"Guerra santa" e conquiste islamiche nel Mediterraneo (VII-XI secolo) 8867283081, 9788867283088

In seguito alle conquiste islamiche, il Mediterraneo divento un fluido spazio di confine tra societa musulmane e cristia

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Italian Pages 196 [199] Year 2014

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"Guerra santa" e conquiste islamiche nel Mediterraneo (VII-XI secolo)
 8867283081, 9788867283088

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I libri di Viella 179

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“Guerra santa” e conquiste islamiche nel Mediterraneo (VII-XI secolo) a cura di Marco Di Branco e Kordula Wolf

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Copyright © 2014 – Viella S.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: luglio 2014 ISBN 978-88-6728-364-4 (pdf)

Questo volume è stato stampato con il sostegno della Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG).

viella libreria editrice via delle Alpi 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 75 8 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

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Indice

Kordula Wolf Introduzione

7

Samir Khalil Samir L’Apocalypse de Samuel de Qalamūn et la domination des Hagaréens

17

marco di Branco Dalla guerra navale alla conquista delle grandi isole del Mediterraneo. Cipro, Rodi, Creta

65

ann chriStyS From ǧihād to diwān in two providential histories of Hispania/al-Andalus

79

GiuSeppe mandalà Tra minoranze e periferie. Prolegomeni a un’indagine sui cristiani arabizzati di Sicilia

95

marco di Branco, Kordula Wolf Terra di conquista? I musulmani in Italia meridionale nell’epoca aghlabita (184/800-269/909)

125

aldo a. Settia «In locis qui sunt Fraxeneto vicina». Il mito dei Saraceni fra Provenza e Italia occidentale

167

lutz BerGer Postface: Continuity and Change in the Early Medieval Mediterranean

175

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Indici Indice delle persone Indice dei luoghi

181 183 189

Abstracts

193

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Kordula Wolf

Introduzione

Il notevole aumento dell’interesse per i temi di ricerca concernenti la storia delle regioni mediterranee e delle relazioni islamo-cristiane che si è registrato negli ultimi due decenni in Europa e anche in Italia, è strettamente connesso a problematiche politiche ed eventi legati all’attualità. I mass media hanno portato nel salotto di casa immagini e resoconti di conflitti in Nordafrica, nei Balcani e in Medio Oriente e hanno diffuso una rappresentazione piuttosto unilaterale di una rete globale di estremisti islamici, mentre politici di molti paesi, tra cui l’Italia, hanno dovuto confrontarsi con i temi dell’immigrazione, dell’integrazione e degli aiuti ai rifugiati. Inoltre, la discussione sui confini e l’identità culturale dell’Europa spinge a una riflessione critica non solo la politica e la società, ma altresì la ricerca scientifica. Anche il contributo dato a questo dibattito dalla medievistica ha fatto sì che oggi non si parta più meccanicamente dal presupposto di un’Europa genuinamente cristiana con un’estensione geografica ben definita.1 Essa, infatti, influenzata dai postcolonial studies ha affrontato criticamente le mas­ ter narratives tradizionali e ha cercato delle alternative a una storiografia 1. Fondamentali, a questo proposito, il programma di ricerca (Schwerpunktprogramm [SPP]) 1173 «Integration und Desintegration der Kulturen im europäischen Mittelalter» (2005-2012) e le pubblicazioni a esso collegate; in particolare: Mittelalter im Labor. Die Mediävistik testet Wege zu einer transkulturellen Europawissenschaft, a cura di M. Borgolte, J. Schiel, B. Schneidmüller, A. Seitz, Berlin 2008 (Europa im Mittelalter. Abhandlungen und Beiträge zur historischen Komparatistik, 10); Integration und Desintegration der Kul­ turen im europäischen Mittelalter, a cura di M. Borgolte, J. Dücker, M. Müllerburg, B. Schneidmüller, Berlin 2011 (Europa im Mittelalter. Abhandlungen und Beiträge zur historischen Komparatistik, 18). Di grande interesse anche M. Borgolte, Christen, Juden, Muselmanen. Die Erben der Antike und der Aufstieg des Abendlandes 300 bis 1400 n.Chr., München 2006 (Siedler Geschichte Europas).

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Kordula Wolf

europea costituita da singole storie nazionali. La consapevolezza della flui­ dità e dell’artificiosità di confini spaziali e categorie, la sensibilizzazione nei confronti delle problematiche legate a un’idea olistica di cultura, ma anche, più in generale, un maggior grado di attenzione per la terminologia e i concetti utilizzati hanno forti ripercussioni sugli oggetti della ricerca – non da ultimo con la conseguenza che i lavori interdisciplinari e temi quali la convivenza, gli scambi, i contatti e i conflitti tra gruppi culturalmente diversi, la percezione di sé e la percezione dell’altro, ma anche la storia del mondo musulmano hanno assunto un’importanza nuova. Con le attuali tendenze alla globalizzazione e alla regionalizzazione, questo spostamento dei campi di interesse nell’ambito della discussione scientifica è stato ulteriormente rafforzato. In particolare, nell’area anglosassone e di lingua tedesca, anche la medievistica da alcuni anni contribuisce in maniera intensa a questi dibattiti, affrontando la sfida di fare ricerca in una prospettiva di storia globale e di saggiare il potenziale di un simile approccio.2 Naturalmente, per il millennio medievale, sarebbe anacronistico voler indagare le crescenti connessioni che caratterizzano l’epoca contemporanea. Ciononostante è possibile lavorare sulla storia globale medie2. Vedi in particolare The Encyclopedia of Global Human Migration, a cura di I. Ness, 5 voll., Chichester et al. 2013, che contiene molti contributi riguardanti l’epoca medievale; WBG Weltgeschichte. Eine globale Geschichte von den Anfängen bis ins 21. Jahrhundert, III: Weltdeutungen und Weltreligionen 600 bis 1500, a cura di J. Fried, E.-D. Hehl, Darmstadt 2010; M. Borgolte, Über europäische und globale Geschichte des Mittelalters. Histo­ riographie im Zeichen kognitiver Entgrenzung, in Die Aktualität der Vormoderne. Epo­ chenentwürfe und europäische Identitäten, a cura di S. Patzold, K. Ridder, Berlin 2013 (Europa im Mittelalter. Abhandlungen und Beiträge zur historischen Komparatistik, 23), pp. 47-65; Id., Mittelalter in der größeren Welt. Eine europäische Kultur in globalhistori­ scher Perspektive, in «Historische Zeitschrift», 295 (2012), pp. 35-61; Transkulturelle Ver­ flechtungen im mittelalterlichen Jahrtausend. Europa, Ostasien, Afrika, a cura di M. Borgolte e M.M. Tischler, Darmstadt 2012; Europa im Geflecht der Welt. Mittelalterliche Mi­ grationen in globalen Bezügen, a cura di M. Borgolte, J. Dücker, M. Müllerburg, P. Predatsch, B. Schneidmüller, Berlin 2012 (Europa im Mittelalter. Abhandlungen und Beiträge zur historischen Komparatistik, 20); W. Drews, Transkulturelle Perspektiven in der mittel­ alterlichen Historiographie. Zur Diskussion welt- und globalgeschichtlicher Entwürfe in der aktuellen Geschichtswissenschaft, in «Historische Zeitschrift», 292 (2011), pp. 31-59; Transkulturelle Komparatistik. Beiträge zu einer Globalgeschichte der Vormoderne, a cura di W. Drews e J.R. Oesterle, in «Comparativ. Zeitschrift für Globalgeschichte und vergleichende Gesellschaftsforschung», 19 (2008), pp. 8-155; T. Ertl, Seide, Pfeffer und Kanonen. Globalisierung im Mittelalter, Darmstadt 2008 (Geschichte erzählt, 10); Europas Aufstieg. Eine Spurensuche im späten Mittelalter, a cura di T. Ertl, Wien 2013 (Expansion, Interaktion, Akkulturation, 24).

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Introduzione

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vale a patto di concentrarsi sugli incroci e sulle relazioni ad ampio raggio all’interno del mondo allora conosciuto: l’Oikoumene.3 In questo senso e in relazione alle attuali discussioni scientifiche sulle nozioni polivalenti di “globalizzazione” e di “storia globale”, nell’ambito della medievistica si è stabilito un approccio, attraverso il quale la storia delle interazioni e dei contatti tra diverse civiltà, culture o società – concepiti come unità solo per motivi euristici – e ugualmente i processi risultanti da essi vengono indagati a diversi livelli.4 Anche le cognizioni derivate dalla critica a una storiografia globale su vasta scala, che hanno evidenziato come il “globale” e il “locale” non debbano necessariamente escludersi a vicenda,5 hanno avuto una certa risonanza nelle discipline medievistiche e sono state foriere di ulteriori studi. Occuparsi di storia medievale secondo i criteri della storia globale non significa solo guardare all’intera Oikoumene con la medesima attenzione. È anche possibile scegliere alcuni casi esemplari pertinenti a regioni culturalmente diverse e riflettere in maniera teorica su di essi sullo sfondo di questioni più ampie che esulano dalla storia puramente evenemenziale, mettendoli in relazione in una prospettiva globale e transculturale.6 3. L’Oikoumene medievale include l’Europa, Bisanzio, il mondo islamico, l’Asia orientale, le Indie, il Sahel e il Sudan nonché la “diaspora giudaica”, geograficamente variabile. Cfr. i vari contributi in Weltdeutungen und Weltreligionen 600 bis 1500 [n. 2]. In particolare, sull’Oikoumene medievale, anche M. Borgolte, Kommunikation – Handel, Kunst und Wissensaustausch, ibidem, pp. 17-56: 17-18; Borgolte, Mittelalter in der größeren Welt [n. 2], pp. 44-47. 4. Cfr. più in generale J. Osterhammel, N.P. Petersson, Geschichte der Globalisie­ rung. Dimensionen, Prozesse, Epochen, München 2007 4, p. 18. In proposito cfr. anche Borgolte, Mittelalter in der größeren Welt [n. 2], pp. 39, 41. 5. Recentemente si è avanzata la proposta di guardare alle “regioni” come a «una dimensione delle relazioni mondiali» («eine Dimension von Weltbeziehungen»), un approccio sicuramente valido non solo nel contesto della storia moderna, ma anche per il periodo medievale; cfr. J. Paulmann, Regionen und Welten. Arenen und Akteure regionaler Weltbe­ ziehungen seit dem 19. Jahrhundert, in «Historische Zeitschrift», 296 (2013), pp. 660-699: 660. Il sociologo e teorico della globalizzazione Roland Robertson ha coniato in proposito il concetto di “Glocalization” (it. “glocalizzazione”; ted. “Glokalisierung”). Cfr. R. Robertson, Glocalization. Space, Time and Social Theory, in «Journal of International Communication», 1 (1994), pp. 33-52; Id., Glocalization. Time-Space and Homogeneity-Heterogeneity, in Global Modernities, a cura di M. Featherstone, S. Lash, R. Robertson, London 1995, pp. 25-44. Per l’area mediterranea vedi anche P. Horden, N. Purcell, The Mediterranean and “the New Thalassology”, in «The American Historical Review», 111 (2006), pp. 722-740, in particolare: pp. 722-723. 6. Cfr. J.H. Bentley, Old World Encounters. Cross-Cultural Contacts and Exchanges in Pre-Modern Times, New York-Oxford 1993; Id., Cross-Cultural Interaction and Perio­

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Kordula Wolf

In un modo o nell’altro, il campo della ricerca delle scienze storiche e di altre discipline correlate si amplia, oltrepassando i confini convenzionali delle varie specializzazioni e gli orizzonti tradizionali. In Italia, questioni concettuali concernenti problematiche di storia globale hanno finora riscosso l’interesse degli storici solo occasionalmente e fuori dal campo della medievistica.7 Tuttavia, il passato italiano, soprattutto a causa dell’appartenenza della penisola, della Sicilia e delle altre isole all’area mediterranea, offre una grande varietà di oggetti di ricerca, che permetterebbero di occuparsi di storia locale e regionale in un contesto più largo, facendo riferimento alle attuali problematiche transregionali. Qui, come è noto, per più di un millennio si sono toccate e sovrapposte le sfere di influenza bizantina, “latina” e musulmana. Ciò ha portato a numerosi contatti, a scambi reciproci, ma anche a divisioni, conflitti e guerre. In un contesto mediterraneo e globale, l’Italia condivide questa caratteristica di “terra di confine” con molte altre regioni. Com’è evidente, la vicinanza geografica e la parziale integrazione nella “Casa dell’Islam” (dār al-Islām) ha lasciato tracce profonde nella storia italiana, tracce che in parte (soprattutto per ciò che concerne la Sicilia normanna) sono state analizzate con una certa attenzione, ma che in molti casi sono state quasi cancellate a causa della scomparsa delle fonti o di particolari tendenze nazionali e religiose della storiografia moderna. Proprio i dibattiti sul modo in cui scrivere una “storia del mondo”, del Mediterraneo o dell’Europa che soddisfi i criteri attuali hanno aperto – soprattutto da una prospettiva “occidentale” – nuovi orizzonti sul mondo dell’Islam e ci hanno sensibilizzato sulla complessità dei nostri oggetti di ricerca.

dization in World History, in «American Historical Review», 101/1 (1996), pp. 749-770; N. Zemon Davis, Global History. Many Stories, in Eine Welt – Eine Geschichte?, 43. Deutscher Historikertag in Aachen, 26. bis 29. September 2000, Berichtsband, a cura di M. Kerner, München 2001, pp. 373-380: 374. Con un accento leggermente diverso e indirizzato a una comparatistica transculturale anche Drews, Oesterle, Vormoderne Globalgeschichte [n. 2], pp. 8-14: 10. 7. Cfr. T. Tagliaferri, La Repubblica dell’umanità. Fonti culturali e religiose dell’uni­ versalismo imperiale britannico, Soveria Mannelli 2012 (Storia politica, 39); L. Di Fiore, M. Meriggi, World history. Le nuove rotte della storia, Roma-Bari 2011 (Quadrante Laterza, 169); V. Beonio-Brocchieri, Storie globali. Persone, merci, idee in movimento, Milano 2011; G. Traina, 428 AD: An Ordinary Year at the End of the Roman Empire, PrincetonOxford 2009; G. Gozzini, G. Scirè, Il mondo globale come problema storico, Bologna 2007 (I prismi. Storia contemporanea).

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Introduzione

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Se ci si interroga sulla rilevanza globale delle espansioni islamiche medievali, bisogna guardare alle regioni coinvolte sia all’interno sia al di fuori del Mediterraneo con le loro dinamiche specifiche. Sebbene si discuta sul peso della storia islamica più antica considerata in una tale prospettiva globale, non c’è dubbio che le espansioni musulmane hanno avuto un notevole impatto in molte sfere e hanno contribuito in larga misura alla connessione interna dell’Oikoumene premoderna e alla sua interna differenziazione – con conseguenze importanti sulle società presenti nei territori conquistati e sulle stesse regioni islamiche.8 Dopo la morte del profeta Muḥammad (632), l’Islam si espanse con una velocità e una dimensione storicamente straordinarie. Nell’arco di un solo secolo il dominio islamico si impose dall’Atlantico all’Asia centrale. In tal modo l’Islam emerse nell’Oikoumene dell’epoca come terza religione monoteistica dopo il Giudaismo e il Cristianesimo. In questo contesto si è parlato di una «cesura nella storia del mondo», poiché da allora in poi nacque – anche grazie alle missioni cristiane – un’estesa «zona mondiale monoteistica in contrasto con il mondo multireligioso [e politeistico] dell’Asia centrale e orientale».9 All’interno di questo «spazio culturale comune dei monoteisti»10 in cui trovano posto anche politeisti e dualisti,11 il Mediterraneo, al quale si 8. Con uno sguardo alla discussione sulla storia globale si rinvia qui a Borgolte, Mit­ telalter in der größeren Welt [n. 2], pp. 46-53; W.G. Clarence-Smith, Editorial – Islamic History as global history, in «Journal of Global History», 2 (2007), pp. 131-134; Islam in Process – Historical and Civilizational Perspectives, a cura di J.P. Arnason, A. Salvatore, G. Stauth, Bielefeld 2006 (Yearbook of the Sociology of Islam, 7), pp. 258-278. Sul concetto di “transculturalità” cfr. W. Welsch, Transculturality – The Puzzling Form of Cultures Today, in «California Sociologist», 17/18 (1994/1995), pp. 19-39 (= in Spaces of Culture: City, Nation, World, a cura di M. Featherstone, S. Lash, London 1999, pp. 194-213; disponibile online: http://www2.uni-jena.de/welsch/Papers/transcultSociety.html; 14/10/2013). 9. M. Borgolte, Juden, Christen und Muslime im Mittelalter, in Albertus Magnus und der Ursprung der Universitätsidee. Die Begegnung der Wissenschaftskulturen im 13. Jahr­ hundert und die Entdeckung des Konzepts der Bildung durch Wissenschaft, a cura di L. Honnefelder, Berlin 2011, pp. 27-48 (con le note a pp. 423-437): 30-31 («welthistorische Zäsur»; «monotheistische Weltzone im Kontrast zur multireligiösen Welt des mittleren und östlichen Asien»). 10. Borgolte, Mittelalter in der größeren Welt [n. 2], p. 52: «gemeinsamen Kulturraum der Monotheisten». 11. Sull’argomento cfr. Borgolte, Über europäische und globale Geschichte [n. 2], p. 60, con ulteriori indicazioni bibliografiche. L’autore menziona in questo contesto anche gli “atei”; ma, almeno per quello che riguarda in mondo islamico, sembra più opportuno, sem-

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Kordula Wolf

riferiscono i case studies di questo volume, ha giocato un ruolo decisivo. Questa macroregione transcontinentale, comunque essa si definisca dal punto di vista geografico o concettuale,12 era uno spazio che univa e separava, in cui si toccavano o si sovrapponevano zone diversamente connotate dal punto di vista culturale e dove la superficie del mare costituiva un fattore centrale per la mobilità. Sebbene, dopo la fine dell’Impero romano, la mobilità e la connettività mediterranee diminuissero per raggiungere, nella seconda metà del VII secolo, il loro livello più basso,13 e anche se in una prospettiva globale si è recentemente constatato che «le conquiste degli Arabi hanno notevolmente limitato lo scambio culturale tra l’Europa occidentale e il resto del mondo medievale», perché «la religione missionaria del Buddhismo [...] non ha potuto penetrare nell’area euromediterranea»,14 tuttavia le espansioni islamiche hanno avuto un forte impatto sul Mediterraneo fin dagli inizi. Al di là dei continui tentativi di allargare e definire le sfere di influenza, l’imporsi dell’Islam nell’occidente a partire dal VII secolo ha contribuito su diversi livelli – politico, militare, diplomatico, economico, demografico, culturale, religioso – all’intensificarsi della connessione tra determinate regioni15 e ha avuto per conseguenza l’integrazione nella dār al-Islām di molti territori: integrazione che in alcuni casi dura fino a oggi, ma in altri rimase limitata nel tempo. Senza dubbio, il Mar mediterraneo e l’utilizzo di potenti flotte hanno esercitato un ruolo fondamentale nel corso delle conquiste in occidente, mentre le vie terrestri restarono comunque importanti per la comunicazione e la mobilità.

mai, parlare di razionalisti. Cfr. ad es. D. Urvoy, Les penseurs libres dans l’Islam classique, Paris 1996 (per questa indicazione ringrazio Lutz Berger). 12. Tra gli studi che hanno influenzato i dibattiti sul Mediterraneo, anche nella medievistica, menzioniamo anzitutto: F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris 1949; P. Horden, N. Purcell, The Corrupting Sea. A Study of Mediterranean History, Oxford 2000. Ulteriori riflessioni anche nel recente Construire la Méditerranée, penser les transferts culturels. Approches historiographiques et perspectives de recherche, a cura di R. Abdellatif, Y. Benhima, D. König, E. Ruchaud, München 2012 (Ateliers des Deutschen Historischen Instituts Paris, 8); D. Abulafia, The Great Sea. A Hu­ man History of the Mediterranean, London 2011; S. Bono, Un altro Mediterraneo. Una storia comune fra scontri e integrazioni, Roma 2008 (Piccoli saggi, 37). 13. Cfr. M. McCormick, Origins of the European Economy: Communications and Com­ merce, A.D. 300-900, Cambridge 2001, p. 783. 14. Così Borgolte, Mittelalter in der größeren Welt [n. 2], p. 52. Ulteriori discussioni chiariranno meglio la fondatezza di questa affermazione. 15. Cfr. McCormick, Origins of the European Economy [n. 13], passim.

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Introduzione

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Sull’espansione dell’Islam e sulle dinamiche a essa collegate molto è stato scritto. Tuttavia, vale la pena di soffermarsi con maggiore attenzione e da prospettive diverse sulle interazioni reciproche summenzionate, in una chiave che oltrepassi i limiti regionali e i confini delle singole discipline. Andando in questa direzione, anche se i dibattiti in corso sulla storia mediterranea e globale restano solo sullo sfondo, questo volume, dal titolo “Guerra santa” e conquiste islamiche nel Mediterraneo (VII-XI secolo), raccoglie contributi su diverse regioni del mondo mediterraneo. Tali saggi sono stati in gran parte presentati nel corso di un workshop finanziato dalla fondazione tedesca “Gerda Henkel Stiftung”.16 Come ogni pubblicazione scientifica, anche la presente ha alla sua base alcune particolari premesse. In primo luogo, essa costituisce un tentativo di stimolare uno scambio scientifico tra rappresentanti della medievistica e dell’islamistica italiana e non. Inoltre, essa si concentra su determinate “periferie” del mondo islamico dell’epoca: Egitto, al-Andalus, le grandi isole mediterranee di Cipro, Rodi, Creta e della Sicilia, l’Italia meridionale e il sud della Francia (Fraxinetum).17 Il termine “periferia” e il riferimento implicito a un centro non comporta, però, una gerarchia di valore, ma ha piuttosto un significato geopolitico e si riferisce a regioni, che nel corso delle conquiste islamiche entrarono in diretto contatto con la dār al-Islām e/o furono integrate in essa. Si parla consapevolmente di “periferie” al plurale poiché non si tratta tanto di una zona chiaramente definibile sulla carta geografica, quanto piuttosto di una categoria analitica intesa come flessibile nello spazio e nel tempo. Tali periferie potrebbero forse definirsi e descriversi come “regioni di confine dinamiche”, in relazione al mondo islamico, a sua volta policentrico, che tra VII e XI secolo si estendeva più o meno dal Nordafrica al Asia centrale. Nella problematica relativa alle complesse dinamiche che coinvolgono le periferie della dār al-Islām nel corso dell’espansione islamica (e a 16. Questo workshop internazionale, dal titolo «Dal ǧihād al dīwān. Dinamiche nelle periferie della dār al­Islām medievale (VII­XI sec. d.C.)», si è tenuto a Roma il 2 dicembre 2011 all’Istituto Storico Germanico di Roma. La giornata di studi, alla quale hanno partecipato medievisti, islamisti e orientalisti provenienti dall’Italia, dalla Germania, dalla Spagna, dalla Gran Bretagna e dal Libano, ha goduto della cooperazione del “Zentrum für Mittelmeerstudien” di Bochum (Germania) come anche del sostegno finanziario da parte della Gerda Henkel Stiftung, alle quali istituzioni esprimiamo ancora una volta la nostra gratitudine. 17. I saggi contenuti nel presente volume seguono questo ordine che si orienta, grosso modo, sulla cronologia delle conquiste islamiche.

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causa di essa), due questioni sono per noi centrali: da un lato, il ruolo del ǧihād durante le conquiste musulmane altomedievali; dall’altro, in quale misura si possono osservare somiglianze o differenze regionali specifiche durante la fragile fase di transizione fra la conquista di territori non-islamici e lo stabilimento di un dominio e di un’amministrazione islamici. Questi due aspetti, dei quali arabisti e islamisti si sono da tempo occupati in maniera intensa, sono assurti a una rinnovata attualità sullo sfondo delle nuove tendenze della ricerca contemporanea. Nonostante la grande mole di bibliografia specifica recente e la maggiore disponibilità di fonti, le possibilità di una collaborazione interdisciplinare che analizzi questioni di comune interesse non sono state ancora sfruttate appieno. Il presente volume si propone, perciò, di approfondire tematiche che potrebbero essere rilevanti sia per gli studiosi di storia islamica che per i medievisti “classici”, i bizantinisti o i “mediterraneisti”. Proprio perché, accanto agli esperti nella materia, ci rivolgiamo a un pubblico più ampio di studiosi, e non potendo presupporre che il lettore sia necessariamente a conoscenza delle problematiche delle conquiste islamiche e dei temi affrontati nei singoli saggi, sembra opportuno, a questo punto, porre in maniera più dettagliata alcune domande ed esporre alcune riflessioni. 1. Le espansioni non significarono solo conquista, sovrapposizione e assimilazione, ma furono nello stesso tempo legate all’appropriazione di saperi altrui, valori diversi, modelli di pensiero, comportamenti, concetti giuridici e norme religiose. Tutto questo ha influenzato sia i conquistatori sia i conquistati nella produzione del sapere, nelle nuove esperienze derivate dagli scambi reciproci e nella varietà dei fenomeni regionali a livello politico, sociale, culturale, religioso ed economico.18 A partire da quando è possibile riscontrare tali influssi reciproci? In quali campi e all’interno di quali gruppi sociali? Che cosa significa in concreto l’affermazione spesso ripetuta secondo cui la popolazione indigena serebbe stata rapidamente “arabizzata”? 2. Sebbene si possa sostenere che ogni spedizione musulmana finalizzata alla conquista fu motivata da concreti interessi politici, economici e di 18. Cfr. L. Kuchenbuch, Kontrastierter Okzident. Bemerkungen zu Michael Mitterau­ ers Buch «Warum Europa? Mittelalterliche Grundlagen eines Sonderwegs», in Weltge­ schichte, a cura di J. Osterhammel, Stuttgart 2008 (Basistexte Geschichte, 4), pp. 121-140: 129-130.

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Introduzione

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altra natura: in che misura aveva importanza l’idea islamica secondo cui il mondo sarebbe stato diviso in dār al-ḥarb e dār al-Islām e i territori da conquistare avrebbero fatto parte della “casa della guerra”? L’espansione e le conquiste islamiche nei territori non-musulmani sono strettamente connesse all’idea del ǧihād nel senso di scontro militare con i non-musulmani causato da motivazioni religiose?19 Quale significato aveva il ǧihād per coloro che in tal senso lo proclamarono e lo giustificarono, e per gli stessi combattenti? Come sono, invece, da considerare i numerosi saccheggi: furono un fenomeno concomitante del ǧihād o furono da esso indipendenti? E quale ruolo hanno giocato gli accordi di pace (ṣulḥ) nella fase di transito dalla dār al-ḥarb alla dār al-Islām? 3. Già nel Corano si afferma che nel confronto tra i musulmani e gli appartenenti alle altre “religioni del libro” (ahl al-kitāb) c’erano in linea di principio solo tre possibilità di scelta: a) conversione all’Islam e integrazione nella umma, cioè piena adesione alla comunità islamica; b) riconoscimento dello status di ḏimmī, cioè sottomissione alla comunità islamica, accettazione della sua protezione e pagamento della ǧizya (una sorta di tassa sul caput); c) scontro armato. Come venivano operate queste scelte nelle diverse situazioni? Cosa ci è noto delle trattative che precedettero le conquiste e le sottomissioni? Nella prassi, c’era davvero possibilità di scelta? 4. È generalmente noto che gli Arabi, nel contesto delle loro prime conquiste, hanno utilizzato preesistenti strutture sasanidi e bizantine. Sappiamo anche che la costruzione di insediamenti militari fu decisiva per l’occupazione delle aree di recente conquista e per la costruzione di una struttura di amministrazione e dominio destinata a durare nel tempo. Come fu organizzato il sistema amministrativo (dīwān) nelle singole province immediatamente dopo la conquista? A partire da quando si cominciò a compilare registri per raccogliervi dati sui militari e sui civili? Ci sono ulteriori informazioni sulle attività amministrative centralizzate e sulla correlata documentazione da esse prodotta? Quanto alte erano le tasse e come 19. Non solo attualmente, ma già dall’epoca medievale il termine ǧihād aveva diversi significati ed era utilizzato in modo diverso. Il suo uso ideologico al fine di giustificare azioni militari e conquiste è solo una delle sue possibili connotazioni. Cfr. in proposito il saggio di M. Di Branco e K. Wolf in questo volume.

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venivano riscosse? Quale status avevano precisamente convertiti e ḏimmī? E ci sono eventualmente dinamiche analoghe nella costruzione di nuove strutture dopo le conquiste? 5. Da quali regioni provenivano le truppe musulmane e i civili stanziati nei territori di recente conquista? Quale importanza avevano nelle singole province i contatti transmarini e le strutture tribali? Quali effetti ebbero le espansioni musulmane sul commercio (locale e a lunga distanza), sui trattati e sulla diplomazia, sia nel dettaglio, sia per ciò che concerne, più in generale, gli scambi culturali? 6. La coesione dell’impero islamico in espansione fu sottoposta costantemente al rischio di una rottura a causa di tensioni esterne e interne. Quale fu l’intensità del legame delle singole province con il califfato? Quali forze centrifughe furono utilizzate dai governatori delle province per realizzare i propri disegni di indipendenza? Non c’è bisogno di sottolineare che sarebbe impossibile approfondire tutti questi aspetti in modo esaustivo per ognuna delle regioni qui trattate, soprattutto perché alcuni fenomeni attendono ancora un’analisi approfondita, e la situazione delle fonti è molto diversa a seconda dei tempi e dei luoghi, cosicché per alcuni ambiti sono finora noti solo pochi dettagli. Tuttavia, i saggi qui pubblicati si occupano, in maniera diversa, di molte di queste tematiche. Essi aprono nuove prospettive e presentano, almeno in parte, fonti poco note. Nell’insieme, potrebbero incoraggiare a una riflessione in chiave transculturale e comparatistica, ad esempio su eventuali analogie e specificità regionali e/o temporali connesse alle dinamiche del­ l’espansione islamica, sulla problematica relativa ai confini flessibili tra la dār al-Islām e i territori non-musulmani, sugli intrecci presenti in regioni culturalmente diverse e sui processi collegati. Riguardo a taluni dettagli, ma soprattutto in una prospettiva transregionale e comparatistica, ad alcune delle domande qui formulate mancano ancora risposte esaurienti. Se questo volume, che si è potuto realizzare con il gentile sostegno della fondazione Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG), fungesse da stimolo a riflettere e a gettare lo sguardo oltre i propri orizzonti in una direzione mediterranea o globale, avrebbe raggiunto il suo scopo. Roma, luglio 2013

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L’Apocalypse de Samuel de Qalamūn et la domination des Hagaréens

L’Église copte, à l’instar de beaucoup d’autres communautés, a toujours été friande de littérature populaire, qu’il s’agisse d’apocryphes, de vies de saints, d’apocalypses, ou d’autres ouvrages du même type. Dans la littérature apocalyptique, une œuvre a eu un succès inégalé: l’Apocalypse de Samuel de Qalamūn.1 1. Samuel de Qalamūn et son Apocalypse 1.1. Esquisse de la vie de Samuel de Qalamūn 2 Samuel est né vers 597 à Tkello, village au Nord Ouest du Delta dans le diocèse de Maṣīl ou Fuwwah. Son père Silas était prêtre. Lui­même voulait être moine, mais son père s’y opposait jusqu’au moment où (vers 615) une vision lui fit changer d’avis, et il construisit une église où Samuel servit comme diacre. À la mort de son père, vers 619, il alla dans le désert de Scété (al­Isqīṭ) se faire disciple de Aba Agathou, dans une grotte au-dessus du monastère de Saint-Macaire. Il y demeura trois ans, jusqu’à la mort d’Aba Agathou. Puis il se joignit au monastère, jusqu’à ce qu’il en fut expulsé sur l’ordre de Cyrus, le patriarche melkite d’Alexandrie nommé par l’empereur Héraclius en 631 avec les pouvoirs de préfet augustal. Il était chargé de réconcilier les Coptes avec l’empereur, mais sa dureté envers eux l’avait rendu impopulaire. Venu au monastère avec le do1. Les titres abregés sans renvoi se réfèrent à la bibliographie à la fin du travail. L’apostrophe après le chiffre de la ligne signifie “en partant du bas de la page”. 2. Voir infra, dans la bibliographie, les publications de: Abullif, Samuel; Alcock, Ara­ bic Life; Alcock, Samu’il of Qalamūn; Basset, Le Synaxaire arabe.

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cument à signer, Samuel le déchira et incita les moines à refuser de le signer. Le magistrianus 3 le fit flageller sans pitié, et ne s’arrêta que lorsque le fouet arracha l’œil de Samuel, qui fut considéré par tous comme martyr. Samuel partit vers le Sud, et s’installa à Naqlūn,4 dans le Fayyūm. En trois ans et demi, il créa une communauté de 120 moines et de 200 laïcs. Le patriarche Cyrus vint au Fayyūm et Samuel donna ordre à ses moines de quitter la région. Il fut de nouveau battu sur ordre de Cyrus, et partit plus au Sud, vers Qalamūn. Là, il fut fait prisonnier par des Berbères et travailla trois ans comme esclave. Ayant accompli un miracle en faveur de l’épouse du maître, il fut libéré et gratifié de cadeaux. Il revint donc à Qalamūn, qui devint prospère. Il se retira alors dans la solitude et ne descendit au monastère que tous les trois mois. Lors d’un de ces passages, il est raconté qu’il n’y avait plus de blé et que tous les chameaux avaient été réquisitionnés chargés de blé vers le port de Klysma (= Suez), ce qui correspond à l’ordre du calife ‘Umar Ibn al­Khattāb, dit Al­Fārūq (mort le 6/11/644) au général ‘Amr b. al­‘As en l’an 21/643­644. Samuel mourut à l’âge de 98 ans, ayant passé 57 ans à Qalamūn. 1.2. L’Apocalypse: éditions, traductions, manuscrits et datation L’Église copte, à l’instar de beaucoup d’autres communautés, a toujours été friande de littérature populaire, qu’il s’agisse d’apocryphes, de vies de saints, d’apocalypses, ou d’autres ouvrages du même type. Dans la littérature apocalyptique, une œuvre a eu un succès inégalé: l’Apocalypse de Samuel de Qalamūn. Éditions Il existe à ma connaissance deux éditions du texte arabe de l’Apocalypse de Samuel: – celle de Jean Ziadeh (Paris 1915) établie sur le Paris arabe 150 (daté de 1606). En voici l’incipit: ‫ وﻜﺎﻨوا ﻳُﻜﺜِروا اﻹﻨﻌﺎمَ ﻋﻠﻰ ﺷﻌﺐ‬،‫ ﻛﺎﻨوا ﻗﻠﻴل‬،‫ ﻟﻤﱠﺎ ﻣَﻠَكَ اﻠﻬﺠرة اﻠﻌرﺒﻴﱠﺔ ﻋﻠﻰ أَرض ﻣﺼر‬،‫ﻛان‬ ‫ وﻴﺴﺘﺨﺒروه إن ﻛﺎن‬،‫ ﺣﻴﻨﺌذٍ ﺑَدَءُوا اﻹﺨوة اﻠ ُّرﻫﺒﺎن ﻳﺘﺤدﱠﺜوا ﻣﻊ اﻷَب أَﻨﺒﺎ ﺻﻤوﺌﻴﻞ ﻋﻨﻬﻢ‬.‫اﻠﻨﱠﺼﺎرى‬ َ‫ﻳدومُ ﻣُﻠْﻜُﻬم ﻋﻠﻰ أ‬ .‫رض ﻣﺼرَ زﻤﺎن طوﻴل أَم ﻻ‬ ِ 3. Le magistrianus est un agent de renseignement byzantin. 4. Sur ce monastère, voir par exemple J. Dunn, The Monastery of the Archangel Gabriel at Naqlun near the Fayoum (http://www.touregypt.net/featurestories/gabriel.htm; 14/10/2013), avec quelques passages sur notre Samuel.

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L’Apocalypse de Samuel de Qalamūn

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– celle de Sim‘ān al­Anṭūnī (Le Caire 1988), établie sur un manuscrit (plus récent) du monastère de St Antoine. En voici l’incipit: �‫ ﺣﻴﻨﺌذ‬.‫ ﻟﺸﻌﺐ اﻠﻨﺼﺎرى‬5 ‫ ﻳُﻜﺜرون ﻣن اﻻﻨﺘﻘﺎم‬،‫ ﻟﻤﱠﺎ ﻣَﻠَكَ اﻷﻋرابُ أرضَ ﻣﺼر وﻜﺎﻨﻮا ﻗﻼﺌل‬،‫ﻛان‬ ‫ وﻴﺴﺘﺨﺒرون ﻣﻨﻬﻢ إن ﻛﺎن ﻣُﻠْﻜﻬﻢ‬،‫اﺒﺘدأن اﻹﺨوان اﻠرﻫﺒﺎن ﻳﺘﺤدّﺜون ﻣﻊ اﻷب أﻨﺒﺎ ﺻﻤوﺌﻴل ﻋﻨﻬﻢ‬ ‫ﻳدوم ﻋﻠﻰ أرض ﻣﺼر زﻤﺎﻨًﺎ طوﻴﻼً أم ﻻ ؟‬ Ces deux éditions représentent deux familles de manuscrits bien distinctes, qui comporte chacune un certain nombre de variantes entre les manuscrits qui y appartiennent. Traductions Il existe une traduction française et quatre traductions anglaises complètes 6 (plus des traductions d’extraits): – trad. française par Jean Ziadeh (Paris 1915); – trad. anglaise par Roger Pearse, faite sur la traduction de Ziadeh; – trad. anglaise par Anthony Alcock, faite sur la traduction de Ziadeh; – trad. anglaise par Jason Zaborowski, faite sur la traduction de Ziadeh; – trad. anglaise inédite par Jos van Lent, basée sur le Vatican Arabe 158. Premier inventaire des manuscrits Je donne ici un inventaire, aussi complet que j’ai pu, des manuscrits contenant notre apocalypse. Mon but est d’inviter les chercheurs à corriger et à compléter ces données, notamment en fournissant un incipit de 2 lignes si possible pour chacun des manuscrits accessibles. Ainsi pourra-t-on identifier plus ou moins diverses familles de textes, ou peut­être diverses versions arabes de cette Apocalypse. Les manuscrits les plus anciens sont: Vatican Arabe 158 (1356); Paris Arabe 205 (XIVe siècle); Paris Arabe 131 (1440); Birmingham Mingana Syr. 232 (garšūnī, 1550); Paris Arabe 150 (1606). 1) Birmingham, University Library, Mingana Syr. 232 (garšūnī, 1550, début manque), fol. 83r-109v. De plus, selon Mingana, il semble qu’il y ait une lacune entre les ff. 86 et 87, comme aussi entre les ff. 90 et 91. Voici le desinit (que je transcris en arabe): ‫ وإن اﻷب اﻷﺴﻘﻒ أﻨﺒﺎ‬،‫ﻓﻠﻤّﺎ ﻗﺎل ﻫذه اﻻﻘوال )أﻋﻨﻲ أﻨﺒﺎ ﺻﻤوﻴل( واﻠﺤﺎظرﻴن )!( ﻳﺴﻤﻌﻮن‬ .‫ﻏرﻴﻐورﻴوس ﺑﻜﺎ ﺑُﻜﺎ ﻣرًّا‬ 5. Ceci est une erreur de lecture évidente, soit du copiste du manuscrit, soit de l’éditeur moderne, pour ‫اﻹﺌﻌﺎم‬. 6. Les références sont données dans la bibliographie à la fin du travail.

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Ainsi s’achève le manuscrit. Ces lignes correspondent au texte de la page 388/17-19 de l’édition de Ziadeh. Il manque donc environ 4 pages, soit deux folios, mais ce n’est pas signalé dans le catalogue. Ce texte est assez proche de celui de l’édition Ziadeh. 2) Le Caire, ‘Abd al­Massīh Ṣalīb al­Baramoussī al­Massoudī (prêtre, copte orthodoxe): 7 Maymar fī intiṣār al-dīn al-masīḥī ‘alā al-islām (Homélie sur le Triomphe du Christianisme sur l’Islam). Ce manuscrit est probablement perdu. 3) Le Caire, ‘Abd al­Massīh Ṣalīb al­Baramoussī al­Massoudī (prêtre, copte orthodoxe): 8 Maymar fī intiṣār al-ṣalīb al-karīm (Homélie sur le Triomphe de la Croix). Ce manuscrit est probablement perdu. 4) Le Caire, Muski (Centre franciscain des études chrétiennes orientales), arabe chrétien 140 (copié le 11 octobre 1945), p. 62-89 [chiffres arabes, pp. 57-84].9 5) Le Caire, Église des Saints Serge et Bacchus, Théologie 17, fol. 3v37v. Ce manuscrit contient la vie de saint Samuel de Qalamūn, mais non pas son Apocalypse.10 6) Le Caire, Guirguis Morcos (libraire, copte orthodoxe):11 Maymar fī intiṣār al-dīn al-masīḥī ‘alā al-islām (Homélie sur le Triomphe du Christianisme sur l’Islam). Ce manuscrit est probablement perdu. 7) Le Caire, Guirguis Morcos (libraire, copte orthodoxe):12 Maymar fī intiṣār al-ṣalīb al-karīm (Homélie sur le Triomphe de la Croix). Ce manuscrit est probablement perdu. 8) Le Caire, Patriarcat Copte, Hist. 32 (Simaika 617),13 (XIX e siècle), fol. 75v-97r. 7. Cf. P. Sbath, Al-Fihris, I, Le Caire 1938, p. 48, n° 368; Graf, Geschichte, p. 282. 8. Cf. Sbath, Al-Fihris [n. 7], I, p. 48, n° 369; Graf, Geschichte, p. 282. 9. Cf. W.F. Macomber, Catalogue of the Christian Arabic Manuscripts of the Franciscan Center of Christian Oriental Studies, Le Caire 1984 (Studia Orientalia Christiana), p. 31. 10. Cf. A. Khater, O.H.E. Khs-Burmester, Catalogue of the Coptic and Christian Ara­ bic Mss. preserved in the Library of the Church of Saints Sergius and Bacchus, known as Abû Sarǧah at Old Cairo, Le Caire 1977 (Bibliothèque de manuscrits, 3), p. 45-46, n° 120. 11. Cf. Sbath, Al-Fihris [n. 7], I, p. 48, n° 368; Graf, Geschichte, p. 282. 12. Cf. Sbath, Al-Fihris [n. 7], I, p. 48, n° 369; Graf, Geschichte, p. 282. 13. Cf. M. Simaika Pasha, Catalogue of the Coptic and Arabic Manuzscripts in the Coptic Museum, the Patriarchate, the Principal Churches of Cairo and Alexandria and the Monasteries of Egypt, II: Coptic Patriarchate, Cairo 1942, p. 277-278, n° 617, 11e pièce: «The Prophecy of Anbā Samuel the Hegumenos of the Monastery of al­Qalamūn».

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9) Le Caire, Patriarcat Copte, Théologie 120 (Simaika 293, Graf 344) 14 (1679), fol. 112r-126v.15 Voici l’incipit, tel qu’on le trouve dans le catalogue de Graf: ،‫ وﻜﺎﻨوا ﻳﻌﺎﻤﻠوا اﻠﻨﺼﺎرى ﺑﺎﻠﻤﻌروف واﻻﺤﺴﺎن‬،‫ﻟﻤﺎ ﺗﻤﻠﻜت اﻠﻌرب ارض ﻣﺼر‬ 10) Le Caire, Patriarcat Copte, Théologie 230 (Simaika 336, Graf 347)16 (XVIII e s.), fol. 40v-49v. 11) Monastère de St Antoine, Hist. 186, p. 1-21 (XIX e siècle) 12) Monastère de St Antoine, Hist. 222, fol. (b) 1r-(b) 25r (XIX e siècle). 13) Paris, BnF Arabe 131 (achevé le 19 avril 1440), 2e pièce, fol. 72v87r. En voici l’incipit:17 ‫ وﻜﺎﻨوا ﻳﻌﺎﻤﻠوا اﻠﻨﺼﺎرى ﻣرة ﺑﺎﻻﺤﺴﺎن‬،‫ وﻜﺎﻨوا ﻗﻠﻴﻼ ﻣرة‬،‫ﻟﻣﺎ ﻣﻠﻜت اﻠﻌرب ﻋﻠﻰ ارض ﻣﺼر‬ .‫ﺑﺎﻠﻤﻌروف‬ Comme on le voit, cette version est apparentée à celle du Patriarcat Copte Théologie 120, mais avec beaucoup de variantes. 14) Paris, BnF Arabe 150 (1606), 3e pièce, fol. 20r-30r.18 C’est le manuscrit qui a été édité par Jean Ziadeh. En voici l’incipit: ‫ ﻛﺎﻨوا ﻗﻠﻴل وﻜﺎﻨوا ﻳﻜﺜروا اﻻﻨﻌﺎم ﻋﻠﻰ ﺷﻌﺐ‬،‫ اﻠﻬﺠرة اﻠﻌرﺒﻴﺔ ﻋﻠﻰ أرض ﻣﺼر‬19 ‫ ﻠﻤﺎ ﻣﻠﻜت‬،‫ﻛﺎن‬ .‫اﻠﻨﱠﺼﺎرى‬ 14. Ibidem, p. 124, n° 293, 5e pièce: «Instructions of Anbā Samuel of Qalamūn to his Children when he was with Gregory, bishop of al-Qais». Cf. aussi G. Graf, Catalogue de manuscrits arabes chrétiens conserves au Caire, Città del Vaticano 1934 (Studi e testi, 63), p. 128-130, n° 344, 5e pièce: «Sermons et exhortations d’Anbā Ṣamwīl [Samuel], ermite sur la montagne de Qalamūn, qui contiennent aussi des prophéties sur les évènements quji ont eu lieu en Égypte après la conquête arabe». Voici le titre en arabe: ‫ وﻨطق ﻓﻲ ﻫذه اﻠﻤوﻋظﺔ ﺑﻤﺎ ﻳﻜون‬.‫ ﻳوﻋظ ﺑﻨﻴﻪ اﻠرﻫﺒﺎن ﺧﻼص ﻧﻔوﺴﻬم‬،‫ﻣن ﻗول وﺘﻌﺎﻟﻴم اﻨﺒﺎ ﺻﻤوﻴل ﺳﺎﺌﺢ ﺟﺒل اﻠﻘﻠﻤون‬ .‫ وﻜﺎن ﻋﻨد اﻻب اﻻﺴﻘف اﻨﺒﺎ اﻏرﻴﻐورﻴوس اﺴﻔﻖ اﻠﻘﻴﺲ ﻟﻤﺎ ذﻫب اﻠﻴﻪ ﻟﻴزوره ﻓﻲ ﻣرﺿﻪ‬.‫ﻓﻲ اﻠﻤﻤﻠﻜﺎت اﻻرﺿﻴﺔ‬ 15. Graf ajoute ici un renseignement précieux: «Édité, selon une autre recension, par J. Ziadeh». 16. Cf. Simaika Pasha, Catalogue [n. 13], p. 141-142, n° 336, 5e pièce: «Instructions of Anbā Samuel, hermit of the Mountain of al­Qalamūn, to his Children the Monks, and his Prophecy concerning what would happen among the Kingdoms of the Earth, while he was with Gregory, bishop of al-Qais». Voir Graf, Catalogue [n. 14], p. 130-131, 5e pièce: «Exhortations d’Anbā Ṣamwīl». Il ajoute que le texte est identique à celui du manuscrit 344, n. 5° (c’est-à-dire le manuscrit n° 9 de notre liste). 17. Cf. G. Troupeau, Catalogue des manuscrits arabes. Première partie, Manuscrits chrétiens, I, Paris 1972, n° 1-323, p. 94. 18. Ibidem, p. 116­118: p. 116; copie transcrite par Yūsuf Ibn Mīḫā’īl et achevée le 8 Bašans 1322 des Martyrs (= 3 mai 1606). 19. Dans l’édition Ziadeh on lit: ‫ﻣﻟك‬.

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15) Paris, BnF Arabe 205 (XIVe siècle), 14e pièce, fol. 136v-150v.20 En voici l’incipit: .‫ وﻜﺎﻨوا ﻗﻠﻴﻼ ﻓﻲ اﻠﻌدة‬،‫ ﻟﻤﺎ ﻣﻠﻜﺖ اﻠﻬﺠرة اﻠﻌرﺒﻴﺔ ﻋﻠﻰ أرض ﻣﺼر‬،‫ﻛﺎن‬ C’est le plus ancien manuscrit. Il appartient visible à la même famille que le texte édité par Jean Ziadeh. 16) Paris, BnF Arabe 4785 (XIXe siècle), 4e pièce, fol. 75v-97r. D’après Troupeau, le texte est identique à celui du Paris arabe 150.21 17) Paris, BnF Arabe 6147 (1832), 2e pièce, fol. 20v-38v. Ce manuscrit a été copié sur un manuscrit de Dayr al­Suryān. D’après Troupeau, le texte est identique à celui du Paris arabe 150.22 18) Vat. Arab. 158 (1356), 6e pièce, fol. 112v-127r.23 Il est ainsi décrit par le cardinal Angelo Mai: «Sermo seu vaticinium sancti patris nostri Samuelis, abbatis monasterii Calmon (in ditione Tripolis Syriae ad radices montis Libani); 24 ubi praedicit ea, quae eventura sunt in Aegypto sub imperio Hagerenorum, id est Mahometanorum; apocryphum». On aura noté l’appellation des Hagaréniens (ou Hagaréens), comme aussi la localisation du monastère au Liban. 19) Wādī al­Naṭrūn, Dayr al­Barāmūs. 20) Wādī al­Naṭrūn, Monastère de St Macaire, Hagiographie 32, fol. 1r-20r (XIX e siècle).25 21) Wādī al­Naṭrūn, Monastère de St Macaire, Hagiographie 74, fol. 1r-2r (XVIe siècle) correspondant à la fin du texte.26 22) Wādī al­Naṭrūn, Monastère des Syriens. Signalons en passant que le manuscrit Hagiographie 26 du Monastère 20. Cf. Troupeau, Catalogue [n. 17], I, p. 173-176: p. 173. 21. Troupeau, Catalogue [n. 17], II: Manuscrits dispersés entre les no 780 et 6933 (Paris 1974), p. 34-35. 22. Ibidem, p. 34-35 (ici 34). 23. Cf. Angelo Mai, Scriptorum veterum nova collectio e Vaticanis codicibus edita, IV, Roma 1831, p. 197-299: 298. 24. Assemani, qui est l’auteur du brouillon de ce catalogue, pense au Qalamūn de la région de Tripoli, où se trouve un monastère grec orthodoxe; de même qu’il y a en Syrie une région nommée Qalamūn entre la plaine syrienne et l’Anti­Liban. Il s’agit en réalité du monastère de Qalamūn dans le Fayyūm, la grande oasis d’Égypte. 25. Cf. Ugo Zanetti, Les manuscrits de Dair Abû Maqâr. Inventaire, Genève 1986 (Cahiers d’orientalisme, 11), p. 59a, n° 398. 26. Ibidem, p. 73ab, n° 487.

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de Saint-Macaire, ainsi que celui de l’église des Saints Serge et Bacchus, Théologie 17 (au Caire), contiennent comme première pièce la vie de saint Samuel de Qalamūn, par Isaac, correspondant à Bibliotheca Hagiographica Orientalis 1036; mais non pas l’Apocalypse. Le manuscrit de Saint-Macaire est du XIVe siècle.27 Classification des manuscrits A partir des 4 manuscrits dont les catalogues nous ont fourni un incipit (souvent, hélas!, trop bref); on peut déjà distinguer deux groupes qui se contredistinguent clairement l’une de l’autre dans ce bref incipit par deux caractéristiques: a) Le premier groupe, représenté par le Paris arabe 205 (XIVe siècle) et le Paris arabe 150 (1606), avec l’emploi de ‫اﻠﻬﺠرة اﻟﻌرﺑﻳﺔ‬ ‫ وﻛﺎﻨوا ﻗﻠﻴﻼ ﻓﻲ اﻠﻌدة‬،‫ ﻠﻤﺎ ﻣﻠﻜت اﻠﻬﺠرة اﻠﻌرﺒﻴﺔ ﻋﻠﻰ أرض ﻣﺼر‬،‫ﻜﺎن‬ ‫ ﻛﺎﻨوا ﻗﻠﻴل‬،‫ ﻠﻤﺎ ﻣﻠﻜت اﻠﻬﺠرة اﻠﻌرﺒﻴﺔ ﻋﻠﻰ أرض ﻣﺼر‬،‫ﻜﺎن‬ tandis que le deuxième groupe, représenté par le Paris arabe 131 (AD 1440) et le Patriarcat Copte, Théologie 120 (1679), avec l’emploi de ‫اﻟﻌﺮﺐ‬.28 ،‫ وﻛﺎﻨوا ﻗﻠﻴﻼ ﻣرة‬،‫ﻠﻤﺎ ﻣﻠﻜت اﻠﻌرب ﻋﻠﻰ ارض ﻣﺼر‬ ‫ وﻛﺎﻨوا‬،‫ﻠﻤﺎ ﺘﻤﻠﻜت اﻠﻌرب ارض ﻣﺼر‬ b) La deuxième caractéristique concerne l’action des Arabes: pour le premier groupe on trouve: ‫وﻜاﻨوا ﻳُﻜ ِﺜروا اﻹﻨﻌﺎ َم ﻋﻠﻰ ﺸﻌب اﻠﻨﱠﺼﺎرى‬ tandis que le deuxième groupe: ‫وﻜﺎﻨوا ﻳﻌﺎﻤﻠوا اﻠﻨﺼﺎرى ﺒﺎﻠﻤﻌروف واﻻﺤﺴﺎن‬ ‫وﻜﺎﻨوا ﻳﻌﺎﻤﻠوا اﻠﻨﺼﺎرى ﻣرة ﺑﺎﻻﺤﺴﺎن ﺑﺎﻠﻤﻌروف‬ A l’intérieur de chaque groupe les variantes ne manquent pas. Ce tout petit exemple montre la nécessité d’une double édition critique de ce texte si étudié, mais dont il n’existe pas encore une seule édition tant soit peu critique!

27. Ibidem, p. 58a, n° 392. 28. L’édition du Caire, ou le manuscript utilize par l’éditeur, a probablement modifié al-‘Arab (collectif) en al-A‘rāb (pluriel).

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1.3. Essai de datation de notre document Dans l’état actuel des recherches dans le domaine linguistique coptoarabe, il est bien difficile (pour ne pas dire impossible) de dater ce texte de manière quelque peu sûre. François Nau (en 1915), Georg Graf (en 1944), Helderman (en 1997) le datent de la fin du VIII e siècle. Javier Martinez (en 1990), Christian Décobert (en 1992), Samir K. Samir (en 1994), Wadi Abullif (en 1998) le datent du IX e siècle. La tendance actuelle est de le dater du Xe siècle. Pour ma part, j’incline à penser que la situation qui est décrite dans ce document reflèterait bien la situation du milieu du X e siècle, où l’arabe est déjà bien avancé dans les milieux coptes de la bourgeoisie et du clergé, et où le copte commence à n’être plus utilisé dans ces milieux et peu compris, tout en étant encore assez largement répandu dans les milieux populaires et paysans. L’arabe du milieu monastique est populaire, chargé de “fautes grammaticales” typique du tout début de l’arabisation de ces milieux: c’est un “moyen arabe” encore très rudimentaire, où les dérogations à la grammaire la plus élémentaire sont très fréquents. Le fait que les premiers textes canoniques que l’on connaisse, rédigés par les patriarches coptes, par exemple ceux de Christodoulos (1047-1077), et avant lui le recueil d’Abū Ṣāliḥ Yūnus b. ‘Abdallāh, soient rédigés exclusivement en arabe, alors qu’ils s’adresssent en premier lieu au clergé, et qu’ils le soient dans un arabe assez “correct”, suggère que le copte n’était alors plus compris et que l’arabe était déjà la langue officielle du clergé copte. Le fait surtout qu’un Sawirus Ibn al-Muqaffa‘, qui rédige dès le milieu du Xe siècle son immense œuvre entièrement en arabe, alors qu’il est évêque d’al­Ašmūnayn en Moyenne­Egypte, en dit long sur la pénétration de l’arabe dans l’Eglise copte. Et je ne pense pas qu’il faille le considérer comme une exception, sous prétexte qu’il avait été secrétaire (kātib) au Caire, car il est avant tout pasteur préoccupé de formé ses ouailles. De toute manière, la question de la datation restera encore longtemps approximative! 2. Qui sont les Musulmans dans ce document? Cette apocalypse est presque entièrement centrée sur les Hagaréens, c’est-à-dire les Arabes ou Musulmans, pour inviter les moines à lutter pour sauver leur identité sociale, culturelle et religieuse copte. Il n’est pas sans

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L’Apocalypse de Samuel de Qalamūn

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intérêt de voir comment notre auteur voit ces Arabes. Pour ce faire, je me baserai – ici comme dans toute l’étude – sur le texte même de l’apocalypse, citant d’abord la traduction française de Jean Ziadeh, puis le texte arabe édité par lui. Comment notre auteur conçoit-il les Musulmans, et comment les appelle-t-il? Quand il parle d’eux, il les désigne par un des quatre termes suivants: umma, ša‘b, ‘Arab, ou bien Haǧara. 2.1. Les Musulmans sont une “nation”: umma (pluriel umam), ša‘b et ‘Arab Les Arabes sont une “nation”, une umma. Ce terme se rencontre 23 fois dans notre texte. Il est rendu en français, dans la traduction du P. Jean Ziadeh, 14 fois par le terme “nation” et quatre fois par le terme “race”. Cette dernière appellation ne reflète pas la pensée de l’auteur et n’est pas fidèle à l’arabe. Nulle part il n’est question de race, et le vocable umma ne suggère nullement ce concept. Ailleurs, ils seront désignés comme un “peuple” (ša‘b). Ailleurs encore comme les “Arabes” (‘Arab), ce qui est une notion beaucoup plus large que celle de race. Ainsi, l’auteur voit les musulmans comme étant une nation et un peuple, différent voire opposé aux Coptes. L’islam, en effet, n’est pas qu’une religion différente de celle des chrétiens, il est un ensemble socio-ethnico culturel et religieux qui menace la culture de l’Égypte, et menace l’identité copte. 2.2. Ils sont une toute petite nation, mais elle deviendra immense Cette “nation” est petite, peu nombreuse. Mais elle va se multiplier, grandir très vite, devenir comme une nuée de sauterelles. De plus, à cette nation s’aggloméreront d’autres, qui la rendra encore plus nombreuse et donc plus forte. De là, le danger pour la “nation copte”. Voici quelques textes: a) «Lorsque les émigrants arabes se furent emparés de l’Égypte, ils étaient peu nombreux».29 30 .(sic) ‫ ﻛﺎﻨوا ﻗﻠﻴل‬،‫( ﻋﻠﻰ أَرض ﻣﺼر‬sic) ‫ ﻟﻤﱠﺎ ﻣَﻠَكَ اﻠْﻬَﺠَرَةُ اﻠﻌرﺒﻴﱠﺔ‬،‫ﻛﺎن‬ b) «Voyez­vous, mes enfants, cette nation si petite par le nombre! Elle se multipliera et deviendra un très grand peuple. Beaucoup d’autres nations 29. Ziadeh, p. 393/20-21. 30. Ibidem, p. 376/11-12.

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se joindront à eux, et ils se multiplieront comme le sable de la mer et comme les sauterelles.31 Leur règne se consolidera et ils étendront leur domination sur plusieurs pays, jusqu’à l’Orient et l’Occident. Ils s’empareront, à plusieurs reprises, de Jérusalem. Beaucoup d’autres peuples se mêleront à eux: les Hébreux, les Grecs, les Édesséniens, les habitants de Djordjân,32 les habitants d’Amid […] les Chaldéens, les Persans, les Berbères, ceux du Sind et de l’Inde».33 34 35 36 37 38 39 40 (sic) ‫( ﻋظﻴم‬sic) ‫ ﻫذه اﻷ ُﻤﱠﺔَ اﻠﻘﻠﻴﻠﺔَ ﻋَدَدُﻫﺎ ﻻ ﺑدﱠ أَن ﻳﻜﺜروا وﻴَﺼﻳروا ﺷﻌب‬،‫ ﻳﺎ أَوﻻدي‬34،‫أَرأَﻳْﺘم‬ ‫ وﻴﻤﻠﻜوا‬،‫ وﻤﻤﻠﻜﺘُﻬم ﺗﺗﻘوﱠى‬.‫ وﻴﻜﺜروا ﻣﺜ َل رﻤ ِل اﻠﺒﺤر وﻤﺜ َل اﻠﺟراد‬،‫ وﻴﺨﺘﻠط ﺑﻬم أُﻣمٌ ﻛﺜﻴرة‬،‫ﺟدًّا‬ ُ ٌ‫ وﻴﺨﺘﻠط ﺑﻬم أﻤم‬.‫( ﻛﺜﻴرة‬sic) ‫ وﻴﻤﻠﻜوا أُورﺸﻠﻴم ﻣرار‬،‫( ﻛﺜﻴرةً ﺣﺘﱠﻰ اﻠﻤﺸﺎرق واﻠﻤﻐﺎرب‬sic) ‫ﺑﻼد‬ 38 ‫ واﻷ ُﻤَﻤِﻴﱢﻴن‬37‫ واﻠﻴوﻨﺎﻨﻴﱠﻴن واﻠ ّرُﻫﺎﺌﻴﱢﻴن واﻠﱠذﻴن ﻣن آﻤد‬36‫ واﻠﻌﺒراﻨﻴﱠﻴن‬35‫ اﻠﺧراﻴﺟﺎﻨﻴﱢﻴن‬:‫ﻛﺜﻴر‬ ‫( ﻗﻠﻴل ﺑﺴﻼﻤﺔ ﻣﻊ‬sic) ‫ واﻠﻬﻨد؛ وﻴُﻌﻠُّوا مﻟﻜَﻬم وﻴُﻘﻴﻤوا زﻤﺎن‬39‫واﻠﻜﻠداﻨﻴﱢﻴن واﻠﻔُرْس واﻠﺒَ ْرﺒَر واﻠﺴﱢﻨد‬ 40 .‫اﻠﻨﺼﺎرى‬ La mention du Sind est intéressante, car elle nous fournit un des rares éléments historiques. Ce nom correspond à l’une des quatre provinces actuelles du Pakistan. La capitale du Sind est Karachi. En 711-712, cette région fut conquise par Muḥammad Ibn Qāsim al­Thaqafī,41 qui assassina le 31. Les sauterelles (al-ǧarād), quand elles arrivent en un lieu, arrivent par millions (certains parlent de milliards). Voir par exemple (sur Youtube, sur internet) l’invasion des sauterelles en Égypte le lundi 4 mars 2013: on estime à 30 millions celles qui ont envahi les champs au Sud-Ouest du Caire; cf. URL: http://naturealerte.blogspot.com/2013/03/04032013 importante-invasion-de.html (14/10/2013). Le 28 mars 2013, les sauterelles avaient envahi l’île de Madagascar. Le jeudi 9 mai 2013 elles envahissent le Neguèv en Israël; le 10 mai 2013 c’est de nouveau l’île de Madagascar qui est envahie. Voir aussi en Mauritanie, dans le Sud de la Russie, en Ukraine, etc. 32. Ce peuple est le premier nommé dans le texte arabe. 33. Ziadeh, p. 393/37-394/3. 34. Dans le Ms.: ‫ارﮃﮅﻢ‬. 35. Province du Nord de la Perse. 36. Dans l’édition: ‫واﻠﻐﺒراﻨﻴﻴن‬. 37. Ville de Mésopotamie, aujourd’hui Diyar-Békir (Ziadeh). 38. Jean Ziadeh n’a pas traduit ce mot en français. En principe, cela signifie “les païens”. 39. Nom de peuple qu’on ne peut identifier. Sind: Indus des Anciens, un des deux grands fleuves de l’Inde (Ziadeh). 40. Ziadeh, p. 377/3’-378/4. 41. Voir F. Gabrieli, Muḥammad ibn Qāsim ath-Thaqafī and the Arab Conquest of Sind, in «East and West», n.s. 15/3­4 (1965), p. 281­295. Voir l’ouvrage de ‘Alī Ǧumblāṭī et ‘Abd al­Mun‘im Qindīl, Fātiḥ al-Sind, aw, Muḥammad ibn al-Qāsim al-Thaqafī, Le Caire 1976.

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dernier roi hindou Dâhar (ou Dâhir). L’islam devient alors la religion du pays. Au siècle suivant, la dynastie arabe des Hibbârides prend le pouvoir, tout en reconnaissant l’autorité des califes abbassides de Bagdad. Quant à la conquête de l’Inde, je ne sais à quelle période cela fait allusion. Si l’on se réfère aux conquêtes de Mahmoud de Ghazni (971-1030), alors la rédaction arabe de notre texte serait de peu postérieure. Notons que, dans l’édition arabe de l’Apocalypse de Samuel, publiée par le moine Sim‘ān al­Anṭūnī, la liste est différente: les six premiers peuples sont réduits à trois, fort différents et inspirés de la Bible. En revanche, les cinq derniers sont identiques. Voici cette liste: .‫ واﻠﻬﻨد‬،‫ واﻠﺴﱠﻨد‬،‫ واﻠﺒرﺒر‬،‫ واﻠﻔرس‬،‫ واﻠﻜﻠﺪاﻨﻴون‬،‫ واﻠﻴﺒوﺴﻴون‬،‫ واﻷﻤورﻴون‬،‫اﻠﺠرﺠﺎﺴﻴون‬ Les trois premiers sont ici les Gergasiens, les Amorrhéens et les Jébuséens, qui évoquent des noms de peuples bibliques: les Gergasiens ou Gergaséniens sont mentionné dans l’Évangile de Luc,42 que l’on identifie avec les Géraséniens ou les Gérasiens de Marc 5,1 et avec les Gadaréniens de Matthieu 8,28. Ce nom se réfère à la ville de Gérasa (ou Gergasa), qui se situait sur la rive Est de la mer de Galilée, dans une région dominée par la ville de Gadara, située, elle, à quelque distance vers le Sud-Est. De là le double nom de la région.43 Quant aux deux autres peuples, les Amorrhéens et les Jébuséens, ils sont bien connus de l’Ancien Testament. Il est probable que cette lecture soit le fruit d’erreurs de copistes ayant échangé les noms originaux, trop étranges pour eux, avec des noms connus d’eux. c) Un troisième texte reprend l’image des sauterelles du texte précédent: «Sachez donc, mes enfants, (fol. 24v) que cette nation commettra un grand nombre d’iniquités et d’injustices sur la terre d’Égypte; sa domination se consolidera beaucoup, son joug pèsera comme le fer et son peuple se multipliera comme les sauterelles».44 42. Voir Luc 8,26 et Luc 8,37. 43. Constatant que les noms de ces peuples étaient quelque peu différents dans les trois Synoptiques, les critiques de la Bible du «siècle des Lumières» avaient beau jeu de signaler ce qu’ils appelaient les “contradictions” de l’Évangile. Ils durent se rétracter lorsque l’orientaliste allemand Ulrich Jasper Seetzen (1767-1811) eut découvert en 1806 les ruines de Gérasa (= Jerash en Jordanie), extraordinaire ville gréco-romaine fondée par Alexandre le Grand en 331 av. J.-C., détruite par le tremblement de terre de l’an 749, abandonnée au XII e siècle et merveilleusement conservée sous les sables. 44. Ziadeh, p. 397/34-37. Les sauterelles évoquent évidemment pour les moines le 8 e fléau que Moïse annonça au Pharaon, qui dévasta tout le territoire de l’Égypte et dévora toutes les plantes (cf. Exode 10,1-20). Voir aussi Joël 1,1-12. En ce sens, ces insectes dévastateurs

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(sic) ‫( وظُﻠْم‬sic) ‫( ﻛﺜﻴر‬sic) ‫( أَ ﱠن ﻫذه اﻷ ُﻤﱠﺔ َ ﺗﺼﻨﻊ ﺷرور‬fol. 24v) ،‫ ﻳﺎ أَوﻻدي‬،‫ﻓﺎﻋﻠﻤوا‬ 45 .‫ وﻴﻜﺜُر ﺷﻌﺒُﻬم ﻣﺜلَ اﻠﺠراد‬،‫ و َﻴﺜْﻘُل ﻧِﻴ ُرﻫم ﻣﺜلَ اﻠﺤدﻴد‬،‫ وﺴﻴﻘوى ﻣُﻠْﻜُﻬم ﺟدًّا‬.‫رض ﻣﺼر‬ 2.3. Cette “nation” est orgueilleuse et dominatrice Ce peuple arabe est désigné deux fois comme étant “orgueilleux”: «C’est une race superbe» (p. 393/21), ummah ṣa‘bat al-mirās (p. 377/1213). C’est «une nation superbe» (393/27-28), al-ummah al-mutaǧabbirah (377/17), qu’on pourrait traduire aussi par «une nation dominatrice» ou «qui oppresse». a) «C’est une race superbe que nous ne devons pas nommer dans les assemblées des saints. Ah! ce nom! celui des Arabes, et leur domination contraire à nos lois! 46 ces rois hautains qui règneront de leur temps!».47 ‫اﻻﺴم اﻠﱠذي ﻫو‬ ‫ آه ﻣن ﻫذا‬.‫ﺠﺎﻤﻊ اﻠﻘدﱢﻴﺴﻴن‬ ‫ ﻻ ﻳَ ِﺠبُ أَنْ ﻳُذْﻜَروا ﺑﻴ َن َﻣ‬،‫ﺻﻌْﺒﺔُ اﻠْﻤِ َراس‬ َ ٌ‫ﻷَﻨﱠﻬم أُﻤﱠﺔ‬ ِ ِ 48 .‫( ﻳﻘوم)ون( ﻓﻲ أَﻴﱠﺎﻤِﻬم‬sic) ‫ك اﻠﺠﺒﺎﺒرة اﻠﱠذي‬ ِ ‫ واﻟﻤﻠو‬،‫ وﻤَﻤْ ﻠَﻜَﺘ ِِﻬمْ اﻠ ُﻤﺨﺎﻠِ َﻔﺔِ ﻟﺸرﻴﻌﺘﻨﺎ‬،‫اﻠْﻬَﺠَ َرة‬ Le terme qui revient souvent dans ce texte est celui de “dominateur”, jusqu’à 15 fois dans la traduction française. Car en réalité c’est la question essentielle que pose, dès le départ, l’interrogateur du saint vieillard. Je me contenterai de citer trois passages. b) «Lorsque les émigrants arabes se furent emparés de l’Égypte, ils étaient peu nombreux; mais ils multipliaient leurs bienfaits envers le peuple chrétien. C’est alors que nos frères les moines commencèrent à s’entretenir à leur sujet avec le Père Anbâ Samuel, lui demandant si leur domination sur la terre d’Égypte devait longtemps se prolonger ou nom».49 50 ‫ وﻜﺎﻨوا ﻳُﻜﺜِروا اﻹﻨﻌﺎ َم‬،(sic) ‫ ﻛﺎﻨوا ﻗﻠﻴل‬،‫( ﻋﻠﻰ أَرض ﻣﺼر‬sic) ‫ ﻟﻤﱠﺎ َﻣﻠَكَ اﻠْﻬَﺠ ََرةُ اﻠﻌرﺒﻴﱠﺔ‬،‫ﻛﺎن‬ ‫( ﻣﻊ اﻷَب أَﻨﺒﺎ ﺻﻤوﺌﻴل‬sic) ‫( اﻹﺨوةُ اﻠرُّﻫﺒﺎ ُن ﻳﺘﺤدﱠﺜوا‬sic) ‫ ﺣﻴﻨﺌذٍ ﺑَدَءُوا‬.‫ﻋﻠﻰ ﺷﻌب اﻠﻨﺼﺎرى‬ sont devenus le symbole par excellence du châtiment divin. Ainsi les musulmans sont, pour les moines, le châtiment de Dieu du fait du comportement immoral des chrétiens. 45. Ibidem, p. 382/1-383/2. 46. Le texte arabe ne porte pas «à nos lois», mais à notre chari’ah, que l’on rendrait mieux par «à notre Révélation». 47. Ziadeh, p. 393/21-24. 48. Ibidem, p. 377/12-15. 49. Ibidem, p. 393/20-24. 50. Dans l’édition du moine Sim‘ān al­Anṭūnī, faite à partir d’un manuscrit du monastère de Saint-Antoine (près de la Mer Rouge), ce mot a été lu al-intiqām, ce qui inverse totalement le sens de la phrase, qui est devenu ‫ب اﻟ ﱠﻨﺼﺎرى‬ ِ ‫اﻻﻨﺘﻗﺎم ﻟِﺸﻌ‬ ‫ن‬ َ ‫نﻣ‬ َ ‫وﻛﺎﻨوا ﻳُﻜﺜِرو‬, ce qui signifie: ِ «Et ils multipliaient leur vengeance contre le peuple chrétien».

