Polemica col mio tempo 8845230996, 9788845230998

Cinema, comunicazione, cultura, società. Il testo ripropone l'edizione Bompiani del 1979 "Neorealismo ecc.&quo

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Italian Pages 208 [350] Year 1997

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Polemica col mio tempo
 8845230996, 9788845230998

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Cesare Zavattini POLEMICA COL MIO TEMPO cinema,comunicazione, cultura, società

Bompiani

© 1997 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. Vìa Mecenate, 91 - 20138 Milano I edizione Bompiani aprile 1997 ISBN 88-452-3099-6

Introduzione

1 - Nel ’79, ad iniziativa della Bompiani, per la prima volta comparvero contemporaneamente tre libri di Zavattini, Diario cinematografico, Basta coi soggetti!, Neo­ realismo ecc.y una summa del vorticoso e fecondo labora­ torio dello scrittore emiliano, una caleidoscopica raccol­ ta di annotazioni diaristiche, articoli, soggetti di film, in­ terviste, relazioni, saggi. Tre volumi che, mettendo ordi­ ne in montagne di carte accumulatesi in tanti anni di la­ voro, hanno consegnato ai posteri un materiale prezioso, una documentazione folta e organica, utile a chiunque si sarebbe avvicinato, da allora in poi, alla personalità di Zavattini per meglio inquadrarla. Un’opera meritoria e inconsueta nell’editoria italiana, tant’è che successiva­ mente gli studi, i convegni, i seminari, la pubblicista su Zavattini se ne sono avvantaggiati. Gli scritti di Neorealismo ecc. e le cronache-testimo­ nianze di Diario cinematografico hanno illuminato un lungo percorso intellettuale, segnalando l’evoluzione e la coerenza di un pensiero congiunto sempre a una identi­ ca tensione ideale e a uno stesso sentimento. Si è trattato di una esperienza irripetibile nelle forme che ebbe circa un ventennio fa, peraltro ammesse da condizioni e costi editoriali nel frattempo modificatisi. Nondimeno, abbia­ mo cercato di salvarne l’essenza e di riproporla, ritoc­ cando il vecchio impianto per adattarlo alle nuove ne­ cessità e per risvegliare una memoria, che altrimenti ri­ schia di essere inghiottita da nebbie e dimenticanze av­ volgenti. Abbiamo ritenuto che fosse giunto il momento di rivolgersi a un pubblico non solo composto da specia­ listi, ai giovani, alle nuove generazioni che di Zavattini sanno poco o nulla e che, per vivere nella cosiddetta so­

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cietà delle informazioni, sono in genere scarsamente informati perché a non informarli provvedono i genitori, le famiglie, la scuola, la tv pubblica e privata, i partiti schiavi di un piatto pragmatismo ed estranei a una di­ mensione culturale della politica. Non abbiamo pensato soltanto a una versione più agile di Neorealismo ecc, ma a un’antologia altra, com­ prendente anche testi non inclusi nella precedente edi­ zione e che rendesse maggior giustizia alle incursioni zavattiniane, oltre il perimetro del cinema, nei dominii del­ la tv, del teatro, del giornalismo, come del resto è stato naturale per un letterato-una mosca bianca in una casa nostra-incuriosito dai moderni mass media e dai linguag­ gi che il progresso tecnologico ha propiziato. Incuriosito non per trame cinicamente qualche profitto personale e avendo in cuore la riserva di spendere le migliori qualità nella pagina letteraria, ma attratto dalla possibilità di adoperare mezzi comunicativi con una inventiva sfavil­ lante e rotta a ogni audacia, sollecita nel disturbare e in­ terrompere la quiete mentale e nella trasgressione di re­ gole e convenzioni, come si addice a un emulo delle avanguardie. Donde un inappagamento perenne, una frizione costante che trapassa i mass media per investire il tempo di una lunga esistenza. Quello che ci viene incontro è un pezzo di storia del­ la cultura del nostro paese, ma anche il ritratto di un uo­ mo che non ha mi rinunciato a una vocazione umanisti­ ca e libertaria, a una intransigente coerenza concettuale e di principii, ferrea e inossidabile sotto il velluto di un carattere mite, affabile, timido e gentile. Nella stinta Ita­ lia dei nostri giorni, Zavattini si staglia come un protago­ nista distante anni-luce, una figura quasi archeologica, quasi leggendaria, interessantissima per gli storici e i sistematori di scansie temporali. Non perché uno strato di polvere si sia steso sul suo pensiero, ma perché l’ansia di rinnovamento, che ha accompagnato Zavattini e l’Italia delle speranze resistenziali, si è assopita, anche là dove,

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nonostante le distinzioni politiche e ideologiche, malgra­ do sbagli, sbandamenti e lentezza di riflessi, si era affac­ ciato un progetto di modernizzazione che non corri­ spondesse al ripristino dei poteri di una democrazia for­ male, intiSichita nei suoi riti elettorali, svenata da un abuso dell’istituto della delega. Rileggere o leggere oggi Zavattini costringe a misura­ re l’enorme distanza che separa le teorie, le proposte, i vagheggiamenti dello scrittore da una realtà estesasi in una direzione opposta a quella auspicata, clamorosa­ mente, smaccatamente diversa, così da lasciar scivolare sulla bottega zavattiniana la classificazione di fucina di utopie affascinanti. Una definizione che in Italia, terra ove sempre la realpolitik ha avuto estimatori e adepti in gran numero, cela sotto pelle, più che rispetto, commise­ razione per l’ingenuità dei sognatori, nutrendo gran par­ te del nostro popolo una sviscerata ammirazione e una servile attitudine verso i patrocinatori del buonsenso, i mediatori della coscienza, i depositari di senso pratico, i vincitori di ogni risma. Questa è una lontananza che si direbbe acconsentire alle interpretazioni di quei critici e di quegli storici che del neorealismo hanno una visione riduttiva e che Zavat­ tini, i suoi film più poetici e le sue elaborazioni teoriche, preferiscono imprigionarli nel nostro secondo dopo­ guerra, non oltre la soglia dei primi anni Cinquanta, co­ me se il cinema neorealista fosse stato il portato di un’u­ nica stagione, un colpo di vento provocato più dalla for­ za irresistibile e dalla combustione della storia che da un’intenzionalità. Una tale tesi è smentita da aneliti, che, per quanto confusi fossero, guardavano ad altri appun­ tamenti con la dinamica storica e non delimitavano la nozione di realismo alla semplice riscoperta delle classi più disagiate e di dati sociologici e umani abitualmente negletti nella cultura e nella narrativa italiana. Zavattini è l’ultima persona cui sia lecito muovere l’addebito di non aver alzato la testa dall’attimo fuggente poiché è ve­

ro il contrario: essere egli stato Punico cineasta italiano a intessere con molta modestia e non poca perseveranza una teoria del cinema che, muovendo dalle fertili occa­ sioni postbelliche e da alcuni film universalmente onora­ ti, saltasse le staccionate del presente e dell’esistente e uscisse dai binari entro i quali, dopo parecchi gesti di ostilità, ci si preparava ad accademizzare e a mummifica­ re le glorie recenti. La specificità zavattiniana non consiste soltanto nella quantità strabocchevole di interventi, eccezionali nei ci­ neasti italiani piuttosto allergici alla riflessione di natura teorica, compresi gli autori associati al neorealismo. Sta invece in una immaginazione e in una progettualità so­ ciale e civile, affatto rara negli artisti, in una inesauribile linfa propositiva, in un entusiasmo e in una generosità intellettuale sconfinati, ma anche in una instancabile po­ lemica con il mondo circostante, in un dissenso che non s’è mai placato ed è sempre risalito alle radici delle con­ traddizioni, in un inestinguibile bisogno di chiarezza e di trasformazione. Perciò, nelle ore in cui, a dispetto dell’acutizzarsi dei conflitti interni ed esterni, il sonno s’è impadronito degli operatori culturali e degli addetti alla comunicazione, e artificiose ed esteriori suonano le divergenze nelle opi­ nioni esposte nelle più disparate tribune, Zavattini, ripe­ tutamente sconfitto, torna di attualità, più vivo che mai, non accomodante, non conciliante e in questo così poco italiano, toma a rigettare in faccia a tutti, contro cama­ leontismi e particolarismi variamente colorati, ipocrisie e falsa coscienza ideologica, assenza e fughe precipitose, le tare di una cultura che ha risposte inadeguate alle pene degli uomini. 2. Impegno è un termine inflazionato ed evanescente, al riparo del quale si trincerano comportamenti schizoi­ di: un platonico interesse alla politica, una baldanzosa vocazione alle esibizioni declamatorie, una consuetudine IV

professionale avulsa dai bandi ideali sventolati. “La cul­ tura,” vergherà Zavattini, “è nei fatti di destra e nelle aspirazioni di sinistra.” Non è una regola, ma l’identikit dell’intellettuale firmaiolo e principalmente intento a ba­ dare ai suoi affari, è verosimile. Non vale per Zavattini che vota per i comunisti, ha la politica nel sangue e l’ap­ plica in uffici snervanti. Non alludiamo alle campagne per la pace, mai diser­ tate, quando si sparava e si moriva in Corea, nel Viet­ nam, e ogni volta che prorompesse la minaccia di una nuova conflagrazione mondiale. Piuttosto ci ricordiamo del contributo di Zavattini alle battaglie del cinema ita­ liano, del suo singolarissimo modo di essere un animale politico, sprofondando in brighe affannose: l’Associazio­ ne culturale cinematografica italiana, il Circolo Romano e il Circolo Italiano del Cinema, la Federazione italiana dei circoli del cinema, l’Associazione nazionale autori ci­ nematografici, il Centro dei cinegiornali liberi, l’Associazione culturale della cooperazione. Cartelli che signi­ ficano riunioni su riunioni, assemblee interminabili, ore rubate al sonno e al riposo, incombenze che per Zavatti­ ni, sollecito ad accordare udienza a chiunque bussi alla sua dimora, non sono antitetiche a una attitudine carat­ teriale ma che in genere spaventano gli scrittori e li con­ sigliano a ritrarsi nel guscio e ad alzare il ponte levatoio. Per Zavattini la politica non è un’occupazione colla­ terale, ma l’humus del suo lavoro, inconcepibile se fosse detratto da un disegno per la trasformazione dell’esi­ stente. Se di strategia fosse lecito discutere, sarebbe ine­ vitabile riconoscere che Zavattini è stato uno stratega dell’alternatività, intendendo per tale una rete di corpi associativi con cui conferire vigoria organizzativa e ca­ pacità di incidere agli autori, al pubblico e a quanti hanno sentito come un freno alla libertà di espressione la natura mercantile del cinema. Si è invece visto in Za­ vattini colui che era pronto ad accorrere a sostegno di cimenti difensivi, uno fra i cineasti protestatari più ac­ V

caniti, il compilatore di proclami contro le sopraffazioni censorie, le sordità dei burocrati e le malevolenze dei governanti. E pure non appartandosi, in qualsiasi di­ sgraziato frangente, e non avendo clemenza per il di­ spotismo di madama Anastasia, indaffaratissima soprat­ tutto negli anni Cinquanta, Zavattini è stato guidato da un progetto antagonistico e ad ampio respiro, che ha contrapposto ai piani imprenditoriali e governativi di riedificazione dell’assetto cinematografico-industriale una ipotesi altra, una possibilità diversa di sviluppo, so­ cialmente più fruttifera. Rileggendo le cronache di un trentennio e gli scritti zavattiniani, ciò risulta di una evi­ denza fortificata da una laboriosità che lo ha strappato dalla sua scrivania e lo ha compromesso in aggravi scan­ sati volentieri da altri. Zavattini appartiene a una categoria, di cui egli si propone di modificare la coscienza: da corporativa a so­ ciale. Donde i suoi sforzi, sin dal periodo postbellico, per scardinare il tradizionale individualismo degli intel­ lettuali e dei cineasti italiani. Zavattini preconizza un sal­ to qualitativo e rivendica, in primo luogo, esami autocri­ tici e l’inaugurazione di un costume basato sulla colle­ gialità. A detrimento delle sue aspettative complotteran­ no molte evenienze riconducibili alla svolta moderata, e per molti aspetti conservatrice, impressa dopo il 1948 agli avvenimenti italiani. Benché ne sia più un oppositore che un connivente e per questo motivo subisca strigliate e provvedimenti re­ pressivi, il nostro cinema sprigiona energie pugnaci fintanto che i suoi esponenti ribattono alla politica castigatrice di Andreotti e dei governi democristiani, ma è im­ possibilitato a ristabilire una larga unità ogniqualvolta si profili un progetto di ristrutturazione della base produt­ tiva e comunicativa. Zavattini ha un seguito allorché incita a stringere i ranghi, per meglio rintuzzare le offese che il cinema ita­ liano riceve, e diminuirne gli effetti nocivi, e allorquan­

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do propugna una interdipendenza tra gli autori cinema­ tografici e l’associazionismo culturale, nel decennio Cin­ quanta. Ma è ascoltato da pochi nelle lotte ingaggiate per liberare il cinema dallo stradominio dei suoi finan­ ziatori. Ad allearsi con Zavattini saranno prevalentemen­ te i giovani cineasti emarginati dalla industria cinemato­ grafica, i documentaristi, gli esordienti e i cineamatori e non le grandi firme e i registi più quotati del cinema ita­ liano. E dai suoi colleghi che Zavattini avrà le più cocen­ ti delusioni, ed è a proposito del tema menzionato che i cineasti italiani si divideranno nel crogiuolo di discordie difficilmente sanabili. È su questo terreno che riaffiore­ ranno e perdureranno riluttanze e contrasti i quali, co­ munque si mimetizzino, rinviano alla condotta ambiva­ lente di chi idealmente non ha remore nell’abbracciare le cause progressiste ma paventa di nuocere a un sistema produttivo cui è grato per i tangibili vantaggi acquisiti. Una contraddizione questa che la politica cinemato­ grafica delle sinistre, indirizzata per un ventennio a pre­ munire la produzione italiana dalla concorrenza ameri­ cana e dagli abusi censori, non scioglierà, perseguendo intese fra produttori, autori, noleggiatori, esercenti e maestranze e non sollevando il problema della conquista di spazi in cui fosse realizzabile una più piena autono­ mia della creazione cinematografica, ossia il presupposto per iniziare, al livello delle strutture, la democratizzazio­ ne del cinema. Sino al 1967, le sinistre si sono illuse che fosse sufficiente, a prezzo di un efficace protezionismo e dell’epurazione delle componenti più parassitane e spe­ culative, irrobustire l’industria nazionale e versarvi i contenuti culturali e le innovazioni formali maturati nel dopoguerra, e correggere in senso democratico l’eredità avuta dalla fase storica anteriore. Da una simile chimera, che annetteva più importanza agli elementi sovrastrutturali che alle riforme strutturali, non sono stati ammaliati né Umberto Barbaro, né Cesare Zavattini, ambedue per­ suasi a destreggiarsi fra una riserva di fondo nei con­

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fronti della politica cinematografica attuata dalle sinistre e l’intendimento di non esasperare il dissenso in un mo­ mento in cui sul neorealismo piovevano attacchi furi­ bondi e il cinema italiano contava di riguadagnare la simpatia degli spettatori attratti dai film hollywoodiani, peraltro secondati sul mercato da una legislazione a loro propizia. Con il senno del poi, non è diffìcile convenire che Barbaro e Zavattini fossero stati lungimiranti, poiché la sospirata lega intercategoriale fra le forze del cinema ita­ liano, nella sua indifferenziazione, fu fallimentare. Trop­ po deboli, esposti alle rappresaglie di una censura rego­ lata da codici fascisti e al ricatto degli istituti creditizi controllati da personale di fiducia del governo, dipen­ denti dal potere esecutivo, i produttori, anche i più ani­ mosi, non potevano che transigere, a maggior ragione se gli incassi non fossero stati cospicui così come spesso non lo furono per i film neorealisti. Inoltre, se erano sta­ ti combattivi finché l’invadenza censoria aveva rappre­ sentato uno dei più grossi danni all’economia cinemato­ grafica ed era stata di ostacolo alla coniatura di formule editoriali più spregiudicate, per altro verso, essi ammic­ cavano alle rivali compagnie americane come a un com­ mittente dal quale pompare risorse finanziarie e a cui as­ sociarsi in cambio di appetitosi e lucrosi appalti. L’ANICA, presieduta dall’avvocato Eitel Monaco e che riuniva e ancora riunisce nel suo alveo sindacale le ditte produt­ trici e distributrici nazionali e straniere, esortava a miti pretese nei riguardi del governo e ad assecondare e a sfruttare la tendenza degli americani a reinvestire par­ zialmente i profitti, totalizzati in Italia, nell’allestimento di film giuridicamente italiani. A minare il sogno, accarezzato dalle sinistre, di inga­ gliardire l’industria cinematografica sì da preservarne l’indipendenza e da erigerla a baluardo inespugnabile di fronte alla competizione americana, saranno, da un lato, la penuria di capitali, malattia congenita del cinema ita­

liano, e il prevalere di una imprenditoria avventurosa, spalleggiata prima dal fascismo e successivamente dai democristiani, e, dall’altro, la crescente internazionaliz­ zazione delle fonti di finanziamento. Dal canto loro, gli esercenti, che incameravano i più ingenti guadagni dai film americani, non erano strenui sostenitori del cinema italiano, e gli autori, per la parte che gli competeva, si accontentavano che l’industria sbarcasse il lunario in condizioni un tantino meno precarie e che le fosse tolta la mordacchia ficcatale in bocca dai censori. Il reticolo di convergenze arzigogolato dalle sinistre incontrava un intoppo nell’intrico e nella disparità delle istanze corpo­ rative (lo confermerà il bilancio inconcludente della Conferenza economica, nel 1957) e nell’unico denomi­ natore comune di una più liberale disciplina censoria. Lo stesso principio di libertà, proclamato per il cine­ ma, si identificava in un’emancipazione dai taglieggia­ menti amministrativi e non nell’affievolimento dei con­ dizionamenti esercitati dall’industria cinematografica. D’altronde, a riprova della labilità che hanno avuto le spinte unitarie dei cineasti italiani, basterà che nel 1967 le sinistre mutino la loro politica cinematografica, per­ ché gli autori riprendano a dilaniarsi e, sotto l’urto delle ondate contestative nel ‘68, si spacchino in due tronconi associati all’interno dei quali si ingenereranno ulteriori fratture, ancora non completamente rimarginate. Abbia­ mo indugiato su questo sfondo per sottolineare la coe­ renza di Zavattini, che i nemici del cinema li ha ravvisati sempre nella macchina produttiva asservita al profitto. È una consapevolezza la sua che, zampillata nei primi anni Quaranta, non si stempererà; anzi aumenterà insieme al­ la certezza che i rapporti con l’industria cinematografica proliferano vischiose e ambigue collusioni nonché alle­ vano all’arte dell’accomodamento. Un cineasta.politicizzato e non un ribelle romantico, Zavattini, propenso a intrecciare un braccio di ferro con la realtà, stando con un piede nell’organizzazione induIX

stride della cinematografìa, cercando margini sempre meno risicati di libertà, pagando lo scotto degli scacchi commerciali e dei patteggiamenti artistici, ma non ven­ dendo l’anima, non rimettendosi né ad una ideologia circense e mercenaria del cinema, né a una “realpolitik” in cui si offuscassero i fini ultimi dell’azione. Esperto in­ tenditore delle umane debolezze e servitù, fomentate nell’industria cinematografica dalle laute remunerazioni, Zavattini fustigherà gli alibi addotti a copertura dei compromessi giornalieri, che solitamente cadenzano la declamazione di intenzioni barricadiere rintronanti e fragilissime. Zavattini non si fida dell’intellettualità e dei suoi giu­ ramenti e degli effìmeri entusiasmi e delle improvvise conversioni e del dispendio di una fraseologia rotonda e altisonante, frullata se il vento soffia aria calda, giacché egli sa che anche i più nobili proponimenti sovente coz­ zano con la salvaguardia del proprio “particulate”. Ma anziché puntare un dito ammonitore e innalzarsi a giudi­ ce intemerato, Zavattini ha la lucidità di disincagliare dalle secche del moralismo una denuncia che oggettiviz­ za la situazione del creatore cinematografico, senza tut­ tavia stendere un velo complice sulle colpevolezze per­ sonali. Il che lo ha reso inviso a molti che gli sorridono e annuiscono ascoltandolo e gli ha procurato amarezze e bruschi ripudi dai compagni di cordata, svelti a mollarlo e a dissociarsi per stanchezza presto sopravvenuta. Don­ de la solitudine che a più riprese ha patito, non scoran­ dosi e non aspettando dalle altrui assenze l’appiglio che giustificasse una sua latitanza. Testardo al cospetto dei divorzi insospettabili e dei sordi ostruzionismi ai suoi programmi, inadatto a mitigare il ribollio di un attivismo che, partorendo iniziative, organizzazioni, convegni, bol­ lettini di varia indole e rubriche, saggia i possibili e par­ ziali inveramenti di magnifiche utopie e mira a concate­ nare le cellule sparse di una rivoluzione cinematografica in fieri.

Impetuoso e incrollabile Zavattini, a onta di ogni av­ versità, ma non velleitario; la sua saggezza consiste in un esatto equilibrio fra la tensione morale indispensabile al raggiungimento dell’obiettivo ultimo e l’avvicinarsi alle tappe intermedie. E logico che Zavattini abbia caldeg­ giato le modalità produttive e fruitive e le forme cinema­ tografiche più esterne all’industria. In questa luce è stato, su scala internazionale, un anti­ cipatore e un maestro per i “film-makers’’ del cinema underground e per gli estensori di documentari e cine­ giornali politici fioriti nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti all’indomani del ‘68. Cosi come lo è stato per molti registi delle nuove generazioni latino-americane instradate al cinema dal neorealismo e dall’apostolato zavattiniano all’estero. E sulla sponda dell’alternatività che pulsa il cuore e il raziocinio di uno stratega, che si adopera affinché le minoranze si agguerriscano e si cen­ tuplichino, sbuchino dalle catacombe, dilaghino nella società e ribaltino la prassi cinematografica. E fuori dalle strutture industriali che, a detta di Zavattini, si avvere­ ranno i più durevoli e innovatori sovvertimenti. A ben ponderarle, le proposizioni zavattiniane reggo­ no a qualsiasi appunto, incluso il dubbio che a scavare trincee nelle province dove l’industria cinematografica non è di casa, la si lascerebbe tranquilla a disbrigar i co­ modi suoi. A sconsigliarlo dal retrocedere è il timore che, nell’ambito industriale, ogni riforma rinverdisca una antica supremazia e la rivesta di panni nuovi, a mo’ di un’operazione gattopardesca. E a questo timore - lo si desume da alcuni scritti non cinematografici - non è estranea la complessità degli atteggiamenti politici nei confronti della sinistra, tant’è vero che, simpatizzante del PCI, collaboratore di giornali comunisti, sin dal pri­ mo lustro del decennio Sessanta, Zavattini non dissimula di avere un assillo: che nello scacchiere socio-politico, in seguito alla sconfitta delle manovre autoritarie tambroniane e all’ingresso dei socialisti nella compagine gover­

nativa, la ricerca di un dialogo con le masse cattoliche e con gli elettori democristiani e, ai giorni nostri, con la DC, presenti per il movimento operaio, ove l’incontro av­ venisse all’insegna di un annacquamento ideologico e culturale, il pericolo di una perdita di identità. In faccia all’antifascismo protocollare delle comme­ morazioni ufficiali, Zavattini drizza le orecchie perplesso e guardingo, poiché ha sentore che gli ideali della Resi­ stenza sono stati imbalsamati. La fiducia nel partito per cui vota e nella sinistra non è intaccata dal turbinio dei dilemmi, ma non lo sono neanche la problematica e la plausibilità dei quesiti suscitati nel suo intimo e sulla pa­ gina. Se non si confonde con le invettive lanciate al PCI e al PSI dai gruppi extraparlamentari, non è nemmeno un fiancheggiatore ossequiente; semmai le sue scontentezze si appuntano sui ritardi, sui tentennamenti, sulle pru­ denze eccessive di una sinistra che gli sembra assolvere i compiti storici blandamente. Risoluto ad attentare alla sopravvivenza della struttu­ ra industriale, comunque pilotata, oltranzista nella pro­ gettazione del futuro per il cinema, ma dotato altresì di un senso concreto della storia, Zavattini non si sottrae agli scontri a distanza ravvicinata. Dal comizio di piazza del Popolo, convocato nel lontano 1949 per soccorrere il cinema italiano, alle manifestazioni contro la censura, dalla Conferenza economica alla contestazione della Mostra di Venezia e alle assemblee per la condanna di Ultimo tango a Parigi al rogo, non v’è appuntamento di una certa emblematicità al quale non abbia arrecato un apporto, in cui si agglutinano passione e realismo politi­ co, attributi inalienabili della sua personalità. E noto che Zavattini ha declinato l’attestato di “Padre del neoreali­ smo” certificatogli dai giornalisti, non perché non si rite­ nesse uno degli artefici principali di quel filone cinema­ tografico, bensì perché ha preferito esserne il critico più esigente e mordace, la punta più aguzza e inquieta, non il patrono ma lo sprone. Si capisce così lo spirito che im­

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pregna alcuni articoli, dichiarazioni, interviste e discorsi nei quali Zavattini oscilla tra una indiscriminata difesa dei film neorealisti, che svecchiavano la cultura italiana e ne agitavano le acque, e una continua chiosatura che evi­ denziava le frontiere invalicate da un movimento rigo­ glioso ma contraddittorio. A ispirare questa equilibratezza è l’offensiva sferrata a scapito del neorealismo dall’allora sottosegretario allo Spettacolo Andreotti, dai de­ mocristiani, dal clero, dalla burocrazia ministeriale, dai benpensanti. Ma è anche l’amore per il concreto, che è il contrassegno più vistoso di Zavattini, non diluito in acrobatici e sterili tatticismi, mai depauperato nell’estro poetico, non stinto nella spirale soporifera dell’adatta­ mento alla stagnazione e al contingente. Zavattini deplora i governi democristiani per aver di­ rottato e inquinato il cinema italiano, confinandone le espressioni più fertili nelle oasi della eccezionalità. I gua­ sti perpetrati, ribadirà incessantemente, sono tremendi poiché hanno avuto ripercussioni sulla complessiva ci­ viltà dello spettacolo cinematografico italiano; e la con­ statazione non lo distrae dall’apprezzare criticamente ogni sintomo di smentita artistica, durante il periodo “nero” della mattanza censoria e più tardi. Fermo sussi­ ste il criterio guida che la vitalità di una cinematografia non si materializza in alcuni ragguardevoli film isolati e in alcuni autori ammirabili, bensì nella generalità delle opere. Questo solido ancoraggio non distoglie Zavattini da una positiva valutazione di ogni segnale che annunzi un mutamento di registro. Così è, agli inizi degli anni Sessanta, quando il cinema italiano con 11 generale Della Rovere di Rossellini, La grande guerra di Monicelli, La dolce vita di Fellini, Accattone di Pasolini, Lavventura e La notte di Antonioni, si risveglia da un prolungato son­ no e assapora una libertà in precedenza vietatagli. E an­ cora una volta, Zavattini parteggia per i film da cui si presagisce una ripresa di non breve corso, ma non si pri­ va del diritto di eccepire e di esternare un malcontento e

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una irrequietezza che si intensificano negli anni seguenti e sgorgano da un’idea di cinema, che in Italia solo lui ha coltivato. Un’idea che differisce da molte altre per la sua radicalità.

3. Zavattini nasce al cinema, provenendo dal giornali­ smo e dalla letteratura, affascinato dal regno favoloso dello schermo, che lo infiamma di giovanile ardore. Sino al 1936 è direttore di Cinema illustrazione, un rotocalco edito da Rizzoli e che ai suoi lettori di umile estrazione magnificava i fasti dell’Eldorado cinematografico, e nel 1938 curerà una rubrica di critica su Tempo, il settima­ nale di Mondadori. In questi anni, cinema ed editoria in Italia vanno alla conquista di un vasto pubblico e non disdegnano di arruolare i letterati più celebri e le penne più promettenti. Il primo film sonoro italiano ostenta, nel 1930, la firma di Luigi Pirandello, che ha autorizzato Gennaro Righelli a trarre, assai liberamente, da una sua novella La canzone dell’amore’, nella seconda Cines tro­ neggia Emilio Cecchi, che si circonda di intellettuali; nei rotocalchi, che ammodernano la stampa periodica italia­ na e che con Omnibus di Longanesi lanceranno il pro­ dotto giornalistico più sofisticato, sono ospitati gli scrit­ tori più brillanti. Cinema e giornalismo si sostengono vi­ cendevolmente e a volte, come nel caso della Rizzoli, hanno un unico padrone del vapore. In più, il fascismo, che si appresta a incoraggiare la ricostruzione di una in­ dustria cinematografica nazionale, pressoché spentasi nella seconda metà degli anni Venti, non lesina direttive e raccomandazioni affinché i giornali consacrino al cine­ ma italiano colonne fitte di piombo. Per Zavattini il cinema è una sterminata valle di pro­ digi dove la fantasia si è installata sovrana. Una sorta di prosieguo della sua fanciullezza e la sede in cui sbrigliare le sue esuberanti doti inventive. È curioso ma non sor­ prendente questo innamoramento in un uomo, che sa­ rebbe stato alla testa di molte tenzoni per il realismo.

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Favolista bizzarro, scoppiettante di allegria stralunata e incline a trasfondere nei suoi racconti il soffio dell’insoli­ to e le pene gelide della solitudine; accorto alle asprezze che la quotidianità serba ai nullatenenti e attento a tra­ figgere e non a trasfigurare la realtà, scavando nelle pie­ ghe più riposte e sotterranee, trapassando le apparenze; a suo modo, debitore della lezione surrealista, Zavattini nel cinema intravede qualcosa che si situa a metà strada fra il mezzo espressivo più eccitante, al quale accedere e un balocco meraviglioso con cui dilettarsi e sbizzarrirsi Lumière e Méliès si congiungono nelle fluttuazioni dei suoi stimoli. A confessarlo è lui stesso: la guerra gli moz­ za il buzzo di giocare, lo schiaccia con il peso dei rimor­ si per i gesti incompiuti da milioni di italiani uniformati­ si al regime fascista e per le renitenze di coloro i quali, invece di ribellarsi, si sono ingegnati a nascondere la te­ sta sotto coltri di sabbia e a ritagliarsi una cavità protet­ tiva in cui proseguire i propri armeggi. L’arte, la cultura, il cinema, i valori in cui Zavattini ha riposto confidenza, malgrado sporadici segni di anticonformismo e di una più o meno velata opposizione alla dittatura, non hanno né presentito né impedito la tragedia, né suonato sirene d’allarme. Questo non è ancora l’inappellabile voto di sfiducia al quale egli giungerà un trentennio dopo, ma l’indice di una prima presa di coscienza che lo turba, gli scombussola le fantasticherie della giovinezza e ossessi­ vamente lo martella di interrogativi. Allora ripensa il ruolo degli intellettuali e degli artisti nel consorzio socia­ le e si addossa, per conto di una categoria smaliziata nel camaleontismo e nelle piccole e grandi viltà giornaliere, un senso di colpa insoffocabile. Iperbolico per temperamento poetico e allenato a pizzicare le corde del paradosso, Zavattini si autoflagella e fustigando se stesso è inesorabile con il suo gruppo so­ ciale. Esagera, va sopra le righe anche se rispetta la com­ postezza e la calibratura quasi maniacale della sua prosa tersa ma mareggiata da autentiche ansie di sincerità. H XV

suo non è un anelito cristiano a mondarsi dei peccati commessi, in un lavacro ristoratore, ma un processo sce­ vro di assoluzioni e di gratificazioni e che si svolge a por­ te aperte, a tempo indeterminato finché dalle rovine mo­ rali, ben più calamitose delle devastazioni materiali, e dalla corruzione che il fascismo ha disseminato con pro­ digalità, non germini un mondo in cui “buongiorno vo­ glia dire veramente buongiorno”. Nell’imputarsi e nel conteggio delle rughe della pro­ pria colpevolezza, Zavattini è spropositato. Intanto, nel­ la cerchia dei letterati italiani che hanno tenuto banco a cavallo tra le due guerre, è uno dei pochi che non abbia­ no sollecitato commende e favori e prestigiosi riconosci­ menti in cambio di servigi spiccioli e di adulazioni servi­ li e lusinghe. Ha le mani pulite, ma l’animo gli rimorde ugualmente per non aver osato di più, per essere stato, con la sua scontrosa accettazione del fascismo e con una assuefazione dubitosa, partecipe di un inganno che ha avuto proporzioni enormi. Tuttavia, i suoi libri ridimensionano un rigorismo giansenistico, che piglia Zavattini a paradigma di una friabilità pertinente ad altri artisti e ne amplifica le mende, per non intenerirsi alle dichiarazioni di inno­ cenza che si spandono nell’uditorio circostante. Non aveva scritto sul Bò Eugenio Curiel, uno dei suoi critici più sommari, che in pochi testi della letteratura con­ temporanea, come in I poveri sono matti, “abbiamo sentito vibrare una commozione così sconsolata... del mondo che ci circonda”?1 Recensendo Io sono il diavo­ lo, Mario Alleata nel 1942 su Primato non aveva osser­ vato che con I poveri sono matti “in una letteratura an­ cora soffocata da stretti problemi stilistici e in piena crisi di coscienza, Zavattini tornò a parlare con ardore ingenuo ma schietto dei grandi sentimenti umani, della morte e dell’amore, della violenza e dell’odio, e portò avanti, tra i primi il dolore del mondo offeso (come dirà più tardi Vittorini)”?2 XVI

Vi sarebbe stato di che impettirsi e vantare meriti antiaccademici e attestati di antifascismo, ma Zavattini, uscito illeso dal tornado bellico, non si accoda ai penti­ menti opportunistici, agli eroismi dell’ultima giornata, ai voltagabbana che si assiepano sotto nuove bandiere. Non butta alle spalle il passato e, premendogli che la pianta del presente cresca dritta, evoca i vizi di una borghesia i cui esemplari più eruditi e venerati hanno appreso a sgusciare tra i tortuosi gineprai della storia per trarsi d’impaccio a poca spesa. Abili nello sbandie­ rare attenuanti, untuosi nello scagionarsi, solenni nell’impetrare l’incolumità delle ragioni estetiche e l’extra­ territorialità dell’arte, adusi al maneggio di bilancini da farmacisti nel proferire giudizi, davanti a costoro Zavat­ tini focosamente contravviene ai regolamenti e li squin­ terna, si colpevolizza per addivenire a una generale colpevolizzazione. Fiuta nell’aria morbi che i più fiduciosi reputavano di aver disinfestato: fascisti che, ramazzati il 25 aprile, si riaffacciano rimbaldanziti con l’esercito dei loro funzio­ nari e si insediano nei ministeri, nelle forze armate, nelle aule di tribunale e nelle scuole; il pervicace moderatismo italiano che sfodera le unghie e alligna la sua intermina­ bile tastiera di paure rinfocolate dalla Chiesa e da un cattolicesimo liturgico e formalista, solo perifericamente lambito da bagliori progressisti; i magnati delle industrie e dei commerci che sono sempre i medesimi e si accon­ ciano con i vincitori e intrallazzano con il potere politi­ co; una piccola borghesia che, terrorizzata dalla Resi­ stenza e inorridita dal comuniSmo, sono guai a parlarle persino di repubblica e di riforme e i suoi ideali li scalda al fuoco di ricordi scolastici intrisi di retorica, e al più di un qualunquistico buonsenso; una intellighentia che, in molte sue regioni, sentenzia la dissociazione fra politica e cultura e si rinserra nell’inviolabilità dei suoi purissimi cenacoli artistici dove si santifica Benedetto Croce e le necessità prosaiche sono placate con qualche collabora­

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zione alla terza pagina del Corriere della Sera o della Stampa, attendendo la manna della RAI-TV, prossima a discendere dall’etere. Zavattini avverte la gelatinosità del tessuto sociale e culturale su cui avviene la ricostituzione di uno Stato e di una società civile nei quali il vecchio prevale sul nuo­ vo e lo argina, e avverte l’urgenza che una vita morale, intonata alle aspirazioni delle masse popolari più avan­ zate, faccia quantomeno da antidoto ai rigorghi di con­ servatorismo. Se la molla che attiva lo sdegno per la mi­ seria e le ingiustizie, sussistenti nell’Italia post-resisten­ ziale, scatta sul nervo di un furore che potrebbe suonare astratto e vibrante di inesorabilità giacobine, v’è tuttavia in Zavattini un’ansia di chiarezza e di linearità. Uno slancio che non si consuma nel sancire imperativi cate­ gorici, ma pervade le arterie del sociale e tende a una ri­ voluzione culturale in cui siano suturate le dicotomie fra il pubblico e il privato, il sentimento e la ragione. Non una precisa dottrina incanala Zavattini verso un patrimonio ideale, che è del socialismo, ma un istinto classista presiede alla sua emancipazione. Un istinto che trapela dalla raffigurazione agra e desolata dei suoi po­ veri, “che si incontrano e sono sempre amaramente soli fra tanti uomini sordi e stanchi” e che Curiel però aveva scambiato per un travestimento zavattiniano di piccoli borghesi e ai quali biasimava di non avere “del popolo povero e proletario la forte visione della vita, la reazione incessante contro le avversità, la capacità di custodire at­ traverso le generazioni il fuoco rovente della loro idea”. Un istinto che educa Zavattini a individuare in Mobbi di Totò, il buono e nei plutocrati della sua risma la grami­ gna del globo terrestre e nel capitalismo e nella borghe­ sia la sorgente di molti mali. Ogni fremito, ogni pulsazione morale si tinge in Za­ vattini di indelebili venature classiste, signoreggiate dal letterato e dallo sceneggiatore che scarta i languori ma­ linconici, le effusioni sentimentali, le idealizzazioni po­

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pulistiche, e se un pregio, fra i molti, spicca, nella rap­ presentazione dei conflitti umani e sociali, esso risiede in una crudeltà inquisitiva pari all’assodamento che l’indi­ genza è fucina di remissività, disperazione e insensato egoismo. Dai personaggi infelici, tristi e affetti da mona­ dismo nei testi letterari prebellici agli sciuscià del dopo­ guerra, dall’attacchino Ricci ai barboni di Miracolo a Mi­ lano, al pensionato di Umberto D., lungo il tragitto di Zavattini si distende uno sguardo omologabile alla cru­ deltà surrealista di Bunuel (l’anticlericalismo e la diffi­ denza per il cattolicesimo sono un altro trait-d’union che accosta i due autori), durissimo verso l’ordinamento societario ma non gentile e compassionevole né compia­ cente con le sue vittime. Zavattini non lacrima; nella gioia e nel dolore non accarezza, non è attirato dalla “positività” proletaria: commuovere non lo stuzzica, in­ dagare lo elettrizza e gli scatena le facoltà sezionatrici e immaginative, perfettamente unite nei film migliori. L’accento batte su una spietatezza investigativa e sul rigetto di qualsiasi conclusione consolatoria, comunque sia ideologicamente verniciata, che distanziano Zavattini dai prontuari epico esortativi del realismo socialista e dalla maggioranza dei film neorealisti italiani, non restii dall’ingraziarsi le platee con gli espedienti più accattivanti che, in definitiva, corrispondono a forme coscienziali pietrificate. Se spifferi di patetismo circolano nei film di Zavattini, e una bonomia dolciastra qua e là si in­ sinua, sono i suoi registi a infiltrarli, inzuccherando con i sapori del bozzetto il corrosivo umorismo zavattiniano e l’umanità di un narratore i cui occhiali non si appanna­ no e non si inumidiscono e che guarda ai contemporanei con il guizzo fantastico di un poeta e la diagnostica meti­ colosità di un ricercatore in laboratorio. È semmai il po­ lemista, che si tuffa nell’arengo politico, a correre il ri­ schio di mitizzare il popolo e di assolutizzare i tratti di una cultura degli strati popolari, la cui peculiarità e au­ tonomia sono delimitate dalle aree dove correnti cultu­

rali di diverso conio sociale e ideologico si incrociano e si amalgamano, reciprocamente alternandosi e compene­ trandosi. La questione “morale” emerge preminentemente ne­ gli anni del neorealismo ed è il primitivo impulso che spinge Zavattini a sovvertire i suoi legami con il cinema e a riconvertirli da una magnanima disponibilità, assisti­ ta da talento originale e da perizia, a una dedizione più selettiva. Zavattini riconcepisce il cinema dalle fondamenta, ritessendo le intuizioni avute ai primordi degli anni Quaranta. Siamo lontanissimi dai baluginamenti di Longanesi, al quale qualcuno ha attribuito una primoge­ nitura nell’intuizione del neorealismo, e che nel 1933, esecrando i balbetti! del cinema italiano, raccomandava di “mettere in scena pellicole senza artifizi, semplici e povere nella messinscena, girate quanto più si può dal vero... gettarsi alla strada, portare la macchina da presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni... fer­ marsi in un punto qualsiasi e osservare quel che accade durante una mezza ora con occhi attenti e senza precon­ cetti di stile...”. Ne siamo tanto lontani che, a risfogliare le esemplificazioni del fascicolo monografico di “L’Ita­ liano” consacrato alla cinematografia, salta a prima vista quanto esse inerissero più alla vena elzeviristica e all’iro­ nia aristocratica di Longanesi che alle impellenze cono­ scitive, alle illuminazioni fantasiose e ai tarli morali zavattiniani. E così dicasi di altre approssimazioni alla no­ zione di realismo, negli anni Trenta, spesso identificata in alcuni procedimenti tecnici - ripudio degli “studi” ci­ nematografici e dei divi, riprese in “plein air”, rivaluta­ zione del paesaggio, aggancio ai dialetti, arruolamento di volti estrapolati dalla folla - variamente contestualizzabili, finanche ad avallo di idioti film propagandistici e di viete sagre dopolavoristiche. La singolarità non la ravvi­ siamo in un impegno morale che si inveri nel rimpinzare le sceneggiature di messaggi. L’impegno è nell’intendere la conoscenza come inseparabile dalla meraviglia, scatto

morale e politico, base di qualsiasi convivenza, processo dialettico, cardine delle mutazioni sociali; conoscenza non dilazionabile, non a rimorchio dei fatti né protesa a una riproduzione artistica e a recitare la realtà in falset­ to, imitandola, ma determinata dall’immersione nella pratica sociale per fondervisi e innescarvi micce e in questa orbita esigere che si provveda istantaneamente e si colmi l’abisso tra la parola e l’azione; conoscenza criti­ ca e illimitata della collettività e delle sue branche e al­ tresì di se stessi e delle proprie macchie, chiamati ad autoritrarsi e a radiografare infingimenti e ipocrisie . L’inchiesta e il diario, ferri prediletti da Zavattini, so­ no congegni complementari e integrabili e consentono di far scorrere il discorso cinematografico dalla terza alla prima persona in un interscambio incalzante giostrato dalla prepotenza della realtà documentale e dalla dispo­ sizione sperimentalistica di colui che si cimenta con un atto conoscitivo per sopportare l’attrito fra le rivelazioni dell’investigazione e l’armamentario culturale adopera­ to. Non si deve perciò approntare la macchina da presa per un mero esercizio registratorio, ma viceversa accin­ gersi a una collisione, che elevi le gradazioni della co­ scienza critica. Zavattini non invita a deporre le attrezzature ideolo­ giche e culturali nell’anticamera, non teorizza una im­ possibile neutralità dello scrutatore cinematografico e, sebbene confidi nella oggettività e nella forza illuminan­ te delle cose, non si sogna di cedere cambiali in bianco alla eloquenza della cronaca filmata e del documento ri­ preso dal vivo. Al cineasta chiede una elasticità che sia la medesima dello scienziato, il quale studia i fenomeni, muovendo da un grado X di consapevolezza per arrivare a un grado superiore attraverso scoperte che possono sconvolgere ogni anteriore acquisizione. La chiede al realizzatore di film e, di rimando, ai soggetti filmati e al­ lo spettatore, non avendo la pretesa di mortificare la fan­ XXI

tasia e la poesia benché queste, negli ultimi lustri, nei ra­ gionamenti di Zavattini avranno un posto secondario. Il neorealismo è perciò fondamentalmente un abito mentale, morale e intellettuale. Zavattini non è sfiorato dal proposito di sostituire una poetica con un’altra, ha in mente drastici rivolgimenti nelle procedure cinemato­ grafiche. Non lo acquieta la postulazione di un cinema che non sia più complice e anestetico delle afflizioni so­ ciali, ma è l’intiera dimensione cinematografica che, a suo avviso, va riedificata. La radicalità di Zavattini è nel rovesciamento delle ta­ vole che finora hanno orientato anche gli artisti più rivo­ luzionari e i movimenti portatori di innovazioni. Si tratta di ripartire non dall’arte e dalle quote più alte raggiunte dalle pratiche estetiche, bensì dalla vita, dalla normalità e non dalla eccezionalità, dal quotidiano e non dal ro­ manzesco, dall’approccio cognitivo, da un’assoluta per­ meabilità e non dai preconcetti sulla realtà, da struttura­ zioni percettive aperte e non da schemi che convoglino la ricerca entro bordi prefabbricati. Ogni canone è una strettoia, un imbrigliamento, codi­ ficazione di limiti oltrepassabili a patto di beneficiare di una libertà che anzitutto è una libertà da...: dalle con­ venzioni dello spettacolo cinematografico, dalle mitolo­ gie contemporanee, dalla tirannia dei metraggi e delle durate, dalla ripartizione dell’assemblaggio filmico in ge­ neri e in compartimenti incomunicanti, dall’attuale as­ setto della cinematografìa che prestabilisce le modalità della produzione e della fruizione e le assoggetta al con­ seguimento di un fine economico. Rompere questi argini equivale a rinunciare alla affabulazione che giova alle cristallizzazioni della coscienza, sopprimere le artificiose barriere statuite per favorire l’incompenetrabilità di ca­ tegorie disgiunte e distinte - il lungo e il cortometraggio, il film di fiction e il documentario, la novella, il cinegior­ nale di informazione, lo short scientifico-divulgativo o didattico, il reportage e il film di inchiesta, il film di due

