Quel che una pianta sa. Guida ai sensi nel mondo vegetale 8860306140, 9788860306142

Come fa un fiore di ciliegio a sapere quando è ora di sbocciare? Si rende davvero conto che è arrivata primavera? E come

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Italian Pages 174 [170] Year 2013

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Quel che una pianta sa. Guida ai sensi nel mondo vegetale
 8860306140, 9788860306142

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Dal catalogo Mary Gribbin, John Gribbin

Cacciatori di piante Edward O. Wilson

Lettere a un giovane scienziato

Daniel Chamovitz

Quel che una pianta sa Guida ai sensi nel mondo vegetale

Raffaello CortinaEditore

www.raffaellocortina.it

Titolo originale What a Plant Knows © 2012 Daniel Chamovitz Published by arrangement with Farrar, Straus and Giroux, LLC, New York and Marco Vigevani Agenzia Letteraria Traduzione Pier Luigi G aspa ISBN 978-88-6030-614-2 © 2013 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2013 Stampato da Consorzio Artigiano LVG, Azzate (Varese) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe 0 1 2 3 4 5 2013 2014 2015 2016 2017

INDICE

Ringraziamenti

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Prologo

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1. Quel che una pianta vede

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2. Quel che una pianta annusa

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3. Quel che una pianta prova

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4. Quel che una pianta ode

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5. Come una pianta sa dove si trova

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6. Quel che una pianta ricorda

121

Epilogo. La pianta consapevole

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Note

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Crediti delle illustrazioni

159

Indice analitico

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A Shira, Eytan, Noam e Sham

RINGRAZIAMENTI

Quel che una pianta sa non sarebbe mai stato pubblicato senza lo stimolo di tre donne straordinarie. La prima è mia moglie Shira, che mi ha incoraggiato ad an­ dare oltre, a fare qualcosa che esulasse dalle ricerche e dai te­ sti accademici e, alla fine, a premere il tasto “invio” . Senza il suo amore e la sua determinazione, questo libro non sarebbe mai nato. La seconda è la mia agente Laurie Abkemeier. La sua espe­ rienza, la sua tenacia e il suo supporto, nonché il suo incrollabi­ le ottimismo, hanno fatto sentire un autore esordiente simile a un veterano vincitore del premio Pulitzer. Sono stato fortunato a trovare non soltanto un’agente, ma anche un’amica. La terza è la mia editor di Scientific American/Farrar, Straus and Giroux, Amanda Moon, che si è assunta il duro compito di trasformare il mio eloquio accademico in una prosa leggibile. Amanda ha lavorato instancabilmente per correggere e ricor­ reggere ogni capitolo, e poi ricominciare una terza, una quarta e una quinta volta, sempre con la massima pazienza. Molti scienziati di tutto il mondo mi hanno aiutato a tra­ sformare questo libro in un lavoro scientificamente corretto. I professori Ian Baldwin (Max Planck Institute for Chemical Ecology), Janet Braam (Rice University), John Kiss (Miami University), Viktor Zarsky (Accademia delle Scienze della Re­ pubblica Ceca) e Eric Brenner (New York University) sono stati così gentili da sottrarre tempo ai loro serrati impegni per leggere parti di questo libro e assicurarsi che l’informazione

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RINGRAZIAMENTI

scientifica vi fosse presentata correttamente. L’idea del volume ha avuto origine da una discussione con Eric, e io gli sarò eter­ namente grato per la sua intuizione, per il suo incoraggiamen­ to e per la sua amicizia. Ringrazio anche il professor Jonathan Gressel (Weizmann Institute of Science), la dottoressa Lilach Hadany (Università di Tel Aviv), il professor Anders Johnsson (Università norvegese di scienza e tecnologia), il profes­ sor Igor Kovalchuck (Università di Lethbridge) e la dottoressa Virginia Sheperd (Università del Nuovo Galles del Sud) per gli input forniti durante i vari stadi di questo progetto. L’in­ fluenza dei miei mentori, il professor Joseph Hirschberg e il professor Xing-Wang Deng, si fa sentire in tutta la scienza che pratico e che scrivo. Ringrazio Karen Maine per le sue correzioni e per la diligen­ za nel mantenermi nei tempi, Ingrid Sterner per una meravi­ gliosa revisione dei testi e il team di Scientific American/Farrar, Straus and Giroux, con il quale è stato stupendo lavorare. Sono fortunato ad avere colleghi fantastici all’Università di Tel Aviv, che hanno fornito parecchie fruttuose discussio­ ni e concetti chiacchierando nei corridoi. In particolare, mol­ te idee di questo libro sono state esplorate inizialmente con i professori Nir Ohad e Shaul Yalovsky nel nostro corso “In­ troduzione alle scienze delle piante” . Voglio ringraziare i miei colleghi di laboratorio, Ofra, Ruti, Sophie, Elah, Mor e Giri, per aver accettato le mie assenze nel supervisionare le loro ri­ cerche mentre scrivevo il libro e in particolar modo la dotto­ ressa Tally Yahalom, che mi ha sostituito nella direzione del laboratorio. La mia interazione giornaliera con loro è un co­ stante promemoria del motivo per il quale fare ricerca è così eccitante. Sono anche in debito con i benefattori del Manna Center for Plant Biosciences, che hanno contribuito a m o­ strarmi come la modestia abbinata a uno scopo consenta di raggiungere obiettivi importanti. Vorrei ringraziare Alan Chapelski per la mia foto e Deborah Luskin, che mi ha aiutato a cominciare il lavoro di scrittura. La mia famiglia e i miei parenti sono stati di infinito sostegno. Da mia sorella Raina a Ehud, Gitama, Yanai, Phyllis, fino a mia ma­ 12

RINGRAZIAMENTI

dre Marcia, sono stati i primi lettori del manoscritto. Sarò loro per sempre grato di questo. I miei figli Eytan, Noam e Shani sono costante fonte di gioia e sono stati in grado di aiutarmi nel trovare le parole giuste. Infine, un grazie a mio padre David, che mi ha offerto revisioni e costante sostegno, e ha vissuto in­ direttamente attraverso la pubblicazione del libro.

PROLOGO

Il parallelismo fra i sensi delle piante e i sensi negli esseri umani ha cominciato ad affascinarmi negli anni Novanta del secolo scorso, quando ero ancora un giovane assegnista di ri­ cerca alla Yale University. Mi interessava studiare un proces­ so biologico specifico delle piante e che non avesse alcuna relazione con la biologia umana (probabilmente, per reagire al fatto che in famiglia c’erano altri sei dottori, e tutti in me­ dicina). Perciò, mi attraeva indagare su come le piante usino la luce per regolare il proprio sviluppo, e nel corso delle mie ricerche1ho scoperto un gruppo specifico di geni necessario alla pianta per determinare se si trova esposta alla luce oppu­ re al buio. Con mia grande sorpresa2 e contro ogni mia inten­ zione, in seguito ho scoperto che lo stesso gruppo di geni fa parte anche del DNA umano. Questo mi ha spinto a chieder­ mi quale azione svolgano nelle persone questi geni apparen­ temente “specifici delle piante” . Molti anni più tardi3 e dopo svariate ricerche, ora sappiamo che questi geni non soltanto si sono mantenuti sia nei vegetali sia negli animali, ma che in entrambi i casi regolano (insieme ad altri processi dello svi­ luppo) anche le risposte alla luce ! Mi sono reso conto, quindi, che la differenza genetica fra le piante e gli animali non è così rilevante come credevo un tem­ po, e ho cominciato a interrogarmi sui parallelismi fra le piante e la biologia umana proprio mentre le mie ricerche passavano dallo studio delle risposte alla luce da parte delle piante alla leu­ cemia del moscerino della frutta. H o scoperto che, pur se nes­ 15

PROLOGO

sun vegetale a mia conoscenza dirà mai: “Dammi da mangiare, Seymour ! ”, ci sono molte piante che “ne sanno” un bel po ’. Anzi, noi tendiamo a non prestare troppa attenzione all’ap­ parato sensoriale così straordinariamente sofisticato dei fiori o degli alberi del nostro giardino. Mentre la maggior parte degli animali può scegliere il proprio ambiente, cercare riparo da un temporale, procurarsi cibo e una compagna o un compa­ gno, oppure migrare con il cambiare delle stagioni, le piante devono essere in grado di resistere e adattarsi continuamente ai mutamenti climatici, agli sconfinamenti dei vicini e ai p a­ rassiti che le invadono, senza avere possibilità di spostarsi in un ambiente migliore. Per questo, le piante hanno sviluppato complessi apparati sensoriali e regolatori che consentono di modulare la propria crescita in risposta a condizioni sempre differenti. Un olmo deve sapere se il vicino gli fa da scudo ri­ spetto al Sole, in modo da trovare la maniera di crescere verso la luce a sua disposizione. Una lattuga deve sapere della pre­ senza di famelici afidi, in modo da produrre sostanze chimiche velenose che li uccidano. Un abete di Douglas deve sapere se venti sferzanti stanno scuotendo i suoi rami, in maniera tale da poter far crescere un tronco più robusto. I ciliegi devono sapere quando fiorire, e così via. A livello genetico, le piante sono più complesse di molti animali, e alcune delle scoperte più importanti di tutta la bio­ logia sono il risultato di ricerche condotte su di loro. Robert Hooke scoprì l’esistenza delle cellule nel 1665, mentre studia­ va il sughero con il primitivo microscopio che si era costruito da solo. Nel diciannovesimo secolo Gregor Mendel enunciò i principi della moderna genetica usando piante di piselli; e al­ la metà del ventesimo secolo Barbara McClintock usò il mais per mostrare la trasposizione genica, ovvero che i geni posso­ no saltare da un punto all’altro del corredo genetico. Oggi sappiamo che questi “geni saltanti” sono una caratteristica di ogni d n a e che negli esseri umani sono strettamente correlati con il cancro. E anche se riconosciamo in Charles Darwin il padre fondatore della moderna teoria dell’evoluzione, alcune delle sue scoperte più importanti hanno riguardato specifica­ 16

PROLOGO

mente la biologia delle piante, e nelle pagine di questo libro ne incontreremo diverse. Evidentemente, il mio uso della parola “sapere” è tutt’altro che ortodosso. Le piante non hanno un sistema nervoso cen­ trale; una pianta non ha un cervello che coordini l’informa­ zione per l’intero suo organismo. Tuttavia, le diverse parti di una pianta sono strettamente collegate fra loro, e le informa­ zioni riguardanti la luce, le sostanze chimiche presenti nell’a­ ria e la temperatura vengono scambiate costantemente fra ra­ dici e foglie, fiori e steli, per far sì che il vegetale si ponga nelle migliori condizioni nei confronti dell’ambiente. Non possia­ mo mettere sullo stesso piano il comportamento umano con le modalità con le quali funzionano le piante, ma vi chiedo di sodalizzare con me se per tutto il libro ricorro a una termino­ logia riservata di solito all’esperienza umana. Quando esploro quello che una pianta vede o annusa , non sostengo con questo che la pianta abbia occhi oppure naso (o un cervello che in­ fluenzi l’input sensoriale con l’emozione). Ma credo che que­ sta terminologia ci aiuti a considerare secondo un’altra ottica la vista, l’odorato, e quello che è veramente un vegetale. E in definitiva ciò che siamo noi. Il mio libro non è La vita segreta delle piante ;* se cercate tra le mie pagine la dichiarazione che le piante sono esattamente come noi, non la troverete. Come ha sottolineato il noto fisio­ logo vegetale Arthur Galston4 nel 1974, nel momento di mag­ giore successo di quel libro, estremamente popolare, ma caren­ te dal punto di vista scientifico, dobbiamo stare in guardia da “bizzarre affermazioni senza adeguate evidenze a sostegno” . Peggio ancora che fuorviare il lettore ignaro, La vita segreta delle piante ha avuto come conseguenza un fallout scientifi­ co che ha ostacolato importanti ricerche sul comportamento dei vegetali, rendendo gli scienziati diffidenti nei confronti di qualsiasi studio che accennasse minimamente a parallelismi fra i sensi degli animali e i sensi delle piante. * Peter Tompkins, Christopher Bird, The Secret Life ofPlants, H arper & Row, New York 1973; tr. it. il Saggiatore, Milano 2002. [N dT]

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PROLOGO

Negli oltre tre decenni trascorsi dal momento in cui La vita segreta delle piante ha suscitato grande interesse da parte dei media, la nostra comprensione della biologia vegetale è cre­ sciuta enormemente. Nel mio Quel che una pianta sa passerò in rassegna le ultime ricerche nel campo della biologia vegetale e mostrerò che le piante posseggono davvero dei sensi. Ciò non si­ gnifica che il volume costituisca un panorama esaustivo di quan­ to la scienza è in grado di affermare oggi sui sensi delle piante; occorrerebbe un manuale comprensibile soltanto dai lettori più addentro alla materia. Invece, in ogni capitolo, concentrerò l’at­ tenzione su uno dei sensi umani, confrontando ciò che questo rappresenta per le persone da una parte e per le piante dall’al­ tra. Descriverò come l’informazione sensoriale venga percepi­ ta e poi elaborata, e le implicazioni ecologiche che ha per una pianta il senso preso in esame. E ogni capitolo conterrà sia un excursus storico sia uno sguardo sullo stato dell’arte. Ho scelto di parlare di vista, tatto, udito, propriocezione* e memoria; de­ dicherò un capitolo anche all’odorato, ma non mi soffermerò sul gusto (i due sensi sono comunque strettamente correlati). Noi siamo del tutto dipendenti dalle piante. Ci svegliamo in case fabbricate con il legno delle foreste del Maine, ci ver­ siamo una tazza di caffè macinato da chicchi cresciuti in Bra­ sile, indossiamo magliette fatte di cotone, stampiamo le nostre relazioni su carta, portiamo i nostri figli a scuola in auto con pneumatici fatti di gomma cresciuta in Africa e ci riforniamo di benzina derivata da cicadi morte milioni di anni fa. Estratti chimici delle piante riducono la febbre (pensate all’aspirina), e trattano il cancro (Taxol). Il grano ha portato alla fine di un’e­ poca e all’inizio di un’altra, e l’umile patata ha spinto a migra­ zioni di massa. Le piante continuano a ispirarci e a sorprender­ ci: le possenti sequoie sono gli organismi singoli e indipendenti più grandi al mondo, le alghe sono alcuni dei più minuscoli, e le rose inducono qualsiasi persona al sorriso. * L a propriocezione è la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo (o di parti del proprio corpo) nello spazio, mediante una serie di recettori periferici chiamati propriocettori. [N dT]

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PROLOGO

Sapendo quello che le piante fanno per noi, perché non sof­ fermarci un attimo a scoprire cosa hanno svelato su di loro gli scienziati? Sarà il nostro viaggio nel mondo della scienza che studia la vita delle piante; cominciamo, quindi, a capire cosa vedono davvero mentre passano il tempo nel nostro giardino.

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QUEL CHE UNA PIANTA VEDE

Benché trattenuta dalla radice, essa si volge sempre verso il Sole, e anche così trasformata gli serba amore. OVIDIO,

Metamorfosi1’

Pensateci: le piante vi guardano. In realtà, le piante monitorano continuamente il loro am­ biente visibile. Vedono se vi avvicinate e sanno quando vi cura­ te di loro. Sanno persino se indossate una maglietta blu oppure rossa, se avete tinteggiato la casa, oppure se avete spostato il loro vaso da un angolo all’altro del soggiorno. Ovviamente, le piante non “vedono” per immagini, come accade a me e a voi. Non possono distinguere fra un uomo di mezza età con gli occhiali e con una calvizie incipiente, e una ragazzina sorridente con i boccoli castani. Ma vedono la luce in una varietà di modi e colori che noi possiamo soltanto con­ getturare. Vedono la luce ultravioletta che ci scotta e quella in­ frarossa che ci riscalda. Sono in grado di dire quando c’è po­ chissima luce, per esempio quella che proviene da una candela, oppure quando è pieno giorno, oppure ancora quando il Sole sta per calare all’orizzonte. Sanno se la luce proviene da sini­ stra, da destra oppure dall’alto; sanno se un’altra pianta è cre­ * Libro IV, 269-270, tr. it. a cura di Piero Bernardini Marzolla, Einaudi, Tori­ no 1994. Epilogo del mito di Clizia, ninfa innamorata di Apollo, che, respinta, si consumò per amore sino a trasformarsi in un fiore, il girasole, che cambia inclinazione seguendo lo spostamento della nostra stella. [NdT]

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QUEL CHE UNA PIANTA SA

sciuta fino a sovrastarle, sottraendo loro la luce. E sanno quanto a lungo sono rimaste accese le nostre lampade. Ma questa può essere davvero considerata la “vista delle piante” ? Prendiamo in esame, anzitutto, cos’è la vista per noi. Immaginate un cieco dalla nascita, che vive nell’oscurità asso­ luta. E adesso immaginate che a questa persona venga fornita la capacità di distinguere fra la luce e l’ombra. Ora sarebbe in grado di discernere fra la notte e il giorno, fra l’interno e l’e­ sterno, e i nuovi sensi potrebbero essere certamente considera­ ti una vista rudimentale, garantendole nuovi livelli funzionali. Poi immaginate che questa stessa persona diventi in grado di distinguere i colori, e di vedere il blu del cielo e il verde delle piante. Ovviamente, questo sarebbe un gradito miglioramento rispetto alle tenebre o alla capacità di percepire soltanto il bian­ co o il grigio. Penso che potremmo tutti concordare sul fatto che questo cambiamento fondamentale - dalla totale cecità al­ la visione dei colori - costituisca la “vista” di questa persona. Il Merriam-Webster’s definisce la “vista” come “il senso fi­ sico mediante il quale gli stimoli luminosi ricevuti dall’occhio vengono interpretati dal cervello ed elaborati in una rappresen­ tazione della posizione, della forma, della luminosità e di nor­ ma anche del colore degli oggetti nello spazio”.1Noi vediamo la luce compresa in quello che definiamo “spettro visivo” . La parola “luce” è un sinonimo comune e comprensibile di “on­ de elettromagnetiche dello spettro visibile” . Ciò significa che presenta proprietà condivise con tutti gli altri tipi di segna­ li elettrici, come le microonde e le onde radio. Le onde radio per gli apparecchi AM sono molto lunghe, circa 800 metri, ed è per questo motivo che le antenne radio sono piuttosto alte. Per contro, le onde dei raggi x sono molto, molto corte, un tri­ lione di volte più corte di quelle radio, e questo consente loro di attraversare tanto facilmente il nostro corpo. Le onde luminose si collocano nel mezzo, e hanno una lun­ ghezza d ’onda compresa fra 0,0000004 e 0,0000007 metri. La luce blu ha la lunghezza d ’onda più corta, mentre la luce rossa possiede quella più lunga, con verde, giallo e arancio al centro (è per questo motivo che lo schema dei colori degli arcobaleni 22

QUEL CHE UNA PIANTA VEDE

è sempre orientato nella medesima direzione, da quelli a onde corte, come il blu, a quelli a onde lunghe, come il rosso).* Que­ ste sono le onde elettromagnetiche che “vediamo” noi, poiché i nostri occhi hanno speciali proteine chiamate fotorecettori, in grado di ricevere e di assorbire questa energia nella stessa maniera in cui un’antenna assorbe le onde radio. La retina, lo strato di cellule situato sul retro dei nostri bul­ bi oculari, è ricoperta di file e file di questi recettori, più o me­ no come le file di l e d nei televisori a schermo piatto oppure di sensori nelle fotocamere digitali. Ogni punto della retina pre­ senta fotorecettori chiamati bastoncelli, sensibili alla luce pie­ na, e fotorecettori chiamati coni che reagiscono ai diversi colo­ ri della luce stessa. Ogni cono o bastoncello reagisce alla luce che converge su di esso, e la retina umana contiene circa 125 milioni di bastoncelli e 6 milioni di coni, concentrati in un’a­ rea più o meno equivalente alla taglia di una fototessera. E s­ si rappresentano l’equivalente di una fotocamera digitale con una risoluzione di 130 megapixel. E questo numero enorme di recettori in un’area così minuscola a garantirci un alto livello di risoluzione visiva. Per fare un paragone, gli schermi LED da esterno a risoluzione maggiore contengono soltanto 10.000 l e d circa per metro quadro e le comuni fotocamere digitali hanno una risoluzione di appena 8 megapixel. I bastoncelli sono più sensibili alla luce e ci consentono d vedere di notte o in condizioni di scarsa luminosità, ma non a colori. I coni ci permettono, invece, di vedere i differenti colo­ ri in piena luce, dal momento che ne esistono di tre tipi: rosso, verde e blu. La principale differenza fra questi diversi fotore­ cettori consiste nelle specifiche sostanze chimiche che conten­ gono. Queste sostanze chimiche, chiamate rodopsina nei ba­ stoncelli e fotopsina nei coni, hanno una struttura specifica che le rende in grado di assorbire luce di lunghezze d’onda diffe­ renti. La luce blu è assorbita dalla rodopsina e dalla fotopsina * Normalmente, si tende invece a considerare come estremo limite superio­ re dello spettro della luce visibile il violetto, che ha una lunghezza d ’onda minore del blu. [N dT]

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QUEL CHE UNA PIANTA SA

blu; la luce rossa dalla rodopsina e dalla fotopsina rossa; la lu­ ce viola è assorbita dalla rodopsina, dalla fotopsina blu e dalla fotopsina rossa, ma non dalla fotopsina verde, e così via. Una volta assorbita la luce, il bastoncello o il cono invia un segnale al cervello, il quale elabora in una singola immagine coerente tutti i segnali provenienti dai milioni di fotorecettori. La cecità risulta da carenze a vari livelli: dalla scarsa perce­ zione della luce da parte della retina a causa di un problema fi­ sico nella sua struttura, alla incapacità di riconoscere la luce (a causa di problemi nella rodopsina e nelle fotopsine, per esem­ pio); oppure, dalla incapacità di trasferire l’informazione al cer­ vello. Le persone che non vedono il rosso, per esempio, non hanno i coni rossi. Quindi, i segnali rossi non vengono assorbiti e non arrivano al cervello. La vista umana, dunque, coinvolge le cellule che assorbono la luce e il cervello, che in seguito ela­ bora questa informazione, alla quale noi a nostra volta rispon­ diamo. Ma cosa succede nelle piante?

Darwin il botanico Non tutti sanno che, nei vent’anni successivi alla pubblica­ zione della sua pietra miliare L’origine delle specie (1859), Char­ les Darwin condusse una serie di esperimenti che ancora oggi influenzano la ricerca sulle piante. Al pari del figlio Francis, Darwin era affascinato dagli effet­ ti della luce sulla crescita delle piante. Nel suo ultimo libro, Il potere di movimento nelle p ian te* scrisse: “Sono estremamen­ te poche [le piante] delle quali una qualche parte [...] non si pieghi verso la luce” .2Ovvero, detto in termini meno verbosi e più attuali: quasi tutte le piante si inclinano verso la luce. Noi lo vediamo accadere continuamente nelle piante da apparta­ mento, che si inclinano verso i raggi del sole che penetrano dal­ la finestra. Questo comportamento è chiamato fototropismo. * Charles Darwin, Francis Darwin, The Power ofMovement in Plants, John Murray, London 1898; tr. it. Unione Tipografico-Editrice, Torino 1884, p. 408. [NdT]

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QUEL CHE UNA PIANTA VEDE

Nel 1864 Julius von Sachs, contemporaneo di Darwin, scoprì che è il blu il colore primario a indurre il fototropismo nelle piante, le quali sono generalmente cieche agli altri colori, che a loro volta, dunque, hanno ben poco effetto sul loro volgersi in direzione della luce. Ma all’epoca nessuno sapeva quale parte di una pianta veda la luce provenire da una direzione partico­ lare, e neanche come la veda. Con un esperimento assai semplice, Charles e Francis Dar­ win mostrarono che la flessione verso la luce non era dovuta aña fotosintesi, il processo mediante il quale le piante trasfor­ mano la luce in energia, bensì a una qualche forma di sensi­ bilità a percepire e a rispondere a determinati stimoli, che le spingeva a inclinarsi verso la luce. Per il loro esperimento, i due fecero crescere per diversi giorni alcune piantine di canaria in una stanza completamente buia. Quindi, le illuminarono con una lampada a gas molto piccola collocata a circa quattro metri dal vaso e regolata a una luce così bassa “da non poter vedere nemmeno le piantine stesse né una riga a matita sulla carta”.3 D opo soltanto tre ore, le piantine si erano tutte inclinate verso

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QUEL CHE UNA PIANTA SA

la fioca luce, e la curvatura avveniva sempre nello stesso punto, a circa tre centimetri dall’estremità superiore. Ciò li spinse a interrogarsi su quale parte della pianta avesse visto la luce. Eseguirono, perciò, quello che in botanica è di­ ventato poi un esperimento classico. Partendo dall’ipotesi che gli “occhi” della pianta fossero situati in cima e non nella parte della piantina che si piegava, controllarono sperimentalmente il fototropismo in cinque differenti piantine, come è illustrato nello schema seguente:

Riepilogo degli esperimenti di Darwin sul fototropismo, (a) La prima pianti­ na non era stata trattata in alcuna maniera, e mostra che le condizioni dell’e­ sperimento conducono al fototropismo, (b) Alla seconda era stata tagliata l’e­ stremità. (c) Alla terza l’estremità era stata coperta con un cappuccio a prova di luce, (d) Alla quarta l’estremità era stata coperta con un cappuccio di vetro, (e) Nella quinta la parte centrale era stata coperta da un tubo a prova di luce.

Padre e figlio condussero l’esperimento su queste piantine nelle stesse condizioni di quello iniziale, e ovviamente la pian­ tina non trattata si piegava verso la luce. Allo stesso modo si comportava la piantina con la parte centrale ricoperta dal tubo (vedi e in figura). Se tuttavia tagliavano l’estremità di una pian­ tina, oppure la coprivano con un cappuccio a prova di luce, la piantina non si piegava affatto verso la fonte luminosa. Quin­ di, osservarono il comportamento della pianta nella situazione (d): questa piantina continuava a inclinarsi verso la luce anche se la punta era coperta con un cappuccio. In questo caso, pe­ rò, il cappuccio era trasparente. I due Darwin compresero co­ sì che il vetro permetteva comunque alla luce di riverberarsi 26

QUEL CHE UNA PIANTA VEDE

sull’estremità della pianta. Con questo semplice esperimento, reso pubblico nel 1880, padre e figlio mostrarono che il fototropismo è l’effetto della luce che colpisce l’estremità del ger­ moglio* di una pianta; la quale vede la luce e trasferisce questa informazione alla sezione centrale, per “dirle” di inclinarsi in quella direzione. I Darwin erano quindi riusciti a dimostrare la presenza nelle piante di una vista rudimentale.

Il mammuth del Maryland: il tabacco che continuava a crescere Alcuni decenni più tardi, nelle valli del Maryland meridio­ nale spuntò un nuovo ceppo di tabacco, destinato a riaccende­ re l’interesse su come le piante vedono il mondo. Sin dall’arrivo dei primi coloni, al termine del diciassettesimo secolo, queste valli erano state dimora di alcune fra le maggiori coltivazioni di tabacco americane. I coltivatori, secondo una tecnica appresa dalle tribù native come i Susquehannock, che avevano coltivato il tabacco per secoli, seminavano in primavera e raccoglievano in tarda estate. Alcune delle piante venivano, però, lasciate fio­ rire per garantire i semi per la coltivazione dell’anno successi­ vo. Nel 1906 gli agricoltori cominciarono a notare la presenza di un nuovo ceppo di tabacco che non sembrava arrestare mai la propria crescita. Poteva raggiungere un’altezza di cinque metri circa, produrre quasi un centinaio di foglie e smetteva di crescere soltanto con l’arrivo del gelo. Dapprima, una simi­ le pianta, robusta e dalla crescita continua, apparve loro van­ taggiosa. Ma, come spesso avviene in casi del genere, questo nuovo ceppo, chiamato Maryland Mammoth, aveva due volti, come il dio latino Giano. D a una parte, non smetteva mai di crescere; dall’altra, fioriva raramente, e ciò voleva dire che gli agricoltori non potevano ottenere i semi necessari per la colti­ vazione dell’anno successivo. * Con il termine shoot in inglese si intende sia la parte aerea di una pianta sia il germoglio. In tale contesto sembra più opportuno usare il termine “ger­ m oglio” . [N dT]

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QUEL CHE UNA PIANTA SA

Tabacco (Nicotiana tabacum)

Nel 19184Wightman W. Garner e Harry A. Allard, due ri­ cercatori del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, si prefissero di scoprire il motivo per cui il Maryland Mammoth non sapeva quando smettere di produrre foglie e cominciare a produrre al loro posto fiori e semi. Piantarono il Maryland Mammoth in una serie di vasi e ne lasciarono un gruppo all’e­ sterno nei campi, mentre un altro veniva sistemato nei campi durante il giorno, ma poi trasferito in un capanno buio ogni pomeriggio. I due si accorsero che per provocare l’arresto della crescita delle piante e l’inizio della fioritura era sufficiente limi­ tare la quantità di luce fornita loro. In altre parole, se il Mary­ land Mammoth veniva esposto ai lunghi giorni estivi, continua­ va a produrre foglie. Ma una volta sottoposto artificialmente a giornate più corte, fioriva. 28

QUEL CHE UNA PIANTA VEDE

Q uesto fenomeno, detto fotoperiodism o,5 fornì la prima grande evidenza che le piante misurano la quantità di luce che captano. Nel corso degli anni, altri esperimenti hanno rivelato che, proprio come il Mammoth, molte piante fioriscono sol­ tanto se il giorno è corto; vengono definite “piante a giorno breve” [o “brevidiurne”] e comprendono il crisantemo e il fa­ giolo di soia. Altre, come l’iris e l’orzo, per fiorire hanno biso­ gno di una giornata più lunga, e sono definite piante “a gior­ no lungo” [o “longidiurne”]. Questa scoperta indicava che i coltivatori potevano intervenire sulla fioritura, per adattarla ai loro programmi, agendo sulla quantità di luce alla quale veni­ vano sottoposte le piante. Non sorprende affatto che i conta­ dini della Florida si siano presto resi conto di essere in grado di far crescere il Maryland Mammoth per molti mesi (senza gli effetti del gelo che si avevano nel Maryland), e che le piante, infine, fiorissero nei campi in pieno inverno, quando le gior­ nate erano più corte.

Che differenza fa una (corta) giornata Il concetto di fotoperiodismo doveva destare un grande fer­ mento tra gli scienziati, che si ponevano alcune logiche doman­ de: le piante misurano la lunghezza del giorno oppure della notte? E quali colori della luce vedono? Circa all’epoca della Seconda guerra mondiale, i ricercatori scoprirono di poter regolare la fioritura delle piante semplicemente accendendo e spegnendo rapidamente le luci nel cuore della notte. Se accendevano la luce anche solo per pochi minuti nel bel mezzo della notte, potevano impedire a una pianta bre­ vidiurna come il fagiolo di soia di produrre fiori nelle giorna­ te corte. D ’altro canto, potevano anche fare in modo che una pianta longidiurna come l’iris producesse fiori in pieno inverno (durante le giornate brevi quando normalmente non dovrebbe fiorire), se in piena notte accendevano la luce anche solo per qualche istante. Questi esperimenti mostrarono che le piante non misurano la lunghezza del giorno, bensì quella del perio­ do continuativo di buio. 29

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Usando questa tecnica, i floricoltori possono impedire ai crisantemi di fiorire fino a poco prima della Festa della mam­ ma, il momento ottimale per farli apparire sulla scena, in pri­ mavera. I coltivatori di crisantemi hanno questo problema perché la Festa della mamma è a maggio, ma questi fiori sboc­ ciano di norma in autunno, quando le giornate si fanno più corte. Fortunatamente, ai crisantemi di serra può essere impe­ dito di fiorire accendendo le luci per alcuni minuti durante la notte per tutto l’autunno e tutto l’inverno. Q uindi... boom ... due settimane prima della Festa della mamma i floricoltori smettono di accendere le luci di notte, e tutte le piante co­ minciano immediatamente a produrre fiori, pronti per essere raccolti e venduti. Quegli scienziati erano curiosi di conoscere il colore della luce che le piante vedevano. Quello che trovarono fu sorpren­ dente: le piante, non importava quali esaminassero,6 durante la notte rispondevano soltanto a lampi di luce rossa. Lampi di luce verde oppure blu non influenzavano affatto il momento della loro fioritura, ma anche pochi secondi di quella rossa sì. Le piante distinguevano i colori: usavano la luce blu per sape­ re verso quale direzione piegarsi e la luce rossa per misurare la lunghezza della notte. Quindi, nei primi anni Cinquanta,7Harry Borthwick e i suoi colleghi d e l laboratorio d e l l ’uSDA, dove era stato studiato per la prima volta il Maryland Mammoth, fecero la stupefacen­ te scoperta che la luce rosso lontana - luce che ha lunghezze d’onda leggermente superiori rispetto a quella rosso brillante e che si può osservare più spesso, e a malapena, al tramonto può annullare l’effetto d e lla luce rossa sulle piante. Mi spiego: se prendete d e g li iris, che normalmente non fioriscono duran­ te le notti lunghe, e fornite loro un po’ di luce rossa nel pieno della notte, questi produrranno dei fiori belli e luminosi come qualsiasi iris di una riserva naturale. Ma se li illuminate con luce rosso lontana subito dopo quella rossa, sarà come se non avessero mai visto quest’ultima. Perciò, non fioriranno. Se li inondate di luce rossa dopo quella rosso lontana, lo faranno. Colpiteli nuovamente con luce rosso lontana, e non lo faran­ 30

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no. E così via. Non stiamo parlando di grandi quantità di luce; sono sufficienti pochi secondi di luce di un colore o dell’altro. E come un interruttore attivato dalla luce: la luce rossa accen­ de la fioritura; la luce rosso lontana la spegne. Se accendete e spegnete l’interruttore abbastanza rapidamente, non succede nulla. A un livello più filosofico, potremmo dire che la pianta ricorda l’ultimo colore che ha visto. All’epoca in cui John E Kennedy veniva eletto presidente, Warren L. Butler e alcuni suoi colleghi8 dimostrarono che di questi effetti sulle piante della luce rossa e rosso lontana era responsabile un fotorecettore, che chiamarono “fitocromo” , ovvero “colore della pianta” . Nella sua descrizione più sem­ plice, il fitocromo è un interruttore attivato dalla luce. La luce rossa attiva il fitocromo, trasformandolo in una forma adat­ tata a ricevere la luce rosso lontana. Q uest’ultima inattiva il fitocromo, trasformandolo in una forma adattata a ricevere la luce rossa. Dal punto di vista ecologico, tutto ciò ha perfetta­ mente senso. In natura, l’ultima luce che ogni pianta vede al termine del giorno è quella rosso lontana, che rappresenta il segnale di “spegnimento” del vegetale. Al mattino, quest’ul­ tima vede la luce rossa, e si risveglia. In questa maniera una pianta misura quanto tempo prima ha visto per l’ultima volta la luce rossa e adatta di conseguenza la propria crescita. Ma quale parte della pianta vede la luce rossa e la luce rosso lon­ tana, per regolare la fioritura? D agli studi di Darwin sul fototropism o sappiam o che 1’“occhio” di una pianta si trova alla sua estremità superiore, mentre la reazione alla luce avviene nello stelo. Così potrem­ mo concluderne che Inocchio” per il fotoperiodismo si trova anch’esso sull’estremità della pianta. Sorprendentemente, non è così. Puntando in piena notte un fascio di luce su parti diverse della pianta, si scopre che è sufficiente illuminare una qualsiasi, singola foglia per regolare la fioritura dell’intera pianta. D ’al­ tro canto, se tutte le foglie vengono tagliate, lasciando soltan­ to lo stelo e l’apice, la pianta rimane cieca a qualsiasi bagliore luminoso, anche se viene illuminata per intero. Se il fitocromo di una singola foglia vede la luce rossa nel pieno della notte, è 31

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come se venisse illuminata l’intera pianta. Il fitocromo delle fo­ glie riceve il segnale dalla luce e origina un segnale mobile che si propaga attraverso la pianta, inducendo la fioritura.

Piante cieche nell’era della genetica Negli occhi, noi abbiamo quattro differenti tipi di fotore­ cettori: la rodopsina, per la luce e l’ombra, e tre fotopsine, per il rosso, il blu e il verde. A questi si aggiunge anche un quinto recettore della luce, chiamato criptocromo, che regola il nostro orologio interno. Come abbiamo visto, anche le piante presen­ tano diversi fotorecettori: esse vedono la luce blu direzionale, il che significa che devono avere almeno un fotorecettore per la luce blu, oggi noto come fototropina, e vedono la luce rossa e rosso lontana per la fioritura, il che indica almeno un fotore­ cettore fitocromo. Ma per stabilire quanti recettori abbiano le piante, gli scienziati hanno dovuto attendere l’era della geneti­ ca molecolare, cominciata parecchi decenni dopo la scoperta del fitocromo. Nei primi anni Ottanta Maarten Koornneef, dell’Università di Wageningen, in Olanda, e poi numerosi altri laboratori, impiegarono la genetica9per comprendere la vista delle piante. Koornneef si pose una domanda semplice: che aspetto avrebbe una pianta “ cieca ” ? Le piante cresciute al buio o con una illumi­ nazione scarsa sono meno alte di quelle cresciute in piena luce. Se in un esperimento scientifico scolastico vi siete mai occupati di germogli di fagioli, sapete che le piante chiuse nel ripostiglio dell’aula crescevano alte, sottili e gialle, mentre quelle cresciu­ te nel parco giochi erano piccole, robuste e verdi. Tutto ciò ha un senso, dal momento che normalmente le piante crescono al buio, quando stanno cercando di uscire dal suolo verso la luce o quando sono all’ombra e hanno bisogno di farsi strada verso una luce non bloccata da alcun ostacolo. Se Koornneef fosse riuscito a trovare una pianta mutante cieca, forse questa sarebbe stata alta anche se sottoposta alla luce piena. Se fosse stato in grado di identificare e far crescere piante mutanti cieche, avrebbe po­ tuto impiegare la genetica per scoprire cosa non andasse in loro. 32

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Lo scienziato effettuò i propri esperimenti sulla Arabidopsis thaliana, una piccola pianta da laboratorio simile alla senape selvatica. Ne trattò un lotto di semi con agenti chimici noti per indurre mutazioni nel d n a (e che provocano il cancro nei topi di laboratorio) e poi fece crescere le piantine sottoponendole a luce di vari colori. Quindi, cercò piantine più alte delle altre e ne trovò parecchie. Alcune delle piantine mutanti cresceva­ no più alte alla luce blu, ma erano di altezza normale, se fatte crescere alla luce rossa. Alcune erano più alte alla luce rossa, ma normali a quella blu. Alcune erano più alte alla luce uv, ma normali se sottoposte a tutte le altre, e alcune erano più alte se sottoposte alla luce rossa e alla luce blu. Qualcuna era più alta soltanto se sottoposta alla luce fioca, mentre altre erano più alte in condizioni di luce piena. Molti di questi mutanti ciechi a specifici colori della luce non presentavano il recettore che assorbe quella particolare

A rabidopsis (Arabìdopsis thaliana)

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luce. Una pianta senza fitocromo cresceva alla luce rossa come se fosse al buio. Sorprendentemente, alcuni dei fotorecettori risultavano appaiati: uno era specifico per la luce fioca e l’altro specifico per la luce piena. Una faccenda lunga e complicata. Per farla breve,10adesso sappiamo che l’arabidopsis ha almeno undici fotorecettori: alcuni di questi dicono alla pianta quando germinare e alcuni quando piegarsi verso la luce; alcuni quan­ do fiorire, e altri le fanno sapere quando è notte. Altri operano in modo che la pianta sappia di essere colpita da un bel po’ di luce, altri ancora le fanno sapere che la luce è fioca, mentre al­ cuni la aiutano a segnare il tem po.* Quindi, a livello percettivo, la visione delle piante è molto più complessa della vista umana. Tuttavia, per la pianta la luce è ben più che un segnale; la luce è nutrimento. I vegetali usano la luce per trasformare acqua e biossido di carbonio in zuccheri che a loro volta forniscono l’alimento per tutti gli animali. Ma le piante sono anche organismi immobili. Mettono letteralmente radici in un luogo, e sono incapaci di spostarsi in cerca di cibo. Per compensare questa vita sessile, devono avere la capacità di trovare il loro cibo, ovvero di scovare e catturare la luce. Ciò significa che hanno bisogno di sapere dove si trova quest’ultima, e piuttosto che muoversi verso il proprio nutrimento, co­ me farebbe un animale, una pianta cresce nella sua direzione. A una pianta occorre sapere se un’altra cresce al di sopra di essa, sottraendole così la luce necessaria per la fotosintesi. Se avverte di trovarsi all’ombra, una pianta comincerà a crescere più velocemente per uscirne. E le piante devono sopravvivere, perciò hanno bisogno di sapere quando è il momento di spun­ tare fuori dai loro semi e quando è il momento di riprodursi. Molti tipi di piante cominciano a crescere in primavera, pro­ prio come molti mammiferi partoriscono in quell’epoca. Ma come fanno le piante a sapere quando è iniziata la primavera? A dire loro che le giornate si stanno progressivamente allun­ * Per essere più specifici, l’arabidopsis ha almeno undici recettori che ap ­ partengono a cinque distinte classi (fototropine, fitocromi e criptocromi, più due classi aggiuntive). Anche altre piante contengono queste cinque classi, ma possono avere più o meno recettori per ciascuna di loro.

