Potere senza stato


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Potere senza stato

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Universale scienze sociali

ANGIONI ASAD AUGÉ BERNARDI BROMBERGER CIRESE GALUNI SIGNORELLI SOLINAS

POTERE SENZA STATO A cura di Carla Pasquinelli

Editori Riuniti

Indice

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Nota

IX

Carla Pasquinelli

Perché potere senza Stato

L Società senza Stato 3 21

Bernardo Bernardi

Il potere nelle società acefaie

Pier Giorgio Solinas

Guerra e matrimonio

IL Corpo e potere 51

Talal Asad Potere e rituale nella Chiesa medievale. Note sulle pene corporali e la verità

83

Clara Gallini tere penale

Il corpo e la sua immagine: forme del po-

HL Immagini del potere 101

Mare Augé

115

Christian Bromberger La seduzione del potere. Procedure simboliche di legittimazione nell'Islam rivoluzionario

135

Giulio Angioni Dominio ed egemonia: problemi di definizione e di estensione

Ideo/logiche del potere

IV. Potere e modernità 151

Amalia Signorelli

163

Alberto M. Cirese Il potere del computer: come comandare a un servo che non ha paura della morte?

Patroni e clienti

Nota

Questo volume raccoglie gli atti del convegno « Potere senza Stato », organizzato dall'istituto di discipline socio-antropologiche della facoltà di magistero della Università di Cagliari, nei giorni 10 e 11 maggio 1984. Si ringrazia il preside prof. Silvano T agliagambe e i docenti dell'istituto di discipline socio-antropologiche, e in particolare i professori Paola Atzeni e Chiarella Rapallo, il dott. Benedetto Caltagirone, la dott.ssa Giannetta Corriga e la dott.ssa Gabriella Da Re per quanto hanno fatto collaborando alla organizzazione ed alla riuscita del convegno.

Carla Pasquinelli

Perché potere senza Stato

1. Un lungo silenzio

Mi rendo conto che una espressione come « potere senza Stato » può risultare abbastanza ambigua perché fa pensai:e alle cose piu diverse. Per quanto mi riguarda voglio con essa indicare due fenomeni ben distinti e cioè tanto quelle società in cui il potere non è localizzato nello Stato e nei suoi apparati che quelle forme di potere diffuse nel corpo sociale delle società statuali, sviluppatesi al di fuori o contro lo Stato. Ma forse piu che ambigua può apparire arbitraria per la pretesa che ha di mettere insieme culture e storie che siamo sempre stati abituati a considerare separate e cioè società primitive e mondo occidentale. Tanto piu che si tratta di un accostamento basato su una definizione in negativo e come tale debole, perché, se anche permette in qualche misura di delimitare l'oggetto di indagine, questo rischia comunque di rimanere indeterminato, per il venir meno di quell'ancoraggio allo Stato su cui si è formata la nostra immagine(zione) del potere. Di potere sénza Stato si è cominciato a parlare da quando la antropologia politica ha preso ad interrogarsi sulla presenza e sulla qualità del potere nelle società acefale. Cosi come è ormai d'obbligo, dopo Foucault, parlare di potere diffuso ogniqualvolta si accenna alla società post-industriale. Ma queste analisi sono sempre state condotte isolate l'una dall'altra. Credo invece che si siano intersecate in piu di un punto ed in particolare mi sembra che la ricerca delle forme del potere nelle società primitive sia stata non senza rilievo per l'orientamento che da qualche anno ha assunto l'analisi e la morfologia del potere nelle società complesse. Vorrei quindi cercare di ritrovare questi nessi, ricostruire la trama di questo rapporto per porre un'interrogazione sul potere che

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aiuti a ridisegnarne la mappa. Perché il potere sfugge ad ogni messa in scena che lo disveli, si nasconde, si maschera, assume altri sembianti ogni volta che si cambia prospettiva o che si sceglie un punto di vista diverso. Eppure è là, presente, è una costante della società e della storia, non si tratta che di renderlo visibile. Nelle società primitive il potere è rimasto per lungo tempo invisibile almeno ad un occhio occidentale. Finché veniva interrogato a partire dallo Stato il potere restava muto, assente. Abituati a quella visibilità e riconoscibilità che ha nel mondo occidentale, localizzato com'è in un luogo suo proprio (nello Stato e nei suoi apparati), se lo Stato non c'era voleva allora dire che non c'era nemmeno il potere. E cosf le società primitive sono state giudicate società senza potere. Poi sono venuti i funzionalisti che ci hanno spiegato che società di tal fatta non possono esistere, dal momento che il potere è quello che tiene insieme una società, difendendola dall'entropia che minaccia di distruggerla. Se si voleva saperne di piu bisognava mettere da parte ogni residuo eurocentrico, smettendo di guardare alle società primitive per ritrovarvi anticipata e deformata la nostra immagine. Restava comunque vero che il potere era nascosto. In assenza di circuiti specializzati bisognava andare a cercarlo altrove, per trovarlo là dove meno ce lo saremmo aspettato e cioè in quelle istituzioni che noi siamo abituati a considerare private come la famiglia, la parentela, il lignaggio ecc.

2. Le società senza Stato A rompere il ghiaccio sono stati due libri, African Politica! Systems a cura di Fortes ed Evans-Pritchard e I Nuer di EvansPritchard, usciti entrambi nel 1940, anno a cui si fa ormai concordemente risalire la data di nascita della antropologia politica. Cominciamo dal primo perché tra i due è quello che piu direttamente si è misurato con i problemi metodologici e teorici posti dall'analisi del potere in società sprovviste di istituzioni specializzate a rappresentarlo. Un'impresa da pionieri dunque visto che i pochi strumenti a portata di mano erano quelli forniti dalla politologia e dalla filosofia politica occidentale, che alla prova dei fatti dovevano rivelarsi, se non proprio inservibili, del tutto insufficienti. In particolare il concetto di potere a loro disposizione era

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quello elaborato in riferimento ad una tipologia molto ristretta e soprattutto formatasi attorno ad un oggetto troppo circoscritto. A notarlo è un nome di tutto rispetto della antropologia sociale britannica, come Radcliffe-Brown, che, nella prefazione ad African Political Systems, cerca di porvi in qualche modo rimedio, fornendo una definizione di potere abbastanza ampia o comunque tale da poter soddisfare al compito non facile di fare da guida alle analisi di quanti si venivano mettendo sulle sue tracce nelle società primitive. Stando a questa definizione il potere viene a coincidere con « il mantenimento o l'instaurazione dell'ordine sociale nei limiti di un territorio, mediante l'esercizio organizzato di un'autorità capace di imporre le proprie decisioni ricorrendo all'uso o alla possibilità dell'uso della forza fisica» (Radcliffo-Brown, 1940, XIV). Come noterà Beattie molti anni piu tardi, Radcliffe-Brown cerca qui di mettere insieme due criteri diversi, facendo riferimento « in primo luogo al fine a cui è diretta l'attività politica, cioè il regolamento e il controllo dell'ordine sociale entro un dato territorio e, in secondo luogo, agli strumenti mediante i quali il fine citato è conseguito, vale a dire all'esercizio dell'autorità, sostenuto dalla forza» (Beattie, 1972, p. 203). Mentre il secondo di questi due criteri è ancora tutto interno alla logica weberiana, in quanto ancora fondato sulla relazione comando/obbedienza e come tale si rivelerà inadeguato a spiegare un gran numero di società primitive, è solo il primo criterio che appare invece utilizzabile nell'analisi delle società senza Stato. Ma nonostante che Radcliffe-Brown sia riuscito solo parzialmente nel suo proposito di attrezzare l'antropologia di un concetto di potere adeguato al suo oggetto di studio, ha messo gli antropologi sulla buona strada, con il suggerire loro che studiare il potere non vuol dire altro che scoprire in quale modo una società realizza l'ordine sociale. Non esistono infatti società le cui norme, come ci ricorda Luty Mair, « siano automaticamente osservate» (Mair, 1982, p. 18). Se questo è vero, non resta che indagare quali sono per ogni società i meccanismi e le strutture che inducono al rispetto delle regole, che la fondano e che la difendono dalle proprie contraddizioni. Tra le prime a beneficiare di questa impostazione sono state le società di lignaggio, che hanno cosi finalmente rivelato un ordine ed una regola là dove per lungo tempo era stato visto solo anarchia e caso. A parlarcene oltre ad African Politica! Systems è

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la bella monografia di Evans-Pritchard su I Nuer. Per società di lignaggio si intende - conviene forse qui brevemente ricordarlo - quelle società formate da gruppi di persone collegate per via maschile da rapporti di parentela effettivamente determinabili (discendenza patrilineare). La struttura del lignaggio costituisce la base del sistema politico: ogni lignaggio si suddivide in un numero molto vasto di lignaggi minori (segmenti) ed ogni membro è legato al proprio lignaggio da vincoli di solidarietà. I lignaggi costituiscono infatti dei gruppi corporativi, che prevedono un alto livello di cooperazione, tanto che se un suo membro viene offeso od ucciso tutti gli altri membri del lignaggio si impegnano nell'esigere un compenso per il danno subito, compenso che poi viene diviso tra tutti. Se l'offesa non viene debitamente riparata allora il contenzioso degenera nella faida. Per Evans-Pritchard la faida diventa una delle chiavi di lettura del potere primitivo. Dietro l'apparente insensatezza e crudeltà di una serie ininterrotta di omicidi e di vendette si delinea una delle principali istituzioni politiche dei Nuer. Il perseguimento della vendetta è infatti il segnale dell'esistenza di una norma che è stata violata e che va fatta in qualche modo rispettare. Tanto il compenso che la vendetta non sono altro che un implicito riconoscimento che l'assassinio è una infrazione alle regole. Ma c'è anche dell'altro: la faida è efficace non solo come sanzione sociale, in quanto il timore di subirla può essere un importante incentivo a rispettare le regole, ma è anche il mezzo grazie al quale si rafforza la solidarietà di gruppo, delimitandone i confini e rendendo visibile la comunità politica. Se infatti per comunità politica si intende quel gruppo formato da tutti coloro che accettano una norma comune di legge, allora la comunità politica dei Nuer è quel gruppo al cui interno si paga un compenso per l'omicidio. Negli scontri tribali non viene invece accettato nessun pagamento in riparazione ad un'uccisione e quindi al posto della faida subentra la guerra. Ma anche la guerra è un indice per scoprire il sistema politico, perché rende visibile la comunità di lignaggio, nel momento stesso in cui si contrappone e si scontra con gli altri lignaggi. Del resto in tutte queste società in cui il potere resta una sorta di energia diffusa, esso può venire piu facilmente colto dall'esame delle relazioni esterne. Lo scontro con l'Altro è infatti uno dei mezzi attraverso cui il potere si cristallizza e si manifesta, essendo la guerra tra le altre cose la maniera in

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cui un gruppo acquisisce cosdenza di sé come gruppo perché stabilisce ogni volta chi deve riunirsi e contro chi. L'indicazione di Radcliffe-Brown ha finito dunque per dare i suoi frutti. Grazie ad essa il potere è emerso dal corpo sociale svincolandosi da istituzioni che, invece di rappresentarlo, lo nascondono. Con gli anni e con il moltiplicarsi delle ricerche sulle società acefale la definizione di Radcliffe-Brown (che pure resta alla base delle analisi degli antropologi britannici) verrà precisata in una direzione che finirà per metterne definitivamente in luce il carattere positivo relegando sempre piu sullo sfondo il riferimento alla forza. Dall'ordine sociale, con il cui mantenimento RadcliffeBrown faceva coincidere il potere, l'accento si sposta sulla cooperazione tra i membri del gruppo. Cosi per Schapera il potere diventa « quell'aspetto dell'intera organizzazione che .è interessato alla instaurazione e al mantenimento della cooperazione interna » (Schapera, 1956, p. 218). La ricerca delle regole che sottostanno e guidano la cooperazione tra i membri di un gruppo diventa ora il punto di vista privilegiato che permette di mettere a fuoco le forme che il potere assume nelle società acefale. Ad essere analizzate saranno ora soprattutto quelle istituzioni che servono a cementare i vincoli comunitari e a rafforzare la solidarietà di gruppo. Come ad esempio i riti e le cerimonie che, assicurando una rimessa a nuovo periodica od occasionale della società, contribuiscono a mantenere e a ricreare la cooperazione interna. Con Gluckman il rito diventa una modalità per esprimere e dare visibilità ai conflitti ma anche per ricomporli riconfermando l'unità della società e portando all'accettazione dell'ordine sociale in maniera molto piu efficace e radicale di quanto non faccia la minaccia della forza. Ma oltre ad essere una forma di controllo sociale, il rito è anche una epifania del potere, una maniera attraverso cui si rende visibile la comunità e la sua articolazione interna, perché è solo con la partecipazione al rito che le differenze di status si manifestano, scomponendo l'apparenza egualitaria delle società primitive in una serie distinta di ruoli e di funzioni. I funzionalisti sono stati piu volte criticati, e molto spesso a ragione, per la loro esclusiva attenzione al funzionamento del sistema sociale e delle sue istituzioni piu che all'analisi delle istituzioni stesse. Ma a ben guardare è proprio questa impostazione che li ha messi in grado di vedere quello che altre metodologie non