ore e il film di due minuti - e approdare alla morte della nozione di film e in sua vece ripristinare quella più estensiva di cinema. Non per aumentare l’eclettismo del­ l’assortimento e perpetuare catalogazioni e rubricazioni, ma per scompigliarle e restituire al cinema la ricchezza della sua potenzialità gnoseologica. Potenzialità eminen­ temente analitica e da valorizzare in un contatto diretto con il reale, nella dinamica dei fenomeni umani e sociali, sgravandosi di qualsiasi idea precostituita. Come pun­ tualizza Zavattini, “fotografare non ciò che abbiamo pensato, ma quel che pensiamo nell’atto di vedere”. Il cinema, anche il cinema classificato neorealistico, è sempre stato per Zavattini un commentatore tardivo, circospetto e asincrono con la realtà. L’ambizione è di eliminare ogni sfasatura e ogni parete divisoria, ogni griglia, le scansioni del “prima” e del “dopo”, e calarsi nell’evento, mentre esso si compie, far coincidere la cul­ tura con la vita: non più raccontare ma essere una cosa, non più sfaccettare personaggi ma dirigere la cinepresa su persone, non più cucire tramature e stratagemmi narrativi ma inquadrare e dinamizzare situazioni, non più essere descrittori ma autori di realtà. E se i film neorealisti sono stati succubi di una ingegneria e di al­ chimie che erano le medesime del cinema affabulatorio, perisca anche il neorealismo e sia lode al cinema della realtà. E se il cinema è sinonimo di “fabula”, ricamo, arabeschi inventivi e macchinari organizzativi totalitari, deflagri il suo opposto: l’impregiudicatezza del non-cinema, che va dallo scompaginamento delle strutture espositive allo sconfinamento del film dai locali adibiti al rito della visione. Seppure vi siano “modi favolosi per analizzare e far esplodere la realtà” e Zavattini non li proscriva e auspi­ chi, più che il dissolvimento della fantasia, un suo diver­ so impasto, nelle accalorate enunciazioni zavattiniane si accampa un bisogno di concretezza, impagabile in una cultura tempestata di astrattezze. Zavattini è deciso a ri­ XXIII

mettere l’autore cinematografico, l’intellettuale intriso di ideologismi e dedito al culto dell’estetica, non alieno dal perdersi appresso ai massimi sistemi, con i piedi in terra, e gli prospetta una metodologia che lo induca a “parte­ cipare ai fatti collettivi” e “non solamente a rappresen­ tarli” poiché più si “arricchisce di questo suo civismo, più egli rappresenterà dei fatti che contribuiranno alla formazione della società”. Il neorealismo, nelle forme più integrali, sottintende dunque un “obbligo nostro, degli italiani, a uscire dai falsi assoluti e ad entrare nelle cose”. “Cerchiamo quei poeti che non abbiano più i dolori del mondo, ma i do­ lori di quella regione o di quella borgata, il cui tempo vada dalla mattina alla sera” e che siano tempestivi, dal momento che la subitaneità degli interventi è la misura di una moralità attiva. Entrare nelle cose per rinsanguare i fondamenti del sapere, per accorciare gli interstizi in­ terposti fra l’autore cinematografico e una realtà distante dalla sua esperienza giornaliera, per metterlo in comu­ nione con il mondo circonvicino e trasformare l’occasio­ ne estetica in una occasione sociale, l’occasione cinema­ tografica in un’occasione conoscitiva valevole per i sog­ getti che agiscono davanti e dietro la cinepresa. È implicita la condanna di ogni pendenza demagogi­ ca e populistica insita nell’ “andare verso il popolo” che fu propria del fascismo, e si appura una consanguineità nei tormenti di Zavattini e di Pavese. “Andarci,” ram­ mentava Pavese, “vuol dire travestirlo [il popolo, n.d.r.], farne un oggetto dei nostri gusti, e delle nostre degna­ zioni. Libertà non è questo. Non si va ‘verso il popolo’. Si è popolo.” E completava il suo pensiero: “Per uno scrittore, per un ‘operaio della fantasia’, che dieci volte in un giorno corre il rischio di credere che tutta la vita sia quella dei libri, dei suoi libri, è necessaria una cura continua di scossoni, di prossimo, di concreta realtà. Noi rispettiamo troppo il nostro mestiere per illuderci che l’ingegno, l’invenzione ci bastino. Nulla che valga XXIV

può uscirci dalla penna e dalle mani se non per attrito, per urto con le cose e con gli uomini. Libero è solamen­ te chi si inserisce nella realtà e la trasforma, non chi pro­ cede tra le nuvole.”5 Zavattini e altrettanto netto: pre­ scrive all’autore cinematografico che “l’intuizione si eserciti sulla cosa e non sull’intuizione”, che “la macchi­ na da presa veda le cose e non il concetto delle cose”, che il neorealismo non devii dalla massima “non fare og­ gi quello che hai fatto ieri” e si inaridisca nella fissità e nella sterilità di una formula. Sembrerebbe, al lume delle successive generalizzazio­ ni zavattiniane, che la preminenza data alla figura del­ l’autore nel duetto cinema-realtà tradisca smagliature e reintroduca il mito dell’artista in un disegno culturale ardito. E vieppiù sono ingannevoli le parvenze in quanto Zavattini, intenzionato a ridurre al minimo il ventaglio delle mediazioni, ipotizza un realizzatore unico del film, che assommi le mansioni del regista, dell’operatore, del montatore e del soggettista (un soggettista sui generis, che non lavora su un copione, ma su tracce indicative). L’assunzione di ruoli molteplici in una sola figura ri­ sponde a una esigenza lontana dalla enfatizzazione del professionismo e del regista demiurgo, ossia alla neces­ sità che ogni essere umano si corredi del mezzo cinema­ tografico così come adopera la scrittura per comunicare Zavattini si augura una alfabetizzazione di massa, che socializzi un armamentario linguistico finora appannag­ gio di alcuni specialisti, i quali ne sono i depositari privi­ legiati. L’evoluzione tecnologica (vale a dire la pellicola più sensibile alla luce naturale, i sistemi più spigliati di registrazione dei suoni, il videotape, il nastro magnetico cancellabile, il formato ridotto, la “camera” sempre me­ no ingombrante), ripetutamente invocata e mai diviniz­ zata da Zavattini, lo conforta nel vagheggiamento di un cinema corsaro. Sarà forse una utopia, quella della cine­ presa che compete con la penna e la matita, ma Zavattini scorge nel godimento abituale degli strumenti cinemato­

grafici più leggeri e maneggevoli il passaggio verso il su­ peramento della separazione di funzioni e di competen­ ze che preclude allo spettatore la possibilità di essere un osservatore diretto della realtà. “Soccombiamo al pen­ siero di pochi, emanato dalla esperienza di pochi,” so­ stiene Zavattini e la sua osservazione non si arresta sulla soglia del cinema. La frattura fra pratica estetica e pratica sociale è il bersaglio numero uno degli strali zavattiniani e nella pertinacia della polemica contro l’arte, via via rafforzata­ si, rimbalzano echi che colorirono le dispute dell’avan­ guardia sovietica. Un filo invisibile riallaccia Zavattini ai costruttivisti russi, che ai lasciti della tradizione artistica prerivoluzionaria addossavano la responsabilità di aver organizzato “mediante la suggestione della fantasia que­ gli elementi della realtà che la società è organicamente incapace di organizzare in conformità a un piano o di conoscere praticamente”. Attraverso Zavattini riascoltia­ mo Boris Arvatov: “Il peccato originale di un quadro, di una pièce ecc. è quello di essere forme mercantili di arte (ossia forme ‘da cavalletto") estrapolate, estetizzate e formaliste, le quali sostituiscono ma non completano la cor­ rispondente attività sociale... gli artisti borghesi abbelli­ scono, decorano, ossia risarciscono la realtà, creano un miraggio falso...”4 “L’arte figurativa proletaria”, che ave­ va ammaestrato Arvatov nel 1926, “in quanto sia ancora pensabile, deve collegarsi strutturalmente con la prassi sociale e trasformarsi in un’arte di influsso sociale, cioè in un’arte che aspiri a suscitare azioni determinate e concrete. Sarebbe, tuttavia, insufficiente collegare le for­ me dell’arte proletaria con l’edificazione proletaria solo tematicamente. Occorre che tali forme penetrino direttamente, materialmente nella vita operaia, la rivoluzionino dal di dentro. Occorre che l’esistenza operaia sia portata sul palcoscenico e che l’azione teatrale si svolga invece nella vita quotidiana... Occorre che l’artista proletario sia un edificatore, a pari diritti, di vita e non un sacerdo­ XXVI

te... La messa a nudo dei procedimenti dell’arte, l’aboli­ zione del suo mistero da feticcio, il trasferimento dei procedimenti dell’arte e dell’artista-produttore al consu­ matore: ecco le uniche condizioni che permetteranno la scomparsa della secolare divisione fra arte e pratica... L’arte borghese organizza i materiali al di fuori della loro pratica applicazione, li organizza non per l’azione ma per la contemplazione, per un loro consumo passivo, statico e solo indirettamente organizzativo. Solo dopo la socializzazione e la tecnicizzazione dei metodi della crea­ zione artistica sarà possibile ridurre tali metodi a sistemi di pedagogia proletaria, per fame strumenti di educazio­ ne dell’uomo che organizza consciamente tanto le forme della propria attività quanto quelle dell’ambiente natu­ rale... Bisogna rivoluzionare tutta l’arte, in modo che la creatività artistica possa diventare il mezzo per l’organiz­ zazione di qualsivoglia sfera della vita...” Attraverso Zavattini ci imbattiamo nel Marcuse del saggio La nuova sensibilità, là dove il filosofo tedesco va­ gheggia un mondo in cui “liberata dalla schiavitù dello sfruttamento, l’immaginazione, sostenuta dalle conqui­ ste della scienza, potrebbe volgere la sua forza produtti­ va alla ricostruzione radicale dell’esperienza e dell’u­ niverso dell’esperienza. In questa ricostruzione, il topos storico dell’esistenza cambierebbe: troverebbe espressio­ ne nella trasformazione della Lebenswelt. La società co­ me opera d’arte... uno stadio in cui la capacità produtti­ va della società potrà essere affine alla capacità creativa dell’arte, e la costruzione del mondo dell’arte affine alla ricostruzione del mondo reale - unione dell’arte libe­ ratrice e di tecnologia liberatrice”.5 Abbiamo accennato ad alcune analogie della teoria zavattiniana con le elaborazioni dell’avanguardia sovieti­ ca negli anni Venti, ma si è tentati di collegare Zavattini alla matrice di John Grierson. Talune similitudini conso­ liderebbero l’attendibilità dell’abbinamento. Anche Grierson è sceso in lizza contro il film di fiction, non

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ignaro di quel che ribolliva nella pentola del cinema sovietico e di Dziga Vertov. Anche Grierson, reduce da­ gli studi in America presso la Facoltà di scienze politiche all’Università di Chicago e discepolo di Walter Lipp­ mann, ha ripudiato l’estetica e la fondazione di un nuo­ vo archetipo di bellezza, poggiato sulla categoria del ve­ ro. Anche Grierson si avvale di ingredienti estetici per voltarli in strumenti adatti a perseguire finalità extraeste­ tiche. Anche in Grierson il “fine ultimo non è più la for­ ma bella, ma la forma stessa della società”,6 una parteci­ pazione politico-culturale alla vita sociale. Tuttavia, vi sono discrepanze fra l’ideologia del cine­ ma che ha Grierson e le concezioni zavattiniane. Il do­ cumentarista inglese, mallevadore di una corrente fra le più fertili negli anni Trenta e che alla cinematografìa britannica ha regalato uno stile, incarna nei paesi del­ l’Europa occidentale la consapevolezza che i “mass me­ dia” audio-visuali siano massicciamente mobilitati per plasmare l’opinione pubblica e non solo per svagarla. Nell’epoca in cui il cinema e la radio, in Unione Sovieti­ ca, in Italia e in Germania, erano “magna pars” nell’o­ pera di educazione e di propaganda, Grierson ordisce meccanismi di informazione visuale finalizzati a rassoda­ re il consenso delle masse alle istituzioni della democra­ zia rappresentativa e a imprimere al concetto stesso di democrazia una valenza solidaristica e comunitaria che non aveva prima dei disastri cagionati dalla crisi econo­ mica del 1929 e del 1932. In Grierson, il cinema latore di messaggi consoni al deperimento dell’ideale individualistico in cui si era im­ medesimato il liberalismo europeo, continua ad avere una funzione di integrazione al sistema sociale e di omo­ geneizzazione ideologica. Al contrario, Zavattini ne esal­ ta la funzione critica e oppositiva, lo contempla avulso dai centri del potere politico ed economico e intestino ai movimenti sociali, lo avvalora quale fattore conflittuale e non di ricomposizione delle antinomie societarie, in ciò

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divergendo da Grierson e da Vertov, ambedue registi e teorici diversamente dislocati ma pur sempre apologeti di regime. È dal suolo verso gli apici, nella topografia sociale, che si delinea il progetto zavattiniano di cinema, nella inversione del tradizionale interscambio docente-discen­ te e nella polverizzazione dei marchingegni che hanno supplito all’espressione democratica della conoscenza critica con la pedagogia e l’inculcamento delle idee. Questo capovolgimento diseguaglia Zavattini da Rossel­ lini, quanto il primo in rotta con la fiction cinematogra­ fica e con l’affabulazione e tuttavia votatosi a una mis­ sione illuministica ed enciclopedica del cinema, che si estrinseca nel dispensare da una cattedra (il “video” te­ levisivo) i beni della cultura. È opportuno diradare un altro malinteso ritemprato da alcune interpretazioni unilaterali. L’equivoco è che Zavattini abbia una smisurata fede nel mezzo cinemato­ grafico in sé, nel cine-occhio e nella sua intrinseca e au­ tonoma capacità percettiva, in una sorta di “miracoli­ smo” del supporto tecnico laddove la scrittura cinema­ tografica, diversamente da altre forme di scrittura, per Zavattini è la più congeniale a un impatto con la realtà, fruttuoso se lo governa non solo una volontà critico-se­ lettiva ma una sensibilità affinata. Quando raccomanda di consegnare ai giovani realizzatori cineprese anziché commissionare soggetti, Zavattini non si affida a una presunta infallibilità dell’apparecchiatura cinematografi­ ca, ma deprezza le strumentazioni letterarie e dramma­ turgiche nella ricognizione filmica e le svaluta poiché qui prospererebbero le visuali prevenute della realtà. “Il cinema è un oggetto che rivela le cose,” ripete Za­ vattini, il più appropriato per familiarizzarci con la con­ cretezza delle vicende umane e sociali, purché lo si im­ pieghi come “uno strumento da metodo” e non da ispi­ razione e ancor meno tale da prescindere da colui che lo manovra. In sintesi, nella perlustrazione della realtà, che

per Zavattini non cessa di essere ricerca febbrile e insa­ ziabile, deve eccellere la tendenza scientifico-sperimen­ tale su cui precedentemente ci siamo soffermati e che non annulla e non vieta le accensioni poetiche e fantasti­ che, queste fungendo da detonatore all’analisi. La visualità è la prerogativa su cui Zavattini insiste reiteratamente, a suffragio di un cinema emendato da contaminazioni con la letteratura. Nel prendere partito, non gli preme recuperare la purezza di un mezzo espres­ sivo intrigatosi con il teatro e con la narrativa letteraria. Piuttosto gli sta a cuore riguadagnare al cinema la capa­ cità di trivellare sull’istante il vissuto, in luogo della adu­ nata di fantasmi che si affollano e volteggiano in giri di valzer durante le sedute di sceneggiatura. Saper vedere, andando dritti con la macchina da presa al midollo di un soggetto e di un evento e cavarne il massimo di significa­ tività, a costo di mulinare anche accorgimenti provoca­ tori, fa parte della precettistica zavattiniana. L’occhio è per Zavattini l’organo principe della rilevazione cinema­ tografica e forse non è superfluo notare che la predomi­ nanza dell’ottica sugli altri coefficienti è predicata da uno scenggiatore il quale discende dalle file letterarie e che, contrariamente ad alcuni suoi colleghi tra i più cele­ brati (Prévert, Spaak, Riskin, Nichols, la Hellmann ecc.), ha sempre pensato per immagini, scrivendo per il cinema. Il chiarimento ne richiama un secondo, all’altro con­ nesso. Le incomprensioni, di cui Zavattini ha sofferto, non sono poche anche se promanano da lidi disparati. Era scontato che contro l’idea zavattiniana di cinema in­ sorgessero le legioni della professione cinematografica, i gazzettieri asserviti al partito governativo, i laudatori programmatici del “bel paese”, i registi votatisi alla fic­ tion, la critica formalista, le vestali dell’estetica crociana; un po’ meno che la sindacassero i marxisti. Ad agevolare il travisamento delle teorie zavattiniane è stata l’influen­ za che sui critici più vicini al movimento neorealista ha

avuto il Lukàcs di I saggi del realismo. H dibattito, occa­ sionato nel cinema da Senso di Visconti e da Metello di Pratolini nella letteratura italiana, gravitando attorno al­ le carenze del neorealismo e perorando una transizione dal racconto al romanzo, dalla superfìcie cronachistica allo spessore della storia, dal tipo al personaggio, inelut­ tabilmente si ritorcerà a detrimento di Zavattini, le cui posizioni non hanno una sistemazione compatibile con la teoria lukacsiana del romanzo, consolidata dai model­ li del realismo letterario, mutuati dall’ottocento. Si addebiterà a Zavattini e al suo cinema l’incapacità di creare “caratteri e situazioni tipiche che sono assolu­ tamente impossibili nella vita quotidiana e che tuttavia sono in grado di rilevare, alla luce della suprema dialetti­ ca delle contraddizioni, quelle tendenze e quelle forme operanti la cui azione è malamente visibile nella penom­ bra della vita di tutti i giorni” (Lukàcs). La disintegra­ zione e la ripulsa dell’intreccio gli saranno rinfacciate quali salvacondotti per un rilevamento episodico e fram­ mentario della realtà, se non bozzettistico, e si asserirà che con la scomparsa dell’intreccio un elemento dialetti­ co sarebbe stato defalcato dall’economia narrativa. Lo si accuserà di indulgere alla raffigurazione di avvenimenti debolmente collegati al contesto e di “non andare molto in là della semplice osservazione e descrizione della vita quotidiana”, mentre il metodo narrativo realistico avreb­ be permesso di cogliere i nessi dei fenomeni sociali esa­ minati. Gli si affibbierà la qualifica di neo-zoliano. Queste accuse, se giustificate talvolta dagli esiti incer­ ti di alcuni esperimenti zavattiniani, non resistono ove siano correlate alla metodologia formulata. Una metodo­ logia, che nega il cinema di fiction e i suoi lenocini e al­ tresì le sue strutture romanzesche, ma non per questo è restrittiva e riduttiva. Le indicazioni di Zavattini, sparse in una miriade di scritti e di interviste, sono inconfondi­ bili: i suoi sono appelli “ad esaminarsi e ad esaminare con l’occhio più avido di umori sociali i fatti che si svol­ XXXI

gono attorno a noi”, “nelle loro correlazioni sociali”. “Non sono spinto dalla ricerca del particolare,” specifi­ ca Zavattini nella replica a Enzo Muzii sulla rivista Emi­ lia (1953), “quanto piuttosto da una violenta polemica al generale, come è stato visto sino a oggi.” “I fatti di tutti i giorni sono piccoli se vediamo piccolo”; “accetto che mi si faccia vedere come si fabbricano le banderillas purché mi venga svelato il processo di produzione con tutti i rapporti umani e sociali che esso implica.” Renato Barilli, nella sua introduzione alle Opere di Cesare Zavattini,7 ha giustamente rammentato che nella produzione letteraria e cinematografica dello scrittore il mutamento strutturale più qualificante sta nel passaggio “dall’evento eccezionale” all’“evento comune, potenzia­ to però attraverso un ingrandimento abnorme”. E l’e­ vento, “qui ed ora” fissato sulla pellicola, nella teoria ci­ nematografica e nella pratica letteraria di Zavattini, se­ condo Barilli, è alla radice di una scrittura che il prefato­ re definisce “eventica”, “basata cioè sulla sollecitazione continua e smodata dell’evento”. Zavattini, prosegue Ba­ rilli, deroga dalla scrittura rappresentativa, mimetica, al­ la quale ci ha abituato la maggior parte dei nostri scritto­ ri e “l’evento, per lui, non si pone mai altrove, ma den­ tro la scrittura; non è mai un già fatto, un già accaduto di cui si debba tener conto a posteriori nel modo più esatto possibile, ma è sempre un farsi, un darsi in atto”. A quel che annota Barilli, rimarcando l’ampiezza del prisma di Zavattini e segnalandone i fattori differenziali rispetto alla tradizione ottocentesca (“una furiosa fame dell’atipico, del contingente, dell’imprevisto, in quanto più reale che non quella pretesa realtà codificata del tipi­ co, troppo pronta a scivolare nello stereotipo”), aggiun­ geremo che il metodo zavattiniano, nelle sue incalcolabi­ li virtualità, non si risolve in un approccio fenomenico alla realtà. La fenomenologia della realtà è soltanto una pedina, un tassello della ricerca cinematografica intesa al rinvenimento delle giunture attraverso cui penetrare

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l’essenza sociale delle situazioni filmate. Il pedinamento, la macchina da presa che scruta quasi fosse un buco pra­ ticato nel muro della quotidianità, la cosiddetta “poetica del coinquilino”, la diaristica cinematografica (“andare verso l’interno, confrontandolo con l’esterno”), il cine­ giornale libero impongono che si risalga dal particolare al generale. Lampante è l’esempio del film su una donna che compra un paio di scarpe: uno spunto su cui Zavattini imbandisce un cinema che non è più soltanto documen­ taristico e descrittivo ma di taglio saggistico e che, spic­ cando il volo da un episodio comune, mette in campo l’intiero organismo sociale ed economico e le leggi del suo funzionamento e avvia un’analisi per linee orizzonta­ li e verticali, diacroniche e sincroniche, procedimenti ai quali si è approssimato più di ogni altro cineasta il Go­ dard, regista militante. I critici benevoli adducono una attenuante: salvano il metodo zavattiniano, ma non sorvolano sull’incompiu­ tezza dei risultati. E si lagnano perché l’elaboratore del metodo, a lungo inibitosi alla regia anche nei film che maggiormente risentono delle sue idee, fidandosi di col­ laboratori i quali hanno un temperamento diverso dal suo, avrebbe concorso a spuntare le ali delle sperimenta­ zioni cinematografiche più allettanti. C’è del vero in questo rilievo. La timidezza, la scarsa familiarità con la tecnologia del cinema, l’abitudine al la­ voro solitario dello scrittore, la penuria delle risorse fi­ nanziarie confluite nell’unica e tarda prova registica di La veritàaa hanno frenato l’aspirazione alla completezza espressiva che mai si è smorzata. Genuino autore cine­ matografico, nondimeno costretto a delegare a terzi la realizzazione dei suoi copioni e progetti, innegabilmente Zavattini non si è disimpigliato da questo bisticcio. Inclemente come è stato nei suoi confronti, non ha invocato scuse né per i complessi che lo hanno tenuto lontano dalla macchina da presa, né per le sceneggiatu­

re, professionalmente impeccabili, dettategli da necessità alimentari. Rasentando il masochismo, ha insinuato dub­ bi persino sui film nei quali il suo metodo si rispecchiava pienamente. Non v’è stata falsa modestia perché Zavatti­ ni, se della esperienza neorealista ha sentito le lievitazio­ ni e i limiti insormontati, ha scollato dalla sua persona­ lità di artista il metodo propugnato. E questo la critica non sempre l’ha capito, appaiando la metodologia alla poetica zavattiniana e affratellando questa a quella. Non che fra metodo e poetica non vi siano consonan­ ze, non che la prolungata autointerdizione alla regia non ci abbia privato di una verifica esauriente; tuttavia, sal­ dando la proposta zavattiniana al mondo poetico dello scrittore, non se ne è compresa la significazione estensi­ va. Non si è compreso che Zavattini ha focalizzato una ipotesi di cinema altro, rivoluzionaria in quanto decon­ dizionato dalle strettoie economiche e linguistiche in cui la scrittura cinematografica è finita immediatamente. Una ipotesi rivoluzionaria in quanto fautrice di un effet­ tivo e completo uso sociale del mezzo espressivo, a pro­ posito del quale molti hanno creduto che fosse automa­ ticamente espletato dalla ramificazione della circuitazio­ ne cinematografica oppure che bastasse rimaneggiare i contenuti ideologici, per stimarsi paghi. Zavattini, all’inverso, punta alla eruzione di una co­ scienza cinematografica di massa, alla trasformazione del pubblico da oggetto a soggetto comunicativo. In definitiva, profetizza l’estinzione dell’autore cine­ matografico, quale beneficiario di un privilegio, la fine del suo ruolo separato ed elegge il cinema a un tramite mediante cui dare alle moltitudini la parola, affinché il consorzio sociale, scosso dalle lotte fra le classi, si anato­ mizzi, si vivisezioni, si ausculti in un intenso colloquio la cui democraticità consiste nel dilagare dal basso e nel ri­ frangere - per parafrasare i surrealisti - le coliche della società. Negli anni Trenta, è questo un traguardo dai contorni

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un po’ sfumati in Zavattini, il quale predice la distribu­ zione della pellicola cinematografica, a prezzi modici, nelle rivendite di tabacchi e nelle cartolerie. Ma la meta si precisa nella stagione del neorealismo, quando la figu­ ra dell’autore cinematografico, purgata dei vezzi e dei vi­ zi propri al professionismo, ancora è al centro delle bat­ taglie zavattiniane. Nel decennio Sessanta, tuttavia, il ca­ stello teorico di Zavattini spicca in tutta la sua organicità e nella sua dirompente carica utopica, in una riflessione che porta alle ultime conseguenze la costante della de­ nunzia contro la cultura per i suoi ritardi e sfasamenti di fronte alle emergenze sociali. La polemica si radicalizza ulteriormente, si rinserra nel rifiuto di ogni retaggio culturale, nella sconfessione dei possedimenti estetici ereditati dalla borghesia, nella rivendicazione di una istanza conoscitiva che venga dalle classi espropriate, direttamente dalle lotte operaie, sin­ dacali, giovanili, dall’allargamento della base popolare della democrazia e dall’abbattimento delle bardature au­ toritarie più ingombranti. Il cinema riacquista un senso liberando la creatività collettiva, chiamando le masse in prima persona ad analizzare situazioni, paesi e città e in­ tere fasce del corpo sociale a interrogarsi, a riscoprirsi e a raccontarsi, a identificarsi e a individualizzarsi. Pren­ dere atto che il rapporto individuo e realtà è fallito, è sempre stata una costante dell’opera letteraria e cinema­ tografica di Zavattini ma questa coscienza compie balzi in avanti negli anni Cinquanta e Sessanta quanto più le nozioni di autore individuale e di prodotto estetico sva­ niscono completamente negli scritti zavattiniani. Il cinema diventa per Zavattini il medium comunica­ tivo e inquisitivo di una collettività operante, rinuncia agli elementi costitutivi della rappresentazione artistica per attingere direttamente alla ginnastica della vita, as­ surge ad avvenimento politico in sé e per sé. E ovvio che il Sessantotto e il Sessantanove siano date cruciali per Zavattini, finalmente suffragato dalla storia. XXXV

Negli accadimenti che incalzano sulla scena sociale, Za­ vattini agevolmente si specchia, perché ne è stato l’an­ tenna premonitrice, e si riconosce nelle componenti pri­ marie dell’epifania della immaginazione e di un classi­ smo intransigente. La via additatala è anti-istituzionale per antonomasia ed è logico che sia così, tanto più che l’industria cinematografica, dopo l’avvento della tv, ac­ centuerà i connotati di produttrice di favole, per diffe­ renziarsi dalla rivale. La comunicazione televisiva, deputata in Italia fino al ’76 ad assolvere le funzioni di un servizio culturale pub­ blico, avrebbe potuto accostarsi al progetto di Zavattini anche per la sua specificità, per essere essa un contenito­ re esente dalle delimitazioni che caratterizzano lo spetta­ colo cinematografico e lo ingabbiano, ma perché ciò succedesse ne sono mancati e tuttora ne mancano i pre­ supposti. Echi delle perorazioni e suggestioni zavattiniane certamente sono scrutabilli in alcune trasmissioni te­ levisive degli anni Ottanta e Novanta: nelle discese di Michele Santoro e delle sue troupes nelle piazze d’Italia, nelle eccentriche scorribande del folletto Piero Chiambretti, nei commentari umoristici della cronaca quotidia­ na, negli irriguardosi e pepati collages di Blob e via ci­ tando. Ma anche quando qualche spunto zavattiniano è stato infine assorbito, ci si è precipitati a devitalizzarlo e, nei casi migliori, a delimitarne l’area estensiva. Sono mancate le premesse affinché le proposizioni e le spe­ ranze di Zavattini diventassero pienamente operanti. Malgrado più di una riforma legiferata e l’arrivo delle stazioni private, la tv è rimasta uno strumento centraliz­ zato e verticistico, retto da apparati ligi al potere politico ed economico, timoroso e timido nell’aprirsi alle espres­ sioni capillari della società, mentre Zavattini, si discorra di cinema o di tv o di radio o di carta stampata o di can­ zoni o di umorismo, vuole una democrazia culturale fon­ data sul risarcimento della società civile. In questo desiderio, Zavattini sopravanza le esperien­ XXXVI

ze più affini alle sue teorizzazioni; oltrepassa Dziga Ver­ tov che, alla fin fine, equiparava i “Kinoki” a corrispon­ denti e a fornitori di materiali, che egli avrebbe manipo­ lato in moviola, a propria discrezione, per comporre poemi cinematografici paragonabili a sinfonie e a liriche informate a soggetti politici. Ma oltrepassa anche Medvedkin, che realizzava film di 10-15 minuti sul tamburo, sceneggiandoli insieme con i contadini e gli operai sovie­ tici, visitando e ispezionando fabbriche e fattorie colco­ siane, ammassando critiche dalla voce dei lavoratori, mescolando qualche attore professionista a gente del luogo, mettendosi - in definitiva - a disposizione di una comunità, ma generalmente non abdicando alle funzioni di mediatore. Solo a prezzo di una interpretazione miope e di uno storicismo pedestre è stato possibile stabilire una serrata e semplicistica equivalenza fra il discorso li Zavattini e i film denominati del “ neorealismo”, ossia fra una ipote­ si illimitata, passibile di sviluppi pluridirezionali, e stili e maniere riconciliati nella convenzione narrativa e rispet­ to ai quali la proposta zavattiniana personifica uno stac­ co netto e uno scavalcamento. Né si è abbastanza pon­ derato, intruppando Zavattini nella famiglia neorealista, così come questa è andata componendosi e caratteriz­ zandosi nel lasso di alcuni anni, quanto nei suoi indizi di un cinema “out” e nel suo attaccamento alla realtà e all’immediatezza dell’evento filmato e pungolato, vi fos­ se di trasponibile e di indiretto e di mediabile per chi sapesse profittarne. Non si è inteso a sufficienza che Za­ vattini bruciava le polveri del linguaggio cinematografi­ co per farle esplodere e che ad accendere il fuoco non era la passionalità rigoristica del moralista, ma un po­ tente dispositivo di immaginazione sociale combinato a desiderio di conoscere e a fantasia. Il paese reale sareb­ be stato l’immenso palcoscenico di una sperimentazione socio-creativa inusitata, non più rivolta a un pubblico ma alla collettività, attrice di un esperimento che fon­

dasse, assieme a forme cinematografiche inedite, una nuova coscienza poiché questo è il succo della proget­ tualità interdisciplinare zavattiniana, unitaria nelle sue diversificazioni. Certamente, l’idea di cinema che Zavattini ha covato e limato, è estrema. Ma non è a dire che lo sia meno di altre. Estremi e draconiani sono stati tutti i grandi autori e teorici cinematografici: da Ejzenstein a Vertov, da Pu­ dovkin a Grierson, dai vessilliferi dell’avanguardia a Go­ dard, da Kulesov alla Dulac, da Rotha ad Amheim. Estremi sono stati e lo sono i forgiatori di teorie più accettabili dall’industria cinematografica ed estremo è Zavattini quando boccia in blocco la cultura contempo­ ranea e i retaggi culturali e li taccia di varie malefatte: di­ vagazione, solipsismo ecc. Non più disposto a calcolare percentualmente lo scarto che v’è fra la pomposità dei disegni etico-culturali e l’esiguità delle realizzazioni sociali e a rallegrarsi per la diminuzione di qualche distanza; stanco di una cultura che non “interviene nelle cose gravi” quanto più è certa di intervenirvi; roso dai rimorsi di appartenere a una ca­ sta mandarinesca, Zavattini cola a picco i suoi vascelli, taglia gli ormeggi e propugna non un’arte nuova, ma azioni subitanee che influenzino gli eventi, rivoluzionino e non correggano la vita e scongelino le energie creative e critiche dei molti contro gli appannaggi dei pochi. Il punto di arrivo non è “la moltiplicazione degli artisti”, né una “cultura confezionata dai molti per i pochi” (“Allo stato presente dei lavori, i molti sono imbevuti della cultura dei pochi”, conviene Zavattini), ma l’attua­ zione di una convivenza attivamente partecipata da tutti nel cambiamento. È inevitabile che la mannaia di Zavattini scenda sulla fragilità e sulla pendolarità degli intellettuali, vieppiù ammagati dalle discettazioni fumose e dalle sirene dei massimi sistemi e immersi nei compromessi di ogni mi­ nuto, dediti alla tutela dei propri particolarismi corpora-

rivi. E merita di essere osservato che le diffidenze e le condanne di Zavattini, sul finire del decennio Settanta e agli inizi degli anni Ottanta, erano giustificate da una malattia che più innanzi sarebbe peggiorata sino a rag­ giungere proporzioni epidemiche e a contagiare anche le zone meno esposte alla tentazione del conformismo. È facile dissentire dall’estremismo concettuale zavat­ tiniano e coonestarlo allo sdegno di un’anima che si ul­ cera al cospetto di un mondo piagato da storture. Par­ rebbe che nell’indignazione vi sia un alito di religiosità oltraggiata, se non ci si avvedesse invece che per avvol­ gersi in una sensibilità intimamente religiosa le fa difetto lo scetticismo sulla natura umana, che ammanta chiun­ que sia rivolto alla trascendenza. Nei suoi eccessi, sem­ mai, Zavattini sovrabbonda per un ottimismo umanisti­ co e per una ventata di trasporto utopico che lo legano ai climi delle più calde speranze rivoluzionarie e alla veg­ genza dei poeti dell’architettura sociale. Ma per noi non importa che le angolazioni zavattiniane, nella loro assolutezza, combacino con le nostre. Im­ portante e grave e significativo è che al cinema e alla co­ municazione audiovisiva si conculchi una possibilità al­ tra, al di fuori di quella istituzionalizzata nel sistema mercantile e nella organizzazione delle informazioni. Una possibilità altra rispetto alle centrali di produzione culturale e artistica, ma anche rispetto ai modi espressivi di più largo smercio. Non è accidentale che Zavattini, sceneggiatore prolifico, dietro di sé abbia una coda di progetti abortiti e che i suoi più suggestivi programmi solo sporadicamente siano decollati. Che nell’industria cinematografica la dialettica fra tendenze molteplici non sia immensa, è risaputo. Ma in­ tanto, monca e claudicante, una dialettica v’è, a garanzia di ricambi e di aggiustamenti, di trapianti provvidenziali e di terapie di rimpasto e di rinforzo all’interno dell’in­ granaggio produttivo industriale. Scema, però, l’eventualità di una estensione dello sci­

bile cinematografico oltre i domini industriali, nella ter­ ra promessa che Zavattini non si è stancato di perscruta­ re, intuendovi non tesori riposti da disseppellire ma la materia prima di una rivoluzione culturale, che avrebbe spezzato il silenzio e la passività indotta delle moltitudini estraniate da una pratica cinematografica attiva. Questa è la verità inoppugnabile, quali che siano le dotte e cavillose oppure rozze e brutali argomentazioni sciabolate per legittimare il mantenimento dello status quo. La si sposi o no, la problematica zavattiniana non è schivabile perché, vanificando ogni settorialismo, ripro­ pone la richiesta di una reale democrazia, non ha in sé soltanto una idea di cinema. Mino Argentieri

1 Eugenio Curiel, Scritti 1935-1945, vol. I, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 86.

2 Mario Alicata, Scritti letterari, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 140. 5 CESARE Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Tori­ no, 1951, pp. 237-238. 4 BORIS Arvatov, “Tesi sull’arte borghese e sull’arte produttivistica proletaria”, da Arte, produzione e rivoluzione proletaria, Guaraldi, Milano, 1974. 5 Herbert Marcuse, Saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino, 1969. 6 Alberto Abruzzese, John Grierson. “Realtà e propaganda”, in L’immagine filmica, Bulzoni, Roma, 1974. 7 Cesare Zavattini, Opere, Bompiani, Milano, 1974.

Per interposta persona una idea di cinema

King Vidor. Il film che mi piacerebbe fare? Già, anche voi sapete che noi poveri direttori siamo ca­ stigati con il supplizio di Tantalo. Abbiamo a por­ tata di mano tutti i sogni e non possiamo realizzar­ li per colpa del pubblico e, in prima sede, per col­ pa dei producers. Non possiamo fare ciò che voglia­ mo, ma ciò che ci lasciano fare. Il mio ideale sareb­ be un film che descrivesse la giornata di un uomo, dalla sveglia al momento in cui va a dormire: parlo di un uomo qualunque. La lunghezza del film do­ vrebbe corrispondere alla lunghezza della giornata del mio eroe. E tutto riprodotto con la più grande fedeltà.

Il brano proposto è ripreso da Cronache di Hollywood, a cura di Gio­ vanni Negri (prefazione Attilio Bertolucci), Lucarini, 1991. Prima collaboratore e poi, nel *34, direttore del settimanale Cinema il­ lustrazione (editore Angelo Rizzoli), nascondendosi dietro molteplici pseudonimi, Zavattini ha fìnto di essere un corrispondente dalla Mec­ ca del cinema e simulato di avere confidenza con i registi più impor­ tanti e i divi più venerati. Le interviste e le cronache zavattiniane com­ pongono una Hollywood immaginata e filtrata attraverso una fantasia che ingegnosamente si districa tra verosimiglianza, stereotipi, dilata­ zione iperbolica. In un articolo del 31 maggio 1933, La beneficiata dei direttori, Zavattini mima un colloquio con Rouben Mamoulian e con King Vidor. Al regista di La folla mette sulle labbra desideri e propo­ sizioni inconfondibilmente zavattiniani, che prefigurano una conce­ zione del cinema su cui più avanti lo scrittore tornerà.

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Il cinegiornale umoristico

... Per tornare agli umoristi (e insisto su costoro perché io credo che noi italiani ci distingueremo più facilmente, almeno in questi anni di formazione dei quadri, con un Sten-trovata, anziché con un film-organizzazione, ecco perché bisogna alimentare gli esperimenti, coltivare gli individui), per tornare agli umoristi, dunque ho tale fiducia nella loro com­ prensione del problema cinematografico comico così classicamente impostato da Chaplin, che da tempo accarezzo un’idea e quest’idea entro l’anno diventerà, forse, una realtà: intanto sono felice di poterla esprimere qui, in una sede di giovani, di gio­ vani che faranno meglio di noi, certamente meglio di Amleto Palermi. Ecco il programma: creare una sigla, Gli umoristi associati, per la produzione di cortometraggi. Ma non il cortometraggio solito, cioè la comica finale di una volta, bensì un vero e proprio giornale di attua­ lità umoristico, della durata complessiva di sette o otto minuti: banco di prova, nel senso più conclusi­ vo della parola, per soggettisti, sceneggiatori e so­ prattutto registi. È meglio che vi dia una esemplifi­ cazione di quelli che dovrebbero essere questi «ape­ ritivi cinematografici» che per la loro composizione consentirebbero di utilizzare, con le loro specifiche qualità umoristiche, talenti ben diversi l’uno dall’al­ tro, da Patti a Solari, da Campanile a Mosca. Immaginate di essere davanti allo schermo: 7

GLI «UMORISTI ASSOCIATI» presentano Giornale di Attualità n. 1 Scozia: Una partita difootball tra la Scozia e l’Irlanda. Servizio di Ercole Patti.

L’arbitro tra i giocatori. Lancia in alto la moneta (testa o croce) per la scelta del campo. Non si trova più la moneta. L’arbitro si china a cercare invano. Si associano i giocatori. Dov’è la moneta? In C.L.: prima uno, poi due, poi dieci, venti spet­ tatori si associano alla ricerca. A un tratto si vede un giocatore in fuga. «L’ha presa lui» grida l’arbitro. Al­ lora l’arbitro, i giocatori, il pubblico inseguono il la­ dro della moneta e si vedono tutti di gran corsa usci­ re dallo stadio per il grande cancello. Chicago: Notte di Natale. Servizio di Vincenzo Rovi.

Città coperta di neve. La luna è alta nel cielo. È la notte di Natale. Il vecchio Natale col sacco sulle spalle entra in una cappa di camino. Interno di una camera. Il vecchio Natale, sceso dalla cappa, si avvicina a un lettino dove dorme un fanciullo. Il vecchio Natale gli mette sul letto alcuni giocattoli. Ma il bambino si rizza di scatto: non è un bambino, è un uomo con la cuffietta, truccato da bambino, e con la rivoltella in mano. Dall’ombra spuntano altri due o tre gangsters, che erano in ag­ guato. Il vecchio Natale con le mani alzate si allonta­ na retrocedendo, infila la cappa del camino e via. I gangsters aprono il sacco dal quale escono gio8

cartoli di ogni sorta: i gangsters con trombette, ca­ valli a dondolo, eccetera si danno alla più pazza gioia. Bordeaux: I grandi ricevimenti della contessa Dumas, rinnovatrice delle abitudini mondane. Servizio di Achille Campanile.

Signori, dame che salgono una scalinata. Il came­ riere ritira i biglietti d’invito: «La S.V. è invitata al “Pizzicotto delle cinque”». Siamo nel salotto della contessa Dumas. Il conte X sorride e dà un pizzicotto alla sua vici­ na. Il marchese Y idem. Il Duca Z idem. E un con­ versare vivace e vario, punteggiato da pizzicotti dati alle dame che li restituiscono ridendo. Un cameriere porge i rinfreschi al vecchio duca O.: «No no, preferisco il solito pediluvio», risponde il vecchio duca O. «Anch’io», fa eco un altro. E la macchina, ritraen­ dosi dai due, scopre panoramicamente che molti in­ vitati stanno facendo il pediluvio con i calzoni rim­ boccati, discutendo nel frattempo con serietà, cen­ tellinando liquori. Siamo davanti al palazzo Dumas. Sui gradini sono allineati gli ospiti. Aspettano le vetture, evidente­ mente. Piove, fl maggiordomo chiama: «Casa Roche­ fort». La marchesa Rochefort si prepara. Arriva barcol­ lando un alto domestico in livrea. La signora gli monta in groppa con l’ombrello aperto e il domesti­ co trottando esce dal campo. L’obiettivo si chiude su un secondo cameriere gallonato, apparso al richiamo 9

del maggiordomo, sul quale si accinge a salire un im­ ponente invitato.

Oslo: L’ora della visita nella clinica Papp. Servizio di Anton Germano Rossi.

Una corsia: l’infermiera entra nella corsia e tira una cordicella, come dovesse alzare le tendine. Inve­ ce, contemporaneamente, sono tirate le cuffie dei malati. L’infermiera grida: «Arriva il dottor Pappi». S’inizia una marcetta allegra. Entra il dottor Papp seguito dai sostituti a suon di musica. Tutta l’azione è ritmata dalla marcetta. Un malato. Il dottor Papp si accinge a sfasciarlo: la garza si svolge come l’interminabile nastro dei prestigiatori. «Et voilà», dice Papp. Da un buco del­ la pancia escono un coniglio, una gallina, due co­ lombi spiccano il volo. Gli altri ammalati applaudono freneticamente e il dottor Papp e gli assistenti scompaiono nel fondo danzando al ritmo della marcetta e lanciando le fa­ scette di garza come stelle filanti e la bambagia come coriandoli.

Ora la mia esemplificazione non vi piacerà, è cer­ to insufficiente. Ma immaginatela creata col concor­ so di nove, dieci, venti umoristi e ditemi se non spunterebbero rubriche cinematografiche degne di fama. Non solo inventare città immaginarie in cui av­ verrebbero fatti ben più strani e ridenti che nel sa­ lotto della contessa Dumas, o personaggi ben più sa­ tirici del clinico Papp. Pensate a un’avventura, sem­ pre breve, folgorante, vera e propria vignetta anima­ lo

ta dello schermo, a un’avventura sintetica di Gigi Comabò, o del colonnello Muffai, o del cav. Ambro­ gio Vitali. E su tutte la voce dello speaker che an­ nuncia calma e un po’ solenne come negli ultimi film Luce: «porco qui, porco là, un corteo di ostetriche in Francia». Non solo: sarebbe possibile introdurre una nota poetica, una nota fantastica, tutta la gamma dell’umorismo. Come un vero documentario che va dal terremoto nelle isole del Pacifico a un canto di fanciulli nel Galles la sera di Natale. E gli attori? Ve ne sono cento. Andate nei cinema rionali dove c’è l’avanspettacolo, dove si producono compagnie di varietà che si chiamano BA, Rataplan, Piero Pieri o Pilli, Vanni, Scarpetta, o che so io, e di­ temi se il film comico in Italia ha bisogno di questi adorabili guitti o di Besozzi e di Coop. Il teatro ita­ liano, dopo Petrolini, è soltanto nei varietà. E il cine­ ma attingerà lì i suoi volti emaciati, o le facce enormi, o gli occhi roteanti. Avete ragione: è facile affermare, dare giudizi pe­ rentori, sentenze, come sto facendo io, ma nelle con­ ferenze si fa così. Del resto la mia sfiducia sulla attuale capacità di scelta degli attori da parte del regista italiano nasce da cose viste. C’era Buster Keaton in Francia, aveva finito II re dei Campi Elisi, e non si decideva a tor­ narsene in America, dove l’aspettava la più nera tri­ stezza. Si stava sceneggiando in Italia un film che avrebbe dovuto essere comico, c’era molto incertez­ za sull’interprete. Si passava da Macario a Totò, a De Sica. Il produttore sarebbe stato anche disposto a in­ gaggiare Keaton. Ma il regista storse la bocca. Disse: «Ci si lavora male, dovrei fare a suo modo. Poi dico­ no che è pazzo». Forse Keaton era già nel tragico pe­

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riodo deDa sua follia. Ma l’occasione venne scartata con queste semplici parole. E io, voi avreste vissuto con Keaton notte e giorno, avreste curato amorosa­ mente ogni metro di pellicola, avreste affrontato i supplizi e l’alito di whiskey di Keaton pur di fare la prova. Ma il regista con un gesto seppellì la speran­ za. Pensate, cari signori, che quel cineasta guadagna­ va mille lire ogni dodici ore...