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gando è il fitocromo. Le piante fioriscono e producono i semi in autunno prima dell’arrivo delle nevi. Ma come fanno a sape­ re che è autunno? A dire loro che le notti si stanno allungando è sempre il fitocromo.

Cosa vedono le piante e cosa vedono gli esseri umani Per sopravvivere, le piante devono essere consapevoli del­ la dinamicità dell’ambiente visibile intorno a loro. E per farlo devono conoscere la direzione, la quantità, la durata e il colore della luce che le circonda. Le piante captano indubbiamente le onde elettromagnetiche della luce visibile (e invisibile). Ma mentre noi possiamo captare le onde elettromagnetiche com­ prese in uno spettro relativamente ristretto, le piante captano anche quelle di lunghezza d’onda più lunga e più corta. Però, anche se percepiscono uno spettro più ampio del nostro, le piante non vedono per immagini, dal momento che non hanno un sistema nervoso che traduca i segnali luminosi in queste ul­ time. Piuttosto, traducono i segnali luminosi come indicazioni differenti per la crescita. Le piante non hanno occhi, proprio come noi non abbiamo foglie.* Ma sia noi sia le piante siamo in grado di captare la luce. La vista non è soltanto la capacità di captare le onde elet­ tromagnetiche, ma anche quella di reagire a esse. I coni e i ba­ stoncelli della nostra retina captano il segnale luminoso e tra­ sferiscono questa informazione al cervello, e noi reagiamo di conseguenza. Anche le piante sono in grado di tradurre il se­ gnale visivo in una istruzione fisiologicamente riconoscibile. Non era sufficiente che le piante di Darwin vedessero la luce con le loro estremità; dovevano assorbirla e poi tradurla in una istruzione che dicesse alla pianta di piegarsi. Avevano la neces­ sità di reagire alla luce. I complessi segnali che hanno origine dai vari fotorecettori permettono a una pianta di modulare la * Le alghe verdi, le forme più primitive di piante, hanno un organulo chia­ mato macchia oculare [o stigma] che consente alle cellule di avvertire i cam­ biamenti nella direzione e nella intensità della luce. Queste macchie oculari11 sono state considerate la forma più semplice di occhio esistente in natura.

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propria crescita in maniera ottimale secondo le variazioni am­ bientali, proprio come i nostri quattro recettori permettono al cervello di elaborare delle immagini che ci consentono di interpretare e di reagire ai cambiamenti del nostro ambiente. Per ampliare il concetto, il fitocromo delle piante e la fotopsina rossa umana non sono lo stesso fotorecettore; assorbono entrambi la luce rossa, ma sono proteine diverse, con una chi­ mica differente. Ciò che vediamo noi è mediato da fotorecettori presenti soltanto negli animali. Ciò che vede un narciso giallo è mediato da fotorecettori presenti soltanto nelle piante. Ma i fotorecettori delle piante e degli esseri umani sono simili, in quanto formati tutti da una proteina collegata a un colorante chimico che assorbe la luce; queste sono le caratteristiche fisi­ che richieste affinché un fotorecettore funzioni. Ma ci sono eccezioni a qualsiasi regola, e nonostante m i­ liardi di anni di evoluzione indipendente, gli apparati visivi di vegetali e animali hanno qualcosa in comune: i recettori per la luce blu chiamati criptocromi.* Il criptocromo non ha nessun effetto sul fototropismo dei vegetali, ma interpreta diversi altri ruoli nella regolazione della crescita delle piante. Uno di que­ sti è il controllo del loro orologio interno. Come gli animali, le piante hanno un orologio interno chiamato “orologio circadia­ no” , in sintonia con i normali cicli giorno-notte. Tale orologio interno regola ogni momento della nostra esistenza, da quando abbiamo fame a quando dobbiamo andare in bagno oppure sia­ * Il nome “criptocrom o” 12 è in realtà il risultato di uno scherzetto dovuto a Jonathan Gressel, del Weizmann Institute. Gressel stava studiando le rispo­ ste alla luce blu in un gruppo di organismi che comprendeva licheni, muschi, felci e alghe, definiti anche piante crittogame (questo nome avrà una sua ri­ levanza, come vedremo fra un attimo). M a come tutti gli altri ricercatori che studiavano gli effetti della luce blu su creature differenti, non sapeva quale fosse il recettore per tale luce. Nonostante vari tentativi nel corso dei decen­ ni, nessuno era riuscito a isolare questo recettore: la sua natura pareva ve­ ramente criptica. Imperturbabile amante dei giochi di parole, Gressel sug­ gerì di chiamare il fotorecettore non identificato “ criptocromo” . A dispetto di molti suoi colleghi, tale scherzo è entrato nella nomenclatura scientifica, anche se il criptocromo non è più criptico,13 dal momento che è stato infine isolato, nel 1993.

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mo stanchi o ci sentiamo pieni di energia. Questi cambiamenti giornalieri nel comportamento del nostro organismo vengono detti ritmi circadiani, poiché si alternano, all’incirca in un ciclo di ventiquattro ore, anche se ci troviamo in una stanza chiusa nella quale non giunge mai la luce del Sole. Viaggiare in aereo a una distanza di mezzo mondo mette il nostro orologio circadia­ no fuori sincrono con i segnali giorno-notte: è il fenomeno che chiamiamo jet lag. L’orologio circadiano può essere resettato dalla luce, anche se per farlo occorrono alcuni giorni. Questo è anche il motivo per cui trascorrere il tempo all’esterno aiuta a riprendersi più velocemente dal jet lag, rispetto a rimanere al buio in una stanza di albergo. Il criptocromo è il recettore per la luce blu responsabile principale del ripristino del nostro orologio circadiano median­ te la luce. Il recettore assorbe la luce blu e quindi segnala alla cellula che è giorno. Anche le piante hanno orologi circadiani interni che regolano molti loro processi, fra cui i movimenti delle foglie e la fotosintesi. Se modifichiamo artificialmente il ciclo giorno-notte della pianta, anche questa subisce un jet lag (ma non diventa irritabile), e per ripristinarlo occorrono alcu­ ni giorni. Per esempio, se le foglie di una pianta si chiudono normalmente nel tardo pomeriggio e si aprono al mattino, in­ vertire il suo ciclo luce-ombra porterà inizialmente all’apertura delle sue foglie al buio (nel momento che per la pianta era di norma giorno) e a chiuderle alla luce (nel momento che invece per la pianta era solitamente notte). Questa apertura e chiusu­ ra delle foglie si riadatterà a nuovi schemi luce-buio nel volge­ re di pochi giorni. Il criptocromo delle piante,14proprio come quello dei mo­ scerini della frutta e dei topi, svolge il ruolo principale nel co­ ordinare i segnali provenienti dalla luce esterna con l’orologio interno. A questo livello base di controllo dei ritmi circadiani da parte della luce blu, le piante e gli animali “vedono” essen­ zialmente alla stessa maniera. Dal punto di vista evoluzioni­ stico, questa straordinaria conservazione della funzione del criptocromo non è, in realtà, così sorprendente. Nel corso dell’evoluzione degli organismi unicellulari, gli orologi circa­ 37

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diani si sono sviluppati precocemente, prima che il regno ani­ male e quello vegetale si separassero. Questi orologi primevi probabilmente agivano per proteggere le cellule dai danni pro­ vocati dalla radiazione ultravioletta e il criptocromo ancestrale monitorava la luce ambientale, relegando la divisione cellulare al periodo notturno. Orologi relativamente semplici vengono rinvenuti oggi anche nella maggior parte di organismi unicel­ lulari, compresi batteri e funghi. L’evoluzione della percezione della luce ha proceduto da un fotorecettore comune in tutti gli organismi e poi si è diversificata in due distinti apparati vi­ sivi che differenziano le piante dagli animali. Ma ad apparire ben più sorprendente è, invece, il fatto che le piante possano anche annusare...

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Si è saputo di pietre che si son mosse, di alberi che hanno parlato. WILLIAM SHAKESPEARE,

Macbeth*

Le piante annusano. Ovviamente, esse emettono odori che attirano gli animali e gli esseri umani, ma percepiscono anche / loro stessi odori e quelli delle piante vicine. Le piante sanno quando il loro frutto è maturo, quando la loro vicina è stata potata dalle cesoie di un giardiniere, oppure divorata da un fa­ melico insetto; lo annusano. Alcune piante possono anche di­ stinguere l’odore del pomodoro da quello del grano. Al con­ trario di quello visivo, assai ampio, l’input olfattivo è limitato, ma anche altamente sensibile, e comunica all’organismo una notevole quantità di informazioni. Se cercate il termine “olfatto” in un comune dizionario, tro­ verete che è definito come “la capacità di percepire un odore o un profumo attraverso stimoli che agiscono sui nervi olfatti­ vi”.1E abbastanza semplice capire che questi ultimi sono i nervi che collegano al cervello i recettori olfattivi presenti nel naso. Nell’olfatto, gli stimoli sono rappresentati da piccole particel­ le disperse nell’aria. L’olfatto umano coinvolge le cellule del naso, che raccolgono sostanze chimiche presenti nell’aria, e il cervello, che elabora questa informazione in modo tale da farci * Atto ili, scena IV, 122, in Teatro completo di Shakespeare, tr. it. a cura di Giorgio Melchiori, M ondadori, Milano 1976. [N dT]

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reagire ai diversi odori. Se, per esempio, si apre un flacone di Chanel N ° 5 da un lato di una stanza, dalla boccetta evaporano determinate sostanze chimiche che si disperdono nell’ambien­ te, e l’odore del profumo si avverte anche dalla parte opposta. Le molecole sono presenti in quantità molto diluite, ma il no­ stro naso presenta migliaia di recettori che reagiscono specifi­ camente a diverse sostanze chimiche. Basta che una molecola soltanto si leghi al recettore per avvertire il nuovo odore. Il meccanismo del nostro corpo deputato alla percezione degli odori è differente da quello che percepisce la luce. Come si è detto nel capitolo precedente, per vedere i colori di una intera tavolozza abbiamo bisogno soltanto di quattro classi di fotorecettori, che distinguono il rosso, il verde, il blu e il bian­ co. Nel caso dell’olfatto, invece, abbiamo centinaia di tipi di recettori, ciascuno specializzato per una singola sostanza chi­ mica volatile. Un recettore olfattivo del naso si lega a una sostanza chimica in una maniera ben precisa, che richiama il concetto di chiave e serratura. Ogni sostanza chimica possiede una propria for­ ma particolare, che si adatta a un recettore proteico specifico, proprio come ogni chiave è dotata di una particolare confor­ mazione che si adatta a una serratura specifica. Solo quella de­ terminata sostanza chimica può legarsi a un particolare recetto­ re, e una volta che ciò accade, parte una cascata di segnali che raggiunge un nervo, il quale a sua volta sollecita il cervello per avvertirlo che il recettore è stato stimolato. Noi interpretiamo tutto ciò come un particolare odore. I ricercatori hanno regi­ strato centinaia di singoli aromi, come il mentolo (principale componente dell’aroma della menta) e la putrescina (responsa­ bile del fetore emanato dalla carne morta). Ma ogni aroma che odoriamo è di solito il risultato di un miscuglio di numerose so­ stanze chimiche. Per esempio, mentre circa la metà dell’odore della menta è dovuto al mentolo, il resto è una combinazione di oltre trenta altre sostanze chimiche. E per questo che possia­ mo descrivere in maniere così diverse l’aroma di un eccellente sugo per gli spaghetti, oppure il bouquet di un corposo vino rosso, o l’odore di un bambino appena nato. 40

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Cosa succede, invece, in una pianta? La precedente defi­ nizione di “olfatto” tratta dal dizionario esclude i vegetali dal discorso. Le piante non sono comprese nel nostro tradiziona­ le concetto di universo olfattivo perché non hanno un sistema nervoso, e per una pianta l’olfatto è ovviamente un processo privo di naso. Ma possiamo modificare leggermente la defini­ zione in “la capacità di percepire un odore o un profumo at­ traverso degli stimoli” . Le piante sono delle pessime annusatrici, ma quali odori percepiscono? E come l’olfatto influenza il loro comportamento?

fenomeni inspiegati Mia nonna non aveva studiato biologia vegetale né agricol­ tura. Non aveva nemmeno terminato le scuole superiori. Ma sapeva benissimo che poteva ammorbidire un avocado met­ tendolo in un sacchetto di carta marrone insieme a una bana­ na matura. Aveva imparato il trucco da sua madre, che lo ave­ va imparato da sua madre, e così via. In realtà, questa pratica risale alla notte dei tempi e le civiltà antiche sfruttavano vari metodi per far maturare la frutta. Gli Egizi sbucciavano alcuni fichi per farne maturare un intero cesto e in Cina si bruciava incenso nella dispensa per far maturare le pere. Nei primi anni del ventesimo secolo, i contadini della Flo­ rida facevano maturare gli agrumi in casotti riscaldati a chero­ sene. Erano convinti che a indurre la maturazione fosse il calo­ re, e ovviamente la loro conclusione appariva del tutto logica. Perciò, potete immaginare la loro delusione quando colloca­ rono dei riscaldatori elettrici vicino agli agrumi e scoprirono che i frutti non collaboravano affatto. Quindi, se non era opera del caldo, la maturazione poteva essere dovuta al cherosene? Si trovò che era proprio così! Nel 1924 Frank E. Denny,2ri­ cercatore del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti di Los Angeles, dimostrò che il fumo del cherosene conteneva mi­ nuscole quantità di una molecola chiamata etilene e che trattare qualsiasi frutto con gas etilenico puro era sufficiente a indurre la maturazione. I limoni da lui esaminati erano così sensibili da 41

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essere in grado di reagire a infinitesime quantità della molecola nell’aria, dell’ordine di uno a cento milioni di parti. In maniera analoga, si è scoperto che anche il fumo dell’incenso cinese pre­ senta etilene. Così, un semplice modello scientifico potrebbe postulare che il frutto “annusi” minuscole quantità di etilene nel fumo e traduca questo odore in una rapida maturazione. Noi annusiamo il fumo dal barbecue di un vicino e saliviamo; una pianta rileva un p o ’ di etilene nell’aria e si ammorbidisce. Ma questa spiegazione non risponde a due importanti do­ mande. Anzitutto, perché la pianta reagisce all’etilene presen­ te nel fumo? In secondo luogo, cosa c’entrano mia nonna che metteva insieme due frutti in un sacchetto e gli Egizi che sbuc­ ciavano i loro fichi? Esperimenti condotti da Richard Gane a Cambridge negli anni Trenta del secolo scorso indicano alcune risposte. Gane analizzò l’aria3 immediatamente intorno a delle mele in fase di maturazione e mostrò che essa conteneva etilene. Un anno dopo il suo pionieristico lavoro, un gruppo del Boyce Thompson Institute della Cornell University propose l’etilene quale ormone vegetale universale responsabile della maturazio­ ne della frutta. In effetti, numerosi studi successivi hanno rivela­ to che tutti i frutti, compresi i fichi, emettono questo composto organico. Così, non è solo il fumo a contenere l’etilene; anche i frutti emettono questo gas. Quando gli Egizi sbucciavano i lo­ ro fichi, consentivano al gas etilenico di liberarsi. Quando met­ tiamo una banana matura in un sacchetto con una pera acerba, per esempio, la banana libera etilene, che viene “annusato” dalla pera e quest’ultima matura rapidamente. I due frutti stanno co­ municando vicendevolmente il proprio stato fisico. Ovviamente, la segnalazione etilenica tra i frutti non si è evo­ luta in modo tale da consentirci di avere pere perfettamente mature ogni volta che lo desideriamo. Invece, questo ormone si è evoluto come regolatore della risposta delle piante alle sol­ lecitazioni ambientali, come la siccità, oppure ai traumi, e viene prodotto naturalmente nel corso del ciclo vitale di tutte le pian­ te (compresi i piccoli muschi). Ma l’etilene è particolarmente importante per le piante in quanto agisce come principale re­ golatore della senescenza delle foglie (il processo di invecchia­ 42

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mento che produce il fogliame autunnale) e viene prodotto in quantità abbondanti nel frutto in fase di maturazione. L’etilene prodotto nelle mele che stanno maturando assicura non soltan­ to che l’intero frutto maturi uniformemente, ma anche che le mele vicine vadano incontro al medesimo processo, che rilasce­ rà ancora più etilene, conducendo a una maturazione a cascata delle Mclntosh. Dal punto di vista ecologico, questo proces­ so presenta anche il vantaggio di assicurare la dispersione dei semi. Gli animali sono attratti dai frutti “pronti da mangiare” come le pesche e le bacche. La maggiore esposizione possibile di morbidi frutti indotta dall’etilene garantisce un’offerta fa­ cilmente identificabile per gli animali, che, quindi, disperdono i semi nel corso delle loro faccende quotidiane.

Reperire nutrimento La Cuscuta pentagona non è una normale pianta. E un lungo e affusolato viticcio arancione che può crescere fino a quasi un metro di altezza, producendo piccoli fiori bianchi a cinque pe­ tali, e si ritrova dappertutto nel Nordamerica. A renderla uni­ ca è la caratteristica di non avere foglie e di non essere verde, dal momento che non ha la clorofilla, il pigmento che assorbe l’energia solare che consente alle piante di trasformare la luce in zuccheri e ossigeno. La Cuscuta, quindi, non può effettua­ re la fotosintesi, come fa invece la maggior parte delle piante; perciò, non si procura il nutrimento dalla luce. Potremmo sup­ porre che debba morire di stenti; invece, la pianta prospera. La Cuscuta vive infatti in un’altra maniera, procurandosi il cibo dalle piante vicine. E una pianta parassita. Per sopravvivere, si attacca a una pianta ospite e infilando un’appendice nel sistema vascolare di quest’ultima ne succhia le sostanze nutrienti. Non sorprende, dunque, che la Cuscuta , comunemente nota come “ragno malefico”,* costituisca un problema per l’agricoltura e che il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti la classi­ * Il termine popolare americano per definire la Cuscuta è dodder plant, men­ tre in Italia si usa la pittoresca definizione di “ragno malefico” . [N dT]

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fichi come “pianta infestante nociva” . Ma a rendere la Cuscuta davvero affascinante sono le sue preferenze culinarie: questa pianta, infatti, sceglie quali vicini aggredire. Prima di andare a scoprire le ragioni per le quali la Cuscuta presenta siffatti gusti culinari specifici e raffinati, vediamo co­ me ha inizio la sua vita parassitica. Quello della Cuscuta germi­ na come un qualsiasi altro seme vegetale. Collocato al suolo, si apre, il germoglio si solleva nell’aria e la radice scava nella terra. La giovane piantina, lasciata per conto proprio, morirà, a me­ no che non trovi rapidamente un ospite alle cui spalle vivere. Crescendo, una piantina di ragno malefico muove la propria estremità secondo piccoli cerchi, sondando i dintorni come noi facciamo con le mani quando siamo a occhi bendati, oppure quando, nel bel mezzo della notte, cerchiamo l’interruttore del­ la luce in cucina. Mentre dapprincipio questi movimenti ap­ paiono casuali, se si trova vicina a un’altra pianta (un pomodo­ ro, tanto per fare un esempio) è presto evidente che la Cuscuta

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si piega, cresce e ruota nella direzione del pomodoro, che le fornirà il nutrimento. Il ragno malefico si piega, cresce e ruota finché non trova una foglia di pomodoro. Ma invece di toccar­ la, si tuffa verso il basso e continua a muoversi finché non trova lo stelo della pianta. Con un ultimo gesto di vittoria, si attor­ ciglia attorno allo stelo, invia delle microproiezioni nel floema del pomodoro (i vasi che trasportano la linfa zuccherina della pianta) e comincia ad aspirare lo zucchero, in modo da conti­ nuare a crescere e alla fine fiorire. Ahimè, mentre il ragno ma­ lefico prospera, la pianta di pomodoro comincia a deperire... Consuelo De Moraes, una entomologa dell’Università Sta­ tale della Pennsylvania, il cui principale interesse è lo studio delle segnalazioni chimiche volatili fra insetti e piante, e fra le piante stesse, ha documentato questo comportamento anche in un film.* Uno dei suoi progetti4indagava sulle modalità con le quali la Cuscuta localizza la preda, e dimostro che i viticci di ragno malefico non crescono mai verso vasi vuoti oppure con­ tenenti piante finte, ma sempre verso le piante di pomodoro, non importa dove vengano collocate - alla luce, all’ombra, do­ vunque. La ricercatrice aveva ipotizzato che il ragno malefico annusasse veramente il pomodoro e per controllare la teoria, con i suoi studenti mise la pianta parassita in un vaso posto all’interno di una scatola chiusa e la pianta di pomodoro in una seconda scatola. A questo punto, collegò le due scatole con un tubo che permetteva il libero passaggio dell’aria dall’una all’al­ tra. Risultato: il ragno malefico isolato cresceva sempre in di­ rezione del tubo, il che faceva supporre che la pianta di pom o­ doro emettesse un odore, trasportato attraverso il tubo nella scatola del parassita, che il ragno malefico gradiva. Se la Cuscuta seguiva realmente l’odore del pomodoro, allo­ ra De Moraes poteva forse realizzare un profumo al pomodoro e controllare se il ragno malefico si fosse rivolto in quella dire­ zione. Così, creò un estratto di stelo, una eau de tornato, con il quale intrise dei batuffoli di cotone collocati su dei bastoncini * Per apprezzare appieno tutto ciò, dovreste davvero vederlo con i vostri oc­ chi: www.youtube.com/watch?v=NDMXvwaOD9E.

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piantati in vasi vicini a quello della Cuscuta. Come elemento di controllo, pose alcuni dei solventi usati per realizzare il profumo di pomodoro su altri batuffoli di cotone, sistemati anch’essi su dei bastoncini nei pressi della Cuscuta. Come aveva previsto, la scienziata indusse il ragno malefico, convinto di dirigersi verso il nutrimento, a crescere verso il cotone che liberava l’odore di pomodoro e non verso il cotone inzuppato con i solventi. Evidentemente, il ragno malefico può annusare una pianta per trovare il nutrimento. Ma, come ho spiegato in preceden­ za, questo vegetale nocivo ha le sue preferenze. Mettetelo a sce­ gliere fra il pomodoro e il grano, sceglierà il pomodoro. Se lo mettete a crescere in un vaso equidistante fra altri due - il pri­ mo contenente grano e il secondo pomodoro - il vostro ragno malefico si dirigerà verso il pomodoro. E anche a livello di pro­ fumo, e non di pianta intera, il ragno malefico preferisce Yeau de tornato [pomodoro] alYeau de wheat [grano], A livello di chimica di base, eau de tornato ed eau de wheat sono piuttosto simili. Entrambe contengono betamircene, una sostanza volatile (una delle centinaia di sostanze chimiche cono­ sciute che presentano un odore) in grado di per sé di indurre la Cuscuta a crescere nella sua direzione. Ma qual è il motivo della preferenza? Un’ipotesi ovvia è la complessità del bouquet. Oltre al betamircene, il pomodoro libera due altre sostanze chimiche che attraggono il ragno malefico, formando un profumo che nel suo complesso attira irresistibilmente la Cuscuta. Il grano, in­ vece, contiene soltanto il betamircene, e non gli altri due odori presenti nel pomodoro, e produce anche (Z)-3-esenilacetato, che respinge il ragno malefico più di quanto il betamircene lo attragga. Anzi, la Cuscuta cresce lontano dal (Z)-3-esenilacetato, trovando il grano semplicemente disgustoso.

Foglie che cadono e foglie che origliano Nel 1983 due diversi team hanno pubblicato sorprendenti scoperte relative alla comunicazione delle piante, rivoluzio­ nando la nostra comprensione del mondo vegetale, dal sali­ ce al fagiolo di Spagna. Gli scienziati sono giunti alla conclu­ 46

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sione che gli alberi si avvertono l’un l’altro circa l’imminente attacco di insetti divoratori di foglie. I risultati erano piutto­ sto inequivocabili, le implicazioni sorprendenti. La notizia del loro lavoro doveva diffondersi assai presto nell’ambito della cultura popolare, e l’idea di “alberi parlanti” venne affrontata non soltanto su Science ma anche sulle pagine dei quotidiani di tutto il mondo. David Rhoades e Gordon Orians, due ricercatori dell’Università di Washington, notarono che i bruchi avevano meno probabilità di andare in cerca di cibo sulle foglie di alberi di salice, se questi si trovavano vicini ad altri salici già infestati di bruchi tessitori. Gli alberi sani vicini a quelli infestati erano immuni ai bruchi, perché, come scoprì Rhoades,5le foglie de­ gli alberi resistenti, al contrario di quelle sensibili isolate dagli

Salice bianco (Salix alba)

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alberi infestati, contenevano sostanze fenoliche e tanniche che le rendevano sgradite agli insetti. Come rilevarono gli scien­ ziati, non c’era alcun collegamento fra gli alberi danneggiati e i loro vicini sani - non avevano radici in comune, e i loro ra­ mi non si toccavano - e Rhoades congetturò che gli alberi at­ taccati inviassero per via aerea un messaggio feromonico agli alberi sani. In altre parole, gli alberi infestati segnalavano agli alberi sani vicini: “Occhio! Difendetevi!” . Appena tre mesi più tardi, i ricercatori di Dartmouth Ian Baldwin e Jack Schultz6 pubblicarono uno studio fondamen­ tale che sosteneva i risultati di Rhoades. Baldwin e Schultz erano stati in contatto con Rhoades e avevano condotto il loro esperimento in condizioni strettamente controllate, in­ vece di monitorare alberi cresciuti in natura, come avevano fatto Rhoades e Orians. I due studiarono, quindi, piantine di

Pioppo bianco (Populus alba)

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pioppo e di acero da zucchero (alte circa una trentina di cen­ timetri) cresciute in contenitori di plexiglas a tenuta d ’aria. Il primo conteneva due gruppi di alberelli: quindici con due foglie lacerate a metà, e quindici non danneggiati. Nel secon­ do contenitore si trovavano gli alberelli di controllo, che ov­ viamente non erano stati danneggiati. Due giorni più tardi, le foglie rimanenti degli alberelli danneggiati contenevano livelli maggiori di un certo numero di sostanze chimiche, che com­ prendevano composti velenosi fenolici e tannici noti per ini­ bire la crescita dei bruchi. Gli alberi presenti nel contenitore di controllo, invece, non mostravano incrementi di alcuna di queste sostanze. Il riscon­ tro davvero importante, in questo caso, era che anche le foglie degli alberi intatti, presenti nello stesso contenitore di quel­ li danneggiati, mostravano un ampio incremento di composti fenolici e tannici. Baldwin e Schultz ipotizzarono allora che le foglie danneggiate, sia a causa di una lacerazione, come nei lo­ ro esperimenti, sia a causa dell’attacco da parte di insetti, come nelle osservazioni di Rhoades sui salici, emettessero un segnale gassoso che consentiva agli alberi danneggiati di comunicare con quelli integri, che successivamente si sarebbero difesi con­ tro l’imminente attacco da parte degli insetti. Questi primi resoconti di segnalazioni fra piante7 furono spesso liquidati da altri esponenti della comunità scientifica come insufficienti a livello di controlli oppure come prov­ visti di risultati sperimentali corretti, ma dalle implicazioni esagerate. Nello stesso tempo, la stampa popolare abbracciò l’idea degli “alberi parlanti” e antropomorfizzò le conclusio­ ni scientifiche.8Dal Los Angeles Times al The Windsor Star in Canada e a The Age in Australia, gli organi di informazione impazzirono all’idea, e pubblicarono articoli intitolati “ Gli scienziati cambiano idea, gli alberi sanno parlare” e “Shhh. Le piccole piante hanno grandi orecchie” . Dal canto suo, il Sarasota Herald-Tribune faceva spiccare in prima pagina il titolo “G li alberi parlano, si rispondono gli uni agli altri. Lo credo­ no gli scienziati” . Il 7 giugno 1983 il New York Times intitolò “Quando gli alberi parlano” il suo editoriale principale, nel 49

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quale l’estensore speculava circa “alberi parlanti la cui cortec­ cia è peggiore della loro ruggine” .* Tutta questa attenzione del pubblico non contribuì certo a convincere gli scienziati a so­ stenere le idee riguardo alla comunicazione chimica avanzate da Baldwin e colleghi. Ma nel decennio scorso, il fenomeno della comunicazione delle piante attraverso l’odore fu dimo­ strato più e più volte in un grande numero di piante, compre­ so l’orzo, l’artemisia tridentata e l’ontano; e Baldwin, al tem­ po della pubblicazione originale un giovane chimico appena uscito dal college, andò incontro a una carriera scientifica di primo p ian o .** Il fenomeno delle piante influenzate dalle loro vicine me­ diante segnali chimici inviati nell’aria è ora un paradigma ac­ cettato dal punto di vista scientifico; però rimane ancora senza risposta la domanda: le piante comunicano veramente fra di loro (in altre parole, si avvertono di proposito del pericolo in arrivo), oppure quelle sane semplicemente origliano un soli­ loquio delle piante infestate, che non “volevano” farsi senti­ re da nessuno? Quando una pianta libera un odore nell’aria, si tratta di una forma di comunicazione oppure, per così di­ re, soltanto di un gas effimero? Il concetto di una pianta che chiede aiuto e avverte le proprie vicine ha una sua allegorica e antropomorfica bellezza, ma riflette davvero l’intento origi­ nale del segnale? M artin H eil e il suo team 9 al Centre for Research and Advanced Study di Irapuato, in Messico, studiarono per di­ versi anni i fagioli di Spagna selvatici (Phaseolus lunatus) allo scopo di indagare ulteriormente su tale questione. Heil sapeva che quando viene divorata dagli scarabei, una pianta di fagio­ li di Spagna reagisce in due modi distinti. Le foglie che sono state mangiate dagli insetti liberano nell’aria una miscela di sostanze chimiche volatili, e i fiori (sebbene non direttamente attaccati dagli scarabei) producono un nettare che attrae gli * Gioco di parole: bark in inglese significa sia “ corteccia” sia “latrato” , men­ tre il termine “ruggine” si riferisce a una malattia delle foglie. [NdT] * * Baldwin adesso dirige il Dipartim ento di Ecologia molecolare al M ax Planck Institut für chemische Ökologie a Jena, in Germania.

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Fagiolo di Spagna selvatico (Phaseolus lunatus)

artropodi divoratori di scarabei.* Al volgere del millennio, agli inizi della sua carriera, Heil aveva lavorato al M ax Planck Institut fiir chemische Okologie in Germania, lo stesso Istitu­ to dove Baldwin era (ed è ancora) direttore, e come Baldwin prima di lui si domandava perché i fagioli di Spagna emettes­ sero quelle sostanze chimiche. Heil e colleghi collocarono alcune piantine di fagioli di Spa­ gna attaccate dagli scarabei vicino a piante che, invece, erano state isolate da quegli insetti e monitorarono l’aria attorno a diverse foglie. Scelsero, quindi, un totale di quattro foglie da tre diverse piante: da una attaccata dagli scarabei ne seleziona­ * Molti artropodi divoratori di insetti si sono coevoluti con le piante e rico­ noscono i segnali volatili emessi da quelle attaccate dagli erbivori, sfruttan­ doli come una traccia utile per la ricerca del nutrimento.

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rono due, una foglia che era stata mangiata e un’altra integra; poi presero una foglia da una pianta vicina, ma sana e “non in­ festata” , e una foglia da una pianta che era stata tenuta isolata da ogni contatto con gli scarabei e con le piante infestate. Gli scienziati identificarono la sostanza chimica volatile nell’aria che circondava ogni foglia sfruttando una tecnica avanzata nota come gascromatografia-spettrometria di massa (spesso presen­ te nel telefilm csi - Scena del crimine e impiegata dalle aziende produttrici di profumi nello sviluppo di una nuova fragranza). Heil trovò che l’aria emessa dalle foglie divorate e da quel­ le sane della stessa pianta conteneva essenzialmente le stesse sostanze chimiche volatili, mentre l’aria attorno alla foglia di controllo non presentava tali gas. In aggiunta, anche l’aria at­ torno alle foglie sane delle piantine vicine a quelle infestate da­ gli scarabei conteneva gli stessi volatili rilevati sulle piante at­ taccate. Le piante sane avevano, inoltre, minori probabilità di essere attaccate dagli insetti. Con questa serie di esperimenti, Heil confermò gli studi precedenti, mostrando che la loro vicinanza con quelle aggre­ dite forniva alle foglie integre un vantaggio difensivo contro gli insetti. Ma Heil non era convinto che le piante danneggiate “parlassero” alle altre per avvertirle dell’attacco incombente. Piuttosto, sostenne che le piante vicine dovevano praticare una sorta di “origliamento olfattivo” di un segnale interno, rivolto in realtà alle altre foglie della pianta aggredita. Per mettere alla prova l’ipotesi, lo scienziato modificò il suo impianto sperimentale in maniera semplice, ma ingegnosa. Tenne le due piante una vicina all’altra, ma chiuse in sacchet­ ti di plastica per ventiquattro ore la foglia attaccata. Quando controllò gli stessi quattro tipi di foglie come nel primo esperi­ mento, ottenne risultati differenti. Mentre, come in preceden­ za, la foglia attaccata continuava a emettere le stesse sostanze chimiche, le altre foglie della stessa pianta e quelle della pian­ ta vicina adesso rassomigliavano alla pianta di controllo; l’aria attorno alle loro foglie era pulita. Heil e il suo team aprirono il sacchetto attorno alla foglia at­ taccata e, con l’aiuto di un piccolo ventilatore che veniva usa­ 52

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to di solito per raffreddare i computer, spinsero l’aria in una delle due direzioni: verso le foglie della pianta vicina risalendo su per la pianta stessa, oppure lontano, all’aperto. Rilevarono che i gas in uscita dalle foglie risalivano lo stelo e misurarono quanto nettare essi producevano. Le foglie investite dall’aria proveniente dalla foglia attaccata cominciarono a emettere anch’esse gli stessi gas, producendo anche nettare, mentre le foglie che non erano state esposte all’a­ ria proveniente dalla foglia attaccata non presentavano modifi­ cazioni nella loro attività. Era un risultato significativo, perché rivelava che i gas emessi da una foglia attaccata sono necessari alla pianta per proteggere le altre sue foglie da futuri attacchi. In altre parole, quando viene attaccata da un insetto o dai bat-

Una illustrazione degli esperimenti di Heil. Nelle due vignette in alto, Heil la­ scia che gli scarabei attacchino le foglie grigie e quindi controlla l’aria attorno alle altre foglie, sia sulla stessa pianta sia sulla pianta vicina. In alto a sinistra, vediamo che l’aria attorno a tutte le foglie di entrambe le piante contiene le stesse sostanze chimiche; mentre, in alto a destra, quando H eil isola le fo ­ glie attaccate in sacchetti di plastica, l ’aria attorno a loro è diversa da quella attorno a tutte le altre foglie su entrambe le piante. In basso, vediamo il suo secondo esperimento. Heil spinge aria dalle foglie attaccate sulle foglie della stessa pianta (a sinistra) oppure lontano da queste ultime (in basso a destra).

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teri, una foglia libera odori che avvertono le sue consorelle af­ finché si proteggano contro l’imminente aggressione; proprio come sulle torri di guardia della G rande Muraglia cinese si accendevano fuochi per avvertire di un imminente assalto dei barbari. In questo modo, la pianta assicura la propria soprav­ vivenza, poiché le foglie che hanno “annusato” i gas emessi da quelle aggredite saranno più resistenti nei confronti dell’attac­ co incombente. E la pianta vicina, allora? Se è abbastanza prossima a quel­ la aggredita, allora beneficia della “conversazione” interna tra foglie, che avviene sulla pianta infestata. Il vegetale vicino orec­ chia una non distante conversazione olfattiva che gli fornisce un’informazione essenziale per proteggere se stesso. In natura, questo segnale olfattivo permane per almeno qualche decina di centimetri (segnali volatili differenti, a seconda dello loro proprietà chimiche, raggiungono distanze più corte oppure più lunghe). Per i fagioli di Spagna, che amano per natura la stretta vicinanza con le altre piante, tale distanza è più che suf­ ficiente ad assicurare che se un vegetale si trova nei guai, il suo vicino lo verrà a sapere. Ma cosa annusa esattamente il fagiolo di Spagna quando la pianta vicino a lui viene divorata? L 'eau de lima, proprio come ì’eau de tornato descritta nell’esperimento del ragno malefico, è una complessa miscela di aromi. Nel 2009 Heil collaborò con alcuni colleghi della Corea del Sud10e analizzò i differenti composti volatili emessi dalle foglie delle piante attaccate, per identificare il messaggero chimico. Però l’impresa più diffici­ le era quella di identificare una sostanza chimica responsabile della evidente comunicazione con le altre foglie. Gli scienziati confrontarono i composti emessi dalle foglie in seguito a una infezione batterica con quelli emessi dalle foglie divorate da un insetto. Entrambi i trattamenti ebbero come risultato la forma­ zione di gas volatili simili, a parte due, che, invece, caratteriz­ zavano ciascun trattamento. Le foglie sotto attacco batterico emettevano un gas chiamato metil salicilato, e quelle mangia­ te dagli insetti no; queste ultime producevano, invece, un gas chiamato metil jasmonato. 54

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Il metil salicilato ha una struttura molto simile a quella dell’a­ cido salicilico, che si ritrova appunto in abbondanti quantità nella corteccia del salice. Già l’antico medico greco Ippocrate aveva descritto una sostanza amara, oggi nota per essere l’acido salicilico, estratta dalla corteccia del salice e in grado di lenire il dolore e di ridurre la febbre. Altre culture dell’antico Medio Oriente hanno usato la corteccia di salice come medicina, così come facevano i Nativi americani. Oggi sappiamo che l’acido salicilico è il precursore chimico dell’aspirina, oltre a costituire un ingrediente basilare in molti detergenti contro l’acne. Anche se il salice ne è un notissimo produttore, dal quale è stato estratto per anni, l’acido acetilsalicilico viene elaborato, in quantità differenti a seconda dei casi, da tutte le piante. Le quali producono anche metil salicilato (per la cronaca, un in­ grediente importante del Bengay).* Ma perché una pianta do­ vrebbe produrre un antidolorifico e un antipiretico? Come nel caso di qualsiasi altra sostanza fitochimica (ovvero una sostanza chimica prodotta dalle piante), le piante non producono aci­ do salicilico a nostro beneficio, bensì come “ormone difensi­ vo” , con la funzione di potenziare il loro sistema immunitario, quando vengono aggredite da batteri oppure da virus. L’acido salicilico è, infatti, solubile e viene liberato nel punto esatto in cui avviene l’infezione, per segnalare al resto della pianta at­ traverso i vasi la presenza di batteri. Le parti sane della pianta reagiscono dando il via a una serie di operazioni che uccidono i batteri o, quantomeno, arrestano il diffondersi dell’infezione. Queste operazioni comprendono l’innalzamento di una barrie­ ra di cellule morte attorno al punto dell’infezione, che blocca l’avanzata dei batteri verso altre parti della pianta. A volte que­ ste barriere innalzate sulle foglie sono evidenti sotto forma di macchie bianche. Tali macchie sono aree della foglia nelle quali le cellule si sono letteralmente suicidate, in modo che i batteri vicini a loro non potessero diffondersi ulteriormente. A un livello più generale, l’acido salicilico assolve funzioni simili sia nelle piante sia negli esseri umani. Le piante lo usa­ * Nom e commerciale di una pomata analgesica a effetto calore. [N dT]

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no per aiutare a respingere l’infezione (in altre parole, quan­ do stanno male); noi lo abbiamo impiegato fin dall’Antichità e sfruttiamo oggi la sua odierna derivazione, l’aspirina, quando siamo colpiti da un’infezione che provoca dolori e malesseri. Ma ritorniamo agli esperimenti di Heil: una volta attaccati dai batteri, i suoi fagioli di Spagna emettevano metil salicila­ to, una forma volatile di acido salicilico. Il risultato conferma­ va un lavoro svolto un decennio prima nel laboratorio di Ilya Raskin alla Rutgers University,11 il quale aveva dimostrato che il metil salicilato era il composto volatile principale prodotto dal tabacco in seguito a una infezione virale. Le piante posso­ no convertire l’acido salicilico, solubile, in metil salicilato, vo­ latile; e viceversa.12 Un modo per comprendere la differenza che intercorre fra acido salicilico e metil salicilato è questo: le piante assaporano l’acido salicilico e annusano il metil salicilato (come sappiamo, gusto e olfatto sono sensi interconnessi. La differenza principale è che noi assaggiamo le molecole solubili sulla lingua, e annusiamo le sostanze volatili con il naso). Rinchiudendo le foglie infettate nei sacchetti di plastica, Heil aveva impedito che il metil salicilato si propagasse dalla foglia infetta a una che non lo era, sia sulla stessa pianta sia su piante diverse. Quando la foglia non infetta alla fine annusava il metil salicilato dall’aria che le veniva spinta contro, inalava i gas attraverso le minuscole aperture sulla sua superfìcie (chiama­ te stornata). Una volta all’interno della foglia, il metil salicilato veniva riconvertito in acido salicilico che, come ora sappiamo, le piante prendono quando si sentono male.*

Le piante annusano? Le piante emettono un vero e proprio bouquet di odori. Immaginate il profumo delle rose quando in estate camminate sul sentiero di un giardino, o quello dell’erba tagliata di fresco * Se vi state dom andando del metil jasmonato, la storia è analoga. Il metil jasmonato è una forma volatile dell’acido jasmonico, un ormone di difesa che le piante emettono quando la foglia subisce danni da parte di creatu­ re erbivore.

