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Italian Pages 260 Year 2018
GIUSEPPE ZECCHINI
POLIBIO LA SOLITUDINE DELLO STORICO
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
GIUSEPPE ZECCHINI
Polibio. La solitudine dello storico
© Copyright 2018 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Marianna Dionigi, 57 - Roma Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore.
Giuseppe Zecchini Polibio. La solitudine dello storico. - Roma: «L’ERMA di BRETSCHNEIDER, 2018- .- v. ; 20 cm - p. 262 - Saggi di Storia Antica 41 ISBN CARTACEO: 978-88-913-1698-1 ISBN DIGITALE: 978-88-913-1701-8 CDD 930. 1. Polibio
Volume stampato con il contributo della linea di nanziamento D.3.1 2018 dell'Università Cattolica di Milano.
Sommario
Premessa ................................................................................... p.
VII
PARTE PRIMA
Metodologia I. II. III.
La storia non contemporanea ........................................... » La tradizione orale ........................................................... » Le lettere come documenti ................................................. »
1 13 31
PARTE SECONDA
Terre e popoli IV. V. VI. VII.
Teoria e prassi del viaggio ............................................... Il concetto di Europa ........................................................... Migrazioni e invasioni: il caso dei Celti............................. La diplomazia dei Greci e la diplomazia dei barbari .........
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41 65 77 87
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103 113 123 135 155 163
PARTE TERZA
Storia e scienza politica VIII. IX. X. XI. XII. XIII.
Sincronismi: Corinto e Numanzia ................................... Equivalenze: Annibale, Scipione, Filopemene ................ La corruzione in Grecia e a Roma ................................... Tra metus hostilis e nova sapientia .................................. Un potere incontrastato .................................................... La ‘costituzione’ romana: storia di un fraintendimento ...
Giuseppe Zecchini
VI
PARTE QUARTA
Fortuna XIV. All’interno de Il pensiero storico classico ....................... » XV. Il rapporto con la biograa: Plutarco ............................... » XVI. Fortuna antica e tardoantica di Polibio ............................ »
181 195 205
Bibliograa ............................................................................... »
219
INDICI Nomi di persona e divinità ........................................................ Luoghi geograci ...................................................................... Popoli, famiglie e dinastie......................................................... Autori moderni ..........................................................................
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237 243 247 249
Premessa
Gli studi su Polibio ricevettero un notevole impulso tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso grazie alla vastissima thèse di P.Pédech e al commento in tre volumi di F.W. Walbank1; a quest’ultimo si deve inoltre una serie di interventi, solo in apparenza minori e poi raccolti in volume, che si estendono per circa mezzo secolo sino ai primi anni del nuovo millennio2; se si aggiungono le monograe di G.A. Lehmann e di K.E. Petzold, le Rencontres della Fondation Hardt organizzate da E. Gabba e il saggio di D. Musti3, si deve concludere che quegli anni furono determinanti per approfondire la conoscenza dello storico di Megalopoli e giusticano anche il relativo silenzio del ventennio successivo4. Dopo il 2000 si registra invece una vivace ripresa degli studi polibiani ad opera di una nuova generazione di studiosi, sia italiani come J. Thornton, non a caso discepolo di D. Musti, sia francesi come E. Foulon, sia soprattutto anglosassoni, come C.B. Champion e D. Baro-
1 P. PÉDECH, La méthode historique de Polybe, Paris 1964; F.W. WALBANK, A Historical Commentary of Polybius, I-III, Oxford 1957-1979. 2 F.W. WALBANK, Selected Papers, Cambridge 1985; ID., Rome and the Hellenistic World, Cambridge 2002. 3 G.A. LEHMANN, Untersuchungen zur historischen Glaubwürdigkeit des Polybios, Münster1967; K.E. PETZOLD, Studien zur Methode des Polybios und zu ihrer historischen Auswertung, München 1969; E. GABBA (éd.), Polybe, Vandoeuvres-Genève 1974; D. MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli 1978. 4 Interrotto da J.L. FERRARY, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, Paris 1988.
VIII
Premessa
nowski5; anche iniziative editoriali e congressuali testimoniano questo rinnovato interesse6. Personalmente ho cominciato ad occuparmi di Polibio in forma sporadica dagli anni ’80 del XX secolo e poi, in forma più regolare, a partire da una conferenza tenuta a Vienna su invito di G. Dobesch e pubblicata nel 1995; ora ho deciso di raccogliere in questo volume i miei 16 contributi polibiani, per ripresentarli con i dovuti aggiornamenti bibliograci (che sono peraltro soggettivi e non aspirano ad alcuna sistematicità) e con l’opportuno indice dei nomi che ne faciliti la consultazione e superi la frammentarietà delle sedi originarie; in molti casi però (soprattutto per quanto riguarda i capitoli 5, 11, 13 e 16) essi sono stati ripensati e riscritti alla luce di nuove riessioni mie e altrui, mentre in tutti i casi ho proceduto a renderli omogenei7: spero che emerga così in modo chiaro e coe-
5 Dei numerosi contributi di J. THORNTON voglio menzionare qui soprattutto La costituzione mista in Polibio, in D. FELICE (a cura di), Governo misto, Napoli 2011, 67-118 e Polibio e l’imperialismo romano negli studi italiani di storiograa antica, MediterrAnt 17, 2014, 157-182; cfr. poi E. FOULON, Polybe et l’histoire universelle, in Histoire et historiographie dans l’antiquité, Paris 2001, 45-82 (nonché i numerosi altri contributi citati nella Bibliograa); C.B. CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’ Histories, Berkeley 2004; D. BARONOWSKI, Polybius and Roman Imperialism, Bristol 2011. Si aggiunga la sintesi di B. DREYER, Polybios, Hildesheim 2011. 6 Mi riferisco all’edizione italiana dell’opera completa di Polibio, uscita a Milano in 8 volumi dal 2001 al 2006 con introduzione di D. MUSTI, traduzione di M. MARI (et alii) e note di J. THORNTON, all’edizione inglese, uscita a Oxford-New York nel 2010 con introduzione e note di Br. MCGING e traduzione di R. WATERFIELD, al nuovo commento al I libro di Polibio di D.D. PHILLIPS uscito ad Ann Arbor nel 2016 e ai convegni organizzati a Leuven nel 2001(The Shadow of Polybius), i cui atti sono usciti nel 2005, a Liverpool nel 2007 (Polybius and his world: essays in memory of F.W. Walbank), i cui atti sono usciti nel 2013, e a Salonicco nel 2016 (Polybius and his legacy), i cui atti sono in corso di stampa. Si aggiunga Chr. SMITH-L.M. YARROW (eds.), Imperialism, Cultural Politics and Polybius, Oxford 2012, 17-110. 7 Le sedi e i titoli originari dei contributi sono i seguenti: Polibio e la storia non contemporanea, in P. DESIDERI-S. RODA-A. BIRASCHI (a cura di), Costruzione e uso del passato storico nella cultura antica, Alessandria 2007, 123-133. Polibio e la tradizione orale, in A. CASANOVA-P. DESIDERI (a cura di), Evento, racconto, scrittura nell’antichità classica, Firenze 2003, 123-141. Le lettere come documenti in Polibio, in A. BIRASCHI-P. DESIDERI-S. RODA-G. ZECCHINI (a cura di), L’uso dei documenti nella storiograa antica, Napoli 2003, 415-422. Teoria e prassi del viaggio in Polibio, in G. CAMASSA-S. FASCE (a cura di), Idea e realtà del viaggio, Genova 1991, 111-141. Polibio, la storiograa ellenistica e l’Europa, CISA XII, Milano 1986, 124-134. Migrazioni e invasioni in Polibio: il caso dei Celti, Serta Antiqua et Mediaevalia IX, Roma 2006, 165-173. Ambasciate e ambasciatori in Pólibio, in E. TORREGARAY-J. SANTOS YANGUAS (eds.), Diplomacia y autorrepresentación en la Roma antigua, Vitoria-Gasteiz 2005, 11-23.
Premessa
IX
rente il ‘mio’ Polibio, uno storico sospeso tra la ristrettezza di orizzonti della natia Arcadia e l’ampiezza dell’ecumene romana, tra l’ammirazione per i vincitori e il rammarico per i vinti, tra lo sforzo di comprendere una realtà tanto diversa e l’utopico tentativo di ellenizzarla. Dei molti colleghi, a cui debbo critiche, stimoli e suggerimenti, vorrei ringraziare qui in particolare P. Desideri, G. Schepens, Ph.A. Stadter e J.Thornton. All’amicizia di Andrea Giardina devo l’inserimento del volume in una prestigiosa collana, che ne aiuterà la diffusione e che mi auguro non ne venga danneggiata. GIUSEPPE ZECCHINI
Polibio tra Corinto e Numanzia, in J. SANTOS YANGUAS-E.TORREGARAY (eds.), Revisiones de Historia Antigua. IV: Polibio y la peninsula ibérica, Vitoria-Gasteiz 2003, 33-42. Polibio e i più grandi generali del suo tempo, Festschrift Dobesch, Wien 2004, 257-261 Polibio e la corruzione, RSA 36, 2006, 23-33. Polybios zwischen metus hostilis und noua sapientia, Tyche 10, 1995, 219-232. ਝįȡȚIJȠȢ in Polibio, in M. MARI-J. THORNTON (edd.), Parole in movimento, Studi ellenistici XXVII, Pisa 2013, 93-98. Polibio e la ‘costituzione’ romana: storia di un fraintendimento, in S. CAGNAZZI et alii (a cura di ), Scritti di storia per Mario Pani, Bari 2011, 525-535. Santo Mazzarino e Polibio, in Amethodos hyle. Il pensiero storico classico di Santo Mazzarino cinquant’anni dopo, Atti del convegno tenuto il 6-7 dicembre 2016 a Genova, in c.d.s. Polibio in Plutarco, in A. PEREZ JIMENEZ-FR. TITCHENER (eds.), Historical and Biographical Values of Plutarch’s Works. Studies Stadter, Malaga-Utah 2005, 513-522. Per la storia della fortuna di Polibio, in M. CASSIA et alii (a cura di) Pignora amicitiae. Studi di storia antica e di storiograa offerti a Mario Mazza, Acireale-Roma 2012, 203-216.
PARTE PRIMA
Metodologia
CAPITOLO I LA STORIA NON CONTEMPORANEA
Polibio è lo storico contemporaneo per eccellenza del mondo antico: non solo egli scrive di storia contemporanea, dal 220 al 146, un periodo che, prima di tutto, viene quasi a coincidere con l’arco della sua lunghissima vita, ma si mostra anche consapevole che questa scelta è la migliore, se non l’unica praticabile; infatti a XII,27, in occasione della sua ben nota polemica con Timeo, egli sostiene che non si può scrivere di storia consultando libri, come aveva fatto lo storico di Tauromenio, ma solo sulla base di ĮIJȠȥĮ e di ਕțȠ, cioè in sostanza sulla base delle testimonianze orali, che possono risalire al massimo a una /due generazioni precedenti; a IV,2 aveva già sottolineato che lì nivano le Memorie di Arato di Sicione e che da lì in poi si doveva ricorrere alla tradizione orale: come ho osservato altrove1, dalla superiorità riconosciuta alla tradizione orale consegue la necessità di scrivere di storia contemporanea. Quali idee avesse sul passato un autore così immerso nella contemporaneità è interrogativo certo stimolante, con cui si è misurato da par suo nel 1990 Frank Walbank2. Io non intendo qui riprendere tutti i temi trat-
1 G. ZECCHINI, Polibio e la tradizione orale, in A. CASANOVA-P. DESIDERI (a cura di), Evento, racconto, scrittura, Firenze 2003, 123-141 ( = cap. II). 2 F.W. WALBANK, Polybios‘ Sicht der Vergangenheit, Gymnasium 97, 1990, 15-30. Poco prima cfr. anche F. MILLAR, Polybius between Greece and Rome, in J.T. Koumoulides (ed.),
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La storia non contemporanea
tati dallo studioso inglese (in particolare l’applicazione al passato di categorie quali la IJȤȘ, l’inusso delle singole personalità, l’ਕȞĮțțȜȦıȚȢ e la mutevolezza del destino, l’İȝİIJȕȠȜȠȞ della ‘profezia’ di Demetrio Falereo a XXIX,21, come fattori operanti nella storia)3, bensì applicarmi solo a due quesiti: 1) quali conoscenze aveva Polibio del passato; 2) che cosa interessava a Polibio del passato. I. Riguardo al passato della Grecia Polibio doveva aver letto, oltre ad Omero, sia Erodoto, che pure non menziona mai, ma dal quale fu inuenzato più di quel che si può ritenere a prima vista, come è stato ben sottolineato di recente4, sia Tucidide, che menziona una volta sola5, ma di cui ha presente la lezione di metodo storico; l’autorità per eccellenza era comunque per lui rappresentata da Eforo6 e, per la grecità d’Occidente, da Timeo, storici con cui polemizza, ma che rispetta; la volontà di polemizzare con Timeo e i suoi interessi costituzionali lo portarono poi a consultare almeno talune ‘Costituzioni’ aristoteliche, segnatamente quelle dei Locresi, degli Spartani, dei Cretesi, dei Mantineesi, dei Cartaginesi, degli Ateniesi e dei Tebani7; a maggior ragione gli erano accessibili i principali autori di ‘Elleniche’ del IV secolo, Senofonte, Teopompo e Callistene8. Riguardo al passato di Roma egli conosceva certamente l’opera in greco di Q. Fabio Pittore, forse ulteriore produzione ellenofona (p.e. quella, da lui derisa, Greek Connections, Bloomington 1987, 1-18 = Rome, the Greek World and the East, Chapel Hill 2006, III, 91-105 e G.A. LEHMANN, The ‘Ancient’ Greek History in Polybios’Historiae, SCI 10, 1989/90, 66-77. 3 Sono rispettivamente i punti 2, 4 e 6 dello studio succitato. 4 K. CLARKE, Polybius and the Nature of late hellenistic Historiography, in J. SANTOSE. TORREGARAY (eds.), Polibio y la península ibérica, Vitoria-Gasteiz 2005, 69-87; BR. MC GING, Polybius and Herodotus, in CHR. SMITH-L.M. YARROW (eds.), Imperialism, Cultural Politics and Polybius, Oxford 2012, 33-49. 5 A VIII,11,3. Su Polibio e Tucidide cfr. da ultimo T. ROOD, Polybius, Thucydides and the rst Punic War e G. LONGLEY, Thucydides, Polybius and Human Nature, in SMITHYARROW, Imperialism, Cultural Politics and Polybius, 50-67 e 68-84 rispettivamente, e C. SCARDINO, Polybius and the fth century historiography, in N. MILTSIOS et alii (eds.), Polybius and his Legacy, Thessaloniki 2018, in c.d.s. 6 Polibio e Eforo: A. CHÁVEZ REINO, Les clairs-obscurs de l’Ephore de Polybe, in G. SCHEPENS-J. BOLLANSÉE (eds.), The Shadow of Polybius, Leuven 2005, 19-54; G. PARMEGGIANI, Polybius and the legacy of Fourth-Century Historiography, in N. MILTSIOS et alii (eds.), Polybius and his Legacy, Thessaloniki 2018, in c.d.s. 7 Locri: XII,5-11; Sparta, Creta, Mantinea, Cartagine, Atene, Tebe: VI,43 sqq. 8 Senofonte è noto a Polibio come personaggio storico (III,6) e a X,20,8 si cita una sua locuzione reperibile sia nell’Agesilao (1,26), sia nelle Elleniche (III,4,17). Su Teopompo in Polibio cfr. C. BEARZOT, Polibio e Teopompo: osservazioni di metodo e giudizio morale, in SCHEPENS-BOLLANSÉE (eds.), The Shadow of Polybius, 55-71. Su Callistene in Polibio cfr. L. PRANDI, Polibio e Callistene: una polemica non personale, ibid., 73-87.
Polibio. La solitudine dello storico
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di A. Postumio Albino) e, da un certo momento in poi, presumibilmente anche le coeve Origines di Catone9. In linea di principio Polibio era nelle condizioni per acquisire sul passato, anche il più lontano, un eccellente grado di informazione, in taluni casi persino di tipo documentario, come dimostrano la famosa indagine sui trattati romano-punici, oppure orale, come dimostrano i riferimenti a tradizioni di quel genere su Locri o su Iaso10; che poi ne avesse la volontà, è un altro discorso. Di là da alcuni accenni a personaggi ‘mitici’ come Eolo, Odisseo, Io e Giasone11, la cesura che divide la mitologia dalla storia sembra rappresentata, almeno nell’excursus sull’Acaia, dal ritorno degli Eraclidi12, secondo quindi uno schema di matrice eforea; successivamente Polibio si riferisce a più riprese e soprattutto nel VI libro alla costituzione di Licurgo, che gli appare la creazione politicamente più signicativa prima delle guerre persiane; della storia arcaica del Peloponneso gli sono ben presenti le guerre messeniche, simbolo della solidarietà degli Arcadi verso i Messeni risalente appunto a un lontano passato (IJȞ ʌȜĮȚ)13. Dell’espansione persiana prima dello scontro coi Greci è ricordato l’assedio di Gaza14, mentre le guerre persiane fungono da turning point nella storia solo perché segnano la ne dell’egemonia persiana e preparano il passaggio all’egemonia macedone, dopo la breve parentesi di Sparta15; inoltre Polibio sa che all’epoca Tebe medizzò e che tale ȝȘįȚıȝંȢ le fu rinfacciato sino all’età di Alessandro Magno16; inne sa che gli Ateniesi dovettero abbandonare la loro città, occupata da Serse, prima dello scontro navale di Salamina17. Atene dovette la sua grandezza non alla natura della sua costituzione, ma alla personalità, unica e eccezionale, di Temistocle18; Aristide e Pericle sono genericamente citati come esempi di virtù umana e politica in contrapposizione a Cleone e a Carete, così come Cleombroto è contrapposto per la sua lealtà verso gli alleati ad Agesilao, per cui Polibio nutre un’acuta antipatia19; Nicia è invece
9 Su Polibio e la storiograa romana cfr. D. MUSTI, Polibio e la storiograa romana arcaica, in E. GABBA (éd.), Polybe, Vandoeuvres-Génève 1974, 105-139. 10 Rispettivamente a XII,5-6 e XVI,12. 11 Eolo e Odisseo: XXXIV,2; Io: IV,43; Giasone: IV,39. 12 II,41,4. 13 IV,33,7. 14 XVI,22a. È l’assedio di Cambise nel 525. 15 I,2. 16 V,10 e IX,39. 17 XXXVIII,2. 18 VI,43-44. 19 IX,23,6-7.
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citato come esempio di rovinosa superstizione20: è possibile cogliere un’eco di Tucidide nel giudizio negativo su Cleone e su Nicia (a proposito del quale, se Polibio attinge a Tucidide, allora lo fa in modo riassuntivo e impreciso), ma resta il fatto che nella cursoria menzione di alcune individualità notevoli così nel bene (Temistocle, Aristide, Pericle) come nel male (Cleone, Carete, Nicia) si esaurisce quanto Polibio mostra di sapere sull’Atene classica21. Molto più ricco è il materiale di IV secolo, soprattutto a partire dalla battaglia di Leuttra. Prima di questa Polibio sa che ci fu l’egemonia spartana e che fu breve, pur se si dimostra assai incerto nel ssarne la data nale al 394 (battaglia di Cnido), al 386 (pace di Antalcida) o al 371 (battaglia di Leuttra)22; sa della lotta antipersiana in Asia prima di Antalcida, giacché cita Senofonte e Agesilao come ideali precursori della guerra panellenica progettata da Filippo II e attuata da Alessandro23; da Eforo trae la sequenza delle quattro battaglie di Cnido, che avrebbe fortemente compromesso il predominio di Sparta, di Salamina Cipria, di Leuttra e di Mantinea24; si riferisce agli inizi del IV secolo un’altra sequenza di cinque personaggi, Alessandro di Fere, Icrate in Egitto, Clearco nel Ponto, Bardilli d’Illiria e Chersoblepte di Tracia25, le cui imprese si intrecciano nelle opere storiograche coeve (l’allusione è quasi certamente a Teopompo) e costituiscono un esempio signicativo di una tecnica narrativa rispettosa solo dell’ordine cronologico e non anche dell’unità tematica; riguardo all’antica storia della sua patria, l’Acaia, egli è informato che, nito con Ogigo il periodo regio risalente sino al ritorno degli Eraclidi, si era costituita una federazione democratica di dodici città in un momento di certo anteriore alla battaglia di Leuttra, giacché ne facevano parte anche Oleno ed Elice, inghiottite dal mare in seguito allo tsunami del 37326. Leuttra è il primo turning point del IV secolo: essa ebbe per conseguenze da un lato la denitiva rinuncia di Sparta ad ogni pretesa egemonica, già peraltro ridimensionata a Cnido, dall’altro la rapida ascesa e la successiva decadenza della Beozia27: il breve sogno egemonico dei Beo20
IX,19. Si aggiunga solo a XXXVIII,2,6 il ricordo della distruzione delle Lunghe Mura imposta dagli Spartani alla ne della guerra del Peloponneso. 22 Rispettivamente I,2; VI,49; II,39,8. Cfr. in genere G. SCHEPENS, L’apogée de l’arché spartiate comme époque historique dans l’historiographie grecque au début du IV siècle av.J. Chr., Anc Soc 24, 1993, 89-117. 23 III,6. 24 XII,25f. 25 XXXVIII,6 (su Alessandro di Fere anche VIII,35,6-8). 26 II,41. 27 VIII,11 e XX,4-6. Cfr. CHR. MÜLLER, The Rise and Fall of the Beotians: Polybius 20.421
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ti, non certo dovuto alle qualità della loro costituzione, è tutto racchiuso nelle personalità di Pelopida e soprattutto di Epaminonda, che Polibio non esita a paragonare ad Annibale per talento militare28; dopo Leuttra gli Achei sarebbero intervenuti tra i due contendenti, persuadendoli ad un arbitrato29; Mantinea spegne drammaticamente questo sogno e, insieme, inaugura la fase postbeotica per tutti i popoli del Peloponneso, per esempio per Arcadi e Messeni e, in particolare, per i Megalopolitani compatrioti dello storico30. Cheronea è il secondo turning point: in dura contrapposizione con Demostene Polibio difende i Greci lomacedoni (Arcadi, Messeni, Argivi, Beoti e Tessali), poiché Filippo II esercitò la clemenza verso Atene dopo la vittoria, attuò la giustizia verso i Peloponnesiaci in occasione della sua discesa verso Sparta nel 338/337, si fece carico dell’eredità panellenica davanti alla Persia31; la sua grandezza e la sua nobiltà, a proposito delle quali è particolarmente aspra la polemica contro Teopompo32, giusticano appieno la scelta di campo lomacedone di molti Greci e specialmente degli Achei. Dell’Alessandro Magno conquistatore dell’Oriente sono ricordate la battaglia di Isso e l’assedio di Gaza33, così come cursoriamente, a proposito delle polemiche tolemaico-seleucidiche riguardo ai rispettivi diritti sulla Celesiria, si menziona Antigono Monoftalmo34, ma è l’Alessandro egemone della Grecia, su cui si concentra l’attenzione di Polibio, soprattutto l’Alessandro distruttore di Tebe35. Coerentemente, gli aspetti salienti del III secolo sono il periodo di crisi e discordie del țȠȚȞંȞ acheo tra il 323 e il 281/0, l’analisi di pregi e difetti dell’egemonia macedone nei due discorsi dell’etolo Clenea (qui un riferimento puntuale alla guerra lamiaca e alla vittoria di Antipatro) e dell’acarnano Licisco e la presenza dei Celti nel mondo greco, a Del sotto Brenno nel 279 e successivamente in Tracia36, a cui vanno aggiunte due notazioni, inattese, riguardo ad Atene, la difesa di Democare e, invece, la spiccata
7, in BR. GIBSON-TH. HARRISON, Polybius and his World. Essays in memory of F.W. Walbank, Oxford 2013, 267-278. 28 VI,43-44; su Pelopida anche VIII,35,6-8; su Epaminonda e Annibale IX,8. 29 II,39,8-10. 30 Mantinea: IX,8; Messeni e Arcadi: IV,33; Megalopolitani: IV,33,7-9. 31 Contro Demostene: XVIII,14; elogio di Filippo dopo Cheronea: V,10; guerra panellenica: III,6. 32 VIII,9-11. 33 A XII,17-22 e a XVI,22a rispettivamente; alla rievocazione di Isso è agganciato, a XII,23, il ricordo del rapporto tra Callistene e Alessandro, confrontato con quello tra Timeo e Timoleonte. 34 V,67. 35 V,10. 36 Achei: II,41; Clenea e Licisco: IX,28-39; Celti: IX,30,3 e IV,46.
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antipatia nei confronti di Euriclida e Micione, i fratelli, che guidarono la politica della città nel trentennio dopo il 24237. Le non scarse menzioni di eventi e personaggi della Grecità d’Occidente, soprattutto di tiranni (Falaride, Gelone, Dionisio I e II, Timoleonte e Agatocle)38, i riferimenti alla presenza dell’ateniese Eurimedonte in Sicilia durante la guerra del Peloponneso e del siracusano Ermocrate ad Egospotami39, inne la conoscenza di tradizioni locali di Locri Epizeri40 non devono stupire, perché sono prevalentemente concentrate nel libro XII all’interno della polemica con Timeo. In proporzione alla storia passata dell’Ellade Polibio sa e riporta materiali più ampi di storia romana, un argomento, di cui i suoi lettori greci conoscevano assai poco. Già a I,6 ci si imbatte in un primo excursus sulla storia romana dal 386, l’anno della catastrofe gallica per il noto sincronismo polibiano con la pace di Antalcida, al 264, segue a II,1435 una vasta digressione sulla Gallia Cisalpina e sulle vicende militari romano-galliche, a III,22-27 è inserito il summenzionato excursus sui trattati romano-cartaginesi, inne a VI,11a (purtroppo assai lacunoso) Polibio spiega la genesi della costituzione romana attraverso una rapida sintesi di storia dell’età regia; notazioni sparse e casuali (il rito dell’equus october da Timeo, la menzione di Orazio Coclite forse da una tradizione orale)41 completano questo quadro. II. Fin qui mi sono presso di raccogliere il materiale dall’età arcaica agli inizi del III secolo, che noi troviamo in Polibio e che rappresenta ciò che noi sapremmo della storia non contemporanea, se possedessimo solo Polibio; tale raccolta, che non mi sembra sia stata compiuta nora (Walbank nello studio citato alla nota 2 si era limitato ad alcuni esempi non sistematici), ha una sua utilità intrinseca, non fosse altro che per due motivi: l’evidente sporadicità dei riferimenti al passato storico della Grecia e l’evidente disparità di trattamento tra storia greca e storia romana,
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XII,13 e V,106 rispettivamente. Falaride: VII,7 e XII,25; Gelone: XII,25k e 26b; Dionisio I: I,6; II,39; XII,4a; XII,10; XII,24; XV,35; Dionisio II: XII,4a; Timoleonte: XII,23; XII,25; XII,25k; XII,26a; Agatocle: I,7; I,82; VII,2; VIII,10; IX,23; XII,15; XV,35. Cfr. C. BEARZOT, Polybius and the Tyrants of Syracuse, in N. MILTSIOS et alii (eds.), Polybius and his Legacy, Thessaloniki 2018 in c.d.s. 39 XII,25k. Sull’errore concernente Ermocrate, morto in realtà nel 407, cfr. F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, II, Oxford 1967, 401-2. 40 XII,5-12a. 41 XII,4b e VI,55 rispettivamente; a una tradizione orale su Orazio Coclite pensa J. THORNTON, Polibio. Storie, III, Milano 2002, 529. 38
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giacché Polibio ha gli strumenti per conoscere molto meglio la prima e rivela invece un interesse nettamente più spiccato per la seconda. Si tratta ora di rispondere al secondo quesito e di individuare, se possibile, un lo conduttore tra questi dati sparsi che ci permetta di capire che cosa veramente interessasse a Polibio della storia non contemporanea. Il punto di partenza obbligato è l’inizio del libro IX, laddove lo storico di Megalopoli introduce la celebre tripartizione tra storia mitica e genealogica, storia della colonizzazione e delle fondazioni di città e storia pragmatica, cioè politica; della prima si occupa la poesia epica e antichi autori di genealogie (il riferimento potrebbe essere a Ecateo e ad Acusilao), della seconda storici universali (il riferimento potrebbe essere ad Eforo e allora il discrimine cronologico con la precedente età mitica sarebbe rappresentato dal ritorno degli Eraclidi), della terza gli storici politici come Polibio stesso42. Da questa tripartizione non si ricava affatto che la storia pragmatica è storia solo contemporanea, anzi essa dovrebbe comprendere, come minimo, le guerre persiane e la guerra del Peloponneso, che avevano in due storici politici come Erodoto e Tucidide due testimoni primari di eccezionale valore. L’identicazione tra storia politica e storia contemporanea discende in realtà, come si è detto all’inizio di questo studio, dall’identicazione del fare storia con la sola tradizione orale e quindi dall’impossibilità di risalire all’indietro per più di una / due generazioni. D’altra parte per un uomo nato press’a poco verso il 200 risalire di una o due generazioni signicava risalire all’epoca, da cui effettivamente Polibio fa cominciare la ʌȡȠțĮIJĮıțİȣ della sua opera, il 264, anno iniziale della I guerra punica e anno terminale delle storie di Timeo, per l’Occidente, il 284/280 (= la CXXIV Olimpiade), quando vengono a morire i tre diadochi di Macedonia, Siria ed Egitto, Lisimaco, Seleuco I e Tolemeo I, e, insieme, si ricompone la lega achea, per la Grecia e l’Oriente. Allora, tra il ritorno degli Eraclidi o, almeno, le guerre persiane (490/478) e queste date iniziali della storia ‘contemporanea’, in uno spazio variabile dai sette ai due secoli ca., si possono inserire altre date signicative per Polibio ? Della storia arcaica egli ha una visuale limitata al Peloponneso: periodo monarchico del țȠȚȞ acheo da Tisameno a Ogigo, costituzione spartana di Licurgo, guerre messeniche (valutate in prospettiva messenica, ovvia-
42 Su IX,1-2 cfr. le analisi di WALBANK, Polybios’ Sicht der Vergangenheit, pp. 21-23 e soprattutto di E. FOULON, Polybe et la question d’une histoire des origines, in V. FROMENTIN-S. GOTTELAND (éds.), Origines gentium, Paris 2001 271-283; ID., Polybe et l’histoire universelle, in Histoire et historiographie dans l’antiquité, Paris 2001, 45-82, specialmente pp. 52-57.
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mente). Del mondo greco extrapeloponnesiaco, p.e. del mondo ionico, non interessa nulla e di Atene nella sua ora più bella si ammette solo, quasi a malincuore, che dovette tutto al genio di Temistocle, non certo a motivi per così dire strutturali inerenti alla sua costituzione democratica e quindi alla saggezza politica del popolo. Ancor più clamorosamente, nell’elencare a 1,2, in apertura dell’opera, le egemonie precedenti quella romana, Polibio parla solo di Persia, Sparta e Macedonia, non riconoscendo dunque nessun periodo di predominio ateniese: il silenzio sulla I lega delio-attica, cioè di fatto sulla pentecontetía tucididea, non può essere dovuto a ignoranza, bensì a un pregiudizio antiateniese così pronunciato da voler negare la realtà43. D’altra parte, se Atene piange, Sparta non ride presso Polibio: per la grande vittoria nella guerra del Peloponneso c’è fredda indifferenza, in particolare quando gli capita di menzionare cursoriamente Egospotami; anche la sua egemonia, già in crisi nel 394 e denitivamente tramontata nel 371, viene ridimensionata: colpisce soprattutto il duro giudizio sulla pace di Antalcida, con cui gli Spartani tradirono gli altri Greci, divennero dipendenti dal denaro del Gran Re e trasformarono la loro egemonia in įȣȞĮıIJİĮ; inne il maggior generale spartano nella prima metà del IV secolo, Agesilao, indubbio protagonista delle operazioni antipersiane in Asia, è menzionato solo due volte e in un caso solo per contrapporlo a Cleombroto in un confronto del tutto negativo. Il disinteresse di Polibio per la storia della rivalità tra Atene e Sparta, vero motore di tutta la storia greca nell’età classica della ʌંȜȚȢ, è inequivocabilmente confermato da una sua perentoria affermazione a VIII,11,3, a cui non si è dato sinora tutta l’importanza, che, a mio avviso, merita: mi riferisco al giudizio sugli anni di Leuttra ritenuti i più illustri dell’intera storia ellenica (IJȠȢ ȁİȣțIJȡȚțȠȢ țĮȚȡȠȢ țĮ IJȠȢ ਥʌȚijĮȞİıIJIJȠȚȢ IJȞ ਬȜȜȘȞȚțȞ ȡȖȦȞ). Qui, in radicale polemica con Teopompo, Polibio condanna la decisione di interrompere le Elleniche e di passare a scrivere le Filippiche nel momento, appunto gli anni intorno a Leuttra, in cui la storia ellenica si fa più interessante; di solito si legge questo giudizio come una prova dell’incapacità polibiana di apprezzare la grande intuizione di Teopompo, secondo la quale non più le ʌંȜİȚȢ, ma i re macedoni e Filippo II in particolare erano divenuti i protagonisti della storia greca44;
43 Concordo qui con A. MOMIGLIANO, The Origins of Universal History, ASNP 3,12, 1982, 533-560. Status quaestionis e altre opinioni in J. THORNTON, Polibio. Storie, I, Milano 2001, 580. Da ultimo B. DREYER, Polybios, Hildesheim 2011, 70-71 rileva il pregiudizio antiateniese di Polibio. 44 Da ultimo cfr. M.A. FLOWER, Theopompus of Chios: History and Rhetoric in the Fourth Century B.C., Oxford 1994, 98 sgg. (ove bibliograa precedente); PARMEGGIANI, Polybius and the legacy of Fourth-Century Historiography, cit. alla nota 6.
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in realtà, per Polibio la precedente storia caratterizzata dalle città-stato era così poco interessante che non valeva la pena di occuparsene, mentre la ‘svolta’ di Leuttra introduce alla storia greca vera e propria, di cui sono protagonisti Filippo II e i țȠȚȞ etnici come quello acheo: a suo avviso, quindi, Teopompo avrebbe dovuto scrivere Elleniche non come seguito di Tucidide a partire dal 411, ma a partire dal 371, e tale critica appare corretta ‘dal punto di vista di Polibio’. In effetti, stando a Polibio, il țȠȚȞંȞ acheo, già vigente prima di Leuttra e ridotto da 12 a 10 città in seguito allo tsunami del 373, ebbe la forza e il prestigio per imporre un arbitrato a Tebani e Spartani dopo Leuttra, ergendosi così a terzo elemento di un delicato equilibrio politico; gli anni successivi videro un’egemonia tebana precaria ed efmera in quanto fondata solo sulle qualità eccezionali di Pelopida e soprattutto di Epaminonda, non su un’intrinseca e durevole superiorità costituzionale: da un punto di vista beotico Leuttra fu, in un certo senso, la gloriosa causa della successiva decadenza, come Polibio non manca di sottolineare45; in questi stessi anni si situa però anche la fondazione (il sinecismo, come lo denisce Polibio) di Megalopoli, la città arcade sua patria, che lo storico ricorda, sia pur senza particolare enfasi, all’interno di un excursus sui rapporti tra Arcadi e Messeni46. Allora la ‘svolta’ di Leuttra è tale per i Beoti e i Peloponnesiaci, in particolare Sparta e gli Achei; si noti a proposito di questi ultimi che Polibio presenta il loro țȠȚȞંȞ come già attivo e prestigioso prima e in occasione di Leuttra, quindi come un’entità politica antica, prima monarchica, poi democratica, di cui la lega del 281/0 sarebbe solo un ampliamento ispirato ai medesimi ideali, e che egli può compiere questa operazione di Rückprojezierung solo in quanto non esisteva una precedente storiograa achea in grado di smentirlo, ma solo tradizioni orali, parzialmente conuite agli inizi del III secolo nell’epos di Riano di Bene47: il passato, che più stava a cuore a Polibio, cioè il passato acheo non si poteva indagare in assenza di tradizione storica scritta, ma si poteva inventare a imitazione e a maggior gloria del presente. La seconda data signicativa del IV secolo, la seconda ‘svolta’, è
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A XX,4-6. IV,33,7. Indubbiamente colpisce la mancanza di una digressione riguardante la fondazione della sua patria, Megalopoli, pur se non si deve dimenticare che non possediamo il testo completo di Polibio. Su tale sinecismo cfr. in genere M. MOGGI, Il sinecismo di Megalopoli, ASNP 3,4, 1974, 71-107. 47 F. JACOBY, FrGrHist III b Komm, Leiden 1955 = 1969, 1-3 (i due unici storici dell’Acaia a noi noti, Autocrate e Autesione, n° 297 e 298 J., sembrerebbero coevi a Polibio). Sul koivóv acaico in genere cfr. ora M. MOGGI, Sulle origini della lega achea, in E. GRECO (a cura di), Gli Achei e l’identità etnica degli Achei d’Occidente, Paestum-Atene 2002, 117-132. 46
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certamente la battaglia di Cheronea del 338: Polibio ricorda che da qui prese avvio la grande guerra antipersiana e panellenica progettata da Filippo II e poi attuata da Alessandro, ma di nuovo l’importanza del 338 non è per lui tanto in questa prospettiva quanto in quella peloponnesiaca della discesa di Filippo e del ridimensionamento di Sparta a vantaggio di Arcadi, Messeni ed Argivi (oltre che di Beoti e Tessali al di fuori del Peloponneso). In perfetta coerenza egli enfatizza poi di Alessandro solo la distruzione di Tebe e, tra i diadochi e gli epigoni, dà spazio solo agli Antigonidi, celebrati nel discorso di Licisco come i veri benefattori della Grecia nel III secolo, in quanto alleati degli Achei contro la Sparta di Cleomene III; inne, il crinale tra storia passata e storia per così dire preparatoria a quella effettivamente contemporanea è ssato da Polibio al 284/0, al sincronismo tra morte di tre diadochi e fondazione, nel 281/0, della lega achea. Non c’è storia greca per Polibio all’infuori della penisola ellenica: il disinteresse per le altre monarchie ellenistiche è assoluto e l’apparente interesse per i tiranni d’Occidente è dettato in realtà, come ho già osservato sopra, dalle esigenze della polemica storiograca contro Timeo. In tre date, 371, 338 e 281/0, si può quindi sintetizzare l’interesse di Polibio per il passato della Grecia: esso assume valore ai suoi occhi da quando la scontta di Sparta permette all’egemonia beotica di estendersi al Peloponneso e a Epaminonda di fondare Megalopoli, premessa per la costituzione della lega achea. Il suo punto di vista è così quello, assai ristretto nel tempo (novant’anni dal 371 al 281) e nello spazio (Peloponneso più, della Grecia centrale, la sola Beozia proprio grazie ai meriti acquisiti nel Peloponneso contro Sparta), del Lokalhistoriker: in effetti egli è il primo storico di una regione, che era rimasta a lungo ai margini della storia greca, nonché uno storico convinto che la sua terra fosse il cuore dell’Ellade e perciò incapace di interessarsi e di capire qualsiasi fenomeno politico del passato, che non avesse coinvolto la sua patria. Questa patria è, al tempo stesso, l’Arcadia e la lega achea: dell’Arcadia egli sottolinea l’onestà e la gentilezza dei costumi, risalenti a un passato remoto e indeterminato48, con evidente esagerazione denisce il popolo arcade il più grande del Peloponneso, anzi dell’Ellade tutta, insieme con lo spartano49, ma sul piano politico-costituzionale riserva il suo apprezzamento e il suo coinvolgimento emotivo alla lega achea: l’arcade Polibio si sentiva perfettamente integrato come membro di tale lega. Del tutto diverso è invece l’atteggiamento di Polibio di fronte al pas-
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IV,20-21. IV,32,3.
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sato nella storia romana. Nel VI libro egli parte dall’assunto che l’egemonia romana, a differenza di quella beotica o della vittoria persiana di Atene, non dipende da eccezionali, ma efmere personalità (Epaminonda, Temistocle), bensì dalla superiorità strutturale della sua costituzione; illustrare ai suoi conterranei greci le mirabili caratteristiche di questa costituzione implica anche una ricostruzione del suo sviluppo sin dalle origini, peraltro sul ben collaudato modello delle Costituzioni aristoteliche; perciò nel VI libro, in una sezione purtroppo assai lacunosa, trovano spazio il mito delle origini di Roma, in cui svolgeva un ruolo non irrilevante l’arcade Evandro, la sua fondazione nel 751/0, il regno di Numa, l’arrivo di Lucio, glio di Demarato di Corinto, e la sua successione ad Anco Marcio col nome di L. Tarquinio Prisco. La successiva storia interna di Roma viene fatta coincidere con la descrizione della sua costituzione, delle magistrature e delle loro competenze, e con la descrizione del suo esercito, delle modalità di reclutamento, di schieramento, di accampamento e, inne, della sua disciplina. Se il VI libro è per eccellenza il libro dedicato al passato di Roma e alle sue strutture istituzionali, anche la storia esterna, più legata al dato evenemenziale, non è trascurata, anzi, è articolata in tre excursus nei primi tre libri, I,6 sulla conquista dell’Italia dopo la catastrofe gallica50 e no alla presa di Taranto, II,14-35 sulle guerre galliche sino alla conquista della Gallia Cisalpina nel 226-220, III,22-27 sui rapporti diplomatici con Cartagine sin dal I trattato del 509; unite insieme, queste tre digressioni ripercorrono il medesimo periodo (i secoli IV e III, in sostanza) secondo tre loni tematici diversi, ma paralleli e perfettamente integrati tra loro no a darci un quadro abbastanza completo e soddisfacente dell’espansione e della politica estera romana. Dai materiali romani presenti in Polibio emerge la curiosità dello storico, che, pur di fronte a una ricostruzione degli eventi certo non facile (basti pensare all’indagine sul I trattato romano-punico), non rinuncia a ricostruire per il proprio pubblico greco una storia ancora sconosciuta, ma divenuta all’improvviso importantissima, data la sopraggiunta egemonia romana, e quindi tanto più meritevole di essere rivelata: la storia di Roma è per Polibio una grande scoperta storiograca, così come la scoperta dell’Occidente celtico, iberico e africano, a cui egli dedica il libro XXXIV, è una altrettanto grande scoperta etnogeograca51. In ultima analisi, se noi avessimo solo Polibio tra tutti gli storici dell’antichità,
50 L’importanza della catastrofe gallica come cesura cronologica per Polibio è giustamente sottolineata da FOULON, Polybe et l’histoire universelle, 57. 51 Sul XXXIV libro di Polibio cfr. da ultimo G. ZECCHINI, Teoria e prassi del viaggio in Polibio, in Idea e realtà del viaggio nel mondo antico, Genova 1991, 111-141 ( = cap. IV).
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saremmo in grado di cogliere, sia pure a grandi linee, la storia romana come un coerente continuum, mentre avremmo solo notizie sparse e isolate, non contestualizzate e quindi del tutto incomprensibili per quanto riguarda la storia greca arcaica e classica, sino a tutto il IV secolo compreso. Alla domanda, che mi ero posto all’inizio, su ‘che cosa interessava a Polibio del passato’ credo in conclusione che si possa rispondere così: egli era interessato al passato, peraltro assai nebuloso, della sua patria, termine sotto il quale si può intendere indifferentemente Megalopoli, l’Arcadia e la lega achea, e al passato di Roma, superpotenza mondiale da lui sinceramente ammirata, in una prospettiva che è, insieme, provinciale e audacemente innovativa e nella quale comunque non c’è più spazio per la Grecità delle ʌંȜİȚȢ, di Erodoto, Tucidide e Senofonte: con Polibio la Grecia classica esce dalla storia52.
52 Considerazioni parzialmente analoghe in FOULON, Polybe et l’histoire universelle, 75-79: nonostante la distribuzione del materiale delle Storie in due spirali ruotanti rispettivamente intorno all’Acaia / Macedonia e a Roma e nonostante lo spazio doppio riservato alle vicende greco-orientali rispetto a quelle romano-occidentali, l’opera di Polibio non è una storia universale, ma la storia di come Roma (a differenza degli imperi precedenti quali la Persia e la Macedonia) ha sottomesso la Grecia. Perciò, aggiungerei, interessa a Polibio più il passato di Roma che quello della Grecia stessa: quello, non questo, costituisce il background delle Storie. Invece MILLAR, Polybius between Greece and Rome, cit. alla nota 2 riconosce il disinteresse di Polibio per la storia arcaica, ma ritiene che dalle guerre persiane in poi la libertà delle città greche (inclusi gli stati federali) sia centrale per i suoi interessi di storico; anche LEHMANN, The Ancient’ Greek History in Polybios’Historiae, sempre cit. alla nota 2 vede in Polibio un atteggiamento più equilibrato e convenzionale (nessun disinteresse per la storia ellenica del V e IV secolo, ma ammirazione per Sparta arcaica e per l’Atene delle guerre persiane, ostilità per le ambizioni egemoniche di entrambe, nonché forte accentuazione per il ruolo beneco di Filippo II, modello di ogni futura egemonia, anche di quella romana).
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CAPITOLO II LA TRADIZIONE ORALE
Il titolo di questo capitolo può sembrare al tempo stesso presuntuoso e inutile: presuntuoso perché l’argomento è vastissimo e viene quasi a coincidere con il metodo storico di Polibio, inutile perché Polibio stesso ci ha fornito a riguardo indicazioni molto chiare e inequivocabili: a IV,2 egli sottolinea che sin lì arrivavano le Memorie di Arato, sua fonte-guida per gli avvenimenti precedenti e che da lì in poi vigeva la tradizione orale concernente quella che era ormai storia contemporanea; a XII,27 egli accusa Timeo di essersi limitato alla lettura di fonti scritte e di aver trascurato i due criteri fondamentali della ricerca storica, l’ȥȚȢ e l' ਕțȠ, mentre proprio la ʌȠȜȣʌȡĮȖȝȠıȞȘ, l’attività personale di chi interroga e s’informa, va privilegiata; anche nel libro geograco, il XXXIV, questa volta in polemica con Pitea, egli ribadisce a 5,5 la validità di questi due criteri, pur aggiungendo che il Massaliota ne fece cattivo uso a causa della sua imperizia. Dunque per Polibio storia contemporanea e tradizione orale sono legate da un nesso inscindibile: la prima si ricostruisce in base alla seconda, la seconda trova nella prima il campo di sua quasi esclusiva competenza. La critica moderna ha preso atto di affermazioni così impegnative e vincolanti e ne ha fatto talvolta addirittura il piedistallo per le proprie indagini: esemplare è il caso del Pédech, per il quale Polibio privilegiò sempre i testimoni oculari, gli esuli greci incontrati a Roma per gli eventi tra il 220 e il 190, la sua stessa esperienza per gli eventi successivi a
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questa data (quando Polibio doveva avere press’a poco diciotto anni), viaggiatori e ambasciatori a Roma e suoi conoscenti romani (M. Porcio Catone, C. Lelio, M. Emilio Lepido, Ti.Sempronio Gracco); al contrario egli non avrebbe consultato gli archivi della lega achea, perché era a Roma e non in Acaia durante la stesura della prima parte delle Storie (168-150 ca.), e neppure per la dettagliatissima narrazione (XV,25-36) di un evento lontano come le vicende di Agatocle egizio egli si sarebbe servito di fonti scritte; solo dietro la riproduzione di discorsi di uomini politici greci ci potrebbero essere in taluni casi le copie scritte e circolanti dei discorsi stessi1. D’altra parte Polibio vive in un mondo ormai abituato a privilegiare la scrittura e ad afdarle ogni tipo di messaggio: egli stesso ricorda sempre, con un po’ monotona insistenza, che ogni contatto politico, ogni trattativa diplomatica, ogni trasmissione di ordini avveniva tramite lettere2, che la consultazione della documentazione scritta disponibile, p.e. negli archivi della lega achea, era prassi regolare della vita politica3, che persino in punto di morte un navarca rodio si sentiva in dovere di redigere un rapporto scritto sulla battaglia appena conclusa da depositare nel pritaneo della sua patria4. Un’indagine, da me coordinata nel quadro di una più ampia ricerca ideata da Paolo Desideri, ha indagato l’uso dei documenti scritti da parte di Polibio5 e mi è stato osservato che i risultati raggiunti sono stati forse troppo severi nei confronti dello storico di Megalopoli, nel senso che si è cercato di restringere tale uso ai soli casi inequivocabili e si è assunta in genere una posizione di grande cautela, se non di scetticismo, in tutti gli altri; tuttavia, resta innegabile la gran-
1 P. PÉDECH, La méthode historique de Polybe, Paris 1964, 260-276 e 359-372. Più prudente F.W. WALBANK, Polybius, Berkeley-Los Angeles 1972, 74-84 e già il classico M. GELZER, Über die Arbeitsweise des Polybius, SBAW Heidelberg 1956, 5-25 = Kleine Schriften, Wiesbaden 1964, III, 161-190. 2 IV,26 è il primo capitolo, in cui Polibio inaugura la prassi, abituale nel corso dell’opera, di riferirsi a documenti epistolari. Su questo tipo di documentazione nel nostro storico cfr. G. ZECCHINI, Le lettere come documenti in Polibio, in L’uso dei documenti nella storiograa antica, Napoli 2003, 415-422 ( = cap. III). 3 IV,25 è il primo esempio di riferimento a documenti scritti achei; anche questa è prassi abituale per il Megalopolitano. 4 XVI,9,1. 5 Cfr. L. PRANDI, Tre riessioni sull’uso dei documenti scritti in Polibio, 373-390, M.T. SCHETTINO, Documenti diplomatici scritti e documenti militari non scritti nel Polibio «romano», 391-411 e ZECCHINI, Le lettere come documenti in Polibio, 415-422 nel volume cit. supra alla nota 2. In seguito cfr. B. DREYER, Polybios, Hildesheim 2011, 103-120 e M.T. SCHETTINO, Polybe et les actes ofciels du Sénat romain, in A. BALBO et alii (edd.), Rappresentazione e uso dei senatus consulta nelle fonti letterarie della repubblica e del primo principato, Stuttgart 2018, 13-35.
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de attenzione rivelata da Polibio nei confronti dei documenti scritti, del loro reperimento e del loro impiego come prove all’interno della ricerca storica. Allora in questa sede mi propongo di riesaminare il rapporto tra Polibio e la tradizione orale alla luce dell’importanza della tradizione scritta per il suo tempo e per lui in particolare; questo riesame si fonda sul presupposto che la totale e perfetta coerenza tra le affermazioni teoriche e programmatiche di Polibio sopra citate e la sua prassi storiograca non sia affatto scontata, ma sia anzi da vericare caso per caso. In primo luogo la netta distinzione, posta a IV,2, tra l’uso di fonti orali per la storia contemporanea e l’uso di fonti scritte per la storia passata non mi pare sempre rispettata neanche in questo secondo caso. Certo, Polibio si rende conto che sul passato così come sui luoghi inesplorati è facile narrare favole, orali o scritte che siano, come fanno mercanti e naviganti verso il Nordeuropa (III,38) o il mar Nero (IV,42), oppure ignorare punti fondamentali della propria storia per mancanza d’interesse o decit di memoria, come capita a Romani e Cartaginesi riguardo ai reciproci trattati (III,26); tuttavia non è detto che una fonte scritta e per di più coeva agli eventi come Filarco per Cleomene III (II,56-63) o Q. Fabio Pittore per lo scoppio della II guerra punica (III,9) sia automaticamente credibile, anzi Polibio ha buon gioco nell’utilizzare tradizioni locali megalopolitane, quasi certamente orali, per criticare Filarco6 e integrare poi la narrazione della battaglia di Sellasia (a II,68,1-2 il riferimento più esplicito a racconti orali) oppure tradizioni orali locresi, da lui raccolte (XII,5-6: ੂıIJȠȡĮ...ʌĮȡįȚįȠIJȠ), per criticare Timeo; di nuovo una tradizione orale achea può aver indotto Polibio a ricordare il nobile comportamento del suo compatriota Alessone al servizio dei Cartaginesi durante la I guerra punica (I,43) e ad arricchire così la versione a lui ben nota di Filino7. D’altra parte sul passato più remoto, se non addirittura mitico, la memoria, e dunque un sapere tramandato oralmente e quasi inconsapevolmente8, può fornire materiale allo storico: sulla prei-
6 Sul ben noto rapporto critico di Polibio verso Filarco, di cui non ritengo di dovermi occupare in questa sede, cfr. G. SCHEPENS, Polybius’ criticism of Phylarchus, in ID.-J. BOLLANSÉ (eds.), The Shadow of Polybius, Leuven 2005,141-164, E. FOULON, Histoire et tragédie chez Polybe, in D. AUGER, J. PEIGNEY (éds.), Phileuripidès. Mélanges offerts à François Jouan, Paris 2008, 687-701, J. MARINCOLA, Polybius, Phylarchus and ‘Tragic History’. A Reconsideration, in B. GIBSON-TH. HARRISON (eds.), Polybius and his world: essays in memory of F.W. Walbank, Oxford 2013, 73-90 e F. LANDUCCI, BNJ Phylarchos (81 T 3) [2017]. 7 Diversamente R. SCUDERI, Filino di Agrigento, in R. VATTUONE (a cura di), Storici greci d’Occidente, Bologna 2002, 275-299, per cui l’episodio di Alessone era già nello storico agrigentino. 8 WALBANK, Polybius, 32, rilevando la scarsa cultura generale di Polibio, allude a un commonplace-book, che è ipotesi plausibile, ma non necessaria e non muta in ogni caso la sostanza di quanto osservo nel testo.
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storia acaica le imprecisate tradizioni, a cui Polibio si rifà a II,41 e a IV,1, sono presumibilmente orali; locuzioni come ‘chi non sa’ (IJȢ Ƞț Ƞੇįİ), ‘chi non conosce’ ( IJȢ ȠȤ ੂıIJંȡȘțİȞ) , con cui è introdotto il breve excursus di VI,49 su Sparta e le guerre messeniche, paiono rinviare a conoscenze diffuse, a una ‘fama’ tramandata oralmente; di tal genere sono i racconti su Serse e il ponte sullo stretto dei Dardanelli (un episodio così noto che non era necessario consultare Erodoto per citarlo) a IV,43, sul mito di Io sempre a IV,43 e su quello di Eracle e Dime a IV,59, le memorie degli abitanti di Ecbatana concernenti i tempi della dominazione persiana a X,28,3-4, il ricordo della guerra tessalo-focese del VI secolo a.C. a XVI,32; tali sono inne gli exempla addotti nel corso del VI libro, a 54-55 (L. Giunio Bruto, T. Manlio Torquato e Orazio Coclite), che Polibio dovette apprendere dalla viva voce dei suoi amici romani, in quanto elementi della comune cultura di un popolo. A questo proposito è interessante la discussione polibiana di XVI,12 riguardo a Iaso9, alle antiche tradizioni sulla sua fondazione e a quelle più recenti, orali e scritte, su alcuni mirabilia collegati a tale città e ritenuti dal nostro storico del tutto incredibili: la sua critica verte infatti sui mirabilia, che vengono ancora divulgati e che certi storici, segnatamente Teopompo10, vorrebbero avallare con la loro autorità, non sull’antico mito di fondazione, che è registrato senza commento. Se ci spostiamo sul terreno della storia contemporanea, dobbiamo innanzitutto distinguerla in due fasi, la prima tra il 220 e il 190 e la seconda tra il 190 ca. e il 146: nella prima si deve escludere per ovvi motivi cronologici l’autopsia polibiana e si deve quindi considerare sempre una tradizione orale secondaria, dipendente dagli informatori di Polibio più anziani di lui, nella seconda invece l’autopsia svolge un ruolo crescente. A questa bipartizione, però, se ne afanca, a mio avviso, un’altra, non meno signicativa, tra gli anni 220-168 e gli anni 168-146. Sino al 168 infatti Polibio ha cura di menzionare fonti scritte, più precisamente tradizioni storiograche preesistenti con cui egli entra invariabilmente in polemica: per l’esattezza a III,8-9 si cita Q. Fabio Pittore e a III, 20,5 storici di Annibale come Cherea e Sosilo; a IV,81 Polibio ricorda l’abbondante letteratura storiograca sul declino di Sparta, cioè sulla Sparta posteriore a Cleomene III e al suo ‘cantore’ Filarco, senza purtroppo precisare sin dove si spingesse questa letteratura, se p.e. no a Macanida o no a Nabide11; a VIII,10 si accusano di omissioni e par-
9 Cfr. A.M. BIRASCHI, La fondazione di Iasos tra mito e storia: a proposito di Polibio XVI,12,2, PP 54, 1999, 250-260. 10 XVI,12,7 = FrGrHist n°115 fr. 343. 11 VI,49 (cfr. supra nel testo) potrebbe derivare da tale produzione, se fosse attinto a
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zialità non meglio precisati storici di Filippo V : c’erano perciò almeno due o più autori, che avevano scritto sul sovrano macedone e che Polibio leggeva; riguardo alle già menzionate vicende dell’egizio Agatocle l’estrema ricchezza dei particolari, nonché la vivacità della narrazione, davvero insolita per Polibio, rende difcile accogliere la tesi del Pédech13 su un’informazione esclusivamente orale, ancor più se si considera l’esplicito riferimento di XV,34,1 a ȞȚȠȚ IJȞ ȖİȖȡĮijંIJȦȞ e il successivo (XVIII,55,6), altrettanto esplicito riferimento a Tolemeo di Megalopoli, governatore di Cipro nel 197/6: questi fu autore di Storie in almeno tre libri sul regno di Tolemeo IV Filopatore (222/1 - 205/4), che potevano però comprendere anche le convulse vicende della successione di Tolemeo V14; a XVI,13-20 è inserita la ben nota digressione polemica contro storici rodii contemporanei quali Antistene e soprattutto Zenone, che è criticato sulla base di documenti (relazioni dei navarchi) conservati nel pritaneo di Rodi e noti, se pur con ogni probabilità non direttamente, a Polibio15: allora la precedente (XVI,2-10), incalzante descrizione della battaglia di Chio potrebbe derivare o dalla citata relazione dell’ammiraglio rodio Teolisco o da Zenone stesso, che Polibio stava seguendo e sul quale di lì a poco esercitò la sua critica; d’altra parte che le ricche sezioni rodie e cretesi dell’opera polibiana siano costruite su fonti scritte rodie era già stato ipotizzato da Walbank e ha ricevuto recenti conferme16; a XXII,18 Polibio polemizza sulla distinzione tra causa vera, pretesto e inizio di una guerra con alcuni degli storici che avevano già scritto sulla III guerra macedonica, testimoniando così di nuovo che un’abbondante produzione storiograca si sviluppava subito all’indomani di un determinato, rilevante evento storico17; inne a XXIX,12, proprio nel libro dedicato al 168 a.C., che chiudeva la prima redazione delle Storie, Polibio si una fonte scritta. Aggiungo qui che XVIII,14 rivela invece la generica conoscenza delle orazioni di Demostene e della posizione politica del loro autore. 12 Eraclito di Lesbo e Stratone, rispettivamente n. 167 e 168 Jacoby? 13 PÉDECH, La méthode historique de Polybe, 271 (forse in contraddizione con p. 227); diversamente, a ragione, R. VON SCALA, Die Studien des Polybios, Stuttgart 1890, 58 e 263. 14 Su Tolemeo di Megalopoli, n. 161 Jacoby, cfr. G. ZECCHINI, La storiograa lagide, in Purposes of History, Leuven 1990, 213-232, p.218. 15 Sulla conoscenza di questi documenti da parte di Polibio cfr. l’analisi di ZECCHINI, Le lettere come documenti in Polibio, cit. alla nota 2. 16 WALBANK, Polybius, 81 e ora H.U. WIEMER, Rhodische Traditionen in der hellenistischen Historiographie, Frankfurt am Main 2001; ID., Zeno of Rhodes and the Rhodian View of the Past, in B. GIBSON-TH. HARRISON (eds.), Polybius and his world: essays in memory of F.W. Walbank, Oxford 2013, 279-306, nonché già GELZER, Über die Arbeitsweise des Polybius, 188. 17 Degli storici di Perseo noi conosciamo il succitato Stratone, n. 168 Jacoby, e il Posidonio, n. 169 Jacoby, menzionato da Plut. Aem.Paul. 19.
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lancia in un’ultima polemica contro storici autori di monograe troppo particolareggiate e disperse in inutili dettagli sulla guerra di Celesiria tra Tolemeo VI e Antioco IV. Questo elenco, di per sé già ricco, potrebbe essere esteso - e così si è fatto - ad autori, che Polibio non menziona, ma che noi conosciamo per altra via; mi limito a due esempi: in ambito romano l’omonimo glio dell’Africano è ricordato da Cicerone come autore di un’opera storica in greco dulcissime scripta18 e parrebbe strano che Polibio non la conoscesse, dato il grado di intimità con gli Scipioni e il libero accesso all’archivio di famiglia; in ambito ellenistico le ampie sezioni dedicate ad Antioco III, alla guerra per la Celesiria sino alla battaglia di Raa (V,40-71 e 79-87), alla sua contesa con Acheo sino alla presa di Sardi e alla sua cattura (VII,15-18; VIII,18-23), alla sua spedizione in Battriana e sino ai conni dell’India (XI,34) potrebbero dipendere da una delle opere dedicate a quel sovrano (Mnesiptolemo, Egesianatte ecc…)19. Dalle ipotesi moderne torniamo ai dati concreti del testo polibiano: la lunga sezione di IX,12-20 sull’arte del comando e forse anche i capitoli rivolti alla falange macedone a XVIII,29-30 hanno certamente dietro di sé la precedente opera dello stesso Polibio sulla tattica20; la minuziosa descrizione dell’esercito romano e della sua organizzazione, dalle procedure di arruolamento sino alle modalità di allestimento e di smontaggio del campo, può essere stata attuata solo sulla base di materiali scritti (commentarii, istruzioni ecc...): non va dimenticato che in quegli anni Catone scrive un De re militari21; persino l’amplissimo spazio riservato a Filopemene tecnicamente deriva da uno scritto anteriore di Polibio, la vasta Vita di Filopemene in tre libri, anche se questa, a sua volta, fu certamente composta sulla base di testimonianze orali, di Filopemene stesso, di Arato il giovane, di Licorta, nonché dell’autopsia polibiana22. C’è poi il non trascurabile apporto dei documenti scritti, a cui Polibio ricorre con una certa frequenza. Qui non voglio certo ripetere un censimento già eseguito, bensì solo richiamare taluni esempi assai signicativi. L’elenco degli aiuti inviati a Rodi dopo il terremoto del 224 (V,88-90)
18 Cic. Brut. 19,77; quale potenziale fonte di Polibio è stata indicata, che io sappia, solo da A. LIPPOLD, Consules, Bonn 1963, 29 nota 126. 19 Mnesiptolemo ed Egesianatte sono i nn. 164 e 45 Jacoby. 20 L. POZNANSKI, A propos du ‘Traité de tactique’ de Polybe, Athenaeum 58, 1980, 340-352. 21 J.M. NAP, Ad Catonis librum de re militari, Mn 55, 1927, 79-87. PÉDECH, La méthode historique de Polybe, 329-330 riconduce invece tutto il materiale del VI libro esclusivamente a osservazioni e riessioni di Polibio stesso. 22 R.M. ERRINGTON, Philopoemen, Oxford 1969, 232-236.
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deriva in ultima analisi da una fonte documentaria, anche se è in teoria possibile l’intermediazione di uno storico rodio; trattati di pace riportati integralmente come quello con gli Etoli del 189 (XXI,32) o quello di Apamea con Antioco III del 188 (XXI,43) dovettero essere consultati e copiati da Polibio nell’archivio del senato; i numerosi discorsi tenuti da ambasciatori in curia e il successivo dibattito non pare che venissero verbalizzati e depositati nell’archivio del senato e perciò restava al nostro storico o l’interrogazione dei senatori o l’interrogazione degli ambasciatori dopo le sedute23: ciò signica che, secondo la terminologia antica, essi rientravano nella categoria dell’ਕțȠ, ma d’altra parte l’accuratezza e l’ampiezza, con cui molti tra questi discorsi vengono riportati, e l’importante dichiarazione programmatica di XXXVI,1,6-7, dove compito dello storico è quello di riportare quanto è stato veramente detto in un discorso, dopo averlo ricercato con ogni diligenza, fa pensare che Polibio abbia potuto consultare qualcosa di scritto, o gli appunti presi dai senatori durante le sedute24 o i testi (discorsi completi o almeno tracce, abbozzi preparatori) utilizzati dai diplomatici. Ancora: nel X libro, a proposito della presa di Carthago Nova da parte del futuro Africano nel 209 egli contrappone alla versione ‘miracolosa’ sostenuta da taluni storici (certo storici romani della II guerra punica) quella razionalistica avvalorata, a suo dire, non solo dalla testimonianza orale di C. Lelio, ma anche dalla testimonianza scritta di una lettera inviata anni dopo dallo stesso Africano a Filippo V (X,9) e reperita da Polibio nell’archivio degli Scipioni; nel XVI libro, a proposito della visita diplomatica di Attalo I di Pergamo ad Atene nel 201/200, viene puntigliosamente riassunta la relazione scritta composta dal re e letta all’assemblea (XVI,26), mentre nessun accenno è riservato ai discorsi pronunciati nella circostanza; nel XXIII libro l’ambasceria macedone a Roma del 184/3 è riferita sulla base della breve memoria scritta (IJȚ ȕȚȕȜįȚȠȞ Ƞ ȝȖĮ) redatta da Filippo V e letta da suo glio Demetrio in senato (XXIII, 2); l’anno successivo (183/2) il senato in presenza di diverse ambascerie greche prese le sue decisioni sulla base della relazione scritta del proprio inviato in Grecia Q. Marcio Filippo, di cui Polibio riporta i passi salienti (XXIII,9), con ogni evidenza perché riuscì a procurarsela; nel 165 il dibattito in senato in seguito alla richiesta achea di ridare libertà agli ostaggi e la conseguente 23 Sugli amici e conoscenti greci più che su quelli romani quali informatori di Polibio su quel che accadeva in senato durante il ricevimento delle varie ambascerie insistono quasi tutti i moderni, da GELZER, Über die Arbeitsweise des Polybius, 189-190 (i nobili romani subentrarono solo in un secondo tempo) a WALBANK, Polybius, 8-10 e 82-84. 24 Così G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, IV,1, Torino 1923, 497 nota 30. Cfr. ora anche SCHETTINO, Polybe et les actes ofciels du Sénat romain, cit. alla nota 5.
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risposta negativa è sigillato dalla citazione letterale di tale risposta scritta, che - viene precisato - fu resa pubblica (XXX,32,9) e che in ogni caso all’acheo Polibio dovette essere subito nota. Sempre nel XXX libro, il primo della continuazione delle Storie dopo il 168, riveste un ruolo di rilievo l’oratore rodio Astimene, di cui Polibio riassume un discorso nel capitolo 4 e ne riporta un altro nel capitolo 31; a 4,10-11 Polibio ricorda anche che a seguito del primo discorso e delle critiche ricevute dagli altri Greci egli pubblicò una įȚțĮȚȠȜȠȖĮ, che il nostro storico si sofferma a biasimare: questo è, a mio avviso, un bell'esempio del tormentato rapporto tra tradizione orale e scritta in Polibio, che, tra la possibilità di citare un discorso, da lui udito o comunque ricostruibile (come fece più sotto al capitolo 31), e la possibilità di aggiungere il riferimento a un testo con cui polemizzare, sceglie quest'ultima. Sin qui ho svolto, per così dire, la pars destruens della mia riessione: spero di aver addotto qualche elemento per ridimensionare il rapporto privilegiato tra Polibio e la tradizione orale; almeno sino al 168, sin quando esisteva una storiograa precedente, Polibio usa n che può fonti scritte, anche e soprattutto quelle, che critica in apposite digressioni, le integra con documenti scritti, appartiene in tutto e per tutto a quella cultura libresca, che con scarsa coerenza sembrerebbe rimproverare al grande Timeo25. L’uso del condizionale implica una precisazione: senza voler entrare qui nel merito della polemica verso lo storico di Tauromenio26, va osservato che la gerarchia dei tre gradi di conoscenza storica, l’autopsia, la tradizione orale e la tradizione letteraria, era pacicamente accettata dagli storici greci e certamente Timeo non faceva eccezione; se mai, è proprio Polibio, come ha osservato acutamente Kenneth Sacks27, a impiegare ambiguamente il termine ਕțȠ nel senso non solo ristretto di tradizione orale, bensì in quello più ampio di tradizione secondaria, udita o letta, in opposizione alla tradizione primaria dell’autopsia; quel che dunque Polibio rimprovera a Timeo non è lo stravolgimento di tale gerarchia, né la sopravvalutazione dei testi scritti, a cui anche il Megalopolitano conferi-
25 Mi pongo quindi, contro Pédech, sulla linea di WALBANK, Polybius, 77: In fact, despite his sneers at Timaeus, Polybius could hardly avoid making widespread use of written sources, even for the main part of his Histories. 26 Su cui mi limito a rinviare a G. SCHEPENS, Polemic and Methodology in Polybius’ Book XII, in Purposes of History, Leuven 1990, 39-61, a TH. FÖGEN, Zur Kritik des Polybios an Timaios von Tauromenion, LF 122, 1999, 1-31 e a R. VATTUONE, Timeo, Polibio e la storiograa greca del IV sec. a.C., in G. SCHEPENS-J. BOLLANSÉE (eds.), The Shadow of Polybius, Leuven 2005, 89-122. 27 K. SACKS, Polybius on the Writing of History, Berkeley-Los Angeles 1981, 63 nota 91.
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va grande importanza, bensì: 1) la quasi totale assenza di autopsia, poiché Timeo scrisse risiedendo sempre ad Atene, mentre Polibio poteva orgogliosamente opporgli le sue esperienze di viaggio (sulle Alpi a III,48, in Africa, Corsica e Spagna a XII,2-4, ancora in Gallia Narbonense, Spagna e Africa nel corso del XXXIV libro)28 e il suo ruolo politico già a partire dal 185/4, quando fu presente a un litigio tra Filopemene e lo stratego acheo Arcone (XXII,19), poi nel 180 (XXIV,6) e nel 170/69 (XXVIII,7 e 12-13) sempre nel contesto della lega achea, quindi a Roma29, donde organizzò la fuga di Demetrio di Siria nel 163/2 (XXXI,11-15) e dove la profonda amicizia con Scipione Emiliano gli permise di attingere solo ai propri ricordi e alla propria testimonianza per costruirne il celebre ritratto (XXXI,22-30), no alle vicende successive al ritorno in patria nel 149 (a XXXVI,11-13 Polibio stesso avverte che da lì in poi gli toccherà parlare spesso di sé) e soprattutto a quelle del 146 (come è noto, i libri XXXVIII e XXXIX sconnano nell’autobiograa con rispettivamente 4 e 9 menzioni dell’autore nei pochi frammenti rimasti e relativi alla caduta di Cartagine e al bellum Achaicum); 2) la mancanza di quell’ ਥȝʌİȚȡĮ30, di quell’esperienza, che permette di vagliare le testimonianze orali altrui ed è quindi la precondizione di ogni indagine storica (o, analogamente, anche geograca, come nel caso di Pitea: XXXIV, 5,5). In effetti la novità metodologica, che Polibio ritiene di introdurre nella scienza storica e su cui più insiste, sono i tre presupposti della storiograa pragmatica, e cioè l’esigenza di una competenza tecnica, soprattutto politico-militare, l’autopsia geograca e la ricerca di ਫ਼ʌȠȝȞȝĮIJĮ, cioè di materiale scritto; questa tripartizione31 è l’apporto teoretico al metodo storico, di cui Polibio va orgoglioso, ed è su questo che ritiene di poter cogliere in fallo quasi tutti gli storici precedenti, Callistene per l’incompetenza militare32, Zenone per l’ignoranza della geograa del Peloponneso, Timeo appunto per l’una e l’altra: in mancanza dell’autopsia, l’ਕțȠ, nella duplice accezione polibiana di tradizione secondaria sia orale sia scritta, è necessa-
28 Si aggiunga almeno la descrizione della Gallia Cisalpina a II,14-17, anche se qui l’autopsia non è esplicitamente dichiarata. In genere sui viaggi polibiani cfr. G. ZECCHINI, Teoria e prassi del viaggio in Polibio, in Idea e realtà del viaggio, Genova 1991, 111-141 (=cap. IV). 29 La prima testimonianza autoptica di Polibio in Roma potrebbe già essere la descrizione del trionfo di L. ANICIO su Gentio nel 167 a XXX,22. 30 Sul concetto cfr. SACKS, Polybius on the Writing of History, 63-65. 31 Tripartizione analoga (con qualche lieve differenza d’accento) in G. SCHEPENS, Some Aspects of Source Theory in Greek Historiography, Anc Soc 6, 1975, 257-274. 32 Su cui L. PRANDI, Polibio e Callistene: una polemica non personale?, in SCHEPENSBOLLANSÉE, The Shadow of Polybius, 73-87.
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ria (XII,4c), ma può perdere ogni valore, se vi sono difcoltà linguistiche di comprensione tra interrogante e interrogato (III,58) e soprattutto se l'interrogato non ha la preparazione e la competenza per rispondere in modo chiaro e corretto e l'interrogante non ha le medesime qualità per interrogare la fonte e per non lasciarsi trarre in inganno da essa (XII,28a). Talvolta Polibio riferisce tradizioni orali non vericabili, introducendole con formule (ȜંȖȠȚ, ijĮı ecc...), che rivelano l'incertezza dello storico: così p.e. a X,48 riguardo al corso del ume Osso egli conosce e riferisce due versioni (įȠ ȜંȖȠȚ), di cui una più plausibile dell’altra, ma entrambe non impossibili; a XXIII,10,15 un aneddoto sulla crudeltà di Filippo V è introdotto da un prudente ੮Ȣ ijĮıȚ; a XXXVI,5 il lungo discorso tenuto da Magone il Bruzio a Cartagine nel 149 è parimenti introdotto da espressione analoga. Sono pochi, ma signicativi casi, in cui una tradizione orale non può essere accolta con sicurezza solo perché contemporanea, e si sono visti appena sopra altri casi, in cui una tradizione di questo tipo è accolta con maggior ducia, se confermata da un documento scritto. A ben vedere quindi non c’è in Polibio tutta quella condanna per l’erudizione libresca di Timeo, che si è spesso voluto cogliere, e perciò non è neppur corretto accusare lo storico di Megalopoli di incoerenza, se almeno no al 168 egli accordò un sostanziale privilegio agli storici preesistenti e, più in genere, alle fonti scritte rispetto a quelle orali nell’ambito dell’ ਕțȠ, della tradizione secondaria. Passiamo ora alla pars construens del mio discorso, in cui vorrei rispondere alla domanda: quando Polibio si serve della tradizione orale nell’ambito della storia contemporanea? Osservo subito che i casi sicuri, in cui Polibio stesso ci indica questo tipo di informazione, sono assai rari e molto inferiori ai casi corrispondenti, in cui egli ci indica l’uso di informazione scritta. A IX,25 lo storico di Megalopoli si rifà a testimonianze orali raccolte personalmente (durante il suo soggiorno in Africa collegato alla III guerra punica) presso i Cartaginesi e Massinissa riguardo all’indole di Annibale, che sarebbe stata avida più che feroce; a XXI,38 egli rievoca il proprio incontro a Sardi con Chiomara, moglie del nobile Galata Ortiagonte, fatta prigioniera dai soldati di Cn. Manlio Vulsone nella campagna del 189: l’aneddoto sulla virtù e la fortezza della donna, che qui Polibio racconta e che divenne famoso sino a conuire nel De mulierum uirtutibus di Plutarco33, venne certamente riferito da Chiomara stessa durante la loro conversazione e fu da lui fedelmente trascritto; a X,3 e 9 riguardo al carattere di Scipione l’Africano e alla presa
33 Plut. De mul. virt. 22 = 258c col commento di PH. A. STADTER, Plutarch’s Historical Methods: an Analysis of the ‘Mulierum virtutes’, Cambridge Mass. 1965, 108-109.
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di Carthago Nova Polibio ci segnala in C. Lelio, amico e braccio destro del grande generale, il suo informatore diretto, anche se si è visto che nel secondo caso preferisce afancargli una testimonianza scritta; molto interessante, a mio avviso, è il caso della lunga sezione di XXIX,5-9, dove si riferisce degli intrighi segreti tra Perseo ed Eumene II nel 168: nell’iniziale capitolo 5 Polibio manifesta tutti i suoi dubbi e le sue incertezze nel riportare in modo così minuzioso trattative segrete e non vericabili, ma giustica la decisione di narrarle con la loro importanza nel corso della III guerra macedonica; poi, a 8,10, rivela che alcuni di questi fatti trapelarono già allora, altri gli furono riferiti in seguito dagli amici più stretti di Perseo, che quindi sono la sua fonte orale, durante il comune esilio a Roma34. A questi quattro casi credo che se ne possa già aggiungere un quinto e cioè la sezione tolemaica del libro XXXI (10 e 17-20), dove Polibio si mostra assai ben informato sui contrasti tra i due fratelli Tolemeo VI e Tolemeo VIII e sulle frenetiche trattative diplomatiche a Roma e in Egitto riguardo alla spartizione dei loro domini tra il 163 e il 161, mentre in altre occasioni il nostro storico o si trova in difcoltà nel raccogliere informazioni sufcientemente ampie sulla coeva storia lagide o decide di sintetizzare tali avvenimenti perché non abbastanza interessanti35; qui Polibio non ci indica esplicitamente la sua fonte, ma a 12,8, nel contesto dell’organizzazione della fuga da Roma di Demetrio di Siria, egli sottolinea i suoi rapporti di salda amicizia e condenza con Menillo di Alabanda, ambasciatore di Tolemeo VI: la conclusione che fosse questi il suo informatore sui fatti d’Egitto in quegli anni mi sembra imporsi al di fuori di ogni ragionevole dubbio36.
34 In genere Polibio si mostra molto ben informato sulla corte macedone di Filippo V e di Perseo: a V,101 ricorda le condenze fatte da Filippo a Demetrio di Faro all’indomani del Trasimeno, a V,108 riporta alcuni sogni di Filippo stesso, a XXII,14,7 è di nuovo a conoscenza delle condenze di Filippo ad Apelle e Filocle nel 185. È difcile dire se egli attinga questi dati alla tradizione scritta degli storici macedoni o alla tradizione orale dei Macedoni ostaggi a Roma dopo il 168. WALBANK, Polybius, 74 sgg. indica due possibili interlocutori polibiani in Ippia e Pantauco, ufciali incaricati da Perseo di tenere i rapporti con il re illirico Gentio durante la III guerra macedonica, ma non vi sono attestazioni positive di una loro presenza a Roma. D’altra parte GELZER, Über die Arbeitsweise des Polybius, 178 nota 133 e PÉDECH, La méthode historique de Polybe, 269 insistono sul ruolo che avrebbe avuto la biblioteca di Perseo, trasportata a Roma, nel rendere accessibile a Polibio una documentazione diplomatica di prima qualità, ma di fatto noi sappiamo solo che tale biblioteca conteneva testi stoici. 35 Polibio non sembra conoscere eventi egizi dal 184 al 169 (libri XXIII-XXVIII), mentre a XIV,12 ci informa che intende riassumere in un solo punto il regno del Filopatore invece che narrare anno per anno eventi a suo avviso di scarso interesse; può esserci qui un riferimento polemico al racconto troppo dettagliato di Tolemeo di Megalopoli (cfr. supra p. 17 con la nota 14). 36 A Menillo né GELZER, Über die Arbeitsweise des Polybius, 166, nè PÉDECH, La méthode
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Anche sulle vicende etoliche Polibio si mostra sempre ben informato, pur se animato da un pregiudizio fortemente negativo nei confronti dei tradizionali avversari degli Achei, e riporta diversi discorsi tenuti da oratori etoli; che il tutto risalga a esuli etoli suoi informatori in Roma è ipotesi sia di Pédech (Pantaleone), sia di Walbank (Nicandro di Triconio, Eupolemo), ma Polibio non dice nulla in proposito37. All’estremo opposto vi sono i casi, ancora più rari, ma forse anche più interessanti, in cui Polibio dichiara esplicitamente di non essere riuscito a procurarsi le informazioni necessarie per riferire su un dato argomento. A XVIII,8, nel contesto delle trattative romano-macedoni prima di Cinoscefale, egli registra che avvenne un abboccamento segreto tra Filippo V e Flaminino, ma non sa dire nulla su quanto i due discussero in questo incontro: evidentemente il segreto fu ben conservato e le voci, che dovettero circolare a riguardo, furono giudicate invericabili e quindi inattendibili da Polibio; questi nutriva una lodevole difdenza verso quel genere di pseudonotizie, che si possono classicare come gossip o, se si preferisce, come rumores, e abbiamo già visto con quanta cautela egli accetti di riportarli a XXIX,5 riguardo ai contatti segreti tra Perseo e Eumene II nel 168: va qui rilevato, a tutto onore di Polibio, un atteggiamento diametralmente opposto a quello che fu poi di Tacito. A XXX,3,8 a proposito dell’ambasceria romana inviata in Galazia sotto la guida di P. Licinio Crasso nel 167 Polibio commenta che non gli era facile conoscere quali fossero le istruzioni del senato, anche se egli poté inferirle con una certa sicurezza da quanto accadde in seguito: questa importante considerazione dimostra che non sempre Polibio riusciva ad informarsi presso i membri dell’aristocrazia romana su temi, che pure lo interessavano e che erano oggetto delle sue ricerche storiche; evidentemente egli non aveva con Crasso la condenza, di cui invece lo onoravano altri nobiles; di conseguenza si deve concludere che l’aristocrazia frequentata da Polibio a Roma era certamente un canale privilegiato di informazioni, ma non in forma indiscriminata, bensì come somma di ben precisi casi individuali da vericare uno per uno. Pédech individuava quattro informatori romani di Polibio, Catone, C.
historique de Polybe, 227 e 363, né WALBANK, Polybius, 77 sembrano accordare quel ruolo particolare di unico sicuro informatore di Polibio tra i numerosi ambasciatori greci di passaggio a Roma, che a mio avviso emerge dalla precisa attestazione di uno stretto legame di amicizia con lo storico. 37 PÉDECH, La méthode historique de Polybe, 267; WALBANK, Polybius, 76 con la nota 47. In particolare su Eupolemo fonte per la battaglia di Cinoscefale (Polyb. XVIII,19 e 21) cfr. F.W. WALBANK, A historical Commentary on Polybius, II, Oxford 1967, 575 e 580, seguito da J. THORNTON, Polibio. Storie, V, MIlano 2003, 613-614.