Conferenza intitolata Chariot, svolta il 24 aprile 1937 a Imola per ini­ ziativa di giovani appassionati di cinema facenti parte di organizzazio­ ni di massa del regime fascista. Brani riprodotti da Zavattini cinema e vita di Giacomo Gambetti, Bora, 1996. La proposta di dar vita agli “Umoristi Associati” non avrà un avveni­ re. Cadrà nel vuoto il suggerimento zavattiano di creare un Giornale Luce a rovescio, cioè antiretorico e anticelebrativo. Angelo Rizzoli, cui Zavattini si era rivolto, non avrà il coraggio di finanziare l’impresa. In compenso, Zavattini nel 1940 costituisce, insieme con illustri gior­ nalisti e letterati - Stefano Landi, Gherardo Gherardi, Leo Longane­ si, Mario Pannunzio, Corrado Alvaro, Corrado Pavolini, Ivo Perilli, Piero Teliini e Primo Zeglio - gli “Autori Associati", un raggruppa­ mento di sceneggiatori intenzionati a trattare collegialmente con il mondo della produzione e propensi a battersi per il miglioramento del livello qualitativo del cinema italiano.

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Evviva il varietà e l’avanspettacolo

A Giulio Benedetti Leggo sul tuo giornale un attacco, determinato da una lettera di uno del pubblico, contro il varietà, se­ zione avanspettacoli, colpevole di adoperare un lin­ guaggio spesso scurrile. E tanto vero che anch’io stavo scrivendo oggi sul­ lo stesso argomento. Pochi amano il varietà come lo amo io. L’altra se­ ra, caro Benedetti, ho attraversato tutta Milano con la filovia CE per andarmi a sentire una mia non più recentissima passione, Lidia Johnson, in piazzale Lo­ di, tra la nebbia e i ghiaccinoli: un avanspettacolo corretto e perfino elegante. Ma cinque sere prima al cinema Plinius avevo ascoltato la compagnia Cecchelin: Cecchelin è un amabile attore dialettale, un triestino, nella scelta del repertorio un po’ troppo spinto, diciamo così. Fa una commedia in un atto imperniata su un padre con tre figli dove la immora­ lità, tocca il vertice. Cecchelin canta poi una canzone parodia della famosa «Evviva la torre di Pisa» con una strofa finale di una sconcezza non comune. Il pubblico ride, ma Cecchelin può far ridere e diverti­ re pur eliminando i suddetti mezzucci. Più grave: spettacolo Sidet al Manzoni. Bene sino in ultimo, numeri italiani francesi e americani di pri­ ma classe, niente di fantastico, ma tutto buono. La maggior parte degli applausi se li prese il quartetto Funaro. E giustamente: malgrado le riminiscenze

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spadariane, i quattro sono dementi che sarei lieto di vedere nel cinematografo! Ma in cauda venenum-, il toscano che fa anche l’imbonitore se ne esce tre mi­ nuti prima della fine con un doppio senso così trito e volgare che io non mi sono alzato gridando «creti­ no» sia per la mia ben nota timidezza sia perché non mi riconosco il diritto di offendere artisti di così evi­ dente merito. Ancor più grave: nella stessa settimana alla rivista Madama Poesia di Navarrini. Nella scena dei ricove­ ri antiaerei, dove satireggia Mistinguette, c’è un equivoco alle spalle di un vecchio principe russo stu­ pidamente e spaventosamente grossolano osceno e antico. Io non esiterei a dubitare dell’intelligenza di Navarrini se dopo aver letto queste righe non cor­ resse subito ai ripari. Dobbiamo combattere il varietà e l’avanspettaco­ lo suo figliolo? Evviva l’avanspettacolo, da questo vanno verso il varietà rivoli d’oro, e dal varietà vanno verso il teatro e verso il cinema gli uomini più redditizi. L’avan­ spettacolo è il regno delle iniziative individuali, del­ l’estro, dell’invenzione, è il teatro dell’arte e spesso delle privazioni immeritate, spessissimo del misco­ noscimento: un’altra volta scrissi, mi pare qui sopra, che i direttori dei quotidiani dovrebbero dedicare qualche riga di critica agli avanspettacoli. Non solo sarebbe giusto, ma sarebbe soprattutto un incentivo a migliorare e, finalmente, una ricompensa a tante ambizioni valorose. Vi sono dei «numeri» che meri­ tano un articolo, non cinque righe, le solite cinque righe. Se li lasciate soli e lontani, i poveri avanspettacoli s’inselvaticheranno sempre di più, il metro per misu­ 14

rare se stessi sarà soltanto quello della lunga risata del pubblico che così spesso è al di sotto della sua coscienza. Prendiamo l’esempio dei 3 Bonos: un numero simpatico, acrobazie e umorismo. Si può parlare di loro per tre quarti di colonna, per una colonna: e al­ lora si direbbe, dopo gli elogi abcdef, che in quale momento rasentano la trivialità senza aggiungere un grammo di più al loro incontestabile successo. Ma nessuno si sarà preso la briga di giudicare i 3 Bonos se non con la citazione: «molto applauditi i 3 Bonos». La lettera, indirizzata a Giulio Benedetti, direttore del Secolo e delVAmbrosiano, appartiene a una serie prevista per II Settebello diretto da Achille Campanile e Zavattini dal 1938 al 1939.

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Elogio della pazzia

S.E. Alfieri ha identificato con rigore tecnico e morale una delle necessità fondamentali per la buo­ na nascita dei film. Tutti si sono messi a battere le mani, anche quelli che hanno la coscienza poco puli­ ta. S.E. Alfieri ha detto, mettendo alla portata di chiunque un grosso problema estetico, che bisogna andare verso la unità creativa, eliminare le distanze fra soggettista e sceneggiatore. Sarà più breve e tal­ volta, lo voglia il cielo, nulla, la distanza tra soggetti­ sta sceneggiatore e regista. I grandi film sono nati da un uomo soltanto (non bisogna confondere nel cine­ ma americano la sua notevole organizzazione indu­ striale con Griffith o King Vidor). Dicevo che si sono messi a battere le mani anche i produttori e tutti gli ori del mondo della celluloide. Quei saggi individui che hanno sempre scelto i sog­ getti fra i romanzi più consumati delle biblioteche circolanti. Sono proprio saggi? I loro bilanci si chiu­ dono regolarmente con alcuni milioni di passivo. Guadagnassero almeno, rinnovassero il successo di quella Segretaria privata che senza sforzi aveva incas­ sato 12 milioni. Gli imponenti risultati finanziari hanno spesso dietro di loro il fantasma della potenza che non è sempre disgiunta dalla poesia. Ma pèrdono, ripeto, raccolgono solo timidi elogi dai critici più timidi e determinano lo scontento ge­ nerale. Viva i pazzi allora che propongono di girare tre­ mila metri sopra un cameriere che si prova un cap­ 17

pello a cilindro, sopra uno scrittore visto di spalle, mentre comincia una novella. Il cinema italiano che ha documentato di avere al­ cuni uomini giovani e non giovanissimi attrezzati per solide imprese, da Luciano Serra a Batticuore, ha bi­ sogno in questa stagione di un film decisamente sba­ gliato, finanziariamente compromesso in partenza, ma pieno di coraggio. Dateci un film sbagliato. E non so se sarebbe pacifico il suo disavanzo nel libro degli incassi. Per la nuova generazione che sta intorno al cine­ ma con tanta ansia, preparata dai G.U.E, come di­ mostra tra l’altro l’iniziativa e lo spirito degli spetta­ coli retrospettivi, un film sbagliato sarà una bandie­ ra. Questo film verrà dagli intellettuali: perché il ci­ nema è arte e l’arte non la fanno i commendatori e i milionari.

Da Tempo n. 8,20 luglio 1939. Zavattini cura una rubrica di critica ci­ nematografica sul settimanale mondadoriano dal n. 1 al n. 40.

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Il pirata ballerino

Non mi occuperei di questo lavoro se fosse in ne­ ro. Si tratta di un’operetta piuttosto pesante salvata da Frank Morgan che gloriosamente divide con Eve­ rett Horton il ruolo del cretino distinto nel cinema mondiale. I due amorosi, Steffi Duna e Charles Col­ lins, cantano e ballano piacevolmente, trascinati da un valzer indimenticabile, però siamo abituati a ben altro dal caro Astaire e da Vera Zorina. Il film è a colori. Niente di nuovo, niente che su­ peri il ricordo dei fiammeggianti mantelli in Beky Sharp o le casacche dei fantini in Amore tzigano. Mi è sembrato tuttavia di scoprire la bellezza e l’impor­ tanza del colore nel cinema per la prima volta. I miei occhi si smarrirono felici tra i rosa i viola e gli azzur­ ri. Dove le tinte erano meno appariscenti esisteva una diversa delicata virtù, dalla penombra timida­ mente albeggiavano dei rosa e dei verdi mai visti. In­ credibile, sullo schermo si stabilisce talvolta un equi­ librio cromatico che sembra andare oltre la intenzio­ ne dei tecnici, si stabiliscono cioè rapporti connessi soltanto al cinema, una nuova armonia come capita nelle tricromie rispetto all’originale. Specialmente negli interni dove sparisce spesso il criterio veristico, per fortuna. Fra gli esterni, un portico, che fa quinta assai spesso alla scena, visto in primo piano o lonta­ nissimo, dove le tinte s’impastano con un gusto im­ pressionistico volato via dai quadri degli ultimi cin­ quantanni di pittura. Caso raro, notiamo un altro paio di esterni più che fantastici, un mare fìnto di 19

cellofane, su cui avanza la bianca nave corsara, che fa pensare ai cieli tutti rosa sognati da Corot. Quali me­ raviglie. Ieri un amico mi diceva: «Vorrei fare un film com­ pletamente sul giallo, con un po’ di grigio». Sembra uno scherzo ma io credo che andremo molto più in là. E finalmente avvicineremo il pubblico ai colori. Il pubblico è fermo agli antichi, e si tratta solo di ri­ spetto. Ignora i colori, quindi la pittura. Il cinema ri­ voluzionerà il suo orribile gusto. Penso con dolore a milioni di uomini, a intere generazioni che sono pas­ sate e passano sotto la luce del sole ignorando quel celeste, quel rosso cupo, quel blu, quel tono che il lo­ ro secolo ha scoperto nella natura.

Tempo n. 22,28 ottobre 1939.

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Montevergine. La grande luce

La nostra cinematografia realizzerà nel 1940 circa 120 film, una cifra bellissima. La quantità favorisce il formarsi dei quadri, la maturazione tecnica, e se 120 film sono possibili è ovvio che molte ruote comincia­ no a girare velocemente, che entriamo in una produ­ zione la cui media dà al capitale pacifiche garanzie. Noi abbiamo bisogno, vicino ai tentativi che appar­ tengono solo alla fantasia, come augurai in questa stessa colonna, di altri risultati normali dovuti all’or­ ganizzazione, alla serietà industriale, degni di chi an­ che nel settore cinema è uscito dall’avventura per entrare, con alti e bassi qui sopra registrati settima­ nalmente senza peli sulla lingua, in un’orbita di gu­ sto e di materia internazionale. Montevergine quasi tutto dimostra che si può uscire dal folclore pur facendo italiano, e che la com­ mozione, quando si esprime con vera genuina po­ tenza, consuma dentro di sé gli elementi coloristici, deboli, troppo locali, e diventa fiamma visibile dalle più lontane parti. Montevergine, ottimo esempio di quella produzione abilmente bilanciata tra l’affare e la poesia, di cui sopra parlavo, possiede la incalcola­ bile virtù, per me, di aprire gli occhi contro una re­ torica che si annida tra le recenti critiche: la retorica del paesaggio e dell’aneddoto regionale. Voglio dire che il paesaggio e il costume devono essere in fusio­ ne di sentimenti echeggiami nello spirito nostro e fo­ restiero. Solo così potremo combattere sul mercato e costruire se non ci lasciamo invaghire dalla sirena

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del pittoresco, e dal dettaglio locale fine a se stesso. Esaltare la forza della provincia, le tradizioni; è un meraviglioso compito: bisogna tenere presente che il cinema, come qualunque altra forma d’arte, non ha esaurito la sua ragione italiana facendoci sapere che in Emilia certi contadini vanno a tavola con il cap­ pello in testa, e che gli abiti sono quelli e quelle le ca­ se. Anche il cinema deve rintracciare l’originario e l’universale: e allora si vedrà che come ambientazio­ ne di un alato dramma nazionale possono bastare tre alberi, e magari finti, e un corso d’acqua. Montevergine supera l’ostacolo e il suo formidabile finale che mi ha fatto versare qualche lacrima non fur­ tiva toccherà il cuore di spettatori del nord e del sud, abituati alla maestria di registi famosi. Carlo Campogalliani (deve essere fratello di quel grande buratti­ naio Campogalliani che tutti adoravano nella bassa padana) vive nel cinema da più di vent’anni e ha impa­ rato un segreto: non si deve annoiare neanche con la poesia. E infatti la sua mano è svelta, anche se non sempre nuova, e dà al racconto ansia e varietà. Non può ripetere quel mio amico olandese che noi italiani abbiamo il difetto sullo schermo di voler spiegare ogni cosa, per ingiustificata scarsa fiducia nel pubblico. Caro lettore tu sai che ho un debole per i nostri at­ tori: qui troverai un Grasso simpaticissimo, Lauro Gazzolo già in auge, il giovane Chiantoni, Duse, Le­ da Gloria ed Elsa de Giorgi, Nazzari, solido protago­ nista, trasforma l’odio in amore tra suoni d’organi e incensi e volti cari ritrovati con una innata bontà che la musica di E Casavola rende ancor più angelica.

Tempo n. 27,30 novembre 1939

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Totò

Totò capocomico merita l’esilio. La sua compa­ gnia è molto zelante, ma vi abbiamo visto crescere le girls, diventare madri, nonne; tra le quinte sono stesi ad asciugare i panni come in un vicolo. I suoi spal­ leggiatori, specie quello altissimo, operano con la precisione e costanza degli schiavi, ma sono le prime vittime della mediocre regìa di Totò. Anche Clelj Fiamma, quando era con lui, ingrassava sotto gli oc­ chi, non aveva più la focosa leggiadria che nel 1929 faceva fremere interi battaglioni di genieri a Firenze: poiché Antonio De Curtis, barone, in arte Totò, è l’esempio degli esempi del cattivo gusto cocciuto e dialettale del varietà. Sicuro di sé in un modo feroce, riassume lo spettacolo nella sua presenza quasi co­ stante sul palcoscenico. Ma quale straordinario artista! La mia ammirazio­ ne ormai decennale si è sempre più rafforzata, resi­ stendo ai copioni umbertini, alle messe in scena troppo domestiche. Una volta la sua mimica pareva soltanto il confine dell’acrobazia, il seguito di quella marionetta che De Marco aveva portato al successo prima della guerra, e durante, alla Sala Umberto: ma come l’aria sulla pelle, i suoi movimenti aderivano al carattere di Totò, il grano di follia c’era e trovava la sublimazione nella famosa «preghiera» o nelle im­ provvise voglie di arrampicarsi su per il sipario di velluto. Il «distacco», dicono i critici, è tutto; e so di contravvenire a certe regole infervorandomi della spontaneità di Totò. Egli è calato dentro i suoi scher­

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zi, non può ragionarne come Petrolini. Meno astuto, meno uomo, meno civile, deve tutto a un fenomena­ le istinto: tra l’animalesco e l’infantile, le sue risate che si concludono in un pauroso verso gutturale, il suo istupidirsi con la lingua fuori e gli occhi alla Ben Turpin, gli danno un vero e proprio piacere fisico. La sua è una espressione di continuo sensuale, il cui svolgersi al principio e alla fine non ha scoppi o de­ cadenze: recitare diventa l’inquadratura di alcune ore. La lievitazione si è compiuta tutta ancestralmente: il bene e il male. Così anche i suoi limiti che sono su­ perabili solo con l’intervento di un terzo il quale mi­ gliori lo sfondo, l’ambiente, e gli consigli di tenere più stretti i tempi delle scenette (mancano di mate­ matica chiusura; sicché l’applauso viene disseminato per la durata della scena e s’intiepidisce nella con­ clusione: difetto di stile correggibilissimo, comun­ que al di fuori della intatta virtù di Totò). Sono impossibili i paragoni, dato che Totò non si è «preparato», ma continua ciecamente la biografia. Supera di parecchio i vari Buster Keaton per la sem­ plice ragione che alla formula sostituisce integral­ mente e incoscientemente la sua storia. Gli stessi ele­ menti del sangue, padre madre e Napoli, Pulcinella e la tetraggine, hanno valore soltanto per inserire che Totò comincia da se stesso, per quello che umana­ mente è possibile: egli non è mai stato giovane, nac­ que sulla trentina, con il destino di una generazione incapace di camminare per terra: le sue avventure erano il suono delle parole (ndóvinanpò!)y l’inco­ stanza del pensiero, una pigrizia dialettica tale da preferire mille gesticolazioni a un minuto logico. Un’ameba con uno stato civile, ma un’ameba. Senza

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satira, senza tempo. In un limbo attraverso il quale intravediamo misteriosi formicolìi dell’animo, e quanto spesso siamo disarmati. Totò è il prodotto di un umorismo secolare che sta alle soglie dello sfocato e del trionfo. Ma il mio con­ vinto strepitoso elogio tutti potranno intenderlo fuorché Totò.

Tempo n. 53,30 maggio 1940. Dal numero 42 al 55 e dal 70 all’85, Zavattini firma una rubrica dedicata alla rivista e al varietà e ai suoi prin­ cipali esponenti.

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I sogni migliori

Spesso chiudo gli occhi per un minuto durante la rappresentazione e cerco d’indovinare quanto suc­ cederà sia rispetto alla tecnica sia rispetto ai fatti, un primo piano o un campo lungo, una donna seduta o un paesaggio: poiché la sceneggiatura ha infinite strade per giungere al suo scopo, come la misericor­ dia divina, quindi ogni sorpresa è possibile anche nelle sequenze elementari. Un film comune triviale e logico, seguito con questi abbassamenti di palpebre, giustifica sempre la nostra presenza e rivela la delica­ ta capacità di ogni metro di pellicola, spiega che l’u­ so del fotogramma non deve essere dissimile da quello della parola. Resta inoltre il dubbio angelico che in quei momenti di cecità si siano svolte azioni brillanti, si concede insomma del credito, come ca­ pita con gli uomini dai lunghi silenzi, essendovi sem­ pre poesia nella parsimonia. Non vorrei che i produttori, impadronitisi del mio pensiero, firmassero una supplica per ottenere la costrizione del pubblico ad assistere bendato alle “prime.” Intendo soltanto dire con il mio esperi­ mento che la fantasia fermenta nei difetti-, se l’ultimo cinema dal trenta al quaranta, è di rado sorprenden­ te, dipende dalla sua crescente perfezione commer­ ciale. Ahimè, arriveremo anche noi alla organizza­ zione americana. Siamo ancora in tempo a guardarcene? Temo di no. Tutto il mondo considera il cinema industrial­ mente, con tanta naturalezza e convinzione che noi 27

artisti entriamo nel gioco e viviamo di compromessi e ascoltiamo i discorsi del finanziere consentendo con lui in qualche punto: soprattutto nel punto che egli è veramente l’arbitro della situazione. “In fondo - si ammette - ha diritto di difendere il suo bilancio.” Non cambieremo noi con due pagine la potenza millenaria dei volgari interessi che collaborano a di­ stinguere il cinema dal libro creando due estetiche e due morali. Ci basta l’illusione che un giorno si dirà: “Sin dall’inizio una ventina di individui avevano capito che la strada non era quella di Hollywood, che lo spettacolo cominciato sui Boulevards dai fra­ telli Lumière fu il principio del male.” Si chiamava­ no Nickelodeon i primi locali, la moneta di nichel, il prezzo, erano l’insegna del meraviglioso avveni­ mento. Urgeva invece impadronirsi del mezzo con un co­ sto così esiguo da metterlo alla portata di molti, de­ gli individui, come la carta, l’inchiostro, la plastilina, i colori: introdurre nelle case pellicole e obiettivi co­ me la macchina da cucire. Non sarebbero nati i produttori, vertice di un si­ stema borghese, cinema applicato, al pari di certa editoria, ormai difesi da una linea di ferro; i luoghi comuni del lavoro distribuito a migliaia di cittadini, la creazione di una grossa e nobile ragione. Ma a lo­ ro, poi, di tutto questo, che ha la sua parte di virtù, non importa un fico secco. Dove ero rimasto? Con il preambolo volevo arri­ vare alla considerazione che i ciechi, al cinemato­ grafo, non sono un caso pietoso: dicevo che la fanta­ sia viene fuori dalla povertà, tanto che il titolo del la­ voro, l’accompagnamento musicale, il respiro degli spettatori, alcune frasi, sono sufficienti per determi­

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nare una trama originale, di volta in volta diversa, la loro trama. Per il “giallo”, ad esempio, l’angoscia nascerà più che dal rumore scoppiato in mezzo ad una pausa, da un grido, nascerà dal passaggio del tempo, senza sfondi di sorta: il cieco, informato del tema, sente il peso dei secondi, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove... gremiti di cattiveria. E ovvio che il cieco ha bisogno come noi di un li­ mite, principio e fine, per essere nello spettacolo e non nella elucubrazione solitaria. Diventano spetta­ colo le cose ferme in una attenzione predisposta. In­ fatti, mio zio, che era saggissimo, non diceva mai: “Guardate il tramonto”. Ci schierava davanti alla fi­ nestra - spesso invitava anche gli amici - suonava un campanello, poi, tirate su le tendine della finestra, esclamava: “Ecco il tramonto”. Quale splendida vi­ sione! Seduti accanto a noi, a contatto dei nostri sussul­ ti, del calore umano, diventano i veri, i soli critici: es­ si sanno ciò che potrebbe accadere. Riacquistata la vi­ sta per miracolo, si troverebbero davanti scene mol­ to al di sotto della loro immaginazione. Io penso che noi cineasti perpetriamo continuamente un tradi­ mento verso di loro: i registi pensino ai ciechi se vo­ gliono progredire. Essi costruiscono la vita con la memoria dell’infanzia: per questo non oserei raccon­ tare ai ciechi il riassunto di un’opera, avvertirebbero subito il metodo, il mestiere, anche nei casi felici. Vuol dire che essi non amano le cose semplici, da­ to che il pubblico spesso piange o ride? Anzi, solo le cose semplici, poiché le vere scoperte hanno radice nella grammatica. Il cinema mondiale poggia per no­ ve decimi sul romanzesco, sull’eccezionale: ma intor­

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no alla natura di questo romanzesco noi non ci com­ prendiamo. I ciechi sono in grado di attendere av­ venture ben più profonde di quelle care ai soggetti­ sti internazionali; essi soli permetterebbero e aiute­ rebbero la rivoluzione vera e propria: il film dell’uo­ mo che dorme, ilfilm dell’uomo che litiga, senza mon­ taggio e oserei aggiungere senza soggetto. Un episodio senza centro e casuale. Poter tornare all’uomo come all’essere, “tutto spettacolo”. Certi metraggi ottenu­ ti piazzando la macchina in una strada, in una came­ ra, vedere con pazienza insaziabile, educarci, che grande conquista, alla contemplazione del nostro si­ mile, nelle sue azioni elementari. Vicino a noi siede il cieco, lo aiutiamo di quando in quando con le dida­ scalie: Ora l’uomo si passa una mano sulla faccia, il di­ to medio si è fermato sull’occhio, muove la bocca a si­ nistra... Il cinema dovrà scoprire le cose originarie e abbandonare il balordo concetto di inverosimile, e di eccezionale che la letteratura sta buttando finalmen­ te alle ortiche. Con un cieco non arrossisci a proporre il seguen­ te soggetto: “Dalle ore diciassette, ordine divino, sia­ mo tutti immortali”. È inutile discutere, i dubbi ecc. ecc. Dopo le prime ore di sbigottimento, poi di gioia folle, orge, danze, pianti, constatazione della verità: immortali. Un signore si è buttato dal muragliene del Pincio, ha fatto tre o quattro rimbalzi come una palla di gomma sul lastrico, e infine si è alzato arzillo e con la giacca solo un pochino impolverata. La vita conti­ nua, però, almeno in principio seguitando a svolgere le trame imbastite prima delle ore diciassette. A po­ co a poco sorgono le nuove coscienze; avremo avuto cura d’impiantare una storia con sei o sette perso­

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naggi e la risolveremo nel clima “dopo le diciasset­ te”. Una amica vi telefona: “Ti aspetto questa sera”. Che cosa risponderete, immortali miei? Non saprei neanch’io. Certo che sarebbe bello entrare in una ca­ sa dove stanno litigando e avvertirli con la voce di un usciere: “Dalle ore tot siete tutti immortali”. Molto interessante sarebbe il periodo del trapasso dal regi­ me mortale a quello immortale: invece è facile pre­ vedere per dopo la statuaria configurazione dell’u­ manità, l’edera crescerà sui nostri corpi e i piedi met­ teranno radici nella terra. I sogni sono dei ciechi e dei veggenti. Un film tut­ to di sogni costituirebbe un documentario impor­ tante anche per i posteri: o difficilmente sapranno che cosa sognavano i cittadini di questo periodo bel­ licoso. La supervisione - non intendo fare dei giochi di parole cretini - l’affiderei a un cieco. Ma niente flou, rallentamenti, niente surrealismo, come direbbero i produttori, i nostri sogni sono niti­ di e feroci, possiamo discuterli stando su un’amaca dopo colazione. I nostri sogni sono la tavola pitago­ rica, moltiplichiamo Antonio per Achille, addizio­ niamo il bicchiere con la calamita, o la nipote di Car­ lo, e otteniamo risultati chiari e impacifici. Restiamo rigorosamente nell’ordine delle cose co­ nosciute: un albero è un albero e non può esistere se non come albero. Ma nei sogni l’albero parla, e dal nostro ventre escono chilometri di intestino con molta naturalezza. Siamo in grado addirittura di creare una città che sia dalle fondamenta frutto di un sogno. Chiudete gli occhi, amici miei, ecco la città con le piazze i campa­ nili gli abitanti. In una vetrina sono esposti alcuni 31

uomini, un passante malinconico entra, prende in af­ fitto per un’ora un giovanotto biondo, se lo porta ai giardini pubblici, gli racconta le sue faccende priva­ te, lo riporta in ditta allo scadere dell’ora. Non vi dico le altre inaspettate apparizioni, tutta­ via vi avverto che il loro senso sarà nella terrena ve­ rità del loro svolgersi. Niente di magico. Per detronizzare Frankenstein e tentare il “nuovo” abbiamo solo urgenza di ripro­ porre alla nostra attenzione i motivi pietrificati dai secoli. Rinunceremo alla truca, al transparancier, agli infi­ niti sotterfugi cari a Méliès. La meraviglia deve essere in noi ad esprimersi senza meraviglia', i sogni migliori sono quelli fuori nebbia, si vedono come le nervatu­ re delle foglie.

Cinema, n. 92,25 aprile 1940

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La guerra costringe a rapidi bilanci

Caro Bompiani, [...] E vero che la mia vita è ben diversa da quella di Milano ma non peggiore. A Milano vivevo con trop­ po scarse esigenze morali, invece da due anni non cerco altro che di essere degno dei miei pensieri. Non ci riesco poiché le mie azioni sono ancora in gran parte dominate dai sensi: tuttavia ne nasce uno stato da cui per forza devono derivare dei risultati non banali. Messa la coscienza in moto non ci si può più fermare. E se questo non si vedrà, e si dovrebbe vedere chissà per quali a me stesso misteriosi spira­ gli, nel libro che ti ho dato, si vedrà ancora meglio nell’altro libro che spero di fare l’anno venturo: non per proposito ma per la convinzione che i libri siano il più esatto specchio della nostra situazione interna (da qui la fiducia profonda che ho in Io sono il dia­ volo). Come uomo sono ancora un abbondante campio­ nario di difetti, alcuni indicibili. Come artista, so di conoscerli e in un certo senso di superarli. Tutto quello di male remoto e attuale che io metto in luce nel mio libro è da me più che scontato: come uomo, ripeto, resto ancora molto al disotto delle mie intuizioni, qualche cosa lo potresti avvertire nel raccontino Al­ lo Zoo e nella Lettera dal Sud: e presentire quale nuo­ va morale con le mie modeste forze io solleciti. Ma questi ragionamenti non vorrei che ti incitas­ sero a convincerti che c’è in me un’eccessiva presen­ za morale speculativa a danno dell’arte. Su questo ho 33

le idee chiare: sento di essere anche in questo natu­ ralmente del mio tempo perché qualunque forma d’arte, più si va avanti, non potrà prescindere dal pensiero. I miei dubbi su certi grossi nomi appunto derivano dal vedere nella loro opera qualunque as­ senza di «vita sofferta» (escluso Pirandello e tra i giovani Moravia, in poesia Ungaretti, Montale, e in un certo senso Cardarelli, Quasimodo) [...] Non ti parlo di filosofia astratta ma di filosofia emotiva', l’in­ tuizione artistica vitale genera un pensiero, un fatto genera un pensiero. [...] Altro che neoromantici­ smo! Non si tratta di nuovo attributo, ma di rove­ sciare addirittura, di rivalutare tutti i sette peccati capitali. La guerra, come ti ho sempre detto, è un fatto e nient’altro che ci costringe però a più rapidi bilanci ed è per questo che ci aiuta a sentire lo straor­ dinario meraviglioso mutamento che è dentro di noi in preparazione. La politica non può seguirci, è sem­ pre straordinariamente lenta. Io non so dirti che co­ sa sia il cambiamento che si avvicina, ma è meravi­ glioso in quanto che lo avvertiamo ne partecipiamo ed è profondo: già sentiamo la spaventosa pigrizia di ogni nostra ora, i giorni uguali, ed è nel mio primo pezzo Io sono il diavolo che si parla di schifo per un uomo che dice cose comuni; il primo passo è fatto, abbiamo già abbandonato per sempre dei secoli. Ve­ dremo il cambiamento prima di morire, giriamo len­ tamente come dei pianeti e a poco a poco s’illumina una nuova faccia, siamo antichi come dei pianeti ep­ pure ci sono ancora da illuminare delle intere zone che ci aiuteranno ad avvicinarci sempre di più alla nostra vera forma che non conosciamo. A volte mi sembra che l’asse terrestre mi entri per dove non posso dire e mi esca per la bocca nel senso di una im­ 34

mobilità e di una determinabilità infinita, a volte mi pare di essere fuori da quello spiedo al quale siamo infilati tutti: non dico io come io, che come tale non interessa, ma come uomo in quanto che ogni nostra azione è pensiero e fatto in rappresentanza dell’uo­ mo, anche in questo senso anti individualista poiché io sono la coscienza degli altri e ciascuno è la mia co­ scienza... Roma 30 ottobre 1941

Da Una, cento, mille lettere, a cura di Silvana Cirillo, Bompiani, 1988.

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Un minuto di cinema

Zavattini dice: “Ho scritto dal 1933-34 almeno venti soggetti, ma tengo più a quello che verrò di­ cendo ora che a tutto il mio passato cinematografi­ co” [il curriculum vitae di Zavattini offre oltre a Par­ liamo tanto di me, I poveri sono matti e Io sono il dia­ volo (2 edizioni in un giorno!), il soggetto Darò un milione (in collaborazione con Giaci Mondaini, 1934), Cinque poveri in automobile (in collaborazio­ ne con Andrea Rizzoli), il soggetto de La casa dei tic nervosi (1934), ecc. Nel 1938, dopo aver variamente suggerito la utilizzazione nel cinema degli umoristi italiani, redasse fra i non pochi soggetti Bionda sotto chiave che Mastrocinque seppe abilmente massacra­ re; del 1939 è La famiglia impossibile, del 1940 Quat­ tro passi nelle nuvole che presto sarà interpretato da Cervi. Fra gli ultimi lavori di Zavattini ricordiamo un contributo alla sceneggiatura di È caduta una donna e il soggetto de La scuola dei timidi di cui su queste colonne parlò nel n. 135 Giuseppe de Santis. Attual­ mente sta curando un soggetto drammatico, Chiusi in una camera}. Il cinema per Zavattini è questione di linguaggio poetico. Se fare il cinema fosse facile come andare dal tabaccaio e comprare le sigarette... Se insomma offrisse le stesse immediate possibilità senza richie­ dere una organizzazione e tanti soldi, avremmo un cinema d’arte, dice, un vero cinema: allo stesso mo­ do che abbiamo la pittura, la scultura. Il cinema ha 37

sbagliato strada quando all’inizio si è affidato agli in­ dustriali. “Per me il cinema è nell’esempio che offro”, dice. “Ecco quaranta metri di pellicola, un minuto di ci­ nema... Con quaranta metri di pellicola, un solo mi­ nuto di proiezione, si può dire qualcosa di interes­ sante: non voglio maravigliare nessuno, e l’afferma­ zione si collega al concetto elementare e spesso sco­ nosciuto del linguaggio cinematografico. Ecco: la scena che io voglio cinematografare (non 'ritrarre’ soltanto) si svolge in un minuto.” (Anche i racconti di Zavattini si svolgono tutti pressappoco nella stessa quantità di spazio, di tempo.) “Strada affollata, gente che va per i propri affari; due uomini camminano parlando e ridendo, uno dei due urta in­ volontariamente un altro passante che viene dalla parte opposta. Il passante urtato brontola, l’altro gli chiede scusa ridendo; quello, urtato, dice che non è il caso di ridere e lancia un’offesa, alla quale l’offeso, fattosi serio, risponde per le rime. Si moltiplicano le offese, si arriva alle mani alzate, ai pugni, accorre gente, qualcuno cerca di separare i contendenti. Uno dei due estrae la rivoltella e spara, colpisce l’avversa­ rio che cade tra le braccia d’un passante, o al suolo. Tutto qua: ho cronometrato l’azione, e dura un minuto. Ed ecco che cosa posso ricavarne in sede cinema­ tografica: arrivato alla fine del minuto, cioè alla sce­ na, mentre l’uomo colpito stramazza al suolo, giro e rovescio tutta la sequenza, ma non troppo in fretta. Ritornato al principio dell’azione, vedo i due amici a passeggio per la strada, e sopra di loro invece del brusìo della folla, odo le voci irate che altercheranno tra pochi secondi. Ecco l’uomo che sparerà, il quale

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si avanza tranquillamente. Colgo un primissimo pia­ no di lui, il suo volto sereno. Nel suo occhio enorme si riflettono immagini della strada. Taglio netto: il suo stesso viso come sarà fra qualche secondo, odio­ so e bestiale. Riprendo l’azione: l’uomo viene avanti, l’altro lo urta e l’alterco comincia; ma non lo faccio giungere al punto in cui uno dei due sta per dare lo schiaffo. Faccio invece ripetere la scena dalla quale dovrà scaturire tra poco il delitto; non una, ma due, quattro, cinque volte. I due uomini ripetono la sce­ na. La quinta volta mi fermo un poco sul gesto, anzi, sullo schiaffo fermo la macchina. Guardate, ecco lì fermi i nostri protagonisti: quanto tempo possiamo lasciarli così? Ve li lascio il mezzo minuto durante il quale lo spettatore farà le considerazioni che vuole. Intanto esamino le cinque o sei facce delle persone che sono intorno a loro, e udiamo fuori campo le lo­ ro esclamazioni, i commenti, e anche i loro pensieri. Udiamo tutti i loro commenti dal principio sino alle urla, la loro paura al momento in cui si udrà il colpo di rivoltella. In un minuto essi hanno fatto a tempo, l’uno o l’altro, a incitare i contendenti o a tentare di calmarli, a dar ragione a quello o a questo, e poi a re­ stare con le parole smorzate in gola, oppure fuggire terrorizzati. Rimetto in moto le immagini, e lo schiaffo parte, la mano si cala rapidamente sul volto dell’altro, giunge a un millimetro dalla faccia: primo piano della faccia e primo piano della mano. Torno indietro e mostro un primo piano della mano com’e­ ra trenta secondi prima; idem della faccia. Questi primi piani li ottengo piombandovi sopra con carrel­ late velocissime, partendo da mezzi campi lunghi con le figure intere. Ora siamo sui volti dei due: prima uno poi l’altro,

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prima uno poi l’altro: alt. Esamino per almeno mez­ zo minuto la faccia convulsa dei due protagonisti nel momento in cui i loro occhi sono più feroci, e scon­ volti i loro lineamenti. Quando il pubblico li avrà guardati bene, posso, con una serie di sovrimpres­ sioni molto rapide, continuare nell’esposizione dei primi piani dei due senza nesso di tempo; cioè, pri­ mo piano del ferito quando cade al suolo, indi: quando camminava tranquillamente per la strada, eccetera; un alternarsi di espressioni e di momenti, idem per l’altro, perché vorrei che sullo schermo le due facce seguissero la loro breve storia contempo­ raneamente, uno a destra e l’altro a sinistra, con ar­ bitrio sul tempo. Ma andiamo avanti, non bisogna sprecare pellico­ la, dice il produttore. Io invece mi fermerei volen­ tieri sulle dita, su come si muovono intorno al calcio della rivoltella appena estratta. Vorrei anche seguire il corso della pallottola, brevissimo e fulmineo ma non tanto da non poter essere colto dall’obiettivo. Mentre si vede il cammino della pallottola, e dob­ biamo vederlo proprio percorso come da una luma­ ca, ho la curiosità di fare un primo piano del pezzo di marciapiede sul quale cadrà fra due secondi uno dei nostri protagonisti. Il marciapiede prima e do­ po, prima e dopo. Se non annoia, desidero vivamente con uno scatto ritornare al punto in cui i due uomini stanno per ur­ tarsi. Ma ancora una volta fermo la macchina, poi ri­ prendo la scena girata alla velocità più forte possibi­ le. L’uomo cade per terra, lo schermo ritorna vuoto. Il pubblico se ne va mentre continuo col sonoro, portato alla tonalità massima, e con le voci le grida il

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colpo, le voci le grida il colpo, almeno per quattrocinque minuti. Posso tornare da capo analizzando la scena in pa­ recchi altri modi raggiungendo così i 90 minuti, cioè la lunghezza di un film, con poca spesa. E certo avrei il film più economico che si sia mai fatto al mondo. Si tratta di considerare il tempo da un diverso punto di vista morale, cioè il fotogramma con lo stesso ri­ gore che sempre più adoperiamo verso la parola. Con un’azione di sei, sette, otto minuti mi sento in grado di fare un film di lunghezza normale e perfino accettabile ai produttori (spesa irrisoria, poche mi­ gliaia di lire).” R.G.

Cinema, n. 136,25 febbraio 1942.

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L’importanza del soggetto

Continua la ricerca dei soggetti, per troppi il pro­ blema “più scottante” del cinema è questo. Forse con qualche esagerazione, ebbi a dire, l’anno scorso, che si può fare un film con la parola tavolo, ma la ve­ rità è che si sono visti brutti film tratti da libri bellis­ simi e viceversa. Infatti un folgorante tramonto non darà mai la garanzia che sarà valido il quadro che lo ritrae. Tanto il cinema è arte, che ricrea tutto, e non si può quindi aprioristicamente spiegare la speranza sopra il soggetto. Ci si deve rifugiare in un sicut et in quantum che non è complementare, come credono i più, del fatto cinematografico, ma è il fatto cinema­ tografico stesso. La riga scritta: “Paolo fugge dalla finestra nella notte nebbiosa mentre le guardie gli sparano contro dai tetti vicini” - non indica la sua resa cinematogra­ fica e può risuonare in mille modi, come in mille mo­ di l’ombra di una mano può suggestionarci. Ecco perché non capisco la tranquillità e la letizia di chi ha un cosiddetto buon soggetto nel cassetto: gli sfugge che lo stesso problema del soggetto è da risolvere per ogni attimo del film. La sua allegria consiste, cre­ do, nel considerare il cinema soltanto come tradu­ zione. Si deve invece giungere a questo: più si affer­ ma in quanto gli si crede che è un buon soggetto, più si limita la sua ricreazione cinematografica, voglio dire la libertà dell’arte cinematografica. La quale li­ bertà non è di natura meno assoluta di quella dello scrittore davanti alla pagina bianca che è lì per reg­

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gere il periodo del Quattrocento come quello futu­ ro. Invece siamo già alla "quiete”, all’arcadia della tecnica con la conseguente maniera del contenuto. Dolorosa accontentatura se si pensa che la gramma­ tica e la sintassi sono ancora in piedi: esse nascono dai poeti e non dalle maniere. Affermano per giustificare la preponderanza della nostra attenzione al soggetto che da un buon sogget­ to, a ogni modo, è possibile trarre un buon film, mentre da un cattivo soggetto si esclude la possibi­ lità di ricavare un buon film. Oserei dichiarare che non esiste né un buono né un cattivo soggetto come non esiste un tramonto che abbia in sé le virtù di una pittura. Il soggetto, più o meno onorevole letteraria­ mente, è sempre al di qua del cinema e diventa cine­ ma solo quando non è più soggetto: perciò la que­ stione del hello e del brutto ci fa obiettare che la cinematografabilità di un soggetto non sta nel sogget­ to ma in colui che dichiara questa cinematografabilità: e se sono parecchi a dichiararla si stabilisce una gerarchia di “possibilità” cinematografiche che tra­ scendono il romanzo e che sono tutte e nuove nel va­ lore di questi individui rispetto al cinema. In un soggetto brutto (si capisce che io ora ado­ pero l’attributo limitandolo alla letteratura; e non può essere che così) c’è una frase: i soldati combatte­ rono per un ora stando immersi nell’acqua sino alla cintola. La stessa frase c’è nel soggetto bello. Sareb­ be mostruoso pensare che dovrà riuscire bene la se­ quenza del soggetto bello e male la sequenza del sog­ getto brutto. Cioè il cinema comincia dopo lo scrit­ to. Ma è nello stesso scritto (come il quadro è già nel pittore quando vede il tramonto che glielo ispira) di­ rete, nel caso che il soggetto sia nato da una intuizio­ 44

ne cinematografica. D’accordo. Ma questo lo si po­ trà dimostrare a posteriori, e solamente se lo stesso soggetto sarà del realizzatore del film. Altrimenti non costituirà il numero uno dell’atto creativo cine­ matografico. E resisteremo sull’affermazione gratui­ ta, a film finito, che il soggettista ha visto proprio co­ sì o non ha visto così. Mentre al soggettista spettano soltanto i diritti, e le colpe, dello scritto.

Articolo pubblicato dalla rivista Si gira. Non siamo stati in grado di in­ dividuarne con precisione la data, ma è molto probabile che abbia vi­ sto la luce nel 1942 o, al più tardi, nei primi mesi del 1943. È stato ri­ prodotto circa dieci anni dopo da un periodico non identificato.

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Atti, non parole

Caro Valentino, ti scrissi mezz’ora dopo il bombardamento. Non avevo idea di ciò che era avvenuto. L’ebbi più tardi dopo essere stato a S. Lorenzo e ti dico che un con­ to è parlare e immaginare e un conto è vedere, credo che il segreto della vita umana stia nella nostra fa­ coltà di dimenticare. Io venni via da quel luogo con le lacrime agli occhi terrorizzato di me e degli altri e mi parve di avere finalmente qualche idea chiara cioè di potere amare o odiare qualche cosa con esat­ tezza poi sopravvennero, il giorno dopo, i dubbi: fra cui il timore che più o meno avvertita ci fosse un po’ di vigliaccheria nel mio umanitarismo. Ma questo è solo l’inizio, da quel giorno non ho un momento di pace, mi sento braccato e consapevole di aver fatto ben pcoo. Le nostre lettere, caro Valentino, sono quasi inutili. E credo che quel Gide così prossimo al­ la tua forma d’intelligenza bisogna cercare di non amarlo. L’atto vale più della parola. Bisogna sfatare tante leggende compresa quella dell’arte se vogliamo veramente andare avanti. Vedo così bene che non andremo avanti in gran parte per colpa della intelli­ genza. Ma non voglio dilungarmi, non voglio parla­ re. Devo riflettere; è la voglia di parlare che ci fa es­ sere moralmente affrettati. Non ti scriverò più, non scriverò più a nessuno se non per la normalissima corrispondenza e dico anche a te di non scrivere let­ tere pensando di raccoglierle; se no siamo finiti caro Valentino e non salveremo di noi niente. Convinciti 47

che il solo modo di essere migliori è agire e sai che cosa intendo. La storia del dubbio ha un limite e noi l’abbiamo sorpassato. La cosa cui oggi miro, ma in silenzio, è questa, che mi trova d’accordo con te, lo so benissimo: che l’idea che mi si è chiarita in testa non è veramente chiara sino al giorno in cui non agirò per questa idea e soffrirò (uguale a: fare vera­ mente qualche cosa per gli altri), quindi fine della nostra corrispondenza come di ogni altra corrispon­ denza del genere. Se tu vorrai scrivermi, tu lo sai che ti leggerò sempre con grande franchezza. Ma io non scrivo più lettere. Sono sicuro che tu capisci il mio stato d’animo che vorrei con tutte le forze che fosse duraturo... Roma, 25 luglio 1943

Da Una, cento, mille lettere.

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Le nostre colpe

Caro Facchini, [*] l’ultima mia cosa è stata quel Totò il buono, uscito nei disgraziatissimi mesi che lei sa; è un libro che cre­ do, specialmente quando lo avrò ritoccato, finirà col darmi qualche soddisfazione. Nel cinema avevo rag­ giunto, dal punto di vista materiale, tutto ciò che vo­ levo, poiché ero l’individuo più ricercato; ma credo fermamente sia bene, cioè giusto che il cinema italia­ no sia andato a rotoli, come tante altre cose, perché non realizzava niente di veramente eccellente; era tutta una corsa all’affare e anche le idee migliori era­ no portate sullo schermo con uno stile affrettato e fondamentalmente provvisorio. Abbiamo avuta una magnifica occasione per creare qualcosa di buono e l’abbiamo perduta perché eravamo moralmente im­ maturi, più immaturi come morale che come intelli­ genza, niente di ciò che è avvenuto è colpa del desti­ no e di altri, ma esclusivamente nostra: come la guer­ ra è la matematica conseguenza delle azioni quoti­ diane degli uomini, anche quelle minime, la storia della guerra in Italia è determinata dal nostro carat­ tere sommamente egoistico e privo di dignità. Sono così gravi le nostre colpe che senza dubbio dovremo soffrire ancora, e a lungo. Ma non credo nella capa­ cità di riscatto, diciamo così, della generazione pre­ sente. Si guardi intorno e mi dica se gli uomini che conosce lei possono migliorare, in un senso vera­ mente cristiano. Io non ne vedo. Vedo solo un più o meno abile e intelligente affaticarsi per non essere 49

tagliati fuori dagli estremismi che covano. A ogni modo stia certo che vedrà ripetersi, anche se formal­ mente diversi, molti dei movimenti dell’altro dopo­ guerra. Tuttavia, malgrado gli uomini, si fa strada un criterio sociale antiborghese irrefrenabile, anche se, ripeto, la sua vera sistemazione in Italia non sia pre­ vedibile. A mia volta io sto cercando il mio centro in­ torno al quale gravito con tante contraddizioni da molti anni. E certo che con il cuore io continuo a es­ sere con i più deboli anche se non mi riconosceran­ no dei loro e magari sarò proprio da loro ripudiato. [...] Roma 27 dicembre 1943

Da Una, cento, mille lettere. * Alfredo Facchini, farmacista di Luzzara, amico di Zavattini.

