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Italian Pages 96 [94] Year 2020
Giorgio Agamben
Quando la casa brucia GIOMETTI &ANTONELLO · MACERATA
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Giorgio Agamben, filosofo e scrittore. La sua opera è tradotta e commentata in tutto il mondo. Con il progetto Homo sacer, che comprende 9 volumi, ha segnato una svolta nel pensiero politico contemporaneo. Convinto che la filosofia non sia una disciplina, ma una intensità di verità che può percorrere tutti i campi, dal linguaggio alla religione, dalla poesia alla storia, negli ultimi tempi si è affermato come uno dei critici più autorevoli e inflessibili del comportamento dei governi di fronte alla pandemia. Fra i suoi libri recenti ricordiamo Che cose la filosofia?
(Quodlibet
2016),
Autoritratto
nello
studio
(Nottetempo 2017); Karman. Breve trattato sull'azione, la colpa e il gesto (Bollati Boringhieri, 2017); A che punto siamo? L'epidemia come politica (Quodlibet 2020).
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SCIENZA 8
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Giorgio Agamben
Quando la casa brucia Dal dialetto al pensiero
GIOMETTI
& ANTONELLO · MACERATA 5
© 2020 Giometti &Antonello, Macerata www.giometti-antonello.it ISBN 978-88-98820-32-0
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Quando la casa brucia
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«Tutto quello che faccio non ha senso, se la casa brucia». Eppure proprio mentre la casa brucia occorre continuare come sempre, fare tutto con cura e precisione, forse ancora più studiosamente - anche se nessuno dovesse accorgersene. Può darsi che la vita sparisca dalla terra, che nessuna memoria resti di quello che è stato fatto, nel bene e nel male. Ma tu continua come prima, è tardi per cambiare, non c'è più tempo.
«Quel che accade intorno a te / non è più affar tuo». Come la geografia di un paese che devi lasciare per sempre. Eppure in che modo ancora ti riguarda? Proprio ora che non è più affar tuo, che tutto sembra finito, ogni cosa e ogni luogo appaiono nella loro veste più vera, ti toccano in qualche modo più da vicino - così come sono: splendore e miseria. 9
La filosofia, lingua morta. «La lingua dei poeti è sempre una lingua morta… curioso a dirsi: lingua morta che si usa a dar maggior vita al pensiero». Forse non è una lingua morta, ma un dialetto. Che filosofia e poesia parlino in una lingua che è più e meno della lingua, questo dà la misura del loro rango, della loro speciale vitalità. Pesare, giudicare il mondo commisurandolo a un dialetto, a una lingua morta e, tuttavia, sorgiva, dove non c’è da cambiare nemmeno una virgola. Continua a parlare questo dialetto, ora che la casa brucia.
Quale casa sta bruciando? Il paese dove vivi o l'Europa o il mondo intero? Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere. Di alcune restano solo dei pezzi di muro, una parete affrescata, un lembo del tetto, dei nomi, moltissimi nomi, già morsi dal fuoco. E, tuttavia, li ricopriamo così accuratamente con intonachi bianchi e parole mendaci, che sembrano intatti. Viviamo in case, in città arse da cima a fondo come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovine quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo.
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E ora la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora più vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante.
Che una civiltà - una barbarie - sprofondi per nor più risollevarsi, questo è già avvenuto e gli storici son abituati a segnare e datare cesure e naufragi. Ma come testimoniare di un mondo. che va in rovina con gli occhi bendati e il viso coperto, di una repubb1ica che crolla senza lucidità né fierezza, in abiezione e paura? La cecità è tanto più disperata, perché i naufraghi pretendono di governare il proprio naufragio, giurano che tutto può essere tenuto tecnicamente sotto controllo, che non c'è bisogno né di un nuovo dio né di un nuovo cielo - soltanto di divieti, di esperti e di medici. Panico e furfanteria.
Che cosa sarebbe un Dio al quale non si rivolgessero né preghiere né sacrifici? E che cosa sarebbe una legge che non conoscesse né comando né esecuzione? E che cosa una parola che non significa né comanda, ma si tiene veramente nel principio - anzi prima di esso?
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Una cultura che si sente alla fine, senza più vita, cerca di governare come conte può la rovina attraverso uno stato di eccezione permanente. La mobilitazione totale nella quale Jünger vedeva il carattere essenziale del nostro tempo va vista in questa prospettiva. Gli uomini devono essere mobilitati, devono sentirsi ogni istante in una condizione di emergenza, regolata nei minimi particolari da chi ha il potere di deciderla. Ma mentre la mobilitazione aveva in passato lo scopo di avvicinare gli uomini, ora mira a isolarli e a distanziarli gli uni dagli altri.
Da guanto tempo la casa brucia? Da quanto tempo è bruciata? Certamente un secolo fa, fra il 1914 e il 1918, qualcosa è avvenuto in Europa che ha gettato nelle fiamme e nella follia tutto quello che sembrava restare di integro e vivo; poi nuovamente, trent'anni dopo, il rogo è divampato ovunque e da allora non cessa di ardere, senza tregua, sommesso, appena visibile sotto la cenere. Ma forse l'incendio è cominciato già molto prima, quando il cieco impulso della umanià verso la salvezza e il progesso si è unito alla potenza del fuoco e delle macchine. Tutto questo è noto e non serve ripeterlo. Piuttosto occorre chiedersi come abbiamo potuto continuare a vivere e pensare mentre tutto bruciava, che cosa restava in qualche modo integro nel centro del rogo o ai suoi margini. Come siamo riusciti a respirare tra le 12
fiammme, che cosa abbiamo perduto, a quale relitto – o a quale impostura – ci siamo attaccati. Ed ora che non ci sono più fiamme, ma solo numeri, cifre e menzogne siamo certamente più liberi e soli, ma senza possibili compromessi, lucidi come mai prima d’ora.
Se solo nella casa in fiamme diventa visibile il problema architettonico fondamentale, allora puoi ora vedere la posta in gioco nella vicenda dell'occidente che cosa essa ha cercato a ogni costo di cogliere e perché non poteva che fallire.
E come se il potere cercasse di afferrare a ogni costo la nuda vita che ha prodotto e, tuttavia, per quanto si sforzi di appropriarsene e controllarla co ogni possibile dispositivo, non più soltanto poliziesco, ma anche medico e tecnologico, essa non potrà che sfuggirgli, perché è per definizione inafferrabile. Governare la nuda vita e la follia del nostro tempo. Uomini ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo delle cose e degli uomini coincidono.
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L’altra casa, quella che non potrò mai abitare, ma che è la mia vera casa, l’altra vita, che non ho vissuto mentre credevo di viverla, l’altra lingua, che compitavo sillaba per sillaba senza mai riuscire a parlarla – così mie che non potrò mai averle…
Quando pensiero e linguaggio si dividono, si crede di poter parlare dimenticando che si sta parlando. Poesia e filosofia, mentre dicono qualcosa, non dimenticano che stanno dicendo, ricordano il linguaggio. Se ci si ricorda del linguaggio, se non si dimentica che possiamo parlare, allora siamo più liberi, non siamo costretti alle cose e alle regole. Il linguaggio non è uno strumento, è il nostro volto, l'aperto in cui siamo.
Il volto è la cosa più umana, l'uomo ha un volto e non semplicemente un muso o una faccia, perché dimora nell'aperto, perché nel suo volto si espone e comunica. Per questo il volto è il luogo della politica. Il nostro tempo impolitico non vuole vedere il proprio volto, lo tiene a distanza, lo maschera e copre. Non devono esserci più volti, ma solo numeri e cifre. Anche il tiranno è senza volto.
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Sentirsi vivere: essere affetti dalla propria sensibilità, essere delicatamente consegnati al proprio gesto senza poterlo assumere né evitare. Sentirmi vivere mi rende la vita possibile, fossi anche chiuso in una gabbia. E nulla è così reale come questa possibilità.
Negli anni a venire ci saranno solo monaci e deliquenti. E, tuttavia, non è possibile farsi semplicemente da parte, credere di potersi trar fuori dalle macerie del mondo che ci è crollato intorno. Perché il crollo riguarda e ci apostrofa, siamo anche noi soltanto una di quelle macerie. E dovremo imparare cautamente a usarle nel modo più giusto, senza farci notare.
Invecchiare: «crescere solo nelle radici, non più nei rami». Sprofondare nelle radici, senza più fiori né foglie. O, piuttosto, come una farfalla ebbra svolare su ciò che è stato vissuto. Ci sono ancora rami e fiori nel passato. E se ne può fare ancora miele.
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Il viso è in Dio, ma le ossa sono atee. Fuori, tutto ci spinge verso Dio; dentro, l'ostinato, beffardo ateismo dello scheletro.
