Profondo Sud. Storia, documentario e Mezzogiorno 9788820768423, 9788820768430

Attraverso l'analisi di un ampio corpus di documentari il volume propone un viaggio alla scoperta del Mezzogiorno t

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Italian Pages XVI,180 [200] Year 2019

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INDICE
PREFAZIONE di Pierre Sorlin
INTRODUZIONE
CAPITOLO I - LA QUESTIONE MERIDIONALE TRA CINEMA E ANTROPOLOGIA
CAPITOLO II - UNO SGUARDO CRITICO SULLA REALTÀ
CAPITOLO III - IN VIAGGIO PER IL BELPAESE
CAPITOLO IV - RETORICHE DELLA RICOSTRUZIONE
CAPITOLO V - NARRAZIONI DELLO SVILUPPO INDUSTRIALE
CAPITOLO VI - EPILOGO. PERIFERIE DEL CINEMA E DELLA STORIA
BIBLIOGRAFIA
FILMOGRAFIA
INDICE DEI NOMI E DEI FILM
Quarta di copertina
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Profondo Sud. Storia, documentario e Mezzogiorno
 9788820768423, 9788820768430

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Mariangela Palmieri

PROFONDO SUD Storia, documentario e Mezzogiorno

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prefazione di Pierre Sorlin

L IGUORI E DITORE

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BIBLIOTECA

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Cinema e storia 25

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Collana diretta da Pasquale Iaccio

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Mariangela Palmieri

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Profondo Sud Storia, documentario e Mezzogiorno prefazione di Pierre Sorlin

Liguori Editore

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Questa pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2019 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Dicembre 2019 Palmieri, Mariangela : Profondo Sud. Storia, documentario e Mezzogiorno/Mariangela Palmieri Cinema e storia Napoli : Liguori, 2019   ISBN 978 - 88 - 207 - 6842 - 3 (a stampa)   eISBN 978 - 88 - 207 - 6843 - 0 (eBook)   ISSN 1828-8413 1. Cinema  2. Meridione  I. Titolo  II. Collana  III. Serie Aggiornamenti: ———————————————————————————————————––—————— 2024 2023 2022 2021 2020 2019    10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

XI Prefazione di Pierre Sorlin 1

Introduzione

Capitolo I 9 La questione meridionale tra cinema e antropologia 1. La riscoperta del Sud nel secondo dopoguerra, p. 9; 2. Sui passi di Ernesto De Martino, p. 15; 2.1 Gli esordi, p. 19; 2.2 Gli anni sessanta, p. 25; 3. Altre immagini d’ispirazione antropologica, p. 30

Capitolo II 39 Uno sguardo critico sulla realtà

1. Il divario Nord-Sud tra dopoguerra e miracolo economico, p. 39; 2. Neorealismo e documentario, p. 43; 3. Accostamenti progressivi al reale, p. 45; 4. Visioni inquiete, p. 55

Capitolo III 69 In viaggio per il Belpaese

1. Il boom del turismo di massa, p. 69; 2. Immagini da cartolina, p. 71; 3. Templi, pupi e caccia ai tonni, p. 74; 4. Folclore, mandolini e isole felici, p. 83

Capitolo IV 91 Retoriche della ricostruzione

1. L’intervento straordinario nel Mezzogiorno, p. 91; 2. Il Governo parla agli Italiani, p. 95; 2.1 Nuova vita nelle campagne, p. 98; 2.2 Provvidenze della Cassa, p. 103; 2.3 Tempi moderni, p. 108; 3. La critica cinematografica all’attacco, p. 110

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INDICE

Capitolo V 115 Narrazioni dello sviluppo industriale

1. Le politiche per l’industria meridionale, p. 115; 2. Il cinema d’impresa, p. 117; 3. Echi epici dalle acciaierie del Sud, p. 120; 4. Cattedrali nel deserto, p. 123

Capitolo VI 133 Epilogo. Periferie del cinema e della storia 151 Bibliografia 159 Filmografia Documento acquistato da () il 2023/04/27.

175 Indice dei nomi e dei film

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Ai miei genitori

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Ringraziamenti Questo libro è il punto di arrivo di un percorso che parte da lontano. Ringrazio chi lo ha reso possibile. I miei maestri, prima di tutto, Pietro Cavallo e Pasquale Iaccio, dai quali ho imparato a far dialogare il cinema e la storia. Per i consigli e gli scambi di idee Pierre Sorlin, le conversazioni con lui sono sempre illuminanti. Un contributo fondamentale per la nascita di questo volume proviene da Margherita Platania, che mi ha supportata in più occasioni. Ringrazio, infine, Elio Frescani e Marcello Ravveduto, per i suggerimenti in corso d’opera e per la presenza affettuosa in un cammino da lungo tempo condiviso.

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PREFAZIONE

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di Pierre Sorlin

Il cinema era, al principio, una fotografia in movimento capace di registrare aspetti del perpetuo cambiamento che è la vita. Si trasformò successivamente in un divertimento. Cineasti e produttori, ricorrendo alla fiction, ne fecero un passatempo popolare apprezzato dall’intero pianeta durante la maggior parte del Novecento. “Film” era sinonimo di storia immaginaria recitata da attori professionisti, mentre le vedute di luoghi o le rappresentazioni delle persone che ci vivevano furono collocate nella categoria ritenuta poco importante e rapidamente dimenticata dei documentari. La digitalizzazione consente oggi di riprodurre e di diffondere cortometraggi documentari in precedenza irreperibili. In pochi decenni è stato scoperto un prodigioso archivio del secolo scorso, una fonte unica su un periodo che, invece di apparirci soltanto attraverso disegni o testi scritti, sembra rivivere sotto i nostri occhi. Tale materiale, introducendoci al quotidiano delle popolazioni, ai lavori, alle preoccupazioni, agli scambi, modificherà la nostra comprensione del Novecento, quindi le radici del nostro presente. Però, prima di poterli analizzare, bisogna sapere i film da chi e come sono stati girati, cosa mostrano, dove si possono visionare. L’indispensabile inventario preliminare presuppone un’inchiesta rigorosa e minuziosa. Perciò, dobbiamo essere grati a Mariangela Palmieri per aver compiuto un censimento esauriente dei cortometraggi dedicati al Mezzogiorno girati tra la fine della seconda guerra mondiale e la seconda metà degli anni sessanta, e per aver dato, riguardo a ognuno di essi, una puntuale informazione. Grazie al suo lavoro possiamo accedere a una documentazione storica quasi sconosciuta. Scegliere un periodo così chiaramente definito è stata un’idea proficua. Il crollo del fascismo e la fine del conflitto, infatti, avevano accentuato il divario tra Nord e Sud Italia. Il Mezzogiorno, liberato grazie agli alleati in pochi mesi, non avendo conosciuto né la durissima occu-

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PREFAZIONE

pazione tedesca, né la resistenza al nazismo, votò in maggioranza per il mantenimento della monarchia, diversamente dal Nord. Il soggiorno prolungato di soldati americani, spesso italo-americani, innescò domande nuove, come la riforma agraria, l’autonomia, persino l’indipendenza. Le mafie, entrando in relazione con organizzazioni sovversive statunitensi, passarono da attività locali a traffici internazionali. La Repubblica italiana si trovò costretta ad adottare rapidamente riforme audaci a favore delle province meridionali per mantenere l’unità del Paese. Nei medesimi decenni il cinema italiano, in piena espansione, proiettato e apprezzato nel mondo intero, viveva la sua età dell’oro. In media, ogni Italiano al di sopra dei quindici anni vedeva un film due volte al mese. Cinegiornali e documentari, contestualmente, erano un influente mezzo d’informazione. Consapevole del potere del mezzo, la Presidenza del Consiglio dei Ministri diffondeva cortometraggi pensati per giustificare la politica del Governo e sosteneva i film di una società privata, la Incom, totalmente allineata sulle posizioni ufficiali. D’altra parte, un pugno di cineasti impegnati, aiutati da cooperative, da sindacati o da militanti, lavorando con mezzi ridotti e pochi tecnici, riusciva a girare e distribuire documentari indipendenti. Mariangela Palmieri si trovava di fronte a un patrimonio audiovisivo enorme, che doveva presentare in maniera facilmente accessibile al lettore, nonostante la grande varietà degli argomenti affrontati e i notevoli cambiamenti economici o politici che hanno marcato i decenni della ricostruzione e del cosiddetto “miracolo”. Semplice, efficace, la soluzione che ha scelto, che consente di orientarsi facilmente nel volume. Un primo capitolo, dedicato alle tracce del passato, s’interessa delle opere che hanno fotografato riti o tradizioni reiterati attraverso i secoli e in procinto di sparire. Si passa poi all’Italia contemporanea. Nel secondo capitolo l’autrice distingue due momenti, a grandi linee i cinquanta e i sessanta. Il primo decennio fu quello delle promesse. Già nel 1947 alla Sardegna e alla Sicilia fu concessa una larga autonomia amministrativa, quattrocentomila ettari non coltivati furono espropriati per essere assegnati a contadini senza terra, lo Stato s’impegnò a incoraggiare la modernizzazione dell’agricoltura e lo sviluppo industriale nel Sud. Appoggiate, enfatizzate, da campagne d’informazione sulla stampa e sugli schermi, le riforme dettero l’impressione che un cambiamento radicale fosse in arrivo. Vari cineasti, non necessariamente schierati col Governo, illustrarono le opere in corso. Un’occhiata a un film, Conquiste del Sud 1, 1

Produzione Incom, regia di Edmondo Cancellieri, 1953.

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PREFAZIONE

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basta per capire come procedevano: una forte voce fuori campo invade lo spazio sonoro per celebrare una vastissima campagna edilizia destinata a rivoluzionare la vita della gente. Una serie di brevi immagini mostra muratori con cazzuola in mano, impalcature, tetti, canalizzazioni in edificazione, senza mai identificare il luogo dove le riprese sono state fatte. Sommerso da impressioni e da rumori, lo spettatore non ha il tempo di riflettere su quello che guarda. Alla fine degli anni cinquanta i limiti delle riforme erano già evidenti. Lo Stato, scegliendo l’industrializzazione per diversificare l’attività nel Mezzogiorno – e anche per ridurre le migrazioni verso il Nord – impiantò stabilimenti di prodotti meccanici o chimici e, offrendo finanziamenti agevolati, incitò le imprese private a insediarsi nel Sud. Mariangela Palmieri mette in rilievo la reazione forte, ma più individuale e sdegnata che coordinata, di certi cineasti. Fu l’inizio dei film di denuncia, i cosiddetti “cine-tracts” o “cine-volantini”, brevi, diretti, aggressivi nella forma, destinati a far riflettere lo spettare e destare la sua indignazione. Prendiamo come esempio Inchiesta a Perdasdefogu 2: alcuni abitanti di questo villaggio sardo, intervistati “a raffica”, raccontano come sono stati espropriati della terra improduttiva da loro faticosamente risanata allo scopo di costruirvi una base per il lancio di missili. Le proteste sono violente, ma la maniera brutale di filmare i testimoni in primo piano senza sfondo, di fargli domande brusche, di saltare da una persona all’altra produce un effetto destabilizzante. Attratte dalle sovvenzioni pubbliche e dalla prospettiva di trovare una manodopera poco esigente, numerose grandi aziende aprirono stabilimenti nel Sud. Abituate da molto tempo a fare pubblicità, si erano dotate di reparti cinematografici bene attrezzati, diretti da registi provetti, i cui film a colori davano un’immagine positiva degli impianti modernissimi dove il lavoro, automatizzato, non imponeva fatiche eccessive. Analizzando in successione le opere critiche e poi quelle apologetiche, prodotte dal Governo e dalle imprese, l’autrice evidenzia il carattere artificiale della polemica. Gli attacchi, frettolosamente girati, centrati su casi drammatici ma circoscritti, erano lanciati in disordine, senza inserirli in una campagna coordinata d’informazione. All’opposto le visioni ottimiste degli industriali, estremamente curate, distribuite gratuitamente, proponevano continuamente immagini rassicuranti. In un conflitto d’opinioni la forza del denaro giocava contro la militanza scoordinata. 2

Produzione Vincenzo Nasso, regia di Giuseppe Ferrara, 1961.

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PREFAZIONE

Il libro di Mariangela Palmieri costituisce un ragguardevole strumento di ricerca. Nella sua ottima conclusione l’autrice apre molte piste originali per un uso ragionato del cinema nello studio del Mezzogiorno. Le opere che ha elencato lasciano intravedere aspetti del Sud in decenni ormai già lontani. Parlare di un’apertura sulla “realtà” delle province meridionali però sarebbe evidentemente sbagliato. Tutti i film, infatti, furono prodotti in un periodo difficile, segnato da gravi conflitti e da trasformazioni continue, e ogni ripresa, fatta intenzionalmente, doveva sostenere un’opinione e fare impressione sul pubblico. Anche i documentari che l’autrice chiama i “viaggi per il Belpaese”, destinati ad attrare i turisti, ricreavano un Sud mistificato. Perciò, il ricorso a questi documenti richiede una previa riflessione critica. Un’immagine, fotografica o filmica, è valida se, e soltanto se, si conoscono l’operatore, la data, il luogo e l’occasione delle riprese, ovvero le famose quattro “w” inglesi, “who, when, where, why?”. Il difetto dei film di propaganda, in particolare quelli della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Incom, è che sono compilazioni di documenti di repertorio la cui origine ci sfugge. Spesso il regista ha pescato in una cineteca immagini che fanno effetto senza preoccuparsi del loro valore informativo. Da questo punto di vista le produzioni industriali e le opere militanti sono più facilmente utilizzabili, le prime perché sono state catalogate e archiviate dall’impresa, le seconde perché i registi hanno lasciato le informazioni delle quali il ricercatore ha bisogno. I reportage dedicati a un mestiere, un’attività, un luogo, un gruppo chiaramente definito offrono una documentazione efficace e chiara. Tempo di raccolta3, girato in un villaggio della provincia di Reggio Calabria, documenta il lavoro delle “raccoglitrici”, donne assunte per la raccolta delle olive bacchiate da un uomo4. La cinepresa riprende lungamente le donne piegate in due: avanzano lentamente in una fila che gira attorno all’albero senza mai rialzarsi, prendono i frutti, li pongono in un cesto; quando questo è strapieno e pesante una signora lo porta alla fattoria. Guardando la posizione del corpo, il lento progredire delle gambe, il gesto meccanico del braccio, presagiamo che, alla sera, avranno mal di schiena e che dopo anni e anni soffriranno di reumatismi e di scoliosi. In due minuti, alla fine, il film ritrova una delle donne in casa, nel suo secondo lavoro, 3

Produzione Egle Cinematografica, regia di Luigi Di Gianni, 1967. Un aspetto particolarmente interessante dei film di cineasti indipendenti è l’attenzione che hanno dedicato al lavoro femminile, all’epoca raramente filmato. Citiamo in particolare Portatrici di pietre (1952), Un giorno in Barbagia (1958), Donne di Bagnara (1960), Donne del Sud, oggi (1965). 4

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quello di casalinga. Nessun testo, per quanto minuzioso, sarebbe stato in grado di farci sentire la loro immensa fatica evidente sullo schermo. Il cinema ci mostra anche un altro aspetto delle società meridionali: la coesione del gruppo rurale, la mutua assistenza, l’attività collettiva. Ecco I dimenticati 5. Siamo in un villaggio, Alessandria del Carretto, in provincia di Cosenza, lontano quindici chilometri dall’unica strada carrozzabile. Il film ci presenta tre momenti dell’esistenza del comune. All’inizio del cammino che conduce al paese, un camion ha scaricato dei pacchi e gli abitanti, collaborando tra loro, li sistemano su dei cavalli diretti poi verso Alessandria. Per la festa del villaggio scelgono e portano l’enorme abete che diventerà l’albero della cuccagna. Tutti insieme partecipano ai festeggiamenti. Una voce fuori campo sarebbe di troppo, bastano le immagini. L’isolamento ha creato una forte solidarietà, scopriamo come spontaneamente i paesani assolvano i compiti utili per la comunità, si aiutino, si diano il cambio. Per avvicinarci al Mezzogiorno degli anni cinquanta e sessanta, lontano da noi, abbiamo bisogno d’incontrare i meridionali, di sapere che facevano, come nascevano, lavoravano, morivano. Il cinema è, talvolta, uno straordinario ausilio e uno strumento indispensabile. Mariangela Palmieri ha dissodato il terreno, i ricercatori devono adesso andare più in là, catalogare le riprese filmiche in relazione alle tematiche che illustrano. Gli storici non sono gli unici interessati a una migliore conoscenza dei film dedicati al Sud. Il presente libro è ugualmente prezioso per gli specialisti di altre discipline. Nei decenni in esame le cinematografie europee e sudamericane hanno conosciuto un notevole cambiamento, ovvero la nouvelle vague, distaccata dalle influenze letterarie e teatrali che avevano dominato il cinema per molto tempo e preoccupata della forza espressiva dell’immagine in movimento. I documentari sul Mezzogiorno offrono un esempio di questo passaggio da una tradizione a una nuova pratica. I cortometraggi degli anni cinquanta erano “ciarlieri”, spiegare le immagini viste sullo schermo sembrava indispensabile, come se il pubblico fosse incapace di capirne il significato. All’inizio di uno dei più famosi documentari antropologici del periodo, La taranta6, un commento di stile letterario espone come, in certe parti della Sicilia, donne sopraffate dalla durezza della natura, dall’isolamento, dalle diffi5

Produzione e regia di Vittorio De Seta, 1959. Produzione Pantheon Film, regia di Gianfranco Mingozzi, commento di Salvatore Quasimodo, 1962. 6

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coltà quotidiane, si abbandonavano a movimenti ritmati incontrollati7. La voce fuori campo anticipa così il corpo del documentario, tanto più che una serie d’immagini intensifica l’impressione di solitudine e di aridità. Lo spettatore, quando non dà prova di spirito critico, accetta la tesi. Invece, se si mostra attento, nota che la prima signora filmata in crisi adotta coscientemente le posizioni richieste dal cineasta per alcune riprese8 e che, nel paese – che non presenta uno scenario da fine del mondo – la gente guarda con curiosità sorridente una donna in preda a una frenesia rotatoria. All’epoca del film, il tarantismo era una sopravvivenza, movimenti e danze somigliavano ancora a quelli del passato ma il fenomeno non aveva più la forza collettiva e drammatica che aveva assunto per secoli. L’invadente interpretazione anticipata non permette di percepire il divario tra passato e presente. Le immagini non “parlano”, non propongono ragionamenti teorici: mostrano. La svolta delle nouvelles vagues consisté nel lasciare che lo spettatore provasse impressioni e le intendesse a modo proprio come Magia lucana9 invita a fare. Lunghe riprese in campo largo introducono una cadenza ritmica lenta. Un uomo ara faticosamente, dopo lo vediamo camminare in lontananza, punto minuto, trascinando un asino. Appiè di una montagna una donna, due uomini, un asino attraversano una pianura. Sulla piazza di un villaggio una signora seduta, immobile, fissa l’infinito, altre persone passano dietro o davanti, la donna sembra il centro assente attorno al quale la gente si muove. Il film non racconta, non descrive, rende lo spettatore partecipe di un’altra temporalità retta dalla distanza, dal silenzio, dall’attesa. Magia lucana attesta la curiosità e il profondo interesse che spinsero un cineasta esordiente a fare un’indagine nella provincia di Potenza. Il numero, la qualità e la varietà dei cortometraggi girati a metà del Novecento evidenziano l’importanza della “questione meridionale”. Centinaia di documentari furono girati in Italia nello stesso periodo ma pochi furono tanto segnati da convinzioni etico-politiche quanto i film dedicati al Sud. Per quanto fossero impegnati a descrivere i miglioramenti realizzati o a criticarne i limiti e l’inadeguatezza, i cineasti registrarono momenti di vita, lavori, incontri, scambi tra persone. Sotto la guida di Mariangela Palmieri possiamo ricorrere a questi brevi cenni per gettare uno sguardo nuovo sulle province meridionali. 7

Versione molto semplificata degli studi dell’antropologo Ernesto De Martino. Mentre parla al ritratto di San Paolo, la tarantata è filmata da quattro angoli differenti. Fare riprese così diverse quando si rivolgeva all’immagine sarebbe stato impossibile, perciò la donna ha dovuto prestarsi alla cinepresa dopo essere tornata in sé. 9 Produzione Documento Film, regia di Luigi di Gianni, 1958. 8

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INTRODUZIONE

Profondo Sud è il titolo di un programma realizzato per la Rai nel 1978 da Gianfranco Mingozzi assieme a Claudio Barbati e Annabella Rossi. Il regista ritornava sui luoghi del tarantismo per vedere cosa fosse cambiato rispetto al 1962, anno in cui aveva girato il documentario La taranta, ispirato alle ricerche dell’antropologo Ernesto De Martino. Il titolo del programma racchiude in due parole l’immagine del Mezzogiorno come luogo lontano, non integrato nel resto del Paese, eccezione culturale che si lega a un passato mitico. Nel 1978 identificava il Mezzogiorno che resisteva nella sua alterità e, al contempo, l’idea di Mezzogiorno che resisteva nell’immaginario collettivo nonostante le trasformazioni intercorse nella società. L’epoca che va dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni sessanta rappresenta per l’Italia una fase di grande mutamento. Il Paese si lascia alle spalle il ventennio fascista e il conflitto, e si avvia, attraverso una difficile ricostruzione, verso il miracolo economico. Il boom è foriero di sviluppo, con l’espansione del benessere, la diffusione di stili di vita e di consumo nuovi, la crescita del livello di scolarizzazione e di emancipazione sociale. La trasformazione investe anche il Sud, ma con ritmi diversi dal resto del Paese: i passi avanti convivono con la persistenza di arretratezza, arcaismi culturali e sacche di povertà. Ed è così che, a partire dall’immediato dopoguerra, di fronte alle criticità del Mezzogiorno, la questione meridionale torna al centro del dibattito pubblico italiano, riproponendo il tema delle “due Italie”1. Il cinema documentario italiano ha scoperto e raccontato il Mezzogiorno nell’epoca che precede il boom e le sue successive trasformazioni degli anni sessanta, cogliendone i contrasti e i paradossi. Dopo la seconda guerra mondiale e per circa un ventennio, infatti, in una fase non ancora contrassegnata dal dominio mediatico della televisione, 1

Cfr. Giustino Fortunato, Le due Italie (a cura di Manlio Rossi-Doria), Lecce, Argo, 1994.

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INTRODUZIONE

in Italia erano prodotti regolarmente documentari cinematografici, in molti casi proiettati nelle sale prima dei film di finzione. Queste opere, da punti di vista differenti, oggi ci informano sulla storia e l’evoluzione della società italiana. I documentari sono stati a lungo trascurati dagli studiosi, perché considerati “fratelli minori” del cinema a soggetto. Eppure queste pellicole hanno fotografato e raccontato da più angolazioni i cambiamenti del Paese e, pertanto, rappresentano una fonte di inevitabile interesse per lo storico e lo storico del cinema. La scarsa attenzione verso il documentario è certamente una conseguenza della sua funzione ancillare rispetto al cinema di finzione. Stretto nella morsa di una serie di limiti, il documentario non ha avuto vita facile in Italia, al punto da poter parlare di un mancato decollo. Tutto questo, però, a fronte di una produzione vastissima. È stato stimato che dal 1945 al 1995 sono stati prodotti in Italia circa 14.000 documentari, contando esclusivamente quelli destinati al circuito delle sale, con una media di circa 500-600 opere l’anno negli anni cinquanta2. Le ragioni del mancato sviluppo sono molteplici, prima fra tutte un sistema legislativo rivelatosi fallimentare, sebbene nato, paradossalmente, proprio allo scopo di permettere al documentario di coesistere accanto al cinema di finzione. Le leggi per il documentario che si sono susseguite dal 1945 al 1965, infatti, prevedendo l’attribuzione di premi in denaro dello Stato, concessi in base all’accoppiamento nelle sale con film a soggetto o al giudizio di una commissione, hanno impedito al documentario di avere un proprio mercato e hanno al contempo favorito la creazione di un monopolio di alcune case di produzione, poco attente alla qualità delle opere e più interessate al profitto. A queste leggi si riconduce anche il limite della formula 10’, ovvero l’ingabbiamento del documentario nella forma del cortometraggio di dieci minuti come prerequisito per ottenere i premi dello Stato3. Un condizionamento per cui nel nostro Paese il termine “cortometraggio” è stato a lungo ritenuto sinonimo di “documentario”, mentre il “lungometraggio” di film a soggetto4. Esposto al fuoco incrociato della censura amministrativa e di quella delle commissioni incaricate di concedere i premi in denaro, il documentario fino alla metà degli anni sessanta è stato terreno di conquista del potere go2 Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Annali. A proposito del film documentario, Roma, 1998, pp. 40-41. 3 Cfr. Associazione nazionale autori cinematografici (Anac), Libro bianco sul cortometraggio italiano, Roma, 1966. 4 Lino Micciché, Studi su dodici sguardi d’autore, Torino, Lindau, 1995, p. 15.

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INTRODUZIONE



vernativo, interessato a farne uno spazio deputato alla propaganda. È stato, però, anche un luogo di sperimentazione per alcuni autori, una zona franca nella quale combattere battaglie etiche, o affrontare temi che raccolgono l’eredità del neorealismo negli anni della sua parabola discendente. Doppia, pertanto, appare la sua natura: da una parte, uno strumento al servizio del potere, volto a trasmettere al pubblico delle sale immagini rassicuranti del Paese in via di sviluppo dopo la guerra; dall’altra, soprattutto per i registi più motivati, l’occasione per trattare – con tutti i rischi connessi alle limitazioni censorie – tematiche in genere escluse dai film a soggetto5. Così, accanto a una produzione media, dal carattere stereotipato, si collocano opere di maggior valore, che in molti casi portano la firma di nomi illustri del cinema nazionale. Hanno realizzato documentari, ad esempio, Antonioni, Maselli, Comencini, Risi, Vancini e Zurlini. Il documentario, però, per questi e per molti altri registi ha rappresentato solo un trampolino di lancio per il successivo approdo al cinema di finzione. Salvo rari casi, sono mancati in Italia documentaristi “puri”, probabilmente anche per l’assenza, a differenza di quanto accaduto in altri contesti nazionali, di una scuola tutta italiana del documentario. Già pressoché invisibili nelle sale, a causa dell’abitudine degli esercenti di non proiettarli nonostante gli obblighi di legge, i documentari spariscono completamente nella seconda metà degli anni sessanta. La televisione, ormai imperante, ne eredita il carattere informativo e l’ultima legge, quella del 1965, infligge il colpo di grazia alla produzione. Il documentario scompare, ma non muore. Continuerà a vivere, o meglio, a sopravvivere tra mille difficoltà, fino ai giorni nostri, in una produzione caotica e incerta, generata con difficoltà in un clima asfittico. Escluso dalle sale, il patrimonio documentaristico italiano, quando non è irrimediabilmente deteriorato dal trascorrere del tempo, resta abbandonato in fondi archivistici. In anni più recenti, tuttavia, sono stati fatti degli sforzi per riportarlo in parte alla luce, nella consapevolezza che esso rappresenti un capitale prezioso di immagini del nostro passato. Da questo rinnovato interesse sono nati pubblicazioni nonché progetti di restauro e digitalizzazione di alcune opere, grazie all’impegno di singoli studiosi, archivi e cineteche. Il dibattito più recente sul documentario ha portato a reinterrogarsi sulla sua natura. Cosa si intende per documentario? Per la sua 5

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal Neorealismo al miracolo economico 1945-1959, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 484-486.

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INTRODUZIONE

forte impressione di realtà si tende a credere che sia una riproduzione fedele del mondo e uno sguardo oggettivo ad esso. In termini generali, il documentario, oggi anche detto cinema di non fiction, è stato a lungo considerato l’altra faccia del cinema per antonomasia, quello di finzione, ricalcando la suddivisione risalente al cinema delle origini tra i film dal vero dei Lumière e i film fantastici di Méliès. Anche a causa dell’evoluzione del documentario e delle varie forme in cui esso si presenta, vi è oggi la consapevolezza che un discrimine netto tra fiction e non fiction non possa essere tracciato. I due generi sconfinano continuamente l’uno nell’altro. In più, vi è la difficoltà a dare del documentario una definizione che sia completa e che valga una volta per tutte. «La definizione di “documentario” è sempre in relazione o in paragone a qualcos’altro»6, spiega a tal proposito Bill Nichols, e, pertanto, «più che proclamare una definizione che fissi una volta per tutte cosa è e cosa non è un documentario, dobbiamo guardare agli esempi e ai prototipi, alle opere sperimentali e alle innovazioni come prove dell’ampiezza dell’area in cui il documentario opera e si evolve. La parzialità di ogni definizione deriva in parte dal fatto che le definizioni stesse cambiano con il tempo, e in parte dal fatto che in ogni dato momento nessuna definizione può valere per tutti i film definibili come documentari»7. In luogo di una demarcazione netta tra fiction e non fiction, Pierre Sorlin suggerisce il concetto di «sguardo documentario» come elemento caratterizzante di questo genere. «Significa che il film si rivolge allo spettatore-osservatore attento al contenuto, alla densità dell’immagine»8. In altre parole, «lo sguardo documentario considera ogni cosa come se fosse sconosciuta, o mal conosciuta, la descrive affinché venga compresa e divenga significativa»9. Questo sguardo sul mondo non è, tuttavia, oggettivo. È da tempo sfatato il mito del documentario come riproduzione fedele della realtà. Il cinema di non fiction, piuttosto, esplora il mondo attraverso specifici punti di vista e, quindi, attraverso una dichiarata soggettività. In definitiva, il documentario «non è una riproduzione della realtà, bensì una rappresentazione del mondo in cui viviamo. Rappresenta una visione particolare del mondo, una che potremmo non avere mai incontrato, nonostante il tema affrontato ci sia familiare»10. 6

Bill Nichols, Introduzione al documentario, Milano, Il Castoro, 2006, p. 31. Ivi, p. 32. 8 Pierre Sorlin, Ombre passeggere. Cinema e storia, Padova, Marsilio, 2013, p. 91. 9 Ibidem. 10 B. Nichols, Introduzione al documentario, cit., p. 31. 7

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INTRODUZIONE



Quale utilità può avere, allora, il documentario per lo storico? Trattandosi di uno sguardo soggettivo, si potrebbe obiettare che esso non abbia alcun valore informativo. Ma quale fonte è in definitiva oggettiva? E in ogni caso, anche una visione di parte può essere utile sul piano epistemologico. Compito dello storico e dello storico del cinema di fronte ad una fonte di questo tipo è analizzare quanto detto e come viene detto, prestando attenzione ai linguaggi utilizzati e alle retoriche. Ma non solo: suscitano l’interesse anche i non detti e le discrepanze tra realtà e rappresentazione cinematografica, poiché non meno eloquenti sono le ragioni del «documentire»11. Nel caso specifico, i documentari sul Mezzogiorno, da una parte, si configurano come una miniera preziosa di immagini, riprese dalla realtà, che raccontano di un mondo oggi in parte scomparso: paesaggi che ben presto sarebbero stati trasformati dai processi di urbanizzazione e cementificazione, ma anche usi, costumi e tradizioni, riconducibili ad una civiltà al tramonto, che di lì a poco sarebbe stata sommersa dalla modernizzazione sociale e culturale. D’altra parte, il documentario offre una pluralità di punti di vista sul Mezzogiorno negli anni della grande trasformazione derivante dalla molteplicità di generi di queste opere, che fanno riferimento a committenze e quindi a esigenze narrative, e talvolta propagandistiche, diverse. Quello della questione meridionale è stato ed è un tema centrale nel dibattito pubblico, che ha sollevato molteplici posizioni. Il documentario, espressione di punti di vista differenti, consente di cogliere questa complessità di approcci e ci restituisce, almeno in parte, l’intreccio delle rappresentazioni relative al Sud. In tal senso, arricchisce il ventaglio di fonti già a disposizione e ci fa capire come un evento possa essere interpretato da più punti di vista. In più le immagini in movimento permettono di “vedere” il passato come nessuna fonte testuale consente di fare. Pertanto, grazie all’eloquenza delle immagini, il documentario integra le fonti tradizionali dando ad esse una nuova profondità prospettica.

11 Piero Craveri spiega come «ogni documento del passato è già in qualche modo una interpretazione dell’evento nel momento in cui si produce, e in quanto tale può essere anche un “documentire”, vuoi senza voler mentire, ma soggettivamente interpretando, vuoi deliberatamente mentendo, cosicché in questa operazione che lo storico compie anche il documento menzognero (non quello falso, che cioè non appartiene all’evento), può essere utile alla ricostruzione dell’evento, individuando la ragione che fa mentire». Piero Craveri, Il cinegiornale dell’età degasperiana, in Augusto Sainati (a cura di), La Settimana Incom. Cinegiornale e informazione negli anni ’50, Torino, Lindau, 2001, p. 133.

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INTRODUZIONE

Il percorso di analisi delle rappresentazioni del Mezzogiorno negli anni della grande trasformazione nel documentario si snoda attraverso alcuni nuclei tematici collegati ad altrettanti gruppi di opere12. Al di là dei limiti che ogni classificazione pone, infatti, è possibile individuare specifici generi in cui si collocano i documentari sul Sud. Il documentario antropologico, analizzato nel primo capitolo, si incardina sulla sopravvivenza di riti e tradizioni antiche nelle realtà contadine più povere del Meridione, caratterizzate da arretratezza culturale. Lo sguardo su un mondo disagiato e in ritardo rispetto al resto del Paese accomuna il documentario antropologico a quello sociale, al centro del secondo capitolo, che riflette sulle peculiarità e le urgenze della società meridionale, in alcuni casi con accesi toni di denuncia. Su un altro piano, ci sono i documentari turistici, presi in esame nel terzo capitolo. Essi offrono una visione da cartolina e stereotipata del Sud Italia, coi suoi paesaggi incantevoli, il folclore e le promesse di decollo del turismo. L’ottimismo circa la rinascita del Meridione caratterizza anche il documentario istituzionale, su cui è incentrato il quarto capitolo. Questo insieme di lavori si fa portavoce del Governo e delle istituzioni deputate ad accompagnare il Mezzogiorno nel cammino di crescita dalla ricostruzione in poi. Analogamente, il documentario industriale, nel quinto capitolo, voce delle grandi industrie che aprono stabilimenti al Sud, racconta un sogno di sviluppo 12 La produzione di documentari nel secondo dopoguerra è molto vasta e alcune delle opere realizzate oggi sono difficilmente ritrovabili o sono andate perdute. Per tali ragioni, questo lavoro non ha pretese di esaustività. Il volume prende in esame i documentari ambientati nel Mezzogiorno (inteso come la macroarea che comprende l’Italia meridionale e insulare, caratterizzata da analoghe condizioni economiche) e realizzati tra l’immediato secondo dopoguerra e la seconda metà degli anni sessanta, un’epoca che coincide con la fase di radicale cambiamento per il Paese, in cui tra l’altro più ampia è la produzione di documentari. Ad eccezione dei film più facilmente rintracciabili, perché di autori di maggior successo o perché già oggetto di precedenti studi, la ricerca è stata condotta negli archivi audiovisivi italiani (in particolare la Cineteca Nazionale e la Cineteca di Bologna). Inoltre, un valido supporto è stato offerto dal web, grazie alla digitalizzazione e alla messa in rete di molti documentari ad opera di enti quali l’Istituto Luce, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, la citata Cineteca di Bologna e l’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa. Infine, di prezioso aiuto è stato il progetto Italia Taglia, che consente la consultazione in rete del catalogo di tutti i film italiani, di finzione e documentari, sottoposti al giudizio delle commissioni di revisione cinematografica. Attraverso questa banca dati è stato possibile reperire tramite i visti di censura preziose informazioni relative ai documentari, molte delle quali confluite nella filmografia del presente volume. Un’altra precisazione è necessaria. I documentari analizzati sono stati realizzati in Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna. Non sono state trovate opere dedicate all’Abruzzo e al Molise. Pertanto, è al primo gruppo di regioni che si fa riferimento quando in questo lavoro si parla di Mezzogiorno.

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di una terra che vuole riscattarsi e allinearsi al resto del Paese grazie all’intervento straordinario. Si tratta di opere che si fanno interpreti di visioni e messaggi contrapposti, ma che tuttavia sottintendono una comune idea di Mezzogiorno, ovvero un luogo “altro” rispetto al resto del Paese, dove il tempo si è fermato. Il documentario, così, fa propria e rafforza l’immagine del Sud come periferia dell’Italia fuori dalla storia.

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CAPITOLO I

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LA QUESTIONE MERIDIONALE TRA CINEMA E ANTROPOLOGIA

1. La riscoperta del Sud nel secondo dopoguerra Dopo la seconda guerra mondiale, in un clima di generale rinascita, la questione meridionale torna al centro del dibattito pubblico italiano. I ritardi del Mezzogiorno e le discrepanze tra Nord e Sud non rappresentano una novità, giacché si erano manifestati sin dall’unità d’Italia. La riflessione sugli squilibri del Meridione, infatti, si era affermata dagli anni settanta dell’ottocento, nutrendosi dei fondamentali contributi di Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Benedetto Croce, Luigi Sturzo, Guido Dorso e Antonio Gramsci. Nel corso del ventennio fascista, però, l’arretratezza del Mezzogiorno aveva rappresentato a tutti gli effetti un tabù e la questione meridionale era stata considerata risolta. Nella propaganda di regime non si parlava dei problemi del Sud e l’immagine a tinte fosche della realtà meridionale era stata stemperata nei toni più tranquillizzanti di un mondo rurale idilliaco. Il mito del mondo contadino è uno dei fulcri della propaganda fascista, che aggrega attorno a se i valori del lavoro, della tradizione, della genuinità, della vita sana e della frugalità, tutti in linea con gli imperativi di regime1. E quando il ruralismo non si presta alla rappresentazione del mondo meridionale si ricorre ad altri miti. Esemplificativo è il caso della città di Napoli. Nel ventennio è vietato parlare delle sue miserie: dalle cronache e dagli schermi scompaiono i bassi coi panni stesi e gli scugnizzi, l’indigenza e il degrado. Il regime vuole ridisegnare la rappresentazione della città partenopea già incisa nell’immaginario collettivo, ovvero quella icona napoletana 1

Mino Argentieri, L’occhio del regime, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 144-150.

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carica di pittoresco e veicolata per secoli nella pittura, nella fotografia e poi nel cinema. Lo fa con provvedimenti concreti, che impongono, ad esempio, lo sgombero dei vicoli e il divieto di svolgere attività tipiche dell’arte di arrangiarsi napoletana fuori dai bassi. Ma anche con disposizioni che colpiscono il cinema di finzione e il cinegiornalismo. Sugli schermi e nelle immagini ufficiali, Napoli è una città nuova. È una città guerriera, col suo porto militare proiettato verso le conquiste d’Africa e le imprese belliche, una città industriale, coi cantieri e le officine operose, una città moderna, coi quartieri risanati e la Mostra d’Oltremare2. Crollato il fascismo, i problemi del Mezzogiorno, che neppure il regime era riuscito ad arginare, riaffiorano in tutta la loro gravità. Si torna a parlare della questione meridionale, stavolta senza più censure, riprendendo i fili del discorso laddove erano stati interrotti durante il ventennio. Si afferma, così, il “nuovo meridionalismo”, per distinguerlo dal primo meridionalismo degli anni post unitari. Nel dibattito politico diventano centrali le questioni relative alle politiche agricole nel Sud, con le fondamentali riflessioni di Manlio Rossi-Doria, e allo sviluppo economico e industriale3. Proprio nella direzione di quest’ultimo nasce la Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, ai cui vertici c’è un gruppo di intellettuali, tra i quali spicca il nome di Pasquale Saraceno. Alla Svimez è affidato il compito di individuare, sulla base di studi e ricerche, le linee operative da adottare per la crescita economica del Meridione. La questione meridionale diviene cruciale nell’agenda di tutti i partiti: da posizioni e con proposte diverse per la risoluzione dei problemi del Sud, il Mezzogiorno è un tema affrontato e cavalcato nella propaganda dei vari soggetti politici, da destra a sinistra. La riflessione sulla questione meridionale, tuttavia, non ha solo carattere politico. Essa è alimentata da una vasta produzione culturale, che prende origine dal romanzo Cristo si è fermato a Eboli (1945), in cui Carlo Levi racconta la sua esperienza del confino fascista in Lucania, offrendo lo spaccato di una terra descritta come dimenticata da Dio e fuori dalla storia. Il romanzo di Levi rappresenta una vera e 2 Pasquale Iaccio, Gli scugnizzi appartengono al passato. La città fascista della propaganda di regime, in Id. (a cura di), Napoli d’altri tempi. La Campania dal cinema muto a Paisà, Napoli, Liguori, 2014, pp. 222-264. 3 Guido Fabiani, Il meridionalismo di Manlio Rossi-Doria tra impegno scientifico e azione, in Sabino Cassese (a cura di), Lezioni sul meridionalismo. Nord e Sud nella storia d’Italia, Bologna, il Mulino, 2016, p. 181 e ss.

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LA QUESTIONE MERIDIONALE TRA CINEMA E ANTROPOLOGIA

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propria «epifania letteraria e antropologica», che fa compiere al mondo contadino meridionale il grande salto «dal silenzio della non-storia alla parola della poesia e della letteratura»4. Ma non solo. L’opera apre la strada all’analisi sociologica della civiltà contadina, ovvero alla scoperta e allo studio del mondo rurale e dei suoi valori, grazie ai quali emerge «una dimensione umana della condizione meridionale, che senza alcun dubbio contribuì a rendere più drammatica e urgente la passione meridionalistica»5. La riscoperta del Sud contadino e delle difficili condizioni di vita che lo caratterizzavano influenzò sia l’opinione pubblica sia la classe dirigente, chiamata ad agire per salvare il Mezzogiorno dall’atavico sottosviluppo. Non solo l’opera di Levi, anche altri romanzi e inchieste giornalistiche, che animano il dibattito culturale degli anni quaranta e cinquanta, portano alla ribalta il mondo contadino meridionale. Tra questi, in particolare, Gente di Aspromonte (1930) di Corrado Alvaro, Fontamara (1933) di Ignazio Silone, Un popolo di formiche (1952) di Tommaso Fiore, Baroni e contadini (1955) di Giovanni Russo e le inchieste sul Meridione svolte sulla rivista «Il Mondo» (1949-1966) diretta da Mario Pannunzio. Si discute di Mezzogiorno, poi, sulle riviste «Cronache meridionali» diretta da Giorgio Amendola, Francesco De Martino e Mario Alicata, «Nuovi Argomenti» e «Nord e Sud», fondata a Napoli da Francesco Compagna. Da posizioni politiche differenti, queste riviste, cui collaborano grandi nomi del panorama intellettuale italiano, tengono viva la discussione sulla questione meridionale. Ma un ruolo decisamente importante in questa direzione è svolto dall’antropologo napoletano Ernesto De Martino, che con i suoi studi e ricerche sul campo offre una nuova prospettiva di analisi delle tradizioni e della religiosità meridionale. De Martino, orientato da un’adesione al marxismo e da una passione civile, afferma la necessità di un’unione tra le masse contadine del mondo subalterno e gli intellettuali progressisti, al fine di rifondare l’analisi e la comprensione del complesso universo culturale del Mezzogiorno, ponendo sotto nuova luce anche il folclore. Il Sud rurale, inteso come un’eccezione culturale, esercita fascino e curiosità addirittura all’estero. Il caso più noto è quello dello studioso americano di origini tedesche Friedrick G. Friedmann, che gira la Lucania, soffermandosi in particolare tra i sassi di Matera, per le 4 Sebastiano Martelli, Il crepuscolo dell’identità. Letteratura e dibattito culturale degli anni ’50, Salerno, Pietro Laveglia Editore, 1988, p. 143. 5 Giuseppe Galasso, Il Mezzogiorno. Da “questione” a “problema aperto”, Manduria, Lacaita, 2005, p. 95.

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sue ricerche sul mondo contadino meridionale. Da non dimenticare, infine, il contributo al processo di svelamento del Mezzogiorno dato dalla fotografia. Sono diversi i fotografi che a partire dalla fine degli anni quaranta si recano nel Sud Italia, in Lucania e in Puglia in particolare, per documentare modi e condizioni di vita dei contadini. A motivarli sono la fascinazione esercitata su di essi dall’alterità del Meridione e, al contempo, l’esigenza della denuncia. Celebri sono gli scatti di David Seymour e Henri Cartier-Bresson. Anche gli italiani Arturo Zavattini (figlio di Cesare) e Franco Pinna, che seguono nelle sue spedizioni Ernesto De Martino, contribuiscono a scrivere la storia per immagini del Mezzogiorno nel dopoguerra, aprendo la strada al successivo documentario antropologico, che da quelle foto avrebbe tratto ispirazione6. Le scoperta del Sud e il dibattito che ne scaturisce definiscono il mito della civiltà contadina meridionale, intesa come una realtà a se stante, immobile e astorica, chiusa e impermeabile ai cambiamenti e alle influenze esterne. Un mondo da preservare dalle contaminazioni e dalla corruzione della modernità. Questa immagine avrà una certa fortuna, tuttavia non piace a parte del mondo politico e intellettuale. Soprattutto a sinistra, si contesta l’idea di una società immutabile e rassegnata, che è in antitesi con il processo di lotta per l’emancipazione in cui si vuole collocare anche il Mezzogiorno, non a caso attraversato sin dal dopoguerra da rivolte bracciantili. Nota è, in particolare, la presa di posizione del comunista Mario Alicata sulla rivista «Cronache meridionali», in occasione della pubblicazione delle opere del poeta lucano Rocco Scotellaro. Alicata contesta il mito della civiltà contadina che emerge dai versi di Scotellaro, rivolgendo la sua polemica contro Levi e Rossi-Doria, che avevano conosciuto di persona e influenzato il pensiero del poeta. Per Alicata il mito di una civiltà contadina immobile è falso e funzionale a chi crede che il Mezzogiorno possa essere riscattato solo dall’intervento esterno, essendo incapace di autodeterminarsi7. L’idea di un Sud immobile e fissato in una dimensione astorica, per quanto non completamente realistica, ha presa nell’immaginario collettivo. Anche il cinema di finzione contribuisce alla definizione di questo stereotipo. Nel secondo dopoguerra il cinema riscopre la realtà 6 Angela Bianca Saponari, L’“iconizzazione” del Sud. Fotogiornalismo e cinema documentario, «Cinergie – Il cinema e le altre arti», n. 12, 2017, pp. 249-260. 7 Claudia Petraccone, Le ‘due Italie’. La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Bari, Laterza, 2005, pp. 234-241.

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LA QUESTIONE MERIDIONALE TRA CINEMA E ANTROPOLOGIA



grazie al neorealismo, che, in netta rottura col cinema di epoca fascista, racconta la difficile situazione italiana del dopoguerra senza censure. Ma il neorealismo non si occupa del mondo contadino meridionale, poiché focalizza la propria attenzione quasi esclusivamente sui contesti urbani del Centro-Nord Italia8. Fatte alcune eccezioni, perciò, il racconto del Mezzogiorno nel secondo dopoguerra è veicolato da una produzione cinematografica non sempre in grado di tenere conto della varietà del Sud. Soprattutto negli anni cinquanta, infatti, a prevalere nel cinema italiano è l’immagine di un Meridione arcaico e di un mondo contadino chiuso e plasmato da cultura e tradizioni remotissime. Un ritratto che, uniformando tutto il Mezzogiorno a un’idea di società unidimensionale, non rende merito all’effettiva complessità sociale di cui erano espressione le diverse realtà meridionali9. Ma, soprattutto, a mistificare il volto del Meridione sono i tanti cliché, bozzetti e luoghi comuni attraverso i quali, in molti film, è rappresentata la gente del Sud (un fenomeno, questo, che ha riguardato soprattutto la Campania – Napoli in particolare – e la Sicilia). Tipi e personaggi dai caratteri esasperati, stagliati su paesaggi naturali, utilizzati alla stessa stregua di fondali di cartapesta, popolano moltissimi film, appartenenti soprattutto ai generi comico, turistico-sentimentale e musicale. Fatta qualche rara eccezione, sono in prevalenza registi non meridionali a realizzare queste pellicole e anche laddove le produzioni si avvalgono quasi per intero di persone meridionali (come attori, registi, sceneggiatori e personale tecnico) la direzione produttiva è collocata fuori dal Mezzogiorno. In altre parole, lo sguardo è esterno al Sud. Questa circostanza, associata al fatto che tali film erano prodotti a basso costo, realizzati in poco tempo per un pubblico ampio, spiega le ragioni di una lettura semplicistica e filtrata da stereotipi10. Il Sud da cartolina che popola gli schermi italiani degli anni cinquanta non lascia indifferente il mondo intellettuale. Nel 1953 lo scrittore e sceneggiatore napoletano Giuseppe Marotta in un suo intervento su «Cinema Nuovo» invoca, indignato, addirittura San Gennaro affinché sia posta fine alla rappresentazione banale che tanti registi davano di Napoli. Lo scrittore fornisce una descrizione quasi apocalittica della città, invasa dai registi e rispettivi seguiti, provenienti da ogni 8 Michele Guerra, Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta, Roma, Bulzoni, 2010, p. 112 e ss. 9 Giovanni Scarfò, Cinema e Mezzogiorno, Cosenza, Periferia, 1999, p. 99. 10 Pasquale Iaccio, Cinema e Mezzogiorno, in Storia del Mezzogiorno, vol. XIV, Roma, Editalia, 1994, pp. 325-351.

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parte d’Italia, che ingombrano con le loro attrezzature le grandi strade come i piccoli vicoli, per fare di Napoli l’ambientazione dei loro film bozzettistici. Ma Napoli, afferma Marotta, «inganna, tradisce, dileggia chi si limita a osservarla in superficie»11. Da qui l’invito a uno sforzo di maggiore lettura critica, per evitare di scivolare in un pittoresco di comodo e per rendere il giusto merito alla Napoli autentica. Ancora un altro scrittore napoletano, Domenico Rea, sulla stessa rivista, qualche anno dopo, si soffermava sui tanti film e sul tanto parlare della città partenopea di quel periodo. Come Marotta, Rea evidenziava l’impreparazione culturale di registi e scrittori che avevano raccontato Napoli limitandosi a coglierne solo l’aspetto esteriore e folcloristico: Napoli, città con oltre un milione di abitanti, con molti plebei, ma anche con molti rispettabili operai, artigiani, impiegati e via salendo, sembra […] ridotta a un villaggio, a un piccolo centro di provincia, abitata da pizzaioli, femmine d’altri tempi, mai esistiti, cantatori, bonaccioni, guappi, eccetera, eccetera. Io che ho un’idea di Napoli pari alla sua estensione territoriale, alla sua multiforme varietà di cose uomini e traffici […] sento addosso un’oppressione quando, vedendo un film che ha per oggetto Napoli, vi ritrovo un villaggio, un paio di vicoli, quattro napoletani tipici che bisogna inventarli di sana pianta12.

Puntando l’indice contro i «fiammeggianti arcangeli» che planavano sulla superficie della città, incapaci di coglierne l’anima profonda, Rea si domandava perché si desse spazio a quell’«istintivo e quasi obbligatorio bisogno di trasformare il dolore del vicolo in farsa e la spaventosa miseria in folclore». Forse – la sua risposta – «per non vedere la verità»13. Come Napoli e la Campania, anche la Sicilia è trasformata da un certo cinema degli anni cinquanta in un aggregato di stereotipi e di folclore. Lo evidenzia il giornalista Mario Palumbo, che su «Cinema» attribuisce al «cattivo cinema» buona parte delle colpe relative ai luoghi comuni più diffusi sull’isola. La Sicilia? Una terra primitiva ma generosa. I Siciliani? Pigri come gli arabi e gli spagnoli, superbi come i francesi, schivi ed alteri come i saraceni. Occhi neri e capelli corvini. Palermo l’aristocratica; Catania 11 Giuseppe Marotta, San Gennaro pensaci tu!, «Cinema Nuovo», n. 18, 1 Settembre 1953, pp. 137-138. 12 Domenico Rea, Gli allegri arcangeli, «Cinema Nuovo», n. 63, 25 Luglio 1955, pp. 65-67. 13 Ibidem.

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LA QUESTIONE MERIDIONALE TRA CINEMA E ANTROPOLOGIA

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la Milano del Sud; Messina e lo Stretto; Siracusa e il Teatro greco; Agrigento e i magnifici templi; Taormina e il turismo; Trapani con le saline e la pesca del tonno; Caltanisetta con quell’aria di provincia alla Vitaliano Brancati. Dappertutto miniere di zolfo e di sale. Niente monopolio per quest’ultimo… Ecco la Sicilia ed ecco i siciliani!14

Passando in rassegna una cospicua serie di film e registi, Palumbo riconosce a pochissimi tra essi il merito di aver reso un’immagine credibile dell’isola. Tra i pochi eletti figurano Rossellini e il suo episodio siciliano di Paisà, alcuni film di Germi e Zampa, e, ovviamente, il viscontiano La terra trema. Fatte queste eccezioni, i restanti film «hanno tradito l’ambiente siciliano falsandone grossolanamente i toni o forzandoli artificialmente»15. Qualcosa cambia negli anni sessanta, quando sugli schermi arrivano film che danno una rappresentazione diversa del Sud e del mondo contadino. In quel periodo, infatti, ad un Mezzogiorno in trasformazione, toccato – anche se marginalmente – dal miracolo economico, non si addicono più gli stereotipi attraverso cui era stato rappresentato fino a poco prima. Occorrono nuove idee e forme di racconto, in grado di restituire la complessità e il mutamento della realtà meridionale. Ed è così che alla prevalenza nel decennio precedente dell’ambientazione cinematografica napoletana, nella nuova produzione degli anni sessanta si sostituisce una geografia più composita, che esplora il Mezzogiorno nelle sue diverse angolazioni regionali e locali, e ad un’«ottica macchiettistica» si contrappone «una visione più socio-antropologica» capace di leggere nel profondo il mondo meridionale16.

2. Sui passi di Ernesto De Martino Nell’ambito della riscoperta del Sud nel dopoguerra un ruolo importante, si è detto, è giocato dalla ripresa delle ricerche antropologiche e in particolare dagli studi di Ernesto De Martino. Sono anni in cui, in un clima di rinascita culturale, il Mezzogiorno, visto come una terra ignota e totalmente emarginata dai processi di modernizzazione, suscita curiosità e interesse particolari, e rappresenta un richiamo per

14 15 16

Mario Palumbo, Sicilia nel cinema, «Cinema», n. 161, 1 Marzo 1956, pp. 31-34. Ibidem. G. Scarfò, Cinema e Mezzogiorno, cit., pp. 80-81.

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gli studiosi mossi dalla rinnovata necessità della scoperta17. Ernesto De Martino rivoluzionò l’approccio alla comprensione della realtà antropologica meridionale. Le sue opere furono accolte nel mondo accademico come un ciclone, che stravolgeva molti dei paradigmi interpretativi del passato e forniva letture totalmente originali del mondo contadino. Prima di De Martino, infatti, prevaleva una visione folcloristica del Meridione e ogni tipo di ricerca presentava caratteri meramente descrittivi. In altre parole, le manifestazioni della cultura e delle tradizioni delle classi subalterne del Sud erano considerate come residui di primitivismo, privi di valore e interesse scientifico. Tutto questo nell’ambito di una visione più generale che definiva il Mezzogiorno per sottrazione rispetto al Nord Italia. De Martino, invece, partendo dal presupposto che il Meridione era anche il frutto di un modo di guardare ad esso, volle scavare in profondità, per identificare le radici significanti dei fenomeni legati alla sfera magico-religiosa, come il lamento funebre, il tarantismo, o la persistenza del magismo. La sua fu una battaglia culturale e civile a tutti gli effetti, combattuta per spiegare fenomeni che erano espressione di una cultura millenaria, e non di una non-cultura come fino ad allora si era creduto. Per l’antropologo napoletano, infatti, quelli che venivano considerati arcaismi mentali della società meridionale erano una conseguenza della miseria culturale e psicologica. In sostanza, le credenze nel magico e nell’irrazionale si riconducevano a condizionamenti culturali derivanti dall’appartenenza ad un contesto sociale in cui prevalevano specifiche regole e convinzioni. La povertà e l’emarginazione, poi, rendevano le persone più vulnerabili e condizionabili rispetto a quelle credenze, oltre che più esposte a malattie psichiche. Le pratiche magiche, così, non erano il residuo inutile di un passato lontano, ma svolgevano una funzione sociale necessaria: si inserivano appieno nel proprio tempo e rappresentavano una risposta alle difficili condizioni di vita per i contadini meridionali. Si spiega in questo modo la persistenza di fenomeni come il tarantismo, o le credenze nelle fatture e nelle possessioni, o ancora, i riti magici. Inoltre, per De Martino, la permanenza nella società meridionale del folclore magico-religioso era espressione di un’identità culturale e sociale assai forte, che si opponeva alle culture provenienti dall’esterno. Questo spiega l’esistenza delle credenze legate alla magia in una società paradossalmente permeata dal cattolicesimo. 17

Cfr. Tullio Seppilli, Sud e magia. Ricerca etnografica e cinema documentario sul Mezzogiorno d’Italia nel secondo dopoguerra, «La ricerca folklorica», n. 8, 1983.

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Laddove, infatti, la Chiesa non era riuscita ad estirpare il magico, si era generata la curiosa fusione tra quest’ultimo e la dimensione religiosa, da cui discendeva il caratteristico sincretismo del folclore meridionale18. L’attenzione per le classi subalterne del Sud in De Martino si sposava anche con la volontà di denuncia della miseria e dell’emarginazione: alle motivazioni scientifiche s’intrecciavano, così, quelle politico-ideologiche e di partecipazione umana. Seguendo il dettato gramsciano, De Martino intendeva, da intellettuale organico, contribuire alla battaglia per l’emancipazione delle plebi meridionali facendo nuova luce su quella realtà19. Il Sud per lui non era il rovescio negativo di una società basata su un modello di sviluppo capitalistico, ma un’area del Paese con una propria cultura e una propria identità di pari dignità. Una cultura non separata ma legata a quella dominante, perché in relazione di opposizione ad essa. Una cultura, infine, non destinata ad essere cancellata da quella dominante, ma ad integrarsi progressivamente modificandosi20. Le tesi innovative e il coraggio della denuncia dell’antropologo carpirono l’attenzione di un gruppo di giovani cineasti italiani. Desiderosi di scoprire un mondo ad essi e ai più sconosciuto, battendo strade non ancora percorse dal cinema main stream, essi si misero sui passi di Ernesto De Martino. Si interessarono alle sue ricerche, si fecero indicare i luoghi in cui recarsi e, scegliendo la formula del documentario, raccontarono per immagini un mondo che di lì a poco sarebbe scomparso. L’interesse di questi documentaristi non dispiacque all’antropologo: egli, infatti, credeva nella possibilità del cinema e delle immagini in generale di offrire dei contributi validissimi all’antropologia21. Gli audiovisivi potevano documentare aspetti della ricerca sul campo, come il linguaggio del corpo, che la parola scritta non avrebbe mai potuto cogliere. Da questo punto di vista De Martino fu un innovatore, in un ambiente accademico ancora assai legato

18 Clara Gallini, Marcello Massenzio (a cura di), Ernesto De Martino nella cultura europea, Napoli, Liguori, 1997, pp. 91-104. 19 Gianluca Sciannameo, Nelle Indie di quaggiù. Ernesto De Martino e il cinema etnografico, Bari, Palomar, 2006, pp. 11-13. 20 David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Bari, Laterza, 2014, pp. 203-210. 21 Non è un caso che le principali spedizioni che De Martino ha condotto nel Sud abbiano visto la presenza di un fotografo. Si veda, a tal proposito, il volume di Clara Gallini e Francesco Faeta, I viaggi nel Sud di Ernesto De Martino (Torino, Bollati Boringhieri, 1999), che raccoglie alcune delle fotografie scattate durante le ricerche sul campo dai fotografi Franco Pinna, Arturo Zavattini e Ando Gilardi.