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erano riuscite a portare in luce. Nel caso specifico del potere l'analisi funzionale ha permesso, in assenza di circuiti specializzati come lo Stato, di cogliere la sua presenza in molte istituzioni che noi consideriamo pre-politiche. Con piu precisione a mettere gli antropologi britannici sulle tracce del potere è stata la scoperta che ogni istituzione primitiva assolve a piu di una funzione. Si tratta di quella plurifunzionalità delle istituzioni primitive di cui hanno parlato Beattie e Schneider riferendosi in particolare alla parentela e che è stata in tempi piu recenti ripresa anche da Godelier. Cosi la parentela non ha un contenuto ptoprio ma è piuttosto un contenitore, o meglio è la forma simbolica in cui si esprimono i vari contenuti della vita sociale, le relazioni economiche, politiche religiose ecc. In altre parole in molte società acefale i rapporti di parentela funzionano da rapporti politici. Come ad esempio tra le bande dei Boscimani la struttura politica si fonde e si confonde con la parentela. O tra i Somali del nord, studiati da Lewis, una genealogia non è un semplice albero genealogico, ma « rappresenta le divisioni sociali della popolazione in gruppi corporativi » (Lewis, 1983, p. 22). Ma c'è un altro aspetto con cui il potere si presenta nelle società primitive che sconvolge i nostri abituali parametri di riferimento formatisi sulla bipolarità della relazione comando/obbedienza, ed è la molteplicità dei livelli in cui esso si manifesta. Si tratta di quella « polivalenza politica» (multipolity) di cui ha parlato Southall a proposito della parentela e che è stata ripresa e sviluppata da Bernardi nell'analisi dei sistemi di classi di età. Molto in breve - perché Bernardi ne parla estesamente nel saggio raccolto in questo libro - il sistema di classi di età è quel tipo di 011ganizzazione in cui gli individui della stessa età vengono reclutati in gruppi (classi di età) che passano attraverso i successivi ruoli di guerriero, di marito, di anziano ecc. cioè attraverso diversi ruoli sociali definiti dall'età. In tal modo ogni individuo (mai come individuo ma sempre come membro di una classe) è chiamato a svolgere nel corso della propria vita diversi ruoli sociali e ad esercitare per ogni ruolo le funzioni di potere che competono a quel ruolo. Il potere è infatti spartito fra le varie classi di età. Si tratta di un potere diffuso, distribuito nel corpo sociale non in maniera casuale ma secondo una griglia molto stretta di norme e di modalità di accesso, che prevede per tutti i membri della società un suo esercizio parziale e temporaneo. In questo

xv contesto il potere non è altro che « la capacità di svolgere attività sociale» (Bernardi, 1984, p. 59). La diffusione del potere cambia infatti la natura stessa del potere, o meglio a cambiare è piuttosto la nostra immagine del potere. Nel momento in cui le società primitive perdono la loro fisionomia ambiguamente esotica, a cui le confinava la nostra riluttanza ad accedere ad un diverso set di norme e di valori, per mostrare una complessità insospettata, ci scopriamo improvvisamente in debito nei loro confronti. Grazie ad esse il potere perde il suo aspetto demoniaco per svelare un suo volto benigno, sconosciuto all'Occidente, rivelandosi piu un dovere che un diritto, piu l'esercizio di una attività sociale volta a rafforzare la cooperazione ed i legami comunitari che il mero esercizio della forza. Un potere produttivo, definito piu dall'abilità di fare che dalla possibilità di vietare, un potere comunitario che si manifesta nel momento in cui non è ancora monopolio di un gruppo o di una istituzione. Resta da vedere se nelle società primitive il potere è diffuso perché possiede tali caratteristiche positive o se è la sua diffusione che lo rende tale, preservandolo dall'assumere i connotati del dominio e della forza. Invano cercheremmo una risposta nelle analisi dei funzionalisti. Tanto piu che c'è da chiedersi quanto questa lettura cosf armonica del potere non sia anche in parte dovuta ad una interpretazione come quella funzionalista preoccupata di dare per ogni società soprattutto un'immagine di ordine e di equilibrio.

3. Da Clastres a Foucault All'antropologia funzionalista rimane comunque il merito di avere per prima indagato sul potere nelle società primitive e di averne messo in luce il carattere comunitario. Ma nonostante questo mi sembra che sia rimasta anch'essa prigioniera del primato dello Stato. Infatti a ben guardare lo Stato rimane il punto di riferimento obbligato rispetto al quale misurare la quantità di potere presente nelle varie società prese in esame e valutarlo sulla base di concetti occidentali (coesione, ordine, coercizione, ecc.). Indicativo a questo proposito è l'atteggiamento di Lucy Mair - ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi - che è

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preoccupata di trovare una soglia a partire dalla quale il potere diventa visibile. In Governo primitivo la parte dedicata alla analisi delle società acefale è suddivisa secondo una escalation progressiva che parte dalle forme embrionali di potere - dove lo Stato è piu lontano - fino ad arrivare a quelle che piu si avvicinano al modello occidentale - anticamera dello Stato. Si tratta cioè di una lettura evolutiva che riconduce le vicende del potere alla unità e linearità di un solo percorso, quello che sfocia e si compie con l'apparizione dello Stato, confermando la nostra difficoltà ad immaginare e pensare il potere al di fuori di esso. È questa una tendenza che possiamo ritrovare anche in altre tradizioni. Penso al marxismo e alla sua teoria della transizione. È proprio il tema dell'origine dello Stato che sta alla base dell'interesse di Marx per le società primitive. La loro analisi avrebbe dovuto, almeno nelle sue intenzioni, permettergli di scoprire quell'anello mancante che documenti il passaggio dalla comunità primitiva alla società di classe e con esso la nascita dello Stato. È questo dello Stato il grande tema incompiuto della sua ricerca - un tema ripreso ed abbandonato piu volte, che ha spesso trovato forma in progetti poi rimasti li, come ad esempio l'idea di un IV libro del Capitale, mai scritto, di cui Marx ci ha lasciato traccia nello schema del 1857. Nei suoi taccuini etnologici (The Ethnological Notebooks) l'analisi di Morgan della gens diventa la chiave di volta per cogliere nel passaggio dalla società gentilizia alla società di classe l'origine dello Stato. Marx scrive infatti che lo Stato sorge là dove si è disgregata la « primitiva relazione collettiva ». L'idea che sta dietro questa affermazione è quella di una evoluzione che si compie senza soluzioni di continuità, segnata si da una cesura ma non tale da alterare un processo che trova in ogni tappa precedente le ragioni del suo evolversi successivo. Del resto il modello non differisce molto dallo schema della successione di ogni formazione sociale, che - non dimentichiamolo - per Marx « sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione» (Marx, 1957, p. 11). In altre parole tanto Marx che i funzionalisti pongono sullo stesso piano forme di potere che non sono commensurabili tra loro, ipotizzando tra di esse una continuità di sviluppo. Ma il potere nelle società primitive non può essere definito prestatuale, nel senso di una incompletezza, di una dimensione

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mancante che lo stadio successivo colmerà attraverso il contenitore provvidenziale dello Stato, che ne permetterebbe cosi una comprensione retrospettiva. Tra l'uno e l'altro c'è uno scarto teorico che decide della loro incommensurabilità. Siamo debitori a Pietre Clastres di avere liberato il potere primitivo dal dominio dello Stato. Nelle società acefale il potere è immanente alla società stessa, è il «noi» comunitario, nel senso che non esiste un potere separato e contrapposto al corpo sociale. Questa idea di un potere comunitario è però molto lontana dalle interpretazioni funzionaliste secondo cui - lo ricordiamo - il potere coincide con il mantenimento dell'ordine sociale e con la cooperazione interna o con tutti e due. Anzi Clastres è tutt'altro che benevolo nei loro confronti e non manca di criticare la scelta funzionalista di ricercare il potere nelle varie istituzioni primitive, perché « tutto allora rientra nel campo del politico, tutti i sottogruppi e unità (gruppi di parentela, classi di età, unità di produzione ecc.) costituenti una società sono investiti, a proposito e a sproposito, di un significato politico che finisce per coprire l'intero spazio sociale perdendo di conseguenza la propria specificità. Ché se dovunque vi è politica, non ve ne è piu in nessun luogo» (Clastres, 1977, p. 18). Stando a Clastres l'ipotesi funzionalista non è altro ohe un ennesimo tentativo per delegittimare il potere primitivo riducendolo ad una sorta di potere imperfetto, là dove la perfezione (inarrivabile per queste società) è ancora una volta costituita dal modello occidentale. Ma il potere condensato nello Stato « non è il modello del vero potere bensi semplicemente un caso particolare, una realizzazione concreta del potere politico in certe culture, quale l'occidentale» (Clastres 1977, p. 21). Cosi come la coercizione non è la forma del potere, ma una sua espressione storica particolare, quella basata sulla relazione comando/obbedienza. Le società primitive non sono dunque società senza Stato ma società contro lo Stato, non solo perché hanno un diverso modello di potere ma perché sono organizzate proprio contro la sua comparsa. Lo Stato diventa l'immagine del cattivo potere da cui le società primitive si difendono impedendone la nascita. Ognuna di esse mette infatti in atto, secondo Clastres, una serie di accorgimenti che la preservano dall'apparizione dello Stato e dei suoi meccanismi perversi. La guerra ad esempio è la migliore garanzia contro di es-

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so, perché è la via per mantenere l'eguaglianza fra tutti 1 membri di una società. La guerra è il modo di essere delle società primitive, essa basta infatti da sola a dare il senso del « noi » comunitario, perché « per mantenersi indivisa la comunità selvaggia ha strutturalmente bisogno della figura del nemico, attraverso la quale soltanto può leggere la propria unità» (Clastres, 1982, p. 167). Cosi le società primitive non hanno bisogno di un'espressione metasociale della propria identità quale è normalmente assicurata dallo Stato. Anzi lo Stato è tutt'altro che un fattore di unità e di identità, è piuttosto l'affossatore del « noi » comunitario, in quanto introduce al suo interno la diseguaglianza. Per Clastres dunque il potere primitivo è « buono » perché è diffuso, o meglio perché non è condensato in una istituzione che sovrasta e domina il resto della comunità. Ma anche in quelle società, in cui vi sono dei «capi», questi hanno sempre l'obbligo di dimostrare ad ogni istante l'innocenza della loro funzione. In altre parole il potere deve ogni volta giustificarsi, richiedere consenso e permettere una notevole dose di reciprocità. « Ci troviamo di fronte ad un complesso enorme di società in cui i detentori di ciò che, altrove, si chiamerebbe potere sono, in effetti, privi di potere, in cui il campo politico si determina al di fuori di qualsiasi coercizione e violenza e di ogni subordinazione gerarchica, in cui in breve non esiste alcuna relazione di comando/obbedienza» (Clastres 1977, p. 12). Cosi la chieftainship non è l'antefatto dello Stato, ma l'espressione di un potere non riconducibile a nessun apparato istituzionale. Tra noi e loro c'è uno scarto. Dietro l'enigma del « potere impotente» si cela un'altra forma di potere, un potere senza coercizione, senza forza, senza autorità. L'unica qualità che possiamo riconoscergli è il prestigio. Cosi il big man della Melanesia è il capo condannato a non essere obbedito né ascoltato; il suo è un potere precario cosi come precarie sono la sua fortuna e la sua ricchezza che è obbligato dal suo stesso status a distribuire. Ma è anche colui che con il suo prestigio si fa garante dell'identità comunitaria. Con le analisi di Marshall Sahlins sul big man il potere primitivo si disvela nelle sue forme di rappresentazione, basate su una strategia di scambi e su una sorta di reciprocità asimmetrica, dove le qualità personali assumono funzioni simboliche di dominio. Un potere destinato a restare nudo, senza istituzioni che lo medino e lo rappresentino, un potere condannato alla tra-

