazione siano mai stati pagati. È anche ragionevole pensare che l'ospedale si fosse ridotto a un luogo troppo malsano, nocivo al corpo e alla mente delle sue giovani ospiti, all' interno di un quartiere « tanto pernicioso» , come si legge in una lettera, in cui le ragazze non potevano stare « senza somma pernicie>> ; eppure i piagnoni avevano sempre e vo­ lutamente portato le loro opere assistenziali proprio all'interno dei sob­ borghi che più ne avevano bisogno"7• La preoccupazione per la condotta morale delle ragazze poteva agire in due direzioni: proprio in quegli anni i veneziani avevano trasferito la loro Casa delle Convertite, che accoglieva ex prostitute, e la Casa delle Zitelle, simile al ricovero per ragazze abban­ donate della Pietà, lontano, nell'isola della Giudecca. E questo non soltan­ to perché ritenevano che i quartieri più affollati nascondessero maggiori tentazioni per le donne, giovani o adulte che fossero, ma anche perché le stesse ragazze finivano per indurre in tentazione i maschi del centro città, sia giovani sia adulti'8• La nuova sede non era lontana soltanto da quel "pernicioso" quartiere. Era lontana da tutto. Via del Mandorlo era quanto di più distante potes­ se trovare chi si incamminava da Borgo Ognissanti, rimanendo sempre all'interno della cinta muraria cittadina. Erano quelle mura imponenti a stagliarsi sui campi che si allungavano dietro la nuova casa delle ragazze. Le piante aeree del tempo mostrano uno spazio piccolo, ma completa­ mente vuoto. Nelle strade deserte di quella zona i domenicani del convento che fu la casa di Savonarola, il convento di San Marco, andavano radunando con cura tutto il loro assortimento di santi, comprese Santa Lucia e San­ ta Caterina da Siena, con i loro conventi. Di tutta la città, era questo il quartiere con la maggiore densità di conventi. Molti di loro si affacciava­ no sulla vicina via di San Gallo che i fiorentini chiamavano la "via sacra''. Qualunque fosse stato il dibattito interno alla Compagnia della Pietà, per arrivare al trasferimento dell'istituto padre Capocchi dovette dimostrarsi

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Giulio Ballino, Firenze, rs69. A. Mori, G. Boffito, Firenzenelle vedute e nellepiante. Studio storico topograjico cartografico, Tipografia Giuntina, Firenze 192.6. li cerchio in basso indica la prima sede della Casa della Pietà (1 554-68), quello in alto la collocazione successiva al trasferimento del rs68.

molto abile nell'influire sulle decisioni della corte ducale. I capitani del Bigallo erano contrari al cambiamento di sede, e così anche i francescani di Ognissanti. Per trovare i soldi necessari all'acquisto di un'altra proprie­ tà, poi, sarebbe stato necessario vendere la casa e il giardino ereditati da Girolamo da Sommaia e questo suscitava non pochi imbarazzi. Da Som­ maia, infatti, forse determinato a cancellare completamente dal quartiere di Borgo Ognissanti la memoria della cieca violenza del figlio ai danni del­ la sua giovane domestica, proprio attraverso il sostegno all'opera portata avanti dalla Pietà in quel sobborgo, aveva espressamente vietato la vendita di qualsiasi parte del suo lascito, pena la perdita di tutti i beni ereditati. Dapprima Capecchi scelse come nuova residenza della Casa della Pietà un altro ospedale, con chiesa e giardino, di fronte a piazza San Marco, ma il duca ci aveva già messo gli occhi e non intendeva !asciarselo scappare. L'intermediario di padre Capocchi in queste complesse negoziazioni con casa Medici fu un nobile ben introdotto negli ambienti di corte, Paolo Rosso, ufficiale dell'Onestà, la cui prima moglie fu tra quelle che, dall' ini­ zio, s'iscrissero alla Compagnia della Pietà e che aveva scelto proprio padre Capocchi come suo confessore personale19. TI cavaliere Rosso non riuscì

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Giacomo Lauro, Fiorenza, 16oo ca. Mori, Boffito, Firenze nelle vedute e nelle piante, cit. Il cerchio in basso indica la prima sede della Casa della Pietà (1554-68), quello in alto la collocazione successiva al trasferimento del 1568.

ad assicurare a Capocchi la sede tanto desiderata, ma la spuntò su Cosimo riguardo alle condizioni testamentarie di Girolamo da Sommaia, convin­ cendolo a non tenerne conto e così, nel dicembre 1563, la Pietà realizzò la vendita del lascito di Sommaia, ricavando ne quanto serviva per comprare tre edifici in via del Mandorlo. Poi iniziò a rimaneggiarli per farne una nuova dimora claustrale3°. ll trasloco avvenne nel 1568, a novembre. A capo della solenne proces­ sione marciavano l' undicenne Lucia, la dodicenne Betta e la quattordicen­ ne Diamante: erano le ultime arrivate e probabilmente erano state a Borgo Ognissanti soltanto poche settimane. A guidare la prima fila di queste 150 ragazze potrebbe esserci stata anche Domenica di Marco da Firenze, anche se aveva solo s anni ed era malata. Domenica poteva essere stata l'ultima ad arrivare a Borgo Ognissanti oppure la prima a entrare in via del Man­ dorlo. Non che la cosa abbia molta importanza. Certamente, fu la prima a morirei, in via del Mandorlo, a soli due mesi dal trasferimento. Quindi, fu anche la prima a essere seppellita nel nuovo cimitero che era stato appena consacrato in quella zona. Diversamente dalle altre ragazze, fu ammessa nella Casa senza l'intercessione di alcun benefattore, l'ultima a beneficia­ re della politica di libero accesso della precedente gestione e la prima a rammentare che, anche nella sua nuova sede, la Casa della Pietà avrebbe

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dovuto ancora fare i conti con il drammatico fenomeno della mortalità di bambine molto piccole31• Quegli stessi vicini che, nel giro di un paio di anni, si sarebbero "dimenticati" della presenza di centinaia di bambi­ ne e adolescenti accanto alle loro case, ora le osservavano attenti mentre, sfilando allineate in una lunga fila, senza dubbio con indosso i loro abiti migliori, uscivano dall'Ospedale dell' Umiltà, dirette verso Santa Maria Novella, e poi a nord, attraverso il centro città, oltrepassando il bordello, il battistero e il palazzo di famiglia che il duca Cosimo 1 aveva abbandonato, fino a San Marco, e ancora verso nord, prima, e verso est, poi, a pochi iso­ lati da via del Mandorlo. La porta della nuova casa si era appena chiusa dietro le spalle delle ado­ lescenti della Pietà, che le donne dell'omonima Compagnia iniziarono a preparare le loro contromosse. Dal momento in cui i nuovi alloggi ave­ vano iniziato a prendere forma, nel 1563, la Compagnia della Pietà si era avviata al collasso. Chi fino ad allora l'aveva sostenuta decise di non con­ fermare le sue donazioni, o perché insoddisfatto dell'assistenza ricevuta dalle ragazze, in calo a seguito dei cambiamenti già introdotti da padre Capocchi, o perché contrario al trasferimento in via del Mandorlo. In as­ senza di documenti che ci testimonino queste tensioni interne, non siamo in grado di capire che cosa ci sia stato dietro il fallimento della Compagnia della Pietà. Eppure, curiosamente, mentre le ragazze stavano per dare avvio alla loro lunga marcia attraverso la città, le donne che erano rimaste nella Compagnia decidevano per l'allontanamento di Alessandro Capecchi. Negli archivi, da un volume di appunti incompiuti su eventi, donazioni e disposizioni, si evince che le donne del consiglio direttivo voluto da padre Capocchi avevano messo in discussione il mandato del loro energico cap­ pellano domenicano giusto tre giorni prima della suddetta processione, decidendo per la sua rimozione. Si tratta dell'unica volta in cui un docu­ mento amministrativo della Pietà specifica l'incarico di una cappellano, e l'unica volta in cui riporta la votazione del consiglio: 8 a 1 . Stavolta le donne del consiglio decisero di evitare del tutto i domeni­ cani, ingaggiando Francesco Franceschini, monaco camaldolese, sebbene anche questa volta le Croniche cerchino di sottacere l'avvicendamento di un altro ordine religioso, identificando il cappellano con il semplice appel­ lativo di "prete secolare"3z. Certo, la sostituzione del sacerdote potrebbe essere semplicemente dovuta al trasferimento in una sede molto distante dal quartier generale di Capocchi, il convento di Santa Maria Novella. La casa del camaldolese Franceschini, invece, era il convento di Santa Maria

RADICALISMO RELIGIOSO NEL RINASCIMENTO degli Angeli, pochi passi a sud di via del Mandorlo. Eppure doveva esserci qualcosa di più di una semplice esigenza pratica. Persino le Croniche allu­ dono a qualche tensione tra padre Capecchi e le donne della Compagnia della Pietà, sostenendo che alcune di loro, "malevole", si erano messe con­ tro il frate e aggiungendo, in modo assai criptico, che questi «si era partito dal governo di esse Abbandonate per che non haveva potuto ottenere un suo i ntento circa di esse»3'. Di quale "intento" si tratta? Sugli obiettivi di Capecchi possiamo fare soltanto delle congetture, ipotizzare se siano stati essi la proverbiale goccia che fece traboccare il vaso per donne di solida fede piagnona che, come Marietta Gondi e Lucrezia Ricasoli, mostrarono una determinazione pari a quella di Capocchi. C 'è qualcosa che potremmo scoprire tra le pieghe di questi documenti ? I cambiamenti di natura amministrativa, il trasferi­ mento e le correzioni introdotte nelle pratiche devozionali delle ragazze avevano a poco a poco trasformato la Casa della Pietà in qualcosa di molto simile a un convento, ma ognuno di questi interventi era stato approvato dalle donne della Compagnia. Queste innovazioni erano all'origine del crollo delle adesioni alla Compagnia o erano piuttosto il disperato tentati­ vo di porvi rimedio ? Quando Cosimo I decise di agevolare lo spostamen­ to dell'istituto in via del Mandorlo, si stava forse rivalendo sulle donne piagnone che tanto apertamente lo avevano sfidato fondando una nuova Casa delle Abbandonate al posto di quella che egli aveva soppresso e poi ripristinato sotto la sua protezione? Senza ombra di dubbio, i cambia­ menti introdotti da Capocchi ebbero come logica conseguenza quella di trasformare la Casa della Pietà in un convento in cui non ci sarebbe stato più bisogno della direzione di una confraternita come quella della Com­ pagnia della Pietà. Alla fine, potrebbe essere stata questa la ragione che a suo tempo aveva spinto le donne a opporsi a ogni singolo cambiamento. La nomina del monaco camaldolese Franceschini potrebbe essere inter­ pretata come un tentativo di arrestare questo passaggio dal conservatorio al convento, anche se potrebbe aver causato le ire dei domenicani, preoc­ cupati dal fatto che i camaldolesi avessero già un convento in una strada vicina a via del Mandorlo34• Ma se la nuova strategia delle donne della Pietà fu quella di impedire la lenta deriva verso la condizione conventuale, esse corsero il rischio di vederla completamente vanifìcata dall'opera del secon­ do prete savonaroliano che proprio allora fece il suo ingresso nella nostra storia: l'arcivescovo di Firenze Antonio Altoviti. Altoviti era arcivescovo dal 1548, ma Cosimo I lo aveva bandito dalla città. Gli Altoviti, infatti,

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erano tra i piagnoni più in vista di Firenze e Bindo, il padre di Antonio, era stato un aperto oppositore del governo mediceo, al punto da appoggia­ re l'assassinio del duca Alessandro I, detto "il Moro': nel 1537. La nomina arcivescovile di Altoviti da parte di papa Paolo III, nel 1548, fu un delibe­ rato affronto nei confronti di Cosimo I, a cui il duca rispose impedendo l'ingresso in Toscana del nuovo arcivescovo. Confiscò anche i suoi benefici ecclesiastici. L'impasse durò quasi vene'anni e si concluse soltanto quan­ do Cosimo I tornò sui suoi passi con il solo obiettivo di ottenere il titolo granducale dal papa. In assenza di un arcivescovo residente che sorvegli as­ se con attenzione la vita religiosa della città, le donne della Pietà godettero di una grande libertà nel dirigere la vita spirituale delle loro ragazze, forse arrivando a procurare ad alcune di loro una Bibbia. Dopo una serie di trat­ tative e svariati compromessi, finalmente Cosimo I autorizzò l'ingresso di Altoviti nella sua diocesi. Era il maggio 1567. Non si sarebbe potuta trovare un'icona migliore per rappresentare co­ ram populo la pace ritrovata tra casa Medici e il pensiero savonaroliano rivisto in chiave moderata. L'arcivescovo Altoviti avviò subito un energico piano di riforme che ricalcava lo spirito e i dettami del Concilio di Trento, cui aveva partecipato mentre se ne stava con le mani in mano, fermo ad aspettare lontano da Firenze per quasi vent'anni. Tra l'aprile 1568 e l'ot­ tobre 1569 fece visita a tutte la parrocchie e a tutti gli ospedali della città e sempre nel 156 9 tenne un sinodo diocesano per avviare formalmente l'a­ dozione dei decreti tridentini. Tra questi, anche una serie di norme che rafforzavano l'ordine e la disciplina all'interno delle comunità religiose femminili. Da secoli in tutta Italia ne erano sorte di tutti i tipi, alcune aperte, altre chiuse, alcune soggette a regole specifiche, altre libere da or­ dinamenti. Appartenevano al novero di queste comunità femminili anche molte comunità di vedove o di donne non sposate tenute insieme da voti non sottoscritti ufficialmente, impegnate in opere di carità sotto la super­ visione del clero regolare o secolare: tutto, dai pioneristici esordi dell'or­ dine delle orsoline della giovane Angela Merici, fino all'Ospedale delle Abbandonate di Li onora Ginori, per arrivare alla famiglia di pinzochere­ prostitute dell'ipocrita Monna Antonia?5• I padri conciliari vollero mettere ordine all'interno di questa multifor­ me realtà e in particolar modo si adoperarono per far chiudere bottega a persone come Monna Antonia, serrando le donne in case che fossero real­ mente e costantemente chiuse, sia che si trattasse di veri e propri conventi, sia che fossero comunità religiose con minori vincoli formali. In alcune

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località, le speranze tridentine si ridussero a una sorta di ideale donchi­ sciottesco: un vescovo avrebbe dovuto unire alla determinazione la scal­ trezza, se davvero avesse voluto vincere le resistenze delle più importanti famiglie della città, intenzionate a non relegare nel completo isolamento quelle figlie che non per loro volontà erano finite in convento. Le famiglie facoltose avevano, infatti, bisogno che le figlie per cui non riuscivano a ga­ rantire una dote adeguata fossero accolte in convento, e una figlia avrebbe accettato più di buon cuore di rinunciare al matrimonio per il conven­ to se avesse saputo che ll avrebbe ancora potuto ricevere ospiti, uscire per andare a trovare parenti e amici e partecipare alla vita sociale e culturale della propria città. Certo, da quelle stesse porte aperte entrava ogni sorta di grattacapo e Altoviti era ben deciso a chiuderle, quelle porte, ed era an­ che abbastanza furbo da sapere come. Nel giugno 15 7 0 ordinò alle donne della Pietà di attingere, per i loro cappellani, dall'ordine dei domenicani, soprattutto dal convento di San Marco. Con l'uscita di scena del camal­ dolese Francesco Franceschini si diede inizio al nuovo corso della storia36• I domenicani di San Marco erano disposti a svolgere il servizio di cap­ pellani, ma per farlo strapparono condizioni che cambiarono per sempre il volto della Casa della Pietà. Erano decisi a esercitare un controllo più stretto sopra le attività della Casa e della sua confraternita, come del resto già facevano con altri conventi e congregazioni sparse per la città. Le don­ ne della Pietà furono costrette ad accettare, nominando da qui in avanti soltanto frati di San Marco, il cui onorario mensile era tra l'altro molto più gravoso per loro, il doppio di quello corrisposto al padre camaldolese. Da sempre i domenicani di San Marco avevano guardato alle confraternite e ai conventi riuniti sotto la loro cura spirituale come a una fonte di reddito su cui poter sempre contare. Ma la loro ferma volontà di controllare l'atti­ vità della Casa della Pietà andava ben oltre l'interesse economico. Le don­ ne della Pietà furono costrette a concedere al priore di San Marco il diritto di sovrintendere alle elezioni delle priore della Pietà che di lì in avanti si sarebbero tenute. Dovettero consegnare una delle tre chiavi della chiesa in loro possesso, concedendo al cappellano molta più libertà di movimento. li nuovo direttore spirituale, padre Battista Salvetti, reinserì immediata­ mente le ragazze della Pietà nella confraternita del Rosario, iniziando ad avvicinarle all'ordine domenicano con la promessa di indulgenze e di altri benefici spirituali. Le innovazioni di carattere amministrativo introdotte da Capecchi furono redatte sotto forma di statuti adottati quello stesso anno - si adempiva, così, ad un'altra richiesta del Concilio di Trento37•

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Spesso dalla lettura degli statuti trapela una sensazione di frustrazione, mista a una forte determinazione - alcune cose, si dice, non devono mai più accadere, altre, invece, è ora che inizino a prendere forma. Può risul­ tarne qualcosa d'irreale, una condizione con regole tanto severe cui poche persone, meno che mai delle giovani adolescenti, avrebbero potuto resiste­ re a lungo. Anche qui, se si sa leggere anche ciò che gli statuti imposti nel 1570 alla Casa della Pietà non espressamente riportano, possiamo riuscire ad ampliare il quadro di quanto abbiamo già appreso sulla vita delle ragaz­ ze a Borgo Ognissanti, anche se soltanto dal lungo elenco di tutte quelle cose che, adesso, non potevano più fare38• Ciò che colpisce è proprio quanto fosse stata aperta, in passato, la por­ ta della Casa della Pietà. Le ragazze potevano incontrare i loro genitori, fratelli o sorelle ali' ingresso dell'edificio, e Il stare per ore a chiacchierare e persino a pranzare con loro. Se un familiare di una ragazza si ammalava, lei poteva tornarsene a casa per fargli visita e assisterlo per alcune settimane. Le giovani che erano state sposate tornavano all'istituto dopo essere anda­ te a trovare i loro vecchi amici e, se ricevevano ospiti di sesso femminile, potevano trattenerle a dormire per la notte. Entravano e uscivano dalla Casa gli uomini più svariati: facchini che portavano enormi spese nelle cucine o arredi nei dormitori, agenti della seta o della lana che si recavano nei laboratori per trattare di affari e controllare di persona il lavoro delle ragazze, falegnami e uomini tuttofare che effettuavano riparazioni per tut­ ta la Casa. Le ragazze potevano facilmente entrare in relazione con ciò che avveniva fuori dalla Casa, attraverso le finestre lasciate aperte, perché quel­ la che sentivano vivere in strada era ancora la loro vita. Della strada canta­ vano le canzoni, leggevano gli stessi libri che si leggevano fuori e vestivano come tutte le altre della loro età, perché era chiaro a tutti che la Pietà era un asilo temporaneo, non una prigione, non un convento. Potevano aver bisogno di esser protette, le ragazze della Pietà, ma non di essere tagliate fuori dalla vita che, ogni giorno, si viveva a Firenze. Questo significa forse che la vita alla Pietà divenne tanto scostumata che una donna come la pinzochera Monna Antonia di Anton Francesco Grazzini si sarebbe sentita perfettamente a suo agio ? È molto probabile, visto il quartiere in cui la Casa si trovava. Gli statuti del 1570 posero uf­ ficialmente fine a ognuna di queste prerogative e anche a qualche altra. Nessun mercante di lana e seta poteva entrare durante i giorni di vacanza, quando le botteghe erano chiuse. Per dirla tutta, nessun uomo poteva en­ trare nella Casa, in qualunque momento o per qualunque ragione volesse

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farlo, eccetto i frati o i pubblici ufficiali e anche questi dovevano presen� tarsi al seguito di due accompagnatrici. Un clima di sospetto incombeva persino sulla vita comunitaria di queste adolescenti. Le lucerne dei dormi� tori dovevano restare accese tutta la notte e non si poteva più condividere il letto con nessuna. Nessun ospite, nemmeno di sesso femminile, poteva trattenersi per la notte: avrebbe potuto trattarsi della tenutaria di un po� stribolo, certo, ma anche di una zia che era venuta a consolare la sua nipo� tina di 6 anni che era stata strappata dalla sua casa di famiglia per finire nel dormitorio di un'istituzione caritativa. Le ragazze non potevano fare il bagno insieme, né lavarsi i capelli l'un l'altra. I vestiti divennero materia di grande preoccupazione: dovevano essere semplici, simili a uniformi e ab� bottonati fino al collo, senza mostrare nulla di quanto si riteneva dovesse rimanere nascosto39• Gli statuti erano entrati nella vita della Casa della Pietà serrandone le porte, fino ad allora aperte. In questi anni, il clima attorno a tutte queste nuove forme di clausura femminile si fece certamente più sobrio e con� formista. Ma, soprattutto, i nuovi statuti ricordavano più quelli di un convento che di un asilo temporaneo per adolescenti abbandonate. I loro compilatori partirono, infatti, dal presupposto che la Pietà fosse un con� vento, introducendo punizioni che avrebbero indotto persino i genitori di una suora a pensarci due volte, prima di mandare ll la loro figlia. Che siano opera di padre Capocchi o meno, gli statuti sono pervasi dall'ossessione del sesso: a una ragazza che sapesse leggere e scrivere era proibito leggere novelle romantiche, foriere di possibili, peccaminosi pensieri. Mentre la� vorava, poi, non poteva nemmeno cantare canzoni d'amore, perché avreb� be rischiato di dare una cattiva impressione a quanti, passando per strada, avrebbero potuto sentirla. Se veniva sorpresa a cantare canzoni allusive, correva il rischio di essere frustata davanti alle compagne o addirittura co� stretta a baciare i piedi di ciascuna di loro. Se scherzava sul sesso o sul ma� trimonio, avrebbe trascorso l'ora del pasto in ginocchio, con in mano due conocchie piene di canapa grezza. Se bestemmiava contro Dio o i santi, in ginocchio avrebbe trascorso tutto il tempo della messa. Se, in preda allo scoramento, avesse evocato il diavolo, avrebbe dovuto stare in refettorio e, mentre le altre mangiavano, tenere in bocca soltanto un pezzo di metallo. In caso spettegolasse, invece, durante l'ora del pasto avrebbe portato un se� gno distintivo sulla schiena. E se veniva sorpresa a ragionare di scappare da questa nuova prigione, le sarebbero stati tagliati tutti i capelli. Se riusciva a fuggire e veniva poi catturata e costretta a rientrare, veniva rinchiusa nelle

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nuove segrete dell'istituto, anche qui con la testa tutta rasata. Tagliare i capelli, o addirittura raderli a zero, era una pratica di deliberata crudeltà, giacché una chioma di capelli sciolti e fluenti era uno dei tratti distintivi di una donna non ancora sposata, ciò che la rendeva attraente agli occhi di un giovane pretendente (le donne sposate e le religiose tagliavano i capelli o li raccoglievano in acconciature e copricapi, al riparo da occhi indiscreti). Tagliare i capelli a un'adolescente equivaleva a portarle via tutti i sogni di una vita adulta, fuori dalla Casa della Pietà40• Questi statuti erano stati pensati per stroncare ogni desiderio vivo nel cuore di tutte le adolescenti, il sesso, il matrimonio, la vita in genere. Grazie alle nuove regole, le ragazze sarebbero state riplasmate in suore i cui pensieri non avrebbero mai vagabondato oltre le mura della Casa, per finire fuori, nella vita di strada. Questo nuovo ordinamento poteva essere imposto an­ che alle ragazze già ospiti della Casa? Forse no, ma i padri domenicani di San Marco stavano guardando avanti. Aspettavano il momento opportuno. Alcune ragazze partirono, altre morirono, per le rimanenti non c'erano più alternative. I cambiamenti maggiori arrivarono negli anni Ottanta del Cin­ quecento, quando le donne che avevano fondato l'istituto scomparvero di scena, una dopo l'altra. Dopo vent'anni trascorsi come madre priora della Casa della Pietà, Marietta Gondi morl, nel rs8o. Prese il suo posto Lucrezia Ricasoli, ultima rimasta delle prime ideatrici dell'istituto, finché nel 1586 anche lei morì. La priora residente Monna Alessandra, vedova del falegna­ me Girolamo, se ne andò nel 1583, dopo ventinove anni trascorsi a vigilare, giorno dopo giorno, sulla vita delle ragazze della Pietà. Erano state queste tre donne a conferire alla Casa della Pietà ogni suo tratto distintivo, che avevano provveduto al suo trasferimento, che prima avevano collaborato con padre Capocchi e poi avevano deciso di rimpiazzarlo. Se qualunque tipo di rimedio abortivo fosse stato utilizzato all'interno dell'istituto, lo avrebbero certamente saputo e ne avrebbero autorizzato la somministra­ zione. L'anno della morte di Ricasoli, un certo Gherardo, frate di origine fiamminga, fece il suo ingresso nella Casa in qualità di cappellano. Le sue pressioni a favore di alcuni cambiamenti furono altrettanto energiche di quelle a suo tempo esercitate da padre Capocchi. A dispetto del suo profilo più dimesso e meno provocatorio, fu proprio lui a spingere con modi fermi e decisi perché la Casa della Pietà divenisse un convento del Terzo Ordine dei domenicani. Fu lui a vestire con l'abito da terziare domenicane le prime diciotto ragazze della Pietà, il 2s marzo 15 9 5, festa cristiana dell'Annuncia­ zione, nonché primo giorno dell'anno secondo il calendario fiorentino4'.

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Si trattava di processi a lungo termine e, tuttavia, il trasferimento da Borgo Ognissanti a via del Mandorlo ebbe anche effetti più immediati, in campo economico, organizzativo, amministrativo e sanitario. Si aprivano adesso alcuni anni difficili, in cui le relazioni delle ragazze con il mondo esterno cambiarono, a volte per ragioni che andavano ben oltre l' intro­ duzione dei nuovi statuti. Ormai fuori da quella rete di contatti, di be­ nefattori e di volontari costruita in oltre quindici anni trascorsi in Borgo Ognissanti, la Casa della Pietà andò incontro a un indebolimento della sua posizione economica41• n periodo peggiore fu quello a cavallo degli anni 1574- 7 5, quando a Firenze dilagò una grave epidemia di peste. Le do­ nazioni crollarono, i costi salirono alle stelle e la Pietà non fu nemmeno in grado di racimolare la metà dei fondi di cui aveva bisogno per sfamare le sue ragazze. Furono tagliate le spese alimentari, quelle per l'abbigliamento e per la legna, molte più ragazze vennero destinate a prestare servizio come domestiche nelle case della città e si cercava di strappare qualche lavoro e un po' di elemosine per arrivare all'anno successivo con qualche piccola rimanenza. n regime di austerità imposto in queste circostanze alle ospiti della Casa della Pietà mise radici profonde e il suo bilancio annuale fu drasticamente ridotto43• Ciò che si fece in tempo di crisi, ossia spingere le ragazze a uscire per lavorare fuori dalla Casa, non segnò l'inizio di una prassi di lunga durata. Per tutto il tempo che rimasero a Borgo Ognissanti, le ragazze lasciarono l'istituto per diventare domestiche in casa di privati nella proporzione di una a sette. Malgrado la costante minaccia delle violenze sessuali e malgra­ do molte avessero poi fatto ritorno alla Pietà, il lavoro domestico rimaneva il primo passo mosso fuori dal recinto chiuso dell'istituto, verso una vita familiare "normale': nel mondo. Tutto questo finì quando l' istituto fu a via del Mandorlo. Una ragazza, la tredicenne Camilla di Andrea, se ne andò nel 156 9. Dopo di lei, nessun altra fu lasciata andare finché, durante la peste che dilagò in città a metà degli anni Settanta del Cinquecento, non si decise di sbarazzarsi di quasi venti ragazze nel disperato tentativo di far quadrare i conti. Da allora, un'altra manciata di ragazze uscì alla spicciolata dalla Casa; andarono tutte a lavorare nelle botteghe di tessitori. L'ultima partì intorno al 158444• Da quella data, molto semplicemente il servizio domestico uscì per sempre dal novero delle possibilità delle gio­ vani della Pietà. Da allora rimasero chiuse dentro, sotto il regime di regole statutarie che avevano reso la Casa della Pietà una manifattura e, al tempo stesso, un convento.

RAGAZZE PERDUTE In tutta la città di Firenze non esisteva un posto migliore in cui lavorare la seta. Con i suoi ampi locali fabbricati appositamente per questa mani­ fattura e affacciati su una corte e su un giardino ariosi e soleggiati, la nuova Casa della Pietà sembrava sempre più simile agli spaziosi laboratori che Jan van Straet, proprio in quegli anni, andava raffigurando nelle sue incisioni. I garzoni potevano portarvi grandi casse piene di bozzoli o balle piene di foglie di gelso passando attraverso la porta di San Gallo, a tre isolati da lì, senza doversi infilare in quel groviglio di vicoletti che stavano al centro di Borgo Ognissanti. I nuovi statuti, poi, promuovevano un' ottimizzazione dello sfruttamento delle risorse del luogo attraverso la pianificazione di un'avanzata ed efficiente divisione del lavoro, svolto in ambienti diversi e sotto la supervisione di responsabili differenti per la seta, per la lana e per la lavorazione del lino. Le ragazze avrebbero sicuramente lavorato bene: a chi, infatti, non riusciva ad arrivare alla quota produttiva stabilita, sarebbe stato rifiutato il pasto e, se lavorava in modo giudicato inadeguato o ro­ vinava un pezzo di tessuto, avrebbe dovuto attendere in ginocchio che le altre finissero di mangiare, guardandole affamata+;. Spesso, però, i compilatori di statuti si lasciano andare ad ambizioni ec­ cessive. Durante l'ultimo anno a Borgo Ognissanti e il primo a via del Man­ dorlo, l'occupazione tessile delle ragazze aveva prodotto un costante 40% delle entrate della Casa della Pietà. Presto questo stesso dato andò incontro ad ampie oscillazioni, da uno scarso 20% a più del 6o% dell'anno succes­ sivo, creando non poco scompiglio nella contabilità della Casa. Per prima cosa, le entrate derivanti dalla trattura, dalla filatura e dalla tessi tura furono più che raddoppiate. Chiunque avesse promosso il trasferimento al fine di incrementare gli spazi di lavoro e, quindi, il reddito, poteva certamente dire che i fatti gli avevano dato ragione. Ciò nonostante, a partire dalla crisi de­ gli anni 1574-75, i ricavi conobbero un crollo su tutta la linea, sprofondando a un livello di gran lunga inferiore a quelli registrati negli anni precedenti il trasferimento. L'anno successivo, un certo recupero dell'attività di filatura e tessitura segnò un ritorno al picco produttivo precedente la crisi, livelli che, però, si dimostrarono presto insostenibili. Di lì a poco le entrate derivanti dalla trattura e dalla tessitura si dimezzarono e persino la consueta ancora di salvezza dei bilanci della Casa, la filatura, conobbe un repentino declino. Passò un anno e l'occupazione tessile segnò una timida ripresa, mentre le altre attività continuavano a contrarsi. Era il 1578. li trasferimento aveva allontanato le ragazze dalle botteghe e dagli intermediari che procuravano loro un po' di lavoro a cottimo e i nuovi statuti impedivano loro di stabilire

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quei contatti giornalieri e di coltivare quelle relazioni interpersonali che avevano sempre mantenuto con questi operatori del settore tessile. Le con­ dizioni richieste dalla manifattura della seta, ambienti spaziosi e molto so­ leggiati, avevano probabilmente spinto in modo significativo verso la scelta del trasferimento in via del Mandorlo, ma, paradossalmente, fu proprio la seta a registrare il calo più consistente46• Di solito le ragazze della Pietà avevano sempre raggiunto somme con­ siderevoli dalla loro attività di raccolta delle elemosine, un gesto, questo, che le metteva a stretto contatto con l'affollato quartiere in cui vivevano. Bottegai, lanaioli e setaioli, fedeli e prostitute di Borgo Ognissanti avevano da sempre contribuito con poche monetine, un po' di cibo e qualche mer­ canzia che, sommate insieme, erano arrivate a costituire quasi il 6o% delle entrate della Casa prima del suo trasferimento - molto di più di quanto riuscirono a fare le offerte delle donne della Compagnia della Pietà persi­ no nei loro anni migliori. I nuovi statuti imbastirono delle direttive tanto rigide in materia di elemosine che è difficile credere che potessero essere davvero rispettate; attraverso ciò che tanto ostinatamente proibivano, que­ sti regolamenti ci restituiscono un vivace affresco di quanto avessero fatto le ragazze fino a quel momento. Non avrebbero più potuto parlare tra di loro e nemmeno chiacchierare con le ragazze e i ragazzi che incontravano fuori, intenti a chiedere elemosine per altri orfanotrofi; nessun pettegolezzo con le ragazze che un tempo erano state con loro, alla Pietà, e che adesso si erano sposate, formandosi una loro famiglia, e nessuna conversazione, di nessun genere, con i maschi incontrati per via. È facile immaginare che questo scambio di battute tra i banchi del mer­ cato e per via, nel quartiere, avesse creato dei legami tra le ragazze della Pietà e i loro vicini di Borgo Ognissanti, e questa forte limitazione della possibilità di comunicare potrebbe spiegare perché i proventi delle elemo­ sine colarono a picco dopo il trasloco a via del Mandorlo. Da subito, in­ fatti, si dimezzarono e diminuirono di un'altra metà prima della fine degli anni Settanta del Cinquecento, arrivando a coprire non più di un quinto del reddito della Casa47• Certo, non dovevano esserci molti vicini con cui avviare qualche contatto nelle strade dritte e deserte attorno a via del Man­ dorlo e il fatto, poi, che non si potesse parlare neppure con quei pochi potrebbe spiegare il perché di un numero tanto esiguo di offerte. Senza contare che, più o meno desolate che fossero, le strade nei paraggi di via del Mandorlo potrebbero non essersi quasi accorte delle ragazze, e per lungo tempo. Verso la fine del decennio, le annotazioni delle cifre incassate dalle

RAGAZZE PERDUTE ragazze che pellegrinavano per negozi e chiese con le loro cassette delle elemosine scomparvero del tutto dai registri contabili, forse a causa di al­ cuni cambiamenti intervenuti nelle procedure di rendicontazione, forse perché le ragazze fuori non ci andavano proprio più. In soli dieci anni, la Casa della Pietà aveva cessato di essere un ricovero aperto in un quartiere senza molte speranze, quasi interamente finanziato dalle elemosine, per diventare una casa di lavoro, chiusa all' interno di un'area remota e scarsa­ mente popolata della città. Gli obiettivi perseguiti dal Concilio di Trento in materia di vita convenutale si erano ormai imposti su questo gruppo di adolescenti orfane e abbandonate che erano entrate nella Casa senza alcu­ na i ntenzione di farsi suore. O forse non è così ? Dal momento che le giovani si fermavano più a lun­ go nell'istituto, le possibilità di accogliere quel genere di ragazza bisognosa che, ali' inizio, era riuscita a scivolare tra le porte aperte della Pietà diminu­ ivano progressivamente. C 'era anche molto meno spazio per quelle ragaz­ ze che non volevano abbottonarsi il vestito fin sopra il collo. L'accesso alla Casa non era più tanto libero e uscirne era sempre più difficile. Anche prima del trasferimento, dal giugno 1566, ragazze come Margherita, Maria e Maddalena, se davvero volevano entrare, avrebbero dovuto presentarsi con qualcuno che patrocinasse la loro causa. Si tratta esattamente di quel genere di esame preliminare delle credenziali che gli istituti maschili da sempre esercitavano e che le donne della Pietà avevano, almeno fin lì, ri­ fiutato di praticare. Alcuni protettori erano semplicemente membri della Compagnia della Pietà, come Marietta Gondi, che riusd a far entrare una sola bambina (Maria di Francesco da Crespino, 8 anni, che morì soltanto 18 mesi dopo il suo arrivo), o come Camilla, vedova di Antonio Cardi, che di ragazze ne fece ammettere tre. Altre benefattrici vantavano con l'istituto legami di diversa natura: Maddalena Costanza era la nipote di Girolamo da Sommaia, sebbene do­ vesse avere in mente ben altri modelli rispetto a quello paterno, con il suo crimine orrendo, quando decise di finanziare l'ingresso di una bambina in quella Casa che un tempo era stata interamente riservata a giovani donne indifese, come la domestica che il padre aveva aggredito e violentato. Ma quali impercettibili cambiamenti sarebbero intervenuti nel momento in cui più di un terzo dei patrocinatori fosse stato di sesso maschile? E se, di questi, uno su otto fosse stato un chierico ? E quando la maggioranza di essi avesse cominciato a provenire dagli ambienti di corte, includendo casi come quello dell'ambasciatore di Ferrara e persino della stessa gran-

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duchessa Cristina di Lorena48? Le garbate pressioni della granduchessa permisero a Susanna di Gabriella Francese di fare il suo ingresso alla Pietà e il nome sembra suggerire che Susanna fosse la figlia, quasi certamente il­ legittima, di uno dei francesi della corte di Cristina. Questo era lo schema che si stava imponendo anche nella vita degli altri conservatori fiorentini: cortigiani, chierici e funzionari iniziavano a trovare in questi ricoveri non religiosi un posto pratico ed economico dove scaricare le giovani frutto di relazioni extra o prematrimoniali - proprie, o di persone di buona e in­ fluente famiglia. Ragazze troppo perbene per essere spedite in strada, ma non abbastanza perbene da valere un investimento finanziario sufficiente a procurare loro un "vero" matrimonio o l'accesso a un "vero" convento. li costo di un "ingresso" alla Pietà sarebbe stato comunque di gran lunga inferiore a quello di una dote. La città di Firenze poteva permettersi di concedere alla Casa della Pietà il lusso di un simile cambiamento, dal momento che il numero dei ricoveri cittadini riservati a ragazze abbandonate aveva conosciuto una significa­ tiva espansione a partire dalla fine degli anni Ottanta del Cinquecento e lungo tutto il decennio successivo. Adesso c'erano due nuovi istituti ad ac­ cogliere le giovani che, diversamente, avrebbero dovuto prendere la strada di via del Mandorlo e questo permise alla Pietà di voltare le spalle a quelle ragazze disperate al cui servizio, un tempo, si era interamente dedicata. n granduca Francesco I, infatti, patrocinò l'apertura di un nuovo istituto, quello di Santa Caterina, destinato alle fanciulle più povere: era il 15 9 1 e, ancora una volta, il dilagare dell'ennesima carestia portò le famiglie di sa­ lariati e artigiani fiorentini sull'orlo del baratro. Più o meno nello stesso periodo, il granduca sostenne due organismi assistenziali cittadini dedi­ cati al servizio delle famiglie più agiate, impegnati a ottenere un nuovo conservatorio, la Casa della Carità, al fine di trasformarlo in una pensione che potesse ospitare, a pagamento, le ragazze provenienti da famiglie in­ digenti. Ciò permise a queste due organizzazioni assistenziali di smettere d'inviare adolescenti alla porta della Pietà. Firenze era ancora una piccola città, all'interno delle quale le persone e i luoghi erano intimamente con­ nessi e interdipendenti. Fu questa evoluzione delle politiche assistenziali cittadine che, al pari di ogni mutamento avvenuto all'interno della mura della Pietà o dellagovernance della sua confraternita, diede a padre Ghe­ rardo tutta quella libertà di cui aveva bisogno per iniziare a fare di quella Casa un convento49. Considerati nel loro complesso, tutti questi cambiamenti probabil-

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mente segnalano che le ragazze ammesse nella Casa della Pietà dopo il suo trasferimento provenivano da famiglie più abbienti e molto più in sa­ lute di quelle che le avevano inviate a Borgo Ognissanti. Con altrettanta probabilità, si trattava di giovani che non nutrivano grandi aspettative in merito alla loro possibilità di lasciare la casa per andare a lavorare, per far visita a qualche parente o per sposarsi. La nuova sede era certamente più grande, luminosa e arieggiata, anche se ognuno di questi comfort era sta­ to pensato più per ottimizzare la produttività del lavoro, che per rendere piacevole il loro soggiorno. La nostra domanda (da che cosa dipendeva la morte di tante giovani della Pietà) diviene a questo punto quasi irrilevan­ te. Se ragazze come Margherita, Maria e Maddalena fossero morte adesso, in questo nuovo istituto, ciò sarebbe avvenuto soltanto dopo molti anni di vita quasi monacale, al riparo dalle malattie contagiose e dai parti che, quotidianamente, portavano molte donne a una morte prematura. Le cure mediche cambiarono in modo radicale. Almeno dal 1 5 7 1, i padri di San Marco presero in consegna la gestione dell'infermeria, un tempo in mano alla "medicà' Margherita, affidandola a un frate del loro ordine, Antonio. n resto del personale medico dell'istituto fu praticamente licenziato. I due medici a libro paga della Casa di Borgo Ognissanti, uno addetto alla pratica dei salassi, l'altro con mansioni più generali, furono sostituiti da un unico dottore'0• Agli ingredienti dei medicamenti provvedeva un altro speziale. Senza più nessuno dei vecchi addetti all' infermeria e con il mano­ scritto contenente il Ricettario ormai ridotto dai contabili a un registro su cui annotare acquisti di zucchine, carne di montone e olio, il sistema delle cure della Casa della Pietà conobbe cambiamenti radicali. Nel 1566, la me­ dica Margherita aveva speso più di 130 lire e più di 2 20 nel 1567 in terapie e per acquistare gli ingredienti necessari alla fabbricazione dei medicamenti delle sue ricette. n nuovo infermiere, padre Antonio, nel I S 7 I spese 4 lire, lo stesso fece l'anno seguente, limitandosi - lui, ma soprattutto limitando le ragazze - alla somministrazione di qualche economico sciroppo di zuc­ chero e di un'acqua tonica chiamata « acqua bora>> '1• Dalla fine degli anni Settanta del Cinquecento, forse a segui to del caos derivato dal cambiamento di sede, la consueta attività di rendicontazione amministrativa della Pietà andò incontro al tracollo. L'inventario dell 'Ar­ chivio di Stato di Firenze fa pensare che, da quando Marietta Gondi non fu più la madre priora della Casa, la situazione si fece sempre più allarman­ te. Ancora una volta, l'indizio che più attira le nostre attenzioni si cela in ciò che manca. I Giornali coprono un periodo che si apre prima del 1565 e

RADICALISMO RELIGIOSO NEL RINASCIMENTO si chiude nel 1579, ma improvvisamente scompaiono dal 1579 al I 6os: i re­ gistri delle Entrate/ Uscite vanno dal ISS7 al 1577; nulla rimane del periodo 1577-16o9; il libro dei Debitori/Creditori va dal 1557 al 1579, poi più nulla fino al 1604. Questi volumi mancanti non sono stati rubati. I dati degli anni Ottanta e Novanta ci sono, anche se soltanto all'interno di una serie disordinata di carte sciolte rilegate insieme a casaccios2.. Alluvioni, incendi o ridimensionamenti del materiale archivistico potrebbero essere alla base di parte delle lacune documentarie riscontrate nell'arco di più secoli. Ma, anche tenendo conto del progressivo e ineluttabile deterioramento di tut­ te le fonti del passato, dietro alle omissioni che, parallelamente, si riscon­ trano in tre serie distinte, e importanti, di scritture contabili, e dietro alla sola presenza di sporadiche testimonianze conservate in maniera confusa su singole carte sciolte, è difficile non intravedere un periodo di profonda crisi dell'istituto. Una gestione carente delle scritture contabili non è ri­ conducibile ad avvicendamenti avvenuti all'interno del personale che se ne prendeva cura: dal 1565 al 1601 a occuparsi dell'amministrazione ci fu una sola persona, Giovanni Bencini. I documenti che egli redasse negli anni in cui l 'istituto rimase a Borgo Ognissanti sono chiari e ordinati. Dal­ la metà degli anni Settanta, invece, lo stesso Bencini cominciò a rovistare all'impazzata tra i volumi più vecchi, alla ricerca di qualunque registro gli offrisse un numero di pagine vuote sufficienti ad annotare alcuni dei suoi conti. Pochi anni dopo, il contabile sembrò gettare la spugna, rinunciando definitivamente a quest'impresa disperata. Ne deriva un vuoto archivisti­ co che corrisponde in maniera quasi perfetta agli anni che intercorsero tra la morte delle fondatrici della Casa e quella di padre Gherardo. Solo sotto i suoi successori si avranno di nuovo i "giornali", registri delle entrate e delle uscite e dei debitori e creditori tenuti in modo sistematicos3• La lettura dei libri mastri, dei verbali delle immatricolazioni e degli sta­ tuti svela quanto la Casa della Pietà fosse profondamente cambiata dopo il suo trasferimento in via del Mandorlo. E la Compagnia della Pietà? n collasso delle adesioni, ormai ristrette a un'esigua manciata di donne, non poteva non essere alla base anche di importanti cambiamenti di natura amministrativa. n servizio della madre priora e delle priore residenti era adesso assai più breve, mentre quello dei direttori spirituali si allungava - esattamente il contrario di quanto avveniva all'inizio. La guida effettiva della Casa passava dalle mani di donne laiche a quelle di uomini, religiosi. Ciò che maggiormente colpisce l 'attenzione del lettore è il linguaggio utilizzato nei documenti per descrivere il rapporto tra le ragazze e coloro