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alla parola scritta e piuttosto riluttante verso l’utilizzo di strumenti di ricerca meno tradizionali. La fiducia di De Martino nella capacità degli audiovisivi di offrire supporto all’antropologia e, più in generale, di contribuire allo svelamento della realtà trapela in alcuni articoli che egli scrisse per delle riviste di cinema. In Realismo e folklore nel cinema italiano del 1952, l’antropologo rimproverava al cinema neorealista di «trattare gli oppressi dei grandi raggruppamenti urbani, delle classi popolari delle città e della piccola borghesia», trascurando, o trovando più difficile soffermarsi sul mondo contadino, in maniera particolare quello meridionale. Per De Martino i cineasti conoscevano poco il Sud e si approcciavano ad esso con superficialità. Il cinema, come buona parte della cultura italiana, non riusciva a comprendere fino in fondo l’articolata realtà del Mezzogiorno e nell’immagine che ne veniva data a prevalere erano soprattutto «aspetti pittoreschi, strani, grotteschi o addirittura incomprensibili»22. In un altro articolo, riferendosi in particolare alla Lucania, De Martino usava termini ancora più espliciti. «Certa più recente letteratura meridionalistica ha allontanato la Lucania nella immaginazione degli italiani quasi che si trattasse della luna o poco meno», esordiva. Nel seguito, l’antropologo condannava l’atteggiamento «barbarizzante» che portava a considerare la Lucania, al pari delle Indie per i Gesuiti, una civiltà contadina mitica e sospesa nel tempo, priva di ogni nesso con la realtà. Al contrario, la Lucania è il luogo in cui vecchio e nuovo sono profondamente legati tra loro, sottolineava lo studioso, in un ampio «panorama che appartiene integralmente alla storia nostra […] anche quando sembra accennare a remote lontananze»23. Con queste riflessioni Ernesto De Martino entrava nel vivo del dibattito che stigmatizzava il cattivo cinema sul Mezzogiorno e il mito della civiltà contadina atemporale, che era andato stratificandosi nell’immaginario collettivo a partire dal Cristo di Levi. Il documentario antropologico ispirato alle ricerche di Ernesto De Martino nacque sul finire degli anni cinquanta. Ne sono stati autori Luigi Di Gianni, Gianfranco Mingozzi, Michele Gandin, Giuseppe Ferrara, Cecilia Mangini e Lino Del Fra. I temi demartiniani per costoro rappresentarono una fonte di ispirazione, ma il lavoro di realizzazione dei film fu del tutto autonomo. Il ruolo di De Martino, in 22 Ernesto De Martino, Realismo e folklore nel cinema italiano, «Filmcritica», n. 19, Dicembre 1952, pp. 183-185. 23 Id., Narrare la Lucania, «Cinema Nuovo», n. 59, 25 Maggio 1955, p. 378.

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altre parole, si limitò al suggerimento delle località e delle situazioni da filmare. L’antropologo solo raramente presenziò alle riprese e contribuì al montaggio o alla stesura del commento. Il suo contributo, dunque, fu di «consulente», nonostante, si è già detto, De Martino credesse molto nella collaborazione tra cinema e ricerca scientifica24.

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2.1 Gli esordi Il documentario che inaugura il filone demartiniano è Lamento funebre (1953) di Michele Gandin. Si tratta di un filmato di soli tre minuti, destinato ad un progetto di enciclopedia cinematografica e incentrato su una tipica manifestazione del folclore religioso meridionale. Il lamento funebre consisteva in una serie di lamentazioni e canti, accompagnati da una precisa gestualità, dedicati al defunto per narrarne i meriti e guidarlo nel suo viaggio nell’aldilà. Questo rito aveva lo scopo di costruire memorie, controllare e socializzare un momento critico della vita dell’uomo, quello del lutto, permettendone, così, l’elaborazione. Il lamento funebre, altamente drammatico, eseguito da un gruppo di donne tutte vestite di nero, esercitava un forte turbamento nell’osservatore esterno. De Martino se ne era interessato e dal 1953 al 1956 compì almeno cinque viaggi in Lucania per studiare il fenomeno. Ne scaturì, più tardi, la sua opera sull’argomento, Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958). In uno dei suoi viaggi ad accompagnare De Martino figura anche, nelle vesti di “tecnico”, Michele Gandin25. Il regista filma la lamentazione che avviene all’esterno, in un paesaggio pietroso. Questa è un’anomalia, dettata probabilmente da esigenze di ripresa: le lamentazioni, infatti, avvenivano sempre all’interno delle case. Sin dal primo documentario di ispirazione demartiniana, dunque, prevale la componente autoriale e soggettiva del regista che allontana questi film, come si vedrà meglio più avanti, da esigenze puramente scientifiche. Qualche anno dopo Gandin avrebbe realizzato un altro documentario di genere antropologico, non più ispirato dalle tematiche demartiniane. Si tratta di Processioni in Sicilia (1964), una sorta di cortometraggio sperimentale, composto da sole immagini fisse, che rappresentano riti religiosi, montate in modo da suscitare turbamento nello spettatore. Non c’è commento, ma una colonna sonora molto elaborata, che mescola musica bandistica, campane e voci che into24 Clara Gallini, Il documentario etnografico “demartiniano”, «La ricerca folklorica», n. 3, 1981, p. 25. 25 Ead., F. Faeta, I viaggi nel Sud di Ernesto De Martino, cit., pp. 17-19.

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nano preghiere e canti. Il cortometraggio, che vuole rendere lo spirito delle feste siciliane – si legge nella didascalia iniziale – ha una carica molto suggestiva, che evoca l’eccezione culturale di questi riti. Il documentarista più fedele ai temi demartiniani è considerato da più parti Luigi Di Gianni. Il regista, dalla fine degli anni cinquanta e per circa un ventennio, ha realizzato diversi documentari sul mondo magico-religioso meridionale ispirati alle ricerche dell’antropologo napoletano e dei suoi allievi26. Ma gli studi demartiniani per Di Gianni rappresentano un semplice spunto. Per il resto egli prosegue in modo del tutto autonomo il lavoro di rappresentazione dei fenomeni indagati, imprimendovi una carica fortemente soggettiva. Luigi Di Gianni si avvicina affascinato ai temi del magico-religioso meridionale. Alla curiosità per un mondo che egli, come molti altri, percepisce come fuori dal tempo e altro da sé, si intrecciano ricordi d’infanzia. Il regista, infatti, è figlio di padre lucano e madre campana, e da bambino aveva visitato il Sud. Aveva assistito ad alcune manifestazioni del folclore religioso e ne era rimasto profondamente colpito27. Sul finire degli anni cinquanta Di Gianni viene a conoscenza dalla carta stampata di una delle spedizioni di De Martino in Lucania. Decide di seguire l’antropologo e da quel viaggio nasce il primo dei suoi documentari demartiniani, Magia lucana (1958). De Martino, col quale nasce da subito un rapporto di stima e collaborazione, dopo aver visto l’opera finita accetta di attribuirle la propria consulenza scientifica28. Di Gianni indaga con la macchina da presa molti riti e credenze magiche diffusi in alcune località della Lucania. Il documentario mostra la vita dura dei contadini, che compiono ogni giorno chilometri a piedi attraverso lande desolate e pietrose, per raggiungere i campi in cui lavorare con fatica. Intanto, nel paese la vita scorre monotona: si vedono anziani e bambini, nelle case o nei vicoli, che convivono con animali, mentre chi è senza lavoro sosta paziente nella piazza. Il racconto prosegue con un lamento funebre che avviene all’esterno e si conclude con l’illustrazione, stavolta in interni di case povere, di alcune credenze magico-religiose. In questo primo film si ritrovano 26

Ead., Il documentario etnografico “demartiniano”, cit., p. 27. Cfr. l’intervista a Luigi Di Gianni in Pasquale Iaccio, Il Mezzogiorno tra cinema e storia, Napoli, Liguori, 2000, p. 139. Gabriella Avagliano, Tracce del Mezzogiorno nel documentario etnografico. Cultura popolare e trasformazioni sociali in Lucania (1958-1971), Cava de’ Tirreni, Areablu Edizioni, 2019, pp. 46-53. 28 Enzo Lavagnini, Rapporto confidenziale. Luigi di Gianni: cinema e vita, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2012, p. 62. 27

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già tutti i caratteri del documentarismo di Di Gianni. A prevalere non è l’intento scientifico ma quello sociale ed estetico. Il regista, più che documentare, vuole denunciare la povertà e l’emarginazione delle genti lucane, ma soprattutto compie un lavoro di ricerca formale, che porta il sigillo della sua soggettività d’autore29. Il documentario, girato senza fonico, quindi senza sonoro, si avvale di un commento verbale e musicale molto suggestivo, realizzato ex post. I riti sono delle evidenti ricostruzioni, sebbene “recitate” dalle persone del posto. Al colore, più realistico, si preferisce un bianco e nero onirico. Le inquadrature sono, in molti casi, ricercate e si avverte su di esse l’influenza dell’espressionismo cinematografico, cui in più occasioni il regista ha dichiarato di ispirarsi. Ne deriva la rappresentazione di una realtà rarefatta e caratterizzata da tempi dilatati, conforme a quel mito della civiltà contadina fuori dalla storia che andava strutturandosi nell’immaginario in quegli anni in Italia. Lo sguardo d’autore, che non aderisce a un realismo asettico, non sfuggì già alla critica dell’epoca. Mario Verdone su «Bianco e Nero» dice del cortometraggio, in occasione della sua presentazione a Venezia nel ’58, che «ha vivo valore di documentazione folkloristica ed etnografica, facendosi nel contempo ammirare per il limpido stile, il virtuosismo visuale, i valori allusivi e poetici»30. Il documentario piacque e al Festival veneziano fu premiato nella categoria “film documentari”. Poco dopo, sempre in Lucania, Di Gianni gira Nascita e morte nel Meridione: San Cataldo (1959). Alle spalle dell’opera c’è di nuovo De Martino, che aveva suggerito il luogo in cui filmare. Ma, anche stavolta, la funzione dell’antropologo è marginale e circoscritta all’idea iniziale31. Di Gianni, infatti, più che soffermarsi su aspetti dell’universo magico-religioso, esplora la durezza della vita nel paese lucano. Il regista sperimenta l’arretratezza e l’isolamento dei luoghi ancor prima di iniziare le riprese. A San Cataldo manca tutto: l’elettricità, alloggi adeguati, le strade. Arrivato con la sua troupe nel paese, il regista è accolto da diffidenza e ostilità da parte degli abitanti del posto. «Non erano molto contenti, per usare un eufemismo, di vedersi mettere sulla pellicola, di veder rappresentata la propria vita, la propria miseria.

29 Ivelise Perniola, Oltre il Neorealismo: documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 186-187. 30 Mario Verdone, La Mostra internazionale del documentario, «Bianco e Nero», n. 9, Settembre 1958, pp. 42-47. 31 C. Gallini, Il documentario etnografico “demartiniano”, cit., p. 25.

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Ci guardavano minacciosi, ostili. Pronti a passare alle vie di fatto»32, ricordava Di Gianni. Il cortometraggio è girato tutto nel paese, costituito da un agglomerato di case basse e di pietra. Alle riprese esterne si alternano quelle negli interni delle abitazioni poverissime, dove più persone mangiano da un unico piatto, coperto da mosche. Si assiste al parto di una donna e, dopo, a un rito funebre, mentre il commento recita: «Qui la nascita e la morte assumono un particolare rilievo. Qui più che altrove accade qualcosa solo se qualcuno nasce o qualcuno muore. E tra il nascere e il morire è difficile sopravvivere». Pure in questo caso, la realtà rappresentata è onirica e angosciante, anche grazie al ruolo giocato dal commento parlato e musicale, aggiunto alle immagini in origine girate senza sonoro. Il Sud vi appare come un luogo lontano e sospeso in una dimensione altra, dove non accade nulla e il tempo scorre lento. In un altro dei suoi viaggi nel Sud Luigi Di Gianni realizza Frana in Lucania (1959) e Pericolo a Valsinni (1959), che trattano lo stesso tema: le difficili condizioni di vita per gli abitanti di alcune aree lucane particolarmente franose. In Frana in Lucania l’attenzione è rivolta ad una famiglia che, nella propria abitazione, è in attesa che passi un temporale. La casa è misera e all’interno gocciola acqua. Il commento spiega che fuori il rischio che si stacchi una frana è molto forte. I componenti della famiglia sono visibilmente preoccupati e dato il perdurare del maltempo, alla fine, decidono di abbandonare la casa, l’unico bene che posseggono, spiega il commento. Vi faranno ritorno solo quando le condizioni del tempo saranno migliorate, sperando di non trovare l’abitazione ormai travolta dalla furia del fango. Il commento lascia molto spazio ai silenzi, che, assieme ad una fotografia plumbea, sottolineano l’atmosfera cupa e carica di angoscia. Uguali scelte stilistiche caratterizzano Pericolo a Valsinni, in cui si racconta una tragedia causata dalle condizioni franose del terreno. Si vede un nucleo familiare che, mentre fuori diluvia, attende preoccupato che il capofamiglia rincasi. Grazie ad un montaggio alternato, scopriamo che l’uomo in realtà è finito in un burrone. Il figlio maschio decide di uscire e mettersi alla ricerca del padre. Lo troverà e assieme ad alcuni uomini lo recupererà dal burrone ormai moribondo. Nelle ultime immagini è ripresa la sua sepoltura. In questo documentario, ancora più che nel precedente, la ricostruzione delle vicende narrate è palese. Pur raccontando situazioni verosimili, in un territorio effettivamente 32

E. Lavagnini, Rapporto confidenziale, cit., p. 65.

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esposto a eventi franosi, Di Gianni sceglie la strada della messinscena, sebbene gli attori siano chiamati a interpretare loro stessi. Questi primi documentari, rispetto a quelli che il regista realizzerà successivamente, sono tutti accomunati, oltre che dalle ricostruzioni, da una forte manipolazione dei tempi, da un uso assai particolare della colonna sonora, insomma, da ricerca formale e da uno stile personalissimo. Essi, inoltre, soffermandosi su dei casi limite, danno una rappresentazione non realistica ma simbolica della realtà. Per queste ragioni, non sono mancate, in tempi più recenti, critiche severe. Essi sono stati definiti esercizi di stile, volti alla contemplazione più che alla denuncia, e quindi privi di ogni finalità sociale o antropologica (se non ex post)33. È anche vero, però, che proprio Di Gianni ha affermato, in più occasioni, di non aver inseguito esigenze realistiche o scientifiche in questi documentari, ma di aver anteposto l’istanza del cineasta, con la sua capacità di manipolare gli spazi e i tempi del racconto34. Lo sguardo assetato di Sud conduce Di Gianni anche in altre regioni, oltre la Lucania. In Sardegna gira La punidura (1959), un cortometraggio su una pratica diffusa tra i pastori in Gallura che prevedeva, nel caso in cui uno tra loro avesse perduto il gregge per cause non imputabili alla propria responsabilità, che gli altri lo aiutassero a ricomprarlo. In Calabria, invece, realizza Donne di Bagnara (1960), incentrato sul ruolo di donne che aiutano gli uomini nella pesca e nella costruzione di muri di protezione. Con L’Annunziata (1961) e Grazia e numeri (1961) Luigi Di Gianni scopre Napoli, città in cui è nato ma è vissuto pochissimo. L’Annunziata è un cortometraggio sul noto istituto che per secoli ha accolto bambini orfani e abbandonati. Con Grazia e numeri il regista si riavvicina ai temi a lui cari del folclore magico-religioso meridionale, che da questo momento saranno rappresentati prevalentemente dai culti e dalle feste popolari di carattere 33

I. Perniola, Oltre il Neorealismo, cit., p. 203. «Il documentario io l’ho girato pensato come qualcosa in cui il cinema è al primo posto, ho sempre cercato la dominante dell’immagine. […] se poi il documentario ha anche valore scientifico tanto meglio, ma senza partire dalla scienza. I miei documentari si possono definire come piccoli saggi di ispirazione antropologica». Intervista a Luigi Di Gianni in Giovanni Sole (a cura di), Trentacinque millimetri di terra: la Calabria nel cinema etnografico, Cosenza, Università della Calabria, 1992, p. 144. «Ma io ho cercato sempre di muovermi in una dimensione personale, alla ricerca, non tanto del dato obiettivo, nel quale non credo (perché è assolutamente inafferrabile), ma di una soggettività, di un modo di affrontare con la mia sensibilità, vicende, paesaggi, gente, un modo di vita. […] Era tutto ricostruito: costruito, però, secondo una maniera classica di costruire sulla base di certe verità accertabili ed accertate». Intervista a Luigi Di Gianni in P. Iaccio, Il Mezzogiorno tra cinema e storia, cit., p. 141. 34

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collettivo. Anche lo stile del racconto cambia, diventando più diretto e meno costruito. Grazia e numeri è girato in parte nel sotterraneo di una chiesa, dove alcune persone, di fronte ad altarini che custodiscono ossa umane, invocano le anime del purgatorio con preghiere e formule magiche. Più avanti sono documentati altri riti pagani diffusi nella città partenopea, come le pratiche contro il malocchio, e il legame dei napoletani col gioco del lotto. Con una fotografia a colori, ma livida, il documentario mostra una Napoli sotterranea e perturbante. Il sincretismo tra religione cristiana e ritualità pagana e la superstizione diffusa testimoniano la necessità di aggrapparsi al soprannaturale come unica speranza di vita in una città difficile. Questo aspetto si ritrova in altri documentari successivi girati da Di Gianni in Campania, come I Fujenti (1966), Nascita di un culto (1968), La potenza degli spiriti (1968) e La possessione (1971). A metà degli anni sessanta Luigi Di Gianni torna in Basilicata e vi realizza Viaggio in Lucania (1965) e La Madonna di Pierno (1965). Il primo dei due documentari è una breve inchiesta filmata in cui si denuncia l’immobilismo della regione. Alcune scene ricordano la Lucania dei documentari demartiniani, con i contadini che percorrono lande desolate in sella ai muli per raggiungere i campi da coltivare, i villaggi di abitazioni di pietra e gli interni delle case povere. Ma c’è anche il nuovo, segno che i tempi, almeno in parte, stanno mutando, come le industrie, le case e gli edifici pubblici di recente costruzione, le strutture per il turismo. Il commento e le interviste ai protagonisti (gente e amministratori del posto), però, sottolineano che non molto è cambiato dai tempi dell’unità d’Italia. La Lucania è messa in ginocchio da povertà atavica, dall’emigrazione che spopola paesi e dallo sfruttamento dei contadini. L’arretratezza culturale, poi, non accenna ad arginarsi, come testimonia la permanenza dei riti magici. Per queste ragioni il commento parla di «nuovo apparente e vecchissimo reale». Lo stile di Viaggio in Lucania è molto diverso da quello dei primi documentari di Di Gianni girati negli stessi luoghi. La parola ai protagonisti e il commento esplicativo, l’assenza di ricerca formale e la maggiore attenzione data al quotidiano rendono questo cortometraggio più simile ad un reportage. La Lucania, però, continua ad essere rappresentata come una terra isolata e lontana dal resto della penisola. Ne La Madonna di Pierno il regista si occupa nuovamente della religiosità popolare, raccontando l’annuale pellegrinaggio dei contadini lucani presso il Santuario della Madonna di Pierno, in provincia di Potenza. Il documentario nasce con la consulenza dell’antropologa

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Annabella Rossi, che aveva lavorato con Ernesto De Martino. Il rito religioso ha origini arcaiche, giacché si innesta sull’antico culto di divinità femminili legate alla terra. Protagonista è una folla di umili fedeli, che intona canti e prega con sguardo rassegnato. Di nuovo emerge il volto sofferente di un Sud che si abbandona al culto come unico appiglio contro le avversità della vita. Immagini che si ritrovano, ancora negli anni settanta, in un’altra opera di Di Gianni, che è considerata l’ultimo dei documentari demartiniani, La Madonna del Pollino (1971), girato nel santuario sul monte Pollino, situato tra la Basilicata e la Calabria. Sempre con la consulenza di Annabella Rossi, Luigi Di Gianni in Puglia gira Il male di San Donato (1965). L’opera ruota attorno a un fenomeno, con radici pagane, che accade a Montesano, nel Salento. In un preciso momento dell’anno molte persone manifestano disturbi psichici. La credenza diffusa è che sia San Donato a far ammalare i fedeli e che sia il santo stesso a guarirli, in occasione della sua festa, concedendo la grazia. In molti, così, si recano nella chiesa del santo patrono per chiedere di essere guariti. Alcuni sono graziati, ma spesso la grazia dura solo un anno e, con l’avvicinarsi della festa dell’anno successivo, i mali compaiono nuovamente. Il male di San Donato è incentrato sul potere della suggestione e sulla centralità del simbolismo mitico-rituale nelle comunità emarginate del Mezzogiorno. Come aveva spiegato Ernesto De Martino, laddove regna la miseria materiale e culturale, il linguaggio magico è un modo per reagire a un momento di crisi dell’individuo e una forma di protezione: esso consente di dare una forma al male e di esorcizzarlo mediante il rito.

2.2 Gli anni sessanta La Puglia e le malattie psichiche erano già state raccontate dal documentario italiano. Nei primi anni sessanta, infatti, Gianfranco Mingozzi aveva girato La taranta (1962), sul fenomeno del tarantismo. Ancora una volta sono le ricerche di Ernesto De Martino a ispirare i registi. L’antropologo aveva studiato questo fenomeno, diffuso prevalentemente in Puglia, e vi aveva dedicato il volume La Terra del rimorso (1961). Gianfranco Mingozzi, emiliano, colpito dal fascino del tarantismo, grazie ad un servizio fotografico di Chiara Samugheo su «Cinema Nuovo», ed intenzionato a farne oggetto di un suo cortometraggio, si avvicina a De Martino. Dopo alcune conversazioni con lui e dei sopralluoghi, si reca in Puglia non appena le tarantate si

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risvegliano dal loro “letargo” annuale35. Anche in questa occasione, De Martino fece da consulente: suggerì l’idea iniziale, mise in contatto il regista con le persone giuste, gli fornì informazioni e lo accompagnò nei sopralluoghi, ma non presenziò mai alle riprese, lesse ed apportò delle modifiche al commento, scritto dal poeta Salvatore Quasimodo36. Il tarantismo era una delle manifestazioni simboliche più d’impatto e significative del mondo magico meridionale. Le tarantate, colpite nella credenza popolare dal morso del ragno, trascorrevano giorni nel completo delirio. Dei rituali, che prevedevano l’utilizzo di musica suonata dal vivo e colori, le aiutavano a sconfiggere il male che si era impossessato di loro. De Martino, nel suo lavoro di scavo nelle manifestazioni del folclore magico-religioso meridionale, aveva dimostrato come il tarantismo fosse un fenomeno complesso, sul quale influivano condizionamenti culturali, credenze magiche e religiose, motivazioni personali inconsce e ragioni di natura sociale. In una chiave interpretativa storico-religiosa, il delirio dei tarantati rappresentava un dispositivo mediante cui, periodicamente, i conflitti inconsci erano evocati e collocati su un piano simbolico per alleggerirne le sollecitazioni. In altre parole, il morso del ragno era un pretesto per risolvere, attraverso l’esorcismo della danza, conflitti interiori irrisolti, riconducibili alle misere condizioni di vita, a sofferenze personali o familiari, a disagi, frustrazioni e traumi subiti37. La taranta, basato su riprese dirette e privo di ricostruzioni, documenta il fenomeno rendendo quasi inesistente lo scarto tra le intenzioni del regista e quelle dell’etnologo38. Per queste ragioni, in tempi più recenti è stato considerato un documento di grande valore antropologico, anche perché incentrato su un rito ormai completamente scomparso. Cogliendo in pieno le tesi di De Martino, inoltre, il documentario di Mingozzi, da una riflessione antropologica si allarga a comprendere nel proprio orizzonte espressivo la miseria e l’emarginazione che facevano da corollario al tarantismo, nonché la denuncia della difficile condizione della donna, del suo sfruttamento e della sua subalternità. Non a caso, il regista si servì delle immagini e delle conoscenze sul tarantismo raccolte per questo documentario per realizzare un episodio 35 Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 222. 36 C. Gallini, F. Faeta, I viaggi nel Sud di Ernesto De Martino, cit., p. 21. 37 Cfr. Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Milano, Il Saggiatore, 1961. 38 C. Gallini, Il documentario etnografico “demartiniano”, cit., p. 26.

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sul tema, dal titolo Le tarantate, del film collettivo Le italiane e l’amore (1961), coordinato da Cesare Zavattini e incentrato sulla condizione della donna in Italia. Sia La taranta – che vinse il primo premio alla terza edizione del Festival dei Popoli – sia l’episodio de Le italiane e l’amore non furono accolti positivamente dalla critica coeva. Eppure oggi c’è chi considera La taranta il documentario etnografico meglio riuscito, ovvero quello che più si avvicina agli studi demartiniani. Probabilmente, i giudizi negativi espressi sulla stampa specialistica furono una conseguenza della mancata conoscenza delle ricerche sul tarantismo di De Martino, cui il documentario s’ispirava fedelmente39. Analogamente a quanto accaduto per altri registi, a spingere Gianfranco Mingozzi verso il Mezzogiorno, furono la curiosità e il fascino evocati dai luoghi e dalle tesi demartiniane. Ancora una volta è il Sud a richiamare i giovani registi, promettendo nuove esperienze visive, appassionanti e drammatiche40. Il regista sarebbe tornato in altre occasioni nel Mezzogiorno. In una di queste, nel 1978, per girare nei luoghi della terra del rimorso Profondo Sud, un programma per la Rai, e per vedere cosa fosse cambiato rispetto a venti anni prima41. Il Sud e il suo mondo magico rappresentano un richiamo anche per Cecilia Mangini e Lino Del Fra. Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta i due registi, compagni sul lavoro e nella vita, girano alcuni documentari seguendo il filo delle ricerche demartiniane. Più tardi avrebbero realizzato altre opere nel Mezzogiorno, di carattere più spiccatamente sociale. Nei documentari dei due registi s’intrecciano il desiderio di scoperta e comprensione della realtà e quello della denuncia. Anche Cecilia Mangini, come altri registi attratti dal Sud, ha origini meridionali e in lei rivivono i ricordi dei viaggi in Puglia compiuti da bambina. Sulla scorta di quei ricordi di un Sud completamente distante dal resto dell’Italia, ma verso il quale la regista prova un senso di grande empatia, nascono i suoi documentari. Del 1959 è Stendalì incentrato sul lamento funebre. Il documentario si basa su una ricostruzione del rituale, eseguito a Martano, in provincia di Lecce, da alcune anziane donne. Cecilia Mangini decide di girare il cortometraggio dopo aver letto, assieme a Del Fra, Morte e pianto rituale nel mondo antico di De Martino. L’opera affascina i due registi e rappresenta l’input che li spin39

I. Perniola, Oltre il Neorealismo, cit., pp. 190-194. F. Faldini, G. Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 222. 41 La sceneggiatura del programma è stata pubblicata in Claudio Barbati, Gianfranco Mingozzi, Annabella Rossi, Profondo Sud, Milano, Feltrinelli, 1978. 40

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ge alla scoperta del Mezzogiorno. L’antropologo, tuttavia, non collaborerà in nessun modo alla realizzazione del documentario42. L’utilizzo di una colonna sonora suggestiva e incisiva e il commento in versi (tratto dal testo di una lamentazione neogreca rielaborata da Pier Paolo Pasolini), recitato con particolare enfasi dall’attrice Lilla Brignone, rendono questo cortometraggio espressione di «un linguaggio autonomo, che sottolinea gli aspetti ritmici e visionari del rituale e che è quanto mai distante da canoni neorealistici»43. In altre parole, la lettura personale del rito da parte dell’autrice fa prevalere i motivi dell’arte rispetto a quelli scientifico-antropologici. Del lamento funebre è offerta un’interpretazione in chiave lirica e drammatica, attraverso un linguaggio cinematografico ricercato (molto suggestiva è l’inquadratura dal basso, che coglie il punto di vista del defunto nella bara) e una studiata messinscena. Cecilia Mangini poco dopo sempre in Puglia gira Maria e i giorni (1960), un cortometraggio sulla vita di un’anziana donna, che gestisce una masseria. Maria è chiamata a interpretare se stessa dinanzi alla cinepresa, le sue giornate di lavoro, tra famiglia, campi e cura degli animali. Sullo sfondo si coglie la vita contadina meridionale, fatta di fatica, rituali e tempo per la preghiera. Maria in questo documentario diventa paradigma del mondo rurale nel profondo Sud, sebbene, ancora una volta, lo sguardo della regista sia mediato da scelte stilistiche e da ricerca formale. Come in Stendalì, non vi è alcun intento di indagine antropologica, ma puro desiderio di racconto, attraverso un punto di vista soggettivo, di un mondo che appassiona e richiama la regista. Anche Lino del Fra si lascia ispirare dalle ricerche di Ernesto De Martino e, nel 1960, gira L’inceppata e Il gioco della falce (quest’ultimo noto pure col titolo La passione del grano). Il primo dei due è la rievocazione di un antico rituale d’amore che si svolge in Lucania: l’innamorato porta un grosso ceppo davanti casa dell’amata e, se questa e la sua famiglia lo accetteranno, la dichiarazione d’amore sarà accolta. Il rito è un chiaro esempio del controllo sociale ancora esercitato sul corteggiamento tra giovani. Eppure, è stato notato, in esso i protagonisti diventano realmente liberi, sciogliendo nel gioco della finzione rituale i vincoli del vivere quotidiano. Del Fra andò personalmente alla ricerca dei luoghi in cui girare il documentario, ma De Martino diede il suo contributo sia al montaggio sia alla stesura del commento44. La 42 Mirko Grasso, Stendalì. Canti e immagini della morte nella Grecìa salentina, Lecce, Kurumuny, 2006, pp. 49-51. 43 C. Gallini, Il documentario etnografico “demartiniano”, cit., p. 25. 44 G. Sciannameo, Nelle Indie di quaggiù, cit., p. 48.

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partecipazione dell’antropologo fu ancora più intensa per l’altro documentario, Il gioco della falce. L’opera, infatti, ricostruiva presso San Giorgio Lucano un rituale della mietitura, già allora quasi completamente scomparso. De Martino ne aveva parlato in più occasioni, non solo in Morte e pianto rituale, ma anche su un numero de «l’Espresso mese» nel 1960. L’antropologo, quindi, fornì molte informazioni a Del Fra, relative ai luoghi, ai soggetti e alla chiave interpretativa del rituale. Il rito, articolato in tre momenti, nasceva per esorcizzare la paura del «vuoto vegetale», ovvero della fine del raccolto, dell’inverno che arriva e della conseguente disoccupazione per il contadino. Era, in altre parole, altamente tragico secondo l’interpretazione datane da Ernesto De Martino. Tuttavia, nel documentario di Del Fra esso ha un aspetto più festoso, probabilmente perché si tratta di una ricostruzione del rituale che aveva ormai assunto un carattere più folcloristico. Inoltre, Del Fra si allontana dall’interpretazione demartiniana anche per un’altra ragione: egli concede molto spazio soprattutto alla terza parte del rituale, quella in cui i contadini, denudano e deridono il padrone, dando sfogo, in questo modo, a forme controllate di lotta sociale45. Nei primi anni sessanta dal documentario svaniscono a poco a poco le tematiche d’ispirazione demartiniana. Uno degli ultimi registi che ne raccoglie le suggestioni è Giuseppe Ferrara, autore di origini toscane, che ha realizzato moltissimi documentari sul Sud. Del 1962 è I maciari, cortometraggio che descrive diversi esempi, tra Calabria e Lucania, di maghi popolari (i “maciari”, appunto). Il caso più impressionante è quello del Santo di Petilia, un mago-bambino, che si dice posseduto dallo spirito della madre defunta, un tempo a sua volta maga. Il documentario mostra il giovane mago mentre riceve persone in stato di bisogno e fornisce consigli a pagamento. Raccoglie elemosine anche una “Sanpaulara” che in Calabria gira per le case, accompagnata da un serpente, distribuendo immagini di San Paolo e compiendo riti. Il cortometraggio invita a riflettere sul potere della magia ancora largamente influente in realtà segnate da miseria e arretratezza. I maciari, infatti, recita sul finale il commento, «sono gli inconsapevoli sacerdoti della fame e dell’analfabetismo». I suggerimenti per questo cortometraggio furono dati a Ferrara da De Martino e da Clara Gallini. Analogamente accadde per un altro documentario, Il ballo delle vedove (1962), ricostruzione del “ballo dell’argia”, un particolare rito sardo, già a quei tempi quasi del tutto scomparso. Il 45

C. Gallini, Il documentario etnografico “demartiniano”, cit., pp. 25-26.

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ballo rappresentava un rituale curativo contro malesseri dello spirito, causati, nella credenza popolare, dal morso di un insetto, l’argia appunto. Era, pertanto, un rito simile a quello del tarantismo pugliese e vedeva il suo momento culminante nel ballo, accompagnato da canti, eseguito all’aperto attorno al malato da un gruppo di donne. L’interesse per il mondo magico-religioso del Sud conduce Giuseppe Ferrara anche in Sicilia, dove gira, nel 1963, La cena di San Giuseppe e La Madonna di Gela. Il primo cortometraggio documenta alcuni riti per la festa di San Giuseppe nella Sicilia meridionale. Mentre una processione attraversa la città, la cinepresa coglie il degrado e la povertà che la caratterizzano. Quando la processione ha termine, una ricchissima cena è offerta a un figurante di San Giuseppe e ciò che avanza è distribuito ai poveri del paese. L’abbondanza di cibo, visione rara per gli abitanti del posto, dissemina gioia e aria di festa almeno per un giorno all’anno. Il racconto del rito diventa, così, occasione per denunciare tra le righe la miseria che attanaglia la comunità, annodando all’interesse antropologico la critica sociale. La Madonna di Gela è girato durante la festa della Madonna delle Grazie. Vi si vede la lunga processione durante la quale chi ha ricevuto una grazia offre alla statua della Madonna il proprio figlio denudato. Alle immagini religiose si alternano quelle dell’impianto petrolchimico di recente costruzione a Gela, allo scopo di mostrare il contrasto tra vecchio e nuovo, sottolineato da un incisivo cambio di colonna sonora. La persistenza di certi riti religiosi è il passato, mentre la struttura marziale del petrolchimico è il futuro. L’accostamento, spesso stridente, tra vecchio e nuovo è ricorrente soprattutto nei documentari industriali o governativi. Non a caso, Ferrara ha realizzato La Madonna di Gela mentre stava girando un documentario per l’Eni sul petrolchimico. Il contrasto tra resistenze culturali e segnali di modernizzazione è una delle rappresentazioni più pregnanti della questione meridionale. Ecco perché lo si ritroverà spesso nel documentario italiano sul Mezzogiorno.

3. Altre immagini d’ispirazione antropologica Un contributo fondamentale alla scoperta del Mezzogiorno non ancora toccato da cambiamenti innescati dal miracolo economico è dato dalla produzione documentaristica di Vittorio De Seta. Il regista di origini siciliane, nel corso degli anni cinquanta, gira diversi documentari tra la Sicilia, la Sardegna e la Calabria, allo scopo di fissare in

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pellicola un mondo che stava scomparendo. Protagonisti dei lavori di De Seta sono contadini, pastori, minatori e marinai, colti nella vita di tutti i giorni. Uomini semplici, immortalati in gesti che appartengono a un passato lontano – il lavoro nei campi o nelle miniere, la pesca, i pascoli – e mai slegati da un profondo, ombelicale, rapporto con la natura. Per il loro essere incentrati sull’uomo e per il modo in cui sono stati realizzati, i documentari di Vittorio De Seta presentano un indubbio valore antropologico, sebbene nascano come una pura descrizione figurativa del mondo dei subalterni, senza alcuna finalità scientifica46. La lontananza dalle ragioni dell’antropologo è stata in più occasioni sottolineata dallo stesso regista47, che all’osservazione scientifica ha preferito l’adesione emozionale alla realtà. Le motivazioni che portano De Seta ad avvicinarsi al documentario, risiedono, infatti, nel desiderio di raccontare un universo che gli era vicino, essendo nato a Palermo, ma che in fondo non conosceva a sufficienza (forse per le sue origini aristocratiche) e di cui avvertiva l’esigenza della scoperta. Così, dopo un’iniziale collaborazione con Vito Pandolfi al documentario Pasqua in Sicilia, dedicato ai riti della morte e resurrezione di Cristo, De Seta nel 1954 realizza il suo primo cortometraggio, Vinni lu tempu di li pisci spata, incentrato sulla millenaria pesca del pesce spada nei mari tra Calabria e Sicilia. Il racconto è cadenzato con armonia dall’avvicendarsi delle diverse fasi della pesca: l’attesa della preda, l’inseguimento concitato, la cattura violenta e, infine, il ristabilimento dell’ordine e il ritorno alla pace col rientro a riva dei pescatori. Il documentario presenta tutte le caratteristiche del linguaggio inconfondibile di De Seta: in primo luogo, l’abolizione del commento e la prevalenza di un sonoro naturale (i rumori e le voci ripresi sul posto), poi il ritmo vivace del montaggio, infine, la fotografia luminosa. Scelte non casuali, che divengono espressione del modo tutto particolare dell’autore di porsi di fronte alla realtà filmata. L’assenza dello speaker che commenta le immagini rappresenta una vera novità nel panorama del 46

Luigi M. Lombardi Satriani, La pazienza di Vittorio De Seta, in Alessandro Rais (a cura di), Il cinema di Vittorio De Seta, Catania, Maimone, 1996, p. 109. 47 De Seta non solo ha sempre escluso di essere stato spinto al racconto del Sud da ragioni scientifiche, ma ha pure chiarito la sua lontananza da De Martino: «ho conosciuto anche De Martino, ma non ho mai creduto alla collaborazione con l’antropologo. Io volevo fare uno spettacolo, l’antropologo avrebbe finito per dare tante spiegazioni, avrebbe visto certi comportamenti come antichi, residui del passato, non come culture vive. Io sono dell’avviso che la cultura delle immagini è quella che vedi e che certe spiegazioni, anche se giuste, svuotano le immagini. Io non credo neanche ai documentari oggettivi e scientifici». Testimonianza di Vittorio De Seta in G. Sole (a cura di), Trentacinque millimetri di terra, cit., p. 142.

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documentario italiano. Senza la voce over, le immagini sono liberate da ogni condizionamento esterno e pretesa significante. Il regista rinuncia all’imposizione di un punto di vista, rifiutando una lettura del mondo contadino attraverso il filtro della «tradizionale cultura metropolitana, egemonica»48. In assenza di parlato, maggiore rilevanza è data al sonoro, che nei documentari di De Seta diviene l’ossatura dell’intero racconto. Le immagini, infatti, sono montate dal regista, attraverso un lavoro lungo e minuzioso, proprio sulla base delle registrazioni acustiche, come canti popolari, discorsi degli uomini, rumori del lavoro, raccolti in una fase successiva alle riprese. Il risultato è un adeguamento plastico della materia filmata ai ritmi registrati49. Infine, il colore: elemento dominante, perché, nei documentari di De Seta esplode in tutto il suo vigore, attraverso una fotografia decisa, con effetti quasi d’iperrealismo. Effetti sottolineati ancora di più dall’utilizzo del cinemascope, il cui impiego nel documentario, assieme al colore, rappresentavano una novità assoluta in quel periodo50. Il colore diventa una cifra personale dell’autore, dato che De Seta è anche direttore della fotografia dei suoi lavori. Lo stile originale del regista e il suo rifiuto di ogni forma retorica del racconto, furono notati dalla critica immediatamente, sin dal primo Lu tempu di li pisci spata. Così, infatti, si legge su «Cinema» nel 1955: IL TEMPO DEL PESCE SPADA costituisce […] un esempio singolare di antirettorica e di scrupolosa indagine umana. Gli uomini, protagonisti di questo breve racconto, sono visti con occhio attento, acuto, ed il commento, tenuto conto che le immagini già di per se stesse dicono della grave fatica di questi umili pescatori e delle loro quotidiane sofferenze, si fa scrupolo di evitare ogni compiacimento enfatico. […] La magniloquenza e, di conseguenza le sterili ricerche dell’inquadratura per l’inquadratura o della bella immagine solo per dare maggior rilievo al colore, […] sono bandite in maniera assoluta51.

48 Conversazione con Vittorio De Seta, in Goffredo Fofi, Gianni Volpi, Vittorio De Seta. Il mondo perduto, Torino, Lindau, 1999, p. 16. Sul tema cfr. anche Paolino Nappi, L’avventura del reale. Il cinema di Vittorio De Seta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015. 49 A proposito di Lu tempu di li pisci spata De Seta racconta: «Incominciai a girare le prime inquadrature, senza avere un chiaro progetto. Alla sera ascoltavo il sonoro, che avevo registrato con ricchezza, voci, suoni, canti, musiche, rumori del mare, atmosfere. [...] tutta la struttura deve essere fondata sul ritmo. Sulla base del sonoro, che non era un suono sinc ma ricostruito, mi componevo in testa la struttura del documentario, prima di poter finalmente vedere le immagini». Conversazione con Vittorio De Seta, in G. Fofi, G. Volpi, Vittorio De Seta, cit., p. 11. 50 Alberto Farassino, De Seta: la Grande Forma del documentario, in A. Rais (a cura di), Il cinema di Vittorio De Seta, cit., p. 65. 51 Claudio Bertieri, I documentari, «Cinema», n. 156, 10 Dicembre 1955, p. 1021.

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De Seta sembra, insomma, uno dei pochi autori in grado di raccogliere il testimone del neorealismo, ormai scomparso dagli schermi cinematografici. Non a caso, la critica vede ne Lu tempu di li pisci spata gli influssi del linguaggio viscontiano de La terra trema. Tuttavia, «Non si è trattato di copiare uno stile; si è trattato invece di proseguire una seria indagine e di usare un metro umano che ha dato ottimi frutti»52. Dopo questa prima prova brillante, De Seta si cimenta ancora una volta col mondo dei pescatori siciliani in Isole di fuoco (1954). Il cortometraggio racconta la vita dura dei pescatori e delle loro famiglie nelle Isole Eolie, dove – recita la didascalia iniziale – «il fuoco cova ancora nelle viscere della terra e minaccia la vita dell’uomo». Isole di Fuoco narra il difficile rapporto con la natura, spesso ostile, mostrando una tempesta e la minaccia delle eruzioni vulcaniche sulle isole. Dopo la tempesta, però, torna la quiete e nella parte finale del cortometraggio la vita riprende serenamente in una giornata di sole. Nel 1955 il regista gira diversi cortometraggi. Parabola d’oro sposta per la prima volta l’attenzione di De Seta sul mondo dei contadini, mostrando la raccolta estiva del grano in Sicilia. Il cortometraggio documenta una giornata di lavoro, dalla mietitura delle spighe nei campi sterminati sotto il sole cocente, alla battitura dei fasci per ricavare i chicchi di grano, passando per il momento del ristoro e del riposo accompagnati dal verso assordante delle cicale. Il lavoro è fatto con metodi tradizionali, con la fatica di uomini e animali, senza macchine. La fotografia vivace esalta i colori della natura lussureggiante sotto il sole dell’estate. La critica è ancora una volta favorevole, cogliendo la capacità del regista di raccontare attraverso uno stile personale lo spettacolo del quotidiano. Parabola d’oro, scrive su «Cinema» Claudio Bertieri, «ha confermato […] che De Seta […] è in possesso di un singolare linguaggio cinematografico e che il suo modo di raccontare, alieno da ogni forma rettorica, riesce, con sorprendente autorità ed usando mezzi semplicissimi, a cogliere l’attenzione dello spettatore»53. Sempre del 1955 è Contadini del mare, sulla pesca del tonno in Sicilia. Il documentario riprende il rito cruento, dall’inizio alla fine: i tonni sono accerchiati e catturati con grosse reti, poi caricati sulle barche, mentre l’acqua si colora di rosso. Alla fine della tonnara, i pescatori pronunciano la preghiera di ringraziamento e fanno ritorno a casa, nella pace del tramonto. Dello stesso anno è Surfarara, che fotografa 52 53

Ibidem. Claudio Bertieri, I documentari, «Cinema», n. 163, 1 Aprile 1956, p. 98.

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la condizione difficile dei minatori, costretti ad un umile e duro lavoro nelle miniere di zolfo siciliane. De Seta si cala nelle viscere della terra assieme agli operai per illustrarne la fatica di ogni giorno. Il racconto si snoda su due piani distinti e alternati: nella profondità delle grotte, buie e soffocanti, in cui i minatori compiono attività massacranti, e all’esterno, nei campi e nelle case, dove altri uomini e le donne sbrigano le attività quotidiane. Il contrasto tra una dimensione e l’altra, tra il buio profondo e la luce chiara del mattino, rende ancora più forte il senso della fatica dell’uomo che lavora sotto terra. Inoltre, il gioco delle alternanze, spesso presente in varie forme nei lavori di De Seta, rinvia, più in generale, alla ciclicità della vita e ad una arcaica concezione circolare del tempo54. La critica coglie l’unicità del documentario. Su «Cinema Nuovo» si legge che «Adottando la sua consueta tecnica, […] il regista porta lo spettatore in luoghi che probabilmente questi non aveva mai visto»55. Nel 1958 De Seta gira il suo ultimo documentario degli anni cinquanta sulla Sicilia, Pescherecci, che racconta della pesca, ma stavolta su un peschereccio a motore. Al centro della narrazione è la vita degli uomini di mare, che escono per giorni, incontrando anche i pericoli della tempesta. Nel cortometraggio le attività della pesca si alternano ai momenti di ristoro e riposo, e a quelli concitati del mare grosso. Alla fine ritorna la calma, nel cielo si allunga un arcobaleno e le nubi si dipanano all’orizzonte. Finito il periodo siciliano, Vittorio De Seta scopre l’ostile e desolato paesaggio pietroso della Sardegna e i suoi abitanti. Nascono così, nel 1958, Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia. Le due opere, come ha raccontato lo stesso regista, subiscono l’influsso dell’Inchiesta su Orgosolo dell’antropologo Franco Cagnetta, pubblicata nel 1954 su «Nuovi Argomenti». L’inchiesta è il frutto delle indagini svolte in Barbagia tra il 1952 e il 1954 sul fenomeno del banditismo e, per la sua asprezza, fu accolta con estremo clamore all’uscita. I documentari di De Seta ne raccolgono le suggestioni e le trasformano in immagini56. Pastori di Orgosolo descrive la vita faticosa dei pastori orgosolesi alla guida delle greggi nelle fredde giornate d’inverno. Lontani dalle proprie case e dalle proprie famiglie, i pastori trascorrono lunghi periodi tra le montagne accudendo le greggi e sfidando i pericoli della natura. Un giorno in Barbagia è, invece, una parabola declinata al 54

A. Farassino, De Seta: la Grande Forma del documentario, cit., p. 72. Tom Granich, Cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 108, 1 Giugno 1957, p. 349. 56 Mirko Grasso, Scoprire l’Italia. Inchieste e documentari degli anni Cinquanta, Lecce, Kurumuny, 2007, pp. 49-51. 55

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femminile sul quotidiano delle donne che restano in paese mentre gli uomini sono al pascolo. Il regista segue le mogli e madri nei campi, a tagliare la legna, nelle case, dove cucinano e accudiscono i figli, sugli usci delle abitazioni dove, in gruppo, cuciono. I due documentari sulla Sardegna, con l’inconfondibile linguaggio asciutto di De Seta, trasmettono il senso dell’isolamento della regione, dove sul finire degli anni cinquanta, mentre in parte della penisola si affermava il boom economico, pareva il tempo si fosse fermato. Con queste due opere il regista prende contatto con la realtà in cui ambienterà il suo primo lungometraggio a soggetto, Banditi a Orgosolo, del 1961. Non prima, però, di aver rivolto il suo sguardo assetato di Sud anche alla Calabria, col cortometraggio I dimenticati (1959). La pellicola è girata ad Alessandria del Carretto, in provincia di Cosenza, un paesino destinato a scomparire, perché condannato, in cima a un monte e senza una strada di collegamento, all’isolamento. Tuttavia – cita la didascalia – ogni anno «alla fine dell’inverno esplode improvvisa la celebrazione della primavera, detta “Festa dell’abete”, una sagra antica e meravigliosa». Durante i festeggiamenti, finalmente la gente del paese si sente viva. Nel documentario sono mostrate alcune fasi della festa, dalla preparazione dell’albero della cuccagna alla sfida tra i partecipanti, passando per le tavolate e i concerti bandistici. Alla fine della festa, i paesani fanno ritorno alle loro case, mentre cala la sera. Arriva, quindi, nel 1961 il primo lungometraggio a soggetto di De Seta, Banditi a Orgosolo, lo sbocco più probabile del suo cinema documentario e l’opera che ne sintetizza i caratteri, se è vero che il film è a metà strada tra la finzione e la non fiction. I protagonisti della pellicola sono, infatti, veri pastori della Barbagia, chiamati a interpretare se stessi. Attraverso le loro vicende di latitanza, De Seta racconta l’estraneità alle leggi dello Stato e l’isolamento della Sardegna dal resto della penisola. Anche stavolta, la presenza dell’autore non si avverte, pronta a disciogliersi dietro a una sceneggiatura “leggera” e alla consistenza documentaristica delle immagini57. Con questo film paiono realizzarsi in pieno gli auspici di De Seta di alcuni anni prima 57

«[…] per quanto riguarda i contenuti e il mondo che volevo esprimere, non mi sono comportato diversamente dal mio modo di lavorare nel settore del documentario. Ho sempre cercato di non sovrappormi al mondo che raccontavo. Del resto, mi sono sempre affidato alle sollecitazioni di quel mondo. Questo film, come i miei documentari, erano costruiti giorno per giorno, attraverso un confronto dialettico con la realtà circostante. Non ho mai usato una sceneggiatura rigorosa […]». Intervista a Vittorio De Seta in P. Iaccio, Il Mezzogiorno tra cinema e storia, cit., pp. 149-150.

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in un suo articolo su «Cinema Nuovo», nel quale, invitato a parlare di un film che avrebbe voluto fare, dichiarava: «vorrei produrre un film di bassissimo costo, servendomi di una troupe minima e di attori non professionisti. Questo non solo a causa dei limiti finanziari, ma anche per garantire al film, nella fase di realizzazione, il massimo della genuinità e della spontaneità»58. Il film a soggetto per il regista non si allontana molto dal documentario. L’approccio alla realtà è lo stesso: guardare e fermare in pellicola una realtà che stava scomparendo, senza «i miti, i pregiudizi, le false illusioni», per attingere «umilmente alla fonte del vero»59. Il panorama di documentari antropologici alla scoperta del volto mistico e arcaico del Mezzogiorno non si esaurisce nei lavori di De Seta e in quelli di diretta ispirazione demartiniana. Esiste, infatti, nella vastissima produzione del secondo dopoguerra, un fitto sottobosco di opere meno note, che pure hanno raccontato tradizioni, feste e riti religiosi del Sud. Rispetto ai documentari sinora citati, queste pellicole hanno raggiunto risultati altalenanti, cosicché – è stato notato – per alcuni di essi non si può parlare di veri e propri documentari antropologici, ma piuttosto di «documentario folkloristico o di ispirazione etnografica»60. In alcuni casi, i documentaristi hanno legato la loro opera ad un territorio specifico. Come Mario Gallo, critico e produttore cinematografico, oltre che regista. Gallo, di origini calabresi, coi suoi primi cortometraggi esplora il mondo contadino vicino a lui, per documentarne tradizioni e cultura, ma anche per denunciarne l’arretratezza61. L’esordio è con La farsa di carnevale (1958), ovvero la ricostruzione di un’antica farsa carnevalesca, che ricorda l’epoca del brigantaggio, a Motta di Rovito, in provincia di Cosenza. L’attenzione verso il mondo contadino prosegue con Vino e pepe (1959), che racconta la vita del sabato sera nelle osterie dei piccoli paesi meridionali, dove si beve vino e si gioca a carte. L’osteria è l’unico luogo di svago

58 Vittorio De Seta, La mafia e i contadini, «Cinema Nuovo», n. 95, 1 Dicembre 1956, pp. 303-304. 59 Ivi, p. 304. 60 I. Perniola, Oltre il Neorealismo, cit., pp. 222-223. 61 Così, infatti, ha raccontato il regista a proposito dei suoi documentari: «non apprezzavo il modo in cui la cinematografia trattava la Calabria, forse mi sbagliavo, ma ero fortemente convinto che vi era un forte divario tra le rappresentazioni della realtà e la realtà. Decisi di girare alcuni aspetti del mondo contadino per un problema di giustizia sociale, perché era un mondo di fame e miseria, perché era il mondo della mia infanzia, ma anche e soprattutto perché era un mondo di incontri poetici». Testimonianza di Mario Gallo in G. Sole (a cura di), Trentacinque millimetri di terra, cit., p. 150.

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LA QUESTIONE MERIDIONALE TRA CINEMA E ANTROPOLOGIA

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nelle realtà rurali, dove tuttavia persiste la distanza sociale tra i padroni e i poveri. Il mago (1959), invece, è incentrato sulla figura di un cantastorie, che si guadagna da vivere raccontando favole e leggende ai contadini. Quelli col mago rappresentano i rari momenti di evasione e aggregazione per una società povera ed emarginata, suggerisce il cortometraggio. Lo si evince dallo stupore e dalla gioia con cui è accolto il cantastorie. Mario Gallo documenta poi alcuni riti prossimi alla scomparsa. Matrimonio segreto (1959) illustra un rituale d’amore tra promessi sposi. La donna prepara un pasto per l’uomo, che poi consumeranno insieme in un luogo segreto, prima di convolare ufficialmente a nozze. Anche Dichiarazione d’amore (1961) descrive un rito di fidanzamento diffuso in Calabria. Le famiglie contrattano il matrimonio e la dote, mentre il futuro sposo inscena una dimostrazione della sua forza fisica per conquistare l’amata. Il documentario fu presentato a Cannes nel 1962 e vinse il Nastro d’Argento. Alla Sardegna è invece dedicato il corpus di documentari di Fiorenzo Serra, non a caso considerato il più importante documentarista sardo. È lungo l’elenco dei suoi lavori, accomunati dall’attenzione verso le tradizioni che resistono nel tempo delle piccole comunità. La pastorizia, la transumanza, l’artigianato, la cucina, la vita domestica, le feste: nell’opera di Serra prende forma la Sardegna arcaica, che resiste alla modernità, protetta dal suo tradizionale isolamento. Isolamento favorito dalla geografia della regione, con le montagne e il mare tutt’intorno. La voce over che accompagna le immagini dei cortometraggi lascia trapelare un intento didascalico, che però racchiude anche la necessità di elaborare una memoria di quanto presto sarebbe scomparso. L’impulso alla conservazione della tradizione non è disgiunto da un invito al rinnovamento della regione. Una rinascita che, tuttavia, non deve fare a pugni con l’identità dell’isola. Pur essendo molto convenzionali, i documentari di Fiorenzo Serra si distinguono per una certa sensibilità antropologica, che li distanzia dall’ampia produzione coeva sulla Sardegna caratterizzata principalmente da intenti folcloristici62. Lo rilevava anche la critica negli anni sessanta. Ad esempio, Giovanni Campus su «Cinema Nuovo»63, in un articolo in cui è contestata la generale produzione cinematografica e documentaristica sulla Sardegna, incapace di cogliere il lato autentico 62 Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 163-165. 63 Giovanni Campus, Sardegna tra il vecchio e il nuovo, «Cinema Nuovo», n. 154, Novembre-Dicembre 1961, p. 510.

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della regione e dei suoi abitanti, considera il giovane Serra, assieme a De Seta, che aveva appena realizzato il riuscito film Banditi a Orgosolo, tra i pochissimi interpreti fedeli dell’isola. Attraverso un corposo numero di cortometraggi girati dalla fine degli anni quaranta alla fine degli anni sessanta Fiorenzo Serra coglie e fissa nella memoria la Sardegna del passato, riuscendo a mantenere il giusto equilibrio tra l’intento scientifico e la descrizione del folclore.

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CAPITOLO II

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UNO SGUARDO CRITICO SULLA REALTÀ

1. Il divario Nord-Sud tra dopoguerra e miracolo economico L’Italia che esce dalla guerra è un Paese devastato. Gli Italiani patiscono malattie e denutrizione, le case sono state bombardate e gli sfollati sono numerosissimi, la disoccupazione dilaga. La ricostruzione fisica e morale è un processo non semplice che, tuttavia, condurrà alla ripresa e al miracolo economico. Nel risalire la china, però, il Mezzogiorno sconta il primato dell’arretratezza rispetto al resto della penisola. La guerra e le sue devastazioni avevano allargato la forbice tra il Nord e il Sud, condannando quest’ultimo ad una risalita più ardua. Durante il conflitto le risorse erano state indirizzate in maggioranza all’industria bellica del Nord e sempre al Nord sono rivolti i maggiori sforzi nei primissimi anni della ricostruzione. Al Mezzogiorno si penserà, con una specifica politica di intervento, solo nei primi anni cinquanta1. Nel 1953 l’inchiesta parlamentare sulla miseria, condotta da una commissione istituita ad hoc, scatta una fotografia a tinte fosche dell’Italia. L’indagine è svolta su un campione articolato di famiglie, con l’ausilio di intervistatori per i rilevamenti. Anche i parlamentari della commissione sono impegnati direttamente in alcuni sopralluoghi. L’obiettivo è condurre un’analisi scientifica sulla povertà nel Paese e trovare soluzioni per combatterla. I dati emersi sono allarmanti. Solo l’11% della popolazione è considerato agiato, per il resto le famiglie italiane vivono in condizioni modeste, o addirittura a basso e bassissimo tenore di vita. Quasi tre milioni di Italiani abitano in dimore 1

Alfredo Del Monte, Adriano Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 109-112.