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َ‫( إن ﻛﺎن ﻳدومُ ﻣُﻠْﻜُﻬم ﻋﻠﻰ أ‬sic) ‫ وﻴﺴﺘﺨﺒروه‬،‫ﻋﻨﻬم‬ .‫( أَم ﻻ‬sic) ‫( طوﻴل‬sic) ‫رض ﻣﺼ َر زﻤﺎن‬ ِ c) «(Cette nation) s’emparera de plusieurs pays qui subiront sa domination, et son injustice augmentera beaucoup en Égypte au point que la terre en sera ruinée; ils mangeront, boiront, s’amuseront; ils s’habilleront comme des époux; ils se vanteront beaucoup en disant: “Aucune nation ne nous dominera jamais”. Ils soumettront la terre au cadastre et en toucheront les impôts; il en résultera une grande cherté de vie sur la terre; un grand nombre périront de faim et resteront par terre sans que personne leur donne la dernière sépulture».52 5354 ‫ ﺣﺘَّﻰ‬،‫ وظُﻠْﻤُﻬم ﻳﻜﺜُر ﺟدًّا ﻓﻲ أَرض ﻣﺼر‬.‫ وﺘﺼﻴر ﺗﺤﺖ ﺳ ُْﻠطﺎﻨﻬم‬،‫( ﻛﺜﻴرة‬sic) ‫( ﺑﻼد‬sic) ‫وﻴﻤﻠﻜوا‬ (sic) ‫ وﻴﻠﺒﺴوا‬،(sic) ‫ وﻴﻠﻌﺒوا‬،(sic) ‫( وﻴﺸرﺒوا‬sic) ‫ وﻴﺄﻜﻠوا‬.‫ﺗﺨرب َ اﻷَرضُ ﻣن ﻛﺜرة اﻠظُّﻠم‬ 54 .‫ ﻋﻠﻴﻨﺎ أُﻤﱠﺔٌ أُﺨرى أَﺒدًا‬53 ُ‫ »ﻻ ﺘﺘﺴﻠﱠط‬:‫( ﺧدًّا ﻗﺎﺌﻠﻴن‬sic) ‫ وﻴﻔﺘﺨروا‬.‫ﻣﺜل ﻟﺒﺎس اﻠﻌراﺌس‬ d) Vers la fin du récit du saint Anba Samuel, l’évêque d’al­Qays, Anba Grégorius, qui avait tout suivi, lui posa la même question qu’avaient posée les moines tout au début: «Là-dessus: “Mon saint père”, lui dit Anbâ Grégorius, “croyez-vous que l’événement va tarder et jusqu’à quand durera cette épreuve et la domination de cette race sur la terre d’Égypte?” Le saint Anbâ Samuel lui-répondit: “Mon père Anbâ Grégorius, personne ne connaît la disposition des temps ni leurs vicissitudes, si ce n’est le Créateur seul”».55 ،‫ أَﺘرى اﻷَﻤر ﻳُﺒطﺊ؟ وﺤﺘﱠﻰ ﻣﺘﻰ ﺗدوم ﻫذه اﻠﺼُّﻌوﺒﺔ‬،‫ »ﻴﺎ أَﺒﻲ اﻠﻘدﱠﻴﺲ‬:‫ﻓﻘﺎل ﻟﻪ اﻷَب اﻏرﻴﻐورﻴﺲ‬ ‫ ﻟﻴس‬،‫ ﻳﺎ أَﺒﻲ أَﻨﺒﺎ اﻏرﻴﻐورﻴس‬:‫وﻫذه اﻷ ُﻤﱠﺔ ﻣﺎﻠﻜﺔ ﻋﻠﻰ أَرض ﻣﺼر؟ ﻓﻘﺎل ﻟﻪ اﻟﻘدﱢﻴﺲ أَﻨﺒﺎ ﺻﻤوﻴل‬ 56 .‫ﻳﻌرف أَﺤد ﺗدﺒﻴ َر اﻷَزﻤﻨﺔ وﺘﻘﻟُّﺒَﻬﺎ ﺳوى اﻠﺨﺎﻠقُ وﺤدَه‬ 51

51. Ziadeh, p. 376/11-15. 52. Ibidem, p. 397/37-44. 53. Ms. éd.: ‫ﻳﺴﻠط‬. 54. Ziadeh, p. 383/2-6. 55. Ziadeh, p. 402/35-40. Cette réponse d’Anba Samuel rappelle celle du Christ aux apôtres: «Pour ce qui est du jour et de l’heure, personne ne les connaît, ni les anges des cieux, ni le Fils, mais mon Père seul» (Matthieu 24,36). 56. Ibidem, p. 389/12-16.

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3. Le mot­clé: al­Haǧara ‫اﻟﻬَﺠَ َرة‬ 3.1. Comment faut-il lire ce mot? Il a été lu hiǧra et traduit par “hégire” Le terme plus typique pour désigner les Arabes musulmans qui conquirent l’Égypte en 639-641 et qui la dominent encore au temps de Samuel (ou du Pseudo­Samuel) est ‫اﻠﻬﺠرة‬. Ce terme a été lu al-hiǧra par le traducteur de cette apocalypse, l’abbé Jean Ziadeh, ce qui ne donne aucun sens dans la plupart des cas. Il le traduit tantôt par “émigrants”, tantôt par “Arabes”, tantôt par “hégire”. Anthony Alcocq,57 dans sa traduction anglaise de l’Apocalypse, a rendu systématiquement (dans 20 cas) ce terme par hegira. De plus, à la note 6 (p. 376) correspondant à la première occurence, il justifie ainsi son choix: «I have kept this term throughout. It probably refers here only to the “immigration” of Arab Muslims into Egypt. E.W. Lane Arabic-English Lexicon (1863, p. 2880) says that the primary meaning of the term indicates removal from desert to town and ultimately emigration from one’s own country». Quant à Roger Pearse,58 il traduit 16 fois le mot arabe par “hegira”, 4 fois par “Arabs” (toujours au pluriel) et 3 fois par “emigrants” (toujours au pluriel). Il faut le lire au pluriel, comme étant les haǧara Il s’agit, à mon avis, d’une forme plurielle très courante, dont le singulier est de la forme fā‘il, comme on dit qātil pluriel qatala, fāǧir pluriel faǧara, bārr pluriel barara, kāfir pluriel kafara, etc. Dans notre cas, ce serait le pluriel de hāǧir, terme que je n’ai cependant pas rencontré et qui ne se trouve dans aucun dictionnaire au sens suggéré ici; peut-être n’est-il utilisé qu’au pluriel. Ici cependant, haǧara se rattache très probablement à Hāǧar, l’esclave égyptienne de Sarah qui donna à Abraham son fils aîné Ismaël, que la Bible présente comme étant le père des Arabes.59 Dans deux cas, le traducteur a considéré le terme comme un pluriel et l’a traduit par “émigrants”.60 Dans plusieurs cas, il force la langue arabe pour donner le sens de “hégire”, par exemple quand il lit fī mulk al-hiǧrati 57. Cf. Alcock, Life of Samuel of Kalamun. 58. Voir sa traduction sur le site: http://www.ccel.org/ccel/pearse/morefathers/files/ apocalypse_of_samuel_of_kalamoun_02_trans.htm#1 (14/10/2013). 59. Genèse 16,1-3. 60. Voir p. 392/10 et 393/19.

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l-‘Arāb et traduit «sous le règne de l’hégire arabe» (p. 392/8), hiǧra étant féminin singulier et ‘Arāb masculin pluriel! Alors qu’il faudrait lire: fī mulk al-haǧarat al-‘Arāb, «sous le règne des Arabes hagaréens». Les Hagaréens sont évidemment les descendants de Hagar, l’esclave de Sarah qui la donna à son mari Abraham pour qu’il ait un enfant, et Hagar accoucha d’Ismaël. Les Arabes (et après eux les Musulmans) se disent fils d’Ismaël. Confirmation par le Synaxaire On trouve une confirmation de la lecture “hagaréens” et non “hégire” dans le Synaxaire, tant arabe qu’éthiopien. Dans le «Synaxaire arabe jacobite» édité par René Basset, commémorant le saint vieillard Samuel, en date du 8 Kiyahk (= 4 décembre), on trouve une longue notice qui couvre 4 pages de l’édition (p. 405-408 = [329][332]). Vers la fin de la notice, se trouve une petite phrase très éclairante: «Ce père prononça de nombeuses exhorations et des discours, et prophétisa la venue de cette nation (umma), les émigrés (muhāǧirīn)».61 Nous retrouvons ici la umma pour désigner le groupe des musulmans, et le terme muhāǧirūn pour désigner les musulmans, dans une forme proche de celle utililsée en syriaque mahgrāyé.62 Ce terme correspond à haǧara que nous avons dans l’Apocalypse de Samuel. 63 .‫ اﻠذﻴن ﻫم اﻠﻤُﻬﺎﺠرﻴن‬،‫ وﺘﻨﺒﱠـﺄ ﻋﻟﻰ ﻣﺠﻲء ﻫذه اﻷﻤّﺔ‬،‫وﻗﺎل ﻫذا اﻷب ﻣواﻋظ ﻛﺜﻴرة وﻤﻘﺎﻻت‬ Dans la longue notice du 8 Taḥšaš (correspondant au mois de Kiyahk des Coptes, c’est-à-dire plus ou moins le mois de décembre) sur saint Samuel de Qalamūn,64 on trouve au § 19 une péricope semblable à celle de l’arabe: «Ce saint composa beaucoup d’exhorations et de sermons. Il prophétisa sur la venue des Musulmans – ce sont les fils d’Agar (’Agār) –, sur leur royaume et sur les infidèles qui persécuteraient le peuple des chrétiens dans tous les pays».65 Ici les muhāǧirūn ont été traduits par «les fils d’Agar».

61. Basset, p. 408/8-10 français. 62. Ibidem, p. 408/5-6 arabe. 63. Ibidem, p. 408/5-6 arabe. 64. Voir S. Grébaut, Le Synaxaire éthiopien, in Patrologia Orientalis 15 (1926), p. 655-667. 65. Ibidem, p. 666.

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3.2. Usage de ce terme dans notre Apocalypse Il serait utile de relever systématiquement ce terme dans la littérature arabe médiévale, pour en déterminer le sens précis d’après les contextes. Il faudrait préciser qui en sont les locuteurs: ce terme est-il utilisé exclusivement par les chrétiens (et peut-être par telle ou telle communauté chrétienne), ou est-il commun à tous? En particulier, est-il utilisé aussi par les musulmans en ce sens (ce dont je doute)? Enfin, peut­on savoir à partir de quelle époque on l’utilise et jusqu’à quelle époque? Cela aiderait à dater notre texte. Ce terme se rencontre 23 fois dans notre petit texte, et cependant on ne le trouve, à ma connaissance, dans aucun dictionnaire arabe, pas même dans Dozy,66 qui est généralement très précis et très fouillé.67 Le plus intéressant à ce sujet est que l’édition du moine Sim‘ān al­ Anṭūnī, basée sur un manuscrit du monastère de Saint­Antoine près de la Mer Rouge, l’a systématiquement remplacé par des termes équivalents, sauf dans un seul cas, dans la phrase: wa-qāla lī, lammā an sa’altuhu min aǧli umūr al-haǧarah […].68 L’abbé Ziadeh l’a traduite: «Il m’a répondu, quand je l’ai interrogé au sujet des rois de l’hégire» (p. 398/7’-6’), que je traduirais plutôt: «Il m’a répondu, quand je l’ai interrogé au sujet de ce qui concerne les Hagaréens». Le remplacement quasi systématique de ce terme dans cette version visiblement tardive (de par son style même) suggère qu’il n’était plus en usage. La fréquence du mot haǧara suggère aussi son importance. Quand on lit notre texte, on se rend compte que c’est le mot-clé de cette vision-révélation, et qu’il a pris, sous la plume du traducteur, un sens péjoratif. Il est probable qu’il ait été utilisé dans certains milieux chrétiens comme un terme ésotérique, dont le sens était caché aux non-initiés; un terme qui n’est utilisé qu’au pluriel, précisément pour parler négativement d’un groupe, celui des “envahisseurs”. Ce qui confirme cette hypothèse c’est l’absence totale de deux mots, dont on attendrait précisément la présence à chaque paragraphe: le mot muslimūn et le mot islām. On ne parle que d’eux, sans jamais les nommer expressément, […] et pour cause! On comprend aussi pourquoi l’auteur a utilisé le genre apocalyptique pour dépeindre une réalité bel et bien existante. 66. Voir R.P.A. Dozy, Supplément aux dictionnaires arabes, I-II, Leiden 1881. 67. Cependant, Dozy, Supplément [n. 66] a davantage fait usage des auteurs de l’Espagne médiévale arabe. 68. Ziadeh, p. 384/13-14.

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3.3. Usage de ce terme dans la littérature des Syriaques Ce terme n’est pas une création des Coptes; à ma connaissance, son usage est plutôt rare parmi eux. En témoigne le fait que dans des manuscrits postérieurs ce terme ait été presque éliminé, comme l’atteste l’édition du moine Sim‘ān al­Anṭūnī. En revanche, il est couramment employé par les auteurs syriaques médiévaux, que les orientalistes traduisent par “Hagaréens”. Je me contenterai d’en donner deux exemples: Dialogue entre le patriarche syriaque Jean III et l’émir ‘Umayr Ibn Sa‘d (9 mai 644) Ce document syriaque est conservé dans un unique manuscrit, l’Addi­ tional 17193 de la British Library de Londres, qui contient 125 pièces. Il a été minutieusement décrit en 1871 par William Wright.69 Il a été achevé le mardi 17 août 874 de notre ère, et notre pièce est la 88 e du recueil. Elle s’intitule: «Lettre de Mar Jean patriarche, au sujet de l’entretien qu’il eut avec l’émir des Hagaréens (Mahgroïé)». Le texte en a été édité en 1915 par l’abbé François Nau, accompagné d’une traduction française, d’une étude historique et de quelques appendices.70 Le P. Henri Lammens a pu préciser la date de la rencontre 71 et j’ai moi-même pu déterminer de quel émir il s’agissait:72 c’est ‘Umayr Ibn Sa‘d, surnommé Al­Zāhid al­Anṣārī.

69. Cf. W. Wright, Catalogue of Syriac Manuscripts in the British Museum, acquired since the year 1838, II, London 1871, p. 989-1002. Notre pièce se trouve aux folios 73r à 75v, et est décrite à la p. 998. 70. F. Nau, Un colloque du patriarche Jean avec l’émir des Agaréens et faits divers des années 712 à 716 d’après le Ms., du British Museum Add. 17193 avec un appendice sur le patriarche Jean I er, sur un colloque d’un patriarche avec le chef des mages et sur un di­ plôme qui aurait été donné par Omar à l’évêque du Tour ‘Abdīn, in «Journal Asiatique», 11e s., 5 (1915), p. 225-279. 71. Cf. H. Lammens, À propos d’un colloque entre le patriarche jacobite Jean I er et ‘Amr Ibn al-‘Āṣī, in «Journal Asiatique», 11e s., 13 (1919), p. 97-110; repris avec le même titre dans son recueil Études sur le siècle des Omayyades (1930), p. 13-25. J’ajoute ici que durant le patriarcat de Jean III = 631­648, il n’y a qu’en trois années où le 9 mai tombait un dimanche: en 633, en 639 et en 644. Cette donnée vient confirmer la date signalée par le P. Lammens. 72. Cf. S.K. Samir, Qui est l’interlocuteur musulman du patriarche syrien Jean III (631-648)?, in Symposium Syriacum IV, Roma 1987 (Orientalia Christiana Analecta, 229), p. 387-400.

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Le mot Hagaréens (Agaréens, chez Nau) traduit le syriaque Mahgroyo, pluriel: Mahgroye qui signifie “musulman”.73 À la différence de l’arabe, où la racine HGR signifie «quitter un lieu désert vers un lieu plus accueillant», et secondairement “émigrer”, en syriaque la racine n’existe pas comme telle. Il se rencontre trois autres fois dans notre petit débat, toujours au pluriel. 1. La première fois, correspond à la seconde question: «L’émir lui demandait encore: “Pourquoi, puisque l’Évangile est un, la foi est-elle différente?”. Et le bienheureux répondit: “De même que la Loi (= le Pentateuque) est une et la même, et qu’elle est acceptée par nous autres chrétiens et par vous Agaréens (Mahgroïé), et par les Juifs et par les Samaritains, et chaque peuple est divisé pour la foi; il en est de même pour la foi de l’Évangile, chaque hérésie le comprend et l’interprète de manière différente, et non comme nous”».74 2. La deuxième mention se trouve dans la sixième question. L’émir lui demande de «démontrer, par le raisonnement et par la Loi 75 (= celle de Moïse), que le Christ est Dieu, et qu’il est né de la Vierge, et que Dieu a un fils».76 Le patriarche expose cela en partant des Prophètes. Mais «l’illustre émir n’accepta pas les (paroles) des prophètes, mais réclama Moïse pour lui démontrer que le Christ est Dieu».77 Le patriarche s’exécuta et lui cita le verset Genèse 19,24: «Le Seigneur fit descendre de devant le Seigneur le feu et le soufre sur Sodome et sur Gomorrhe».78 À la demande de l’émir, le patriarche apporte 73. Cf. L. Costaz, SJ, Dictionnaire syriaque-français, Beyrouth 1994, p. 73a. 74. Nau, Un colloque du patriarche [n. 70], p. 257/13-258/3. 75. Cette expression, «par le raisonnement et par la Loi», est typique des débats entre musulmans et chrétiens. En arabe, l’émir a sans doute dit: ‘aqlan wa-šar‘an = «selon la raison et la chari’ah». La formule courante, un peu plus tard, est: ‘aqlan wa-naqlan = «selon la raison et selon la Tradition». 76. Nau, Un colloque du patriarche [n. 70], p. 260/1-3. 77. Ibidem, p. 260/13-14. Je suppose que le motif est que le Coran ne mentionne que la Torah et l’Évangile, comme livres révélés. Les Prophètes ne font pas partie de la Torah de Moïse. 78. L’usage de cette citation pour défendre la Trinité semble appartenir à la tradition syriaque. Sévère d’Antioche (patriarche d’Antioche de 512 à 518) la cite dans l’homélie LXX, qui est la 3e catéchèse baptésimale, prononcée le Mercredi-Saint. Voir M. Brière, Les homeliae cathedrales de Sévère d’Antioche. Traduction syriaque de Jacques d’Edesse (ho­ mélies 70 à 76), in Patrologia orientalis, XII, fasc. 1, Paris 1919, p. 26 = [308]: «Que dirat­on, en entendant encore les Livres sacrés dire: “Et le Seigneur fit pleuvoir sur Sodome et sur Gomorrhe du soufre et du feu de par le Seigneur du haut du ciel” (Genèse 19,24). Quel Seigneur? De par quel Seigneur? Ne dis pas, en effet, qu’un ange ou un des esprits au service (de Dieu) était un Seigneur; car le nom de Seigneur convient à Dieu seul, ainsi qu’il est

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une Bible grecque et une Bible syriaque et lui montre le texte. «Certains Agaréens (Mahgroïé) étaient présents avec nous en cet endroit, et ils virent de leurs propres yeux ces passages et le nom glorieux des Seigneurs et du Seigneur. L’émir appela un juif qui était [là] et qu’ils réputaient un connaisseur de l’Écriture, et il lui demanda s’il en était ainsi textuellement dans la Loi. Et celui-ci répondit: “Je ne le sais pas avec exactitude”».79 3. La troisième mention des Agaréens se trouve dans la septième question, concernant les lois des chrétiens, et notamment celles concernant l’héritage: «L’émir en arriva de là à interroger au sujet des lois des chrétiens; quelles et comment sont-elles; si elles sont dans l’Évangile ou non?»80. La question de l’émir est éminemment pratique: quelles lois appliquer aux chrétiens dans l’empire musulman naissant? Faut-il leur appliquer la chari’ah islamique, ou bien ont-ils un système juridique propre? La réponse du patriarche reste vague: «L’Évangile divin enseigne et impose les doctrines célestes et les préceptes vivifiants; il maudit tous les péchés et tous les maux; il enseigne l’excellence et la justice».81 Et le narrateur précise: «Il y avait là réunis en foule non seulement les nobles des Agaréens (Mahgroïé), mais les chefs et les gouverneurs des villes et des peuples fidèles et amis du Christ, les Tanoukaïé, les Tou‘aïé et les ‘Aqoulaïé.82 Mais l’émir s’impatiente et lui dit: Je vous demande ou de me montrer vos lois écrites dans l’Évangile, «ou d’adhérer à la loi musulmane (mahgrâ)».83 Ici l’on voit que l’on a forgé, à partir du substantif Hagaréens (Mahgroïé) un adjectif: mahgrâ.

écrit: “Et qu’ils sachent que ton nom est le Seigneur et que seul tu es le Très-Haut sur toute la terre” (Psaume 82,19)». 79. Nau, Un colloque du patriarche [n. 70], p. 260/21-261/2. La réponse du juif spécialiste de l’Écriture Sainte qui esquive la question est un peu décevante. Peut-être y a-t-il de la part du narrateur qui critique voilée des juifs. 80. Ibidem, p. 261/3-5. 81. Ibidem, p. 261/8-11. 82. Ibidem, p. 261/12-15. 83. Ibidem, p. 262/3-4.

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Histoire du patriarche Mar Yahbalāhā III et du moine Rabbān Ṣawmā Ainsi, dans l’Histoire du patriarche Mar Yahbalāhā III (1281­1317), patriarche syro-oriental 84 et du moine Rabbān Ṣauma, traduite par Jean­ Baptiste Chabot,85 nous trouvons 8 fois le mot hagaréen (et une fois la mention de Hagar). «Au roi défunt succéda son frère, nommé Ahmed, fils du roi Houlaghou.86 Il manquait d’éducation et d’instruction et il persécuta beaucoup les chrétiens à cause de ses relations avec les Hagaréens, vers lesquels il était enclin». Chabot explique ainsi, en note, le mot Hagaréen: «Hagaréens est le nom que les écrivains chrétiens donnent souvent aux Mahométans. Cette appellation est dérivée du nom de Hagar, la servante d’Abraham, qui lui enfanta Ismaël et fut ensuite chassée avec son fils [dans le désert]87 Celui-ci est regardé par les écrivains ecclésiastiques comme le père des Arabes; et, de même qu’ils emploient souvent le nom d’arabe comme synonyme de musulman, ils se servent aussi en ce sens du nom de hagaréen, par lequel ils croient mieux exprimer leur idée de mépris pour les sectateurs de la religion de Mahomet. Devenir hagaréen signifie donc se convertir à l’islamisme».88 84. Pour une biographie de ce patriarche, voir: J.-M. Fiey, Le grand catholicos turcomongol Yahwalaha III (1281–1317), in «Proche-Orient Chrétien», 38 (1988), p. 209-220. Pour la bibliographie, voir Id., Esquisse d’une bibliographie sur le patriarche turco-mongol Yahwalaha III (1281-1317) et son maître Rabban Bar Sawma, envoyé du Khan Arghun au pape et aux princes européens en 1287-1288, in «Proche-Orient Chrétien», 38 (1988), p. 221-228. 85. J.-B. Chabot, Histoire de Mar Jabalaha III, Patriarche des Nestoriens (12811317) et du moine Rabban Çauma, Ambassadeur du roi Argoun en Occident (1287), traduite du syriaque et annotée, Paris 1895. 86. Houlaghou ou Khoulagou­Khan, prédécesseur d’Abaka, était le cinquième fils de Toutoui le plus jeune fils de Gengis Khan. Sa mère était Souirkoukteni, nièce du chef Kéraïte Ouang­Khan et fille de son frère Jakembo. Il étail ainsi le propre frère des deux grands Kakhans Mangou et Khoubilaï, et de Arikbouka qui contestait les prétentions de Khouriltaï à l’empire du monde mongol. Il était né vers l’an 1216. Quand l’expédition de Perse eut été résolue dans un kouriltai (assemblée générale), au commencement du règne de Mangou, Houlaghou fut chargé de la commander. Après avoir fait massacrer presque toutes les populations ismaïliennes, il engagea la guerre contre le khalife, prit et saccagea Bagdad, conquit la Mésopotamie, et fit plusieurs expéditions en Syrie où il ne put se maintenir. Il est le véritable fondateur de l’empire des Mongols de la Perse. Il mourut en 1265. 87. Cf. Genèse 16,10-11; 17,20-21; 21,1-21. Sur l’onagre du désert auquel Ismaël est comparé, voir Job 39,5-8. 88. Chabot, Histoire [n. 85], p. 46, note 1.

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4. La situation des Coptes sous la domination musulmane 4.1. Souffrances des Coptes a) «Je ne veux pas vous décrire ce que souffriront les chrétiens de la part des émigrants arabes pendant leur règne».89 90 .‫وﻠﻴس أُرﻴدُ أَنْ أَﺸرَحَ ﻟﻜم ﻣﺎ ﻳَﺤِلُّ ﺑﺎﻠﻤﺴﻴﺤﻴﻴن ﻣِنْ أُﻤﱠﺔِ اﻠْﻬَﺠَ َرةِ اﻠﻌرﺒﻴﱠﺔ ﻔﻲ أَﻴﱠﺎﻤِﻬم‬ b) «Les Arabes gâteront aussi toutes les œuvres sur la terre à cause de la dureté de leur joug. Ils causeront aux veuves et aux orphelins (fol. 24r) de grands dommages; ils insulteront les vieillards, poursuivront les vierges, s’attaqueront à elles dans leurs maisons à cause des impôts. Ils railleront la religion chrétienne et n’auront point d’estime pour les prêtres ni pour les moines; ils mangeront, boiront et joueront à l’intérieur des églises; sans crainte ils coucheront avec les femmes devant l’autel. Ils feront des églises de Dieu comme des écuries de chevaux, y attachant leurs chevaux et leurs bêtes de somme. Les esprits puissants qui veillent sur l’église s’en iront et monteront au ciel quand ils verront les mauvaises actions que commettra cette nation dans les églises».91 ‫( ﻣن اﻷَراﻤل‬sic) ‫ وﻴﺄْﺨذوا‬.‫ِﻴرﻫم‬ ِ ‫ ﻷَﺠل ﺛِﻘْل ﻧ‬،‫وﻴُﻔﺴد اﻠْﻬَﺠَرَةُ ﻛلﱠ اﻷَﻋﻤﺎل اﻠﱠﺘﻲ ﻋﻠﻰ اﻷَرض‬ ،‫( اﻠﻌذارى‬sic) ‫ و ُﻴﺿﺎﻴﻘوا‬،‫خ‬ ّ ‫( اﻠ‬sic) ‫ وﻴﺸﺘﻤوا‬،(sic) ‫( ﺧﺴﺎﺌ َر ﻛﺒﺎر‬fol. 24r) ‫واﻷَﻴْﺘﺎم‬ َ ‫ﺸُﻴو‬ (sic) ‫ وﺘﻜون‬،‫( ﺑﻤذﻫب اﻠﻨﺼﺎرى‬sic) ‫ وﻴَﻬْزَؤا‬.‫( ﻓﻲ ﺑﻴوﺘﻬم ﻋﻠﻰ اﻠﺨﺴﺎرات‬sic) ‫وﻴُﺤﺎﺼروﻫم‬ ،‫( داﺨلَ اﻠﻜﻨﺎﺌﺲ‬sic) ‫( وﻴﻠﻌﺒوا‬sic) ‫( وﻴﺸرﺒوا‬sic) ‫ وﻴﺄﻜﻠوا‬.‫اﻠﻜﻬﻨﺔُ ﻋﻨدَﻫم واﻠ ّرُﻫﺒﺎنُ ﻣرذوﻠﻴن‬ ‫( ﻛﻨﺎﺌﺲَ ﷲ ﻣﺜلَ اﺼطﺒﻼت‬sic) ‫ وﻴﺠﻌﻠوا‬،‫( اﻠﻨﱢﺴﺎءَ ﻗدﱠا َم اﻠﻤذﺒﺢ ﺒﻐﻴر ﺧوف‬sic) ‫وﻴُﻀﺎﺠﻌوا‬ ‫ ﻟﻤﺎ‬،‫ﺴﻤﺎء‬ ‫ ﺗﻤﻀﻲ وﺘﺼﻌد إﻠﻰ اﻠ ﱠ‬92 ‫ وﻘوﱠات اﻠﺒﻴﻌﺔ‬.‫( ﺧَﻴْﻠَﻬم و َدواﺒﱠﻬم ﻓﻴﻬﺎ‬sic) ‫ وﻴرﺒطوا‬،‫اﻠﺨﻴل‬ 93 .‫( ﻣن اﻷَﻋﻤﺎل اﻟرﱠدﻴﺌﺔ اﻠﱠﺘﻲ ﺗﻌﻤﻠﻬﺎ ﻫذه اﻷ ُﻤﱠﺔ ﻓﻲ اﻠﺒﻴَﻊ‬sic) ‫ﻳﻌﺎﻴﻨوا‬ c) «Ils [les Arabes] détruiront beaucoup d’églises en les rasant jusqu’à terre; ils transporteront leurs bois, leurs briques, leurs pierres et s’en construiront des palais et de superbes habitations. Ils détacheront les croix des églises. Ils en transformeront un grand nombre en mosquées à leur usage, à cause de leur orgueil et de leur haine contre les chrétiens. Mais les saints martyrs qui verront ces choses s’accomplir aux lieux de leur martyre,

89. Ziadeh, p. 393/18-20. 90. Ibidem, p. 377/10-12. 91. Ibidem, p. 397/5-16. 92. Éd.: ‫اﻠﻴﻌﺔ‬. 93. Ziadeh, p. 382/3-11.

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porteront à Dieu leurs plaintes contre cette nation».94 95 َ ‫( ﻣﻊ‬sic) ‫ وﻴُﺴﺎوُوﻫم‬،‫ﺲ ﻛﺜﻴرة‬ ُ ‫ وﻴﻨﻘﻠوا َأﺨﺸﺎ َﺒﻬم و‬.‫اﻷرض‬ ،‫طو َﺒﻬم وﺤﺠﺎ َرﺘﻬم‬ َ ‫( ﻛﻨﺎﺌ‬sic) ‫وﻴﻬ ُّدوا‬ .‫( اﻠﺼُّﻠﺒﺎنَ ﻣن ﻋﻠﻰ اﻠﻜﻨﺎﺌس‬sic) ‫ وﻴﻨزَﻋوا‬.‫( ﻋظﻴﻤﺔ‬sic) ‫ ودُور‬96 ‫وﻴَﺒْﻨون ﻟﻬم ﻣﻨﻬﺎ إﻴواﻨﺎت‬ ‫ وﺒُ ْﻐﻀِﻬم ﻓﻲ‬97‫ ﻣن أَﺠل ﻛﺒرﻴﺎﺌﻬم‬،َ‫( ﻟﻬم ﺟواﻤﻊ‬sic) ‫( وﻴﺼﻴﱢروﻫﺎ‬sic) ‫وﻜﻨﺎﺌس ﻛﺜﻴرة ﻳﻨﻘﻠوﻫﺎ‬ ،‫( ﻓﻲ ﻣﺸﺎﻫدﻫم‬sic) ‫( اﻷَﻋﻤﺎلَ اﻠﱠﺘﻲ ﻳﻌﻤﻠوﻫﺎ‬sic) ‫( اﻠﺸُّﻬداء ﻳﻨظروا‬sic) ‫ واﻠﻘدﱢﻴﺴﻴن‬.‫اﻠﻨﺼﺎرى‬ .‫ﻓﻴﺸﻜوﻫم إﻠﻰ ﷲ‬ 4.2. La victoire des Arabes signifie-t-elle bénédiction de Dieu? La question que se posent les chrétiens d’Égypte par rapport aux musulmans envahisseurs est celle du sens religieux de cette conquête. Est-ce à dire que Dieu est avec les vainqueurs, et que donc leur religion est la vraie? D’autant plus que l’Islam se situe lui-même dans la lignée du judaïsme et du christianisme, et qu’il se présente comme l’achèvement de la révélation divine faite à l’humanité depuis Adam, en passant par Noé, Moïse, les prophètes et Jésus, Muhammad étant le dernier des prophètes, le «sceau des prophètes» (ḫātam al-nabiyyīn) 98 comme le proclame le Coran. C’est la question que se poseront perpétuellement les croyants, face à un conquérant, surtout si ce conquérant se proclame croyant. Est-ce à dire que sa croyance est la bonne, et que Dieu la soutienne? Les moines posent la question à leur père spirituel Samuel. Voici la réponse de Samuel: «Et le saint, en la présence de l’évêque, poussa un soupir du fond du cœur et dit: “Béni soit Dieu qui a établi les temps en leur fixant une limite, qui exalte une nation et en abaisse une autre, qui détrône et élève les rois. Ne croyez pas, mes enfants bien-aimés, que cette nation est agréable aux yeux de Dieu parce qu’il a livré cette terre à leurs mains”».99 ،‫ اﻟﱠذِي أَﻘَﺎمَ اﻷَ ْزﻤِﻨَﺔَ وَﺤَدﱠدَﻫَﺎ‬،ُ‫َ ﺗَﺒَﺎ َركَ ﷲ‬:‫ وﻘﺎل‬،‫ﱢﻴس ﺗﻨﻬﱠد ﻣن ﻋﻤق ﻗﻠﺒﻪ ﺑﺤﻀرة اﻷ ُﺴﻘف‬ ‫ﱠ‬ َ ‫وإن اﻠﻘد‬ ‫ ﻳَﺎ أَ ْوﻻَدِي‬،‫( أُﺨَر! ﻻَ ﺗَظُﻨُّوا‬sic) ‫( َوﻴُﻘِﻴمُ ﻣُﻠُوك‬sic) ‫ وَﻴَﻘﻠِبُ ﻣُﻠُوك‬،ً‫اﻠﱠذِي ﻳَذِ ُّل أُﻤﱠﺔً وَﻴَرْ ﻔَﻊُ أُﻤﱠﺔ‬ 94. Ibidem, p. 382/11-16. 95. Ces pronoms sont dans la langue littéraire réservés aux êtres raisonnables. C’est le pronom ‫ ﻫﺎ‬qu’il faut ici (Ziadeh). 96. Éd.. ‫ﻟﻴواﻨﺎت‬. 97. Éd.: ‫ﻛﺒرﻴﺎﻫﻢ‬. 98. Sourate 33 (al-Aḥzāb), v. 40. 99. Ziadeh, p. 392/17-21.

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.‫ض إﻠَﻰ أَﻴْدِﻴ ِﻬم‬ َ ‫ إذْ ﺳَﻠﱠمَ ﻫَذِهِ اﻷَ ْر‬،ِ‫ أَنﱠ ﻫَذِهِ اﻷ ُﻤﱠﺔَ ﻛَ ِرﻴ َﻤﺔٌ ﻋِﻨْدَ ﷲ‬،َ‫اﻷَﺤِﱠﺎء‬ Cette réponse du saint moine Samuel est pleine de sagesse. Oui, Dieu gouverne le monde: il élève qui il veut et abaisse qui il veut! Mais en même temps il ne faut pas interpréter spirituellement les évènements humains de manière automatique, ni projeter sur Dieu les actions humaines. 100

4.3. Les Arabes sont un châtiment de Dieu, à cause de nos péchés Si la victoire des Arabes sur les Coptes, donc de la religion musulmane sur la religion chrétienne, ne signifie pas que leur religion soit la vraie religion, comment donc expliquer ce fait? Dieu aurait-il abandonné son peuple? Non, ce sont les chrétiens qui se sont éloigné de Dieu et de ses préceptes. C’est pourquoi Dieu a permis qu’un autre peuple vienne les dominer, pour les réveiller de leur torpeur et les ramener à la vraie foi. En sommes, ce sont les péchés des chrétiens qui sont cause des tristes conséquences qu’ils expérimentent. 1. Alors le Père Anbâ Samuel lui réponda: «Ceci n’est qu’un petit châtiment par lequel Dieu châtiera la génération de ces temps-là».101 102 .‫ب ﻳﺴﻴرٌ ﻳؤَ دﱢب ﷲ ﺑﻪ أَﻫ َل ذﻠك اﻠﺨﻴل‬ ٌ ‫ ﻫذا ﻫو أَد‬،‫ ﻳﺎ اﺒﻨﻲ‬:‫ ﻓﻘﺎل ﻟﻪ اﻷَب أَﻨﺒﺎ ﺻﻤوﺌﻴل‬1. 2. «Leurs actions, dont vous êtes témoins, ont pour cause les péchés commis par mon peuple, car il a rejeté mes commandements et mes ordonnances pour ressembler à cette nation. C’est pourquoi elle les dominera jusqu’à ce que son temps soit résolu».103 ‫ وﻜَ ْوﻨَﻬم ﺘرﻜوا‬،‫ﺷﻌْﺒﻲ‬ َ ‫( ﻣن أَﻋﻤﺎﻠﻬم ﻫﻲ ﻣن أَﺠل اﻟﺨطﺎﻴﺎ اﻠﱠﺘﻲ ﻳﻌﻤﻠﻬﺎ‬sic) ‫ﺗروْه‬ َ ‫ وﻜ ُّل ﻣﺎ‬2. 104 ُ ‫ﱠ‬ ‫ﱠ‬ .‫ ﺣﺘﻰ ﻳﻜﻤل زﻤﺎﻨﻬم‬،‫( ﻋﻠﻴﻬم‬sic) ‫ ﻟﻬذا ﻳﺘﺴﻠطوا‬.‫ وﺘﺸﺒﱠﻬوا ﺑﻬذه اﻷ ﻤﱠﺔ‬،‫وﺼﺎﻴﺎي وأَواﻤري‬

100. Ibidem, p. 376/15-18. 101. Ibidem, p. 402/7-8. 102. Ibidem, p. 376/15-18. 103. Ibidem, p. 397/28-31. 104. Ibidem, p. 382/5’-3’.

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5. Causes de la dégénérescence des Coptes 5.1. Imitation du mode de vie des musulmans a) «Celui qui se garde des œuvres des Arabes 105 et ne les imite pas pourra sauver son âme».106 107 .‫ ﻓﺈﻨﱠﻪ ﻳﻘدر ﻋﻠﻰ ﺧﻼص ﻧﻔﺴﻪ‬،‫ﻣن ﺗﺤﻔﱠظ ﻣن أَﻋﻤﺎل اﻠْﻬَﺠ ََرة ﻓﻼ ﻴﺘﺸﺒﱠﻪ ﺒﻬم‬ b) «Les chrétiens jalouseront leurs actions; ils mangeront et boiront avec eux; ils joueront comme eux; à leur exemple ils se dissiperont et commettront l’adultère. Comme eux ils prendront des concubines et souilleront leurs corps au contact des femmes de l’hégire,108 rebelles et impures; ils se coucheront avec les mâles comme eux; ils voleront, jureront 109 et commettront l’injustice; ils se haïront les uns les autres et se livreront mutuellement aux nations sans miséricorde; beaucoup de vains discours qui ne devraient pas être dits, sortiront de leurs bouches. Ils représenteront (fol. 21v) l’image de Dieu, c’est-à-dire l’homme, de plusieurs façons: ils appelleront les uns porcs, [les autres] chiens, [d’autres] des ânes».110 111112113114 ‫( ﻣﺜﻠَﻬم‬sic) ‫ وﻴﻠﻌﺒوا‬،‫( ﻣﻌﻬم‬sic) ‫( وﻴﺸرﺒوا‬sic) ‫ وﻴﺄْﻜﻠوا‬،‫ﺗﺣﺴدُﻫم اﻠﻨﺼﺎرى ﻋﻠﻰ أَﻋﻤﺎﻠﻬم‬ ‫( أَﺠﺴﺎدَﻫم ﻣﻊ‬sic) ‫ وﻴُﻨﺠﱢﺴوا‬،‫( ﻟﻬم اﻠﺴﱠراري ﻣﺜﻠَﻬم‬sic) ‫ وﻴﺘﱠﺨذوا‬،‫ وﻴَ ْزﻨُون ﻣﺜﻠَﻬم‬،(sic) ‫وﻴﻤرﺤوا‬ ‫( ﱠ‬sic) ‫ وﻳﻀﺎﺠﻌوا‬،‫ﻧﺴﺎء اﻠْﻬَﺠَ َرة اﻠﻤﺧﺎﻠﻔﺎت اﻠﻨﱠ ِﺠﺴﺎت‬ (sic) ‫( وﻴﺤﻠﻔوا‬sic) ‫اﻠذُﻜورُ مﺜﻠَﻬم؛ وﻴﺴرﻘوا‬ ‫( ﺑﻌﻀﻬم إﻠﻰ اﻷ ُﻤم اﻠﻐﻴر‬sic) 112 ‫ وﻴﺴﻠﱢﻤوا‬،‫( ﺑﻌﻀﻬم ﺑﻌض‬sic) ‫( وﻴﺒﻐﻀوا‬sic) ‫ وﻴظﻠﻤوا‬،‫مﺜﻠﻬم‬ َ‫( ﺻورة‬sic) ‫ وﻴﺠﻌﻠوا‬.َ‫ ﻻ ﻳﺠب أَن ﻳُﻘﺎل‬،‫ وﻴﺨرج ﻣن أَﻔواﻫﻬم ﻛﻼمٌ ﻛﺜﻴر ﺑطﱠﺎل‬.‫رﺤوﻤﻴن‬ ‫( ﺧﻨﺎزﻴر وﻜﻼب‬sic) ‫ ﺑﻌض ﻳدﻋوﻫم‬،‫ ﻛﺜﻴرة‬114 ‫ اﻹﻨﺴﺎنَ( أَﺼﻨﺎﻔًﺎ‬113 ‫( ﷲ )أﻋﻨِﻲ‬fol. 21v) 115 .‫وﺤﻤﻲر‬ c) «De même aussi, les femmes chrétiennes abandonneront les bonnes coutumes propres aux femmes ordonnées, pour prendre l’habitude du blasphème, devenir oiseuses, mauvaises dans leur conduite, dissolues dans 105. Ici nous avons littéralement: des “Hagaréniens”. 106. Ziadeh, p. 399/3-4. 107. Ibidem, p. 384/20-21. 108. Lire: “les femmes des Hagaréniens”. 109. Il faut ajouter ici: “comme eux”. 110. Ziadeh, p. 394/4-14. 111. Pour avoir la forme correcte de tous ces verbes, il faut ajouter la lettre ‫ ن‬v.g. ‫ اﺴﻟّﻤون‬etc. Cette omission est très fréquente dans le texte (Ziadeh). 112. Éd.: ‫ﻋﻨﻲ‬. 113. Ms. éd.: ‫اﺼﻨﺎﻔﻪ‬. 114. Ziadeh, p. 378/4-11.

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leurs intentions. Elles tiendront encore des paroles blasphématoires et de leurs bouches sortiront des discours que personne ne doit proférer; car elles blasphémeront contre Dieu. Elles iront même jusqu’à dire sans crainte: “J’agirai contre le Dieu qui m’a créée […]”».115 116 117 118 119 ‫ وﻴﺼﻴروا‬،‫( اﻠﻌواﺌدَ اﻠﺤﺴﻨﺔَ اﻠﱠﺘﻲ ﻟﻠﻨﺴوان اﻠﻤرﺘﱠﺒﺎت‬sic) ‫وﻜذﻠك ﻧﺴﺎءُ اﻠﻨﺼﺎرى أَﻴﻀًﺎ ﻳﺘرﻛوا‬ ،‫ اﻠﺘﱠﺠدﻴف‬117‫( أَﻴﻀًﺎ ﻛﻼ َم‬sic) ‫ وﻴﻘوﻠوا‬.‫( ﻣﺠدﱢﻔﻴن ﺑﻄﱠﺎﻠﻴن أَردﻴﺎ َء اﻠﺴﱢﻴرة ﺳُﻔَﻬﺎء اﻠﻐﺎﻴﺎت‬sic) ‫ ﺣﺗﱠﻰ إﻨﱠﻬم‬،‫( ﻋﻠﻰ ﷲ‬sic) ‫ إذ ﻴﺠدﱢﻔوا‬،118(sic) ‫وﻴﺨرج ﻣن أَﻔواﻫﻬم أَﻘوالٌ ﻻ ﻳﺠب أَن ﻳﺤﻜِﻴَﻬﺎ أَﺤدًا‬ 120 .‫ ﷲ اﻠذي ﺧﻠﻘﻨﻲ‬119‫ إﻨﱠﻨﻲ أَﻔﻌل‬:‫( أَن ﻴﻗوﻠوا ﺑﻐﻴر ﺧوف‬sic) ‫ﻳﺠﺴروا‬ d) «Malheur! deux fois malheur! Que dirai­je, mes enfants, sur ces temps-là et sur la paresse qui gagnera les chrétiens? En ce temps-lit ils s’écarteront beaucoup de la loyauté et imiteront dans leurs actions ceux de l’hégire; ils donneront les noms de ces derniers à leurs enfants, laissant de côté les noms des Anges, des Prophètes, des Apôtres et des Martyrs».120 ‫ وﻋِظَمِ اﻠﻜﺴلِ اﻠﱠذي ﻳﻠﺤق‬،‫ ﻳﺎ أَوﻻدي اﻷَﺤﺒﱠﺎء! ﻣﺎذا أَﻘو ُل ﻓﻲ ﺗﻠك اﻷَزﻤﻨﺔ‬،ُ‫اﻠوﻴلُ ﺛمﱠ اﻠوﻴل‬ ‫( ﺑﺎﻠْﻬَﺠ ََرة ﻓﻲ‬sic) ‫ وﻴﺘﺸﺒﱠﻬوا‬،‫( ﻛﺜﻴ ًرا ﻋن اﻻﺴﺘﻘﺎﻤﺔ‬sic) ‫اﻠﻨﺼﺎرى؟ ﻓﺈﻨﱠﻬم ﻓﻲ ذﻠك اﻠ ﱠزﻤﺎن ﻳﻤﻴﻠوا‬ ‫( أَﺴﻤﺎ َء اﻠﻤﻼﺌﻜﺔِ واﻷَﻨﺒﻴﺎءِ واﻠ ُّرﺴُ ِل‬sic) ‫ وﻴﺘرﻜوا‬،‫( أَوﻻدَﻫم ﺑﺄ َﺴﻤﺎﺌﻬم‬sic) ‫ وﻴُﺴَﻤُّوا‬،‫أَﻋﻤﺎﻠﻬم‬ 121 ُّ ‫واﻠ‬ .‫ﺸﻬَداء‬ e) «Mais tout homme au cœur vigilant se gardera d’imiter la conduite des Arabes et son âme sera sauvée».122123 124 ٌ ‫( ﻟﻪ ﻗﻠﺐٌ ﻣﺘﻴ ّﻘ‬124 ‫ﻞ ﻤَ ْن‬ ُّ ‫ ﻜ‬124) ‫ﻟﻜن‬ .‫ ﻓﺘﺨﻠص ﻧﻔﺴُﻪ‬،‫ ﻳﺤﺘﻔﻆ ﻣﻦ َأن ﻳﺘﺸﺒﱠﻪَ َﺑﺄﻋﻤﺎل ْاﻠﻬَﺠَ َرة‬،‫ﻆ‬

115. Le verbe arabe forme ici une locution injurieuse, difficile à rendre: je ferai tout contre Dieu […]. Ziadeh, p. 394/14-21. 116. Ms.: ‫اﻠﻜﻼم‬. 117. Lire ‫اﺤد‬. 118. La traduction de Jean Ziadeh ne correspond pas à l’arabe, qui dit: «J’agirai par le Dieu qui m’a créée», et non pas «J’agirai contre le Dieu qui m’a créée». Peut-être faut-il corriger le verbe ‫ أَﻔﻌل‬en ‫« أَﺤﻟف‬Je jure par le Dieu qui m’a créée». Le reproche est alors de jurer par le nom de Dieu, comme font couramment les musulmans («Wallāhi! ou Wallāhi ta‘ālā!). Déjà, au paragraphe précédent (n. 110), Samuel avait dit: «Ils voleront et jureront comme eux». 119. Ziadeh, p. 378/11-15. 120. Ibidem, p. 391/39-44. 121. Ibidem, p. 379/5-9. 122. Ibidem, p. 393/35-36. 123. Éd.: ‫ﻛﻠﻤن‬. 124. Ziadeh, p. 377/22-24.

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5.2. Attitude répréhensible des chrétiens a) «En ces temps-là, les chrétiens seront pleins d’iniquité, dans la paresse pour les choses de Dieu, distraits par leurs préoccupations. En ce temps-là ils aimeront à boire et à manger; ils s’adonneront aux plaisirs plus qu’à l’amour de Dieu; ils fréquenteront les lieux [de réunion] où l’on boit et l’on mange plus qu’ils ne fréquenteront l’église de Dieu».125 126 َ‫( ﻓﻲ ﻛَﺴَلٍ ﻋن ذوات ﷲ وﻤﺘَﻨَزﱢﻫﻴن‬sic) ‫ وﻴﻜوﻨوا‬،‫إنﱠ اﻠﻤﺴﻴﺤﻴﻴن ﻳﻤﺜﱢلون ﺷرًّا ﻓﻲ ذﻠك اﻠزﱠﻤﺎن‬ َ‫ ﻣﺤﺒﱢﻴن اﻠﺸﱠﻬوات أَﻜﺜر‬،‫ ﻣﺤﺒﱢﻴن ﻟﻸَﻜل واﻠﺸّ ُرب‬،‫ ﻓﻲ ذﻠك اﻠزﱠﻤﺎن‬،(sic) ‫ وﻴﻜوﻨوا‬.‫ﻓﻲ أَﻏراﻀﻬم‬ ُ ‫ﻜﺜر ﻣن ﻣﻼزﻤﺔ‬ ،‫( ﻣواﻀﻊَ اﻠﻤﻘﺎﻤﺎت‬sic) 127‫ وﻴﻼزﻤوا‬،‫ﻣن ﺣبﱢ ﷲ‬ َ َ‫ أ‬،‫ﺣﻴث اﻷَﻜل واﻠﺸُّرب‬ 128 .‫ﺑﻴﻌﺔ ﷲ‬ b) «Ils s’assoiront dans les rues, préoccupés des choses mondaines, ne se préoccupant nullement de l’Église. Il ne leur viendra pas à l’esprit [au cœur] que les lectures se font sans qu’ils y assistent; ils n’entendront même pas l’Évangile. Ce n’est qu’à la fin de la messe qu’ils se présenteront à l’église».129 ‫ وﻻ ﻳﻬﺘﻤُّوا اﻠﺒﺘﱠﺔ‬،‫ اﻷَﺴواق ﻓﻲ اﻫﺘﻤﺎم أُﻤور اﻠﻌﺎﻠم‬130‫( ﻓﻲ ﺷوارع‬sic) ‫( ﺟﻠوس‬sic) ‫وﻴﻜوﻨوا‬ ،(sic) ‫ وﻻ ﻳﺨطُرُ ﺑﻘﻠو ِﺒﻬم أَنﱠ اﻠﻔﺼو َل ﺗُﻘ َرأ ُ وﺘَﻔُوﺘُﻬم؛ وﺤﺘﱠﻰ اﻹﻨﺠﻴل أَﻴﻀًﺎ ﻻ ﻳﺴﻤﻌوه‬.‫ﺑﺎﻠﻜﻨﻴﺴﺔ‬ 131 .‫( إﻠﻰ اﻠﻜﻨﻴﺴﺔ ﻋﻨدَ ﻓُروغ اﻠﻘدﱠاس‬sic) ‫وإﻨﱠﻤﺎ ﻳﺣﻀروا‬ c) «En ce temps-là ils s’écarteront beaucoup de la loyauté et imiteront dans leurs actions ceux de l’hégire; ils donneront les noms de ces derniers à leurs enfants, laissant de côté les noms des Anges, des Prophètes, des Apôtres et des Martyrs».132 ،‫( ﺑﺎﻠْهَﺠَ َرة ﻓﻲ أَﻋﻤﺎﻠﻬم‬sic) ‫ وﻴﺘﺸﺒﱠﻬوا‬،‫( ﻛﺜﻴرًا ﻋن اﻻﺴﺘﻘﺎﻤﺔ‬sic) ‫ﻓﺎﻨﱠﻬم ﻓﻲ ذﻠك اﻠ ﱠزﻤﺎن ﻳﻤﻴﻠوا‬ 133 .‫( أَﺴﻤﺎ َء اﻠﻤﻼﺌﻜﺔِ واﻷَﻨﺒﻴﺎ ِء واﻠرُّﺴُلِ واﻠﺸُّﻬَداء‬sic) ‫ وﻴﺘرﻜوا‬،‫( أَوﻻدَﻫم ﺑﺄ َﺴﻤﺎﺌﻬم‬sic) ‫وﻴُﺴَﻤُّوا‬ d) «Que dirai-je au sujet du relâchement qui gagnera les chrétiens: ils mangeront et boiront à l’intérieur du temple sans crainte; ils oublieront la crainte du temple, il ne sera plus respectable à leurs yeux; ses portes seront 125. Ibidem, p. 394/25-29. 126. Éd.: ‫ﻣﺘزﻫﻴن‬. 127. Éd.: ‫وﻤﻼزﻣوا‬. 128. Ziadeh, p. 378/2’-6’. 129. Ibidem, p. 394/29-34. 130. Éd.: ‫اﺸوارع‬. 131. Ziadeh, p. 378/2’-379/2. 132. Ibidem, p. 394/5-2. 133. Ibidem, p. 379/7-9.

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abandonnées, et l’on n’y verra même pas la moitié d’un clerc,134 car (fol. 22v) ils négligeront et n’accompliront pas les sept rites de l’Église».135 (sic) ‫( وﻴﺸرﺒوا‬sic) ‫( ﻳﺄْﻜﻠوا‬sic) ‫ﻣﺎذا أَﻘول ﻣن أَﺠل اﻻﻨﺤﻼل اﻠﱠذي ﻳﺼﻴر ﻓﻲ اﻠﻨﺼﺎرى؟ ﻳﻜوﻨوا‬ ‫ وﺘﺒﻘﻰ‬،‫ وﻴﻜون اﻟﻬﻴﻜ ُل ﻋﻨدَﻫم ﻛَﻼَ ﺷﻲء‬.‫ف اﻠﻬﻴﻜل‬ َ ‫( ﺧو‬sic) ‫ وﻴﻨﺴَوْا‬،‫داﺨلَ اﻠﻬﻴﻜل ﺑﻐﻴر ﺧوف‬ َ ‫ﱠ‬ ‫( ﻓﻲ‬sic) ‫( ﻳﺘﻬﺎوﻨوا‬fol. 22v) ‫ ﻷﻨﻬم‬.‫ف ﺷﻤﱠﺎس‬ ُ ‫ وﻻ ﻴﺒﻘﻰ ﻋﻠﻴﻬﺎ ﻧﺼ‬،‫أَﺒوابُ اﻠﻬﻴﻜل ﺳﺎﺌﺒﺔ‬ 138 .(sic) ‫ وﻻ ﻴﻜﻤﱢﻠوﻫﺎ‬،‫( ﻟﻠﺒﻴﻌﺔ‬sic) ‫ طﻘوس اﻠﱠذي‬137‫اﻠﺴﱠﺒﻌﺔ‬ 136137

e) «En ce temps-là les hommes commettront de graves péchés et il n’y aura personne pour les corriger, les instruire, et les prendre en pitié, parce qu’ils pécheront tous, leurs vieillards aussi bien que leurs maîtres […]. C’est pourquoi ils ajouteront péchés sur péchés et il n’y aura personne pour les instruire et les gronder».138 ‫ﻓﻲ ذﻠك ﱠ‬ ‫ وﻻ ﻳﺘﱠﺠﻊُ ﻗﻠﺒُﻪ‬،‫ وﻻ ﻳﻌﻠﱠﻤﻬم‬،‫ وﻠﻴس ﻟﻬم َﻣن ﻳؤدﱢﺒﻬم‬،‫ ﻳﻌﻤل اﻠﻨﱠﺎسُ ﺧﻄﺎﻴﺎ ﻛﺒﻴرة‬،‫اﻠزﻤﺎن‬ ‫ﱢ‬ ‫ﱠ‬ َ ‫( ﺧطﺎﻴﺎ ﻋﻠﻰ‬sic) ‫ ﻴزﻴدوا‬،‫ ]…[ ﻓﻠذﻠك‬.‫ ﺷﻴﺧﻬم وﻤُﻌﻠﻤَﻬم‬،(sic) ‫ ﻷَﻨﱠﻬم ﻛﻠﻬم ﻳُﺧطوا‬.‫ﻋﻠﻴﻬم‬ 139 .‫ وﻠﻴس ﻠﻬم ﻣَنْ ﻳُﻌﻠﱢﻤﻬم وﻻ ﻳﺒﻜﱢﺘﻬم‬.‫ﺧطﺎﻴﺎﻫم‬ f) «Ils iront même jusqu’à supprimer les jeûnes prescrits et reconnus. Ceux d’entre eux qui jeûneront n’accompliront pas leur jeûne comme il faut à cause de leur gourmandise; ils en inciteront (fol. 23v), d’autres à déjeuner avec eux, car chacun aura choisi pour lui-même une règle selon ses désirs. Il y en aura d’autres qui, par imitation et par respect humain, rompront le jeûne avant le temps prescrit et avant que l’ombre n’atteigne la mesure qui varie selon les mois».140 ‫ ﻟﻴﺲ‬،‫( ﻣﻨﻬم‬sic) ‫( اﻠﱠذﻴن ﻳﺼوﻤوا‬sic) 141‫ واﻵﺨر‬.‫ﺣﺘﱠﻰ إﻨﱠﻬم ﻳَﺤِﻠُّوا اﻷَﺼوامَ اﻠﻤﻔروﻀﺔَ اﻠﻤﻌروﻔﺔ‬ ‫ أَن‬142 ‫( أ ُ َﺨر‬sic) ‫( أُﻨﺎس‬fol. 23v) (sic) ‫ وﻴﻜﻠﱢﻔوا‬.‫ ﻷَﺠل اﻠﺒطﻨﺔ‬،‫( ﺻوﻤﻬَم ﻛﻤﺎ ﻳﺟب‬sic) ‫ﻳﻜﻤﱢﻠوا‬ ‫ ﻷَﺨل‬،‫ وﻤﻨﻬم أُﻨﺎس أﺨر‬.‫( ﻛﻤﺎ ﻴﺸﺘﻬﻲ‬sic) ‫ ﻷَنﱠ ﻛ ﱠل واﺤدٍ ﻣﻨﻬم ﻳُﻘﻴمُ ﻟﻨﻔﺴﻪ ﻧﺎﻤوس‬.‫ﻳﻔطروا ﻣﻌﻬم‬ 143 .‫ وﻘﻴﺎس اﻠظﱢ ﱢل ﻓﻲ ﻛ ﱢل ﺷﻬر ﺑﻘﻴﺎﺴﻪ‬،‫ ﻳﻔطروا ﻘﺒل اﻠوﻘت اﻠﱢذي ﻓُرض‬،‫اﻠﻤؤازاة واﻷَﺨذ ﺑﺎﻠوﺠوه‬ 134. Locution d’arabe vulgaire pour dire qu’il n’y aura personne. 135. Ziadeh, p. 395/14-19. 136. Ms: ou bien ‫اﻠﺘﺴﻌﺔ‬. Ce mot peut se lire des deux manières indiquées. Dans le premier cas, peut-être s’agit-il des sept sacrements de l’Église. 137. Ziadeh, p. 379/6’-1’. 138. Ibidem, p. 396/12-20. 139. Ibidem, p. 381/3-9. 140. Allusion à l’ancienne façon de distinguer les différents moments de la journée en se fondant sur la variation de l’ombre du soleil. Ziadeh, p. 396/24-30. 141. Éd.: [‫واﻻﺨر]ون‬. 142. Lire: ‫آﺨرﻴن‬. 143. Ziadeh, p. 381/11-16.

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g) «Le prêtre ne reprendra pas le pécheur. Celui qui est grand n’instruira pas le petit et le petit n’obéira pas au grand, car ils abandonneront les lois de l’Église et les règles de nos saints Pères. Ils iront même jusqu’à supprimer les jeûnes prescrits et reconnus. Ceux d’entre eux qui jeûneront n’accompliront pas leur jeûne comme il faut à cause de leur gourmandise. […] Il y en aura d’autres qui, par imitation et par respect humain, rompront le jeûne avant le temps prescrit et avant que l’ombre n’atteigne la mesure qui varie selon les mois».144 ‫ ﻷَﻨﱠﻬم ﻳﺘرﻜوا‬.‫ واﻠﺼﱠﻐﻴر ﻟﻴس ﻳُطﻴﻊ اﻠﻜﺒﻴ َر‬،‫ واﻠﻜﺒﻴرُ ﻟﻴس ﻳﻌﻠﱢم اﻠﺼﱠﻐﻴر‬،‫ﺊ‬ َ ‫اﻠﻘسُّ ﻟﻴس ﻳﺒﻜﱢت اﻠﺨﺎط‬ .‫ ﺣﺘﱠﻰ إﻨﱠﻬم ﻳَﺤِﻠُّوا اﻷَﺼوامَ اﻠﻤﻔروﺿﺔَ اﻠﻤﻌروﻔﺔ‬.‫س آﺒﺎﺌﻨﺎ اﻠﻘدﱢﻴﺴﻴن‬ َ ‫ وﻨواﻤﻴ‬،‫( ﻗواﻨﻴَن اﻠﺒﻴﻌﺔ‬sic) .‫ ﻷَﺠل اﻠﺒطﻨﺔ‬،‫( ﺻوﻤﻬَم ﻛﻤﺎ ﻳﺠب‬sic) ‫ ﻟﻴس ﻳﻜﻤﱢﻠوا‬،‫( مﻨﻬم‬sic) ‫( اﻠﱠذﻴن ﻳﺼوﻤوا‬sic) 145‫واﻵﺨر‬ ‫ ﻷَ ﱠن ﻛ ﱠل واﺤدٍ ﻣﻨﻬم ﻳُﻘﻴمُ ﻟﻨﻔﺴﻪ‬.‫ أَن ﻳﻔطروا ﻣﻌﻬم‬146‫( أُﺨَر‬sic) ‫( أُﻨﺎس‬fol. 23v) (sic) ‫وﻴﻜﻠﱢﻔوا‬ ‫ ﻳﻔطروا ﻗﺒل اﻠوﻘت‬،‫ ﻷَﺠل اﻠﻤؤازاة واﻷَﺨذ ﺑﺎﻠوﺠوه‬،‫ وﻤﻨﻬم أُﻨﺎس أﺨر‬.‫( ﻛﻤﺎ ﻳﺸﺘﻬﻲ‬sic) ‫ﻧﺎﻤوس‬ 147 .‫ وﻘﻴﺎس اﻠظﱢ ﱢل ﻓﻲ ﻛ ﱢل ﺷﻬر ﺑﻘﻴﺎﺴﻪ‬،‫اﻠﱠذي ﻓُرض‬ h) «Leurs actions, dont vous êtes témoins, ont pour cause les péchés commis par mon peuple, car il a rejeté mes commandements et mes ordonnances pour ressembler à cette nation. (fol. 24r fin)».148 ‫ وﻜَ ْوﻨَﻬم ﺗرﻜوا وﺼﺎﻴﺎي‬،‫( ﻣن أَﻋﻤﺎﻠﻬم ﻫﻲ ﻣن أَﺠل اﻠﺨطﺎﻴﺎ اﻠﱠﺘﻲ ﻳﻌﻤﻠﻬﺎ ﺷﻌﺒﻲ‬sic) ‫ﺗروْه‬ َ ‫وﻜ ُّل ﻣﺎ‬ 149 ُ ‫ﱠ‬ .‫ وﺘﺸﺒﱠﻬوا ﺑﻬذه اﻷ ﻤﺔ‬،‫وأَواﻤري‬ 5.3. Non respect des canons des Pères a) «Si quelqu’un d’entre eux est pris du zèle de Dieu et va jusqu’à dire quelque parole d’instruction tirée des canons, ils le prendront aussitôt pour un ennemi et, comme des lions, ils ouvriront la bouche contre lui».150 ،‫( ﻋدوًّا‬sic) ‫ ﻓﺈﻨﱠﻬم ﻳﺘﱠﺨذوه‬،‫ ﺣﺘﱠﻰ ﻳﻘو َل ﻛﻠﻤﺔَ ﺗﻌﻠﻴم ﻣن اﻠﻘواﻨﻴن‬،‫وإذا ﻏﺎر واﺤد ﻣﻨﻬم ﺑﻐﻴرة ﷲ‬ 151 .‫( أَﻔواﻫَﻬم ﻋﻠﻴﻪ ﻣﺜل اﻷَﺴد‬sic) ‫وﻴﻔﺘﺤوا‬ b) «En ce temps-là les hommes commettront de graves péchés et il n’y aura personne pour les corriger, les instruire, et les prendre en pitié, parce 144. Ziadeh, p. 396/21-30. 145. Éd.: [‫واﻻﺨر]ون‬. 146. Lire: ‫آﺨرﻴن‬. 147. Ziadeh, p. 381/9-16. 148. Ibidem, p. 397/28-30. 149. Ibidem, p. 382/5’-3’. 150. Ibidem, p. 396/34-37. 151. Ibidem, p. 381/20-21.

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qu’ils pécheront tous, leurs vieillards aussi bien que leurs maîtres. Le père apprendra la faute de son fils sans le reprendre et la femme trouvera bien pour sa fille ce qui est mal. Loin de la reprendre, elle tombera avec elle dans le péché, parce que le péché ne sera plus un remords pour les chrétiens, mais au contraire, ils y trouveront de la douceur, parce qu’ils resteront sans maîtres. C’est pourquoi ils ajouteront péchés sur péchés et il n’y aura personne pour les instruire et les gronder».152 ‫ وﻻ ﻳﺘﱠﺠﻊُ ﻗﻠﺒُﻪ‬،‫ وﻻ ﻳﻌﻠﱢﻤﻬم‬،‫ وﻠﻴس ﻟﻬم ﻣَن ﻳؤدﱢﺒﻬم‬،‫س ﺧطﺎﻴﺎ ﻛﺒﻴرة‬ ُ ‫ ﻳﻌﻤل اﻠﻨﱠﺎ‬،‫ﻓﻲ ذﻠﻚ اﻠزﱠﻤﺎن‬ ُ‫ واﻻﻤرأَة‬.‫ وﻻ ﻳؤدﱢﺒُﻪ‬،ِ‫ب ﺑﺈﺜم اﺒﻨِﻪ‬ ُ َ‫ وﻴَﻌْﻠَمُ اﻷ‬.‫ ﺷﻴﺨَﻬم وﻤُﻌﻠﱢ َﻤﻬم‬،(sic) ‫ ﻷَﻨﱠﻬم ﻛﻠﱠﻬم ﻳُﺨطوا‬.‫ﻋﻠﻴﻬم‬ ‫ﺗﺴﺘﺤﺴن ﻟﺒِﻨْﺘِﻬﺎ ﱠ‬ ‫ ﻷَ ﱠن اﻠﺨطﻴﺌﺔ ﻻ ﺗﻜون ﻟﻬم‬.‫ ﺑل ﺳﺘﻨزل ﻣﻌﻬﺎ ﻓﻲ اﻠﺨطﻴﺌﺔ‬،‫ وﻻ ﺗؤدﱢﺒُﻬﺎ‬،‫اﻠردي َء‬ َ ‫ﱢ‬ ‫( ﺧطﺎﻴﺎ ﻋﻠﻰ‬sic) ‫ ﻳزﻴدوا‬،‫ ﻓﻠذﻠك‬.‫( ﺑﻼ ﻣﻌﻠﻤﻴن‬sic) ‫ ﻷﻨﱠﻬم ﻳﺒﻘَوْا‬،‫( ﻟﻬم‬sic) ‫ ﺑل ﺗَﺤْﻼ‬153،‫ﺗﺒﻜﻴت‬ 154 .‫ وﻠﻴس ﻟﻬم ﻣَنْ ﻳُﻌﻟﱢﻤﻬم وﻻ ﻳﺒﻜﱢﺘﻬم‬.‫ﺧطﺎﻴﺎﻫم‬ c) «Les prêtres eux-mêmes connaîtront la négligence et la distraction; ils n’obéiront plus à la saine doctrine. Si quelqu’un d’entre eux s’avise de prononcer quelques paroles d’instruction, il le fera avec négligence et sans prendre pitié du peuple; et en cela ils exciteront contre eux la colère de Dieu, car ils se seront écartés des canons de l’Église et de l’enseignement de nos pères spirituels. Et [Dieu] les livrera alors à la domination et à la haine des émigrés arabes, qui leur feront subir de grandes pertes, les accableront d’impôts très lourds qu’ils ne pourront supporter. Ils seront ainsi réduits à la pauvreté».155 ‫وإن اﻫﺘمﱠ‬ ِ .‫( ﻟﻠﺘﱠﻌﻠﻴم اﻟﺼﱠﺤﻴﺢ‬sic) ‫ وﻠﻴس ﻳﺨﻀﻌوا‬،‫( ﺑﺎﻨﺤﻼل وﺘﺸﺘﻴت‬sic) ‫وﺤﺘﱠﻰ اﻠﻜﻬﻨﺔُ ﻳﺼﻴروا‬ �‫ب ﷲ‬ ُ ‫ وﺒﻬذا ﻳُﻐﻀ‬.‫ ﻓإﻨُّﻪ ﻳﻘوﻠُﻪ ﺑﻤﻠل وﺒﻐﻴر ﺗﺣ ُّرق ﻋﻠﻰ اﻠﺸﱠﻌب‬،‫أَﺤدٌ ﻣن اﻠﻜﻬﻨﺔ أَنْ ﻳﻘو َل ﻛﻼمَ ﺗﻌﻠﻴم‬ َ‫ ﻓﻴُﺴﻠﱢط ﻋﻠﻴﻬم اﻠْﻬَﺠَ َرة‬.‫ ﻷَﻨﱠﻬم ﺧرﺠوا ﻋن ﻗواﻨﻴن اﻠﺒﻴﻌﺔ واﻠﺘﱠﻌﻠﻴم اﻠﱠذي ﻵﺒﺎﺌﻨﺎ اﻠر ّ ُ وﺤﺎﻨﻴﱢﻴن‬،‫ﻋﻠﻴﻬم‬ ‫ ﻻ‬،‫( ﺟدًّا‬sic) ‫ت ﺛﻘﺎل‬ ٍ ‫ وﺨَراﺠﺎ‬،(sic) ‫( ﺧﺴﺎﺌ َر ﻛﺒﺎر‬sic) ‫ ﻓﻴُﺨﺴﱢروﻫم‬.‫ وﻴُﺒﻐﱢﻀُﻬم ﻟﻬم‬،‫اﻠﻌرب‬ 156 .‫( ﺑﻔﻘر ﻋظﻴم‬sic) ‫ ﻓﻴﻜوﻨوا‬.‫ﻳﻘدروا ﻋﻟﻴﻬﺎ‬ d) «Vous venez d’entendre de vos oreilles quelque chose de l’épreuve qui s’abattra sur les générations futures qui oseront modifier les saints canons et la saine doctrine de nos pères».157 ‫ اﻠﱠذﻴن ﻳﺠﺴرون أَن ﻳﻐﻴﱢروا‬،‫ اﻟذﱠي ﻳﻠﻘﺎ اﻷَﺠﻴﺎل اﻵﺘﻴﺔ‬،‫ﻫوذا ﻗد ﺳﻤﻌﺘم ﺑﺂذاﻨﻜم اﻠﻴﺴﻴر ﻣن اﻠﺘﱠﻌب‬ 152. Ibidem, p. 396/12-20 = fol. 23r. 153. Lire: ‫ﺗﺒﻜﻴﺘًﺎ‬. 154. Ziadeh, p. 381/3-9. 155. Ibidem, p. 396/4’-397/5. 156. Ibidem, p. 381/3’-382/3. 157. Ibidem, p. 399/6-9.