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Fiore cadavere (Amorphophallus titanum)

in tarda primavera e del gelsomino in fiore durante la notte. E che ne dite del dolce, pungente odore di una banana diventata marrone, mescolato con la miriade di odori di un mercato del­ la frutta? Senza bisogno di guardare, sappiamo già quali frutti sono pronti da mangiare e nessun visitatore di un giardino b o ­ tanico può mai scordare il nauseante odore del fiore più grande (e più puzzolente) al mondo, YAmorphophallus titanum, meglio noto come fiore cadavere (fortunatamente, fiorisce soltanto una volta ogni qualche anno).* Molti di questi aromi vengono impiegati per una complessa comunicazione fra vegetali e animali. Gli odori inducono gli impollinatori a visitare i fiori e gli spargitori di semi a visitare i frutti; come suggerisce lo scrittore Michael Pollan,13 possono * Il nome italiano dell’Amorphophallus è aro titano, o aro gigante. Non si tratta esattamente del fiore più grande al mondo, bensì della più grande in­ fiorescenza semplice. Per la cronaca, il maggior fiore singolo è quello del­ la Rafflesia arnoldii, mentre la maggior infiorescenza composta al mondo è quella della Corypha umhraculifera. [NdT]

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anche indurre la gente a disseminare fiori in tutto il mondo. Ma le piante non si limitano a emettere odori; come abbiamo già visto, si annusano, senza ombra di dubbio, fra di loro. Naturalmente, come le piante, anche noi avvertiamo i com­ posti volatili presenti nell’aria. Usiamo il nostro naso per dare un’annusatina alle cose più svariate, in particolare al cibo. Ma dobbiamo rammentare che “olfatto” significa ben di più che annusare buone vivande. Il nostro linguaggio è disseminato di locuzioni collegate a questo senso, come “l’odore della paura” e “sento puzza di guai” , e gli odori sono intimamente legati ai ricordi e alle emozioni. I recettori olfattivi nel nostro naso so­ no collegati direttamente con il sistema limbico (il controllo centrale delle emozioni e, dal punto di vista evolutivo, la parte più antica del nostro cervello). Inoltre, come le piante, anche noi comunichiamo attraverso i feromoni, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. I feromoni sono emessi da un individuo e fanno scattare una risposta sociale in un altro. Feromoni di animali diversi, dal­ le mosche ai babbuini, comunicano differenti situazioni: pre­ dominio sociale, ricettività sessuale, paura, e così via. Anche noi veniamo influenzati dagli odori ed emettiamo odori che influenzano coloro che ci stanno intorno. Per esempio, è sta­ to riscontrato che la sincronizzazione del ciclo mestruale delle donne che vivono in quartieri chiusi è dovuta a segnali olfattivi emessi con la traspirazione. Un recente (e provocatorio) stu­ dio14 apparso su Science ha mostrato che i maschi umani che annusavano appena le lacrime femminili, prive di odore e as­ sociate a emozioni negative, mostravano livelli ridotti di testo­ sterone e riduzione della stimolazione sessuale. Segnali olfatti­ vi così sottili potrebbero potenzialmente influenzare i più vari aspetti della nostra psiche. Piante e animali percepiscono le sostanze volatili disperse nell’aria, ma nel caso delle piante tutto ciò può essere conside­ rato olfatto? Le piante ovviamente non hanno nervi olfattivi connessi a un cervello che interpreti i segnali, e a tutto il 2011 nei vegetali è stato identificato soltanto un recettore per una sostanza volatile, quello per l’etilene. Ma i frutti in fase di ma­ 58

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turazione, la Cuscuta, le piante di Heil e altra flora in tutto il mondo naturale reagiscono ai feromoni proprio come noi. Ri­ levano una sostanza chimica volatile nell’aria e (anche se prive di nervi) convertono questo segnale in una reazione fisiologica. Questo può essere certamente considerato olfatto. Così, se le piante possono “annusare” secondo loro parti­ colari modalità e senza nervi olfattivi, è possibile che possano “sentire” , anche se non presentano nervi sensoriali?

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Toccherò cento fiori E non ne coglierò uno. EDNA ST. VINCENT MILLAY,

Aftemoon on a H ill

La maggior parte di noi interagisce ogni giorno con le pian­ te. A volte, esse ci appaiono morbide e confortevoli, come l’er­ ba in un parco durante un indulgente sonnellino di metà gior­ nata, oppure come freschi petali di rose sparsi su lenzuola di seta. Altre volte le troviamo, invece, coriacee e puntute: scan­ siamo fastidiose spine per raggiungere un cespuglio di m o­ re, mentre girovaghiamo attraverso i boschi, o sobbalziamo nell’auto passando sopra un tronco d’albero che si è allunga­ to fino alla strada. Comunque, nella maggior parte dei casi le piante rimangono oggetti passivi, arredi inerti che ignoriamo anche mentre stiamo interagendo con loro, staccando i peta­ li dalle margherite, oppure segando antiestetici rami. E se le piante, invece, si rendessero conto che noi le stiamo toccando? Probabilmente, sorprende un p o ’ e forse sconcerta scopri­ re che le piante sanno quando vengono toccate. Non soltan­ to, sono anche in grado di distinguere fra il caldo e il freddo, e sanno quando i loro rami stanno ondeggiando al vento. Le piante avvertono il contatto diretto: alcune, come i rampican­ ti, iniziano una rapida crescita non appena entrano in contatto con oggetti come uno steccato, al quale possono avvolgersi in­ torno, e la Venere acchiappamosche serra di proposito le ma­ 61

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scelle quando un insetto si posa sulle sue foglie. Per altro, i ve­ getali non sembrano apprezzare che li si tocchi troppo, poiché semplicemente toccare o scuotere una pianta può condurre a un arresto della sua crescita. Ovviamente, le piante non “sentono” nel senso tradizionale del termine. Non provano rammarico e non familiarizzano con un nuovo lavoro. Non hanno consapevolezza intuitiva di uno stato mentale o emotivo. Però percepiscono una sensazione tat­ tile, e alcune di loro “sentono” davvero meglio di noi umani. Quando le si tocca, piante come la zucca spinosa (Sicyos angulatus) sono dieci volte più sensibili di noi e possono avvertire la presenza di uno spago che pesa solo 0,25 grammi, sufficiente a indurre il rampicante ad avvolgersi attorno a un oggetto vicino. Invece, la maggioranza di noi è in grado di avvertire sulle di­ ta la presenza di uno spago del peso di circa 2 grammi. Infine, anche se una pianta può essere più sensibile al contatto rispet­ to a un essere umano, riguardo alla percezione tattile esistono alcune sorprendenti rassomiglianze.

Zucca spinosa (Sicyos angulatus)

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Il nostro senso del tatto trasmette una gamma di sensazio­ ni assai ampia, che spazia da una dolorosa bruciatura a un leggero alito di brezza. Quando entriamo in contatto con un oggetto, vengono attivati dei nervi che inviano un segnale al cervello comunicando il tipo di sensazione, pressione, dolore, temperatura e così via. Tutte le sensazioni fisiche sono perce­ pite attraverso il nostro sistema nervoso da specifici neuroni sensoriali che si trovano nella nostra pelle, nei muscoli, nel­ le ossa, nelle articolazioni e negli organi interni. Grazie all’a­ zione di differenti neuroni sensoriali, possiamo sperimenta­ re un’ampia varietà di sensazioni fisiche: il solletico, il dolore acuto, il caldo, il contatto con la luce, o il dolore sordo, solo per citarne alcune. Proprio come differenti tipi di fotorecettori sono specifici per diversi colori della luce, differenti neuroni sensoriali sono specifici per diverse esperienze tattili. Una formica che avanza sul vostro braccio e un massaggio svedese in un centro benes­ sere fanno attivare recettori ben distinti! Il nostro corpo pre­ senta recettori per il freddo e recettori per il caldo, ma ognuno dei diversi tipi di neuroni sensoriali agisce essenzialmente alla stessa maniera. Quando toccate qualcosa con le dita, i neuroni sensoriali deputati al tatto (conosciuti come meccanocettori) trasmettono il loro segnale a un neurone intermediario che si collega al sistema nervoso centrale a livello della spina dorsale. Da qui, altri neuroni convogliano il segnale al cervello, il quale ci dice che stiamo provando qualcosa. Il principio coinvolto nella comunicazione neurale è iden­ tico per tutte le cellule nervose: si tratta dell’elettricità. Lo sti­ molo iniziale scatena una rapida reazione elettrochimica nota come depolarizzazione, che si propaga per tutta la lunghezza del nervo. Questa onda elettrica colpisce il neurone adiacen­ te e continua la sua avanzata attraverso quest’ultimo; e così via, fino a raggiungere il cervello. Un blocco del segnale in un punto qualsiasi di questa catena può risultare disastroso, come nel caso di un danno traumatico alla spina dorsale, che interrompe questo segnale portando alla mancanza della sen­ sazione negli arti interessati. 63

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I meccanismi coinvolti nella segnalazione elettrochimica so­ no complessi, ma i principi su cui si basano, invece, sono ben più semplici. Proprio come una batteria mantiene la propria carica ospitando elettroliti diversi in compartimenti separati, una cellula è dotata di una carica generata dalle differenti quan­ tità di svariati sali presenti all’interno e all’esterno di essa. C ’è più sodio all’esterno della cellula e più potassio all’interno (ed è il motivo per cui il bilanciamento salino è così importante per la nostra dieta). Quando viene attivato un meccanocettore, diciamo da un pollice, che tocca la barra spaziatrice di una tastiera del computer, nelle membrana delle cellule situate nei pressi del punto di contatto si aprono dei canali specifici, che consentono al sodio di passare all’interno delle cellule. Questo spostamento del sodio modifica la carica elettrica, inducendo l ’apertura di ulteriori canali, e di conseguenza l’aumento del flusso stesso. Il risultato è una depolarizzazione che si propaga per tutta la lunghezza del neurone, un po’ come un’onda che si propaga attraverso il mare. All’estremità terminale del neurone, alla giunzione dove questo incontra quello adiacente [la sinapsi], il potenziale di azione conduce a una rapida variazione della concentrazione di un altro ione, il calcio. Questa impennata del calcio è necessaria per la liberazione dei neurotrasmettitori dal neurone attivo, che vengono ricevuti dal neurone adiacente, originando una nuova ondata di potenziale di azione. Questi picchi di attività elettri­ ca rappresentano il modo con il quale comunicano i nervi, sia da un recettore al cervello, sia dal cervello a un muscolo affin­ ché questo si metta in movimento. I monitor cardiaci presenti ovunque negli ospedali rappresentano questo genere di attività elettrica in relazione alla funzionalità cardiaca - un picco di at­ tività seguito da un calo, ripetuto di continuo. I neuroni mec­ canosensori inviano simili picchi di attività al cervello, e la loro frequenza comunica l’intensità della sensazione. Ma tatto e dolore non sono biologicamente lo stesso feno­ meno. Il dolore non risulta semplicemente da un incremento dei segnali emanati dai recettori tattili. La nostra pelle presen­ ta neuroni recettori specifici per i differenti tipi di tatto, ma 64

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anche neuroni recettori specifici per i differenti tipi di dolore. I recettori del dolore (chiamati nocicettori), per poter inviare potenziali di azione al cervello richiedono, però, uno stimolo più forte. Advil, Tylenol e altri antidolorifici funzionano perché attutiscono specificamente il segnale proveniente dai nocicet­ tori, ma non quello proveniente dai meccanocettori. Perciò, il tatto umano è una combinazione di azioni che av­ vengono in due distinte parti del corpo - le cellule che avver­ tono la pressione e la trasformano in un segnale elettrochimi­ co, e il cervello che elabora questo segnale elettrochimico in sensazioni specifiche e dà origine a una risposta. Ma cosa suc­ cede nelle piante? Presentano anche loro dei meccanocettori?

La trappola di Venere La Venere acchiappamosche (altrimenti nota come Dionaea muscipula)* che cresce nelle paludi della Carolina del Nord e di quella del Sud, dove il suolo è carente di azoto e di fosforo, è l’esempio quintessenziale di una pianta che reagisce al tatto. Per sopravvivere in un ambiente così povero dal punto di vista nutrizionale, la Dionaea ha sviluppata la straordinaria capacità di procurarsi il nutrimento non soltanto dalla luce, ma anche dagli insetti, nonché da altri piccoli animali. Infatti, pur eserci­ tando la fotosintesi come tutte le altre piante verdi, la Dionaea pratica anche una sorta di secondo lavoro - diciamo quasi un lavoro in nero - come carnivora, integrando la sua dieta con proteine animali. Le foglie della Venere acchiappamosche sono inconfondi­ bili: terminano con due grandi lobi uniti da una nervatura cen­ trale, e le estremità dei due lobi presentano lunghe protube­ ranze, dette ciglia, che rassomigliano ai denti di un pettine. Questi due lobi, collegati alla nervatura centrale da una sorta di cardine, sono normalmente aperti a formare una struttura * Il termine “V enere” del nom e della pianta ha ben p oco a che vedere con la scienza e molto a che fare piuttosto con l’immaginazione lasciva dei botanici inglesi del diciannovesimo secolo. Vedi www.sarracenia.com/faq/ faq2880.html.

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Venere acchiappamosche (Dionaea muscipula)

simile alla lettera V. Le facce interne del lobo hanno tonalità rosa e porpora, e secernono un nettare irresistibile per molte creature. Quando un’ignara mosca, o uno scarabeo curioso, o anche un piccolo rospo si inoltrano sulla loro superficie, le fo­ glie si serrano con forza sorprendente, schiacciando come un sandwich la preda e bloccandone la fuga con le sbarre formate dalle ciglia che si intrecciano fra di loro.* La trappola si chiude a una velocità sorprendente: al contrario dei nostri futili ten­ tativi di schiacciare una pestifera mosca, la Venere acchiappa­ mosche scatta rinserrandosi in meno di un decimo di secondo. Poi, una volta attivata, la trappola secerne succhi digestivi che dissolvono e assorbono la sfortunata preda. Le stupefacenti caratteristiche della Venere acchiappamo­ sche condussero Charles Darwin, uno fra i primi scienziati a pubblicare uno studio dettagliato di questa pianta e di altra flora carnivora, a descriverla come “una delle [piante] più meravigliose al m ondo” .1L’interesse di Darwin per le piante carnivore mostra come la semplice curiosità possa condurre * Vedi www.youtube.com/watch?v=ymnLpQNyl6g per un ottimo esempio di Venere acchiappamosche in azione.

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un esperto scienziato a scoperte rivoluzionarie. Darwin inizia così il suo trattato del 1875 Piante insettivore•* “Durante l’e­ state del 1860 rimasi sorpreso nel scoprire quale grande nume­ ro di insetti veniva catturato dalle foglie della comune rosoli­ da (Drosera rotundifolia)** nella brughiera del Sussex. Avevo sentito dire che gli insetti venivano presi, ma al riguardo non ne sapevo niente di più” .2Dal non saperne niente al riguardo, Darwin divenne in seguito il principale esperto del dician­ novesimo secolo di piante carnivore, compresa la Venere ac­ chiappamosche, e per la verità il suo lavoro resta un punto di riferimento ancor oggi. Ora sappiamo che la Venere acchiappamosche percepisce la sua preda e si rende conto se l’organismo che si sta muoven­ do all’interno della trappola ha le dimensioni giuste per esse­ re divorato. Sulla superfìcie rosa dell’interno di ogni lobo si trovano diversi peli neri che agiscono come un grilletto che fa scattare la trappola. Ma toccarne uno non è sufficiente; diversi studi hanno rivelato che ne devono essere toccati almeno due entro venti secondi l’uno dall’altro. Ciò assicura che la preda abbia la taglia ideale e non sia in grado di divincolarsi dalla trappola, una volta che questa è scattata. I peli sono estremamente sensibili, ma anche molto selettivi. Come nota Darwin in Piante insettivore-. Gocce d’acqua, o un incostante rigagnolo, cadendo da una cer­ ta altezza sui filamenti [peli] non fanno scattare le lame [...]. Senza dubbio, la pianta è indifferente al più pesante bagno di pioggia [...]. Ho soffiato molte volte con tutte le mie forze at­ traverso un sottile tubicino contro i filamenti senza alcun effet­ to; tale soffio essendo ricevuto con la stessa indifferenza riposta in una burrasca di vento. Vediamo, quindi, che la sensibilità dei filamenti è di natura specializzata.3 * Insectivorous Plants, John Murray, London 1975; tr. it. a cura di G . Cane­ strini e P.A. Saccardo, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1878. [NdT] * * Il termine indicato nell’originale è sun-dew, che identifica genericamente una drosera. D al momento che Charles Darwin cita specificamente una spe­ cie, si è inserita la denominazione italiana della stessa. [N dT]

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Anche se sapeva descrivere con dovizia di particolari la serie di eventi che conducevano aña chiusura della trappola e il van­ taggio nutrizionale per la pianta rappresentato dañe proteine animali, Darwin non poteva venire a capo del meccanismo del segnale che distingueva fra la pioggia e una mosca e consen­ tiva il rapido imprigionamento di quest’ultima. Convinto che la foglia stesse assorbendo un qualche sapore deña carne daña preda catturata nei lobi, Darwin sperimentò suñe foglie [deña Dionaea ] tutti i tipi di proteine e di sostanze. Ma questi studi non approdarono a niente, poiché il naturalista non riusciva a indurre la chiusura con nessuno dei suoi trattamenti. A effettuare la scoperta cruciale che spiegava una volta per tutte il meccanismo di attivazione fu il suo contemporaneo John Burdon-Sanderson.4 Medico per formazione e docente di Fisiologia pratica año University Coñege di Londra, BurdonSanderson aveva studiato gli impulsi elettrici rilevati in tutti gli animali, dañe rane ai mammiferi; ma in seguito aña corrispon­ denza con Darwin rimase affascinato in particolar modo daña Venere acchiappamosche. Lo studioso sistemò molto atten­ tamente un elettrodo nella foglia della Venere acchiappamo­ sche, e scoprì che premendo su due peli liberava un potenzia­ le di azione assai simile a quelli che aveva osservato durante la contrazione dei muscoli degli animali. Riscontrò, inoltre, che dopo la sua attivazione occorrevano diversi secondi affinché la corrente elettrica ritornasse al suo liveño iniziale; e si rese conto che, quando struscia contro i peli añ’interno della trappola, un insetto induce la depolarizzazione rilevata in entrambi i lobi. La scoperta che la pressione su due peli conduce a un segnale elettrico, seguito daña chiusura deña trappola, fu una deñe più importanti deña carriera di Burdon-Sanderson e rappresentò la prima dimostrazione che l’attività elettrica regola lo svñuppo deñe piante. Ma lo studioso poteva soltanto ipotizzare che Ü segnale elettrico fosse la causa diretta deña chiusura. Oltre un centinaio di anni dopo, Alexander Volkov e i suoi coñeghi deña Oakwood University, in Alabama, mostrarono che è proprio la stimolazione elettrica a rappresentare ñ segnale di chiusura deña trappola.5G li studiosi appñcarono ai lobi aperti deña pianta un 68

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trattamento a base di elettroshock, e fecero scattare la trappola senza alcun contatto diretto con i peli che fungono da innesco. Il lavoro di Volkov e precedenti ricerche in altri laboratori,6inol­ tre, resero chiaro che la trappola rammenta se viene toccato un solo pelo, e prima di chiudersi attende fino a che non ne viene attivato un secondo. Sul meccanismo che consente alla Venere acchiappamosche di ricordare quanti peli siano stati attivati si è fatta luce solo recentemente, e lo esploreremo nel capitolo 6. Prima di addentrarci nei modi con i quali le piante ricordano, dobbiamo soffermarci un po’ sulla relazione che intercorre fra il segnale elettrico e il movimento delle foglie.

Potere dell’acqua Burdon-Sanderson osservò che l’impulso elettrico rilevato nella chiusura della trappola della Venere acchiappamosche era assai simile all’azione di un nervo e a quella di un muscolo che si contrae. Ma se l’attivazione dei potenziali di azione in assenza dei nervi gli era chiara, il meccanismo del movimento in assenza di muscoli rimaneva ignoto. Per quanto ne sapeva, il potenziale di azione nella pianta non aveva alcun evidente bersaglio, analogo a un muscolo, sul quale agire per indurre la chiusura della trappola. Studi sulla Mimosa pudica hanno fornito un meraviglioso si­ stema sperimentale per comprendere l’universo dei movimenti della foglia, che potrebbe quindi essere esteso alle altre pian­ te. La Mimosa pudica è originaria dell’America Meridionale e di quella Centrale, ma viene ormai allevata in tutto il mondo come pianta ornamentale per le sue affascinanti foglie mobili. Queste ultime sono ipersensibili al tatto, e se fate scorrere il dito lungo una di esse, le foglioline che la costituiscono si rac­ chiudono tutte rapidamente in se stesse. Si riapriranno soltan­ to parecchi minuti più tardi, e si rinserreranno velocemente ancora una volta, se la toccate di nuovo. Il termine pudica, che in latino significa “timida”, riflette questo comportamento. In molte regioni, la Mimosa pudica è nota anche come la “pianta sensibile” , e nelle Indie Occidentali il suo insolito comporta­ 69

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mento viene definito “falsa morte” ; gli Ebrei la chiamano, in­ vece, pianta “non toccarmi” e nel Bengala ci si riferisce a lei come alla “vergine timida” . Il movimento caratteristico di chiusura e apertura della Mi­ mosa è assai simile, anche a livello elettrofisiologico, a quello della Venere acchiappamosche. Ciò è stato notato da Sir Jagadish Chandra Bose,7 celebre fisico di Calcutta, in India, tra­ sformatosi in fisiologo vegetale. Mentre eseguiva delle ricerche nel Davy Faraday Research Laboratory del Royal Institution of Great Britain, in una conferenza del 1901 Bose riferì alla Royal Society che toccarla dava origine a un potenziale di azione elet­ trico che si irradiava per tutta la lunghezza della foglia ottenen­ do la rapida chiusura delle sue foglioline (purtroppo, BurdonSanderson doveva rivelarsi estremamente critico nei confronti del lavoro di Bose8e raccomandò che il suo studio sulla Mimo­ sa non venisse accettato nei Proceedings ofthe Royal Society of London, anche se studi successivi in molti laboratori hanno di­ mostrato di recente che Bose aveva ragione). Diversi studi hanno rivelato che, quando un segnale elettri­ co agisce sul pulvino, gruppo di cellule motrici responsabile del movimento delle foglie, questo induce alla chiusura delle foglie della Mimosa. Per comprendere come il pulvino faccia muovere le foglie in assenza di muscoli, dobbiamo addentrar-

Mimosa (Mimosa pudica)

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ci più a fondo nella biologia di base della cellula vegetale, che è formata da due componenti principali. Il protoplasto, simi­ le alle cellule degli animali, somiglia a un palloncino riempito d ’acqua, con una sottile membrana che circonda un liquido in­ terno. Quest’ultimo contiene numerose parti microscopiche, che comprendono il nucleo, i mitocondri, proteine e il DNA. A rendere uniche e particolari le cellule vegetali è la caratteristica che il protoplasto si trova racchiuso aU’interno di un secondo componente, una struttura simile a una scatola e chiamata pare­ te cellulare, che fornisce alla pianta la sua resistenza in assenza del sostegno da parte di uno scheletro. Nel legno, nel cotone e nei gusci di noce, per esempio, le pareti cellulari sono spesse e resistenti, mentre nelle foglie e nei petali sono sottili e flessibili (noi siamo incredibilmente dipendenti da queste pareti cellula­ ri, dal momento che vengono usate per produrre carta, mobili, vestiti, corde e persino carburante). Di norma, il protoplasto contiene così tanta acqua da pre­ mere energicamente contro la parete cellulare che lo avvolge, e ciò consente alle cellule vegetali di essere molto resistenti e rigide, e di sopportare il peso. Ma quando la pianta manca di acqua, sulle pareti cellulari viene esercitata poca pressione, e la pianta si affloscia. Pompando acqua dentro e fuori le cellu­ le, la pianta può controllare quanta pressione viene applicata sulla parete cellulare. Le cellule del pulvino alla base di ogni fogliolina di Mimosa esercitano proprio questa funzione, agen­ do come minipompe idrauliche in grado di far muovere le fo­ glie: quando vengono riempite d ’acqua, spingono le foglioline ad aprirsi, mentre nella situazione opposta la pressione cala e le foglie si ripiegano in se stesse. Dove entrano in gioco i potenziali di azione elettrici? Questi rappresentano il segnale che dice alle cellule di pompare acqua all’interno oppure all’esterno. In condizioni normali, quando le foglie della Mimosa sono aperte, le cellule del pulvino sono pie­ ne di ioni potassio, e l’elevata concentrazione di potassio rispet­ to all’esterno spinge l’acqua a entrare all’interno della cellula, in un inutile tentativo di diluire il potassio; ciò porta a una gran­ de pressione sulla parete cellulare - e quindi alla foglia distesa. 71

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Ma quando il segnale elettrico raggiunge il pulvino, si aprono i canali del potassio e insieme allo ione anche l’acqua abbando­ na le cellule, che diventano flaccide. Una volta esauritosi il se­ gnale, il pulvino pompa nuovamente potassio nelle cellule e il susseguente afflusso di acqua apre di nuovo la foglia. A regola­ re l’apertura dei canali del potassio è il calcio, ione fondamen­ tale anche per la comunicazione neurale negli esseri umani. E, come vedremo, essenziale per la reazione della pianta al tatto.

Un tocco negativo Nei primi anni Novanta del secolo scorso, Frank Salisbury studiava le sostanze chimiche che inducevano la fioritura nel­ la nappola minore (Xanthium strumarium), un’erba diffusa in tutto il Nordamerica, nota soprattutto per i suoi ricci a for­ ma di pallone da football e che si ritrova comunemente appesa agli abiti degli escursionisti. Per comprendere come cresceva la pianta, Salisbury e la sua squadra di tecnici della Colorado Sta­ te University decisero di misurare l’incremento giornaliero di lunghezza delle sue foglie recandosi sul campo e misurandole

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fisicamente con un righello. E rimase stupito nel constatare che le foglie misurate non raggiungevano mai la loro normale lun­ ghezza. Non solo: con il proseguire dell’esperimento, alla fine ingiallivano e morivano. Invece, le foglie della stessa pianta che non erano state toccate e misurate continuavano a prosperare. Come spiegò Salisbury: “Ci trovammo dinanzi alla notevole scoperta che si può uccidere una foglia di nappola semplicemente toccandola per pochi secondi ogni giorno ! ” ,9 Dal momento che gli interessi di Salisbury erano indirizza­ ti altrove, prima che la sua osservazione venisse inserita in un contesto più ampio doveva passare un decennio. Mark Jaffe, un fisiologo vegetale che nei primi anni Settanta faceva capo alla Ohio University, riconobbe che questa inibizione alla crescita indotta dal tatto è un fenomeno comune nella biologia vegeta­ le. Lo scienziato coniò il goffo termine “tigmomorfogenesi” ,10 dalle radici greche thigmo- (tatto) e morphogenesis (creazione di una forma), per descrivere l’effetto generale della stimola­ zione meccanica sulla crescita di una pianta. Ovviamente, le piante sono esposte a molteplici sollecita­ zioni tattili, come il vento, la pioggia e la neve, e gli animali vengono continuamente in contatto con molte di loro. Così, a posteriori, non è affatto sorprendente scoprire che una pianta ritardi la propria crescita in risposta al tatto. Una pianta perce­ pisce in quale tipo di ambiente vive. Gli alberi che crescono alti sul crinale di una montagna sono spesso esposti a forti venti e si adattano a questa sollecitazione ambientale limitando lo svi­ luppo dei rami e facendo crescere tronchi corti e spessi. D ’al­ tro canto, la stessa specie, cresciuta in una valle riparata, pro­ durrà alberi alti, sottili, e pieni di rami. Il ritardo della crescita in risposta al tatto è un adattamento evolutivo che aumenta le possibilità che una pianta possa sopravvivere a perturbazioni ripetute e spesso violente. Infatti, dal punto di vista ecologi­ co, una pianta affronta molte delle stesse scelte che dovremmo compiere noi, se dovessimo costruire una casa. Quali risorse occorre riservare alle fondamenta? E come deve essere la strut­ tura dell’edificio? Se vivete in una zona scarsamente ventosa, o a basso rischio sismico, allora potete impiegare le vostre risor­ 73

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se soprattutto nella cura dell’aspetto esterno della vostra abi­ tazione. Ma in un’area flagellata da forti venti, oppure ad alto rischio di terremoti, le risorse devono essere concentrate nella realizzazione di fondamenta e di strutture solide. Ciò è vero non solo per gli alberi, ma anche per la nostra piccola pianta di senape Arabidopsis thaliana che abbiamo in­ contrato nel primo capitolo. Una pianta di arabidopsis che in laboratorio viene toccata alcune volte al giorno sarà più rac­ colta in se stessa e fiorirà molto più tardi rispetto a una lasciata crescere spontaneamente. Il semplice accarezzare le sue foglie tre volte il giorno ne modifica completamente lo sviluppo fisico. E anche se per essere osservato tale cambiamento nella crescita complessiva richiede vari giorni, la risposta cellulare è in realtà assolutamente rapida. Di fatto, Jane Braam e colleghi della Rice University hanno dimostrato che sfiorare appena una foglia di arabidopsis porta come conseguenza un rapido cambiamento nella costituzione genetica della pianta. La scoperta di questo fenomeno è avvenuta per un caso assolutamente fortuito, una vera e propria serendipità. D ap­ principio, come giovane ricercatrice alla Stanford University, Braam era interessata non all’effetto del tatto, ma ai programmi genetici attivati dagli ormoni vegetali. In uno degli esperimenti ideati per chiarire l’effetto dell’ormone gibberellina sulla bio­ logia vegetale, la donna spruzzò questo ormone sulle foglie di arabidopsis e poi controllò quali geni fossero stati attivati dal trattamento. Constatò che erano stati attivati rapidamente nu­ merosi geni, e immaginò che questi stessero rispondendo alla gibberellina. Ma si scoprì che la loro attività aumentava anche quando a quest’ultima si sostituivano diverse altre sostanze, persino l’acqua. Senza darsi per vinta, Janet Braam perseverò nei suoi studi, cercando di capire perché questi geni venissero attivati per­ sino dall’acqua. E per lei fu un vero momento da “E ureka!” quando si rese conto che il fattore comune nei trattamenti era la sensazione fisica di essere spruzzati con le varie soluzioni. La studiosa ipotizzò, quindi, che i geni da lei scoperti stesse­ ro rispondendo al trattamento fisico delle foglie, e per mettere 74

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alla prova le sue conclusioni, continuò gli esperimenti; inve­ ce di spruzzare le piante con l’acqua si limitò a toccarle. Con sua grande soddisfazione, gli stessi geni che erano stati indotti all’attivazione spruzzando l’ormone, oppure l’acqua, veniva­ no attivati anche toccando la pianta. Comprese così che i geni appena individuati erano stati chiaramente attivati dal tatto, e li chiamò appropriatamente “geni t c h ” * poiché venivano atti­ vati toccando le piante.11 Per comprendere meglio l’importanza di questa scoperta, ci occorre una veloce analisi di come funzionano i geni. Il DNA presente nel nucleo di ogni cellula che costituisce una pianta di arabidopsis contiene circa venticinquemila geni. A livello più semplice, ogni gene codifica una proteina; ma mentre il DNA è identico in ogni cellula, cellule diverse contengono proteine differenti. Per esempio, una cellula della foglia contiene pro­ teine diverse da quelle di una cellula della radice. La prima, in­ fatti, contiene proteine che assorbono la luce per la fotosintesi, mentre la seconda contiene proteine che l’aiutano ad assorbire minerali dal suolo. Diversi tipi di cellule contengono differenti proteine, perché al loro interno sono attivi geni diversi - o, più esattamente, vengono trascritti geni diversi. Mentre alcuni geni vengono trascritti in tutte le cellule (come quelli necessari alla creazione delle membrane, per esempio), la maggior parte vie­ ne trascritta soltanto in tipi cellulari specifici. Così, mentre ogni cellula può attivar e. potenzialmente ognuno dei venticinquemi­ la geni, in pratica, in un particolare tipo di cellule, ne è attivo soltanto qualche migliaio. A complicare ulteriormente la fac­ cenda, molti geni sono controllati anche dall’ambiente esterno: alcuni vengono trascritti nelle foglie soltanto dopo che queste vedono luce blu, altri solo in piena notte, altri ancora dopo riscaldamento, o in seguito a un attacco batterico oppure al tatto. Cosa sono questi geni attivati dal tatto? Il primo dei geni TCH identificati da Braam codificava proteine coinvolte nella segnalazione del calcio nella cellula. Come abbiamo visto in precedenza, il calcio è uno degli importanti ioni salini che re­ * D al termine inglese “T ouC H ” , ovvero “tatto” . [NdT]

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gola sia la carica elettrica della cellula sia la comunicazione fra le cellule. Nelle cellule vegetali aiuta a mantenerne il turgore (come nelle cellule del pulvino della Mimosa) e fa anche parte della parete cellulare. Negli esseri umani e negli altri animali il calcio è essenziale per far propagare i segnali elettrici da un neurone all’altro e anche per la contrazione dei muscoli. Anche se non conosciamo ancora tutte le modalità con le quali il cal­ cio regola tali differenti fenomeni allo stesso tempo, nel campo sono in corso intensi studi. Gli scienziati sanno che in seguito a una stimolazione mec­ canica, come un ramo che viene scosso oppure una radice che tocca una roccia, la concentrazione di ioni calcio in una cellu­ la vegetale aumenta rapidamente per poi calare. Questo pic­ co influisce sulla carica attraverso la membrana cellulare, ma influenza anche direttamente diverse funzioni cellulari come “secondo messaggero” , molecola mediatrice che trasporta in­ formazione da recettori specifici a specifici output. Questo cal­ cio solubile libero da solo non è molto efficiente nel provocare una reazione, perché la maggior parte delle proteine non può legarsi direttamente a esso; pertanto, sia nelle piante sia negli animali, di solito funziona insieme a un piccolo numero di pro­ teine che legano il calcio. Fra queste, la più studiata è la calmodulina (caicmm moduhted protez«, proteina modulata dal calcio). Si tratta di una pro­ teina relativamente piccola ma assai importante, che quando si lega al calcio interagisce con quest’ultimo e modula l’attività di un certo numero di proteine che nell’essere umano sono coin­ volte in vari processi - come la memoria, l’infiammazione, la funzione muscolare, e la crescita dei nervi. Tornando alle pian­ te, Janet Braam dimostrò che quel primo gene TCH codificava la calmodulina. In altre parole, quando toccate una pianta, che sia l’arabidopsis oppure la papaya, una delle prime cose che questa fa è produrre calmodulina. Più esattamente, una pianta produce più calmodulina per interagire con il calcio che libera durante i potenziali di azione. Grazie al costante lavoro di Braam e di altri ricercatori,12ora sappiamo che quando un insetto si posa sulla foglia, un animale 76

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ci struscia contro, oppure il vento muove i rami, viene attiva­ to oltre il 2 per cento dei geni dell’arabidopsis (compresi, ma non solo, i geni che codificano la calmodulina e altre proteine collegate al calcio). Si tratta di un numero di geni sorprenden­ temente ampio, e ciò è sufficiente per indicare quanto sia di vasta portata la risposta di una pianta sottoposta a una stimo­ lazione meccanica.

La pianta e le sensazioni umane Noi possiamo provare una combinazione varia e comples­ sa di sensazioni fisiche a causa della presenza di nervi recettori meccanosensoriali specializzati, e del cervello che traduce que­ sti segnali in sensazioni provviste di connotati emotivi. Tali re­ cettori ci rendono in grado di rispondere a un’ampia gamma di stimolazioni tattili. Un recettore specifico meccanosensoriale chiamato dischi di Merkel rileva un contatto e una pressione prolungati sulla pelle e sui muscoli. Nocicettori presenti nel­ la nostra bocca vengono attivati dalla capsaicina, la sostanza chimica ultrapiccante che si trova nel peperoncino, e altri no­ cicettori segnalano che la nostra appendice è infiammata, pri­ ma di un’appendicectomia. I recettori del dolore esistono per consentire di ritrarci da una situazione pericolosa, oppure di renderci consapevoli di un problema fisico potenzialmente pe­ ricoloso all’interno del nostro corpo. Le piante, invece, avvertono il tatto, ma non provano dolore. La loro risposta non è nemmeno soggettiva, al contrario della nostra percezione del tatto e del dolore, che varia da persona a persona. Un contatto leggero può essere piacevole per un indi­ viduo oppure risultare un fastidioso solletico per un altro. Le basi di questa soggettività spaziano da differenze genetiche, che influenzano la soglia di pressione necessaria per aprire un cana­ le ionico, a differenze psicologiche, che collegano le sensazioni tattili con emozioni quali la paura, il panico e la tristezza, che possono inasprire le nostre reazioni psichiche. In quanto priva di cervello, una pianta è libera da questi vincoli soggettivi. Ma percepisce la stimolazione meccanica, e 77

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può rispondere a diversi tipi di stimolazione in maniere asso­ lutamente peculiari. Queste risposte non l’aiutano a evitare il dolore, ma ne regolano lo sviluppo per consentirle di adattarsi nella maniera migliore all’ambiente circostante. Uno stupefa­ cente esempio di tutto ciò è stato fornito da Dianna Bowles e dalla sua squadra di ricercatori dell’Università di Leeds.13 Ricerche precedenti avevano mostrato che la lesione di una singola foglia di pomodoro porta a una reazione da parte del­ le foglie integre presenti sulla stessa pianta (analogamente alle ricerche presentate nel capitolo 2). Nelle cellule intatte questa reazione comprende la trascrizione di una classe di geni, gli inibitori della proteasi.

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Dianna Bowles era curiosa di saperne di più sulla natura del segnale che da una foglia ferita si propagava verso una intatta. Il modello accettato presupponeva che il segnale chimico fos­ se secreto e poi trasportato nei vasi di una foglia ferita sino al resto della pianta. La studiosa ipotizzava, invece, che il segnale fosse di natura elettrica. Per controllare la teoria, ustionò una foglia di pomodoro con un’asta d ’acciaio rovente e scoprì che si poteva rilevare un segnale elettrico nello stelo della stessa pianta, cioè lontano dalla foglia ferita. Inoltre, la pianta rima­ neva in grado di presentare il segnale anche se la ricercatrice congelava il petiolo, la struttura simile allo stelo che congiunge la foglia allo stelo stesso. Congelare il petiolo bloccava il flusso chimico dalla foglia a quest’ultimo, ma non il flusso elettrico. Oltretutto, quando si congelava il petiolo della foglia bruciata, le foglie non trattate continuavano a trascrivere i geni inibitori della proteasi. Il pomodoro rispondeva al metallo ardente non ritraendosene, ma avvertendo le altre sue foglie di un ambien­ te potenzialmente pericoloso. In quanto organismi sessili e dotati di radici, le piante non sono in grado di ritrarsi o di fuggire, ma possono modificare il loro metabolismo per adattarsi a diversi ambienti. Nonostan­ te la diversa reazione dei vegetali e degli animali nei confronti del tatto e di altre stimolazioni fisiche sia differente, a livello cellulare vengono attivati segnali straordinariamente simili. La stimolazione meccanica di una cellula vegetale, come la stimo­ lazione meccanica di un nervo, determina una modificazione dell’equilibrio ionico che comporta l’emissione di un segnale elettrico. E proprio come negli animali, questo segnale può propagarsi da una cellula all’altra, coinvolgendo la funzione coordinata dei canali ionici del potassio e del calcio, la calmodulina e altri componenti della pianta. Una forma specializzata di meccanocettori si ritrova anche nelle nostre orecchie. Così, se possono percepire il tatto come una reazione da parte di meccanocettori simili a quelli della nostra pelle, le piante possono anche udire percependo i suoni attraverso meccanocettori simili a quelli delle nostre orecchie?