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non adeguate, il 38,2% non mangia mai carne e il 27,5% la mangia una volta a settimana. Fatta eccezione per alcune aree depresse del Settentrione, i più poveri vivono nel Mezzogiorno: sono poveri o disagiati il 50% dei coltivatori e il 78% dei mezzadri e dei coloni meridionali, a fronte rispettivamente del 6% dei coltivatori e del 7% dei mezzadri e coloni del Nord2. Il dualismo Nord-Sud emerge in particolare dai dati relativi all’alimentazione. Il 27,9% degli Italiani consuma quantità scarse o nulle di carne, zucchero e vino. Di questa percentuale di poveri che vivono a livello di sussistenza il 56,9% è nel Meridione3. A ciò si aggiunga il fatto che le spese per l’assistenza statale e le relative strutture sono inferiori al Sud rispetto al Nord. L’inchiesta parlamentare contribuisce a svelare le terribili condizioni di vita nel Mezzogiorno, dove dilagano malattie e scarsa nutrizione e le case, quando non sono grotte, il più delle volte mancano di servizi e sono condivise con animali4. Il Mezzogiorno del secondo dopoguerra è povero perché ha un’economia prevalentemente agricola e fortemente arretrata. L’industria è quasi assente e caratterizzata da una struttura artigianale. Già subito dopo la liberazione dai tedeschi, il 3 dicembre 1944, nell’ambito della più generale riflessione sulla questione meridionale, si discute dei problemi dell’agricoltura nel Sud nel convegno organizzato a Bari dal Partito d’Azione. Nell’occasione, a fare luce sulla difficile situazione dei contadini nel Mezzogiorno è Manlio Rossi-Doria, con la sua relazione La terra: il latifondo e il frazionamento. Il meridionalista analizza la struttura sociale dell’economia agricola del Sud evidenziando come essa sia causa della miseria. L’agricoltura nel Mezzogiorno è un sistema arretrato, incapace di produrre ricchezza e progresso. Rispetto alle 2 Simona Colarizi, Storia del novecento italiano. Cent’anni di entusiasmo, di paure, di speranza, Milano, BUR, 2005, pp. 332-333. 3 Gianluca Fiocco, L’Italia prima del miracolo economico. L’inchiesta parlamentare sulla misera, 1951-1954, Manduria, Lacaita, 2004, p. 109. 4 L’inchiesta fu oggetto di un mediometraggio omonimo prodotto dal Luce: Inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia (1953) di Giorgio Ferroni mette in immagini parte degli atti della commissione parlamentare con l’obiettivo di spiegare i numeri della povertà rilevati, attraverso schemi e grafici con piani di lavoro. L’esposizione ordinata delle informazioni mira a trasmettere un’idea di efficienza del Parlamento. Assieme alle cifre, però, si vede anche la povertà del Sud, grazie ad alcune sequenze girate in realtà sottosviluppate. Il commento, poi, fa emergere le criticità, quando sottolinea come gli enti di assistenza non siano sufficienti e adeguatamente distribuiti per fronteggiare gli alti livelli di indigenza. Tuttavia, alla fine, prevale la classica fiducia che caratterizza i documentari del filone propagandistico-ufficiale, cui questo lavoro si ascrive. Subito dopo aver elencato i dati, infatti, si parla di alcune delle soluzioni possibili per scongiurare la miseria e prevale la retorica della speranza e dell’avvenire migliore.

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UNO SGUARDO CRITICO SULLA REALTÀ

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zone costiere, la maggiore povertà si concentra nell’entroterra, dove prevale il latifondo, ovvero la proprietà borghese, ma in minima parte anche contadina. Il latifondo, inteso come sistema di rapporti sociali, per Rossi-Doria è causa dell’immobilità e del sottosviluppo del sistema agricolo meridionale, e ne amplifica le altre concause, quali il clima, l’assenza di infrastrutture e la mancanza di capitali5. L’indigenza delle campagne meridionali si trasforma ben presto in rivolta e il malessere dei contadini meridionali esplode, sin dal 1943, con l’occupazione delle terre. Per fronteggiare la situazione, nel 1944 il ministro dell’agricoltura comunista Fausto Gullo mette mano al decreto che concede terre incolte alle cooperative agricole. Poco dopo, nel 1946, farà lo stesso il ministro Antonio Segni. Segue, a partire dal 1949, la riforma agraria, che prevede l’esproprio dei grandi latifondi non coltivati e la distribuzione di piccoli lotti ai contadini. Di là dai risultati della riforma, non sempre corrispondenti alle promesse, grazie all’intervento dello Stato, i segnali positivi arrivano, ma non sono tali da creare sviluppo e ridurre il divario Nord-Sud. Nel corso degli anni cinquanta, infatti, l’agricoltura si potenzia e c’è un timido sviluppo industriale, ma la disoccupazione resta alta6. L’unico settore in cui al Sud l’occupazione cresce è il terziario, raggiungendo livelli che superano quelli dell’agricoltura e dell’industria. Buona parte degli occupati nel terziario lavorano in enti pubblici, l’area più esposta alle pressioni clientelari e alle manovre del potere7. Di fronte alla difficoltà di trovare un lavoro, molti giovani decidono di lasciare il Mezzogiorno, attratti dalla possibilità di maggiori guadagni nelle aree industrializzate. Le campagne in breve si spopolano e molti lotti di terra, ottenuti grazie alla riforma agraria, sono rivenduti: in un decennio, tra il 1950 e il 1960, calano vertiginosamente l’incidenza dell’agricoltura nel PIL e gli addetti nel settore8. I meridionali emigrano verso l’America, verso l’Europa, ma soprattutto verso le città del triangolo industriale italiano. I numeri sono impressionanti: tra il 1951 e il 1961 lasciano il Sud quasi 1.800.000 persone; negli anni sessanta gli emigranti dal Mezzogiorno salgono a 2.300.000. In totale tra il 1951 e il 1971 emigrano oltre 4.000.000 di meridionali. 5 Francesco Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Bari, Laterza, 2013, pp. 116-121. 6 A. Del Monte, A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, cit., pp. 137-145. 7 Francesco Barbagallo, Lavoro ed esodo nel sud 1861-1971, Napoli, Guida, 1973, pp. 199-201. 8 S. Colarizi, Storia del novecento italiano, cit., p. 338.

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Una vera e propria emorragia, che, se da una parte consente una migliore distribuzione delle poche risorse esistenti nel Sud povero, dall’altro sottrae forza lavoro più giovane per lo sviluppo del Mezzogiorno9. Emigrare per i meridionali significa lasciare la terra d’origine e le sue sicurezze, per approdare nelle grigie capitali industriali, dove conoscono il duro lavoro nelle fabbriche, la vita in alloggi precari, la difficile integrazione. Gli emigrati vengono spinti ai margini delle città, nelle periferie degradate, subito ribattezzate “coree”. Vivono in alloggi fatiscenti e sovraffollati, con pochi servizi e scarse condizioni igieniche. Non sono ben visti e i settentrionali non ne fanno mistero. Quella dell’emigrazione interna è una pagina di storia nazionale che parla di intolleranza, emarginazione e incomunicabilità tra gli Italiani dei due poli del Paese. Sebbene collocati ai margini del sistema sociale, gli emigranti sono la vera forza motrice del miracolo economico. Le loro braccia rappresentano il carburante dell’industria che traina il boom. Tra la metà degli anni cinquanta e la metà degli anni sessanta l’economia italiana fa passi da gigante, inserendosi a pieno titolo nella più ampia età dell’oro dei paesi occidentali. Anche il Mezzogiorno partecipa a questa crescita: tra il 1955 e il 1964 al Sud si registra un aumento del PIL quasi del 5%. Per la prima volta dall’unità d’Italia si blocca la crescita del divario tra Nord e Sud e le due parti del Paese convergono nel ciclo di crescita. Tuttavia, la distanza non si cancella e la disparità strutturale permane10. L’economia del Sud resta prevalentemente agricola e il prezzo pagato in termini di emigrazione è alto. L’emigrazione o anche solo la fuga verso i centri più grandi del Mezzogiorno svuota l’entroterra agricolo e muta la geografia urbana del Sud. Nonostante lo sfollamento delle campagne e la permanenza di limiti strutturali del settore, tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, grazie alla diffusione di nuove tecnologie, la produzione agricola del Meridione si moltiplica. Il miglioramento però fa i conti con l’infiltrazione nel settore della criminalità organizzata, favorita dalla presenza di innumerevoli intermediari, in particolare nel compartimento dell’ortofrutta11.

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F. Barbagallo, Lavoro ed esodo nel sud 1861-1971, cit., pp. 251-265. Id., La questione italiana, cit., pp. 145-147. 11 Ivi, pp. 171-173. 10

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2. Neorealismo e documentario Lo svuotamento delle campagne meridionali, la vita dura e la miseria di chi resta, le ingiustizie e l’arretratezza culturale in questi stessi anni sono al centro di un documentario più sensibile ai temi sociali. Sono gli anni in cui il cinema italiano è attraversato dalla grande ventata di rinnovamento del neorealismo, che riscopre la realtà, facendo luce anche sui suoi aspetti foschi. Il neorealismo e il documentario più impegnato si collocano sulla stessa linea d’onda nel loro modo di guardare al mondo. Dopo gli anni di regime, quando gli schermi cinematografici erano stati il luogo della propaganda o dell’evasione fine a se stessa, lontana da ogni contatto con la realtà, i cineasti neorealisti scesero per strada, tra la gente comune. Non più attori patinati, non più set di cartapesta, né storie lontane dalla vita reale. Il neorealismo scelse di portare sullo schermo gli uomini e le donne coi volti scavati dalla fame, i disoccupati, gli umili, coloro che combattevano per la libertà, insomma, l’umanità sofferente di un duro dopoguerra. Ecco perché i suoi interpreti furono spesso attori non professionisti e gli sceneggiatori andarono alla ricerca di storie orientate quanto più possibile alla verosimiglianza12. Il quotidiano, la miseria, gli emarginati, le lotte: furono, questi, i temi d’interesse anche del documentario più attento alle questioni sociali in quegli stessi anni. Ma sono stati pure altri i punti di contatto tra documentario e neorealismo, dati dal fatto che alcuni registi furono impegnati contemporaneamente nell’uno e nell’altro campo. Non solo i temi, ma le scelte formali (in alcuni casi determinate dalla penuria di mezzi e dai budget ridotti con cui si trovarono a lavorare tutti i cineasti nell’immediato dopoguerra)13 e le posizioni morali. Le istanze di carattere sociale, che spinsero verso una forma di racconto della realtà improntata alla denuncia, infatti, avvicinarono molti documentaristi e autori neorealisti ai partiti di sinistra, attraverso il tessuto connettivo 12 Stefania Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Padova, Marsilio, 2014, pp. 61-265. 13 Sono molti i film neorealisti nei quali si può cogliere una spiccata cifra documentaristica. Tra questi, si veda in particolare La terra trema di Luchino Visconti, che non a caso nell’idea iniziale doveva essere un documentario. Oppure Paisà di Roberto Rossellini, addirittura definito «il più straordinario documentario di tutto il cinema italiano […]. Che fosse un film anche a soggetto, nel senso che attori o personaggi presi dalla vita intervenivano a recitare una parte più o meno prestabilita dal copione (o altrimenti inventata dal regista), importa relativamente, dal momento che la qualità più eccezionale del film risiedeva nella violenza del documento, che sembrava sempre colto sul vivo (la battaglia di Firenze, i partigiani del Polesine), anche quando era invece il frutto di una paziente e ispirata ricostruzione». Fabio Carpi, Cinema italiano del dopoguerra, Milano, Schwarz, 1966, p. 71.

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dell’ideologia14. Soprattutto il Pci in quegli anni, nell’ambito di una più ampia politica culturale mirante ad attrarre a se gli intellettuali, divenne punto di riferimento per molti cineasti15 e sostenne, per scopi propagandistici propri, il settore del documentario. Non solo alcuni documentari e i film neorealisti guardarono alla realtà del dopoguerra con gli stessi occhi, ma, anzi, si credette nella capacità del documentario di essere, rispetto al cinema di finzione, lo strumento preferenziale per scoprire il mondo, grazie ai suoi caratteri di istantaneità e di più rapida realizzazione. Carlo Lizzani, in epoca di pieno neorealismo, dalle colonne della rivista «Cinema», si domandava perché «il documentario, la forma di cinema più immediata, più adattabile alle passioni del momento, abbia dato proprio in questi anni un’incredibile ospitalità agli orpelli e ai formalismi rigettati dai registi maggiori»16. Seppure nella mole di documentari italiani dell’epoca riconosceva alcune rare eccezioni, il regista rivolgeva il suo invito accorato affinché il documentario rivelasse la realtà italiana ancora inesplorata e sconosciuta ai più. «Non ci si venga a dire davvero che, dopo le scoperte dei nostri film maggiori, non ci sia più nulla da scoprire in Italia e spetti ormai ai documentaristi di dover soltanto disegnare variazioni eleganti su qualche oggetto d’arte»17. Pochi anni dopo, Luigi Chiarini individuava in un gruppo di giovani documentaristi (tra cui Zurlini, Maselli, Renzi, Vancini e Gandin) le più calde speranze per il futuro del cinema italiano; mentre nelle loro opere scorgeva «quella linfa che dovrebbe essere la sostanza del nostro miglior cinema. Un interesse umano per la vita che ci circonda, una volontà di comprensione, un acuto senso sociale che tende a far divenire protagonisti anche nel film gli umiliati e offesi […], uno spirito critico e un equilibrio che fanno evitare i due grandi pericoli della retorica e della demagogia»18. Con queste premesse non stupisce il fatto che, quando il neorealismo, già nella prima metà degli anni cinquanta, si eclissò, o comunque si trasformò in qualcosa di diverso rispetto a ciò che era stato nell’immediato dopoguerra, il documentario ne custodì, addirittura fino agli anni sessanta, tematiche e stili del racconto. In altre parole, 14

Pasquale Iaccio, Cinema e storia, Napoli, Liguori, 2000, pp. 120-121. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal neorealismo al miracolo economico 1945-1959, vol. 3, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 127-133. 16 Carlo Lizzani, Il documentario alla retroguardia, «Cinema», n. 35, 30 Marzo 1950, p. 166. 17 Ibidem. 18 Luigi Chiarini, Le amarezze del documentarista, «Cinema Nuovo», n. 7, 15 Marzo 1953, p. 178. 15

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UNO SGUARDO CRITICO SULLA REALTÀ

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il neorealismo morì, ma il documentario, anche se tra mille difficoltà, sopravvisse e ne raccolse, sotto alcuni aspetti, l’eredità19. Anzi, in qualche modo ne favorì un ulteriore sviluppo, più consono ai tempi, profondamente mutati rispetto al dopoguerra. Lo evidenziava nel 1954 – quando ormai il neorealismo era nella sua parabola discendente, o, secondo alcuni, era già del tutto scomparso – Brunello Rondi su «Cinema», definendo le opere migliori del documentario uno sbloccamento del neorealismo dal chiuso ambito di certi temi del dopoguerra, un’apertura appassionata di rappresentazioni verso forme e modi del vivere italiano e dei problemi italiani e di tutta un’Italia nascosta che il realismo dei lungometraggi tarda ancora ad affondare. […] Legato alle sorti del neorealismo, il documentario italiano che attende ancora la sua vera ora, ne condivide speranze e preoccupazioni. Lungi dal costituire un suo sottofondo, è la zona artisticamente più sensibile delle nuove generazioni20.

3. Accostamenti progressivi al reale Trattare il documentario di tema sociale richiede, in premessa, una necessaria classificazione, poiché questo filone contiene opere molto diverse tra loro: se “sociale”, infatti, si riferisce in origine a tutto ciò che è relativo alla società (i fenomeni che in essa si manifestano comunemente), il termine ha col tempo acquisito anche un significato politico, riconducibile alla denuncia e all’istanza di cambiamento della realtà21. Così, il documentario sociale sul Mezzogiorno racchiude opere più tiepide, incentrate sulla semplice rappresentazione di alcuni caratteri tipici della realtà meridionale, e opere di stretta denuncia, che puntano il dito contro le piaghe più dolorose del Sud. D’altro canto, confini tra alcuni di questi documentari e quelli riconducibili al filone antropologico non possono essere tracciati in maniera netta, poiché, come già visto, in questi ultimi, alle istanze antropologiche s’intrecciano anche quelle di denuncia della miseria del Sud e poiché, all’inverso, in molti documentari sociali non mancano riferimenti a questioni antropologiche. Se demarcazioni precise in un panorama così vasto non possono 19

Lino Micciché, Studi su dodici sguardi d’autore, Torino, Lindau, 1995, pp. 19-20. Brunello Rondi, Il documentario in Italia, «Cinema», n. 133, 15 Maggio 1954, pp. 266-267. 21 Ivelise Perniola, Oltre il Neorealismo: documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra, Roma, Bulzoni, 2004, p. 83. 20

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essere indicate, si può quanto meno riconoscere una più chiara scansione temporale, che consente di individuare una prima produzione di documentari, degli anni quaranta e cinquanta, dal carattere vario e meno connotato politicamente, ed una successiva serie di opere degli anni sessanta che presenta evidenti toni di denuncia. Il documentario sociale della seconda metà degli anni quaranta e degli anni cinquanta appare abbastanza avaro nella rappresentazione del Mezzogiorno: esso ci restituisce poche immagini delle città meridionali e dei loro contrasti al tempo della ricostruzione. Più in generale, nel corso di questo periodo, il documentario sociale tace sugli aspetti più problematici dei contesti urbani di tutto il Paese, sembrando quasi di voler abdicare – fatte salve rarissime eccezioni – alla sua funzione di voce critica sulla società. Tacendo sulle ombre che si allungano sul Paese, esso lascia campo libero ad un documentarismo meno impegnato, o politicamente orientato, che si sofferma esclusivamente sul volto luminescente delle città italiane, dove si ricostruisce sulle macerie lasciate dalla guerra. Per queste ragioni, al documentario sociale precedente agli anni sessanta è stato attribuito il demerito di non aver voluto fare i conti fino in fondo con la realtà dell’epoca. Compensa in qualche modo questa mancanza il filone antropologico, che si sofferma soprattutto sul mondo contadino. I pochi lavori di stretta denuncia sociale e quelli antropologici, così, nel corso degli anni cinquanta costituiscono l’unico baluardo di realismo contro una rappresentazione “da cartolina” ed eccessivamente ottimistica del Meridione imperante nel panorama del documentario italiano22. Tappa quasi obbligata del documentario è Napoli, una città che annoda tra loro in una sintesi unica miseria e degrado ad un fascino singolare. Uno dei primi ritratti di Napoli risale al 1947, ad opera di un giovane Dino Risi: si tratta di Strade di Napoli, documentario che racconta, in anni di difficile ripresa postbellica, il volto sofferente ma al contempo spensierato, del capoluogo. La cinepresa coglie scene di vita quotidiana per le strade, come a voler afferrare, tramite il costume, l’essenza della città. Protagonisti del cortometraggio sono Napoli stessa, descritta attraverso i tratti ricorrenti di quella icona napoletana già fissata nell’immaginario collettivo23, e i suoi abitanti. 22

Ivi, pp. 133-134. Sull’icona napoletana, ovvero sull’immagine immediatamente riconoscibile di Napoli, stratificatasi nel tempo attraverso le arti figurative prima e le immagini in movimento poi, si veda Pasquale Iaccio, Il documentario tra mito, stereotipi e realtà, in Id. (a cura di), L’alba del cinema in Campania. Dalle origini alla Grande Guerra (1895-1918), Napoli, Liguori, 2010, pp. 3-97. 23

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Strade di Napoli, privo di commento parlato, ma accompagnato solo da una vivace colonna sonora, è come un affresco, che capta il colore della città. Le intenzioni del documentario24 avrebbero reso facile uno scivolamento nell’oleografia, come spessissimo avveniva in quegli stessi anni nel cinema di finzione e in un certo documentario, ma l’opera di Risi mantiene un tono realistico o, anzi, neorealistico, nonostante in esso non sia assente la ricerca di armonia estetica e il racconto del folclore25. Nel documentario, che pure non tace gli aspetti meno edificanti dei luoghi, tuttavia, non c’è denuncia. In tal senso, esso è un buon esempio del documentario sociale degli anni cinquanta sul Mezzogiorno, che indaga le peculiarità della società meridionale senza cedere al richiamo della polemica. Sulla stessa falsariga si colloca Voci di Napoli (1955) di Damiano Damiani. Le voci di Napoli sono quelle che riempiono l’aria della città nell’arco di tutta la giornata. Sono raccolte in una sorta di antologia, che restituisce un carattere tipico del capoluogo partenopeo. Anche in questo caso, perciò, il documentario offre una descrizione di aspetti del costume, ma non scade in un folclore spicciolo. Lo notò pure la critica dell’epoca, rimarcando su «Cinema Nuovo» come «Il merito principale di Damiani consiste nell’aver saputo evitare i consueti riferimenti folkloristici; certi accostamenti un po’ intellettuali (a esempio quella viuzza semideserta dove una radio accesa fa ascoltare un ritmo di jazz) rivelano la formazione di Damiani, un giovane che proviene dallo studio del cinema e della sua storia»26. Damiani è un regista competente e in Voci di Napoli «si è trovato di fronte a un materiale particolarmente adatto per le sue indagini di costume, per il suo studio di caratteri e di ambienti»27. Di diverso tono sono due cortometraggi che il regista emiliano Antonio Marchi, già attivo nel settore del documentario, sul finire degli anni quaranta dirige in Puglia. Lo spunto per entrambe le opere proviene dalla storia, dall’arte e dall’architettura, ma la riflessione sconfina ben resto in questioni sociali. Il primo cortometraggio è In Puglia muore la storia (1948), un viaggio nella storia della Puglia, di tutte le civiltà che si sono susseguite e delle testimonianze architetto24 Risi, a proposito di Strade di Napoli, ha raccontato che si trattava di «un diario di appunti, un giro giornalistico nella Napoli più popolare e autentica del dopoguerra. Protagonista la gente, le strade, i bassi, i vicoli, la Napoli calda sopravvissuta alle distruzioni». Pasquale Iaccio, Dopoguerra tra Neorealismo e tradizione, in Giovanni Fiorentino (a cura di), Luci del Sud. Sorrento un set per Sofia, Castellammare di Stabia, Eidos, 1995, p. 27. 25 L. Micciché, Studi su dodici sguardi d’autore, cit., pp. 49-50. 26 Tom Granich, I cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 72, 10 Dicembre 1955, p. 436. 27 Ibidem.

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niche che le ricordano. L’arte è espressione della condizione umana delle civiltà pugliesi. Il cortometraggio, dunque, supera il modello del documentario d’arte (con cui Marchi si era confrontato in precedenti lavori) per sfociare nella riflessione più impegnata. Il titolo del cortometraggio è eloquente: indica che tutte le civiltà che si sono susseguite in Puglia sono state destinate a soccombere rispetto ad una natura ostile. «Sassi, sassi all’infinito contendono la zolla al coltivatore» e «stagioni che durano con una fissità feroce», recita, non a caso, il commento, scritto da Attilio Bertolucci. Parole che rievocano le amare condizioni di vita dei popoli di tutte le epoche e che rimandano ad un’idea mitica di tempo sospeso. In Puglia muore la storia, rilevò la critica, «Vuol ricordare come ogni civiltà fissata e sviluppatasi in Puglia non ci ha lasciato, alfine, che rovine: svevi, normanni, arabi, greci, sono passati senza una traccia che ancor oggi resti viva. Queste civiltà furono vinte, quasi, dalla natura stessa della terra»28. Simile a In Puglia muore la storia è l’altro documentario di Marchi, Cantarono nel ’600 (1951). In questo caso, la narrazione parte dal barocco leccese, considerato espressione dell’animo profondo della città e dei suoi abitanti. Il cortometraggio, infatti, nacque dalla collaborazione col poeta meridionale Vittorio Bodini, che aveva scritto la prosa Barocco del Sud nel 1950. Anche stavolta, attraverso l’arte, emerge un’idea di un Sud onirico, dove la storia, cristallizzata nei resti architettonici del passato, sembra essere sospesa29. Una delle regioni più frequentate dal documentario sociale italiano è la Sicilia, terra di enormi squilibri, dove più forte sembra essere l’assenza dello Stato. Alla Sicilia si interessa il regista ferrarese Florestano Vancini, che debutta al cinema con diversi documentari, ambientati perlopiù nella Pianura Padana. Nei primi anni cinquanta Vancini giunge sull’isola e vi gira tre cortometraggi, Luoghi e figure di Verga (1952), un documentario turistico sugli ambienti e i personaggi dell’opera dello scrittore, Più che regione (1952), sulla situazione economica della Sicilia e quanto occorre fare per il suo sviluppo, e Portatrici di pietre (1952). Quest’ultimo è ambientato a San Marco d’Alunzio, in provincia di Messina, e ci parla della condizione lavorativa di alcune donne. Assieme agli uomini, lavorano per liberare dalle pietre il greto alluvionale di un torrente, che così sarà trasformato in 28

Mario Verdone, I cortometraggi, «Cinema», n. 63, 1 Giugno 1951, p. 308. Mirko Grasso, Cinema primo amore. Storia del regista Antonio Marchi, Lecce, Kurumuny, 2010, pp. 96-100. 29

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un terreno coltivabile. Le grosse pietre sono ridotte in pezzi più piccoli da uno spaccapietre e le donne le mettono da parte, trasportandole sulla testa, affinché possano essere utilizzate nella costruzione di case. Il commento insiste sul ciclo continuo di questo lavoro faticoso, che non si arresta mai, nemmeno sotto al sole cocente. Il cortometraggio è convenzionale nello stile, ma si scorge in esso uno sguardo neorealista, che, rivolto verso gli umili, racconta la durezza della vita per queste persone e lascia trapelare la denuncia, senza gridarla ad alta voce, in linea con la tendenza del documentario sociale di questi anni. Anche Francesco Maselli subisce il richiamo del Sud. Il regista nel dopoguerra intraprende la sua carriera nel cinema esordendo col documentario. Gira molti cortometraggi, tutti caratterizzati da una notevole sensibilità sociologica, spaziando tra il mondo dei bambini, i piccoli mestieri, la quotidianità, gli emarginati. Dopo Festa a Positano (1952), che segue maggiormente la traiettoria del folclore, documentando i preparativi e la festa durante la quale è rievocata l’invasione dal mare dei Saraceni e la resistenza che vi oppongono i cristiani, Maselli dedica diverse opere alla Sicilia. Ne La festa dei morti (anche noto come Festa dei morti in Sicilia) (1955) racconta delle usanze del giorno dei morti, quando i bambini ricevono doni dai parenti defunti, come vuole la credenza. I protagonisti del cortometraggio sono i più piccoli. Li si vede giocare per strada, mentre gli adulti si radunano al cimitero. Festa dei morti non è un documentario incentrato sui riti religiosi, ma sulle condizioni sociali dei protagonisti del racconto. Anche in questo caso, non vi è denuncia esplicita, però le immagini del cortometraggio non lasciano indifferenti quando mostrano contesti urbani miseri, nei quali i bambini giocano e interagiscono tra loro, il più delle volte all’aperto, a terra, con giochi semplici e senza essere vigilati dagli adulti. Segue lo stesso spunto di piccola indagine sociologica In qualche parte della Sicilia (1955), girato in un quartiere popolare di Palermo. Si parla dei siciliani, legati alla famiglia e dediti al lavoro. Li vediamo darsi da fare, anche inventandosi i mestieri per “tirare a campare”. E alla sera si riuniscono dinanzi a un teatrino di pupi, uno dei pochi divertimenti per la gente semplice. Il legame tra i siciliani e il teatro dei pupi ispira, poi, Uno spettacolo di pupi (1954), cortometraggio singolare perché non focalizzato sulle marionette ma sul pubblico che ne guarda le gesta. Le immagini colgono le reazioni e le emozioni diverse che si dipingono sui volti degli spettatori, un pubblico umile, a tratti innocente. Ancora una volta, la cinepresa di Maselli sceglie gli ambienti popolari, con uno sguardo partecipe e mai

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distaccato, in grado di tratteggiare un mondo che presto si sarebbe trasformato profondamente. Nel documentario sociale di questi anni non manca la riflessione di carattere politico sul Mezzogiorno. Patto di amicizia (1951) di un giovane Piero Nelli, ad esempio, passando in rassegna gli avvenimenti più importanti della storia d’Italia – l’unità, il brigantaggio, l’occupazione delle terre da parte dei contadini del Sud, la guerra e la resistenza – e calcando la mano su quegli episodi che videro i meridionali al fianco dei settentrionali per combattere comuni battaglie, insiste sulla necessaria unione tra contadini del Sud e operai del Nord come soluzione del problema meridionale30. Nelli riprende, in altre parole, il dettato gramsciano, secondo cui l’emancipazione del Sud sarebbe dovuta passare necessariamente attraverso una più stretta alleanza col Nord d’Italia. La vicinanza del regista alle tesi e ai valori comunisti lo avrebbe condotto qualche tempo dopo a girare alcuni film di propaganda per il Pci. Tra questi, in particolare, Radiografia della miseria (1967), prodotto dall’Unitelefilm, società di produzione e distribuzione creata dal partito, denuncia il sottosviluppo di alcune aree interne della Sicilia. Col commento di Leonardo Sciascia, il documentario ha la classica impostazione dei film di propaganda comunisti. Un tono severo accompagna le immagini, che documentano l’indigenza estrema in cui vivono migliaia di persone, dimenticate dallo Stato. La Sicilia di questo documentario non è diversa dalle aree depresse del Mezzogiorno di venti anni prima. Le rappresentazioni della povertà sono le stesse: case misere e sovraffollate, dove gli uomini convivono con gli animali, strade dissestate, bambini che giocano per strada soli tra macerie, volti di donne rassegnate. In realtà come queste, sottolinea la voce over, gli unici avvenimenti rilevanti sono i matrimoni e i funerali. Torna, dunque, la retorica di un tempo immobile e dell’assenza di speranza per il depresso Sud. Negli anni cinquanta uno sguardo acuto ai problemi del Mezzogiorno, che anticipa quello del documentario di denuncia degli anni sessanta, caratterizza la produzione di Michele Gandin. Il regista di origini laziali ha dedicato – caso quasi unico in Italia – una vita intera al documentario, attraversando più generi. È Gandin stesso, dalle colonne di «Cinema», di cui era redattore, a chiarire il fine del cinema di non fiction. Esortando a cogliere «significati nuovi nelle cose comuni», andando oltre una superficiale osservazione del mondo, egli invitava 30

Paolo Gobetti, I cortometraggi, «Cinema», n. 88, 15 Giugno 1952, p. 341.

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«a produrre un tipo di documentario che non sia semplicemente descrittivo ma che cerchi di penetrare dentro la realtà e che contenga – come ogni prodotto intellettuale degno di questo nome – un minimo di profondità nelle sue immagini, un minimo di intenzione critica»31. L’articolo può essere considerato un sintetico manifesto dello sguardo documentario, ovvero dell’approccio alla realtà che, per quanto espressione di un punto di vista, conduce alla scoperta del mondo e alla riflessione. Dello stesso anno di quest’articolo è il documentario di Gandin Sperlonga (1950), che pare mettere in pratica le idee esposte poco prima sulla carta stampata. Il cortometraggio racconta la vita a Sperlonga, un borgo marinaio isolato dal resto del mondo. La comunità è umile: gli uomini in buona parte sono pescatori e artigiani, le donne stanno a casa e i bambini giocano per strada. Questa umanità è colta nel quotidiano e in alcuni festeggiamenti religiosi. Il documentario è abbastanza convenzionale, con le sue belle vedute e il linguaggio ricercato del commento. Tuttavia, tra le pieghe del racconto ci mostra i problemi di una comunità che è attanagliata dall’arretratezza. In altre parole, Gandin crea un’opera che riflette suggestioni diverse, letterarie e turistiche ma anche antropologiche e sociali. Non è un caso che Mario Verdone, su «Cinema», dice che «Sperlonga ha carattere di inchiesta, e vuole uscire dalla retorica dei documentari sulle città, descrittivi e frammentari, e che non sanno mai mostrare quello che c’è dietro la facciata. S’accosta alle autorità del paese, ai problemi locali ed ai cinquecento bambini – un quinto della popolazione – che pullulano nelle strade»32. La vena inquisitoria del cortometraggio non sarebbe sfuggita alla commissione di censura, ostile alle immagini poco edificanti del Paese. Sempre Verdone, infatti, in un articolo apparso appena qualche mese dopo sulla stessa rivista, parlando dei limiti imposti dalla censura al documentario italiano in generale, afferma come Sperlonga, «che è stato giudicato come uno dei migliori documentari italiani del periodo più recente, ha dovuto superare faticosamente un esame di appello»33. Gandin prosegue la strada del documentario d’inchiesta girando, negli anni successivi, Cristo non si è fermato a Eboli (1952) e Non basta soltanto l’alfabeto (1959), ispirati entrambi al tema dell’analfabetismo. I due documentari, finanziati dall’Unione nazionale per la lotta contro 31 Michele Gandin, Significati nuovi nelle cose comuni, «Cinema», n. 34, 15 Marzo 1950, p. 153. 32 Mario Verdone, I cortometraggi, «Cinema», n. 60, 15 Aprile 1951, p. 212. 33 Id., I cortometraggi, «Cinema», n. 63, 1 Giugno 1951, p. 308.

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l’analfabetismo (UNLA), intendono far luce su una delle ferite aperte del Meridione. L’analfabetismo, l’ignoranza, incompatibili con una società che si avviava verso il progresso, andavano denunciati e sconfitti, poiché l’acquisizione del sapere era il primo passo da compiere sulla via dell’emancipazione e dello sviluppo sociale. Cristo non si è fermato a Eboli gioca col titolo del celebre romanzo di Levi che aveva fatto scoprire il Sud al resto dell’Italia: il documentario, infatti, è ambientato a Salvia di Lucania, in Basilicata, un paesino abitato da una popolazione quasi completamente analfabeta. L’UNLA vi manda un suo insegnante e Gandin lo segue, per documentare il duro percorso compiuto dagli abitanti del paese per imparare a leggere e a scrivere. La macchina da presa coglie i primi momenti, quando la stanza del centro dell’UNLA è quasi vuota durante i corsi serali, per l’iniziale diffidenza degli uomini e delle donne del posto. Poi, pian piano, si afferma la consapevolezza dell’importanza di imparare a scrivere e l’aula si riempie. L’alfabeto porta con sé una più ampia crescita sociale: nascono laboratori per imparare i mestieri, arriva la corriera nella piazza del paese, si costruiscono una sede del centro UNLA e una strada. Ma, soprattutto, arriva l’emancipazione personale, attraverso la possibilità di leggere e imparare autonomamente nuove cose, o seguire corsi di apprendimento. Si scorgono dietro la macchina da presa partecipazione emotiva e sincero rispetto, che il regista manifesta attraverso uno sguardo mai invadente verso i protagonisti del cortometraggio. Deriva da qui anche la scelta di non doppiare le voci dei paesani: le loro frasi, sebbene in un italiano non corretto, hanno diritto d’esistenza nel racconto di Gandin34. Il documentario entusiasmò la critica, ovviamente sensibile alle opere che si distinguevano nel panorama omologato del documentario italiano. Per Mario Verdone «LE INCHIESTE cinematografiche di Michele Gandin sono lineari, scrupolose, senza retorica. Per dire le cose come sono, per descrivere il mondo come si vive, fanno a volte più opera giornalistica che di poesia»35. Ma lo stile, per quanto asciutto, sa toccare in più occasioni le corde della sensibilità umana: «Questa classe di adulti è la più commovente del mondo, e nelle mani di un bracciante che rompe un pennino dopo l’altro, del contadino che si sforza di leggere una rivista agricola, del falegname che fabbrica le sedie della nuova scuola, si sente il vagito di una 34

I. Perniola, Oltre il Neorealismo, cit., pp. 129-130. Mario Verdone, I cortometraggi. Cristo non si è fermato a Eboli, «Cinema», n. 99-100, 15-31 Dicembre 1952, p. 341. 35

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nuova civiltà»36. Quando Cristo non si è fermato a Eboli fu presentato a Venezia, ottenendo il primo premio alla Mostra del documentario, anche su «Cinema Nuovo» vi furono parole di grande apprezzamento. Considerato «uno dei migliori in senso assoluto», il documentario di Gandin, «Aspro, immediato e convincente, ha qualità di stile ormai rare fra i documentaristi. […] Cristo non si è fermato a Eboli ha dato il tono della selezione italiana, ha permesso di riconoscere in questa il segno di una scuola e di un indirizzo che ci riconforta della produzione standardizzata e commercializzata»37. Se con Cristo non si è fermato a Eboli Gandin aveva colto i segnali ottimistici di uno sviluppo anche per i centri più piccoli del Sud, con Non basta soltanto l’alfabeto (1959) il regista afferma la necessità di ulteriori aiuti dello Stato, perché ormai, per proseguire sulla strada della crescita, il solo alfabeto non è più sufficiente. Ai tempi di Cristo non si è fermato a Eboli l’UNLA era impegnata con le prime aperture dei suoi centri per i contadini analfabeti del Sud. Ora quei centri sono diffusi, ma il Sud resta fortemente arretrato. I contadini che hanno imparato a scrivere si organizzano in gruppi di lavoro e provano a individuare e risolvere i problemi che affliggono le loro comunità. Nasce da qui l’invocazione del documentario per una presenza maggiore delle istituzioni in un Mezzogiorno ancora troppo solo, ancora troppo povero. L’ottimismo del finale – quando una didascalia informa sul buon lavoro svolto dai sessantacinque Centri di cultura popolare – e le panoramiche sui volti dei contadini che apprendono sono gli stessi del primo documentario di Gandin sulla lotta all’analfabetismo38. E anche la sensibilità dello sguardo è la stessa. Soprattutto nella scena finale, quando uomini e donne, anziani e bambini del paese vengono portati su una spiaggia: la cinepresa restituisce la mappa delle emozioni che si disegna sui volti di chi, per la prima volta in vita propria, vede il mare39. Il documentario di Gandin, anche in questa occasione, vinse il primo premio a Venezia nel 1959, raccogliendo il favore della critica40. Il cinema documentario di Michele Gandin, alla scoperta della realtà italiana pure nei suoi aspetti meno rassicuranti, prosegue la 36

Ibidem. Domenico Meccoli, I documentaristi al Lido non sanno parlare, «Cinema Nuovo», n. 19, 15 Settembre 1953, p. 186. 38 Giampaolo Bernagozzi, Il cinema corto. Il documentario nella vita italiana 1945-1980, Firenze, La Casa Usher, 1980, p. 103. 39 I. Perniola, Oltre il Neorealismo, cit., p. 131. 40 Mario Verdone, Documentari e film per ragazzi, «Bianco e Nero», n. 11, Novembre 1959, p. 54. 37

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tradizione inaugurata qualche anno prima dal neorealismo. Il regista si fa sostenitore, anche sul piano teorico, di un cinema che non abdichi a quella funzione critica e di svelamento che proprio il neorealismo gli aveva conferito negli anni del dopoguerra. Così, nel 1955, in un articolo su «Cinema Nuovo», promuove la storia di Danilo Dolci come soggetto per un film. Danilo Dolci, triestino di nascita, all’inizio degli anni cinquanta si era trasferito in Sicilia, intraprendendo una serie di attività a sostegno dei più umili. La sua fu una coraggiosa battaglia contro l’emarginazione, la povertà e l’analfabetismo, resa celebre attraverso forme di lotta non violenta. Alcune di queste manifestazioni gli diedero visibilità tra le cronache di livello nazionale, facendogli guadagnare il sostegno di intellettuali e politici. Dolci diede eco al grido di allarme del Sud, denunciandone gli squilibri, anche attraverso contributi letterari, e mettendo in campo una serie di attività per superarli. Impressionato da una storia tanto affascinante, in anni in cui il neorealismo manifestava segni di crisi, Michele Gandin scrive: «Non è vero che il neorealismo si sia esaurito. Non è vero che la realtà italiana non offra più temi così ricchi e prepotenti come quelli dell’immediato dopoguerra. […] è sufficiente guardare questa realtà con lo stesso impegno morale, la stessa libertà, lo stesso amore, la stessa esigenza di verità di allora, perché essa ci offra storie altrettanto umane e altrettanto drammatiche»41. Ma le storie più umane e drammatiche sono anche quelle che negli anni cinquanta incappano nelle maglie della censura. La polemica contro questa censura non è taciuta nell’articolo di Gandin. Il regista si chiede «Che cosa pensa l’on. Scalfaro di questa storia? […] Lo lascerebbe fare un film così? Anche se è una violenta accusa contro i potenti, contro l’ingiustizia, contro la cattiva amministrazione della cosa pubblica? Anche se non divertirà gli spettatori ma li farà commuovere e pensare?»42. L’invito di Gandin non resterà inascoltato: qualche anno dopo ci sarà un tentativo, come si vedrà, di portare sugli schermi la storia di Danilo Dolci. Ma la censura bloccherà il progetto.

41

Michele Gandin, Borgo di Dio, «Cinema Nuovo», n. 61, 25 Giugno 1955, p. 458. Il regista si rivolge al democristiano Oscar Luigi Scalfaro, che allora era Sottosegretario allo spettacolo, oltre che alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, durante il Governo Scelba. 42

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4. Visioni inquiete Gli anni sessanta portano più spunti e sollecitazioni, più coraggio e più volontà di denuncia nei documentari italiani. Registi già affermati o più giovani, macchina da presa in pugno, scendono nel Mezzogiorno, mossi dal desiderio della scoperta, spesso orientati da chiare passioni ideologiche. Ancora la povertà, ma anche la piaga dell’emigrazione, le mafie e i contrasti imbarazzanti tra un Nord in corsa sul treno del miracolo economico e un Sud arretrato e sofferente: vecchi e nuovi temi, che si intrecciano in un documentario più coraggioso rispetto al decennio precedente e più capace di rappresentare la complessità della società italiana del periodo43. Un documentario, inoltre, più innovativo sul piano del linguaggio, che si apre a contaminazioni e ricerca di nuove forme espressive, abbandonando le pratiche consolidate e i modelli standardizzati. La società sta cambiando e il documentario, in questo modo, ne riflette i movimenti che l’attraversano e, come un termometro, misura il livello della contestazione, che sul finire dei sessanta sarebbe esplosa nei movimenti studenteschi ed operai. Tra gli autori più prolifici del documentario sociale c’è Giuseppe Ferrara, che in diverse occasioni ha esplorato il Sud per denunciarne, sia attraverso documentari che film a soggetto, i conflitti e le criticità. Nei suoi lavori, molto spesso delle vere e proprie inchieste, Ferrara ha denunciato la miseria, il sottosviluppo e gli intrecci tra malavita e politica nel Mezzogiorno, da un netto punto di vista politico. Un’attività da regista scomodo, che lo ha condotto a operare con budget ristrettissimi, troupe minime e notevoli difficoltà, compresa la scarsa distribuzione nelle sale delle sue opere44. Uno dei primi documentari di Ferrara è Inchiesta a Perdasdefogu (1961), contro l’istallazione del poligono di Salto di Quirra in Sardegna, inaugurato nel 1956. Il po43 Non è un caso che nel 1962 su «Bianco e Nero» Claudio Bertieri, parlando a proposito dei documentari presentati a Venezia, in buona parte incentrati su problemi e conflitti della società, scorgeva il profilo di un cinema civile, se non addirittura «ribellistico», che si configurava come fenomeno nuovissimo nel panorama italiano. Per la prima volta l’uomo veniva «guardato con affetto, mai sfruttato come veicolo per grosse emozioni spettacolari, ma innalzato ad unica e giusta unità di misura cui debbono essere riportati fenomeni e fatti […]. Un cinema di questo tipo ha tradizioni illustri; i nomi di chi ha seguito questa strada della verità e dell’umiltà sono quelli di Flaherty, di Ivens, di Grierson, di Strand, e di quanti si sono dedicati ad una costante e appassionata rilevazione dei drammi, dei tormenti, delle violenze, delle umiliazioni subite dall’uomo». Claudio Bertieri, Documentari a Venezia: un leone per l’Italia, «Bianco e Nero», n. 7-8, Luglio-Agosto 1962, p. 122. 44 Sebastiano Gesù, La Sicilia della memoria: cento anni di cinema documentario nell’isola, Catania, Maimone, 1999, p. 56.

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ligono nasce per la sperimentazione missilistica e la sua costruzione comporta l’esproprio di molti ettari di terra. Tra questi ci sono gli ettari che con fatica sono stati dissodati e attrezzati per l’agricoltura da una cooperativa di contadini, o quelli occupati da una miniera che dà lavoro. Attraverso interviste alla gente del posto, Ferrara coglie il malcontento di chi ormai è costretto a scegliere solo tra disoccupazione ed emigrazione. Il poligono è una minaccia anche per la sicurezza, così nella parte finale del cortometraggio, attraverso una messinscena, si vede un contadino che scappa impaurito da un missile scagliato proprio sopra la sua terra. La colonna sonora non è la solita musica composta ad hoc per documentari, ma l’eloquente brano antimilitarista Dove vola l’avvoltoio, del gruppo Cantacronache, con testo di Italo Calvino. Il filtro ideologico è evidente e alla critica non sfugge. Infatti, quando il documentario fu presentato a Cannes nel 1962, su «Bianco e Nero» Giacomo Gambetti ne mise in luce i toni di infuocata contestazione, bacchettando al contempo le scivolate in un ideologismo talvolta esasperato. Sebbene rifletta, scrive Gambetti, l’impegno politico, sociologico, umano in senso polemico e di rinnovamento morale che Ferrara mette nelle sue opere […] l’inchiesta, è sul piano dell’articolo pacifista senza mezzi termini, e della rottura completa con le convenzioni. È un cinema-verité, in un certo modo, anche questo di Ferrara: ma a differenza di quello di Rouch e Morin, alla realtà in prima istanza corrisponde qui una re-invenzione che non sempre è credibile e non sempre è accettabile, rimanendo ingenua senza essere poetica, occasionale senza essere interiormente provata45.

In Sardegna il regista gira anche Le barche sull’acqua (1961), in difesa dei pescatori di Cabras, piccolo centro in provincia di Oristano, che non possono accedere ad uno stagno pescoso perché di proprietà privata. In protesta organizzano uno sciopero contro i diritti feudali, che li conduce ad occupare le acque e a trattare successivamente con le autorità preposte. Poco dopo Giuseppe Ferrara si sposta in Sicilia per girare Minatore di zolfara (1962) ambientato nelle miniere di zolfo, teatro di fatica inaudita. Il documentario si compone di immagini interamente riprese dalla realtà, intervallate dalle testimonianze di alcuni minatori. Parlano del duro lavoro, delle paghe misere, del rischio costante, dei morti e dei feriti sottoterra. Scorrono immagini di una miniera 45

Giacomo Gambetti, I documentari, «Bianco e Nero», n. 2, Febbraio 1962, p. 70.

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dell’area di Caltanissetta. Una colonna sonora drammatica sottolinea il pericolo sempre in agguato. Alla fine, si vede il funerale di alcuni minatori morti sul lavoro mentre il brano La zolfara, ancora del gruppo Cantacronache, elenca la lunga lista dei decessi nelle zolfare siciliane. La critica approva questo lavoro dal taglio giornalistico ma non privo di poesia. «Minatore di zolfara è un altro dei cortometraggi di consapevole impostazione sociale di Giuseppe Ferrara e uno dei migliori, a nostro parere, abbastanza semplice e conscio dei limiti del cortometraggio […], maturo, sorvegliato nei particolari, il commento musicale ad esempio […] e il colore»46. Ancora in Sicilia, il regista dirige il primo una serie di documentari dedicati al tema scottante delle mafie e della collusione di queste coi poteri forti, ovvero Le streghe a Pachino (1963). Girato in un piccolo centro in provincia di Siracusa, il documentario si presenta nel formato dell’inchiesta, con un commento che spiega i fatti e interviste alle persone. Il racconto parte da una vicenda di cronaca che desta scalpore: un uomo non ha i soldi per pagare il funerale della figlia neonata, così mette il corpo in una bara e da solo la porta al cimitero. Un giovane aspirante giornalista scopre l’accaduto e fa scoppiare il caso, ma – spiega il commento – poiché si è a ridosso delle elezioni, in clima di campagna elettorale, c’è chi fa di tutto per insabbiare la notizia ed evitare che una storia così degradante circoli. Il documentario mostra l’indigenza e l’abbandono in cui versa Pachino. Le immagini più impressionanti, però, sono quelle della miseria in cui vivono l’uomo che ha sepolto la neonata e la sua famiglia. Grazie ad un intervistatore che sente la gente del posto, il documentario ci consente di ascoltare il racconto dei fatti da parte del diretto interessato e di carpire il clima di omertà che avvolge la piccola comunità, in cui nessuno vuole parlare dell’accaduto. L’atmosfera è pesante, c’è un clima da caccia alle streghe contro chi vuol diffamare Pachino. La stessa troupe che gira il cortometraggio, racconta la voce over, è vittima di intimidazioni, mentre vediamo le immagini di un’aggressione subita dal cineoperatore. Il commento è molto polemico, espressione di un netto punto di vista, e senza remore è la denuncia della povertà e dell’arretratezza culturale del piccolo centro del Sud. Ma soprattutto, sebbene non si pronunci mai la parola “mafia”, nel mirino finisce l’apparato dei poteri forti, dove non c’è distinzione tra la sfera legale e quella non legale, che tiene sotto scacco la comunità. 46

Id., I documentari, «Bianco e Nero», n. 4, Aprile 1963, p. 76.

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Il successivo La camorra (1965) è un mediometraggio che indaga il fenomeno malavitoso campano. È suddiviso in due parti: la prima riguarda gli aspetti storici del fenomeno, mentre la seconda fa luce sulle forme attuali della camorra, che fa affari introducendosi nel sistema economico e attraverso le collusioni con la politica. Per meglio spiegare il modus operandi della malavita organizzata, nel documentario ci sono interviste a contadini e commercianti, che sono costretti a subire i soprusi dei camorristi. La malavita impone tangenti nel commercio di generi alimentari primari, alimentando un sistema di ingiustizie cui è impossibile sottrarsi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un’inchiesta di carattere giornalistico, in cui le interviste si alternano ad una voce over che spiega con intento didascalico. La camorra è un documentario molto coraggioso in anni in cui si parlava poco in termini così espliciti delle mafie. Anche il cinema se ne stava occupando, potendo, però, tenere più a distanza il tema scottante trattato grazie al filtro della finzione. Sulla stessa falsariga si colloca Mafia d’Aspromonte (1966), sulla ‘ndrangheta calabrese. Il documentario è composto da immagini di repertorio, molte delle quali sono fotografie, che accompagnano il commento. È quest’ultimo la vera ossatura del cortometraggio, che con tono descrittivo vuol far capire cosa sia la ‘ndrangheta, mentre le immagini fungono da mero riempitivo. Ancora una volta la mafia è descritta come un sistema di potere che prende il posto dello Stato, a causa del vuoto lasciato da quest’ultimo, e che è favorito dalla miseria e dall’ignoranza. Non a caso, all’inizio del film si parla delle condizioni di estrema povertà della Calabria e degli alti livelli di analfabetismo. Lo speaker passa poi a spiegare come la ‘ndrangheta eserciti il suo potere e il suo controllo sulla società, ad esempio attraverso le guardianie e le mazzette, o faccia affari, mettendo mano sui trasporti, nei cantieri ed esercitando il controllo dei mercati ortofrutticoli. Il commento diventa polemico quando denuncia l’incapacità dello Stato di fronteggiare il fenomeno: non ci sono inchieste della magistratura, salvo rari casi, e i capi della ‘ndrangheta, quando individuati, sono perseguiti con sistemi vecchi, come si faceva coi briganti. Il cortometraggio fa i nomi di mafiosi e famiglie di mafia, raccontando omicidi, rivalità e faide. La gente comune è vittima di questo sistema di potere, che protegge con l’omertà o che addirittura venera, collocandolo in un universo miticoreligioso. La mafia, ancora una volta, è vista come la persistenza di un arcaismo, causa della profonda arretratezza della Calabria e della sua impossibilità di evolversi.

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Dopo la Sicilia, la Campania e la Calabria, Giuseppe Ferrara volge il suo sguardo alla Sardegna, per affrontare la non meno pungente questione del banditismo e dei sequestri di persona. Nel 1967 gira Banditi in Barbagia, ancora un mediometraggio, ambientato ad Orgosolo, «infestata dal banditismo», dice il commento. Nei primi fotogrammi si assiste alla ricostruzione di un sequestro di persona, quindi, mentre scorrono immagini della Barbagia selvaggia, lo speaker racconta fatti di cronaca relativi al banditismo, ne ripercorre le fasi storiche e riflette sulla condizione del nomadismo dei pastori sardi, costretti a stare mesi sulle montagne lontano da casa. Il paesaggio brullo, con una natura ostile e i nascondigli che offre – suggeriscono le immagini e la voce over – favorisce sequestri e latitanza, che lo Stato prova a fronteggiare con un fortissimo dispiegamento di forze. Ci troviamo ancora di fronte ad un’opera di denuncia esplicita, sia delle misere condizioni di vita della Barbagia, sia dell’assenza dello Stato (se non nella forma del controllo e della repressione militare), considerati concause del banditismo. Il fenomeno è antico, affonda le sue radici nella storia e nella cultura della Sardegna, ed è espressione simbolica del suo isolamento rispetto al resto della penisola. Ma lo Stato non mette in campo le strategie giuste per superarlo. In alcune occasioni direttore della fotografia delle opere di Giuseppe Ferrara è Mario Carbone, che si avvicina alla regia cinematografica proprio a partire dalla fotografia. Carbone è di origini calabresi e conosce il Sud. Nel 1960 accompagna Carlo Levi in un viaggio in Lucania per scattare foto sui luoghi del suo Cristo si è fermato a Eboli. Poi, realizza alcuni cortometraggi nel Mezzogiorno dopo aver compreso le potenzialità del documentario rispetto ad una realtà che sentiva di dover indagare47. Ritroviamo nelle sue pellicole il tono dell’inchiesta e l’esigenza della denuncia. La concezione del lavoro di documentarista, infatti, per l’autore si avvicina molto a quella del giornalista: i suoi documentari sono più simili a dei reportage, mediante i quali Carbone affronta temi di stretta attualità48. Non disgiunto, però, dal tono giornalistico è anche il carattere militante che connota le sue opere: 47 Giovanni Sole (a cura di), Trentacinque millimetri di terra: la Calabria nel cinema etnografico, Cosenza, Università della Calabria, 1992, p. 140. 48 Così, infatti, ha raccontato il regista: «Per la scelta dei documentari mi fidavo di me stesso, leggevo i giornali e quando trovavo un argomento che mi incuriosiva partivo. I testi li facevo scrivere da giornalisti, intellettuali, o da mia moglie […]. Il documentario si dovrebbe girare senza sceneggiatura, il regista dovrebbe essere come un giornalista, solo che invece di usare la macchina da scrivere utilizza la cinepresa […]. I miei documentari sono stile reportage, non mi piace la costruzione, quello che trovo filmo». Ibidem.