RAGAZZE PERDUTE che si erano impegnati ad aiutarle. Non è più tanto importante saper leg­ gere tra le righe, perché quello che adesso serve è proprio ciò che è scritto, alla lettera. I libri contabili dei primi anni si riferivano sempre alle donne in modo particolare, ossia collettivamente, e, con qualche piccola varia­ zione sul tema, tutti recavano titoli del genere «questo libro è delle donne e fanciulle della Pietà» . Le stesse donne che, inviando lettere al duca Co­ simo 1 a riguardo di certe compravendite immobiliari, non si firmavano con il solo nome di Marietta Gondi o di una sua incaricata, ma con «Le donne che governano l'abandonate di B. Ogni Santi » 54• Nei primi registri di immatricolazione delle ragazze ammesse nella Casa e dei nuovi iscritti alla sua Compagnia si dichiara che i candidati sono stati esaminati e poi accettati dalle «madri priore» , al plurale. Siamo di fronte a formule che enfatizzano il carattere strettamente personale e materno delle relazioni tra le donne della Compagnia e le fanciulle che esse aiutavano, un linguag­ gio che al pari evidenzia anche i rapporti pari tetici esistenti all'interno del gruppo femminile che amministrava l'istituto. Le Croniche delle Suore della Pieta non conservano più nulla di questa lontana fraseologia. Né padre Giovan Battista Bracchesi, né suor Caterina, primi due autori dell'opera, utilizzano mai il termine "madri priore" quan­ do vogliono indicare le donne della Compagnia della Pietà5S. Tale appellati­ vo è riservato a Brigida Pesilli, arrivata diciottenne nell'istituto e poi diven­ tata sua priora residente, dopo la morte di Monna Alessandra. Gli appunti di Brigida sono alla base delle informazioni che padre Giovan Battista e suor Caterina forniscono sugli anni di esordio della Casa e si sarebbero ri­ velate di fondamentale importanza sia per la riorganizzazione dell'istituto, sia per padre Gherardo. Suor Caterina descrive il piccolo nucleo di donne che adesso compongono la Compagnia della Pietà come «Signore Gover­ natrici », con a capo una «Priora Generale » o, espressione ancor più effica­ ce, una «Priora di Fuori »56• E i padri ? Gli statuti del 1570 ingiungevano alle ragazze di considerare il loro cappellano domenicano alla stregua del loro vero babbo, chiamandolo esattamente come lui, "padre': Lo stile di suor Caterina anticipa i toni poi fortemente enfatizzati dai successivi autori domenicani delle cronache. Che fossero suore o frati, questi scrittori si soffermano spesso a descrivere le intime relazioni affet­ tive che i padri spirituali domenicani riuscirono a stabilire con le ragazze della Casa, ma non riferiscono nessun episodio positivo in merito ai rap­ porti intercorsi tra le stesse fanciulle e le donne della Compagnia della Pie­ tà. Lo stesso impianto delle Croniche tradisce questo pregiudizio di fondo,

RADICALISMO RELIGIOSO NEL RINASCIMENTO senza contare quanto di significativo trapela dai suoi volontari silenzi. L'o­ pera è divisa in capitoli, ciascuno dei quali è strutturato in base alla durata dell' incarico che un particolare sacerdote ricoprì all'interno della Casa e raramente la narrazione indugia su qualcosa che non sia la consueta atti­ vità di preghiera, di meditazione o di formazione spirituale praticata dalle ragazze. Di per sé, insomma, ricorda molto i necrologi scritti nei conventi, che guardano alla vita complessa di una suora attraverso un'unica lente, una sola chiave di lettura, che è la morte>7• Per questo le Croniche non dico­ no nulla a riguardo del lavoro delle ragazze, all'interno dell' istituto, nella mansioni tessili, o all'esterno, nei servizi domestici alle famiglie fiorentine. Qui le fanciulle versano lacrime a profusione per la pena che le affligge quando il loro tanto adorato padre spirituale muore; e, quando non è per afflizione, è per rabbia che piangono (nientemeno che lacrime "di fuoco"), contro le donne della Compagnia della Pietà che hanno osato intralciare l'operato di tali religiosi. Per loro, a quanto sembra, di lacrime non ne ri­ mangono. Nessun accenno a ragazze come Maria, la figlia del soldate Ne­ grame, o Maddalena, figlia di padre Billi, che furono tra le prime a entrare nella Casa di Borgo Ognissanti e a morirvi, nel giro di un anno. Ma non si dice nulla nemmeno di Domenica di Marco da Firenze, la bambina di soli 5 anni che potrebbe aver aperto il corteo processionale alla volta di via del Mandorlo, nel novembre 1568, e che Il morl due mesi dopo. Insomma, per gli autori delle Croniche non c'era nulla da tramandare riguardo a quei tanti decessi che avevano fatto della Pietà il posto più pericoloso che una ragazza potesse eleggere a sua temporanea dimora. Dall'inizio del XVII secolo, le centinaia di donne che avevano costitu­ ito la Compagnia della Pietà nei suoi anni d'esordio si ridussero ulterior­ mente rispetto al già esiguo gruppo direttivo di nove donne voluto da pa­ dre Capecchi, arrivando a formare un comitato di sole sei persone. Furono queste a sovrintendere a quell'opera di sbarramento delle vie d'accesso (e di fuga) della Casa della Pietà, trasformando lentamente quella comunità in convento. Fu la Compagnia della Pietà a nominare Monna Alessandra e Brigida, male successive "governatrici" della Casa furono scelte all 'interno del gruppo di donne che avevano vissuto più a lungo all'interno dell'i­ stituto, esattamente come fanno le suore nei loro conventi. Dal 162.3, fu proibito alle fanciulle più grandi chiedere l'elemosina per strada. Dall'an­ no dopo, non si poté più insegnare a leggere e scrivere. La completa elimi­ nazione dell' istruzione scolastica dalla vita delle ragazze potrebbe anche spiegare perché nessuna di loro scelse di proseguire le Croniche avviate da

RAGAZZE PERDUTE suor Caterina. Croniche a parte, quello che è certo è che lo scrittorio (la stanza dove si studiava) era ormai diventata inutile e per questo, proprio in quegli anni, si decise di farne un granaio. Da sempre le ragazze avevano impastato il pane all' interno dell'istituto, portandolo poi dal fornaio per la cottura, ma persino questo sottile collegamento con il mondo esterno fu reciso, dal momento che fu costruito un forno in loco. Nel 1624, la Pie­ tà avviò un nuovo registro delle immatricolazioni, il Libro Nuovo, su cui vennero annotate 106 ragazze, un terzo in meno di quelle che avevano af­ follato i dormitori di Borgo Ognissanti. La più piccola ospite aveva 8 anni, la più anziana, 6 9 . Un terzo di loro viveva nella Casa ormai da trent'anni, quando padre Gherardo arrivò a ordinare le prime terziarie domenicane dell'istituto. Dal 1634, i documenti amministrativi si riferiscono alla Casa della Pietà come al «Monastero delle Fanciulle>> o al «Venerabil Collegio delle Fanciulle della Pietà» . La storia della Casa della Pietà era iniziata ottant 'anni prima, quando si decise di aprire una dimora temporanea che proteggesse le adolescenti in un periodo particolarmente vulnerabile del­ la loro vita. Adesso la sua metamorfosi come convento del Terzo Ordine domenicano era definitivamente compiuta, un luogo dove le ragazze sa­ rebbero entrate in più tenera età e da cui in larga parte non sarebbero mai uscite, se non da morte58• Ci siamo spinti molto in avanti. Adesso, però, dobbiamo tornare in­ dietro e chiederci in che modo sapere che cosa ne è stato della Casa della Pietà potrebbe condizionare la nostra comprensione di quanto all'inizio accadde al suo interno, negli anni Cinquanta e Sessanta del Cinquecento, quando numerose ragazze ancora giovanissime vi morivano e quando le terapie mediche che venivano loro offerte avrebbero potuto includere an­ che alcuni rimedi abortivi. Una volta esaminato l'elenco delle innovazioni che furono successivamente introdotte all'interno della Casa, è difficile non interpretare questi cambiamenti come espressione di una volontà ri­ volta direttamente a porre fine a quelle iniziali consuetudini che avevano fatto della Casa della Pietà un istituto tanto particolare. Furono ammesse ragazze più giovani e su indicazione di precisi sostenitori (molti dei quali di sesso maschile) e, soprattutto, di più elevata estrazione sociale. La vita di queste giovani trascorreva quasi esclusivamente all'interno delle mura dell'istituto e nessuno lasciava la Casa per andare a lavorare come dome­ stica nelle case o per raccogliere elemosine in strada. Tutto il personale medico delle origini fu rimpiazzato, il Ricettario messo nel dimenticato­ io e l'ammontare delle spese mediche precipitò. Rigide norme statutarie

RADICALISMO RELIGIOSO NEL RINASCIMENTO avviarono una pianificata disciplina del lavoro che puniva severamente le ragazze le cui parole (e i cui pensieri) divagassero intorno a futuribili progetti di una vita anche affettiva al di là delle mura della Pietà. Ognuna di loro indossava un'uniforme accollata e non poteva più apprendere le preghiere, i canti e la dottrina dalle varie autorità selezionate per lei dalla donne della Compagnia della Pietà, ancor meno dalla Bibbia; tutte rica­ devano sotto l'unica guida spirituale dei frati domenicani di San Marco. Si trattava di un provvedimento la cui natura restrittiva avrebbe poco a poco condotto alcune della ragazze (alla fine tutte) a vestire gli abiti re­ ligiosi. La Compagnia della Pietà si era ormai quasi interamente dissolta. Delle centinaia di donne che avevano offerto tempo e denaro, libri e lavo­ ro alle adolescenti della Pietà, rimaneva ora soltanto un piccolo gruppo con funzioni direttive. L'insieme di tutti questi elementi sembra suggerire che il trasferimen­ to dell'istituto non fu un semplice trasloco da un malfamato quartiere di prostitute e bottegai a uno più quieto di orti e frutteti. Fu un atto di ripu­ dio della Casa di Borgo Ognissanti. L'elemento paradossale della vicenda sta nel fatto che il tratto distintivo della Casa e delle donne che l'aveva­ no fondata era quello di voler incarnare i principi cardine del tradiziona­ le credo savonaroliano, eppure furono proprio alcuni dei più importanti protagonisti dello stesso movimento, rivisitato in chiave moderata, a tra­ sformare il progetto delle origini prima in un ricovero in linea con gli altri esistenti i n città, poi in un vero e proprio convento. È probabile che alcune delle tensioni che avevano attraversato il movimento savonaroliano negli anni Trenta del Cinquecento, quelle tra laici ed ecclesiastici e tra uomini e donne, ancora rieccheggiassero nelle più recenti vicende del gruppo. li clero maschile che, tra gli anni Sessanta e Settanta del XVI secolo, si mise alla testa di questa corrente spirituale scrisse definitivamente la parola fine su una delle esperienze più originali nel campo dell'assistenza alle fasce più emarginate della società fiorentina. Certo, dopo tanta analisi del contesto, non siamo ancora riusciti a ca­ pire se nella Casa della Pietà i rimedi abortivi venissero davvero utilizzati in quanto tali. Ciò che, comunque, abbiamo scoperto è che dopo il trasfe­ rimento a via del Mandorlo vennero meno le ragioni che, verosimilmente, avrebbero condotto a un loro uso e, soprattutto, venne tenuto fuori dalla Casa chi ne avrebbe potuto far uso e fu progressivamente allontanato chi fino ad allora ne era stato il dispensatore. La medica della Pietà aveva somministrato farmaci abortivi alle ragazze

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di Borgo Ognissanti ? È una domanda parziale, è evidente. E forse anche irrilevante. Anche se rimedi di tale natura fossero stati adoperati per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta del Cinquecento, è fortemente improbabile che siano stati essi, quando utilizzati secondo le linee guida della medici­ na del tempo, a causare l'alta mortalità registrata all'interno della Casa. Qualche ragazza avrebbe potuto ammalarsi, poche altre morire, se aves­ sero assunto farmaci prescritti in modo grossolano, ma questi rimedi non avrebbero comunque mai potuto essere all'origine di quella interminabile processione di sudari che veniva fuori da Borgo Ognissanti. In poche pa­ role, non possiamo addebitare all'uso di rimedi abortivi la morte di tante fanciulle della Pietà. E allora, a che cosa? La mia ricerca sembrava ormai essersi arenata, quando decisi di par­ larne con una collega che vanta una solida formazione in ambito medi­ co. Con lei discussi dei tratti distintivi della Casa della Pietà e della sua complessa evoluzione. Gli interessi di ricerca di questa collega si sono at­ tualmente indirizzati alle modalità con cui un gruppo di cattolici zelanti seppe costruire una rete di culto sotterranea - non si tratta dei seguaci di Savonarola sotto il governo mediceo, ma dei dissidenti cattolici inglesi du­ rante il regno di Elisabetta 1. Le raccontai del contesto storico su cui stavo lavorando, dei piagnoni, degli schieramenti politici, della questione della prostituzione, del servizio domestico e delle abitudini sessuali del tempo, ma dovetti confessare che ancora non riuscivo a spiegarmi quel tasso di mortalità tanto elevato nella Casa della Pietà. «Forse è sifilide » subito rispose.

6 G iovani vergin i e malattie veneree

E che dire delle bambine, poiché sono in molte a essere grandemente afflitte da tale morbo, e alcune di loro hanno un anno soltanto, altre appena 4 o s. altre an­ cora 6 o 7· Tra queste, ho curato una ragazza che nell'anno 1567 di Nostro Signore aveva 12. anni, ed era infestata da questo morbo in modo assai grave, in molte parti del corpo, e che per questo aveva noduli dolorosi, pustole e ulcere, con danni alle ossa e tuttavia alcun sintomo nelle parti sospette. Né avrebbe avuto il vigore che occorre per simili atti. Piuttosto ritengo che lei come molte altre sia stata con­ taminata dal latte infetto di una nutrice, perché quel latte era il prodotto di un sangue infetto'.

Additare la sifilide come il killer della Pietà equivale a presupporre un sac­ co di cose. Significa presumere che la sifilide, durante il XVI secolo, abbia grosso modo seguito lo stesso andamento che aveva manifestato dal suo insorgere come epidemia, nel tardo Quattrocento, fino alla metà del xx secolo, quando l'uso della penicillina avrebbe fi nalmente consentito di te­ nerla a bada. Significa supporre che il contagio che fece la sua comparsa nel Rinascimento fosse effettivamente sifilide. Al tempo, la chiamavano sem­ plicemente "il male': attribuendone l'origine indistintamente a quelle na­ zioni o gruppi che via via erano più odiati o temuti : male napoletano, mal francese o italiano. Presuppone che questo "male" in Europa fosse davvero una nuova malattia e non semplicemente la mutazione di qualche patolo­ gia già presente. Un tempo gli storici della medicina sostennero baldanzosi tutte queste congetture, adesso non lo fanno più. E siamo soltanto di fronte alla prima delle complicazioni. Non rimane alcun manoscritto del tempo che si riferisca a questa malattia - né con il nome di sifilide né con quello di "male" - mettendola in relazione con le ragazze della Pietà. Nessuna fonte sembra suggerire questo accostamen­ to, nessun canto, nessuna predica o componimento satirico lo fa. Non c'è alcun documento che faccia con chiarezza pensare al fatto che ci fossero state ragazze che ne avessero presentato i sintomi. li suggerimento della

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mia collega derivava dalle sue conoscenze in merito all'epidemiologia della sifilide prima della scoperta della penicillina, con particolare riferimento alle modalità con cui si presentavano i sintomi di una sifilide congenita: all'avvio, risalente alla fase prepuberale, seguiva un progressivo peggiora­ mento, che spesso sfociava in una morte precoce. Assumiamo per ipotesi che questo "male" sia effettivamente la sifilide e che, dopo i cinque anni d'età, tale "male" presentasse sintomi compatibili con questa diagnosi; ebbene, non avremmo comunque in mano molti elementi per collegare questa malattia alla Pietà, se si esclude qualche prescrizione medica e l'an­ damento del tasso di mortalità interno all'istituto. n decesso di ragazzi­ ne come Margherita, Maria e Maddalena ci è segnalato soltanto da una crocetta tracciata accanto al loro nome nel Libro Segreto. Non c'è alcuna descrizione dei sintomi o del!'efficacia delle terapie adottate per sedarli. Esattamente come nel caso della contraccezione, il silenzio delle fonti, unito alla complessità del contesto storico, colloca quest'ennesima ipotesi sulle cause dell'alto tasso di mortalità della Pietà ben lontana dal campo dei solidi convincimenti. Inoltre, sempre al pari del problema delle pratiche con­ traccettive, il fatto che si identifichi la sifilide come la causa dei decessi all'in­ terno della Casa potrebbe aver significato molto meno per i fiorentini del tempo (come per le ragazze della Pietà) che per noi, adesso. li che equivale a dire che, forse, per la mentalità di allora si trattava solo di prendersi cura di giovani ammalate, senza bisogno di collegare i sintomi della loro malattia a qualche "male", o alla sifilide. E persino quando questa connessione fu fatta, le conoscenze in merito a questa malattia, o alle sue modalità di contagio, potrebbero aver reso i contemporanei meno allarmati o moralisti di quanto non lo saremmo noi oggi. Non è detto che tutte le società associno imme­ diatamente le malattie come la sifilide a comportamenti immorali o pecca­ minosi. Allora procediamo come prima, quando parlavamo di contracce­ zione: ricostruiamo l'orizzonte culturale degli italiani del Rinascimento nel momento in cui semplicemente cercavano di capire che cosa di preciso li avesse colpiti, quando "il male" cominciava a diffondersi. Solo allora saremo in grado di valutare se tale orizzonte sia in qualche misura simile al nostro.

Il contesto del "male''

La chiamavano in molti modi : per gli italiani (che, almeno in questo, ve­ nivano seguiti volentieri da tutti gli storici nemici della Francia, gli spa­ gnoli, i tedeschi e gli inglesi) era il "mal francioso': o morbus gallicus per gli

GIOVANI VERGINI E MALATTIE VENEREE amanti dei latinismi. Alcuni francesi restituivano il favore, chiamando il morbo mal de Naples ("mal napoletano"), dal momento che i loro soldati lo avevano contratto per la prima volta durante l'assedio di quella città, nel 1494. Nel 1 5 2.7, il medico francese Jacques de Béthencourt propose la locuzione morbus venereus, ossia la "malattia di Venere" (da qui il nostro "malattia venerea''), al fine di sottolinearne la trasmissibilità per via sessua­ le. Eppure, c 'era chi pensava che quello sessuale non fosse l'unico vettore del contagio. In quegli stessi anni, infatti, un medico e letterato italiano, Girolamo Fracastoro, compose un poema in cui un pastore di nome Sifìlo veniva colpito da un «morbo strano» a seguito di un gesto empio che aveva commesso contro gli dei. Perché proprio questo nome dovesse re­ sistere all'usura del tempo è difficile a dirsi, sebbene esso rimandi ad altri appellativi che in buona sostanza costituivano delle metafore, primo tra tutti la "sindrome di Giobbe", dal nome del paziente profeta del Vecchio Testamento che era stato tormentato da dolori lancinanti e piaghe prurigi­ nose non tanto diverse da quelle sperimentate dalle vittime rinascimentali della nuova malattia1• O forse non era poi così "nuova''. De Béthencourt e Fracastoro la rite­ nevano tale, ma c'erano altre autorità scientifiche, come il medico italiano Niccolò Leoniceno, secondo le quali si trattava di una malattia nota già a Ippocrate. Altri ancora, poi, come il cerusico genovese Giovanni da Vigo, rimanevano su posizioni mediane. Per da Vigo era senz'altro una nuova patologia, eppure doveva ammettere che già l'imperatore Augusto aveva lamentato sintomi compatibili con il medesimo quadro clinico e, quindi, di fatto, avrebbe potuto trattarsi non tanto di una malattia del tutto sco­ nosciuta, quanto di una variante della elefantiasi ben nota agli antichi. n medico inglese Thomas Gale, cerusico reale alla corte di Elisabetta I, gettò la spugna e propose di chiamare questa malattia "sindrome del Camale­ onte" o camaleontiasi, tanto era difficile diagnosticarla. In un certo senso, quella del nome non è una questione poi così importante: ripercorrere de­ finizioni che vanno dagli insulti nazionalistici alle metafore mitologiche, alle invenzioni poetiche, per arrivare fino agli exempla biblici e, di qui, alla più assoluta incertezza su quale tra queste opzioni fosse giusto scegliere, evidenzia soltanto l'entità di un fenomeno che gli europei del Rinascimen­ to percepivano sostanzialmente come un enigma3• Che fosse arrivata di recente o risalisse a tempi lontani, questa malattia, quando si trattava di diagnosticarla, costringevai dottori a ricorrere agli ar­ gomenti e alla terminologia a loro più familiari, quelli delle autorità classi-

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che e bibliche, e così si finiva con il mettere insieme le solite, vecchie teorie. Era un morbo causato dal moto degli astri, dalla pericolosa congiunzione di Saturno e Marte (o Giove), unita a due eclissi. Oppure nasceva da una cat­ tiva "miscela di umori", da un'alterazione dell'aria o da episodi di antropo­ fagia. Era un fulmine scagliato contro l'uomo da un Dio ormai esasperato dal suo stile di vita promiscuo. Che fosse frutto di congiunzioni astrali, di umori, delle caratteristiche dell'aria o dell'alimentazione, la sifilide si pro­ pagava quasi sempre a causa di un unico, fondamentale veicolo di contagio: la donna. Pietro Rositinio, negli anni Cinquanta del Cinquecento, prese di mira una bella prostituta che aveva lavorato per i soldati francesi accampati attorno alle mura di Napoli. Grazie alla sua avvenenza, aveva attirato a sé molti uomini, ma un'alterazione dei suoi umori aveva reso putrido e infetto il suo utero, tanto da ammorbare tutti quelli che si erano uni ti a lei e che poi avevano fatto lo stesso con altre prostitute, che a loro volta avevano conta­ giato altri clienti, in una terribile spirale infettiva4• Anche coloro che ritenevano i rapporti sessuali con un uomo o una donna infetti il più probabile veicolo di trasmissione della sifilide, lascia­ vano comunque uno spiraglio aperto anche ad altre forme di contagio che non avevano tanto a che vedere con ciò che uno poteva aver fatto, quanto con ciò che era e con chi aveva frequentato. La presenza di piaghe aperte era un sintomo tanto frequente della malattia che molti luminari pensa­ vano fosse possibile contrarla entrando semplicemente in contatto con le secrezioni estremamente contagiose che ne uscivano. Anche indossare indumenti infetti o dormire avvolti in lenzuola contaminate era indub­ biamente assai rischioso, ma, dal momento che erano in pochi quelli che avevano molti cambi d'abito a disposizione e molti, invece, ancora dormi­ vano in due, tre, quattro per letto, con lenzuola che di rado venivano lava­ te, si trattava di un rischio praticamente inevitabile. A tavola, la maggior parte delle persone condivideva piatti, bicchieri e vari utensili e faceva uso più delle mani che delle posate: quindi, un pasto con una persona infetta poteva finire in disgrazia. Utilizzare lo stesso gabinetto di un ammalato o i suoi stessi arnesi da lavoro o altri oggetti poteva esporre al contatto con il suo pus contagioso. Anche respirarne la stessa aria poteva essere veicolo di trasmissione della malattia; almeno così la pensava un medico spagno­ lo, quando cercava di spiegare come sacerdoti votati al celibato potessero aver contratto il morbo. Era la loro opera assistenziale tra i più bisognosi a renderli vulnerabili e, se si prendevano la sifilide, ciò non aveva nulla a che fare con una violazione del voto di castitàs.

GIOVANI VERGINI E MALATTIE VENEREE Per i bambini, invece, l'insidia più grande covava tra le pieghe dell'al­ lattamento, poiché è proprio succhiando il latte che correvano il rischio di contrarre la malattia. Alcune autorità mediche puntavano il dito con­ tro il latte, altre contro il contatto fisico con un seno i nfetto. C 'era, poi, chi riteneva che il contagio potesse risalire persino al momento della nascita, visto che le donne affette da questa patologia presentavano di solito piaghe su tutta la vagina. Le stesse piaghe, se distribuite sulle lab­ bra di persone adulte, ne rendevano i baci particolarmente deleteri per neonati o bambini; ma, allora, come ci si sarebbe mai potuti mettere al riparo dal contagio ? Date le innumerevoli vie di trasmissione della sifi l i­ de, il fatto che qualcuno ne fosse affetto non sempre veniva interpretato come un segno ignominioso di una condotta morale deviata. Per alcuni, soprattutto se bambini, non era un'onta tanto più grave di quella che derivava da una febbre o da un raffreddore ordinari. Dovevi essere com­ patito, non biasimato6• Quali erano i sintomi del contagio ? Giovanni da Vigo ne offrì una delle descrizioni più accurate nella sua Practica chirurgica, pubblicata al tempo in cui era medico alla corte papale di Giulio II, nel 1 5 14. All'inizio, com­ parivano sui genitali pustole scure, mentre la pelle attorno a queste pustole si faceva dura come un callo. Di qui le pustole si propagavano per tutto il corpo, dalla testa al collo, fino alle braccia, alla gambe e oltre. Passavano sei settimane, ed ecco sopraggiungere fitte lancinanti alle spalle, alle braccia, alle cosce e alle anche. Passava qualche mese e tumefazioni ancora più con­ sistenti attaccavano le ossa, causando dolori che durante il giorno erano sì terribili, ma che di notte divenivano addirittura strazianti, e provocando lesioni sia alle ossa sia alle membrane di cui queste sono rivestite. A un anno dal contagio, ascessi dolorosi della grandezza di una castagna, pieni di un denso e putrido pus, si sviluppavano su quelle parti del tessuto epiteliale ormai putrefatte. Le eruzioni cutanee proseguivano lasciando alcune parti del corpo chiazzate di croste arrossate, simili a toppe, mentre in altre parti crescevano sporgenze dall'aspetto di bernoccoli, duri come un osso. Gli oc­ chi di fuoco, doloranti, rendevano difficoltosa la vista. Trafìtture pungenti, simili a quelle provocate dalla gotta, salivano dai piedi, mentre una gran­ de sofferenza al nervo sciatico paralizzava anche e femori. li mal di testa non dava tregua. Gli intensi dolori articolari si trasformavano in una sorta d' indolenzimento generale simile all'artrite, esteso a tutte le parti del cor­ po, contro il quale ogni tradizionale terapia del dolore si rivelava del tutto inutile.

RAGAZZE PERDUTE Et sappi che tutti i risolutivi et mitigativi che gli antichi et moderni posero per in­ fallibili poco ò niente giovano a quelli dolori, anzi procedendo con loro di giorno in giorno, maggiormente s'aumenta la doglia [ ]. Gli anodini risolutivi che se­ condo Galeno et Avicenna hanno virtù et non so che certezza di rimover ciascun dolore non operano nulla in mitigare le doglie venute da questo male. Così dico degl'oli mitigativi et untione de' bagni, suffumigi, stufe, cerotti et impiastri [ ] . Nondimeno io so senza dubbio alcuno haver curato in una settimana più fiate con semplice untione fortificata con un po' di argento vivo dai dolori, postule, impia­ gature [ .. ] . È la sua operatione meravigliosa et cura in termine di una settimana il morbo gallico (Giovanni da Vigo, Prattica universale, libro v, capp. r-n)7• ...

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Giovanni da Vigo aveva assistito con i propri occhi al diffondersi di questa epidemia e si lamentava del fatto che cisti dure, ascessi e lesioni cutanee, data la loro sterminata presenza e il variabile aspetto, si sottraevano a un' ac­ curata descrizione, figuriamoci a una classificazione che si attenesse a quella tramandata dalle autorità scientifiche del passato. Decise, comunque, di tentarla questa classificazione e la maggior parte dei medici del XVI secolo adottò la sua terminologia. L'apostema (o pustola, o ascesso) era una parte del tessuto epiteliale fortemente infiammata e indurita, originata da un ri­ stagno di umore catarrale. Da Vigo utilizzò questo termine per descrivere protuberanze irregolari presenti sulla pelle. Dal momento che ogni aposte­ ma era dovuto all'insorgere di un deterioramento e di uno squilibrio umo­ rale, era necessario che si procedesse alla purificazione di tali protuberanze. Per questo alcuni cerusici le cauterizzavano con un ferro bollente. Da Vigo, invece, preferiva "mollificare" - cioè portare a maturazione e ammorbi­ dire - l'apostema, per poi scioglierne la materia corrotta e ripristinare un tessuto epiteliale risanato. Da Vigo descrive una vasta gamma di aposte­ mi, ordinandoli in base a grandezza, durezza, colore, posizione e a come si sarebbero sviluppati con il progredire della malattia o se si decideva di non sottoporli ad alcun trattamento. Attraverso le varie fasi del contagio, gli apostemi potevano degenerare in svariati tipi d'ulcera che aggredivano in modo assai più vigoroso i tessuti ancora sani. La fistola era un esempio di questo genere di ulcere: causava piccole cavità sulla pelle, ma si diffonde­ va rapidamente all'interno del corpo, lasciando sopra le aree intaccate una sorta di guaina epiteliale rigida. Le sue mete preferite erano le mascelle, lo stomaco e le articolazioni, e più tenero era il tessuto in cui si accresceva, più piccoli erano i fori che procurava8• C 'erano altre ulcere contagiose, per cui da Vigo scelse il nome di scrofole. Si trattava di ascessi duri e molto dolorosi che comparivano in gran numero su genitali, collo, ascelle e seno.

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ll rammarico di Giovanni da Vigo per la moltitudine di piaghe e sinto­ mi che sfuggivano a qualsiasi classificazione fondata sui criteri tasso nomici delle autorità classiche era un punto cruciale della sua riflessione, giacché erano proprio i sistemi di Galeno e lppocrate a costituire il punto di par­ tenza di ogni studio scientifico del Rinascimento. Una cisti o un asces­ so causato dagli umori freddi necessitava di un trattamento terapeutico diverso da quello richiesto dalla stessa cisti o ascesso originato, però, da umori caldi, dal momento che la riuscita del trattamento in parte dipende­ va dal saper ristabilire un equilibrio tra gli opposti, avvalendosi di piante, minerali e fluidi che erano essi stessi caldi o freddi, secchi o umidi. Solo la prova empirica avrebbe dimostrato se e come la tradizionale farmacopea fosse in grado di condurre dai sintomi alle cause che li avevano generati. Se il morbo fosse davvero risultato un male inedito, i medici avrebbero anche potuto aver bisogno di ideare nuovi rimedi, ricorrendo a ingredienti non presenti in quella farmacopea, e per questo si sarebbero basati sull'analisi dei sintomi dei loro pazienti. Indipendentemente dal fatto che la sifilide fosse un male già noto agli antichi o del tutto nuovo, indipendentemente dal fatto che fossero le stelle, gli umori o l'ira divina ad averlo innescato o che fossero il sesso, l'allattamento, l'aria contaminata i veri responsabili del contagio, i malati di sifilide sapevano con certezza soltanto due cose: che gli spasmi più dolorosi provenivano dall' interno del corpo e che gli ef­ fetti più spaventosi della malattia - piaghe aperte e rigonfiamenti bitorzo­ luti - ne avrebbero ricoperto l 'esterno. Le prime cure affrontavano questi due sintomi in modo distinto, sebbene la presenza delle une non esclu­ desse l'insorgere degli altri. Per alcuni, bisognava operare per far uscire il veleno nascosto all'interno del corpo del paziente, aumentandone la su­ clorazione, magari chiudendolo in un locale torrido e somministrandogli infusi che provocassero un'arsura simile a quella che accompagna la feb­ bre, in modo che le tossine fossero costrette a uscire dai pori. Altre terapie prevedevano la bruciatura o cauterizzazione delle piaghe o l'applicazione di "cerotti", cioè impiastri, sul corpo del paziente. Questi unguenti am­ morbidivano le piaghe indurite (le "mollificavano"), isolando e purgando quelle piene di pus ("suppurandole") allo scopo di risanare la pelle ormai in cancrena (''mondare" o "incarnare"). Entrambi i metodi potevano richiedere l'uso di farmaci nuovi e costosi. Chi sperava di far espellere i veleni interni stimolando la sudorazione uti­ lizzava, tra gli altri sudoriferi, anche un infuso a base di corteccia, o legno, di guaiaco, una pianta originaria del Sud America, una scelta che sembra

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dipendere almeno in parte dal convincimento che Dio facesse crescere i rimedi laddove aveva fatto germogliare le malattie. Dal momento che se­ condo alcuni la sifilide aveva origini americane, questo rimedio appariva un'opzione più che coerente; era anche assai vantaggioso per la famiglia dei banchieri di Augusta, i Fugger, che se ne erano assicurati il commercio in regime di monopolio e che, per questo, divennero vivaci promotori del­ le sue qualità terapeutiche. I cerotti applicati sulla pelle contenevano mer­ curio, il cui utilizzo, come scrive da Vigo, dava risultati sorprendenti: «È la sua operatione meravigliosa e cura in termina di una settimana il morbo gallico con tutti i suoi accidenti [ ... ] , tirando fuori la materia antecedente [ ... ] et rimuove la doglia et in breve tempo sana qualunque piaga di morbo gallico»9• Entrambe le terapie avevano un solo difetto, il costo, che le rendeva accessibili a un numero esiguo di pazienti. Questi potevano scegliere di farsi curare privatamente, soprattutto quando erano abbastanza ricchi da potersi permettere il mercurio. Oppure potevano entrare in uno degli ospedali che, dall'inizio del XVI secolo, stavano sorgendo in tutta l' Italia proprio per i malati di sifilide. A Firenze, l 'Ospedale di Santa Trinità de­ gli Incurabili, fondato nel I S2I, vantava notevoli successi nell'ambito delle terapie della sudorazione. Come molte altre simili istituzioni, era aperto soltanto da febbraio a ottobre, il periodo più mite dell'anno, quando gli ambienti preposti potevano essere riscaldati fino ad alte temperature, e i suoi pazienti non potevano lasciare l'ospedale prima della fine della te­ rapia, che poteva richiedere mesi. I fiorentini più poveri venivano accolti nell'ospedale soltanto se in possesso di due impegnative: una del medico della Trinità, con cui si attestava il loro bisogno di cure, l'altra del parroco, con cui si certificava il loro stato di indigenza. Avevano diritto a essere curati dal personale residente nell'ospedale sia gli uomini che le donne, in ambienti diversi10• A questa data, i bambini in genere non entravano agli Incurabili e nessuna delle ragazze della Pietà riuscì ad assicurarsi un' im­ pegnativa per farlo. E non c'è traccia di guaiaco o mercurio nel Ricettario della Pietà. Quello che si ritrova nel Ricettario sono senz' altro gli ingredienti e le prescrizioni indirizzate proprio alla cura dei sintomi che tormentavano i malati di sifilide. Sebbene essi potessero preferire la magica pozione del mercurio, un po' tutti i medici d'Europa continuavano ugualmente a rac­ comandare l'uso di molti di questi ingredienti e, spesso, proprio con la po­ sologia prevista da queste ricette. C 'è una sola prescrizione contenuta nel

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Ricettario che potrebbe far pensare a un rimedio sudorifero, ma la maggior parte degli unguenti, delle pomate e dei cerotti miravano a curare le lesio­ ni epiteliali attraverso l'asportazione della materia corrotta e il ripristino della pelle e di tutti i tessuti. Nell'antidotario che accompagna il suo trattato del 1514, Giovanni da Vigo tratta uno per uno molti degli ingredienti citati nel Ricettario del­ la Pietà, tentando di classificarli tutti in relazione agli umori. Le sostanze prese in esame hanno particolarmente a che fare con gli apostemi e i vari tipi di ulcere. Le parti dure e infiammate della pelle erano piene del freddo e umido umore flemmatico - di pus, in sostanza - e i rimedi più efficaci erano quelli che facevano "maturare", cioè ammorbidivano, queste zone rigonfie, sciogliendo l'umore guastato contenuto al loro interno e rigene­ rando un tessuto epiteliale sano. Siccome l'allume di rocca era general­ mente ritenuto caldo e asciutto, si pensava che il suo utilizzo potesse evi­ tare che il freddo e umido umore flemmatico raggiungesse ogni parte del corpo. Per questo i dottori, per curare le ulcere più difficili, mischiavano e portavano a ebollizione una soluzione di allume e acqua di piantaggine o vino di melagrane11• Altri ingredienti di provata efficacia per chi voleva "far intenerire", "astergere" o "digerire", cioè far rilassare, questi duri apostemi erano il bdellio e l'altea, una sostanza appiccicosa tratta da una pianta si­ mile alla malva, che compare anche nelle due ricette della Pietà attribuite a Mesuè. I semi di lino, l'armoniaco e l'opopanace erano tutti caldi e sec­ chi, indicati per ammorbidire i freddi apostemi12• Di solito la pece non era considerata una sostanza dal potere emolliente e, tuttavia, compare tra gli ingredienti degli unguenti applicati sulle ulcere fredde, mentre chi vantava tutti i requisiti necessari a "incenerirle" era il fieno greco. Anche in presen­ za di lesioni più lievi, il paziente avrebbe avuto bisogno di qualcosa che lo aiutasse a espellere il micidiale pus e che asciugasse completamente la ferita, stimolando la ricrescita di tessuti sani. L'aristolochia, calda e secca, serviva proprio a questo, e così la resina di pino. Per gli unguenti da appli­ care sulle «ulcere calide» , da Vigo raccomanda poi l'uso di litargirio, pur senza specificarne le proprietà13. Alcuni decenni più tardi, proprio negli anni in cui la Pietà potrebbe aver fatto uso del suo Ricettario, Thomas Gale pubblicò a Londra il suo Certaine Workes ofChirurgerie (1563). È un libro particolarmente interes­ sante, perché riporta alcune delle ricette contenute all' interno del manua­ le redatto dall'Arte dei medici e speziali di Firenze, da cui, a loro volta, avevano attinto i medici della Pietà per i loro rimedi. Gale riprende pra-

RAGAZZE PERDUTE ticamente alla lettera alcune opere del passato, esattamente come fecero gli autori del Ricettario, ma si sofferma particolarmente su alcune prescri­ zioni, aggiungendo informazioni circa il loro utilizzo. Aggiunge anche un antidotario, una raccolta di antidoti i cui ingredienti sono raggruppati in base alle loro proprietà. Ci sono medicamenti che servono ad "attirare e tirare fuori" (in virtù delle loro elevate temperature e particelle sottili) la materia infetta, come quelli a base di armoniaco, opopanace e galbano'4• Tra quelli utili ad ammorbidire e a portare a suppurazione le "ulcere dure" e gli apostemi, troviamo quelli ottenuti con altea, armoniaco, bdellio, fie­ no greco, galbano, semi di lino, opopanaco, pece, resine e cera. Nel grup­ po degli ingredienti che aiutano a cicatrizzare i tessuti dopo che le lesioni sono state del tutto purgate dal pus abbiamo allume, l'aristolochia, il bdel­ lio, la mirra e l'incenso, mentre sempre l'aristolochia e l'incenso, uniti alla pece, sono inseriti nell' insieme di quelli "incarnativi" che, cioè, aiutano la carne a crescere sulle piaghe ormai ripulite's. Giovanni da Vigo resta la fonte più autorevole per tutti i medici del XVI secolo, almeno fino alla traduzione e alla diffusione delle opere del cerusico francese Arnbroise Paré. Eppure Paré s'inserì sulla scia di da Vigo e Gale per quanto riguarda la cura della sifilide, pur offrendo ai lettori una spiegazione che ne chiarifica i criteri di fondo. I rimedi che, in virtù del loro calore, « aprivano i pori, riducevano gli umori, facevano uscire e disperdevano la materia inutile» erano a base di arrnoniaco, ari­ stolochia, bdellio, galbano, opopanace, mirra, pece nera e trementina'6• L' armoniaco, il fieno greco, il galbano, i semi di lino, la pece e la cera erano tutti elementi utili a facilitare la suppurazione, ossia, chiudevano i pori, isolando le ferite e prevenendo la "traspirazione", in modo da tra­ sformare la materia corrotta in un pus che poi poteva essere tolto. Paré scrive che l'altea, il fieno greco e i semi di lino sono utili per ammor­ bidire le ulcere dure tanto quanto l 'allume, l ' armoniaco, l'aristolochia, il galbano, la rnirra e la trementina lo sono per ripulire le piaghe. Egli divide i rimedi in quattro categorie : gli infusi, gli unguenti, i cerotti e le fumigazioni. Pur sottolineando l'efficacia del mercurio e del guaiaco, Paré suggerisce anche l'uso della trementina per attivare il processo di sudorazione. Unguenti e cerotti facilitano l 'escrezione degli umori ve­ lenosi, provocando diarrea, minzione ed evacuazioni, ma, soprattutto, aumentando la salivazione e, quindi, le ulcere che improvvisamente inva­ dono la bocca del malato in terapia. Questi deve, perciò, fare dei gargari­ smi con diverse acque toniche, affinché gli umori putridi vengano lavati

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via. I più efficaci tra questi colluttori erano l'orzata e gli infusi a base di piantaggine e melagrane'7• Al di là dei singoli ingredienti, questi e altri autori di manuali di medi­ cina e pratica chirurgica si avvalsero di un certo numero di ricette simili a quelle raccolte nel Ricettario della Pietà. Qui la seconda prescrizione, indi­ cata con il nome di "unguento di Gian di Vigo", è effettivamente presente anche nel testo dell'archiatra pontificio, sotto il titolo, però, di unguen­ tum egyptiacum, ossia "unguento di origini egizie". Da Vigo lo raccoman­ da come un farmaco particolarmente indicato per la cura degli apostemi duri, pieni di umore flemmatico; «per le ulcere maligne, corrosive et mal complessionate o veramente distemperate da materia calida» ; per i tes­ suti squamosi. Gale e Paré sono dello stesso parere e il secondo fornisce una vivida descrizione dell'azione di tale unguento: «Apre e rilassa i pori ed estrae la materia chiusa in essi, ed è caustico perché consuma, corrode, decompone, brucia e sgretola l'apostema» . Due luminari a lui contempo­ ranei, Pietro Rositinio, autore del Trattato di malftancese ( 1556), e Niccolò Massa, autore del Libro del malftancese ( 1566), si dimostrarono concordi sull'utilità dell'unguento egizio, specie per la cura delle piaghe causate dal­ la sifilide, sebbene entrambi tengano a specificare che la sua efficacia fosse in realtà legata a una sua combinazione con il mercurio'8• La terza ricetta contenuta nel Ricettario è simile alla seconda e si ritrova sia nell'opera di da Vigo sia in quella di Gale'9. La quarta prescrizione, l' unguento appostolorum da Vicenna, viene di­ rettamente dal Canone di Avicenna, che ne raccomanda l'uso per la cura di fistole e scrofole10• Si tratta di una pomata che molti manuali di medi­ cina menzionano e che di solito i medici del Rinascimento impiegavano per "mondificare" le ulcere, soprattutto se risultavano pericolose, putride e maligne. Gale la descrive come un medicamento di grande efficacia, con­ tro ferite e ulcere difficili da curare e anche contro le fistole ( « agaynste woundes and ulcers whyche are harde to be cured; also for fistulas» )1'. Ancora una volta, Rositinio e Massa la scelgono come rimedio indicato per ulcere e apostemi causati dal mal francese, questa volta anche senza mercuri011• La settima ricetta, l'unguento basilicon magiore magistrale, compare an­ che nel Canone di Avicenna, come un trattamento contro le ulcere""\ Da Vigo la inserisce tra i rimedi contro le ulcere, le fistole e le scrofole, mentre Gale sottolinea la sua efficacia per "incarnare" le ferite. Paré la raccomanda per la suppurazione delle ulcere - cioè per ottenere la chiusura dei pori e la

RAGAZZE PERDUTE maturazione degli umori corrotti in pus, più facile da ripulire. Nell'opera di Rosi tini o questa ricetta non compare, mentre Massa la trova particolar­ mente indicata per la cura della scabbia che insorge a seguito del contagio del morbo gallico'4• L'ottava e l'undicesima ricetta descrivono la composizione di cerotti at­ tribuiti a Mesuè, ed effettivamente egli ne consiglia l'uso per ammorbidire ulcere e apostemi''5• Da Vigo li trova di grande utilità per il trattamento delle scrofole sui seni delle donne, sebbene siano efficaci anche per il resto del corpo. Gale riporta entrambe le ricette e scrive che ciascuno di questi impiastri è efficace per la cura dello scirro, un particolare tipo di tumore, presente su fegato, milza, stomaco e altre parti del corpo e riesce anche ad ammorbidire tutte le protuberanze più dure ( « good against scyrhous of Lyuer, Splene, Stomacke [ . ], it mollifìeth all hardnesse » ). Dovrebbero essere impiegati anche contro le infiammazioni e i tumori. Per Paré sono buoni suppurativi e Massa li prescrive soprattutto per la scabbia e le piaghe del mal francese, come fa anche Antonio Fracanzano, medico e professore a Bologna, nel suo De morbo gallico (1563)16• Sei delle quindici prescrizioni raccolte all' interno del Ricettario del­ la Pietà trattano della cura di apostemi, ulcere, scabbia e scrofole. Tutti sintomi che la teoria medica del XVI secolo associava a una malattia, la sifilide, sebbene ovviamente potessero essere anche dovuti ad altre cause. Girolamo Mercuriale, autore di un manuale, forse il primo, di pediatria, De morbis puerorum ( 1583), ipotizza che il termine scrofola sia in realtà il nome volgare di struma (o gozzo) , un problema che spesso egli riscontrava tra i bambini (sebbene autori successivi lo collegheranno direttamente alla sifilide congenita)17• Quelle stesse autorità mediche che mettono in rela­ zione la comparsa di questo genere di sintomi con la sifilide prescrivono anche alcuni dei rimedi presenti nel Ricettario, a volte aggiungendovi del mercurio. E le altre ricette ? La sesta contiene un rimedio per l'infiammazione de­ gli occhi. È probabile che le ragazze avessero sottoposto i loro occhi a uno sforzo eccessivo dipanando bozzoli per molte ore al giorno, ma occhi ar­ rossati e perdita della vista rientravano anche tra i sintomi caratteristici del mal francese. La decima ricetta illustra un trattamento contro la tigna, il fungo altamente contagioso del cuoio capelluto che affiiggeva soprattutto i bambini e gli angusti istituti dove questi si affollavano in gran numero, dormendo tutti vicini vicini. Eppure sia Paré sia da Vigo registrarono che i pazienti contagiati dalla sifilide presentavano anche simili macchie sulla ..