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sparenza dalla natura personale dei rapporti che lo rendono possibile. Avevo cominciato dicendo che nelle società primitive il potere è nascosto, perché è privo di quelle istituzioni che in Occidente lo rappresentano e lo rivelano. Scopriamo adesso che ha invece una visibilità sconosciuta al mondo occidentale, perché si manifesta in tutta la sua immediatezza. Sono le istituzioni, è lo Stato e i suoi apparati che, facendosi intermediari del potere, di fatto lo nascondono. La situazione è ribaltata: il potere nelle società primitive è divenuto visibile, tanto visibile da occultare con la sua luminosità le forme che il potere assume nella società occidentale. Tanto da fare dire a Foucault che ciò che comunemente viene chiamata la vita politica, la maniera in cui il potere si dà una rappresentazione, è invece la maniera in cui il potere si nasconde di piu. Con Sorvegliare e punire ma soprattutto con La volontà di sapere Foucault cambia le sue idee sul potere. Gli aspetti piu rilevanti di questo cambiamento sono due e riguardano entrambi la concezione statuale del potere. Alla nozione tradizionale di un centro di irradiazione, localizzato nello Stato e nei suoi apparati, Foucault sostituisce l'idea di un potere diffuso, disseminato nel corpo sociale, di una pluralità di poteri locali che si esercitano a partire da innumerevoli punti. Contemporaneamente critica la concezione giuridico-discorsiva « centrata sul solo funzionamento della legge e sul solo funzionamento del divieto » ovvero il modello statuale, per il suo carattere fortemente limitativo. « Un potere povero nelle sue risorse, economico nei suoi procedimenti, monotono nelle tattiche che usa [ ... ] un potere che non avrebbe altro che la potenza del "no"» (Foucault, 1978). A tutto questo Foucault contrappone « quel che si potrebbe chiamare una nuova "economia del potere"» (Foucault, 1977, p. 13) che trova nella relazione tra potere e sapere il suo statuto teorico. Non è comunque qui il caso di seguire ulteriormente Foucault nella sua proposta di una concezione produttiva del potere, che è fin troppo nota; mi basta e mi preme mettere in rilievo come essa sia in parte ricalcata sulle analisi di Clastres. Ritroviamo qui tanto l'idea secondo cui il potere coercitivo non è il modello del potere ma solo una sua espressione particolare rappresentata dallo Stato, che la nozione di potere diffuso. Anche se l'immagine che Foucault dà della diffusione del potere è molto diversa da quella

xx che ci viene dalle società primitive. In queste ultime la diffusione del potere è regolamentata da aspettative e ruoli sociali ben determinati, mentre nello scenario foucaultiano il potere si distribuisce in maniera selvaggia e imprevedibile. Ma non si tratta solo di rilevare le suggestioni esercitate da parte di un pensatore su di un altro, che è un fatto normale e frequente e neppure di mettere in rilievo l'influenza che gli studi etnoantropologici stanno sempre di piu avendo da qualche anno a questa parte su altri ambiti disciplinari. Ci troviamo piuttosto di fronte a quella sorta di « effetto di ritorno » che lo studio delle società « altre » ha prodotto e produce sulla società e la cultura occidentale, svela:ndone ciò che agli occhi di chi sta dentro è destinato a rimanere nascosto. È, per dirlo con le parole di Ernesto De Martino, un esempio di quella opportunità che il rapporto con l' etnos ci dà di « rimettere in causa il mondo in cui si è nati e cresciuti», sap~ndo però, come ci ha avvertito Elias Canetti, che « non è mai del tutto privo di pericoli accostarsi ai cosiddetti primitivi, perché spesso da essi ricade su di noi una luce spietata ». Una luce che in questo caso ha aiutato ad illuminare il paesaggio della società post-industriale. 4. Le proposte dei sociologi

A parlare di potere diffuso non è stato però solo Foucault; altri sono i nomi che potremmo fare da quelli di Luhmann a Bell, Parsons, Gouldner ecc. per citare solo i piu noti. Sebbene provenienti da punti di vista diversi le loro analisi convergono tutte su di un punto e cioè che il potere è un mezzo circolante che si spinge al di là dei confini ristretti del sistema politico, oltre lo Stato e i suoi apparati. Una riflessione che ha inizio verso la metà degli anni cinquanta, un inizio un po' nascosto e periferico, che si svolge in ambiti disciplinari lontani dai percorsi della politologia ancora segnati tranne rare eccezioni - e penso al libro di Lasswell e Kaplan da un'attenzione quasi esclusiva verso le istituzioni politiche. A lanciare il sasso fu Wright Mills, che restituisce all'analisi del potere quella centralità che aveva sempre avuto nella migliore tradizione sociologica e da cui la sociologia americana si era sempre difesa mantenendolo ai margini delle proprie ricerche. Con lui il potere non ha piu un solo volto, un solo luogo di

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identificazione che coincide con lo Stato e con i partiti, ma va oltre le istituzioni politiche per rivelare la sua ingombrante presenza in zone vitali del corpo sociale, quali le istituzioni economiche e quelle militari. L'idea che sta dietro alla descrizione delle élite è che il potere resta si un patrimonio di pochi, ma non è piu il monopolio di un solo gruppo o istituzione, in quanto si ripartisce all'interno della società secondo una logica quantitativa che dà luogo ad una serie di dislivelli ordinati gerarchicamente. Ma nonostante questo, nonostante che il potere sia ormai inserito in uno scenario piu ampio, pure la maniera gerarchica in cui è presente - un potere come noterà criticamente Parsons « a somma zero», cioè con una quantità fissa, per cui chi lo detiene lo fa sempre a spese e a danno di altri che ne restano cosi privi - fa si che siamo ancora lontani dall'idea del potere diffuso. Con Wright Mills il potere resta infatti localizzato in un centro da cui si irradia sul resto della società. A cambiare sono solo i confini di questo centro che non coincidono piu con quelli dello Stato. Piu che ad una critica del potere con Wright Mills ci troviamo piuttosto di fronte ad una critica della politica, come sfera separata, critica a cui in parte deve avere contribuito la sua tenace anche se vaga appartenenza marxista. Per il resto Wright Mills si mantiene fedele ad una visione tradizionale del potere riconfermando l'essenziale della teoria weberiana: il ricorso alla forza e, a completarne la fisionomia, il suo implicito carattere di proprietà, in mano a quei pochi che lo esercitano sui molti. È proprio questa idea del potere come proprietà e l'asimmetria che porta con sé ad essere messa in discussione in questi stessi anni. A farlo sono i cosiddetti pluralisti, decisi avversari della teoria della élite, che trovano nello studio della comunità il terreno adatto per sviluppare la propria critica, facendo buon uso di quella tendenza della sociologia americana a fare della comunità, in particolare della comunità urbana, il laboratorio in cui è possibile scoprire quello che il grande paese nella sua varietà occulta o rende di difficile rilevazione. A dire il vero anche gli elitisti erano partiti da li, dallo studio del potere locale - è dei tardi anni venti il famoso libro dei coniugi Lynd Middletown (1929) - ma poi il punto di riferimento aveva finito quasi esclusivamente per essere La élite del potere. E infatti Robert A. Dahl proprio prima di pubblicare W ho Governs?, il suo celebre studio sul potere a New Haven, se la prende con il libro di Wright Mills criticando

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il regresso all'infinito della sua spiegazione e l'assenza di una salda base empirica che la renda accettabile. Dahl sviluppa invece la sua tesi attraverso una meticolosa documentazione su chi governa a New Haven (una comunità all'epoca di 150.000 persone) concentrando la propria attenzione non tanto sull'origine del potere quanto piuttosto sul suo esercizio. Ne viene fuori un frastagliato panorama in cui una pluralità di gruppi, istituzioni e individui si fronteggiano e si equilibrano a vicenda, cancellando ogni traccia di élite arroganti ed esclusive. A essere rigettata è tra l'altro la tesi della stratificazione secondo cui ci deve essere per forza un gruppo che domina la comunità. Per Dahl il potere è infatti non solo decentrato, e come tale si estende al di fuori delle istituzioni politiche, ma soprattutto, come del resto aveva già anticipato nel suo The Concept of Power (1957), non è una proprietà. Il potere è un rapporto e, come subito precisa, è un rapporto tra persone che lo esercitano e lo subiscono secondo alterne vicende a tutti i livelli della vita politica e sociale. Non piu visualizzato secondo un asse verticale che scandisce gerarchie e asimmetrie, il potere diventa ora una relazione orizzontale in cui i ruoli tra chi lo ha e chi ne è privo non sono piu fissi ma possono sempre cambiare e comunque non sono mai tali da impedire che anche chi detiene il potere possa subire l'influenza o il potere di quanti gli sono subordinati. L'esempio a cui Dahl ricorre è quello di una democrazia a suffragio universale dove « sarebbe poco saggio sottovalutare il grado di influenza indiretta sulle decisioni dei leaders che hanno gli elettori attraverso le votazioni» (Dahl, 1957, p. 203). Il potere diventa cosi l'esercizio di una attività a cui tutti hanno eguali opportunità di accesso. Non è mancato chi abbia fatto notare come questo modo di trattare i rapporti di potere non sia altro che la riproduzione su un altro terreno del modello del mercato messo a punto dai neoclassici (Hartsock, 1983). Un'analogia che permette ai pluralisti di accentuare il carattere volontario della partecipazione e la natura egualitaria dei rapporti di potere per trascurare i rapporti di dominio cioè i suoi aspetti coercitivi e gerarchici. Se questa osservazione coglie senza dubbio l'ambiguità presente nella posizione pluralista, tanto che non è sempre facile distinguere tra critici ed apologeti, pure non deve farci sottovalutare, come invece spesso accade ai critici radical americani, il tentativo di cogliere i

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mutamenti intervenuti nelle forme del potere nella società moderna. Con i pluralisti il potere diventa infatti la partecipazione al processo di presa delle decisioni (partecipation in decision-making) che riguardano la comunità. Da luogo di antagonismi e di conflitti il potere si trasforma nel cemento che tiene insieme la società, nello strumento che permette di mobilitare risorse per conseguire beni collettivi. L'enfasi è sulla comunità, parola magica a cui è affidato il riscatto del potere e della sua natura perversa. L'idea è quella di una comunità in cui nessuna forza prevale sulle altre e la pluralità degli interessi in gioco - individui, gruppi, istituzioni - è di per sé garanzia e condizione della democrazia. Anche se poi nel definire e misurare il potere della comunità, i pluralisti ricorrono ad uno schema analitico che si concentra soprattutto sul potere individuale, tanto che la comunità finisce per restare abbastanza indeterminata nella sua struttura per apparire piuttosto il risultato di una collezione di individui e delle loro diverse quantità di potere. E infatti per i pluralisti il potere è sempre un atto individuale e non, come sarà invece per Parsons, una funzione del sistema. Con loro siamo alla descrizione del funzionamento di una società complessa in cui si intrecciano le decisioni dei singoli totalmente svincolate dall'intervento esclusivo di una fonte centrale. La decisione diventa la parola chiave. Il potere è la capacità di prendere decisioni, di organizzare la vita e le scelte degli altri. A porre l'accento sulla decisione era già stato un classico del pensiero politico come il libro di Lasswell e Kaplan Potere e società, uscito nel 1950. E molto di questi autori è confluito nella interpretazione di Dahl e Polsby, a cominciare dalla definizione del potere come un certo tipo di relazione umana. Ma mentre per Lasswell e Kaplan l'enfasi sulla decisione è ancora tutta interna ad una visione coercitiva del potere, perché se il potere è anche pèr loro partecipazione alla presa delle decisioni, la decisione è però « una linea di condotta che comporta sanzioni (private) severe» (Lasswell e Kaplan, 1969), con Dahl e Polsby le cose sono un po' diverse; in un certo senso potremmo dire che c'è un processo di laicizzazione, di svincolamento dagli aspetti coercitivi. La decisione non è tanto una scelta preconfezionata che deve in qualche modo essere imposta, ma diventa piuttosto la costituzione stessa di un ordine, la creazione di una situazione risolutiva.

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Attraverso la decisione il potere guadagna una visibilità sconosciuta agli elitisti, per i quali, a cominciare da Wright Mills, il potere è per lo piu nascosto. Per i pluralisti il potere si rende infatti visibile nel momento stesso della presa delle decisioni, dato che ogni decisione comporta sempre un conflitto reale ed osservabile. Questa idea di una perfetta trasparenza del potere (che si fonda in parte su di una metodologia comportamentista) non è in genere molto piaciuta. Il potere ha perlomeno due facce: una visibile, quella appunto che si manifesta nel processo di presa delle decisioni ed una nascosta. Per Bachrach e Baratz, per citare i due piu polemici, il potere non consiste solo e sempre nel decidere ma anche nell'impedire che altri decidano. Con il volto nascosto del potere ritornano anche i rapporti di dominio messi troppo disinvoltamente da parte dai pluralisti. Faremmo però loro torto nel sottovalutare i mutamenti che hanno introdotto nella teoria del potere. Della lettura pluralista restano alcuni punti fermi: il potere non è piu un fenomeno circoscrivibile alle sole istituzioni politiche ma compare nei piu diversi ambiti della società e come tale non è piu una proprietà di una istituzione o di un individuo ma è diventato un rapporto tra persone. Ma la vera svolta si ha con Takott Parsons. Con lui muta lo statuto del potere, che cessa di essere una prerogativa del soggetto per diventare una caratteristica del sistema. Una rottura resa possibile dall'analogia che Parsons stabilisce tra potere e denaro, anafogia basata sull'assunto secondo cui ognuno dei sottosistemi che formano il sistema sociale comporta la stessa struttura logica, soddisfa le stesse condizioni generali ed obbedisce agli stessi principi d'insieme. Il potere al pari della moneta è un mezzo circolante, che opera tanto all'interno del sistema politico che tra questo e gli altri sottosistemi della società. Come tale il potere non è una proprietà del sistema politico, non sta cioè da qualche parte in una sorta di latenza o permanenza. È mobile, attivo e genera incessantemente scambi e spostamenti, è insomma un mezzo di comunicazione, un elemento in circolazione che agisce nell'interazione degli attori e della collettività in ogni parte del sistema sociale. Come i pluralisti anche Parsons ha in mente un'idea estensiva del potere che finisce per smussarne gli aspetti gerarchici ed autoritari. Anzi Parsons è quello che piu si allontana da una lettura dei rapporti di potere in termini di dominio, facilitato in questo

xxv dal parallelismo tra potere e denaro. Infatti al pari del denaro l'esercizio del potere deve ispirare fiducia e implicare legittimazione. « Il che significa - come egli stesso precisa - che l'obbedienza [ ... ] non è vincolante e quindi non coartabile bensi opzionale» (Parsons, 1975, p. 469). In altre parole con Parsons il potere non è piu esclusivamente definito dal ricorso alla forza, dal momento che questa « in se stessa è del tutto inadeguata» a spiegare il potere. Ma se il potere non può operare con la minaccia della forza, non può però essere pensato senza fare riferimento alla forza. « La forza fisica sta al potere come il metallo sta al denaro ». Il potere si definisce allora piu per la sua possibilità di usare la forza che per il suo esercizio. Ovvero il potere è piu minaccia che costrizione. Parsons tenta cosl'. di scorporare, per quel che gli è possibile, la forza dal potere. Parte di questo disegno è affidato alla separazione che egli fa tra potere e autorità, portando infatti alle sue estreme conseguenze la differenziazione già stabilita da Max Weber, fino ad espungere dal potere la connotazione di dominio, facendo dell'autorità la struttura gerarchica attraverso cui l'uso del potere diventa significante per i membri di una collettività data. Qualcosa di analogo, anzi di ancora piu radicale, lo ritroviamo in Hannah Arendt che lavora sullo stesso tema all'incirca negli stessi anni. Con lei potere e autorità cosi come potere e forza diventano incompatibili, dato che il potere è solo e sempre consensuale. La città-Stato ateniese diventa il modello del potere buono, il potere che « sorge ovunque vari uomini si riuniscono e agiscono in comune» (Arendt, 1971, p. 65). È l'immagine della polis, della comunità a fornire i connotati del potere, o meglio la sua interpretazione del potere è parte del suo progetto di rilanciare la comunità e i suoi valori. Comunità e potere vengono cosi quasi a coincidere, perché se il potere è l'agire in comune, come tale è anche il cemento che tiene insieme la comunità. Con Hannah Arendt siamo forse al tentativo piu estremo di fornire una lettura tutta positiva del potere; con lei i fenomeni di coercizione, di manipolazione, di violenza cessano di essere fenomeni di potere e di conseguenza scompaiono dal panorama teorico. Anche per Parsons le questioni di potere finiscono per diventare questioni che riguardano la comunità, dal momento che il ruolo del potere viene definito dalla realizzazione dei fini collettivi. Un ruolo che però è in parte delegato alla categoria di