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PROFONDO SUD

Carbone è vicino al Pci, per il quale negli stessi anni realizza dei film di propaganda, e la sua posizione ideologica in merito alle questioni affrontate è inequivocabile. La produzione documentaristica del regista calabrese è ampia. Tra i lavori dedicati agli squilibri del Sud ci sono Stemmati di Calabria (1964), Sedici anni dopo Melissa (1965), Dove la terra è nera (1966) e L’isola più lontana (1967). La prima è un’inchiesta sui latifondisti, un tempo padroni della gran parte dei terreni calabresi, poi decaduti. Attraverso la raccolta delle loro testimonianze, per mezzo di interviste, Carbone ricostruisce uno spaccato nostalgico, e dal sapore quasi “gattopardesco”, di un passato lontano. In Sedici anni dopo Melissa, invece, il regista pone interrogativi relativi ai risultati della riforma agraria in Calabria. Il documentario dapprima, attraverso foto di repertorio, ripercorre i fatti di Melissa del 1949, quando alcuni contadini furono vittima degli scontri con la polizia dopo un’occupazione di massa di latifondi. Poi le immagini sono quelle del presente, di paesi rurali poveri e campi coltivati con metodi tradizionali. L’obiettivo è rimarcare come la riforma agraria non abbia dato i frutti attesi. Intervistati, i contadini spiegano le ragioni per cui le loro condizioni non sono cambiate nonostante gli sforzi e le iniziative del Governo. La critica non è velata: per il Sud non si è fatto abbastanza o si è fatto male e molte comunità agricole vivono in povertà e abbandono atavici. Dove la terra è nera e L’isola più lontana, invece, sono ambientati entrambi a Linosa, piccola isola dell’arcipelago delle Pelagie. Linosa è un perfetto esempio del Sud colpito da emarginazione e sottosviluppo. Nel primo cortometraggio questi aspetti sono mostrati attraverso alcune scene di vita quotidiana di un nucleo familiare, composto da una vedova, suo fratello e sua suocera. Svolgono lavori umili, tipici di una piccola comunità rurale dove non esiste alcuna attività remunerativa, ma solo di sopravvivenza. Il clima di solitudine e indigenza è ricreato dall’assenza di commento e di dialoghi. Tutto tace in un silenzio primitivo, rotto solo dai rumori della natura e dei gesti degli uomini. L’isola più lontana ha uno stile più convenzionale, con un commento che descrive anche a parole la durissima vita degli abitanti di Linosa, abitata per la prima volta da esiliati del regno borbonico. L’isola ancora nella seconda metà degli anni sessanta è senza acqua ed elettricità. Gli abitanti vivono di quello che offre la natura, una «natura matrigna», sottolinea la voce over. Né l’agricoltura, né la pesca, né l’allevamento rappresentano attività redditizie, ma di mero sostentamento per i locali. Un clima molto simile si respira nella Puglia del regista Carlo Di Carlo. Isola di Varano (1962) e Terremorte (1962), entrambi ambientati

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UNO SGUARDO CRITICO SULLA REALTÀ

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nel Gargano, riflettono le ferite aperte di una terra esangue, prosciugata da fame ed emigrazione. Nel primo dei due documentari la voce over non è quella di un narratore esterno, ma di un uomo del popolo, che nel suo dialetto racconta le difficoltà del vivere nell’isola. La parola agli ultimi è data attraverso il ricorso a testimonianze dirette, una pratica nuova e, come visto, presente anche in altri documentari sociali dei primi anni sessanta. Diffusa probabilmente sotto l’influenza del cinema diretto, essa vivacizza il ritmo dei film e li svecchia rispetto al più tradizionale modello incentrato sul commento fuori campo49. Così, Di Carlo in Isola di Varano, attraverso la voce dei pochi abitanti rimasti, traccia le coordinate di una tragedia sociale: assenza di lavoro, pesanti problemi della pesca – tra le poche attività redditizie – a causa dell’assenza di un adeguato sistema di dragaggio, imposte alte, scarsità di acqua e luce, abitazioni fatiscenti. Una fotografia livida e un insistere della cinepresa sui volti e corpi segnati dalla fatica traducono in immagini il dramma di queste persone. Molto simile nei temi e nelle scelte stilistiche è Terremorte. In questo caso la voce over non c’è e a parlare sono solo le persone del posto attraverso testimonianze. Colpisce la rassegnazione di molti tra loro, umili e impotenti, convinti che nulla mai potrà cambiare e che il destino è una vita di stenti senza alternative. La critica non accolse con favore le due opere, presentate assieme al Festival dei Popoli del 1963. In particolare, non ne apprezzò le innovazioni sul piano del linguaggio. Di Terremorte Ezio Stringa scrive su «Cinema Nuovo» che «la materia trattata è resa arida dalle intellettualistiche ricerche tecniche»50. Su «Bianco e Nero» si legge «che nuoce al regista l’ansia di mettere troppa carne al fuoco, di scoprire ad un tempo contenuti, forme, tecniche nuove, senza una precisa e ordinata determinazione narrativa e ideologica e una ricerca del tutto assorbita e matura»51. Presentato allo stesso festival è anche Inchiesta a Carbonia (1962) di Lino Micciché, documentario sulla cittadina sarda colpita da un tragico destino. Carbonia era una città poverissima, poi negli anni del fascismo, grazie allo sfruttamento delle miniere, era stata trasformata in un centro popoloso, dove alloggiavano i lavoratori. Dopo la guerra, a causa di una forte crisi del settore industriale, iniziano i licenziamenti. 49

L. Micciché, Studi su dodici sguardi d’autore, cit., p. 37. Ezio Stringa, Il festival dei popoli assenti, «Cinema Nuovo», n. 161, Gennaio-Febbraio 1963, p. 52. 51 Giacomo Gambetti, I documentari, «Bianco e Nero», n. 1-2, Gennaio-Febbraio 1963, p. 135. 50

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PROFONDO SUD

Carbonia si svuota e torna a essere una città segnata dall’indigenza. Il commento racconta la vicenda, mentre le immagini documentano la miseria dei luoghi. Non restano che alloggi vuoti e i pochi che non sono emigrati vivono in case fatiscenti, baracche o grotte, perché non possono permettersi i costi di affitto delle case, denuncia la voce over. Inchiesta a Carbonia, in linea con i documentari dello stesso genere del periodo, si presenta come un reportage di carattere critico, che vuole portare il pubblico a conoscenza di una pagina torbida della vita del Paese. Poco prima, in Sicilia, Micciché aveva girato Nuddu pensa a nuautri (1961), ambientato a Palma di Montechiaro. Anche in questo caso l’obiettivo della cinepresa è rivolto alle misere condizioni di vita della gente, alle case sovraffollate e prive delle minime condizioni igieniche, all’assenza di servizi essenziali, come un ospedale. Il contrasto con la realtà del miracolo economico, che si diffonde in altre parti del Paese, è stridente52. Nuddu pensa a nuautri fu presentato al Festival dei Popoli e recensito su «Bianco e Nero» come «un pezzo più esauriente e più efficace di quello di qualsiasi inviato, che ha in sé la spietata e pur trattenuta polemica dell’oggi e nello stesso tempo un riferimento preciso alle motivazioni che sono alle origini delle condizioni di paurosa depressione morale-sociale-igienico-civile di un paese italiano e siciliano, quando tali terribili squilibri ambientali e nazionali sono ormai ciò che di più anacronistico, dannoso e irritante esista»53. Il documentario, in altre parole, fu messo sullo stesso piano di un’inchiesta giornalistica, capace com’era di informare su un caso di dramma sociale, provandone a spiegare le cause. Micciché nel Mezzogiorno avrebbe esplorato anche la Basilicata, dirigendo qualche anno dopo Matera sassi ’65 (1965) e Inchiesta a Grassano (1966). Tra gli interpreti più sensibili della realtà meridionale negli anni sessanta figura anche il regista bolognese Gianfranco Mingozzi, che al Sud ha dedicato alcuni importanti documentari, tutti ascrivibili ad un cinema di impegno civile rivelatore. Il documentario, infatti, ha raccontato Mingozzi, mette insieme due necessità: «da un lato l’urgenza di fissare subito la realtà in rapida trasformazione e subito farla conoscere […] dall’altro lato […] creare, inventare, affidarmi alla fantasia per ridare sì la realtà ma attraverso storie, affabulazioni»54. Come per molti altri documentaristi non originari del Mezzogiorno, il Meridione sim52

L. Micciché, Studi su dodici sguardi d’autore, cit., p. 36. Giacomo Gambetti, I documentari, «Bianco e Nero», n. 1, Gennaio 1962, p. 74. 54 Cesare Landricina (a cura di), Gianfranco Mingozzi. I documentari, Roma, Land Film Service, 1989, p. 11. 53

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UNO SGUARDO CRITICO SULLA REALTÀ

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bolizza il bisogno della scoperta e il documentario il mezzo per espiare il senso di colpa per il suo sottosviluppo55. Dopo La taranta (1962), il primo cortometraggio girato in Puglia sul fenomeno del tarantismo, Mingozzi elegge la Sicilia a luogo d’investigazione e vi realizza nel 1963 Il putto e Li mali mestieri. I due cortometraggi sono girati a Palermo, mentre il regista lavora al progetto di un film su Danilo Dolci, dal titolo La violenza. Mingozzi, colpito dalla sua vicenda, intraprende un percorso di collaborazione con Dolci, apostolo della non violenza, che influenzerà tutti i suoi lavori sulla Sicilia. I documentari, in altre parole, riflettono quel mondo di emarginazione e miseria a cui Dolci aveva deciso di dedicare il proprio impegno. Il putto parla della condizione dei bambini attraverso un suggestivo confronto con i putti riprodotti nei decori del barocco a Palermo. Un montaggio alternato mostra il candore degli stucchi e subito dopo l’indigenza dei bambini, che si muovono in una città ancora segnata dalla guerra. I bambini sono spesso nudi e li si vede soli, per strada, a giocare senza giocattoli, tra macerie e case decrepite. Il commento dice poche parole, lasciando parlare le immagini. Non c’è denuncia esplicita, ma la visione dei piccoli e del contesto in cui vivono ci racconta di un mondo di povertà e abbandono. Nonostante la durezza di certi fotogrammi, il montaggio alternato e la colonna sonora evocativa creano effetti di poesia per un lavoro che, sul piano formale, supera il livello del documentario medio più diffuso in quegli anni. Si apre con immagini di bambini anche Li mali mestieri, un cortometraggio che, intessendo tra loro suggestioni antropologiche e sociali, narra delle sopravvivenze di antichi mestieri, altrove scomparsi, e dell’arte di arrangiarsi nelle periferie degradate del Sud. Il documentario è un viaggio tra gli umili: la cinepresa vaga tra la gente cogliendo – senza essere notata, come in una pellicola di cinema-verità – scene di vita quotidiana e scorci di città vecchi e fatiscenti, il tutto immerso in un’atmosfera di grande malinconia. Li mali mestieri inizia mostrando bambini e ragazzi che lavorano e si chiude con un anziano che raccoglie, in un cumulo di rifiuti, quanto può ancora essere utilizzato, come in un ideale circolo dell’esistenza contrasse55 «I miei primi lavori di documentarista alla scoperta del Meridione italiano erano […] soprattutto un mio bisogno, una mia urgenza di fissare, – attraverso i problemi del sud […] – una mappa delle malattie sociali e individuali di una società immobile che mi costringeva a fare un esame di coscienza e, poco alla volta, a farmi sentire – io, studioso, del nord – coinvolto. Il mostrare questi mali, queste storture, questo arresto di civiltà era come un riscatto dalla colpa della mia “alterità”, e un invito a cambiare, e a cercare di risolvere questi drammatici scompensi». Testimonianza di Gianfranco Mingozzi in Mirko Grasso, Scoprire l’Italia. Inchieste e documentari degli anni Cinquanta, Lecce, Kurumuny, 2007, p. 71.

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PROFONDO SUD

gnato dall’esclusione e dagli stenti. Ad accompagnare le immagini, il commento del cantastorie siciliano Ignazio Buttitta. Buttitta era amico di Danilo Dolci e Mingozzi lo aveva conosciuto mentre lavorava a La violenza56. Con le sue rime, il cantastorie racconta la peculiarità dei mestieri inventati per sopravvivere e guida lo spettatore in una realtà colma di rassegnazione. Anche qui non vi è intento polemico, ma nemmeno bozzettismo. Li mali mestieri ha un’intonazione poetica, di una poesia che però suona amara. Di qualche anno successivo è Col cuore fermo, Sicilia (1965). Stavolta il tono critico è marcato: il mediometraggio intende denunciare la miseria, l’arretratezza, l’analfabetismo e la piaga della mafia, e lo fa attraverso un’analisi che espone dati e ripercorre episodi del passato. Il commento scritto da Leonardo Sciascia, descrittivo ma a tratti retorico, espone i nodi problematici della Sicilia, quali l’emigrazione, l’agricoltura, le condizioni di lavoro disumane nelle miniere e la presenza della criminalità organizzata. Le immagini sono sia di repertorio sia di attualità. Alcune di queste ultime, che mostrano un quartiere popolare e case poverissime, sono particolarmente impressionanti. Come la scena in cui un neonato dorme con le mosche sul volto. Forse a causa dei temi scomodi trattati o della lunghezza del metraggio (ventisei minuti), anomala nel panorama del documentario italiano, la pellicola ebbe varie difficoltà di distribuzione57. In realtà, l’anomalia del metraggio era riconducibile al fatto che l’inchiesta di Mingozzi nascesse dai ritagli ricavati dal materiale girato per il citato La violenza, che divenne oggetto di oscure vicende di censura. Le riprese del film, sceneggiato da Cesare Zavattini, iniziarono nel 1963, tuttavia, il produttore Dino De Laurentiis le interruppe, dopo aver visto una prima parte del girato dedicato alla mafia. Recuperando il materiale filmato ed escludendo le scene in cui si parlava di Dolci, Mingozzi realizzò una più generica inchiesta sulla Sicilia58. Oltre a vincere il Leone d’oro a Venezia, Col cuore fermo, Sicilia ottenne molti riconoscimenti internazionali. La critica accolse bene l’opera, riconoscendole il coraggio nell’affrontare tematiche impegnative e il linguaggio asciutto. Su «Cinema Nuovo» si legge che «Il documentario, dal quale sono completamente assenti i giochi formali fine a se stessi e i 56

Ivi, p. 73. S. Gesù, La Sicilia della memoria, cit., p. 55. 58 Per una ricostruzione dettagliata delle vicende che riguardarono il documentario si veda Cesare Landricina (a cura di), Gianfranco Mingozzi. Col cuore fermo, Sicilia. Un viaggio tra cinema e tv, Roma, Dino Audino Editore, 1995. 57

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tentativi di nobilitare la inquadratura, si regge su un efficace commento di Leonardo Sciascia, su immagini vive e polemiche che ci offrono una drammatica e coraggiosa rappresentazione di un’abnorme situazione sociale»59. Claudio Bertieri su «Bianco e Nero», invece, scrive che «Gli elementi forniti […] sono puntualmente disposti per una chiara lettura. E dove la ripresa diretta non è potuta giungere, intervengono decisivi appunti di cronaca giornalistica ad assicurare l’onestà dell’esame. Con il cuore fermo, Sicilia è da ascrivere tra le pagine di cinema più meditate sulla questione meridionale»60. Sceglie il modello dell’inchiesta per narrare il Sud anche il regista marchigiano Libero Bizzarri, critico e documentarista puro, socialmente impegnato e militante. In Sardegna gira La disamistade (1962) e Gente di Cabras (1963). La disamistade (la parola vuol dire faida) evoca sin dal titolo la condizione di lontananza dalle leggi dello Stato della regione. Il documentario è girato a Orgosolo, in Barbagia. Una voce narrante spiega cosa sia il mondo barbaricino, totalmente estraneo al resto della penisola, mentre le immagini fotografano un paese desolato, immerso in una natura aspra, dove si vedono poche persone e camionette dei carabinieri. L’isolamento della Barbagia viene da lontano, sin dall’epoca romana, sottolinea lo speaker. Quindi si parla della vita dei pastori e dei reati più diffusi, ovvero i furti di bestiame e gli omicidi per faide familiari. Le immagini mostrano quasi esclusivamente anziani pastori e, poco dopo, donne vestite di nero, coinvolte in un pianto funebre. Il documentario dipinge un’umanità dura, simbolicamente rappresentata nei primi piani dei volti granitici degli uomini e delle donne, che non si piega allo Stato e alle sue leggi. Anche in questo documentario, dunque, torna la rappresentazione ricorrente della Sardegna impenetrabile, violenta e indomita. Gente di Cabras, invece, racconta il dramma dei pescatori di Cabras, di cui si era occupato, come visto, anche Giuseppe Ferrara. I pescatori stanno conducendo una battaglia per il diritto alla pesca nello stagno, ovvero una parte di mare interna e pescosissima, che però appartiene a una ricca famiglia di Oristano, che non vuole cederlo. La protesta inizia nel 1960, ma la battaglia legale non dà i frutti sperati. E così i pescatori, pur di guadagnarsi da vivere, sono esposti al perenne rischio di essere arrestati o di vedersi sequestrare la merce per pesca di frodo. La 59 Ezio Stringa, Documentari e film per ragazzi, «Cinema Nuovo», n. 177, SettembreOttobre 1965, p. 365. 60 Claudio Bertieri, Con il cuore fermo, Venezia, «Bianco e Nero», n. 10-11, OttobreNovembre 1965, pp. 61-62.

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PROFONDO SUD

comunità solidarizza con loro, acquistando il pesce e facendo fronte comune contro i proprietari dello stagno. Mentre il commento spiega nel dettaglio i fatti, scorrono le immagini del lavoro dei pescatori e del quotidiano di Cabras, un paese povero, con le strade sterrate e le case basse di mattoni nudi, da dove si affacciano le donne che portano vesti lunghe. Sul finale c’è un messaggio di speranza per le conquiste sinora ottenute e per una risoluzione futura della vicenda. Gente di Cabras ripropone lo scontro, tipico per la Sardegna, tra il popolo e lo Stato, sordo ai suoi bisogni e capace di reagire solo con la forza. Ma in questo caso lo scontro è anche tra gli umili e i ricchi, tra i proletari e i padroni, sull’onda di un messaggio ideologico in linea con gli orientamenti politici di Bizzarri, che milita nel Pci. Il regista, dopo aver lasciato la Sardegna, si occuperà ancora del Sud qualche anno dopo nel documentario Lucania dentro di noi (1967). Il cortometraggio è costruito sull’alternanza di immagini dei dipinti fatti da Carlo Levi, ispirati alla sua esperienza del confino, e riprese attuali della Lucania, mostrandone le corrispondenze. L’idea complessiva che il documentario trasmette è di una Lucania ferma nel tempo, dove non è mutato nulla dagli anni del Cristo si è fermato a Eboli. Le sequenze attuali mostrano il paesaggio brullo, la natura ostile, che sono quelli di sempre, i paesi arroccati sulle montagne, la solitudine, le case vecchie, la promiscuità con gli animali, la persistente credenza nel magico. La fissità dei dipinti di Levi evoca l’immobilità della storia in Lucania e il commento sottolinea come nulla sia cambiato o possa cambiare in quella terra. Nella parte finale del cortometraggio si vede Levi che dipinge i suoi quadri ispirati al mondo contadino, quel mondo di cui, anche grazie a lui, l’Italia intera aveva scoperto l’esistenza. Il documentario sociale, attento alle questioni più spinose dell’attualità degli anni sessanta, non dimentica l’emigrazione, una delle pagine meno edificanti dell’Italia del miracolo. Di emigrazione si parla poco sugli schermi cinematografici: non sono tantissimi, infatti, i film di finzione che raccontano il destino amaro dei meridionali costretti a lasciare la propria terra per trasferirsi nelle periferie delle città industriali del Nord61. Anche il documentario affronta in rare occasioni il tema. Uno dei pochi lavori è Fata morgana (1961) di Lino Del Fra. Lo stile dell’opera è molto convenzionale: un commento serio e polemico denuncia le ingiustizie di cui sono vittima gli emigrati del Mezzogiorno fagocitati dal capitalismo, mentre scorrono immagini 61

P. Iaccio, Cinema e storia, cit., p. 126.

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UNO SGUARDO CRITICO SULLA REALTÀ

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di cui alcune paiono di repertorio e altre delle ricostruzioni. Si vede l’arrivo dei treni dal Sud alla stazione di Milano. I migranti, poveri e spaesati, viaggiano con valigie e pacchi di cartone. Molte scene sono girate nelle coree, luoghi di degrado assoluto, rappresentate e definite quali ghetti: colpisce, in particolare, la visione dei bambini, vittime incolpevoli dell’emarginazione. Alcune scene, riprese in interni di una cantina sovraffollata, raccontano la vita dei meridionali in condizioni di promiscuità e scarsa igiene. Il documentario affronta un argomento molto scomodo, certamente inviso alla censura dell’epoca, tant’è che Lino Del Fra fece non poca fatica a convincere il produttore a finanziare l’opera62. In compenso, essa oggi ci restituisce immagini rare delle condizioni di vita degli emigrati al Nord. Il coraggio nell’affrontare una questione da altri taciuta fu messo in evidenza sulla stampa specialistica. Su «Bianco e Nero» si legge che «Se non fosse per una certa incoerenza tra immagini e testo (il secondo è tremendamente vecchio) e per alcuni brani scopertamente ricostruiti, il giudizio sarebbe pienamente favorevole. Comunque, si tratta di riserve che non inficiano il valore dell’inchiesta, aperta e democratica, né i risultati conseguiti trattando una materia così scottante»63.

62

M. Grasso, Scoprire l’Italia, cit., p. 118. Claudio Bertieri, I documentari a Venezia: un leone per l’Italia, «Bianco e Nero», n. 7-8, Luglio-Agosto 1962, p. 123. 63

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CAPITOLO III

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IN VIAGGIO PER IL BELPAESE

1. Il boom del turismo di massa Tra gli anni cinquanta e sessanta l’Italia, assieme agli altri paesi europei, diviene meta di vacanze, parallelamente all’affermarsi del turismo di massa. In particolare negli anni del miracolo, la vacanza, prima un lusso per pochi, diventa appannaggio di strati sempre più ampi della popolazione grazie all’aumento del benessere economico, alla conquista delle ferie retribuite, alla nuova definizione del tempo di lavoro e del tempo libero, ma anche grazie a fattori quali la maggiore disponibilità di mezzi di trasporto e il potenziamento delle reti stradali. Già pochi anni dopo la fine della guerra, in piena ricostruzione, i primi turisti stranieri fanno capolino nel Belpaese, in particolare sui litorali del Nord o nelle città d’arte. Poi, dagli anni cinquanta anche gli Italiani si mettono in viaggio, dapprima sui pullman per brevi escursioni, poi via via con l’auto, per una gita fuori porta giornaliera o una villeggiatura di più giorni1. Mano a mano le distanze spaziali e temporali delle vacanze si allungano, grazie alla crescente disponibilità di vetture e al miglioramento di strade e autostrade. Così, si va sempre più lontano, alla ricerca dello svago e dell’evasione. Il turismo balneare in Italia, in coerenza con un trend più generale, conquista il primato assoluto. Le coste italiane richiamano moltissimi stranieri, al punto da fare della penisola, assieme alla Spagna e alla Grecia, le più importanti mete in Europa della vacanza al mare2. L’affluenza verso le coste e le isole cresce così tanto 1

Annunziata Berrino, Storia del turismo in Italia, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 246-252. Patrizia Battilani, Vacanze di pochi, vacanze di tutti. L’evoluzione del turismo europeo, Bologna, il Mulino, 2001, p. 146. 2

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PROFONDO SUD

da lasciare in ombra il turismo montano, termale e culturale, che pure avevano avuto un loro rilievo in Italia prima della guerra. Le località balneari si attrezzano per accogliere i turisti in aumento e per rispondere alle loro diverse esigenze economiche. Alberghi e pensioni, spesso piccoli e a conduzione familiare, e con servizi non sempre eccellenti, si moltiplicano. Nuove strutture ricettive sono edificate, in non pochi casi provocando danni irreparabili all’ambiente. In questo modo l’Italia conquista un primato nel settore rispetto a tutti gli altri paesi mediterranei, che conserverà fino agli anni settanta3. Il Mezzogiorno resta a lungo escluso dal circuito turistico: per tutti gli anni cinquanta e sessanta gli itinerari dei vacanzieri si fermano alle regioni del Centro-Nord. I bagnanti affollano le coste adriatiche dal Veneto alle Marche, i litorali liguri e toscani, e solo alcune località del Lazio e della Campania. Per il resto il Sud, con qualche piccola eccezione nelle isole, resta inesplorato. Non si vedono turisti, salvo i pochi amanti di scenari incontaminati (spesso stranieri) o gli emigranti che fanno ritorno a casa. C’è una ragione pratica di questo stato di cose, ovvero il fatto che, di là dalle sue indiscutibili bellezze, il Sud Italia, ancora negli anni del boom dell’economia, non è in grado di accogliere i turisti. Le potenzialità non mancano, ma le strutture alberghiere sono pressoché inesistenti e le poche disponibili spesso inadeguate. Limiti pesanti attanagliano anche il sistema dei trasporti e la rete stradale, insufficiente per permettere di raggiungere in tempi rapidi e in modi agevoli le mete turistiche4. Nonostante queste barriere, è forte il tentativo di promuovere soprattutto le due isole maggiori, che, sebbene incapaci di accogliere un turismo di massa, negli anni sessanta diventano meta di un turismo d’élite. Vi nascono, infatti, i primi Club Méditerranée e, in Sardegna, la Costa Smeralda. Quest’ultima rappresenta l’unico caso in Italia di intervento pianificato su un’area vasta, tra l’altro in un territorio economicamente depresso e in cui non esisteva alcuna cultura turistica preesistente. Voluta da un consorzio di privati capeggiati da Karim Aga Khan IV, la Costa Smeralda è inventata praticamente dal nulla. Sorge su un tratto di quarantacinque km di costa straordinaria sul piano paesaggistico, ma disabitata e priva di servizi. Il consorzio realizza alberghi e ville, ma anche strade e ogni infrastruttura utile a garantire i servizi, seguendo tutti gli aspetti del 3 4

Ivi, p. 232. A. Berrino, Storia del turismo in Italia, cit., pp. 263-265.

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IN VIAGGIO PER IL BELPAESE

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progetto e della sua realizzazione, con un’attenzione particolare alla tutela del paesaggio5.

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2. Immagini da cartolina Il mito della vacanza e l’incentivo al viaggio sono alimentati dal cinema di finzione, che contribuisce a definire l’immaginario del turismo di massa. Un immaginario festoso e leggero, che ci restituisce istantanee di spiagge sovraffollate, corpi in costume da bagno in acqua o distesi al sole, vetture in lunghe code verso le principali mete di vacanza del Belpaese6. Anche il documentario, nella sua declinazione turistica, partecipa, per certi aspetti, alla costruzione di questo immaginario. Sotto la definizione di documentario turistico, in realtà, ricadono numerosissime opere, probabilmente la parte più corposa del documentario italiano. Si tratta di un genere complesso, che annovera cortometraggi caratterizzati da diverse finalità: ora la descrizione oleografica delle bellezze naturalistiche e artistiche d’Italia, ora la propaganda pubblicitaria in favore di località turistiche, ora la divagazione storica sulle sopravvivenze di antiche civiltà, ora, infine, il soddisfacimento della curiosità e del desiderio di evasione dello spettatore. Ci sono, però, molti elementi ricorrenti all’interno di questo genere così ampio. Fatte rare eccezioni, infatti, i documentari turistici erano realizzati in poco tempo e a basso costo, spesso al solo scopo di incassare i premi statali. Ne scaturivano opere scarsamente ricercate sul piano formale, superficiali nei temi trattati e inclini al folclorismo, che trasmettevano i più scontati cliché regionalistici, traducendo le diverse realtà locali in cartoline e prevedibili bozzetti. A fare le spese di queste belle fotografie era il volto vero dei luoghi, trasfigurati in una consapevole messinscena, affinché nulla della realtà più amara turbasse la tranquillità e la spensieratezza evocate dalle immagini7. Non stupisce, perciò, che il cortometraggio turistico si sia guadagnato in assoluto i giudizi peggiori da parte della critica. 5

P. Battilani, Vacanze di pochi, vacanze di tutti, cit., pp. 278-287. Cfr. Maurizio Zinni, Rappresentare il benessere. Gli italiani e le vacanze nel cinema del “miracolo”, in Pietro Cavallo, Pasquale Iaccio (a cura di), Penso che un sogno così non ritorni mai più. L’Italia del miracolo tra storia, cinema, musica e televisione, Napoli, Liguori, 2016, pp. 217-233. 7 Giampaolo Bernagozzi, Il cinema corto. Il documentario nella vita italiana 1945-1980, Firenze, La Casa Usher, 1980, pp. 161-162. 6

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Una sintesi dei limiti di questo genere si trova in un articolo di Renzo Renzi su «Cinema Nuovo». L’autore chiarisce i due scopi principali dei documentari turistici: «da una parte quello di essere piacevoli, a ogni costo; dall’altra quello di raccontare tutto (o il più possibile), nel breve spazio di dieci minuti». Da qui il ricorrere a «tutti i possibili effetti di suggestione cartolinesca», scegliendo belle immagini, e «quando le immagini non bastassero, venivano aggiunti commenti parlati d’intenzione lirica, ma tali, nei peggiori casi, da non meritare la pubblicazione – se presentati in forma di articolo – nemmeno in un modesto giornale di provincia, tanta era la rettorica, in aperta sfida allo sperimentato buon senso del pubblico». Il commento, didascalico e carico di informazioni, pareva voler dire proprio tutto quanto ci fosse da sapere, ma la sua «citazione non trovava nessuna traccia visibile nelle inquadrature e perciò appariva superflua, come il disturbo che provocano le cose che non c’entrano». Inoltre, le eccessive citazioni erudite finivano «per creare nello spettatore comune una sorta di complesso d’inferiorità […]. D’altro canto la citazione erudita non è che fosse il prodotto di una cultura veramente assimilata: rivelava piuttosto la disordinata informazione che tutti possono attingere, al momento opportuno, da una semplice guida»8. Un documentario, in definitiva, orientato al disimpegno e alla suggestione, di cui a fare le spese era il pubblico delle sale, in non pochi casi annoiato dalla monotonia delle immagini (spesso lunghe panoramiche) e dai commenti prolissi e liricizzanti. Di là dai limiti, se il documentario turistico ha avuto un pregio è stato quello di aver condotto lo spettatore alla scoperta della geografia del Paese, proponendo itinerari e sogni a buon mercato, rispetto al più ambizioso documentario di viaggio, in voga nella stessa epoca. Soprattutto negli anni sessanta, infatti, i documentari di viaggio, quasi sempre dei lungometraggi (realizzati da registi come Folco Quilici, Mario Craveri, Enrico Gras, Giorgio Moser, Luciano Emmer e Carlo Lizzani), hanno aperto al pubblico delle sale una finestra su continenti lontani, civiltà sconosciute, paradisi inesplorati, alimentando aspirazioni di evasione. Non è un caso che alcuni di questi lavori siano stati dei campioni d’incassi9. Rispetto ai sogni irrealizzabili dei documentari di viaggio, i più modesti documentari turistici hanno veicolato desideri a 8 Renzo Renzi, Esperienze di gruppo nel documentario, «Cinema Nuovo», n. 56, 10 Aprile 1955, pp. 267-268. 9 Lino Micciché, Studi su dodici sguardi d’autore, Torino, Lindau, 1995, p. 39.

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portata di tutti e hanno fatto scoprire scorci d’Italia, suggerendo idee per vacanze. Questo aspetto non sfuggiva agli enti e alle organizzazioni gravitanti nell’universo del turismo, tant’è che si servirono di questo tipo di documentari come mezzo di promozione di alcune località di vacanza10. Ed è così che, a ridosso dell’estate, nelle sale circolavano cortometraggi dallo spiccato carattere pubblicitario, in cui le ragioni commerciali avevano la meglio sulla qualità dei film. Ovviamente la circostanza non sfuggiva alla critica, sempre pronta a bacchettare gli usi strumentali del documentario11. Nel documentario turistico il Mezzogiorno ha dei tratti ricorrenti. È una terra di sole e mare, di una natura incantevole, di tradizioni storiche e di curioso folclore. È il luogo dove vivono contadini sereni, immersi nell’arcadia di un mondo rurale antico, o valorosi pescatori, eroi della tradizionale caccia ai tonni e ai pesci spada. Il Sud del documentario turistico, in altre parole, è trasfigurato in un bozzetto, che attinge abbondantemente agli stereotipi più diffusi. Degli squilibri del Meridione del dopoguerra e degli anni del miracolo, della sua povertà e del suo sottosviluppo, invece, non c’è traccia. Nulla che possa offuscare i colori delle belle cartoline dal Mezzogiorno trova spazio in queste opere. Il risultato è uno sguardo parziale, oltre che fortemente filtrato da cliché. Uno sguardo che, tuttavia, coglie involontariamente scorci del paesaggio meridionale prima che fosse sconvolto dalle grandi trasformazioni innescate dal progresso. Di lì a poco, infatti, col boom dell’edilizia e l’esplodere del turismo di massa, il volto primitivo di alcuni siti sarebbe scomparso. Ma nei fotogrammi del documentario turistico oggi possiamo ritrovarne traccia. La mappa del Meridione ricomposta in questo genere di documentario appare sbilanciata e disomogenea. Infatti, se alcune località ricorrono spesso, altre sono visibilmente trascurate. Così, numerosissimi cortometraggi sono ambientati in Sicilia e nelle Eolie. Subito dopo c’è Napoli coi suoi dintorni e le isole di Capri ed Ischia. Segue la Sardegna. In coda la Calabria e la Puglia. La circostanza non è casuale: le regioni più frequenti sono quelle in cui è in via di sviluppo 10

Negli anni sessanta il Comitato nazionale del turismo organizza addirittura una rassegna dei film turistici nell’ambito della Mostra del cinema di Venezia, col benestare di Confindustria, Anica e Associazioni industriali di Venezia. Vi era piena consapevolezza che il turismo, ormai una delle principali attività economiche del Paese, andasse incentivato servendosi anche del cinema. Claudio Corritore, Film turistici e letteratura cinematografica, «Cinema Nuovo», n. 159, Settembre-Ottobre 1962, p. 370. 11 Claudio Bertieri, I documentari, «Cinema», n. 169, 1 Luglio 1956.

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il turismo, o in cui quest’ultimo è visto come una promessa realizzabile. Il legame tra documentario e sviluppo del turismo in Italia emerge anche dal fatto che la produzione dei cortometraggi esplode, letteralmente, tra la metà degli anni cinquanta e gli anni sessanta, ovvero nel momento di massima espansione del settore economico, in cui più forti erano le spinte alla promozione dei luoghi. Su un piano diverso, anche il colore e il cinemascope – introdotti entrambi nel 1955 ed utilizzati da subito nel documentario – contribuirono non poco all’incremento della produzione dei cortometraggi turistici. La sostituzione del bianco e nero con la vivacità del colore e i sistemi di ripresa panoramici, infatti, garantivano degli effetti di spettacolarità che si sposavano perfettamente con gli scopi di quei documentari12. Dalla metà degli anni cinquanta, così, sugli schermi cinematografici è l’esplosione del colore, che nei documentari turistici sul Sud si declina nei gialli dei campi arsi dal sole, nelle gradazioni di blu dei mari cristallini, nel bianco delle spiagge sabbiose, o nel verde di una vegetazione incontaminata.

3. Templi, pupi e caccia ai tonni La Sicilia è la regione in assoluto più frequentata dal documentario turistico. La bellezza dei panorami, la ricchezza del patrimonio artistico e archeologico, le antiche tradizioni, come la pesca dei tonni e del pesce spada, rappresentano un richiamo ricorrente per molti registi. La produzione è realmente sconfinata13, al punto che diventa difficile darne conto nella sua interezza. È facile ipotizzare, tuttavia, che si tratta di lavori con caratteristiche molto simili, che pescano in un serbatoio iconico consolidato sull’isola, rafforzando, così, certi stereotipi diffusi. All’inizio degli anni cinquanta, ad esempio, la casa di produzione Phoenix produce diversi cortometraggi dedicati alla regione, assecondando una prassi, allora in voga, che consisteva nella realizzazione in blocco di più opere incentrate su un’unica realtà territoriale. Fanno parte di questo gruppo Sicilia barocca di Vittorio Carpignano, Sicilia arabo-normanna e Terra di Pirandello di Giuliano Tomei, Sicilia ellenica 12

Id., I documentari, «Cinema», n. 150, 10 Settembre 1955. Un catalogo dettagliato di tutti i documentari realizzati in Sicilia, che fa comprendere la vastità di questo settore, è in Sebastiano Gesù, La Sicilia della memoria: cento anni di cinema documentario nell’isola, Catania, Maimone, 1999. Si tratta di un raro lavoro di scavo, su base regionale, in un patrimonio sconosciuto e in buona parte andato perduto. 13

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di Guido Manera e Passione a Isnello di Ugo Fasano. Sicilia barocca è un classico cortometraggio a metà strada tra il documentario turistico e quello d’arte. Con tono descrittivo, fa luce sulle sopravvivenze del barocco seicentesco nella Sicilia contemporanea, oltre a fare riferimento ad alcune tradizioni popolari e religiose. Le immagini di buona qualità sono accompagnate da un commento retorico e da un’insistente colonna sonora. Si tratta di un cortometraggio dai caratteri standard per il genere. Non a caso, il critico Mario Verdone a proposito di questo lavoro scrive che «Vittorio Carpignano ha libero il campo per una completa distensione del proprio temperamento lirico, sollecito all’invenzione, amante del pittoresco, tecnicamente attrezzato e, anzi, consumato»14. Non diverse le valutazioni su Sicilia ellenica, relativo alla presenza dell’arte greca sull’isola, e su Terra di Pirandello, un viaggio nei luoghi dell’opera dello scrittore di Agrigento, in cui «l’evocazione ha tutto il sapore dell’autenticità», grazie all’«immagine, cui non manca che una maggiore penetrazione […] e il parlato che attinge sequenza per sequenza ai testi pirandelliani»15. Passione a Isnello (1951), del regista napoletano Ugo Fasano, molto attivo nel documentario turistico, ha invece un più marcato intento antropologico, poiché documenta il tipico rito della “casazza” presso Isnello, paesino sulle Madonie, ovvero sacre rappresentazioni pasquali, di origine medioevale, relative alla morte e Resurrezione di Cristo, che gli abitanti del luogo eseguivano ogni cinque anni. La cinepresa, riprende, attraverso una sapiente regia, che apparenta il documentario a un film di finzione, gli abitanti di Isnello che, con canti e parole, rivivono alcuni episodi del Vangelo e i tragici momenti della Passione di Cristo. Alcuni di questi registi, documentaristi di professione, realizzano molti cortometraggi simili tra loro. Carpignano, ad esempio, in Sicilia, nello stesso anno e sempre per la casa di produzione Phoenix, gira anche Artigiani di Sicilia, Il giardino delle Esperidi, Quando le Pleiadi tramontano e Caccia del pesce spada. Il primo è un cortometraggio sull’artigianato tipico siciliano. Il giardino delle Esperidi parla di un’importante risorsa economica dell’isola, gli agrumi, e del relativo ciclo di produzione. A proposito di quest’ultimo cortometraggio, il giudizio della critica è felice: per Verdone rappresenta un modello da imitare per la sua capacità di vivacizzare ed umanizzare il tema tecnico e «L’insegnamento del documentario inglese», incentrato sul 14 15

Mario Verdone, I cortometraggi, «Cinema», n. 67, 1 Agosto 1951, p. 53. Ibidem.

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trattamento creativo della realtà, «qui appare accettato con soluzioni tutte italiane»16. Quando le Pleiadi tramontano e Caccia del pesce spada, invece, percorrono un sentiero molto battuto dal documentario, quello della pesca ai tonni e al pesce spada. Il primo cortometraggio fu accolto con successo alla Mostra Internazionale del film scientifico e del documentario d’arte a Venezia nel 195117. In effetti, se si guarda anche solo ai titoli dei cortometraggi dei registi più assidui in questo genere, ci si rende conto di come le opere fossero realizzate quasi in serie, sfruttando temi e pratiche estetiche consumati. Anche Giuliano Tomei, ad esempio, per la casa di produzione Phoenix gira numerosi cortometraggi turistici, ambientati sia in Sicilia sia in altre regioni meridionali. Tra questi, Città senza tempo (Pompei) (1947), Antichi approdi del Tirreno (1948), Intermezzo sardo (1949), Magna Grecia (1949), Primavera sull’Etna (1952), Zolfo (1953), La cava dei colori (1953) e La rocca di Venere (Erice) (1953). Lo stesso vale per Manera, che della casa di produzione Phoenix era anche titolare: suoi cortometraggi sono Il paese di Pirandello (1950), Sicilia moresca (1950) e Nei regni del mare (1951). I motivi ispiratori sono sempre gli stessi: l’incanto dei posti, il patrimonio artistico e archeologico, le risorse del territorio e la loro valorizzazione. Il documentario turistico, in altre parole, si presenta come un insieme omogeneo, caratterizzato da spunti e pratiche espressive standardizzati. Si allontana in parte dalla produzione media la Panaria Film, che produce, tra gli altri, i primi documentari che esplorano i fondali del mare siciliani. Grazie al lavoro di operatori coraggiosi, con l’ausilio della tecnica, la macchina da presa è portata sott’acqua, a contatto con una flora e una fauna sconosciute in precedenza al pubblico. La Panaria fu fondata a Palermo negli anni quaranta dai giovani Francesco Alliata, Renzo Avanzo, Quintino Di Napoli, Pietro Moncada e Fosco Maraini, tutti accomunati dalla passione per il cinema e per la pesca subacquea. Armati di coraggio, dopo una lunga fase di sperimentazione nelle acque delle Eolie, gli operatori della Panaria riuscirono a trovare sistemi atti a favorire le riprese anche a molti metri di profondità, realizzando qualcosa di straordinario per i tempi18. Il primo cortometraggio girato sott’acqua è Cacciatori sottomarini (1947). L’esplorazione dei fondali è condotta attraverso il pretesto narrativo di 16 17 18

Ibidem. Mario Verdone, Signori, chi sono i premiati?, «Cinema», n. 71, 1 Ottobre 1951, p. 172. S. Gesù, La Sicilia della memoria, cit., pp. 45-46.

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una battuta di caccia di tre pescatori che, muniti di maschera e fucili, si inabissano nelle acque delle Eolie. Il commento e la musica animano le immagini dei silenziosi fondali, attraverso una colta drammatizzazione. Così come nel finale, quando assistiamo all’escalation della fuga dei pescatori per un’improvvisa eruzione dello Stromboli. Bianche Eolie (1948) esplora, invece, le Eolie sulla terraferma. Protagonista è ancora il fascino dei luoghi, ma il cortometraggio dà spazio anche agli uomini e alle donne che abitano le isole, in particolare Panarea, parlando delle loro condizioni di vita. Si vede un gruppo di donne in barca e il commento spiega che sono costrette a svolgere lavori maschili per compensare l’assenza degli uomini emigrati. Poi, il cortometraggio mostra il quotidiano a Panarea, con le donne che gestiscono l’economia domestica e gli uomini che lavorano nelle polverose cave di pomice. In Bianche Eolie, in altre parole, la natura lussureggiante non impedisce la riflessione di carattere sociale sulla durezza della vita e sulla speranza che qualcosa cambi. Analogamente accade in Isole di cenere (1948), girato tra Vulcano e Stromboli. La natura selvaggia di Vulcano, poco popolata, richiama la difficoltà del vivere per i suoi abitanti. Il cortometraggio, con uno sguardo neorealista, restituisce l’immagine senza tempo dell’isola, che – non a caso dice il commento – «è un mondo umano e mitico insieme». Immagine ancora più forte per Stromboli, isola fantasma, quasi completamente disabitata. Le poche persone che continuano ad abitarvi combattono con la paura della furia del vulcano ogni giorno. Più tradizionali sono Tonnara (1948) e Tra Scilla e Cariddi (1949), due cortometraggi didascalici che spiegano come avvenivano rispettivamente l’antica pesca dei tonni e dei pesci spada nei mari di Sicilia. In Tonnara le immagini documentano una reale caccia ai tonni, mentre il commento ne spiega le fasi. Si vedono le tipiche imbarcazioni e attrezzature, i canti e l’attesa dei pescatori fin quando i tonni non finiscono nella “camera della morte” e, grazie alle reti, sono tirati con violenza nelle barche. Analogamente in Tra Scilla e Cariddi la pesca al pesce spada, che avveniva nello stretto di Messina, è descritta come una pratica antichissima. Il modo di condurla da parte dei pescatori, spiega il commento, chiarisce come «l’origine della loro tradizione si perda nella notte dei tempi». Nei documentari della Panaria c’è un richiamo costante alla tradizione o a un passato mitico, che annoda strettamente il presente al tempo che fu. La Sicilia del tempo mitico, nonché del colore e del folclore, rivive pure nella produzione di Ugo Saitta, autore di una produzione vastissima di cortometraggi, che va dagli anni quaranta agli anni ottanta. In

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particolare, Saitta è ricordato per i suoi documentari girati sull’Etna, di cui ha dato innumerevoli rappresentazioni. Il regista, siciliano di origine, autoproduce le proprie pellicole, attraverso la società Cineproduzione Ugo Saitta, fondata nel 1947. Prima di abbracciare il documentario turistico, da giovane diplomato del Centro Sperimentale, segue le orme del neorealismo, realizzando Zolfara (1947), cortometraggio di denuncia sociale, che, portando per la prima volta la macchina da presa a centinaia di metri di profondità sotto terra, nelle terribili gallerie dove si estraeva lo zolfo, racconta le drammatiche condizioni di lavoro degli zolfatari siciliani. Grazie ai contrasti di luce, ottenuti attraverso una ricercata fotografia in bianco e nero, il regista rende il senso della fatica e delle sofferenze dei lavoratori. Si tratta di un cortometraggio in anticipo sui tempi: il massacrante lavoro nelle zolfare, infatti, qualche anno dopo sarebbe stato al centro di altri documentari e film a soggetto. Zolfara, per gli indiscutibili pregi, presentato a Venezia nel 1948, ottenne un buon successo di critica19. Successivamente la filmografia di Saitta sulla Sicilia si incardinerà su altro genere di temi, come feste e tradizioni, itinerari turistici, il teatro dei pupi e l’artigianato, l’Etna e i suoi abitanti. Una produzione vasta, ma con dei caratteri ricorrenti, che restituisce nel suo complesso i tratti della Sicilia tipica. Saitta si serve di moduli narrativi consolidati nell’ambito di un modo di fare documentario molto convenzionale. Un buon esempio è il cortometraggio La terra di Giovanni Verga (1953), che sfrutta il pretesto narrativo, di frequente in uso nel genere turistico, della rievocazione della vita e delle opere di un autore mediante un viaggio sui luoghi della sua memoria. La pellicola è ambientata a Vizzini, in provincia di Catania. Vedute da cartolina sono legate tra loro da un commento retorico, che essenzialmente evidenzia come i personaggi verghiani siano il frutto dei posti in cui sono nati. Assieme alla voce over, la colonna sonora è composta da musica popolare siciliana. Nonostante il carattere convenzionale, la qualità delle riprese è notevole e rende lo splendore dei panorami attraverso una vivace tavolozza di colori. Quella che vediamo nelle immagini è una Sicilia da cartolina, cristallizzata in una successione di stereotipi. Il cortometraggio non dispiacque alla critica. Su «Cinema Nuovo» si legge addirittura che esso negli ultimi fotogrammi, girati ad Acitrezza, rievoca gli echi di altre immagini, «ben altrimenti impegnative», ovvero quelle di La terra trema di Visconti20. Lo stesso 19 20

Ivi, pp. 43-45. Tom Granich, I cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 35, 15 Maggio 1954, pp. 285-286.

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critico, qualche anno dopo, tuttavia, esprime un giudizio molto più severo a proposito di un altro documentario di Saitta, Il carretto siciliano. Il cortometraggio, che racconta delle fasi di realizzazione artigiana del tipico carretto, è definito «monotono» e si dice che gli «manca perfino la vitalità del folklore siciliano. Non bastano certo alcune canzoni locali e la visione sempre uguale dei pur bellissimi carretti per dare mordente a un documentario»21. Sole e fiori a Taormina (1948), Etna feconda (1950), Mito e realtà di Siracusa (1951), I pupi siciliani (1955), Traveling in Sicily (1960), La riviera dei tre golfi (1963) sono solo alcuni dei titoli di Saitta. Il regista guarda alla Sicilia da più angoli, con l’occhio di chi conosce bene la sua terra, offrendo nel complesso della sua produzione un caleidoscopio di colori e di colore sulla regione. Scenari iconografici, archeologia, richiamo al passato, tradizioni, folclore sono tutti elementi che ritornano, in un documentarismo convenzionale e dal tono didattico, che però non rinuncia alla ricerca formale e alla composizione raffinata dell’inquadratura. Come Ugo Saitta, anche Ugo La Rosa e Aldo Franchi hanno realizzato in Sicilia documentari turistici ispirati da un’accurata conoscenza dei luoghi. Personaggio eclettico – è stato regista teatrale e televisivo, giornalista ed editore, oltre che documentarista e produttore – La Rosa, attraverso la propria casa di produzione Filmarte, ha diretto nel corso degli anni cinquanta e sessanta diversi cortometraggi in cui i temi turistici e folcloristici sono spesso filtrati attraverso riferimenti alla letteratura e alla pittura siciliane. Pertanto, la sua opera nell’insieme appare oggi come una ricca riserva di riferimenti linguistici ed iconografici alla cultura dell’isola22. Aldo Franchi, giornalista di origini toscane, esordisce nel documentario con Sagre dell’Isola (1950), prodotto dalla Panaria Film e incentrato sui culti delle tre sante protettrici di Siracusa, Catania e Palermo. Seguono opere che negli anni hanno immortalato le feste e le tradizioni, le sopravvivenze di antichi mestieri e l’inestimabile patrimonio artistico delle città siciliane23. I documentari di Aldo Franchi sono abbastanza convenzionali nei temi e nella forma. Tuttavia, in alcuni casi raccolsero giudizi molto positivi sulla stampa specialistica. Del 1950 è Paladini per le vie, sulla storia e le leggende degli antichi Paladini di Francia, le cui gesta rivivono nei racconti dei cantastorie, o nel turbinio delle immagini raffigurate sulle fiancate dei carretti si21 22 23

Id., Cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 118, 15 Novembre 1957, p. 268. S. Gesù, La Sicilia della memoria, cit., p. 50. Ivi, p. 54.

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ciliani e all’opera dei pupi. Il cortometraggio illustra il paziente lavoro degli artigiani di Bagheria e di Palermo, che costruiscono e decorano i carretti per le strade. Renato Giani su «Cinema» lo definisce una «favola», mediante cui i paladini rivivono quasi emergendo dalle superfici su cui sono raffigurati. E il racconto, sottolinea Giani, «non è sceso al regionalismo se non dov’era necessario per l’ambientazione». Così, dalle raffigurazioni di Ruggiero e Orlando al teatro dei pupi, passando per i pittori e gli intagliatori che realizzano splendide opere di artigianato locale, «In trecento metri corre rapida la storia della Sicilia, con la sua leggenda e la sua vitalità». Il cortometraggio, in definitiva, offre «Non folclore ma epica giornaliera, fino ad oggi sconosciuta a noi»24. Renato Giani spende parole di lode anche per un altro documentario di Franchi, I prodi cavalieri, molto simile per i temi al precedente. Si parla ancora dei Paladini di Francia, di Orlando, Angelica e Rinaldo, dei Saraceni e del loro rivivere nella tradizione popolare siciliana. Secondo il critico, se folclore c’è, esso è «come studio approfondito dello spirito o dell’animo popolare. […] non illustrazione, racconto invece con una sua gradevole autonomia fuori del commento». In altre parole, «Franchi presenta i documentari come servizi giornalistici»25, in cui partendo da interrogativi precisi offre risposte, sfuggendo ai limiti dei cortometraggi turistici più tradizionali. La concretezza e l’utilità informativa sono evidenziati per un altro documentario del regista anche da Tom Granich su «Cinema Nuovo». Il cortometraggio in questione è Sicilia di un tempo, un omaggio alle tradizioni popolari siciliane, attraverso una fitta descrizione di stampe e arazzi, pupi e statuine conservati presso il Museo etno-antropologico Pitré di Palermo. Il critico scrive che, «Pur non uscendo da un piano di decorosa normalità, il documentario […] può servire a chi si interessa delle fonti pressoché inesauribili, e purtroppo sconosciute ai più, del folklore e del nostro paese». Così, «Sicilia di un tempo che bada ai fatti più che alla retorica»26, può essere ugualmente utile per un pubblico di specialisti e per lo spettatore comune. Quando si parla di folclore e iconografia della Sicilia non si può dimenticare Mario Verdone, un nome importante del panorama documentaristico italiano. Meglio conosciuto come critico di documentari, tra i pochi in Italia assidui in quest’attività, Verdone ha percorso anche la strada della regia. Uno dei documentari da lui realizzati in Sici24 Renato Giani, I Paladini per le vie alla ricerca del dialetto, «Cinema», n. 57, 1 Marzo 1951, p. 103. 25 Id., Cavalieri siciliani a Parigi, «Cinema», n. 85, 1 Maggio 1952, p. 236. 26 Tom Granich, Cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 86, 10 Luglio 1956, p. 28.

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lia, probabilmente il più noto, è Immagini popolari siciliane, incentrato sull’iconografia popolare siciliana, che per la lunghezza del metraggio fu scomposto in due diversi cortometraggi, Immagini popolari siciliane profane (1954) e Immagini popolari siciliane sacre (1954). Il primo parla delle raffigurazioni di storie di paladini nella cultura siciliana. Il cortometraggio si apre raccontando dell’arte decorativa su insegne e carretti. Si passa poi al teatro dei pupi, mostrando la maestria dei pupari. Infine, si vede un cantastorie che, servendosi di un cartellone illustrato, narra le storie dei paladini. Immagini popolari siciliane profane capta il folclore dell’isola, la cultura e l’ambiente popolare da cui scaturiscono le immagini dei paladini raffigurate nell’arte decorativa e al teatro. Immagini popolari siciliane sacre, invece, si sofferma sull’iconografia religiosa nata dalla pittura popolare, che si trova in chiese, altarini e luoghi sacri. Poi mostra gli ex voto, il simbolo di vicende vissute dai miracolati. Entrambi i cortometraggi sono un tripudio di colore, grazie a una fotografia vivace. Il colore non investe solo l’iconografia siciliana ma gli stessi ambienti popolari da cui nasce. Ne scaturisce una rappresentazione molto folcloristica dell’isola, che attinge a piene mani dall’immaginario tradizionale siculo. Questo aspetto non sfuggì alla critica coeva. Roberto Paolella di Immagini popolari siciliane scrisse che «riesce ad animare di una curiosa vita trepidante e sognatrice gli aspetti del folklore siciliano»27. L’attenzione per l’ambiente popolare siciliano è centrale anche in un altro documentario di Verdone, Mestieri per le strade (1955). Si tratta di un itinerario nelle strade e vicoli di Palermo, dove varie categorie di artigiani hanno le loro botteghe. Li si vede lavorare all’aperto, complice il clima dell’isola. I lavori sono antichi e talvolta curiosi, alcuni a breve sarebbero scomparsi, spazzati via dalla modernità. Il documentario, sulle note di canti siciliani tradizionali, ci mostra una Palermo popolare e umile, con un tono descrittivo, che tuttavia non scade mai nel folclorismo banale. Offre allo spettatore un mondo vivace e variopinto, animato da adulti operosi e ragazzi che apprendono i mestieri, che fissa nella memoria l’immagine della Sicilia di un tempo. L’ambientazione siciliana ma anche l’uso vigoroso del colore accomunano Verdone a Giovanni Paolucci. Se il primo utilizza una fotografia vivace per raccontare il folclore e l’iconografia isolani, il secondo attraverso il cromatismo racconta le bellezze naturalistiche delle Eolie, 27

Roberto Paolella, Mario Verdone documentarista, «Cinema», n. 145, 25 Novembre 1954, p. III.

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piccoli paradisi nei mari della Sicilia. La critica ha accolto con entusiasmo i cortometraggi di Giovanni Paolucci, sottolineando appunto le innegabili capacità del regista nell’uso del colore, di cui è stato un indiscusso pioniere cinematografico28. È proprio Mario Verdone a recensire su «Cinema» due dei documentari di Paolucci del 1953, Isole di cenere e Le rocce di Eolo. Di essi dice che «sembrano porgere un’immagine nuova di Panaria, di Vulcano, di Stromboli». In Isole di cenere, che racconta della raccolta della pomice, «Due colori predominano nelle inquadrature, così rigorose e regolate da apparire preziose, indulgenti a preoccupazioni formali anche eccessive: il bianco e il verde, il bianco della cenere, e il verde limpido del mare che stringe da vicino quei vulcani e quelle montagne». Il colore garantisce delle inquadrature «inedite» per il critico. Per il resto, però, non sono assenti le ricorrenti pecche del documentario, ovvero il commento, di cui qualche parte appare «un po’ scialba», e la musica, che svolge di tanto in tanto «un’azione di disturbo»29. Limiti analoghi Verdone scorge ne Le rocce di Eolo, cortometraggio sulla vita nelle Eolie a contatto con i fenomeni vulcanici. Per il critico è meno riuscito del primo, poiché ha «l’aria di un documentario di recupero»30. La tavolozza cromatica di Paolucci non passa inosservata neppure a «Bianco e Nero», su cui si legge che «Il sole ardente imbianca il cielo e il mare come il bianco turbinio del suolo polveroso; e la sola macchia di colore è il bruno rossastro dei toraci degli uomini e il rosso fazzoletto delle donne che raccolgono piegate in due la pietra pomice; è un sorprendente documento umano e al tempo stesso una prodezza del pittoresco cinematografico»31. Ai pregi formali del cortometraggio si affiancano quelli legati al rilievo dato al fattore umano. Analogamente si dirà a proposito di un altro documentario di Paolucci di qualche anno dopo, La montagna di cenere (1952), che ripropone tematiche già affrontate. «Dalle cave di pomice delle Isole Eolie, e in particolare di Lipari – si legge su

28 Sebbene il colore sia stato introdotto nel documentario nel 1955, le sperimentazioni erano iniziate già molto prima, alla fine degli anni quaranta. Paolucci, Gandin e Pellegrini sono considerati i registi che per primi si sono serviti del colore in maniera funzionale, cioè come strumento di ricerca formale, a differenza di tanti altri che lo hanno utilizzato in modo più approssimativo e puramente spettacolare. Così, già prima del 1955, Paolucci realizza documentari che rappresentano dei riusciti esperimenti con il colore. Mario Verdone, Documentari a colori, «Bianco e Nero», n. 2-3-4, Febbraio-Marzo-Aprile 1954, pp. 130-131. 29 Id., I cortometraggi, «Cinema», n. 109, 15 Maggio 1953, p. 272. 30 Ibidem. 31 Il film d’informazione a Berlino, Locarno, Venezia, «Bianco e Nero», n. 11, Novembre 1953, pp. 46-47.

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«Cinema Nuovo» -, gli abitanti traggono una parte notevole dei loro mezzi di vita. Paolucci ha non soltanto mostrato il funzionamento e la ubicazione delle cave, ma ha posto in giusto risalto l’elemento umano». Così, diversamente da quanto avveniva in altri documentari, il lavoro degli uomini è qui presentato «con affetto e senza la consueta retorica del lavoro». Anche il colore, però, ancora una volta è elemento determinante: «Fra l’azzurro del mare e il bianco accecante della polvere di pomice, che invade intere zone dell’isola, si direbbe quasi stretta un’alleanza, nel senso che i rapporti fra questi due colori – che sono i colori base del documentario – danno luogo a un equilibrio compositivo apprezzabile»32. Più convenzionale un altro cortometraggio che Paolucci dirige per l’Istituto Luce, Aria di Taormina (1955). Tornano i riferimenti alle persistenze del passato nell’archeologia del posto, l’incanto della natura e le tradizioni culturali, come il teatro dei pupi. Il cortometraggio, tuttavia, ci parla anche del turismo sull’isola, mostrando le immagini di alcuni bagnanti. È una circostanza insolita: nei documentari di questo genere non si vedono mai i turisti. Obiettivamente negli anni cinquanta e sessanta, come visto, il turismo al Sud è ancora scarsamente diffuso, ma Taormina fa eccezione, essendosi affermata presto come meta di vacanze, prima d’élite poi per il ceto medio, pur sorgendo in una zona economicamente depressa33.

4. Folclore, mandolini e isole felici Gli itinerari turistici dei cortometraggi italiani hanno dato larga preferenza alle isole, non soltanto quelle maggiori. Anche Capri, Ischia e Procida, nel periodo di espansione del turismo, diventano set per documentari, soprattutto quelli con spiccate finalità pubblicitarie. Capri, paradiso del Tirreno, meta di vacanzieri d’élite, catalizzatrice di sogni, si ritrova spesso nei film turistici, con poche variazioni sul tema. La stampa specialistica lo evidenzia con disappunto. A proposito di uno dei cortometraggi ambientati nell’isola, su «Cinema Nuovo» si legge che «Un giorno qualcuno farà la storia […] di Capri dal punto di vista dei documentari. Potrà aggiungervi un’ennesima variante di pubblicità per la famosa isola, intitolata Incantesimo di sole »34. Le immagini 32

Tom Granich, I cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 65, 25 Agosto 1955, p. 157. P. Battilani, Vacanze di pochi, vacanze di tutti, cit., pp. 272-277. 34 Tom Granich, I cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 76, 10 Febbraio 1956, p. 92. 33

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dei documentari turistici sono simili tra loro: paesaggi incantevoli, spiagge e mare, avvenenti ragazze in costume. Il tutto accompagnato da un commento banale e magari da un motivo musicale in voga. Così, di Incantesimo di sole si dice che il suo nome «è anche il titolo di una canzonetta locale, naturalmente presa in considerazione per la colonna sonora», mentre «I soliti sgargianti colori ravvivano in qualche modo un commento quasi impossibile»35. Incantesimo di sole (1954) è opera di Ugo Fasano, autore, come già visto, di altri cortometraggi sul Mezzogiorno. Molti tra questi appartengono al genere turistico e Fasano li gira tra Napoli e le isole. Procida (1950), Canti del golfo di Napoli (1954), Rapsodia napoletana (1954), C’era una volta Napoli (1954), Viaggio a Napoli (1962) sono solo alcuni dei cortometraggi di un percorso attraverso cui il regista esplora il folclore e il paesaggio partenopeo, servendosi di moduli espressivi che si ripetono. Tra questi la musica napoletana, talvolta celebri brani cantati, che immergono lo spettatore nell’atmosfera unica e riconoscibile di Napoli e dei suoi dintorni. Molto simile a Incantesimo di sole, ad esempio, è L’isola incantata (1954). Anche in questo caso ci si trova di fronte ad un documentario convenzionale, la cui colonna sonora contiene una più nota canzonetta. Si parla della bellezza dei posti e si vedono i vacanzieri numerosi. Lo scenario, però, non è più Capri ma Ischia. Assieme a Capri, infatti, pure Ischia, altro eden balneare, è scelta di frequente come location per i cortometraggi turistici. Il mare limpido e le terme, pronti ad accogliere bagnanti, hanno un indiscutibile appeal pubblicitario. Ma, come sempre, quest’ultimo non è adeguatamente stemperato. Di due cortometraggi di Paolo Heusch girati a Ischia, L’isola della salute (1954) e Ischia, l’isola fiorita (1957), si dice proprio questo. Del primo, che parla del paesaggio e del folclore ischitani con un’attenzione particolare alle sue terme, su «Cinema Nuovo» Tom Granich bacchetta il commento «che appartiene allo stile che si potrebbe definire leggero, che è molto in voga (l’altro stile imperante è quello tronfio e retorico). Trattandosi di un commento leggero, si possono ascoltare un mucchio di sciocchezze che nemmeno un’anima semplice potrebbe ritenere divertenti o umoristiche»36. Qualche anno dopo di Ischia, l’isola fiorita, ancora incentrato sul potenziale delle terme, il critico scrive che «non tenta nemmeno di camuffare il suo contenuto pubblicitario». E non v’è da meravigliarsi in proposito, vi35 36

Ibidem. Tom Granich, I cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 65, 25 Agosto 1955, p. 157.