Che l’anima e il corpo siano indissolubilmente congiunti – questo è spirituale. Lo spirito non è un terzo fra l’anima e il corpo: è soltanto la loro inerme, meravigliosa coincidenza. La vita biologica è un’astrazione ed è questa astrazione che si pretende di governare e curare.
Per noi da soli non ci può essere salvezza: c’è salvezza perché ci sono altri. E questo non per ragioni morali, perché io dovrei agire per il loro bene. Soltanto perché non sono solo c'è salvezza: posso salvarmi solo come uno fra tanti, come altro fra gli altri. Da solo questa è la speciale verità della solitudine - non ho bisogno di salvezza, sono anzi propriamente insalvabile. La salvezza è 1a dimensione che si apre perché non sono solo, perché c’è pluralità e moltitudine. Dio, incarnandosi, ha cessato di essere unico, è diventato un uomo fra tanti. Per questo il cristianesimo ha dovuto legarsi alla storia e seguirne fino in fondo le sorti – e quando la storia, come oggi sembra avvenire, si spegne e decade, anche il cristianesimo si avvicina al suo 16
tramonto. La sua insanabile contraddizione è che esso cercava, nella storia e attraverso la storia, una salvezza al di là della storia e quando questa finisce, il terreno gli manca sotto i piedi. La chiesa era in realtà solidale non della salvezza, ma della storia della salvezza e poiché cercava la salvezza attraerso la storia, non poteva che finire nella salute. E quando il momento è venuto, non ha esitato a sacrificare alla salute la salvezza. Occorre strappare la salvezza dal suo contesto storico, trovare una pluralità non storica, una pluralità come via di uscita dalla storia.
Uscire da un luogo o da una situazione senza entrare in altri territori, lasciare un'identità e un nome senza assumerne altri.
Verso il presente si può solo regredire, mentre nd passato si procede diritto. Ciò che chiamiamo passato non è che la nostra lunga regressione verso il pre ente. Separarci dal nostro passato è la prima risorsa del potere.
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Quel che ci libera dal peso è il respiro. Nel respiro non abbiamo più peso, siamo spinti come in volo al di là della forza di gravità. Dovremo imparare da capo a giudicare, ma con un giudizio che non punisce né premia, non assolve né condanna. Un atto senza scopo, che sottrae l’esistenza a ogni finalità, necessariamente ingiusta e falsa. Solo un’interruzione, un istante in bilico fra il tempo e l’eterno, in cui balena appena l’immagine di una vita senza fini né progetti, senza nome né memoria – per questo salva, non nell’eternità, ma in una «specie di eternità». Un giudizio senza criteri prestabiliti e, tuttavia, proprio per questo politico, perché restituisce la vita alla sua naturalezza.
Sentire e sentirsi, sensazione e autoaffezione sono contemporanei. In ogni sensazione c'è un sentirsi sentire, in ogni sensazione di sé un sentire altro, un'amicizia e un volto.
La realtà è il velo attraverso cui percepiamo il possibile, ciò che possiamo o non possiamo fare. 18
Saper riconoscere quali dei nostri desideri infantili sono stati esauditi non è facile. E, soprattutto se la parte dell’esaudito che confina con l'inesaudibile sia sufficiente a farci accettare di continuare a vivere. Si ha paura della morte perché la parte dei desideri inesauditi è cresciuta senza possibile misura.
«I bufali e i cavalli hanno quattro zampe: ecco ciò che io chiamo Cielo. Mettere la cavezza ai cavalli, perforare le narici del bufalo: ecco ciò che io chiamo umano. Per questo dico: bada che l’umano non distrugga il Cielo dentro di te, bada che l’intenzionale non distrugga il celeste».
Resta, nella casa che brucia, la lingua. Non la lingua, ma le immemorabili, preistoriche, deboli forze che la custodiscono e ricordano, la filosofia e la poesia. E che cosa custodiscono, che cosa ricordano della lingua? Non questa o quella proposizione significante, non questo o quell'articolo di fede o di malafede. Piuttosto, il fatto stesso che vi è linguaggio, che senza nome siamo aperti nel nome e in questo aperto, in un gesto, in un volto siamo inconoscibili e esposti.
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La poesia, la parola è la sola cosa che ci è rimasta di quando non sapevamo ancora parlare, un canto oscuro dentro la lingua, un dialetto o un idioma che non riusciamo a intendere pienamente, ma che non possiamo fare a meno di ascoltare – anche se la casa brucia, anche se nella loro lingua che brucia gli uomini continuano a parlare a vanvera.
Ma c’è una lingua della filosofia, come c’è una lingua della poesia? Come 1a poesia, la filosofia dimora integralmente nel linguaggio e solo il modo di questa dimora la distingue dalla poesia. Due tensioni nel campo della lingua, che s'incrociano in un punto per poi instancabilmente separarsi. E chiunque dice una parola giusta, una semplice, sorgiva parola dimora in questa tensione.
Chi si accorge che la casa brucia, può essere spinto a guardare i suoi simili che sembrano non accorgersene con disdegno e disprezzo. Eppure non saranno proprio questi uomini che non vedono e non pensano i lemuri cui dovrai rendere conto nell'ultimo giorno? Accorgersi che la casa brucia non t'innalza al di sopra degli altri: al contrario, è 20
con loro che dovrai scambiare un ultimo sguardo quando le fiamme si faranno più vicine. Che cosa potrai dire per giustificare la tua pretesa coscienza a questi uomini così inconsapevoli da sembrare quasi innocenti?
Nella casa che brucia continui a fare quello che facevi prima - non puoi non vedere quello che ora le fiamme ti mostrano a nudo qualcosa è cambiato, non in quello che fai, ma nel modo in cui lo lasci andare nel mondo. Una poesia scritta nella casa che brucia è più giusta e più vera, perché nessuno potrà ascoltarla, perché nulla assicura che possa scampare alle fiamme. Ma se, per un caso, essa trova un lettore, allora questi non potrà in nessun modo sottrarsi all'apotrofe che lo chiama da quell'inerme, inspiegabile, sommesso vocio. Può dire la verità solo chi non ha nessuna probabilità di essere ascoltato, solo chi parla da una casa che intorno a lui le fiamme stanno implacabilmente consumando.
L'uomo oggi scompare, come un viso di sabbia cancellato sul bagnasciuga. Ma ciò che ne prende il posto non ha più un mondo, è solo una nuda vita muta e senza storia, in balia dei calcoli del potere e della scienza. Forse è però soltanto a partire da questo scempio che 21
qualcos'altro potrà un giorno lentamente o bruscamente apparire - non un dio, certo, ma nemmeno un altro uomo - un nuovo animale, forse, un'anima altrimenti vivente...
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Porta e soglia
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Per poi scoprire che il piacere non ha porte e che se mai l’avesse stanno aperte, che potevamo allora rimanere fuori sfornite e arrese tutte e due alla pari giocando io alla porta e tu alle chiavi.
Patrizia Cavalli
Nel progetto per l'ingresso nello IUAV che gli era stato affidato negli anni sessanta dal consiglio dell'Università e per il quale gli era stato chiesto di utilizzare una porta di pietra d'Istria ritrovata durante i lavori di restauro del Convento dei Tolentini, Carlo Scarpa decise di adagiare la porta a1 suolo e immergerla nell'acqua. Ed è così che chi entra nell’ex convento dal campazzo omonimo la può oggi vedere -non senza stupore - nell'esecuzione postuma del progetto realizzata venti anni dopo da Sergio Los. La co1locazione orizzontale di una struttura per essenza verticale qual è una porta non può non essere stata attentamente meditata.
Il termine «porta» ha due significati diversi, che l’uso tende spesso a confondere. Esso designa a una parte un'apertura, un adito e, dall'altra, il serramento che la 26
chiude o la apre. Nel primo senso, la porta è essenzialmente un passaggio e una soglia; nel secondo è piuttosto la struttura che chiude e separa uno spazio da un altro. La porta-adito è uno spazio vuoto, delimitato ai due lati da una parete, in basso da una soglia e in alto da un'architrave; la porta-serramento è un oggetto costruito con i materiali più vari, fissato di solito alle pareti con dei cardini, ruotando sui quali essa apre o chiude, permette o impedisce il passaggio. Dal momento che la porta-soglia è quasi sempre accompagnata da una porta-serramento, le due realtà sono spesso a tal punto confuse, che Simmel ha potuto definire la porta rispetto al ponte proprio attraverso la possibilità di essere chiusa. «Mentre il ponte nella correlazione di separatezza e unione, mette l' accento su quest'ultima e supera la distanza fra i suoi piedi, che rende visibile e misurabile, la porta mostra nel modo più deciso come l'unione e la separazione non sono che le due facce di un unico atto... Proprio perché può essere anche aperta, la sua chiusura dà il senso della separatezza rispetto a ciò che sta fuori in modo più forte di quanto possa fare un muro nudo e inarticolato».