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L a cam pana del tem pio si è fer­ m ata, m a io ne sento ancora il suono riecheggiare dai fiori. MATSUO BASHÒ

I boschi riecheggiano di suoni. Gli uccelli cantano, le rane gracidano, i grilli friniscono, le foglie frusciano al vento. Que­ sta incessante orchestra comprende suoni che segnalano il pe­ ricolo, suoni collegati a rituali di accoppiamento, suoni che mi­ nacciano, suoni che attirano. Uno scoiattolo salta su un albero per lo scricchiolio di un ramo spezzato; un volatile risponde al richiamo di un altro. Gli animali si muovono senza sosta rea­ gendo al suono, e mentre si muovono ne creano di nuovi, con­ tribuendo a una ciclica cacofonia. Ma mentre il bosco ciarla e scricchiola, le piante se ne rimangono imperturbabili, indif­ ferenti al trambusto intorno a loro. Le piante sono sorde allo strepitio di un bosco? Oppure siamo noi a non renderci conto della loro reazione? A gettare luce sui sensi delle piante presi in esame fino a questo momento hanno contribuito varie e rigorose ricerche scientifiche. Invece, a proposito della reazione di una pianta al suono, di credibili e conclusive ne esistono ben poche. E sor­ prendente, data la quantità di dati empirici a disposizione ri­ guardo alle maniere con le quali la musica può influenzare la crescita delle piante! Se da un lato possiamo pensarci due vol­ te all’idea che le piante possano annusare, quella che le pian­ 81

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te possano udire non ci sorprende affatto. Molti di noi hanno sentito parlare di racconti di piante che fiorivano in stanze do­ ve risuonava musica classica (anche se qualcuno sostiene che a mettere in moto una pianta sia in realtà la musica pop).1Nor­ malmente, però, molte ricerche sul rapporto fra la musica e le piante sono state condotte da alunni della scuola primaria o da investigatori dilettanti che non rispettano necessariamente i sistemi di controllo dei laboratori che procedono con meto­ do scientifico.2 Prima di indagare la possibilità che le piante siano davve­ ro in grado di udire, vediamo di capire meglio come funzio­ na l’udito umano. Una definizione comune di “udito”3 è “la capacità di percepire il suono rilevando vibrazioni median­ te un organo come l’orecchio” . Il suono è un continuum di onde di pressione che si propaga attraverso l’aria, attraverso l’acqua e persino attraverso oggetti solidi come una porta o il suolo. Queste onde hanno origine quando viene colpito un oggetto (un tamburo, per esempio), oppure quando si crea una vibrazione ripetuta (come quando si pizzica una corda), provocando una compressione ritmica dell’aria. Noi avvertia­ mo queste onde di pressione dell’aria tramite una particolare forma di meccanocezione da parte delle cellule ciliate sensi­ bili al tatto presenti nel nostro orecchio interno. Tali cellu­ le ciliate sono nervi specializzati meccanosensoriali dai qua­ li partono filamenti simili a capelli chiamati stereociglia che si piegano quando vengono colpiti da un’onda di pressione dell’aria (ovvero, dal suono). Le cellule ciliate presenti nelle nostre orecchie convoglia­ no due tipi di informazione: il volume e il tono. Il volume (in altre parole, la forza del suono) viene determinato dall’altezza delle onde che raggiungono l’orecchio, ovvero da quella che è meglio nota come ampiezza delle onde. Forti rumori pre­ sentano un’alta ampiezza, e rumori più tenui hanno una bassa ampiezza. Più alta è l’ampiezza e più le stereociglia si piegano. Il tono, invece, è una funzione della frequenza della pressione delle onde - ovvero il numero di onde rilevato in un secondo, a prescindere dalla loro ampiezza. M aggiore è la frequenza

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dell’onda, più le ciglia si piegano avanti e indietro, e più alto risulta il tono.* Quando vibrano, le stereociglia danno origine a potenziali di azione (come gli altri tipi di meccanocettori, che si sono in­ contrati nel capitolo precedente), che vengono ritrasmessi al nervo uditivo dal quale viaggiano fino al cervello, che traduce questa informazione in suoni differenti. Perciò l’udito umano è il risultato di due strutture anatomiche: le cellule ciliate nelle nostre orecchie, che ricevono le onde sonore, e il nostro cervel­ lo, che elabora questa informazione in modo che noi possiamo reagire ai diversi suoni. Ora, dal momento che sono in grado di percepire la luce senza la presenza di occhi, le piante possono percepire il suono, anche se non hanno orecchie?

Botanica rock-and-roll In un momento o nell’altro, molti di noi sono stati incuriosi­ ti dall’idea che le piante reagiscano alla musica. Anche Charles Darwin (che, come abbiamo visto, oltre un secolo fa ha con­ dotto ricerche fondamentali sulla visione e sulla percezione delle piante) studiava se le piante fossero in grado di cogliere le melodie che suonava per loro. In uno dei suoi esperimenti apparentemente più bizzarri, Darwin (che a parte l’impegno di una vita con la biologia era anche un appassionato suonatore di fagotto) monitorò gli effetti della musica prodotta dallo stru­ mento sulla crescita delle piante, cercando di vedere se questo * Le onde sonore vengono misurate in hertz (Hz), dove 1 H z equivale a un ciclo di un’onda al secondo. N oi possiam o sentire onde sonore comprese tra i 20 H z per i toni più bassi, e i 20.000 H z per quelli più alti. L a nota più bassa di un contrabbasso, per esempio (il Mi), vibra a 41,2 H z, mentre la nota più alta di un violino (Mi minore) vibra a 2.637 Hz. Il D o maggiore in un pianoforte vibra a 4.186 Hz, e il D o due ottave sopra vibra a circa 16.000 Hz. L’orecchio di un cane risponde a onde sonore superiori a 20.000 H z (ed è per questo che noi non siamo in grado di udire i fischietti per cani), e i p i­ pistrelli emettono e ricevono onde sonore rimbalzanti fino a 100.000 H z per il loro sonar interno che m appa il panoram a dinanzi a loro. All’altro capo dello spettro, un elefante può sentire e intonare suoni sotto i 20 H z, e anche in questo caso gli esseri umani non riescono a udirli.

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riusciva a indurre le foglie della pianta di Mimosa a chiudersi (non ebbe successo, e descrisse lui stesso lo studio come “l’e­ sperimento di un folle”).4 Dal tempo dei falliti tentativi di Darwin, le ricerche nel set­ tore della capacità uditiva delle piante non sono certo fiorite! Lo scorso anno sono stati pubblicati centinaia di articoli scien­ tifici riguardanti la reazione delle piante alla luce, agli odori e al tatto, ma negli ultimi venti anni soltanto una manciata di lavo­ ri ha affrontato specificamente la reazione al suono e molti di questi non hanno retto agli standard che ritengo indispensabili per dimostrare un “udito” delle piante. Un esempio (per quanto bizzarro) di questi studi è stato pub­ blicato su The Journal of Alternative and Complementary Medi­ cine.’ A compierlo furono Gary Schwartz, docente di psicolo­ gia e medicina, e la sua collega Katherine Creath, professoressa di scienze ottiche, entrambi dell’Università dell’Arizona, dove Schwartz ha fondato il Programma di Ricerche v e r i t a s .6 Que­ sto programma “sperimenta l’ipotesi che la consapevolezza (o la personalità o l’identità) di un essere umano sopravviva alla morte fisica”. Ovviamente, studiare la consapevolezza dopo la morte7 presenta alcune difficoltà sperimentali, così Schwartz studia anche l’esistenza di una “energia guaritrice” . Poiché i partecipanti umani a uno studio possono essere fortemente in­ fluenzati dal potere di suggestione, i due usarono al loro posto delle piante, allo scopo di svelare “gli effetti biologici della musi­ ca, del rumore e dell’energia guaritrice” .8Ovviamente, le piante non possono essere influenzate dall’effetto placebo o, per quan­ to ne sappiamo, da preferenze musicali (per quanto ne dicano alcuni ricercatori impegnati in ricerche del genere). I due ipotizzavano che l’energia guaritrice e la musica “deli­ cata e dolce” (quella del flauto dei nativi americani e dei suoni naturali, guarda caso la preferita dagli sperimentatori) avreb­ bero condotto alla germinazione dei semi.* Creath e Schwartz * È interessante che abbiano scelto musica “ dolce e delicata” pur facendo riferimento a Pearl Weinberger dell’Università di Ottawa, che nei suoi stu­ di condotti negli anni Sessanta e Settanta usava onde ultrasoniche (che non sono assolutamente né dolci né delicate).5

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spiegarono che, secondo i loro dati, rispetto a quelli che erano stati tenuti nel silenzio, in presenza di musica dolce germinava un numero leggermente maggiore di semi di zucchini e di gombo. Gli studiosi notarono pure che le percentuali di germina­ zione potevano aumentare come effetto dell’energia guaritrice di Creath, che lei applicava ai semi con le sue stesse mani.* Il tutto senza accennare al fatto che questi risultati non sono sta­ ti confermati da successive ricerche in altri laboratori, mentre una delle fonti citate da Creath e Schwartz a supporto dei loro risultati era The Sound o f Music andPlants di Dorothy Retallack. Costei si descriveva come “la moglie di un medico, casalinga e nonna di un quindicenne”10 e, dopo il diploma al college del figlio minore, nel 1964 si era iscritta al primo anno dell’ora de­ funto Tempie Bell College.11Mezzo soprano professionista che spesso si esibiva in sinagoghe, chiese e agenzie di pompe fune­ bri, la donna aveva deciso di specializzarsi in musica al Tempie Bell. Scelto un corso di introduzione alla biologia per comple­ tare i suoi requisiti scientifici, l’insegnante le chiese di esegui­ re qualsiasi esperimento ritenesse interessante; l’abbinamento delle necessità del suo corso con l’amore per la musica la con­ dusse, quindi, a un libro respinto sdegnosamente dagli ambienti scientifici, ma accolto a braccia aperte dalla cultura popolare. The Sound o f Music and Plants apre una finestra sul clima culturale e politico degli anni Sessanta del secolo scorso, ma è illuminante anche a proposito del pensiero dell’autrice, un mix del tutto personale di conservatorismo sociale, convinto che la musica rock ad alto volume fosse collegata con il com­ portamento antisociale degli studenti, e di spiritualismo reli­ gioso marca New Age, che dava per certa una sacra armonia fra la musica e le leggi della fìsica, e più in generale della natura. Retallack12 spiegò di essere rimasta affascinata da un libro pubblicato nel 1959 e intitolato The Power ofPrayer on Plants, * Katherine Creath era stata addestrata al VortexHealing, che viene descritto come “una tecnica guaritrice divina e un sentiero per il risveglio. Progettato per trasformare le radici della consapevolezza emotiva, guarire il corpo fisi­ co, e risvegliare la libertà alTinterno dell’animo umano. Questo è il lignaggio di M erlino” , vedi www.vortexhealing.com.

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nel quale l’autore sosteneva che le piante alle quali venivano rivolte preghiere crescevano rigogliose mentre quelle bombar­ date con pensieri detestabili morivano. Si domandò, quindi, se effetti simili potessero essere indotti da generi musicali positivi o negativi (il ruolo di positivo o di negativo era ovviamente det­ tato dai suoi gusti personali) e questo interrogativo divenne la base della sua ricerca. Monitorando l’effetto di diversi generi musicali sulla crescita delle piante, sperava di fornire ai propri contemporanei la prova che la musica rock fosse potenzialmen­ te nociva, non solo per le piante, ma anche per gli esseri umani. La donna espose piante differenti (filodendro, mais, geranio e violetta, solo per citarne alcune: ogni esperimento utilizzava una specie diversa) a una poliedrica collezione di incisioni, che comprendeva musiche di Bach, Schoenberg, Jim i Hendrix e Led Zeppelin; quindi, monitorò la loro crescita. Sostenne poi che le piante esposte alla dolce musica classica prosperavano

Dorothy Retallack in laboratorio con il suo advi­ sor, il dottor Francis Broman.

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(anche quando le esponeva alla Muzak, la sublime musica da ascensore che tutti noi conosciamo e apprezziamo), mentre quelle esposte a Led Zeppelin II oppure a Band o f Gypsys di Hendrix subivano un arresto della loro crescita. Per dimostra­ re che a nuocere alle piante erano proprio le batterie di leg­ gende come John Bonham e Mitch Mitchell, Retallack ripetè i suoi esperimenti utilizzando registrazioni degli stessi album, ma senza le percussioni. Come aveva ipotizzato, le piante non risultavano danneg­ giate come nel momento in cui erano investite dalla versione completa, tamburi inclusi, di “Whole Lotta Love” e di “M a­ chine G u n ” . Ciò poteva significare che le piante hanno un gu­ sto musicale prediletto sovrapponibile a quello di Retallack? Nota apprensiva da parte di una persona cresciuta studiando con Zeppelin e Hendrix che strombazzavano per tutto il tempo nel suo stereo: imbattendomi per la prima volta in questo libro, mi sono domandato se tali risultati implicassero che anche io ne fossi rimasto danneggiato, poiché Retallack collegava i suoi risultati agli effetti della musica rock sui giovani. Fortunatamente per me e per le orde degli altri appassiona­ ti dei Led Zeppelin in tutto il mondo, quegli studi erano stra­ colmi di magagne scientifiche.13Per esempio, ogni esperimen­ to comprendeva solo un piccolo numero di piante (meno di cinque). E gli esperimenti erano stati ripetuti così poche volte da non essere sufficienti per elaborare un’analisi statistica. Il progetto sperimentale era mediocre - alcuni degli studi erano stati eseguiti a casa di una sua amica - e i parametri, come l’u­ midità del suolo, erano determinati toccando il terreno con un dito. E anche se Dorothy Retallack cita nel suo libro un gran numero di esperti, quasi nessuno di loro è un biologo. Si trat­ ta di esperti di musica, di fisica e di teologia, e le pochissime citazioni provengono da fonti senza alcuna credenziale scien­ tifica. Più importante ancora, tuttavia, è il fatto che la sua ri­ cerca non sia stata replicata in alcun laboratorio dotato di un minimo di credibilità. Al contrario degli studi iniziali di Ian Baldwin sulla comu­ nicazione delle piante e sulle sostanze chimiche volatili (di cui 87

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abbiamo parlato nel capitolo 2), che dapprima avevano incon­ trato una certa resistenza nell’ambiente scientifico, ma che in seguito erano stati validati da molti laboratori, le piante musi­ cali di Dorothy Retallack sono state relegate nel cestino della spazzatura della scienza. Mentre le sue scoperte venivano ri­ portate in un articolo su un quotidiano, i tentativi di pubblica­ re quei risultati su una rivista scientifica rispettabile non otten­ nero alcun successo, e il suo libro venne infine stampato fra la letteratura New Age. Ciò ovviamente non ha impedito al vo­ lume di diventare parte dello Zeitgeist della cultura dell’epoca. Questi risultati contraddicevano anche un importante stu­ dio pubblicato nel 1965.14Richard Klein e Pamela Edsall, ricer­ catori del Giardino Botanico di New York, decisero di condur­ re una serie di esperimenti per determinare se le piante fossero davvero influenzate dalla musica. Lo fecero in risposta a studi provenienti dall’india, i quali affermavano che la musica incre­ mentava il numero dei rami che spuntavano in diverse piante, come la calendula (Tagetes erecta). In un tentativo di ricapito­ lare questi studi, Klein e Edsall esposero le calendule al Canto Gregoriano, alla Sinfonia n. 41 in Do maggiore di Mozart, a “Three to Get Ready” di Dave Brubeck, a “The Stripper” della David Rose Orchestra, e a canzoni dei Beatles come “I Want to H old Your H and” e “I Saw Her Standing There” . Dalle loro ricerche (dotate di severi controlli scientifici) Klein e Edsall conclusero che la musica non aveva affatto in­ fluenzato la crescita delle calendule. Come riferirono, sfrut­ tando l’umorismo per trasmettere la loro indignazione nei confronti di questo ramo di ricerca, “Non c’era stata nessuna escissione di foglia15ascrivibile all’influenza di ‘The Stripper’ né abbiamo potuto osservare nessuna nutazione dello stelo nelle piante esposte ai Beatles” .* Come possiamo spiegare la con­ traddizione fra questi risultati e i successivi studi di Dorothy Retallack? Le calendule di Klein e Edsall avevano gusti musi­ cali differenti, oppure, più verosimilmente, le grandi carenze * L a nutazione è il movimento ciclico di ondeggiamento o di piegamento mostrato da diverse parti della pianta.

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Calendula (Tagetes erecta)

scientifiche e metodologiche della ricerca di Retallack avevano condotto a risultati inaffidabili. Anche se venne pubblicato su una rispettabile rivista scien­ tifica, il lavoro di Klein e Edsall passò praticamente inosserva­ to presso il grande pubblico, mentre ricerche come quella di Dorothy Retallack continuarono a impazzare sulla stampa po­ polare negli anni Settanta del secolo scorso. Dovevano essere anche le grandi protagoniste del citato ed emblematico volume del 1973 di Peter Tompkins e Christopher Bird ha vita segreta delle piante ,16dove venivano indicate come “un affascinante re­ soconto delle relazioni fisiche, emotive e spirituali fra le piante e l’uomo” . In un capitolo piuttosto brillante e ben scritto inti­ tolato “La vita armonica delle piante”, gli autori riportano che non soltanto queste ultime reagiscono positivamente a Bach e a Mozart, ma rivelano pure una spiccata predilezione per la musica indiana sitar di Ravi Shankar.* Parecchia della scienza * Alcune delle falle della ricerca di Retallack sono indicate anche in La vita segreta delle piante.

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protagonista del libro in questione poggia su impressioni sog­ gettive, basate soltanto su un esiguo campione di piante. Il no­ to fisiologo vegetale, docente e scettico dichiarato Arthur Galston riassunse succintamente la questione, quando scrisse nel 1974: “Il guaio con La vita segreta delle piante è che consiste pressoché esclusivamente di bizzarre affermazioni senza ade­ guate evidenze a sostegno” .17Ma ciò non impedi a quel volume di influenzare la cultura odierna. Mancano dati recenti a sostegno di qualsiasi significativa ri­ sposta delle piante al suono. Tuttavia, un attento esame della letteratura scientifica offre risultati disseminati in articoli che riportano altre scoperte, i quali sfatano il concetto che le pian­ te siano in grado di udire. Nel saggio di Janet Braam sull’iden­ tificazione dei geni TCH (i geni attivati in seguito al contatto con una pianta),18 la ricercatrice spiegava di aver controllato se oltre alla stimolazione fisica, questi geni fossero attivati an­ che dall’esposizione alla musica “a palla” (che, nel suo caso, era fornita dai Talking Heads). Ahimè, no. Analogamente, in Physiology and Behaviour ofPlants ,19il ricercatore Peter Scott riportò una serie di esperimenti allestiti per controllare se il mais fosse influenzato dalla musica, nello specifico dalla Symphonie Concertante di Mozart e da Bat Out o fH ell dei Meat L oaf (è sorprendente quanto possano dirci tali esperimenti sui gusti musicali di uno scienziato). Nel primo esperimento i semi esposti a Mozart oppure ai Meat L oaf germinavano più rapi­ damente rispetto a quelli cresciuti nel silenzio. Ciò andrebbe a vantaggio di chi sosteneva che la musica influenza le piante, e a sfavore di quanti pensano che Mozart sia qualitativamente migliore dei Meat Loaf. Ma è qui che entra in gioco l’importanza di severi controlli sperimentali. Gli esperimenti proseguirono; ma questa volta un piccolo ventilatore faceva circolare lontano dai semi l’aria riscaldata dagli altoparlanti. Il risultato fu che non sussisteva alcuna differenza fra le percentuali di germinazione dei semi rimasti al silenzio e quelli esposti alla musica. Nel caso della prima serie di esperimenti gli scienziati scoprirono che gli al­ toparlanti che trasmettevano la musica avevano evidentemente 90

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irradiato calore, il che ha migliorato l’efficienza della germina­ zione; il fattore determinante per la crescita era quindi il calore, non la musica, fosse di Mozart o dei Meat Loaf. Mantenendo il punto di vista scettico, torniamo a prendere in esame la conclusione di Dorothy Retallack che l’intenso mar­ tellamento di musica rock sia nocivo alle piante (e anche alle persone). Potrebbe essere una spiegazione alternativa e scien­ tificamente valida per l’effetto negativo sulle piante causato dal frastuono delle batterie? In realtà, come si è messo in evi­ denza nel capitolo precedente, Janet Braam e Frank Salisbury hanno mostrato chiaramente che, se le si tocca semplicemente più volte, le piante crescono più piccole e rachitiche, e posso­ no persino morire. Quindi è plausibile che le percussioni del rock, se esaltate attraverso idonei altoparlanti, generino onde sonore così potenti da far vibrare le piante, che vengono fat­ te letteralmente “dondolare” avanti e indietro, come durante una bufera. In un tale scenario ci aspetteremmo di trovare una crescita ridotta nelle piante esposte ai Led Zeppelin, come nel

Mais (Zea mays)

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caso riportato da Dorothy Retallack. Forse, il problema non è che alle piante non piace la musica rock; forse è solo che a loro non piace essere sballottate. Ahimè, finché non verrà dimostrato altrimenti, sembra che tutte le evidenze ci portino a concludere che le piante sono davvero “sorde”; una faccenda interessante, se si considera che le piante contengono gli stessi geni noti per causare la sordità negli esseri umani.

Geni sordi Per la botanica, l’anno 2000 ha rappresentato una vera pie­ tra miliare. E stato allora, infatti, che venne finalmente comuni­ cata la decifrazione del genoma completo della Arabidopsis thaliana agli scienziati di tutto il mondo, impazienti di conoscere i risultati. Oltre trecento ricercatori20 facenti capo a università e ad aziende biotecnologiche avevano lavorato per quattro an­ ni per determinare i circa 120 milioni di nucleotidi che forma­ no il d n a dell’arabidopsis. Con una spesa di circa 70 milioni di dollari (l’investimento e lo sforzo collettivo associati a questo progetto sono oggi impossibili da concepire, con la tecnologia attuale progredita al punto da consentire a un singolo labora­ torio di sequenziare un genoma di arabidopsis in poco più di una settimana e per meno dell’ 1 per cento del costo originale). L’arabidopsis era stata scelta dalla National Science Founda­ tion nel 1990 come la prima pianta a vedere sequenziato il suo genoma, grazie a un capriccio evolutivo che l’aveva portata ad avere relativamente meno d n a rispetto ad altre. Anche se pre­ senta quasi lo stesso numero di geni (25.000) della maggior parte degli animali e delle piante, l’arabidopsis contiene scarse quantità di un particolare d n a , chiamato d n a non codificante, caratteristica che ha reso relativamente semplice determinare la sequenza. Il DNA non codificante si trova sparso in tutto il geno­ ma, fra un gene e l’altro, alle estremità dei cromosomi e anche all’interno dei geni stessi. Per chiarire meglio il concetto: men­ tre l’arabidopsis contiene circa 25.000 geni con 120 milioni di nucleotidi, il grano ha lo stesso numero di geni con 16 miliardi 92

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di nucleotidi (e gli esseri umani hanno circa 22.000 geni, me­ no della piccola arabidopsis, con 2,9 miliardi di nucleotidi).* A causa del suo piccolo genoma, delle dimensioni ridotte e del rapido tempo di generazione e di sviluppo, alla fine del vente­ simo secolo l’arabidopsis era diventata la pianta più studiata, con il risultato che la ricerca su questa comune erba avrebbe condotto a scoperte fondamentali in vari settori. Quasi tutti i 25.000 geni trovati nell’arabidopsis, infatti, sono presenti anche in piante importanti dal punto di vista deH’agricoltura e dell’e­ conomia, come il cotone e la patata. Ciò significa che qualsiasi gene identificato nell’arabidopsis (diciamo, un gene per la resi­ stenza a un particolare batterio che attacca le piante) potrebbe essere inserito in una coltivazione per aumentare la sua resa. Il sequenziamento del genoma dell’arabidopsis e di quello degli esseri umani ha condotto a molte sorprendenti scoperte. La più rilevante per la nostra discussione21 è che nel genoma dell’arabidopsis è stato trovato più di un gene noto per il suo coinvolgimento in malattie e disfunzioni degli esseri umani (il genoma umano,22 d’altro canto, contiene numerosi geni coin­ volti nello sviluppo delle piante, come un gruppo chiamato segnalosomi COP9, che media le risposte della pianta alla lu­ ce) . Quando gli scienziati hanno decifrato la sequenza del d n a dell’arabidopsis, hanno scoperto che il suo genoma contiene i geni b r c a (coinvolti nel cancro ereditario al seno), il gene CFTR (responsabile della fibrosi cistica) e un certo numero di geni coinvolti nelle menomazoni dell’udito. Occorre, a questo punto, tracciare una importante distin­ zione: anche se vengono spesso chiamati con il nome delle ma­ lattie loro associate, i geni non esistono per causare la malattia o la menomazione. Una malattia interviene quando il gene non funziona adeguatamente in seguito a una mutazione, ovvero a una variazione nella sequenza di nucleotidi che costruisce il gene, che altera il codice del d n a : il nostro d n a comprende * Questi numeri dovrebbero essere presi cum grano salis, dal momento che la definizione precisa di “gene” sta evolvendo, e con essa i numeri correlati. Ma il rapporto è corretto.

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soltanto quattro differenti nucleotidi, adenosina, timina, citosina e guanina, abbreviati in A, T, c e G. La combinazione spe­ cifica di questi nucleotidi fornisce il codice per l’elaborazione di varie proteine. La mutazione anche di pochi nucleotidi op­ pure una loro eliminazione può modificare il codice in manie­ ra irreparabile. I BRCA sono geni che, quando vanno incontro a mutazioni oppure a interruzioni della loro sequenza, po s­ sono causare il cancro al seno; in circostanze normali, invece, svolgono un ruolo chiave nel determinare il momento in cui le cellule devono scindersi. Quando i geni BRCA non funzionano normalmente, le cellule si dividono troppo spesso, e ciò può, appunto, condurre al cancro. Il CFTR è un gene che, una volta mutato oppure interrotto, causa la fibrosi cistica, ma normal­ mente regola il trasporto degli ioni cloro attraverso la membra­ na cellulare. Quando questa proteina non funziona, il trasporto dello ione cloro nei polmoni (e in altri organi) viene bloccato, conducendo all’accumulo di un denso muco, che si manifesta clinicamente come una malattia respiratoria. I nomi di questi geni non hanno, quindi, niente a che fare con le loro funzioni biologiche, ma solo con una eventuale con­ seguenza clinica della loro alterazione. Ma cosa fanno questi geni, nelle piante verdi? Il genoma dell’arabidopsis contiene BRCA, CFTR e diverse centinaia di altri geni associati a malattie e menomazioni umane, perché sono essenziali per la biologia cellulare di base. Questi importanti geni si erano già evoluti circa 1,5 miliardi di anni fa nell’organismo unicellulare che ha rappresentato l’antenato comune evolutivo sia delle piante sia degli animali. Ovviamente, mutazioni di questi “geni di ma­ lattie” umani nella loro versione vegetale nell’arabidopsis al­ terano anche le funzioni della pianta. Per esempio, mutazioni nei geni del cancro al seno dell’arabidopsis23 conducono a una pianta le cui cellule dello stelo (sì, l’arabidopsis ha cellule del­ lo stelo) si dividono più delle cellule normali, e l’intera pianta è ipersensibile alle radiazioni, elementi caratteristici anche del cancro nell’essere umano. Quanto appena detto pone nella giusta luce il concetto di gene “sordo”, ovvero di un gene che-quando subisce una mu­ 94

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tazione - porta alla sordità negli esseri umani. In vari laboratori in tutto il mondo sono stati identificati più di cinquanta geni “sordi” , dei quali almeno dieci sono presenti nell’arabidopsis. Soltanto perché i geni sordi sono stati scoperti nel genoma dell’arabidopsis non significa che questa pianta sia in grado di udire, proprio come la presenza dei BRCA nell’arabidopsis non significa che le piante abbiano il seno. I geni “sordi” umani hanno una funzione, sono necessari affinché l’orecchio funzio­ ni adeguatamente, e quando qualcuno di questi geni contiene una mutazione, il risultato è la perdita dell’udito. Quattro dei geni dell’arabidopsis collegati ai difetti dell’u­ dito codificano proteine piuttosto simili chiamate miosine. Co­ nosciute come proteine motrici, le miosine funzionano come “nanomotori”, e spostano proteine e organuli all’interno della cellula.* Una delle miosine coinvolte nell’udito contribuisce a formare le cellule ciliate dell’orecchio interno. Quando questa miosina presenta una mutazione, le nostre cellule ciliate non si formano in maniera corretta, e non rispondono alle onde sono­ re. Nel mondo vegetale riscontriamo che le piante presentano sulle loro radici appendici similciliari, alle quali ci si riferisce correttamente come le ciglia delle radici, che aiutano queste ul­ time ad assorbire acqua e minerali dal suolo. Quando avviene una mutazione in uno dei quattro geni “sordi” della miosina dell’arabidopsis,24 le ciglia delle radici non si estendono ade­ guatamente, e di conseguenza le piante sono meno efficienti nell’assorbire l’acqua dal suolo. I geni della miosina e gli altri geni riscontrati sia nelle piante sia negli esseri umani hanno funzioni analoghe a livello cellu­ lare. Ma all’interno di un particolare organismo la loro attivi­ tà è diversa: noi abbiamo bisogno della miosina per facilitare un corretto funzionamento delle ciglia dell’orecchio interno e, in definitiva, per udire; le piante hanno bisogno della miosina per un corretto funzionamento delle loro ciglia radicali, che consentono loro di bere acqua e di reperire nutrienti dal suolo. * Q uesto sito web illustra la miosina in azione: www.sci.sdsu.edu/movies/ actin_myosin_gif.html.

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La pianta sorda Seri e rispettabili studi scientifici ci hanno permesso di con­ cludere che i suoni prodotti dalla musica sono irrilevanti per una pianta. Ma ne esistono altri che, almeno teoricamente, po­ trebbero risultare un vantaggio per una pianta che reagisse al­ la loro presenza? Il professor Stefano Mancuso,25 direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale dell’Università di Firenze, ha impiegato recentemente delle onde so­ nore per incrementare il raccolto di un vigneto in Toscana. Ma le basi biologiche di questo uso delle onde sonore in agricoltu­ ra non sono ancora chiare. Lilach Hadany, una bioioga teorica dell’Università di Tel Aviv, usa modelli matematici per studiare l’evoluzione, e ipo­ tizza che le piante reagiscano effettivamente ai suoni, ma che noi non siamo ancora riusciti a compiere gli esperimenti adat­ ti a rilevare questo comportamento. Di fatto, nella scienza in generale l’assenza di una conferma sperimentale non equivale a una conclusione negativa. Secondo il parere di Hadany, do­ vremmo concepire uno studio che utilizzi un suono provenien­ te dal mondo naturale e che sia noto per influenzare un proces­ so specifico della pianta. Uno di questi potrebbe essere il ronzio delle api. In un processo al quale ci si riferisce come ronzio di impollinazione, i calabroni stimolano un fiore a rilasciare il pol­ line facendo vibrare rapidamente i loro muscoli alari senza far sbattere realmente le ali, e originando una vibrazione ad alta frequenza. Ma anche se questa vibrazione può essere udita (è il ronzio che sentiamo al volare di un’ape), il rilascio del polli­ ne richiede un contatto fisico fra l’ape che vibra e il fiore. Così, proprio come una persona sorda può sentire e reagire alle vi­ brazioni della musica, i fiori sentono e rispondono alle vibra­ zioni dei calabroni, senza necessariamente udirle. Però, è con­ cepibile che le vibrazioni possano influenzare il fiore anche in una qualche altra maniera, non ancora riscontrata. Seguendo lo stesso percorso Roman Zweifel e Fabienne Zeugin dell’Università di Berna, in Svizzera,26 hanno insisti­ to sulla presenza di vibrazioni ultrasoniche emanate da alberi 96

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di pino e di quercia durante periodi di siccità. Tali vibrazioni sarebbero il risultato di modificazioni del contenuto dei vasi dello xilema adibiti al trasporto d’acqua. Mentre i suoni presi in esame in precedenza sono il risultato passivo di forze fisi­ che (come il rumore di un masso che si stacca da una collina), le vibrazioni ultrasoniche sono forse usate da altri alberi come segnale per prepararsi a un clima arido? Mentre gli scienziati effettuano studi appropriati sulle rea­ zioni delle piante alle onde sonore, dobbiamo renderci conto che se una pianta avesse bisogno dell’udito, allora il suo appa­ rato uditivo dovrebbe essere assai diverso da quello che si è evoluto negli animali. In aggiunta ai pochi esempi analizzati in precedenza, forse alcune piante avvertono piccoli suoni che po­ trebbero essere creati da minuscoli organismi. Un apparato del genere potrebbe essere fuori della portata della maggior parte degli strumenti attualmente impiegati in fisiologia. Anche se è interessante riflettere su queste possibilità, salvo concreti elementi a favore del contrario, dobbiamo concludere per il momento che le piante sono sorde e che nel corso dell’e­ voluzione non hanno acquisito il senso dell’udito. Il grande biologo evoluzionista Theodosius Dobzhansky disse una vol­ ta: “Niente in biologia ha significato se non alla luce dell’evo­ luzione” .27Sulla base di questa considerazione, forse possiamo capire perché l’udito, al contrario degli altri sensi che abbiamo preso in esame, non è veramente necessario alle piante. Il vantaggio evolutivo dell’udito negli esseri umani, e ne­ gli altri animali, è quello di essere uno dei mezzi impiegati dal corpo per avvertire della presenza di situazioni potenzialmen­ te pericolose. I nostri più lontani antenati potevano sentire un predatore pericoloso in agguato nella foresta. Oggi, noi ci ac­ corgiamo del leggero rumore dei passi di qualcuno che ci segue a notte tarda in una strada scarsamente illuminata. E udiamo il motore di un’auto che si sta avvicinando. L’udito rende pu­ re possibili le comunicazioni rapide fra individui umani e fra animali. Gli elefanti possono rintracciarsi attraverso ampie di­ stanze emettendo onde subsoniche che rimbombano e viaggia­ no per chilometri. Un delfino adulto può ritrovare un piccolo 97

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sperduto nell’oceano grazie a segnali di pericolo e i pinguini imperatore usano richiami ben precisi e specifici per trovare i loro compagni e le loro compagne. Ciò che accomuna tutte queste situazioni è che il suono consente una rapida comuni­ cazione dell'informazione e una risposta, che spesso si tradu­ ce in movimento: fuga da un incendio o da un attacco, ricerca della famiglia, e così via. Come abbiamo visto, le piante sono organismi sessili, immo­ bili, assicurati al suolo dalle loro radici. Possono crescere verso il sole e piegarsi con la gravità, ma non fuggire. Non possono migrare con le stagioni. Rimangono ancorate dinanzi a un am­ biente sempre mutevole. Ma i vegetali operano anche su una diversa scala temporale rispetto agli animali. I loro movimen­ ti, con la notevole eccezione di piante come la Mimosa e la Ve­ nere acchiappamosche, sono decisamente lenti e non vengono notati facilmente dall’occhio umano. Come tali, i vegetali non hanno bisogno di una comunicazione dettagliata che consenta loro una rapida fuga. Per le piante, i segnali uditivi che usiamo nel nostro mondo sono irrilevanti. Le piante mancano di strut­ ture per una vocalizzazione coerente, e il rumore delle foglie al vento o dei rami che si spezzano sotto i nostri piedi non comu­ nica loro alcunché. Le piante hanno prosperato per centinaia di milioni di anni sulla Terra e le quasi 400.000 specie vegetali hanno conquistato ogni habitat senza mai udire un suono. Ma per quanto sorde, esse sono consapevoli del luogo in cui si tro­ vano, della direzione nella quale crescono e delle modalità con le quali si muovono.

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N on ho mai visto alberi insoddisfatti. Essi si aggrappa­ no al suolo come se quest’ultimo piacesse loro, e seb­ bene saldamente radicati viaggiano quasi quanto noi. Errano in tutte le direzioni con ogni vento, vanno e ven­ gono come noi, viaggiando con noi attorno al Sole per­ correndo tre milioni di chilometri al giorno, e attraverso gli spazi celesti sanno quanto veloci e lontano viaggiano. JOHN MUIR

I fusti si innalzano, le radici affondano. Sembra abbastanza semplice; ma come fanno le piante a sapere in quale direzione si trova l’alto? Si potrebbe pensare che ne sia responsabile la luce solare, ma se la luce rappresenta il cartello principale per indicare l’alto, una pianta come potrebbe muoversi durante la notte? Oppure, quando è ancora semplicemente un seme che germina sottoterra? E si potrebbe anche pensare che la consa­ pevolezza del basso sia dovuta al contatto con l’umido suolo buio. Ma le radici aeree dell’albero del baniano o delle man­ grovie puntano sempre verso il basso, anche se partono parec­ chi metri in alto nell’aria. Gli scienziati hanno documentato che quando viene capo­ volta, una pianta si riorienta con una lenta manovra - come nel caso di un gatto che cade e si raddrizza prima di toccare il suo­ lo - in modo che le radici si sviluppino verso il basso e i fusti verso l’alto.* E le piante non sanno soltanto quando vengono * Questa clip, http://phytomorph.wisc.edu/asset/movies/gravitropism.swf, mostra un filmato al rallentatore di una radice collocata di fianco che lentamen-

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collocate a testa in giù; alcuni esperimenti hanno mostrato che sono sempre consapevoli di dove si trovino i loro rami; sanno se stanno crescendo perpendicolarmente al suolo oppure di lato, secondo una qualche angolazione, e i viticci sanno sempre be­ nissimo dove si trovi il supporto più vicino al quale avvolgersi. Pensate semplicemente al ragno malefico, che esegue dei cerchi nell’aria alla ricerca di una pianta idonea a essere parassitata. Ma come fa una pianta a conoscere davvero la sua posizione nello spazio? E come facciamo a saperlo noiì Noi lo sappiamo a causa del nostro sesto senso che, al con­ trario della credenza popolare, non è una ESP (extra sensorial perception, la cosiddetta percezione extrasensoriale), è la propriocezione. La propriocezione ci rende in grado di conosce­ re la posizione delle diverse parti del nostro corpo in relazione l’una con l’altra, senza doverle guardare. Mentre i nostri altri sensi sono orientati verso l’esterno, ricevendo segnali come la luce, gli odori e i suoni da fonti esterne a noi, la propriocezione ci fornisce informazioni basate unicamente sullo stato interno dell’organismo. Ci rende in grado di muovere le gambe in ma­ niera coordinata per camminare, di ruotare le braccia per af­ ferrare una palla da baseball, e di grattarci quando sentiamo un prurito al collo. Senza la propriocezione un compito semplice come quello di lavarci i denti sarebbe praticamente impossibile. È quel tipo di senso che non prendiamo molto in conside­ razione, a meno che non lo perdiamo; ma se siete mai stati an­ che leggermente brilli, avete sperimentato una compromissio­ ne della propriocezione. E per questo che la polizia usa un test piuttosto semplice al quale sottoporre gli autisti sospettati di ubriachezza: comportala “coordinazioneocchio-mano” e rive­ la facilmente chi mostra alterazioni nella propriocezione e chi no. Quando siete sobri, toccarvi il naso mantenendo gli occhi chiusi è un compito semplice. Ma le persone che sono anche moderatamente ubriache troveranno questo test molto diffici­ le da eseguire correttamente. te, ma senza indugio, ruota spingendosi verso il basso. Altri grandi filmati p os­ sono essere reperiti all’indirizzo web http://plantsinmotion.bio.indiana.edu.