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sto che «Nessuno ignora che un noto editore e produttore milanese è diventato il padrone di Ischia e lo sfruttatore delle sue risorse termali e balneari. […] questo padrone di Ischia ha pensato di lanciare il suo prodotto con una serie di azioni pubblicitarie: avvisi sui giornali, la programmazione di un documentario a colori proiettabile su schermo panoramico, e ora anche la realizzazione di un vero e proprio film a soggetto»37. L’editore cui si fa riferimento nell’articolo è Angelo Rizzoli, non a caso produttore di ambo i documentari, che negli anni cinquanta scopre Ischia e, ammodernando le sue terme, vi porta il turismo. I tempi sono mutati. Ischia non è più l’isola incontaminata di un tempo, ma un paradiso appetibile per gli uomini di affari, pronti a sfruttarne le risorse. Il documentario, dietro al quale si scorge chiara la committenza, va in questa direzione, descrivendo minuziosamente le attrattive dell’isola, come gli alberghi, le terme, il mare e un po’ di folclore. Nessuna concessione è fatta alla «parte diciamo meno turistica e gradita ai clienti potenziali: e cioè la gente di Ischia, il suo modo di vivere, i suoi problemi (ammesso che dopo la calata del magnate milanese ve ne siano ancora)»38. Lo sfruttamento del film documentario per fini pubblicitari da parte di Rizzoli prosegue negli anni successivi. Nel 1962 di Lacco Ameno, incantesimo d’Ischia (1961), cortometraggio di Guido Guerrasio incentrato sempre sulle potenzialità curative delle terme e presentato nell’ambito della prima rassegna veneziana sul film turistico, si dice che «deve essere stato programmato in un efficiente ufficio di pubblicità (ipotesi fondata e facile, poiché Lacco Ameno è proprietà di Rizzoli)». Il cortometraggio, infatti, appare convincente al punto che «lascia la determinazione di concederci dieci giorni di vita sontuosa al sole di Ischia, dovesse costarci un inverno di digiuni»39. Chiude il ciclo delle isole campane Procida. Al suo incanto, con poche variazioni sul tema, pensa tra gli altri Michele Gandin. Nel suo L’isola dei colori (1952) prima si parla dell’architettura, del folclore e della natura procidane, poi sono illustrate le principali attività economiche, ovvero l’agricoltura e la pesca. Dalle isole del Tirreno a Napoli il passo è breve. La città partenopea con le sue meraviglie, il suo aspetto riconoscibile e il folclore singolare si presta bene alle finalità del documentario turistico. Napoli ispira i cortometraggi più fantasiosi, in cui agli aspetti naturalistici si sovrap37

Id., Cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 107, 15 Maggio 1957, p. 316. Ibidem. 39 Claudio Corritore, Film turistici e letteratura cinematografica, «Cinema Nuovo», n. 159, Settembre-Ottobre 1962, p. 371. 38

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pongono quelli affabulatori. A proposito di Napoli (1953) del regista partenopeo Riccardo Pazzaglia, ad esempio, un caso di cortometraggio a soggetto, fornisce l’immagine «di una Napoli di maniera, vista attraverso riferimenti folkloristici e con l’ausilio dei più vieti luoghi comuni»40. Il cortometraggio, infatti, sfruttando come pretesto narrativo il viaggio in taxi di una turista tedesca, che chiede di essere accompagnata velocemente alla stazione, sciorina le immagini dei quartieri meno noti della città, ripresi abilmente dalla macchina da presa collocata su un’auto in corsa. Ma l’intreccio narrativo non manca di eccessive forzature: «A Napoli è proibito avere fretta. Per sottolineare questo luogo comune, il regista non ha esitato a ricorrere ai pretesti più banali. Così, non solo il tassametro sale a cifre iperboliche […], ma addirittura l’autista approfitta della corsa con la turista straniera per sbrigare strada facendo i suoi affari»41. Non diversamente da come accadeva in alcuni generi di film di finzione di quegli stessi anni, la città partenopea è qui raffigurata attraverso la lente opacizzante degli stereotipi. La critica lo evidenzia con delusione quando afferma che «Questo folklore minimo danneggia la causa del Mezzogiorno»42. Discorso analogo per un altro cortometraggio ambientato a Napoli, Armonie d’autunno (1951) di Aldo Rubens. Si tratta di un breve film musicale, che ruota attorno alle immagini e alla voce del cantante partenopeo Roberto Murolo. Le vedute turistiche della città sono perciò utilizzate solo come sfondo che riempie le note delle canzoni del celebre cantante43. Tempo dopo Aldo Rubens, sfruttando ancora una volta la voce di Murolo, realizza qualcosa di simile anche per Ischia: in Invito ad Ischia (1952) il cantante approda sull’isola e la gira in compagnia di un giovane scugnizzo, facendo risuonare nell’aria le sue note melodie. Tra le isole maggiori il documentario turistico non disdegna neppure la Sardegna. La rappresentazione dell’isola in questo genere di documentari è estremamente scontata e ne riflette per la maggiore l’aspetto tipico prima che fosse interessata dall’avvento del turismo balneare. In altre parole, nel documentario turistico vediamo la Sardegna barbaricina dal paesaggio montano aspro, e non quella della vacanza al mare. Un buon esempio, in tal senso, è Sardegna (1953) di Giovanni Paolucci. Il documentario assembla riprese di scorci paesaggistici suggestivi e di donne e uomini vestiti con costumi tradi40

Tom Granich, I cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 12, 1 Giugno 1953, p. 346. Ibidem. 42 Ibidem. 43 Tom Granich, I cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 30, 1 Marzo 1954, p. 124. 41

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zionali. Non c’è commento, ma le immagini sono accompagnate da una colonna sonora altisonante. Alcune sequenze sono delle evidenti messinscena. In una vediamo balli popolari, in un’altra un uomo morto è portato in giro per i vicoli di un paese tra lo sconcerto di tutti e il dolore dei congiunti. Seguono immagini di pascoli e cavalli selvatici. Ne viene fuori il volto della Sardegna chiusa nel suo isolamento atavico, delle tradizioni che resistono al tempo e della vita dura. Anche Michele Gandin dedica all’isola alcuni cortometraggi turistici. Si tratta di Taccuini di viaggio (1960), brevi filmati che ritraggono alcuni aspetti della vita e delle tradizioni sarde con uno stile giornalistico. Furono considerati tra i pochissimi documentari di migliore qualità tra quelli presentati alla prima rassegna veneziana sul film turistico. Tuttavia, neppure Gandin, documentarista mai prevedibile, rifugge i luoghi comuni sull’isola, ma, da regista sensibile e abituato a trattare tematiche più impegnate, secondo la critica, riesce a cogliere aspetti non banali della società sarda. Non è un caso che qualcuno abbia letto tra le righe dell’opera «un’intenzione di critica sociale»44. A ben vedere, in un ogni documentario turistico, per le specificità del genere, anche la lettura più impegnata della realtà non può fare a meno di cogliere immagini immediatamente riconoscibili e, dunque, stereotipate. Può aiutare a comprendere meglio questa esigenza un documentario del colosso statunitense Walt Disney, Gente di Sardegna (1957), diretto da Ben Sharpsteen. Il mediometraggio, sebbene prodotto dalla società americana, fu interamente realizzato da italiani ma, prevedibilmente, era destinato a un pubblico internazionale. Un’ampia recensione su «Bianco e Nero» ne descrive gli aspetti e le fasi di realizzazione. Data la potente produzione alle spalle, Gente di Sardegna è girato con un impiego smisurato di mezzi e uomini. Ben tre anni prima dall’inizio delle riprese, un gruppo di operatori va in giro per la regione a condurre un’inchiesta sugli usi e costumi, e ogni festa o tradizione locale è accuratamente ripresa. Il lavoro è svolto col massimo degli agi e del tempo disponibile. Insomma, un modo di girare lontanissimo da quello cui erano abituati i documentaristi italiani, che facevano i conti con poco tempo e pochi mezzi45. Nonostante l’investimento di tante risorse, Gente di Sardegna delude le aspettative, offrendo della regione una fotografia poco autentica. «La mentalità commerciale che sovrin44 Claudio Corritore, Film turistici e letteratura cinematografica, «Cinema Nuovo», n. 159, Settembre-Ottobre 1962, p. 371. 45 Alberto Caldana, Il documentario, «Bianco e Nero», n. 4, Aprile 1957, pp. 89-92.

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tende a questo genere di produzioni tratta alla stessa stregua uomini e animali, e se da una parte l’esclusiva ricerca dello “spettacolo” attinge al divertimento […] dall’altra parte essa inaridisce la carica umana che dal documentario potrebbe derivare e schematizza la realtà, dando della gente e del suo modo di vita un quadro sostanzialmente privo di autenticità e di credibilità»46. Ed ecco che nel documentario di Walt Disney gli uomini e le donne sardi sono sempre vestiti con costumi tradizionali, appaiono felici e senza preoccupazioni nel loro quotidiano. Sono immersi in un’arcadia, come sottolinea il prevedibile commento ottimista, che tace sui reali problemi dell’isola. Gente di Sardegna fa parte della serie di documentari “Genti e paesi”, che ha lo scopo di far conoscere agli spettatori delle sale angoli del mondo. Non stupisce, perciò, che il film, peraltro rivolto ad un pubblico internazionale e non solo italiano, ricorra a soluzioni semplici per raccontare una realtà complessa. Il fatto che al modo di lavorare della società americana sia sottesa la logica dello spettacolo fine a se stesso fa il resto. Il documentario ricerca il pittoresco a tutti i costi, al solo scopo di divertire e di mettere tutti d’accordo senza urtare la sensibilità di alcuno. Così, Gente di Sardegna pare concentrare in sé ed ingigantire, proporzionalmente alle sue misure, i limiti dei documentari turistici italiani. Rispetto alla Sardegna e alla Sicilia, a Napoli e alle piccole isole ad essa vicine, la restante parte del Meridione ha goduto di minore attenzione nel documentario turistico. Come già detto, i motivi dell’assenza o della scarsa presenza di Basilicata, Puglia e Calabria vanno certamente ricercati nel fatto che queste regioni, negli anni cinquanta e sessanta, non sono toccate nemmeno dalla promessa di sviluppo del turismo. Dei tentativi di dare risalto attraverso il documentario alla bellezza e al potenziale turistico di tali aree del Paese non mancano, soprattutto in alcuni cortometraggi che nascono sotto l’influenza governativa. Ad esempio, Piccolo Canadà (1955) di Francesca Bigioni mostra lo splendore del paesaggio boschivo della Sila. Ma il paradosso della promozione di un’area depressa non sfugge ai meno ingenui. Su «Cinema Nuovo», infatti, si legge che «Il Piccolo Canadà è la Sila, regione ancora tutta da scoprire, almeno su un piano di risorse turistiche. Il cortometraggio vuole naturalmente essere un invito a visitare questa splendida parte della Calabria, ma non dice che probabilmente la Sila non è ancora attrezzata per accogliere le vere e proprie correnti

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Ivi, p. 90.

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turistiche provenienti dal Nord»47. Tuttavia, il fascino della Sila e la tentazione di inserirla nel circuito delle vacanze italiane non lasciano indifferenti neppure altri registi. Tra loro Florestano Vancini, che dirige Aria di Sila (1956) e La grande selva (1956), entrambi sulla dolcezza degli scenari boschivi della Sila, che contrasta con l’idea più diffusa di Calabria dal paesaggio montano aspro. Nella stessa regione Vancini gira Calabria sul mare (1956), che esalta il fulgore dei panorami marittimi sul versante tirrenico. Uno sguardo complessivo alla regione è dato da Giovanni Paolucci in Ricordi d’Italia: la Calabria (1958), classico cortometraggio di appunti di viaggio, che unisce riferimenti alla storia, immagini di siti archeologici, folclore attraverso gli abiti tipici delle donne e attrattiva dei boschi della Sila. Per la stessa serie di cortometraggi Paolucci si occupa anche della Puglia, realizzando uno dei pochissimi documentari turistici sulla regione, Ricordi d’Italia: la Puglia (1958). Il film è una carrellata attraverso i principali siti di interesse pugliesi. Si parla della fortezza di Lucera e di altre dimore storiche, del romanico di alcuni edifici sacri, di Taranto e del suo porto, del castello di Bari e di quello di Barletta, delle grotte di Castellana, dei trulli di Alberobello, del barocco di Martina Franca, di Lecce e di Brindisi. L’invito è verso un turismo culturale o religioso, per una regione ancora lontana dai grandi numeri delle vacanze balneari.

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Tom Granich, Cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 118, 15 Novembre 1957, p. 268.

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CAPITOLO IV

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RETORICHE DELLA RICOSTRUZIONE

1. L’intervento straordinario nel Mezzogiorno Le criticità del Mezzogiorno nell’immediato secondo dopoguerra spingono il Governo ad una serie di interventi urgenti e mirati. L’economia del Sud è in ginocchio: alle condizioni di sottosviluppo preesistenti si aggiungono le conseguenze del conflitto. Il sistema economico meridionale è basato su un’agricoltura povera e arretrata. L’industria è quasi del tutto assente e concentrata nel Napoletano. I bombardamenti hanno distrutto infrastrutture e impianti industriali, mentre l’introduzione della moneta americana, a seguito dello sbarco alleato, ha prodotto una pesante inflazione. Il Meridione richiede aiuto tempestivo. Tra il 1949 e il 1950 i contadini del Sud, esasperati da condizioni di vita drammatiche, si ribellano e occupano le terre, prima in Calabria e poi nel resto del Mezzogiorno. La protesta è cavalcata dalle sinistre e dal Pci in particolare. Alcune delle occupazioni finiscono nel sangue dopo gli scontri con le forze di polizia intervenute per placare i disordini. Celebri sono i fatti di Melissa del 1949, durante i quali tre manifestanti perdono la vita. Il clima preoccupante e la consapevolezza dell’urgenza della questione meridionale inducono il Governo a guida democristiana a mettere mano alla riforma agraria, finalizzata alla distribuzione ai contadini di terra espropriata al grande latifondo. In realtà la legge generale, prevista dalla Costituzione, non fu mai approvata. Furono invece approvate singole leggi, ovvero la legge Sila per la Calabria, la legge-stralcio per Sardegna e Italia continentale e la legge regionale per la Sicilia. Non si trattò, dunque, di una riforma organica, quanto di una serie di interventi parziali, dettati dalla contingenza e dal clima di emergenza, e capaci di mettere momentaneamente d’accordo le diverse forze politiche. Queste leggi istituirono gli Enti di riforma,

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che oltre a distribuire i poderi, seguivano e assistevano i contadini sotto diversi aspetti, e promuovevano lavori di bonifica, trasformazione fondiaria e irrigazione. In totale con la riforma furono affidati 700.000 ettari di terreno a 120.000 famiglie, che avrebbero dovuto pagare un piccolo affitto per trent’anni e alla fine sarebbero divenute proprietarie. Trasformare i contadini in piccoli proprietari aveva anche una specifica finalità politica, ovvero sottrarre le masse proletarie meridionali all’egemonia comunista e dirottare il loro consenso verso il partito cattolico1. I criteri di assegnazione dei lotti di terreno determinarono in tanti casi il conferimento ai contadini di poderi molto piccoli. Questa circostanza nel lungo periodo si sarebbe rivelata penalizzante. Se ad essa si associano l’improduttività di molti terreni e il massiccio esodo migratorio che sottrasse braccia lavoro all’agricoltura del Sud, si spiega il successo parziale della riforma agraria. Sebbene nel corso del tempo l’agricoltura meridionale sarebbe progressivamente migliorata, certamente anche per l’influenza di altri fattori, gli esiti della riforma sono considerati oggi più limitati delle aspettative. Oltre che nella riforma agraria, negli stessi anni l’impegno del Governo per il Sud si concretizza nella Cassa per il Mezzogiorno. Quando si palesa la possibilità degli aiuti economici americani e il loro utilizzo anche in favore del Meridione, si inizia a pensare a un istituto autonomo che possa gestire i finanziamenti per indirizzarli verso un programma di azioni mirato. Nel 1950 nasce così la Cassa, chiamata a svolgere un ruolo centrale in quella che è stata definita la politica di intervento straordinario. Il relativo programma è presentato da De Gasperi alla Camera a inizio del 1950, quando si insedia il suo sesto governo. Poco dopo è scritta la legge istitutiva della Cassa. Essa nasce come organismo pubblico incaricato di attuare un programma di lavori finanziati dai prestiti della BIRS (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo). Sebbene nelle intenzioni originarie dovesse essere un ente autonomo, nella definizione della legge che l’istituiva si scelse di collegarne l’azione al Governo. In tal modo, la Cassa finì con l’essere sottoposta alle influenze della politica2. Il programma di attività inizialmente fu finalizzato a interventi di preindustrializzazione. Nel primo decennio, così, essa realizzò bonifiche, trasformazioni fondiarie, impianti idrici e infrastrutture viarie. Il 70% delle risorse 1 Claudia Petraccone, Le ‘due Italie’. La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Bari, Laterza, 2005, pp. 217-220. 2 Salvatore Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (1950-1993), BariRoma, Lacaita, 2000, pp. 25-31.

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RETORICHE DELLA RICOSTRUZIONE

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spese fu desinato alle prime due voci, in altre parole, alla valorizzazione delle risorse ambientali esistenti e, pertanto, il principale beneficiario degli investimenti fu l’agricoltura. Si trattava, però, di interventi che prevedevano tempi lunghi di realizzazione e i cui effetti si sarebbero manifestati nel lungo periodo. Anche in ragione di questo, la Cassa fu spesso incolpata di lentezza e di scarso rendimento. Le critiche verso l’ente statale arrivarono molto presto, già nel primo decennio di attività. Oltre che di lentezza, essa fu accusata di inefficienza e di aver raggiunto risultati parziali che non giustificavano le spese sostenute. Le critiche non erano immotivate. Le lungaggini e i risultati discutibili furono conseguenza di diverse disfunzioni. La Cassa spesso si scontrò con l’inefficienza di altri enti pubblici chiamati a svolgere azioni di propria competenza che si integravano con le sue. Oppure, si trovò a dover finanziare per ragioni di urgenza, o di opportunità politica, opere che non le spettavano direttamente e quindi ad allargare in misura non ragionevole il proprio campo d’azione, frantumandone la portata in numerosi rivoli3. Anche in ragione dei risultati tardivi e delle critiche, dopo il primo decennio si decise di investire in maniera più incisiva in azioni che favorissero l’industrializzazione del Sud. L’afflusso di denaro e la strategia per promuovere la nascita di industrie produssero risultati positivi, in termini di aumento della produttività del Mezzogiorno, di generale miglioramento economico e di diminuzione del divario col Nord4. Così, quando nell’epoca del centrosinistra si comincia a parlare programmazione, si afferma l’idea di inserire la politica d’intervento straordinario per il Mezzogiorno all’interno della programmazione nazionale. Lo si fa con la legge 117 del 1965, che peraltro proroga la durata della Cassa al 1980. Anche in questo caso, però, si tratterà di un provvedimento di scarsa portata. La programmazione, infatti, non sarebbe decollata e la Cassa, sempre più sottratta in questi anni al controllo di tecnici e imbrigliata in quello della politica, vedrà ridimensionate le proprie capacità di azione e di raggiungimento di risultati, in virtù di una crescente perdita di autonomia5. Un altro settore cruciale di intervento del Governo è quello della casa. A fronte delle distruzioni belliche e della crescente esigenza di 3

Ivi, pp. 55-57. Amedeo Lepore, Questione meridionale e Cassa per il Mezzogiorno, in Sabino Cassese (a cura di), Lezioni sul meridionalismo. Nord e Sud nella storia d’Italia, Bologna, il Mulino, 2016, pp. 240-251. 5 S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (1950-1993), cit., pp. 80-89. 4

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alloggi, dopo la guerra, è necessario dare un tetto agli Italiani. I provvedimenti nel corso degli anni quaranta, cinquanta e sessanta sono numerosi e, tuttavia, frammentati, tali da non confluire in un disegno organico. Tra essi, alcuni sono indirizzati all’edilizia economica e popolare, per venire incontro alle esigenze abitative delle fasce sociali meno abbienti. Va in questa direzione la legge 46 del 28 febbraio 1949, più nota come Piano Fanfani. Con essa lo Stato mira a garantire un’abitazione agli sfollati, che non hanno più un tetto a causa della guerra, o a coloro che a distanza di oltre un decennio dalla fine del conflitto ancora vivono in grotte, baracche, edifici pubblici, luoghi malsani o sovraffollati6. Il Piano Fanfani, conosciuto anche come Piano Ina Casa, consentì di costruire in quattordici anni 355.000 abitazioni, ovvero il 10% del totale di quelle realizzate in Italia tra il 1951 e il 19617. Si trattò di un progetto nato prioritariamente per dare uno sbocco alla disoccupazione, offrendo lavoro a una manodopera anche non specializzata, e, al contempo, per realizzare alloggi che coprissero parte del fabbisogno esistente. Ma il Piano Ina Casa ebbe anche altri importanti punti di forza: esso fu «una delle più importanti, consistenti e diffuse esperienze italiane di realizzazione di edilizia sociale»8, che offrì una casa a migliaia di cittadini e un’opportunità a molti architetti e urbanisti desiderosi di sperimentare e governare il processo di ricostruzione, che sulle prime sembrava essersi avviato in maniera caotica e incontrollata. Una delle caratteristiche del programma Ina Casa fu il marcato accento solidaristico, a partire dalle fonti di finanziamento, rappresentate in buona parte dai contributi sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e dalle quote da parte dello Stato. La scelta delle aree in cui realizzare gli alloggi veniva fatta sulla base degli indici di affollamento dei comuni e dell’ammontare delle distruzioni provocate dalla guerra. In ogni caso, la legge prevedeva che almeno un terzo degli investimenti fosse fatto al Sud e nelle Isole, quindi teneva conto della questione Mezzogiorno9. L’attenzione alle fasce sociali e alle aree più deboli del Paese e il sistema di finanziamento solidaristico del programma rispondevano ai principi ispiratori del 6

Giuseppe Parenti (a cura di), Una esperienza di programmazione settoriale nell’edilizia: l’INA Casa, SVIMEZ, Roma, Giuffrè, 1967, pp. 9-28. 7 Paola Di Biagi, La «città pubblica» e l’Ina-Casa, in Ead. (a cura di), La grande ricostruzione. Il Piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, Roma, Donzelli, 2001, p. 18. 8 Ivi, p. XXIII. 9 G. Parenti (a cura di), Una esperienza di programmazione settoriale nell’edilizia, cit., pp. 29-35.

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suo principale fautore, Amintore Fanfani, orientato dalla convinzione che la politica dovesse regolare l’economia e da un’etica cristiana, che si traduceva nell’aiuto ai più deboli10. Più in generale, il Piano rappresentava un collettore di valori sociali di natura cristiana, con l’attenzione data alla casa, intesa come condizione per lo sviluppo e la salvaguardia del nucleo familiare, e al quartiere, visto come spazio di comunità tra i suoi residenti. Di là dalle buone intenzioni, tuttavia, nella realtà i quartieri Ina Casa sono divenuti, talvolta, simbolo di emarginazione e degrado, ovvero il luogo di un’edilizia povera, poi destinataria di scarsa manutenzione, dov’erano confinati, ai margini delle città, le fasce sociali meno abbienti. Per ragioni di costi, infatti, i quartieri Ina Casa sorgevano in aree periferiche e, sempre per le poche risorse, i servizi e le opere di urbanizzazione realizzati erano limitati, se non assenti11.

2. Il Governo parla agli Italiani Nell’Italia sopravvissuta alla seconda guerra mondiale tutto va ricostruito. La ricostruzione è non solo materiale, per far fronte alle macerie lasciate dal conflitto, ma anche spirituale. La caduta del regime e il vuoto ideologico da esso lasciato, l’umiliazione per gli esiti del conflitto e l’incertezza verso il futuro mettono a dura prova la coscienza e l’identità collettive. Assieme alle case, alle strade e alle industrie, si deve riedificare il volto umano e politico del Paese. Un compito arduo, di cui si assume l’onere la Democrazia Cristiana, partito di maggioranza relativa alle prime politiche del 1948, destinato a restare alla guida dell’Italia per molti decenni. Lo sforzo propagandistico che aveva caratterizzato la campagna elettorale del ’48 non si spegne dopo la vittoria alle urne. La propaganda del partito cristiano ormai al Governo prosegue per la necessità di parlare al Paese, raccontare l’impegno profuso per la sua rinascita ed infondere fiducia negli Italiani. Se la vita era difficile in quegli anni, se l’Italia sembrava riprendersi a fatica dai postumi del conflitto, l’esecutivo voleva mostrare la propria 10 Paolo Nicoloso, Genealogie del Piano Fanfani. 1939-1950, in P. Di Biagi (a cura di), La grande ricostruzione, cit., pp. 48-49. 11 Giò Ponti, Per una più severa ed aggiornata realizzazione dei problemi dell’edilizia, «Edilizia popolare», n. 11, luglio 1956, p. 8, cit. in Giorgio Rochat, Gaetano Sateriale, Lidia Spano (a cura di), La casa in Italia 1945-1980. Alle radici del potere democristiano, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 131-132.

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presenza al fianco dei cittadini e iniettare in essi una dose continua di speranza in un futuro migliore possibile. È in questa prospettiva che si colloca la nascita, nel 1951, del Centro di Documentazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, un organismo deputato a mettere in atto un piano di comunicazione istituzionale ante litteram. Attraverso una serie di materiali propagandistici di diversa natura, concepiti nell’ambito di una strategia comunicativa integrata, si puntava a far arrivare in maniera diffusa in tutto il Paese il messaggio del Governo. Così, accanto ai manifesti murali destinati ai luoghi pubblici e agli opuscoli distribuiti lungo la penisola, figuravano i cortometraggi, indirizzati agli spettatori, numerosi in quegli anni, delle sale cinematografiche. I documentari della Presidenza del Consiglio erano intesi come un mezzo per trasmettere, attraverso le efficaci immagini della realtà, il succo dell’impegno dell’esecutivo. Arrivavano nelle sale accoppiati ai film a soggetto (seguendo, in sostanza, la normale prassi di programmazione di tutti i documentari), oppure erano trasmessi nei centri più piccoli della penisola, quelli sprovvisti di sale cinematografiche, attraverso i cinemobili itineranti, ovvero furgoni attrezzati per la proiezione, ereditati dal Luce12. Il ruolo dell’istituto creato dal fascismo sarà abbastanza centrale nel documentarismo di matrice governativa: molti dei cortometraggi della Presidenza del Consiglio, infatti, saranno prodotti proprio dal Luce, sfruttando le antiche maestranze e le attrezzature dell’epoca fascista. Alcuni caratteri propri dei documentari governativi, poi, richiamavano quelli dei tempi del regime, che pure aveva fatto ampio uso del cinema, attraverso documentari e cinegiornali, come mezzo di propaganda13. Assieme al Luce, producevano su commissione i cortometraggi della Presidenza del Consiglio dei Ministri altre poche case produttrici, quasi tutte facenti parte di quel piccolo gruppo che, in regime di monopolio, si aggiudicava la maggioranza dei premi statali per la produzione nazionale di documentari. Tra queste case svetta il nome della Documento Film. Compito dei cortometraggi della Presidenza del Consiglio era illustrare, tramite un sapiente confronto con una realtà passata negativa, i frutti dell’operato governativo e trasmettere, così, il senso di uno Stato affidabile, impegnato al massimo grado per garantire crescita e sviluppo al Paese. Anche se il Governo e i suoi esponenti in questi 12 13

Maria Adelaide Frabotta, Il governo filma l’Italia, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 17-18. Marco Bertozzi, L’occhio e la maceria, «Il Nuovo Spettatore», n. 6, 2002, p. 17.

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documentari non appaiono mai, a parlare di essi e dei loro meriti sono le tante realizzazioni messe ben in vista nelle immagini. L’assenza del Governo è spia di un generale tono pacato che contraddistingue questi lavori. Sebbene, infatti, i circa duecento cortometraggi, realizzati dal ’52 ai primi anni sessanta, avessero lo scopo di far conoscere e risaltare il lavoro dell’esecutivo capitanato dal partito cattolico, il loro aspetto è contraddistinto da accenti smorzati, in antitesi agli eccessi e al trionfalismo della propaganda fascista, considerata come un modello negativo da non seguire. In queste opere si respira un forte ottimismo, reso però attraverso toni sfumati. Con intento pedagogico e paternalistico, e con una qualità visiva talvolta notevole, che trae ispirazione dal cinema a soggetto e dai codici espressivi del neorealismo, questi documentari s’indirizzavano al cittadino medio per raccontargli di una realtà italiana in crescita, che si stava lasciando alle spalle un passato difficile e correva senza esitazioni verso un futuro certamente roseo. Insomma, favole moderne dall’inevitabile e anche un po’ scontato lieto fine, che, come in un neorealismo addomesticato e privato delle pericolose connotazioni ideologiche dell’immediato dopoguerra, elevavano a loro protagonisti persone comuni. Maestrine e buone madri di famiglia, contadini ed operai diventavano convincenti testimonials delle opere e dei meriti governativi, innescando al contempo processi d’identificazione col pubblico medio delle sale. Il messaggio di fiducia nella possibilità per tutti di realizzare piccoli sogni di benessere scivolava agile attraverso le immagini celebrative e infondeva coraggio nell’uomo semplice14. Ma la rappresentazione fiduciosa e fausta del Paese doveva necessariamente passare attraverso una mutilazione della realtà: i documentari della Presidenza del Consiglio, per gli scopi comunicativi che gli erano propri, mantennero fuori dalle quinte i problemi più gravi del Paese, che persistevano in quegli anni nonostante i facili ottimismi15. Tanto più per il Mezzogiorno, il cui atavico squilibrio era stato amplificato dal conflitto e si ripresentò con tutta la sua carica drammatica nell’immediato dopoguerra, al punto da spingere il Governo ad attuare la politica di intervento straordinario. Questa situazione rendeva necessario un canale di comunicazione in grado di rassicurare il Sud sofferente, di mostrargli che lo Stato era presente e che, grazie alle politiche mirate, un futuro migliore sarebbe presto 14 15

M. A. Frabotta, Il governo filma l’Italia, cit., pp. 7-9. M. Bertozzi, L’occhio e la maceria, cit., pp. 18-19.

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arrivato. Ed occorreva farlo anche perché il Meridione rappresentava una storica riserva di voti moderati. Così, nel cospicuo numero di cortometraggi della Presidenza del Consiglio dedicati al Sud16, si enfatizzano ancora di più i toni fiduciosi e si mascherano le criticità. In particolare, emerge l’immagine di un Mezzogiorno proiettato verso la crescita ed il progresso, ma senza tradire la sua identità profonda, che lo differenzia dal resto del Paese. La modernità, in altre parole, coabita armoniosamente con la tradizione17.

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2.1 Nuova vita nelle campagne Gli interventi per favorire lo sviluppo dell’agricoltura ricevono un’attenzione particolare nei documentari di propaganda governativa. L’agricoltura è l’asse portante del sistema economico meridionale, ma vi è necessità di ammodernarla e potenziarla. Gli sforzi fatti in questa direzione, primo tra tutti la riforma agraria, sono tradotti nei cortometraggi della Presidenza del Consiglio nelle immagini di un Mezzogiorno laborioso e incamminato sulla via di una graduale rinascita. La terra nuova (1952) di Francesco De Feo, facendo un abile confronto col passato recente, descrive i cambiamenti apportati dalla riforma fondiaria. Il racconto inizia con la vista di una terra desolata, pietrosa e arida. In questo scenario sorgono poche case di vecchi latifondisti, utilizzate raramente per qualche battuta di caccia, spiega il commento. I braccianti lavorano alla giornata e quelli fortunati che sono ingaggiati, così come i piccoli proprietari terrieri, devono percorrere kilometri per raggiungere dal paese le terre da coltivare. Coloro che non riescono più a fronteggiare tanta miseria scelgono alla fine l’espatrio clandestino, come illustrano le sequenze successive, chiaramente ricostruite come in un film di finzione. Il presente irrompe con un cambiamento di tono. Il discorso si fa ottimista e il linguaggio più retorico. «Oggi in tutto il Mezzogiorno si trovano in cantiere le nuove fortune meridionali», esulta lo speaker, mentre le immagini mostrano contadini al lavoro che dissodano terre con l’aiuto di moderne macchine e lingue di fuoco che divorano sterpaglie. La terra arida è purificata e resa fertile, e si annunciano coltivazioni in arrivo. Il nuovo è rappresentato da opere in costruzione, come dighe (è ripresa quella realizzata 16 L’elenco completo dei documentari governativi è in Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Per immagini. Gli audiovisivi prodotti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri 1952-1995, Roma, 1995. 17 M. A. Frabotta, Il governo filma l’Italia, cit., p. 45.

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per disciplinare il Bradano, in Basilicata), strade, pozzi, e da treni che portano colonne di macchine agricole. A seguire si vedono un campo di grano, che nasce dove prima c’erano sterpaglie, e sullo sfondo una delle case della riforma. Il cortometraggio ci porta infine a Gaudiano, uno dei borghi rurali costruiti in Basilicata per dare ai coltivatori una casa in prossimità della terra da lavorare ed evitare, così, gli estenuanti viaggi del passato. Il commento spiega che Gaudiano è solo una delle tante realizzazioni della riforma e a rafforzare quest’affermazione vi è il confronto, in termini numerici, con le bonifiche di epoca fascista. Le immagini finali sono quelle di un corteo di abitanti di Gaudiano che conduce nella locale chiesa il primo nato del villaggio, il quale, dice con orgoglio lo speaker, «non conoscerà le orribili e avvilenti cose che formano il passato di tutti coloro che stanno accompagnandolo verso il battesimo, verso una vita che valga la pena di essere vissuta». Tutto il racconto si incardina attorno al tema della rinascita, reso attraverso un linguaggio dal carattere religioso e una visione del mondo provvidenzialistica. La rinascita del Sud è una metafora di resurrezione. Si evincono da qui la cultura cattolica e la concezione di un mondo contadino tradizionale sottese al discorso della propaganda. Oltre che della Lucania, parla degli effetti della riforma in Puglia e Molise Paesi nuovi (1954) di Giovanni Passante. Il cortometraggio, in linea con le sue intenzioni didascaliche, inizia con una cartina del Sud Italia che mostra l’estensione delle aree interessate dagli interventi. Quindi ci conduce in diversi villaggi della riforma agraria in Puglia, con le case chiare e pulite, immerse in vasti terreni coltivati. Le immagini e il commento raccontano di un sereno quotidiano. Le donne svolgono le mansioni tipicamente femminili, gli uomini costruiscono nuove case e i bambini vanno nella scuola della borgata, accolti da sorridenti maestre. Tutto appare ordinato e l’atmosfera è rassicurante. La vista di nuove macchine arrivate dal Nord è l’occasione per sottolineare i benefici della meccanizzazione agricola, assolutamente nuovi per i contadini meridionali. L’occhio della cinepresa dalla Puglia si sposta poi in Molise, nel borgo di Nuova Cliternia, ancora in costruzione. I contadini che coltivano la terra nei dintorni non possono prendere possesso delle case perché non finite, così una corriera dopo il lavoro li riporta nei loro villaggi lontani. Il borgo, spiega il commento, sorge attorno ad una vecchia cappella preesistente, di cui vediamo gli interni, mentre un gruppo di suore vi fa visita. Torna la centralità, in questo caso anche figurata, del culto cattolico. Da una cappella si passa poi ad una più grande chiesa in costruzione nella borgata di Policoro, in

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Basilicata. Oltre che costruendo nuovi paesi, gli enti di riforma riqualificano vecchi villaggi. Come accade ad esempio nel borgo Libertà, in Puglia, che è illustrato dalle immagini. Si vedono, poi, le case nuove della borgata La Martella, costruita per dare un alloggio agli abitanti dei sassi di Matera. Il cortometraggio termina con le sequenze di una serena domenica mattina, quando i residenti di un villaggio della riforma si ritrovano al mercato e alla fine vanno a messa nella chiesa, costruita assieme alle loro case. «Un motto di gratitudine è negli animi. Il lavoro è per tutti una benedizione del cielo», conclude la voce over. La riforma fondiaria in Puglia, Lucania e Calabria è al centro di Borgate della riforma (1955) di Luigi Scattini, realizzato in parte con magniloquenti riprese aeree. La vista dall’alto mostra ampi campi coltivati e le borgate di fresca costruzione, ovvero un paesaggio nuovo per il Sud depresso. La prima tappa è in Puglia, nel borgo Libertà, dove si costruisce alacremente, sostituendo le vecchie case in cui un tempo i contadini, spiega il commento, vivevano allo stato primitivo. Nelle sequenze successive conosciamo una famiglia che ha ricevuto dalla riforma terra, una casa nuova e due buoi: un sogno che si realizza per l’anziano capofamiglia, per anni costretto a lavorare in condizioni di miseria. Scorrono quindi le immagini delle borgate della riforma in Lucania, ovvero a Gaudiano, poi vicino Matera, poi nel borgo La Martella, dove finalmente gli abitanti dei sassi hanno case salubri ed esposte alla luce, nonché servizi di vario tipo. Seguono Scanzano, in Puglia, interessata da interventi di bonifica, e Policoro, in Basilicata, dove si costruisce badando anche alla bellezza delle case. Lo sguardo passa quindi alla Calabria, sulla Sila, dove la riforma ha lo scopo di convertire in terreni coltivabili zone un tempo utilizzate solo per il pascolo. Il commento spiega che si sta lavorando soprattutto per creare nuove vie di comunicazione, utili ad uno sviluppo turistico della zona, mentre le immagini mostrano operai in azione. Anche la Sila ha la sua borgata, Rovale, con le caratteristiche case in stile alpino, «che sembrano costruite per un immenso presepio», chiosa la voce over. Diretto sempre da Scattini e ambientato nelle stesse regioni di Borgate della riforma è Terra di bonifica (1955), che si sofferma prevalentemente sui lavori di bonifica. Questi interventi sono rappresentati come purificatori: l’acqua porta fertilità in lande un tempo aride e la terra riconvertita alla fecondità produrrà frutti e ricchezza agli uomini. Così, dice lo speaker, grazie allo Stato, «oggi i problemi che restarono aperti nel corso del tempo vengono affrontati e risolti in una crociata senza precedenti contro la miseria e l’improduttività». Ricorrendo ancora

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ad alcune riprese aeree, scorrono le immagini della diga del Rendina nel Foggiano, della diga di San Giuliano presso Matera e della diga di Gannano sempre in Basilicata. Si vedono distese desolate interrotte da maestosi cantieri «con le gigantesche braccia delle gru che non conoscono stanchezza», racconta il commento. Sulla Sila, in Calabria, la modernità è rappresentata dai laghi artificiali per la produzione di energia idroelettrica, come quella sul lago Mucone. Nel Crotonese è l’acquedotto di Cutro a riportare vita in una terra un tempo arida, dove i segni di miseria, come mostrano alcune sequenze, non sono ancora del tutto scomparsi. Le grandi opere alimentano in questo cortometraggio una retorica del potere della mano dell’uomo, che sfida l’impossibile, sottraendo terra all’ostilità della natura. Questa circostanza non sfuggì alla critica. Terra di bonifica è uno dei pochissimi documentari della Presidenza del Consiglio dei Ministri di cui troviamo un giudizio sulle riviste di settore. Giudizio che risulta abbastanza paradigmatico delle idee che i critici avevano di questo genere di produzione. Su «Cinema Nuovo» si fa riferimento ai toni troppo fiduciosi che dipingono il Sud come «un fervore di ricostruzione e di nuove iniziative». Lo scopo è chiaro: «La costruzione di dighe, che daranno acqua a regioni che fino a poco tempo fa ne erano sprovviste, fornisce l’occasione per rivolgere espressioni di riconoscenza ai responsabili di queste bonifiche (Cassa del Mezzogiorno, ecc.)»18. Analogamente su «Cinema» si parla della retorica e del linguaggio «consueto e consunto», che appesantiscono la visione. Così, infatti, scrive Bertieri: «La rettorica della ricostruzione e delle migliorie aggrava la situazione e ciò che merita interesse e rispetto, passa invece tra la noia dello spettatore, proprio perché lo stile è di marca inferiore e le parole che dovrebbero valorizzare l’immagine sono intinte nel frusto vocabolario dei luoghi comuni»19. Sceglie l’espediente narrativo di un giornalista che esplora la regione Puglia la terra (1953) di Fausto Saraceni. Il cronista, che parla in prima persona, racconta di essere stato inviato in Puglia dal giornale e di esserci andato a malincuore, immaginando di trovarsi di fronte una terra «desolata e scomoda». Una volta sul posto, però, si ricrede, scoprendo una regione in fermento e in rapida trasformazione. Dopo l’arrivo a Cerignola, il giornalista incontra un contadino che gli fa conoscere i risultati della riforma agraria. Il cortometraggio ci fa esplorare così borgo Libertà, con le belle case della riforma, la chiesa e la 18 19

Tom Granich, I cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 70, 10 Novembre 1955, p. 357. Claudio Bertieri, I documentari, «Cinema», n. 156, 10 Dicembre 1955, p. 1022.

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PROFONDO SUD

scuola. La tappa successiva è a Gaudiano, in Lucania, ai confini con la Puglia. Oltre che dei progressi in agricoltura, il cortometraggio allarga il campo e ci parla delle opere di ingegneria idraulica sul Rendina e sull’Ofanto finanziate dalla Cassa per il Mezzogiorno, di Bari, il suo porto e la costruzione di condutture idriche. Infine, un cenno all’auspicato sviluppo turistico, con le strutture ricettive sorte nella regione, in particolare nei pressi delle Grotte di Castellana e del sito archeologico di Egnazia. Alla stessa regione Saraceni dedica anche Puglia il lavoro (1953), sulla battaglia contro la disoccupazione e sulla conversione di tanti braccianti agricoli in operai per la nascente industria. La riforma fondiaria in Calabria è raccontata in Calabresella (1955) di Gian Paolo Callegari, attraverso la storia di una giovane ragazza e del suo fidanzato, che grazie agli interventi del Governo possono realizzare i loro personali progetti di vita. Alla Calabria e alla riforma è dedicato anche Calabria di domani (1953) di Aurelia Attili, che illustra i benefici apportati dall’Opera per la valorizzazione della Sila e dalla Cassa per il Mezzogiorno. Lo speaker parla della sistemazione idraulica e forestale, della bonifica delle aree paludose e del dissodamento di quelle aride per la regione. Intanto le immagini mostrano eserciti di operai al lavoro, coadiuvati da potenti mezzi meccanici, e possenti opere ingegneristiche che sorgono in un paesaggio impervio. La voce over, presentando le attività in corso, promette grandi risultati, in un discorso coniugato per lo più al futuro. Si vede quindi la costruzione di case coloniche nell’area della riforma e di nuovi villaggi nelle zone alluvionate nella provincia di Reggio. Il progresso della Calabria arriva poi con la costruzione di nuove strade, in particolare quella dei Due Mari, che collega il Tirreno e lo Ionio, pensate per potenziare il turismo e il commercio. Infine, sono illustrati i lavori per gli acquedotti, che dalle sorgenti montane portano acqua a valle. Il commento, con particolare enfasi, elogia l’«opera di ricostruzione che porrà ormai la Calabria, come tutte le regioni d’Italia, sullo stesso piano di allineamento di fronte a un più luminoso domani». Anche le isole e il loro progresso agricolo non sono escluse da questo articolato racconto audiovisivo. I vantaggi arrecati dalla riforma agraria e dagli altri interventi dello Stato in Sicilia sono esposti in Panorami di Sicilia (1954) di Vittorio Solito. Il cortometraggio, come suggerisce il titolo, ha un carattere turistico. Le immagini insistono sulle bellezze dell’isola oltre che sulle opere statali e il commento è particolarmente enfatico. Assieme a Palermo all’inizio e Messina alla fine, con le loro ricchezze artistiche, Panorami di Sicilia ci parla dei

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RETORICHE DELLA RICOSTRUZIONE

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borghi rurali Manganaro, Gallea e Schirò, nati grazie alla riforma. Per ciascuno di essi si sottolinea la presenza di edifici pubblici, assieme alle case coloniche, che consentono una vita più confortevole e serena per i residenti, assistiti dallo Stato. Alcune sequenze girate a Borgo Schirò raccontano un gioioso e tranquillo quotidiano, che trova il suo culmine nel corteo che accompagna un nuovo nato verso la chiesa per il battesimo. Torna nei borghi della riforma l’eco della tradizione, dell’Italia cattolica e pacificata, dedita al lavoro e osservante verso la religione. Sempre in Sicilia è girato Viaggio nell’isola (1955) di Sergio Giordani. Il cortometraggio, costruito con alcune messinscena, inizia dapprima negli antichi palazzi di Palermo, dove si riuniscono gli organi che amministrano l’isola. Quindi si parla dei problemi dell’agricoltura in Sicilia e di quanto si sta facendo per risolverli, come la costruzione della diga che, favorendo l’irrigazione, consente le coltivazioni nella piana di Gela. La modernità arriva con la ricerca del petrolio a Ragusa e, infine, con le case e la scuola di recente realizzazione, che rinnovano il volto di un vecchio e tipico paese siciliano. Al rimboschimento di territori un tempo inutilizzabili in Sardegna è dedicato Sardegna la terra (1953) di Ugo Fasano. Mentre di nuove borgate e infrastrutture per migliorare le coltivazioni nella regione si occupa Cronache dalla Sardegna (1955) di Luigi Scattini. Gian Paolo Callegari, infine, nell’isola gira In volo sulla Sardegna (1956) e L’acqua dei poeti (1956). Il primo cortometraggio con riprese aeree illustra gli interventi di bonifica e irrigazione, nonché l’industrializzazione della regione, mentre il secondo è incentrato sull’antico problema della carenza idrica e sulla sua risoluzione grazie alla costruzione della diga sul Flumendosa.

2.2 Provvidenze della Cassa Assieme agli interventi in favore dell’agricoltura, l’altro tema principale nella produzione documentaristica del Governo dedicata al Sud sono le realizzazioni della Cassa per il Mezzogiorno, che con le infrastrutture di fresca fattura e gli incentivi all’industrializzazione prova a scolpire un volto nuovo dell’Italia meridionale. Di Fausto Saraceni è Una corriera racconta (1952), un cortometraggio costruito su una storia di finzione. La voce narrante è quella di una corriera, umanizzata nella fiction, che ricorda il passato, quando trasportava beni e persone da un paese all’altro del Meridione. La realtà era ancora profondamente arretrata, con assenza di acqua e energia elettrica nelle case, di strade che favorissero i collegamenti

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PROFONDO SUD

tra i centri, con un’economia povera e un’agricoltura arretrata. Le immagini utilizzate per ricostruire il passato raccontato dal commento illustrano terre desolate, aride o paludose, e case decrepite. Dal passato si passa al presente. La voce narrante, divenendo carica di entusiasmo, coglie i cambiamenti nella realtà, mentre le sequenze mostrano opere realizzate dalla Cassa in varie parti del Mezzogiorno, come un ponte, un acquedotto, case coloniche, scuole, campi coltivati. La Cassa è definita nel commento un ente autonomo, capace, proprio in virtù della sua autonomia, di realizzare le grandi opere in tempi rapidi. La corriera, simbolo di un passato che non c’è più, perché ormai – spiega la voce over – tutto è cambiato, alla fine compie il suo ultimo viaggio verso la rottamazione. Una corriera racconta presenta uno stile insolito rispetto a quello standard della maggior parte dei film di propaganda governativa. La scelta della storia di finzione e quella di far parlare una corriera con la voce di un anziano attore, piuttosto che uno dei tradizionali speaker, fanno di questo un lavoro decisamente originale. Presenta uno stile più convenzionale, invece, L’ora del Sud (1953) di Edmondo Cancellieri, che fa una rapida e vivace carrellata di diversi interventi della Cassa, al ritmo di un commento declamatorio e carico di ottimismo. Si parla di bonifiche nel Foggiano, nascita di case coloniche «di una grazia quasi da villini», opere di ingegneria idraulica in Puglia, Sardegna, Lucania, Campania, Sicilia, costruzione di strade e restauri di siti d’arte e archeologici per garantire l’afflusso di più turisti nel Mezzogiorno. La maggior parte delle sequenze mostra uomini e potenti macchine al lavoro, restituendo la fotografia di un Sud non più immobile, ma dinamico e produttivo. Sempre di Cancellieri e incentrato su temi analoghi è Conquiste del Sud (1953), che inizia dal passato, proponendo scene di un Sud antico e povero, per poi parlare del presente e delle sue migliorie. Alle immagini delle fresche realizzazioni della Cassa si alternano quadri illustrati e grafici, che descrivono in cifre l’entità dei lavori compiuti. Il tono della voce over è didascalico e allo stesso tempo altisonante. Ancora un volta, grazie al commento e al montaggio rapido, è proposto allo spettatore un Mezzogiorno rinato, veloce e proiettato verso nuovi traguardi. Simile nei contenuti ai precedenti cortometraggi, ma strutturato intorno al pretesto narrativo di un italoamericano che fa ritorno a casa nel Meridione, è Viaggio nel Sud (1958) di Antonio Petrucci. L’emigrato in America ritorna a casa per salutare la famiglia e ritrova un Sud diverso da quello che aveva lasciato. Il suo viaggio diviene l’occasione per esplorare i passi in avanti compiuti dalla sua terra grazie alla

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RETORICHE DELLA RICOSTRUZIONE

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Cassa, di cui si tessono le lodi e si spiegano le ragioni della proroga delle attività stabilita per legge nel 1957. Tra i principali interventi dello Stato nel Mezzogiorno ci sono quelli finalizzati all’approvvigionamento di risorse idriche in aree caratterizzate da siccità. Di questo si occupa Acqua al Sud (1954) di Fulvio Tului. Le sequenze iniziali ci illustrano una non specificata località del Meridione, dove la terra è arida e delle donne, sotto il sole alto, si recano ad un pozzo lontano dal paese per attingere acqua con anfore. Sono alcune delle lande meridionali in cui, spiega la voce over, «gli uomini e la terra chiedono insistentemente acqua». Queste immagini che rappresentano il passato sono presto scalzate da quelle del presente, che mostrano i lavori di operosi manovali che costruiscono un acquedotto in un paesaggio brullo. Rivediamo il paese, dove stavolta le donne lavano i panni in un pubblico lavatoio, i bambini giocano con l’acqua di una fontanina e gli animali si dissetano a un abbeveratoio. La voce over, in un finale di grande speranza, auspica maggiore fertilità per i terreni del Mezzogiorno grazie alla capillare diffusione dell’acqua. Molti cortometraggi si occupano di specifiche realtà regionali. All’impegno della Cassa per la Lucania è dedicato Accadde in Lucania (1953) di Francesco De Feo. Le prime sequenze parlano di una terra abbandonata e scettica circa la possibilità di un cambiamento. Poi arrivano i mezzi inviati dallo Stato, che portano l’agognata trasformazione. Il commento descrive quanto già fatto, come la sistemazione idrica sul torrente Jesce presso Matera, nell’alta Val D’Agri, sull’Ofanto, la diga di Gannano e il bacino idrico di San Giuliano vicino Matera. Anche le strade sono state interessate da importanti lavori e ora permettono la circolazione delle potenti macchine agricole dirette nelle aree della riforma fondiaria. Le case rurali trasformano la geografia urbana della nuova Lucania. Nelle borgate della riforma i contadini hanno a disposizione numerosi servizi, come i corsi tenuti da tecnici per migliorare l’agricoltura, l’assistenza medica, la scuola per i bambini al mattino e per gli adulti analfabeti alla sera. Nelle immagini la vecchia Lucania, quella isolata e dimenticata dallo Stato, è sostituita da una terra rinata, dinamica, ordinata, dove lo Stato è vicino ai suoi cittadini. Non a caso il cortometraggio si conclude con la sequenza di una festa popolare, durante la quale i contadini, vestiti in abiti tipici, festeggiano felici il primo anniversario di assegnazione delle terre. De Feo in Lucania realizza pure Una regione da scoprire (1953), simile nei contenuti a Accadde in Lucania. Il cortometraggio, partendo dalle

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PROFONDO SUD

cause del sottosviluppo della regione, racconta la ripresa economica conseguente agli interventi governativi. Opere in Sicilia (1953) di Giacomo Pozzi Bellini si focalizza sulle attività della Cassa nell’isola. Il cortometraggio illustra in particolare la costruzione di strade e di infrastrutture finalizzate all’approvvigionamento d’acqua in una regione spesso carente di risorse idriche. I toni propagandistici sono qui smorzati in un commento dal carattere molto descrittivo. Le immagini e la voce over raccontano della nuova strada che va da Palermo a Mondello, dei collegamenti viari e delle opere idrauliche nelle aree della riforma nel Belice e a Gela. L’acqua che arriva nelle aree coltivabili potenzierà l’agricoltura, mentre i lavori negli scavi archeologici a Siracusa e Agrigento e le nuove strade lì costruite promettono di incrementare il flusso di turisti. Il futuro è rappresentato attraverso l’alacre fatica degli uomini, le macchine moderne e le opere monumentali che sorgono su lande deserte. Ma, di là dalle parole, il passato non scompare: lo vediamo nella sequenza finale, in cui un contadino ara con un mulo la terra, sul cui sfondo campeggia un antico tempio greco. Pozzi Bellini all’intervento dello Stato nell’isola dedica, nello stesso anno, anche Sicilia 1953, incentrato sull’edilizia. Con uno stile asciutto e un tono didascalico, il cortometraggio parla di nuovi complessi di case popolari, che si sostituiscono a vecchi tuguri o danno un tetto a chi prima non lo aveva. Si vedono numerosi cantieri aperti con operai al lavoro e palazzine chiare di nuova costruzione nei pressi di Messina, Palermo, Agrigento e Caltanissetta. Grandi opere hanno interessato poi il porto di Palermo, il borgo Gallea nell’area della riforma vicino Agrigento, ospedali, scuole e chiese distribuite tra le varie province. L’idea che passa è quella di un’isola che si rinnova a suon di colate di cemento, con cui si costruiscono edifici salubri e funzionali, in luogo di quelli vecchi e fatiscenti. La ricostruzione di Messina ma soprattutto i collegamenti via mare che ne attraversano lo Stretto, unendo la Sicilia al resto della penisola, sono descritti in Taccuino di un breve viaggio (1954) di Pino Belli. Alcune scene, girate con parti di finzione, sono filmate su un traghetto che parte da Villa San Giovanni alla volta di Messina. Il commento spiega l’efficienza raggiunta e l’utilità di questi collegamenti, che uniscono l’Italia e consentono ogni giorno a lavoratori e turisti di passare dal continente all’isola e viceversa. L’elogio della modernità incalzante si appunta anche sull’elettrodotto di fresca realizzazione tra la penisola e la Sicilia. Uno dei piloni è definito un’opera «che sembra innalzata a monumento dell’operosità umana». Le immagini finali raccontano di

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RETORICHE DELLA RICOSTRUZIONE

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Messina ricostruita dopo le devastazioni della guerra, mostrando case ed edifici pubblici nuovi. Anche L’isola risorta (1955) di Giulio Morelli ci parla di una ricostruzione imponente dopo le distruzioni belliche. Protagonista è Pantelleria, oggetto di una forte attenzione da parte dello Stato per restituirle l’antica bellezza. Il cortometraggio, rilevò la critica, racconta la ricostruzione «senza molta enfasi», tuttavia, «Il motivo futile preso a pretesto per girar l’isola (l’uomo che sorveglia i fari e che compie il suo quotidiano giro sulla vecchia 510) è troppo esile e le uniche parti ove s’accentra l’interesse dello spettatore sono quelle legate alle tradizioni popolari ed alle espressioni folcloristiche»20. Parlano della Campania e del suo sviluppo dopo la guerra Terra di lavoro e Campania industriale, entrambi realizzati nel 1953 da Pier Giuseppe Franci. Terra di Lavoro descrive alcuni importanti interventi svolti dalla Cassa, sfruttando il consueto pretesto di un emigrante che fa ritorno dopo anni nella sua regione e trova molte cose cambiate. Il commento didascalico presenta le opere di ingegneria idraulica sul Volturno e la bonifica delle terre che il fiume attraversa. Molto è fatto anche per i beni culturali danneggiati dalla guerra, come il restauro della Reggia di Caserta, la ricostruzione del borgo di Caserta vecchia e i lavori negli scavi di Pompei. Infine, sono illustrati la costruzione dell’Acquedotto Campano, che darà acqua al Napoletano e al Casertano, e dell’acquedotto dell’Ausino nel Salernitano, le bonifiche e le irrigazioni lungo il corso del Sele. Campania industriale parla della ricostruzione industriale grazie al sostegno della Cassa. Il cortometraggio si apre tessendo le lodi del laborioso – al di là degli stereotipi – popolo napoletano. Segue una carrellata tra vari stabilimenti di Napoli e provincia: le raffinerie del petrolio Agip, l’industria del vetro, del ferro, del tessile, gli impianti di energia elettrica ricostruiti dopo la guerra, i cantieri navali. Si parla poi del porto partenopeo e della sua grandezza, dei quartieri di case popolari in costruzione a Napoli e nelle altre province. Infine, le immagini dell’imponente complesso industriale dell’Ilva mostrano, sottolinea lo speaker, la Napoli «silenziosamente ma tenacemente protesa verso il futuro», che sfida la rappresentazione superata «della tradizione oleografica». L’impegno del governo regionale per la rinascita della Sardegna è descritto in Sardegna il lavoro (1953) di Ugo Fasano. Si parte dalla modernità del porto di Cagliari, il primo dell’isola, di cui si ammirano le alte e potenti gru. Si passa quindi al porto di Olbia, alle nuove case 20

Claudio Bertieri, I documentari, «Cinema», n. 156, 10 Dicembre 1955, p. 1022.

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in provincia di Cagliari e agli operosi cantieri edilizi della ricostruzione. Il commento racconta i passi in avanti nell’industrializzazione dell’isola, parlando della lavorazione del sughero a Tempio Pausania, del tessile a Macomer e del sale a Sassari. Infine, sono descritti l’eccellenza delle scuole e università sarde e il progresso portato dall’elettricità in alcuni piccoli centri grazie alla centrale del Flumendosa. Alla diga sul Flumendosa, costruita grazie alla Cassa, è dedicato anche Diga sul Flumendosa (1957) di Enzo Trovatelli. Aurelia Attili in Calabria gira Promessa del Sud (1953), sullo sviluppo dell’industria nella regione. Il racconto inizia col volto antico della Calabria, le sue ricchezze culturali, il paesaggio brullo e i contadini che lavorano la terra con mezzi primitivi. Poi irrompe il presente, con le immagini di Crotone e dei suoi vari stabilimenti industriali. Seguono quelle di un canapificio in provincia di Catanzaro, di alberghi nei capoluoghi pronti a ospitare i turisti, dell’industria del tannino e delle pelli nel Cosentino. Il progresso passa anche attraverso la valorizzazione dei saperi antichi, così il cortometraggio mostra la scuola per la tessitura dei tappeti orientali a San Giovanni in Fiore e la scuola di arti e mestieri a Pizzo. Il mare di Reggio Calabria e i campi da sci dell’Aspromonte promettono il decollo del turismo, mentre le nuove case e l’ampliamento del porto a Reggio scolpiscono il volto di una città moderna. In Promessa del Sud c’è un continuo rimbalzo tra la modernità e la tradizione, come a significare che il nuovo si integra con l’antico in un processo dialettico. L’industria, in altre parole, si radica in un mondo arcaico senza violarlo, ma valorizzandolo. Qualche anno dopo in Calabria Claudio Triscoli gira Corrispondenza dalla Calabria (1959), che fa il punto sulle opere edilizie e stradali sulla Sila nate per favorire lo sviluppo sociale e turistico.