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testa, che essi chiamavano "squame" e per le quali prescrivevano un rime­ dio simile a quello indicato nella ricetta della Pietà:�.8• Per quanto riguarda le rimanenti ricette, la prima, attribuita a Mesuè, ha tra gli ingredienti base l'aceto e l'acetato rameico, comunemente uti­ lizzati per la cura delle ferite ulcerose. La lettura dell'opera di Thomas Gale ci spiega che la quinta ricetta del Ricettario, un unguento a base di idrossido di calcio, era efficace contro le bruciature. La dodicesima descriveva un preparato ottenuto dalla miscela di olio di rosa, a volte uti­ lizzato come lassativo, con della corteccia di sambuco, comunemente im­ piegata come sudorifero e diuretico. Nella tredicesima, invece, si parlava di un balsamo risultato dall'unione di foglie di edera e bacche, comune­ mente usato come rimedio contro le infiammazioni e l'emicrania, ma che più tardi comparve di frequente tra i medicamenti riservati ai pazienti affl i tti da sifilide:�.9• Le ultime due prescrizioni contenevano indicazioni su come fabbricare cerotti a base di vari tipi di farine. Sebbene Paré si avvalga anche di cerotti per le sue cure, questi non contengono nessuno degli ingredienti che ritroviamo nelle prescrizioni contro la sifilide. Queste quindici ricette del Ricettario non sono, dunque, così singolari ed erano impiegate dai medici del Rinascimento in molte e diverse oc­ casioni. Eppure chiunque selezioni questa manciata di prescrizioni dalle quasi sso raccolte nel Ricettario fiorentino, troverà che molte affrontano il problema dei sintomi del mal francese nello stesso modo in cui erano descritti e trattati da un nutrita schiera di medici della metà del Cinque­ cento. È questo il filo conduttore che lega una selezione altrimenti del tutto casuale di pomate, balsami, cerotti e unguenti. Almeno una ricetta prevede gli ingredienti che qualche tempo dopo sarebbero divenuti di uso comune per alleviare le pene dei malati di sifilide. Soltanto due sembrano non avere alcuna relazione con la cura del mal francese. Al di là di queste ricette, i registri della Casa della Pietà riportano ac­ quisti di infusi, come l'orzata, o di acque toniche, come quella ricavata dal­ la piantaggine, con cui i pazienti in cura dovevano fare dei gargarismi se volevano espellere gli umori maligni fuori dalle loro bocche. Certo, si tratta di prove indizi arie che non dimostrano nulla. Le ricette contenute all'interno del Ricettario avevano una serie di impieghi piut­ tosto ordinari. In nessuna si ritrovano il mercurio o il guaiaco, elementi che avrebbero costituito una prova di gran lunga più inoppugnabile del fatto che le donne della Pietà stessero deliberatamente cercando di trattare casi di sifilide - anche se, ad esempio, lo stesso Paré riteneva che neonati

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e bambini non dovessero essere sottoposti a dosi eccessive di mercurio, in sostituzione del quale raccomandava la trementina30• L'assenza dei prodotti alla base dei due trattamenti al tempo più diffusi contro la cura della sifilide potrebbe semplicemente significare che le casse della Pietà non potevano permettersi né il mercurio né il guaiaco. Potreb­ be, però, anche voler dire che le ragazze dell'istituto non avevano contrat­ to nessun "male". O che le donne sotto le cui cure vivevano non avessero gli strumenti per riconoscere i sintomi di quella malattia - o, meglio, per collegarli alla sifilide, limitandosi, quindi, a trattarli come gli effetti di un male misterioso cui non sapevano dare un nome. Ma davvero potrebbe essere stata proprio questa malattia a falcidiare le giovani della Pietà?

La città vista dal Borgo O gnissanti

Le adolescenti che avessero contratto la sifilide attraverso rapporti sessua­ li avrebbero presentato tutti quei sintomi sopra descritti: piaghe induri­ te cosparse sul corpo intero, soprattutto nella zona dei genitali, del collo, delle gambe e delle braccia. Avrebbero sofferto di forti mal di testa e di dolori articolari tanto intensi da passare le notti insonni, urlando di do­ lore. Avrebbero potuto perdere i capelli, proprio come accadeva quando la tigna aggrediva il cuoio capelluto o altre parti del corpo, !asciandole co­ sparse di ferite aperte. Ma c'erano anche bambine che subivano il contagio per via indiretta, cioè da genitori a loro volta infetti. Non quel genere di trasmissione imma­ ginato da medici come da Vigo e Rositinio, fino al cerusico Paré, quello che correva sui vasi da notte o tra le lenzuola del letto, ma quello che avveniva nel grembo materno. Negli anni in cui la Casa della Pietà aprì, la sifilide era ormai una calamità "vecchià' tre generazioni. Alcuni dei suoi sintomi, come ebbe modo di notare lo stesso Paré, avevano già cominciato a mostra­ re un calo d'intensità. Eppure il numero dei contagiati, uomini o donne che fossero, continuava a crescere, e si trattava quasi sempre di persone con figli. Molte autorità mediche del tempo scrissero di bambini che contraevano il male succhiando il latte dal seno infetto delle loro nutrici o baciando le piaghe sulle labbra dei loro genitori. Anche questi casi di mal francese con­ tratto in età infantile potevano presentare una sintomatologia leggermente differente da quella caratteristica dell'età adulta: William Clowes, il primo

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che, in Inghilterra, ne fornì una dettagliata descrizione, sosteneva che le piaghe caratteristiche del contagio erano sì diffuse un po' su tutto il corpo, ma non sui genitali - che erano, invece, il primo posto dove un medico era solito guardare per diagnosticare la malattia in un adulto31• La trasmissione per via congenita della sifilide durante il periodo gesta­ zionale era davvero il problema più grave da affrontare, praticamente ine­ sorabile. Eppure nessuno dei contemporanei sembrò rendersene conto. E questo non deve sorprendere, dal momento che ancora una volta i sintomi della malattia erano piuttosto eterogenei. Lo erano senz' altro quelli di una sifilide congenita se confrontati con quelli di una malattia contratta negli anni e noi, in assenza di qualsiasi chiara diagnosi dei medici del tempo, abbiamo bisogno di andare oltre a quella malattia venerea - sicuramente concomitante e probabilmente la stessa della sifilide - per capire le diffe­ renze tra una sifilide congenita e una contratta in età adulta. Prima della scoperta della penicillina, la maggior parte dei bambini colpiti da sifilide congenita andava incontro a morte sicura, poche ore, o pochi mesi, dopo la nascita. Si trattava di bambini che crescevano poco eppure sembravano già vecchi e rugosi. Molti di quelli che riuscivano a sopravvivere oltre la soglia dell' infanzia presentavano gravi deformità fisi­ che, soprattutto al cranio, mentre i restanti, pur apparendo in buona salute e perfettamente normali, avrebbero iniziato a manifestare i sintomi della malattia all'età di circa 6 anni. Malgrado la sifilide congenita non fosse immediatamente o necessariamente letale, nelle sue forme più gravi pote­ va certamente affrettare i tempi del decesso. Una bambina di soli 6 anni avrebbe potuto cominciare a soffrire di forti dolori articolari causati dalle lesioni ossee provocate dall'incedere della malattia, oppure di tremende fitte agli occhi, con un progressivo indebolimento della vista che avrebbe­ ro potuto portarla alla completa cecità. Sulla pelle ancora delicata del naso e della bocca, avrebbero cominciato ad apparire chiazze appiccicose che, non appena varcata la soglia dell'adolescenza, avrebbero potuto perforare la bocca e persino causare l'infossamento dell'osso nasale (naso a sella). Da qui in avanti avrebbe lamentato emicranie e tremori di crescente intensità, che potevano degenerare in paralisi e sordità. Se si trattava di neurosifili­ de, la bambina poteva diventare più irritabile, apatica o paranoica, dando segni d'infantilismo e iniziando ad avere crisi epilettiche. Se non curata, la ragazza sarebbe morta nei primi 10, massimo 20 anni di vita3l. Davanti all'irrompere di tali e tanti sintomi sul corpo della figlia di ap­ pena 6 anni, un genitore del XVI secolo, soprattutto se vedovo o vedova,

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poteva benissimo cedere, perché smarrito, in preda al panico o alla dispe­ razione, all'idea di abbandonarla in un istituto simile a quello della Pietà. Allo stesso modo, le donne che gestivano la Casa della Pietà potevano tro­ varsi a gestire una situazione di cui sapevano poco o nulla. Accoglievano ragazzine malate e ce n'erano alcune, evidentemente giunte a uno stadio ormai avanzato del male, che morivano nel giro di pochi mesi. Ma che malattia era mai questa? Alcuni sintomi ricordavano senza dubbio il mal francese e, in questi casi, l'utilizzo dei medesimi unguenti e impiastri per le ferite, degli stessi rimedi contro l'emicrania e delle stesse pomate per gli occhi, avrebbero potuto recare un certo sollievo. Le pazienti andavano anche incontro a ulcerazioni della mucosa nasale che, lentamente, "consu­ mavano" il naso e invadevano la bocca e nel Ricettario si trova ben poco per contrastare simili processi. Ma altri sintomi come il progressivo peggiora­ mento delle condizioni mentali, psicologiche e fisiche del paziente, i suoi tremori, le piaghe, la comparsa di paralisi e sordità potevano anche essere attribuiti alla presenza di altre patologie, la peste, ad esempio, o la lebbra. Nelle fitte nebbie delle capacità diagnostiche del tempo che lo stesso da Vigo aveva denunciato, un universo mutevole all'interno del quale i sicuri punti di riferimento delle autorità classiche perdevano molto della loro tradizionale efficacia ermeneutica, i malati di sifilide congenita rischiava­ no di essere lasciati per strada33. A noi non serve scegliere una forma di trasmissione della malattia ri­ spetto a un'altra. Ogni ragazza affetta da sifilide e ammessa all'interno del­ la Casa della Pietà poteva averla contratta in un'infinità di modi differenti. Sessanta, settant'anni dopo i primi bollettini medici sulla comparsa in Eu­ ropa di una nuova, spaventosa epidemia, la sifilide aveva colpito una parte significativa della popolazione, eppure i suoi sintomi restavano ambigui, e molte delle sue forme ancora sconosciute. Quella congenita, dovrebbe senza dubbio aver iniziato a diffondersi dalla metà del Cinquecento, in p articolar modo tra le popolazioni dei lavoratori immigrati da altre città e paesi. La maggior parte delle giovani della Pietà aveva padri non fiorenti­ ni, probabilmente arrivati in città al tempo in cui erano ancora ragazzi in cerca di un impiego. Si tratta di una popolazione più incline alla frequen­ tazione di prostitute, dentro e fuori i bordelli, e pertanto verosimilmente più esposta al rischio del contagio e alla possibilità di trasmetterlo in un secondo momento anche alle proprie mogli, che, a loro volta, avrebbero potuto infettare i loro bambini. Al momento del loro ingresso alla Pietà, la maggioranza delle ragazze aveva un solo genitore ancora vivo, di solito un

GIOVANI VERGINI E MALATTIE VENEREE padre rimasto vedovo o che magari non si era semplicemente mai sposato. Poteva essere questo il caso di bambine come Maria e Maddalena, figlie rispettivamente del soldato Negrante e di padre Billi, che furono tra le pri­ me a entrare nell'istituto e tra le prime a morirvi. Forse Negrante non era il marito della madre di Maria; certamente frate Billi non lo fu di quella di Maddalena. Entrambi i padri provenivano da ambienti sociali che mo­ stravano una grande familiarità con il mondo del sesso a pagamento, ed entrambe le madri avrebbero benissimo potuto essere due prostitute. Questo era il profilo demografico delle comunità di provenienza delle ragazze della Pietà. La morte delle madri avrebbe potuto dipendere dai più disparati motivi: parto, incidente, malattia epidemica (peste, malaria, febbre o colera), patologie croniche come la tubercolosi. Almeno alcune della malattie responsabili della morte delle madri avrebbero potuto essere trasmesse alle figlie quando erano ancora nel grembo materno, pronte a uccidere anche loro in un secondo momento. E nel caso di patologie come la sifilide, le differenze tra forme congenite e acquisite erano abbastanza sottili da lasciare attoniti e impotenti quanti assistevano al lento declino delle condizioni di salute delle ragazze che ne erano afflitte. Probabilmen­ te si sarebbe ipotizzata un'infezione di mal francese e la si sarebbe trattata come tale, ma sempre con un certo margine di dubbio. Le adolescenti della Firenze del Rinascimento potevano aver contrat­ to la sifilide per via diretta in molti altri modi. Se non proprio dalla con­ divisione di lenzuola e vasi da notte infetti, certamente potevano averlo fatto da neonate, succhiando il latte dal seno di una madre o di una balia infette. I medici individuavano in questo comportamento il più diffuso veicolo di contagio della sifilide in età infantile, e non è poi così diffici­ le ricostruire il contesto storico di questa affermazione. Alcune ragazze potevano essere state allattate da donne affette da sifilide. Le giovani che fecero il loro ingresso alla Pietà erano tutte nate a cavallo tra gli anni Qua­ ranta e Cinquanta del Cinquecento, quando carestia e tracollo economi­ co spinsero molti genitori a unirsi al gruppo delle donne non sposate che da sempre erano le più inclini ad abbandonare i loro bambini alle cure dell'Ospedale degli Innocenti, pochi isolati a nord del duomo di Firenze. Un fiume di centinaia di bambini si riversava all'interno dell'ospedale (si parla di una cifra che oscilla tra il 2o e il 4o% di tutti i nati in quegli anni), un fenomeno che stravolse la consueta attività delle balie disseminate in tutti i quartieri della città. Le loro prestazioni erano già abbastanza ben remunerate, oggetto di continua richiesta da parte di donne appartenen-

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ti a famiglie di facoltosi mercanti o di uomini delle professioni : questo significa che c'erano altrettante madri fiorentine, più indigenti, che, ap­ pena partorito, decidevano di spedire i propri neonati da " balie a basso costo", per aver la possibilità di prendere con sé il figlio di un'altra e più ricca signora, garantendosi così una paga maggiore. Tra le balie a buon mercato c'erano quelle che vivevano lontano, nelle campagne, donne che allattavano due o tre bambini alla volta, insieme a donne che avevano par­ torito da così tanto tempo che il loro latte stava ormai iniziando a scar­ seggiare. Erano proprio queste le donne di cui l'Ospedale degli Innocenti andava in cerca per riuscire a sfamare i suoi trovatelli e, quando i tempi assai magri permettevano a queste balie di incassare qualcosa di più, l' isti­ tuto si vedeva costretto a ricorrere fino ai gradini più bassi di questa scala di lavoratrici, arruolando donne malate, prostitute o addirittura altre con evidenti sintomi di un contagio34• Le bambine della Pietà erano nate appunto durante uno di quei periodi di grande disperazione e, data l'enorme richiesta di balie, alcune sarebbero potute finire in mano a donne sifìlitiche. È davvero possibile che una fami­ glia decidesse di lasciare il suo bambino alle cure di una balia affetta da mal francese ? Ambroise Paré pensava che sì, era possibile: Una donna di Parigi, ricca e di grande virtù [honneste] , chiese al marito di permet­ terle d'allattare personalmente il loro bambino; cosa che egli le concesse, purché tenesse con sé anche una nutrice che alleggerisse il carico del suo lavoro. Ora quel­ la nutrice aveva la sifilide, e la passò al bimbo, che la passò alla madre, che la passò al marito e questi a due altri figli piccoli con cui era solito mangiare e bere e che spesso dormivano con lui, ignari del fatto che anche lui era stato ormai contami­ nato da quella malattia. Quando la madre si rese conco che il neonato che stava allattando non cresceva, ma piangeva ininterrottamente, mi mandò a chiamare per sapere l'origine di questo male. Cosa che non fu difficile da capire, dal mo­ mento che tutto il corpo del bambino era ricoperto di croste e pustole [boutons et pustoles] e che i capezzoli della balia erano tutti divorati dalle ulcere; così anche quelli della madre, che sul corpo presentava parecchie croste, e il padre, e i loro due piccoli bambini, uno di 3, l'altro di 4 anni, anch'essi tutti cosparsi di pustole, originate dal contatto con la nutrice infetta. Li presi sotto le mie cure, e tutti riu­ scirono a salvarsi tranne il neonato, che morì. La balia venne frustata in prigione e lo sarebbe stata anche per le strade della città, se non fosse stato per il timore di nuocere alla reputazione della famiglia31•

Forse oggi qualcuno dubiterebbe della virtuosità attribuita a quel papà francese. Ma non è questo il punto. Quando autori come Paré o Clowes

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scrivono opere in cui indicano il seno delle nutrici infette come il più co� mune veicolo di trasmissione della si@ide infantile, intendono rivolgere i loro moniti a un destinatario preciso, un lettore di buona famiglia, colto, e per questo traggono i loro vivaci esempi tanto dalla compagine sociale di questi lettori, quanto da quella della classi lavoratrici. Se noi prendia� mo per buone le loro opinioni e i loro consigli, ne deriva necessariamente che ci fu almeno qualche padre o madre di famiglia che prese alle proprie dipendenze una balia malata di sifilide, non avendo fatto un'adeguata veri� fica delle sue condizioni di salute. La maggior parte dei neonati contagiati dalle loro nutri ci sarebbe morta durante l'infanzia, proprio come il bimbo parigino. Pertanto, è improbabi � le che molte delle ragazze che morirono da adolescenti alla Pietà soffrisse� ro per una si@ide contratta ai tempi in cui erano bimbe che succhiavano al petto della madre o della balia. Stando a Paré, i loro dottori potrebbero benissimo aver pensato che il contagio, per una ragazza più grande, fosse avvenuto per via indiretta, per mezzo di alcuni contatti "non sessuali" si� mili a quelli che ebbe il più grandicello dei bambini di Parigi, aggiunto da innocente al numero dei contaminati da quel morbo che, attraverso i seni di una nutrice, si era insinuato nella casa di una rispettabile famiglia, tra� volgendone le vite. D'altra parte noi potremmo desiderare di sapere qual� cosa in più su quella casa e su quell'esemplare cittadino, per poter davvero capire in che modo un'adolescente di allora potesse contrarre la sifilide. Tutte le ragazzine come Margherita, Maria e Maddalena potevano es� sere contagiate in seguito a rapporti sessuali. Abbiamo già avuto modo di constatare come le adolescenti del Rinascimento, soprattutto quelle pro� venienti da famiglie povere e socialmente emarginate, avessero più acca� sioni per esercitare un'intensa attività sessuale di quante noi oggi potrem� mo pensare e di quante loro stesse desiderassero. Le giovani domestiche erano notoriamente oggetto di molestie sessuali, specialmente quando alle spalle avevano nuclei famigliari divisi o completamente disgregati. Alcune furono vittime terrorizzate dei loro aguzzini, altre si dimostrarono com� pagne compiacenti del loro padrone, in cerca di piaceri o magari di un marito. Altre ancora, figlie di prostitute, potevano già aver fatto il loro in� gresso nel mondo del sesso a pagamento, dal momento che la loro giovane età costituiva una preziosa merce di scambio e che la loro verginità era una posta molto ambita e, pertanto, assai redditizia. Infine, c 'erano ragazze per cui la violenza era un'esperienza domestica, perpetrata da padri o zii, fra� telli o cognati.

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Qualche bambina veniva violentata ancor prima di entrare nella pubertà. C 'era qualcosa, oltre al puro desiderio di dominio o a un irrefrenabile istinto pederasti co, che poteva indurre un uomo a mettersi in cerca di una bambina di soli 6 anni per soddisfare i suoi bisogni sessuali ? Occorre spingersi molto più avanti e nello stesso tempo tornare indietro se vogliamo trovare qualche indizio. C 'è qualche autore dd Rinascimento che accenna a una particolare "curà' cui si ricorreva in presenza di malattie veneree, una pratica rimasta nascosta per secoli sotto la superficie degli eventi e poi riemersa prepoten­ temente all'attenzione generale sulla scia della scoperta di una nuova epide­ mia, quella dell'A IDS. Era la cosiddetta "cura delle vergini". C 'erano uomini affetti da malattie veneree che ritenevano che, avendo rapporti sessuali con una vergine, sarebbero guariti. Ancora pura e incontaminata, la bambina di 7-8 anni avrebbe assorbito qualsiasi umore tossico avesse contagiato l'uomo, ridonandogli candore e salute. Questa convinzione aveva nel tempo portato a un'altra grave "epidemià' ddl'età moderna, quella ddlo stupro infantile, diffusa in tutte le aree in via di sviluppo e innescata talvolta dagli uomini del posto, talvolta da quei ricchi turisti dd sesso che disponevano dei mezzi ne­ cessari a testare l'efficacia di una "curà' anche lontano da casa. Ma gli uomini del Rinascimento credevano davvero nel potere della "cura ddle vergini"? E se sl, quali comportamenti ne scaturivano ?36 Forse siamo davanti all'ipotesi più difficile da dimostrare perché, ancor più che in altre occasioni, ci mancano le prove dirette di una simile realtà. Certamente, non se ne trova alcun cenno nei testi di medicina di da Vigo, Paré, Clowes, Rositinio e altri loro contemporanei. Non c'è commedia che la metta in scena, né canzoni che la portino per via, tra la gente. Eppure qualche indizio c'è e sembra portare al fatto che almeno qualcuno fu di­ sposto a credere che ciò che una donna gli aveva portato, un'altra potesse portarselo via. L'umanista Giulio Cesare Scaligero (1484-1553) scrisse che in Mrica coloro che erano stati contagiati dal mal francese ottenevano la guarigione giacendo con una donna della Numidia o una nera Etiope, sen­ za bisogno di altre cure37• Passarono pochi decenni e il medico padovano Ercole di Sassonia citò lo Scaligero nel suo Luis venereae perfectissimus tractatus (159 7) per dare conferma a quanto aveva sentito raccontare su certi italiani che per curare le loro malattie veneree ricorrevano a rapporti sessuali con donne nere: Ma bisogna anche ricordare ciò che appresi in merito da certi dotti in Venezia: sostenevano di essere guariti immediatamente dalla gonorrea dopo aver dormito

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con una donna Etiope. Si tratta di una pratica vera che sembra essere confermata dallo Scaligero [ ... ] che scrive che gli africani si curano dalle malattie veneree (lues venerea) giacendo con donne della Numidia o dell'Etiopia. E di questo anch' io sono a conoscenza, anche se rammento alcune relazioni in cui si legge che, invece, molte più uomini furono guariti dalla tradizionale forma di gonorrea (gonorrhaea antiqua) dopo essersi uniti a una sposa vergine; ma allora fu la donna a essere co ntaminatal8•

Questi estremi viaggiatori veneziani avrebbero potuto attraversare i mari in cerca in cerca del proprio benessere (un po' come adesso fanno gli uo� mini che animano il fenomeno del turismo sessuale) , sebbene anche nella loro città esistesse una significativa comunità nera, sia pure più maschile che femminile. Questa tendenza della popolazione maschile europea a interpretare in base a suggestioni esotiche ed erotiche le donne africane si manifestò quasi fin dai tempi in cui queste cominciarono a divenire numericamente più consistenti in Europa, nel xv secolo. Dal secolo sue� cessivo, poi, gli stereotipi sul vigore sessuale dei neri africani e sulla loro condotta di vita promiscua iniziarono a fondersi con un crescente pre� giudizio negativo nei loro confronti, fino a gettare i presupposti per una società in cui alle donne nere era assai difficile trovare un'occupazione diversa dal servizio domestico o dalla prostituzione. Avidi protettori e tenutari di bordelli, ben consapevoli dell'esistenza di simili stereotipi e pregiudizi, potrebbero essere stati tra i primi responsabili della diffusione di tali leggende erotiche, al fine di accrescere il richiamo esercitato dalle prostitute nere. In questo modo si contribuì a offuscare ogni distinzione tra sifilide e gonorrea39• Mentre lo Scaligero ed Ercole di Sassonia fanno riferimento all' appar� tenenza razziale delle donne piuttosto che alla loro verginità, altri autori spostano la riflessione su un piano più generale, cercando di capire come intrattenere rapporti sessuali con particolari tipi di donna potesse trasfor� marsi in un'attività terapeutica. li medico milanese Giovanni Battista Si� toni dedicò un capitolo del suo trattato sui fenomeni più bizzarri riscon� trati dalla scienza medica proprio a questa questione, se, cioè, un uomo affetto da mal francese potesse essere curato con la "somministrazione" di un incontro carnale con una vergine. L'idea suscita la sua ilarità e lo spinge a rigettare del tutto Ercole di Sassonia che aveva contribuito a traman� darla. Eppure, benché Si toni possa facilmente appoggiarsi a Galeno e alla sua personale esperienza di medico per dimostrare la falsità di una simile

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teoria, alla fine deve pur ammettere che per le masse del volgo era del tutto normale credere nell'efficacia terapeutica della verginità in caso di uomini gravemente compromessi dalla sifilide40• A dire il vero, non si trattava semplicemente di una credenza diffusa tra il volgo. Anche prima che lo Scaligero scrivesse a proposito della "cura etiope" del mal francese, l'umanista spagnolo Juan Vives aveva raccontato di come il suo quarantaseienne suocero Bernard Valdaura, per sconfiggere quella malattia, avesse preso in sposa una giovane vergine. Le sue condizio­ ni di salute furono la sorpresa che Bernard tenne in serbo per la sua sposa, durante la prima notte di nozze. Ma la malattia si aggravò rapidamente. I medici erano convinti che quest'uomo fetido e con il corpo completa­ mente crivellato dalle piaghe fosse ormai prossimo alla morte, eppure la giovane moglie respinse i loro consigli ad andarsene. Clara Cervent non solo fece da infermiera e difese il marito durante lunghi anni di malattia, ma da lui ebbe otto bambini. Tutti sani. E, almeno stando a quanto scrive Vives, in ben venti anni di matrimonio, né Clara né i suoi figli contrassero mai la sifilide, «corporibus omnium sanissimis atque mundissimis ». Per Vives, Clara è un mirabile esempio di moglie fedele, disposta a sa­ crificare salute e ricchezza per il bene del suo sofferente marito. Ma lei che cosa aveva rappresentato per il marito durante le lontane fasi del corteg­ giamento ? Almeno un altro umanista citerà anni dopo questo aneddoto come un caso di "terapia delle vergini", sebbene, almeno dopo la prima notte di nozze, non ci fosse più alcuna vergine, né alcuna guarigione4'. In­ dipendentemente dalle motivazioni che spinsero Vives a narrare questa storia e dalle modalità con cui lo fece, siamo proprio davanti a quel gene­ re di narrativa che alimentò credenze di cui già dovunque si mormorava e che avrebbero potuto accendere le speranze di Bernard quando per la prima volta incontrò Clara, ancora illibata. La storia di Vives avrebbe po­ tuto convincere altri uomini disperati a tentare la stessa "curà: magari con diverse "medicine", una domestica o una nipote rimasta orfana. Potrebbe anche essere che umanisti del Rinascimento come Juan Vives, Ercole di Sassonia, Giulio Cesare Scaligero o Giovanbattista Sitoni avessero scritto di uomini "guariti dalle vergini" o da donne nere soltanto per puntare il dito contro una diffusa superstizione. Mai loro lettori avrebbero colto una simile ironia? Già ci siamo imbattuti in un caso analogo quando parlava­ mo di contraccettivi e pratiche abortive. All'interno dei loro compendi di medicina, autori medievali come Costantino l'Africano o come Arnaldo di Villanova descrissero i sistemi di controllo della natalità allora in uso

GIOVANI VERGINI E MALATTIE VENEREE probabilmente con l'intento di condannarli, eppure furono le loro stesse pubbliche censure a garantire lunga vita e grande diffusione a quelle pra­ tiche che pur si volevano sradicare. Nel Rinascimento le descrizioni della "cura delle vergini" trovarono nella stampa un canale di diffusione ancora più rapido e in grado di raggiungere un pubblico di lettori assai più va­ sto cui veicolare almeno una delle principali sintesi del sapere medico del tempo. n tono di condanna era ovvio, come ovvia era la sua inutilità, dal momento che le conoscenze degli addetti erano state finalmente svelate4... La fiducia nella "cura delle vergini" fu dura a morire, sebbene resti dif­ ficile seguirne il percorso attraverso le sole appassionate confutazioni che i medici fornirono di questa credenza tanto diffusa, quanto rovinosa. In modo del tutto prevedibile, molti di questi dottori sostennero che tali idee trovassero un più largo favore tra quei gruppi sociali già oggetto di scandalo e pubblico disprezzo. Con il tempo questo assunto divenne parte integrante del paradigma del degrado. Nel 1 9 06 Havelock Ellis descrisse la "cura delle vergini" come un convincimento ancora alla base del com­ portamento di molti uomini, aggiungendo che si trattava di una credenza spesso diffusa anche tra gli italiani, i cinesi, le popolazioni nere ecc. Ellis prosegue il suo ragionamento citando la dottoressa Flora Pollack, del di­ partimento di Farmacia dell'Ospedale Johns Hopkins, la quale affermava che ogni anno, nella sola città di Baltimora, 8 oo-z.ooo bambini, con età da uno a 15 anni, contraevano malattie veneree. n numero più consistente degli infetti si registrava, secondo quanto scrive Pollack, intorno ai 6 anni, e la causa pri ncipale di tale fenomeno andava ricercata non nella ricerca di piacere, ma nella superstizione ( «not lust, but superstition» )43. Nello stesso periodo, medici e pubblici ministeri scozzesi rilevavano come mol­ ti uomini confidassero nella "cura delle vergini" indipendentemente dalla loro estrazione sociale o formazione culturale (sebbene qualcuno conti­ nuasse a sostenere che una simile credenza fosse più radicata all'interno dei ceti più umili) , addossando a questo convincimento la responsabilità dell' incremento dei casi di stupro ai danni di giovani ragazze. Erano le bambine rimaste orfane a costituire gli obiettivi più indifesi di tale violen­ za, perpetrata, un caso su quattro, da membri della stessa famiglia d' origi­ ne. Una volta stuprata e, quindi, esposta al contagio, la ragazza diveniva al tempo stesso vittima e minaccia e, per questo, di solito spedita in qualche istituto (un orfanotrofio, un conservatorio, una "Casa delle Maddalene" o un ospedale per malati di sifilide), per impedirle di contaminare altre persone44•

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Ma possiamo in qualche modo andare oltre a quanto i medici racconta­ no in merito a una strana credenza popolare raccolta durante le loro visite ai pazienti ? Kevin Siena, esperto conoscitore del fenomeno della sifilide nell' Inghilterra del XVIII secolo, ha esaminato i casi di stupro a danno di minori avvalendosi del casellario giudiziale della Old Bailey di Londra. Siena ha isolato i casi in cui la donna vittima dello stupro aveva poi con­ tratto una malattia venerea; ha così scoperto che su 46 processi intentati nella città di Londra durante gli 1714-59, quasi 1 ' 85% riguardava ragazze d'età inferiore ai 16 anni (più precisamente, 3 9 ragazze, cioè !' 84,7%). In media le bambine al momento della loro aggressione avevano 8-9 anni. Di fatto, in più del 54% dei casi che coinvolgono bambine si riscontra la comparsa di un'infezione venerea. A questo punto Siena ha cercato di spingersi oltre, per capire se queste minori fossero mai state sottoposte a un trattamento contro le affezioni di origine sessuale. Trovò che dal 1758 al 1760 l'orfanotrofio di Londra curò nella propria infermeria 28 bambini affetti da simili patologie: 24 morirono. Un ulteriore gruppo di 6o bimbi, i cui sintomi ricordano da vicino quelli di un'infezione venerea, fu sotto­ posto a terapie mediche all'interno dello stesso istituto, ma anche qui con scarsissimi risultati (44 decessi, ossia il 73,3% dei soggetti curati). Quattor­ dici bambini presentavano sintomi sufficientemente gravi, oppure erano sufficientemente grandi, per essere spediti al London Lock Hospital, l'e­ quivalente della fiorentina Santissima Trinità degli Incurabili. Nessuno si salvò. Si trattava in larga parte di bambine45• In precedenza, Siena si era imbattuto in omelie e opuscoli del tempo in cui si stigmatizzava il comportamento di quegli uomini che andavano in cerca di una vergine come "rimedio terapeutico" del loro male, eppure non li aveva tenuti in grande considerazione. Pensava che i predicatori, autori di tali condanne, stessero volutamente tentando di creare un esagerato al­ larme sociale nel tentativo di alimentare paure nei fedeli e di convincerli ad allentare i cordoni della borsa per sostenere ospedali e orfanotrofi. Solo successivamente si convinse che i sacerdoti stessero semplicemente foto­ grafando la realtà dei fatti, cercando di porvi rimedio. È possibile che l'operato delle donne della Pietà fosse animato, tra le altre cose, dal desiderio di scongiurare il pericolo degli stupri commes­ si da uomini a caccia di ragazzine in età prepuberale indispensabili alla loro terapia "delle vergini"? Le carte processuali e quelle inerenti l'attivi­ tà degli ospedali della Firenze del XVI secolo restituiscono informazioni di gran lunga inferiori a quelle fornite dalle analoghe istituzioni attive a

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Londra due secoli più tardi. Senza dubbio certificano l'esistenza a Firen­ ze del fenomeno della violenza sessuale a danno di minori, sia all'interno che all'esterno delle mura domestiche. A parte questo, non ci offrono ele­ menti sufficienti per ricostruire i contorni del problema, figuriamoci poi se possono consentire un'analisi statistica accurata come quella basata sui documenti della Londra del XVIII secolo. No n siamo in possesso di alcuna testimonianza diretta che in modo inoppugnabile possa suffragare l'idea che le ragazze della Pietà fossero ammalate di sifilide, men che meno che questa malattia fosse l'esito di uno stupro avvenuto in età prepuberale per mano di uomini desiderosi di sperimentare l'efficacia della "cura delle ver­ gini''. Ancora una volta i documenti ci lasciano così: un'ipotesi suggestiva e inquietante all'orizzonte, nessun elemento certo che la confermi, ma nem­ meno che la smentisca del tutto. È improbabile che le donne della Pietà abbiano agito spinte dalla deli­ berata intenzione di avviare qualcosa di simile a una clinica specializzata in aborti o trattamenti terapeutici contro la sifilide. Eppure è verosimile che volessero aprire una casa per accogliere adolescenti che le politiche matrimoniali della Firenze del tempo finivano per rendere molto più vul­ nerabili di altri soggetti sociali. Le telegrafiche annotazioni inserite nel registro d'ingresso alla Casa, il Libro Segreto, non permettono di definire la situazione con esattezza. Come interpretare questo silenzio ? Alcune di queste ragazze erano state abbandonate da padri rimasti vedovi, incapaci o indesiderosi di prendersi cura di loro a seguito della morte della moglie. Altre potevano essere ragazzine che avevano subito abusi sessuali mentre erano impiegate come domestiche nelle case, ragazze con il "ventre blocca­ to" o ammalate di sifilide, lascito di genitori anch'essi malati o di rapporti sessuali con persone infette. Le straordinarie signore della Compagnia della Pietà conoscevano da vicino le pratiche sessuali della loro città. Sapevano quanto dura fosse la realtà che in genere attendeva le giovani donne, soprattutto quando era­ no abbandonate dalle loro famiglie d'origine. Questo era il panorama che avevano di fronte, e questo era quanto volevano modificare, miglioran­ dolo. Considerati i tempi, si trattava di un'opera che quasi certamente avrebbe interessato ragazze vittime di stupro, giovani affette da sifilide, fanciulle incinte o gravemente ammalate. Venivano accolte in tutta fretta e con stretto riserbo adolescenti e bambine che presentavano i sintomi di patologie sconosciute, dolori articolari, diminuzione delle capacità visive, tremori, convulsioni e paralisi. Non possiamo presumere che le donne del-

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la Pietà fossero in grado di riconoscere il problema nella sua complessità o che avessero quanto occorreva per porvi rimedio. La Casa della Pietà non era un ospedale per sifìlitici. Se accolse pazienti affette da malattie vene­ ree o altre gravi patologie, lo fece più per assisterli che per curarli. Eppure lo slancio caritativo e la ferma determinazione di queste donne fecero in modo che la loro Casa assolvesse in qualche maniera anche quella funzio­ ne, per almeno quindici anni, nella Firenze di metà Cinquecento.

Conclusioni Le verità degli archivi Il sesso e la ragion di stato : Giulia e il principe ereditario Vincenzo Gonzaga

A di 13 marzo si dichiarò il Parentado fra il Duca di Mantova e la Principessa Eleo­ nora figlia del Gran Duca Francesco, e perche dubitavano che questo Principe non fosse abile alla generatione presero per mal consiglio far alla lotta con Dio ; era in Firenze un luogo di fanciulle chiamato della Pietà; ne cavorno una delle più belle che vi fosse e con false lusinghe la mandorno a Mantova, per far prova con detto Principe, e saputosi ciò da quella Povera Fanciulla ne fece gran pianti, non di meno trovatasi gravida fu rimandata a Firenze per far fede d'una indecente sperienza; dopoche ebbe partorito la diedero per moglie a un Giuliano Muscio romano con dote di 3.000 scudi'. Vita di Mariotta da Fiorenza L'anno rsso fù posta ad educazione in questo Conservatorio Mariotta figlia di Giovanni Francesco da Fiorenza. Era allora bambina di soli 6 anni quando vi en­ trò, e fù il dì 17 luglio dell'anno predetto. Mostrò sempre segni di special virtù, di lei solo si trova che il Signore la volle esercitare nella patienza per mezzo di due croci degne di non poca considerazione. La prima fù una lunghissima infermità di quarant'anni continui, alla quale s'aggiunse il divenire cieca acciò potesse più facilmente contemplare le cose del Cielo. [ ] passò a godere il frutto dei suoi parimenti in età d'anni quasi 90, il giorno 13 d'agosto r633 [ ... ]. Altro di lei non si è potuto trovare, se non queste brevi, ma considerabili notizie. ...

Vincenzo Gonzaga aveva appena 2.0 anni quando il caso esplose, come una tempesta. L' intricata trama dell'alleanza matrimoniale tra questo primogenito ed erede del duca di Mantova e Margherita Farnese, ordita con tanta cura, cominciò a disfarsi appena pochi giorni dopo le nozze. I parenti di lui malignavano su una presunta inabilità fisica di lei ad avere rapporti sessuali; dall'altro lato, rispondevano con una raffica eguale e contraria di insinuazioni in base alle quali l'impotente era lui, e sodomi­ ta e adultero. I pettegolezzi crebbero d'intensità quando il caso arrivò a Roma, per l 'annullamento. Si scatenò allora una furiosa contesa tra due delle famiglie ai vertici della gerarchia cattolica, dal momento che il car-

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dinale Gonzaga combatteva con tenacia a favore, e il cardinale Farnese tenacemente contro, la concessione dell'annullamento che avrebbe per­ messo a Vincenzo Gonzaga di sposarsi nuovamente3• I fautori dei Gon­ zaga si vantavano del fatto che il giovane Vincenzo avesse fatto strage di intere compagnie di prostitute e amanti durante la sua adolescenza e che semplicemente era troppo maschio per la povera Margherita. I Farnese, invece, restringevano il campo delle loro recriminazioni a un solo punto focale: il ragazzo non era in grado di mantenere un'erezione. La decisione di papa Gregorio XIII di concedere l'annullamento, nel 1583, significò il convento, per Margherita, e il ritorno sulla piazza del mercato matrimo­ niale, per Vincenzo. È a questo punto che entrano in scena i Medici. In realtà, l'interes­ samento dei principi toscani risaliva a qualche anno prima; fin dal zs8o, infatti, avevano cercato di far convergere le attenzioni del rampollo Gon­ zaga sulla loro figlia maggiore, la sedicenne Eleonora. Al tempo, la fami­ glia regnante di Mantova si era esibita in un lungo braccio di ferro, con l'intenzione di rimediare una lauta contropartita: una dote di un milione di ducati e il consenso giuridico a cedere di qui in avanti ai Gonzaga tutti i diritti di precedenza nelle corti e nei consessi diplomatici, diritti finora reclamati dai Medici. Questi temporeggiarono, e cosl, un anno dopo, Vin­ cenzo sposò Margherita Farnese. Che Vincenzo uscisse vincitore da quella prima partita contro i Farnese era del tutto prevedi bile : nei giochi dell'alta politica era di gran lunga più importante permettere a un principe ereditario di sposarsi, e così portare avanti una dinastia, che preservare l'onore di una giovane ragazza. Ma con tutta evidenza si trattò di un trionfo di breve durata, perché costrinse i Gonzaga a ripresentarsi a una famiglia Medici che adesso era ben deter­ minata a porre condizioni più gravose nella trattativa, fosse pure soltanto per i ncassare una piccola vendetta in cambio delle umiliazioni subite in passato. La questione dei diritti di precedenza non fu mai più sollevata e il granduca toscano ora offriva una dote molto inferiore a quella ipotiz­ zata all'inizio, consapevole del fatto che difficilmente Vincenzo avrebbe potuto rifiutarla. Ma ciò che più umiliò i Gonzaga (e più sconvolse gli ambienti di corte italiani) fu la richiesta formulata dai Medici a Vincenzo : egli avrebbe dovuto dar prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua capacità di deflorare una vergine. Inutile sprecare una figlia di perfetta qualità per un sodalizio matrimoniale inadatto a produrre eredi e perpe­ tuare dinastie. Le missive corsero avanti e indietro tra i diversi protagonisti

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della vicenda per quasi un anno, il tempo necessario all'elaborazione di tutti i dettagli del test di virilità, della dote e dei festeggiamenti4• Vincenzo era in possesso della testimonianza di alcuni dottori che avevano misurato ed esaminato il suo pene, ma i sempre pragmatici Medici pretendevano la prova inoppugnabile: tre "cimenti" da superare con una vergine fiorenti­ na, alla presenza di un agente toscano, il gentiluomo volterrano Belisario Vinta. Consapevoli della loro posizione di forza e sempre a caccia di un buon affare, i Medici oltrepassarono il perimetro dell'ambiente di corte e, per trovare la vergine oggetto di questo peculiare esperimento, spedirono Vinta per tutti gli istituti fiorentini a caccia di una ragazza illibata, che costasse poco e potesse essere messa da parte facilmente dopo l'esame in questione. L'agente toscano cercò a lungo, senza trovare «cosa buona», ma sole giovani «sgratiate, rognose [ . .. ] da far nausea» ; solo nella Casa delle Abbandonate, dove prima stavano le monache del Ceppo, ne trova­ rono due "confacenti allo scopo", anche se un po' più "vecchie" ( 21 anni) di quanto il duca avesse desiderato. Ne scelse una, avvertendo che ci sarebbe­ ro voluti due giorni «per ripulirla et riordinarla ». Condusse la giovane a casa sua nel pomeriggio del 22 febbraio e più tardi, quella sera stessa, scrisse al granduca descrivendo lei e le difficili prove affrontate'. Il nome è Giulia, è in 2.1 anno, è grande, ha cera nobile, né magra, né grassa; ha viso da piacere, al mio giudicio, et fuori m'è riuscita più bella che non parea nello speciale, ma allevata bene, però modesta e vergognosa, pure par desta, di conosci­ mento e di spirito, et di speranza che l'ha s'habbia a lasciare ammaestrare. Il più difficile è il lasciarsi visitare la persona, et fra l'havere a guardare la segretezza al più che si possa, et l'havere a imbarbarescare pulledre, che non hanno a pena visto huomini, mi bisognerebbe essere industrioso nelli stratagemmi.