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Lelio, M. Emilio Lepido e Ti. Sempronio Gracco; sul primo sono scettico: mi sembra ipotesi non suffragata dal testo polibiano, che semplicemente conserva la menzione di cinque dicta Catonis38; il secondo è fonte limitata al personaggio di Scipione Africano; il terzo e il quarto sono decisamente più interessanti per la nostra indagine. M. Emilio Lepido, il futuro console nel 187 e nel 175, compare quale giovanissimo legato sotto l’anno 201/200, prima ad Atene (XVI,25), poi sotto le mura di Abido assediata da Filippo V (XVI,34): Polibio riporta il suo duro scontro verbale col re di Macedonia a riprova della sua precoce maturità e del suo energico coraggio e si sofferma poi, in una descrizione ricca di pathos, sulla tragica sorte degli Abideni, di cui il legato fu testimone; Lepido ricompare a XXVIII,1,8 in occasione delle ambascerie congiunte di Antioco IV e Tolemeo VI nel 170/69, in qualità di princeps senatus e di consigliere degli ambasciatori egizi e poi a XXXII,6 in occasione della visita a Roma dell’epirota Charops nel 159/8, quando era anche pontece massimo. Ti.Sempronio Gracco compare a XXV,1, quando Polibio esagerava i successi da lui colti in Spagna durante il suo I consolato del 179, ma svolge un ruolo di primo piano soprattutto nei libri XXX e XXXI: a lui infatti, ambasciatore presso Antioco IV, Polibio deve con ogni probabilità la descrizione degli splendidi giochi celebrati dal re a Dafne nel 166 (XXX,25-27)39 e ancora a lui, per due volte ambasciatore in Oriente (Cappadocia, Pamlia e Rodi), deve il buon grado di conoscenza delle vicende diplomatiche, tanto complicate quanto scarsamente rilevanti, di quel settore tra il 161 e il 160 (XXXI,3; 15,9-13; 31-33). A costoro va aggiunto lo stesso Emiliano: a XXXVI,8,6 Polibio avverte il lettore con sincera disinvoltura che non deve stupirsi, se egli riferisce ogni avvenimento riguardante Scipione e ogni parola da lui pronunciata (ʌ઼Ȟ IJઁ ૧ȘșȞ), e in questa affermazione di principio non rientrano soltanto fatti e discorsi, a cui Polibio assisté in quanto accompagnatore dell’Emiliano, non rientrano dunque solo i casi, già elencati, di autopsia, ma anche quelli, sui quali Polibio, assente, poté interrogare il suo grande amico romano; segnatamente il lungo frammento iniziale del libro XXXV (1-5) sulla guerra celtiberica del 152/1, che segnò l’esordio militare di Scipione, ma non certo la presenza di Polibio, ancora ostaggio a Roma, ha buone probabilità di derivare dalla testimonianza orale dell’Emiliano; inoltre, almeno in linea di principio, neppure tutti gli episodi della III guerra punica implicano l’autopsia polibiana: alcuni potrebbero essergli stati 38 I cinque dicta rispettivamente a XXXI,25,5a; XXXV,6; XXXVI,8,7; XXXVI,14,4-5; XXXIX,1,5. 39 Il ritratto di Antioco IV a XXVI,1a-1 dovrebbe derivare più probabilmente da altra fonte (Demetrio di Siria?).
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narrati dal generale romano suo amico, per esempio l’abboccamento del condottiero numida Gulossa con l’Emiliano stesso, riportato con dovizia di particolari a XXXVIII,7-8. Una seconda aggiunta, assai meno sicura, potrebbe riguardare T. Quinzio Flaminino: date le difcoltà cronologiche (Flaminino muore nel 174, prima che Polibio giunga a Roma) bisogna presupporre uno o più intermediari (parenti di Flaminino? Sue memorie?); d’altra parte le lunghe trattative con Filippo V prima di Cinoscefale e poi la lunga contio tenuta nell’imminenza della battaglia (XVIII,1-12 e 23), ancor più i discorsi segreti intrattenuti tra Flaminino e Demetrio di Macedonia e lo scambio di battute durante un banchetto a Roma con Dinocrate di Messene nel 184/3 (XXIII,3,7 e 5,11-12) hanno un contenuto ‘biograco’, che sembra risalire in ultima analisi a Flaminino stesso. Lelio, Lepido, Gracco, Scipione Emiliano, forse Flaminino sono accomunati dall’appartenenza al gruppo emilio-cornelio40, cioè al giro di conoscenze, che Polibio poteva facilmente procurarsi, anzi in cui era già inserito grazie ai suoi rapporti con gli Scipioni: egli non segnala nessun altro informatore romano ed è, a mio avviso, molto probabile che non ne avesse, sia perché al di fuori di quel giro era ritenuto solo un ostaggio come tanti altri, non particolarmente meritevole delle condenze dei nobiles, sia forse perché non si era neppure dato la pena di cercarli. Per quel che concerne gli ambienti romani la ricerca sugli informatori orali di Polibio coincide nei propri esiti con la ricerca, già altrove svolta, sui documenti scritti, le lettere in particolare, da lui citati: gli uni e gli altri non escono dall’ambito scipionico, quello stesso ambito da cui egli traeva a XVIII,35 i superstiti esempi di integrità e incorruttibilità nella società romana del suo tempo (L. Emilio Paolo e Scipione Emiliano), nonché la serie di tre aneddoti su Scipione Africano riportati a sua maggior gloria a XXIII,1441. Ciò che Polibio sa e riversa nelle sue Storie dall’osservatorio privilegiato della capitale del mondo non è quello che si poteva sapere grazie a indagini accurate e sistematiche, bensì quello che gli ‘passavano’ (mi si perdoni il termine) i suoi amici, eletti, ma pochi, e quindi la sua prospettiva non è romana tout court, bensì gentilizia, per l’esattezza emilio-cornelia. 40 Sulla consistenza del gruppo emilio-cornelio a quest’epoca resta, a mio avviso, ancor valido H.H. SCULLARD, Roman Politics 220-150 B.C., Oxford 1951, passim; sulla vicinanza, controversa, di Flaminino a questo entourage seguo F. CASSOLA, La politica di Flaminino e gli Scipioni, Labeo 6, 1960, 105-130 = Scritti di storia antica, Napoli 1994, II, 49-80; scettico R. PFEILSCHIFTER, Titus Quinctius Flamininus, Göttingen 2005, 56-57; da ultimo P.L. BRISSON, Le libérateur de la Grèce: Titus Flamininus et l’héritage hellénistique, Québec 2018. 41 Dovrebbe derivare a Polibio dal medesimo milieu scipionico pure il celebre aneddoto sul giuramento di eterno odio verso i Romani pronunciato da Annibale giovinetto e da lui rievocato nel 193 alla corte di Antioco III davanti a un’ambasceria romana (III,11). Anche il giudizio lusinghiero su Scipione attribuito ad Asdrubale di Gisgone in occasione dell’in-
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Ancora: di questi informatori romani Polibio si serve per essere ragguagliato su settori lontani da Roma come Abido, Dafne in Siria, la Cappadocia, la Celtiberia: il loro interrogatorio, al rientro dalle loro missioni, era l’unico mezzo possibile per raccogliere notizie, che non fossero voci vaghe e inafdabili; per il ruolo svolto nell’economia dell’opera polibiana questi aristocratici romani possono afancarsi agli amici di Perseo, a Menillo di Alabanda, ai conoscenti achei, che lo storico incontrava a Roma durante le loro ambasciate e da cui raccoglieva materiale sulle vicende contemporanee della sua patria. Per quanto concerne invece le vicende romane, in particolare quelle diplomatiche, che si svolgevano nella curia e sulle quali Polibio sembra molto ben informato, è bene richiamare l’attenzione sul fatto che egli non ricorda mai di aver interrogato né i suoi conoscenti romani, né gli ambasciatori greci o orientali; forse solo a XXX,32 riguardo all’ambasceria achea per richiedere il rilascio degli ostaggi nel 165 e al riuto del senato si percepisce, dietro l’emozione e la delusione dei diplomatici e degli esuli greci, una partecipazione personale e dunque un’informazione diretta e approfondita su quanto si era svolto nella curia. Gli studiosi moderni continuano a discutere le modalità dell’informazione di Polibio e solitamente concludono, come si è già osservato, che due erano i mezzi a disposizione per registrare i contenuti delle ambascerie e dei conseguenti dibattiti in senato, l’interrogazione dei senatori o l’interrogazione degli ambasciatori dopo le sedute; Polibio però non fornisce alcuna indicazione in proposito: egli suscita solo l’impressione di non aver incontrato di regola alcuna difcoltà nel conoscere quanto si era detto in tali circostanze, mentre ammette almeno in un caso la propria incapacità nel conoscere il contenuto delle istruzioni, evidentemente riservate, date dai patres a un ambasciatore inviato in Oriente42. Concludo: dopo il 168, quando vengono meno le opere storiograche precedenti (storici macedoni di Perseo, storici rodii, storici delle guerre per la Celesiria), Polibio può fondarsi per la ricostruzione degli eventi e la stesura della sua opera o sulla sua autopsia, che è però limitata almeno no al 150 ca. alla sola città di Roma, o sulle altrui testimonianze orali; o per impossibilità o per volontaria rinuncia a indagini sistematiche, esse appaiono scarse e casuali: il loro elenco – lo ripeto – comprende alcuni cortigiani macedoni e forse alcuni Etoli tra gli esuli greci a Roma, certamente i notabili achei, Menillo di Alabanda per gli affari egizi, qualche esponente degli Emilii-Cornelii per altri settori della politica estera romana. Questa sporacontro con Scipione alla corte di Siface nel 206 (XI,24a) poteva circolare oralmente quale ulteriore elemento della ‘leggenda scipionica’ ed essere noto a Polibio in quanto intimo degli Scipioni stessi. 42 È il caso di P. Licinio Crasso nel 167: cfr. supra p. 24.
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dicità nel procurarsi fonti orali (Polibio non ha, né poteva avere una rete di informatori ssi, che lo aggiornassero sugli sviluppi presso i vari settori geopolitici dell’ecumene, segnatamente presso le varie corti ellenistiche)43 inuenza, a mio avviso, in modo determinante anche la sua visione della storia contemporanea: da un lato essa sembra una storia prevalentemente, quasi ossessivamente diplomatica, fatta di continui scambi di ambascerie, soprattutto di ambascerie, che convergono a Roma dai quattro angoli del mondo44; dall’altro lato essa è una storia non universale, ma romanocentrica, in cui la ıȣȝʌȜȠț IJȞ ȖİȖȠȞંIJȦȞ45 è tale solo in prospettiva romana: Polibio ha la formazione di un intellettuale della grecità metropolitana, ormai ristretta e provinciale, racchiusa nei suoi angusti orizzonti peloponnesiaci, macedoni e micrasiatici, che a un certo punto della sua vita viene trasferito a Roma, ormai capitale del mondo mediterraneo, e solo qui si abitua a ‘pensare in grande’, ad avere una visuale geopolitica non limitata alla ‘politica da cortile’ degli stati greci, ma egli resta uno storico prima acheo e poi romano, mai uno storico ellenistico, uno storico dell'eredità di Alessandro capace di comprendere anche il barbaricum orientale e occidentale: gli argumenta ex silentio, sia pur qui confortati dalla presenza a III,5 del riassunto dei contenuti dei libri XXX-XXXIX, hanno sempre una validità relativa, ma certo colpisce che si tratti assai brevemente della storia dell’Occidente con parziali eccezioni per la guerra dalmatica del 156/153 (XXXII,9 e 13), che vide il trionfo di uno Scipione, il Nasica Corculum, e per la coeva guerra ligure (XXXIII,8-10), dove forse esordì sotto le armi Scipione Emiliano, che l’unico ampio frammento polibiano sulle terribili guerre iberiche del II secolo coincida col servizio militare dell’Emiliano in terra spagnola nel 152/1 (XXXV,1-5)46, che neppure una menzione ci sia pervenuta della rivolta maccabaica, fondamentale per la storia seleucide47, 43 Gli ਫ਼ʌȠȝȞȝĮIJĮ der Gewährsleuten, le memorie, che informatori di ducia prescelti avrebbero redatto per Polibio e che avrebbero quindi costituito il materiale primario dell’ultima parte delle Storie, sono ipotesi di GELZER, Über die Arbeitsweise des Polybius, 168, ingegnosa, ma non attestata e che può valere sporadicamente, non sistematicamente. 44 Naturalmente va tenuto presente che noi abbiamo tra il 20 e il 30% del testo dei libri XXX-XXXIX e che degli Excerpta Constantiniana abbiamo le due sezioni de legationibus Romanorum ad gentes e gentium ad Romanos, mentre si sono perdute quasi tutte le altre e la stessa sezione de insidiis è mutila, tra l’altro, di tutto Polibio (tranne un excerptum fuori posto). In tali condizioni si può solo osservare che certamente l’interesse di Polibio per la storia diplomatica era grande (sono 154 excerpta con una lacuna nella sezione gentium ad Romanos comprendente i libri I-XVII; dopo Polibio seguono Cassio Dione con 90 e Appiano con 48 excerpta), ma non sappiamo di che cosa fosse costituito l’altro 70/80% dei libri suddetti. 45 F.W. WALBANK, Symploké. Its role in Polybius’ Histories, YCS 24, 1975, 197-212. 46 Eccellenti qui le osservazioni, poi dimenticate, di GELZER, Über die Arbeitsweise des Polybius, 174-176. 47 A XVI,39 sotto il 200 Polibio parla dell’invasione della Giudea da parte di Antioco
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che le vicende della grecità periferica indobattriana escano dall’orizzonte di Polibio dopo il 206/5 (XI,34) ed egli non sappia nulla di preciso della sua dissoluzione e dell’invasione partica, forse il fenomeno storico più importante intorno alla metà del II secolo48. Questa conclusione non implica affatto un giudizio negativo su Polibio storiografo: nelle sue condizioni è probabile che non si potesse far di meglio. Essa vuol solo far riettere sul fatto che la conclamata superiorità in linea di principio dell’ ਕțȠ sui ȖȡȝȝĮIJĮ è pura illusione; nella realtà del concreto mestiere di storico Polibio si imbatté nella difcoltà, nella parzialità, nella frammentarietà di una ricostruzione storica costretta a passare dopo il 168 dalla rassicurante condizione di disporre di fonti scritte, settoriali e monograche e quindi criticabili quanto si vuole, ma nel complesso abbastanza ricche e ben informate sull'argomento prescelto, alla precaria condizione della ricerca di fonti orali casuali e non sistematiche, spesso di prima mano e davvero preziose (si pensi ancora una volta al rapporto con Scipione Emiliano, grazie al quale noi leggiamo a XXXVIII,21-22 addirittura la reazione emotiva e immediata del condottiero romano davanti alle rovine di Cartagine), spesso lacunose e unilaterali. Essa vuole anche far riettere sulla principale e immediata conseguenza storica di una documentazione storiograca prevalentemente orale; studiare il rapporto di Polibio con la tradizione orale non è infatti solo un problema di metodologia storiograca o, tanto meno, di Quellenuntersuchung, ma è la necessaria premessa per rendersi conto della faticosa genesi delle Storie e della loro prospettiva storica: si può interpretare solo ciò di cui si è informati e quindi sulla base di una documentazione casuale e frammentaria è impossibile edicare un’interpretazione equilibrata e completa del proprio tempo, ma solo una ricostruzione settoriale, qual’ è in ultima analisi quella polibiana: una storia del dominio dell’Urbe vista soprattutto nella prospettiva dei rapporti romano-achei e attraverso le relazioni personali dello storico con la ristretta cerchia dei suoi amici romani, una storia con ambizioni ecumeniche, ma con inevitabili limitazioni monograche e con tentazioni persino autobiograche, non certo una storia universale49. III e si riserva di trattare successivamente di Gerusalemme e del suo tempio: non c’è quindi disinteresse preconcetto verso i Giudei, ma, più semplicemente, esaurimento progressivo delle fonti dopo il 200. 48 S. MAZZARINO, Il tramonto dello stato greco nell’Iran orientale, Delta 1, 1952, 23-32 ipotizzava che il passo del libro XI riecheggiasse la situazione del 135 ca., che in qualche modo era giunta alle orecchie di Polibio; se tale ipotesi fosse esatta, essa avvalorerebbe quanto ho scritto: Polibio venne a sapere e intuì qualcosa sul crollo dell’ellenismo mediorientale, ma poté solo registrare questa sua impressione sotto il 206/5, anno dopo il quale evidentemente non aveva più materiale sufciente per un racconto organico di quei lontani eventi. 49 Che io sappia, solo M. GIGANTE, La crisi di Polibio, PP 6, 1951, 33-53 intuì quanto di insufciente c’era nella conclamata ‘universalità’ delle Storie polibiane.
CAPITOLO III LE LETTERE COME DOCUMENTI
Il termine ਥʌȚıIJȠȜ ricorre 58 (o 59)1 volte in Polibio, il termine sinonimico ȖȡȝȝĮ o ȖȡȝȝĮIJĮ 23 volte, il termine ȖȡĮȝȝĮIJȠijંȡȠȢ 11 volte: date le condizioni dell’opera polibiana, si tratta di dati quantitativamente rilevanti, ma essi non implicano certo in linea di principio l’uso delle lettere come documenti. Se infatti noi passiamo a una valutazione qualitativa, ci accorgiamo che nella stragrande maggioranza dei casi (tranne i pochi, in tutto 11, che discuterò in seguito) la menzione della lettera è del tutto cursoria: Polibio o si limita a sottolineare che la presa di contatto tra due interlocutori politici oppure la trasmissione di una notizia avvenne in forma epistolare o accenna in breve allo scopo oppure al contenuto della lettera (di mobilitazione, di richiesta o promessa di aiuto, a favore del tal personaggio, a favore del richiamo di esuli ecc...) o inne chiama ‘portatore di lettere’, ȖȡĮȝȝĮIJȠijંȡȠȢ appunto, il messaggero, così sottintendendo che il messaggio recato non era orale, ma scritto; in tutti questi casi la lettera viene ricordata quale mezzo privilegiato di
1 A VIII,16,5 il testo è incerto tra ਥʌȚıIJȠȜ ed ਥʌȚȕȠȜ; i dati riportati nel testo sono attinti da A. MAUERSBERGER, Polybios-Lexikon, Berlin 1956-1961.
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comunicazione di una diplomazia, che ha per quasi esclusivo teatro il mondo ellenistico2. Di per sé, questa attenzione puntigliosa e quasi maniacale a precisare lo strumento della comunicazione, quando pure l’uso della forma epistolare doveva apparire scontato per i lettori di Polibio, ha già un suo signicato, perché serve a far emergere la realtà di un mondo acculturato, che aderiva abitualmente alla civiltà della scrittura e si contrapponeva così al barbarico mondo d’Occidente, l’Africa e soprattutto la Spagna, dove questa prassi, almeno stando a Polibio, sembra invece assente3. D’altra parte siamo ancora molto lontani da un interesse di tipo documentario verso le lettere: Polibio (o la sua fonte, che in un caso è esplicitamente identicata in Filarco)4 non pensa certo a vericare il contenuto delle lettere e neppure a riferirlo con una certa ampiezza, ma vuole solo inserire all’interno del tessuto narrativo un concreto riferimento all’abituale strumento, con cui si tenevano in contatto i protagonisti della politica, re, città, senato, assemblee ecc...; a conforto di quanto ho appena affermato posso addurre un particolare curioso, ma signicativo: mentre è ben noto l’interesse di Polibio per i sistemi cifrati di trasmissione dei messaggi a distanza5, nei tre casi, in cui menziona lettere cifrate6, egli si limita a denirle tali, ma non rivela nessun interesse ad accertare il tipo di cifrario usato, come invece farà p.e. Cassio Dione a proposito della corrispondenza di Cesare7. Un gradino più in alto ci portano i cinque casi di lettere false o presunte tali, fabbricate con un preciso scopo politico (p.e. per suscitare l’ostilità di Tolemeo IV Filopatore contro Cleomene III nel 220) o contestate per annullarne l’inusso (p.e. di una lettera di C. Lucrezio Gallo ai Rodii agli inizi della III guerra macedonica8: qui c’è almeno l’attenzione a distinguere appunto il genuino dal falso, che si inserisce nell’interesse ellenistico per la
2 L’unica vera eccezione è forse la lettera (contraffatta) di Mato e Spendio durante la guerra libica nel 239 (I,79,10-14); la lettera di Teuta agli Illiri (II,6,4) e quella, cifrata, di Annibale ai Capuani (IX,5,1-6) appartengono già a personaggi più ellenizzati. 3 Naturalmente mi riferisco alla prassi nei rapporti con e tra le tribù iberiche; nei rapporti tra i generali punici o romani nella penisola e i rispettivi senati la lettera resta invece il normale mezzo di comunicazione, come si evince da Livio (p.e. a XXIII,27,10 lettera di Asdrubale a Cartagine; a XXIII,48,4 lettera di P. e Cn. Scipione a Roma) e come doveva quindi risultare anche dal Polibio perduto. 4 II,61,4-5 = Phylarch. fr. 55 Jacoby (lettera di Cleomene III ai Messeni nel 224). 5 X,45. 6 VIII,15,9; VIII,17,4-8; IX,5,1-6. 7 Dio XL,9 (e cfr. anche Suet. DJ 56 e Aul. Gell. NA XVII,9). 8 V,38,1-5 e XXVII,7,1 + 8,10 rispettivamente; gli altri tre casi sono I,79,10-14 (lettere contraffatte di Mato e Spendio nel 239), V,42,7-9 (falsa lettera di Acheo consegnata ad Antioco III nel 223) e V,50,11-13 (falsa lettera di Molone ad Epigene nel 221).
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ricerca lologica e per la letteratura pseudoepigrafa ; c’è, di conseguenza, la consapevolezza che un documento può essere stato ‘costruito’per un determinato ne: esso può esser non vero e tuttavia non per questo è privo di interesse, anzi merita di essere registrato come falso, sia che abbia raggiunto lo scopo pressato, sia che venga smascherato. Tuttavia anche in questo caso sottolineerei che a Polibio importa più l’esito del falso, la sua efcacia propagandistica, che l’indagine per appurare se è veramente falso o no: infatti egli si limita a classicare queste lettere come false, offrendoci, per così dire, il risultato ormai acquisito di un’indagine svolta in precedenza da altri. Vengo ora a quattro casi, in cui è, a mio avviso, altamente probabile che Polibio non citi soltanto una lettera, riassumendone il contenuto, ma che abbia visto la lettera in questione. A XVI,36, a proposito delle lettere di mobilitazione mandate da Filopemene alle singole città achee nel 201/200, Polibio annota che Filopemene inviò alle città più lontane sia la lettera a loro indirizzata, sia le lettere indirizzate alle altre città situate sul medesimo percorso: i magistrati di ogni pólis ricevevano le istruzioni sul da farsi solo no alla pólis più vicina e, una volta giunti lì, consegnavano la lettera apposita contenente ulteriori istruzioni, e così via, in modo che la meta nale (Tegea) delle diverse colonne mobilitate restasse segreta no all’ultima tappa e che esse vi giungessero contemporaneamente; mentre descrive con visibile compiacimento questo stratagemma, giacché esso rientra appunto nella letteratura di ıIJȡĮIJȘȖȝĮIJĮ e in quanto tale lo interessa, Polibio inserisce per completezza il testo di una di queste lettere di mobilitazione, noi diremmo ‘il facsimile’: ora, dato il contesto (acheo e lopemeniano), mi sembra probabile che lo storico riporti qui un documento, che aveva avuto a disposizione (p.e. tramite il padre Licorta) e aveva trascritto già nella Vita di Filopemene. A XXIX,25 sotto il 169/8 Polibio riferisce di un’epistola di Q. Marcio Filippo esibita all’assemblea degli Achei da Andronida e Callicrate per esortarli a collaborare coi Romani nel promuovere la pace tra i Tolemei e Antioco IV; Polibio aggiunge che egli, presente all’assemblea, pur sapendo che il precedente e diretto tentativo di un’ambasceria romana in Egitto era fallito, tacque per rispetto a Filippo e si astenne dalla discussione per non opporsi alla richiesta contenuta nella missiva: è chiaro dal racconto che Polibio vide la lettera di Filippo e ne sentì leggere l’intero contenuto all’assemblea; è però altrettanto chiaro che a lui importa non tanto la lettera in sé – e
9 Basti pensare all’attenzione riservata da un autore come Ateneo, epigono del miglior ellenismo, alle questioni riguardanti l’attribuzione di una determinata opera a questo o quello autore. Sulla letteratura pseudoepigrafa cfr. B. VIRGILIO, Logograa greca e storiograa locale pseudoepigraphos in età ellenistica, SCO 29, 1979, 131-167.
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infatti ne sintetizza in breve il messaggio – quanto la sua reazione di fronte ad essa. A XXX,32 sotto il 165/4 Polibio riferisce la risposta del senato agli ambasciatori achei sul ritorno degli esuli in patria; essendo lo storico stesso tra questi, il parere negativo del senato lo colpiva direttamente e perciò egli lo trascrive e vi aggiunge un accorato commento sulle reazioni dei Greci a Roma e in patria: il coinvolgimento personale è senza dubbio il motivo, per cui Polibio si informò sul testo della risposta data per iscritto (ȖȡĮȥĮȞ ਕʌંțȡȚıȚȞ IJȠȚĮIJȘȞ) e lo riportò ad uerbum, anche se ciò non implica necessariamente che l’abbia controllato di persona (dovette informarsene presso gli ambasciatori e questi avrebbero potuto o mostrarglielo o anche soltanto citarglielo) e se, per di più, non si tratta stricto sensu di una ਥʌȚıIJȠȜ o ȖȡȝȝĮ, bensì di una ਕʌંțȡȚıȚȢ, sia pure – è implicito – in forma di lettera. Inne a XXXI,13-14 sotto il 163/2 Polibio riporta il breve testo (due versi dalle Fenicie di Euripide e quattro forse di Epicarmo) di un proprio biglietto (ʌȚIJIJțȚȠȞ), in cui avvertiva Demetrio di Siria a banchetto di non lasciarsi distogliere dal piano di fuga in precedenza architettato: dietro la trascrizione di questo messaggio scritto vi è il compiacimento di enfatizzare il proprio ruolo nella circostanza e di registrare particolari aneddotici e poco signicativi, ma che nessun altro poteva conoscere10. Nel complesso tre dei quattro casi presi in esame sono concentrati nei libri XXIX-XXXI, cioè nell’ultima parte delle Storie, in cui, come è già stato notato11, si accentua il tono autobiograco della narrazione: di questa caratteristica essi sono un’ulteriore conferma, giacché riguardano non il Polibio storiografo e quindi utilizzatore di documenti epistolari, bensì il Polibio attore di storia, uomo politico e poi esule acheo in Roma. Restano altri tre casi, indubbiamente di più ampio respiro e di maggior interesse per la prospettiva che qui ci riguarda. Il primo concerne le battaglie di Chio e Lade del 202/1 combattute da Filippo V contro Attalo I e i Rodii; a XVI,9 Polibio riferisce che il navarca rodio Teolisco, ferito nel primo scontro, sopravvisse ancora un giorno e potè inviare un resoconto della battaglia in patria (IJૌ ʌĮIJȡįȚ ȖȡȥĮȢ ਫ਼ʌȡ IJȞ țĮIJ IJȞ ȞĮȣȝĮȤĮȞ); poi, a XVI,15, all’interno del ben noto excursus critico verso gli storici rodii antiromani Zenone e Antistene, Polibio nota che il loro resoconto della seconda battaglia (quella di Lade) conteneva tutta una serie di dati, che portavano a concludere per la vittoria macedone, ma che alla ne essi sostene-
10 Per il commento ai tre passi sopra citati cfr. F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, III, Oxford 1979, 402, 461 e 480-482 rispettivamente. 11 F.W. WALBANK, Polybius’ last ten books, in Historiographia antiqua in honorem W. Peremans, Leuven 1977, 139-162 = Selected Papers, Cambridge 1985, 325-343, pp. 341-2.
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vano invece la vittoria rodia, nonostante nel pritaneo di Rodi fosse ancora conservata la lettera (ਥʌȚıIJȠȜ) inviata dal navarca alla ȕȠȣȜ e ai pritani, che confermava il giudizio di Polibio (vittoria di Filippo V), non quello di Zenone e Antistene (vittoria dei Rodii e di Attalo I). Nei due passi Polibio manifesta una grande attenzione ai resoconti dei navarchi rodii, di cui precisa destinatari e luogo di conservazione; in particolare a XVI,15 sembra di essere nalmente alla presenza di una lettera usata all’interno di una polemica storiograca per sostenere una determinata versione di un importante evento storico e accertare di conseguenza il suo reale esito; non c’è dubbio che questo è il caso per noi più soddisfacente, quello in cui Polibio più si avvicina alle moderne esigenze del metodo storiograco, che pretende la ricerca e la consultazione dei documenti primari, qual è il resoconto ufciale della battaglia da parte del comandante di una delle due otte, e determina l’attendibilità delle varie ricostruzioni proprio in base all’esame di tali documenti. Tutto ciò non deve farci dimenticare, a costo di apparire ipercritico, che: 1) il caso è pressoché unico12 in tutta l’opera polibiana superstite; 2) non può essere fortuito che Polibio ne sia coinvolto in quanto storiografo, cioè che si tratti di appurare il maggiore o minor grado di attendibilità non tra due o più versioni storiograche qualsiasi, ma tra la sua e quella di Zenone e Antistene13: l’esigenza della ricerca documentaria sembra allora più quella di darsi ragione che di accertare la verità; 3) è possibile, ma non sicuro che Polibio abbia visto e controllato di persona la lettera del navarca rodio: della sua esistenza e del suo contenuto, tale da suffragare la propria versione, egli avrebbe potuto apprendere da un’altra fonte (scritta od orale), comunque da un intermediario, e proprio la peculiarità del caso mi fa propendere per questa conclusione, venata di scetticismo14.
12 L’analogo caso di X,9 discusso infra riguarda una lettera di Scipione l’Africano e, come è noto, il rapporto di Polibio con gli Scipioni è del tutto speciale. 13 Sulla polemica di Polibio contro Zenone e Antistene cfr. ora D. LENFANT, Polybe et les ‘fragments’ des historiens de Rhodes Zénon et Antisthène (XVI 14-20), in G. SCHEPENSJ. BOLLANSÉE (eds.), The Shadow of Polybius, Leuven 2005, 183-204. Classico rimane H. ULLRICH, De Polybii fontibus Rhodiis, Lipsiae 1898, 5-17 e 37-41, di recente superato da H.U. WIEMER, Rhodische Traditionen in der hellenistischen Historiographie, Frankfurt am Main 2001. 14 WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, II, Oxford 1967, 511 e 520 (P.’s reference to the dispatch...may, but need not necessarily, imply that he had seen it himself); intermediario potrebbe essere Zenone stesso (così sempre Walbank) oppure un anonimo che avrebbe consultato il documento per Polibio (così P. PÉDECH, Un nouveau commentaire de Polybe, REG 71, 1958, 438-443, p. 441); per l’autopsia si pronunciava invece A. SCHULTE, De ratione quae intecedit inter Polybium et tabulas publicas, Halis Sax. 1910, 181-182. Nel contesto della polemica con Zenone Polibio cita anche, a XVI,20,5-7, una propria lettera inviata a Zenone stesso per segnalargli alcuni errori commessi riguardo alla topograa
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Gli ultimi due casi sono strettamente connessi tra loro a causa della comune origine: essa li unisce e, insieme, li rende peculiari e distinti dagli altri sin qui considerati. A X,9 Polibio cita una lettera di Scipione l’Africano a Filippo V15, scritta con ogni probabilità nel 190, in cui il condottiero romano illustrava i criteri-guida delle sue operazioni in Spagna e soprattutto dell’audace marcia nel 209 verso Carthago Nova e della successiva conquista della città; sembra di poter inferire che Scipione insistesse sull’accurata pianicazione delle sue mosse, sui calcoli dei tempi e delle distanze (p.e. quanto tempo era necessario per giungere sotto Carthago Nova e a quanta distanza si trovavano i tre eserciti punici in Spagna così da poter conquistare la piazzaforte prima che arrivassero i soccorsi), in genere sull’elemento razionale che presiedeva alla sua strategia: infatti Polibio sottolinea che la lettera in questione si accordava in pieno con la propria versione (esposta appena prima), nonché con le testimonianze degli amici di Scipione, Lelio in particolare, e con la verosimiglianza, contro altri autori, che attribuivano il successo del piano di Scipione a un qualche imprecisato motivo, o la fortuna o gli dei. Come nel precedente caso della lettera del navarca rodio, anche qui Polibio invoca una testimonianza epistolare all’interno di una polemica storiograca, che lo vede contrapposto agli storici fautori della cosiddetta ‘leggenda di Scipione l’Africano’16, del suo speciale rapporto con le divinità e dei loro ripetuti interventi a suo favore: la ricerca documentaria è dunque sempre in funzione non tanto dell’accertamento della verità storica in sé e per sé quanto del rafforzamento della ‘propria’verità contro un’altra. Qui siamo però in un contesto scipionico, che ha nell’opera del Megalopolitano uno spazio del tutto particolare, ed è allora molto più probabile che Polibio abbia consultato direttamente la versione contenuta nell’epistola, poiché una copia di essa poteva trovarsi nell’archivio famigliare degli Scipioni e lo storico acheo vi aveva facile accesso17. A XXI,11 sotto il 190 Polibio riferisce di frequenti messaggi, con cui
della Laconia: la lettera è molto importante per quanto concerne le relazioni tra storici e la pubblicazione e diffusione delle opere storiograche, ma non è presa in considerazione come documento (e quindi non è stata compresa nella nostra schedatura). 15 È il fr. 5 Cugusi degli Epistolographi latini minores, I,1-2, Aug. Taurin. 1970. 16 Storici come Sileno di Calatte via Celio Antipatro, Q. Fabio Pittore, come vorrebbe Walbank (cfr. nota sg.), lo stesso glio dell’Africano oppure A. Postumio Albino, appartenenti o vicini al clan degli Scipioni. Sulla ‘leggenda di Scipione’, oltre ai classici e noti studi di Walbank e Gabba, cfr. ora E. TORREGARAY, La elaboración de la tradición sobre los Cornelii Scipiones, Zaragoza 1998. 17 Così già WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, II, 204.
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Antioco III sollecitava Prusia di Bitinia ad unirsi con lui in un’alleanza antiromana, e del timore di Prusia che in effetti il passaggio dei Romani in Asia implicasse l’abbattimento di tutte le monarchie locali; essendo egli incline a schierarsi col re di Siria, ne fu dissuaso dall’arrivo di una lettera di L. e P. Scipione, di cui lo storico fornisce un ampio riassunto (24 linee Teubner)18: né essi, né Roma in genere avevano mai privato nessun re del suo dominio, anzi molti li avevano consolidati ed estesi; così era accaduto a Indibile e Colicante in Spagna, a Massinissa in Africa, a Pleurato in Illiria, a Filippo V e a Nabide in Grecia; Filippo era stato benecato per la lealtà dimostrata dopo essere stato scontto, Nabide non era stato annientato, pur essendo un tiranno; perciò essi esortavano Prusia a non temere per il suo regno e a scegliere l’alleanza con Roma. La lettura dell’epistola fu decisiva, perché cambiò le intenzioni del sovrano bitinico (ੰȞ ȆȡȠȣıĮȢ įȚĮțȠıĮȢ ਥʌૃਙȜȜȘȢ ਥȖȞİIJȠ ȖȞઆȝȘȢ), come constatò la successiva ambasceria di C.Livio Salinatore. Le caratteristiche davvero eccezionali di questo caso risultano subito evidenti: 1) altrove Polibio non fornisce mai il riassunto così dettagliato di una lettera; 2) altrove Polibio non usa mai un documento epistolare per spiegare un determinato avvenimento, cioè il passaggio di Prusia da una potenziale alleanza antiromana a una neutralità benevola nei confronti di Roma; 3) altrove Polibio non usa mai un documento epistolare per illustrare un tema così delicato e complesso di propaganda politica qual è l’atteggiamento di Roma verso la monarchia come forma di governo in generale e verso i sovrani ellenistici nei singoli, concreti casi. In frangenti analoghi, di solito, Polibio si limita a registrare l’invio e l’arrivo delle lettera, seguita o accompagnata dall’arrivo di una legazione, e non afda ad altri più ampie considerazioni a commento della situazione, poiché le riserva a se stesso; qui però dovette scattare in lui la decisione di riportare la sostanza di questo documento, perché lo avvertiva di straordinario valore per due motivi: 1) la paternità scipionica; 2) il contenuto ‘ideologico’. In effetti la lettera è anche per noi un testo interessantissimo, che rivela tutta l’attenzione posta dal ceto dirigente romano e soprattutto dai suoi esponenti più lellenici nel rassicurare l’establishment ellenistico e nel controbattere una propaganda avversaria incentrata, in modo tutt’altro che infondato, sull’atavico odio dei Romani verso i re19.
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È il fr. 7 Cugusi. Il tema sarebbe stato oggetto, secondo Liu. XXXVII,25,4-7, di una precedente lettera di Antioco III a Prusia proprio in questa circostanza; esso, come è noto, riafora p.e. nell’Epistola di Mitridate ad Arsace in Sall. Hist. IV,69 M., 5-9; 15 (secuti...Romani...morem suom omnia regna subuortundi) e 17 (maxume regna hostilia ducant). In genere cfr. P.M. MARTIN, L’idée de royauté à Rome, II, Clermont Ferrand 1994, 88-89 e F. RUSSO, L’odium regni a Roma tra realtà politica e nzione storiograca, Pisa 2016. 19
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Le lettere come documenti
Purtuttavia Polibio non avrebbe, a mio avviso, riprodotto questa lettera, se essa non fosse stata scritta dai due Scipioni e non facesse parte di quel tto carteggio intrattenuto con sovrani e città d’Asia nel 190, di cui abbiamo altrove, più frammentarie e cursorie, testimonianze letterarie ed epigrache20: da un lato l’ammirazione verso l’Africano e l’amicizia verso gli Scipioni lo spinse ad afdare alle sue Storie una testimonianza dell’abilità diplomatica e propagandistica del vincitore di Zama, dall’altro la reperibilità del testo nell’archivio di famiglia messogli a disposizione dall’Emiliano costituiva un’occasione troppo allettante per sottrarsi alla tentazione di inserirlo nella sua opera21. In conclusione, di fronte alle numerose citazioni cursorie e puramente ‘narrative’di lettere, constatiamo in Polibio un uso delle lettere come documenti non solo assai raro, ma ancor più casualmente dettato da tre soli fattori, dalle sue vicende autobiograche, dalle personali polemiche storiograche, dalla fortuita disponibilità dell’archivio degli Scipioni, mentre manca del tutto una ricerca di testimonianze epistolari atte a controllare una determinata ricostruzione storica, che sia indipendente dalle tre suddette condizioni. È in tal senso estremamente signicativo, a mio avviso, che Polibio, pur avendo – ripeto – a disposizione l’archivio degli Scipioni, non ritenga di dover vericare i dati riguardanti la campagna di Pidna nell’ਥʌȚıIJંȜȚȠȞ scritto a tal proposito da Scipione Nasica e venga rimproverato e corretto sulla base di quel testo da Plutarco22: siccome non vi erano qui coinvolgimenti polemici personali e siccome Nasica non era l’Africano, mentre era stato spesso in dissenso con l’Emiliano, Polibio non gli accorda importanza e omette così di utilizzare una preziosa testimonianza primaria, che aveva sotto mano.
20 Polyb. XXI,8,1 = fr.6 Cugusi (L. e P. Scipione inviano lettere a L. Emilio Regillo e ad Eumene II); G. DE SANCTIS, Una lettera degli Scipioni, AAT 57, 1921/1 922, 242-249 (ad Eraclea del Latmo); M. HOLLEAUX, La lettera degli Scipioni agli abitanti di Colofone a mare, RFIC N.S.2, 1924, 29-44. 21 Così già D. ROUSSEL, Polybe, Collection ‘Pléiade’, Paris 1970, 1408. 22 Plut. Aem. Paul. 15,2; 16,1; 21,7 = fr. 1a, b e d Cugusi.
PARTE SECONDA
Terre e popoli
CAPITOLO IV TEORIA E PRASSI DEL VIAGGIO
1. Il viaggio scientico È nota l’importanza della geograa nell’economia dell’opera di Polibio1. Il problema dei rapporti tra geograa e storia e del ruolo della prima in un’opera storiograca dovette essere ben presente al Megalopolitano sin dalla prima stesura delle Storie, comprendente in 29 libri i 53 anni dal 220 al 168 e compiuta tra questa data e il 1512. La connessione tra le due discipline è infatti all’origine stessa della storiograa greca e si era a mano a mano affermata quale sua ineludibile componente3: in particolare, per 1 Basti il rinvio a: F.W. WALBANK, The Geography of Polybius, C & M 9, 1947, 155182; ID., Polybius, Berkeley-Los Angeles 1972, 114-128; ID., A Historical Commentary on Polybius, III, Oxford 1979, 563-565; P. PÉDECH, La géographie de Polybe, LEC 24, 1956, 3-24; ID., La méthode historique de Polybe, Paris 1964, 515-596; ID., La géographie des Grecs, Paris 1976, 122-127; FR. PRONTERA, La geograa di Polibio: tradizione e innovazione, in J. SANTOS YANGUAS-E. TORREGARAY (eds.), Polibio y la Península Ibérica, Vitoria 2003, 103-111. 2 Seguo ancora in linea di massima K. ZIEGLER, s.v. Polybios, in RE XXI-2, coll. 14401578, specialmente coll. 1471-1489 e PÉDECH, Méthode, 529-530, pur tenendo presenti in particolare le obiezioni di D. MUSTI, Problemi polibiani, PP 20, 1965, 383-388; ID., Polibio negli studi dell’ultimo ventennio (1950-1970), in «ANRW» I, 2, Berlin-New York 1972, 1115-1117. 3 Così WALBANK, Polybius, 115-116 (in particolare per il paradigma eforeo); PÉDECH,
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chi come Polibio sapeva di dover esporre un intreccio ecumenico di avvenimenti4 a partire da regioni occidentali pressoché sconosciute ai Greci (le origini della II guerra punica si localizzavano nella penisola iberica) e intendeva farlo con scientica precisione di dettagli topograci, era inevitabile il confronto con Erodoto e la sua scettica incredulità sulle voci e le notizie circolanti a proposito delle regioni ad ovest del mondo ellenico5, con Eforo e la sua ʌȡȠțĮIJĮıțİȣȒ geograca del IV e V libro6, inne con Timeo, sino allora incontrastata autorità sulla Geographie des Westens7. È però vero che Polibio rimandò il proprio appuntamento con la geograa al XXXIV libro, cioè alla redazione denitiva delle Storie, posteriore al 146 e comprendente, oltre al seguito della narrazione dal 168 alla caduta di Cartagine e Corinto, anche non poche integrazioni dei libri precedenti, tra cui quelle di carattere geograco dove il XXXIV libro è presupposto e forse anche talune altre8. Ora, l’inserzione dell’excursus monograco dedicato alla geograa nel XXXIV libro non può essere giusticato da ragioni di ordine storico: esso infatti si inserisce tra gli eventi del 153/2 quelli del 152/1 e perciò non vale come introduzione né alla guerra celtiberica, cominciata nel 154/3, né alla III guerra punica, cominciata nel 150/499; più convincenti sono le ragioni di ordine autobiograco, giacché nel 152/1 Scipione Emiliano giunse in Spagna quale volontario col grado di tribuno o legato con Polibio al seguito10 e nel corso del soggiorno iberico lo storico poté efMéthode, 516 e 555 pensa, come è noto, a un’evoluzione di Polibio dalla storia alla geograa in conseguenza dei viaggi del 152/146, ipotesi tanto suggestiva quanto improbabile. 4 F.W. WALBANK, Symploke. Its role in Polybius’ Histories, YCS 24, 1975, 197-212. 5 Herod. III 115-116; su Erodoto è fondamentale CHR. VAN PAASSEN, The classical tradition of geography, Groningen 1957, 65-211. 6 Strab. VIII 1,1 = T12 + frr. 30-53 e 128-172 Jacoby; cfr. F. PRONTERA, Prima di Strabone: materiali per uno studio della geograa antica come genere letterario, in AA.VV., Strabone, I, Perugia 1984, 201-210. 7 L’ovvia allusione è a J. GEFFCKEN, Timaios’ Geographie des Westens, Berlin 1892, ma cfr. in seguito L. PEARSON, The Greek Historians of the West: Timaeus and his predecessors, Atlanta 1987, 53 ss. e R. VATTUONE, Sapienza d’Occidente : il pensiero storico di Timeo di Tauromenio, Bologna, 1991; ID., Timeo di Tauromenio, in ID. (ed.), Storici greci d’Occidente, Bologna 2002, 177-232. 8 La lista di tali integrazioni in PÉDECH, Méthode, 572 va ridotta (p.e. non credo che vi appartenga l’excursus sulla Gallia Cisalpina a II 14,3-17,12 per cui cfr. infra), ma sembrano sicure almeno III 36-39 e III 57-59, prima e seconda parte di un’unica digressione metodologica intervallate dal racconto della spedizione di Annibale. 9 Guerra celtiberica: A. SCHULTEN, Polybios und Posidonios über Iberien und die iberischen Kriege, Hermes 46, 1911, 568-607 (ma cfr. contro WALBANK, A historical Commentary, III, 563); guerra punica: D. MUSTI, Recensione a WALBANK, A historical Commentary III, RFIC 109, 1981, 320. 10 Non credo invece a una peraltro poco chiara commistione di motivi politici e personali
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fettuare il primo dei suoi due grandi viaggi esplorativi in Occidente, che gli permise di conoscere la penisola come nessun altro Greco prima di lui; nel 146 si aggiunse la ʌİȡȚȠįİȓĮ dell’Africa settentrionale, ma resta il fatto che a partire dal 152/1 Polibio ebbe l’occasione di farsi geografo sul campo, di applicare anche alla geograa quel criterio autoptico, che era per lui irrinunciabile presupposto di serietà scientica: perciò in orgoglioso riferimento a se stesso, alle proprie esperienze che lo autorizzavano ormai a ritenersi lo scopritore consapevole dell’Occidente agli occhi dei compatrioti e in ideale continuità coi precedenti progressi della geograa ellenistica, egli inserì qui e non altrove il XXXIV libro. Queste considerazioni introduttive di ordine generale, che sottintendono una ben determinata scelta di fronte ad alcune delle più dibattute questioni polibiane, mi sono parse necessarie per inquadrare sin dall’inizio all’interno del più ampio tema ‘Polibio e la geograa’ l’argomento specico di cui intendo occuparmi, quello dei viaggi (reali o ipotetici, personali o altrui) presenti nelle Storie, allo scopo di tentare di coordinarli tra loro e appunto di metterli in relazione con l’atteggiamento dello storico verso la geograa. A III 58, 5-59, 9, all’interno di una delle due digressioni geograche del III libro (36-38 e 57-59) inserite durante la seconda redazione delle Storie, Polibio allinea le sue riessioni teoriche in materia di viaggi che abbiano lo scopo di ampliare le conoscenze geograche dell’uomo, cioè che vogliano essere viaggi di esplorazione dal carattere rigorosamente scientico. Egli osserva in primo luogo che sino ai suoi tempi era molto difcile, se non impossibile per un Greco spingersi nelle terre inesplorate ai conni del mondo a causa dei numerosi pericoli esistenti per terra e per mare. Ammette poi l’ipotesi che qualcuno o per la necessità del caso o per scelta ci sia riuscito: gli sarebbe stato comunque assai ostico compiere una diretta e personale ricognizione di quei territori (ĮIJȩʌIJȘȞ ȖİȞȑıșĮȚ), applicare cioè al loro studio il primo grado di scienticità fondato sull’autopsia, perché essi erano o abitati da popolazioni barbariche, e quindi potenzialmente nemiche, oppure deserti e quindi tali da impedire un soggiorno sufcientemente lungo; d’altra parte, anche nel caso che si fossero riusciti a stabilire contatti pacici con gli indigeni, l’ignoranza dei reciproci linguaggi avrebbe impedito di ottenerne le necessarie informazioni e di applicare il secondo grado di scienticità fondato sull’ਕțȠȒ; rimossa per ipotesi questa duplice aporia, colui che fosse
come inclinano a pensare PÉDECH, La géographie, 4 e WALBANK, A historical Commentary, III, 564. Sul grado dell’Emiliano nel 152/1 cfr. A.E. ASTIN, Scipio Aemilianus, Oxford 1967, 340 e WALBANK, A historical Commentary, III, 647.
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riuscito nell’impresa di procurarsi un discreto materiale geoetnograco o col primo o col secondo criterio avrebbe costituito una tale eccezione che ben difcilmente si sarebbe sottratto a una terza aporia, questa volta soggettiva, e cioè alla tentazione di abbellire e ampliare il proprio resoconto, in origine inevitabilmente scarno e lacunoso, con aggiunte di pura fantasia, tendenti a stupire e a meravigliare: di qui la dura conclusione di questa pars destruens, secondo la quale prima di Polibio un’esposizione veridica su questo tema delle terre ignote alle estremità del globo era non difcoltoso, ma addirittura impossibile, appena temperata dalla benevola considerazione che non bisogna perciò criticare gli storici precedenti per i loro errori, ma anzi apprezzarli se talvolta riuscirono a far progredire comunque la scienza geograca pur nelle negative condizioni in cui si trovarono ad operare. La pars construens di questa digressione polibiana (a partire da 59,3) appare meno complessa, quasi fosse per certi aspetti un’appendice della precedente: Polibio vi afferma che al suo tempo la situazione è radicalmente mutata grazie alle conquiste di Alessandro in Asia e poi all’egemonia romana sull’intera ecumene, perché questi eventi hanno prodotto un notevole ampliarsi delle possibilità di viaggiare con sicurezza per terra e per mare e soprattutto perché la vigente pax Romana distoglie gli uomini d’azione dalle attività politiche e militari e li spinge a interessarsi alla geograa (forse anche perché si tratta di una scienza abbastanza afne alla loro mentalità). Per soddisfare questa nuova esigenza di sapere, egli ha compiuto i suoi viaggi in Africa, Spagna, Gallia e no all’Oceano, esponendosi a rischi e a fatiche, e così - conclude orgogliosamente - ha disvelato ai Greci quelle parti della terra che prima erano loro ignote. Della pagina polibiana sin qui riassunta si possono individuare tre livelli di lettura. Il primo, più scoperto e immediato, rivela l’intenzione polemica di fare, per cosi dire, tabula rasa alle proprie spalle, di affermare a priori un vuoto di conoscenze che egli si apprestava a colmare: siccome era in teoria impossibile che ci potessero essere resoconti afdabili sulle zone estreme del mondo, ne discendeva che i resoconti esistenti (Polibio certo pensava innanzitutto a Pitea, ma anche al ȞȩıIJȠȢ di Giasone in Timeo e in genere alla letteratura paradossograca ellenistica, in cui si mescolavano l’elemento utopico e quello meraviglioso11) non erano afdabili e che quindi chi fosse riuscito da allora in poi a comporne uno degno di ducia avrebbe stabilito in quel settore un indiscutibile primato.
11 Su Pitea cfr. nota 32; su Giasone (Tim. fr. 85 Jac. = Diod. IV 56,3) cfr. nota 27. Altri esempi sono i viaggi immaginari di un Evemero di Messene o di uno Iambulo (Diod. II 55,1-60,3) verso un’isola, che è forse Ceylon.
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Il secondo livello è metodologico: nel momento in cui lo storico annuncia la propria intenzione di farsi geografo, vuol ssare i principi d’indagine a cui attenersi in questa sua nuova attività e lo fa trasponendo semplicemente alla geograa i criteri della storia. Questi ci sono tutti, non solo la vista (o autopsia) e l’udito già teorizzati da Erodoto12 nei libri iniziali, i più «etnograci», della sua opera, ma anche la tendenza, l’İȞȠȚĮ tucididea13, giacché a nient’altro corrisponde, da un punto di vista negativo, la terza aporia polibiana: per il viaggiatore, per l’esploratore, la deformazione può nascere dalla tentazione di riferire il falso per ingrandire i propri meriti e l’importanza delle proprie scoperte, per İȞȠȚĮ non verso un personaggio o una fazione, come nella storiograa politica di Tucidide, ma verso se stessi14: così il «tucidideo» Polibio completa anche in campo geograco il metodo erodoteo, che Tucidide aveva già perfezionato in campo storico. Ora, la trasposizione integrale e rigorosa del metodo storico più avanzato, quello appunto tucidideo, negli studi geograci non deriva dall’assenza di capacità alternative, come se Polibio applicasse quell’unico metodo a lui noto a qualsiasi settore d’indagine, ma dalla convinzione che proprio la stretta afnità tra storia e geograa permetteva allo storico e non ad altri di occuparsi anche della seconda: la prova migliore dell’esattezza di questa convinzione era offerta dall’adattabilità del metodo storico alle esigenze della geograa (qui dimostrata da Polibio) e dall’eccellenza degli esiti raggiunti in tal modo in questioni geograche. È appena il caso di ricordare che per «geograa» si intende qui quel che Polibio chiamava IJȠʌȠȖȡĮijȓĮ (oppure ȤȦȡȠȖȡĮijȓĮ) IJોȢ ȠੁțȠȣȝȑȞȘȢ, cioè la geograa descrittiva e antropica; per l’altro aspetto della IJȠʌȠȖȡĮijȓĮ / ȤȦȡȠȖȡĮijȓĮ, quello IJોȢ ȖોȢ, cioè la geograa sica15, serviva un altro metodo, mutuato anch’esso, ma non più ovviamente dalla storia, bensì dalla geometria e applicato con pari rigore nella prima parte del XXXIV libro16. La terza e ultima chiave di lettura investe più direttamente il tema 12 Herod. II 99. Cfr. G. NENCI, Il motivo dell’autopsia nella storiograa greca, SCO 3, 1953, 14-46; M. LAFFRANQUE, La vue et l’ouïe, RPhilos 153, 1963, 75-82; G. SCHEPENS, L’«autopsie» dans la méthode des historiens grecs du Ve siècle av. J. Chr., Bruxelles 1980, 33-93. Sull’autopsia in POLIBIO NENCI, Motivo, 38-40; PÉDECH, Méthode, 355-404; M. LAFFRANQUE, L’oeil et l’oreille. Polybe et les problèmes de l’information en histoire à l’époque hellénistique, RPhilos 158,1968, 263-272. 13 Thuc. I 22,3. 14 Si noti che manca nella metodologia geograca di Polibio la seconda alternativa prevista da Tucidide quale causa di deformazione e cioè la ȝȞȒȝȘ. 15 Per questa terminologia polibiana, il suo uso e il suo signicato mi attengo a PÉDECH, La géographie, 5-7. 16 Polibio e la geograa geometrica: PÉDECH, Méthode, 591 ss.
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del viaggio: infatti, enunciando le difcoltà che di solito si frapponevano all’esecuzione di viaggi nelle terre ignote ai limiti dell’ecumene e poi contrapponendovi la mutata situazione dei suoi tempi, Polibio viene in sostanza a formulare una teoria generale del viaggio d’esplorazione, che si può articolare nei seguenti punti: 1) il viaggio deve essere intrapreso da un competente, da uno scienziato (non p.e. da un privato qualsiasi come Pitea); 2) richiede mezzi, anche economici, sufcienti a soste lunghe quanto è necessario in luoghi prevedibilmente deserti e inospitali: è implicito quindi che il sostegno di monarchi o comunque di potenti uomini politici alla spedizione è spesso condizione ineludibile per il suo successo, cosi come in genere il mecenatismo regale di età ellenistica si era rivelato un fattore primario per lo sviluppo delle scienze; 3) richiede la conoscenza delle lingue dei luoghi che si visitano o, in più probabile alternativa, l’uso di interpreti; 4) deve sfociare in un resoconto scritto, che esponga i risultati del viaggio e che eviti consapevolmente le trappole della deformazione in senso meraviglioso e fantastico: di nuovo è implicito che solo uno scienziato può raggiungere un simile grado di obiettività; 5) è alla base, alle radici stesse della scienza geograca: se senza autopsia non si dà storia, è evidente che senza viaggi non si dà geograa; se lo storico deve avere in precedenza accumulato esperienze politiche, militari ecc..., è evidente che il geografo deve essere stato innanzitutto viaggiatore, esploratore, pioniere; in ultima analisi, la prassi deve precedere la teoria e si deve difdare ugualmente di viaggiatori sprovveduti come Pitea e di scienziati da tavolino come Eratostene, che niscono poi per credere appunto a un Pitea qualunque in mancanza di una propria esperienza diretta17; 6) il suo resoconto deve soddisfare le attese e le esigenze di una ben precisa categoria di persone (e di lettori) con interessi e inclinazioni insieme politiche e culturali. Dunque, al termine della sua teoria odeporica, Polibio si pone il problema del rapporto tra il geografo e il suo pubblico: a suo avviso, questo è costituito appunto da uomini politici per indole e tradizione, intellettuali per necessità; perciò è opportuno fornire loro dati sulla natura del territorio, le sue risorse minerarie, agricole e faunistiche, l’indole delle popolazioni e i loro usi e costumi (anche militari), che compongano una specie di guida pratica, utile per risolvere quesiti relativi all’amministrazione e al governo
17 Come è noto - e cfr. anche infra - la polemica di Polibio contro Eratostene è assai dura: a XXXIV 5,10 apud Strab. II,4,1-3 + 6,15 apud Exc. De uirt. et uitiis 113 si dice che Eratostene chiamava Evemero ǺİȡȖĮȠȞ, cioè ‘narratore di favole’ come Antifane di Berga, ma poi credeva a Pitea e così sorpassava in assurdità lo stesso Antifane e rendeva impossibile a chiunque di superarlo in questo genere di sciocchezze.
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di quei territori, ma è altrettanto necessario soddisfare le loro aspirazioni al puro ampliamento delle proprie cognizioni oppure talune domande di tipo particolare, spesso già messe a fuoco in teoria, ma in attesa di verica pratica, p.e. se a nord c’è una comunicazione diretta tra l’Oceano e il mar Caspio (se cioè quest’ultimo è un mare chiuso o un golfo)18, se parimenti agli antipodi, nell’emisfero australe, un’estensione ininterrotta di terre divide il mar Indiano dall’Oceano19 ecc... . Questi uomini d’azione prestati alla cultura perché ormai impossibilitati a svolgere un ruolo politico attivo a causa dell’egemonia romana sono certo i Greci (e Polibio stesso in primo luogo) dopo il 146, ma non si può escludere un sostanziale riferimento anche al sempre più ellenizzato ceto dirigente romano. Certo, i nobili romani non avevano affatto abbandonato le attività politico-militari, ma questo non li distoglieva da un crescente interesse verso la losoa e le scienze greche, in genere verso la paideia ellenica e in questo senso erano anch’essi ਰȜȜȘȞİȢ, potevano già porsi le medesime domande ed essere a conoscenza dei medesimi problemi topici della scienza ellenistica20. Comunque, Polibio sapeva di averli tra i suoi lettori e tale consapevolezza si rivela nell’evidente attenzione prestata dal Megalopolitano alle necessità del cosiddetto ‘imperialismo’ romano, su cui spesso si è posto l’accento21. Al di là di ciò resta notevole la presa di coscienza, mai così chiara come in questo passo, che il viaggiatore-scienziato deve badare a soddisfare attese originariamente diverse, ma ugualmente rispettabili e a comporle in equilibrata unità nella sua opera: in effetti, Polibio rimase fedele a questa distinzione teorica e l’applicò in concreto nel XXXIV libro, dove affronta questioni teoretiche e, in una certa misura, accademiche, p.e. se la zona equatoriale sia abitabile o no, quanto sia geogracamente attendibile Omero ecc..., ma si dimostra al tempo stesso sensibile alla realtà etnica ed economica di regioni come la Spagna (o già nel II libro la Gallia Cisalpina) di recente aperte al dominio romano.
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R. DION, Aspects politíques de la géographie antique, Paris 1977, 216-219. Come è noto, l’ipotesi, avanzata già da Ipparco, fu confermata solo in età imperiale: cfr. PÉDECH, Géographíe des Grecs, 184. 20 Riferimento ai Greci (certo sul piano linguistico): F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, I, Oxford 1957, 393; allusione a Polibio stesso: R. THOMMEN, Über die Abfassungszeit der Geschichte des Polybios, Hermes 20, 1885, 215; sull’assenza di distinzioni tra ceto colto greco e ceto romano ellenizzato rispetto alla geograa (e alle scienze ellenistiche in genere) insiste ora giustamente CL. NICOLET, L’inventaire du monde. Géographie et politique aux origines de l’empire romain, Paris 1988 = trad. it., Bari 1988, 60. 21 A. MOMIGLIANO, Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, Atti Accad. Scienze di Torino 1972/73, 693-707 = Sesto Contributo, Roma 1980, I, pp. 89-101 e soprattutto la classica monograa di D. MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli 1978, nonché, a più modesto livello, J.G. TEXIER, Polybe géographe, DHA 2, 1976, 395-411. 19
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È altresì, interessante constatare da ultimo che questa fondamentale distinzione polibiana tra due tipi di interesse nel proprio pubblico e due generi di domande, a cui il viaggiatore-scienziato era tenuto a rispondere, forse non fu sempre rispettata dalla successiva geograa ellenistica (è possibile p.e. che in Alessandro Cornelio Poliistore prevalesse l’aspetto ‘pratico’)22, ma venne accolta e mantenuta dal più autorevole storico greco del I sec. a.C., Posidonio: negli excursus geoetnograci delle sue Storie, quello del V libro sui Parti e soprattutto quello meglio noto del XXIII sui Celti, ritorna infatti l’alternanza tra temi d’interesse politico (1’abbondanza d’oro; l’indole guerriera; le tecniche militari)23 e temi inconfondibilmente culturali (il simposio celtico; i presunti rapporti tra dottrina pitagorica e druidismo)24. Forse, però, s’insinua in Posidonio qualche concessione all’elemento meraviglioso o per lo meno scandalistico (la comunità di donne devote a Dioniso situata su un’isola nell’estuario della Loira; la sfrenata omosessualità, ecc...)25, gradito a un terzo genere di pubblico, sia greco sia romano, meno colto ed esigente, ma più numeroso, che dai resoconti dei, viaggi si aspettava curiosità, divertimento, insomma quell’esotismo spicciolo vissuto per interposta persona, che il severo Polibio aveva escluso, almeno in linea di principio, dal proprio testo, bollandolo come ʌĮȡĮįȠȟȠȜȠȖȓĮ țĮ IJİȡĮIJİȓĮ. 2. Il viaggio mitologico: Odisseo La teorizzazione del viaggio scientico, a cui Polibio approda a ǿǿǿ, 58,5-59,9, è frutto di riessioni fondate sull’esperienza diretta dei propri viaggi tra il 152 e il 146 - ed infatti proprio a questi egli allude a 59,7. Di conseguenza, a questa fondamentale vicenda personale si dovrà tornare, ma è pur vero che quello dell’esploratore scienziato non è che la forma più consapevole e completa di viaggio e si pone al vertice di una tipologia, che raduna ovviamente diverse categorie di viaggi (di piacere, di affari, a scopi religiosi, ecc...)26. Al suo interno Polibio ebbe modo di occu-
22 Secondo la nota interpretazione di F. JACOBY, FrGrHist 3 A Komm, Leiden 1943, 250 ss., ma cfr. per una diversa e più convincente interpretazione L. TROIANI, Due ricerche di storiograa antica, Como 1989. 23 Oro: Diod. V 27; indole: Diod. V 32,3-4; abitudini militari: Diod. V 29-30. 24 Simposi: Athen. IV 151e-152d e 154a-c; Pitagora: Diod. V 28,6; Strab. IV 4,4. 25 Menadi su un’isola nell’estuario della Loira: Strab. IV 4,6 (che denisce ȝȣșįİȢ il racconto di Posidonio); omosessualità: Diod. V 32,7. 26 Per una panoramica generale sui diversi tipi di viaggio nella Grecia classica cfr. la sintesi di G. MARASCO, I viaggi nella Grecia antica, Roma 1978.
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parsi di due altri generi, la peripezia mitologica e la spedizione militare, che è opportuno esaminare alla luce della teorizzazione sopra illustrata. Come tra gli dei e i semidei Dioniso ed Eracle, così tra i mortali Giasone ed Odisseo sono i simboli mitici della tensione tipicamente greca verso la conoscenza di popoli nuovi e nuove terre, ma solo Odisseo in quanto personaggio omerico venne a costituire un problema geograco in età ellenistica27: accettare o negare la realtà della collocazione spaziale delle sue peripezie implicava infatti accettare o negare la credibilità e quindi l’autorità del Poeta. Davanti a questo dilemma si fronteggiavano due posizioni radicalmente opposte, quella scettica di Eratostene, che giudicava favola il racconto omerico e fondava su Pitea, umile e prosaico, ma recente, la sua conoscenza dell’Ovest, e quella ‘deistica’ di Cratete di Mallo, per cui Omero era già informato delle realtà geograche oltre le Colonne nel misterioso Oceano e con cognizione di causa vi aveva ambientato le avventure di Odisseo, il cosiddetto ਥȟȦțİĮȞȚıȝȩȢ28. Su questo sfondo è naturale che Polibio volesse dir la sua sul problema in quel XXXIV libro dedicato soprattutto a comunicare ai Greci le scoperte da lui compiute durante i suoi viaggi nell’estremo Occidente (Spagna e Africa); perciò vi dedica una digressione (XXXIV 2-4 + 11,12-20)29 e vi assume una posizione in apparenza intermedia, giacché riconosce la fondamentale attendibilità di Omero, sia pur con qualche ‘licenza poetica’ (ਥț ȝȘįİȞòȢ į ਕȜȘșȠ૨Ȣ țİȞȞ IJİȡĮIJȠȜȠȖȓĮȞ ȠȤ ‘ȅȝȘȡȚțȩȞ), ma nega quale assurdo anacronismo l’ ਥȟȦțİĮȞȚıȝȩȢ e riconduce in area mediterranea le peripezie di Odisseo. Proprio la serena equidistanza tra gli opposti estremismi di Eratostene e Cratete assicurò all’esegesi omerica di Polibio un’immediata e salda fortuna, come rivelano nel I sec. a.C. Artemidoro di Efeso e Asclepiade di Mirlea30. Fin qui si sono riassunti fatti di comune dominio, a cui si possono aggiungere una considerazione e una modica, entrambe non trascurabili. Si è denita poco sopra la posizione di Polibio come apparentemente intermedia tra Eratostene e Cratete; ora, questo ‘apparentemente’ va giusticato: in effetti, a Cratete Polibio rimprovera solo di aver dislocato il
27 Su Giasone quale simbolo della colonizzazione e della navigazione corinzia in età arcaica e la sua fortuna in età ellenistica cfr. DION, Aspects politiques, 43-82. 28 Per un rapido inquadramento del problema dell’ਥȟȦțİĮȞȚıȝȩȢ cfr. PÉDECH, La géographie,18. 29 XXXIV 11, 12-20 è assegnato ai frammenti De Italia dalla sciagurata distribuzione risalente allo Schweighäuser e poi divenuta purtroppo canonica attraverso l’edizione Büttner-Wobst, ma è evidente la sua appartenenza alla sezione omerica: cfr. WALBANK, A historical Commentary, III, 578. 30 Entrambi citati da Strab. III 4,3; per Artemidoro si tratta del fr. 16 Hagenow.
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viaggio di Odisseo oltre le Colonne d’Eracle, di avere cioè commesso un errore di individuazione geograca, ma ne condivide il duplice giudizio su Omero, che è per entrambi degno di ducia, e su Odisseo stesso. Se in Cratete questi appare quale autore di un’impresa eccezionale, davvero eroica e sovrumana, e cioè un viaggio oceanico in tempi cosi remoti, in Polibio viene sì ridimensionato al Mediterraneo e per l’esattezza al mar Tirreno e al canale di Sicilia, cioè al Mediterraneo centrale, ma resta sempre – ed è ciò che più conta – il simbolo, la proiezione mitica del tipo ideale di viaggiatore e di cultore di geograa disegnato dal Megalopolitano a III 59,4. Anche Odisseo è infatti un re e condottiero, un uomo politico insomma, che si dedica al viaggio e all’avventura in una fase della sua vita, in cui ragioni contingenti lo tengono lontano da Itaca e dalle occupazioni di governo a lui più congeniali: egli risulta quindi un’anticipazione, la più famosa, dell’uomo d’azione greco nelle condizioni in cui si trovava al tempio di Polibio e, in ultima analisi, di Polibio stesso. Non per nulla, Odisseo è denito a IX 16,1 ਲȖİȝȠȞȚțȫIJĮIJȠȢ, il più abile dei condottieri, perché tra le altre qualità possedeva quella di prestar attenzione alla posizione degli astri nel cielo e di servirsene sia per la navigazione, sia per le operazioni terrestri e sapeva quindi coniugare astronomia e scienza militare, e soprattutto a XII 27,10 ʌȡĮȖȝĮIJȚțȩȢ, appunto come i ʌȡĮțIJȚțȠ ਙȞįȡİȢ di III 59,4: sembra che proprio l’adozione di una medesima terminologia imponga, al di là di ogni ragionevole dubbio, lo stretto parallelo tra Odisseo e Polibio31. Allora, se Polibio è l’erede e il continuatore di Odisseo, il primo dopo tanti secoli ad averne rinnovato e superato le gesta, è chiaro che questo legame ideale conta ben più del restringimento al Mediterraneo centrale del raggio d’azione concesso all’eroe omerico: l’ਥȟȦțİĮȞȚıȝȩȢ doveva essere negato per non privare Polibio stesso dell’exploit di primo esploratore oltre le Colonne d’Eracle, ma ciò non implicava contrapposizione polemica o svalutazione di Odisseo, la cui gloria geograca andava anzi salvaguardata e consolidata per poter esaltare di conseguenza anche Polibio, che si era posto sulla scia di un così celebre e grande uomo. Ben diverso è invece il rapporto con Eratostene che si permetteva di sostituire Odisseo con Pitea: qui Polibio non poteva limitarsi a modicare la portata delle esplorazioni di Pitea, giacché ne sarebbe sempre seguita per lui la perdita di quel primato a cui tanto teneva ed egli si sarebbe visto sopravanzare per di più da un ੁįȚȫIJȘȢ ਙȞșȡȦʌȠȢ țĮ ʌȑȞȘȢ32, non da
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In tal senso cfr. già, molto bene, PÉDECH, Méthode, 575. XXXIV 5,7. Su Pitea cfr. H.J. METTE, Pytheas von Massalia, Berlin 1952; F. GISINGER, RE XXIV Pytheas, n. 1, coll. 314-366; DION, Aspects politiques,175-223; S. BIANCHETTI (a 32
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un eroe omerico. Si spiega così la drastica presa di posizione di Polibio, che nega in toto il viaggio di Pitea e accusa senza mezzi termini Eratostene di essere un bugiardo peggiore di Evemero e dì scrivere cose prive di senso ancor più di Antifane di Berga33, noto per le narrazione fantastiche di viaggi del tutto inventati. Come si vede, è abbastanza chiaro che in realtà Polibio è molto più vicino a Cratete che ad Eratostene. Si deve aggiungere che la sua polemica è rivolta più ad Eratostene, colpevole di credere a Pitea, che a Pitea stesso, ed infatti le accuse di mentire e narrare cose senza senso sono rivolte all’illustre scienziato di Cirene: ora, anche per questo aspetto l’atteggiamento di Polibio è ben comprensibile, giacché senza l’avallo della grande autorità di Eratostene nessuno avrebbe prestato credito a Pitea, libero di raccontar favole, di ȕİȡȖĮȗİȚȞ34 quanto gli pareva, e il primato di Polibio nell’esplorazione dell’Occidente non avrebbe corso nessun rischio. D’altra parte, abbassarsi a polemizzare con Pitea non era degno del Megalopolitano: come sul piano storiograco i suoi bersagli, da Filarco a II 56 a Timeo, alla cui critica dedica, come è noto, l’intero libro XII, sono sempre scelti con cura tra i rappresentanti più prestigiosi, i ‘maestri’ dell’età ellenistica, e ad essi si contrappone il ‘classico’ Tucidide, di cui egli si sente per tanti aspetti erede35, così sul piano geograco ad Eratostene, corifeo della nuova scienza ellenistica, Polibio si compiace di contrapporre la coppia ideale formata dall’antichissimo Omero e da se stesso. Allora, sia nel momento metodologico, esaminato nel paragrafo precedente, sia nel momento polemico il geografo Polibio agisce in perfetta sintonia col Polibio storiografo, adatta e traspone da un genere all’altro i medesimi schemi e criteri a ribadire quell’inscindibile unità teoretica e quella similare evoluzione delle due scienze, di cui egli è convinto di aver attuato una sintesi davvero paradigmatica. Da queste considerazioni discende l’annunciata modica alla communis opinio (Pédech seguito qui da Walbank36) secondo la quale l’excursus del XXXIV libro sui viaggi di Odisseo sarebbe stato inserito da Polibio dopo la sua descrizione della penisola iberica; in particolare l’aggancio
cura di), Pitea di Massalia. L’Oceano, Pisa 1998; S. MAGNANI, Il viaggio di Pitea sull’Oceano, Bologna 2002. 33 XXXIV 5,8-10 + 6,15 (su cui cfr. supra nota 17); su Antifane di Berga cfr. O. WEINREICH, Antiphanes und Münchhausen, Wien 1942. 34 La locuzione è attestata come proverbiale da Steph. Byz. s.v. ǺȑȡȖȘ. 35 Sul rapporto tra Tucidide e Polibio cfr. da ultimo F.W. WALBANK, Speeches in Greek Historians, in Selected Papers, Cambridge 1985, 242-261, soprattutto pp. 250-252. 36 PÉDECH, La géographie, 18; WALBANK, A historical Commentary, III, 567.
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sarebbe stato fornito dalla migrazione dei tonni dall’Oceano attraverso le Colonne nel Mediterraneo, osservabile dalle coste della Spagna: dalla opportunità di descrivere questo fenomeno di grande rilevanza ittica e quindi anche economica (l’abbondanza di pesce è tra i fattori dell’ İįĮȚȝȠȞĮ della Lusitania a XXXIV 8,4) Polibio sarebbe passato alla razionalizzazione del mito di Scilla in Omero (Odyss. XII 95-105), dove questo mostro sarebbe il simbolo di pesci più grandi, p.e. il pesce spada, che divorano i tonni, quando i branchi giungono nei pressi dello stretto di Messina. Questa collocazione non persuade per tre motivi: 1) dopo le coste, Polibio descriveva anche l’interno della Spagna con particolare riguardo per le sue zone minerarie37: ora, se avesse inserito l’excursus prima di descrivere l’interno della penisola, avrebbe spezzato in due la sua etnogeograa iberica con esiti quanto mai discutibili, se l’avesse inserito dopo, sarebbe saltato ogni collegamento fra la trattazione geograca di zone ormai lontane dal mare e excursus su peripezie esclusivamente marittime; 2) Polibio - si è visto sopra - nega che Odisseo avesse varcato le Colonne e situa le sue peripezie tra la Sicilia e la Sirte, nel Mediterraneo centrale: perché mai avrebbe dovuto collocare l’excursus su Odisseo là dove Odisseo non era mai stato? 3) i frammenti omerici del libro XXXIV sono tutti d’argomento siciliano, Scilla e Cariddi, Eolo e le isole Lipari, il viaggio di nove giorni dal capo Malea (o comunque in genere dalla Grecia) alla Sicilia38, oltre un breve accenno all’isola di Meninx ( = Djerba) nella Sirte quale patria dei Lotofagi39. È più probabile, quindi, un’inserzione dell’excursus agganciata alla Sicilia in particolare e in genere alla descrizione delle isole mediterranee e delle coste occidentali d’Italia. Questa posizione oltretutto si adatterebbe meglio all’economia strutturale del XXXIV libro come è stata proposta dal Pédech stesso40: infatti se Polibio in questo libro concentrava all’inizio le principali misure e distanze dell’ecumene e si limitava poi a descrivere le terre oggetto dei suoi viaggi e delle sue scoperte, è molto probabile che mancasse la descrizione non solo della penisola balcanica, dell’Asia e dell’Egitto, ma anche della penisola
37 XXXIV 9,8-11, ma anche 9,12 (il caso dei umi Baetis ed Anas, che nascono in Celtiberia) e 9,13 (il paese dei Vaccei e dei Celtiberi e l’elenco delle loro città, tra cui Segesama ed Intercatia). 38 Rispettivamente XXXIV 2,12-3,11; 2,4-11 + 11,12-20 (su cui cfr. nota 29); 4,1-8. 39 XXXIV 3,12; sull’identicazione dell’isola cfr. WALBANK, A historical Commentary, I, 100. 40 PÉDECH, La géographie, 23, per cui Polibio avrebbe composto nel XXXIV libro un itinéraire du monde occidental entremêlé de notions générales (in sostanziale accordo con WALBANK, Geography).