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influenza. Come per il potere anche per l'influenza vale il paragone con la moneta (entrambi sono meccanismi di interazione sodale che partecipano di « una disposizione comune, cioè quella di "ottenere risultati" »), ma mentre il potere resta comunque definito dalla minaccia della forza, non cosi l'influenza che tutt'al piu è operante come sanzione positiva. Una distinzione importante perché Parsons sembra volere affidare alla categoria di influenza il peso di una versione tutta positiva del potere, che trova il suo ancoraggio in un rilancio dei valori comunitari. Come per Hannah Arendt anche per Parsons il potere si identifica in certa misura con la comunità: l'accettazione del potere da parte dei membri di una comunità dà ad essi il senso « del loro "appartenere" insieme». Il potere si rivela essere un fattore di identificazione, diventa cioè il portatore dell'identità, di « un elementare e diffuso sentimento di appartenenza ad un tipo di solidarietà Gemeins;chaft » (Parsons, 1975, p. 520). A questo punto \'{!eber è ormai lontano dall'orizzonte teorico di Pàrsons, a farsi sentire è piuvtosto la presenza di Durkheim. Con il suo aiuto Parsons finisce di mettere a punto una interpretazione produttiva del potere come « agire in comune », come « stare insieme » che confina sempre piu sullo sfondo la relazione comando/ obbedienza. Assieme ad essa scompare anche la tendenza a localizzare il potere nello Stato per lasciare il posto ad uno scenario allargato in cui il potere funziona da mezzo di comunicazione generalizzato. È questa estensione del potere a tutto il corpo sociale che contribuisce a dare la misura della distanza che la sociologia contemporanea e soprattutto Parsons hanno ormai preso da Weber. Ma a ben guardare parte di questi esiti erano già in qualche misura presenti nello stesso Weber, che sembra averli trascurati di proposito. Innanzitutto egli sa di operare una restrizione dell'area del potere, con il limitarlo come fa allo Stato e alle istituzioni politiche, dal momento che riconosce come « anche i rapporti convenzionali di scambio della vita sociale costituiscono "potere" in quel piu ampio significato, dal "re da salotto" fino all'arbiter elegantiarium della Roma imperiale e alle corti d'amore delle dame di Provenza» (Weber, 1981, IV, p. 48). E sa anche che questa limitazione del potere gli è imposta dal concetto stesso di potere che sceglie, quello basato sulla relazione comando/ obbedienza, o come egli stesso afferma sa di « utilizzare il concetto

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di potere nel significato ristretto» (Weber, 1981, IV, p. 48). Questo significato ristretto non va più bene nel momento in cui il potere non appare piu contenibile all'interno dello Stato. La sua estensione a tutta la vita sociale richiede per essere analizzata un diverso concetto di potere, dal momento che sono i limiti di applicabilità di un concetto a definire in gran parte il concetto stesso. Ritorna qui la domanda che ci eravamo posti a proposito delle società primitive e cioè se l'aspetto produttivo del potere è una causa od un effetto della sua diffusione. A questo punto però ogni risposta appare superflua e la domanda inutile. Tutto quello che importa è notare e tener ferma la compresenza dei due. Ogni volta che il potere si spinge oltre i limiti dello Stato per rivelare la sua presenza in ampie zone del corpo sociale, la relazione comando/obbedienza scompare per lasciare il posto ad una morfologia assai piu articolata. Con Luhmann le cose diventano ancora piu radicali, anche se poi la sua posizione risulta alla fine meno chiara rispetto a quella di Parsons. Benché si interessi soprattutto del potere politico, co me sottosistema autonomizzato che ha il compito di trasmettere decisioni vincolanti, di fatto riconosce che « il potere è una condizione della esistenza umana presente in ogni aspetto della società» (Luhmann, 1979, p. 105). Come per Parsons, anche per Luhmann il potere è un mezzo di comunicazione. Ricompare in~ fatti l'analogia con il denaro che Luhmann estende anche alla verità e all'amore, gli altri due mezzi di comunicazione caratterizzati dalla generalizzazione simbolica, che regolano la trasmissione di prestazioni selettive. Fare del potere un mezzo di comunicazione è la via scelta da Luhmann per metterne in luce il carattere relazionale. « Tutti i mezzi di comunicazione presuppongono l'esistenza di situazioni sociali che offrono ad ambedue i partners determinate possibilità di scelta, di situazioni, quindi che sono caratterizzate da una selettività doppiamente contingente» (Luhmann, 1979, p. 5). Se il potere è un mezzo di comunicazione ciò significa che entrambi i partners sono in grado di esercitarlo reciprocamente, o quanto meno che non è piu possibile assegnare il potere ad uno dei due partners quale sua caratteristica e facoltà. Per Luhmann la teoria tradizionale, stando alla quale il potere si sviluppa sempre unidirezionalmente in forme gerarchiche dall'alto in basso, è oggi inadeguata a capire la nuova morfologia del potere, perché non 0

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tiene conto di una caratteristica fondamentale del potere moderno, ignora cioè che ciascun soggetto sodale può esercitare alternativamente ruoli di potere subordinati o sovraordinati. Il potere è infatti la facoltà per entrambi i partners di ridurre complessità per l'Altro. Su questa base Luhmann distingue il potere dalla costrizione perché con essa viene meno il carattere relazionale del potere. Infatti « la riduzione della complessità non viene ripartita ma ricade completamente su chi esercita la costrizione» (Luhmann, 1979, p. 7). Ma nonostante questa distinzione tra potere e costrizione, Luhmann mantiene in fondo una concezione negativa del potere. Il potere, al pari di ogni altro mezzo di comunicazione, non è altro che « una limitazione dello spazio selettivo di cui dispone il partner» (Luhmann, 1979, p. 10), è la facoltà di ridurre complessità per altri. Insomma il potere è solo potere di veto o, nella migliore delle ipotesi, di veti reciproci. La proposta 1uhmanniana è ancora in larga parte interna alla realazione comando/ obbedienza. Il riferimento alla forza fisica e la minaccia di sanzioni restano alla base del potere. Anche se « la forza fisica non può certo essere potere », è però « il caso limite non superabile di una alternativa da evitare che crea potere» (Luhmann, 1979, p. 72). Luhmann finisce cosi per rimanere tutto sommato assai piu vicino a Weber di quanto non lo sia Parsons. Tra l'altro Luhmann parla spesso del « detentore del potere » in maniera tale da far pensare al potere come ad una proprietà piuttosto che ad un mezzo di comunicazione. Ma al di là di queste oscillazioni la posizione di Luhmann resta quella che piu ha tenuto conto delle « nuove potenze » prodotte dal processo di socializzazione della politica ormai ingovernabili dentro gli orizzonti dello Stato liberale (Marramao, 1983 ). Detto in altre parole si assiste oggi ad una sorta di rivincita o di riconquista da parte della società civile di quegli spazi che le erano stati sottratti dallo sviluppo storico dello Stato capitalista. E questo tanto nel senso di un moltiplicarsi dei centri di potere (economici, amministrativi, burocratici, ecc.), quanto nel senso della presenza ormai stabile anche se saltuaria di nuovi movimenti, di manifesta2::ioni spontanee e decentrate che moltiplicano la diffusione delle decisioni. Per dirlo con Luhmann, si è verificato un aumento della complessità dell'ambiente tale da rendere sempre piu difficile al

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sistema politico operare quella riduzione della complessità che gli permetta di governare. Lo scenario è ormai quello della società post-industriale, su cui si è venuta sempre piu concentrando l'attenzione anche di altri sociologi come Daniel Bell o Alvin Gouldner. Sebbene le loro analisi siano soprattutto interessate a decifrare i mutamenti che riguardano l'assetto economico e sociale - passaggio dalla produzione di merci ad una economia di servizi, preminenza di un ceto professionale e tecnico, centralità del sapere come fonte di innovazione e di orientamento delle scelte politiche - pure queste analisi contengono una implicita concezione del potere. Anche per loro ci troviamo oggi di fronte ad « un allargamento dell'area del potere», di cui testimonia la pluralità di soggetti, gruppi, istituzioni che vi hanno accesso. A metterli su questa strada è anche l'ipotesi, condivisa tanto da Bell che da Gouldner, della new class, della nascita di una nuova classe, formata dagli intellettuali, che, proprio in virtu della centralità acquisita dalle loro competenze nella società post-industriale, sono in grado di esercitare un proprio potere. Un potere che non passa piu attraverso le istituzioni politiche (Stato e partiti), ma si distingue e si contrappone ad esse per fronteggiarle ad armi pari nell'arena di quello che è stato definito lo scambio politico.

5. In cerca del potere

Lo Stato sta oggi perdendo quella centralità che ha avuto nella storia dell'Occidente obbligandoci cosi a mutare la nostra immagine del potere. Società complesse e società primitive diventano improvvisamente vicine, nel senso che entrambe hanno a che fare con forme di potere che non passano attraverso lo Stato e i suoi apparati. Si tratta di una vicinanza teorica, nel senso che la ricerca ed il confronto con le società primitive ci ha aiutato a scorporare il potere dallo Stato, permettendo una interrogazione sul potere altrimenti bloccata. Finché il potere è rimasto identificato con lo Stato ed i suoi apparati ogni discorso sul potere ha finito per esaurirsi e coincidere con l'analisi dello Stato. Oggi è diventato possibile parlare del potere come di una dimensione autonoma. Non ci resta che interrogarlo. Termino là dove avrei voluto cominciare e cioè alle soglie di

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una riflessione sul potere. Mi limiterò a porre alcune domande. La presenza del potere è sempre stata associata all'idea di una diseguaglianza. Una diseguaglianza che si è espressa in una relazione basata sulla dipendenza. Ma la dipendenza non è mai stata solo da parte di chi il potere lo subisce. È dipendente anche chi detiene il potere perché il potere ha bisogno dell'Altro per esercitarsi, per esistere. Inoltre tale dipendenza ha sempre portato con sé una categoria fondamentale, quella di identità. Il potere dà identità, nel senso che costituisce il limite che permette di acquisire i confini di sé. Ma del riconoscimento ha bisogno anche il potere. Da qui la sua ambiguità: il potere ha bisogno del consenso per esercitarsi, ma il consenso lo limita. Il consenso diventa infatti una forma di controllo indiretto di cui il potere è obbligato a tener conto. Ma come non si dà potere senza consenso cosi non esiste potere senza resistenza. L'idea di resistenza ci riporta alla relazione comando/obbedienza. E come il potere nella sua forma coercitiva è solo un potere, come ci ha ricordato Foucault, che ha soltanto « la potenza del no », cosi la resistenza al potere ha soltanto la possibilità della negazione. È una forma debole, definita sempre e solo in opposizione a qualcos'altro, che decide della sua esistenza. Con la nozione di potere diffuso scompare la possibilità e l'idea stessa di resistenza. Se il potere è dapertutto e in nessun luogo particolare non c'è piu la possibilità né la necessità di contrastarlo. Lo spazio si allarga e la resistenza diventa tutt'al piu una espressione o un momento della sua diffusione. Ma il potere diffuso, contrariamente a quanto sembra suggerire Foucault, non elimina le ragioni del dominio, ma semplicemente le occulta. In questa nuova economia del potere c'è dunque ancora posto per una nozione come quella di resistenza, oppure la resistenza è costretta a trovare nuove forme? Ma com'è pensabile il potere senza resistenza? Non è la resistenza al potere ciò che ha permesso ogni volta di disvelarlo? Se oggi il potere è stato tradotto in discorso è perché la rivolta contro il potere lo ha improvvisamente reso visibile là dove meno ce lo saremmo aspettato. Liberato dallo Stato il potere perde ogni trascendenza per diventare una relazione immanente ai rapporti sociali. Possiamo ancora legare il potere alla presenza di una diseguaglianza oppure dobbiamo limitarci a considerare il potere una asimmetria? O meglio una relazione asimmetrica? Ma questa asimmetria non

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appare piu orientata in maniera unidirezionale, gerarchicamente dall'alto al basso, appare invece reversibile. E tale reversibilità non toglie al potere ogni possibilità di legittimazione? E assieme a questo non finiscono per venir meno alcune categorie fondamentali del potere, quali appunto quella di identità? Oppure la reciprocità che si instaura è suscettibile di fornire altre forme di riconoscimento, non piu congelate nei ruoli di chi comanda e di chi obbedisce? Oppure ancora ha ragione Luhmann a parlare di una tendenza « inflattiva » del potere, nel senso che nelle società complesse il potere tende a non realizzare piu le proprie possibilità?