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.‫ اﻠﱠذي ﻵﺒﺎﺌﻨﺎ‬،‫اﻠﻘواﻨﻴن اﻠﻤﻘدﱠﺴﺔ واﻠﺘﱠﻌﻠﻴم اﻠطﱠﺎﻫر‬ e) «Maintenant, mes chers enfants, prenez garde et veillez, car le bonheur et les bénédictions sont à ceux qui agissent selon les prescriptions apostoliques».159 ‫ ﻓﺈ ﱠن اﻠطُّوﺒﻰ واﻠﺒرﻜﺎت ﻟﻠﱠذﻴن ﻳﻌمﻠوا ﺣﺴب اﻷَواﻤر‬،‫ اﺤﺘﻔظوا وﺘﻴﻘﱠظوا‬،‫واﻵن ﻳﺎ أَوﻻدي اﻵَﺤﺒﱠﺎء‬ 160 .‫اﻠرﱠﺴوﻠﻴﱠﺔ‬ f) «Car il y aura un temps où beaucoup de moines se dissiperont et d’amuseront, et à cause d’eux le monde blasphèmera contre l’état monastique; ils rejetteront loin d’eux les canons et les prescriptions».161 ،‫ ﻓﻴﺠدﱠف ﻋﻠﻰ اﻠرﱠﻫﺒﺎﻨﻴﱠﺔ ﺑﺴﺒﺒﻬم‬،‫ﻷَﻨﱠﻪ ﺳﻴﻜون زﻤﺎنٌ ﺗﻜون رﻫﺒﺎنٌ ﻛﺜﻴر ﻳﻤرﺤون وﻴﻠﻌﺒون‬ 162 .[…] ‫وﻴطرﺤوا ﻋﻨﻬم اﻠﻘواﻨﻴن واﻠﻔراﺌض‬ g) «Par ceux qui sont revêtus de l’Esprit-Saint, au nom du grand Antoine (fol. 27r), au nom d’Abou-Macaire, d’Anbâ Pacôme, et d’AbouChanoudah, eux dont les prières font prospérer la terre de l’Égypte, eux qui ont établi les canons et les ont rendus obligatoires dans l’état monastique. Pour nous, nous avons continué leurs bonnes œuvres, et nous avons entendu et conservé leurs saints enseignements».163 ‫اﻠﺜﱠﺎﺒﺘﺔ اﻠﻤﺼﺎﺒﻴﺢ اﻠﻤﻀﻴﺌﺔ ﻷَرض ﻣﺼر اﻠﻌظﻤﺎء ﺑﺤقﱢ اﻠﻼﱠﺒﺴﻴن اﻠ ُّروح اﻠﻘدس ﺑﺤقﱢ اﻠﻌظﻴم‬ ،‫ ﺑطﻠﺒﺎﺘﻬم‬،‫ ﻫؤﻻء اﻠذﱠﻴن‬.‫ وأَﺒو ﺷﻠوذه‬،‫ وأَﻨﺒﺎ ﺑﺨوم‬،‫ وأَﺒو ﻣﻘﺎر‬،‫( أَﻨطوﻨﻴوس‬fol. 27r) ،‫ وأَﻤﱠﺎ ﻧﺤن‬.‫ وأَوﺠﺒوﻫﺎ ﻋﻠﻰ اﻠرﱠﻫﺒﻨﺔ‬،‫ﺗﺴﺘﻌﻤرأَرض ﻣﺼر؛ ﻫؤﻻء ﻫم اﻠﱠذﻴن وﻀﻌوا ﻟﻨﺎ ﻗواﻨﻴن‬ 164 .‫ وﺴﻤﻌﻨﺎ ﻣن ﺗﻌﺎﻠﻴﻤﻬم اﻠمﻘدﱠﺴﺔ واﻘﺘﻨﻴﻨﺎﻫﺎ‬،‫ﻓﻘد ﻛﻤﱠﻠﻨﺎ أَﻋﻤﺎﻠﻬم اﻠﻤﺴﺘﻘﻴﻤﺔ‬ h) «Vous devez donc, mes chers enfants, accomplir parfaitement toutes les ordonnances, ainsi que toute la constitution monastique».165 166 ‫ﱢ‬ .‫ أَن ﺗﻜﻤﱢﻠوا ﺗﻜﻤﻴل ﺣﺴن ﻛلﱢ اﻠوﺼﺎﻴﺎ وﺒﻨﻴﺎن اﻠرﱠﻫﺒﺎﻨﱠﻴﺔ ﻛﻠﻪ‬،‫ﻓﺎﻠواﺠب ﻋﻠﻴﻜم ﻳﺎ أَوﻻدي اﻵَﺤﺒﱠﺎء‬ i) «Mais si les chrétiens se convertissent et renoncent à leurs mauvaises actions, accomplissant les canons de l’Église et s’y maintenant avec 158

158. Ibidem, p. 384/4’-2’. 159. Ibidem, p. 399/11-13. 160. Ibidem, p. 385/1-2. 161. Ibidem, p. 400/25-28. 162. Ibidem, p. 386/19-21. 163. Ibidem, p. 400/28-33. 164. Ibidem, p. 386/6’-1’. 165. Ibidem, p. 401/1-2. 166. Ibidem, p. 387/9-10.

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vigilance et droiture devant Dieu, Dieu alors leur épargnera ces peines; mais s’ils ne se convertissent pas, elles dureront sur la terre jusqu’à la fin de la domination de l’hégire, jusqu’au dernier des rois de l’hégire».167 ‫ وﻴﺴﻠﻜوا‬،‫ وﺘﻤﱠﻤوا ﻗواﻨﻴن اﻠﻜﻨﻴﺴﺔ‬،‫ ورﺠﻌوا ﻋن َأﻋﻤﺎﻠﻬم اﻠ ﱠردﻴﱠﺔ‬،‫( اﻠﻨﺼﺎرى‬sic) ‫ إذا ﺗﺎﺒوا‬،‫وﻠﻜن‬ ،‫ وإذا ﻠم ﻳﺘوﺒوا‬.‫ ﻓﺈنﱠ ﷲ ﻳرﻔﻊ ﻋﻨﻬم ﻫذه اﻷَﺘﻌﺎب‬،‫( ﻓﻴﻬﺎ ﺑﺤرصٍ وﺘﺤﻔُّظٍ واﺴﺘﻘﺎﻤﺔٍ أَمام ﷲ‬sic) 168 .‫ آﺨر ﻣﻠوك اﻠْﻬَﺠَ َرة‬،‫ﻓﺈﻨﱠﻬﺎ ﺗدوم ﻋﻠﻰ اﻷَرض إﻠﻰ ﻛﻤﺎل ﻣﻤﻠﻜﺔ اﻠْﻬَﺠَ َرة‬ 6. Conséquences pour l’église Copte L’aspect le plus intéressant probablement dans cette Apocalypse est l’insistance de l’auteur sur la dimension culturelle de l’occupation arabomusulmane de l’Egypte. Si l’on y pense bien, c’est sans doute un des aspects des plus importants de toute colonisation: une sorte de perte d’identité. Pour l’Église copte, l’identité égyptienne au VIIe siècle est tout à la fois la foi chrétienne et la culture copte, qui est son enracinement dans la terre d’Égypte et en partie dans la tradition pharaonique. Or Samuel perçoit que ces deux dimensions sont liées. Si le chrétien perd sa culture copte et passe à la culture arabe, il est déjà prédisposé à abandonner sa religion chrétienne pour passer à la religion musulmane. Il est certain qu’il y a là une vérité confirmée par l’expérience de beaucoup de cultures. La défense de l’identité culturelle est en même temps la défense de l’identité religieuse: la culture est le dernier rempart qui protège l’identité profonde d’un groupe. 6.1. Abandon du copte et adoption de l’arabe On comprend dès lors l’insistance de Samuel à protester contre le passage de plus en plus rapide à la culture arabe, et contre l’abandon de la langue et de la culture coptes, que l’Église protège et maintient dans sa liturgie et dans ses coutumes. Voici quelques textes qui y font allusion. a) La langue copte dans laquelle le Saint-Esprit s’est souvent exprimé: «Ils commettront encore une autre action, dont vos cœurs seraient contrits de douleur, si je vous la disais, à savoir ils abandonneront la belle langue copte dans laquelle le Saint-Esprit s’est souvent exprimé par la bouche de nos pères spirituels; ils apprendront à leurs enfants, dès leur jeunesse, à

167. Ibidem, p. 402/8’-4’. 168. Ibidem, p. 389/6’-3’.

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parler la langue de l’hégire 169 et ils s’en glorifieront. Même les prêtres et les moines oseront eux aussi parler l’arabe et s’en vanter et cela à l’intérieur du temple».170 ‫ ﱠ‬،‫ إنْ أَ ْﺨﺒَرْ ﺘُﻜُم ﺑﻪ‬،َ‫( أَﻴﻀًﺎ ﻋﻤﻼً آﺨَر‬sic) ‫وﻴﻌﻤﻠوا‬ (sic) ‫ وﻫو أَﻨﱠﻬم ﻳﺘرُﻜوا‬.‫ﻓﺈن ﻗُﻠوﺒَﻜم ﺗﺘﱠ ِﺠ ُﻊ ﻛﺜﻴرًا‬ .‫ ﻣن أَﻔواه آﺒﺎﺌﻨﺎ اﻠ ُّروﺤﺎﻨﻴﱢﻴن‬،‫( ﻨطق ﺒﻬﺎ رو ُح اﻠﻘدس مرارًا ﻛﺜﻴرة‬sic) ‫اﻠﻠّ ُﻐﺔَ اﻠﺤﺴﻨﺔَ اﻠﻘﺒطﻴﱠﺔ اﻠﱠذي‬ ُ‫ وﺤﺘﱠﻰ اﻠﻜﻬﻨﺔ‬.‫ وﻴﻔﺘَﺨِروا ﺑﻬﺎ‬،‫( أَوﻻدَﻫم ﻣن ﺻِﻐَرِﻫم أَنْ ﻳﺘﻜﻟﱠﻤوا ﺑﻠُﻐَﺔِ اﻠﻌرب‬sic) ‫وﻴﻌﻠﱢﻤوا‬ 171 .‫ وذﻠك داﺨلَ اﻠﻬﻴﻜل‬،‫ وﻴﻔﺘَﺧِروا ﺑﻪ‬،‫ أَنْ ﻳﺘﻜﻠﱠﻤُوا ﺑﺎﻠﻌرﺒ ﱢﻲ‬،‫ ﻫم أَﻴﻀًﺎ‬،(sic) ‫واﻠرُّﻫﺒﺎنُ ﻳﺠﺴروا‬ Notons la phrase: «ils abandonneront la belle langue copte dans laquelle le Saint-Esprit s’est souvent exprimé par la bouche de nos pères spirituels». La langue copte n’est pas simplement la langue du peuple égyptien, elle est devenue une “langue sacrée”, dans laquelle l’Esprit Saint s’est exprimée. Le problème n’est donc pas d’abord culturel, mais spirituel. Et c’est pour celaque Samuel y tient tant. b) La langue maternelle des chrétiens ne sera plus le copte, mais l’arabe: «Malheur! deux fois malheur! mes chers enfants. Que dirai­je? En ces temps-là les lecteurs dans l’église ne comprendront ni ce qu’ils liront ni ce qu’ils diront parce qu’ils auront oublié leur langue, et ils seront vraiment les malheureux dignes de larmes, parce qu’ils auront oublié leur langue et parlé la langue de l’hégire. Mais malheur à tout chrétien qui apprend à son fils, dès son jeune âge, la langue de l’hégire, lui faisant ainsi oublier la langue de ses ancêtres, car il sera responsable de sa faute, comme il est écrit: “Les parents seront jugés pour leurs fils”».172 173174175176 169. Le texte arabe n’a pas le mot haǧarah, mais dit simplement ici «la langue des Arabes». Je m’étonne de ce lapsus de la part du traducteur. 170. Ziadeh, p. 395/4’-395/5. Le mot haykal ici ne signifie pas “temple”, mais “choeur”, c’est­à­dire la partie la plus sacrée de l’église, là où se trouve l’autel. Il veut dire que la liturgie se célèbre aussi partiellement en arabe, même si le gros se célèbre en copte. 171. Ibidem, p. 379/9-14. 172. Ziadeh, p. 395/6­14. Je n’ai pas pu identifier la citation entre guillemets anglais. 173. Le sens de ce mot est clair: c’est le pluriel de qari’ = lecteur. On attendrait al­ qurrā’, mais alors il faudrait yakūn et non pas takūn. C’est peut-être une simple erreur graphique. 174. Ziadeh, p. 379/14-17. 175. ubbahāt est un terme dialectal égyptien, que je crois être typique des Coptes. C’est le pluriel de ab = père. Il s’applique aujourd’hui au clergé et aux moines, tandis que dans notre texte il s’agit des pères au sens commun du mot. Ce pluriel est signalé par Georg Graf, Verzeichnis arabischer kirchlicher Termini, coll. CSCO 147 (Louvain 1964), p. 3 (sub verbo abū). 176. Lire: ‫ﻣؤاﺨذ‬.

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‫ ﻓﻲ اﻠﺒﻴﻌﺔ ﻻ‬174 ُ‫ ﺗﻜون اﻠﻘُراة‬،‫ ﻣﺎذا أَﻘول! ﻓﻲ ﺗﻠك اﻷَزﻤﻨﺔ‬،‫ ﻳﺎ أَوﻻدي اﻷَﺤﺒﱠﺎء‬،‫اﻠوﻴلُ ﺛمﱠ اﻠوﻴل‬ ، ُ‫قّ اﻠﻤﺴﺎﻜﻴن‬ ً ‫ وﻫؤﻻء ﺑﺤ‬.‫ ﻷَﻨﻬم ﻧﺴُوا ﻟُﻐَﺘَﻬم‬،(sic) ‫ وﻻ ﻣﺎ ﻳﻘوﻠوه‬،‫ﻳﻘرءُوه‬ َ ‫( ﻣﺎ‬sic) ‫ﻳﻓﻬﻤوا‬ ‫ ﻟﻜ ّن اﻠوﻴلَ ﻟﻜلﱢ‬175.‫ ﻷَﻨﻬم ﻧﺴُوا ﻟﻐﺘَﻬم وﺘﻜﻠﱠﻤوا ﺑﻠﻐﺔ اﻠْﻬَﺠَرَة‬،‫( اﻠﺒﻜﺎء ﻋﻠﻴﻬم‬sic) ‫اﻠﻤﺴﺘوﺠﺒﻴن‬ (sic) 177‫ ﻓﺈﻨﱠﻪ ﻳﻜونُ ﻣوﺨود‬176‫ وﻴُ ْﻨﺴِﻴﻪ ﻟﻐﺔَ أُﺒﱠﻬﺎﺘﻪ‬،‫ﻧﺼراﻨﻲًّ ﻳُﻌﻠﱢم وﻠدَه ﻟﻐﺔَ اﻠْﻬَﺤَ َرة ﻣن ﺻِﻐَره‬ 177 .‫ﻴﻬم‬ ِ َ‫ إنﱠ اﻵﺒﺎءَ ﺗُدانُ ﻋن ﺑَﻨ‬:‫ ﻛﻤﺎ ﻫو ﻣﻜﺘوب‬،‫ﺑﺨطﻴﱠﺘﻪ‬ A noter ici que l’auteur ne reproche pas aux chrétiens d’apprendre l’arabe. Il leur reproche de ne plus savoir le copte et de ne plus l’enseigner à leurs enfants. Ils se coupent ainsi de toute leur tradition, et cette faute ne sera pas imputée aux enfants mais aux parents. Au fond, le reproche est clair: désormais la langue maternelle des chrétiens sera l’arabe et non plus le copte! c) Les lecteurs ne seront plus capables de proclamer l’Ecriture, ni le peuple la comprendrera: «Beaucoup de livres 178 tomberont en désuétude, parce qu’il n’y aura parmi eux personne pour s’occuper des livres, leurs cœurs étant attirés par les livres étrangers».179 ‫ ﻷَ ﱠن ﻗﻠوﺒَﻬم ﺗﻤﻴل إﻠﻰ اﻠﻜﺘب‬.‫ ﻷَ ﱠن ﻣﺎ ﺑﻘِﻲَ ﻓﻴﻬم ﻣَنْ ﻳﻬﺘمُّ ﺑﻜﺘب‬،‫وﺘﺒطُلُ ﻛُﺘُبٌ ﻛﺜﻴرةٌ ﻣن اﻠﻜﻨﻴﺴﺔ‬ 180 .‫اﻠﻐرﻴﺒﺔ‬ Les lecteurs ne seront plus capables de lire les martyrologes (ou le Synaxaire) qui se lisent chaque jour à l’église et racontent la vie des saints. Le peu qu’ils en liront sera incompréhensible aux fidèles. Ceci est particulièrement grave, car ce sont ces vies de saints qui forment la siritualité des fidèles, les invitant à les prendre pour modèles. «En ce temps-là, ils oublieront beaucoup de martyrs, parce que leurs biographies disparaîtront et il ne s’en trouvera plus. Le peu de biographies qu’on trouvera, s’il est lu, beaucoup de fidèles ne le comprendront pas parce qu’ils ignoreront la langue».181 .‫ اﻠﺒﺘﱠﺔ‬182‫ وﻻ ﺗُوﺠَد‬،ُ‫ ﻷَ ﱠن ﺳِﻴرﺘَﻬم ﺗﺒطُل‬.‫( ﻣن اﻠﺸُّﻬداء ﻓﻲ ذﻠك اﻠ ﱠزﻤﺎن‬sic) ‫( ﻛﺜﻴر‬sic) ‫وﻴﻨﺴوا‬ ‫( ﻣن اﻠﺸﱠﻐب ﻻ‬sic) ‫ ﺗﺠد ﻛﺜﻴر‬183،‫ إذا ﻗرا‬،‫( ﻣن اﻠﺴﱢﻴَر‬sic) ‫ واﻠﻴﺴﻴر‬،‫واﻠﻤوﺠود أَﻴﻀًﺎ‬ 184 .‫( اﻠﻠُّﻐﺔ‬sic) ‫ ﻟﻜوﻨِﻬم ﻟﻴس ﻳﻌرﻔوا‬،‫( ﻣﺎ ﻳُﻘرَى‬sic) ‫ﻳﻌرﻔوا‬ 177. Ziadeh, p. 379/17-19. 178. Il faut ajouter ici “ecclésiastiques”, omis par le traducteur. 179. Ziadeh, p. 395/21-23. 180. Ibidem, p. 380/2­3. La langue arabe est une langue “étrangère”! 181. Ibidem, p. 395/23-26. 182. Éd.: ‫( ﺗوﺠد‬corrigé). 183. Lire: ‫ﻗرئ‬. 184. Ziadeh, p. 380/3-6.

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d) «Il n’y aura personne [parmi les chrétiens] capable de lire un livre sur un ambon, même les quarante [livres] saints destinés à notre salut. Vous ne trouverez personne pour faire la lecture au peuple, pour l’instruire, parce que [les chrétiens] auront oublié la langue et ne comprendront plus ce qu’ils liront et ne le soupçonneront [même] pas. Aussi les lecteurs ne comprendront-ils pas».185 ‫( اﻠﻤﻘدﱠﺴﺔ اﻠﱠذي‬sic) ‫ وﺤﺘﱠﻰ اﻷَرﺒﻌﻴن‬186.‫( ﻋﻠﻰ أﻨﺒل‬sic) ‫( ﻣَنْ ﻳﻘرأ ُ ﻓﻴﻬم ﻛﺘﺎب‬sic) ‫وﻻ ﻳﺠدوا‬ ‫ وﻠﻴس‬،‫ ﻷَﻨﱠﻬم ﻧﺴوا اﻠﻠُّﻐﺔ‬،(sic) 187‫ ﻻ ﺗﺟد ﻣن ﻳﻘرأ ُ ﻋﻠﻰ اﻠﺸﱠﻌب وﻻ ﻳوﻋظﻪ‬،‫( ﻟﺧﻼﺼﻨﺎ‬sic) 188 .(sic) ‫ وﻜذﻠك اﻠﻘُراةُ أَﻴﻀًﺎ ﻻ ﻳﻔﻬﻤوا‬.‫( ﺑﻪ‬sic) ‫( وﻻ ﻳﻌﻠﻤوا‬sic) ‫( ﻣﺎ ﻳﻘرءُوه‬sic) ‫ﻳﻔﻬﻤوا‬ e) Disparition du copte même à Arsinoé et en Haute-Egypte: «De même encore Arsinoé,189 la grande ville qui appartient au Fayyūm, ainsi que ses cantons, où sont les lois du Christ. Ceux qui sont célèbres par leurs livres, forts dans la connaissance de Dieu, ceux dont la langue copte égalait dans leur bouche la douceur du miel, et se répandait autour d’eux comme l’odeur des parfums, à cause de leur belle prononciation de la langue copte, tous, en ce temps-là, abandonneront cette langue pour parler la langue arabe et s’en glorifier, jusqu’au point où l’on ne pourra plus reconnaître en eux des chrétiens; mais au contraire on les prendra pour des Berbères. Ceux d’As­sa’id qui connaîtront et parleront encore la langue copte seront raillés et injuriés (fol. 23r) par les chrétiens leurs frères, qui parleront la langue arabe».190 193 ُ ُ‫ اﻠﺤِﺴﺎن‬194‫س اﻟﻤﺴﻴﺢ‬ ُ ‫ﺣﻴﺚ ﻧواﻤﻴ‬ ،‫ وﻜ ّل أَﻋﻤﺎﻠﻬﺎ‬،‫ اﻠﻤدﻴﻨﺔ اﻠﻜﺒﻴرة اﻠﱠﺘﻲ ﻟﻠﻔﻴُّوم‬192،‫ﺣﺘﱢﻰ أَرﺼوﻨوا‬ ،‫ اﻠﻘﺒطﻴﱠﺔ ﺣﺴﻨﺔٌ ﻓﻲ أَﻔواﻫﻬم ﻣﺜ َل ﺣَﻼوة اﻠﻌﺴل‬195‫ اﻠﱠذﻴن اﻠﻠﻐﺔ‬،‫ اﻷَﻘوﻴﺎءُ ﻓﻲ ﻣﻌرﻔﺔ ﷲ‬،‫ﻓﻲ ﻛﺘﺒﻬم‬ 191192 193 194 195 196

185. Ibidem, p. 395/28-33. 186. Forme vulgaire du mot ambon; nous l’avons, du reste, trouvé dans d’autres manuscrits. Il s’écrit encore sous les forme ‫ اﻨﺒﺎن‬et ‫اﻨﺒن‬. 187. Lire: ‫ﻳﻌظﻪ‬. 188. Ziadeh, p. 380/7-10. 189. C’est l’ancienne “Crocodilopolis”, qui s’appelle aujourd’hui “Médinet elFayoum” et est la capitale du gouvernorat du Fayyūm. Il serait intéressant de savoir à partir de quelle date le nom arabe fut changé. Dans notre texte arabe, nous avons une simple transcription d’Arsinoé. 190. Ziadeh, p. 395/33-44. 191. Arsinoé. 192. Cantons. 193. Éd.: ‫اﻠﻤﺴﻴﻴﺢ‬. 194. Éd.: ‫ﻟﻐﺔ‬. 195. Ziadeh, p. 380/11-16. 196. Ibidem, p. 380/16-18.

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َ‫ﻓﺎﺌﺤﺔٌ ﻣﻨﻬم ﻣﺜل‬ ‫ ﻳﺘرﻜوﻫﺎ‬،‫ ﻓﻲ ذﻠك اﻠزﱠﻤﺎن‬،‫ وﻜﻠُّﻬم‬.‫ ﺑﺤُﺴْن أَﻠﻔﺎظﻬم ﻓﻲ اﻠﻘﺒطﻴﱠﺔ‬،‫رواﺌﺢ اﻠطﱢﻴب‬ ِ (sic) ‫ ﺣﺘﱠﻰ إﻨﱠﻬم ﻻ ﻳﻌرﻔوا‬.‫( ﺑﻬﺎ‬sic) ‫( ﺑﺎﻠﻠُّﻐﺔ اﻠﻌرﺒﻴﱠﺔ وﻴﻔﺘﺨروا‬sic) ‫ وﻴﺘﻜﻠﱠﻤوا‬،‫ ﻛﻠُّﻬم‬،(sic) 196 .‫ ﺑل ﻳُظَ ُّن ﺑﻬم أَﻨﱠﻬم ﺑرﺒر‬،‫اﻠﺒﺘﱠﺔ أَﻨﱠﻬم ﻟﺼﺎرى‬ ُ ّ ‫ﱠ‬ (sic) ‫ ﻳﺸﺘﻤوﻫم‬،‫( ﺑﻬﺎ‬sic) ‫( اﻠﻠﻐﺔ اﻠﻘﺒطﻴﱠﺔ وﻴﺘﻜﻠﻤوا‬sic) ‫ ﻳﻌرﻔوا‬،‫واﻠﺒﻘﻴﱠﺔ اﻠﱠﺘﻲ ﺗﺒﻘﻰ ﻓﻲ اﻠﺼﱢﻌﻴد‬ 197 .‫( ﻳﺘﻜﻠﱠﻤون ﺑﺎﻠﻠُّﻐﺔ اﻠﻌرﺒﻴﱠﺔ‬sic) ‫( إﺨوﺘُﻬم اﻠﻨﺼﺎرى اﻠﱠذي‬fol. 23r) ‫( ﺑﻬم‬sic) ‫وﻴﺴﺘﻬزوا‬ f) «Pensez-vous qu’il y ait pour le cœur une douleur plus grande que celle de voir les chrétiens abandonner leur douce langue pour se glorifier de celle des Arabes ainsi que de leurs noms. En vérité je vous dis, mes enfants, que ceux qui abandonneront les noms des Saints pour donner à leurs enfants des noms étrangers, ceux qui agiront ainsi seront exclus de la bénédiction des Saints; et quiconque osera parler à l’intérieur du temple la langue de l’hégire, celui-là s’écartera des ordonnances de nos saints Pères».197 ‫( ﻠﻐﺘَﻬم‬sic) ‫ إذ ﺗﺠد اﻠﻨﺼﺎرى ﻳﺘرﻜوا‬،‫( ﻳﺒﻘﻰ وَﺠَﻊُ ﻗﻠبٍ آﺨَ ُر أَﻋظمَ ﻤن ﻫذا‬sic) ‫ﻟﻌلﱠ ﺗظﻨُّوا‬ ‫ إنﱠ‬:‫ ﺑﺎﻠﺣﻘﻴﻘﺔ‬،‫ ﻳﺎ أَوﻻدي‬،‫ أَﻘول ﻠﻜم‬.‫( وﺒﺄَﺴﺎﻤﻴﻬم‬sic) ‫ اﻠﻌرﺒﻴﱠﺔ‬198 ‫( ﺑﻠﻐﺔ‬sic) ‫ وﻴﻔﺘﺨروا‬،‫اﻠﺤﻠوة‬ ‫ اﻠﱠذي ﻳﻔﻌل ﻫذا ﻳﻜون ﺑﻌﻴد‬،‫ وﻴُﺴﻤُّون أَوﻠﺎدَﻫم ﺑﺎﻷَﺴﻤﺎء اﻠﻐرﻴﺒﺔ‬،‫اﻠﱠذﻴن ﻳﺘرﻜون أَﺴﻤﺎءَ اﻠﻘدﱢﻴﺴﻴن‬ ‫ ﻓﺈﻨﱠﻪ ﻗد ﺧرج ﻣن‬،‫ واﻠﱠذي ﻳﺠﺴر أَن ﻳﺘﻜﻠﱠمَ داﺨلَ اﻠﻬﻴﻜل ﺑﻠﻐﺔ اﻠْﻬَﺠَ َرة‬،‫( ﻤن ﺑرﻜﺔ اﻠﻘدﱢﻴﺴﻴن‬sic) 199 .‫أَﻤر آﺒﺎﺌﻨﺎ اﻠﻘدﱢﻴﺴﻴن‬ g) «Et maintenant je vous recommande, mes chers enfants, et je vous supplie humblement de recommander à ceux qui viendront après vous jusqu’à la fin des âges, de veiller parfaitement sur leurs âmes et de ne pas laisser un chrétien parler la langue arabe dans ces lieux, car c’est la matière à un grand jugement: beaucoup en effet oseront parler à l’autel la langue de l’hégire».200 ُ َ َ َ َ ‫ أَن ﺗُوﺼوا ﻣَنْ ﻳﺄﺘﻲ ﻣن‬،‫ﱢع‬ ٍ ‫ وأطﻠب إﻠﻴﻜم طﻠبَ ﻣﺘﻀر‬،‫ ﻳﺎ أوﻻدي اﻷﺤﺒﱠﺎء‬،‫ﻓﺄﻨﺎ اﻵن أوﺼﻴﻜم‬ ‫( ﻳﺘﻜﻠﱠ ُم‬sic) ‫ﻲ‬ ّ ‫ وﻻ ﻳَدَﻋُوا ﻧﺼراﻨ‬،‫ أَنْ ﻳﺤﺘﻔظوا ﺑﻨﻔوﺴﻬم ﻏﺎﻴﺔَ اﻠﺎﺣﺘﻔﺎظ‬،‫ إﻠﻰ ﻛﻤﺎل اﻷَﺠﻴﺎل‬،‫ﺑﻌدِﻜُم‬ (sic) ‫ ﻷَ ﱠن ﻛﺜﻴرﻴن ﻓﻲ ذﻠك اﻠزﱠﻤﺎن ﻳﺠﺴروا‬.ٌ‫ ﻓإ ﱠن ذﻠك دﻴﻨوﻨﺔٌ ﻋظﻴﻤﺔ‬،‫ﺑﺎﻠﻌرﺒﻴﱠﺔ ﻓﻲ ﻫذه اﻠﻤواﻀﻊ‬ 201 .‫أَنْ ﻳﺘﻜﻠﱠموا داﺨلَ اﻠﻤذﺒﺢ ﺑﻠﻐﺔ اﻠْﻬَﺠَرَة‬ h) «Malheur, deux fois malheur à ceux­là! comme je l’ai entendu moi­ même d’un vieillard voué au service de Dieu, revêtu de l’Esprit, accompli dans la sainteté. Il m’a répondu quand je l’ai interrogé au sujet des rois de l’hégire: “Regarde, mon fils Samuel, et saisis ce que je te dis: Au temps où 197. Ibidem, p. 396/4-11. 198. Lire: ‫ﺑﺎﻠﻠﻐﺔ‬. 199. Ziadeh, p. 380/3’-381/3. 200. Ibidem, p. 398/34-39. 201. Ibidem, p. 384/7-11.

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(fol. 25v) les chrétiens oseront parler auprès de l’autel la langue de l’hégire, par laquelle ils blasphémeront contre le Saint-Esprit et contre ta Sainte Trinité, en ce temps-là malheur aux chrétiens, malheur et sept fois malheur!”»202 ،‫ ﻣن ﺷﻴﺦٍ ﻣﺘﻌﺒﱢدٍ ﷲ ﻻﺒسِ اﻠ ُّروح‬،‫ ﻛﻤﺎ ﻗد ﺳﻤﻌتُ أَﻨﺎ‬.‫اﻠوﻴل ﺛمﱠ اﻠوﻴل ﻷ ُوﻠﺌك اﻠﱠذﻴن ﻫم ﻫﻜذا‬ ،‫ ﻳﺎ اﺒﻨﻲ ﺻﻤوﻴل‬،ْ‫ أُﻨظر‬:‫ ﻗﺎل ﻟﻲ‬،‫ ﻟﻤﱠﺎ أَنْ ﺳﺄَﻠﺘُﻪ ﻣن أَﺠل أ ُﻣور اﻠْﻬَﺟَرَة‬،‫ وﻘﺎل ﻠﻲ‬،‫ﻛﺎﻤلٍ ﻓﻲ اﻠﻘدس‬ ‫( ﻳﺴﺘﺟري اﻠﻨﺼﺎرى أَن ﻳﺘﻜﻠﱠﻤوا داﺨ َل اﻠﻤذﺒﺢ‬fol. 25v) ‫ إنﱠ ﻓﻲ اﻠ ﱠزﻤﺎن اﻠﱠذي‬:‫واﻔﻬم اﻠﱠذي أَﻘوﻠﻪ ﻠك‬ ‫ اﻠوﻴل ﻟﻠﻨﺼﺎرى ﻓﻲ‬،‫ ﻳﺟدﱢﻔوا ﺑﻬﺎ ﻋﻠﻰ روح اﻠﻘدس واﻠﺜﱠﺎﻠوث اﻠﻤﻘدﱠس‬203‫ اﻠﱠذي‬،‫ﺑﻠﻐﺔ اﻠْﻬَﺠَ َرة ﻫذه‬ 204 ‫ذﻠك ﱠ‬ .ٍ‫( ﺳﺒﻌﺔ أَﻀﻌﺎف‬sic) ‫( ﻣﺘﻀﺎﻋف‬sic) ‫اﻠزﻤﺎن وﻴل‬ 6.2. Profanation et destruction d’églises, et transformation en mosquées a) «Les Arabes gâteront aussi toutes les œuvres sur la terre à cause de la dureté de leur joug. Ils causeront aux veuves et aux orphelins (fol. 24r) de grands dommages; ils insulteront les vieillards, poursuivront les vierges, s’attaqueront à elles dans leurs maisons à cause des impôts. Ils railleront la religion chrétienne et n’auront point d’estime pour les prêtres ni pour les moines; ils mangeront, boiront et joueront à l’intérieur des églises; sans crainte ils coucheront avec les femmes devant l’autel. Ils feront des églises de Dieu comme des écuries de chevaux, y attachant leurs chevaux et leurs bêtes de somme. Les esprits puissants qui veillent sur l’église s’en iront et monteront au ciel quand ils verront les mauvaises actions que commettra cette nation dans les églises».205 206 ‫( ﻣن اﻷَراﻤل‬sic) ‫ وﻴﺄْﺨذوا‬.‫ِﻴرﻫم‬ ِ ‫ ﻷَﺠل ﺛِﻘْل ﻧ‬،‫وﻴُﻔﺴد اﻠْﻬَﺟَرَةُ ﻜلﱠ اﻷَﻋﻤﺎل اﻠﱠﺘﻲ ﻋﻠﻰ اﻷَرض‬ (fol. 24r) ‫واﻷَﻴْﺘﺎم‬ ،‫( اﻠﻌذارى‬sic) ‫ وﻴُﻀﺎﻴﻘوا‬،‫( اﻠ ُّﺸﻴو َخ‬sic) ‫ وﻴﺸﺘﻤوا‬،(sic) ‫ﺧﺴﺎﺌر ﻛﺒﺎر‬ َ (sic) ‫ وﺘﻜون‬،‫( ﺑﻤذﻫب اﻠﻨﺼﺎرى‬sic) ‫ وﻴَﻬْ َزؤا‬.‫( ﻓﻲ ﺑﻴوﺘﻬم ﻋﻠﻰ اﻠﺨﺴﺎرات‬sic) ‫وﻴُﺣﺎﺼروﻫم‬ ُّ ‫اﻠﻜﻬﻨﺔُ ﻋﻨدَﻫم‬ ،‫( داﺨ َل اﻠﻜﻨﺎﺌس‬sic) ‫( وﻴﻠﻌﺒوا‬sic) ‫( وﻴﺸرﺒوا‬sic) ‫ وﻴﺄْﻜﻠوا‬.‫واﻠرﻫﺒﺎنُ ﻣرذوﻠﻴن‬ ‫س ﷲ ﻣﺜ َل اﺼطﺒﻼت‬ َ ‫( ﻛﻨﺎﺌ‬sic) ‫ وﻴﺠﻌﻠوا‬،‫( اﻠﻨﱢﺴﺎ َء ﻗدﱠامَ اﻠﻤذﺒﺢ ﺑﻐﻴر ﺧوف‬sic) ‫وﻴُﻀﺎﺠﻌوا‬ ‫ ﻟﻤﺎ‬،‫ ﺗﻤﻀﻲ وﺘﺼﻌد إﻠﻰ اﻠﺴﱠﻤﺎء‬207‫ وﻘوﱠات اﻠﺒﻴﻌﺔ‬.‫( ﺧَﻴْﻠَﻬم ودَواﺒﱠﻬم ﻓﻴﻬﺎ‬sic) ‫ وﻴرﺒطوا‬،‫اﻠﺨﻴل‬ 208 .‫( ﻣن اﻷَﻋﻤﺎل اﻠرﱠ دﻴﺌﺔ اﻠﱠﺘﻲ ﺗﻌﻤﻠﻬﺎ ﻫذه اﻷ ُﻤﱠﺔ ﻓﻲ اﻠﺒِﻴَﻊ‬sic) ‫ﻳﻌﺎﻴﻨوا‬ 202. Ibidem, p. 398/39-46. 203. Lire: ‫اﻠﺘﻲ‬. 204. Ziadeh, p. 384/11-18. 205. Ibidem, p. 397/5-16. 206. Éd.: ‫اﻠﻬﺤرة‬. 207. Éd.: ‫اﻠﻴﻌﺔ‬. 208. Ziadeh, p. 382/3-11.

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b) «Ils [les Arabes] détruiront beaucoup d’églises en les rasant jusqu’à terre; ils transporteront leurs bois, leurs briques, leurs pierres et s’en construiront des palais et de superbes habitations. Ils détacheront les croix des églises. Ils en transformeront un grand nombre en mosquées à leur usage, à cause de leur orgueil et de leur haine contre les chrétiens. Mais les saints martyrs qui verront ces choses s’accomplir aux lieux de leur martyre, porteront à Dieu leurs plaintes contre cette nation en disant: “Seigneur, qui êtes le juge équitable, jugez entre nous et cette nation qui accomplit de pareils actes contre nos églises. Oui, Dieu de bonté, entrez en jugement avec eux et rendez-leur selon leurs actions”».209 210 211 212 213 214 ‫ وﻴﻨﻘﻠوا أَﺧﺸﺎﺒَﻬم وطُوﺒَﻬم‬.‫( ﻣﻊ اﻷَرض‬sic) ‫ وﻴُﺴﺎوُوﻫم‬،‫س ﻛﺜﻴرة‬ َ ‫( ﻛﻨﺎﺌ‬sic) ‫وﻴﻬدُّوا‬ ‫( اﻠﺼُّﻠﺒﺎ َن ﻣن‬sic) ‫ وﻴﻨزَﻋوا‬.‫( ﻋظﻴﻤﺔ‬sic) ‫ ودُور‬212‫ وﻴَﺒْﻨون ﻟﻬم ﻣﻨﻬﺎ إﻴواﻨﺎت‬،211‫وﺤﺠﺎرﺘﻬم‬ َ 213 ‫ ﻣن أَﺠل ﻛﺒرﻴﺎﺌﻬم‬،َ‫( ﻟﻬم ﺟواﻤﻊ‬sic) ‫( وﻴﺼﻴﱢروﻫﺎ‬sic) ‫ وﻜﻨﺎﺌس ﻛﺜﻴرة ﻳﻨﻘﻠوﻫﺎ‬.‫ﻋﻠﻰ اﻠﻜﻨﺎﺌس‬ ‫( ﻓﻲ‬sic) ‫( اﻷَﻋﻤﺎ َل اﻠﱠﺘﻲ ﻳﻌﻤﻠوها‬sic) ‫( اﻠﺸُّﻬداء ﻳﻨظروا‬sic) ‫ واﻠﻘدﱢﻴﺴﻴن‬.‫وﺒُ ْﻐﻀِﻬم ﻓﻲ اﻠﻨﺼﺎرى‬ ‫ﱢ‬ (sic) ‫ أُﺤﻜُمْ ﺑﻴﻨَﻨﺎ وﺒﻴن ﻫذه اﻷ ُﻤﱠﺔ اﻠﱠذي‬، ‫اﻠﺣق‬ ‫ أَﻠﻠﱠﻬمﱠ أَﻨت دﻴﱠﺎن‬:‫ ﻓﻴﺸﻜوﻫم إﻠﻰ ﷲ وﻴﻘوﻠوا‬،‫مﺸﺎﻫدﻫم‬ 214 ‫ واﺠزﻫم‬،‫( ﻣﻌﻬم‬sic) ‫ إﺼﻨﻊ ﺣﻜم‬،‫ أَﻴُّﻬﺎ اﻹﻠﻪ اﻠﺼﱠﺎﻠﺢ‬،‫ ﻧﻌم‬.‫ﻳﻌﻤﻠون ﻫذه اﻷَﻋﻤﺎل ﻓﻲ ﻛﻨﺎﺌﺴﻨﺎ‬ 215 .‫( ﻣﺜ َل أَﻋﻤﺎﻠِﻬم‬sic) 6.3. Impôts, cadastre et apauvrissement a) «Ils soumettront la terre au cadastre et en toucheront les impôts; il en résultera une grande cherté de vie sur la terre; un grand nombre périront de faim et resteront par terre sans que personne leur donne la dernière sépulture».215 216 217 218 ‫ وﻴﻜون ﻏﻼءٌ ﻛﺜﻴرٌ ﻋﻠﻰ‬218‫( ﺧراﺠَﻪ؛‬sic) ‫ وﻴﺄﺨذوا‬217،‫( اﻷَرضَ ﺑﺎﻠﻤِﻘْﻴﺎس‬sic) ‫وﺴوف ﻳﻤﺴﺤوا‬ ‫( َﻣ ْن‬sic) ‫( ﻣطروﺤﻴن ﻻ ﻳﺠدوا‬sic) ‫ وﻴﻜوﻨوا‬،‫( ﻤن اﻠﺠوع‬sic) ‫ وﺘﻤوت أُﻨﺎسٌ ﻛﺜﻴر‬.‫اﻷَرض‬ 219 .‫ﻳدﻔﻨﻬم‬ 209. Ibidem, p. 397/16-25. 210. Ces pronoms sont dans la langue littéraire réservés aux êtres raisonnables. C’est le pronom ‫ ﻫﺎ‬qu’il faut ici (Ziadeh). 211. Éd.: ‫ﻟﻴواﻨﺎت‬. 212. Éd.: ‫ﻛﺒرﻴﺎﻫم‬. 213. Éd.: ‫واﺠزﻴﻬم‬. 214. Ziadeh, p. 382/11-18. 215. Ibidem, p. 397/7’-4’. 216. Éd.: ‫ﺑﺎﻠﻘﻴﺎس‬. 217. Lire: ‫ﺧراﺠﻬﺎ‬. 218. Ziadeh, p. 383/6-8.

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b) «[Il arrivera aussi] que ceux qui coucheront la nuit dans leurs propres maisons, trouveront chacun, en se réveillant le matin, trois huissiers à leur porte, chacun d’eux réclamant un genre d’impôts. C’est alors qu’un grand nombre de villes importantes, de régions, de hameaux et de ports seront détruits, et cette terre d’Égypte, riche en arbres et en jardins, deviendra une terre salsugineuse, boisée et stérile, à cause de la multiplicité des impôts prélevés sur le pays par les Arabes; car ils forment une nation orgueilleuse, peu miséricordieuse».219 220 221 222 223 ،‫( ﻋﻠﻰ ﺑﺎب ﻛ ﱢل واﺤ ٍد ﺛﻠﺜﺔ ﻨﻔ ٍر ﺷرط‬sic) ‫( ﻳﺠدوا‬sic) ‫ ﻓﻴﻀﺤوا‬،‫وﺗﻨﺎم اﻠﻨﱠﺎس ﻓﻲ ﺑﻴوﺘﻬم ﻓﻲ اﻠﻠﱠﻴل‬ (sic) ‫ وﺒﻼدٌ وﻜﻔورات وﻤﻴﻨﺎوات‬221،ٌ‫ وﺘﺨرب ﺣﻴﻨﺌذٍ ﻣد ٌن ﻛﺜﻴرة‬.‫ﻲّ ﻧوع ﺧﺴﺎرة‬ ً ‫ﻴطﻠب ﻛ ُّل ﺷرط‬ 222 َ ُ ‫وﺘﻜون أَر‬ ،(sic) ‫ ﻣواﻀﻊَ ﻣﻠﺢٍ وﺤرش وﺼﻠﺎﻔﻰ‬،‫ اﻠﻜﺜﻴرة اﻷﺸﺠﺎر واﻠﺒﺴﺎﺘﻴن‬،‫ض ﻣﺼر ﻫذه‬ 224 223 ُ َ َ ‫ﱠ‬ ُ ٌ .‫ ﻗﻠﻴﻠﺔ اﻠرﱠﺣﻤة‬،ٌ‫ ﻷﻨﱠﻬﺎ أﻤﱠﺔ ﻣﺘﻜﺒﱢرة‬.‫ﻷَﺠل ﻛﺜرة اﻠﺨراﺠﺎت اﻠذي ﻳرﺴﻤوها ﻋﻠﻰ اﻷرض‬ c) «Leur joug pèsera comme le fer. Ils molesteront leurs sujets en leur réclamant de l’or; ils feront le recensement des citoyens grands et petits, inscriront leurs noms sur les registres (dafātir mot persan) et leur réclameront l’impôt de capitation. Les habitants vendront alors leurs vêtements et leurs effets pour acquitter les taxes, [et leurs maîtres] mettront la main sur toutes leurs possessions pour des raisons qu’ils établiront, et par lesquelles ils les presseront. La population se transportera d’une ville et d’un pays à l’autre, cherchant de la tranquillité sans en trouver».224 (sic) ‫ وﻴﻌدُّوا‬.‫( ﺑﺎﻠذﱠﻫب‬sic) ‫ وﻴطﺎﻠﺒوﻫم‬،‫( اﻠﻨﱠﺎس‬sic) ‫ وﻴﻀﺎﻴﻘوا‬،‫وﻴﺜﻘل ﻟﻴرُﻫم ﻣﺜل اﻠﺤدﻴد‬ ‫( ﻣﻨﻬم اﻟﺬﱠﻫب ﻋﻠﻰ‬sic) ‫ وﻴطﻠﺒوا‬،‫( أَﺴﻤﺎءﻫم ﻓﻲ اﻠدﱠﻔﺎﺘر‬sic) ‫ وﻴﺜﺒﱢﺘوا‬،‫ اﻟﻜﺒﺎر واﻠﺼﱢﻐﺎر‬،‫ﺎس‬ َ ‫اﻠﻨﱠ‬ ،‫( ﻛ ﱠل ﻣﺎ ﻳﻤﻠﻜﻪ اﻠﻨﱠﺎس‬sic) ‫ وﻴﺄﺨذوا‬.‫( ﺧﺴﺎﺌر‬sic) ‫ وﻳدﻔﻌوﻫﺎ‬،‫ ﻓﺘﺒﻴﻊ اﻠﻨﱠﺎس ﺛﻴﺎﺒَﻬم وﻋِدَدَﻫم‬.‫ﻧﻔوﺴﻬم‬ ‫ وﻤن ﺑﻠدٍ إﻠﻰ‬،ٍ‫ وﻴﻨﺘﻘل اﻠﻨﱠﺎس ﻣن ﻣدﻴﻨﺔٍ إﻠﻰ ﻣدﻴﻨﺔ‬.‫( ﻋﻠﻴﻬﺎ‬sic) ‫( ﻟﻬم وﻴﺤﺜُّوﻫم‬sic) ‫ﺑﺄَﺴﺒﺎبٍ ﻳﻘﻴﻤوﻫﺎ‬ 225 .‫( راﺤﺔً ﻓﻼ ﻴﺠدوﻫﺎ‬sic) ‫ وﻴطﻠﺒوا‬،ٍ‫ﺑﻠد‬ d) L’auteur résumera tout cela par une formule bien frappée et rimée:226 «(Dieu leur envoya) cette nation qui recherche l’or et non la profession religieuse».227 219. Ibidem, p. 397/3’-398/5. 220. Éd.: ‫ﻛﺒﻴرة‬. 221. Éd.: ‫اﻠﻜﺒﻴرة‬. 222. Lire: ‫اﻠﺘﻲ‬. 223. Ziadeh, p. 383/8-13. 224. Ibidem, p. 398/5-13. 225. Ibidem, p. 383/13-18. 226. En arabe: taṭlub al-ḏahab, la l-maḏhab. 227. Ziadeh, p. 393/17.

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.َ‫ اﻠﱠﺘﻲ ﺗطﻠُب اﻠذﱠﻫَبَ ﻻ اﻠْﻤَذْﻫَب‬،َ‫وأ�ﺮْ ﺴَلَ إﻠَﻴ ِْﻬمْ ﻫذه اﻷ ُﻤﱠﺔ‬

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7. Conclusion: se confier à Notre­Dame Marie Samuel (ou l’auteur qui a utilisé le nom du saint moine), a, dans un premier temps, décrit tous les malheurs qui s’abattront sur les chrétiens, du fait des Hagaréens qui dominent le pays et oppresseront toujours davantage le peuple. Il a répondu par la négative, dans un deuxième temps, à la question angoissante de savoir si le fait que les Hagaréens dominent les chrétiens est signe que Dieu est avec eux. Non, c’est le signe que les chrétiens se sont éloignés de Dieu et ne peuvent donc jouir de son soutien. La solution est donc morale et spirituelle: retourner à Dieu, pratiquer les lois de l’Église, être fidèle aux préceptes de l’Évangile; surtout ne pas imiter les musulmans dans leur laxisme et leur mode de vie, et ne pas abandonner sa propre culture chrétienne (en l’occurrence copte), ni la langue copte qui nous transmet l’Écriture et les exemples à suivre dans les vies des saints que l’on lit chaque jour à l’église. Il exhorte tout particulièrement les prêtres et les moines à être fidèles à leur vocation propre et aux exigence de cette vocation. Si les chrétiens suivent ces conseils, la Vierge Marie, la Mère de Dieu, viendra personnellement au secours de chacun, pour le soutenir et implorer le pardon de leurs péchés. C’est ainsi que s’achève cette longue homélie, déguisée en forme de prophétie! Voici quelques-uns des textes concernant la Vierge Marie, laquelle tient une place essentielle dans la tradition copte, comme dans la tradition de toute les Églises d’Orient. a) «Vous devez donc, mes chers enfants, accomplir parfaitement toutes les ordonnances, ainsi que toute la constitution monastique. Si vous le faites, vous mériterez de voir la Vierge Mère de Dieu, Notre-Dame Marie, comme je l’ai vue moi-même, et entendue promettre plusieurs privilèges à ceux qui habiteront ce désert, qui le visiteront et y viendront chercher la bénédiction et le pardon des péchés».229 ‫ ﻓﺈﻨﱠﻜم‬،‫ أَن ﺗﻜﻤﱢﻟوا ﺗﻜﻤﻴل ﺣﺴن ﻛلﱢ اﻠوﺼﺎﻴﺎ وﺒﻨﻴﺎن اﻠرﱠﻫﺒﺎﻨﻴﱠﺔ ﻛﻠﱢﻪ‬،‫ﻓﺎﻠواﺠب ﻋﻠﻴﻜم ﻳﺎ أَوﻻدي اﻷَﺤﺒﱠﺎء‬ ‫إذا ﻛﻤﱠﻠﺘوا ذﻠك اﺳﺘﺣﻘﱠﻴﺘم أَن ﺗﻨظروا واﻠدة اﻹﻠﻪ اﻠﻌذرى اﻠﻘدﱢﻴﺴﺔ ﻣرﺘﻤرﻴم ﻛﻤﺎ رأَﻴﺘﻬﺎ أَﻨﺎ وأَوﻋدت‬ 228. Ibidem, p. 377/9-10. 229. Ibidem, p. 401/1-6.

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‫ وﻴﺴﺄَﻠوا ﻓﻴﻬﺎ ﻣﻐﻔرة‬،‫ واﻠﱠذﻴن ﻳزوروﻨﻬﺎ وﻴﺘﺒﺎرﻜون ﺑﻬﺎ‬،‫ﺑﻜراﻤﺎتٍ ﻛﺜﻴرةٍ ﻠﻠﱠذﻴن ﻳﺴﻜﻨون ﻫذه اﻠﺒ ﱢرﻴﱠﺔ‬ 230 .‫ﺧطﺎﻴﺎﻫم‬ b) «Bienheureux êtes-vous, mes enfants, puisque vous avez mérité d’habiter la terre de la Vierge très pure Notre-Dame Marie, de chanter et de bénir Dieu dans cette église que Mère de Dieu s’est choisie pour lui servir (fol. 27v) de demeure».231 ‫ ﻓﻲ دﻴﺎر اﻠﻌذرا اﻠطﱠﺎﻫرة ﻣرﺘﻤرﻴم‬232‫ ﻷَﻨﱠﻜم اﺴﺘﺤﻘﱠﻴﺘم أَن ﺗﺴﻜﻨون‬،‫طوﺒﺎﻜم ﻳﺎ أَوﻻدي اﻷَﺤﺒﱠﺎء‬ 233 .‫( ﻣﺴﻜن‬fol. 27v) ‫ اﻠﱠﺘﻲ اﺨﺘﺎرﺘﻬﺎ ﻟﻬﺎ واﻠدة اﻹﻠﻪ‬،‫وﺘرﺘﱢﻠوا وﺘﺴﺒﱢﺣوا ﷲ ﻓﻲ ﻫذه اﻠﻜﻨﻴﺴﺔ‬ c) «Bienheureux celui qui fait quelques pas pour venir à cette église avec foi; je vous dis, mes chers enfants, que la Mère de Dieu Notre-Dame Marie demandera à son Fils d’agréer son repentir et de lui remettre tous ses péchés».234 ‫ إنﱠ‬:‫ أَﻘول ﻟﻜم ﻴﺎ أَوﻻدي اﻷَﺤﺒﱠﺎء‬.ٍ‫ ﺧطوةً آﺘﻴًﺎ إﻠﻰ ﻫذه اﻠﻜﻨﻴﺴﺔ ﺑﺄَﻤﺎﻨﺔ‬235 ‫( ﻟﻤن ﻳﺧطوا‬sic) ‫طوﺒﺎ‬ 236 .‫واﻠدة اﻹﻠﻪ ﻣرﺘﻤرﻴم ﺗﺴﺄَل اﺒﻨﻬﺎ اﻠﺤﺒﻴب ﻳﻘﺒل ﺗوﺒﺘﻪ وﻴﻐﻔر ﺟﻤﻴﻊ ﺧطﺎﻴﺎه‬ d) «Bienheureux ceux qui offrent un sacrifice dans cette église sainte; car je vous dis que la Mère de Dieu intercédera pour lui auprès de Dieu, afin qu’il reçoive son sacrifice dans la Jérusalem céleste».237 ‫ إ ﱠن واﻠدة اﻹﻠﻪ ﺗﺸﻔﻊ ﻓﻴﻪ ﻋﻨد‬:‫ أَﻘول ﻟﻜم‬.‫( ﻟﻠﱠذﻴن ﻳﻘدﱢﻤون ﻗرﺒﺎن ﻓﻲ ﻫذه اﻠﺒﻴﻌﺔ اﻠﻤﻘدﱠﺴﺔ‬sic) ‫طوﺒﺎ‬ 238 .‫ ﻳﻘﺒل ﻗرﺒﺎﻨﻪ ﻓﻲ ﻳروﺸﻠﻴم اﻠﺴﱠﻤﺎﺌﻴﱠﺔ‬،‫ﷲ‬ e) «Celui qui se lie par un vœu envers ce sanctuaire, s’il se hâte de l’acquitter, je vous dis que la Vierge Notre-Dame Marie acceptera son vœu et exaucera vite sa demande».239 ‫ أَﻘول ﻟﻜم إ ﱠن اﻠﻌذرا ﻣرﺘﻤرﻴم ﺘﻘﺒل ﻧذره وﺘﻜ ﱢﻤل‬،‫ وﻴﺴرع ﺑدﻔﻌﻪ‬،‫ اﻠﱠذي ﻳﻨذر ﻧذرًا ﻟﻬذه اﻠﻜﻨﻴﺴﺔ‬5. 240 .‫طﻠﺒﺘﻪ ﺑﺳرﻋﺔ‬

230. Ibidem, p. 387/9-13. 231. Ibidem, p. 401/7-10. 232. Lire: ‫ﺗﺴﻜﻨوا‬. 233. Ziadeh, p. 387/10-13. 234. Ibidem, p. 401/13-15. 235. Lire: ‫ﻳﺨطو‬. 236. Ziadeh, p. 387/15-17. 237. Ibidem, p. 401/13-16. 238. Ibidem, p. 387/17-19. 239. Ibidem, p. 401/16-18. 240. Ibidem, p. 387/19-21.

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f) «Celui aussi qui écrit ce saint discours, qui le place dans l’église, celui qui le lit pour le profit des âmes de ceux qui l’écoutent, le conservent et conforment leur conduite à ce qui y est écrit, s’écartant de la voie erronée, et sauvant ainsi leurs âmes, je vous dis que la Vierge Notre-Dame Marie demandera à son bien-aimé Fils de déchirer le livre de ses péchés et d’inscrire son nom dans le livre de vie».241 ،‫ ﻓﻴﻪ ﻟرﺒﺢ اﻠﻨُّﻔوس ﻟﻜ ﱢل ﻣن ﻳﺴﻤﻌﻪ‬242‫ اﻠﱠذي ﻳﻜﺘب ﻫذا اﻠﻜﻼم اﻠﻤﻘدﱠس وﻴﻀﻌﻪ ﻓﻲ اﻠﺒﻴﻌﺔ ﻳﻘرى‬6. ‫ أَﻘول ﻟﻜم إ ﱠن‬.‫ ﻓإ ﱠن ﻨﻔوﺴﻬم ﺗﺨﻠص‬،‫وﻴﺤﺘﻔظ ﺑﻪ وﻴﻌﻤل ﺑﻤﺎ رﺴم ﻓﻴﻪ وﻴﺒﺘﻌدوا ﻣن اﻠطﱠرﻴق اﻠﻤﻌوﺠﱠﺔ‬ 243 ‫اﻠﻌذرا مرﺘﻤرﻴم ﺗﺴﺄَل اﺒﻨﻬﺎ اﻠﺤﺒﻴب ﻓﻴﻪ ﻳﺨ ﱢزق ر ﱠ‬ .‫ وﻴﻜﺘب اﺴﻤﻪ ﻓﻲ ﺳﻔر اﻠﺤﻴﺎة‬،‫ق ﺧطﺎﻴﺎه‬ g) «Maintenant donc, mes chers enfants, si vous observez bien ce que je vous ai recommandé, la Vierge Marie intercédera pour vous auprès de son Fils bien-aimé et il mettra vos ennemis sous vos pieds et vous foulerez la tête du monstre (Satan) et vous briserez toute la force de l’ennemi».244 ‫ ﻓﺈ ﱠن اﻠﺒﺘول ﻣرﺘﻤرﻴم ﺘﺘﺷﻔﱠﻊ ﻓﻴﻜم ﻋﻨد‬،‫ إذا ﻣﺎ اﺤﺘﻔظﺘم ﺑﻤﺎ أَوﺼﻴﺘﻜم ﺑﻪ‬،‫ﻓﺎﻵن ﻳﺎ أَوﻻدي اﻷَﺤﺒﱠﺎء‬ ‫ وﺘﻜﺴروا ﻛ ﱠل ﻗوﱠة‬،‫ وﺘطوا ﻋﻠﻰ رأس اﻠﺘﱢﻨﱢﻴن‬،‫ ﻓﻴﺨﻀﻊ أَﻋداءﻜم ﺗﺤت أَﻘداﻤﻜم‬،‫اﺒﻨﻬﺎ اﻠﺤﺒﻴب‬ 245 .‫اﻠﻌدوﱢ‬ Ainsi quiconque viendra se recueillir en ce lieu saint qu’est le monastère de Qalamūn dans le désert du Fayyūm, et qui y invoquera la Vierge Marie, jouira de sa protection et de sa bénédiction! Amen!

241. Ibidem, p. 401/18-24. 242. Lire: ‫ﻳﻘرأ‬. 243. Ziadeh, p. 387/5’-1’. 244. Ibidem, p. 401/24-28. 245. Ibidem, p. 387/1’-388/3.

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Bibliographie W. Abuliff, Samuele il Confessore di Kalamon, in Enciclopedia dei santi. Le chie­ se orientali, a cura di J. Nadal Canellas e S. Virgulin, Roma 1998-1999, p. 926929. A. Alcock, The Apocalypse of Samuel of Kalamun. An English Version, in http:// www.scribd.com/doc/108046621/Samuel-Apocalypse (14/10/2013). A. Alcock, The Arabic Life of Anbā Samaw’īl of Qalamûn, edition and translation, in «Le Muséon», 109/3-4 (1996), p. 321-345. A. Alcock, Life of Samuel of Kalamun by Isaac the Presbyter, edition and translation, Warminster 1983. A. Alcock, Samu’il of Qalamūn, saint (c. 597-695), in The Coptic Encyclopedia, VII, New York 1991, p. 2092a-2093b (voir aussi: http://ccdl.libraries.claremont. edu/cdm/singleitem/collection/cce/id/1704/rec/7; 9/10/2013) É. Amélineau, La géographie de l’Égypte à l’époque copte, Paris 1893, p. 388389. É. Amélineau, Monuments pour servir à l’histoire de l’Égypte chrétienne aux IVe et Ve siècles: textes et traduction, Paris 1888 (Mémoires publiées par les membres de la Mission archéologique française au Caire. Ministère de l’instruction publique et des beaux-arts, 4), p. 516-520, 770-789. Bāsīliyūs al­Ṣamū’īlī, Al-Anbā Ṣamū’īl al-Mu‘tarif, Le Caire 1989. R. Basset, Le Synaxaire arabe jacobite, in Patrologia Orientalis, III (1924), p. 405-408 (le 8 Kiyahk, date du décès de Samuel). Christianity and Monasticism in the Fayoum Oasis: Essays from the 2004 Inter­ national Symposium of the Saint Mark Foundation and the Saint Shenouda the Archimandrite Coptic Society in Honor of Martin Krause, éd. par G. Gabra, Cairo-New York 2005. R.-G. Coquin, M. Martin, P. Grossmann, Dayr Anbā Samū’īl of Qalamūn, in The Coptic Encyclopedia, III, New York 1991, p. 758a-760a. C. Décobert, Sur l’arabisation et l’islamisation de l’Égypte mediévale, in Itinérai­ res d’Égypte. Mélanges offerts au Père Maurice Martin s.j., éd. par C. Décobert, Le Caire 1992, p. 273-300: 287-292. F.M. Esteves Pereira, Vida do Abba Samuel do Monasteiro do Kalamon, Lisboa 1894. B.T.A. Evetts, A.J. Butler, The Churches and Monasteries of Egypt and some Neighbouring Countries attributed to Abû Ṣâliḥ the Armenian, Oxford 1895, p.

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206­208: «Monastery of Al­Ḳalamûn»,246 et p. 314 (n° 34) se trouve une description de ce monastère par al­Maqrīzī, qui y décrit les fruits et les plantes qui s’y trouvent mentionne notre saint: «This monastery was built in the name of the monk Samuel, who lived in the time between Jesus and Mahomet, and died on the 8th of Kîhak». A. Fakhry, The Monastery of Kalamoun, in «Annales du Service des Antiquités d’Égypte», 46 (1947), p. 63-83. N. Fānūs, Tārīḫ al-Qiddīs al-‘Aẓīm al-Anbā Samū’īl bi-Dayr al-Qalamūn, Le Caire 1952. J. Forget, Synaxarium alexandrinorum, I, 2 = coll. Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, vol. 48, p. 141-143 (texte arabe); vol. 78, p. 194-196 (trad. latine). G. Graf, Geschichte der christlichen arabischen Literatur, I, Città del Vaticano 1944 (Studi e testi, 118), p. 280-282. S. Grébaut, Le Synaxaire éthiopien, IV. Le mois de tahschasch, in Patrologia Orientalis 15 (1926), p. 655-667. Y. Ḥabīb, Al-Qiddīs Anbā Ṣamū’īl wa-Adyurat al-Fayyūm, Alexandrie 1970. A.W. Hanna, H.N. Takla, The Apocalypse of St. Samuel of Kalamoun: http://www. stshenouda.org/newsltr/nl1_3.htm#StSamuelKalamoun (14/10/2013); il s’agit d’une introduction et d’un extrait. J. Helderman, Die Sprache der Ruhe. Blicke in die Geschichte des christlich-kop­ tischen Aegypten: Johannes von Schmun, Samuel von Qalamun und das Tria­ don, in «Bulletin de la Société d’archéologie copte», 36 (1997), p. 105-119, voir spéc. p. 108-111. R.G. Hoyland, Seeing Islam as Others Saw It: A Survey and Evaluation of Chris­ tian, Jewish and Zoroastrian Writings on Early Islam, Princeton 2000 (Studies in Late Antiquity and Early Islam, 13), p. 285-289. J. Iskander, Islamization in medieval Egypt. The Copto-Arabic “Apocalypse of Sa­ muel” as a source for the social and religious history of medieval Copts, in «Medieval Encounters», 4 (1998), p. 219-227. M. Iwasaki, The Significance and the Role of the Desert in the Coptic Monasticism: Monastery of St. Samuel as a Case Study, in «Journal of Arid Land Studies», 22 (2012), p. 139-142 (http://nodaiweb.university.jp/desert/pdf/JALS-G09_139142.pdf; 9/10/2013). 246. Au sujet de notre saint fondateur, l’Auteur (Abū ’l­Makārim) écrit: «Anbâ Samuel, the superior and administrator of this monastery was a learned man; and God revealed to him what would happen in the future, and spoke with him; and Samuel wrote down what God said to him, and his prophecies were verified in his own time».

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R. Kruk, History and apocalypse. Ibn al-Nafis’s justification of Mamluk rule, in «Der Islam», 72 (1995), p. 324-337: 330. L.S.B. MacCoull, The strange death of Coptic culture, in «Coptic Church Review», 10 (1989), p. 35-45: 41. L.S.B. MacCoull, Three cultures under Arabic rule. The fate of Coptic, in «Bulletin de Société d’archéologie copte», 27 (1985), p. 61-70: 66-67; réimprimé dans son ouvrage de «Variorum Reprints» intitulé: Coptic Perspectives on Late Antiquity, Aldershot 1993, XXVe texte. F.J. Martínez, La literatura apocaliptica y las primeras reacciones cristianas a la conquista islamica en Oriente, in Europa y el Islam, éd. par G. Anes Álvarez de Castrillón, Madrid 2003, p. 143-222: 216-217. F.J. Martínez, The king of Rūm and the king of Ethiopia in medieval apocalyptic texts from Egypt, in Coptic Studies. Acts of the Third International Congress (Warsaw, 20-25 August 1984), éd. par W. Godlewski, Warsaw 1990, p. 247259: 249-250 et 254-257. O. Meinardus, Monks and Monasteries of the Egyptian Deserts, Cairo 2002, p. 149. M.S.A. Mikhail, Egypt from Late Antiquity to Early Islam. Copts, Melkites, and Muslims Shaping a New Society, Los Angeles 2004, pp. 161-164. H. Moehring, Der Weltkaiser der Endzeit. Entstehung, Wandel und Wirkung einer tausendjährigen Weissagung, Stuttgart 2000, p. 185 et 347. F. Nau, Note on the Apocalypse of Samuel, traduit en anglais par Roger Pearse: http://www.tertullian.org/fathers/apocalypse_of_samuel_of_kalamoun_01_ eintro.htm (14/10/2013). F. Nau, Note sur l’apocalypse de Samuel, in «Revue de l’Orient Chrétien», 20 (1915-1917), p. 405-407. E. O’Leary de Lacy, The saints of Egypt: an alphabetical compendium of martyrs, patriarchs and sainted ascetes in the Coptic calendar, commemorated in the Jacobite Synaxarium, London-New York 1937 (reprint: Amsterdam 1974), p. 242-243. T. Orlandi, Samuele di Qalamun, in: Dizionario patristico e di antichità cristiane, II, Casale Monferrato 1983, col. 3077-3078 = Samuel de Kalamun, in Diction­ naire encycopédique du christianisme ancien, II, Paris 1983, p. 2226b-2227a A. Papaconstantinou, “They shall speak the Arabic language and take pride in it”. Reconsidering the fate of Coptic after the Arab conquest, in «Le Muséon», 120 (2007), p. 273-299, en particulier p. 274-278. R. Pearse, Apocalypse of Samuel, Superior of Deir-El-Qalamoun, translated into English from the French of Jean Ziadeh; URL: http://www.tertullian.org/fathers/apocalypse_of_samuel_of_kalamoun_02_trans.htm (14/10/2013).

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L’Apocalypse de Samuel de Qalamūn

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Dalla guerra navale alla conquista delle grandi isole del Mediterraneo. Cipro, Rodi, Creta

Un luogo comune spesso affiorante negli studi è quello secondo cui gli Arabi, prima del VII secolo non avrebbero avuto alcuna dimestichezza con la navigazione: in realtà, come ha mostrato Patricia Crone in un recente e importante contributo, i viaggi per mare erano parte integrante della prassi commerciale araba,1 e la stessa diffidenza con cui i califfi “ben guidati” (e in particolare ‘Umar) guardavano a tutto ciò che avesse a che fare con il mare ebbe breve vita. D’altra parte, uno degli aspetti caratteristici delle prime campagne militari islamiche (non di rado rappresentate, nella storiografia meno recente, come semplici raid) 2 fu proprio la rapidità con cui la flotta araba riuscì a vincere la sfida contro la grande potenza navale bizantina. Secondo Balāḏūrī (morto intorno al 278/892), il grande storico delle conquiste musulmane, il califfo ‘Umar avrebbe proibito al governatore della Siria Mu‘āwiya – il futuro fondatore della dinastia umayyade – di avventurarsi per mare, ma tale divieto sarebbe stato poi revocato dal suo successore, ‘Utmān, che permise a Mu‘āwiya di allestire una grande flotta da guerra 3 – composta, 1. P. Crone, How did the Quranic Pagans make a Living?, in «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», 63 (2005), pp. 387­399. Sull’origine delle flotte islamiche cfr. ora C. Picard, Baḥriyyūn, émirs et califes: l’origine des équipages des flottes musulma­ nes en Méditerranée occidentale (VIII e-X e siècle), in «Medieval Encounters», 13 (2007), pp. 413-451. 2. Sull’uso, spesso invalso nella storiografia novecentesca, di rappresentare come raid “saraceni” quelle che sono in realtà spedizioni militari su larga scala cfr. le giuste considerazioni di D.M. Metcalf, Byzantine Cyprus 491-1191, Nicosia 2009 (Texts and Studies in the History of Cyprus, 62), p. 395. 3. Al­Balāḏūrī, Kitāb futūḥ al-buldān, a cura di M.J. de Goeje, I, Lugduni Batavorum 1863, pp. 153-154. Cfr. H. Kennedy, Le grandi conquiste arabe, Roma 2008 (ed. orig. 2007) (I volti della storia, 212), pp. 305-314.