Il mondo classico conosceva delle porte orizzontali. Una di queste era secondo ogni verisimiglianza il mundus, un'apertura circolare che Romolo aveva fatto 27
scavare al momento della fondazione della città e che metteva in comunicazione il mondo dei vivi con quello infero dei morti. Essa veniva aperta tre volte l'anno e in quei giorni, che venivano considerati per questo come religiosi, «ciò che era nascosto e segreto nel culto dei Mani era portato alla luce e rivelato» e le attività pubbliche erano conseguentemente sospese. Anche il mundus, che le testimonanze antiche descrivono come un fosso (bothros) o un pozzo profondissimo (altissimus puteus), comportava una porta-serramento, una pietra, detta manalis lapis, pietra dei Mani, che veniva sollevata nei giorni previsti, quando si dice a che mundus patet, il mondo è aperto. Altri testimoni ci informano che veniva chiamata mundus anche l'apertura angusta in Sicilia attraverso la quale Properpina era stata rapita nell'Ade. La «nera porta di Dite» situata presso il lago Averno, attraverso la quale Enea compie la sua discesa agli inferi, è in spalancata notte e giorno (noctesque atque dies patet atra ianua Ditis – VI, 127). Si tratta di una porta-soglia che è facile attraversare una volta (facilis descensus averno), ma ardua e rischiosa da ripercorrere in senso inverso (sed revocare gradum…hoc opus, hoc labvor est – 128).
Siamo così abituati a considerare inseparabili i due tipi di porta, che dimentichiamo che esse non sono 28
soltanto distinte, ma svolgono due funzioni in un certo senso opposte. Nella porta-adito, l'essenziale è il varcare una soglia, nella porta serramento, in questione è la possibilità di chiudere o aprire il passaggio. Si può dire, allora, che la porta-serramento sia un dispositivo inventato per controllare le porte-soglie, per limitare l'incondizionata apertura che esse rappresentano. Di qui, anche, l'interminabile schiera dei guardiani della porta, angeli o portieri, chiavistelli e codici digitali, che devono assicurare che il dispositivo funzioni correttamente e non lasci entrare chi non ne ha diritto. Per garantire l'inviolabilità della soglia, vi sono però, anche dei meccanismi più sofisticati e implacabili. Uno di questi è la sanzione, che, nel diritto romano, puniva con la morte chi trasgrediva una soglia proibita, ad esempio, a partire dall'uccisione leggendaria di Remo, le mura della citta. Come il termine suggerisce (sanctio), il muro diventava con ciò sanctus, cioè, nelle parole di Ulpiano, ab iniuria hominum defènsum atque munitum, difeso e premunito con l' offesa degli uomini. Ed è su questo modello che i giuristi cominciarono a considerare «santa» la legge, che divenne così paradigma di quell'inviolabilità, che definiva in origine il regime della soglia. La legge è la porta-serramento che vieta o permette il passaggio delle azioni nelle soglie che articolano i rapporti fra gli uomini. Essa, come l’apologo kafkiano mostra senza equivoci, coincide con la propria porta, non è che una porta. 29
E con questa concezione che Scarpa rompe senza riserve. La porta adagiata non è una porta-serramento e l' acqua che la ricopre significa che essa non potrà mai essere chiusa. (Del resto Venezia - di cui la porta di Scarpa è, forse, qualcosa come un'invocazione - non ha bisogno di porte: per entrarvi occorre attraversare una soglia, che è l'acqua della laguna, così come, per accedere alla porta sommersa, occorrerebbe mettere i piedi nell' acqua). Ma non è neppure una porta-soglia, dal momento che la collocazione orizzontale sembra esibire l'impossibilità di attraversarla. In modo simile, nella decorazione di palazzo Abattellis, Scarpa aveva sospeso un portale gotico di pietra a mezz’aria su una parete, dove nessun accesso era possibile. Se la porta non è un luogo, ma il passaggio e l’adito fra due luoghi, qui sembra diventare essa stessa un luogo - forse il luogo per eccellenza, il cui possibile uso non è, però, ancora chiaro. In ogni caso, la porta adagiata delimita ora uno spazio in cui sarebbe p ssibile camminare, soffermarsi a meditare, esitare, forse perfino abitare - ma non chiuderla né semplicemente attraversarla. L'adito è diventato un ambito: il varco da un luogo a un altro, espresso dalla preposizione ad, cede il posto al percorso - espresso dalla particella ambi - che fa il giro di un certo territorio, ne segue pazientemente il contorno.
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Una sfera in cui le porte-serramento sono di casa è la fiaba. Tutti conoscono la storia della giovane sposa di Barbablù, alla quale il marito ha concesso di aprire tutte le porte del palazzo, tranne una e che infila la chiave proprio nella porticina che il marito gli ha proibito di aprire, per scoprirvi quello che non avrebbe voluto né dovuto vedere, e cioè i cadaveri delle sei mogli che l'hanno preceduta. In una variante religiosa, La figlia della Madonna, a violare il divieto è la figlia del falegname che la Madonna ha preso con sé in Paradiso e che, invece delle dodici stanze che le è stato permesso di aprire, si ostina a entrare proprio nella tredicesima, dove rimane abbagliata dalla visione della Trinità. Che ciò che il chiavistello nasconde sia meraviglioso (lo splendore della trinità) o orrendo (i cadaveri delle mogli), in ogni caso si tratta di qualcosa che non si doveva vedere né sapere. La porta serramento è, cioè, la cifra della trasgressione e della colpa e, come Paolo diceva dei comandamenti della Torah, la porta esiste perché il peccato abbondi.
«Rites de passage, così sono dette nel folklore le cerimonie connesse a morte, rinascita, nozze, pubertà ecc. Nella vita moderna questi passaggi sono diventati sempre più irriconoscibili e impercettibili. Siamo diventati molto poveri di esperienze della soglia». L’esattezza di questa diagnosi benjaminiana non sembra 31
aver bisogno di commenti. Non meno importante è, pero, la frase che segue poche righe dopo «la soglia (Schwelle) deve essere distinta molto nettamente dal confine (Grenze). La soglia è una zona, nella parola schwellen (crescere, gonfiarsi) sono compresi mutamento, passaggio, maree (Wandel, Übergang, Fluten), significati che l'etimologia non deve lasciarsi sfuggire». Il carattere di luogo (Zone, che indica un’ampia porzione di spazio simile a una fascia) della soglia è qui rivendicato con forza: suggerendo un accostamento col verbo schwellen, che gli etimologisti respingono, la soglia diventa uno spazio in cui possono avvenire mutamenti, passaggi e persino fenomeni di flusso e riflusso come le maree. In ogni caso, uno spazio, come la «zona» creata da Scarpa, che possiede proprietà che lo contraddistinguono e non semplicemente un limite da attraversare.
La tesi secondo cui la modernità avrebbe p erduto l’esperienza delle soglie ha bisogno, in realtà, di qualche sfumatura. Certo i riti di passaggio, che nelle società tradizionali, scandivano le fasi della vita dei singoli e della collettività, sono dovunque in declino. Questo non significa, però, che le soglie siano state semplicemente cancellate. Si direbbe anzi che, in assenza dei cerimoniali che le rendevano visibili, esse tendano a dilatarsi oltremisura. Così è avvenuto per l'adolescenza, che, nelle 32
società industrializzate, si prolunga indefinitivamente fino a coincidere con l'intera esistenza. Vi è, inoltre, un ambito in cui l'esperienza della soglia non solo non è stata dimenticata, ma è anzi oggetto di un'attenzione particolare. Questo ambito è quello dell'arte. A partire da un certo momento, che coincide con le avanguardic del primo novecento, gli artisti sembrano concentrare tutti i loro forzi non più sulla produzione di opere d'arte, ma sul tentativo paradossale di afferrare una soglia in cui la creazione artistica possa esistere come tale, indipendentemente dalle sue opere. Tanto per i dadaisti che per i surrealisti, si trattava di situare conseguentemente l'artista nel varco immateriale che unisce e, insieme, separa l’arte e la vita, l’opera d’arte e il prodotto industriale, la coscienza e l'incoscienza. E, tuttavia, in questa labile soglia, essi hanno voluto istallarsi come guardiani, conservando a ogni costo un'identità artistica che non aveva più senso. La portaadito è così nuovamente divenuta una porta-serramento, la porta del museo, da cui credevano di essere usciti, si è richiusa ancora una volta alle loro spalle.