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Comprendere la propriocezione è meno intuitivo che com­ prendere i nostri altri sensi, poiché manca un organo specia­ lizzato per lo svolgimento del compito. La vista è percepita attraverso gli occhi, l’olfatto attraverso il naso, e l’udito attra­ verso le orecchie. Anche la sensazione tattile attraverso i ner­ vi della pelle è abbastanza semplice da comprendere. La pro­ priocezione, invece, coinvolge l’input coordinato di segnali provenienti dall’orecchio interno, che comunicano l’equili­ brio, insieme a segnali di nervi specifici in tutto il corpo, che comunicano la posizione. A fianco delle strutture dell’orecchio interno necessarie per l’udito, si trova un complesso sistema di minuscole camere chiamate canali semicircolari e vestibolo, che operano insie­ me per la percezione della posizione della testa. I canali semicircolari giacciono ad angolo retto l’uno rispetto all’altro, for­ mando una struttura che somiglia a un giroscopio. Essi sono riempiti di fluido, e quando la nostra testa cambia posizione il fluido si muove. I nervi sensori alla base di ogni canale reagi­ scono alle ondate del fluido e dal momento che sono situati su tre piani distinti, i canali possono comunicare i movimenti in ogni direzione. Anche il vestibolo è riempito di fluido e con­ tiene ciglia sensorie e otoliti, piccole pietruzze cristalline che affondano letteralmente in risposta alla gravità, aggiungendo una ulteriore pressione (e quindi aumentando la stimolazione) sulle ciglia sensorie nel vestibolo. Tutto questo ci informa se siamo in piedi, sdraiati oppure a testa in giù. La pressione degli otoliti sui nervi di zone diverse del vestibolo ci aiuta a distin­ guere l’alto dal basso. Questa funzione viene scombussolata in certe attrazioni che si trovano nei parchi dei divertimenti, che scuotono gli otoliti a tal punto da non farci più avere idea di dove ci troviamo. Mentre le funzioni dell’orecchio interno ci aiutano a man­ tenere l’equilibrio, i nervi propriocettivi disseminati nel nostro corpo mantengono ogni suo elemento coordinato con gli altri, e i recettori propriocettivi informano il cervello della posizione dei nostri arti. Questi nervi sono distinti dai nervi tattili che av­ vertono la pressione o il dolore, e sono localizzati in profondità 101

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all’interno dell’organismo, nei muscoli, nei legamenti e nei ten­ dini. Il legamento crociato anteriore del ginocchio, per esempio (conosciuto anche come l c a ), contiene nervi che comunicano un input propriocettivo dalla parte inferiore della gamba. Al­ cuni anni fa, mi strappai I’ l c a dopo essere stato sfidato da mio figlio sulla pista da sci. Dopo l’incidente rimasi molto sorpreso nello scoprire che avevo difficoltà a camminare: continuavo a inciampare nei miei stessi piedi. Avevo perduto la segnalazione propriocettiva della posizione del mio piede - e alla fine l’ho riacquisitata quando il mio cervello ha cominciato a integrare l’informazione proveniente dagli altri nervi della mia gamba. Dalla propriocezione dipendono due principali processi cor­ porei collegati fra loro: la consapevolezza della posizione rela­ tiva delle parti del corpo a riposo (consapevolezza statica) e la consapevolezza della posizione relativa delle parti del corpo in movimento (consapevolezza dinamica). La propriocezione comprende non soltanto il nostro senso dell’equilibrio, ma an­ che il nostro movimento coordinato, dal semplice agitare una mano alla più complessa integrazione di movimento ed equili­ brio che ci occorre per camminare per strada, ai movimenti an­ cora più articolati di un ginnasta olimpico che esegue un salto mortale alla trave. Questi due processi - la consapevolezza sta­ tica e la consapevolezza dinamica della posizione del corpo sono collegati anche nei vegetali e sono stati per anni al centro delle ricerche di molti botanici.

Distinguere l ’alto dal basso Nel 1758 - oltre un secolo prima della pubblicazione del­ la pietra miliare di Darwin II potere di movimento nelle pian­ te - Henri-Louis Duhamel du Monceau,1un ispettore navale francese con la passione per la botanica, osservò che se si ca­ povolgeva una piantina, le sue radici si riorientavano in manie­ ra da procedere verso il basso, mentre il suo fusto si piegava e cresceva verso l’alto. Questa semplice osservazione di radici che crescono come attratte dalla gravità (gravitropismo posi­ tivo) e fusti che crescono in direzione opposta contro questa 102

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forza (gravitropismo negativo) ha portato a una serie di inter­ rogativi e di ipotesi che hanno continuato a influenzare le ri­ cerche condotte nei laboratori di tutto il mondo. Molti scien­ ziati che hanno letto le tesi di Duhamel hanno concluso che il riorientamento delle radici doveva essere veramente legato alla gravità. Ma Thomas Andrew Knight, un esponente della Royal Society, aveva segnalato circa cinquant’anni più tardi che “L’ipotesi [della gravità che influisce sulla crescita delle piante] non appare essere corroborata da alcun dato di fatto”.2 Mentre molti scienziati avevano interpretato l’osservazione di Duhamel come una prova che la gravità influisca sulla crescita delle piante, nessuno aveva portato avanti esperimenti scienti­ fici rigorosi per mettere alla prova questa idea; ciò che Knight si accingeva a fare. Knight faceva parte dell’aristocrazia terriera e viveva in un castello del West Midlands, in Inghilterra, circondato da estesi giardini, frutteti e serre. Non aveva una formazione scientifica, ma, com’era consuetudine per gli aristocratici del diciannove­ simo secolo, sfruttava il tempo libero per acquisire una certa conoscenza scientifica; presto divenne particolarmente esperto di orticoltura, rivelandosi uno dei fisiologi vegetali più rilevan­ ti della propria epoca. Per i suoi studi su come le piante sanno distinguere l’alto dal basso, Knight sviluppò un sofisticato ap­ parato sperimentale che annullava l’effetto della gravità terre­ stre sulla crescita delle piante e contemporaneamente applicava una forza centrifuga che avrebbe agito sulle radici. Lo studioso costruì una ruota idraulica azionata da un corso d’acqua che scorreva nella sua tenuta, e attaccò una piastra di legno alla ruota in modo che la piastra ruotasse insieme a quest’ultima. Quindi, avvolse diverse piantine di fagiolo attorno alla piastra, in varie posizioni in modo che le estremità delle loro radici fos­ sero rivolte in ogni possibile direzione - verso il centro, l’ester­ no, secondo una certa angolazione e così via. Knight lasciò che la ruota si muovesse alla nauseante velocità di 150 rivoluzioni al minuto per diversi giorni, con le piantine che facevano una capriola a ogni rotazione della piastra. Alla fine del trattamento, Knight constatò che tutte le radici erano 103

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L’illustrazione rappresenta la ruota idraulica di Knight con le piantine collo­ cate su di essa prima dell’inizio dell’esperimento e dopo la sua conclusione.

cresciute verso l’esterno, mentre tutti i fusti erano cresciuti in direzione del centro. Con la sua centrifuga improwisata, Knight aveva applicato alle piantine una forza che imitava la gravità, mostrando che le radici crescono sempre in direzione di questa forza centri­ fuga mentre i fusti crescono in direzione opposta. L’opera di Knight fornì la prima conferma sperimentale delle osservazioni di Duhamel. Egli mostrò che le radici e i fusti reagiscono non soltanto alla gravità naturale, come aveva già indicato Duha­ mel, ma anche a quella artificiale fornita dalla sua centrifuga azionata dall’acqua. Ma rimaneva ancora da spiegare come una pianta riesca a percepire la gravità. L’interesse per come le piante avvertano la gravità riprese vigore verso la fine del diciannovesimo secolo. Come nel caso di tanti altri interrogativi a proposito della scienza delle pian­ te,3 furono Charles Darwin e suo figlio Francis a compiere gli esperimenti decisivi sull’argomento, e secondo il più puro me­ todo darwiniano i due eseguirono uno studio estremamente dettagliato ed esauriente, in questo caso per determinare esat­ tamente quale parte della pianta avverta la gravità. La loro ipo­ tesi iniziale era che all’estremità della radice fossero localizza­ ti dei “gravicettori” (analoghi ai fotorecettori per la luce). Per 104

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metterla alla prova, tagliarono a diversi livelli le radici di fagioli, piselli e cetrioli, e poi le collocarono su un fianco sul suolo umi­ do. Anche se continuavano ad allungarsi, le radici non avevano più la capacità di riorientare la loro crescita e piegarsi verso il suolo. Anche l’amputazione di solo 0,5 millimetri dell’estremità era sufficiente a eliminare la sensibilità alla gravità da parte di tutta la pianta! I Darwin notarono pure che, se la sua estremi­ tà ricresceva entro qualche giorno dall’amputazione, la radice riacquistava la capacità di reagire alla gravità, riprendendo il precedente comportamento e piegandosi verso il suolo. Questo risultato era simile a quello che Darwin aveva otte­ nuto conducendo le sue ricerche sul fototropismo. Nell’esperi­ mento sul fototropismo, lo studioso aveva mostrato che l’estre­ mità di un fusto vede la luce e trasferisce questa informazione alla sezione centrale per dirle di piegarsi verso di essa. In questo caso, Darwin e suo figlio mostrarono che l’estremità della radi­ ce percepisce la gravità, anche se il piegamento avviene molto più in alto nella radice stessa. In seguito a queste osservazioni, Darwin ipotizzò che l’estremità della radice inviasse un segnale su per il resto della radice stessa, per dirle di crescere seguen­ do il vettore di gravità. Per controllare questa ipotesi, Darwin infilzò con uno spil­ lo un seme di fagiolo, collocandolo sul fianco sopra un terre­ no, ma questa volta attese novanta minuti prima di amputare l’estremità della radice (con una pianta normale collocata su un fianco, di solito occorrono diverse ore prima che il riorien­ tamento della radice sia evidente). Trovò che la radice si rio­ rientava verso il basso, anche se era priva di estremità. Darwin ipotizzò che, nei novanta minuti trascorsi prima di tagliare l’e­ stremità, la pianta di fagiolo avesse inviato istruzioni su per la radice, le quali avevano detto alla pianta di piegarsi. Darwin e suo figlio ottennero gli stessi risultati in esperimenti analoghi con sei diversi tipi di piante e anche bruciando le estremità con nitrato d’argento, invece di amputarle. Conclusero, quindi, che l’estremità della radice avverte immediatamente la gravità e tra­ smette questa informazione lungo la sua struttura, dicendo alla pianta quale sia la direzione ottimale per la crescita. 105

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Semi di fagiolo (Vicia faba) fissati di lato con degli spilli per ventitré ore e trenta minuti. In A, B e C Darwin cauterizzò con nitrato d ’argento le estre­ mità della radice (invece che amputarle semplicemente). L e radici in D , E e F. invece, non vennero trattate.

La nostra comprensione di come una pianta distingua l’alto dal basso è progredita notevolmente nel corso del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. Prima, Duhamel aveva rivelato che le piantine riorientano la loro crescita in modo che le radi­ ci crescano verso il basso e i fusti verso l’alto; quindi, Knight mostrò che la ragione di questa “crescita alto-basso” era la gravità e, in seguito, i Darwin rivelarono che i meccanismi che percepiscono la gravità si trovano all’estremità della radice. Sarebbe trascorso oltre un secolo4 prima che studi di genetica molecolare confermassero i risultati di Darwin, dimostrando che le cellule all’estremità della radice (situate in una regione chiamata cuffia della radice) percepiscono la gravità e aiutano una pianta a sapere in quale direzione si trovi il basso. Se per affondare nel suolo una pianta ha bisogno che le estremità delle sue radici siano intatte, ci si potrebbe aspettare (come ha fatto Darwin) che l’estremità del fusto sia essenziale alla pianta per potersi sviluppare verso l’alto. Dopotutto, Dar­ win aveva mostrato che tagliarne l’estremità superiore causa la perdita della capacità di una pianta di vedere e di piegarsi verso la luce che proviene lateralmente. Sorprendentemente, però, 106

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una pianta che ha avuto l’estremità del suo stelo staccata con­ tinua a crescere, mantenendo il gravitropismo negativo. Q ue­ sto può significare che la radice e lo stelo avvertono la gravità in maniera differente? Parecchie delle nostre conoscenze circa la percezione della gravità da parte delle piante provengono da studi che hanno usato la pianta preferita di ogni laboratorio, l’arabidopsis. Pro­ prio come Maarten Koornneef e i suoi colleghi avevano isolato piante “cieche” con difetti a carico dei diversi fotorecettori (co­ me abbiamo visto nel capitolo 1), molti scienziati5 hanno iso­ lato arabidopsis mutanti che non distinguono l’alto dal basso. La procedura è davvero molto semplice: gli scienziati allevano migliaia di piantine di arabidopsis mutante per una settimana e poi fanno ruotare di novanta gradi i loro contenitori. Quasi tutte le piantine si riorientano in modo che il germoglio cresca verso l’alto e le radici verso il basso. Ma i rari mutanti che non hanno il senso della gravità continueranno a crescere senza mo­ dificare la propria direzione.* Molti di questi mutanti presentano difetti sia nelle radici sia negli steli, e hanno perduto la capacità di distinguere l’alto dal basso. Ma in altre arabidopsis mutanti vengono influenzati soltanto la radice oppure lo stelo, il che suggerisce che radici e steli rilevino la gravità in maniera differente. Per esempio, un’arabidopsis mutante6nel gene denominato scarecrow ha germo­ gli che non riconoscono di essere collocati su un fianco, così la pianta mutante rimane orizzontale e presenta un difetto nel gravitropismo negativo dello stelo.** Ma, sorprendentemente, * In questi tipi di studi i semi vengono spesso trattati in precedenza con so­ stanze chimiche che provocano mutazioni nel DNA. La probabilità che la so­ stanza chimica funzioni su un gene specifico necessario per il gravitropismo è molto piccola, pertanto devono essere esaminate migliaia di piantine. For­ tunatamente, le piantine di arabidopsis sono minuscole, così è possibile uno screening su larga scala. * * Dare un nome ai mutanti dell’arabidospsis, e anche degli altri organismi, è la prerogativa dello scienziato che li isola per primo. Il nome di quest’ulti­ mo viene presentato in lettere minuscole e in corsivo, e corrisponde al nome del gene mutante. Alcuni scienziati sono più conservatori e denominano i loro mutanti secondo le loro caratteristiche evidenti (come il mutante short-

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le radici in questo mutante sanno crescere verso il basso (ov­ vero mantengono il gravitropismo positivo). Una campanu­ la coltivata giapponese chiamata Shidare-asagao (che significa “piangente”) ha germogli che non sanno riconoscere l’alto dal basso; certo, ciò la rende una pianta ornamentale pensile assai attraente, ma fornisce anche agli scienziati un ottimo mutante per studiare il gravitropismo. Che cosa permette agli steli e al­ le foglie di questa pianta di crescere in varie direzioni? Recen­ ti studi genetici7 mostrano che la Shidare-asagao contiene una mutazione nel suo gene scarecrow. Il che comporta la domanda: questi mutanti dimostrano definitivamente che il meccanismo per la percezione della gravità differisce nelle parti della pianta situate sopra e sotto il suolo? Per la verità, questo mutante non ci dice che il meccanismo per la percezione della gravità sia diverso nella radice e negli steli, ma semmai che è diverso il sito specifico (cosa che sape­ vamo già dagli studi di Darwin). Scienziati del laboratorio di Phil Benfey alla New York University hanno usato il mutan­ te scarecrow per cercare di individuare quale parte dello stelo percepisca la gravità. Più o meno al volgere del ventunesimo secolo hanno infine scoperto che il gene scarecrow è necessario per la formazione dell’endodermide,8un gruppo di cellule che si avvolge attorno ai tessuti vascolari della pianta. Nelle radici, l’endodermide agisce come una barriera selet­ tiva che regola attivamente quante e quali sostanze (come ac­ qua, minerali e ioni) entrano nei vasi dello xilema per essere trasportate verso le parti verdi della pianta. Ora, le piante che presentano un gene scarecrow mutato non hanno alcuna endodermide, e anche se ciò comporta radici piuttosto corte e debo­ li, non influisce sulla loro capacità di svilupparsi verso il basso, poiché i gravisensori all’estremità della radice non contengo­ no cellule endodermiche. Il mutante scarecrow ha un’estremità della radice normale, così sa dove si trova il basso. root dell’arabidopsis che ha, ovviamente, radici corte). Altri sono più creati­ vi. Esem pi di nomi di mutanti di arabidopsis comprendono scarecrow, toomanymouths e werewolf [rispettivamente, e letteralmente, spaventapasseri, troppebocche e lupo mannaro].

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Campanula (Pharbitis nil)

Ma se non hanno endodermide, gli steli non possono sa­ pere dove sia l’alto, e ciò nuoce al senso della direzione della pianta, proprio come amputare l’estremità della radice. In altre parole, nelle parti più basse e in quelle aeree della pianta, a ri­ levare la gravità sono due tessuti distinti. Nelle radici è l’estre­ mità della pianta, nello stelo è l’endodermide. Così, mentre i nostri “gravicettori” si trovano soltanto nell’orecchio interno, le piante li hanno in diversi punti nelle loro estremità delle ra­ dici e nei loro steli. Questi gruppi specifici di cellule, all’estremità della radice e nell’endodermide, come fanno a percepire la gravità? Le prime risposte alla domanda sono giunte da studi della cuffia della radice che hanno sfruttato il microscopio per osservare le loro incredibili strutture subcellulari. Le cellule presenti nell’area centrale della cuffia contengono dense strutture sferiche bat­ tezzate statoliti (chiamate così dai termini greci per “pietra sta­ tica, immobile” ) che - analogamente agli otoliti presenti nelle 109

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nostre orecchie - sono più pesanti delle altre parti della cellula e cadono sul fondo delle cellule della cuffia.* Quando una radi­ ce è collocata sul fianco, gli statoliti cadono verso il nuovo fon­ do della cellula, proprio come le palline scorrerebbero verso il fondo di un barattolo coricato su un fianco. Non sorprende che l’unico tessuto aereo della pianta a contenere statoliti sia l’endodermide. Proprio come nella cuffia della radice, quan­ do una pianta si trova su un fianco, gli statoliti dell’endoderma cadono su quello che era il lato della cellula e questa parte di­ venta ora il nuovo fondo della pianta. Le modalità con le quali gli statoliti reagivano alla gravità hanno condotto i ricercatori a proporre che essi siano effettivamente i recettori della gravità. Se gli statoliti sono i recettori della gravità, allora il loro semplice spostamento dovrebbe essere sufficiente a spingere una pianta a modificare la propria direzione di crescita, come se fosse stata influenzata dalla gravità. Soltanto con l’avvento della genetica molecolare e, faccenda piuttosto interessante, del volo spaziale - al quale arriverò fra un attimo - gli scienziati sono stati in grado di condurre gli esperimenti che affrontava­ no questa domanda. Negli ultimi venti anni John Kiss e colleghi della Miami Uni­ versity, in Ohio, hanno usato alcuni dei giocattoli più straordi­ nari della scienza per determinare se a percepire la gravità in una pianta siano davvero gli statoliti. Usando un campo m a­ gnetico ad alto gradiente che simulava la gravità,9 Kiss ha in­ dotto gli statoliti a migrare lateralmente, come se avesse messo sul fianco le piante nelle quali si trovavano. In tale circostanza le radici cominciavano a piegarsi nella stessa direzione presa dagli statoliti: se questi ultimi si muovevano a destra, la radice si piegava verso destra; se si spostavano a sinistra, la radice si piegava verso sinistra. Questi risultati confermavano l’idea che è la posizione degli statoliti a dire a una pianta dove si trova il basso. Hanno anche condotto Kiss a predire che in assenza di gravità gli statoliti non sarebbero caduti nel fondo della cel­ * Gli statoliti nelle piante superiori (fiorite) sono anche noti come amiloplasti, forme modificate di cloroplasti, che contengono amido invece di clorofilla.

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lula, e quindi la pianta non avrebbe saputo in quale direzione fosse il basso. Ovviamente, per saggiare questa ipotesi a Kiss sarebbero servite condizioni di assenza di gravità, come in un veicolo spaziale in orbita attorno alla Terra. A bordo dello Space Shuttle, dove le piante non sono ovvia­ mente soggette agli effetti della gravità, gli statoliti non posso­ no depositarsi e rimangono distribuiti per tutta la cellula. In tali condizioni di assenza di peso,10 Kiss non poteva rilevare alcun piegamento gravitropico nelle piante che si trovavano nello spazio. Questi studi hanno rivelato, dunque, un’ipotesi affascinante sui motivi che spingono le piante a comportarsi in questa maniera: una pianta ha bisogno degli statoliti per avver­ tire la gravità, proprio come noi abbiamo bisogno degli otoliti nelle orecchie per stimolare i nostri recettori dell’equilibrio.

L’ormone del movimento Le modalità con le quali una radice capovolta di fagiolo rea­ gisce alla gravità, un tulipano in un vaso da fiori sul davanzale si muove verso il Sole e una Cuscuta si insinua fino alla pianta di pomodoro più vicina sono simili: le piante percepiscono un cambiamento (della gravità, della luce oppure dell’odore) nel loro ambiente e si piegano in risposta allo stimolo. Gli stimoli sono differenti, ma le risposte sono simili, ovvero lo sviluppo in una particolare direzione. Abbiamo parlato a lungo di co­ me una pianta avverta la gravità (e la luce e gli odori), ma non abbiamo ancora preso in esame cosa dice questa informazione sensoriale a una pianta per farla crescere e per farla piegare. Riesaminiamo gli esperimenti di Darwin sul fototropismo del capitolo 1. Il naturalista inglese aveva mostrato che l’estremità della piantina “vede” la luce e trasferisce questa informazione alla sua sezione centrale per dirle di piegarsi nella sua direzio­ ne. Tale comportamento è analogo a quello della cuffia della radice, che “sente” la gravità e quindi trasferisce l’informazio­ ne su per la radice, per indurre la pianta a svilupparsi verso il basso, oppure a quello della Cuscuta, che annusa il pomodoro e, quindi, si piega nella sua direzione.

Ili

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All’inizio del ventesimo secolo il fisiologo vegetale Peter Boysen-Jensen11 ampliò gli esperimenti di Charles Darwin sul fototropismo. Come Darwin, egli tagliò le estremità delle sue piantine di avena, ma prima di rimettere nuovamente le estre­ mità sul troncone della pianta, fece qualcosa di insolito, ma as­ solutamente ingegnoso. Collocò un leggero strato di gelatina o un piccolo pezzo di vetro fra il moncherino e l’estremità, e si avvide che, quando illuminava lateralmente le piante, quella con lo strato di gelatina si piegava verso la luce, mentre quella con il vetro rimaneva diritta. Ciò provò a Boysen-Jensen che il segnale deputato a indurla a piegarsi proveniente dall’estremi­ tà della pianta deve essere solubile, dal momento che eviden­ temente riusciva a passare attraverso la gelatina, ma non attra­ verso il vetro. Tuttavia, Boysen-Jensen non sapeva quale fosse la sostanza chimica che dalla estremità scendeva fino allo stelo per farlo piegare. Nei primi anni Trenta del secolo scorso, gli scienziati hanno infine identificato questa sostanza chimica e l’hanno chiamata auxina, termine che deriva dalla parola greca per “aumentare” .

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Le piante hanno diversi ormoni, ma nessuno così importante o coinvolto in tanti processi e funzioni come l’auxina. Una di queste funzioni consiste nel dire alle cellule di aumentare la loro lunghezza. La luce provoca un aumento dell’auxina sul lato in ombra della pianta, facendo allungare lo stelo soltanto da quella parte, inducendolo, quindi, a piegarsi verso la luce. La gravità fa in modo che l’auxina appaia sul “lato superiore” delle radici, e ciò le fa crescere verso il basso, e sul “lato inferio­ re” di steli e foglie, facendole sviluppare verso l’alto. Anche se stimolazioni differenti attivano sensi diversi delle piante, mol­ ti degli apparati sensoriali della pianta sono basati sull’auxina, l’ormone del movimento.

Piante danzanti Come si è accennato in precedenza in questo capitolo, la propriocezione è più che un semplice distinguere l’alto dal bas­ so; è anche il riconoscimento della posizione in cui si trovano le parti del nostro corpo quando ci si sta muovendo. Quando Mikhail Baryshnikov piroetta su un palco e atterra compiendo un arabesco, non è soltanto perfettamente bilanciato, ma an­ che pienamente consapevole della posizione di ogni parte del suo corpo. Sa bene quanto la sua gamba sia allungata dietro di lui, quanto alta sia la sua mano rispetto alla spalla, e cono­ sce l’esatta inclinazione del proprio tronco. Ovviamente, non sorprende affatto che noi vediamo le piante come creature sta­ tiche; esse sono organismi sessili, eternamente radicati e inca­ paci di locomozione. Ma quando le osserviamo con pazienza nell’arco di un lungo periodo, questa immobilità lascia il posto a un festival di movimenti dalla complessa coreografia, molto simile a un Baryshnikov che volteggia nella prima scena di un balletto. Le foglie si arrotolano e si distendono, i fiori si apro­ no e si chiudono, e gli steli si muovono in circolo e si piegano. Tali movimenti possono essere meglio osservati con la foto­ grafia al rallentatore, e uno dei primi usi di questa tecnica fo­ tografica è stato, infatti, proprio questo. Il professor Wilhelm Pfeffer, che aveva studiato con l’amico di Darwin, Julius von 113

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Sachs, filmò una varietà di piante in movimento, dai tulipani alla mimosa, sino alle fave. I suoi primi filmati sono granulosi, ma comunque affascinanti da guardare.* Molto tempo prima che entrasse in gioco la fotografia al rallentatore, tuttavia, il te­ nace e caparbio Darwin aveva studiato i movimenti delle pian­ te usando una procedura che richiedeva ben poca tecnologia, ma grande dispendio di tempo: sospesa una piastra di vetro so­ pra una pianta, lui segnava sul vetro la posizione dell’estremità della pianta a distanza di un certo numero di minuti, e conti­ nuava così per diverse ore. Collegando i punti ottenuti in tal modo, mappava gli esatti movimenti del suo soggetto (affetto da insonnia, Darwin trascorse più di qualche notte a monito­ rare meticolosamente le oltre trecento specie che aveva preso in esame in questa maniera, compreso il cavolo selvatico de­ scritto nella pagina seguente). Darwin scoprì così che tutte le piante si muovevano secon­ do una oscillazione a spirale ricorrente, che definì “circumnutazione” (dai termini latini per “cerchio” e “oscillazione”) .* * Questo schema a spirale varia fra le specie e può spaziare da un cerchio ripetitivo a una ellisse, oppure a una traiettoria fat­ ta di configurazioni intrecciate, come le immagini provenienti da uno spirografo. Alcune piante presentano movimenti sorprendentemente ampi, come i germogli di fagiolo, che compiono cerchi di un raggio che può arrivare fino a dieci centimetri. Altre eseguono movimenti nell’ordine di pochi millimetri, come i rametti delle fragole. U n’altra variabile del fenomeno è la velocità; i tulipani circumnutano a velocità relativamente costante (circa quattro ore), mentre per altre piante la velocità varia in maniera signi­ ficativa: per compiere un singolo cerchio, gli steli di arabidopsis impiegano da quindici minuti a ventiquattro ore, e il grano completa una rotazione nel volgere di due ore. Non sappiamo quali siano le fondamenta di questa individualità di comporta* Per alcuni esem pi, vedi w w w.dailym otion.com /video/xlhp9q_wilhem pfeffer-plant-movement_shortfilms#from=embed. * * Per un buon esempio di circumnutazione, guardate questo video: www. pnas.org/content/suppl/2006/01/11/0510471102,D Cl/10471M oviel.m ov.

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Tracciato di Darwin dei movimenti dell’estremità di una piantina di cavolo selvatico (Brassica oleracea) nell’arco di dieci ore e quarantacinque minuti.

mento, ma sappiamo che la velocità può essere influenzata da fattori interni e ambientali. Come ha scoperto una ricercatrice polacca, Maria Stolarz,12se si brucia una foglia di girasole a una fiammella per tre secondi soltanto, il periodo di rotazione cir­ colare della pianta quasi raddoppia per una singola rotazione. Quindi, il girasole ritorna alla sua velocità iniziale. Darwin era rimasto affascinato da questi movimenti, ed era giunto alla conclusione non solo che la circumnutazione fosse collegata direttamente al comportamento di tutte le piante, ma anche che queste danze oscillanti spiraliformi fossero in real­ tà la spinta propulsiva per tutti i movimenti delle piante. Egli ipotizzò che il fototropismo e il gravitropismo fossero sempli­ cemente delle circumnutazioni modificate, mirate verso una direzione particolare. Questa congettura rimase incontrastata fino a circa ottanta anni più tardi,13 quando Donald Israelsson e Anders Johnsson del Lund Institute of Technology proposero l’ipotesi alternativa che i movimenti oscillatori delle piante fos­ sero puramente un risultato del gravitropismo (e non la causa). Quando una pianta cresce, spiegarono, un leggero cambiamen­ to nella posizione dello stelo (causato dal vento, dalla luce o 115

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da una barriera fisica) avrà come risultato lo spostamento degli statoliti, che a loro volta spingeranno lo stelo a piegarsi, pro­ prio come i fattori esterni modificano un p o ’ la sua posizione. Questa flessione, tuttavia, spesso va oltre lo scopo. Proprio come il vecchio Bozo il Clown, che colpisce i sacchi e questi lo colpiscono di rimando, quando uno stelo si riorienta verti­ calmente, il suo primo raddrizzamento risulta eccessivo e lo spinge nella direzione opposta. Ora che lo stelo non è di nuo­ vo diritto, bensì orientato nell’altra direzione, gli statoliti si ri­ distribuiscono una seconda volta, originando una risposta gra­ vitropica verso il lato opposto della pianta. Tale nuova crescita sarà anche in questo caso eccessiva, e il ciclo si ripete, condu­ cendo al movimento oscillatorio che Darwin aveva documen­ tato per il cavolo e l’albero dei chiodi di garofano, e che vedia­ mo nei tulipani e nei cetrioli. Proprio come Bozo il Clown si muove avanti e indietro in tondo, cercando di trovare il proprio centro di gravità, lo stelo di una pianta compie cerchi nell’aria in cerca di equilibrio. Così, mentre Darwin ipotizzava che queste danze fossero un comportamento intrinseco di tutte le piante, Israelsson e 116

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Johnsson hanno supposto che alla base della danza circolare delle piante vi fosse la gravità. Alla fine, le due teorie sono sta­ te controllate sul finire del ventesimo secolo, con l’avvento del volo spaziale. Se la teoria di Darwin fosse corretta, la circumnutazione continuerebbe senza alcun ostacolo anche in assenza di gravità; se, invece, fosse esatto il modello incentrato sugli sta­ toliti di Israelsson e Johnsson, nello spazio la circumnutazione delle piante non dovrebbe avvenire. Negli anni Sessanta, agli inizi del programma spaziale, Alian H. Brown, noto e rispettato fisiologo vegetale, concepì uno dei primi esperimenti spaziali con l’arabidopsis, nel corso del pro­ gramma del Biosatellite III. Brown voleva saggiare se i movimen­ ti delle piante sarebbero continuati anche in assenza di gravità.* Il programma, però, venne cancellato a causa dei tagli ai finanziamenti; Brown dovette attendere fino al 1983,14 quan­ do i suoi esperimenti sulle piante furono tra i primi a essere condotti sullo Space Shuttle. Mentre si trovavano in orbita, gli astronauti a bordo della navetta Columbia monitorarono i movimenti delle piantine di girasole e trasmisero i dati agli scienziati a terra. Le piantine di girasole mostravano grandi movimenti sulla Terra, così rappresentavano la pianta ideale da lanciare con lo Shuttle per osservare cosa sarebbe accaduto nello spazio. A bordo del Columbia, a centinaia di chilometri dalla superficie terrestre, quasi il cento per cento delle piantine mostrava modelli di crescita rotatoria; anche nella condizione di quasi totale assenza di gravità, le piantine di girasole conti­ nuavano a presentare i loro marcati movimenti rotatori,15 così come facevano sulla Terra. Ciò confermava prepotentemente la teoria di Darwin. Ritorniamo alla seconda ipotesi, e cioè che questo movimen­ to a spirale sia strettamente collegato con la gravità. Pochi an­ ni or sono,16 Hideyuki Takahashi e colleghi della Japan Aerospace Exploration Agency monitorarono la circumnutazione * In realtà, riferendoci all’orbita, parliamo di “microgravità” piuttosto che di “assenza di gravità” in quanto sussiste ancora una lieve attrazione gravita­ zionale, pari a circa lo 0,001 per cento di quella normale.

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nella campanula mutante priva delTendodermide, la struttura sensibile alla gravità. La campanula mutante, che non reagiva alla gravità, non aveva nemmeno il movimento spiraliforme di un esemplare normale. Inoltre, nemmeno i mutanti di arabidopsis che avevano pochi statoliti o statoliti difettosi si muove­ vano a spirale. Ecco dei risultati che non avrebbero reso felice Darwin: infatti, confermavano energicamente l’idea che la circumnutazione e il gravitropismo fossero strettamente collegati (ovviamente, Darwin avrebbe di certo apprezzato la scienza di oggi, modificato le proprie ipotesi e sviluppato nuovi esperi­ menti per metterle alla prova). Takahashi spiegò la contraddizione fra i suoi risultati e quel­ li ottenuti sul Columbia suggerendo che dal momento che gli esperimenti sulla navetta spaziale erano stati condotti su semi fatti germinare sulla Terra, ciò potrebbe essere stato sufficiente a perpetuare la circumnutazione anche nello spazio. Effettiva­ mente, è ragionevole che un seme formato sulla Terra possegga caratteristiche differenti rispetto a uno formato nello spazio, e se così fosse, il tempo limitato a disposizione per gli esperi­ menti condotti sul Columbia (circa dieci giorni) potrebbe aver influito sul risultato dell’esperimento. Alla fine, la Stazione Spaziale Internazionale, che ha comin­ ciato a essere operativa nel 2000, ha rappresentato una strut­ tura ideale per esperimenti a lungo termine sugli effetti della gravità sulle piante. Anders Johnsson17 ha potuto mettere alla prova questa ipotesi quasi quarantennale quando, nel 2007, lui e i suoi colleghi norvegesi hanno potuto condurre per vari mesi un importante esperimento a bordo della stazione spaziale. Il loro piano di lavoro contemplava piante di arabidopsis germi­ nate a bordo della stazione spaziale e fatte crescere in speciali camere progettate per l’uso nello spazio. Le piantine venivano fotografate automaticamente a una distanza di tempo di qual­ che minuto, per monitorare la loro esatta posizione e rilevare qualsiasi movimento. Nelle condizioni prossime all’assenza di peso della stazione spaziale, le piante di arabidopsis esibivano un movimento a spirale, sebbene assai ridotto, dimostrando i movimenti previsti da Darwin e confermando le osservazio­ 118

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ni dello stesso Brown. Ma il raggio del movimento circolare e la sua velocità erano inferiori rispetto a quelli riscontrati sulla Terra, suggerendo così che la gravità fosse essenziale per am­ plificare tale movimento intrinseco. Queste piante prive di peso vennero collocate su una lar­ ga centrifuga che simulava la rotazione, proprio come la ruo­ ta idraulica di Knight parecchi anni prima. Mentre ruotavano, le piante potevano essere monitorate continuamente da una macchina fotografica. Quasi subito dopo aver avvertito la for­ za di gravità, cominciavano a muoversi in cerchi più ampi, e sia l’ampiezza sia la velocità dei loro movimenti somigliavano a quelle rilevate nelle piante di arabidopsis cresciute sulla Terra. Questo rivelò che la gravità non è necessaria per i movimenti; piuttosto, essa modula e amplifica i movimenti endogeni della pianta. Darwin non si era sbagliato: per quanto ne sappiamo, la circumnutazione è un comportamento intrinseco delle piante, ma per raggiungere la sua piena espressione questo comporta­ mento ha bisogno della gravità.*

La pianta bilanciata Una pianta può essere attratta contemporaneamente in va­ rie direzioni. La luce solare che la colpisce secondo una certa inclinazione la fa piegare verso i raggi, mentre gli statoliti che affondano all’interno dei rami che si piegano le dicono di rad­ drizzarsi. Questi segnali, spesso conflittuali, consentono a una pianta di collocarsi in una posizione ottimale per l’ambiente nel quale si trova. I viticci di un rampicante, in cerca di un sup­ porto al quale aggrapparsi, verranno attratti dall’ombra dello steccato del vicino, e la gravità li renderà in grado di avvolgersi rapidamente intorno a esso. Una pianta su un davanzale verrà attirata dalla luce e crescerà verso la parte soleggiata del da­ vanzale stesso, mentre nello stesso tempo la forza di gravità la influenzerà a crescere verso l’alto. L’odore del pomodoro atti­ * Il meccanismo complessivo della percezione della gravità18è più complesso della semplice caduta degli statoliti all’interno della cellula.

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rerà la Cuscuta nella sua direzione, mentre il gravitropismo la spingerà a continuare a crescere verso l’alto. Proprio come nel­ la fisica newtoniana, la posizione di ciascuna delle parti della pianta è data dalla composizione delle forze vettoriali che agi­ scono su di essa e che dicono alla pianta sia la posizione nella quale si trova sia in quale direzione crescere. Così, esseri umani e piante reagiscono alla gravità in maniera simile, e noi contiamo sugli organi sensoriali per informarci sul­ la nostra posizione e sul nostro stato di equilibrio. Ma quando ci muoviamo, non solo sappiamo dove si trovano le varie parti del nostro corpo in relazione alle altre, ma ci ricordiamo anche del movimento che abbiamo compiuto, il che ci permette di ripeterlo più volte. Anche le piante sono in grado di ricordare i movimenti che hanno effettuato?