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I. Società senza Stato

Bernardo Bernardi

Il potere nelle società acefale

Inizierò sottolineando l'aspetto antropologico del mio contributo. Il farlo non sembri ovvio né pleonastico. L'accostamento antropologico ai problemi culturali e sociali prende l'avvio dall'esperienza vissuta. Ritengo essenziale che ciò avvenga anche nell'affrontare un tema come quello del potere. Il potere lo si vive: che lo si eserciti attivamente o lo si subisca piu o meno passivamente, esso ci coinvolge sempre personalmente. Forse, proprio in questa realtà si ritrova una delle ragioni del costante riemergere di un tema del genere come problema provocativo, apparentemente tutto ancora da scoprire. Ma c'è un'altra dimensione che l'accostamento antropologico consente, ed è quella comparativa. Nelle ricerche tradizionali e nelle analisi classiche la dimensione comparativa o manca del tutto o resta illusoriamente ristretta alle società occidentali. Un'ulteriore causa del riemergere inappagato del problema del potere può anche ritrovarsi nell'insufficienza comparativa di tali ricerche. Bisogna riconoscere che il riferimento alle sole società occidentali fu un'esigenza ineluttabile, condizionata dalle gravi insufficienze delle conoscenze etnologiche, durate fino all'inizio del nostro secolo. Oggi, un tale esclusivismo non è piu giustificabile. I dati etnologici a nostra disposizione consentono nuove prospettive. D'altra parte, l'insistenza ai soli riferimenti occidentali non solo risulta etnocentrica e riduttiva, ma può essere addirittura fuorviante, poiché impedisce la chiarificazione concettuale e porta, a ben vedere, alla semplice tautologia di quanto già insegnavano gli antichi. È per motivi del genere, e nella speranza di ritrovare nuovi termini per nuove prospettive, che mi propongo di estendere la mia analisi alle società acefale. Nel farlo, traggo spunto da un lavoro comparativo di anni, piu specificamente dedito allo studio dei sistemi delle classi d'età [Bernardi, 1984].

4 1. Autonomia personale e potere

Il riferimento che ho fatto all'esperienza quotidiana e vissuta mi induce a rilevare il rapporto esistente tra autonomia personale e potere. Si tratta di una premessa necessaria per cogliere appieno il significato concettuale e pratico del potere nelle società acefale. Il rapporto tra autonomia personale e potere è uno degli aspetti piu delicati e intimi del concetto stesso di potere. L'autonomia personale comporta la capacità di trovare in se stesso le norme di condotta e la forza di decisione che sostiene l'agire. È un traguardo al cui raggiungimento aspira ogni essere, fin dalla nascita. In ogni società, pur nella diversità peculiare delle istituzioni, viene messo in atto un processo di inculturazione e di socializzazione, attraverso il quale i suoi membri vengono guidati a essere in grado di agire per proprio conto e, per questo, dichiarati adulti. Normalmente, un tale riconoscimento avviene dopo il raggiungimento del pieno sviluppo fisiologico dei candidati. I riti di passaggio della maturità costituiscono il momento solenne del riconoscimento sociale. Al giovane, o alla giovane, dichiarato adulto si riconosce una conoscenza adeguata delle norme sociali e si richiede la capacità di saper decidere per il proprio comportamento. Intesa in tal modo, come del resto suggerisce la stessa etimologia della parola, l'autonomia è sinonimo di libertà ed è altresi sinonimo di potere. Cosi, i limiti all'autonomia personale, come alla libertà, sono innanzitutto tracciati dal diritto degli altri alla propria autonomia e alla propria libertà. Ma, al di là dei rapporti personali, vi sono anche le istituzioni sociali che limitano l'area dell'autonomia personale. Non è necessario che le norme di comportamento connesse a tali istituzioni siano redatte in leggi scritte, è piu che sufficiente che esse siano trasmesse oralmente con una forza semmai maggiore delle leggi. L'interesse di studio per il concetto del potere che possiamo derivare dalle società acefale consiste proprio nell'analisi del modo con cui le istituzioni sociali, che le caratterizzano, incidono sull'autonomia. e la libertà individuale. Le società acefale appartengono alla categoria delle società senza Stato. La conoscenza e l'apprezzamento di tali società è forse l'apporto piu significativo degli studi antropologici alla teoria politica. L'organizzazione politica, ossia quell'aspetto dell'ordinamento sociale vòlto, in termini parsoniani, al conseguimento del bene co-

5 mune, che distingue la società senza Stato, appare radicalmente diversa dal modello statale. In quanto categoria, le società senza Stato non riflettono un tipo unico di società. Le società acefale, cioè senza capo, ne sono un modello. Ma non necessariamente le società senza Stato sono prive di capi. Nelle società segmentarie di linguaggio, che appartengono alla categoria delle società senza Stato, il capo del lignaggio possiede ed esercita un prestigio e un potere che l'assegna decisamente alla categoria dei capi, anche se si tratta di capi primi tra pari, sia al livello interno al confronto degli altri anziani del proprio lignaggio, sia al livello esterno in relazione ad altri lignaggi. L'esistenza di società acefale ha costituito un enigma, non tanto perché non se ne accettasse la realtà dell'esistenza, quanto perché si stentava a capire in che modo potessero funzionare e sopravvivere. Effettivamente, il loro studio antropologico non è stato agevole. La prima difficoltà derivava dai presupposti culturali ed etnocentrici degli stessi antropologi. Si ricordi che, nel secolo scorso, il modello supremo dell'organizzazione politica era ancora quello monarchico, ritenuto il culmine delle sequenze evolutive della società. Dove la monarchia non esisteva o, comunque, dove non c'era una forma centralizzata di potere politico, la società era considerata primitiva, cioè ai primi stadi della scala evolutiva. Quelli che erano barbari per i greci, selvaggi per gli illuministi, furono primitivi per gli evoluzionisti. La realtà ha dimostrato che essi erano e sono uomini, punto e basta, come tutti gli altri. E si è poi capito che anche l'organizzazione delle loro società si basava su modelli strutturali altrettanto complessi e sviluppati quanto quelli occidentali. Sta di fatto che, fino agli inizi del nostro secolo, risultò difficile capire come una popolazione come i Galla dell'Etiopia meridionale, pur senza un'organizzazione centralizzata e monarchica, avesse un'organizzazione militare e sociale cosi efficiente da potere resistere agli Amhara dominanti. Lo stesso enigma si poneva in relazione ai pastori Masai del Kenya. Oggi, essi costituiscono l'attrazione dei turisti; ieri, rappresentavano lo spauracchio dei primi viaggiatori del Kenya, timorosi di doversi scontrare con i loro guerrieri. Non potendo negare la loro efficienza, se ne spregiava il livello, relegandola nel novero delle società caotiche, -,- « una repubblica di giovani guerrieri», si diceva, - quasi che non vi· fossero né un ordine né istituzioni degni di tale nome. Significativa, in tal senso, è la testimonianza di uno dei primi uf-

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ficiali amministrativi del governo coloniale inglese del Kenya, Charles Dundas. Egli si riferisce espressamente ai Kikuyu del Kenya, vicini e, per diversi aspetti, affini dei Masai, ma le sue parole sono di carattere generale, risultato di esperienza e di studio e, pertanto, applicabili a tutte le popolazioni di quelle regioni. E, infatti, afferma: « Dopo la piu attenta indagine e valutazione di quanto è ancora evidente, mi sono convinto che queste tribu non hanno capi né leader cui si possa attribuire la dignità del nome di capo. Il concetto di capo come di un funzionario essenziale per il benessere della tribu non era penetrato nella gente e di conseguenza l'ufficio di una tale autorità non faceva parte della loro organizzazione tribale [ ... ] . La mancanza di individui investiti di autorità può indurci a credere che lo stato della società che ci sta dinanzi sia del tutto disorganizzato e incontrollato, eppure non è affatto cosi, anche se è difficile scoprire il suo vero fondamento e se probabilmente è inadeguato per servire a condizioni piu avanzate» [Dundas, 1915, pp. 238-239]. Come si vede, si tratta di una dichiarazione straordinariamente onesta e trasparente delle convinzioni culturali del suo autore. Notiamo, innanzitutto, il presupposto evoluzionista che gli fa vedere nella popolazione odierna quel che è « ancora evidente » di un passato primitivo; non c'è ormai dubbio alcuno nel riconoscere il carattere acefalo di quelle società, ma Dundas mette in guardia, molto onestamente, dal non confondere la mancanza di capi con la mancanza di organizzazione e di controllo, anche se riconosce difficile individuarne gli elementi e i fattori. La conclusione è importante, perché orienterà l'intervento coloniale: quali che siano gli elementi organizzativi e i fattori del controllo sociale, essi appaiono inutilizzabili per « condizioni piu avanzate »: la conseguenza di una tale conclusione sarà l'imposizione d'imperio di capi governativi, che serviranno da tramite tra il governo coloniale e la popolazione locale.

2. Studio e tipologia delle società senza Stato

Il problema vero, dunque, si poneva in relazione alla possibilità di ordine là dove non c'erano capi, e conseguentemente nella individuazione degli elementi strutturali di un tale ordine. La risposta venne in termini molto positivi. Lentamente, ma con sempre mag-

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gior evidenza di prova, si colsero i segni dell'organizzazione, si misero in luce gli elementi portanti, si scoprirono i meccanismi di controllo delle tensioni e del superamento dei conflitti sociali, si individuarono con esattezza le vie e i modi del potere. Fu giocoforza accostarsi a quelle popolazioni con libertà, ossia senza il presupposto dei modelli occidentali, e solo lentamente, immergendosi nella vita quotidiana di quelle genti, l'intreccio strutturale e il funzionamento effettivo delle istituzioni sociali emersero in tutta la loro chiarezza. Credo che il merito di averci dato per la prima volta un'analisi approfondita e problematica di una società senza Stato vada assegnato a E.E. Evans-Pritchard per il suo studio sui Nuer, popolazione prevalentemente, ma non esclusivamente, pastorale del Sudan meridionale. Il merito di Evans-Pritchard non si limita solo al suo apporto etnografico, già di per sé straordinario, bensi al metodo di analisi problematica da lui seguito. Egli insed in tal modo il tema delle società senza Stato nella problematica teorica dell'antropologia e, di riflesso, della scienza politica. Nella redazione originale il titolo della monografia di Evans-Pritchard suonava quasi banale: I Nuer. Descrizione dei modi di vita e delle istituzioni politiche di un popolo nilotico. Nella traduzione italiana, per esigenze dell'editore preoccupato di lanciare il libro tra un pubblico, come quello italiano, non certo facilmente interessato alle ricerche antropologiche, il titolo venne modificato: I Nuer. Un'anarchia ordinata. L'ossimoro, anarchia ordinata, appartiene allo stesso Evans-Pritchard e lo si trova nel testo. Non si tratta, dunque, di una accomodazione capziosa per carpire l'attenzione del lettore piu o meno interessato, ma la sua suggestione sta proprio nel fatto che esso riassume la problematica di un tale tipo di società che agli antichi osservatori era sembrato un enigma insolubile [EvansPritchard, 1940, 1975], A distanza di pochi anni, ma praticamente nello stesso decennio degli anni trenta, Meyer Fortes svolge una ricerca altrettanto intensa tra i Tallensi, agricoltori del Ghana {allora Costa d'Oro). Anch'egli, come Evans-Pritchard, di cui si dichiara fratello minore, è portato dalle cose a mettere in luce il valore strutturale del lignaggio in un'analisi meticolosa che ha reso le sue monografie sui Tallensi contributi classici dell'antropologia sociale [Fortes, 194 5]. I due autori si fanno promotori di una rassegna comparativa sui sistemi politici delle popolazioni africane con contributi