2.3 Tempi moderni Rispetto agli anni cinquanta, la produzione dei cortometraggi della Presidenza del Consiglio dedicati al Sud cala nel decennio successivo. I temi sono simili, ma a partire dalla metà degli anni sessanta, i documentari affrontano questioni nuove, come quelle legate ai cambiamenti sociali e all’emigrazione. Energia per il Sud (1960) di Claudio Triscoli riprende il tema del petrolio e del metano come risorsa di sviluppo per la Sicilia e la Lucania. In Puglia Valente Farnese gira I bambini guardano (1961) sulla diga sul Fortore e sulla trasformazione agricola della Capitanata. Amalfi

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RETORICHE DELLA RICOSTRUZIONE

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(1961) di Vincenzo Lucci Chiarissi descrive le nuove strade di accesso e l’offerta alberghiera della località turistica campana, potenziate per incrementare il flusso di visitatori. Nella stessa regione è girato anche Le case del sole (1961) di Francamaria Trapani, sui nuovi complessi Ina Casa a Napoli e provincia. Il commento elenca i successi del Piano Fanfani, che ha assicurato una casa a molti Italiani, facendo il consueto raffronto con la difficile realtà del dopoguerra. Le prime immagini sono quelle del quartiere La loggetta a Napoli, dotato di tutti i servizi, precisa lo speaker. Sono i bambini, nel loro quotidiano rassicurante, a guidare lo spettatore nel breve viaggio nel rione. Seguono sequenze di un altro grosso cantiere Ina Casa nel capoluogo. È il quartiere Traiano e le parole, coniugate al futuro, annunciano venticinquemila appartamenti e, in aggiunta, scuole, negozi, uffici, strade e verde attrezzato. Ritorna l’usuale, per questi documentari, paragone col passato negativo, quando si parla dell’“albergo delle masse”, una struttura fatiscente che ha ospitato per anni cittadini senza un tetto. L’“albergo delle masse” è abbattuto, come documentano le immagini, e i suoi abitanti sono stati spostati nel nuovo rione Berlingieri, di cui si ammirano le case chiare e moderne. Quando si parla del complesso Ina Casa Mazzini di Capodichino vi è il richiamo alla tradizione: lo spostarsi nei nuovi complessi abitativi non cancella le abitudini, gli usi e costumi di un tempo, sottolinea la voce narrante. Da Napoli si passa alla sua estrema periferia, con gli alloggi Ina Casa di Secondigliano. I lavori sono in corso, mancano strade e servizi, e gli appartamenti non sono ancora abitati. Abbiamo la possibilità di vederne uno all’interno (come raramente accade in questi documentari), mentre lo speaker illustra i comfort e i servizi presenti. Infine, lo sguardo è spostato sulla provincia di Napoli e sui tanti quartieri Ina Casa già edificati o in via di edificazione. Il commento esalta la «bonifica edilizia», che è al contempo una «bonifica sociale». Di Francamaria Trapani sono anche Un treno dal Sud (1964), sulla delicata questione dell’emigrazione interna e sull’impiego di lavoratori nelle nuove industrie del Meridione, e Donne del Sud, oggi (1965), documentario che racconta dei problemi delle donne meridionali a inserirsi nei ritmi della società che cambia. Ritroviamo la riflessione sociologica in Gente nuova del Sud (1965) di Agostino Di Ciaula, che affronta gli aspetti della società meridionale in evoluzione verso forme di vita e costumi più moderni. Ancora Napoli, il suo volto moderno e l’industria campana sono protagonisti di Nuova terra di lavoro (1964) di Giampiero Pucci. Si parte dalla Napoli nuova, quella dei quartieri residenziali di recente realiz-

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PROFONDO SUD

zazione. Passando per le bellezze di interesse turistico dell’hinterland, si parla delle varie fabbriche distribuite nei dintorni del capoluogo partenopeo. La visita in un opificio meccanico diventa l’occasione per presentare le scuole professionali finanziate dall’IRI e dalla Cassa per il Mezzogiorno. Dalle scuole escono giovani operai della cui manodopera c’è crescente bisogno nelle industrie che nascono nel Mezzogiorno, sottolinea fiducioso il commento. La Campania viene definita come una regione di contrasti, dove alla persistenza del volto tradizionale si intreccia il nuovo portato dall’intervento governativo, come le case dell’edilizia popolare, le strade, la meccanizzazione dell’agricoltura. Dopo Napoli vediamo Salerno, città sviluppatasi di recente, e le sue fabbriche, poi opifici del tessile nell’Avellinese, dove si tengono corsi professionali per le future operaie. Le scuole professionali puntano non solo a preparare lavoratori delle fabbriche, ma a rivalutare l’artigianato e le professioni locali, intesi come un tratto identitario da preservare. Non a caso, la voce over conclude affermando che «ora tutta la regione può veramente dirsi terra di lavoro […] senza per questo rinunciare al fascino della sua natura, dei suoi costumi, del suo spirito», mentre le immagini mostrano uno scorcio da cartolina di Napoli, col mare e il Vesuvio sullo sfondo. Di istruzione, scuole professionali e nuove possibilità di impiego nel Meridione si occupano anche Giulio Morelli in Lavoro nel Sud (1965) e Filippo Masoero in Lavoro e macchine (1965). L’interesse di questi cortometraggi per le scuole e i corsi professionalizzanti riflette il nuovo clima degli anni sessanta, quando più intenso è l’impegno per l’industrializzazione del Mezzogiorno e la preparazione scolastica dei futuri lavoratori è intesa come necessario prerequisito per lo sviluppo.

3. La critica cinematografica all’attacco I documentari che nel secondo dopoguerra hanno raccontato con tono compiacente l’operato governativo non si esauriscono in quelli espressamente commissionati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Altri lavori, pur non nascendo dalla propaganda istituzionale, hanno raccontato dell’Italia che cambiava con toni particolarmente zelanti verso il Governo. È noto, infatti, come il documentario sia stato in molti casi feudo del principale partito italiano, in virtù delle influenze che quest’ultimo esercitava sia sulle commissioni incaricate di concedere i premi e la programmazione obbligatoria nelle sale, sia

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RETORICHE DELLA RICOSTRUZIONE

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sulle commissioni di censura. Non erano rari, così, i casi di registi che si piegavano alla propaganda favorevole agli interessi del potere per ottenere accesso ai premi e più facili guadagni. A determinare questa situazione era anche l’esistenza di case di produzione che col Governo avevano istaurato una sorta di tacito accordo: esse producevano cortometraggi in linea con le sue attese e quest’ultimo favoriva le opere attraverso le decisioni benevoli prese in commissione. Il meccanismo aveva il più delle volte effetti molto negativi, poiché consentiva a lavori mediocri di arrivare facilmente nelle sale e, al contempo, impediva la circolazione ai documentari di migliore qualità ma realizzati da case di produzione e registi non allineati21. Tra le case simpatizzanti col Governo un ruolo di primo piano era senz’altro svolto dalla Incom, produttrice di documentari e del cinegiornale La Settimana Incom che, nel contesto liberalizzato dell’informazione cinematografica post bellica, riuscì ad avere il completo sopravvento sulle altre cineattualità22. La Settimana Incom era in buona sostanza il cinegiornale più visto dagli Italiani e il suo racconto della realtà si sintonizzava con la visione democristiana dell’Italia. Non a caso, il 51% del capitale societario della Incom era nelle mani di Teresio Guglielmone, senatore della Dc dal 1948 fino alla sua morte, nel 195923. Finanziato dallo Stato e vicino al potere economico, oltre che alla Democrazia Cristiana, La Settimana Incom ne raccoglieva le istanze, proponendo un’immagine dell’Italia plasmata sui valori conformi a una ideologia al tempo stesso cattolica e industriale. Lo spazio della propaganda governativa, dunque, nel cinema documentario e nel cinegiornalismo dell’Italia del dopoguerra si estendeva ben oltre i cortometraggi commissionati dalla Presidenza del Consiglio. Circostanza che infuriava la critica cinematografica, soprattutto quella 21 Cfr. Associazione nazionale autori cinematografici (Anac), Libro bianco sul cortometraggio italiano, Roma, 1966. 22 Attiva, sotto la direzione di Sandro Pallavicini, sin dal 1938 nel campo del documentario d’attualità e di propaganda, ma non potendo infrangere in quegli anni il monopolio del Luce, la casa di produzione Incom attese la fine della guerra per proporre, a partire dal 1946, un’innovativa e vivace formula di cinegiornale, che in breve avrebbe conquisto il mercato delle cineattualità. In totale, dal primo numero del febbraio 1946 all’ultimo del marzo 1965, l’Incom ha prodotto 2.551 numeri, che comprendono 13.260 servizi, per complessive 350 ore di filmati. Mino Argentieri, L’occhio del regime, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 196-199. Su questo tema si veda anche Augusto Sainati (a cura di), La Settimana Incom. Cinegiornale e informazione negli anni ’50, Torino, Lindau, 2001. 23 Maria Adelaide Frabotta, Il cammino dei cinegiornali italiani nel paese e in Europa, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Identità italiana e identità europea nel cinema italiano dal 1945 al miracolo economico, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, p. 78.

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orientata a sinistra. Il dissenso verso l’utilizzo del documentario per scopi propagandistici prese corpo in alcune delle pagine più dure delle riviste cinematografiche contro le invasioni del potere nei seminati dell’arte e della cultura, considerati inviolabili. Nel 1952, ad esempio, su «Cinema» si leggono parole di accesa polemica contro due cortometraggi, Italia d’oggi di Romolo Marcellini e Il Mezzogiorno al lavoro di Gino Visentini. «Abbiamo appena alle nostre spalle le opere del regime di fresca data, ed ecco che c’imbattiamo, al cinema, in opere del nuovo regime. Ma la maniera di presentarcele e decantarcele sullo schermo è purtroppo molto simile a quella usata in passato in tanti insulsi cortometraggi»24. Il paragone col fascismo è frequente nella critica al documentario filogovernativo, accusato, peraltro, di essere povero sul piano della qualità: «Le bonifiche o le ricostruzioni delle industrie distrutte sono grandi ed encomiabili imprese, ma non altrettanto encomiabile è la loro esaltazione sperticata e confusa, tanto gonfia di belle intenzioni e di tono ufficioso se non ufficiale, tanto distratta nelle parole grosse e nelle figure retoriche da non essere capace di darci neppure una descrizione, una minima informazione». Italia d’oggi e Il Mezzogiorno al lavoro, perciò, «sono povera merce ed hanno fatto passibilmente sbadigliare le sale ove sono stati proiettati». Inoltre, «hanno riportato quel ricordo di documentari tutti punti esclamativi, visti in altra epoca, non molto lontana ancora»25. Qualche tempo dopo, sulla stessa rivista parole altrettanto feroci sono riservate a un cortometraggio di Augusto Petrone, Un mestiere anche per te. Il film, finanziato dall’Assessorato alla pubblica istruzione della Regione Sicilia, racconta di iniziative nel campo dell’istruzione portate avanti dalla Cassa per il Mezzogiorno per facilitare l’accesso alle professioni. «La Cassa del Mezzogiorno ha molto bisogno di propaganda, forse per mettere a tacere le numerose critiche sollevate contro tale istituzione»26, si legge in apertura dell’articolo. Il cortometraggio parla delle scuole professionali ricorrendo a una piccola storia di fiction, che ha per protagonista un uomo che ha perduto il lavoro, perché sprovvisto di un’adeguata specializzazione. L’intreccio narrativo, come visto, è di frequente utilizzato nei documentari filogovernativi, ma il ricorso a forme del cinema a soggetto, per la critica, era ulteriore indice della lontananza di queste opere dagli scopi del documentario puro, ovvero il racconto non filtrato da esigenze propagandistiche della realtà. 24

Oreste Del Buono, I cortometraggi, «Cinema», n. 89, 30 Giugno 1952, p. 373. Ibidem. 26 Tom Granich, I cortometraggi, «Cinema Nuovo», n. 76, 10 Febbraio 1956, p. 92. 25

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RETORICHE DELLA RICOSTRUZIONE

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Le prese di posizione più accese si registravano nei periodi di campagna elettorale, quando più forti diventavano gli echi della propaganda. Nel 1953, a ridosso delle politiche, dalle colonne di «Cinema Nuovo» s’innalzava il grido di allarme contro i rischi della strumentalizzazione del cortometraggio per gli scopi di pubblicità politica. Nel testo si legge che «attualmente, i temi possibili sono quelli suggeriti dai ministeri, dagli enti pubblici e da tutte quelle organizzazioni statali o parastatali le quali – assicurando contributi e finanziamenti – permettono di ovviare ai pericoli di un mercato chiuso, monopolizzato da organizzazioni naturalmente disposte […] ad assorbire gli inni propagandistici di una sola parte: quella che permette loro di godere dei frutti del monopolio»27. Inoltre, il silenzio cui erano costrette le opposizioni provocava non solo un «danno politico», ma anche un «danno artistico e culturale» per il pubblico, «poiché inibisce temi e contenuti, costringe all’esaltazione sfacciata dei ponti e delle strade, lascia un margine soltanto ai temi considerati inoffensivi, come il turismo e la pittura» e non consentiva «quella battaglia delle opinioni che è sempre stata una garanzia di progresso e di miglioramento civile»28. I timori di «Cinema Nuovo» relativi ad un utilizzo improprio dei cortometraggi nella campagna elettorale del ‘53 trovano fondamento nella realtà. È così che qualche mese dopo, sulla stessa rivista, Renzo Renzi tuona: «La campagna elettorale è finita e […] il cinema è servito esclusivamente alla propaganda del partito al governo, mediante una quantità di documentari celebrativi che escludevano qualunque discorso delle varie opposizioni. Nei cinematografi, cioè, la campagna elettorale, è stata condotta come in un qualsiasi regime di dittatura»29. Per Renzi il documentario è messo al servizio esclusivo di una narrazione che inneggia a cantieri operosi e brulicanti, dove si costruisce il volto nuovo dell’Italia. Così, «Gli schizzi della calce arrivavano in sala mentre le varie voci del regime, col petto in fuori, badavano a parlare di miliardi di lire, di migliaia di ettari, piangendo brevemente sul recente passato, illuminandosi di gioia alle conquiste del presente». Ma, di là dalle cose fatte, «manca chi ci racconti il non fatto, il fatto male, il fatto ingiustamente». Manca, in sostanza, l’opposizione, messa a tacere nei concitati momenti della campagna elettorale, e la voce del documentario viaggia a senso unico, per persuadere lo spettatore, 27

La voce del silenzio, «Cinema Nuovo», n. 8, 1 Aprile 1953, p. 199. Ibidem. 29 Renzo Renzi, L’arte dei funzionari, «Cinema Nuovo», n. 13, 15 Giugno 1953, pp. 382-383. 28

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togliendo spazio al ragionamento o alla dialettica delle idee. Perciò, «in occasione della campagna elettorale […], la legge ha funzionato benissimo per permettere al partito al governo di farsi la propria propaganda a spese dello Stato. Essa si è rivelata cioè come un semplice strumento politico»30.

30

Ibidem.

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CAPITOLO V

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NARRAZIONI DELLO SVILUPPO INDUSTRIALE

1. Le politiche per l’industria meridionale Le differenze nello sviluppo industriale sono una delle manifestazioni più evidenti dello squilibrio tra Nord e Sud Italia. Negli anni del miracolo economico l’industria settentrionale cresce, mentre la più fragile economia meridionale, fondata prevalentemente sull’agricoltura, fa limitati passi in avanti in campo industriale. Gli stabilimenti sono pochi e si concentrano in aree limitate. La miseria e la mancanza di posti di lavoro spingono moltissimi meridionali a lasciare la propria terra d’origine per raggiungere le fabbriche e le città del Nord. Il miracolo dell’industria italiana avviene anche grazie a loro, ovvero a una manodopera disponibile e a basso costo. Quella dell’emigrazione interna è una pagina controversa della storia italiana. Non sempre, infatti, le speranze di un’esistenza migliore si realizzano: il lavoro nelle fabbriche è duro e gli emigranti sono spinti nei sobborghi delle grandi città in una condizione di emarginazione. Per risollevare il Sud e appianare il dislivello col Nord si cerca di favorire l’industrializzazione con alcune misure ad hoc. L’obiettivo è di permettere al Meridione di camminare con le proprie gambe e sottrarsi a una politica assistenziale. La necessità di industrializzare il Sud parte da lontano, sin dall’immediato dopoguerra. Alla fine del 1946 nasce la Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che già nel nome chiarisce quali sono i suoi obiettivi. Il lavoro degli economisti e intellettuali di questo gruppo si fonda su un rovesciamento di prospettiva: il sottosviluppo meridionale non è considerato come un problema tutto italiano, ma piuttosto l’espressione della più generale condizione delle aree depresse comune a più paesi nel quadro internazionale. Questa impostazione favorisce una migliore pianificazione dell’intervento

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PROFONDO SUD

pubblico e la collocazione di quest’ultimo in un contesto sovranazionale di riferimento. La Svimez, infatti, sostiene la necessità di un intervento dello Stato nell’economia per favorire il rilancio del Sud. Nel dettaglio, sono richiesti incentivi per incoraggiare l’industrializzazione. I tempi, però, subito dopo la guerra non sono maturi. L’indirizzo economico generale di quegli anni, orientato su posizioni liberiste, e i timori che l’idea di programmazione evoca in molta parte della politica frenano le richieste della Svimez. Tant’è che anche nella legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno la prospettiva industrialista è fortemente ridimensionata rispetto alle intenzioni iniziali. Le idee dell’associazione, però, non sono accantonate nonostante le resistenze generali. Esse riprendono corpo nello Schema Vanoni del 1954, che aveva tra i suoi obiettivi principali l’aumento dell’occupazione e la riduzione dello squilibrio tra Nord e Sud attraverso un intervento dello Stato nell’economia. Anche lo schema Vanoni, tuttavia, resta sostanzialmente lettera morta: negli anni del tumultuoso miracolo, infatti, si ritiene opportuno lasciare libero il mercato dalle ingerenze dello Stato per non bloccare lo straordinario trend di crescita. Il problema Mezzogiorno, così, più che con interventi di pianificazione economica sarà affrontato ancora con l’intervento straordinario1. Nell’alveo di quest’ultimo nel 1957, con la legge 634, che proroga al 1965 la durata della Cassa, si prevedono una serie di incentivi per lo sviluppo industriale del Sud. Questa legge segna un cambio di rotta nella politica della Cassa, che inizialmente si era occupata prevalentemente di interventi di preindustrializzazione. La legge 634 prevede l’istituzione di Aree di sviluppo industriale, ovvero aree strategiche in cui programmare e promuovere la nascita di insediamenti produttivi, e varie agevolazioni creditizie e fiscali per le imprese. Gli incentivi mirano sia a sostenere l’imprenditoria locale sia ad attrarre industrie dal Nord. In quest’ottica è previsto pure che le aziende a partecipazione statale indirizzino obbligatoriamente non meno del sessanta per centro dei propri investimenti per nuovi impianti al Sud2. Il sistema degli incentivi avrebbe fatto vedere i suoi effetti negli anni sessanta, accorciando in quella fase il gap economico e industriale tra Nord e Sud3. Tuttavia, nel complesso non riuscì a produrre un effettivo 1 Claudia Petraccone, Le ‘due Italie’. La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Bari, Laterza, 2005, pp. 220-234. 2 Ivi, p. 248. 3 Guido Pescosolido, Lo sviluppo industriale del Mezzogiorno nell’ultimo quarantennio del Novecento, in Id., Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, pp. 167-176.

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NARRAZIONI DELLO SVILUPPO INDUSTRIALE

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sviluppo di realtà imprenditoriali capaci di creare un numero rilevante di posti di lavoro. Gli incentivi non attrassero investitori privati settentrionali né furono in grado di aiutare concretamente i locali. I benefici interessarono esclusivamente alcune grandi industrie, in particolare dei settori petrolchimico e siderurgico, che aprirono i loro battenti nel Mezzogiorno e che ben presto sarebbero state ribattezzate «cattedrali nel deserto». Tra questi si ricordano i poli siderurgici dell’Italsider di Taranto e Bagnoli, lo stabilimento chimico della Montecatini a Brindisi, l’Alfasud a Pomigliano d’Arco e i diversi impianti dell’impresa pubblica Eni. Per le loro caratteristiche, le cattedrali nel deserto non riuscirono ad attivare un reale processo di espansione industriale nelle aree in cui furono impiantate. Esse apparivano piuttosto come imponenti complessi di modernità in aree desolate e ancora arretrate, che innescavano, anche sul piano visivo, un evidente paradosso. Sebbene dei miglioramenti generali nel tempo ci sono stati nell’economia meridionale e lo squilibrio col Nord in certi momenti sia stato attenuato, ma non cancellato, non si può dire che la politica degli incentivi, così come, più in generale, quella dell’intervento straordinario, siano state fruttuose. Esse delineano un Mezzogiorno in cui ad una agricoltura debole si affianca un’industrializzazione altrettanto debole e distribuita in aree circoscritte. L’unico settore che cresce progressivamente è il terziario, col massiccio impiego nel pubblico, luogo esposto, in molti casi, a corruttela e clientele4.

2. Il cinema d’impresa Già poco dopo la sua nascita, il cinema entra nelle industrie per documentare il lavoro, i processi produttivi, o anche i traguardi della tecnica. In Italia, come in buona parte dell’Europa, però, il sodalizio tra cinema e industria raggiunge il suo apice negli anni della ripresa economica successivi al secondo dopoguerra5. È in quella fase che più che mai le immagini in movimento e il loro potenziale comunicativo sono messi al servizio delle imprese per il raggiungimento di diverse finalità: dalla semplice informazione o divulgazione al largo pubblico di informazioni relative alle industrie, all’insegnamento di saperi specifici 4 Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 2013, pp. 319-321. 5 Per un quadro generale sul cinema d’impresa si veda Giulio Latini, Immagini mondo. Breve storia del cinema d’impresa, Roma, Kappabit, 2016.

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per una platea più specializzata, passando per la promozione dell’immagine dell’azienda o la pubblicità dei suoi prodotti. Sono soprattutto le grandi industrie, quelle dotate di maggiori risorse, a servirsi del cinema. La prima azienda italiana che lo fa è l’Olivetti, che nel 1948 si dota di una sezione cinematografica. Seguono subito dopo la Fiat, la Montecatini e l’Eni. Negli anni sessanta, invece, si avvicina al cinema documentario l’Italsider, la maggior industria siderurgica del Paese, che dà vita ad una sezione audiovisivi chiamando a collaborarvi giovani registi, formatisi col neorealismo, e uomini di cultura, non necessariamente provenienti dal mondo del cinema6. Queste imprese realizzavano in proprio i documentari, tramite sezioni cinematografiche. In alternativa, le industrie potevano rivolgersi a case di produzione esterne e commissionare, o sovvenzionare in parte, le opere. Nel primo caso, le aziende detenevano il controllo totale del lavoro, mentre nel secondo, agendo tramite intermediari, avevano minori possibilità di influenza sull’opera. All’interno della categoria dei film industriali si collocano pellicole molto diverse, me è possibile classificarle in base ai loro diversi scopi. Una distinzione preliminare è tra i documentari strettamente legati al mondo del lavoro e all’industria committente, anche detti “tecnofilm”, e quelli riguardanti altre tematiche, definiti “di prestigio”. I tecnofilm potevano avere un carattere scientifico-industriale, e perciò essere rivolti ad un pubblico specializzato, oppure un carattere più divulgativo. In ogni caso, si legavano strettamente alla committenza. I film di prestigio, invece, riguardavano i più disparati argomenti e le industrie si limitavano ad inserire il proprio marchio al loro interno, mostrandosi così verso il largo pubblico come un generoso committente. Sebbene molti documentari industriali, per le caratteristiche che gli erano proprie, siano stati destinati esclusivamente a un pubblico specialistico interno alle aziende, non sono mancati i casi di pellicole distribuite anche nelle sale, godendo dello stesso meccanismo di finanziamento e di programmazione dei comuni cortometraggi. Ovviamente, in questi casi, si trattava di opere disposte a trovare un maggior compromesso tra finalità scientifiche e spettacolari7. Le imprese consideravano i film industriali soprattutto come un mezzo di promozione della propria immagine. Tutto ciò ha determinato 6 Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Annali. A proposito del film documentario, Roma, 1998, pp. 108-110. 7 Mario Verdone, Cinema del lavoro, Roma, Realtà editrice, 1962, p. 27-31.

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alcuni limiti per il genere, come l’eccessiva attenzione data ai prodotti dell’industria, oppure alle macchine, emblema della grandezza della fabbrica, in molti casi vere protagoniste dei documentari, rispetto alle quali l’uomo appariva una figura sbiadita. In questi casi, perciò, il documentario abdicava alla sua funzione originaria di cinema dell’uomo, cedendo agli interessi della committenza. Situazione favorita, oltre che dalle volontà delle aziende, talvolta anche dalla disponibilità di certi registi ad assecondare le richieste dei committenti, purché lavorare in condizioni economiche più agevoli8. In effetti, le sezioni cinematografiche di alcune grandi industrie italiane hanno rappresentato per molti autori il luogo in cui operare in un clima protetto. Ma sono state anche una palestra per registi esordienti, molti dei quali destinati a percorrere una lunga e fruttuosa strada nel mondo del cinema. Un esempio per tutti, Ermanno Olmi, che lavorò dal 1953 al 1960 come responsabile del Servizio Cinema presso la Edisonvolta, dopo essere entrato nell’azienda come un comune impiegato9. Olmi supervisionò o realizzò una quarantina di cortometraggi. Le opere che portano la sua firma sono apprezzate per valore e originalità nel panorama convenzionale dei film industriali, grazie al metraggio, all’attraversamento di vari generi cinematografici e alla maggiore attenzione data all’uomo10. Alla Montecatini lega il suo nome Giovanni Cecchinato, mentre presso l’Italsider si è formato Valentino Orsini. Quest’ultimo nei suoi documentari ha rappresentato bene il carattere di apertura verso la società manifestato dall’azienda. L’Italsider, infatti, è stata una delle poche industrie italiane a commissionare documentari non esclusivamente riguardanti il mondo della fabbrica, ma orientate al racconto di svariati fenomeni sociali e culturali. Assieme a Orsini, presso l’Italsider hanno lavorato come documentaristi Piero Nelli e Franco Taviani11. Nel panorama difficile del documentario italiano il merito delle grandi aziende che hanno creato sezioni cinematografiche, finanziandone le attività, è stato di aver concesso a giovani – e in alcuni casi promettenti – registi di sperimentare il cinema con margini di libertà 8

Gaspare Gozzi (a cura di), Cinema e industria. Ricerche e testimonianze sul film industriale, Milano, Franco Angeli, 1971, pp. 127-128. 9 Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 76. 10 Lino Micciché, Studi su dodici sguardi d’autore, Torino, Lindau, 1995, p. 34. 11 Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Annali. A proposito del film documentario, cit., pp. 110-112.

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economica e creativa impensabili altrove. Ma non solo. Spesso a collaborare nella realizzazione delle opere erano chiamati anche nomi importanti della cultura italiana, come ad esempio letterati, cui era richiesta la stesura del testo dei commenti. Il cinema industriale, pertanto, ha rappresentato un luogo di promozione culturale in un senso più ampio. Esso tuttavia non ha avuto vita lunga in Italia. Probabilmente la causa principale del suo declino si riconduce all’assenza di un proprio pubblico. Così, dopo il boom negli anni del miracolo economico, quando le imprese hanno investito molto nel cinema, inizia il suo declino. A mano a mano le industrie rinunciano al documentario come mezzo per veicolare la propria immagine al pubblico e gli preferiscono la più efficacie e diffusa televisione12.

3. Echi epici dalle acciaierie del Sud I documentari industriali realizzati nel Mezzogiorno sono prodotti dalle grandi aziende italiane che, anche grazie alla politica degli incentivi, aprono i loro stabilimenti al Sud. Per queste aziende vi è la necessità di raccontare un Meridione in rinascita grazie all’impegno da esse profuso. I toni, così, sono particolarmente fiduciosi. Il Sud che s’industrializza e che va incontro al progresso è rappresentato in fermento: vi si costruisce con sveltezza e instancabilità, vi si portano le macchine industriali più moderne e si erigono imponenti infrastrutture. Con un linguaggio visivo talvolta ardimentoso, sono mostrati stabilimenti che nascono in terre un tempo deserte o impervie, enormi navi che solcano i mari, tralicci altissimi stagliati nel cielo. È un Meridione orgoglioso e determinato, in cui la povertà e l’arretratezza devono risuonare come un vecchio ricordo, perché la strada imboccata è quella di una sicura crescita. I documentari che descrivono l’industrializzazione del Mezzogiorno sono in prevalenza degli anni sessanta, l’epoca in cui si colgono i primi risultati degli sforzi fatti per industrializzare il Sud. Lo sviluppo industriale meridionale trova nell’acciaieria Italsider di Taranto, inaugurata nel 1961, una delle sue massime espressioni13. Lo stabilimento pugliese si affianca, nel Mezzogiorno, a quello campano di Bagnoli, nato come Ilva nel 1910 e divenuto Italsider nel 1964. 12

Ivi, p. 114. Salvatore Romeo, L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi, Roma, Donzelli, 2019, pp. 89-125. 13

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L’Italsider, controllata dall’IRI, negli anni sessanta rappresenta uno dei maggiori gruppi dell’industria di Stato. Nel 1951 nelle acciaierie di Bagnoli è girato Acciaio di Vittorio Gallo, prodotto dalla Documento. Il documentario sottolinea le potenzialità modernizzatrici dell’industria siderurgica, che sconvolge il preesistente ambiente sociale partenopeo. Lo mette in luce anche Mario Verdone su «Bianco e Nero», quando scrive che «non si tratta di una Napoli folcloristica, sentimentale, come siamo abituati a riconoscerla nelle canzoni e nel mito, nel teatro dialettale e nei film. È la Napoli che lavora, colta nelle grandi acciaierie del complesso dell’Ilva»14. Acciaio, collocandosi sulla stessa linea d’onda delle sinfonie industriali che celebravano il progresso della tecnica, vuole mettere in discussione gli stereotipi e i luoghi comuni attraverso cui era rappresentata Napoli, per trasmettere, mediante il protagonismo dei lavoratori e delle macchine, un’immagine moderna della città. Non senza la retorica del lavoro e della grande industria portatrice di una vita migliore. Sempre Verdone, infatti, scrive che in Acciaio Napoli «vede i suoi figli […] come membri di una grande famiglia industriale, la quale dà lavoro e pane a migliaia e migliaia di lavoratori»15. Negli anni sessanta le attenzioni si spostano sui nuovi stabilimenti di Taranto. Ad essi è dedicato Il pianeta acciaio (1962) di Emilio Marsili, prodotto dall’Italsider. Il documentario si apre con un paesaggio mediterraneo classico, col mare e gli ulivi, messo, dice il commento, «a ferro e a fuoco» dalla modernità. Gli ulivi, infatti, sono abbattuti e «poche ore sono bastate a cancellare i millenni», sottolinea fiera la voce over. Si vede quindi lo scheletro dell’acciaieria di Taranto in costruzione, l’immagine concreta della modernità che scansa il mondo sonnolente e pigro preesistente. Lo stabilimento è ripreso con inquadrature dall’altro, per renderne la grandezza e la magnificenza. La parola passa poi agli operai, che, intervistati, rilasciano alcune testimonianze relative al loro impiego nell’acciaieria e alla speranza che ora illumina le loro vite. Il pianeta acciaio prosegue con le immagini di Bagnoli e del suo altoforno che lavora a ciclo continuo. Con un linguaggio marziale è descritto il processo di produzione dell’acciaio nei termini di una dominazione dell’uomo sulla materia. Si passa quindi agli stabilimenti di Piombino e Cornigliano, mentre il commento tesse la retorica del lavoro dell’uomo e dell’importanza dell’acciaio nel quotidiano di tutti. 14 Mario Verdone, Documentari e cortometraggi, «Bianco e Nero», n. 11, Novembre 1952, p. 96. 15 Ibidem.

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Sul finale, torna l’acciaieria di Taranto, dove si producono tubi, e torna anche l’enfasi posta sullo stabilimento come portatore di progresso. Calato dall’alto, dove prima c’erano silenzio e stagnazione, esso produce un’ondata di nuovo che si propaga tutt’intorno, cambiando le vite dei tarantini, dice la voce over. Il pianeta acciaio è un film di notevole qualità e in alcuni tratti, ad esempio nei titoli di testa, presenta uno stile d’avanguardia che caratterizza molti documentari industriali di questa epoca16. Inoltre, la pellicola si avvale di grandi nomi del panorama culturale italiano. In generale, le opere realizzate da o per l’Italsider si sono spesso contraddistinte per qualità e ingegno, e portano la firma di personalità di spicco del mondo cinematografico e letterario italiani. A proposito de Il pianeta acciaio è la critica a evidenziare quest’aspetto. In un articolo del 1963, del film, che «con le sue immagini streganti, mostra quanto spettacolo si possa creare anche con un documentario specializzato», si dice che «Il commento è di Dino Buzzati, il soggetto di Luciano Emmer, la fotografia in cinemascope e a colori di U. Marelli e Mario Volpi (un direttore di fotografia fra i migliori di questo campo, in cui ha lavorato anche con Ivens): nomi che mettono già in evidenza il livello produttivo di alta qualità dei film Italsider»17. Sempre per l’Italsider e sempre dedicato a Taranto è Acciaio tra gli ulivi (1962) di Giovanni Paolucci. Torna il panorama agreste, con un uomo che pascola, mentre il commento parla di pecore, mare e ulivi come «protagonisti di una storia millenaria». La cinepresa in larghe panoramiche riprende un paesaggio piatto, desolato, silenzioso, su cui soffia un lieve vento. Poi arrivano le macchine rumorose, che abbattono ulivi e vecchie case contadine, e operai che fanno esplodere mine per fare spazio ai moderni stabilimenti industriali. Si inizia a costruire le fondamenta in un cantiere di grandi proporzioni, in cui «dal suolo sorge una nuova e inattesa vegetazione. Grandi alberi d’acciaio piantati sui cubi di sasso si vanno allineando in geometriche prospettive a definire il perimetro del tubificio». Arrivano i macchinari imponenti, che richiedono trasporti speciali per la loro mole. Il commento spiega che il tubificio è il primo passo nell’industrializzazione del Mezzogiorno agricolo, fermo da secoli. Le immagini mostrano lo stabilimento che prende forma, grazie al lavoro dei carpentieri, evidenziando la vastità della struttura con eloquenti riprese dall’alto. Tutto intorno si intravede l’aperta e spoglia 16 Alessandro Cecchi, Il film industriale italiano degli anni Sessanta tra sperimentazione audiovisiva, avanguardia musicale e definizione di genere, in Ilario Meandri, Andrea Valle (a cura di), Suono, immagine, genere, Torino, Kaplan, 2011, p. 148. 17 Ernesto Guido Laura, I documentari, «Bianco e Nero», n. 6, Giugno 1963, p. 77.

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campagna. Infine, è spiegato il processo di realizzazione dei tubi, in cui le vere protagoniste sono le macchine, mentre l’uomo è confinato in un ruolo meramente accessorio. Il prodigio della tecnica infonde ottimismo: lo stabilimento di Taranto veicola «l’immagine d’una Puglia antica che vede radicalmente trasformarsi i suoi connotati»18. Valentino Orsini per l’Italsider realizza Acciaio sul mare (1964). Il documentario fa la storia della siderurgia italiana e dell’Italsider in particolare attraverso materiali di repertorio dell’archivio storico e della cineteca aziendale. Si parla degli stabilimenti di Piombino e Portoferraio, e poi di quelli della siderurgia moderna sul mare per la produzione a basso costo a Cornigliano, Piombino, Bagnoli e Taranto. Gli ultimi impianti, particolarmente potenti, sono destinati a modernizzare anche la vita delle aree in cui sorgono. È così riproposta pure in questo documentario la retorica del Sud che si sviluppa grazie all’industria. Acciaio sul mare è particolarmente apprezzato dalla critica. «In Orsini – scrive Bertieri su «Bianco e Nero» -, coesistono uno spiccato senso della sperimentazione (la parte storica del film, costruita su materiale d’archivio, è esemplare quanto a ricchezza narrativa ed a reinvenzione di ritmo) ed una naturale disposizione a cantare liricamente il lavoro dell’uomo con pudore d’osservazione (l’apertura umana e sociale con cui ha annotato la pacifica rivoluzione del pigro Mezzogiorno che ha imposto un nuovo ritmo ed una aggiornata configurazione socioeconomica)»19. Sempre girato a Taranto, dello stesso regista è Una storia comincia (1965). Oltre a documentare la costruzione e il funzionamento dello stabilimento, che nel 1965 si arricchisce di un nuovo altoforno, la pellicola prova a far luce sull’impatto positivo che esso ha sullo sviluppo economico e sociale della Puglia. Per raccontare l’effetto dirompente provocato del nuovo complesso industriale, Orsini sceglie di mostrare le migliaia di lettere di richiesta di assunzione che arrivano all’azienda da parte di chi sogna un futuro migliore.

4. Cattedrali nel deserto Nel 1956 nel siracusano nasce il complesso industriale della SINCAT (Società Industriale Catanese) del gruppo Edisonvolta, attivo nel settore 18

Ibidem. Claudio Bertieri, Venezia documentario: un “leone” all’Italia, «Bianco e Nero», n. 8-9, Agosto-Settembre 1964, p. 85. 19

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chimico. Ermanno Olmi, allora nella sezione cinema della Edisonvolta, nel 1960 vi gira Il grande paese d’acciaio. Il documentario ci mostra sulle prime il volto tradizionale della Sicilia: terre con ulivi, paesi addormentati e templi, lande deserte, pascoli e contadini al lavoro. Tutto è enfatizzato dal Totalscope, ovvero la visione panoramica sul grande schermo. A sottolineare la tradizione è la colonna sonora, composta da brani cantati in dialetto siciliano, scritti da Sandro Tuminelli. Poi, la musica diventa più incalzante e il commento annuncia che «la Sicilia cambia volto. Nel cuore del paesaggio antico sta nascendo qualcosa di nuovo». Si vede così la «grande città d’acciaio» di recente costruzione, ovvero lo stabilimento chimico e petrolchimico che, spiega la voce over, sorto in un’area culla della civiltà occidentale è ora simbolo di tecnologia avanzata e modernità. L’intreccio tra vecchio è nuovo, tra tradizione e progresso, è molto forte in questo documentario e condensato in alcune sequenze simboliche, come quella del carretto siciliano che si aggira nell’impianto. Come a dire che lo sviluppo si innesta su una realtà preesistente senza cancellarla, ma integrandosi con essa. Nella conclusione, ampie panoramiche sull’impianto mostrano un orizzonte nuovo per la Sicilia, mutato rispetto al passato, che presagisce un futuro migliore per l’isola. Il documentario si caratterizza per una notevole qualità, che lo distanzia dalla produzione media coeva, e conferma le capacità del giovane Olmi, come sottolineava Mario Verdone quando scriveva che Il grande paese d’acciaio «non dice nulla che non sappiamo del suo reputato regista, che ormai per la Sezione Cinematografica della Edisonvolta ha diretto più di trenta documentari dello stesso tipo, tutti con lodevole impegno, nitidezza formale e chiarezza narrativa»20. Agli stabilimenti meridionali della Montecatini dedica diversi lavori Giovanni Cecchinato. In quelli siciliani di Campofranco e Porto Empedocle gira Un mestiere per Tutuzzu (1961). Il documentario è costruito sulla vicenda di Tutuzzu, un ragazzino che vediamo camminare con un mulo e che desidera, da grande, trovare impiego nella miniera di San Cataldo, nel Palermitano. L’occasione è propizia per raccontare come oggi il lavoro nelle cave sia più dignitoso e tanto diverso da quello delle vecchie zolfare siciliane. I materiali estratti dalla miniera sono condotti per la lavorazione nei moderni stabilimenti di Campofranco e dopo in quelli di Porto Empedocle, dove diventano concimi. Nella parte finale della pellicola, dopo un parallelo visivo tra gli antichi templi di Porto Empedocle e i nuovi impianti industriali a sancire il legame tra passato e 20

Mario Verdone, L’Italia non è un paese povero, «Bianco e Nero», n. 7, Luglio 1960, p. 88.

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futuro, rivediamo Tutuzzu col suo mulo. Il ragazzo incarna la speranza di tanti meridionali che, come lui, sognano un lavoro e un futuro dignitosi. Il vecchio Sud è rappresentato da contadini e pescatori che lavorano con metodi antichi e con fatica. Per loro la possibilità di cambiamento c’è, suggerisce il commento, ed è riposta nell’industria che arriva dal Nord. Nel 1959 la Montecatini, grazie a finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, avvia la realizzazione di un impianto petrolchimico anche a Brindisi. In realtà, una serie di errori in questo investimento avrebbero portato, di lì a qualche anno, ad una forte crisi per l’azienda. Per evitarne la chiusura, negli anni sessanta la Montecatini sarebbe stata incorporata nella Edison, dando origine alla Montedison. Cecchinato negli impianti Montecatini di Brindisi realizza Quattro volte Brindisi (1964). Il titolo fa riferimento al fatto che il petrolchimico è grande quattro volte la città. Le prime sequenze mostrano dei ragazzi che giocano a calcio in un campo dove pascolano capre. È il vecchio Sud, dove tutto è uguale da sempre. Il gioco è interrotto dall’arrivo di mezzi cingolati che devono spianare l’area. Mentre parte un commento musicale, ancora di Sandro Tuminelli, dal titolo Li terre mei, il campo si allarga e vediamo una landa desolata e incolta, su cui si propagano le macchine. Iniziano i lavori del petrolchimico e le inquadrature enfatizzano la grandezza della struttura, mostrando altissimi piloni, gru che sembrano toccare il cielo e panoramiche della vasta cittadella industriale già finita. Al commento si alternano le testimonianze di operai e maestranze, che forniscono le cifre della grandezza dello stabilimento. Le nuove possibilità di occupazione che il petrolchimico offre sono illustrate attraverso la vicenda di un uomo che fa domanda di assunzione all’azienda e che poi è sottoposto ad accurate visite mediche. In una classe un insegnante prepara i futuri operai e la sua spiegazione fa luce sulla generosa gamma di materiali derivati dal petrolio prodotti nell’impianto. Sul finire, ancora sulle note di Tuminelli che celebra il cambiamento positivo della sua terra, si vedono operai sereni che lavorano, o giocano a calcio nel tempo libero, in uno stabilimento imponente che simboleggia il progresso. Qualche anno dopo, sempre per la Montecatini, ora confluita in Montedison, Cecchinato dirige Buon lavoro Sud (1968). Il documentario prende avvio dalle immagini di un paese siciliano. Un emigrante parte, lasciando la moglie e il figlio. Nel paesino, di vecchie case bianche, la vita scorre come sempre. Il lavoro per chi non se ne è andato è poco e non consente una vita dignitosa. Ad un certo punto, una colonna sonora incalzante e il parallelismo tra un antico tempio e un nuovo impianto industriale annunciano il cambiamento. La ci-

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nepresa si sposta quindi in una sala riunioni dove si incontrano vertici aziendali, mentre il commento elenca, con cifre, i risultati raggiunti in tutto il Mezzogiorno dalla Montedison nei termini di apertura di complessi industriali e occupazione nei settori chimico, petrolchimico e delle miniere. Le sequenze che descrivono il lavoro negli impianti si alternano a quelle che mostrano il quotidiano nel Sud. È interessante notare come la società tradizionale non sembri affatto intaccata dal progresso. Il Mezzogiorno che si vede fuori dagli stabilimenti industriali è quello di sempre, dei piccoli paesi, della vita semplice e modesta. Nella parte conclusiva, molti dei protagonisti delle prime scene, che lamentavano difficili condizioni di vita, hanno finalmente trovato un lavoro in azienda e possono guardare più serenamente al futuro. Un ruolo importante nello sviluppo del Sud è giocato dall’Eni, l’azienda creata dallo Stato nel 1953 e operante nel settore degli idrocarburi. Nella seconda metà degli anni cinquanta le ricerche del petrolio, inizialmente condotte al Nord, cominciano pure nel Mezzogiorno, in Sicilia e in Lucania. Nell’ambito di una politica attenta alla promozione dell’immagine dell’azienda, soprattutto per volontà del presidente Enrico Mattei, nel 1959 l’Eni crea un Ufficio cinema, che ha l’obiettivo di produrre documentari che illustrino le attività dell’ente di Stato. Guidato da Pasquale Ojetti, l’Ufficio cinema favorirà la produzione sistematica di diversi documentari, alcuni dei quali sono stati distribuiti anche nelle sale cinematografiche, quindi superando il limitato circuito aziendale. Si tratta di lavori di qualità, di corto e medio metraggio, commissionati a case di produzione esterne e ai quali in molti casi hanno dato la loro firma nomi di prestigio della cultura italiana21. Nel secondo dopoguerra L’Eni intraprende la ricerca del petrolio in Sicilia, scavando pozzi sia sulla terraferma che in mare. Nei pressi di Gela sono eseguite diverse trivellazioni. Vi sorge il primo pozzo sottomarino in Europa, in cui l’estrazione del greggio avviene attraverso la moderna piattaforma Scarabeo. A questa opera ambiziosa è dedicato il documentario di Vittorio De Seta e Franco Dodi Gela 1959: pozzi a mare (1960). La pellicola ci mostra con intento esplicativo come avvengono i lavori sulla piattaforma e, con interviste ai tecnici, chiarisce le finalità e le prospettive relative all’estrazione del greggio. Le immagini, alcune delle quali girate sott’acqua, enfatizzano lo stato di avanguardia dei mezzi e delle procedure di lavoro attivati. Obiettivo del documentario, però, 21

Elio Frescani, Il cane a sei zampe sullo schermo. La produzione cinematografica dell’Eni di Enrico Mattei, Napoli, Liguori, 2014, pp. 15-18.

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non è soffermarsi solo sugli aspetti tecnici delle trivellazioni, ma anche sull’impatto sociale che l’impegno dell’Eni avrà su Gela. La voce over spiega, così, che le possibilità di lavoro ci sono non solo per gli operai venuti dal Nord, ma anche per quelli del Sud, alcuni già impegnati sullo Scarabeo. Il commento diventa più retorico quando parla degli operai siciliani e settentrionali che lavorano assieme. La condivisione è motivo d’orgoglio: l’azienda si fa promotrice di uno spirito di fratellanza tra settentrionali e meridionali, che uniti contribuiscono alla rinascita del Sud. L’intreccio tra Nord e Sud è reso attraverso la mescolanza dei dialetti, nordici quelli dei tecnici inviati dall’Eni per estrarre il petrolio e siciliani quelli degli operai del posto assunti a lavorare. Il documentario, infatti, presenta una formula insolita, alternando al commento descrittivo della voce over interviste a tecnici e operai dello Scarabeo, nonché a persone del posto. In tal modo, il punto di vista dell’azienda si alterna a quello dei gelesi. Fuori dai cantieri, i contadini gelesi sorridono imbarazzati durante le interviste, parlano e capiscono con difficoltà l’italiano. I loro conterranei assunti dall’Eni, invece, manifestano maggiore sicurezza: si tratta di operai specializzati già formati dall’azienda e incamminati su un percorso di emancipazione grazie al lavoro. Torna, in tal modo, il consueto parallelismo tra vecchio e nuovo. Il documentario prosegue col resoconto delle trivellazioni intorno a Gela e in Sicilia, sottolineando il primato e i meriti dell’Eni. Si passa, infine, ad analizzare la questione dell’arretratezza meridionale con interviste a persone del posto. Il sindaco di Gela, Fortunato Vitali, spiega che i gelesi sono orgogliosi delle trivellazioni e fiduciosi di trovare un impiego grazie ad esse. Il deputato gelese Salvatore Aldisio, invece, prefigura le prospettive di sviluppo economico per la zona, auspicando la lavorazione in loco del greggio con l’apertura di una raffineria, la realizzazione di una centrale elettrica e di un indotto, capaci di innescare uno progresso industriale. Il finale è di grande ottimismo. Il commento spiega che gli operai al lavoro per l’Eni «hanno coscienza che la loro fatica e il loro sacrificio pongono le basi della trasformazione industriale, della rinascita economica e sociale della loro terra». Il riscatto per la Sicilia sta arrivando, dopo secoli di miseria. «Per questa ragione, la storia del petrolio di Gela, anche se è appena iniziata, ha già assunto i caratteri e i contorni epici della leggenda». Sugli stessi temi è A Gela qualcosa di nuovo (1960) di Fernando Cerchio. In apertura del documentario è mostrata la vecchia Gela, i pescatori, la vita nella cittadina in cui girano i carretti e si vedono i panni stesi. È la Gela del tempo lento, dice il commento. All’improvviso la colonna sonora diventa incalzante, un elicottero appare nel cielo

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e lo speaker afferma trionfante che «un avvenire pieno di speranze si apre oggi per Gela ed ha un nome, petrolio». Si vedono i pozzi e i loro moderni impianti per l’estrazione del greggio. Alcune sequenze sono significative: sullo sfondo i pozzi, mentre in primo piano sono mostrati contadini che arano con metodi antichi la terra. È quasi un corto circuito visivo, che simboleggia il contrasto tra passato e futuro. Il documentario prosegue con un continuo alternarsi tra la piattaforma Scarabeo, simbolo di progresso, e la vita quotidiana di Gela, che rappresenta l’antico. Al lavoro artigianale in una fornace segue quello moderno sulla piattaforma in mezzo al mare, alla vita confortevole fuori dagli orari di lavoro per gli operai dell’Eni segue quella misera di una famiglia gelese, che mangia in un unico piatto e condivide la casa con un mulo. Infine, mentre si vedono bambini immersi in un contesto urbano povero, il commento annuncia per loro un domani migliore, grazie alla promessa di realizzazione dello stabilimento petrolchimico e della centrale termoelettrica che offriranno occupazione. La ricerca del petrolio interessa anche la Lucania a partire dal 1958. Le trivellazioni presso Ferrandina e la costruzione di uno stabilimento dell’Anic sono al centro di Ch4 in Lucania (1963) di Giuseppe Ferrara, un regista che, come visto, in quegli anni aveva realizzato diversi documentari nel Mezzogiorno, prevalentemente con un carattere di inchiesta sociale. Il documentario si apre con la Lucania selvaggia e aspra, nei cui dirupi risuonano antiche leggende, si dice nel commento. Seguono sequenze di feste popolari in cui sono praticati riti pagani e di paesi arroccati in cima alle montagne, isolati da tutto. Poi, annuncia la voce over, «il mondo moderno si presentò all’improvviso» e sulle lande aride e pietrose compaiono i pozzi, con le loro architetture metalliche. Da questo momento inizia un montaggio alternato con cui si racconta da una parte il mondo antico preesistente e dall’altra il mondo moderno portato dall’Eni. La modernità arriva con la costruzione di strade, di un motel, di un acquedotto, dello stabilimento dell’Anic e degli appartamenti per gli operai. Il montaggio alternato rende visivamente il contrasto tra vecchio e nuovo, soprattutto perché le sequenze che illustrano la civiltà già esistente hanno un ritmo e una musica lenti, mentre quelle che mostrano il progresso presentano un tempo veloce, enfatizzato dalla colonna sonora, da un montaggio più serrato e da rapidi movimenti della macchina da presa, che in molti casi offre punti di vista inusuali. L’intreccio del montaggio esprime nel codice visivo quello che la voce over esprime a parole, ovvero la promessa del superamento dell’arretratezza, grazie al progresso, ma

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nel rispetto della tradizione dei luoghi. Il commento, infatti, coniugato al futuro, dice che paesi come quelli saranno abbandonati e la vita si concentrerà a valle. L’industria porterà il progresso sociale, oltre che economico, così, «la scienza e la tecnica vinceranno la superstizione». Ferrara dopo questo documentario ne realizzerà altri due per l’Eni, stavolta a Gela. Si tratta di Gela antica e nuova e Il gigante di Gela, entrambi del 1964 e incentrati, oltre che sulla scoperta del petrolio, sulla costruzione del petrolchimico, iniziata nel 1960. Gela antica e nuova, col commento scritto da Leonardo Sciascia, ha un tocco poetico. Inizia con le immagini delle antiche mura e degli scavi, che evocano le origini classiche della cittadina. Gela è intrisa di passato, ma le trivelle dell’Eni hanno scoperto il petrolio e hanno dato inizio a un nuovo capitolo della sua storia, dice la voce over. Arrivano così le ruspe a spianare e ripulire il terreno, per fare spazio al nuovo stabilimento. Da questo momento vediamo alternarsi i lavori di costruzione su un’ampia spianata desertica e la Gela vecchia, con la persistenza dei suoi costumi. Le opere diventano, con lo scorrere delle sequenze, via via più imponenti, mentre il commento ne spiega le funzioni e le caratteristiche. Riprese dall’alto, inquadrature studiate e una musica trionfale concorrono a definire sullo schermo il gigantismo del petrolchimico. La Gela antica, d’altro canto, resiste coi suoi vecchi mestieri, le tradizioni religiose, l’umiltà dei suoi abitanti, colti dall’occhio del regista, che non manca di sensibilità antropologica. Gela antica e nuova si sofferma in particolare su alcune feste religiose, descritte come espressione del folclore locale. La sintesi tra tradizione e progresso è data, nella parte conclusiva, da un cantastorie siciliano che intona un brano dedicato alla scoperta del petrolio e al miracolo di scienza. Il documentario piacque, tuttavia, Ernesto Guido Laura, espressione della critica cattolica, contestò a Ferrara «che è un po’ facile e manichea la contrapposizione che egli fa […] fra mondo positivo della tecnica e mondo superato della religione, riducendo la religiosità solo a manifestazioni esteriori»22. A differenza di questo documentario, Il gigante di Gela pone un’attenzione maggiore ai lavori di costruzione del petrolchimico, che sono descritti con dettagli e precisione. Come al solito, il racconto inizia dal passato. Il commento parla della vecchia Gela, povera, legata ad un’agricoltura arretrata e svuotata dall’emigrazione. Poi è scoperto il petrolio e iniziano le opere per edificare gli impianti. Vediamo il giorno della posa della prima pietra, nell’estate del 1960. All’inaugurazione del cantiere è presente Enrico Mattei, raramente ri22

Ernesto Guido Laura, I documentari, «Bianco e Nero», n. 6, Giugno 1964, p. 74.

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preso in un documentario aziendale. Il presidente, nell’anno di realizzazione de Il gigante di Gela, era già morto e la sua presenza nell’opera suona come un tributo. Il documentario procede con una descrizione minuziosa dei lavori, sottolineandone la grandezza. Le riprese, molte delle quali fatte su un velivolo, lo evidenziano, contribuendo alla definizione titanica dell’impresa dell’Eni. Per un momento, la cinepresa esce all’esterno del cantiere e lo speaker dice che «fuori dello stabilimento la vita antica di Gela continua al lento ritmo di sempre. Il progresso la sfiora appena». In più punti del documentario è sottolineata l’importante occasione che il petrolchimico ha rappresentato per gli operai reclutati a Gela. Da semplici e poveri braccianti, ora sono lavoratori con una qualifica specifica, che contribuiscono al prestigio dell’azienda. Vediamo gli operai arrivare al petrolchimico in macchina o scooter e mangiare in una moderna e ricca mensa aziendale. Sono finalmente benestanti, «partecipi e nello stesso tempo protagonisti di quella civiltà industriale che sembrava tanto lontana per loro […] uomini che hanno acquisito una mentalità industriale e che costituiscono un potenziale umano di immenso valore. Tutte premesse di un avvenire industriale che non potrà mancare», conclude fiducioso il commento. Una vicenda spesso ricordata quando si parla dei documentari realizzati dall’Eni è quella che ha riguardato L’Italia non è un paese povero (1960), prodotto per la televisione. Le vicissitudini che colpirono il documentario sono specchio delle contraddizioni che emergono quando il progresso di cui è portatrice la grande industria coabita con la persistenza di arretratezza e miseria. Enrico Mattei volle L’Italia non è un paese povero per far luce sull’impegno dell’Eni per il Paese, ma anche per denunciare lo strapotere delle compagnie petrolifere concorrenti. Fu il presidente dell’Eni in persona a scegliere come regista il noto documentarista olandese Joris Ivens, non lasciandosi scoraggiare dal fatto che fosse dichiaratamente comunista23. Di fatto, tra i due si istaurò da subito un rapporto di complicità e simpatia. Ivens fu lasciato totalmente libero nel suo lavoro, avendo a disposizione, tra l’altro, risorse quasi illimitate24. Con lui collaborarono alla regia 23 «Mattei disse: Voglio il più grande documentarista del mondo! Allora chiamarono Ivens, che per fortuna era libero. […] Ivens è una personalità molto grossa, che allora non poteva rientrare nel suo paese, l’Olanda, perché era comunista». Testimonianza di Oberdan Troiani, operatore de L’Italia non è un paese povero, in F. Faldini, G. Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, cit., p. 216. 24 «Il film era in bianco e nero, è costato quasi 150 milioni, tanti per allora perché avremo girato 60-70 mila metri di pellicola! […] Ivens girava con uno spreco di roba che non finiva mai, voleva gli elicotteri per le riprese, e addirittura, a Gela, fece sradicare un

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Tinto Brass, Valentino Orsini e i fratelli Taviani. Nelle intenzioni di Enrico Mattei il film avrebbe dovuto illustrare i cambiamenti positivi che il ritrovamento e la lavorazione del petrolio stavano producendo in alcune aree depresse del Paese. L’obiettivo, come suggerisce il titolo dell’opera, era dimostrare che l’Italia non sarebbe stata più un paese povero. Il presidente, tuttavia, era anche consapevole dello stato di miseria in cui versavano ancora alcune zone d’Italia, in particolare al Sud, e contro quella miseria voleva che il film levasse la propria voce. Ivens, lavorando in piena autonomia, non mancò di denunciare le sacche di arretratezza annidate in parte del Paese. Assieme al racconto di quanto l’Eni stava facendo in alcune aree d’Italia in cui era stato trovato il petrolio, infatti, il documentarista si soffermò pure sulle zone d’ombra, nei villaggi in cui un’imbarazzante povertà non era mai stata colta prima da una cinepresa. Il film si componeva originariamente di tre episodi, girati in località diverse d’Italia, dal Nord al Sud. Quando fu terminato, Mattei lo vide e non pare gli fosse dispiaciuto. Il documentario, però, non piacque alla Rai. I dirigenti televisivi si rifiutarono di mandarlo in onda nella sua versione integrale, perché alcune scene erano troppo crude e rappresentavano un’Italia bisognosa che la tv controllata dai democristiani non voleva mostrare25. L’Italia non è un paese povero fu tagliato di venticinque minuti e il regista, furioso, non lo riconobbe. La Rai lo mandò in onda col titolo Frammenti da un film di Joris Ivens. Fortunatamente alcune copie della pellicola originale furono salvate da Brass e Ivens, che le portarono fuori dall’Italia. Nel mirino del censore erano finite scene come una casa povera nei Sassi di Matera, dove viveva una donna che aveva perso dieci dei suoi quindici figli. Oppure bambini indigenti, tra cui uno appena nato, coperto di stracci e col viso pieno di mosche. O una maga che faceva una fattura a un ammalato26. Il documentario originale, così come lo aveva voluto Ivens, non fu presentato neppure al festival di Venezia. Infatti, «Bianco e Nero» nel 1960 pubblica una recensione di Mario Verdone in cui si legge: «È un peccato che non tutta l’opera, che consta di vari episodi, sia stata proiettata durante la Mostra. Taluni frammenti, anzi, erano già albero di fichi e piantarlo più in là, per via di una ripresa con l’elicottero. A Ravenna, dove era pieno di gru che portavano a cinquanta metri di altezza, volle un dolly, e costò per un giorno seicentomila lire». Ibidem. 25 L. Micciché, Studi su dodici sguardi d’autore, cit., p. 291. 26 Per una ricostruzione accurata delle vicende che interessarono il film cfr. E. Frescani, Il cane a sei zampe sullo schermo, cit., pp. 49-63.