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secondo il cronista bizantino Teofane, da 1.700 navi.4 Il primo obiettivo del governatore della Siria fu l’isola di Cipro, posta solo a cento chilometri dalle coste siriane: la prima spedizione ebbe luogo nel 28/649, e fu seguita da altri due attacchi, da collocarsi rispettivamente nel 29/650 e nel 33/653654.5 Tale cronologia è confermata da un documento di eccezionale importanza: un’iscrizione greca che commemora il restauro della basilica di Soloi, danneggiata durante quelle incursioni.6 Si tratta di un caso quasi unico di attestazione epigrafica di una campagna militare islamica del VII secolo: a quanto si legge nel testo, nel corso delle prime due incursioni, i musulmani avrebbero preso prigionieri circa 170.000 Ciprioti. Balāḏūrī afferma che il resto della popolazione di Cipro fu costretta a pagare un tributo annuale, che tale tributo era di 7.200 dinār, e che esso andava ad aggiungersi alla tassa del medesimo importo già imposta dai Bizantini.7 Quest’ultima notizia è confermata da un altro famoso storico arabo, Mas‘udī, che scrive: «gli abitanti di Cipro furono obbligati da un trattato di pace a non sostenere i 4. Theophanes, Chronicon, a cura di C. de Boor, I, Lipsiae 1883, pp. 343-344; cfr. anche la versione inglese, The Chronicle of Theophanes Confessor. Byzantine and Near East­ ern History a.d. 284-813, a cura di C. Mango, Oxford 1997, pp. 478-479. Cfr. Kennedy, Le grandi conquiste arabe [n. 3], pp. 305-308. 5. Sulla cronologia degli attacchi contro Cipro e dei relativi trattati di pace cfr. soprattutto A.D. Beihammer, Nachrichten zum byzantinischen Urkundenwesen in arabischen Quellen (565 bis 811), Bonn 2000 (Poikila byzantina, 17), nrr. 251-252 pp. 288-289, nr. 256 pp. 294-295 e nr. 267 pp. 303-309. Tuttavia Beihammer (sulla scorta di C.P. Kyrris, Cyprus, Byzantium and the Arabs from the Mid-7th to the Early 8th Century, in Oriente e Occidente tra medioevo ed età moderna. Studi in onore di G. Pistarino, a cura di L. Balletto, Genova 1997, II, pp. 625-674: 637 n. 34) colloca erroneamente la seconda spedizione cipriota di Mu‘āwiya nel 653/654, espungendo di conseguenza dal panorama storico dell’isola la spedizione del 650. In realtà, l’iscrizione di Soloi indica senza ambiguità che il secondo attacco avvenne nel 650: cfr. D. Feissel, Bulletin épigraphique, in «Révue des études greques», 100 (1987), pp. 380-381 nr. 532 [= Id., Chroniques d’épigraphie byzantine, 1987-2004, Paris 2006 (Monographies, 20), nr. 545]. Quella del 653/654 deve dunque essere considerata come la terza spedizione araba contro Cipro. Cfr. anche A. Cameron, Cyprus at the Time of the Arab Conquests, in «Cyprus Historical Review», 1 (1992), pp. 27-49: 32 [= Id., Changing Cultures in Early Byzantium, Aldershot 1996 (Collected Studies Series, 536), nr. VI]; Kennedy, Le grandi conquiste arabe [n. 3], pp. 306-307, e Metcalf, Byzantine Cyprus [n. 2], pp. 395-423. 6. L’iscrizione è pubblicata in Soloi. Dix campagnes de fouilles (1964-1974), I, a cura di J. des Gagniers, R. Ginouvés, T. Tinh Tran, Québec 1985, pp. 116-125, ma cfr. le correzioni di Feissel, Bulletin épigraphique [n. 5], pp. 380-381 nr. 532. Cfr. Cameron, Cyprus [n. 5], pp. 31-32 e n.13 a p. 46. 7. Al­Balāḏūrī, Kitāb futūḥ al-buldān [n. 3], pp. 153-154.

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Rūm contro i musulmani né i musulmani contro i Rūm, e a pagare il ḫarāǧ per metà ai Rūm e per metà ai musulmani».8 Lo stesso Balāḏūrī fornisce ulteriori ragguagli sui termini di tale trattato (che fu stipulato nel periodo immediatamente successivo alla spedizione del 28/649 e venne poi riconfermato dopo l’invasione del 33/653, e successivamente durante il califfato di Mu‘āwiya [41­60/661­680]): i musulmani non avrebbero offerto ai Ciprioti protezione militare contro i nemici esterni; i Ciprioti avrebbero tenuti informati i musulmani sui movimenti dei loro nemici; i Ciprioti non avrebbero dovuto offrire alcun supporto a chicchessia contro i musulmani.9 Secondo la maggior parte degli studiosi moderni che si sono occupati della questione, il trattato avrebbe dato all’isola uno status del tutto particolare: anche se Balāḏūrī parla di una guarnigione araba di 12.000 uomini dedotta nell’isola da Mu‘āwiya e della costruzione di alcune moschee,10 non ci si troverebbe di fronte a un’occupazione tout court, ma a una sorta di coabitazione («a regime of condominium and/or neutrality», secondo l’icastica definizione di Costas P. Kyrris).11 Le fonti bizantine, che sulla conquista di Cipro sono piuttosto avare di informazioni, sembrerebbero confermare questo quadro: il patriarca di Costantinopoli Nicola Mistico, in una lettera al califfo di Baghdad al­Muqtadir (295­320/908­932) scritta alla fine del 913 o all’inizio del 914, si sofferma a lungo sullo “statuto speciale” dell’isola, le cui origini egli fa appunto risalire a trecento anni prima.12 Gli studiosi, e in particolare i bizantinisti, hanno talvolta avanzato delle riserve sulla ricostruzione storica del patriarca, affermando che le pretese universalistiche dell’ideologia imperiale bizantina avrebbero reso impossibile una situazione 8. Al­Mas‘ūdī, Murūǧ al-ḏahab, a cura di C. Barbier de Meynard, A. Pavet de Courteille (revisione di C. Pellat), VIII, Beyrouth 1966 (Section des études historiques, XI), pp. 281-282. Cfr. A.A. Vasiliev, Byzance et les Arabes, II: La dynastie Macédonienne (867959), Bruxelles 1950, p. 43. 9. Al­Balāḏūrī, Kitāb futūḥ al-buldān [n. 3], pp. 153-154. 10. Ibidem. La guarnigione fu molto probabilmente stanziata a Paphos: cfr. C.P. Kyrris, The Nature of the Arab-Byzantine Relations in Cyprus from the Middle of the 7 th to the Middle of the 10 th Century A.D., in «Graeco-Arabica», 3 (1984), pp. 149-175: 154-156. 11. Kyrris, The Nature of the Arab-Byzantine Relations [n. 10]. 12. Nicholas I Patriarch of Constantinople, Letters, a cura di R.J.H. Jenkins, L.G. Westerink, Washington (DC) 1973 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae, 6), I, pp. 2-13. Cfr. M. Canard, Deux episodes des relations diplomatiques arabo-byzantines au Xe siècle, in «Bulletin d’études orientales», 13 (1949-1950), pp. 51-69 [= Id., Byzance et les musul­ mans du Proche Orient, London 1973 (Collected Studies Series, 18), nr. XII], in particolare pp. 62-69.

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ambigua come quella che le fonti sembrano attestare per Cipro tra VII e X secolo. Ma va tenuto presente che, come ha affermato Costas P. Kyrris,13 i principî di filosofia politica bizantina validi prima dell’inizio delle conquiste arabe si modificarono notevolmente nel periodo successivo, proprio in conseguenza delle conquiste, e che anche la teoria politica islamica non esclude la possibilità di una convivenza pacifica con popolazioni non sottomesse con le armi ma disposte a pagare un tributo (i giuristi musulmani definivano questo tipo di relazione con l’espressione dār al-ṣulḥ).14 D’altra parte, che Cipro, fino alla riconquista bizantina del 963/964, fosse in sospeso fra Bisanzio e il mondo islamico si evince chiaramente sia dai racconti dei pellegrini cristiani sia da quelli dei geografi musulmani: così ad esempio, nella relazione del viaggio in Terrasanta del sassone Willibald, che visitò l’isola nel 723, si afferma che i Ciprioti «sedebant inter Graecos et Sarracenos et inermes fuerunt, quia pax maxima fuit et conciliatio inter Sarracenos et Graecos»,15 mentre nell’opera geografica di Ibn Ḥawqal si legge che l’isola «in seguito a un’intesa fra i suoi abitanti, era divisa in due parti: per metà apparteneva ai Rūm e per metà ai musulmani».16 Tuttavia, non bisogna commettere l’errore di esagerare la portata dell’“anomalia” cipriota, che è tale soprattutto perché costituisce una sorta di cristallizzazione secolare di quella che doveva essere una situazione abbastanza comune nel periodo delle grandi conquiste arabe e che era essenzialmente dovuta al temporaneo equilibrio dei rapporti di forza fra Bisanzio e i musulmani. Ad esempio, l’uso di suddividere in parti uguali fra Bizantini e Arabi le tasse delle regioni contese fra i due imperi non è attestato solo per Cipro, ma anche per l’Iberia e per l’Armenia.17 In effetti, lo status quo descritto dai testi di IX e X secolo, che sembrano presupporre una ben precisa partizione territoriale, con i Bizantini nel nord e i musulmani nel 13. Kyrris, The Nature of the Arab-Byzantine Relations [n. 10], pp. 153-154 e 162-163. 14. Sulla dār al-ṣulḥ cfr. M. Khadduri, War and Peace in the Law of Islam, Baltimore (MD) 1955, pp. 144-145, e soprattutto D.R. Hill, The Termination of Hostilities in the Ear­ ly Arab Conquests, London 1971, passim. 15. Hodoeporicon Sancti Willibaldi, in Itinera Hierosolymitana et descriptiones Ter­ rae Sanctae, a cura di T. Tobler e A. Molinier, Genevae 1879, p. 260. 16. Ibn Hawqal, Liber imaginis terrae, a cura di. J.H. Kramers, Lugduni Batavorum 1938, p. 204. 17. Constantine Porphyrogenitus, De administrando imperio, a cura di G. Moravcsik e R.J.H. Jenkins, Washington (DC) 1967 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae, 1), XXII, p. 95. Cfr. Beihammer, Nachrichten zum byzantinischen Urkundenwesen [n. 5], p. 350, con ulteriore bibliografia.

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sud, non può essere affatto anticipato al VII­VIII secolo. La teoria di una divisione precoce e rigorosa dell’isola fra Bizantini e musulmani, recentemente riproposta da David M. Metcalf anche sulla base di una rilettura dei dati numismatici e sigillografici disponibili,18 è stata facilmente confutata da Vivien Prigent, che ha evidenziato tutta la sua labilità.19 Come scrive Prigent, tra VII e VIII secolo «Chypre serait “ville ouverte”, un territoire utilisé par l’un ou par l’autre des deux empires rivaux au gré des leurs besoins et de l’évolution de leurs rapports de force objectifs».20 D’altra parte, in questo periodo l’isola è teatro di conflitti ricorrenti, che sono appunto da riconnettere al continuo mutamento dei rapporti di forza fra Bisanzio e il califfato abbaside sulla frontiera dell’Asia Minore. Insomma, per usare un’efficace espressione del geografo arabo Muqaddasī, «l’isola è di chi la vuole occupare».21 Il celebre condominium cipriota non è altro che una conseguenza del fatto che nessuno dei due contendenti aveva i mezzi per farlo. In tutto ciò, l’elemento eccezionale non è certo costituito dalla presenza di patti e di accordi fra i contendenti, che sono largamente presenti in tutta l’area interessata dall’espansione islamica, ma dall’inconsueta durata di tali accordi, dovuta appunto all’equilibrio delle forze in campo nello scacchiere cipriota e alla particolare collocazione dell’isola, vero e proprio crocevia geografico, strategico, politico e culturale fra oriente e occidente. Il dossier relativo agli attacchi arabi contro Rodi è stato analizzato da Lawrence I. Conrad, che ha messo in luce come la documentazione islamica sia qui gravemente contaminata da materiali riferibili all’espugnazione di Arados e già condizionati, di per sé, dalla presenza di elementi “rodii” al loro interno: Arados, una piccola isola siriana a largo di Antarados (l’odierna Ṭarṭūs) che appunto la fronteggia, è nota agli Arabi come Arwād.22 Secondo Conrad, questa ambiguità toponomastica avrebbe prodotto una serie di racconti «largely ahistorical», da considerare semplicemente come «lit18. Metcalf, Byzantine Cyprus [n. 2], pp. 395-422. 19. V. Prigent, Chypre entre Islam et Byzance, in Chypre entre Byzance et l’Occident, a cura di J. Durand, D. Giovannoni, Paris 2012, pp. 79-87. 20. Ibidem, pp. 82-83. 21. Muqaddasī, Aḥsan al-taqāsīm fī ma‘rifat al-aqālīm, a cura di M.J. de Goeje, Lugduni Batavorum 1877 (Bibliotheca Geographorum Arabicorum, 3), p. 35. 22. L.I. Conrad, The Conquest of Arwād: A Source-Critical Study in the Historiogra­ phy of the Early Medieval Near East, in The Bizantine and Early Islamic Near East, I: Problems in the Literary Source Material, a cura di A. Cameron e L.I. Conrad, Princeton (NJ) 1992 (Studies in Late Antiquity and Early Islam, 1/I), pp. 317-401.

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erary creations with no historical basis».23 Uno dei testi nei quali la contaminazione fra Rodi e Arados si manifesta con maggiore evidenza è il Kitāb al-Futūḥ di Ibn A‘tam al­Kūfī (m. intorno al 313/926),24 in cui l’autore, descrivendo la conquista dell’isolotto siriano, attribuisce chiaramente ad esso caratteristiche rodie: Arados, a pochi chilometri dalla costa siriana, vi appare come un’«isola grande» (ǧazīra ‘aẓīma) posta a notevole distanza dalla Siria; inoltre, Ibn A‘tam afferma che l’attacco ad Arados avrebbe avuto luogo dopo «l’incursione in Sicilia».25 Ciò contrasta con la cronologia della conquista di Arados (stabilita con certezza anche sulla base di fonti bizantine, siriache e arabo-cristiane), che avvenne nel 29/650, subito dopo la spedizione contro Cipro,26 ma si accorda perfettamente a quella del raid contro Rodi del 32-33/653: com’è noto, la prima incursione araba in Sicilia si data tra il 29/650 e il 31/652.27 Altri elementi “rodii” associati ad Arados nelle fonti islamiche sono l’idea secondo cui l’isola si troverebbe vicino a Costantinopoli,28 e la menzione di personaggi certamente attivi a Rodi nell’anno 53/674, la presenza dei quali, nell’attacco all’isola siriana, è invece, per motivi biografici, del tutto impossibile.29 Conrad, che ricostruisce con acume e dottrina le varie sovrapposizioni del “dossier Rodi-Arados”, tende ad attribuire l’origine della confusione fra le due isole all’instabilità della tradizione storiografica arabo­islamica così come alla sua «arbitrary elaboration and attribution of old material».30 Da ciò un giudizio generale piuttosto negativo sull’affidabilità di molti materiali tramandati dagli storici islamici, che culmina in un 23. Conrad, The Conquest of Arwād [n. 22], p. 352. 24. Ibn A‘tam al-Kufî, Kitāb futūḥ, a cura di M. ‘Abd al­Mu‘īd Ḫān, II, Hydarābād 1388/1968, pp. 145-146. 25. Ibidem, p. 145. 26. Conrad, The Conquest of Arwād [n. 22], pp. 322-348. 27. Per la cronologia del primo attacco arabo alla Sicilia cfr. m. Amari, Storia dei mu­ sulmani di Sicilia. Seconda edizione modificata e accresciuta dall’autore, pubblicata con note a cura di Carlo Alfonso Nallino, 3 voll., Catania 1933-1939, I, p. 194. Secondo Conrad, The Conquest of Arwād [n. 22], p. 353, che pure riconosce nel capitolo su Arwād del Kitâb al-Futûḥ la presenza di materiale riferibile a Rodi, la collocazione della presa dell’isolotto siriano dopo l’incursione araba in Sicilia sarebbe un segno della «ill-informed conception of Mediterranean geography» di Ibn A‘tam. In realtà, sembra evidente come anche questo dato sia da collegare ad eventi relativi a Rodi, non a Arados/Arwād. 28. Conrad, The Conquest of Arwād [n. 22], pp. 380-381. 29. Ibidem, pp. 371-387. 30. Ibidem, pp. 397-398.

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atto di sfiducia nei confronti di tutte le tradizioni storiche del Vicino Oriente medievale.31 Ora, proprio la raffinata analisi comparata a cui Conrad sottopone le fonti di tradizione islamo-cristiana relative a Rodi-Arados mostra come questo tipo di indagine sia sommamente utile a chiarire i punti oscuri delle singole tradizioni e a individuare le origini di equivoci e fraintendimenti. In particolare, la sovrapposizione fra Rodi e Arados, di cui Conrad non spiega la genesi filologica, preferendo illustrarne sùbito le conseguenze, ha alla base l’ingannevole somiglianza dei due toponimi, anche maggiore in veste araba: il nome di Rodi è difatti reso con Rūdus (‫ )رودس‬o al-Rūd (‫)اﻟرود‬, mentre quello di Arados è appunto Arwād (‫)ارواد‬, facilmente confondibile con i due precedenti. Tale circostanza ha dato luogo a una catena di malintesi che si ripercuotono in tutta la tradizione storiografica – e geografica – islamica concernente le campagne militari arabe contro le isole dell’impero bizantino. Errori di questo genere sono originati dalla facilità con cui le lettere arabe, data la loro peculiare conformazione, tendono ad alterarsi nella tradizione manoscritta, in particolare nei nomi di origine straniera. Giustamente, Conrad evoca come parallelo dell’equivoco fra Rodi e Arados il caso della confusione fra Iṣfahān (‫ )اﺻﻔﻬﺎن‬e Nihawānd (‫)ﻧﻬواﻨد‬, magistralmente studiato da Albrecht Noth, anch’essa evidentemente generata da un’errata lettura dei due toponimi.32 Ma esiste almeno un altro dossier che, anche per i suoi esiti “ideologici”, può utilmente paragonarsi a quello concernente Rodi-Arados nella tradizione islamica: quello relativo alla confusione fra Roma e Costantinopoli nei testi geografici arabi medievali.33 Se la prima descrizione araba di una città denominata Rūmiyya, conservata nell’opera del geografo Ibn Ḫur(ra)dāḏbih è – inequivocabilmente – un puro e semplice profilo di Costantinopoli,34 tale testo poi costantemente riutilizzato e trasmesso nel corso dei secoli, costituisce uno snodo decisivo nel31. Ibidem, pp. 399-400. Sul dibattito concernente l’attendibilità delle fonti storiche musulmane che trattano dei primi secoli dell’Islām cfr. ora Kennedy, Le grandi conquiste arabe [n. 3], pp. 17­33, con ampia bibliografia. 32. A. Noth, Iṣfahān-Nihawānd. Eine quellenkritische Studie zur frühislamischen Hi­ storiographie, in «Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft», 118 (1968), pp. 274-296. 33. Cfr. M. Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Roma nella storiografia arabo-islamica medievale, Pisa 2009 (Greco, arabo, latino. Le vie del sapere, 1), pp. 223­230, con bibliografia. 34. Ibn Ḫur(ra)dāḏbih, Kitāb al-masālik wa ’l-mamālik, a cura di. M.J. de Goeje, Leiden 1967 2 (Bibliotheca Geographorum Arabicorum, 6), pp. 113-115.

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Marco Di Branco

la formazione di quella confusa immagine di una “Roma costantinopolitana” o di una “Costantinopoli romana” che si trova operante nelle fonti successive, fin dall’opera geografica di Ibn Rusta, composta fra il 290/903 e il 300/913.35 Qui le notizie su Costantinopoli, riprese da Ibn Ḫur(ra)dāḏbih, si fondono effettivamente per la prima volta con elementi autenticamente romani (il papa, la lontananza dal mare, il fiume, le scorrerie dei musulmani). La medesima situazione si ritrova nella voce Rūmiya del grande dizionario geografico di al­Yāqūt:36 alcune brevi notizie vi riguardano Roma a tutti gli effetti, mentre la maggior parte delle descrizioni riportate (tra cui quella fornita dall’anonimo “monaco” probabile fonte del profilo costantinopolitano di Ibn Ḫur(ra)dāḏbih)37 sono con tutta evidenza da riferirsi esclusivamente a Costantinopoli. Lo stesso può dirsi per i brani relativi a Rūmiya della nestoriana Cronaca di Si‘irt, scritta in arabo nell’XI secolo su fonti sire più antiche,38 e del magrebino Isḥāq b. al­Ḥusayn, vissuto fra X e XI secolo (ma resta qui eccezionale la menzione della tomba dell’apostolo Simone).39 I grandi geografi arabi maggiormente interessati all’Occidente, al­Bakrī (m. 456/1064),40 al­Idrīsī (VI/XII secolo, ma solo in quel che ne riporta il siriano Abū ’l­Fidā’ nell’VIII/XIV secolo),41 e al­Ḥimyarī (VIII/ XIV secolo),42 avrebbero poi offerto descrizioni di Roma finalmente accet35. Ibn Rustah, Kitāb al-a‘lāq an-nafīsah, a cura di M.J. de Goeje, Lugduni Batavorum 1892 (Bibliotheca Geographorum Arabicorum, 7), pp. 128-132. 36. al­Yāqūt, Mu‘ǧām al-buldān, s.v. Rūmiya, a cura di F. Wüstenfeld, II, Leipzig 1866, p. 866-872. 37. Cfr. ultimamente A. De Simone, G. Mandalà, L’immagine araba di Roma. I geo­ grafi del Medioevo (secoli IX-XV), Bologna 2002 (2000. Viaggi a Roma, 8), pp. 14 e 71. 38. Historia Nestoriana, a cura di A. Scher, in Patrologia Orientalis, IV/3 (1908), pp. 284-285. Sulla composizione e la datazione dell’opera cfr. le indicazioni in G. Fiaccadori, Teofilo Indiano, Ravenna 1992 (Biblioteca di «Felix Ravenna», 7), pp. 47-48, n. 14, con bibliografia. 39. Isḥāq Ibn al­Ḥusayn, Kitāb ākām al-marǧān fî ḏikr al-madā’in al-mašhūrah fī kull makān, a cura di M. Sa’ad, Bayrūt 1988, pp. 112­115. 40. Al­Bakrī, Kitāb al-masālik wa ’l-mamālik, a cura di A.P. van Leeuwen e A. Ferré, II, Tunis 1993, pp. 477-481. 41. Abū ’l­Fidā’, Taqwīm al-buldān, a cura di J.T. Reinaud e W. Mac Guckin de Slane, Paris 1840, pp. 199 e 211. Cfr. G. Igonetti, Le citazioni del testo geografico di Idrīsī nel Taqwīm al­buldān di Abū ’l-Fidā’, in «Studi magrebini», 8 (1976), pp. 39-52. 42. al­Ḥimyarī, Al-rawd al-mi‘ṭār fī ḫabar al-aqṭār, a cura di A. ‘Abbās, Bayrūt 1975, pp. 274-276. Come nota giustamente M. Nallino, Un’inedita descrizione araba di Roma, in Scritti in onore di Laura Veccia Vaglieri [= «Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli», n.s., 14 (1964)], pp. 295­309: 296, senza però trarre alcuna conclusione in proposito, la descrizione di Roma di al­Ḥimyarī «è diversa da quella che troviamo negli altri geo­

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tabili e perspicue, pur nei limiti di una letteratura che sconfina spesso nel fantastico e nel meraviglioso.43 E tuttavia, inaspettatamente, la confusione con Costantinopoli doveva riemergere anche in autori “insospettabili”.44 In questa ambigua persistenza dell’equivoco è certamente – come ha ben notato Giuseppe Mandalà – un elemento ideologico,45 la cui radice è però da ricercarsi soprattutto nella difficoltà (che ha creato problemi anche agli studiosi contemporanei) costituita dall’esistenza di due grandi capitali per le quali si usava lo stesso nome: Rūmiy(y)a/Costantinopoli e Rūmiy(y)a/Roma, che negli autori arabi d’Occidente divenne più semplicemente, o più correttamente, Rūma o Rūmā. L’elemento fondamentale che accomuna i dossiers Rodi­Arados, Iṣfa­ hān­Nihawānd e Roma­Costantinopoli è dunque un equivoco terminologico originario, fortemente amplificato da quella che è la caratteristica fondamentale della storiografia islamica (in parte mutuata dalla bizantina): la compilazione, consistente nel riportare – essenzialmente invariati – nuclei di aḫbār (“notizie”) contenuti in opere precedenti. Per tal modo, si viene a creare una sorta di catena di trasmissione: i testi più antichi sono sussunti grafi arabi»: in effetti qui siamo in presenza di una descrizione piuttosto precisa di Rūma (Roma), come infatti la chiama l’autore, e non di Rūmiya/Rūmiyya (Costantinopoli). A conferma di quanto finora esposto, il profilo di Costantinopoli tracciato da al­Ḥimyarī (ed. cit., pp. 471-472) contiene tutto il plesso di notizie riferite a Rūmiya/Rūmiyya da Ibn Ḫur(ra) dāḏbih. 43. Sul rapporto fra storia, geografia e mirabilia cfr. soprattutto G. Dagron, Costanti­ nople imaginaire, Paris 1984 (Bibliothèque byzantine. Études, 8), passim; C. Frugoni, L’antichità: dai «Mirabilia» alla propaganda politica, in Memoria dell’antico nell’arte ita­ liana, a cura di S. Settis, I: L’uso dei classici, Torino 1984 (Biblioteca di storia dell’arte, nuova serie, 1), pp. 5-72; M. Accame Lanzillotta, Contributi sui Mirabilia Urbis Romae, Genova 1996 (Pubblicazioni del Dipartimento di archeologia, filologia classica e loro tradizioni, 163); C. Nardella, Il fascino di Roma nel Medioevo, Roma 1998 (La corte dei papi, 1); S. Aini, Mirabilia Urbis Romae, in Romei e Giubilei, a cura di M. D’Onofrio, Milano 1999, pp. 199-205; M. Di Branco, La città dei filosofi. Storia di Atene da Marco Aurelio a Giustiniano, Firenze 2006 (Civiltà veneziana, Studi, 51), pp. 232-240. 44. Come notano giustamente De Simone, Mandalà, L’immagine araba di Roma [n. 37] pp. 90-93, anche negli autori di ambito occidentale, dai quali ci si aspetterebbe, almeno per la loro relativa prossimità geografica all’Italia, una maggior conoscenza di Roma, l’equivoco Roma/Costantinopoli persiste largamente. Va comunque sottolineato che le fonti in questione sono per lo più semplici raccolte di descrizioni precedenti, dove l’elemento “autoptico” è del tutto assente, per lasciare ampio spazio al gusto, tutto letterario, del racconto accattivante e allusivo (benché non verificabile). 45. Vedi n. 44. Per la storia degli studi sul tema cfr. ora Di Branco, Storie arabe [n. 33], pp. 223-230.

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all’interno dei più recenti, che ne rappresentano in certa misura una versione aggiornata, successivamente utilizzata – e copiata – a sua volta da altri autori.46 Se, per le sue caratteristiche, il metodo compilativo può certo essere causa di malintesi notevoli, va però notato che esso, mantenendo intatti i singoli aḫbār, offre l’opportunità di verificarne in qualsiasi momento l’attendibilità e di isolare – ed emendare – gli eventuali possibili errori. In questo senso, proprio lo studio di Conrad mostra chiaramente come una rigorosa analisi comparata delle fonti renda possibile individuare e separare con estrema precisione aḫbār pertinenti a dossier diversi anche quando nella narrazione degli storici arabi essi risultano erroneamente associati. Per Conrad un altro fondamentale motivo di scetticismo nei confronti delle «various traditions available for studying the history of the early medieval Near East» è rappresentato dall’ampio repertorio di topoi che in esse viene a dispiegarsi.47 Egli vede simili topoi come creazioni letterarie totalmente svincolate dalla realtà effettuale: così, a suo parere, le tradizioni riguardanti l’occupazione araba di Rodi del 53/674 (o del 54/674) e il suo abbandono dopo sette anni (cui avrebbe fatto séguito la “riconquista” del 60/679-680) dipenderebbero da racconti leggendarî concernenti «a Muslim community resident on some island for a period of “seven years”» e più spesso riaffioranti nei racconti relativi alla conquista delle isole.48 Secondo Edmund C. Bosworth, che accetta in toto le conclusioni di Conrad: what we are left with is the likelihood of two Arab raids on Rhodes, one during ‘Uthman’s caliphate in ca. 32-3/653 and another at the very end of Mu‘awiya’s caliphate in ca. 60/679-80, and the unlikelihood of an attack in 53/673 or 54/674 which led to a several years’ occupation; hence the ref46. Sul carattere essenzialmente “compilativo” della storiografia araba, cfr. l’importante saggio di K. Franz, Kompilation in arabischen Chroniken, Berlin-New York 2004 (Studien zur Geschichte und Kultur des islamischen Oriens, n. F., 15), in particolare pp. 93121; cfr. anche S. Leder, The Literary Use of the Khabar: A Basic Form of Historical Writ­ ing, in The Bizantine and Early Islamic Near East, I [n. 22], pp. 277-315. Sulla parte della compilazione nella storiografia bizantina cfr., ad esempio, E.M. Jeffreys, The Attitudes of Byzantine Chroniclers Towards Ancient History, in «Byzantion», 49 (1979), pp. 199-238. 47. Conrad, The Conquest of Arwād [n. 22], p. 399. L’autore è ben conscio del fatto che questa non è certo una caratteristica esclusiva della storiografia islamica: d’altra parte, egli stesso ha dedicato uno studio molto importante alla leggenda cristiana della demolizione del Colosso di Rodi da parte degli Arabi, che fa da pendant a quella della distruzione della Biblioteca di Alessandria: L.I. Conrad, The Arabs and the Colossus, in «Journal of the Royal Asiatic Society», s. III, 6 (1966), pp. 165-187. 48. Conrad, The Conquest of Arwād [n. 22], p. 377.

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erences to this last in the standard histories cannot be regarded as firmly based.49

In verità, dietro il topos analizzato da Conrad non sembra celarsi una pura e semplice «literary creation», ma piuttosto una vera e propria guida alla comprensione del fenomeno delle campagne arabe contro le isole dell’impero bizantino, sempre in equilibrio fra semplici incursioni e conquiste di maggior durata: un processo fatto di successive fasi di razzia, occupazioni, abbandoni e “riconquiste”, non certo un dominio fisso e stabile. Non sembra dunque corretto voler proporre una cronologia semplificata degli attacchi a Rodi espungendo arbitrariamente alcune date ben attestate nella tradizione islamica.50 Qualora si resista alla tentazione di considerarle mere reduplicazioni di poche, epocali “conquiste definitive”, le reiterate menzioni di attacchi alle isole dell’Egeo presenti nelle opere storiche bizantine ed islamiche lasciano infatti emergere in dissolvenza la realtà storica di una presenza musulmana che, sul mare, tende a imporsi in maniera non lineare, attraverso una lunga serie di spinte e controspinte di cui le fonti danno ampiamente conto. La mancanza di linearità del processo di conquista risulta evidente anche nel caso dei racconti arabo-bizantini concernenti la presa di Creta. Com’è noto, il primo raid musulmano contro l’isola, che avvenne nel 344/656, fu guidato dal governatore dell’Egitto ‘Abd Allāh b. Sa‘d b. Abī Sarḥ, e nel secolo e mezzo successivo Creta fu sottoposta a un numero imprecisato di attacchi. Almeno due di questi furono forse qualcosa di più di semplici raid: le fonti arabe parlano infatti di una breve conquista dell’isola all’epoca di al­Walīd (85­96/705­715) e di una vera e propria invasione ai tempi del califfo abbaside Harūn al­Rašīd (170­193/786­809).51 Nello stesso tempo, le fonti agiografiche bizantine contemporanee, come ad esempio gli enkomia di sant’Andrea e di san Tito, databili nel primo quarto dell’VIII secolo, alludono chiaramente alla volontà di conquista dei musul49. c.e. Bosworth, Arab Attacks on Rhodes in the Pre-Ottoman Period, in «Journal of the Royal Asiatic Society», s. III, 6 (1966), pp. 157-164: 160. 50. Cfr. ultimamente le giuste considerazioni di V. Ruggieri, La Caria bizantina: to­ pografia, archeologia ed arte (Mylasa, Stratonikeia, Bargylia, Myndus, Halicarnassus), Catanzaro 2005, pp. 248­250, con ulteriore bibliografia. 51. Sulla conquista di Creta è fondamentale la monografia di V. Christidis, The Con­ quest of Crete by the Arabs (ca. 824). A Turning Point in the Struggle between Byzantium and Islam, Athens 1984, con ulteriore bibliografia.

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mani e descrivono operazioni di guerra che vanno ben oltre l’azione finalizzata al saccheggio.52 Tuttavia, la grande invasione di Creta, che portò a una presenza islamica duratura e alla fondazione dell’emirato cretese, avvenne solo alcuni anni più tardi, quando alcune migliaia di rivoltosi andalusi, guidati dal loro capo Abū Ḥafṣ ‘Umar, decisero di andare in cerca di fortuna nel Mediterraneo; dopo aver attaccato l’Egitto ed essersi impadroniti per qualche tempo di Alessandria, ne furono espulsi e si diressero su Creta, approfittando del vuoto che si era aperto nelle difese bizantine dopo la rivolta di Tommaso lo Slavo.53 Il continuatore di Teofane e lo storico Genesio ci informano comunque del fatto che Abū Ḥafṣ aveva già in precedenza saccheggiato Creta ed era stato profondamente impressionato dalle sue ricchezze, e una fonte arabo­cristiana quale la storia dei patriarchi di Sawīrus Ibn al­Muqaffa‘ conferma implicitamente tale notizia, affermando che gli andalusi avrebbero attaccato e depredato l’isola anche prima del loro insediamento in Egitto, prendendo migliaia di prigionieri bizantini.54 D’altra parte, come ha mostrato Vassilios Christidis, la data stessa della conquista di Creta è posta dalle fonti arabe e bizantine in un arco cronologico che va dal periodo immediatamente successivo alla rivolta di Tommaso lo Slavo (821­823) all’epoca dell’imperatore Teofilo (m. 842).55 Tale oscillazione è ancora una volta spiegabile con il fatto che la conquista di un’isola delle dimensioni e dell’importanza di Creta fu un processo lungo, graduale e complesso, assai simile, per certi versi, a quello messo in atto per la contemporanea conquista della Sicilia. Le diverse date fornite dalle fonti, che dipendono in ultima analisi dall’enfasi posta dai singoli autori sull’uno o sull’altro evento della campagna musulmana contro l’isola, non devono dunque essere artificialmente ricondotte a una sola data che esclude tutte le altre: proprio la loro molteplicità dà infatti perfettamente conto della complessità dell’evento a cui esse fanno riferimento. Infine, vorrei soffermarmi brevemente sull’assetto di Creta nel periodo immediatamente successivo alla conquista: una volta insediatisi sull’isola, gli Andalusi si organizzarono in un emirato che riconosceva formalmente l’autorità del califfo di Baghdad e che sopravvisse fino alla riconquista bizantina del 961. Tale riconoscimento è attestato dall’evidenza numi52. Ibidem, pp. 89-90. 53. Ibidem, pp. 85-92. 54. Per l’elenco delle fonti cfr. ibidem, pp. 88-92. 55. Ibidem, pp. 85-88.

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smatica, giacché su alcune monete coniate a Creta a partire dalla seconda metà del IX secolo appare, accanto al nome dell’emiro, quello del califfo abbaside regnante; tuttavia, come ha notato George Miles, autore di uno studio fondamentale sulle coniazioni dell’emirato cretese, la connessione fra Baghdad e Creta non doveva essere poi troppo stretta: in effetti, tre dirham databili con certezza nel 281/894-895 portano il nome del califfo Mu‘tamid (m. 279/892) invece di quello del suo successore Mu‘taḍid.56 Per concludere, vale forse la pena di porre l’accento su un elemento che, come si è visto, accomuna i casi di Cipro, Rodi e Creta: il tema delle scorrerie quali prodromi della conquista. Un elemento che potrebbe forse spingere a valutare in maniera del tutto diversa quelle incursioni musulmane nell’Italia meridionale che la vulgata amariana tende a derubricare come fenomeno marginale, di cui ci si limita a constatare l’esistenza, senza che siano mai effettuati riscontri con gli indirizzi geopolitici maturati nei centri di potere più importanti del mondo islamico.

56. G.C. Miles, The Coinage of the Arab Amirs of Crete, New York 1970 (Numismatic Notes and Monographs, 160), pp. 27-28. Cfr. Christidis, The Conquest of Crete [n. 51], pp. 114-116.

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ann chriStyS

From ǧihād to diwān in two providential histories of Hispania/al-Andalus

In 2006, Eduardo Manzano published Conquistadores, emires y cali­ fas. Los Omeyas y la formación de al-Andalus,1 a wide-ranging analysis of the reasons for the success of the Umayyads in the Iberian peninsula. His book is based on the Arabic narrative sources, but also makes extensive use of Latin sources, prosopography, legal texts, and material evidence. In his treatment of the conquest, Manzano considered the origins of the Muslim soldiers and their commanders, the legitimation of the new rulers, the allocation of land and revenue to the army, developing relations between the conquerors and the indigenous population, war on the frontiers and many other aspects of the transition from ǧihād to diwān, the themes of the current volume. Manzano characterised the early Conquistadores as the commanders of the armies of the Islamic empire based in Damascus, who rapidly dominated most of the Iberian peninsula through a combination of force and treaties. From the first, Manzano argued, we can see the imposition of a centralised state, down to the positioning of the norias that irrigated the green revolution.2 Fiscal exploitation was gradually extended to all corners of al-Andalus. Extra copper coinage was minted, probably to fund military campaigns. The relationship between centre and periphery was strengthened through the promotion of ǧihād on the frontier.3 All this activity took place within a common legal framework. Using recent studies of Islamic scholars (‘ulamā’) and of legal sources and notarial formulae, Manzano stressed the normative force of legal judgements, not only for individual Muslims, but also for the state. 1. E. Manzano, Conquistadores, emires y califas. Los Omeyas y la formación de alAndalus, Barcelona 2006 (Serie mayor). 2. Ibidem, p. 460. 3. E. Manzano, La frontera de al-Andalus en época de los Omeyas, Madrid 1991 (Biblioteca de historia, 9).

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Ann Christys

Manzano’s argument is neatly represented by a small number of surviving coins that were minted almost immediately after the conquest. The earliest examples, dated 713, imitated Byzantine models and carried the declaration of faith (šahāda) in Latin. By 720-721, coins had Arabic inscriptions and named the mint as al-Andalus. They encapsulate both Umayyad claims to ownership of a new land and financial support for the armies of the caliphate. Thus the arrival of new armies from Syria in the 740s with nothing but a few silver coins in their pockets and no family lands to fall back on in Syria was a key factor in Umayyad success. So were pacts between the conquerors and former members of the Visigothic nobility and the building of links of dependence with Christian converts to Islam, whose loyalty was solely to the Umayyads who converted and promoted them. Whatever difficulties the Umayyads faced in Damascus in the 750s, when ‘Abd al­Raḥmān I arrived in al­Andalus in 756 his legitimacy, it seems, was already established. Yet the apparent efficiency of the takeover is deceptive. A handful of coins and two contrasting archaeological sites are our meagre material corroboration for written accounts of the conquest. Archaeologists have demonstrated continuity of settlement at Tolmo de Minateda (Madīnat Iyyāh) in the east of the peninsula. This seems to represent the workings of a treaty, perhaps the pact between the conquerors and a Visigothic count Theodimir that is mentioned in both the Latin and the Arabic sources.4 This continuity contrasts with the findings at El Bovalar, where two coins naming a Visigothic ruler, Agila (710-713) have been discovered, suggesting that the site was abandoned early in the early eighth century, perhaps as a direct result of the conquest. Yet -there is so far no material evidence for early Islamic settlement in the peninsula. The conquerors did not found military garrisons (amṣār) here, as they did elsewhere in the Islamic world. The establishment of the Umayyads in al­Andalus after 756 was not reflected in a building programme until much later. Mosques may have been established in centres of population soon after the conquest. Later stories attributed their foundation to prominent figures from the generation after Muḥammad (tabī’ūn), who were said to have participated in the conquest 4. Corpus Scriptorum Muzarabicorum, ed. J. Gil, 2 voll., Madrid 1973: I, 47, p. 34; A. Christys, Christians in al-Andalus, 711-1000, Richmond 2002 (Culture and Civilization in the Middle East), p. 175; P. Chalmeta, Invasión e islamización. La sumisión de Hispania y la formación de al-Andalus, Jaén 2003, pp. 206-212; Manzano, Conquistadores [n. 1], p. 43.

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From ǧihād to diwān

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of al-Andalus. Some of these men, however, never went to Spain; this casts doubts on the historicity of their mosques.5 Most of the fortifications, mosques and palaces built under the Umayyads date to the tenth century, the period when ‘Abd al­Raḥmān III’s declaration of the caliphate confirmed the dynasty’s status as a significant sovereign power. For an assessment of the years after 711, we are reliant on the histories of the conquest written in Arabic. Manzano himself admirably laid out their limitations 6 and recently Nicola Clarke has conclusively accounted for them.7 The present article is a footnote to the work of these two scholars. It was only during the caliphate that the master narrative of the Umayyad conquest of al-Andalus was written. Andalusi Muslims either never preserved or had lost the history of the conquest, and the first attempts to recreate it were by scholars writing in Egypt in the ninth century. The most prominent of these were an Andalusi, Ibn Ḥabīb (d. 852) 8 and an Egyptian Ibn ‘Abd al­Ḥakam (d. 870) who studied together under the latter’s father.9 The two historians cited traditions supposedly going back to the conquest, in one case collected by a son of one of the tabī’ūn;10 both the protagonists and their exploits, however, are implausible. They were displaced by new narratives in the tenth century. A History of the Conquest by Ibn al­Qūṭīya (d. 977) 11 provided evidence for the continuing prosperity of the indigenous population, describing agreements between the Visigothic nobility and the newcomers that left them in possession of some of their lands whilst contributing to the stability of the Islamic settlement. This was a plausible interpretation of the conquest by a tenth-century Andalusi who 5. S. Calvo, Las primeras mezquitas de al­Andalus a través de las fuentes árabes (92/711-170/785), in «Al­Qanṭara», 28/1 (2007), pp. 143­179. 6. E. Manzano, Las fuentes árabes sobre la conquista de al­Andalus: una nueva inter­ pretación, in «Hispania», 59/2 (1999), pp. 389-432. 7. N. Clarke, The Muslim Conquest of Iberia. Medieval Arabic Narratives, LondonNew York 2012 (Culture and Civilization in the Middle East, 30). 8. ‘Abd al­Malik ibn Ḥabib, Kitab al-Ta’rīḫ, ed. J. Aguadé, Madrid 1991. 9. Ibn ‘Abd al­Ḥakam, Futūḥ Miṣr, ed. C. Torrey, New Haven 1922, pp. 205-207; Ibn Abd-el-Hakem’s History of the Conquest of Spain, transl. by J.H. Jones, Göttingen 1858, pp. 18-22. 10. M.A. Makki, Egipto y los origines de la historiografía árabe-española, in «Revista del Instituto egipcio de estudios islámicos», 5 (1957), pp. 157-248. 11. Abū Bakr Muḥammad ibn ‘Umar Ibn al­Qūṭīya, Ta’rīḫ iftitāḥ al-Andalus, ed. I. al­Abyārī, Beirut 1982; Early Islamic Spain. The History of Ibn al-Qūṭīya, ed. and transl. by D. James, London 2009 (Culture and Civilization in the Middle East, 15).

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seems to be one of the descendants of a Christian convert to Islam. Such stories, however, are more likely to be foundation myths than reality.12 Ibn al­Qūṭīya’s History was in any case passed over in favour of the work of Aḥmad al­Rāzī (d. 955) and his son ‘Īsà, writing at the Umayyad court. One of the works of Aḥmad al­Rāzī’ was translated into Portuguese, and then Castilian as the Chronicle of the Moor Rasis, but his account of the conquest survives only as a novelistic version composed in the fifteenth century.13 Al­Rāzī was, however repeatedly cited by later historians, in particular in Muqtabis of Ibn Ḥayyān (d. 1076) composed after the fall of the caliphate. Ibn Ḥayyān and his successors selected from and interpolated their sources.14 The result is a history of the Umayyads written by their panegyrists and refracted through the pages of those who lamented the passing of a Golden Age. It was only in this romanticised form that the conquest of Spain entered the mainstream history of Islam. From this perspective, the expansion of the Islamic empire to the Iberian peninsula was a natural extension of ǧihād, the struggle to establish a universal caliphate. Yet even in the later sources, this triumphalist narrative was balanced by an ethical debate about the legality of the conquest and settlement that focused on problems related to the use of force against the indigenous population, the allocation of their land to the conquerors and the confiscation of their property as booty. According to Islamic law, if there was armed resistance to the forces of Islam, the land conquered (‘an­ watan) belonged indivisibly to the umma – in theory, the whole of the Muslim community, but in practice, the ruling faction. Such land might be handed out as grants (iqta’) in return for military service, but was inalienable. This land also provided the ‘fifth part’ (ḫums) that, in theory at least, went directly to the Umayyads or to the governors whom they appointed. Land that fell under pact (ṣulḥ) continued to belong to the conquered people, to dispose of as they wished; it was not subject to the “fifth”, although the non-Muslims were liable for a poll tax, the ǧizya. From the perspective of the tenth century and later, it was not clear whether these norms had been implemented. Historians continued to rehearse these questions, together with others relating to the loyalty and status of the indigenous popu12. Christys, Christians in al-Andalus [n. 4], pp. 158-183. 13. Crónica del Moro Rasis, ed. D. Catalan, M.S. de Andrés, Madrid 1975, chap. CLXXIX, pp. 280-284 and p. xvi. 14. L. Molina, Técnicas de amplificatio en el Muqtabis de Ibn Ḥayyān, in «Talia dixit», 1 (2006), pp. 55-79.

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lation as well as of new Muslims. Many of these problems arose from tensions within tenth-century society, which historians attempted to defuse by giving them an origin in the conquest.15 It was easier to contest the past than the present. Yet some of these debates emerge in two of the earliest sources for the conquest, one on Latin – the so-called Mozarabic Chronicle of 754 16 – and one in Arabic – the History (Ta’rīḫ) attributed to Ibn Ḥabīb 17 – although they were written from different traditions and did not use the technical terms employed in later discussions. The two texts have widelydiffering reputations in modern historiography. The Latin Chronicle of 754 appears to provide reliable information about the conquest. Ibn Ḥabīb’s History in contrast, has been overlooked, since it «includes fabulous legends, offers few details of the military campaigns, and focuses on events that seem to be irrelevant».18 Yet a comparison between the two texts showing that Ibn Ḥabīb, in his own way, was telling part of the story that can be read in the Christian chronicle. Together, they provide an account of the conquest that nuances the triumph of Islam in al-Andalus. The Chronicle of 754 is the nearest thing we have to a contemporary account of the conquest. The plainness of the annalistic format and a dearth of contradictory sources adds to the impression of veracity. The Chronicle of 754 was, as its title implies, written in the middle of the eighth century by a Christian living under Muslim rule, possibly in Toledo, although the earliest MSS fragments date to the tenth century, and the other copies are much later.19 It was composed for fellow Christians who remembered the second Muslim settlement in the peninsula, by the Syrians in the 740s, which was followed by civil war; the author says of this period that «noone in all of Spain is ignorant of these events».20 The compiler demonstrates his or her aspiration to write providential Christian history, firstly by making the chronicle a continuation of a chain of Spanish chronicles with their origins in the universal history of Eusebius, and secondly by writing about the whole of the Mediterranean world, beginning shortly before the 15. Clarke, The Muslim Conquest [n. 7], esp. pp. 62-68. 16. Chronica Muzarabica, ed. J. Gil, in Corpus Scriptorum Muzarabicorum [n. 4], I, pp. 15-54. 17. Ibn Ḥabīb, Ta’rīḫ [n. 8]. 18. Manzano, Conquistadores [n. 1], p. 36. 19. C. Cardelle de Hartmann, The textual transmission of the Mozarabic Chronicle of 754, in «Early Medieval Europe», 8/1 (1999), pp. 13-29. 20. Chronica Muzarabica [n. 16], 70, p. 47.

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accession of Heraclius and chronicling the rise of the Arabs, using Byzantine and Islamic regnal years in addition to Spanish Era and Anno Mundi dating. The chronicler’s Christian outlook is reflected in his reference to several Church councils, from the time of Isidore through to the eighth century. He showed how the conquest of 711 formed part of God’s scheme for the inhabitants of Hispania: the «ruin of Hispania» which the sins of its people, in particular its tyrant and usurping kings and weak bishops, had brought upon the peninsula.21 According to this interpretation, the last Visigothic ruler Rodrigo failed to resist the Muslim invaders because he had obtained the kingdom fraudulently, precipitating a civil war with the descendants of Witiza, the penultimate ruler. Ecclesiastical failings were epitomised in the flight of bishop Sindered of Toledo to Rome after the conquest, abandoning his flock. We might expect the chronicler, writing in this strong providential vein, to condemn the invaders as pagans.22 Yet he used a variety of ethnic and religious terms for the invaders, which did not characterise them as religious others, but as individuals who, like their Visigothic predecessors, included both just rulers and tyrants. The chronicler described little resistance to the invasion and made no reference to the epic battle of Covadonga, which later Asturian chroniclers hailed as the beginning of the Christian re-conquest of the peninsula from the Muslims. Rather, the impression that emerges from reading the Chronicle of 754 is one of conquerors and civil servants imposing order on Hispania after the chaos of the last of years of Visigothic rule. The conquest of Hispania is listed among the campaigns of the caliph al­Walīd I (705­715), who simply «through a general of his army by the name of Mūsà, attacked and conquered the kingdom of the Goths».23 Mūsà attracted the chronicler’s criticism not because he was a Muslim, but because of the excesses of his campaigns. Seizing the Visigothic capital, Toledo, «he imposed on the adjacent regions a fraudulent 21. Ibidem, 45, p. 33. 22. Although they probably included North Africa Christians: E. Manzano, Arabes, beré­ beres y indígenas: al-Andalus en su primer período de formación, in L’incastellamento, actas de las reuniones de Girona (26-27 noviembre 1992) y de Roma (5-7 mayo 1994), ed. M. Barceló, P. Toubert, Roma 1998 (Collection de l’École française de Rome, 241; Bibliotheca Italica, 2), pp. 157-177. 23. Chronica Muzarabica [n. 16], 42, p. 31; Conquerors and Chroniclers of Early Me­ dieval Spain, transl. with notes and introduction by K.B. Wolf, Liverpool 1990 (Translated texts for historians, 9), p. 131.

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peace».24 Mūsà devastated Hispania as far as Zaragoza, destroying cities and putting the inhabitants to the sword until «some of the cities that remained sued for peace under duress». This, as we have seen, was against Islamic norms. Mūsà was summoned to Damascus, where he presented al­ Walīd with his booty. For some reason that the chronicler leaves unclear, the caliph was displeased with him and condemned him to death, although the sentence was commuted to a huge fine of 2 million solidi.25 The similarities between Mūsà’s fate as it was recorded in the Latin and Arabic chronicles is striking, as we shall see. Here, the compiler of Chronicle of 754 seems to be making a statement about the proportionate rewards of conquest whose meaning becomes a little clearer when contrasted with his comments about the behaviour of later governors of al-Andalus. As the chronicler worked through a list of the governors up to the arrival of ‘Abd al­Raḥmān I, he highlighted important aspects of the establishment of a new regime: the distribution of land, taxation, stabilising the relationship between the Muslims and the indigenous population, control of the frontiers. Restoration of order was commendable, even if it meant control by outsiders and new taxes, but it had to be tempered with justice. Mūsà’s successor ‘Abd al­Azīz (714­716) brought further stability to the new realm; he «pacified all of Spain for three years under the yoke of tribute».26 ‘Abd al­Azīz, however, went too far, taking too much wealth for his own use, as well as marrying Rodrigo’s widow and taking the princesses of Spain as concubines. His brief governorship ended in assassination. His successor al­Ḥurr (716­718) governed more wisely, regulating the seizure of lands and booty. Al­Ḥurr extended the power of the judges throughout Spain [...] by means of fighting and negotiating treaties, he sought control over Gallia Narbonensis [...] He restored to the Christians the small estates that had originally been confiscated for the sake of peace so as to bring revenue to the public treasury. He punished the Moors [...] on account of the treasure that they had hidden. He imprisoned them in sack cloth, infested with worms and lice, and weighed them down with chains.27

24. Chronica Muzarabica [n. 16], 45, p. 32; Conquerors and Chroniclers [n. 23], pp. 131132.

25. Chronica Muzarabica [n. 16], 49, p. 35; Conquerors and Chroniclers [n. 23], p. 132. 26. Chronica Muzarabica [n. 16], 59, p. 38; Conquerors and Chroniclers [n. 23], p. 135. 27. Chronica Muzarabica [n. 16], 53, p. 36; Conquerors and Chroniclers [n. 23], p. 137.

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The next governor, al­Ṣamḥ (718­721) took further measures to strengthen central control of the peninsula by organising the first of three censuses,28 distributing land and booty to his allies, and extending the frontier to Narbonne. The chronicler compared the merits and faults of the governors of alAndalus with those of the Umayyad caliphs in Damascus. He praised the caliph Umar II (717) who, «on account of his scrupulous observance of the law, assumed the government of the kingdom. Ending all the fighting, Umar was so benign and patient in his rule that even today great honour and praise is bestowed upon him [...] not only by his own people but by foreigners».29 In al-Andalus, his contemporaries continued to get a mixed press. The governor Anbasa (721-725) campaigned on the frontier, and in spite of the fact that he doubled the taxes on the Christians, he «triumphed in Spain with the highest honour».30 Yaḥyā (727), on the other hand, was «a cruel and terrible despot», not because of any mistreatment of the Christians but because, on the contrary, «with bitter deceit, he stirred up the Saracens and Moors of Spain by confiscating property that they were holding for the sake of peace and restoring many things to the Christians».31 Indeed, the chronicler maintained that in spite of the taxes levied upon them, and the loss of some of their lands, the Christians of al-Andalus, and in particular, their Church continued to flourish under Muslim rule. The chronicler was aware of the potential for religious strife. In an early entry on the reign of Sisebut (612-621), he had noted the forced conversion of Jews to Christianity. Yet it seems clear that Hispanic Christians faced no such threat after 711. Writing about the 720s, the chronicler noted that «Bishop Fredoarius of the see of Gaudix, Urban, the aged chanter of the cathedral of the see of the royal city Toledo and Archbishop Evantius of the same see were regarded as brilliant in their teaching, wisdom and sanctity, strengthening the church of God with hope, faith and charity».32 Some twenty years later, Urban and Evantius, «learned men strengthened with the great zeal of their sanctity, passed joyfully to the Lord and rested in peace».33 Other em28. The Chronica Muzarabica [n. 16] mentions censuses for 720, 735 and 750; only the first is mentioned in the Arabic sources: Manzano, Conquistadores [n. 1], p. 74. 29. Chronica Muzarabica [n. 16], 55, p. 37; Conquerors and Chroniclers [n. 23], p. 138. 30. Chronica Muzarabica [n. 16], 60, p. 39; Conquerors and Chroniclers [n. 23], p. 140. 31. Chronica Muzarabica [n. 16], 61, p. 39; Conquerors and Chroniclers [n. 23], p. 141. 32. Chronica Muzarabica [n. 16], 57, p. 38; Conquerors and Chroniclers [n. 23], p. 139. 33. Chronica Muzarabica [n. 16], 67, p. 45; Conquerors and Chroniclers [n. 23], p. 148.

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inent churchmen of Toledo are mentioned later in the chronicle. Their continuing prosperity may reflect the role that agreement between the ecclesiastical hierarchy and conquerors played in the settlement, although there is no direct evidence for this, in contrast with the situation in Syria, where bishops helped to negotiate treaties.34 At the very least, the chronicler shows that there was little place for sectarian rhetoric in his account of the establishment of Muslim rule. Concerns about the legality of the conquest emerge in the History attributed to Ibn Ḥabīb; he cannot be the sole author, although cited many times in the work, since it continues to the 880s. The History does not survive in an original form; it may have been compiled in the following generation, but the single surviving MS is dated 695/1295-1296.35 Like the Chronicle of 754, it is a universal history. It begins with an account of Creation and the prophets up to Muḥammad, followed by a brief summary of the expansion of Islam. The most detailed section is that devoted to the conquest of Hispania: the arrival of Ṭāriq ibn Ziyād, followed by that of Mūsà b. Nuṣayr, their conquests, and Mūsà’s return to Damascus. Ibn Ḥabīb’s stated purpose is to make the conquest and settlement of the Iberian peninsula the culmination of his scheme of history. «Then I will mention the governors of al-Andalus up to the present day, and who will govern up to its destruction, and who will govern after its destruction up to the Day of Judgement, with ḥadīths and signs [of the End of World]».36 One could hardly have a clearer statement of the providential purpose of writing. Yet Ibn Ḥabīb’s version of the conquest has been passed over because of his fantastic stories about the House of Bolts in Toledo, the Table of Solomon and other marvels that the conquerors are said to have found in the peninsula; some of them were collected in the 1001 Nights. The apocalyptic tone further detracts from the credibility of the narrative. To make matters worse, the invasion begins with divination. Mūsà had instructed his client Ṭāriq, a Bedouin, to choose the most propitious time for the invasion, since, according to Ibn Ḥabīb, Mūsà was a noted astrologer. 37 He instructed Ṭāriq to 34. R. Schick, The Christian Communities of Palestine from Byzantine to Islamic rule. A historical and archaeological study, Princeton 1995 (Studies in Late Antiquity and Early Islam, 2), p. 83. 35. Ibn Ḥabīb, Ta’rīḫ [n. 8], p. 107. 36. Ibidem, 39, p. 25. 37. This would not prejudice Ibn Ḥabīb in Mūsà’s favour; he also wrote a Book on the

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[...] ask if there is any amongst your men who knows the names of the months in Syriac and when it is the twenty­first of Iyyār, which is May in the Christian reckoning and be heartened by the blessing of God; set off with his help and power until you come to a red cliff with a eastern fountain at the bottom of it and by the side of it the statue of an idol in the shape of a bull. Then break that statue and [rely on] a tall fair-skinned man with a squint and paralysis in his hands and confer on him your leadership.» And when the message reached Ṭāriq he wrote to Mūsà b. Nuṣayr: «Indeed I will finish what I was commanded to do, and as for the qualities of the man about whom you commanded me, I did not discover them except in myself.38

Ibn Ḥabīb, however, was not remembered primarily for his fables. Like many medieval Muslim chroniclers, he was a polymath. Most notably, he was a legal authority who had studied in Medina with the school of Mālik ibn Anas (712­795) before being appointed to the circle of scholars around ‘Abd al­Raḥmān II in Cordoba in 833.39 Ibn Ḥabīb’s judgements were widely cited and at least one of his legal treatises survives.40 He also composed a work on ǧihād, now lost, which is quoted extensively in the Qidwāt al-ġāzī, a treatise on ǧihād by a tenth­century Andalusi, Ibn Abī Zamanīn,41 and by a fourteenth­century scholar, Ibn Ḥudayl.42 The dominant legal school in al-Andalus, based on the Muwaṭṭa of Mālik ibn Anas was established by the generation that included Ibn Ḥabīb. The Muwaṭṭa Stars which cites hadīths of Muḥammad and rulings of Mālik ibn Anas against astrology: P. Kunitsch, ‘Abd al-Malik ibn Ḥabīb’s «Book on the Stars», in «Zeitschrift für die Geschichte der Arabisch-Islamischen Wissenschaften», 9 (1994), pp. 161-194; repr. in The Formation of al­Andalus, II: Language, Religion, Culture and the Sciences, ed. M. Fierro, J. Samsó, Aldershot 1998 (The Formation of the Classical Islamic World, 47), pp. 277-304. 38. Ibn Ḥabīb, Ta’rīḫ [n. 8], 394, p. 136. 39. Ibidem, introduction, p. 30. 40. Ibn Ḥabīb, Kitāb al-Wāḍiḥa (Tratado jurídico). Fragmentos del «Muntajab alaḥkām» de Ibn Abī Zamanīn (m. 399/1008), ed. M. Arcas Campoy, Madrid 2002 (Fuentes arábico-hispanas, 27). 41. Ibn Abī Zamanīn, Das Buch Qidwat al-Ġāzī: ein Beitrag zur Geschichte der Ǧihād-Literatur, trans. R. Wechsel, Bonn 1970; he refers to the rewards of ǧihād in Ibn Ḥabīb, Kitāb waṣf al-firdaws (La descripción del paraíso), ed. J.P. Monferrer Sala, Granada 1997 (Al-mudun, 2), p. 107 and n. 475; J.P. Monferrer Sala, El “Kitab Wasf al-Firdaws” de Ibn Habib: exégesis y fuentes, in «Al-Masaq», 10 (1998), pp. 83-94. 42. Ibn Hudayl, ‘Alī b. ‘Abd al­Raḥmān, Tuḥfat al-anfus wa shi’ār sukkān al-Anda­ lus, facsimile, corrected by L. Mercier, Paris 1936; ‘Aly Ben ‘Abderraḥman ben Hoḍeïl el Andalusy, L’ornement des âmes et la devise des habitants d’el Andalus. Traité de guerre sainte islamique, trans. L. Mercier, Paris 1939.

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has a chapter dedicated to ǧihād,43 which remained influential throughout the period of Muslim rule in the peninsula,44 not only in legal texts, but in letters, sermons and exegesis.45 Writing on ǧihād was characterised by the use of topoi,46 including citations from the Qur’ān 47 and ḥadīṯ.48 Battles were often named, but were epitomised in the actions of a single hero, or by concentrating on one characteristic episode. We can see many of these topoi in Ibn Ḥabīb’s stories of the conquest. They were not thrown in at random, simply to make the story more entertaining. Ibn Ḥabīb selected the episodes he recounted from a repertoire that he shared with his fellow scholar Ibn ‘Abd al­Ḥakam, although they sometimes citied varying sources, as Clarke has discussed.49 Ibn ‘Abd al­Ḥakam also had a legalistic bias, concerned with excessive booty and the relationships between Mūsà and his deputy Ṭāriq and his superiors in Damascus. Ibn Ḥabīb appears to focus less on the legal points than on the wonders of al-Andalus. Yet I would argue that Ibn Ḥabīb’s presentation of the conquest was also written with an exegetical purpose, and may be read as an illustration of his writings on the legal basis of ǧihād. Ibn Ḥabīb characterised the conquest of al­Andalus as a ǧihād: And when [news of the Visigothic king Rodrigo’s] approach reached Ṭāriq [ibn Ziyād] he stood before his men and thanked God and praised Him for spurring on His people to ǧihād and awakening in them the desire for martyrdom. Then he said ‘O men, where is your escape? The sea is behind you

43. Al-Muwaṭṭa of Imam Malik ibn Anas. The First Formulation of Islamic Law, trans. A. Abdurrahman Bewley, London 1989 (The Islamic Classical Library), book 21. 44. D. Urvoy, Sur l’évolution de la notion de ǧihad dans l’Espagne musulmane, in «Mélanges de la Casa de Velázquez», 9 (1973), pp. 335-372. 45. It may have been at least in part a response to Christian polemic written in Arabic in the eastern Islamic world in the ninth century that characterised ǧihād as violent; see S.H. Griffith, Faith and reason in Christian kalām: Theodore Abū Qurrah on discerning the true religion, in Christian Arabic Apologetics during the Abbasid period (750-1258), ed. S.K. Samir, J.S. Nielsen, London-New York-Köln 1993, pp. 1-43: pp. 21-22. 46. Ibn Abī Zamanīn, Qidwāt al-ġāzī [n. 40], pp. 16-22. 47. Which does not associate ǧihād with warfare, however, but with spiritual struggle. 48. The term ǧihād (struggle) has a range of meanings, and the Qur’ān does not equate ǧihād with holy war, but from the second century of Islam, the dominant understanding of ǧihād was war against the non-Muslim: P. Crone, Medieval Islamic Political Thought, Edinburgh 2004 (The New Edinburgh Islamic Surveys), p. 363. 49. Clarke, The Muslim Conquest [n. 7], pp. 29-35.

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and the enemy before you and there is nothing for you, by God, but truth and steadfastness.50

The continuation of the narrative illustrates many aspects of ǧihād literature. It was axiomatic that God would give the Muslims strength to overcome superior numbers of the enemy.51 In the decisive defeat of Rodrigo, therefore, 1,000 Berbers and a few Arabs defeated 7,000 Goths. Another theme common to ǧihād literature is the value of prayer, in two contexts: the power of the takbīr (the cry «God is great») and the importance of giving thanks for victory. Mūsà, besieging an apparently impregnable fortress, ordered his men to shout «Allāhu aḫbar»; like the walls of Jericho, the wall collapsed, allowing the men to rush in and seize the fortress, together with captives and booty.52 In a story about the caliph al­Walīd, Ibn Ḥabīb portrayed messengers arriving from Khurasan, from Sus and from al-Andalus announcing new conquests. The caliph ordered that his doors be closed so that he might pray. His small son, crawling on the floor, was hit by a falling object, but al­Walīd refused to summon help. He was willing to let his small son die rather than interrupt his prayers: a mark of his exemplary piety.53 Much of Ibn Ḥabīb’s account is a comment on the moral standing of the ǧihādis that is far from favourable. His main theme is that of licit and illicit booty, with the promise that God will punish embezzlers. It was a commonplace of histories of the Islamic conquests that the conquerors seized too much booty; Mālik ibn Anas reported statements from several of the early caliphs and their generals against it.54 Ibn Abī Zamanīn noted Ibn Ḥabīb’s comment that anything that that Muslim has manufactured – a saddle he has polished, an artefact carved from wood (Ibn Ḥabīb’s examples include an arrow, a drinking vessel and a coat hook) – which, un-worked, would be of no value, he may take away without paying for it, whatever its value as a finished product. But an artefact that the enemy has made, which has fallen into the Muslim’s hands, must be returned, since the Prophet said

50. Ibn Ḥabib, Ta’rīḫ [n. 8], p. 138. 51. Ibn Abī Zamanīn, Qidwāt al-ġāzī [n. 41], p. 126. 52. Ibn Ḥabīb, Ta’rīḫ [n. 8], 417, p. 144. 53. Ibidem, 414, p. 143. 54. Ibn Ḥabīb’s companion in Egypt, Ibn ‘Abd al­Ḥakam also discussed booty and fraud and Mūsà’s recall to Egypt: Ibn ‘Abd al­Ḥakam, Futūḥ Miṣr [n. 9], pp. 208, 210213.

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‘Give back even a needle and thread’.55 On the other hand, if the people have fled from a village, leaving it empty, and are not expected to return in the immediate future, it is allowed to take their goods. If they (ahl al-ḏimma) are expected to return, however, they must not be left in need.56 The conquerors of al­Andalus clearly did not live up to these norms. Ṭāriq ibn Ziyād’s men seized so much booty that their ship sank under the weight of it, and they almost drowned on their way back to North Africa. During the conquest, two men were seen carrying off a velvet carpet woven with gold, pearls and rubies. When it became too heavy for them, they took an axe, cut it in two and left half behind. Their companions were so keen to get their hands on the carpet that was being taken away that they ignored the discarded half.57 Another man hid his booty in a barrel of pitch, telling noone. And as he was dying, says Ibn Ḥabīb, he cried «the pitch, the pitch».58 It is characteristic of Arabic writing in general that authors ignored psychological consistency if there was a new point to be made. Thus the caliph al­Walīd, whom Ibn Ḥabīb had just described in favourable terms, also came in for criticism. Even though he was on his death bed, al­Walīd was anxious to get his hands on Mūsà’s booty, rather than let his successor have it.59 He urged Mūsà to hurry back to Damascus. The story, although shaped to reflect Ibn Ḥabīb’s message, is similar to what the Chronicle of 754 recounted; whatever the basis in fact, it must have been common currency within fifty years of the conquest. The caliph died before Mūsà arrived. Ibn Ḥabīb points the moral of this story by commenting that the caliph returned to dust and could not take his possessions with him.60 Similarly, we can read Ibn Ḥabīb’s tales of bisected carpets and jewels hidden in pitch as a condemnation of the venality of the conquerors. These stories concern the earliest years of the conquest, when the ǧihādis came, saw, conquered, and carried away what they found. Perhaps surprisingly, Ibn Ḥabīb, or the complier of the History, also appears to make the transition from ǧihād to Islamic settlement more problematic than does the Chronicle of 754. From the very beginning, the enterprise is 55. Ibn Abī Zamanīn, Qidwāt al-ġāzī [n. 41], pp. 132-133; Muwaṭṭa [n. 42], book 21, 21.13.22. 56. Ibn Abī Zamanīn, Qidwāt al-ġāzī [n. 41], 136. 57. Ibn Ḥabīb, Ta’rīḫ [n. 8], 405, p. 140. 58. Ibidem, 411, p. 142. 59. Ibidem, 408-409, p. 140. 60. Ibidem, 426, p. 147.

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given escatological overtones. Just as in the Latin chronicle, so in the His­ tory, Mūsà’s campaigns on the frontier are condemned as the abuse of power, but here Mūsà’s offence is not against the local population, but against God.61 His companions complain that the governor is over-reaching himself; why could he not be satisfied with what he had? «Mūsà laughed and said that he would go on to capture Constantinople, if God willed it».62 It is an echo of the eastern writings on malāḥim, the final wars at the end of the world when the Muslims would occupy Byzantium, and of Ibn Ḥabīb’s stated providential aims.63 When Mūsà was summoned to return to Damascus, he turned in the direction of Córdoba and said «How wonderful you are! What God made delightful, exalts and glories in [will be] your malediction after two hundred years». In an echo of the story recounted in the Chronicle of 754,64 Mūsà was imprisoned by the caliph Sulaymān, who demanded one million dinars for his release. Ibn Ḥabīb has little to say about Mūsà’s successors in the peninsula. The History has a list of the governors who ruled in Córdoba until the arrival of ‘Abd al­Raḥmān I, followed by very brief accounts of the Umayyad emirs. Ibn Ḥabīb predicted that the number of the governors and emirs of al-Andalus would be the same as the number of Visigothic kings, which he estimated at twenty­five.65 Thus it would be in the reign of the emir ‘Abd Allāh (888­912) that the prophecy of Córdoba’s destruction would be fulfilled: «a government that untied all the knots which his father and grandfather had tied in peace; [...] sorrow followed, people were arrested and their goods seized; the markets stagnated and prices were very high; degenerates became great and the emir was humiliated».66 A number of ḥadiṯs on the destruction of sinful nations appended to this account underlined the message that the Muslims had not earned their right to their new lands. It is not clear that Ibn Ḥabīb really ex61. Ibidem, 408, p. 142. 62. Ibidem, 409, p. 142. 63. Ibidem, 39, p. 25; see above n. 35; R. Hoyland, Seeing Islam as Others Saw It. A Survey and Evaluation of Christian, Jewish and Zoroastrian Writings on Early Islam, Princeton 1997 (Studies in Late Antiquity and Early Islam, 13), p. 330; see e.g. the Kitāb al­ fitan of Nu’aym ibn Ḥammād (d. 843): M. Cook, The Heraclian dynasty in Muslim escha­ tology, in «Al­Qanṭara», 13 (1992), pp. 3­24; D. Cook, Muslim apocalyptic and Jihād, in «Jerusalem Studies in Arabic and Islam», 20 (1996), pp. 66-104. 64. See above [n. 25]. 65. Ibn Ḥabīb, Ta’rīḫ [n. 8], 403, p. 140. 66. Ibidem, 442, 443, p. 152; M.I. Fierro, Sobre al­Qarmūniyya, in «Al­Qanṭara», 11 (1990), pp. 83-94.

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From ǧihād to diwān

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pected the emirate in al-Andalus to fail, although he did see himself as living in the Last Days.67 He was preaching from the texts on ǧihād, including his own, and using stories about the conquest of al-Andalus as exegesis.68 Thus it is not surprising that Ibn Ḥabīb is less interested in the specifics of the conquest that the Chronicle of 754, nor that the details of his narrative are often bizarre. Yet it is not simply a sermon on ǧihād, using the peninsula as an example, but engaging with problems, such as the overweening behaviour of Mūsà b. Nuṣayr, that were part of a memory of the conquest shared between Muslims and Christians. In Manzano’s interpretation of the sources for the conquest, the cohesion of the conquering armies is founded on the religious message that they brought. The new religion powered the expansion of al-Andalus in the period of the governors and was eventually to be expressed in the imposition of central control, which the Umayyad caliphate in al-Andalus claimed to inherit from Damascus after 756.69 Yet neither of the authors of the Chron­ icle of 754 and the History saw the conquest in these terms. Both the Latin and the Arabic chroniclers wrote with a providential purpose; it is simply that the compiler of the Chronicle of 754 expressed this purpose in a way that is easier to read as “history”. It was not simply a matter of replacing the rule of Christianity with that of Islam. For both these authors, providential history meant that the moral aspects of conquest and settlement were sometimes more important than purely sectarian concerns.70 The Latin chronicler, perhaps moving in circles which had made an accommodation with the conquerors, did not see this a war of religion. Furthermore, he was prepared to see some Christians as sinful and some Saracens and Moors as just. In the Christian providential tradition, the religion of the state was not of overriding importance; what mattered was the survival of the Church. The Islamic tradition was also more nuanced than is often supposed. Ibn Ḥabīb did see the conquest, in retrospect, as a ǧihād, but a ǧihād that was not yet complete. He wanted it to succeed – but only if the ǧihādis kept to the norms of Islamic law. If they did not, it was right that God should destroy Córdoba «until no-one lives there except crows».71 There is a trajectory that begins with the Umayyad Islamic empire in Damascus and ends 67. Ibn Ḥabīb, Ta’rīḫ [n. 8], introduction, p. 59. 68. P. Crone, Meccan Trade and the Rise of Islam, Princeton 1987, pp. 216 ss. 69. Manzano, Conquistadores [n. 1], p. 19. 70. Crone, Medieval Islamic Political Thought [n. 48], p. 118. 71. Ibn Ḥabīb, Ta’rīḫ [n. 8], 452, p. 153.