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Manifesto morale

Caro Alicata, [*] la sera prima della nostra riunione al Visconti, cioè martedì sera, parlai con Rodano del manifesto che avevo appena letto. Egli riassunse il mio punto di vista così: tu vuoi non una politica, ma un grido dell'anima. E io volevo questo. Venni per dire questo e, com’è mia abitudine, mi agitai per tre ore senza aprire bocca - neanche quando finalmente si disse: manifesto morale - che era la strada, la sola, per camminare tutti insieme. Se avessi avuto la forza di parlare in quel consesso, sia pure di amici e colleglli, avrei detto press’a poco quanto segue: 1) Il manifesto può essere solo morale. Se politico, riguarda un numero tot di presenti; altrettanto se estetico, filosofico e insieme storico; infatti io, igno­ rantissimo, non avrei potuto partecipare a nessuna delle cento e più discussioni che ogni riga del mani­ festo apriva. Fate un manifesto per gli ignoranti, avrei detto; cioè io rappresentavo la quarta corrente (si disse che ce ne erano tre fra noi) ed esigevo che si parlasse “da noi agli altri” non “da noi per noi”, che gli uomini si capissero proprio in quanto uomini e non scrittori. 2) Sul significato di questa parola, la discussione è eterna e perciò inutile. Quindi neppure manifesto morale? Sì, se suffragato dai fatti, contemporaneo ai fatti. Quali fatti?! E qui doveva intervenire “Fimprowiso” agostiniano: un fatto geografico doveva averci chiamati lì, una storia che in quella mattina 51

aveva una stazione capitale - il raduno nasceva da un’emozione e non da una sistemazione dialettica di rapporti. Diversi, ci trovavamo uguali nell’assoluto, in un atto che non era da scrittori ma da uomini. Lasciami esemplificare liberamente: camminiamo scalzi per la città: andiamo a Cesano a portare aiuti; si vada in guerra come portaferiti; si aprano scuole dove noi insegneremo gratuitamente le verità che da secoli son tradite; e via dicendo con l’implicito comandamento di una vita diversa ma incontrollabile controllabile invece la esemplarità del grido umano che si raccoglieva. Al di fuori da questi termini la riu­ nione non aveva ragione di essere - non ha ragione di proseguire -, scade nell’estetica o nella politica (intesa com’è intesa). E perfino nell’antifascismo. Dico perfino poiché è il peggio che ci può capitare: almeno a me. Fare dell’antifascismo pubblico, dichiarato, nel­ l’agosto del ’44 è immorale; io che per vent’anni né vidi né capii, e quando capii non agii; e solo da un anno ho mosso la mia coscienza... non posso oggi fa­ re l’antifascista. Insomma, quella nostra riunione do­ veva vertere sulla parola “morale”: e doveva essere una scoperta attuale, dettata dall’oggi; estrinsecarsi in atti prima che in libri. Ma si dice (e Moravia lo di­ ce sempre, l’estensore del primo manifesto) che i li­ bri sono “fatti”. Il nostro dissidio è forte: i libri non sono fatti - o lo sono al di fuori dello scrittore pur nascendo da lui. Bisogna ricomporre la frattura tra parola e fatto se si vuole incidere sulla storia; altrimenti ci saranno dei libri e tristi storie. Il nostro tempo ci chiama in aiuto come uomini non come scrittori: fatto è la Crocefissione e non il Vangelo. E il secondo ha valore dal pri-

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mo - o altrimenti Marco Aurelio sarebbe come Cri­ sto. Ecco perché, così disparati uomini, se davvero li muoveva un’esigenza umana e d’amore, dovevano ritrovarsi in altro punto. Caro Alicata, io non credo ai miei colleghi: molti sono salvabili storicamente, non moralmente; trop­ po pochi, o nessuno, sono innocenti, troppi gli accu­ satori. Li avrei creduti per un atto, non per una di­ chiarazione (e quanti ne abbiamo sentiti quel matti­ no - com’è facile fare un discorso, un articolo di fon­ do, un saggio - vero in sé se si vuole). Ma gli scritto­ ri non possono eludere la loro “tecnica” quando si devono riunire da scrittori e incidere sugli scrittori in quanto scrittori; non so definire filosoficamente questa posizione - io penso il contrario, e soprattut­ to sento il contrario: agisci bene e le cose che nasce­ ranno da te saranno utili; che siano configurate in un modo o in un altro poco importa; avranno forma. Agisci bene subito, carpe diem. Lasciami finire con un’affermazione maggiore del mio balbuziente moralismo: che non posso firmare un manifesto accusatorio quando io mi sento il primo accusato; che se non è un messaggio d’amore (che cosa vuol dire d’altro la parola progressivo?) non mi riguarda; che se non comanda un’azione visibile esemplare non ci credo; che se non è scritto come un grido non rispecchia la sua urgenza, la sua drammaticità, la sua popola­ rità! Da qui la mia diffidenza. Mi dico: da oggi tu devi agire secondo coscienza. E la coscienza dice: accetta il biasimo dei politici, che ti dicono agnostico, apolitico, sopporta tutto, le conseguenze “politiche” di questa tua creduta “im­

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politicità” ma non far cosa di cui tu non sia del tutto convinto. Se hai sbagliato, sia pure purché tu non sbagli più. Pesa il gesto, l’attimo, chi consuma gli an­ ni da prodigo; oggi ti accorgi che i mesi, anzi i gior­ ni, sono gremiti di attimi ecc.; com’è attimo una riu­ nione come quella dell’altra mattina; aiutano a tra­ dirti gli amici, l’ora, la società, ma non bisogna tra­ dirsi. Io sento l’equivoco di quella seduta: la intellettua­ lità di quella seduta. Ci sarà stato, dentro quella se­ duta, il liberalismo, il progressismo, l’anticrocianismo, lo storicismo, l’antistoricismo, ma non c’è Dio e non c’è il cuore. Tanto che per definire la letteratu­ ra popolare nessuno ha avuto il coraggio di dire che popolare significa “gli altri”; cioè andare verso gli al­ tri; che la letteratura popolare è un atto d’amore. [...] Per me significa popolare intendendo per popo­ lo non un mito ma tutti gli uomini, che hanno biso­ gno di migliorare e di essere migliorati. Roma, agosto 1944

Da Una, cento, mille lettere. * Lettera indirizzata a Mario Alicata, critico letterario, giornalista, par­ lamentare e dirigente del Pei, occupatosi a lungo di politica culturale. Zavattini fa riferimento a una riunione di intellettuali progressisti, in­ detta presso il liceo Visconti, a Roma, per redigere il Manifesto dell’Associazione Nazionale degli scrittori. Franco Rodano, menzionato da Zavattini, dopo la liberazione di Roma, rappresentava il movimen­ to della Sinistra Cristiana e la corrente dei cattolici comunisti.

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I pesci rossi e "H disonesto”

I pesci rossi battono le loro bocche rotonde sul vetro con la speranza di trovare la via che li condurrà al mare. Battono infinite volte in un’ora e ogni volta, durante quel breve tragitto che superano con un so­ lo colpo di pinna, rinascono le loro speranze. Noi siamo come quei pesci. E io stesso che vi parlo non sono mai stato così fidente nel nostro cinema, così allegro. E se avessi una bella voce, vi esporrei can­ tando la ragione della mia speranza. Io credo che noi siamo nella condizione migliore per preparare final­ mente qualche messaggio degno del cinema futuro, quello che avrà le nubi per schermo, sicché le gigan­ tesche figure, proiettate a Milano, saranno viste da milioni di occhi dai dolci piani vercellesi all’estuario del Po. Perché noi siamo in queste privilegiate con­ dizioni? Perché la storia ci ha per ora estromessi e nella vita dei popoli si presenta molto raramente tan­ ta insolita vacanza. Approfittiamone. Finalmente dopo ininterrotte certezze siamo incerti e ci sono le­ cite le più stravaganti istanze. Imbarchiamoci sullo zatterone del dubbio come sulla nave di Simbad. Il nostro messia potrà venire dal cielo o da un luogo molto terrestre o da un vocabolo interrotto. Verrà a condizione che noi non ci stacchiamo troppo presto dalle mammelle della nuova madre, la nutriente in­ certezza. Prima di riprendere le analisi o le catabasi che finiranno nei libri di lettura dei pronipoti, ap­ profittiamo del nostro stupore e della nostra solitu­ dine. 55

Siamo soli e gli aggettivi sono tutti crollati intorno a noi come croste. Il campo dove viviamo è spianato, non ha più mura, non c’è nemmeno una lapide che può richiamare i lamenti di una volta. Se restasse an­ cora un ponte alle nostre spalle, dovremmo non esi­ tare a tagliarlo, per rimanere veramente di fronte a noi, per impedirci la fuga da ciò che siamo. Non la considerate una condizione di grazia questa? Io pen­ so che soltanto dalla coscienza di questa condizione deriverà il mutamento di un cinematografo che ha fondato sino a ieri la sua risorsa nei massimari, di un cinematografo che illustrava un mondo eterno, im­ mutabile, esemplare. Infatti gli arcangeli si doman­ deranno, nei loro dialoghi sulle cose terrene, come mai dai virtuosi ammaestramenti delle immagini, dalle edificanti trame e dalle ancor più edificanti conclusioni siano potuti uscire così perfidi allievi di carne ed ossa. Con il cinema si è continuato a ingan­ nare il prossimo, in ogni parte del mondo. Noi italia­ ni lo abbiamo ingannato con minore eleganza gareg­ giando nel commuoverlo e riuscendo spesso a strap­ pare sospiri e singhiozzi. A molti erano stati lasciati soltanto gli occhi per lacrimare proprio su quei fatti pietosi. Quanto sia inutile questo modo di commuo­ vere lo dimostrano i criminali che tornano al delitto dopo aver pianto dirottamente alla visione dei nobi­ li fatti del cinema. Vuol dire che bisogna accantona­ re ormai gli eroi del cinematografo, ricavarne dei di­ versi dal centro del nostro carattere, la cui conoscen­ za abbiamo sistematicamente mistificato con la mac­ china da presa. Noi saremo i pionieri, pianteremo per primi il bastone in questa terra sconosciuta. Se non avremo paura di aprirci ad angolo piatto, se non rinunceremo per un piatto di lenticchie alla tremen­

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da primogenitura che in questi anni ci è toccata, noi soli eviteremo le sinistre parole la cui ombra sta di­ stendendosi sul mondo: niente di nuovo; e lo spetta­ colo nuovo sarà nato. Come dovranno essere allora i nostri film? I nostri film non saranno né lieti, né tristi, senza finale oserei dire; o quanto meno senza quei finali ai quali gli uo­ mini si aggrappano per viltà; bontà e giustizia invo­ cano, sposando parole che li accompagneranno sino al patibolo, purché li distraggano dagli appelli inte­ riori. Faremo film con una qualsivoglia conclusione quando - cammina, cammina, cammina - avremo trovato il vero significato della tristezza e della leti­ zia. Intanto, cavie generose, lasciamo che gli altri ci guardino vivere, come fossimo sotto una campana di vetro. Per ora noi non siamo né buoni, né cattivi, né santi, né diavoli, siamo', siamo creature spaventate soltanto dalle voci troppo sicure e dalle parole, poi­ ché continuiamo a chiamare le cose con dei nomi che non sono più i loro. Credo che questi pensieri potranno parere a mol­ ti troppo obliosi di quella che si è soliti chiamare la realtà. Amici e nemici ci accuseranno di essere poco pentiti o addirittura insensibili ai gridi di dolore che ancora si levano da molte parti della terra. Noi non possiamo essere pentiti, il pentimento essendo uno stato d’animo definitio quando noi non possiamo es­ sere definiti. Pensate ai morti, diranno severamente molte autorevoli persone. Non possiamo nemmeno pensare ai morti. Se io piango per un morto, quanto dobbiamo piangere per tre morti o per tremila mor­ ti? Suppongo che per tremila morti dovrei piangere un anno senza un minuto di tregua. E per trecentomila morti tutta la vita strappandomi i capelli; e per 57

tre milioni di morti allora? Vedete bene che nessuno può pretendere che noi siamo curvi e afflitti propor­ zionatamente alle sciagure che ci sono toccate. Si ve­ de che la misura sta in qualche altra cosa che ancora non conosciamo né noi né loro. Ma noi potremo conoscerla prima degli altri po­ poli, poiché non è facile che essi resistano alle sedu­ zioni dei vecchi miti quando risuonano gli inni della vittoria. Solo noi oseremo fare un film nel quale l’an­ nunciatore solleverà il primo fotogramma, dicendo: noi ti abbiamo tradito, o spettatore, ci siamo sempre nascosti al tuo sguardo avido di conoscenza, sapeva­ mo che camminavi verso la morte e non abbiamo consumato un metro di pellicola per fermarti. Noi ti abbiamo tradito, o signore, non mostrandoti fino a che punto può giungere il nostro odio, la nostra pau­ ra o la nostra pazzia. Sarà un bel giorno. Nell’attesa di questa età d’oro, noi cinematogra­ fanti cerchiamo un minimo comun denominatore e possiamo trovarlo nel coraggio di accettare ciò che siamo e non ciò che vorremmo essere. Per questo bi­ sogna riprendere quell’esame che avevamo comin­ ciato durante le nostre più clamorose sciagure, inter­ rotto per l’intervento di troppi uomini generosi pronti ad addossarsi sulle loro spalle la nostra peni­ tenza. Non vi parlo da moralista. Dico che dal persi­ stere di una situazione ipocrita - ecco il senso di que­ ste mie parole - non può nascere che un cinema ipo­ crita. Ci salveremo se ci conosceremo. Se io potessi fonderei un giornale. Forse lo fonderò. Avrà per ti­ tolo il Disonesto. L’organo dei disonesti, nel quale si indagherà pubblicamente sui problemi universali dei disonesti. Andremo al fondo di questi problemi. Che cosa troveremo in quel fondo? Per rispondere 58

alla domanda, bisognerà arrivarci, non avere paura di arrivarci. Noi italiani spesso ci fermiamo un mo­ mento prima del fondo, quanto basta per restare sempre al di qua della verità. Per questa paura il mio giornale avrà pochi lettori. Lo leggerò solo io. E al­ l’estero diranno che in Italia c’è un disonesto solo, ri­ buttante, ma uno solo, e che quindi tutto va per il meglio. Si congratuleranno con noi perché farermo dei film onesti e io che sono davvero un disonesto non potrò più nemmeno andare al cinematografo. Il cinema non mi interessa più, poiché quello che pro­ duce l’onestà lo conosciamo e lo si può riassumere in quelle funerarie parole che vi ho detto prima: niente di nuovo. 1946

Testo di una trasmissione radiofonica avvenuta il 17 febbraio 1946: pubblicato su Cinelandia del 24-31 marzo 1946.

L’attività giornalistica di Zavattini è stata intensa. Direttore editoriale di Rizzoli e Mondadori nel decennio Trenta, ha assunto la direzione di numerosi periodici illustrati: Cinema illustrazione, ’35/’36 - Le grandi firme, ’37/’38 - Il milione, ’38 - Il Settebello, ’38/’4O. Molti ne ha pro­ posti, anche se non sono stati realizzati, come II disonesto: Italia do­ manda (’46, tramutatasi in una famosa rubrica di Epoca), Il cantastorie (cronache a fumetti), Il bollettino dei poveri, Il giornale dei 10 uomini, Giornale della pace. Numerosi i fogli sorti per sua iniziativa: Bollettino del neorealismo (in Cinema nuovo), Bollettino del Circolo Italiano del cinema, Bollettino dei cinegiornali liberi, Bollettino della cooperazione, ecc. Redattore di La Gazzetta di Parma nel 1928, Zavattini ha collabo­ rato a II Tevere, Il caffè, Il secolo XX°, Litalia, La Fiera letteraria, Marc’Aurelio, Primato, Tempo, Topolino, Novella, Il Secolo illustrato, Piccola, Il Travaso delle idee, Epoca, Cinema nuovo, Vie nuove, Bis, Ri­ nascita, Il contemporaneo, Paese sera. Negli anni Trenta, molte cure Zavattini ha dedicato dà'Almanacco letterario Bompiani.

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Il cinema e l’uomo moderno

Noi dobbiamo riconoscere, senza togliergli qual­ che meraviglioso merito, che il cinema ha operato, nel suo primo mezzo secolo, per uomini di una terra molto lontana dalla nostra, uomini pressoché perfet­ ti, e buoni al punto che i lieti fini strappavano loro copiose lacrime. Intanto gli uomini di questo mon­ do, gli uomini veri, preparavano tranquillamente il secondo e il terzo conflitto mondiale. Ci accorgem­ mo in mezzo alle macerie di aver speso troppe poche immagini per aprire davvero gli occhi al nostro pros­ simo e aiutarlo a fronteggiare, addirittura a impedi­ re, così mostruosi avvenimenti. In parole povere, il cinema aveva fallito completamente la sua missione scegliendo la strada di Méliès e non quella di Lumiè­ re dove erano disseminate le spine della realtà. E, per motivi in sostanza ignobili, il cinema aveva colti­ vato, dagli anni dei Nichelodeon, la tendenza del­ l’uomo a sfuggire i radicali esami di coscienza. Con la rapidità del lampo, riusciva a spingere lo spettato­ re il più lontano possibile da sé medesimo e median­ te l’impiego di danaro e di talento rendeva questa fu­ ga dolce e lunga. Disertati i suoi paesi, lo spettatore si sentiva cittadino di un paese sospeso nell’aria do­ ve giungevano i gridi di dolore dei personaggi Attiz­ zi dello schermo, ma non i gridi di dolore delle crea­ ture insieme alle quali aveva affollato sino a un mo­ mento prima gli autobus e le botteghe. Un giorno siamo usciti dal buio di una sala cine­ matografica e gli strilloni gridavano che c’era la

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guerra, vale a dire il braccio di una donna staccata dal corpo e lanciato sui fili del telegrafo e la testa di un certo Paolo Gai, finita su un vaso di fiori di una casa segnata con il n. 3. Allora non ci restò che spe­ rare che le altre bombe cadessero sul tetto della casa di fronte anziché sul tetto della nostra. E quando la casa di fronte fu colpita e la nostra no, ci abbracciammo, noi superstiti, cantando. Sì, o signori, ho udito con i miei orecchi un canto di gioia in una circostanza come questa. Quanti film erano stati fatti durante la lunga vigi­ lia preparatoria del grande macello? Un numero in­ calcolabile in 50 anni: 1895-1944. Cinquantanni di cinema, sembra una lapide. Centinaia di migliaia di metri di pellicola, eserciti di persone che lavorarono, faticarono per ricoprire di qualche fatto questi metri di pellicola, tanti da poter avvolgere il mondo. Una notizia, vedete, da settimanale illustrato. Tutto qui. Il rapporto sul primo mezzo secolo di vita del cinema si concludeva con una dichiarazione che darà i brivi­ di lungo la schiena a molta gente: il cinema non ci ha aiutati. Ma qualche cosa appare all’orizzonte, e il tema del nostro incontro e la vostra calda presenza qui ne sono un sintomo. Si è cominciata a scrivere la storia del cinema (prima soltanto tecnica o estetica) come precipuo mezzo di conoscenza dell’uomo e della so­ cietà contemporanea. Il cinema ha quindi ripreso il suo destino. Questo è l’avvenimento nuovo, e si ma­ nifesta così forte e naturale che l’industria stessa co­ mincia a subirne le conseguenze. Un numero infini­ to di occhi può aspettare finalmente con qualche speranza di vedere il film che in una volta sola espri­ ma tutta la verità, che significa tutto l’amore per gli 62

altri, un film da potersi proiettare sul cielo, visibile nello stesso istante in ogni parte della terra. Ebbene, questo film non è stato ancora fatto, non perché ignoriamo la verità, ma perché la nascondiamo per paura o carnale convenienza. Ci siamo sempre fer­ mati un metro prima. Adesso no, la volontà è più fer­ ma, sembra quasi che ci sia una gara fra gli uomini di cinema, una gara a chi denuncia per primo l’ingiusti­ zia che grava sulle spalle degli umili. A questa gara il cinema italiano, cari maestri e amici, continuerà a partecipare con la fede e la ingenuità necessarie. Il cinema italiano è stato assalito dagli elogi più ambiti. Non gli riuscirà facile difendersi da questi elogi che involontariamente limitano il suo orizzonte con la definizione del neorealismo. Il nostro cinema ha qualche cosa di più duraturo di uno stile dentro di sé e di molto diverso da quello che lo portò alla gloria trentanni fa: questo bisogno di verità. La menzogna albergherà ancora per parecchio tempo tra gli uomini, mi pare quindi che il compito del ci­ nema, e del cinema italiano, non sia del tutto esauri­ to. Quella specie di domestico giudizio universale, senza trombe, senza interventi celesti, da uomo a uo­ mo, cominciato dal nostro cinema subito dopo la guerra, non può essere interrotto. Sarebbe la fine del cinema, della democrazia, se questo giudizio si inter­ rompesse, e anche lui, il cinema italiano, fosse risuc­ chiato dalla vita vecchia, dalla vita che molti chiama­ no normale e che vuol dire l’inganno. Sappiamo però che con la sola coscienza si fanno cose egregie, tuttavia si può sbagliare un film. Il pro­ blema è noto e gli italiani hanno tentato di risolverlo, avvicinando sempre più i due termini di vita e spet­ tacolo affinché il primo ingoi il secondo. Ecco il loro 63

sforzo. E se qualcuno dirà che questo è sempre stato lo sorzo dell’arte, si può rispondere che lo sforzo di vedere le cose come sono, viene sentito dagli italiani con una decisione che potrà giungere fino alla cru­ deltà e che questo importa al di fuori e più ancora dell’arte. È il documento che viene avanti con il suo tempo vero ad indicare dove sta la vera epica; tra­ dotto in valori sociali, tutto ciò significa che c’è la spinta ad interessarsi degli altri non più secondo la sintesi della narrativa del passato, ma con l’analisi che porta al riconoscimento della esistenza e della pena degli uomini nella loro reale durata. Voglio di­ re che l’appello delle vittime del nostro egoismo, e perfino della natura, diventa sempre più urgente do­ manda di solidarietà appunto perché ci è scandito sempre più nelle sue minime frazioni di tempo. L’uo­ mo è lì davanti a noi e noi lo possiamo guardare al rallentatore (con un mezzo proprio del cinema), per accertare la concretezza del suo minuto che ci indi­ cherà perciò come altrettanto concreto il nostro mi­ nuto di assenza. Noi dovremmo constatare che la sua importanza è continua e che la sua presenza non ha bisogno di at­ tributi. Osserviamolo il nostro uomo: cammina, sor­ ride, parla, lo potete vedere da tutte le parti, avvici­ narvi a lui, allontanarvi, studiare ogni suo atto, e ri­ studiarlo come se foste alla moviola. Ora, illuminato da tante lampade, gira adagio intorno a sé come la terra e noi lo osserviamo pieni di interesse, apriamo gli occhi sopra di lui che ci è davanti senza favola, senza storia apparente. Ci pare di essere alla vigilia di ritrovare plasticamente il valore originale della nostra immagine. Questo, del resto, era il cinema sin dal primo aprirsi dell’obiettivo alla luce del mondo.

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Tutto gli era uguale allora, tutto degno di essere fer­ mato sulla lastra. Fu il momento più incontaminato e promettente del cinema. La realtà, sepolta sotto i miti, riaffiorava lentamente. Il cinema cominciava la sua creazione del mondo, ecco un albero, ecco un vecchio, una casa, un uomo che mangia, un uomo che dorme, un uomo che piange. Li avrebbe spiega­ ti davanti a noi come nelle tavole sinottiche in quan­ to aveva, ed egli solo, i mezzi tecnici per farlo con esattezza scientifica. Ma si preferì l’intreccio, per evitare le istanze, che dalla conoscenza approfondita della realtà venivano fuori. L’uomo acquistava troppa dignità e si stabili­ vano equazioni sorprendenti: il primo piano dell’oc­ chio di un povero si sarebbe potuto credere quello di un ricco e viceversa tanto erano uguali. Ci saremmo sforzati di trovare anche nell’ovvio i capitali motivi della natura umana che riapparirebbe pertanto, lo ripeto, eminente e raccontabile in ogni suo momento. I nostri legami con gli altri si sarebbe­ ro fatti più stretti e moltiplicati. Questo lo sappiamo e ne consegue che qualsiasi cosa dell’uomo lasciamo inosservata alle nostre spalle è una grave colpa. Per questo il nostro cinema vorrebbe fare irrompere nel­ lo spettacolo, come supremo atto di fiducia, novanta minuti consecutivi della vita di un uomo. Ciascuno di questi fotogrammi sarà ugualmente intenso e rive­ latore, non sarà più soltanto il ponte per il fotogram­ ma seguente, ma vibrerà in sé come un microcosmo. Allora la nostra attenzione diventerà continua, e di­ rei perpetua, come deve essere di un uomo per un al­ tro uomo. Riusciremo a questo? Cominciamo, intanto, a ve­ derlo come una meta. 65

Relazione svolta al Convegno intemazionale di cinematografìa, tenu­ tosi a Perugia dal 24 al 27 settembre 1949 e promosso da un comitato di cui hanno fatto parte Corrado Alvaro, Alessandro Blasetti, Mario Camerini, Renato Castellani, Giuseppe De Santis, Vittorio De Sica, Pietro Germi, Alberto Lattuada, Alberto Moravia, Antonio Pietrangeli, Roberto Rossellini, Mario Soldati, Luchino Visconti, Luigi Zam­ pa e Cesare Zavattini. Vi hanno preso la parola, oltre a Zavattini, Um­ berto Barbaro, gli sceneggiatori americani Ben Barzman e Alvah Bes­ sie, Antonin Brousil (Cecoslovacchia), lo storico Georges Sadoul, l’at­ tore sovietico Boris Cirkov e lo sceneggiatore M. Papava, il saggista ungherese Ferenc Hont, Galvano Della Volpe e i registi joris Ivens, Vsevolod Pudovkin, Alexander Ford (Polonia), Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Aldo Vergano, Paul Strand.

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Polemica col mio tempo

Questa polemica preferisco svolgerla nell’ambito del cinema in quanto del cinema ho conoscenza di­ retta e abbastanza antica. La mia polemica punta contro il pubblico del mio tempo il quale non è qual­ che cosa di metafisico, ma siete proprio voi che mi ascoltate. Vi prego di scusarmi se nel calore del di­ scorso vi tratterò in un modo troppo confidenziale o addirittura vi offenderò, dentro i limiti, s’intende, imposti dall’educazione e soprattutto dalla legge. Del resto la RAI, la Radio Italiana, offrendo lode­ volmente agli scrittori un’occasione come la presen­ te, voleva certo invitarli a un nobile sfogo. Cerchia­ mo allora, per questi pochi minuti, di essere ipocriti il meno che si può. Primo: il film italiano, ricco di registi, di scrittori, vecchi e giovani, e di tecnici, ha uno straordinario ripetiamo, straordinario - successo in ogni parte del mondo. Secondo: il film italiano ha conquistato que­ sto primato per mezzo della sincerità di cui si nutre. Terzo: voi, signore e signori, avete paura di tanta sin­ cerità e perciò siete insensibili alle suddette grida di ammirazione che giungono al nostro cinema sempre più alte dall’est, dall’ovest, dal nord e - credetemi anche dal sud; pertanto tentate di far nascere sospetti nei cuori semplici definendo il cinema italiano poco patriottico o addirittura nemico della patria: perché a vostro avviso mostra la nostra povertà anziché la nostra grandezza. Voi infatti auspicate un cinema do­ ve il sole il cielo il mare e i cittadini garriscano al ven67

to, per quanto possibile, come bandiere. Un cinema ottimista, lo chiamate. Voi, infatti, vi reputate ottimi­ sti (non è vero che lo siate, e verso la fine del mio di­ scorso tenterò di provarvelo). L’altro cinema, ergo, voi lo chiamate pessimista perché porta il popolo alla ribalta, e il popolo ha uno sgradevole modo di garrire con la sonagliera dei suoi reali bisogni che hanno per sfondo campi, camere umide, officine, treni davanti ai quali due si salutano, per sempre, sembra, e invece l’uno sale su una vettura di prima classe e l’altro su una vettura di terza. Questo popolo, che ha coscien­ za sempre maggiore della sua partecipazione alla sto­ ria del paese, bussa alle porte del teatro, della lettera­ tura, della pittura e nel cinema trova le più naturali accoglienze, e forse vi troverà la sua epica. Dimenticavo il quarto punto, ovverosia la conclu­ sione: il cinema italiano morirà in un paio di anni se gli sottraete questo protagonista. Voi ne sarete gli affossatori. E da quel giorno noi esporteremo soltan­ to aranci. (Non vorrei sembrare un antiagrumario. Amo gli aranci, amo la Sicilia, che ci ha dato, tra l’al­ tro, Verga, Pirandello e un importante film come La terra trema.) Intendo dire che, spenti i suoi motivi originali, il cinema italiano interesserà appena quegli indigeni che bramerebbero una cinematografia co­ smopolita; nel cerchio della quale noi saremmo bat­ tuti per un milione di ragioni. Giudicate monotono il nostro cinema? Bisogna ac­ cettare la noia come il più valido mezzo di conoscenza della cosa: è l’atto morale migliore che noi possiamo compiere nei confronti dell’uomo moderno. Ma cre­ dete che la tematica del popolo sia limitata? Una doz­ zina di film l’avrebbero, secondo voi, già esaurita. Sie­ te pazzi. Ricordatevi che, finita la guerra, abbiamo

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detto: avanti, arriviamo in fondo. La porta da passare era a mille metri da noi. Ci siamo fermati a novecento metri. E ora ci si muove per tornare indietro. Il corag­ gio dei primi novecento metri è stato grande, ma vie­ ne meno il coraggio degli ultimi cento metri. Adesso ci vuole la speranza e la bontà, si dice. Il solo modo di essere buoni è quello di avere coraggio. Ci invidieran­ no tutti se avremo coraggio. Il cinema ha lo scopo di farci vedere quello che abbiamo davanti, ha cioè la struttura tecnica più naturalmente coraggiosa. Non vuole più prendere uomini finti che sembrano veri, ma uomini veri. Non vuole neanche ripetere ciò che è stato scritto, vuole solo vedere la realtà davanti a sé, perché c’è qualche cosa di sfiduciato verso la vita tut­ te le volte che ripetiamo, servendoci della macchina da presa, ciò che abbiamo pensato. Rinunciamo pure ai soggetti, dunque, ma non rinunciamo all’inventario di quello che c’è intorno a noi; quanta bontà, quanta speranza in quei cento metri da percorrere, niente meno che la speranza di salvare il mondo, di trovare il segreto dei rapporti futuri tra noi. E dunque un crimine rallentare o interrompere il viaggio del cinema italiano verso la realtà che lo attira, una realtà che quantitativamente e qualitativamente ormai non può essere che la realtà dell’umile Italia. Una volta un uomo passava lungo le strade e il suo grido notturno diceva: sono le nove, ricordati che devi morire. Il nuovo avvisatore dovrà gridare: sono le undici, gli analfabeti quanti sono in Italia? Sono le dodici, avete mai udito parlare del delta padano? Ma, signore e signori, come vi spaventa il Vangelo, che è il libro più impopolare in Italia (e altrove), così vi spaventano questi temi e vi dimenate protestando nelle poltrone quando sullo schermo vedete affronta69

to il più alto dei temi, quello della pena dell’uomo, la pena che all’uomo proviene dagli altri uomini. Forse la vostra ostilità deriva dal fatto di non ca­ pire che nello stesso istante in cui questa realtà ita­ liana appare sullo schermo davanti agli occhi del prossimo, diventa la prova, quasi il simbolo, di una volontà costruttiva tutt’altro che retorica. Infatti gli stranieri, che sono un poco i nostri posteri, che cosa intendono segnalare con i loro frequenti premi se non questa volontà del nostro popolo, il suo corag­ gioso misurarsi con la dura cronaca del tempo, la sua “presenza aperta”, per usare le parole di un caro scrittore? Essi non dicono, come temete: ecco un popolo di povera gente, ma dicono: ecco un popolo che prende sempre più deciso contatto con il suo ve­ ro stato e per conoscerlo meglio è ansioso di narrar­ lo; ecco un popolo che ha nella vita una fede talmen­ te grande che confida nella vita più che nell’immagi­ nazione della vita stessa. Il neorealismo trova la sua lunga ragione in questo procedere metro per metro, come gli sminatori nella nostra Italia, dove le cose e le persone sono talmente cariche di vitali e docu­ mentati interessi che sarebbe quasi sacrilego l’inven­ tarne di altri; interessi che hanno sempre il lievito di quello stato d’animo che ci congiungeva veramente con Dio durante i momenti più crudeli della guerra, e ci rivelava il valore del pane e dell’acqua e le colpe nostre insieme a quelle degli altri. Alle spalle di pa­ recchi fotogrammi sembra infatti che ci sia ancora l’eco di una sirena o le urla e i fragori di un crollo a significare la continuità della nostra esperienza. Ho detto in principio che non è vero che voi siete ottimisti. Infatti, credete poco nella forza dell’uomo al punto che sentite il dovere di nascondergli la verità, 70

quasi che non potesse affrontarla. Siete anche i portabandiera di chi esige che un film non lasci ombra di amarezza dentro. Quando uscite dal cinema e andata a casa, volete dormire i vostri sonni tranquilli. Che il cinema sia evaso finalmente dal criterio del puro spet­ tacolo e quindi del puro affare per estendersi nel cam­ po della cultura diventando un vero e proprio fattore di civiltà, vi importa poco. Voi volete dormire i vostri sonni tranquilli. E se c’è nel film un infelice, un disoc­ cupato, un innocente nei guai? Tutto deve essere ri­ solto nel corpo stesso del film, provvedano l’autore dello scenario e il regista. Avete speso duecento lire per il biglietto d’ingresso e volete divertirvi, commuo­ vervi, trovare un posto al disoccupato, salvare l’inno­ cente e magari risolvere, perché no, anche la questio­ ne sociale. Per questo vi considerate degli ottimisti. Ebbene, nei paesi più lontani del mondo arrivano dei metri di pellicola italiana, pessimisti, come li chiamate voi. Ci sono anche laggiù, in Australia, in Giappone, nel Messico, in Spagna, dovunque, degli uomini i quali si figurano il volto della nostra patria vedendo quei fotogrammi. Allora pensano che qui la guerra non è passata invano se c’è della gente che si confessa con tanta forza; se c’è della gente di pelle e di costumi diversi che nel raccontare le sue vicende racconta anche le vicende di tanti altri sparsi nelle varie parti della terra, scoprendo il comune dolore e la comune speranza in un mondo migliore. Questo è un lume che il cinema italiano, che voi vorreste sop­ primere o almeno “correggere” perché pessimista, ha acceso nella nera foresta del nostro tempo. Conversazione radiofonica - 6 giugno 1951 • pubblicata da Filmcritica, n. 6-7, giugno-luglio 1951.

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Film-lampo: sviluppo del neorealismo

Questo tipo di film, cioè un film che riproduce un fatto di cronaca nei luoghi dov’è realmente avvenuto e che interpretano coloro stessi che ne sono stati i principali protagonisti, nasce dal mio vecchio desi­ derio di adoperare il cinema per conoscere ciò che succede intorno a noi, ma in un modo diretto e im­ mediato, mentre l’altro modo, quello dei racconti in­ ventati, è un modo indiretto e mediato. Ho sempre provato una specie di ripugnanza a commuovermi per i personaggi fittizi quando esistono personaggi veri che reclamano in un modo più urgente la nostra commozione e quindi la nostra solidarietà. La narra­ tiva solita mi pare insomma sempre un modo di eva­ dere quando lo sforzo contemporaneo è quello di non evadere. Credo che la realtà, mostrata nei suoi aspetti veri, quelli che si svolgono più concretamente intorno a noi e che costituiscono la società, abbia una forza di convincimento, di suggestione, di comunicativa che ancora non abbiamo saputo sfruttare e anzi abbiamo tardato a sfruttarla proprio per l’intervento dell’arte che ha creduto che solo il fatto inventato fosse mate­ ria nobile. Questa forma di cinema porta a una co­ noscenza migliore della realtà, intesa nel senso sud­ detto, a una conoscenza di noi stessi, del nostro po­ sto nella composizione sociale e del posto degli altri. Risponde alla curiosità più profonda e naturale del pubblico di vedere com’è veramente successo un fat­ to: “E caduto lì? oppure là?”. L’identificazione del

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luogo, per esempio, accresce la comunione con tutti gli effetti che ne derivano. Bisogna quindi cercare di vedere e di vedersi più che si può in questi atti no­ stri, scoprendo così che sono collettivi e, aggiungerò, bisogna portarsi alla ripetizione, alla ricostruzione di questi atti collettivi sullo schermo. Tutti quelli, per esempio, che hanno partecipato, più o meno, al fat­ to di Caterina Rigoglioso, accettando di ripeterlo per la loro parte sullo schermo ne riconoscono la religio­ sità, potremmo dire, come a sua volta Caterina Rigo­ glioso dovrà partecipare alla ricostruzione sullo schermo di un fatto in cui lei non sarà la prima pro­ tagonista, ma una delle protagoniste o addirittura una comparsa. E una specie di rito, la ripetizione, la ricostruzione, dal fine quasi scientifico. Si rompe quel pudore che è sempre anticollettivo, cioè troppo difensivo di fatti individualistici; si acquista coscien­ za del destino collettivo di ogni nostro atto, la sua “pubblicazione”. Anche il concetto di protagonista va corretto, poi­ ché deve risultare come tanti siano i protagonisti, i determinanti di un fatto e cioè la responsabilità dei protagonisti secondari o addirittura marginalissimi risulta importante quanto quella dei principali. E questo io credo risulti evidente, come per emanazio­ ne di moralità naturale del vedere riprodursi i fatti il più vicino possibile al come sono avvenuti, sia pure scelti dall’artista, ma ispirati dalla realtà, dal massi­ mo possibile di verità obiettiva. Si tratta pertanto di un invito vero e proprio a esaminarsi e a esaminare con un occhio più avido di umori sociali i fatti che si svolgono intorno a noi con il continuo bisogno di ri­ produrceli come pentiti di non averli potuti identifi­ care la prima volta nei loro significati, nelle loro cor­

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relazioni sociali. Tutti coloro che partecipano a film di questa specie interrompono per un momento il lo­ ro lavoro per contribuire a questa specie di rito, per collaborare con questa umile loro presenza reale al riconoscimento di una verità. Non sono più attori, Fattore è finito ormai per questo tipo di cinema, ma è uno degli aspetti che può diventare normale della professione di un uomo. L’uomo il quale dice: “Ho un mezzo nelle mani per conoscere meglio come stanno le cose, il cinema, e io lo uso disciplinatamen­ te, pronto a ogni richiamo, perché si tratta di capire nel gesto, nell’atto, nella parola, nella scena ripetuta e con il distacco che deriva appunto dalla ripetizio­ ne, un momento rivelatore del significato della no­ stra presenza nel mondo e più precisamente nella cronaca, nella quotidianità, nella continuità”. Que­ sta prima volta ho scelto un fatto come quello di Ca­ terina Rigoglioso, ma da quello che ho detto prima si capisce che questo fatto equivale a un altro; e che non vi è neanche una gerarchia di fatti più o meno cinematografabili, ma qualunque fatto è degno di es­ sere ricostruito, degno di quest’opera collettiva, ec­ co le parole, che solo il cinema (e che la radio dà in piccola misura e che la televisione potrà dare in mi­ sura maggiore del cinema) può dare in un modo completo in quanto è il mezzo che lascia il minor margine alla imprecisione, alla non-obiettività. Questo principio non è solo valido per i casi da ri­ costruire, cioè per i casi accaduti, vorrei dire meglio ancora, ma è valido per i casi che stanno accadendo, poiché ciò che conta non è la ricostruzione (anche se nel fare questo, nel tentativo di questa c’è una conti­ nua scoperta dell’essenza delle cose), ma nel vedere là sullo schermo la cosa ripetuta. 75

Articolo certamente pubblicato, ma di cui abbiamo rinvenuto soltan­ to una copia dattiloscritta e datata 26 giugno 1952.1 riferimenti a Ca­ terina Rigoglioso, protagonista di un famoso fatto di cronaca, sono inerenti a un episodio di Amore in atta diretto da Francesco Maselli con la collaborazione di Zavattini, ideatore dell'episodio stesso e pro­ motore del film. Sull’esperienza di Caterina Rigoglioso, Zavattini toma nel 1954 in un’intervista di Femaldo Di Giammatteo comparsa nel n. 4 di Rasse­ gna del film: “Laddove si crede che il personaggio fìnto conceda una maggior libertà di indagine io penso che nella realtà ‘cinematografica’ dei film che si fanno avvenga proprio il contrario. Io non sarò mai con­ tro un film che, anche servendosi di personaggi ‘finti’, sia il prodotto di interessi morali sociali vivi e attuali, ma credo che nell’arco del ra­ gionamento neorealistico, così come è stato cominciato in modo con­ corde appena finita la guerra, doveva per forza giungere il momento del personaggio reale, il quale ha una responsabilità nei confronti del pubblico infinitamente più perentoria di qualsiasi altro tipo di perso­ naggio. Che poi questo personaggio reale limiti la manipolazione che l’artista fa di una cosa nelle sue mani, io non lo credo... E grazie a una conoscenza più paziente e diretta dell’essere umano che ci è consenti­ to manipolarlo con tutta la libertà necessaria. Noi lavoriamo meglio sopra l’individuo non col nome e cognome sia perché c’è una tradizone di lavoro antichissima (eterna addirittura), sia perché l’operazione sulla persona con nome e cognome è più delicata e ci vuole un chirur­ go che conosca ogni venatura per poter tentare tutte le operazioni ar­ dite di sutura del cuore, ecc...”