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tratti da ricerche dirette. African Politica! Systems ebbe a suo tempo un valore seminale e apri il campo alla comprensione sistematica delle società africane. Per la prima volta le società senza Stato venivano poste a confronto con le società monarchiche e statali [Fortes e Evans-Pritchard, 1940]. L'opera dei due maestri venne continuata dai loro discepoli, Middleton e Tait, che approfondirono, allargandolo ad altre società africane, lo studio delle società senza Stato [Middleton e Tait, 19518]. Una semplice indicazione può essere sufficiente per darci una idea della tipologia della società senza Stato risultata da talì studi. Mi limiterò a segnalarne cinque tipi. Il primo riguarda le società dove la struttura sociale e politica si fonda sulla collaborazione dell'unità minima della parentela, la famiglia nucleare, nell'organizzazione di banda. È il tipo caratteristico dei cacciatori e raccoglitori, quali sono i Pigmei e i Boscimani. Il secondo tipo è dato dalle società dove l'organizzazione sociale e politica risulta dall'intreccio dei gruppi maggiori della parentela, quali sono i lignaggi. Vale la pena di precisare il significato che alla parola lignaggio si attribuisce in antropologia dopo gli studi di Evans-Pritchard e Meyer Fortes, a confronto e in distinzione del clan: il clan rappresenta un gruppo di parentela i cui membri riconoscono un capostipite unico e mitico; l'accento è da porsi sulla parola mitico. Il lignaggio è, invece, il segmento storico del clan: il capostipite che i membri del lignaggio considerano come antenato è storico: di esso si ha un ricordo preciso e spesso la sua tomba costituisce il santuario etnico e il centro dell'attività rituale e sociale, cosi come avviene, per esempio, tra i Tallensi. L'appartenenza al lignaggio, con il richiamo di ascendenza all'antenato, fonda il diritto di residenza e di ogni altra attività sociale e politica. I Nuer e i Tallensi offrono l'esempio di società segmentarie fondate sul lignaggio e la diversità del loro modo di produzione - pastorale quello dei Nuer, agricolo quello dei Tallensi - testimonia la molteplicità dei modelli che un tale tipo di società senza Stato può assumere. Il terzo tipo si riferisce alle società di villaggio, dove l'organizzazione della comunità residenziale costituisce la base strutturale dell'attività sociale e politica. Gli esempi africani piu caratteristici si ritrovano nell'Africa Occidentale, specialmente tra gli Igbo della Nigeria, tra i Lagunari della Costa d'Avorio e altri. Il quarto tipo è analogo al precedente, ma si differenzia perché l'organizzazione di villaggio fa perno sul capo villaggio, al quale gli abitanti del

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villaggio sono legati da parentela cognatica se non consaguinea, cosf come ogni capo-villaggio è legato al capo supremo del territorio, pur mantenendo nei suoi confronti la propria autonomia. Un tale tipo di organizzazione è diffuso nell'Africa centrale; Monica \Vilson ce ne ha dato uno studio singolare in relazione ai Nyakyusa del Tanzania. Il quinto tipo di società senza Stato è rappresentato dalle società basate sui sistemi delle classi d'età. Questi sono piu noti e diffusi nell'Africa orientale. La precisazione dei termini concettuali è d'obbligo, tanto piu che il termine « classi d'età » è proprio anche delle scienze demografiche. Evidentemente, nel gergo antropologico l'espressione classi d'età non si riferisce a gruppi d'età configurati artificiosamente per scopi statistici. Le classi d'età, in senso antropologico, sono veri raggruppamenti sociali, fondati sull'assegnazione ai loro membri di una comune età strutturale. L'età strutturale è una specie di età sociale: con essa, non solo si riconosce una posizione cronologicamente significativa nell'ambito di una determinata società, ma si definisce un preciso ruolo all'interno della struttura sociale. Un'altra caratteristica comune dei sistemi delle classi d'età è la relazione esistente tra classi e gradi d'età: ogni classe, una volta pienamente formata - ossia, una volta che tutti i suoi membri siano stati reclutati - costituisce un corpo unitario e percorre la scala della gradazione sociale con competenze particolari per ogni grado d'età. In tal modo - ed è un'ulteriore caratteristica comune a tutti i sistemi delle classi d'età - i sistemi delle classi d'età adempiono all'organizzazione sociale e politica della comunità e, piu specificamente, servono per la definizione e la distribuzione del potere. I modi di formazione delle classi - ossia i principi del reclutamento dei membri - cosi come il quadro strutturale dei gradi d'età risultano assai vari. In altre parole, i sistemi delle classi d'età costituiscono anch'essi una categoria speciale, all'interno della quale molti sono i modelli. È questa un'osservazione che occorre tenere presente per valutare appieno la realtà etnografica e capire certe affermazioni generalizzanti che spesso vengono ripetute acriticamente. Dei vari tipi di società senza Stato mi soffermerò, in particolare, sulle società fondate sui sistemi delle classi d'età, perché sono quelle dove l'aspetto acefalo dell'organizzazione si presenta in maniera piu significativa e dove il rapporto tra la gerarchia dei

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gradi e l'egalitarismo delle classi rende il problema del potere quanto mai interessante. Mi propongo, innanzitutto, di chiarire i due concetti di gerarchia e di uguaglianza. Come ho già notato, la connessione tra classi e gradi costituisce una caratteristica comune e fondamentale dei sistemi delle classi d'età. Il processo di formazione di una classe avviene attraverso il reclutamento dei suoi membri durante un determinato periodo di tempo. La classificazione, cioè, è cronologica e la distinzione che in tal modo si crea tra classe e classe avviene in termini cronologici, ossia di età. Una classe che è reclutata prima di un'altra è seniore e quella che segue è juniore: tra seniore e juniore si introduce un rapporto gerarchico che viene espresso e precisato dai gradi di età. Mentre le classi si distinguono tra loro gerarchicamente, i membri di ogni classe sono e restano tra loro uguali, non tanto perché il loro sviluppo fisiologico, ossia la loro età genealogica, sia uguale (anzi, non lo è quasi mai), quanto perché hanno in comune la stessa età strutturale: appunto perché sono stati reclutati in una stessa classe, essi sono considerati coetanei e sono socialmente pari. Tale parità si riferisce soltanto ai propri compagni di classe e dura finché il legame corporativo della classe dura, il che normalmente avviene fino alla morte. Ora, è importante notare che lo status e il ruolo di chiunque appartenga a una società fondata su un sistema di classi d'età sono determinati contemporaneamente dall'appartenenza di classe e dalla posizione che la sua classe occupa nella linea dei gradi. Lo status e il ruolo definiscono le attività che competono alle singole classi e ai loro appartenenti, ossia, in altre parole, definiscono il potere. Una tale osservazione ci deve indurre a dissipare ogni pregiudizio sul potere e sulla sua distribuzione, quasi che esso potesse aversi soltanto là dove c'è gerarchia e non potesse esistere là dove c'è uguaglianza. Nei sistemi delle classi d'età il potere è intimamente connesso tanto con l'aspetto gerarchico quanto con quello egalitario. 3. Caratteristiche delle società senza Stato Prima di approfondire l'analisi della natura e della distribuzione del potere nei sistemi delle classi d'età ritengo necessado chiarire ancora il carattere sistematico e organizzativo dei sistemi delle classi d'età.

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Nel parlare, come abitualmente facciamo, di società senza Stato e di società acefale, noi diamo rilievo a un loro carattere negativo: affermiamo che tali società mancano di un qualcosa, che è lo Stato, che sono i capi. La prospettiva negativa di tali espressioni non consente di dare rilievo ai loro aspetti positivi e, di fatto, impedisce di capire come tali società siano socialmente strutturate e come funzionino. Pertanto, ritengo piu che utile accentuare i caratteri effettivi che fanno di tali società organizzazioni tipiche e distinte. Mi varrò, allo scopo, di un'analisi che Aidan Southall ha pubblicato nell'Enciclopedia internazionale delle scienze sociali, precisando una serie di caratteristiche singolari [ Southall, 1968]. La prima caratteristica è detta multipolity, che tradurrò con l'espressione polivalenz,a politica. Nelle società senza Stato, osserva giustamente Southall, gli elementi dell'organizzazione. politica sono molteplici e polivalenti e determinano i livelli a cui si svolge l'attività politica. Tali livelli si riscontrano nella struttura sociale, come sono, per esempio, i segmenti della parentela o le classi d'età. Evidentemente occorre saperli vedere nella realtà etnografica, superando ogni prevenzione enigmatica. La seconda caratteristica è definita da Southall ritual super integration: super integrazione rituale. L'espressione si riferisce agli effetti comunitari dei riti. La celebrazione dei riti è un diritto e un dovere che, nelle società senza Stato, non soltanto offre l'occasione di incontro comunitario, ma costituisce anche un modo di affermare il proprio status sociale e il proprio potere. Come dice Fortes in relazione ai Tallensi, la celebrazione dei riti è il momento in cui la comunità emerge. Ed è precisamente dalla celebrazione dei riti sulla tomba dell'antenato che Meyer Fortes si rese conto del significato strutturale del lignaggio tra i Tallensi. Il rito, al di là del suo significato religioso, funziona come fattore coesivo della comunità e assume, per ciò stesso, un significato politico; La terza caratteristica viene definita complementary opposition, che traduco complementarietà degli opposti. Tale caratteristica appare evidente nei sistemi di lignaggio. Come si è detto, i lignaggi sono segmenti della parentela; ogni lignaggio afferma il proprio diritto con il richiamo all'ascendenza dal proprio antenato; in tal modo, ogni lignaggio si distingue e, in un certo senso, si oppone agli altri lignaggi, ma tale opposizione è complementare, nel senso che dalla dialettica che suscita si mantiene viva la struttura sociale. Un fenomeno analogo lo si osserva nei sistemi delle classi d'età,

12 dove ogni classe si contrappone all'altra in termini di seniorità e

la tensione sociale esistente tra tutte le classi mantiene salda la struttura globale della società. Una quarta caratteristica è chiamata intersecting kinship: l'intreccio della parentela pone in risalto il diritto e il dovere dell'attività sociale e politica che derivano dai rapporti di parentela. Infine, una quinta caratteristica è detta da Southall distributive legitimacy: legittimità distributiva. Si tratta di una caratteristica del massimo interesse perché il suo vero oggetto è il potere. L'accento, prima ancora che sulla natura del potere, è posto sulla sua distribuzione. Infatti, l'ambito del potere può variare da modello a modello (e già si è ripetutamente messa in risalto la molteplicità e la varietà delle società senza Stato), ma ciò che è comune delle società senza Stato e delle società acefale, in partico1are, è la distribuzione del potere. Il potere non è centralizzato, bensf diffuso. Tale diffusione, tuttavia, non è casuale né arbitraria, ma presuppone la legittimità del diritto: solo chi può effettivamente vantare la discendenza dall'antenato capostipite del lignaggio può aspirare a ottenere il potere che è proprio dei membri di quel lignaggio; solo chi appartiene legittimamente a una classe può esercitare il potere che è proprio del grado occupato in quel momento dalla sua classe. La regolazione del potere secondo criteri di legittimità accentua il carattere positivo delle società senza Stato: esse non sono solo privative - senza - ma costituiscono un ordinamento e sostengono un ordine; sono anarchie, ma anarchie ordinate. Le società senza Stato sono, pertanto, veri ordinamenti politici e tali vanno considerate. Posseggono la capacità organizzativa necessaria per dare e mantenere l'ordine dei rapporti sociali di una comunità, consentendo ai singoli l'ottenimento della propria autonomia personale e della legittimità sociale. Resta, dunque, da vedere in quali termini si configuri il potere all'interno di tali società e in quali modi avvenga la sua distribuzione. Ma proprio in relazione al primo dei due quesiti occorre evitare l'equivoco di identificare il potere con il potere politico. Piu su, abbiamo accennato all'equivoco di assegnare il potere soltanto alle formazioni sociali gerarchizzate. Si tratta di una concezione etnocentrica derivata dalla struttura piramidale, o gerarchica, propria delle società occidentali. Nelle strutture piramidali il potere decisionale dei politici viene talmente esaltato nella considerazione, piu o meno logorata, dell'uomo della strada fino a identificarlo

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con il potere tout-court. Ora, poiché le società senza Stato sono, come si è appena detto, veri ordinamenti politici si può essere indotti a ricercare nel potere politico l'idea di potere di quelle società, tanto piu che vi sono società senza Stato che riconoscono dei capi. Ma l'esistenza e la struttura delle società acefale ci mette in guardia dal farlo. D'altra parte, anche nelle società con capi la caratteristica della legittimità distributiva, che abbiamo registrato piu sopra, costituisce una delle note fondamentali; il potere, cioè, non è centralizzato ma distribuito a tutti i membri della società secondo criteri di legittimità. A corollario di tali considerazioni possiamo porci una domanda che ci possa chiarire l'idea che del potere si fanno gli appartenenti alle società senza Stato, chiedendoci quali siano le ambizioni di potere cui aspirano. Se, per rispondere a tale quesito, d limitiamo alle società fondate sui sistemi delle classi d'età possiamo constatare che l'aspirazione suprema degli appartenenti a quelle società coincide con l'ambizione di essere reclutati in una classe e di ottenere, in tal modo, il riconoscimento della propria autonomia personale, espressa nel diritto di esercitare il potere proprio della classe secondo il grado di età che essa occupa. Si tenga presente che, come si è detto, la singolarità dei sistemi delle classi d'età consiste nell'interrelazione tra classi e gradi.