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Le querce e i pini, e i loro fratelli della foresta, hanno visto sorgere e tramontare così tanti soli, e visto andare e venire così tante stagioni, e svanire nel silenzio così tante generazioni, che possiamo ben chiederci cosa sarebbe per noi “la storia degli alberi” , se questi avessero la lingua per narrarce­ la, oppure se le nostre orecchie fossero abbastanza sensibili da comprenderla. MAUD VAN BUKEN,

Quotations fo r Special Occasioni

I ricordi assorbono una buona parte delle divagazioni men­ tali giornaliere di una persona comune. Possiamo rammentare una festa particolarmente divertente, i giochi praticati da bam ­ bini, o un particolare evento buffo capitato in ufficio il giorno precedente. Possiamo richiamare alla memoria un tramonto mozzafiato visto una volta sulla spiaggia, ma anche esperienze particolarmente traumatiche e spaventose. La nostra memoria dipende dagli input sensoriali: un odore familiare o la canzone preferita possono sollevare un’onda di ricordi dettagliati che ci riportano in un particolare luogo e in un particolare momento. Come abbiamo visto, anche le piante beneficiano di abbon­ danti e diversificati input sensoriali. Ma esse ovviamente non hanno ricordi come i nostri: non tremano al pensiero della sic­ cità, né sognano i raggi del Sole estivo. Loro non patiscono l’es­ sere rinchiuse all’interno di un vaso, e una precoce emissione di polline non le mette in ansia. Al contrario della Nonna Salice del Pocahontas di marca Disney, i vecchi alberi non ricordano 121

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la storia delle persone che hanno dormito alla loro ombra. Co­ me abbiamo visto nei capitoli precedenti, però, le piante hanno chiaramente la capacità di conservare esperienze passate e di richiamare questa informazione in un momento successivo per integrarla nel contesto del loro sviluppo: le piante di tabacco sanno qual è il colore dell’ultima luce che hanno visto. Gli al­ beri di salice sanno se il loro vicino è stato attaccato dai bruchi. Questi esempi, e vari altri, illustrano una risposta ritardata ad avvenimenti occorsi in precedenza, fenomeno che rappresenta un componente chiave della memoria. Mark Jaffe,1lo stesso scienziato che aveva coniato il termi­ ne “tigmomorfogenesi” , pubblicò nel 1977 uno dei primi studi sulla memoria delle piante, anche se non la chiamò così (parlò, invece, di una ritenzione da una a due ore dell’informazione sensoriale assorbita). Jaffe voleva sapere cosa spinga i viticci dei piselli ad arricciarsi quando toccano un oggetto adatto a farli avvolgere attorno a sé. I viticci delle piante dei piselli sono strutture simili a steli che crescono in linea diritta fino a che non si imbattono in uno steccato oppure in un palo che possono usare come supporto, e poi si avvolgono rapidamente attorno all’oggetto al quale si afferrano. Jaffe mostrò che, se tagliava il viticcio di una pianta di piselli e teneva il viticcio staccato in un ambiente bene illuminato e umi­ do, poteva spingerlo ad arricciarsi semplicemente strofinando­ ne il lato inferiore con un dito. Ma quando conduceva lo stesso esperimento al buio, i viticci staccati non si arricciavano quando li toccava, e ciò stava a indicare che per compiere il loro magico attorcigliamento questi hanno bisogno di luce. Ma ecco la fac­ cenda interessante: se veniva collocato alla luce un’ora o due più tardi, un viticcio toccato al buio si arricciava spontaneamente senza che Jaffe dovesse strofinarlo ancora una volta. In qualche modo, comprese lo scienziato, il viticcio che era stato toccato al buio aveva conservato l’informazione, richiamandola una volta collocato alla luce. Questa conservazione e successivo utilizzo dell’informazione è lecito definirla “memoria” ? In realtà, ricerche sulla memoria umana condotte da un ce­ lebre psicologo come Endel Tulving ci forniscono una base ini­ 122

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ziale dalla quale muovere per esplorare le piante e i loro parti­ colari “ricordi” . Tulving2 propose che la memoria umana esista su tre diversi livelli: il livello più basso, la memoria procedurale (o memoria implicita), riguarda il ricordo non verbale di come si fanno le cose e dipende dalla capacità di percepire la stimo­ lazione esterna (come ricordare di nuotare quando ci si tuffa in una piscina). Al secondo livello si trova la memoria semantica, la memoria dei concetti (come la maggior parte degli argomenti che abbiamo appreso a scuola). Al terzo livello troviamo la me­ moria episodica, che riguarda il ricordo di eventi autobiografici, come certi buffi costumi delle feste di Halloween o la sensazio­ ne di perdita che abbiamo provato con la morte di un animale domestico che ci era caro. La memoria episodica dipende dalla “coscienza di sé” dell’individuo. Le piante evidentemente non possono esibire la memoria semantica né quella episodica; que­ ste ci definiscono come esseri umani. Ma i vegetali sono capa­ ci di percepire le stimolazioni esterne e di reagire a esse;3 così, secondo la definizione di Tulving, le piante dovrebbero avere almeno una memoria procedurale. E sicuramente le piante di piselli di Jaffe ne costituiscono un esempio. Avvertivano il tocco di Jaffe, lo ricordavano, e rispondevano attorcigliandosi. I neurobiologi conoscono decisamente la fisiologia dei ricor­ di e possono definire con precisione le distinte (ma intercon­ nesse) aree del cervello responsabili dei diversi tipi di memoria. E gli scienziati sanno che la segnalazione elettrica fra neuroni è essenziale per la formazione e la conservazione dei ricordi. In compenso, sappiamo molto meno circa le basi molecolari e cellulari della memoria. L e ultime ricerche,4 però, suggerisco­ no che mentre i ricordi sono infiniti, nel mantenimento della memoria è coinvolto soltanto un piccolo numero di proteine. E ciò è davvero affascinante. Ovviamente, dobbiamo essere consapevoli che quando ci riferiamo alla “memoria” , nelle persone il termine abbraccia molte forme distinte di memoria, oltre quelle descritte da Tul­ ving. Abbiamo la memoria sensoriale, che riceve e filtra rapidi input dagli organi sensoriali (in un batter d ’occhio); la memo­ ria a breve termine, che può trattenere, a livello cosciente e per 123

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svariati secondi, fino a circa sette informazioni; e la memoria a lungo termine, che si riferisce alla nostra capacità di conservare ricordi per la lunghezza di una vita intera. Abbiamo anche la memoria muscolo-motore, un tipo di memoria procedurale che costituisce un processo inconscio di apprendimento di movi­ menti come muovere le dita per allacciarsi le scarpe; e la me­ moria immunologica, che interviene quando il nostro sistema immunitario ricorda trascorse infezioni allo scopo di evitarne di future. Tutte, eccetto l’ultima, sono dipendenti dalle funzio­ ni cerebrali. La memoria immunologica è invece dipendente dall’opera dei globuli bianchi e degli anticorpi. Tutte le forme di memoria hanno in comune i processi di formazione del ricordo (codificare l’informazione), il manteni­ mento del ricordo (conservare l’informazione) e il richiamo del ricordo (recuperare l’informazione). Anche la memoria di un computer impiega esattamente questi tre processi. Andando a cercare l’esistenza anche dei ricordi più semplici nelle piante, i processi che dobbiamo vedere in azione sono questi.

ha memoria a breve termine della Venere acchiappamosche Come abbiamo visto nel capitolo 3, la Venere acchiappa­ mosche ha bisogno di sapere quando un cibo adatto a lei si sta muovendo lungo le sue foglie. Serrare la trappola comporta un enorme dispendio di energia, e riaprirla può richiedere ore, co­ sì la Dionaea vuole chiudersi soltanto quando è certa che l’in­ setto che bighellona attraverso la sua superficie sia abbastanza grande da valerne la pena. Le grandi ciglia nere presenti nei suoi lobi consentono alla Venere acchiappamosche di percepi­ re la preda, e si comportano come detonatori che fanno scattare la trappola quando al suo interno penetra una preda adegua­ ta. Se l’insetto tocca soltanto una delle ciglia, la trappola non scatta; ma un insetto abbastanza grande verosimilmente tocca due ciglia entro venti secondi l’una dall’altra, e questo segnale mette in azione la Venere acchiappamosche. Possiamo considerare questo sistema come un analogo della memoria a breve termine. Anzitutto, l’acchiappamosche codi­ 124

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fica l’informazione (forma la memoria) che qualcosa (non sa ancora cosa) ha toccato una delle sue ciglia. Quindi, conserva questa informazione per un certo numero di secondi (mante­ nimento della memoria) e alla fine recupera tale informazione (richiamo della memoria) una volta che viene toccata la secon­ da. Se una minuscola formica ci mette un po’ a passare da una delle ciglia a un’altra, nel momento in cui sfiora la seconda, la pianta avrà dimenticato il primo contatto. In altre parole, perde il mantenimento dell’informazione, non si chiude, e la formica può andarsene via felicemente. Ma come fa la pianta a codifi­ care e a conservare l’informazione del banale contatto dell’in­ setto con il primo ciglio? Come fa a ricordare il primo contatto in modo da reagire al secondo? Queste domande hanno sconcertato gli scienziati5 fin dal primo studio di John Burdon-Sanderson sulla fisiologia della Venere acchiappamosche, nel 1882. Un secolo più tardi, Dieter Hodick e Andreas Sievers all’Università di Bonn,6 in Ger­ mania, hanno congetturato che l’acchiappamosche conservi l’informazione riguardo quante ciglia vengono toccate nella carica elettrica della foglia. Nella sua semplicità, il loro model­ lo è davvero elegante. Nei loro studi i due hanno scoperto che toccare una delle ciglia grilletto sulla Venere acchiappamosche causa un potenziale di azione elettrico che induce i canali del calcio ad aprirsi nella trappola (questo accoppiamento di po­ tenziali di azione con l’apertura dei canali del calcio è simile ai processi che intervengono durante la comunicazione fra neu­ roni umani), causando un rapido incremento della concentra­ zione degli ioni calcio. Essi hanno proposto che, per scattare, la trappola richieda una concentrazione relativamente alta di ioni calcio e che il po­ tenziale di azione originato dal tocco di un solo ciglio non rag­ giunga questo livello. Quindi, per spingere la concentrazione del calcio oltre questa soglia e far scattare la trappola occorre che ne venga stimolato un secondo. La codifica dell’informa­ zione risiede nell’innalzamento iniziale dei livelli del calcio. La conservazione dell’informazione richiede, quindi, il manteni­ mento di un livello del calcio sufficientemente alto, in modo 125

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che un secondo incremento (fatto scattare dal tocco di un se­ condo ciglio) spinga oltre la soglia la concentrazione totale del calcio. D al momento che la concentrazione dello ione calcio tende a diminuire con il tempo, se il secondo contatto e il rela­ tivo potenziale non intervengono rapidamente, la concentra­ zione finale dopo il secondo innesco non sarà sufficientemen­ te alta da far chiudere la trappola, e il ricordo andrà perduto. Ricerche successive confermano questo modello. Alexander Volkov e i suoi colleghi7della Oakwood University in Alabama hanno dimostrato per primi che è proprio l’elettricità a spin­ gere la Venere acchiappamosche a chiudersi. Per controllare questa ipotesi avevano montato dei minuscoli elettrodi sui lo­ bi aperti della trappola e poi applicato una corrente elettrica, che l’ha fatta scattare senza nessun contatto diretto con le sue ciglia grilletto (non hanno misurato i livelli del calcio, ma ve­ rosimilmente la corrente portava a un loro incremento). M o­ dificando l’esperimento e variando l’intensità della corrente elettrica, Volkov è riuscito a determinare l’esatta carica elettri­ ca necessaria alla trappola per chiudersi. Quando attraverso i due elettrodi fluivano quattordici microcoulomb - una scarica leggermente più alta di quella che si genera elettrostaticamen­ te quando si sfregano l’uno contro l’altro due palloncini - la trappola si chiudeva. Ciò può avvenire sia sotto forma di una singola grande carica sia con una serie di cariche più piccole prodotte nell’arco di venti secondi. Se per accumulare la carica totale occorrono oltre venti secondi, la trappola rimane aperta. Questo, dunque, è il meccanismo di azione proposto per la memoria a breve termine della Venere acchiappamosche. Il pri­ mo tocco di un ciglio attiva un potenziale elettrico che si irra­ dia di cellula in cellula. Questa carica elettrica viene conservata per breve tempo come un aumento della concentrazione ionica prima di dissiparsi nell’arco di venti secondi. Ma se un secon­ do potenziale di azione raggiunge la nervatura mediana entro questo lasso di tempo, la carica totale e le concentrazioni ioni­ che superano la soglia richiesta e la trappola scatta. Se trascorre un intervallo di tempo troppo lungo fra i potenziali di azione, allora la pianta dimentica il primo e la trappola rimane aperta. 126

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Questo segnale elettrico nella Venere acchiappamosche (e i segnali elettrici nelle altre piante) sono simili ai segnali elettri­ ci che si producono nei neuroni degli esseri umani e di tutti gli animali in genere. Sia nei neuroni sia nelle foglie di Dionaea, il segnale può essere inibito da farmaci che bloccano i canali ioni­ ci che si aprono nelle membrane quando il segnale elettrico at­ traversa la cellula. Quando, per esempio, Volkov pretrattava le sue piante con una sostanza chimica che inibisce i canali del po­ tassio nei neuroni umani,8la trappola non si chiudeva in segui­ to a un contatto o alla somministrazione di cariche elettriche.

La memoria a lungo termine del trauma Alla metà del ventesimo secolo il botanico cecoslovacco Ru­ dolf DostàP portò avanti un lavoro, rimasto piuttosto ignorato, studiando quella che aveva definito “memoria morfogenetica” nelle piante. Quella morfogenetica è un tipo di memoria che in seguito influisce sulla forma e sullo stato della pianta. In al­ tre parole, una pianta può andare incontro a uno stimolo, co­ me uno strappo in una delle sue foglie oppure la rottura di un ramo, e non rimanerne inizialmente influenzata; ma quando cambiano le condizioni ambientali, essa può ricordare questa esperienza trascorsa e reagire modificando la propria crescita. Gli esperimenti di Dostàl sulle pianticelle di lino illustrano cosa lui intendesse per memoria morfogenetica. Per apprez­ zarli pienamente, occorre sapere qualcosa di più sulla fisiologia vegetale. Le pianticelle di lino emergono dal terreno con due grandi foglie chiamate cotiledoni. Al centro dei due cotiledoni si trova quello che è chiamato germoglio apicale, che si svilup­ pa dallo stelo centrale della pianta. Quando questo germoglio cresce, sotto di esso emergono due germogli laterali, ognuno di fronte a una delle foglie. In condizioni normali, i germogli laterali sono dormienti, ovvero non crescono. Tuttavia, se il germoglio apicale viene danneggiato oppure asportato, allora quelli laterali cominciano a crescere, si estendono e ognuno di loro forma un nuovo ramo nel quale il germoglio laterale di­ venta germoglio apicale. 127

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L’illustrazione mostra tre pianticelle di lino (Linum usitatissimum). L’imma­ gine a sinistra mostra una pianticella di due settimane con due cotiledoni e un germoglio apicale (la piccola protuberanza tra le due foglie). L’immagine al centro mostra una pianticella analoga, ma dopo che il germoglio apicale è stato asportato e i due germogli laterali sono stati lasciati crescere per una settimana. L’immagine a destra mostra una pianticella con il cotiledone sini­ stro rimosso prima di asportare il germoglio apicale.

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Questa repressione dei germogli laterali è chiamata domi­ nanza apicale, e l’annullamento di questa repressione costi­ tuisce la base della potatura delle piante. Quando lo vedete potare le siepi davanti a una casa, un giardiniere - se agisce in maniera corretta - sta in realtà rimuovendo i germogli apicali di ogni ramo, favorendo la crescita di altri germogli laterali, e quindi nuovi rami. In condizioni normali, se il germoglio apicale viene pota­ to, entrambi i germogli laterali crescono uniformemente. Ma Dostàl notò10che, se rimuoveva uno dei cotiledoni prima della asportazione del germoglio apicale, l’unico germoglio laterale a crescere era quello vicino alla foglia rimanente. Questo risul­ tato può apparire un tipico caso di stimolo seguito da una rea­ zione. Ma a un certo punto le cose cominciano a farsi davvero interessanti. Infatti, quando Dostàl ripeteva l’esperimento illu­ minando la pianta con luce rossa, il germoglio laterale più vici­ no al cotiledone assente cresceva, rivelando che ogni germoglio manteneva una capacità potenziale di svilupparsi. Le ricerche di Dostàl dovevano venire riprese da Michel Thellier11 all’Università di Rouen, in Norm andia. Membro dell’Accademia delle Scienze di Francia, lo studioso notò che dopo aver asportato il germoglio apicale della pianta da lui pre­ scelta, la Bidenspilosa (nota anche come forbicina pelosa), en­ trambi i germogli laterali cominciavano a crescere più o meno uniformemente. Ma se si limitava a ferire uno dei cotiledoni, allora cresceva soltanto il germoglio più vicino a quello integro. Per ottenere tale reazione, Thellier non doveva fare scempio del cotiledone; gli bastava pungere la foglia per quattro volte con un ago nello stesso momento della asportazione del germo­ glio apicale, e questa piccola ferita era sufficiente a provocare una crescita asimmetrica dei germogli laterali. Quindi, dove entra in gioco la memoria della pianta, in quello che appare come un altro tipico fenomeno di reazio­ ne allo stimolo? Bene, a volte, nel corso di questi esperimenti, Thellier aumentava il periodo di tempo che intercorreva tra le ferite che infliggeva alla foglia e l’asportazione del germo­ glio principale, portandolo fino a due settimane. E, meraviglia 129

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Forbicina pelosa (Bidens pilosa)

delle meraviglie, in tali condizioni sperimentali cresceva solo il germoglio laterale più lontano dal cotiledone punzecchia­ to, e non entrambi. Thellier sapeva che in qualche maniera la forbicina pelosa conservava la memoria di questa esperienza “traumatica” e possedeva un meccanismo per richiamarla una volta asportato il germoglio centrale, anche se ciò accadeva molti giorni più tardi. L’esperimento successivo suggellava davvero l’idea che la for­ bicina pelosa ricordasse quale delle sue foglie era stata danneg­ giata. Questa volta, Thellier trafisse uno dei cotiledoni come aveva fatto in precedenza, ma poi asportò entrambi i cotiledoni diversi minuti più tardi, scoprendo che la pianta conservava il ricordo della trafittura: una volta rimosso quello centrale, il ger­ 130

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moglio laterale dalla parte opposta rispetto al cotiledone ferito cresceva più del corrispettivo situato dalla parte di quest’ulti­ mo. Si discute ancora su come questa informazione venga con­ servata nel germoglio centrale, ma promette bene l’ipotesi che il segnale sia in qualche modo collegato all’auxina, lo stesso or­ mone che abbiamo incontrato nel capitolo 5.

Trofim Denisovic Lysenko12 è rimasto tristemente fam o­ so per il suo impatto sulla scienza dell’Unione Sovietica. Re­ spingeva la genetica classica mendeliana (basata sul principio che tutte le caratteristiche degli organismi sono il risultato di geni ereditati) sostenendo l’idea che l’ambiente conduca al­ lo sviluppo di caratteristiche adattative (come la cecità nelle talpe che vivono costantemente al buio) che possono essere trasmesse alle generazioni successive. Questa teoria dell’evo­ luzione, originariamente propugnata dal celebre naturalista francese Jean-Baptiste Lam arck agli inizi del diciannovesi­ mo secolo, si adattava perfettamente all’ideologia prevalen­ te ai tempi delle ricerche di Lysenko, la quale riteneva che il proletariato potesse essere modificato dall’ambiente. L’esta­ blishment dell’uRSS era così innamorato di Lysenko che dal 1948 al 1964 rimase illegale esprimere qualsiasi dissenso nei confronti delle sue teorie. Politica a parte, nel 1928 Lysenko aveva effettuato una scoperta fondamentale che influenza an­ cora oggi la biologia vegetale. I contadini sovietici coltivavano quello che viene chiamato grano invernale - un grano che, piantato in autunno, germo­ glia prima delle temperature glaciali e rimane dormiente fino a che il suolo non si riscalda in primavera, periodo nel quale fio­ risce. Il grano invernale non è in grado di fiorire e successiva­ mente produrre grano in primavera a meno che non attraversi un periodo di tempo freddo durante l’inverno. Gli ultimi anni Venti erano stati disastrosi per l’agricoltura sovietica, poiché inverni insolitamente caldi avevano distrutto la maggior par­ te delle pianticelle di grano invernale - pianticelle sulle quali 131

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i contadini contavano per produrre il grano che avrebbe sfa­ mato milioni di persone. Lysenko lavorò senza sosta nel tentativo di salvare il raccol­ to rimasto e per trovare la maniera di far sì che in futuro gli in­ verni caldi non provocassero carestie. Scoprì che se, prima di piantarli, collocava semi di grano invernale in un freezer, p o ­ teva indurre tali semi a germinare e a fiorire senza averli real­ mente sottoposti a un inverno prolungato. In questa maniera, consentì ai contadini di piantare il grano in primavera, e in de­ finitiva salvò i raccolti nel suo Paese. Lysenko chiamò il pro­ cesso “vernalizzazione”, termine che oggi definisce in generale qualsiasi trattamento con il freddo, sia naturale sia artificiale. Anche altri scienziati13sapevano che alcune piante necessi­ tavano di un clima freddo per fiorire (uno dei primi resocon­ ti proveniva dalla Ohio Board of Agriculture nel 1857); ma Lysenko fu il primo a mostrare che il processo poteva essere

Grano (Triticum aestivum)

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innescato artificialmente. Per fornire un raccolto, molte piante contano sulle fredde temperature invernali; molti alberi fiori­ ranno e daranno frutti in seguito a un inverno freddo, e i semi di lattuga e di arabidopsis germogliano soltanto dopo un’on­ data di freddo. Il vantaggio ecologico della vernalizzazione è evidente: assicura che in seguito al freddo dell’inverno una pianta germogli o fiorisca in primavera o in estate, e non du­ rante altre stagioni dell’anno, nelle quali la quantità di luce e la temperatura non sarebbero comunque in grado di sostene­ re la crescita delle piante. Per esempio, i ciliegi di Washington d c di solito hanno la loro prima fioritura annuale intorno al I o aprile, quando vi so­ no circa dodici ore di luce. Washington presenta anche circa dodici ore di luce solare a metà settembre, ma gli stessi cilie­ gi non fioriscono mai in autunno: se lo facessero, il loro frutto non si svilupperebbe mai del tutto, dal momento che ben pre­ sto giungerebbero i rigori dell’inverno imminente. Fiorendo appena all’inizio della primavera, i boccioli di ciliegio sono in grado di concedere ai loro frutti cinque mesi interi per matu­ rare. Anche se la lunghezza del giorno è esattamente la stessa in aprile e in settembre, gli alberi sono in grado di distinguere fra i due periodi. Essi sanno che è aprile poiché rammentano l’inverno precedente. Le basi attraverso le quali una pianticella di grano oppure un albero di ciliegio ricordano l’inverno sono state chiarite soltan­ to nell’ultimo decennio o giù di lì, soprattutto mediante ricer­ che che hanno coinvolto la collaudata e affidabile arabidopsis. Questa cresce spontaneamente in un’ampia varietà di habitat naturali, dalla Norvegia alle Isole Canarie, e le differenti p o ­ polazioni di Arabidopsis thaliana vengono definite ecotipi. Per fiorire, gli ecotipi di arabidopsis che crescono nei climi nordici necessitano della vernalizzazione, mentre quelli che crescono in climi caldi ne fanno tranquillamente a meno. Questa necessità della vernalizzazione è codificata nei geni degli ecotipi nordici. Se incrociate una pianta che per fiorire necessita dell’inverno con una pianta che ne fa a meno, la progenie avrà ancora bi­ sogno dell’ondata di freddo per fiorire; geneticamente, la ne­ 133

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cessità del freddo è un tratto dominante (proprio come nelle persone gli occhi castani sono un tratto dominante rispetto a quelli azzurri). Il gene specifico coinvolto si chiama FLC, acro­ nimo per flowering locus C. Nella sua versione dominante, I’ f l c inibisce la fioritura fino a che la pianta non è stata sottoposta a un periodo di vernalizzazione. Una volta che la pianta ha attraversato un periodo di tempo freddo, il gene FLC non viene più trascritto; il gene viene spento. Ma ciò non significa che le piante cominceranno immediata­ mente a fiorire: significa soltanto che le piante potrebbero fiorire se cooperano altre condizioni, come la luce e la temperatura. Pertanto, la pianta deve avere un modo per ricordare di aver superato un clima freddo per mantenere spento I’ f l c , anche se da allora le temperature si sono rialzate. Molti ricercatori hanno cercato di comprendere come la ver­ nalizzazione spenga I’ f l c e come questo rimanga in tale stato una volta spento. Queste indagini14 hanno messo in evidenza come al ricordo deU’inverno da parte della pianta sia intreccia­ ta l’epigenetica. L’epigenetica riguarda le modificazioni dell’at­ tività dei geni che non coinvolgono alterazioni nel codice del DNA, come nel caso delle mutazioni, ma che, tuttavia, vengono trasmesse dai genitori alla progenie.* In molti casi l’epigenetica agisce attraverso modificazioni nella struttura del DNA. Nelle cellule, il DNA è organizzato in cromosomi, che so­ no ben più di semplici stringhe di nucleotidi. La doppia eli­ ca del DNA si avvolge attorno a proteine chiamate istoni, for­ mando quella che è nota come cromatina. Questa cromatina può piegarsi ulteriormente compattando il DNA e le proteine in strutture altamente condensate e stipate. Queste strutture sono dinamiche: parti differenti della cromatina possono sro­ tolarsi o impacchettarsi nuovamente. I geni attivi (quelli che vengono trascritti) sono rintracciabili nelle aree della croma­ * L’epigenetica abbraccia un’ampia gamma di modificazioni ereditarie indipendenti dalla sequenza del d n a . Queste includono modificazioni chimiche negli istoni, modificazioni chimiche del DNA (per esempio, la metilazione del d n a - vedi p. 135), differenti tipi di r n a minori e proteine infettive note co­ me prioni.

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tina srotolate, mentre i geni inattivi giacciono nelle regioni più condensate.* Le proteine istoniche rappresentano uno dei fattori chiave nel determinare quanto devono essere strette le maglie della cromatina, e ciò è molto importante per la comprensione delle modalità di attivazione dell’FLC. Gli scienziati hanno scoperto che il trattamento con il freddo fa scattare una modifica nella struttura degli istoni (un processo chiamato metilazione) attor­ no al gene FLC, che rende la cromatina in grado di essere im­ pacchettata più strettamente. Ciò spegne il gene f l c , e la pianta è quindi in grado di fiorire. Questo cambiamento epigenetico (il tipo di istone attorno al gene) viene trasmesso dalla cellu­ la madre alle cellule figlie per generazioni successive, e il gene FLC rimane inattivo in tutte le cellule anche dopo il placarsi del freddo. Una volta che il gene f l c è stato spento, la pianta può attendere finché le altre condizioni ambientali non sono ideali per la fioritura. Nelle piante perenni, come le querce o le aza­ lee, che fioriscono una volta ogni anno, il gene FLC deve esse­ re riattivato dopo che la pianta ha fiorito, per inibire fioriture promiscue che potrebbero avvenire fuori stagione, fino a che non è trascorso l’inverno successivo. Ciò implica che le cellule riprogrammino il loro codice istonico, che apre la cromatina attorno al gene FLC, riattivandolo. Come ciò avvenga e come sia regolato il processo è attualmente materia di ricerca.15 Questo meccanismo epigenetico di memoria cellulare non è specifico delle piante, e rappresenta la base di un gran numero di processi biologici e di malattie. L’epigenetica ha provocato un cambiamento di paradigma in biologia, perché va contro il clas­ sico concetto genetico che gli unici cambiamenti trasmissibili da una cellula all’altra sono quelli a carico della sequenza del d n a . A essere davvero sorprendente è il fatto che l’epigenetica facili­ ti la memoria non soltanto di stagione in stagione all’interno di un singolo organismo, ma anche di generazione in generazione. * Una differenza principale dei tipi di cellule, come quelle del sangue rispetto a quelle epatiche delle persone, o del polline nei confronti delle cellule del­ le foglie nelle piante, è la struttura della loro cromatina, la quale influenza i geni che vengono attivati.

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In ogni generazione... I ricordi vengono trasmessi attivamente da una generazio­ ne all’altra attraverso rituali, racconti e altro. Ma la memoria fra generazioni che coinvolge l’epigenetica è completamente diversa. Questo tipo di memoria, di solito, coinvolge l’infor­ mazione riguardo a una sollecitazione ambientale oppure fìsica che viene trasmessa dai genitori alla progenie. Il laboratorio di Barbara Hohn a Basilea,16in Svizzera, è stato il primo a fornire la prova di una simile memoria. Hohn e colleghi sapevano che condizioni problematiche per una pianta, come la luce ultravioletta oppure un attacco patogeno, portano a cambiamenti nel genoma della pianta stessa, che hanno come conseguenza nuove combinazioni del d n a . Questi cambiamenti indotti dalle sollecitazioni possono ave­ re un significato biologico, perché - come qualsiasi altro orga­ nismo - una pianta ha bisogno di trovare sistemi per soprav­ vivere in condizioni sfavorevoli. Uno di questi sistemi opera attraverso nuove variazioni genetiche. Lo stupefacente studio di Barbara Hohn mostrò che non solo le piante sollecitate dan­ no origine a nuove combinazioni di DNA, ma anche che la loro progenie produce le stesse nuove combinazioni, anche se non era stata esposta direttamente a una qualsiasi sollecitazione. La sollecitazione a carico dei genitori ha provocato un cam­ biamento ereditario stabile trasmesso a tutta la loro progenie: le piante si comportavano come se fossero state sollecitate. Ri­ cordavano che i loro genitori avevano sperimentato quella sol­ lecitazione e reagivano in maniera analoga. Questo uso della parola “ricordavano” può sembrare poco ortodosso, ma analizziamolo alla luce dei tre gradi di memoria presi in esame all’inizio del capitolo: i genitori avevano formato il ricordo della sollecitazione, lo avevano conservato, e lo ave­ vano trasmesso ai figli, e i figli richiamavano l’informazione e reagivano di conseguenza, in questo caso, con un aumento di variazioni del genoma. Le implicazioni di uno studio del genere sono immense. Una sollecitazione ambientale causa un cambiamento eredita­ 136

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rio che viene trasmesso alle generazioni successive. Ciò si adat­ ta in maniera eccellente alle teorie di Jean-Baptiste Lamarck che, come ricorderete, sosteneva che l’evoluzione fosse basa­ ta sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Le piante di Barbara Hohn, in seguito a sollecitazione da parte di raggi ultravioletti oppure di agenti patogeni, acquisivano una maggiore variazio­ ne genetica e la trasmettevano a tutta la loro progenie (e una singola pianta di arabidopsis produce migliaia di semi!). Ciò non può essere spiegato in termini di mutazioni nella sequenza del DNA delle piante sollecitate, perché altrimenti potrebbe es­ sere trasmessa al massimo solo a una piccola percentuale della progenie. D ’altro canto, se la sollecitazione aveva indotto un cambiamento epigenetico, questo potrebbe avvenire in tutte le cellule, compreso il polline e le cellule uovo, ed essere tra­ smesso all’intera nuova generazione, come pure a molte altre in futuro. Gli scienziati continuano a elaborare ipotesi circa la natura del cambiamento epigenetico coinvolto in questi ricor­ di, ma al momento la cosa rimane ancora ignota. Igor Kovalchuk17ampliò questi studi, includendo altre solle­ citazioni sulla variazione genetica nelle piante e nella loro pro­ genie, comprendendo il calore e il sale. Lo scienziato mostrò che queste differenti caratteristiche ambientali aumentano la frequenza dei riassetti non soltanto nel genoma parentale, ma anche in quello della seconda generazione. I risultati di Koval­ chuk erano affascinanti, perché rivelavano anche più di que­ sto. La seconda generazione di piante non soltanto mostrava un incremento della variazione genetica, confermando i risultati di Hohn, ma era anche più resistente alle varie sollecitazioni. In altre parole, i genitori sollecitati avevano originato una pro­ genie che cresceva meglio in condizioni difficili rispetto alle piante normali. Le varie sollecitazioni quasi certamente indu­ cevano cambiamenti epigenetici nella struttura della cromati­ na dei genitori, e questi cambiamenti venivano trasmessi alla loro progenie. Lo crediamo, perché il gruppo di Kovalchuk ha mostrato che trattando la progenie con una sostanza chimica che spazzava via l’informazione epigenetica, queste stesse pian­ te perdevano la loro capacità di prosperare se sottoposte alla 137

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sollecitazione ambientale che l’aveva provocata. I risultati di Hohn non furono universalmente accettati,18come molti studi che si discostano dal modello scientifico corrente. Tuttavia, si tende sempre più a pensare19 che questi, al pari di altri, abbia­ no annunciato una nuova era nella genetica. L’idea di una sol­ lecitazione che porta a ricordi che possono essere trasmessi da una generazione all’altra è confermata da un numero crescente di studi, non soltanto sulle piante, ma anche sugli animali. In tutti i casi, questa “memoria” è basata su una qualche forma di eredità epigenetica.20

Memoria intelligente? Le piante hanno chiaramente la capacità di conservare e ri­ chiamare informazione biologica. Intuitivamente, sappiamo che tutto ciò è completamente diverso dai ricordi dettagliati e ricchi di emozioni che noi richiamiamo alla memoria ogni giorno. Ma a livello di base, i comportamenti di piante diver­ se descritti in questo capitolo sono tipi correttivi di memoria. L’avvolgimento dei viticci, la chiusura della Venere acchiappa­ mosche e il ricordo dell’arabidopsis delle sollecitazioni ambien­ tali includono tutti i processi di formazione del ricordo dell’e­ vento, di conservazione di tale ricordo per periodi distinti di tempo, e del suo richiamo in un momento successivo per otte­ nere una risposta specifica dello sviluppo. Molti dei meccanismi coinvolti nella memoria delle pian­ te sono coinvolti anche in quella umana, compresi i gradienti epigenetici ed elettrochimici. Questi gradienti sono il pane e il burro delle connessioni neurali nel nostro cervello, la sede del­ la memoria come noi la comprendiamo. Nel corso degli anni i botanici hanno scoperto che le cellule vegetali non solo comu­ nicano mediante correnti elettriche (come abbiamo visto in vari capitoli), ma che le piante contengono anche proteine note per essere dei neurorecettori negli esseri umani e negli altri animali. Un esempio perfetto è il recettore per il glutammato. I recettori per il glutammato presenti nel cervello sono molto importanti per la comunicazione neurale, per la formazione della memo­ 138

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ria e per l’apprendimento, ed esiste un certo numero di farma­ ci neuroattivi che ha come bersaglio questi recettori. Quindi, per gli scienziati della New York University21è stata una grande sorpresa scoprire che le piante contengono recettori per il glu­ tammato e che le piante di arabidopsis sono sensibili ai farmaci neuroattivi che alterano l’attività di questi recettori. A tutt’oggi non abbiamo ancora compreso pienamente22 il compito dei recettori del glutammato nelle piante, ma studi molto recenti condotti in Portogallo da José Feijó e dal suo gruppo mostra­ no che nelle piante questi recettori agiscono nei processi di se­ gnalazione fra le cellule, in una maniera molto simile a quella con la quale i neuroni umani comunicano fra loro. Questo ci lascia meravigliati circa il ruolo evoluzionistico dei “recettori del cervello” nei vegetali. Forse le similitudini tra la funzione del cervello umano e la fisiologia delle piante sono maggiori di quanto presumessimo. I ricordi delle piante, come la memoria immunologica degli esseri umani, non sono semantici o episodici, secondo la defi­ nizione di Tulving, ma piuttosto procedurali, ricordi di come fare le cose, e dipendono dalla capacità di percepire la stimo­ lazione esterna. Tulving23 propose in seguito che ciascuno dei tre livelli di memoria fosse associato a un livello crescente di consapevolezza. La memoria procedurale è associata con una coscienza anoetica, quella semantica con una coscienza noeti­ ca e quella episodica con una coscienza autonoetica. Le pian­ te non si adattano evidentemente alla definizione di coscienza associata con i ricordi semantici o episodici. Ma come è stato dichiarato in un recente editoriale: “Il più basso livello di co­ scienza caratteristico della memoria procedurale - coscienza anoetica - si riferisce alla capacità dell’organismo di percepire e di reagire a stimolazioni interne o esterne, capacità della qua­ le sono in possesso tutte le piante e gli animali più semplici” .24 Tutto questo ci porta alla domanda più intrigante di tutte: se le piante mostrano diversi tipi di memoria e hanno una forma di coscienza, devono essere considerate intelligenti?

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EPILOGO LA PIANTA CONSAPEVOLE

“Intelligenza” è una parola insidiosa. Tutti, a partire da Al­ fred Binet,1l’inventore del discusso test del Q l, fino al noto psi­ cologo Howard Gardner, hanno avuto un’opinione differente su cosa significhi catalogare qualcuno come “intelligente” . Se alcuni ricercatori considerano l’intelligenza una inclinazione peculiare degli esseri umani,2 abbiamo visto, però, resoconti di animali - dagli oranghi alle piovre - in possesso di qualità che ricadono all’interno di alcune definizioni di “intelligenza” . Applicare le definizioni di intelligenza alle piante, tuttavia, è oggetto di maggior contesa, anche se l’interrogativo circa la loro intelligenza non è affatto una novità. Il dottor William Lauder Lindsay, medico e botanico, scrisse nel 1876: “A me pare che certi attributi della mente, come capita nett’Uomo, sia­ no comuni con le Piante” ? Anthony Trewavas,4 stimato fisiologo vegetale dell’Università di Edimburgo, in Scozia, e uno dei primi odierni sosteni­ tori dell’intelligenza delle piante, fa notare che anche se gli es­ seri umani sono chiaramente più intelligenti degli altri animali, è improbabile che l’intelligenza come proprietà biologica sia emersa solo in Homo sapiens. In tal modo egli vede l’intelligen­ za come una caratteristica biologica, senza nessuna differenza, diciamo, dalla forma del corpo e dalla respirazione - tutte cose che si sono evolute attraverso la selezione naturale di caratteri­ stiche presenti in organismi primigeni. Lo abbiamo constata­ to abbastanza chiaramente nel capitolo 4 a proposito dei geni “sordi” condivisi da piante ed esseri umani. Questi geni erano 141

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presenti in un comune, antico antenato di piante e animali; e Trewavas ha proposto che vi fosse presente anche una rudi­ mentale forma di intelligenza. Fra i biologi vegetali nacque una vera disputa5 quando un gruppo di scienziati che studiavano vari aspetti delle funzioni delle piante definì nel 2005 un nuovo campo, battezzato “neu­ robiologia vegetale” , che mira a studiare le reti informative presenti nelle piante. Questi scienziati hanno scorto varie si­ militudini fra l’anatomia e la fisiologia vegetale e le reti neurali negli animali. Alcune di queste sono ovvie,6 come la segnala­ zione elettrica che abbiamo incontrato nella Venere acchiap­ pamosche e nelle piante di mimosa, altre più controverse, co­ me il fatto che l’architettura delle radici delle piante sia simile a quella delle reti neurali trovate in vari animali. Quest’ultima ipotesi era stata avanzata originariamente nel diciannovesimo secolo da Charles Darwin e poi ripresa nuova­ mente alcuni anni or sono da Stefano Mancuso dell’Università di Firenze e da Frantiòek Baluòka dell’Università di Bonn, due dei pionieri nel campo della neurobiologia vegetale. Molti altri biologi che studiano le piante,7 compreso un buon numero di eminenti scienziati, criticano l’idea alla base della neurobiolo­ gia vegetale, sostenendo che le sue basi teoriche sono carenti e non aggiungono nulla alla nostra comprensione della fisio­ logia vegetale o della biologia delle cellule vegetali. Avvertono la forte impressione che la neurobiologia vegetale si sia spinta troppo oltre nel tracciare parallelismi fra la biologia vegetale e quella animale. Molti sostenitori della neurobiologia vegetale sono i primi a spiegare che il termine stesso è provocatorio, e quindi si presta a incoraggiare ulteriori dibattiti e discussioni sui parallelismi fra le modalità con le quali piante e animali elaborano l’infor­ mazione. Le metafore, come mettono in evidenza Trewavas e altri, ci aiutano, però, a fare collegamenti che normalmente potremmo non compiere. Se usando il termine “neurobiolo­ gia vegetale” sfidiamo le persone a rivalutare la loro compren­ sione della biologia in generale, e della biologia vegetale nello specifico, allora il termine ha una sua validità. Ma dobbiamo 142

EPILOGO

essere chiari: quali che siano le somiglianze che possiamo ri­ scontrare a livello genetico fra piante e animali (e, come ab­ biamo visto, queste somiglianze sono significative), sussistono due adattamenti evolutivi molto specifici per la vita pluricel­ lulare, ognuno dei quali dipende da un particolare insieme di cellule, di tessuti e di organi specifici per il suo regno. Per esempio, per sopportare il peso, gli animali vertebrati hanno sviluppato uno scheletro osseo, mentre le piante hanno svilup­ pato un tronco legnoso. Entrambe le strutture hanno funzioni simili, tuttavia sono anche completamente diverse dal punto di vista biologico.* Anche se possiamo definire soggettivamente 1’“intelligenza vegetale” come un altro risvolto delle intelligenze multiple, una tale definizione non fa avanzare la nostra comprensione né dell’intelligenza né della biologia vegetale. La domanda, propongo io, non dovrebbe essere se le piante siano o meno intelligenti - occorreranno secoli soltanto per metterci tutti d’accordo sul significato di questa parola; dovrebbe essere, in­ vece, “Le piante sono consapevoli?” . E, in effetti, lo sono. Le piante sono estremamente consapevoli del mondo intorno a loro. Sono consapevoli del loro ambiente visivo; distinguono fra la luce rossa, blu, rosso lontana e raggi uv, e reagiscono di conseguenza. Sono consapevoli dei profumi che le circondano e reagiscono a quantità minime di sostanze chimiche disperse nell’aria. Le piante sanno quando vengono toccate e possono distinguere tra differenti tipi di contatto. Sono consapevoli del­ la gravità: possono cambiare la loro forma per assicurare che i germogli crescano verso l’alto e le radici verso il basso. E sono consapevoli del loro passato: ricordano le precedenti infezioni e le intemperie alle quali sono state sottoposte, e quindi modi­ ficano la loro fisiologia in base a tali ricordi. * In seguito all’iniziale controversia, e dopo parecchie discussioni, nel 2009 i neurobiologi vegetali hanno modificato il nome della loro categoria pro­ fessionale da Società per la Neurobiologia Vegetale al più accettato Società della Segnalazione del Comportamento Vegetale (anche se “comportamen­ to ” rappresenta un altro interessante termine, non collegato intuitivamente con le piante).