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apparsi sugli schermi televisivi italiani, e proprio alcuni di essi non sono stati presentati al Palazzo del Cinema»27. Non è ben chiaro quale versione sia stata presentata a Venezia, certamente non quella originale né quella tagliata per la televisione. Il giudizio sul documentario è nell’insieme positivo: «Anche una proiezione ridotta, che può condizionare il complessivo giudizio sull’opera, non manca peraltro di far comprendere l’eccezionalità della produzione». È ipotizzabile che le immagini dell’indigenza italiana non fossero presenti nella versione vista dal critico. Egli, infatti, commenta che «Spira aria da Campanile Sera e il prologo […] vuole spiegare come è nata questa nuova ricchezza italiana, che smentisce la tradizionale povertà di giacimenti della penisola. Il petrolio è apparso dapprima nel nord d’Italia, a Cortemaggiore; ma ecco la nuova ricchezza spandersi dalla pianura padana ad altre città e regioni, fino alla Sicilia. I metandotti portano energia […] nascono impianti, fabbriche di idrocarburi, mentre le ricerche vengono condotte in altre regioni». Verdone non manca di esprimere qualche perplessità circa l’eccessivo ottimismo del documentario trasmesso a Venezia: «Al termine, ecco sgominato il luogo comune che Ivens, e l’Eni che ha commissionato l’opera, hanno inteso spazzare via (magari identificando un po’ troppo l’Italia col petrolio scaturito da Cortemaggiore); e nelle scuole i nostri ragazzi non ripeteranno più, alla lezione di geografia, non scriveranno più sulla lavagna: l’Italia è un paese povero»28. L’eccesso di fiducia probabilmente è una conseguenza dell’assenza, nella versione del film vista dal critico, delle sequenze censurate. La storia de L’Italia non è un paese povero è paradigmatica del controllo che il potere esercitava sulla circolazione di certe immagini del Paese. Negli anni del miracolo economico è ammesso solo il racconto ottimista dello sviluppo in corso. Di questo sguardo speranzoso il documentario industriale, voce delle grandi aziende, è uno degli interpreti migliori. Ma il progresso non ha cancellato in un solo colpo il sottosviluppo, in particolare nel Mezzogiorno. Il volto ancora arretrato del Sud, tuttavia, non ha diritto di esistenza nello scenario mediatico. Così, è aggirato o censurato, oppure trasfigurato nell’immagine tranquillizzante della tradizione e delle radici culturali locali.

27 Mario Verdone, L’Italia non è un paese povero, «Bianco e Nero», n. 7, Luglio 1960, pp. 88-89. 28 Ibidem.

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CAPITOLO VI

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EPILOGO. PERIFERIE DEL CINEMA E DELLA STORIA

Il documentario del secondo dopoguerra rappresenta un patrimonio ricchissimo di immagini di indiscutibile valore e interesse storico. A lungo trascurato, perché considerato espressione di un cinema minore, solo negli ultimi anni è stato in parte riscoperto e rivalutato. Il documentario è, da questo punto di vista, una periferia del cinema, poco praticata, troppe volte sottovalutata, ancora in buona parte da esplorare. Ma rappresenta il luogo che ci consente di guardare alla realtà del suo tempo da un altro punto di vista, meno noto, ma non meno interessante. Il documentario che ha raccontato il Mezzogiorno dalla fine della guerra alla metà degli anni sessanta, espressione di voci e committenze differenti, offre più sguardi sul Sud. Riesce perciò a dar conto della complessità di una parte del Paese caratterizzata da grandi contrasti e divisa tra processi di sviluppo e persistenza di atavica arretratezza. Il cinema documentario, così come tutto il cinema, è espressione della società che l’ha prodotto, si lega a un discorso pubblico, alla produzione culturale, a orientamenti ideologici, in breve, al clima di un momento storico e ne riflette le rappresentazioni1. Nel complesso, quindi, i docu1 Nel significato che gli dà Pierre Sorlin, le rappresentazioni si originano a partire da immagini e hanno prevalentemente natura visiva. Pur non prendendo necessariamente forma in espressioni significanti, plasmano il modo di pensare e di agire di un certo gruppo sociale. Secondo lo studioso francese, il cinema è in grado di raccogliere e mostrare le rappresentazioni di una società e quindi di riflettere il contenuto delle mentalità in una data epoca; Pierre Sorlin, Sociologia del cinema, Milano, Garzanti, 1979, pp. 25-31. Dello stesso autore cfr. anche il più recente Introduzione a una sociologia del cinema, Pisa, ETS, 2017, pp. 48-62. Sull’utilizzo del cinema per lo studio del passato, in particolare per l’analisi della mentalità e la riflessione sugli immaginari, si vedano in particolare Pietro Cavallo, Viva l’Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962), Napoli, Liguori, 2009; Id., La storia attraverso i media. Immagini, propaganda e cultura in Italia dal Fascismo alla Repubblica, Napoli, Liguori, 2002; Id., Pasquale Iaccio (a cura di), Penso che un sogno così non ritorni

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PROFONDO SUD

mentari girati al Sud riescono a cogliere l’idea di Mezzogiorno diffusa e cristallizzata nell’immaginario collettivo, ovvero un luogo percepito come periferia del Paese, dove sembra il tempo si sia fermato. Il documentario antropologico degli anni cinquanta si inserisce appieno nel dibattito culturale relativo alla questione meridionale del secondo dopoguerra. In particolare, esso mette in immagini le suggestioni provenienti dalla letteratura e dalla riflessione socio-antropologica che avevano portato alla riscoperta del Sud dopo gli anni di chiusura del fascismo. Seguendo il filo rosso di questo dibattito, il documentario antropologico disegna i tratti di un Mezzogiorno immobile e fuori dalla storia. È una visione non completamente reale del Sud, che però ha avuto il merito di fare da contraltare quella stereotipata offerta da un certo cinema di finzione coevo. Sugli schermi cinematografici degli anni cinquanta, infatti, va per la maggiore un’immagine bozzettistica del Meridione, un impasto di folclore e cliché, che riduce la complessità della realtà meridionale. Rispetto ad essa, il documentario antropologico, coi suoi tratti realistici e drammatici, inquadra il Sud attraverso una prospettiva meno semplificata e caratterizzata, in alcuni casi, da maggiore profondità di analisi. Inoltre, porta sugli schermi il mondo contadino, sinora trascurato dal cinema di finzione. In tal senso, riempie un vuoto lasciato persino dal cinema neorealista, che, nella sua scoperta della realtà del dopoguerra, si era soffermato prevalentemente sui contesti urbani. È stato notato come proprio quando il neorealismo scompare, o si trasforma, il documentario ne raccolga il testimone. Verso la metà degli anni cinquanta il neorealismo rinuncia alla carica di denuncia che lo aveva caratterizzato nell’immediato dopoguerra per orientarsi verso il mercato. Ed è da quel momento che il documentario scopre il Mezzogiorno. Lo fa cogliendo «brandelli, spezzoni, frammenti più che un mondo organico. […] La sua era stata un’opera di scandaglio, di scavo in profondità più che un’opera

mai più. L’Italia del miracolo tra storia, cinema, musica e televisione, Liguori Editore, Napoli, 2016; Id. (a cura di), L’immagine riflessa. Fare storia con i media, Napoli, Liguori, 1998; Giovanni De Luna, La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo, Milano, Bruno Mondatori, 2004; Id., L’occhio e l’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1993; Marc Ferro, Cinema e storia. Linee per una ricerca, Milano, Feltrinelli, 1980; Pasquale Iaccio (a cura di), Antologia di cinema e storia. Riflessioni, testimonianze, interpretazioni, Napoli, Liguori, 2011; Id., Cinema e storia, Napoli, Liguori, 2000; Peppino Ortoleva, Cinema e storia. Scene dal passato, Torino, Loescher, 1991; Nicola Tranfaglia (a cura di), Il 1948 in Italia. La storia e i film, Firenze, La Nuova Italia, 1991.

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EPILOGO. PERIFERIE DEL CINEMA E DELLA STORIA

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di sintesi»2. Il Mezzogiorno, infatti, si configurava come «una realtà che non poteva essere spiegata ma solo documentata, una realtà che si prestava più alla ricerca frammentaria del documentario che non ad un’opera complessiva del cinema di finzione»3. Il legame tra il documentario e il neorealismo non è solo di natura formale, ma ben più profondo, soprattutto in riferimento ai cortometraggi ispirati dalle ricerche di Ernesto De Martino. Lo sguardo al mondo contadino meridionale dell’antropologo napoletano, infatti, è condizionato da una particolare cultura visuale dell’epoca: De Martino guarda ai contadini del Sud attraverso il paradigma neorealista, che nel dopoguerra non attiene solo al cinema. Il neorealismo è un approccio alla realtà che fonde scelte estetiche ed etiche, e che va ben oltre i confini degli schermi cinematografici. Partendo dal presupposto che ogni antropologo non è immune dai condizionamenti della cultura visuale della sua epoca, De Martino studiò il mondo contadino attraverso questo particolare paradigma, che lo portò ad assolutizzare l’arretratezza del Mezzogiorno nella direzione della denuncia. In altre parole, le scienze sociali offrirono al cinema nuovi spunti di narrazione, mentre il cinema offrì un nuovo paradigma della visione attraverso cui rapportarsi alla realtà4. Il cinema, il documentario, le scienze sociali e la riflessione politica, per questa ragione, crebbero in un comune humus culturale. Se è vero che c’è un nesso stretto tra il documentario antropologico e il dibattito culturale coevo, in particolare con le ricerche di De Martino, è anche vero che soprattutto i cortometraggi di ispirazione demartiniana propongono un’idea di Mezzogiorno che si allontana da quella teorizzata dall’antropologo napoletano. I documentari demartiniani, infatti, come visto, rappresentano il mondo contadino come isolato dal resto dell’Italia e chiuso nei suoi arcaismi. De Martino, invece, aveva un’idea del Sud contadino come interdipendente dal Nord e non considerava le sue manifestazioni culturali residui del passato, bensì elementi che svolgevano una specifica funzione sociale nel presente e che, al contempo, erano espressione di una cultura a se stante che opponeva resistenza ai fattori provenienti dall’esterno. I documentari antropologici demartiniani, pertanto, estremizzano certi aspetti del mondo meridionale, offrendone una rappresentazione più 2 Pasquale Iaccio, Cinema e Mezzogiorno, in Storia del Mezzogiorno, vol. XIV, Roma, Editalia, 1994, p. 341. 3 Ivi, p. 342. 4 Cfr. Francesco Faeta, Le ragioni dello sguardo. Pratiche dell’osservazione, della rappresentazione e della memoria, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.

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PROFONDO SUD

orientata dalle esigenze dell’arte che del realismo. Del resto, gli stessi documentaristi che li hanno realizzati hanno dichiarato in più occasioni di non aver voluto fare dei film scientifici. Della scientificità di questi lavori si inizia a discutere molto presto5 e il dibattito, ieri come oggi, ha fatto emergere i nodi problematici relativi al loro rapporto con la realtà. In particolare, è stato in più occasioni notato come i registi non abbiano svolto un lavoro di osservazione scientifica, ma abbiano impresso un filtro autoriale e soggettivo alla realtà ripresa. I documentari demartiniani sono molto spesso delle opere di ricerca formale, dal carattere quasi visionario, basate su messinscene (per quanto fatte da attori non professionisti chiamati a interpretare sostanzialmente se stessi dinanzi alla cinepresa). In questi documentari, inoltre, prevale la spettacolarità degli eventi raccontati e sono scarsi i riferimenti alla quotidianità, essendo incardinati su rituali che presentavano un carattere di straordinarietà e che già allora stavano scomparendo. L’antropologa Clara Gallini, allieva di De Martino, stigmatizza in questi film e nelle teorie demartiniane che li hanno ispirati la visione patetica del contadino del Sud, espressione di un populismo retrivo: essi restituiscono l’immagine di una società statica, immobilizzata in un passato primitivo, in cui i riti, in via di estinzione, sono enfatizzati e presentati con un carattere esotico6. Questo aspetto deriva anche dalla circostanza per cui gli autori dei documentari antropologici non sono meridionali, o, in alcuni casi, lo sono di origine e tornano al Sud per un richiamo esercitato dal ricordo. Pertanto, essi guardano al mondo contadino dall’esterno e con occhi curiosi, che li portano a ricercare l’eccezionale e i casi limite. 5 Nel 1956, ad esempio, la Sezione Cinematografica del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma organizza il primo convegno italiano di studi sul film etnografico. Su «Cinema Nuovo» si legge che «[…] non si può dire che questi film rappresentino un vero e proprio contributo di conoscenza, tale da servire non soltanto a scopi puramente spettacolari, ma da essere utile a una documentazione di carattere scientifico» (Ivano Cipriani, I tabù del film etnografico, «Cinema Nuovo», n. 90, 15 Dicembre 1956, p. 326). Qualche anno dopo, su «Cinema», Mario Verdone prova a fare chiarezza proponendo una distinzione tra l’«etnofilm» e il «film sul folklore», spiegando che «Il film sul folklore è il film che documenta aspetti ed espressioni della sapienza popolare. Esso interessa l’etnografia, in quanto è attento a ciò che riguarda le manifestazioni dell’uomo, ma non è, propriamente, l’etnofilm, il quale ha per primo scopo della sua ricerca l’uomo, con le sue caratteristiche fisiche, con il suo particolar modo di vita e di atteggiamento. Stando alle distinzioni tra etnografia e folklore si potrebbe dire che l’etnofilm riguarda la stirpe e il film sul folklore le tradizioni degli uomini» (Mario Verdone, Documentario e folklore, «Cinema», n. 128, 28 Febbraio 1954, p. III). 6 Gianluca Sciannameo, Nelle Indie di quaggiù. Ernesto De Martino e il cinema etnografico, Bari, Palomar, 2006, pp. 51-59.

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EPILOGO. PERIFERIE DEL CINEMA E DELLA STORIA

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A mettere in discussione il valore scientifico di questi documentari sono anche, più nel dettaglio, caratteristiche di natura tecnica. L’etnomusicologo Diego Carpitella ha contestato la breve durata, il montaggio rapido, che non consente riprese più lunghe, e la presenza ingombrante del commento e delle colonne sonore. Tutti elementi che sottolineano il carattere spiccatamente autoriale delle opere7. Il commento parlato che accompagna le immagini pone una serie di problemi interpretativi, che riguardano un po’ tutta la produzione documentaristica di questi anni, non solo quella demartiniana. La maggior parte dei documentari, infatti, sono commentati da una voce over, che rappresenta una vera e propria guida alla lettura del testo filmico. Il commento parlato è espressione del linguaggio scritto, più facilmente controllabile rispetto al linguaggio delle immagini, che è invece più complesso e portatore di molte diverse interpretazioni. La voce over, così, ri-semantizza i fotogrammi, orientandone il processo interpretativo. Stabilisce quale debba essere l’interpretazione più giusta rispetto alle tante possibili. In tal modo, il linguaggio visivo assume un ruolo secondario rispetto a quello parlato: le immagini non spiegano, ma sono spiegate dal commento. Inoltre, la voce over che orienta il senso della visione diviene espressione di una cultura egemonica. Essa fa prevalere una determinata interpretazione di ciò che si vede – e quindi dei fenomeni ripresi – sulle altre possibili, orientando a priori il processo ermeneutico dello spettatore. Infine, crea un solco tra il cineasta e i protagonisti, che nel caso specifico del documentario antropologico sancisce un divario culturale: si avverte che chi filma non è parte del mondo filmato. Il commento, in altre parole, cristallizza lo sguardo esterno ai fenomeni ripresi. Problemi analoghi muove la musica. Quasi tutti i documentari di questi anni hanno un accompagnamento musicale, realizzato in studio, il più delle volte imposto dalla produzione. Il commento musicale, apparentando i documentari al cinema di finzione, ne spegne l’originaria carica di realismo. Le musiche, infatti, si sostituiscono ai rumori d’ambiente naturali e danno significato, o ne aggiungono, alle immagini. Fungono da guida emotiva per lo spettatore, suscitando di volta in volta specifiche emozioni8. Il contenimento dei 7

Francesco Marano, Il film etnografico in Italia, Bari, Edizioni di Pagina, 2007, pp. 56-59. G. Sciannameo, Nelle Indie di quaggiù, cit., pp. 68-75. Le colonne sonore della maggior parte dei documentari erano prodotte in serie e potevano essere adattate a più pellicole contemporaneamente. La musica, pertanto, non nasceva pensata per uno specifico documentario, ma veniva creata a priori. Un compositore come Egisto Macchi a partire dalla fine degli anni cinquanta ha composto brani per oltre un migliaio di cortometraggi, testimoniando il carattere in serie della produzione musicale. 8

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PROFONDO SUD

documentari nei dieci minuti, l’imposizione della voce over in luogo della presa diretta, della colonna sonora nonché del colore sono condizionamenti formali dettati dalle imposizioni di legge che gravano sul documentario del secondo dopoguerra. Nei documentari antropologici, tuttavia, si trovano anche delle novità di linguaggio, come l’uso creativo del bianco e nero o dei formati panoramici. Questo linguaggio nuovo si pone in contrapposizione a quello standard della maggior parte dei documentari di produzione media dell’epoca, non molto lontani dal modello del film Luce di epoca fascista, e diventa veicolo di una rappresentazione del Mezzogiorno lontana dalle retoriche del potere. Se è indubbio che ai documentari antropologici, demartiniani e non, non possa essere conferito un inequivocabile valore scientifico, è vero pure che un confine netto tra film spettacolare e scientifico in questo settore non è facilmente tracciabile. Francesco Marano ha evidenziato le difficoltà esistenti nel definire con esattezza il film etnografico (l’autore preferisce l’aggettivo “etnografico” rispetto ad “antropologico”). Talvolta, infatti, determinati documentari sono stati inclusi in questo filone anche solo perché mostravano un certo tipo di orientamento nel raccontare la società osservata, proprio come nel caso delle opere demartiniane degli anni cinquanta. Detto altrimenti, non si può parlare in assoluto di “etnograficità” dei film, poiché il termine “etnografico” nel corso della storia ha assunto significati diversi. Così il contesto storico e le teorie antropologiche hanno privilegiato di volta in volta alcuni aspetti dei film rispetto ad altri, facendo sì che certi lavori fossero inclusi nella categoria dei film etnografici e altri ne fossero esclusi. È più proficua allora una distinzione tra i film etnografici in senso stretto – ovvero quelli realizzati da filmmaker antropologicamente formati – e tra i film di interesse etnografico, cioè quelli nati per ragioni diverse dalla ricerca antropologica e poi divenuti interessanti dal punto di vista scientifico in un dato momento storico9. È quest’ultimo il caso dei documentari antropologici demartiniani. Se da una parte, infatti, essi contribuiscono a scolpire il volto di un sud arcaico e immobile, mitico e in parte lontano dalla realtà dell’epoca, che pure si stava aprendo a grandi trasformazioni, d’altra parte, essendosi focalizzati su aspetti della cultura popolare, di cui non abbiamo oggi altre testimonianze filmate, rappresentano una riserva preziosa di immagini di un mondo ormai scomparso. In altre parole, pur non trattandosi di film concepiti scientificamente, 9

F. Marano, Il film etnografico in Italia, cit., pp. VIII-X.

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EPILOGO. PERIFERIE DEL CINEMA E DELLA STORIA

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lo sguardo di parte e gli artifici retorici non impediscono di ricavare da questi lavori informazioni utili per l’antropologo così come per lo storico. Quale documento testuale, infatti, potrebbe rendere in modo così immediato questo tipo di informazioni? Né possiamo trovarle nel cinema di finzione e nell’inchiesta televisiva coevi, che, seppure attenti, soprattutto a partire dagli anni sessanta, alla questione del Mezzogiorno, non riservano interesse particolare al folclore e alla vita della civiltà contadina meridionale. Un altro valore da riconoscere ai film demartiniani e al documentario antropologico in generale è la loro capacità di trasmettere la ricchezza del Mezzogiorno mostrando le specificità regionali, a dispetto di un’idea di Sud unico ed uniforme. La riflessione sulla questione meridionale, infatti, ha contribuito a disegnare l’immagine di un Meridione unidimensionale. Ma i documentari antropologici girati nelle varie realtà regionali ci mostrano le differenze nel paesaggio e nelle pratiche culturali. La rappresentazione del Mezzogiorno arcaico e immobile non è veicolata solo dai film demartiniani ma dall’insieme dei documentari di carattere antropologico degli anni cinquanta e sessanta. Essi, infatti, sono incentrati quasi sempre su riti religiosi, ovvero la rappresentazione più vivida della persistenza del passato. Ma anche dove non vi è il folclore religioso è presente la ritualità. In De Seta, ad esempio, incontriamo la ritualità del lavoro e del quotidiano, di pratiche ripetute che sono antichissime. I suoi documentari sono incentrati sulla circolarità del tempo e offrono sempre il racconto di una giornata dall’inizio alla fine. La ritualità richiama il tempo circolare, che ritorna, ovvero l’assenza di cambiamento. Per questa ragione, il documentario antropologico nel suo complesso, dalle opere più orientate a una riflessione profonda a quelle più tendenti al folclore, contribuisce a incidere nel cinema e nell’immaginario le fattezze di un Mezzogiorno saldamente attaccato al passato. Il documentario antropologico, in altre parole, crea un’icona del mondo contadino arcaico e della sua tradizione (abbondantemente recuperata nel presente), che diviene tratto identitario del Sud opposto all’identità nazionale e simbolo di resistenza alla modernità10. Si tratta però di un’icona che è il prodotto del modo di guardare al Sud e al mondo contadino della cultura egemonica. Questa rappresentazione, cioè, si struttura a partire da riflessioni, ricerche e prodotti culturali creati da chi a quel mondo non appartiene ma lo osserva dall’esterno. 10

Angela Bianca Saponari, L’“iconizzazione” del Sud. Fotogiornalismo e cinema documentario, in «Cinergie – Il cinema e le altre arti», n.12, 2017, pp. 249-260.

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PROFONDO SUD

Il documentario antropologico condivide con il documentario sociale l’attenzione all’uomo e al contesto in cui vive. Inoltre, i due generi si caratterizzano per lo stesso sguardo, che esplora la realtà e che in molti casi si trasforma in denuncia, più o meno manifesta. Il documentario sociale è chiamato a ricordare le urgenze e i paradossi del Mezzogiorno, negli anni in cui il Nord corre sul treno del miracolo. Lo fa, principalmente negli anni sessanta, esplorando periferie, soprattutto i piccoli centri, quelli dell’entroterra agricolo svuotati dall’emigrazione e abbandonati dalle istituzioni, e più raramente i grandi contesti urbani. Si pone, pertanto, come contraltare rispetto a un discorso pubblico incentrato sulla retorica della rinascita del Sud. Il documentario sociale fa luce su quelle zone d’Italia tenute in ombra perché imbarazzanti per un Paese in fase di crescita e sviluppo. In tal senso, negli anni del potere democristiano, il documentario sociale e quello antropologico si sintonizzano con la voce delle opposizioni. Non è un caso che molti documentaristi siano vicini alla sinistra e al Pci in particolare, per il quale talvolta realizzano dei filmati di propaganda. In un panorama mediatico controllato in buona parte dal Governo, il documentario più impegnato, così, rafforza il discorso delle opposizioni che, rispetto alla retorica del Mezzogiorno in ripresa, puntano l’indice contro l’“altra faccia del miracolo”11. Soprattutto negli anni sessanta, le posizioni ideologiche del documentario sociale sono marcate, al punto da restituirci una visione manichea della realtà. Ma tale visione, pur nei propri limiti, è capace di far luce su quanto altri volutamente tacevano. Nel mondo del cinema, dopo la fine del neorealismo, il documentario è investito proprio di questa funzione: molti critici e registi insistono sulla necessità che esso erediti lo sguardo neorealista, per colmare un vuoto lasciato sugli schermi cinematografici. Il dibattito sulla stampa specialistica è denso di contributi di questo tipo. Il neorealismo aveva raccontato l’Italia del dopoguerra senza timore di rivelarne le brutture, ma già negli anni cinquanta questo fuoco si spegne. Rispetto a un cinema che sta dimenticando l’impegno e a una televisione che evita di soffermarsi sulle piaghe della realtà, il documentario è chiamato a scoprire il Paese senza censure. Quando assolve a questo compito, esso raccoglie il testimone del neorealismo inserendosi, al contempo, in un più articolato discorso culturale, poiché mette in immagini spun11 Cfr. Mariangela Palmieri, L’altra faccia del miracolo. Il boom nei filmati di propaganda del Pci, in P. Cavallo, P. Iaccio (a cura di), Penso che un sogno così non ritorni mai più, cit., pp. 145-161.

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ti provenienti dall’attualità, dal giornalismo, dalla letteratura e dalla riflessione politica. In particolare, molti documentari degli anni sessanta sono nati dalla lettura di inchieste giornalistiche e dall’inchiesta giornalistica talvolta mutuano lo stile. A questi lavori, poi, collaborano nomi importanti del panorama intellettuale italiano, il più delle volte letterati e poeti, che scrivono i testi dei commenti. Se i documentari della seconda metà degli anni quaranta e degli anni cinquanta sul Mezzogiorno ne mostrano gli squilibri, ma in assenza di denuncia esplicita, negli anni sessanta esplode la critica sociale e si rafforzano le posizioni ideologiche. In questo cambiamento di tono si addensano i mutamenti in corso nella società e soprattutto la monta della carica ribellistica che condurrà di lì a poco al ’68. Al di là dei limiti imposti da una censura sempre in agguato, che inevitabilmente ne condiziona le sorti, il documentario sociale diviene voce di dissenso, grido di allarme e punto di vista critico sull’Italia, spesso in aperta polemica con lo Stato. Paradossalmente, tuttavia, pur invocando una trasformazione, non diversamente da quello antropologico, il documentario sociale ci restituisce l’immagine di un Meridione statico, dove nulla cambia o può cambiare. Il suo sguardo, infatti, focalizzandosi sulle ferite aperte del Mezzogiorno, quali la miseria, l’arretratezza e l’abbandono, lo irrigidisce in una dimensione priva di progresso, ma anche di speranza di progresso. In tal senso, rafforza lo stereotipo del Sud fuori dalla storia. Tale rappresentazione probabilmente è favorita dal fatto che il punto di vista resta ancorato all’esterno. Come per i documentari antropologici, infatti, anche i documentari sociali sono realizzati nella maggioranza dei casi da registi non meridionali. Per costoro il Mezzogiorno è una scoperta, un’esigenza di denuncia, un tentativo di fare del cinema una leva per cambiare la realtà ed espiare la colpa di essere figli di un’Italia benestante. In altre parole, è un’eccezione culturale che chiede di essere svelata. Di tutt’altro colore è l’immagine del Mezzogiorno trasmessa dal documentario turistico. Per gli scopi che gli sono propri, ovvero la descrizione didascalica delle bellezze italiane o la promozione delle mete di vacanza, il documentario turistico offre allo spettatore una fotografia aproblematica del Sud. Nei cortometraggi di questo genere abbondano le visioni “da cartolina”, citando una locuzione molto usata dalla critica cinematografica dell’epoca. Il Mezzogiorno è un caleidoscopio di siti archeologici e luoghi di interesse storico, che testimoniano la cultura millenaria del Belpaese e il suo sconfinato patrimonio artistico. È, inoltre, una terra incontaminata, di litorali marittimi inesplorati,

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piccoli paesi dell’entroterra, realtà rurali rassicuranti e legate ai valori della tradizione. Ma è pure il luogo di vecchi mestieri, costumi che resistono al tempo, folclore che reifica identità regionali. Lo stereotipo abbonda in questi cortometraggi e, trattandosi del genere di documentario più diffuso, quello che si poteva realizzare in meno tempo e con meno risorse, spesso al solo scopo di accaparrarsi i premi economici dello Stato, la qualità dei lavori è quasi sempre scadente. Tuttavia, il documentario turistico ha avuto anche alcuni meriti. Ha fatto conoscere la geografia del Paese al pubblico delle sale e, negli anni in cui il turismo di massa si diffonde in Italia, ha suggerito idee per vacanze a portata di tutti, facendo scoprire persino angoli remoti della penisola. Talvolta la promozione turistica è involontaria, altre volte è voluta. Alcuni cortometraggi, infatti, nascono per disposizione di imprenditori o organizzazioni di lancio del turismo, che comprendono l’utilità di questo mezzo per fini pubblicitari. Non è un caso che negli stessi anni si affermi, per le medesime ragioni, il documentario industriale in seno alle grandi aziende italiane. Anche quando è prodotto per incentivare il turismo, raramente questo genere di cortometraggi mostra i vacanzieri nel Mezzogiorno. In tal senso, riflette la difficoltà per le aree depresse del Meridione di accogliere i villeggianti nonostante il proprio potenziale. Il Sud è incantevole, ha località di indubbia attrattiva, ma non possiede le strutture e i servizi per accogliere il pubblico. Non riesce ad agganciarsi allo sviluppo di questo settore economico che negli stessi anni stava interessando il Nord Italia. Il turismo, pertanto, nei cortometraggi resta una possibilità, alimentata dall’incanto dei luoghi inesplorati mostrati dalle immagini e dalle promesse della voce over che in genere accompagna queste pellicole. È eloquente la prevalenza di alcune regioni o località su altre. Le isole, grandi o piccole, ricevono più attenzione, mentre alcune regioni, come la Puglia o la Basilicata, sono quasi del tutto trascurate: l’interesse è proporzionale alla possibilità di sviluppo turistico delle aree. Nonostante ciò, in queste opere non vediamo il Mezzogiorno balneare, dei litorali affollati, ma quello folcloristico e della tradizione. È, perciò, un Sud in parte intatto, non ancora violato dai processi di trasformazione che di lì a qualche anno lo avrebbero travolto. Il cortometraggio turistico, così, offre una miniera di immagini del Meridione prima che il boom dell’edilizia e quello del turismo ne mutassero, o martoriassero, il volto. È un aspetto, questo, che riguarda tutto il panorama dei documentario. Spesso le pellicole hanno scarso interesse sul piano tematico, sono accompagnate da commenti descrit-

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tivi che informano poco o nulla, ma possono contenere fotogrammi di grande interesse, che non troveremmo altrove. La bellezza dei luoghi nei cortometraggi turistici è diffusa attraverso immagini fortemente stereotipate, che appartengono a un immaginario consolidato delle diverse realtà regionali. Ciò dipendeva dal fatto che tali lavori fossero girati in poco tempo e senza eccessive pretese artistiche, quindi ricercassero spunti e soluzioni formali facili. Ma la ragione è anche un’altra: avendo finalità didascaliche o di promozione turistica, questo tipo di documentario doveva assicurarsi l’immediata riconoscibilità dei luoghi rappresentati. E così, la Sicilia è quella dei siti archeologici, del barocco, della tradizione letteraria, del teatro dei pupi e dei carretti, dei villaggi e delle piccole isole di pescatori. La Campania, ad eccezione delle più turistiche Capri e Ischia, si condensa nell’icona già celebre di Napoli, coi suoi panorami subito identificabili, dominati dal Vesuvio. Molti cortometraggi su Napoli innestano elementi di finzione sul girato ripreso dalla realtà, mostrando una notevole similitudine con tutta una serie di commedie leggere, per la maggior parte degli anni cinquanta, ambientate nella città partenopea e cariche di cliché. La Sardegna nel documentario turistico è prevalentemente barbaricina, è la regione dal paesaggio aspro e dei pastori, chiusa nel suo antico isolamento. Il documentario turistico, perciò, coglie e al contempo rafforza specifici immaginari regionali, che sono il frutto di stratificazioni successive, alimentate dalla pittura, dalla fotografia e dalla letteratura, e che poi confluiranno anche nel cinema di finzione12. In tal senso, le immagini dei documentari dialogano con un apparato iconico preesistente e con sollecitazioni del presente, in uno scambio che irrobustisce la tipicità e la riconoscibilità dei luoghi, in particolare 12 Sulla specifica immagine di Napoli e sulla formazione della sua icona attraverso i secoli si veda Pasquale Iaccio, Il documentario tra mito, stereotipi e realtà, in Id. (a cura di), L’alba del cinema in Campania. Dalle origini alla Grande Guerra (1895-1918), Napoli, Liguori, 2010, pp. 3-97. Un discorso analogo vale per la Sardegna. La regione è stata rappresentata nel cinema, dalle origini alla fine del secolo scorso, con caratteri ricorrenti, al punto che l’immagine fittizia, costruita dal cinema, sia ormai considerata come l’immagine della vera Sardegna. I tratti della Sardegna selvaggia, terra di frontiera, barbaricina e sospesa in un passato mitico hanno prevalso sugli altri caratteri della regione e sono stati riproposti nel corso del Novecento di film in film, alimentando lo stereotipo. Il cinema ha così svolto un ruolo centrale nel processo di definizione di questa particolare icona. Come visto a proposito del documentario, anche in questo caso, i registi che hanno raccontato la Sardegna attraverso cliché ricorrenti sono tutti esterni all’isola. Come a dire che chi non conosce una realtà regionale nel profondo non può raccontarla in altro modo se non ricorrendo a stereotipi immediatamente riconoscibili. Antioco Floris, L’isola che non c’era. Cinema sardo vecchio e nuovo dal folklore alla modernità, «Bianco e Nero», n. 1, 2014, pp. 47-54.

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PROFONDO SUD

per la Campania, la Sicilia e la Sardegna. L’occhio dei registi coglie le icone regionali sia se essi sono originari dei posti che filmano (nella maggior parte dei casi), sia se provengono da fuori: nel documentario turistico è necessario in ogni caso trasmettere immagini che lo spettatore sappia identificare. Come per altri generi di documentario, queste rappresentazioni offrono il vantaggio di mostrare le specificità delle varie regioni, mettendo in discussione l’idea di un Mezzogiorno uguale in ogni sua parte: esse raccontano le identità particolari, che si ribellano a una raffigurazione di Sud univoco. Tuttavia, ingabbiando la complessità della realtà meridionale in immagini stereotipate, e per questo immutabili, alimentano il mito di un Meridione sempre uguale a se stesso e quindi inamovibile sulla linea del tempo. L’attenzione al volto sano e ottimista del Sud accomuna il documentario turistico a quello istituzionale e industriale. I cortometraggi prodotti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalle case di produzione filogovernative raccontano con entusiasmo di un Meridione che cambia, grazie alla mano tesa del Governo. Lo sguardo è chiaramente di parte, l’obiettivo è enfatizzare i passi in avanti compiuti e i meriti di chi se ne assume la paternità. Ecco perché in queste opere non c’è traccia dei ritardi e degli squilibri che persistono nel Mezzogiorno nonostante la politica di intervento straordinario. I cortometraggi della Presidenza del Consiglio interessano tutte le regioni del Sud, nessuna esclusa. Essi provano a dar conto, come in una vetrina ben assortita, delle diverse opere compiute nelle varie aree del Meridione grazie alle politiche dedicate. Talvolta questi film sono ridondanti, parlando delle stesse opere, come ad esempio alcuni borghi rurali della riforma o grandi infrastrutture finanziate dalla Cassa per il Mezzogiorno, e mostrandone immagini simili. La propaganda è funzionale a informare il cittadino su quanto si sta facendo e a mettere a tacere le critiche, che non mancarono in quegli anni, rispetto alla dispendiosa e talvolta lenta politica di intervento straordinario. I documentari governativi rappresentano un insieme omogeneo, oltre che per i temi, anche per lo stile e il tono del racconto. Non è un caso che a realizzarli sia un gruppo ristretto di registi, molti dei quali avevano lavorato assiduamente per il Luce o la Incom. Raramente sono meridionali. La qualità delle opere è media, in linea con la produzione documentaristica più diffusa in quegli stessi anni, e lo stile è comparabile a quello dei film del neorealismo rosa. I cortometraggi della Presidenza del Consiglio girati nel Mezzogiorno, infatti, hanno un’ambientazione rurale e i suoi protagonisti sono persone

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comuni, contadini prevalentemente, ripresi in un sereno quotidiano. C’è il realismo, quindi, ma privato di pericolose connotazioni ideologiche. La roboante propaganda fascista in questi lavori è considerata un esempio da non imitare. Ad essa è opposta una propaganda più discreta, che fa leva sul mostrare le opere concrete dell’intervento governativo. I fautori di questo intervento, invece, non si vedono mai: nessuna passerella politica è ammessa nei cortometraggi della Presidenza del Consiglio. Tuttavia, in non pochi casi gli eccessi retorici del commento avvicinano i film governativi a quelli del Luce negli anni del regime. Ed è proprio a questa somiglianza che si appella la critica insofferente all’utilizzo del documentario, soprattutto quello destinato al circuito delle sale, per le ragioni della propaganda di Governo. Le fotografie linde, che mostrano i lavori svolti, accompagnate dalla voce compita, che commenta con accenti trionfali, compongono il puzzle di un’Italia operosa e veloce nel suo cammino verso il progresso; un Paese dove tutto funziona al meglio e alle cui spalle s’intravede, benevolo e paterno, lo Stato. Talvolta il racconto scivola verso l’esaltazione delle grandi opere, rappresentate, sia con le parole che col codice visivo, come il simbolo magniloquente del lavoro dell’uomo e dell’intervento statale. Contro le assonanze con la propaganda fascista dentro i documentari della nuova propaganda governativa si levano i più feroci strali della critica cinematografica. La stessa che contesta in questi lavori le scene di fiction, utilizzate come espedienti narrativi per portarci nel racconto delle realizzazioni dello Stato e intese come ulteriori artifici retorici che snaturano il documentario, allontanandolo dai suoi scopi originari. Nei cortometraggi del Governo che raccontano la rinascita del Sud molto forte è la dialettica tra passato e presente. Spesso il racconto del presente è anticipato da quello del passato, inteso ovviamente come un termine di paragone negativo: è proprio in relazione al passato che si vedono le migliorie del presente. Il passato, però, anche a fronte del progresso non scompare mai e resiste nella tradizione. Il nuovo che arriva, in altre parole, si innesta su una società preesistente, che non è messa in discussione. Essa è valorizzata, ma non cancellata dal progresso. Le due dimensioni, il vecchio e il nuovo, il passato e il presente, sono unite in un processo armonico. Nei documentari governativi, infatti, a parlare sono la Democrazia Cristiana e i suoi alleati, che negli anni della rapida trasformazione del Paese cercano di governare il cambiamento e di incanalarlo nei binari della tradizione. Qualsiasi evoluzione deve tener conto dell’identità italiana e

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delle radici cattoliche del Paese. Così la persistenza del passato si coglie pure nell’idea di società sottesa a questi cortometraggi. Anche laddove vi è cambiamento, perdura una società rurale semplice, fatta di uomini che lavorano e donne che svolgono mansioni tipicamente femminili, imperniata sulla famiglia e fortemente permeata dai valori cattolici. Frequenti sono, soprattutto nelle pellicole che parlano degli interventi in favore dell’agricoltura, scene di vita quotidiana in contesti rurali umili, dove una comunità pacificata e serena è dedita al lavoro e al culto nei giorni di festa. Lo spirito religioso e la cultura cattolica, del resto, attraversano buona parte dei documentari governativi. Lo vediamo in più aspetti. Prima di tutto, nella centralità data ai luoghi di culto, mostrati di frequente nelle immagini e considerati cruciali nella nascita di ogni nuovo paese. Poi nel linguaggio del commento, che riprende quello cristiano: per fare solo qualche esempio, la rinascita del Meridione è una resurrezione e le bonifiche sono interventi purificatori che daranno nuova fertilità alle terre meridionali, redimendole dall’antica miseria. Infine, lo spirito religioso si ritrova nella fiducia provvidenzialistica relativa allo sviluppo del Sud, visto come un percorso travagliato ma certo, guidato da uno Stato benevolo e paterno che tiene per mano il Mezzogiorno. Il passato che resta, di là dal cambiamento annunciato dal commento, si coglie poi nelle immagini. Molte di esse ci mostrano il Sud povero che resiste nonostante il progresso sbandierato dalle parole. I cortometraggi illustrano lavori in corso e lo speaker declama promesse di traguardi non ancora concretizzatisi. La trasformazione, pertanto, è in divenire e coabita con l’arretratezza, poiché il volto originario del Meridione non si cancella con un colpo di spugna, al di là dei proclami della voce over. I documentari, infatti, mostrano una modernità concentrata in isole circoscritte del paesaggio e non come un flusso capace di modificare il Mezzogiorno nel suo complesso. Tutto ciò trova una spiegazione nel fatto che gli interventi governativi descritti in questo genere di cortometraggi avrebbero prodotto effetti nel lungo periodo. Effetti che quindi le immagini, girate nei primi anni delle politiche di intervento straordinario, non avrebbero ancora potuto cogliere. Ecco perché prova a compensare quest’assenza il commento coniugato spesso al futuro. In definitiva, il racconto dei miglioramenti del presente non cancella l’idea del vecchio Sud, ma anzi la presuppone e ce la mostra nei fotogrammi. Il documentario istituzionale, così, contribuisce a rafforzare l’immagine periferica e atemporale del Mezzogiorno, nonostante nelle intenzioni ce ne voglia rivelare il superamento.

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Il documentario istituzionale si apparenta a quello industriale per la presenza, alle sue spalle, di una committenza forte, ovvero di specifici interessi propagandistici. I film industriali girati nel Mezzogiorno hanno l’obiettivo di esaltare i progressi compiuti grazie all’industrializzazione, nascondendo o smussando le criticità persistenti. Analogamente ai documentari istituzionali, inoltre, in queste opere forte è la dialettica tra vecchio e nuovo. Sfruttando il parallelismo, quasi tutti i film si aprono con sequenze che raccontano la situazione preesistente. L’industrializzazione arriva portando una rumorosa e imponente modernità. Il progresso che avanza, infatti, è rappresentato sempre nella forma di macchine che spianano il suolo liberandolo dalle tracce del passato, come ad esempio alberi secolari e vecchie case. Sul suolo ripulito da ciò che è antico si comincia a costruire daccapo. Il nuovo che è edificato è rappresentato dal gigantismo delle strutture erette e dalla loro robustezza metallica. All’orizzontalità dei panorami dei luoghi prima dell’arrivo della fabbrica si sostituisce una nuova verticalità e al silenzio, al massimo rotto dai suoni della natura, subentra il rumore marziale delle macchine. In generale, la retorica del racconto in questi film è articolata attorno a dualismi come lento/veloce, tradizione/modernità, arretratezza/progresso. Lo stesso linguaggio del commento presenta forme poetiche, che lo legano alla tradizione, ed elementi di modernità13. Nel racconto di questi film il progresso si sovrappone al passato innescando un’ondata di rinascita. Ovviamente nessun riferimento è fatto alle criticità talvolta generatisi a partire dall’incontro tra vecchio e nuovo. I paradossi o le conseguenze negative di un amalgama non sempre facile tra realtà anteriore e sviluppo industriale sono taciuti. L’arrivo della grande industria è un tripudio di ottimismo, evocato dai commenti entusiasti pronunciati dallo speaker, dalla musica trionfale e da un’attenzione particolare data al simbolo della fabbrica, le macchine. Esse hanno un ruolo centrale nell’economia del racconto per immagini: in molti casi sono le vere protagoniste, mentre gli uomini ricoprono una funzione meno importante, se non addirittura accessoria14. La necessità di evidenziare il valore degli impianti porta maggiori virtuosismi visivi nei documentari industriali rispetto agli altri generi. Nelle pellicole troviamo un articolato e dinamico utilizzo 13 Laura Clemenzi, Il cinema d’impresa. La lingua dei documentari industriali italiani del secondo dopoguerra, Firenze, Franco Cesati Editore, 2018, pp. 317-319. 14 Gaspare Gozzi (a cura di), Cinema e industria. Ricerche e testimonianze sul film industriale, Milano, Franco Angeli, 1971, pp. 127-128.

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PROFONDO SUD

della macchina da presa. Essa si muove di più (anche grazie a un montaggio incalzante) e in più direzioni, non solo con le tradizionali panoramiche orizzontali, ma con quelle verticali, con carrelli e riprese dall’alto o da punti di vista insoliti. In alcune sequenze, lo stile diventa d’avanguardia, certamente per sintonizzare il linguaggio dell’opera con il progresso che si vuole descrivere. Più esattamente, se lo stile classico è utilizzato per raccontare il mondo fuori, lo stile sperimentale, che si richiama alle sinfonie urbane degli anni venti e trenta, e che è generalmente associato all’idea di modernità, è utilizzato per celebrare il mondo della fabbrica15. Il tutto è enfatizzato dall’uso del colore, che in queste pellicole sostituisce quasi completamente il bianco e nero. La modernità che l’industrializzazione porta è descritta a parole come un flusso destinato ad allargarsi. Le immagini dei documentari, tuttavia, ce la rappresentano solo interna alle fabbriche o ai cantieri. Il mondo vecchio, quindi, è cancellato solo in aree circoscritte e persiste al di fuori di esse. In tal senso, il documentario industriale rende vividamente il concetto di cattedrali nel deserto, con cui furono definiti i grossi poli industriali sorti nel Mezzogiorno grazie alla politica degli incentivi. Le cattedrali nel deserto simboleggiano un’industrializzazione senza sviluppo, quindi una modernità e un progresso che non sono capaci di propagarsi oltre l’ambiente della fabbrica e di innescare un cambiamento complessivo. Il documentario industriale ci fa vedere la modernità degli impianti e il progresso che rappresentano circoscritti in isole. Fuori dagli stabilimenti si coglie un Sud intatto nella sua arretratezza. Le immagini lo mostrano chiaramente. Quando, infatti, le cineprese sono condotte all’esterno delle industrie e dei cantieri, di là dal commento che, espressione della committenza, esprime fiducia in un futuro migliore, vediamo il Mezzogiorno umile e fermo nel tempo. Alla verticalità della fabbrica si sostituisce l’orizzontalità del panorama esterno, al gigantismo delle macchine le lande deserte o i vecchi paesi, ai ritmi concitati degli opifici lo scorrere pigro della vita contadina. Le immagini, non molte, riprese fuori dai poli di sviluppo ricordano che i cambiamenti sono lenti e che il Sud non avrebbe potuto livellarsi al Nord in tempi rapidi. Il vecchio Mezzogiorno, perciò, persiste nonostante il lavoro condotto per industrializzarlo e l’ottimismo del racconto. Come in quello istituzionale, nel documentario industriale il Sud 15 Raffaele De Berti, Tecnologia, modernità, immaginario urbano, in Leonardo Gandini (a cura di), La meccanica dell’umano. La rappresentazione della tecnologia nel cinema italiano dagli anni Trenta agli anni Settanta, Roma, Carocci, 2005, pp. 33-46.

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EPILOGO. PERIFERIE DEL CINEMA E DELLA STORIA

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sottosviluppato è fortemente presente. In primo luogo, è presupposto, poiché il nuovo si innesta su di esso; poi non è cancellato totalmente dal progresso. In tal senso, anche il documentario industriale, che nasce per raccontare la modernizzazione, paradossalmente concorre a fissare l’idea di Mezzogiorno come area periferica del Paese dove il tempo scorre più lento. Questa visione è favorita dal fatto che lo sguardo resta ancorato all’esterno del Sud, poiché il punto di vista è quello delle aziende che vengono dal Nord e perché i documentaristi che materialmente realizzano le opere non sono quasi mai meridionali. È noto che la relazione tra l’immagine filmata e la realtà che rappresenta cambia in base allo sguardo, giacché è lo sguardo che riempie di significato quella relazione. Pertanto, a una stessa immagine in tempi e in luoghi diversi sono associati significati diversi. Nel loro insieme le tante immagini del cinema documentario sul Mezzogiorno del secondo dopoguerra, di là dalle intenzioni e dai significati con cui sono stati prodotte, allo spettatore contemporaneo trasmettono l’idea del Sud come periferia spaziale e temporale, rispetto a un centro ideale rappresentato dall’Italia e dal presente. Le periferie sono una costruzione culturale, non un dato di natura, ma la conseguenza di uno specifico modo di guardare ad esse. La marginalità è costruita collocando la periferia in relazione a un altro luogo ritenuto centrale. In questa definizione entra in gioco una dinamica di potere tra osservatore e osservato. Ciò che è periferico è definito tale da un osservatore collocato nel centro, che è culturalmente più forte e che dispone dei mezzi per costruire e diffondere quest’idea, a differenza degli osservati. La definizione culturale dei margini innesca anche pratiche di costruzione di periferie: il modo di vedere orienta l’azione, quindi l’idea culturale di una periferia determina politiche concrete di segregazione. La definizione di margini, o di una dialettica tra un centro e una periferia, ha svolto un ruolo cruciale nella costruzione delle moderne nazioni, giacché gli stati nazionali sono stati fondati sulla base dell’identificazione di un centro, con funzioni determinanti, e di una periferia, che ha minore valenza. Questo vale anche per l’Italia e il Mezzogiorno. Sin dall’unità le plebi meridionali non hanno avuto un ruolo attivo nella costruzione della nazione. Il mondo contadino del Sud (ma anche di altre aree arretrate d’Italia) è stato a lungo considerato come espressione di arretratezza, che mal si confaceva ad uno Stato moderno. Per questo è stato definito come una periferia nel processo di formazione della nazione. L’idea di Mezzogiorno arretrato nasce, perciò, con l’unità, ovvero quando esso viene messo in

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PROFONDO SUD

relazione al resto della penisola e i suoi problemi divengono di rilievo per l’intero Paese16. Da quel momento questo modo di guardare al Sud ha orientato una vasta produzione culturale. I documentari si sintonizzano con essa e ce ne danno una rappresentazione per immagini, contribuendo a incidere questa idea di Mezzogiorno nell’imaginario collettivo. In altre parole, il documentario si colloca in un più stratificato processo di «iconizzazione del Sud»17 e contribuisce a definire un particolare universo visuale del Meridione. L’icona Mezzogiorno è costruita a partire da riferimenti letterari, dalla fotografia e poi dal cinema. I vari elementi che partecipano a questo processo, nella maggioranza espressione di uno sguardo esterno al Sud, si rispecchiano e influenzano l’un l’altro. Il documentario, così, ancora più che il Sud, ci mostra un modo di guardare ad esso. L’idea di Mezzogiorno scalfita nell’immaginario collettivo gioca un ruolo chiave nel dibattito pubblico, nella riflessione sociopolitica e nel processo dinamico di costruzione dell’identità nazionale. In anni in cui non si parla più di questione meridionale e addirittura si sia arrivati a mettere in discussione – ad errore – il dualismo italiano e il ruolo del meridionalismo, il Mezzogiorno resta un «problema aperto»18. Se il divario tra Nord e Sud del Paese esiste da prima dell’unità, non si può negare che nel tempo dei passi in avanti siano stati compiuti per ridurlo. Il Mezzogiorno, perciò, non può essere considerato immobile, né isolato dal resto dell’Italia. Un certo modo di guardare ad esso, però, rischia di mettere in discussione questo assunto e di alimentare credenze erronee. Credenze che sono talvolta alla base di pregiudizi e contrapposizioni, che, ieri come oggi, minano seriamente il sentimento di coesione nazionale.

16 David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Bari, Laterza, 2014, pp. XI-XXVII. 17 Cfr. A. B. Saponari, L’“iconizzazione” del Sud, cit. 18 Giuseppe Galasso, Il Mezzogiorno. Da “questione” a “problema aperto”, Manduria, Lacaita, 2005, p. 33.