4. Potere e gradazione A questo punto occorre anche dire che l'attività politica, nell'ambito dei sistemi delle classi d'età, non si limita al solo potere decisionale ma investe la globalità delle attività sociali, scandite secondo la successione dei gradi d'età. Ma esaminiamo ancora che cosa intendiamo per attività politica. Normalmente si definisce politico quell'aspetto dell'attività sociale prevalentemente interessato al potere, cioè a ottenere che certe cose siano fatte: a prendere decisioni e a farle eseguire o a impedire che altre cose si facciano, in nome di una qualunque collettività o di una qualunque persona. Una tale concezione del potere è assai diffusa e trova la sua ispirazione nella definizione del potere data da Weber, secondo il quale potere è la possibilità di costringere alla propria volontà la volontà altrui, se necessario anche con la forza. Un concetto del genere non corrisponde affatto a quanto avviene

14 nelle società senza Stato e, in particolare, nelle società acefale. In tali società, o meglio nelle società a sistema di classi d'età, il potere è radicalmente condizionato dal rapporto delle classi con i gradi d'età: sono i gradi che definiscono la forma specifica del potere e, in altre parole, la forma di attività sociale che compete a una classe durante un determinato periodo di tempo. L'insieme dei gradi nei sistemi delle classi d'età costituisce l'organigramma dell'organizzazione sociale in base al quale si definisce il potere di compiere ogni tipo di attività sociale. La promozione nei gradi si avvera corporativamente per classe, secondo una precisa successione di tempi. Pertanto, l'attività politica nei sistemi delle classi d'età non può limitarsi soltanto alla fase specifica in cui a una classe compete il potere decisionale, che in senso stretto potrebbe definirsi potere politico, ma riguarda l'intera gamma delle forme sodali comprese nell'organigramma dei gradi d'età. Per fare un esempio, sceglierò il sistema delle classi d'età dei Masai che presenta un organigramma dei gradi tra i piu semplici e trasparenti. Tra i Masai sono quattro i gradi d'età: 1) il primo riguarda l'attività militare e compete alle giovani reclute dopo che hanno superato il culmine dell'iniziazione con cui diventano membri di una classe. Si tratta di un diritto/dovere: il diritto di portare le armi e il dovere di difendere gli armenti e la popolazione. Durante il periodo in cui la classe svolge tale attività, ai suoi membri non è consentito sposarsi: i guerrieri vivono in abitazioni proprie, segregate dal resto della popolazione (ciò era vero soprattutto nell'era precoloniale); 2) il secondo grado dà diritto all'attività sociale ed economica. Gli appartenenti alla classe, promossa a tale grado, ottengono il diritto di sposarsi, il che implica anche il diritto di costruirsi una propria casa e attendere allo sviluppo di un proprio armento; in tal modo, si può arrivare ad avere i mezzi per sposare altre donne, poiché la poliginia è fattore di prestigio sociale; 3) il terzo grado assegna alla classe e ai suoi membri il diritto di prendere la decisione finale nei consigli di comunità: in tali consigli tutti sono liberi di intervenire, secondo gli argomenti trattati, ma la decisione spetta soltanto ai membri della classe che occupa questo terzo grado; 4) il quarto grado consente a quanti lo raggiungono di compiere alcuni riti solenni, per cui l'attività che le è propria può definirsi in termini religiosi o rituali.

15 La permanenza di una classe in un grado, nel sistema masai, dura all'incirca quindici anni. Un individuo che percorra l'intera serie dei gradi copre, quindi, un arco di sessant'anni, ai quali vanno aggiunti gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, quando la sua posizione sociale è nulla, con un totale complessivo che può variare dai settantacinque agli ottanta anni e piu. Come si può vedere, l'insieme dei gradi costituisce un vero comprensorio delle attività sociali; è un diritto preciso di ogni classe di svolgere tali attività nel rispetto del proprio turno di promozione. La competenza, ossia il potere, di svolgere una determinata attività sociale appartiene globalmente alla classe, ma appartiene anche singolarmente e in ugual misura a ognuno dei membri della stessa. Le classi, pertanto, si distinguono tra loro gerarchicamente, ma sarebbe errato e fuorviante fermarsi a una constatazione del genere. Va, invece, notato come il diritto di percor;ere l'intero corso dei gradi e ad esercitare il potere proprio di ogni grado appartiene in ugual misura a ogni classe, senza distinzione, ovviamente secondo i ritmi cronologici che segnano i turni della promozione. In altre parole, le classi sono tra loro uguali almeno come soggetti di diritto potenziale, mentre i membri di una singola classe, essendo tra loro coetanei e pari, sono di fatto e non solo potenzialmente uguali. L'affermazione dei diritti delle singole classi avviene e si manifesta soprattutto nei tempi della promozione: tempo di tensioni, di conflitti e anche di prevaricazioni. Chi detiene un potere è restio a cederlo e chi vi aspira non cessa di reclamare il suo buon diritto. Lentamente, con tempi pur non tanto lunghi, la promozione si avvera. Si tenga presente che l'effettivo esercizio del potere, qualunque sia la sua forma ossia l'attività sociale interessata, avviene localmente: sono i rappresentanti locali della classe che applicano le loro competenze alle situazioni locali del momento. È in tal modo, ossia in relazione alle piccole comunità locali, che avviene la distribuzione del potere nei sistemi delle classi d'età, cosf come sono i consigli locali i luoghi in cui si esercita il potere decisionale: questi sono i consigli cui si applica il termine di governo diffuso con cui sono stati descritti i sistemi delle classi d'età e, piu genericamente, le società senza Stato. Raramente, se pur mai, una classe è visibile o si raduna nella totalità dei suoi membri. Se, pertanto, l'attività politica è globale e distributiva · a un tempo, è necessario tentare una definizione coerente del concetto

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di potere. Il potere delle classi d'età si distingue secondo i gradi in varie forme ed è sempre temporaneo: viene il momento in cui è dovere passare la mano alla classe juniore. Il potere dei sistemi delle classi d'età non ha quindi soltanto carattere distributivo, ma anche carattere di successione. Tuttavia, nell'ambito della propria competenza - definita dal grado occupato in un determinato periodo - il potere della classe e dei suoi membri è pienamente autonomo: è vero potere. Pertanto, sembra logico non applicare ai sistemi acefali delle classi d'età l'idea del potere come possibilità di piegare la volontà altrui alla propria, se necessario anche con la forza: un'eventualità del genere non viene presa in considerazione perché non appartiene all'ordine normale delle cose (gli eventuali casi di prevaricazione rafforzano la regola). Piu esatto sembra, invece, il definire il potere nelle società senza Stato, e in particolare nelle società acefale, dei sistemi delle classi d'età come la competenza legittima a, compiere un'attività sociale. Una definizione del genere non sembri troppo generica né troppo comprensiva. È vero che essa copre ogni tipo di attività sociale, ma con un limite qualificante, indicato, nella definizione, con l'espressione « competenza legittima». Non ogni tipo di attività sociale corrisponde a un potere, bensi solo quella che compete e che l'attore compie legittimamente, ossia a pieno titolo. Al di là di un tale limite vi è l'abuso; e l'abuso è condannato o, in ogni caso, considerato prevaricazione. Quando piu sopra ho posto la domanda sulle ambizioni nutrite dagli appartenenti alle società acefale, non facevo una domanda retorica ma mi riferivo all'esperienza raccolta tra le popolazioni dell'Africa orientale. Chiunque abbia vissuto in mezzo a queste popolazioni, o a popolazioni affini, sa bene quanto sia grande l'ambizione dei giovani adolescenti di essere riconosciuti adulti e, per questo scopo, di essere ammessi a passare la prova finale dell'iniziazione. Il salto sociale tra il non essere iniziato e l'essere iniziato è immenso, proprio come tra l'essere e il non essere. Si tratta effettivamente, non in semplici termini teorici ma con conseguenze sociali assai concrete e pratiche, di una vera nascita. Chi non è iniziato non ha personalità sociale; chi è iniziato ha la competenza di compiere azioni sociali socialmente valide e riconosciute. L'aberrazione di un non iniziato che mettesse incinta una ragazza è talmente grave da essere paragonata a un caso di incesto e, cioè, a una situazione del tutto illegittima. Non altrettanto grave è lo stes-

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so fatto causato da un giovane m1z1ato: illecito, per continuare nel linguaggio giuridico, ma non illegittimo.

5. Potere potenziale e potere effettivo La distinzione tra lecito e illegittimo impone un'altra considerazione: la competenza legittima di compiere attività sociali non implica necessariamente che uno sia autorizzato a compiere immediatamente ciò che radicalmente gli è riconosciuto legittimo. A tale proposito, ripropongo la distinzione tra potere potenziale e potere effettivo. La distinzione dei gradi d'età del sistema dei Masai, piu sopra riportata, serve a illustrare il concetto. Il giovane iniziato che viene reclutato in una classe otti~ne il potere potenziale di compiere legittimamente le attività sociali proprie degli adulti, ma non ne ottiene il potere effettivo se non in maniera graduale - gradualità indicata dai gradi d'età. Cosi, il giovane iniziato masai ottiene immediatamente il potere di portare le armi, ma non il potere di sposarsi né di mettere su casa per proprio conto né di attendere singolarmente a un proprio armento; ciò gli verrà concesso solo con la promozione della sua classe al secondo grado. In maniera ancora piu rigida la distinzione tra potere potenziale e potere effettivo si avvera nel sistema generazionale delle classi d'età dei Galla dell'Etiopia meridionale. Cosi, un giovane che abbia legittimamente contratto matrimonio non ottiene il potere di procreare figli immediatamente: solo con la promozione della sua classe al grado corrispondente otterrà il potere di procreare figli maschi, e solo con la promozione a un ulteriore grado gli verrà il potere di procreare figlie femmine. La rigidità della regola è tale che i figli nati fuori del tempo consentito dovevano essere abbandonati. In realtà, l'infanticidio è una delle aporie sociali piu gravi dell'antico sistema dèlle classi d'età dei Galla, cui solo recentemente si è tentato di porre rimedio introducendo l'adozione dei figli cosi condannati da parte di persone legittimate ad avere figli. Sembra pertanto evidente che nelle società acefale si debba riconoscere una concezione del potere del tutto singolare. Tra l'altro, si tenga presente che in tali società la gradazione del potere, definita dai gradi d'età, non rappresenta solo un limite restrit-

18 tivo, ma costituisce il meccanismo per la distribuzione e la successione del potere. Nessuna forma di potere ,è preclusa agli adulti che, con il reclutamento nelle classi d'età, ottengono la competenza legittima di compiere ogni attività sociale. Il potere non diventa l'appannaggio esclusivo di classi particolari né di persone singole. Viene il momento in cui quel dato potere deve essere passato alle classi che seguono e ai loro membri. L'accumulazione del potere non è consentita. E se avviene, come avviene, che la promozione di una classe al grado successivo sia ritardata, l'evenienza dà luogo a tensioni e conflitti e, in ogni caso, è considerata una prevaricazione offensiva del buon diritto. È questo il caso descritto da Paul Spencer in relazione ai Samburu del Kenya. Esso riguarda gli uomini sposati (i giovani anziani) che per accaparrarsi la possibilità di nuovi matrimoni poliginici, rimandano l'esecuzione dei riti che dovrebbero segnare la promozione dei giovani guerrieri al grado successivo che consente loro di contrarre, alfine, il matrimonio [Spencer, 1965]. In relazione alle società acefale il concetto di distribuzione del potere ha senso anche territoriale. Le società acefale, come tutte le società senza Stato, non sono centralizzate o, se si vuole, sono costituite da una molteplicità di piccoli centri che sono le comunità locali. Tali comunità sono completamente autonome, nel senso che i loro membri esercitano il potere effettivo secondo il grado occupato dalle classi di loro appartenenza. Le assemblee e i consigli delle comunità locali riflettono con trasparenza la struttura del sistema delle classi d'età. Ognuno conosce il posto che gli spetta: al centro stanno gli anziani del grado cui compete il potere decisionale; al loro fianco, con parità d'onore ma con superiorità di prestigio, siedono gli anziani del grado ultimo ;(se pur ve ne sono); nella fila posteriore seggono i giovani anziani {gli uomini sposati) e, dietro, i giovani militari. Per definire un sistema politico del genere in termini di governo, Lucy Mair lo chiamò « governo diffuso» [Mair, 1982]. Il termine è divenuto ormai di gergo. La diffusione si riferisce alla distribuzione locale del potere e al suo esercizio effettivo attraverso le assemblee e i consigli locali. Asmaron Legesse, in relazione ai Galla Boran dell'Etiopia, lo chiama « governo di comitato» [Legesse, 197 3]. La diffusione, come ho accennato, ha senso territoriale ma ha anche senso personale: il potere non solo non è cen-

19 tralizzato, ma appartiene, per gradi, a tutti attraverso il meccanismo delle classi d'età. Non toccherò, qui, il problema della posizione delle donne nei sistemi delle classi d'età. Mi limiterò a dire che la tendenza evidente di tali sistemi, anche di quelli sviluppatisi all'interno di società matrilineari, è patrilineare e che la posizione delle donne è parallela a quella che i loro uomini, mariti o figli, occupano nel sistema. Chi voglia approfondire l'argomento veda il capitolo relativo del mio lavoro sui sistemi delle classi d'età [Bernardi, 1984].

6. Punti fondamentali Per concludere vorrei riassumere in alcuni punti i concetti che ritengo fondamentali. Innanzitutto occorre affermare gli aspetti positivi delle società senza Stato e, in particolare, delle società acefale. Esse costituiscono un tipo singolare di ordinamenti politici tali da reggere con efficacia lo svolgimento ordinato delle relazioni sociali delle piu varie etnie. Secondo punto: la struttura di tali ordinamenti politici è varia e complessa; non solo presentano modelli diversi, ma all'interno di tali modelli le forme si diversificano e si complicano secondo prindpi di reclutamento e di funzionamento che non consentono affatto di parlare di tali società, semmai ci fosse ancora chi intendesse farlo, come di società semplici. Terzo punto: nelle società senza Stato e, piu specificamente, nelle società acefale il concetto di potere deve essere inteso in una prospettiva piu ampia e vasta per includere non solo la possibilità decisionale (piegare la volontà degli altri alla propria), ma la possibilità di compiere legittimamente ogni attività sociale. Quarto punto: il potere, in tali società, è distribuito territorialmente e personaimente; esso rappresenta un modo e un metodo di governo che appositamente è stato definito « governo diffuso». Aggiungerò infine che tali società, all'interno degli Stati moderni, tendono a rimanere marginali. Finché la loro marginalità viene rispettata, o per calcolo politico o per disinteresse amministrativo, esse conservano la propria caratteristica strutturale e politica e formano ordinamenti politici autonomi, incapsulati nella piu vasta entità statale.