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QUEL CHE UNA PIANTA SA

Ma riguardo alle nostre interazioni con il mondo verde, qua­ le significato assume il concetto di pianta consapevole? Intanto, una “pianta consapevole” non lo è di noi come individui. Noi siamo semplicemente una delle molte sollecitazioni esterne che aumentano o diminuiscono le possibilità di sopravvivenza o di successo riproduttivo di una pianta. Per prendere in prestito alcuni termini della psicologia freudiana: la psiche della pianta è sprovvista di un Io e di un Super-io, anche se può contenere un Id, la parte inconscia della psiche che riceve input sensoria­ li e agisce secondo l’istinto. Una pianta è consapevole del suo ambiente, e le persone fanno parte di questo ambiente. Ma non è consapevole della miriade di giardinieri e di biologi vegetali che sviluppano quella che loro considerano una relazione per­ sonale con le loro piante. Queste relazioni possono avere un significato per chi si prende cura di loro, ma non sono diverse dalla relazione che intercorre fra un bambino e il suo amico im­ maginario: il flusso di significato è unidirezionale. H o sentito sia scienziati di fama mondiale sia studenti ancora non laureati usare con trasporto un linguaggio antropomorfico dicendo che le loro piante “non hanno un’aria molto contenta”, quando la muffa si è impadronita delle loro foglie, oppure definendole “ soddisfatte” , dopo essere state innaffiate. Questi termini rappresentano la nostra valutazione sogget­ tiva di una condizione fisiologica assolutamente non emotiva di una pianta. Nonostante tutti gli abbondanti input sensoriali percepiti dalle piante e dalle persone, soltanto gli esseri umani rappresentano tale input come un panorama di emozioni. Noi proiettiamo sulle piante il nostro carico emotivo e riteniamo che un fiore in piena sbocciatura sia più felice di uno affloscia­ to. Se la “felicità” può essere definita come una “condizione fi­ siologica ottimale” , allora forse il termine è adatto. Ma io penso che per tutti noi la “felicità” dipenda da ben più che essere in perfetta salute fisica. Infatti, conosciamo tutti persone afflitte da vari malanni e che si considerano felici, e individui in salute che sono generalmente di pessimo umore. La felicità, possiamo essere tutti d ’accordo, è uno stato della mente. La consapevolezza in una pianta non implica inoltre che 144

EPILOGO

questa possa soffrire. Una pianta che vede, sente e prova sen­ sazioni non patisce più dolore di un computer con un disco rigido difettoso. Infatti, il “dolore” e la “sofferenza” , come la “felicità” , sono definizioni assai soggettive e fuori luogo nel descrivere le piante. La International Association for thè Study of Pain (i a s p , Associazione internazionale per gli studi sul dolore)8definisce quest’ultimo come “un’esperienza sensoria­ le ed emotiva spiacevole associata a danno tissutale in atto o potenziale, o descritta in termini di danno” . Forse, il “dolore” per una pianta potrebbe essere definito in termini di “danno tissutale in atto o potenziale”, dal momento che la pianta av­ verte la sollecitazione fisica che può condurre a danni cellulari oppure alla morte. Una pianta percepisce quando una foglia è stata punta dalle mascelle di un insetto, e sa quando viene bruciata nel corso di un incendio nella foresta. Le piante san­ no quando manca loro l’acqua in un periodo di siccità. Ma le piante non soffrono. Non hanno, per quanto ne sappiamo al momento, la capacità di avere una “esperienza emotiva spiace­ vole” . Per la verità, anche negli esseri umani9il dolore e la sof­ ferenza vengono considerati fenomeni distinti, interpretati da parti diverse del cervello. Studi di imaging* hanno identificato centri del dolore situati in profondità all’interno del cervello umano e che si irradiano verso l’esterno attraverso il tronco ce­ rebrale, mentre la capacità di soffrire, ritengono gli scienziati, è localizzata nella corteccia prefrontale. Così, se soffrire per un dolore richiede le strutture e le connessioni neurali altamente complesse della corteccia cerebrale, presenti soltanto nei ver­ tebrati superiori, allora le piante ovviamente non soffrono, dal momento che non hanno il cervello. Ritengo molto importante porre l’accento sul concetto di pianta priva di cervello. Se teniamo a mente che una pianta non ha un cervello, ne consegue che qualsiasi descrizione antropo­ morfica è già gravemente minata nelle sue fondamenta. Possia­ * Con il termine imagìng si intende qualsiasi tecnica di indagine diagnostica, come la radiografia o l’ecografia, che consenta di analizzare parte di un or­ ganismo non visibile dall’esterno. [N dT]

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mo permetterci di continuare ad antropomorfizzare il compor­ tamento delle piante per questioni di chiarezza espositiva, ma tenendo bene a mente che tali descrizioni devono essere consi­ derate alla luce di una pianta priva di cervello. Anche se usiamo gli stessi termini - “vede”, “annusa”, “sente” - sappiamo allo stesso tempo che il complesso dell’esperienza sensoriale delle piante e quello delle persone sono qualitativamente differenti. Senza questa precisazione un antropomorfismo incontrolla­ to nel descrivere il comportamento di una pianta potrebbe por­ tare a conseguenze sfortunate, quando non umoristiche. Per esempio, nel 200810il governo svizzero ha istituito un comitato etico per proteggere la “dignità” delle piante.* Una pianta pri­ va di cervello verosimilmente non si preoccupa della propria dignità. E tuttavia, il fatto che una pianta sia dotata di consape­ volezza assume un grande significato per noi a proposito del­ le nostre interazioni con il mondo vegetale. Forse, il tentativo della Svizzera di conferire dignità alle piante rispecchia quello di definire la nostra relazione con il loro mondo. Come indivi­ dui, noi cerchiamo spesso il nostro posto nella società confron­ tandoci con le altre persone, mentre come specie cerchiamo il nostro posto nella natura confrontandoci con gli altri animali. Per noi è facile rivederci negli occhi di uno scimpanzé, e possia­ mo identificarci con il cucciolo di un gorilla che si tiene appe­ so alla madre. Marley, il cane di John G rogan ,** come prima di lui Lassie e Rin Tin Tin, evoca profondi sentimenti di empatia e anche le persone che non li amano necessariamente possono vedere caratteristiche umane nei nostri amici canini. H o co­ nosciuto persone le quali affermavano che i loro pappagalli le capissero, e amanti dei pesci che vedevano un comportamento * Q uesto comitato è stato formato per definire la dignità in termini vegetali, come richiede la Costituzione Federale Svizzera “allo scopo di prendersi cura della dignità degli esseri viventi quando si gestiscono animali, piante e altri organism i” ; vedi www.ekah.admin.eh/en/topics/dignity-of-living-beings/ index.html. * * John Grogan è un giornalista e romanziere statunitense il cui primo roman­ zo, Io & Marley (Marley & Me, 2005), ha fra i protagonisti principali il suo cane, Marley appunto. [N dT]

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EPILOGO

umano nella vita marina di questi ultimi. Tali esempi mostrano chiaramente che quella “umana” può essere solo una varietà, per quanto interessante, di intelligenza. Così, se gli esseri umani e le piante sono simili per il fatto di essere consapevoli di ambienti luminosi complessi, di intri­ cati aromi, di stimolazioni fisiche differenti, se gli esseri uma­ ni e le piante mostrano delle preferenze, e se sia gli uni sia le altre ricordano, allora quando guardiamo una pianta vediamo noi stessi? Ciò che dobbiamo capire a un livello più generale è che noi condividiamo la biologia non soltanto con le scimmiette e con i cani, ma anche con le begonie e le sequoie. Quando ammiria­ mo il nostro roseto in piena fioritura, dovremmo considerarlo alla stregua di un cugino molto lontano, sapendo che, proprio come lui, possiamo distinguere ambienti complessi, e che con­ dividiamo geni comuni. Quando guardiamo un’edera abbarbi­ carsi a una parete, stiamo guardando quello che, se non vi fosse stato un remoto incidente probabilistico, sarebbe potuto essere il nostro futuro. Stiamo osservando un altro possibile risultato della nostra stessa evoluzione, un risultato che ha imboccato una strada diversa circa due miliardi di anni fa. La condivisione di un passato genetico non nega eoni di evoluzione separata. Anche se le piante e gli esseri umani man­ tengono capacità parallele di percepire ed essere consapevoli del mondo fisico, sentieri indipendenti dell’evoluzione hanno condotto a una caratteristica tipicamente umana, intelligenza a parte, che le piante non posseggono: la capacità di interessarsi alle cose e di prendersi cura di loro. Così, la prossima volta che vi ritrovate a passeggiare attra­ verso un parco, soffermatevi un istante a domandarvi: cosa ve­ de il dente di leone nel prato? Che cosa annusa l’erba? Tocca­ te le foglie di una quercia, sapendo che l’albero rammenterà di essere stato toccato. Ma non si ricorderà di voi. D ’altro canto, voi siete in grado di ricordare questo particolare albero e di conservarlo per sempre nella vostra memoria.

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NOTE

PROLOGO 1. Chamovitz, D .A . et al., “The C O P 9 C om plex, a Novel M ultisubunit Nuclear Regulator Involved in Light Control of a Plant Developmental Switch” , in Cell, 8 6 ,1 ,1 9 9 6 , pp. 115-121. 2. Chamovitz, D.A., Deng, X.-W., “The Novel Components of the Arabidopsis Light Signaling Pathway May Define a G roup o f General Deve­ lopmental Regulators Shared by Both Animal and Plant K ingdom s”, in Cell, 8 2 ,3 ,1 9 9 5 , pp. 353-354. 3. Knowles, A. et al., “The COP9 Signalosome Is Required for Light-Depen­ dent Timeless Degradation and Drosophila Clock Resetting” , in journal o f Neuroscience, 2 9 , 4, 2009, pp. 1152-1562. 4. Tompkins, P., Bird, C., La vita segreta delle piante, tr. it. il Saggiatore, Mi­ lano 2002; Galston, A.W., “The Unscientific M ethod”, in Natural History, 83, 1974, pp. 18,21,24.

1. QUEL CHE UNA PIANTA VEDE 1. “Vista” , M eniam Webster, www.merriam-webster.com/dictionary/sight. 2. Darwin, C., Darwin, F., Il potere di movimento delle piante, tr. it. di G . e R. Canestrini, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1884, p. 408. 3. Ibidem, p. 450. 4. Una breve storia delle ricerche sulla luce può essere reperita all’indirizzo web www.ars.usda.gov/is/timeline/light.htm. 5. Garner, W. W., Allard, H .A., “Photoperiodism, the Response of the Plant to Relative Lenght of Day and Night” , in Science, 55,1431,1922, pp. 582583. 6. Parker, M.W. et al., “Action Spectrum for the Photoperiodic Control o f Floral Initiation in Biloxi Soybean” , in Science, 102, 2641, 1945, pp. 152-155. 7. Borthwick, H.A., Hendricks, S.B., Parker, M.W., “The Reaction Control­ ling Floral Initiation”, in Proceedings o f the National Academy o f Sciences

149

NOTE

o f the United States o f America, 38, 11, 1952, pp. 929-934; Borthwick, H.A. et al., “A Reversible Photoreaction Controlling Seed Germination”, in Proceedings o f the National Academy o f Sciences o f the United States o f America, 38, 8,1952, pp. 662-666. 8. Buder, W.L. et al., “Detection, Assay, and Preliminary Purification of the Pigment Controlling Photoresponsive Development of Plants”, in Procee­ dings o f the National Academy o f Sciences o f the United States o f America, 45,12,'1959, pp. 1703-1708. 9. K oornneef, M ., Rolff, E ., Spruit, C.J.P., “G enetic C ontrol of LightInhibited Hypocotyl Elongation in Arabidopsis thaliana (L) H eynh”, in Zeitschrift fü r Pflanzenphysiologie, 1 0 0 ,2,1980, pp. 147-160. 10. Chory, J., “Light Signal Transduction: An Infinite Spectrum of Possibili­ ties”, in Plant Journal, 61, 6,2010, pp. 982-991. 11. Kreimer, G ., “The Green Algal Eyespot Apparatus: APrim ordial Visual System and M ore?”, in Current Genetics, 5 5 ,2 ,2 0 0 9 , pp. 19-43. 12. Gressel, J., “Blue-Light Photoreception” , in Photochemistry and Photo­ biology, 3 0 ,6 ,1 9 7 9 , pp. 749-754. 13. Ahmad, M., Cashmore, A.R., “H Y 4 Gene o f A thaliana Encodes a Pro­ tein with Characteristics o f a Blue-Light Photoreceptor”, in Nature, 366, 6451,1993, pp. 162-166. 14. Cashmore, A.R., “Cryptochromes: Enabling Plants and Animals to D e­ terminate Circadian Tim e”, in Cell, 1 1 4 ,5 ,2 0 0 3 , pp. 537-543.

2. QUEL CHE UNA PIANTA ANNUSA 1. Disponibile sul sito web www.merriam-webster.com. 2. Denny, F.E., “Hastening the Coloration o f Lem ons”, in Agricultural Re­ search, 27,1924, pp. 757-769. 3. Gane, R., “Production of Ethylene by Some Ripening Fruits” , in Natu­ re, 134,1934, p. 1008; Crocker, W., Hitchcock, A .E., Zimmerman, P. W., “Similarities in the Effects of Ethylene and the Plant Auxine", in Contri­ butions from Boyce Thompson Institute, 7 ,1 9 3 5 , pp. 231-248. 4. Runyon, J.B ., Mescher, M .C., De Moraes, C.M ., “Volatile Chemical Cues Guide H ost Location and H ost Selection by Parasitic Plants”, in Science, 3 1 3 ,5 79 5,2 006, pp. 1964-1967. 5. Rhoades, D.F., “Response of Alder and Willow to Attack by Tent Cater­ pillars and Webworms: Evidence for Pheromonal Sensitivity of Willows” , in Plant Resistance to Insects, a cura di P.A. Hedin, American Chemical Society, Washington, DC, 1983, pp. 55-66. 6. Baldwin, I.T., Schultz, J.C ., “Rapid Changes in Tree Leaf Chemistry In­ duced by Dam age: Evidence for Communication Between Plants” , in Science, 221,4607,1983, pp. 277-279. 7. Fowler, S.V., Lawton, J .H., “Rapidly Induced Defences and Talking Trees: The Devil’s Advocate Position”, in American Naturalist, 126,2,1985, pp. 181-195. 8. “Scientists Turn New Leaf, Find Trees Can Talk”, in Los Angeles Times, 6 giugno 1983, A9; “ Shhh. Litde Plants Have Big E ars” , in M iami Herald,

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NOTE

11 giugno 1983, IB ; “Trees Talk, Respond to Each Other, Scientists B e­ lieve” , in Sarasota Herald-Tribune, 6 giugno 1983 ; “When Trees Talk” , in New York Times, 1 giugno 1983. 9. Heil, M., Silva Bueno, J.C ., Within-Plant Signaling by Volatiles Leads to Induction and Priming of an Indirect Plant Defense in N ature” , in Pro­ ceedings o f the National Academy o f Sciences o f the United States o f Ame­ rica, 104,13,2007, pp. 5467-5472. 10. Yi, H .-S. et al., “A irborne Induction and Prim ing o f Plant D efenses Against a Bacterial Pathogen ” , in Plant Physiology, 151, 4, 2009, pp. 2152-2161. 11. Shulaev, V., Silverman, P., Raskin, I., “Airborne Signalling by Methyl Sa­ licylate in Plant Pathogen Resistance” , in Nature, 385, 6618, 1997, pp. 718-721. 12. Seskar, M., Shulaev, V., Raskin, I., “Endogenous Methyl Salicylate in P a ­ thogen-Inoculated Tobacco Plants” , in Plant Physiology, 116, 1, 1998, pp. 387-392. 13. Pollan, M., La botanica del desiderio. I l mondo visto dalle piante, tr. it. il Saggiatore, Milano 2005. 14. Gelstein, S. et al., “Human Tears Contain a Chem iosignal” , in Science, 6014,2011, pp. 226-230.

3. QUEL CHE UNA PIANTA PROVA 1. Darwin, C., Le piante insettivore, tr. it. di G . Canestrini e P.A. Saccardo, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1878, p. 312. L a citazione è trat­ ta dalla pagina 286 del testo originale inglese Insectivorous plants, John Murray, London 1875. 2. Ibidem, p. 1. ò. Ibidem, p .291. 4. Burdon-Sanderson, J., “ On the Electromotive Properties o f the L eaf of Dionaea in the Excited and Unexcited States”, in Philosophical Transac­ tions o f the Royal Society, \ lò , 1882, pp. 1-55. 5. Volkov, A .G ., Adesina, T., Jovanov, E., “Closing of Venus Flyptrap by Electrical Stimulation o f M otor Cells” , in Plant Signaling & Behaviour, 2 ,3 ,2 0 0 7 , pp. 139-145. 6. Ibidem', H odick, D., Sievers, A., “The Action Potential of Dionaea muscipula Ellis” , in Planta, 17 4 ,1,1988, pp. 8-18. 7. Sheperd, V.A., “From Sem i-conductors to the Rhythms o f Sensitive Plants: The Research of J.C . B o se” , in Cellular and Molecular Biology, 5 1 ,7 ,2 0 0 5 , pp. 607-619. 8. D asgupta, S., “Jagadis Bose, Augustus Waller, and the Discovery o f ‘Ve­ getable Electricity’ ” , in Notes and Records o f the Royal Society o f London, 5 2 ,2 ,1 9 9 8 , pp. 307-322. 9. Salisbury, F.B., The Flowering Process, International Series of M ono­ graphs on Pure and Applied Biology, Division: Plant Physiology, Pergamon Press, New York 1963.

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NOTE

10.Jaffe, M .J., “Thigm om orphogenesis: The Response of Plant Growth and Development to Mechanical Stimulation - with Special Reference to Bryonia dioica”, in Planta , 114,2, 1973, pp. 143-157. 11. Braam, ]., Davis, R.W., “Rain-Induced, Wind-Induced, and Touch-Indu­ ced Expression of Calmodulin and Calmodulin-Related Genes in Arabid opsis” , in Cell, 60, 3,1990, pp. 357-364. 12. Lee, D ., Polisensky, D .H ., Braam, ]., “ Genome-W ide Identification of Touch- and Darkness-Regulated A rabidopsis Genes: A Focus on Calmoduline-Like and x t h G en es” , in New Phytologist, 165, 2, 2005, pp. 429-444. 13. Wildon, D.C. et al, “Electrical Signaling and Systemic Proteinase-Inhibitor Induction in the Wounded Plant”, in Nature, 360,6399,1992, pp. 62-65.

4. QUEL CHE UNA PIANTA ODE 1. A titolo di esempio, “Plants and M usic” , www.miniscience.com/projects/ plantmusic/index.html. 2. K oenig, R .E ., sito web Science Projects on M usic and Sound, Plant Physiology Information, http://plantphys.info/music.shtml; www.youth. net/nsrc/sci/sci048.htm l#anchor992130; http://jrscience.w cp.m uohio. edu/n sfall05/LabpacketA rticles/W h ichtypeofm usicbeststim u.h tm l; http ://spider2.allegheny. edu/student/S/sesekj/FS %2 OBio %20201 % 20 Coenen% 20Draft% 20Results-Discussion.doc. 3. Per informazioni sulla perdita dell’udito, www.disabled-world.com/disability/types/hearing. 4. Darwin, F. (a cura di), Charles Darwin: H is Life Told in an Autobiographi­ cal Chapter and in a Selected Series o f H is Published Letters, John Murray, London 1892. 5. Creath, K ., Schwartz, G .E ., “M easuring Effects o f M usic, Noise, and Healing Energy Using a Seed Germination Bioassay” , in Journal o f A l­ ternative and Complementary Medicine, 10 ,1 ,2 0 0 4 , pp. 113-122. 6. Schwartz ha fondato il programma di ricerche VERITAS, http://veritas.arizona.edu. 7. Hyman, R., “H ow N ot to Test M ediums: Critiquing the Afterlife E x ­ periments ” , www. csicop.orh/si/show/how_not__to_test_mediums_critiquing-the-afterlife_experiment//; Carroll, R.T., “Gary Schwartz’s Subjec­ tive Evaluation of M edium s: Veritas or W ishful T h in kin g?” , h ttp :// skeptic, com /essays/gsandsv.html. 8. Creath, K ., Schwartz, G .E ., “M easuring Effects o f Music, N oise, and Healing Energy” , cit. 9. Weinberger, P., Measures, M., “The Effect of Two Audible Sound F re­ quencies on the Germination and Growth of a Spring and Winter Wheat”, in Canadian Journal o f Botany, 4 6,9,1968, pp. 1151-1158; Weinberger, P., M easures, M., “Effects of the Intensity of Audible Sound on the Growth and Development of Rideau Winter W heat” , in Canadian Journal o f Bo­ tany, 57, 9,1979, pp. 1151036-1151039.

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NOTE

10. Retallack, D .L., The Sound o f Music and Plants, DeVorss, Santa Monica, c a , 1973. 11. Ripley, A., “Rock or Bach an Issue to Plants, Singer Says”, in New York Times, 21 febbraio 1977. 12. Loehr, F., The Power o f Prayer on Plants, Doubleday, Garden City, NY, 1959. 13. Chalker-Scott, L., “The Myth of Absolute Science: ‘If It’s Published, It Must Be True’” , www.puyallup.wsu.edu/~linda%29chalker-scott/horticultural%20myths_files/M yths/Bad%20science.pdf. 14. Klein, R.M., Edsall, P.C., “On the Reported Effects of Sound on the Growth of Plants”, in Bioscience, 15, 2 ,1965, pp. 125-126. 15. Ibidem. 16. Tompkins, P., Bird, C., La vita segreta delle piante, tr. it. il Saggiatore, Mi­

lano 2002. 17. Galston, A.W., “The Unscientific M ethod” , in Natural History, 83, 3, 1974, pp. 18 ,2 1 ,2 4 . 18. Braam, J., Davis, R.W., “Rain-Induced, Wind-Induced, and Touch-Indu­ ced Expression o f Calmodulin and Calmodulin-Related Genes in Arabidopsis” , in Cell, 6 0 ,3 ,1 9 9 0 , pp. 357-364. 19. Scott, P., Physiology and Behaviour o f Plants, John Wiley, H oboken, NY, 2008. 20. Iniziativa Genoma Arabidopsis, “Analysis of the Genoma Sequence of the Flowering Plant Arabidopsis thaliana” , in Nature, 3408, 6814, 2000, pp. 795-815. 21. Jones, A.M. et al., “The Impact of Arabidopsis on Human Health: Diver­ sifying Our Portfolio” , in Cell, 133, 6,2008, pp. 939-943. 22. Chamovitz, D.A., Deng, X.-W., “The Novel Components of the A rabi­ dopsis Light Signaling Pathway May Define a G roup of General Deve­ lopmental Regulators Shared by Both Animal and Plant K ingdom s” , in Cell, 8 2 ,3 ,1 9 9 5 , pp. 353-354. 23. Abe, K. et al., “Inefficient Double-Strand d n a Break Repair Is Associated with Increased Fascination in Arabidopsis BRCA2 M utants” , in journal o f Experimental Botany, 70, 9, 2009, pp. 2751-2761. 24. Peremyslov, V. V et al., “Two Class xi Myosins Function in Organelle Traf­ ficking and Root Hair Development in Arabidopsis” , in Plant Physiology, 146,3,2008, pp. 1109-1116. 25. “Phonobiologic Wines”, www.brightgreencities.com/vl/en/bright-greenbook/italia/vinho-fonobiologico. 26. Zweifel, R., Zeugin, F., “Ultrasonic Acoustic Emissions in Drought-Stres­ sed Trees-More Than Signals from Cavitation? ” , in New Physiology, 179, 4, 2008, pp. 1070-1079. 27. Dobzhansky, T., “Biology, Molecular and Organismic” , in American Zo­ ologist, 4, 4 , 1964, pp. 443-452.

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NOTE

5. COME UNA PIANTA SA DOVE SI TROVA 1. Henri-Louis Duhamel du Monceau, La physique des arbres où il est traité de Vanatomie des plantes et de l’économie végétale: Pour servir d’introduc­ tion au “Traité complet des bois & des forests”, avec une dissertation sur l'utilité des méthodes de botanique & une explication des termes propres à cette science & qui sont en usage pour Vexploitation des bois & des forêts , H .L. Guérin & L.F. Delatour, Parigi 1758. 2. Knight, T.A., “On the Direction of the Radicle and German During the Vegetation o f Seeds” , in Philosophical Transactions o f the Royal Society o f London, 96,1806, pp. 99-108. 3. Darwin, C., Darwin, F., IIpotere di movimento delle piante, tr. it. di G. Canestrini e R. Canestrini, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1884. 4. Tsugeki, R., Fedoroff, N.F., “Genetic Ablation of Root Cap Cells mArabidopsis” , in Proceedings o f the National Academy o f Sciences o f the Uni­ ted States o f America, 96, 22, 1999, pp. 12941-12946. 5. Morita, M.T., “Directional Gravity Sensing in Gravitropism ” , in Annual Review o f Plant Biology, 61,2010, pp. 705-720. 6. Wysocka-Diller, J.W. et al., “Molecular Analysis of s c a r e c r o w Function Reveals a Radial Patterning Mechanism Common to Root and Shoot” , in Development, 127, 3, 2000, pp. 595-603. 7. Kitazawa, D. et al., “Shoot Circumnutation and Winding Movements Require Gravisensing Cells” , in Proceedings of the National Academy of Sciences o f the United States o f America, 1 02,51,2005, pp. 18742-18747. 8. Wysocka-Diller et al., “Molecular Analysis of s c a r e c r o w Function” , cit. 9. Weise, S.E. et al., “Curvature in Arabidopsis Inflorescence Stems Is Lim i­ ted to the Region of Amyloplast Displacement”, in Plant and Cell Physio­ logy, 41, 6,2000, pp. 702-709. 10. Kiss, J.K ., Katem be, W.J., Edelm ann, R .E., “ G ravitropism and D eve­ lopment of Wild-Type and Starch-Deficient Mutants o f Arabidopsis D u ­ ring Spaceflight”, in Physiologia Plantarum, 102, 4,1998, pp. 493-502. 11. Boysen-Jensen, P., “U ber die Leitung des phototropischen Reizes in der Avenakoleoptile”, in Berichte des Deutschen Botanischen Gesellschaft, 31, 1913, pp. 559-566. 12. Stolarz, M. et al., “D isturbances o f Stem Circumnutations Evoked by W ound-Induced Variation Potentials in Helianthus annuus L ” , in Cellu­ lar & Molecular Biology Letters, 8, 1,2003, pp. 31-40. 13. Johnsson, A., Israelsson, D., “Application of a Theory for Circumnuta­ tions to Geotropic M ovements” , in Physiologia Plantarum, 21, 2, 1968, pp. 282-291. 14. Brown, A.H. et al., “Circumnutations of Sunflower Hypocotyls in Satel­ lite O rbit” , in Plant Physiology, 94, 1990, pp. 233-238. 15. Kiss, J . K., “Up, Down, and All Around: H ow Plants Sense and Respond to Environmental Stim uli”, in Proceedings o f the N ational Academy o f Sciences o f the UnitedStates o f America, 103,4, 2006, pp. 829-830. 16. Kitazawa et al., “Shoot Circumnutation and Winding Movements Requi­ re Gravisensing Cells” , cit.

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NOTE

17. Johnsson, A., Solheim, B.G ., Iversen, T.-H., “Gravity Amplifies and M i­ crogravity Decreases Circumnutations in Arabidopsis thaliana Stems: Re­ sults from a Space Experim ent” , in New Phytologist, 182, 3, 2009, pp. 621-629. 18. Morita, “Directional Gravity Sensing in G ravitropism ”, cit.

6. QUEL CHE UNA PIANTA RICORDA 1.Jaffe, M .J., “Experimental Separation of Sensory and Motor Functions in Pea Tendrils” , in Science, 195,4274,1977, pp. 191-192. 2. Tulving, E., “How Many Memory Systems Are There?” , in American Psy­ chologist, 40, 4, 1985, pp. 385-398.1 modelli di Tulving per la memoria ormai sono accettati, ma non bisognerebbe considerarli come assoluti: per quanto concerne la memoria vi sono numerosi altri modelli e teorie, e non tutti si escludono reciprocamente. 3. Cvrckova, F., Lipavska, H ., Zarsky, V., “Plant Intelligence: Why, Why Not, or W here?” , in Plant Signaling & Behavior, 4 ,5 ,2 0 0 9 , pp. 394-399. 4. Sacktor, T.C., “H ow D oes PK M z Maintain Long-Term M em ory?”, in Nature Reviews Neuroscience, 12, 1, 2011, pp. 9-15. 5. Burdon-Sanderson, J.S ., “On the Electromotive Properties of the Leaf o f Dionaea in the Excited and Unexcited States” , in Philosophical Tran­ sactions o f the Royal Society o f London, 173, 1882, pp. 1-55. 6. Dieter Hodick, D., Sievers, A., “The Action Potential of Dionaea musci­ pula Ellis” , in Planta, 174, 1,1988, pp. 8-18. 7. Volkov, A .G ., Adesina, T., Jovanov, E., “Closing o f Venus Flytrap by Electrical Stimulation of Motor Cells” , in Plant Signaling & Behavior, 2, 3,2007, pp. 139-145. 8 . Ibidem. 9. Dostâl, R., On Integration in Plants, tr. inglese di Jana Moravkova Kiely, Harvard University Press, Cambridge, m a, 1967. 10. Descritto in Trewavas, A., “Aspects of Plant Intelligence” , in Annals o f Botany, 92, 1, 2003, pp. 1-20. 11.Thellier, M. et al., “Long-D istance Transport, Storage, and Recall of M orphogenetic Information in Plants: The Existence o f a Sort o f Pri­ mitive Plant ‘Memory’” , in Comptes Rendus de lAcadémie des Sciences, Sène in, 323,1, 2000, pp. 81-91. 12. Caspari, E.W., Marshak, R.E., “The Rise and Fall of Lysenko”, in Science, 149,3681,1965, pp. 275-278. 13. Klippart, J.H ., Ohio State Board o f Agriculture Annual Report, 12, 1857, pp. 562-816. 14. Bastow, R. et al., “Vernalization Requires Epigenetic Silencing of f l c by Histone Méthylation” , in Nature, 427, 6970, 2004, pp. 164-167; He, Y., Doyle, M.R., Amasino, R.M., “PAFl-Complex-Mediated Histone Méthy­ lation of Flowering Locus C Chromatin Is Required for the Vernaliza­ tion-Responsive, Winter-Annual H abit in A rabidopsis", in Genes & De­ velopment, 18, 22, 2004, pp. 2774-2784.

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NOTE

15. Crevillen, P., Dean, C., “Regulation o f the Floral Repressor G ene f l c : The Complexity of Transcription in a Chromatin Context” , in Current Opinion in Plant Biology, 14 ,1 ,2 0 1 1 , pp. 38-44. 16. Molinier, J . et al., “Transgeneration Memory of Stress in Plants”, in N a­ ture, 442,7106,200 6, pp. 1046-1049. 17. Boyko, A. et al., “Transgenerational Adaptation of Arabidopsis to Stress Requires d n a Methylation and the Function o f Dicer-Like Proteins” , in PLoS One, 5, 5, 2010, e9514. 18. Pecinka, A. et al., “Transgenerational Stress Memory Is N ot a General Response in A rabidopsis” , in PLoS One, 4 ,4 ,2 0 0 9 , e5202. 19. Jablonka, E., Raz, G ., “Transgenerational Epigenetic Inheritance: Pre­ valence, Mechanisms, and Implications for the Study of Heredity and Evolution” , in Quarterly Review o f Biology, 8 4 ,2 ,2 0 0 9 , pp. 131-176; va­ lutazioni, dissensi, e commenti in Molinier et al., “Transgeneration M e­ mory of Stress in Plants” , Faculty o f 1000, 19 settembre 2006, FIOOO. com/1033756; Seong, K.-H. et al., “Inheritance of Stress-Induced, a t f 2-Dependent Epigenetic Change”, in Cell, 145, 7,2011, pp. 1049-1061. 20. Ghose, T., “H ow Stress Is Inherited” , in Scientist, 2011, http://the-scientist.com /2011/07/01/how- stress-is -inherited. 21. Brenner, E.D . et al., “Arabidopsis Mutants Resistant to S(+)-Beta-MethylAlpha, Beta-Diaminopropionic Acid, a Cycad-Derived Glutamate Recep­ tor Agonist”, in Plant Physiology, 124,4,2000, pp. 1615-1624; Lam , H.M. et al., “Glutamate-Receptor Genes in Plants” , in Nature, 396, 6707, 1998, pp. 125-126. 22. Michard, E. et al., “Glutamate Receptor-Like Genes Form C a2+ Chan­ nels in Pollen Tubes and Are Regulated by Pistil D -Serine”, in Science, 332,434,2011. 23. Tulving, “H ow Many Memory Systems Are There?” , cit. 24. Cvrckova, Lipavska, Zarsky, “Plant Intelligence” , cit.

EPILOGO. LA PIANTA CONSAPEVOLE 1. Binet, A., Simon, T., Harrison Town, C., A Method o f Measuring the Deve­ lopment o f the Intelligence o f Young Children, Courier, Lincoln, IL, 1912; Gardner, H ., Intelligence Reframed: M ultiple Intelligences fo r the 21st Century, Basic Books, New York 1999; G reenspan, S., Switzky, H .N ., “Intelligence Involves Risk-Awareness and Intellectual Disability Invol­ ves Risk-Unawareness: Implications of a Theory of Common Sense”, in Journal o f Intellectual and DevelopmentalDisability, 2011; Sternberg, R.J., The Triarchic Mind: A New Theory o f Human Intelligence, Viking, New York 1988. 2. Feuerstein, R., “The Theory o f Structural M odifiability” , in Learning and Thinking Styles: Classroom Interaction, a cura di Presseisen, B.Z., n e a Professional Library, National Education Association, Washington, DC, 1990; Feuerstein, R., Feuerstein, R.S., Falik, L.H ., Beyond Smarter: Mediated Learning and theBrain’s Capacity fo r Change, Teachers College

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NOTE

Press, New York 2010; Hochner, B., “O ctopuses” , in Current Biology, 18,19,2008, pp. R897-898; Anderson, B., “The G Factor in Non-human Animals” , in Novartis Foundation Symposium , 233, 2000, pp. 79-90, di­ scussione alle pp. 90-95. 3. Lauder Lindsay, W., “Mind in Plants”, in British Journal o f Psychiatry,21, 1876, pp. 513-532. 4. Trewavas, A., “Aspects of Plant Intelligence” , in Annals o f Botany, 92,1, 2003, pp. 1-20. 5. Brenner, E.D . et al., “Plant Neurobiology: An Integrated View o f Plant Signaling”, in Trends in Plant Science, 11, 8,2006, pp. 413-419. 6. Baluòka, F., Lev-Yadun, S., M ancuso, S., “Swarm Intelligence in Plant R oots”, in Trends in Ecology and Evolution, 25, 12, 2010, pp. 682-683; Baluòka, F. et al., “The ‘Root-Brain’ Hypothesis of Charles and Francis Darwin: Revival After More Than 125 Years” , in Plant Signaling & Beha­ vior, 4, 12, 2009, pp. 1121-1127; Masi, E. et al., “Spatiotemporal Dyna­ mics of the Electrical Network Activity in the Root A pex” , in Proceedings o f the National Academy o f Sciences o f the United States o f America, 106, 10, 2009, pp. 4048-4053. 7. Alpi, A. et al., “Plant Neurobiology: N o Brain, N o G a in ?”, in Trends in Plant Science, 12, 4,2007, pp. 135-136. 8. Bonica, J.J., “N eed of a Taxonom y” , in Pain, 6, 3, 1979, pp. 247-252; vedi anche w w w .iasp-pain .org/A M /T em p late.cfm ?S ection = P ain _ D e fin itio n s & T e m p la te = /C M / H T M L D isp la y .c fm & C o n te n tID =1728#Pain. 9. Lee, M .C., Tracey, I., “Unravelling the Mystery of Pain, Suffering, and Relief with Brain Im aging”, in Current Pain and Headache Reports, 14,2, 2010, pp. 124-131. 10. Abbott, A., “Swiss ‘Dignity’ Law Is Threat to Plant Biology” , in Nature, 452,7190, 2008, p. 919.

CREDITI DELLE ILLUSTRAZIONI*

25 Amedee Masclef, Atlas des plantes de France, Klincksieck, Paris 1891. 26 Varda Wexler. 28 Ernst Gilg, Karl Schumann, Das Pflanzenreich, Hausschatz des Wissens, Neumann, Neudamm, ca. 1900. 33 u s d a - n r c s p l a n t s Database / Nathaniel Lord Britton, Addison Brown, An Illustrated Flora of the Northern United States, Cana­ da, and the British Possessions, 3 voll., Charles Scribner’s Sons, New York 1913, vol. 2, p. 176. 44 u s d a - n r c s p l a n t s Database / Nathaniel Lord Britton, Addison Brown, An Illustrated Flora of the Northern United States, Cana­ da, and the British Possessions, 3 voll., Charles Scribner’s Sons, New York 1913, vol. 3, p. 49. 47 Prof. Dr. Otto Wilhelm Thome, Flora von Deutschland, Österreich, und der Schweiz, Köhler, Gera 1885. 48 Walter Hood Fitch, Illustrations of the British Flora, Reeve, Lon­ don 1924. 51 Francisco Manuel Blanco, Flora de Filipinas [Atlas n], Plana, Ma­ nila 1880-1883. 53 Modificata dalle figure 2 e 3, in Martin Heil, Juan Carlos Silva Bueno, “Within-Plant Signaling by Volatiles Leads to Induction and Priming of an Indirect Plant Defense in Nature”, in Procee­ dings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 104, n. 13 (2007), pp. 5467-5472. Copyright ©2007 Na­ tional Academy of Sciences, u s a . 57 Illustrazione da una fotografia a di Amorphophalius titanum nel parco-zoo di Wilhelma (Stoccarda) a opera di Lothar Grünz (2005). 62 USDA-NRCS PLANTS Database, http://plants.usda.gov, visitato il 25 agosto 2011, National Plant Data Team, Greensboro, Carolina del Nord, 27401 - 4901 USA. * II numero ehe precede i vari crediti si riferisce alia pagina di questo testo in cui compare la relativa illustrazione.