Egli proseguiva delineando parte di quelli "stratagemmi", con argomenta­ zioni che mostrano quanto i facoltosi Medici non perdessero mai di vista le questioni di fondo: È vestita di nero, et non ha che un velo in capo. Prima di ogni altro bene, et per il meno, mi è forza vestirla hora di perpignano di colore, et fargli maniche, gabur­ rino, colletto et qualche altra bazzecoletta per mostrarla più a ordine che si può al mantovano, et perché se ne serva per viaggio in caso che la sodisfaccia. Non piacendo si potrà donargliene per l'amor di Dio, perché anco quando si havesse a rimandare, che non lo credo, meriterà che la somma carità di Vostra Altezza ne tenga protettione: se la piacerà, converrà poi vestirla di qualche drappo bianco, et farle qualche ghirlandetta et acconciatura di testa, ma tutto con ogni maggior

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risparmio che si possa, et senza eccedere il decoro. Et sopra tutti questi capi, per avanzar tempo, et perché la pruova non venga appunto nella settimana santa, sup­ plico Vostra Altezza a rispondermi tutto il suo volere.

granduca inviò un cenno di approvazione e Vinta si affrettò a preparare Giulia in vista della visita dell'ambasciatore di Mantova, Marcello Donati, incaricato di verificare che la giovane disponesse delle «qualità convenien­ ti » all' impresa6• Alcune fonti più tarde sostengono che la ragazza fosse una figlia illegit­ tima della nobile famiglia degli Albizzi, ma in nessuno dei carteggi con­ temporanei agli eventi si fa riferimento a queste origini. Essi alludono a Giulia utilizzando solo il nome di battesimo o, più spesso, la locuzione «il soggetto» o «la giovane» . Da nessun passaggio delle lettere possia­ mo evincere quanto Giulia sapesse della "missione" per cui era stata scelta. Funzionari di corte e agenti non precisano se si trattasse di una partecipa­ zione volontaria all'impresa o piuttosto, come affermò il cronista fioren­ tino, di una "collaborazione" inconsapevole e che solo più avanti Giulia apprese il suo ruolo centrale nell'esame della potenza virile del principe, come una sgradita sorpresa7• La comitiva al completo si riunì per la prova, in segreto, a Venezia, nel marzo 1584. Vincenzo volle vedere subito la ragazza. Ne rimase colpito, «mostrando gran risentimento di volontà per assaltarla allhora», come ebbe modo di scrivere più tardi l'agente al granduca Francesco 1 ; ma i toscani temevano che egli fosse ancora troppo affaticato dal recente viaggio. La not­ te successiva Vincenzo ritornò «et fece forza, ma gentilmente, di haverla» . Purtroppo era venerdì, giorno di penitenza i n cui nessun cattolico degno di questo nome avrebbe fatto sesso8• L'agente di nuovo respinse Vincenzo. Finalmente, durante la sera prestabilita, Vincenzo si presentò negli al­ loggi dell'ambasciatore toscano e si denudò completamente per dimostra­ re che non portava con sé alcun strumento "aggiuntivo". Ed ecco il primo test, un fallimento umiliante. Sebbene Giulia fosse stata «preparata, lavata et ripulita in ogni parte di maniera da farne venir voglia ad un huomo di stucco» , il principe sprofondò nel sonno dopo qualche annoiato prelimi­ nare, per poi precipitarsi fuori dalla stanza al grido di «Cavaliere, oimè, sto male» 9• Vinta, che alloggiava nella stanza a fianco, chiese alla ragazza che cosa fosse accaduto e la guardadonna, figura chiave, dama di compa­ gnia e guida che Vinta non si prende mai la briga di nominare nelle sue lettere, rapidamente controllò: Giulia era ancora vergine0• li

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Vinta era il ritratto dell'efficienza. Pochi giorni dopo, la mattina del giorno stabilito per la ripetizione del test, convocò un cerusico, Pietro Galletto, affinché venisse in camera del principe e ne esaminasse i genita­ li. Quando sopraggiunse, il dottor Galletto trovò il principe con indosso soltanto una camicia con una lunga veste sopra. Vinta spiegò a Galletto perché lo aveva ricercato e il dottore impose al principe di tirarsi da lato ca­ micia e tunica affinché si potesse procedere all'esame clinico in questione. La visita completa condotta da Galletto lo persuase che le dicerie sul conco dei testicoli subnormali del principe fossero del tutto prive di fondamen­ to. Eppure, come scrisse in una lettera al granduca il mattino successivo, «perché l'animale non era ritto, non mi ci pareva d' haver drento il pieno della mia soddisfattione >> 11• Quella sera, dopo il calare della notte, Vincenzo si ripresentò per la sua seconda occasione. Il cavalier Vinta teneva Giulia sotto stretta sorve­ glianza in una stanza interna, senza finestre, e non permetteva a nessu­ no che non fosse la guardadonna di starle accanto. Egli, dunque, prima di accordare a Vincenzo il permesso di unirsi a Giulia, si assicurò che il principe ereditario non avesse con sé altro che le sue "naturali dotazioni", poi, ancora una volta, si dispose in attesa nella stanza accanto. «Cavaliere, cavaliere, venga qua, tocchi e senta con le sue mani » , chiamò a un certo punto Giulia con voce sommessa. Egli si precipitò nella camera e, «con un po' di vergogna e deferenza» , balzò sul letto. Mentre Giulia piangeva, Vincenzo si appoggiò sul gomito per permettere a Vinta di tastare intorno con le proprie mani e verificare che tutto fosse come e dove avrebbe dovu­ to. La mattina successiva Vincenzo Gonzaga riconvocò il cerusico Pietro Galletto per fugare definitivamente ogni dubbio attraverso un secondo esame fisico completo, da effettuarsi mentre Giulia giaceva accanto a lui, sul letto. Galletto concluse che il pene, ora eretto, era « assai grande» e constatò che non aveva recato danni alla fanciulla. Volendo evidentemen­ te mettere a tacere ogni malignità sul suo conto, Vincenzo chiese persino al dottore di controllare la fistola che aveva alla base del pene e che qualche medico aveva ipotizzato fosse all'origine della sua incapacità di inserire il membro completamente e, quindi, di procreare. Galletto acconsentl e, in una lettera al granduca Francesco I, riferì che la fistola effettivamente c'era, «larga quanto una veccia » , ma che «con li instrumenti del coito non ha a far nulla, et in ogni altra parte mi pare un bel Principe, et che non habbia fatto punto carestia di sé» '". Belisario Vinta non era convinto. La stessa mattina, mentre un esube-

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rante, entusiasta, tracotante Vincenzo si vestiva scambiando battute scher­ zose con il suo servitore, Vinta prese Giulia in disparte insieme allaguar­ dadonna e rivolse loro alcune domande. n giorno dopo aveva già trascritto l'intero colloquio, riservando alla fine la notizia esplosiva; poi spedì tutto a Firenze13: Interrogata se il Principe haveva instrumento di ferro o di vetro, o d'altro, con il quale l'havesse aperta innanzi che usasse seco, rispose di no. [ ... ] Se le havesse fatta larghezza et apertura violenta con le dita, rispose di no, ma che solo le haveva messo il membro di carne. Se le havesse offerto o dato gioie, denari o altro, perché o tacesse, o parlasse alcune cose a modo di lui, rispose che non le haveva dato né offerto nulla, né parlatole di tal cosa. Quante volte gliene havesse fatto, disse di ricordarsi della terza al sicuro, ma che le parevano quattro. Il Principe dice che alla quarta sul giorno la non volse star ferma. Se la prima volta la pianse, disse di no, et il Principe dice che compì sì presto che non ve lo introdusse dentro, et che però non pianse, ma che alla seconda ve lo messe bene, et ella piangeva, et che allhora chiamò il cav. Vinta. Domandata se il cav. Vinta fu chiamato alla prima o alla seconda volta, disse alla seconda. Se sentì quando il cav. Vinta messe la sua mano tra il suo pettignone et quello del Principe, disse di sì. Se allora ella ve l'haveva drento, disse di sì. Se la piangeva per vergogna o perché le facesse male, disse perché mi faceva male. Se le faceva male di drento o perché fusse impuntato per di fuore, disse di drento. Se egli era duro et sodo, disse di sì et che le faceva male. Se mentre che il Principe glie ne spingeva, se se lo teneva appuntellato con le dita, disse nello addrizzarlo et metterlo, ma poi no, perché mi abbracciava con tutte e due le braccia. Se haveva sentito il Principe soffiare, disse due volte. Se tutte le volte che egli glie ne messe, ella lo sentì duro, disse di sì. Se il Principe ve l'haveva tanto drento che non potesse versar di fuore, disse di sl. Se ella havesse buttato seme, disse che la seconda volta che il Principe gli ne fece e, poco doppo che l'hebbe cavato, si sentì gocciolare giù per la natura, et che poi anche la terza volta ne uscì, et che ha tutta la camicia di dreto imbrattata, et che ella dubitava che fusse sangue. Se ella habbia sentito piacere nel buttare il seme, disse che alquanto le era parso di sentirne due volte.

CONCLUSIONI Se ella haveva paura che il Principe non le facesse dispiacere; se ella diceva la verità, disse di no, et che diceva la verità. Se, poiché l'era levata, haveva senito gocciolarsi seme dalla natura, disse di sì, mentre che la sedeva. [ ] Se l'havesse mai messo la mano al membro del Principe, disse di no, se bene una volta il principe gli prese la sua mano per accostarvela, ma che ella per vergo­ gna la ritirò. [ . ] Se ogni fanciulla che havesse da pigliar marito, si potesse contentar del Princi­ pe, disse di sì, per quello che se n'intendeva lei. [ ] Se in ultimo le pareva d'essere stata sverginata, disse la prima volta non mi pare che non l'habbia messo troppo drento. Domandata a quello che se ne fusse avvista, disse perché nel cavarlo lo tirava su presto. Domandata un'altra volta del parerie di essere sverginata o no, disse che non se n' intendeva, et ficcava il capo in seno. ...

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Da questo resoconto (qualcosa di simile a un incrocio tra un'opera di leg­ gera pornografia e un referto veterinario) si evince che, nonostante le len­ zuola sporche di sangue e il parere positivo dellaguardadonna sulla prova di Vincenzo, Giulia rimaneva convinta della sua verginità e questo lascia­ va qualche dubbio in merito all'efficienza del principe. La consorteria dei Mantovani, pur facendosi beffe di queste illazioni, fissò a tre sere più tar­ di la sfida decisiva. Questa volta l'esito fu meno ambiguo. Come scrisse Carlo, fratello di Vincenzo Gonzaga, «in questa prova non è rimasto uno scrupolo al mondo»14. Uno scrupolo su che cosa? Dato che la presenza di una fistola sul pene era comunemente considerata come un segno della sifilide, i Medici po­ trebbero aver guardato oltre la questione della virilità del principe e pensa­ to a Giulia come a un "illibato rimedio" per Vincenzo, prima che egli spo­ sasse e portasse a letto la loro figlia Eleonora. Questo avrebbe certamente duplicato l' importanza dell'effettivadeflorazione di Giulia e spiegherebbe l'insistenza di Vinta su questo punto. Incurante di tutto, un euforico Vin­ cenzo lasciò immediatamente Venezia e, neppure un mese dopo, già scava a Firenze per lo scambio delle promesse matrimoniali con Eleonora de' Medici, prima che la coppia partisse alla volta di Mantova per formalizzare le nozze. Un simile episodio ci aiuta a comprendere in che modo il patriziato fiorentino percepisse le ragazze come Giulia: come oggetti o porzioni di patrimonio, meritevoli di tutela e di una certa cura, ma valutate soprattut­ to in termini di utilità, convenienza e disponibilità. La loro sessualità era

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un bene da proteggere in modo da potersene servire al momento opportu­ no; termini e condizioni di questo utilizzo non spettava alla ragazza deci­ derli. Quando i Medici spedirono Giulia perché venisse di fatto stuprata dal principe erede dei Gonzaga, Vincenzo, stavano operando in base allo stesso sistema valoriale che permetteva a mercanti e tessitori di stuprare le giovani domestiche ricevute dalla Casa della Pietà, o a un uomo contagia­ to dalla sifilide di violentare la nipotina illibata per poi abbandonarla in un conservatorio come quello di Borgo Ognissanti. Appropriandosi della verginità della ragazza egli cercava un rimedio ad alcuni problemi che mol­ ti altri uomini in condizioni simili dovevano affrontare: strategie dinasti­ che, appetiti sessuali, malattie veneree. E, tuttavia, era sempre previsto un certo indennizzo. Nel caso di Giulia, una dote e un marito. In origine i Medici avevano pensato di destinarla a un convento, con­ segnando il suo bambino all' Ospedale degli Innocenti (non si sa bene quando, ma in un dato momento della missione veneziana Vincenzo era riuscito a mettere incinta Giulia). Poi si optò per il matrimonio con un musicista romano, Giuliano, che viveva a Firenze. Fu forse una sorte mi­ gliore di quella che altrimenti le sarebbe stata riservata come ragazza della Pietà, anche se in questa, come in ogni altra decisione che ebbe a che fare con questo caso, Giulia non ebbe mai voce in capitolo. E il bambino ? Lo storico della musica Tim McGee ha avanzato l'ipotesi che, dopo tutto, la coppia non abbia perso il bambino, ma lo abbia allevato come un musici­ sta. McGee suggerisce che il ragazzino in questione fosse Pompeo Caccini, figlio del musica di corte Medici, Giuliano Romano Caccini. Vincenzo Gonzaga, da parte sua, non fi n ì mai di combattere contro quella cattiva fama di amatore che si era guadagnato in gioventù. Nono­ stante i numerosi figli e le altrettante, numerose amanti, la diatriba sulla sua prestanza sessuale tornò a importunarlo più avanti. Era il 160 9 e lui aveva 47 anni: si diceva che avesse finanziato una speciale esplorazione ol­ tremare, tra le tribù aborigene americane, per scoprire se queste popolazio­ ni, dalla leggendaria potenza sessuale, possedessero medicamenti, pozioni o unguenti che consentissero anche a lui di prolungare le sue erezioni. Morì prima che la spedizione facesse ritorno•s. li caso di Giulia e del principe Vincenzo Gonzaga ci consente forse di capire meglio quanto fu inedita l'esperienza pensata e voluta dalle donne della Pietà e da chi le sostenne. In una società che teneva conto dell'utilità sociale del singolo, le adolescenti menomate, malate terminali o afflitte da minorazioni del sistema evolutivo, finivano con il diventare vittime certe

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di una visione della sessualità che definiva l'utilità sociale delle donne a partire dalla loro idoneità al matrimonio e alla procreazione. E i loro ge­ nitori lo sapevano bene. L'abbandono era sempre un gesto disperato, ma le alternative - in primis la prostituzione - non disegnavano certo destini migliori. A uccidere le ragazze della Pietà non fu necessariamente qualcosa all'interno della Casa. Furono le scelte della Casa. La Pietà registrò un elevato tasso di mortalità perché decise di accogliere giovani già moribon­ de - ragazze in cattive condizioni di salute e con poche speranze di vita. Si trattava delle stesse ragazze che le procedure di ingresso adottate dagli altri due ricoveri fiorentini simili alla Pietà (e anche da questa introdotte a partire dal 1566) relegavano sistematicamente fuori. L'indice di mortalità della Casa della Pietà cominciò a scendere quando decise di non accettare più questo genere di ospiti. Continuavano a morire, a Firenze, solamente non morivano alla Pietà. È facile idealizzare le donne della Compagnia della Pietà trasformandole in qualcosa di simile a delle madri adottive. I documenti non ci consentono di spingerei a tanto. Molto più semplice­ mente sappiamo che offrivano un tetto a ragazze indifese che nessun altra Casa avrebbe mai accettato, con l 'obiettivo di fornire loro, come voleva la consuetudine delle opere di carità, cibo, vestiario, asilo e assistenza me­ dica. Senza dimenticare la sepoltura, ultimo fra tutti gli impegni di un cristiano compassionevole. Considerata la gravità delle malattie di queste giovani, la Casa della Compagnia della Pietà in Borgo Ognissanti era più un ospedale che leniva le pene di adolescenti morenti, piuttosto che un conservatorio destinato a procurare loro un rifugio temporaneo che, nel giro di pochi anni, avrebbero lasciato per sposarsi. È significativo il fat­ to che le donne che si profusero per mantenere attivo il ricovero non lo chiamarono mai con un nome diverso da "Casà'. Non dovremmo mitizza­ re le signore della Compagnia della Pietà anche perché, dal momento in cui intervennero i grandi cambiamenti che serrarono le porte della Casa lasciando fuori tutti i malati senza speranza di guarigione, le centinaia di donne che un tempo avevano sostenuto la Compagnia in gran parte scomparvero; a mandare avanti la Casa, ne restarono solo poche decine. E queste centinaia di donne decisero di abbandonare l'opera che avevano intrapreso a causa dei cambiamenti suddetti, o fu proprio il loro allontana­ mento a innescarli ? Dai documenti nessuna risposta e vale la pena ricorda­ re che le confraternite e compagnie femminili avevano generalmente una vita più breve di quella di analoghe congregazioni maschili. Certamente,

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una buona parte delle successive innovazioni fu dovuta all'iniziativa di donne che accettarono un sistema valoriale patriarcale che subordinava il genere femminile parificandolo a una merce di scambio. Le riforme i nco­ raggiate da padre Alessandro Capocchi e dall'arcivescovo Antonio Alto­ viti potrebbero essere state dettate dalla volontà di risolvere problemi di natura pratica e preoccupazioni di natura etica: sedi piccole, in contesti malsani, o con vicini di dubbia moralità. Tuttavia, con tali riforme, la Casa della Pietà distolse lo sguardo dal suo scopo originario - essere un rifugio per le vittime delle pratiche sessuali del tempo - scegliendo di divenire un istituto alle dipendenze di quelle stesse politiche. Si trasformò i n un convento a buon mercato per le figlie illegittime di cortigiani e patrizi, e per quelle legittime di artigiani e mercanti che non potevano permettersi di provvedere una dote per tutta la loro prole e che, quindi, avevano bi­ sogno di un luogo sicuro dove spedire le "figlie in eccedenzà'. n parados­ so di questo genere di strategie di gestione della sessualità femminile sta nel fatto che le condizioni di vita all'interno della Casa furono peggiori proprio quando i prindpi in base ai quali era governata si dimostrarono meno inclini allo sfruttamento, quando il gruppo delle donne fondatrici era ancora animato dal desiderio di rivolgere la propria opera caritatevole a beneficio delle adolescenti vittime di tali pratiche sociali. Le condizioni di salute delle ospiti dell'istituto migliorarono soltanto dal momento in cui i criteri di gestione e di governo divennero meno compassionevoli e più opportunistici. Fu dopo il trasferimento dal quartiere a luci rosse e dopo la morte della maggior parte delle sue fondatrici che la Casa della Pietà acconsentì a fare della propria protetta, citata con il solo nome di Giulia, una prostituta per il principe ereditario Vincenzo Gonzaga'6• In un dato momento, forse, la metamorfosi della Casa della Pietà in convento potrebbe essere sembrata inevitabile: Capocchi, Altoviti e, più tardi, padre Gherardo Fiammingo avrebbero semplicemente cercato di trarre il meglio da una brutta situazione. Quando le donne della Pietà istituirono il loro primo alloggio, dovevano in qualche modo sapere che non tutte le ragazze sarebbero morte in poco tempo. Alcune sarebbero invecchiate nella Casa, come Mariotta da Fiorenza. I suoi quarant'anni di malattia invalidante, di cui venti in completa cecità, avrebbero potuto essere il prodotto di una sifilide terziaria. Doveva esserci stata più di una Mariotta nella Casa. n mal francese era sempre invalidante e fatale, ma a volte si prendeva i suoi tempi. Non serve congetturare sulle origini della sifilide. Mariotta avrebbe po-

CONCLUSIONI tuto essere affiitta da una delle tante forme congenite della malattia o aver­ la contratta al momento del suo ingresso nella Casa. Quello che importa è che Mariotta non era più il tipo di ragazza che la "nuovà' Pietà desiderava. li fatto di dipendere dalla generosità dei benefattori autorizzò la Casa a limitare a poco a poco l'ingresso a un diverso genere di giovani donne. Questo spiega come mai l' istituto divenne, a partire dagli anni Ottanta del Cinquecento, un rifugio di cui il granduca poteva disporre nel momen­ to in cui andava in cerca di una vergine utile al "piccolo cimento" da lui congegnato ai danni del principe ereditario Vincenzo Gonzaga. Adesso disponeva di un gruppo di ragazze di miglior estrazione sociale, e anche più sane, sempre lì, pronte "all'uso". Francesco I potrebbe aver ricevuto qualche consiglio da un uomo che la Casa della Pietà la conosceva bene. Le porzioni più considerevoli dell'e­ redità di Giovanni da Sommaia erano finite nelle mani della Pietà dopo che la sua brutale aggressione a sfondo sessuale ai danni di una sua do­ mestica, brutalizzata con una torcia, aveva indotto il governo fiorentino a sanzionarlo ed esiliarlo, mentre la sua famiglia gli voltava le spalle. Al tempo Giovanni aveva 1 9 anni, all'incirca la stessa età di Vincenzo Gon­ zaga. Per sancire definitivamente la bestialità del figlio, il padre Girolamo gli lasciò in eredità tutti i bovini e i suini delle fattorie della famiglia, accu­ ratamente annotati in un elenco, mentre trasferì la proprietà della Casa di città in Borgo Ognissanti alle ragazze della Pietà. Girolamo era un vecchio piagnone intenzionato a ribadire che talvolta la morale ha la meglio sul patrimonio. Girolamo promise a Giovanni che avrebbe ricevuto qualcosa in più, se il duca gli avesse mai concesso di rientrare dall'esilio. E il ritorno in effetti ci fu. Girolamo non visse abbastanza per vederlo, ma la riabilita­ zione di Giovanni andò molto al di là di ciò che egli avrebbe mai potuto immaginare. Suo padre poteva anche averlo considerato alla stregua degli animali della sua fattoria, ma per i patrizi fiorentini era ancora uno di loro. Giovanni sposò l'aristocratica Costanza Guicciardini e avviò la sua ascesa tra le fila dei politici cittadini. Al tempo dei cimenti di Gonzaga, nel 1584, Giovanni faceva parte del Consiglio dei Dugenta, aveva fatto parte delle magistrature che sovrintendevano al Tribunale della Mercanzia e alle pri­ gioni cittadine e stava facendo il suo ingresso nella ristretta cerchia degli uomini di corte. Sarebbe arrivato molto più in alto dopo l'ascesa al seggio ducale di Ferdinando I, a seguito della morte improvvisa e piuttosto mi­ steriosa di suo fratello Francesco I e della sua antica amante, adesso moglie, Bianca Cappello, nel 158 7. L'anno successivo Giovanni da Sommaia era

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senatore e si impose come uno dei più fidati consiglieri del duca, ricopren­ do incarichi in numerose magistrature di rilievo e facendo parte in modo praticamente ininterrotto del consiglio ristretto del duca, noto come Ma­ gistrato Supremo, per tutti gli anni Novanta del Cinquecento. Poco tempo prima dell'esame a Vincenzo Gonzaga, Maddalena, figlia di Giovanni, favorì l' ingresso alla Pietà di Lessandra, una bambina di IO anni. Alla fine Lessandra ci prese i voti, ll dentro. Dal momento che Mad­ dalena non poteva essere molto più grande di Lessandra, Giovanni doveva essere stato a conoscenza e aver acconsentito a tale finanziamento. Stava forse cercando di fare ammenda del suo disdicevole passato attraverso quest'opera pia, come a suo tempo già volle fare suo padre in modo tan­ to eclatante ? n sostegno a Lessandra potrebbe aver sigillato la personale riconciliazione di Giovanni da Sommai a con l'istituto della Pietà, i cui nuovi alloggi in via del Mandorlo erano stati acquistati grazie ai proventi ricavati dalla vendita della Casa in cui era cresciuto e che un tempo avreb­ be dovuto ereditare. Ma questo sostegno economico può essere indizio anche di qualche altra cosa? C 'è un pensiero che ci ronza per la testa: forse il patrizio fiorentino che affi dava in via definitiva bambine di IO anni a un istituto era poi lo stesso tipo di fiorentino che, quando le bambine in que­ stione si erano fatte adolescenti, le spediva a un principe ereditario sapen­ do che le avrebbe violentate e magari anche lo stesso tipo che, molti anni prima, aveva per primo abusato di loro, infierendo brutalmente su altre adolescenti di simile estrazione sociale. Le ragazze costituivano un capitale di natura sessuale e potevano venir utilizzate nel modo in cui gli adulti di sesso maschile ritenevano opportuno. n loro destino non era qualcosa su cui potessero avere una qualche voce in capitolo. Da parte loro, i patrizi operavano come un sol fronte. Girolamo da Sommaia aveva severamente diffidato la Pietà dal vendere il palazzo di famiglia di Borgo Ognissanti che, nel suo testamento, gli aveva lasciato in eredità. Quando, soltanto po­ chi anni dopo, padre Capecchi e il duca Cosimo 1 revocarono quel testa­ mento architettando il modo di vendere quella Casa, anche loro stavano riaffermando una nota verità: non c'è morale che tenga davanti alle logi­ che della nobiltà cittadina. L'acquirente cui con tanta cura spianarono la strada fu niente meno che Giovanni da Sommaia17• Avendo io nel rilegger' le sacre istorie, e particularmente quelle dei sacro ordini religiosi, veduto più volte il gran danno che ha recato a moderni la trascuraggine delli antichi, nel non avere tramandate loro le memorie e successi de lor padri [ ] , ...

CONCLUSIONI perciò in questo anno nostro 1700, ultimo di questo secolo, nel quale mi ritrovo deputato da miei superiori per confessore del Reverendissimo Monastero della Pietà del terzo ordine di San Domenico in questa città di Firenze, mi so n risoluto di voler descrivere per ordine e successione de tempi, l'origine, fondazione e pro­ gressi dell' istesso monastero, acciò non si perdino alcune buone notizie appar­ tenenti a detto luogo, e acciò possino sempre le religiose presenti imparare dalli esempi delle loro antiche e buone religiose. Sono già trascorsi più anni che avevo stabilito nel animo di voler registrare queste Croniche, ma impedito ora da un occupazione, ora da un altra non potei mai mettere in pratica come volevo il mio desiderio, ma finalmente in quest'anno, sia sempre benedetto il Signore, avendo raccolto molte memorie da diversi luoghi mi è riuscito mettere insieme il presente ristretto. Confesso che molti sono stati i motivi che mi hanno astretto [ . .. ] a ciò fare. Prima perché avendo questa Casa fondata da Padri dell'Ordine di San Do­ menico, mi pareva conveniente che toccasse ad un religioso domenicano mettere in pubblico l'azzioni di quei Padri e le fatiche che intrapresero, et hanno sempre intrapreso, sia nella sua fondazione come nei suoi avanzamenti. In secondo luo­ go, mi viddi precessitato a qui scrivere perché niun altro forse poteva farlo come me, cioè con tanta facilità, poiché essendomi stato commesso il vedere e ritrovare l'origine delle Messe perpetue di questo luogo, ho avuta occasione e commodità di vedere nel tempo stesso tutti i libri concernenti al luogo, ne i quali ho ritrovato alcune cose degne di memoria e delle quali non si sapeva più cosa alcuna. L'ho fatto in terzo luogo perché vedevo già morire tutte quelle religiose che sapevano qualche cosa per tradizione; onde perché non finisse con loro la ricordanza delle cose passate mi è parso bene il mostrarle; per ultimo mi son mosso perché alcune cose che si sapevano, si sapevano molto diversamente da quello che erano , onde perché avesse luogo la verità che è quella che deve risplendere tra noi, per questo non mi son quietato, finché non abbi veduto il fine di questa mia piccola fatica. Questi confesso esser stati i motivi che ebbi nel cominciare e questi pure ritengo adesso nel fine. Prego chi leggerà queste memorie a voler' compatirmi con tutto il cuore e a voler' sempre pregare per l'anima mia e per quelle delle mie religiose, acciò ci compartisca sempre le sue sante benedizioni in questa vita e nel altra'g.

Padre Romano si trovò di fronte a numerosi rompicapi nel momento in cui prese in mano la penna per scrivere la storia della Pietà, nel 1700: lacu­ ne nei documenti, memorie incomplete, ricostruzioni tra loro contrastan­ ti. Dovette rovistare tra le carte d'archivio, imparare a leggere tra le righe, formulando ipotesi sulla base di verifiche fatte altrove. In più fasi di questa ricerca ho criticato le Croniche da lui e da altri redatte, perché inattendibili e fuorvianti. Padre Romano e gli altri cronisti non scrissero proprio un romanzo, ma certamente si dimostrarono estremamente creativi nel rife­ rire alcuni episodi, altrettanto concisi per altri. Eppure, fossero stati loro

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a leggere questa mia ricostruzione, mi avrebbero quasi certamente rivolto gli stessi appunti. Chi ha ragione? Per quanto sia possibile, gli storici puntano a fondare le loro analisi su fonti dirette: ciò che scrivono è il frutto di quei documenti che essi hanno scelto di raccontare. Allo stesso tempo, essi scrivono animati da un obiettivo e avendo presente la direzione di una storia di lungo periodo di cui anche la loro opera fa parte. L' intenzionalità del loro lavoro e la maggior ampiezza del loro orizzonte storico finisce inevitabilmente per condizionare il modo in cui gli storici riconoscono, leggono e colmano gli spazi bianchi sulle pa­ gine dei loro documenti - che è come dire che la loro interpretazione del periodo storico e dei contenuti non svelati dalle fonti ne esce condizionata, come può condizionarli il fatto di dare per acquisito un certo contesto sto­ rico. Padre Romano lo manifesta con disarmante sincerità: sta scrivendo un racconto affinché le conquiste e le lezioni del passato non siano dimenticate. Egli confessa il proprio interesse per quanto accadde alla Pietà, così come in altri istituti o ordini religiosi. I racconti che si tramandano nella Casa differiscono da ciò che è riuscito a trovare all'interno dei documenti. Egli non spiega di che genere di testimonianze si tratti, ma è possibile farsene un'idea a partire dalle uniche di cui fa specificamente menzione - elenchi delle messe perpetue - e dei luoghi in cui egli dice di averle trovate: nel suo convento domenicano di San Marco e negli ambienti della Pietà a cui pote­ va accedere in qualità di padre spirituale della Casa. Ciò significa che egli ha visto i messali, i libri di catechismo, gli innari, gli statuti, le professioni delle suore, le primissime cronache e i primi racconti spirituali, le tabelle delle messe e delle indulgenze. Con ogni probabilità non ha esaminato i registri contabili, i documenti che minuziosamente elencavano gli abiti da lavoro, le ricette mediche o le liste di chi entrava nella Casa o degli affiliati della Compagnia. O, se pure ci avesse dato un'occhiata, avrebbe ritenuto il loro contributo di minore importanza per la sua concezione della Pietà. E la sua concezione era quella di una Casa fondata e spiritualmente cresciuta sotto le cure dei domenicani, destinata da Dio fin dalle origini a essere un convento. Padre Romano apre la sua narrazione con una dichiarazione di metodo e di valore che ci aiuta a comprendere perché la sua cronaca scelga di enfa­ tizzare (oppure di tacere) fatti che poi risultano del tutto diversi quando sono ricostruiti a partire dai documenti conservati non nella sacrestia della Pietà o nella biblioteca di San Marco, ma nella stanza dei contabili o delle priore. I suoi documenti sono quelli dei padri spirituali e la sua narrazione si concentra in modo comprensibile sulla loro opera.

CONCLUSIONI

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Padre Romano lavorò a partire dall'idea di ciò che la Pietà sarebbe di­ ventata, mirando a dimostrare come era stato possibile arrivarci. In questo libro, invece, si è lavorato a partire dall' idea di ciò che la Pietà era stata all'inizio e di come cambiarono i suoi obiettivi e le sue caratteristiche. ll materiale conservato nelle stanze dei contabili e delle priore spiega aspet­ ti della vicenda con cui i padri spirituali non ebbero nulla a che fare. In modo inevitabile materializzano una diversa compagine di protagonisti, tratteggiando aspetti inediti della loro vita quotidiana. I due racconti non sono sempre perfettamente sovrapponibili e possono condurre a conclu­ sioni estremamente diverse. Padre Romano si muove nell'ambito della storia spirituale; egli ha un unico obiettivo: guidare, edificare e istruire il lettore. Questo libro, invece, si muove nell'ambito della storia tutta ter­ rena di una città rinascimentale, con le sue ossessioni sulla verginità e sul sesso, un atteggiamento che oscilla dali'attrazione alla preoccupazione nei confronti delle adolescenti, con un sistema politico-economico in fase di transizione e con una popolazione alla prese con una strana malattia che stava travolgendo il mondo intero. Anche questi aspetti hanno da insegna­ re, sebbene non sempre qualcosa di particolarmente edificante. Mariotta da Fiorenza ne è un esempio. Padre Romano s'imbatté nel suo caso (nome, età ed elenco delle sue menomazioni) e ne fece il ritratto di una santa donna - compare all'interno di una lista delle " beate" del convento - che Dio permise fosse prostrata da malattie che ne avrebbero saggiato la pazienza e purificato la virtù. Anche noi possiamo rinvenire le stesse informazioni, restituendone, però, un quadro molto diverso, quello di una ragazza contagiata dal mal francese, abbandonata dai genitori non appena i sintomi della malattia fecero la loro comparsa, e, infine, ridotta alla paralisi e alla cecità prodotte negli anni dalla cronicizzazione della si­ filide terziaria. Padre Romano costruisce la figura di Mariotta come quel­ la di una donna adulta degna di venerazione, perché questo è ciò che il suo contesto gli richiede - i conventi sono pieni di donne sante, dotate di grande virtù e capacità di sopportazione e questa suora così lungamente provata aveva tutti i requisiti per farne parte. Ma si può anche ricostruire la vicenda di Mariotta come quella di una bambina contagiata e per que­ sto abbandonata, dal momento che questo è ciò che ci suggerisce l'ambito della storia sociale di Firenze. Sono solo due facce o due momenti differenti della vita della stessa per­ sona, Mariotta? Sorge un altro problema, quando si ha a che fare con la suora tanto docile di padre Romano. Non figura mai all'interno del Li-

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bro Segreto della Pietà, il volume contenente la lista delle ragazze ammesse nella Casa. Anche a voler correggere il lieve errore commesso nel datare il suo ingresso nella Casa a quattro anni prima che questa davvero apris­ se, nessuna ragazza con quel nome, quella famiglia d'origine, quell'età fu mai registrata dalle donne della Pietà. E quello di Mariotta non è l'unico caso. Padre Romano descrive altre due "beate". Fiammetta da Morzanno venne ammessa grazie ad Alessandro Capocchi e fu, stando a ciò che si raccontava nella Casa, una religiosa dalla vita straordinariamente austera e penitente, che rifuggì le vane conversazioni, dedicando tutta la sua vita alla preghiera. Era la prediletta di Capocchi e, in punto di morte, le fu concesso il privilegio di una avere una visione di lui mentre scalava una montagna appoggiandosi a un bastone che lei subito andò a prendere da Santa Maria Novella per farne una reliquia della Pietà. Antonia di Filippo del Frate da Fiorenzuola fece il suo ingresso alla Pietà al tempo di Gherar­ do Fiammingo, godendo di grazie speciali e apparizioni e facendo profezie che procurarono notorietà a lei e a tutta la Pietà. Fiammingo era la sua guida spirituale e il suo scrivano, impegnato a raccogliere in un libro le sue rivelazioni che in seguito andarono perdute. Pochi mesi dopo la sua mor­ te, durante il Natale 163 8, apparve ai piedi del letto di una suora afflitta da un'ulcera allo stomaco, promettendole la guarigione. La ragazza si alzò dal suo letto il giorno di Pasqua19. li problema di queste narrazioni edificanti è che né suor Fiammetta, né suor Antonia e, più in generale, nessuno che corrisponda alla descrizione che di loro danno le Croniche compare mai nei registri di entrata della Pie­ tà. Padre Romano scrisse biografie convenzionali rigorosamente conformi allo stereotipo che il clero maschile savonaroliano andò sviluppando dal momento in cui iniziò a narrare delle suore che erano state sotto la sua guida, biografie che Sharon Strocchia ha esaminato con attenzione. Una volta rinnegato ogni genere di attività mondana, un unico obiettivo resta­ va alle suore, soffrire eroicamente e morire in pace'0• O almeno così pensa­ vano e scrivevano i loro superiori, seguaci del Savonarola. Se colleghiamo tutto questo a ciò che abbiamo prima osservato sui particolari omessi o del tutto inventati, in particolare per quanto riguarda gli altri cappellani, ma anche altri aspetti della storia della Casa, ne emerge uno schema. Gli autori delle Croniche sono così determinati a fare della Pietà un'opera di Dio e dei domenicani che non lasciano spazio ad altri agenti della storia. Dovremmo forse pensare che furono proprio questi due frati, assieme alle presunte, sante donne prima citate, coloro i quali si prodigarono di più

CONCLUSIONI

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per cambiare la Pietà? La storia spirituale della cronache, proprio poiché scritta nel 1 700, avrebbe potuto abbandonarsi a congetture e possibilità, eppure scelse di riempire alcune lacune con pie invenzioni; altre le cancel­ lò, mentendo deliberatamente. Per gli autori delle Croniche, suor Antonia era la candidata alla santità, un obiettivo narrativo che necessitava di un genere molto particolare di storiografìa. Padre Romano potrebbe non aver visto i faldoni stipati sugli scaffali delle stanze dove ogni giorno lavoravano contabili e priore. O potrebbe averli visti e aver deciso che il loro contenu­ to, noioso e talvolta di scarso valore, non calzava né al suo stile, né al suo intento narrativo. Lo ammette egli stesso nella sua prefazione - sta scri­ vendo per mettere le cose in chiaro, dal momento che « alcune cose che si sapevano, si sapevano molto diversamente da quello che erano» . « Quello che erano» . Ho ragionato del fatto che l a Pietà affacciata sul­ la tranquilla via del Mandorlo di fatto costituisse un disconoscimento del­ la Pietà che fu nell'osceno quartiere di Ognissanti e di come gli autori ed editori delle Croniche abbiano contribuito con sottile abilità all'occulta­ mento dei fatti che li avevano preceduti, decidendo di conservare qualche notizia, di modifìcarne altre e alcune di tralasciarle del tutto. Ci sono af­ fermazioni che appaiono più innocenti, come quella di attribuire la fonda­ zione della Casa ai padri domenicani. Altre, invece, sono molto più grave­ mente e intenzionalmente colpevoli, come quelle inerenti la serie di sante donne della Casa che rischiano di essere mere invenzioni dei cronachisti. La pretesa che le ragazze versassero lacrime di gratitudine nei confronti dei loro "padri" dell'ordine domenicano, ma piangessero di rabbia contro l'ingerenza delle loro "madri" laiche della Compagnia della Compassione fa forse soltanto parte di una retorica della devozione che non dovremmo analizzare puntigliosamente. Ma ci sono occasioni in cui Le Croniche si abbandonano alla più fervida fantasia, al limite del paradosso, come quan­ do sostengono che le ragazze della Pietà si recarono in massa al funerale di Capecchi, nel 1583, e scavalcarono le barriere che ne proteggevano la salma esposta, per bagnarla con le loro lacrime. La triste realtà è che molte delle ragazze che erano state sotto la sua direzione spirituale alla Pietà erano già morte ben prima dei suoi funerali. Per quanto riguarda, invece, i ritocchi apportati alle Croniche, molti ineriscono aspetti di secondaria importanza e sono probabilmente dovuti alla rivalità esistente tra i vari ordini religiosi, come, ad esempio, il persistente rifiuto di riconoscere l'ottima reputazione o l 'ordine di appartenenza degli altri frati o sacerdoti secolari che serviro­ no alla Pietà come cappellani11•

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Ma il più grande contributo delle Croniche in quest'opera di oscura­ mento di "quello che erà' sta in ciò che esse decisero di ignorare : i numero­ si decessi, le proporzioni del fenomeno della manifattura tessile, l'intenso lavoro e l'alta posizione sociale delle donne della Pietà, il collasso finanzia­ rio e amministrativo successivo al trasferimento, i problemi connessi alla pratica di inviare le ragazze fuori dalla Casa come domestiche e la succes­ siva decisione di interrompere questa prassi. Tutti problemi e criticità che, invece, possiamo trovare elencati o ricostruire grazie agli altri documen­ ti manoscritti conservati nell'Archivio di Stato di Firenze. Ci sono altri aspetti della vita nella Casa che sono più difficili da dimostrare, perché emergono soltanto grazie a brevi cenni all'interno di documenti più tar­ di - in primo luogo, gli statuti del 15 7 0 - sotto forma di esempi di ciò che non è più permesso fare all'interno della Pietà: la lettura indiscriminata di ogni genere di libro, dalle novelle popolari sullo stile di Grazzini alla Bibbia, cantare le canzoni del momento, indossare indumenti da strada, uscire dalla Casa per andare in città e tornare a vedere la casa di famiglia o trascorrere del tempo con i parenti in visita, come accadeva a Borgo Ognissanti. Considerate nel loro insieme, le affermazioni, le manipolazio­ ni e le omissioni delle Croniche ci inducono a sospettare che alla Pietà ci fosse molto di più di quanto esse suggeriscano. Era un istituto controverso, quello della Pietà, e gli autori delle Croniche crearono in modo deliberato un racconto alternativo che adombrasse «quello che era». Ma che cosa accadde realmente? Quando ci soffermiamo a pensare a ciò che resta di scritto e a ciò che scritto non è stato, quando leggiamo tra le righe e quando proiettiamo le nostre attenzioni alle origini, a ciò che era prima delle "riforme", per ricostruire ciò che non fu "riformato", allora otteniamo un'immagine della Casa che, nel momento in cui aprì, non ricorda in nulla un convento. Centinaia di donne crearono qualcosa di unico per la città di Firenze: un rifugio per altrettante centinaia di ra­ gazze cui si voleva offrire un'alternativa alla consueta "cura delle vergini". Una casa che avrebbe accolto le ragazze dei quartieri più poveri senza fare troppe domande. Le avrebbe protette senza imprigionarle. E avrebbe per­ seguito l'obiettivo di lenire proprio quel genere di malattie originate dalla condizione di vittime cui le politiche di controllo della sessualità messe in campo dalla città di Firenze le avevano costrette. Queste donne sfidarono molto di più che le sole logiche di governo della sessualità in vigore nella Firenze del Rinascimento - sfidarono la sua classe dirigente, politica ed ecclesiastica. Con modi accorti e discreti,

CONCLUSIONI forse, ma certamente risoluti. Le consuete logiche politiche e i consueti gruppi di potere alla fine ebbero la meglio e l'esperimento pensato dalle donne per la Casa della Pietà durò solo poco più di un decennio, prima di essere aggregato, reimpostato e trasferito, e prima che iniziassero i tentativi di cancellare con cura ogni traccia di ciò che queste donne avevano rea­ lizzato. Dobbiamo resistere alla tentazione di trasformare le signore della Compagnia della Pietà nella versione contemporanea delle sante donne bidimensionali di padre Romano, finte eroine costruite a partire da un pugno di frammenti d'archivio tenuti insieme dalla colla degli stereotipi femminili imperanti e da molte pie illusioni. La nostra prospettiva di sto­ ria sociale, politica e di genere ci porta, invece, a guardare a queste madri surrogate della Compagnia della Pietà per ricavarne un ritratto forse più incerto, ma più vero, donne che furono molto determinate e capaci, ma in fin dei conti abilmente sconfitte. Che cosa uccideva le ragazze della Pietà? La volontà di ricostruire ciò che aveva decimato ragazzine come Margherita e Maria ci ha condotti lontano, con un incedere malfermo. Abbiamo avanzato a piccoli passi in­ seguendo sensazioni e congetture suggerite da sporadici accenni, da docu­ menti incompleti e dal contesto sociale. Avendo a che fare con i tentativi di insabbiamento compiuti successivamente da chi voleva velare le vicen­ de delle origini, dobbiamo, per quanto possibile, inseguire queste ipotesi, non importa quanto improbabili possano in un primo momento sembra­ re. Può accadere, dunque, che la nostra indagine salti improvvisamente da una direzione a un'altra, o perché si è in cerca di una nuova pista, o perché la precedente è stata improvvisamente messa in crisi dal sopraggiungere di un fatto inatteso o dal silenzio ostinato delle fonti. Anche la visione d'in­ sieme dei problemi ne esce cambiata. Alcune direzioni della nostra ricerca reggono, altre svaniscono. Data la scarsità della documentazione, alla fine dobbiamo ammettere di non sapere davvero "quello che fu". Non siamo, cioè, in grado di stabilire con sicurezza ciò che uccise le ragazze della Pietà. Morirono in una città che non sapeva che farsene di loro, se non una fonte di manodopera e, perché no, di sesso a buon mer­ cato. E morirono per ragioni che avevano molto a che fare con la loro età, con il fatto che erano donne vulnerabili, perché provenienti da famiglie di bassa estrazione sociale che le avevano abbandonate. Potremmo non essere in grado di rinvenire le cause specifiche delle loro morti e potremmo anche decidere che le nostre congetture sul loro sfruttamento, sulla pratica del!' aborto o sulla malattia della sifilide sono soltanto speculazioni desti-

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tuite di un concreto fondamento. Ma almeno possiamo ricostruire alcuni avvenimenti delle loro brevi vite e capire chi le ha aiutate e in che modo lo ha fatto. La Casa della Pietà rimane un enigma avvolto dal silenzio. Ma questo non deve impedirci di rivolgere uno sguardo pieno d'ammirazione verso questo straordinario esperimento di compassione per cui si battero­ no poche centinaia di donne .fiorentine della metà del XVI secolo.