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italica nota ai Greci . D’altra parte dopo la Spagna seguiva la Gallia meridionale42, l’arco alpino (con le miniere d’oro scoperte tra Aquileia e il Norico)43, forse potevano essere riprese, più o meno in sintesi, le pagine riservate alla Cisalpina nel libro II (in un excursus non necessariamente seriore al libro)44 e inne veniva l’Africa: tra regioni alpine e quest’ultima una sutura era pur necessaria ed essa doveva passare per l’Italia, sia secondo le esigenze di un normale periplo limitato alla metà occidentale del Mediterraneo, sia per le conoscenze di Polibio, che sull’Italia poteva sempre aggiungere qualcosa alla precedente scienza ellenistica; già a livello di misurazioni e distanze, quelle riguardanti la penisola italica risultano particolarmente minuziose e abbondanti, ma più avanti nel corso del libro c’era spazio anche per la descrizione non tanto dell’Italia tutta quanto delle coste tirreniche e soprattutto delle isole: Stefano di Bisanzio ce lo garantisce almeno per l’isola d’Elba45. Se dunque noi ponessimo l’excursus omerico in quel punto del XXXIV libro, in cui Polibio si apprestava a passare dall’Europa all’Africa ‘via Italia’, esso troverebbe adeguata collocazione sia sul piano geograco, perché sarebbe ambientato appunto nei mari tra l’Italia, la Sicilia e l’Africa, sia sul piano strutturale, perché riempirebbe un
41 I 5 frammenti polibiani raccolti dallo Schweighäuser a XXXIV 12 sotto la sezione De Thracia, Macedonia, Graecia e quello a XXXIV 13 sotto la sezione De Asia riguardano distanze e vanno quindi assegnati alla parte iniziale, matematica e non descrittiva, del libro; XXXIV 14 De Alexandria, Aegypti urbe, è da assegnare ad altro libro, forse al XXXI, ove era narrata la rivolta di Petosarapide agli inizi degli anni ‘60 del II secolo (così WALBANK, A historical Commentary, III, 468, 568 e 629); degli 8 frammenti a XXXIV 11 De Italia il primo sul vino di Capua e il quinto sugli Opici e gli Ausoni sono da assegnare ad altro libro (forse il VII: così WALBANK, A historical Commentary, III, 568 e 615-618), i nn. 2-3 e 6-7 riguardano distanze, l’ottavo è quello già analizzato di geograa omerica, resta solo il n. 4 sull’isola d’Elba, per cui cfr. subito infra. 42 XXXIV 10, 1-4 apud Athen. VIII 332 a; diversamente 10, 5 (polemica con Timeo sulla foce del Rodano) non appartiene con sicurezza al XXXIV e 10,6-7 (polemica con Pitea sull’estuario della Loira e i rapporti con la Britannia) va anticipato alla sezione del libro dedicata appunto alla polemica contro i predecessori di Polibio, va cioè collegato con XXXIV 5 (cosi WALBANK, A historical Commentary, III, 61l; la possibilità alternativa, prospettata dallo WALBANK, di collocarlo dopo XXXIV 8-9, cioè tra descrizione della Spagna e digressione omerica - ammesso che quest’ultima abbia lì la sua sede - mi persuade meno). 43 XXXIV 10, 8-9 riguarda la fauna alpina, 10, 15-21 il sistema idrograco subalpino, 10,10-14 appunto le miniere auree esistenti fra i Taurisci del Norico; si aggiunga la citazione di Polibio apud Strab. IV 6,2 sulle tribù liguri degli Ingauni, Intemelii, Oxibii e Decieti (WALBANK, A historical Commentary, III, 610). 44 Sarebbe seriore per PÉDECH, Méthode, 567, lascia la questione aperta WALBANK, A historical Commentary, I, 173, io propendo per una data alta: cfr. infra nota 64. 45 XXXIV 11,4 apud Steph.Byz. s.v. ǹੁșȐȜȘ (con esplicita indicazione del libro di appartenenza).
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vuoto in un settore geograco, quello italico, in cui Polibio aveva poco di nuovo da dire, sia inne sul piano simbolico: Odisseo sarebbe al centro di un libro, alle cui estremità campeggiano i due viaggi, spagnolo e africano, di Polibio e costituirebbe tra i due una cerniera ideale, capace di suscitare richiami e suggestioni, a cui il Megalopolitano era quanto mai sensibile. 3. Il viaggio militare: Annibale Il viaggio di Odisseo è proiettato nella dimensione mitica del passato e al tempo stesso è il più vicino per valenza ideale e stimoli polemici all’animo di Polibio, è in un certo senso l’archetipo sempre attuale di ogni viaggio. Venendo però all’età storica, ci si imbatteva con notevole frequenza in un altro tipo di viaggio, perché l’esposizione degli eventi politico-militari implicava anche lo studio e la ricostruzione degli itinerari, delle marce e degli spostamenti degli eserciti: spesso si restava nei limiti di una semplice ricognizione topograca46, spesso si utilizzavano queste esperienze militari per calcoli di distanze terrestri altrimenti impossibili ad eseguirsi – e il Megalopolitano lo fece esplicitamente per la distanza dal capo Malea al Danubio47, applicando così in concreto questo presupposto teorico –, ma subito all’inizio delle Storie Polibio fu costretto ad affrontare un caso davvero eccezionale di spedizione, quella annibalica. Il viaggio di Annibale dall’Africa alla Spagna e poi lungo la costa, attraverso i Pirenei, la Gallia e le Alpi sino nella pianura Padana è narrato da Polibio nel III libro; non c’è dubbio che le pagine dedicate al viaggio in sé appartengano per ovvi motivi cronologici alla prima redazione delle Storie; è però altrettanto certo che il III libro è il più rielaborato dal punto di vista geograco nella seconda redazione, cioè alla luce dei viaggi di Polibio stesso e del XXXIV libro. Una prima sezione contenente la teoria generale dei viaggi di esplorazione è stata esaminata sopra (III 57-59) e segue la narrazione del passaggio delle Alpi (III 42-56); una seconda sezione, che tratta del ruolo della geograa (segnatamente di quella astronomica) nell’opera storica e della tripartizione continentale dell’ecumene e che giustica il rinvio di un pur necessario excursus geograco più avanti (quel che è poi il XXXIV libro) per non spezzare la
46 P.e. per il campo di battaglia di Sellasia (II 65, 7-12) o per la marcia di Filippo V su Termo nel 218 (V 7,7-8,4) o inne per la descrizione di Sparta (V 21,3-22,4). 47 XXXIV 12,12.
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linearità del racconto, è invece premessa all’iter di Annibale (III 36-38, appena prima di III 39) così da inserirlo quale esempio di estremo rilievo tra le due parti di un’unica trattazione teorica48. L’eccezionalità della spedizione annibalica non derivava infatti solo dalla sua portata e dalle sue conseguenze politico-militari, ma era anche di ordine geograco: essa aveva avuto indubbi contenuti esplorativi (la ricerca di un passaggio attraverso le Alpi), si era svolta in quella medesima area (Africa, Spagna, Gallia Transalpina meridionale e Gallia Cisalpina) che poi sarebbe stata teatro dei viaggi di Polibio e di cui Polibio si sarebbe presentato come lo scopritore scientico, inne era stata opera di un uomo d’azione, di un ʌȡĮțIJȚțòȢ ਕȞȡ quale Polibio sarebbe voluto essere, salvo dovervi rinunciare per le mutate condizioni dei tempi e farsi storico e geografo: se Odisseo è la proiezione di Polibio nel passato remoto, Annibale ne rappresenta nel passato prossimo le aspirazioni segrete e mancate, le nostalgie e le delusioni; in questo senso, l’attenzione rivolta dal Megalopolitano agli aspetti geograci dell’impresa di Annibale si può leggere anche in chiave autobiograca e non è allora casuale che le prime due digressioni polibiane sulla geograa, a III 36-38 e a III 57-59, si inseriscano nel contesto della marcia dell’esercito cartaginese. In concreto tale marcia pone a Polibio (e a noi) due problemi, la misurazione suddivisa in tappe del percorso dalle Colonne ai valichi alpini e l’identicazione del valico realmente attraversato da Annibale. Questa seconda questione è tra le più dibattute, forse, dell’intera storia antica e le si dà ancor oggi una gran varietà di soluzioni49, poiché la versione polibiana (III 42-56) resta vaga e imprecisa nonostante l’impegno dell’autore e soprattutto è in contrasto con quella liviana, risalente in ultima analisi tramite Celio Antipatro a Sileno di Calatte50; in questa sede non è il caso di tornarci, se non per precisare che con ogni probabilità a ragione si tende attualmente a privilegiare il racconto di Livio (dietro cui c’è in 48 La probabile allusione a III 37,11 alla spedizione in Callaecia di D. GIUNIO BRUTO nel 138/7 sarebbe la prova puntuale di un’inserzione seriore; per un’altra di queste aggiunte nel corpo del III libro, a 20-29, cfr. G. NENCI, Il trattato romano-cartaginese țĮIJ ޟIJޣȞ ȆȪȡȡȠȣ įȚȐȕĮıȚȞ, Historia 7, 1958, 269; in genere, per le inserzioni seriori cfr. MUSTI, Problemi, 386-388. 49 Accurato e aggiornato status quaestionis in J. SEIBERT, Der Alpenübergang Hannibals. Ein gelöstes Problem?, Gymnasium 95, 1988, 21-73. 50 LIV. XXI, 31-38. Sulle due fonti, diretta e non, del testo liviano c’è generale accordo tra i moderni; la preferenza forse da accordarsi a Livio rispetto a Polibio si riferisce all’identicazione del valico, non della popolazione con cui Annibale entrò in contatto dopo la traversata (i Taurini per Livio, gli Insubri per Polibio), giacché per questo aspetto è probabile che sia da tenere in maggior considerazione la versione dello storico greco.
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fondo un testimone oculare come Sileno) rispetto a quello di Polibio e che comunque i due testi sono inconciliabili: di conseguenza non risulta del tutto persuasiva l’individuazione del passo con il Moncenisio (il Col du Clapier ne è una variante) riaffermata di recente con autorevolezza51, giacché verrebbe così trascurata l’indicazione topograca liviana (Cremonis iugum), che orienta verso la Val d’Aosta (Piccolo S. Bernardo o, forse meglio, Col de la Seigne52). Comunque qui importa osservare che Polibio si trovò in evidente imbarazzo e forse nì per equivocare riguardo all’itinerario di Annibale, proprio perché dífdò della testimonianza scritta di Sileno e volle basare la propria ricostruzione su una ricognizione personale durante la traversata alpina del 152/1 (andata) o del 151/0 (ritorno) in compagnia dell’Emiliano53: egli dovette passare dal Monginevro, la ‘via Erculea’, cioè il valico abitualmente usato dai Romani, ma, d’altra parte, sapeva che Annibale l’aveva evitato, aggirandolo da nord-ovest, e quindi dovette tentare di tracciarne la marcia sulla base di informazioni raccolte in loco riguardo ai passi immediatamente a nord-ovest del Monginevro, appunto il Moncenisio (piccolo e grande) e il col du Clapier54. Giusta o no che sia tale identicazione, essa deriva in sostanza da un duplice presupposto metodologico, che l’autopsia vada in genere privilegiata sui documenti scritti (e qui Polibio è in linea con tutta la tradizione storiografa antica), ma che l’autopsia immediata, contemporanea di un ‘incompetente’ (Sileno in campo geograco) vada controllata tramite una ulteriore autopsia, sia pur secondaria, limitata necessariamente solo ai luoghi e non ai fatti, di un ‘competente’ (Polibio); se dunque anche a distanza di tempo è decisivo recarsi sul posto e vericare di persona l’ambiente geograco di un evento storico per correggere le impressioni momentanee e non meditate di chi c’era, ecco allora che il viaggio diventa elemento imprescindibile della ricostruzione storica sul terreno e lo storico deve farsi viaggiatore pur di là dai suoi eventuali interessi geograci. Diventa allora molto probabile che la sezione III 4256, concepita e scritta poco dopo il 168, sia rimasta per Polibio un problema aperto sin dopo il 152/0 e abbia anch’essa subito rimaneggiamenti nel corso della II redazione delle Storie. Così sulle Alpi la ricostruzione dell’iter annibalico e l’esperienza personale polibiana si intrecciano, determinandosi a vicenda; diverso è il 51 Moncenisio: SEIBERT, Alpenübergang, 70-73; Col du Clapier: H.T. WALLINGA, Een aardrijkskundeles van Polybius, Lampas 19, 1986, 212-213. 52 F. LANDUCCI, Annibale sulle Alpi, Aevum 58, 1984, 38-44. 53 WALBANK, A historical Commentary, I, 382. 54 Così WALLINGA, Een aardrijkskundeles, 211-213; sulla ‘via Erculea’ cfr. R. DION, La voie Héracléenne el l’itinéraire d’Hannibal, in Hommages Grenier, Bruxelles 1962, I, 527-543.
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caso della misurazione della marcia precedente, giacché non risulta che Polibio, al seguito dell’Emiliano, tribuno o legato del console L. Licinio Lucullo, abbia avuto modo di ripercorrere tutte le tappe dell’esercito cartaginese e le distanze in stadi di quest’ultime dovettero con ogni probabilità essere attinte da Sileno e gurare già nella I redazione dell’opera. È però noto che la somma dei diversi segmenti del percorso dalle Colonne ai Pirenei dà 7.200 stadi e da Carthago nova alla valle del Po 8.400 stadi (il che si accorda con l’affermazione che, giunto ai Pirenei, dopo 4.200 stadi, Annibale era a metà del cammino), mentre Polibio fornisce le due cifre complessive di 8.000 e 9.000 stadi, rispettivamente; per sanare quest’incongruenza si è intervenuti sul testo, supponendo una lacuna dopo la tappa ‘Ebro-Emporiae’ per i 600 stadi mancanti, e insieme si sono volute eliminare due presunte interpolazioni, a 39,6, dove si precisa che IJȞ ȀĮȚȞȞ ʌȩȜȚȞ ȞȚȠȚ ȃȑĮȞ ȀĮȡȤȘįȩȞĮ țĮȜȠ૨ıȚȞ, e a 39,8, dove si ricorda che i Romani hanno misurato e segnato con gran cura tramite i loro miliari la strada dal Rodano ai Pirenei55. Ora, mentre non ci sono dubbi sulla prima interpolazione, che ha tutto l’aspetto di una glossa, la seconda è ritenuta tale, perché allude alla via Domitia, il cui tracciato risalirebbe al 118 (fondazione della colonia di Narbona): così si abbasserebbe troppo la cronologia della vita di Polibio, morto a 82 anni e quindi nato solo nel 20056. Tutto questo ragionamento è però fragilissimo: il sincronismo tra colonia di Narbona (forse da abbassarsi addirittura al 11057) e via Domitia non è affatto sicuro, anzi dopo la scoperta del miliario di Pont de-Treilles è più probabile una datazione poco dopo il 12558, e d’altro lato non è neppure sicura la durata, 82 anni, della vita di Polibio, fondata sulla testimonianza, isolata e sospetta, dei Longaeui dello Ps.-Luciano59; comunque, un inquadramento della vita dello storico tra
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Cfr. l’edizione polibiana del Büttner-Wobst, Lipsiae 1905 = Stutgardiae 1972, I, 257. Così soprattutto PÉDECH, Méthode, 596 n. 467 e G. RADKE, Viae publicae Romanae, tr. it., Bologna 1981, 362, nota 3; accetta invece la genuinità del passo WALBANK, A historical Commentary, I, 371. 57 Così H.B. MATTINGLY, The Foundation of Narbo Martius, in Hommages Grenier, Bruxelles 1962, III, 1159-1171; su tale cronologia bassa è possibilista E. GABBA, Recensione a AA.VV., Hommages Grenier, in RFIC 92, 1964, 100-101. 58 P.M. DUVAL, A propos du milliaire de Cn. Domitius Ahenobarbus trouvé dans l’Aude en 1949, GALLIA 1949, 207-229; E. GABBA, Recensione a E. BADIAN, Foreign Clientelae, RFIC 27, 1949, 198 nota 1; A. DEGRASSI, Nuovi miliari arcaici, in Hommages Grenier, Bruxelles 1962, I, 512-513. 59 Ps.-Luc. Long. 22, ora messo in dubbio, non persuasivamente, da M. DUBUISSON, Sur la mort de Polybe, in REG 93, 1980, 72-82. 56
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il 205 ca. e il 123 ca., che mi sembra allo stadio attuale delle conoscenze il più equilibrato60, permetterebbe di concludere che l’allusione alla via Domitia (IJĮ૨IJĮ Ȗȡ Ȟ૨Ȟ ȕİȕȘȝȐIJȚıIJĮȚ țĮ ıİıȘȝİȓȦIJĮȚ țĮIJ ıIJĮįȓȠȣȢ ੑțIJઅ61 įȚ ‘ȇȦȝĮȓȦȞ ਥʌȚȝİȜȢ) sia genuina e da annoverare tra gli ultimi ritocchi apportati dal Megalopolitano alle sue Storie. Che Polibio fosse molto attento allo sviluppo della rete viaria romana e ne avesse ben compreso il valore quale strumento empirico di misurazione delle distanze è d’altronde noto da alcuni passi proprio del XXXIV libro: pur dando abitualmente in stadi anche le distanze in Italia, a 11,8 (=Strab. VI 3,10) egli fa eccezione per quelle dalla Iapigia a Sena Gallica e da qui ad Aquileia perché ਕʌò IJોȢ ĮʌȣȖȓĮȢ ȝİȝȚȜȓĮıșĮȚ e il riferimento è per il primo tratto alle vie Minucia e Flaminia62, per il secondo o alla via Aemilia da Bologna ad Aquileia del 17563 oppure, probabilmente con maggior fondatezza, alla via Popilia del 13264 (il che rivelerebbe un aggiornamento di poco anteriore a quello eventualmente collegato con la via Domitia); a 12,2a (= Strab. VII,7,4) egli mostra di conoscere una strada che da Apollonia andava a Tessalonica lungo il tracciato della successiva uia militaris prolungata sino all’Ellesponto (Cic. De prou. consul. 4) e poi della via Egnatia65 e ne dà la lunghezza in miglia: perciò non stupisce che egli si sia
60 È quello proposto da MUSTI, Problemi, 381-382; lo Ziegler data la vita di Polibio al 200/118, il Pédech al 208/126, il Dubuisson al 208/post 130 ca. 61 RADKE, Viae publicae, 362 n. 3 obietta che per Polibio 1 miglio è uguale a 8 1/3 stadi, non a 8 stadi e che perciò il passo deve ritenersi spurio, ma giustamente WALBANK, A historical Commentary, I, 373 richiama I 17,8, passo senza dubbio genuino e dove pure Polibio dà l’equivalenza arrotondata a 8 stadi invece di quella più precisa a 8 1/3 stadi, da lui usata nei calcoli di distanze. 62 Per la ricostruzione di questo primo tratto seguo RADKE, Viae publicae,192 ss. 63 Così RADKE, Viae publicae, 261-266. 64 A XXXIV 11,8 Polibio dà 178 miglia da Sena ad Aquileia, mentre ne aveva date 300 ca. ( = 2.500 stadi) a II 14,11; ora, RADKE, Viae publicae, 265 ritiene impossibile che Polibio si contraddica, attribuisce la confusione a Strabone, che cita a VI 3, 10 il passo del XXXIV libro, e ritiene che il dato «178 miglia» si riferisca alla distanza «Bologna-Aquileia» appunto lungo la via Emilia; se però noi calcoliamo la distanza «Sena-Aquileia» lungo la via Popilia non in 259 miglia, come vorrebbe il Radke, ma in 239 (così O. CUNTZ, Polybius und sein Werk, Leipzig 1902, 28-31) e vi sottraiamo la distanza di 61 miglia tra Sena e il Rubicone, otteniamo proprio le 178 miglia di XXXIV 11,8: allora Polibio avrebbe condotto in base alla via Popilia di recente tracciata i suoi calcoli, ma nella fretta avrebbe trascurato che era mutato il conne d’Italia, spostato appunto poco prima del 132 dall’Aesis presso Sena al Rubicone, avrebbe cioè aggiornato solo le cifre, non i riferimenti topograci delle varie tappe e in particolare il punto di partenza. Se tale ricostruzione è esatta (come tende a ritenere anche WALBANK, A historical Commentary, III, 619), questa sarebbe una prova che l’excursus sulla Gallia Cisalpina a II 14-17 non è un’inserzione seriore, giacché vi si fa riferimento a una distanza (300 miglia) calcolata ancora lungo la via Aemilia; cfr., supra p. 53. 65 RADKE, Viae publicae, 357-358.
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affrettato ad inserire il breve lemma sulla via Domitia a III,39,8; forse, se accettiamo la genuinità del lemma, possiamo anche spiegare la discrepanza sopra registrata tra le cifre complessive e le somme delle cifre parziali dalle Colonne ai Pirenei (8.000 per 7.200) e da Carthago nova alla pianura Padana (9.000 per 8.400); infatti per il tratto dai Pirenei al Rodano (Emporiae – Ugernum) Sileno aveva dato 1.600 stadi, ma dalla via Domitia ne risultavano 1.658 (199 m.p. x 8,33): allora Polibio dovette dedurne che tutti i calcoli di Sileno, per il quale non nutriva in genere grande ducia, come si è visto anche a proposito del passaggio delle Alpi da parte di Annibale, erano errati per difetto e ritenne opportuno dare due totali (8.000 e 9.000 stadi) arrotondati per eccesso66; in effetti, se i 1.600 stadi erano in realtà 1.658, mantenendo la proporzione dell’errore sul totale, 7.200 andrebbe corretto in 7.461 e 8.400 in 8.704,5, ma Polibio o per mancanza di tempo e voglia nell’eseguire questi calcoli o per normale prudenza preferì mantenersi nel vago e indicare con le cifre tonde di 8.000 e 9.000 stadi una linea di tendenza: le misurazioni romane rivelavano un complessivo allungamento delle distanze rispetto ai dati reperibili in Sileno. Forse già la via Popilia nel 132 e poi negli anni ’20 del II secolo la via Domitia forniscono dunque a Polibio ulteriori elementi per riconsiderare su base empirica le dimensioni di taluni settori dell’ecumene: le strade romane, strumenti ormai essenziali per i viaggi, che aprivano all’esplorazione scientica nuove terre, integravano anche le precedenti conoscenze riguardo a distanze fondate su astratti calcoli geometrici o casuali osservazioni personali e spesso permettevano di vericare da terra misurazioni prima effettuate dal mare e riportate nei portolani. Sotto Roma in Occidente (come già sotto Alessandro in Oriente) la geograa terrestre si afanca a quella marittima e Polibio è il primo studioso che si rende conto di quest’evoluzione scientica e si sforza di metterla a frutto nell’estrema fase di revisione della sua opera. 4. Il viaggio d’esplorazione: Polibio Tutto quanto osservato sin qui può valere, in un certo senso, quale introduzione ai viaggi polibiani del 152/146, che costituiscono per il loro autore l’applicazione più perfetta e consapevole del viaggio scientico teorizzato a III 58,5-59,9 (e da me discusso al punto 1), la reattualizza-
66 Così già WALBANK, A historical Commentary, I, 371, a cui aggiungo nel testo la ragione, che avrebbe spinto Polibio a tale arrotondamento, dovuto non a desiderio di semplicazione, ma all’esigenza di esprimere una previsione di calcolo.
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zione e insieme il superamento di celebri esperienze del passato mitico o prossimo (quelle di Odisseo e di Annibale, analizzate ai punti 2 e 3), nonché, in ultima analisi, la scoperta greca dell’Occidente sino ai conni dell’Oceano: perciò essi occupano un posto centrale nel libro geograco delle Storie, il XXXIV, che, come è noto, è diviso in una parte teorica, le misure dell’ecumene e la soluzione di taluni problemi quali la divisione in zone del globo terrestre, l’abitabilità della zona equatoriale, ecc...67, e in una parte descrittiva riguardante solo le terre di nuova acquisizione alla geograa ellenistica, cioè appunto quelle oggetto dei viaggi di Polibio stesso, la penisola iberica, la Gallia meridionale, la Gallia cisalpina sino all’arco alpino e l’Africa settentrionale a ovest di Cartagine. Non è qui il caso né di commentare il contenuto dei pochi frammenti pervenuti, né di tentare la ricostruzione di un testo più completo, che urterebbe contro la grave difcoltà di distinguere quanto vi è di polibiano e quanto di seriore (da Artemidoro a Posidonio) nel libro iberico di Strabone, il III68. Si può rapidamente osservare che taluni elementi compositivi ritornano nelle diverse regioni (p.e. il vivo interesse per l’idrograa, in particolare per il corso e la foce dei umi, per una sorgente d’acqua potabile a Cadice, per il corso sotterraneo del Timavo, per i laghi alpini, ecc... e, di contro, un certo disinteresse per l’orograa69; l’attenta registrazione di peculiarità faunistiche e, di contro, l’assenza di interesse verso la botanica per le Alpi e l’Africa70; il collegamento tra la feracità del terreno e il conseguente basso prezzo dei generi alimentari e del bestiame per la Spagna e la Gallia Cisalpina71; l’importanza delle miniere
67 Su questa prima parte teorica c’è pieno accordo tra gli studiosi e segnatamente tra PÉDECH e WALBANK. Riguardo a XXXIV 1, 7-13, citato da Gemino e attribuito a un ȕȚȕȜȓȠȞ polibiano dal titolo Sull’abitabilità della zona equatoriale (ʌİȡ IJોȢ ਫ਼ʌઁ IJઁȞ ੁıȘȝİȡȚȞઁȞ ȠੁțȒıİȦȢ), credo che abbia ragione WALBANK, A historical Commentary, III, 573 contro PÉDECH, Méthode, 590 a ritenerlo frammento di una monograa autonoma, e non di una sezione del XXXIV libro: non si vede come possa essere errata una citazione cosi precisa compiuta solo a un secolo di distanza da uno studioso con ogni probabilità da identicare (NICOLET, L’inventaire du monde, 120 nota 33) con il corrispondente di Dionisio d’Alicarnasso, cioè di un sicuro conoscitore dell’opera dì Polibio. 68 È indicativo che il PÉDECH abbia mutato giudizio da La géographie, 15 nota 39 (dove riteneva scarso il materiale polibiano in Strabone sulla scorta di J. MORR, Die Quellen von Strabos drittem Buch, Philologus Suppl. 1926, 3, 1-136) alla Méthode, 579 nota 362 (dove lo ritiene più abbondante sulla base di A. SCHULTEN, Estrabòn geograa de Iberia, in Fontes Hispaniae antiquae, VI, Barcelona 1952). 69 Fiumi: XXXIV 9,12 (Betis e Anas); 10,1 (Illeberis e Roscino); 10,5 (Rodano); 10,6 (Loira). Sorgente a Cadice: 9,5-7. Timavo: apud Strab. V 1,8. Laghi alpini: 10,19-21. 70 10,8 (Alpi); 16,1-2 (Africa): cfr. infra p. 62. 71 XXXIV 8,4-10 e II 15; cfr. rispettivamente J.M. ALONSO-NUÑEZ, Das Bild der iberischen Halbinsel bei Polybios, AC 54, 1985, 259-266 e A.Marotta, La felicitas loci
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e l’inusso della scoperta di nuovi loni sull’andamento del prezzo dei metalli preziosi per la Spagna e il territorio tra Aquileia e il Norico72; l’accurato elenco di città e tribù per la Liguria e, con particolare riguardo all’indole e alle relazioni reciproche, per la Spagna73) e lasciano intuire un medesimo schema preordinato di esposizione tripartita, dalla geograa sica (dalle coste verso l’interno) alla geograa economica (fauna, agricoltura, prodotti del sottosuolo) e poi all’etnograa, a cui Polibio conferì il proprio prestigio, ma che doveva essersi già affermato in età ellenistica, giacché lo si ritrova nel contemporaneo Agatarchide74. Ci si può limitare qui a qualche osservazione sulla ʌİȡȚȠįİȓĮ africana del 146, che chiudeva il XXXIV libro in posizione di grande evidenza sia perché in essa si esauriva il periplo del Mediterraneo occidentale oggetto della II parte del libro, sia perché rappresentava l’ultimo75 e più perfetto viaggio allestito e compiuto da Polibio, in un certo senso il suo ‘testamento’ di esploratore. Preliminarmente va detto che lo scarno materiale conservato di tale ʌİȡȚȠįİȓĮ è tutto in Plinio, cioè in un autore latino, mentre solo greche (Strabone e Ateneo) sono le fonti dei frammenti iberici: si constata quindi una singolare divaricazione nella fortuna dei due grandi viaggi polibiani, giacché quello spagnolo lo rese maestro indiscusso di cose iberiche agli occhi dei Greci, quello africano ne fece un’autorità e un paradigma per i numerosi Romani che si occuparono delle medesime ragioni, da Sallustio ad Agrippa no appunto a Plinio, mentre nella cultura ellenica, forse a causa di una certa concorrenza (no a Giuba), egli non emerse in modo altrettanto perentorio76. Il frammento più signicativo è XXXIV 15,7, in cui si introduceva la narrazione di questo viaggio; esso è articolato in quattro elementi. 1) Scipione Aemiliano res in Africa gerente: 1’ablativo assoluto non serve solo da indicazione cronologica (146, con ogni probabilità dopo la presa di Cartagine77), ma anche da garanzia che vigevano le condizioni politiche
della Gallia Cisalpina in Polibio II 15,1-7, ASNP 3,3,1973, 815-825; R. VATTUONE, Polibio e la Cispadana in Cispadana e letteratura antica, Bologna 1987, 73-98. 72 XXXIV 9,8-11 e 10,10-14. 73 Apud Strab. IV 6,2 e XXXIV 9,1-3 e 13. 74 PÉDECH, La géographie des Grecs,128-134 e anche 90-91 per il precedente, parziale, ma signicativo esempio di Nearco. 75 Ultimo viaggio esplorativo, non in senso assoluto, giacché è tra l’altro possibile che Polibio accompagnasse l’Emiliano durante la legazione egizia del 140 ca.: PÉDECH, Méthode, 561-3 e WALBANK, A historical Commentary, I, 5 nota 11 e III, 630. 76 Cfr. N. BERTI, Scrittori greci e latini di «Libykà», CISA XIV, Milano 1988, 145-165. 77 PÉDECH, Méthode, 560-1; WALBANK, A historical Commentary, I, 5 e II,633.
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generali per organizzare una spedizione scientica; infatti il controllo di una certa regione da parte dei Romani ne permetteva l’esplorazione, perché vi assicurava pace ed ordine, come già notato a III 59,3; 2) ab eo[i. e. Scipione] accepta classe: un secondo ablativo sottolinea l’assolvimento di un’altra condizione, riguardante i mezzi del viaggio e direttamente collegata alla prima; infatti solo il vincolo di conoscenza e d’amicizia tra l’esploratore e il responsabile della politica romana nella zona e comunque la sensibilità di un ʌȡĮțIJȚțòȢ ਕȞȡ verso la geograa poteva mettere a disposizione del primo addirittura una squadra navale per le sue esigenze scientiche, secondo quanto già notato anche in questo caso a III 59,4; 3) scrutandi illius orbis gratia: è lo scopo dichiarato e consapevole del viaggio, esclusivamente scientico, dovuto a sete di ricerca e di conoscenza; non Odisseo spinto dal fato, non Pitea in balia di casuali avventure, non Annibale mosso da ragioni di carattere militare, ma Polibio incarna in modo pieno e totale quella gura di esploratore-scienziato delineata a III, 58,5-59,9; 4) a monte eo [i. e. Atlante] ad occasum uersus... ad umen Anatim (il ume Senegal o, più probabilmente, il capo Juby)78: sono gli estremi della circumnavigazione, il quadro spaziale del viaggio. Sempre sulla base dei frammenti superstiti è dato ampio spazio alle descrizioni faunistiche, un aspetto tra i più peculiari e attraenti dell’Africa; già a 15,7 si osservava che la spedizione si era svolta attraverso saltos plenos feris, quas generat Africa anche qui con precisa corrispondenza ai pericoli corsi durante il viaggio e già ricordati a III 59,7 (IJȠઃȢ țȚȞįȪȞȠȣȢ IJȠઃȢ ıȣȝȕȐȞIJĮȢ ਲȝȞ); poi a 16,1 si tratta delle zanne degli elefanti, così lunghe da essere usate come stipiti di porte e pali di recinti per animali, e a 16,2 dei leoni, che da vecchi cacciano l’uomo perché non più in grado di inseguire la selvaggina, e dell’atroce costumanza di crociggerli davanti ai villaggi per distoglierne altri dalle loro incursioni. Quest’attenzione va certo collegata non solo alla tradizione greca di studi zoologici (si veda il breve passo di XXXIV 10,8-9 in Strab. IV 6, 10 su un animale alpino, forse lo stambecco79), ma anche alla contemporanea consuetudine romana di importare animali esotici per i giochi circensi (a partire dal 186, quando M. Fulvio Nobiliore offrì una uenatio con leoni e pantere80) e si accorda con la consueta immagine di un Polibio mediatore 78 Senegal: R. THOUVENOT, Le témoignage de Pline sur le périple africain de Polybe (VI, 8-11), REL 34,1956, 88-92; capo Juby: P. PÉDECH, Un texte discuté de Pline (H. N. V 9-10): le voyage de Polybe en Afrique, REL 33, 1955, 318-332; cfr. inoltre M.H. EICHELJ.M. TOD, A note on Polybius’ voyage to Africa in 146 B. C., CPh 71, 1976, 237-243. 79 Oppure l’alce o la renna, oggi estinti in quelle regioni: cfr. F.Lasserre, Strabon. Géographie, II, Paris, 1966, 221. 80 Liv. XXXIX 22,2; ulteriore materiale raccolto da Berti, Scrittori greci e latini, 164.
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tra due mondi; essa però non è, a prima vista, esente dal sospetto di qualche concessione a quella ʌĮȡĮįȠȟȠȜȠȖȓĮ țĮ IJİȡĮIJİȓĮ così severamente condannata a III 58,9 ed è probabile che Polibio stesso se ne sia accorto, giacché egli si preoccupa di sottolineare con particolare vigore la provenienza di queste notizie o da fonte attendibile o addirittura da autopsia, indizio della massima veridicità: per le zanne degli elefanti egli si dò del principe numida Gulussa (auctore Gulusa regulo), per la crocissione dei leoni solo di Scipione e di se stesso (crucixos uidisse se cum Scipione). È parso interessante rileggere gli scarsi frammenti africani del XXXIV libro di Polibio alla luce della già esaminata digressione di III 58,5-59,9, giacché le puntuali corrispondenze fra la teoria esposta nel III libro e la prassi personale dello storico quale emerge dal resoconto di questo suo viaggio non possono essere casuali: esse anzi rivelano la particolare cura con cui Polibio si è impegnato a far emergere la propria capacità di saper veramente attuare quell’ideale di viaggio che aveva proposto prima ai suoi lettori: si badi che appunto per i lettori delle Storie la teoria generale del viaggio nel III libro precede la sua realizzazione ad opera dell’autore stesso nel XXXIV, ma in realtà questi compì prima i suoi viaggi e poi, in base, alle proprie esperienze, ne ricavò una teoria valida per tutti e la inserì nella sua opera in modo tale che i rapporti cronologici appaiono invertiti e ne risulta rafforzata l’immagine di Polibio perfetto esploratore. 5. L’assenza del viaggio Un’analisi delle diverse tipologie del viaggio presenti nelle Storie e delle loro connessioni con il contributo di Polibio alla scienza geograca come quella sin qui condotta non può fare a meno di contemplare un ultimo caso, anomalo, ma complementare ai precedenti: ci si riferisce all’assenza del viaggio, cioè all’impossibilità di raggiungere una determinata regione e quindi alla sua inconoscibilità tramite esplorazione. Infatti, anche se dopo le conquiste di Alessandro e dei Romani il mondo conosciuto o comunque conoscibile si era enormemente ampliato - Polibio lo sottolineava, si è visto, a III 59,3 -, restavano ancora zone oscure e inaccessibili. Un esempio classico era quello delle sorgenti del Nilo e dell’abitabilità della vicina zona equatoriale, che non era stato del tutto risolto neppure dalle spedizioni organizzate con dovizia di mezzi sotto l’egida dei Tolemei81; un altro, speculare e contrapposto, anche se meno famoso, era quello delle sorgenti del Tanai e del conne tra Europa ed Asia. 81
PÉDECH, La géographie des Grecs, 85-86.
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La communis opinio riteneva che il Tanai dividesse i due continenti e scorresse da nord sino alla palude Meotide in senso inverso, ma sullo stesso meridiano del Nilo82. Tutto ciò era però frutto di congettura, giacché ancora Strabone osservava che a suo tempo non erano ancora state raggiunte le sorgenti del Tyras (Dniestr), né del Boristene (Dniepr), né dell’Hypanis (Bog) e che quindi le regioni più settentrionali, da cui presumibilmente proveniva il Tanai, dovevano essere, se possibile, ancora meno conosciute (II 4,6). Ora, Polibio si distacca dalla vulgata per sostenere che il Tanai discende nella Meotide ਕʌò șİȡȚȞોȢ ਕȞĮIJȠȜોȢ, cioè da nord-est, non da nord83: noi non conosciamo le ragioni addotte per questa importante modica, che non poteva dipendere da informazioni ottenute da viaggiatori o esploratori e doveva invece esser frutto di supposizioni o esigenze teoriche, così come Polibio giusticava, ma non dimostrava il clima temperato e quindi l’abitabilità della zona equatoriale attraverso l’ipotesi che i venti etesî spingessero le nubi contro le montagne molto alte della suddetta zona e provocassero così abbondanti piogge84 (dove di sicuro c’era solo l’esistenza dei venti etesî, non delle montagne dell’equatore). Possiamo però renderci conto della conseguenza immediata di uno spostamento ad est del corso del Tanai, conne d’Europa: l’Europa si allargava ai danni dell’Asia, cresceva in dimensioni ed importanza, si confermava ben altra cosa rispetto alla piccola Europa balcanica egemonizzata no a Filippo V dagli Antigonidi di Macedonia. Altrove ho sottolineato85 l’importanza che il concetto politico di un’Europa continentale riveste in Polibio e la vigorosa polemica condotta a suo sostegno contro una diversa, più limitata visione ellenistica di matrice appunto macedone e anche contro l’indifferenza romana verso questa problematica; in questa prospettiva ben si capisce come Polibio fosse più o meno consciamente spinto a modicare le dimensioni e l’immagine stessa dell’Europa in funzione delle proprie esigenze propagandistiche dalla mancanza di dati oggettivi e di informazioni dirette: se egli stesso aveva disvelato coi suoi viaggi l’occidente, restava inesplorato l’oriente e appunto l’assenza di viaggi in quelle lande misteriose stimolava e, per così dire, autorizzava la deformazione geograca al servizio della politica.
82 Il conne al Tanai risaliva ad Ecateo (fr. 225 Nenci) e rimase prevalente, nonostante Erodoto (IV 45) optasse per un diverso e più orientale conne al Fasi. 83 XXXIV 7,9-10. 84 XXXIV 1, 16. Si noti però che nello scritto Sull’abitabilità della zona equatoriale Polibio cita anche la testimonianza autoptica di chi si recò in quelle regioni o almeno nelle loro vicinanze (XXXIV 1,8) accanto a considerazioni teoriche basate sui movimenti del sole. 85 In Polibio, la storiograa ellenistica e l’Europa, CISA XII, Milano 1986, 124-134 (=cap. V).
CAPITOLO V IL CONCETTO DI EUROPA
Polibio non aveva dubbi sull’equivalenza del concetto geograco e di quello politico corrispondenti al termine ‘Europa’: in entrambi i casi, in armonia con la prestigiosa tradizione della cultura classica greca, che attraverso la storiograa del IV secolo risaliva ad Erodoto, per ‘Europa’ si doveva intendere il continente dall’oceano Atlantico al Tanai. Di là poi dall’univocità, con cui viene usato il termine ‘Europa’ nell’opera polibiana (con un’apparente eccezione, che discuterò oltre)1, lo storico di Megalopoli concentrò gran parte dei suoi ricchi interessi etnico-geograci nell’ampliare le conoscenze della cultura greca metropolitana rispetto al nostro continente: sue sono la prima etnograa della Gallia Cisalpina (II,14-17) e la prima etnograa della penisola iberica (XXXIV,8-9), che costituisce la sezione più originale del XXXIV libro, dove la sintesi geograca su tutte le aree toccate dalla narrazione storica non a caso viene introdotta tra il 153/2 e il 152/1, nel corso della guerra
1 L’eccezione è XXI,43,5 e 46,9 (per cui cfr. infra p. 73) su oltre una trentina di casi, registrati in TH. BÜTTNER-WOBST (ed.), Polybius. Historiae, V, Lipsiae 1904 = Stutgardiae 1963, 79; peraltro la sola suddivisione del racconto anno per anno in eventi europei ed asiatici con tanto di formula di passaggio (p.es. a V,30,8: țĮ IJ ȝȞ țĮIJ IJȞ ǼȡઆʌȘȞ ਥȞ IJȠIJȠȚȢ Ȟ) è la miglior conferma di quanto scritto nel testo.
Il concetto di Europa
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celtiberica e in occasione del soggiorno spagnolo di Polibio stesso2; sua è anche l’acrimoniosa e ingenerosa polemica verso Pitea di Marsiglia, in cui si ostenta scetticismo nella possibilità di conoscere l’Occidente più remoto, cioè quello che non aveva potuto esplorare egli stesso, il medesimo scetticismo – si noti – che già Erodoto aveva manifestato riguardo alle voci correnti sui territori a nord-ovest dell’Italia3. Quest’inclinazione occidentale degli interessi etnograci di Polibio è certamente da collegarsi alle sue strette relazioni col ceto dirigente romano e con la sua politica: a mano a mano che Roma allargava i suoi interessi e i suoi domini in Occidente, era opportuno presentare al pubblico greco le caratteristiche etniche dei nuovi popoli e le caratteristiche geograche dei nuovi territori, che venivano coinvolti dall’azione di Roma nella ıȣȝʌȜȠț IJȞ ȖİȖȠȞંIJȦȞ, così come era necessario illustrare i fattori istituzionali, militari ecc... del prodigioso espandersi dell’impero romano4; da questo punto di vista il più celebrato etnografo successivo, Posidonio, non fa altro che seguire il modello polibiano, quando inserisce la sua etnograa sulla Gallia Transalpina nel XXIII libro delle Storie, a mo’ di premessa al racconto della conquista romana della Narbonense: per questi autori, talvolta deniti addirittura agenti del cosiddetto imperialismo romano, la conoscenza dell’Europa occidentale progrediva in effetti al ritmo dell’espansione di Roma e interessava nella misura in cui serviva ad ampliare la cultura geograca ellenistica e al tempo stesso a fornire nuovi dati sulle nuove annessioni al dominio dell’Urbe5. Se dunque la posizione di Polibio nei confronti dell’Europa è ben chiara, questo non implica che tale posizione fosse la più diffusa nell’ambito della cultura greca contemporanea, da cui anzi Polibio amava spesso differenziarsi, affermando una polemica e orgogliosa originalità. A tal proposito mi sembra estremamente signicativo e non ancora approfondito a sufcienza il primo passo, in cui lo storico di Megalopoli menziona l’Europa, a I,2,4-6: «I Macedoni dominarono l’Europa dalle zone lungo l’Adriatico sino al Danubio, il che parrebbe una porzione del tutto insignicante della predetta regione...Essi mai cercarono di impadronirsi 2
Per tale collocazione e le sue ragioni cfr. supra cap. IV, pp. 42-43. Polyb. XXXIV,5; Herod. III, 115-116. Sulla posizione di Polibio cfr. P. PÉDECH, La méthode historique de Polybe, Paris 1964, 578 e 587; ID., La culture de Polybe et la science de son temps, in E. GABBA (éd.), Polybe, Vandoeuvres-Genève 1974, 41-60, pp. 54-59. 4 Un esempio, non del tutto condivisibile, ma estremamente acuto dei legami tra la riessione polibiana e l’espansione di Roma nei suoi moventi economici ha fornito D. MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli 1978. 5 Sulla continuità ‘Polibio – Posidonio’ in tal senso cfr. A. MOMIGLIANO, Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino 1972/1973, 693-707 = Sesto Contributo, Roma 1980, I, 89-101. 3
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della Sicilia, della Sardegna e dell’Africa e neppure conoscevano, per parlar chiaro, i più bellicosi popoli dell’Europa occidentale»6. Il tono quasi risentito, con cui Polibio sottolinea la maggior ampiezza dell’Europa nei confronti del dominio macedone e l’ignoranza dei Macedoni su questo argomento, sembra implicare il riferimento a un’idea di Europa riduttiva rispetto a quella ‘classica’, cioè erodotea, da lui ripresa; il dubbio che lo storico di Megalopoli, tanto per cambiare, stia polemizzando qui contro una posizione piuttosto diffusa al suo tempo si acuisce, quando si legge a II,2,1 che «in quel periodo per la prima volta i Romani intrapresero con un esercito il passaggio in Illiria e in quelle parti dell’Europa»7: di nuovo Polibio sente il bisogno di precisare che l’Illiria e le vicine zone geograche, cioè in sostanza l’area traco-illirica coincidente con la sfera d’egemonia macedone, sono solo ȝȡȘ IJોȢ ǼȡȫʌȘȢ; a questo punto è legittimo domandarsi: la polemica di Polibio è generica o ha di mira bersagli ben determinati e identicabili? Data l’accusa di ignoranza rivolta da Polibio ai Macedoni, è in questa direzione che si deve innanzitutto cercare. La storiograa locale macedone sin dalle sue origini alla ne del IV secolo aveva valorizzato con Egesippo di Meciberna antiche tradizioni indigene che facevano dell’Europa una mitica donna appunto macedone, la quale aveva esteso il suo dominio a tutta la regione a nord della Tracia8; dietro questa personicazione è abbastanza evidente la volontà di identicare l’Europa con la Macedonia e l’area da essa dipendente, come a dire che sin dai tempi mitici l’Europa nel senso riduttivo, e cioè traco-illirico del termine, spettava di diritto alla Macedonia. La continuità di questa visione nella storiograa macedone ci è assicurata dall’opera di un contemporaneo di Polibio, Teagene (150 a.C. ca.), di cui cogliamo ancora le tracce in Trogo-Giustino e per cui la più antica regione ad essere chia-
6 ȂĮțİįȩȞİȢ IJોȢ ȝȞ ǼȡȫʌȘȢ ȡȟĮȞ ਕʌઁ IJȞ țĮIJ IJઁȞ ਝįȡȓĮȞ IJȩʌȦȞ ਪȦȢ ਥʌ IJઁȞ ੍ıIJȡȠȞ ʌȠIJĮȝȩȞ, ȕȡĮȤઃ ʌĮȞIJİȜȢ ਗȞ ijĮȞİȓȘ ȝȑȡȠȢ IJોȢ ʌȡȠİȚȡȘȝȑȞȘȢ ȤȫȡĮȢ... ȈȚțİȜȓĮȢ ȝȞ Ȗȡ țĮ ȈĮȡįȠ૨Ȣ țĮ ȁȚȕȪȘȢ Ƞįૃ ਥʌİȕȐȜȠȞIJȠ țĮșȐʌĮȟ ਕȝijȚıȕȘIJİȞ, IJોȢ įૃ ǼȡȫʌȘȢ IJ ȝĮȤȚȝȫIJĮIJĮ ȖȑȞȘ IJȞ ʌȡȠıİıʌİȡȓȦȞ ਥșȞȞ ੁıȤȞȢ İੁʌİȞ Ƞįૃ ਥȖȓȞȦıțȠȞ. La bellicosità dei popoli dell’Europa occidentale è un tިpos dell’etnograa classica, risalente almeno a Ps.Hippocr. De aëre, aquis, locis 23 (ultimo quarto del V secolo: la datazione in H. Gossen RE VIII Hippokrates. n°16 col. 1815 e in J. JOUANNA (éd.), Hippocrate, II,2. Airs, eaux, lieux, Paris 1996, 79-82). 7 ȀĮIJ į IJȠઃȢ țĮȚȡȠઃȢ IJȠȪIJȠȣȢ ૮ȦȝĮȠȚ IJȞ ʌȡȫIJȘȞ įȚȐȕĮıȚȞ İੁȢ IJȞ ȜȜȣȡȓįĮ țĮ IJĮ૨IJĮ IJ ȝȑȡȘ IJોȢ ǼȡȫʌȘȢ ਥʌİȕȐȜȠȞIJȠ ʌȠȚİıșĮȚ ȝİIJ įȣȞȝİȦȢ. 8 Hegesipp. Mecybern. fr. 3 Jacoby apud Schol. A Eurip. Rhes. 29; su tale frammento cfr. L. PRANDI, Europa e i Cadmei: la ‘versione beotica’ del mito, CISA XII, Milano 1986, 37-48; su Egesippo e i suoi ȆĮȜȜȘȞȚĮț cfr. F. JACOBY FrGrHist 3 B, Leiden 1955, 188191 e 123-125.
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mata Europa era stata la zona della Macedonia a sud-ovest dell’Asso9: tra Egesippo e Teagene c’è di mezzo il drammatico crollo della potenza macedone a Pidna (168) e questo spiega la drastica restrizione dell’area denominata Europa, ma è signicativo che la cultura locale, anche dopo il tramonto di ogni ambizione egemonica, non rinunciasse a rivendicare la sostanziale identità di Macedonia ed Europa. Non però di sola erudizione locale si trattava. Il celebre ‘epitao’ di Olimpiade, trasmessoci dal XIX libro di Diodoro, ma con ogni probabilità derivato da uno storico antigonide quale Ieronimo di Cardia10, di poco posteriore ad Egesippo, proclamava che ella era stata «la glia di Neottolemo re dell’Epiro, la sorella di Alessandro che fece una spedizione in Italia, e ancora la moglie di Filippo, il più potente di coloro che sino a lui avevano regnato in Europa (IJȞ ʌȡઁ ĮIJȠ૨ țĮIJ IJȞ ǼȡȫʌȘȞ įȣȞĮıIJİȣıȞIJȦȞ)». Con questa denizione, eforea nella terminologia, ma non nel signicato11, Filippo II veniva reinserito, sia pure al primo posto, in una continuità dinastica, che escludeva ogni interpretazione del termine ‘Europa’ nel senso lato e cioè continentale del termine quale la storiograa del IV secolo, segnatamente Eforo e Teopompo12, aveva adottato proprio per Filippo, e ricuperava invece il concetto riduttivo di Europa traco-illirica (con l’ovvia aggiunta della Grecia, ormai considerata alla stregua di un’appendice naturale della Macedonia). Ora, Ieronimo o comunque l’autore antigonide di Diodoro operava questa modica restrittiva del legame ‘Europa / Filippo’ alla luce dei nuovi sviluppi storici e nell’interesse della contemporanea monarchia macedone: tramontati i sogni universalistici di Alessandro e frantumato il suo impero tra i diadochi, gli Antigonidi e più precisamente il Go9 Su Teagene probabile fonte di Iustin. VII,1,6 («ex alio latere [sc. Macedoniae] in Europa regnum Europus nomine tenuit»), e i suoi ȂĮțİįȠȞȚț ʌIJȡȚĮ cfr. F. JACOBY FrGrHist 3 C, Leiden 1958, 768-770; N.G.L. HAMMOND-G.T. GRIFFITH, A History of Macedonia, II, Oxford 1979, 39 nota 4; G. ZECCHINI, Notes historiques in B. MINEO-G. ZECCHINI (éds.), Justin, I, Paris 2016, 219. 10 Diod. XIX,51,6; per la dipendenza da Ieronimo cfr. FR. BIZIÈRE (éd.), Diodore de Sicile. Bibliothèque historique. Livre XIX, Paris 1975, XV-XVI (con bibliograa precedente a p. XV nota 2) e J. HORNBLOWER, Hieronymus of Cardia, Oxford 1981, 18-85; anche F. LANDUCCI, Ieronimo e la storia dei Diadochi, InvLuc 3-4 (1981/1982), 13-26, che ha rivendicato l’indipendenza di Diod. XVIII-XX da Ieronimo, ammette però la presenza di Ieronimo in Diodoro per i passi loantigonidi qual è XIX,51. 11 La terminologia eforea si ricava dai passi del XVI libro di Diodoro di sicura derivazione appunto da Eforo e in cui Filippo II è celebrato come il fondatore della più grande dinastia d’Europa: XVI,1,3; 5,4; 64,3; 95,1. 12 Su Teopompo in particolare cfr. C. BEARZOT, Il signicato della ȕĮıȚȜİަĮ IJ߱Ȣ ʌޠıȘȢ ǼރȡȫʌȘȢ nell’ ‘Encomio di Filippo’ in Teopompo, CISA XII, Milano 1986, 91-104; per il precedente siracusano di Filisto cfr. M. SORDI, Dionigi I, dinasta d’Europa, ibid., 84-90.
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nata, protettore di Ieronimo, avevano la triplice esigenza di affermare la propria continuità rispetto agli Argeadi, richiamandosi a Filippo, di dimostrare che non c’era stata nessuna diminuzione nell’area di dominio macedone col passaggio da una dinastia all’altra e inne di delimitare la zona di propria competenza di fronte alle altre monarchie ellenistiche. Dunque, già agli inizi del III secolo, sia a livello di storiograa locale, sia a livello di storiograa ‘alta’ i macedoni si erano per così dire riappropriati del concetto di Europa nella sua accezione traco-illirica e se ne servivano nella loro propaganda politica. L’assenza di convincenti repliche da parte di altre componenti della cultura greca permise a tale accezione di affermarsi rapidamente in età ellenistica e di essere dominante all’epoca di Polibio. Un primo elemento a sostegno di questa affermazione ce lo fornisce ancora la produzione letteraria lomacedone dell’età di Filippo V, denito in un epigramma anonimo țȠȡĮȞȠȢ ǼȡȫʌĮȢ in seguito a una sua vittoria su Kiroadas, re dei Traci Odrisi13; se si data questa campagna secondo la communis opinio al 18314, si deve considerare che a quest’epoca Filippo aveva abbandonato ogni progetto egemonico sulla Grecia e alla sua ambizione era rimasto aperto solo il fronte nord, verso il Danubio, per cui proprio in questo settore egli cercava di allargare il suo dominio: allora l’Europa dell’epigramma andrebbe intesa nel senso strettamente macedone del termine; se invece si antedatasse col Momigliano questa spedizione prima di Cinoscefale e forse al 20415, allora la denizione di ‘signore d’Europa’ implicherebbe la volontà di affermare il proprio controllo anche sull’Ellade; ‘Europa’ comprenderebbe allora la zona tracoillirica e la Grecia, cioè in sostanza l’intera penisola balcanica, come già per Filippo II e per Antigono Gonata. Parimenti di questi anni è un altro epigramma, di Alceo di Messene16, in cui si contrappone la spedizione di Flaminino dall’Italia per liberare l’Ellade dalla schiavitù a quella di Serse dalla Persia (ma l’allusione è ad Antioco III?) per soggiogare l’Europa ( ȝȞ Ǽȡઆʌ įȠ૨ȜȠȞ ȗȣȖઁȞ ĮȤȞȚ șıȦȞ ȜșİȞ): anche questo epigramma implica dunque l’equazione ‘Ellade = Europa’ del precedente, pur se vista in una prospettiva non più macedone, ma greca e loromana, e tanto più interessante perciò
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Il testo dell’epigramma in Anth. Palat. XVI,6. Cfr. N.G.L. HAMMOND-F.W. WALBANK, A History of Macedonia, III. 336-167 B.C. Oxford 1988, 468-471 e A.M. ECKSTEIN, Rome enters in the Greek East. From Anarchy to Hierarchy in the Hellenistic Mediterranean, 230-217 B.C. Oxford 2008, 350 nota 33. 15 A. MOMIGLIANO, Terra marique, JRS 32, 1942, 53-64 = Secondo Contributo, Roma 1960, 431-446, in particolare pp. 435-436. 16 Anth. Palat. XVI,5; cfr. sempre MOMIGLIANO, Terra marique, 436 nota 21. 14
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è constatare che l’Italia, da cui proviene Flaminino, appare di fatto come estranea a quest’Europa ellenica. Un secondo elemento a conferma della diffusione del concetto tracoillirico (o, meglio, macedone) d’Europa nell’età di Polibio è il contenuto di alcune opere recanti per la prima volta il titolo ǼȡȦʌȚĮț come quelle a noi note di Agatarchide di Cnido e di Mnasea di Patara. Questi due scritti, omonimi nel titolo, ma in realtà diversi per l’argomento, che è più propriamente storico-politico per Agatarchide e sembra invece in prevalenza mitograco per Mnasea17, hanno in comune un’apparente anomalia: infatti dei 13 frammenti degli ǼȡȦʌȚĮț di Agatarchide 11 sono di ambito solitamente greco o comunque ‘europeo’ (il fr. 15 Jacoby riguarda le foci del Fasi), 1 parla di Maga di Cirene (è il 7 Jacoby) e 1 degli Aricandi di Licia in Asia minore (è il 16 Jacoby); parimenti dei 3 frammenti degli ǼȡȦʌȚĮț di Mnasea (che è, si badi, di Patara in Licia) 2 sono di ambito greco, ma 1 concerne la Frigia in Asia minore, mentre inne un altro frammento di argomento lidio appartiene al Ȇİȡ ਝıĮȢ18. Ci si è domandati a ragione perché mai Agatarchide e Mnasea assegnassero alla loro opera sull’Europa e non a quella sull’Asia (gli ਝıȚĮIJȚț per il primo e appunto il Ȇİȡ ਝıĮȢ per il secondo) passi riguardanti la Licia, la Frigia e Cirene e mi sembra corretta la risposta formulata dallo Jacoby per Agatarchide19, ma estensibile, a mio avviso, al suo contemporaneo Mnasea: in seguito alla morte di Maga (259/258 ca.) Cirene fu coinvolta negli affari dinastici di Macedonia20, il frammento sulla Licia può riferirsi alla campagna di Filippo V in Asia minore (201)21 e quindi in conclusione emerge che il minimo comun denominatore di questi ǼȡȦʌȚĮț in apparenza così disorganici è la storia degli Anti-
17 Su Agatarchide cfr. E. SCHWARTZ RE I Agatarchides coll.739-741 = Griechische Geschichtsschreiber, Leipzig 1959, 32-34; FR. JACOBY FrGrHist 2 C, Berlin 1926, 150-154; D. MARCOTTE, Structure et caractère de l’œuvre historique d’Agatharchide, Historia 50, 2001, 385-435; W. AMELING, Ethnography and universal history in Agatharchides, in T.C. BRENNAN-H. FLOWER (eds.), Papers presented to Glen W. Bowersock, Harvard 2008, 13-59; L. GALLO, Appunti per un riesame di Agatarchide di Cnido, Hormos 3, 2011, 68-76. Su Mnasea di Patara in Licia e non di Patre e il suo Periplo, una raccolta di șĮȣȝıȚĮ divisi in due sezioni, l’europea e l’asiatica, cfr. R. LAQUEUR RE XV-2 Mnaseas n. 6 coll. 2250-2252 e G. ZECCHINI, La cultura storica di Ateneo, Milano 1989, 224. 18 Tutti i frammenti a noi giunti di Mnasea sono riportati da Ateneo: i due su Frigia e Lidia sono rispettivamente in Athen. XII, 530c e VIII,346d-e. 19 FR. JACOBY, FrGrHist 2 C, 151 (in generale) e 152 (nel commento al fr.7). 20 Su Maga di Cirene, Demetrio il Bello e i loro rapporti con Antigono Gonata basti qui il rinvio a W.W. TARN, Antigonos Gonatas, Oxford 1913 = 1969, 321-323 e 449-453. 21 Sulla campagna di Filippo V in Asia nel 201 cfr. F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, II, Oxford 1967, 497-500.
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gonidi; perciò sotto il termine ǼȡȦʌȚĮț noi dobbiamo intendere una storia d’Europa nel senso macedonico e antigonide di tale concetto così come sotto il termine ਝıȚĮIJȚț va intesa una storia dell’Asia nel senso seleucidico di tale concetto: l’Asia minore (Frigia, Licia, Lidia ecc...), contesa tra le due potenze, ma non dipendente di diritto da nessuna delle due (c’erano di mezzo gli Attalidi), era, per così dire, di incerta attribuzione anche sul piano storiograco e poteva indifferentemente rientrare sia negli ǼȡȦʌȚĮț, sia negli ਝıȚĮIJȚț. Quel che conta in questa sede è comunque che all’epoca di Polibio si scrivevano e circolavano opere storiograche o parastoriograche, in cui sin dal titolo il concetto di Europa era assimilato a quello di area di interesse e dominio macedone. Sin qui parrebbe che la polemica di Polibio fosse rivolta contro la propaganda e la letteratura macedone o più latamente loantigonide: da buon patriota acheo egli non poteva accettare che l’Ellade fosse ridotta all’appendice di un’Europa balcanica egemonizzata dalla Macedonia. Altri bersagli sono però ipotizzabili in una disputa che si presenta a vasto raggio e dalle ricche implicazioni. Innanzitutto nel noto frammento di Antistene di Rodi sulle vicende greche della guerra romano-siriaca nel 191 conservatoci nel Ȇİȡ șĮȣȝĮıȦȞ di Flegone di Tralles, il termine ‘Europa’ ricorre ben sei volte nel seguente contesto22: dopo la vittoria alle Termopili i Romani interrogarono Del e a causa della risposta della Pizia si astennero del tutto dal marciare contro qualcuno dei popoli che abitano l’Europa, ma si recarono a Naupatto; qui lo ‘ıIJȡĮIJȘȖંȢ’ Publio (cioè Scipione Africano), come in preda a un demone, profetò che un re avrebbe condotto contro l’Italia un esercito sterminato, arruolato da ogni parte dell’Asia e dell’amabile Europa; poi, ricuperata la calma, parlò all’esercito, preannunciando che i Romani sarebbero passati dall’Europa all’Asia, avrebbero vinto Antioco e avrebbero riportato ricco bottino in Europa, ma i Traci che abitano in Europa nella zona costiere della Propontide e dell’Ellesponto li avrebbero attaccati e avrebbero sottratto loro una parte della preda, mentre i superstiti sarebbero poi giunti in salvo a Roma; inne a gran voce proclamò che vedeva nella sua immaginazione eserciti e re e popoli passare dall’A22 Il testo in FR. JACOBY, frGrHist 2 B, Berlin 1927, 1169-1185; per un inquadramento storico del frammento di Antistene all’interno della problematica riguardante la guerra siriaca cfr. E. GABBA, P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, Athenaeum 63, 1975, 3-17, pp. 7-9; M. PORQUEDDU SALVIOLI, La Storia di Antistene di Rodi e la profezia antiromana, CISA VIII, Milano 1982, 3-11; L. LORETO, L’immagine dello stato romano nell’Oriente ellenistico nell’ età delle profezie (III e II sec. a.C.), in ‘Sibille e Linguaggi oracolari’, Pisa 1999, 443-486.
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sia in Europa e portarvi distruzione e ricominciò a profetare in versi23. Ora, a parte i due casi in cui si parla di ‘passaggio’ dall’Asia all’Europa o viceversa e in cui ‘Europa’ può avere signicato sia peninsulare (= Ellade), sia continentale, negli altri quattro casi l’accezione nella quale viene usato il nostro termine è abbastanza chiara: se i Romani per il monito della Pizia rinunciano a marciare contro qualcuno dei popoli d’Europa, questi non possono che essere gli alleati greci di Antioco; se l’esercito di Antioco ha una sua componente europea, questa non può essere che greca o, al massimo, illirica; inne l’accenno al ritorno di Vulsone dall’Asia in Europa e ai danni qui sofferti a causa dei Traci24 riporta all’ormai ben nota equazione ‘Tracia = Europa’. Dunque per Antistene l’Europa manteneva il senso riduttivo, peninsulare, che abbiamo visto diffuso in età ellenistica ad opera della storiograa e della propaganda macedone: è presumibile che il medesimo concetto fosse condiviso da tutta la storiograa rodia antiromana e losiriaca e che quest’ultima a sua volta fosse d’accordo con la posizione politica ufciale dei Seleucidi. La conferma di questa suggestione ci è offerta, a mio avviso, proprio da Polibio, laddove egli riferisce i termini e il testo della pace di Apamea nel 18825; la clausola, che proibisce ad Antioco di muover guerra agli abitanti delle isole e dell’Europa (IJȠȢ ਥʌ IJĮȢ ȞıȠȚȢ ȝȘį IJȠȢ țĮIJ IJȞ ǼȡȫʌȘȞ), implica che per ‘isole’ si intendano quelle del mar Egeo e di conseguenza per ‘Europa’ i territori che si affacciano ad ovest su quel mare; parimenti nel parallelo trattato tra Eumene di Pergamo ed Antioco si stabilì che il primo avrebbe annesso ai suoi domini in Europa il Chersoneso, Lisimachia e i forti e il territorio adiacenti (ʌİȡ į IJȠ૨ ȕĮıȚȜȑȦȢ ǼȝȑȞȠȣȢ țĮ IJȞ ਕįİȜijȞ Ȟ IJİ IJĮȢ ʌȡઁȢ ਝȞIJȓȠȤȠȞ ıȣȞșȒțĮȚȢ IJȞ ਥȞįİȤȠȝȑȞȘȞ ʌȡȩȞȠȚĮȞ ਥʌȠȚȒıĮȞIJȠ țĮ IJȩIJİ IJોȢ ȝȞ ǼȡȫʌȘȢ ĮIJ ʌȡȠıȑșȘțĮȞ ȋİȡȡȩȞȘıȠȞ țĮ ȁȣıȚȝȐȤİȚĮȞ țĮ IJ ʌȡȠıȠȡȠ૨ȞIJĮ IJȠȪIJȠȚȢ ਥȡȪȝĮIJĮ țĮ ȤȫȡĮȞ, ਸȢ ਝȞIJȓȠȤȠȢ ਥʌોȡȤİȞ), in Asia la Frigia ellespontica, la Grande Frigia ecc...; anche qui è comprensibile che si nomini l’Europa per caratterizzare geogracamente alcune acquisizioni territoriali degli Attalidi, solo se con ‘Europa’ ci si riferisce alla Tracia e dintorni, non certo all’intero continente, con cui il pergameno Eumene non aveva in sostanza nulla a che fare. Proprio l’impiego dell’accezione restrittiva di ‘Europa’ anche nel
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Riassumo nel testo il contenuto di Phlegon. Trall. De mirab. III,6-9. Sull’ iter Thracicum di Vulsone cfr. G. ZECCHINI, Cn.Manlio Vulsone e l’inizio della corruzione a Roma, CISA VIII, Milano 1982, 159-178, pp. 167-169. 25 I passi citati subito dopo nel testo sono rispettivamente XXI,43,5 e 46,9. 24
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trattato tra Attalidi e Seleucidi ne rivela l’origine ellenistica (già peraltro ipotizzabile sulla base di quanto osservato nelle pagine precedenti) e non romana; allo stesso modo la scelta del conne al Tauro tra zone d’inuenza romana e siriaca è un retaggio del vecchio impero achemenide, che i Seleucidi vollero mantenuto e che i Romani accettarono senza difcoltà26. Non deve d’altronde stupire che Polibio, strenuo rivendicatore del signicato continentale d’‘Europa’, abbia adoperato il termine nell’altro senso in questi passi del XXI libro, giacché egli riporta nell’occasione il testo di un trattato di pace e deve adeguarsi alla terminologia corrente nella diplomazia del suo tempo: non mi pare dunque che ci sia contraddizione tra l’uso ‘ellenistico’ di ‘Europa’ nel XXI libro e la tesi di una polemica polibiana sul valore del termine ‘Europa’ rivolta contro la storiograa antiromana contemporanea27. Può invece suscitare perplessità che i vincitori della guerra siriaca, cioè i Romani, abbiano serenamente accettato la visione geopolitica dei vinti – e del mondo ellenistico più in generale – per cui l’Europa è l’area peninsulare greco-macedone, l’Asia vera e propria comincia ad est del Tauro e l’Asia minore è una specie di ‘terra di nessuno’. Eppure basta una rapida consultazione delle concordanze liviane per persuadersi che così fu: Livio (e forse già le sue eventuali fonti latine) usa il vocabolo ‘Europa’ (a parte il celebre passo su Alessandro a IX,16,19) solo nella IV e V decade e solo in un contesto greco-asiatico (Filippo, Antioco, Perseo)28, a cui appunto si adatta il signicato riduttivo ed ellenistico del termine: la storiograa conuita in Livio conferma quindi sul piano storiograco quell’atteggiamento di indifferenza dei Romani verso il concetto di Europa, che il trattato di Apamea rivela sul piano geopolitico e che li portava di fatto ad autoescludersi dall’Europa stessa. Questa indifferenza non è però vuoto di idee o inerzia mentale di fronte al grande tema della contrapposizione ‘Europa / Asia’ caro alla cultura greca classica e a Polibio, ma semplicemente adozione di moduli
26 Sul conne al Tauro ssato nella pace di Apamea e il suo valore geopolitico cfr. M. SORDI, Il conne del Tauro e dell’Halys e il sacricio in Ilio, CISA VIII, Milano 1982, 136-149. 27 Per un quadro generale dei rapporti tra Polibio e la storiograa ellenistica antiromana cfr. G.A. LEHMANN, Polybios und die ältere und zeitgenössische griechische Geschichtsschreibung, in Gabba (éd.), Polybe, 147-200; limitatamente alla storiograa rodia cfr. anche H.U. WIEMER, Rhodische Traditionen in der hellenistischen Historiographie, Frankfurt am Main 2001. 28 Cfr. D.W. PACKARD, A Concordance to Livy, II, Cambridge Mass. 1968, 432.
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alternativi nell’interpretazione della storia. La posizione dei contemporanei di Polibio è illuminante in tal senso. Ennio, cioè il primo scrittore latino, a nostra conoscenza, che impiega il termine ‘Europa’, laddove scrive che «Europam Libyamque rapax... diuidit unda»29, quando vuole passare da una generica annotazione geograca al tentativo di ssare le coordinate della gloria di Scipione, adotta le categorie di Oriente ed Occidente, non di Europa ed Asia: «a sole exoriente supra Maeotis paludes / nemo est qui factis aequiperare queat»30. Emilio Sura, che o è autore appena posteriore alla pace di Apamea oppure conserva nel I secolo a.C. precisa memoria del valore assegnato a quella pace dalla coeva tradizione emilio-cornelia, introduce nel mondo romano la legge storica della translatio imperii sempre da Oriente ad Occidente: in essa non c’è ovviamente posto per il contrasto ‘Europa / Asia’31. Inne Catone il censore: in nessun frammento della sua opera, né nelle orazioni, né soprattutto nelle Origines compare il termine ‘Europa’: può essere un caso, ma, a ben riettere, che ruolo poteva assumere l’Europa opposta all’Asia nell’italocentrico e misellenico Catone, il quale non desiderava certo sottolineare i legami di comunanza geograca ed eredità spirituale tra Greci e Romani? Quando Roma si affaccia alla grande storia mediterranea e la sua cultura allestisce i primi schemi interpretativi di questa realtà, le aspirazioni imperiali degli Scipioni e il conservatorismo italico di Catone almeno in una cosa sono d’accordo, nel non utilizzare la categoria geopolitica di ‘Europa’, già svalutata peraltro dalla cultura ellenistica: fu una scelta gravida di conseguenze32, ben percepibili nella cultura augustea di Virgilio e di Livio, e credo che anche contro questa scelta polemizzasse e si battesse, vanamente, Polibio33. In conclusione, alle radici del passo di Polibio da cui sono partito
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Enn. Annal. IX,302 Skutsch apud Cic. Tuscul. I,20,45. Enn. Varia 21-22 Vahlen = 44 Courtney apud Cic. Tuscul. V,17,49, su cui cfr. F.W. WALBANK, The Scipionic Legend, PCPS 1967, 54-69 = Selected Papers, Cambridge 1985, 120-137; GABBA, P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, 11; E. COURTNEY, The Fragmentary Latin Poets, Oxford 1993, 40-42. 31 Il frammento di Sura, l’unico giuntoci, è in Vell I,6,6. Discussione e bibliograa precedente in G. ZECCHINI, Storia della storiograa romana, Roma-Bari 2016, 42. 32 Forse non è casuale che si debba scendere sino a Varrone (De lingua latina V,32) per trovare il primo autore latino che includa senza equivoci l’Italia nell’Europa. 33 Per l’atteggiamento di Polibio verso Catone, spesso critico, ma conscio del suo valore e sempre attento a vagliarne le idee, cfr. PÉDECH, La méthode historique, 190-199; 365366; 482-484 e D. MUSTI, Polibio e la storiograa romana arcaica, in GABBA (éd.), Polybe, 105-139, pp. 125-135; per l’inusso catoniano su Polibio riguardo alle origini e alla natura delle istituzioni di Roma cfr. anche A. NOVARA, Les idées romaines sur le progrès, Paris 1982, 111-119, nonché i capp. XI e XIII di questo volume. 30
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non c’è solo il dissenso stizzito da un errato cliché ellenistico o la volontà di combattere la propaganda lomacedone, ormai priva di qualsiasi incidenza pratica e relegata nel passato, ma una battaglia culturale di ben più vasta portata e proiettata nel futuro: si trattava di decidere in che direzione dovesse muoversi il nuovo impero universale, se verso la conservazione del suo elemento egemone, romano-italico, o se verso l’integrazione di Greci e Romani nel segno comune di un’unica civiltà europea; quest’ultimo era il sogno di tutti i Greci, favorevoli a Roma o almeno ad essa rassegnati, come Polibio o l’augusteo Dionisio di Alicarnasso34, ma la classe dirigente romana rimase insensibile al fascino culturale di tale proposta35.
34 Per Dionisio, che pure conosce anche un’Europa regione della Tracia (I,47,6; 55,1; 61,3; IV,25,4; VI,80,1; XIV,1,1-2) è quanto mai signicativa l’affermazione iniziale, a I,2,2-4, che ȆȑȡıĮȚ į Ƞੂ ȂȒįȠȣȢ țĮIJĮȖȦȞȚıȐȝİȞȠȚ IJોȢ ȝȞ ਝıȓĮȢ ੑȜȓȖȠȣ įİȞ ʌȐıȘȢ IJİȜİȣIJȞIJİȢ ਥțȡȐIJȘıĮȞ, ਥʌȚȤİȚȡȒıĮȞIJİȢ į țĮ IJȠȢ ǼȡȦʌĮȓȠȚȢ șȞİıȚȞ Ƞ ʌȠȜȜ ਫ਼ʌȘȖȐȖȠȞIJȠ... ਲ į ȂĮțİįȠȞȚț įȣȞĮıIJİȓĮ... ȠIJİ Ȗȡ ȁȚȕȪȘȢ IJȚ ȝ IJોȢ ʌȡઁȢ ǹੁȖȪʌIJ Ƞ ʌȠȜȜોȢ ȠıȘȢ ਥțȡȐIJȘıİȞ, ȠIJİ IJȞ ǼȡȫʌȘȞ ȜȘȞ ਫ਼ʌȘȖȐȖİIJȠ, ਕȜȜ IJȞ ȝȞ ȕȠȡİȓȦȞ ĮIJોȢ ȝİȡȞ ȝȑȤȡȚ ĬȡțȘȢ ʌȡȠોȜșİ, IJȞ įૃ ਦıʌİȡȓȦȞ ȝȑȤȡȚ IJોȢ ਝįȡȚĮȞોȢ țĮIJȑȕȘ șĮȜȐııȘȢ, in cui è innegabile l’inuenza di Polyb. I,2,4-6, che è alle origini di queste mie considerazioni. 35 Per la successiva storia del concetto di ‘Europa’ a Roma cfr. G. ZECCHINI, Il concetto di Europa nell’ecumene romana, in A. GIARDINA-F. PESANDO (a cura di), Roma caput mundi, Milano 2012, 91-96.
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CAPITOLO VI MIGRAZIONI E INVASIONI: IL CASO DEI CELTI
‘Invasione’ in Polibio si dice ijȠįȠȢ e ‘invadere’ si esprime con un verbo di movimento, ȡȤȠȝĮȚ, ʌȠȡİȦ ecc..., preceduto dal preverbio ਥʌ : il primo termine contraddistingue l’invasione dell’impero persiano da parte di Alessandro (IX,27,11), il timore di un’invasione gallica in Italia nel 236 (II,21,6), il suo avverarsi nel 225 (II,23,12), i secondi sono impiegati per caratterizzare le invasioni galliche in Italia nel 388/386 (II,17,3), nel 348 (II,18,7) e di nuovo nel 225 (II,25,1); il contesto è in ogni caso quello della conquista o del saccheggio, di un’azione improvvisa, violenta e brutale, il cui solo preannuncio suscita terrore. Termini come ȝȚȖįİȢ e ȝȚȖȞȝİȞȠȚ indicano invece sempre una mescolanza pacica: a IV,75,6 si parla di mercenari ȝȚȖįİȢ, di provenienza diversa, ma riuniti in una comune e libera professione; a XXXIV,14,5 ci si riferisce agli abitanti di Alessandria di origine greca, lì giunti da molte città e molti popoli e amalgamatisi in un’unica comunità, denendoli appunto ȝȚȖįİȢ; allora il ȝȚȖȞȝİȞȠȚ usato a II,17,3 per indicare i contatti tra Galli ed Etruschi nella Pianura Padana prima della grande invasione del 388/386 vuole sottolineare il carattere pacico di tali contatti e contrapporlo alla catastrofe, violenta e improvvisa, del IV secolo; si badi inoltre che nel passo in questione ȝȚȖȞȝİȞȠȚ è preceduto dal preverbio ਥʌ, che vuole rilevare il carattere aggiuntivo e ripetitivo dell’azione, proprio come il termine ʌȠȚțȠȢ nella Politica aristotelica (1303a) signica non semplicemente ‘colono’, bensì ‘co-
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lono ulteriore, successivo’ : in ultima analisi Polibio vuol dire che in una prima fase i Celti si mescolarono con gli Etruschi a causa della vicinanza delle rispettive zone di insediamento (țĮIJ IJȞ ʌĮȡșİıȚȞ) senza ostilità reciproche, in modo indolore, e con una certa gradualità, in più fasi estese su un certo arco temporale. Queste precisazioni terminologiche, di per sé abbastanza banali, sono, a mio avviso, necessarie non tanto per riaprire nel suo complesso la uexata quaestio della migrazione e/o invasione dei Celti in Italia settentrionale quanto per collocare correttamente Polibio all’interno della tradizione storiograca concernente tale argomento. Come è noto, infatti, negli anni ‘60 e ’70 grazie agli studi di H. Homeyer, di R.M. Ogilvie e di M. Sordi2 pareva aver prevalso la cosiddetta ‘cronologia corta’, che ammetteva solo sporadiche inltrazioni di Celti in Cisalpina prima del IV secolo e negava ogni storicità alla versione liviana (V,34-35,3) della migrazione di Belloveso ai tempi di Tarquinio Prisco, mentre dava ragione a Polibio (II,17) cioè alla più antica versione a noi pervenuta, in quanto sostenitore di una sola invasione da Oltralpe agli inizi del IV secolo. Successivamente la contrapposta ‘cronologia lunga’ ha a mano a mano ripreso vigore, non solo e non tanto perché ritenuta più compatibile coi dati archeologici, ma soprattutto perché la versione liviana ha riscosso crescenti consensi. In particolare un fondamentale studio di G. Dobesch pubblicato nel 19893 merita di essere qui sintetizzato e assunto a base della mia successiva analisi: Polibio deriverebbe da Q. Fabio Pittore e, in accordo con Dionisio d’Alicarnasso (VII,3,1) e con Plutarco (Cam.16,3), ammette una presenza celtica in Italia settentriona-
1 Additional settler come traducono H.G. LIDDELL-R. SCOTT, A Greek-English Lexikon, Oxford 1996, 675. Cfr. D. ASHERI, Studio sulla storia della colonizzazione di Anpoli sino alla conquista macedone, RFIC 95, 1967, 5-30; ID., Supplementi coloniari e condizione giuridica della terra nel mondo greco, RSA 1, 1971, 77-91. 2 H. HOMEYER, Zum Keltenexkurs in Livius‘ 5. Buch (33,4 - 35,3), Historia 9, 1960, 345-361; R.M. OGILVIE, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965; M. SORDI, Ellenocentrismo e lobarbarismo nell’excursus gallico di Timagene, CISA VI, Milano 1979, 34-56; Ead., Timagene di Alessandria, uno storico ellenocentrico e lobarbaro, ANRW II,30,1, Berlin-New York 1982, 775-797; Ead., Prospettive di storia etrusca, Como 1995, 7-27 e 49-54 (ristampa di studi del 1986/7, del 1992 e del 1976/7). 3 G. DOBESCH, Zur Einwanderung der Kelten in Oberitalien, Tyche 4, 1989, 35-85, seguito in buona parte da I. WERNICKE, Die Kelten in Italien, Stuttgart 1991, 73-118 e da K. TOMASCHITZ, Die Wanderungen der Kelten in der antiken literarischen Überlieferung, Wien 2002, 41-52 (commento a Liv. V,33-35); cfr. inoltre già A. GRILLI, La migrazione dei Galli in Livio, in Studi Vonwiller, Como 1980, II, 183-190 (tre ondate migratorie nel VI secolo). Buona messa a punto in A.M. ARDOVINO, ਫʌȚȝȚȖȞȝİȞȠȚ țĮIJ IJȞ ʌĮȡșİıȚȞ, in La protostoria in Lombardia, Como 2001, 77-96 e stringata sintesi in B. MAIER, Geschichte und Kultur der Kelten, München 2012, 182-186.