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CREDITI DELLE ILLUSTRAZIONI

66 Tratta dalla figura 12, in Charles Darwin, Insectivorous Plants, John Murray, London 1875. 70 Paul Hermann, Wilhelm Taubert, Natürliche Pflanzenfamilien, Engelmann, Lipsia 1891, vol. 3, p. 3. 72 u s d a - n r c s p l a n t s Database / Nathaniel Lord Britton e Addison Brown ,AnIllustratedFlora of the Northern United States, Cana­ da, and the British Possessions, 3 voll., Charles Scribner’s Sons, New York 1913, vol. 3, p. 345. 78 u s d a - n r c s p l a n t s Database / Nathaniel Lord Britton, Addison Brown, Aw Illustrated Flora of the Northern United States, Cana­ da, and the British Possessions, 3 voll., Charles Scribner’s Sons, New York 1913, vol. 3, p. 168. 86 George Crouter, in Dorothy L. Retallack, The Sound of Music and Plants, DeVorss, Santa Monica, CA, 1973, p. 6. 89 Francisco Manuel Blanco, Flora de Filipinas, tomo 4, Plana, Ma­ nila 1880-1883. 91 Prof. Dr. Otto Wilhelm Thomé, Flora von Deutschland, Österreich, und der Schweiz, Köhler, Gera 1885. 104 Varda Wexler. 106 Tratta dalla figura 196, in Charles Darwin, Francis Darwin, The Power of Movement in Plants, D. Appleton, New York 1881. 109 Walter Hood Fitch, Curtis’s Botanical Magazine, vol. 94, ser. 3, n. 24,1868, tavola 5720. 112 u s d a - n r c s p l a n t s Database / A.S. Hitchcock, riveduta e corretta da Agnes Chase, Manual of the Grasses of the United States, u s d a Miscellaneous Publication n. 200, US Government Printing Office, Washington, DC, 1950. 115 Tratta dalla figura 6, in Charles Darwin, Francis Darwin, The Power of Movement in Plants, D. Appleton, New York 1881. 116 u s d a - n r c s p l a n t s Database / u s d a Natural Resources Conser­ vation Service, Wetland Flora: Field Office Illustrated Guide to Plant Species. 128 Varda Wexler. 128 u s d a - n r c s p l a n t s Database / Nathaniel Lord Britton, Addison Brown, An Illustrated Flora of the Northern United States, Cana­ da, and the British Possessions, 3 voll., Charles Scribner’s Sons, New York 1913, vol. 2, p. 436. 130 u s d a - n r c s p l a n t s Database / Nathaniel Lord Britton, Addison Brown, An Illustrated Flora of the Northern United States, Cana­ da, and the British Possessions, 3 voll., Charles Scribner’s Sons, New York 1913, vol. 3, p. 497. 132 u s d a - n r c s p l a n t s Database / A.S. Hitchcock, rivista e corretta da Agnes Chase, Manual of the Grasses of the United States, USDA Miscellaneous Publication no. 200, US Government Printing Of­ fice, Washington, DC, 1950. 160

INDICE ANALITICO

comunicazione delle piante con gli, 4 7 ,5 0 ,5 7 corredo genetico delle piante rispetto agli, 15 feromoni negli, 58 intelligenza negli, 141 nella dispersione dei semi, 43 senso del tatto negli, 79 sollecitazione tattile sulle piante da parte degli, 73 Anoetica, coscienza, 139 Antenne radio, 22-23 Antico antenato comune, 37-38, 142, 147 Antropomorfismo, 50 campagna sensazionalistica dei media, 49 cautele a proposito dell’, 144-147 Api, ronzio delle, 96 Apicale, dominanza, 129 Apicali, germogli, 127-131 ,128 Arabidopsis (Arabidopsis thaliaw, pianta della senape), 74,77 circumnutazione nella, 114, 119 come pianta ideale per la ricerca, 9 3 ,1 0 7 ,1 3 3 effetto dei farmaci neuroattivi sulla, 139 genoma della, 93-95 negli esperimenti con i voli spaziali, 117-118 nell’esperimento con la gravità, 106-107 nell’esperimento sulla pianta mutante cieca, 32,33

Accademia delle Scienze di Francia, 129 Aceri da zucchero, 49 Acne, rimedi per 1’, 55 Acqua assorbimento dell’, 95 nei vasi dello xilema, 97,108 nel movimento delle foglie, 71 Advil, 65 Afflosciamento, sgonfiamento, 71 Age, The, 49 Alberi, 121 adattamento all’ambiente degli, 73 “Alberi parlanti” , 4 7 ,4 9 Alghe, 18, 36n verdi, 35n Allard, Harry A., 28 Ambiente adattamento delle piante all’, 16, 4 2 ,7 3 ,7 8 , 111, 127,136 consapevolezza da parte delle piante dell’, 144 geni controllati dall’, 75 modificato da animali ed esseri umani, 131 ottimizzazione da parte delle piante dell’, 17,119-120 Amiloplasti, llOn Amorphophallus titanum vedi Fiore cadavere Ampiezza, 82 Animali come preda per le piante carnivore, 65-66

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INDICE ANALITICO

nella denominazione dei mutanti, 107n udito, 95 vernalizzazione nella, 133,138 Arcobaleni, 22-23 Artemisia tridentata, 50 Artropodi divoratori di scarabei, 51 Aspirina (acido acetilsalicilico), 18,55 Autonoetica, coscienza, 139 Autunno, 43 nel ciclo delle piante, 35 Auxina (ormone del movimento), 113,131 Avena (Avena sativa ), 112-113, 112 Avocado, 41 Avvolgimento dei viticci, memoria nell’, 122, 138 Azalee, 135 Azoto, 65

Boysen-Jensen, Peter, 112 Bozo il Clown, paragonato al movimento delle piante, 116 Braam, Janet, 74-76, 90 Brassica oleracea vedi Cavolo selvatico b r c a , geni, 94 “Brevidiurne” , piante, 29 Brown, Allan H ., 117,119 Brubeck, Dave, 88 Bruchi, 47, 49 Buio come viene misurato dalle piante, 29-30 percezione da parte delle piante, 34 Burdon-Sanderson, John, 68-69, 125 come critico di Bose, 70 Butler, Warren L., 31 Calcio nel senso del tatto, 72,125 nella segnalazione elettrochimica, 64, 79 proteine che legano il, 76 trasmissione dei segnali con il, 75-76 Calendula (Tagetes erecta), 89 esperimenti con la musica sulla, 88 Calmodulina (proteina modulata dal calcio), 76, 79 Campanula (Pharbitis nil), 109 esperimento con la gravità sulla, 118 Campanula “piangente” (Shidareasagao), 108 Canaria (Phalaris canariensis), 25 Cancro, 16,18, 33 al seno, 94 Cani, 83n, 146 Canto gregoriano, 88 Capsaicina, 77 Carolina del N ord e Carolina del Sud, 65 Cavolo, 116

Bach, Johann Sebastian, 86, 89 Baldwin, Ian, 48-51, 87 Baluòka, Frantiòek, 142 Banane, 41-42 Baniano, albero del, 99 Baryshnikov, Mikhail, 113 Bashó, M atsuo, 81 Bastoncelli, 23-24,35 Batteri, 38,53-56 Batteria, analogia con la cellula, 64 Beatles, 88 Benfey, Phil, 108 Bengay, 55 Betamircene, 46 Bidens pilosa vedi Forbicina pelosa Bilanciamento salino, 64 Binet, Alfred, 141 Biologia, parallelismi fra piante ed esseri umani, 15,147 Biosatellite m, 117 Bird, Christopher, 89 Bocca, 77 Bonham, John, 87 Bose, Jagadish Chandra, 70 Bowles, Dianna, 78

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Clorofilla, 43, llO n Colorado State University, 72 Colore percezione da parte delle piante del, 29-32 percezione umana del, 22-24 Columbia (space shuttle), 117 Comunicazione delle piante, 42 5 9 , 105-106 esperimenti sulla, 46 -5 0 , 87-88 fra piante e animali, 4 7 , 50,57 interna e fra le piante, 5 2 -5 4 , 96 nella segnalazione del pericolo, 47 -4 8 ,7 9 Coni, 23 -24,35 Consapevolezza dinamica, 102 statica, 102 c o p 9 , segnalosoma, 93 Cornell University, Boyce Thompson Institute, 42 Corteccia prefrontale, 145 Coscienza, 139 Costituzione Federale Svizzera, 146n Cotiledoni, 127-131, 128 Creath, Katherine, 84-85 Criptocromo, 3 2 ,34n, 37 Crisantemi, 29-30 Crittogame, piante, 36n Cromatina, 134 Cromosomi, 134 CSI - Scena del crimine, 52 Cuffia della radice, 106,109 Cuore, funzione, 64 Cuscuta pentagona vedi Ragno malefico

Cavolo selvatico (Brassica oleracea), 114-115, 115 Cecità negli esseri umani, 22,24 nelle piante, 26,31-32,106-107 nelle talpe, 131 Cecità a un colore, 24 Cellule allungamento delle, 113 biologia della pianta, 71 differenziazione delle, 7 5 ,134n divisione delle, 94 nella segnalazione elettrochimica, 64, 76 nelle orecchie, 82 scoperta delle, 16 Centre for Research and Advanced Study, 50 Centrifuga, esperimenti con la, 1 0 3 , 1 0 4 , 119 Cervello assenza nelle piante, 77,146 nel dolore rispetto alla sofferenza, 145 nel senso del tatto, 62-65, 76 nel senso dell’odorato, 40 nel senso della vista, 22-24 nell’udito, 83 nella formazione e nella conservazione della memoria, 122-123,138 nella propriocezione, 101-102 Cetrioli, 105,116 c f t r , geni, 94 Cherosene, nella maturazione, 41 Chiodi di garofano, albero dei, 116 Cicli mestruali, 58 Ciglia, 65 Ciglia delle radici, 95 O liate, cellule, 95 nelle orecchie, 82,101 Ciliegio, alberi di, 133 Cinesi, antichi, 41 Circadiani, ritmi, 37 Circadiano, orologio, 37 Circumnutazione, 114-115,118 e gravitropismo, 115,118 velocità della, 114

Danno spinale, 63 Darwin, Charles Robert esperimento con la musica di, 83-84 esperimento della gravità di, 104-106, 1 0 6 , 118-119 esperimento sul fototropismo dell’estremità delle piantine, 2 5 -2 7 ,2 6 ,3 5 ,8 3

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ipotesi sulla neurobiologia delle piante, 142 studi sul fototropismo di, 24-27 studio del movimento delle piante di, 113-117, 115 studio della Venere acchiappamosche da parte di, 67 teoria evoluzionistica di, 16 Darwin, Francis, 24 esperimento sulla gravità di, 104-106, 106 David Rose Orchestra, 88 Davy Faraday Research Laboratory, 70 D e Moraes, Consuelo, 45 Delfini, 97 Denny, Frank E., 41 Depolarizzazione, 63, 68 Dionaea muscipula vedi Venere acchiappamosche Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, 41, 43 Dischi di Merkel, 77 Dispersione dei semi, 43,57 DNA, 15 di arabidopsis, 92 epigenetica e, 134-135 “geni saltanti” nel, 16 mutazioni nel, 33, 93 nella memoria transgenerazionale, 136 nelle cellule vegetali, 11,15 non codificante, 92 Dobzhansky, Theodosius, 97 Dolore come non sperimentato dalle piante, 77-78, 145 percezione umana del, 77-78 rispetto al tatto, 64-65 Dolore, recettori del vedi Nocicettori D oppia elica, 134 Dostàl, Rudolf, 127-129 Droghe, segnali neuronali inibiti dalle, 127,138-139 Drosera rotundifolia vedi Rosolida

Duhamel du Monceau, HenriLouis, 102-104,106 Ebbrezza, 100 Ecotipi, 133 Edsall, Pamela, 88-89 Egizi, 41-42 Elefanti, 83n, 97 Elettricità nel far scattare la Mimosa pudica, 70-71 nel far scattare la Venere acchiappamosche, 68-72,126 nella comunicazione neurale vedi Segnalazione elettrochimica Emozioni come assenti nelle piante, 62,144 sensazioni fisiche e, 77 senso dell’odorato e, 58 vedi anche Antropomorfismo Endodermide, 109 Energia guaritrice, esperimento dell’, 84 Epigenetica, 134-135,137138; vedi anche Memoria transgenerazionale Equilibrio, senso dell’, 101 Esseri umani calcio negli, 76 calmodulina negli, 76 creature che si prendono cura, 147 dipendenza dalle piante degli, 18,71 empatia verso gli animali da parte degli, 146 geni nelle malattie negli, 93 genoma degli, 93 intelligenza negli, 141-142 memoria negli, 76, 121, 123, 126,135 nella sollecitazione tattile delle piante, 61 nelle interazioni con le piante, 144-147 percezione dei colori negli, 32, 63

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Fiore cadavere (Amorphophallus titanum ), 57 Fiori, nella pollinazione, 96 Fioritura effetto del freddo sulla, 131-135 effetto del tatto sulla, 74 manipolazione artificiale della luce per indurre la, 28-32 parte della pianta che regola la, 31,34 Fitochimiche, sostanze, 55 Fitocromo, 31 -35,33 f l c (flo w e r in g lo c u s C), gene, 134135 Floema, 45 Florida, coltivazioni in, 29,41 Foglie cellule nelle, 75 come assenti nel ragno malefico, 43 danni da parte degli insetti nelle, 4 7 ,4 9 della Venere acchiappamosche, 65-69 effetto negativo del tocco sulle, 72-77 ferite, 79 macchie bianche sulle, 55 morte delle, 73 movimento vedi Mimosa pudica ; Venere acchiappamosche nel fotoperiodismo, 31 nella comunicazione fra le piante, 46 Forbicina pelosa (Bidens pilosa), esperimento di memoria morfogenetica sulla, 129-134, 130 Fosforo, 65 Fotoperiodismo, 29,31 Fotopsine, 23-24,32, 36 Fotorecettori appaiati, 34 cinque classi di, 34n negli occhi, 23-24, 35-36, 40, 63 nelle piante, 31-32,104-105 Fotosintesi, 25, 34, 37, 43, 65, 75

percezione del dolore da parte degli, 77 propriocezione negli, 100-102, 119-120 senso del tatto negli, 63-65, 77, 79.101 senso dell’odorato negli, 39-41, 58-59, 101 senso dell’udito negli, 82, 96-98,

101 senso della vista negli, 23-24,353 8 .6 3 .1 0 1 sistema nervoso degli, 62-65,101 sordità negli, 92, 94-96 trattamento delle malattie negli, 18,55-56 vedi anche Cervello Estremità del fusto del ragno malefico, 44; vedi anche Estremità delle piantine, esperimento Estremità della radice, nella gravità, 104-107, 1 0 6 , 109,

111-112 Estremità delle piantine, esperimento sul fototropismo dell’, 2 5 -2 1 ,2 6 , 35-36, 111 Etilene nella maturazione, 42 recettori dell’, 58 Fagioli di soia, 29 Fagioli di Spagna (Phaseolus lunatus), 4 6 ,5 In esperimenti di comunicazione con, 50-56,53n Fagotto, musica del, 83 Falsa morte, 70 Feijó, José, 139 Felci, 36n Felicità, 144 Fenoliche, sostanze chimiche, 46, 49 Feromoni, 59 Festa della mamma, 30 Fibrosi cistica, 94 Fichi, 41-42

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INDICE ANALITICO

Fototropine, 34n Fototropismo, 24-27, 3 4 ,3 6 ,1 0 5 , 113,115,119 esperimento di Boysen-Jensen sul, 112 esperimento di Darwin sul, 2427, 26, 35, 83, 111 Fragole, 114 Frequenza delle onde sonore, 82 Frutti etilene emesso dai, 42 maturazione artificiale dei, 41-43 vedi anche Maturazione Fum o, nella maturazione, 41-42 Funghi, 38

del ragno malefico, 44-45 esperimenti con la musica per la, 85 nella circumnutazione, 117-118 Germogli di fagiolo, circumnutazione nei, 114 nell’esperimento con la luce, 32 Germogli laterali, 127-131 Germogli, nel riorientamento delle piante, 102-111 Giardino Botanico di New York, 88 Ginocchia, 102 Girasole (Helianthus anrtuus), 115, 116 esperimenti durante il volo spaziale sul, 117 Glutammato, recettori per il, 138 Gom bo, semi di, 85 Gorilla, 146 Gradienti elettrochimici, 138 Grano, 18 circumnutazione nel, 114 geni nel, 92-93 nell’esperimento del ragno malefico, 46 vedi anche Grano d ’inverno Grano d ’inverno ( Triticum aestivum), 131-133, 132 Granturco (Zea mays), 90-91, 91 Gravi cettori, 104, 109 Gravità cuffia della radice nella, 106,109 esperimenti nel volo spaziale sugli effetti della, 110-111, 117-119 esperimento con il gene scarecrow, 107-108 esperimento della piantina di fagioli di Duhamel con, 102104,106 esperimento delle piantine di fagioli di C. e F. Darwin con la, 104-106, 106 nel riorientamento, 102-111, 118-119 radici rispetto a germogli nella, 107

Galston, Arthur, 17, 90 Gane, Richard, 42 Gardner, Howard, 141 Garner, Wightman W., 28 Gascromatografia-spettrometria di massa, 52 Gelo, effetto sul tabacco del, 27 Genetica mendeliana, 131 Genetica molecolare, 32, 109-110 Geni condivisi da piante e animali, 15 condivisi da piante ed esseri umani, 93-94 definizione dei, 93 n denominazione dei, 93-94 funzione dei, 75 malattia, 94 mutazione nei, 93-94 scarecrow, 108 t c h , 76, 90 trascritti, 134 trasposizione dei, 16 Geni di malattie, 94 “Geni saltanti” , 16 Geni “sordi”, 95,141 “Geni specifici delle piante” , 15 Genoma dell’arabidopsis, 92-95 umano, 93 Germinazione, 34, 99 calore nella, 90-91

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vedi anche Circumnutazione; Gravitropismo Gravitropismo, 102,107-108,115, 118, 120 negativo, 103,107 positivo, 102,108 Greci, 55 Gressel, Jonathan, 36n Gusto, senso del, in relazione con l’odorato, 18,56

Jaffe, Mark, 73,122 Japan Aerospace Exploration Agency, 117 Jasm onico, acido, 56n Jet lag, 37 Johnsson, Anders, 118 Journal o f Alternative and Complementary Medicine, 84 Kennedy, John Fitzgerald, 31 Kiss, John, 110-111 Klein, Richard, 88-89 Knight, Thomas Andrew, 103-104, 106,119 Koornneef, Maarten, 32, 107 Kovalchuk, Igor, 137

Hadany, Lilach, 96 Heil, Martin, 50-53,56,5 9 Helianthus annuus vedi Girasole Hendrix, Jim i, 86 Hertz (Hz), 83 n Hodick, Dieter, 125 Hohn, Barbara, 136-138 H ooke, Robert, 16

Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale, 96 Lacrime, 58 Lamarck, Jean-Baptiste, 131, 137 Lattuga, 133 Led Zeppelin, 86-87, 91 Legamento crociato anteriore

Id, 144 Immagini, incapacità delle piante di “vedere” per, 34-35 Incenso, 41-42 India, 88 Insetti, 15 ,3 7 ,6 5 come preda delle piante carnivore, 65-67 piante aggredite dagli, 47, 49-56 Intelligenza negli esseri umani, 135 nella selezione naturale, 141 nelle piante, 141-147 piante rispetto ad animali ed esseri umani, 141-142 rispetto alla consapevolezza, 143 Intelligenza vegetale, 143 International Association for thè Study o f Pain, 145 Inverno, nel ciclo delle piante, 131-135 Io, come assente nelle piante, 144 Ippocrate, 55 Iris, 29-30 Israelsson, Donald, 115-116 Istoni, 134

(l c a ), 1 0 2

Leucemia, 15 Licheni, 36n Limoni, 41 maturazione dei, 41 Lindsay, William Lauder, 141 Lingua, 56 Lino (Linum usitatissimum), esperimenti di memoria morfogenetica sulle, 127-129,

128 “Longidiurne”, piante, 29 Los Angeles Times, 49 Luce come nutrimento per le piante vedi Fotosintesi come percepita dalle piante, 212 2 ,9 3 ,1 4 3 interruttore per l’attivazione della, 31 manipolazione artificiale della, 27-29,37 nei ritmi circadiani, 37

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nell’attorcigliamento, 122 nella fioritura, 27-32 nello sviluppo delle piante, 15 risposta delle estremità delle piante alla, 25-27, 26, 35, 83, 106, 111 vedi anche Fototropism o Luce arancione, 22 Luce bianca, 40 Luce blu, 22-23, 30,32-33, 40, 75, 143 nei ritmi circadiani, 37 nel fototropismo, 24 Luce del giorno, percezione da parte delle piante della, 34 Luce gialla, 22 Luce infrarossa, 21 Luce rossa, 22-23, 30, 32-33,36, 40,1 2 9 ,1 4 3 Luce rosso lontano, 30-31,143 Luce verde, 22-23,30, 32, 40 Luce viola, 24 Lund Institute of Technology, 115 Lysenko, Trofim Denisovic, 131132

Memoria codificazione (formazione) della, 124-125,136,138 del computer, 124 del freddo, 131-135 epigenetica nella, 134-135 input sensoriali nella, 121 mantenimento (conservazione) del ricordo nella, 123-127, 129,136, 138 nella fioritura, 131-135 nella Venere acchiappamosche, 124-127 nelle piante, 18,31,6 9 ,1 2 1 -1 3 9 , 143 piante rispetto a esseri umani, 121-122,138,147 processi della, 123-124,136,138 richiamo (recupero) del ricordo nella, 124-125,136, 138 risposta ritardata come componente della, 122 senso dell’odorato nella, 58 transgenerazionale, 136-138 umana, 7 6 ,1 2 1 ,1 2 3 ,1 2 6 , 136 Memoria a breve termine, 123 nella Venere acchiappamosche, 124-127 Memoria a lungo termine, 124 dei traumi nelle piante, 127-131, 143 Memoria del computer, 124 Memoria episodica, 123,139 Memoria immunologica, 124 Memoria morfogenetica, 127 Memoria muscolo-motore, 124 Memoria procedurale, 123,139 Memoria semantica, 123 Memoria sensoriale, 123 Memoria transgenerazionale, 136138 studio della sollecitazione sulla, 137 Mendel, Gregor, 16 Menta, 40 Mentolo, 40 Metamorfosi (Ovidio), 21

Macbeth (Shakespeare), 39 Macchie oculari, 35n Mancuso, Stefano, 96,142 Mangrovia, alberi di, 99 Mano-occhio, coordinazione, 102 Maryland, 27, 29 Maturazione, 58-59 esperimenti sulla, 41-42 metodi artificiali di, 41-43 metodi tradizionali di, 41-43 odore nella, 39 M ax Planck Institut fiir chemische Òkologie, 51 McClintock, Barbara, 16 Meat Loaf, 90-91 Meccanocettori, 83 per il tatto, 63-65,77 per l’udito, 79, 82 Medio Oriente, 55 Mele, esperimento sulla maturazione delle, 42

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Metil jasmonato, 5 4 ,56n Metil salicilato, 54 Mediazione, 134n, 135 Miami University, 110 Microgravità, 117n Microonde, 22 Mimosa pudica, 70 movimenti della foglia nella, 697 2 ,7 6 ,8 4 ,9 8 ,1 1 4 ,1 4 2 nomignoli della, 69-70 ricerche sulla, 69-71, 84 Miosine, 95 Mitchell, Mitch, 87 Mitocondri, 71 Monitor cardiaci, 64 Moscerini della frutta, 15, 37 Movimenti della foglia, nelle piante carnivore vedi Mimosa pudica-, Venere acchiappamosche Movimento, ormone del (auxina), 113,131 Mozart, Wolfgang Amadeus, 88-91 Muir, John, 99 Muschi, 36n Muscoli movimento senza, 69-71 negli esseri umani, 76 Musica come irrilevante per le piante, 95 effetto sulla crescita delle piante della, 82-92 esperimento di Charles Darwin con la, 83-84 esperimento di Klein e Edsall con la, 88-89 esperimento di Retallack con la, 85-89 esperimento di Scott con la, 90 mancanza di evidenze scientifiche per la, 89-92 Musica classica, 86, 88-91 Musica rock, 86-87, 92; vedi anche i vari artisti citati Mutante cieca, esperimento sulla pianta, 32 Muzak, 87

Nanomotori, 95 N appola minore (Xanthium stmmarium), 72 Naso, 39-41,56,58,100-101 Nativi americani, 2 7 ,5 5 , 84 Nervi olfattivi, 39 Nervo acustico, 83 Nettare, 52 come attrattiva per gli insetti, 66 Neurobiologia vegetale, ipotesi, 142 Neuroni sensoriali, 62-65 Neurorecettori, 139 Neurotrasmettitori, 64,127 Neve, come sollecitazione tattile, 73 New Age, 85, 88 New York Times, 49 New York University, 108,139 Nicotiana tabacum vedi Tabacco Nitrato d ’argento, 106 Nocicettori, 65, 77 Noetica, coscienza, 139 Nonna Salice, 121 “ Non toccarmi” , pianta, 70 Nucleo, 71, 76 Nucleotidi, 92-93,134 A, T, C e G , 94 Nutazione, 88 Nutrimento per le piante carnivore, 66 uso della luce da parte delle piante per produrre il vedi Fotosintesi O akwood University, 68,126 Occhi, 22-23,101 fotorecettori negli, 32,35, 63 “O cchi” delle piante, 26,31 O dorato analogia chiave-serratura, 40 definizione del senso dell’, 39 esseri umani rispetto alle piante, 42,58-59 negli esseri umani, 39-41,101 nella comunicazione fra le piante, 42

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nelle piante, 18, 39-59, 81 ramificazioni sociali dell’, 58 recettori per, 40-41,58 rispetto al senso della vista, 40 Ohio Board of Agricolture, 132 Ohio University, 73 Olfatto vedi Odorato O nde elettromagnetiche, 35 O nde luminose, 22, 30 O nde radio, 22-23 O nde sonore, 82 uso in agricoltura delle, 96 Ontano, 50 Oranghi, 141 Orecchio, 81-83, 101 come assente nelle piante, 83 dei cani, 83n dei pipistrelli, 83n interno, 101, 109-110 nella propriocezione, 101 nella sordità negli esseri umani, 92,95-96 paragonato con le radici, 95 Orecchiamento olfattivo, 52,54 Orians, G ordon, 47-48 Origine delle specie (C. Darwin), 24 Ormoni difensivi, 5 5 ,56n Ormoni, nelle piante, 75,113,1 3 1 Orologi interni, 32,36-37 Orzo, 2 9 ,5 0 Ospiti, piante, 43-46 Otoliti, 101,109, 111 Ovidio, Publio Nasone, 21

Perenni, 135 Pesce, 146 Petiolo, 79 Pfeffer, Wilhelm, 113 Phalaris canariensis vedi Canaria Pharbitis nil vedi Campanula Phaseolus lunatus vedi Fagioli di Spagna Physiology and Behaviour ofPlants (Scott), 90 “Pianta sensibile”, 69 Piante adattamento all’ambiente da parte delle, 16, 73 altezza nelle, 32-33 anatomia delle, 127 assenza di sistema nervoso nelle, 3 5 ,4 1 ,5 8 -5 9 ,6 9 biologia condivisa fra gli esseri umani e le, 147 carnivore, 65-67; vedi anche Venere acchiappamosche come sorde, 92, 97-98 complessità genetica delle, 16 corredo genetico degli animali rispetto a quello delle, 15 coscienza rispetto a intelligenza nelle, 143-147 danze delle, 113-119 “dignità” delle, 146 dipendenza umana dalle, 18,71 discriminazione della temperatura da parte delle, 61 dolore non provato dalle, 7 7 ,7 9 , 145 effetto delle vibrazioni sulle, 9697 inclinarsi verso la luce vedi Fototropismo intelligenza nelle, 139,141-147 interazione degli esseri umani c o n ,144-147 interazione tattile con le, 61 movimenti delle, 44-45, 98,111119 natura immobile (sessile) delle, 1 5 ,3 4 ,7 9 , 98,113

Parassite, piante, 43-46,100; vedi anche Ragno malefico Parete cellulare, 71 Patate, 18 Penn State University, 45 Pensieri, crescita delle piante presumibilmente influenzata dai, 86 Peperoncino, 77 Percussioni, effetto sulle piante delle, 87 Pere, 41-42

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preferenza del ragno malefico p eri, 44-46,111,119-120 Populus alba vedi Pioppo bianco Posizione, senso della 99119; vedi anche Gravità; Propriocezione; Riorientamento Potassio nell’afflosciamento, 71 nella segnalazione elettrochimica, 64, 79,127 Potatura, 31,129 Potere di movimento nelle piante, Il (Darwin), 24,102 Power ofPrayer on Plants, The (Loher), 85 Primavera, nel ciclo delle piante, 34 Prioni, 134n Proceedings o f thè Royal Society of London, 70 Profumi, 4 0 ,5 2 fagioli di Spagna, 54 grano, 46 pomodoro, 4 6 ,5 4 Propriocezione, 18,100-102,143 nelle piante rispetto agli esseri umani, 119-120 rispetto al senso del tatto, 102 vedi anche Gravità Proteasi, inibitori della, 78-79 Proteine, 71 che legano il calcio, 76 motrici, 95 nella codifica dei geni, 75, 94 nella conservazione della memoria, 123 Protoplasto, 71 Pulvino, cellule del, 70-71,76 Putrescina, 40

nella autoprotezione contro i danni, 46-55 nella autoprotezione contro le malattie, 55-56 parassite, 43-46, 100 percezione del colore da parte delle, 29-32 percezione della luce da parte delle, 21-22 perenni, 135 profumi emessi dalle, 56-57 reti informative nelle, 142 ricerche genetiche sulle, 16-17 rilevazione degli schemi di movimento delle, 113-119 riorientamento nelle, 99-100 ruolo delle foglie nelle, 31-32 sensi delle vedi sensi specifici sollecitazioni tattili sulle, 72-77 sostanze chimiche estratte dalle, 18 uso medicinale delle, 55 Piante infestanti nocive, 44-45 Piante insettivore (Darwin), 67 Piantine di fagiolo, nell’esperimento sull’orientamento, 103 ,104 Pinguini, 98 Pino, 97 Pioggia come sollecitazione tattile, 73 sulle foglie della Venere acchiappamosche, 67-68 Pioppo bianco (Populus alba), 495 0 ,4 8 Piovre, 141 Pipistrelli, 83n Piselli, 105 piante di, 16 Pocahontas, 121 Pollan, Michael, 57 Pollinazione da parte delle api, 96 profumi nella, 56-57 Pomodori (Solanum lycopersicum), 78 nell’esperimento di adattamento all’ambiente, 78

test (test del quoziente di intelligenza), 141 “Q uando gli alberi parlano” , 49 Quercia, 96,135 Quotations for Special Occasions (van Buren), 121

Ql,

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“Sapere” (know), uso del termine da parte dell’autore, 17 Sarasota Herald-Tribune, 49 Scarabei, 50-52, 66 Scarecrow, gene, 107-108 Schoenberg, Arnold, 86 Schultz, Jack, 48-49 Schwartz, Gary, 84-85 Science, 47 Scimpanzé, 146 Scott, Peter, 90 Seconda guerra mondiale, 29 Segnalazione chimica, 45, 47-48, 79 elettrochimica, 63-65, 7 6 ,7 9 Semicircolari, canali, 101 Senescenza della foglia, etilene quale regolatore della, 42 Sensi delle piante rispetto agli animali, 18, 146-147 nella memoria, 121 Sequoie, 18 Serre, crescita delle piante nelle, 30 Sesto senso vedi Propriocezione Shakespeare, William, 39 Shankar, Ravi, 89 Shidare-asagao vedi Campanula “piangente” Siccità, 42 effetto sugli alberi della, 97 Sicyos angulatus vedi Zucca spinosa Sievers, Andreas, 125 Sistema limbico, 58 Sistema nervoso assente nelle piante, 35, 41,585 9 ,6 9 umano, 63-65,101-102 Società per la Neurobiologia Vegetale, 143 n Società della Segnalazione del Comportamento Vegetale, 137n Sodio, nella segnalazione elettrochimica, 64 Sofferenza vedi Dolore Solanum lycopersicum vedi Pomodori

Radici aeree, 99 cellule nelle, 75 riorientamento delle, 102-111, 113 rispetto alle orecchie, 95 rispetto alle reti neurali, 142 Raggi x, 22 Ragno malefico (Cuscuta pentagono), 43-46, 4 4 , 59,100,

111 esperimento sul, 45 preferenze alimentari del, 43-46, 119-120 Rallentatore, fotografia al, 113 Rane, 66, 68 Raskin, Ilya, 56 Recettori degli odori, 40-41 Recettori olfattivi, 40-41,58 Retallack, Dorothy, 85-89, 86 magagne scientifiche nelle ricerche sulla musica da parte di, 86-89, 91 Retina, 23-24, 35 Rhoades, David, 47-49 Ricci, 72 Rice University, 74 Riorientamento, 99-111 esperimento della centrifuga, 103-104 ,104 piegamento eccessivo nel corso del, 116 r n a , 134n Rodopsina, 23-24,32 Ronzio di impollinazione, 96 Rose, 18, 61 Rosolida (Drosera rotundifolia), 67 Ruota idraulica, nella centrifuga, 102-104, 1 0 4 , 118-119 Rutgers University, 56 Salice bianco (Salix alba), 47-48, 47 ,55 memoria nel, 121-122 Salicilico, acido, 55 Salisbury, Frank, 72-73, 91 Salix alba vedi Salice bianco

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Sollecitazione, nella memoria transgenerazionale, 137 Sonar, 83 n Sordità negli esseri umani, 92, 94-96 nelle piante, 92, 97,141 Sound of Music a n i Pianti, The (Retallack), 85, 87 “ Spettro visivo” , 22 Spine, 61 Spiralizzazione vedi Circumnutazione Stanford University, 74 Statoliti, 109-111,116-117,119n esperimento con la gravità sugli, 110-111 Stazione Spaziale Internazionale, esperimenti con la gravità sulla, 118-119 Steli sottoposti alla gravità, 107108,113,115 Stereociglia, 82 Stolarz, Maria, 115 Stornata, 56 Super-io, assente nelle piante, 144 Susquehannock, tribù, 27

piante rispetto agli esseri umani, 62, 77-79 rispetto al dolore, 64 rispetto alla propriocezione, 102 soggettività nel, 77 Taxol, 18 t c h , geni (attivati dal tocco), 7576, 90 Tempie Bell College, 85 Terminologia, dell’esperienza umana applicata alle piante, 17 Testosterone, 58 Thellier, Michel, 129-130 Tigmomorfogenesi, 73, 122 Tompkins, Peter, 89 Tono, 82 Topi, 37 Toscana, 96 Trattamento artificiale con il freddo vedi Vernalizzazione Traumi, 42 Trewavas, Anthony, 141-142 Triticum aestivum vedi Grano d ’inverno Tronchi, rispetto allo scheletro, 143 Tronco cerebrale, 145 Tulipani, 114, 116 circumnutazione nei, 114 Tulving, Endel, 122-123,139 Tylenol, 65

Tabacco Mammuth del Maryland, 27-29 Tabacco (Nicotiana tabacum ), 2729 memoria nel, 122 Tagetes erecta vedi Calendula Takahashi, Hideyuki, 117 Talking Heads, 90 Talpe, cecità nelle, 131 Tanniche, sostanze, 48-49 Tattile, sensazione vedi Tatto Tatto, senso del, 18 connotazioni emotive del, 77 corredo genetico delle piante modificato dal, 74-77 crescita delle piante inibita dal, 62,73-74 effetto negativo del, 72-77 negli esseri umani, 62-65,101 nelle piante, 61-79, 143

Uccelli, 146 Udito, senso dell’ definizione di, 82 evidenza dubbia per, 81, 84-85 necessità dell’, 97 negli animali, 97 negli esseri umani, 82-83, 97, 101 nei rumori della foresta, 81 nelle piante, 18, 81-98 piante rispetto agli esseri umani, 96 scarsità di ricerche sull’, 81, 84, 97

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Ultravioletta (uv), luce, 21,33 , 136,143 Unione Sovietica, 131 Università dell’Arizona, 84 Università di Berna, 96 Università di Bonn, 125,142 Università di Edim burgo, 141 Università di Firenze, 96,142 Università di Leeds, 78 Università di Rouen, 129 Università di Tel Aviv, 96 Università di Wageningen, 32 Università di Washington, 47 University College, 68 Van Buren, Maud, 121 Venere acchiappamosche (Dionaea muscipula), 61, 65-69, 66, 98 attivazione della trappola nella, 65-70, 124-127,138,142 denominazione della, 65n digestione, 66-67 esperimento di attivazione nella, 68-69,124,126 foglie della, 65-69 memoria a breve termine nella, 124-127 valutazione della preda da parte della, 66-69,124 Vento, come sollecitazione tattile, 73 “Vergine tim ida”, 70 v e r it a s , program ma di ricerche, 84 Vernalizzazione, 132-135 f l c nella, 134-135 Vestibolo, 101 Vibrazione, 96 Vigneti, 96 Virus, 55 Visione vedi Vista Vista, definizione del senso della, 22,35

negli esseri umani, 23-24, 63,

101 nelle piante, 18,21-38 piante rispetto agli animali, 3538 rispetto al senso dell’odorato, 40 “Vista delle piante” , 22 Vita segreta delle piante, La (Tompkins, Bird), 17-18, 89 come ostacolo alla ricerca sulle piante, 17 critiche agli autori, 17 Viticci, 119 tatto nei, 61 Viticci dei piselli, esperimento sulla memoria nei, 122 Volkov, Alexander, 68,126-127 Volo spaziale, negli esperimenti con la gravità, 109-110, 117119 Volume, 82 Von Sachs, Julius, 25,113-114 VortexHealing, 85n Washington, DC, fioritura degli alberi di ciliegio a, 133 Weinberger, Pearl, 84n Weizmann Institute, 36n Windsor Star, The, 49

Xanthium strumarium vedi N appola minore Xilema, vasi dello, 97,108 (Z)-3-esenilacetato, 46 Zea mays vedi Granturco Zeugin, Fabienne, 96 Zucca spinosa (Sicyos angulatus),

62 Zucchini, semi di, 85 Zweifel, Roman, 96

SCIENZA E IDEE

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 21. 28. 29. 30.

E. Morin, A.B. Kern,Terra-Patria I. Hacking, Linguaggio efilosofia J. Derrida, Spettri di Marx D. Bioor, La dimensione sociale della conoscenza H.-G. Gadamer, Dove si nasconde la salute L. Krauss, Paura della fisica L. Althusser, Sulla psicoanalisi T. Wilkie, La sfida della conoscenza H. Wulff, S. Andur Pedersen, R. Rosenberg, Filosofia della medicina G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico J.-P. Changeux, Ragione e piacere A. Musgrave, Senso comune, scienza e scetticismo W. Vandereycken, R. van Deth, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche EPrattico , La tribù diCaino I. Lakatos, P.K. Feyerabend, Sull’orlo della scienza G. Reale, Saggezza antica YL.Tiezzi,Fermareiltempo J. Baudrillard, Il delitto perfetto B.E. Babich, Nietzsche e la scienza E.P. Thompson, Apocalisse e rivoluzione A. Cromer, L’eresia della scienza W. Weischedel, La filosofia dalla scala diservizio R. Gilmore, Alice nel paese dei quanti M. Merleau-Ponty, La natura B. Forte, Trinità per atei P. Lombardi, Ilfilosofo e la strega A. Petroni, R. Viale (a cura di), Individuale e collettivo P. Lévy, Il virtuale J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione R. DeSalle, D. Lindley, Come costruire un dinosauro

31. E.P. Fischer, Aristotele, Einstein e gli altri 32. R. Scruton, Guida filosòfica per tipi intelligenti 33. C. Bruce, Sherlock Holmes e i misteri della scienza 34. D. Del Corno, I narcisi di Colono 35. R. Penrose, Il grande, il piccolo e la mente umana 36. G. Kolata, Cloni 37. R. Caillois, L’occhio di Medusa 38. J.-P. Vernant, Tra mito e politica 39. S. Ortoli, N. Witkowski, La vasca di Archimede 40. A. Emo, Supremazia e maledizione 41. G. Cosmacini, Ciarlataneria e medicina 42. J.-M. Barrault, La terra è rotonda 43. M. Rees, Prima dell’inizio 44. J.L. Casti, I cinque di Cambridge 45. J.R. Searle, Il mistero della coscienza 46. R.L. Gregory, Occhio e cervello 47. B. Forte, Teologia in dialogo 48. C. Allègre, Dio e l’impresa scientifica 49. G. Reale, Corpo, anima e salute 50. J.-P. Changeux, P. Ricoeur, La natura e la regola 51. E . Husserl, Uidea di Europa 52. C.M. Martini, Orizzonti e limiti della scienza 53. M. Hack, Sette variazioni sul cielo 54. H. Hellman, Le dispute della scienza 55. J.-F. Bouvet (a cura di), Gli spinaci sono ricchi diferro 56. R. Gilmore, Il quanto di Natale 57. C.A. Pickover, Tempo 58. C. Darwin, Lettere 1825-1859 59. P. Virilio, La bomba informatica 60. J. Polkinghorne, Credere in Dio nell’età della scienza 61. T.S. Kuhn, Dogma contro critica 62. M. Zambrano, Delirio e destino 63. C. Fom enti, Incantati dalla rete 64. J.-P. Vernant, Lindividuo, la morte, l’amore 65. J.R. Searle, Mente, linguaggio, società

66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97. 98. 99. 100.

L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore C. Sini, Idoli della conoscenza G. Cosmacini, Il mestiere di medico B. Latour, Politiche della natura R.N. Proctor, La guerra di Hitler al cancro G.B. Dyson, Levoluzione delle macchine P. Odifreddi, Il computer di Dio E. Boncinelli, U. Bottazzini, La serva padrona J.D. Barrow, Dall’io al cosmo L. Krauss, Il mistero della massa mancante neU’Universo P. Wallace, La psicologia di Internet R. Levi-Montalcini, Cantico di una vita G. Reale, D. Antiseri, Quale ragione? H. Gatti, Giordano Bruno e la scienza del Rinascimento H. Margaron, Le stagioni degli dei A. Santosuosso, Corpo e libertà A. Frullini, Mozart e il divieto di successione P.-M. Lledo, Malati di cibo J. Horgan, La mente inviolata K. Jaspers, Genio e follia C.M. Martini, Figli di Crono G. Bonadonna, La cura possibile J.L. Casti, W. DePauli, Godei J.-F. Bouvet, La strategia del camaleonte C. Bruce, Sherlock Holmes e le trappole della logica D. Crawford, Il nemico invisibile A. Djebbar, Storia della scienza araba N. Eldredge, Le trame dell’evoluzione P.K. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza S.J. Dick, Vita nel cosmo D.P. Barash, J.E. Lipton, Il mito della monogamia Z. Bauman, K. Tester, Società, etica, politica H. Hellman, Le dispute della medicina J. LeDoux, Il Sé sinaptico D.J. Boorstin, L’avventura della ricerca

101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109. 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. 122. 123. 124. 125. 126. 127. 128. 129. 130. 131. 132. 133. 134. 135.

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