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Ann Christys

with the Umayyad Islamic caliphate in Córdoba. But only with the hindsight of the tenth century can the events of 711 be seen as the formation of a new Islamic state. Neither of our chroniclers was far enough distant from the conquest to see it that way.

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GiuSeppe mandalà *

Tra minoranze e periferie. Prolegomeni a un’indagine sui cristiani arabizzati di Sicilia

1. Introduzione La storia della Sicilia arabo-islamica continua pervicacemente a essere considerata in una prospettiva regionale; l’isola è vista come una periferia della dār al-Islām la cui storia è illuminata da fonti seriali e poco numerose sulle quali tutto, o quasi, è stato già detto da parte della storiografia positivista e ottocentesca.1 In generale, la posizione mediterranea della Sicilia è stata recepita dalla storiografia moderna e contemporanea sia come periferica in rapporto ai poteri cui l’isola ha fatto capo, sia come geograficamente centrale all’inter­ no di un più ampio spazio mediterraneo. Tuttavia la cosiddetta centralità mediterranea della Sicilia si rivela spesso un dato puramente spaziale, alquanto opinabile da un punto di vista storico; difatti la centralità di una regione si misura sia in base al controllo esercitato da un centro di potere, sia sulla scorta dell’importanza economica e strategica svolta all’interno del sistema politico di riferimento.2 In età islamica il giudizio sulla perifericità dell’isola è senza dubbio inficiato dalla (presunta) assenza di una cosiddetta autonomia politica, * ILC-CCHS, CSIC, Madrid. 1. Con esplicito riferimento alla summa costituita dalle opere di Michele Amari (18061889), che cito nelle edizioni del Novecento: Biblioteca arabo-sicula, testo arabo e traduzione a cura di M. Amari, 2a ed. riveduta da U. Rizzitano, testo arabo, 2 voll., Palermo 1988, I, pp. 126-127; traduzione I-III, Palermo 1997-1998; m. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia. Seconda edizione modificata e accresciuta dall’autore, pubblicata con note a cura di Carlo Alfonso Nallino, 3 voll., Catania 1933-1939; a queste s’aggiunga il corpus documentario assemblato da S. Cusa, I diplomi greci ed arabi di Sicilia pubblicati nel testo ori­ ginale, tradotti ed illustrati, 1 vol. in 2 tomi, Palermo 1868-1882. 2. Per una approfondita riflessione sul tema rimando ampiamente a A. Nef, V. Prigent, Per una nuova storia dell’alto medioevo siciliano, in «Storica», 35-36 (2006), pp. 9-63.

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Giuseppe Mandalà

l’ago della bilancia di ogni storiografia nazionalistica.3 Nonostante l’evidente dipendenza formale da un potere esterno all’isola, il ruolo della Sicilia deve essere valutato all’interno di una più ampia rete economica e politica, sicuramente policentrica; tale ruolo non deve essere immaginato come univoco e immutabile, ma piuttosto come un terreno i cui processi di trasformazione hanno sicuramente determinato una certa marginalizzazione o centralità.4 Occorre dunque tornare a indagare l’evoluzione del peso politico, economico e culturale dell’isola nell’ambito dell’emirato aghlabita, del califfato fatimita e dell’emirato kalbita, ma non solo e sicuramente non esclusivamente. A un primo riesame della documentazione disponibile, e mi riferisco ad esempio ai documenti della Ghenizà del Cairo,5 appare chiaro come la Sicilia non fu così periferica come generalmente si crede; a partire dalla seconda metà del X secolo, epoca in cui emergono califfati concorrenti ed emirati indipendenti nel Mediterraneo centro-occidentale, la Sicilia islamica non può essere considerata una periferia all’interno dello spazio islamico mediterraneo. Senza dubbio la morfologia dell’alto medioevo siciliano rimane campita da silenzi e penombre; uno di questi avvolge la formazione e l’evoluzione di comunità culturali all’interno dell’isola a seguito della conquista islamica.6 Difatti, a fronte di un certo numero di fonti storico-narrative e di recenti indagini archeologiche, poco sappiamo dell’impatto avuto dalla civiltà arabo-islamica sulla popolazione locale. Com’è lecito attendersi le fonti arabo-islamiche privilegiano una prospettiva centrata quasi esclusivamente sulla storia politica e sociale del3. In tema rimando al case study affrontato in G. Mandalà, Una nueva fuente para la historia de la Sicilia islámica: un pasaje de al-Muqtabis V de Ibn Ḥayyān sobre la revuelta de Aḥmad b. Qarhab (300-304/913-916), in «Al­Qanṭara» 33, 2 (2012), pp. 343­374. 4. In tema si veda A. Nef, M. Tillier, Introduction. Les voies de l’innovation dans un empire islamique polycentrique, in «Annales islamologiques», 45 (2011), pp. 1-19. 5. M. Ben Sasson, The Jews of Sicily 825-1068. Documents and Sources, Jerusalem 1991; trad. in S. Simonsohn, The Jews in Sicily 383-1300, I, Leiden-New York-Köln 1997; A. Nef, La Sicile dans la documentation de la Geniza cairote (fin X e-XIII e): les réseaux at­ testés et leur nature, in Espaces et réseaux en Méditerranée (VI e-XVI e siècle), I: La configu­ ration des réseaux, a cura di D. Coulon, C. Picard, D. Valérian, Paris 2007, pp. 273-292. 6. Utilizzo il termine “comunità culturale”, col valore di gruppo di individui legati da vincoli religiosi, giuridici e fiscali, così come definito dallo studio di A. Nef, Les souverains normands et les communautés culturelles en Sicile, in «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen-Âge», 115/1 (2003), pp. 611-623.

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l’elemento musulmano, relegando la popolazione locale non-musulmana al di fuori del contesto islamico. Prescindendo dai documenti della Ghenizà del Cairo gli ebrei sono poco presenti nelle fonti arabo-islamiche inerenti la Sicilia, mentre i cristiani dell’isola diventano Rūm, etichetta che comprende tutti i romano-bizantini, un nemico da combattere e conquistare sotto il segno dell’alterità.7 Ne consegue che all’interno della società islamica isolana, i ḏimmī ossia i “protetti” secondo le leggi dell’Islam, appaiano ancora più evanescenti, spesso considerati in una prospettiva “minoritaria” che sicuramente non rispecchia la realtà antropica dell’isola.8 Per studiare i processi di acculturazione, arabizzazione, ma anche islamizzazione della popolazione locale, occorre osservarli sulla lunga durata, o piuttosto alla fine, ossia nel momento in cui il ruolo di queste comunità entra in crisi e si trasforma, estinguendosi o conservandosi a seconda dei casi.9 L’attenzione nei confronti dei cristiani arabizzati di Sicilia è una recente acquisizione e, in virtù della documentazione, il censimento e l’analisi dei dati disponibili si è centrata soprattutto sui secoli XII e XIII.10 7. A. Nef, La désignation des groupes ethniques de la Sicile islamique dans les chro­ niques en langue arabe. Source d’information ou topos?, in «Annales islamologiques», 42 (2008), pp. 57-72. 8. Per lo status quaestionis sui cristiani di Sicilia in età islamica cfr. Amari, Storia dei Musulmani [n. 1], I, pp. 606-683; II, pp. 456-477. 9. Per una definizione metodologica dei processi di arabizzazione e islamizzazione rimando a C. Décobert, Sur l’arabisation et l’islamisation de l’Égypte médiévale, in Itine­ raires d’Égypte. Mélanges offerts au père Maurice Martin S. J., a cura di C. Décobert , Cairo 1992 (Bibliothèque d’étude. Institut français d’archéologie orientale du Caire, 107), pp. 273­300: pp. 273­277; si faccia riferimento anche alla più ampia indagine condotta da C. Aillet, Les mozarabes. Christianisme, islamisation et arabisation en Péninsule Ibérique (IX e-XII e siècles), Madrid 2010 (Bibliothèque de la Casa de Velázquez, 45), e non ultimo ai diversi contributi nel volume Islamisation et arabisation de l’Occident musulman médiéval (VII e-XII e siècle), a cura di D. Valérian, Paris 2011 (Bibliothèque historique des pays d’Islam, 2). 10. Sugli arabo-cristiani di Sicilia, oltre un primo pioneristico lavoro di A. Messina, Gli arabi cristiani della Sicilia normanna, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XLVI/2 (1992), pp. 483-488, si vedano gli studi di H. Bresc, Arab-Christians in the Western Mediterranean (XI th-XIII th Centuries), in «Library of Mediterranean History», 1 (1994), pp. 3-45; H. Bresc, La propriété foncière des musulmans dans la Sicile du XII e siècle: trois do­ cuments inédits, in Giornata di studio “Del nuovo sulla Sicilia musulmana”, (Roma, 3 maggio 1993), Roma 1995 (Accademia nazionale dei lincei. Fondazione Leone Caetani, 26), pp. 69-97; H. Bresc, A. Nef, Les mozarabes de Sicile, in Cavalieri alla conquista del

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Giuseppe Mandalà

L’analisi si è basata in prevalenza sull’onomastica,11 ma sarebbero da valutare più attentamente le questioni aperte dall’alfabetismo dei singoli individui.12 Per quanto riguarda Palermo, la capitale dell’isola, è possibile affermare che gli arabo-cristiani della città normanna e sveva siano un gruppo molto dinamico e, a fianco di una prestigiosa élite composta da alti funzionari di palazzo, notai e traduttori, sono presenti anche artigiani/artisti.13 Gli arabo-cristiani di Palermo gravitano attorno alla Cappella Palatina, e alle chiese di Santa Maria dell’Ammiraglio (fatta erigere da Giorgio d’Antiochia nel 1143), di Santa Maria della Grotta e della Santa Trinità, solo per citarne alcune; e non a caso il focus documentale su di loro è giunto proprio grazie ai tabulari di tali chiese. La formazione della comunità arabo-cristiana è senza dubbio plurale e composita; la presenza di arabo-cristiani a Palermo è ovviamente anteriore all’arrivo dei normanni, tuttavia dopo la conquista tale gruppo si evolve e incrementa anche grazie all’apporto di conversi dall’Islam e di elementi provenienti dall’esterno, fra questi ultimi basti citare: Giorgio d’Antiochia (m. 1151), “ammiraglio” di Ruggero II giunto in Sicilia con un nutrito Sud. Studi sull’Italia normanna in memoria di Léon­Robert Ménager, a cura di E. Cuozzo, J.-M. Martin, Roma-Bari 1998 (Collana di fonti e studi. Centro europeo di studi normanni, Ariano Irpino, 4), pp. 134-156; A. Nef, L’histoire des «mozarabes» de Sicile. Bilan provi­ soire et nouveaux matériaux, in ¿Existe una identidad mozárabe? Historia, lengua y cultu­ ra de los cristianos de al-Andalus (siglos IX-XII), a cura di C. Aillet, M. Peynelas, P. Roisse, Madrid 2008 (Collection de la Casa de Velázquez, 101), pp. 255-286; M. Re, La sottoscri­ zione del Vat. gr. 2294 (ff. 68-106): il copista Matteo sacerdote e la chiesa di S. Giorgio de Balatis (Palermo, 1260/1261). Con una nota sulla presenza greca nella Palermo del Due­ cento, in «Rivista di studi bizantini e neoellenici», n. s., 42 (2005), pp. 163-201: 183; H. Bresc, Arabi per lingua, greci per rito: i mozarabi di Sicilia con e dopo Giorgio, in Byzan­ tino­sicula V. Giorgio di Antiochia. L’arte della politica in Sicilia nel XII secolo tra Bisan­ zio e l’Islam, atti del convegno internazionale (Palermo, 19-20 Aprile 2007), a cura di M. Re, C. Rognoni, Palermo 2009 (Quaderni. Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, 17), pp. 263­282; più in generale ora anche A. Nef, Conquérir et gouverner la Sicile islami­ que aux XIe et XII e siècles, Roma 2011 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 346). 11. Bresc, Nef, Les mozarabes de Sicile [n. 10], pp. 139-152: pp. 225-227. 12. Per un primo tentativo cfr. G. Mandalà, M. Moscone, Tra latini, greci e ‘arabici’: ricerche su scrittura e cultura a Palermo fra XII e XIII secolo, in «Segno e testo. International Journal on Manuscripts and Text Transmission», 7 (2009), pp. 143-238. 13. G. Mandalà, La sottoscrizione araba di ‘Abd al-Masīḥ (Palermo, 15 ottobre 1201), in «Quaderni di Studi Arabi», n. s., 3 (2008), pp. 153-164; Mandalà, Moscone, Tra latini, greci e ‘arabici’ [n. 12].

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gruppo di melkiti d’Antiochia,14 la famiglia de Indulciis (“degli Andalusi”), forse mozarabi originari da al-Andalus 15 o anche gli arabo-cristiani provenienti da al-Mahdiyya a seguito della politica normanna in Nordafrica (1148­1160), tutte figure, queste ultime, legate al palazzo e alla corte.16 In definitiva la composizione della comunità arabo­cristiana si profila abbastanza fluida e articolata, dal momento che gli usi linguistici e religiosi si evolvono con lo scorrere del tempo: l’utilizzo dell’arabo e del greco cede progressivamente il passo all’affermarsi del latino e del romanzo, mentre la bizantinizzazione religiosa dell’isola soccombe lentamente sotto l’incedere del clero latino e delle sue gerarchie. Così come per al­Andalus,17 anche per la Sicilia dei secoli IX-XIV sarebbe forse opportuno proporre una qualche distinzione teorica tra popolazione locale cristiana arabizzata durante il periodo islamico, apporti diacronici di gruppi provenienti dall’esterno, e non ultimo conversi dall’Islam al Cristianesimo (di rito latino o greco) durante il periodo normanno e svevo.18 14. Sulle vicende di Giorgio d’Antiochia e dei suoi familiari si veda A. De Simone, Il Mezzogiorno normanno­svevo visto dall’Islam africano, in Il Mezzogiorno normanno­svevo visto dall’Europa e dal mondo mediterraneo, atti delle tredicesime giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1997), a cura di G. Musca, Bari 1999 (Centro di studi normanno-svevi, Università degli studi di Bari. Atti, 13), pp. 261-293: 276-285; V. Prigent, L’archonte Georges, prôtos ou émir?, in «Revue des études byzantines», 59 (2001), pp. 193-207. 15. B. Rocco, Andalusi in Sicilia, in «Archivio storico siciliano», s. III, 19 (1969), pp. 267-273; Bresc, Nef, Les mozarabes de Sicile [n. 10], pp. 155-156. 16. Grande artefice dell’espansione normanna in Nordafrica è l’ammiraglio Giorgio d’Antiochia il quale, nel 1148­1149, riesce a conquistare al­Mahdiyya, capitale zīride. A seguito della morte di Ruggero (1150) e di Giorgio (1151) gli equilibri politici mutano e la città è riconquistata dagli almohadi nel 1160, cfr. H. Bresc, Le royaume normand d’Afrique et l’archevêché de Mahdiyya, in Le partage du monde. Échanges et colonisation dans la Méditerranée médiévale, a cura di M. Balard, A. Ducellier, Paris 1998 (Byzantina Sorbonensia, 17), pp. 347-366; rist. in Les relations entre pays d’Islam avec le monde latin du milieu Xe au milieu du XIIIe siècle, a cura di F. Micheau, Paris 2000, pp. 264-283; De Simone, Il Mezzogiorno normanno­svevo [n. 14], pp. 272-287. 17. Sulla distinzione tra mozarabi (cristiani di origine visigota) e neomozarabi (cristiani d’origine esterna immigrati in al-Andalus) cfr. M. De Epalza, La islamización de al-Anda­ lus: mozárabes y neo-mozárabes, in «Revista del Instituto egipcio de estudios islámicos», 23 (1985-1986), pp. 171-179; Id., Mozarabs: An Emblematic Christian Minority in Islamic alAndalus, in The Legacy of Muslim Spain, a cura di S.K. Jayyusi, Leiden 1992 (Handbuch der Orientalistik. Erste Abteilung, Der Nahe und Mittlere Osten, 12), pp. 149-170. 18. Alla luce di quanto da me già precedentemente espresso in Mandalà, Moscone, Tra latini, greci e ‘arabici’ [n. 12], pp. 180­183, non appare giustificata l’affermazione di Annliese Nef alla nota 82 di p. 247 del suo recente articolo Imaginaire impérial, empire et

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2. La formazione e l’identità della comunità arabo-cristiana: il caso di Palermo La capitale dell’isola, la città di Palermo, è senza dubbio un osservatorio urbano straordinariamente privilegiato, sebbene offra una prospettiva parziale rispetto al policentrismo dell’isola e per molti versi falsata dall’influenza della politica culturale messa in atto dalla corte normanna. Per non cadere in effimere generalizzazioni occorre osservare la questione dal basso, tenendo ben separate le dinamiche culturali operanti alla corte normanna dalla città e dalla sua popolazione urbana. I cristiani arabizzati della città di Palermo dei secoli XII e XIII sono greci, ossia giuridicamente di rito e consuetudini bizantine, il loro clero è greco e fa riferimento al medesimo protopapa dei greci di Palermo 19 e, non ultimo, essi seguono il diritto greco-romano (o bizantino);20 così come tutti i greci di Sicilia e Italia meridionale a seguito della conquista normanna, anche gli arabo-cristiani di Sicilia riconoscono la giurisdizione di Roma.21 œcuménisme religieux: quelques réflexions depuis la Sicile des Hauteville, in «Cahiers de recherches médiévales et humanistes», 24 (2012), pp. 227-249. 19. A. Varvaro, Lingua e storia in Sicilia, 1: Dalle guerre puniche alla conquista nor­ manna, Palermo 1981 (Prisma, 38), pp. 174-182; Bresc, Nef, Les mozarabes de Sicile [n. 10], p. 137; Re, La sottoscrizione [n. 10], pp. 180-201; Nef, L’histoire des «mozarabes» de Sicile [n. 10], pp. 267-269. 20. Sul diritto greco-romano in Sicilia rimando agli studi d’epoca, ma non ancora del tutto sostituiti, di V. La Mantia, Cenni storici su le fonti del diritto greco­romano e le assise e leggi dei re di Sicilia, Torino 1887; F. Brandileone, Il diritto greco­romano nell’Italia me­ ridionale sotto la dominazione normanna, in «Archivio giuridico», 36 (1886), pp. 62-101, 238-291; V. Giuffrida, La genesi delle consuetudini giuridiche delle città di Sicilia, 1: Il di­ ritto greco­romano nel periodo bizantino­arabo, Catania 1901; L. Siciliano Villanueva, Sul diritto greco­romano privato in Sicilia, Palermo 1901; per un’analisi dei documenti cfr. G. Ferrari dalle Spade, I documenti greci medioevali di diritto privato della Italia meridionale e loro attinenze con quelli bizantini d’Oriente e coi papiri greco-egiziani, Leipzig 1910 (Byzantinisches Archiv, 4), rist. in Scritti giuridici, 3 voll., Milano 1953-1956, 1, pp. 133301; M. Amelotti, V. von Falkenhausen, Notariato e documento nell’Italia meridionale gre­ ca (X-XV secolo), in Per una storia del notariato meridionale, Roma 1982 (Studi storici sul notariato italiano, 6), pp. 9-69; in particolare per la circolazione del Corpus iuris civilis si veda ora F. Martino, A. De Simone, Un documento in arabo e il diritto commune alla corte di Ruggero II, in «Rivista internazionale di diritto comune», 19 (2008), pp. 93-136. 21. Sui rapporti tra greci e latini in Sicilia e Italia meridionale cfr. H. Enzensberger, I greci nel regno di Sicilia. Aspetti della loro vita religiosa, sociale, economica alla luce del diritto canonico latino e di altre fonti latine, in «Medioevo italiano. Rassegna storica online», 1 (2000), pp. 1-46: http://www.storiaonline.org/mi/rassegna.1.studi.enzensberger.htm. Come osserva Enzensberger «la pretesa del primato “latino” era una questione di natura giuri-

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Senza dubbio la loro arabicità emerge principalmente dall’interno della comunità greca di Palermo, e tale identità deve essere letta e interpretata storicamente come uno degli effetti dei due secoli e mezzo di arabizzazione linguistica e culturale dell’isola che, a sua volta, s’impianta sulla bizantinizzazione religiosa di Sicilia e Italia meridionale avvenuta durante i secoli VII-IX. In Sicilia il periodo in questione ha un’importanza fondamentale in quanto rappresenta il sostrato religioso e culturale sul quale s’innestano i processi di arabizzazione e islamizzazione della popolazione dell’isola. Tra VII e VIII una élite di chierici e monaci orientali giunge in Sicilia e Italia meridionale, in fuga dalle invasioni persiana, musulmana e dal monotelismo prima, e dalle lotte iconoclaste poi.22 L’aumento della presenza ellenofona, favorita dall’amministrazione bizantina, offre il pretesto per l’annessione ecclesiastica, dando inizio nella seconda metà dell’VIII secolo alla bizantinizzazione religiosa. L’episcopato latino è sostituito con quello greco e comincia la giurisdizione esercitata dal Patriarcato di Costantinopoli su queste regioni. La provincia italiana del patriarcato di Costantinopoli, meglio nota come “Chiesa greca in Italia”, nasce intorno all’anno 732-733 grazie a un editto dell’imperatore Leone III Isaurico che sottrae Sicilia e Italia meridionale, insieme all’Illirico, alla giurisdizione di Roma.23 Gli emigrati, di lingua e di fede calcedonese, portano con sé i libri in uso nei patriarcati di provenienza: Alessandria, Antiochia e Gerusalemme; dal punto di vista liturgico la fase antica del rito italo-bizantino (VIII-XI secolo) è una sintesi di elementi tratti da questi libri con il rito costantinopolitano.24 dica, non riguardava, in linea di principio, la lingua, il rito, il clero e neanche la fede della popolazione greca»; ibidem, p. 10. 22. S. Borsari, Le migrazioni dall’Oriente in Italia nel VII secolo, in «La parola del passato», 6 (1951), pp. 133-138; A. Messina, I siciliani di rito greco e il patriarcato d’An­ tiochia, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 32 (1978), pp. 415-421; per uno sguardo generale cfr. J.-M. Martin, A. Jacob, La Chiesa greca in Italia (c. 650-c. 1050), in Storia del cristianesimo. Religione, politica, cultura, IV: Vescovi, monaci e imperatori (610-1054), a cura di G. Dagron, P. Riché, A. Vauchez, Roma 1999, pp. 367-388. 23. M.V. Anastos, The Transfer of Illyricum, Calabria and Sicily to the Jurisdiction of the Patriarchate of Constantinople in 732-33, in Silloge bizantina in onore di Silvio Giusep­ pe Mercati, Roma 1957 (Studi bizantini e neoellenici, 9), pp. 14-31; V. Prigent, Les empe­ reurs isauriens et la confiscation des patrimoines pontificaux d’Italie du sud, in «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen-Âge», 116/2 (2004), pp. 557-594. 24. Per una esauriente trattazione del tema rimando a S. Parenti, Ancora una “liturgia

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Si dovrà attendere la conquista normanna di Sicilia e Italia meridionale, a partire dalla seconda metà dell’XI secolo, perché la Chiesa di Roma possa reclamare la restituzione delle sedi vescovili usurpate nel 732-733.25 Come scrive Stefano Parenti «occorre invece sottolineare che nella seconda metà dell’XI secolo il papato riottenne gli stessi territori alienati nel secolo VIII, ma non le stesse chiese locali, che nel frattempo da latine erano divenute bizantine, e sulle relazioni tra le Chiese gravavano ormai l’ipoteca delle crisi con Fozio (858-897) e degli incidenti del 1054. Dopo la conquista normanna i vescovi griki d’Italia si vennero a trovare in una situazione inedita: “la Chiesa dalla quale dipendevano territorialmente per giurisdizione non era in comunione con la Chiesa che aveva dato loro il resto della facies ecclesiale”, in una parola la loro identità religiosa».26

3. Gli usi linguistici (diglossia greco-arabo e plurilinguismo) e la liturgia I cristiani arabizzati di Sicilia sono bilingui e utilizzano il greco e l’arabo a seconda di testi e contesti; nel caso di Palermo mi sembra plausibile accennare a una differenziazione funzionale tra le due lingue, ossia a una diglossia.27 dimenticata”: il rito italo-bizantino, in «Oriente cristiano» (http://www.orientecristiano. com/contributi/lo-spazio-della-liturgia/ancora-una-liturgia-dimenticata-il-rito-italo-bizantino. html; 14/10/2013); più specificatamente sui libri liturgici italo­greci si vedano S. Parenti, E. Velkovska, L’Eucologio Barberini gr. 336, 2a ed. riveduta con traduzione in lingua italiana, Roma 2000 (Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia, 80); S. Parenti, Nota sul Salte­ rio-Horologion del IX secolo Torino, Biblioteca Universitaria B. VII. 30’, in «Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata», III s., 4 (2007), pp. 275-287. 25. N. Kamp, The Bishops of Southern Italy in the Norman and Staufen Periods, in The Society of Norman Italy, a cura di G.A. Loud, A. Metcalfe, Leiden-Boston-Köln 2002 (The Medieval Mediterranean, 38), pp. 185-251. Sull’acculturazione dei greci dell’Italia meridionale cfr. A. Peters-Custot, Les grecs de l’Italie méridionale post-byzantine (IXe-XIVe siècle). Une acculturation en douceur, Rome 2009 (Collection de l’École française de Rome, 420). 26. Parenti, Ancora una “liturgia dimenticata” [n. 24]. 27. L’utilizzo del termine diglossia implica, come noto, una differenziazione di tipo funzionale tra due lingue in contatto; mi chiedo se nel caso della Sicilia “araba” si tratti di una diglossia contaminata (o dilalia). Per una definizione di bilinguismo e diglossia rimando a Décobert, Sur l’arabisation [n. 9], p. 275; più in generale cfr. C.A. Ferguson, Diglos­ sia, in «Word», 15 (1959), pp. 325­337; e più specificatamente per la “diglossia estesa” cfr. J.A. Fishman, Bilingualism With and Without Diglossia; Diglossia With and Without Bilin­ gualism, in «Journal of Social Issues», 23/2 (1967), pp. 29­38. Per un profilo linguistico

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Dalla documentazione disponibile, in gran parte riconducibile ai secoli XII e XIII,28 emerge che l’arabo è la lingua d’uso che diacronicamente cede il passo alla romanizzazione; diversamente il greco è la lingua alta, legata alla religione e alla sfera delle attività comunitarie (quali il notariato, ad esempio), il cui ruolo di lingua di prestigio è progressivamente sostituito dal latino.29 Certamente tale status linguistico in progressivo mutamento deve essere osservato tenendo presente le variabili diastratiche e le reciproche interferenze all’interno di una comunità, e più in generale di una popolazione urbana, assai diversificata dal punto di vista sociale e culturale. A questo ambiente siciliano plurilingue appartengono testi e personaggi, noti ma altresì non contestualizzati in tale direzione, come la Cronaca di Cambridge (X secolo), una cronografia composta in Sicilia e giunta in due redazioni (apparentemente indipendenti) in arabo e in greco,30 ma anche l’epitaffio quadrigrafico voluto dal prete Grisanto in onore della madre Anna (1149), già considerato un riflesso diretto della cultura di corte e del­ l’ideologia propagata dal sovrano.31 Fra i personaggi un posto di primo piano spetta ad Abū ‘Abd Allāh al­ ṣiqillī, medico “siciliano”, «il quale parlava il greco e conoscea le piante e i medicamenti semplici», tanto da prendere parte alla traduzione di Dioscoride alla corte di ‘Abd al­Raḥmān III (891­961). Il codice era giunto a Cordova nel 377/948-949 insieme alle Historiae di Paolo Orosio, come dono della Sicilia medievale si faccia riferimento a Varvaro, Lingua e storia in Sicilia [n. 19], pp. 80­220; specificatamente per l’arabo cfr. D.A. Agius, Siculo Arabic, London 1996 (Library of Arabic Linguistics, 12); A. Metcalfe, Muslims and Christians in Norman Sicily. Arabic Speakers and the End of Islam, London-Richmond 2003 (Culture and Civilisation in the Middle East). 28. Per uno spoglio dei testimonia si veda Bresc, Arabi per lingua, greci per rito [n. 10], pp. 278-282. 29. Sulle problematiche inerenti alla latinizzazione e alla romanizzazione dell’isola rimando a Varvaro, Lingua e storia in Sicilia [n. 19], passim; per i cristiani arabizzati qualche cenno in H. Bresc, Arabi per lingua, ebrei per religione. L’evoluzione dell’ebraismo siciliano in ambiente latino dal XII al XV secolo, Messina 2001, p. 41. 30. Per la redazione in arabo cfr. Amari, Biblioteca arabo­sicula [n. 1], I, pp. 190-203; trad., I, pp. 190-203; per la redazione in greco Chronica Byzantina breviora = Die byzanti­ nischen Kleinchroniken, I: Einleitung und Text, ed. P. Schreiner, Wien 1975 (Corpus fontium historiae Byzantinae. Series Vindobonensis, 12, 1), pp. 326-340. 31. J. Johns, Le iscrizioni e le epigrafi in arabo: una rilettura, in Nobiles officinae. Perle, filigrane e trame di seta dal Palazzo Reale di Palermo, a cura di M. Andaloro, 2 voll., Catania 2006, II, Saggi, pp. 47-67: 53; scheda nr. VIII. 7, ibidem, I, Catalogo della mostra, pp. 519-523.

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dell’imperatore Armāniyūs, da identificare con Costantino VII Porfirogenito; per la traduzione viene approntata una squadra di specialisti cui prendono parte, oltre al siciliano, un folto nugolo di studiosi tra i quali anche Ḥasdāy b. Šaprūṭ (ca. 915­970) e soprattutto Nicola, un monaco grecofono appositamente inviato dall’imperatore su richiesta del califfo umayyade, nell’anno 340/951-952.32 La pratica bilingue applicata al testo di Dioscoride è documentata anche in un altro caso siculo­andaluso finora passato inosservato: Anna la greca (Āna al-qrīqiya), una donna con conoscenze mediche ereditate dalla madre, fatta prigioniera a Siracusa in Sicilia è messa a servizio di Abū ’l­Ḥasan ‘Alī b. ‘Abd Allāh, uno studioso di Siviglia che la interroga in merito alla terminologia dell’opera da lui composta: “Il commento al libro di Dioscoride” (Šarḥ kitāb Diyāsqūridūs).33 Per l’età normanna e sveva spicca senza dubbio Eugenio da Palermo (1130-1202 ca.), uomo politico di primo piano del regno, ma anche studioso (philosophos), poeta e traduttore dal greco al latino (Vaticinium Sibyllae Erithreae), dall’arabo al latino (Ottica di Claudio Tolomeo) e dall’arabo al greco (Kalīla wa-Dimna, o meglio Stephanites kai Ichnelates), definito dall’anonimo traduttore latino dell’Almagesto «virum tam grece quam arabice lingue peritissimum, latine quoque non ignarum».34 La questione della lingua è strettamente connessa a quella del rito e della liturgia dei cristiani arabizzati; nella Palermo normanna e sveva rito latino e rito bizantino coesistono all’interno di un tessuto linguistico e sociale variegato, e di una topografia ecclesiastica composita e articolata.35 In 32. Ibn Abī Uṣaybiʿa, ‘Uyūn al-anbā’ fī ṭabaqāt al-aṭibbā’, che cita Ibn Ǧulǧul, cfr. Amari, Biblioteca arabo­sicula [n. 1], II, pp. 750-753; trad. III, pp. 811-814: p. 813; M. Penelas, ¿Hubo dos traducciones árabes independientes de las Historias contra los paganos de Orosio?, in «Collectanea Christiana Orientalia», 6 (2009), pp. 223-251; M. Penelas, A possible author of the Arabic translation of Orosius’ Historiae, in «Al­Masāq. Islam and the Medieval Mediterranean», 13 (2001), pp. 113-135. 33. Alla biografia dedicherò un prossimo studio, frattanto cfr. Muḥammad b. Muḥam­ mad Ibn ‘Abd al­Malik al­Marrākušī, al-Ḏayl wa-l-takmila li-kitābay al-mawṣūl wa-l-ṣila, ed. I. ‘Abbās, 5 voll., Beirut 1964­1965, V, 1, p. 239 nr. 483. 34. V. von Falkenhausen, Eugenio da Palermo, in Dizionario biografico degli italiani, 43, Roma 1993, pp. 502-505. 35. M. Scaduto, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e deca­ denza, sec. XI-XIV, rist. anast. dell’ed. del 1947 con aggiunte e correzioni, Roma 1982 (Storia e letteratura, 18), passim; Re, La sottoscrizione [n. 10], pp. 180-201; G.M. Millesoli, Identità e prassi liturgica nei manoscritti normanno­siculi, in Civis/civitas. Cittadinanza politico­istituzionale e identità socio­culturale da Roma alla prima età moderna, atti del seminario internazionale (Siena-Montepulciano, 10-13 luglio 2008), a cura di C. Tristano,

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taluni casi clero latino e clero greco officiano nella medesima chiesa, così come documentato per la Cappella Palatina,36 e in determinate occasioni latini e greci celebrano cerimonie congiuntamente.37 L’esistenza di una liturgia celebrata, in parte, in lingua araba sembrerebbe essere confermata anche da alcuni codici di assetto testuale bilingue (greco-arabo),38 e trilingue (latino-greco-arabo; greco-latino-arabo)39 attriS. Allegria, Montepulciano 2008 (Medieval Writing, 3), pp. 251-263. 36. L. Garofalo, Tabularium regiae ac imperialis Cappellae collegiatae divi Petri in regio Panormitano Palatio Ferdinandi II regni utriusque Siciliae regis, Palermo 1835, p. 78 nr. LV; J. Johns, The Greek Church and the Conversion of Muslims in Norman Sicily?, in «Byzantinische Forschungen», 21 (1995), pp. 134-157: 139; Re, La sottoscrizione [n. 10], pp. 183-185; per uno sguardo d’insieme su Sicilia e Italia meridionale si veda Enzensberger, I greci nel regno di Sicilia [n. 21], pp. 11-15. 37. Il 20 maggio 1149 Grisanto, chierico della Palatina, fa traslare le spoglie della madre Anna dalla Cattedrale alla chiesa di San Michele degli Andalusi; la cerimonia avviene γρικῶς καὶ λατινικῶς μετὰ λιτανείας («con preghiere greche e latine»), cfr. M. Amari, Le epigrafi arabiche di Sicilia, I-III, Palermo; ristampa a cura di F. Gabrieli, Palermo 1971, pp. 201­212 nr. XXVII, tav. 9, fig. 2; per lo status quaestionis sull’epigrafe quadrigrafica e una sua lettura cfr. Johns, Le iscrizioni e le epigrafi [n. 31], II, pp. 47-67: p. 53; scheda nr. VIII. 7, ibidem, I, pp. 519-523. 38. 1. Vangelo di Luca, Paris, Bibliothèque nationale de France, Suppl. gr. 911, bilingue greco-arabo, mutilo, a. 1043; 2. Tetravangelo, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Greco 539 (coll. 303), ff. 1-265, bilingue greco-arabo, XII secolo; cfr. A.M. Piemontese, Codici greco-latini-arabi in Italia fra XI e XV secolo, in Libri, documenti, epigrafi medie­ vali: possibilità di studi comparativi, atti del convegno internazionale di studio dell’Associazione italiana dei paleografi e diplomatisti (Bari, 2­5 ottobre 2000), a cura di F. Magistrale, C. Drago, P. Fioretti, Spoleto 2002 (Studi e ricerche, 2), pp. 445-466: 450-452, 460-461; specificatamente sul Vangelo di Luca cfr. P. Géhin, Un manuscrit bilingue grec-arabe BnF, Supplément grec 911 (année 1043), in Scribes et manuscrits du Moyen-Orient, a cura di F. Déroche, F. Richard, Paris 1997 (Études et recherches. Bibliothèque nationale de France), pp. 162-175; A. Urbán, An Unpublished Greek-Arabic Ms. of Luke’s Gospel (BnF suppl. grec. 911, A. D. 1043): a Report, in Eastern Crossroads: Essays on Medieval Christian Legacy, a cura di J.P. Monferrer Sala, Piscataway (NJ) 2007, pp. 83-95; J.P. Monferrer Sala, Descripción lingüística de la columna árabe del BnF Suppl. grec. 911 (año 1043), «Collectanea Christiana Orientalia», 2 (2005), pp. 93-139. 39. 1. Salterio, London, British Library, Harley 5786, trilingue greco-latino-arabo (ante 1153); 2. Salterio, Napoli, Biblioteca Nazionale, Greco 20 (olim Vindobon. Suppl. gr. 94), trilingue greco-arabo-latino, il testo greco di fattura dell’Italia meridionale (XI sec.) è accresciuto dal testo latino e arabo (XIII sec.); 3. Praxapostolos, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Greco 11, trilingue greco-latino-arabo, seconda metà del XII secolo, già conservato presso il monastero di San Michele di Troina; cfr. Piemontese, Codici greco­ latini­arabi in Italia [n. 38], pp. 452-453, 455-457, 461-462; S. Lucà, S. Venezia, Frustuli di manoscritti greci a Troina in Sicilia, in «Erytheia. Revista de estudios bizantinos y neo-

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buibili ad ambiente siciliano o italo meridionale; tali codici si datano tra XI e XIII secolo (soltanto il Vangelo di Luca della BnF è anteriore alla conquista normanna) e contengono libri scritturali comunemente utilizzati nella liturgia bizantina: Vangeli, Salterio, Praxapostolos.40 In taluni di questi manoscritti ricorrono marginalia che ne confermano l’utilizzo liturgico,41 anche se attualmente non è dato distinguere fra uso episcopale e monastico. I codici attendono ancora un loro definitivo studio, tuttavia per alcuni manoscritti la produzione nel regno normanno, oltre che una committenza e una fruizione legate agli ambienti della corte, è molto più che probabile; ad esempio per il Salterio Harley, il cui allestimento sembrerebbe legato agli ambienti palatini, o anche per il Praxapostolos della Marciana, la cui presenza a Troina potrebbe essere legata al benefattore del monastero di San Michele: Eugenio l’emiro (della medesima famiglia del più noto Eugenio da Palermo).42 La produzione di codici bilingui o trilingui è un’eccezione, fortemente connotata ideologicamente, e riflette una prassi liturgica ancora tutta da chiarire.43 In ogni caso questi codici sono testimoni, sebbene tardivi, del processo di arabizzazione avvenuto all’interno della Chiesa siciliana tra i secoli IX-XIII.44 A questi codici si può affiancare la tarda testimonianza di Ludolph di Suchem, in viaggio verso la Terrasanta tra 1336 e 1341;45 Lugriegos», 31 (2010), pp. 75-132: 87 e note 52-53 sul monastero di Troina, dove coesistevano clero latino e greco, cfr. Enzensberger, I greci nel regno di Sicilia [n. 21], p. 12. 40. R. Janin, Les églises orientales et les rites orientaux, 4e éd. revue et remaniée, Paris 1955, pp. 39-40; M. Nin, Libri liturgici, in Dizionario enciclopedico dell’Oriente cri­ stiano, a cura di E.G. Farrugia, Roma 2000, pp. 441-443. 41. Johns, The Greek Church [n. 36], p. 142; Piemontese, Codici greco­latini­arabi in Italia [n. 38], pp. 453, 456; si noti anche la suddivisione in asḥāḥ (“sezioni”) del Tetravan­ gelo della Marciana: cfr. ibidem, p. 460. 42. Scaduto, Il monachesimo basiliano [n. 35], p. 91; Piemontese, Codici greco­lati­ ni­arabi in Italia [n. 38], p. 461. 43. Johns segnala che i marginalia arabi del Salterio Harley «confirm that the psalms followed the order of the Latin rite», cfr. Johns, The Greek Church [n. 36], p. 142. 44. Per un parallelo si veda P. Roisse, Célébrait-on les offices liturgiques en arabe dans l’Occident musulman? Étude, édition et traduction d’un Capitulaire Evangeliorum arabe (Munich, Bayerische Staatsbibliothek Cod. Aumer 238), in ¿Existe una identidad mozárabe? [n. 10], pp. 211-253. 45. «Tamen in Sicilia indifferenter ad tres ritus se habent: in una parte ad ritum latinum, in alia ad ritum Graecorum, in tertia ad ritum Sarracenorum; attamen omnes sunt Christiani, licet ritu differant et discordent», (Paderburnensis), Ludolphi rectoris ecclesie parochialis in Suchem De itinere Terrae sanctae liber, a cura di F. Deychs, Tübingen 1851,

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dolph menziona soltanto due riti nell’accezione moderna del termine: uno latino e l’altro bizantino; quest’ultimo officiato sia dai greci sia dai cristiani arabizzati (definiti Sarraceni), ciascuno secondo una propria liturgia («licet ritu differant et discordent»), e probabilmente una propria lingua.46 4. Alla ricerca di una definizione per i cristiani arabizzati di Sicilia: al-muša‘miḏūn/*al-mešummadūn, melkiti, mozarabi, arabici o arabocristiani? 4.1. al-muša‘miḏūn/*al-mešummadūn La percezione della forte e problematica presenza dei cristiani dell’isola emerge chiaramente da un controverso passo di Ibn Ḥawqal, che visita Palermo e la Sicilia nel 362/973. Il geografo e viaggiatore iracheno, assai critico nei confronti della popolazione locale, di cui condanna apertamente la scarsa e approssimativa islamizzazione, aggiunge che: È già stata illustrata la setta (al-firqa) di cui non esiste eguale tra le sette dell’Islam, né può essere avvicinata ad alcuna dottrina religiosa (niḥla) in nessun luogo al mondo, né ad alcuna eresia (bid‘a), né può essere comparata a qualsiasi dottrina tra le religioni del mondo. Essi sono gli apostati (al-muša‘miḏūn).47 La maggior parte degli abitanti dei loro centri fortificati (ḥuṣūn), delle loro campagne (bādiya) e delle loro fattorie (ḍiyā‘) ritiene lecito sposarsi con i cristiani, e i figli maschi che ne nascono stanno col loro padre tra gli apostati, mentre le femmine sono cristiane come la loro madre. Non fanno la preghiera canonica né la purificazione, non pagano l’elemosina legale, non compiono il pellegrinaggio, c’è tra loro chi fa il digiuno del mese di ramaḍān, ma compiono i lavacri durante il digiuno in caso di maggiore impurità legale (al-ǧanāba). Questo è un costume che nessuno condivide con

p. 20; «Sunt eciam in Sicilia christiani quidam Latini, quidam Greci et quidam Sarraceni»: (Osnabrugensis) Ludolphus de Sudheim, De itinere Terre sancte, a cura di G.A. Neumann, in «Archives de l’Orient latin», 2/1 (1884), pp. 305-377: p. 335; la notizia non compare nel volgarizzamento tedesco cfr. Ludolfs von Sudheim Reise ins heilige Land nach der Ham­ burger Handschrift herausgegeben, a cura di I. von Stapelmohr, Lund 1937 (Lunder germanistische Forschungen, 6), pp. 98-100. 46. Per un’analisi del passo cfr. Mandalà, Moscone, Tra latini, greci e ‘arabici’ [n. 12], pp. 183-188. 47. Anche l’edizione de Goeje registra la forma al-muša‘miḏūn; cfr. Ibn Ḥawqal, Kitāb ṣūrat al-arḍ, ed. M.J. de Goeje, Leiden 1873, p. 123.

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loro e una caratteristica che li distingue da tutte le creature dell’universo, grazie alla quale hanno raggiunto il primato nell’ignoranza.48

Sebbene il passo appena presentato sia stato oggetto di ampie congetture ed elaborate costruzioni,49 il fulcro della discussione, la parola chiave al-muša‘miḏūn, è rimasta indecifrata, sovente chiosata con un generico «[musulmani] bastardi», un termine assolutamente improprio, come a breve avrò modo di precisare. L’ambiguità si dissipa se invece di cercare un’improbabile etimologia araba della parola al-muša‘miḏ,50 s’ipotizzi che essa sia un prestito dal semitico di nord-ovest, mal trascritto in lettere arabe dall’autore, o forse semplicemente trasfigurato da antichi copisti e moderni editori, con l’aggiunta di una ‘ayn. In ebraico e in aramaico la radice š.m.d significa «distruggere, annichilire», con riferimento alla propria religione che viene «distrutta» qualora venga cambiata con un’altra; dalla radice deriva il sostantivo ‫ משומד‬/ mešummad che nella tradizione giudaica ma anche siriaca indica colui «che è obbligato ad accettare un’altra religione», e per estensione ogni «apostata», un «rinnegato» che ha ripudiato la propria religione per seguirne un’altra.51 La medesima radice š.m.d è registrata an48. Ibn Ḥawqal, Kitāb ṣūrat al-arḍ, ed. J.H. Kramers, voll. 2, Leiden 1938-1939 (Bibliotheca Geographorum Arabicorum, 2), I, p. 129; trad. francese: Ibn Ḥawqal, Configura­ tion de la terre, ed. J.H. Kramers, G. Wiet, 2 voll., Paris 1964, I, p. 128; F. Gabrieli, Ibn Ḥawqal e gli Arabi di Sicilia, in Id., L’Islam nella storia. Saggi di storia e storiografia mu­ sulmana, Bari 1966 (Storie e civiltà, 1), pp. 57-67: 62-63. 49. A. Metcalfe, The Muslims of Sicily under Christian Rule, in The Society of Nor­ man Italy [n. 25], pp. 289-317; Nef, L’histoire des «mozarabes» de Sicile [n. 10], p. 263; D. König, Muslim Perceptions of ‘Latin Christianity’. Methodological Reflections and a Reevaluation, in «Comparativ. Zeitschrift für Globalgeschichte und vergleichende Gesellschaftsforschung», 20 (2010), pp. 18-42: 25; D. König, Caught Between Cultures? Bicul­ tural Personalities as Cross-Cultural Transmitters in the Late Antique and Medieval Medi­ terranean, in Acteurs des transferts culturels en Méditerranée médiévale, a cura di R. Abdellatif, Y. Benhima, D. König, E. Ruchaud, München 2012 (Ateliers des Deutschen Historischen Instituts Paris, 9), pp. 56-72: 66-67. 50. «Muša‘miḏūn su radice ignorata dai lessici, onde la traduzione è meramente congetturale. Il senso del vicino muša‘biḏūn “giocolieri, ciarlatani” non mi sembra adattarsi a questo contesto», Gabrieli, Ibn Ḥawqal [n. 48], p. 62 n. 5. 51. In ebraico šamad «to be waste», pi. šimmed «(to destroy), to persecute, to force to apostasy»; in aramaico šemad, pa. šammed «to force to apostasy»; mešummad «one deserving extinction; open opponent to Jewish law, apostate»: cfr. M. Jastrow, A Dictionary of the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi, and the Midrashic Literture, 2 voll., Philadelphia 1903, II, pp. 850, 1591-1592; per l’evoluzione semantica della coppia mumar/ mešummad nella letteratura tannaitica cfr. soprattutto S. Zeitlin, Mumar and meshumad, in «The Jewish Quarterly Review», 54, 1 (1963), pp. 84-86. Payne-Smith sottolinea che il ver-

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che in giudeo-arabo medievale, con il chiaro senso di «convertirsi [al Cristianesimo]»;52 dal punto di vista formale nel lessico giudeo-arabo di Sicilia ricorrono alcuni prestiti ebraico-aramaici adattati alla fonetica e alla morfologia del medio arabo, ad esempio: al-piqqeḥim «coloro che osservano»; al-‘aniyyim «i poveri»; al-raša‘ «il malvagio»; al-baṣaq > ebr. poseq «colui che prende decisioni legali»;53 ancora a Palermo nel 1056 Yosef b. Šabbetay «commette un crimine», ossia commette apostasia, si converte dal Giudaismo, e il verbo utilizzato è afša‘a, ossia una radice ebraica f.š.‘ coniugata alla IV forma verbale araba.54 La parola * al­mešummad, l’apostata, si presenta quindi o come un prestito da ascrivere al medio arabo di Sicilia,55 o forse da imputare al lessico orientale veicolato da Ibn Ḥawqal che, ricordiamo, reca la nisba alNuṣaybī, ossia aveva delle ascendenze nella città di Nisibi. La parola *al­ mešummad, in definitiva, indica un apostata al pari di quel Loukas che a capo di una banda di saraceni e greci aveva occupato kastellia tra Matera e Potenza; un documento dei primissimi anni dell’XI secolo lo definisce in greco kaphiros kai apostates, e nella endiadi il termine greco kaphiros, evidentemente un prestito grecizzato dall’arabo kāfir ossia «colui che pratica

bo siriaco šamed corrisponde all’arabo samada «obstupefactus est, in re inutili occupatus lusit», e all’aramaico šemad, pa. šammed col significato di «fecit ut religionem suam abjuraret unde Syr. šamed alucinatus est, a vero erravit», il sostantivo che ne deriva, mešamad, significa «excommunicatus, potius significet a communione ecclesiae excludere», «maledictus, excommunicatus» cfr. R. Payne-Smith, Thesaurus syriacus, 2 voll., Oxford 1868, II, p. 4204. 52. J. Blau, A Dictionary of Mediaeval Judaeo-Arabic Texts, Jerusalem 2006, p. 347. 53. Per gli esempi citati cfr. M. Gil, Sicily 827-1072, in light of the Geniza documents and parallel sources, in Gli ebrei di Sicilia sino all’espulsione del 1492, atti del V convegno internazionale “Italia Judaica” (Palermo, 1992), Roma 1995 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 32), pp. 96-171: 143, 153-155, 163 n. 25. 54. Ibidem, p. 155. 55. Sebbene gli ebrei siano appena menzionati nella descrizione di Palermo, una frase contenuta in una citazione di Ibn Ḥawqal ripresa dal lessico di Yāqūt, ma assente nel testo edito di Ibn Ḥawqal, fa trasparire una certa ostilità: «Per la sporchezza e pel sudiciume costoro [i siciliani/palermitani] non si possono paragonare [nemmeno] ai Giudei; né il negrore delle loro case alla fuligine de’ forni da mattoni. [Prendi] tra loro chi abbia più alto stato e [vedrai] che i polli corrono a piacere dov’ei dimora e fanno ogni occorrenza sul suo guanciale, né egli se ne dà briga. Ed ecco che ho bruttato il mio libro con ricordar costoro!»; per il quartiere ebraico nella descrizione di Ibn Ḥawqal, Kitāb ṣūrat al-arḍ [n. 48], I, p. 122; Ibn Ḥawqal, Configuration de la terre [n. 48], I, p. 121; per la citazione di Yāqūt, Mu‘ǧam albuldān, cfr. Amari, Biblioteca arabo­sicula [n. 1], I, p. 129; trad. I, p. 168.

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una religione diversa [dalla musulmana]», viene affiancato ad apostates per rafforzarne il significato.56 Il fenomeno dei *mešummadūn, degli apostati, ossia dei conversi dal Cristianesimo all’Islam, sembrerebbe riguardare particolarmente «gli abitanti dei centri fortificati, delle campagne e delle fattorie», ossia la popolazione estranea ai grandi centri urbani, che qualche anno prima della testimonianza di Ibn Ḥawqal era stata colpita dall’editto emanato dal califfo fatimita al-Mu‘izz nel 356/966-967, messo in atto dal governatore kalbita Abū ’l­Ḥusayn Aḥmad b. al­Ḥasan. L’editto riguardava il riassetto difensivo della capitale e del territorio dell’isola, in primo luogo, e prevedeva in concreto di: riadattare le mura e le fortificazioni di Palermo; organizzare in ogni iqlīm (provincia o distretto) dell’isola una città fortificata (madīna ḥaṣīna) che avesse moschea congregazionale (ǧāmi‘) e pulpito (minbar); trasferire nelle rispettive città la gente dell’iqlīm vietando l’insediamento sparso nei villaggi (al­qurà).57 Oltre alle necessità difensive, evidentemente l’editto cercava di segnare una tappa importante nell’islamizzazione dell’isola, attirando larghe masse di popolazione rurale nei centri urbani, ossia nei focolai della civiltà religiosa islamica: le città.58 Ecco pertanto apparire agli occhi del viaggiatore iracheno – che visita e descrive solo ed esclusivamente la città di Palermo – una popolazione di 56. A. Guillou, W. Holtzmann, Zwei Katepansurkunden aus Tricarico, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archivien und Bibliotheken», 41 (1961), pp. 1-28: 12, doc. 1; S. Palmieri, Un esempio di mobilità etnica altomedievale: i Saraceni in Campania, in Montecassino dalla prima alla seconda distruzione. Momenti e aspetti di storia cassinese (secc. VI-IX), atti del II convegno di studi sul medioevo meridionale, a cura di F. Avagliano, Montecassino 1987 (Miscellanea cassinese, 55), pp. 597-627: 608. 57. al­Nuwayrī, Nihāyat al-arib, in Amari, Biblioteca arabo­sicula [n. 1], II, p. 494; trad. II, p. 546; Amari, Storia dei Musulmani [n. 1], II, p. 314; A. Molinari, Le campagne siciliane tra il periodo bizantino e quello arabo, in Acculturazione e mutamenti. Prospetti­ ve nell’archeologia medievale del Mediterraneo, VI ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia (Certosa di Pontignano-Museo di Montelupo, 1-5 marzo 1993), a cura di E. Boldrini, R. Francovich, Firenze 1995 (Quaderni del Dipartimento di archeologia e storia delle arti, Sezione archeologica, Università di Siena, 38-39), pp. 223-235: 231-235. 58. Sulla messa in atto, reale o fittizia, dell’editto di al­Mu‘izz esiste un dibattito in corso sviluppatosi alla luce dell’emergenza di nuovi dati archeologici; per i termini della questione cfr. F. Maurici, Gli studi sulla Sicilia islamica nell’ultimo cinquantennio, in «Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia. Facoltà Teologica di Sicilia. Notiziario», 4 (2006), pp. 67-87: 79, e S. Gilotte, A. Nef, L’apport de l’archéologie, de la numismatique et de la sigillographie à l’histoire de l’islamisation de l’Occident musulman: en guise d’in­ troduction, in Islamisation et arabisation [n. 9], pp. 63-99: 92-93.

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*mešummadūn, di apostati inurbati, ossia di gente costretta lasciare le campagne e ad abbracciare la religione islamica, che viene chiaramente e forse volutamente fraintesa nelle forme e nei riti. I matrimoni misti denunciati da Ibn Ḥawqal, ossia tra coloro che si sono formalmente convertiti all’Islam e coloro che mantengono la religione cristiana, si spiegano nel quadro di una recente e forzata islamizzazione; la distinzione religiosa di genere, tra figli maschi *al-mešummadūn e figlie femmine cristiane, rientra nelle dinamiche della conversione forzata e ricorda chiaramente che nell’Islam è l’uomo a dettare lo statuto della famiglia. Un esempio della prassi dei matrimoni “misti” tra musulmani e cristiani emerge dalla vita greca di san Giovanni Theristis (X secolo), nato nella Sicilia islamica da madre cristiana e da padre musulmano; probabilmente il santo rientra nel novero dei figli maschi che hanno rifiutato la religione paterna a favore di quella materna, e pertanto è costretto a fuggire al di fuori della dār al-Islām, in Calabria, per preservare la propria identità religiosa.59 Ibn Ḥawqal visita l’isola in un momento di passaggio dall’agiatezza alla miseria (min al-ḫiṣb ilà l-ǧaḏb), una situazione di grave crisi in cui proprietari terrieri delle campagne (arbābu-hā min ahl bādiyati-hā) rifiutano ogni forma di sociabilità e di scambio economico secondo le leggi islamiche, e nonostante la necessità evidente d’importare beni di prima necessità per la sussistenza dell’isola, dimostrano un’aperta ostilità nei confronti di mercanti, stranieri e viaggiatori.60 Ibn Ḥawqal denuncia apertamente la scarsa qualità intellettuale, religiosa e morale della maggior parte della gente del paese (balad, termine che indica anche la città e il suo comprensorio), dettata dal fatto che «la maggior parte di loro siano Barqaǧāna e mawālī che proclamano la clientela (walā’) nei confronti di un popolo (qawm) che li ha conquistati, ma che è perito»,61 dove il riferimento implicito è agli Aghlabiti soppiantati dai Fatimiti nel dominio dell’isola e della 59. Sul santo e le sue biografie cfr. A. Acconcia Longo, S. Giovanni Terista nell’agiografia e nell’innografia, in Calabria bizantina. Civiltà bizantina nei territori di Gerace e Stilo, atti dell’incontro di studi bizantini (Locri-Stilo-Gerace, 1993), Soveria Mannelli 1998, pp. 137-154; E. Follieri, I santi dell’Italia greca, in Histoire et culture dans l’Italie byzan­ tine. Acquis et nouvelles recherches, XXe congrès international des études byzantines, actes de la table ronde (Paris, 22 août 2001), a cura di A. Jacob, J.-M. Martin, G. Noyé, Roma 2006 (Collection de l’École française de Rome, 363), pp. 95-126: 120-121. 60. Ibn Ḥawqal, Kitāb ṣūrat al-arḍ [n. 48], I, pp. 130­131; Ibn Ḥawqal, Configuration de la terre [n. 48], I, pp. 129-130. 61. Ibn Ḥawqal, Kitāb ṣūrat al-arḍ [n. 48], I, p. 124; Ibn Ḥawqal, Configuration de la terre [n. 48], I, p. 123.

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prospiciente costa africana; evidentemente dal giudizio di Ibn Ḥawqal emerge che la “clientela” era stata una istituzione importante e assai diffusa nella società aghlabita, i conquistatori dell’isola. Particolarmente significativo risulta essere l’accostamento tra i palermitani e i Barqaǧāna, dal momento che nello specifico lessico dell’epoca (IX­X sec.) il termine Barqaǧāna viene utilizzato per indicare un gruppo di muwalladūn, ossia di cristiani autoctoni islamizzati, o più probabilmente semplicemente arabizzati, stanziati in varie località del Nordafrica (Tāhart, Taǧna, Banū Ǧallī­ dasan, Ṭubna, forse Wargla, e infine Awdaġust).62 In definitiva Ibn Ḥawqal ci informa, con una certa dose di disprezzo, che all’epoca della sua visita la popolazione della città di Palermo è costituita da mawālī e muwalladūn, ossia da gruppi di persone che hanno abbracciato l’Islām e le sue strutture sociali e culturali attraverso legami di clientela, maturati all’interno di un forte sostrato cristiano che è stato arabizzato e/o islamizzato da breve periodo e, soprattutto, in maniera approssimativa e superficiale.63 Il quadro urbano cui accenna Ibn Ḥawqal ben si attaglia all’allusione con cui si apre il passo analizzato nel presente studio, ossia il pesante lassismo dei musulmani della capitale su questioni di ortoprassi religiosa, sulla quale vigeva una certa ignoranza o confusione dottrinale specialmente nei confronti delle posizione teologiche più note, quali la murǧi’a o la mu‘tazila.64 Forse non a caso una certa propaganda anti-mu‘tazilita è testimoniata da un documento coevo, il Corano di Palermo (città ivi chiamata Madīnat Ṣiqilliyya), un manoscritto datato al 372/982-983; al foglio 2 si legge: [1] Lā ilāh illā Allāh [2] Muḥammad rasūl Allāh. [3] al-Qur’ān kalām Allāh [4] wa-laysa bi-maḫlūq; «Non vi è divinità all’infuori di Dio, Muḥammad è l’inviato di Dio, il Corano è la parola di Dio, ed esso non è creato».65 Tale professione di fede, documentata da iscrizioni nordafricane 62. A. Ben H’amadi, Sur les traces d’un groupe “tribal?” enigmatique: les Barqaǧāna, micro-question ou macro-question?, in «Revue tunisienne de sciences sociales», 41 (2004), pp. 169-190; A. Amara, L’Islamisation du Maghreb central (VIIe-XIe siècle), in Islamisation et arabisation [n. 9], pp. 103-128: 116; Y. Benhima, Quelques remarques sur le conditions de l’Islamisation du Maġrib al-Aqṣà: aspects religieux et linguistiques, in Islamisation et arabisation [n. 9], pp. 315-330: 321-322. 63. Ibn Ḥawqal menziona i Barqaǧāna anche in un altro passo dell’opera, localizzandoli a Ṭubna nello Aurès, in Algeria; nella descrizione di Palermo indica un individuo recante la nisba al-barqaǧānī, cfr. Ibn Ḥawqal, Kitāb ṣūrat al-arḍ [n. 48], I, pp. 85, 125. 64. Ibn Ḥawqal, Kitāb ṣūrat al-arḍ [n. 48], I, pp. 127­129; Ibn Ḥawqal, Configuration de la terre [n. 48], I, pp. 126-128. 65. Il Corano di Palermo è conservato ad Istanbul, Nurosmaniye Kütüphanesi 23 (due

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(dalla fine del III/IX secolo agli inizi del IV/XI), deve essere letta e interpretata come una reazione alla diffusione della mu‘tazila propagata dagli Ḥanafiti, una diffusione iniziata già con gli Aghlabiti, e progressivamente contestata dai giuristi malikiti, piuttosto che dalle élites fatimite allora al potere.66 4.2. Melkiti La storiografia contemporanea ha utilizzato i termini “melkita”, “mozarabo” o “arabo-cristiano” per indicare e descrivere la realtà dei cristiani arabizzati di Sicilia nei secoli XII e XIII. Contestualmente è stato rilevato come non esista un termine peculiare che distingua gli arabofoni musulmani da quelli cristiani,67 o che identifichi il “mozarabo” di Sicilia nel lessico dell’e­ poca.68 Tuttavia alcuni loci critici, sfuggiti alle indagini di chi mi ha preceduto, consentono di rintracciare un nome per i cristiani arabizzati di Sicilia. Il termine melkita è stato introdotto nel dibattito da Henri Bresc, il quale lo giustifica con le seguenti motivazioni: des Grecs de religion, arabes de langue, issus du pays sicilien ou immigrés de Syrie, chrétiens de famille ou de conversion, mozarabes donc, mais sur le versant byzantin, sans attache profond envers Constantinople, mais dévoués au “roi”, à l’idée abstraite de la souveraineté.69 quaternioni appartengono alla Collezione Khalili, nrr. 261 e 368 del catalogo Déroche); misure: cm 17,6 x 25, cfr. F. Déroche, The abbasid tradition: Qur’ans of the 8 th to the 10 th centuries AD, New York 1992 (Nasser D. Khalili Collection of Islamic Art, 1), pp. 146-151; Id., Tradition et innovation dans la pratique de l’écriture au Maghreb pendant les IVe/Xe et Ve/XIe siècles, in Numismatique, langues, écritures et arts du livre, spécificité des arts figu­ rés, actes du VIIe colloque international sur l’histoire et l’archéologie de l’Afrique du Nord dans le cadre du 121e Congrès des sociétés historiques et scientifiques (Nice, 21 au 31 octobre 1996), a cura di S. Lancel, Paris 1999, pp. 233-246: pp. 237-238; Id., Cercles et entre­ lacs: format et décor des corans maghrébins médiévaux, in «Comptes-rendus des séances de l’Académie des inscriptions et belles-lettres», 145/1 (2001), pp. 593-620: 600-604. 66. L’ipotesi fatimita è sostenuta da Déroche, Cercles et entrelacs [n. 65], pp. 603604; in tema mi permetto di rimandare a G. Mandalà, Political Martyrdom and Religious Censorship in Islamic Sicily: A Case Study During the Age of Ibrāhīm II (261-289/875902), in «Al­Qanṭara», 35, 1 (2014), pp. 151­186. 67. Metcalfe, The Muslims of Sicily [n. 49], pp. 309-316; Metcalfe, Muslims and Christians in Norman Sicily [n. 27], p. 59. 68. Nef, L’histoire des «mozarabes» de Sicile [n. 10], p. 255. 69. H. Bresc, De l’ État de minorité à l’ État de résistance: le cas de la Sicile normande, in État et colonisation au Moyen-Âge et à la Renaissance, actes du colloque international (Reims, 2-4 avril 1987), a cura di M. Balard, Lyon 1989 (L’histoire partagée), pp. 331-347: 335.

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In definitiva si tratta di una definizione culturale che prescinde dal valore specifico del termine “melkita” che, come noto, viene attribuito ai cristiani dei patriarcati di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme che aderiscono alle disposizioni in materia di fede (l’unione ipostatica, ossia l’unione della natura umana e divina di Cristo) affermate dal concilio di Calcedonia (451), grazie al sostegno dell’imperatore Marciano.70 Tuttavia il termine “melkita” è realmente applicato ai cristiani di Sicilia in un passo, sfuggito alle precedenti indagini, del teologo cordovese Ibn Ḥazm (m. 456/1064): Di esse la più importante è la setta melkita (al-firqa al-malkāniyya); questa è la scuola giuridica (maḏhab) di tutti i re dei cristiani (ǧamī‘ mulūk alnaṣārà), in ogni dove, ad eccezione dell’Etiopia e della Nubia. È anche la scuola giuridica della maggior parte della popolazione in ogni regno dei cristiani (maḏhab ‘āmmat ahl kull mamlakat li-l-naṣārà), in qualsiasi luogo, ad eccezione dell’Etiopia e della Nubia. [La setta melkita] è la scuola giuridica di tutti i cristiani d’Ifrīqiya, di Sicilia, d’al­Andalus e della maggior parte della popolazione di Siria (Šām). La loro definizione di Iddio Altissimo indica, secondo loro, tre entità: Padre, Figlio e Spirito Santo, ciascuna delle quali è immortale. [Affermano] che Gesù, su di lui sia la pace, è un dio perfetto e un uomo perfetto, senza che uno dei due sia distinto dall’altro. [Dicono] che l’uomo fu crocifisso e ucciso, mentre al dio non avvenne nulla di tutto ciò. [Dicono anche] che Maria generò il dio e l’uomo, e che entrambi sono una cosa sola, [ossia] il figlio di Dio. Iddio Altissimo giudicherà sulla loro miscredenza!71

Nel suo trattato dedicato a religioni, eresie e credi, composto e rivisto tra 1027 e 1048,72 Ibn Ḥazm suddivide il Cristianesimo del secolo XI in tre sette o scuole giuridiche principali: melkita, giacobita e nestoriana.73 Per 70. Si faccia riferimento al primo volume di C. Charon (Korolevskij), History of the Melkite Patriarchates, trad. inglese a cura di J. Collorafi, 4 voll., Fairfax 1998­2001. 71. Ibn Ḥazm ‘Alī b. Aḥmad, Kitāb al-fiṣal fī l-milal wa-l-ahwā’ wa-l-niḥal, 5 voll., Il Cairo 1899-1903, I, p. 48; trad. spagnola Abenházam de Córdoba y su historia crítica de las ideas religiosas, a cura di M. Asín Palacios, 5 voll., Madrid 1927-1932, II, p. 151; il passo è ripreso e sunteggiato da Ibn Taymiyya (661-728/1263-1328), al-Ǧawāb al-ṣaḥīḥ li-man baddala dīn al-masīḥ, 6 voll., ed. ‘A. Sayyid Subḥ al­Madanī, Il Cairo 1962, IV, p. 86. Sull’autore e l’opera si vedano i fondamentali contributi in Ibn Ḥazm of Cordoba. The Life and Works of a Controversial Thinker, a cura di C. Adang, M. Fierro, S. Schmidtke, LeidenBoston 2013 (Handbook of Oriental studies. Section 1, the Near and Middle East, 103). 72. Aillet, Les mozarabes [n. 9], p. 28. 73. Ibn Ḥazm, Kitāb al-fiṣal [n. 71], pp. 47-48; Abenházam de Córdoba [n. 71], II, pp. 151-152.

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quanto riguarda i melkiti, il teologo musulmano adotta una distinzione religiosa su base sociale, ossia in primo luogo fa riferimento al credo della élite e in secondo a quello del popolo, in altre parole applica una classica distinzione sociologica islamica tra ḫāṣṣa e ‘āmma.74 L’autore aggiunge anche una chiara distribuzione geopolitica dei melkiti, presenti in Ifrīqiya, Sicilia, al-Andalus e tra la maggior parte della popolazione di Siria. Recentemente Cyrille Aillet ha puntato l’attenzione sul passo in questione evidenziando i problemi e le contraddizioni; secondo l’analisi condotta dallo studioso, nella visione di Ibn Ḥazm, il nesso unificante è il concetto di “monarchia”, a cui sarebbero legati tutti i seguaci del credo di Calcedonia: la presenza o l’eredità dell’impero romano-bizantino in Siria e Ifrīqiya, i sovrani “normanni” in Sicilia e i visigoti in al­Andalus.75 Tuttavia il problema alla base del passo di Ibn Ḥazm si pone in altri termini. Innanzitutto occorre chiarire che il teologo si riferisca alle scuole giuridiche dei cristiani presenti all’interno della dār al-Islām del secolo XI, tuttavia gli anacronismi messi in evidenza non si spiegano se inquadrati in un contesto storico-religioso datato a quel secolo; piuttosto occorre trovare un momento di contatto geopolitico che ritraduca in Africa, Sicilia, Hispa­ nia e Syria la terminologia araba utilizzata dall’autore. In realtà Ibn Ḥazm attinge ad un punto di vista che rispecchia l’unità imperiale romano-bizantina dei secoli VI­VII; in altre parole è più che probabile che l’autore utilizzi una fonte con una prospettiva “antiquaria”, che certamente non privilegia il punto di vista andaluso e iberocentrico del secolo XI; tuttavia proprio questo ambito geopolitico potrebbe fornire i termini entro cui fissare cronologicamente la realtà fotografata dal passo: l’effimera provincia Spa­ niae d’età giustinianea (552-624). Non ultimo, appare chiaro che l’idea di “monarchia” non può essere applicata alla Sicilia dell’XI secolo, basti rilevare che Ibn Ḥazm muore nel 1064, la conquista normanna della Sicilia ha inizio nel 1061, Palermo è presa nel 1072, mentre i programmi politico-ecclesiali messi in atto dalla dinastia normanna avranno inizio tempo dopo.76 74. M.A.J. Beg, s.v. al-Ḫāṣṣa wa-l-‘āmma, in Encyclopaedia of Islam, a cura di P.J. Bearman [et al.], 12 voll., Leiden 1960-2005, IV, pp. 1098-1100. 75. Aillet, Les mozarabes [n. 9], pp. 216-217; sul tema si tengano presenti anche le prospettive aperte da König, Muslim Perceptions [n. 49], pp. 32-34, 36. 76. A. Nef, Géographie religieuse et continuité temporelle dans la Sicile normande (XIe-XIIe siècle), in À la recherche de légitimités chrétiennes. Représentations de l’espace et du temps dans l’Espagne médiévale (IXe-XIIIe siècle), actes du colloque (Madrid, 26-27

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In definitiva, il termine “melkita” applicato ai cristiani arabizzati di Sicilia risulta efficace nel momento in cui evoca un Cristianesimo di fede calcedonese e un bilinguismo greco-arabo proprio ai cristiani dell’isola già in età islamica e in auge fino alla piena età normanno­sveva; sulla lunga durata l’utilizzo del termine “melkita” si rivela però una definizione che non tiene conto dell’apporto di gruppi umani provenienti dall’esterno, degli esperimenti culturali maturati alla corte dei sovrani normanni e soprattutto dei processi di trasformazione (conversioni, romanizzazione linguistica e latinizzazione religiosa) cui sono sottoposti tutti i cristiani dell’isola. 4.3. Mozarabi Il termine “mozarabo” è tuttora oggetto di ampio dibattito; un dato certo è l’utilizzo della parola in relazione ai cristiani arabizzati presenti nell’Occidente islamico (Penisola Iberica e Nordafrica).77 Henri Bresc e Annliese Nef hanno esteso il termine “mozarabo” ai cristiani arabizzati di Sicilia, giustificando la scelta con le seguenti motivazioni: Dans le cadre sicilien, le terme sera étendu à des chrétiens de culture grecque dans la mesure où le christianisme insulaire était de langue grecque au moment de la conquête arabo­musulmane, et où, ce dernier fut en contact constant avec la culture latine locale (ou environnante), et où il se rattachait institutionellement, excepté pendant une courte période, à Rome (et non à Constantinople ou à une église autocéphale).78

Evidentemente anche in questo caso si tratta di una definizione da considerarsi in senso lato, ma che tuttavia risulta essere fuorviante in quanto istituisce un parallelo più o meno diretto col modello culturale maturato nella Penisola Iberica e nell’Occidente arabo-islamico; difatti l’etichetta di “mozarabi” applicata alla Sicilia prescinde dal valore intrinseco offerto dal termine, ossia di cristiani arabizzati che utilizzano la lingua e la scrittura e,

avril 2001), a cura di P. Henriet, Lyon 2003 (Annexes des «Cahiers de linguistique et de civilisation hispaniques médiévales», 15), pp. 177-194. 77. Per il dibattito storiografico cfr. D. Urvoy, Les aspects symboliques du vocable «mozarabe». Essai de réinterpretation, in «Studia Islamica», 78 (1993), pp. 117-153; Aillet, Les mozarabes [n. 9], pp. 2-5. 78. Nef, L’histoire des «mozarabes» de Sicile [n. 10], p. 256; cfr. anche Bresc, Nef, Les mozarabes de Sicile [n. 10], pp. 134-136; Bresc, Arabi per lingua, greci per rito [n. 10], p. 263.