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le anteriore al IV secolo; solo Livio però recupera, derivandola da Catone, la Wandersage di Belloveso nella seconda metà del VI secolo: questa Wandersage sarebbe confermata da Cesare (BG VI,24,1) e da Plutarco (Cam. 15,1-16,3)4, la sua cronologia e in particolare la battaglia presso il Ticino vinta dai Galli sugli Etruschi intorno al 530/520 sarebbe confermata da Dionisio d’Alicarnasso, laddove quest’ultimo riferisce di Tirreni = Etruschi insediati lungo l’Adriatico e da lì scacciati progressivamente (ıઃȞ ȤȡંȞ) dai Celti appena prima dell’attacco etrusco ad Aristodemo di Cuma nel 524/35; insediamenti celtici in Norditalia ancora più antichi, risalenti alla prima metà del VI secolo, si sarebbero mescolati a preesistenti elementi preceltici, liguri in particolare, con un tale grado di integrazione reciproca da impedire ad Erodoto (IV,48-50) di individuarli: si giusticherebbe così il suo silenzio su eventuali presenze galliche nella Pianura Padana; tali insediamenti potrebbero spiegare sia il sincronismo, senza dubbio ttizio, tra la Wandersage di Belloveso e il regno di Tarquinio Prisco in Livio (V,33,5 e 34,1), sia il carattere della battaglia al Ticino, che sarebbe stata per i Celti una battaglia difensiva in quanto vi avrebbero fermato l’espansionismo etrusco. Sin qui Dobesch, che ha avuto l’indubbio merito di riconciliare Polibio con la ‘cronologia lunga’. In che cosa allora la versione di Polibio si oppone a questa ricostruzione? Le aporie non riguardano evidentemente la complessiva Wandersage, che potrebbe benissimo corrispondere alle fasi successive di migrazione dei Celti lungo il corso del VI/V secolo sintetizzate dall’ ਥʌȚȝȚȖȞȝİȞȠȚ polibiano, ma alcuni suoi rilevanti contenuti, in particolare la battaglia al Ticino e la sua presenza già in Catone, da cui la attingerebbe Livio. Quando Polibio si propose di inserire nelle sue Storie un excursus sui Celti d’Italia e sui loro rapporti con Roma, dovette partire senza dubbio dal testo di Timeo, di cui però difdava e che voleva superare; Timeo conteneva già la leggenda di Arunte chiusino e, ad essa colle4 Così a p. 46. A me sembra però che solo Cesare sia testimonianza autonoma della Wandersage, laddove allude chiaramente alla migrazione di Segoveso oltre Reno e verso la selva Ercinia, con ogni probabilità attingendo a una tradizione orale celtica raccolta durante la sua permanenza in Gallia. Plutarco invece, quando aggiunge su Arunte la precisazione cronologica nale ĮȜȜ ȝȞ IJĮ૨IJĮ ਥʌȡȤșȘ ıȣȤȞ IJȚȞȚ ȤȡંȞ ʌȡંIJİȡȠȞ, potrebbe o essere inuenzato da Livio o correggere di propria iniziativa la palese assurdità della leggenda stessa di Arunte. 5 Che la locuzione ıઃȞ ȤȡંȞ vada intesa con ‘progressivamente, gradualmente’ e non come ‘successivamente’ (così pensava HOMEYER, Zum Keltenexkurs, cit. alla nota 2) mi pareva chiarito da C. DE SIMONE, Un nuovo gentilizio etrusco di Orvieto (Katacina) e la cronologia della penetrazione celtica (gallica) in Italia, PP 33, 1978, 370-395, ma ora nuovi, eccessivi dubbi in TOMASCHITZ, Die Wanderungen, 61.
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gato, il racconto della grande invasione del IV secolo6; per risalire più indietro rispetto allo storico di Tauromenio si poteva attingere non solo alla storiograa romana, in particolare a Q. Fabio Pittore, ma anche alla memoria storica romana, tramandata oralmente7, che forniva a Polibio un vantaggio iniziale rispetto a qualsiasi storico greco a lui anteriore. Dalla sua stessa sintesi pare allora evidente che Polibio non trovava nella tradizione dell’Urbe nessun ricordo di scontri signicativi, di importanti fatti bellici, che avessero avuto per protagonisti i Celti prima del IV secolo; un’eventuale battaglia al Ticino, così importante da porre ne all’espansione etrusca in Norditalia, si urta contro il silenzio di Polibio, che peraltro riconferma e precisa il silenzio di Erodoto: gli insediamenti celtici in Italia settentrionale erano di tale consistenza che Erodoto, dipendente dall’anteriore produzione di peripli e scrivente intorno al 430/425, neppure se ne accorge8; Polibio invece ne è a conoscenza, ma li giudica compatibili con una graduale mescolanza a popolazioni preesistenti, non certo con una contrapposizione armata agli Etruschi. L’accordo ‘Polibio Erodoto’ è, a mio avviso, ben più signicativo della presunta conferma a Livio (battaglia presso il Ticino) in Dionisio d’Alicarnasso (cacciata degli Etruschi adriatici da parte dei Celti prima del 524/3): infatti in primo luogo il quadro geograco non convince, giacché non si capisce come possa una battaglia al Ticino provocare il ritiro etrusco dall’Adriatico; in secondo luogo Dionisio usa una locuzione (ıઃȞ ȤȡંȞ), che si accorda non con l’immagine di una grande e decisiva battaglia, ma con quella di una pressione graduale e continuata; in terzo luogo Dionisio sta attingendo (direttamente o tramite Timeo) a una cronaca cumana, forse a Iperoco di Cuma9, ed è possibile che l’indebito collegamento tra la presunta cacciata degli Etruschi dal litorale adriatico e la loro offensiva contro Cuma sia opera di questo autore: egli avrebbe interpretato nei termini di una ritirata quello che fu con ogni probabilità solo l’arresto dell’espansione etrusca nella valle del Po. 6 SORDI, Prospettive, 49-54. Non è invece sicuro se fosse Timeo a trasmettere a Dionisio la tradizione cumana sugli eventi del 524/3: cfr. E. GABBA, Dionisio e la storia di Roma arcaica, Bari 1996, 81 nonché infra nel testo. 7 Cfr. in genere G. ZECCHINI, Polibio e la tradizione orale, in A. CASANOVA-P. DESIDERI (a cura di), Evento, racconto, scrittura nell’antichità classica, Firenze 2003, 123-141 (= cap. II). 8 F. FISCHER, Die Kelten bei Herodot, Madrider Mitteilungen 13, 1972, 109-124, con le opportune correzioni di DOBESCH, Zur Einwanderung, 35-40 e di TOMASCHITZ, Die Wanderungen, 16-18; cfr. inoltre A. CORCELLA, Erodoto. Le Storie. Libro IV, Milano-Verona 1993, 272-273. 9 G. URSO, Iperoco e le ‘cronache cumane’, in Storiograa locale e storiograa universale, Como 2001, 101-117.
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È ben noto che da un certo momento della sua attività, soprattutto nella seconda parte delle sue Storie (libri XXX-XXXIX), scritta dopo il 146, Polibio fu inuenzato dalla personalità, dalle idee e, con ogni probabilità, dalla produzione storiograca di Catone10; è altrettanto noto che lo storico di Megalopoli non trascurò di intervenire e di aggiornare i primi 29 libri anche dopo la loro stesura; dati questi due presupposti, se in Catone fosse stata presente la Wandersage di Belloveso, perché mai Polibio non avrebbe dovuto tenerne conto e non avrebbe dovuto integrare il suo racconto della invasione celtica a II,17? In realtà non c’è nessun motivo per ritenere che Catone conservasse sui Galli una memoria storica sostanzialmente diversa da quella di Q. Fabio Pittore: tra III e II secolo i Romani registravano nelle loro opere storiche la grande invasione del IV secolo, che apparteneva alla loro memoria collettiva, e le contrapponevano la precedente pacica convivenza tra popoli del Norditalia, su cui peraltro erano poco interessati e solo vagamente documentati. D’altra parte la presenza della Wandersage in Livio si spiega agevolmente senza scomodare Catone: Livio, che era pur sempre un Veneto di Padova limitrofo dei Galli Cenomani, fece ricerche personali sul transitus Gallorum in Italiam (lo ribadisce tre volte: satis constat a V,33,5, haec accepimus a V,34,1, comperio contrapposto a id parum certum est a V,35,3) e poté ricuperare la Wandersage dalle tradizioni orali dei Celti stessi, come ha giustamente sostenuto S. Fasce in un brillante studio del 198511. Queste tradizioni orali celtiche risalgono in ultima analisi ai tempi della penetrazione in Norditalia (VI secolo); il nucleo originario della Wandersage (la migrazione quasi certamente da ovest, il nome del capo, Belloveso, la fondazione di Mediolanium12 e l’etnogenesi degli Insubri, l’ulteriore espansione ad est nella generazione successiva sotto la guida di Etitovio e l’etnogenesi dei Cenomani) precede perciò la formazione della tradizione romana sui Galli e, a maggior ragione, precede Polibio, che dai Romani, non dai Galli della Cisalpina, attingeva le sue informazioni; si badi che questa versione iniziale da un lato non contraddice Polibio e le sue fonti, dall’altro non era tale, nella sua scarna essenzialità, da meritarne l’attenzione. La forma, in cui le tradizioni celtiche sono
10 Su Polibio e Catone cfr. G. ZECCHINI, Polybius zwischen metus hostilis und nova sapientia, Tyche 10, 1995, 219-232, soprattutto pp. 228-229 (= cap. XI). 11 S. FASCE, Le guerre galliche di Livio e l’epopea mitologica celtica, Maia 37, 1985, 27-43. Per un altro caso di possibile uso di tradizioni orali celtiche da parte di Livio cfr. G. BRIZZI, Carcopino, Cartagine e altri scritti, Sassari 1989, 113 nota 22. 12 Per ‘fondazione’ si intende, come è ovvio, un insediamento originario di uici sul luogo, in cui successivamente sarebbe sorto l’oppidum di Mediolanium: così giustamente già WERNICKE, Die Kelten, 116.
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recepite da Livio, non è però necessariamente quella originaria, anzi è molto più probabile che ne rappresenti uno stadio successivo; come è già stato notato13, un indizio decisivo in tal senso è costituito dal dato liviano che gli Insubri costituivano un pago degli Edui (V,34,9): qui siamo in presenza di un’aggiunta al nucleo originario, che non avrebbe avuto senso prima che gli Edui divenissero amici et fratres p.R. nella seconda metà del II secolo, quando i Galli Cisalpini, già in fase di romanizzazione, ma non dimentichi delle loro radici, vollero accreditarsi come consanguinei di quei Galli Transalpini, che avevano appena stabilito rapporti privilegiati con l’Urbe. Dunque la Wandersage, così come l’ha registrata Livio, deve risalire non più in là del II secolo ex./I secolo in. ed essere quindi posteriore a Polibio. Allora, anche il dato sulla acies contro gli Etruschi al Ticino potrebbe essere un’inserzione, con ogni probabilità successiva alla ‘vera’ battaglia del Ticino, quella che Annibale aveva combattuto contro i Romani nel 217 e che per i Galli aveva signicato la liberazione delle loro terre dalla recente occupazione romana14: la Wandersage si arricchiva a mano a mano di nuovi episodi suggeriti dal succedersi degli eventi, ma no a Livio, che ne venne a conoscenza e la inserì nella propria documentazione, rimase un patrimonio esclusivo del mondo celtico, non recepito al di fuori e quindi assente dalla documentazione polibiana. La compresenza di elementi di conittualità con Roma (l’acies contro gli Etruschi antesignani degli invasori romani) e di elementi di collaborazione (la discendenza degli Insubri dagli Edui) non deve apparire contraddittoria, anzi rappresenta molto bene le due anime, per così dire, del mondo celtico di fronte a Roma, quella orgogliosa del proprio passato di indipendenza e di resistenza all’invasore e quella attratta dalle opportunità offerte dall’integrazione nell’orbis Romanus. La conclusione sin qui raggiunta, che non ci furono scontri di particolare intensità tra i Celti migranti in Norditalia lungo il corso del VI e del V secolo e le altre popolazioni della regione, è corroborata da quanto noi sappiamo sulle caratteristiche delle migrazioni celtiche. La grande mobilità dei Celti, la loro abitudine di aggregarsi e disgregarsi e di spostarsi da un insediamento all’altro anche all’interno dei propri territori, l’adattabilità a nuove condizioni di vita e l’indubbia capacità di assimilare usi
13 Da M. GIANGIULIO, Storiograe, ideologie, metodologie. Ancora sul Transitus Gallorum in Italiam di Livio (V,34-35) e sulla tradizione letteraria, RASMI 63-64, 1999, 21-34, seguito da Ardovino, ਫʌȚȝȚȖȞȝİȞȠȚ țĮIJ IJȞ ʌĮȡșİıȚȞ, cit. alla nota 3; diversamente Dobesch, Zur Einwanderung, 50 crede alla storicità della notizia. 14 Così SORDI, Prospettive, 13 e 22.
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e costumi altrui dipendono in ultima analisi da due fattori, che non si rischierà mai di sopravvalutare: 1) l’indifferenza dei Celti verso ogni concetto di conne, di delimitazione di un territorio; 2) la fragilità dell’identità etnica dei Celti e dunque la loro predisposizione all’assimilazione o, per lo meno, alla mescolanza con genti non celtiche15. Le conseguenze di queste attitudini le vediamo meglio che altrove, dove pure annoveriamo in Spagna il caso dei Celtiberi e in Gallia Transalpina vicino a Marsiglia il caso dei Salii celtoliguri, proprio in Gallia Cisalpina: lasciamo pure da parte casi di singoli ਥʌȚȝȚȖȞȝİȞȠȚ, come l’elvezio Elicone ricordato da Plinio (NH XII,5) oppure i Katacina residenti nell’etrusca Orvieto e attestati per via epigraca16, e limitiamoci ai popoli: da ovest a est troviamo i Salassi della Valle d’Aosta, non celti, ma celtizzati, i Taurini, deniti da Livio (XXI,38,5) semigalli, i Laevi, che le stesse fonti antiche non sapevano se classicare come celti o come liguri17, probabilmente perché misti, gli Oromobii od Orumbivii certamente celtoliguri, i Cenomani, che si distinguevano dai Veneti non per usi e costumi, ma solo per la lingua, secondo quanto afferma proprio Polibio (II,17,5). Allora caratteristiche delle migrazioni celtiche e analisi delle successive, anacronistiche straticazioni della Wandersage celtica conservata in Livio convergono nel riconoscere non solo l’attendibilità, ma la sia pur sintetica precisione della ricostruzione di Polibio: la sua distinzione terminologica corrisponde infatti alla distinzione sostanziale tra una prima fase (ਥʌȚȝȚȖȞȝİȞȠȚ țĮIJ IJȞ ʌĮȡșİıȚȞ), estesa sull’arco di due secoli (VI - V), di pacica commistione o, almeno, di penetrazione che non diede adito a scontri traumatici, e una seconda fase (ਥț ȝȚțȡ઼Ȣ ʌȡȠijıİȦȢ ȝİȖȜૉ ıIJȡĮIJȚઽ ʌĮȡĮįંȟȦȢ ਥʌİȜșંȞIJİȢ ਥȟȕĮȜȠȞ), concentrata nell’arco dei decenni iniziali del IV secolo, di drammatica invasione, dovuta all’afusso massiccio di nuove genti (Boi, Lingoni, Senoni) d’Oltralpe, al conseguente crollo del dominio etrusco a nord degli Appennini e all’opportunità di spingersi attraverso l’Italia centrale sino a Roma. Ora, questa distinzione tra migrazione e invasione coincide con la distinzione che c’è per uno storico come Polibio tra etnograa e storia politica. Per la prima (come per i moderni studi archeologici) è essenziale cogliere il fenomeno di una progressiva celtizzazione della pianura padana tra VI e V secolo, ma per la seconda tale fenomeno resta marginale sin quando non si traduce in conseguenze rilevanti sul piano politico-
15 G. ZECCHINI, L’identità dei Celti tra conservazione e assimilazione, in G. AMIOTTI-A. ROSINA (edd.), Identità e integrazione, Milano 2007, 39-54. 16 DE SIMONE, Un nuovo gentilizio, cit. alla nota 5. 17 Sono celti per Polyb. II,17,4, liguri per Liu. V,35,2 e Plin. NH III,124.
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militare. Ciò avvenne solo agli inizi del IV secolo, quando il sostanziale equilibrio dei due secoli precedenti mutò bruscamente a favore dei Celti e la nuova situazione ebbe immediate, pesanti ricadute anche per i popoli subappenninici e per i Romani in particolare. Perciò l’estrema concisione, con cui Polibio riassume la fase ‘etnograca’ dei rapporti tra Celti ed Etruschi, dipende non solo dalla povertà della sua informazione in proposito, ma anche dalla valutazione della sua marginalità rispetto alle convulse vicende delle relazioni romanogalliche dal 388/386. La riduzione dello spazio dedicato alla prima fase della presenza celtica in Norditalia alla subordinata participiale ਥʌȚȝȚȖȞȝİȞȠȚ țĮIJ IJȞ ʌĮȡșİıȚȞ non deve però indurre a sottovalutarne il signicato; infatti, se il ruolo di questa fase ‘etnograca’ rispetto alla successiva politico-militare è nettamente minoritario, all’interno dell’etnograa antica essa rappresenta una tappa molto importante, meritevole di un’ultima riessione. Il silenzio di Erodoto sui Celti in Norditalia, già evocato qui sopra, poteva dipendere o dall’incapacità, sua e del suo tempo, di cogliere la novità rappresentata dai Celti o dal disinteresse per questa novità e quindi dalla decisione di non registrarla in un contesto (quello sul corso e le sorgenti dell’Istro a IV,48-50), per cui essa non era essenziale. In ambedue i casi questo silenzio costituiva il punto di partenza per ogni ulteriore progresso etnograco: Erodoto, il padre dell’etnograa, non sapeva nulla sui Celti della Cisalpina. Circa un secolo e mezzo dopo Timeo, mentre si apprestava a diventare un’autorità per la Geographie des Westens18, ricuperava la leggenda di Arunte e dunque arricchiva le conoscenze dei Greci su quell’invasione degli inizi del IV secolo peraltro già nota nei suoi tratti sostanziali (basti pensare ad Aristotele e ad Eraclide Pontico)19. Sull’anteriore presenza celtica in Norditalia, però, Timeo non segnava progressi rispetto ad Erodoto. Polibio non aveva solo un rapporto antagonistico con Timeo, ma, come è stato ben rilevato di recente20, era assai sensibile al modello erodoteo. Sia rispetto a Timeo, sia rispetto ad Erodoto egli intendeva presentarsi agli occhi dei Greci come il vero scopritore dell’Occidente grazie ai
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J. GEFFCKEN, Timaios’ Geographie des Westens, Berlin 1892. Arist. fr. 610 Rose ed Heracl. Pont. fr. 102 Wehrli, entrambi apud Plut.Cam. 22,3. Da K. CLARKE, Polybius and the Nature of late hellenistic Historiography, in J. SANTOS-E. TORREGARAY (eds.), Polibio y la península ibérica, VITORIA-GASTEIZ 2005, 69-87; BR.MC GING, Polybius and Herodotus, in CHR. SMITH-L.M. YARROW (eds.), Imperialism, Cultural Politics and Polybius, Oxford 2012, 33-49. 19 20
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suoi viaggi e ai suoi amici romani: il libro XXXIV è la testimonianza più evidente di questo suo impegno21. È proprio la memoria storica romana, a cui egli può attingere quella sia pur sintetica conoscenza dei Celti nella Pianura Padana prima della grande invasione del IV secolo, che egli registra a II,17 e che costituisce un concreto progresso nei confronti della precedente tradizione etnograca greca di Erodoto e di Timeo: solo rivolgendosi a fonti anelleniche si poteva gettare un po’ di luce sul remoto passato dell’Italia settentrionale e sulla sua celtizzazione22. A sua volta Tito Livio, per andare oltre Polibio, con cui gli era d’obbligo misurarsi, dovette ricercare informazioni al di fuori della tradizione romana, che Polibio aveva già utilizzato. Poté farlo solo ricuperando la tradizione orale celtica, la Wandersage: così egli arricchì il suo racconto, ma lo espose, come si è visto, al rischio di inglobare anche aggiunte più tarde e ttizie di questa saga (la battaglia al Ticino; l’origine edua degli Insubri) e fu indotto in errori (il sincronismo con Tarquinio Prisco); di tali aggiunte ed errori la sin troppo scarna sintesi polibiana è invece immune.
21 Mi limito a rinviare a G. ZECCHINI, Teoria e prassi del viaggio in Polibio, in G. CAMASSA-S. FASCE (a cura di), Idea e realtà del viaggio, Genova 1991, 111-141 (ove ulteriore bibliograa) (= cap. IV). 22 Sulla conoscenza complessiva dei Celti da parte di Polibio e sull’immagine prevalentemente negativa, che ne trasmette, cfr. E. FOULON, Polybe et les Celtes, LEC 68, 2000, 319-354; 69, 2001, 35-64.
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CAPITOLO VII LA DIPLOMAZIA DEI GRECI E LA DIPLOMAZIA DEI BARBARI
Nel testo di Polibio a noi giunto sono contenuti riferimenti a 433 ambascerie1; la maggior parte proviene, come è ovvio, dagli Excerpta de legationibus, 154 dei quali sono attinti allo storico di Megalopoli, ma non va dimenticato che sono andati perduti gli Excerpta gentium ad Romanos dei primi 17 libri e dunque nella originaria silloge bizantina il materiale polibiano doveva essere ancor più rilevante: è notevole che l’autore più rappresentato dopo Polibio in questa serie di Excerpta, Cassio Dione, pur avendo scritto un’opera di ampiezza doppia (80 libri rispetto ai 40 di Polibio) e pur godendo di grande prestigio nella cultura bizantina, sia stato escerto ‘solo’ in 90 casi, presumibilmente la metà, se non di meno, rispetto al Megalopolitano. Ho cominciato enumerando questi aridi dati, perché una corretta trattazione del tema proposto non può prescindere da alcuni presupposti ad essi collegati: 1) lo stato di conservazione del testo polibiano genera l’impressione che soprattutto dal XXI libro (anno 190/188) in poi le sue Storie siano essenzialmente una storia diplomatica, costruita sulla registrazione
1 È l’esito della schedatura sistematica di tutto Polibio da me eseguita; di conseguenza né questo dato, né quelli successivi sono esenti da margini d’errore, non tali tuttavia da modicare il quadro complessivo della presente indagine.
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ripetitiva e quasi ossessiva di tutte le ambascerie, che ogni anno conuivano a Roma, e di tutte le legazioni romane inviate in Oriente in risposta ai quesiti sollevati; 2) quest’impressione è confortata in misura rilevante dalle scelte operate dagli escertori costantiniani: essi disponevano del Polibio completo e lo privilegiarono quale testo principale per comporre un’antologia de legationibus, un’antologia, diremmo noi, di storia diplomatica; 3) quindi, anche se noi abbiamo dal 15% al 30% dei libri XXI-XXXIX di Polibio e se perciò l’impressione precedente va in qualche modo corretta al ribasso e in ogni caso recepita con cautela, essa conserva una sua sostanziale validità; 4) d’altra parte la situazione del mondo mediterraneo dopo la guerra siriaca e la pace di Apamea e il confronto con Tito Livio, il cui testo, come è noto, a differenza di quello polibiano è integro sino al 168, portano a concludere che il crescente spazio accordato alla diplomazia non corrisponde tanto a una scelta soggettiva di Polibio quanto a un’oggettiva constatazione: che Roma era avvertita come la potenza egemone ed arbitra di ogni conitto o tensione regionale e che la sua supremazia militare le permetteva di intervenire con il solo strumento della pressione diplomatica, senza dover ricorrere all’uso delle armi. Su questo sfondo, che è – insisto – non peculiarmente polibiano, ma, per così dire, radicato in rebus ipsis, vanno collocate un paio di considerazioni preliminari. Dal punto di vista terminologico Polibio sembra distinguere in modo semplice, ma netto l’ambasceria vera e propria, i cui esponenti (ʌȡıȕİȚȢ o ʌȡİıȕİȣIJĮ) hanno un certo margine di autonomia nel condurre trattative, delle quali sono stati ufcialmente incaricati dal proprio governo, dal testo scritto afdato a uno o più messaggeri, che devono solamente recapitarlo (non si ricorre allora a un termine preciso, ma ad espressioni appartenenti all’area semantica di ʌȝʌȦ e composti)2. Dal punto di vista giuridico Polibio non sembra affatto interessato agli aspetti del diritto internazionale riguardanti la diplomazia: egli si preoccupa di darci spesso un puntiglioso elenco degli ambasciatori (di solito due per le città o le monarchie greche, tre per Roma) e ci offre qualche sporadica notazione cronologica sull’accoglienza delle legazioni straniere a Roma (di regola gli ambasciatori venivano ricevuti in senato agli inizi di gennaio prima che i consoli entrassero in carica e rispetto a questa norma Polibio registra talvolta anticipi o ritardi)3. In un solo caso, 2 Sul linguaggio diplomatico antico (ma non specicatamente su Polibio) cfr. ora L. PICCIRILLI, L’invenzione della diplomazia, Roma 2002 e L.R. CRESCI-FR. GAZZANO-D.P. ORSI, La retorica della diplomazia nella Grecia antica e a Bisanzio, Roma 2002. 3 P.e. a XXXII,1 si precisa che nel 160/159 l’ambasciata di Ariarate di Cappadocia giunse eccezionalmente a Roma ʌȡઁ IJȠ૨ ȤİȚȝȞȠȢ.
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quello delle legazioni dei popoli celtiberici dei Belli, dei Titti e degli Arevaci nel 152/1514, egli ricorda la prassi romana, secondo la quale gli inviati di popoli ritenuti amici ed alleati (i Belli e i Titti) venivano ospitati intra pomerium e ricevuti subito dal senato, gli inviati di popoli giudicati nemici (gli Arevaci) venivano fatti aspettare extra pomerium, oltre Tevere, e ammessi in senato solo in un secondo tempo. Il riuto, eccezionale e clamoroso, di accogliere un ambasciatore indicava la profonda irritazione dei patres nei suoi confronti, ma non implicava l’automatico stato di guerra col suo paese: ciò è evidente nell’unico esempio a noi noto da Polibio, quello di Eumene II di Pergamo, tradizionale alleato del popolo romano, ma sospettato di simpatie e connivenze con Perseo all’indomani della III guerra macedonica nell’inverno 167/1665. Sembra che fosse consuetudine per gli ambasciatori essere introdotti in senato dal pretore urbano (in realtà dal magistrato che presiedeva la seduta e che di norma era un console, come sappiamo da Livio)6, il quale godeva di notevole discrezionalità nel sottoporre le loro richieste ai senatori: nel 156/155 A.Postumio Albino si trovò in presenza di ben tre risoluzioni (ȖȞȝĮȚ) proposte dagli ambasciatori achei riguardo all’annoso problema degli ostaggi da far rientrare in patria, ma decise di farne votare dal senato solo due, scartando a priori quella che aveva più possibilità di essere accolta a favore degli esuli e quindi di fatto pregiudicando l’esito dell’ambasceria7. Gli ambasciatori erano garantiti nella loro inviolabilità non solo a Roma e nel territorio controllato dai Romani: quando nel 189 gli inviati degli Etoli furono sequestrati dagli Epiroti durante il viaggio di ritorno dall'Urbe alla loro patria, il senato inviò una lettera, che ingiungeva l'immediato rilascio dei diplomatici senza il pagamento di alcun riscatto, ed è appena il caso di aggiungere che gli Epiroti obbedirono8. Come si vede, il materiale fornito da Polibio è scarso: non a caso M.Bonnefond-Coudry, occupandosi di contrôle et traitement des ambassadeurs étrangers sous la République romaine, si è servita quasi esclusivamente di testi liviani, in particolare dai libri XLII-XLV9; è natural-
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XXXV,2-3. XXX,18-19. Polibio, seguito da Livio (Per. 46), precisa però che un senatoconsulto apposito, vietando a ogni re di entrare in Roma, evitò di far considerare Eumene, che non era stato accolto entro il pomerio, come nemico. 6 Testi in Bonnefond-Coudry cit. alla nota 9. 7 XXXIII,1. 8 XXI,26. 9 M. BONNEFOND-COUDRY, Contrôle et traitement des ambassadeurs sous la République romaine, in C. MOATTI (a cura di), La mobilité des personnes en Méditerranée de l’Antiquité à l’époque moderne: procédures de contrôle et documents d’identication, Paris 2004, 5
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mente possibile che anche qui gli escertori bizantini abbiano impoverito il testo polibiano del suo ‘contorno’ giuridico, ma resta il fatto che allo stato attuale delle 433 ambascerie attestate da Polibio solo 4 sono state utilizzabili sul piano del diritto diplomatico10. La prospettiva ovviamente cambia, se ci poniamo invece sul piano della politica internazionale: infatti, come vedremo, la quasi totalità delle ambascerie menzionate da Polibio è parte integrante della sua narrazione-ricostruzione dei rapporti internazionali tra grandi e medie potenze del mondo ellenistico. Anche qui però cominciamo da qualche dato concreto: ambascerie, che riguardano in qualche modo la confederazione achea (o perché inviate dagli Achei o da essi ricevute o concernenti l’Acaia), ricorrono in 62 occasioni, segue la Macedonia con 58 occorrenze, l’Egitto con 48, Rodi con 44, la Siria con 37, Pergamo con 31 e l’Etolia con 30; a più grande distanza segue un ulteriore gruppo costituito da Atene (12 occorrenze), Sparta (pure 12), il regno di Bitinia (11), il regno di Cappadocia (9), il regno del Ponto (6). Il primato acheo in uno storico acheo può sembrare ovvio, ma implica già il prevalere di un punto di vista locale e autoreferenziale, che contrasta con il conclamato universalismo delle Storie. Esso nasce comunque dalla somma delle relazioni, a lungo privilegiate, con Roma, di quelle con la Macedonia (soprattutto all’epoca dell’alleanza tra Arato il vecchio e Antigono Dosone in funzione anticleomenica) e di quelle con l’Egitto; proprio quest’ultimo caso è il più interessante, perché è il meno giusticabile; voglio dire che i ripetuti scambi di ambascerie tra la confederazione achea e la corte dei Lagidi rientravano nella routine dell’attività diplomatica di due stati tradizionalmente alleati, ma non sortirono mai effetti di rilievo: i tentativi achei di porsi come mediatori tra l’Egitto e la Siria nelle ricorrenti crisi tra le due potenze del Vicino Oriente e specialmente in occasione della VI guerra per la Celesiria (169/168) non furono mai presi in seria considerazione dai Seleucidi11; un progetto di intervento armato a anco dei Lagidi sollecitato da un’ambasceria egizia nel 168 fu bloccato da una lettera di Q. Marcio Filippo12; addirittura era tale il numero delle alleanze stipulate tra Achei e Lagidi con clausole
529-565. Più in generale cfr. D.J. BEDERMANN, Making Friends: Diplomats and Foreign Visitors in Ancient Times, in International Law in Antiquity, Cambridge 2000, 88-136 e B. GRASS-GH. STOUDER (éds.), La diplomatie romaine sous la République: réexions sur une pratique, Besançon 2015. 10 Rispettivamente XXI,26; XXX,18-19; XXXIII,1 e XXXV,2-3 (da cui App. Iber. 49). 11 Cfr. infra p. 92 con la nota 21. 12 XXIX,23-25: l’invio di aiuti militari fu sostituito da quello della solita, inutile legazione.
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diverse secondo le circostanze che, quando si procedeva al rinnovo, non si aveva ben chiaro a quale delle alleanze precedenti questo rinnovo si riferisse e ci si poteva prestare alle imbarazzanti obiezioni sollevate dallo stratego acheo Aristeno nel 186/185 davanti agli inviati achei reduci dall’Egitto (tra cui il padre di Polibio stesso, Licorta) e agli ambasciatori tolemaici venuti con loro in Grecia13. Ci si può quindi domandare perché mai Polibio si senta in dovere di registrare missioni diplomatiche ni a se stesse e inconcludenti ed è difcile sottrarsi all’impressione che ciò sia dovuto all’illusoria prospettiva che le relazioni acheo-egizie contassero ancora qualcosa nello scacchiere mediterraneo anche dopo la II guerra macedonica. Lo spazio quasi analogo riservato all’attività diplomatica macedone si concentra soprattutto sui tre principali eventi bellici, che coinvolsero gli Antigonidi, la guerra cleomenica, la II e la III guerra macedonica. Da questa sezione proviene il corpus di ambascerie a mio avviso più prezioso, che Polibio ricava dalla consultazione della storiograa macedone coeva e dalla possibilità di interrogare gli amici di Perseo esuli come lui a Roma dopo il 16814; in particolare l’evento epocale di Cinoscefale, che occupa il centro del libro XVIII, è inserito in una tta trama di trattative (l’incontro tra Flaminino e Filippo V a Nicea), legazioni a Roma (di Flaminino, Filippo, Attalo I di Pergamo, Etoli, Achei e Ateniesi prima della battaglia, di Filippo, Flaminino e alleati dopo la battaglia), legazioni in Grecia (di Filippo a Flaminino e dei Beoti a Filippo e a Flaminino dopo la battaglia), invio di una commissione di dieci senatori in Grecia, che noi riusciamo a cogliere nel suo intricato svolgersi solo grazie a Polibio15: non a caso già Livio lo seguiva qui con grande fedeltà e attenzione, senza trovare nulla da aggiungervi; ancora, i prodromi della III guerra macedonica, sia le trattative segrete e fallite tra Perseo ed Eumene II, sia il complicato accordo raggiunto tra Perseo e il re illirico Gentio grazie all’invio di ben tre ambascerie macedoniche (la I dell’esule illirico Pleurato e di Adeo di Berea, la II di Pleurato, Adeo e Glaucia, la III del generale Ippia), ci sono noti in modo esauriente solo per merito di Polibio16: Livio, che pure segue Polibio e ce ne restituisce la sostanza, è più impreciso e, per esempio, riguardo ai rapporti con Gentio fa riferimento, forse per semplicare, a due sole ambascerie17.
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XXII,9. Sulla documentazione orale e scritta di Polibio cfr. G. ZECCHINI, Polibio e la tradizione orale, in A. CASANOVA-P. DESIDERI (a cura di). Evento, racconto, scrittura nell’antichità classica, Firenze 2003, 123-141 (= cap. II). 15 XVIII,1-10; XVIII,34 e XVIII,42-43. 16 Rispettivamente XXIX,4-6 e XXVIII,8-9. 17 Liv. XLIII,19-20 e 23. 14
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In Grecia l’unica altra entità politica, che secondo Polibio condusse una ricca attività diplomatica, è la confederazione etolica, grande avversaria di Achei e Macedoni e quindi coprotagonista, sia pure in senso negativo, dell’ultima fase indipendente della storia greca; qui sicuramente Polibio ha potuto servirsi anche di fonti orali primarie (Pantaleone e/o Nicandro)18; sotto il 211/210 egli riferisce però in forma apparentemente integrale il lungo discorso dell’ambasciatore etolo Clenea a Sparta in coppia con quello, altrettanto lungo, dell’ambasciatore acarnano Licisco, il primo loromano e antimacedone, il secondo di animo opposto: se si considerano le dichiarazioni programmatiche di Polibio riguardo ai discorsi e alle modalità della loro riproduzione in un contesto storiograco (il discorso riportato deve corrispondere nel contenuto a quanto effettivamente detto)19 e la sua conseguente renitenza a inserire discorsi, che fossero pure creazioni retoriche, è possibile ipotizzare che lo storico di Megalopoli disponesse qui del testo scritto di questi due discorsi, forse circolanti in forma autonoma, e che lo riportasse integralmente per rappresentare in modo emblematico le due opposte posizioni dell’opinione pubblica greca, costretta a scegliere se schierarsi coi Macedoni o coi Romani, con gli antichi o i nuovi padroni. All’elevato numero di ambascerie achee, macedoni ed etoliche si oppone la scarsa presenza di legazioni ateniesi e spartane (12 a testa). In particolare Atene interviene solo come mediatrice diplomatica (non ha la forza di usare altri mezzi) nei conitti altrui in virtù di un passato e di un prestigio, che non sortiscono grandi risultati; l’esito più brillante è la riuscita mediazione tra gli Scipioni e gli Etoli nel 190, che pervenne alla proclamazione di una tregua di sei mesi20, il fallimento più evidente è l’iniziativa congiunta del 170/169, quando, per scongiurare l’ennesima guerra per la Celesiria tra Lagidi e Seleucidi, Atene inviò ben tre ambascerie in Egitto, gli Achei due e una ciascuna Mileto e Clazomene: l’insieme di queste sette legazioni, a cui se ne aggiunse una tolemaica, cercò di far recedere Antioco IV dalle sue bellicose intenzioni, senza peraltro ottenere nulla, mentre l’anno dopo bastò la sola presenza del legato romano C. Popilio Lenate per ridurre il re a più miti consigli e costringerlo a una precipitosa ritirata21. Per il resto noi vediamo la diplomazia ateniese impegnata in operazioni di piccolo cabotaggio a proposito dell’isola di Delo22. Quanto a Sparta, il suo raggio d’azione è ancora più ristretto e si
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Sulle quali rinvio di nuovo a ZECCHINI, Polibio e la tradizione orale, cit. alla nota 14. XXXVI,1. 20 XXI,4 ( = Liv. XXXVII,6-7). 21 XXVIII,19 e XXIX,2 e 27. 22 XXXII,7 (sotto l’anno 159/158). 19
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limita in sostanza dopo la scontta di Sellasia e l’esilio di Cleomene III a questioni esclusivamente peloponnesiache (i rapporti con gli Achei; la riammissione degli esuli in concomitanza con l’ingresso della città nella lega achea nel 182)23. La drammatica decadenza delle due più famose póleis greche durante il II secolo non potrebbe essere sottolineata più efcacemente che da questa attività diplomatica o velleitaria o su scala ormai solo locale. Eccezionale sembra invece il ruolo diplomatico di Rodi. Naturalmente ci sono ragioni oggettive che lo giusticano, la posizione al crocevia tra la Grecia vera e propria e le monarchie del Vicino Oriente, l’attivismo loromano durante la guerra siriaca e invece l’ambiguità vera o presunta durante la III guerra macedonica, tutti fattori che fecero di Rodi una piccola potenza mai come allora inserita nel vivo della grande politica: basti pensare che Polibio registra nei libri XXVII-XXX (172/168) 13 ambascerie tra Roma, Perseo e appunto Rodi, a cui Livio permette di aggiungerne almeno altre 324. Tuttavia Polibio enfatizza questo ruolo: in particolare sotto il 169 egli registra un’ambasceria rodia a Roma, menziona i componenti della legazione, riferisce, sia pur brevemente, la risposta del senato e poi aggiunge che una risposta analoga fu data agli ‘altri ambasciatori della Grecia, che perseguivano la medesima politica’, mentre Livio, più equilibratamente, dà un elenco di città (Atene, Mileto, Lampsaco, Alabanda, Creta, Calcide), che ci permette di conoscere da dove provenivano questi ‘altri ambasciatori’25; inoltre Polibio ha cura di registrare anche gli scambi di ambascerie tra Rodi e l’entroterra micrasiatico in occasione di contese locali (con i Lici di Xanto nel 178/177, con Cibira nel 168/167, tra i Cauni e Calinda nel 164/163)26 decisamente trascurabili nell’ambito di una storia ecumenica. L’eccezionalità del ruolo diplomatico di Rodi è quindi del tutto sproporzionata all’effettivo peso politico dell’isola e deriva, in ultima analisi, dalla disponibilità di fonti rodie, scritte e forse anche orali27, dalle quali Polibio trasse materiali certamente preziosi e abbondanti, ma senza operare una selezione, che sarebbe stata in più di un caso forse opportuna.
23 Mi riferisco alla doppia ambasceria di rappresentanti ufciali di Sparta e di esuli spartani a Roma nel 183/182 (XXIII,9) e nel 182/181 (XXIII,18 e XXIV,1). 24 Liv. XLII,26 (legati rodii a Roma); XLII,14 (legati rodii a Roma); XLV,10 (due ambasciatori romani a Rodi). 25 XXVIII,2 da confrontarsi con Liv. XLIII,6-7. 26 XXV,4-5 (= Liv. XLI,6); XXX,9; XXXI,5. 27 Cfr. ZECCHINI, Polibio e la tradizione orale, cit. alla nota 14 e già H.U. WIEMER, Rhodische Traditionen in der hellenistischen Historiographie, Frankfurt am Main 2001.
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L’eredità ellenistica di Alessandro Magno è rappresentata dalle tre monarchie degli Attalidi, dei Seleucidi e dei Lagidi, di cui Polibio registra l’intensa attività diplomatica: innanzitutto ci sono i contatti bilaterali tra Pergamo e la Siria e tra quest’ultima e l’Egitto riguardo alla Celesiria, poi vi sono i regolari contatti col mondo greco (di Pergamo e della Siria, soprattutto di Antioco III, con la Macedonia, dell’Egitto con i tradizionali alleati achei, come si è già osservato sopra) e con Roma; a quest’ultima si rivolgono Eumene II tramite i suoi fratelli Attalo e Ateneo per ottenere aiuto contro Prusia di Bitinia oppure per scagionarsi dalle accuse di vicini meno importanti come Selge, i Galati ecc..., Demetrio I di Siria tramite una legazione guidata da Menocare negli imbarazzanti frangenti dell’assassinio di Cn.Ottavio a Laodicea (160/159), Tolemeo VI e il fratello minore Tolemeo VIII prima nel 162/161, poi nel 154 per risolvere le loro contese dinastiche28; il caso dell’Egitto è davvero peculiare, perché dopo Raa sembra aver rinunciato all’uso delle armi e aver adottato la diplomazia come unico strumento di politica estera: soprattutto nei confronti dell’aggressività di Antioco IV di Siria i Lagidi appaiono inerti e inermi e dunque terreno privilegiato di una frenetica attività diplomatica greca, che ebbe il suo epicentro, come si è visto, con le sette ambascerie del 170/169. Quel che più conta, però, al di là dei singoli episodi, è la constatazione conclusiva che le tre monarchie ellenistiche sono impegnate in contese del tutto avulse dal contesto mediterraneo o, se si preferisce, greco-romano, nel senso che conitti come quelli tra Pergamo e la Bitinia o tra la Siria e l’Egitto per la Celesiria appaiono conitti locali, rigorosamente delimitati, ma restano inserite nella rete complessiva delle relazioni internazionali, in quella che Polibio denisce la ıȣȝʌȜȠț IJȞ ȖİȖȠȞંIJȦȞ, solo e proprio grazie all’attività diplomatica, a quel regolare e tto scambio di ambascerie, che coinvolge gli stati greci e Roma in tali contese e, appunto, le internazionalizza. Una categoria a parte, più semplice da esaminare, è data dalle regioni ad est di Pergamo, la Bitinia, il Ponto, la Cappadocia e la Galazia, che ricevono un’attenzione e uno spazio diplomatico in apparenza minore, nonchè dati quantitativi pari a quelli di Atene e di Sparta, tutti elementi che vanno però interpretati in senso ben diverso. Infatti esse emergono alla luce della storia solo a un certo punto della narrazione polibiana, a mano a mano che sono coinvolti nella sfera dell’espansionismo e dell’inuenza romana e più precisamente la Bitinia dal 190, la Galazia dal 189, la
28 XXXII,16 e XXXI,1 e 6 (Eumene II); XXXII,2 (Demetrio I); XXXI,20 e XXXIII,11 (i Tolemei).
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Cappadocia dal 188, il Ponto dal 183 , tutte e quattro in rapida sequenza in meno di un decennio: qui le ambascerie rappresentano i primi contatti, di tipo diplomatico e quindi (con l’eccezione della Galazia) pacico, tra Roma e l’Asia oltre Pergamo, il cui coinvolgimento nella ‘grande storia’ è l’immediata, visibile conseguenza della vittoria romana contro la Siria e della pace di Apamea cosicchè una dimenticata periferia si trasforma in frontiera caldissima, terreno di scontro tra la nuova superpotenza e l’ellenismo declinante, che sfociò nelle guerre mitridatiche. In questo caso la prontezza delle registrazione polibiana, la capacità di ampliare il proprio orizzonte secondo le esigenze di una situazione geopolitica in rapida evoluzione appare impeccabile e tanto più consapevole in quanto egli enfatizza questa fase di svolta nel momento del primo contatto con Prusia I, quando, appena prima dell’ambasceria di C.Livio Salinatore, che concluse l’alleanza col re, inserisce il testo dell’epistola inviata dagli Scipioni al medesimo sovrano, che contiene una circostanziata esposizione della dottrina politica romana verso le monarchie ellenistiche30. Volgiamoci ora ad Occidente e al mondo barbarico; considererò l’area illirica nei suoi rapporti con Roma (escludo i rapporti con la Macedonia, che sono rapporti col mondo greco e di cui in ogni caso ho già trattato), l’area celtica (esclusi i Galati per ragioni analoghe), l’area iberica, l’area punica e inne l’area italica. Ambascerie da e per Roma riguardanti l’area illirica sono registrate in Polibio sin dalla ʌȡȠțĮIJĮıțİȣ, per l’esattezza dal libro II, in occasione della I guerra illirica del 23031; sembrano poi mancare contatti diplomatici dalla II guerra illirica del 220 sino alla III guerra macedonica, durante la quale sono invece accuratamente riportati i contatti diplomatici tra Gentio e Perseo, e riaforano legazioni dalmatiche (di Issa e dei Daorsi) verso l’Urbe e di C. Fannio e C. Marcio nell’area suddetta solo sotto gli anni 158/15632. È dunque possibile, ma, dato lo stato del testo polibiano, non sicuro che Polibio abbia omesso le ripetute ambascerie romane a Gentio nell’imminenza della guerra con Perseo così come quella coeva di Istri, Carni e Iapidi, tutte attestateci da Livio33: ciò rivelerebbe un interesse, per così dire, sussultorio verso il settore illirico-dalmatico, visto
29 Rispettivamente da XXI,11, XXI,37, XXI,40 e XXIII,9. Isolata è una precedente menzione di Prusia I di Bitinia a IV,47 e 49. 30 XXI,11 (= Liv. XXXVII,25-26). 31 II,8 e II,11-12. 32 XXXII,9 e 14. 33 Liv. XLIII,11; XLIV,27,11 e 30,11; XLIV,31,9 (ambascerie romano-illiriche); XLIII,4 (ambasceria di Carni, Istri e Iapidi).
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più come zona periferica della Macedonia che come una delle direttrici dell’espansionismo romano. Anche per quanto riguarda i Celti o meglio i Galli Cisalpini Polibio ricorda le ambascerie di Insubri e Boi ai Gesati nel 231 e degli Insubri ai Romani nel 22234, ma omette nel III libro le legazioni di Marsiglia e di Roma ai Galli Transalpini e quelle di alcune popolazioni alpine e dei Boi ad Annibale, tutte a noi note da Livio35, mentre menziona una precedente ambasceria dei Celti al Barcide, a cui lo stesso Livio dedica solo alcune allusioni36: nel complesso il ruolo della diplomazia prima e durante la discesa dei Cartaginesi in Italia per assicurarsi la neutralità e/o l’alleanza dei Galli sembra piuttosto ridimensionato in Polibio; all’opposto cronologico della sua opera, mentre è menzionata un’ambasceria di Marsiglia a proposito dei contrasti coi Liguri Oxybii sotto il 155/15437, analoghe iniziative di capi celtici come i transalpini Balano e Cincibilo all’altezza della III guerra macedonica sembrano ignorate: anche qui è Livio38 a testimoniarci la capacità di queste genti barbariche di usare i normali strumenti della diplomazia internazionale per offrirsi come alleati a Roma, ricevendone in cambio doni e ringraziamenti e stabilendo così amichevoli relazioni (Balano), oppure per esporre lagnanze e proteste contro l’ingiusticabile comportamento del console del 171, C. Cassio (Cincibilo). Analoga situazione si ha nel settore iberico: i Romani inviano ambascerie al cartaginese Asdrubale in Spagna nel 226/225, Sagunto invia un’ambasceria a Roma nel 220 e l’autunno del medesimo anno legati romani sono in Spagna, poi si salta addirittura all’ambasceria già summenzionata dei Celtiberi a Roma nel 152/15139; il vuoto intermedio (p.e. sempre negli anni della III guerra macedonica Livio ricorda una triplice ambasceria proveniente dai provinciali di Spagna agli inizi del 170)40 contiene un interessante e puntuale riscontro sotto l’anno 208, dove il lungo estratto testuale di Polibio ci offre la possibilità di un confronto attendibile con le fonti parallele: nelle trattative di capi spagnoli come un anonimo e potente principe, di solito identicato con Edecone, e come Indibile e principe degli Edetani e Indibile e Mandonio principi degli Ilergeti con P. Cornelio Scipione agli inizi della stagione di guerra, che
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II,22 e II,34 rispettivamente. Liv. XXI,25; XXI,29; XXI,34. III,34; cfr. Liv. XXI,20 e 24. 37 XXXIII,8-9. 38 Liv. XLIV,14 e XLIII,4. Su Cincibilo e Balano cfr. G. DOBESCH, Die Kelten in Österreich, Wien 1980 = 1993, 108-165. 39 II,13; III,15; XXXV,2-3. 40 Liv. XLIII,2-3. 35 36
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doveva culminare con la battaglia di Baecula, Polibio non riferisce mai di ambascerie scambiate tra le due parti, come se i contatti fossero mantenuti solo tramite messaggi informali afdati a uomini di ducia, ed è di nuovo Livio a restituirci la realtà di una prassi diplomatica non estranea alle modalità ellenistiche41. Profondamente diverso è invece il caso di Cartagine: nel I libro Polibio registra ben 7 ambascerie puniche, di cui 4 riguardano l’insurrezione dei mercenari nel 240/238, nel III libro il convulso incrociarsi di legazioni tra Cartagine, Roma e la Spagna nell’imminenza della II guerra punica è reso con puntualità ed efcacia, nel VII libro 7 ambascerie scandiscono i tempi della defezione di Ieronimo di Siracusa da Roma e della sua alleanza con Cartagine nel 215, inne nel XV libro ben 8 ambascerie sono conservate ad illustrare le trattative intercorse tra Cartagine, Scipione e Roma per porre ne alla II guerra punica nel 202/20142. Fin qui dunque l’attività diplomatica cartaginese è quella, regolare e più intensa in occasione di gravi crisi, che contraddistingue le grandi potenze mediterranee dell’epoca e che la apparenta per cultura politica e mentalità al mondo ellenistico. In seguito però quest’attività sembra interrompersi, salvo riprendere, un po’ pateticamente, con le due ambascerie del 150/149, che offrono la deditio in dem della città punica al senato e poi incontrano i consoli sbarcati in Africa nell’imminenza della III guerra punica e della distruzione della città43; ora, nell’ampio intervallo di tempo tra il 201 e il 150, esattamente un cinquantennio, Livio registra invece un cospicuo numero di legazioni di Cartagine e del re di Numidia Massinissa a Roma per dirimere questioni inerenti ai rapporti non facili tra i due stati e, in genere, al settore africano dell’egemonia romana; in particolare per gli anni intorno al 170 queste legazioni assumono una cadenza regolare (almeno una all’anno) e avvengono in coppia (quella numida è sempre guidata da Gulussa)44. Allora, questo stridente contrasto tra la Cartagine grande potenza delle prime due guerre con Roma, la cui attività diplomatica è seguita con minuziosa attenzione, e la Cartagine piccola potenza regionale del mezzo secolo successivo, della cui attività diplomatica semplicemente si tace, si spiega con la consapevole scelta polibiana di giudicare non sufcientemente importante e signicativo per l’economia pur sempre ellenocentrica della sua opera il ruolo giocato dagli stati afri-
41 X,34-40 da confrontarsi con Liv. XXVI,49,9-10. L’inserimento del nome ‘Edecone’ nel testo di Polibio risale allo Schweighäuser, ma è arbitrario. 42 I,10; 31; 62; 68; 70; 81; 85; III,15 e 20; VII,2-5; XV,1; 5-12; 17; 19 e 22. 43 XXXVI,3. 44 Liv. XLII,23 (con la doppia ambasceria romana di risposta a XLII,35); XLIII,2-3.
La diplomazia dei Greci e la diplomazia dei Barbari
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cani nella prima metà del II secolo, mentre il romano Livio rivela una ben diversa prospettiva imperiale dell’Urbe. Quasi in appendice una breve considerazione concernente l’area italica: Livio ricorda per esempio sotto il 171 un’ambasceria della giovane colonia di Aquileia, che denunciò il console C.Cassio, reo di voler abbandonare la sua provincia indifesa dalle incursioni di Istri ed Illiri per dirigersi in Macedonia, e sotto il 168 due ambascerie di Pisa e Luni, che richiedevano il parere del senato per dirimere una discordia tra le due città45. Il fatto che in Polibio non trapeli mai alcuna notizia inerente questo tipo di ambascerie, che si potrebbero ritenere quasi di politica interna per l’Italia romana, può essere casuale, ma può anche dipendere, di nuovo, dal disinteresse dello storico per questa problematica; non a caso egli registra invece poco dopo, sotto il 155/154, un’ambasceria di Marsiglia46, la cui unica nota di merito ai suoi occhi doveva essere quella di provenire da una città greca. Attraverso la raccolta sistematica di tutte le ambascerie menzionate da Polibio e attraverso la comparazione, anche se non sistematica, con il più signicativo autore parallelo, Tito Livio, sono emerse alcune modalità d’uso dell’elemento ‘ambasciate e ambasciatori’ nell’economia delle Storie, che meritano di essere sottolineate, pur nella consapevolezza della frammentarietà del testo polibiano. Innanzitutto le Storie danno ampio spazio alla storia diplomatica, ma non per un interesse autonomo verso la teoria e la tecnica della diplomazia: a Polibio non interessa esplorare le risorse della diplomazia, la sua capacità di ‘fare storia’, né interessa disquisire sul diritto internazionale, lo ius gentium, i suoi limiti, le sue applicazioni e le sue violazioni, né inne interessa indagare lo ‘stile’ diplomatico, i modi di svolgimento delle ambascerie; si è anzi visto che a questo proposito si ricava assai poco dalla sua opera. Per Polibio la storia diplomatica è solo un corollario della politica estera di uno stato e quindi delle relazioni internazionali, caratterizzate da un alto tasso di conittualità e scandite da una serie di guerre: parafrasando von Clausewitz, si potrebbe allora affermare che per Polibio la diplomazia è solo la prosecuzione della guerra con altri mezzi o, per lo meno, è il completamento, soprattutto nelle fasi preliminari e in quelle nali, di una politica, che si esprime e persegue i suoi scopi attraverso lo strumento privilegiato della guerra. Siccome la diplomazia è un mezzo abituale
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Liv. XLIII,1 e XLV,13. XXXIII,8-9 (cit. supra p. 96 con la nota 37).
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alla sua epoca nei rapporti tra le varie entità politiche, anch’egli se ne serve nella trama della sua narrazione / ricostruzione degli eventi storici, ma non dà mai l’impressione di conferirle un valore efcace in sè, in grado di risolvere problemi, evitare guerre, instaurare più o meno lunghi periodi di pace; nonostante l’imponente apparato diplomatico di molti stati del suo tempo, nonostante la frenetica attività degli ambasciatori, nonostante i generosi tentativi di comporre contese con questi pacici strumenti (esemplare il caso della diplomazia greca in occasione della VI guerra per la Celesiria), Polibio non si illude: nel suo pessimistico realismo egli sa che la diplomazia da sola è inutile e che ottiene ciò che si pregge solo se ha alle sue spalle un efcace deterrente militare (come dimostra l’intervento di C. Popilio Lenate sempre in occasione della VI guerra per la Celesiria); non a caso essa diventa prevalente rispetto alla guerra dopo il 188 e ancor più dopo il 168, quando lo strapotere militare di Roma è tale che basta l’intervento di una legazione romana per dettare e imporre i termini di una soluzione diplomatica di qualsiasi contenzioso. In secondo luogo, questa diplomazia così diffusa e regolare (si pensi alle ambascerie convergenti a Roma dopo il 188 all’inizio di ogni nuovo anno da tutto il mondo ellenistico), così intensa e pervasiva non è geogracamente indeterminata, anzi il suo spazio geopolitico è delimitato da Polibio con estrema chiarezza: l’uso della diplomazia caratterizza il mondo civile e vi appartengono le città e le leghe greche, le monarchie orientali di cultura ellenistica, le due grandi potenze d’Occidente, Roma e Cartagine, che tale cultura condividono. I barbari, Illiri, Celti, Iberici, Numidi, vi ricorrono assai più sporadicamente e sembrano ai margini del mondo diplomatico antico: esso richiede una mentalità e una cultura della parola, a cui tali popoli risultano ancora non pienamente partecipi. Qui il confronto con Livio si è rivelato particolarmente fruttuoso, perché ha dimostrato che in realtà questi barbari erano inseriti nell’attività diplomatica del tempo ben più di quel che emerge dallo storico di Megalopoli: dunque la bipartizione dell’ecumene antica tra genti acculturate e quindi dedite alla diplomazia e genti barbariche e quindi estranee alla diplomazia è una scelta di Polibio e, anche, una forzatura derivata dai suoi pregiudizi culturali ellenici.
PARTE TERZA
Storia e scienza politica
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CAPITOLO VIII SINCRONISMI: CORINTO E NUMANZIA
Il duplice, sincronico evento della caduta di Cartagine e di Corinto nel 146 persuase Polibio ad aggiungere gli ultimi libri (XXX-XL) delle sue Storie e a prolungarle dal 168 (ne della III guerra macedonica) appunto al 146. Come ha sottolineato J.L. Ferrary1, questa decisione è motivata a 36,9, dove Polibio affronta e discute le diverse opinioni allora correnti in Grecia sulla ‘svolta’assunta dalla politica estera romana nel senso di una maggiore intransigenza e di una maggiore avidità: è l’atteggiamento, che i moderni hanno classicato come ‘imperialistico’2 e che egli denisce col termine ijȚȜĮȡȤĮ, cercando di giusticarlo, ma ammettendone l’esistenza. Il dibattito sull’imperialismo romano è inserito da Polibio nel contesto dello scoppio della III guerra punica, ma è ambientato presso l’opinione pubblica greca, chiaramente preoccupata delle ricadute di questa evoluzione della politica romana: proprio la distruzione di Corinto confermò che Cartagine non era l’eccezione e che i Romani intendevano adottare le medesime regole con tutti i loro interlocutori. Certo, Polibio cerca di minimizzare l’impatto del bellum Achaicum e della sua tragica ne: dai frammenti giuntici emerge una valutazione positiva di L. Mum-
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J.L. FERRARY, Philhellénisme et impérialisme, Paris 1988, 334-343. Si veda per tutti il classico D. MUSTI, Polibio e l’ imperialismo romano, Napoli 1978.
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mio e viene sottolineato, secondo l’autobiograsmo tipico dell’ultima parte delle Storie, il ruolo di Polibio stesso nell’alleviare le condizioni imposte alla Grecia, in stretta e procua collaborazione coi dieci commissari inviati dal senato4; pure Polibio non può esimersi dal registrare l’esecuzione in massa dei cavalieri calcidesi, sia pure imputandola agli amici di Mummio, e dall’evocare l’immagine scandalosa dei soldati romani, che giocano a dadi su quadri preziosi della pittura greca5. Quando, a ȋȋȋǿȋ,8,6, nell’epilogo della sua opera, Polibio riunisce Cartagine e Corinto in un’unica menzione, egli chiude la riessione storiograca inaugurata a ȋȋȋǿȋ,9 dal dibattito sulla ijȚȜĮȡȤĮ romana ponendo l’accento sul comune destino di Cartaginesi e Greci e sul fatto che da questo comune destino era determinata l’epocalitá del 146 (įȚȟȚȝİȞ IJȢ țȠȚȞȢ IJોȢ ȠੁțȠȣȝȞȘȢ ʌȡȟİȚȢ...ਪȦȢ IJોȢ ȀĮȡȤȘįંȞȠȢ ਖȜઆıİȦȢ țĮ IJોȢ ਝȤĮȚȞ țĮ ૮ȦȝĮȦȞ ʌİȡ IJઁȞ ıșȝઁȞ ȝȤȘȢ, IJȚ į IJોȢ ਥʌȚȖİȞȠȝȞȘȢ ਥț IJȠIJȠȣ ਕʌȠțĮIJĮıIJıİȦȢ ʌİȡ IJȠઃȢ ਰȜȜȘȞĮȢ ). La coppia polibiana 'Cartagine - Corinto’ha certamente prevalso nella cultura storica moderna grazie al prestigio del suo autore, ma nel mondo antico la sua fortuna è ben più controversa6. Da un lato l’opera di Polibio ricevette ben due continuationes, quella di Posidonio e quella di Strabone, e dunque questi due autori mostrano di accettare la cesura del 146; dall’altro lato scrittori greci di età imperiale, che ancora si lamentano sdegnati del destino di Corinto, come Favorino e Pausania7, lasciano cadere il parallelo con la città punica; inne Zonara, unico, eventuale testimone della tradizione derivante da Cassio Dione, ma forse attraverso una selezione personale dei dati in suo possesso, accosta Cartagine e Corinto solo a causa di un secondo sincronismo, quello della colonizzazione cesariana nel 448; inne in Diodoro e in uno storico latino di età imperiale, Floro, le due città vengono afancate, ma non costituiscono una coppia esclusiva. Consideriamo per ora Diodoro: a ȋȋȋǿǿ,4,5, nel contesto delle modalità, secondo le quali Roma conquistò e poi conservò il proprio impero, elenca le tappe di Corinto, di Perseo di Macedonia, di Cartagine e di
Polyb. ȋȋȋǿȋ,6. Polyb. ȋȋȋǿȋ,3-5. 5 Rispettivamente Polyb. ȋȋȋǿȋ,6 e 2. 6 N. PURCELL, On The Sacking of Carthage and Corinth, in Essays f. D. Russell, Oxford 1995, 133-148 ha insistito sul parallelismo tra la sorte delle due città voluto e sottolineato dai Romani contemporanei: tale parallelismo (a mio avviso non privo di sensibili differenze) non durò però a lungo, come dimostro infra nel testo. 7 FAUORIN. Corinth. 42; Pausan. VII,16. 8 ZONAR. IX,31. 3 4
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Numanzia. Il passo è stato a lungo ritenuto di matrice polibiana, mentre più di recente prevale l’ipotesi che sia originale di Diodoro9; l’inusso di Polibio sembra però delinearsi nella scansione delle fasi dell’espansione romana: Perseo corrisponde infatti al 168, cioè alla ne delle Storie di Polibio nella loro prima stesura, Corinto e Cartagine al 146, cioè alla ne delle Storie nella seconda e denitiva stesura, Numanzia al 133 e questa potrebbe essere un’aggiunta postpolibiana (di Posidonio o di Diodoro stesso), ma coincide – e si tratta di una coincidenza densa di signicato – con la monograa sul bellum Numantinum10, che il vecchio Polibio scrisse a maggior gloria dell’Emiliano e quale testimone diretto del memorabile assedio11, contraddicendo la sua dichiarata ostilità al genere monograco. Senza voler eccedere in ipotesi, si può allora sostenere: che Polibio colse nella guerra numantina un valore speciale; che non sappiamo se egli collegò questo valore alla vicenda biograca dell’Emiliano oppure alla sua epocalità nell’evoluzione dell’imperialismo romano; che però la sua produzione storiograca (le due fasi delle Storie più il bellum Numantinum) autorizzava autori posteriori come Diodoro a ricavarne la suddetta triplice scansione (168, 146 e 133). Consideriamo adesso Floro: a I,47,3 egli fa seguire al secolo d’oro della storia di Roma repubblicana un secolo di decadenza a partire dalla distruzione di Cartagine, Corinto e Numanzia e dall’eredità pergamena (a Carthaginis, Corinthi Numantiaeque excidiis et Attali regis Asiatica hereditate) e dunque aggiunge un elemento (l’Asia lasciata in eredità da Attalo III ai Romani proprio nel 133 e poi istituita a provincia nel 129) alla terna polibiano-diodorea; poco sopra però, dopo aver dedicato tre capitoli al destino delle tre città, rispettivamente I,31 a Cartagine, I,32 a Corinto e I,33 a Numanzia, precisa a I,34,19 che i cento anni dell’età dell’oro, nei quali il popolo romano si conservò pulcher, egregius, pius, sanctus atque magnicus nirono con la caduta della città celtiberica nel 9 Così FERRARY, Philhellénisme, 334-9 e K.S. SACKS, Diodorus Siculus and the rst century, Princeton 1990, 44-46, nonché già F.W. WALBANK, Polybius between Greece and Rome, in E. GABBA (éd.), Polybe, Vandoeuvres-Génève 1974,3-31, pp. 18-20; diversamente E. GABBA, Aspetti culturali dell’ imperialismo romano, Athenaeum 55 (1977), 49-74, p. 61 sgg., da me seguito in G. ZECCHINI, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, Tyche 10 (1995), 219-232, p. 231(= infra, cap. XI), ma cfr. ora, più cautamente, G. ZECCHINI, Storia della storiograa romana, Roma-Bari 2016, 132. Inne ottime considerazioni, non solo su Diodoro, in P. DESIDERI, La distruzione di Cartagine: periodizzazioni imperiali tra Polibio e Posidonio, RSI 114 (2002), 738-755. 10 Cic. Ad fam. V,12,2. 11 Sulla presenza di Polibio a Numanzia P. PÉDECH, La méthode historique de Polybe, Paris 1964, 524 e 561 e WALBANK, Polybius between Greece and Rome, 30 sono d’ accordo, nonostante i dubbi suscitati dall’ età avanzata.
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133. È mia impressione che in Floro conuiscano due tradizioni: una si rifaceva in sostanza alla interpretazione polibiana, l’altra, più genuinamente romana, attribuiva maggior importanza alla ricaduta di eventi come l’eredità pergamena e soprattutto la guerra celtiberica sulla società romana, non più memore degli antichi valori e avviata alla discordia interna dell’età graccana. L’ambiguità e l’imbarazzo di Floro spingono a esaminare il resto della tradizione latina, a cominciare da Livio. Il poco che si ricava dalle Periochae non è privo di interesse: mentre la Periocha LII difende l’operato di Mummio in Grecia e conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che l’augusteo Livio non condivide lo scandalo e lo sgomento della tradizione greca sulle sorti di Corinto12, la Periocha LIX aggancia la ne di Numanzia a quella di Cartagine, sottolineando che il secondo trionfo dell’Emiliano avvenne quattordici anni post Carthaginem deletam. Orosio, che di solito è il più afdabile degli autori ‘liviani’, concede largo spazio al bellum Numantinum e prende con chiarezza le parti degli assediati contro i Romani; la coincidenza in particolari puntuali come a proposito della caelia, una speciale bevanda celtica, con Floro13 può essere ricondotta alla comune matrice liviana, anche se non mi sentirei di escludere una conoscenza diretta dell’Epitome da parte del sacerdote spagnolo14; in ogni caso, l’esaltazione del valore numantino e l’esacrazione per la crudeltà romana dipendono dal ben noto patriottismo locale di Orosio. Non credo però che sia sua propria la considerazione nale di V,8,2, dove la ne della concordia nell’operare il bene comune e l’inizio delle contese dettate dall’ambizione presso i Romani sono fatti risalire alla distruzione di Cartagine e Numanzia (Carthagine Numantiaque deleta moritur apud Romanos utilis de prouisione conlatio et oritur infamis de ambitione contentio). Certo, l’abbinamento tra le due città ben si adatta alla prospettiva occidentale di Orosio e alle sue stesse vicende biograche, dalla Spagna all’Africa, così come ha il suo corrispondente nell’inserimento di Cartagine nello schema della translatio imperii15; d’altra parte quest’ab-
12 Per. LII: Qui [i.e. L. Mummius] omni Achaia in deditionem accepta Corinthon ex S.C. diruit, quia ibi legati Romani uiolati erant... Ipse L. Mummius abstinentissimum uirum egit... 13 Oros. V,7,13 = Flor. I,34,12. 14 Come invece A. LIPPOLD, Orosio. Le Storie contro i pagani, Milano-Verona 1976, I, XXXVII-XXXVIII e II,415-416; diversamente G. ZECCHINI, Ricerche di storiograa latina tardoantica, Roma 1993, 161. 15 G. ZECCHINI, ‘Hispania semper delis’: il rapporto degli Spagnoli verso Roma in età imperiale , CISA XVIII, Milano 1992, 267-276, p. 273.
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binamento si trova, come si è visto, già nelle Periochae: qui però esso parrebbe in funzione dell’Emiliano, due volte trionfatore a quattordici anni di distanza, mentre in Orosio è collegato con l’inizio del declino politico e civile di Roma; a sua volta però questo motivo della decadenza è già emerso in Floro, ma con diverso collegamento (o solo Numanzia o Cartagine, Corinto, Numanzia e la ne del regno attalide in Asia), e risale no al celebre discorso di P.Cornelio Scipione Nasica nell’imminenza della III guerra punica16, da cui passò a Sallustio e a Diodoro (forse tramite Posidonio)17, ma collegato alla sola Cartagine. In ultima analisi mi sembra possibile proporre che la coppia orosiana ‘Cartagine-Numanzia’quale punto d’inizio del declino politico di Roma sia di origine liviana: Livio era molto attento a una periodizzazione della storia romana che individuasse gli incipit di quella crisi, che, a suo avviso, era culminata al suo tempo con le guerre civili e l’avvento del principato, quando nec uitia nostra, nec remedia pati possumus18; un primo incipit era dato dal 187, quando il trionfo di Cn.Manlio Vulsone sui Galati introdusse per la prima volta in Roma la luxuria, cioè la greca IJȡȣij o il nostro ‘consumismo’19; nel 146/133 si passò dalla corruzione etica alla sua più grave e immediata conseguenza, appunto il declino politico: in questa prospettiva, che faceva dipendere la crisi politica da quella etica, Numanzia era addirittura più signicativa di Cartagine, perché la città celtiberica aveva visto la vergognosa resa di C. Ostilio Mancino e il suo accordo coi Numantini poi sconfessato dal senato e l’altrettanto vergognosa rilassatezza della disciplina militare romana, a cui l’Emiliano cercò di porre rimedio con grande energia (e la Periocha LVII concede largo spazio a tale tema)20. Allora mi sembra ipotizzabile che all’interno di un largo ventaglio di possibilità (la sola Cartagine come in Sallustio, la sola Numanzia come in Floro, Cartagine e Corinto come in Polibio, Cartagine, Corinto e Numanzia come in Diodoro e ancora in Floro) Livio scegliesse di privilegiare la coppia ‘Cartagine – Numanzia’ e di sacricare Corinto in una
16 Sulla storicità del discorso cfr. ZECCHINI, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, 230 (= infra, cap. XI). 17 Diod. XXXIV/XXXV,33,3-6; Sall. Catil. 10,1; Iugurth. 41,2; Hist. I,11-12 Maurenbrecher. 18 Liu. Praef. 9. 19 Liu. XXXIX,6,7, su cui G. ZECCHINI, Cn.Manlio Vulsone e l’inizio della corruzione a Roma, CISA VIII, Milano 1982, 159-178, p. 176 sgg., ripreso in ID., Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, 220-223 (= infra, cap. XI). 20 Per. 57: Scipio Africanus...corruptum licentia luxuriaque exercitum ad seuerissimam militiae disciplinam reuocauit.
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lettura etico-politica della crisi di Roma di matrice romano-italica, non certo ellenistica, qual’era quella di Polibio, da cui siamo partiti. La conferma che questa lettura si afferma grazie al prestigio di Livio in età augustea ci viene da un autore, che conosceva lo storico patavino, ma che non dipendeva da lui nella misura di Orosio e poteva disporre di numerose fonti alternative, Velleio Patercolo: mentre a I,12-13 Cartagine e Corinto vengono confrontate solo per giudicare il diverso comportamento di Scipione Emiliano e di Mummio a tutto vantaggio del primo, a II,1 la corruzione politica a Roma è vista quale conseguenza della caduta di Cartagine, come in Sallustio, e a II,4,2-3 Cartagine e Numanzia sono afancate, proprio come nelle Periochae, nel nome dell’Emiliano, che liberò i Romani dal timore dell’una e dall’insolenza dell’altra (quippe excisa Carthagine ac Numantia ab alterius nos metu, alterius uindicauit contumeliis). La fortuna di Cartagine e Numanzia al posto di Cartagine e Corinto nella storiograa latina di età imperiale ha dunque le sue radici in Livio. Ciò permette di concludere che la cultura augustea riutava la proposta polibiana di accordare un ruolo speciale a Corinto e alla Grecia all’interno dell’evoluzione dell’impero romano21 e tale riuto è del tutto coerente con l’italocentrismo del princeps, che non intendeva riconoscere ai Greci un rilievo maggiore degli altri provinciali all’interno del proprio dominio ecumenico, come un tempo aveva chiesto proprio Polibio e allora tornava a chiedere Dionisio di Alicarnasso. Ci si può a questo punto domandare se è solo l’età augustea che prende le distanze da Polibio o se si può risalire più all’indietro nella valutazione, che i Romani diedero del duplice assedio di Cartagine e Numanzia. Per questa ricerca risulta prezioso il testo di uno storico greco di età imperiale, Appiano22, che un tempo Adolf Schulten rivendicò piuttosto supercialmente al lone polibiano23, ma che da Polibio non può derivare, giacché accusa l’Emiliano di essere iracondo e vendicativo e di aver distrutto Numanzia di propria iniziativa, senza alcun ordine da parte del senato; peraltro è stato a più riprese proposto e da ultimo confermato anche dal Gomez Espelosín il nome di P. Rutilio Rufo come fonte di Appiano per la sezione dell’ȕȘȡȚț riguardante la guerra di
21 Si badi che anche Virgilio (Aen. VI,836-837) esalta il trionfo di Mummio su Corinto e non manifesta alcuna riserva sul destino della città. 22 App. Iber. 14,84-15,98. 23 A. SCHULTEN, Polybius und Poseidonius über Iberien und die iberischen Kriege, Hermes 46 (1911), 568-604; ID., Fontes Hispaniae Antiquae, III, Barcelona 1935; IV, Barcelona 1937.
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Numanzia : Rufo scrisse la sua opera storica in greco ed era ben noto in tal senso ancora ad Ateneo25; Appiano lo menziona a 14,88 come storico e come testimone oculare presente a Numanzia; non sappiamo in quali rapporti fosse con l’Emiliano26 e dunque non si può escludere che il giudizio ostile presente in Appiano, un unicum nella tradizione antica, possa risalire a un severo e intransigente moralista come questo ottimate, morto in volontario esilio in Asia (terminus post quem è il 75), dopo che a Roma era stato accusato e condannato ingiustamente de repetundis27. Di là dal sorprendente giudizio negativo sull’Emiliano, resta il fatto che nelle considerazioni nali di 15,98 Cartagine e Numanzia sono accostate in quanto costituivano i due trion nella carriera militare di Scipione. Ora non credo che l’accostamento sia opera di Appiano, bensì già di P. Rutilio Rufo, perché esso è molto diffuso nella tradizione: infatti si ritrova anche nella Vita di L. Emilio Paolo di Plutarco, in un inciso riguardante il glio giovinetto del vincitore di Pidna, già modello di straordinario valore e futuro distruttore di Cartagine e Numanzia28, e, come si è visto sopra, in Velleio e nelle Periochae: una tale concordia non può essere casuale, ma deve dipendere da una lettura della storia di Roma tra il 146 e il 133 ruotante intorno alla gura dell’Emiliano, una lettura per così dire biograca, originata dalle tradizioni famigliari degli Scipioni (o, meglio, della gens Cornelia e della gens Emilia insieme) e poi capace di imporsi quale exemplum di straordinario rilievo nella cultura, nella mentalità e, oserei dire, nell’immaginario collettivo dei Romani. Anche qui credo di poter addurre due signicative conferme: tra l’86 e l’82, dunque in sincronia con l’opera storica di Rufo, la popularis Rhetorica ad Herennium rivela che tra gli exempla storici più frequentemente prescelti per le esercitazioni retoriche vi era il tema Scipio Numantiam sustulit, Scipio Kartaginem deleuit29, che unisce di nuovo in chiave
24 F.J. GOMEZ ESPELOSÌN, Appian’s Iberiké, ANRW II,34,1 (Berlin-New York 1993), 403-427, pp. 422-425 (e già A. SANCHO ROYO, En torno al bellum Numantinum de Apiano, Habis 4 (1973), 23-40 e I. HAHN, Appian und seine Quellen, in Festschrift Straub, BerlinNew York 1982, 251-276, p. 270). 25 Athen. IV,168e; VI,274c; XII,543a-b; cfr. G. ZECCHINI, La cultura storica di Ateneo, Milano 1989, 238-239. 26 Forse buoni, ma il suo giudizio potrebbe essere mutato dopo il 115 / 110 ca., quando egli aderì alla fazione antiscipionica dei Metelli: così D.F. EPSTEIN, Personal Enmity in Roman Politics 218 – 43 B.C., London-New York 1987, 117. 27 F. Münzer RE I-A [1920] Rutilius n° 34 coll. 1269-1280 e, sul processo, E.S. GRUEN, Roman Politics and Criminal Courts, 149-78 B.C., Cambridge 1968, 205-207. 28 Plut. Aem. 22,8. 29 Rhet. ad Herenn. IV,19.
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biograca i due grandi assedi del 146 e del 133. Una generazione dopo Cicerone, che popularis non è, ma che partecipa all’ormai concorde reverenza verso l’Emiliano (basti pensare al Somnium Scipionis), accosta in diverse occasioni le due città. Nella Pro imperio Cn. Pompeii del 66 egli allude alle due potenti città, che minacciavano Roma e che Scipione distrusse (duas urbes potentissimas quae huic imperio maxime minitabantur, Carthaginem atque Numantiam, ab eodem Scipione esse deletas); nella Pro Murena del 63 ricorda che l’Africano minore aveva eliminato con Cartagine e Numanzia i due incubi dell’impero romano (P. Africanus…duos terrores huius imperi, Carthaginem Numantiamque, deleuerat); nella IV Catilinaria dello stesso anno raduna le due città sotto la qualica di huic imperio infestissimas; ancora nella IV Filippica divide l’espansione romana in due fasi, quella italica e quella extraitalica, contraddistinta dalla distruzione di Cartagine e Numanzia30. In tutte queste testimonianze Cicerone fornisce una precisa motivazione non più e non solo biograca al loro accostamento: Cartagine e Numanzia vanno citate insieme non solo perché distrutte dal medesimo generale, ma perché costituivano due reali e gravi pericoli per la repubblica romana, le ultime minacce al suo incontrastato dominio; così l’oratore prelude alla successiva scelta liviana, sopra illustrata, di vedere nel 146 / 133 la cesura tra apogeo e declino politico della Roma repubblicana, giacché l’eliminazione dei terrores esterni, secondo la ben nota teoria del metus hostilis, innescava la spirale delle discordie e dei conitti civili. Cicerone è per noi l’anello sinora mancante della catena, che unisce la tradizione gentilizia e biograca sull’Emiliano all’interpretazione liviana della storia di Roma scandita nel suo declino da una serie di date signicative, tra cui appunto quella delle distruzioni di Cartagine e Numanzia, e rivela che nel corso del I secolo l’elogio delle res gestae di un grande personaggio, anche grazie al generale consenso sulla gura storica di Scipione31, si trasformò gradualmente in una periodizzazione valida per la storia di tutta l’Urbe. Nel più tardo De ofciis del 44 egli menziona ancora Cartagine e Numanzia insieme, ma questa volta si ricorda con una curiosa aggiunta anche di Corinto; scrive infatti che i Romani distrussero giustamente le
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Cic. Pro imp. Cn.Pompeii 20,60; Pro Murena 28,58; IV Catil. 1,21; IV Philipp. 5,13. Per il quale cfr. G. ZECCHINI, Die staatstheoretische Debatte der caesarischen Zeit, in W. SCHULLER (ed.), Politische Theorie und Praxis im Altertum, Darmstadt 1998, 149-165, pp. 151-153. 31
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prime due città, perché i loro abitanti erano crudeli e feroci (...crudeles...immanes...), e distrussero anche Corinto, ma per un motivo diverso, la sua posizione strategica, ed egli avrebbe preferito che non l’avessero fatto (maiores nostri...Karthaginem et Numantiam funditus sustulerunt; nollem Corinthum...)32. Qui è evidente l’inusso della cultura ellenistica, tra cui con ogni probabilità lo stesso Polibio, su Cicerone, che si sente in dovere di menzionare la città greca nel medesimo contesto delle altre due, ma pur sempre come un caso separato, non riconducibile alle drammatiche, gravissime ragioni, che univano Cartagine e Numanzia nella memoria storica romana; non per nulla poco dopo egli ribadisce che contro i Celtiberi, come in seguito contro i Cimbri e i Teutoni, i Romani dovettero lottare non per l’egemonia, ma per la loro stessa esistenza33. Dunque l’unica34 citazione di Corinto a anco di Cartagine e Numanzia da parte di un autore latino prima di Floro serve solo a confermare quanto ormai mi sembra essere emerso con sufciente chiarezza da queste pagine, e cioè che per i Romani i due assedi veramente signicativi ed epocali dell’età mediorepubblicana erano quelli, occidentali, in terra d’Africa e di Spagna, non a caso afdati al loro miglior generale, mentre Corinto costituiva un episodio di assai minor rilievo, privo di qualsiasi ricaduta sugli equilibri interni dell’Urbe. Esaminata così la tradizione romana e chiariti la sua genesi e il suo senso, possiamo allora tornare a Polibio per concludere. Quando si studia il concetto geopolitico di Europa nello storico di Megalopoli, si constata che la sua visione, comprensiva di Italia e Grecia, non aveva avuto successo a Roma, dove non si intendeva accordare uno speciale spazio all’Europa, e quindi alla Grecia, all’interno dell’ecumene ormai tutta controllata dall’Urbe35. Si può inoltre osservare che la prima data terminale delle Storie di Polibio, il 168, che faceva coincidere la ne della Macedonia con la ne del metus hostilis e con l’inizio della corruzione interna per Roma, non ebbe parimenti successo, poiché ci si orientò su
32 Cic. De off. I,11,35. PURCELL, On the Sacking of Carthage and Corinth, 145-6 parla di Cicero’s atrocious nonchalance. 33 Cic. De off. I,12,38. 34 Per l’esattezza Cicerone cita i bella Carthaginiense, Corinthium, Numantinum anche in De lege agraria II,33,90 (del 63), ma all’ interno di un elenco di guerre esterne e civili (da Antioco III alla guerra sociale) più esteso, nel quale il loro accostamento ha un valore puramente cronologico. Sempre in De lege agraria II,32,87 precede l’altrettanto isolato accostamento di Corinto, Cartagine e Capua (e non Numanzia) quali città rivali di Roma in potenza. 35 G. ZECCHINI, Polibio, la storiograa ellenistica e l’Europa, CISA XII, Milano 1986, 124-134 (= cap. V).