20 Riferimenti bibliografici Bernardi B. (1984), I sistemi delle classi d'età. Ordinamenti sociali e politici fondati sull'età, Torino, Loescher, 1984. Dundas C. (1915), The organization and laws of some Bantu tribes in East Africa, in Journal of the Royal Anthropological Institute, n. 45, 1915. Evans Pritchard E.E. (1940), The Nuer. A description of the modes of livelihood and politica! institutions of a Nilotic people, Oxford, Clarendon Press, 1940. - (1975), I Nuer. Un'anarchia ordinata, Milano, Franco Angeli, 1975. Fortes M. (1945), The dynamics of clanship among the Tallensi. Being the first part of an analysis of the social structure of a Trans-Volta tribe, Oxford, Oxford University Press, 1945. - e Evans-Pritchard E.E. (1940) ed., African politica! systems, Oxford, Oxford University Press, 1940. Legesse A. (1973) Gada. Three approaches to the study of African society, New York, The Free Press, 1973. Mair L. (1962), Primitive government, Harmondsworth, Penguin Books, 1962. - (1982), Governo primitivo. I sistemi politici tradizionali nell'Africa orientale, Milano, Franco Angeli, 1982. Middleton J. e Tait D. (1958) ed., Tribes without rulers, London, International African Institute, 1958. Southall A., (1968), Stateless societies, in International Encyclopedia of Social Sciences, 1968. Spencer P. (1965), The Samburu. A studi of gerontocracy in a nomadic tribe, London, Routledge and Kegan Paul, 1965. 0

Pier Giorgio Solinas

Guerra e matrimonio

1. Senso del matrimonio, non senso della guerra È necessario spiegare anticipatamente, per quanto è possibile, la scelta dell'argomento cosi vagamente percepibile nel titolo di questo saggio. Il concetto di potere non comparirà, e con poco rilievo, che al termine di una discussione teorico-comparativa su oggetti e fenomeni che in apparenza sono di natura prepolitica o apolitica. L'ipotesi che verrà messa alla prova è la seguente: se l'ordine politico pertinente ai rapporti sociali di tipo «primitivo» possa essere estratto dall'analisi di istituti culturali, costumi, norme che non posseggono per proprio conto esplicite proprietà di potere. In realtà, dei due termini prescelti come tema della discussione, matrimonio e guerra, questo secondo sembra mettere in imbarazzo l'ipotesi appena formulata: è di cosi comune evidenza la relazione fra guerra e potere che non vale la pena impegnarsi a dimostrarla. Invece, nessun rapporto fondamentale sembra legare tra loro il potere e il matrimonio, anche se è chiaro che le istituzioni matrimoniali producono effetti di potere o, all'inverso, ricevono influssi dagli istituti del potere. Ci troviamo dunque di fronte a una prima disparità: mentre il potere non solo è implicato, ma sembra quasi indispensabile per rappresentare e per spiegare la condotta antagonistica violenta, per il matrimonio questo riferimento è superfluo e forse non molto fruttuoso. Come si cercherà di mostrare, tuttavia, si può fore una scelta d'analisi che isoli i due campi, quello dell'inimicizia armata e quello dell'alleanza matrimoniale, per considerarli in base al loro essere l'uno per l'altro, senza bisogno di presupporre una condizione politica logicamente antecedente.

22 Vi sono però altre « disparità » - continuiamo per ora a chiamarle in questo modo - che sembrano rafforzare la separazione di livello e di funzione tra le istituzioni matrimoniali e le istituzioni di guerra. Fra queste, una disparità di statuto scientifico merita di esser presa in esame. Noi sappiamo bene, o abbastanza bene, qual è l'oggetto del matrimonio: la riproduzione, il rinnovo della materia costitutiva di cui è fatta una società, e prima ancora una popolazione, gli uomini, le donne; sappiamo, o conveniamo, che la sua forma di funzionamento, lo scambio, opera essa stessa nel cuore della struttura sociale, costituisce in qualche modo il sodale. Non sa:ppiamo affatto, invee-:.:, qual è l'oggetto della guerra. Ci imbarazza moltissimo dover dire che questa condotta, o addirittura che questa istituzione, ha come scopo e oggetto il male e la distruzione in se stessi. Preferiamo invocare altre cause, altri oggetti; nonostante tutto non riusciamo a scoprire un motivo cosi convincente come quello che l'antropologia della parentela ha, almeno allo stato attuale, convenuto di poter attribuire alle istituzioni matrimoniali. Nessuno può oggi pretendere di sanare questa ignoranza, però vale la pena averne coscienza. Gli antropologi sono o sono stati molto piu interessati a spiegare perché i gruppi si sposano che non perché si combattono. Anzi a ben guardare non si chiedono « perché gli uomini si sposano», ma come lo fanno, con chi lo fanno. La prima domanda appare oggi poco interessante dal momento che, avendo ricevuto risposte ampiamente condivise, la natura dell'istituzione matrimoniale appare di cosi comune e palese evidenza da non richiedere di essere preliminarmente illustrata. Opposto il carattere del problema « guerra »: se pure si riesce a descrivere come e contro chi questa o quella tribu combatte, ci sembra di non capire veramente il perché, sebbene sia il problema che piu ci tormenta. Insomma, nel primo caso non abbiamo bisogno di trovare delle ragioni profonde perché quelle che l'istituzione rivela nel suo funzionamento sembrano sufficienti a spiegarla, nel secondo caso soffriamo dell'incapacità permanente a darci ragione di qualcosa che vediamo all'opera in ogni società. Piu la logica della guerra si ripete e si dispiega, piu la sua natura ci pare oscura. La guerra primitiva, incivile, politicamente dissennata, strategicamente irrazionale - questa l'immagine frequente nella trattatistica pre-antropologica, fra il Seicento e l'Ottocento - pare,

23 proprio a causa della sua impenetrabile insensatezza, non aver bisogno di motivi esterni a se stessa. L'antagonismo, e le tecniche di violenza che servono a esprimerlo, formano un complesso autosufficiente: visto che la guerra non è mossa da motivi di convenienza o di guadagno, che non si fa per conquistare, ma per vendetta, non si può cercare che nella violenza il motivo della violenza: « Le guerre che si fanno reciprocamente - cosi scrive a proposito degli indios del Brasile Pero Magalhaens nel sedicesimo secolo - non hanno per causa la differenza delle leggi e dei costumi, né motivo d'interesse: si battono perché in altri tempi un indiano sarà stato ucciso da un altro» 1 . Non diverso il commento che si può leggere nel Grande viaggio di Gabriel Sagard, una sessantina d'anni piu tardi, a proposito degli Uroni: « Non c'è quasi tribu che non abbia guerra o contesa con qualche altra non per lo scopo di possederne le terre e conquistarne il paese, ma per sterminarla, se è possibile, e per vendicarsi di qualche piccolo torto o affronto » 2• La persistenza del motivo, la guerra come auto-espansione della violenza parcellare, è riconoscibile ancora nell'Ottocento, per esempio in Letourneau. Anche qui non sono le ricchezze, e nemmeno la conquista di potenza a spiegare la guerra, ma le offese e le reazioni alle offese: « ma queste reazioni sono incessanti - aggiunge Letourneau - e il loro ripetersi finisce per creare nella mentalità dei primitivi il gusto, l'abitudine, il bisogno della guerra che cresce smisuratamente nel corso dell'evoluzione sociale» 3• Ma anche, molto piu recentemente, resoconti etnografici di sicura fondatezza scientifica, come quello di Klaus Friederich Koch sui Jalé dèlla Nuova Guinea, sottolineano l'autonomia della catena antagonistica di violenza di gruppo 4 • 1 P. Magalhaens de Gondavo, Historia da Provincia Sacta Cruz, Lisbona, 1576, cit. in G. Gliozzi (a cura di), La scoperta dei selvaggi, Milano, Principato, 1971, p. 41, nota l. 2 G. Sagard, Grande viaggio nel paese degli Urani 1623-1624, a cura di U. BiJscopo, Milano, Longanesi, 1972 (Panigi, 1632), p. 253. 3 C. Letourneau, La guerra nelle diverse razze umane, traduzione itai1iana e 1ntroduzione di Cado Lessona, Roma, Enri.co Voghem, 1897, p. 477. 4 K. Friederich Koch, War and peace in Jalém6. The management of conflict in Highland New Guinea, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1974, dove si legge, in sintetica ricapitolazione, la descrizione del mecoanÉsmo che fa proliferare le iniziative di guerra: « La caooa dell'attacco inizialè' è v,i!rtualmente sempre un ferimento o fucoisione di una pe!ISO!la nel corso di azionJ. di mppvesaglia » (p. 76).

24 2. Uccidersi o sposarsi

Non c'è dubbio che la differenza di statuto cognitivo che separa le due istituzioni dipenda anche da una diversa disponibilità della ricerca e dei ricercatori, piu propensi a studiare le forme in cui l'evidente si dispone e varia se stesso che a rischiare le loro energie nella sfera del non evidente, o di ciò che emana fenomeni conoscibili da una sorgente resistente all'ordinabilità. Tuttavia è chiaro che la diversa sensibilità dei ricercatori rispetto ai due temi non avrebbe senso se non esistessero, appunto, delle differenze in re fra l'un tipo di fenomeno e l'altro. Per esempio il carattere straordinario e instabile dell'impresa militare, sorta di festa dell'antagonismo, prodezza di brutalità e di valore, che si può fare solo una volta ogni tanto, richiede accumulo di forze e specializzazioni, in una specie di ipertensione sociale che sconvolge lucidamente, che espelle in intermittenza all'esterno il suo disordine. Di contro, la struttura della parentela per alleanza maritale si mantiene nella permanenza, nel ripetersi e rinnovarsi delle congiunzioni ordinate tra le parti normali della società, abbisogna di regolarità minuta, della uniforme distribuzione dei coniugii, in manzanca della quale, appunto, rischia di degradare nel conflitto interno, nell'antagonismo violento. Differenza nella sostanza e nell'oggetto, dunque, oltre che nell'attitudine della ricerca. Per riassumere questa prima differenza con una formula provvisoria si potrebbe dire che l'ordine costante delle strutture coniugali ha come suo opposto, ma anche come sua alterazione, il disordine o, piu precisamente, la perturbazione che i rapporti di guerra generano entro la struttura minuta e ripetitiva dei sistemi sociali quotidianamente rinnovati. La guerra sconvolge le famiglie, quelle di chi è aggredito ma anche quelle di coloro che sono attori dell'aggressione armata. La guerra estromette dal suo dominio il mondo femminile, disdegna la cultura domestica, teme il contatto contaminante con gli accoppiamenti regolamentati e istituzionali perché, se la logica dei rapporti militari tende a disgregare la solidarietà coniugale e familiare, vale pure l'inverso: l'ordine e l'amore familiari intaccano la resistenza e l'integrazione corporata delle comunità di guerrieri. È noto che nella gran parte delle culture melanesiane, dove i rapporti di violenza organizzata tra i gruppi dominano tradizional-

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mente la vita etnica, l'incompatibilità tra le due sfere (quella coniugale e quella bellica) si proietta nettamente nelle rappresentazioni mentali. Gli Enga della Nuova Guinea, guerrieri audaci e accaniti, secondo Lindenbaum 5, hanno paura del sesso anche nel matrimonio, come se la perdita di sperma diminuisse la vitalità e la forza maschile; la potenza aggressiva degli uomini e le loro energie riproduttive, alimentate da una stessa riserva biologica limitata, sembrano in concorrenza l'una con l'altra. Se gli uomini devono uccidere bisogna che evitino il piu possibile di contaminarsi con i rapporti matrimoniali e con tutto ciò che appartiene alla sfera riproduttiva, appunto per non perdere il loro vigore e il loro coraggio. Analogamente, secondo quanto riferisce Rappaport per un altro gruppo non lontano dal precedente, i Tsembaga, quando, in tempo di battaglia, i guerrieri si sono spalmati lo speciale unguento di guerra, il ringi, non possono toccare le donne né parlare con loro: « Le donne, e tutto ciò che esse hanno toccato, si dice che :è "freddo". L'avere contatti con loro spegnerebbe il fuoco che arde nella testa degli uomini. Viceversa, si dice che il contatto con gli uomini bollenti coprirebbe letteralmente di piaghe la pelle delle donne » 6 • L'inconciliabilità simbolica tra l'ambito dell'antagonismo armato e l'ambito dell'imparentamento armonico delle famiglie è cosi largamente attestato nei rituali militari da non richiedere ora altri esempi. Vi si ritrova, quasi in mille frammenti di specchio, quella grande alternativa politica che gli antropologi hanno spesso indicato come la grande scelta latente nei rapporti fra i gruppi, l'antitesi radicale tra due direzioni opposte che si offrono nell'incontro fra unità sociali distinte: distruggersi o congiungersi. La celebre sentenza di Tylor ne ha dato una formula tanto lapidaria quanto fortunata: « Piu volte ripetutamente nella storia del mondo è avvenuto che le tribu dei selvaggi si sono trovate di front