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FILMOGRAFIA

A Gela qualcosa di nuovo (1960), regia: Ferdinando Cerchio (Fernando Cerchio), fotografia: Giuseppe Pinori, produzione: Giorgio Patara, colore A proposito di Napoli (1953), regia: Riccardo Pazzaglia, fotografia: Francesco Attenni, produzione: Documento Film, b/n Accadde in Lucania (1953), regia: Francesco De Feo, musica: Virgilio Chiti, produzione: Istituto Nazionale Luce, b/n Acciaio (altro titolo: Alti forni a Bagnoli; San Marco) (1951), regia: Vittorio Gallo, soggetto: Antonio Jannotta, fotografia: Cyril J. Knowles, musica: Paolo Girlando, produzione: Documento Film, colore Acciaio sul mare (1964), regia: Valentino Orsini, produzione: Alfa Cinematografica, colore Acciaio tra gli ulivi (1962), regia: Giovanni Paolucci, produzione: Giovanni Paolucci, colore Acqua al Sud (altro titolo: Acqua per il Sud) (1954), regia: Fulvio Tului, fotografia: Aldo Alessandri, musica: Virgilio Chiti, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Amalfi (1961), regia: Vincenzo Lucci Chiarissi, produzione: Liliana Lucci Chiarissi, colore Antichi approdi del Tirreno (1948), regia: Giuliano Tomei, fotografia: Edmondo Albertini, musica: Alberico Vitalini, produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Aria di Sila (1956), regia: Florestano Vancini, commento parlato: Stelio Martini, fotografia: Fulvio Testi, fotografia: Mario Volpi, musica: Costantino Ferri, musica: Franco Rajola, produzione: Liliana Ferrari, colore Aria di Taormina (1955), regia: Giovanni Paolucci, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Armonie d’autunno (1951), regia: Aldo Rubens, produzione: Edil Film, produzione: Emifilm Produzione Cinematografica, b/n Artigiani di Sicilia (altro titolo: Artigianato in Sicilia) (1951), regia: Vittorio Carpignano, fotografia: Fosco Maraini, fotografia: Franco Vitrotti, musica: Ennio Porrini, produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Banditi a Orgosolo (1961), regia: Vittorio De Seta, produzione: Vittorio De Seta, b/n

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FILMOGRAFIA

Banditi in Barbagia (1967), regia: Giuseppe Ferrara, fotografia: Claudio Racca, musica: Franco Potenza, produzione: Corona Cinematografica, b/n Bianche Eolie (1948), regia: Renzo Avanzo, regia: Quintino Di Napoli, regia: Pietro Moncada, soggetto: Quintino Di Napoli, soggetto: Pietro Moncada, commento parlato: Marcella Rossellini, fotografia: Fosco Maraini, montaggio: Carlo Alberto Chiesa, produzione: Fortuna, produzione: Panaria Film, b/n Borgate della riforma (1955), regia: Luigi Scattini, fotografia: Antonio Secchi, produzione: Documento Film, colore Buon lavoro Sud (1968), regia: Giovanni Cecchinato, musica: Luigi Giudice, produzione: Montecatini Edison, colore C’era una volta Napoli (1954), regia: Ugo Fasano, aiuto regia: Gian Vittorio Baldi, fotografia: Angelo Jannarelli, musica: Renzo Rossellini, montaggio: Giulia Fontana, produzione: Phoenix Produzione Films, colore Caccia del pesce spada (altro titolo: Segnale viene dal cielo) (1951), regia: Vittorio Carpignano, fotografia: Angelo Jannarelli, fotografia: Giovanni Roccardi, musica: Ennio Porrini, direttore produzione: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, colore Cacciatori sottomarini (1947), regia: Francesco Alliata, regia: Renzo Avanzo, regia: Quintino Di Napoli, regia: Pietro Moncada, musica: Renzo Rossellini, produzione: Panaria Film, b/n Calabresella (1955), regia: Gian Paolo Callegari, produzione: Gamma Cinematografica, colore Calabria di domani (1953), regia: Aurelia Attili Bernucci, musica: Virgilio Chiti, produzione: Istituto Nazionale Luce, b/n Calabria sul mare (1956), regia: Florestano Vancini, fotografia: Mario Volpi, musica: Franco Rajola, produzione: Liliana Ferrari, colore Campania industriale (1953), regia: Pier Giuseppe Franci, produzione: Astra Cinematografica, b/n Cantarono nel ’600 (altro titolo: Cantavamo nel ’600) (1951), regia: Antonio Marchi, soggetto: Attilio Bertolucci, soggetto: Antonio Marchi, sceneggiatura: Attilio Bertolucci, sceneggiatura: Antonio Marchi, fotografia: Ubaldo Marelli, fotografia: Mentore Nasi, produzione: Cittadella Film, produzione: Filmeco - Produzione Distribuzione Edizione Film, b/n Canti del golfo di Napoli (1954), regia: Ugo Fasano, fotografia: Angelo Jannarelli, produzione: Documento Film, colore Ch4 in Lucania (1963), regia: Giuseppe Ferrara, produzione: Giorgio Patara, colore Città senza tempo (Pompei) (1947), regia: Giuliano Tomei, soggetto: Piero Mainardi (Guido Manera), soggetto: Giuliano Tomei, sceneggiatura: Piero Mainardi (Guido Manera), sceneggiatura: Giuliano Tomei, fotografia: Giovanni Ventimiglia, musica: Alberico Vitalini, produzione: Phoenix, b/n

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FILMOGRAFIA



Col cuore fermo, Sicilia (1965), regia: Gianfranco Mingozzi, sceneggiatura: Gianfranco Mingozzi, commento parlato: Leonardo Sciascia, consulente: Cesare Zavattini, musica: Egisto Macchi, montaggio: Domenico Gorgolini, produzione: Clodio Cinematografica, colore Conquiste del Sud (1953), regia: Edmondo Cancellieri, speaker: Guido Notari, adattamento musicale: Raffaele Gervasio, direttore produzione: Elio Tarquini, produzione: Incom Inc Industrie Corti Metraggi - Importazione Noleggi Cinespettacoli, colore Contadini del mare (1955), regia: Vittorio De Seta, montaggio: Vittorio De Seta, produzione: Astra Cinematografica, colore Corrispondenza dalla Calabria (1959), regia: Claudio Triscoli, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Cristo non si è fermato a Eboli (1952), regia: Michele Gandin, soggetto: Muzio Mazzocchi Alemanni, sceneggiatura: Muzio Mazzocchi Alemanni, produzione: Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo (UNLA), b/n Cronache dalla Sardegna (1955), regia: Luigi Scattini, fotografia: Antonio Secchi, produzione: Documento Film, colore Dichiarazione d’amore (1961), regia: Mario Gallo, fotografia: Luigi Zanni, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Giorgio Patara, colore Diga sul Flumendosa (altro titolo: La diga del Flumendosa) (1957), regia: Enzo Trovatelli, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Donne del Sud, oggi (1965), regia: Francamaria Trapani, produzione: Francamaria Trapani, colore Donne di Bagnara (1960), regia: Luigi Di Gianni, fotografia: Fausto Zuccoli, produzione: Giorgio Patara, colore Dove la terra è nera (1966), regia: Mario Carbone, fotografia: Mario Carbone, musica: Franco Potenza, produzione: Corona Cinematografica, b/n Energia per il Sud (1960), regia: Claudio Triscoli, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Etna feconda (1950), regia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), produzione: Trinacria Film, b/n Fata morgana (1961), regia: Lino Del Fra, commento parlato: Tommaso Chiaretti, fotografia: Luigi Sgambati, musica: Werter Pierazzuoli, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Giorgio Patara, colore Festa a Positano (1952), regia: Francesco Maselli, musica: Giovanni Fusco, produzione: Giovanni Fusco, produzione: Giorgio Patara, b/n Frana in Lucania (1959), regia: Luigi Di Gianni, assistente regia: Ennio Lorenzini, soggetto: Luigi Di Gianni, fotografia: Giuseppe De Mitri, musica: Daniele Paris, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), Produzione: S.E.D.I. - Società Editrice Documentari Italiani, colore Gela 1959: pozzi a mare (1960), regia: Vittorio De Seta e Franco Dodi, fotografia: Antonio Busia, musica: T. Tresol, b/n

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FILMOGRAFIA

Gela antica e nuova (1964), regia: Giuseppe Ferrara, commento parlato: Leonardo Sciascia, fotografia: Mario Carbone, fotografia: Aldebrando De Vero, fotografia: Ruggero Faido, fotografia: Giuseppe Pinori, fotografia: Maurizio Salvatori, fotografia: Luigi Sgambati, musica: Egisto Macchi, montaggio: Pino Giomini, produzione: Documento Film, produzione: Giorgio Patara, colore Gente di Cabras (1963), regia: Libero Bizzarri, musica: Egisto Macchi, produzione: Vette Filmitalia, colore Gente di Sardegna (altro titolo: Sardegna antica) (1957), regia: Ben Sharpsteen, fotografia: Mario Bernardo, fotografia: Amleto Fattori, produttore: Roberto De Leonardis, produzione: Filmeco - Produzione Distribuzione Edizione Film, produzione: Walt Disney Productions (Usa), colore Gente nuova del Sud (1965), regia: Agostino Di Ciaula, produzione: Corona Cinematografica, colore Grazia e numeri (altro titolo: Gioco del lotto a Napoli) (1961), regia: Luigi Di Gianni, soggetto: Luigi Di Gianni, fotografia: Giuseppe De Mitri, musica: Domenico Guaccero, musica: Carlo Innocenzi, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: S.E.D.I. - Società Editrice Documentari Italiani, colore I bambini guardano (1961), regia: Valente Farnese, produzione: PROA - Prod. Associati, colore I dimenticati (1959), regia: Vittorio De Seta, produzione: Vittorio De Seta, colore I Fujenti (1966), regia: Luigi Di Gianni, fotografia: Luigi Sgambati, produzione: Nexus Film, colore I maciari (1962), regia: Giuseppe Ferrara, fotografia: Giuseppe Pinori, produzione: Giorgio Patara, colore I prodi cavalieri (1951), regia: Aldo Franchi, soggetto: Aldo Franchi, commento parlato: Aldo Bizzarri, commento parlato: Aldo Franchi, fotografia: Francesco Raitano, musica: M. Marletta, produzione: Aldo Franchi, b/n I pupi siciliani (1955), regia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), soggetto: Giuseppe Berretta, soggetto: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), sceneggiatura: Giuseppe Berretta, sceneggiatura: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), commento parlato: Giuseppe Berretta, fotografia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), scenografia: Sebastiano Milluzzo, suono: Enrico Di Grado, direttore produzione: Rita Consoli, produzione: Cineproduzione Ugo Saitta, colore Il ballo delle vedove (altro titolo: In Sardegna) (1962), regia: Giuseppe Ferrara, consulente: Ernesto De Martino, consulente: Ida Gallini, consulente: Raffaello Marchi, fotografia: Giuseppe Pinori, musica: Franco Tamponi, produzione: Giorgio Patara Produzione Cinematografica, colore Il carretto siciliano (1955), regia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), soggetto: Giuseppe Beretta, soggetto: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), sceneg-

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FILMOGRAFIA



giatura: Giuseppe Beretta, sceneggiatura: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), commento parlato: Giuseppe Berretta, fotografia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), musica: Virgilio Chiti, produzione: Cineproduzione Ugo Saitta, colore Il giardino delle Esperidi (1951), regia: Vittorio Carpignano, fotografia: Fosco Maraini, fotografia: Franco Vitrotti, musica: Nino Mazziotti, produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Il gigante di Gela (1964), regia: Giuseppe Ferrara, fotografia: Luigi Sgambati, produzione: Documento Film, colore Il gioco della falce (altro titolo: La passione del grano) (1960), regia: Lino Del Fra, fotografia: Mario Volpi, musica: Domenico Guaccero, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Corona Cinematografica, colore Il grande paese d’acciaio (1960), regia: Ermanno Olmi, collaborazione: Walter Locatelli, musica: Pier Emilio Bassi, orchestrazione: Aniello Costabile, cantante: Sandro Tuminelli, fonico: Attilio Torricelli, montaggio: Giampiero Viola, direttore produzione: Ugo Franchini, produzione: Edisonvolta, colore Il mago (altro titolo: Vecchia Calabria) (1959), regia: Mario Gallo, commento parlato: [Pier Paolo Pasolini], fotografia: Antonio Secchi, produzione: Documento Film, colore Il male di San Donato (altro titolo: A Montesano) (1965), regia: Luigi Di Gianni, consulente: Annabella Rossi, musica: Egisto Macchi, montaggio: Giuliana Bettoja, produzione: Nexus Film, colore Il Mezzogiorno al lavoro (1952), regia: Gino Visentini, fotografia: F. De Paolis, fotografia: Paolo Gregorig, produzione: Documento Film, b/n Il paese di Pirandello (1950), regia: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Il pianeta acciaio (1962), regia: Emilio Marsili, speaker: Arnoldo Foà, produzione: Italsider, produzione: Ondatelerama, colore Il putto (altro titolo: A Palermo) (1963), regia: Gianfranco Mingozzi, sceneggiatura: Gianfranco Mingozzi, fotografia: Ugo Piccone, montaggio: Giuliana Bettoja, montaggio: Domenico Gorgolini, produzione: Documento Film, colore Immagini popolari siciliane profane (1954), regia: Mario Verdone, assistente regia: Ferdinando Birri, assistente regia: Yasuzo Masumura, commento parlato: Giuseppe Cocchiara, musica: Roman Vlad, produzione: Sperimental Film, colore Immagini popolari siciliane sacre (1954), regia: Mario Verdone, assistente regia: Ferdinando Birri, assistente regia: Yasuzo Masumura, commento parlato: Giuseppe Cocchiara, musica: Roman Vlad, produzione: Sperimental Film, colore In Puglia muore la storia (1948), regia: Antonio Marchi, musica: Luigi Magnani, produzione: Cittadella Film, produzione: Lux Film, b/n

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FILMOGRAFIA

In qualche parte della Sicilia (1955), regia: Francesco Maselli, produzione: Film Studio, colore In volo sulla Sardegna (1956), regia: Gian Paolo Callegari, regia: Luigi Scattini, fotografia: Antonio Secchi, produzione: Documento Film, colore Incantesimo di sole (1954), regia: Ugo Fasano, fotografia: Angelo Jannarelli, produzione: Documento Film, colore Inchiesta a Carbonia (1962), regia: Niccolò Micciché (Lino Micciché), fotografia: Mario Carbone, musica: Egisto Macchi, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Eugenia Oppo, colore Inchiesta a Grassano (1966), regia: Niccolò Micciché (Lino Micciché), commento parlato: Niccolò Micciché (Lino Micciché), speaker: Nando Gazzolo, fotografia: Giovanni Raffaldi, musica: Egisto Macchi, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Laboratorio di ricerche cinematografiche di Vincenzo Nasso (L.R.C.), colore Inchiesta a Perdasdefogu (1961), regia: Giuseppe Ferrara, aiuto regia: Agostino Bonomi, speaker: Riccardo Cucciolla, montaggio: Pietro Giomini, produzione: Vincenzo Nasso, colore Intermezzo sardo (1949), regia: Giuliano Tomei, soggetto: Sibilla De Cles, commento parlato: Sibilla De Cles, fotografia: Gérard Heller, musica: Mario Tamanini, produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Invito ad Ischia (1952), regia: Aldo Rubens, musica: Eldo Di Lazzaro, interprete: Enzo Cerusico, interprete: Roberto Murolo, direttore d’orchestra: Giovanni Militello, produzione: Emifilm Produzione Cinematografica, b/n Ischia, l’isola fiorita (1957), regia: Paolo Heusch, produzione: Rizzoli Film di Angelo Rizzoli, colore Isola di Varano (altro titolo: Bosco rosso) (1962), regia: Carlo Di Carlo, produzione: Romolo Manieri, colore Isole di cenere (1953), regia: Giovanni Paolucci, musica: Valentino Bucchi, produzione: Phoenix Produzione Films, colore Isole di cenere (altro titolo: Isola di cenere) (1948), regia: Renzo Avanzo, regia: Quintino Di Napoli, regia: Pietro Moncada, soggetto: Renzo Avanzo, soggetto: Quintino Di Napoli, soggetto: Pietro Moncada, commento parlato: Marcella Rossellini, montaggio: Carlo Alberto Chiesa, produzione: Panaria Film, b/n Isole di fuoco (1954), regia: Vittorio De Seta, aiuto regia: Vera Gherarducci, aiuto regia: Fabio Ridolfi, montaggio: Vittorio De Seta, produzione: Vittorio De Seta, produzione: Reportfilm, colore Italia d’oggi (1952), regia: Romolo Marcellini, fotografia: Rino Filippini, musica: Paolo Girlando, montaggio: Pino Giomini, produzione: Documento Film, b/n L’acqua dei poeti (1956), regia: Gian Paolo Callegari, fotografia: Antonio Secchi, produzione: Documento Film, colore

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L’Annunziata (1961), regia: Luigi Di Gianni, soggetto: Luigi Di Gianni, fotografia: Giuseppe De Mitri, musica: Domenico Guaccero, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: S.E.D.I. - Società Editrice Documentari Italiani, colore L’inceppata (1960), regia: Lino Del Fra, fotografia: Mario Volpi, musica: Domenico Guaccero, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Corona Cinematografica, colore L’isola dei colori (altro titolo: A Procida) (1952), regia: Michele Gandin, fotografia: Giulio Gianini, produzione: Organizzazione Films Internazionali O.F.I., colore L’isola della salute (1954), regia: Paolo Heusch, fotografia: Alberto Fusi, produzione: Rizzoli Editore, colore L’isola incantata (1954), regia: Ugo Fasano, produzione: T.A.C. - Tecnici Associati Cinematografici, b/n L’isola più lontana (altro titolo: Linosa) (1967), regia: Mario Carbone, montaggio: Mario Carbone, produzione: Corona Cinematografica, colore L’isola risorta (altro titolo: Pantelleria) (1955), regia: Giulio Morelli, soggetto: Augusto Ciuffini, soggetto: Giulio Morelli, fotografia: Giuseppe Caracciolo, musica: Teo Usuelli, montaggio: Bruno Rasia, produzione: Gamma Cinematografica, colore L’Italia non è un paese povero (1960), regia: Joris Ivens, produzione: Proa Produttori Associati Cinema e Televisione, b/n L’ora del Sud (1953), regia: Edmondo Cancellieri, produzione: Incom Inc Industrie Corti Metraggi - Importazione Noleggi Cinespettacoli, colore La camorra (1965), regia: Giuseppe Ferrara, fotografia: Claudio Racca, musica: Franco Potenza, produzione: Corona Cinematografica, b/n La cava dei colori (1953), regia: Giuliano Tomei, fotografia: Antonio Schiavinotto, musica: Ennio Porrini, commento musicale: Mario Tamanini, montaggio: Giulia Fontana, produzione: Phoenix Produzione Films, colore La cena di San Giuseppe (1963), regia: Giuseppe Ferrara, fotografia: Ruggero Faido, produzione: Giorgio Patara, colore La disamistade (1962), regia: Libero Bizzarri, fotografia: Mario Carbone, produzione: Libero Bizzarri, colore La farsa di carnevale (1958), regia: Mario Gallo, fotografia: Giuseppe De Mitri, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Documento Film, colore La festa dei morti (altro titolo: Festa dei morti in Sicilia) (1955), regia: Francesco Maselli, aiuto regia: Francesco Degli Espinosa, aiuto regia: Rinaldo Ricci, produzione: Film Studio, colore La grande selva (1956), regia: Florestano Vancini, fotografia: Mario Volpi, musica: Franco Rajola, produzione: Liliana Ferrari, colore La Madonna del Pollino (1971), regia: Luigi Di Gianni, soggetto: Luigi Di Gianni, commento parlato: Annabella Rossi, speaker: Stefano Satta Flores, foto-

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FILMOGRAFIA

grafia: Carlo Alberto Cerchio, musica: Egisto Macchi, montaggio: Giancarla Simoncelli (Carla Simoncelli), produzione: Luigi Di Gianni, colore La Madonna di Gela (1963), regia: Giuseppe Ferrara, sceneggiatura: Giuseppe Ferrara, musica: Egisto Macchi, montaggio: Giuseppe Ferrara, produzione: Giorgio Patara, colore La Madonna di Pierno (1965), regia: Luigi Di Gianni, consulente: Annabella Rossi, musica: Egisto Macchi (Aldo De Blanc), montaggio: Giuliana Bettoja, produzione: Nexus Film, colore La montagna di cenere (1952), regia: Giovanni Paolucci, fotografia: Giuseppe Aquari, musica: Valentino Bucchi, produttore: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, colore La possessione (1971), regia: Luigi Di Gianni, fotografia: Carlo Alberto Cerchio, produzione: Nexus Film, colore La potenza degli spiriti (1968), regia: Luigi Di Gianni, fotografia: Emanuele Di Cola, musica: E. Cavaliere (Egisto Macchi), montaggio: Rossana Coppola, produzione: Documento Film, b/n La punidura (altro titolo: In Gallura) (1959), regia: Luigi Di Gianni, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Mondial Film di Guglielmo Loy Donà, colore La riviera dei tre golfi (1963), regia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), soggetto: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), sceneggiatura: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), commento parlato: Giampiero Pucci, musica: Pietro Marletta, direttore produzione: Rita Consoli, produzione: Cineproduzione Ugo Saitta, colore La rocca di Venere (Erice) (1953), regia: Giuliano Tomei, fotografia: Antonio Schiavinotto, musica: Angelo Musco, produzione: Phoenix Produzione Films, colore La taranta (altro titolo: Terra dei rimorsi) (1962), regia: Gianfranco Mingozzi, commento parlato: Salvatore Quasimodo, consulente: Ernesto De Martino, consulenza musicale: Diego Carpitella, produzione: Compagnia Cinematografica Pantheon Film, b/n La terra di Giovanni Verga (1953), regia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), commento parlato: Gian Bistolfi, fotografia: Benito Romano Frattari, musica: L. Ricci, produzione: Produzione Gallone, colore La terra nuova (altro titolo: Gravina, Altamura, Metaponto,Valle Dell’Agri, Matera) (1952), regia: Francesco De Feo, inchiesta: Nicola De Feo (Nicola Adelfi), adattamento musicale: Mario Tamanini, montaggio: Alberto Verdejo, produzione: Istituto Nazionale Luce, b/n Lacco Ameno, incantesimo d’Ischia (1961), regia: Guido Guerrasio, commento parlato: Arnoldo Foà, fotografia: Giulio Gianini, musica: Gino Jr. Marinuzzi, produzione: Lacco Ameno Terme, colore Lamento funebre (1953), regia: Michele Gandin, produzione: Filmeco – Produzione Distribuzione Edizione Film, b/n

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Lavoro e macchine (1965), regia: Filippo Masoero, produzione: Centaurus Film, colore Lavoro nel Sud (1965), regia: Giulio Morelli, produzione: Giulio Morelli, colore Le barche sull’acqua (1961), regia: Giuseppe Ferrara, aiuto regia: Agostino Bonomi, fotografia: Giuseppe Demitri, musica: Francesco Castangia, musica: Giovanni Porcheddu, montaggio: Pino Giomini, produzione: S.E.D.I. - Società Editrice Documentari Italiani, produzione: Saverio Ungheri, colore Le case del sole (1961), regia: Francamaria Trapani, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Le italiane e l’amore (1961), regia: Gian Vittorio Baldi, Marco Ferreri, Giulio Macchi, Francesco Maselli, Lorenza Mazzetti, Gianfranco Mingozzi, Carlo Musso, Pier Luigi Nelli (Piero Nelli), Giulio Questi, Nelo Risi, Florestano Vancini, produzione: Magic Film, Consortium Pathé (Francia), b/n Le rocce di Eolo (1953), regia: Giovanni Paolucci, musica: Valentino Bucchi, produttore: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, colore Le streghe a Pachino (altro titolo: Streghe di Pachino) (1963), regia: Giuseppe Ferrara, sceneggiatura: Giuseppe Ferrara, musica: Egisto Macchi, montaggio: Giuseppe Ferrara, produzione: Giorgio Patara, colore Li mali mestieri (1963), regia: Gianfranco Mingozzi, sceneggiatura: Gianfranco Mingozzi, commento parlato: Ignazio Buttitta, fotografia: Ugo Piccone, musica: Egisto Macchi, montaggio: Giuliana Bettoja, produzione: Documento Film, colore Lucania dentro di noi (altro titolo: Carlo Levi) (1967), regia: Libero Bizzarri, operatore: Mario Carbone, musica: Egisto Macchi, produzione: Egle Cinematografica di Libero Bizzarri, colore Luoghi e figure di Verga (1952), regia: Florestano Vancini, musica: Franco Rajola, produzione: Faretra Film, b/n Mafia d’Aspromonte (1966), regia: Giuseppe Ferrara, testi: Orazio Barrese, fotografia: Angelo Bevilacqua, musica: Sergio Pagani, montaggio: Gabriella Vitale, produzione: Onda Produzione, b/n Magia lucana (1958), regia: Luigi Di Gianni, soggetto: Luigi Di Gianni, soggetto: Romano Calisi, commento parlato: Romano Calisi, speaker: Arnoldo Foà, consulente: Ernesto De Martino, consulente: Diego Carpitella, consulenza musicale: Diego Carpitella, adattamento musicale: Silvano Agosti (Maria Rosada), fotografia: Claudio Racca, produzione: Documento Film, b/n Magna Grecia (1949), regia: Giuliano Tomei, commento parlato: Giorgio Prosperi, fotografia: Francesco Attenni, musica: Alberico Vitalini, produzione: Phoenix Produzione Films, b/n

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

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Maria e i giorni (altro titolo: Nel tavoliere) (1960), regia: Cecilia Mangini, fotografia: Giuseppe De Mitri, musica: Egisto Macchi, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Vette Filmitalia, colore Matera sassi ’65 (1965), regia: Niccolò Micciché (Lino Micciché), speaker: Nando Gazzolo, fotografia: Giovanni Raffaldi, musica: Egisto Macchi, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Laboratorio Ricerche Cinematografiche di Vincenzo Nasso (L.R.C.), colore Matrimonio segreto (1959), regia: Mario Gallo, musica: Egisto Macchi, produzione: Remo Giorgini, colore Mestieri per le strade (1955), regia: Mario Verdone, montaggio: Mario Serandrei, direttore produzione: Enzo D’Amico, produzione: Sperimental Film, colore Minatore di zolfara (1962), regia: Giuseppe Ferrara, sceneggiatura: Giuseppe Ferrara, operatore: Mario Carbone, musica: Werther Pierazzulli, montaggio: Silvano Agosti (Maria Rosada), produzione: Giorgio Patara, colore Mito e realtà di Siracusa (altro titolo: Miti e realtà di Siracusa) (1951), regia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), soggetto: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), sceneggiatura: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), commento parlato: Giampiero Pucci, fotografia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), musica: Virgilio Chiti, direttore produzione: Rita Consoli, produzione: Cineproduzione Ugo Saitta, b/n Nascita di un culto (altro titolo: Meridione) (1968), regia: Luigi Di Gianni, commento parlato: Annabella Rossi, fotografia: Maurizio Salvatori, musica: Egisto Macchi, produzione: Egle Cinematografica di Libero Bizzarri, b/n Nascita e morte nel Meridione: San Cataldo (1959), regia: Luigi Di Gianni, soggetto: Luigi Di Gianni, commento parlato: Romano Calisi, fotografia: Michele Cristiani (Nino Cristiani), fotografia: Luigi Di Gianni, musica: Daniele Paris, montaggio: Franca Gabrini, produzione: S.E.D.I. - Società Editrice Documentari Italiani, b/n Nei regni del mare (1951), regia: Piero Mainardi (Guido Manera), sceneggiatura: Giovanni Roccardi, fotografia: Angelo Jannarelli, fotografia: Giovanni Roccardi, musica: Ennio Porrini, produzione: Phoenix Produzione Films, colore Non basta soltanto l’alfabeto (1959), regia: Michele Gandin, produzione: Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo (UNLA), b/n Nuddu pensa a nuautri (altro titolo: Inchiesta a Palma) (1961), regia: Niccolò Micciché (Lino Micciché), commento parlato: Nicola Badalucco, produzione: Trinacria Cinematografica, colore Nuova terra di lavoro (altro titolo: In Campania) (1964), regia: Giampiero Pucci, fotografia: Antonio Bucci, musica: Sergio Pagoni, montaggio: Paoletta Diego, montaggio: Arnaldo Ricotti, produzione: S.E.D.I. - Società Editrice Documentari Italiani, colore

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

Opere in Sicilia (1953), regia: Giacomo Pozzi Bellini, soggetto: Giacomo Pozzi Bellini, produzione: Istituto Nazionale Luce, b/n Paesi nuovi (1954), regia: Giovanni Passante Spaccapietra (Giovanni Passante), musica: Virgilio Chiti, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Paladini per le vie (1950), regia: Aldo Franchi, musica: Virgilio Chiti, produzione: Labor Film, b/n Panorami di Sicilia (altro titolo: Panorami siciliani) (1954), regia: Vittorio Solito, fotografia: Giorgio Merli, produzione: Documento Film, colore Parabola d’oro (1955), regia: Vittorio De Seta, montaggio: Vittorio De Seta, produzione: Astra Cinematografica, colore Pasqua in Sicilia (1955), regia: Vito Pandolfi, regia: Vittorio De Seta, aiuto regia: Luigi Samonà, montaggio: Vittorio De Seta, segretaria edizione: Vera Gherarducci, produzione: Vittorio De Seta, colore Passione a Isnello (1951), regia: Ugo Fasano, fotografia: Giuseppe Aquari, musica: Mario Tamanini, produttore: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Pastori di Orgosolo (1958), regia: Vittorio De Seta, produzione: Le Pleiadi Produzioni Cinematografiche, colore Patto di amicizia (1951), regia: Pier Luigi Nelli (Piero Nelli), soggetto: Corrado Alvaro, soggetto: Pier Luigi Nelli (Piero Nelli), sceneggiatura: Pier Luigi Nelli (Piero Nelli), musica: Mario Migliardi, produzione: Vides, b/n Pericolo a Valsinni (1959), regia: Luigi Di Gianni, soggetto: Luigi Di Gianni, fotografia: Giuseppe De Mitri, fotografia: Fausto Zuccoli, musica: Daniele Paris, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Giorgio Patara, colore Pescherecci (1958), regia: Vittorio De Seta, montaggio: Tita Perozzi, produzione: Vittorio De Seta, colore Piccolo Canadà (altro titolo: Sila) (1955), regia: Francesca Bigioni, produzione: Francesca Bigioni, colore Più che regione (1952), regia: Florestano Vancini, musica: Franco Rajola, produzione: Faretra Film, b/n Portatrici di pietre (1952), regia: Florestano Vancini, soggetto: Basilio Franchina, commento parlato: Mario Bernardo, musica: Franco Rajola, produzione: Faretra Film, produzione associata: Sicula - Romana Film di Nicola Balistrieri, colore Primavera sull’Etna (1952), regia: Giuliano Tomei, fotografia: Antonio Schiavinotto, musica: Gioacchino Angelo, produttore: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, colore Processioni in Sicilia (1964), regia: Michele Gandin, fotografia: Ferdinando Scianna, musica: Egisto Macchi, montaggio: Pino Giomini, produzione: Giorgio Patara, b/n Procida (1950), regia: Ugo Fasano, produzione: Bologna Carmine, b/n

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FILMOGRAFIA

Promessa del Sud (1953), regia: Aurelia Attili Bernucci, musica: Virgilio Chiti, produzione: Istituto Nazionale Luce, b/n Puglia il lavoro (1953), regia: Fausto Saraceni, fotografia: Renato Del Frate, produzione: Documento Film, b/n Puglia la terra (1953), regia: Fausto Saraceni, fotografia: Renato Del Frate, montaggio: Serafino Rap, produzione: Documento Film, b/n Quando le Pleiadi tramontano (altro titolo: Pesca del tonno) (1951), regia: Vittorio Carpignano, fotografia: Angelo Jannarelli, fotografia: Giovanni Roccardi, musica: Ennio Porrini, direttore produzione: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, colore Quattro volte Brindisi (1964), regia: Giovanni Cecchinato, soggetto: Giovanni Cecchinato, sceneggiatura: Ugo Alberico, sceneggiatura: Renato Cepparo, produzione: Montecatini, colore Radiografia della miseria (1967), regia: Pier Luigi Nelli (Piero Nelli), commento parlato: Leonardo Sciascia, fotografia: Luciano Tovoli, musica: Egisto Macchi, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Unitelefilm, b/n Rapsodia napoletana (1954), regia: Ugo Fasano, fotografia: Angelo Jannarelli, produzione: Documento Film, colore Ricordi d’Italia: la Calabria (altro titolo: Calabria) (1958), regia: Giovanni Paolucci, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Ricordi d’Italia: la Puglia (altro titolo: Puglia) (1958), regia: Giovanni Paolucci, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Sagre dell’Isola (1950), regia: Aldo Franchi, sceneggiatura: Franco Desio, sceneggiatura: Ovidio Imara, sceneggiatura: Ercole Melati, produzione: Panaria Film, b/n Sardegna (1953), regia: Giovanni Paolucci, sceneggiatura: Ennio Porrini, fotografia: Angelo Jannarelli, direttore produzione: Alfredo Baldoni, produzione: Phoenix Produzione Films, colore Sardegna il lavoro (1953), regia: Ugo Fasano, fotografia: Giovanni Ventimiglia, montaggio: Vittorio Solito, produzione: Documento Film, b/n Sardegna la terra (1953), regia: Ugo Fasano, fotografia: Giovanni Ventimiglia, produzione: Documento Film, b/n Sedici anni dopo Melissa (altro titolo: Inchiesta sulla riforma agraria) (1965), regia: [Mario Carbone], regia: Vincenzo Nasso, commento parlato: Vincenzo Nasso (Eugenio Malrò), speaker: Riccardo Cucciolla, fotografia: [Mario Carbone], fotografia: Giuseppe De Mitri, produzione: Laboratorio Ricerche Cinematografiche di Vincenzo Nasso (L.R.C.), colore Sicilia 1953 (1953), regia: Giacomo Pozzi Bellini, musica: Virgilio Chiti, produzione: Istituto Nazionale Luce, b/n Sicilia arabo-normanna (1951), regia: Giuliano Tomei, fotografia: Fosco Maraini, musica: Ennio Porrini, produttore: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, b/n

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Sicilia barocca (1951), regia: Vittorio Carpignano, fotografia: Fosco Maraini, musica: Ennio Porrini, produttore: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Sicilia di un tempo (altro titolo: Sicilia d’un tempo) (1955), regia: Aldo Franchi, produttore: Agostino Sansone, produttore: Alfonso Sansone, produzione: Sperimental Film, colore Sicilia ellenica (1949), regia: Piero Mainardi (Guido Manera), fotografia: Antonio Schiavinotto, fotografia: Giovanni Ventimiglia, musica: Ennio Porrini, produttore: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Sicilia moresca (1950), regia: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Sole e fiori a Taormina (1948), regia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), commento parlato: Giampiero Pucci, fotografia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), musica: Virgilio Chiti, produzione: Giuseppe Ugo Saitta, b/n Sperlonga (1950), regia: Michele Gandin, produzione: G.D.B. Edizione Noleggio Film, b/n Stemmati di Calabria (1964), regia: Mario Carbone, commento parlato: Vito Riviello, consulente: Vito Riviello, fotografia: Mario Carbone, produzione: Elisa Magri, colore Stendalì (suonano ancora) (1959), regia: Cecilia Mangini, sceneggiatura: Cecilia Mangini, commento parlato: Pier Paolo Pasolini, speaker: Lilla Brignone, fotografia: Giuseppe De Mitri, commento musicale: Egisto Macchi, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Vette Filmitalia, colore Strade di Napoli (1947), regia: Dino Risi, soggetto: R. Minervini, fotografia: Romolo Garroni, musica: Mario Pagano, produzione: Cortimetraggi Società Cinematografica, b/n Surfarara (1955), regia: Vittorio De Seta, aiuto regia: Luigi Samonà, fotografia: Vittorio De Seta, montaggio: Vittorio De Seta, segretaria edizione: Vera Gherarducci, produzione: Vittorio De Seta, colore Taccuini di viaggio (1960), regia: Michele Gandin, fotografia: Luigi Kuveiller, produzione: Giorgio Patara, colore Taccuino di un breve viaggio (1954), regia: Pino Belli, fotografia: Giorgio Merli, produzione: Documento Film, colore Tempo di raccolta (1968), regia: Luigi Di Gianni, commento parlato: Arturo Gismondi, fotografia: Claudio Racca, musica: Egisto Macchi, montaggio: Renato Patucchi (Renato May), produzione: Egle Cinematografica di Libero Bizzarri, colore Terra di bonifica (1955), regia: Luigi Scattini, fotografia: Antonio Secchi, produzione: Documento Film, colore Terra di lavoro (1953), regia: Pier Giuseppe Franci, musica: Alessandro Nadin, montaggio: Luciano Anconetani, produzione: Astra Cinematografica, b/n

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FILMOGRAFIA

Terra di Pirandello (1951), regia: Giuliano Tomei, fotografia: Fosco Maraini, musica: Alberico Vitalini, produzione: Phoenix Produzione Films, b/n Terremorte (1962), regia: Carlo Di Carlo, produzione: Adriana De Paolis, colore Tonnara (1948), regia: Renzo Avanzo, soggetto: Quintino Di Napoli, soggetto: Pietro Moncada, commento parlato: Marcella Rossellini, fotografia: Fosco Maraini, musica: Renzo Rossellini, produzione: Panaria Film, b/n Tra Scilla e Cariddi (altro titolo: Fra Scilla e Cariddi) (1949), regia: Francesco Alliata, regia: [Quintino Di Napoli], regia: Pietro Moncada, commento parlato: Marcella Rossellini, produzione: Panaria Film, b/n Traveling in Sicily (1960), regia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), soggetto: Giuseppe Beretta, soggetto: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), sceneggiatura: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), fotografia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), musica: Franco Cristina, cantante: Loredana Furno, cantante: Alberto Testa, direttore produzione: Rita Consoli, produzione: Cineproduzione Ugo Saitta, colore Un giorno in Barbagia (1958), regia: Vittorio De Seta, produzione: Le Pleiadi - Produzioni Cinematografiche, colore Un mestiere anche per te (1955), regia: Augusto Petrone, produzione: Cine Produzioni Astoria, colore Un mestiere per Tutuzzu (1961), regia: Giovanni Cecchinato, produzione: Montecatini, colore Un treno dal Sud (1964), regia: Francamaria Trapani, produzione: Francamaria Trapani, colore Una corriera racconta (1952), regia: Fausto Saraceni, musica: Virgilio Chiti, produzione: Istituto Nazionale Luce, b/n Una regione da scoprire (altro titolo: In Lucania) (1953), regia: Francesco De Feo, musica: Virgilio Chiti, produzione: Istituto Nazionale Luce, b/n Una storia comincia (1965), regia: Valentino Orsini, produzione: Orsa Film, colore Uno spettacolo di pupi (1954) (altro titolo: Opera dei Pupi), regia: Francesco Maselli, aiuto regia: Francesco Degli Espinosa, aiuto regia: Rinaldo Ricci, produzione: Film Studio, colore Viaggio a Napoli (1962), regia: Ugo Fasano, produzione: Ugo Fasano, colore Viaggio in Lucania (1965), regia: Luigi Di Gianni, soggetto: Luigi Di Gianni, commento parlato: Romano Calisi, speaker: Riccardo Cucciolla, musica: Egisto Macchi, montaggio: Giuliana Bettoja, produzione: Nexus Film, colore Viaggio nel Sud (1958), regia: Antonio Petrucci, produzione: Istituto Nazionale Luce, colore Viaggio nell’isola (1955), regia: Sergio Giordani, fotografia: Giorgio Merli, montaggio: Silvano Ballini, produzione: Documento Film, colore

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FILMOGRAFIA



Vinni lu tempu di li pisci spata (1954), regia: Vittorio De Seta, aiuto regia: Vera Gherarducci, aiuto regia: Luciana Rota, montaggio: Vittorio De Seta, produzione: Vittorio De Seta, colore Vino e pepe (1959), regia: Mario Gallo, produzione: Fulvio Lucisano, colore Voci di Napoli (1955), regia: Damiano Damiani, produzione: Este Film, colore Zolfara (1947), regia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), soggetto: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), sceneggiatura: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), commento parlato: Giampiero Pucci, speaker: Umberto Notari, fotografia: Giuseppe Ugo Saitta (Ugo Saitta), musica: Virgilio Chiti, produzione: Istituto Nazionale Luce, produzione: Giuseppe Ugo Saitta, b/n Zolfo (1953), regia: Giuliano Tomei, fotografia: Antonio Schiavinotto, musica: Angelo Musco, produttore: Piero Mainardi (Guido Manera), produzione: Phoenix Produzione Films, colore

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INDICE DEI NOMI E DEI FILM

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Per i film, in corsivo, l’ordine alfabetico non tiene conto dell’articolo. A Gela qualcosa di nuovo, 127, 159 A proposito di Napoli, 86, 159 Accadde in Lucania, 105, 159 Acciaio, 121, 159 Acciaio sul mare, 123, 159 Acciaio tra gli ulivi, 122, 159 Acqua al Sud, 105, 159 L’acqua dei poeti, 103, 164 Aldisio Salvatore, 127 Alicata Mario, 11, 12 Alliata Francesco, 76, 160, 172 Alvaro Corrado, 11, 169 Amalfi, 108, 159 Amendola Giorgio, 11 L’Annunziata, 23, 165 Antichi approdi del Tirreno, 76, 159 Antonioni Michelangelo, 3 Argentieri Mino, 9n, 111n, 151 Aria di Sila, 89, 159 Aria di Taormina, 83, 159 Armonie d’autunno, 86, 159 Artigiani di Sicilia, 75, 159 Attili Aurelia, 102, 108, 160, 170 Avagliano Gabriella, 20n, 167 Avanzo Renzo, 76, 160, 164, 172 Il ballo delle vedove, 29, 162 I bambini guardano, 108, 162 Banditi a Orgosolo, 35, 38 Banditi in Barbagia, 59, 160 Barbagallo Francesco, 41n, 42n, 151 Barbati Claudio, 1, 27n, 151 Le barche sull’acqua, 56, 167 Battilani Patrizia, 69n, 71n, 83n, 151

Belli Pino, 106, 171 Bernagozzi Giampaolo, 53n, 71n, 151 Berrino Annunziata, 69n, 70n, 151 Bertieri Claudio, 32n, 33, 55n, 65, 67n, 73n, 101, 107n, 123, 154, 155 Bertolucci Attilio, 48, 160 Bertozzi Marco, 37n, 96n, 97n, 151, 155 Bianche Eolie, 77, 160 Bizzarri Libero, 65, 66, 162, 165, 167, 168, 171 Bodini Vittorio, 48 Borgate della riforma, 100, 160 Brass Giovanni (Tinto), 131 Brignone Lilla, 28, 171 Brunetta Gian Piero, 3n, 44n, 111n, 151 Buon lavoro Sud, 125, 160 Buttitta Ignazio, 64, 167 Buzzati Dino, 122 C’era una volta Napoli, 84, 160 Caccia del pesce spada, 75, 76, 160 Cacciatori sottomarini, 76, 160 Cafiero Salvatore, 92n, 93n, 151 Cagnetta Franco, 34 Calabresella, 102, 160 Calabria di domani, 102, 160 Calabria sul mare, 89, 160 Caldana Alberto, 87n, 155 Callegari Gian Paolo, 102, 103, 160, 164 Calvino Italo, 56 La camorra, 58, 165 Campania industriale, 107, 160 Campus Giovanni, 37, 155 Cancellieri Edmondo, XIIn, 104, 161, 165 Cantarono nel ’600, 48, 160 Canti del golfo di Napoli, 84, 160

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INDICE DEI NOMI E DEI FILM

Carbone Mario, 59, 60, 161, 162, 164, 165, 167, 168, 170, 171 Carpi Fabio, 43n, 151 Carpignano Vittorio, 74, 75, 159, 160, 163, 170, 171 Carpitella Diego, 137, 166, 167 Il carretto siciliano, 79, 162 Cartier-Bresson Henri, 12 Le case del sole, 109, 167 Cassese Sabino, 10n, 93n, 151 Castronovo Valerio, 117n, 152 La cava dei colori, 76, 165 Cavallo Pietro, X, 71n, 133, 140n, 152 Cecchi Alessandro, 122n Cecchinato Giovanni, 119, 124, 125, 160, 170, 172 La cena di San Giuseppe, 30, 165 Cerchio Fernando, 127, 159 Ch4 in Lucania, 128, 160 Chiarini Luigi, 44, 155 Cipriani Ivano, 136n, 155 Città senza tempo (Pompei), 76, 160 Clemenzi Laura, 147n, 152 Col cuore fermo, Sicilia, 64, 153, 161 Colarizi Simona, 40n, 41n, 152 Comencini Luigi, 3 Compagna Francesco, 11 Conquiste del Sud, XII, 104, 161 Contadini del mare, 33, 161 Una corriera racconta, 103, 104, 172 Corrispondenza dalla Calabria, 108, 161 Corritore Claudio, 73n, 85n, 155 Craveri Mario, 72 Craveri Piero, 5n Cristo non si è fermato a Eboli, 51-53, 157, 161 Croce Benedetto, 9 Cronache dalla Sardegna, 103, 161 Damiani Damiano, 47, 173 De Berti Raffaele, 148n De Feo Francesco, 98, 105, 159, 166, 172 De Gasperi Alcide, 92 De Laurentiis Dino, 64 De Luna Giovanni, 134n, 152 De Martino Ernesto, XVIn, 1, 11, 12, 15-21, 25-29, 31n, 135-136, 152-155, 162, 166-167

De Martino Francesco, 11 De Seta Vittorio, XVn, 30-36, 38, 126, 139, 152, 154-155, 159, 161-162, 164, 169, 171-173 Del Buono Oreste, 112n, 155 Del Fra Lino, 18, 27-29, 66-67, 161, 163, 165 Del Monte Alfredo, 39n, 41n, 152 Di Biagi Paola, 94n, 95n, 152 Di Carlo Carlo, 60-61, 164, 172 Di Ciaula Agostino, 109, 162 Di Gianni Luigi, XIVn, XVIn, 18, 20-25, 153, 161-163, 165-169, 171-172 Di Napoli Quintino, 76, 160, 164, 172 Dichiarazione d’amore, 37, 161 Diga sul Flumendosa, 108, 161 I dimenticati, XV, 35, 162 La disamistade, 65, 165 Disney Walter Elias (Walt), 87-88, 162 Dodi Franco, 126, 161 Dolci Danilo, 54, 63-64 Donne del Sud, oggi, XIVn, 109, 161 Donne di Bagnara, XIVn, 23, 161 Dorso Guido, 9 Dove la terra è nera, 60, 161 Emmer Luciano, 72, 122 Energia per il Sud, 108, 161 Etna feconda, 79, 161 Fabiani Guido, 10n Faeta Francesco, 17n, 19n, 26n, 135n, 152-153 Faldini Franca, 26n, 27n, 119n, 130n, 152 Fanfani Amintore, 95 Farassino Alberto, 32n, 34n Farnese Valente, 108, 162 La farsa di carnevale, 36, 165 Fasano Ugo, 75, 84, 103, 107, 160, 164165, 169-170, 172 Fata morgana, 66, 161 Ferrara Giuseppe, XIIIn, 18, 29-30, 55-57, 59, 65, 128-129, 160, 162-168 Ferro Marc, 134n, 152 Festa a Positano, 49, 161 La festa dei morti, 49, 165 Fiocco Gianluca, 40n, 152 Fiore Tommaso, 11 Fiorentino Giovanni, 47n, 152

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INDICE DEI NOMI E DEI FILM

Flaherty Robert Joseph, 55n Floris Antioco, 143n, 155 Fofi Goffredo, 26n, 27n, 32n, 119n, 130n, 152 Forgacs David, 17n, 150n, 152 Fortunato Giustino, 1n, 9, 152 Frabotta Maria Adelaide, 96, 97n, 98n, 111n, 152 Frana in Lucania, 22, 161 Franchi Aldo, 79-80, 162, 169-171 Franci Pier Giuseppe, 107, 160, 171 Frescani Elio, X, 126n, 131n, 152 Friedmann Friedrick G., 11 I Fujenti, 24, 162 Galasso Giuseppe, 11n, 150n, 153 Gallini Clara, 17n, 19n, 21n, 26n, 28n, 29, 139, 153, 155 Gallo Mario, 36-37, 161, 163, 165, 168, 173 Gallo Vittorio, 121, 159 Gambetti Giacomo, 56, 61n, 62n, 155 Gandin Michele, 18-19, 44, 50-54, 82n, 85, 87, 155, 161, 165-166, 168-169, 171 Gandini Leonardo, 148n, 153 Gela 1959: pozzi a mare, 126, 161 Gela antica e nuova, 129, 162 Gente di Cabras, 65-66, 162 Gente di Sardegna, 87-88, 162 Gente nuova del Sud, 109, 162 Germi Pietro, 15 Gesù Sebastiano, 55n, 64n, 74n, 76n, 79n, 153 Giani Renato, 80, 155 Giannola Adriano, 39n, 41n, 152 Il giardino delle Esperidi, 75, 163 Il gigante di Gela, 129-130, 163 Gilardi Ando, 17n Il gioco della falce, 28-29, 163 Giordani Sergio, 103, 172 Un giorno in Barbagia, XIVn, 34, 172 Gobetti Paolo, 50n, 156 Gozzi Gaspare, 119n, 147n, 153 Gramsci Antonio, 9 Il grande paese d’acciaio, 124, 163 La grande selva, 89, 165 Granich Tom, 34n, 47n, 78n, 80, 83n, 84, 86n, 89n, 101n, 112n, 156



Gras Enrico, 72 Grasso Mirko, 28n, 34n, 48n, 63n, 67n, 153 Grazia e numeri, 23-24, 162 Grierson John, 55n Guerra Michele, 13n, 153 Guerrasio Guido, 85, 166 Gullo Fausto, 41 Heusch Paolo, 84, 164-165 Iaccio Pasquale, X, 10n, 13n, 20n, 23n, 35n, 44n, 46n, 47n, 66n, 71n, 133n, 134n, 135n, 140n, 143n, 152-153 Immagini popolari siciliane profane, 81, 163 Immagini popolari siciliane sacre, 81, 163 L’inceppata, 28, 165 In Puglia muore la storia, 47-48, 163 In qualche parte della Sicilia, 49, 164 In volo sulla Sardegna, 103, 164 Incantesimo di sole, 83-84, 164 Inchiesta a Carbonia, 61-62, 164 Inchiesta a Grassano, 62, 164 Inchiesta a Perdasdefogu, XIII, 55, 164 Intermezzo sardo, 76, 164 Invito ad Ischia, 86, 164 Ischia, l’isola fiorita, 84, 164 L’isola dei colori, 85, 165 L’isola della salute, 84, 165 Isola di Varano, 60-61, 164 L’isola incantata, 84, 165 L’isola più lontana, 60, 165 L’isola risorta, 107, 165 Isole di cenere, 77, 82, 164 Isole di fuoco, 33, 164 Italia d’oggi, 112, 164 L’Italia non è un paese povero, 124n, 130132, 157, 165 Le italiane e l’amore, 27, 167 Ivens Joris, 55n, 122, 130-132, 165 Karim Aga Khan IV, 70 Lacco Ameno, incantesimo d’Ischia, 85, 166 Lamento funebre, 19, 166 Landricina Cesare, 62n, 64n, 153 La Rosa Ugo, 79 Latini Guido, 117n, 153 Laura Ernesto Guido, 122n, 129, 156 Lavagnini Enzo, 20n, 22n, 153 Lavoro e macchine, 110, 167 Lavoro nel Sud, 110, 167

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INDICE DEI NOMI E DEI FILM

Lepore Amedeo, 93n Levi Carlo, 10-12, 18, 52, 59, 66, 167 Li mali mestieri, 63-64, 167 Lizzani Carlo, 44, 72, 156 Lombardi Satriani Luigi M., 31n Lucania dentro di noi, 66, 167 Lucci Chiarissi Vincenzo, 109, 159 Luoghi e figure di Verga, 48, 167 Macchi Egisto, 137n, 161-164, 166-172 I maciari, 29, 162 La Madonna del Pollino, 25, 165 La Madonna di Gela, 30, 166 La Madonna di Pierno, 24, 166 Mafia d’Aspromonte, 58, 167 Magia lucana, XVI, 20, 167 Magna Grecia, 76, 167 Il mago, 37, 163 Il male di San Donato, 25, 163 Manera Guido, 75-76, 160, 163, 166171, 173 Mangini Cecilia, 18, 27-28, 168, 171 Maraini Fosco, 76, 159-160, 163, 170-172 Marano Francesco, 137n, 138, 153 Marchi Antonio, 47-48, 153, 160, 163 Marelli Ubaldo, 122, 160 Maria e i giorni, 28, 168 Marotta Giuseppe, 13-14, 156 Marsili Emilio, 121, 163 Martelli Sebastiano, 11n, 153 Maselli Francesco (Citto), 3, 44, 49, 161, 164-165, 167, 172 Masoero Filippo, 110, 167 Massenzio Marcello, 17n, 153 Matera sassi ’65, 62, 168 Matrimonio segreto, 37, 168 Mattei Enrico, 126, 129-131, 152 Meandri Ilario, 122n, 153 Meccoli Domenico, 53n, 156 Un mestiere anche per te, 112, 172 Un mestiere per Tutuzzu, 124, 172 Mestieri per le strade, 81, 168 Il Mezzogiorno al lavoro, 112, 163 Micciché Lino, 2n, 45n, 47n, 61-62, 72n, 119n, 131n, 154, 164, 168 Minatore di zolfara, 56-57, 168 Mingozzi Gianfranco, XVn, 1, 18, 25-27, 62-64, 151, 153, 161, 163, 166-167 Mito e realtà di Siracusa, 79, 168

Moncada Pietro, 76, 160, 164, 172 La montagna di cenere, 82, 166 Morelli Giulio, 107, 110, 165, 167 Morin Edgar, 56 Moser Giorgio, 72 Murolo Roberto, 86, 164 Nappi Paolino, 32n, 154 Nascita di un culto, 24, 168 Nascita e morte nel Meridione: San Cataldo, 21, 168 Nei regni del mare, 76, 168 Nelli Piero, 50, 119, 167, 169-170 Nichols Bill, 4, 154 Nicoloso Paolo, 95n Nitti Francesco Saverio, 9 Non basta soltanto l’alfabeto, 51, 53, 168 Nuddu pensa a nuautri, 62, 168 Nuova terra di lavoro, 109, 168 Ojetti Pasquale, 126 Olmi Ermanno, 119, 124, 163 Opere in Sicilia, 106, 169 L’ora del Sud, 104, 165 Orsini Valentino, 119, 123, 131, 159, 172 Il paese di Pirandello, 76, 163 Paesi nuovi, 99, 169 Paladini per le vie, 79, 169 Pallavicini Sandro, 111n Palmieri Mariangela, XI-XVI, 140n Palumbo Giovanni, 15 Palumbo Mario, 14, 15n, 156 Pandolfi Vito, 31, 169 Pannunzio Mario, 11 Panorami di Sicilia, 102, 169 Paolella Roberto, 81, 156 Paolucci Giovanni, 81-83, 86, 89, 122, 159, 164, 166-167, 170 Parabola d’oro, 33, 169 Parenti Giuseppe, 94n, 154 Parigi Stefania, 43n, 154 Pasolini Pier Paolo, 28, 163, 171 Pasqua in Sicilia, 31, 169 Passante Giovanni, 99, 169 Passione a Isnello, 75, 169 Pastori di Orgosolo, 34, 169 Patto di amicizia, 50, 169 Pazzaglia Riccardo, 86, 159 Pellegrini Glauco, 83n Pericolo a Valsinni, 22, 169

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INDICE DEI NOMI E DEI FILM

Perniola Ivelise, 21n, 23n, 27n, 36n, 45n, 52n, 53n, 154 Pescherecci, 34, 169 Pescosolido Guido, 116n, 154 Petraccone Claudia, 12n, 92n, 116, 154 Petrone Augusto, 112, 172 Il pianeta acciaio, 121-122, 163 Piccolo Canadà, 88, 169 Pinna Franco, 12, 17n Più che regione, 48, 169 Ponti Giò, 95n Portatrici di pietre, XIVn, 48, 169 La possessione, 24, 166 La potenza degli spiriti, 24, 166 Pozzi Bellini Giacomo, 106, 169-170 Primavera sull’Etna, 76, 169 Processioni in Sicilia, 19, 169 Procida, 84, 169 I prodi cavalieri, 80, 162 Promessa del Sud, 108, 170 Pucci Giampiero, 109, 166, 168, 171, 173 Puglia il lavoro, 102, 170 Puglia la terra, 101, 170 La punidura, 23, 166 I pupi siciliani, 79, 162 Il putto, 63, 163 Quando le Pleiadi tramontano, 75-76, 170 Quasimodo Salvatore, XVn, 26, 166 Quattro volte Brindisi, 125, 170 Quilici Folco, 72 Radiografia della miseria, 50, 170 Rapsodia napoletana, 84, 170 Rea Domenico, 14, 156 Una regione da scoprire, 105, 172 Renzi Renzo, 44, 72, 113, 156 Ricordi d’Italia: la Calabria, 89, 170 Ricordi d’Italia: la Puglia, 89, 170 Risi Dino, 3, 46-47, 171 La riviera dei tre golfi, 79, 166 Rizzoli Angelo, 85, 164 La rocca di Venere (Erice), 76, 166 Le rocce di Eolo, 82, 167 Rochat Giorgio, 95n, 154 Romeo Salvatore, 120n, 154 Rondi Brunello, 45, 156 Rossellini Roberto, 15, 43n Rossi Annabella, 1, 25, 27n, 151, 163, 165-166, 168

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Rossi-Doria Manlio, 1, 10, 12, 40-41, 152 Rouch Jean, 56 Rubens Aldo, 86, 159, 164 Russo Giovanni, 11 Sagre dell’Isola, 79, 170 Sainati Augusto, 5, 111n, 154 Saitta Ugo, 77-79, 161-163, 166, 168, 171-173 Salvemini Gaetano, 9 Samugheo Chiara, 25 Saponari Angela Bianca, 12n, 139n, 150n, 156 Saraceni Fausto, 101-103, 170, 172 Saraceno Pasquale, 10 Sardegna, 86, 170 Sardegna il lavoro, 107, 170 Sardegna la terra, 103, 170 Sateriale Gaetano, 95n, 154 Scalfaro Oscar Luigi, 54 Scarfò Giovanni, 13n, 15n, 154 Scattini Luigi, 100, 103, 160-161, 164, 171 Scelba Mario, 54n Sciannameo Gianluca, 17n, 28n, 136n, 137n, 154 Sciascia Leonardo, 50, 64-65, 129, 161162, 170 Scotellaro Rocco, 12 Sedici anni dopo Melissa, 60, 170 Segni Antonio, 41 Seppilli Tullio, 16n, 156 Serra Fiorenzo, 37-38 Seymour David, 12 Sharpsteen Ben, 87, 162 Sicilia 1953, 106, 170 Sicilia arabo-normanna, 74, 170 Sicilia barocca, 74-75, 171 Sicilia di un tempo, 80, 171 Sicilia ellenica, 74-75, 171 Sicilia moresca, 76, 171 Silone Ignazio, 11 Sole e fiori a Taormina, 79, 171 Sole Giovanni, 23n, 31n, 36n, 59n, 154 Solito Vittorio, 102, 169-170 Sorlin Pierre, X, XI, 4, 133n, 154 Spano Lidia, 95n, 154 Sperlonga, 51, 171 Uno spettacolo di pupi, 49, 172

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INDICE DEI NOMI E DEI FILM

Stemmati di Calabria, 60, 171 Stendalì (suonano ancora), 27-28, 171 Una storia comincia, 123, 172 Strade di Napoli, 46-47, 171 Strand Paul, 55n Le streghe a Pachino, 57, 167 Stringa Ezio, 61, 65n, 156 Sturzo Luigi, 9 Surfarara, 33, 171 Taccuini di viaggio, 87, 171 Taccuino di un breve viaggio, 106, 171 La taranta, XV, 1, 25-27, 63, 166 Taviani Franco, 119 Taviani Paolo e Vittorio, 131 Tempo di raccolta, XIV, 171 Terra di bonifica, 100-101, 171 La terra di Giovanni Verga, 78, 166 Terra di lavoro, 107, 171 Terra di Pirandello, 74-75, 172 La terra nuova, 98, 166 Terremorte, 60-61, 172 Tomei Giuliano, 74, 76, 159-160, 164167, 169-170, 172-173 Tonnara, 77, 172 Tra Scilla e Cariddi, 77, 172 Tranfaglia Nicola, 134n, 154 Trapani Francamaria, 109, 161, 167, 172 Traveling in Sicily, 79, 172 Un treno dal Sud, 109, 172 Triscoli Claudio, 108, 161

Troiani Oberdan, 130n Trovatelli Enzo, 108, 161 Tului Fulvio, 105, 159 Tuminelli Sandro, 124-125, 163 Valle Andrea, 122n, 153 Vancini Florestano, 3, 44, 48, 89, 159160, 165, 167, 169 Vanoni Ezio, 116 Verdone Mario, 21, 48n, 51-52, 53n, 75, 76n, 80-82, 118n, 121, 124, 131, 132, 136n, 154, 156-157, 163, 168 Viaggio a Napoli, 84, 172 Viaggio in Lucania, 24, 172 Viaggio nel Sud, 104, 172 Viaggio nell’isola, 103, 172 Vinni lu tempu di li pisci spata, 31, 173 Vino e pepe, 36, 173 Visconti Luchino, 43n, 78 Visentini Gino, 112, 163 Vitali Fortunato, 127 Voci di Napoli, 47, 173 Volpi Gianni, 32n, 152 Volpi Mario, 122, 159-160, 163, 165 Zampa Luigi, 15 Zavattini Arturo, 12, 17n, Zavattini Cesare, 27, 64, 161 Zinni Maurizio, 71n Zolfara, 78, 173 Zolfo, 76, 173 Zurlini Valerio, 3, 44

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Cinema e storia Collana diretta da Pasquale Iaccio

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P. Iaccio, Cinema e storia, prefazione di Mino Argentieri (III ed.) P. Iaccio (a cura di), Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. Un film di Florestano Vancini P. Iaccio (a cura di), Non solo Scipione. Il cinema di Carmine Gallone P. Cavallo, G. Frezza (a cura di), Le linee d’ombra dell’identità repubblicana. Comunicazione, media e società in Italia nel secondo Novecento M. Melanco, Paesaggi, passaggi e passioni. Come il cinema italiano ha raccontato le trasformazioni del paesaggio dal sonoro ad oggi, introduzione di Gian Piero Brunetta C. Montariello, La Napoli milionaria! di Eduardo de Filippo. Dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità G. Fusco, Le mani sullo schermo. Il cinema secondo Achille Lauro G. De Santi, B. Valli (a cura di), Carlo Lizzani. Cinema, storia e storia del cinema P. Iaccio (a cura di), Rossellini. Dal neorealismo alla diffusione della conoscenza G. De Santi, Maria Mercader. Una catalana a Cinecittà F. Maddaloni, Cinema e recitazione. Dalla chiassosa arte del silenzio all’improvvisazione televisiva R. Bignardi, Carosello napoletano. Il cinema, la danza e il teatro nell’opera di Ettore Giannini P. Iaccio, M. Menichetti (a cura di), L’Antico al cinema D. Del Pozzo, V. Esposito (a cura di), Rock around the screen. Storia di cinema e musica pop P. Iaccio (a cura di), L’alba del cinema in Campania. Dalle origini alla Grande Guerra (1895-1918) F. Crispino, Alle origini di Gomorra. Salvatore Piscicelli tra “nuovo” cinema e neo-televisione P. Iaccio (a cura di), Antologia di cinema e storia. Riflessioni testimonianze interpretazioni P. Cavallo, L. Goglia, P. Iaccio (a cura di), Cinema a passo romano. Trent’anni di fascismo sullo schermo (1934-1963) P. Iaccio (a cura di), Napoli d’altri tempi. La Campania dal cinema muto a “Paisà” P. Licheri, Rossellini: dal grande al piccolo schermo P. Iaccio (a cura di), “La villeggiatura” di Marco Leto. Un film sul confino fascista, prefazione di Francesco Barbagallo P. Iaccio, M. B. Cozzi Scarpetta (a cura di), Pionieri del cinema napoletano. Le sceneggiature di Vincenzo e i film perduti di Eduardo Scarpetta W. Liguori, Da Teatri Uniti ai film di Paolo Sorrentino. Nuove tendenze del cinema italiano M. Palmieri, Profondo Sud. Storia, documentario e Mezzogiorno, prefazione di Pierre Sorlin

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A

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ttraverso l’analisi di un ampio corpus di documentari il volume propone un viaggio alla scoperta del Mezzogiorno tra secondo dopoguerra e miracolo economico. Un percorso che, sulla base di un patrimonio di filmati in buona parte sconosciuto, consente di esplorare un’area del Paese divisa tra resistenze culturali e importanti trasformazioni e, al contempo, di cogliere la rappresentazione del Mezzogiorno stratificata nell’immaginario collettivo. Il cinema documentario, infatti, partecipa alla definizione dell’immagine del Mezzogiorno come periferia dello spazio e della storia d’Italia. Un’immagine oggi ancora viva, che incide nel nostro modo di pensare e guardare al Sud.

CINEMA E STORIA 25

M

ariangela Palmieri (Università di Salerno) è dottore di ricerca in Storia contemporanea. Si è occupata, in special modo, di esercizio cinematografico in Campania nella prima metà del Novecento e di propaganda audiovisiva di comunisti e democristiani nel secondo dopoguerra. Su questi ed altri temi ha pubblicato articoli in riviste scientifiche e saggi in volumi collettanei.

In copertina: composizione fotografica di Alfonso Nappo (particolare).

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