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altre date per l’una e l’altra problematica . Qui credo di aver dimostrato che anche l’angosciata richiesta di Polibio di conferire alla distruzione di Corinto e alla nis Graeciae lo stesso rilievo di quella di Cartagine cadde nel vuoto: i Romani giudicarono la guerra acaica del 146 per quello che realisticamente era, una guerra facile e breve conclusa da una punizione severa, ma circoscritta, per nulla paragonabile alla doppia epopea scipionica contro l’atavico nemico punico e contro quei barbari d’Occidente come i Celtiberi, con i quali si combatteva non per il dominio, ma per la vita. La loro valutazione, ripetutamente espressa da Cicerone e conuita nell’interpretazione storica di Livio, secondo la quale solo le vittorie su Cartagine e Numanzia avevano eliminato il metus hostilis e inaugurato una nuova, delicata fase della storia di Roma, era senz’altro esatta sulla base di criteri politico-militari; quelli, culturali e simbolici, invocati da Polibio per Corinto non furono ritenuti validi: l’ennesima conferma del suo effettivo isolamento, della sua incapacità di inuenzare la visione storico-politica della classe dirigente romana37.
36 ZECCHINI, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, cit. alla nota 8 (= infra, cap. XI): la ne del metus hostilis fu ssata al 146, l’inizio della corruzione variamente al 187, all’82, al 63. 37 Cfr. infra cap. XIII.
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CAPITOLO IX EQUIVALENZE: ANNIBALE, SCIPIONE, FILOPEMENE
Quali sono i più grandi generali del proprio tempo? Ogni generazione in Occidente almeno sino alla II guerra mondiale si è posta questa domanda. Nell’antichità, che si sappia, la querelle cominciò con il presunto incontro di Annibale e Scipione a Efeso nel 193, tanto famoso che si può riassumerlo rapidamente. Secondo Livio, Appiano e Plutarco (Vita di Flaminino)1 Scipione avrebbe incontrato Annibale a Efeso nel 193 in occasione dell’ambasceria guidata da P. Villio Tappulo presso Antioco III; alla domanda su quale fosse il generale più grande Annibale avrebbe risposto menzionando nell’ordine Alessandro Magno, Pirro e se stesso; all’ulteriore domanda quale sarebbe stato l’ordine, se egli avesse vinto a Zama, avrebbe orgogliosamente aggiunto che allora si sarebbe situato al primo posto. A questo punto Livio e Appiano divergono: secondo il primo Scipione intese che Annibale lo considerava un comandante inaestimabilem, che di per sé signica ‘non valutabile’2, per il secondo Scipione intese che Annibale lo considerava
1 Liu. XXXV,14,5-12 (da cui Per.XXXV,1-6 e Oros.IV,20,18); App.Syr.10,38-45; Plut. Flamin.21,3-4. 2 Inaestimabilis è quasi uno hapax, un termine molto raro, forse coniato da Quadrigario,a cui Livio (cfr. infra) direttamente attinge: J. BRISCOE, A Commentary on Livy. Books 34-37, Oxford 1981, 9 e 167.
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superiore ad Alessandro e lo poneva quindi in testa alla classica. Una tradizione apparentemente diversa, registrata da Plutarco in una delle sue due Vite di Scipione, nonché nella Vita di Pirro3, forniva una graduatoria stilata da Annibale, che vedeva Pirro al primo posto, Scipione al secondo e Annibale al terzo. Analogamente Luciano in un contesto differente (non un’opinione di Annibale, ma il giudizio di Minosse in un Dialogo dei morti)4 metteva Alessandro davanti a Scipione e questi davanti ad Annibale. Chiariamo subito che l’incontro non ci fu; anche un eventuale viaggio di Scipione in Egeo verso la ne del 193 non può essere ritenuto più che un’ingegnosa, ma non cogente ipotesi di M. Holleaux5. Tuttavia, al fondo di leggende di questo tipo c’è spesso un nucleo storico, che si può forse ancora cogliere riesaminando la nostra tradizione. Appiano, che amplia e rielabora ingenuamente l’aneddoto, dipende certo dalla tradizione delle scuole retoriche di epoca imperiale6; questa tradizione di età postaugustea si fonda sulla ricezione dell’aneddoto in Livio, che gli diede fama e risonanza; Livio però a sua volta cita puntigliosamente la fonte dell’aneddoto, alternativa al suo autore principale, cioè a Polibio7: tale fonte è C. Acilio, mediato da Q. Claudio Quadrigario8; a sua volta Plutarco poco sopra l’aneddoto in questione cita un ȁİțȚȠȢ, che è stato emendato in ȁȕȚȠȢ o, più frequentemente, in ਝțȜȚȠȢ9: entrambe le emendazioni riportano, indirettamente o direttamente, a C. Acilio e dunque quest’ultimo poco dopo il 150 ca.10 è il nostro primo e sicuro testimone dell’‘episodio’.
3 Plut. fr. 2 Sandbach apud Pyrrh. 8,2: Plutarco stesso ci informa di aver riportato questa graduatoria ਥȞ IJȠȢ ʌİȡ ȈțȚʌȦȞȠȢ, ma è impossibile capire se si riferisse alla Vita di Scipione riportata dal Catalogo di Lampria n° 28 come opera a se stante oppure alla Vita di Scipione parallela alla Vita di Epaminonda, coppia iniziale e perduta dei ǺȠȚ; ulteriore e parimenti insolubile problema è se questa seconda Vita di Scipione riguardasse l’Africano maggiore o il minore. Breve status quaestionis in F.H. SANDBACH, Plutarch’s Moralia, XV, Cambridge Mass. 1969, 74-79. 4 LUCIAN. Dialog. Mort. 12. 5 M. HOLLEAUX, Etudes d’épigraphie et d’histoire grecque, V, Paris 1957, 184-207 (= Hermes 48, 1913, 75-98). 6 Così ora, ottimamente, K. BRODERSEN, Appians Antiochiké, München 1991, 104-106. 7 Che nel XXXV libro Livio stia seguendo Polibio molto fedelmente è opinione comune: cfr., per tutti, H. TRÄNKLE, Livius und Polybius, Basel 1977, 27. 8 Liu. XXXV,14,5: Claudius, secutus Graecos Acilianos libros...tradit; è il fr.64a Peter = FRHist n°24 fr.66 di Quadrigario e il fr.5 Peter = 7 Chassignet = FRHist n°7 fr.4 di Acilio. M. ZIMMERER, Der Annalist Q.Claudius Quadrigarius, München 1937, 10 sgg. ha cercato di dimostrare, senza molto successo, che di altro Claudio si tratta. 9 Plut. Flamin. 20,10; la prima emendazione risale allo Stephanus, la seconda è di Holleaux cit. alla nota 5. 10 Livio (Per. LIII,4, il cui testo è però corrotto) darebbe il 143/141 come data di
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Acilio non può però averlo inventato dal nulla, né aveva l’autorità per conferire successo a una simile, eventuale invenzione. D’altronde l’aneddoto, così come Livio lo leggeva in Acilio / Quadrigario, è, a mio avviso, chiaramente costituito da due parti cucite insieme con neppure eccessiva destrezza: c’è la graduatoria fornita da Annibale (Alessandro Magno – Pirro – se stesso) e c’è la successiva domanda di Scipione (‘se mi avessi vinto a Zama...’) con la risposta del Cartaginese, abile, perché graticante per il Romano, ma anche ambigua (Scipione, si è già visto, è inaestimabilis, ‘non valutabile’) e che in ogni caso non inserisce l’Africano nella graduatoria stessa. L’impressione è che su un nucleo precedente, cioè su un dictum Hannibalis, che si limitava a una classica tutta ellenistica da Alessandro Magno a se stesso, C.Acilio abbia operato un intervento loromano e loscipionico: sulla base di un ragionamento, che aveva non poco dalla sua (come si può escludere dal novero dei generali più grandi Scipione, se egli ha vinto Annibale a Zama?), l’annalista ha cercato di coinvolgere l’Africano nel giudizio, senza stravolgere il dictum originario e lasciando libero il lettore di dare la propria valutazione a un caso appunto ‘non valutabile’ (in che senso i lettori romani abbiano usato poi questa libertà, e cioè conferendo a Scipione il primato, come si deduce dall’elaborazione delle scuole di retorica conuita in Appiano, è persino troppo ovvio), ma ammonendo che in ogni caso il più geniale condottiero romano non poteva essere dimenticato in discussioni di questo genere e che ormai la scuola militare romana aveva tutte le carte in regola per imporsi tra le più prestigiose di ogni tempo. Se si accetta questa bipartizione dell’aneddoto tra nucleo originario (su cui tornerò) e aggiunta aciliana11, si capiscono anche le varianti di Plutarco (nelle Vite di Scipione e di Pirro) e di Luciano: non si tratta, secondo me, di tradizioni diverse12, ma di rielaborazioni dell’unica classica originaria; nella Vita di Scipione Plutarco dovette attingere a una fonte (Oppio?)13, a
pubblicazione dell’opera di C. ACILIO, che quindi dovette cominciare a lavorarvi almeno qualche anno prima. Cfr. in genere M. CHASSIGNET, L’annalistique romaine, I, Paris 1996, LXXXVI-LXXXVIII e T. CORNELL et alii (eds.), The Fragments of the Roman Historians, Oxford 2013, I, 224-226. 11 Diversamente G. BRIZZI mi comunicò per litteras di ritenere elemento originario del dictum Hannibalis anche la seconda parte dell’aneddoto. 12 Così invece HOLLEAUX, Etudes d’épigraphie et d’histoire grecque, 184 nota 3, spesso ripreso un po’ meccanicamente, ma cfr. contro già E. GABBA, Sul Libro Siriaco di Appiano, RAL 12, 1957, 339-351, p. 341. 13 C. Oppio, l’amico e collaboratore di Cesare, scrisse una Vita Africani prioris ed è citato da Plutarco, non però per questa biograa, ma per quella di Cesare (Plut. Caes. 17,7; Pomp. 10,4). La derivazione proposta nel testo vuole essere perciò una semplice suggestione.
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cui importava soprattutto affermare la superiorità di Scipione su Annibale; è difcile poi capire se già nella Vita di Scipione era lasciato cadere il nome di Alessandro Magno o se questa fu un’iniziativa di Plutarco nella Vita di Pirro per celebrare così il re dell’Epiro, promosso così dal secondo al primo posto; è poi impossibile divinare se nella Vita di Scipione ci fosse qualche commento, qualche considerazione per giusticare o criticare l’incredibile primato di Pirro davanti all’Africano: proprio lo stato della nostra tradizione, cioè la perdita delle due Vite di Scipione, rende assai poco chiara questa variante. Più facile è il caso di Luciano; prendendo spunto da un tema ormai diffuso nelle scuole di retorica (ce ne assicura, come si è detto, Appiano) e secondo il quale Scipione precedeva sia Alessandro, sia Annibale, l’intellettuale di Samosata volle ribaltare il rapporto tra i primi due e riaffermare la superiorità di Alessandro, campione dell’ellenismo, su Scipione, campione della romanità, mentre Annibale, di cui a Luciano non importava nulla, restava buon ultimo: siamo quindi in presenza dell’ennesima manifestazione di malumore antiromano da parte di Luciano14. Chiariti, per quanto è possibile, sviluppi e ramicazioni successive, torniamo alla fase originaria, preaciliana, del nostro aneddoto. Ho parlato, per brevità, di dictum Hannibalis: penso in effetti che all’origine delle rielaborazioni romane, tutte tendenti a introdurre in qualche modo Scipione nella classica dei grandi generali, ci sia un giudizio, un’opinione realmente e autorevolmente espressa da Annibale, se non proprio ad Efeso nel 193, almeno durante il suo soggiorno presso Antioco III e ben presto conosciuta e diffusa in Grecia e a Roma, se non anche afdata alla scrittura, dato che Annibale, secondo la testimonianza di Cornelio Nepote15, lasciò non poche opere scritte. In effetti, la classica proposta da Annibale si inserisce perfettamente nella storia del pensiero militare ellenistico prima di Roma: all’origine di tutta la scuola militare ellenistica c’è ovviamente Alessandro Magno, il cui ruolo di ‘padre fondatore’ era accettato da tutti; il sorprendente (per noi) secondo posto di Pirro si spiega sia per l’analogia tra le sue vicende e quelle di Annibale (entrambi invasori dell’Italia e a lungo vittoriosi nemici di Roma, alla ne entrambi vinti), sia per la formazione intellettuale di Annibale, nella quale i Commentarii dell’Epirota e lo scritto di tattica del suo segretario Cinea dovettero contare non poco16; più in generale
14 Su Luciano in questa prospettiva cfr. G. ZECCHINI, Modelli e problemi teorici della storiograa nell’età degli Antonimi, CS 20, 1983, 3-31. L’interpretazione proposta nel testo non si trova in B. BALDWIN, Alexander, Hannibal, and Scipio in Lucian, Emerita 58, 1990, 51-60. 15 Corn.Nep. Hann. 13,2. 16 Sugli scritti di Pirro nella formazione di Annibale cfr. ora G. BRIZZI, Il guerriero,
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Annibale, mettendosi per terzo dopo Alessandro e Pirro, intende affermare perentoriamente la sua appartenenza alla scienza militare dell’ellenismo: certo, egli non è greco, ma, come già suo padre Amilcare, si sente erede e innovatore di quella tradizione, con cui peraltro i due Barcidi avevano avuto legami e contatti diretti, Amilcare grazie allo spartano Santippo, Annibale grazie a un altro spartano, Sosilo17. Che Annibale dunque si sentisse in tutto e per tutto esponente dell’ellenismo militare e avesse per modelli Alessandro e Pirro è ben naturale ed è sentimento che deve risalire agli anni della sua formazione. Tuttavia che egli abbia, per così dire, razionalizzato questo suo sentimento, trasferendolo in una ben precisa gerarchia di grandezza, poté derivare da sollecitazioni esterne, che forse si possono ancora ricostruire. Quando Annibale giunge presso Antioco III nel 195, il re di Siria appare l’ultimo possibile campione dell’ellenismo antiromano, ancora sotto choc dopo la disfatta della falange macedone contro l’ordinamento manipolare della legione a Cinoscefale; come ho già osservato altrove18, proprio in queste circostanze, per rianimare tutti i potenziali nemici di Roma, Sosilo di Sparta, il maestro, amico e consigliere di Annibale, dovette scrivere le Ȇİȡ ਝȞȞȕȠȣ ʌȡȟİȚȢ, le ‘Gesta di Annibale’: quest’opera di storiograa militare aveva, a mio avviso, per scopo precipuo quello di dimostrare che la combinazione tra il genio di Annibale e la scienza militare greca aveva già scontto più volte i Romani in Italia e poteva tornare a sconggerli nella guerra, che si andava delineando con la Siria. Allora nei medesimi anni, tra il 195 e il 193, Annibale poteva ben essere motivato ad afancare all’opera di Sosilo un’iniziativa personale qual’era quella di presentarsi come il terzo gran generale dell’ellenismo dopo Alessandro e Pirro. Al di là delle convinzioni personali, indubbiamente sincere, sul primato di Alessandro e il secondo posto di Pirro, la coppia ‘Alessandro-Pirro’ risultava particolarmente efcace, perché l’Epirota aveva invaso l’Italia e scontto i Romani, ma alla ne aveva perso, il Macedone invece aveva soltanto coltivato progetti di spedizioni
l’oplita, il legionario, Bologna 2002, 60; su Cinea tatticografo cfr. AELIAN. Tact. 1,2. Non entro qui nella questione se gli ਫ਼ʌȠȝȞȝĮIJĮ ȆȡȡȠȣ siano da attribuire al re o appunto a Cinea. 17 G. BRIZZI, Amilcare e Santippo: storie di generali, in Y. LE BOHEC (ed.), La première guerre punique, Lyon 2001, 29-38; ID., Il guerriero, l’oplita, il legionario, 59-66. 18 G. ZECCHINI, Ancora sul Papiro Würzburg e su Sosilo, Akten des 21. Intern. Papyrologenkongresses, Stuttgart-Berlin 1997, 1061-1067. Si aggiunga da diversa prospettiva G. SCHEPENS, Die Westgriechen in antiker und moderner Universalgeschichte. Kritische Überlegungen zum Sosylos-Papyrus, in Diorthoseis. Beiträge zur Geschichte des Hellenismus und zum Nachleben Alexanders des Grossen, Leipzig 2004, 73-107.
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occidentali, ma non si era mai scontrato coi Romani: ci si poteva quindi cullare nell’ipotesi invericabile che, se egli avesse marciato contro Roma, l’avrebbe vinta, un’ipotesi, che l’ellenismo antiromano coltivò tenacemente sino a Timagene e che suscitò la nota, irata replica di Livio19. È appena il caso di ricordare che Antioco III, reduce dai trion in Medio Oriente sino alle frontiere dell’India, si era guadagnato la qualica di ‘Grande’ proprio come Alessandro; allora, l’unione del suo prestigio con l’intelligenza militare di Annibale poteva rivelarsi micidiale per Roma, che non per nulla attraversò momenti di grande preoccupazione prima dello scoppio e nelle prime fasi della guerra20: nel 195/193 nessuno poteva prevedere le schiaccianti dimostrazioni di superiorità offerte dagli eserciti di Roma alle Termopili e a Magnesia. In ultima analisi, la classica dei più grandi generali della storia diffusa da Annibale in quegli anni fu anche un elemento della complessa manovra propagandistica messa in atto da chi stava organizzando l’ennesima coalizione volta a contrastare l’egemonia romana. Per questo ovvio motivo Scipione non poteva certo essere inserito nell’elenco e di conseguenza la sua aggiunta in Acilio sa di posticcio: la sua presenza era incongruente con lo spirito e le intenzioni sottese al dictum Hannibalis, per il quale i Romani dovevano risultare estranei e opposti alla tradizione militare ellenistica, a costo di violare la verità, ben nota al Cartaginese, che Scipione era in fondo solo l’allievo capace di superare il maestro21. Ci si potrebbe fermare qui, senza neppure aver nominato Polibio. Eppure Polibio ha il suo ruolo in questo tema, anche se non è certo quello attribuitogli dal Nissen (e poi, a dire il vero, da pochi altri), secondo cui l’aneddoto di Efeso sarebbe stato registrato per primo dallo storico di Megalopoli22. In realtà, nel corso del XIX libro, che copre gli anni intorno al 19323, Polibio non poté scrivere sul presunto incontro tra Annibale
19 Liu. IX,18,6. Che tra i leuissimi ex Graecis sia preso di mira soprattutto Timagene è opinione prevalente: cfr. M. SORDI, Timagene di Alessandria: uno storico ellenocentrico e lobarbaro, ANRW II,30,1, Berlin-New York 1982, 775-797. 20 M. SORDI (a cura di), Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l’Oriente, Milano 1982; A. MASTROCINQUE, Manipolazione della storia in età ellenistica: i Seleucidi e Roma, Roma 1983. 21 Su questa dipendenza ideale di Scipione da Annibale cfr. ancora Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, 73 e 80. Sulla volontà di Annibale di offendere e provocare i Romani con questa sua classica cfr. J. SEIBERT, Hannibal, Darmstadt 1993, 512; diversamente BRIZZI cit. supra alla nota 11. 22 H. NISSEN, Kritische Untersuchungen über die Quellen der vierten und fünften Dekade des Livius, Berlin 1863, 168-9; E.T. SAGE (ed.), Livy, X, Cambridge Mass. 1965, 41. 23 Di tale libro, come è noto, non abbiamo frammenti: il libro XVIII termina sui fatti del 196 e il libro XX riprende dal 192/1.
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e Scipione ad Efeso non solo perché l’incontro non c’era stato, ma anche perché altrimenti Livio non si sarebbe sentito in dovere di staccarsi da lui e di citare la sua nuova fonte, Acilio tramite Quadrigario, quando introduce l’aneddoto nella propria narrazione. Eppure Polibio era, a mio avviso, al corrente del dictum Hannibalis e, più in genere, del dibattito su chi fossero i più grandi generali del tempo e non rinunciò, in quanto storico orgoglioso della propria competenza militare24, a dire la sua. Infatti, una decina d’anni dopo il ttizio colloquio di Efeso, ma anche dopo il reale pronunciamento di Annibale sulla questione, vennero a morte quasi contemporaneamente sia Annibale stesso, sia Scipione, sia l’acheo Filopemene25; Polibio approttò della circostanza per istituire un sincronismo assoluto fra le tre morti e per inserire nel proprio racconto un’ampia digressione comparativa, una ıȖțȡȚıȚȢ fra i tre generali26. I frammenti superstiti riguardano non tanto le loro virtù militari quanto le loro doti caratteriali, la capacità di Annibale di assicurarsi per diciassette anni la completa fedeltà dei suoi soldati, pur mercenari, la capacità di Scipione di guadagnarsi l’affetto del popolo e la ducia del senato, la capacità di Filopemene di godere per quarant’anni il favore del popolo, pur senza adularlo, ma anzi dicendo sempre quel che pensava; scopo principale di Polibio parrebbe dunque quello di sottolineare che sotto qualsiasi regime, monarchico per Annibale durante la campagna d’Italia, misto, ma prevalentemente aristocratico per Scipione, democratico per Filopemene, le qualità individuali trovano sempre modo per emergere ed imporsi; peraltro Diodoro27 ci conserva un analogo triplice elogio, sempre frammentario, ma un po’ più ampio, che è di sicura matrice polibiana e che ci permette di afancare alle qualità morali dei tre anche una breve sintesi delle loro imprese di guerra e delle ragioni prettamente militari della loro grandezza. In ogni caso Polibio sceglie di conferire la massima enfasi alla vita, alla gloria e al destino paralleli di questi tre condottieri,
24 E.W. MARSDEN, Polybius as a military historian, in E. GABBA (éd.), Polybe, Genève 1974, 269-295. 25 Esauriente discussione sul sincronismo in F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, III, Oxford 1979, 235-239. 26 Polyb. XXIII,12-14. Per il solo confronto ‘Scipione / Filopemene’ cfr. CR.B. CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’ Histories, Berkeley-Los Angeles 2004, 146-151; la più approfondita analisi del confronto a tre e del suo valore all’interno della complessiva concezione delle Storie è in E. FOULON, Philopoemen, Hannibal, Scipion: trois vies parallèles chez Polybe, REG 106, 1993, 333-379; queste mie pagine hanno diversa impostazione. 27 Diod. XXIX,18-21. In Giustino (XXXII,4-9) si ha il sincronismo fra i tre ‘grandi’ seguito dall’elogio del solo Annibale.
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Annibale, Scipione, Filopemene
che sono certamente per lui le personalità più rappresentative della sua epoca, e tale scelta merita una breve riessione conclusiva. Innanzitutto, nessuna graduatoria in Polibio, ma un confronto alla pari28; poi una selezione, che cronologicamente presuppone e quindi esclude Alessandro, capostipite della scuola militare ellenistica (sul quale peraltro Polibio si era soffermato almeno nella sua critica a Callistene riguardo alla battaglia di Isso)29; inne un’equa distribuzione dei talenti militari per zone geograche e culturali, Cartagine, Roma e la Grecia. Polibio è un sincero ammiratore di Annibale30, ma si riuta di accettarlo come campione dell’ellenismo contrapposto a Roma secondo la propaganda di Sosilo e dello stesso Annibale: questi è e deve restare un Punico; Polibio è poi un grande ammiratore di Scipione, alla cui famiglia era legato da stretta amicizia, ed è d’accordo coi Romani che non può essere seria una graduatoria di generali, la quale non includa almeno un esponente dei vincitori: la coppia ‘Annibale-Scipione’ testimonia così, agli occhi di Polibio, che la scienza militare greca è stata esportata e si è felicemente trapiantata presso le due più grandi potenze dell’Occidente anellenico. Polibio è però soprattutto un Greco, un patriota della Grecia metropolitana, se così posso esprimermi: al vertice della scienza militare ellenistica, tra gli eredi di Alessandro, non possono esserci solo stranieri, ȕȡȕĮȡȠȚ, ma la Grecia stesse deve pur essere rappresentata; tale onore non può certo toccare a Pirro, un Epirota, sulla cui purezza ellenica si poteva nutrire qualche dubbio, ma esso deve spettare alla scuola militare achea, tra i cui rappresentanti si annoveravano Arato il vecchio, Filopemene, Licorta, il padre di Polibio, lo stesso Diofane, che Polibio disistima come uomo politico, ma apprezza come militare31: ora, l’esponente più illustre di questa scuola era senza dubbio Filopemene, il maestro di Diofane, di Licorta (e dello stesso Polibio), al quale lo storico aveva dedicato un’ammirata biograa in tre libri e un entusiastico elogio nel X libro delle stesse Storie32. 28 Secondo FOULON, Philopoemen, Hannibal, Scipion, 378-379 Polibio porrebbe Scipione davanti ad Annibale e quest’ultimo davanti a Filopemene: non è però classica esplicita, ma, se mai, impressione ricavata da un’attenta e non immediata analisi del testo. 29 Polyb. XII,17-23. 30 Polyb. X,33,2-3 e soprattutto XI,19, più ampio e articolato, e anche più entusiastico, di XXIII,13. 31 Polyb. XXI,9 contiene un vivo apprezzamento per le qualità militari di Diofane; per i suoi successivi contrasti politici con Filopemene, Licorta e Polibio stesso, che lo giudica troppo servile nei confronti dei Romani, cfr. J. DEININGER RE Suppl. XI [1968] Diophanes coll. 534-538. 32 In genere su Filopemene e sulla biograa polibiana cfr. R.M. ERRINGTON, Philopoe-
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A nostra conoscenza, questa stizzita reazione di Polibio, antecedente al 150 ca., è la più antica replica alla ‘classica’ messa in circolazione da Annibale ed è quindi proprio col grande Cartaginese, in ultima analisi, che Polibio polemizza, prima ancora che scendessero in campo i Romani a rivendicare la gloria di Scipione. Gli stessi Romani, Livio in particolare33, sanno anche della ‘classica’ paritaria di Polibio, ma non possono certo condividerla e si limitano a registrarla con maligna ironia (adeo in aequo...eum...posuerunt) nei confronti di Filopemene, la cui equiparazione ad Annibale e a Scipione resta loro inspiegabile. Così, con disarmante ingenuità Polibio afanca il ‘suo’ Filopemene alla formidabile coppia ‘Annibale-Scipione’: un’eresia sul piano militare, una testimonianza di candore e, soprattutto, di una visione ancora ellenocentrica e ormai pateticamente anacronistica sul piano storico. E’ il limite di Polibio, ma anche la nobile, solitaria coerenza di chi si sentiva di appartenere pur sempre a un mondo perduto.
men, Oxford 1969; su Polyb. X,21-24 cfr. ora anche E. ALEXIOU, Das Enkomion auf Philopoemen und sein rhetorischer Hintergrund, in N. MILTSIOS et alii (eds.), Polybius and his Legacy, Thessaloniki 2018, in c.d.s. . 33 Liu. XXXIX,50,11: adeo in aequo eum [sc.Philopoemenen]duarum potentissimarum gentium summis imperatoribus posuerunt [sc. scriptores Graeci Latinique, un plurale generico, dietro cui possiamo ravvisare solo Polibio e qualche suo meccanico imitatore]. Da Livio dipende, per il solo sincronismo, senza commento ironico, Oros. IV,20,29.
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CAPITOLO X LA CORRUZIONE IN GRECIA E A ROMA
Quale ruolo assegna Polibio alla corruzione, più precisamente alla corruzione per denaro in ambito politico? Sul piano teorico la risposta è inequivoca: nella fenomenologia delle varie forme di governo, all’inizio del VI libro, la degenerazione della democrazia attraverso gli stadi intermedi della demagogia e dell’oclocrazia no alla restaurazione di un governo monarchico e dispotico è provocata in prima istanza dalla volontà di potere dei ricchi, che ‘dilapidano il proprio patrimonio, cercando di adescare e di corrompere in tutti i modi il popolo’ (VI,9,6)1. Si badi che nel V libro della Politica, dedicato alle cause di declino degli ‘stati’, Aristotele non dà alcun rilievo alla corruzione, fenomeno, a suo parere, trascurabile in Grecia, con la sola, negativa eccezione di Sparta2; unico precedente, a cui Polibio poté ispirarsi, sembra essere, secondo la critica moderna, il Platone dell’VIII libro della Repubblica e delle Leggi, dove è prevista la condanna a morte per i politici corrotti3; in ogni caso tutta polibiana è l’enfasi posta sulla corruzione quale causa prima della crisi della democrazia, che trasforma
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F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, I, Oxford 1957, 656-659. Arist. Polit. 1270b-1271a. Cfr. F.D. HARVEY, Dona ferentes: Some Aspects of Bribery in Greek Politics, History of Political Thought 6, 1985, 76-117, p. 99. 3 Plat. Rep. 390d-391a e 408b-c; Leg. 955d (ove è prevista la condanna a morte). 2
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i più dei cittadini in įȦȡȠįંțȠȣȢ țĮ įȦȡȠijȖȠȣȢ (VI,9,7), coppia di termini, che il nostro storico afanca, ispirandosi, ben oltre Platone, alle Opere e giorni di Esiodo4. Anche al di fuori della democrazia, ma all’interno della comparazione tra costituzioni, nel prosieguo del medesimo libro, Polibio imputa all’avidità e all’opinione che ogni forma di guadagno sia lecita la conittualità endemica tra le città cretesi (VI,46,3)5; parimenti egli nota che pure a Cartagine ‘niente di ciò che procura guadagno è ritenuto vergognoso’ e quindi ‘quelli che praticano la corruzione arrivano anche alle supreme magistrature’, mentre a Roma ‘niente è ritenuto più vergognoso del lasciarsi corrompere e dell’arricchirsi con mezzi illeciti’ e quindi la pena prevista per il reato di corruzione a ni politici è addirittura la morte (VI,56,2-4). Dunque, laddove analizza in quanto politologo le forme teoriche delle costituzioni e le loro applicazioni storiche, Polibio ha ben presente la corruzione come fattore determinante della vita politica, come un cancro che corrode dall’interno lo ‘stato’, come un pericolo da stroncare attraverso i più drastici provvedimenti. Sul piano concreto dell’analisi storica vediamo innanzitutto di raccogliere, sia pure da un testo pesantemente mutilo, i ‘materiali’ polibiani sulla corruzione, per poi procedere ad alcune considerazioni tratte sia da questi ‘materiali’, sia dal confronto con le posizioni teoriche appena rilevate. A IV,15,8 Polibio registra l’intenzione degli Etoli di corrompere (ȜȣȝĮȞİıșĮȚ) Messeni e Spartani per distoglierli dall’alleanza con i suoi Achei nel 220. A V,43,6 Molone, satrapo della Media ribelle ad Antioco III, adopera la corruzione (įȦȡȠįȠțĮ) per guadagnarsi l’alleanza dei satrapi connanti nel 219; poco oltre, a V,60,2 Antioco III riconquista Seleucia dopo che ha corrotto (ijșİȡİȚȞ) gli ufciali subalterni della piazzaforte. A XVIII,34,7 gli Etoli sospettano che dopo la scontta di Cinoscefale, nel 196, Filippo V stia corrompendo Flaminino, perché allora la corruzione (įȦȡȠįȠțĮ) era diffusa in Grecia e soprattutto era moneta corrente tra gli Etoli, mentre era ancora inconcepibile per i Romani. A XXII,7-8 il re Eumene II di Pergamo offre 120 talenti agli Achei nel 188/7 perché paghino così i membri del consiglio della loro lega e rinuncino al tempo stesso a rivendicare la libertà di Egina: Apollonide di Sicione qualica l’eventuale accettazione (įȡĮ ȜĮȝȕȞİȚȞ) come il più
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Hesiod. Op. 39, 221 e 264. Qui in aperto contrasto con Aristotele, che sottolineava l’assenza di ogni forma di corruzione a Creta: Polit. 1272a-b. 5
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illegale degli atti, una vera e propria corruzione (įȦȡȠįȠțĮ) di gruppo; in seguito a tale intervento e a quello di Cassandro di Egina l’offerta è respinta dagli Achei. A XXIV,10,14 Callicrate è eletto stratego della lega achea nel 180 nonostante, oltre agli altri difetti, fosse uomo sensibile alla corruzione (įȦȡȠįȠțȘșİȢ). A XXIX,8-9 le trattative segrete tra Perseo ed Eumene II nel corso della III guerra macedonica sono contraddistinte agli occhi di Polibio dall’avarizia del Macedone e dalla avidità del Pergameno, che è ben disposto a lasciarsi comperare e quindi a tradire per denaro l’antica alleanza con Roma, ma continua ad alzare il prezzo della sua defezione, cosicché alla ne tra i due non si conclude nessun accordo. A XXXII,6,2-3 l’epirota Carope il giovane nel 159 prima usa la corruzione (įİȜİȗȦ) verso l’assemblea del suo popolo per convincerla a condannare a morte gli antiromani, poi parte per l’Urbe, recando con sé il denaro per corrompere anche il senato e fargli approvare la propria condotta: a Roma però il senato respinge le sue richieste e le case dei più nobili tra i Romani, segnatamente del pontece massimo M. Emilio Lepido e di L. Emilio Paolo, rimangono chiuse davanti a lui. Come si vede, c’è poco e questo poco è anche frammentario e disomogeneo; tuttavia qualche considerazione appare possibile. In primo luogo la corruzione sembra una pratica diffusa e di successo nelle monarchie ellenistiche: Antioco III è messo in difcoltà dalla disinvoltura con cui i satrapi ribelli corrompono e si lasciano corrompere, ma usa la stessa arma per riconquistare con facilità Seleucia; Eumene II cerca di ottenere Egina con la corruzione e poi si offre a Perseo: anch’egli passa con naturalezza dal ruolo di corruttore a quello di corrotto. Nella Grecia vera e propria la situazione è più complessa: l’affermazione generica che nel 196, cioè agli inizi del II secolo, la corruzione fosse diffusa non trova riscontro nella narrazione polibiana, anzi i casi, che egli adduce, riguardano solo una Grecità periferica e assai incerta, gli Etoli in primo luogo, poi gli Epiroti e gli stessi Macedoni (Perseo era disposto a corrompere, anche se era avaro, di Filippo V si poteva almeno sospettare che avesse intenzioni simili). Quanto agli Achei la corruttibilità è limitata a Callicrate, nemico personale di Polibio e quindi esposto a ogni forma di denigrazione; altrimenti gli Achei forniscono un preclaro esempio di onestà, quando respingono la allettante, ma interessata offerta di Eumene; peraltro lo stesso Callicrate è indiziato di essere corruttibile, ma Polibio non porta nessuna precisa e concreta accusa contro di lui. Né gli Achei sembrano essere l’eccezione: a XXXI,22,6 vengono addotti esempi di incorruttibilità anche dalla Beozia (Epaminonda) e da Atene (Aristide), seppure proiettati nel passato. Si aggiunga che neanche nelle sezioni cartaginesi delle Storie emergono particolari casi di corruzione. Nell’insieme la corruzione non è un fattore diffuso e corrente dell’a-
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gire politico in Polibio: essa sembra ristretta a un non elevato numero di casi nelle monarchie ellenistiche e nella Grecità periferica ed è in sostanza estranea alla Grecità metropolitana; popoli (gli Etoli) o individui (Callicrate) particolarmente malvagi possono essere suscettibili di questo vizio, ma sono l’eccezione; di regola il mondo greco vero e proprio ne risulta immune, sia perché oggettivamente non vi era grande abbondanza di denaro, la materia prima della corruzione, sia perché la superiore civiltà e moralità dei suoi abitanti, almeno secondo Polibio, li rendeva capaci di resistere a tentazioni di questo genere. Affermazioni di principio come quelle sul nesso tra corruzione e degenerazione della democrazia, sulla diffusione della corruzione in Grecia e sull’assenza di biasimo per la corruzione a Cartagine non trovano riscontro nella narrazione storica. Una singolare, ma signicativa conferma di quanto ho appena detto si coglie in uno dei più celebri excursus polibiani, quello sulla fenomenologia del tradimento a XVIII,13-15. Non voglio soffermarmi in questa sede sulle diverse interpretazioni, che ne sono state date: lo spunto alla digressione può essere stato offerto dalla volontà di Polibio o di difendere Aristeno, responsabile del distacco della lega achea dalla Macedonia e del suo orientamento loromano (dietro cui, in ligrana, si può leggere anche un’apologia di se stesso)6, o di denunciare il recente tradimento di Argo, che aveva defezionato dalla lega achea per consegnarsi a Filippo V7, o più in genere di esprimere disagio nei confronti di un clima diffuso nel mondo greco (la propensione al tradimento degli Etoli o dell’acheo Callicrate)8, né una spiegazione necessariamente esclude l’altra. Quel che invece mi preme sottolineare è che nella complessa e articolata denizione di ‘traditore’ formulata da Polibio a XVIII,15,1-4 il fattore ‘denaro’ non compare: traditori sono coloro che consegnano al nemico la propria città o, accettando aiuti e guarnigioni esterne per le proprie inclinazioni e per i propri scopi (ʌȡઁȢ IJȢ ੁįĮȢ ȡȝȢ țĮ ʌȡȠșıİȚȢ), niscono per sottomettere la patria al dominio altrui; dunque la motivazione del tradimento è l’interesse personale in ambito politico, non la sete di ricchezza e l’avidità. Si osservi che in questo excursus l’orizzonte, entro il quale si muove Polibio, sembra essere ristretto alla Grecia: quindi l’ininuenza del denaro sul tradimento riguarda soprattutto quel mondo greco, nel quale la corruzione in genere non pare molto diffusa, mentre 6 A.M. ECKSTEIN, Polybius, Aristaenus, and the fragment On traitors, CQ 37, 1987, 140-162; D. GOLAN, Polybius’ Aristaenus, in Festschrift für P.R.Franke, Saarbrücken 1996, 41-51. 7 F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, II, Oxford 1969, 564-565. 8 D. MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli 1978, 70-75. Ottima sintesi della problematica in J. THORNTON, Polibio. Storie, V, Milano 2003, 606-609.
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non si può escludere che altrove la connessione ‘denaro / tradimento’ giocasse un certo ruolo. Sin qui il Polibio in tutti i sensi ‘greco’. Il Polibio ‘romano’ si pronuncia sulla corruzione a tre riprese, in passi assai noti e che richiamo qui solo per chiarezza: nel VI libro (VI,56,1-4), come si è visto, la corruzione è un fenomeno possibile in Roma, ma tenuto sotto controllo prima di tutto dalla morale collettiva, dal forte biasimo che la circonda, poi da un’efcace legislazione preventiva, che prevede la condanna a morte per chi la pratica; nel XVIII libro (XVIII,35) Polibio distingue tra le generazioni precedenti le guerre transmarine e quella successiva, durante la quale egli sta scrivendo: mentre è sicuro che sino al tempo di Cinoscefale e della II guerra macedonica nessun Romano era corruttibile, ammette dubbi e incertezze sui Romani del suo tempo, anche se ritiene molti di loro fedeli agli antichi principi di onestà; nel XXXI libro (XXXI,25,3-7) Scipione Emiliano è visto come una delle poche eccezioni all’interno di una gioventù incline al vizio (įȚ IJȞ ਥʌ IJઁ ȤİȡȠȞ ȡȝȞ IJȞ ʌȜİıIJȦȞ) non ancora sul piano politico, ma già certamente sul piano morale in seguito alla III guerra macedonica e al conseguente, massiccio afusso di ricchezze a Roma (IJȞ ਥț ȂĮțİįȠȞĮȢ ȝİIJĮțȠȝȚıșȞIJȦȞ İੁȢ IJȞ ૮આȝȘȞ ȤȠȡȘȖȚȞ). L’evidente mutamento di tono e di giudizio è stato giustamente collegato con l’adattamento del pensiero polibiano all’evolversi della situazione: il VI libro appartiene alla fase iniziale della composizione delle Storie, negli anni ’60, e rispecchia l’opinione entusiasta del Polibio ancora ingenuamente loromano; il 35° capitolo del XVIII libro si riferisce al 197/6, ma contiene un’allusione alla caduta di Cartagine, che implica una stesura o una rielaborazione dopo il 146, e vede l’aforare dei primi dubbi sull’incorruttibilità, per così dire, ontologica della società romana; il XXXI libro si riferisce a fatti del 161/0, ma appartiene a quell’ultima parte (libri XXX-XL), che fu concepita e scritta tutta dopo il 146, e rivela l’amaro pessimismo di chi deve ammettere che la norma (l’onestà morale di tutti i Romani) è diventata l’eccezione. La riessione polibiana sulla corruzione a Roma, in sé del tutto coerente nella sua evoluzione, presenta però alcune aporie, almeno se rapportata ai dati in nostro possesso sui concreti casi di corruzione del tempo e sulle misure per combatterli e se confrontata con la sensibilità romana sul tema. Come ho già scritto altrove9, le preoccupazioni riguardanti la diffusione della luxuria a Roma cominciarono a manifestarsi negli anni ’90
9 G. ZECCHINI, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, Tyche 10, 1995, 219-232 (= cap. XI).
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del II secolo col dibattito sull’opportunità di sospendere la lex Oppia sumptuaria, che vide Catone scontto nel 195; le successive leges sumptuariae del 181 e del 161 seguono quel trionfo di Cn.Manlio Vulsone nel 187, che è per Livio e già per L.Calpurnio Pisone l’inizio della peregrina luxuria10: in genere per i Romani la corruzione era già arrivata nell’Urbe, come conseguenza delle guerre siriaca e galatica e della pace di Apamea, agli inizi degli anni ’80, ben prima di quel che pensava Polibio, e si trattava innanzitutto di corruzione morale, dove il denaro corrodeva i costumi individuali e sociali prima ancora che le istituzioni. Tra il 190 e il 189 si vericarono però anche due rilevanti casi di corruzione nell’ambito della politica estera: nell’imminenza di Magnesia il glio di Scipione l’Africano, fatto prigioniero qualche tempo prima dai Siriaci, fu restituito al padre senza riscatto e in cambio questi consigliò Antioco III di non attaccare battaglia sin quando egli non si fosse ristabilito e non fosse tornato all’effettivo comando dell’esercito romano; nonostante Antioco disattendesse questa raccomandazione e attaccasse battaglia, ottenne dopo la scontta condizioni di pace assai miti; l’anno dopo il nuovo console, Cn.Manlio Vulsone, invase la Galazia per conto del re di Pergamo Eumene II, senza aver ricevuto dal senato alcuna disposizione in merito. Nel primo caso il sospetto che il re di Siria avesse pagato i consigli e la benevolenza di P. Scipione con la restituzione del glio e con l’aggiunta di denaro, il favore di L. Scipione con una cifra esorbitante contribuì al dossier antiscipionico, che Catone andò costruendo negli anni seguenti: esso portò alla richiesta di giusticare i conti della campagna del 190 nei famosi processi, che nel 187/184 condussero alla rovina politica di tutto il clan scipionico11. Nel secondo caso Vulsone fu accusato esplicitamente di essere un consul mercennarius, di essersi fatto pagare da Eumene, di aver intrapreso con la campagna galatica un priuatum latrocinium12, e quest’accusa, quasi certamente sostenuta dagli Scipioni13, rischiò di fargli negare il trionfo. I due casi sono quindi interrelati, sia perché si tratta di accuse reciproche tra opposte fazioni della nobiltà romana, sia perché
10 Liu. XXXIX,6,7; Piso fr.34 Peter = FRHist n. 9 fr. 36 in Plin. NH XXXIV,14 e anche Plin. NH XXXVII,12. 11 Tre i rinvii d’obbligo: G. BANDELLI, I processi degli Scipioni. Le fonti, Index 3, 1972, 304-342; E.S. GRUEN, The ‘Fall’ of the Scipios, in I. MALKIN-Z. RUBINSOHN (eds.), Leaders and Masses in the Roman World, Leiden 1995, 59-90; G. BRIZZI, Per una rilettura del processo degli Scipioni: aspetti politici e istituzionali, RSA 36, 2006, 49-76. 12 Liu. XXXVIII,45,7-9. 13 G. ZECCHINI, Cn.Manlio Vulsone e l’inizio della corruzione a Roma, CISA VII, Milano 1982, 159-178.
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la natura della corruzione è, in linea di principio, la medesima: corruzione politica. Le analogie però si fermano qui. Infatti nel caso di Vulsone la corruzione era legata alla volontà di compiacere un re alleato, di ottenere un successo personale, di non consultare il senato e il popolo nel momento in cui si decideva di intraprendere una campagna militare, inne di aver esposto al rischio di una scontta i soldati afdatigli, ma non implicava certo il tradimento, se mai solo la disobbedienza, peraltro coronata da successo. Nel caso degli Scipioni invece la corruzione implicava proprio il tradimento: nelle trattative sfociate poi nella pace di Apamea i due fratelli avevano fatto l’interesse più del sovrano seleucide che della loro patria; non soltanto non risultava chiaro dove fosse nita parte del bottino di guerra, ma c’era il sospetto che quello fosse il prezzo pagato da Antioco per ottenere condizioni favorevoli. Non sappiamo se già Catone nella sua orazione De pecunia regis Antiochi abbinasse le due accuse, di corruzione e di tradimento14; in Livio, che cerca di barcamenarsi tra diverse versioni, le accuse a P.Scipione riguardano ricezione di denaro e restituzione gratuita del glio15, quelle a L.Scipione mancato versamento di denaro all’erario e vendita delle condizioni di pace a Antioco per 4 milioni di sesterzi16; il suddetto abbinamento, evitato pudicamente da Livio, compare, brutalmente esplicito, in Appiano: įȦȡȠįȠțĮȢ ĮIJઁȞ ਥȖȡȥĮȞIJȠ țĮ ʌȡȠįȠıĮȢ17. Quanto al nostro Polibio, è perduta la narrazione sotto l’anno 187 (libro XXII), ma abbiamo un preciso riferimento sotto l’anno 183, all’interno del giudizio nale sull’Africano, in occasione della sua morte: qui si ricorda che un senatore richiese ai due fratelli Scipioni il rendiconto del denaro preso da Antioco per pagare il soldo ai soldati, ma Publio si riutò di fatto di giusticarsi, domandando polemicamente perché i senatori volessero sapere come erano stati spesi 3.000 talenti, quando l’erario ne stava ricevendo da Antioco ben 15.000 (XXIII,14)18; di là dalla discrepanza con Livio sulla cifra dell’eventuale corruzione (4 milioni di sesterzi sono 1.666, non 3.000 talenti)19, è interessante osser14 Gellio (NA IV,18: accepisse a rege Antioco pecuniam; cfr. anche NA VI,19) parla solo di corruzione. 15 Liu. XXXVIII,51,1 (pecuniae captae) e 2 (lium captum sine pretio redditum). 16 Liu. XXXVIII,54,5 (de pecunia non relata) e XXXVIII,55,6 (quo commodior pax Antiocho daretur), 58,11 (eam [pacem]dici uenisse) e 59,1 (leges ipsas pacis ut nimium accomodatas Antiocho suspectas esse). 17 App. Syr. 40. 18 Commento al capitolo in J. THORNTON, Polibio. Le Storie, VI, Milano 2004, 413-415. 19 500 talenti sembra la cifra più realistica: K.H. SCHWARTE, Publius Cornelius Scipio Africanus der Ältere, in K.J. HÖLKESKAMP-E. STEIN-HÖLKESKAMP (Hrsgg.), Von Romulus zu Augustus, München 2000, 106-119, p. 117.
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vare che Polibio non solo non prende neppure in considerazione l’ipotesi di tradimento, ma implicitamente rigetta sul senato e sulla sua inadempienza la responsabilità del denaro chiesto ad Antioco solo per assolvere il dovere di ogni buon comandante verso le proprie truppe. La difesa di Scipione in Polibio è scontata. Più interessante è la relazione, che Polibio stesso stabilisce, sia pur implicitamente, tra questi due gravi episodi di corruzione, vera o presunta, che suscitarono scandalo ed ebbero grande risonanza in Roma, e quanto egli scrive altrove; mi riferisco a XVIII,35 sotto il 197, dove, come si è visto, egli sostiene con sicurezza l’assoluta incorruttibilità di tutti i Romani sino alla generazione di Flaminino, che aveva avviato le conquiste transmarine, ma si era formata prima di esse, e a XXXI,25 sotto il 161/0, dove la corruzione è un fenomeno conseguente alla III guerra macedonica, ultima e decisiva tra le guerre transmarine. Se noi consideriamo gli ‘scandali’ di Vulsone e degli Scipioni come le due coeve facce di un medesimo fenomeno di degenerazione politica e morale, come ci impone di fare una prospettiva di lungo periodo, ci si può stupire che Polibio potesse ignorarli e far cominciare la corruzione a Roma solo dal 168. La prospettiva di Polibio era però ben diversa; per lui valeva la lettura scipionica di quegli anni, che teneva ben distinti i due ‘scandali’ e dalla quale si ricavava: a) l’onestà personale di Flaminino, legato agli Scipioni; b) l’infondatezza dei casi di corruzione attribuibili agli Scipioni; c) la probabile corruzione di Vulsone, che si poneva però come un’eccezione per il suo tempo, come un primo caso di scorrettezza comportamentale all’interno di una generazione ancora in sostanza sana. Di conseguenza Vulsone, più giovane degli Scipioni e di Flaminino, poteva apparire come un anticipatore dei tempi nuovi, di quella noua sapientia, che sarebbe venuta drammaticamente in supercie una ventina d’anni dopo20. Perciò Polibio poteva inserire il 35° capitolo nel XVIII libro, pur dopo avere trattato dei fatti del 190/187 nei libri XXI e XXII, senza tema di contraddirsi: dal suo punto di vista gli eventi di quegli anni non erano sufcienti per dedurne che la corruzione nell’ambito della politica estera fosse penetrata nel ceto dirigente romano. Peraltro sia il caso ancora isolato di Vulsone, sia quelli più numerosi della generazione successiva sono collegati da Polibio al negativo inusso delle monarchie ellenistiche durante le guerre transmarine, i Seleucidi prima, poi gli Antigonidi; quest’origine della corruzione è la medesima,
20 Come si sa, il dibattito in senato sulla noua sapientia è del 172 (Liu. XLII,47), all’inizio di quella III guerra macedonica, la cui ne nel 168 segnò un afusso di ricchezze a Roma tale da corrompere i giovani (Pol. XXXI,25).
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che avevamo constatato a proposito degli eventi greci ed ellenistici: anche lì Polibio registrava che la corruzione era prassi diffusa nelle suddette monarchie (e anche presso gli Attalidi) e si cercava di esportarla, in genere senza successo, nella stessa Grecia metropolitana, dove gli Achei in particolare erano ancora immuni da questo vizio. Dunque l’equazione nale equiparava l’Oriente con le sue ricchezze al luogo di provenienza della corruzione. In apparenza è la medesima conclusione, a cui era giunto il ceto dirigente romano, in realtà c’era una differenza, e non da poco: nell’Oriente corruttore i Romani comprendevano la Grecia, per Polibio Roma e la Grecia erano nella stessa misura esposte alla corruzione orientale, come ad un pericolo estraneo alla loro tradizione culturale. A anco di una corruzione in politica estera c’è anche una corruzione in politica interna, quella che con termine tecnico latino si chiamava ambitus21. Come si è visto, Polibio contrapponeva a casi di corruzione interna endemica, in particolare Creta e Cartagine, l’esempio fulgido di Roma, dove tale corruzione era soffocata sul nascere e comunque condannata con la morte. Il collegamento tra l’affermazione di Polibio e la legislazione de ambitu è tanto ovvio in linea di principio quanto difcoltoso in concreto. Tralasciamo infatti il presunto plebiscito del 432 e il plebiscito Petelio del 358, che, se storico, combatteva la pratica degli homines noui di aggirarsi in cerca di voti nei villaggi durante i giorni di mercato22, e veniamo ai dati del II secolo. Una prima lex Baebia de ambitu fu promulgata nel 181 e resta incerto se vada identicata con la lex Cornelia de praetoribus abrogata già nel 176; al 159 risale una lex lata (forse una Cornelia Fulvia), che dovette replicare o irrigidire le pene previste dalla precedente23 e, in ogni caso, dimostra che la legge del 181 non aveva ottenuto il suo scopo e che le pratiche illecite di corruzione elettorale continuavano: non per nulla Giulio Ossequente ci riporta sotto il 166 che comitia…ambitiosissime erent24. Secondo Walbank il riferimento a entrambe queste 21 In genere cfr. M. JEHNE, Die Beeinussung von Entscheidungen durch ‘Bestechung’. Zur Funktion des ambitus in der römischen Republik, in ID. (ed.), Demokratie in Rom?, Stuttgart 1995, 51-76; per la legislazione tardorepubblicana cfr. anche J.L. FERRARY, La législation ‘de ambitu’, de Sulla à Auguste, Studi Talamanca, Napoli 2002, 159-198 = Recherches sur les lois comitiales et sur le droit public romain, Pavia 2012, 435-462. 22 L. FASCIONE, Alle origini della legislazione de ambitu, in F. SERRAO (ed.), Legge e società nella repubblica romana I, Napoli 1981, 255-279; K.J. HÖLKESKAMP, Die Entstehung der Nobilität, Stuttgart 1987, 83-86. 23 Fonti: Liu. XL,19,11 e Per. 47. Bibliograa: L. FASCIONE, Crimen e quaestio ambitus nell’età repubblicana, Milano 1984, 27-59; P. NADIG, Ardet ambitus, Frankfurt 1997, 2630. 24 Iul. Obseq. Liber prodigiorum 12.
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La corruzione in Grecia e a Roma
leggi in Polibio è sicuro, secondo Nadig esso non si lascia denire25, in genere sembra impossibile collegare a una di queste due leggi la pena addirittura capitale menzionata dal nostro storico; Fascione ha proposto due possibili spiegazioni, o il fraintendimento polibiano della sacratio capitis eventualmente collegata al plebiscito del 358 oppure il riferimento polibiano a un episodio specico, del tutto eccezionale e a noi ignoto26. Credo che quest’ultima sia la strada da percorrere: almeno dal 166, come ci testimonia Giulio Ossequente, elezioni particolarmente contrastate e con ricorrenti episodi di ambitus dovettero portare alla legge del 159 e forse persino all’istituzione della prima quaestio perpetua appunto de ambitu, dieci anni prima di quella analoga de repetundis27; è possibile che nel dibattito sui provvedimenti da prendere per opporsi a tali pratiche si sia presa in considerazione anche la pena capitale, almeno sotto la forma dell’interdictio, dell’esilio a tempo indeterminato, che equivaleva alla morte non sica, ma politica e civile, e che Polibio abbia un po’ semplicisticamente tradotto in pena di morte già esistente e inserita nel sistema giuridico romano una pena analoga, l’esilio, di cui si stava discutendo l’inasprimento; non dimentichiamo che gli anni tra il 166 e il 159 sono quelli in cui da un lato doveva continuare ad essere fervente il dibattito sulla noua sapientia e le sue conseguenze, dall’altro lato Polibio comincia a scrivere le sue Storie: la coincidenza spiega il rilievo dato da Polibio nel VI libro alla lotta contro la corruzione a Roma. Di là dall’esigenza di chiarire questi particolari ‘tecnici’, resta un’evidente discrasia tra il tono dell’affermazione di Polibio e la legislazione romana coeva. Infatti il nostro storico presenta l’impatto della corruzione sulla vita politica romana come disattivato dall’efcace combinazione della riprovazione sociale e della severissima legislazione in merito; peccato che una legislazione reiterata sia evidente sintomo di inefcacia. Inoltre la lex Baebia è la prova che già negli anni ’80 i Romani avvertirono l’esigenza di combattere, o almeno prevenire, l’ambitus e che a cavallo del 160 ritennero opportuna un’ulteriore stretta in merito, esattamente quando Polibio poteva scrivere con serenità che la situazione era sotto controllo. È allora interessante constatare che sui tre distinti piani, che ho sopra esaminato, della corruzione nella morale privata, della corruzione nella
25 WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, I, 741; Nadig, Ardet ambitus, 29 con la nota 80. 26 FASCIONE, Crimen e quaestio ambitus 102-104. 27 Questa è, come è noto, l’interessante ipotesi di FASCIONE, Crimen e quaestio ambitus, 32-59.
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politica estera e della corruzione nella politica interna i Romani erano giunti a conclusioni assai più pessimistiche di Polibio: gli anni ’80 del II secolo, per l’esattezza il periodo tra il 188 (pace di Apamea) e il 181 (rogo dei falsi libri di Numa28 e prima legge de ambitu), erano gli anni, in cui la società romana, la res publica, aveva collassato sotto la spinta dei costumi greco-orientali. Polibio si era rassegnato a condividere questo pessimismo, senza dubbio per inusso dell’Emiliano (e di Catone dietro a lui), solo molto tardi, nella seconda parte della sua opera, scritta dopo il 146, e in ogni caso non aveva accettato di risalire oltre il 168: Vulsone restava per lui un caso isolato, non uno dei tanti sintomi di una situazione in rapido deterioramento. Nell’ostinazione di Polibio si può ravvisare la fatica e la lentezza, con cui egli giunse a comprendere solo parzialmente il mondo della società romana, e anche, forse soprattutto la fedeltà all’ammirata impressione suscitata dall’Urbe nei primi anni del forzato soggiorno romano: una volta astrattamente stabilito che la ‘costituzione’ romana era perfetta, egli non riusciva ad accettare che anche a Roma si insinuasse la corruzione e che i Romani non fossero incorruttibili, ma più realisticamente capaci di accettare e di affrontare la propria corruttibilità, che è certamente un ben maggiore segno di grandezza. A ciò si aggiunga che, ammettendo solo sporadici casi di corruzione a Roma prima del 168 e una corruzione crescente, ma ancora vigorosamente contrastata dopo quella data, Polibio poteva promuovere anche su questo tema così importante e delicato della vita politica il parallelo, che tanto gli stava a cuore, tra Roma e la Grecia, se non tutta, almeno la ‘sua’ Grecia, che aveva il suo centro morale nella lega achea e dove forse c’era sempre negli anni ’60 del II secolo qualche corrotto (Callicrate), ma l’insieme del popolo era sano e respingeva i tentativi di corruzione provenienti dall’orientale Eumene II. Si ribadisce così che, anche di fronte alla corruzione, l’analisi di Polibio ricreava quel binomio virtuoso ‘Roma / Grecia vera e propria’, che condivideva i medesimi valori etici e si opponeva ai maligni inussi dell’Asia. Certo, come si è visto, ben pochi Romani erano disposti a seguirlo in questa appassionata divisione tra bene e male.
28 K. ROSEN, Die falschen Numabücher, Chiron 15, 1985, 65-90; A.WILLI, Numa’s Dangerous Books. The Exegetic History of a Roman Forgery, MH 55, 1998, 139-172.
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CAPITOLO XI TRA METVS HOSTILIS E NOVA SAPIENTIA
I. La teoria del metus hostilis, cioè della necessità di una forte minaccia esterna per mantenere la concordia interna, è una delle categorie fondamentali per la comprensione dell’intera storia della repubblica romana nel pensiero di Sallustio, che ne fornisce nel prologo delle sue Storie1 la formulazione più classica e completa. Sicura ne è la derivazione dal pensiero politico greco, giacché se ne ritrovano facilmente tracce presso Platone, Aristotele e nella fonte del XIV libro di Diodoro per la storia siciliana (con ogni probabilità Filisto)2. Per quest’ultimo la paura di fronte al nemico è un presupposto necessario perché i cittadini si rassegnino ad accettare la tirannide al posto della libertà; Aristotele è invece dell’opinione che uno stato di guerra costringa a vivere secondo moderazione e a sottrarsi ai pericoli generati dall’abbondanza; Platone inne conferma nella Repubblica il principio, già sostenuto da Filisto, che un tiranno deve sempre provocare nuove
1 Sall. Hist. I,11-12 Maurenbrecher. Il recente tentativo di ridimensionare il ruolo del metus hostilis nel pensiero di Sallustio, con particolare attenzione rivolta al Bellum Catilinae, da parte di B. BIESINGER, Römische Dekadenzdiskurse, Stuttgart 2016, 106-113 non è per nulla convincente. 2 Plat. Res p. VIII,566c; Leg. III,698b-c; Arist. Polit. II,1271b; Diod. XIV,68,1. Su Filisto come fonte di Diodoro su Dionisio I cfr. L.J. SANDERS, Dionysius I of Syracuse and Greek Tyranny, London 1987 (fonte diretta) e M. SORDI, Recensione a Sanders, Klio 68, 1990, 300-301 (fonte indiretta tramite Timeo).
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guerre, per essere sempre insostituibile; in un altro passo, nelle Leggi, egli ricorda che gli Ateniesi di fronte all’imminente invasione persiana, la quale causava in tutti un’angoscia senza scampo (ijંȕȠȞ ਙʌȠȡȠȞ), si piegarono volentieri all’autorità dei loro magistrati e delle loro leggi e vissero in uno stato di grande amicizia reciproca (ıijંįȡĮ ijȚȜĮ). In questo contesto si deve inserire il noto passo di Polibio dal VI libro3, in cui la problematica concernente l’ȟȦșİȞ...ijંȕȠȢ deve essere riesaminata alla luce delle caratteristiche della costituzione romana addotte poco prima: il mirabile equilibrio dei poteri all’interno di una simile costituzione, cioè la concreta realizzazione della costituzione mista (ȝȚțIJ) così strenuamente auspicata dalla cultura greca, manifesta la sua efcacia più completa proprio nel caso di un pericolo esterno; infatti in sua presenza piuttosto che in sua assenza vengono alla luce le risorse, che una comunità possiede per la sua difesa, e si può evitare che i singoli elementi di questa comunità, se posti in condizioni di eccessivo benessere e ricchezza, cerchino di sopraffarsi a vicenda, il che condurrebbe ad aspre contrapposizioni e manifestazioni di violenza. Polibio ritorna sul tema in un altro, conclusivo passo del medesimo libro4, per constatare che un’egemonia incontrastata (įȣȞĮıIJİĮ ਕįȡȚIJȠȢ)5 conduce a lungo andare a un benessere e a una ricchezza di quel genere e che questo percorso porta inevitabilmente all’ostentazione del fasto e all’invidia reciproca, in una parola all’evoluzione verso il peggio (ਥʌ IJઁ ȤİȡȠȞ ȝİIJĮȕȠȜv), che alla ne sfocia nell’oclocrazia. Oggi si conviene6 che queste osservazioni conclusive non sono in contraddizione con quanto era stato prima detto riguardo alla costituzione romana e al metus hostilis: almeno sui tempi medi resta il principio che Roma disponeva degli anticorpi necessari per poter reagire a una situazione, in cui mancasse una minaccia esterna e in cui ci si dovesse opporre ai pericoli provenienti da una supremazia incontrastata. L’inequivocabile presa di posizione di Polibio nel VI libro, cioè nella parte delle sue Storie (I-XXIX), che fu scritta tra il 168 e il 1527, tra la III
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Polyb. VI,18,3-5. Polyb.VI,57. 5 Per il termine ਕįȡȚIJȠȢ, il suo uso e signicato in Polibio cfr. cap. XII. 6 Da F.W. WALBANK e C.O. BRINK, The Construction of the Sixth Book of Polybius, CQ 48, 1954, 97-122; cfr. anche TH. COLE, The Sources and Composition of Polybius VI, Historia 13, 1964, 440-486; R. WEIL e CL. NICOLET, Polybe. Histoires. Livre VI, Paris 1977, 55; J.L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, Paris 1988, 275 nota 41. 7 Scritta non signica di per sé pubblicata. Sul complesso problema della genesi delle Storie di Polibio seguo la posizione, che FERRARY, Philhellénisme et impérialisme, 276-291 4
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guerra macedonica e la III guerra punica, ha posto gli studiosi moderni di fronte a due questioni: 1) Nella seconda parte delle Storie (XXX-XL), che fu scritta dopo il 146, cioè dopo la guerra acaica e la III guerra punica, c’è stata un’evoluzione di questo giudizio da parte di Polibio? 2) Quale posizione assume Polibio riguardo al dibattito su questo tema interno al ceto dirigente e alla cultura romana contemporanea? Come è facile immaginarsi, non mancano risposte di ogni tipo a queste due questioni, né qui voglio addentrarmi in uno status quaestionis, che emerge in parte dalla bibliograa data nelle note. Sono infatti del parere che in un argomento così spesso discusso sia importante trovare un approccio almeno parzialmente nuovo e chiarire subito come si vuole procedere. Io intendo trattare il tema da un punto di vista romano e secondo una successione cronologica, per inserire Polibio a suo tempo e luogo e mettere in luce eventuali reciproci inussi tra lui e il mondo romano: di là dalle interpretazioni di singoli punti spero che possa essere di una certa utilità la raccolta e l’analisi ordinata dei dati in nostro possesso. II. Sono innanzitutto dell’opinione che quale punto di partenza dell’intera questione si debba porre l’anno 188, quando con la pace di Apamea fu ufcialmente terminata la guerra siriaca. Tuttavia non voglio escludere a priori un famoso testo di Appiano su Scipione Africano8: questi nel 201 si sarebbe pronunciato per una soluzione moderata del conitto con Cartagine, che risparmiasse la città; la presenza di una minaccia vicina da parte di un avversario press’a poco di pari forza avrebbe infatti dovuto orientare i Romani verso la saggezza e la moderazione in politica estera. È noto che si tratta di un passo non del tutto afdabile, perché la tradizione testuale è incerta e inoltre questa opinione dell’Africano non è espressa direttamente da lui, ma gli è attribuita da altri, tra cui forse Catone (İੁı Ȗȡ, Ƞ țĮ IJંįİ ȞȠȝȗȠȣıȚȞ...)9. Si tratta dunque di una suc-
ha ribadito e che avevo già accolto in G. ZECCHINI, Teoria e prassi del viaggio in Polibio, in S. FASCE-G. CAMASSA (edd.), Idea e realtà del viaggio, Genova 1991, 134 nota 2 (ove bibliograa) (= cap. IV). 8 App. Lib. 65. 9 Secondo la versione di Appiano Catone avrebbe citato la tesi di Scipione Africano nella sua orazione Pro Rhodiensibus; secondo M. GELZER, Nasicas Widerspruch gegen die Zerstörung Karthagos, Ph 40, 1931, 277-285 questo proverebbe la sua storicità; maggior cautela mostra G. CALBOLI, M. Porci Catonis Oratio Pro Rhodiensibus, Bologna 1978, 137141. W. HOFFMANN, Die römische Politik des 2.Jhs. und das Ende Karthagos, Historia 9, 1960, 309-344, pp. 319-323 accoglie la lezione del Vat.gr.141, il più antico codice di Appiano, e propone di leggere țĮ IJȩįİ ȠIJȦ ijȡȠȞોıĮȚ IJઁȞ ȈțȚʌȓȦȞĮ, Ƞ ʌȠȜઃ ıIJİȡȠȞ ਥȟİʌİ IJȠȢ ૮ȦȝĮȓȠȚȢ ȀȐIJȦȞ invece di țĮ IJȩįİ ȠIJȦ ijȡȠȞોıĮȚ IJઁȞ ȈțȚʌȓȦȞĮ Ƞ ʌȠȜઃ ıIJİȡȠȞ ਥȟİʌİ IJȠȢ ૮ȦȝĮȓȠȚȢ ȀȐIJȦȞ. Perciò Catone avrebbe espresso il medesimo concetto, che
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cessiva interpretazione delle sue intenzioni riguardo a Cartagine, che non sappiamo esattamente a quando potrebbe risalire. A fatica ci si sottrae all’impressione che, in occasione dell’identico atteggiamento di un altro Scipione, il Nasica, mezzo secolo dopo, si volesse creare un credibile precedente per fornire argomenti che rinforzassero una supposta ‘linea politica di famiglia’ da parte dei Cornelii Scipioni durante il dibattito a Roma prima della III guerra punica10. Resta il fatto che non l’anno 201, bensì il 188 può valere come sicuro punto di partenza per la nostra analisi. Apamea rappresentò infatti per i Romani due certezze, una di segno positivo, l’altra di segno negativo. Di positivo ci fu che l’egemonia mondiale in conformità con la legge storica della translatio imperii si era spostata dalle monarchie eredi di Alessandro, in particolare gli Antigonidi e i Seleucidi, a Roma e che allora cominciava per l’Urbe una fase di incontrastato dominio. Che questa consapevolezza fosse ormai acquisita si evince da un noto frammento di Emilio Sura11 e forse anche da alcuni frammenti di Ennio12: essa si formò in ambito scipionico, ma, se fu universamente accolta, lo si deve alla sua corrispondenza con la realtà dei fatti. Di negativo ci fu l’immediata percezione dei pericoli, che erano insiti in una unilaterale inclinazione di Roma verso l’Oriente; tradizionalmente i Romani erano aperti verso il nouum, cioè l’accoglienza di usi e costumi stranieri, ma enorme era la differenza tra l’integrazione dei socii italici, che erano simili ai Romani da numerosi punti di vista, e la massiccia diffusione della mentalità e delle abitudini ellenistiche, favorita dall’afusso di beni e ricchezze in una misura sino ad allora sconosciuta. Dalla sospensione della lex Oppia sumptuaria nel 195 non c’era più alcun freno all’esibizione di queste nuove ricchezze, che aveva condotto all’inquietudine dei conservatori e alla probabile, ma comunque inutile opposizione di Catone13. Nel 187 si giunse però al processo contro gli
presumibilmente aveva espresso Scipione, ma senza citarlo. Si badi comunque che anche nell’abituale testo di Appiano si trova l’interpretazione catoniana del pensiero di Scipione, non l’affermazione che egli avesse in effetti espresso quel concetto. Come Hoffmann cfr. anche M.T. SBLENDORIO CUGUSI, M. Porci Catonis Orationum Reliquiae, Aug.Taurin. 1982, 324. 10 Anche W.V. HARRIS, War and Imperialism in Republican Rome, Oxford 1979, 266 sostiene l’opinione che il passo di Appiano risalga a una tradizione annalistica, che attribuì l’atteggiamento di Nasica a precedenti membri della sua famiglia. 11 Presso Vell. I,6,6; cfr. J.M. ALONSO-NUÑEZ, Aemilius Sura, Latomus 48, 1989, 110119. La cronologia di Emilio Sura, oscillante tra II e I secolo a.C., non è determinante per quanto affermato nel testo: cfr. cap. V con la nota 31. 12 Enn. frr. 501-2 Vahlen² = 154-5 Skutsch; cfr. E. GABBA, P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, Athenaeum 63, 1975, 3-17, p.11 con la nota 20. 13 Fonti principali sono Liu. XXXIV,1-8 e Val. Max.IX,1,3, che è sopravvalutato da
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Scipioni, che erano accusati di abuso di denaro pubblico e di corruzione durante la guerra siriaca14, e in parallelo si assistette al fasto senza limiti del trionfo di Cn.Manlio Vulsone, il vincitore dei Galati. In questo caso obiezioni critiche dovettero provenire proprio dagli Scipioni, che erano avversari politici di Vulsone e avevano un forte interesse a distogliere l’opinione pubblica dalle loro difcoltà o almeno a provare che essi non erano gli unici esposti ai vizi dell’ellenizzazione. Altrove15 ho ricostruito il possibile percorso storiograco di queste critiche (un lone che va da Scipione, il glio dell’Africano, a L. Calpurnio Pisone e un altro che attraverso Valerio Anziate giunge a Livio) e ho notato che probabilmente Pisone accusava sia L. Cornelio Scipione sia Vulsone di aver esibito un fasto eccessivo durante i loro trion, mentre Livio rimproverava esclusivamente a Vulsone l’insufciente disciplina del suo esercito ed osservava poi in modo lapidario: luxuriae enim peregrinae origo ab exercitu Asiatico inuecta in urbem est16. È in ogni caso fondamentale e incontrovertibile che i Romani erano consapevoli della contemporaneità tra l’inizio della loro egemonia mondiale e la luxuriae peregrinae origo. Il lato negativo delle conquiste transmarine era il ruolo del lusso, una novità di tipo economico, le cui conseguenze morali, cioè la corruzione dei patrii mores, suscitavano preoccupazione: di là dalle contrapposte accuse tra gruppi politici in lotta tra loro (Catone contro gli Scipioni; gli Scipioni contro Vulsone) fu ben presto chiaro al ceto dirigente del senato che l’intera società romana era sottoposta a una sda radicale di tipo etico e doveva quindi prendere misure decisive in tal senso. K. BRINGMANN, Weltherrschaft und innere Krise Roms im Spiegel der Geschichtsschreibung des zweiten und ersten Jahrhunderts v.Chr., A & A 23, 1977, 28-49: secondo Bringmann infatti la frase introduttiva del passo di Valerio Massimo urbi autem nostrae secundi Punici belli nis et Philippus Macedoniae rex deuictus licentioris uitae duciam dedit ssa l’inizio della luxuria a Roma agli anni 201/197; però, a differenza di Pisone e Livio, che per l’anno 187 si rifanno a una tradizione contemporanea, nessuna fonte contemporanea sta dietro Valerio Massimo. Catone avrebbe composto un’orazione contro l’abolizione della lex Oppia, che non venne mai pubblicata: così SBLENDORIO CUGUSI, M. Porci Catonis Orationum Reliquiae, 511. 14 Sul processo agli Scipioni in sintesi cfr. H.H. SCULLARD, Scipio Africanus, IthacaNew York 1970, 216-223 e la bibliograa citata a cap. X nota 11. 15 Cfr. G. ZECCHINI, Cn.Manlio Vulsone e l’inizio della corruzione a Roma, CISA VIII, Milano 1982, 159-178, soprattutto pp. 176-8; diversamente A.W. LINTOTT, Imperial Expansion and Moral Decline in the Roman Republic, Historia 23, 1972, 626-638, secondo il quale la polemica su Vulsone fu solo una creazione antedatata della propaganda di Scipione Emiliano. 16 Piso fr.34 Peter = FRHist n. 9 fr.36; Plin. XXXIV,14; Plin. XXXVII,12 (secondo me sempre da Pisone, che però non viene citato: cfr. ZECCHINI, Cn.Manlio Vulsone, 177 nota 48); Liu. XXXIX,1,4 (disciplina) e 6,7 (luxuria).
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Questa consapevolezza spiega e giustica le numerose e spesso rilevanti misure preventive, che contraddistinsero la vita pubblica romana tra la pace di Apamea e la III guerra punica: sul piano legislativo si replicarono i provvedimenti contro il lusso (lex Orchia de coenis nel 181, lex Fannia cibaria nel 16117, già peraltro disattesa nella generazione successiva, ma vista come un raro esempio di fedeltà al mos maiorum)18; sul piano repressivo si procedette alla drastica lotta contro culti nuovi o manipolati (S.C. de Bacchanalibus nel 18619; il rogo dei falsi libri di Numa nel 18120), contro nuove tendenze culturali (l’espulsione dall’Italia di loso greci negli anni 161, 173 o 154 e 155)21, contro nuove modalità di spettacolo (nel 154 venne proposta la costruzione di un teatro stabile in pietra, che il catoniano L. Calpurnio Pisone identicò subito quale simbolo di quella subuersio pudicitiae, che rischiava di essere l’inevitabile conseguenza della luxuria... peregrina insinuatasi in Roma trent’anni prima)22. Esemplare per l’atmosfera spirituale e la strategia della resistenza all’ellenizzazione fu Catone, sia per la pars destruens (opposizione al lusso e alla prevalenza della cultura greca, inimicizia verso gli Scipioni, censura del 184), sia per la pars construens (proposta alternativa di una ʌĮȚįİĮ romana nell’opera ad Marcum lium23, celebrazione dei mores
17 Su queste leggi cfr. G. CLEMENTE, Le leggi sul lusso e la società romana tra III e II sec.a.C., in A. GIARDINA (ed.), Società romana e produzione schiavistica, Roma 1981, III 1-14 e 301-304 e G. ZECCHINI, Ideologia suntuaria romana, MÉFRA 128/1, 2016, 1-9. 18 Athen.VI,274c-e da Posidonio: cfr. G. ZECCHINI, La cultura storica di Ateneo, Milano 1989, 112-113. 19 Forse anche la contemporanea lex Maenia: cfr. A. LUISI, La lex Maenia e la repressione dei Baccanali nel 186 a.C., CISA VIII, Milano 1982, 179-185. Sullo scandalo dei Baccanali in genere cfr J.M. PAILLER, Bacchanalia. La répression de 186 av.J. Chr. à Rome et en Italie, Paris 1988; E.S. GRUEN, The Bacchanalian affair, in Studies in Greek culture and Roman policy, LEIDEN 1990, 34-78; H. CANCIK-LINDEMAIER, Der Diskurs Religion im Senatsbeschluss über die Bacchanalia von 186 v. Chr. und bei Livius (B. XXXIX), in Festschrift M. Hengel, II, Tübingen 1996, 77- 96. 20 Su cui cfr. F. DELLA CORTE, Numa e le streghe, Maia 26, 1974, 3-20 = Opuscula, VI, Genova 1978, 195-212; A. GRILLI, Numa, Pitagora e la politica antiscipionica, CISA VIII, Milano 1982, 186-197; KL. ROSEN, Die falschen Numabücher, Chiron 15, 1985, 65-90. 21 Sul provvedimento del 161 cfr. Suet. De gramm. 15,1; sulla cacciata degli epicurei Alceo e Filisco sotto il consolato di un L. Postumio (Albino) nel 173 o nel 154 cfr. Athen.547a (e forse anche XIII,610f); noti sono l’ambasceria di Critolao, Diogene e Carneade nel 155, lo scandalo che suscitarono gli insegnamenti di quest’ultimo e il suo rinvio in patria quanto prima, sollecitato da Catone. Su ciò cfr. G. GARBARINO, Roma e la losoa greca dalle origini alla ne del II secolo a.C., Torino 1973, II, 362-379. 22 Cfr. M. SORDI, La decadenza della repubblica e il teatro del 154 a.C., InvLuc 10, 1988, 327-341 = Scritti di storia romana, Milano 2002, 433-446. 23 Cfr. F. DELLA CORTE, Catone Censore, Firenze 1969², 108-110 e A.E. ASTIN, Cato the Censor, Oxford 1978, 332-340, che ridimensiona drasticamente il signicato dell’opera di Catone.
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Romani nelle Origines ): nell’iscrizione onorica sulla statua dedicatagli nel tempio della Salus gli fu riconosciuto che la sua attività come censore aveva contribuito a ripristinare la situazione della res publica, che stava precipitando verso il peggio (ਥȖțİțȜȚȝȞȘȞ țĮ ૧ʌȠȣıĮȞ ਥʌ IJઁ ȤİȡȠȞ)25. Certamente egli non era solo in questa posizione, secondo cui la fedeltà agli antichi valori era un presupposto necessario per la conservazione e la prosperità della res publica. Anzi, durante la prima metà del II secolo egli dovette guadagnare consensi, se persino un poeta come Ennio, che per primo scrisse in esametri, introdusse in Roma l’evemerismo e fu amico prima degli Scipioni e poi di M. Fulvio Nobiliore, dichiarò (verso il 180?) che moribus antiquis res stat Romana uirisque26, così facendo sua una convinzione, che rinvia al pensiero di Catone. Su questo sfondo, che si delinea con chiarezza già negli anni 80 del II secolo, non si potrà mai attribuire sufciente importanza al dibattito in senato sulla noua sapientia, che ebbe luogo nel 172, appena prima dello scoppio della III guerra macedonica27. John Briscoe è stato duramente criticato, perché riteneva di poter distinguere nettamente i due gruppi, che si contrapposero nel suddetto dibattito, da una parte i conservatori Emilii, Cornelii e Fabii insieme con Catone, dall’altra i più giovani, simpatizzanti per Q. Marcio Filippo e il suo nuovo, spregiudicato modo di fare politica, soprattutto i Fulvii. Senza dubbio questa divisione è troppo schematica28: nel 168 L.Emilio Paolo – solo per fare l’esempio più signicativo – non si comportò certo con mitezza e rispetto verso Perseo, né tanto meno l’anno dopo verso i Molossi dell’Epiro29. Non è dunque tanto importante compilare un elenco prosopograco degli amici e dei nemici di Q. Marcio Filippo, bensì conta molto di più il fatto che il senato nell’imminenza della prima guerra contro un sovrano ellenistico dopo Apamea fosse consapevole della situazione e pubblicamente discutesse sui principii, lo stile e le modalità, secondo i quali doveva regolarsi la politica estera romana.