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più in generale, la tradizione latina nel rito e negli offici liturgici, riconoscendo la giurisdizione di Roma.79 Per quanto riguarda i cristiani arabizzati di Sicilia, il legame con Roma assume un altro e diverso valore; come già messo in evidenza, la giurisdizione di Roma sulla Chiesa siciliana cessa ufficialmente nel secolo VIII, quando ha inizio quella del patriarcato di Costantinopoli, che verrà messa in discussione con l’arrivo dei normanni (XI secolo). Non conosciamo nei dettagli le sorti della Chiesa siciliana durante il periodo della dominazione islamica, tuttavia si ha notizia di vescovi siciliani, e le liste delle sedi siciliane soggette al patriarca di Costantinopoli vengono tramandate fino al secolo XIII.80 Per quanto concerne il periodo fatimita, in particolare, in futuri studi occorrerà chiarire i legami tra i cristiani di Sicilia e i patriarcati di Antiochia, Gerusalemme e, soprattutto, Alessandria d’Egitto. A titolo di esempio desidero citare un problematico passaggio dell’opera del tardo storico tunisino Ibn Abī Dīnār (m. 1092/1681 o 1110/1698 ca.): Agli inizi dell’anno 100 [dell’Egira], si sottomise a lui [scil. Mūsà b. Nuṣayr] l’intera Ifrīqiya da Barqa a Sūs al­aqṣà, e ancora non esisteva un elenco (qā’ima) dei Rūm e dei Berberi che vi si trovavano. Di loro alcuni si erano convertiti all’Islam e su altri era stata imposta la ǧizya; fino ad oltre il quarto secolo vi erano alcuni villaggi popolati da infedeli e i vescovi si recavano presso i cristiani d’Ifrīqiya da Alessandria [inviati] da parte del Patriarca che vi risiedeva. Nel tempo presente Iddio Altissimo ha mondato questo paese dalla sozzura del politeismo, sia lode a Dio! 81

79. «Illi vero Christiani, qui in Africa et Hispania inter occidentales Saracenos commorantur, Mozarabes nuncupati; latinam habent litteram et latino sermone in scripturis utuntur, et sancte Romane Ecclesie sicut alii Latini cum omni humilitate et devotione obediunt, ab articulis fidei vel sacramentis in nullo deviantes»: Jacques de Vitry, Histoire orien­ tale. Historia orientalis, a cura di J. Donnadieu, Turnhout 2008 (Sous la règle de Saint Augustin, 12), cap. LXXXI, p. 324. 80. Amari, Storia dei Musulmani [n. 1], I, pp. 628-630; II, pp. 462-463; J. Gay, Notes sur l’hellénisme sicilien de l’occupation arabe à la conquête normande, in «Byzantion», 1 (1924), pp. 215-228: 218-222; Scaduto, Il monachesimo basiliano [n. 35], pp. i, xv-xliii: xxvii-xxx, xxxvi-xxxvii. 81. Ibn Abī Dīnār, al-Mu’nis fī aḫbār Ifrīqiya wa-Tūnis, ed. M. Šammām, Tunis 1967, p. 38. Inaffidabile risulta essere, forse perché compiuta su un testo differente, la traduzione francese di E. Pellissier e [A.] Rémusat, Histoire de l’Afrique de Moh’ammed-ben-Abi-elRaïni-K’aïrouâni, Paris 1845 (Exploration scientifique de l’Algérie. Sciences historiques et géographiques, 7), p. 63.

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Sebbene l’intero passo sia chiaramente inserito all’interno della narrazione inerente le vicende dell’emirato di Mūsà b. Nuṣayr (640­716) e il primo secolo dell’Egira, è verosimile che l’autore aggiunga qualche considerazione sulle epoche successive. Inoltre è plausibile ritenere che durante il periodo fatimita, e specialmente dopo la hiǧra del califfato al Cairo (973), il patriarcato di Alessandria abbia esercitato una certa influenza sia sulla Chiesa di Ifrīqiya sia, verosimilmente, anche sui cristiani della Sicilia islamica.82 4.4. Arabici e arabo­cristiani Quanto alla eventuale assenza di un termine latino che identifichi il cristiano arabizzato di Sicilia, occorre prendere in esame il capitolo XXXVI delle Consuetudini della città di Palermo (XIII-XIV secolo): Venditiones, que facte sunt vel fient in posterum per Saracenos, Iudeos et Grecos Siciliam habitantes de rebus stabilibus et mobilibus ab eis possessis omnimodam obtineant firmitatem, et instrumenta confecta de venditionibus vel permutationibus earum aut quibuscumque contractibus aliis in lingua arabica, greca et hebraica per manus notariorum Saracenorum, Grecorum vel Hebreorum vel Arabicorum, etsi sollempnitatibus [careant] Christianorum, nec non et instrumenta que in posterum fient modo predicto, firma et stabilia perseverent.83

Il legislatore sancisce che le vendite di beni mobili e immobili effettuate da saraceni, ebrei e greci abitanti (habitantes) 84 in Sicilia hanno vali82. Per un’analisi del passo nel contesto nordafricano rimando a C. Courtois, Gré­ goire VII et l’Afrique du Nord. Remarques sur les communautés chrétiennes d’Afrique du Xle siècle, in «Revue historique», 195 (1945), pp. 97­122, 193­226: 201, e più approfonditamente cfr. D. Valérian, La permanence du Christianisme au Maghreb: l’apport probléma­ tique des sources latines, in Islamisation et arabisation [n. 9], pp. 131-149: 142-143. 83. «XXXVI. De venditionibus factis et faciendis per Saracenos, Iudeos [et] Grecos Siciliam habitantes, et de instrumentis et testamentis»; si veda l’incunabolo di Andreas Vyel de Wormacia, Consuetudines Felicis Urbis Panormi, Palermo 1478, rist. Consuetudini del­ la felice Città di Palermo raccolte da Giovanni Naso, Palermo 2001, pp. 202-205; e le edizioni di L. Siciliano Villanueva, Raccolta delle consuetudini siciliane, Palermo 1894 (Documenti per servire alla storia di Sicilia. Serie 2, 4), pp. 300-303; V. La Mantia, Antiche consuetudini delle città di Sicilia, Palermo 1897, pp. 186­187; per un più esteso commento al passo cfr. Mandalà, Moscone, Tra latini, greci e ‘arabici’ [n. 12], pp. 189-194. 84. La parola ha il significato generico di “abitanti”, e non di habitatores che, come noto, ha un suo preciso valore giuridico per il quale rimando a M. Scarlata, Strutture urba­ ne e habitat a Palermo fra XIII e XIV secolo. Un approccio al tema attraverso la lettura documentaria, in «Schede medievali», 8 (1985), pp. 80-110: 99-100.

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dità legale; si specifica inoltre che tutti i documenti relativi a vendite e permute, così come tutti i contratti, composti «in lingua araba, greca o ebraica» e stilati «per mano dei notai dei saraceni, dei greci, o degli ebrei o degli arabi» 85 devono essere considerati firma et stabilia anche nel caso in cui manchino delle sollempnitates proprie ai documenti dei “cristiani”.86 Innanzitutto occorre riflettere sulla classificazione proposta dal testo: Saraceni, Iudei e Greci sono le nationes, ossia le comunità giuridiche “estranee”, unite da vincoli di fede, lingua e costumi,87 che abitano la Sicilia e che il legislatore non considera Christiani, nel senso di “latini”. Le lingue dell’azione giuridica sono la arabica, greca et hebraica;88 quanto a coloro che si rivolgono ai notai (o alternativamente i notai stessi) essi sono suddivisi in Saraceni, Greci vel Hebrei vel Arabici; mi sembra che tale partizione scaturisca dalla precedente suddivisione “linguistica”, e che nella consuetudine s’intenda distinguere gli Arabici da identificare proprio con i cristiani arabizzati, dai Saraceni. Come questi ultimi gli Arabici utilizzano la lingua araba ma dal punto di vista giuridico e confessionale non sono Saraceni ma Greci.

85. La critica è pressoché unanime nel ritenere «saracenorum, grecorum vel hebreorum vel arabicorum» attributi di «notariorum», tuttavia occorre intendere i termini come sostantivi e non come aggettivi (si osservi, ad esempio, l’uso di hebraicus/hebreus; e anche saracenus e non saracenicus); per una lettura del passo, si vedano oltre le edizioni succitate, e anche G. Cosentino, I notari di Sicilia, in «Archivio storico siciliano», 12 (1887), pp. 304-365: 336; A. Finocchiaro-Sartorio, Gizyah e kharag. Note sulla condizione dei vinti in Sicilia durante la dominazione musulmana con speciale riguardo alla proprietà fondiaria, in «Archivio giuridico», s. III, 10 (1908), pp. 177-268: 250-251; Varvaro, Lingua e storia in Sicilia [n. 19], p. 162; Bresc, Arabi per lingua, ebrei per religione [n. 29], p. 259. 86. Evidentemente i “cristiani” sono da intendersi come “latini”, distinti dai greci menzionati in precedenza, anch’essi cristiani dal nostro punto di vista. 87. Sull’idea di natio e sulla sua evoluzione storica rimando a G. Zernatto, Nation: A History of a Word, in «The Review of Politics», 6/3 (1944), pp. 351-366; in sintesi si veda anche J. Ehlers, J. Verger, Natio, in Lexikon des Mittelalters, 6, München 1993, coll. 10351040; specificatamente per le nationes christianorum cfr. A.-D. von den Brincken, Die ‘Na­ tiones christianorum orientalium’ im Verständnis der lateinischen Historiographie von der Mitte des 12. bis in die zweite Hälfte des 14. Jahrhunderts, Köln-Wien 1973 (Kölner historische Abhandlungen, 22). Ad esempio Nicodemo, arcivescovo di Palermo agli esordi della conquista normanna, è definito «natione grecus», cfr. Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti ducis fratris eius, a cura di E. Pontieri, in Rerum Italicarum Scriptores 2, 5,1, Bologna 1927-1928, cap. II p. 53. 88. La parola lingua potrebbe alludere piuttosto alla scrittura, che è un segno distintivo identitario più facilmente intellegibile dall’esterno.

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In tema mi sembra interessante notare che il celebre Vocabulista in arabico, un lessico bilingue latino-arabo della seconda metà del XIII secolo attribuito a Ramón Martí (m. post 1284), proponga un’equivalenza proprio tra arabicus e musta‘rabī, ossia “mozarabo”.89 Scorrendo l’evidenza documentale,90 emerge che un notariato “greco” è ben noto e attestato a partire dalla conquista normanna,91 a quello “musulmano” sono ascrivibili un certo numero di documenti privati,92 mentre di quello “ebraico” si hanno testimonianze tangibili.93 Quanto ad un notariato “arabo-cristiano”, che teoricamente potrebbe esprimersi in lingua e scrittura araba, l’evidenza documentale è apparentemente latitante. Dico apparentemente in quanto mi sembra ovvio, anche alla luce delle precedenti considerazioni, leggere e interpretare una parte della ricca documentazione “greca” come il frutto di un’identità culturale arabo-cristiana. E qui mi spiego meglio: la forma dell’atto privato è inequivocabilmente in lingua e lettera greca, e segue i modelli propri all’atto notarile greco;94 a mutare 89. Parte latina: arabicus = musta‘rabī; parte araba: musta‘rabī = alcaraviat, cfr. C. Schiaparelli, Vocabulista in Arabico, pubblicato per la prima volta sopra un codice della Biblioteca Riccardiana di Firenze, Firenze 1871, pp. 249, 185. Certamente anche il termine arabicus è soggetto a una sua evoluzione semantica; ad esempio Malaterra distingue i musulmani arabici dagli africani, cfr. Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii [n. 87], passim. 90. Cusa, I diplomi greci ed arabi [n. 1], I-II, passim; e anche il catalogo di J. Johns, Arabic Administration in Norman Sicily. The Royal Dīwān, Cambridge 2002, pp. 315-325. 91. V. von Falkenhausen, I notai siciliani nel periodo normanno, in I mestieri. Orga­ nizzazione, tecniche, linguaggi, Palermo 1984 (Quaderni del Circolo semiologico siciliano, 17-18), pp. 61-69; nell’isola il notariato greco sarebbe un’importazione normanna mutuata dall’Italia meridionale, cfr. V. von Falkenhausen, L’atto notarile greco in epoca normanno­ sveva, in Civiltà del Mezzogiorno d’Italia. Libro scrittura documento in età normanno­ sveva, atti del convegno dell’Associazione italiana dei paleografi e dei diplomatisti (Napoli­ Badia di Cava dei Tirreni, 14-18 ottobre 1991), a cura di F. D’Oria, Salerno 1994 (Cultura scritta e memoria storica, 1), pp. 241-278: 246, 251-252; V. von Falkenhausen, I greci in Calabria fra XIII e XIV secolo, in «Quaderni petrarcheschi», 12-13 (2002-2003), pp. 21-50: 37-38, 49-50. 92. In sintesi si veda O.R. Constable, Cross­Cultural Contracts: Sales of Land between Christians and Muslims in 12th Century Palermo, in «Studia Islamica», 85 (1997), pp. 67-84. 93. H. Bresc, Arabi per lingua, ebrei per religione [n. 29], pp. 258-259; M. Bevilacqua Krasner, Il notarius Iudeorum nella comunità ebraica di Palermo, in «Sefer Yuḥasin», 20 (2004), pp. 19-37. 94. Amelotti, von Falkenhausen, Notariato e documento [n. 20], pp. 19-21, 33-34; M. Caravale, La legislazione del Regno di Sicilia sul notariato durante il Medio Evo, in Per una storia del notariato meridionale [n. 20], pp. 97-176: 101; von Falkenhausen, I notai siciliani nel periodo normanno [n. 91], p. 63.

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non è l’atto notarile nella sua forma esteriore, ma l’identità culturale di chi lo stipula, ossia i notai e i rogatari. A Palermo l’identità “arabo-cristiana” emerge quindi dall’interno della comunità “greca”, che è sostanzialmente unitaria e profondamente bilingue. L’arabizzazione degli individui affiora, oltre che nell’onomastica, anche nelle parti esterne del documento, e cioè le soprascrizioni e le sottoscrizioni, alcune delle quali sono composte in lingua e lettera araba; e riguardo all’alfabetismo dei singoli occorre segnalare che in taluni casi le sottoscrizioni in grafia greca risultino influenzate da quella araba.95 Un fenomeno distinto si osserva nella Penisola Iberica, dove i contemporanei documenti dei mozarabi di Toledo s’inquadrano nel solco della tradizione giuridico-istituzionale del diritto musulmano, seguono le norme giuridiche e diplomatiche dei trattati notarili malikiti e adottano anche una patina tipicamente islamica, in espressioni e formule, come nel caso della basmala.96 L’utilizzo del termine arabicus in una fonte locale, sebbene tardiva, consente di costruire una definizione per i cristiani arabizzati di Sicilia, ossia arabo-cristiano, un termine che ovviamente non deve essere considerato in senso etnico ma culturale. Così come la letteratura arabo­ cristiana,97 questa minoranza arabofona di Sicilia, è araba di lingua ma cristiana (o meglio greco-bizantina) nelle forme e nei contenuti. L’utilizzo del termine arabo-cristiano applicato ai cristiani arabizzati di Sicilia ha senza dubbio il vantaggio di trascendere le forti e marcate connotazioni religiose e culturali connesse ad altre definizioni come “melkiti” e “moza95. P. Degni, Le sottoscrizioni testimoniali nei documenti italogreci: uno studio sul­ l’alfabetismo siciliano nella Sicilia normanna, in «Bizantinistica. Rivista di studi bizantini e slavi», s. II, 4 (2002), pp. 107-154: 150. 96. D.A. Olstein, La era mozárabe. Los mozárabes de Toledo (siglos XII-XIII) en la historiografía, las fuentes y la historia, Salamanca 2006 (Acta Salmanticensia. Estudios históricos & geográficos, 135), pp. 73­75, 139­140, 149; A. García Sanjuán, El fin de las comunidades cristianas de al-Andalus (siglos XI-XII): factores de una evolución, in Cris­ tianos y musulmanes en la Península Ibérica: la guerra, la frontera y la convivencia, XI congreso de estudios medievales (León, 2007), Avila 2009, pp. 259-287: 277. 97. Per una definizione di letteratura arabo­cristiana (o dei cristiani) rimando a S. Khalil Samir, La littérature arabe médiévale des chrétiens, in «‘Ilu. Revista de ciencias de las religiones», IV (2001), pp. 21-49; B. Pirone, Tematiche di lettaratura arabo-cristiana dal IX al XIV secolo, in Lo spazio letterario del Medioevo, 3: Le culture circostanti, II: La cultura arabo­islamica, a cura di M. Capaldo, F. Cardini, G. Cavallo, B. Scarcia Amoretti, Roma 2003, pp. 409-432.

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rabi”, riportando il dibattito storico su un piano di più chiara oggettività e includendo i processi di trasformazione culturale avvenuti tra i cristiani di Sicilia a seguito della conquista normanna (romanizzazione linguistica e latinizzazione religiosa).

5. Conclusioni Parafrasando il titolo di un noto libro “arabi per lingua”, ma “greci per nazione” ci appaiono i cristiani arabizzati di Sicilia. Grazie alla documentazione d’archivio dei secoli XII-XIII la presenza di cristiani arabizzati risulta fortemente strutturata nel contesto urbano palermitano; essa tuttavia affonda le proprie radici all’interno dell’elemento “greco” dell’isola, e difatti ne segue clero, rito, diritto e consuetudini. Dal punto di vista linguistico e culturale tra i cristiani arabizzati di Sicilia vige un bilinguismo che in taluni contesti si trasforma in diglossia, dove l’arabo svolge il ruolo di lingua veicolare mentre il greco è legato alla sfera delle funzioni comunitarie. All’interno dell’ambiente dei cristiani arabizzati di Sicilia s’inserisce la produzione di testi quali la Cronaca di Cambridge o l’epitaffio quadrigrafico (ebraico, greco, arabo e latino) di Anna madre del prete Grisanto (1149), ma anche la produzione dei manoscritti liturgici bilingui e trilingui di pertinenza siciliana; frutto di questa identità culturale bilingue grecoaraba sono anche personalità finora considerate eclettiche ed erudite come nel caso di Eugenio da Palermo. Genericamente qualificati come Rūm o Naṣārà dagli autori arabo-islamici, in qualche caso è possibile isolare una definizione più precisa; ad esempio Ibn Ḥawqal stigmatizza apertamente i muša‘miḏūn/*mešummadūn, gli “apostati” di recente conversione all’Islam. Dal punto di vista ecclesiologico i cristiani dell’isola sotto il dominio musulmano sono considerati melkiti nell’opera di un teologo musulmano d’Occidente del secolo XI: Ibn Ḥazm; nel caso della Sicilia questa prospettiva rispecchia perfettamente la realtà storica e religiosa dell’isola, bizantinizzata dal clero di lingua greca e di fede calcedonese a partire dal secolo VII. Assolutamente assente è il termine “mozarabo” nelle fonti latine medievali inerenti la Sicilia; nelle consuetudini di Palermo (XIII-XIV secolo) i cristiani arabizzati sono chiaramente indicati dalla parola arabicus, che li descrive linguisticamente e culturalmente, distinguendoli da saraceni, greci e ebrei. La loro liturgia appare tuttavia come “saracena”, ossia di lingua e scrittura araba, nel diario di viaggio di un pellegrino tedesco del XIV.

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Piuttosto arabizzati appaiono quindi questi cristiani di Sicilia che prima e dopo l’arrivo dei normanni mantengono rito, diritto e consuetudini bizantine, fra le quali il notariato. Ovviamente a questi cristiani arabizzati, che affondano le loro radici nella Sicilia prenormanna, si affiancano anche gruppi di individui che praticano altre lingue (romanzo e latino) e altri riti (latino), grazie alla conversione o all’immigrazione nell’isola guidata dai sovrani normanni e alla loro mirata politica culturale.98 A future indagini spetta il compito di stabilire il peso e la portata dell’arabizzazione dei cristiani dell’isola facendo, oltre ad un passo avanti anche un passo indietro, ossia guardando con occhi nuovi ai secoli in cui l’acculturazione in senso arabo-islamico ha avuto luogo. Oltre il centro, la città di Palermo e la sua corte emirale, occorrerà prendere in considerazione anche documenti, aree e contesti considerati eccentrici o marginali, come la Sicilia orientale o la Penisola stessa, là ove fenomeni di acculturazione si trasmettono e conservano in una forma nettamente distinguibile. È questo ad esempio il caso della ricetta medica in caratteri greci ma in lingua araba dialettale contenuta nel Par. gr. suppl. 1297, f. 121r, 99 o dei de Aure­ fice, una famiglia di cristiani arabizzati emigrati a Salerno dalla Sicilia nella seconda metà dell’XI secolo, evidentemente a seguito della conquista normanna dell’isola.100 In tale chiave saranno forse meglio leggibili personaggi come il celebre Costantino Africano (m. 1087) traduttore dall’arabo (e dal greco) al latino, attivo a Salerno e a Monte Cassino;101 là ove si va98. Su quest’ultimo tema di veda ora Nef, Conquérir et gouverner la Sicile [n. 10]. 99. B. Zipser, Griechische Schrift, Arabische Sprache und Graeco-Arabische Medi­ zin: Ein neues Fragment aus dem mittelalterlichen Sizilien, in «Mediterranean Language Review», 15 (2003-2004), pp. 154-166; M. Mavroudi, Arabic Words in Greek Letters: the Violet Fragment and More, in Moyen arabe et variétés mixtes de l’arabe à travers l’his­ toire, actes du premier colloque international (Louvain-la-Neuve, 10-14 mai 2004), a cura di J. Grand’Henry, J. Lentin, Louvain 2008, pp. 321-354. 100. A. Peters-Custot, L’identité d’une communauté minoritaire au Moyen Âge: la population grecque de la principauté lombarde de Salerne (IXe-XIIe siècles), in «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge», 121/1 (2009), pp. 83­97; per una più ampia riconsiderazione dei fenomeni migratori verso la Penisola fra IX e XI secolo rimando a K. Wolf, Auf dem Pfade Allahs. Ǧihād und muslimische Migrationen auf dem süditalienischen Festland (9.-11. Jahrhundert), in Transkulturelle Verflechtungen im mittelalterlichen Jahr­ tausend: Europa, Ostasien, Afrika, a cura di M. Borgolte, M.M. Tischler, Darmstadt 2012, pp. 120-166. 101. V. von Falkenhausen, Costantino Africano, in Dizionario biografico degli italia­ ni, 30, Roma 1984, pp. 320-324; E. Montero Cartelle, Costantino Africano e il recupero dei testi greci antichi di medicina, in: «Schola Salernitana. Annali», 3-4 (1998-1999), pp. 9-29;

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luti che il luogo d’origine di Costantino, l’Affrica, o meglio l’Ifrīqiya intesa anche come la sua capitale politica al-Mahdiyya,102 è strettamente associata a Palermo e alla Sicilia nell’universo mentale di autori e fonti peninsulari tra X e XI secolo: ita ut facta videatur Neapolis Panormus vel Africa recita difatti il Chronicon Salernitanum (fine X secolo), riferendosi a Napoli e al forte appoggio logistico prestato al ǧihād dalla città campana,103 mentre be-arṣ Palermu u-be-arṣ Ifrīqiya, ossia «nella terra di Palermo/Sicilia e nella terra d’Ifrīqiya» sono deportati i parenti di Šabbatay Donnolo a seguito di una scorreria condotta da Ǧa‘far b. ‘Ubayd per conto del Mahdī fatimita ‘Ubayd Allāh nell’anno 313/925­926.104 Ancora nell’XI secolo i Siculi appaiono tutt’uno con gli Afri, dal punto di vista normanno: «Tunc Rogerius Tancredi de Altavilla filius in Italiam pergens ibidem affuit, qui postea, juvante Deo, Siciliam magna ex parte optinuit et Afros Siculosque et alias gentes in Christum non credentes quae praefatam insulam devastabant armis invasit, protrivit et superavit»:105 e nella prospettiva normanna dei commerci amalfitani i siculi e gli africani sono chiaramente associati agli arabi e ai libici: «His Arabes, Libi, Siculi noscuntur et Afri: / Haec gens est totum notissima paene per orbem / Et mercanda ferens et amans mercare referre».106 Ai posteri l’ardua sentenza … più specificatamente sulla conoscenza del greco rimando alle osservazioni di C. Burnett, The chapter on the spirits in the Pantegni of Constantine the African, in Constantine the African and ‘Alī ibn al-‘Abbās al-Maǧūsī: the Pantegni and Related Texts, a cura di C. Burnett, D. Jacquart, Leiden 1994 (Studies in Ancient Medicine, 10), pp. 99-120: 110-111. 102. Per l’equivalenza tra Affrica e al-Mahdiyya nelle fonti latine medievali si veda Amari, Storia dei Musulmani [n. 1], I, p. 520 n. 2. 103. E anche, poco oltre nel testo: «Si a mari prohibiti fuerint escarum ammictere copias vel eciam classium a Panormo vel Africa suscipere multitudines», cfr. U. Westerbergh, Chronicon Salernitanum. A Critical Edition with Studies on Literary and Historical Sources and on Language, Stockholm 1956, § 119. 104. P. Mancuso, Shabbatai Donnolo’s “Sefer Ḥakhmoni”. Introduction, Critical Text, and Annotated English Translation, Leiden 2010 (Studies in Jewish History and Culture, 27), pp. 12-13; testo ebraico pp. 137-138; traduzione pp. 224-225. 105. The Ecclesiastical History of Orderic Vitalis, a cura di M. Chibnall, 6 voll., Oxford 1969-1980 (Oxford Medieval Texts), II, p. 84; O. Guyotjeannin, L’Italie méridionale vue du royaume de France, in Il Mezzogiorno normanno­svevo visto dall’Europa [n. 14], pp. 143-175: 151. 106. Guillaume de Pouille, La geste de Robert Guiscard / Guillaume de Pouille, a cura di M. Mathieu, Palermo 1961 (Testi e monumenti, Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici. Testi, 4), libro III, p. 190, vv. 483-485; S. Palmieri, Un esempio di mobilità et­ nica altomedievale: i Saraceni in Campania, in Montecassino dalla prima alla seconda distruzione [n. 56], pp. 597-627: 612.

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marco di Branco, Kordula Wolf

Terra di conquista? I musulmani in Italia meridionale nell’epoca aghlabita (184/800-269/909)

1. Da tiranno a muǧāhid: il “pentimento” di Ibrāhīm All’inizio dell’anno 289/902, l’emiro aghlabita Ibrāhīm II ricevette presso Tunisi un inviato del califfo abbaside al­Mu‘taḍid. I due storici che riferiscono di questa ambasciata, al­Nuwayrī e Ibn Ḫaldūn,1 sono concordi nell’affermare che il messaggero non era latore di alcuno scritto: si trattava dunque di una missione segreta. Secondo al­Nuwayrī, il suo scopo sarebbe stato quello di richiamare Ibrāhīm a Baghdad e di designare al suo posto come emiro dell’Ifrīqiya suo figlio Abū ’l­‘Abbās; Ibn Ḫaldūn è ancora più netto nell’affermare che essa aveva come fine la destituzione (‘azl) dell’emiro. Ma, come ha notato con grande finezza Mohamed Talbi,2 quelle di al­Nuwayrī e di Ibn Ḫaldūn (e delle loro fonti) sono solo deduzioni, alla cui base v’è da un lato un atteggiamento ostile nei confronti di Ibrāhīm, dal­ l’altro la volontà di offrire del califfato abbaside – che attraversava una gravissima crisi politica – un’immagine dinamica e prestigiosa, anche in chiave anti­fatimita. Sempre ammesso che lo volesse, al­Mu‘taḍid non avrebbe certo avuto la forza di imporre alcunché all’emiro aghlabita. Sembra invece assai più probabile ipotizzare che la trattativa segreta fra Ibrāhīm e l’emissario del califfo avesse come oggetto l’individuazione di una strategia comune finalizzata a porre un freno all’espansione sciita. Nei mesi immediatamente successivi all’incontro di Tunisi, fu infatti messo in atto un ambizioso programma politico e propagandistico incentrato sul concet1. Al­Nuwayrī, Nihāyat al-’arab fī funūn al-adab, ed. M. Gaspar Remiro, in «Revista del Centro de estudios historicos de Granada y su Reino», 7 (1917), pp. 87­88; Ibn Ḫaldūn, Kitāb al-‘ibar, ed. N. al­Hūrīnī, IV, Būlāq 1283/1867, pp. 436­437. 2. m. Talbi, L’émirat aghlabide (184-296/800-909). Histoire politique, Paris 1966, pp. 318-322.

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Marco Di Branco, Kordula Wolf

to di tawba (pentimento, conversione), mirabilmente sintetizzato in un passo di Ibn ‘Idārī:3 Nel 289 il signore dell’Ifrīqiya Ibrāhīm b. Aḥmad, mentre Abū ‘Abd Allāh al­dā‘ī si consolidava nella regione dei Kutāma, ostentò conversione e pentimento. Con il suo gesto, egli voleva dare soddisfazione al popolo e attirarsi la simpatia dei ceti superiori. Così, restituì le imposte non canoniche, abolì l’appalto della riscossione delle tasse, percepì la decima in granaglie e consentì ai proprietari terrieri di rinviare di un anno il pagamento dell’imposta e chiamò questo anno “l’anno della giustizia”. Ugualmente, affrancò i suoi schiavi e consegnò ai giurisperiti e ai notabili di Qayrawān importanti somme di denaro da distribuire ai deboli e ai poveri […]. Infine, giunse Abū ’l­‘Abbās, il figlio dell’emiro, inviato dalla Sicilia, e suo padre gli affidò il potere.

A questi provvedimenti di notevolissimo impatto, l’emiro fece seguire la sua partenza per lo ḥaǧǧ, il pellegrinaggio a Mecca, uno dei pilastri dell’Islām a cui è tenuto ogni musulmano che ne abbia le possibilità. 2. Conquistare Costantinopoli e Roma? Il ǧihād di Ibrāhīm Dopo aver consegnato l’Ifrīqiya nelle mani del figlio, il 21 Rabī‘ I 289 (5 marzo 902) Ibrāhīm lasciò Tunisi alla volta di Mecca; ma giunto a Sūsa, i suoi piani cambiarono. Secondo Nuwayrī, egli avrebbe deciso di rinunciare allo ḥaǧǧ «per timore dei Tulunidi e per evitare spargimenti di sangue 3. Ibn ‘Iḏārī, Al-bayān al-muġrib fī aḫbār al-Andalus wa ‘l-Maġrib, ed. G.S. Colin, E. Lévi-Provençal, I, Leiden 1948, pp. 131-132. Secondo a. Nef, Violence and the Prince: the Case of the Aghlabid Amīr Ibrāhīm, in Public Violence in Islamic Societies. Power, Disci­ pline, and the Construction of the Public Sphere, 7th-19th Centuries CE, a cura di C. Lange, M. Fierro, Edinburgh 2009, pp. 217-237: 221-222, e Ead., Instruments de la légitimation po­ litique et légitimité religieuse dans l’Ifrīqiya de la fin du IX e siècle. L’exemple d’Ibrāhīm II, in La légitimation du pouvoir au Maghreb médiéval. De l’orientalisation à l’émancipation politique, a cura di A. Nef, E. Voguet, Madrid 2011 (Collection de la Casa de Velázquez, 127), pp. 75-91: 88-90, il tema della tawba sarebbe stato introdotto a posteriori alla luce di pratiche sufi sviluppatesi a partire dal X secolo; ma la studiosa, a sostegno di questa ipotesi, adduce unicamente il fatto che nella celebre Risālat iftitāḥ al-da’wa di al­Qāḍī al­Nu’mān, l’emiro è descritto con indosso un abito di lana grezza, alla maniera dei sufi (Risālat iftitāḥ al­da’wa, ed. W. al­Qāḍī, Bayrūt 1390/1970, p. 92). Sembra, al contrario, del tutto plausibile che il concetto di tawba sia stato parte integrante dell’offensiva propagandistica di Ibrāhīm e che esso costituisca anzi uno dei motivi della simpatia nei confronti dell’emiro che si riscontra in ambito fatimita, nel quale l’idea di tawba gode appunto di una particolare fortuna.

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fra musulmani», indicendo invece il ǧihād;4 al contrario, secondo Ibn alAṯīr, Ibrāhīm si sarebbe limitato a cambiare il suo itinerario, scegliendo la via marittima – che passava per la Sicilia – in modo da scongiurare lo scontro con i Tulunidi e associare allo ḥaǧǧ il ǧihād. Lo stesso Ibn al-Aṯīr descrive i preparativi della spedizione militare di Ibrāhīm e le sue varie fasi. Stando all’autore dell’Al-kāmil fī ta’rīḫ essa avrebbe avuto inizialmente lo scopo di conquistare le piazzeforti (ḥuṣūn) siciliane che ancora resistevano ai musulmani, ma il suo fine ultimo sarebbe stato assai più ambizioso: quello cioè di impadronirsi di Costantinopoli (al-Qusṭanṭīniyya).5 4. Al­Nuwayrī, Nihāyat al-’arab [n. 1], p. 87. 5. Ibn al­Aṯīr, Al-kāmil fī ‘l-ta’rīḫ, ed. C.J. Tornberg, Lugduni Batavorum 1865, VI, p. 350, e VII, pp. 195­199: «Il 6 ǧumāda I [15 febbraio 875] morì Muḥammad b. Aḥmad b. al­ Aġlab, emiro di Ifrīqiya, dopo un regno di dieci anni, cinque mesi e sedici giorni. Quando costui era in punto di morte, designò suo successore il figlio Abū ‘Iqāl e fece giurare suo fratello Ibrāhīm di non creargli difficoltà, facendo rendere atto di tale giuramento la famiglia aġlabide e gli sceicchi di Qayrawān. Ciò fatto, incaricò Ibrāhīm di governare il paese fino alla maggiore età del giovane. Quando quello fu morto, gli abitanti di Qayrawān vennero a chiedere a Ibrāhīm, di cui conoscevano le qualità di amministratore e la giustizia, di prendere nelle sue mani i loro affari. Ibrāhīm dapprima rifiutò, poi acconsentì e si installò nel palazzo del governo, da dove impresse agli affari una direzione unanimemente approvata. Egli era giusto e fermo, procurò la sicurezza al paese ed eliminò da esso i fomentatori di sommosse e i malfattori […]. Sapendo che, se fosse passato per l’Egitto per recarsi a Mecca, sarebbe stato fermato da Ibn Tulūn e ne sarebbe derivata una guerra mortale per i musulmani, egli si decise a prendere la strada della Sicilia per fare insieme il pellegrinaggio e il ǧihād, conquistando nell’isola le piazzeforti che avevano resistito fino ad allora. Trasportò dunque tutto l’oro, le armi etc. che aveva ammassato a Sūsa, in cui fece il suo ingresso all’inizio del 289 [15 dicembre 901], vestito della pelle rappezzata che portano gli asceti, e si imbarcò di lì per la Sicilia. Andò ad attaccare la città di Nardò e se ne impadronì alla fine del mese di raǧab; si comportò con giustizia e trattò bene i sudditi. Si diresse poi verso Taormina, i cui abitanti erano pronti a combattere e fecero una sortita contro di lui. La mischia iniziava quando un lettore del Corano lesse queste parole: “Ti abbiamo dato una vittoria evidente [XLVIII 1]”. Gli disse allora l’emiro: “Recita piuttosto ‘Ci sono due avversari che disputano riguardo il loro Signore [XXII 20]’”. Dopo di ciò, Ibrāhīm gridò: “Gran Dio, oggi io e gli infedeli ti sottoponiamo la nostra disputa”; poi, caricò, seguito dai più coraggiosi, e mise in rotta i cristiani, che i musulmani massacrarono con facilità. La notizia della presa di Taormina colpì vivamente il re dei Rūm, che restò per sette giorni senza cingere il suo diadema, perché – diceva – quell’insegna non doveva essere collocata sulla testa di un uomo afflitto. Poi i Rūm cominciarono i preparativi di una spedizione in Sicilia per sottrarre l’isola ai musulmani, ma quando seppero che Ibrāhīm meditava di marciare sulla stessa Costantinopoli, il loro principe lasciò in questa città un’imponente armata, pur inviando in Sicilia numerose truppe. D’altra parte Ibrāhīm, dopo aver conquistato Taormina, inviò delle colonne contro le città della Sicilia ancora occupate dai cristiani […]. In seguito, avanzò contro Cosenza, che inviò dei messaggeri per chiedere l’amān, che fu loro rifiutato».

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Talbi, il massimo conoscitore della “politica estera” aghlabita, non sembra dare particolare credito a quanto riferito da Ibn al-Aṯīr, l’unica fonte araba ad accennare alle mire costantinopolitane di Ibrāhīm, chiedendosi se la versione del cronista non fosse piuttosto «un indice nous révélant que les contemporains, déroutés par la volte-face de l’Émir, lui avaient prêté, dans l’ignorance de ses desseins réels, toutes sortes d’intentions».6 E tuttavia, lo stesso studioso è costretto ad ammettere che «les sources latines et arabes s’accordent pour prêter ce rêve à Ibrāhīm» e che costui «était justement assez téméraire ou assez fou pour nourrir un tel rêve».7 Per quanto riguarda la documentazione latina, va soprattutto ricordato il passo famoso degli Acta translationis sancti Severini del cronista napoletano Giovanni Diacono (vissuto tra IX e X secolo),8 in cui l’autore ricorda i provvedimenti presi dalle città dell’Italia meridionale9 in previsione dell’attacco di Ibrāhīm e fa parlare in prima persona lo stesso emiro, che afferma di volersi impadronire, nell’ordine, di Roma e di Costantinopoli.10 Anche se Giovanni è l’unico autore a sostenere che Roma fu uno degli obiettivi delle campagne militari di Ibrāhīm e oggi non possiamo più verificare se al riguardo ci furono pianificazioni più concrete, questa testimonianza rispecchia gli avvenimenti in Calabria che suscitavano un certo ti6. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], p. 321 n. 1. 7. Ibidem, p. 526 n. 2. 8. Sull’autore cfr. B. Capasso, Le fonti della storia delle provincie napolitane, Napoli 1902, pp. 43-47, e soprattutto l.a. Berto, s. v. Giovanni Diacono, in Dizionario biografico degli italiani, 56, Roma 2001, pp. 7-8. 9. In questo saggio si utilizzano termini come “Italia”, “Italia meridionale” o nomi di province odierne, ma essi, ovviamente, non devono essere fraintesi come retrospezioni anacronistiche. Circoscrivendo grosso modo zone geografiche nei confini attuali, hanno il solo scopo di facilitare al lettore un’approssimativa localizzazione. 10. «Vadant hinc, vadant ad suos, et eis renuntient, quod ex me totius Hesperiae cura dependeat; et ego, velut mihi placuerit, ita dispono ex incolis meis. Forsitan sperant, quod mihi reniti possit Graeculus aut Franculus. Utinam invenissem eos omnes in unum collectos et ostendissem illis robur, quaeque sit virtus bellorum! Sed cur eos demoror? Vadant tantum et certo certius teneant, quia non solum illos, verum etiam et civitatem Petruli senis destruam. Hoc enim unum restat, ut Constantinopolim proficiscar et conteram in impetu fortitudinis meae»: Acta translationis sancti Severini, in Monumenta Germaniae Historica [d’ora in poi: MGH]. Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX [d’ora in poi: SS rer. Lang.], Hannoverae 1878, pp. 452-459: 455. Sull’opera (Bibliotheca Hagio­ graphica Latina, nr. 7658) cfr. da ultimo G. Vergara, Autenticità, unicità e cronologia di un’opera di Giovanni Diacono Napoletano, in «Rassegna storica dei comuni», 1 (19691970), pp. 287-340.

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more anche più al nord. Per contro, la volontà di conquistare Costantinopoli è esplicitamente attribuita a Ibrāhīm anche dal bios di sant’Elia il Giovane,11 mentre dalle fonti storiche bizantine si evince che la situazione dell’Italia meridionale, dopo la caduta di Taormina, doveva preoccupare non poco l’imperatore Leone VI, spingendolo a stanziare una notevole somma di denaro per sostenere l’esercito bizantino stabilito in Calabria, che si voleva far intervenire in Sicilia.12 Come è noto, Ibrāhīm passò lo Stretto di Messina il 3 settembre del 902, e il primo ottobre diede l’ordine di attaccare Cosenza, uno dei più importanti centri urbani della Calabria.13 Qui però, come riferiscono concordemente le fonti, egli fu colpito da un acutissimo attacco di dissenteria che in breve tempo lo condusse alla morte. Secondo quanto riportato dall’anonimo autore del Kitāb al-‘uyūn, sulla base del racconto del medico e storiografo Ibn al­Ǧazzār (m. 395/1004­1005), il decesso di Ibrāhīm II avvenne il 17 del mese di Ḏū ’l­qa‘da.14 Tale data si accorda perfettamente 11. Bibliotheca Hagiographica Graeca, nr. 580; Vita di sant’Elia il Giovane, ed. G. Rossi Taibbi, Palermo 1962 (Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, Testi, 7), §53, p. 82. Cfr. G. da Costa-Louillet, Saints de Sicilie et d’Italie méridionale aux VIII e, IX e et X e siècles, in «Byzantion», 29-30 (1959-1960), pp. 89-173: 105. 12. Iohannes Cameniata, De excidio Thessaloniciensi, ed. I. Bekker, Bonnae 1838 (Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae [d’ora in poi, CSHB], s. nr.), LIX, p. 569; Teophanes Continuatus, Χρονογραφία/Chronographia, ed. I. Bekker, Bonnae 1838 (CSHB, s. nr.), lib. VI, capp. 20-21 pp. 366-367; Georgius Monachus, ed. I. Bekker, Bonnae 1838 (CSHB, s. nr.), XX, pp. XXIX-XXX, 862-864; Leo Grammaticus, ed. I. Bekker, Bonnae 1842 (CSHB, s. nr.), p. 277, e Symeon Magister, ed. S. Wahlgren, Berolini-Novi Eboraci 2006 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae, 44/1), cap. CXXXII, § 41, p. 286. Cfr. m. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia. Seconda edizione modificata e accresciuta dall’autore, pubblicata con note a cura di Carlo Alfonso Nallino, 3 voll., Catania 1933-1939: II, pp. 109-111. 13. Sull’importanza di Cosenza tra IX e X secolo cfr. v. von Falkenhausen, La domi­ nazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo, Bari 1978, pp. 7-8, 28 e 36. Reggio, capoluogo del ducato di Calabria e residenza del doux bizantino, era stata già presa il 10 luglio 901 dal figlio dell’emiro, Abū ’l­‘Abbās ‘Abd Allāh; cfr. Talbi, L’émirat aghla­ bide [n. 2], p. 508 con n. 2. 14. Kitāb al-‘uyūn wa ’l-ḥadā‘iq fī aḫbār al-ḥaqā’iq, ed. O. Saïdi, I, Damas 1972, p. 98: «Successivamente Ibrāhīm bin Aḥmad invitò la gente al ǧihād e uscì con l’esercito dalla città di Sūsa per la conquista dirigendosi verso Nuba, lunedì, primo giorno di Ǧumādà I, e raggiunse la Sicilia il tre di Raǧab. Poi egli andò a Taormina, che conquistò di domenica, 9 notti prima della fine di Ša’bān [1 agosto 902]. Egli morì nel paese dei Rūm in un luogo detto Cosenza che dista nove giorni dalla Sicilia. La sua morte avvenne di lunedì, ma alcuni dicono di sabato, tredici notti prima della fine del mese di Ḏū ’l­qa‘da [23 ottobre 902]».

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con la notizia, riferita da altri storici arabi (Ibn ‘Iḏārī, al­Nuwayrī e Ibn al­ Abbār), secondo cui la durata dell’emirato di Ibrāhīm sarebbe stata di 28 anni, 6 mesi e 12 giorni:15 quest’ultimo dato, tenendo conto che egli salì al potere il 6 Ǧumādà I 261, induce a fissare la sua morte proprio nel diciassettesimo giorno del mese di Ḏū ’l­qa‘da del 289; cinque giorni dopo, si assistette al curioso fenomeno della pioggia di stelle cadenti che fece ribattezzare il 289 come «l’anno delle stelle».16 3. Al­arḍ al­kabīra: una costante della “politica estera aghlabita” È del tutto evidente come la fine ingloriosa dell’emiro e la di poco successiva caduta degli Aghlabiti abbia condotto le fonti medievali – e gli storici contemporanei – a svalutare largamente la portata dei suoi disegni di espansione militare. In particolare, è passato quasi del tutto sotto silenzio un dato fondamentale: le mire espansionistiche di Ibrāhīm II nell’arḍ alkabīra non furono il frutto di un’infatuazione estemporanea, ma costituirono una vera e propria costante della politica aghlabita, almeno dalla caduta dell’emirato di Bari (871), alla quale seguì la creazione di un wālī al-arḍ al-kabīra, destinato a sovraintendere agli interessi politico-militari della dinastia in Italia meridionale.17 Lo stesso Ibrāhīm, che nella prima parte del suo regno dedicò quasi tutti i suoi sforzi bellici a porre le basi della conquista di Siracusa e a rafforzare il proprio potere in Sicilia, tentò in ogni modo di resistere e di replicare all’offensiva bizantina di Niceforo Foca in Italia meridionale. Secondo quanto riferisce lo storico longobardo Erchemperto, un musulmano di stirpe regia, cioè appartenente alla famiglia degli Aghlabiti, si sarebbe addirittura recato ad Agropoli e al mons Garelianus per ottenere l’appoggio delle truppe musulmane colà stanziate a una campagna militare da condurre contro i Bizantini in Calabria:18 15. Per l’elenco delle fonti arabe sulla morte di Ibrāhīm II cfr. Talbi, L’émirat aghla­ bide [n. 2], pp. 526-527 n. 4. 16. Cfr. Amari, Storia dei musulmani [n. 12], II, p. 117; Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], p. 528 n. 1. 17. Vedi infra a p. 144. 18. Erchemperti Historia Langobardorum Beneventanorum, post G.H. Pertz, iterum ed. G. Waitz, in MGH SS rer. Lang., Hannoverae 1878, pp. 231-264: cap. 51, p. 256. Per denominare l’insediamento musulmano del Garigliano utilizziamo qui il termine mons Ga­ relianus, attestato nelle fonti, perché – come dimostreremo in una monografia di prossima pubblicazione – tale insediamento non si trovava presso la foce del fiume. Sull’installazione del mons Garelianus vedi anche infra a pp. 131-132.

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Tunc nutu Dei, a quo omne procedit bonum, quendam Agarenum ab Africa evocans, regia de stirpe generi sui procreatum, Agropolim, inde Garilianum, quo residebant agmina Hismaelitica, misit, atque omnium illorum mentem accendens, eius hortatus universi Saraceni tam de Gariliani quam de Agropoli comuniter collecti, Calabriam, qua residebat Grecorum exercitus super Saracenos in Sancta Severina commorantes, properarunt; ubi et omnes Graiorum gladiis extincti sunt. Dehinc Amanteum castrum captum est; deinde et dictae Beatae Severinae oppidum apprehensum est.

Come mostra la menzione della conquista bizantina di Amantea e Santa Severina, l’episodio in questione deve essere avvenuto in concomitanza con l’inizio dell’offensiva di Bisanzio in Puglia e Calabria voluta dall’imperatore Basilio I e magistralmente condotta dal monostrategós Niceforo.19 Il testo di Erchemperto non è privo di problemi: nella forma in cui esso ci è pervenuto, il soggetto della proposizione che ha in inizio con l’espressione tunc nutu Dei non è espresso, e di conseguenza non è chiara l’identità del personaggio che avrebbe chiamato il “principe” aghlabita in Italia dall’Africa (ab Africa evocans). Secondo Vincenzo Saletta,20 ad esempio, l’iniziativa sarebbe ancora una volta da ascriversi al vescovo Atanasio [II] di Napoli, menzionato nella frase immediatamente precedente dello stesso passo. Tuttavia, le allusioni alla collaborazione di Atanasio e Guaiferio cum Saracenis collocano l’orizzonte cronologico di tale frase prima della morte di Guaiferio, avvenuta nell’880, mentre gli eventi cui si allude nella proposizione successiva concernono evidentemente il periodo posteriore alla fondazione dell’insediamento del mons Garelianus. Sembra inoltre estrema19. Su questa spedizione cfr. soprattutto J. Gay, L’Italie méridionale et l’empire by­ zantin, Paris 1904 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 90), pp. 133136; H. Grégoire, La carrière du premier Nicéphore Phocas, in Προσφορά εις Σ. Π. Κυριακίδην, Tessalonike 1954 (Ελληνικά, 4), pp. 232-254; Id., Du nouveau sur Nicéphore Phokas, aïeul de l’empereur de ce nom, in «Comptes rendus de l’Académie des inscriptions et belles-lettres», 97 (1953), pp. 11-18; A. Pertusi, Contributi alla storia dei temi bizantini dell’Italia meridionale, in Atti del III congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo (Benevento­Montevergine­Salerno­Amalfi, 14­18 ottobre 1956), Spoleto 1959 (Centro italiano di studi sull’alto medioevo. Atti dei congressi, 3), pp. 495-517: 506; V. Laurent, À propos de la métropole de santa severina en Calabre, in «Révue des études byzantines», 22 (1964), pp. 176-183; von Falkenhausen, La dominazione bizantina [n. 13], pp. 22 e 77, con bibliografia. Sulla storia dell’insediamento di Santa Severina fra IX e X secolo cfr. da ultimo F.A. Cuteri, L’insediamento fra VIII e XI secolo. Strutture, oggetti, culture, in Il Castel­ lo di Santa Severina, a cura di R. Spadea, 2 voll., Soveria Mannelli 1998, pp. 49-91. 20. V. Saletta, Gli Arabi al Garigliano, in «Studi meridionali», 4 (1971), pp. 83-109: 99.

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mente difficile che Atanasio, responsabile, come si è visto, della cacciata dei musulmani da Napoli e del loro ritiro ad Agropoli, possa aver conservato agli occhi dei suoi ex­alleati sufficiente autorità, credibilità e capacità diplomatiche per convocare un “principe” regia de stirpe e inviarlo proprio ad Agropoli e al mons Garelianus. Pare invece assai più plausibile pensare che la decisione di inviare ab Africa un personaggio del genere nei due principali avamposti islamici del Centro Italia sia stata presa in tutta autonomia da Ibrāhīm, preoccupato per l’offensiva bizantina in Puglia e in Calabria e per l’incapacità degli emiri siciliani di affrontare la situazione (dall’881 all’885 si succedono in questa carica ben cinque personaggi diversi).21 Il soggetto della frase di Erchemperto – al prezzo di una minima correzione del testo tràdito – non può che essere dunque il nutus dei, cioè la volontà divina, che spinse Ibrāhīm a intraprendere un’iniziativa destinata a portare i musulmani del mons Garelianus a una disastrosa sconfitta. Per quanto riguarda l’identità del “principe agareno”, nonostante il silenzio delle fonti, è possibile formulare un’ipotesi suggestiva: sappiamo infatti che Ibrāhīm affidò a suo figlio Abū ’l­‘Abbās ‘Abd Allāh alcune delicate missioni militari.22 Ora, tra la prima missione menzionata dalle fonti, cioè la spedizione contro i berberi Luwāta ribelli dell’882, e il secondo incarico, cioè il massacro degli abitanti della cittadella di Balazma dell’891-892, al quale fanno seguito altri due analoghi mandati negli anni successivi (897 e 899),23 c’è un vacuum di dieci anni, durante il quale Abū ’l­‘Abbās ‘Abd Allāh scompare completamente dall’orizzonte storiografico. È in questo vuoto che può verosimilmente inserirsi il viaggio del “principe” ad Agropoli e al mons Garelianus e la spedizione in Calabria. Sappiamo del resto che Abū ’l­‘Abbās ‘Abd Allāh si recò certamente in terra calabrese nell’897­898.24 4. Definire il ǧihād Una volta consolidato il potere aghlabita in Sicilia, Ibrāhīm guarda dunque all’arḍ al-kabīra come alla tappa successiva dell’espansione della comunità islamica guidata dall’emiro di Qayrawān. Vien fatto dunque di 21. Cfr. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 493-501. 22. Su queste spedizioni soprattutto al­Nuwayrī, Nihāyat al-’arab [n. 1], pp. 84-85. Cfr. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 290-302. 23. Cfr. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 296-302. 24. Al­Nuwayrī, Nihāyat al-’arab [n. 1], p. 87.

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chiedersi come si collochi in tale quadro l’ultima sua grande campagna militare, che, come si è avuto modo di vedere, le fonti designano esplicitamente con il nome di ǧihād.25 In primo luogo, va ribadito che, se sul piano propagandistico tale campagna viene presentata dallo stesso Ibrāhīm come estremamente innovativa, e come il frutto di una vera e propria “svolta etica”, essa è al contrario perfettamente inserita nelle linee guida trentennali della politica aghlabita sia nei confronti della Sicilia sia dell’arḍ al-kabīra. Come nota giustamente Annelise Nef lors des sept premières années de règne d’Ibrāhīm II, une dimension importante de son action modèle est militaire; elle peut être lue selon la clé du ǧihād aussi même si le terme n’apparaît pas dans les sources […]. Outre la défense du territoire, l’émir mène un double ǧihād: à l’extérieur et à l’intérieur du territoire qu’il gouverne […]. Hors de l’Ifrīqiya, les opérations contre les chrètiens sont menées avant tout en Sicilie et en Italie méridionale et surtout, mais non exclusivament, par le fils de l’émir qui a hérité du gouvernement insulaire.26

L’unica sostanziale differenza rispetto al passato consiste dunque nel fatto che la spedizione militare del 289/902 è guidata dall’emiro in persona. E in effetti, si tratta di una differenza di non poco momento, giacché non era mai era accaduto prima che l’emiro di Ifrīqiya guidasse personalmente le sue truppe in operazioni belliche contro gli infedeli. È dunque comprensibile che le fonti insistano sul carattere straordinario dell’evento: un emiro alla guida dell’esercito non poteva non riportare alla memoria l’epoca, peraltro non così lontana, delle grandi conquiste islamiche, quando i soldati musulmani erano capitanati dai grandi emiri Qurayshiti (come i celeberrimi Ḫālid b. al­Walīd o ‘Amr b. al­Ās), che da generali si trasformavano spesso in amministratori delle regioni da loro conquistate. Al contrario, già a partire dall’epoca umayyade, la figura dell’emiro tende sempre di più ad esercitare la sua leadership militare in maniera indiretta, demandando la conduzione delle campagne ai cosiddetti quwwād (sing. qā’id), comandanti in capo a lui sottoposti. D’altra parte, già la tradizione islamica più antica rilevava come lo stesso Profeta non avesse sempre preso parte attiva alle azioni militari della sua comunità. A questo proposito, nella recensione di Yaḥyā ibn Yaḥyā al­Layṯī del trattato Al-Muwaṭṭā’ di Mālik Ibn Anās, eponimo di quella “scuola malikita” che, a partire dalla metà del IX 25. Vedi supra p. 127, n. 5. 26. Nef, Instruments [n. 3], p. 88.

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secolo, divenne il sostanziale punto di riferimento giuridico della dinastia aghlabita, è riportato un ḥadīṯ estremamente perspicuo:27 E mi raccontò da Mālik, da Yaḥyā ibn Sa‘īd, da Abū Ṣāliḥ al­Sammān, da Abū Hurayra, che l’Inviato di Dio, Dio lo benedica e gli conceda salvezza, disse: “Se non fossi preoccupato per la mia comunità, mi sarebbe piaciuto non rimanere mai indietro in ogni spedizione che partiva sulla via di Dio, ma io non posso trovare ciò che può prendersi carico di loro mentre loro non possono trovare quello con cui partire e muoversi con me, e poi, di certo, li angustierebbe rimanere dietro rispetto a me. Mi piacerebbe combattere sulla via di Dio ed essere ucciso, poi essere riportato in vita, ed essere ucciso nuovamente, quindi essere riportato in vita e poi essere ucciso ancora.

Come mostra inequivocabilmente l’exemplum del Profeta, chi detiene la leadership della comunità non può sempre prendere parte alle spedizioni «sulla via di Dio»: egli è chiamato ad affrontare e a risolvere i problemi politici, economici e sociali con cui la umma si trova ad avere a che fare, e deve quindi rinunciare alla guerra e all’eventuale martirio in nome degli interessi superiori della umma stessa. Dal punto di vista della tradizione islamica, la mancata partecipazione diretta del capo della comunità non toglie nulla allo status di ǧihād di una spedizione militare da lui decretata. Il vero problema – nota acutamente Biancamaria Scarcia Amoretti – è semmai quello di stabilire i criteri indispensabili a qualificare il “capo della comunità” con le prerogative connesse, tra cui, in prima istanza, appunto quella di promuovere ed eventualmente guidare il ǧihād.28 Una chiara risposta a questa domanda è fornita dal diritto islamico: esso, infatti, non solo prevedeva che la forma di emirato detta imārat al-istikfā’ (“emirato di concessione”) avesse tra le sue prerogative quelle di comandare le truppe, difendere la religione, portare avanti il ǧihād senza consultare in merito il califfo, ma riconosceva esplicitamente alle autorità locali delle province eccentriche dell’impero il diritto di intraprendere una campagna militare senza l’autorizzazione preventiva del leader della umma nel caso di un at27. Mālik Ibn Anās, Al-Muwaṭṭā’, a cura di B. ‘A. Ma ‘rūf, Bayrūt 1417/1997, nr. 1337. Sulla scuola malikita in Ifrīqiya e sul suo atteggiamento nei confronti del problema del ǧihād cfr. soprattutto m. von Bredow, Der Heilige Krieg (ǧihād) aus der Sicht der mālikitischen Rechtsschule, Stuttgart 1994 (Beiruter Texte und Studien, 44), passim, ma cfr. anche m. Bonner, Jihad in Islamic History. Doctrines and Practice, Princeton (NJ) 2006, pp. 108110. 28. B. Scarcia Amoretti, Teorizzare il Jihād: percorsi interni all’Islam e letture storio­ grafiche, in «Studi storici», 43 (2002), pp. 739-753: pp. 746-747.

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tacco inopinato o qualora ci si fosse trovati di fronte a una minaccia grave e improvvisa.29 Ovviamente, tutto si giocava su una lettura estensiva o limitativa di tale norma e, non di rado, l’autorità centrale era messa nelle condizioni di sanzionare ex-post una situazione ambigua scaturita da una conquista inaspettata portata a termine da un generale senza il consenso del califfo. Così, ad esempio, nel suo celebre Kitāb al-aḥkām al-sulṭāniyya,30 il politologo abbaside Māwardī (m. 450/1058), prendendo atto della prassi consolidata e riassumendo il dibattito sviluppatosi tra i giuristi fino alla sua epoca, si sofferma a lungo sull’istituto dell’imārat al-istīlā’ (“emirato di conquista”):31 esso costituisce la forma di governo che è appunto la diretta conseguenza di imprese belliche portate a termine da un emiro – o anche da un semplice qā’id – senza l’iniziale consenso esplicito dell’autorità califfale. Conseguenza fondamentale di un simile, ambiguo stato di cose è l’inefficacia dei tentativi antichi e moderni di distinguere, nell’ambito di azioni militari condotte contro gli “infedeli”, tra “guerra giusta”, “scorreria”, “guerra ingiusta” e ǧihād, giacché tali distinzioni, oltre a basarsi su criteri di tipo soggettivo e arbitrario, sono sempre costruite a posteriori sulla base dell’esito finale, più o meno positivo, delle operazioni belliche considerate e del giudizio politico sui protagonisti di tale operazioni.32 D’altra parte, va tenuto presente che la giurisprudenza musulmana, per quanto concerne le dottrine politiche, non è altro che un tentativo di razionalizzazione, interpretazione e giustificazione ex post della storia della umma, giacché, come hanno evidenziato gli studi fondamentali di Bertand Badie e di François Clement, nella visione islamica ogni potere, in quanto stabilito secondo una logica di rapporti di forza, è potenzialmente contestabile.33 29. Cfr. in proposito A. Morabia, Le ǧihâd dans l’Islam médiéval. Le “combat sacré” des origines au XIIe siècle, Paris 1993 (Bibliothèque Albin Michel de l’histoire), pp. 208209; F. Clement, Pouvoir et légitimité en Espagne musulmane à l’époque des taifas, Ve-XI e siècle, Paris 1997 (Histoire et perspectives méditerranéennes), pp. 47-48. 30. Sulla teoria dell’emirato esposta da Māwardī, fondamentale H. Laoust, La pensée et l’action politique d’Al-Māwardī, in «Révue des études islamiques», 35 (1968), pp. 11-92: Cfr. anche M. Campanini, Islam e politica, Bologna 20032 (Saggi, 502), pp. 111-115, e F.I. Khuri, Imams and Emirs. State, Religion and Sects in Islam, London 2006, pp. 101-103. Sull’evoluzione di questa istituzione tra XI e XIII secolo vedi soprattutto L.R. Ménager, Amiratus-Amēras: L’Émirat et les origines de l’amirauté, XIe-XIIe. siècles, Paris 1960 (Bibliothèque générale de l’École pratique des hautes études, 6e. section), passim. 31. Maverdii Constitutiones politicae, ed. M. Enger, Bonnae 1853, p. 54. 32. Bonner, Jihad in Islamic History [n. 27], p. 13. 33. Cfr. B. Badie, Les deux états. Pouvoir et societè en Occident et en terre d’Islam,

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Per ciò che concerne più propriamente il concetto di ǧihād, esso è indissolubilmente legato a quello di umma, l’insieme dei credenti nel messaggio profetico: what distinguished ǧihād from the active tribal solidarity and loyalty as tribesmen usually displayed – scrive Fred M. Donner – was not, then, the idea of fighting for one’s community, but rather the nature of the community for which one fought. Ǧihād certainly facilitated the expansion and, perhaps, even the cohesion of the Islamic community, but it is itself a product of the rise of Islam, not a cause of it – a product, to be exact, of the impact of the new concept of umma on the old idea that one fought, even to the death, for one’s community.34

Va tuttavia rilevato che, sino alla fine del II/VIII secolo, fra gli intellettuali dei maggiori centri del mondo musulmano si registra un notevole disaccordo riguardo l’idea di ǧihād: se tale dissonanza concerne fondamentalmente il problema della natura del dovere stabilito dal ǧihād (è un dovere che spetta a tutti? Spetta a ciascun individuo?),35 essa, tuttavia, coinvolge anche la questione della sua essenza (guerra offensiva o solo difensiva?).36 Al contrario, a partire dall’inizio del III/IX secolo, il ǧihād può essere senz’altro definito come la forma assunta dalla guerra di conquista agli occhi della comunità musulmana: un’azione bellica diretta contro gli “infedeli” (e non contro altri musulmani), sentita e/o presentata dai suoi promotori e partecipanti come un combattimento «sulla via di Dio», finalizzato a Paris 1986 (L’espace du politique), pp. 15-25, e Clement, Pouvoir et légitimité en Espagne [n. 29], pp. 27-47. 34. F.M. Donner, The Early Islamic Conquests, Princeton (NJ) 1981, pp. 295-296 n. 30. Sul problema del rapporto fra ǧihād e comunità cfr. anche Id., The Sources of Islamic Conceptions of War, in Just War and Jihad: Historical and Theoretical Perspectives on War and Peace in Western and Islamic Traditions, a cura di J. Kelsay, J.T. Johnson, New York 1991 (Contributions to the Study of Religion, 28), pp. 31-70; Bonner, Jihad in Islamic His­ tory [n. 27], pp. 12-13; r. Firestone, Jihād. The Origin of Holy War in Islam, New YorkOxford 1999, pp. 127-134. 35. Bonner, Jihad in Islamic History [n. 27], p. 12-14. 36. Sul dibattito islamico più antico concernente il concetto di ǧihād e sul conflitto tra giuristi favorevoli e contrari ad esso cfr. soprattutto m. Bonner, Some Observations Con­ cerning the Early Development of Jihad on the Arab-Byzantine Frontier, in «Studia islamica», 75 (1992), pp. 5-31: 24-25; Id., Jihad in Islamic History [n. 27], p. 97-114; J. Chabbi, s. v. Ribāṭ, in Encyclopaedia of Islam, a cura di P.J. Bearman et al., 12 voll., Leiden 19602005, VIII, pp. 510-523; R.P. Mottahedeh, R. al-Sayyid, The Idea of the Jihād in Islam be­ fore the Crusades, in The Crusades from the Perspective of Byzantium and the Muslim World, a cura di A. Laiou, R.P. Mottahedeh, Washington (DC) 2001, pp. 23-29.

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estirpare l’empietà dal mondo e favorire l’espansione della comunità dei credenti, dai cui rappresentanti – che si tratti del califfo di Baghdad o del comandante di un reparto militare in una remota provincia di frontiera, più o meno autorizzato dall’autorità centrale – esso è portato avanti. Come ha rilevato Michael Bonner, un contributo decisivo a questa evoluzione dell’idea di ǧihād è stato dato dai cosiddetti «studiosi guerrieri», esperti di religione che si impegnarono in prima persona nella guerra contro gli “infedeli” nelle zone di frontiera del mondo islamico fra il I/VII e il II/VIII secolo, la cui attività militare, unita alla speculazione giuridicoreligiosa, costituì un vero e proprio atto fondante del ǧihād.37 A questo processo di fondazione dettero un contributo essenziale anche le due province occidentali di al­Andalus e Ifrīqiya: qui infatti, grazie alla speculazione di studiosi quali Yaḥyā ibn Yaḥyā al­Layṯī (m. 234/844) e Saḥnūn (m. 240/855), la scuola giuridica che aveva quale riferimento principe l’opera di Mālik Ibn Anās si libera delle perplessità nei confronti del ǧihād espresse dai giuristi medinesi e la integra a tutti gli effetti nel diritto malikita.38 È a partire da questa nuova elaborazione, a cui si affianca quella del grande giurista Šāfi‘ī (m. 204/820) – che operò in Iraq ed ebbe un ruolo chiave nella sistematizzazione della dottrina del ǧihād come “obbligo collettivo” (farḍ ‘alà ’l-kifāya), dando così un contributo fondamentale all’affermazione di tale istituto nel centro del potere abbaside – che, dall’inizio del III/IX secolo si procedette a una rilettura complessiva della storia islamica sotto il segno del ǧihād. Ovviamente, ciò non significa che, prima del III/IX secolo, il ǧihād non fosse un elemento centrale della prassi politica islamica (come afferma giustamente Bonner, le prime conquiste, in quanto eventi, sono inseparabili dal tema del ǧihād),39 ma è solo da questo momento in poi che esso viene storicizzato e inserito in un quadro concettuale preciso e congruente. Punto di partenza di una simile analisi furono da un lato le imprese militari del Profeta Muḥammad, considerate, da questo momento in poi, come veri e propri esempi prototipici di pratiche del ǧihād da tutta 37. Bonner, Jihad in Islamic History [n. 27], p. 98-101. 38. Cfr. soprattutto Bonner, Some Observations [n. 36], pp. 24-25; Id., Jihad in Is­ lamic History [n. 27], p. 108-110; Mottahedeh, al-Sayyid, The Idea of the Jihād [n. 36], pp. 25­26. Sulla stretta relazione fra il malikismo andaluso e quello dell’Ifrīqiya cfr. m. Talbi, Kairouan et le mālikisme espagnol, in Id., Études d’histoire ifriqiyenne et de civilisation musulmane médiévale, Tunis 1982 (Publications de l’Université de Tunis. Faculté des lettres et sciences humaines de Tunis. 4e série, Histoire, 26), pp. 295-318. 39. Bonner, Jihad in Islamic History [n. 27], p. 56-71.

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la tradizione storica e giuridica islamica (sebbene mai definite come tali nelle fonti più antiche),40 dall’altro le grandi campagne del I/VII-II/VIII secolo, modello ineludibile di ogni futura guerra di conquista della comunità musulmana.41

5. Il paradigma della scorreria Proprio la lettura comparata di queste due serie di eventi fa emergere un interessante elemento comune: in effetti, sia le spedizioni guidate dal Profeta sia quelle capitanate dai generali musulmani inviati dai califfi a occupare la Siria e l’Iraq sono in realtà, almeno nella loro fase iniziale, null’altro che delle scorrerie. In particolare, la celeberrima battaglia di Badr, che, per storici, tradizionisti e giuristi islamici, rappresenta il classico archetipo del ǧihād,42 fu poco più di una razzia ai danni di una carovana meccana. Ugualmente, i primi attacchi arabi contro la Siria cominciarono già negli ultimi anni di vita di Muḥammad, su piccola scala e senza molto successo, nella forma di attacchi improvvisi a villaggi e carovane finalizzati all’acquisizione di bottino,43 e quelli alla regione mesopotamica ebbero inizio, sotto la guida di al-Muṯannā b. al­Ḥāriṯa, come scorribande e saccheggi portati a termine non per insediarsi o conquistare, ma semplicemente per affermare il diritto dei nomadi a esigere un tributo.44 Proprio il carattere apparentemente “estemporaneo” delle prime conquiste islamiche ha portato alcuni studiosi contemporanei a porre l’accento sui fattori incidentali che le caratterizzano: il movimento non avrebbe avuto alcuna coerenza e non avrebbe obbedito a principî dettati da un’autorità centrale, ma sarebbe consistito essenzialmente in una serie di razzie accidentalmente coronate dal successo; l’idea di una conquista pianificata sarebbe stata dunque una sorta di mito inventato dagli storici e dai tradizionisti musulmani almeno 40. D. Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai nostri giorni, a cura di R. Tottoli, Torino 2007 (Piccola biblioteca Einaudi, n. s., 365), p. xix. 41. Scarcia Amoretti, Teorizzare il Jihād [n. 28], p. 749. 42. Sul carattere prototipico della battaglia di Badr cfr. Soprattutto Firestone, Jihad [n. 34], pp. 111-114. 43. Cfr. soprattutto H. Kennedy, Le grandi conquiste arabe. Come la diffusione del­ l’Islam ha cambiato il mondo in cui viviamo, tr. it. di V. Gorla, Roma 2008 (I volti della storia, 212), pp. 65-71, e Donner, The Early Islamic Conquests [n. 34], pp. 96-112. 44. Cfr. Kennedy, Le grandi conquiste arabe [n. 43], pp. 95-101; Donner, The Early Islamic Conquests [n. 34], pp. 157-190.