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Alcune idee sul cinema

Non c’è dubbio che la prima e più superficiale reazione alla realtà di tutti i giorni è la noia. Finché non si riesce a superare e a vincere la no­ stra pigrizia intellettuale e morale, la realtà ci sembra priva di qualsiasi interesse. Non bisogna stupirsi perciò che il cinema abbia sempre sentito come naturale e inevitabile la neces­ sità di "una storia” da inserire nella realtà, per ren­ derla appassionante, “spettacolare”. E chiaro tuttavia che in tal modo si “evadeva” su­ bito dalla realtà quasi che senza l’intervento della fantasia non si potesse far nulla. La caratteristica più importante e la più importan­ te novità del neorealismo mi sembra perciò che sia quella di essersi accorti che la necessità della “storia” non era altro che un modo inconscio di mascherare una nostra sconfitta umana e che l’immaginazione, così come era esercitata, non faceva altro che sovrap­ porre degli schemi morti a dei fatti sociali vivi. Di essersi accorti, in sostanza, che la realtà era enormemente ricca: bastava saperla guardare. E che il compito dell’artista non era quello di portare l’uomo a indignarsi e commuoversi per dei traslati, ma quello di portarlo a riflettere (e se vuoi anche a indignarsi e commuoversi) sulle cose che fa e che gli altri fanno, sulle cose reali, insomma, lì precise come sono. Per me si tratta di una conquista enorme. Vorrei esserci arrivato molti anni prima. Invece ho fatto

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questa scoperta solo alla fine della guerra. Si tratta di una scoperta morale, di un richiamo all'ordine. Ho visto finalmente cosa avevo davanti e ho capito che tutto quello che si faceva “evadendo” dalla realtà era un tradimento. Da una inconscia e radicata sfiducia nella realtà, da una illusoria ed equivoca evasione si è passati ad una fiducia illimitata nelle cose, nei fatti, negli uomini. Tale posizione esige naturalmente la necessità di scavare, di dare alla realtà quella potenza, quella co­ municativa, quei riflessi che fino al neorealismo si credeva non avesse. Ma per far questo, per scoprire i valori umani più nascosti, ci vuole una enorme carica di interessi veri e reali per quello che avviene. Si sente perciò l’esi­ genza di un reclutamento da parte del cinema non solo delle più grosse intelligenze, ma anche e soprat­ tutto delle anime più “vive”, degli uomini più ricchi moralmente. La presa di possesso da parte della nostra co­ scienza della correlatività di tutto ciò che esiste, e perciò di una decisiva e costante presenza degli uo­ mini (di qualunque uomo) in tutto ciò che accade, obbliga a una resa di conti continua ora per ora, per­ sona per persona. È il prepotente desiderio del cinema di vedere, di analizzare, la sua “fame di realtà” è l’omaggio con­ creto verso gli altri, verso tutto ciò che esiste. Ed è quello tra l’altro che distingue il neorealismo dal cinema americano. La posizione degli americani, infatti, è antitetica alla nostra: mentre a noi interessa la realtà confinan­ te con noi stessi e ci interessa conoscerla a fondo di­ 78

rettamente, gli americani continuano ad acconten­ tarsi di una conoscenza edulcorata, per traslati. Cosicché mentre in America può esistere una cri­ si di soggetti, questa crisi da noi è impossibile. Per noi non può esserci carenza di temi perché non c’è carenza di realtà. Qualunque ora della giornata, qua­ lunque luogo, qualunque persona è narrabile se vie­ ne narrata mettendo in luce quegli elementi colletti­ vi che vi lavorano continuamente dentro. Per noi quindi si può parlare non di crisi di sog­ getti (di fatti), ma se mai di crisi di contenuti (di in­ terpretazione cioè di questi fatti). Questa sostanziale differenza è stata sottolineata benissimo da un noto produttore americano, quan­ do mi disse: “Da noi la scena di un aeroplano che passa viene concepita così: "Passa un aeroplano, mitragliatrice che spara... L’aeroplano cade. "Passa un aeroplano... l’aeroplano passa di nuo­ vo... l’aeroplano passa ancora una volta.” Ed è vero. Ma siamo ancora indietro. Non basta far passare l’aeroplano tre volte, occorre farlo passa­ re venti volte. Quali conseguenze di carattere narrativo, costrut­ tivo e morale ha portato questa presa di coscienza della realtà che caratterizza il neorealismo? 1) Che mentre prima il cinema da un fatto ne fa­ ceva nascere un altro, poi un altro, poi un altro an­ cora e ogni scena era fatta e pensata per essere subi­ to abbandonata (conseguenza naturale della sfiducia nel "fatto”, di cui ho già parlato), oggi, pensata una scena, sentiamo il bisogno di “restare” in quella sce­ na poiché sappiamo che ha in sé tutte le possibilità

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di echeggiare lontanissimamente, e di porre tutte le istanze che vogliamo. Oggi noi possiamo tranquillamente dire: dateci un fatto qualsiasi e noi lo sviscereremo fino a riusci­ re a trasformarlo in spettacolo. La forza “centrifuga” quindi, che costituiva (sia dal punto di vista tecnico che morale) la caratteristica fondamentale del cine­ ma, si è trasformata in forza centripeta; mentre pri­ ma cioè il tema non era sviluppato in sé e nei suoi va­ lori reali; oggi, col neorealismo, si tende a riportare tutto al tema fondamentale. 2) Che mentre prima il cinema aveva sempre rac­ contato la vita nei suoi momenti più appariscenti ed esterni, ed un film era in sostanza una serie più o me­ no ben congegnata di fatti colti in questi momenti, oggi il neorealismo afferma che ognuno di questi fat­ ti, anzi ognuno di questi momenti contiene da solo materia sufficiente per un film. Il cinema, che era stato un fatto allusivo, schema­ tico, tende ora ad andare verso l’analisi. O piuttosto ad una sintesi dentro l’analisi. Facciamo un esempio. Mentre prima dell’avven­ tura di due esseri che cercavano casa, si considerava solo il primo momento (l’aspetto esterno, l’azione) e si passava subito ad altro, oggi si può affermare che il semplice fatto di cercare casa può costituire l’argo­ mento di un film, qualora - s’intende - questo fatto venga scandito in tutti i suoi movimenti con tutti gli echi e i riflessi che ne derivano. Naturalmente, oggi siamo ancora lontani dalla ve­ ra analisi e si può parlare di analisi solo in confronto alla grossolana sintesi della produzione corrente. Per ora siamo piuttosto in un “atteggiamento” analitico: ma già in questo atteggiamento c’è un po­ 80

tente movimento verso le cose: un desiderio di com­ prensione, di adesione, di partecipazione, di convi­ venza, insomma. Da quanto ho detto risulta che il neorealismo ha intuito che il cinema - contrariamente a quello che si era fatto fino alla guerra - doveva raccontare fatti mi­ nimi senza alcuna intromissione della fantasia, sfor­ zandosi di scandirli in quello che di umano, di stori­ co, di determinante, di definitivo essi contengono. In sostanza oggi non si tratta più di far diventare “realtà” (far apparire vere, reali) le cose immaginate, ma di far diventare significative al massimo le cose quali sono, raccontate quasi da sole. Perché la vita non è quella inventata nelle “storie”, la vita è un’al­ tra cosa. E per conoscerla è indispensabile una ricer­ ca minuziosa e continuata, parliamo finalmente di pazienza. Ecco che è necessario precisare un altro punto di vista. Secondo me, il mondo continua ad andare male perché non si conosce la realtà. E la più autentica posizione di un uomo oggi è quella di impegnarsi a scandire fino alle radici il problema della conoscen­ za della realtà. Per questo la più acuta necessità del nostro tempo è “l’attenzione sociale”. Ma attenzione a quello che c’è, direttamente, non attraverso degli applausi più o meno indovinati. Un affamato, un umiliato bisogna farlo vedere col suo nome e cognome e non bisogna raccontare una favo­ la in cui ci sia un affamato, perché è un’altra cosa, meno efficace, meno morale. Poiché la vera funzione del cinema non è quella di raccontare favole. È la funzione vera di tutte le arti

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che è sempre stata quella di esprimere le necessità del loro tempo e a tal funzione occorre richiamarlo. Indubbiamente ci sono modi favolosi per analiz­ zare la realtà. Ben vengano anche quelli; sono anch’essi modi espressivi naturali. Il neorealismo, tut­ tavia, se vuole essere conseguente deve proseguire con lo stesso impulso morale che lo ha caratterizza­ to al suo sorgere, ma su una strada analitico-documentaria. Nessun altro mezzo espressivo infatti ha come il cinema questa originaria e congenita capacità di fo­ tografare le cose che, secondo noi, meritano di esse­ re mostrate nella loro “quotidianità”, che vuol dire nella loro più lunga, più vera durata; la macchina ha infatti “tutto davanti”, e vede le cose e non il concet­ to delle cose, ci aiuta almeno in questo senso. Nessun altro mezzo espressivo ha come il cinema la possibilità di far conoscere e al maggior numero di persone. E poiché da questo suo enorme potere deriva an­ che la sua responsabilità è necessario un uso perfet­ to di ogni fotogramma. Intendiamo per perfetto questo penetrare sempre di più nella quantità e nel­ la qualità della realtà. Si può quindi affermare che il cinema è morale quando affronta in tal modo la realtà. E il problema morale (come quello artistico) sta nel saperla vedere questa realtà, non nell’inventare al di fuori di essa, che è sempre una forma, come ho già detto, di evasione. Era naturale che chi aveva intuito tutto questo, pur essendo ancora costretto a pensare per tante ra­ gioni (alcune valide altre no) un racconto “inventa­ to” secondo la tradizione, cercasse di inserire dentro 82

quel racconto qualche scintilla di quella intuizione. Questo è stato il neorealismo effettivo in Italia attra­ verso alcuni uomini. Il primo sforzo perciò fu quello di rendere il rac­ conto il più elementare, il più semplice, direi quasi il più “banale” possibile. Era il principio di un discor­ so che fu poi interrotto. Un tipico esempio in proposito si può trovare in Ladri di biciclette. Il bimbo segue il padre lungo la strada; a un certo momento sta per andare sotto un’automobile. Il padre non se ne accorge nemmeno. Questo episodio è inventato: ma inventato con l’intenzione di inventare un fatto quotidiano, mini­ mo (tanto minimo che gli stessi protagonisti non gli danno peso) e tuttavia carico di vita. Ma di quella vi­ ta, di cui si è parlato prima, che è così importante da meritare che ci si batta con tutte le nostre forze con­ tro l’altra vita e contro gli altri fatti, portati sullo schermo dal cinema per cinquantanni, in quanto troppo grossi e falsi, sempre. Da questa fase che si può chiamare di compro­ messo, di attesa, di transizione, si dovrebbe passare ad una seconda in cui si affronti già la realtà obietti­ va, direttamente, ed è quella alla quale alcuni di noi mirano. Paisà, Roma città aperta, Sciuscià, Ladri di biciclet­ te, La terra trema contengono ognuno alcune cose di una significatività assoluta, che rispecchiano il con­ cetto del tutto raccontabile, ma sempre in un certo senso traslate perché c’è ancora un racconto inven­ tato, non lo spirito documentarista. In certi film, come Umberto D., il fatto analitico è assai più evidente, sempre però nell’ordine tradizio­ nale. 83

Ma non siamo ancora al neorealismo. Il neoralismo è oggi come un esercito pronto a mettersi in marcia: i soldati dunque ci sono. Sono dietro Rossellini, De Sica, Visconti. Occorre che questi soldati partano all’assalto; allora la battaglia sarà vinta. Perché non c’è niente da fare: bisogna riconosce­ re che siamo ancora tutti allo start: chi più avanti, chi più indietro. Ma è già molto. Il grosso pericolo è og­ gi quello di abbandonare le posizioni, le posizioni morali che erano implicite in molti durante e subito dopo la guerra. L’importante, comunque, è che il discorso è inco­ minciato: o lo si porta fino in fondo o si è perduta una grande occasione, perché il neorealismo ha pro­ spettive assai più vaste di quanto oggi si possa pen­ sare: dare al cinema la sua missione di esame, di esplorazione del reale. Oggi, dunque, è vero che esiste - sia pure in po­ che persone - lo spirito del neorealismo sia nel sen­ so “compromesso” sia nel senso del nome e cogno­ me veri. Ritorno all’esempio della lite, già fatto in altre oc­ casioni (dico lite, ma dovrei dire diverbio). Una volta, sempre per le malintese ragioni di rit­ mo, suspense, movimento, ecc. una lite non poteva durare più di due minuti perché - si diceva - il pub­ blico si sarebbe stancato e bisognava passar oltre. Oggi siamo riusciti a farla durare un po’ di più: di­ ciamo sette minuti. Il neorealismo deve farla durare il tempo necessario e sufficiente (che può anche coincidere con l’intera durata del film) perché la lite possa essere analizzata in tutti i suoi elementi, in tut­ ti i suoi echi, in tutta la sua essenza. Questo avverrà

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solo il giorno in cui si arriverà a convincersi che una lite (naturalmente parlo di una lite qualunque, fra gli uomini qualunque, in un luogo qualunque) fatta ve­ dere nel più analitico dei modi, ha in sé dei momen­ ti di dolore, di stupore, di tensione, come la più co­ struita delle “storie”. Ho fatto l’esempio della lite. Ma voglio prenderne uno ancora meno eccezionale: una donna che va a comprare un paio di scarpe. Ecco, anche su questo fatto elementare si può fa­ re un film. Basterà scoprire e far vedere tutti gli elementi che sono dentro questa “banale avventura quotidiana”, e subito essa diventerà degna di attenzione e quindi “spettacolare”. Per spettacolo, naturalmente, bisogna decidersi ad intendere non l’eccezionale, ma il normale; cioè lo stu­ pore deve derivare nell’uomo dalla conoscenza e dalla scoperta dell’importanza di tutto ciò che ha sotto gli occhi ogni giorno, e di cui non si era mai accorto. Trasformare in spettacolo questi fatti non è facile, si richiede una intensità di visione umana sia in chi fa il film sia in chi lo va a vedere. Si tratta di dare alla vi­ ta dell’uomo la sua importanza storica ogni minuto. Nella vita, nella realtà di oggi non ci sono più spa­ zi vuoti. C’è - tra le cose, i fatti, gli uomini - una in­ terdipendenza tale che, battendo un colpo sul telone qui a Roma, si ripercuote in tutto il mondo. E allora se questo è vero, non può non valere la pena di pren­ dere un qualsiasi momento della giornata dell’uomo e cercare di far vedere come “battendo” in quel mo­ mento - cioè identificandolo - la sua eco, la sua ra­ gione di essere, il suo insegnamento, arrivino a far vi­ brare ogni altra parte del tessuto del mondo.

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Mentre si diceva una volta che un film doveva es­ sere ricco di fatti, oggi si tratta di prendere un fatto, uno solo, uno qualsiasi, e di aprirlo in tutte le sue si­ gnificazioni. Già la macchina da presa, nel mettercelo davanti agli occhi, compie un’opera morale e riparatoria. E questo vale per la povertà come per la pace. Le istanze di pace non bisogna cercarle in un grande fatto, ma trovarle in questa quotidianità. Non è ne­ cessario scoprire il bisogno di pace nei grossi fatti, bastano i piccoli, poiché la pace è proprio una som­ ma di piccoli fatti che devono avere tutti alla loro ra­ dice la stessa qualità morale. Ma non si tratta di fare film che facciano conosce­ re situazioni sociali, collettive. Come non conoscono bene il tessuto sociale, gli individui non conoscono se stessi; ecco perché io parlo in forma paradossale del “film Luce” di se stessi: perché secondo me il ve­ dersi sullo schermo nelle proprie azioni quotidiane (tenendo presente che “il fatto di vederci” ci dà il senso di enti diversi da quelli che siamo - come del resto avviene per la radio -) può contribuire a riem­ pire questo “vuoto”, questo divario, questa cono­ scenza, queste sfasature. Se questo amore per la realtà, per la naturalezza deve ancora adeguarsi alle necessità del cinema, de­ ve piegarsi, soffrire, aspettare vuol dire che la strut­ tura capitalistica del cinema ha ancora una tremenda influenza sulla sua vera funzione. Lo dimostra il fat­ to che oggi c’è ima crescente tendenza al risucchio di tutti i motivi fondamentali nati nel dopoguerra. Le principali conseguenze di questo rilassamento morale sono due: a) i film di una volta riprendono rapidamente il 86

sopravvento con il ritorno ai cosiddetti “soggetti ori­ ginali” e perciò all’evasione che li caratterizza, b) che si ostacola e si combatte il neorealismo da parte borghese, con ogni sorta di accuse. Esaminiamo le principali: 1) Il neorealismo descrive solo la miseria. H neorealismo può e deve affrontare la miseria co­ me la ricchezza. Abbiamo cominciato con la miseria per il semplice fatto che è una delle realtà più vive del nostro tempo e sfido chiunque a dimostrare il contrario. E credere o fingere di credere che con una mezza dozzina di film sulla povertà il tema sia stato esaurito, e che sia tempo di andare in più spirabili aure è un grosso sbaglio. Vuol dire non capire o fin­ gere di non capire cosa è il neorealismo, significa vo­ lerlo paragonare a chi, dovendo arare una intera re­ gione, dopo il primo ettaro si mette a sedere. Il tema della povertà (ricchi e poveri) è un tema a cui si può dedicare tutta una vita. Si è appena co­ minciato. Bisogna avere il coraggio di scandirlo in tutti i suoi dettagli. Una delle chiavi di volta del mondo di oggi è lì: nel tema “ricchi e poveri”. E se i ricchi hanno arric­ ciato il naso specialmente per Miracolo a Milano, ab­ biano un po’ di pazienza. Miracolo a Milano non è che una favola. C’è ben altro da dire. E tra i ricchi, mi ci metto anch’io. Quello che c’è in noi di ricco non è solo la ricchezza come denaro (il denaro non è che l’aspetto più vistoso e appariscente), ma ogni al­ tra forma di sopraffazione e di ingiustizia: c’è una posizione “morale” (o immorale) dell’uomo cosid­ detto ricco. Quando si dice (e lo dica il pubblico, il produtto­ re, il critico, lo Stato, o la Chiesa) “BASTA con la mi­

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seria”, basta con i film tristi, si cade in uno stato di peccato; perché ci si rifiuta di conoscere. E quando ci si rifiuta - coscientemente o no - di conoscere si ha l’evasione. E il bisogno di evasione è mancanza di coraggio; è PAURA. (Bisognerebbe fare un film su questo argomento, fino a che punto noi cerchiamo di evadere di fronte ai fatti che ci disturbano e che noi siamo abituati ad aspergere di soavi licor.) Paura di essere scoperti, di essere lasciati soli, ov­ vero di prendere coscienza, di non poter più menti­ re a noi stessi, di esser costretti a sapere e a pensare, a sentirsi quindi responsabili, a non poter più finge­ re. Basta con la miseria, con le miserie. Bastare... significa la conoscenza della realtà, a cronometro. ..taci... BASTA !... Non è sufficiente, quindi, aver scelto il tema della povertà; il problema vero ora è quello di scandire ed analizzare questa povertà. C’è cioè una esigenza di una conoscenza sempre più precisa e ampia dei mo­ tivi che riguardano i bisogni degli uomini. Da questo lavoro in profondità deriveranno certi film e non certi altri. H neorealismo dovrebbe buttar via il cronometro e andare avanti fino a che sia necessario. 2) Il neorealismo non offre soluzioni, non indica strade. I finali dei film neorealistici sono evasivi al massimo. Respingo con tutte le mie forze questa accusa. Per quel che mi riguarda, poi, tutti i personaggi e tutte le situazioni dei film, di cui ho scritto il copione, resta­ no insoluti da un punto di vista pratico perché “que­ sta è una realtà”. Ma ciascun momento del film è una risposta continua a degli interrogativi. In quanto alle soluzioni, non spetta all’artista co­

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me tale prospettarne; gli basta, ed è già molto, di far­ ne sentire l’esigenza, l’urgenza, direi. Del resto quali altri film offrono soluzioni? Quel­ le che ci offrono (quando le offrono) sono soluzioni di ordine sentimentale, dato il modo superficiale con cui si affrontano gli argomenti. Nello sfuggire all’analisi del “FATTO QUALSIASI” gli scrittori di cinema non ubbidiscono soltanto all’im­ posizione più o meno tacita dell’ambiente capitalistico del cinema e del pubblico stesso, ma a una forma di pigrizia, in quanto l’analisi del fatto è sempre più faticosa che far gemmare da un fatto un altro fatto e poi un altro ancora. In altre parole, è il problema dell’approfondimento che gli scrittori di cinema sfuggono. Bisogna domandare al cinema quello che si do­ manda al libro e allora diventerà addirittura mo­ struoso agli occhi di tutti quello che avviene oggi, cioè il fatto che vengano presi in considerazione dei prodotti che, equiparati al libro, non meriterebbero non dico una riga di recensione ma neanche di esse­ re elencati tra i libri ricevuti. Il cinema non dovrebbe mai voltarsi indietro. Do­ vrebbe accettare, come “conditio sine qua non”, la contemporaneità. OGGI. OGGI. OGGI. OGGI. OGGI. Si dovrebbero analizzare le cose davanti a noi, ser­ vendosi del cinema come di una lampada. Quando io parlo di “diario”, quando dico “tutto come dia­ rio” invito proprio a questo: a raccontare la vita non sul piano dell’intreccio, ma su quello dell’esistenza. Si tratta di impegnare una lotta contro l’ECCEZlONALE e di cogliere la vita nell’atto stesso in cui la vi­ viamo, nella sua maggiore quotidianità. Ma per riu­ 89

scirci occorre prima scoprirla a noi stessi. Perché noi ignoriamo ancora la vita. Oltre a non voltarsi indietro, il cinema non deve “ripetere”. Questo significa la morte del soggetto che è una “storia” pensata prima, che il cinema in un secondo momento “ripete”. H cinema deve creare la “storia” (se ancora così si può chiamare), strada facendo. Al massimo, il regista può dar vita e concretezza a un fantasma che ha den­ tro di sé, ma non dovrebbe mai girare la storia di un altro. Il tentativo vero non è quello di inventare ima sto­ ria che somigli alla realtà, ma di raccontare la realtà come fosse una storia. Bisogna che lo spazio tra vita e spettacolo diventi nulla. Ma allora - si dirà - come e quando interviene la fantasia? Si tratta di un diverso tipo di fantasia e di un diverso metodo di usarla. Faccio un esempio: una donna va dal calzolaio a comprare le scarpe per il figlio. Le scarpe costano settemila lire. La donna cerca di ottenerle a meno. La scena dura dieci minuti. Io devo farci un film di due ore. Che cosa faccio? Analizzo il fatto in tutti i suoi elementi costitutivi, nei suoi prima, nei suoi dopo, nelle sue contempora­ neità. Comincia qui un nuovo dovere e un nuovo la­ voro per la nostra fantasia. La donna compra le scarpe: che cosa sta facendo suo figlio in quel momento? Cosa stanno facendo in India che abbia qualche relazione con questo fatto delle scarpe? Le scarpe costano settemila lire: come sono arri-

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vate queste settemila lire in mano a questa donna, come le ha sudate, che cosa rappresentano per lei? E il padrone del negozio che contratta sul prezzo, che dice queste parole, chi è? Quale è il rapporto che si è creato tra questi due esseri? Cosa significano, co­ sa rappresentano, che interessi difendono nel tratta­ re? Anche il negoziante ha due figli che mangiano, parlano: volete sentire che cosa dicono? Eccoli da­ vanti a voi. Si tratta di saper andare a fondo, mostrare le cor­ relazioni tra i fatti e il processo di nascita di questi fatti, scoprire che cosa c’è dietro. Analizzando in tal modo “l’acquisto di un paio di scarpe” si apre davanti a noi un mondo complesso e vastissimo, ricco di peso e di valori nei suoi motivi pratici, sociali, economici, psicologici. Il banale sparisce proprio per la carica di respon­ sabilità di cui è carico ogni momento. Ogni momen­ to è infinitamente ricco. Il banale non esiste. Basta scavare e ogni piccolo fatto diventa una mi­ niera. Che vengano finalmente i cercatori d’oro a scavare nella sconfinata miniera della realtà. Solo co­ sì diverrà il cinema socialmente importante. E evidente che tutto questo può esser fatto anche con personaggi inventati; ma se questo sondaggio, se questo arrivare sulle cose alle spalle, lo faccio con persone vive, vere, per le quali ho una partecipazio­ ne diretta, e non con dei traslati, la mia emozione è più efficace, più sana moralmente, più utile. L’arte deve essere espressa da un nome e cognome vero e non falso. Di eroi più o meno immaginari ho piene le scato­ le; io voglio incontrare quello che è il vero protago­ nista della vita oggi. Voglio vedere come è fatto, se

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ha i baffi o no, se è basso o alto, voglio vedere i suoi occhi, voglio parlare con lui. Lo si guarderà là sullo schermo, con la stessa an­ sia, con la stessa curiosità per cui in una piazza basta un capannello di gente a farci accorrere e domanda­ re che cosa è successo. Che cosa è successo a un uo­ mo vero? Aiutare questo istinto di non solitudine è il compito del cinema che ha intuito, come il neoreali­ smo ha intuito, quale insostituibile e infinita espe­ rienza venga dalle cose che si svolgono sotto i nostri occhi per naturale necessità. Io sono contro i personaggi “eccezionali”, sono contro gli eroi, ho sempre sentito un odio istintivo contro di loro. Mi sentivo offeso, escluso insieme a milioni di altri esseri. Siamo tutti dei personaggi. Gli eroi creano com­ plessi di inferiorità negli spettatori. E arrivata Fora di dire agli spettatori che sono loro i veri protagoni­ sti della vita. Il risultato sarà un richiamo costante alla responsabilità e alla dignità di ciascun essere umano. D’altronde la frequente abitudine ad identificarsi con i personaggi è molto pericolosa. Non bisogna identificarsi che con quello che si è. H mondo è fatto di milioni di persone che pensano a dei miti. Sono importanti solo coloro che sono nominati: nei libri, nei giornali, alla radio... Bisogna far capire finalmente che all’anagrafe “siamo tutti nominati” e che quindi siamo tutti ugualmente interessanti. La radio dovrebbe trasmettere l’elenco di tutti gli italiani indistintamente per rinfrancarli. H neorealismo ha questa aspirazione: rinfrancare tutti, dare a tutti la coscienza di essere uomini.

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Il termine neorealismo - inteso in senso latissimo - implica anche l’eliminazione della collaborazione tecnico-professionale, compresa quella dello sceneg­ giatore. I manuali, i formulari, le grammatiche non hanno più senso. E non hanno più senso i termini Primo Piano, Contro Campo, ecc. Ognuno ha la sua sceneggiatura personale. Il neo­ realismo rompe tutti gli schemi, respinge tutti i ca­ noni che non sono altro, in sostanza, che codifica­ zione di limiti. È la realtà che li rompe questi schemi, essendo infiniti i modi dell’incontro da parte del­ l’uomo di cinema con la realtà (parlo proprio d’an­ dare in giro con la macchina da presa.) Non ci pos­ sono essere P.P. e C.C. a priori. D’altronde, la figura dello sceneggiatore come og­ gi è intesa è molto equivoca. In genere si pensa ad una pura collaborazione tecnica, del tutto spersona­ lizzata. Il che è evidentemente assurdo, per quanto “sceneggiatori” del genere siano frequentissimi. Io sono uno scrittore di cinema^ che cerca di dire certe cose e di dirle a suo modo. E chiaro che certi concetti di natura morale, sociale, non possono non essere alla base della mia attività espressiva. Non posso accontentarmi di dare un semplice contributo tecnico. Ed anche nei film che sono lontani da me e ai qua­ li sono chiamato a collaborare cerco di immettere quanto più possibile del mio mondo, di questa esi­ genza morale che ho dentro. D’altronde, io penso che non esiste il problema della sceneggiatura in sé. Si può parlare semmai di fase scritta: della fase di 93

precisazione del proprio mondo, della esatta conce­ zione delle cose da dire. Ma è una fase strettamente connaturale alla fase creativa. Il fornello è già acceso. Soggetto, sceneggiatura, regia non dovrebbero es­ sere tre fasi distinte. Lo sono oggi, ma è un fatto ab­ norme. Lo sceneggiatore e il soggettista dovrebbero scom­ parire: si dovrebbe arrivare all’autore unico: il regi­ sta che, finalmente, non può avere niente più di co­ mune col regista di teatro. Tutto diventa mobile quando uno fa un film da solo, tutto continuamente possibile. Tutto nascente, disponibile. Tutto pieno di infinite possibilità (non solo durante le vere e proprie riprese, ma durante il montaggio, la sincronizzazione, ecc.), alle quali a un certo momento si dice basta. Ed è solo in quel momento che si mette fine al film. È possibile, evidentemente, fare i film in collaborazione come del resto avviene anche per i romanzi e per le commedie, ed è possibile proprio perché fra gli uomini ci sono numerosissimi legami di identità (milioni di uomini partono, ad esempio, per la guer­ ra a farsi uccidere per le stesse ragioni), ma non esi­ ste opera d’arte in cui non ci sia stato qualcuno che ha dato il sigillo dei suoi interessi, del suo mondo poetico. C’è sempre qualcuno che fa l’atto creativo decisi­ vo, l’intelligenza che prevale; c’è sempre chi ad un certo momento “sceglie” e dice questo si è questo no e poi decide: P.P., madre che grida aiuto! Sono il fatto tecnico e il fatto capitalistico che hanno permesso l’equivoco della collaborazione co­ me nuova forma di creazione, ma è un conto che ci si 94

sia adattati a queste esigenze imposte dalla struttura attuale del cinema, e un conto che esse siano indi­ spensabili e necessarie. Perché è evidente che quando ci sarà la pellicola a due soldi, e tutti potranno avere una macchina da presa, il cinema diventerà un mezzo espressivo libe­ ro e duttile come ogni altro. Il cinema ha una sua poesia, una sua bellezza so­ ciale che permettono il fatto collaborativo, ma in questo senso: che muore il divismo e tutti si presta­ no come a un rito per far vedere “come succedono le cose”. È evidente che nel neorealismo anche Fattore, in­ teso come colui che presta fittiziamente la propria carne ad altri, non ha più ragione di esistere, allo stesso modo del soggetto immaginato. Il neorealismo - come lo intendo io - richiede che ognuno sia attore di se stesso. Voler far recitare un uomo al posto di un altro implica la storia pre­ pensata. E il nostro sforzo è di mostrare cose viste, non favole. Io voglio fare, ad esempio, una inchiesta sull’in­ fanzia nel mondo. Se mi permetteranno di farla, be­ ne, se no la limiterò all’Europa o alla sola Italia. Ma la farò. Ecco un esempio di film, che non ha bisogno di attori. E spero che il sindacato attori non protesti. Il neorealismo non esclude l’approfondimento psicologico. La psicologia è uno dei tanti dati della realtà. Io l’affronto come affronto una strada. Ma se devo scrivere una scena di due uomini che litigano, non voglio pensarla a tavolino. Devo uscire fuori della mia tana e trovarli. Questo è già il gran fatto nuovo. Prendo questi due uomini e li faccio parlare da­ 95

vanti a me per un’ora o per venti, a seconda della ne­ cessità. La mia creatività sta prima di tutto nell’esse­ re andato tra loro, poi nell’ascoltarli, nello “sceglie­ re” quello che dicono. Ma tutto questo lo faccio non con l’intenzione di tirarne fuori degli eroi, perché per me non “certi uomini”, ma “ogni uomo” lo è. Voler dare a tutti un senso di uguaglianza non è un fatto di mortificazione, ma di esaltazione, di soli­ darietà. La non-solidarietà nasce sempre dalla pre­ sunzione di essere diversi. La non-solidarietà nasce sempre da un MA: Paolo soffre, è vero, e soffro an­ ch’io, MA la mia sofferenza ha qualcosa che... la mia anima ha qualcosa che... ecc. Bisogna far scomparire quel MA: riuscire a dire: quest’uomo sta patendo quello che patirei io in quel­ la circostanza. È stato più volte notato che in Italia gli unici dia­ loghi cinematografci di una certa validità sono quel­ li in dialetto. Il dialetto, infatti, è più attaccato alla realtà. Nella nostra lingua letteraria e parlata, il giro sintattico e spesso le stesse parole sono sempre un po’ falsi. Quando devo fare un dialogo io, per esempio, lo penso sempre in dialetto, o quello romano o quello del mio paese. Sento che, esprimendomi in dialetto, sono più es­ senziale, più vero. Poi traduco in italiano, conser­ vando però la sintassi del dialetto. Questo non signi­ fica che io scriva dialoghi dialettali. Mi interessa quello che c’è di comune nei dialetti. Immediatezza, freschezza, icasticità, autenticità. Ma la gran massa del materiale la prendo dal vero. Poiché il neorealismo esclude i personaggi costruiti per i quali evidentemente bisogna preparare prima il 96

meccanismo delle battute io scendo nella strada e colgo frasi, parole, discussioni dal vero. I miei gran­ di aiuti sono la memoria e lo stenografo. Poi faccio con le parole quello che faccio con le immagini: scelgo, taglio il materiale raccolto per dar­ gli il giusto ritmo, per coglierne l’essenza, la verità. Per quanta fede io abbia nell’immaginazione, nel­ la solitudine, ho più fede nella realtà, negli uomini. A me interessa il dramma delle cose che si incontrano, non delle cose prepensate. La poesia bisogna farla sulla realtà: esercitare, in­ somma, le proprie doti poetiche in loco; bisogna ab­ bandonare la stanza e andare anche fisicamente ver­ so gli altri per vederli, capirli. Questo è per me un vero e proprio imperativo morale e se non ci terrò fe­ de, peggio per me. So benissimo che si possono fare opere meravi­ gliose come quelle di Charlie Chaplin, e non sono opere neorealistiche. So benissimo che ci sono ame­ ricani, russi, francesi, eccetera, che hanno fatto ca­ polavori che onorano l’umanità; no, no, non hanno sprecato la pellicola. E chissà quali altre magistrali opere essi ci daranno ancora secondo il loro genio e con attori e teatri di posa, e romanzi. Ma gli uomini del cinema italiano, per conservare e approfondire la loro materia e il loro stile, dopo aver socchiuso con coraggio le porte alla realtà, ora debbono, io credo, spalancare la porta alla realtà, nel senso che abbiamo detto.

Prefazione alla sceneggiatura di Umberto D., pubblicata nel n. 2 della Rivista del cinema italiano (dicembre 1952). Le idee espressevi sono state raccolte da Michele Gandin in una serie di lunghi colloqui.

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Il neorealismo, secondo me

Non avrei niente di nuovo da dire sul neorealismo perché le tre o quattro idee che mi porto dietro da qualche anno le conoscono ormai tutti quelli che si occupano un po’ da vicino del nostro mestiere, in quanto le scrivo o le riscrivo piuttosto di frequente qua e là, le ho dette anche alla radio, agli amici e pro­ prio in questi giorni a Enzo Muzii che le ha riferite ottimamente sulla rivista Emilia con un bel titolo che mi ha riempito di università: “Tesi sul neorealismo”. Ora sono qui davanti a voi che la sapete lunga, nella mia quasi natale Parma, con il timore, la paura anzi, di ripetermi e ripetermi e quindi di incappare in quel pericolo che segnalava nella seduta di stamane Ma­ rio Gromo. Un’altra paura mi viene per essere stato indicato ieri pomeriggio dal banco della presidenza come l’imputato - mi pare sia stato Luigi Chiarini con quei frequenti accenni che sono stati fatti dai re­ latori nei miei confronti, e quasi volevo cavarmela col dire: signori della corte, sono innocente - e av­ viarmi verso l’uscita. Ma il modo troppo sbrigativo che Valmarana poche ore fa ha usato, lui di solito piuttosto rispettoso della fatica altrui, per liquidare due film che mi sono cari, malgrado i loro enormi di­ fetti (alcuni dei quali vanno però attribuiti proprio a quel clima politico e morale che Valmarana, per quanto di sveglissimo ingegno, osteggia certo meno - avanti, diciamo: molto, molto meno - di me); due film che mi sono cari, dicevo, ancor più cari dopo il nostro convegno, perché Vigorelli, Chiarini, Castel­ 99

lo, Aristarco li hanno almeno riconosciuti come pro­ poste non del tutto indegne per un cinema volentero­ so almeno di sciogliersi dai conformismi celesti e ter­ reni - basta con gli incisi -, quel modo mi ha sugge­ rito di ripassare la lezione insieme a voi per vedere se proprio, almeno i pensieri che muovono le opere, magari sbagliate, siano anch’essi altrettanto e mani­ festamente sbagliati. Sono noto per un cattivo orato­ re e per un cattivo teorico, e credo che ve ne darò una prova di più, però mi trovo in famiglia e se mi consentite il tono confidenziale arriverò alla fine del­ la mia sincera relazione. La quale comincia con una dichiarazione di gioia, e se avessi in tasca dei benga­ la li accenderei: il neorealismo è vivo per tutti, si par­ la di un vivo, qui in questa sala, nessuno osa più fare delle insinuazioni funebri, perché hanno capito, i fa­ ziosi, che la domanda onesta non è: il neorealismo è vivo o morto? ma: come può continuare a vivere il neorealismo, a svilupparsi liberamente secondo la legge delle cose vive e nate da sentimenti popolari? Intanto che ci siamo, facciamo un altro grido di gioia: uomini qualificati, presenti e assenti, lavorano davvero per stilare finalmente una specie di decalo­ go del neorealismo, ovvero per fissare il punto di in­ crocio delle varie tendenze in modo che vi trovino asilo, conforto, i neorealisti di buona volontà. Ce ne sono - soprattutto fra i giovani - ma la carne è de­ bole e se resisteranno alle tentazioni abilmente disse­ minate lungo la loro strada - da chi mai? - avremo per merito loro il naturale svolgimento di quelle pre­ messe che gli anziani, forse oggi un pochino al di so­ pra della mischia, hanno gloriosamente posto. Allora vediamo un po’ di cercare di dare il nostro modesto contributo - ho cominciato col noi maie­ 100

statico e ora fatico a rimettermi sull’io, per ragioni di ritmo - a questa formulazione in atto, anche se pos­ siamo finire con l’essere la parte vitanda - sarà sem­ pre un fatto di chiarezza, alla quale ci ha invitato il comitato promotore in un modo e in questi giorni davvero memorabili. Fu scritto in tanti modi che la guerra è la chiave di volta del neorealismo. Quel fatto enorme sconvolse l’animo degli uomini e, ciascuno a suo modo, cercò di trasmettere nel cinema questa grandiosa commo­ zione. La guerra a noi italiani sembrò particolarmen­ te mostruosa in quanto non trovammo nessuna ra­ gione per parteciparvi e anzi c’erano negli italiani molte ragioni per non parteciparvi. Ma non si trattò di una ribellione limitata a quella guerra; fu l’occa­ sione per qualche cosa di più, fu la rivelazione asso­ luta, eterna direi, che la guerra offende sempre i bi­ sogni fondamentali, i valori dell’uomo a noi così ca­ ri; era questa rivelazione, secondo me, il principio di un vasto movimento umano. Voi direte che questa rivelazione non fu privilegio dell’Italia. Io credo di sì. In quelli che troppa gente chiama i difetti del no­ stro popolo, e che sono invece le sue virtù, proprio l’apparente carenza sociale, l’individualismo, noi pos­ siamo trovare i motivi di una vocazione e cioè la rea­ zione piena e appassionata alla suprema ingiuria che è la guerra. Non tanto l’uomo storico reagiva, l’uo­ mo dei libri di testo inserito in un arco senza fine di date che sono le date delle guerre passate, presenti e future (poiché, come nei cimiteri ci sono i loculi per coloro che verranno, così sottopagina ci sono i vuoti per le date delle guerre future), quanto l’uomo più profondo, anche se a smuoverlo erano le circostanze e gli interessi precisi del suo tempo. Direi l’uomo, se

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questo non sapesse un po’ di retorica. Ma voi obiet­ terete che l’uomo storico e l’uomo senza aggettivi convivono sempre; non so, m’inoltrerei in un terre­ no infido per la mia scarsa perparazione; ammettia­ mo che convivano, però convivono utilmente quan­ do, per il principio dei vasi comunicanti, tendono a porsi allo stesso livello; il secondo con la sua origina­ ria voglia di vivere e il primo con la sua coscienza. La voglia di vivere quando è copiosa e felice talvolta esce dal suo limite, meglio di quando rinsecchisce, perché allora un popolo decade o non può più por­ tare all’umanità contributi di rinnovamento. Oserei pensare che altri popoli hanno dimostrato, anche dopo la guerra, di valutare l’uomo come materia sto­ rica nel senso di determinata nel suo movimento, o addirittura fatale, e per questo non ci hanno dato un cinema di liberazione, tutto teso alla liberazione dai preconcetti, come aveva cominciato a fare il nostro cinema; perché appunto per loro tutto continuava^ per noi tutto cominciava; per loro la guerra era stata una delle guerre che affliggono il nostro pianeta, per noi era stata invece l’ultima guerra. Quali erano le con­ seguenze di questa scoperta, di questo slancio da pionieri che era nuovo non perché mai sentito pri­ ma, ma perché mai sentito in un modo così colletti­ vo e lungo? Che si apriva davanti a noi una sconfina­ ta tematica sull’uomo, ma non astratta, bensì concre­ ta come gli uomini che avevano provocato o patito la guerra. Era la necessità di conoscere, di vedere come quei tremendi fatti potevano essere avvenuti e il ci­ nema era il mezzo più diretto e immediato per que­ sto tipo di conoscenza, urgente, al di fuori della soli­ ta cultura, per quanto illustre, che non aveva pronto il linguaggio per esprimere la reazione agli inganni

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delle antiche idee generali con le quali ci eravamo trovati addosso la guerra senza tentare nessun moto di rivolta veramente moderno. Ho detto bisogno di conoscenza, aggiungo delle persone e dei luoghi; di ciò che avevamo fatto e di ciò che stavamo facendo; quindi una grande atten­ zione a sfuggire le parole ormai fallite, dalle quali la guerra ci aveva separato violentemente, e la ricerca delle nuove parole, che è ancora in atto. Ci accorge­ vamo della importanza costante dell’uomo e non ve­ nivano avanti certi uomini anziché altri, ma gli uomi­ ni come tutti soggetti di storia. In altre occasioni ho detto degni di racconto. Quale racconto? Il solo rac­ conto reso possibile dalla conoscenza dell’oggetto; la fantasia poteva sempre far valere i suoi diritti, ma quel tanto che le era permesso, ripeto, dalla cono­ scenza dell’oggetto, raggiunta attraverso una vera e propria commistione col medesimo. Questo contat­ to, questa convivenza reale col prossimo, di parteci­ pazione, di solidarietà, che la cultura oggi potrebbe raggiungere per rinnovarsi, andare cioè verso gli altri animata da uno spirito d’inchiesta estremo, cioè poe­ tico, che vuole ramificarsi in tutta la vita attuale, in ogni suo punto dello spazio e del tempo importante. Non si trattava più di un conoscere solitario, ma di un conoscere mediante rapporti approfonditi con la gente che si vuole conoscere, rapporti tangibili. L’inchiesta giornalistica che pur tuttavia può avere essa stessa tanti strati, è solo la prima dimensione di questo spirito d’inchiesta; mentre invece quella fatta col cinema, proprio per l’immensità della diffusione del mezzo, richiede da parte nostra un impegno to­ tale, un impegno poetico; poetico nel senso di totale, che mira a darci il maggior numero di dimensioni

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possibili della cosa su cui si fa l’inchiesta. Se mandia­ mo intorno per una città un cineasta e gli domandia­ mo di girare il diario di questo viaggio, dipenderà dalla sua carica di interessi che ottenga un ritratto anziché un altro e mi parrebbe di offendere il mio prossimo se osassi elencare qui, cento o mille, gli in­ finiti modi con i quali si può affrontare Milano, per esempio, poiché sarebbero sempre modi miei men­ tre ognuno avrà il suo modo, anche se comune è la fede nella ragione del viaggio nell’attuale. Finalmente ho detto attuale e attuale è a parer mio uno degli aggettivi fondamentali del neorealismo. Il cinema neorealista è la forma del cinema italiano che più risponde ai bisogni, alle esigenze, alla storia degli italiani in questo momento. I cartoni di Disney non sono neorealismo, ma noi andiamo a vederli volen­ tieri e così andiamo a vedere qualsiasi cosa cinema­ tografica dove si manifesta l’ingegno umano, ma pre­ feriamo il neorealismo noi italiani, non per una ra­ gione estetica, ma perché non può essere diversamente. Nessun altro discorso, assolutamente nessun altro discorso è stato cominciato che sia diverso dal neorealismo. E cominciato come avvicinamento alla realtà. Ma non può essere quell’awicinarsi che è sempre stato dell’arte a tutt’oggi, poiché allora non vi sarebbe davvero quella rottura con il passato che la guerra, l’esperienza di questi anni ci hanno spinto a fare. E nessun altro discorso è stato cominciato neppure dalle altre cinematografie, ci sono dei film più o meno felici nell’ordine sociale. C’è un film di straordinaria intelligenza come Le vacanze del signor Huloty ma non è neorealista; di neorealista ci sono dei pensieri, c’è un’ansia neorealista nei giovani, ma non ci sono le opere. Le opere neorealiste non pos­ 104

sono essere che nel corpo di quel discorso che dice­ vamo, cioè lungo il tragitto che si deve percorrere per avvicinarsi alla realtà. Neorealismo è diventato sempre meno generico nel pensiero, in quel po’ di teoria che a poco a poco si è andata formulando, e sempre più generico invece nelle opere. Le ragioni sono tante che credo che verranno a galla molto semplicemente in questo convegno. Voglio dire che c’è una posizione, un atteggiamento verso la vita che non si limita al fatto cosiddetto artistico, ma che fa diventare idoneo il fatto artistico, idoneo secondo le attuali necessità storiche, solo in quanto si viva in un certo modo, anzi si conviva. Lo so che l’artista è mal­ levato da secoli e secoli di ogni sua colpa privata; ma io credo che l’artista (l’uomo di cinema), che deve essere artista come qualsiasi altro, e cioè munito di una sua forza di penetrazione autentica, non possa essere mallevato da una insufficiente adesione ai fat­ ti del suo tempo. Questa partecipazione non ci basta più, intesa come lo era prima, ci vuole una parteci­ pazione di presenza, per cui l’intuizione si eserciti sulla cosa e non sull’intuizione, ricreando attraverso una serie di intuizioni l’oggetto, come Cuvier da un osso ricostruisce il mammouth; sì, l’uomo è capace di siffatti miracoli, ma gliene chiediamo di più sem­ plici e faticosi, come il miracolo di seguire per un giorno intero un uomo e poi farcene un rapporto. E se non sarà un rapporto poetico? Cari amici, non lo sarà per Paolo, ma lo sarà per Antonio. Intanto vada; e già in questo muoversi avrà compiuto il primo atto della sua poetica - e ha un mondo da scoprire da­ vanti; deve voler fare un taglio netto col passato, tan­ to netto, perché poi non riuscirà mai a separarsene

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veramente. Lo seguirà come la sua ombra - purché non diventi il suo corpo. Sì, siamo tutti un po’ in collera col passato - che è seminato da meravigliosi soli della poesia, del pen­ siero, ecc. Pensate che tutti questi soli messi insieme non ci fanno lume per sei mesi, o, come ieri mi dice­ va un importante esponente della gioventù, appena appena uscito dall’università, non abbiamo nessuna certezza per sei mesi. Ebbene, questa certezza può darsi che non la troviamo ma possiamo trovarla ca­ somai solo “davanti a noi” attraverso l’urgenza di portare subito il nostro contributo a favore di ciò che ci sembra bisognoso del nostro contributo. Abbiamo per fortuna l’illusione, chiamatela pure così, che da noi cominci qualche cosa di veramente diverso. Infatti, l’uomo che soffre davanti a me è as­ solutamente diverso dall’uomo che soffriva cento anni fa. Io devo concentrare tutta la mia attenzione sull’uomo di oggi. E il fardello storico che io ho sul­ le spalle e che non vorrei - e non potrei - neppure scrollarmi brutalmente dalle spalle, non deve impe­ dirmi di esser tutto nel desiderio di liberare que­ st’uomo e non altri dalla sua sofferenza servendomi dei mezzi che ho a disposizione. Quest’uomo (ecco una delle mie due o tre idee fisse) ha un nome e un cognome, fa parte della società in un modo che mi riguarda senza equivoci; e io sento il suo fascino, lo devo sentire così forte, che voglio parlare di lui, pro­ prio di lui e non attribuirgli un nome fìnto, poiché quel nome finto è pur sempre un velo tra me e la realtà, è qualche cosa che mi ritarda, anche di poco, ma mi ritarda il contatto integrale con la sua realtà e di conseguenza la spinta a intervenire per modifica­ re questa realtà. Datemi torto o peggio, a me sembra

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che sia proprio consequenziale per il neorealismo giungere sempre di più dal falso al reale. Il suo orec­ chio e il suo occhio sono fatti per accogliere l’istan­ za di tutti gli uomini che vogliono essere presenti, non solo nel cinema, col loro nome e cognome, che vogliono essere conosciuti. Ritorna la parola cono­ scere che con il cinema acquista la sua attualità. Nessun mezzo fa conoscere come il cinema, ci dà inaspettate suggestioni, ma non quando macchino­ samente costruiamo o ricostruiamo, bensì quando cogliamo dal vero. Con il costruire e il ricostruire ci avviciniamo a un simbolo che non può mai avere la stessa forza dell’originale; e il saper ottenere dall’o­ riginale più ancora che dal simbolo, dipende ap­ punto dalla passione di adesione, di interesse che noi mettiamo nel volerlo conoscere. Ma è chiaro che la strumentazione di tanto nuova materia non la si ottiene all’impronta; sia i custodi che i custoditoti dei custodi devono farsi la loro tecnica, anzi soffrir­ la. E stiano allegri che non la soffriranno più nelle solitarie torri di avorio, lo stile stesso si formerà dav­ vero a contatto con l’umanità: nominatim. E non ci sarà mai bisogno di abiti curiali per entrare in que­ ste biblioteche di vivi. Parecchie volte mi è capitato di spiegare che non dico che gli attori non devono fare il cienma; dico che gli attori debbono fare il cinema, ma hanno po­ co da spartire con il cinema neorealista, almeno nel­ la versione che sto prospettando. Perché il cinema neorealista non domanda a questi uomini da cono­ scere e che si prestano a farsi conoscere o al primo incontro o con incontri più laboriosi di avere mai minimamente la dote dell’attore o qualche cosa di professionale; il professionale sta nella loro profes­ 107

sione di uomini, di questo debbono avere sempre più coscienza; ma è chiaro che questa coscienza potrà essere creata o irrobustita solamente attraverso la co­ noscenza di se stessi e degli altri, il che col mezzo ci­ nematografico neorealistico si può raggiungere me­ glio che con qualsiasi altro mezzo. Si dirà, poiché non si dice altro, che tutto questo non può mai diventare spettacolo. Vale la pena allo­ ra di separare la parola spettacolo dalla parola neo­ realismo. Ma non è così. Si capisce che se i giornali, cioè l’organo subito dopo il cinema più potente, continuano a considerare il cinema come un fatto voluttuario, la fatica di chi vuol fare il cinema neo­ realista sarà immane. Chi aiuta questo sforzo neorea­ listico? A me pare molto pochi, perché il capitale lo invita solo ai compromessi e tende a battere altre strade per ovvie e antiche ragioni; chi comanda, al­ trettanto, perché sente che questo neorealismo col suo voler conoscere conoscere conoscere, frugare l’Italia, frugare le città, le case, col suo denunciare, con la sua, in sostanza, profonda insoddisfazione di questa civiltà, con il bisogno di fare qualche cosa di vero, di duraturo per gli altri, con il suo evitare sem­ pre più le metafore, per cui tende a mettere sotto gli occhi i protagonisti della vita di pena e non dei si­ mulacri, conseguendone incessanti chiamate in cau­ sa di correo, disturba davvero l’ordine ordinato; e neanche noi stessi, poveri autori, poveri registi, po­ veri uomini di cinema che siamo sempre pronti ai compromessi, neanche noi facciamo quel che do­ vremmo fare. La carne è debole e la vita del cinema mescola tutto, santi e fanti, anche noi ci lasciamo prendere dall’onda e, come ci vogliono le alluvioni o i terremoti o qualche cosa del genere, perché un bri­ 108

vido di solidarietà corra lungo il filone della schiena degli uomini, così ci vogliono anche per noi dei fatti come quello di Renzi e Aristarco [*] o come il Con­ vegno di Parma per farci correre lungo il filone della schiena un brivido di quelTenorme responsabilità che abbiamo. Non bisogna scoraggiarsi, nel difendere il neorea­ lismo di cui parlo, bisogna aver fede che siamo in grado di far diventare spettacolo questi motivi di concreta socialità che ci assillano. Infatti, quanto più intensamente li sentiamo, più intensamente li rap­ presentiamo con quella quantità e quel modo di ri­ velazione che fa appunto provare allo spettatore l’emozione del vedere una dimensione di più della co­ sa. Per paradosso ho detto tante volte che basta far sedere uno e dirgli “guarda”, che siamo già nello spettacolo; questo paradosso postula un guardatore maturo ed è questo che noi dobbiamo cercare di al­ levare, ma non è certo scoraggiandosi ai primi tenta­ tivi, che fra Faltro non possono essere mai puri per la confusione di interessi contrastantissimi che presie­ dono alla nascita di un film anche puro, che noi riu­ sciamo ad allevare il nostro guardatore. Questo nuo­ vo guardatore è lì che ci aspetta perché davvero ci aspetta e se noi partiamo con la sfiducia verso il pub­ blico diciamo una cosa delittuosa, significa sfiducia verso l’uomo, verso le possibilità di dialogo; come se il dialogo noi potessimo averlo con altri che non sia­ no il pubblico. Sembra muto e inerte o non abba­ stanza ricco di individualità, quando al contrario è pieno come chi ha mantenuto dentro per secoli e se­ coli cose da dire con il complesso di non avere nien­ te da dire. Scusate se cito mie iniziative, ma devo ci­ tarle per mostrare a voi, cari amici, che in quelli che