24 Cfr. soprattutto C. LETTA, L’Italia dei mores Romani nelle Origines di Catone, Athenaeum 72, 1984, 3-30 e 416-439 e ora anche BIESINGER, Römische Dekadenzdiskurse, 59-92. 25 Plut. Cato maior 19,4. 26 Enn. fr.500 Vahlen² = 156 Skutsch. Per le relazioni politiche di Ennio cfr. E .BADIAN, Ennius and his friends, in O. SKUTSCH (éd.), Ennius, Vandoeuvres-Genève 1971, 151-199. 27 Liv. XLII,47. 28 J. BRISCOE, Q. Marcius Philippus and nova sapientia, JRS 54, 1964, 66-77, criticato da FERRARY, Philhellénisme et impérialisme, 534, tra gli altri. 29 Cfr. W. REITER, Aemilius Paullus, conqueror of Greece, London 1988, 118-120 e soprattutto G. DI LEO, L’Epiro nel quadro dell’«imperialismo» romano, MediterrAnt 8, 2005, 687-737.
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L’espressione noua sapientia viene utilizzata per denire la nuova dottrina politica da parte dei suoi avversari conservatori e ciò signica che: 1) il concetto di nouum viene qui impiegato in un’accezione polemica e negativa; 2) un comportamento politico biasimevole, perché non accettabile sul piano morale, viene collegato a una parimenti biasimevole sapientia e fatto dipendere da essa. Come nel 188 si temevano le conseguenze etiche di un evento economico (l’afusso di ricchezze dall’Oriente), così nel 172 si constata l’esito politico di un’evoluzione etica (nel più ampio senso del termine: etico, religioso, culturale), a cui nei quindici anni precedenti si era tentato di opporsi, evidentemente con scarso successo. Agli occhi di un rilevante gruppo della nobiltà romana il nocciolo della questione era in entrambi i casi di tipo morale e riguardava innanzitutto la crescente crisi morale della società romana. Benché questo gruppo fosse in minoranza e chiaramente destinato alla scontta, tuttavia gli riuscì di portare la questione davanti al senato, il che dimostra l’attualità del problema e la grande attenzione, che gli riservava la classe dirigente dell’Urbe. La ne della III guerra macedonica e la scontta di Perseo causarono quattro eventi, in apparenza non collegabili tra loro, ma che riguardano tutti la nostra problematica: 1) Polibio venne a Roma; 2) la biblioteca di Pella, ricca di testi losoci, soprattutto stoici, fu portata a Roma e contribuì all’ellenizzazione della cultura romana30; 3) grazie all’afusso di ulteriori ricchezze poté essere cancellato il tributo per i cittadini romani, il che diede nuovo impulso a quella luxuria, che si era già diffusa da circa vent’anni nella penisola31; 4) Catone pronunciò nel 167 l’orazione Pro Rhodiensibus. Questa famosa orazione è, a quel che ne sappiamo, la prima chiara riessione di un uomo politico ed intellettuale romano riguardo alle modalità, secondo le quali Roma doveva esercitare la sua egemonia. È noto che l’occasione ne fu il dibattito sull’eventuale punizione da iniggere ai Rodii, che erano sospettati di aver simpatizzato per Perseo, nonostante fossero alleati di Roma. In questa circostanza Catone assunse inequivocabilmente il ruolo del moderato e spiegò come l’assenza di misura dopo la vittoria può distogliere dalla retta via e che facilmente si può inclinare a una politica arrogante e arbitraria in mancanza di nemici temibili; così un’egemonia fondata su un sistema di alleanze e legami amichevoli può mutarsi in un dominio dispotico. Ci si doveva dunque sottrarre ala tentazione di volersi vendicare dei Rodii e si dovevano invece comprendere
30 Su ciò cfr. soprattutto F. DELLA CORTE, Stoicismo in Macedonia e in Roma, in Studi Mondolfo, Bari 1950, 309-319 = Opuscula I, Genova 1971, 173-183. 31 Plut. Aem. 38,1 è il locus classicus.
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i motivi della loro simpatia per Perseo, giacché essi avevano temuto per la loro stessa libertà32. Se quest’analisi di Catone va pur sempre ricondotta a una circostanza concreta, non le si riferisce però in modo esclusivo. La stessa posizione egli tenne infatti anche nel 149 nel discorso contro Ser.Sulpicio Galba, a cui si rimproverava di aver fatto a pezzi fraudolentemente i Lusitani, sospetti di voler defezionare33. L’analisi di Catone si fonda, a mio avviso, su quattro punti principali: 1) La luxuria, nel senso della mancanza di ogni senso di misura, in breve il corrispondente latino della ȕȡȚȢ (neue haec laetitia minus luxuriose eueniat) è la vera minaccia etica non solo per la società romana al suo interno, come Catone aveva sottolineato già dall’epoca della sua censura, ma anche per la sua politica estera. 2) La tentazione di passare dall’egemonia al dispotismo poteva diventare irresistibile in assenza del freno rappresentato da un’altra potenza, che si opponesse militarmente a una simile evoluzione (si nemo esset homo quem uereremur, quidquid luberet faceremus). L’allusione alla dottrina del metus hostilis mi sembra qui evidente. In questo caso si tratta di un metus Macedonicus, l’ultimo della serie (Etruscus, Italicus, Gallicus, Punicus, Syriacus)34, che aveva scandito la storia della Repubblica; ciò signica inoltre che questa dottrina, almeno a grandi linee, era nota non solo a Catone, ma anche ai suoi uditori e che le riessioni su questo tema erano comuni alla classe dirigente romana e alla cultura ellenistica, senza che si dovesse necessariamente presupporre la conoscenza di una determinata fonte greca. 3) La dottrina del metus hostilis viene qui adoperata riguardo alle relazioni tra i Romani e i loro alleati, nel timore che la situazione di questi ultimi potesse trasformarsi da uno stato di libertas a uno di seruitus. Non si notano ancora invece preoccupazioni per la sua ricaduta sulla stabilità e la concordia della società romana. 4) La polemica di Catone è diretta in genere contro la tendenza a giusticare la legge del più forte e – come è già stato notato35 – contro
32 Si riassumono nel testo i noti frr. 163-164 Malcovati di Catone. Su Catone e Rodi cfr. D. KIENAST, Cato der Zensor, Heidelberg 1954, 118 e Astin, Cato, 123; su Roma e Rodi E.S. GRUEN, Rome and Rhodos in the Second Century B.C.: a historiographical inquiry, CQ 25, 1975, 58-81. 33 Soprattutto il fr. 197 Malcovati col commento di SBLENDORIO CUGUSI, M. Porci Catonis, 383-385. 34 Etruscus: Sall. Hist. I,11 Maurenbrecher; Italicus: Cic. Phil. VIII,3; Gallicus e Punicus: H. BELLEN, Metus Gallicus – Metus Punicus, SBAW Mainz 1985,3,3-46; Syriacus: M. SORDI (ed.), Il primo scontro tra Roma e l’Oriente, CISA VIII, Milano 1982, 3-26. 35 H. FUCHS, Der Friede als Gefahr, HSCP 63, 1958, 363-385, p. 378 nota 47; A. MI-
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certe teorie classiche sul diritto del più forte ad usare la propria forza, in particolare contro il punto di vista rappresentato dal dialogo dei Melii in Tucidide. Non si deve però dimenticare che il bersaglio immediato è la noua sapientia, la nuova, biasimevole morale della nobilitas, che legittimava un’altrettanto nuova e biasimevole prassi: dopo che questa noua sapientia era uscita vittoriosa dalla discussione in senato del 172, essa subì una cocente scontta ad opera di Catone nel 167 e così la sua inuenza veniva di nuovo notevolmente limitata: secondo me non c’è più chiara testimonianza di come l’opinione pubblica romana oscillasse tra i due estremi di questo tormentoso dilemma e di quanto grande fosse l’intensità emotiva e intellettuale da esso suscitata. III. Solo dopo questa ricostruzione è, a mio avviso, possibile inserire Polibio in un dibattito così stimolante, articolato e attuale. In questa prospettiva i passi del VI libro, a cui sono partito, provocano l’impressione di un’estraneità e di una distanza spirituale non da poco. Più precisamente: lo scopo di Polibio era quello di dimostrare che la costituzione romana, in quanto mista, è nelle condizioni di reagire alle eventuali conseguenze negative anche se il metus hostilis è venuto meno e si è raggiunto un eccesso di benessere; al centro della sua esposizione sta la problematica costituzionale della ȝȚțIJ, mentre la problematica del metus è solo accennata e poi subito lasciata cadere, perché non ha nessun inusso sulla ȝȚțIJ stessa e il suo equilibrio politico-sociale. Grazie alla sua natura la costituzione mista garantisce successi in politica estera e concordia in politica interna e, se si accetta l’equazione ‘costituzione romana = costituzione mista’, ne consegue automaticamente che l’egemonia e la pace sociale sono i due più signicativi frutti di un simile ordinamento costituzionale. È noto che i Greci da tempo avevano speculato sulla ȝȚțIJ come la migliore delle costituzioni, ma non l’avevano mai attuata36; come si è visto, essi avevano anche teorizzato che l’assenza di un nemico e, in genere, dello stato di guerra causava disunione e rivalità interne. Polibio conosce molto bene queste teorie e le discussioni da esse provocate nella cultura greca e vi si inserisce per apporvi la parola ‘ne’: Roma ha realizzato la ȝȚțIJ e nella ȝȚțIJ il metus hostilis non è più necessario per la stabilità interna. Ora, il dibattito interno alla nobiltà romana, che io ho delineato nelle sue linee principali, ha in comune con la posizione di Polibio solo un punto, che Roma era esposta per così dire a un eccesso di benessere e
CHEL, Les lois de la guerre et les problèmes de l’impérialisme romain dans la philosophie de Cicéron, in Problèmes de la guerre à Rome, Paris 1969, 171-183, p.178. 36 Con la parziale eccezione di Sparta, almeno per Polibio stesso.
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alle sue possibili conseguenze negative. Per il resto i Romani collegavano il metus hostilis (più precisamente il metus Macedonicus) non alla concordia interna, ma alle loro relazioni con alleati e sudditi, alla propria politica estera e ai loro diritti e doveri quale potenza egemone del mondo. Non mancavano preoccupazioni riguardo alla situazione interna, ma non erano di natura politico-sociale, bensì etica, religiosa e culturale e concernevano l’inusso della luxuria, della losoa e dei costumi dell’Oriente greco, che erano causa di corruzione e di una noua sapientia inconciliabile con il mos maiorum. Nulla di tutto ciò si trova nel VI libro di Polibio e in tutta la prima redazione delle Storie, a cui appartengono i libri I-XXIX. Certo non si può pretendere che Polibio condividesse i timori di Catone riguardo ai rovinosi inussi dell’ellenizzazione culturale di Roma. Inoltre egli non presta particolare attenzione neanche al problema della luxuria o, per dirla alla greca, della IJȡȣij, che pure era un Leitmotiv della storiograa greca almeno da Teopompo37 e che Polibio conosceva molto bene, ma in cui vedeva coinvolta, se mai, Cartagine, non certo Roma38. In questa prospettiva è davvero notevole che l’unico passo dei primi 29 libri, in cui questo tema è enunciato, cioè XIII,35, sotto l’anno 197, sia un’inserzione più tarda, giacché vi si allude alla ne di Cartagine39. La religione romana, la cui conservazione era fondamentale per la classe dirigente dell’Urbe, è denita – come è noto – įİȚıȚįĮȚȝȠȞĮ, una superstitio adatta al popolo ignorante, che serviva esclusivamente come instrumentum regni40. Inne aforano interrogativi sulle eventuali responsabilità di Roma in casi specici (p.es. le due guerre puniche), ma non sulla questione complessiva se il dominio romano sia giusto oppure no: la supremazia di Roma è un fatto acquisito, che suscita ammirazione41, e le domande che si ponevano i più lungimiranti tra i nuovi signori del mondo non sembrano suscitare alcun interesse nello storico di Megalopoli. Anche riguardo alle polemiche tra sostenitori e avversari della cultura greca, un tema, che – come vedremo – gli sta molto
37 A. PASSERINI, La IJȡȣij ޤnella storiograa ellenistica, SIFC 11, 1934, 35-56; ZECCHINI, La cultura storica di Ateneo, soprattutto pp. 55-58. 38 Polyb. VI,56,1-5; cfr. cap. X. 39 Così anche D. MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli 1978, 90. 40 Polyb. VI,56,6-15. Polibio e la religione (romana): S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II,1, Bari 1966, 116 e 125-126 (su cui cfr. cap. XIV) e la rapida sintesi di B. DREYER, Polybios, Hildesheim 2011, 83-89, nonché la bibliograa indicata nel cap. XIII nota 39. 41 Su questo punto ha insistito, assai opportunamente, D. BARONOWSKI, Polybius and Roman Imperialism, Bristol 2011.
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a cuore, Polibio tace; ciò può dipendere molto semplicemente dal fatto che egli non attribuiva un particolare signicato alle polemiche interne tra intellettuali romani. A prima, parziale conclusione credo di poter affermare con buoni motivi che il Polibio, che tra gli anni 60 e gli anni 50 del II secolo come ‘deportato’ in Italia42 medita ed espone la storia dei 53 anni (220-168), nei quali Roma ha conquistato il mondo, in questa prima fase della sua evoluzione intellettuale è ancora esclusivamente un Greco, che scrive per Greci43 ed è ancora impregnato di mentalità ellenistica, di un’atmosfera del tutto estranea alla mentalità e ai sentimenti dei Romani contemporanei. Perciò egli è anche estraneo alle domande e ai temi, che già da un certo tempo (almeno dal 188) si ponevano nell’Urbe, spesso con toni molto preoccupati, le personalità di più ampie vedute. IV. Polibio non era certo insensibile ai problemi etici posti dalla conquista di un impero o di un’egemonia: egli insiste appena può sull’esigenza che i dominanti esercitino le virtù della clemenza (ਥʌȚİțİȚĮ), della mitezza (ʌȡંIJȘȢ), della moderazione (ȝİIJȡȚંIJȘȢ), della magnanimità (ȝİȖĮȜȠȥȣȤĮ)44. Tuttavia egli resta insensibile al problema morale di fondo, che si poneva la politica romana del suo tempo e che ho sopra delineato: almeno su questa tematica l’assenza di una reciproca inuenza tra lui e gli intellettuali romani mi sembra confermata45. Ci si può allora domandare se tale assenza si colga anche nella seconda ed ultima parte della sua opera, nei libri XXX-XL, che furono redatti dopo il 146 con l’intenzione di proseguire il racconto degli avvenimenti per i vent’anni
42 Sulla condizione di Polibio a Roma cfr. A. ERSKINE, Polybius among the Romans: Life in the Cyclops’ Cave, in CHR. SMITH-L. M. YARROW, Imperialism, Cultural Politics & Polybius, Oxford 2012, 17-32. 43 A. ERSKINE, How to rule the world: Polybius Book 6 reconsidered, in B. GIBSON-TH. HARRISON (eds.), Polybius and his world: essays in memory of F.W. Walbank, Oxford 2013, 231-245, p. 245: he is also writing primarily for Greeks. 44 Cfr. infra p. 152 con le note 64 e 65 nonché J. THORNTON. Polybius in Context: the Political Dimension of the Histories, in B. GIBSON-TH. HARRISON (eds.), Polybius and his world: essays in memory of F.W. Walbank, Oxford 2013, 213-229, p. 222. 45 J.S. RICHARDSON, Polybius’ View of the Roman Empire, PBSR 47, 1979, 1-11 sostiene la tesi che Polibio non comprese la vera natura dell’egemonia romana; E. GABBA, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Athenaeum 65, 1977, 49-74, soprattutto pp. 68-69 parla piuttosto di una reciproca e fruttuosa inuenza; con E.S. GRUEN, The Hellenistic World and the Coming of Rome, Berkeley-Los Angeles 1984, 348 concordo che questa inuenza ci fu soltanto negli ultimi anni di vita di Polibio e comunque si trattò più dell’inuenza di Roma su Polibio che viceversa; in ogni caso sono dell’opinione che non si può seguire F.W. WALBANK, Political Morality and the Friends of Scipio, JRS 55, 1965, 1-16, p. 7, secondo cui il VI libro di Polibio dovette essere una reazione al noto discorso di Nasica nell’imminenza della III guerra punica (e cfr. anche più sotto).
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ca., che seguirono il crollo della Macedonia no alla caduta di Cartagine e Corinto. Anche se dell’ultima decade di Polibio ci sono rimasti solo pochi frammenti, una serie di passi ci permette di fornire una risposta abbastanza sicura: a XVIII,35 (un’inserzione più tarda, come si è visto)46 si dà voce per la prima volta ai dubbi sulla corruttibilità e sugli arricchimenti illeciti dei politici romani; a XXXII,13 si riferisce delle preoccupazioni del senato nel 157 (quest’anno si situa – è opportuno ricordarlo – tra la lex Fannia contro il lusso nei banchetti e l’espulsione dei loso nel 161 e la nuova cacciata dei loso, nonché l’avvio dei lavori di costruzione di un teatro in pietra nel 155/4) che l’assenza di guerre potesse contribuire all’indebolimento dei costumi degli Italici; a XXXVI,9 viene dato spazio alle critiche dei Greci rispetto al trattamento troppo severo e fraudolento initto a Cartagine. Polibio attribuisce a fatica il mutamento della politica romana a un’eccessiva ijȚȜĮȡȤĮ, ma respinge categoricamente il rimprovero di aver agito in modo scorretto verso la città punica47. Fondamentali sono soprattutto le riessioni di XXXI,25 sotto l’anno 160, dove le virtù di Scipione Emiliano, come poco prima quelle di suo padre, L. Emilio Paolo, sono contrapposte alle inclinazioni della gioventù romana del tempo, che si dedica ad amori viziosi e al lusso dei banchetti, vittima della İȤȡİȚĮ e dell’ਕțȡĮıĮ. Questa biasimevole tendenza era una conseguenza dell’enorme afusso di ricchezze e del fatto che dopo la ne della Macedonia48 mancava un qualsivoglia contrappeso politico-militare alla supremazia romana. Malgrado l’allarmata denuncia di Catone, che vedeva in questa deriva un progressivo peggioramento della Repubblica (ਥʌ IJઁ ȤİȡȠȞ ʌȡȠțȠʌȞ), questa tendenza pareva avere ormai il sopravvento così che la moderazione e la saggezza di Scipione (İIJĮȟ țĮ ıȦijȡȠıȞૉ) costituivano solo un’eccezione alla diffusa immoralità. Qui Polibio ha colto senza dubbio i più importanti temi dibattuti in quegli anni dalla classe dirigente dell’Urbe. Non senza motivo
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Su XVIII,35 cfr. anche cap.X. Contro F.W. WALBANK, Polybius between Greece and Rome, in E. GABBA (éd.), Polybe, Vandoeuvres-Genève 1973, 3-38, soprattutto pp. 14-18 seguo qui l’esegesi di MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, 55; similmente HARRIS, War and Imperialism, 271; cfr. anche FERRARY, Philhellénisme et impérialisme, 327-334. 48 A XXXI,25,6 la potenza romana dopo il 168 viene denita ਕįȡȚIJȠȞ (su tale termine cfr. cap.XII); questo termine era già stato adoperato a VI,57,5, ma questa coincidenza non signica contemporaneità di redazione (così K.E. PETZOLD, Studien zur Methode des Polybios und zu ihrer historischen Auswertung, München 1969, 89-91), bensì consapevole ripresa del concetto in un altro contesto. 47
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egli cita Catone, cioè la personalità che più si era impegnata in questa problematica, un simbolo della lotta contro la decadenza morale della società romana, e sintetizza i suoi timori riguardo al declino di Roma in un’espressione breve e pregnante (ਥʌ IJઁ ȤİȡȠȞ ʌȡȠțȠʌȞ IJોȢ ʌȠȜȚIJİĮȢ), che molto si avvicina al testo dell’iscrizione posta sotto la statua del censore dopo il 184 (ʌȠȜȚIJİĮȞ ਥȖțİțȜȚȝȞȘȞ țĮ ૧ʌȠȣıĮȞ ਥʌ IJઁ ȤİȡȠȞ)49. Da un lato Polibio condivide il giudizio di Catone e dei suoi seguaci riguardo alla luxuria e alle sue conseguenze morali, dall’altro vede anche il collegamento tra la ne della Macedonia e la ne del metus hostilis: si tratta di due essenziali punti di contatto, che confermano in modo denitivo come Polibio dopo il 146 sviluppi le sue analisi politiche non più soltanto da un punto di vista ellenocentrico, ma anche da uno romanocentrico e si sia aperto alle esigenze dei nobili e degli intellettuali romani così da voler partecipare alle loro discussioni ed esprimervi anche il proprio parere. Lo storico di Megalopoli non si limita certo ad accogliere nella sua opera temi, che prima gli erano estranei e che altri gli hanno chiarito, ma avanza anche in modo originale proposte di soluzione sue proprie. Come si è visto, la luxuria per i Romani aveva fatto il suo ingresso direttamente nel 188 e la ne del pericolo macedonico poneva la questione del futuro atteggiamento da tenere verso sudditi e alleati: si trattava di scegliere tra il mos maiorum e una più aggressiva e spregiudicata noua sapientia. Polibio vede nel 168, l’anno della ne della monarchia di Perseo, l’avvenimento-chiave50: da quest’anno, non dal 188, comincia la luxuria e nisce il metus hostilis, la cui mancanza costituisce un pericolo per la tenuta morale della società romana, non per le relazioni con sudditi e alleati; queste minacce sono da combattere, se si vuole sottrarre Roma al rischio del declino, non il pericolo culturale della noua sapientia. Alle tesi sostenute da Catone e da altri Romani Polibio propone quindi tre modiche: 1) egli insiste sull’anno 168, che come storico ha scelto a giusticazione del ruolo centrale della Grecia per l’espansione e l’egemonia romana; 2) egli sottolinea le conseguenze per la politica interna della ne del metus hostilis, che sono più gravi del suo signicato per la politica estera, perché concernono la stabilità della ‘costituzione’ romana, una preoccupazione tipicamente greca e tipicamente polibiana, che era già emersa nel VI libro; 3) egli si riuta di condannare la noua sapientia, perché essa in ultima istanza è l’esito dell’ellenizzazione sul
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Polyb. XXXI,25,5a = Plut. Cato maior 19,4. Su ciò – secondo me in modo non soddisfacente – GRUEN, The Hellenistic World, 348; bene invece BRINGMANN, Weltherrschaft, 35. 50
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piano culturale, losoco ed etico, e non può ammettere che l’ellenizzazione sia in sé un male. Riguardo a quest’ultimo punto la distanza tra lui e Catone era insuperabile, mentre per i primi due punti si trattava di proposte per modicare e completare la visione complessiva di Catone, che Polibio accettava nella sostanza. Se quindi Polibio polemizzava con Catone sul piano culturale e storiograco51, ma condivideva in buona parte il suo giudizio sulla situazione in Roma, ciò è da ascrivere secondo me a un ‘ltro’, quello rappresentato da Scipione Emiliano: come protettore dell’uno e alleato dell’altro Scipione era particolarmente adatto a suscitare nello storico acheo una rispettosa attenzione per il punto di vista romano del Censore e per quegli ideali, di cui egli stesso volle essere l’erede e il testimone durante la sua censura del 142/152. V. È noto che l’intesa politica tra il vecchio Catone e il giovane Emiliano venne rafforzata dal comune atteggiamento davanti alla III guerra punica. Senza dubbio l’inessibile posizione di Catone contro Cartagine è in contrasto con quella tenuta verso Rodi nel 167 e anche con la sua contemporanea difesa dei Lusitani contro l’azione fraudolenta di Galba nel 149. In effetti nel dibattito su Cartagine negli anni 153/15053 Catone deviò dalla sua abituale linea in politica estera, ma questa eccezione si spiega sia con la formale rottura del foedus da parte dei Punici, per cui
51 Essi avevano p.e. visioni geograche diverse; per la polemica di Polibio contro le trattazioni monograche, che probabilmente era diretta anche contro le Origines cfr. DELLA CORTE, Catone, 153-159, in particolare p. 155. In genere MUSTI, Polibio e la storiograa romana arcaica, in E. GABBA (éd.), Polybe, Vandoeuvres-Genève 1974, 105-143 (forse troppo scettico sulle relazioni con Catone); GABBA, Aspetti culturali, 68; DREYER, Polybios, 40-50 (che estende l’inusso di Catone già al primo Polibio); ERSKINE, How to rule the world, cit. alla nota 43 (che signicativamente non entra nel merito dei rapporti tra Catone e Polibio). Sul delicato problema dei rapporti tra Polibio e Catone cfr. anche infra cap. XIII, p.166 con la nota 14. 52 H.H. SCULLARD, Scipio Aemilianus and Roman Politics, JRS 50, 1960, 59-74; A.E. ASTIN, Scipio Aemilianus and Cato Censorius, Latomus 15,1956, 159-180; ID., Scipio Aemilianus, Oxford 1967, 115-124 (sulla censura dell’Emiliano) e 280 (di nuovo sulle relazioni con Catone); C.B. CHAMPION, Cultural Politics in Polibius’s Histories, Berkeley-Los Angeles 2004, 158-163 (rappresentazione dell’Emiliano in Polibio) e 224-228 (rapporti tra l’Emiliano e Polibio); P. DESIDERI, Polibio, straniero a Roma, in ST. CONTI-B. SCARDIGLI (edd.), Stranieri a Roma, Ancona 2009, 15-35, che insiste (pp. 28-32) assai opportunamente soprattutto sul ruolo dell’Emiliano quale mediatore tra Polibio e l’Urbe. 53 Cronologia e fonti in ASTIN, Scipio Aemilianus, 270-272 e 276, rispettivamente note 2 e 4; dell’orazione di Catone De bello Carthaginiensi (su cui cfr. G. NENCI, La De bello Carthaginiensi di Catone Censore, CS 1, 1962, 363-368, E. MALCOVATI, Sull’orazione di Catone De bello Carthaginiensi, Athenaeum 63, 1975, 205-211 e SBLENDORIO CUGUSI, M. Porci Catonis, 371-377) ci sono pervenuti i frr. 191-195 Malcovati.
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la guerra diventava automaticamente un bellum iustum54, sia con l’ancestrale timore dei Cartaginesi: il metus Punicus non era un’invenzione propagandistica della metà del II secolo, come Hoffmann intese sostenere, bensì un sentimento profondamente radicato nei Romani dai tempi di Annibale, come Bellen ha ben dimostrato55. Perciò i Romani si lasciarono trascinare nei confronti del vecchio nemico a una reazione non del tutto infondata, ma certo estremamente dura. È però anche vero che non tutti i Romani furono d’accordo con questa decisione e Scipione Emiliano, che si schierò con Catone, provocò così una frattura all’interno della gens Cornelia, dato che un altro Scipione, il Nasica, si fece portavoce in senato dell’opinione opposta. È anche noto che secondo Diodoro Nasica avrebbe sostenuto la tesi di lasciar sussistere Cartagine, adducendo la teoria del metus hostilis: senza nemici esterni Roma avrebbe suscitato con la sua arroganza e la sua prepotenza sentimenti di odio presso i sudditi e così sarebbe precipitata nella discordia e nelle guerre civili, cosa che – come commenta lo storico – sarebbe in effetti avvenuta di lì a poco56. Di solito si indica in Posidonio la fonte di Diodoro e spesso si aggiunge che lo stesso Posidonio dipendeva da P.Rutilio Rufo57. Ciò che però conta in questa sede è la domanda se davvero Nasica adoperò in senato tale argomentazione (così Gelzer) o se essa gli fu attribuita successivamente (così Hoffmann)58. Due ragioni mi persuadono dell’autenticità del discorso di Nasica in Diodoro. 1) Riessioni analoghe sulle modalità di reggere un impero sono attribuite da Appiano a Scipione Africano nel 201: abbiamo visto59 che così molto probabilmente venne proiettata all’indietro, alla ne della II guerra
54 Sulla iusta causa insiste giustamente ASTIN, Cato, 126-129 (con la nota 72 sulle presunte contraddizioni rispetto ai casi di Rodi e dei Lusitani) e 283-288; sul bellum iustum in genere cfr. H. DREXLER, Iustum bellum, RhM 102, 1959, 97-140; P.A. BRUNT, Laus Imperii, in P. GARNSEY-C.R. WHITTAKER, Imperialism in the ancient world, Cambridge 1978, 159-191 = Roman Imperial Themes, Oxford 1990, 288-324, in particolare pp. 305-308 e S. ALBERT, Bellum iustum, KALLMÜNZ 1980. 55 HOFFMANN, Die römische Politik, 323; BELLEN, Metus Gallicus, cit.; K.W. WELWEI, Zum metus Punicus in Rom um 150 v.Chr., Hermes 117, 1989, 314-320. 56 Diod. XXXIV / V, 33, 3-6. 57 GELZER, Nasicas Widerspruch, 270-272; J. MALITZ, Die Historien des Poseidonios, München 1983, 365. 58 GELZER, Nasicas Widerspruch, 294-299; HOFFMANN, Die römische Politik, 340-344. KIENAST, Cato, 132, ASTIN, Scipio Aemilianus, 276-280 e BRINGMANN, Weltherrschaft, 37 e 41 seguono Hoffmann; WALBANK, Political Morality, 6, H.H. SCHMITT, Polybios und das Gleichgewicht der Mächte, in GABBA (éd.), Polybe, 65-102, pp. 88-89 e E. GABBA, L’imperialismo romano, in Storia di Roma, I,2, Torino 1990, 189-233, p. 232 conservano il nucleo centrale della tesi di Gelzer, a ragione, secondo me. 59 Cfr. pp. 137-138.
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punica, una problematica più tarda, ma questa anticipazione si giustica solo se individuiamo il momento preciso, in cui tale invenzione poteva essere opportuna. Ora, questo momento può essere soltanto la III guerra punica, quando Nasica aveva tutto l’interesse a rafforzare la sua tesi attraverso un signicativo precedente all’interno della sua famiglia; ciò signica anche che Nasica voleva utilizzare i medesimi argomenti per convincere il senato a risparmiare ‘di nuovo’ Cartagine. 2) Nelle pagine precedenti abbiamo anche visto60 che la dottrina del metus hostilis era ben conosciuta a Roma e che Catone vi si era richiamato a proposito dei Rodii nel 167. Mi sembra quindi plausibile che Nasica quindici anni più tardi avesse ripreso questa teoria e l’avesse rivolta contro Catone stesso. Nel discorso di Nasica c’è però da osservare un ulteriore elemento: non vi è espressa solo la preoccupazione per le conseguenze sulle relazioni con gli alleati, ma anche la preoccupazione per le conseguenze sulla stabilità interna, un motivo – come ho mostrato – tipicamente greco e tipicamente polibiano61 Sarebbe però, a mio avviso, errato dedurne che questo motivo non può appartenere al contenuto originale del discorso di Nasica in senato. La teoria del metus hostilis, soprattutto nella sua forma originaria, quella platonica, prendeva in considerazione esclusivamente la stabilità interna e sino ad allora i Romani non ne avevano mai fatto uso, perché per loro non era attuale. Ciò non signica però che non conoscessero tale teoria. Se Catone non l’aveva menzionata nel 167 e Nasica invece vi fa riferimento nel 152/1, la ragione è che nel frattempo si erano accumulate nubi minacciose per la concordia ordinum: non è un caso che l’azione dei tribuni della plebe in quel periodo si era spinta, proprio nel 151, sino al clamoroso arresto di entrambi i consoli62 così che Lily Ross Taylor fu indotta a denirli forerunners of the Gracchi63. Si può ben comprendere che nel discorso di Nasica abbia trovato risonanza la preoccupazione per l’insofferenza dei tribuni davanti all’autorità dei consoli. Anche se dietro al loro comportamento c’era una ragione di politica estera (il peso ormai intollerabile del servizio militare nella guerra in Spagna), si trattava pur sempre del sintomo di una crescente tensione tra le varie componenti della res publica: una tensione, che secondo Nasica poteva essere tenuta in qualche modo sotto controllo solo grazie al permanere del pericolo cartaginese. 60
Cfr. supra p. 143. Certo non tipicamente romano, come ritiene SCHMITT, Polybios, 89. 62 Liu. Per. 48. 63 L. ROSS TAYLOR, Forerunners of the Gracchi, JRS 52, 1962, 19-27: la datazione al 153 e l’interpretazione delle leges Aelia e Fua rientrano nel medesimo contesto politico. 61
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VI. Torniamo ora per l’ultima volta a Polibio. È noto che in occasione del dibattito sulla III guerra punica egli si schierò con Scipione Emiliano e quindi con Catone contro Nasica. Lo fece a XXXVI,9, dove riferisce sulle diverse opinioni dei Greci riguardo alla distruzione di Cartagine, che egli in sostanza giustica, sia pure con qualche imbarazzo; un’eco del dibattito greco contemporaneo si può forse cogliere anche nell’osservazione (che ci è conservata da Diodoro a XXXII,2 e 4 sotto l’anno 150, ma potrebbe essere di origine polibiana)64, secondo la quale un impero lo si conquista con il coraggio e la saggezza, lo si amplia con la moderazione e l’umanità, lo si mantiene con il terrore e la paura: Polibio voleva che moderazione e umanità si impiegassero anche nel mantenere un impero e quindi non condivideva questa tesi, ma non trovava argomenti per smentirla65; un altro passo in tal senso si trova a XXXVIII,21, laddove di fronte alle rovine di Cartagine la premonizione dell’Emiliano sulla futura ne di Roma è ricondotta alla concezione biologica della storia, in quanto ogni essere vivente è destinato alla dissoluzione, non alla ne del metus hostilis. Polibio è dunque consapevole del problema etico-politico, che si pone con l’eliminazione di Cartagine, e non lo aggira, né si sottrae alle polemiche e alle discussioni degli ambienti sia greci, sia romani; quando però le affronta, lo fa da Greco e usa ancora categorie greche: se dunque è in sostanza d’accordo con Catone a proposito di Cartagine, non giustica Roma sulla base dei principi del bellum iustum e del metus Punicus, cioè degli argomenti adottati da Catone, ma attraverso la rassegnata constatazione che i Romani sono i più forti e si può solo sperare che esercitino questa loro supremazia con moderazione e a vantaggio anche dei vinti. È allora difcile respingere il sospetto che agisca su Polibio il richiamo a quella legge del più forte, che Tucidide aveva teorizzato nel dialogo degli Ateniesi e dei Melii e che Catone aveva decisamente respinto nell’orazione Pro Rhodiensibus. VII. Nonostante il crescente prestigio, di cui Polibio godette presso i politologi e poi gli storici romani del I secolo a.C. e oltre66, il suo sforzo
64 Così WALBANK, Polybius between Greece and Rome, 18 e GABBA, Aspetti culturali, 61; ID., L’imperialismo, 210 nota 62, nonostante signicative obiezioni (GRUEN, The Hellenistic World, 160 nota 15; FERRARY, Philhellénisme et impérialisme, 334; K.S. SACKS, Diodorus Siculus and the rst century, Princeton 1990, 44-46). Da ultimo cfr. ancora J.L. FERRARY, Le jugement de Polybe sur la domination romaine, in J. SANTOS YANGUAS-E. TORREGARAY PAGOLA (edd.), Polibio y la peninsula iberica, Vitoria-Gasteiz 2003, 15-32. 65 Recente ed ottima analisi del passo diodoreo in BARONOWSKI, Polybius and Roman Imperialism, 106-113: il testo risale a Polibio, ma non ne rispecchia le idee. 66 Da Cicerone a Livio attraverso l’epitome polibiana di M. Giunio Bruto. Cfr. infra, ben più ampiamente, cap. XVI.
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di interpretare la storia romana sulla base di categorie greche e di promuovere il ruolo della Grecia nell’impero mondiale di Roma non ebbe particolare fortuna. È senza dubbio vero che Sallustio pose la teoria del metus hostilis a fondamento della concordia ordinum, ma attraverso Posidonio (e Rutilio Rufo?) si rifece a Nasica, non a Polibio, e ssò la ne di questo metus all’anno 14667. Altrove i Romani non sostituirono mai il principio del bellum iustum con quello del diritto del più forte e mai abbandonarono la loro difdenza nei confronti di una noua sapientia troppo ellenizzata. Non casualmente nell’idealizzazione dell’Emiliano in Polibio il suo maestro è suo padre, L. Emilio Paolo, un uomo aperto ai valori della grecità, nell’idealizzazione dell’Emiliano in Cicerone il suo maestro è Catone, il campione dell’antiellenismo68. Inne i Romani si riutarono di accordare al 168, cioè alla ne della Macedonia, un valore epocale, mentre per Polibio quest’anno costituisce il trait-d’union tra le due parti delle sue Storie e tra le due fasi delle sue riessioni storiograche su Roma: per quel che concerne l’ingresso della luxuria nell’Urbe, gli storici romani si collegano all’anno 82 o addirittura 66, cioè al ritorno di Silla o di Lucullo dall’Oriente (così Sallustio), oppure restano agganciati a una data anteriore, il 188 (Livio)69; per quel che concerne la ne del metus hostilis, essi preferiscono indicare il 146, cioè la caduta di Cartagine (così Sallustio) oppure, più tardi, collegare il 146 con il 133, cioè la caduta di Cartagine con quella di Numanzia (così la tradizione conuita in Floro ed Orosio)70: si tratta in ogni caso di una datazione ‘occidentale’. A questo dissenso cronologico da Polibio, che ssava il 168 come turning point della storia romana, corrisponde anche il dissenso, che le sue idee geograche si portavano dietro: come ho mostrato altrove71, la sua concezione continentale dell’Europa, che non si limitava alla peni-
67 Sall. Hist. I,11-12 Maurenbrecher (e già Catil. 10,1; Iugurth. 41,2). Prende le distanze da questa interpretazione A. NOVARA, Les idées romaines sur le progrès, Paris 1983, 628-637. 68 Polyb. XXXI,22 e 25 con Cic. De r. p. II,1 con le riessioni di FERRARY, Philhellénisme et impérialisme, 540-544. 69 Sall. Catil. 11,5 e molto probabilmente presso Athen. II,50f-51°; VI, 274f-275a e XII,543° (su cui G. ZECCHINI, Sallustio, Lucullo e i tre schiavi di C. Giulio Cesare (due nuovi frammenti delle Historiae?), Latomus 54, 1995, 592-607); Liu. XXXIX,6,7 (cfr. supra p. 139 con le note 15 e 16). 70 Flor. I,33-34; Oros. V,8,2 (su cui G. ZECCHINI, Hispania semper delis: il rapporto degli Spagnoli verso Roma in età imperiale, CISA XVIII, Milano 1992, 267-276). Cfr. supra cap. VIII. 71 G. ZECCHINI, Polibio, la storiograa ellenistica e l’Europa, CISA XII, Milano 1986, 124-134 (= cap.V).
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sola balcanica, ma comprendeva sullo stesso piano anche Grecia e Italia, non poteva far breccia tra i Romani, che preferirono sempre considerare l’ecumene come divisa in due parti, l’Oriente, che includeva anche la Grecia, e l’Occidente italocentrico. Sulla base delle riessioni qui svolte la storia dei rapporti tra Polibio e l’intellighentsia romana è la storia dell’evoluzione di un intellettuale, che rimase sempre fedele alla sua formazione greca, ma che, dopo un’iniziale estraneità, si lasciò coinvolgere con sempre maggiore intensità e passione, e sia pure in modo unilaterale, nella cultura romana: questa passione emerse in alcune proposte interpretative e nei tentativi di inuenzare la classe dirigente dell’Urbe in senso lellenico. Eppure la maggior parte di questi sforzi fu accolta con indifferenza e non ebbe conseguenze: davvero Polibio sofferse la condizione di solitudine dello storico, che vive in terra straniera72.
72 Nella versione originaria di questo capitolo (Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, Tyche 10, 219,232, p. 232) avevo scritto: Daher litt Polybios wirklich unter der Einsamkeit des im fremden Land lebenden Historikers; C.B. CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’ Histories, Berkeley 2004, 236 è poi giunto alla medesima conclusione: a stranger in a strange land; molto simile anche il giudizio nale di BARONOWSKI, Polybius and Roman Imperialism, 173: in his heart he remained a Greek and an Achaean. Decisamente più ottimistico DESIDERI, Polibio, straniero a Roma, cit. alla nota 52.
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CAPITOLO XII UN POTERE INCONTRASTATO
’AȜȜ’ Ƞ ȝȞ IJȚ įȘȡઁȞ ਕʌİȓȡȘIJȠȢ ʌȩȞȠȢ ıIJĮȚ Ƞį’ IJ’ ਕįȡȚIJȠȢ ਵ IJ’ ਕȜࣀોȢ IJİ ijȩȕȠȚȠ. Nell’apostrofe di Euforbo a Menelao all’inizio del XVII canto dell’Iliade1 compare per la prima volta nella letteratura greca l’aggettivo ਕįȡȚIJȠȢ, peraltro di non difcile formazione (Į privativo + radice di įોȡȚȢ/ įȘȡȓȠȝĮȚ + sufsso -IJȠ) e parimenti di non difcile signicato («senza lotta, indisputato», poi anche, come si vedrà, con lieve e naturale estensione «senza rivali, invincibile»). In Omero esso è uno hapax e, sia che si tratti di un neologismo creato dal poeta dell’Iliade, sia che attinga al comune fondo ionico della lingua epica, resta, almeno per noi, un termine indubbiamente raro: riappare infatti solo nel Prometeo incatenato di Eschilo, dove tale è denito l’ਕȞȐȖࣀȘȢ ıࢡȑȞȠȢ, la «forza del destino», e, più tardi, in età imperiale, nelle Argonautiche orche, che ne testimoniano il durevole inserimento all’interno del lessico epico2; inne la parola è
1 Il. XVII, 41-42 («ma non più a lungo resterà intentato questo cimento / né senza esito o per forza o per viltà»). 2 Aesch., Prom. 105 (ovviamente il problema dell’attribuzione a Eschilo di questa tragedia non è rilevante per la mia indagine); Orph., Argon. 846.
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registrata nei principali lessici, da Esichio alla Suda, che lo spiega coi sinonimi ਕȞțȘIJȠȢ, ਙȝĮȤȠȢ, ਕࣀĮIJĮʌȩȞȘIJȠȢ3. Questa breve scheda sulla preistoria di una parola in sé non particolarmente interessante è parsa opportuna per introdurci al suo ruolo in Polibio: nelle Storie infatti essa è utilizzata in ben dieci occorrenze e da Polibio discende a storici successivi come Diodoro (quattro occorrenze), Appiano (due), Plutarco (tre) e Flavio Giuseppe (una)4; la sua considerevole fortuna in ambito cristiano, da Clemente Alessandrino ad Eusebio ed oltre5 non rientra invece in questa mia indagine. D’altronde che già la lessicograa antica avvertisse questo termine come polibiano ci è confermato proprio dalla Suda, che ne correda la spiegazione con un’unica citazione, dal III libro del nostro storico. Esaminiamo ora le occorrenze polibiane. 1) A I, 2,4 ci si riferisce alla durata dell’egemonia spartana dopo la guerra del Peloponneso, che i Lacedemoni seppero conservare incontrastata (ਕįȒȡȚIJȠȞ) a stento solo per dodici anni; 2) a I, 20,13 sono i Cartaginesi ad ereditare dai loro antenati un’egemonia marittima incontrastata (ਕįȒȡȚIJȠȞ) al momento dello scoppio della i guerra punica; 3) a III, 3,5 solo la vittoria sui Galati assicura ai Romani il dominio incontrastato (ਕįȒȡȚIJȠȞ) sull’Asia; 4) a III, 93,1 (è il passo citato dalla Suda), Q. Fabio Massimo spera di impadronirsi del bottino accumulato da Annibale preso in trappola a Casilino senza doverlo affrontare in combattimento (ਕįȘȡȓIJȦȢ); 5) a IV, 74,3 si auspica per i Greci una pace che sia perpetua e incontrastata (İੁȢ ʌȐȞIJĮ IJઁȞ ȤȡȩȞȠȞ ਕįȡȚIJȠȞ); 6) a VI, 57,5, nel contesto di uno dei passi politologicamente più signicativi delle Storie, laddove Polibio illustra la degenerazione della democrazia in oclocrazia, i presupposti di questo processo sono indicati nella supremazia ottenuta (ਫ਼ʌİȡȠȤȒ), in una signoria incontrastata (įȣȞĮıIJİȓĮȞ ਕįȒȡȚIJȠȞ) e nella conseguente prosperità (ਕįȒȡȚIJȠȞ); 7) a X, 36,3 i Cartaginesi ritengono di esercitare sulla Spagna un dominio incontrastato (ਕįȒȡȚIJȠȞ) dopo la scontta di P. e Cn. Cornelio Scipione nel 211 a.C.; 8) a XII, 16,7 il cosmopolide di Locri denisce così (ਕįȒȡȚIJȠȞ) il possesso incontrastato di un bene conteso, in questo caso uno schiavo, da parte di due giovani Locresi all’interno della polemica di Polibio contro Timeo sull’esistenza di
3 Etymol. magnum et genuinum I, 69 Lasserre-Livadaras; Hesych. 1100; Lex. Suda I, 49 Adler. 4 L’enumerazione è per ora volutamente imprecisa: come si vedrà infra, se Plutarco può essere considerato nelle Vite anche uno storico, una delle tre citazioni proviene da uno scritto dei Moralia; inoltre sarà essenziale distinguere tra citazioni dell’aggettivo e citazioni del corrispondente avverbio. 5 Clem. Alex., Strom. V, 1,8,3; Euseb., Vita Constantini II, 4; Theodoret., Therap. III, 42.
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Zaleuco e la paternità della sua legislazione; 9) a XV, 10,2 Scipione nell’allocuzione alle sue truppe prima della battaglia di Zama proclama che la vittoria avrebbe dato a Roma una egemonia e una signoria incontrastate (ਕįȒȡȚIJȠȞ) su tutta l’ecumene; 10) a XXXI, 25,6 inne Polibio, riallacciandosi a Catone, data l’inizio della decadenza morale dei Romani all’epoca (168 a.C.), in cui la scontta denitiva della Macedonia aveva reso incontrastato (ਕįȒȡȚIJȠȞ) il loro dominio. Delle dieci occorrenze è abbastanza irrilevante quella in forma avverbiale al n° 4. Di eccezionale interesse è invece la n° 8, in cui la forma aggettivale è usata in un contesto giuridico (per l’esattezza di diritto privato) e sembra restituirci la citazione letterale di una disposizione contenuta nella cosiddetta costituzione di Zaleuco, cioè, più realisticamente, nel corpus legislativo di Locri Epizeri6; se così fosse, ciò amplierebbe in modo considerevole la conoscenza della storia prepolibiana del nostro termine: infatti esso riemerge in un ambito non letterario, epico-tragico, ma giuridico, e tuttavia i due ambiti sono collegati tra loro, soprattutto in epoca arcaica, e condividono scelte lessicali auliche e ricercate, che possono gradualmente divenire anche tecnicismi giuridici. Gli altri otto casi sono invece saldamente omogenei: sia che si parli dell’egemonia spartana (n. 1) o della talassocrazia punica (n. 2) o dell’utopica aspirazione dei Greci alla pace (n. 5), sia che ci si riferisca all’illusoria egemonia di Cartagine in Spagna tra la morte dei due Scipioni e l’arrivo del loro consanguineo e vendicatore (n. 7) o all’egemonia romana sull’Asia (n. 3) o a quella sull’ecumene grazie al trionfo sempre di uno Scipione a Zama (n. 9), sia inne che si accenni ai rischi dell’egemonia e al conseguente declino in un futuro ormai imminente (n. 6 e n. 10), in tutti questi passi l’aggettivo ਕįȒȡȚIJȠȢ è sempre unito a termini come ਲȖİȝȠȞȓĮ, įȣȞĮıIJİȓĮ,
6 Si può qui solo accennare ai problemi suscitati da XII, 16, un capitolo, di cui è incerta anche la collocazione all’interno del libro (cf. L. PRANDI, Polibio e Callistene: una polemica non personale?, in G. SCHEPENS, J. BOLLANSÉE (ed. by), The Shadow of Polybius. Intertextuality as a Research Tool in Greek Historiography, Leuven, 2005, 73-87); nella polemica contro Timeo (cf. G. SCHEPENS, Polemic and Methodology in Polybius’ Book XII, in H. VERDIN, G. SCHEPENS, E. DE KEYSER (eds.), Purposes of History. Studies in Greek Historiography from the 4th to the 2nd Centuries B.C., Leuven, 1990, 39-61), accusato di negare l’esistenza di Zaleuco e, più in genere, di fare un uso disinvolto dei documenti, Polibio potrebbe essersi servito di Eforo (così P. PÉDECH, Polybe. Histoires. Livre XII, Paris, 1961, 103-104), ma potrebbe anche avere consultato direttamente le leggi di Locri. Su Polibio e Locri Epizeri cf. D. MUSTI, Problemi della storia di Locri Epizeri, in Atti del XVI Convegno di studi sulla Magna Grecia, Napoli, 1977, 21-146; sull’uso dei documenti in Polibio cf. L. PRANDI, Tre riessioni sull’uso dei documenti scritti in Polibio, in A.M. BIRASCHI, P. DESIDERI, S. RODA, G. ZECCHINI (a cura di), L’uso dei documenti nella storiograa antica, Napoli, 2003, 373-390, soprattutto pp. 383-384.
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ਕȡȤȒ (o direttamente utilizzato o insito in ਫ਼ʌȐȡȤİȚȞ)7, cioè a termini indicativi del potere, o, al più, a un termine come İੁȡȒȞȘ, che è collegato al raggiungimento dell’equilibrio politico interellenico. Se si riette che l’aggettivo in questione non è mai utilizzato in contesti analoghi da tutta la storiograa precedente a noi pervenuta e dunque non da Erodoto, Tucidide e Senofonte, né inoltre nelle Elleniche di Ossirinco e nelle Vite plutarchee riguardanti la storia greca di V-IV secolo e dunque in qualche modo riconducibili a fonti di quell’epoca, mi sembra ragionevole concludere che si tratti di una consapevole ed innovativa scelta lessicale dello storico di Megalopoli: anche se in tale scelta egli fosse stato preceduto da qualche storico di IV-III secolo per noi perduto (per esempio Duride o qualche storico locale), resta improbabile un uso sistematico e carico di signicato come quello che si ricava dalle Storie di Polibio. Egli volle infatti connotare con questo termine un grado di potenza tale da non avere più rivali e da non suscitare opposizioni degne di nota: un potere ਕįȡȚIJȠȢ è l’esito della cessazione dell’ȟȦࢡİȞ ijȩȕȠࢫ, per dirla in latino, del metus hostilis con tutte le pericolose conseguenze interne (corruzione e discordia civile) ed esterne (ਫ਼ʌİȡȘijĮȞȓĮ, arroganza verso i vinti e, più in genere, verso gli altri) che ciò comporta8; in tal senso è importante sottolineare che Polibio contraddistingua con questo vocabolo il potere egemonico già di Sparta e di Cartagine, ma poi soprattutto di Roma sia nei momenti topici della sua costituzione (Zama; la vittoria sui Galati e l’acquisito controllo dell’Asia), sia nel momento di potenziale inizio del suo declino (la ne della monarchia macedone nel 168), sia inne nella riessione teorica su come una democrazia può degenerare in oclocrazia: ora, l’intero progetto storiograco di Polibio ruota, come peraltro è ben noto9, in un primo tempo intorno all’esigenza di spiegare la formazione della signoria di Roma sull’ecumene nei cinquantatré anni tra lo scoppio della II guerra punica e la ne della III guerra macedonica e poi, in un secondo tempo, intorno all’interrogativo se la decadenza di
7 Più precisamente ਕȡȤȒ compare nell’occorrenza n. 3, mentre si ricava da ਫ਼ʌȐȡȤİȚȞ nelle occorrenze n. 7 e n. 10. 8 Cf. G. ZECCHINI, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, Tyche 10, 1995, pp. 219 (= cap. XI). 9 Mi limito quindi a poche indicazioni bibliograche: F.W. WALBANK, Polybius, Berkeley-Los Angeles, 1972; ID., Polybius’ last ten books, in Historiographia antiqua. Commentationes Lovanienses in honorem W. Peremans septuagenarii editae, Leuven, 1977, 139-172; ID., A Greek looks at Rome: Polybius VI revisited, SCI 17, 1998, 45-59; D. MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli, 1978; C.B. CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’s Histories, Berkeley-Los Angeles-London, 2004.
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Roma è già cominciata oppure no; se ne deve quindi concludere che proprio in contesti di tal genere, non narrativi, ma tesi a denire la natura dell’oggetto di tutta l’opera (il potere egemonico in sé, quello di Roma in particolare) l’adozione di un certo termine piuttosto che di un altro non possa essere casuale, ma dipenda da una riessione ponderata e consapevole. Si è visto che l’aggettivo ਕįȡȚIJȠȢ ha le sue uniche, sicure ascendenze nel linguaggio epico-tragico e forse vi unisce un uso giuridico in testi legislativi arcaici. Ora, l’importanza di Omero per Polibio, soprattutto nel libro XII come storico e nel libro XXXIV come geografo, non ha bisogno di essere ribadita: il Megalopolitano è un intransigente difensore di Omero verso qualsiasi tipo di critica fosse stata rivolta alla sua auctoritas10; la sua stima per il poeta si estende alla sua imitazione (per esempio nella descrizione della reggia di un régolo iberico, esemplicata su quella di Alcinoo, re dei Feaci)11 e all’inserimento nel proprio lessico di vocaboli sia prettamenti omerici, sia più latamente epico-tragici; d’altronde anche il forte inusso di Erodoto su Polibio, che è stato di recente posto in rilievo12, dovette contribuire alla particolare sensibilità del nostro storico verso il linguaggio omerico. L’importanza di Eschilo per Polibio all’interno degli autori tragici è dal suo canto indubbia: il maggior studioso della lingua e dello stile del Megalopolitano ha registrato 97 vocaboli provenienti dalla poesia arcaica e di questi oltre una trentina, cioè un terzo circa, sono eschilei13. ਝįȒȡȚIJȠࢫ rientra incontestabilmente in tutte queste categorie: scegliendolo Polibio intese, a mio avviso, conferire un colorito e una solennità epico-tragica alla sua denizione dell’egemonia politico-militare in genere, di quella ecumenica di Roma in special modo; ricordo inoltre che in Eschilo ਕįȒȡȚIJȠȢ è la forza del destino, qualcosa di ineluttabile ed irresistibile, e dunque trasferendolo su concetti quali ਲȖİȝȠȞȓĮ e simili lo storico di Megalopoli volle sottolineare la fatalità e l’inevitabilità di alcuni processi storici e soprattutto
10 Su Polibio e Omero cf. da ultimo M. VERCRUYSSE, Polybe et les épopées homériques, AncSoc 21, 1990, 293-309. 11 Polyb. XXXIV, 5,14-15 su cui cf. P. MORET, Los monarcas ibéricos en Polibio y Tito Livio, CuPAUAM 28/29, 2002/2003, 23-33. 12 Da K. CLARKE, Polybius and the nature of late Hellenistic historiography, in J. SANTOS YANGUAS, E. TORREGARAY PAGOLA (eds.), Polibio y la península ibérica, VITORIAGASTEIZ, 2003, 69-87. 13 J.A. DE FOUCAULT, Recherches sur la langue et le style de Polybe, Paris, 1972, 3740, che sottolinea con forza il fondo più tragico che epico della lingua di Polibio. Ancora prezioso C. WUNDERER, Zitate und geügelte Worte bei Polybios im Zusammenhang mit der ästhetisch-literarischen Richtung des Historikers untersucht, Leipzig, 1901 = Aalen, 1969.
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dell’inizio e della ne della supremazia da parte di una città, di un popolo, di un regno, in una parola delle translationes imperii14. Questi passaggi di potere, queste mutazioni nei rapporti tra entità politiche sono sempre eventi traumatici e quindi tragici, implicano colpe e meriti, castighi e ricompense, ma sembrano in qualche misura sfuggire alla nostra piena comprensione (al di là della spiegazione ‘costituzionale’ del predominio di Roma) e dipendere da un’oscura IJȪȤȘ, in cui sola si può rifugiare Polibio, forse non scettico, ma certo non provvidenzialista15. In questo suo giudizio e nella conseguente adozione di ਕįȒȡȚIJȠȢ per esprimerlo si può cogliere un’ulteriore eco della polemica di Aristotele contro la storiograa, del suo confronto fra poesia (tragica) e storia, degli sforzi della storiograa ellenistica di tener conto di queste obiezioni e di superarle16. La fortuna del termine ਕįȒȡȚIJȠȢ in campo storiograco non si esaurisce con Polibio; vale la pena di seguirne gli sviluppi successivi, poiché essi potrebbero essere utili per illustrare il ruolo del Megalopolitano nella storiograa tardo ellenistica ed imperiale anche da un punto di vista lessicale.
14 Sulla translatio imperii in età ellenistica cf. A. MOMIGLIANO, Daniele e la teoria greca della successione degli imperi, RAL 35, 1980, 157-162; G. ZECCHINI, Una nuova testimonianza sulla translatio imperii (Aristosseno, Vita di Archita, fr. 50 Wehrli), Klio 70, 1988, 362-371; F. MUCCIOLI, Aspetti della translatio imperii in Diodoro: le dinastie degli Antigonidi e dei Seleucidi, in C. BEARZOT, F. LANDUCCI GATTINONI (a cura di), Diodoro e l’altra Grecia. Macedonia, Occidente, Ellenismo nella Biblioteca storica, Milano, 2005, 183-222. 15 Su Polibio e la IJȪȤȘ cf. P. PÉDECH, La méthode historique de Polybe, Paris, 1964, 331-354; E.S. GRUEN, The Hellenistic World and the Coming of Rome, Berkeley-Los Angeles, 1984, 344 e 350; F.W. WALBANK, For Fortune (IJȪȤȘ) in Polybius, in J. MARINCOLA (ed.), A Companion to Greek and Roman Historiography, II, MALDEN, 2007, 349-355; M.R. GUELFUCCI, Polybe, la Tyche et la marche de l’histoire, in F. FRAZIER, D.F. LEÃO (eds.), Tychè et pronoia. La marche du monde selon Plutarque, 2010 (https://bdigital.sib.uc.pt/jspui/ handle/123456789/51), 141-167. Più in generale su Polibio e la religione cf. P. PÉDECH, Les idées religieuses de Polybe, RHR 44, 1965, (1965), 35-68; A.J.L. VAN HOOFF, Polybius’ Reason and Religion. The Relations between Polybius’ Casual Thinking and his Attitude towards Religion in the Studies of History, Klio 59, 1977, 101-128; A. CR. RODRIGUEZ, El problema de la religión en las Historias de Polibio, MHA 10, 1989, 73-86. 16 Di nuovo non è questa la sede per entrare nella nota querelle sulla storiograa ‘tragica’ e sui suoi legami o col teatro o con la critica aristotelica; mi limito ad osservare che riguardo all’eventuale inusso di Aristotele sulla storiograa ellenistica tra la posizione negativa di F.W. WALBANK, History and Tragedy, Historia 9, 1960, 216-234 e quella più ottimista di V. GRAY, Mimesis in Greek Historical Theory, AJPh 108, 1987, 467-486 è forse da preferire la seconda; ulteriore bibliograa in G. ZECCHINI, La storiograa lagide, in VERDIN, SCHEPENS, DE KEYSER (eds.), Purposes of History, 213-232, particolarmente 221 n. 31; da ultimo cf. anche É. FOULON, Histoire et tragédie chez Polybe, in D. AUGER, J. PEIGNEY (éds.), Phileuripidès. Mélanges offerts à François Jouan, Paris, 2008, 687-701.
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Il nostro vocabolo torna in Diodoro con quattro occorrenze. A IV, 14,2 è adoperato in forma avverbiale per caratterizzare le vittorie di Eracle durante i giochi fondativi delle Olimpiadi; a XVI, 84,1 così è denita l’egemonia sull’Ellade, a cui Filippo II aspirava nel 338 e per cui doveva rimuovere l’ostacolo rappresentato da Atene17; a XVII, 77,4 così è denita la signoria di Alessandro sull’Asia a partire dall’anno 329, cioè dall’anno successivo a quello della morte di Dario III; a XVIII, 73,1 inne così è denita l’egemonia sul mare e sull’Asia, a cui Antigono Monoftalmo aspirava dopo la vittoria navale a Bisanzio nel 31818. Ora, non mi pare casuale che Diodoro impieghi l’aggettivo ਕįȒȡȚIJȠȢ sempre in collegamento con sostantivi (e concetti) come ‘egemonia’, ‘signoria’, ‘talassocrazia’, esattamente come aveva fatto Polibio; d’altra parte il termine non può essere ricondotto a un’ipotetica fonte di Diodoro, perché nei libri XVI, XVII e XVIII egli non segue certo il medesimo autore; mi sembra quindi lecito concludere per un’inuenza lessicale (e concettuale) di Polibio su Diodoro, che ne mutua la scelta di un determinato vocabolo per connotare un potere incontrastato o l’aspirazione ad esso. Dopo Diodoro c’è poco. Appiano negli ਫȝijȪȜȚĮ III, 2,20 usa ਕįȒȡȚIJȠȞ all’interno di un discorso di Antonio per indicare che l’eredità dei beni privati di Cesare non deve essere ritenuta dal giovane Ottaviano qualcosa di scontato e a IV, 17,132 usa il duale dello stesso aggettivo per riferirsi a Bruto e Cassio, che sarebbero stati appunto impareggiabili per virtù. Plutarco adopera solo la forma avverbiale, nella Vita di Pompeo a 76,2 per sottolineare l’incontestabile superiorità sul mare, che ancora restava a Pompeo dopo Farsalo, nella Vita di Cesare a 3,3 per assegnare a Cesare un incontestabile secondo posto dietro a Cicerone nell’oratoria romana, nell’Amatorius a 763e per assegnare a Solone un incontestabile primato nella virtù. Inne Flavio Giuseppe a BJ III, 2,4 si serve sempre dell’avverbio per assegnare incontestabilmente ad Antiochia il terzo posto tra le grandi città dell’impero dopo Roma ed Alessandria. Come si vede, l’impiego del nostro termine, per lo più in forma avverbiale, non risulta ormai dotato di alcuna pregnanza politologica, situato com’è in contesti diversi tra loro e non particolarmente signicativi. Quest’ultimo esito negativo rafforza, a mio avviso, il ruolo svolto da ਕįȒȡȚIJȠȢ nella coppia ‘Polibio / Diodoro’ e aiuta ad aggiungere un tas-
17 Il passo è diodoreo, non dipendente dalla fonte utilizzata nel contesto anche per M. SORDI (ed.), Diodori Siculi Bibliothecae liber XVI, Firenze, 1969, 145-146. 18 L’aspirazione del Monoftalmo era evidentemente in contrasto col titolo dato da Poliperconte ad Eumene di ıIJȡĮIJȘȖઁࢫ IJોࢫ ތǹıȓĮȢ ĮIJȠࣀȡȐIJȦȡ (Diod. XVIII, 58,1); cf. F. LANDUCCI GATTINONI, Diodoro Siculo. Biblioteca storica. Libro XVIII, Milano, 2008, 268.
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sello assai circoscritto, ma non privo di interesse, alla storia della ricezione di Polibio nella storiograa successiva. Il successo e il prestigio di Polibio furono immediati e rimasero costanti all’interno della cultura di lingua greca, da Posidonio alla triade augustea formata da Diodoro, Strabone e Dionisio d’Alicarnasso no ad autori imperiali come Flavio Giuseppe, Plutarco e Appiano19; tuttavia l’adozione e l’uso di ਕįȒȡȚIJȠȢ si arresta a Diodoro: che cosa accomunava allora Diodoro, il Diodoro ‘ellenistico’ dei libri XVI-XVIII, e solo lui, a Polibio? In quanto storici dell’ellenismo, essi erano condotti a riettere sulla natura dell’egemonia, la sua formazione, la sua durata, la sostanziale differenza tra le precedenti egemonie e quella sopraggiunta con l’avvento di Roma e necessitavano quindi di un vocabolario adeguato per descrivere questo fenomeno: ਕįȒȡȚIJȠȢ è allora uno dei termini più evocativi ed imprescindibili in tale contesto. Nei successivi autori dell’alto impero il dominio di Roma era un dato di fatto e l’analisi sull’egemonia e i suoi caratteri aveva perduto d’urgenza: accantonato il concetto, anche la corrispondente terminologia cadde in disuso.
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Cf. infra, cap. XVI.
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CAPITOLO XIII LA ‘COSTITUZIONE’ ROMANA: STORIA DI UN FRAINTENDIMENTO
La democrazia pare oggi un valore politico non criticabile: non il peggiore dei sistemi di governo esclusi tutti gli altri (Churchill), ma il migliore possibile. Questa assolutizzazione della democrazia è un processo parallelo all’espansione dell’egemonia americana: gli Stati Uniti sono gli ambasciatori e gli esportatori della democrazia come di una forma di governo strettamente connessa ai valori, in cui essi si riconoscono; di conseguenza allargare l’area della democrazia è tutt’uno con l’allargare l’area dell’‘impero americano’. Questa premessa implica l’identicazione della democrazia con quella statunitense; si potrebbe obiettare che si sono proposti e sono operativi modelli diversi di democrazia, da quello monopartitico delle repubbliche democratiche di sovietica memoria a quello cantonale della Svizzera. In genere, però, le democrazie moderne si caratterizzano dal loro essere rappresentative e quindi indirette; perciò è frequente soprattutto tra gli studiosi di scienze dell’antichità la distinzione tra la democrazia degli antichi, diretta, e quella dei moderni, appunto indiretta, come tra due esperienze politiche, che avrebbero in realtà in comune solo il nome. Naturalmente non credo che sia così: un nome comune rimanda a una sfera di concetti e di esigenze afni, di cui erano ben consapevoli nel XVIII secolo i padri inglesi e poi americani della moderna democrazia, tutti impregnati di cultura classica e portati almeno a misurarsi col
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modello di Atene proprio nella misura in cui erano democratici1, mentre i fautori di altri sistemi politici, p.e. nel XIX secolo tutti i discepoli di Hegel, ebbero sempre in gran dispregio l’esperienza politica attica. Resta il fatto che la democrazia antica, con cui si è misurata la politologia moderna, è sempre stata quella ateniese, cioè la democrazia radicale, in cui tutti i cittadini erano soggetti attivi e passivi della politica. Non è detto però che per gli stessi antichi la forma ateniese della democrazia fosse l’unica possibile: proprio Polibio, il più grande storico e politologo dell’età ellenistica, non aveva in nessuna considerazione il sistema politico dell’Atene classica2, ma riteneva che i propri compatrioti, gli Achei, avessero attuato un giusto ed equilibrato (cioè moderato) sistema democratico, un țȠȚȞંȞ di tipo federale, e quindi rappresentativo, dove l’assemblea di governo era un’assemblea di delegati, non di tutti i cittadini3. Polibio non era solo, anzi era in ottima compagnia all’interno del vivace dibattito ellenistico sulle diverse forme di governo, che si fondava sulla duplice riessione della Repubblica e del Crizia di Platone e della Politica di Aristotele e sulla convinzione assai diffusa che la miglior forma di governo secondo natura fosse la monarchia (si pensi al ʌİȡ ȕĮıȚȜİĮȢ di Epicuro, al Del buon re secondo Omero dell’epicureo Filodemo, ai trattati sulla regalità di Diotogene, Stenida ed Ecfanto)4: naturalmente il problema non teorico, ma storico era quello di conciliare il nobile ideale monarchico, che si deduceva da Omero, con la minacciosa realtà monarchica prima degli Argeadi e poi delle dinastie ellenistiche, soprattutto degli Antigonidi, che incombeva sul mondo delle ʌંȜİȚȢ e dei loro principi di autonomia e libertà. Aristotele aveva allargato l’indagine sulle ʌȠȜȚIJİȚ˜ĮȚ anche a costituzioni non greche, bensì barbariche e tra queste un interesse speciale destava
1 Cfr. da ultimo A. STELLA, Dalle costituzioni degeneri nella ‘Repubblica’ di Platone alla perfettibilità della costituzione americana, RAL 398, 2001, 419-433 oltre al classico D. KAGAN, Pericles of Athens and the birth of democracy, London 1990. 2 Polyb. VI,44, su cui cfr. G. ZECCHINI, Polibio e la storia non contemporanea, in P. DESIDERI-S. RODA-A.M. BIRASCHI (edd.), Costruzione e uso del passato storico nella cultura antica, Alessandria 2007, 213-223 (= cap. I). 3 Polyb. II,38 su cui D. MUSTI, Polibio e la democrazia, ASNP 36, 1967, 155-207; ID., Demokratia. Origini di un’idea, Bari-Roma 1999², 299-301; P.A. TUCI, La democrazia di Polibio tra eredità classica e federalismo, in C. BEARZOT-F. LANDUCCI-G. ZECCHINI (edd.), Gli stati territoriali nel mondo antico, Milano 2003, 45-86; B. VIRGILIO, Polibio, il mondo ellenistico e Roma, Athenaeum 95, 2007, 49-73, soprattutto pp. 54-60. 4 Su questi autori e testi cfr. rapidamente D.E. HAHM, Kings and Constitutions, in The Cambridge History of Greek and Roman Political Thought, Cambridge 2000, 457-476 e G. ZECCHINI, Il pensiero politico romano, Roma 20182, 62 e 96-97.
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la costituzione di Cartagine ; secondo lo Stagirita questa costituzione era abbastanza simile a quella spartana e poteva denirsi una via di mezzo tra aristocratica e oligarchica; d’altra parte, i due suffeti rappresentavano il potere monarchico, il senato (e, al suo interno, il Sacro Consiglio) quello aristocratico e l’assemblea dei cittadini quello democratico, mentre il consiglio dei 104, in quanto alta corte di giustizia, costituiva un quarto elemento di ripartizione del potere, impropriamente accostato da Aristotele all’eforato6: di conseguenza il sistema politico cartaginese poteva anche essere classicato come ‘misto’ e in quanto tale Catone7 lo recepì con ogni probabilità dagli sviluppi postaristotelici della scienza politica ellenistica. Il secondo successore di Aristotele alla guida del Liceo, Dicearco di Messene, aveva composto un IJȡȚʌȠȜȚIJȚțઁȢ ȜંȖȠȢ per concludere che la costituzione ideale sarebbe dovuta scaturire da un equilibrato dosaggio delle tre categorie costituzionali individuate da Aristotele, la monarchica, l’aristocratica e la democratica; nonostante avesse studiato in apposite monograe le costituzioni di Pellene, di Corinto e appunto di Atene, egli concluse con ogni probabilità su suggestioni già platoniche che la costituzione più vicina a questo modello ideale ‘misto’ era quella consegnata a Sparta da Licurgo8, quanto di più lontano da Atene offriva l’esperienza politica dell’Ellade. Sulla Sparta di Licurgo come miglior costituzione la convergenza tra Dicearco e Polibio è innegabile. Già all’inizio del VI libro9, nella parte più teorica, la costituzione di Licurgo è menzionata come la più
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Arist. Polit. 1272b-1273b. Sulle strutture generali del sistema politico cartaginese cfr. A. HUSS, Geschichte der Karthager, München 1986, 458-466; W. AMELING, Das Problem des karthagischen Staates, HZ 257, 1993, 109-131; K. JAHN, Die Verfassung Karthagos, Dike 7, 2004, 179-207. 7 Fr.80 Peter = 4,3 Beck-Walter = FRHist n°5 fr.148; H. BECK-U. WALTER, Die frühen römischen Historiker, Darmstadt 2001, I,198 parlano di interpretatio Romana della costituzione cartaginese da parte di Catone, ma si tratta in realtà di un’antecedente interpretatio Graeca, che Catone fa sua. T.J. CORNELL in FRHist, Oxford 2013, III, 157-158 sottolinea che il carattere misto della costituzione cartaginese era un tިpos ampiamente diffuso nella letteratura ellenistica. Sul frammento cfr. anche P. CATALANO, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi Grosso, Roma 1974, VI, 665-691. 8 E. MARTINI RE V [1905] Dikaiarchos coll. 546-563, soprattutto coll. 550-551; FR. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles. I: Dikaiarchos, Basel 1967², 64-66; per una più ampia contestualizzazione cfr. ora CHR. ROWE, The Peripatos after Aristotle, in The Cambridge History of Greek and Roman Political Thought, 390-395 e M. PANI, Il costituzionalismo di Roma antica, Roma-Bari 2010, 43-47. 9 Le più recenti e migliori analisi del VI libro di Polibio (esclusa l’ampia e centrale sezione militare) sono quelle di CR.B. CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’ Histories, Berkeley-Los Angeles 2004, 67-99 e di J. THORNTON, La costituzione mista in Polibio, in D. FELICE (a cura di), Governo misto, Napoli 2011, 67-118, ove vastissima bibliograa precedente. Di quanto sia debitore a quest’ultima si vedrà nelle note seguenti. 6
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perfetta ȝȚțIJ, una mescolanza di elementi monarchici (i due re), aristocratici (la ȖİȡȠȣıĮ) e democratici (l’assemblea dei cittadini) creata da un’unica mente e in base a un unico ragionamento così da evitare i rischi della degenerazione dei singoli elementi e così da conservare la libertà il più a lungo possibile10. Nella successiva comparazione tra le varie costituzioni, dopo avere scartato rapidamente quelle dei Tebani e degli Ateniesi e dopo aver discusso quella dei Cretesi, che qualcuno aveva, a suo avviso improvvidamente, paragonato con quella spartana, Polibio ritorna sulla costituzione di Licurgo per ribadirne la perfezione e la straordinaria durata sul fronte della politica interna11. Egli ammette che sul fronte della politica estera la costituzione spartana si è dimostrata inferiore a quella romana, perché Licurgo non si era occupato di questo aspetto, non lo aveva normato, lasciando spazio all’arroganza e all’avidità dei suoi compatrioti12, ma aveva già chiaramente affermato che sul fronte della politica interna i Romani arrivarono solo gradualmente, per tentativi e peripezie (įȚ į ʌȠȜȜȞ ਕȖઆȞȦȞ țĮ ʌȡĮȖȝIJȦȞ), ai medesimi esiti raggiunti d’un colpo solo dal legislatore laconico grazie al ȜંȖȠȢ13. Nell’evoluzione della ‘costituzione’ romana through trial and error Polibio è certamente inuenzato dalle sue frequentazioni romane, se non direttamente da Catone14, ma l’accezione orgogliosamente positiva, che Catone dava a questo processo graduale e anonimo, frutto dell’impegno di più generazioni e di un’intera collettività, è volto in negativo nel contesto polibiano dal confronto con Sparta; laddove Catone ritiene migliori le istituzioni maturate nel tempo grazie agli sforzi di un popolo tutto, Polibio continua a pensare che il ‘genio’ razionale di un solo Greco ha creato
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Polyb. VI,10. Cfr. THORNTON, La costituzione mista in Polibio, 88-90 e 112-113. Polyb. VI, 43-50. Virgilio, Polibio, il mondo ellenistico e Roma, 73 osserva giustamente che dalla comparazione sono esclusi sia i regni ellenistici, sia la lega achea: i primi perché tratteggiati in modo del tutto negativo subito prima, nel libro V (cfr. già L. TROIANI, Il funzionamento dello stato ellenistico e dello stato romano nel V e nel VI libro delle ‘Storie’ di Polibio in Ricerche di storiograa greca di età romana, Pisa 1979, 9-19), la seconda perché celebrata a parte e dunque sottratta a ogni confronto nel libro II. 12 Polyb. VI, 48, 6-8. 13 Polyb. VI, 10,14. Per la contrapposizione tra ȜȠȖȚıȝંȢ ellenico e șȣȝંȢ barbarico e per il concetto di ȜȠȖȚıȝંȢ in Polibio cfr. CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’ Histories, 84-90 e 255-259. 14 Così CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’Histories, 97 nota 87, THORNTON, La costituzione mista in Polibio, 91-92 e B. DREYER, Polybios, HILDESHEIM 2011, 40-50. Mi limito ad osservare che Catone non è citato da Polibio nel VI libro, ma solo a XXXI,25,5a, nella seconda parte delle Storie, scritta dopo il 146; per i rapporti tra i due cfr. cap. XI, p. 149 e infra nota 40. 11
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un prodotto per così dire ‘nito’, senza aver bisogno di diverse prove e tentativi; naturalmente questo non signica escludere la razionalità dai processi formativi delle istituzioni politiche romane15, ma solo ribadire la superiorità dell’Uno (Licurgo) sui Molti (i ciues Romani): qui Polibio e Catone non mi sembrano conciliabili16. In ultima analisi, se noi dovessimo fare una classica delle costituzioni antiche secondo Polibio, al primo posto ci sarebbe la Sparta di Licurgo, perché mista, perché nata da un disegno razionale e unitario e perché duratura, al secondo posto ex aequo si collocherebbero due costituzioni contemporanee, quella achea, non mista, bensì democratica, razionale, ma di incerta durata, e quella romana, mista con qualche robusto correttivo in senso aristocratico nella fase della maturità17, costruita nel tempo, anche attraverso errori e correzioni, capace di ritardare anche in misura sensibile, ma non di eliminare né il processo del declino biologico, né la correlata ਕȞĮțțȜȦıȚȢ18; al terzo posto verrebbe inne Cartagine, mista, ma con una preoccupante degenerazione in senso demagogico e con una congenita debolezza verso la corruzione: insieme con una situazione biologica sfavorevole (Cartagine era senescente, Roma nel ore dei suoi anni), questi furono in sostanza i due elementi di inferiorità nei confronti di Roma e quindi le vere cause della sua scontta19. Come si vede, si tratta di una classica, in cui i barbari (Romani e Cartaginesi) raggiungono posizioni più che onorevoli, ma in cui il primato della saggezza e della razionalità politica rimane ai Greci. È peraltro vero che per i moderni, da Machiavelli in poi, Polibio non è
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Così BR. MCGING, The Histories / Polybius, Oxford-New York 2010, 174 e THORNLa costituzione mista in Polibio, 91 nota 38; diversamente CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’Histories, 91. 16 Così già F. MILLAR, The Roman Republic in Political Thought, Hannover-London 2002, 30-34. 17 Polyb. 6,51,6 (e anche 23,14,1: ਕȡȚıIJȠțȡĮIJȚțઁȞ ʌȠȜIJİȣȝĮ). Sulla razionalità delle costituzioni spartana e achea secondo Polibio insiste a ragione CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’Histories, 139; sulle preferenze aristocratiche di Polibio cfr. G.J.D. AALDERS, Die Theorie der gemischten Verfassung im Altertum, Amsterdam 1968, 97-98 e THORNTON, La costituzione mista in Polibio, 114-115. 18 Cfr. da ultimo ST. PODES, Polybios’ Anakyklosis-Lehre, diskrete Zustandssysteme und das Problem der Mischverfassung. Klio 73, 1991, 382-390; W. BLÖSEL, Die AnakyklosisTheorie und die Verfassung Roms im Spiegel des sechsten Buches des Polybios und Ciceros De re publica, Buch II, Hermes 126, 1998, 31-57; MILLAR, The Roman Republic in Political Thought, 35-37. 19 Degenerazione della costituzione cartaginese. Polyb. VI,51,6-7; corruzione a Cartagine: Polyb. VI,56,1-5; su questo secondo punto cfr. G. ZECCHINI, Polibio e la corruzione, RSA 36, 2006, 23-33 (= cap. X); più in genere sul confronto tra costituzione cartaginese e costituzione romana cfr. THORNTON, La costituzione mista in Polibio, 113-116. TON,
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certo lo studioso di costituzioni greche, bensì il primo politologo che meditò sulla ‘costituzione’ romana e la illustrò ai suoi lettori greci. In effetti l’impatto di Roma sul pensiero politico greco fu esplosivo: com’era possibile che quei barbari si fossero impadroniti con irrisoria facilità dell’egemonia mondiale? La superiorità militare della legione manipolare sulla falange, emersa a Cinoscefale in misura umiliante per la IJȤȞȘ greca, parve solo una conseguenza di una spiegazione più radicale: infatti solo la superiorità intrinseca del loro sistema politico-sociale poteva giusticare il loro successo; d’altra parte un sistema politico-sociale non era concepibile per i Greci senza un preciso riferimento a un qualche modello di costituzione e quindi all’interrogativo sulle ragioni della supremazia romana si doveva rispondere sul piano costituzionale20. Dopo essersi posto in questa prospettiva, obbligata per le sue categorie mentali, ma rischiosa perché fuorviante21, Polibio si convinse di aver individuato il segreto di Roma proprio nella natura ‘mista’ della sua ‘costituzione’: pur barbari, i Romani avevano saputo realizzare l’ideale dicearchico di una forma di governo perfettamente equilibrata nelle sue tre componenti, monarchica, aristocratica e democratica; avevano inconsapevolmente posto in pratica le più audaci teorizzazioni della politologia greca, dimostrandone l’esattezza; avevano completato l’equilibrio e la libertà interne vigenti a Sparta con l’efcienza nella politica estera e la giustizia nei confronti dei popoli vinti. Individuato il presupposto (la costituzione mista), bisognava dimostrarlo o, se si preferisce, riempirlo di contenuti; perciò Polibio andò alla ricerca degli elementi monarchici, aristocratici e democratici presenti nella ‘costituzione’ romana e, essendo già sicuro che dovevano esserci, ritenne di averli trovati: nel consolato collegiale vide l’elemento monarchico, nel senato l’elemento aristocratico, nel tribunato della plebe e soprattutto nei comizi, dove tutti i cittadini potevano votare per eleggere i magistrati e approvare o respingere le proposte di legge, l’elemento democratico. Questa semplicistica costrizione del sistema politico romano nel letto 20 In assenza di costituzione scritta Polibio aveva ben chiaro che era opportuno riferirsi alle istituzioni politiche di Roma e, ancor meglio, ai suoi șȘ țĮ ȞંȝȠȚ (Polyb. VI,47,2). Cfr. A. ERSKINE, How to rule the World: Polybius Book 6 reconsidered, in BR. GIBSON-TH. HARRISON, Polybius and his World. Essays in memory of F.W. Walbank, Oxford 2013, 231245, pp. 233-234. 21 F. MILLAR, Polybius between Greece and Rome, in J.T. KOUMOULIDES (ed.), Greek Connections, Bloomington 1987, 1-18 = Rome, the Greek World and the East, CHAPEL HILL 2006, III, 91-105, p. 94 sottolinea che cercare di spiegare il sistema politico romano in termini greci è di per sé operazione corretta: ciò è senz’altro vero, ma credo che la natura di Roma non si adattasse facilmente a categorie concettuali greche; di qui le difcoltà e gli equivoci, che in Polibio innegabilmente sono presenti.