Il latino conosce almeno quattro termini per la porta: foris (o fores), scomparso nelle lingue romanze, dove è sopravvissuto solo nelle forme avverbiali foris, foras, «fuori». Esso designava non tanto la porta come oggetto materiale, ma l'ingresso nella domus, intesa non come 33
edificio, ma come la sede della famiglia. Per questo l'avverbio foris si oppone a domi e significa ciò che è fuori della sfera familiare. Porta (cfr. gr. peiro, traverso) evoca piuttosto l’idea di un passaggio, mentre ostium, da cui deriva l'italiano «uscio», indica semplicemente (cfr. os, bocca) un apertura. Infine ianua (essenzialmente connessa con Ianus, il dio bifronte) designa una soglia rivolta tanto da una parte che dall’altra e, a Roma, un passaggio coperto, dove trafficavano i banchieri e gli agenti di cambio. L’idea fondamentale è, ancora una volta, quella del passaggio, di un adito, che soltanto in faris sembra acquistare il significato di una separazione fra ciò che è dentro (incluso) e ciò che è fuori (escluso). Decisivo è, però, che l’idea di un «fuori» sia espressa con un termine che significa letteralmente «alla porta» (foris, foras). Il «fuori» non è un altro spazio che un confine separa nettamente dal dentro: il «forestiero» e il «forastico» stanno in origine piuttosto sulla soglia, fanno esperienza della foraneità della porta. È possibile, allora, pensare la porta né come un adito, che conduce in un altro luogo, né semplicemente come un ambito, di cui si può percorre il contorno. Essa è piuttosto l'evento di un fuori, che però non è un altro luogo, ma, come nella definizione kantiana della cosa in sé, uno spazio che deve restare assolutamente vuoto, una pura esteriorità. È questa pura esteriorità che la porta adagiata dello IUAV esprime perfettamente: l’ambito, di cui lo sguardo può percorrere i confini, è anche un’apertura, che non conduce in nessun determinabile 34
luogo, ma rivolta verso il cielo, dimora in un puro aver luogo, esibisce l’intima foraneità di ogni porta. Alessandro di Afrodisia, al momento di commentare la concezione dell’intelletto separato che Aristotele svolge nel De anima, definisce l’intelletto con l’avverbio thyrathen, alla porta (dal gr. thyra, porta). Ciò implica che anche il pensiero sia qualcosa come una porta, che colui che pensa faccia innanzitutto l’esperienza di un fuori e di una esteriorità. Per Alessandro questa soglia è quella in cui l’individuo si unisce all’intelletto agente che lo supera e trascende; per noi, come suggerisce Hannah Arendt nel suo 1ibro su Eichmann, si tratta piuttosto di una zona di sospensione, in cui il discorso incessante delle immagini e delle parole convenute viene per un attimo interrotto. E nell'arresto del pensiero in questa zona vuota e foranea qualcosa come un fuori, un ambito di libertà diventa possibile.
Maqom, il luogo, è, nella tradizione ebraica, uno dei nomi di Dio. Un’eresia medievale – che conosciamo soltanto attraverso le testimonianze dei teologi che hanno condannato al rogo i suoi seguaci – prendendo sul serio l’affermazione di Paolo, secondo cui noi ci muoviamo, siamo e viviamo in Dio, affermava che Dio non è che l’aver luogo di ciascuna cosa, tanto della pietra che del verme, tanto dell’angelo che dell’uomo. Divino è l’esserverme del verme, l’esser-pietra della pietra e giusto e 35
buono è che il mondo sia così, che qualcosa possa apparire e aver volto, nella sua finitezza e nel suo luogo divino. Non tradiamo il pensiero di Amalrico, se diciamo che, nel punto in cui percepiamo l'essere in Dio di quel verme o di quella pietra, allora essi ci appaiono come una porta, che non conduce, però, da qualche parte o in qualche luogo, ma si apre su quel luogo di tutti i luoghi che è Dio. Così come non possiamo né chiuderla né aprirla, quella porta non possiamo nemmeno attraversarla. E come nella porta sommersa di Scarpa l'acqua riflette il cielo, diventa cielo, così la portacreatura è soltanto fuori di sé nell'aperto, felicemente sottratta tanto alla legge delle chiavi che a quella delle soglie.
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Lezione nelle tenebre
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א Aleph
La posizione del profeta è oggi particolarmente scomoda e i pochi che provano ad assumerla sembrano spesso mancare di ogni legittimità. Il profeta si rivolge, infatti, alle tenebre del suo tempo, ma, per farlo, deve lasciarsi investire da queste e non può pretendere di aver conservato intatta - non si sa per quale dono o virtù - la sua lucidità. Geremia, al Signore che lo chiama, risponde solo con un balbettio - «a, a, a» - e aggiunge subito: «ecco, non so parlare, sono un bambino».
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ב Beth
A chi si rivolge il profeta? Immediatamente a una città, a un popolo. La particolarità della sua apostrofe consiste, però, nel fatto che essa non può essere intesa, che la lingua in cui egli parla risulta oscura e incomprensibile. L'efficacia della sua parola è, anzi, precisamente funzione del suo restare inascoltata, del suo essere in qualche modo fraintesa. Profetica è, in questo senso, la parola infantile che si rivolge a qualcuno che per definizione non potrà ascoltarla. E proprio la necessaria compresenza di questi due elementi – l’urgenza dell’apostrofe e la sua inanità – definisce la profezia.
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ג Gimel
Perché le parole del profeta restano inascoltate? Non perché denunciano le colpe dei suoi simili e le tenebre del suo tempo. Piuttosto perché l' oggetto della profezia è la presenza del Regno, la sua discreta ingerenza in ogni trama e in ogni gesto, il suo ostinato avvenire qui e ora, ogni istante. Quello che i contemporanei non possono né vogliono vedere è la loro quotidiana intimità col Regno. E, insieme, il loro vivere «come se Regno non fossero».
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ד Daleth
In che modo il Regno avviene, è presente? Non come una cosa, un gruppo, una chiesa, un partito. Il Regno coincide sempre col suo annuncio, non ha altra realtà che la parola - la parabola - che lo dice. E di volta in volta un chicco di senape, un'erbaccia, una rete gettata nel mare, una perla - ma non come qualcosa che è significato dalle parole, ma come l'annuncio che esse ne fanno. Ciò che viene, il Regno, è la parola stessa che lo annuncia.
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ה He
Ascoltare la parola del Regno significa allora fare esperienza della sorgività della parola, di una parola e resta sempre veniente e illeggibile, che sta sola e prima nella mente e non si sa da dove venga e dove vada; accedere a un'altra esperienza del linguaggio, a un dialetto o a un idioma che non designa più attraverso grammatica e nomi, lessico e sintassi - e solo a questo prezzo può annunciare e annunciarsi. Questo annuncio, questa insignificante, integrale trasformazione della parola è il Regno.
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ו Waw
Fare esperienza della sorgività della parola significa ripercorrere contropelo il lungo processo storico attraverso il quale gli uomini hanno interpretato il loro essere parlanti come il possesso di una lingua, fatta di nomi e regole grammaticali e sintattiche, che permettono il discorso significante. Quello che era il risultato di un paziente lavoro di riflessione e di analisi è stato così proiettato nel passato come un presupposto reale, quasi che la grammatica costruita dagli uomini fosse veramente la struttura originaria della parola. Il Regno non è, in questo senso, che la restituzione della parola alla sua natura dialettale e annunciante, al di là o al di qua di ogni lingua.
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ז Zajin
Chi compie questa esperienza della parola, chi è, in questo senso, poeta e non soltanto lettore della sua parola, ne scorge la segnatura in ogni minimo fatto, - ne testimonia in ogni evento e in ogni circostanza, senza arroganza né enfasi, come se percepisse con chiarezza che tutto ciò che gli capita, commisurato, all'annuncio, depone ogni estraneità e ogni potere, gli è più intimo e, insieme, remoto.
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ח Heth
L'oscurità dell'annuncio, il malinteso che la sua parola produce in chi non la intende, si ritorce su chi la pronuncia, lo separa dal suo popolo e dalla sua stessa vita. L'annuncio si fa allora lamento e esecrazione, critica e accusa e il Regno diventa un'insegna minacciosa o un paradiso perduto - in ogni caso non pìù intimo e presente. La sua parola non sa più annunciare: può solo vaticinare o rimpiangere.