Note

Abbreviazioni Archivio arcivescovile di Firenze Acquisiti Diversi ASF Archivio di Stato di Firenze Bigallo Compagnia poi Magistrato di S. Maria del Bigallo Biblioteca nazionale centrale (Firenze) BNCF Biblioteca Riccardiana (Firenze) BRF Ceppo Fanciulle abbandonate di S. Maria e S. Niccolò detto del Ceppo CRSGF Conservatorio di domenicane denominato La Pietà di Firenze O GB P Otto di guardia e balia del principato SMN Santa Maria Novella AAF AD

I

Silenzi misteriosi 1. Il primo elenco delle ospiti della Casa della Pietà, chiamato Libro Segreto, risale al 2.5 gennaio 1555, quando furono registrate 52 ragazze (Archivio di Stato di Firenze, Cor­ porazioni religiose soppresse dal governo .francese. n. II2: Conservatorio di Domenicane denominato La Pieta di Firenze d'ora in avanti A S F, CRSGF, ms. I I2.f78, xr-13r): n. 49, Margherita di Monna Betta di Firenze, iscritta il 2.5 gennaio 1555, all'età di 9 anni, e mandata a Santa Maria Nuova nel febbraio dello stesso anno (13r); n. 88, Maria di Ne­ grante, « soldato da Zonta di Mugiello », registrata il 6 marzo xsss. 9 anni d'età, e inviata a Santa Maria Nuova l'anno successivo (ur); n. xo8, Maddalena «da Fratello Billj dalla Certosa di Firenze», entrata a 12. anni il 15 luglio x sss. e mandata a SantaMaria nell'apri­ le 1556 (26r). A Firenze l'anno iniziava i hs marzo, ma tutte le date contenute all'interno di questo volume sono state rese secondo lo stile moderno. 2.. Queste 6 ragazze facevano tutte parte del gruppo delle prime 52 registrate: ASF, CRS G F, ms. 112/78, «n. 3 9 Bartolommea di Monna Caterina di Mugiello » (wr); «n. 30 Caterina di Bastiano legniauolo » (8r); « n. 20 Lisabetta di Giovanni di Fi­ renze» (sr); «n. 14 Agniola di Bastiano di Montaguto» (4r); «n. 44 Lucrezia di Giulio dal Corno del Gioco» (wr) ; « n. 41 Brigida di Antoniano da Firenze» (wr).

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Trentaquattro delle prime 52. ragazze registrate morirono quando erano ancora sotto la tutela della Casa della Pietà. 3· A S F, Acquisiti e Doni, 2.. 9 1, Onestà (1560-83) (d'ora in avanti Onestà): questo fasci­ colo dalle pagine non numerate raccoglie estratti delle sentenze di condanna emesse dal magistrato dell'Onestà dal 1560 al 1583. Cfr. anche J. K. Brackett, The Fiorentine Onesta and the Contro! ofProstitution, I40J-I6So, in "Sixteenth Century Journal", 2.. 4 (2.. ) , 1993. pp. 2..7 3-300. 4· N. Terpstra, L infonzia abbandonata nell'Italia del Rinascimento. Strategie di assi­ stenza a confronto: Firenze e Bologna, CLUEB, Bologna, 2.. 0 14. s. Biblioteca Riccardiana (Firenze) (d'ora in avanti BRF), Ms. Moreni (d'ora in avanti Moreni), Acquisiti Diversi (d'ora in avanti A D) 93· 6. Sul contesto sanitario e sociale della sessualità degli adolescenti, cfr. E. Horowitz, The Worlds of]ewish Youth in Europe, IJOo-rSoo, in G. Levi, J.-C. Schmitt (eds.), A History ofYoung People, vol. I: Ancient and Medieval Rites ofPassage, Harvard Uni­ versity Press, Cambridge (MA) , 1997, pp. 83-rr9; E. Crouzet-Pavan, The Flower ofEvil: Young Men in Medieval ltaly,, in Levi, Schmitt (eds.), A History ofYoung People, cit., pp. 173-2.. 2.. 1 . In particolare, per quanto riguarda le ragazze, cfr. U. Potter, Greensick­ ness in Romeo and]uliet: Considerations on a Sixteenth- Century Disease ofVirgins, in K. Eisenbichler (ed.), The Premodern Teenager: Youth in Society, rrso-roso, Cenere for Reformation an d Renaissance Studi es, Toronto (ON) woo, pp. 2..7 1-91; J. C. Par­ sons, The MedievalAristocratic TeenagedFemale: Adolescent orAdult?, in Eisenbichler (ed.), The Premodern Teenager, cit., pp. 3 II-2.. I . '

2 L'ambiente n sesso in città r. Le chopines, dette anche pianelle, suvarati (Jacopone da Todi), calcagnini o calca­ gnetti a Venezia, tappine nelle regioni del Sud, erano zoccoli dalle zeppe alte fino a 55 cm, simbolo di sfarzo e prestigio sociale [N.d.T.] . 2.. . F. Moneti, lgermini sopra quaranta meretrice della città di Fiorenza, in F. Orlando, G. Boccini (a cura di), Forni, Bologna 1967. Tra il 1540 e il 1566, Antonfrancesco Grazzini si dedicò alla stesura di commedie che si rifacevano al modello del teatro romano, ma poté vederne rappresentate ben poche. Cfr. G. Grazzini (ed.), Il teatro delLasca, Laterza, Bari 1953, pp. 576-8; R. J. Rondini , Antonfrancesco Grazzini: Poet, Dramatist, and Novelliere, University ofWisconsin Press, Madison (w1 ) 1970. 3· S. Strocchia, Taken into Custody: Girls and Convent Guardianship in Renaissance Florence, in "Renaissance Studies", 17 (2.. ) , 2.. 0 03, pp. rn-wo. 4· A. F. Grazzini (il Lasca), La Pinzochera, in G. Davico Bonino (a cura di), Ope­ re, atto I, scena m, UTET, Torino 1974. Sul tema della sessualità adolescenziale, cfr. K. Eisenbichler (ed.), The Premodern Teenager: Youth in Society, rrso-r6so, Cenere for Reformation and Renaissance Scudies, Toronto (oN) 2..0 0 2.., e, soprattutto, i seguenti

NOTE

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articoli: I. Taddei, Puerizia, adolescenza, and giovinezza: Images and Conceptions of Youth in Fiorentine Society during the Renaissance (pp. 2.1-4); F. H Stoertz, Sex and the Medieval Adolescent (pp. 2.2.8-9 e 2.34-8 ) ; C. Lansing, Girls in Trouble in Late Me­ dieval Bologna (pp. 2.93-6). S· M. Rocke, Forbidden Friendships: Same-Sex Relationships in Renaissance Florence, Oxford University Press, New York 1996. 6. Questo il caso, ad esempio, della prostituta Margherita Negri che, per la modica cifra di 6o scudi, fu dispensata a vita dall'osservanza dei regolamenti sulla prostituzio­ ne ( 6o scudi corrispondevano al costo della dote minima richiesta a chi voleva entrare nella Casa delle Convertite). Cfr. S. Cohen, The Evolution ofWomen's Asylums: From Refuges for Ex-prostitutes to Shelters for Battered Women, Oxford University Press, New York 1992., pp. 49-53. Le leggi in materia di prostituzione sono conservate in ASF, Onesta, ms. r. 7· R. C. Trexler, Fiorentine Prostitution in the Fifteenth Century: Patrons and Clients, in Id. (ed.), Dependence in Context in Renaissance Florence, Center for Medieval and Early Renaissance Studies, State University ofNew York at Binghamton, Binghamton (NY) 1994, pp. 373-414; J. K. Brackett, The Fiorentine Onesta and the Contro! ofPros­ titution, I40J·I6So, in "Sixteenth Century Journal", 2.4 (2.), 1993, pp. 2.73-300. Trexler, basandosi sui procedimenti giudiziari dell'Onestà a carico dei trasgressori dei regola­ menti della prostituzione, sostiene che la maggior parte dei clienti provenisse da pae­ si stranieri, ma, dal momento che tribunali di questo genere tendono a perseguire i forestieri in modo sproporzionato rispetto ai locali, questo assunto è da considerarsi, nel migliore dei casi, piuttosto discutibile. Un numero preponderante di prostitute non fiorentine potrebbe anche essere indice delle difficoltà economiche dei loro paesi d'origine oppure dei pregiudizi che a Firenze impedirono loro di accedere ad altri tipi di impiego. Cfr. P. J. P. Goldberg, Pigs and Prostitutes: Streetwalking in Comparative Perspective, in K. J. Lewis, N. J. Menuge, K. M. Phillips (eds.), YoungMedieval Women, St. Martin's Press, New York 1999, pp. 178-9 e 190. 8. Sui nomi delle caverne, cfr. G. Ruggiero, Machiavelli in Love: Sex, Selj and Societ)' in the Italian Renaissance, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD) 2.007, p. 96; Trexler, Fiorentine Prostitution in the Fifteenth Century, cit., p. 387. 9· Trexler, Florentine Prostitution in the Fifteenth Century, cit., pp. 410-2.. Si trattò di un fenomeno assai diffuso in tutta Europa. Cfr. Goldberg, Pigs and Prostitutes, cit., pp. r 82.-s. IO. L'aggressione di Cornelia a opera di Marco di Andrea Finocchio risale al rsss: ASF, Acquisti e Doni, 2.91 ; ASF, Otto-Carlo Carnesecchi-IS76 (d'ora in avanti Carnesec­ chi), carta non numerata. Per le donne forestiere che si diedero alla prostituzione, cfr. ASF, Acquisti e Doni, 2.91 e Onesta, n.n. (rs66). II. Poteva trattarsi di bande giovanili non ufficialmente organizzate, o di compagnie più strutturate, note con il nome di potenze festeggianti, o di combriccole di lavo­ ratori a giornata. Cfr. O. Niccoli, Il seme della violenza. Putti, fanciulli, e mammoli nell'Italia tra Cinque e Seicento, Laterza, Roma-Bari 1995; Id., Rituals ofYouth: Love,

RAGAZZE PERDUTE Play, and Violence in Tridentine Bologna, in Eisenbichler (ed.), The Premodern Teena­ ger, ci t., pp. 75-94. Parte dei disordini potevano, poi, derivare da iniziative di gruppi di quartiere intenzionati a difendere il loro territorio. Cfr. D. Rosenthal, The Spaces of Plebian Ritual and the Boundaries ofTransgression, in R.]. Crum,J. T. Paoletti (eds.), Renaissance Florence: A Social History, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. I 6I-8I. 12. ASF, Onestà, ms. r, 27r-3 Iv, 33v-35v. Sulla regola delle "10o braccia", cfr. la lettera indirizzata al duca Cosimo I il 6 maggio 1 561. ASF,Acquisti e Doni, 291, "Onestà e Me­ retrici". Di 1.594 capi d'imputazione, 13 riguardavano reati di aggressione, 1 1 episodi di "baccano" e IO casi di sfruttamento della prostituzione; 30 imputati erano più o meno direttamente implicati in azioni violente di gruppo: ms. 3, sr, 15v; ms. 4, rr-10r. 13. Quanto previsto dalla legge in materia di abbigliamento per gli anni 1527, 1544, IS47• I548, I555, I558 è contenuto in ASF, Onestà, ms. I, 24v, 32v-33f, 3 6r, 3 6v-37r, 38r. Per la forte revisione normativa del IS77. ASF, Onestà, ms. 3· Cfr. anche S. B. Siegmund, The Medici State and the Ghetto oJFlorence: The Construction ofan Early Modern]ewish Community, Stanford University Press, Stanford (CA) 2006, pp. 203-5; qui l'autrice ri­ dimensiona l'importanza delle fitte possibilità di collegamento del ghetto con il bor­ dello, sostenendo che le prostitute erano ampiamente distribuite su tutto il territorio cittadino e che ormai non esisteva più un solo quartiere a luci rosse. I4. Le procedure della magistratura dell'Onestà furono riviste alla luce di diciotto nuove disposizioni o ordinanze emesse dal I544 al IS6o e tre avvertimenti emanati alla fine degli anni Sessanta del Cinquecento mostrano quanto Cosimo I fosse a co­ noscenza di tutti i tentativi portati avanti dai magistrati per aggirare o minare l'effi­ cacia delle regole appena introdotte. Cfr. ASF, Onestà, ms. I, 27r-43r. Nel I588, i magi­ strati dell'Onestà aggiunsero altre quattro strade riservate "al mestiere" alla lista delle diciotto già indicate nel 1547 (38v). Per le leggi contro le cortigiane, cfr. ASF, Onestà, ms. 3 , I3V-I4v; I7Y; cfr. anche Grazzini, La Pinzochera, cit., atto IV, scena II. IS. A SF, Onestà, ms. I, 27r-33r. L'informazione si trova all'interno di una relazione stesa dai magistrati dell 'Onestà nel 1560 e indirizzata al consiglio del duca, la Pratica Segreta, per informarlo di quali prostitute avessero la licenza per lavorare, in quali strade e a quali condizioni: ASF, Acquisti e Doni, 29I, Onestà, n.n. Un censimento degli uffici amministrativi della Toscana, redatto nel ISSI, detta termini di lavoro e compensi dei magistrati dell'Onestà. Cfr. A. D'Acidario, Burocrazia, economia efi­ nanze dello Stato Fiorentino alla metà del Cinquecento, in ·�chivio Storico Italiano", ni, I963, pp. 4I4-5· r6. Cosimo I e i suoi figli avevano la tendenza a non tenere conto del confine che normalmente separa il gettito fiscale dello stato dalle entrate personali di chi quello stato lo regge; al contrario, utilizzarono spesso le risorse economiche pubbliche per riuscire ad accantonare proprietà che incrementassero il loro patrimonio di famiglia. Cosimo I accumulò debiti per una cifra pari a 2.5 16.352 scudi, la maggior parte dei quali risalente agli anni 1545-57. In seguito cominciò a prestare grandi somme di dena­ ro a clienti e sovrani stranieri come Filippo II di Spagna. La famiglia ducale fece razzia

NOTE delle entrate di ospedali come quello degli Innocenti e contrasse enormi prestiti a bassi tassi d'interesse con il Monte di Pietà per coprire i costi delle doti, dei ritratti e dei quadri di famiglia, dei gioielli e delle campagne militari. I Medici contrassero anche debiti a titolo personale con banchieri stranieri ed effettuarono prelievi forzosi a danno di ospedali e istituzioni caritative, oppure decisero di assegnare ai loro credi­ tori il ricavato di particolari tasse o di incarichi in pubbliche magistrature come forma di restituzione del prestito. Almeno un terzo dei loro debiti personali fu ripagato dai contribuenti fiorentini. Cfr. G. V. Parigini, Il tesoro delprincipe. Funzione pubblica e privata delpatrimonio dellafamiglia Medici nel Cinquecento, Olschki, Firenze 1999, pp. 64-114, 1 8 6-87 e 1 90-2.00. Cfr. anche J. M. Najemy, A History ofFlorence: I2oo­ I575· Blackwell, Oxford 2.006, pp. 473-6. 17. Queste norme sulla rassegna delle prostitute fecero la loro comparsa all' interno dei nuovi statuti della riformata magistratura dell'Onestà, nel 1 577, sotto il duca Fran­ cesco r. A SF, Onestà, ms. 3, 1 5v. 18. La costruzione dell'Orbatello risale agli anni 1370-77. Per quanto segue, si riman­ da a R. C. Trexler, A Widows' Asylum ofthe Renaissance: 1he Orbatello o/Florence, in Id. (ed.), Dependence in Context in Renaissance Florence, cit., pp. 415-48. 19. Dal 1500 al 1517 si sposarono 74 ragazze, ricevendo in media 76 lire per doti che mediamente ne richiedevano 1 3 4. lvi, pp. 434 e 440. 2.0. Tutto questo sistema iniziò però a sgretolarsi verso la fine del XVI secolo. Alla ricerca di un posto che fosse più economico di un convento, dove piazzare le figlie nubili dei suoi funzionari di medio livello, il governo fiorentino optò per una loro collocazione all'Orbatello, a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento. Nel giro di pochi decenni, il collasso finanziario dell'Ospedale degli Innocenti lasciò al gover­ no un problema ancora più serio; questi ordinò che molte delle ragazze più adulte di quell' istituto fossero mandate all'Orbatello. Queste donne avevano scarsa conside­ razione sia per le regole imposte dalla parte guelfa sia per l'autorità delle matrone e alcune di loro stravolsero i fini dell'Orbatello organizzando un bordello fuori dalle loro stanze. Cfr. Trexler, A Widows'Asylum ofthe Renaissance, cit., pp. 441-8. 2.1. A S F, Compagnia poi Magistrato di S. Maria del Bigallo (d'ora in avanti Bigallo) , 1 691, cc. 1 -2.. Cohen, 1he Evolution of"Women 's Asylums, cit., p . 1 3 (la confraternita in questione era la Compagnia di Santa Maria Maddalena sopra le Malmaritate,.N.d.T.). 2.2.. Cohen, 1he Evolution of"Women 's Asylums, cit., p. 3 S· 2.3. lvi, pp. 41-60. 2.4. I magistrati dell'Onestà registravano regolarmente ogni spesa che eccedesse il ricavato delle multe riscosse. Cfr. D'Addario, Burocrazia, economia e finanze, cit., pp. 4 1 4·5. Santa Maria delle Vergini spendeva in media ).400 lire annue per il man­ tenimento di nemmeno venti ragazze, mentre San Niccolò ne sborsava circa u.soo per un numero che oscillava dalle cinquanta alle sessanta unità. Cfr. N. Terpstra, L'infanzia abbandonata nell'Italia del Rinascimento, Strategie di assistenza a confron­ to: Firenze e Bologna, CLUEB, Bologna 2.014, p. 2.91. Sulle tasse raccolte nel 1 5 6 9 cfr.

RAGAZZE PERDUTE R. Canosa, I. Colonnello, Storia dellaprostituzione in Italia dal Quattrocento allafine del Settecento, Sapere 2000, Roma 1989, pp. 107-9. 25. Per le tasse post mortem, cfr. ASF, Onesta, ms. 1, 40r-41V. Per l'entità della sanzio­ ne: ivi, 42.r. Una lettera di Cosimo I del 5 ottobre I559 fissa la popolazione delle Con­ vertite a più di cento "bocche", enumerando tutte le difficoltà che si incontravano per sfamarle; ivi, 41v. 26. Per i tentativi fatti nel I553· 1558 e 1559 di acquisire le proprietà delle prostitute de­ funte cfr. ASF, Onesta, ms. I, 39v-4or, 41V-42.r. Per i regolamenti emessi il IO febbraio 1558 e 1'8 luglio 1569 in meritO alla possibilità di ottenere la cancellazione dai registri, ASF, Onesta, ms. 3, 26r-31v. Cfr. anche Cohen, Ihe Evolution ofWomen's Asylums, ci t., pp. 45-53· 27. T. Dean, K.J. P. Lowe, Marriage in Italy, IJOO-I050, Cambridge University Press, Cambridge 1998; C. Klapisch-Zuber, Lafamiglia e le donne nel Rinascimento a Firen­ ze, Laterza, Roma-Bari 1995; A. Molho, Marriage Alliance in Late Medieval Florence, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1994. Le restrizioni imposte alle ragaz­ ze cattoliche erano abbastanza simili a quelle subite dalle loro coetanee ebree. Cfr. R. Weinstein, Marriage Rituals Italian St)Ù: A Historical Anthropological Perspective on Early Modern Italian ]ews, Brill, Leiden 2004. 28. G. Grazzini, Il Frate, in Davico Bonino (a cura di), Opere, cit., atto I, scena m. 29. Grazzini, La Pinzochera, cit., atto v, scena v. 30. ASF, Acquisti e Doni, 291, Carnesecchi, n. n; casi giudiziari del 1563, 1545, 15 61, 1553; Onesta, n.n., casi del 1564, 1565, 1566. 31. A S F, Acquisti e Doni, 291, Carnesecchi, n.n., casi del rs6o e del 1563. 32. Alcune di queste dinamiche sono indagate in G. Brucker, Giovanna andLusanna, University cf California Press, Berkeley-Los Angeles (CA) 1986. 33· Grazzini, La Pinzochera, cit., atto v, scene VII-IX. 34· ASF, Acquisti e Doni, 291, Carnesecchi, n.n., casi del 1560 e del 1563. 3 5· Per un approfondimento dei temi che seguono cfr. N. Terpstra, Competing Vì­ sions ofthe State and Social Welfare: Ihe Medici Dukes, the Bigallo Magistrates, and LocalHospitals in Sixteenth Century Tuscany, in "Renaissance Quarterly': 54 (4), 2001, pp. 1 3 19-55· 3 6. U ricovero di Lionora Ginori era collocato nell'antico Ospedale di San Niccolò dei Panconi. Fino al I557, Santa Maria delle Vergini aveva occupato l'Ospedale Bini, per poi spostarsi per breve tempo nei più vasti spazi del monastero di San Marco, fuori dalla porta di San Gallo, al confine nord della città. Di lì a un anno fece ritorno all'Ospedale Bini e, finalmente, nel 1564 si trasferì nell'ex convento del Ceppo, sulla riva settentrionale dell'Arno. Cfr. Terpstra, L'infanzia abbandonata nell'Italia del Ri­ nascimento, cit., pp. 51-3 e 69. 37· Esistono molte versioni della storia di San Nicola (270-343) e di come egli riusd a procurare la dote necessaria alle giovani nobili ridotte in miseria: con tre sacchi durante un'unica notte, o, come sostiene Iacopo da Varazze nella suaLegenda Aurea, con un sacco per ognuna delle tre notti che precedettero il raggiungimenco della mag-

NOTE

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giore età di ciascuna di loro. Cfr. J. da Varazze, Legenda aurea, vol. I , Einaudi, Torino 2007, pp. 21-2. 38. ASF, Fanciulle abbandonate di S. Maria e S. NiccolO detto del Ceppo (d'ora in avan­ ti Ceppo), ms. 145, 1 6 x r, 1 65r. BRF, Moreni, AD 93, wr-nv. 3 9· ASF, Fondo Manoscritti, 603, inserto 28. 40. Gli alloggi della Pietà furono poi rilevati dall'ordine dei Fatebenefratelli, che ne fece l'Ospedale di San Giovanni di Dio. Attraverso successive opere di ristruttura­ zione, il grande atrio dei pellegrini divenne la navata di una chiesa, larga 8 metri e lunga 17. Fonti odierne collocano Palazzo Vespucci in quest'angolo di strada, tra via Nuova e Borgo Ognissanti, ma nei documenti del XVI secolo, ad esempio il censo prima citato, non ci sono elementi a sostegno di tale affermazione. Cfr. E Diana, San Matteo e San Giovanni di Dio: due ospedali nella storiafiorentina. Struttura nosoco­ miale, patrimonio fondiario e assistenza nella Firenze dei secoli XV-XVIII, Le Lettere, Firenze 1999, pp. 123-9. 41. ASF, Bigallo, 1229, n. 43; da confrontare con il resoconto completo riportato in ASF, Bigallo, 1700, 4r. 42.. A SF, Bigallo , 763; ASF, Bigallo, 1 687. L'indagine del 1 543 e il racconto di Do­ menico si trovano in ASF, Bigallo, 1700, 4r, il libro contabile di Luigi Vespucci e le testimonianze dei suoi vicini in ASF, Bigallo, 1225, n. 5 e 12.32, n. 4· 43· Tra le cronache del tempo che non dicono nulla riguardo la Casa della Pietà, le Memorie [I5JO-I5b5} di Francesco di Andrea Buonsignori, la Cronaca Fiorentina I5J7I555 di Paolo Marucelli, le !storie Fiorentine di Bernardo Segni o le più tarde Notizie !storiche di padre Richa e la Storia degli Stabilimenti di Luigi Passerini. Cfr. Diana, San Matteo e San Giovanni di Dio: due ospedali nella storiafiorentina, ci t., pp. 12.3-9. 44· ASF, Decima Granducale, ms. 3782., 40r. 45· Al numero 614 risultano gli eredi di Lapo di Marco Vespucci, Piero di Giuliano Vespucci e Marco di Alessandro Vespucci, che affittarono ad Antonio de Nolli e a un prete, Bartolomeo da Empoli, una casa stimata 6o scudi ( « s bocche»). Al numero 622, Maria, vedova di Bernardo di Paolo Vespucci, in una casa del valore di 30 scudi di affitto. Si tratta del lato della strada in cui le case hanno il retro che affaccia sull'Arno. Cfr. ASF, Decima Granducale, ms. 3782, 3 6 r. Andrea Vespucci fece successivamente parte della Compagnia della Pietà. ASF, CRSGF, ms. 1 12/97, 3 4r, 57r, 76r. 46. Per Santa Maria delle Vergini: ASF, Ceppo, mss. 145, 171-87. Per San Niccolò: ASF, Ceppo, ms. 59· Un censimento del 1570 riporta il numero di 57 ragazze (105v-u8v), mentre uno del 1579 ne registra so (129v-13 5r). Il censimento della città di Firenze risalente al 1562. riportò l'esistenza di 12.2 ragazze, un numero che avrebbe potuto te­ ner conto anche di quelle giovani che formalmente ricadevano sotto la tutela di San Niccolò, ma che effettivamente vivevano come domestiche all'interno di famiglie disseminate su tutto il territorio cittadino. 47· ASF, CRSGF, ms. ! 12/78 (1554-59) e ms. 112!79 (1558-1623). 48. Di 3 61 ragazze, 224 ( 62%) avevano chiare origini extracittadine. Per alcune stati­ stiche comparative sulle fasce d'età e sui vari luoghi d'origine, cfr. Terpscra, L infonzia abbandonata nell'Italia del Rinascimento, cit., pp. 79-81 e 301, nota 24. '

RAGAZZE PERDUTE 49· Per le analisi statistiche dei risultati, cfr. ivi, pp. 2.56-65 e 2.77. so. Alcune di queste ragazze morirono dopo il trasferimento dell' istituto in via del Mandorlo, nel 15 68, sebbene la mancanza delle date del decesso di alcune renda im­ possibile determinarne il numero esatto. Delle 3 61 ragazze registrate all' interno del Libro Segreto (ASF, CRSGF, ms. 112./78), 2.10 morirono durante il loro soggiorno alla Pietà. Delle 182. ragazze di cui conosciamo la data del decesso, 1 67 morirono prima del rs68. s r. L' indice di mortalità registrato a Santa Maria delle Vergini è dell' u,3 6%, mentre a San Niccolò è del 19,82.%. ASF, Ceppo, mss. 59, 145. 3

Adolescenti del Rinascimento. Ragazze al lavoro r. R. Dallington, Descrizione dello Stato del Granduca di Toscana. Nell'anno di Nostro Signore I596, traduzione di N. Francovich Onesti, L. Rombai, Ali' Insegna del Giglio, Firenze 1983, pp. 53·4. 2.. ASF, CRSGF, ms. r u/97, rwr, 12.2.r (Margherita Boninsegni: ISS4·ISSS: Alessan­ dra di Girolamo: 1555-1556); ms. 1 12./78, 43t, n. r68 (Brigida di Franchino Pesilli da Pansano : 1583·1601); ms. 1 12.f78, 57r, n. no; ms. 112./79, 8r, n. 41 (Caterina di Piero legniauolo: r 6o1-1613). 3· Queste cifre e tutte le considerazioni che seguono sono tratte da ASF, CRS GF, n2. 1555 = 6.0 62..18.04 (ms. 97. 2.35). 1556: 9034.15.00 (ms. 96, 82.), 1557 = 10,612..11.0 8 (ms. 55. 25), 1558: 10.418.rs.o4 (ms. ss. ro8) (come già anticipato nelle annotazioni iniziale al volume, si tratta di un sistema di conto fondato su tre monete, lire, soldi e denari, qui indicate non da simboli ma semplicemente separate dall'uso di segni di interpunzio­ ne, N.d.T.). Per il costo dei beni di prima necessità e per il valore dei salari del tempo, cfr. R. Morelli, La setafiorentina nel Cinquecento, Giuffrè, Milano 1976, pp. 6 6 e 68; R. A. Goldthwaite, An EntrepreneurialSilk "Weaverin Renaissance Florence, in "I Tat­ ti Studies", 10, 2005, pp. 88 e 97-8. 4· Monna Loretta figura nella lista delle 52. donne registrate durante il primo giorno di apertura della casa, il 2.5 gennaio 1554. Vi rimase fino al giugno 1560, quando morì. Cfr. CRSGF, ms. 1 12./78, 3r, n. ro; 73r, n. 286. S· Sessantadue di 526 ragazze. ASF, CRSGF, mss. 112.1?8 e 79· 6. Agnioletta di Lorenzo da Casentino approdò nella casa della signora Go ndi dopo soltanto due settimane di permanenza alla Pietà (ASF, CRSGF, ms. 112./78, 32., n. 1 2.9) : Margherita di Gallani (ASF, CRSGF, ms. u2/78, 3, n. 12.). 7· ASF, CRSGF, ms. 112./78, 1or (n. 78), 73t (n. 2.85), 32-r (n. 12.5); ms. 1 12./79, 57r (n. 3 42.). 8. D. Romano, Housecraft and Statecraft: Domestic Service in Venice, I40o-r6oo, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD) 1996; C. Klapisch-Zuber, Female Celibacy and Service in Florence in the Fifteenth Centur)', in Id. (ed.), T#Jmen, Fam­ ily and Ritual in Renaissance Italy, University of Chicago Press, Chicago (rL) 1985, pp. 1]6-7.

NOTE 9· Tra i due elenchi, 68 ragazze uscirono dalla casa e 2.5 vi fecero ritorno. IO. ASF, CRSGF, ms. 112./79, 32., n. 189. 1 1. Delle 68 ragazze che andarono a servizio come domestiche dal 1554 al IST!., 2.9 fu­ rono assunte da tessitori o dalle loro vedove. 12.. Betta di Pagolo aveva 19 anni quando lasciò l'istituto per andare a lavorare e a imparare il mestiere da Agostino di Berto, nel 1562; aveva vissuto alla Pietà per cinque anni. Vi ritornò dopo due anni (ms. 1 12/78, 75r, n. 2.92.; ms. 112/79, n. 31). Nannina di Stefano ottenne il suo contratto a 14 anni, nel 1561, dopo esser stata alla Pietà per quattro anni: ms. 1 12./78, 70r, n. 273 ; ms. I12/79, 2.2.r, n. 12.6. 13. Agniola fece il suo ingresso alla Pietà il 6 dicembre 1566; il 24 aprile 1576 andò a lavorare dal dottor Botti, per ritornare di nuovo all'istituto il 14 febbraio 1581. Vinse la causa, ottenendo un risarcimento di 3 6 scudi, l' I I aprile dello stesso anno. Il 1° apri­ le 1587 sposò Francesco di Lorenzo Callani di Quarachi. Cfr. ASF, CRSGF, ms. 112./79, s u, n . 306. 14. Domenica di Bernardino da Siena entrò alla Pietà nel 1560; nel 1568 andò a servi­ zio da Monna Margherita ( CRSGF, ms. 1 12/79, 3 1 t, n. 182.). Camilla di Lorenzo Palaz­ zuolo : CRSGF, ms. 1 12/79, 49r, n. 275. Il caso di Antonia di Marco Dalloro può essere ricostruito mettendo a confronto i due registri delle ragazze, che si sovrappongono per l'anno 1560: in CRSGF, ms. 1 12./78, n r. n. 298, il tessitore in questione è Domeni­ ca, mentre in CRSGF, ms. I12/79, 3 r, n. 14, è Domenico Verdonne. Se si esclude questo caso, nessuna delle quattro ragazze che fu assunta da vedove fece ritorno alla Pietà. 15. Questi gli introiti, espressi in lire, provenienti dalla lavorazione dei tessuti: 590.14.00 (rsss), ASF, ms. r12./97. 2.35r; 2027.rJ.oo (1ss6), ASF, ms. r12./96, Su; 239S·IJ.o8 (rss7) , 3386.ro.o8 (rss8); 3786.oo.oo (rss9, incompleto), ASF, ms. 112/ ss, 25r, ro8r, r8Jr. 1 6. ASF, CRSGF, ms. 1 12./2. 17. ASF, CRS GF, ms. 1 12./2., Ir. 18. A SF, CRSGF, ms. 1 12./2, 44v, 4 6r. 19. A oggi, l' indagine più completa sulla manifattura tessile fiorentina è quella di R. A. Goldthwaite, The Economy ofRenaissance Florence, The Johns Hopkins Univer­ sity Press, Baltimore (MD) 2.009, pp. 2.65-340. 20. Sulla connotazione di genere delle differenti mansioni della lavorazione della lana, cfr. J. C. Brown, J. Goodman, Women and Industry in Florence, in "Journal of Economie History", 40, 1980, pp. 73-80; cfr. anche Goldthwaite, Economy o/Florence, cit., pp. 322-3 6 e 3 67-76; F. Franceschi, Les enfants au travail dans l'industrie textile Fiorentine des XIV' et xV" siedes, in "Medievales", 30, 1996, pp. 69-82.; R. de Roover, A Fiorentine Firm ofCioth Manifocturers: Management and Organization ofa Sixteenth Century Business, in]. Kirshner (ed.), Business, Banking and Economie Thought in Late Medieval andEarly Modern Europe, University ofChicago Press, Chicago (rL) 1974. 2.1. E. De Roover, Florence: Glossary ofMedieval Terms ofBusiness: ltalian Series, I2oo-Iooo, Medieval Academy of America, Cambridge (MA) 1934, pp. 149 e 2.79-80. 22. lvi, pp. 279-80. 23. l pagamenti, espressi in lire/soldi/denari, affiancati dal peso della lana tra paren-

RAGAZZE PERDUTE tesi, sono tratti da ASF, CRSGF, ms. n2./2,, ;6r-v; 71r, 78r, 83r e ms. r12.h9, rv-7r. Avva­ lendoci di questi due registri, possiamo ricostruire l'andamento di un unico anno, se­ guendo il calendario fiorentino (che, com'è noto, faceva iniziare l'anno il 2.5 marzo): Andrea Parenti, 2.65.04.08 (175 libbre, 12. once); Benedetto di Filippo, 98.05.08 (r66 libbre, 12. once); Francesco detto Naso, 2.16.07.04 (36 6 libbre); Lorenzo di Bardo La­ nino 103 6.o8.o4 (1797 libbre, 17 once); Pagolo Lanino 92. 14.08 (r54 libbre). Incasso complessivo della lavorazione della lana in quell'anno: 1709.04.08. 2.4. Brown e Goodman collocano il collasso della manifattura tessile fiorentina negli anni Settanta del Cinquecento, mentre Richard Goldthwaite lo posticipa al primo decennio del secolo successivo. Cfr. Brown, Goodman, U0men and Industry, cit., p. 77; Goldthwaite, Economy o/Florence, cit., p. 2.78. Le cifre contenute nel registro contabile di Francesco de' Medici indicano, rispettivamente, il 2.1,2 e l ' r r,83%; cfr. D e Roover, A Fiorentine Finn oJ Cloth Manujacturers, ci t., p. rr8. Goldthwaite con­ ferma la cifra del 20% per i costi della filatura della lana grezza; cfr. Goldthwaite., Entre· preneurial Silk Weaver, dt., p. r r7. 25. ASF, ms. 1 12/29, rv-7r; De Roover, A Fiorentine Finn ofCloth Manufacturers, cit., p. 98. 26. L. Fioravanti, Dello specchio di Scientia Universale, Vincenzo Valgrisi, Venezia 15 64, libro I, cc. SI ss. 27. Per tutto ciò che segue e che concerne la lavorazione della seta, cfr. De Roover, Medieval Tenns, ci t., p. 3 30. cfr. anche Id., L 'arte della seta a Firenze nei secoli XIV e xv, a cura di S. Tognetti, Olschki, Firenze 1999; L. Mola, The Silk Industry ofRenaissance Venice, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD) 2.000; Morelli, La seta fiorentina, cit. 28. Dal 1440 al 1576 la sericoltura toscana registrò un incremento del 75%, del 1oo% nei successivi venticinque anni, per arrivare al 150% degli anni r 6 ro-5o. Divenne, così, il più importante comparto economico della Toscana, con una media di 1 1o.ooo lib­ bre di seta prodotte ogni anno. Cfr. J. C. Brown, A U0mans Piace liVtls in the Home: U0men s U0rk in Renaissance Tuscany, in M. W. Ferguson, M. Quilligan, N.J. Vickers (eds.) , Rewriting the Renaissance: The Discourses ofSexualDifference in Early Modern Europe, University of Chicago Press, Chicago (IL) 1986, pp. 220-21; Goldthwaite, Economy ofFlorence, cit., pp. 293-5. 29. Per maggiori notizie sulle mansioni delle donne e delle adolescenti nella sericol­ tura e nella produzione dei filati di seta in altre parti del mondo, cfr. L. M. Li, China's Silk Trade: Traditional Industry in the Modern U0rld, IS42-I937, Harvard University Press, Cambridge (MA) , 1981, pp. r8-3 3. 30. J. C. Brown, In the Shadow ofFlorence: Provincia! Society in Renaissance Pescia, Oxford University Press, New York 1982, pp. 82-5. Per Sismondi, cfr. n. 6;. La libbra toscana corrisponde a 0,34 kg, quindi le 1.200 libbre di seta prodotte dalle ragazze nel 1565 equivalgono a 408 kg. Tenendo presente il rapporto di 1o: r tra bozzoli essiccati e filo prodotto, per produrre una simile quantità di seta sarebbero stati necessari 4.080 kg di bozzoli. Considerando che ogni bozzolo aveva un peso che oscillava da 1,5 a 2,5

NOTE

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grammi, si arriva a un numero di bozzoli che va dai r.632..ooo ai 2..72.o.ooo. Cfr. anche le stime fatte a proposito da Laurent de l'Arbousset, nel 1905, e riportate in Silk and Sericulture, in Encyclopedia Britannica, vol. xx, William Benton Publisher, Chicago (IL) 1962, pp. 661-8. 3 1. C. Poni, All'origine del sistema difabbrica: tecnologia e organizzazioneproduttiva dei mulini di seta nell'Italia settentrionale {sec. XVII-XVIII), in "Rivista Storica Italiana", 88, 1 976, pp. 444-5 e 451-6; G. C. Martini, Vìaggio in Toscana, I725-1745• a cura di O. Trumpy, Pacini Fazzi, Lucca 1990, fig. 44· 32.. Per ogni libbra di seta, occorreva un'equivalente quantità di sapone appositamen­ te preparato per l'uso. Cfr. De Roover, Arte della seta, cit., p. 43· 33· Giovanni Soldani: lire 637.oo.oo (ASF, CRSGF, ms. 112/2, 93t, 96r; ms. u2/29, 3r, 4r, 5v). Baccio Comi: lire I I55.oo.oo (ASF, CRS GF, ms. 112./2., 9or; ms. u2/2.9, 3v, 5r). Il ricavato complessivo proveniente dalla lavorazione per l'anno 1565 è di 1792.oo.oo. 34· Dal 15 novembre 1565 fino al marzo 1568, Comi portò alla Pietà 1.2.64 libbre di seta, perché fossero sottoposte a varie operazioni: il 35,85% provenivano dalla Toscana e dalle cittadine del nord Italia (il 19,2.% è descritto, infatti, come « nostrale »; il 9,96% arrivava da Pietrasanta, località sulla costa toscana a nord di Lucca, e il 6,68% da Reggio Emilia); il s r,s% della seta aveva origini meridionali (44,54% da Montalto, in Calabria, e il 6,96% da Messina); del restante 10,04% non è specificata l'origine. Dal 2.6 novembre fino al s marzo rs6s (stile fiorentino), Soldani provvide 191 libbre di seta: ;6% era tosca­ na o del nord Italia (2.9,8% da Reggio Emilia e il 2.6,2.% da Pietrasanta) e soltanto il 12.% arrivava da Montalto, in Calabria; del restante 3 1,9% non sono specificate le origini. ASF, CRSGF, ms. 1 12./2., 87r-88r, 93r. È possibile che la seta proveniente dall'Italia del Sud arrivasse sotto forma di bozzoli, dal momento che in alcuni di questi conti è incluso il costo della dipanatura. Cfr. anche Morelli, La setafiorentina, cit., pp. 3 4-5. 35· Non è facile fare un computo esatto delle cifre, ma, tanto per fare un esempio, la Pietà dipanò e filò 3 1 libbre e 6 once di seta per la bottega di Zanobi da Filicaia, il 2.6 novembre 1565, e per questa quantità incassò un compenso di 42. lire, il 9 febbraio 1566: ASF, CRSGF, ms. 112/2, 93t, 96r. Il duca Cosimo I volle i nuovi statuti, che entra­ rono in vigore nel 1 562.: Riforma attenente a l'Arte della Seta et Universita di Porta S. Maria della citta di Fiorenza Firmata per li Mag. S. Luogotenente, et Consiglieri di S. Ecc. Illustr. Il di XXII di maggio MDLXII, s.e., Firenze 1570. 3 6. Dal 1460 fino al 1559, la produzione di lana aveva oscillato dai rs.ooo ai 2o.ooo panni prodotti, balzando alle 30.ooo unità dal 1560 al 1s8o, registrando poi un collas­ so a poco più di 13.000 unità negli anni rs8o-1 609, che divennero 6.ooo dal 1630 al 1 649 e 3.500 dal 1 66o al 1 6 69; alla fine del XVI secolo, la manifattura laniera impiega­ va all'incirca 12..700 lavoratori, che arrivarono a 5.400 nel 1665; a questa stessa data, la manifattura della seta dava lavoro a 15.100 persone. Cfr. Brown, Goodman, T#Jmen and Industry, ci t., pp. 76-7. 37· Per quanto segue, cfr. Brown, Goodman, T#Jmen and Industry, cit.; Franceschi, Les enfonts au travails, ci t.; F. Franceschi, Florence and Silk in the Fifteenth Century: The Origins ofa Long and Felicitous Union, in "Italian History and Culture", 1 , 1995, pp. 3 -22.; Goldthwaite, Economy o/Florence, cit., pp. 32.2.-40; Goldthwaite, Entrepre-

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RAGAZZE PERDUTE

neurial Silk Weaver, cit.; W. Caferro, The Silk Business ofTommaso Spinelli, Fifteenth­ Century Fiorentine Merchant and Papal Banker, in "Renaissance Studies", ro, 1996, pp. 417-39: P. Piergiovanni, Technological Typologies and Economie Organization of Silk Workers in Italy,ftom the I4'" to the r8'" Centuries, in "Journal ofEuropean Eco­ nomie History", 2.2. (3), 1995, pp. 543-64; Morelli, La setafiorentina, cit. 38. Morelli, La setafiorentina, cit. L'analisi di Goldthwaite differisce leggermente nel calcolo esatto dei costi, ma giunge comunque agli stessi risultati. Cfr. Goldthwaite, Economy ofFlorence, cit., p. 339· 39· Brown e Goodman (Women and Industry, cit., pp. 79-80) sostengono che gli uo­ mini si spostarono nel settore del commercio di lusso, in forte espansione. 40. Nel 1590, la manifattura tessile toscana produceva 1o.ooo panni di seta con U 12.,5% di materiale grezzo proveniente dal territorio. Questo richiedeva la manodope­ ra di 1.560 donne e bambini per tutto il ciclo dei 45 giorni necessari alla crescita dei bozzoli, altre 12.0 persone impegnate per un centinaio di giorni nell'attività di trattura dei bozzoli e 70 che, infine, lavorassero per 70 giorni alla filatura delle bave per fare il filo di seta. Nel 1 6 50 l'allevamento dei bozzoli impegnava 9.3 60 persone, 740 ne richiedeva la trattura e 42.0 la filatura. Cfr. Brown, A Woman 's Place, cit., pp. no-4. 41. Dei 14.034 lavoratori della seta registrati nel censimento del r663, 2..2.52. ( 1 6%) erano uomini, contro 1 1.782. donne (84%). C 'erano 6.084 bambini e, di questi, 4·775 erano bambine (78%). Queste cifre non tengono conto degli apprendisti. Gli adulti impegnati a tempo pieno come tessitori, tintori e torcitori erano 1.908, dei quali 1.459 donne (76%). Cfr. Brown, Goodman, Women and Industry, cit., p. 8o. 42.. Morelli, La seta fiorentina, cit., p. 62.; Goldthwaite, Economy ofFlorence, cit., pp. 3 2.2.-6. 43· Piero di Giorgio Ughi stipulò un contratto con Baccio Comi nel marzo del 1566. Le mogli del cottimista Francesco di Iacopo Barberino e del mercante Giovanni Sol­ dani erano iscritte alla Compagnia della Pietà, come lo era Monna Ginevra de' To­ lomei, anche lei legata a un contratto con Giovanni Soldani. ASF, CRSGF, ms. 112./2., 90r, 9 6r; ms. 1 12./2.9, 5r. I Tolomei vivevano nel quartiere di Santa Croce, la zona di Firenze dov'era più intensa la produzione della seta. Cfr. Caferro, Tommaso Spinelli, cit., p. 42.3. 44· Mola, Silk Industry, cit. 45· Quest'area grigia includeva anche vere e proprie donazioni. L'Arte della seta ini­ ziò a finanziare direttamente la Casa della Pietà una volta che questa si fu trasferita in via del Mandorlo, ma con somme del tutto risibili: 2.5 lire annue che divennero 75 soltanto nel momento in cui l'arte accolse la disperata richiesta di aiuti che le giunse dalla Pietà, nel 1 604. ASF, CRS GF, ms. 1 12./89, n. 17 (18-XI-1 604). 46. Così, ad esempio, nel 1565-66, quando il ricavato complessivo della lavorazione di lana e seta raggiunse approssimativamente le 1.700 lire, furono annotati 102. versa­ menti provenienti da quattro cottimisti della lana e 2.7 effettuati da due mercanti di seta. ASF, CRSGF, ms. r u/2.9, rv-7r. La somma più ingente pagata in un'unica solu­ zione (700 lire) è attribuita a Baccio Comi, per «più sete lavorate », il 4 agosto 1565.