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possono essere i miei errori c’è almeno della coeren­ za e che se sbaglio, sbaglio anche più spesso di quel­ lo che voi non siate soliti immaginare. Infatti, in un campo diverso, quello editoriale, io sto preparando per il nostro Guanda un libro che raccolga dei diari di gente comune. Non crediate che io abbia detto ai miei collaboratori di informarsi prima se quella gen­ te, domestiche, camerieri, pensionati ecc., avevano qualche cosa di particolare da dire, no, no, io sono partito dalla convinzione che avessero qualcosa da dire e che in queste prime loro pagine dove hanno dimostrato appunto di aver cose da dire c’è appena un vagito della coscienza di essere qualche cosa in tutta la loro giornata, di essere creature quindi con­ tinuamente alla ribalta e questo vagito diventerà pa­ rola articolata e poi canto. Altrettanto nel cinema, quelle figure che vengono avanti col loro nome e co­ gnome, coi loro fatti, e che sono ancora maldestre, perché schiave di una tradizione di attore, a poco a poco considereranno come una buona funzione que­ sto vedersi per far vedere, esprimersi, insomma, at­ traverso il cinema. L’emozione che può dare una fra­ se, dico una frase sola, in mezzo a tante frasi imba­ razzate, ma una frase sola con il tono di voce natura­ le e il gesto naturale di un operaio o di qualsiasi altro personaggio del nostro teatro quotidiano, la forza di scoperta della realtà di esistenza di questo personag­ gio, non la può avere nessun’altra sostituzione per quanto artistica essa sia; senza dubbio, anche qui si tratta di vagiti, ma i vagiti non solo sono della perso­ na che racconta se stessa o che si lascia indagare in quello che sta facendo, ma sono di coloro stessi che affrontano, dico i registi e gli scrittori di cinema, questa nuova materia. Non bisogna dire che la mate­

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ria è misera o sorda semplicemente perché la tecnica dell’uso di questa materia è ancora imperfetta; come c’è un processo di evoluzione da parte del personag­ gio narrato, così c’è un processo di evoluzione anche da parte di colui che deve narrare. È tutta una tecni­ ca particolare che si richiede, ma per tecnica non in­ tendo qualche cosa di distaccato dal cuore e dalla mente, ma intendo il modo più efficace del cuore, della mente per esprimere ciò che ha raggiunto; si tratta quindi di allenare il cuore e la mente a questi contatti, a questi incontri, a queste diverse esigenze e a poco a poco sceglieremo, sapremo scegliere, sapre­ mo disporci in modo da sfruttare questi personaggi come oggi sfruttiamo l’attore. E altrettanto dicasi dei fatti di cui essi sono interpreti e che affrontiamo neorealisticamente, perché, cari amici, i fatti sono sem­ pre incandescenti, è stata questa una delle illumina­ zioni del neorealismo, quando sono veri, e non solo le guerre o altre catastrofi; ma a taluno la guerra ha aperto gli occhi per vedere questo nuovo panorama di tutto notevole, di tutto correlato, di tutto meravi­ glioso e non con un senso fiabesco; e altri no. Altri, senza l’eccitamento della finzione, non fanno credito ai loro simili. E non si dica malignamente: basta con questi si­ mili che sono sempre poveri, basta con la miseria, basta con i disoccupati, basta con i fatti dolorosi. È troppo facile rispondere a questi che possiamo chia­ mare stanchi della vita. Il cinema neorealista può be­ nissimo fare a meno della miseria e dei disoccupati, dei bassi napoletani, delle zolfatare, di Matera, del Delta padano, ecc. Ci si occupi, mettiamo, deU’Ilva a Pozzuoli, per quel che riguarda Napoli, cioè di un’officina sonante, e di tante altre officine, a Pegli o

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Sesto S. Giovanni, dove veramente c’è il lavoro, il movimento, la costruzione e via dicendo; ci occupia­ mo della Scala di Milano sfolgorante, o dei tesori d’arte. Ma non capite che può variare l’argomento, ma non varia l’angolazione di un neorealsita, per cui si arriva sempre alla stessa conclusione; ed è la con­ clusione - non siate ipocriti - che voi non volete, an­ zi una delle virtù del neorealista dev’essere appunto quella di poter partire da qualsiasi argomento, da qualsiasi persona o oggetto, per rintracciare sempre le orme dell’uomo. E non è colpa mia, o meglio, non è tutta colpa mia, se gli uomini che lottano contro le sopraffazioni sono ancora la maggioranza. Parlavo di questa mia (e non solo mia, per fortu­ na) fiducia nella ricchezza della realtà che aspetta di essere visitata continuamente da noi e non si farà mai trovare vuota, con un critico molto noto, pochissimi giorni fa, e gli dicevo che dopo un film su una nazio­ ne, mettiamo l’Italia, viene naturalmente fatto di pensare un film come, non so, “Milano”, e poi “Via Depretis”, e poi “Il coinquilino” e avanti di questo passo. Il noto critico, che mi ha fatto l’onore di se­ guire la mia lunga chiacchierata con attenzione, e di farmi intelligenti obiezioni, quando sono arrivato a “Il coinquilino” è intervenuto con un netto: “Adesso lei esagera”, cioè egli trovava che “Il coinquilino” era un tema che poteva scadere nella macchietta co­ me fosse troppo scarso di contenuti e pertanto abbi­ sognasse di invenzioni tutt’altro che neorealistiche. Ho spiegato che anche “Il coinquilino” mi dava tut­ te le garanzie di storicità e quindi di complessità di interessi da vedere e analizzare. Il critico temeva che abbordando “Il coinquilino” si finisse in una serie di particolari, di aneddoti, privi di profonda connessio­ 112

ne, staccati dal tessuto generale; ma proprio il com­ pito dei neorealisti è questo, ripeto, far vedere l’ap­ partenenza al generale di qualsiasi tema che affronti, per cui non c’è piccolo o grande a priori, ma il pic­ colo o il grande deriva solo dalla nostra capacità pic­ cola o grande di indagare e di esprimere, con il lin­ guaggio adatto, l’unica e insieme molteplice ricchez­ za di ogni persona. Per chiarire ancora meglio que­ sto punto voglio riferire un paio di periodi presi dal primo volume degli Atti della commissione d’inchie­ sta sulla miseria in Italia'. “Non si tratta infatti di alli­ neare cifre statistiche susseguenti in tabelle, ma di fissare uno schema interpretativo della realtà sociale nei suoi aspetti ambientali e istituzionali, suscettibile di essere vivificato dal linguaggio delle cifre pensate sociologicamente. Questo compito spetta alla socio­ logia statistica, ecc.”. Il compito spetta al cinema neo­ realista - lasciatemi fare qualche accostamento un po’ troppo arrischiato - ma il solo sfogliare quei libri come ho fatto io in questi giorni ci dà il senso della immensità “obiettiva” delle cose che dovremmo sa­ pere, come uomini, come cittadini. E non come ri­ pensamento, ma ricorrendo al cammino della com­ missione d’inchiesta, o affrontando almeno un cam­ pione, così si chiama in statistica l’uno rispetto ai suoi molti, se non avete mezzi di viaggio. L’arte non ci entra? Ancora si deve dire: vai intanto e nessuno ti impedirà di fare dell’arte, se sei artista, ma vai. E se la tua fantasia, mossa in loco, ti suggerirà di balzare da un albero a un verone, o da Matera a Giotto, te ne saremo sempre grati, se sei stato là. Stavo dicendo che il compito del neorealista è quello non di fissare, di allineare fotografie, ma di avere uno schema inter­ pretativo della realtà sociale nei suoi aspetti ambien­ 113

tali e istituzionali, suscettibile di essere vivificato dal linguaggio delle cifre pensate sociologicamente. La statistica non domanda l’arte; il cinema neorealista domanda l’arte pur dichiarandosi fraterno di intenti perfino con la sociologia statistica, perché sono uguali gli intenti e straordinariamente diversi i modi e uguali gli itinerari da compiere, per cui chi sfoglia appena questi volumi, sia quelli sulla miseria, sia quelli sulla disoccupazione, vede proprio questo sempre più vero inoltrarsi dal macrocosmo nel mi­ crocosmo, o viceversa, entrare nella più riposta vita sociale, famigliare e individuale, e il quadro che se ne ha è un quadro dove ogni parte risponde sempre dell’altro e ha un tono autentico molto diverso da quello che ci può dare un romanzo. Se “Il coinquili­ no” di cui dicevo avesse un altro nome invece del suo sarebbe come avere cominciato il coito in mezzo alla realtà, ma poi essere andati a finirlo - e perché? - in una specie di limbo. E ora dovrei concludere, cercando di allineare una serie abbondante di esempi di temi neorealistici; ma gli esempi avrebbero valore in quanto formulati in un modo che diventerebbe il mio modo, ma io non sono venuto qui per fare l’acrobata; quanto per vedere, insieme a voi, di trovare le ragioni di parten­ za comuni. Partiamo tutti insieme, per esempio ac­ cordandoci sulle esigenze fondamentali del neoreali­ smo, mettiamo: “Vita di un paesucolo”. Partiamo in venti, tutti insieme, ripeto, ma dopo il primo metro, e anche prima, ciascuno prende la direzione che cre­ de e che può: e ciascuno penetrerà la vita del paesu­ colo a seconda della forza dei suoi occhi e delle sue orecchie; non solo, ma uno consumerà i suoi 3.000 metri tutti dentro una casa, un altro su cento ogget­ 114

ti, un altro sui soli primi piani di vecchie, e un altro sentirà il bisogno di un raffronto continuamente al­ ternato, di un contrappunto chissà di che genere, con un lago o con un fenomeno atmosferico; si capi­ sce che potrei continuare per un anno; ma la parten­ za è comune e non si pongono limiti al neorealista, se non quello che non deve appartarsi di fronte alla realtà; e deve trarre da essa e solo dall’esperienza di essa tutte le suggestioni che solo l’approfondimento di quest’esperienza può infinitamente dargli. Perfino nella prefazione all’altra serie di volumi editi dalla Camera dei Deputati, relativi ^inchiesta parlamentare sulla disoccupazione in Italia, il presi­ dente della Commissione riporta una frase di Lord Beveridge: “La disoccupazione non può essere vinta da una democrazia, ammenoché essa non sappia che cosa significa”. Cioè i miracoli si fanno con la cono­ scenza di partecipazione, questo paziente convivere con le cose che si vogliono conoscere, questo spirito d’inchiesta che, ripeto, una Commissione Parlamen­ tare riduce in tabelle tuttavia eloquenti e che un uo­ mo di cinema deve ridurre in fotogrammi altrettanto eloquenti. Questo è il punto. Non abbiano paura i poeti di dover lasciare appesa alle fronde dei salici la loro cetra; e oggi che è appesa, e anche per quelli che invece cantano tutto il giorno, la loro voce non riesce più a diventare elemento attivo, diretto e immediato. Abbiamo bisogno di poeti che spieghino perfino ciò che fanno, e non che, emessa la voce, stiano lì a udir­ la come si ascolta l’eco misteriosa nel Battistero di Pisa. Poche sere fa stavo al cinema Salone Margheri­ ta a vedere Le vacanze del signor Hulot, Non si tratta di un film neorealista, tutt’altro; ma anch’io son fra quelli che lo giudicano un bel film, un film fresco, in­ 115

telligente, frutto della passata civiltà cinematografica che del resto ha dato tanti capolavori e ancora ne darà. La gente rideva, ma non tutta, e io mi son fatto alcune risate come non facevo da tempo. Quando è venuta la luce, un bambino di dieci anni si è alzato cercando subito con gli occhi suo padre, che si era dovuto sedere lontano dal figliuolo per la grande quantità di spettatori, puntandogli contro un dito si è messo a gridare: “Papà, hai visto? non volevi veni­ re!”. Il padre non avrebbe voluto andare a vedere Hulot e il figlio di dieci anni c’è voluto andare. Con­ sideriamolo un apologo e lasciatemelo usare per fini­ re la mia chiacchierata, che cioè l’invito viene dai giovani, l’invito al neorealismo, che è il movimento dietro al quale ci possiamo incamminare tutti, cia­ scuno con una speranza un po’ diversa dall’altro, se volete, però con una nuova esperienza che ci convin­ ca a considerarci responsabili in concreto.

Relazione al convegno sul neorealismo (Parma 3,4,5 dicembre 1953), ideato da Zavattini e organizzato da un comitato promotore, compo­ sto, fra gli altri, da Pietro Barilla, Virgilio Marchi e Luigi Malerba. All’assise sono presenti numerosi cineasti e critici: Luigi Chiarini, Pietro Germi, Sergio Amidei, Suso Cecchi D’Amico, Marco Ferreri, France­ sco Maselli, Virgilio Tosi, Riccardo Ghione, Antonio Marchi, Piero Nelli, Carlo Lizzani, Renzo Renzi, Vittorio De Sica, Federico Fellini, Mario Gromo, Attilio Bertolucci, Gian Luigi Rondi, Piero Gadda Conti, Ugo Casiraghi, Arturo Lanocita. “A Parma”, scrive Zavattini nel suo Diario del 31 dicembre 1953 {Cinema Nuovo, n. 27), “lo scopo non è di far prevalere una poetica piuttosto che un’altra ma di riaffermare innanzitutto l’esistenza del neorealismo e le possibilità di sviluppo, e non soltanto in Italia. Ogni nazione che faccia un cinema in rapporto stretto con la realtà fa del neorealismo, partecipa a questo vasto movimento umano coi modi che le sono propri ma con l’unico intento di conoscere i più gravi proble­ mi dell’uomo moderno. Il neorealismo è ormai la coscienza del cine­ ma.” Gli atti del convegno perugino purtroppo non sono stati mai rac­

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colti, ad eccezione di quattro relazioni (Cesare Zavattini: “Il neoreali­ smo secondo me”; Carlo Lizzani: “Neorealismo e realtà italiana”; Ren­ zo Renzi: “Il neorealismo nei film di guerra”; Vito Pandolfì: “Gli sce­ neggiatori del neorealismo”) riprese dalla Rivista del cinema italiano, n. 3, marzo 1954.1 lavori si concluderanno con l’approvazione di un documento in cui si dichiara: “Il comitato promotore e la presidenza del convegno sul neorealismo, nel chiudere i lavori, rivolgono un rin­ graziamento alla città di Parma e ritengono utile fissare i seguenti pun­ ti su cui si è riscontrato l’accordo di tutti i partecipanti, sia pure di di­ verse posizioni ideologiche: 1) il valore positivo di quello che si chia­ ma neorealismo italiano su cui poggia particolarmente la fortuna del nostro cinema; 2) l’esigenza di salvaguardarlo da tutti quei pericoli di natura sia oggettiva che soggettiva che ne hanno determinato l’attuale incertezza e affìevolimento e ne ostacolano il libero sviluppo; 3) l’esi­ genza, di fronte a questa corrente del nostro cinema, di un maggior impegno critico di studio e di diffusione dei suoi valori; 4) il voto che il Parlamento e gli organi responsabili dello Stato, nel loro intervento legislativo ed esecutivo nei confronti del cinema, tengano conto dei valori della cultura italiana liberamente intesa. Questa unanimità e concordia dimostrano come non ci sia oggi istanza culturale e sociale che non trovi nel neorealismo le più possibili forme di espressione ar­ tistica”. Fra gli altri relatori ricordiamo Giancarlo Vigorelli (“La se­ conda strada della cultura italiana”), Pietro Bianchi (“Realtà e poe­ sia”), Virgilio Tosi (“La censura cinematografica e il neorealismo”), Ugo Casiraghi (“Neorealismo e rapporti con il pubblico”), Fulvio Jacchia (“Il cinema americano in Italia”), Alfredo Guarini (“Problemi della produzione”). In una cronaca del convegno perugino, Tommaso Chiaretti scrive che Cesare Zavattini è stato “imputato e pubblico mi­ nistero in questo processo al cinema italiano”. * Guido Aristarco e Renzo Renzi sono stati rinchiusi nella fortezza di Peschiera il 1° settembre 1953, dopo aver rispettivamente pubblicato e scritto sul n. 4 di Cinema nuovo (1° febbraio ’53) un articolo, “S’agapò”, in cui si proponeva di girare un film che narrasse le prodezze amatorie dei soldati italiani inviati in Grecia a occupare un paese ri­ dotto alla fame e alla miseria. Atto di accusa: aver vilipeso le Forze Ar­ mate. Nonostante l’indignazione e la sollevazione di tutti i democrati­ ci, i due giornalisti sono stati condannati dal tribunale militare.

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I Circoli del Cinema

I Circoli del Cinema sono un’istituzione che si va diffondendo sempre più in Italia e altrove e il loro numero cresce a mano a mano che si precisa la fun­ zione sociale. In ogni nostro paese - poiché da noi il cinema ha per suo carattere precipuo la coscienza di questa funzione - dovrebbe pertanto sorgere un cir­ colo del cinema; se noi abbiamo tanta fede nei circo­ li del cinema non è certo per un assurdo confronto con gli altri vecchi e gloriosi mezzi di cultura ma per la convinzione che il nuovo mezzo di cultura possie­ de le qualità più attuali e dirette per raccogliere la gente e sollecitarla a conoscere i problemi della vita e a parteciparvi, soprattutto i problemi della vita nel­ la propria nazione. Ho visto con i miei occhi cambiare la faccia di un paese con la nascita di un circolo del cinema, giova­ ni e anziani si animavano improvvisamente e co­ minciavano a discutere. Ho visto aspettare con an­ sia l’arrivo del nuovo film e il nuovo film lasciare dietro di sé un’idea, un sentimento, qualche cosa che prima non c’era, e centinaia di abitanti di quel piccolo paese che prima andavano a vedere i film come un vizio, andare a vedere i film con il bisogno di entrare nel giro dei giudizi del mondo, di sentirsi membri di una collettività (dove chi fa qualche cosa fa sempre come un rapporto agli altri affrontati consapevolmente), di affermare insomma la propria responsabilità.

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Presidente della Federazione Italiana Circoli del Cinema sin dal 1953, Zavattini è stato uno tra i pochi uomini del cinema italiano che abbiano sinceramente creduto nella funzione propulsiva e inno­ vatrice delle organizzazioni del pubblico. Il breve testo pubblicato nel 1954 è l’introduzione a un opuscolo informativo, Che cosa sono i circoli del cinema, redatto da Cecilia Mangini ed edito dalla F.I.C.C. Nel medesimo anno, Elllustrazione Italiana del 25 dicem­ bre pubblica un articolo, Brano di una lettera un pò1 ingenua, vec­ chissima e no, in cui Zavattini spezza una lancia a favore della mol­ tiplicazione dei circoli cinematografici, pur non dissimulando un certo fastidio per le divisioni, politiche e ideologiche, che negli anni Cinquanta segnano e affardellano la vita dell’associazionismo cultu­ rale. "... A questo buon cinema italiano, sarebbe ora che andasse da ogni parte d’Italia un segno di attenzione, di solidarietà, che insom­ ma si cominciase a formare una coscienza cinematografica naziona­ le. Non credi che i circoli del cinema possano assumersi questo compito grandioso? Lo so che ci credi ma quanti sono i circoli del cinema? Duecento e appartenenti a quattro o cinque specie di asso­ ciazioni, qualcuna delle quali mette solo zizzania. C’è bisogno di duemila circoli, e non tanto nelle città dove altri strumenti di cultu­ ra favoriscono il flusso e il riflusso delle idee ma nelle sterminate aree depresse del nostro paese, in cui il cinema è per ignoranza e per pigrizia subito ovvero è il cinema dell’esercente. Non si tratta di imporre con i circoli del cinema una particolare cultura ma la cultura nella sua regola più elementare, cioè il biso­ gno di conoscenza e di discussione. Duemila circoli possono nasce­ re su questa semplice democratica regola, lasciando poi che ciascu­ no si sviluppi a seconda della sua fantasia, della sua condizione am­ bientale; non si deve e non si può domandare di più, e non importa neppure che la discussione del film finisca a favore o contro quel film, basta che si veda quel film e se ne discuta. Un nuovo circolo, in tal senso, è sempre un fatto positivo a qualunque parte apparten­ ga. Io credo che sarebbe molto utile, per questa moltiplicazione dei circoli oggi impedita dalla scarsa concordia tra le varie Associazioni, uno statuto comune a tutte le Associazioni, garantito da un organi­ smo che dia il suo timbro, il suo exequatur a quei circoli bianchi o rossi che obbediscono nel loro impianto e nella loro attività fonda­ mentale alla regola radicale innanzi detta. Un circolo nuovo, ripeto, ha come il valore di un ambulatorio in una zona malsana... ... Che cosa vuoi che conti se un circolo del cinema non è attrez­ zato neanche un po’? Esagero, ma basta una proiezione all’anno, una dozzina di sedie e un tavolo. Se non hanno la sala cinematogra­ fica, perché molti circoli non trovano nemmeno un giorno alla setti­ mana una sala che li ospiti, quell’organismo di cui sopra sarà lui a

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mandare intanto un paio di volte all’anno in ogni paese a proiettare tre o quattro film: è un seme buttato là, il principio neorealistico di partecipazione...”

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Un corso dell’immagine

... Dei giovani mi hanno domandato proprio oggi, in una seduta pubblica, che cosa noi anziani possia­ mo consigliare loro di pratico per entrare nel cinema e secondo le loro incorrotte aspirazioni. Ho risposto ridendo: “La rivoluzione”. Nel senso che, rebus sic stantibus, i giovanni hanno poco margine per svol­ gersi e invecchieranno come nell’isola di Che-Ju-Do dove le donne sono tante rispetto agli uomini che molte muoiono senza aver mai provato il piacere del­ l’uomo, malgrado la poligamia. Il rimedio sarebbe di far diventare il cinema un mezzo di espressione nu­ meroso e necessario come la stampa. La televisione dovrebbe dire ai giovani: servitevi della mia grande occasione, perché potete svolgere cinematograficamente temi di tre minuti di dieci mi­ nuti o di venti, eccetera, e non poniamo le remore dello spettacolo tradizionale. La televisione apre tan­ te direzioni per la sua stessa struttura e per i suoi stessi abbondanti bisogni; la televisione non ha nes­ suna delle costrizioni del vecchio cinema, così tiran­ nico che consente, per esempio, solo film di un’ora e mezzo, cioè determina un modo di pensare e di esprimere. Essa è tutta snodabile in variazioni quan­ titative o qualitative che riallaccerebbero il cinema alle sue possibilità originarie. Saluteremmo perciò con gioia un concorso nazionale della Televisione ri­ servato ai giovani cineasti, un concorso che duri un anno, e che farebbe sentire che per cinema non deve intendersi solo quello delle sale (questo ne è forse la 123

manifestazione più lenta e monotona, malgrado qual­ che genio), ma tutto ciò che il cuore e la mente pos­ sono far venir fuori dalla macchina da presa. Quan­ do si tratta di mutar la denominazione dei circoli del cinema in circoli del cinema e della televisione non è tanto per spronare l’attenzione critica della gente verso questo strapotente strumento, ma perché la te­ levisione rompe la cristallizzata concezione del cine­ ma offrendo, ripetiamo, inediti e più vasti usi narra­ tivi all’obiettivo... A proposito della televisione, non sarebbe profi­ cuo che svolgesse un “corso dell’immagine”? Sarei tra i telespettatori più assidui nel seguire il corso. La televisione si presta a insegnare a guardare, a capire il rapporto tra la cosa e la sua immagine. Non si par­ la più, o solo troppo raramente, dell’immagine del cinema, in quanto l’immagine nel cinema ormai tra­ duce ma non inventa. Non ci sono più di due o tre registi in Italia che abbiano una poetica nella quale l’immagine sia l’elemento determinante e non ce n’è neanche uno, come non vi è nessuno scrittore di ci­ nema, me compreso, il cui racconto proceda dall’im­ magine anziché trasferirsi successivamente nell’im­ magine. Il che limita l’orizzonte. Anche i fotografi in questo senso sono pochi mentre di macchine fotografiche ce ne sono a milio­ ni. Perché la macchina fotografica è uno strumento da prima comunione da commemorazione nel suo più popolare esercizio. Nessuno ha mai pensato di introdurlo nelle scuole per rendere meno enorme lo jato tra studi e vita, nessuno ha mai pensato di dare un tema da svolgere con la macchina fotografica. Sarebbero obbligati gli insegnanti, anche per una ragione tecnica, a un insegnamento più calzante con 124

la realtà. La macchina fotografica ha infatti una fi­ nalità religiosa e fa perciò paura, e lo dico io che non la so adoperare. Questa carenza è uno degli aspetti di paura che talvolta la realtà mi suscita e che fa sì che io preferisca talvolta pensare la realtà piut­ tosto che vederla, affrontarla. Credo pertanto che nelle scuole la macchina fotografica avrebbe anche una funzione rispetto allo sviluppo positivo del ca­ rattere nell’alunno. Verrà presto un giorno, caro Aristarco, che pub­ blicherai foto-documentari dei ragazzi e non solo de­ gli anziani che stai pubblicando con nostro vantag­ gio (anche se più vedi e più desideri vedere, per cui ce ne vorrebbe almeno uno ogni numero e di un maggior numero di pagine, se no si corre il rischio di far sorgere in qualche povera mente il dubbio che i bei, i buoni temi, i temi degni siano i venti che tu rac­ cogli in volume e non i tre milioni che invero ci so­ no). Ti ricordi l’eterno tema: "Una passeggiata scola­ stica”? Pensalo fatto dai ragazzi con la macchina fo­ tografica. Quanti concreti obblighi, di commento, prima e dopo da parte del maestro. Perché non pro­ poni a una casa fotografica che regali qualche mac­ china fotografica a una classe elementare e vediamo un po’ che cosa succede... Roma, 25 marzo 1956

Pubblicato su Cinema Nuovo e poi in Diario cinematografico, a cura di Valentina Fortichiari, Bompiani 1979.

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Conversazione alla Casa della cultura di Milano

... Io non sono un teorico, ma ho una grande e ra­ dicata fiducia nel cinema italiano, nel talento rinno­ vatore degli italiani nei confronti del cinema. Per questo, quando si discute sul cinema italiano, è sempre un giorno di festa per me. Dico: si possono fare pochi film, ma si possono fare molte discussioni, e finché ci sono discussioni c’è speranza. Noi abbiamo assistito al rarefarsi dei buoni film nel senso conseguente del discorso neorealistico, ma a un chiarirsi e irrobustirsi della coscienza neoreali­ sta in Italia e fuori. Voi sapete che la parola stessa neorealismo perfi­ no i suoi più feroci nemici hanno finito col farla en­ trare nel loro vocabolario. Ed è stato un gran fatto, come ho già avuto occa­ sione di dire, veder dei ministri andar a raccogliere con buona volontà all’estero gli elogi rivolti al nostro cinema in quanto neorealista. Sul principio della discussione, della libertà, del dibattito, noi tutti speriamo che si moltiplichino i circoli del cinema, perché attraverso i circoli del ci­ nema può farsi sempre più stretto, consapevole, il rapporto tra spettatori e film. Solo dalla base può ve­ nire quella maturazione per la quale il cinema - ripe­ to un mio vecchio concetto - non sia più subito ma provocato, in altre parole che il pubblico consideri il cinema secondo il criterio di quanto di se stesso ve­ ramente trova là sullo schermo, e voglia anzi trovare se stesso là sullo schermo, lui italiano, lui cittadino. 127

Noi speriamo che, attraverso le discussioni, gli ar­ tisti tengano vivo dentro di loro il pensiero che di­ fendere la propria libertà di espressione vuol dire semplicemente sapere che la libertà concessa dalle leggi è “conditio sine qua non” per fare un cinema nazionale, altrimenti si fa solo un cinema di parte. Per questo agli artisti la nuova legge tanto invoca­ ta preme non tanto sul piano economico, che altre ca­ tegorie giustamente vogliono migliorare, quanto sul piano della censura la quale deve trovare una regola­ mentazione più consona allo spirito democratico. I produttori sono preoccupati della loro percen­ tuale, vogliono il 14% e non più 1’8%, il famoso “rientro” [*], di cui sarete tutti ormai informati. L’ot­ timo per le loro percentuali, ma non si dimenticano che perfino il famoso codice Hays, pur premettendo che il cinema è divertimento, non riesce a non di­ chiarare che il cinema può, anzi deve, contribuire al­ la formazione di una società più giusta. Insomma, l’alleanza fra produttore e artista è pos­ sibile se i produttori capiscono che, partecipando al­ la difesa della libertà di espressione, essi si garanti­ scono un prodotto impostato su basi meno effimere e cioè non più in balia delle voglie restrittive dei cat­ tivi politici, ma impostato su un discorso largo, con­ tinuativo, in sviluppo secondo quelle che furono le precise premesse del neorealismo, di cui parleremo più avanti. Ma sono avvenuti in questi giorni due fatti che mi hanno impressionato. Un produttore, tornando da Parigi, ha dichiarato - si tratta di un produttore mol­ to in gamba, che sa quello che dice e quello che vuo­ le - ha dichiarato che all’estero il neorealismo è sem­ pre più apprezzato quando segna ulteriore sviluppo 128

in senso lirico, come nel caso del film La strada di Fellini; quindi quel produttore cercherà di fare sem­ pre più lirico, e potrebbe essere commovente vedere un produttore, con questi bei programmi poetici, che dice: “Io voglio fare sempre più lirico”, ma biso­ gna che si rassegni a dire, almeno, che rinuncia a fa­ re neorealismo. Perché col lirico, cui allude quel produttore, andiamo lontano con la velocità del raz­ zo da quel tipo di interessi nazionali che sono la te­ matica (riconosciuta in tutto il mondo) del neoreali­ smo, cioè non del cinema, ma di un certo cinema. L’altro fatto grave - e di questo non ho il docu­ mento, ma mi è stato riferito - è che un altro pro­ duttore, tornando in questi giorni dall’America, dice che in America si assiste con soddisfazidone ad un indebolimento del neorealismo. Ma non nel senso di dire: gli americani sono sod­ disfatti perché il cinema italiano si indebolisce; no, no, lui ci fa sapere che gli americani sono contenti perché, indebolendosi il neorealismo, l’idea fissa del neorealismo, quel limite così stretto del neorealismo, finalmente il cinema italiano può spaziare e può fare nientemeno che dei capolavori realisti come Guerra e pace. Quel produttore è del parere degli americani. Si tratta, ripeto, di due produttori molto qualificati, li abbiamo avuti vicini quando tutti gridavano che vo­ levamo la legge, la quale tardava a venire, ma cer­ chiamo di chiamare le cose con il loro nome, ricono­ scendo che in apparenza facevamo la stessa batta­ glia, ma per dei fini un po’ diversi. Si stanno facendo degli incontri molto importanti tra gli elementi artistici del cinema e i produttori, in questo periodo; in ogni caso, non saranno incontri

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inutili perché ci conosceremo meglio ed è necessario poiché lavoriamo sotto lo stesso tetto. A mio avviso, o la produzione si batterà con noi anche per la libertà, anche per lo sviluppo del neo­ realismo, o ci saranno dei feroci contrasti: il neoreali­ smo non è un capriccio, ma è nientemeno che il biso­ gno di travasare sullo schermo la storia attuale del popolo italiano, quindi il bisogno di conoscere sem­ pre meglio il popolo italiano nei suoi attuali interessi. Accettare l’indebolimento di questa esigenza, o con la scusa del lirico, o con la scusa del capolavoro realistico, è un modo esplicito di tradire le sacrosan­ te ambizioni nate nell’immediato dopoguerra. Pos­ siamo dire a questi produttori che noi crediamo che i neorealisti non abbiano proprio niente in contrario che si facciano dei capolavori realisti o qualsiasi altro film ispirato magari anche al puro divertimento. Piacciono anche a noi, le favole, le commedie divagative, tutto quello che la fantasia umana può da­ re. Ewia, si faccia, e un colore che può rallegrare la vita, un suono, nessuno vorrà mai limitare il campo dell’immaginazione, questa meravigliosa natura umana che rinasce sempre dalle sue ceneri, e che si rinnova sempre dai suoi fondi, evviva, evviva. Ma non siamo noi neorealisti che impediamo agli altri di fare i film che vogliono, sono gli altri che impedisco­ no ai neorealisti di fare i film neorealisti, cioè che im­ pediscono il dibattito poiché i film sono dei grandi momenti, vorrebbero essere o dovrebbero essere grandi momenti di questo dibattito. Un film andrà più a destra ed un altro andrà più a sinistra, evviva anche questo; non siamo utopisti a credere che in quattro e quattr’otto si faranno dei film in una direzione sola; significherebbe semplice­ 130

mente avere risolto la questione sociale, ma non sia­ mo utopisti, siamo dei cittadini in carne ed ossa, dei coerenti democratici, se pretendiamo che siano fatti gli uni e gli altri film, quelli che vanno più a destra e quelli che vanno più a sinistra, poiché è proprio nel­ lo spazio che percorre il pendolo, in questo alveo davvero materno che si può sviluppare un cinema nazionale, è con esso che si può sviluppare e conso­ lidare il carattere degli italiani. Ma c’è un fatto nuovo che mi impressiona, e che è la sola cosa che volevo dire per sentire, qui, in questa sede autorevole, il vostro parere. È una cosa di gran­ de importanza, riguarda proprio la cultura, o addi­ rittura l’alta cultura, e io vi prego di permettermi di esporvela con il linguaggio che posso, di ridurla qua­ si in termini pratici. Proprio in questi giorni ho letto delle affermazioni di gente, del valore di Carlo Sali­ nari e di Guido Aristarco, che mi sono sembrate gra­ vi e piene di pericoli. Può darsi che mi sbagli. Sono qui per riconoscermi, per essere illuminato. Ma sino a questo momento, il mio parere è che le affermazio­ ni di Salinari e di Aristarco sono una grossa botta in testa al neorealismo vero e proprio e confondono le acque invece di chiarirle. Salinari, parlando del libro di Pratolini Metello, lo saluta come un campione del passaggio dal neoreali­ smo al realismo. Aristarco, parlando di Senso di Vi­ sconti lo saluta come un campione del passaggio dal neorealismo al realismo. A me pareva che il neorealismo fosse un fatto tan­ to preciso da non avere bisogno di cambiare nome per evolversi, dopo soli dieci anni di vita. Si vuole che i suoi contenuti siano sempre più elaborati, sem­ pre più approfonditi! 131

Certamente, poiché di fronte ai mille chilometri di strada che le sue intuzioni fondamentali gli aveva­ no aperto davanti, il neorealismo ne ha percorsi sol­ tanto dieci. Ma non capisco perché nel riconoscere questo es­ so debba cambiare nome. Non bisogna cambiare no­ me secondo me, intanto perché non si cambia il co­ lore di una bandiera mentre la battaglia è in corso. Ed è la battaglia del neorealismo. Ci sono altre bat­ taglie? Bene. Ma il neorealismo ha le sue posizioni da raggiun­ gere e credo che nessuno di noi riuscirà a farlo dirot­ tare. Lo si può arrestare, legare ad una sedia, e poi battergli una mano sulla spalla per dirgli in tono ac­ corato: tu sei in crisi. Non esiste una crisi nel pensiero del neorealismo, anzi esiste un miglioramento continuo della coscien­ za di quello che vuole; ma esistono delle forze che, data la struttura del cinematografo, cioè una struttu­ ra capitalistica - non basta all’uomo di cinema un fo­ glio di carta ed una penna stilografica per esprimer­ si come vuole, egli pasa attraverso una serie di con­ trolli che sono tanti quanto il numero di milioni che costa un film, e per un film che sfugge questi con­ trolli, cento non sfuggono questi controlli esistono delle forze, dunque, che brutalmente gli impedisco­ no quel provarsi, quello sperimentarsi, quel bel re­ spirare che è condizione di vita. A parte questo, come si fa ad abbandonare una parola che è ancora tutta piena di succo, che abbia­ mo appena appena cominciato a spremere, e che vuol dire in un baleno niente meno che il cinema ita­ liano con le sue lotte, con le sue vittorie, con le sue ingenuità, con i suoi errori, anche, insomma con tut132

to quel gremito susseguirsi di fatti che non sono sol­ tanto dieci o quindici film, ma gli innumeri fatti per­ sonali e collettivi che attraverso tutta la penisola han­ no collaborate al formarsi di quei pochi ma sintoma­ tici film? Il lavoro del neorealista pertanto non va distratto con dei quesiti di natura estetica, ma reso sempre più responsabile con dei quesiti di natura morale e poli­ tica, poiché la morale, la politica sono sempre stati il suo fondamento. E se il neorealismo ed i neorealisti oggi sono smar­ riti - parlo di quelli che si siano smarriti -, non si tratta di uno smarrimento di natura estetica. Non mascheriamo con ragionamenti di estetica uno smar­ rimento di natura morale e politica. Possiamo forse riassumere la situazione così: che non si può fare un cinema neorealista quando la vita nazionale non può più essere neorealista. Il neorealismo era, per la sua stessa natura, Tanticonformismo; il conformismo sta riprendendo il so­ pravvento e le parole morale ed ordine sono infatti lasciate interpretare dai funzionari con la mentalità antica. C’è qualcuno che afferma che una forte coscienza riuscirà sempre a esprimere la sua verità morale, co­ munque sia costretto. Prima di tutto ci sono forme costrittive di natura tale che non consentono a nessuno di esprimersi. E se anche si registrano casi positivi, essi sono numeri­ camente così pochi che non si verifica, mediante questi troppo pochi casi, quel formarsi di una co­ scienza nazionale cinematografica che sarebbe possi­ bile sul piano neorealistico. Urgevano alle porte decine, centinaia di progetti,

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tutti lo sapete e, per quanto uno diverso dall’altro, però tutti ruotavano intorno ad un’unica necessità, che è esattamente neorealista, quella di contatti con la realtà del paese, la realtà che confluisce, per inten­ derci, nel Parlamento. Ma le porte a poco a poco si sono chiuse, e se qualcuno ogni tanto trova il modo di saltar dentro da una finestra, la gran massa resta fuori e, a poco a poco, si instrada per strade che non siano quelle proibite. Oggi, siamo lontani dal 1945-46, molto più che dieci anni. Sono bastati pochi anni per invecchiare. Come ricordiamo però quel tempo: scendevamo tut­ ti come dall’incubo e cominciava intorno, e c’era in noi, quella confusione mista di dolcezza e perfino di angoscia di chi vuol improvvisamente fare tutto, di­ re tutto, e parte per godere di questo sono, attardan­ dosi solo un momento davanti alla immensità del possibile. Ma dobbiamo dire che gli italiani non si attarda­ vano troppo, non fecero la fine dell’asino di Buridano e la stessa Costituzione lo dimostrò. La situazione era neorealistica, e quei film non fe­ cero che confermarla, renderla plastica; era una si­ tuazione in cui tutti partivano con lo slancio dei pio­ nieri verso la democrazia. Democrazia e neorealismo si identificarono. La democrazia perde dei punti, e li perde anche il neo­ realismo. Non è questione di cronaca e di storia, non è questione che il neorealismo sia cronaca ed il reali­ smo sia storia. E questione che l’indagine critica sui fatti contemporanei del nostro paese è stata interrot­ ta, per la semplice ragione che chi è al potere non sollecita mai l’indagine critica. Una crescita del neorealismo ci sarebbe stata, date 134

le sue premesse, solo se lo spirito di inchiesta, che animava ed anima il neorealismo, avesse potuto dila­ tarsi in tutto il nostro paese e se non si fosse creduto che, per aver fatto intravedere pallidamente i proble­ mi del Mezzogiorno, o per aver portato alla ribaltà un po’ di gente del popolo, il suo compito era finito. Non ci sono più gli sciuscià, hanno detto. Ma il neo­ realismo ha pane per i suoi denti anno per anno, se non giorno per giorno, anzi esercita il suo occhio a cogliere sempre più nei fatti in apparenza labili della cronaca, nella vita in apparenza troppo fluente di ogni giorno, le richieste basilari, non so se si può dire esistenziali, della maggior parte degli italiani. Il neorealismo ha accettato di essere chiamato cronaca in quanto considerava la cronaca come ma­ teria d’arte, e la considerava tale appunto perché si sforzava di scoprirvi dei valori così esistenziali che diventavano reali. La fraganza, secondo un profilo morale di respon­ sabilità della vita corrente, appariva tale che com­ portava addirittura un modo di comportarsi come uomo diversamente da una volta. La storicità del presente, chiamiamola così, si ma­ nifestava in un tale modo che non si poteva non par­ teciparvi e per questo ci si buttava dentro con un piacere di partecipazione che era il nuovo rivelatorio piacere dell’italiano. Si divideva il passato dal presente; il passato era stato pratico perché aveva fallito allora proprio co­ me presente, e pertanto a un’opera che pur con spi­ rito attuale raccontasse un’antica storia, si preferiva sempre un’opera che con spirito presente esaminas­ se il presente poiché questo voleva dire un modo certo, politico, di influenzare il presente. 135

Un film sullo sciopero delle Reggiane, o sull’anal­ fabetismo, o sui patti agrari, diventava perciò più specifico del cinema italiano che non di qualsiasi al­ tro cinema, appunto perché l’italiano era stato folgo­ rato dal richiamo alla realtà civile che è fatta dei no­ stri contributi continui, immediati e diretti. Si può dire che il più sostanziale merito del neo­ realismo era proprio questo, di proporsi solo argo­ menti vicini nel tempo e nello spazio, per svolgere i quali era indispensabile inserirsi anche fisicamente nel tessuto della nazione, aumentando secondo una progressione geometrica lo scambio dei rapporti di conoscenza tra gli italiani...

Bozza incompleta del testo di una conferenza tenuta alla Casa della cultura, a Milano, il 2 marzo 1955. In uno stile colloquiale, Zavattini disserta del neorealismo e dei suoi avversari, ma questa volta si disso­ cia da alcuni critici marxisti (Guido Aristarco e Carlo Salinari) che, nel solco aperto da Senso di Visconti e da Metello di Pratolini, preconiz­ zano uno scatto qualitativo del cinema e della letteratura italiani sulla base di quei due modelli. * Zavattini si riferisce ai cosiddetti “ristorni”, che consistono in un contributo finanziario statale percentualmente calcolato in rapporto all’incasso di ciascun film italiano. Il sistema dei “ristorni” ha sempre incrementato la produzione più incline ad assecondare gli orienta­ menti predominanti del mercato. Film come La terra trema., Bellissi­ ma, Umberto D., Francesco giullare di Dio, Europa '51, Viaggio in Italia hanno riscosso pochi spiccioli mentre i film di cassetta introitavano decine e decine di milioni dallo Stato.