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ט Tet
Il Regno non è una meta che si deve raggiungere, il fine a venire di un'economia terrena o celeste. Non si tratta di immaginare e realizzare istituzioni più giuste o Stati meno tirannici. E nemmeno di pensare una lunga, crudele fase di transizione, dopo la quale la Giustizia regnerà sulla terra. Il Regno è già qui, quotidiano e dimesso e, tuttavia, inconciliabile con le potenze che cercano di travestirlo e nasconderlo, di impedire che la sua venuta sia amata e riconosciuta, o di trasformarlo in un evento futuro. La parola del Regno non produce nuove istituzioni né costituisce diritto: essa è la potenza destituénte che, in ogni ambito, depone i poteri e le istituzioni compreso quelli, chiese o partitì, che pretendono di rappresentarla e incarnarla. 47
י Jodh
L'esperienza del Regno è dunque esperienza della potenza della parola. Ciò che questa parola destituisce è innanzitutto la lingua. Non è possibile, infatti, deporre i poteri che dominano oggi la terra senza prima lingua che li fonda e sostiene Profezia è consapevolezza della natura essenzialmente, dell'idioma in cui parla. Di qui, anche, rirrevocabile pertinenza della poesia alla sfera della politica.
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כ Kaph
Destituire una lingua è il compito più arduo. La lingua, infatti, che è in sé soltanto un insieme di lettere morte, finge - ma è una finzione pragmatica, che costituisce la sua forza più propria - di contenere al suo interno la viva voce degli uomini, di aver luogo, vita e fondamento nella voce di coloro che parlano. In ogni sua parte la grammatica rimanda a questa voce nascosta, la cattura nelle sue lettere e nei suoi fonemi. Ma non c'è, nella lingua, una voce. E il nostro tempo è quello in cui la lingua esibisce ovunque la sua vacuità e la sua afonia, si fa chiacchiera o formalismo scientifico. L'idioma del Regno restituisce la voce al suo aver luogo fuori della lingua.
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ל Lamed
Il campo del linguaggio è il luogo di un conflitto incessante fra la parola e la lingua, l'idioma e la grammatica. Occorre liberarsi dal pregiudizio secondo cui la parola sarebbe una messa in opera, una diligente applicazione della lingua, quasi che questa preesistesse da qualche parte come una realtà sostanziale e come se, per parlare, dovessimo ogni volta aprire una grammatica o consultare un dizionario. E evidente che la lingua esiste solo nell'uso. Che cos'è, allora, quest'uso, se non può essere un' esecuzione fedele e obbediente della lingua, ma, al contrario, un venire a capo di essa - o, piuttosto, dei suoi guardiani, dentro e fuori di noi, che vegliano a che ciò che ci diciamo sia ogni volta ricondotto alla forma e all'identità di una lingua? 50
מ Mem
In Dante il conflitto è quello fra volgare e lingua grammaticale e fra i volgari municipali e il volgare illustre. E un contrasto ambiguo e rischioso, istancabile e docile, nel corso del quale l'idioma è sempre già in atto di ricadere nella lingua; come il volgare è diventato col tempo, stravolgendo l’intenzione del poeta, la lingua italiana. A fronte di questà, oggi i dialetti hanno preso per noi il posto del volgare, sono nuovamente una parola «veniente di là da dove non è scrittura nè grammatica».
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נ Nun
Chiamiamo dialetto - in qualsiasi lingua - l'uso sorgivo della parola. E pensiero il volgare illustre che tende poeticamente il dialetto non verso un'altra grammatica, ma verso una lingua che manca e, tuttavia, come una pantera profumata, si attesta e si annuncia in ogni idioma e favella.
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ס Samech
Che cosa facciamo quando parliamo, se non si tratta di mettere in atto il lessico e la grammatica di una lingua, di articolare la voce in nomi e proposizioni? Parlando, noi entriamo nell'aperto, lasciamo apparire le cose nel loro essere manifeste e, insieme, velate; dicibili, mai dette; presenti, ma mai come oggetti. E, tuttavia, subito ce ne dimentichiamo, le cose di cui parliamo ci nascondono il fatto che ne stiamo parlando, diventano oggetti del discorso e della comunicazione, escono dall'aperto e dal Regno. Questo cadere nel discorso significante non è, però, separato in un altro luogo: tutto avviene nel linguaggio, nel nostro parlare, che è insieme favella del Regno e lingua oggettivante, dialetto e grammatica. E l'andirivieni dall'uno all'altra, insieme in fuga e armonia in divergente accordo, è la poesia. 53
ע Ajin
I nomi non dicono le cose: le chiamano nell’aperto, le custodiscono nel loro apparire. Le proposizioni non veicolano un messaggio: l'esser-la-neve-bianca non è il contenuto della proposizione: «la neve è bianca», che noi non pronunciamo mai in questo modo neutrale. L'esser-la-neve-bianca è il suo improvviso, gioioso, immacolato apparire allo sguardo in un mattino invernale. È un evento, non un fatto. Nei nomi e nelle proposizioni noi andiamo al di là dei nomi e delle proposizioni, fino al punto in cui le cose ci appaiono per un istante senza nome nel loro aver nome, indelibate nel loro esser dette come un dio sensibile e sconosciuto.
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Testimonianza e verità
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Nessuno / testimonia per il / testimone Paul Celan
I La verità della testimonianza non ha a che fare col suo contenuto semantico, non dipende da ciò che dice. Certo essa può assumere la forma di una proposizione, ma, a differenza di quanto avviene nella testimonianza giuridica, ciò che dice non può essere sottoposto· a verificazione, non· può essere vero o falso. La testimonianza non è un logos apofantico nel senso di Aristotele, un discorso che dice qualcosa di qualcosa. Non è nemmeno una preghiera, un’invocazione o un comando. In ·quanto non si definisce a partire da ciò che dice, la testimonianza è sempre vera: si dà o non si dà, semplicemente. La verità della testimonianza non dipende da ciò che dice, ma da ciò che tace, dal fatto che essa porta alla parola un ammutolire. Testimone è colui che parla 57
unicamente in nome di un non poter dire. E questo non solo nel senso che egli testimonia per chi non può farlo per i morti, per gli animali, per le pietre, per l'erba, per i dementi. Il silenzio di cui testimonia la sua parola è interno alla stessa testimonianza, ad ammutolire di fronte alla verità è innanzitutto colui che ne testimonia. La sua testimonianza è vera nella misura in cui fa esperienza dell'impossibilità di enunciare la verità in una proposizione. La verità non può avere la forma di una proposizione vera: verità è soltanto ciò di cui si dà testimonianza. Questo significa che il testimone non è il soggetto della conoscenza. La verità che è in questione nella testimonianza non può mai darsi come tale alla coscienza intenzionale, il cui sapere si articola necessariamente nella forma di un discorso che dice qualcosa di qualcosa. La testimonianza comincia quando il soggetto della conoscenza ammutolisce. L'esperienza che sigilla le labbra del soggetto dischiude quelle del testimone. Ciò non significa che il soggetto sia semplicemente messo da parte, che non abbia nulla a che fare col testimone. È proprio il suo ammutolire a costituire la possibilità della testimonianza, è per lui - in suo luogo - che il testimone testimonia. Il soggetto della conoscenza non precede la testimonianza, avviene per così dire a posteriori attraverso di essa.
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All'inizio vi è solo il silenzio, Sigé. Il testimone trasforma il silenzio in un ammutolire e può farlo solo attestando un soggetto che non può dire la verità. Il silenzio del soggetto apre lo spazio della testimonianza. Le due linee: Sigé-testimonianzaverità e Logossoggetto-conoscenza corrono su uno stesso piano e si incrociano in ogni punto. Testimone e soggetto sono le due facce dell'unica testimonianza, come il testimone e il mussulmano ad Auschwitz.