NOTE

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47· Edler de Roover ha rilevato che i tessitori di sesso maschile impegnati a tempo pieno nella lavorazione della seta producevano ogni anno circa 300 braccia di dama­ sco, un tessuto la cui realizzazione richiedeva tempi assai lunghi, mentre le donne, im­ piegate soltanto mezza giornata, producevano all'incirca la stessa quantità di ta.ffetà, una stoffa più a buon mercato. Cfr. De Roover, Arte della seta, ci t., pp. 54-6. Nel rs6s, le ragazze della Pietà ne produssero almeno 2.ooo braccia. 48. n braccio fiorentino misurava s8.3 6 cm e solitamente era utilizzato per stabilire la lunghezza di singole pezze di stoffa, mentre l' intero rotolo veniva misurato in cannae (una canna corrispondeva a 3-4 braccia). Cfr. De Roover, Medieval Tenns, cit., p. 52. In tutto il rs6s sono annotate 3 1 vendite di stoffe di cui è specificata la lunghezza (in totale, 1.383 braccia, con un incasso che varia da 1 soldo e 7 denari, fino a 3 soldi e r denaro per braccio), insieme a quantità imprecisate di tessuti per un totale di 71.or.oo lire. Dalla tessitura si ricavarono complessivamente r6p1.04 lire e, anche considerando il tasso assai generoso di 2 soldi per braccio, si arriverebbe a ulteriori 700 braccia di seta tessuta, per un totale di circa 2..roo braccia. ASF, CRSGF, ms. u2./29, rv-6v, 129r-130r. Cfr. De Roover, Arte della seta, cit., pp. 54-6. Caferro ( Tommaso Spinelli, ci t., pp. 428-9) segnala la difficoltà di determinare le retribuzioni visto il modo in cui di solito si tenevano i conti. 49· Nel 1559 la produzione di 24 pezze di fettucce di seta generò un incasso di 9.12 lire: ASF, CRSGF, ms. rn/ss . 176r. Nel rendiconto del rs6s c'è un solo taglio di seta cardata lùngo 24 bracda, da cùi si ebbe un ricavo di 6.io lìre, ossia s soldi e 6 denari per braccio. Si tratta di una cifra in linea con quanto le donne guadagnavano lavoran­ do nelle proprie case (dai 4 soldi e r 6 denari, ai 6 soldi per braccio), ma a ogni modo molto al di sotto dei 7-ro soldi incassati da un tessitore professionista che lavorava nella sua bottega. Cfr. Morelli, Setafiorentina, ci t., pp. 74-5; Goldthwaite, Entrepre­ neurial Wèaver, ci t., pp. 82.-4; De Roover, Arte della seta, ci t., pp. 54-5. so. De Roover, Arte della seta, cit., pp. 54-6; Caferro, Tommaso Spinelli, ci t., p. 428. 51. O. Hufton, Destinifemminili. Storia delle donne in Europa I500-ISoo, Mondadori, Milano 1996, pp. 79-80. 52. ASF, CRSGF, ms. n2./8r, Manifàtture di Tele e Pigionali I554-79, dove pigionali non indica tanto gli affitti, come il termine farebbe pensare, quanto le offerte che annualmente le donne della Compagnia della Pietà versavano per il mantenimento della Casa. 53· Ringrazio Nerdia Newbigin per aver individuato questa mano "capace, ma ine­ sperta". 54· S. Pezzella, Un erbario inedito (sec. xv) dell'Italia centrale svela i segreti dellepian­ te medicinali, Orior, Perugia 2000, pp. n2, 140, 300, 314-5 e 3 18. La « ricetta per la tigna » e le due ricette per il preparato di aquilegia sono in ASF, CRSGF, ms. n2./8r, 63r-64v. 55· A S F, CRSGF, ms. n2/8r, 6sr-v. Cfr. Pezzella, Erbario inedito, cit., pp. 304 e 314; E. Marcovecchio (a cura di), Dizionario etimologico storico dei tennini medici, Festina Lente, Firenze 1993, p. 619; C. S. Johnston, C. A. Gaas, Vìnegar: Medicina! USes and Antiglycemic Ejfect, in "Medscape Generai Medicine", 8 (2), 200 6, p. 61ff.

RAGAZZE PERD UTE

La ricetta n. s era indicata per le bruciature. Per la tutia, cfr. J. Florio, A Worlde of Wordes, London 1598, p. 43 6 (ristampa Georg Olms, Hildesheim-New York 1972.) . 57· U. Potter, Greensickness in Romeo andjuliet: Considerations on a Sixteenth-Centu­ ry Disease ofVtrgins, in K. Eisenbichler (ed.), The Premodern Teenager: Youth in Soci­ ety, IISO-IOJO, Centre for Reformation an d Renaissance Studies, Toronto ( ON) 2.000, pp. 2.74-8; H. King, The Disease ofVtrgins: Green Sickness, Chlorosis, and the Problems ofPuberty, Routledge, London 2.004; M. H. Green (ed.), The Trotula: A Medieval Compendium of Womens Medicine, University of Pennsylvania Press, Philadelphia (PA) 2.001, pp. 83-7: K. Park, The Secrets ofWomen: Gender, Generation, and the Ori­ gins ofHuman Dissection, Zone Books, New York 2.00 6. 58. Soranus, Soranus' Gynecology, translation and preface by O. Temkin, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD ) 1 9 5 6 ; Dioscorides, De materia medica, he­ rausgegeben von M. Wellmann, Weidmann, Berlin 1958. 59· Green sostiene, a ragione, che Trotula non fa espliciti riferimenti ad alcun rime­ dio abortivo ; eppure, in alcune pagine menziona rimedi utili ad avviare un parto dif­ ficile o a espellere un feto morto. È questo uno dei modi in cui, indirettamente e più o meno intenzionalmente, si veicolava la conoscenza degli effetti abortivi di alcune erbe e, in effetti, ci sono piante descritte nel manuale di Trotula che autori classici e islamici inseriscono nell'elenco dei preparati abortivi (ad esempio, il bdellio, il gal­ bano, i semi di lino, la malva, la mirra, la ruta). Cfr. Green, The Trotula, cit., pp. 34, 99-105, 12. 3 -4 e 157-9. 56.

4 Adolescenti e sistemi di controllo della natalità N. Machiavelli, Mandragola, atto III, scena IV, in Id., Opere, t. VII, 1797. M. H. Green (ed.), The Trotula: A Medieval Compendium ofWomen 's Medicine, University ofPennsylvania Press, Philadelphia ( PA) w or; G. Pomata, La promessa di guarigione. Malati e curatori in antico regime, Laterza, Roma-Bari 1994. 3· La Vttae matrimonialis regula di padre Cherubino fu probabilmente pubblicata nel r487, a Firenze. Cfr. J. T. Noonan, Contraception: A History oJIts Treatment by the Catholic Theologians and Canonists, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1966, p. 343· Per gli stereotipi narrativi, cfr. E. van de Walle, ((Marvellous Secrets": Birth Contro/ in European Short Fiction, IISO-IOJO, in "Population Studies", 2. (54), 2.000, p. 32.5. Sulla forte cultura della natalità nell'Italia del Rinascimento, cfr. M. R. Beli, Ho w to Do !t: Guides to Good Livingfor Renaissance Italians, University of Chi­ cago Press, Chicago ( IL) 1999, pp. 17-72. 4· Il Tractatus de matricibus di Guainerio uscl nel 1481, all' interno della sua Opera om­ nia. Cfr. H. R. Lemay, Anthonius Guainerius and Medieval Gynecology, in J. Kirshler, S. F. Wemple (eds.), Women of the Medieval World, Basil Blackwell, Oxford 1985, pp. 32.7 e 334· La mola idatiforme è una neoplasia dell'utero originata dallo svilup­ po parziale di un ovocita fecondato o da altre cause. Tra i sintomi della mola sono r.

2..

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identificabili gonfiore addominale, nausea e perdite di sangue vaginali; la sua mancata asportazione può dare origine a infezioni, emorragie e tossiemia. 5· O. Niccoli, Prophecy and People in Renaissance Italy, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1990. 6. Aristotele discusse delle differenti fasi dello sviluppo fetale in Storie degli animali, in Id., Opere biologiche, a cura di M. Vegetti, D. Lanza, UTET, Torino 197I, p. 3· 7· Tommaso d'Aquino, In libros sententiarum, cit. in Noonan, Contraception, cit., p. 234. 8. Bernardino da Siena, De evangelio aeterno, in Opera, vol. IV, 33.2.7, citato in Noonan, Contraception, cit., p. 2I8; cfr. F. Mormando, 1he Preacher's Demons: Bernardino of Siena and the Social Underworld of Renaissance Italy, University of Chicago Press, Chicago ( IL) 1999. 9· Antoninus, Summula confessionalis utilissima, in qua agitur de auctoritate confesso­ ris, necnon de scientia ac bonitate eius, & quo se habere debeat confessor erga penitentem in confessionibus audiendis: quam reuerendus dominusJrater Antoninus Archiepiscopus Florentinus ... relatus edidit, ad utilitatem, tam confessorum, quam confttetium, par­ te I I I , cap. VI, Francisci Bindoni, & Maphei Pasini, Venezia 1538. Io. Girolamo Savonarola, Confessionalepro instructione confessorum, s.e., Firenze I524, pp. 3 4-s. u. Tommaso de Vio (Caietano), Summula de peccatis, vol. I, s.e., Venezia 1 575; T. Sanchez, De sancto matrimonii sacramento disputationem, vol. II, s.e., Venezia I 672, pp. I30 e I98-9. 12. Un esame delle leggi pubblicate e in vigore dal XIII al XVI secolo in 39 diverse città e piccoli borghi italiani porta alla luce soltanto due riferimenti al tema dell' abor­ to (Viterbo, I469, e Vallerano, I534). Il problema dell'aborto nel Rinascimento sarà oggetto della tesi, ormai prossima, diJohn Christopoulos. 13. Sisto v, E.ffraenatam, 29 ottobre 1588, in E. P. Gasparri, Codicis iuris canonicifon­ tes, vol. I, Typis polyglottis Vaticanis, Romae 1939, p. 308. 14. lvi, pp. 309-10. Per la particolare attenzione di Sisto v all'ambiente dei consacrati, cfr. Noonan, Contraception, cit., pp. 344 e 362-5. 15. Gregorio X IV, Sedes Apostolica, 31 maggio 1591, in Gasparri, Codicis iuris canonici Jontes, ci t., vol. I, pp. 330-1. 1 6. La distinzione tra feto "animato" e "inanimato" fu rimossa da papa Pio IX nel 1869, e Leone XIII si pronunciò contro ogni aborto, indipendentemente dall'età del feto e dalle condizioni che avevano spinto la donna a liberarsene. Cfr. Noonan, Contraception, cit., p. 405; J. M. Riddle, Contraception and Abortion Jrom the Ancient World to the Renaissance, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1992, p. 1 62. 17. Noonan, Contraception, cit., pp. 346-58. Sfortunatamente le riflessioni di Noonan si limitano quasi esclusivamente alla sfera dei rapporti coniugali, sebbene sia ragio­ nevole pensare che le motivazioni che inducevano a un vigile controllo della natalità fossero probabilmente persino più cogenti per tutti coloro che avevano rapporti ses­ suali al di fuori del matrimonio (adulteri, concubini, stupratori e tutti coloro che non erano ancora sposati). Per il clero, cfr. J. A. Brundage, Law, Sex, and Christian Society

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in Medieval Europe, University of Chicago Press, Chicago ( rL) 1987, pp. 2.14-2.3, 2.51-2., 342.-3, 401-4 e 53 6-9. Nella York del tardo Medioevo, i preti accusati di adulterio e fornicazione, e chiamati in giudizio davanti alla corte ecclesiastica dal 1358 al 1495, superarono di gran lunga i laici perseguiti sulla base di analoghi capi d'imputazione. Cfr. P. J. P. Goldberg, Pigs and Prostitutes: Streetwalking in Comparative Perspective, in K. J. Lewis, N. J. Menuge, K. M. Phillips (eds.), Young Medieval Women, St. Mar­ tin's Press, New York 1999, pp. 174-6. 18. Nella Sessione xxrv del Concilio di Trento si stabilì che un sacerdote che vivesse in stato di concubinato, dopo essere stato ammonito per tre volte, dovesse essere sco­ municato. Cfr. O. Hufton, Destinifemminili. Storia delle donne in Europa I500-ISoo, Mondadori, Milano 1996, p. 2.76. 19. M. Laven, Monache. Vivere in Convento nell'eta della Controriforma, il Mulino, Bologna 2.004; L. J. McGough, Quarantining Beauty: the French Disease in Early Modern Venice, in K. Siena (ed.), Sins of the Flesh: Responding to Sexual Disease in Early lvfodern Europe, Centre for Reformation and Renaissance Studies, Toronto (O N) 2.005, pp. 2.2.7-8. 2.0. Laven, Monache, cit.; J. G. Sperling, Convents and the Body Politic in Late Re­ naissance Venice, University ofChicago Press, Chicago ( rL ) 1999, pp. 12.4-7 e 142.-8. 2.1. La vicenda risale agli anni 1513-1 6. Cfr. M. Bandello, La terza parte de le novelle, a cura di D. Maestri, Edizioni dell'Orso, Alessandria 1995, vol. III, n. 52., pp. 2.3 8-9; Van de Walle, Marvellous Secrets, ci t., p. 32.5. 2.2.. Si tratta di una causa della corte secolare dei Provveditori sopra i monasteri di monache, dell'anno 1 609: ASV, PSM, B. 12., 3 1 gennaio 1608 more veneto. Cfr. anche Laven, Monache, cit., p. 149. 2.3. Nel marzo 1558 (stile fiorentino), Luca Fabbioni scriveva ai capitani di Parte Guelfa per denunciare due frati francescani di S. Iacopo in Soprarno. Era un con­ vento di "zoccolanti", teoricamente il ramo più povero e radicale dell'ordine. I frati si erano recati presso un alloggio del!' Orbatello, dove vivevano due vedove, Pulisena, di 40 anni, e Mattea, di 3 s; non appena una delle due coppie dette avvio all'amplesso amoroso, l'intero gruppetto fu colto di sorpresa e denunciato da un'altra vedova che viveva al piano di sopra. Fabbioni si lamenta del fatto che non si tratti di un episodio isolato e che all'Orbatello venivano anche alcuni frati di San Piero del Murone; ag­ giunse, poi, che era in corso un intenso scambio epistolare, di carattere amoroso, tra i religiosi e alcune delle donne che sapevano leggere e scrivere. Cfr. A S F, capitani di Parte Guelfa, Numeri Neri, 707, Suppliche del I559, n. 104 ( u marzo 1558, stile fioren­ tino). Allo stesso modo, nel 1560, due uomini del paese di Marradi furono accusati di aver aggredito un sacerdote del posto, dai compaesani ritenuto un ribaldo, colpevole a loro giudizio di aver messo incinta la cugina di uno dei due aggressori. Cfr. ASF, O GBP, ms. 2.2.35, n. 346 ( 18 luglio 1560 ). 2.4. G. Sercambi, Il novelliere, vol. II, Salerno editrice, Roma 1974, pp. 3 e 85; P. Kunst­ mann (ed.), Miracles de Notre-Dame: Tires du Rosarius, University of Ottawa Press, Ottawa (oN) 1991.

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2.5. Van de Walle d ricorda che, delle tre possibili maniere per evitare una gravidan­ za indesiderata - contraccezione, aborto e occultamento, non solo della gravidanza, ma anche del nascituro -, le novelle rinascimentali scelsero in modo preponderante la terza, l'occultamento, spesso presentata come una scelta pensata dai protagonisti proprio per escludere le altre due opzioni. È interessante notare che i racconti della tradizione spagnola e tedesca, al contrario di quella francese, raramente concordano su questo punto. Cfr. van de Walle, Marvellous Secrets, dt., pp. 32.1-2. e 32.9. 2.6. Riddle, Contraception andAbortion, cit., pp. 144-57. 2.7. Lemay, Medieval Ginecology, cit., p. 32.3. 28. Il cerusico o chirurgo Maestro Simone incassava ogni anno 14 lire, versate in due rate, mentre il medicofisico Francesco Ruggieri ne guadagnava poco più del doppio, 2.9 (al netto dei costi di ogni medicinale) , erogate in tre rate annuali. Cfr. A S F, CRSGF, ms. 112/29 126r, 12.8v, 130r, 132v, 133v, 13 5v, 137r, 140r, 143V, 150v, ISIV, r6rr. 2.9. L. Bonacioli, Muliebrium libri, in C. Wolf (a cura di), Gynaeciorum, Thomas Guarin, Basilea (1566), vol. n, pp. 577-94. Per i salassi, cfr. pp. 578-8 1 e 586. I medici temevano anche che, in pazienti prive di mestruo regolare, il sangue mestruale po­ tesse dirigersi verso il cervello, causando forme di demenza. Praticare dei salassi sul piede durante le fasi di luna crescente avrebbe potuto scongiurare una cale minaccia. Hufi:on, Destinifemminili, cit. 30. Pomata, La promessa di guarigione, ci t.; E. Rosslin, Ilgiardino delle rose, s.e., Stra­ sburgo 1513. 3 1. Cfr. M. Salernitano, Il novellino, a cura di S. S. Nigro, Rizzoli, Milano 1990, p. 170; van de Walle (Marvellous Secrets, cit., p. 32.6) prende le distanze da questa interpretazione. 32. Raccolta di ricette medicinali da diversi autori copiata da una che era in S. }vfaria Nuova. Cfr. BNCF, Magliabecchi XV.92. Il manoscritto in folio di 192. carte è datato 15 ottobre rsrs e lo scrivano Ettore di Lionello di Francesco Baldovinetti lo descrive come « uno libro universale di più cose avete ridette isperimentate e provate aute [ ... ] cavate pure di Sancta Maria Nuova ». L'indice del volume occupa le prime 19 pagine, con svariate ripetizioni e senza seguire un ordine preciso, cosa che potrebbe indi­ care che Baldovinetti semplicemente copiava le ricette prelevando via via i volumi dagli scaffali. Tra le autorità che egli cita figurano Ficino, Fruosino, Michele da Pe­ scia, Francesco Gamberai, Antonio degl'Agli, Jacopo di Monte, Giovanni Cerretani e Dino del Garbo. Il dentifricio cui si fa riferimento si trova alla carta 37v. Molti altri manuali più antichi di scienza medica raccolgono rimedi nello stesso identico modo. Cfr. Green, The Trotula, cit. 33· Per una più ampia analisi del contesto in cui fu scritta la Raccolta del dottor Pago­ lo, cfr. J. Henderson, The Renaissance Hospita!: Healing the Body and Healing the Soul, Yale Universicy Press, New Haven ( CT) 2.006, pp. 297-3 35. Per Henderson la Raccolta è il ricettario ufficiale dell'Ospedale di Santa Maria Nuova, ma la giustapposizione delle ricette e i frequenti richiami ai volumi conservati nella biblioteca dell'ospedale fanno piuttosto pensare a una delle numerose raccolte di ricette commissionate dai

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dottori per il loro uso personale descritte da D. Gentilcore, Healers and Healing in Early Modern Italy, Manchester University Press, Manchester 1998, pp. 57 e 109-12. Cfr. anche W. Eamon, Science and the Secrets o/Nature: Books ofSecrets in Medieval and Early Modern Culture, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1994· Altri esemplari di simili collezioni a uso personale sono in BNCF Magliabecchi xv (soprat­ tutto i mss. 1 11-18). 34· Più precisamente, il termine "aristolochià' significa "nascita", "parto eccellente" e qui l'autore allude all'uso che di questa pianta si faceva per favorire un parto prema­ turo (N.d.T.). 3 5· Riddle, Contraception andAbortion, cit., pp. 12.7-34. 3 6. ASF, Arte dei medici e Spezia/i, ms. 4, 43r-44v, 53r-ssv. 37· In due mesi (dal 1 4 aprile al 19 giugno 1562.), la Casa della Pietà spese 98 lire per « robe medicinali» o «più medicine» , sebbene non ne venga fornito un elenco pre­ ciso. Cfr. A S F, CRSGF, ms. 1 12/2.8, 97 r. I costi delle varie terapie superarono le 130 lire nel 1566 e le 2.2.0 nel 1 567, ma scesero a sole 7 nel 1 570 e a poco più di 4 nei due anni seguenti. Dal 7 luglio 1569 fino al maggio 1574, la Pietà versò un totale di 42..o.8 lire per medicinali: A S F, CRSGF, ms. 1 12./29, IS4V, 178V, 184r, 185r, 187r, 191r, 193r, 2.10r, 2.2.5V, 23or, 239v. Cfr. anche ms. 112./57, 30r-v. 38. Lemay, Medieval Gynecology, cit., p. 326. 39· Riddle, Contraception and Abortion, cit.; Eve's Herbs (corrispondenza privata). 40. N. Z. Davis, Scandale a l'Hotel-Dieu de Lyon {ISJJ-I54J), in F. Bayard (éd.), La France d'Ancien régime: Etudes réunies en l'honneur de Pierre Goubert, t. I, Privat, Toulouse 1984, pp. 18 1-5. 41. Questa norma fece la sua comparsa negli statuti del 1577: ASF, Onesta, ms. 3, 18r. 42.. ASF, Acquisti e Doni 2.91, Carnesecchi (carte n.n.), casi del 1560 e 1561. 43· A S F, Acquisti e Doni 2.91, Onesta (n.n), caso del giugno 1562. 44· Se non si trattò di fervore religioso, allora Giovanni potrebbe essersi ispirato al mito classico del Sogno di Ecuba. Mentre era incinta del figlio Paride, Ecuba, regina di Troia, sognò di partorire un tizzone ardente che avrebbe incendiato l' intera città. Suo marito, il re Priamo, decise allora di esporre il bambino, che, tuttavia, riuscì a sopravvivere e a realizzare il sogno premo nitore. Giulio Romano realizzò un affresco per il Palazzo del Tè di Mantova proprio su questo tema mitologico, in cui, stabilendo un inquietante collegamento con l'affresco di San Gimignano, mostra un demonio alle spalle di Ecuba dormiente e nuda, mentre trae una torcia accesa dalla sua vagina. 45· Girolamo (1490-1561) ricoprì per il ducato molti incarichi di primaria impor­ tanza, inclusi quelli all' interno di magistrature preposte alla tutela della legge e del sistema giuridico (tra queste, anche l'Onestà), al governo degli enti assistenziali e dell'apparato burocratico del ducato. Per tutta la seconda metà degli anni Cinquanta del Cinquecento fu membro, in maniera pressoché continuativa, del Magistrato Su­ premo, il consiglio privato del duca e il più importante organismo politico dello stato. A S F, Raccolta Sebregondi, ms. 5004. Redasse le sue volontà il 2. novembre 1559 e morì

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il 2I maggio I S 6 I. Per il suo testamento e l'inventario, cfr. ASF, Acquisti e Doni 29I, Carnesecchi (n.n), caso del I SS 9· 46. Opera di Santa Maria del Fiore, in http:/ /www.operaduomo.firenze.it/battesimi. 47· Dal I 53 I al 1539 i neonati abbandonati alla ruota degli Innocenti furono il 21,9% del totale dei bambini battezzati in città, il 38,9% nel solo 1539. Tra il r548 e il 1552, i casi di abbandono oscillarono dal 2.0,9 al 37,3% del totale dei battesimi registrati nello stesso periodo. In termini assoluti, si passò dai 417 casi del 1547 agli 884 del I SS I, pri­ ma di scendere ai 607 casi del I552. 48. J. K. Brackett, Criminal ]ustice and Crime in Late Renaissance Florence, 1537I6o9, Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 1 10. 49 · il registro dei primi quattro anni di attività dell' istituto di Santa Maria delle Ver­ gini menziona 85 ragazze; di queste, 28 trovarono impiego come domestiche nelle case. Ne ritornarono 19; 7, invece, fuggirono. Cfr. ASF, Ceppo, ms. 145, 171-87. Nel 1571, San Niccolò contava 57 ospiti, cui se ne aggiunsero 35 a partire dal 1579: di queste 92, 39 lasciarono la casa per andare a servizio (i due terzi di queste provenivano da famiglie non fiorentine). I documenti, poi, risultano lacunosi, ma si evince che dal 1579 al 1598 entrarono ulteriori 113 ragazze e, di queste, 26 stipularono contratti come domestiche. Dai registri non si riesce a capire se, e quante, fecero ritorno all' istituto. Cfr. A S F, Ceppo, ms. 59, Io;-u8v, 12.8v-I82.t. Delle 6o domestiche uscite dalla Pietà di cui siamo in grado di rintracciare la provenienza, soltanto 23 erano fiorentine, mentre 37 avevano origini diverse. Cfr. ASF, CRSGF, mss. 1 12/78 e 79· so. Per il numero delle prostitute registrate, si rimanda alla copia del censimento del 1562, Trkulja, IFiorentini nehs62,XX, 68v, 69. Stando alla ricerca del 1562, in via Nuo­ va si contavano 77 nuclei familiari, composti da 155 uomini e 193 donne; nel chiasso di Codarimessa vivevano, invece, u famiglie, per un totale di 6 uomini e 24 donne, mentre in piazza San Paolo ce n'erano ;, con IO uomini e IO donne. Cfr. ASF, Decima Granducale, ms. 3782, 25v-27r, 37v-39v, 427r-4ssv, 637r-681v. 51. Il vero nome della "Vescovina" era Lisabetta Baccianti e comparve di fronte ai magistrati dell'Onestà nel I562 per aver assunto una giovane ragazza come domestica. Cfr. A S F, Acquisti e Doni 29I, Onesta, n. n. (I562). 52. Il Capitolo della Cattedrale e i frati francescani di Ognissanti detenevano 21 delle 77 abitazioni di via Nuova, 8 delle 1 1 di Codarimessa e tutti i s alloggi di piazza San Paolo; cfr. nota sr. 53· Van de \Valle, Marvellous Secrets, cit., p. 326; P. Aretino, Ragionamenti, Rizzoli, Milano 1998. 54· El Ricettario. Questo volume si basa sul primo ricettario ufficiale fiorentino, composto nel 1499, nel quale si illustrano, a tutti gli speziali muniti di licenza in città, le ricette ufficialmente consentite. Cfr. Henderson, Renaissance Hospital, cit., p. 297· SS· Bonaventure Des Périers, Nouvelles recreations etjo)leUX devis, cit. in van de Walle, Marvellous Secrets, cit., p. 324, che su questo punto segnala lo scarto tra la tradizione novellistica italiana e quella francese.

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s6. Seguendo la descrizione qui riportata, si tratta rispettivamente dei mss. 81, 97 e s6, conservati nei depositi della Pietà. Cfr. ASF, CRSGF, ms. 1 12/5 6, 61v-72.r; ms. 112/81, 4r-17v; ms. 1 12-/97, rr-83r. 57· n nuovo criterio utilizzato per identificare la provenienza familiare delle donne faceva seguito alle misure volute dal ducato per distinguere i casati di rango senatoria­ le da quelli di inferiore livello politico-sociale. Alcune delle donne iscritte alla Com­ pagnia della Pietà utilizzavano il nome della propria famiglia d'origine, altre quello del casato del marito. A S F, CRS GF, ms. 1 1 2-/81, ms. 1 12-/97· Sulla breve durata di molte compagnie femminili, cfr. S. Strocchia, Sisters in Spirit: The Nuns oJS. Ambrogio and Their ConsororitJ' in Early Sixteenth-Century Florence, in "Sixteenth Century Jour­ nal", 33 (3), 2-002, pp. 735-67; Eckstein, The Widows'Might, cit., pp. 99-118. s8. R. Manne Tolu, Echi savonaroliani nella Compagnia e nel conservatorio della Pie­ fa, in G. C. Garfagnini (a cura di), Savonarola e la politica, SISMEL, Firenze 1997, pp. 2-09-2-4.

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Radicalismo religioso nel Rinascimento. Giovani donne nei guai r. Detto di donna che "si liscia", si imbelletta (N.d.T.). 2-. A. Grazzini, La pinzochera, atto III, scene I, II, III. 3· Cfr. Girolamo Savonarola, Libro della vita viduale, in M. Ferrara (a cura di) , Ope­ rette Spirituali, vol. I, A. Belardetti, Roma 1976, pp. 9-62. 4· D. Weinstein, Savonarola and Florence: Prophecy and Patriotism in the Renais­ sance, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1970; L. Martines, Fire in the City: Savonarola and the StruggleJor Renaissance Florence, Oxford University Press, New York wo6; K. Eisenbichler, Savonarola Studies in Italy on the 500th Anniversary ofthe Friar's Death, in "Renaissance Quarterly", 52-, 1999, pp. 3 8 6-94. S· L. Polizzotto, When Saints Fall Out: JtVomen and Savonarolan Reform in Early Sixteenth-Century Florence, in "Renaissance Quarterly", 46, 1993, pp. 486-95; T. Her­ zig, Savonarola's JtVomen: Visions and Reform in Renaissance Italy, University of Chi­ cago Press, Chicago ( IL) 2007, in particolare cap. 5· 6. Per quanto segue, si rimanda a L. Polizzotto, The Elect Nation: The Savonarolan Movementin Florence, I494-I545, Oxford University Press, Oxford 1994; S. Dall'Aglio, Savonarola e il savonarolismo, Cacucci Editore, Bari 2-005; Martin es, Fire in the City, cit.; J. M. Najemy, A History o/Florence: I200·I575· Blackwell, Oxford 2-006. 7· Polizzotto, The Elect Nation, ci t., pp. 3 22 e 334-86. 8. Sui tentativi dei padri domenicani di San Marco di esercitare il loro controllo su al­ tri quattro conventi, sforzi che s' intensificarono durante il XVI secolo, cfr. Polizzotto, When Saints Fall Out, cit., pp. 52-2--3; S. Strocchia, Savonarolan Witnesses: The Nuns of San ]acopo and the Piagnone Movement in Sixteenth-Century Florence, in "Monastic Matrix", 2007, 38, pp. 393-418. 9· Riunendo i tre elenchi rimasti degli appartenenti alla Compagnia della Pietà ot-

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teniamo una lista generale di 385 nomi: di questi, r 62 sono anche rintracciabili nella petizione al papa del 1497. ASF, CRSGF, ms. u2./s6, ms. r12./8r, ms. 112./97· Cfr. Poliz­ zotto, The Elect Nation, ci t., pp. 446-6o. ro. A SF, Acquisti e Doni 2.91, Onesta (n.n.), caso del giugno rs62. u. Sono tutte vedove appartenenti a rami cadetti minori della famiglia medicea: An­ dreuola fu la moglie di Giovanni Francesco di Orlando de' Medici, Margherita di Francesco de' Medici; anche Francesca è inserita nel gruppo delle vedove. Cfr. ASF, CRS GF, ms. 1 12/8r, l.OV, 4IV. 12. R. Manno Tolu, Echi savonaroliani nella Compagnia e nel conservatorio della Pie­ tà, in G. C. Garfagnini (a cura di), Savonarola e la politica, S I SMEL, Firenze 1997, pp. 218-2.2.; Polizzotto, The Elect Natio n, cit., pp. 3 6 6 e 3 8s; C. Guasti (a cura di), Le lettere di S. Caterina de' Ricci, s.e., Firenze r89o, p. 301; A S F, Biga/lo, r 6 69/Iv, 2.oor; ASF, te 72.5, 59r. Il testamento di Marietta Gondi è in ASF, ms. 112./92. (2.s-n-rs69 sf). Anche la famiglia Vespucci, che aveva fondato e finanziato l'Opedale di Santa Maria dell' Umiltà contava un iscritto alla Compagnia della Pietà: Andrea Vespucci le de­ stinò una donazione annuale di un fiorino, almeno per tutto il periodo di cui i docu­ menti conservano traccia. ASF, CRSGF, ms. 112/97, n. 2.00, 34r, 57r, 76r. 13. L'elenco degli affiliati proviene da due fonti diverse: ASF, CRS GF, ms. 11 2./97, u83r (dal 28 dicembre 1554 al 17 dicembre 1 558). Cfr. anche A S F, CRSGF, ms. I I2/8r, dove il registro si apre con Marietta Gondi, il ro settembre 1554. Di solito le donazio­ ni non superavano qualche fio rino: solo r8 dei primi 2.70 sostenitori offrirono più di uno scudo, mentre i restanti si fermarono alle r,s/ 2,ro lire. Nel 1557. le «limosine dalle donne» raggiunsero le 803-15 lire (il 7,6% dell'incasSO totale), 589.I6.o8 lire nel 1558 (5,4%). A S F, CRSGF, ms. r 12./s5, 2.5r, ro8r. Cfr. anche R. Mannu Tolu, "Ricordanze" delle abbandonatefiorentine di Santa Maria e San Niccolò del Ceppo nei secoli XVI­ XVIII, in L. Borgia et al. (a cura di), Studi in onore di Arnaldo D 'Addario, Conti, Lecce 1995, e Mannu Tolu, Echi savonaroliani, cit., pp. 2.18-23. Unico componente maschile della Compagnia fu padre Giovan Maria, frate francescano di Santa Croce. 14. Il s luglio 1555 cinque donne (Marietta Gondi, Margherita Bonsi, Alessandra Mazzinosi, Marietta Strozzi e Maria del Pugliese) intervennero con elemosine che andavano da 70 a 75 lire e un uomo (Niccolò Doni) con 35 lire per far fronte a un'ur­ gente, ma imprecisata necessità. ASF, CRS GF, ms. 112./97, 4r-s5v. La Pietà beneficiò di un piccolo sussidio governativo, sotto forma di donazioni di sale, dal 1557. Cfr. Man­ no Tolu, Echi savonaroliani, cit., p. 2.10. 15. BRF, Moreni, AD 93. p. 2.. 1 6. N. Terpstra, L'infanzia abbandonata nell'Italia del Rinascimento. Strategie di as­ sistenza a confronto, Firenze e Bologna, CLUEB, Bologna 2014, pp. 222-41. 17. Qualche anno più tardi un analogo istituto bolognese formulò in maniera espli­ cita questo tipo di argomentazione. Cfr. L. Ferrante, Honor Regained: Women in the Casa del Soccorso di San Paolo in Sixteenth Century Bologna, in E. Muir, G. Ruggiero ( eds. ) , Sex and Gender in Historical Perspective, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (Mn) 1990, pp. ; 6-57 e 62-64.