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Il Circolo Italiano del Cinema

... La trasformazione del Circolo Romano in Cir­ colo Italiano risale come progetto a molto tempo ad­ dietro, circa due anni fa. A noi sembra che il tempo abbia lavorato a favore di questo progetto. Nel sen­ so che oggi più che mai si sente la necessità di colle­ gare il nostro Circolo a tutti gli elementi nazionali che possono contribuire a formare una coscienza unitaria del nostro mestiere, di questa arte, della sua funzione. Non si tratta del mero mutamento di un nome. È vero che anche con il vecchio nome di programma si sarebbe potuto attuare ugualmente. Ma a noi è sem­ brato che usare la parola Italiano spiegasse subito, come una luce, l’allargamento di panorama e di com­ piti che il nostro Circolo si propone. La storia del nostro cinema di questi ultimi anni ha dimostrato chiaramente la impopolarità, diciamo così, delle nostre ragioni, delle nostre migliori ragio­ ni, presso la opinione pubblica del paese. Perché ab­ biamo lavorato notevolmente tra di noi in questi an­ ni, nel corpo dei nostri sodalizi, per stare uniti, ma non abbiamo fatto quasi niente per rendere la opi­ nione pubblica partecipe veramente delle nostre am­ bizioni, dei nostri piani affinché le si possa doman­ dare pertanto nei momenti opportuni solidarietà, lealtà e correttezza. Noi siamo soli e la opinione pub­ blica è sola, poiché la stampa nella maggior parte dei casi segue criteri che raramente collimano con la di­ vulgazione di un concetto unitario del cinema, o ad­

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dirittura lo avversano sommergendo tutto in un’aura scandalistica e anarchica. Se si è d’accordo che un ci­ nema, che voglia avere una vita radicata nel paese, ha bisogno che tutti i suoi settori responsabili trovino li­ nee comuni di forza. Così dal governo alla produzio­ ne, a tutte le branche creative e commerciali e avan­ ti fino al pubblico, c’è uno spiedo che attraversa tut­ ti - scusate se ci paragoniamo a una schidionata di tordi - che è appunto la consapevolezza che un cine­ ma nazionale è tale se esprime di fronte al mondo dei valori peculiari del paese, indicati dalla condizione del paese. Vedete che c’è un campo immenso nel quale ciascuno può svolgere il proprio talento e il proprio affare, ma il timbro è quello, dev’essere quello, anche se le eccezioni nessuno potrà impedir­ le e, possiamo aggiungere, nessuno vuole impedirle. Come Circolo Italiano del Cinema noi vorremmo entrare in rapporto continuativo con tutti quelli che desiderano essere più giustamente e sistematicamen­ te informati, avere lumi e dare lumi, creare un più numeroso e reale scambio di idee tra quelli che si chiamano in termini politici i vertici e la base. Quel bollettino, di cui noi abbiamo fatto pochi e pallidi numeri, dovrebbe diventare non diciamo un bollet­ tino di guerra, ma un bollettino che rispecchi con una breve periodicità questa urgenza di rapporti in un momento in cui tutti stiamo per affrontare la si­ tuazione con franchezza e speranza rinnovate. Per fare dei buoni film non bisogna sentirsi soli. Su que­ sto nostro bollettino tutti noi del Circolo del Cinema dobbiamo fissare le nostre idee che oggi vanno di­ sperse in disordinate lamentele, nei caffè o nei corri­ doi delle quasi deserte case produttrici. Per fare dei buoni film, bisogna che ci siano anche

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dei buoni spettatori, lo abbiamo detto tante volte perché non crediamo né all’imposizione del pubbli­ co sull’artista, né all’imposizione dell’artista sul pub­ blico, ma a un processo di collaborazione naturale per cui l’uno deve all’altro e l’altro all’uno. Dai frequenti contatti coi nostri corrispondenti, con i nostri soci sparsi in tutta Italia, noi crediamo che ne deriverà del bene per tutti. E il principio di una rete che possiamo sognare di rendere sempre più fitta e, se diventerà più fitta, significherà che il nostro cinema ha ripreso la sua strada. Ma noi questa proposta, che postula una serie di iniziative propagandistiche tutte nuove, ve la sotto­ poniamo perché la sviluppiate, la perfezioniate. Po­ tremmo dire che la cosa oggi è alla fase di spinta, di sentimento e che voi potete farla diventare un fatto nuovo vero e proprio. In questo senso il futuro Consiglio direttivo avrà un grosso e inedito compito da svolgere. La prima Conferenza economica del cinema ita­ liano è originata dalle stesse necessità della trasfor­ mazione del nostro Circolo. [**] La situazione non ci domandava un altro Manife­ sto del cinema, ma qualche cosa che ci ponesse gli uni di fronte agli altri anche fisicamente. Abbiamo detto che nessuno come il nostro Circolo aveva il di­ ritto e il dovere di lanciare quest’iniziativa, e anche questa volta il nostro Circolo si è trovato primo in un’iniziativa unitaria e non poteva essere altrimenti. La vitalità, la tempestiva vitalità del Circolo significa per noi che c’è ancora vitalità nei quadri tecnici e creativi del cinema italiano. Non ci vogliamo disper­ dere nei rivoli delle inchieste utili, ma tuttavia prive di un punto di riferimento morale concorde. Ed è

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questo punto che noi cerchiamo ansiosamente, e che crediamo possa venire fuori dalla Conferenza come la più precisa ipotesi di lavoro che mai si sia fatta... Abbiamo chiamato economica questa Conferenza a ragion veduta. Il cinema italiano non è nato - parlo di quel cine­ ma che siamo tutti d’accordo di chiamare italiano in senso positivo, costruttivo e che sorse dopo la guer­ ra con una intima unità - da un’industria, ma è nato da idee, da cose da dire che premevano alle porte e che hanno determinato una industria. Noi auspi­ chiamo un cinema la cui economia sia determinata dai suoi contenuti. Se l’industria riconosce questa priorità all’idea, potrà strutturarsi secondo il tipico prodotto e sollecitarne così lo sviluppo. Insomma, ancora una volta parliamo di collaborazione. Ma la necessità di collaborazione, ripetiamolo, in­ veste tutti i settori del cinema italiano. Per questo, la Conferenza è nata ed è la prima vol­ ta che il cinema italiano si riunisce intorno allo stes­ so tavolo, diciamo così, di fronte all’opinione pub­ blica in un momento in cui l’opinione pubblica aspetta di essere illuminata. Illuminare la opinione pubblica vuol dire illumi­ nare noi stessi sul nostro passato, sul nostro presen­ te, e, come abbiamo detto nella lettera d’invito al­ l’assemblea, soprattutto sul nostro avvenire. Noi crediamo che la parte più bella e più attesa della Conferenza sarà la parte che riguarda le propo­ ste. Devono per forza nascere delle proposte dopo un’esperienza così intensa e drammatica come quel­ la del cinema italiano. Siamo arrivati a un punto così estremo, come vi abbiamo detto nella lettera, che noi crediamo perfi­ 140

no che dal male ora possa nascere il bene. Chiamati così in extremis, tutti dobbiamo dare una prova di civismo. E sarebbe doloroso che non fosse così da parte degli artefici di un cinema che ha voluto e vuo­ le essere, pur nella libertà e varietà delle sue espres­ sioni, un cinema civile, un cinema democratico. Questa Conferenza, che secondo noi dovrebbe svolgersi perché sia il più possibile esauriente e non finisca in un’accademia di recriminazioni, ma si con­ cluda concretamente, dovrà avere la durata di due giorni, svolgersi qui a Roma entro un mese da oggi. Speriamo che nessuno obietti che arriva Testate e il caldo. Qui non dobbiamo seguire il corso del sole, ma le esigenze del nostro cinema. Altrettanto io spe­ ro che questa sera non ci siano impazienze e che il pensiero degli ultimi autobus non ci affanni. Noi vorremmo uscire di qui sicuri che questa Conferenza si farà e se voi le darete il via con una vo­ stra partecipazione di critica positiva fin da questa sera essa sarà nata sotto buona stella.

Relazione svolta in un’assemblea del Circolo Romano del Cinema, la sera del 15 giungo 1956. Fondato nel dopoguerra, il Circolo raccoglie l’eredità dell’Associazione culturale cinematografica italiana, che, isti­ tuita a Roma nell’inverno del 1944 fra registi, sceneggiatori, attori, tec­ nici, ha avuto una breve ma intensa esistenza. In principio, l’attività principale si esaurisce nell’organizzare per gli iscritti, appartenenti al­ la professione cinematografica, la proiezione di film italiani e stranie­ ri, nuovi e d’archivio; poi man mano il Circolo si politicizza, assume la difesa del cinema italiano - scarsamente protetto dalla concorrenza americana e fiaccamente assistito dallo Stato - ed è in prima fila nelle proteste contro la censura, irrigiditasi dal 1947. Il Circolo non per­ derà, negli anni successivi, i caratteri originari: non è un sindacato, non è nemmeno un’associazione che abbia una fisionomia politica e ideologica netta (vi aderiscono liberali, socialisti, democristiani, co­ munisti, socialdemocratici), è abbastanza battagliero per non essere

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paragonabile a un club, costituisce la forma originale di aggregazione autonoma della maggioranza degli autori cinematografici italiani. Co* loro che non vi si riconoscono confluiscono in altri alvei associativi, anch’essi disgiunti dalle centrali sindacali: l’ANAC (Associazione Na­ zionale Autori Cinematografici), l’UNAC (Unione Nazionale Autori Ci­ netecnici). Nel 1956 Zavattini corona un desiderio covato a lungo, la trasforma­ zione del Circolo Romano del Cinema in Circolo Italiano del Cinema: un cambiamento di intestazione che sottintende un legame più ravvici­ nato fra i cineasti organizzati, le associazioni del pubblico (cineclub ecc.) e la società civile. Presieduto da Zavattini, il Circolo Italiano del Cinema si estingue nel 1958, allorquando numerosi suoi membri entre­ ranno nell’ANAC per rivitalizzarla e per raggiungere, all'ombra di questa sigla, una più larga unità con altre componenti professionali. A questa decisione non sarà estraneo il clima di smarrimento che pervade la se­ conda metà del decennio Cinquanta, tempestata da incertezze, sconfìt­ te, contraccolpi economici, allentarsi delle intenzioni più combattive. Non è avventato ritenere la fine del Circolo Italiano del Cinema, peral­ tro mai proclamata, come il segnale di una reviviscenza corporativistica nella compagine degli autori cinematografici e il sintomo di discordan­ ze interne circa l’atteggiamento da tenere nei confronti delle categorie imprenditoriali e della politica governativa per il cinema. * * La Conferenza economica, a cui hanno aderito le rappresentanze delle varie categorie cinematografiche, si è svolta nei giorni 30*31 otto­ bre 1956.

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Televisione e Cinema

Coltivo da quattro anni, cioè dal tempo del Con­ gresso della cultura popolare di Livorno, un pensie­ ro per la televisione, e qualche cosa dissi quell’8 gen­ naio del ’55 in proposito. Eravamo arrivati là con Re­ paci, De Benedetti e Trombadori, passando in mez­ zo a dei paesini nebbiosi con la gente affollata dentro ai caffè: anche fuori, sulla strada, perché cominciava allora Lascia o raddoppia? Non ci voleva tanto per capire che mettendo contemporaneamente nel nord e nel sud, a portata di milioni di occhi, tante cose nuove gratuitamente, si sarebbe potuto fare la rivo­ luzione o impedirla. Proposi che si riunissero, ogni mese, dieci persone di merito, le quali stilassero un comunicato che diceva bene, bravi, oppure il contra­ rio, che insomma avesse il valore di una sorveglianza e di ima collaborazione che impaurisse e stimolasse. Importava far entrare subito nell’animo dei dirigenti la tv che non erano liberi come fossero di altro pia­ neta, stavano in una nazione dove le parole repub­ blica e democrazia, proprio con un mezzo di comu­ nicazione così enorme, dovevano cominciare a signi­ ficare qualche cosa. Invece c’è stato un miglioramente tecnico e vedremo in tal senso cose straordinarie, mentre moralmente si ripeteranno sempre, anzi in­ granditi, gli stessi guai del cinema. Non è questa la sola correlazione tra cinema e te­ levisione. La correlazione è talmente intensa che a me parve certo e utile che intanto fin da quei pri­ mordi i Circoli del cinema si chiamassero subito an­ 143

che della televisione. E mi affannai anche a solleci­ tarlo nei sodalizi con il solito insuccesso. Perché so­ no andato avanti negli anni, e ora quasi entro nella vecchiaia non accorgendomi abbastanza che dopo aver detto una cosa giusta bisogna realizzarla con le proprie mani, e mai fidarsi dei consensi che suscita quando viene fuori dal terreno; l’uomo infatti consu­ ma gran parte della sua carica nella meraviglia. Gli intellettuali poi sono molto vocati a liquidare, con dei fantastici oh, le scoperte della scienza. E più que­ ste scoperte sono gigantesche, potremmo dire popo­ lari, meno essi riflettono sul modo di usarle per mol­ tiplicare il volume della loro voce; e il bisbigliare re­ sta infine, anche nei casi più seducenti o immortali addirittura, il tono più gradito di partecipazione. Con la televisione forse le cose sono andate peggio, in quanto c’era una cosa in più rispetto al cinema, quel modo diretto di cui s’era parlato da tante parti diventava nella televisione ancora più diretto, ed è straordinario che a un certo punto succedono delle cose tecniche che concretano per conto loro delle in­ tuizioni intorno alle quali gli uomini hanno batta­ gliato filosoficamente per anni invano. Ecco, grida a un tratto l’uomo, e si accorge che il tempo reale, il tempo politico dell’uomo, è lì davanti a noi espresso senza tante storie in un modo economico, con la fa­ coltà di mescolare tanti elementi che parevano im­ mescolabili, e non con le orecchie sole, ma con tutti i sensi può assistere come alla nascita di un pulcino, al rallentatore, e per la verità i minuti sembrano di­ ventati più lunghi e sospesi, e pochi secondi fra una domanda e una risposta sono delle vallate di pensie­ ri buoni e cattivi. Nasce, fra l’altro, la telemanzia ov­ vero il modo di seguire questo nuovo tempo di un 144

uomo come le linee del palmo della mano. E nasce il “carattere” quale elemento di studio e di capitale im­ portanza del cittadino italiano. Ma poi che cosa succede? Che nel primo momen­ to della scoperta forma e contenuto sono la stessa cosa, l’incanto è tale che se ne scorge puramente l’in­ canto, e le cose vengono avanti con il loro linguaggio così sincero che sembra uno solo. Altrettanto fu del cinema. Successivamente intervengono altri elemen­ ti, preordinati nel nostro animo; li chiameremo gli interessi storici, che tendono a non cedere niente al nuovo mezzo, ma a farsi cedere tutto, per cui si può assistere, come si assiste, a una grande civiltà mecca­ nica che si mette al servizio del non grande. E ora non verranno più spesso come una volta a domanda­ re quale è la situazione del cinema, ma verranno a domandare quale è la situazione della televisione, e sembreranno degli ossessi coloro che risponderanno che tutto era già stato detto criticamente al tempo del cinema. Certo che vi sono dei modi specifici di espressione nella televisione; troveranno giustamen­ te lo specifico televisivo, ma non mi sorprende, come in sostanza ho voluto dire sopra, che lo si trovi nello scioglimento di tutte quelle remore contro le quali ha cozzato il neorealismo. Per superare dette remore la lotta si manifesterà in parecchi modi, e il pericolo secondo me eminentissimo è il seguente: che sem­ brerà di aver raggiunto delle posizioni importanti non tanto rispetto a un concezione generale, sociale della televisione, alle sue possibilità davvero tauma­ turgiche, ma rispetto a un linguaggio che, facendo dei salóni avanti come un passerotto, ci darà abba­ stanza l’illusione del movimento e nel clima nel qua­

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le viviamo può essere scambiato per inquietudine morale. Il processo di sviluppo della televisione si svol­ gerà, come è accaduto per altri fenomeni, fra i quali, appunto, il cinema, su diversi piani; ed è la confusio­ ne fra i valori dei piani che permetterà all’opinione pubblica e agli stessi competenti di accontentarsi. Credevamo di avere ereditato almeno l’incontenta­ bilità dall’esperienza cinematografica, o, più mode­ stamente, il non voler cadere nelle panie della re­ staurazione capitalistica, che è in sostanza una preci­ sa interpretazione della vita e dell’uso dei mezzi di divulgazione. C’eravamo sbagliati poiché la polemi­ ca nella maggioranza dei casi, e anche nei casi più qualificati, si accende raramente dalla base, ma ac­ cetta in partenza la posizione prescelta dall’avversa­ rio. In termini risorgimentali potremmo dire che dei mazziniani parlano con dei monarchici rinunciando a priori al fatto istituzionale. In vista dell’unità d’Ita­ lia? No, semplicemente perché il potere delle cose che accadono è tale che la televisione accade e ci si abitua a un suo espandersi da un punto mentre do­ vrebbe essersi configurata da un insieme di punti, che avrebbe voluto dire strumento democratico. Non è neanche repubblicano, siamo sinceri, se è possibile essere palesemente, oserei scrivere, sabaudi, o alme­ no così poco antisabaudi. Dolce e cara Italia, siamo tanto rispettosi dell’autorità che il video stesso finirà sempre col sembrarci un’autorevole emanazione di una qualsiasi autorità, e non il mirabile spazio bian­ co, vuoto, dello scrittore, del pittore, sul quale ogni cosa è possibile. Quando si sentono delle battute ar­ dite, o quel gioco allegro di finta paura della censu­ ra, qualche cosa di spericolato, vorrebbe apparire, 146

come nella terza puntata di Gassman - che però ha lasciato le altre rubriche alle sue spalle facendole di­ ventare in pochi giorni pressoché preistoriche -, è commovente vedere e udire gli italiani che temono sul serio che qualcosa cosa possa accadere a quei co­ raggiosi, stanno col fiato sospeso seguendo l’equili­ brista sul filo, e ci vorrà forse qualche decina d’anni ancora per toglierci quest’ansia, e invece farci escla­ mare che siamo mal ridotti, camminiamo regolar­ mente curvi perché abbiamo un soffitto basso sopra la testa e ogni tanto diamo delle capocciate, e fra un po’ concluderemo che la colpa è nostra perché alzia­ mo la testa. Non so se mi sono spiegato bene relativamente a un fatale miglioramento della tv, e può essere sor­ prendente che in Italia per quel cumulo di capacità degli autori e di bisogni degli spettatori il massimo che la borghesia possa oggi esprimere spettacolar­ mente avvenga con la tv, perché i vantaggi sociali della tv sono secondo me massicci ma involontari, e si inseriranno in un certo disegno chissà quando, e certamente vi si inseriranno tanto, io dal mio mode­ sto punto di vista non ne dubito che, quando avverrà qualche grossa riforma, riesaminandola nelle sue tappe, vi troveremo anche il massiccio contributo della televisione. Dal che, non sarebbe il caso nean­ che di notarlo, nessuno potrà trarre vanto, pur es­ sendoci in qualche disperso ufficio senza dubbio qualcuno che sa il lento erosivo valore delle iniziati­ ve di istruzione perfino minime. Forse per questo i Papi non volevano concedere statuti o cose del ge­ nere poiché si sa come si comincia e non si sa come si finisce. Un giovane mi domandava che cosa si può fare a

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parer mio con la televisione. Non ho saputo rispon­ dere. Un decalogo è difficile buttarlo giù. Istintiva­ mente gli ho detto: tutto. E volevo esprimere in un modo tanto sommario che la prima cosa da cui biso­ gna stare lontani è il limite, la teoria, in questa fase specialmente. Perfino il cinema come si è manifesta­ to in mezzo secolo, e non come poteva essere, ci ap­ pare scomodo e sopraffatto dalle abitudini. E arriva la televisione che subito ci culla maternamente e di­ ce che, per quanto dipende da lei, non ha nessuna intenzione di imporci cose che durano un’ora e mez­ za, e sembra che ci voglia far capire che eravamo dei pazzi a fissarci sulla misura dell’ora e mezza, e quan­ te furfanterie, quanti delitti si sono commessi in no­ me di questa misura, soprattutto quante viltà. Come se dover pensare sempre con il criterio di un’ora e mezza non implicasse visceralmente dei moviemnti anziché certi altri per cui è come l’acqua che liscia i sassi e lentamente li cambia attraverso i secoli a se­ conda del suo movimento. Si può essere buoni e cat­ tivi in un minuto, noiosi o affascinanti; e il pensiero che era giunto a snodarsi brillantemente, a ritmarsi velocemente, finiva per entrare come una talpa nel cinema, e anche lui dalla fase congeniale, unica, cui accennavo in principio, è diventato il nemico di se stesso in quanto ha mutuato dalla letteratura certe leggi narrative tacitando il resto. Sono ansioso di sa­ pere se in materia di autonomia ci sono negli ultimi anni dei film degni dei primi; e temo di avere ragio­ ne al punto che parecchi vogliono spingere il cinema a differenziarsi dalla televisione, e discorrono dei grandi film che sarebbero impropri e impossibili al­ la televisione, non accorgendosi ancora una volta che operano una separazione che rovina ancora di 148

più le vere radici del cinema così sotterraneamente vicine a quelle della televisione. Ne cancellano la pa­ rentela, cercano per scopi volgari una distinzione e una concorrenza artificiosa e letale. Certo che vi è qualche cosa di diverso, ma si tratta di un diverso fraterno, e non si può non riconoscere preesistenti nel cinema tutti gli elementi della televisione, tutti, compreso lo stesso elemento del signor Antonio Ma­ riani di Bari che viene avanti impacciato, poiché che cosa è stato il cinema del dopoguerra se non un gi­ gantesco poetico sforzo di non fare una pellicola di tremila metri, la lunghezza tradizionale, ma di fer­ marsi al fotogramma, con la convinzione che lo spa­ zio e il tempo del fotogramma facevano crollare im­ provvisamente come per un lavorio di termiti i tre­ mila metri, e in ogni fotogramma, in quanto così re­ so importante, non poteva più entrare un certo rac­ conto, anche nel migliore dei casi già tradizionalizzato da una inconsapevole collaborazione con i canoni dei suntuosi bilanci; poteva entrare, doveva quel tut­ to nominato prima, cioè niente era escluso, e la fon­ te non poteva essere che delle cose della vita, con dei tempi, con degli spazi insoliti, in relazione al punto in cui eravamo giunti. Non avviene che l’arte, è stato detto, scopra quello che non c’è, ma scopre quello che c’è, e se certe commistioni contaminazioni e per­ fino profanazioni, certi trapassi, certe improvvise spettacolarizzazioni di una faccia, di una strada, cer­ te promiscuità, ormai tipiche della televisione, non solo non ci disturbano ma ci interessano, è perché in altri momenti più o meno espressi della nostra gior­ nata già vivevamo in quell’ordine. Sarebbe strano che ci fossero i poeti e non chi li comprende. Per la televisione non siamo ancora in grado di parlare di 149

poeti della televisione, bensì della poesia della televi­ sione, del suo potenziale poetico che esiste anche se sarà male usato o usato solamente in una direzione. Questo pregiudizio di una brutale differenza tra cinema e televisione lo dimostra il fatto che i cineasti non fanno niente per la televisione. Neanche Rossel­ lini fino a oggi ha fatto niente, eppure è l’uomo più vocato per la televisione che ci sia al mondo. Là do­ ve può parere frammentario, e qualche volta è, la te­ levisione lo giustifica avendo quella tenerezza e quel rispetto per ogni momento che consente di indivi­ duare i “versi” del tempo, le vene d’acqua, rabdomanticamente. Il Rossellini dell’india televisiva non fa certo testo, come Rossellini potrebbe andare a To­ rino o a Milano e darci dei ritratti televisivi di quelle città. Lui è televisivo per nascita e quanto ci sia di preannuncio nei suoi film è facile da scorgere. Ma non si pensi solo a Rossellini documentarista, o me­ glio documentarista come appare nei pezzi sull’in­ dia. Egli ha l’elasticità, aggiungerei la geniale im­ prontitudine, per saltare di palo in frasca con una se­ greta costante però, che è la sua “grazia”, come i fan­ ciulli che senza saper nulla di musica tendono spon­ taneamente le orecchie alle note nuove e non a quel­ le vecchie. Così pure se lo mettete in una camera e gli dite di parlare con quei due o tre uomini che ci sono, se non è distratto o incarognito da fatti troppo pri­ vati, egli ci farà sentire un accento o vedere un gesto o chissà che cosa, neanche lui lo sa sempre bene. Fa­ te fare a Rossellini dei brevi film televisivi, che il ci­ nema ripudierebbe, dei raccontini, delle impressio­ ni; farei, per esempio, un’ora di Rossellini dandogli la macchina da presa in mano e che la usi, e cinque minuti starà in una casa, e cinque in una piazza, e 150

dieci intervisterà, e altri dieci si fermerà a Fontana di Trevi, seduto lì quieto senza tanti apparati. Se si ri­ bella a dei contenuti che gli volessero imporre, il re­ sto è sicuro, gli affiderei questa ora che ci svolgereb­ be inaspettatamente e umilmente. Si è umili quando si è felici, e si è felici quando ci si stende sopra una vecchia branda che abbia la lunghezza giusta; il gran­ dioso, Rossellini può ritrovarlo in una inchiesta pres­ so una famiglia, e anche girando intorno a dei perso­ naggi di oggi, magari illustri, sconcertandoli con la sua tremenda innocenza. Non ha più bisogno di mi­ lioni per esprimersi, e la televisione italiana potrebbe dargli lunghe occasioni, quelle che il nostro cinema gli ha negato. Ma la carica di “immoralità” di cui di­ spone deve avere il coraggio di usarla fino in fondo; si faccia davvero dei nemici con i film. Non so poi perché Visconti, che non è modesto, sia stato tanto modesto nei confronti della televisio­ ne. Mi hanno detto che ha detto di non capirci nien­ te, che sta ad aspettare un angelo che gli faccia la ri­ velazione. Non vorrei sembrare presuntuoso io, ma non ci sono tanti misteri: si rifaccia a quel suo ap­ punto di cronaca circa la morte di Annarella Bracci, e ora che ha visto il Mattatore, il cui significato è for­ tissimo come rottura, come indicazione di tastiere infinite per un regista, non dovrebbe spaventarsi a osare una storia d’Italia attraverso quindici o venti episodi, con il rigore del teatro, con le prospettive ancor più essenziali derivate dal cinema o una storia del teatro o una storia del cinema. Visconti non le fa­ rebbe certo accademicamente ma chissà con quali angolazioni. Infine quanti film saranno tradotti, to­ gliendoli dal cassetto dove giacciono per molteplici ragioni, dentro schemi televisivi che, ripeto, se gradi­

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scono il primo piano hanno anche il gusto e la possi­ bilità del campo lungo. In altre parole, un’ora di Vi­ sconti non sarebbe meno sorprendente di quella di Rossellini, due stili differenti, due mondi differenti, ancora carichi di energia, che andando davanti a venti milioni di occhi svolgerebbero esplicitamente quella funzione popolare che Visconti, è l’esempio più vistoso, svolge limitatissimamente per una ragio­ ne obiettiva col teatro e che lui stesso senza accor­ gersene, proprio per la riservatezza dei contatti, può finire col rendere sempre più influente sulla sua vi­ sione della vita. In altre parole è mostruoso, ma suc­ cede e può succedere ancora di più, che questi due siano ridotti a diventare registi da camera quando la loro arte, il loro impeto sarebbe sommovitore di lar­ ghi strati. Ancora tre o quattro anni di una simile si­ tuazione e i migliori uomini del cinema saranno ta­ gliati via dal discorso col Paese. Forse era ciò che si voleva. Ma la televisione nella sua euforia che solleva un euforia ancora più immensa può fare la pazzia di lasciar entrare questi illustri e pericolosi signori, e così gli altri, più o meno pericolosi, ma tutti qualifi­ cati, ai quali non si tratta di assegnare dei compiti che li snaturino, ma quei compiti che erano così be­ ne indicati nelle opere cinematografiche. Ciascuno inventi qualche cosa di vecchio e di inedito insieme, in quanto nessuno deve snaturarsi e non credere di essere attaccato per l’eternità alle strutture del film. Se mandate Zampa in giro per farci conoscere le gioie, i misteri, i giochi dell’infanzia italiana, o se ad Antonioni domandare di farci vedere delle novelle famose italiane, rapide, crude, o dei brani, ecco, dei brani di romanzi, o perfino delle poesie con delle im­ magini o Germi lo chiudete in una fabbrica dalla

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mattina alla sera o lo fate vivere una settimana a Carbonia, credete forse che vengano fuori delle strane cose? Verranno fuori, come dicevo, delle cose nuove e vecchie che segnerebbero qualche cosa di più che lo sposalizio tra due organizzazioni, segnerebbero nientemeno che la presa di coscienza della televisio­ ne, della sua finalità, ormai che il cinema non dico che l’abbia perduta ma l’ho ridotta a ordinaria am­ ministrazione. Dovevo nominare anche il mio amico De Santis, ma sarei un gran bugiardo se nascondessi che le discriminazioni vigono alla televisione. Si spe­ rava tanto nell’onorevole Ariosto, e se non fosse ca­ duto, i miei amici possono testimoniarlo, stavo per andare da lui e dirgli che erano vane tante chiacchie­ re sulla legge. Ho scandalizzato un quotidiano cleri­ cale perché mi sono espresso con tanta sfiducia sul falso interessamento dei cineasti al problema della legge, quando il cuore è così avvilito, e allora sarei an­ dato dall’onorevole Ariosto il cui avvento ho salutato come il sorgere del sole, e gli avrei ripetuto: non ci vo­ gliono cose complicate, chiami qui i produttori, chia­ mi qui De Pirro[**] e i suoi funzionari, chiami qui gli autori e dica ai burocrati che farà aumentare loro lo stipendio se incoraggerà i temi più aperti dandone esempio, e ai produttori che negherà loro gli appoggi nascosti o palesi se continuerrano ad avere paura, e agli autori che basta con queste lagnanze clandestine, gridino lì, in faccia a lui, che odiano i produttori e i burocrati ma che sorridono dalla mattina alla sera per la speranza di riuscire a far passare ancora qualche cosa di contrabbando. E per lavorare. Devi sapere, caro Aristarco, che un giornalista che ha avuto l’occasione di avvicinare una trentina di personalità del cinema ha detto: sono tutti scontenti,

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anche quelli che lavorano, non c’è più ombra di vita in comune, anche quelli che hanno dei meritati suc­ cessi sentono che potrebbero ottenerne dei non mi­ nori con dei film sinceri fino in fondo e tuttavia den­ tro le leggi; ma di questo malumore non si sa niente, sembra che lo si dichiari in certe occasioni più per crearsi un alibi che per un vero bisogno. Hai capito. Da ciò deriva che il mio ragionamento “a braccio” sulla televisione può parere costruito sulla sabbia, come se fosse indiscutibile che in via Teulada la gen­ te del cinema vi andrebbe ormai fiaccata dagli ultimi anni tartufescamente covati. Non c’è stato un cane che si sia levato contro quel corsivista che ha citato l’attuale rivolta, dice lui, contro il neorealismo in Russia, per dimostrare che il neorealismo è mortissi­ mo. Neanche quelli di sinistra. Il corsivista è persona di destra, secondo il quale i russi hanno qualche co­ sa di orribile se dedica tutto il suo tempo a offender­ li, combatterli, screditarli eccetera. Però li considera validi quando si schierano contro il neorealismo. La televisione, dicevamo: in una lettera alla diret­ trice di Vie nuove ho messo che non credo che tutto l’impegno, tutto l’ingegno, tutto il denaro che la te­ levisione mette nella branca del divertimento lo met­ ta nella branca della cultura. È possibile studiare delle iniziative che raggiungono come vastità il nu­ mero di persone che raggiunge una rubrica come La­ scia o raddoppia? Ci sono delle rubriche culturali, e qualcuna buona, ma sono sempre come dei parenti poveri rispetto al resto, mentre invece è da prendere il coraggio a due mani e dire: vengono qui otto o no­ ve intellettuali intorno a un tavolo (gli intellettuali, l’ho già detto ridetto, fanno come col cinema, ci si avvicinano in ritardo, sdegnosetti, e ciò non significa 154

un aspetto del loro carattere ma il carattere stesso di una cultura sempre in ritardo rispetto ai grossi avve­ nimenti) e persino a delle rubriche come la letteratu­ ra italiana, l’arte italiana spiegate al popolo, però non basta il bravissimo professor Cutolo, ci voglio­ no, perché è possibile che una passione vera le fa ri­ cercare, delle rubriche che detta materia esprimano spettacolarmente, emotivamente. E questione di tem­ po, di fede, di ricerche, dicevo, e di quella spregiudi­ catezza che va dal silenzio del tempio malatestiano, mettiamo, a un fragoroso processo a De Chirico. In­ tanto non create delle misure d’obbligo anche per la tv. Otto puntate, dieci puntate? Perché non una puntata? Quell’ora, dicevo, come esempio, a ciascun regista. Fellini ci dia una domenica, tutta in una vol­ ta, Monicelli un match di boxe, Soldati una notte a Roma ecc. Pensate a un giornale televisivo che abbia regolarmente di questi interventi, ogni sera. Manca­ no gli uomini? Tra giovani e anziani ce ne sono al­ meno quaranta di validissimi capaci di spingere l’e­ sperienza cinematografica in tante direzioni sul vi­ deo. De Sica a Napoli, Castellani a Trieste. E i giova­ ni, che hanno più gamba, vadano in giro e ciascuno porti sul video un italiano che li ha colpiti, celebre o oscuro, ce lo apra davanti col suo ambiente. Un’ora, ripeto, un’ora. Tutti i giorni un italiano col suo am­ biente, scoperto da questi cortometraggisti nostri che non aspettano altro. Trecentosessantacinque ita­ liani, che rappresenteranno un campionario quasi completo degli interessi nostri, inaspettato; un mu­ ratore un poeta un ragioniere un maestro un portie­ re e via di seguito. Ma non direi: va a cercare un muratore o un por­ tiere o un poeta. Direi: trova quel caso che ti pare più 155

ricco d’umori, faccelo vedere da ogni lato, con la mo­ bilità e le collaborazioni che proprio la tv sollecita. Non ci sono due o tre dozzine di documentaristi che s’impegnerebbero con una passione travolgente in questa gara? Bisogna sfruttare tanta gente, la tv divo­ ra, e ciò è bene, in ciò consiste la sua più segreta e po­ tente novità, e che ne derivi lo sviluppo di una certa estetica mi pare naturale, questo o quel “personag­ gio” ci nascondeva l’Italia, tutto andrà a illustrare l’I­ talia che non è un concetto scolastico, patriottico, ma qualche cosa di meglio. Poi verrà il turno degli intel­ lettuali, tardivi come sempre in queste cose, e anche agli intellettuali verrà data la loro ora e lo sforzo che dovranno fare - inventare un’ora di cose da dire, da far vedere, a milioni di connazionali, così, subito, con lo stesso rigore intimo di una pagina scritta e tuttavia con delle dimensioni in più che da fisiche diventano spirituali, fuori da una timidezza che spesso è poco amore, scarsa dialettica - sarà lo spettacolo. Quello spettacolo del non spettacolo che abbiamo atteso dal cinema. Non c’è niente di misterioso. Il mistero forse è solo in noi che, costretti a lesinare i fatti, finiamo col lesinare anche le idee. Continuo a riferirmi agli intel­ lettuali, alla loro mancanza di iniziativa. Per essi Gassman può apparire un fenomeno mentre deve appa­ rire come il naturale processo di sviluppo di una “macchina” civile. Inondino di proposte la tv. Anche se non ne accetteranno neanche una. Il clero è stato antineorealista. E sarà anti-Gassman. Ma non commettiamo la sciocchezza di non criticare Gassman. Di lui approviamo il desiderio più o meno inconscio di liberazione dal clero. Però ha in sé il pericolo di non essere abbastanza contro se stesso. Chiediamo una cosa innaturale? In parole 156

povere, nell’intimità delle case è nato un pubblico che può giudicare senza i complessi che la sola cine­ matografia gli fa nascere. Egli può fare un discorso più serrato, più regola­ re, più autonomo, e perciò direi che non solo sul vi­ deo si scopre chi siamo, ma è lo spettatore che sco­ pre sé; ma vive su un crinale, basta un niente a farlo precipitare tutto dalla parte pigra. Come aiutarlo? Con autorevoli interventi, massicci. I giornalisti fan­ no già molto. Tuttavia, se dedicassero articoli di fon­ do addirittura a penetrare i “caratteri”, le compo­ nenti della vita sociale che si manifestano attraverso la tv, avessero più decisamente una visione d’insieme della serata televisiva, loro malgrado, assecondano il gioco, accettano le gerarchie composte dalla tv, mai che escano con dieci colonne su ciò che “potrebbe essere”, con inchieste nazionali, ma si limitano, spes­ so genialmente, a registrare, a commentare, a seguire il ritmo, i criteri basilari di via Teulada e a non sov­ vertirli: da loro si aspetta, perché lo possono, lo de­ vono, un disegno “tutto diverso” delle concezioni te­ levisive. Non è facile dopo quattro anni nei quali so­ no state inoculate tante abitudini trionfali. Certo che è strano che alcuni giornalisti si meravi­ glino di Villa quando essi, proprio essi, hanno dato uno spazio spropositato alla tv ma non con la fede la speranza “culturale” di cui disponevano bensì per assecondare abbastanza vilmente “le cose come acca­ devano”. Vogliamo pagine intere, d’accordo, come per un fatto che commuove “nello stesso minuto”, quasi come una guerra, un popolo - ma bisogna im­ pegnare i talenti migliori, non i più piacevoli, di fron­ te a un mezzo che contiene tutto il bene e tutto il ma­ le possibile. I direttori si scuotano, cerchino di fare in

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questo settore un opera creativa. È commovente, stu­ pendo e pauroso veder come la gente intorno al vi­ deo. Aprano, spalanchino i loro giornali, anzi provo­ chino, a sistematici consigli, ampi, numerosi, da un lato il pubblico, da un altro lato scrittori poeti artisti filosofi. Ci vuole troppo tempo perché la goccia scavi la pietra. Qui è da non perdere tempo. Questo nostro dolce caro povero paese, com’è stato per il cinema, ha in sé la carica per essere esemplare nella tv - per fame il suo strumento nelle case prive di libri che co­ minciano ad accogliere delle piccole società. Ma è ne­ cessario vedere grande, e la stampa incalzi, essa sola ha l’autorità e le persone per far confluire le proposte cui accennavamo, per smuovere l’intelligenza del paese e svecchiare un “servizio” che, per forza di co­ se, anche nella migliore delle ipotesi sarà sempre sug­ gestionato dal successo che per ora è nella fase barba­ ra o quasi. Ancora una volta, e così fu nel considerare il nostro cinema, si riesce a capire il vero stato della tv commisurandola a ciò che potrebbe essere. Non è questione di danaro, ma di impostazione, a fissare la quale non occorre danaro. Saremo i primi del mondo adattandola, la tv, ai nostri bisogni - e non mutuando dall’estero rubriche splendenti fin che si vuole ma apolidi direi. Non me la sento di indicare: non è la folgore di uno, bensì tante fiammelle di quei signori prima elencati; e sottolineo questa interdipendenza tra il pubblico e gli illustri, un dialogo fra loro magari una volta perfino nella prima pagina di un giornale; letale è l’assenza, l’acquiescenza, o la insorgenza bu­ rocratica per l’intemperanza di un cantante. Si insor­ ga per una visione panoramica del programma an­ nuale, si mobilitino, in un modo gremito, spregiudi­ cato, assillante, dato il fine.

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Ecco un’altra salutare “confusione di generi e di persone” non per applaudire o denigrare una rubri­ ca ma per trovare la linea originale, indipendente, democratica, coraggio, scriviamolo: statale più. Spremetevi, politici, pittori, poeti, La Pira come Togliatti, Jemolo come la maestrina, Nenni come il parroco di campagna, Ungaretti come lo studente di liceo, e voi corsivisti, elzeviristi, inviati speciali, anda­ te a scovarli, dateci un ampio quadro, che muti sotto i nostri occhi secondo gli impulsi, la realtà, di questa gara di partecipazione e di suggerimento, giorno per giorno, che si concreti secondo una costruttiva “con­ versione” dell’uso della tv in funzione delle nostre più profonde esigenze antiche e moderne. Nessuno ha mandato in giro per l’Italia a vedere, a sapere; mandano nel Kenia. Nessuno ha domandato ai fitti ingegni che ci sono fra noi lo sforzo di impegnarsi in una serie di progetti - è vero che la tv ha dei criteri di consultazione dei suoi abbonati tutt’altro che sprege­ voli, ma sono fulminei, e si fermano a quello che c'è, in sostanza tutta l’organizzazione tende a cristalliz­ zarsi; e ciò mi pare inevitabile, dall’interno ovvia­ mente scaturiscono i limiti; è dall’esterno che in via del Babuino devono giungere enormi sollecitazioni, quell’assalto che dapprima incerto diverrebbe a poco a poco la vera opinione pubblica nutrita di altri con­ tributi. Il gioco vale la candela? La valeva per il cine­ ma. Figurarsi se non la vale per la tv, persuaditrice oc­ culta e palese per minime cose e per cose capitali. La tv porta tutto all’estremo, chiama il meglio; è una se­ lezionatrice feroce: in altri termini sprovincializza. Il problema superficiale è quello di aspettare', più profondo quello di accelerare, di rendere in accordo i tempi morali coi tempi tecnici, servirci quindi del­

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l’automobile non per andare dal tabaccaio vicino a comperare un francobollo. L’adeguamento “conte­ nutistico” del mezzo non può essere eluso. E così si vedrà che quattro anni sono troppi per giungere a Gassman, guercio in terra di ciechi, e per non rinno­ vare il borbonico antimodiglianismo di Cutolo. La tv sta travolgendo tutto, evviva, evviva, in via Teulada c’è euforia, vorremmo che fosse in noi non come un vizio ma per quel meglio anzidetto. Culturalmente parlando. Per quel poco che di que­ sto termine so io, cultura, posso dire che non è la noia, ma la vita: di cui siamo follemente innamorati, come di una donna, e sarebbe gretto credere che la voglia­ mo vedere vestita di scuro e col velo sulla faccia. Nel­ la biblioteca essenziale che le offriremo, insieme a un mazzo di fiori, ci sarà Manzoni e magari i Vangeli, ma anche il Belli. Abbiamo un desiderio continuo di di­ vertirci, e la satira ci assicurerebbe qualche essenziale garanzia. Di stupirci. E perciò mi ha fatto effetto quel ragazzo che ho sentito esclamare tra i suoi amici men­ tre discutevano della tv: perché non cominciano sem­ pre con un minimo di poesia? Cos’è un minuto? Trecentosessantacinque poesie all’anno. E chiudere con un minuto di pensieri, dialoghi, non so, su ciò che è repubblica, che bello! Una favilla, un niente, ma che fiamme di proposte potrebbero venire da una stampa quotidiana e settimanale meno fiacca, che lavoro uni­ tario farebbe. Mi accorgo di aver detto cose del gene­ re anche per il cinema. Mah ! Roma, 16 febbraio 1959

Nel gennaio 1956, durante il Congresso della cultura popolare tenu­ tosi a Livorno, Zavattini aveva già esortato la Televisione pubblica ita-

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liana a divenire parte integrante di un vasto e lungo processo di edu­ cazione democratica. “Specchio del nostro tempo”, nelle intenzioni di Zavattini, la tv avrebbe dovuto convertirsi alla necessità di “far entra­ re nelle famiglie il senso reale del proprio tempo”. In quell’occasione, lo scrittore aveva delineato anche due suggestive proposte: “creare i circoli della televisione che, come i circoli del cinema, spingano verso una vera produzione di qualità democratica, efficiente appunto su un piano di cultura popolare” e riunire dieci uomini della cultura italiana (da Calogero a Carlo Levi, da Alvaro a C.A. Jemolo, da Bacchelli a Francesco Flora, da Sapegno ad Antonicelli), “non stipendiati dalla televisione”, che costituissero un’autorità morale e intellettuale con l’incarico di “stilare il loro parere su quella che è stata la trasmissione televisiva della settimana”.

** Nicola De Pirro, ex funzionario del Minculpop, è stato a lungo, dal dopoguerra in poi, il direttore generale dello Spettacolo.