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II
Della testimonianza Aristotele non sembra avere troppa considerazione. Egli se ne occupa nella Retorica, enumerandola fra le prove empiriche accanto alla legge, al contratto, alla tortura e al giuramento. «I testimoni (martyroi)» egli scrive «sono di due specie: gli antichi e i recenti. Questi ultimi partecipano al rischio del processo, i primi ne sono fuori. Per antichi intendo i poeti e gli uomini ragguardevoli (gnorimoi, ben conosciuti), i cui giudizi sono noti, come gli ateniesi sulla questione di Salamina addussero come testimone Omero e gli abitanti di Tenedo Periandro di Corinto contro i Sigei». Fra i testimoni antichi che gli oratori evocavano nei loro discorsi, Aristotele cita anche i proverbi. Più che di una prova vera e propria, si tratta qui dell'autorità della tradizione, che viene forzata a testimoniare a favore di un’argomentazione presumibilmente carente. Diverso è il caso dei testimoni recenti, fra i quali Aristotele considera «tutte le persone ragguardevoli che hanno espresso un giudizio su qualcosa, se questi giudizi sono utili alla tesi che si cerca di dimostrare e, infine, «coloro che condividono il rischio, nel caso siano ritenuti spergiuri», cioè i testimoni in senso prorio, che possono attestare soltanto «se qualcosa è avvenuto o non è 61
avvenuto, se esiste o non esiste», ma non qualità di un atto, ad esempio «se sia giusto o ingiusto, conveniente o meno». In generale, «i testimoni antichi sono i più attendibili, perché non possono essere corrotti». Che il legame fra questi testimoni ragguardevoli è la verità sia estremamente labile e contingente è scontato. Ed è a una simile testimonianza puramente processuale che Kierkegaard oppone la sua idea di un «testimone della verità», che è esattamente il contrario di un personaggio ragguardevole. «Un testimone della verità, un autentico testimone della verità è un uomo che viene flagellato, maltrattato, trascinato in prigione all'altra e infine ... crocifisso e impiccato dato alle fiamme o arso su una graticola, e il suo corpo esanime lasciato insepolto in un luogo isolato dall'aiutante del boia». Anche qui, la testimonianza non ha che fare col contenuto semantico di un messaggio, anzi, la speciale autorità che conviene a un simile testimone «diventa qualitativamente apparente quandoil contenuto del messaggio o dell’atto è posto come indifferente». Il testimone della verità non può fornire la prova di quanto asserisce, come sarebbe assurdo «esigere la certezza fisica che Dio esiste». La sua testimonianza esibisce la verità di quanto afferma solo a patto di spostarla risolutamente dal piano dei fatti e delle proposizioni verificabili.
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III Che cos'è la verità, di cui il testimone testimonia? Non il dato nella sua fattualità non linguistica, in sé oscuro e impenetrabile, né il nome che meramente lo significa, altrettanto in sé chiuso a ciò che nomina. Eppure è proprio a queste due incomunicanti astrazioni che si dirigono i discorsi e le opinioni degli uomini parlanti, ogni volta dimentichi di ciò che è in questione nel loro essere parlanti. I parlanti si dividono così in ideologi, che caparbiamente ricercano i fatti, considerando puramente accessorio e, come si dice, superstrutturale, il loro essere nel linguaggio e in comunicativi, per i quali la notizia – il medio – si è interamente sostituito alla cosa. La verità, di cui il testimone testimonia, è, invece, la cosa nel suo essere nominata dal nome e il nome in quanto nomina la cosa - cioè la cosa nella sua illatenza o, nelle parole del poeta, l'ente «conoscibile nel medio della sua apparenza». Proprio questa verità, questa pura conoscibilità non può essere tematizzata come tale in una proposizione, ma, in questa, può soltanto mostrarsi come una cesura o un'interruzione. Ciò che il medio linguistico non può dire, ciò di cui il testimone non può parlare è la stessa medialità, il 63
linguaggio come tale. Della conoscenza si può parlare, della conoscibilità che la rende possibile la conoscenza non ha nulla da dire. È questo silenzio che il testimone porta alla parola.
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IV A chi si rivolge la testitnonianza? Certamente non ai contemporanei, che per definizione non possono ascoltarla. Ma nemmeno si dirige alle generazioni future. Il testimone si situa, infatti, in qualche modo sempre alla fine dei tempi, apostrofa un mondo che ai suoi occhi sta finendo o è già finito e chi testimonia della fine non può certo contare su una generazione a venire. La verità della testimonianza non sta mai all'inizio, è sempre costitutivamente alla fine - è, in ogni senso, una verità ultima o penultima. Se il testimone si rivolgesse a qualcuno, presente o futuro, questi potrebbe a sua volta testimoniare per lui, confermare la sua testimonianza, riconoscerne la verità. Ma una testimonianza che ha bisogno di una testimonianza ulteriore perde il suo valore, non è più una testimonianza della verità. Per questo il poeta ha tenuto a precisare che «nessuno/ testimonia/ per il testimone», che egli è sempre solo nella sua testimonianza. Significa questo che la testimonianza è inutile e vana, che essa non si rivolge a nessuno e si situa per così dire fuori della storia e del tempo? Che il testimone rìvolge la sua parola a Dio, agli animali, all'erba, alle pietre - ma non agli uomini? Che per questo questo nessuno può testimoniare per lui? O, piuttosto, nessuno testimonia per il testimone, perché il tempo per cui il testimone testimonia si rivolge 65
sono morti e i morti non possono testimoniare. Ma appena il testimone lo apostrofa, il passato non è più tale, non può più passare ed è come confitto inerme e senza parola nel cuore del presente. Che significa testimoniare per i morti? Ma non è questo che fa ogni testimone, se il testimone è innanzitutto un superstes, un sopravvissuto? Chi è sopravvissuto ha necessariamente a che fare con dei morti o quanto meno con un morto dentro di sé. Ma non è in questo senso ogni uomo un sopravvissuto, non è forse questo che definisce l'essere umano rispetto gli altri viventi, che egli ha costitutivamente a che fare con il passato e con i morti? E non soltanto perché l’uomo conosce fin dall'origine riti funebri e pratiche che lo mantengono in vario modo in rapporto con coloro che hanno vissuto prima di lui - in un senso più profondo e essenziale l'uomo è fatto di passato, vive oggi giorno evocando e ricordando ciò che in lui stesso non è più e tuttavia ancora arde dentro di lui. L'uomo è il vivente che ha un passato e deve fare in ogni istante i conti con esso, testimoniare per esso. Poiché si rivolge al passato, al suo stesso passato, la testimonianza è essenzìalmente fedele, ha la forma stessa della fedeltà. Ciò non significa semplicemente che essa deve essere veridica, che il testimone deve essere sincero. Fedeltàè adesione intima e senza riserva a ciò di cui e per cui si testimonia. «Per cui» vale qui: in luogo di. Testimoniare in luogo di chi non può testimoniare implica che ci si metta al suo posto, che se ne assuma il 66
nome, il corpo e la voce: che gli si sia, in questo senso, fedeli, così fedeli da abolirsi e scomparire in lui. Non ci sono testimoni vivi: testimoniare significa innanzitutto morire. Per questo il testimone non può mentire, la falsa testimonianza non è una testimonianza. Il testimone testimonia per i morti e per il passato, in loro luogo. Ma non per i morti e per il passato in quanto hanno parlato e parlano - ricordare la parola del passato è piuttosto il compito della memoria. Il testimone testimonia per il silenzio dei morti e del passato e questo silenzio è più difficile da sopportare, più doloroso da ricordare della loro parola. Delle parole dei morti nutriamo felicemente i nostri discorsi e la nostre storie del loro silenzio possiamo solo testimoniare.
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V Durante il dialogo con Pilato nel pretorio, dopo aver affermato che il suo regno non è di queto rnondo, alla domanda «allora tu sei re?», Gesu risponde: «Tu dici che io sono re. Io per questo sono stato generato e per questo sono venuto al mondo, affinché testimoniassi per la verità (ina martyreso tei aletheiai - 18, 37)». La celebre replica del prefetto della Giudea - «che cos'è la verità» non è tanto un'obiezione filosofica all'idea di una verità, quanto piuttosto una domanda perfettamente congrua in un processo, di fronte a un accusato che si ostina a non rispondere in modo inequivoco. Gesù doveva dichiarare se era no il re dei Giudei; invece di farlo, stringe inaspettatamente in un nodo verità e testimonianza, dice di star testimoniando per la verità, quasi che la testimonianza non avesse a che fare coll'oggetto del processo (il fatto di essere o no re), ma implicasse la sua intera esistenza ( «per questo io sono stato generato e per questo sono venuto al mondo»). Che cosa fosse in gioco in una simile testimonianza, era stato detto da Gesù nel corso di un altro processo, quando i Farisei lo mettono davanti all’adultera, che secondo la legge di Mosè dovrebbe essere lapidata, e gli chiedono di pronunciare un giudizio («Tu che cosa dici?»). Anche qui, invece di rispondere, Gesù si china e scrive col dito sulla terra. Di fronte alle loro proterve insistenze non emette un verdetto, ma introduce una condizione: «chi è senza peccato scagli per primo la 69
pietra» (8,37). E dopo aver congedato la donna, fa bruscamente un’affermazione su di sé - «io sono la luce del mondo e chi mi segue non camminerà nelle tenebre» - che i Farisei, come avrebbe poi fatto Pilato, prendono non a torto come una testimonianza irricevibile in un processo: «Tu testimoni di te stesso (peri seautou martyreis), la tua testimonianza non è vera (he martyria sou ouk estin alethes)». Non soltanto, com'è ovvio, una testimonianza su di sé non è una testimonianza, ma, in questo caso, essa è doppiamente incongrua, perché viene fatta in luogo di un giudizio che era stato esplicitamente richiesto. La laconica dottrina della testimonianza che Gesù svolge a questo punto deve essere considerata con attenzione. Gesù comincia col rivendicare la validità della sua testimonianza («anche se testimonio di me stesso, la mia testimonianza è vera») e subito dopo la dichiara equivalente a un giudizio. Non soltanto, infatti, testimonianza di sé e giudizio sono posti sullo stesso piano, ma la prima prende il posto dell'altro, perché il testimone non è uno solo, ma due in uno: "Voi giudicate secondo la carne, io non giudico. E se anche giudico, il mio giudizio è vero (he krisis he eme alethine estin), perché non sono solo, ma io e il padre che mi ha inviato. E nella vostra legge è scritto che la testimonianza di due uomini è vera. Io sono il testimoniante di me stesso (ho martyron peri emautou) e il padre che mi ha inviato testimonia per me» (8,16-18). Il testimone si è sdoppiato: il primo, testimoniando di sé, pronuncia una testimonianza irricevibile, che diventa però vera, perché ne contiene un'altra, che ne 70
garantisce la legittimità e la sostituisce al giudizio. Anche in questo caso, il testimone secondo testimonia per chi non può testimoniare, porta alla parola una impossibilità di testimoniare. E questa e non altra è la sua verità.