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di Procuste della costituzione mista ha sollevato una fondamentale obiezione22: Polibio non accenna mai alla distribuzione dei cittadini romani nelle colonie e al fatto che la Roma dei suoi tempi non era più una cittàstato, ma la capitale di una complessa confederazione di socii (anche se di natura differente dalla confederazione achea e dunque dal modello di confederazione più noto e caro a Polibio stesso)23; proprio lo storico, che nella descrizione dell’organizzazione militare romana, mostra di essere ben conscio del contributo dei socii all’enorme potenziale demograco24 che la sosteneva, non si accorge invece che questo fattore era essenziale anche per descriverne la ‘costituzione’. L’omissione è di per sé notevole, ma si può almeno in parte giusticare con due considerazioni: 1) Polibio individua nei socii un fattore essenziale in ambito militare, perché essi combattono coi Romani, non in ambito politico, perché essi non sono cittadini e quindi non votano coi Romani: perciò ne tratta in tema di reclutamento ed esercito, non in tema di istituzioni; 2) Polibio inserisce il suo excursus all’altezza del disastro di Canne, quando, a suo avviso, il sistema politico romano toccò il suo apogeo25, rivelandosi all’altezza di fronteggiare una crisi di quella portata: ebbene, nel 216 Roma dovette fare appello soprattutto alle proprie forze, mentre la coesione degli alleati cominciava a manifestare preoccupanti crepe a causa di alcune signicative defezioni (Taranto, Capua). Più contestabile mi sembra l’identicazione polibiana degli elementi costitutivi della ȝȚțIJ. Dei consoli si è osservato che Polibio li accosta ai due re spartani26; che egli abbia creduto di ravvisare questa analogia è
22 Già F.W. WALBANK, Polybius, Berkeley-Los Angeles 1972, 155-156 denì failure il tentativo polibiano di comprendere la ‘costituzione’ romana (e cfr. anche ID., A Greek looks at Rome: Polybius VI revisited, SCO 17, 1998, 45-59); in seguito cfr. soprattutto T. CORNELL, The History of an Anachronism, in AA.VV., City-States in Classical Antiquity and Medieval Italy, STUTTGART 1991, 53-69, pp. 61-68 (che a p. 61 riprende la drastica denizione di Polybius’ failure, del fallimento di Polibio rispetto al suo tentativo di intendere il sistema politico romano), MILLAR, The Roman Republic in Political Thought, 23-37 (che manifesta invece alta stima verso Polibio, ma non se ne nasconde i gravi difetti) e ora H. MOURITSEN, Politics in the Roman Republic, Cambridge 2017, 7-12 (che esagera nel ritenere del tutto astratta la rappresentazione polibiana; giuste obiezioni in G. CLEMENTE, Democracy without the people: the impossible dream of the Roman oligarchs (and of some modern scholars), QS 87, 2018, 87-119, pp. 92-94); efcace, pur se forse troppo generosa difesa di Polibio in E. GABBA, L’invenzione greca della costituzione romana, in S. SETTIS (a cura di), I Greci, 2,III, Torino 1998, pp. 857-867. 23 Come rileva MILLAR, Polybius between Greece and Rome, cit., 99. 24 Polyb. VI,21,4-5; 26,5-7 e soprattutto II,24. 25 Polyb. VI,11,1 e 51,5-8, su cui ha insistito a più riprese CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’s Histories, passim. 26 K. SANDBERG, Re-constructing the political System of Republican Rome, Arctos 39, 2005, 137-157, pp.155-156.
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probabile, ma essa non regge: i consoli romani erano elettivi, duravano in carica un solo anno e ricevevano l’imperium dai comizi curiati attraverso una lex sacrata; essi erano magistrati senza alcuna componente di regalità, di cui i Romani sapevano che i loro avi li avevano creati dopo la cacciata dei re e al posto di un potere, il nomen regium, esecrando per loro27. Il senato era un organo di governo senza poteri ben deniti controllato da una nobilitas, in cui si poteva entrare per i propri meriti come homines novi e da cui si poteva uscire per i propri demeriti, se colpiti da nota censoria o se dopo due-tre generazioni i discendenti di un nobilis continuavano a deludere le attese di cariche e di onori in loro riposte; dunque i Romani non avevano un’aristocrazia di sangue, ma appunto una nobilitas di merito, e di conseguenza non avevano un įોȝȠȢ contrapposto agli ਙȡȚıIJȠȚ, ma un populus, che inglobava tutti i Quirites. I tribuni della plebe erano stati in origine i leaders di un movimento secessionista (sul monte Sacro), poi i rappresentanti della plebe (non del popolo) e solo con la lex Hortensia del 287 erano tecnicamente divenuti magistrati della repubblica: affermare, come scrive Polibio, che essi dovevano eseguire sempre la volontà del popolo28 era per lo meno anacronistico, se non puramente teorico; affermare che essi erano gli unici magistrati sottratti alla potestà consolare era invece corretto29, ma andava appunto spiegato con la loro origine. I comizi, di cui Polibio omette la fondamentale distinzione tra centuriati e tributi, erano assemblee di tutti i cittadini, nobili e non, e detenevano il potere elettivo, giudiziario e legislativo: i Romani ben sapevano, come ci testimonia l’anonimo autore della Rhetorica ad Herennium, che la legittimità del potere, la potestas, risiedeva nei comizi e da questi era trasferito ai magistrati30, mentre è solo una deformazione postsillana l’affermazione di Cicerone che il senato era uno dei due fondamenti della repubblica31; il populus Roma-
27 Cfr. ora F. RUSSO, L’odium regni a Roma tra realtà politica e nzione storiograca, Pisa 2015. 28 Polyb.VI,15,5: ੑijİȜȠȣıȚ įૃ ਕİ ʌȠȚİȞ Ƞੂ įȝĮȡȤȠȚ IJઁ įȠțȠ૨Ȟ IJ įȝ. Giustamente F.W. WALBANK, A Historical Commentary on Polybius, I, Oxford 1957, 691-692 notava che proprio la peculiarità tutta romana del tribunato della plebe si sottraeva alle schematizzazioni greche di Polibio e dovette indurlo a un profondo fraintendimento della sua natura. Secondo R. SEAGER, Polybius’ Distortions of the Roman ‘Constitution’. A Simpl(istic) Explanation, in BR. GIBSON-TH. HARRISON, Polybius and his World. Essays in memory of F.W.Walbank, Oxford 2013, 247-254 le semplicazioni e le omissioni di Polibio, da lui stesso ammesse a VI,11, sarebbero coscienti per far corrispondere la ‘costituzione’ romana allo schema teorico della costituzione mista. 29 Polyb. VI,12,2: Ƞ IJİ Ȗȡ ਙȡȤȠȞIJİȢ Ƞੂ ȜȠȚʌȠ ʌȐȞIJİȢ ਫ਼ʌȠIJȐIJIJȠȞIJĮȚ țĮ ʌİȚșĮȡȤȠ૨ıȚ IJȠȪIJȠȚȢ ʌȜȞ IJȞ įȘȝȐȡȤȦȞ. 30 Rhet. ad Herennium II,17: suffragia populi et consilium magistratus. 31 Cic. De re p. II,10,17 (insieme con gli auspicia).
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nus Quirites ‘è’ la repubblica, ma questo non deve signicare che Roma fosse una democrazia per il semplice motivo che mai i Romani avrebbero connotato il loro sistema politico con un termine greco del tutto fuorviante nel suo signicato. Infatti il termine ‘democrazia’, nato per designare il governo di tutta la cittadinanza, venne ben presto a rispecchiare nella realtà la spaccatura interna alle città greche tra il įોȝȠȢ, il popolo, e gli ਙȡȚıIJȠȚ, che non si riconoscevano nel principio di maggioranza; ora, una tale divisione non era ritenuta degna del popolo Romano, che comprendeva nell’ideale della concordia ordinum, della concordia tra ceti sociali, l’intero corpo civico; solo dopo l’età dei Gracchi sorsero le due fazioni degli optimates e dei populares, ma non si giunse mai a una loro teorizzazione, anzi si ricercò il loro superamento: così da un lato Cicerone volle allargare gli optimates nei boni (una specie di ‘maggioranza silenziosa’ estesa ai ceti abbienti italici), dall’altra Cesare e Sallustio denunciarono l’oppressione dell’intero popolo romano da parte dei nobili, che formavano una factio paucorum, una minoranza faziosa32; in entrambi i casi il principio di maggioranza non era contestato. La concordia ordinum, non il prevalere del įોȝȠȢ, è presupposto e, insieme, esito del buongoverno33. L’enorme prestigio di Polibio ha condizionato l’intero dibattito moderno su ‘La costituzione di Roma’ e su ‘Roma e la democrazia’. Si fatica a liberarsi del fantasma di Polibio: in altre parole, si continua a discutere su quale tipo di costituzione vigesse a Roma (aristocratica per Chr. Meier e la sua scuola, democratica per Millar e la nuova ‘ortodossia’ anglosassone)34 e su quale e quanta democrazia ci fosse a Roma35 solo perché
32 Caes. BC I,22,3; Sall. BI 31. Su optimates e populares cfr. da ultimo M.T. SCHETTINO, I partiti politici nell’età postsillana e G. ZECCHINI, I partiti politici nella crisi della Repubblica, in G. ZECCHINI (ed.), ‘Partiti’ e fazioni nell’esperienza politica romana, Milano 2009, rispettivamente 87-104 e 105-120 (ove bibliograa precedente), nonché, con tesi cha lascia un poco perplessi, M.A. ROBB, Beyond «populares» and «optimates»: political language in the late Republic, STUTTGART 2010. Si badi che Cicerone traduce in latino i tre elementi della costituzione mista polibiana con i termini regnum, civitas optimatium, civitas popularis (cfr. MILLAR, The Roman Republic in Political Thought, cit., 51): ora, proprio l’equazione ਙȡȚıIJȠȚ = optimates e įોȝȠȢ = populares testimonia l’impossibilità di passare dalla terminologia politica greca a quella romana senza incorrere in gravi, inevitabili imprecisioni. 33 Per un rapido confronto dei vari modelli di res publica a Roma cfr. J. BLÄNSDORF, Les théories de l’Etat républicain, in Aere perennius. Mélanges H. Zehnacker, Paris 2006, 39-53. 34 Su questa bipartizione (che non vuole naturalmente escludere o ignorare importanti contributi di altre scuole storiograche, ma solo prendere atto delle tendenze oggi più diffuse e inuenti) cfr. G. ZECCHINI, In margine a ‘Rekonstruktionen einer Republik’ di K.J. Hölkeskamp, Studi Storici 47, 2006, 395-404. 35 Cfr. almeno CL. NICOLET, Polybe et la constitution de Rome: aristocratie et démocra-
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Polibio pose a suo tempo questi problemi. Come si è visto, però, egli se li pose da una prospettiva greca, solo perché essi erano al centro del dibattito politologico greco e perché solo utilizzando categorie greche egli poteva sperare di spiegare il fenomeno ‘Roma’ ai suoi lettori greci36; così facendo Polibio scelse un percorso interpretativo forse obbligato, ma tale da portarlo a fraintendere totalmente la realtà politica di Roma. Due casi mi sembrano in tal senso esemplari. Come è noto, in una sezione perduta del VI libro Polibio svolgeva una breve storia della ‘costituzione’ romana e di come si era evoluta sino ad assumere la sua forma consolidata e matura, quella che egli stesso conobbe. È stato giustamente osservato che i trials and errors, attraverso i quali si plasmò il sistema politico romano, sfociarono, secondo Polibio, nelle leggi Valerie-Orazie del 449 varr., subito dopo l’attività della commissione decemvirale incaricata della stesura delle XII tavole37; questo turning point cronologico si ritrova nel De re publica di Cicerone38, che secondo l’opinione prevalente l’avrebbe attinto a Catone39; se poi le Origines siano da ravvisarsi già dietro il VI libro di Polibio è questione aperta: il Megalopolitano avrebbe potuto ricavare il ruolo delle leggi ValerieOrazie anche dalla conversazione con i Romani, che frequentava, non
tie, in ID. (éd.), Demokratia et Aristokratia, Paris 1983, 15-35; M. JEHNE (Hrsg.), Demokratie in Rom?, STUTTGART 1995; E. GABBA, Democrazia a Roma, Athenaeum 85, 1997, 266-271; A. LINTOTT, The Constitution of the Roman Republic, Oxford 1999, 16-26; K.W. WELWEI, Demokratische Verfassungselemente in Rom aus der Sicht des Polybios, in J. SPIELVOGEL (Hrsg.), Res publica reperta. Festschrift für J. Bleicken, Stuttgart 2002, 2535 (che ha ducia in Polibio, ma sottolinea, molto opportunamente, che per lo storico di Megalopoli ‘democrazia’ signica ‘democrazia acaica’, non certo ‘democrazia ateniese’); L. POLVERINI, Democrazia a Roma? La costituzione repubblicana secondo Polibio, in G. URSO (ed.), Popolo e potere nel mondo antico, Pisa 2005, 85-96 (che ritiene che a Roma nel II secolo a.C. ci fosse una sufciente quantità di democrazia, intesa come partecipazione popolare alla formazione della decisione politica). 36 Per CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’Histories, 96-98 Polibio si sarebbe rivolto a un doppio pubblico, sia greco, sia romano: questo è senz’altro vero soprattutto per la seconda parte della sua opera (XXX-XL), scritta dopo il 146, ma non vale, a mio avviso, per le tematiche costituzionali del VI libro. 37 Polyb. VI,11,1 (trent’anni dopo il passaggio di Serse in Grecia). THORNTON, La costituzione mista in Polibio, 93-98 è il miglior commento a VI,11a, cioè ai pochi frammenti dell’‘archeologia’ polibiana; vi aggiungerei che per Polibio un ruolo preponderante nell’evoluzione dall’originaria ȝȠȞĮȡȤĮ alla ȕĮıȚȜİĮ è non casualmente svolto da Tarquinio, glio di Demarato di Corinto: essa dipende dall’ingresso in Roma del ȜંȖȠȢ e della ʌĮȚįİĮ greca. 38 Cic. De re p. II,31,54-37,62. Cfr. anche Diod. XII,25. 39 Che forse concludeva al 449 varr. il I libro delle Origines, almeno secondo l’ipotesi di T.J. CORNELL, Cicero on the Origins of Rome, in J.G.F. POWELL-J.A. NORTH (eds.), Cicero’s Republic, London 2001, 41-56, pp. 46-47.
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necessariamente da un testo scritto . Resta il fatto che Polibio recepisce dalla tradizione romana l’importanza dell’anno 449, ma gli conferisce un signicato assai diverso: infatti per lui il 449 è il punto d’arrivo di una costituzione, che da lì in poi rimase ssa nelle sue caratteristiche essenziali, è il traguardo, faticosamente raggiunto, della ȝȚțIJ; in Cicerone il 449 è uno snodo rilevante, non un capolinea: già il riferimento al plebiscito Canuleio (445 varr.) ci suggerisce che la sua storia della ‘costituzione’ romana doveva proseguire oltre e nei capitoli successivi, ora perduti, c’era spazio almeno per la gura dello scriba Cn.Flavio e per lo ius Flauianum (304 varr.)41. La differenza dipende proprio dall’incapacità di Polibio di capire la mentalità romana: per quest’ultima uno stabile assetto politico, un modello ‘costituzionale’ ben denito, ciò insomma che Polibio apprezzava e ostinatamente cercava, non era un fattore positivo, anzi negava il carattere fondamentale del sistema: Catone aveva con forza affermato che Roma non aveva avuto legislatori che si fossero ispirati a particolari modelli (democratici o aristocratici o quant’altro), ma che aveva costruito il suo sistema di governo con l’anonimo, collettivo apporto di tutte le generazioni di ciues Romani42; Cicerone riprese autorevolmente nel De re publica questo concetto e vi aggiunse che i due elementi fondanti il ‘sistema Roma’ erano gli organi di governo e la religione pubblica; Livio e l’imperatore Claudio43, suo discepolo, precisarono che il mos maiorum, il complesso di valori tradizionali, etico-religiosi ben prima che politici, su cui Roma si reggeva, era aperto a una continua opera di revisione, di rinnovamento e di integrazione, purché il nuovo non fosse in contraddizione con l’antico. L’intero pensiero politico romano è impegnato nello sforzo di conciliare il rispetto e l’attaccamento alla tradizione con la tensione verso il nouum, con la volontà di non rinunciare all’apporto anonimo, oscuro, ma prezioso ed irrinunciabile delle future generazioni: la perfezione atemporale e quindi immutabile della costituzione di Licurgo non attrae, perché vi si coglie la staticità di un sistema politico e la sua incapacità di rinnovarsi di 40 CL. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, in E. GABBA (éd.), Polybe, GenèveVandoeuvres 1973, 209-258 e CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’Histories, 92 nota 70 e 97 nota 87 (inuenza già a partire dagli anni ’50 e quindi già sul VI libro); G. ZECCHINI, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, Tyche 10, 1995, 219-232 (= cap. XI), soprattutto pp. 227-229 (inuenza soprattutto dopo il 150 e quindi soprattutto sui libri XXX-XL). Catone è citato a XXXI,25,5a e quanto osservato sopra nel testo (pp. 166-167) a proposito della ‘costituzione’ romana secondo Catone mi sembra indicare almeno che il rapporto tra il VI libro di Polibio e le Origines non è di semplice dipendenza. 41 Cic. De re p. II,37,63 (Canuleio); Ep. ad Att. VI,1,8 (Cn. Flavio). 42 Cic. De re p. II,1,1-3. 43 Cic. De re p. II,10,17; Liu. IV,3-5; ILS 212 e Tac. Ann. XI,23-24.
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fronte alle sde dei tempi nuovi, mentre Roma andava orgogliosa proprio della sua essibilità, dell’integrazione di uomini di origine incerta in un unico corpo civico, a mano a mano alimentato da ulteriori immissioni di neocittadini di origine anche libertina, della sua assimilazione di usi e costumi stranieri. Laddove Filippo V nella nota epistola ai Larissei del 21444 aveva sottolineato con ammirato stupore queste caratteristiche dei Romani, soprattutto in tema di affrancamento degli schiavi e di concessione della cittadinanza, è notevole che Polibio, mezzo secolo dopo, si mostri insensibile ad una tematica, che era la chiave interpretativa più preziosa del successo romano nel mondo. Polibio sostituisce l’inesauribile ‘divenire’ continuo del sistema politico romano con l’ingessato ‘essere’ di una ‘costituzione’, che per fortuna non era mai esistita, se non nella sua mente. Quasi in appendice al VI libro, dopo aver trattato della ‘costituzione’ romana e dell’organizzazione militare romana e dopo avere confrontato la ʌȠȜȚIJİĮ dell’Urbe con quelle di alcune altre realtà politiche, segnatamente Creta, Sparta e Cartagine, Polibio aggiunge ulteriori materiali sparsi, secondo lui adatti a capire la società romana, la celebrazione dei defunti attraverso le laudationes funebres, la memoria degli antenati attraverso gli exempla, il caso paradigmatico di Orazio Coclite (capp.53-55), l’arricchimento come disvalore (cap.56,1-5 e 13-15) e inne il ruolo della religione a Roma (cap.56,6-12). Già il collocamento in coda al libro di quest’argomento è signicativo della sua non centralità nella visione polibiana del sistema socio-politico romano, ma ancor più signicativo è il ruolo che egli assegna alla religione; essa sarebbe una pura e semplice įİȚıȚįĮȚȝȠȞĮ, cioè una superstitio, che è stata introdotta dal ceto di governo, costituito da persone sagge e responsabili, presso la massa popolare per tenerla a freno nei suoi impulsi irrazionali e nelle sue violente passioni: le nozioni sugli dei e sull’oltretomba costituiscono un complesso di paure e di timori, che formano un irrinunciabile strumento di controllo sul popolo, ma certo non possono essere credute dagli esponenti colti dell’élite sociale e politica di una città. Di là dall’ovvia considerazione che non c’è nulla di democratico nel giudizio di Polibio sulle masse, che sono sciocche per natura e devono quindi essere sottomesse in qualche modo alla élite, quel che più conta è l’assoluta incapacità di un intellettuale razionalista e scettico come
44 SYLL³ 543. Lo stridente confronto tra Filippo V e Polibio è sottolineato da CORNELL, The History of an Anachronism, 62.
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Polibio di capire una società intrinsecamente religiosa come quella romana45. L’idea, tutta greca e, per certi versi, evemeristica, per cui gli dei possono essere ‘inventati’ dagli uomini per un uso terreno urta contro la convinzione dei Romani di essere un popolo eletto dagli dei a causa della sua pietas e che non importa tanto la fede privata e individuale (ognuno nel suo intimo può credere a quello che vuole) quanto la religione pubblica e ufciale, che contraddistingue una comunità umana e la rende percepibile e giudicabile dagli dei: sin quando i Romani avrebbero saputo mantenere la loro superiorità etico-religiosa rispetto agli altri popoli, soverchiandoli per des e pietas, sino ad allora gli dei avrebbero confermato la propria predilezione e avrebbero conservato ai Romani l’egemonia mondiale. Proprio Cicerone, il più ellenizzato e certo non il più religioso degli intellettuali romani, affermò in modo inequivocabile che i fondamenti della repubblica erano due, il senato e gli auspici, cioè le istituzioni di governo e la relazione con gli dei, la possibilità di interrogarne la volontà e di ubbidirle46. Cesare, epicureo e miscredente, costruì il suo potere monarchico su basi profane (la dittatura) e sacrali (il ponticato massimo) e su questa linea lo seguì Augusto47. Nella teoria di Cicerone e nella prassi di Cesare noi ritroviamo la medesima, incrollabile persuasione che un singolo uomo può fare a meno degli dei, una società no: non c’è negli autori e nei politici romani nessuna distinzione tra élite e massa, tra colti e incolti, come non c’era distinzione tra įોȝȠȢ e ਙȡȚıIJȠȚ, ma c’è l’orgogliosa riaffermazione dell’unità di un populus, che è fabbro48 della sua ‘costituzione’ e del suo privilegiato rapporto con la sfera del divino. Si può naturalmente condividere o dissentire da questa convinzione dei
45 Su Polibio e la religione in genere cfr. P. PÉDECH, Les idées religieuses de Polybe, RHR 167, 1965, 35-68 e ora B. DREYER, Polybios, Hildesheim 2011, 83-89 (che conclude per il sostanziale scetticismo di Polibio); su Polibio e la týche cfr. cap. XIV nota 8; su Polibio e la religiosità romana come segno di barbarie cfr. A. ERSKINE, Polybios and Barbarian Rome, Med Ant 3, 2000, 165-182, soprattutto pp. 176-180. LINTOTT, The Constitution of the Roman Republic, 182-190 rileva la scarsa attenzione dedicata da Polibio alla religione romana, ma ne accetta la distinzione tra credenze dei ceti colti e credenze della massa, chiaro esempio di come l’errore polibiano inuenzi e si mantenga anche nella storiograa moderna. 46 Cic. De re p. II,10,17. Su Cicerone e la religione in genere cfr. L. TROIANI, La religione e Cicerone, RSI 96, 1984, 920-952. 47 Cfr. G. ZECCHINI, Die staatstheoretische Debatte der caesarischen Zeit, in W. SCHULLER (Hrsg.), Politische Theorie und politische Praxis im Altertum, Darmstadt 1998, 149-165. 48 La consapevolezza che ogni uomo e, a maggior ragione, ogni popolo costruisce da sé il proprio destino è genuinamente romana: il detto corrispondente, attribuito ad Ap. Claudio Cieco, è conservato, forse non casualmente, dal popularis Sallustio (Ep. ad Caes. I,1,2).
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Romani, ma ridurre la loro concezione religiosa a mera superstizione è irrispettoso e, insieme, stupido: signica rinunciare a capire l’altro a causa dei nostri pregiudizi. È ciò che capitò a Polibio, né forse si poteva pretendere di più dal nativo della provincialissima Megalopoli proiettato nella realtà così diversa della città, che si apprestava a diventare l’epitome del mondo49. La controprova ci è offerta da quanto invece Polibio capì di Roma: nella seconda parte delle sue Storie (i libri XXX-XL) egli si aperse all’inusso della cultura romana contemporanea e soprattutto di Catone, che viene esplicitamente citato50; a proposito della eventuale, ma forse vicina decadenza di Roma, che i Romani paventavano e collegavano alla negativa inuenza dell’Oriente (Grecia compresa), egli vi ravvisò una conferma della sua concezione biologica degli organismi politici e della teoria dell’ ਕȞĮțțȜȦıȚȢ e al tempo stesso accettò di identicare il fattore scatenante la decadenza nella luxuria, perché trovava il suo equivalente nel lessico politico greco, la IJȡȣij. Qui nalmente i Romani parlavano il suo stesso linguaggio e ci si poteva intendere: la IJȡȣij, che secondo Teopompo aveva già rovinato Filippo II di Macedonia51, poteva ben essere la luxuria che stava rovinando la gioventù romana52. Certo, anche in questo caso c’era tra le due parti un tacito dissenso: molti Romani, Catone su tutti, rimproveravano anche alla ʌĮȚįİĮ greca di far parte della corruzione proveniente dall’Oriente e questo Polibio non poteva accettarlo. Ciò che ho sin qui scritto può sembrare una dura critica a Polibio, ma lo è ai suoi molti lettori, che hanno preteso di trovare nel suo VI libro una fedele descrizione e, ancor più, un’attendibile interpretazione del sistema politico romano53; se egli fosse riuscito in un’impresa del genere, avrebbe compiuto un miracolo; quel che ci ha lasciato è invece un testo di eccezionale interesse per tre motivi: perché è il testo più antico composto da un contemporaneo su questo tema, complesso e fondamentale, perché è ricco di molti dati, spesso
49
Athen. I,20c (quasi certamente da Polemone d’Ilio). Polyb. XXXI, 25, 5a. 51 Cfr. da ultimo M.A. FLOWER, Theopompus of Chios, Oxford 1994, 98-115. 52 La luxuria peregrina, che secondo Livio (XXXIX,6,7) cominciò a invadere Roma dal 187 a.C.: cfr. ZECCHINI, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, 227-230 (= cap. XI). 53 La difesa dell’interpretazione polibiana di Roma da un punto di vista politologico, come è svolta da Lintott e Polverini citt. supra alla nota 35 mi sembra generosa, ma disperata; più prudentemente HAHM, Kings and Constitutions, 464-476 si limita a rilevare che Polibio mise in luce con efcacia il sistema di checks and balances all’interno delle istituzioni romane; più interessante e fruttuosa è invece la prospettiva sociologica ora delineata da CH. CARSANA, La teoria della costituzione mista: modelli sociali e realtà istituzionali nelle ‘Storie’ di Polibio, in M.T. ZAMBIANCHI (ed.), Ricordo di Delno Ambaglio, Como 2009, 67-80. 50
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esatti, talvolta da completare, correggere, interpretare, sempre preziosi per la nostra conoscenza di Roma nel II secolo a.C., perché inne ci testimonia le difcoltà e le barriere, anche linguistiche e concettuali, che si frapponevano tra un intellettuale greco e la sua esigenza di comprendere Roma e farla comprendere ai suoi compatrioti. Su quest’ultimo motivo ho voluto insistere in questa sede, perché ci si accosti al VI libro con cautela e non si pretenda da Polibio quel che non può dare: non ci si deve mai dimenticare che egli visse sempre a Roma come a stranger in a strange land54.
54 CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’s Histories, 236, una denizione, che mi trova pienamente concorde: cfr. supra cap. XI, nota 72.
PARTE QUARTA
Fortuna
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CAPITOLO XIV ALL’INTERNO DE IL PENSIERO STORICO CLASSICO
Di là da osservazioni, talvolta signicative, ma sporadiche in altri punti del PSC, S. Mazzarino dedica a Polibio una quarantina di pagine all’interno del volume II,1 della sua opera1: non molte quindi rispetto, per fare un solo esempio, alle cento ca. riservate a Sallustio2; si aggiunga che, anche al di fuori del PSC, lo storico siciliano ebbe occasione di confrontarsi con Polibio solo nel volume, anteriore di vent’anni, sull’Introduzione alle guerre puniche a proposito del trattato di Filino e della Schuldfrage della II guerra punica3. Una prima ragione di questo relativo disinteresse sta certamente nel periodo coperto da Polibio, la fase dell’ascesa della repubblica a potenza egemone del mondo, laddove Mazzarino prediligeva la monarchia delle origini e l’impero del declino; se a tale ragione se ne possano aggiungere altre, intrinseche al pensiero storico di Polibio, sarà qui oggetto di indagine.
1 S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, Bari 1966-67, II,1, 115-153 (e le note corrispondenti alle pp. 518-524). Oltre la trattazione principale Mazzarino torna su Polibio a II,2,330 (su IX,23,4 a proposito della distinzione tra morale e politica in Polibio e in Machiavelli), 346 (su X,43 a proposito di Polibio ‘inventore’ e del progresso tecnologico tra II e I secolo a.C.) e 444-446 (a proposito delle contraddizioni cronologiche di Polibio riguardo alla durata – 23 o 24 anni – della I guerra punica). 2 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 364-470. 3 S. MAZZARINO, Introduzione alle guerre puniche, Catania 1947, 100-151.
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All’interno de Il pensiero storico classico
A me sembra che le riessioni di Mazzarino su Polibio, come sempre non sistematiche, né organizzate secondo un ordine perspicuo, si debbano articolare in sette punti, che mi sforzerò di raccordare tra loro. 1. Il punto di partenza è l’esigenza di inserirsi e prendere posizione all’interno del dibattito scientico moderno su Polibio e della contrapposizione tra analitici e unitari; si tenga presente che, quando Mazzarino scriveva le sue pagine, era appena comparso il volume di P. Pédech sul metodo storico di Polibio e F.W. Walbank stava lavorando al suo monumentale commento delle Storie4; tuttavia si affrontavano ancora le due tesi, messe a punto tra XIX e XX secolo: da un lato c’era chi riteneva le Storie di Polibio composte in due fasi, dopo il 168 e dopo il 146 a.C., a cui corrispondevano due momenti del suo pensiero riguardo alla ‘costituzione’ romana, immutabile e perfetta oppure sottoposta all’anaciclosi e quindi corruttibile, dall’altro c’era chi preferiva una composizione unica dopo il 146 e una corrispondente unità di pensiero riguardo a Roma, la cui ‘costituzione’ sarebbe stata solo temporaneamente perfetta e quindi non estranea alla legge generale dell’anaciclosi5. Mazzarino è molto determinato nello schierarsi con gli analitici per quanto concerne i due periodi di composizione dell’opera, ma con gli unitari nel negare che ci sia un’evoluzione del giudizio di Polibio sulle istituzioni politiche romane6. Oggi, dopo un altro mezzo secolo di studi polibiani – e penso in particolare ai contributi di D. Musti, E. Gabba e F. Millar7 - le scelte di Mazzarino non hanno più bisogno di essere ribadite: è infatti opinione acquisita che le due fasi di stesura delle Storie non implichino un’evoluzione del pensiero ‘costituzionale’ di Polibio e che la prosecuzione dell’opera sino al nuovo termine del 146 fornisse allo storico di Megalopoli nuove ed ulteriori conferme all’ineluttabilità di una legge biologica, a cui ogni sistema o comunità politica doveva prima o poi soggiacere. 2. Assai più aperto resta invece il dibattito su Polibio e la IJȤȘ o, più in genere, sul rapporto tra Polibio e la religione, all’interno del quale si
4 P. PÉDECH, La méthode historique de Polybe, Paris 1964; F.W. WALBANK, A Historical Commentary of Polybius, I-III, Oxford 1957-1979. 5 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 519 si riferisce in particolare a K. ZIEGLER, autore nel 1952 della voce Polybios per la RE, come capola degli ‘analitici’ e ad H. ERBSE (Zur Entstehung des polybianischen Geschichtswerkes, RhM 94, 1951, 157-179) come capola degli ‘unitari’. 6 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 130-133; 316-318; 519-520. 7 D. MUSTI, Problemi polibiani, PP 20, 1965, 380-426; ID., Polibio e la democrazia, ASNP s. II, 36, 1967, 155-207 e cfr. infra nota 35; E. GABBA, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Athenaeum 65, 1977, 49-74; F. MILLAR, The Roman Republic in political thought, Hanover 2002.
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pone la domanda se lo storico credesse in qualche sorta di volontà soprannaturale che interviene a dirigere il corso degli eventi8. Mazzarino inserisce Polibio nella cultura losoca del suo tempo, rilevando una triplice inuenza, quella dello stoicismo, che è la più diffusa e, se vogliamo, la più banale a metà del II secolo – basti pensare al rapporto con Panezio –, ma anche secondo lui la meno importante, quella del socratismo e quella nel neopitagorismo di Ocello lucano9. Da Socrate, la cui inuenza sulla storiograa e sulla biograa ellenistiche è uno dei cardini del pensiero di Mazzarino nel I volume del PSC10, Polibio attingerebbe la sensibilità verso la coscienza morale e quindi verso il problema della colpa nell’agire storico e dell’intervento degli dei nel punire la colpa stessa e nel restaurare la giustizia: grazie al nuovo clima etico introdotto da Socrate nella cultura greca Polibio non può essere considerato un puro tucidideo, appunto perché non condivide l’indifferenza di Tucidide verso la valutazione dell’agire storico secondo le categorie del bene e del male11. Da Ocello, che Mazzarino data agli inizi del II secolo12, Polibio attingerebbe invece la contrapposizione tra l’eternità del cosmo e la precarietà delle società umane, soggette inevitabilmente alla ȝİIJĮȕȠȜ e alla ijșȠȡ, causate da motivi interni o esterni alle società stesse: in particolare la coscienza che la crisi demograca della Grecia è alla base del suo declino e della sua debolezza sarebbe il più signicativo punto d’incontro tra Ocello e Polibio nell’analisi della realtà contemporanea13. L’attenzione verso idee e dottrine neopitagoriche, per di più rappresentate da un pensatore come Ocello, un lucano e dunque un italico inuenzato dalla cultura italiota (Taranto), potrebbe essere stata stimolata in Polibio dalla sua frequentazione della nobilitas romana e quindi non 8 Sulla IJȤȘ in Polibio la bibliograa è assai vasta; cfr. da ultimo F.W. WALBANK, Supernatural paraphernalia in Polybius’ Histories, in I. WORTHINGTON (ed.), Ventures into Greek History, Oxford 1994, 28-42; J.M. PAILLER, Polybe, la Fortune et l’écriture de l’histoire, Hommages C. Deroux, Bruxelles 2003, III, 328-339; M.R. GUELFUCCI, Polybe et les mises en scène de la Tychè, DHA Suppl. 4.2, 2010, 439-468; R. BROUWER, Polybius and Stoic Tyche, GRBS 2011, 111-132; L.I. HAU, Tyche in Polybios, Histos 5, 2011, 183-207; K. MAIER, «Überall mit dem Unerwarteten rechnen». Die Kontingenz historischer Prozesse bei Polybios, München 2012; J. DEININGER, Die Tyche in der pragmatischen Geschichtsschreibung des Polybios, in V. GRIEB-C. KOEHN (Hrsgg.), Polybios und seine Historien, Stuttgart 2013, 71-111. 9 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 127-130. 10 Tesi, come è noto, assai controversa: cfr. la Recensione di A. MOMIGLIANO in RSI 79,1967, 206-219. 11 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 125-126. 12 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 129 (e 518) in sostanziale accordo con R. HARDER, Ocellus Lucanus, Berlin 1926, 149-153. 13 Crisi demograca: Polyb. XXXVI,17,5-10; Ocell. De uniuersi natura IV, 44-57.
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risalire alla sua formazione arcade, ma a uno stadio secondario; in ogni caso Mazzarino privilegia in Polibio la formazione losoca su quella retorica, su cui invece pongono l’accento studi più recenti, ed è possibile che in questo egli fosse inuenzato dal clima degli anni ’60 del secolo scorso; ne discende comunque la conseguenza che per Mazzarino la IJȤȘ polibiana non è uno strumento retorico dai contenuti vaghi e a cui si ricorre in funzione dei lettori, ma il riconoscimento losoco dell’esistenza di un potere soprannaturale, che interviene nella storia14: perciò Polibio non è un sosta razionalista e scettico, ma uno spirito religioso, anche se la sua religiosità è lontana sia dalle religioni poleiche della Grecia, sia, ancor più, dalla religione romana. Anche per Mazzarino il famoso capitolo VI,65 delle Storie rispecchia il giudizio fortemente negativo di Polibio sulla religione romana, intesa come religione ‘tragica’, ‘teatrale’, destinata a impressionare il popolo incolto, così come la storiograa ‘tragica’ di Filarco mirava solo ad impressionare i lettori sprovveduti: lo storico di Megalopoli era assai polemico verso ogni forma di drammatizzazione strumentale. Mazzarino non manca di rilevare come l’immagine della religione romana in Polibio abbia inuenzato in modo determinante alcuni tra i più importanti pensatori dell’Occidente moderno, da Machiavelli a Vico, e come tale immagine dipenda dalla fuorviante applicazione del ȜȠȖȚıȝંȢ greco a una realtà diversa e ben più complessa15, ma a me pare che gli stesse più a cuore non tanto individuare le ragioni dei fraintendimenti polibiani a proposito della società romana quanto situare Polibio all’interno della cultura losoca ellenistica. 3. Se Mazzarino nega il tucididismo di Polibio in ambito etico-religioso, ciò non signica che neghi la conoscenza e l’inusso dello storico ateniese, soprattutto laddove Polibio intende ricuperare la ‘scienticità’ della storiograa, accusata di essere una ਕȝșȠįȠȢ ȜȘ da parte di Cratete di Mallo16. Nella digressione metodologica del XII libro la dottrina delineata da Polibio considera l’attività storiograca articolata in tre fasi, l’utilizzo delle fonti, orali o scritte, l’autopsia (compresa l’autopsia geograca) e l’applicazione della previa esperienza politico-militare nell’analisi degli eventi ricostruiti grazie alle due fasi precedenti17; ora, questa
14 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 125-126. Per la IJȤȘ polibiana come mero strumento di retorica cfr. ora soprattutto Hau, Tyche in Polybios, cit. alla nota 8. 15 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 115-117. 16 MAZZARINO, Il pensiero, I, 483. Come è noto, secondo Mazzarino risalirebbe a Cratete la denizione dello ੂıIJȠȡȚțંȞ come ਕȝșȠįȠȢ ȜȘ, che Sesto Empirico (Adu. Mathem. I,248-249) attribuisce al suo discepolo Taurisco. 17 Polyb. XII, 25d, su cui MAZZARINO, Il pensiero, I,574-575.
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dottrina, polemica sia verso i detrattori ellenistici della storiograa, sia verso gli storici ellenistici, che avallavano una simile svalutazione per la loro mancanza di metodo, si ispira senza dubbio al rigore tucidideo; tuttavia, Mazzarino non manca di sottolineare che riguardo a un problema centrale della storiograa greca, l’inserimento dei discorsi nella narrazione, la posizione di Polibio è in netta antitesi rispetto a quella di Tucidide, poiché egli ritiene di dover riportare solo i discorsi, di cui è in grado di riprodurre l’esatto contenuto18. Il rapporto di Polibio con Tucidide si limita nelle pagine di Mazzarino ad essere un rapporto di metodo e di critica storica, che implica ammirazione, non imitazione. Vorrei aggiungere che recenti tentativi di ampliare questo rapporto e di ravvisare addirittura nella struttura e nella partizione cronologica delle Storie modelli tucididei, in particolare nella ʌȡȠțĮIJĮıțİȣ o nei cinquantatré anni, in cui Roma conquistò l’egemonia, un goffo tentativo di richiamarsi alla pentecontetía tucididea non sono persuasivi19; ci si dovrebbe domandare quale interesse poteva suscitare in Polibio un’opera che trattava dell’apogeo e della crisi della democrazia ateniese nel V secolo, quando Polibio stesso nutriva su tale esperienza politica un giudizio molto negativo e, in ogni caso, non era particolarmente sensibile a quel periodo della storia greca20. Tornando a Mazzarino, sembra dunque giusticata la prudenza, con cui egli delimita l’inusso di Tucidide su Polibio; il suo giudizio nale su questo tema, «per la sua conquista, del tutto spontanea e inconsapevole, di una sintesi fra spiriti tucididei e ‘socratismo’ l’opera di Polibio
18 Polyb. II,56,11; XII,25b. Questa netta antitesi è stata ridimensionata dalla critica più recente, che ravvisa già in Tucidide la stessa posizione di Polibio: cfr. R. NICOLAI, Polibio interprete di Tucidide: la teoria dei discorsi, SemRom II, 1999, 281-301; L. PORCIANI, Come si scrivono i discorsi. Su Tucidide I 22, 1 an...malist’ eipein, QS 49, 1999, 103-135; Id., The Enigma of Discourse: A View of Thucydides, in J. MARINCOLA (ed.), A Companion to Greek and Roman Historiography, I, London 2007, 328-35; R. NICOLAI, ‘Ta kairiotata kai pragmatikotata’: A Survey on the Speeches in Polybius’, in N. MILTSIOS et alii (eds.), Polybius and his legacy, Thessaloniki 2018, in c.d.s. . 19 É. FOULON, Polybe a-t-il lu Thucydide?, in V. FROMENTIN, S. GOTTELAND & P. PAYEN (éds.), Ombres de Thucydide. La réception de l’historien depuis l’Antiquité jusqu’au début du XXe siècle, Bordeaux 2010, 141-154; T. ROOD, Polybius, Thucydides, and the First Punic War, in CHR. SMITH-L.M. YARROW (eds.), Imperialism, Cultural Politics, and Polybius, Oxford 2012, 50-67; N. MILTSIOS, The Narrative Legacy of Thucydides: Polybius, Book I, in A. TSAKMAKIS-M.TAMIOLAKI (eds.), Thucydides Between History and Literature, BerlinBoston 2013, 329-349; C. SCARDINO, Polybius and the fth century historiography, in N. MILTSIOS et alii (eds.), Polybius and his legacy, Thessaloniki 2018, in c.d.s. . 20 Cfr. G. ZECCHINI, Polibio e la storia non contemporanea, in A. CASANOVA-P. DESIDERI (edd.), Costruzione e uso del passato storico nella cultura antica, Alessandria 2007, 123133 (= cap. I).
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è un monumento dell’umanesimo antico, con tutti i suoi limiti di classe»21, unisce i punti 2 e 3 della mia analisi e conferma che in tale sintesi Tucidide ha fornito a Polibio la consapevolezza del valore dell’attività storiograca, ma che Socrate e la sua inuenza sulla cultura ellenistica gli hanno fornito la consapevolezza che non si può separare l’agire storico dalla coscienza morale; allora forse l’insegnamento di Socrate o, più latamente, la formazione losoca di Polibio è più importante del suo tucididismo e resta l’aspetto più originale dell’immagine di Polibio, che Mazzarino vuole trasmetterci. Nel suo indiscutibile valore, la sintesi tra Tucidide e Socrate operata da Polibio non riesce a superare le barriere di classe, entro cui si muove lo storico di Megalopoli. Così Mazzarino ci introduce a un nuovo tema della sua analisi, che gli stava particolarmente a cuore e la cui attualità nella cultura storica degli anni ’60 del XX secolo non ha bisogno di essere sottolineata. 4. Mazzarino non consacra molto spazio all’analisi del VI libro e della tematica ‘costituzionalista’; in genere si limita a ribadire che non ci fu in Polibio nessuna evoluzione su questo argomento e che il suo ideale della ȝȚțIJ ha valenze utopiche22: nella realtà egli fu un aristocratico, che condivideva con Aristotele la preferenza per una democrazia contemperata da elementi monarchici ed aristocratici quale era stata realizzata dagli Achei nella loro lega e quanto di più lontano possibile dall’aborrita oclocrazia di matrice ateniese23. Non so se Mazzarino sarebbe stato d’accordo con E. Gabba nel giudicare ‘francamente noiosa’24 la digressione polibiana sulle forme costituzionali e di conseguenza l’innita querelle bibliograca, che ha coinvolto tanti studiosi moderni, ma in ogni caso anch’egli si mostra insofferente ad addentrarsi in un’analisi, che doveva, a mio avviso, parergli viziata da un equivoco di fondo: secondo lui il dibattito attuale non si basa sull’unico presupposto davvero in grado di chiarire il problema e cioè l’estrazione sociale di Polibio, che lo induceva a individuare nell’avvento delle masse (greche nel caso di Cleomene III di Sparta o romane nel caso della plebe) un peggioramento foriero di ineluttabile declino e non, invece, un fattore di progresso25. In particolare,
21
MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 144. MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 136. Sarebbe interessante valutare l’utopismo di Polibio secondo Mazzarino all’interno dell’attuale, intenso dibattito sull’utopia antica (cfr. M. COUDRY-M.T. SCHETTINO (éds.), L’utopie politique et la cité idéale, PA 5,2015, 5-226). 23 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 132. 24 E. GABBA, L’invenzione greca della costituzione romana, in S. SETTIS (a cura di), I Greci, 2,III, Torino 1998, pp. 857-867 (a p. 862 la citazione riportata nel testo). 25 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 136-137. 22
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nel caso di Roma l’inizio della decadenza è colto da Polibio, secondo Mazzarino, nella legge agraria patrocinata dal plebeo C. Flaminio Nepote nel 232 a.C., dunque già prima dell’apogeo raggiunto dall’Urbe dopo la vittoria nella II guerra punica; nonostante gli straordinari successi esterni e l’estendersi della propria egemonia il cambiamento ਥʌ IJઁ ȤİȡȠȞ era già cominciato, perché esso aveva radici e cause esclusivamente interne, socio-economiche, in altri termini, ‘di classe’26. Proprio il pregiudizio classista o, se si vuole, l’insensibilità sociale di Polibio ne rende assai banale e deludente l’interpretazione della politica agraria e coloniaria romana tra le due guerre puniche; d’altra parte è lo stesso atteggiamento, per cui l’avidità di ricchezza, la IJȡȣij, è la prima causa di ogni decadenza, ma tale decadenza è ormai inarrestabile in Grecia, perché l’avidità vi regna diffusa, mentre in Roma essa è virtuosamente contrastata dalla nobilitas nei suoi più illustri esponenti come T. Quinzio Flaminino, L. Emilio Paolo e i suoi due gli adottivi27: l’aristocrazia, non la comunità cittadina, è la misura di tutte le cose. È chiaro che la dialettica della politica interna romana non è colta da Polibio in tutta la sua complessità e che egli vi estende analisi e giudizi maturati nella sua giovinezza alla luce delle questioni sociali elleniche (peloponnesiache in particolare), che con Roma non avevano molto a che fare; però a me sembra che per Mazzarino il limite di Polibio non sia tanto quello di aver applicato diagnosi e ricette greche a una realtà assai diversa, ma quello di essere rimasto prigioniero di una mentalità, che gli impediva di cogliere i fermenti positivi (diffusione della ricchezza, ascesa di ceti intermedi, esigenza di una maggiore partecipazione alla fase decisionale della politica) nella trasformazione della società romana in seguito alla conquista dell’egemonia mediterranea. 5. La sua mentalità aristocratica e un certo moralismo ad essa connesso non impedì però a Polibio di sviluppare una teoria della causalità storica assai sosticata. Secondo Mazzarino noi possiamo distinguere nello storico di Megalopoli cause interne e cause esterne, cause personalistiche e cause economiche. Nella sua attesa della nis Romae fanno gioco, come ho appena rilevato, solo cause di tipo interno: infatti, a differenza di Antistene di Rodi, 26 Polyb. II,21,8. Sarebbe da chiarire il rapporto tra questa valutazione di Mazzarino su C. Flaminio Nepote e quella, di poco anteriore, di F. Cassola (cfr. F. CASSOLA, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste 1962, su cui G. BANDELLI, Filippo Cassola e ‘I gruppi politici romani nel III secolo a.C.’ in G. ZECCHINI (a cura di), ‘Partiti’ e fazioni nell’esperienza politica romana, Milano 2009, 31-47). 27 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 142 con particolare attenzione su Polyb. XXI,26,9 (avidità diffusa in Grecia).
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che evocava l’apparizione di un rex ab Oriente in grado di abbattere Roma28, secondo Polibio nessuna forza esterna era in grado di minacciare lo strapotere militare dei Romani e solo la crescente corruzione delle nuove generazioni, dimentiche degli antichi valori, poteva condurre l’Urbe alla rovina. Però altrove la diagnosi poteva essere diversa; in una delle pagine più originali e stimolanti del PSC Mazzarino evoca la ‘profezia’ di Eutidemo di Battriana, da lui rivolta nel 206 a.C. ad Antioco III di Siria, sulla pressione esercitata dai nomadi barbari verso il suo regno29: tale causa esterna avrebbe portato prima o poi alla dissoluzione della civiltà indo-greca, che non aveva le forze di sostenere e respingere una spinta eversiva di simile portata; Polibio potrebbe aver registrato tale ‘profezia’ sotto l’impressione degli eventi del 135/130, quando in effetti l’afusso di popolazioni nomadiche cancellò in Battriana le ultime vestigia dell’eredità di Alessandro Magno. Gli esempi più signicativi di cause personalistiche sono la ‘follia’ di Filippo V, che nel 200 a.C. rinunciò a una facile conquista dell’Egitto per immischiarsi di nuovo negli affari della Grecia continentale e provocare così di fatto l’intervento di Roma nella II guerra macedonica, e l’odio di Amilcare verso i Romani, che fu la ragione principale della II guerra punica30; in questo secondo caso l’analisi di Mazzarino mi sembra corretta: è vero che Polibio condanna severamente la conquista della Sardegna da parte romana nel 237, che violava gli accordi di pace del 241 e sopraggiungeva in un momento in cui Cartagine non poteva difendersi, perché impegnata nella terribile guerra dei mercenari31; è altrettanto vero che Polibio, collegando la dichiarazione di guerra nel 218 alla caduta di Sagunto e non al passaggio dell’Ebro da parte di Annibale sembra fornire argomenti a chi risolve contro Roma la Schuldfrage della II guerra punica32; resta però il fatto che un sentimento personale, l’odio nutrito dai Barcidi e da Annibale in particolare, è per Polibio la causa scatenante della guerra e mi domando se non sarebbe venuto il tempo di accettare la graduatoria di Polibio: c’era
28 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 133. Sulla ‘profezia’ di Antistene cfr. E. GABBA, P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, Athenaeum 53, 1975, 3-17 e L. LORETO, L’immagine dello stato romano nell’Oriente ellenistico nell’età delle profezie (III e II sec. a.C.): «Oracula Sibyllina» 3 tra Licofrone, Daniele, i Maccabei, Antistene e Istaspe, in I. CHIRASSI COLOMBO-T. SEPPILLI (edd.), Sibille e linguaggi oracolari, Pisa 1998, pp. 443-486. 29 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 135 a proposito di Polyb. XI,34. Cfr. ora O. COLORU, Da Alessandro a Menandro: il regno greco di Battriana, Pisa 2009, 66-69 e 231-239. 30 Cfr. rispettivamente Polyb. XVI,10 e III,9,6-10,7. 31 Polyb. I,88, 8-12. 32 Polyb. III,33,5.
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una colpa romana di vent’anni prima e c’era, più immediata, una determinata volontà di rivincita rispetto alla I guerra punica. Gli esempi più signicativi di cause economiche sono invece le politiche delle città greche d’area pontica, Bisanzio nel 220 a.C. e Istro nel 200, nei confronti dei regoli celtici circostanti, rispettivamente Kavaros e Zoltes33, e la decisione romana di procedere alla conquista della Cisalpina nel 225 in ragione dell’İįĮȚȝȠȞĮ, della fertilità, di quella terra34. Mazzarino rilevò questa sensibilità polibiana verso i moventi economici di alcune iniziative politiche nel 1966; dodici anni dopo, nel 1978, D. Musti pubblicò un celebre saggio su Polibio e l’imperialismo romano, in cui particolare attenzione era rivolta a far emergere la medesima sensibilità, questa volta a proposito delle guerre romano-illiriche e quindi del primo coinvolgimento romano oltre Adriatico, prodromo delle successive guerre macedoniche35; è nota la reazione negativa di E.Gabba a quest’aspetto del libro di Musti36: tra gli anni ’60 e gli anni ’70 dietro queste forzature e queste polemiche, forse eccessive, sta naturalmente il dibattito, allora assai vivo, tra marxisti, pseudomarxisti e antimarxisti. A mezzo secolo di distanza rimane la constatazione che riguardo alla conquista della Cisalpina Polibio pone l’accento sulla ricchezza e sull’abbondanza di prodotti di quella regione, tralasciando altre considerazioni, in particolare la volontà di mettere in sicurezza una volta per tutte il conne dell’Italia all’altezza degli Appennini dalle incursioni dei barbari provenienti dalla pianura Padana, che dovette essere il fattore preponderante dell’iniziativa militare di Roma37. 6. La causa interna indicata da Polibio come fattore determinante per la decadenza di Roma e l’assenza di un’evoluzione nel pensiero dello storico riguardo a questo tema introducono a uno degli argomenti più discussi tra gli studiosi, quello dell’atteggiamento di Polibio verso il cosiddetto ‘imperialismo’ romano. Come è noto, si oscilla tra i fautori di un entusiastico e mai venuto meno loromanesimo di Polibio (Walbank) e i fautori di un Polibio sensibile invece ai tristi destini del mondo ellenico e dunque non privo di riserve nei confronti della
33
MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 123-124. Polyb. II,18,4. 35 D. MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli 1978. 36 E. GABBA, Recensione a MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, in Athenaeum 57, 1979, 493-494. 37 Secondo G. BRIZZI, L’Appennino e le ‘due Italie’ in Cispadana e letterature antiche, Bologna 1987, 27-72; cfr. anche G. ZECCHINI, Le guerre galliche di Roma, Roma 2009, 35-54. 38 CR. CHAMPION, Cultural Politics in Polybius’s Histories, Berkeley 2004; D. BARONOWSKI, Polybius and Roman Imperialism, London 2011; B. DREYER, Polybios, Hildesheim 34
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potenza barbara d’Occidente (Musti, Thornton), tra cui si situano più sfumate posizioni intermedie (Champion, Baronowski, Dreyer)38. Mazzarino non sembra particolarmente interessato a collocarsi in questo dibattito, che doveva ritenere un po’ scontato, se non banale; sospetto anche che egli fosse deluso o si sentisse estraneo a un’analisi come quella polibiana, che poteva contemplare il fattore economico come causa specica di talune iniziative nella politica estera romana, ma che nel complesso non considerava tale fattore come elemento decisivo per la conquista dell’egemonia mondiale; in ogni caso non si sofferma sul famoso capitolo XXXVI,9, la cui esegesi sarebbe stata poi centrale nel volume di Musti39, né avanza spiegazioni alternative che siano alla radice dell’espansionismo romano, come l’avidità e l’inesausta sete di ricchezza della nobilitas, su cui avrebbe invece insistito W.V. Harris, in palese contrasto proprio con Polibio40. Mazzarino per sua stessa ammissione si sentiva più vicino a Beloch e a De Sanctis che a Mommsen nel suo personale giudizio sull’‘imperialismo’ romano41 e ne dava quindi un’interpretazione più negativa che positiva; forse proprio per questo si sente di nuovo in scarsa sintonia con Polibio e in lui crede di ravvisare una conversione dal nazionalismo moderato di suo padre Licorta ad un loromanesimo senza riserve per inusso dell’Emiliano: dunque, mentre non ci sarebbe in Polibio nessuna evoluzione rispetto al futuro di Roma, ci sarebbe invece un’evoluzione rispetto al presente dell’Urbe e tale evoluzione sarebbe in senso opposto a quel che più spesso si trova tra gli studiosi, cioè non dal loromanesimo acritico della prima stesura delle Storie, anteriore al 146, al loromanesimo dubbioso e assai più sfumato della seconda stesura dopo il 146, bensì dall’eredità patriottica della sua giovinezza vissuta nella lega acaica ad una totale accettazione di ciò che pensava la nobilitas romana, sia pure nella sua componente più lellenica42. Quest’opinione di Mazzarino non pare aver raccolto particolare successo, ma gli si farebbe torto se ci si fermasse qui e non si registrasse invece una fulminante denizione, forse un po’ contraddittoria con quanto appena osservato, ma non per questo meno efcace, a mio avviso la più pregnante che sia stata data dalla critica moderna: «da una parte la
2011 (con la mia recensione in Sehepunkte 6, 2012). Cfr. anche G. ZECCHINI, L’imperialismo romano: un mito storiograco, PA 1, 2011, 171-183 (ove ulteriore bibliograa). 39 MUSTI, Polibio e l’imperialismo romano, 54-56 e anche 122-123. 40 W.V. HARRIS, War and Imperialism in Republican Rome, Oxford 1979. 41 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 351. 42 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 350-353. 43 MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 128.
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potenza dei Romani, dall’altra la crisi delle città greche: questo dramma è la vera ragione, e ispirazione, dell’opera di Polibio»43. Qui mi pare che Mazzarino abbia colto in pieno l’essenza delle Storie polibiane, la cui importanza e il cui fascino consistono proprio nella loro natura drammatica: le oscillazioni e l’incertezza, in cui gli studiosi continuano a dibattersi riguardo alla loro esegesi, dipende in ultima analisi dal fatto che si tratta di un’opera irrisolta, perché lacerata tra l’ammirazione (per Roma) e il dolore (per la Grecia). 7. Potrei terminare qui, se Mazzarino stesso non mi inducesse a chiudere su un altro tema, prettamente storiograco, a cui egli dedica le ultime pagine della sua trattazione su Polibio. Dopo aver elencato e brevemente discusso le numerose digressioni polemiche nei confronti di molti storici precedenti (verso Eforo; verso Callistene; verso Tucidide riguardo ai discorsi; verso Timeo; verso Filino; verso Q. Fabio Pittore; verso Eratostene e Pitea; verso gli storici lopunici Cherea e Sosilo), Mazzarino si sofferma sulla dura presa di posizione di Polibio contro la storiograa ‘tragica’ (segnatamente Filarco) o, meglio, contro la commistione di tragedia e storiograa44, a cui egli contrappone la propria forma di storiograa, aliena da qualsiasi contaminazione di tipo letterario e consacrata a ricostruzioni ed analisi ‘pragmatiche’ utili alla formazione dell’uomo politico. Di solito questa vigorosa polemica è collocata nell’ambito della storiograa ellenistica e del suo rapporto dialettico con la svalutazione aristotelica dell’attività storiograca. Mazzarino propone invece di cogliervi anche, se non soprattutto, una contrapposizione alla praetexta, la tragedia romana di argomento storico45: contro la celebrazione di singole personalità quale era intrinseca alla natura stessa della rappresentazione teatrale Polibio esaltava le virtù del popolo romano nel suo insieme quali emergevano dalle sue istituzioni, dall’organizzazione militare, dall’assenza di corruzione e di IJȡȣij in tutto il corpo civico; l’esempio più pericoloso, che egli poteva aver presente, era il Clastidium del plebeo e antiscipionico Nevio, che esaltava il plebeo M. Claudio Marcello, ma poteva certo conoscere anche la tradizione gentilizia dei Decii riguardo alla deuotio di Sentino, secondo la quale non per la superiore tattica di Q. Fabio Rulliano, ma per il sacricio religioso dell’altro console i Romani avevano avuto il sopravvento, né si può trascurare che anche sulla batta-
44
MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 145-149. MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 149-153. Cfr. G. MANUWALD, Fabulae praetextae, München 2001, 134-141 (Clastidium), 196200 (Decius) e 180-196 ( Paulus). 45 46
All’interno de Il pensiero storico classico
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glia di Pidna circolavano versioni diverse da quella accolta da Polibio: un Decius avrebbe scritto Accio e un Paulus Pacuvio46. Mazzarino lamenta la mancanza di una ricerca sistematica sui rapporti tra le praetextae e le Storie polibiane47 e non mi pare che tale lacuna sia stata ancora colmata. Resta la sua intuizione che le polemiche culturali di Polibio non dovevano necessariamente essere limitate all’ambito greco, ma potevano dipendere anche da stimoli provenienti dall’ambito romano; in particolare la sensibilità verso l’eccesso di personalizzazione ripropone il problema dei rapporti con Catone e dell’inuenza di quest’ultimo almeno sulla seconda parte dell’opera polibiana48: naturalmente nella battaglia contro gli eccessi dell’individualismo gentilizio Polibio trovava un preciso limite nei suoi rapporti con i Cornelii e gli Emilii, le eccezioni che emergevano ai suoi occhi dal resto della nobilitas; ora, queste eccezioni erano costituite proprio dai rappresentanti più lellenici della classe dirigente romana e quindi Polibio si trovava di nuovo a cercare un difcile equilibrio tra l’esaltazione del populus Romanus Quirites nel suo insieme e l’elogio dei nobili più aperti all’ellenismo, ma, proprio per questo, tendenti a non riconoscersi più nel tradizionale egualitarismo dei ciues Romani. Concludo: i contributi, a mio avviso, più originali, che Mazzarino offre nel PSC alla ricostruzione della personalità di Polibio, sono il suo inserimento nel contesto losoco del socratismo e del neopitagorismo, l’individuazione di una teoria quadripartita della causalità storica e l’esortazione ad approfondire i rapporti con la cultura romana coeva, in particolare con la praetexta; forse meno persuasiva è la proposta di vedere in Polibio un’evoluzione in senso positivo nell’apprezzamento della politica estera di Roma, mentre resta valida la constatazione che Polibio oscilla sul piano culturale tra tucididismo e socratismo e sul piano politico tra nostalgia per il passato della Grecia e ammirazione per il presente di Roma. La drammaticità di queste oscillazioni è perfettamente messa a fuoco dallo storico siciliano, ma non lo induce a simpatizzare per Polibio: l’estrazione sociale di quest’ultimo ne determina la mentalità e gli impedisce di cogliere gli aspetti positivi delle trasformazioni sociali in 47
MAZZARINO, Il pensiero, II,1, 524. Il passo più ‘catoniano’ di Polibio in questo contesto è VI,54 sulle laudationes funebres, dove lo storico greco prende atto del contributo collettivo offerto dai Romani alla grandezza della loro città, ma naturalmente ciò non implica l’inusso diretto di Catone; in questo ambito tutti i Romani la pensavano allo stesso modo. Per l’inusso di Catone su Polibio e la sua opera cfr. ora G. ZECCHINI, Storia della storiograa romana, Roma-Bari 2016, 36-40, nonché supra cap. XIII, nota 40. 48
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atto nel mondo mediterraneo del II secolo a.C.; di conseguenza la sua analisi istituzionale sfocia nella preferenza accordata a una democrazia ‘aristocratica’, la sua analisi della politica interna di Roma ravvisa nell’ascesa dei ceti inferiori sin dal 232 a.C. solo un peggioramento del sistema, la sua analisi dell’‘imperialismo’ è ltrata dai suoi rapporti personali di amicizia con gli esponenti più in vista di questa fase espansionistica della storia di Roma. I condizionamenti socio-culturali di Polibio suscitano la freddezza di Mazzarino.
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CAPITOLO XV IL RAPPORTO CON LA BIOGRAFIA: PLUTARCO
1. L’uso di Polibio da parte di Plutarco è solo un capitolo, rilevante, della storia della fortuna di Polibio nell’antichità1. Il successo di Polibio, il suo rapido affermarsi come ‘classico’ all’interno della cultura storiograca ellenistica fu senza dubbio dovuto non tanto alle sue intrinseche, e indubbie, qualità di storico quanto all’essere stato il primo capace di un’analisi sistematica dei rapporti tra Roma e l’ellenismo, un tema che dopo di lui divenne ineludibile: così Posidonio di Apamea si fece suo continuatore e in età augustea Dionisio di Alicarnasso e Strabone avvertirono l’esigenza di completarlo a monte e di nuovo a valle in una sorta di ideale trittico, che copriva l’intera storia di Roma, città – non dimentichiamo – greca a tutti gli effetti, almeno per Dionisio. I Romani furono invece più cauti: la fortuna di Polibio politologo precedette nell’Urbe quella di Polibio storico. Quest’ultima fu consacrata, a ben vedere, solo dalla decisione di Tito Livio di adottare il Megalopolitano come fonte principale della sua opera dalla III decade in avanti. 1 Brevi, pur se acute, osservazioni in A. MOMIGLIANO, Polybius’ Reappearance in Western Europe, in E. GABBA (éd.), Polybe, Vandoeuvres-Genève 1974, pp. 347-372 = VI Contributo, Roma 1980, 103-123, p. 103 e ora cfr. infra cap. XVI. Limitatamente alla biograa cfr. anche A. TSAKMAKIS, Polybius and Biography, in N. MILTSIOS et alii (eds.), Polybius and his legacy, Thessaloniki 2018, in c.d.s.
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Il rapporto con la biograa
La scelta liviana, coeva a quella di Dionisio e di Strabone, riconciliava Greci e Romani davanti a Polibio, assurto nalmente ad autore di riferimento per l’età dell’imperialismo romano proprio alle soglie del I secolo d.C., in cui doveva dispiegarsi l’attività di Plutarco2. 2. Plutarco menziona Polibio 26 volte. La conoscenza diretta è provata, se mai ce ne fosse bisogno, da un’operetta giovanile, il De fortuna Romanorum, in cui (325f) si precisa che il passo citato si trova ਥȞ IJૌ įİȣIJȡ ȕȕȜ, altrimenti Polibio è nominato senza ulteriori determinazioni; a parte la notizia su Bruto epitomatore di Polibio (Brut. 4,8), le altre 25 occorrenze si possono agevolmente dividere in due grandi gruppi, le citazioni di Polibio come fonte (15 occorrenze) e le menzioni di Polibio come personaggio (10 occorrenze), e noi le esamineremo in quest’ordine. 3. Naturalmente non intendo pormi qui il problema, peraltro assai trattato, di Polibio fonte di Plutarco3. In linea di principio, Polibio poteva fungere da fonte del biografo di Cheronea per tutte le Vite di III/II secolo, cioè per il gruppo ‘Agide/Cleomene, Arato, Filopemene, Q. Fabio Massimo, M. Claudio Marcello, P. Cornelio Scipione, M. Porcio Catone, T. Quinzio Flaminino, L. Emilio Paolo’: sono 10 biograe, 4 greche e 6 romane, a proposito delle quali mi limito ad osservare: a) la scelta dei Greci, due spartani e due achei, rileva una prospettiva peloponnesiaca di evidente matrice polibiana; b) se per Filopemene la dipendenza dall’omonima biograa di Polibio era, a mio avviso, inevitabile4, per Arato l’uso delle sue stesse Memorie era una valida alternativa, a cui però, come è stato giustamente osservato5, Plutarco arrivò per impulso della lettura di Polibio; c) l’uso di Polibio è solo ipotizzabile per Fabio Massimo, per Marcello e per Catone, dove fonti diverse, soprattutto latine, erano a disposizione, mentre diveniva una scelta quasi obbligata, sia pure in una situazione di fonti analoga, per Scipione, Flaminino ed Emilio Paolo
2 In nota mi limito a ricordare che Polibio è modello storiograco anche per il maggiore storico coevo a Plutarco, Flavio Giuseppe: cfr. A.M. ECKSTEIN, Josephus and Polybius: a reconsideration, CA 23, 1990, 175-208; G.E. STERLING, Explaining Defeat: Polybius and Josephus on the Wars, in Internationales Josephus-Kolloquium - Aarhus 1999, Münster 2000, 135-151; F.W. WALBANK, Treason and Roman Domination: two case studies, Polybius and Josephus, in Rome and the Hellenistic World, Cambridge 2002, 258-276. 3 Un’ultima efcace messa a punto in J. GEIGER, Plutarch’s Parallel Lives: the Choice of Heroes, in B. SCARDIGLI (ed.), Essays on Plutarch’s Lives, Oxford 1995, 165-190, soprattutto pp. 170-177. 4 Ma non incontestata dai moderni: status quaestionis in R.M. ERRINGTON, Philopoemen, Oxford 1969, 236-237. 5 GEIGER, Plutarch’s Parallel Lives: the Choice of Heroes, 173.
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da parte di un biografo greco, che condivideva il ruolo lellenico loro assegnato da Polibio. 4. Sullo sfondo di una più ampia utilizzazione delle Storie polibiane Plutarco ritiene di dover citare esplicitamente Polibio quale fonte afdabile e autorevole anche nei Moralia, riguardo all’età veneranda, a cui pervenne Massinissa (An seni 791f), e soprattutto riguardo al famoso exemplum uirtutis della principessa galata Chiomara, intervistata a Sardi da Polibio stesso e inserita da Plutarco tra le donne esemplari delle sue Mulierum uirtutes (258f)6; pure nelle Vite Polibio sembra talvolta addotto a garante di alcune notizie, per esempio riguardo alla viltà di Perseo a Pidna (Aem. 19,4), all’audace astuzia di Cleomene III in occasione della sua offensiva invernale contro Antigono Dosone in Argolide nel 223 (Agis 46,4), al numero delle forze in campo a Sellasia (Agis 48,11)7; il più delle volte, come peraltro è normale nella storiograa antica, Plutarco ricorre però alla citazione diretta in casi controversi, in presenza di almeno due versioni, tra cui non sempre gli è facile scegliere, e allora egli non sembra attribuire a Polibio un peso specico particolare. Certamente nella Vita di Arato Polibio è ritenuto preferibile sia ad Arato stesso, sia a Filarco, perché il primo tendeva ad autogiusticarsi (Arat. 38,11) e il secondo eccedeva in İȞȠȚĮ verso Cleomene III (Arat. 38,12)8: tra i due Polibio costituirebbe per Plutarco una più equilibrata ed afdabile via di mezzo; nella Vita di Filopemene le perdite initte agli Spartiati dallo stratego acheo sarebbero state di 80 uomini per Polibio, di 350 per Aristocrate (Phil. 16,4)9: il dato più moderato di Polibio, nonostante l’aperta ammirazione per il suo eroe, porta a concludere nello stesso senso. Già però nella Vita di Pelopida (17,5), riguardo agli effettivi della ȝંȡĮ spartana, la sua testimonianza (900 uomini) è posta sul medesimo piano di quelle di Eforo (500) e di Callistene (700), che avevano l'indubbio vantaggio di essere contemporanei, mentre non si registra il dato più autorevole, quello di Senofonte (600 uomini)10: l’impressione è quella di uno sfoggio erudito un po’ ne a se stesso e comunque incompiuto da parte di Plutarco. Se poi passiamo alle biograe romane, Plutarco si compiace di con-
6 PH. A. STADTER, Plutarch’s Historical Method: an Analysis of the ‘Mulierum virtutes’, Cambridge Mass. 1965, 108-109. 7 Rispettivamente Polyb. XXIX,18; II,64,2; II,65,1-7. 8 Polyb. II, 47,4 sq. contro Arat. fr. 4a n. 231 e Phylarch. fr. 52 n. 81 Jacoby. 9 Polyb. XXI,32c contro Aristocrates fr.4 n. 591 Jacoby. 10 Polyb. fr. 60 B.W.; Ephor. fr. 210 n. 70 Jacoby; Callisth. fr.18 n. 124 Jacoby; Xen. Hell. IV,5,12.
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Il rapporto con la biograa
trapporre a Polibio versioni alternative più attendibili della sua, almeno in linea di principio: nella Vita di L. Emilio Paolo per due volte è invocata la testimonianza di uno scritto raro, ma autoptico, l’ਥʌȚıIJંȜȚȠȞ di P. Cornelio Scipione Nasica, e, se a 16,3 il sospetto che Nasica abbia abbellito il proprio ruolo nell'azione militare narrata può far propendere per Polibio, a 15,5 Plutarco prende posizione con chiarezza a favore di Nasica e contro Polibio a proposito degli effettivi assegnati da L. Emilio Paolo al glio Q. Fabio Massimo Emiliano per eseguire una manovra aggirante le forze macedoni11. Nella Vita di Catone il censore (Cat. Maior 10,3) lo stesso Catone è afancato a Polibio riguardo alle città spagnole al di qua del Baetis da lui distrutte: tutte in un solo giorno (Polibio), 400 ca., più dei giorni trascorsi in Spagna (Catone); qui Polibio è succubo della vanteria di Catone, sulla quale Plutarco avanza invece ironiche riserve (țĮ IJȠ૨IJȠ țંȝʌȠȢ Ƞț ıIJȚȞ, İʌİȡ...), non dandosi di nessuno dei due12. Ancor più signicativo è il passo della Comparatio Pelopidae et Marcelli (1,7), in cui Plutarco discute dell’invincibilità di Annibale: Polibio sosteneva13 che il Barcide non fosse mai stato scontto, se non da Scipione – e la deformazione loscipionica di questo assunto non ha bisogno di commento –, mentre un cospicuo numero di altri autori, sia latini (Livio, Cesare e Nepote), sia greci (Giuba di Mauretania) rivendicava a M. Claudio Marcello il merito di avergli initto ਸ਼IJIJĮȢ IJȚȞȢ țĮ IJȡȠʌȢ; Plutarco è esplicito nel dichiarare di darsi (ਲȝİȢ į...ʌȚıIJİȠȝİȞ) di questa seconda tradizione. Nella Vita dei Gracchi (4,4) Polibio è addotto14, insieme però con la maggioranza degli storici (Ƞੂ ʌȜİȠȣȢ...ੂıIJȠȡȠ૨ıȚ, țĮ ȆȠȜȕȚȠȢ...), per confutare l'opinione minoritaria (segnatamente di Livio a XXXVIII,57,4) che il padre dei Gracchi fosse stato prescelto come sposo di Cornelia dall'Africano stesso prima della sua morte. Resta dunque solo il De fortuna Romanorum (325f), in cui sul celebre episodio delle oche del Campidoglio la versione razionalizzatrice di Polibio15 è posposta a quella ‘miracolosa’ della tradizione romana raccolta da Livio (V,47) con l’ovvio intento di toglierle credibilità.
11 Rispettivamente Polyb. XXIX,15 e XXIX,14. Cfr. G. ZECCHINI, Le lettere come documenti in Polibio, in L’uso dei documenti nella storiograa antica, Perugia 2003, pp. 415-422 (= cap. III). 12 Cato fr.129 Peter = FRHist n. 5 fr.135; Polyb. XIX,1. Qui in nota ricordo che il dictum Catonis contro le manie ellenizzanti di A. Postumio Albino (Cat. Maior 12,6) potrebbe derivare a Plutarco da Polyb. XXIX,1, ed essere quindi una citazione adespota dal Megalopolitano. 13 Polyb. fr.9 B.W. . 14 Polyb. XXIX,27. 15 Polyb. II,18,22.
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5. Dalla rapida analisi di questo primo gruppo di citazioni emerge, a mio avviso, che Plutarco ritiene Polibio una delle fonti più autorevoli per la storia fra III e II secolo a.C., ma gli si afda in misura massiccia solo per quanto riguarda la storia greca, dove è preferito a fonti alternative come Filarco, Aristocrate e Arato (le ultime due consultate con ogni probabilità proprio grazie a segnalazioni polibiane), mentre per la storia romana l’atteggiamento è più cauto e spesso gli sono anteposte fonti latine (Scipione Nasica, Catone, Livio et alii); di conseguenza il ruolo complessivo del Megalopolitano nelle Vite romane, soprattutto in quelle di Marcello, Fabio Massimo e Catone, potrebbe essere ridimensionato; ci resta certo la lacuna di non sapere come si comportò Plutarco nella Vita di Scipione, per la quale Polibio offriva una versione lellenica, e dunque in sintonia col biografo di Cheronea, ma anche molto parziale in senso loscipionico, mentre non mancavano altre opzioni nella storiograa latina. 6. Oltre al ruolo di Polibio come fonte di Plutarco, va posta la questione del ruolo di Polibio come ispiratore di Plutarco: ci si deve domandare in che misura l’interpretazione polibiana degli anni 220-146 a.C. ha determinato la lettura plutarchea dello stesso periodo nelle Vite parallele. Allora, la scelta dei personaggi-chiave del periodo, tali da meritare una biograa specica, evidenzia importanti afnità, determinate sia da ragioni storiche incontrovertibili (le sei Vite romane sono dedicate ai sei personaggi di maggior rilievo del loro tempo, come emerge da tutte le fonti a nostra disposizione e, in particolare, da Livio oltre che da Polibio), sia dal diretto inusso del Megalopolitano (la prospettiva peloponnesiaca e quindi polibiana delle quattro Vite greche è già stata rilevata sopra), ma anche signicative prese di distanza. Osservo soprattutto che per Polibio le tre più grandi personalità militari dell’epoca erano state Annibale, Scipione Africano e Filopemene e tra questi tre egli stabiliva una nota ıȖțȡȚıȚȢ approttando dello straordinario sincronismo della loro morte sotto il 184/316; ora, Plutarco non sente l’esigenza di scrivere una Vita di Annibale, cioè di fare per lui quell’eccezione all’interno delle sue biograe greco-romane, che pure aveva fatto per Artaserse II; non eredita da Polibio il parallelo ‘Scipione / Filopemene’17: orgogliosamente, ma anche più fondatamente, vi sostituisce quello tra Scipione e il beota Epaminonda, il connazionale vincitore di
16 Polyb. XXIII,12-14. Cfr. G. ZECCHINI, Polibio e i più grandi generali del suo tempo, in Festschrift G. Dobesch, Wien 2004, pp. 257-261 (= cap. IX). 17 Né quello ‘Annibale / Epaminonda’ accennato a IX,8-9.