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un secolo dopo gli eventi in questione.45 In un suo studio fondamentale, Donner ha evidenziato la sostanziale infondatezza di tale approccio, mostrando come la conquista sia stata organizzata ideologicamente e strategicamente dal potere centrale (cioè dai cosiddetti “califfi ben guidati”) e come anche quelli che potrebbero sembrare solo piccoli raid tribali fossero in realtà accuratamente pianificati dall’élite del nuovo stato islamico secondo una ben precisa strategia.46 Questo dibattito riveste un particolare interesse anche per il contesto italiano dal quale siamo partiti e sul quale – con l’accento posto sulla terraferma – ora è necessario tornare a riflettere. In effetti, una consolidata e autorevole tradizione di studi che risale al magistero di Nicola Cilento e Francesco Gabrieli,47 interpreta le alterne vicende della presenza islamica in Italia centro­meridionale solo come «incursioni […], infiltrazioni che si insinuano in gruppi sparsi e autonomi di gente nelle terre del mondo cristiano».48 Peraltro, il mancato consolidamento di un dominio musulmano nell’area in questione ha impedito la nascita di un dibattito storiografico simile a quello concernente le grandi conquiste del VII secolo e ha favorito invece la liquidazione dei tentativi di espansione araba nel continente italiano come fenomeno del tutto marginale, da inquadrare utilizzando esclusivamente le categorie interpretative della razzia, della predazione e del saccheggio. Recentemente, tuttavia, la questione è stata riaperta da un saggio di Federico Marazzi, tanto interessante dal punto di vista teorico quanto deludente su quello della lettura e dell’interpretazione della documentazione: 49 L’elemento assolutamente innovativo e condivisibile dell’intervento 45. Per una simile lettura cfr. ad es. J. Koren, Y. Nevo, Methodological Approaches to Islamic Studies, in «Der Islam», 68 (1991), pp. 87-101. 46. F.M. Donner, Centralized Authority and Military Autonomy in the Early Islamic Conquests, in The Byzantine and Early Islamic Near East, III: States, Resources and Ar­ mies, a cura di A. Cameron, Princeton (NJ) 1995 (Studies in Late Antiquity and Early Islam, 1), pp. 337-360. 47. n. Cilento, Le incursioni saraceniche nell’Italia meridionale, in Id., Italia meri­ dionale longobarda, Milano-Napoli 19712, pp. 135-166; F. Gabrieli, Gli Arabi in terrafer­ ma italiana, in Gli Arabi in Italia. Cultura, contatti e tradizioni, a cura di F. Gabrieli, U. Scerrato, Milano 1979 (Antica madre, 2), pp. 109-148. Per un esempio di degenerazione semplificatoria di tale impostazione cfr. R. Panetta, I Saraceni in Italia, Milano 1973 (Storia e documenti, 13). 48. Cilento, Le incursioni saraceniche [n. 47], p. 136. 49. F. Marazzi, Ita ut facta videatur Neapolis Panormus vel Africa. Geopolitica della presenza islamica nei domini di Napoli, Gaeta, Salerno e Benevento nel IX secolo, in «Schede medievali», 45 (2007), pp. 159-202. Un tentativo di approccio globale al problema

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di Marazzi è la critica al paradigma della scorreria e l’affermazione dell’esigenza di tornare ad occuparsi del tema della presenza arabo-islamica nel Meridione d’Italia «cercando di soffermarsi sul problema della strategia araba di penetrazione nella penisola, al fine di acquisire elementi sul­ l’‘intelligenza’ e quindi sulle finalità di essa».50 E tuttavia, a questo proposito di ampio respiro non corrisponde un’adeguata analisi delle fonti utilizzate, che sono per giunta quasi esclusivamente documenti latini. Si rende dunque necessaria una nuova scansione delle principali fasi della presenza islamica in Italia che valorizzi il più possibile i pochi ma rilevanti dati desumibili dalle fonti arabe, al fine di ricostruire il quadro storico complessivo – non solo italiano ma anche mediterraneo – in cui esse vengono a collocarsi. Dato che tale quadro sarà oggetto di uno studio più ampio, ci limitiamo qui a descrivere per sommi capi la situazione in Italia meridionale durante l’età aghlabita 51 per discutere e approfondire, invece, alcuni aspetti sia politico-amministrativi che economici.

6. I raid e la questione della formazione di “emirati” nella terraferma italiana Com’è noto, le prime spedizioni arabe nell’odierno territorio italiano, nel periodo che va dalla metà del VII alla metà dell’VIII secolo, partirono dalle coste africane ed ebbero come principali obiettivi la Sicilia e la Sardella presenza saracena nel continente italiano è il lavoro di S. Del Lungo, Bahr ‘as Shām. La presenza musulmana nel tirreno centrale e settentrionale nell’Alto Medioevo, Oxford 2000 (BAR international series, 898; Notebooks on Medieval Topography, Documentary and Field Research, 1). Purtroppo, però, questo studio risulta del tutto inutilizzabile perché desume la gran parte dei suoi dettagli documentari dal falso Codice Diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi. L’“arabica impostura” dell’abate Giuseppe Vella (1749-1815), resa celeberrima dal romanzo Il Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia, continua ancora oggi a mietere vittime. Su questa problematica recentemente anche K. Wolf, Auf dem Pfade Allahs. Ǧihād und muslimische Migrationen auf dem süditalienischen Festland (9.-11. Jahrhundert), in Transkulturelle Verflechtungen im mittelalterlichen Jahrtausend. Europa, Ostasien, Afrika, a cura di M. Borgolte, M.M. Tischler, Darmstadt 2012, pp. 120-166: 124. 50. Marazzi, Ita ut facta [n. 49], p. 166. 51. Per approfondire l’argomento rimandiamo a n. 47 e agli importanti studi di Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I-II; Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2]; G. Musca, L’emirato di Bari 874-871, Bari 19672 (Università degli studi di Bari, Istituto di storia medievale e moderna. Saggi, 4).

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degna.52 La loro forma caratteristica, in questa fase embrionale dell’espansione islamica verso occidente, fu effettivamente quella dell’incursione, che tuttavia è quasi sempre il frutto di una pianificazione da parte delle autorità musulmane del Nordafrica.53 A causa di violenti disordini che sconvolsero l’Ifrīqiya, gli attacchi contro la Sicilia e la Sardegna cessarono, il che rende ben chiaro il legame inscindibile tra le incursioni e la “politica estera” dei governatori dell’Ifrīqiya. Una profonda cesura per i rapporti tra il mondo islamico e l’Italia significò la spedizione di Āsad b. al­Furāt (142/759­213/828), uno dei cosiddetti «studiosi guerrieri» (Bonner).54 Questa impresa militare, provocata da una richiesta da parte di un comandante della flotta bizantina e condotta come ǧihād con il consenso dell’emiro aghlabita di Qayrawān,55 fu l’inizio di una serie di attacchi e contrattacchi che ebbero come risultato la nascita di una wilāya (provincia, in questo caso dipendente dall’Ifrīqiya) e una graduale conquista dell’isola la quale trovò una conclusione provvisoria con la vittoria a Siracusa nell’878 per essere, poi, compiuta solo con la presa di Taormina (902) e di Rometta (965). Da quando fu fondato il nuovo “sub-emirato” siciliano e per tutta la sua durata di circa due secoli e mezzo,56 si registrano innumerevoli raid. Essi in un primo tempo si concentrarono sull’isola, ma a partire dalla seconda metà degli anni ’30 dell’VIII secolo 57 si estesero anche sulla terraferma riguardando non solo le regioni bizantine e longobarde più vicine alla Sicilia, ma anche zone più settentrionali come i ducati situati nell’area dell’odierna Campania, i territori della Chiesa romana o il ducato di Spoleto; per un certo periodo, fu coinvolta anche Venezia. Per tutto il periodo Aghlabita abbiamo molte notizie non solo di incursioni nella penisola, ma anche di presenze musulmane stabili la cui concre-

52. Cfr. Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 194-207; Talbi, L’émirat aghla­ bide [n. 2], pp. 384-389. 53. Ulteriori dettagli saranno forniti in una pubblicazione futura. 54. Vedi supra p. 137. 55. Cfr. Amari, Storia dei Musulmani [n. 12], I, pp. 382-417; Talbi, L’émirat aghla­ bide [n. 2], pp. 404-428. 56. Per le conquiste normanne in Sicilia e nella terraferma italiana cfr. soprattutto A. Metcalfe, The Muslims of Medieval Italy, Edinburgh 2009 (The New Edinburgh Islamic Surveys), pp. 88-111. 57. Un breve riassunto delle prime incursioni nella terraferma, con riferimenti bibliografici, da Musca, L’emirato [n. 51], pp. 15-22.

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ta forma e durata è molto difficile da ricostruire.58 Secondo Michele Amari e altri eruditi nella sua scia, sulla penisola sarebbero esistiti tre emirati di breve durata: Taranto (ca. 840-880) e Bari (ca. 847-871) in Puglia e Amantea (ca. 839/840-886) in Calabria.59 Su Taranto e Amantea islamiche le informazioni sono molto scarse, e nulla autorizza a ritenere che nelle due città sia esistito un emirato.60 Per quanto riguarda Taranto, le fonti menzionano tre personaggi saraceni: Saba,61 Apolaffar 62 e Utmagnus (‘Uṯmān).63 Ma nessuno di essi può essere a buon diritto definito “emiro”. Per ciò che concerne Amantea, l’unica notizia in proposito proviene dalla continuazione dell’Historia Langobardorum di Andrea da Bergamo, in cui è fatta menzione di un capo musulmano postosi al governo della città, tale Cincimus, definito princeps dei Saraceni,64 del quale non sappiamo altro. In realtà, solo Bari fu davvero un emirato, ma esclusivamente dall’863 all’871: fu infatti nell’863 che il califfo di Baghdad riconobbe ufficialmen58. Una visione d’insieme permette una mappa – nel dettaglio da usare con prudenza – pubblicata in Gli Arabi in Italia [n. 47], p. 107, tav. IV: L’occupazione araba in terraferma. 59. Amari, Storia dei Musulmani [n. 12], I, p. 519, utilizza esplicitamente il termine “emiri” anche per i capi militari stazionati a Taranto e Amantea. Sull’emirato di Bari, fondamentale Musca, L’emirato [n. 51]. Su Taranto e Amantea cfr. ad es. Amari, Storia dei Musulmani [n. 12], I, pp. 495, 502-505, 519; Musca, L’emirato [n. 51], pp. 75 e 113-114; F. Gabrieli, Taranto araba, in «Cenacolo», 4 (1974), pp. 3-8; Id., Gli Arabi in terraferma ita­ liana [n. 47], pp. 115-129; V. Salierno, I musulmani in Italia (secoli IX-XIX), Lecce 2006, pp. 71-74. Per le date indicate tra parentesi che suggeriscono una continuità di questi “emirati” vedi la tavola IV citata in n. 58. 60. Sulla questione cfr. ultimamente Wolf, Auf dem Pfade Allahs [n. 49], p. 121. 61. Iohannes Diaconus, Chronicon Venetum ad annum 1008, in Cronache Veneziane antichissime, vol. I (sec. X-XI) a cura di G. Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d’Italia, 9), p. 114. Secondo Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, p. 496, Saba sarebbe in realtà la resa latina di un titolo arabo: quello di ṣaḥib al-usṭūl, ossia «preposto all’armata»; C.A. Nallino (ibidem, n. 2) lo ritiene invece a tutti gli effetti un nome proprio. Cfr. anche Musca, L’emirato [n. 51], pp. 20-21 con note 11-13, e Gabrieli, Taranto araba [n. 59], p. 4. 62. Chronicon Salernitanum. A Critical edition with Studies on Literary and Histori­ cal Sources and on Language, ed. U. Westerbergh, Stockholm 1956 (Acta Universitatis Stockholmienisis. Studia Latina Stockholmiensia, 3), cap. 81 pp. 79-81 e cap. 83 pp. 82-84. Cfr. Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 502-504; Musca, L’emirato [n. 51], pp. 2527, 158, 183; Gabrieli, Taranto araba [n. 59], pp. 4-5. Per la probabile forma araba del nome, cfr. Nallino, in Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, p. 502 n. 3. 63. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 38 p. 249. Cfr. anche Amari, Storia dei musul­ mani [n. 12], I, p. 579; Musca, L’emirato [n. 51], pp. 129-130, e Gabrieli, Taranto araba [n. 59], pp. 5-6. 64. Andreae Bergomatis Historia, ed. G. Waitz, in MGH SS rer. Lang., Hannoverae 1878, pp. 220-230: cap. 14 pp. 227-228.

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te Sawdān (considerato generalmente come l’ultimo emiro di Bari) come suo wālī (cioè, emiro);65 gli altri due “emiri”, Ḫalfūn al­Barbarī e Mufarraǧ ibn Sallām, non erano affatto tali, non avendo ricevuto l’investitura califfale, che peraltro Mufarraǧ ibn Sallām cercò a lungo di ottenere, senza riuscirvi.66 Paradossalmente, ma non troppo, possiamo concludere che la forma dell’emirato, lungi dal costituire la forma più comune della presenza islamica in terra italiana, è in realtà un’anomalia dettata dalla volontà di alcuni leaders militari musulmani di prendere le distanze dal potere centrale più vicino (in questo caso quello aghlabita), appoggiandosi al potere centrale più lontano (quello abbaside) per ritagliarsi spazi di autonomia. Fu proprio questa frammentazione interna alle milizie islamiche a spianare la strada, sullo scorcio finale del IX secolo, alla riconquista bizantina del­ l’Italia meridionale. Anche se nelle fonti latine i termini princeps e rex potevano a volte essere utilizzati come equivalenti dei termini arabi amīr o wālī, non possiamo automaticamente dedurne che essi avessero sempre tale significato. Un esempio può forse chiarire meglio la questione: a Benevento, negli anni ’40 del IX secolo, durante la guerra civile tra Radelchi e Siconolfo, si erano stanziate truppe musulmane, guidate da un certo Massari (forse un Abū Ma‘šar), che Erchemperto chiama rex.67 Ebbene: a qualcuno verrebbe mai in mente di sostenere che Benevento sia stata un emirato? Inoltre, nella letteratura scientifica concernente l’insediamento musulmano vicino al fiume Garigliano, appaiono un certo «Muca, emiro del Garigliano (882-886)» e un certo «Osman, emiro di Traetto»,68 ipotesi da respingere sotto ogni aspetto perché basata su documenti falsi. Nel periodo in questione, il titolo di amīr, da cui appunto deriva la parola “emirato”, indicava una precisa realtà istituzionale e aveva ancora un’accezione assai ristretta, indicando il governatore di una provincia dell’impero abbaside, all’interno della quale egli esercita importanti funzioni 65. Sull’equivalenza, nel contesto dato, fra le parole wālī ed amīr cfr. le giuste considerazioni di Musca, L’emirato [n. 51], p. 51-52. 66. Cfr. da ultimo M. Di Branco, Due notizie concernenti l’Italia meridionale dal Kitāb al­‘uyūn wa ’l­ḥadā’iq fī aḫbār al­ḥaqā’iq (Libro delle fonti e dei giardini riguardo la storia dei fatti veridici), in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 77 (2011), pp. 5-13: 11-13. 67. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 18 p. 241. Cfr. Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 509-511; Musca, L’emirato [n. 51], pp. 25-39. Per la forma araba del nome cfr. Nallino, in Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, p. 509 n. 1. 68. R. Tucciarone, I Saraceni nel Ducato di Gaeta (842-916), Scauri 1971, pp. 50-63.

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militari, religiose, giudiziarie, amministrative e finanziarie. Secondo la dottrina classica, enunciata dal politologo abbaside Māwardī (m. 450/1058),69 l’emiro può anche ottenere la sua carica con la forza (imārat al-istīlā’), ma essa deve comunque venir legittimata dall’‘ahd, cioè il decreto di nomina emanato dal califfo, e dalla bay‘a, il giuramento con cui l’emiro riconosce l’autorità del suo sovrano. Solo in seguito, tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, con il declino del sistema amministrativo abbaside, la carica di amīr divenne esclusivamente militare, e il termine fu utilizzato, in maniera indiscriminata, per designare ogni tipo di ufficiali, anche di bassissimo rango.70 Di conseguenza, e tenendo presenti le scarse informazioni tramandate, il titolo di amīr non deve essere abusivamente esteso dagli studiosi moderni a personaggi che nessuno, alla loro epoca, avrebbe mai definito come tali. Per quanto riguarda il termine wālī (governatore di una provincia), esso può considerarsi anche un sinonimo di amīr, ma, come mostra l’etimologia della parola,71 pone l’accento sull’incarico ricevuto, cioè il controllo di un territorio e/o l’esercizio di un ruolo amministrativo. Oltre al caso di Bari, per la terraferma italiana abbiamo attestato un solo altro esempio di investitura di un wālī. Secondo due fonti arabe, poco dopo la caduta dell’emirato di Bari (2 o 3 febbraio 871)72 fu creato un wālī ’l-arḍ al-kabīra, un governatore della “Gran Terra” ossia dell’Italia meridionale continentale.73 L’emiro dell’Ifrīqiya concesse questo incarico ad ‘Abd Allāh b. Ya‘qūb, fratello di Rabāḥ b. Ya‘qūb il quale contemporaneamente ottenne il diploma di wālī di Sicilia. I due fratelli si trovarono dunque a esercitare il ruolo di longa manus della politica aghlabita in Italia, sebbene solo per breve 69. Sulla teoria dell’emirato esposta da Māwardī, fondamentale: Campanini, Islam [n. 30], pp. 111-115. Cfr. anche Khuri, Imams and Emirs [n. 30], pp. 101-102. Sull’evoluzione di questa istituzione tra XI e XIII secolo cfr. soprattutto Ménager, Amiratus-Amēras [n. 30]. 70. Maverdii Constitutiones [n. 31], p. 54. 71. Wālī deriva, infatti, dalla radice w-l-y che significa «essere vicino, adiacente, contiguo a qualcosa», e indica l’esercizio di autorità nella sfera politica, legale e/o religiosa. 72. Per la data: Musca, L’emirato [n. 51], pp. 111-116 con n. 50; J.F. Böhmer, Regesta imperii, I, 3, 1: Die Karolinger im Regnum Italiae, ed. H. Zielinski, Köln-Wien 1991, p. 129, n. 316. 73. Secondo le date fornite da al­Nuwayrī, Nihāyat al-’arab [n. 1], p. 242, e Ibn ‘Iḏārī, Al-bayān [n. 3], I, p. 109, l’investitura del wālī ‘l-arḍ al-kabīra deve essere avvenuta alcuni mesi dopo la conquista di Bari, tra il 27 maggio e il periodo 18 novembre-17 dicembre 871. Cfr. anche Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 526-527; Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 477, 482; Musca, L’emirato [n. 51], pp. 128-129.

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tempo (morirono ambedue nel giro di un anno).74 In ogni caso, secondo alcune fonti latine in quei pochi mesi fu avviata una grande spedizione militare nella zona di Benevento e Salerno capeggiata da Abd Allāh b. Ya‘qūb, che tuttavia non ebbe esito positivo.75 Molto interessante in questo contesto è una lettera spedita dall’imperatore Ludovico II al basileus Basilio I (867886), scritta tra il febbraio e l’inizio di agosto dell’871, perché, con piena contezza della situazione, illustra le strette relazioni delle truppe musulmane di Napoli con quelle della Calabria e di Palermo, sottolinea la necessità di rinforzare la flotta bizantina per evitare sussidi militari provenienti via mare dal Nordafrica e dalla Sicilia e, non da ultimo, testimonia l’intenzione di Ludovico di riconquistare tutti i territori musulmani in Italia. Non senza ragione, gli attacchi delle truppe imperiali, prima e dopo la presa di Bari, erano indirizzati, oltre che alla Calabria, anche a Taranto, città portuale do74. Rabāḥ b. Ya‘qūb morì tra il 18 novembre e il 17 dicembre 871, e ‘Abd Allāh b. Ya‘qūb tra il 18 dicembre e il 15 gennaio 872. Per le date e il contesto cfr. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], p. 477. 75. Così il Chronicon Salernitanum [n. 62], capp. 111-112 pp. 123-126: «Agarenorum rex [...] Abdila cum sexaginta duo milia pugnatorum per Calabriam Salernum venit, et nonnulla oppida Calabritanorum cepit [... segue un racconto della lotta dei Beneventani e Salernitani contro i nemici musulmani i quali non sarebbero riusciti ad entrare in Salerno, ma avrebbero saccheggiato comunque i dintorni di Salerno, Napoli, Benevento e Capua; poi si accoda una narrazione sulle atrocità di Abdila e della sua morte durante la profanazione di una chiesa]». Secondo Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 483-484, l’impresa militare di ‘Abd Allāh b. Ya‘qūb si sarebbe svolta in vari luoghi della Campania nel settembre 871. Infatti, Erchemperto nella sua Historia [n. 18], capp. 34-35 pp. 247-248, menziona la campagna militare una volta durante la prigionia di Ludovico II e un’altra volta dopo il suo rilascio, e mette in evidenza che essa era partita dall’Ifrīqiya aghlabita: «Consistente itaque augusto in custodia, exercitavit Deus spiritus Hismaelitum eosque ab Africa regione protinus evexit [...] Absolutus autem [...] cesar insons, statim Saraceni Salernum applicuerunt quasi 30 milia; quam graviter obsidentes, hinc et inde cuncta forinsecus stirpitus deleverunt, occisis in ea innumerabilibus colonis; et depopulati sunt ex parte Neapolim, Beneventum et Capuam.» Sembra che le incursioni a Alife e Telese (ibidem, cap. 38 p. 249) si riferiscano alla stessa impresa. Le informazioni di Erchemperto sono riprese anche nel Chroni­ con Vulturnense del monaco Giovanni, ed. V. Federici, 3 voll., Roma 1925-1938 (Fonti per la storia d’Italia, 58, 59, 61): I, pp. 359-360. Andrea da Bergamo parla “solo” di 20 mila combattenti musulmani (cifra comunque esagerata) e vede in quella spedizione – che finì con un ritiro delle truppe musulmane verso la Calabria – un’immediata reazione alla conquista di Bari: «Sarracini vero in suorum terra haec [i. e. la presa di Bari] audiens, elegentes se fortissimi viri, sicut audivimus, viginti milia hominum [...] Cumque navigio prepararent, ascenderunt et navigaverunt et exierunt in finibus Beneventana [...] Saraceni Salernum relinquentes, Calabriam adeunt eamque intra se divisam repperientes, funditus depolularunt [...].» (Andreae Bergomatis Historia [n. 64], capp. 15-16, p. 228).

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ve forse, in quel momento, il governatore della “Gran Terra” aveva la sua sede.76 Dopo la morte di ‘Abd Allāh b. Ya‘qūb, nelle fonti arabe non abbiamo più notizie di un wālī ’l-arḍ al-kabīra, ma nel Chronicon Salernitanum si legge: «Extinto [...] rege illo tiranno [i.e. Abdila = ‘Abd Allāh] Agareni ilico regem procreaverunt nomine Abemelec: licet fuisset enuchus, erga res humanas audas fuit et sagax».77 Questo Abemelec, identificato dagli studiosi moderni con un ‘Abd al-Malik,78 avrebbe continuato l’assedio di Salerno, ma si ritirò (secondo altri morì) prima che l’impresa fallisse definitivamente verso il mese di agosto 872.79 Un’ipotesi finora mai presa in considerazione è che quell’Abemelec possa essere Abū Mālik Aḥmad b. ‘Umar b. ‘Abd Allāh b. Ibrāhīm b. al­Aġlab, sopranominato Ḥabašī (l’Abissino). Quell’abile comandante militare, appartenente anch’esso alla dinastia aghlabita,80 ottenne, secondo Al­Nuwayrī, l’incarico di wālī di Sicilia dopo la deposizione di ‘Abd Allāh b. Muḥammad b. Ibrāhīm b. al­Aġlab, durante gli ultimi mesi dell’872, il che potrebbe spiegare perché l’assedio di Salerno si sia interrotto così bruscamente, suscitando molti interrogativi negli autori latini. Ma anche se egli fosse stato nominato governatore solo nell’875, come sostiene Ibn al­Ḫaṭīb, e con lui Talbi, le campagne militari sulla terraferma potrebbero essersi svolte benissimo sotto la guida di Abū

76. L’edizione migliore della lettera è contenuta nel Chronicon Salernitanum [n. 62], cap. 107 pp. 107-121: pp. 119-120. Cfr. anche Ludovici II. Imperatoris epistola ad Basilium I. Imperatorem Constantinopolitanum missa, in MGH Epistolae VII Karolini Aevi V (d’ora in poi: Epp. 7), Berolini 1928, pp. 385­394. Per la datazione e la bibliografia si rimanda a J.F. Böhmer, Regesta Imperii, I: Die Regesten des Kaiserreichs unter den Karolingern 751918 (926), Band 3: Die Regesten des Regnum Italiae und der Burgundischen Regna, Teil 1: Die Karolinger im Regnum Italiae 840-887 (888), Köln-Wien 1991, nr. 325 pp. 132-134. Per l’ipotesi che Taranto fosse stata sede del wālī ’l-arḍ al-kabīra cfr. Talbi, L’émirat aghla­ bide [n. 2], p. 482. 77. Chronicon Salernitanum [n. 62], cap. 112, p. 126. 78. Così Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, p. 528; Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], p. 484. 79. Per l’assedio di Salerno continuato dopo la morte di ‘Abd Allāh b. Ya‘qūb e le notizie contraddittorie delle fonti cfr. Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 528529. 80. L’informazione fornita dal Chronicon Salernitanum (vedi il passo citato in n. 77) secondo cui Abemelec sarebbe stato un eunuco si concilia perfettamente con l’etnia “abissina” di Abū Mālik. Evidentemente quest’ultimo deve essere stato un “liberto” adottato dalla famiglia aghlabita.

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Mālik Aḥmad finché non furono interrotte, forse a causa dell’instabile situazione politica in Sicilia.81 Comunque, con la morte di ‘Abd Allāh b. Ya‘qūb, cessa ogni riferimento al destino della wilāya ’l-arḍ al-kabīra. A prescindere dalla questione se questo wālī avesse o meno un legittimo successore, la fondazione di una simile struttura politico-amministrativa sulla terraferma fu strettamente legata alle vicende della presa di Bari e alle dinamiche della “riconquista” cristiana che in quel periodo dovevano suscitare nel mondo aghlabita grande inquietudine. Le forze musulmane cercarono di mantenere e riprendere il controllo nelle zone da loro occupate della Calabria e Puglia e mirarono ad ampliare tale influenza sfruttando la situazione creata dalla caduta del­ l’emirato barese (febbraio 871) e dalla successiva prigionia dell’imperatore Ludovico II (agosto/settembre 871).82 Per una serie di motivi, il governatorato della “Gran Terra” rimase un episodio fugace, un tentativo di breve durata, a cui il tempo non permise di maturare, cosicché rimase esclusivamente limitato all’organizzazione di campagne militari. Ciononostante, esso rappresenta un punto di osservazione privilegiato sulle complesse relazioni tra gli avvenimenti nell’Italia continentale, l’emirato di Qayrawān e 81. Cfr. Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 533-534 con n. 1; M. Amari, Bi­ blioteca arabo-sicula, versione italiana, 2 voll., Torino-Roma 1880-1881 [d’ora in poi: BAS]: II, p. 719 (ad cap. XLVIII p. 124); Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 475, 478, 485, 497­498, 503, 505, 667. Al­Nuwayrī, Nihāyat al-’arab [n. 1], p. 244 [= BAS II, p. 124], afferma che ‘Abd Allāh b. Muḥammad b. Ibrāhīm b. al­Aġlab sarebbe diventato wālī nel mese di šawwāl nel 259 (31 luglio­28 agosto 872), poi deposto e sempre nello stesso anno sostituito da Abū Mālik. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], p. 478 n. 1 e 485) respinge questa lettura e data la nomina all’anno 875, basandosi su un passo di Ibn al­Ḫaṭīb, A‘māl al-a‘lām [n. 102], p. 475(76), dove viene riferito che [Abū Mālik] Aḥmad b. ‘Umar sarebbe stato incaricato da Ibrāhīm II. Su una seconda e terza nomina di Abū Mālik come governatore della Sicilia nel 274/887-888 e ca. 898/899 cfr. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], p. 478 n. 1 e 503 n. 1. 82. Dopo la vittoria cristiana di Bari, ottenuta anche con l’aiuto da parte di Bisanzio, Ludovico II fu, per qualche tempo, imprigionato da Adelchi a Benevento; cfr. Musca, L’emirato [n. 51], pp. 123-128. – Dei successi delle truppe imperiali in Calabria e del (quasi riuscito) tentativo di conquistare Taranto parlano la lettera di Ludovico a Basilio, ed. nel Chronicon Salernitanum [n. 62], p. 119, e Erchemperti Historia [n. 18], cap. 38 p. 249, il cui passo si ritrova anche nel Chronicon Vulturnense [n. 75], I, p. 360. Interpretando male le parole di Erchemperto, il Chronicon Salernitanum (cap. 120 p. 133) dice che gli Agareni avrebbero occupato Taranto. Poi, mentre Erchemperto, nello stesso capitolo, racconta che, dopo la prigionia di Ludovico II, i musulmani di Taranto si sarebbero rinforzati e avrebbero cominciato a saccheggiare Bari e il territorio di Canne, il Chronicon afferma che, oltre Taranto, anche Bari sarebbe stata conquistata e il territorio di Canne solo saccheggiato.

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la sua provincia siciliana, dove, in quegli anni, i conflitti d’interesse e i cambi di governatore, erano all’ordine del giorno. La creazione della wilāya ’l-arḍ al-kabīra rivela, da parte degli Aghlabiti, strategie ben precise, che nelle cronache latine appaiono ridotte a semplici raid o a episodici conflitti armati con i cristiani. 7. La penisola obiettivo del ǧihād Oltre che per le iniziative legate alla lunga conquista della Sicilia e quelle intraprese da Ibrāhīm II negli anni 900­902, durante tutto il periodo aghlabita non abbiamo testimonianze che attribuiscono esplicitamente il termine ǧihād a campagne militari svolte nella terraferma italiana.83 Malgrado ciò, e facendo riferimento alle considerazioni precedentemente espresse circa il ǧihād come guerra di conquista,84 viene da chiedersi se la terraferma fosse stata soggetta a progetti espansionistici anche in altre occasioni. Le risposte finora date a questa domanda non potrebbero essere più diverse. La gran parte degli studiosi nega decisamente che ci fossero state azioni coordinate sulla penisola,85 mentre al contrario – senza solido fondamento – è stata anche avanzata l’idea che «le coste italiane situate immediatamente al di là delle frontiere degli emirati [... costituissero] un unico campo di battaglia, dove affrontare e vincere il nemico, in vista di bottino, di un ampliamento territoriale o del compimento del principio della [sic] jihad».86 Diffusa è inoltre la supposizione secondo la quale la penisola sarebbe stata «terra di ǧihād» dagli anni ’30 fino ai primi anni ’70 del IX secolo, visione strettamente legata alla conquista della Sicilia, alla storia dell’emirato di Bari (e Taranto) come pure alle azioni dell’imperatore Ludovico II.87 Idee avvincenti a questo riguardo emergono, se volgiamo, ad esempio, lo sguardo verso Roma e le regioni circostanti. Ben noto è l’attacco contro l’Urbs nell’846/847 che, preconizzato e temuto dai papi già alcuni anni prima, lasciò profonde tracce nella memoria degli autori latini sia per l’immensa paura suscitata, sia per i saccheggi delle chiese di S. Paolo 83. Cfr. Wolf, Auf dem Pfade Allahs [n. 49], pp. 129-134. 84. Vedi supra pp. 136-137. 85. Così soprattutto l’opera di riferimento di Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I-II, passim. 86. Del Lungo, Bahr ‘as Shām [n. 49], p. 71. 87. Cfr. Marazzi, Ita ut facta [n. 49], pp. 182-183; Gabrieli, Taranto araba [n. 59], p. 3.

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e di S. Pietro (ambedue “fuori le mura”) e le devastazioni nel contado romano.88 Sicuramente non abbiamo a che fare con semplici raid perché le fonti latine parlano di una «ingens Saracenorum multitudo ab Africa classe Romam devecta»89 e del fatto che «multitudo gentis Sarracenorum ad XI milia properantes venirent cum navibus LXXIII, ubi inessent equi D».90 Anche se questo tentativo di conquistare Roma non riuscì, esso comunque testimonia che, con i primi successi in Sicilia, lo sguardo degli Aghlabiti era puntato anche sul centro della cristianità d’Occidente. Gli eventi degli anni 846/847 fanno dunque parte di ampie iniziative musulmane volte a mettere piede stabilmente sulla penisola già più di mezzo secolo prima delle imprese di Ibrāhīm II. Anche in seguito, per Roma la minaccia non cessò. Così, nel settembre 852, papa Leone IV indirizzò al re d’Italia e co­imperatore Ludovico II una lettera di massima allerta in riferimento a voci su nuovi attacchi.91 Che non si trattasse di paure infondate, lo attestano gli Annales Bertiniani secondo i quali i saccheggi continuarono anche l’anno successivo.92 Con grande probabilità, queste testimonianze echeggiano le iniziative di Abū ’l­ Aġlab al­‘Abbās b. al­Faḍl b. Ya‘qūb. Egli, investito nel 236/851 della carica di governatore della Sicilia e noto per una lunga serie di spedizioni nell’isola come nella terraferma,93 continuò, come scrive Ibn al­Aṯīr, il ǧihād d’inverno e d’estate, infestò anche i territori di Calabria (Qilawraya) 88. Con riferimento alle fonti tramandate cfr. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 452-455; Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 506-507; da ultimo anche Wolf, Auf dem Pfade Allahs [n. 49], pp. 130-131. 89. Die Chronik von Montecassino / Chronica monasterii Casinensis, ed. H. Hoffmann, Hannover 1980 (MGH SS 34), cap. 27 p. 76. 90. Le Liber pontificalis. Texte, introduction et commentaire par [...] L. Duchesne, II, Paris 1892, p. 99. Benché la quantità delle navi, dei guerrieri e dei cavalli indichi, nella migliore delle ipotesi, un valore approssimativo, è evidente che si trattava di una spedizione navale abbastanza consistente. 91. MGH Epistolae III Merowingici et Karolini aevi I (d’ora in poi: Epp. 3), Berolini 1892, Ex registro Leonis IIII., nr. 1 p. 585: «Igitur cum sepe adversa a Saracenorum partibus perveniant nuncia, quidam in Romanorum portum Saracenos clam furtiveque venturos esse dicebant. Pro quo nostrum precepimus congregari populum, maritimunque ad litus descendere decrevimus, et egressi sumus Roma». 92. Annales de Saint­Bertin, ed. F. Grat, J. Vielliard, S. Clémencet, Paris 1964, ad an. DCCCLIII, p. 68: «Romani quoque, artati Saracenorum Maurorumque incursionibus, ob sui defensionem omnino neglectam apud imperatorem Lotharium conqueruntur». 93. Cfr. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 459-462; per le vicende in Sicilia anche Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 456-473.

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e di Longobardia (Unkubarda) 94 e fece stanziare i musulmani in quelle province.95 Per la seconda metà degli anni ’70 del IX secolo, cioè nel periodo in cui, secondo alcuni studiosi, l’Italia non sarebbe stata più «terra di ǧihād», è soprattutto il corpus delle lettere di papa Giovanni VIII ad aprire panoramiche interessanti sulle complesse vicende che andavano svolgendosi nella parte meridionale del Patrimonium Petri96 e sui disperati tentativi del sommo pontefice di creare alleanze con i poteri locali per scacciare i Sara­ ceni.97 Notevole è una lettera del settembre 876 in cui Giovanni VIII si riferisce a voci secondo le quali stolum amplissimum in proximo ad expu­ gnandam Urbem venturum, id est centum naves, ex quibus cum equis sunt quindecim grandes.98 Amari sostiene che il papa qui esagerasse per convincere il vicario imperiale Bosone di Vienne99 a mandargli finalmente il rinforzo militare richiesto.100 Alcuni elementi, invece, inducono a ritenere che l’idea di un attacco pianificato, ma successivamente abbandonato o semplicemente non tramandato dalle fonti, non sia del tutto da respingere. Sicuramente, le lettere papali traboccano di retorica, ma solo in rari casi riportano numeri di navi e di guerrieri, il che fa pensare che informatori o voci attendibili avessero fornito al sommo pontefice informazioni dettagliate. Cronologicamente, la lettera sopracitata è da collocare in un periodo in cui i Bizantini si rinforzavano nell’Italia meridionale e vari potentati locali avevano rapporti con i musulmani; l’emirato di Bari già da cinque an94. Sui termini arabi usati per descrivere i territori longobardi e la Calabria vedi A. Miquel, La géographie humaine du monde musulman jusqu’au milieu du XIe siècle. Géo­ graphie arabe et représentation du monde: la terre et l’étranger, Paris 2001 (1a ed. 1975) (Les réimpressions des Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales), pp. 363367. 95. Ibn al­Aṯīr, Al-kāmil [n. 5], VII, p. 42. Il passo citato è riportato sotto l’anno 237/851­852, dove il cronista da un racconto del governo di Abū ’l­’Abbās fino al 247/861­ 862, ma riferito a una valutazione generale. 96. Nel periodo in questione il cosiddetto Patrimonium Petri non era ancora un territorio compatto, ma consisteva di sparsi territori più o meno vasti in possesso della Chiesa di Roma. 97. Cfr. MGH Epp. 7, pp. 1-333, passim. 98. Ibidem, nr. 8 p. 7. 99. Sul personaggio cfr. R. Kaiser, s. v. Boso v. Vienne, in Lexikon des Mittelalters, 2, München 1983, pp. 477-478. 100. Cfr. Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 588-589, che qui confronta questa lettera con un’altra, spedita il 17 aprile 877 al paedagogus imperialis Gregorius, in cui parla di latrunculi Agareni e pyrati Arabi.

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ni non esisteva più, da un anno era morto l’imperatore Ludovico II e da altrettanto tempo Ibrāhīm II era divenuto emiro a Qayrawān.101 Sebbene nelle fonti non si trovino altre tracce della campagna militare menzionata dal papa, si potrebbe tuttavia essere trattato di una delle imprese del già menzionato wālī aghlabita Abū Mālik Aḥmad. Tra le sue attività svolte in Sicilia, lo storico Ibn al­Ḫaṭīb ricorda l’invio di «distaccamenti in diverse parti, che presero il bottino, poi Aḥmad e i musulmani ritornarono nella città di Palermo».102 Forse questi «distaccamenti» agivano anche sulla terraferma, come fa pensare la summenzionata notizia del Chronicon Salernitanum,103 ma comunque il termine arabo sariyya si riferisce a squadroni, non a una grande azione navale. Forse il governatore della Sicilia aspirava alla fama con un attacco a Roma, ma fu frenato da cause a noi ignote, magari addirittura dall’emiro Ibrāhīm stesso, che neanche due anni dopo lo sostituì mettendo al suo posto Abū Ǧa‘far b. Muḥammad al­Tamīmī, il futuro conquistatore di Siracusa.104 Comunque sia, questi tre esempi riguardanti Roma evidenziano che più volte gli Aghlabiti fecero tentativi di indebolire e conquistare la capitale della cristianità d’Occidente. Se ci soffermassimo su altri intrecci e conflitti cristiano-musulmani nella terraferma italiana, emergerebbe in modo ancora più chiaro un’immagine del periodo aghlabita che contrasta con le ipotesi vigenti, secondo le quali gli attori coinvolti nei raid furono per lo più bande di pirati indipendenti e non coordinate. Anche la cesura intorno all’875 non trova alcun riscontro nelle fonti, anzi: Nonostante le lotte politiche all’interno del mondo aghlabita, che provocarono periodi di instabilità sia in Ifrīqiya sia in Sicilia, emerge un quadro di continui interventi degli emiri di Qayrawān nelle faccende siciliane i quali cercavano di consolidare la loro posizione nella provincia italiana anche attraverso guerre di conquista.

101. Per il contesto cfr. Gay, L’Italie méridionale [n. 19], pp. 110-119; Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 282-284, 485. 102. H.H. Abdul-Wahab, Contribution à l’histoire de l’Afrique du nord et de la Sicile, in Centenario della nascita di Michele Amari. Scritti di filologia e storia araba, di geogra­ fia, storia, diritto della Sicilia medievale, studi bizantini e giudaici relativi all’Italia meri­ dionale nel Medio Evo, documenti sulle relazioni fra gli Stati italiani ed il Levante, Palermo 1910, II, pp. 427(33)-494(68): I. Extrait du A‘māl al-a‘lām d’Ibn al­Ḫaṭīb, p. 473(47). 103. Vedi supra n. 77. 104. Cfr. Ibn al­Ḫaṭīb, A‘māl al-a‘lām [n. 102], p. 473(47). Su Abu Ǧa’far cfr. Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], p. 485; Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, pp. 535-536 e 541-542 con n. 3.

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8. Accordi, trattati, contratti Guardando ai rapporti degli Aghlabiti con l’Italia, non deve essere dimenticato anche un altro aspetto: gli accordi stipulati con i cristiani, che avevano un ruolo più importante di quanto emerge dall’attuale letteratura secondaria. Per regolare conflitti e delineare zone di interesse, essi furono molto diffusi e conclusi prevalentemente – ma non solo – nel contesto di scontri violenti. Un’analisi sistematica nell’ambito della Sicilia e della terraferma italiana è in realtà ancora tutta da fare: qui ci limitiamo a sfiorare solo alcuni punti che fanno comprendere l’importanza di questa tematica, anche per offrire nuovi spunti a future ricerche. Nel nostro contesto, Giulio Vismara è l’unico ad aver dedicato uno studio approfondito alle alleanze e ai contratti tra musulmani e potentati latini. L’autore afferma in linea di principio l’illiceità – rispetto alle norme vigenti – dei trattati di alleanza tra cristiani e musulmani, osservando, però, che «non tutte le relazioni [i. e. dei cristiani] con i musulmani o con gli infedeli in genere furono considerate illecite; rapporti commerciali, relazioni diplomatiche, accordi per lo scambio dei prigionieri, trattati di tregua e di pace erano leciti e normali.»105 Questa dialettica è, nel modo in cui la pone Vismara, improntata a una visione molto “occidentale” delle cose, in quanto viene sottolineata la diretta continuità dall’antico impero romano attraverso «la Chiesa» (cioè la Chiesa cattolica che costituisce la norma) al diritto internazionale moderno, mentre «il concetto della guerra santa permanente [...] si integra con la negazione dell’autonomia e dei diritti altrui, porta al rifiuto di un ordinamento giuridico internazionale, alla negazione dell’istituto giuridico della pace e all’ammissibilità soltanto di tregue di breve durata. Si nega il principio di universalità così come il concetto di umanità e l’idea dell’eguaglianza umana».106 Una tale visione antipodica e generalizzante non è conciliabile con le ricerche recenti in questo campo. Non possiamo approfondire qui le differenze tra norma e prassi, tra vari spazi e tempi; va ad esempio tenuto presente che l’idea di umma rappresenta un principio altrettanto universalistico; che i concetti e le pratiche del ǧihād e di altre norme giuridiche conoscono infinite sfumature; che l’istituzione islamica della ḏimma garantisce ai non-musulmani protezione e una certa autonomia di modo che le minoranze o i conquistati non erano 105. D. Vismara, Impium foedus. Le origini della «Respublica Christiana», Milano 1974, la citazione a p. 13. 106. Ibidem.

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privi di diritti, sebbene non avessero la stessa capacità giuridica dei membri maggioritari della società o della comunità dei conquistatori.107 In ogni caso, il Corano e gli ḥadīt furono fondamentali per la questione dei rapporti tra musulmani e non-musulmani. Anche se, in linea di massima, sullo sfondo dell’idea di un’umma che idealmente doveva abbracciare l’intera umanità, questi rapporti furono piuttosto ostili,108 la prassi fu molto più complessa, e le leggi islamiche, tra l’altro, ammettevano la possibilità della conclusione di una pace se conveniva alla parte musulmana. Oltre Muḥammad e i suoi successori, presto anche i governatori delle province e i comandanti di truppe ottennero la facoltà di condurre trattative di armistizio o pace e di stipulare altri accordi con i non-musulmani.109 Quanto alla natura giuridica, questi patti (muhādana, muwāda‘a) erano considerati un tipo di ‘aqd (“atto legale”) che si basava sulla mutua accettabilità di un accordo stipulato su qualcosa comportando restrizioni giuridiche in caso di rottura. Una forma scritta non era necessaria, e la durata del contratto era vincolante; solo se una parte non ne rispettava i termini o se un attacco militare era imminente, l’accordo poteva finire prima del tempo e le parti venivano esonerate dal rispettarlo.110 Senza andare troppo nel dettaglio, il termine ‘aqd può riferirsi ad esempio a contratti commerciali, ma anche – come sinonimo di ‘ahd, amān o ḏimma – ad alleanze e contratti politici, specialmente con non-musulmani.111 Le fonti arabe, quando parlano degli accordi tra musulmani e non-musulmani in Sicilia o nella penisola, usano prevalentemente il termine amān mettendo in rilievo il fatto che città o altri insediamenti cristiani si sono sottomessi al dominio musulmano. Fuori dalla Sicilia, questo tipo di accordo è attestato solo per Napoli, per alcuni castella vicini a Reggio Calabria e per Cosenza. In tutti e tre i casi, sembra che la richiesta dell’amān sia 107. Per un inquadramento della problematica relativa alla condizione di ḏimmī cfr. da ultimo M. Levy-Rubin, Non-Muslims in the Early Islamic Empire. From Surrender to Coexistence, Cambridge 2011 (Cambridge Studies in Islamic Civilization). 108. Cfr. ad es. C. Holmes, Treaties between Byzantium and the Islamic World, in War and Peace in Ancient and Medieval History, a cura di P. de Souza, J. France, Cambridge 2008, pp. 141-157: 141. 109. Cfr. M. Khadduri, War and Peace in the Law of Islam, Clark (nj) 2006 3 (1a ed. 1955), pp. 202-203. 110. Il termine ‘aqd nella legislazione islamica ha un significato più ampio rispetto al nostro termine “contratto”. Cfr. ibidem, pp. 203-205; C. Chehata, s. v. ‘Aḳd, in Encyclopae­ dia of Islam [n. 36], I, pp. 318-319. 111. J. Schacht, s. v. ‘Ahd, in Encyclopaedia of Islam [n. 36], I, p. 255.

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stata un’iniziativa degli abitanti del luogo. Ibn al­Aṯīr riporta che Napoli, in cambio della “pace” consentita dai musulmani, nell’842­843 mandò un sostegno militare in Sicilia, ma non menziona il pagamento della ǧiziya che invece è testimoniato per i castella vicini a Reggio Calabria e per Cosenza.112 La parola amān significa grosso modo una garanzia di sicurezza e può essere sia “transitoria” (salvacondotto per inviati, commercianti o pellegrini) sia “permanente” (attraverso la conversione all’Islām o la sottomissione al potere musulmano in stato di ḏimmī). Sempre riguardo alle relazioni tra musulmani e non-musulmani, il termine ṣulḥ indica piuttosto la conclusione di una pace per un certo periodo, interrompendo così i combattimenti e le ostilità in corso.113 Siccome quest’ultimo termine non è riportato nelle fonti arabe qui prese in esame, viene da chiedersi, se ciò possa o meno dipendere dalla prospettiva degli autori. È comunque significativo che non venga usata nessuna terminologia speciale quando truppe musulmane riescono a stanziarsi in un certo luogo. Per quanto riguarda gli accordi e i rapporti commerciali con i cristiani, non ve n’è traccia. Essi sono invece attestati per il periodo che precede la conquista della Sicilia. In effetti, le prime tregue con i Rūm di Sicilia furono stipulate, già a partire dal secondo venticinquennio dell’VIII secolo, dai governatori abbasidi dell’Ifrīqiya:114 l’ultimo di essi, Muḥammad b. Muqātil al­‘Akkī (181/797­184/800) intratteneva rapporti talmente cordiali con il patrikios bizantino di Sicilia da scatenare il biasimo e l’indignazione dei giurisperiti di Qayrawān. In questo lungo periodo di pace si stabilirono rapporti commerciali particolarmente intensi tra l’Ifrīqiya, la Sicilia, Napoli, Amalfi e Gaeta, e poteva addirittura accadere che Carlo Magno giungesse a sospettare una collaborazione fra i Romani e i Saraceni nel campo del commercio degli schiavi, e che papa Adriano I (772-795) rispondesse a tale accusa sostenendo che la vera minaccia per le popolazioni della costa non venisse dai Saraceni, ma dai Longobardi e dai Bizantini.115 112. Per Napoli: Cfr. Ibn al­Aṯīr, Al-kāmil [n. 5], VII, p. 3. Per gli ḥuṣūn vicini a Reggio Calabria: Ibn ‘Iḏārī, Al-bayān [n. 3], I, p. 125 (= BAS II, p. 21). Per Cosenza: AlNuwayrī, Nihāyat al-’arab [n. 1], p. 89 (BAS II, p. 153); Ibn Ḫaldūn, Kitāb al-‘ibar [n. 1], IV, p. 204; secondo Ibn al­Aṯīr, Al-kāmil [n. 5], VII, pp. 197, la richiesta dell’amān da parte dei Cosentini fu all’inizio respinta, ma dopo la morte di Ibrāhīm II soddisfatta. 113. M. Khadduri, s. v. Ṣulḥ, in Encyclopaedia of Islam [n. 36], IX, pp. 845-846; J. Schacht, s. v. Amān, in Encyclopaedia of Islam [n. 36], I, pp. 429-430. 114. Per la cronologia di tali tregue cfr. Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, p. 350; Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], pp. 395-396. 115. MGH Epp. 3, nr. 59 pp. 584-585.

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Rispetto alle fonti arabe, nelle fonti latine la problematica degli accordi di età aghlabita è molto più sfumata. Oltre ai casi summenzionati, per la penisola appenninica abbiamo varie testimonianze del fatto che i rapporti tra musulmani e cristiani furono in tanti casi regolati da mutui accordi – con rincrescimento del papa e delle persone a lui legate nonché della popolazione colpita dai violenti effetti collaterali, mentre potentati locali, in cerca di protezione e decisi a sfruttare certe circostanze a loro favore, non avevano nessun problema a cercare dei compromessi. Al di là del fatto che le collaborazioni tra cristiani e musulmani, dalla prospettiva papale, fossero considerate come «empie alleanze»,116 finora, per l’Italia continentale, sappiamo relativamente poco della loro forma concreta e dei loro contenuti. Chiaramente, le fonti latine non fanno riferimento alla terminologia araba, ma usano un proprio linguaggio. Già lo spoglio della cronaca di Erchemperto e delle lettere di Giovanni VIII porta alla luce risultati interessanti. Prima di tutto è da constatare una grande varietà dei termini latini usati per gli accordi musulmano-cristiani. Essi oscillano tra pactum,117 foedus,118 unitas foederis,119 Saracenis unitus,120 consortio,121 societas,122 pax,123 amicitia,124 colligatio,125 colligationes impietatis 126 e in senso metaforico anche scelus 127 o preda.128 Una netta distinzione fra questi termini 116. Cfr. Vismara, Impium foedus [n. 105], pp. 1-61. 117. MGH Epp. 7, nr. 40 p. 38.23; nr. 41 p. 39.30 (pacti iugum); nr. 46 p. 45.8; nr. 51 p. 48.15; nr. 52 p. 48.36; nr. 217 p. 194.16, 20; nr. 230 p. 205.1, 7, 10; nr. 246 p. 215.6; nr. 249 p. 218.3, 12; nr. 250 pp. 218.27 e 219.3, 9; nr. 273 p. 241.29; nr. 279 pp. 246.12, 18 e 247.7-8, 11; nr. 305 p. 265.4, 12; anche nr. 37 p. 36.18 (cum Saracenis impie pepigerunt) e frag. nr. 57 p. 310.10. 118. MGH Epp. 7, nr. 34 p. 34. 6; nr. 37 p. 36.18, 31; nr. 39 p. 38.10; nr. 41 p. 39.15; nr. 42 p. 40.34; nr. 46 pp. 44.26, 39 e 45.5; nr. 61 p. 55.8; nr. 176 p. 141.35; nr. 217 p. 194.18; nr. 230 p. 205.13; nr. 249 p. 218.14; nr. 250 p. 218.32; nr. 273 p. 241.20; nr. 279 pp. 246.25 e 247.10; nr. 305 p. 265.11; frag. nr. 53 p. 306.31; frag. nr. 57 p. 310.10, 13. 119. MGH Epp. 7, frag. nr. 53 p. 306.27. 120. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 44 p. 254.2. 121. MGH Epp. 7, nr. 29 p. 28.8; nr. 41 p. 39.14; nr. 246 p. 215.7; nr. 250 p. 218.28. 122. MGH Epp. 7, nr. 250 p. 218.32; nr. 279 pp. 246.16 e 247.8; nr. 305 p. 265.5. 123. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 29 p. 245.22; cap. 39 p. 249.20; cap. 44 p. 251.4; cap. 79 p. 263.35; MGH Epp. 7, frag. nr. 53 p. 307.6. 124. MGH Epp. 7, nr. 230 p. 205.12. 125. MGH Epp. 7, nr. 53 p. 49.18. 126. MGH Epp. 7, nr. 42 p. 40.34; in un altro contesto anche una lettera di papa Stefano V ibidem, nr. 1, p. 357.22. 127. MGH Epp. 7, nr. 42 p. 40.39; nr. 246 p. 215.12; nr. 250 p. 219.2. 128. MGH Epp. 7, nr. 246 p. 215.12.

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non è possibile, essendo usati in modo quasi sinonimico. A prescindere dalla carica teologico-morale e da un eventuale uso linguistico poco preciso, ciò potrebbe anche rispecchiare una certa difficoltà degli eruditi latini a categorizzare questi legami musulmano-cristiani. Comunque, rimane il problema di dedurre dalla terminologia latina informazioni più concrete. Mentre la questione se tali patti fossero fissati per iscritto o solo concordati oralmente resta, per ora, del tutto senza risposta, abbiamo almeno sparse notizie riguardanti gli oggetti su cui le parti si sono accordate. Da Erchemperto risultano i seguenti accordi: pace o armistizio (pax),129 tributi (pensio),130 pagamenti non meglio specificati,131 ostaggi (obsides),132 accordi su luoghi di permanenza o accampamenti militari,133 azioni militari e saccheggi fatti o insieme a o su incarico di élites locali.134 Lo sguardo dello storico longobardo è concentrato sul fatto che degli scontri violenti vengono limitati attraverso mutui accordi per i quali venivano richieste – secondo la prassi consolidata – garanzie in forma di pagamenti o di ostaggi. Dato che l’autore fu coinvolto in molti degli eventi di cui scrive e sapeva per esperienza personale che la presenza di truppe musulmane portava grandi disagi alla popolazione locale, la sua attenzione è diretta in maniera particolare ai luoghi in cui esse furono stanziate. Questi aspetti sono presenti anche nelle lettere di Giovanni VIII, ma poiché il papa fu coinvolto in complicate trattative con le autorità locali allo scopo di separarle dai “Saraceni” e di proteggere i territori della Chiesa romana, vi predominano gli aspetti morali e quelli economici. Sono quest’ultimi che ci fanno intravedere i giochi di potere intorno a sfere di influenza e all’accesso a risorse. Sulla base dell’attuale stato della ricerca si è tentati di vedere le autorità locali dell’Italia meridionale in gran parte come vittime di continue incursioni musulmane contro le quali bisognava 129. Vedi supra n. 123. 130. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 29 p. 245.22. 131. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 76 p. 263.19. 132. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 29 p. 245.22; cap. 44 p. 251.4; cap. 79 p. 263.35. 133. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 44 p. 251.4; cap. 16 p. 240.38-39; cap. 18 p. 241.38; cap. 44 p. 254.5; cap. 49 p. 255.27, 33; cap. 51 p. 256.20-21; cap. 55 p. 257.20-21; cap. 56 p. 257.36-37; cap. 58 p. 258.13; cap. 65 p. 260.23; cap. 79 p. 273.35. 134. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 16 p. 240.38-39; cap. 17 p. 241.9-10; cap. 39 p. 249.20 (sul mare); cap. 44 p. 254.2-3; cap. 47 p. 255.10-11; cap. 51 p. 256.18; cap. 54 p. 257.12-13; cap. 56 p. 257.36-37; cap. 73 p. 262.5-6, 8-10; cap. 74 p. 262.34; cap. 77 p. 263.22-25.

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difendersi e per fermare le quali non si badava a spese né a sacrifici. Sicuramente, l’ingaggio di mercenari o la stipula di altri accordi comportò un costo enorme per le parti cristiane coinvolte, ma per città costiere come Napoli, Amalfi o Gaeta doveva esserci anche un guadagno. Possiamo renderci conto di ciò quando, ad esempio, il papa, nell’aprile 877, promette a Sergio di Napoli di concedergli i «beni» che egli bramava dai Saraceni in quantità ancora superiore, se solo egli rompa il suo legame con gli infedeli.135 Giovanni VIII dava o faceva sperare simili risarcimenti al fratello di Sergio, Atanasio,136 a Pulcaro di Amalfi 137 o agli hypati di Gaeta,138 per ottenere in cambio una separazione dai musulmani. Nelle lettere non si allude mai all’elemento difensivo come causa di stretti rapporti con i musulmani. Oltre al tema dell’aspirazione a ricchezza e potere,139 vengono invece svelati ulteriori dettagli che mettono in discussione le nostre idee correnti sull’opposizione “amico­nemico”. Così vediamo come il praefecturius Pulcaro di Amalfi o il presul Atanasio di Napoli furono partecipi alla preda140 acconsentendo, e in parte persino partecipando, ai saccheggi e alla vendita di captivi.141 135. MGH Epp. 7, nr. 41 p. 39.15­16: «Quodsi nos audieritis, non solum bona, quę cupitis, affluentius ex nobis habebitis, sed et magna pręmia cęlitus assequemini». 136. MGH Epp. 7, nr. 42 p. 40.29: «[...] multis super hoc aliis etam bonis promissis [...]; nr. 51 p. 48: Parati enim sumus non solum, quę dicta sind, sed et maiora concedere, tantum ut eiusdem magistri militum sermo ita sit fidelis [...], ut securitas ex utraque parte firma maneat [...]»; nr. 76 p. 73.14­15: «Nos namque aliis omnibus [datis] mancosis mille quadringentos vobis dare debemus [...]»; nr. 230 p. 205.11-12: «[...] tam vos [Athanasium] quam Kaietanos atque Amalfitanos lucrari volentes [...]»; nr. 249 p. 218.12­13: «[...] quod iam dare promisimus, auxiliante Domino annis singulis vobis procul dubio tribuemus [...]»; nr. 273 p. 241.20­21: «[...] quatenus et animę tuę lucrum adquiras et nostri magis et magis affectibus perfrui valeas [...]»; nr. 279 p. 246.15, 23 e p. 247.7: «[...] multaque argenti ei [Athanasio] contulimus [...] nobis non modici argenti adauctis ponderibus [...] multis argenti ponderibus datis». 137. MGH Epp. 7, nr. 52 p. 49.1-3: «[...] quicquid rationabiliter quęritur, quiquid necessario seu possibile postulatur, gratantissime confestim admittet, sed et ampliora facere nullo modo recusabimus, ut omnes secundum apostolum lucrifacere valeamus». Cfr. anche ibidem, nr. 230 p. 205.11-12; nr. 250 p. 218.35-219.2. 138. Cfr. anche ibidem, nr. 230 p. 205.11-12. 139. MGH Epp. 7, nr. 37 p. 36.33-34. 140. MGH Epp. 7, nr. 246 p. 215.11-12: «[...] donec resipiscentes ab impia vos paganorum preda separetis [...]»; nr. 279 p. 246.20­22: «Sed, eheu! pro turpis lucri commodo, quod est [...] ipsis Sarracenis, de pręda eorum partes recipiendo, huius promissionis oblitus noluit adimplere, quod multis corampositis scriptis et verbis promisit». 141. MGH Epp. 7, nr. 217 p. 194.21-23: «[...] sed potius depredare diabolico iam iuri

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Un altro passo ricco di informazioni è riportato nella Chronica Mona­ sterii Casinensis la cui prima redazione risale a Leo Marsicanus (ossia Leo Ostiense). Qui trova un’ulteriore conferma il ruolo attivo dell’hypatus Docibile di Gaeta, perché fu lui a mandare un’ambasciata dai musulmani stanziati ad Agropoli e a introdurre le loro truppe nel suo territorio per difendersi contro i Capuani. Alla fine, il papa, blandis alloquiis et epistolis, nec­ non pollicitationibus multis, riuscì a convincere Docibile a rompere il patto. Ma la reazione da parte dei musulmani fu violenta: Caietanorum plurimi et cesi et capti sunt. Quindi, poco tempo dopo, si ritornò a un patto che prevedeva non solo uno scambio di prigionieri, ma anche un insediamento vicino al fiume Garigliano.142 Oltre agli elementi di cui abbiamo fatto già menzione, questo passo mostra che la rottura di un accordo poteva essere punita con violenza, con nuovi attacchi militari e raid. Per le truppe musulmane questo mezzo di pressione poteva sembrare adeguato anche in tanti altri casi – o fu forse l’unico veramente effettivo – in una fase in cui nelle terre ancora da conquistare non c’erano altre strutture che avrebbero permesso a loro di imporsi.143 Concludendo le nostre brevi considerazioni sui dettagli degli accordi, dobbiamo constatare che non possiamo dire con certezza in quale misura e quanto dettagliatamente delle clausole circa il luogo dell’insediamento, la subiectus permittis [i. e. Pulcharis praefecturius Amalfitanus] et in anime tuę perditionem consentis oves pretioso Christi cruore adquisitas duci captivas». Per il coinvolgimento di Anatasio nei saccheggi nella regione di Capua, cfr. Erchemperti Historia [n. 18], ad es. capp. 44-45 pp. 251-254; cap. 47 p. 255; cap. 73 p. 262. 142. Chronica monasterii Casinensis [n. 89], cap. 43 p. 113: «Docibilis quidam tunc illis in ducem pręerat, qui tantum dedecus sibi suisque illatum minime ferendum ducens, misit Agropolim, et Saracenos ibi degentes asciscens, primo conduxit eos marino itinere ad lacum Fundanum, in locum ubi sancta Anastasia vocatur, et inde per fluvium ascendentes usque ad Fundis, ibi quasi de vagina gladius scaphis egressi, et cuncta in circuitu depopulantes, tandem Caietam perveniunt, et in Formianis collibus sua castra componunt. His papa auditis, ilico penitentia ductus, blandis alloquiis et epistolis, necnon pollicitationibus multis cępit convenire Caietanos, quatinus et sibi reconciliarentur, et a Saracenis sequestrarentur. Cuius demum monitis Docibilis obsecundans, rupto fędere cum Saracenis, bellum iniit. In quo bello Caietanorum plurimi et cesi et capti sunt. Rursus tamen Saraceni fędus a Docibile postulantes accipiunt, redditisque captivis, in Gariliano ab eodem Docibile ad habitandum directi sunt». 143. Si trovano altri esempi per raid e azioni militari che furono un’immediata risposta alla rottura di accordi esistenti, così ad esempio nel caso di Benevento durante l’emirato di Sawdān (cfr. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 29 p. 245) o dopo la caduta di Bari (cfr. ibidem, capp. 34-35 pp. 247-248).

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partecipazione alle incursioni, la divisione della preda, lo scambio o la vendita di prigionieri furono una parte integrante dei trattati di pace o di altri tipi di patti. Comunque, dal contesto è desumibile che, in qualche modo, su queste problematiche esisteva un reciproco consenso, tacito o esplicito che fosse. Inoltre, sono proprio le fonti latine a mostrare che nel gestire trattative e accordi con le autorità locali, oltre gli emiri e i loro wālī, i comandanti delle truppe musulmane ebbero un ruolo molto importante. Essi, avendo un’autonomia abbastanza estesa, non agivano con mero arbitrio, ma solitamente applicarono e rispettarono certe regole – il che, però, non significa che non ci furono anche eccessi, trappole politiche o prossime rotture degli accordi. Attraverso i patti cristiano-musulmani emerge dunque la disponibilità ossia la necessità di interagire, di trovare un modus vivendi. Accanto alle azioni militari, per i musulmani gli accordi furono fondamentali perché permettevano loro di prendere piede in un ambiente ostile. Una condizione indispensabile per la loro diffusione era il fatto che non pochi potentati cristiani – per vari motivi – accettavano la loro presenza, senza vedere nella loro diversa religione un grande ostacolo.

9. Prigionieri e schiavi Come già accennato in alcuni esempi riferiti nel capitolo precedente, la questione dei raid e degli accordi tocca un’altra importante dimensione delle relazioni degli Aghlabiti con la terraferma italiana: quella dei prigionieri di guerra, che potevano essere riscattati, rilasciati, liberati, ritenuti e venduti come schiavi, o anche uccisi. Nella letteratura, il passaggio fluido tra prigionia e schiavitù è stato altrettanto sottolineato quanto il fatto che la cattura di persone durante le scorrerie e il commercio di schiavi sono lati della stessa medaglia e costituiscono fattori economici da non sottovalutare.144 Per quanto 144. Fondamentale C. Verlinden, L’esclavage dans l’Europe médiévale, vol. 1: Pénin­ sule ibérique, France, Brugge 1955; vol. 2: Italie, colonies italiennes du Levant, Levant latin, Empire byzantin, Gent 1977 (Werken iutgegeven door de Faculteit van de letteren en wijsbegeerte, Rijksuniversiteit te Gent, 119, 162). Della larga bibliografia siano inoltre menzionati alcune pubblicazioni più recenti: F.P. Guillén, S. Trabelsi, Introduction, in Les esclavages en Méditerranée. Espaces et dynamiques économiques, études réunies par F.P. Guillén, S. Trabelsi, Madrid 2012 (Collection de la Casa de Velázquez, 133), pp. 1-23; Y. Rotman, Captif ou esclave? Entre marché d’esclaves et marché de captifs en Méditerran­ née médiévale, ibidem, pp. 25-46; G. Weiss, Captives and Corsairs. France and Slavery in the Early Modern Mediterranean, Stanford (CA) 2011; Y. Rotman, Byzantine Slavery and

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riguarda il periodo post-antico, gli studi sull’area mediterranea si sono concentrati per la gran parte sulla prima età moderna e hanno evidenziato tra l’altro il nesso tra le attività dei pirati/corsari, il commercio degli schiavi e lo scambio o il riscatto dei captivi.145 Come Michael McCormick ha giustamente sottolineato, per l’alto medioevo le testimonianze sono molto più scarse,146 cionondimeno i dettagli forniti soprattutto dalle fonti arabe e bizantine hanno attratto molto l’attenzione degli studiosi e arricchito le nostre conoscenze.147 Gli accenni alla cattura di persone in Sicilia e sulla penisola italiana durante il periodo aghlabita non sono ancora stati analizzati sistematicamente ma finora solamente sfiorati.148 Riguardo alle attività piratesche sul mare e lungo le coste dell’Italia meridionale, le fonti arabe e latine ci forniscono solo pochi dettagli. Il fatto che esse furono un fenomeno notevole emerge, ad esempio, da una lettera spedita il 17 aprile 877 dal papa Giovanni VIII al paedagogus Gregorios in cui il pontefice chiede all’imperatore Basilio I dieci galee da guerra bizantine (chelandia) per ripulire dai «pirati arabi» le coste lungo i territori della Chiesa romana.149 Sempre intorno all’877/878, il papa si dava da fare anthe Mediterranean, Cambridge (MA) 2009; Le commerce des captifs. Les intermédiaires dans l’échange et le rachat des prisonniers en Méditerranée, XVe-XVIII e siècle, études réunies par W. Kaiser, Roma 2008 (Collection de l’École française de Rome, 406); A. KoliaDermitzaki, Some remarks on the fate of prisoners of war in Byzantium (9th-10th centu­ ries), in La liberazione dei “captivi” tra Cristianità e Islam: oltre la crociata e il Ǧihād. Tolleranza e servizio umanitario, atti del congresso interdisciplinare di studi storici (Roma, 16-19 settembre 1998), a cura di G. Cipollone, Città del Vaticano 2000 (Collectanea Archivi Vaticani, 46), pp. 583-620; M. Campagnolo-Pothitou, Les échanges de prisonniers entre Byzance et l’Islam aux IX e et X e siècles, in «Journal of Oriental and African Studies», 7 (1995), pp. 1-56. 145. Vedi i due volumi collettanei nella nota precedente; inoltre ad es. R. Coulet du Gard, La course et la piraterie en Méditerranée, Paris 1980; S. Bono, Corsari nel Mediter­ raneo. Cristiani e musulmani fra guerra, schiavitù e commercio, Milano 1993. Anche se ci sono criteri chiari per distinguere tra “pirati” e “corsari”, in tanti casi una netta distinzione non è possibile (cfr. ibidem, p. 9), così anche nel nostro contesto. 146. M. McCormick, Origins of the European Economy. Communications and Com­ merce, A.D. 300-900, Cambridge 2001, pp. 237, 741. 147. Cfr. ad es. Campagnolo-Pothitou, Les échanges de prisonniers [n. 144]; KoliaDermitzaki, Some remarks [n. 144]; Rotman, Byzantine Slavery [n. 144]; McCormick, Ori­ gins of the European Economy [n. 146], pp. 244-261, 741-777 (includendo tra l’altro anche fonti franche). 148. Cfr. McCormick, Origins of the European Economy [n. 146], pp. 244-248, 745, 748, 753, 770-771. 149. MGH Epp. 7, nr. 47 p. 45: «Quapropter bene visum est nobis litteras nostras tibi

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che con gli Amalfitani per ottenere dietro pagamento di 10.000 mancusi la sorveglianza e la difesa navale del tratto tra Centumcellae (Civitavecchia) e Traiectum (Traetto). Ma gli Amalfitani, avendo accordi con i musulmani, non adempirono ai propri obblighi.150 Nell’opera del monaco benedettino Erchemperto, le azioni piratesche descritte da Giovanni VIII vengono messe in relazione con i patti stabiliti tra i musulmani e Salerno, Napoli, Gaeta e Amalfi.151 Infatti, non è sicuramente un caso che le acque vicine alle coste “papali” siano particolarmente colpite, per la vicinanza geografica, ma anche perché probabilmente nelle fasce costiere davanti a Salerno, Napoli, Gaeta e Amalfi vigevano accordi che permettevano alle navi delle città campane il libero passaggio e viceversa, vietando mutui assalti. Soprattutto Napoli, con il suo porto, aveva una grande importanza per il traffico marittimo e fungeva da cerniera tra i musulmani della Sicilia e della terraferma italiana, arma et alimenta et cetera subsidia tribuentes e agevolando in questa maniera anche la pirateria per mare e i saccheggi per terra.152 Il fatto che fu proprio il sommo pontefice stesso – non sapendo più come cavarsela dopo il fallimento dei summenzionati accordi con gli Amalfitani e i Bizantini – a stipulare temporaneamente un accordo con i musulmani, che prevedeva il pagamento della pesante somma di 25.000 mancusi ogni anno,153 mostra le dimensioni delle incursioni per mare, strettamente legate a quelle sulla terraferma. Comunque, nel periodo aghlabita e guardando all’Italia meridionale, il principale strumento di rifornimento di persone alle quali, dopo la cattura, erano riservati destini diversi furono le incursioni sulla terraferma, mentre transmittere, ut vel decem bona et expedita chelandia ad portum nostrum transmittas ad litora nostra de illis furibus et pyratis Arabibus expurganda». Su Gregorios cfr. von Falkenhausen, La dominazione bizantina [n. 13], pp. 20-21, 76. 150. Cfr. MGH Epp. 7, nr. 79 p. 75; nr. 86 p. 81; nr. 214 p. 192; nr. 217 p. 194; nr. 250 pp. 218-219. 151. Erchemperti Historia [n. 18], cap. 39 p. 249: «Tunc Salernum, Neapolim, Gaietam et Amalfim pacem habentes cum Saracenis, navalibus Romam graviter angustiabant depopulatio». Simile, ma senza nominare Amalfi, il Chronicon Vulturnense [n. 75], p. 360. 152. Chronicon Salernitanum [n. 62], cap. 107 p. 120.10-15 (= Ludovici II. Imperato­ ris epistola ad Basilium I. [n. 76], pp. 393.18 e 394.5-7): «Et quia nonnulli Sarracenorum Panormi latrunculi cum sagenis solacio et refugio iam memoratorum Neapolitanorum freti, per Tirrenum mare debachantur [...]. Isti sunt, qui et Calabritanis Sarracenis indefesse stipendia prebent, et hiis qui Panormi sunt, auxilia cotidiana ministrant [...]». 153. MGH Epp. 7, nr. 89 p. 85-86: p. 85.19-20: «[...] exactione census viginti quinque milium in argento mancusorum annualiter [...]».