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VI ln ogni tempo gli uomini hanno conosciuto un'altra esperienza di linguaggio in cui la verità di un'asserzione non dipende dalla verificazione della corrispondenza fra le parole e le cose. Si tratta del giuramento, cioè di atto linguistico che produce performativamente come un fatto il dictum a cui si aggiunge. In questa prospettiva, la distinzione fra il giuramento promissorio, che non può essere falso, e il giuramento assertorio, che può essere vero o falso corrisponde a un fase in cui il giuramento aveva perduto la sua originaria forza performativa. Come mostra il processo arcaico, che, tanto in Grecia che a Roma, aveva la forma della contrapposizione di due giuramenti, in questione in origine non era la prova della verità di un'asserzione, ma la maggiore o minore forza del giuramento, la sua maggiore o minore conformità alla formula rituale che definisce lo ius. Il giudice non decideva quale giuramento fosse vero e quale falso, ma dichiarava quale doveva essere considerato il sacramentum iustum e quale il sacramentum iniustum. Alla relazione veritativa fra il linguaggio e il mondo, il giuramento sostituisce un nesso più forte, che garantisce per cosi dite magicamente - cioè giuridicamente l'equivalenza fra le parole e le cose. Nella testimonianza non vi è nulla che possa garantire tale nesso. La verità che è in essa in questione, 73
fosse anche espressa in parole, non consiste nella corrispondenza fra il detto e le cose. Nella testimonianza non ne va, come nel giuramento, della forza della parola, ma della sua debolezza. Il testimone testimonia della costitutiva incapacità del linguaggio di enunciare in modo assertorio la verità. E tuttavia il testimone non dispone per la verità di un altro luogo, di un'altra possibile via di accesso che non sia il linguaggio. Egli crede nelle parole, malgrado la loro fragilità, resta fino all'ultimo filologo, amante della parola. Ma della parola non come asserzione: come gesto. Per questo Platone definisce il gesto di Alcesti che si offre di morire per Admeto una «testimonianza» (martyria - Symp. 179 b6). Di che cosa? Certamente dell'amore ( «attraverso l'amore» scrive Platone «Alcesti supera nella philia il padre e la madre di Admeto»). Ma non solo. Come nella poesia di Rilke, essa deve aver parlato al dio («parla al dio che la comprende / e tutti la comprendono nel dio»), ma non nelle sue parole consiste la testimonianza. E tuttavia nessuno potrebbe dubitare di quanto ha detto al dio, nessuno si pone la questione della loro verità. Alcesti è una testimone, perché ha messo in gioco nelle sue parole la sua stessa vita. Il testimone rinuncia alla verificabilità delle sue parole, ma non perché dispone, come chi giura, di un nesso più forte, di un horkos, un oggetto sacro che stringe fra le mani mentre parla. Nel punto in cui testimonia, egli 74
è abbandonato da ogni garanzia e da ogni risorsa esteriore, è assolutamente solo. Come di colpo è sola Alcesti, in mezzo alla gente che la circonda. I suoi gesti, le sue parole sono simili a quelli che facciamo e mormoriamo quando nessuno ci vede. Per questo il testimone non può mentire, non ha più nessuno da ingannare - nemmeno se stesso. La testimonianza è costitutivamente in abbandono; nessuno può' testimoniare per il testimone, nemmeno il testimone.
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VII Ciò si può anche esprimere dicendo che il testimone è solo con le sue parole, che ciò per cui - in tutti i sensi della preposizione «per» - egli testimonia è innanzitutto la lingua. Ma che significa testimoniare per la lingua? Che bisogno ha la lingua di testimonianze? Certamente ogni lingua ha bisogno di un parlante, contiene in sé la forma in cavo in cui si situa il parlante per prendere la parola, per dire «io». «Io» è il luogo in cui il vivente e la lingua per un attimo coincidono - cioè cadono insieme in una voce. Ma dire «io», assumere in una lingua la posizione del locutore, non è ancora testimoniare. Per poter parlare, per dire «io», il soggetto deve per così dire dimenticare la lingua, scordarsi di star parlando per immergersi senza riserve nel fiume delle proposizioni significanti, delle opinioni dotate di senso. Può anche, se vuole, parlare a vanvera. Ma, in ogni caso, egli non è solo con la sua lingua, non può testimoniarne. La testimonianza è quell'esperienza della lingua che resta quando tutte le frasi sono state dette, tutte le opinioni dotate di senso sono state proferite - o si suppongono tali. Quando cioè il parlante si accorge di essere veramente solo con la sua lingua - non con le innumerevoli roposizioni all'interno della lingua, rna con la lingua stessa, che tace. Qyando comprende per la prima volta di star parlando, di aver messo irrevocabilmente, 77
poeticamente in questione nella lingua la sua vita, di non poter più parlare per comunicare qualcosa a qualcuno. Il poeta è, in questo senso, per eccellenza un testimone. La lingua della poesia è, infatti, la lingua che resta quando tutte le funzioni comunicative e informative sono state disattivate, quando egli non può rivolgersi a nessun altro - nemmeno a se stesso - ma unicamente alla lingua. Il poeta si trova allora meravigliosamente e irreparabilmente solo con la sua parola, può testimoniarne. La riflessione - l'io penso - è invece il punto in cui il parlante, che sta per scoprirsi suo malgrado testimone e poeta, trova uno specchio in cui scampare alla solitudine, un ultimo rifugio da cui può ancora in gualche modo proferire discorsi e proposizioni significanti. Tutti ci aggrappiamo all'io per sfuggire all'incontro solitario con la lingua, per non essere costretti alla poesia. Questo èil senso dell’ostinata critica alla riflessione di Hölderlin, l’esperienza che lo separa dai suoi compagni Schelling e Hegel. Chi ha fatto fino in fondo - ma non c'è, in realtà, fondo - questa esperienza, chi si trova immedicabilmente solo col silenzio della sua lingua, può essere - così è successo - accusato di follia, può anche, eventualmente, accettare che gli altri lo ritengano tale. È la scelta di 78
Holderlin, quando si ritira nella torre sul N eckar, quando dice di non chiamarsi più Holderlin, ma Scardanelli o Buonarroti o Rosetti - nomi di uno che scrive poesie che sembrano agli altri prive di ogni connessione logica, inni in cui paratassi e isolamento delle parole eliminano dalla lingua ogni discorso, la fanno finalmente apparire come tale, nella sua miseria e nella sua gloria. La poesia è la lingua in cui qualcuno testimonia per la lingua.
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VIII Che cosa significa testimoniare per la lingua? La lingua che è in questione nella testimonianza sembra essere una lingua che dice nulla, che non ha propriamente nulla da dire. Ma è proprio qui che la testimonianza si decide, si separa da ogni altra esperienza di linguaggio. Il nulla è, infatti, il limite ultimo cui giunge una filosofia che non trapassa in testimonianza. Nulla è r esperienza che vi sia linguaggio, ma che il inondo non sia. Nulla è il nome di una lingua senza più mondo. Ciò significa, come Leonardo aveva intuito, scrivendo che «quel che è detto nulla si ritrova solo nel tempo e nelle parole», che l'esperienza del nulla è ancora un'esperienza di linguaggio, che essa non mette in questione il suo primato. Essa segna la soglia, soltanto al di là della quale può iniziare la testimonianza. Chi dimora in questa soglia, chi si tiene nel luogo del nulla, non può testimoniare per la lingua. Si può esprimere l'esperienza di cui ne va nella testimonianza, dicendo che ciò che il testimone esperisce è, proprio al contrario, che il linguaggio non sia, che si possa non avere una lingua. Ma ciò che definisce la sua testimonianza è che, attraverso questa assenza di lingua, egli testimonia per la lingua, porta alla parola un ammutolimento. Il testimone sta caparbiamente in luogo della lingua, là dove la parola manca - egli è il 81
luogo-tenente della lingua. Come i gesti dei sordomuti significano le parole che essi non possono pronunciare, così la sublime mimica del testimone manifesta per la prima volta il linguaggio.