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18. Gli statuti del 1570 eliminarono in modo esplicito una consuetudine che sembra riunisse tutte quelle ragazze che ricoprivano qualche ruolo di responsabilità nella casa (come sorveglianti o addette ai servizi) in un'attività che combinava servizio religioso e correzione fraterna: «L'ordiniamo che tutte le ofìtiali acendino ognuna alli loro hofìtij non facendo insieme con Bibbia per chasa che ne viene di molto schandolo ma quando acadesse qualche difecco referirlo alla madre e maestro» (B RF, Bigazzi, ms. 61, 8r-v). 19. Savonarola, Libro della vita viduale, cit., p. 51. 20. Così, ad esempio, padre Girolamo Finugi è semplicemente indicato come «pa­ dre Girolamo Capudno » e i lettori delle Croniche non sarebbero mai potuti venire a conoscenza del facto che più tardi egli divenne provinciale della provincia toscana dei cappuccini, che fu uno dei delegati al Concilio di Trento, professore di teolo­ gia a Roma e teologo a servizio di papa Pio v. Cfr. Manna Tolu, Echi savonaroliani, cit., pp. 2-II-2, n.n. 14-15. Le Croniche individuano erroneamente anche un successivo direttore spirituale della Pietà, Francesco Franceschini, come un sacerdote secolare, mentre si trattava di un monaco camaldolese. Cfr. N. Terpscra, Conftaternities and Mendicant Orders: The Dynamics ofLay and ClericalBrotherhood in Renaissance Bo­ logna, in "Catholic Historical Review", 82, 1996, pp. ro-13 e rs-n Per i gesuiti e Savo­ narola, cfr. Dall'Aglio, Savonarola e il savonarolismo, cic., pp. 172 ss. 2.1. ASF, Biga/lo, 154, 2.33. Per le donazioni del Bigallo alla casa della Ginori, cfr. ASF, Biga/lo, 1 679, 57r. Inizialmente il ricovero della signora Ginori occupò gli ambienti dell'ex Ospedale di San Niccolò dei Panconi, in piazza San Felice, che ricadeva sotto il controllo della magistratura del Bigallo. Cfr. Terpstra, L infonzia abbandonata, cit. 2.2.. La Pietà viene indicata come « Spedale delle Abbandonate in Borgo Ognissancti» . Per gli altri due ricoveri, invece, s i utilizzano appellativi un po' meno generici: san Nic­ colò viene chiamato «san Niccolò delle Abbandonate» e santa Maria delle Vergini «l'Abbandonate della via di San Piero Gattolini». Cfr. S. M. Trkulja (ed.), Ifiorentini nel I562, vol. III, Alberto Bruschi, Firenze 1991, 13, 69. 2.3. ASF, CRSGF, ms. 112./97, 13v, 14v, 57r, 74r. Non abbiamo un elenco completo di tutti i finanziatori e collaboratori di casa Ginori, ma due dei quali conosciamo i nomi - Ales­ sandra di Paradiso Mazzinghi e Margherita Bonisegnio - figurano anche tra i primi donatori della Pietà. ASF, Biga/lo, 154, r6rr. Cfr. ASF, CRSGF, ms. 112./97, rv. 2.4. F. Marchi, Vita di R.do Padre Frate Alessandro Capocchi Fiorentino dell'Ordine di San Domenico, s.e., Firenze 1583; Polizzotti, The Elect Nation, cit., pp. 43 8-45; Dali 'A­ glio, Savonarola, cit., p. 1 82.; A. D Addario, Note di storia della religiosità e della carita dei Fiorentini nel secolo XVI, in "Archivio Storico Italiano", 12.6, 1968, pp. IOO-I. Tra quelli che intrapresero un'opera di personale riscrittura dell'esperienza di Savonarola vi fu padre Marco di Francesco della Casa, la cui madre, Bitia, fece parte della Com­ pagnia della Pietà. Cfr. ASF, CRSGF, ms. 112./97, n. 145. 2.5. BRF, Moreni, AD 93, 193r-194V. San Giovannino fu il primo convento gesuita della città di Firenze. Cfr. G. Aranci, Fonnazione religiosa e santità laica/e a Firenze tra Cinque e Seicento, Giampiero Pagnini, Firenze 1997, pp. 1 40-5. 2.6. Un frate che contribuì alla stesura delle Croniche scrisse che l' amministrazio­ ne portata avanti dalle donne fu « sanza ordine alcuna» . Cfr. BRF, Moreni, AD 93, '

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pp. 4-10 e 13. Manno Tolu è del parere che la Compagnia della Pietà ebbe statuti fin dal suo esordio, ma (come lei stessa ammette) non rimane in merito alcuna prova documentale. Cfr. Manno Tolu, Echi savonaroliani, ci t., p. 2.15. 2.7. «Non possono più perseverare nello abitazione senza somma pernicie e danno d'es­ se [ ... ] e cavare dette povere fanciulle di tanto pernicioso luogo». Lettera del 18 ottobre 1561 della Compagnia della Pietà al duca Cosimo I, cit. in BRF, Moreni, AD 93, p. S· 2.8. L. J. McGough, Quarantining Beauty: the French Disease in Early lvfodern Venice, in K. Siena (ed.), Sins ojthe Flesh: Responding to Sexual Disease in Early Modern Eu­ rope, Cenere for Reformation and Renaissance Studies, To ronco (oN) 2.005, pp. 2.31-2. . 2.9. Caterina del Cavaliere Rosso risulta il settantanovesimo membro iscritto alla Compagnia della Pietà (13 ottobre 1554). Cfr. A S F, CRSGF, ms. 1 12./8r, 6v; ms. n2./97, 14r, 55r. Il suo nome scompare dall'elenco nel 1567, mentre una Camilla Rosso si ag­ giunse dal 1563. Cfr. ASF, CRSGF, ms. 1 12./56, 64v. n. 13. 30. Anche Girolamo da Sommaia, figlio di Francesco da Sommaia, uno dei firmatari della petizione a papa Alessandro VI, entrò a far parte della famiglia dei piagnoni. Cfr. A S F, ms. 1 12./88, cc. rv, 4v. La sede prescelta in piazza San Marco era l'Ospedale di san Iacopo de' Preti, utilizzato da tessitori disposti a barattarlo con la casa di da Som­ maia in via Palazzuolo. Le contrattazioni e alcune delle lettere spedite dalle donne sono in BRF, Moreni, AD 93, pp. 10-7, 197r·I97v. Cfr. P. Macey, Infiamma il mio core: Savonarolan Laude by andfor Dominican Nuns in Tuscany, in C. A. Monson (ed.), The Crannied Wall: U'òmen) Religion) and the Arts in Early JV!odern Europe, Univer­ sity ofMichigan Press, Ann Arbor (MI) 1992., pp. 1 64-5. 3 1. Lucia di Marco da Lecore (n. 332.), Betta di Batista materassaio (n. 333), Diamante di Giovanni Battista di Romagna (n. 3 34). Domenica di Marco da Firenze arrivò il 23 novembre 1568 e morì il 3 1 gennaio 1569 (stile moderno) : ASF, CRS GF, ms. 1 12./79, s6r. Il cimitero e la chiesa furono consacrati il 2. novembre rs68 con il nome di Santa Maria della Grazia: A S F, CRS GF, ms. n2./89, n. 3· 32.. Per il volume di Ricordanze e per Franceschini, monaco camaldolese, cfr. ASF, CRS GF, ms. 112./88, 4v; ms. 112./J, 2.7r-2.8v. Cfr. anche BRF, Moreni, AD 93, pp. 13-4. I re­ gistri della Pietà non specificano da quale convento camaldolese Franceschini proven­ ga, sebbene probabilmente si tratti di Santa Maria degli Angeli, noto centro della vita intellettuale fiorentina, appena tre isolati a sud di via del Mandorlo. Questo convento, assieme a quello di san Felice in Piazza, finì nei guai intorno agli anni Novanta del xv se­ colo, quando era priore generale dell'ordine Pietro Delfino, a causa dd suo appassionato sostegno alla causa di Savonarola. Cfr. C. Caby, De l'érémitisme rural au monachisme urbain: les camaldules en Italie a lafin du Mo)'en Age, Ecole française de Rome, Rome 1999, pp. 781-83. Capecchi divenne padre spirituale di Santa Maria delle Vergini nel 1580; l'anno dopo morì. Cfr. D'Addario, Note di storia della religiosità, cit., p. 101. 33· BRF, Moreni, AD 93, p. 12., 192.r-v, 194v. H· Si tratta di Santa Maria del Querceto (più tardi rinominato Sant'Agata), in via di San Gallo (secondo il censimento del 1562. ospitava I I 2. suore). Cfr. Trkulja, I Fioren­ tini, cit., 108, u8v. 35· K. Gill, Scandala: Controversies Concerning Clausura and U'òmen's Religious

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Communities in Late Medieval Italy, in S. L. Waugh, P. D. Diehl (eds.), Christendom and lts Discontents: Exclusion, Persecution, and Rebellion, Iooo-Isoo, Cambridge Uni­ versity Press, Cambridge 1996, pp. 177-203; G. Zarri, "The Third Status", in A. ]. Schutte, T. Kuehn, S. Seidel Menchi (eds.), Time, Space, and Women s Lives in Early Modern Europe, Truman State University Press, Kirksville (Mo) 2001, pp. 18 1-99. Co­ simo I aveva già provveduto alla pubblicazione dei decreti tridentini nel 1564. 3 6. Archivio Arcivescovile di Firenze, Vìsite pastorali, 9.1. Cfr. Aranci, Formazione religiosa, cit., pp. 39-43. Due degli autori delle cronache della Pietà differiscono nei loro racconti su Altoviti: padre Giovan Battista Bracchesi sostiene che l'arcivescovo ordinò l'avvicendamento dei domenicani dopo che il monaco camaldolese France­ schini ebbe lasciato il suo incarico, mentre padre Romano Felice Viccioni riferisce che furono le donne a licenziarlo il giorno dopo aver ricevuto rassicurazioni da parte di Capecchi e del padre provinciale che il convento di San Marco avrebbe provveduto loro un «padre confessore » . Cfr. BRF, Moreni, AD 93, p. 15, 194v. 37· La Pietà aveva sborsato al convento di padre Capecchi, Santa Maria Novella, 15.os.oo ogni mese, mentre al camaldolese Franceschini erano andate IO.OJ.IO lire mensili; i padri domenicani di San Marco richiesero, invece, 21 lire al mese, in con­ tanti, a differenza dei camaldolesi che accettavano anche pagamenti in natura. Cfr. ASF, CRS G F, ms. 112/3, 2f, 3r, 4r, sr, 27r-28r, 39V, 3 6v, 38r, 150r, 157r. ms. 112/88, 4V; Strocchia, Savonarolan Witnesses, cit., pp. 398-403. I padri di San Marco mantennero la condotta già adottata nel 1507, quando assunsero la direzione spirituale della con­ fraternita dei fanciulli della Purifìcazione, facendone una compagnia di fede savona­ roliana. Cfr. L. Polizzotto, Children ofthe Promise: The Confraternity ofthe Purifica­ tion and the Socialization ofYouths in Florence, I427-I7S5, Oxford-Warburg Studies, Oxford University Press, New York 2004, pp. 137-46. 3 8. La maggior parte delle confraternite precisava l'identità degli iscritti che avevano provveduto alla compilazione degli statuti fondativi, indicando con esattezza anche il giorno in cui tali statuti erano stati formalmente recepiti dalla Compagnia; della pa­ ternità degli statuti della Pietà, invece, non resta traccia, né del momento della loro approvazione. Seguono in gran parte la tradizione degli altri regolamenti confrater­ nali, fatta eccezione per il secondo capitolo (sulla vita e le buone abitudini), che si presenta come una serie piuttosto casuale di regole partorite dalla mente dell'autore e riversate su carta senza un criterio prestabilito, se non quello di rispondere a proble­ matiche sorte in passato. Cfr. B RF, Fondo Bigazzi, ms. 61, 6v-14v. 39· lvi, 9r. 40. lvi, 3 1v-33r (maestra delle novizie), 45v-48v (condotta). La direttrice della casa viene definita « madre generale» (ivi, 25r-27r). 41. Nel suo testamento, la signora Gondi indicò la Pietà come sua erede universale, soggetta all'unico obbligo di versare alle sue due domestiche quattro fiorini d'oro all'an­ no, almeno finché fossero rimaste all'interno del conservatorio: ASF, CRS GF, ms. 112/92 (25 febbraio 1569 s.f.). Le cronache riferiscono due date diverse (e in due contesti diffe­ renti) per la prima celebrazione di una vestizione: oltre alla festa dell'Annunciazione, anche quella dell'Assunzione della Vet·gine Maria, il 15 agosto: BRF,Moreni, AD 93, 193r. Cfr. anche Polizzotto, Children ofthe Promise, cit., pp. 137-46.

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42. ASF, CRSGF, ms. 1 12/57, 208r, 264rY. 43· Negli anni 1574-75 le uscite raggiunsero le 26.243 lire, mentre le entrate si fermaro­ no a sole r 6.584 lire. L'anno successivo fu registrata un'eccedenza di 2.6oo lire, su un bilancio di 21.2.82 lire, e le spese subirono un ulteriore riduzione, arrivando nel rsn-78 a 12..895 lire. Si tratta dell'ultimo anno per cui disponiamo di documenti leggibili, quindi non è possibile stabilire con esattezza se questi tagli onerosi continuarono anche negli anni a venire. Cfr. ASF, CRSGF, ms. 1 12/87, r82.rv, 2.08rv, 2.64rv, 307rv. 44· A S F, CRSGF, ms. 1 12/79. Dopo Camilla di Andrea (42r, n. 248), altre 18 ragazze lasciarono la casa negli anni Settanta del Cinquecento, due negli anni Ottanta, l'ulti­ ma delle quali fu Lisabetta di Battista da Santa Maria in Bagno (76r, n. 462). 45· BRF, Fondo Bigazzi, 61, 45v-48v. 46. Ecco i ricavi (in lire) della manifattura tessile della casa riportati nei documenti in A S F, C RS GF, ms. 1 12./57. 1573: 1 1.169.05.00 (r8u-v); 1574-75: 4·463-12.04 (w8r-v); 1576: 10.2.89.08.11 (2.64r-v); 1577: 5·995· 03.06 (307r-v); 1578: 4·993.01.00 (3 3or-v). Non rimangono registri contabili degli anni successivi. Per un prospetto che metta a confronto le diverse percentuali di più istituti lungo differenti periodi, cfr. Terpstra, L 'infanzia abbandonata, cit., Appendice. 47· Alla fine degli anni sessanta del Cinquecento, le elemosine garantivano il 36% delle entrate, il 2o% alla fine degli anni Settanta. Cfr. A SF, CRSGF, ms. 112/57, 142r-v, r8u, 2.08r, 2.64r, 307r. Per gli statuti, BRF, Fondo Bigazzi, ms. 61, cc. 24v-2sr, 42v-45r. 48. Delle 397 ragazze che entrarono alla Pietà a seguito del primo caso di "sponsoriz­ zazione" di una candidata (20 giugno rs66) e prima della fine del registro (2.9 aprile r 623), 372. furono presentate da qualcuno (2.30 donne, 142. uomini); in 303 casi si trat­ tò di singoli garanti. Dei 52 ecclesiastici che si spesero per l'ammissione di una protet­ ta, 45 provenivano da ordini regolari, 6 erano secolari e di uno non è chiara l'apparte­ nenza. A S F, CRSGF, ms. 1 12/79, 52.r-II9Y. Marietta Gondi presentò una bambina nel 1567 (n. 314, 3 giugno), la granduchessa Cristina nel 1596 (n. 599, 19 agosto). Madda­ lena Costanza di Giovanni da Sommaia patrocinò la causa di Alessandra di Giovanni Cappellai, che entrò alla Pietà a ro anni, prese i voti come terziaria e non lasciò mai la casa (n. 485, 8 marzo rs8o). Chi riuscl a far ammettere il maggior numero di ragazze furono due appartenenti alla Compagnia della Pietà: Maria Margherita, moglie di Bartolomeo Filippo (11), e Simona, moglie di Mario Larione Martelli (8) : A S F, CRS GF, ms. 112/56, 68v, 76r. 49· Questi enti assistenziali erano il Magistrato dei Pupilli e la Compagnia dei Bue­ nomini di San Martino. Entrambi garantirono l'accesso di cinque ragazze alla Pietà, dal 1574 al 1588 (ASF, CRSGF, ms. 1 12/79, n. 415, 419, 477, 478, 546), dopodiché con­ vinsero il granduca Francesco I a esercitare la propria influenza sulla Casa della Carità affinché si rendesse disponibile ad accogliere il maggior numero possibile di ragazze che essi fossero riusciti a sostenere economicamente. Cfr. N. Terpstra, Mothers, Sisters, andDaughters: Girls and Conservatory Guardianship in Late Renaissance Florence, in "Renaissance Studies': 17 (2), 2003, pp. 2.2.2.-3. 50. Il 7 aprile 1571, ]acopo Soldani subentrò al cerusico Simone e al medico France­ sco Ruggieri come unico dottore a contratto ( «nostro medico, cerasio e fi.sicho» ),

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con una paga annuale di 43 lire (ovvero 6 scudi) : A S F, CRS GF, ms. u2.. /2.9, 198r. «Fra Antonio Infermiere» compare per la prima volta nei registri il 2.. 1 aprile 157 r. Cfr. ASF, CRSGF, ms. 1 12/79, 63r (n. 374). 51. ASF, CRS GF, ms. n2.. / 2.8, 97r. Dal 7 luglio 1569 al 2..9 maggio 1574, la Pietà versò 42.o.8 lire. ASF, CRSGF, ms. 112/2.9 Entrate-Uscite 1564-74, 154v, 178v, 184r, 185r, 187r, 191r, 193r, 2.. 1 or, usv, 2..3 or, 239v. Cfr. anche ms. m./;7, 30r-v per il primo speziale Vincenzo Piero n i e la sua sostituzione. Gli acquisti più consistenti a via del Mandorlo riguardavano zucchero e miele, utili per gli sciroppi, e acqua tonica d'orzo chiamata « acqua bora » . Cfr. anche ms. u2.. / 57, 30r-v. Questi sciroppi e tonici facevano parte di una prassi medica al tempo assai diffusa e il fatto che padre Antonio abbia fatto uso soltanto di questi rimedi potrebbe significare che i problemi di salute delle ragazze si erano significativamente alleviati a seguito del trasferimento da Borgo Ognissanti. 52. Si tratta rispettivamente dei mss. 1-3, 2..7-3 1, 55-57 e 103-4, conservati nel fondo archivistico della Pietà ( CRSGF, ms. 1 12) dell'ASF. 53· Tra il 1554 e 1556, la Pietà acquistò dieci volumi coordinati di carta pergamena rilegata per farne dei registri di conto, segnando ciascuno con una lettera dell'alfabeto (A = CRSGF, ms. 1 12.. / 97; B = 112/96; C = I I2../ ss; E = r n/95; H = 112/2.. ecc.). Ogni libro veniva aggiornato in modo sistematico : ASF, CRSGF, ms. 112.. / 95, 16or-v. Dalla metà degli anni Settanta del Cinquecento, invece, alcuni conti cominciarono a essere annotati sulle pagine vuote di volumi inizialmente dedicati ad altri scopi (ad esempio, il ms. m./8l, che inizia come registro delle lavorazioni a cottimo dei tessuti e finisce come una miscellanea di informazioni di vario genere). 54· Alcuni esempi si trovano in: A S F, CRS GF, ms. 112/88, rr (1566); ms. 1 12/95, ms. 112../ 96 (r562..- 65 e 1556-63) e ms. 1 12.. / 97 (il primo volume di immatricolazioni e il primo registro delle offerte delle « donne della società dello hospitale della Pietà »). Cfr. anche BRF, Moreni, A D 93, pp. 6-9. 55· Per la paternità delle Croniche, cfr. Terpstra,MothmJ Sisters, andDaughtm, cit., p. 2.. 1 2.. 56. BRF, Moreni, AD 93· 199r-2.0Ir. 57· Strocchia, Savonarolan Witnesses, cit., pp. 403-18. 58. Il Libro Nuovo è andato perduto, ma in ASF, CRSGF, 1 12/79, si trova l'elenco dei nomi che vi furono trascritti. Cfr. BRF, Moreni, AD 93, pp. 2..7-8. Le Croniche omettono di registrare anche l'elezione di una priora generale dopo il 1 62.. 5 (la signora Maria Biffo­ li) e da ultimo riportano il nome di Maria Maddalena Nobili come priora generale del 1633. L'edificio fu poi ristrutturato e attualmente è sede del Kunsthistorisches Institut. Cfr. O. Fantozzi Micali, P. Roselli, Le soppressioni dei conventi a Firenze. Riuso e trasfor­ mazione dalsec. XVIII in poi, L. S. Olschki, Firenze 1980, pp. 83-4.

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Giovani vergini e malattie veneree r. Epigrafe. W. Clowes, A Short and Projitable Treatise Touching on the Cure ofthe Disease called Morbus Gallicus by Unctions, s.e., London 1579, cap. 2 (n.n.). Nell'edi­ zione del 159 6, Clowes specifica che la dodicenne in questione non sarebbe mai riusci-

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ta ad avere rapporti sessuali a causa della sua "debolezza". Cfr. W. Clowes, A Briefand Necessary Treatise) Touching the Cure ojthe Disease now Usually Called Lues Venerea by Unctions and Other Approved Jfays ofCuring, s.e., London 1596, p. 151. 2. Ovviamente Fracastoro non si limitò a questa spiegazione, ma, nella sua opera sul contagio del 1546, formulò teorie ben più complesse in merito alle ragioni dell'epide­ mia. G. Fracastoro, De contagione et contagiosis morbis et eorum curatione, s.e., Venezia 1546; V. Nutton, The Reception ofFracastoro's Theory ofContagion : The Seed that Fell among Thorns, in "Osiris. Second Series", 6, 1990, pp. 196-234. 3· Giovanni da Vigo, Prattica Universale di Cirurgia, libro v, D. Umberti, Venezia 1 610. Gale attribuisce la paternità del termine "camaleontiasi" al dottor Cunyngham. Cfr. T. Gale, Certaine Workes ofChirurgerie, Lon don 1563, p. 30. Cfr. anche A. Foa, The New and the Old: The Spread ofSyphilis (I494-I5JO}, in Muir, Ruggiero ( eds.), Sex and Gender in Historical Perspective, cit., pp. 26-45; J. Arrizabalaga, Medicai Responses to the French Disease in Europe at the Turn ofthe Sixteenth Century, in K. Siena (ed.), Sins of the Flesh: Responding to Sexual Disease in Early Modern Europe, Cenere for Reforma­ tion and Renaissance Studies, Toronto (oN) 2005, pp. 3 3-56. 4· P. Rositinio, Trattato del malfrancese) nel quale si discorre su 234 sorti di esso male et a quante vie si puoprender et causare etguarire, Lodovico Avanzi, Venezia 1559, 21v, 24r-v; Clowes, A BriefandNecessary Treatise, ci t., pp. 151 s Per la sua opera, Clowes si avvalse di alcuni passaggi del De morbo gallico (s.e., Venice 1502) del medico spagnolo Juan Almenar. Cfr. R. H. Major, Classic Descriptions ofDisease, Charles C. Thomas, Springfìeld (rL) 1932, p. 18; W. Eamon, Cannibalism and Contagion: Framing Syphilis in Counter-Reformation Italy, in "Early Science and Medicine", 3 (1), 1998, pp. 1-31 ; L . J. McGough, Quarantining Beauty: the French Disease in Early Modern Venice, in Siena (ed.), Sins ojthe Flesh, cit., pp. 211-2. Ringrazio John Christopoulos per essersi speso nella ricerca di qualche riscontro tra le ricette mediche della Pietà e le autorità scientifiche citate nelle pagine che seguono. S· Si tratta di Juan Almenar, De Morbo Gallico, ci t. Dello stesso parere è Jacques de Béthencourt che, nel 1527, scrisse che molte persone caritatevoli potevano contrarre la malattia respirando l'aria contaminata dell'ambiente dove vivevano i poveri da loro assistiti. Cfr. Major, Classic Descriptions, cit., pp. 17 e 20-1. 6. Gli inglesi erano assai più bacchettoni di quanto non lo fossero gli italiani o gli spagnoli. Basandosi quasi esclusivamente su fonti documentarie inglesi, alcuni au­ tori sono arrivati a ipotizzare che i malati di sifilide fossero universalmente cacciati d' immoralità, anche se così non fu. Cfr., ad esempio, P. L. Allen, The Jfages ofSin: Sex and Disease) Past and Present, University of Chicago Press, Chicago (IL) 2000, pp. 41-60. Per una più ampia analisi dell'argomento, W. Schleiner, Moral Attitudes towards Syphilis and Its Prevention in the Renaissance, in "Bulletin of the History of Medicine", 68, 1994, pp. 389-410. 7· Giovanni da Vigo, Prattica Universale di Cirurgia, cit.; Major, Classic Descrip­ tions, ci t., pp. 24-7: C. Quétel, History ofS]philis, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD) 1992, pp. 26, 3 1, 34 e 323. -

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8. Giovanni da Vigo, Delle ulcere, in Id., Prattica Universale di Cirurgia, cit., libro m. 9· Giovanni da Vigo, Del Morbo Gallico, in Id., Prattica Universale di Cirurgia, cit., libro v, cap. 2, pp. 2.45-6; Major, Classic Descriptions, cit., p. 27. IO A S F, Spedale di SS. Trinità, detto degli Incurabili, ms. I, pp. 29-32. Queste consue­ tudini vennero ufficializzate nelle riforme del 1574; gli statuti del 1527, infatti, si occu­ parono soltanto di problemi di natura amministrativa (pp. 4-19), mentre nel 1574 si specificò qualcosa in più a proposito delle cure adottate (pp. 2.I-38). Nel I645 fu varata una seconda serie di riforme (pp. 39-56). Cfr. J. Arrizabalaga, R. French, J. Hender­ son, The Great Pox: The French Disease in Renaissance Europe, Yale University Press, New Haven ( CT) 1997, pp. 145-68 e 187-2.01. n. Giovanni da Vigo, Della natura de' semplici, in Id., Prattica Universale di Cirurgia, ci t., libro VII. 12. lvi, pp. 308 e 314. I3. lvi, pp. 2.84, 309-10 e 392. I4. T. Gale, Antidotarie, in Id., Certaine Workes, cit., u. IS. Gale, Certaine Works, cit., 3V.6r. 16. A. Paré, De laJaculté et vertu des medicamens simples, ensemble de la composition et usage d'iceux, in Id., Les ouvres d'Ambroise Paré, s.e., Lyon I633, libro XXVI. I7. Ibid. ; Paré, De la grosse verolle, diete maladie venerienne, in Id., Les ceuvres, cit., libro XIX. 18. P. Rositinio, Trattato del malfrancese, nel quale si discorre su 234 sorti di esso male et a quante vie si può prender et causare etguarire, Lodovico Avanzi, Venezia ISS9· ssr; N. Massa, Il libro del malefrancese, s.e., Venezia Is66, pp. 309-10. 19. Paré, De laJaculté et vertu des medicamens simples, cit.; Giovanni da Vigo,Dell'An­ tidotario, in Id., Prattica Universale di Cirurgia, cit., libro VIII, cap. 13; Gale, Certaine T#Jrkes, cit., I8r-v. La terza ricetta per un unguento « secondo Guido» è abbastanza simile e figura anche nei volumi di da Vigo e Gale, pur senza raccomandazioni che ne specifichino l'uso. Cfr. Gale, Certaine T#Jrkes, cit., 18v. "Guido" è molto probabil­ mente il professor Guy de Chaulic Montpellier ( Guidonis de Chauliaco ), sebbene la ricetta a lui attribuita nel Ricettario non si ritrovi esattamente nella stessa forma nella sua opera più importante, l' Inventarium sive Chirurgia Magna. 2.0. Avicenna, Liber canonis medicinae, vol. v, fen. I, tract. X I , in British Library, ms. Harley 3744· 2.1. Giovanni da Vigo, Delle ulcere, cit., II parte, libro III. Da Vigo modifica legger­ mente la ricetta quando la riporta nel suo antidotario : Id., Dell'Antidotario, ci t., libro VIII. Cfr. Gale, Certaine T#Jrkes, ci t., I7v; Paré, De lafaculté et vertu des medicamens simples, cit. 2.2.. Rositinio, Trattato del malfi·ancese, cit., pp. 6o-2.; Massa, Libro del malefrancese, cit., pp. 309-10. 23. Avicenna, Liber canonis, cit. Mesuè scrive che si tratta di un rimedio efficace an­ che contro le ulcere fredde e flemmatiche: Ioannis Mesuae Damasceni, De re medica, libri tres. Iacobo Syluio medico interprete, Chrétien Wechel, Parigi 1542., p. 316.

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2-4- Giovanni da Vigo, DeltA.ntidotario, cit.; Gale, Certaine Workes, cit., uv; Paré, Liure tractant des tumeurs contre nature en genera!, in Id., Les oeuvres, ci t., libro XXVI; Paré, De lafoculté et vertu des medicamens simples, ci t.; Massa, Libro del malefrancese, CÌt., pp. 309-10. 25. Mesuae, De re medica, cit., p. 327. 26. Giovanni da Vigo, Delle ulcere, cit.; Gale, Certaine Workes, cit., 40v-42r; Paré, Liure tractant des tumeurs contre nature en genera!, cit.; Paré, De lafoculté et vertu des medicamens simples, cit.; Massa, Libro del male francese, cit., pp. 309-10; A. Fracan­ zano, De morbo Gallicofragmenta quaedani elegantissima, s.e., Padova 1563, 14V-15v. 27. G. Mercuriale, Tractatus varii de re medica, s.e., Lyon 1 623, libro I I I ; Paré, Liure tractant des tumeurs, cit. Il legame tra scrofola e sifilide fu oggetto di un acceso dibat­ tito durante il XIX secolo. Cfr. P. Diday, A Treatise on Syphilis in New-Born Children and Infonts at the Breast, translated by G. Whitely, edited by F. R. Sturgis, William Wood, New York r883, pp. I I9-24. 28. Giovanni da Vigo, Delle ulcere, cit. 29. E. Milis et al., Elder (Sambuco, Sambucus nigra L.), in "Natural Standards Mono­ graph", in https://naturalmedicines.therapeuticresearch.com/. 30. Paré, De la grosse verolle, diete maladie venerienne, cit. Allo stesso modo, Clowes sconsigliava l'applicazione di salassi su bambini che ancora non avessero compiuto i 14 anni, ritenendo la loro costituzione ancora troppo delicata. Cfr. Clowes, Short and Profitable Treatise, cit., cap. IV. 3 r. Paré, De la grosse vero/le, diete maladie venerienne, cit.; Clowes, A Briefan d Neces­ sary Treatise, cit., pp. 151-2. 32. Cfr. A. McMillan, H Young, M. Ogilvie, G. Scott, Clinica! Practice in Sexuall]' Transmissible Infections, Saunders, London 2002, pp. 429-32; C. M. Hutchinson, E. W. Hook, Syphilis in Adults, in "Medicai Clinics of North America", 74 (6) , 1990, pp. 13 89-416; K. K. Holmes et al., Sexually Transmitted Diseases, McGraw-Hill, New York 1984, pp. 3 63-7. Per le diagnosi e le terapie precedenti la scoperta della penicilli­ na, cfr. anche Diday, Syphilis in New-Born Children, cit., pp. 104-24 e 13 3-9; F. Swei­ daur, A Complete Treatise on the Symptoms, Ejfects, Nature, and Treatment ofSyphilis, translated by T. T. Hewson, Thomas Dobson, Philadelphia ( PA) 1815, pp. 61-73; C. C. Dennie, F. P. Sidney, Congenita! Syphilis, Lea & Febiger, Philadelphia ( PA ) 1940, pp. 420-9 e 562-s; ]. H. Stokes, H Beerman, N. R. Ingraham, Modern Clinica! Syphi­ lolog)': Diagnosis, Treatment, Case Stud)', W. B. Saunders, Philadelphia ( PA) 1944, pp. ro68-9; Quétel, History oJSyphilis, cit.; Arrizabalaga, Great Pox, cit., pp. 234-51. 33· Questa "nebbia" diagnostica si protrasse fino al xx secolo, quando aspri dissensi in merito alla sintomatologia, alla sua tempistica e all'andamento della mortalità dei soggetti nati con ciò che veniva definita "sifilide ereditaria" divisero la comunità me­ dica. Cfr. Diday, Syphilis in New-Born Children, cit., pp. 104-24; Stokes, Beerman, Ingraham, Modern Clinica! Syphilology, cit., pp. 1 1 2-5. Dennie e Pakula ( Congenita! Syphilis, cit., p. 423) scrissero che si trattava di « una lenta degenerazione vascolare che avrebbe finito per minare l' intero organismo, conducendo il malato di sifilide

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congenita a una morte relativamente precoce» . Per un confronto con la lebbra, cfr. M. L. Hammond, Contagion) Honour and Urban Life in Early Modern Germany, in C. L. Carlin (ed.), Imagining Contagion in Early Modern Europe, Palgrave Macmil­ lan, New York 2.005, pp. 94-106 e 100-3. 3 4· D. L Kertzer, Sacrifìcedfor Honor: Italian Infont Abandonment and the Politics of Reproductive Contro!, Beacon Press, Boston (MA) 1993, pp. 124-35. 3 S· Paré, De la grosse verolle) diete maladie venerienne, ci t., cap. II, p. 445· 3 6. B. L. M ed, 1he Myth oJ Child Rape as a Curefor HIV/AIDS in Transkei: A Case Report, in "Medicai Science Law", 43 ( 1) , 2.003, pp. 8s-8; G. J. Pitcher, D. M. Bowley, Infant Rape in South Afoca, in "The Lancet", 3 59 (9303), 2002, pp. 319·20. La tesi di Pitcher e Bowley in base alla quale, dietro a un numero significativo di casi di stupro, sta proprio la prassi della "cura delle vergini" è stata contestata da R. Jewkes, M. Lorna, P.-K. Loveday, 1he Virgin Cleansing Myth: Cases oJChild Rape Are not Exotic, in "The Lancet", 359 (9307), 2002, p. 711. Pitcher e Bowley hanno successivamente risposto a queste critiche in Motivation Behind Infont Rape in South Afoca, in "The Lancet", 3 59 (93 14 ), 2002, p. 13 52. Qui gli autori hanno sostenuto che, durante una serie di semina­ ri di educazione sessuale tenuti da professionisti del settore, il 37,2% dei partecipanti aveva dimostrato di credere nell'efficacia della "cura delle vergini" per il trattamento dell'HIV; anche dopo aver frequentato 14 incontri di due o tre ore ciascuno, il 20% aveva mantenuto lo stesso convincimento. La "cura delle vergini" è stata anche indi­ cata come uno dei fattori alla base della vulnerabilità delle giovani prostitute che in Nepal venivano reclutate per lavorare nei bordelli indiani. Cfr. J. G. Silverman et al., HIV Prevalence and Predictors oJInfection in Sex-Trajficked Nepalese Girls and UiJmen, in "Journal of the American Medicai Association", 298 (s), 2007, pp. 536-42. 37· Citato in W. Schleiner, Infection and Cure through Women: Renaissance Con­ structions oJSyphilis, in "Journal ofMedieval and Renaissance Studies", 24 (3), 1994, pp. 508-9. 38. Ercole di Sassonia, Luis venereae perfoctissimus tractatus, Paulum Meiettum, Pa­ dova 1597, cap. XXXVII. Schleiner, riportando il brano di Ercole di Sassonia, offre una sottile analisi di ciò che l'autore avrebbe potuto intendere quando scriveva che questi racconti sulle unioni con le etiopi erano degni di fede ( «experimentum est verum et videtur posse confirmari ex Scaligero exercitatione» ). 39· K. J. Lowe, 1he Stereotyping ofBlack Afocans in Renaissance Europe, in Id. (ed.), Black Afticans in Renaissance Europe, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 29-32. In età contemporanea, a Londra, l'occupazione più diffusa tra le donne africane era ancora la prostituzione. Cfr. L H. Habib, Black Lives in the English Ar­ chives, I500-I07J: Imprints ofthe Invisible, Ashgate, Hants 2008, pp. 105-8 e 1 57. La comunità scientifica del XIX secolo fu impegnata in un lungo dibattito sulla natura di malattie come la sifilide e la gonorrea, se, cioè, si trattasse di due diverse patologie o più semplicemente di due forme differenti dello stesso male. Cfr. Kertzer, Sacrifìced for Honor, ci t., p. 134. 40. Schleiner, Infection and Cure, cit., pp. s ro-2.

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4I. J. L. Vives, De institutionefeminae christianae. Liber secundus & Liber tertius, a cura di C. Fantazzi, C. Matheeussen, traduzione di C. Fantazzi, Brill, Leiden 1998, pp. 43-7. La storia fu poi fatta circolare da Theodor Zwinger, autore dei Theatrum Vitae Humanae (Henricpetri, Basel r6o4), secondo Schleiner « il più grande compendio del sapere condiviso» (Schleiner, Infection and Cure, cit., pp. 506-8). 42. Allen, Jfages ofSin, cit., p. 52. 43· H. Ellis, Studies in the Psychology ofSex, vol. I I , Random House, New York I936, p. 337, n. I; D. Hayden, Pox: Genius, Madness, and the Mysteries of Syphilis, Basic Books, New York 2003, p. 45· 44· R. Davidson, "This Pernicious Delusion": Law, Medicine, and Chi/d Sexual Abuse in Early-Twentieth-Century Scotland, in ''Journal of the History ofSexuality", 10, 200I, pp. 62-8 I. Il 20% delle donne scozzesi che, negli anni Venti e Trenta del Novecento erano state sottoposte a terapie mediche contro malattie veneree, non ar­ rivava ai I5 anni di età; per i maschi la cifra era del 3%. Davidson sostiene anche che il riferimento alla credenza popolare della "cura delle vergini" avrebbe permesso alle autorità di ignorare il fenomeno delle violenze domestiche, proiettando all'esterno, in strada, lo spettro di presunti uomini pericolosi. Per motivi analoghi, gli ufficiali sanitari preferirono imputare il fenomeno del contagio dei bambini a fattori di natura ambientale e al contatto fisico, non sessuale, con parti infette del corpo, piuttosto che agli abusi sui minori perpetrati dai familiari. 45· K. Siena, Venerea! Disease, Hospitals, and the Urban Poor: London 's "Foul Jfards" Iooo-ISoo, University of Rochester Press, Rochester (NY) 2004, pp. I93-5· Corri­ spondenza privata: 7 dicembre 2004, 8 dicembre 2004, 27 ottobre 2005. Cfr. anche B. J. Dunlap, The Problem ofSyphilitic Children in Eighteenth-Century France and England, in L. E. Merians (ed.), The Secret Malady: Venerea! Disease in Eighteenth Century England and France, University of Kentucky Press, Lexington ( KY) 1996, pp. I I4-27.

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Conclusioni. La verità degli archivi. TI sesso e la ragion di stato : Giulia e il principe ereditario Vincenzo Gonzaga

I. Anonimo, Casi occorsi in Firenze dall'anno I557fino all'anno I590 informa di Diario, in A S F, Fondo Manoscritti, I 6 6, 30r. Ringrazio Nerida Newbigin per questa indica­ zione. Il cronista è identificato con il nome di "Susier" dagli editori di un volume che raccoglie i resoconti e la corrispondenza della corte dei Medici in merito a questa vi­ cenda (A S F, Mediceo del Principato, ms. 63 54; si tratta di Niccolò Susier, Diario di tutti i casi seguiti in Firenze, Nd.T.). Il libro è Il parentado tra la principessa Eleonora de' Medici e ilprincipe don Vincenzo Gonzaga e i Cimenti a cuifu costretto il detto Principe per attestare come eglifosse abile alla generazione (Firenze r886). La lettura di questi

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documenti corregge alcuni aspetti del pettegolo racconto di Susier, a cominciare dalla data e dai luoghi scelti per tale "cimento". 2.. Croniche delle Suore della Pietà, BRF, Moreni, AD 93, 13 6v. 3· Il racconto che segue si basa sul carteggio intercorso tra le due famiglie ducali e i rispettivi ufficiali di corte. Le lettere sono state raccolte in due volumi usciti alla fine del X IX secolo. Il parentado fra la principessa Eleonora de' Medici e il principe Don Vincenzo Gonzaga e i Cimenti a cuifu costretto il detto Principe per attestare come egli fosse abile alla generazione, a cura di F. Orlando, G. Baccini, Il "Giornale di Erudi­ zione" Editore, Firenze 1886, pp. 6, 18, 32.-43, 74-83 e 104; G. Conti (a cura di), Altri documenti inediti sulparentadofra la principessa Eleonora de' Medici e ilprincipe Don Vincenzo Gonzaga e i Cimenti a cui fu costretto il detto Principe per attestare la sua potenza virile, Il "Giornale di Erudizione" Editore, Firenze 1886, p. n. Cfr. anche K. Helmstuder di Dio, Rising to the Occasion, in "Medici Archive Project, Document Highlights", September 2.001, in http://www. medici.org/news. 4· Il carteggio mediceo è stato riprodotto nel volume Ilparentado, cit., mentre le let­ tere della corte di Mantova sono state pubblicate nello stesso anno nel volume Conti (a cura di), Altri documenti inediti, cit. S· Belisario Vinta al granduca Francesco I (2.1, 2.2. e 2.4 febbraio 1584). Il parentado, cit., pp. uo-s e 12.1-3. Nessuna Giulia figura nei registri di Santa Maria Vergine né in quelli di San Niccolò. La Pietà accolse una Giulia di Cesare da Fiesole nel 1574; aveva 8 anni. Questo significa che al momento del "cimento" avrebbe avuto 18 anni, un'età che senza dubbio la rendeva idonea a questo genere di "servizi" e quasi coetanea di Eleonora de' Medici. Cfr. A S F, CRSGF, Pietà ms. 1 121?9, 69v, n. 42.1. 6. Vincenzo Gonzaga a Marcello Donati (2.1 febbraio 1584). Cfr. Conti (a cura di), Altri documenti inediti, cit., pp. 89-90. 7· I curatori del parentado, F. Orlando e G. Baccini, sostengono che la ragazza fos­ se una figlia illegittima degli Albizzi, ospite della Casa della Pietà, e questo in base alle informazioni ricavate dal carteggio diplomatico tra la corte toscana e quel­ la francese. Il parentado, cit., p. 6. La corrispondenza diplomatica fu pubblicata da A. D esjardins, Negociations diplomatiques de la France avec la Toscana, vol. IV, Impr. impériale, Paris 1872., p. 504. Dal momento che non era poi così inconsueto nascondere le vere origini delle adolescenti ospitate nei conservatori, magari for­ nendo un falsa o incompleta identità del padre, Giulia potrebbe effettivamente essere stata una Albizzi; non c'è traccia nei registri della Pietà di che cosa ne fu di lei e nemmeno della data in cui lasciò l' istituto. A S F, CRS GF, Pietà ms. u:z.l79, 69v, n . 421. 8. Lettera dell' 8 e del 10 marzo. Vinta spiega questo suo secondo rifiuto di dare il via alla prova con il fatto che era venerdì. I cattolici erano tenuti a evitare i rapporti sessuali durante i giorni di mercoledì e venerdì (giorni di penitenza), di sabato e du­ rante le ore diurne della domenica per non contaminarsi prima del rito della messa; il giorno veniva fatto iniziare dal tramonto della sera precedente. Ovviamente Vinta osservò questo calendario religioso nel momento in cui programmò la sua missione

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di "stupro a beneficio dinastico': In precedenza si era detto preoccupato che il "test" di Venezia fosse effettuato velocemente, prima dell' inizio della settimana santa. Il pri­ mo "cimento" in programma avvenne l ' n marzo, dopo il tramonto della domenica (quindi, ormai, lunedì), mentre la successiva (e riuscita) prova ebbe inizio dopo il tramonto del mercoledì, il 14 marzo; il secondo "assalto" di Vincenzo fu rimandato alla sera della domenica, il 18 marzo ; Ilparentado, ci t., pp. 145-68 e 90-5. Sui giorni e i momenti in cui era consentito consumare rapporti sessuali, vedi]. A. Brundage, Law, Sex, and Christian Society in Medieval Europe, University of Chicago Press, Chicago (IL) 1987, pp. 157-8 e 162.. 9· Ilparentado, cit., pp. 160-1. 10. Belisario Vinta al granduca Francesco I ( n marzo 1584), ivi, pp. 161-2.. 11. Pietro Galletti al granduca Francesco I (16 marzo 1584), ivi, p. 189. 12.. Pietro Galletti al granduca Francesco I (16 marzo 1584), ivi, p. 190. 13. Belisario Vinta al granduca Francesco I (xs marzo 1584), ivi, pp. 184-8. La punteg­ giatura è stata parzialmente rivista secondo l'uso moderno. 14. Carlo Gonzaga al padre, il duca Guglielmo Gonzaga (17 marzo 1584), cfr. Conti (a cura di), Altri documenti inediti, cit., p. n8. 15. V. Finucci, There's the Rub: Searchingfor Sexual Remedies, in "Journal ofMedieval and Early Modern Studies", 38 (3), 2.008, pp. 52.3-6. Il duca Vincenzo morì nel 1 612.. 1 6. Mary Douglas fotografa così questa propensione delle società patriarcali a mette­ re da parte tabù e convenzioni sociali quando si ha a che fare con ragazze considerate alla stregua di un patrimonio da gestire: «Quando il predominio maschile è da tutti accettato come cardine dell'organizzazione sociale, come un principio da applicare senza censure e con il legittimo ricorso alla coercizione fisica, allora ci sono convinci­ menti in merito al disordine sessuale (il tabù dell'incesto, ad esempio) che rischiano di non incontrare molto successo ». Cfr. M. Douglas, Purity and Danger: An Analysis ojthe Concepts ofPollution and Taboo, Roucledge, London 1966, p. 143. 17. In realtà la vendita avvenne per via indiretta. La Pietà vendette la casa al con­ vento di San Salvatore in Borgo Ognissanti, con una transazione avviatasi nel 1564 e conclusasi soltanto dopo che le ragazze ebbero lasciato definitivamente il quartiere (3 dicembre 1568). Cfr. A S F, ms. 112./88, 4v. A poche settimane di distanza, sempre nel dicembre 15 68, subentrò nell'acquisto Giovanni da Sommaia. Cfr. A S F. Decima Granducale, 3611. Unicorno, SMN, 1534, 75r. 18. Padre Romano Felice Viccioni, Croniche delle Suore della Pietà. Si tratta della pre­ fazione al lettore che padre Felice aggiunse nel momento in cui riscrisse le Croniche, dopo essere diventato padre spirituale della Pietà, nel 1700. Cfr. BRF, J\1oreni, AD 93, 3 r-v, 10r-32.V. 19. lvi, 135r-v, 137r-44r. 2.0. S. Strocchia, Savonarolan Witnesses: The Nuns ofSan ]acopo and the Piagnone Movement, in "Sixteenth-Century Florence", 38, 2.007, pp. 393-418. 2.1. BRF, Moreni, A D 93, 194r-v. F. Marchi, Vita di R.do Padre Frate Alessandro Ca­ pocchi Fiorentino dell'Ordine di San Domenico, s.e., Firenze 1583, pp. 69-73. La Pietà

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ospitò 340 ragazze dal 1558 al rs 68, anno del trasferimento dell'istituto. Di queste, 2.15 morirono mentre ancora erano sotto la custodia della Casa. Delle 133 per le quali disponiamo della data del decesso, ben II4 morirono prima dell'arrivo di padre Ca­ pecchi. Cfr. ASF, CRS GF, ms. r12.f79, rv-s7r.