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gli attacchi alle navi sembrano aver avuto complessivamente meno peso. Durante innumerevoli saccheggi, che sono menzionati soprattutto nelle fonti latine, furono catturati uomini, donne e bambini di varia età. Molti di loro venivano trasportati in altre zone al di là del Mar Mediterraneo.154 Una testimonianza molto vivace è offerta dal monaco Bernardo che nell’870, durante il suo pellegrinaggio verso la Terrasanta, passò per Bari e Taranto, due città allora sottomesse ai musulmani. Nel porto di Taranto egli vide migliaia di prigionieri provenienti dal territorio di Benevento a bordo di navi che erano in partenza per l’Ifrīqiya, Tripoli di Libia e Alessandria d’Egitto.155 Inoltre, il ruolo importante dei Bizantini nel commercio di schiavi, analizzato già in altri contesti,156 si rivela decisivo anche nell’ambito italiano.157 Mentre i partecipanti ai raid, i commercianti e gli intermedia154. Cfr. ad esempio Erchemperti Historia [n. 18], cap. 17 p. 241: «[...] ultramarina loca captivis nostrae gentis diversi sexus et aetatis fulciebantur». MGH Epp. 7, nr. 77 pp. 73.39-74.1: «[...] cum innumeram hominum multitudinem, infantum et mulierum catervam gladio fame atque captivitate crudeliter peremisset». Ibidem, nr. 217 p. 194.16: «[...] Christianitas, quę te [Pulcaro praefecturio Amalfitano] cum paganis pactum habente quottidie depredatur atque in diram ducitur captivitatem [...]». 155. Das “Itinerarium Bernardi Monachi”. Edition - Übersetzung - Kommentar, a cura di J. Ackermann, Hannover 2010 (MGH Studien und Texte, 50.), capp. 4-5, p. 117: «Exeuntes de Barre [Bari], ambulavimus ad meridiem per nonaginta miliaria usque ad portum Tarentine civitatis, ubi invenimus naves sex, in quibus erant IX milia captivorum de Beneventanis Christianis. In duabus nempe navibus, que primo exierunt Affricam petentes, erant III milia captivi. Alie due post exeuntes, in Tripolim deduxerunt similiter III milia. In reliquis demum duabus introeuntes, in quibus quoque predictus erat numerus captivorum, delati sumus in portum Alexandrie, navigantes diebus XXX». Invece di Tripoli di Libia (così corettamente nella traduzione a p. 129) l’editore scrive erroneamente Tripoli del Libano (pp. 106 e 117 con n. 10). Inoltre, l’anno 970 indicato nella traduzione tedesca per il viaggio di Bernardo (p. 128) deve essere corretto in 870. 156. Cfr. Rotman, Byzantine Slavery [n. 144]; Campagnolo-Pothitou, Les échanges de prisonniers [n. 144]; Kolia-Dermitzaki, Some remarks [n. 144]; R. Guemara, La libéra­ tion et le rachat des captifs. Une lecture musulmane, in La liberazione dei “captivi” [n. 144], pp. 333-344; McCormick, Origins of the European Economy [n. 146], pp. 244-261, 741-777. 157. Molto chiaro su questo punto è Erchemperto (Historia [n. 18], cap. 81 p. 264): «Achivi autem, ut habitudinis similes sunt, ita animo aequales sunt bestiis, vocabulo christiani, set moribus tristiores Agarenis. Hii videlicet et per se fidelium omnes predabant et Saracenis emebant, et ex his alios venales oceani litora farciebant, alios vera in famulos et famulas reservabant». Dalla continuazione di Teofane [n. 12, lib. V, cap. 66 p. 206) si evince che in seguito alla conquista bizantina di Taranto nell’880 «tutto il popolo della città» sarebbe diventato prigioniero. Amari, Storia dei Musulmani [n. 12], I, p. 582, sostiene che la popolazione musulmano­cristiana di Taranto fosse stata tutta ridotta in schiavitù; ma sen-

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ri ne ricavavano profitto, le devastazioni e le cacce all’uomo provocarono in molti luoghi un calo demografico tale da portare addirittura all’abbandono di alcune aree.158 Le questioni dell’aspetto economico dei raid e dei modi e della misura in cui i tentativi di integrare politicamente l’Italia nel mondo aghlabita furono intrecciati con il commercio (trans-)mediterraneo di schiavi, sono strettamente connesse con lo scambio e il riscatto dei prigionieri di guerra. Recentemente Youval Rotman ha richiamato l’attenzione sul destino dei captivi distinguendo tra sfera privata e pubblica: Un carattere esclusivamente pubblico aveva lo scambio di prigionieri, il riscatto invece poteva avvenire sia al livello pubblico che a quello privato, mentre la riduzione in schiavitù era possibile solamente a titolo privato.159 Nel nostro contesto ci interessa soprattutto la sfera pubblica, più volte chiamata in causa dalle fonti, ma non ancora sistematicamente studiata. Comunque, da un primo spoglio la distinzione tra il riscatto e lo scambio di prigionieri si rivela molto difficile. Questo problema e anche la quasi totale mancanza di cifre rende impossibile ogni stima approssimativa circa il valore economico dei captivi. Da altri contesti sappiamo che il riscatto di prigionieri – un atto di carità sia per i musulmani che per i cristiani160 – poteva avere una notevole dimensione economica.161

za che lo attestino esplicitamente le fonti, una parte di loro fu sicuramente riscattata o scambiata. In generale cfr. Kolia-Dermitzaki, Some remarks [n. 144]. 158. Cfr. ad esempio MGH Epp. 7, nr. 8 p. 7.27-29: «[... Agareni] operuerunt universam superficiem terrę sicut locustę, ita ut pęne cunctis habitatoribus inde sublatis et in prędam et gladium traditis, redacta sit in solitudinem et in cubilia bestiarum [...]». 159. Cfr. Rotman, Captif ou esclave? [n. 144], p. 29. 160. Cfr. i contributi nel volume La liberazione dei “captivi” [n. 144]; sulla prassi del riscatto dei prigionieri nel mondo islamico: Guemara, La libération et le rachat des captifs [n. 156]; Kolia-Dermitzaki, Some remarks [n. 144]. 161. Su questo aspetto siamo stati sensibilizzati da studi relativi ad altri contesti; menzioniamo qui solamente A. Fuess, Muslime und Piraterie im Mittelmeer (7.-16. Jahrhun­ dert), in Seeraub im Mittelmeerraum. Piraterie, Korsarentum und maritime Gewalt von der Antike bis zur Neuzeit, a cura di N. Jaspert, S. Kolditz, Paderborn 2013 (Mittelmeerstudien, 3), pp. 175-198: 188; Le commerce des captifs [n. 144]; W. Kaiser, Internationale und in­ terkulturelle Beziehungen der Neueren Geschichte. Kaufleute, Makler und Korsaren. Kar­ rieren zwischen Marseille und Nordafrika im 16. und 17. Jahrhundert, in Schlaglichter Preußen Westeuropa. Festschrift für Ilja Mieck zum 65. Geburtstag, a cura di U. FuhrichGrubert, A.H. Johansen, Berlin 1997 (Berliner historische Studien, 25), pp. 11-31, in particolare p. 29.

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Nonostante la scarsità di informazioni, è comunque evidente il valore dei prigionieri come garanzia per il mantenimento degli accordi o come mezzo di pressione. Un caso ben documentato di cattività con una complessa dimensione politica è quello di Sawdān. Quando Bari, all’inizio del­ l’anno 871, fu presa dalle truppe cristiane, il capo di questo piccolo emirato con alcuni dei suoi uomini cadde nelle mani dell’imperatore Ludovico II. Con la clamorosa prigionia di Ludovico, il principe Adelchi di Benevento si impadronì non solo del tesoro imperiale, ma anche dei captivi musulmani che, dopo il rilascio dell’imperatore nel settembre dell’871, rimanevano a Benevento. Sembra che un certo Annosus (forse un cristiano convertito all’Islam) e un certo Abdelbach (forse ‘Abd al­Ḥaqq o ‘Abd al­ Bāqī)162 siano stati a un certo punto liberati, perché li vediamo tutti e due coinvolti in spedizioni diplomatiche e militari sotto la guida di un Utma­ gnus (‘Uṯmān), venuto dall’Africa a Taranto per riprendere in mano la situazione in Puglia e Calabria e per liberare Sawdān. L’impresa riuscì, Adelchi cedette alla pressione delle truppe musulmane e liberò Sawdān.163 Ma ci fu forse anche un altro motivo a influire fortemente sulle azioni di Adelchi, come lascia ipotizzare un passo nel Chronicon Salernitanum secondo il quale la figlia di Adelchi sarebbe stata catturata dalle truppe di Sawdān.164 Forse, il principe beneventano sperava che, con Sawdān in suo potere, avrebbe potuto liberare più facilmente sua figlia, e forse ciò fu un’ulteriore causa per la prigionia di Ludovico II e per la liberazione (o lo scambio) di Sawdān. L’esempio della cattività dell’emiro di Bari getta luce sull’ampia rete di contatti tra gli Aghlabiti, i loro esponenti in Italia e le élites locali cristiane. Trova conferma quanto si è potuto constatare in altri contesti: che la cattività riflette da un lato rapporti ostili, ma è dall’altro lato anche uno strumento politico nell’ambito di rapporti diplomatici e politici. Come 162. Così Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, p. 579. 163. Erchemperti Historia [n. 18], capp. 37-38 pp. 248-249; Chronicon Salernitanum [n. 62], capp. 108-109 pp. 121-122 e cap. 120 pp. 133-134. Cfr. con altre fonti anche Amari, Storia dei musulmani [n. 12], I, p. 579; Talbi, L’émirat aghlabide [n. 2], p. 511; Musca, L’emirato [n. 51], pp. 129-130; Gabrieli, Taranto araba [n. 59], pp. 5-6. 164. Chronicon Salernitanum [n. 62], cap. 108 p. 121: «Ipse namque Sagdan [...] nominative Beneventanum principem adclamat, inquid: “In fide tua me suscipe, quia teste Deo tuam filiam incontaminatam penes meo habeo.” Habuerat nuper eam obsidem, et minime, licet infidelis fuisset, adhuc contaminarat. Quo audito, princeps Adelchis statim ab ipso imperatore eum expetit et accepit, necnon et duos alios suos soldales, quorum nomina fuerunt Annosum et Abdelbach».

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hanno giustamente rilevato Fabienne P. Guillén e Salah Trabelsi, «détenir et maintenir en captivité les sujets d’un autre souverain peut, paradoxalement, permettre la transition de l’hostilité à la normalisation».165 Questo breve excursus sulle vicende che videro protagonisti i musulmani nella terraferma italiana nell’epoca aghlabita getta nuova luce sulle gesta di Ibrāhīm II, dalle quali siamo partiti. In effetti, il ǧihād di Ibrāhīm non fu un fenomeno isolato, e alla domanda se gli Aghlabiti, dopo la conquista avviata della Sicilia, avessero avuto l’intenzione di espandere il loro dominio anche sulla terraferma italiana va certamente data una risposta positiva. Tuttavia, la spinta verso la conquista della terraferma non fu ugualmente forte durante tutto il periodo in questione. Ci furono fasi in cui la penisola subì duri attachi sotto il segno del ǧihād, (così negli anni ’40 e ’50 del IX secolo e, appunto, durante il governo di Ibrāhīm II), mentre in altri momenti l’attenzione degli Aghlabiti sembra concentrarsi più sulla wilāya siciliana. Nel contesto delle imprese militari sulla terraferma, ma anche come fenomeno concomitante dei tentativi di sottomettere l’intera Sicilia al dominio aghlabita, abbiamo notizie di innumerevoli incursioni che furono connesse ai conflitti tra vari gruppi di interessi sia musulmani sia cristiani e concatenati a devastazioni, saccheggi, uccisioni, prigionia. In molti casi è estreamente difficile distinguere tra “semplici” raid e campagne militari finalizzate alla conquista. Altrettanto difficile è definire i rapporti tra musulmani e cristiani che, anche su uno sfondo di ostilità conclamate, evidenziano numerose sfumature e molteplici cambiamenti che si rispecchiano non solo in scontri violenti, ma anche in vari tipi di accordi che, se si inseriscono perfettamente nel quadro ideologico e religioso islamico, suscitano una serie di contrasti all’interno del mondo cristiano dove interessi politici ed economici diversi potevano entrare in forte conflitto con chi pretendeva di detenere il monopolio della retta dottrina religiosa.

165. Guillén, Trabelsi, Introduction [n. 144], p. 11. Su questo aspetto cfr. anche ibi­ dem, pp. 18-21.

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aldo a. Settia

«In locis qui sunt Fraxeneto vicina». Il mito dei Saraceni fra Provenza e Italia occidentale

È noto che l’irresistibile conquista islamica giunta, entro la prima metà dell’VIII secolo, a impadronirsi di gran parte della Penisola Iberica, mutò in seguito la sua natura facendosi da terrestre prevalentemente marittima. In tale quadro negli ultimi decenni del IX secolo si costituì sulla costa provenzale, nei pressi dell’odierna Saint-Tropez, la famosa base navale di Fraxinetum destinata a rimanere attiva per almeno ottant’anni. Gli uomini là stanziati saccheggiarono prima la Provenza orientale sino a esaurirne ogni risorsa, si installarono quindi sui passi alpini, si spinsero in Liguria e nel Piemonte occidentale giungendo sino in Svizzera.1 Le fonti a noi pervenute attestano infatti che per un periodo non breve, all’incirca dal 921 al 972, i Saraceni di Frassineto occuparono in modo permanente le vie delle Alpi con gravi conseguenze negative per i traffici internazionali; in Piemonte devastarono certamente l’abbazia della Novalesa e la pieve di Oulx, rimaste poi abbandonate per almeno un secolo. Nel resto della regione la loro presenza fu invece soltanto occasionale. Intorno al 936 una spedizione, probabilmente proveniente dal mare aperto e sbarcata sulla costa ligure, raggiunse Acqui da dove fu sanguinosamente respinta. Alla stessa incursione sono verisimilmente da collegare la minaccia incombente su Asti nel 937 e l’annientamento dell’abbazia di Giusvalla che una notizia del 991 dice «a perfida Saracenorum gente destructa». È verisimile inoltre che, sempre nella medesima circostanza, avvenisse anche il saccheggio della diocesi di Alba. 1. Si tratta di dati ben noti alla storiografia per i quali ci limitiamo a rimandare a A.A. Settia, Le incursioni saracene e ungare, in La storia. I grandi problemi dal medioevo all’età contemporanea, II/2: Il medioevo. Popoli e strutture politiche, a cura di N. Tranfaglia, M. Firpo, Torino 1986, pp. 287-306: 288-290, ora in A.A. Settia, Barbari e infedeli nell’alto medioevo italiano. Storia e miti storiografici, Spoleto 2011 (Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Collectanea, 26), pp. 181-207: 182-183.

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Aldo A. Settia

Un’altra zona sarebbe stata colpita: il cronista della Novalesa segnala infatti la presenza di una banda di Saraceni annidata in una foresta presso Vercelli ai tempi del vescovo Ingone, ossia fra 961 e 974, e un documento vercellese giudicato di quel medesimo periodo tramanderebbe la formula di benedizione del vessillo di sant’Eusebio per un esercito cittadino destinato appunto a combattere contro i Saraceni.2 Ben presto le distruzioni avvenute nel vescovado di Alba furono strumentalizzate a scopo politico. Dopo un solenne sinodo celebrato in Roma il 26 maggio 969 con la partecipazione dell’imperatore Ottone I e di papa Giovanni XIII, quest’ultimo indirizzò all’arcivescovo di Milano una lettera nella quale dichiarava di conoscere le rovine provocate dagli infedeli nei luoghi vicini a Frassineto e, in specie – aggiungeva – «il vescovado denominato Alba è talmente danneggiato dai Saraceni che il vescovo Fulcardo, ora a capo di quella Chiesa, manca di chierici e di popolo e provvede alle spese quotidiane non con i proventi della Chiesa in quanto vescovo, ma come rustico con il lavoro agricolo». Era cosa assai turpe – proseguiva il papa – che un’autorità di tale livello dovesse attendere al lavoro dei campi anziché al suo ministero e risultava quindi superfluo che ad Alba vi fosse un vescovo; si era perciò deciso che, dopo la morte dell’attuale, il suo territorio venisse annesso alla Chiesa di Asti, assai vicina e più potente e ricca e perciò in grado di aiutare la sorella a vivere meglio.3 Tale decisione accontentava in realtà il disegno egemonico del vescovo di Asti Rozone che intendeva mettere le mani sulla contigua diocesi: uomo di grande intraprendenza e ambizione, egli a Pavia si era guadagnato la stima dell’imperatrice Adelaide e, di conseguenza, la protezione di Otto2. Cfr. A.A. Settia, I Saraceni sulle Alpi: una storia da riscrivere, in «Studi storici», 28 (1987), pp. 127-143: 136-138; ristampato con il titolo Monasteri subalpini e presenza saracena: una storia da riscrivere anche in Dal Piemonte all’Europa: esperienze monasti­ che nella società medievale, relazioni e comunicazioni presentate al XXXIV congresso storico subalpino (Torino, 27-29 maggio 1985), Torino 1988, pp. 295-310: 302-305 (= Settia, Barbari e infedeli [n. 1], pp. 245-265: 256-259). 3. Regesto: RI II,5 nr. 460, in: Regesta Imperii Online (URL: http://www.regesta-imperii.de/id/0969-05-26_3_0_2_5_0_486_460; 14/10/2013); edizione: Papsturkunden 9861046, I: 896-996, a cura di H. Zimmermann, Wien 1984 (Österreichische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse. Denkschriften, 174), p. 392-393 nr. 198; la citazione a p. 393: «Audivimus itaque episcopatum vocabulo Albia adeo a Saracenis esse depopulatum, ut episcopus Fulchardus, qui nunc ipsi ecclesię presidere videtur, clericis et plebe careat viteque cotidianos sumptus non ut episcopus ex ecclesia sed ut rusticus habead [sic] ex agri cultura».

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«In locis qui sunt Fraxeneto vicina»

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ne I che lo aveva espressamente voluto sulla cattedra di Asti e gli aveva concesso ampi privilegi territoriali con dignità equivalente a quella di conte palatino. Si capisce così che il papa, per assecondare un pupillo dell’imperatore, esageri a bella posta la gravità dei danni provocati anni prima dai Saraceni nella diocesi di Alba servendosene come pretesto per favorire Rozone a danno di quel vescovo evidentemente privo di protettori altrettanto potenti. In particolare l’affermazione che egli si trovava ridotto a tali ristrettezze da dover lavorare la terra con le proprie mani è un semplice luogo comune della retorica ecclesiastica che non va in alcun modo preso alla lettera, come invece la storiografia si è compiaciuta di fare, immaginando senz’altro il vescovo intento a coltivare di persona le sue terre.4 Se dunque, a pochi decenni dagli avvenimenti, gli effetti delle incursioni saracene venivano clamorosamente strumentalizzati dalle autorità universali a scopo politico, non ci si dovrà troppo meravigliare delle sovrinterpretazioni cui esse furono sottoposte a secoli di distanza. Dal secolo XVII in poi, coniugando disinvoltamente le notizie sui Saraceni desunte dalle cronache altomedievali (da poco riscoperte dalla ricerca erudita) con le pseudo-tradizioni locali ispirate alle leggende epiche del ciclo carolingio, si vennero creando affabulazioni che, nonostante le confutazioni critiche, tendono a “rinascere incessantemente dalle loro ceneri”.5 Esse – occorre aggiungere – ebbero talora l’avallo, diretto o indiretto, di studiosi di provata serietà che, dall’Ottocento ai nostri giorni, manifestarono volentieri, nei riguardi delle incursioni saracene, una deplorevole tendenza per le emozioni forti e per le esagerazioni catastrofiste che non di rado li ha indotti a mettere da parte ogni senso critico. La tendenza si è manifestata tanto in Provenza quanto in Liguria e in Piemonte soprattutto postulando presunte radicali distruzioni perpetrate dai Saraceni di Frassineto. Secondo un accreditato storico seicentesco gli incursori, disertata la Novalesa, si sarebbero diffusi ovunque a macchia 4. Cfr. A.A. Settia, L’alto medioevo ad Alba: problemi e ipotesi, in Studi per una sto­ ria d’Alba, V: Alba medievale. Dall’alto medioevo alla fine della dominazione angioina: VI-XIV secolo, a cura di R. Comba, B. Del Bo, R. Rao, Alba 2010, pp. 40-46. 5. N. Coulet, Saint Maieul, les Sarrasins et la Provence de l’hagiographie clunisienne a l’historiographie provençale des XVIe-XIXe siècles, in San Maiolo e le influenze clunia­ censi nell’Italia del nord, atti del convegno internazionale nel millennio di san Maiolo (994-1994) (Pavia-Novara, 23-24 settembre 1994), a cura di E. Cau e A.A. Settia, Como 1998, pp. 217-232: 222-230.

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Aldo A. Settia

d’olio «al che le antichissime abbatie di questa provincia restarono distrutte».6 Un peso storiografico determinante va dunque attribuito al potere di suggestione esercitato in Piemonte dal racconto della Cronaca di Novalesa. Da parte loro gli storici liguri, sulla base di qualche cenno alle distruzioni saracene effettivamente contenuto nelle fonti, ma potentemente sovrastimato, anche qui, attraverso la valorizzazione di tradizioni popolari, hanno creduto di concludere che le incursioni misero a ferro e fuoco l’intero paese fra il mare Ligure e il Po, così che tutte le fondazioni religiose ne sarebbero uscite annientate rendendo perciò necessario distinguere “due epoche monacali”: una di età longobarda e carolingia e l’altra successiva al secolo X. Per giustificare tale assunto ogni possibile guasto, distruzione o rovina che compare nelle fonti venne senz’altro attribuito agli uomini della mezzaluna: poco importava, ad esempio, che nel Tortonese l’abbazia di Vendersi risultasse «completamente distrutta da uomini perversi», e che San Mauro di Pulcherada, alle porte di Torino, fosse nel 991 abbandonata «per il guasto e l’invasione di cattivi uomini»: in entrambi i casi si trattava evidentemente di malviventi indigeni di cui i documenti preferiscono tacere il nome.7 Altrove per rendere più grave la desolazione ad opera degli incursori, non solo si sono interpretati tendenziosamente i documenti esistenti, ma se ne sono creati altri dal nulla, come nel caso clamoroso e significativo dell’abbazia di San Dalmazzo di Pedona. Si pretende infatti che essa sia stata distrutta da un’incursione saracena, in realtà mai avvenuta, e sui presunti Saraceni di San Dalmazzo si continua, con plurisecolare insistenza, a produrre nuovi documenti talché essi meriterebbero una “controstoria” da scrivere, s’intende, dopo opportune, approfondite ricerche.8 Anche la presenza di Saraceni nel Vercellese attestata dalla stessa Cro­ naca di Novalesa, che pareva accettabile nel quadro della resistenza oppo6. Cronaca di Novalesa, a cura di G.C. Alessio, Torino 1982, pp. 233-234: cfr. Settia, I Saraceni sulle Alpi [n. 2], pp. 129-130 (= Settia, Barbari e infedeli [n. 1], p. 248). 7. A.A. Settia, Gavi, i Saraceni e le “infantili tradizioni” di Cornelio De Simoni, in «Archivio storico italiano», 155 (1997), pp. 679-696 (= Settia, Barbari e infedeli [n. 1], pp. 277-291); cfr. anche Id., I monasteri italiani e le incursioni saracene e ungare, in Il mona­ chesimo italiano dall’età longobarda all’età ottoniana (secc. VIII-X), atti del VII convegno di studi storici sull’Italia benedettina (Nonantola-Modena, 10-13 settembre 2003), Cesena 2006, pp. 79-95: 93-95 (= Settia, Barbari e infedeli [n. 1], pp. 352-353). 8. Cfr. Settia, I Saraceni sulle Alpi [n. 2], pp. 131-36; Id., I monasteri italiani [n. 7], p. 94 (= Settia, Barbari e infedeli [n. 1], rispettivamente, pp. 251-256 e 351-354).

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sta negli anni 964-965 da re Adalberto alla conquista ottoniana, è stata messa in discussione da alcuni recenti contributi. Un’accurata ricerca sul documento di appoggio più importante, cioè la benedizione del vessillo di sant’ Eusebio che postula vittorie contro i Saraceni, ha accertato che esso non è da attribuire al secolo X ma al tempo della terza crociata.9 Da solo il racconto del cronista novalicense perde quindi molto del suo valore: pur facendo riferimento a Vercelli esso riguarda una persona che proviene «ex finibus Murriciane», cioè dalla Moriana, e tutto il suo contesto, piuttosto confuso, finisce per mettere in evidenza che non sappiamo quasi niente dei Saraceni in Piemonte.10 Secondo certe ricostruzioni storiche i Saraceni di Frassineto, identificati senz’altro come Arabi, non avrebbero portato soltanto distruzione: gli eruditi si sono infatti sforzati di scorgere nei luoghi da essi frequentati tracce della grande civiltà islamica in particolari stilistici, in tipi di sepolture, in residui di attività artigianali ed estrattive, nella toponomastica e in vocaboli ed espressioni correnti negli idiomi locali. È invece scientificamente certo che provvisori insediamenti di popolazioni alloctone, anche prolungati nel tempo come quello dei Saraceni di Frassineto, non poterono esercitare alcuna rilevante influenza sul piano linguistico, né si potrebbe pretendere che semplici predoni si preoccupassero di portare nelle regioni da loro spietatamente saccheggiate le conquiste della superiore civiltà islamica.11 Ma qual era, in realtà, l’identità degli uomini rimasti per quasi un secolo annidati a Fraxinetum? Sin dal 1950 Évariste Lévi-Provençal scriveva che i più audaci di essi non erano, per la maggior parte, «né Arabi né Berberi, dalle vocazioni marittime piuttosto rare», ma «muwallad, oppure soggetti mozarabici del califfo di Cordova che parlavano soltanto il loro dialetto romanzo».12 Se così fosse verrebbe automaticamente a cadere, intanto, ogni pretesa di fare di quei predoni i portatori di una civiltà più evoluta. 9. Vedi supra, testo corrispondente alla nota 2, e E. Vergerio, Liturgia e guerra santa. La benedizione del vessillo di sant’Eusebio nel codice CLV della Biblioteca capitolare di Vercelli, in «Bollettino storico vercellese», 33 (2004), pp. 5-46. 10. Cronaca di Novalesa [n. 6], p. 264, e R. Ordano, Gli enigmi di una presenza sara­ cena, in «Bollettino storico vercellese», 18 (1989), pp. 129-133. 11. Cfr. Settia, Le incursioni saracene [n. 1], p. 301 (= Settia, Barbari e infedeli [n. 1], p. 201). 12. É. Lévi-Provençal, Histoire de l’Espagne musulmane, II: Le Califat umayade de Cordoue (912-1031), Paris-Leiden 1950, p. 155.

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Aldo A. Settia

Gli scavi condotti sul sito di Fraxinetum, nel golfo di Saint-Tropez, hanno a lungo cercato le tracce di un insediamento arabo senza trovarle: neppure un frammento di ceramica di fattura islamica è venuto alla luce.13 L’apparente fallimento costituisce quindi una conferma, seppure in negativo, dell’ipotesi che i predoni non fossero affatto Arabi. Ma ciò che non è stato trovato a terra è invece emerso dalle acque del Mediterraneo: quattro relitti di navi islamiche scoperti in mare tra Cannes e Marsiglia contenevano materiali di fattura andalusa databili intorno alla metà del secolo X. Alcuni geografi arabi, inoltre, menzionano lo stanziamento di Frassineto come dipendente da Cordova sottolineandone la funzione di base navale; altri autori ricordano infine spedizioni condotte fra 933 e 943 dalla flotta umayyade contro le coste cristiane.14 Tali dati impedirebbero di considerare gli uomini stabiliti a Frassineto come semplici predoni in cerca di bottino per farne le pedine di una politica di raggio mediterraneo che tendeva a «ostacolare le relazioni tra le città mercantili italiane e il resto della cristianità meridionale»,15 politica che sarebbe stata abbandonata dai regnanti andalusi a metà del X secolo quando essi trovarono più conveniente partecipare allo sviluppo commerciale allora in atto lasciando Frassineto al suo destino. La nuova visione dei fatti, tendente a valorizzare Frassineto come base navale umayyade, non è certo priva di interesse. Posto che le quattro navi affondate nel mare di Provenza siano davvero da mettere in relazione con essa (cosa di cui non è possibile essere certi), i materiali trasportati confermerebbero intanto l’ipotesi, avanzata a suo tempo da Lévi-Provençal, che i Saraceni ivi stabiliti provenissero dall’Andalusia e permette quindi di rivedere senz’altro le caratteristiche etniche e religiose loro tradizionalmente attribuite. Se davvero, poi, essi erano innanzitutto marinai destinati ad agire nel quadro della politica umayyade, tale condizione, con i compiti che essa 13. P. Sénac, Provence et piraterie sarrasine, Paris 1982 (Islam et Occident, 1), pp. 58-59; Id., Le califat de Cordoue et la Méditerranée occidentale au X e siècle: le Fraxinet des Maures, in Zones côtières littorales dans le monde méditerranéen au moyen âge: dé­ fense, peuplement, mise en valeur, actes du colloque international (Rome, 23-26 octobre 1996), a cura di J.M. Martin, Rome-Madrid 2001, (Collection de l’École française de Rome, 105/7; Collectión de la Casa de Velázquez, 76; Castrum, 7), pp. 113-126: 113. 14. Sénac, Le califat de Cordoue [n. 13], pp. 118­122 (geografi arabi e raid marittimi), 122-125 (archeologia sottomarina). 15. Ibidem, p. 125.

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comportava, contribuirebbe a mettere in secondo piano l’attività predatoria alla quale avrebbero potuto dedicare soltanto effettivi numerici ridotti; ne deriverebbe, per conseguenza, la minore efficacia distruttiva delle incursioni che essi irraggiarono sui due versanti delle Alpi, proprio quegli effetti che la storiografia tradizionale è invece costantemente disposta a moltiplicare in modo acritico, per non dire francamente dissennato.

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Postface: Continuity and Change in the Early Medieval Mediterranean

The papers assembled in this volume represent different approaches and address multiple problems, yet in one way or another all of these papers tackle a central question of everybody who deals with the history of Early Islam: the question of the sources. Since the 1970s the work of Albrecht Noth, Patricia Crone and others has exploded our formerly maybe all to naïve reliance on the historical tradition of medieval Islam.1 In the present volume Marco Di Branco’s paper on Cipro, Rodi, Creta draws our attention to the difficulties involved in this context. The same holds true for Aldo Settia’s work on Fraxinetum and Ann Christys’ contribution on medieval historians’ interpretation of the early history of al-Andalus and in a different way for Samir Khalil Samir’s paper on a specimen of Christian apocalyptic whose dating poses some problems to the researcher. While students of late Antiquity until the 6th century are spoilt by an unusually broad range of written sources of all kinds, the 7th century and later the early phases of Islamic rule in the western Mediterranean are less well served. Latin sources are few and far between, and the Muslim historical tradition that at any rate focuses more on the east then on west of the Muslim world suffers from the lateness of the texts in the form that we have them now. This difficult nature of our sources made many researchers concentrate on technical questions of authenticity and dating of texts. While the importance of such philological work cannot be seriously doubted, there lies a certain risk that research whose interest is primarily or exclusively on 1. To mention just two fundamental titles: A. Noth, Quellenkritische Studien zu The­ men, Formen und Tendenzen frühislamischer Geschichtsüberlieferung, Bonn 1973 (Bonner orientalistische Studien, N.S., 25); P. Crone, Meccan Trade and the Rise of Islam, OxfordPrinceton 1987.

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Lutz Berger

the texts themselves, their literary structure (topoi etc.), and their transmission leads to results that don’t tell us much neither about the nature and functioning of the societies that produced these texts nor, in the last resort, about the texts themselves. Thus, interdisciplinary cooperation is central to any effort to address the problems posed by the deficient nature of our written sources for the history of early Islamic societies. It was the cooperation of historians and archeologists as well as intensive exchange between historians of Classical Antiquity and the Islamic Middle East that has in recent years changed our understanding of late antique and early Islamic Syria in a way that was unthinkable for earlier historians of the period.2 Another recent example of the fruitfulness of such a comparative approach to early Islamic history is Milka Levy-Rubin’s study Non-Muslims in the Early Islamic Empire that has done great deal to improve our understanding of the functioning of early Islamic societies and, at the same time, has opened a new path for a perhaps less hypercritical attitude to the Muslim historical tradition then has prevailed in many quarters since the 1970s.3 Muslim proceedings with their non-Muslim subjects are shown by her to be just a variant of the treatment of subject populations all over the antique Mediterranean and Middle East. Levy-Rubin demonstrates how, by comparative cross-cultural analysis, we can tackle not only the tricky problem of the sources in a world that has left few written texts, but also how we can come in the end to a better understanding of the historical processes that the texts we do have in our possession pretend to describe. Levy-Rubin’s comparative approach presupposes that societies under early Muslim rule weren’t quintessentially different from neither their neighbors nor their predecessors. Being used to see the Islamic World as a culture monde 4 of its own, modern historians of the Middle East until the 1970s had put this into doubt. But this is certainly what non-Muslim contemporaries like the anonymous Author of the Mozarabic Chronicle 2. A. Walmsley, Early Islamic Syria. An Archeological Assessment, London 2007 (Duckworth Debates in Archaeology); Money, Power and Politics in Early Islamic Syria. A Review of Current Debates, ed. by J. Haldon, Farnham 2010. 3. M. Levy-Rubin, Non-Muslims in the Early Islamic Empire. From Surrender to Co­ existence, Cambridge 2011 (Cambridge Studies in Islamic Civilization). 4. I have modified here Fernand Braudel’s term économie­monde describing a more or less self­sufficient economic sphere; F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capi­ talisme, XVe-XVIII e siècle, 3: Le temps du monde, Paris 1979, pp. 12sqq.

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thought, as is once again demonstrated by Ann Christys’ paper in this volume. The emergence of specifically Muslim societies and of Islam as a distinct cultural system both turn out to have been a long drawn out process rather than an event. A central development in these processes is the appropriation of local traditions of rule and administration and the development of new institutions of government within the territories under Islamic rule as ǧihād gave way to diwān. In the view of the scarceness of sources we cannot say very much about this topic for the region and period that are treated here, i.e. mainly the early medieval western Mediterranean. But a number of interesting points in this respect are made in the contributions collected here nonetheless. We learn something about the mechanisms of the formation of Emirates in al-Andalus, Crete and Rhodes as well as Sicily, and southern Italy in the contributions of Ann Christys, Kordula Wolf and Marco Di Branco. Besides the problem of the Veralltäglichung of Muslim rule in form of a more or less regular fiscal administration (dīwān), the editors had asked a number of other questions that for them are central to progress in the study of Muslim conquests and the formation of Muslim societies. What about cultural change? What about ǧihād? What were the options for nonMuslim populations after the conquest? What about the administration of Muslim conquests? What about the inner unity of the newly emerging Muslim polity? Finally: Was the Mediterranean a barrier or a bridge? The papers in this volume throw new light on a number of these questions. Cultural change was rather slow to come in the beginning as can be seen in the different treatment of the conquest of al-Andalus by (early) Christian and (later) Muslim sources.5 It was not immediately that Islam had a deep impact on Christian communities. Only when it became a threat to identities that were not as unchanging and monolithic as community leaders of all sorts and times would like them to be, Christian authors like Samuel of Qalamūn turned out to be really alarmed. Many individuals might not have shared Samuel’s sorrows but have preferred a more pragmatic approach to cultural identity and religious belonging as the Muslim “Apostates”, about whom we learn in Giuseppe Mandalà’s contribution. Another case in point is the rather hybrid identity of the “Saracens” of Fraxinetum Aldo Settia tells us about. Sooner or later some of these communities might have ended up “real Muslims” but this certainly was a 5. For other regions see also Marco Di Branco’s papers in this volume.

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gradual process where identities constantly had to be renegotiated. Cultural change was slow not only in the direction of Islamization but also in the other direction, as is convincingly described also by Giuseppe Mandalà. Long after the Muslims had left, the imprint of their language and culture was still strong among Christian communities in Sicily. If cultural and socio-political change was a long drawn out process, the same could at times hold true for conquest itself. The Muslim conquest of much of the Middle East and the Mediterranean might seem to have been a quick succession of events from the vantage point of the 21st century, it must have been a relatively slow development to contemporaries: The subduing of Iran took the Muslims nearly 20 years; that of the regions between Syria and Spain next to 80 years, that is three generations. Even the conquest of relatively small tracts of territory like the isles of Crete or Sicily was not done all in one campaign. The papers of Marco Di Branco and Kordula Wolf draw our attention to the fact that campaigns could develop out of raids whose aims were perhaps not quite so clear right from the beginning. The decisions involved were maybe not always subject to central planning, but sometimes rulers coordinated efforts to conquer new territories at some distance from their centers of power. Wolf and Di Branco show this in their analysis of Aghlabid military ventures in Italy. The authors pinpoint that these campaigns were not simple raids but had far more ambitious aims then hitherto thought. Further comparative research, along the lines presented here, might throw some further light on the question of the role of skirmishing as well as in what manner and in how far Muslim rulers were able to impose control on their commanders on the spot. All the articles assembled in this volume highlight phenomena of exchange and conflict on the border of Christianity and Islam. But was this dividing line, that comes as natural to most of our sources (that normally are produced by religious personnel in the widest sense) as to present day historians, a relevant one to all people who lived through these things? Samuel of Qalamūn’s alarmism (or that of the Christian martyrs of Córdoba) 6 can only be explained with the fact that for many at the time religion was less important as factor of division than the differences separating the elite (to which one strove to belong or assimilate oneself) and the 6. Ann Christys is among those who have contributed to the study of this phenomenon: see A. Christys, Christians in al-Andalus (711-1000), Richmond 2001 (Culture and Civilisation in the Middle East), pp. 52-79.

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mass of people (with whom one did not want to belong). The centrality of religion as against other forms of bonding and solidarity is something that is not self evident as it may appear to us nowadays. Gothic notables could easily, as it seems, enter into alliances with Muslim military leaders with whom they probably had more in common than with the peasants of His­ pania. Cooperation and treaty-relations between local powers and the Muslims were an everyday reality also in southern Italy as Wolf and Di Branco demonstrate in their contribution to this volume. What is more, one might well ask if not for many Christian churchmen in the East the prototypical “religious other” in the 7th century at least were not the Muslims but rather other Christians. This is shown by the polemics of authors like John bar Penkaye (late 7th century) that is directed rather against Christian heretics than against the Muslims whom God has unleashed to punish precisely these wrongly-guided fellow Christians.7 Much that has formerly been attributed to religious factors or to the unfolding of Muslim civilization, from the change in the layout and structure of cities8 to the so called Arab Agrarian Revolution9 (or, last not least, the decline of Mediterranean trade famously analyzed by Henry Pirenne), has been shown to be phenomena relatively independent of Muslim expansion. Research on early Islamic societies follows thereby a trend in recent Archeology not to link change in cultural patterns to the migration of people anymore but rather to the inner transformations of local and stationary societies.10 Be this as it may, the so7. R.G. Hoyland, Seeing Islam as Others Saw It, Princeton 1997 (Studies in Late Antiquity and Early Islam, 3), pp. 524sq. and passim; on Nestorian attitudes cfr. also A. Ducellier, Chrétiens d’Orient et Islam au Moyen Âge: VII e-XVe siècle, Paris 1996, pp. 76sqq. 8. See P. Feldbauer, Die Islamische Welt 600-1250. Ein Frühfall von Unterentwick­ lung?, Wien 1995, pp. 177sqq. A recent survey of the problems involved can be found in J.-P. van Staëvel, Débats autour de la “ville musulmane”. Évolution des paysages urbains et de l’économie, in Les débuts du monde musulman, VII e-X e siècle. De Muhammad aux dynasties autonomes, ed. by T. Bianquis, P. Guichard, M. Tillier, Paris 2012 (Nouvelle Clio), pp. 531-546. 9. A.M. Watson, The Arab Agricultural Revolution and Its Diffusion, 700-1100, in «The Journal of Economic History», 34/1 (1974), pp. 8-35, criticized lately by M. Decker, Plants and Progress: Rethinking the Islamic Agricultural Revolution, in «Journal of World History», 20/2 (2009), pp. 187-206. 10. For a critical and well balanced discussion of these trends and their problems see P. Heather, Empires and Barbarians. Migration Development and the Birth of Europe, London 2009, pp. 1-36. If the old trend to equate cultural change and movement of peoples had an ideological bias, that can hold true for the new trend as well. See e.g. in our context Ignacio Olagüe’s thesis that the Arabs never invaded Spain in his La revolución islámica en

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cieties of the Christian north-west and the Muslim south-east of the Mediterranean were clearly differentiable social formations by the 10th century. This was a result of processes of change on both sides of the Mediterranean that we still have to understand better. Differences in social structure are one thing. Another is identitarian differentiation. Where did identitarian differentiation start? One might suppose that it was the frontier regions between both spheres where closeness (both physical and cultural) might have led to friction as happened so often with modern nationalisms. As people on both sides of the divide lived under similar conditions one could on the other hand as well argue for a certain similarity of outlooks that might have differentiated the frontiersmen of both sides from people further inside the respective territories. This might have made the frontier a kind of third space in between what came to be seen as the realms of Christendom and Islam. But was this the case and if so, everywhere? The Iberian Peninsula, southern Italy as well as the Byzantine-Muslim frontier and, last but not least, the waters of the Mediterranean clearly are regions where researchers can hope to find answers to these questions. Something has already been done to come to a better understanding of such processes, but historians of Early Medieval Mediterranean societies still have much work to do. The papers assembled here are a contribution to this effort.

Occidente, Madrid 1974. A more convincing example of debunking of migration as a central factor of social change in another region (and period) is I. Finkelstein, N.A. Silberman, The Bible Unearthed, New York 2001.

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Indici *

* Poiché i nomi di gruppi come Sar(r)aceni, Agareni, Ismaeliti, Mauri, Arabi, Berberi, Africani sia nelle fonti sia nella letteratura secondaria sono spesso utilizzati in modo molto sfumato, non sono riportati nell’indice. Per i termini (neo)mozarabi, melkiti, arabici, arabocristiani e al­muša‘miḏūn/*al­mešummadūn ci limitiamo a rimandare al saggio di Giuseppe Mandalà in questo volume. Si è ugualmente rinunciato a indicizzare termini generici e ricorrenti quali Musulmani e Cristiani. Nel caso in cui un toponimo sia strettamente legato all’ufficio di una persona (ad es. vescovo di Toledo), esso è indicato solamente in collegamento con il nome della persona in questione. Le relazioni di parentela sono riportate nell’indice solo qualora siano indicate nei testi.

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Indice delle persone

Aba Agathou, 17 Abāqā, Īlkhān mongolo, 36 Abbasidi, 69, 75, 77, 125, 135, 137, 143, 144, 154 ‘Abd al­Azīz, wālī di al­Andalus, 85 ‘Abd al­Ḥaqq o ‘Abd al­Bāqī → Abdel­ bach ‘Abd Allāh, emiro di al­Andalus, 92 ‘Abd Allāh b. Muḥammad b. Ibrāhīm b. al­Aġlab, wālī di Sicilia, 146, 147 ‘Abd Allāh b. Sa‘d b. Abī Sarḥ, wālī dell’Egitto, 75 ‘Abd Allāh b. Ya‘qūb (Abdila), wālī ’l­arḍ al­kabīra, fratello di → Rabāḥ b. Ya‘qūb, 144-147 ‘Abd al­Raḥmān I, emiro di al­Andalus, 80, 85, 92 ‘Abd al­Raḥmān II, emiro di al­Andalus, 88 ‘Abd al­Raḥmān III, emiro, poi califfo di al-Andalus, 81, 103 Abdelbach (‘Abd al­Ḥaqq o ‘Abd al­ Bāqī?), 164 Abdila → ‘Abd Allāh b. Ya‘qūb Abemelec → Abū Mālik Aḥmad b. ‘Umar b. ‘Abd Allāh b. Ibrāhīm b. al­Aġlab Abramo, 30, 31, 36 Abū ‘Abd Allāh “al­dā’ī”, 126 Abū ‘Abd Allāh “al­ṣiqillī”, medico, 103 Abū Ǧa‘far b. Muḥammad al­Tamīmī, wālī di Sicilia, 142, 151 Abū Ḥafṣ ‘Umar, comandante, 76 Abū Hurayra, giurista, 134 Abū ‘Iqāl, emiro aghlabita di Ifrīqiya, figlio di → Muḥammad b. Aḥmad b. al­ Aġlab, fratello di → Ibrāhīm II, 127 Abū ’l­‘Abbās ‘Abd Allāh, emiro aghla-

bita di Ifrīqiya, filgio di → Ibrāhīm II, 125, 126, 129, 132 Abu ’l­Aġlab al­‘Abbās b. al­Faḍl b. Ya’qūb, wālī di Sicilia, 149, 150 Abū ’l­Fidā’, storico, 72 Abū ’l­Ḥasan ‘Alī b. ‘Abd Allāh, studioso, 104 Abū ’l­Ḥusayn Aḥmad b. al­Ḥasan, emiro kalbita, 110 Abū ’l­Makārim, storico, 59 Abū Macario → Macario, 46 Abū Mālik Aḥmad b. ‘Umar b. ‘Abd Allāh b. Ibrāhīm b. al­Aġlab (Ḥabašī, Abeme­ lec), wālī di Sicilia, 146, 147, 151 Abū Ma‘šar → Massari Abū Ṣāliḥ al­Sammān, giurista, 134 Abū Ṣāliḥ Yūnus b. ‘Abd Allāh, giurista, 24 Abū Shenute → Shenute Adalberto, re del Regnum Italiae, 171 Adamo, 38 Adelaide, imperatrice, moglie di → Ottone I, 168 Adelchi, principe di Benevento, 147, 164 Adriano I, papa, 154 Aghlabiti, 96, 111-113, 125, 128, 130-134, 140, 141, 143-149, 151, 152, 155, 159161, 163-165, 178 Agila, re dei Visigoti, 80 Aḥmad, figlio dell’Īlkhān mongolo → Hülagü, 36 Aḥmad al­Rāzī, storico, padre di → ‘Īsà, 82 Alessandro Magno, 27 Antonio, santo, 46 Amalfitani, 124, 161 Amorrei, 27

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“Guerra santa” e conquiste islamiche nel Mediterraneo

‘Amr b. al­Ās, comandante, 18, 133 Anbā Gregorio → Gregorio Anbā Samuel → Samuel di Qalamūn Anbā Pacomio → Pacomio Anbasa ibn Suḥaym al­Kalbī, wālī di al­ Andalus, 86 Andrea da Bergamo, storico, 142, 145 Andrea, santo, 75 Anna, madre di → Grisanto, 103, 105, 122 Anna “la Greca” (Āna al-qrīqiya), 104 Annosus, 164 ‘Aqoulaïé, 35 Ariq Böke, figlio di → Gengis Khan, 36 Āsad b. al­Furāt, 141 Atanasio (II), vescovo-duca di Napoli, fratello di → Sergio II, 131, 132, 157 Bakrī, al­, geografo, 72 Balādūrī, al­, storico, 65­67 Barqaǧāna, 111, 112 Basilio I, imperatore, 131, 145, 147, 160 Beneventani, 145, 162 Berberi, 18, 26, 50, 90, 117, 132, 171 Bernardo, monaco, 162 Bizantini, 9, 10, 15, 26, 65-71, 73-76, 92, 97, 99-102, 104-107, 109, 113, 115-123, 127, 129-132, 141, 143, 145, 147, 150, 154, 160-162 Caldei, 26 Capuani, 158 Chanoudah → Shenute Christodoulos, patriarca copto, 24 Cincimus, comandante, 142 Ciprioti, 66-68 Ciro, patriarca melkita di Alessandria, 17, 18 Claudio Tolomeo, 104 Copti, 17, 24, 25, 31, 33, 37, 39, 40, 47, 48 Costantino VII Porfirogenito, 104 Costantino Africano, 123, 124 Dāhar (Dāhir), re del Sind, 27 De Aurefice, famiglia, 123

De Indulciis, famiglia, 99 Dioscoride, 103, 104 Docibile, hypatus di Gaeta, 158 Ebrei, 11, 26, 34, 35, 86, 97, 109, 118, 119, 122 Egilo, vedova di → Rodrigo, 85 Elia il Giovane, 129 Eraclio, imperatore, 17, 84 Erchemperto, 130-132, 143, 145, 147, 155, 156, 161, 162 Eugenio da Palermo, 104, 106, 122 Eugenio “l’ emiro”, 106 Eusebio, santo, 168, 171 Eusebio di Cesarea, 83 Evantius, arcivescovo di Toledo, 86 Fatimiti, 86, 110, 111, 113, 117, 118, 124126 Fozio, 102 Fredoarius, vescovo di Gaudix, 86 Fulcardo, vescovo di Alba, 168 Gadareni, 27 Ǧa‘far b. ‘Ubayd, comandante, 124 Gebusei, 27 Genesio, storico, 76 Gengis Khan, padre di → Ariq Böke, 36 Gergasei (Geraseni), 27 Gesù Cristo, 114 Giorgio d’Antiochia, ammiratus di → Ruggero II, 98, 99 Giovanni III, patriarca siro, 33 Giovanni VIII, papa, 150, 155-158, 160, 161 Giovanni XIII, papa, 168 Giovanni (Yōḥannān) bar Penkāyē, storico, 179 Giovanni Diacono, storico, 128 Giovanni Theristis, santo, 111 Giustiniano, imperatore, 115 Goti → Visigoti Greci → Bizantini Gregorio, Anbā, vescovo di al­Qays, 21, 29 Gregorio, paedagogus, 150, 160, 161

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Indice delle persone Grisanto, prete, figlio di → Anna, 103, 105, 122 Guaiferio, principe di Salerno, 131 Ḥabašī → Abū Mālik Aḥmad b. ‘Umar b. ‘Abd Allāh b. Ibrāhīm b. al­Aġlab Hagar, 30, 31, 36 Ḫalfūn al­Barbarī, signore di Bari, 143 Ḫālid b. al­Walīd, comandante, 133 Ḥanafiti, scuola giuridica, 113 Harūn al­Rašīd, califfo abbaside, 75 Ḥasdāy b. Šaprūṭ, studioso, 104 Heraclius → Eraclio Hibbāridi, 27 Ḥimyarī, al­, geografo, 72, 73 Hülagü, Īlkhān mongolo, padre di → Aḥmad, figlio di → Sorghaghtani Beki, 36 Ḥurr, al­, wālī di al­Andalus, 85 Ibn ‘Abd al­Ḥakam, studioso, 81, 89, 90 Ibn Abī Dīnār, storico, 117 Ibn Abī Zamanīn, giurista, 88, 90 Ibn al­Abbār, storico, 130 Ibn al­Aṯīr, storico, 127, 128, 149, 154 Ibn al­Ǧazzār, medico e storico, 129 Ibn al­Ḫaṭīb, storico, 146, 147, 151 Ibn al­Qūṭīya, storico, 81, 82 Ibn A‘tam al­Kūfī, storico, 70 Ibn Ḥabīb, storico, 81, 83, 87­93 Ibn Ḫaldūn, storico, 125 Ibn Ḥawqal, geografo, 68, 107, 109­112, 122 Ibn Ḥayyān, storico, 82 Ibn Ḥazm, poeta, 114, 115, 122 Ibn Ḥudayl, studioso, 88 Ibn Ḫur(ra)dādbih, geografo, 71, 72, 73 Ibn ‘Idārī , storico, 126, 130 Ibn Rusta, geografo, 72 Ibn Tulūn, Aḥmad, sultano tulunide, 127 Ibrāhīm II, emiro aghlabita di Ifrīqiya, figlio di → Muḥammad b. Aḥmad b. al­Aġlab, fratello di → Abū ’l­‘Abbās, 125-130, 132, 133, 147-149, 151, 154, 165 Idrīsī, al­, geografo, 72

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Ingone, vescovo di Vercelli, 168 ‘Īsà, storico, figlio di → Aḥmad al­Rāzī, 82 Isḥāq b. al­Ḥusayn, geografo, 72 Isidoro di Siviglia, 84 Ismaele, figlio di → Hagar e → Abramo, 30, 31, 36 Jakembo Alchi Noyan, fratello di → Wang Khan, padre di → Sorghaghtani Beki, 36 Kalbiti, 96, 110 Kūbilaï Khān, 36 Kutāma, tribù berbera, 126 Latini, 99-101, 105, 107, 117, 119 Leo Marsicanus/Ostiense, storico, 158 Leone III Isaurico, imperatore, 101 Leone IV, papa, 149 Leone VI, imperatore, 129 Longobardi, 130, 141, 150, 154, 156, 170 Lotario I, imperatore, 149 Loukas, capobanda, 109 Luca, evangelista, 105, 106 Ludolph di Sundheim (Suchem), 106 Ludovico II, re d’Italia, imperatore, 145, 147-149, 151, 164 Luwāta, tribù berbera, 132 Macario, Abū, 46 Maḥmūd di Ġaznī, sultano ġaznavide, 27 Mai, Angelo, cardinale, 22 Mālik ibn Anās, giurista, 88, 90, 133, 134, 137 Mālikiti, scuola giuridica, 88, 113, 121, 133, 134, 137 Marciano, imperatore, 114 Marco, evangelista, 27 Maria Vergine, 55-57 Massari (Abū Ma‘ṣar?), 143 Mas‘udī, al­, storico, 66 Matteo, evangelista, 27 Māwardī, politologo, 135, 144 Möngke, khan mongolo, 36 Mongoli, 36

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“Guerra santa” e conquiste islamiche nel Mediterraneo

Mosè, 27, 34, 38 Mu‘āwiya, califfo umayyade, 65­67, 74 Muca, presunto emiro del Garigliano, 143 Mufarraǧ ibn Sallām, signore di Bari, 143 Muḥammad, profeta, 11, 38, 80, 87, 88, 112, 137, 138, 153 Muḥammad b. Aḥmad b. al­Aġlab, emiro aghlabita di Ifrīqiya, padre di → Abū ‘Iqāl e → Ibrāhīm II, 127 Muḥammad b. Muqātil al­‘Akkī, wālī abbaside di Ifrīqiya, 154 Muḥammad Ibn Qāsim al­Thaqafī, comandante, 26 Mu‘izz, al-, califfo fatimita, 110 Muqaddasī, al­, geografo, 69 Muqtadir, al-, califfo abbaside, 67 Mūsà b. Nuṣayr, comandante, 84, 85, 87­ 93, 117, 118 Mu‘taḍid, al­, califfo abbaside, 77, 125 Mu‘taḍmid, al­, califfo abbaside, 77 Muṯannā b. al­Ḥāriṯa, al­, comandante, 138 Niceforo Foca, monostrategos, 130, 131 Nicodemo, arcivescovo di Palermo, 119 Nicola, monaco grecofono, 104 Nicola Mistico, patriarca di Costantinopoli, 67 Noè, 38 Normanni, 10, 98-100, 102, 104, 106, 115-117, 119, 120, 122-124, 141 Nuwayrī, al­, storico, 125, 126, 130, 146 Osman, presunto emiro di Traetto, 143 Ottone I, imperatore, marito di → Adelaide, 168, 169 Pacomio, Anbā, 46 Palermitani, 109, 112 Persiani, 26 Pulcaro, praefecturius di Amalfi, 157, 158, 162 Qurayshiti, 133 Rabāḥ b. Ya‘qūb, wālī di Sicilia, fratello di → ‘Abd Allāh b. Ya’qūb, 144, 145

Rabbān Ṣawmā, monaco siro, 36 Radelchi, principe di Benevento, 143 Ramón Martí, studioso, 120 Rodrigo, re dei Visigoti, 84, 85, 89, 90 Romani, 149, 154 Rozone, vescovo di Asti, 168, 169 Ruggero I, conte normanno, 124 Ruggero II, re normanno, 98-100 Rūm → Bizantini Saba, 142 Šabbatay Donnolo, medico, 124 Šāfi‘ī, giurista, 137 Saḥnūn, giurista, 137 Salernitani, 145 Salomone, 87 Samaritani, 34 Ṣamḥ, al­, wālī di al­Andalus, 86 Samuele di Qalamūn, figlio di → Silas, 17, 18, 20, 22, 23, 27-31, 38, 39, 41, 47, 48, 51, 55, 59, 177, 178 Sarah, moglie di → Abramo, 30, 31 Sawdān, emiro di Bari, 143, 158, 164 Sawirus Ibn al-Muqaffa‘, vescovo di alAšmūnayn, 24 Sciascia, Leonardo, 140 Sciiti, 125 Sergio II, duca di Napoli, fratello di → Atanasio I, 157 Severo, patriarca di Antiochia, 34 Shenute (Chanoudah), Abū, 46 Siciliani, 109 Siconolfo, principe di Salerno, 143 Silas, padre di → Samuele di Qalamūn, 17 Simon Pietro, apostolo, 72 Sindered, vescovo di Toledo, 84 Siriani, 83 Sisebut, re dei Visigoti, 86 Sorghaghtani Beki, madre di → Hülagü, figlia di → Jakembo, 36 Sulaymān, califfo umayyade, 92 Svevi, 98, 99, 104, 116 tabī’ūn, successori dei compagni del profeta → Muḥammad, 80 Tancredi d’Altavilla, 124

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Indice delle persone

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Tanoukaïé, 35 Ṭāriq ibn Ziyād, comandante, 87­89, 91 Teofane, storico, 76 Teofilo, imperatore, 76 Theodimir, conte visigoto, 80 Tito, santo, 75 Toluy, padre dell’Īlkhān mongolo → Hülagü, 36 Tommaso “lo Slavo”, 76 Tou‘aïé, 35 Tulunidi, 126, 127

‘Uṯmān (Utmagnus), comandante, 142, 164

‘Ubayd Allāh, califfo fatimita, 124 Umar Ibn al­Ḫattāb “al­Fārūq”, califfo, 18, 65 Umar II, califfo umayyade, 86 ‘Umayr Ibn Sa‘d “al­Zāhid al­Anṣārī”, emiro di Homs (Siria), 33 Umayyadi, 65, 79-81, 82, 86, 92-94, 104, 133, 172 Urban, “cantore” della cattedrale di Toledo, 86 ‘Uṯmān, califfo, 65

Yahbalāhā III, Mar, patriarca siro­orientale, 36 Yaḥyā, wālī di al­Andalus, 86 Yaḥyā ibn Sa’īd, giurista, 134 Yaḥyā ibn Yaḥyā al­Layṯī, giurista, 133, 137 Yāqūt, al­, geografo, 72, 109 Yōḥannān → Giovanni Yosef b. Šabbetay, 109

Vella, Giuseppe, 140 Visigoti, 80, 81, 84, 89, 90, 92, 99, 115 Walīd I, al­, califfo umayyade, 75, 84, 85, 90 Wang Khan, fratello di → Jakembo, 36 Willibald, vescovo di Eichstätt, 68 Witiza, re dei Visigoti, 84

Zīridi, 99

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Indice dei luoghi

Acqui, 167 Agropoli, 130-132, 158 Alba, 167-169 Alessandria d’ Egitto, 17, 74, 76, 101, 114, 117, 118, 162 Alife, 145 Alpi, 167, 173 Amalfi, 154, 157, 161 Amantea, 131, 142 Amida, 26 Andalus, al-, 5, 13, 79, 80-93, 99, 114, 115, 137, 172, 175, 177 Antarados (Ṭarṭūs), 69 Antiochia, 98, 99, 101, 114, 117 Arados (Arwād), 69­71 arḍ al-kabīra, al- → Italia meridionale Armenia, 68 Arsinoe, 50 Asia centrale, 11, 13 Asia Minore, 69 Ašmūnayn, al­, 24 Asti, 167-169 Atlantico, 11 Awdaġust, 112 Badr, battaglia di, 138 Baghdad, 27, 36, 67, 76, 77, 123, 137, 142 Balazma, 132 Balcani, 7 Banū Ǧallīdasan, 112 Bari, 130, 142-145, 147, 148, 150, 158, 162, 164 Barqa, 117 Benevento, 143, 145, 147, 158, 162, 164 Bisanzio, 9, 68, 69, 92, 131, 147 Bochum, 13

Cairo, 96 Calabria, 111, 128-132, 142, 143, 145, 147, 149, 150, 153, 154, 164 Calcedonia, 114, 115 Campania, 141, 145 Canne, 147 Cannes, 172 Capua, 145, 158 Centumcellae → Civitavecchia Cipro Civitavecchia (Centumcellae), 161 Córdoba, 88, 92-94, 178 Cosenza, 127, 129, 153, 154 Costantinopoli, 70-73, 92, 101, 113, 116, 117, 126-129 Covadonga, battaglia di, 84 Creta, 13, 65, 75-77, 175, 177, 178 Damasco, 79, 80, 85-87, 89, 91-93 dār al-ḥarb, 15 dār al-Islām, 10, 12, 13, 15, 16, 95, 111, 115, dār al-ṣulḥ, 68 Delta del Nilo, 17 Djordjān → Gürgān Diyarbakır, 26 Egitto, 13, 22, 24, 30, 47, 50, 75, 76, 81, 90, 117, 127, 162 El Bovalar, 80 Etiopia, 114 Europa, 7, 9, 10, 12 Fayyūm, 22, 50, 57 Fondi, lago di, 158 Formia (Formiani colles), 158 Francia, 13

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“Guerra santa” e conquiste islamiche nel Mediterraneo

Frassineto (Fraxinetum), 13, 167-169, 171, 172, 175, 177 Fuwwah, 17 Gadara, 27 Gaeta, 154, 157, 158, 161 Gallia Narbonensis, 85 Garigliano – fiume, 130, 143, 158 – insediamento musulmano, 130-132 Gerasa, 27 Gerico, 90 Germania, 13 Gerusalemme, 26, 56, 101, 114, 117 Giusvalla, abbazia, 167 Gomorra, 34 Gran Bretagna, 13 Gürgān (Djordjān), 26 Hispania, vd. anche → al­Andalus, 79, 84, 85, 87, 115, 117 Iberia, 68 Iberica, Penisola, 116, 121, 167 Ifrīqiya, 7, 13, 84, 91, 99, 112­118, 124­ 127, 131-133, 137, 140, 141, 144, 145, 149, 151, 154, 162, 164 Illirico, 101 Indie, 9, 26, 27 Indo, 26 Iran, 26, 36, 178 Iraq, 137, 138 Iṣfahān, 71 Isqīṭ, al­ → Scete Israele, 26 Italia, 7, 10, 13, 73, 124, 128, 131, 141, 143, 145, 150, 151, 152 – Italia centrale, 132 – Italia meridionale (al-arḍ al-kabīra), 13, 77, 100-102, 105, 120, 125, 128133, 139, 140, 143, 144, 146-148, 151, 155, 156, 159-161, 163-165 – Italia occidentale, 167 Karachi, 26 Khurasan, 90

Klysma (Suez), 18 Libano, 13 Liguria, 169, 170 Longobardia, 150 Madagascar, 26 Mahdiyya, al-, 99, 124 Mare di Galilea, 27 Mar Egeo, 75 Mar Rosso, 28, 32 Marsiglia, 172 Maṣīl, 17 Matera, 109 Mauritania, 26 Mecca, 126, 127 Medio Oriente, 7, 176, 178 Mediterraneo, 7, 9-13, 16, 65, 70, 76, 83, 95, 96, 160, 162, 172, 175-180 Mesopotamia, 26, 36 Milano, 168 mons Garelianus → Garigliano Monte Cassino, 123 Moriana, 171 Napoli, 124, 131, 132, 135, 145, 153, 154, 157, 161 Naqlūn, 18 Nardò, 127 Negev, 26 Nihawānd, 71, 73 Nilo → Delta del Nilo Nisibi, 109 Nordafrica → Ifrīqiya Novalesa, abbazia, 167-170 Nuba, 129 Nubia, 114 Oulx, pieve, 167 Pakistan, 26 Palermo, 98, 100-102, 104, 107, 109, 110, 112, 115, 118, 121-124, 145, 151, 161 – Cappella Palatina, 98, 105 – Santa Maria dell’Ammiraglio, 98 – Santa Maria della Grotta, 98

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Indice dei luoghi – San Michele degli Andalusi, 105 – Santa Trinità, 98 Pavia, 168 Pedona, monastero di San Dalmazzo, 170 Penisola Iberica → al­Andalus Persia → Iran Piemonte, 167, 169-171 Po, 170 Potenza, 109 Provenza, 167, 169, 172 Puglia, 131, 132, 142, 147, 164 Qalamūn, 18, 20­22, 57 Qayrawān, al­, 126, 127, 132, 141, 147, 151, 154 Qays, al-, 29 Reggio Calabria, 129, 153, 154 Rodi, 13, 65, 69-71, 73-75, 77, 175 Roma, 13, 71-73, 100-102, 117, 126, 128, 148-151, 161, 168 – Patrimonium Petri (territori della Chiesa romana), 141, 150, 156, 160 – San Paolo, 148 – San Pietro, 149 Rometta, 141 Russia, 26 Salerno, 123, 145, 146, 161 Sancta Anastasia, presso Fondi, 158 San Macario, monastero, 17, 22, 23 Sant’Antonio, monastero, 19, 21, 28, 32 Santa Severina, 131 Saragozza, 85 Sardegna, 140, 141 Scete (al­Isqīṭ), 17 Sicilia, 10, 13, 70, 76, 95-107, 109-111, 113-119, 121-124, 126, 127, 129, 130, 132, 133, 140, 141, 144-149, 151-154, 160, 161, 165, 177, 178 Sind, 26 Siracusa, 104, 130, 141, 151, Siria, 22, 36, 65, 66, 69, 70, 80, 87, 113-

191

115, 138, 176, 178 Siviglia, 104 Sodoma, 34 Soloi, 66 Spagna, vd. anche → Penisola Iberica, → al­Andalus, → Hispania, 13, 81­83, 85, 86, 178, 179 Spoleto, 141 Stretto di Messina, 129 St. Tropez, 167, 172 Suez → Klysma Sūs al­aqṣà, 117 Sūsa, 126, 127, 129 Svizzera, 167 Taǧna, 112 Tāhart, 112 Taormina, 127, 129, 141 Taranto, 142, 145-148, 162, 164 Ṭarṭūs → Antarados Telese, 145 Terrasanta, 68, 106, 162 Tkello, 17 Tortona, 170 Torino, monastero di San Mauro di Pulcherada, 170 Tripoli, Libano, 22, 162 Tripoli, Libia, 162 Toledo, 83, 84, 86, 87, 121 Tolmo de Minateda (Madīnat Iyyāh), 80 Traetto (Traiectum), 143, 161 Troina, 105, 106 – San Michele, 105, 106 Ṭubna, 112 Tunisi, 125, 126 Ucraina, 26 Venezia, 141 Vendersi, abbazia, 170 Vercelli, 168, 171 Wargla, 112

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Abstracts

Samir Khalil Samir The Apocalypse of Samuel of Qalamūn and the Domination of the Hagarenes According to tradition, the invasion of Egypt by the Arabs must have been a peaceful conquest and the Copts must have welcomed the invaders as liberators. However, the classical work of A.J. Butler, The Arab Con­ quest of Egypt, adheres to a less conciliatory vision and emphasises instead the clash, military as well as religious and cultural, between the conquerors and the conquered. Unfortunately, there are no detailed studies that could formulate a clear and documented judgment on these events. In an effort to help bridge this gap we present here a document (survived only in Arabic) of the original Coptic text called “Apocalypse of Samuel of Qalamūn” (10th/11th century AD). It describes a dramatic cultural situation: the Copts are not aware of their language and have adopted Arabic; they no longer know anything of their religion, but are influenced by the Muslims. They take Muslim names, customs and traditions, and their sinful behaviour. They don’t take part in fasting and don’t practice Christian prayer. Samuel suggests a return to the Coptic cultural identity, starting with the language. marco Di Branco From the Naval War to the Conquest of the Great Mediterranean Islands. Cyprus, Rhodes and Crete In this essay the main stages of the Islamic conquest of Cyprus, Rhodes and Crete are analysed, highlighting how, in such circumstances, the Mus-

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lim raids played a fundamental role as a prelude to military occupation, although many scholars often mistakenly consider them simple acts of piracy without a clear strategy. Furthermore, attention will be drawn to the first phases after the conquest and, in particular, to the treaties that sanction the so-called «condominium» in Cyprus, which was a kind of crystallisation of what was assumed to be a fairly common situation in the period of the great Arab conquests and that was essentially due to the temporary balance of power relations between Byzantium and the Muslims. ann chriStyS From ǧihād to diwān in two providential histories of Hispania/al-Andalus This paper examines two of the earliest histories of the conquest, one written in Latin and the other in Arabic, which offer variant perspectives. The author of the so-called Mozarabic Chronicle of 754 was writing for an audience who remembered the second wave of Muslim settlement in the 740s. The chronicler’s viewpoint is Christian, but it is not parochial, and locates his history of Hispania within the wider Mediterranean world. The brief account of the conquest in Ibn Ḥabīb’s universal History, written a century later, looks less promising, being mainly a collection of stories about the Table of Solomon and other wonders that the conquerors are said to have found in al­Andalus. Yet Ibn Ḥabīb was also a legal scholar who left judgements on ǧihād that help us to understand his perspective on the transition to Islamic rule. GiuSeppe manDalà Between minorities and peripheries. Prolegomena for a study on Arabised Christians in Sicily In the last decades, interest in the history of medieval Sicily has grown thanks to the publication of essays on the Arab-Islamic element of the Norman and Swabian periods (12th-13th century). Our understanding of the language, social and cultural life of Sicilian Muslims has gained much from a huge amount of material conserved in Sicilian archives. Through the documentary evidence produced by the trilingual administration (Arabic, Greek and Latin), the island is placed within a Mediterranean context that reveals its close ties with the Islamic world of that age. Nevertheless, after Michele

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Amari (1806-1889), the great historian of the Muslims of Sicily, the existence of a Siculo-Arabic period has been neglected (827-1091). Indeed, new sources still need to be accurately defined as new documents are still coming to light. This will hopefully reveal unexpected glimpses into the history of medieval Sicily. This paper is part of a trend of renewed interest in the study of Islamic Sicily; it opens new perspectives on interreligious relationships between Muslims/Jews and Christians during the Islamic period. marco Di Branco, KorDula Wolf Land of Conquest? Muslims in Southern Italy in the Aghlabid Age (184/800269/909) Starting with a new examination of the dossier about the ǧihād declared and led by the Aghlabid amīr Ibrāhīm II in 289/902, this paper analyses Aghlabid policy in the “great Land” (Al-arḍ al-kabīra), i.e. on the Italian mainland, from its foundation to the fall of the dynasty. Avoiding the reductive interpretations of modern historiography, this investigation sheds light on the expansionist aims of Ibrāhīm II concerning southern Italy: these aims were not at all the result of an impromptu infatuation, but constituted a permanent feature of the Aghlabid strategy, at least since the fall of the Emirate of Bari (871), which was followed by the creation of a wālī ’l-arḍ al-kabīrah, intended to oversee political and military interests of the dynasty in southern Italy. The central topics of this essay are also the problem of the definition of ǧihād in the Aghlabid age, the question of the formation of “emirates” on the Italian mainland and the issues involving agreements, treaties, contracts, slaves and captivi. alDo a. Settia «In locis qui sunt Fraxeneto vicina». Real and alleged Saracens between Provence and Italy We can often observe in the medieval documents (and we provide here an important example) the tendency to manipulate the destruction by the Saracens for political purposes. It is no wonder then that the historical reconstructions, made centuries later on the basis of alleged folk traditions of epic­literary origin, have greatly amplified, in time and space, the effects of

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the damage caused by the Saracen raids. Even very important scholars assigned to these traditions give them more consideration than they deserve, leading one to believe that the Saracens of Fraxinetum introduced the great values of Islamic culture to the countries affected by them, while no evidence of this was found. On the contrary, there is reason to believe that Fraxinetum was a simple haunt of pirates who acted on behalf of the Caliphs of Córdoba and who abandoned it to itself when they believed that it was no longer useful to their political goals in the Western Mediterranean.

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Finito di stampare nel mese di luglio 2014 dalla Grafica Editrice Romana S.r.l. via Carlo Maratta, 2/b 00153 ROMA

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