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Leuttra e geniale innovatore in campo tattico, proprio come l’Africano; inne non scrive nessuna biograa di Filippo V, indubbio protagonista della storia greca tra III e II secolo, sul quale Polibio forniva abbondante materiale e suggeriva anche una parabola etica ed umana (le grandi qualità mostrate in gioventù e la successiva degenerazione) davvero stimolante per un biografo come Plutarco: qui il disinteresse e la disistima del Beota per la Macedonia ellenistica (e non solo: non c’è biograa neanche per Filippo II) ha il sopravvento su Polibio e, più in genere, sulla ricca letteratura contemporanea riguardante Filippo V e ricordata invece da Polibio stesso18. Di là dalle singole personalità, biografate e non, Plutarco poteva attingere a Polibio importanti chiavi interpretative della storia romana nell’età delle conquiste, da un lato la tematica costituzionale, che spiegava l’ascesa di Roma con la superiorità della sua costituzione mista, dall’altro il metus hostilis o, per meglio dire, l’ ȟȦșİȞ ijંȕȠȢ, la cui scomparsa poteva avere effetti negativi sulla compattezza morale e politica della società romana19. Non sembra che ciò sia avvenuto: anche se il Plutarco politologo di taluni moralia ben conosceva il dibattito sulle varie forme di governo e sulla ȝȚțIJ20, nelle biograe egli legge la storia di Roma non secondo lo schema ternario-unitario di Polibio (monarchia, aristocrazia e democrazia unite appunto nella ȝȚțIJ), ma secondo lo schema binario dei rapporti dialettici e conittuali tra il senato (ਲ ȕȠȣȜ, Ƞੂ ੑȜȖȠȚ) e il popolo ( įોȝȠȢ, Ƞੂ ʌȠȜȜȠ)21 secondo una visione riduttiva del ruolo di altri elementi (l'esercito, gli Italici) anche nell'età delle guerre civili22; pure la teoria dell’ ȟȦșİȞ ijંȕȠȢ non gli è certo ignota, ma signicativamente è evocata solo nella Vita di Marcello (3,4) riguardo alle invasioni galliche e qui la matrice è senza dubbio quella romana del metus Gallicus23, non quella polibiana e, più latamente, ellenistica. Nel complesso mi sembra di aver rilevato sin qui una notevole au-
18
Polyb. VIII,8. Cfr. G. ZECCHINI, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, Tyche 10, 1995, 219-232 (= cap. XI). 20 CH. CARSANA, La teoria della costituzione mista nell’età imperiale romana, Como 1990, 147-155. 21 Chr. PELLING, Plutarch and Roman Politics in B. SCARDIGLI (ed.), Essays on Plutarch’s Lives, Oxford 1995, 319-356 = Plutarch and History, London 2002, 207-236. 22 M. MAZZA, Plutarco e la politica romana. Alcune riconsiderazioni, in Teoria e prassi politica nelle opere di Plutarco, Napoli 1995, 245-268. 23 H. BELLEN, Metus Gallicus - Metus Punicus, Mainz 1985 (SBAW 1985,3, pp. 3-46). 19
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tonomia intellettuale di Plutarco rispetto a Polibio: quest’ultimo è per Plutarco uno storico e una fonte di prestigio, da conoscere, da utilizzare ampiamente, da citare, ma di cui non essere succubo; sulla storia di III/ II secolo a.C. Plutarco ha le sue idee, mutuate anche dalla tradizione romana per la storia romana, mutuate forse anche dalle tradizioni patrie o comunque da valutazioni personali per la storia macedone, in ogni caso indipendenti da Polibio, la cui autorità non è tale da imporsi e da soffocarle. 7. Il secondo gruppo di menzioni polibiane in Plutarco ci introduce però a un secondo aspetto del rapporto tra i due, giacché in esse Polibio è visto non più come storico, ma come uomo politico. La Vita di Catone il censore rievoca a 9,2-3 l’atteggiamento ironico e sprezzante del Censore verrso gli esuli achei e le sue battute su Polibio e il suo prodigarsi per ottenere il loro rientro in patria: l’episodio è trascurabile dal punto di vista di Catone, cioè del biografato, e dunque il rilievo, che gli conferisce Plutarco, implica la condivisione del punto di vista di Polibio, in una prospettiva greca, solo all’interno della quale il ruolo del Megalopolitano assume importanza. Nella Vita di Filopemene si ricorda che proprio Polibio, giovane glio dello stratego degli Achei ( IJȠ૨ ıIJȡĮIJȘȖȠ૨ IJȞ ਝȤĮȚȞ ʌĮȢ ȆȠȜȕȚȠȢ), cioè di Licorta, portò l’urna di Filopemene durante la pompa funebre nel 183 (21,5)24, mentre più oltre si registra l’intervento di Polibio presso Mummio e i legati romani nel 146 perché non fossero soppressi gli onori decretati a suo tempo a Filopemene (21,11): qui come nella Vita del Censore la fonte di questi particolari biograci su Polibio è Polibio stesso (rispettivamente XXXIX,3-4 e XXXV,6) e ne esce esaltato il ruolo del mediatore tra il potere romano e i Greci avviati a un’irreversibile sudditanza. Al di fuori delle Vite Polibio è ricordato a causa del suo stretto rapporto con Scipione Emiliano per uno stratagemma proposto (ma non accolto) durante l’assedio di Cartagine (Regum et imperatorum apophthegmata 200a)25 e soprattutto per il suggerimento di non andarsene mai dal foro, se non dopo essersi procurato almeno un amico in più tra i concittadini; questo secondo aneddoto è utilizzato da Plutarco due volte, sia sempre nei Regum et imperatorum apophthegmata (199f), sia soprattutto all’inizio del IV libro delle Quaestiones convivales (659e), dove egli si
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Commento in ERRINGTON, Philopoemen, 192 sgg; 232 sgg. Commento in FR. FUHRMANN (ed.), Plutarque. Oeuvres morales, III, Paris 1988, 298299; in generale cfr. CHR. PELLING, The Apophthegmata Regum et Imperatorum and Plutarch’s Roman Lives, in Plutarch and History, London 2002, pp. 65-90. 25
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rivolge direttamente al suo amico e patrono romano Sossio Senecione: qui mi sembra implicito il parallelo tra il rapporto di Polibio con l’Emiliano e quello di Plutarco appunto con Senecione, dove è notevole che Polibio svolga la funzione di consigliere dell’Emiliano in ambito politico e di conseguenza Plutarco voglia proporsi a Senecione per il medesimo ruolo. Su questo sfondo è tanto più interessante constatare che la valutazione nale offerta dal Plutarco della tarda maturità su Polibio sia contenuta nei due opuscoli politici dell’an seni (791a) e dei Praecepta (814c). Nel primo Polibio è correlato a Filopemene come Cimone ad Aristide, Focione a Cabria, Catone a Q. Fabio Massimo e Pompeo a Silla, preclari esempi di un procuo rapporto ‘giovani / anziani’ in quanto discepoli e maestri in campo politico; gli esempi sono imparzialmente tratti, come è costume abituale per Plutarco, sia dalla storia greca, sia dalla romana26, ma è certo curioso e, se si vuole, un po’ ironico che Polibio sia posto sullo stesso piano di quel Catone, che tanto lo disprezzava, come Plutarco sapeva bene: qui lo scrittore di Cheronea vuol rendere giustizia a Polibio o, meglio, alla coppia ‘Filopemene / Polibio’, così maltrattati da Catone e dai molti Romani, che la pensavano come lui. Nel secondo invece è il vecchio Polibio a essere celebrato insieme con Panezio per aver tanto giovato alla patria grazie alla benevolenza dell’Emiliano nei loro confronti: di nuovo torna quel ruolo di mediatore tra Roma e la Grecia, che avevo già osservato sopra e che, in fondo, è l’immagine che Polibio vuole offrire di se stesso negli ultimi, ‘autobiograci’ libri delle sue Storie27. 8. Concludo: non tanto Polibio storico ed esegeta dell’ascesa di Roma e della rovina della Grecia suscitava la profonda ‘simpatia’ di Plutarco quanto Polibio consigliere dei nobili romani e loro maestro nell’arte della politica; questo Polibio era avvertito da Plutarco come predecessore e modello, il primo Greco ad accettare la supremazia romana, a sforzarsi di comprenderla, pur senza rinunciare però ad affermare le ragioni della Grecia e a rivendicare per essa in virtù delle sue tradizioni e della sua ʌĮȚįİĮ, un ruolo specialissimo e privilegiato all’interno dell’impero: ai Romani spettava essere generali, legislatori e principi, ma i Greci dovevano continuare ad essere, in quanto loso e sapienti, i principali interlocutori dei signori del mondo, secondo quel
26 Per gli esempi greci cfr. L. PRANDI, Gli esempi del passato greco nei Precetti politici di Plutarco, RSA 30, 2000, 93-107. 27 F.W. WALBANK, Polybius’ last ten books, in Historiographia antiqua in honorem W. Peremans, Leuven 1977, 139-162 = Selected Papers, Cambridge 1985, 325-343.
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progetto di diretta collaborazione col principe del momento, Traiano, che forse Plutarco concepì e delineò nel Maxime con principibus philosopho esse disserendum e nell’ Ad principem ineruditum e che ben presto si rassegnò ad abbandonare di fronte al garbato, ma fermo diniego del principe stesso28.
28 G. ZECCHINI, Plutarch as political theorist and Trajan: some reections, in PH. A. STADTER-L. VAN DER STOCKT (eds.), Sage and Emperor, Leuven 2002, 191-200.
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CAPITOLO XVI FORTUNA ANTICA E TARDOANTICA DI POLIBIO
«Eine eingehende und umfassende Untersuchung des Nachlebens des Polybios gibt es noch nicht»: il lapidario giudizio espresso nel 1952 da Konrat Ziegler1 può essere replicato anche mezzo secolo dopo. Quanto segue vorrebbe essere un tentativo, il più sistematico possibile, di riempire tale lacuna. I. Il presupposto, da cui bisogna partire per ricostruire la fortuna di Polibio a Roma e, in genere, nella cultura latina, è che la sua opera non aveva caratteristiche tali da conquistare il pubblico dell’Urbe: era loromana, d’accordo, ma i primi 29 libri, scritti tra il 168 e il 150 ca., erano impostati secondo una prospettiva ancora greca, dedicavano molto spazio a vicende elleniche ed ellenistiche non so quanto interessanti per lettori romani, presentavano la storia di Roma secondo un’angolatura rigorosamente scipionica e quindi non necessariamente condivisa; gli ultimi 10 libri, scritti dopo il 146, si aprivano a tematiche più coinvolgenti, giacché recepivano per esempio le preoccupazioni etiche di Catone su un eventuale declino di Roma e, più in genere, si pongono in un’inte1 K. ZIEGLER, RE XXI-2 (1952) Polybios, coll. 1440-1578, col. 1572. Ora cfr. anche, limitatamente ai rapporti di Polibio con la storiograa su Roma repubblicana, D. PAUSCH, Lost in Reception: Polybius’ Paradoxical Impact on Writing History in Republican Rome, in N. MILTSIOS et alii (eds.), Polybius and his legacy, Thessaloniki 2018, in c.d.s. .
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ressante relazione dialettica con le Origines . Bisogna però stare attenti a non confondere le aperture di Polibio verso la cultura romana con un rapporto reciproco: dopo il 146 egli non era neppure residente a Roma e non era facile per un’opera tanto vasta e complessa riscuotere attenzione e successo nell’Urbe, dove era ormai orente un’autonoma storiograa di lingua latina. In effetti lo storico coevo all’ultimo Polibio e autore di un’opera monograca sulla II guerra punica, L. Celio Antipatro, si confrontava polemicamente con la versione lopunica di Sileno di Calatte, uno degli storici di Annibale3, ma non risultano contatti con Polibio; altre versioni romane del tutto indipendenti, se non addirittura contrastanti con quella polibiana, si ritrovano in Cassio Dione, per esempio riguardo alla ne del proconsolato di Scipione in Spagna e al suo richiamo a Roma4. Più o meno negli stessi anni di Antipatro è però attivo anche quel Sempronio Asellione, con il quale si fa abitualmente cominciare – l’ha ribadito anche il Musti5 - l’inusso di Polibio sulla storiograa latina, un inusso, che sarebbe allora pressoché immediato; come è noto, tutto dipende dai frammenti del proemio, in cui Asellione si contrappone polemicamente agli annalisti e sostiene che compito primario dello storico è la ricerca delle cause razionali degli eventi6. In realtà queste affermazioni, tanto frammentarie quanto generiche, rivelano soltanto che Asellione prende le distanze dalla moda annalistica, di cui era preda la storiograa postcatoniana, rappresentata dai Pisone e dagli Emina, e le contrappone una storiograa razionale, ‘scientica’, di ascendenza greca: non c’è bisogno di scomodare la lezione di Polibio, basterebbe quella
2 D. MUSTI, Polibio e la storiograa romana arcaica, in E. GABBA (ed.), Polybe, Genève-Vandoeuvres 1974, 105-139; CL. NICOLET, Polybe et les institutions romaines, ibid., 209-258. 3 W. HERRMANN, Die Historien des Coelius Antipater, Meisenheim am Glan 1979; M. CHASSIGNET, L’annalistique romaine, II, Paris 1999, p. XLI-XLIX. 4 G. ZECCHINI, Scipione in Spagna: un approccio critico alla tradizione polibiano-liviana, in G. URSO (ed.), Hispania terris omnibus felicior, Pisa 2002, 87-103, soprattutto p. 100 e sgg. e, più in genere, infra p. 214. 5 MUSTI, Polibio e la storiograa, 139. 6 Per l’esegesi dei frr.1-2 di Asellione cfr. M. MAZZA Sulla tematica della storiograa romana di epoca sillana: il frg. 1-2 Peter di Sempronius Asellio, Sic Gymn 18, 1965, 144163; ID., Sul testo del frammento 2 Peter di Sempronio Asellione, in Miscellanea Sgroi, Torino 1965, pp. 571-576; CHR. SCHÄUBLIN, Sempronius Asellio fr.2, WJA 9, 1983, 147-155; H. BECK-U. WALTER, Die frühen römischen Historiker, II, Darmstadt 2004, 88-89 (che insistono opportunamente sulle differenze rispetto a Polibio); M.P. POBJOY in The Fragments of the Roman Historians, Oxford 2013, I,276 e III,278 (secondo il quale l’inuenza di Polibio su Asellione sarebbe evidente: simili affermazioni andrebbero giusticate).
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di Timeo e, nel complesso, della tradizione ellenistica per individuare i modelli di Asellione. L’unico motivo per postulare un rapporto diretto tra Asellione e Polibio è, come già osservava A. Klotz7, un dato biograco, e cioè la presenza di entrambi all’assedio di Numanzia nel 133 a.C.8: se ne può concludere che, nelle loro conversazioni, Polibio dovette criticare l’annalistica romana contemporanea ed esortare il giovane Asellione a rivolgersi ai più nobili modelli della cultura storiograca greca e che Asellione fece tesoro di questi discorsi, ma ciò non implica una conoscenza approfondita delle Storie del Megalopolitano. In ultima analisi, far cominciare con Asellione l’inuenza di Polibio sulla storiograa romana è per lo meno arrischiato9. La cautela si impone anche perché nel I secolo i modelli greci, a cui si ispirano gli storici latini, non includono Polibio: Sisenna si rifaceva a Clitarco, Q. Lutazio Catulo e Cesare a Senofonte, Sallustio (e forse C.Asinio Pollione) a Tucidide10; ancora Tucidide è presente a Cicerone, quando questi elabora nel De oratore le leges historiae11. L’indifferenza verso Polibio è dovuta al classicismo dell’epoca, che preferisce misurarsi coi grandi autori del V-IV secolo, ma implica che le Storie del nostro non avevano ancora messo radici nella cultura romana. A tale indifferenza ci sono poche eccezioni. Lo stesso Cicerone si misura a fondo col Polibio ‘costituzionalista’ del VI libro nel I libro del De re publica12, ma, come avremo modo di osservare più volte, l’attenzione per le teorie politologiche del Megalopolitano non signica interesse per la sua complessiva opera di storico; diciamo che il De re publica testimonia senza dubbio che il Polibio scienziato della politica precedette in Roma il Polibio interprete dell’ascesa dell’Urbe all’egemonia mondiale, salvo aggiungere che la sua interpretazione sulla costituzione romana come costituzione mista fu esaminata e discussa, ma in sostanza
7 A. KLOTZ, Die Benützung des Polybios bei römischen Schriftstellern, SIFC 25, 1951, 243-265, pp. 252-7. 8 Gell. NA II,13,3. 9 Sull’ambasceria di tre loso greci a Roma nel 155 a.C. Gellio (cfr. infra con la nota 16) cita Polibio insieme con P. Rutilio Rufo, storico latino, pur se scrivente in greco: è ipotizzabile un inusso del primo sul secondo, ma nulla si può dire di più preciso. 10 Sisenna e Clitarco: Cic. De legib. I,1,5; Catulo e Senofonte: Cic. Brut. 132; Sallustio e Tucidide: Th.Fr. SCANLON, The Inuence of Thucydides on Sallust, Heidelberg 1980; Pollione e Tucidide: G. ZECCHINI, Asinio Pollione. Dall’attività politica alla riessione storiograca,ANRW II,30,2, Berlin-New York 1982, 1265-1296, p. 1282 con la nota 74. 11 Cic. De orat. II,62-64. 12 Basti il rinvio al classico E. BERTI, Il De re publica di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova 1963; in precedenza cfr. anche FR. TAEGER, Die Archäologie des Polybios,
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non accolta neppure da un pensatore impregnato di cultura greca come Cicerone; nei testi coevi di parte cesariana non ve ne è traccia13. In ogni caso, Cicerone menziona Polibio nel De re publica tre volte, a cui si può aggiungere una menzione nel De ofciis, sempre dal VI libro14; due ulteriori menzioni nell’Epistolario concernono una lacuna nell’informazione di Polibio riguardo ai nomi dei dieci legati, che afancarono L. Mummio alla ne della guerra acaica, e il Bellum Numantinum, l’ultimo scritto dello storico di Megalopoli15: nel complesso si tratta davvero di poca cosa. Il maggior numero di citazioni polibiane si trovano, non sorprendentemente, nella multiforme opera del massimo erudito del tempo, M. Terenzio Varrone, dal De lingua latina al De sermone latino (insieme con P.Rutilio Rufo sull’ambasceria dei tre loso greci a Roma nel 155 a.C.) no ai numerosi (12) frammenti geograci citati da Plinio il vecchio tramite appunto Varrone16: se ne trae l’interessante constatazione che anche il Polibio geografo, quello in particolare del XXXIV libro, così come il Polibio politologo del VI, divenne un auctor da citare prima del Polibio storico. Sul piano storiograco l’eccezione più rilevante sembra essere Cornelio Nepote, che almeno nella sua biograa di Annibale avrebbe utilizzato Polibio17; è però estremamente interessante notare che, laddove egli discute la cronologia della morte di Annibale e il sincronismo con quelle di Filopemene e Scipione, riferisce tre versioni, di Polibio, di tale Sulpicio Blitone e di Attico e si schiera poi con quest’ultimo18: ciò rivela che per Nepote Polibio era un autore degno di consultazione, ma tutt’altro che indiscusso, anzi passibile di controlli e correzioni. È noto l’aneddoto, secondo cui Bruto alla vigilia di Filippi stava redigendo un’epitome di Polibio19: lo stoico Bruto era certo tra gli esponenti più ellenizzati della nobiltà romana e rivela in questa notizia un notevole
Stuttgart 1922 e in seguito J.L. FERRARY, L’archéologie du De re publica (2,2,4-37,63). Cicéron entre Polybe et Platon, JRS 74, 1984, 87-98. 13 Cfr. in genere G. ZECCHINI, Die staatstheoretische Debatte der caesarischen Zeit, in W. SCHULLER (ed.), Politische Theorie und politische Praxis im Altertum, Darmstadt 1998, 149-165. 14 Cic. De re p. I,34, II,27 (su cui cfr. infra p. 215) e IV,3; De off. III,113. 15 Cic. Ad Att. XIII,30,2; Ad fam. V,12,2. Cfr. M. FLECK, Cicero als Historiker, Stuttgart 1993,78-83 e ora FR. GINELLI, La biblioteca storica di Cicerone nei suoi Epistolari, Paideia 68, 2013, 497-530, pp. 517-521. 16 Varr. De lingua lat. V,113; De grammatica librorum reliquiae fr.20 Traglia = 322 Funaioli apud Gell. NA VI,14,10; sui frammenti in Plinio il vecchio e su Varrone fonte intermedia cfr. KLOTZ, Die Benützung, 262-264. 17 Così KLOTZ, Die Benützung, 257-261. 18 Corn. Nep. Hann. 13,1. 19 Plut. Brut. 4,8.
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interesse personale per l’opera complessiva di Polibio, ma il fatto che egli ne stesse curando un’epitome, un’edizione abbreviata, è anche spia del fatto che le Storie nella loro interezza faticavano a essere lette e apprezzate, anzi continuavano a incontrare difcoltà sia per il contenuto, sia forse ancor di più per lo stile, come testimoniò poco dopo anche Dionisio di Alicarnasso20. Non per nulla è opinione unanime degli studiosi moderni21 che anche Pompeo Trogo, lo storico augusteo più inuenzato nella sua formazione in area massaliota dalla cultura greca, abbia utilizzato Polibio nei libri XXX-XXXV della sua opera solo per via indiretta (Timagene?), attraverso dunque un ltro, che rendesse più digeribile l’aspra materia delle Storie. Quanto n qui osservato pone in una luce nuova la scelta storiograca di Tito Livio: infatti, quando lo storico patavino decise di afancare Polibio alle sue fonti latine (Anziate e Quadrigario su tutte, ma almeno anche C. Licinio Macro e L. Celio Antipatro), di procedere a un confronto sistematico e, inne, di privilegiare Polibio come autore più attendibile e più ‘scientico’, egli non compì un’operazione scontata e imposta dalla temperie culturale del suo tempo, ma attuò una scelta coraggiosa e, per così dire, impopolare; solo grazie a Livio e al suo straordinario lavoro di collazione22 Polibio si affermò come lo storico per eccellenza dell’ascesa di Roma a potenza egemone del mondo antico e ancor oggi noi possiamo ricuperare parte delle sue Storie perdute attraverso i libri XXI-XLV dell’Ab Vrbe condita. D’altra parte il trionfo di Polibio presso Livio fu efmero e conteneva, paradossalmente, anche le ragioni della sua denitiva fuoriuscita dalla cultura latina: voglio dire che Polibio fu coinvolto nel generale naufragio della storiograa preliviana, resa superua proprio dalla formidabile sintesi del Patavino. Solo così si può spiegare la fulminea scomparsa di Polibio a Roma: in età imperiale alle citazioni indirette di Plinio il vecchio e di Aulo Gellio, che provengono da Varrone e riguardano comunque particolari geograci o culturali23, fa riscontro il silenzio di Quintiliano, che, come già osservava Momigliano24, nasconde una condanna stilistica senza appello,
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Cfr. infra nota 34. Cfr. infra nota 31. 22 Su cui è classico H. TRÄNKLE, Livius und Polybios, Basel 1977; cfr. inoltre J. BRISCOE, Some Misunderstandings of Polybius in Livy, in BR. GIBSON-TH. HARRISON, Polybius and his World. Essays in memory of F.W. Walbank, Oxford 2013, 117-124. 23 Cfr. supra nota 16. 24 A. MOMIGLIANO, Polybius’ Reappearance in Western Europe, in E. GABBA (éd.), Polybe, Genève-Vandoeuvres 1974, 347-372 = VI Contributo, Roma 1980, 103-123 (a p. 347 = 103: «the silence of Quintilian was even more deadly»). 21
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nonché il pesante disinteresse di Tacito. Le più tarde menzioni di Polibio in autori come Ammiano, Gerolamo ed Orosio25 non devono trarre in inganno: dopo l’età augustea Polibio ricompare nella cultura occidentale solo quattordici secoli dopo con il Rinascimento e per lo più grazie all’excursus militare del VI libro, che tanto interessò Machiavelli (L‘arte della guerra: 1519-1520) e Giusto Lipsio (De militia Romana: 1595)26; per la storia di Roma, l’unica che importava, c’era già Livio e si leggeva solo quello. II. Nel mondo di lingua greca la situazione si congura subito come del tutto diversa. Inizialmente l’accoglienza riservata a Polibio non fu priva di riserve, se uno Scilace, forse contemporaneo di Panezio, scrisse una ਕȞIJȚȖȡĮij ʌȡઁȢ IJȞ ȆȠȜȣȕȠȣ ੂıIJȠȡĮȞ27. Già però nella generazione successiva il più grande losofo, erudito e storico del tempo, Posidonio, decretò la ‘classicità’ di Polibio, impostando la sua opera storica come continuatio delle Storie28; Diodoro Siculo avrebbe attinto a Polibio, secondo l’unanime parere dei moderni29, per i libri XXVIII-XXXII della Biblioteca: la discussione se sia o no di matrice polibiana il celebre passo diodoreo sugli imperi, che si costruiscono col coraggio e con l’intelligenza, si estendono con la clemenza e con il rispetto per gli altri e si conservano col terrore, è ancor oggi assai vivace30; anche Timagene si sarebbe servito di Polibio e forse avrebbe funto da tramite con Trogo31; in 25 Di Ammiano, non certo latino di formazione, e di Gerolamo, che attinge a Porrio la sua conoscenza di Polibio, si dirà infra. Quanto ad Orosio, egli cita Polibio due volte, a IV,20,6 e a V,3,3, rispettivamente da Liu. XXXIII,10,7 e 10 e dal libro corrispondente alla Per.52, in entrambi i casi insieme con autori come Anziate e Quadrigario e allo scopo di mostrare l’inattendibilità e la falsità degli storici pagani nel riferire dati e cifre sulle perdite in battaglia (cfr. G. ZECCHINI, L’usage de la citation chez Orose, in M.T. SCHETTINO-C. URLACHER BECHT (éds.), Ipse dixit, Besançon 2017, 107-122, p. 111); si tratta di menzioni di scarso signicato: che esse rivelino una preferenza accordata da Orosio a Polibio per cosciente polemica verso i Romani e la tradizione storiograca, che enfatizzava i loro trion militari, come vorrebbe G. SABBAH, La méthode d’Ammien Marcellin, Paris 1978, 94-96, mi sembra del tutto improbabile. 26 MOMIGLIANO, Polybius’ Reappearance, cit. supra nota 24. 27 Lex. Suda IV,390 Adler. 28 Basti qui il rinvio a J. MALITZ, Die Historien des Poseidonios, München 1983. 29 E. SCHWARTZ, RE V (1905) Diodoros, coll. 663-704, soprattutto 689-690 e F. CASSOLA, Diodoro e la storia romana, ANRW II,30,1, Berlin-New York 1982, 724-773, p. 763. 30 Cfr. da ultimo J.L. FERRARY, Le jugement de Polybe sur la domination romaine: état de la question, in J. SANTOS-E. TORREGARAY (edd.), Polibio y la península ibérica, Vitoria 2003, 15-32, p. 22 nota 30 (e discussione alle pp. 44-45). 31 L. SANTI AMANTINI, Fonti e valore storico di Pompeo Trogo (Iustin. XXXV e XXXVI), Genova 1972; G. FORNI-M.G. BERTINELLI ANGELI, Pompeo Trogo come fonte di storia, ANRW II,30,2, Berlin-New York 1982, 1298-1362, pp. 1345-6. F. MUCCIOLI, L’Oriente
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età augustea Strabone utilizzò ampiamente Polibio nei libri occidentali, soprattutto il III e il IV, della sua Geograa e avrebbe inoltre concepito i suoi Historikà hypomnémata come una seconda continuatio di Polibio, forse preceduta da un’ ‘archeȠlogia’, che connetteva Eforo a Polibio stesso32; inne Dionisio di Alicarnasso concepì a sua volta la sua Storia di Roma arcaica come una sorta di ennesima continuatio...a priori di Polibio, un completamento, che permettesse di realizzare una triade di opere storiche greche (la sua più quelle di Polibio e di Strabone) in grado di coprire l’intero sviluppo della storia di Roma dalle origini ad Augusto33. La centralità di Polibio per la conoscenza di Roma da parte della cultura greca appare di conseguenza saldamente fondata ed indiscussa: lo scopo, che il Megalopolitano si era presso davanti ai suoi compatrioti, quello di divenire l’autore di riferimento su Roma, risulta dunque pienamente raggiunto. Proprio Dionisio di Alicarnasso inserisce una nota negativa nel considerevole successo goduto da Polibio in età augustea, quando osserva che il Megalopolitano era tra quegli storici ellenistici tanto prolissi e noiosi che non si riusciva a leggerli sino in fondo34. Questa osservazione riguarda essenzialmente lo stile: essa spiega come Polibio non sia mai entrato nel giro di letture scolastiche e retoriche e si afanca al sopra ricordato silenzio di Quintiliano, ma non ebbe ricadute signicative tra gli storici, come dimostra l’atteggiamento dello stesso Dionisio e quello di molti autori di età imperiale. Infatti Plutarco usa Polibio nelle 10 biograe, 4 greche e 6 romane, dedicate a personaggi di III/II secolo, sia pure in misura diversa, più ampia nelle prime, più limitata nelle seconde35; Pausania se ne serve, con
seleucidico da Antioco I ai primi anni di Antioco III in Pompeo Trogo / Giustino, in C. BEARZOT-F. LANDUCCI, Studi sull’epitome di Giustino, II, Milano 2015, 99-120, p. 108 lascia aperta la possibilità di una duplice utilizzazione di Polibio da parte di Trogo, diretta e indiretta tramite Timagene. 32 Almeno secondo l’ipotesi di L. PRANDI, Strabone ed Eforo, Aevum 62, 1988, 5060; cfr. anche D. AMBAGLIO, Gli Historikà Hypomnémata di Strabone, MIL 39,5, 1990, 377-425. 33 In genere sull’opera di Dionisio di Alicarnasso cfr. E. GABBA, Dionysius of Halicarnassus and the Archaic History of Rome, Berkeley-Los Angeles 1992 (edizione italiana, Bari 1996). 34 Dion. Halic. De composit. uerb. 4,15 (L’elenco comprende Filarco, Duride, Psaone, Demetrio di Callatis, Ieronimo di Cardia, Antigono, Eraclide Lembo, Egesianatte e appunto Polibio). 35 G. ZECCHINI, Polibio in Plutarco, in A. PÉREZ JIMENEZ-FR. TITCHENER (edd.), Historical and Biographical Values of Plutarch’s Works. Studies Stadter, Malaga-Utah 2005, 513-522 (= cap.XV).
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ogni probabilità in forma diretta, nei libri VII e VIII sull’Acaia e sull’Arcadia36; Appiano attinge ampiamente alla tradizione polibiana, anche se sulle modalità di tale rapporto il dibattito è acceso: pare certo il rapporto diretto per l’Antiochiké, cioè per la storia ellenistica, si è di recente ridimensionata la dipendenza per l’Iberiké, la si ammette, con qualche cautela, per l’Annibaiké, la si ritiene mediata nella Makedoniké37; resta il fatto che, al di là delle ipotesi moderne, lo storico ecclesiastico Evagrio sapeva con sicurezza che Appiano aveva selezionato con attenzione Polibio ( ਝʌʌȚĮȞઁȢ İțȡȚȞȢ įȚIJİȝİȞ)38 e questa perentoria affermazione va anteposta a qualsiasi indagine sulle forme della loro relazione; inne, sul nire dell’età antonina, Ateneo, che pure non aveva particolari motivi per prediligere uno storico pragmatico come Polibio, lo cita per la storia o della Grecia o dell’Asia o dell’Egitto e vi attinge in forma diretta almeno dai libri XXIX/XXX-XXXIV, cioè dai libri che coprono il periodo successivo alla III guerra macedonica no alla guerra celtiberica (168-152 a.C.) e alla digressione geograca appunto del XXXIV39. Di particolare rilievo appare il caso di Flavio Giuseppe. Polibio è citato sia nelle Antiquitates Iudaicae sia nel Contra Apionem sempre a proposito dei rapporti tra Giudei e sovrani seleucidi, segnatamente Antioco III e Antioco IV40; l’interesse dello storico giudaico non doveva essere ostacolato da problemi linguistici: già l’ambasceria del 64 a Roma presuppone in Giuseppe una discreta conoscenza del greco e gli oltre dieci anni trascorsi tra la sua cattura a Iotapata nel 67 e l’inizio della composizione del Bellum Iudaicum nel 79 gli permisero certamente di afnarla41; tale interesse è certamente motivato dall’attenzione, che Polibio doveva
36 D. MUSTI, Pausania. Guida della Grecia, I, Milano-Verona 1982, XXVIII (uso indiretto); M. Moggi, Pausania. Guida della Grecia, VII, Milano-Verona 2000, 234-235 (uso diretto); VIII, ibid. 2003, 332-333. 37 Cfr. rispettivamente K. BRODERSEN, Appians Antiochiké, München 1991, 69-74 e 238-240; F.J. GÓMEZ ESPELOSÍN, Appian’s Iberiké, ANRW II,34,1, Berlin-New York 1993, 403-427, pp. 422-425; CH.G. LEIDL, Appians ‘Annibaiké’, ibid., 428-462, pp. 453-455; P. MELONI, Il valore storico e le fonti del Libro Macedonico di Appiano, Roma 1955. Più in generale per i rapporti della storiograa di età antonina con Polibio cfr. ora anche N. MILTSIOS, Polybius and Arrian e BR. MCGING, Polybius and Appian, in N. MILTSIOS et alii (eds.), Polybius and his legacy, Thessaloniki 2018, in c.d.s. . 38 Euagr. HE V,24. 39 G. ZECCHINI, La cultura storica di Ateneo, Milano 1989, 86-91; F.W. WALBANK, Athenaeus and Polybius, in D. BRAUND-J. WILKINS (edd.), Athenaeus and his world, Exeter 2000, 161-169. Polibio sembra invece del tutto trascurato da Polieno: cfr. M.T. SCHETTINO, Introduzione a Polieno, Pisa 1998, 181. 40 AJ XII,135-7; XII,358-9; forse XII,402; CAp II,84. 41 T. RAJAK, Josephus: the Historian and his Society, London 1983, 46.
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riservare al mondo giudaico e al Tempio, su cui a XVI,39 (anno 199 a.C.) egli promette di riservare ad altro luogo le molte cose che ha da dire in proposito: questa trattazione, per noi perduta, doveva essere fondamentale agli occhi di Giuseppe; c’è poi il singolare parallelismo nella vicenda umana e politica dei due personaggi, entrambi loromani e perciò esposti all’accusa di tradimento42, entrambi indotti a riettere sulla follia di una resistenza armata contro la potenza egemone e, nel complesso, beneca di Roma: temi come quelli dell’ ĮIJȠȣȡȖĮ e della IJȤȘ, dell’irrazionalità dei giovani e della razionalità degli statisti, delle minoranze come causa di guerre e della comprensibile faziosità degli storici di corte sono stati a più riprese ricondotti da Giuseppe a Polibio; la derivazione polibiana del proemio del Bellum Iudaicum, della tavola dei contenuti e soprattutto della sezione militare di III,70-109 (da Pol. VI,19-42) è stata rivendicata con argomenti difcilmente contestabili43. Nel complesso Giuseppe appare il più polibiano degli storici greci nel periodo dell’alto impero: egli vedeva nel suo predecessore sia lo storico dell’invincibile supremazia di Roma, sia lo storico dei rapporti giudaico-ellenistici. La constatazione del perdurante prestigio di Polibio tra I e II secolo, cioè nel periodo aureo della storiograa greca di età romana, è rinforzata dalla recente scoperta di un papiro coevo, POxy LXXI, 480844: qui, all’interno di un elenco di storici (Carete, Clitarco, Ieronimo e appunto Polibio) accompagnato da brevi giudizi sugli stessi, egli è denito competente di argomenti militari (col. II,25) e politici (col.II,31), testimone oculare dei fatti, ĮIJંʌIJȘȢ (col. II,25-26), uomo di vasta cultura, ʌȠȜȣȝĮșȢ (col.II,32), e inne (e soprattutto) autore veritiero, che scriveva ijȚȜĮȜșȦȢ (col.II,27); che lo storico ideale debba essere innanzitutto ਕȜȘșİĮȢ ijȜȠȢ è esigenza chiaramente affermata da Luciano (Quomodo historia 41) e il fatto che l’anonimo autore del papiro attribuisca tale qualità proprio a Polibio45 ne conferma l’elevato prestigio.
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P. VIDAL-NAQUET, Du bon usage de la trahison, Paris 1976. A.M. ECKSTEIN, Josephus and Polybius: a reconsideration, CA 23, 1990, 175-208; G.E. STERLING, Explaining Defeat: Polybius and Josephus on the Wars, in Internationales Josephus-Kolloquium-Aarhus 1999, Münster 2000, 135-151; F.W. WALBANK, Treason and Roman Domination: two case studies, Polybius and Josephus, in Rome and the Hellenistic World, Cambridge 2002, 258-276; E.S. GRUEN, Polybius and Josephus on Rome, in BR. GIBSON-TH. HARRISON, Polybius and his World. Essays in memory of F.W. Walbank, Oxford 2013, 255-266. 44 Cfr. il mio intervento in appendice a M. MOGGI et alii, Un nuovo catalogo di storici ellenistici (POxy LXXI 4808), RFIC 141, 2013, 61-104, pp. 102-103. 45 La medesima qualità è attribuita da Ateneo a Teopompo (III,85a-b), mentre Luciano riserva a Senofonte l’aggettivo įțĮȚȠȢ (Quomodo historia 39). 43
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Tuttavia tale constatazione non deve impedirci di cogliere, per così dire, uno slittamento di prospettiva: in tutti gli autori appena menzionati (con la parziale eccezione di Giuseppe) Polibio appare sempre più non tanto come lo storico dell’ascesa di Roma quanto come lo storico dell’ellenismo in Grecia e in Oriente. La conferma ci viene agli inizi del III secolo da Cassio Dione: ripercorrendo per l’ultima volta in un’opera di vaste dimensioni l’intera storia di Roma, lo storico bitinico scavalca Livio, riscopre e riproduce la tradizione storiograca preliviana, ma, al suo interno, privilegia gli autori latini, meno noti e più ‘romani’, rispetto a Polibio46; peraltro in Dione l’esigenza di risalire a fonti diverse rispetto a Polibio si afanca al riconoscimento che lo storico di Megalopoli aveva offerto la ricostruzione ormai ‘classica’ dell’ascesa di Roma a potenza egemone del mondo; inoltre è difcile negare il modello del VI libro di Polibio dietro il noto dibattito tra Agrippa e Mecenate su repubblica e monarchia nel LII libro di Dione stesso. Due altre caratteristiche di Polibio sono peraltro ben presenti agli intellettuali di quest’epoca. Innanzitutto essi sono ancora in grado di cogliere le vicende biograche del Megalopolitano e di vedere quindi in lui un modello per il proprio tempo, quello dell’intellettuale greco perfettamente integrato nel sistema egemonico romano e capace di dar consigli al principe (o, il che è lo stesso, a quell’insieme di principi che era il senato): così fa il Plutarco degli Opuscoli politici47, così fa Pausania, quando riporta per esteso le iscrizioni in onore di Polibio ancora esistenti e nelle quali l’opera storica è menzionata solo come naturale prosecuzione dell’attività politica48, secondo un’interpretazione, che la moderna critica polibiana ha fatto propria49. In secondo luogo essi sono ancora in grado di leggere un’opera per noi perduta, quella Tattica, che Polibio compose prima delle Storie, ove ha lasciato qualche traccia di sé; sia Eliano tattico, sia Arriano all’inizio dei loro scritti analoghi citano Polibio in chiusura di un catalogo di precursori, una sorta di breve storia della tatticograa antica50; Eliano torna a citarlo anche nel prosieguo del suo testo e mostra di dipendere da lui, di accettarne l’autorità su temi tanto classici quanto dibattuti come quello
46 E. SCHWARTZ, RE III (1899) Cassius Dio, coll.1684-1722, soprattutto 1694-1696 (a proposito di Dio XIII-XXI) e ora E. FOULON, Polybe source de Cassius Dion?: bilan d’une aporie, in V. FROMENTIN et alii (éds.), Cassius Dion. Nouvelles lectures, Bordeaux 2016, 159-177 (che dà risposta sostanzialmente negativa all’interrogativo del titolo). 47 Plut. An seni 791a; Praecepta 814c. 48 Paus. VIII,9,1-2; 30,8-9; 37,2; 44,5; 48,8. 49 Cfr. J. THORNTON, Tra politica e storia: Polibio e la guerra acaica, Med Ant 1, 1998, 585-634 e D.W. BARONOWSKI, Polybius and Roman Imperialism, Bristol 2011. 50 Aelian. 1,1; Arrian. 1,1.
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del ıȣȞĮıʌȚıȝંȢ della falange : il Polibio esperto militare, il maestro di tattica si afanca quindi allo storico e nella singolare oritura di testi de re militari dell’età traianeo-adrianea conquista un ruolo di primordine per la sua singolare conoscenza della falange ellenistica così come agli albori della scienza militare moderna, nel XVI secolo, avrebbe conquistato lo stesso ruolo, ma per la sua conoscenza della legione romana. Il Polibio storico di Roma stava già passando in secondo piano durante il II secolo, il Polibio politico e il Polibio tatticografo scomparvero nel III, il Polibio storico dell’ellenismo invece sopravvisse e, anzi, passò con rinnovato prestigio alla cronograa pagana e cristiana di III-IV secolo. 51
III. Il primo grande cronografo cristiano di età severa, Sesto Giulio Africano, si serviva di Polibio, noto e stimato già almeno da Cicerone per la sua acribia proprio in campo cronologico52; infatti dal III libro dei suoi Chronica Eusebio trae un elenco di autori di riferimento per la datazione della ne della cattività babilonese e quindi del regno di Ciro53: in questo elenco Polibio è afancato ai nomi di Diodoro, Thallos, Castore di Rodi e Flegone di Tralles in una commistione tra cronogra e storici universali, tutti però ugualmente interessati alla datazione del ritorno degli Ebrei e del II Tempio; che Polibio fosse tra questi è suggerito dal succitato passo di XVI,39 e confermato dal vivo interesse del più grande storico giudaico, Flavio Giuseppe, nei suoi confronti54. Con ogni probabilità allo stesso Africano risale un’altra citazione di Polibio in Eusebio55, laddove questi si addentra in una discussione sul numero delle Olimpiadi, nelle quali non si usava ancora redigere un elenco scritto degli olimpionici; in questa discussione è riportato il parere di un Aristodemo eleo e di un Polibio, che si accordavano sulla XXVIII Olimpiade, in cui l’eleo Corebo vinse lo stadio, quale prima olimpiade, in cui vennero registrati i vincitori. Sempre ad Africano si devono ricondurre due più tarde citazioni polibiane, di Malala sulla cronologia di Ciro e Creso e di Giorgio Sincello sulla successione e durata dei regni nel Vicino Oriente56. Ora, questo Polibio era normalmente identicato con lo storico di Megalopoli; fu F. Jacoby, sulla base di una sug-
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Aelian. 3,4 e 19,10 oltre ai capp.11-14, soprattutto 14,8 da Polyb. XII,21 e XVIII,29. Cic. De re p. II,14,27: sequamur enim potissimum Polybium nostrum, quo nemo fuit in exquirendis temporibus diligentior. 53 Eus. Praep. Euang. X,10,4. Per un commento in chiave diodorea di questo passo cfr. G. ZECCHINI, La conoscenza di Diodoro nel tardoantico, in E. GALVAGNO-C. MOLÉ (edd.), Diodoro Siculo e la storiograa classica, Catania 1992, 347-359, p. 352. 54 Cfr. supra p. 212-213. 55 Eus. Chron. 194,10 Schöne. 56 Sono i frr. 1b e 4 di Castore di Rodi (n° 250 Jac.), rispettivamente in Georg.Sync. 104,11 Mosshammer e in Malal.VI, 10 = 122 Thurn. 52
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gestione di H. Gelzer, a identicare questo Polibio col liberto di Claudio, a cui Seneca rivolse la nota Consolatio, ma che non risulta aver scritto proprio nulla; tale identicazione, per quanto autorevole, non ha alcun fondamento57: Jacoby si è inventato un cronografo Ti. Claudio Polibio mai esistito, mentre nulla osta alla ben più naturale identicazione col nostro Polibio, limitrofo e coevo dell’eleo Aristodemo58, di cui condivideva la posizione nell’acceso dibattito ellenistico sul numero delle Olimpiadi e la conseguente cronologia. La competenza di Polibio in campo cronologico lo fece apparire un’autorità agli occhi dei grandi sistematori della cronologia antica fra tardo ellenismo ed età imperiale: questo spiega il suo ruolo, di non scarso rilievo, presso Africano, da cui passò alla tradizione cronograca tardoantica e bizantina. Questa competenza si applicava, come si è appena visto, soprattutto alla storia del Vicino Oriente e degli Ebrei e si ricollega dunque al prestigio di Polibio come storico dell’età seleucide e dei suoi precedenti; in quanto tale, il Megalopolitano compare in un elenco di autori di riferimento per la storia del profeta Daniele e del famoso sogno sulla translatio imperii, che ci è conservato da Gerolamo, ma che risale a Porrio, dunque a un pagano del III secolo, e che contiene i nomi di Callinico o Suctorio, Diodoro, Ieronimo, appunto Polibio, Posidonio, Claudio Teone e Andronico Alipio59. La fortuna di Polibio come storico essenzialmente ellenistico non si esaurì nel passaggio dal III al IV secolo. Di là dalla già segnalata sopravvivenza in campo cronograco è opportuno ricordare almeno le non trascurabili occorrenze in Giovanni Antiocheno, cinque, di cui quattro appunto ellenistiche e una di queste su Antioco IV e i Maccabei60, nonché un canone bizantino degli storici, che raduna Erodoto, Tucidide, Senofonte, Filisto, Teopompo, Eforo, Anassimene, Callistene, Ellanico e, buon ultimo, Polibio61, quasi a suggellare il suo ruolo di estremo esponente di una tradizione gloriosa, ma anche estinta.
57 H. GELZER, Sextus Iulius Africanus und die byzantinische Chronographie, Leipzig 1885-1898, II, 96,1; F. JACOBY, FrGrHist 2 B, Berlin 1926, n°254 e 2 D, Berlin 1930, 830-831. L’invenzione permane, con qualche lieve dubbio, in M.FR. WILLIAMS, BNJ, C. Iulius) Polybios (254) [2010], a cui peraltro si rinvia per l’accurato commento ai frammenti cronograci di Polibio citati nel testo. 58 Questo Aristodemo è il n° 414 Jac.. 59 HIERON. Comment. in Daniel. prolog. 775, 89 Glorie = Porphyr. fr.36 Jac.; commento al passo dal punto di vista di Diodoro in ZECCHINI, La conoscenza, 358-359. 60 IOH. ANTIOCH. fr. 111, 122, 129, 131 e 132 (quest’ultimo su Antioco IV e i Maccabei da Polyb. 31,11-15 e 33). Per Giovanni Antiocheno mi sono servito della edizione di U. ROBERTO, Iohannis Antiocheni fragmenta, Berlin-New York 2005. 61 Si può leggere in H. RABE, Die Liste griechischer Profanschriftsteller, RhM 65,1910, 339-344.
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A anco di questo Polibio risorge però nella Costantinopoli cristiana, nella Seconda Roma, il Polibio romano. A questa resurrezione danno il loro contributo anche gli ultimi pagani. Secondo Ammiano Marcellino l’imperatore Giuliano durante la spedizione persiana compì un atto eroico analogo a quello compiuto a loro tempo da Scipione Emiliano e Polibio stesso durante l’assedio di Cartagine e riportato dallo storico62; l’implicito paragone tra Ammiano stesso e Polibio, entrambi uomini d’arme ancor prima che storici, attesta la fama di quest’ultimo presso un intellettuale di formazione ellenistica, ma inserito in modo integrale nel mondo romano: è probabile che Ammiano leggesse Polibio e ne fosse inuenzato nel suo metodo storico63. Un secolo dopo Zosimo cita a due riprese64 Polibio come storico dell’ascesa di Roma così come egli vuole essere lo storico della sua decadenza: è possibile che Zosimo, al contrario di Ammiano, neppure leggesse Polibio e lo trovasse citato in Eunapio oppure che ne avesse una conoscenza superciale, tale da indurlo a semplici omaggi formali65, ma è signicativo che Polibio fosse inserito in una prospettiva romana, non ellenistica: in questo i pagani Eunapio (?) e Zosimo sono gli dei nuovi tempi cristiani da loro aborriti. Sotto Giustiniano il maggiore storico del tempo, Procopio, non rivela inussi polibiani, ma il dialogo Sulla scienza politica attribuito al patrizio Menas contiene una assai probabile eco dal VI libro di Polibio, più precisamente dalla sua sezione militare66; alla ne del VI secolo lo storico ecclesiastico Evagrio nella celebre sintesi di storiograa antica inserita alla ne della sua opera menziona Polibio tra Dionisio di Alicarnasso e Appiano, che l’avrebbe utilizzato con acribia67: in entrambi i casi il ricordo di Polibio è ormai indissolubilmente legato al suo ruolo di storico di Roma. L’ultima tappa di questo nostro viaggio nella fortuna di Polibio ci porta, con un balzo di quasi quattro secoli, nel pieno Medioevo bizantino dell’età di Costantino VII. Al singolare e inspiegabile, almeno per me, silenzio di Fozio corrisponde l’ampio uso di un Polibio ancora integro: a un’edizione completa divisa in pentadi68 dobbiamo la sopravvivenza dei 62
Amm. XXIV,2,16-17. SABBAH, La méthode historique, 93-110. 64 Zosim. I,1,1 e I,57,1. 65 Così FR. PASCHOUD, Inuences et échos des conceptions historiographiques de Polybe dans l’antiquité tardive, in E. GABBA (ed.), Polybe, Genève-Vandoeuvres 1974, 305337. 66 Menae patricii cum Thoma referendario de scientia politica dialogus 4,37 (p. 8 dell’edizione Mazzucchi, Milano 2002²). 67 Euagr. HE V,24 cit. supra p. 212. 68 L. CANFORA, Conservazione e perdita dei classici, Padova 1974, 32-33. 63
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primi cinque libri in un codice, il Vaticano greco 124, copiato a Costantinopoli dal monaco Efraim nel 947; la perdita delle pentadi successive non ha alcun motivo contenutistico, come pensava Moore69, ma dovette essere meccanica e casuale; la commissione di esperti voluta dall’imperatore per costituire la monumentale silloge degli Excerpta Constantiniana attinse con ampiezza e sistematica imparzialità a tutte le Storie ed ebbe non certo la colpa di causare la scomparsa dell’opera70, bensì il merito di salvarne un terzo ca.; dagli interessi collaterali di uno o più di questi esperti nacque probabilmente l’altra silloge degli Excerpta Antiqua, che ci sono conservati in tre raccolte (VI-XVIII; VII-XVIII; VI, XVIII e X) e ci permettono di conoscere Polibio no al XVIII libro (196 a.C.) molto meglio che per i successivi libri XIX-XL; inne il Lessico Suda, cioè la maggior enciclopedia della civiltà bizantina, rivela di utilizzare e apprezzare Polibio come uno dei suoi autori prediletti: ben 13 lemmi biograci e 80 ca. d’altro genere sono tratti dalla sua opera71. Polibio consigliere del principe, Polibio tatticografo, Polibio esperto di cronologia, Polibio storico dell’ellenismo vicino orientale, Polibio storico di Roma: nel mondo antico, latino e greco, e poi nel tardoantico e a Bisanzio questi vari aspetti si sono intrecciati tra loro e ha prevalso ora questo, ora quello. La fortuna di Polibio ci fa dunque riettere soprattutto sulla straordinaria poliedricità della sua opera e, ancor prima, della sua persona, ma non deve neanche farci dimenticare che un altro aspetto della sua attività, quello a cui egli teneva di più, e cioè la storia della sua patria, la lega achea, non suscitò nessun interesse e non rientra in nessuno dei capitoli del suo Nachleben, almeno no al nostro tempo e all’attuale cultura europea: tra vinti ci si intende.
69
J.M. MOORE, The Manuscript Tradition of Polybius, Cambridge 1965. Così, stranamente, A. MOMIGLIANO, Polybius between the English and the Turks, The Seventh J.L. MYRES LECTURE, Oxford 1974 = VI Contributo, Roma 1980, 125-141, p. 129. 71 G. ZECCHINI, La storia romana nella Suda, in ID. (ed.), Il Lessico Suda e la memoria del passato a Bisanzio, Bari 1999, 75-88, pp. 84-85 e M.T. SCHETTINO, Gli storici di età romana nella Suda, ibid., 113-138, p. 122. 70
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PERSONE E DIVINITÀ
Accio, 191 Acheo, 18, 32n Acilio, 114-115, 118-119 Acusilao, 7 Adeo di Berea, 91 Africano, Sex Giulio, 215-216 Agatarchide di Cnido, 61, 70 Agatocle, 6, 14 Agesilao, 3-4, 8 Agide, 196 Agrippa, 61, 214 Albino, A. Postumio, 3, 36n, 89, 198 Alceo losofo, 140n Alceo di Messene, 69 Alcino, 159 Alessandro Cornelio Poliistore, 48 Alessandro di Fere, 4 Alessandro Magno, 3-5, 10, 28, 44, 59, 63, 68, 73, 77, 94, 113-118, 120, 138, 161, 188 Alessone, 15 Amilcare, 117, 188 Ammiano Marcellino, 210, 217 Anassimene, 216 Anco Marcio, 11
Andronico Alipio, 216 Andronida, 33 Annibale, 5, 16, 22, 26n, 32n, 42n, 54-57, 59-60, 62, 82, 96, 113-121, 150, 156, 188, 198-199, 206, 208 Antalcida, 6, 8 Antifane di Berga, 46n, 51 Antigono Dosone, 90, 197 Antigono Gonata, 68-69, 70n Antigono Monoftalmo, 5, 161 Antigono storico, 211n Antioco III, 18-19, 25, 26n, 32n, 37, 69, 71-73, 94, 111n, 113, 116-118, 124-125, 128-130, 188, 212 Antioco IV, 18, 25, 28n, 33, 92, 94, 212, 216 Antipatro, 5 Antistene di Rodi, 17, 34-35, 71-72, 187-188 Anziate Valerio, 139, 209-210n Apelle, 23 Apollonide di Sicione, 124 Appiano, 28n, 108-109, 113, 115-116, 129, 137, 138n, 150, 156, 161162, 212, 217
Persone e divinità
238 Arato il vecchio, 90, 120 Arato di Sicione, 1, 13, 18, 196-197, 199 Arcone, 21 Ariarate di Cappadocia, 88n Aristeno, 91, 126 Aristide, 3-4, 125, 202 Aristocrate, 197, 199 Aristodemo, 79, 215-216 Aristotele, 84, 123-124n, 135, 160, 164-165, 186 Arriano, 214 Artaserse II, 199 Artemidoro di Efeso, 49, 60 Arunte, 79, 84 Asclepiade di Mirlea, 49, 60 Asdrubale di Gisgone, 27n Asdrubale, zio di Annibale, 96 Asdrubale, fratello di Annibale, 32n Asellione, Sempronio, 206-207 Astimene, 20 Ateneo, 33n, 61, 70n, 109, 212, 213n Atenco e Attalo, 94 Attalo I, 19, 34-35, 91 Attalo III, 105 Attico, 208 Augusto, 175, 211 Autesione, 9 Autocrate, 9 Balano, 96 Barcidi, 188 Bardilli d’Illiria, 4 Belloveso, 78-79, 81 Blitone, Sulpicio, 208 Brenno, 5 Bruto, L. Giunio, 16 Bruto, M. Giunio, 161, 196, 208 Cabria, 202 Callicrate, 33, 125-126, 133 Callinico, 216 Callistene, 2, 5n, 21, 120, 191, 197, 216 Cambise, 3n Carete, 3-4, 213 Carneade, 140n
Carope, 125 Cassandro di Egina, 125 Cassio, cesaricida, 161 Cassio C., cos. 171, 96, 98 Cassio Dione, 28n, 32, 87, 104, 206, 214 Castore di Rodi, 215 Catone, 3, 14, 18, 24, 74, 79, 81, 128129, 133, 137-145, 147-153, 157, 165-167, 172-173, 176, 192, 196, 198-202, 205 Catulo, Q. Lutazio, 207 Celio Antipatro, 36n, 55, 206, 209 Cesare, 32, 79, 79n, 115n, 161, 171, 175, 198, 207 Charops, 25 Cherea, 16, 191 Chersoblepte di Tracia, 4 Chiomara, 22, 197 Cicerone, 18, 110-112, 152n, 153, 161, 170-173, 175, 207-208, 215 Cimone, 202 Cincibilo, 96 Cinea, 116, 117n Ciro, 215 Claudio, Appio, 175 Claudio, imperatore, 173, 216 Clearco, 4 Clemente Alessandrino, 156 Clenea , 5, 92 Cleombroto, 3, 8 Cleomene III, 10, 15-16, 32, 93, 186, 196-197 Cleone, 3-4 Clitarco, 207, 213 Colicante, 37 Corebo, 215 Cornelia, 198 Costantino V, 217 Crasso, P. Licinio, 24, 27n Cratete di Mallo, 49-51, 184n Creso, 215 Critolao, 140 Daniele, 216 Dario III, 161
Polibio. La solitudine dello storico Demarato di Corinto, 11, 172 Demetrio di Callatis, 211n Demetrio di Faro, 23n Demetrio di Macedonia, 19, 26 Demetrio di Siria, 21, 23, 24n, 34, 94 Demetrio il bello, 70n Demetrio, Falereo, 2 Democare, 5 Demostene, 16n Dicearco di Messene, 165 Dinocrate di Messene, 26 Diodoro, 68, 104-105, 107, 119, 135, 150, 152, 156, 161-162, 210, 215216 Diofane, 120 Diogene, 140n Dionisio d’Alicarnasso, 60n, 75, 7880, 108, 162, 195, 209, 211, 217 Dionisio I, 6, 135n, 196 Dionisio II, 6 Dioniso, 48-49 Diotogene, 164 Duride, 158, 211 Ecateo, 7, 64n Ecfanto, 164 Edecone, 96 Eforo, 2, 4, 7, 42, 68, 157n, 191, 197, 211, 216 Efraim, 218 Egesianatte, 18, 211 Egesippo di Meciberna, 67-68 Eliano, 214 Elicone, 83 Ellanico, 216 Emina, 206 Ennio, 74, 138, 141 Eolo, 3-3n, 52 Epaminonda, 5, 9-11, 125, 199 Epicarmo, 34 Epicuro, 164 Epigene, 32n Eracle, 16, 49, 161 Eraclide di Lembo, 211 Eraclide Pontico, 84 Eraclio di Lesbo, 17n
239 Eratostene, 46, 49-51, 191 Ermocrate, 6 Erodoto, 2, 7, 12, 16, 42, 45, 64n, 6566, 79-80, 84-85, 158-159, 216 Eruciclida, 6 Eschilo, 155, 159 Esiodo, 124 Etitovio, 81 Eumene II di Pergamo, 23-24, 38n, 72, 89, 91, 94, 124, 128, 133 Eunapio, 217 Euripide, 34 Eusebio, 156, 215 Eutidemo di Battriana, 188 Evagrio, 212, 217 Evandro, 11 Evemero di Messene, 44n, 46n, 50 Falaride, 6 Fannio C., 95 Favorino, 104 Filarco, 15-16, 32, 51, 184, 197, 199, 211n Filino, 15, 181, 191 Filippo II, 4-5, 8-10, 12n, 68-69, 161, 176, 200 Filippo V, 17, 19, 22, 23n, 24-26, 3437, 54n, 64, 69-70, 73, 91, 124126, 174, 188, 200 Filippo Q. Marcio, 19, 33,90, 141 Filisco, 140n Filisto, 68n, 135, 216 Filocle, 23n Filodemo, 164 Filopemene, 18, 21, 33, 113, 119-121, 196, 199-202, 208 Flaminino, T. Quinzio, 24, 26, 69-70, 91, 124, 130, 187, 196 Flavio Cn, 172 Flegone di Tralles, 71, 215 Floro, 104-107, 111, 153 Focione, 202 Fozio, 217 Galba, Ser. Sulpicio, 143 Gallo, C. Lucrezio, 32
240 Gellio, Aulo, 209 Gelone, 6 Geminio, 60n Gentio, 23n, 91, 95 Gerolamo, 210, 216 Giasone, 3, 44, 49 Giorgio Sincello, 215 Giovanni Antiocheno, 216 Giuba, 61, 198 Giuliano, 217 Giulio Ossequente, 131-132 Giuseppe, Flavio, 156, 161-162, 196n, 212-215 Giustiniano, 217 Giustino, 119 Glaucia, 91 Gracco, T. Sempronio, 14, 24-26 Gulussa, 26, 63, 97 Iambulo, 44n Ieronimo di Cardia, 68-69, 211n, 213, 216 Ieronimo di Siracusa, 97 Icrate, 4 Indibile, 37, 96 Io, 3, 16 Iperoco, 80 Ipparco, 47n Ippia, 23n, 91 Kavaros, 189 Kiroadas, 69 Lelio, C., 19, 23-24, 26, 36 Lenate, C. Popilio, 92, 99 Lepido, M. Emilio, 14, 24-26, 125 Licisco, 5, 10, 92 Licorta, 18, 33, 91, 120, 190, 201 Licurgo, 3, 7, 165-167, 173 Lisimaco, 7 Livio, 55, 73-74, 79-83, 85, 88-89, 91, 93, 95-99, 106-108, 112-115, 118-119, 121, 128-129, 139, 152n, 153, 195, 198-199, 209-210, 214 Luciano, 114-116, 213 Luciano, Ps., 57
Persone e divinità Lucullo, L. Licinio, 57, 153 Macanida, 16 Macro, C. Licinio, 209 Magone, 22 Malala, 215 Mancino, C. Ostilio, 107 Mandonio, 96 Marcello , M. Claudio, 191, 196, 198199 Marcio, C. 95 Massimo, Q. Fabio, 156, 195, 199 202 Massimo, Q. Fabio Emiliano, 198 Massinissa, 22, 37, 97, 197 Mato, 32 Mecenate, 214 Menas, 217 Menillo di Alabanda, 23, 27 Menocare, 94 Micione, 6 Minosse, 114 Mnasea di Patara, 70 Mnesiptolemo, 18 Molone, 32n, 124 Mummio, L., 103-104, 106, 108, 201, 208 Nabide, 16, 37 Nearco, 61n Neottolemo, 68 Nepote, C. Flaminio, 187 Nepote, Cornelio, 116, 198, 208 Nevio, 191 Nicandro di Triconio, 24, 92 Nicia, 3-4 Nobiliore, M. Fulvio, 62, 141 Numa, 11, 133, 140 Ocello lucano, 183 Odisseo, 3-3n, 49-52, 54-55, 60, 62 Ogigo, 4, 7 Olimpiade, 68 Omero, 2, 49-52, 155, 159, 164 Oppio, 115 Orazio Coclite, 6, 16, 174 Orosio, 106-108, 153, 210
Polibio. La solitudine dello storico
241
Ortiagonte, 22 Ottaviano, 161 Ottavio, Cn., 94
Riano di Bene, 9 Rufo, P. Rutilio, 108-109, 150, 208 Rulliano, Q. Fabio, 191
Pacuvio, 191 Panezio, 183, 202, 210 Pantaleone, 24, 92 Pantauco, 23n Paolo, L. Emilio, 26, 109, 141, 147, 153, 187, 196, 198 Pausania, 104, 211, 214 Pelopida, 5, 9 Pericle, 3-4 Perseo, 17n, 23-24, 27, 73, 89, 91, 95, 104-105, 125, 141-143, 148, 197 Petosarapide, 53n Pirro, 113-117, 120 Pisone, L. Calpurnio, 128, 139-140, 206 Pitagora, 48 Pitea, 13, 21, 44, 46, 49-51, 53n, 62, 66, 191 Pittore, Q. Fabio, 2, 15-16, 36n, 78, 8081, 191 Pizia, 72 Platone, 123-124, 135, 164 Pleurato, 37, 91 Plinio il vecchio, 61, 83, 208 Plutarco, 22, 38, 78-79, 79n, 109, 113116, 156, 161-162, 195-196, 197202, 214 Polibio, Ti. Claudio, 216 Poliperconte, 161n Pollione, C. Asinio, 207 Pompeo, 161, 202 Porrio, 210n, 216 Posidonio, 17n, 48, 60, 66, 104-105, 150, 153, 162, 195, 210, 216 Procopio, 217 Prusia di Bitinia, 37 Psaone, 211
Salinatore, C. Livio, 37, 95 Sallustio, 61, 107-108, 135, 153, 171, 175, 181, 207 Santippo, 117 Scilace, 210 Scipione, Cn. Cornelio, zio dell’Africano, 32n, 156 Scipione, L. Cornelio fratello dell’Africano, 37, 38n, 129, 139 Scipione, P. Cornelio, padre dell’Africano, 32n, 156 Scipione, P. Cornelio (l’Africano), 19, 22, 25-28, 35n, 36-38, 63, 71, 74, 96-97, 109-110, 113-116, 118-121, 128-130, 137-138, 147, 149-150, 157, 196-200, 206, 208 Scipione, P. Cornelio, glio dell’Africano, 18, 139 Scipione, P. Cornelio Emiliano, 21, 25-26, 28-29, 38, 42, 56-57, 61n, 105-110, 127, 133, 147, 149-150, 152-153, 190, 201-202, 217 Scipione, P. Cornelio, Nasica, 28, 38, 107, 138, 146n, 150-153, 198 Segoveso, 79n Seleuco I, 7 Seneca, 216 Senofonte, 2, 4, 12, 158, 197, 207, 213n, 216 Serse, 3, 16, 69 Sesto Empirico, 184n Siface, 27n Sileno di Calatte, 36n, 55-57, 59, 206 Silla, L. Cornelio, 153, 202 Sisenna, 207 Socrate, 183, 186 Solone, 161 Sosilo, 16, 117, 120, 191 Sossio Senecione, 202 Spendio, 32 Stefano di Bisanzio, 53 Stenida, 164
Quadrigario, Q. Claudio, 113-115, 119, 209-210n Quintiliano, 209, 211 Regillo, L. Emilio, 38n
242 Strabone, 58n, 60-61, 64, 104, 162, 195-196, 211 Stratone, 17n Suctorio, 216 Sura, Emilio, 74, 138 Tacito, 210 Tappulo, P. Villio, 113 Tarquinio Prisco, 11, 78-79, 85, 172 Taurisco, 184 Teagene, 67-68 Temistocle, 3-4, 8, 11 Teolisco, 17, 34 Teone, Claudio, 216 Teopompo, 2, 4-5, 8-9, 16, 68, 145, 213n, 216 Teuta, 32 Thallos, 215 Timagene, 118, 209, 211n Timeo, 1-2, 5n, 6-7, 10, 13, 15, 20-22, 42, 44, 53, 79-80, 84-85, 135n, 156, 157n, 191, 207 Timoleonte, 5n, 6 Tisameno, 7
Persone e divinità Tolemeo I, 7 Tolemeo di Megalopoli, 17, 17n, 23n Tolemeo IV Filopatore, 17, 32 Tolemeo V, 17 Tolemeo VI, 18, 23, 25, 94 Tolemeo VIII, 23, 94 Torquato, T. Manlio, 16 Traiano, 203 Trogo, 67, 209-211 Tucidide, 2, 4, 7, 9, 12, 45, 51, 144, 152, 158, 183, 185-186, 191, 207, 216 Valerio Massimo, 139n Varrone, M. Terenzio, 74, 208-209 Velleio Patercolo, 108-109 Virgilio, 74, 108n Vulsone, Cn. Manlio, 22, 72, 107, 128130, 133, 139 Zaleuco, 157 Zenone, 17, 21, 34-35 Zoltes, 189 Zonara, 104 Zosimo, 217
LUOGHI GEOGRAFICI
Abido, 25, 27 Acaia, 3-4, 9n, 12n, 14, 90, 212 Adriatico, 66, 79-80, 189 Aesis, 58n Africa, 21-22, 32, 37, 43-44, 49, 5355, 60, 62, 67, 97, 106, 111 Alabanda, 93 Alessandria, 77, 161 Alpi, 54-56, 59-60 Anas, 52n, 60n Apamea, 19, 71, 73-74, 88, 95, 128129, 137-138, 140-141, 195 Apollonia, 58 Appennini, 83, 189 Aquileia, 53, 58, 61, 98 Arcadia, VIII, 10, 12, 212 Argo, 126 Argolide, 197 Asia minore, 70 Asia, 4, 8, 37-38, 44, 52, 63-64, 71-74, 95, 105, 107, 109, 133, 156-158, 161, 212 Asso, 68 Atene, 2-5, 8, 11-12n, 19, 21, 25, 90, 92-94, 125, 161, 164-165
Atlantico, 65 Baecula, 97 Baetis, 52n, 60n, 198 Battriana, 18, 188 Beozia, 4, 10, 125 Bisanzio, 161, 189, 218 Bitinia, 90, 94-95n Bologna, 58 Boristene (Dniepr), 64 Britannia, 53 Cadice, 60-60n Calcide, 93 Calinda, 93 Callaecia, 55n Canne, 169 Cappadocia, 25, 27, 90, 94-95 Capua, 53n, 111n, 169 Cartagine, 2, 11, 21-22, 29, 32n, 42, 60-61, 97, 99, 103-112, 120, 124, 126-127, 131, 137-138, 145, 147, 149-153, 157-158, 165, 167, 174, 188, 201, 217 Carthago Nova, 19, 23, 36, 57, 59
Luoghi geograci
244 Casilino, 156 Caspio, mare, 47 Celesiria, 5, 18, 27, 90, 92, 94, 99 Celtiberia, 27, 52n Ceylon, 44 Cheronea, 5, 10, 196, 199, 202 Chersoneso, 72 Chio, 17, 34 Cibira, 93 Cinoscefale, 24, 26, 69, 91, 117, 124, 127, 168 Cipro, 17 Cirene, 51, 70 Clapier, col du, 56 Clazomene, 92 Cnido, 4 Colonne d’Ercole, 49-50, 52, 55, 57, 59 Corinto, 42, 103-108, 111-112, 147, 165 Corsica, 21 Costantinopoli, 217-218 Creta, 2, 93, 131, 174 Cuma, 79-80 Dafne, 25, 57 Danubio, 54, 66, 69 Del, 5, 71 Delo, 92 Dime, 16 Djerba, 52 Ebro, 56, 188 Ecbatana, 16 Efeso, 113, 116, 119 Egeo, 72, 114 Egina, 124 Egitto, 4, 7, 23, 33, 52, 90-92, 94, 188, 212 Egospotami, 6, 8 Elba, isola, 53 Elice, 4 Ellesponto, 58, 71 Emporiae, 57, 59 Epiro, 116, 141 Ercinia, selva, 79n Etolia, 90 Eurimedonte, 6
Europa, 53, 63-64, 65-74, 75n, 111, 153 Farsalo, 161 Fasi, 64n Filippi, 208 Frigia, 70-72 Galazia, 24, 94-95, 128 Gallia Cisalpina, 6, 11, 21n, 42n, 47, 53, 55, 58n, 60, 65, 78, 81, 83-84, 189 Gallia meridionale, 60 Gallia Narbonense, 21, 66 Gallia Transalpina, 55, 66, 83 Gallia, 44, 53-54, 79n Gaza, 3, 5 Gerusalemme, 29n Giudea, 28n Grecia, 2, 5-7, 10, 12, 19, 37, 48n, 52, 68-69, 91-93, 103-104, 106, 108, 111, 116-117, 120, 123-126, 131, 133, 148, 153-154, 183-184, 187188, 191-192, 202, 212, 214 Iapigia, 58 Iaso, 3, 16 Illeberis, 60 Illiria, 37, 67 India, 18, 118 Intercatia, 52 Issa, 95 Isso, 5, 120 Istro, 84, 189 Itaca, 50 Italia, 11, 53, 58, 66, 68-70, 77-79, 83, 85, 96, 98, 111, 140, 146, 154 Juby, capo, 62 Laconia, 36n Lade, 34 Lampsaco, 93 Laodicea, 94 Leuttra, 4-5, 8-9, 199 Licia, 70-71 Lidia, 70n, 71
Polibio. La solitudine dello storico Liguria, 61 Lipari, 52 Lisimachia, 72 Locri Epizeri, 2n, 3, 6, 156-157 Loira, 48, 53n, 60n Luni, 98 Lusitania, 52 Macedonia, 7-8, 12n, 25, 64, 67-68, 70-71, 90, 94-96, 98, 111, 126, 147-148, 153, 157, 200 Magnesia, 118, 128 Malea, capo, 52, 54 Mantinea, 2, 4-5 Marsiglia, 83, 96, 98 Media, 124 Mediolanium, 81 Mediterraneo, 50, 52-53 Megalopoli, VII, 7, 9-10, 12, 14, 22, 67, 81, 87, 92, 99, 111, 118, 145, 148, 158-159, 176, 182, 184, 186187, 208, 214-215 Meninx, 52 Meotide, palude, 64 Messina, 52 Mileto, 92-93 Moncenisio, 56 Monginevro, 56 Monte Sacro, 170 Narbona, 57 Naupatto, 71 Nicea, 91 Nilo, 62-64 Norico, 53-53n, 61 Numanzia, 103, 105-112, 153, 207 Numidia, 97 Oceano, 44, 47, 52, 60 Orvieto, 83 Osso, 22 Padana, pianura, 54, 59, 77, 79, 85, 189 Padova, 81 Pamlia, 25
245 Patara, 70 Pella, 142 Pellene, 165 Peloponneso, 3-4n, 6-8, 10, 21, 156 Pergamo, 90, 94-95, 128 Persia, 5, 8, 12n, 69 Piccolo S. Bernardo, 56 Pidna, 38, 68, 191, 197 Pirenei, 54, 57, 59 Pisa, 98 Po, 56, 80 Pont de-Treilles, 57 Ponto, 4, 90, 94-95 Propontide, 71 Raa, 18 Reno, 79n Rodano, 53n, 57, 59-60n Rodi, 17-18, 25, 35, 90, 93, 143n, 149 Roscino, 60n Rubicone, 58n Sagunto, 96, 188 Salamina Cipria, 4 Salamina, 3 Samosata, 116 Sardegna, 67 Sardi, 18, 22, 197 Segesama, 52 Seigne, col de la, 56 Seleucia, 124-125 Selge, 94 Sellasia, 15, 54n, 93, 197 Sena Gallica, 58 Senegal, 62 Sentino, 191 Sicilia, 6, 50, 52-53, 67 Siria, 7, 37, 90, 94-95, 117, 128 Sirte, 52 Spagna, 21, 25, 32, 36-37, 42, 44, 47, 49, 52-55, 60-61, 83, 96-97, 106, 111, 151, 156-157, 198, 206 Sparta, 2-5, 8-10, 12n, 16, 54n, 90, 9293n, 94, 123, 144, 158, 165-168, 174 Stati Uniti, 163
Luoghi geograci
246 Svizzera, 163
Tyras (Dniestr), 64
Tanai, 62-65 Taranto, 11, 169, 183 Tauro, 73 Tauromenio, 1, 20, 80 Tebe, 2-3, 5, 10 Tegea, 33 Termo, 54n Termopili, 71, 118 Tessalonica, 58 Ticino, 79-80, 82, 85 Timavo, 60 Tirreno, 50 Tracia, 5, 67, 71, 75n Trasimeno, 23
Ugernum, 59 Val d’Aosta, 56, 83 via Aemilia, 58 via Domitia, 57-59 via Egnatia, 58 via Erculea, 56 via Flaminia, 58 via Minucia, 58 via Popilia, 58-59 Xanto, 93 Zama, 38, 113, 115, 157-158
POPOLI, FAMIGLIE E DINASTIE
Abideni, 25 Achei, 5, 8, 24, 33, 90-93, 124-125, 131, 164, 186, 201 Antigonidi, 10, 64, 68, 70, 91, 130, 138, 164 Arcadi, 3, 5, 9-10 Arevaci, 89 Argeadi, 69, 164 Argivi, 5, 10 Aricandi, 70 Ateniesi, 2-3, 91, 136, 152, 166 Attalidi, 71-73, 94, 131 Ausoni, 53n Barcidi, 117, 188 Belli, 89 Beoti, 4-5, 9-10, 91 Boi, 83, 96 Capuani, 32n Carni, 95 Cartaginesi, 2, 15, 22, 96, 104, 150, 156, 167 Cauni, 93 Celti, 5, 48, 77-80, 82-85, 96, 99 Celtiberi, 52n, 83, 96, 111-112
Cimbri, 111 Cornelii, 109, 141, 192 Cretesi, 2, 166 Daorsi, 95 Decieti, 53n Decii, 191 Ebrei, 215-216 Edetani, 96 Edui, 82 Emilii, 27, 109, 141, 192 Epiroti, 89, 125 Eraclidi, 3-4, 7 Etoli, 19, 27, 89, 91-92, 124-126 Etruschi, 77-80, 82, 84 Fabii, 141 Feaci, 159 Fulvii, 141 Galati, 94-95, 107, 139, 156, 158 Galli Cenomani, 81, 83 Galli Cisalpini, 82, 96 Galli Transalpini, 82, 96 Galli, 77, 79, 81
Popoli, famiglie e dinastie
248 Gesati, 96 Giudei, 29, 212 Gracchi, 151, 171, 198 Greci, 3, 8, 20, 34, 42, 44, 47, 49, 53, 61, 63, 74-75, 84, 87, 104, 108, 144, 146-147, 152, 156-157, 167-168, 196, 201-202
Numantini, 107 Numidi, 99
Iapidi, 95 Iberici, 99 Ilergeti, 96 Illiri, 32, 98-99 Ingauni, 53n Insubri, 55n, 81-82, 85, 96 Intemelii, 53n Istri, 95, 98
Parti, 48 Peloponnesiaci, 5, 9 Punici, 149
Katacina, 83 Lacedemoni, 156 Laevi, 83 Lagidi, 90, 92, 94 Larissei, 174 Lici, 93 Liguri Oxybii, 96 Lingoni, 83 Locresi, 2, 156 Lotofagi, 52 Lusitani, 149 Maccabei, 216 Macedoni, 23n, 66-67, 92, 125 Mantineesi, 2 Megalopolitani , 5 Melii, 144, 152 Messeni, 3, 5, 9-10, 32n, 124 Metelli, 109 Molossi, 141
Opici, 53n Oromobii, 83 Orumbivii, 83 Oxibii, 53n
Rodii, 32, 34-35, 142, 151 Salassi, 83 Salii celtoliguri, 83 Scipioni, 18-19, 26, 27n, 35n, 36, 38, 74, 92, 95, 128-130, 138-141, 157 Seleucidi, 72-73, 90, 92, 94, 130, 138 Senoni, 83 Siriaci, 128 Spartani, 2, 4n, 8-9, 124 Spartiati, 196 Taurini, 55n, 83 Taurisci, 53n Tebani, 2, 9, 166 Tessali, 5, 10 Teutoni, 111 Tirreni, 79 Titti, 89 Tolemei, 33, 63, 94n Traci Odrisi, 69 Traci, 71-72 Vaccei, 52n Veneti, 83
AUTORI MODERNI
Baronowski, D., VIII, 189 Bellen, H., 150 Beloch, K.J., 190 Berti, N., 62 Bonnefond-Coudry, M., 89 Bringmann, Kl., 139n Briscoe, J., 141 Büttner-Wobst, 49 Cassola, F., 187 Champion, C.B., VIII, 189 Clausewitz, C. von, 98 Churchill, W., 163
Gabba, E., VII, 36n , 182, 186, 189 Gelzer, H., 216 Gelzer, M., 150, 150n Giardina, A., VII Gomez Espelosín F.J., 108 Harris, W.V., 190 Hegel, W.F., 164 Hoffmann, W., 138n, 150 Holleaux, M., 114 Homeyer, H., 78 Jacoby, F., 70, 215-216
De Sanctis, G., 190 Desideri, P., VIII, 14 Dobesch, G., VIII, 78, 79 Dreyer, B., 189 Dubuisson, M., 58n
Klotz, A., 207
Fasce, S., 81 Fascione, L., 132 Ferrary, J.L.,103 Foulon, E., VII
Machiavelli, N., 167, 181, 184, 210 Mazzarino, S., 181-193 Meier, Chr. , 171 Millar, F., 171, 182
Lehmann, G.A., VII Lintott, A.W., 176n Lipsio, G., 210
Autori moderni
250 Momigliano, A., 69, 209 Mommsen, Th., 190 Moore, J.M., 218 Musti, D., VII, 182, 189, 190, 206 Nadig, P., 132 Ogilvie, R.M., 78
Schepens, G., VIII Schulten, A., 108 Schweighäuser, J., 49n, 53n Sordi, M., 78 Stadter, Ph.A., VIII Taylor, L.R., 151 Thornton, J., VII, VIII, 189
Pédech, P., VII, 13, 17, 20n, 24, 51-52, 58n, 182 Petzold, K.E., VII Polverini, L., 176n
Vico, G.B., 184
Sacks, K., 20
Ziegler, K., 58n, 205
Walbank, F.W.,VII, 6, 17, 24, 36n, 5152n, 131, 182, 189