Bibliografia

Fonti manoscritte

Archivio Arcivescovile di Firenze (AAF) Visite Pastorali 9.1, A. Altoviti ( 1568)

Archivio di Stato di Firenze (AsF) Acquisti e Doni 2.. 9 1, Onestà, 1560-83 (Onestà) 2.. 9 1, Otto-Carlo Carnesecchi-IS76 ( Carnesecchi) 2.. 9 1, Ojficiali di Onestà e Meretrici, I557-IOIO (Onesta e Meretrici) Arcispedale di S. Maria Nuova: Carte dello Spedale di SS.ma Trinità, detto degli In­ curabili I, Capitoli IS2..1 - I64s Arte dei Medici e Speziali 4, Statuti delle Arti di Medici e Speziali Capitani di Parte Guelfa Numeri Neri, 707 "Suppliche del 1559", #1o4 (n March rss8, s.f.) Compagnia poi Magistrato di S. Maria del Bigallo (Bigallo) IS4, Suppliche dirette al B. Trono e inviate al Bigallo, I549-73 763, Debito/Credito e Nota de Beni, rsso-68 1 225, Negozi attenti a speciali I229, Filza 7· Negozi attenti a speciali diversi 1232.. , Visite d'Ospedali r 6 87, Uscite/Entrate, 1556-sS I 669, Statuti, Privilegi, Bolle, Suppliche, I3 I8-I733 I 679, Entrata/Uscita del!' Ospedale degli Abbandonati

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1 691, Statuti della Compagnia di S. Maria Maddalena sopra le Malmaritate 1700, Libro di tutti Gli Sp/ti de Possessori, obblighi, rendite et altro dovute al Bigallo, dal 1543 Corporazioni religiose soppresse dal governo.francese. n. n2: Conservatorio di Domeni­ cane denominato La Pietà di Firenze ( CRS GF ) 2, Giornale, rs6s-73 3, Giornale, 156 6-79 28, Entrate-Uscite, rs6r-6s 29, Entrate-Uscite, 1564-74 s s , Debitori-Creditori, 1557-59 56, Debitori-Creditori, 1564-79 57, Debitori-Creditori, 1566-79 78, Accettazione, 1554-59 (Libro Segreto) 79, Accettazione, 1558-1623 8r, Manifatture di Tele e Pigionali, 1554-79 87, FUcordanze, 156o-65 88, Ricordanze, 1546-1746 89, Scritture diverse 92, Testamenti 95, Debitori e Creditori della Compagnia delle Donne della Pietà, 1562-65 96, Debitori e Creditori della Compagnia delle Donne della Pietà, 1556-63 97, Registro delle Donne della Compagnia della Pietà Decima Granducale 3 6II, Unicorno, SMN, 1534 3782, Ricerche delle Case di Firenze, rs6r, Quartiere di S. Maria Novella Fanciulle abbandonate di S. Maria e S. Niccolo detto del Ceppo (Ceppo) 59, Fanciulle accettate e di poi acconciate con altri, 1558-r62r 145, Debitori e creditori A, rssr-ss Libri di commercio e difamiglia 4788, da Sommaia Manoscritti 6 6, Casi occorsi in Firenze dall'anno 1557 fino al 1590: in forma di diario 603/28, albero genealogico Vespucci (Carte Pucci) Onestà r, Statuti e deliberazioni, 1403-1597 3, Libro di riforme di statuti, 1577-1747 Otto di Guardia e Balia del Principato (OGBP) 2234, Suppliche, 1558-59 2235, Suppliche, 1559-60

BIBLI O GRAFIA

Raccolta Sebregondi 5004, da Sommaia Tratte 725

Biblioteca Riccardiana (Firenze) (BRF ) Ms. Moreni (Moreni) Acquisiti Diversi (AD) 93, Croniche delle Suore della Pietà Fondo Bigazzi (Bigazzi) 61, Capitoli, o costituzioni della fanciulle della Pietà poste nella via del Mandorlo, I S70

Biblioteca Nazionale Centrale (Firenze) (BNCF ) Fondo Magliabechi XV.92 Raccolta di ricette medicinale da diversi autori copiata da una che era in S. Maria Nuova

Fonti edite

Summula confessionalis utilissima, in qua agitur de auctoritate confes­ soris, necnon de scientia ac bonitate eius, & quo se habere debeat confessor erga pe­ nitentem in confessionibus audiendis: quam reuerendus dominusfrater Antoninus Archiepiscopus Florentinus ... relatus edidit, ad utilitatem, tam confessorum, quam conjitetium, parte III, cap. VI, Francisci Bindoni & Maphei Pasini, Venezia 1538. ARETINO P., Ragionamenti, Rizzoli, Milano 1998. ARISTOTELE, Storie degli animali, in Id., Opere biologiche, a cura di M. Vegetti, D. Lanza, UTET, Torino 1971. ARTE DEI MEDICI E SPEZIALI, El Ricettario dell'Arte et Universita de Medici, et Spe­ zia/i della citta di Firenze. Riveduto dal Collegio de Mediciper ordine dello Illustris­ simo et Eccelentissimo Signore Duca di Firenze, Lorenzo Torrentino, Firenze 1550. BAND ELLO M., La terza parte delle novella, a cura di D. Maestri, Edizioni dell'Orso, Alessandria 1995. BONACIO LI l., Muliebrium libri, in C. Wolf (a cura di) , Gynaeciorum, vol. II, Thomas Guarin, Basilea (1566). ANTONINUS,

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280 TERP STRA N., L'infanzia

RAGAZZE PERD UTE

abbandonata nell'Italia del Rinascimento. Strategie di assi­ stenza a confronto: Firenze e Bologna, CLUEB, Bologna 2.014. ID., Competing Visions of the State and Social Welfare: The Medici Dukes, the Bigallo Magistrates, and Local Hospitals in Sixteenth Century Tuscany, in "Renaissance Quarterly", 54 (4), 2.001, pp. 13 19-ss. ID., Confraternities andMendicant Orders: The Dynamics ofLay and Clerical Brother­ hood in Renaissance Bologna, in "Catholic Historical Review", 82., 1996, pp. 1-2.2.. ID., Mothers, Sisters, and Daughters: Girls and Conservatory Guardianship in Late Renaissance Florence, in "Renaissance Studies", 17 (2.), 2.003, pp. 2.01-2.9. TREXLER R. c., A Widows' Asylum of the Renaissance: The Orbatello ofFlorence, in Id. (ed.), Dependence in Context in Renaissance Florence, vol. I I I : Medieval and Re­ naissance Texts and Studies, Center for Medieval and Early Renaissance Studies, State University ofNew York at Binghamton, Binghamton (NY) 1994, pp. 415-48. ID., Fiorentine Prostitution in the Fifteenth Century: Patrons and Clients, in Id. (ed.), Dependence in Context in Renaissance Florence, cit., pp. 373-414. VAN DE WALLE E., "Marvellous Secrets": Birth Contro! in European ShortFiction, IISO­ roso, in "Population Studies", 2. (54), woo, pp. 32.1-30. WEINSTEI D., Savonarola and Florence: Prophecy and Patriotism in the Renaissance, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1970. WEINSTEIN R., Marriage Rituals Italian Style: A Historical Anthropological Perspec­ tive on Early Modern Italian jews, Brill, Leiden 2.004. ZARRI G., The Third Status, in A. J. Schutte, T. Kuehn, S. Seidel Menchi (eds.), Time, Space, and T#Jmen 's Lives in Early Modern Europe, Truman State University Press, KirksvUle (MO) w or, pp. rS 1-99. ZUPKO R. E., Italian Weights and Measures from the Middle Ages to the Nineteenth Century, American Philosophical Society, Philadelphia ( PA) 1981.

Indice analitico

abbandono di minori, 1 6-7, 2.1, 13 5-7, 2.2.1, 2.51 abbigliamento, 2.4-, 130, 175, 2.2.1, 2.36 aborro, uo-3, u6-2.2., 12.4-, 12.6-8, 139, 146, 2.31, 2.47· 2.49 spontaneo, 12.4, 12.7 acetato di rame (verderame), 12.6, 199 acqua bora, 180, 2.58 addoppiare, cfr. manifattura della seta adolescenti femmine, 15-8, 2.1, 30-3, 37· 4-2.-3, 4-8. 52., 59, 70-1, 75 • 79, 85, 91, 107-8, II2.-3, II7, 12.9, 136, 139, 146, 148, 162., 168, 172.-4, 178-9, 184-5, 2.00, 2.03, 2.05, 2.u, 2.2.0-2., 2.2.4, 2.2.7, 2.42., 2.46, 2. 6 4 maschi, 2.6, 3 2.-7, 47-8, 108, 136, 14-8, 2.34, 246 Africa, 206-7 Agniolina di Giorgio da Nunchiano, 82 Agostiniani, 44-, 152. Agostino di Berto, 82., 241 Agostino, santo, II4, II9 Albizzi, 2.16, 264 Alessandra di Girolamo legnaio (Monna Alessandra, priora), 20, 2.7, 76-7, 798o, 84, 103-4, 107, 113, 137, 141, 174, 183 Alessandro VI, papa, 153, 2.55 allume (di rocca), 73, 195-6 alluvioni, 71, 1 15, 181

altea, 108, 12.6, 195-6 Altoviti Antonio, arcivescovo, 1 69-71, 222, 2.56, 267 Altoviti Bindo, 170 amenorrea, 109, 112. ammoniaco, 126 anemia, 109 animazione fetale, 1 14, 1 19, 126, 2.47 anticlericalismo, 12.0 Antinori, famiglia, 142. Antinori Cosa, 154 Antonia, monna (La pinzochera), 3 1, 40, 47. 54, 145-6, 148, 159. 170, 172. Antonia di Filippo del frate, 22.8 Antonia di Marco Dalloro, 83, 2.41 Antonino, arcivescovo, 116, 12.1 apostema, 192., 197 aquilegia, 108, 2.45 Aretino Pietro, 44, 51, 113, 120-1, 139, 2.51, 269 aristolochia, 12.5-7, 195-6, 250 Aristotele, 114--7, 1 19, 2.47, 2.69 Arnaldo da Villanova, 125, 206 Arte dei medici e speziali di Firenze, 12.7, 140, I96, 2.50, 2.67, 2.69, 2.7 I, 2.74 della lana, 87-90 della seta, 63, 90, 99, 102., 242.-5

RAGAZZE PE RD UTE

assistenza sanitaria,

109, I23, I 8o, I93 ·

I97-200, 206-9, 22I

baco da seta, 73, 9 1 , 93, 102 Baglioni Malatesta, 154 Baldovinetti Ettore, 12.. 4 -5, 249 balie, 3 r, 2..03-s balsamo, ro8, 199 bambini abbandonati, r 6-7, 24,

Bracchesi Giovan Battista, frate,

19, 1 82.. ,

2.. 5 6

s 6 , 134,

bande giovanili, 38, 40, 235 Bandelle Matteo, 1 20, 248, 269 Bartolini Lionardo, 154 Bartolini Ginevra, 154 Bartolomeo di Doffo de Bartoli, 6 6-7 Bartolomeo di Marco, S I Bartolomeo di Mariotto de Bartoli, 66-7 bdellio, 12.. 6, 195-6, 246 Bencini Giovanni, 22, 69, 86, 105-7, 181 Benedetto Bianco, santo, 163 Bernardino da Siena, santo, n6, 1 2 1, 241, 247· 277

braccio (misura), 1 3 , 103, 245 Bracciolini Poggio, 12.. 0 Brigida di Niccolò mugnaio, 85 Caccini Giuliano Romano, no Caccini Pompeo, 2..2 0, 2..77 Calabria, 91, 9 3 , 98, 2.. 43 Camaldolesi, padri, I 58, r 6 9, 2.. 5 6 camaleontiasi, 189 Camilla di Andrea, 175• 178, 257 Camilla di Lorenzo Palazzuolo, 83, 241 Camilla, vedova di Antonio Cardi, I78 Capecchi Alessandro, frate, 2.. I , 1 63-9, 171, 173-4, 183, 22,2, , H 4, 228-9, 254-6, 2.. 6 5-6, 271

Bernardino di Bilio, 5 2 Béthencourt Jacques de, r89, 2 5 9 Betta (monna), 15, I?, 84-5. 103, 1 25, 2 3 3 Betta di Pagolo, 8 2 , 2 4 1 Bigallo capitani del, IS5. r6o, r 6 6 confraternita e magistratura, ss-9, 63-8, 72, 233· 23?-9· 253-4 . 26?-8, 280

99, IOI, I I ?,

12.. 4, 198, 23 4-7, 248, 25 3-4, 2..7 1, 274, 2?6 -?, 280

Borromei Margherita, 1 5 6 Botti Mario Giovanni, 82-3, 241 Botticelli Sandro, 1 4 6 bozzoli, 74· 8 6 , 9 1- 6, 98-9, 10 I- 2, 105, I08, 1?6. 198. 2.. 4 2-4

r6o, 251, 2 67

Bonaccioli Ludovico, 124

3 5-7, 39, 43-4, 48, s8, 121, 1 28,

1 3 6, 1 48, 159, 1 6 8, 2 3 6-7

Augusto, imperatore, I 8 9 Avicenna, I26 -7, 1 3 9-40, 1 9 2 , 197, 260

Biliotti Andrea, 22, 58, 6 9 Boccardi Francesco, 8 1 Bologna, IO, I 9 , 82.. , 9 3 , 9 5 ,

bordello,

Cappello Bianca, 223 Capponi, famiglia, 142 Capponi Niccolò, 154 Capponi Piero di Bartolomeo, rs5 carestia, rs, 8o, 179, 2..0 3, 217 carmelitano convento, r63 suore, rs8, r 64 carnevale, 29-30 Casa della Pietà, cfr. Pietà, Casa della Casa delle Convertite, cfr. Convertite, Casa delle Casa delle Maddalene, cfr. Maddalene, Casa delle 209

INDI C E ANALITICO

Casa delle Malmaritate, cfr. Ma/maritate, Casa delle Casa delle Zitelle, cfr. Zitelle, Casa delle cassetta delle offerte, 30 Caterina da Siena, 17, 52 Caterina da Siena, santa, 165 Caterina de' Ricci, santa, 155, 253, 270 Caterina di Piero falegname, 76-7, 240 Caterina di Piero, priora, 76, 78 Caterina, suor, 20, 182, 1 84 Cattani Antonio, s8, 158 cece, 108, 12.5 Celli Elio di Alessandro, 65 censimento del 1562, 45. 59· 66, 86, 12.8, 138, 159· 1 61, 239· 251, 255 del r663, 244 censimento-ricerca, 67-8 cera, 109, 126, 196 Certaine Workes ofChirurgerie, 196 Cervent Clara, 208 Cherubino da Siena, I I3, 246 Chiesa Collegiata, San Gimignano, 132-3 cibo, 15, 23, 45, 74-5, 78-9, 81, 106, 177, 221 donazioni di, 22 prezzo del, 44 clausura, 101, 173, 256, 275 Clemente VII, papa, 152 Clowes William, 200, 2.04, 206, 258-9, 261, 270 colera, 203 Comi Baccio, 98, 100, 243-4 concepimento, I I3·s, II9, 122, 126 Concilio di Trento, II9, 170-r, 178, 248, 254 concubinato, I I9, 248 conduttora, 93

confraternita, 17, 43-4, ss. 65, 155, 158, 160, 162, 1 64, 169, 171, 179, 237, 256 Confraternita del Rosario, 164 conservatori, 17-20, 7 6, 94, 104, 1 42, 157, 159, 169, 179, 209, 213, 220-I, 233, 252-3, 257· 264, 268, 276 contabilità, 13, 22-3, s8, 76, 86-7, 98, ro6, 141, 157, 176, r8r, 239, 242 contraccezione, II?, II9-20, 126, 139, r88, 249 controllo delle nascite, I I3, 2.08, 247 convento, 19-20, 33, 38, 42, 44-5, 52, 59, 70, 77• II3, 120, 136, 149, 158, 163 ·5, 168-9, 171-5, 179, 183-5, 220, 222, 226-7, 230, 233· 237 ·8, 2f8, 254· 6, 26), 276 cfr. anche Croniche delle Suore della Pieta cronache di, 19 convertite, 43, 45-6 Convertite, Casa delle (Firenze), 41-6, 54, 1 65, 235, 238 Convertite, Casa delle (Venezia), 120, 165 cortigiani, 179, 222 Costantino l'Africano, 125, 208 Costanza Maddalena, 178, 257 cronache, 19-20, 6s, 68, 153, 157. r 82, 226, 229, 239, 256 Croniche delle Suore della Pieta, 19-20, 22, 24, 27, s8-9, 62, 65, 67-8, 71, 105-6, 141, 155, rs8, 1 63-4, 1 6 8-9, 182-4, 225, 228-30, 2Sf, 257 · 8, 263, 26S, 269 cura delle vergini, 206-II, 230, 262-3 cura etiope, 208 Dallington, sir Robert, 74-5, 91-2, 100, 2f0, 270 datazione, sistema di, 13 Decima Granducale, 66, 239, 251, 265, 268 deformità, II), 201-2

RAGAZZE PERD UTE

DelRicettario, ro6-ro, 12.3, 12.5, 12.7, 139-40, 194·9· 2.02., 2.60

De morbis puerorum, 198 De morbo gallico, 198, 2.59, 2.61, 2.70 Descrizione dello Stato del Granduca di Toscana. Nell'anno di Nostro Signore I590, 2.40, 2.70

Des Périers Bonaventure, 140, 2. 5 1 Diacceto Dionigi da, 1 5 5 Diacceto Maria da, 1 5 5 diachilo, 126 Dioscoride, uo, 125, 1 40, 2.46, 2.70 diritto canonico, 43, u 9 dismenorrea, u 2. disordine pubblico, 38 -40 diuretici, 12.3, 199 Divettino Silvio, 17, 52. divorzio, 43 Domenica di Bernardino da Siena, 83, 2.41 Domenica di Marco da Firenze, 1 67, 1 8 3 , 255

Domenica di Michelino Metignoli, 8 1-2, I36

domenicani, ordine, 2 I , I49,

I52-3, I57-8,

I 64-5, I 6 8-9, I?I, I74, I84-5, 228-9, 2.52., 2.56

Domenico di Martino, 63, 66, 74-5 domestiche, r8, 32., 37, 47, 70, 8o, 82., 84-5, 103-4· !2.8-30, 1 3 5-7· ! 62., 175 · 2.05, 2. 1 I , 2.2. 0 , 2.30, 2. 4 1 , 2.51, 2. 5 6. 263

Donati Marcello, 2.16, 2.64 dote, I9, 32, so-I, 5 3 ·4 · 57. 70, 80-2,

IO S ,

I2o, I29, I 3 I, I34, IS9. I79. 2.I3·s . 220, 222., 2.35. 2.38. 276

Douglas Mary, 265, 274 Duca di Mantova, 213 eclissi, 190 Ecuba, regina di Troia, 250

edema, u3 edera, foglie di, I99 E.lfraenatam, I I7·9· 2.47, 272. elefantiasi, 189 elemosina, 3 , 79, I I I, 128, I?S. I77-8, I83-4, 253. 257

Eleonora da Toledo, 5 6 -7, I 6 o El Ricettario dell'Arte, et Universita de Medici, et Spetiali della citta di Firenze, I40, 2SI, 269

emicrania, 109, 125, I9I, I99-202. erba della nascita (aristolochia), 1 2. 5 espettoranti, 1 2.3 falsa gravidanza, I I 4 Farnese Margherita, 2. 1 3-4 Fatebenefratelli, ordine, 2 3 9 Ferrara, I78 Festa dell'Annunciazione, 1 3 , 174, 2 5 6 feti mostruosi, I I4-5 feto, n2, I I4-2.o, 122-4, 1 2.6, 2.46-7 Fiammetta da Morzanno, 228 fieno greco, 125-6, I9S-6 Filippo da Bologna, 82 Fioravanti Leonardo, 90-2. florenzen, 3 4 Fracanzano Antonio, I98, 2. 6 I , 270 Fracastoro Girolamo, 189, 2.59, 270, 277 francescani, ordine, 59, 1 52, 158, I 66 , 2.48, 2. 5 1

di Ognissanti, 5 9 , 251 Franceschini Francesco, I 6 8-9, I? I, 254-6 Francesco da Santa Croce, 67 Francesco di Iacopo Barberino, 98, 2.44 frassino, ro8 Fugger, famiglia, 194 fumigazioni, I23, I96

INDI C E ANALITICO

galbano, us-6, 196, 246 Gale Thomas, 1S9, 195·9, 259-61, 270 Galeno, 123, 192-3, 207 Galletto Pietro, 217 gelso, 91-2, roo-1, 176 Germini sopra le quaranta meretrice della città di Firenze, 30, 234, 271 gesuiti, 1SS, 1 64, 254 Gherardo fiammingo, frate, 174, 179, 1S1-2, IS4, 222, 228 ghett0, 39, 23 6, 279 Ghirlandaio Domenico, 63 Ginori Caterina, 159 Ginori Lionora, 56-7, 159-61, 170, 238, 254 Giovanni da Vigo, 1S9, 191-S, 2.00, 202, 2.0 6, 259•70 Giovanni di Antonio Gherardini, 131 Giovanni di Battista, 255 Girolami Lucrezia, 154 Girolami Raffaello, 154 Girolamo Finugi da Pistoia, 15S, 2.54 Giulia della Pietà, 7, 2.15·2.0, 22.2., 2.64 Giulio II, papa, 191 Giusto di Giovanni di Ciullo, 51 Gondi Federico, 153 Gondi Maddalena, 154 Gondi Marietta, 20, 27, So, 105-6, 113, 141, 153· ISS· 1 57· 1 69, 174· I7S, ISO, 182, 240, 253, 256-7 gonorrea, 2.06-7, 262. Gonzaga Carlo, 2.65 Gonzaga Guglielmo, 2.65 Gonzaga Vincenzo, 7, 213-4, 217, 219-2.0, 222·4· 263·4· 270, 273 governo repubblicano, 14S, 153 Grascia, S3

gravidanza, uo, n2, II4, n 6-7, u9, 121-2, 128, 134· 137· 249 Grazia di Cecchino, 52 Grazzini Antonfrancesco, 30-1, 33, 40, 44· 47. 49· SI·4· 71, SI, 146, I 4S, 159. 172., 2.30, 234 . 236, 238, 2.52., 270, 27S, 275 greensickness, 109, 2.34, 2.46, 27S Gregorio X I I I, papa, 2.14 Gregorio XIV, papa, 11S-9, 247 guaiaco, 193·4, 196, 199-200 Guainerio Antonio, 114, 12.3, 12.7, 246 guardadonna, 2.16-9 Guicciardini Costanza, 223 Havelock Hellis, 209 idrossido di calcio, 199 l/Frate, 23S, 270 l/giardino delle rose, 249, 271 illegittimi, 1 6, 134-5 l/ libro del male.francese, 197, 260 impiastri, 107-9, 12.6-7, 139, 192.-3, 19S, 202 incannare, cfr. manifattura della seta incenso, 12.7, 196 infusi, 140, 193, 19 6-7, 199 Ippocrate, 109, 1 15, 12.3, 189, 193 iris, radici, 12.5 iscritti, elenchi degli, cfr. manoscritti Ispano Pietro, 12.5 istituzioni caritative, 4S, 54, 64, 6 6, 101, 151, 155-S, 237 cfr. anche Casa, Ospedale riforma delle, 56 La mandragola, 119-20, 12.2, 246, 271 La pinzochera (commedia di Grazzini),

286 3 1, 40, 47• 49, )2-, 54• 146, 1)9, 172-, 2-34, 2-36, 2-38, 2-52-, 2-70 lassativi, u3, 199 lavoratori a giornata, 2-9, 32-, 40, 78, 83, 100, 12-9, 2-35 lavoro, 73-105 apprendistato, 32-, 82giorni di, 32 lana, 84-90 servizio domestico, 32, 43, 69, 81-3, 129·30, 137. 1 62, 175. 241, 251 legge, 3 6, 46, 48, so, 64, 99, 1 17, 236, 250 legumi, 79, 108 Leone x, papa, 152, 247 Leone X I I I , papa, 247 Leoniceno Niccolò, 189 libbre, 14, 89, 95, ro;, 242-3 Libro delle fanciulle della pieta, 69, 86, 182 Libro Nuovo, 69, 184 Libro Segreto, 68-70, 72, 157, 1 62, r88, 2u, 233, 240, 268 Lion, don Giovanni Pietro, 120 Lionarda di Empoli, r8 litargirio, 126 London Lock Hospital, 210 Lorena, Cristina di, 179 Luigi di Giovanbattista, 64 Luis venereae perfectissimus tractatus, 206, 262, 270 lupino, farina di, 125 Machiavelli Niccolò, u3, 121, 2-35, 246, 271, 279 Maddalene, Casa delle, 2,09 Madonna della Misericordia, 63 Magistrato Supremo, u4, 250 maiale, grasso di, ro8

RAGAZZE PERD UTE

malaria, 71, 203 malattie veneree, 7, 189, 201, 206-7, 209·10, 2-12, 220, 263, 274, 279, cfr. anche sifi­ lide mal francese, 29, 187, 197·200, 202-4, 2o68, 2 2.. 2- , 22À CfL anche sifiude Malmaritate, Casa delle, 41-3, 54, 237, 268 malnutrizione, r6, II2 malva, ro8, 195, 246 malvasia, vino di, 109 manifattura della lana, 74, 82, 84-90, 106, 138, 176, 241-4 cardatura, pettinatura, 88 filatura, 88 lavatori, 87-9 manifattura della seta, 73-4, 84, 87, 90-2, 98-ro6, 138, 172, 176-7, 240, 242-5, 271-2, 274· 277 bozzoli, 74, 86, 91, 95, 102 cottura, 98, 109 dipanatura, 94 incannatura o trattura, 93, 103, 109 torcitura o addoppiare, 95-6 Mannu Tolu Rosalia, 155, 253 manoscritti, 15, 22-5, 42, 62, 66, 68, 141, 143, 239, 263, 268 cronache, 19-20, 65, 68, 153, 157, r82, 226, 229, 239, 256 elenchi degli iscritti, 182, 2-56 immatricolazioni, 142, 181, 184, 258 registri contabili, 24, 65, 76, 90, 127, 163, !78, 182, 226 Ricerche delle Case di Firenze, 66, 268 Ricettario, ro6-ro, 123, 125, 127, 13 9-40, 180, 184, 194-9, 202, 269 Mar Caspio, 91, ror Marco di Andrea Finocchio, 37. 235

INDI C E ANALITICO

Margherita, medica,

107-9, 1 1 3 , 1 2.2.-4,

12.6, 139, 180

Margherita da Borselli, 1 3 1 Margherita di Lionardo Boninsegni, 75,

135 · 1 3 8-9, 1 43 · 146, 149 · 184-6, 2.46

2.40

Maria Domenica, 83 Mariotta da Fiorenza, 2. 1 3 , 2.2.2-3, 2.27-8 Martini G. C., 96, 2.43, 2.7 1 Massa Niccolò, 197-8, :z.6o- 1, 2.71 matrimonio, 19, 2.1, 32.-4, 43, 47-8, so, s:z.-4, 8o -2, 1 3 5 , 171, 174, 179, 208, 22.0, 2.48

McGee Tim , :z.:z.o, 2.77 medici, 109-10, u:z., u 6,

mercurio, 194, 19 6-:z.oo Merici Angela, 170 Mesuè, 1 2.6, 139, 195, 198-9, 260 metodi abortivi, uo, u 6, 120, 1:z.:z., 1 2. 4-8,

u8, 12.2.-7, 1 3 9,

140, 142., 180, 192-7, 199-2.03, :z.o8-1o, 2.49-50, 2. 67

Medici, 3 2., 3 6, 148-9, 15 1-5, 1 61, 1 6 6, 170, 2.14-s. 2.19-:z.o, 2.36-8, :z.63-4, 278-8o

Medici Alessandro de', 152., 154, 170 Medici Andreuola de', 12.1, 154 Medici Cosimo I de', :z.o , 40-1, 45, 54-7, 59, 6 6, 71, 13 8-40, IS:Z. , 154, 160-3, 1 68-70, 1 82., 2.24, 2. 3 6, 238, 2.43, 2.55-6

Medici Cosimo il Vecchio, 40, 149 Medici Eleonora de', principessa,

2.19,

2.63-4, 270, 27 3

Medici Ferdinando de', 41, 223 Medici Francesca de', 154, 253 Medici Francesco I de', 41, 90, 179, 21 6-7, 2.2.3, 237, 2.42, 253, :z.s7, 2.64-5

Medici Lorenzo de', 20, 40, 149 Medici Maddalena de', 154 medicina manuali di, 109, 1 2.2., 197, 206, :z.o8, 2.49 ricette di, 1 2 4-5, 1 41, 226, 2.59 medicine, 74-5, 107, u2-3, u8, 12.3, 1 2.7, 18 ;- 6, 193, :z.o8, :z.;o

melagrane, 197 melitoto, r:z.6 Mercuriale Girolamo, 198, :z.61, 271

mirra, 1 25-7, 197, 2.46 mitra dolce (opopanax), r:z.s-7 mola, I I 4, 1 2.1 -2, 1 2.4, 246 Monaldeschi Baglio n i Monaldesca, 12.1 Montemurlo, battaglia di, 154 morbus gallicus, cfr. malfrancese, sifilide, malattie veneree morbus venereus, cfr. sifilide, malattie veneree morbus virgineus, cfr. greensickness mortalità infantile, 1 6 -7, 135 , 1 68 Muliebrium libri II, 1 2. 4 musica, 37, 22.0 Nannina di Stefano da Romita,

8:z., 137,

2.41

nere africane, stereotipo, :z.o 6-8, 2.62. neurosifilide, 201 Newbigin Nerida, 9, :z.63 Niccolò di Orlando da Portico di Romagna, 1 3 2. Noonan John T., u 9 , 246-7, 277 novelle, 120-:z., 1 40, 173, 2.30, 248-9 Novellino, 12.0, 1 2 4, 249, 271 Numidia, 206-7, cfr. anche cura etiope Nunchiano Giorgio da, 82. Ognissanti Borgo, 37,

40, 44, 53, 58-9, 63, 6 5 , 67,

70-1, 74, 76-7, S o, 86-7, 91, 93, 95, 104-s, 1 1 3, I I7, 1 2.7, 1 3 8, 149, 156, 158-9, 1 6 1-7, 172, 175-7· 180-1, 183-6, 200, 22.0-1, 223-4 · 2.29-30, 2.39, 2.58, :z.6s

monastero, 59, 72

288 Old Bailey, Londra, 2.10 olio di lino, Io8, r2.7, I9s-6, 2.46 olio di rosa, I99 olio d'oliva rancido, 125-7 Oltrarno, 44, 57, IS9 ombrellini minori, I2.5 omicidio, r r4-8 Onestà, 3 5, 37-4I, 45-8, 12.8, I3o, I38, I 66, 234-8, 2.50-I, 2.53, 267-8, 2.72 onore, I8, 3 4, III, 1 3 1, 134, 140, 145, 2.14 Orbatello, 4I-3, so, 54, 75, I2I, 2.37, 2.48, 2.80 orfani, 55, 146 orfanotrofio, I 6, 23-4, 99, 108, I77• 209, 210, cfr. anche Ospedale degli Innocenti, Pieta, Casa della orzata, I08, I97, 199 Ospedale Bini, 238 Ospedale degli Abbandonati, 2.4, 56, I6o, 2.67 Ospedale degli Innocenti, I 6-7, 102, I34-5, 137· 2.03-4· 2.20, 237· 2.51, 275 Ospedale dei Mendicanti (Bologna), 102 Ospedale delle Abbandonate, ;6, 1 60-1, I70 Ospedale di San Giovanni di Dio, 2.39, 274 Ospedale di San Niccolò dei Fantoni, 57, 68-9, 7 1, 102, 137, 157, 161, 2.38-40, 2.51, 2.53· 2.64, 268, 2.76 Ospedale di Santa Maria dell' Umiltà, 59, 62-7, 69, 72, 74, 78, s s. 90, 93, 113, 123, 155, 1 63, 165, 168, 2.53 Ospedale di Santa Maria Nuova, I6, 42, 85, 124-s. 2.33, 2.49 Ospedale di Santa Trinità degli Incurabili, I94, 2IO, 260, 267

RAGAZZE PERD UTE

ossido di piombo, 108, 126 Otto di Guardia, 52., 13 1-3, 2.33, 2.68 oximele semplice, 1o8Pagolo, dottore, 124-s. I4o, 249 Palazzo della Signoria, 36 Paolo I I I, papa, I70 Paré Ambroise, I9 6-2oo, 204-6, 260-2, 27I Parigi, 204 Parte Guelfa, 42., 237, 248, 267 parto, 49, I2.2., 203, 2.46, 250 Passerini Luigi, 66, 239, 2.78 Pavaglione (mercato della seta, Bologna), 93 pece, 195-6 greca, 107 pederastia, 2.06 penicillina, 187-8, 201, 261 Pesilli Brigida, 76, 182, 240 peste, I 6-7, 34, So, I7S. 202-3 Petrucci Maria Teresa, I9, 68, 105 piagnoni, I48, I50-5, I)8, I60-I, I63, I6), I70, I86, 252, 255· 279 pianraggine, I08, I97 acqua di, I95, 197 Pico della Mirandola Giovanni, 146 Piera di Santi Bicchieraio, SI Pierozzi Antonio, u6, cfr. anche Antoni­ no, arcivescovo Pieruccio de' Poveri, 154 Pietà, Casa della, 9, 18-9, 21-4, 26-7, 68-70, So-6, 89-91, 99, 102, II?, 122-5, 128-30, 132-3, 13 5-40, 146, 148-9, 154-5, 157, 161-7, 175, 184, 186, 202-3, 220, 225, 231-2, 268 amministrazione, 22, 75-6, 86, I4I, IS9. I7I, I74, I80, I84

INDI C E ANALITICO

assistenza sanitaria, 108, I I7, 122-5, 127-8, 13 8-40, 180, 185-6, 194-200, 202, 204, 211 benefattori, 106, 177-8, 257 clausura, 168-9, 173-5. 178 cronache, 19-20, 24, s8-9, 6s, 67, 105, 141, 1 55· 158, 1 64, 182, 227-30, 256, 263. 265. 269 direzione spirituale, 158, 164, 170-1, 228, 2)4 entrate, 102, 133, 136-7, 141-3, 161, 165-6, 175 . 226, 245. 253-4 . 256 mortalità, 15-7, 18 6-8, 200, 202, 221, 23 1, 234. 265 origini, 15-6, 20, 57-8, 155-6 procedure d'ingresso, 68- 9, 177-80, 182., 184, 227-8 sistemi punitivi, 136-7, 175-6 sede, 6o, 62-3, 6;- 7, 70-1, 239, 244 statuti, 172.-3, 256 trasformazione in convento, 19, 163-4, 16 8-9, 173, 178-9, 181, 222-4, 229 uscite, 77-9, 175, 2.50, 256, 258 vita, 7 1-5, 78-9, 83-6, 89-91, 93, 95, 104-12, 172-8, 243 Pietà, Compagnia della, 77, 79, 106, 142-3, 153-8, 161-2, 164-5, 168-9, 177-8, 181-3, 185, 2II-2, 221, 239, 244-5, 252.-3, 255, 2.57 Pietà, Monte di, 237 pinzochere, 3 1, 156, 159· 170 Pio IX, papa, 247 politiche sessuali, 48-9 Pollack Flora, 209 Por Santa Maria, cfr. anche Arte dei me­ dici e spezia/i di Firenze, manifattura della seta potenza virile, 216, 220, 264, 270, 273 potenze, 235

Pratica Segreta, 236 prediche, 23, cfr. anche sermoni preti, 2.3, 34, 3 6, 43, 46, 52., n9-2.1, 152, 164, 248 Priamo, re di Troia, 250 priore, 69, 76-7, 157, 159, 164, 171, 18 1-2, 2.2.6-?, 229 problemi respiratori, 108 processi per stupro, 51-2, 54· 210 profezie, 150, 22.8 prostitute, 16, 19, 21, 29-32, 3 5-41, 43-8, 54, 58-9, 120-1, 130, 138-9, 142, 1 65, 170, 177· 185. 190, 202-), 207, 214, 23)-8, 248, 2)1, 262, 273· 275 prostituzione, 1 6-8, 30 - 1, 35, 37, 40-2, 46, 48, 54, 8o, 137-8, 186, 207, 221, 235-6, 238, 262, 273 leggi sulla, 35, 38-9, 2.35-6 tasse per la registrazione, 39-40, 46-7, 130 Protomedicato, 124 Puttana 19, 30-1, 42, 47. 5 1, 54, 71 ragazze abbandonate, 15, 17-8, 41, 54, 56-8, 6 6-8, 101, 129-30, 146, 159-63, 1 6 5, 169-?0, 173· 178-9, 211, 215, 231, 233, 239. 253-4· 268, 276 rapporti sessuali, 53, 115, 135, 190, 200, 205-7, 2II, 213, 247, 259, 264-5 Repubblica fiorentina, 13, 59, 64, 147-8, 150-5 resina, 108, 126-7, 195-6 di pino, 108, 12.6, 195 Ricasoli, famiglia, 142 Ricasoli Lucrezia, 169, 174 Ricerche delle Case di Firenze, 6 6, 2.68 Richa Giuseppe, 6s Riddle John 9, 127, 247, 249-50, 278

RAGAZZE PERD UTE

Ridolfì, famiglia, 1 42 Ridolfì Lorenzo, 154 Ridolfì Pagnozzo, 1 5 4 riforma istituti caritativi, ss-6 rivenditora, 105 Romano Giulio, 213 Rositinio Pietro, 190, 197-8,

Santa Maria Novella, convento domenicano, 158, 1 63-4, 1 6 8, 228, 233. 256

quartiere, 44. 58, 66, 142, 1 68, 268 Santa Maria Nuova, ospedale di, 1 6, 42, 85, 124-5, 233, 249, 267, 269 200, 2.06,

259-60, 27 1

Rosso Paolo, 1 6 6 rottura della promessa coniugale, 5 3 Ruggieri Francesco, 123-4, 249, 257 Sacchetti Capponi Ginevra, 154 Sacchetti Niccolò, 154 salario, 45. 58, 78, 99· 1 3 1 salassi, 120, 1 23-4, 1 8 0, 249, 261 Salernitano, 1 20, 249, 271 Salvetti, padre Battista, 1 7 1 sambuco, corteccia, 1 9 9 , 26I Sanchez Thomas, r r7, 247, 271 San Giovanni, quartiere, I 4 1 San Marco, convento, monastero, 1 9 , 76, n 6, 1 49, 164-5, 1 7 1, 238, 256

San Niccolò, istituto,

57, 68-9, 7 1, 102,

137, 157, 1 6 1, 233, 237-40, 251, 253, 264, 268

Santa Croce, quartiere, 3 5-6, 244 Santa Maria degli Angeli, monastero ca­ maldolese, 158, 1 63-4. 255 Santa Maria del Bigallo, confraternita, 55· 6 3 , 2 3 3 , 237. 267

Santa Maria del Fiore, cattedrale, 1 3 8, 2 5 1 Santa Maria delle Vergini, confraternita, 57 - 8, 68 - 9, 71, 137, 1 57, 1 6 0-2, 237-40, 251, 254- 5

Santa Maria dell' Umiltà, 59, 62-7, 69, 72, 74, 78, 8s, 90, 93, r r 3 , 155, 1 6 3 , 1 6 5, 1 6 8, 253

Santa Trinità degli Incurabili, ospedale di, 194· 210, 260, 267 Santi Francesco Bastiere, 6s Santo Spirito, quartiere, 3 6, 142 sarti, 3 2, 8 1-3 Sassonia Ercole di, 206-8, 262, 270 Savonarola Girolamo, 21, n6, 143, 1 46-54, 15 6-8, I 63-5, 186, 228, 247, 252-6, 258, 27I, 27 3-80

Savonarola Michele, r r 6 savonaroliani, cfr. piagnoni scabbia, I 9 8 Scaligero Giulio Cesare, 2.0 6-8, 262. Scarlatta Madonna Alessandra, 8 I Scarpellino Domenico di Giovanni, S I schiavi, 4 3 Sciroppi, I O ?, I40, 180, 258 scomunica, u8, 153 scrofola, 1 98, 192, I97-8, 261 scudo, 13 seconde nozze, SI Sedes Apostolica, r r8, 2 47 Senato (Venezia), 43 serapino, 126 serbanza, 3 3 Sercambi Giovanni, 121, 248, 27 1 sericoltura, 95, Ioo, 242 Sermani Giovanni Battista di Domenico, 66

sermoni, 2I, 12.0-1, cfr. anche prediche serviti, I 52 servizio domestico, 69, 82, 137, 175, 186, 207

INDI C E ANALITICO

sesso, ;, 7, 1 8, 2.6, 2.9-3 1, 35, 41, 43, 46-8, 52., 54· 109, 113, 12.8, 135. 138, 173-4. 193· 2.03, 205-6, 2.2.7, 2.31, 234 clero e, 153· 158 interdizioni religiose, 2.16, 264 sessualità adolescenziale, 47-8, 52., 54, 1 3 6, 2.19, 221-2., 2.34 seta grigia, 98 Settimana Santa, 2.16, 2.64 Sicilia, 91 Siena Kevin, 9, 210 sifilide, 186-7, 2.00, 2.02-3, 2.07-8, 2.10-2., 220, 222, 227, 231, 259. 261-2 congenita, 188, 198, 2.01-2. contagio, 190-4, 200-1, 207-8, 261 infantile, 2.01-5 nome, 187-9 sintomi, 188, 2.19 terapie, 195-2.00 Simitecolo Galeazzo, 12.0 Simone di Luigi de Barcoli, 67 Simone maestro, 123-4, 2.49 Sismondi Jean Simonde dei, 95 sistemi di misurazione, 13 Sisto v, papa, 1 17-20, 247, 272 Sitoni Giovanni Battista, 207-8 sodomia, 34-7, 48, 213 Soldani Giovanni, 98, 100, 243-4 Soldani Jacopo, 2.57 Sommaia Francesco da, 255 Sommaia Giovanni da, 132, 223-4, 265 Sommaia Girolamo da, 1 33-4, 165-7, 178, 2.55 Sommaia Maddalena da, 178, 257 Sorano, uo, 12.5, 2.46, 272. speziale, 30, 108, 110, 121, 127, 180, 258 spirituale, storia, 2.2.9 spirituali, 157 staio, 13

statuti, 23, 43, 55, 99, 156, 1 60, 163, 171-2, 176, 181, 2.2.6, 237, 2.43, 2.50, 2.55-7, 260, 267-8 del 1 570, 172.-7, 182., 2.30, 2.54 stereotipo razziale, 206-8 Stinche, carcere, 38, 57 Storia degli animali, u4, 2.47, 269 strategie familiari, 17-8, 3 1, 33, 48-so, 52.-4, 154, 159, 204-6, 209, 251, 263 matrimoniali, 21, 35, so, 136, 179, 211, 214 Strocchia Sharon, 228, 234, 252., 256-8, 265, 279 Strozzi Carlo, 132, 134, 154 Strozzi Maria, 154 Strozzi Marietta, 154, 2.53 Strozzi Paolo, 154 Strozzi Piero, 154 struma, 198 stupro, 2.6, 48, 51-2, 54. 132, 134. 137. 2.06, 2.09-II, 262, 2.64 sudorifero, 195, 199 suore, 19-2.1, 30, 35, 45, 104, 113, 1 19-21, 124, 142, 148, 153. 158, 1 64, 174 > 178, 182-3, 226, 22.8, 256 Susanna di Francesco da Manfriano, 132., 134 Susanna Gabriella francese, 179 Taddeo di Barcolo, 133 tasso di mortalità, 1 6, 35, 48-9, 7 1, 105, 1 62., 1 8 6, 188, 2.2.11 2.40, 261 taverne, 38, 235 telaio a mano, 77, 82., 100, 104 tessitura, 42., 74, 82., 84-5, 88-90, 95, 101, 103-4· 176, 2.45 condizioni di lavoro, 105-6, 137-9 forza lavoro, 101-4

RAGAZZE PERD UTE

Thesauruspauperum, 12.5 tigna, 108, 140, 198, 2.00, 2.45 Tolomei Monna Ginevra dei, 98, 2.44 Tommaso d'Aquino, santo, ns, 2.47 Tommaso de Vio (il cardinale Gaetano), n 6, 2. 47, 270 torcitura, cfr. manifàttura della seta Tractatus de matricibus, 1 14, 1 2.7, 2.46 Trattato di malfrancese, 197, 2.59-60, 2.71 trattura, cfr. manifàttura della seta trementina, 107, 196, 200 Trotula di Salerno, 109-10, 246, 249, 270 tubercolosi, 105, 2.03 tumori, 114, 198 tutia, 109, 2.46 Ubaldini Domenico, 81 Ughi Pier Giorgio, 22, 69, 86, 98, 244 ulcere, 187, 192, 195-8, 202., 204, 228, 260-1 umiliati, 59 Umiltà, ospedale, cfr. Ospedale di Santa Maria dell'Umiltà umori, 112., 12.3-4, 190, I93, I95-6, 198-9 unguenti, I07-9, 126-7, I39-40, 193, 195-7, 199. 202, 220, 260 unguento, 108-9, 12.6-7, I 40, 197, 199, 2.60 appostolorum da Vtcenna, 197 basilicon magiore magistrale, 197 egiziano, 197 unificazione dell' Italia, 147 untione, 192 usura, 1 19, 189 utero, 109, 1 12., 114-5, 12.3, 12.5, 12.7, 136, 139· 190, 2.46

Valdaura Bernard, 2.08 van der StraetJan, 9 1-5, 176 Venezia, 99, IOI, II7, 2.16, 2.19, 264 verginità, 18, 21, 33, 43-4, 52, 157, 2.06-8, 219-20, 227 Veronica Franco, 43-4 Vespucci, famiglia, 63-4, 67, 253, 260 Vespucci Amerigo, 63 Vespucci Andrea, 2.53 Vespucci Luigi, 64-5, 67-8, 2.39 Vespucci Simone di Piero, 62-3 via Chiara, S I della Scala, 44 del Mandorlo, I 6 2.-3, I6 5, 1 67-9, I75-7, 179, 18I, 183, I85, 2.2.4, 22.9, 2.40, 2.44, 25), 269 di San Gallo, 165, 255 Fosse, 67 Nuova, 59, 67, 70, 74, 86, 113, 1 38-9, 2.39· 2.)1 Viaggio in Toscana, I725-I745· 96, 2.43, 271 Viccioni, padre Romano Felice, 19, 225-9, 231, 2)6, 265 Vicenza, 95 Vinta Belisario, 2.15-9, 2.64-5 violenza, 2.6, 43, 48, 51-4, 1 17, 128, 1 3 6, I66, 2.05, 2.09, 2.11 domestica, 41, 43-4, 54 minorile, 1 34, 137, 205-211, 262 Vttae matrimonialis regula, 113 Vives Juan, 2.08, 2.63, 2.72. Zitelle, Casa delle, I 6 s

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