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IX La testimonianza per la lingua riguarda i nomi, non le proposizioni. Come negli inni tardi di Hölderlin i vocaboli sono strappati dal loro contesto semantico e restituiti al loro statuto di puri nomi, così nella lingua del testimone le frasi si riducono a una successione di cesure e staccati, simili a un campo di rovine su cui spiccano singoli lemmi e parole - anche semplici particelle, come in Holderlin, la congiunzione avversativa aber, «ma». La testimonianza è un idioma fatto solo di vocativi, cioè di parole che non significano, ma chiamano per nome, gli altri e le cose. Compito impossibile, perché il vocativo è un'interruzione dell'enunciato in cui compare e non ha alcuna relazione sintattica col resto della proposizione. Non si può proferire un discorso sensato fatto solo di spezzature, un continuum di interruzioni. Il testimone, parlando, non dice, ma chiama, continua insistentemente a chiamare ed è la tenacia di questa apostrofe insignificante che costituisce la sua sola, inaggirabile autorità.
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X Del rapporto fra la testimonianza e la filosofia si è occupato in un breve, luminoso testo Gianni Carchia. E lo ha fatto interrogando la differenza fra testimonianza e metodo. La riduzione della testimonianza a metodo è, infatti, «la tentazione tenace del logos della filosofia». Ciò che il metodo vuole eliminare dalla testimonianza è la sua irrimediabile fattualità, il suo esser evento e non il risultato di un'argomentazione. «Testimoniare significa, in primo luogo, affermare il carattere di accadimento della verità... 1' assoluta asìmmetria della verità rispetto alla coscienza intenzionale». La testimonianza – si potrebbe dire – comincia proprio quando ogni via predeterminata alla verità - ogni methodos - viene meno. È perché si trova di colpo senza una via alla verità che il testimone può solo testimoniarne. Di qui l'insufficienza, secondo Carchia, tanto della contrapposizione, in Husserl, di una coscienza d’orizzonte a una coscienza d’oggetto che del passaggio, in Heidegger, da una dimensione ontica a una apertura ontologica. Rimane in entrambi qualcosa come «un primato dell’intenzionalità», la rottura col metodo non è veramente compiuta. «Solo l’incontro con l’alterità più radicale merita il nome di testimonianza» e questo incontro implica a tal punto la sospensione di ogni comunità, che «incomunicabilità e solipsismo sono i contrassegni profondi, essenziali del testimoniare». 84
Non sorprende che Carchia opponga a questo punto la trascendenza della testimonianza all'immanenza del metodo. «Il passaggio dall'immanenza del metodo alla trascendenza della testimonianza presuppone qualcosa come una conversione, una metabasis eis allo genos». Una correzione terminologica è, tuttavia, qui necessaria. Né la trascendenza né l'immanenza definiscono la testimonianza. Piuttosto essa si situa nella loro coincidenza, come in quella «causa immanente», che Spinoza esemplifica col significato di una forma verbale particolare della lingua ebraica; che esprime un'azione in cui agente e paziente, attivo e passivo sì identificano. Qui una causa, per definizione trascendente rispetto ai suoi effetti, agisce su se stessa, diventa in qualche modo immanente. La testimonianza ha, cioè, a che fare con una capacità di essere affetto, nel punto in cui non è affetta da un oggetto esterno - o non soltanto da esso -, ma anche e innanzitutto dalla sua stessa ricettività: Il parlante, che è affetto non da ciò che dice, ma dalla tua capacità di palare e di tacere; può testimoniare. Come un soggetto che non patisce un oggetto, ma la sua stessa affettibilità non conosce qualcosa, ma solo una conoscibilità, così il testimone sente nascere in sé non il suono di una dizione - piuttosto il silenzio di una dicibilità. La lingua puramente dicibile, che si produce in questa esperienza insieme attiva e passiva, trascendente 85
e immanente, è la lingua della testimonianza, la lingua per la quale e in luogo della quale il testimone testimonia. Essa è una parola che non dice qualcosa di qualcosa, ma il puro darsi, insieme e nello stesso gesto, del nome e della cosa nominata: testimonianza, cioè, della verità e di nient'altro che la verità. In questo senso si può dire che testimoniare significa tenersi in relazione non con un sapere, ma con una zona di non conoscenza, che chi testimonia può ignorare di che cosa sta testimoniando, ma, come So crate, non rimuove il suo non sapere, resta fedele alla sua inconoscenza. I modi e le vie attraverso i quali non conosciamo sono, se ne siamo consapevoli, altrettanto decisivi dei modi in cui conosciamo. Non si tratta di introdurre nel pensiero la nebulosità della mistica, ma, proprio al contrario, di afferrare per laprima volta che cos è in gioco nell’esperienza che definimo con quel nome e che non è in verità nulla di vago. Quando l’ultimo scolarca dell’accademia platonica in esilio in Persia prova a esprimere in parole il principio supremo del pensiero, sente il bisogno di precisare che quando diciamo che esso è inconoscibile o indicibile, il nostro discorso si inverte e non si riferisce più a un oggetto, ma - a noi stessi e a una nostra facoltà di conoscere. È di questa ardua inversione che il testimonc fa esperienza. Nella zona di non conoscenza che in quel punto per lui si apre non vi sono né «notte» né «nubi», ma solo l'esperienza limpida e perfettamente intellegibile di una pura potenza di conoscere e dire, senza nulla da 86
dire o conoscere. Di una pura lingua, appunto, di una pura impossibilità di dire, il testimone non può tacerla, perché, ancora una volta, nessuno testimonia per il testimone.
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XI La verità è un'erranza, senza la quale un certo uomo non potrebbe vivere. Essa è, cioè, una forma di vita, quella forma di vita della quale quel certo uomo non può fare a meno. La sua forma-di-vita è, in questo senso, un'erranza per la verità che lo costituisce come testimone. Se l'uomoè in erranza per la verità, egli è nella stessa misurara in erranza per la non-verità. Può, cioè, testimoniare, ma proferire menzogne. Fìno a che punto un uomo può mentire senza cessare di essere umano? Non c'è, in verità, un limite. Umano è colui che può errare senza limiti nella e per la non-verità e nella e per la verità. Proprio questo costituisce la sua erranza come una storia che può, eventualmente, terminare, ma è in sé senza fine. Il testimone, che non può enunciare la verità, può denunciare la menzogna. La denuncia della non-verità non è, però, una testimonianza. È una profezia, che, come tale, non può essere ascoltata da chi ha smarrito la verità. E, tuttavia, alla domanda «se questo è un uomo» dobbiamo rispondere: sì, chi mente è ancora un uomo, che, in quanto erra per la non-verità, ha ancora in qualche modo a che fare con la verità. Solo se la menzogna potesse tacere, solo se potesse darsi una menzogna 88
silenziosa, allora cesserebbe ogni erranza per la verità e, con questa, la possibilità di testimoniare. La ricerca di una post-storia, di un tempo ulteriore senza più erranza storica è connaturata alla menzogna, ma altrettanto vana di questa. Il testimone sa invece che la sua testimonianza interrompe la storia e il discorso della menzogna, senza inaugurare un tempo e un discorso ulteriore, sa che non vi è una storia della verità, vi è solo una storia della menzogna.
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Indice
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Quando la casa brucia
24 Porta e soglia 37 Lezione nelle tenebre 55 Testimonianza e verità
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Finito di stampare nel novembre duemilaventi presso LegoDigit srl, Lavis (TN)
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Quale casa sta bruciando? Il paese dove vivi o l'Europa o il mondo intero? Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere. Di alcune restano solo dei pezzi di muro, una parete affrescata, un lembo del tetto, dei nomi, moltissimi nomi, già morsi dal fuoco. E, tuttavia, li ricopriamo così accuratamente con intonachi bianchi e parole mendaci, che sembrano intatti. Viviamo in case, in città arse da cima a fondo come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovine quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo. E ora la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora più vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante. Indice del volume 1) Quando la casa brucia 2) Porta e soglia 3) Lezione nelle tenebre 4) Testimonianza e verità
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9 7888'9 . 8 820320 94