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Prima reazione all’invito di Piovene

Ho letto una volta sola l’invito di Piovene per im­ postare la discussione sul compito degli intellettuali oggiC’è naturalmente, come non poteva non esserci, in uno scrittore della sua qualità, cioè scrittore di cultura, di qualità consapevole, il problema sentito seriamente. Ripete i vecchi argomenti con una sot­ terranea accoratezza e sfiducia ma non fa balenare niente di positivo sul piano dell’azione. L’accademia da lui paventata è già nel giro del suo pensiero, nella sua dialettica, che non ha il coraggio di affrontare non dico i mali, ma le situazioni alla radice. Egli è prigioniero di un moralismo che purtroppo ho anco­ ra per tutti delle suggestioni, ma che si consuma sempre in sé e amministra decentemente, nel miglio­ re dei casi, vecchi lasciti senza tentare nessun bilan­ cio preventivo. In altre parole, non ci si domanda: che cosa vogliamo? Volere una cosa significa porsi una meta e agire di conseguenza. Non si può, per esempio, volere il mu­ tamento di una società e poi non fare niente di quel­ le cose che il mutamento postula. Quando Piovene tocca l’alto capitale, è tutt’altro che preciso. Cerca perfino di spostarlo dall’asse della realtà contempo­ ranea come non fosse la realtà stessa e fosse invece un osservatore, qualche cosa imparentato con l’intel­ lettuale. Si comprende come qui ci sia la prima falla nel quadro di Piovene. Egli desidererebbe evidente­ 163

mente un mondo migliore, ma nell’ordine degli at­ tuali sistemi; non ha né la forza, né l’ambizione, né il sogno di un mondo diverso. È lui che manca di quel­ la carica rivoluzionaria che ritiene carente negli altri. È uno dei soliti casi di pigrizia dell’intellettuale e di paure. Si è anticlericali, ma si è cattolici; si è progressisti, ma si è capitalisti; si è rivoluzionari, ma non si scen­ derà mai in piazza. Questo è il frutto di una cultura che non è più creatrice di valori nuovi. Il borghese auspica un bor­ ghese meno difettoso, ma sempre borghese. La cul­ tura è borghese. Il pensiero è borghese poiché ha una sua zona di dominio, creatagli dalla borghesia, che lo estrania dal determinare fatti. Si è invece in un periodo dalla mente rivoluzionaria solo quando il pensiero crea subito dei fatti, anzi solo dei fatti. Il pensiero borghese, cioè il nostro, continua a ri­ fugiarsi nell’assoluto appena che il relativo lo impe­ gna drammaticamente. Accetta di vivere nel relativo, nella politica insomma, fino al momento in cui non succede più niente. Appena succede qualche cosa e quando succede qualche cosa non ci possono esse­ re che delle rivelazioni realistiche così come quando si apre una porta e si vedono due uniti in un amples­ so e noi diamo un grido mentre non avevamo dato nessun grido sapendo, come sapevamo, che in quel momento milioni di persone in ogni parte della terra erano uniti nell’amplesso - l’intellettuale ritorna al punto dal quale era partito, trascinato dagli altri. I fatti lo avevano preceduto e gli era stato facile con­ vincersi che nel suo cuore in qualche modo egli pre­ sagiva; ma l’intellettuale presagisce tutto e perciò gli sembra di essere sempre nel vero quando il compito 164

non è più quello, a mio modesto avviso, di essere profeta, bensì di essere profeta di una certa cosa. La vita è profetica, ma il pezzetto che ci riguarda ha un orizzonte più limitato. Non bisogna rimbalzarne via, invocare l’infinito. Delle profezie dei poeti non sap­ piamo più cosa farcene, avendo visto che quegli av­ venimenti avverrebbero anche senza le loro profezie. Cerchiamo quei posti che non abbiano più i dolori del mondo, ma i dolori di quella regione o di quella borgata il cui tempo vada dalla mattina alla sera, che è già lungo, in quanto dentro così poche ore muore un papa e ne viene un altro, scoppia una guerra, si cambia un governo, c’è uno sciopero, migliaia si am­ mazzano, altre migliaia non si ammazzano ma è co­ me se si ammazzassero, e noi abbiamo almeno una decina di volte avuto l’occasione per fare quello che poi non faremo. Insisto su questo verbo fare. Ho detto che muore un papa e ne nasce uno nuovo. Prendiamo quest’e­ sempio. E un avvenimento grandioso. Che cosa av­ viene in Italia? Tutti, di destra e di sinistra, notano la umanità del personaggio, la simpatia, la saggezza. E probabilmente Giovanni xxm merita queste univer­ sali lodi. Non pare vero all’intellettuale di stendersi su questo tappeto di lodi, di sentirsi autorizzato a sperare, quindi di non andare in fondo alle questio­ ni. ComuniSmo e cattolicesimo, due termini antiteti­ ci, egli li vede fiorire in simbiosi, e ciò gli fa tanto co­ modo. C’è la omertà di tutti. Ma se egli cercasse una cultura, non aspetterebbe nascite e morti di papa. Egli avrebbe semplificato e non complicato il suo te­ nore di vita, non lo avrebbe diramato per tante pro­ babilità; egli avrebbe avuto il coraggio di capire che proprio la cultura borghese non consente alleanze 165

fra questi due avversari. La filosofia non ci ha soc­ corso, niente ci soccorre perché ci siamo fermati al dato della cultura dell’ultimo secolo che rende in­ conciliabili i due termini, ma il sentimento, tutti i de­ triti del carattere, vanno di nascosto contro questa fi­ gura e fingono di credere possibile la pace. La pace non può sortire che da una nuova cultura, da una nuova prospettiva. Chi la crea? Non certo dei con­ vegni come questo nei quali ho l’impressione che ci presentiamo ancora con dei vecchi fucili modello 91. Siamo nientemeno che nell’era atomica. Una bomba atomica spazza via un circondario e forse di più e noi non spazziamo via neanche una dozzina di libri che nella nostra biblioteca ci aiutano a supporre che ab­ biamo il diritto di essere ancora così finemente di­ plomatici nei rapporti fra di noi. Bisogna assolutamente che gli scambi avvengano. Altro che diplomazia. Tutto quello che succede è scan­ daloso per chi non vuole che succeda. Che cosa c’è di più scandaloso che mettere sotto processo Sua Santità? Subito si precipiteranno a distinguere fre­ quentemente fra cattolicesimo e clericalismo, come se l’uno non nascesse dall’altro, non fossero due fac­ ce della stessa medaglia nella prassi; e perfino i co­ munisti, per paura di non essere abbastanza italiani, popolari, oscillano fra il sacrilegio e la venerazione, ma essendo così poco decisi coi loro timidi sacrilegi, non mai del tutto svuotati, finiscono col remare sul­ l’altra barca. Essere italiani dovrebbe significare vedere che il cattolicesimo è proprio italiano come è italiano il pa­ ne, come è messicana la tortilla. E se fosse proprio italiano, correggere il loro dire e farsi perfino cattoli­ ci essi medesimi per marciare contro i palazzi e ra­

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derli al suolo con le bandiere cattoliche; e se invece non c’è una via italiana ma una via più immensa, al­ lora, non continuare in una politichetta, in una tattichetta e, a costo della impopolarità iniziale, dire che non si è neanche democratici, che si vuole il divor­ zio, che si vogliono tagliare delle teste, che si vuole fare infine la rivoluzione. Essi corrono il rischio, i co­ munisti, di camuffarsi sempre più per quello che non sono e gli può capitare di credersi poi non quello che sono, ma quello per cui si sono camuffati. È sano, onesto, e per onesto intendo rotondo, il contrapporsi di due culture con tutte le conseguen­ ze. Ci sono due politiche contrapposte e non ci sono due culture contrapposte. Tant’è vero che qui si ten­ tante degli impossibili amori. Ma sì, vogliamo inau­ gurare una nuova Resistenza? Sarebbe meraviglioso. Domandiamoci che cosa può essere l’equivalente di quei rischi di allora. Vogliamo rinviare la grande lot­ ta per salvare il paese dal conformismo che già è ar­ rivato alla nostra gola? Evviva, se ci facciamo arre­ stare. Non c’è niente di romantico in queste propo­ sizioni. fi romantico sta caso mai, nel senso più logo­ ro, meno creativo, nella discussione quando a priori si sappia che tutto continuerà come prima. Facciamo un esempio. Siamo qui a discutere e scoppia la guerra. Caro Piovene, la nuova cultura è quella per la quale la guerra è già scoppiata. Che co­ sa facciamo? La nuova cultura è quella che guarda in faccia alla realtà. La guerra è tanto possibile negli animi anche se le tecniche possono ritardarla, che la cultura non può non tener conto di questa realtà su­ prema. E cultura per il solo fatto di esporla, questa realtà, decisamente, appassionatamente, freddamen­ te, violentemente, come volete, ma di esporre questa 167

realtà. La cultura nelle sue varie forme non espone che pallidamente, per interposti concetti, questa im­ mensa tragedia. Possiamo chiamarla la tragedia delrinconciliabilità. E la conciliabilità può cominciare solo se la inconciliabilità è prima sviscerata, quasi esaltata in tutte le sue note positive. Noi abbiamo vergogna a essere sinceri. Quello di destra fa un po’ il sinistro e viceversa. E poi avvengono i fatti, come quelli di Ungheria, che ci pensano da soli a fare piaz­ za pulita di questi equivoci. Il compito delTintellettuale, cioè il compito della cultura, che non è mai sempre quella, è il compito di non fare mai trovare l’uomo impreparato di fronte ai fatti. Se in questo momento scoppia la guerra, caro Piovene, mi piace­ rebbe tanto avere ciò che non avrei, voglio dire cin­ que minuti di calma per vedervi scappare tutti e non sarebbe più veloce quello di destra o quello di sini­ stra, ma quello che è più veloce. Che cosa faremmo dopo che la bomba ha deflagrato e mettiamo che il nostro gruppetto sia rimasto illeso? Tu, caro Piove­ ne, un articolo di fondo sulla Stampa ? E io un film contro la guerra? Non te li lasciano fare oggi, figura­ ti in quel momento. Saremmo dei poverini, staccati da tutto e lamentosi per quello che non abbiamo fat­ to quando lo avremmo potuto fare. Siamo dunque alla vigilia della guerra? Nel senso che ho detto prima? Siamo in una situazione di emergenza. Guai se non riusciamo a renderci conto di questa emergenza. L’altra cultura tende alla non emergenza, si capisce. Tutto è tranquillo. Noi, al con­ trario, diciamo che niente è tranquillo e non abbiamo neanche bisogno di sfogliare i giornali di sinistra per trovarne i documenti, basta sfogliare quelli di destra attraverso i quali viene fuori il ritratto della società

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contemporanea, denunciato da loro, esclusivamente da loro, per cui non si capisce come il papa faccia sol­ tanto qualche richiamo come a dei ragazzacci. Io sono notoriamente di sinistra, e oggi lo sono più di ieri. Al punto che se mi divide qualche cosa da quelli di sinistra è che, secondo il mio timido parere, essi non lo sono più abbastanza, come ho cercato di far capire prima. La cultura è nei fatti di destra e nel­ le aspirazioni di sinistra. Cioè non è cultura, è diva­ gazione. La cultura di sinistra è negli usi e costumi culturali di destra: le mele marce fanno andare a ma­ le anche quelle buone. Così il paese resta in balia della sola cultura ferocemente coerente che è quella cattolica. La lotta non può essere che contro questa cultura, da cui deriviamo tutto fuorché una nuova cultura. Tutti coloro che non sono contenti dello spi­ rito fascista che ritorna, non possono poi essere con­ tenti dello spirito cattolico che trasuderà sempre fa­ scismo. Ma è così rispettabile, così sontuoso, così or­ ganizzato» così bello, che non si può fare niente. E il popolo? È un po’ come il pubblico dei teatri, dei ci­ nema. È sempre misoneista. Ma c’è qualche cosa di misterioso dentro di lui che lascia aperta una zona per le invasioni anche improvvise. Egli aspetta. La sera prima pareva tetragono ad un certo genere di spettacolo ed improvvisamente lo gusta al punto, questo genere, che si stupisce di esser stato tanto tempo così condiscendente con le vecchie forme. E allora è la cultura che, se trova un paio di verità ele­ mentari da difendere, deve farlo con tutti i mezzi. Ma uno è indispensabile, ed è il mezzo di evitare le circonlocuzioni. Le culture deboli sono circonlocutorie, qui si tratta di dire che c’è la guerra, c’è il fa­ scismo, c’è l’anticomunismo, quindi un grande sol­

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co, alcuni di qui e alcuni di là. Cari amici, se si è an­ ticomunisti, un convegno di questo genere non ha senso. Non aveva senso durante la Resistenza e non lo può avere durante la nuova Resistenza. O si pensa che c’è bisogno della rivoluzione o si pensa che no. Io modestamente penso che ci sia bisogno della de­ voluzione. È ima parola che brucia tutte le storie, i mezzi termini. Si può benissimo dimostrare che non c’è bisogno della rivoluzione. Gente che odiava il fa­ scismo, viveva sotto il fascismo e dimostrava che in fondo il fascismo era sopportabile con certe modifi­ che. La cultura respinge queste sofisticazioni. Si dice che la cultura è tante cose: può darsi, mentre è sicu­ ro che è una cosa, che è una forma di civiltà, quindi è una forma, quel tondo cui accennavo sopra. Cultu­ ra rivoluzionaria in quanto cultura dell’immediato, e noi non siamo dei libri in questo momento, ma sia­ mo degli uomini, e se cade una bomba, ripeto, prima che i libri scappano gli uomini. Così prima che sui li­ bri questa cultura, come un meraviglioso acrobata, deve giungere sui fatti, anticipando la parola. Io di­ co, in parole povere, che i fatti sono questi. Il nostro paese è in mano ai preti. È una paura bianca, ma si ha paura dei preti. Essi stessi nella lot­ ta perdono i loro attributi sacri e la sete di potere, la sete di aver ragione li domina. Tutto fa capo al Vati­ cano. Nessuno osa, oserà mai mettersi contro i preti, coloro che hanno grandi responsabilità economiche, grandi interessi. Si va in chiesa come una volta ci mettevamo in orbace. E siccome Dio probabilmente c’è, e sono sempre loro che lo dicono, sembra che Dio siano loro mentre se lo dicessimo anche noi for­ se cominceremmo a metterli in un serio imbarazzo. La nuova cultura deve mettersi d’accordo su Dio, 170

prima, sulla religiosità, che non è un fattore seppelli­ to, superato. Questa è l’istanza. Può la nuova cultura allontanarsi definitivamente da questo mito o farcelo considerare strutturalmente inevitabile nella vita del­ l’uomo? E allora consentirci di partecipare com­ battendo fino in fondo contro quelli che lo snatura­ no? È sicuro che partire contro la chiesa cattolica in Italia può parere mostruoso tanto è diffìcile, ma il compito delle nuove culture è solamente quello di partire contro delle cose che sembrano ferme come montagne. Io non so come potremo mettere d’ac­ cordo dei cattolici, dei liberali e dei comunisti su questo capitale argomento. La situazione è grave co­ me al tempo della Resistenza, ma la difficoltà sta nel sentire le pallottole che non ci sono, i passi pesanti dei tedeschi che non ci sono o l’aria mossa dal saluto romano che non c’è più. Questa riunione è già qual­ che cosa, d’accordo, se domani cacciano via Piovene dalla Stampa o me dalla Mondadori. Rendo tipici noi due, ma ciascuno di quelli qui presenti dovrebbero avere la stessa pericolosità. Perché o siamo o non sia­ mo ai ferri corti. Che cosa significa essere ai ferri cor­ ti se non un estremo impegno nella lotta, fuori da qualunque compromesso? Da che cosa si può vede­ re questo estremo impegno? Contemporaneamente su due piani, quello del pensiero che tende a sistemizzare le intuizioni etiche sufficienti per andare sulle barricate; e quello di andare sulle barricate. Che non è una frase avventata, ma vuol dire che tut­ to quello che si fa, che si dice, può costare grave­ mente. Del resto, non era così per Gobetti, Matteot­ ti, Gramsci, ecc.? Si obietterà che non c’è quel clima; ma non possiamo essere noi a fare queste obiezioni che, attraverso l’apparente quiete, denunciamo la in­

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sopportabilità di questo dominio nero sul quale si sono instaurati tutti gli altri domini. Come sempre, il dominio nero prolifera in tal senso, è come una ri­ cetta di cucina, il tasso di libertà della società che conviene a questi signori, a questi uomini, è quel tan­ to e non di più. I grandi giornali hanno rinunciato ormai per sempre a qualsiasi seria polemica con la Chiesa e questo avviene quando la sostanza dei go­ verni è reazionaria. Che strumenti abbiamo in mano, per dire, apertamente in tanti modi e in modi più approfonditi, tutto ciò? Non la radio, non la televi­ sione, non il cinema, non la grande stampa. La stam­ pa di sinistra è desautorata in partenza su questo te­ ma, su questi temi. Perché non si fa un piccolo gior­ nale, dico piccolo anche di mole, che ci sollevi da qualunque eccessiva preoccupazione economica che finirebbe poi con il demolire a lungo andare la com­ pagine? Non un giornale di una o due persone, di un direttore, ma un giornale nel quale grandi scrittori, grandi artisti, grandi giornalisti collaborino regolar­ mente o spesso, non aspettando dei convegni come questo triennali o quadriennali per dire qualche co­ sa di utile, in quanto è dall’esercizio continuo che nasce la forza, la chiarezza, potremmo dire che nasce la cultura. Non è un giornale letterario, o filosofico. Ma un giornale politico, nel vero senso della parola. Dove devono avvicendarsi le idee sulla vita politica; gli uomini di cultura hanno perciò il loro settimana­ le, e collaborate con settimanali di questo genere ha proprio analogia con le barricate, come volevo di­ mostrare sopra. È impossibile? È possibile se si cre­ de che siamo nel periodo di emergenza. Dovrebbe scaturire da questo convegno un ordine del giorno i cui firmatari diventano automaticamente i collabo­

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ratori di questo giornale. Quest’ordine del giorno deve stabilire quei principi comuni sui quali è possi­ bile insistere, svilupparli, diffonderli, difenderli, far­ li diventare sempre più un fatto di cultura, un fatto interpretativo di un certo momento storico. Non c’è identità tra questi firmatari, ma c’è sufficiente somi­ glianza per delle concordi ipotesi di lavoro, diciamo così, da apparire nello stesso foglio. Si dirà che ogni uomo di cultura ha di già il suo foglio o il suo parti­ to. È un’altra cosa, come questo convegno è un’altra cosa da una riunione redazionale di questo o quel giornale e di questo o quel partito. Si tratta di met­ terci alla prova, di vedere il grado di temperatura di questa nostra volontà di influenzare la vita del paese, unendoci sotto la definizione di uomini di cultura.

Appunti elaborati da Zavattini, nel maggio 1959, dopo aver ricevuto un invito a partecipare a un Convegno di scrittori sul tema: “Il compi­ to degli intellettuali, oggi". Testo inedito.

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Il “Cinegiornale della pace”

Lanciamo un appello ai cineasti di tutto il mondo, a coloro che lo sono di professione e a coloro che, da cineamatori, posseggono una macchina da presa, an­ che a 16 millimetri. Aspettiamo da loro le ultimissi­ me notizie dell’animo degli uomini e soprattutto dei giovani a proposito della pace. Intendiamo, con il materiale che via via ricevere­ mo, creare un “Cinegiornale della pace” che sarà mo­ strato alla gente nelle piazze se non si riuscirà a farlo entrare nei circuiti normali. Non vi domandiamo dei film ma soltanto dei bra­ ni che oscillino tra i 50 e i 300 metri. Sarà compito della redazione del “Cinegiornale della pace” com­ porre di volta in volta i singoli numeri montando il materiale nel modo più efficace. Nessuno oserebbe dichiarare che non ama la pa­ ce, ma spesso è venuto meno il crescere di questo impegno da parte degli artisti proprio quando più si sentiva il bisogno di affrontare il tema dei temi in modo tenace, sistematico, o addirittura quando tale crescita sarebbe stata di per se stessa il fatto cultura­ le più nuovo del nostro tempo. Lo stesso cinema che ora è il più votato alle gran­ di tesi, ai grandi disegni, a portare avanti agli occhi di tutti i problemi di vita o di morte, le prove, le te­ stimonianze di una reale volontà di progresso e di li­ bertà, non ci ha posto che scarse e discontinue alter­ native. Noi vogliamo rovesciare questa situazione. Infatti 175

questo non vuol essere uno dei soliti atti d’amore per la pace. Bisogna prima di tutto capire e far capire che cosa significa la pace, oggi. E non avere paura di andare fino in fondo. Per questo a coloro che parteciperanno al “Cine­ giornale della pace” domandiamo di essere liberi e crudeli, se occorre, ma prima di tutti liberi. Sul pia­ no dei contenuti e sul piano delle forme. Se volessimo esemplificare in termini letterariogiomalistici, diremmo che al “Cinegiornale della pa­ ce” si può collaborate sia con una poesia che con un racconto, con un saggio, con una confessione o con una testimonianza, con un grido o con una cronaca, con una favola come un pezzo di vita reale. Non si tratta, come vedete, di un concorso tra “ar­ tisti”. Noi crediamo che l’arte segua sempre come un’ombra i propositi che sono storicamente validi. Ma è agli artisti e ai cineamatori, in quanto uomi­ ni e cittadini, che ci rivolgiamo: proviamo per un an­ no tutti insieme a puntare gli obiettivi sul mondo dall’angoscioso e culminante angolo visuale della pa­ ce e della guerra. Si dice che i giovani hanno oggi maggior propen­ sione per quei problemi che ruotano intorno a certe turbe della coscienza, angosce antiche e rimoderna­ te, alle alienazioni, variamente intese. Portino pure avanti i giovani questi loro problemi ma li prospetti­ no nell’ambito del problema più grande, collettivo; esplorino i rapporti che esistono tra le supposte o reali solitudini e il lungo cammino da percorrere ver­ so la “non-solitudine” che è uno dei più certi sinoni­ mi della pace. Noi contiamo di affrontare il primo numero del 176

“Cinegiornale della pace” entro il 1962 e di farlo cir­ colare in ogni paese. Inviate i vostri contributi filmati, le vostre propo­ ste, i vostri consigli, le vostre adesioni alla redazione del “Cinegiornale della pace” presso la rivista Rina­ scita in Roma, via dei Polacchi, 28. (Rinascita, 9 giugno 1962)

A un “Giornale della pace”, foglio quindicinale di 64 pagine (diretto­ re Aldo Capitini, redattori Pio Baldelli e Antonio Spinosa, collabora­ tori fìssi Arrigo Benedetti, Giorgio Bassani, Italo Calvino, Enrico Emanuelli, Carlo Levi, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Guido Piovene, Leonida Repaci, Salvatore Quasimodo, Elio Vittorini, Mario Soldati), Zavattini aveva pensato nel 1961. Difficoltà editoriali ne im­ pedirono la nascita. Tuttavia, un anno dopo, Zavattini riesce a realiz­ zare il “Cinegiornale della pace”. Al “Cinegiornale della pace” Zavattini ha dedicato molto tempo e molto inchiostro. Dei numerosi scritti, che abbiamo rintracciato, ne tratteniamo soltanto due: l’appello agli “artisti e ai cineamatori” affin­ ché collaborassero all’iniziativa, e una nota che elenca alcune esempli­ ficazioni circa l’impianto, la struttura, il carattere e la configurazione del periodo filmato. Le proposte di Zavattini sono state sposate, nel­ l’inverno del 1962, dal settimanale comunista Rinascita, che diventa il patrocinatore del “Cinegiornale della pace” e incarica una commissio­ ne, composta da Elio Petri, Aldo Capitini, Cecilia Mangini, Mino Ar­ gentieri e Renzo Vespignani, di scegliere i materiali che sarebbero per­ venuti alla redazione. L’invito di Zavattini provoca reazioni contra­ stanti: i più celebrati nomi del cinema italiano lo lasciano cadere nel vuoto mentre parecchi lettori rispondono inviando al giornale lettere (molte delle quali pubblicate), in cui si suggeriscono spunti da tratta­ re. Pochi volenterosi spediscono piccoli rotoli di pellicola impressio­ nata; altri, a corto di mezzi, fotografìe e nastri sonori. U “Cinegiornale della pace” soccomberà presto. Di questa esperienza rimane un segno: un primo numero, introdotto da alcuni versi di Brecht (“Generale, il tuo carro armato è una macchina potente”), redatto da giovani docu­ mentaristi e che riflette parzialmente il disegno di Zavattini. Il som­ mario del n. 1 comprende svariati “pezzi”: un editoriale detto da Ma­ rio Soldati davanti alla macchina da presa, un’intervista con Jean-Paul Sartre Sull’Asse Parigi-Bonn, una sintetica biografìa del cancelliere Adenauer, un ritratto di Gianni Ardizzone (un giovane ucciso dalla polizia, nell’ottobre 1962, a Milano durante una manifestazione a fa-

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vote dell’indipendenza cubana), una chiacchierata del regista ameri­ cano Lionel Rogosin che illustra le difficoltà incontrate per preparare un film sulla pace, una sintesi visuale sulla tortura nella storia, un’in­ chiesta su Marzabotto, venti anni dopo l’eccidio, la cronaca di una marcia pacifista contro l’installazione di una base missilistica ad Alta­ mura (in Puglia), un rapido documentario sui giochi dei bambini, un corsivo sulla proliferazione di missili nel mondo e la prima puntata di una indagine sul tema “Gli intellettuali e la pace”, alla quale fornisco­ no opinioni il biologo professor Rodolfo Margaria, Adriano Suzzati Traverso, Renato Guttuso e Carlo Levi. Al “Cinegiornale della pace” n. 1 collaborano Ansano Giannarelli e Mino Argentieri (che ne sono i redattori), Giuseppe Ferrara, Luigi Di Gianni, Luciano Malaspina, Massimo Mida, Jean Lodz, Luciano Viazzi, Maurizio Ferrara e Mari­ na Pipemo su cui ricadono le incombenze organizzative. Il primo nu­ mero è presentato a Roma, nel maggio del 1963, nel corso di una “mattinata” indetta al Supercinema.

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Del film inchiesta, autobiografico e altro

In varie parti d’Europa e d’America molti esordienti alla regia disdegnano il racconto cinematografico fedele alle tradizionali “ragioni narrative” e, i più audacifra lo­ ro, si provano con “opere aperte”, con film senza intrec­ cio e senza personaggi. Termini quali “film inchiesta”, “free cinema”, “cinéma-vérité” tornano, frequentemente, nella conversazione culturale. Cesare Zavattini, almeno in Italia, è stato il primo a parlare del film inchiesta... ^inchiesta permette di raccogliere dei dati che, senza una precisa consapevolezza del loro valore e dei loro li­ miti, senza cioè un’interpretazione, non sono di molto aiuto, neppure per conoscere la società. Contesto che il momento della raccolta del dato e quello dell’interpretazione siano dissociati. Un dato grezzo si trasforma anche se è ripreso da destra inve­ ce che da sinistra, se è osservato più o meno a lungo, se è accostato col sonoro o senza di esso. La serie d’interpretazioni del dato è infinita. Prendiamo un film sui bambini. Un regista può sottolineare l’aspet­ to lirico, un secondo l’aspetto religioso, un terzo l’a­ spetto morale. Un regista fermerà i visi dei bambini in giganteschi primi piani. Un altro interrogherà, mi­ crofono alla mano, un gruppo di scolaretti. Un altro ancora, dopo averli inquadrati, rivolgerà la cinepre­ sa verso se stesso e studierà le sue personali impres­ sioni. Vari sono gli atteggiamenti degli autori del film inchiesta verso uno stesso soggetto, e vari sono gli oggetti del film inchiesta. Importante è riconoscere

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al dato la sua particolare corposità, non considerarlo nemmeno un oggetto, avvicinarlo con un desiderio di conoscenza globale. Il problema base è di natura civico-morale, è nella rispondenza del regista verso il dato. Mentre, nella narrativa e nel cinema tradizio­ nali, le suggestioni sono meno frontali e più indefini­ bili, nel film inchiesta si parte da una limitazione concreta, quasi pratica. H minimo di invenzione e il massimo di registrazione. “Registrare”, ossia studiare obiettivamente la natu­ ra, il carattere e le regole di condotta dell’uomo, è compito del sociologo, dello studioso della società che la analizza in vista di una successiva pianificazione, e non del narratore e del regista. La speranza è che questo desiderio di conoscenza, questo chinarsi sull’uomo, proprio per la loro forza e per la loro passionalità, riescano a coronarsi di arte. Con ingenuità ho affermato, in varie occasioni, che fatalmente l’arte verrà in seguito, non potrà non so­ praggiungere. Ma, prima d’essere arte, il cinema è un oggetto che rivela le cose, è uno strumento più da me­ todo che da ispirazione. All’inizio esso ha colpito la nostra meraviglia, poi abbiamo intravisto la funzio­ nalità insita nella sua tecnica, adesso cerchiamo di servirci della forza di scuotimento e di richiamo che l’immagine possiede e che manca alla pagina scritta. Il letterato, infatti, tiene presente un tipo d’uomo implicito, un tipo d’uomo poco diverso dal poeta. Nel giro letterario, attraverso il tempo, si è andato stratificando un peronaggio quasi assoluto non più intriso di una realtà grondante, della quale si sentano effettivamente gli odori, i sudori, i suoni, le passioni

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concrete. È un personaggio esemplare, e con esso il letterato discorre. La visibilità propria del cinema costringe il regista a un’attualità tangibile, tanto pressante da scuotere l’intero processo creativo. Il cineasta si trova davanti un uomo meno depurato dai secoli, immerso nella gioia e nella sofferenza, nel­ la moda perfino, un uomo concreto che lo costringe a cercarsi un processo creativo e morale di ordine di­ verso da quello della letteratura.

Anche alcuni critici letterari hanno sottolineato questo “ritardo” deirultima narrativa italiana. Secon­ do loro, il bel romanzo di Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, “si appoggia a precedenti specifici, a tradizionali e umanistiche procedure e propositi aven­ do esorcizzato in partenza le estranee presenze della realtà letteraria”. Tale aspirazione alla compostezza e alla levigatezza formale è respinta, a priori, dal gruppo de I misteri di Roma. Il dato, soprattutto il dato, ha importanza per loro. Si potrebbe osservare che questo metodo di lavoro, innegabilmente fecondo nella fase di elaborazione di un progetto, nella preparazione del materiale, rischia di compromettere la fase ultima. Po­ treste arrivare a una forma di conoscenza scientifica e non artistica. La capacità di reinvenzione del reale di Zavattini è nota. Ma gli altri, i tuoi collaboratori, sa­ pranno sempre compiere il salto tra una conoscenza di tipo scientifico e una di tipo artistico? Non lo farà Tizio, non lo farà Caio. Uno non su­ pererà la fase grezza del documento alla prima di­ mensione, un altro scalfirà appena la materia, un al­ tro ancora la costringerà all’espressione. L’importan­ te è muoversi lungo una direttiva aperta. Partiamo, e

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ciascuno camminerà con le proprie gambe, con la propria creatività, con la propria fantasia. Non ripu­ dio l’arte. Ma gli uomini del cinema, soprattutto di un tal genere di cinema, la intendano non come un quid che abbellisca la vita, al modo rinascimentale, ma come un quid che penetri nella vita e la conosca e la faccia conoscere nella sua presenza attuale. Non è possibile rifiutare il dono naturale dell’arte, un do­ no posseduto oppure no. E come se volessi abolire il gusto, l’olfatto, il tatto. Soltanto si deve mutare l’im­ piego, ancora romantico, dell’arte. Io e i miei colla­ boratori accettiamo l’ipotesi, l’illusione se vuoi, che l’arte ci aiuti a conoscere le cose, a illuminarle in tut­ ti i loro piani e non solo nelle facce composte e ar­ moniose. L’arte come opposizione, come provoca­ zione, come conoscenza di una città, di una catego­ ria sociale, di un uomo. Nelle sue espressioni migliori, il neorealismo era già un sondaggio nell'Italia, in una città, in una cate­ goria sociale, in un uomo: Ricci, Umberto D., Madda­ lena Cecconi. Stavolta, si tratta di un uomo con nome e cogno­ me. Questo è un progresso importante. Ho davanti a me un uomo da comprendere nelle sue ragioni e nel­ le sue azioni, un uomo che si presta a un esperimen­ to difficile, perché ha preso coscienza di sé, un uomo che mi permette di rendermi conto di certi fenome­ ni del nostro tempo: il successo, il danaro, la vanità. Con la finzione lotto contro la finzione. Quest’uo­ mo, sul quale farò un film inchiesta, è l’attore Mauri­ zio Arena. Come farò il film? Servendomi di Arena come di una cavia, una cavia consapevole perché è

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convinto dell’utilità di una analisi sulla sua vita e sul­ la sua carriera. Nel cinema occorre una serie di al­ leanze che a volte trovo e a volte no. In questo caso posso contare su un giovane intelligente, che diri­ gerà il film. Mi ascolta, ed è d’accordo con me nella necessità di una forma snodata, perché, se questo ge­ nere nuovo di film si gira con le vecchie formule, si precipita fatalmente nella maniera. Si rimane manie­ risti, mentre bisogna sforzarsi di trovare moduli che si adattino alla materia viva che si ha tra le mani. Im­ magino, così, il film inchiesta: Arena è seduto in una poltrona. Il regista, parlando con lui, lo spinge a rac­ contarci la sua vita, senza infingimenti e senza segre­ ti. Ecco Arena che fa l’amore con la principessa; ec­ co la borgata nella quale ha abitato; ecco l’incontro col cinema e, a stacco, Maggiorani che parla con lui, il Maggiorani avvilito e umiliato dal cinema; ecco la madre di Arena e cosa pensa una madre del figlio, una madre non lo giudica mai; ecco le spese, le Giu­ liette, le camicie e i debiti col camiciaio, quante deci­ ne di migliaia di lire deve pagare per le camicie? I due piani della carriera d’attore, della vita stessa di Arena, quello ufficiale e quello sconfitto, si scom­ pongono davanti ai nostri occhi.

Questo progetto mi ricorda la psicorappresentazio­ ne, ideata da J.L. Moreno. Ogni resistenza dell’ope­ raio alla vita di fabbrica sarebbe causata, secondo le teorie del sociologo americano, da una insufficiente conoscenza della realtà da parte sua oppure da una la­ cunosa comprensione delle ragioni degli altri, dei com­ portamenti altrui influenzati dalle rigide necessità del­ la fabbrica. Nel caso di Arena, il suo fallimento sareb­ be causato dalla difficoltà di adattare una personalità

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preesistente, genuina ma elementare personalità di un “fusto” della periferia, al complesso mestiere dell'atto­ re e all’utilizzazione sfacciata che il cinema fa di esso. La cura proposta da Moreno, nei casi di disadattamen­ to, consiste nella psicorappresentazione, ossia nella re­ cita di una o più scene, fondate sul problema in di­ scussione, interpretate dagli stessi “sradicati” che, vol­ ta a volta, si scambiano i ruoli e finiscono con l’imme­ desimarsi nelle ragioni proprie e altrui. Moreno, e con lui tutto un ramo delle human relations americane, so­ stiene che, al termine della psicorappresentazione, una soluzione di generale gradimento premia gli sforzi dei neoattori. Non vorrei che il film inchiesta su un uomo assomigliasse troppo a questa terapia di tipo psicoana­ litico.

Mi guardo bene dal frugare in una persona al fine di un esperimento psicoanalitico, nel senso speri­ mentale e quasi mondano del termine. Mi interessa, soprattutto, riuscire a cogliere, da un dialogo con Arena e dagli inserti della sua vita, il piano sconfit­ to, segreto che è nell’uomo. Vi sono tante cose che non si raccontano mai. Una volta volevo fare un film dove non succedesse niente. Ma, sotto quell’apparente niente, vi erano i mille pensieri che passano per la testa, nei quali si giudicano gli altri e se stessi. Certi atteggiamenti sono dovuti proprio a questi pensieri che non vengono mai alla luce, e nel film in­ chiesta su un uomo voglio appunto cercarli. Se riu­ scissi a mostrare i pensieri di un uomo che va a vo­ tare, a scomporre le sue componenti esterne (l’atto materiale del voto) da quelle interne (le impressioni al momento del voto, e prima, e dopo), farei una co­ sa importante.

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Questo autobiografismo aiuterebbe tutti noi a pro­ porci in un modo diverso da quello consueto. L’uomo è troppo spesso uno strumento, in quanto ripete di se stesso quanto non conosce. Con l’autobiografismo capirebbe che il suo rapporto col mondo è in­ fluenzato, quasi determinato, da una serie di luoghi comuni, e non dico neanche di interessi comuni. Questi elementi che premono in lui vanno riesami­ nati sotto una luce nuova, una luce che nasce soltan­ to da una capacità totale di aprirsi. E, sullo sfondo, si spalancherà la città, la famiglia, gli altri. Come si ar­ ricchirà, allora, l’uomo, questo sconosciuto che par­ tecipa alla vita civile, alla vita politica con quanto di consumato ha in sé e non con quanto ha di intimo e di geloso. Quante cose, anche terribili, verrebbero avanti. Pensiamo a un fatto tremendo, alla guerra. Per molti la guerra è possibile. Nell’animo di molti, la guerra è già avvenuta. La constatazione che essa non c’è ancora, è del tutto occasionale. Questa gente prepara la guerra. Di fronte a una così immane di­ chiarazione, come non obbligarci a frugare nella par­ te segreta degli uomini, nel loro pensiero che ha su­ pinamente, fatalisticamente ammesso la possibilità della guerra? Vorrei cominciare, almeno da me, a dare notizia del piano non ufficiale dell’individuo, dell’individuo legato alla collettività. Individuo e collettività sono due facce di un identico problema. Come la terra gira intorno al sole e intorno a se stes­ sa, così sento che io mi muovo intorno a me e, nello stesso momento, intorno alla collettività. Questi mo­ vimenti devono trovare un asse unitario nel film in­ chiesta. Qualunque analisi dell’uomo singolo ha da essere congiunta a quella della collettività. In questa prospettiva precisa si colloca il film inchiesta. 185

Nel film inchiesta vi è una precisa gerarchia di va­ lori, graduata sulla maggiore o minore partecipazio­ ne civico-morale. Con esso non si possono tradire le cose. Non v’è nulla di peggiore che accingersi a un ci­ nema di verità, partendo condizionati e procedendo condizionati. In questo caso, un film inchiesta è una mistificazione. Si potrà sbagliare artisticamente, ma non si dovranno commettere errori umani, perché il film inchiesta, prima d’essere altro, è una gara di na­ tura morale. In seguito, mentre il lavoro procede, il materiale si rassoderà nella forma, dato che l’animo umano è portato, sempre, a dare nome alle cose. Il costante impulso dell’autore di un film inchie­ sta è il bisogno di verità. Ciò costa una notevole fati­ ca. n regista è sottoposto a un logoramento ideativo ed esecutivo di un genere diverso dal tradizionale. Se non coltiverà in sé l’umiltà e la pazienza, non farà nulla di buono. Queste due qualità sono un po’ la colla che unisce insieme la tecnica e l’intelligenza. Danno al regista la forza di resistere sull’oggetto e sull’uomo, senza spingerlo a risolvere le difficoltà, che fatalmente si presentano, con l’immaginazione. Il film inchiesta costa fatica, poi, sul piano degli im­ pegni politici, perché, per forza di cose, avrà una ca­ rica critica e, per forza di cose, qualcuno cercherà di frenarla e di arginarla. Se il bisogno di conoscenza di noi tutti aumenterà, l’indagine si sposterà ad altri ar­ gomenti e l’atteggiamento morale stesso degli autori si farà meno elementare. I registi che si dedicano a questo filone del cine­ ma, anche i migliori, conservano attualmente una posizione da giudici. La grossa esigenza attuale è, in­ vece, quella di una bilateralità costante, ben diversa dall’unilateralità del film favola e di certo film in186

chiesta. Vado a intervistare un uomo. Davanti a lui non posso mantenere un atteggiamento distaccato o indulgente. Non devo affacciarmi dall’esterno sulla sua vita. Sono un elemento della realtà, come lui. H mio personaggio è lì, davanti a me, ma io perché so­ no qui, perché sono venuto a intervistarlo? Questa constatazione, e le sue conseguenze in me e nel mez­ zo che adopero per esprimere le mie idee, produce un improvviso allargamento di orizzonti, una diaristica di tipo nuovo. La vecchia maniera di accostarsi agli altri, di parlare con gli altri, è bruciata. Scopria­ mo di essere continuamente presenti agli altri, e que­ sta continuità devo esaminarla, studiarla, capirla. Alcuni psicologi dicono che, quanto più entriamo in una società industriale, tanto più aumenta il bisogno di confidenza. La gente è assetata di confidenza. Ma, riconosciuto questo, davanti alla macchina da presa, davanti ai riflettori, davanti al vociare della troupe, una persona qualunque esprimerà interamente se stes­ sa o non rimanderà, al contrario, la parte più esterna, più caduca e più facile di sé? Non vi è niente di inerte. Non vi sono persone che non parlino. Non si va mai invano a toccare un esse­ re umano. Naturalmente, molto dipende dalla sensi­ bilità del regista. Alcuni fatti possono parlare da so­ li: un uomo malato ad esempio, steso su un letto. Ma vi sono alcune sfumature del dato umano che sono colte soltanto da colui che abbia capacità di penetra­ zione. Un tema può essere risolto in cento modi. Un uomo arriva per la prima volta alla Stazione Termini. Un regista si ferma a guardarlo un minuto, un secon­ do due, un terzo tre e così via. Un altro gli gira in­

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tomo. Un altro lo interroga. Nella scelta di un modo, invece di un altro, ci può essere un’intuizione di na­ tura artistica che arricchirà il fotogramma di vibra­ zioni umane. Si formeranno, sequenza dopo sequen­ za, gli atti e i pensieri dell’uomo; e il cinema, dopo aver raccontato tante favole, descriverà soltanto il diario di un uomo, un uomo fra tanti. L’autobiogra­ fia, ma diversa da quella consueta a molta letteratu­ ra, ma autentica, ma scavata sconfiggerà il commen­ to a posteriori sulla vita. La drammaturgia tradizio­ nale del film si frantumerà. Non vi sarà un principio in sordina, un crescendo e un finale ad effetto; ma il farsi dell’uomo davanti allo schermo, dell’uomo che cerca di capire quello che fa e quello che non fa, e quella che è la sua vera condizone nei confronti de­ gli altri. Questa esigenza autobiografica avrà, secondo Za­ vattini, uno sviluppo nel cinema? La biografia sarà un bisogno sempre più sentito. Cominceranno i poeti, che sono già abituati a guar­ darsi dentro ma che non hanno mai avuto la possibi­ lità e il coraggio di farlo su un grande piano, il piano del Telstar, e si sono accontentati del libro o della confessione per interposta persona. Il fatto di con­ fessarsi direttamente è già diverso. Uso malvolentie­ ri la parole confessione. Essa implica un rapporto tra noi e la divinità, mentre il nuovo impulso è essen­ zialmente terreno, laico, quasi scientifico. Quest’an­ sia, questa volontà nasce da un sommovimento che si è agitato in noi, ma che, quando esce di bocca, cer­ ca di razionalizzarsi al massimo. Non c’è l’urlo, il gri­ do, il girare intorno a se stesso, il fermarsi a un dia-

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logo con la divinità ripudiando quasi gli altri. Non c’è più il momento nobilissimo, stupendo, al quale assistiamo da secoli. Se pronuncio la parola confes­ sione, mi riferisco a un dialogo assoluto. Se dico, in­ vece, rapporto con me stesso, non liquido più la co­ sa in uno slancio sentimentale, passionale, in uno slancio di dolore, in uno slancio esclamativo che ha, indubbiamente, la sua grande necessità. Quando di­ co “rapporto con me stesso” obbligo anche a dei di­ versi modi di espressione. Mi guardo bene dal consi­ gliare: “Non parlate di Dio”. Ma voglio che si parli di Dio vedendone la com­ posizione negli atti della vita quotidiana, quello che conta nelle mie azioni d’ogni giorno. Io non lo voglio lasciare in una misteriosità lontana. Nulla, neppure le cose impalpabili, sarà precluso al film inchiesta. Un poeta potrà dire: “C’era della neve su un albero, un corvo ha mosso le ali, è casca­ ta un po’ di neve sulla mia faccia, quella mattina so­ no diventato di un altro umore”. Potrà farlo, ma sempre tenendo presente che si rivolge ad altri, che è una parte di un tutto. Sono sicuro che anche una persona umile avrà cose interessanti e utili da rac­ contarci. Vi sono degli uomini che, quando raggiun­ gono un grado di verità, un grado di coscienza, sono a loro volta degli artisti. In tal modo si spezzerà il diaframma tra arte e vita, e si avrà consapevolezza dell’enorme apporto degli individui alla storia. La storia termina ogni secondo. Nella mia testa passano milioni di pensieri, i più labili apparentemente. Ma, abbiamo detto, i pensieri determinano le azioni. Siamo eroi, siamo santi, siamo ignobili cento vol­ te al giorno. Tutto questo non dobbiamo lasciarlo nel sottofondo, nella sottocoscienza. Si parla tanto di

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alienazione. Un modo per combatterla è riuscire ad analizzarla nelle sue componenti, cominciando a esaminare la propria alienazione. Io alieno me stesso a me stesso se rifiuto di comprendermi. Il film in­ chiesta è imo strumento ideale, in tal senso. È un pri­ mo avvicinarsi a quella diaristica che mi sta a cuore...

L’intervista, eseguita da Francesco Bolzoni, è ripresa dal volume I mi­ steri di Roma (Ed. Cappelli, collana “Dal soggetto al film”, 1963) che contiene un’ampia documentazione sull’omonimo film ideato e supervisionato da Zavattini per la regia di Libero Bizzarri, Mario Carbone, Angelo D’Alessandro, Lino Del Fra, Luigi Di Gianni, Giuseppe Fer­ rara, Ansano Giannarelli, Giulio Macchi, Lori Mazzetti, Enzo Muzii, Piero Nelli, Paolo Nuzii, Dino B. Partesano, Massimo Mida, Giovan­ ni Vento.

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Contro il passato nel cinema

Stiamo assistendo a quello che sembra un para­ dosso: da un lato, un’accentuazione ritmica e pro­ gressione geometrica dello sviluppo scientifico; e dall’altro, ritardo in una concezione morale di que­ sto nuovo mondo. Il cinema, per le ragioni che ab­ biamo accennato, per la sua intellettualizzazione, non ha fatto niente per la creazione di una nuova morale. Rivoluzione significa esigenza di questa nuova morale e non le barricate: il tipo di azione che deri­ verà dal rispondere all’esigenza, ci dirà poi che tipo di azione faremo. Così con il cinema non possiamo prospettare con esattezza tutte le forme che derive­ ranno dal ripristinarlo nello spirito del ’45, ma sen­ tiamo la necessità di metterci su questa frontiera, che non è la frontiera del cinema ma di tutta la cultura. H Rubicone, che la cultura deve attraversare, è quello di portare di là l’esigenza morale nuova, nel suo in­ sieme, e niente altro, perché proprio nell’avere il co­ raggio di abbandonare certe sue forme che sembra­ no intoccabili, come la distinzione fra cultura e poli­ tica, c’è la sua novità sperimentale, che non ha nien­ te a che fare con la dimensione avanguardistica cor­ rente, che parte da istanze di mutamento, le quali fi­ niscono con lo svolgersi dentro loro stesse. L’avanguardismo c’è sempre stato, ma oggi il vero avanguardismo ha bisogno di essere morale in quan­ to si possa tradurre in azione e oggi non si può anda­ re alla ricerca di una morale, che non sia azione ri­

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creatrice del concetto di arte. L’arte svolge il suo di­ scorso con una logica che possiamo dire fatale, ma tanto in sé che può capitare, per esempio nel mo­ mento in cui viviamo, che l’arte in tutte le sue forme arrivi ad un superamento della perplessità e della informità moderna mentre invece la vita, nel suo più massiccio complesso, continua a restare perplessa e angosciata e ingiusta e retrocedente addirittura. Ciò significa che l’operazione arte minaccia di continua­ re a essere fatta in una corsia parallela per cui, come nell’autostrada, a sinistra si va verso una direzione e a destra verso un’altra sotto un’apparenza di con­ temporaneità che non è però contemporaneità e profonda, raggiunta similarità di sbocchi e di inte­ ressi. Ora il cinema può affrontare in una posizione di avanguardia la situazione presente? Per il cinema è questione di vita o di morte. O l’affronta o le sca­ denze festivaliere sono scadenze che sembrano vitali e sono diventate mortuarie; e cioè il ritmo temporale del discorso cinematografico è definitivamente ral­ lentato e destinato a una casta, mentre la massa del cinema continua coi suoi due o tremila film all’anno a corrompere sempre di più il pubblico. È chiaro che se si parte da una concezione rivoluzionaria del­ la morale, che stimiamo necessaria, è tutto un coor­ dinamento di azioni a tempo urgente e decisivo nei vari settori, da quello editoriale che - come diceva­ mo - non può accettare il solo fatto di divulgare un prodotto, ma deve anche inventare dei prodotti da divulgare, al teatro che, fra le tante sue possibilità, continua a preferire anche lui quelle di casta e non realizza il teatro di massa, che non va inteso come teatro a 3.000 posti per far vedere VAmleto ma che

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va inteso, tanto per dime una, come un possibile tea­ tro-verità, così come c’è il cinema verità, in cui si rompano gli schemi della triade autore-attore-regia. Un teatro in cui entrino perfino gli stessi protagoni­ sti della cronaca e della storia vivente e gli attori sia­ no tutti insieme autori-registi e attori, ma meno di tutto attori, se non quel tanto cui perviene una ne­ cessità stilistica come resa significativa al massimo li­ vello e quindi alla massima utilità. Ma se io opero con un teatro così, dentro un piccolo teatro, devo cercare che lo veda il maggior numero di persone possibile attraverso i mezzi tecnici di cui dispongo, che, senza pensare per ovvie ragioni alla tv può esse­ re la sua colleganza con il cinema. Insomma, le com­ mistioni fra i vari generi si fanno sempre più neces­ sarie e naturalmente trovano ostacoli. Un cinema che serve il teatro e viceversa, la pittura e viceversa, non è gradito in quanto l’arte anche nella sua strut­ turazione attuale ha sempre una carica rivoluziona­ ria, però si congela in ambienti limitati quando inve­ ce è possibile di uno stesso oggetto, sia un quadro, sia un atto unico, sia una manifestazione di cinque minuti del teatro-verità, l’estenderla, il catalizzarla su una scala enorme e questo mette sempre in valore l’elemento critico che contiene. Ma è ovvio che da questa disposizione di animo e di mente non posso­ no che nascere dei prodotti, che contengono già in precedenza una carica critica più forte e più diretta. Dicevamo dei modi con i quali il cinema, insufflato da questo spirito, può esprimersi. Prima di tutto può esprimersi anche nell’ambito delle cooperative se le cooperative diventano dei centri, dei club che vanno al di là del film e si pongono nella posizione iniziale del cinema. Si prenda, mettiamo, il cinegiornale. Si

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sono battute le mani ai provvedimenti che non favo­ riscono la produzione di cinegiornali. Per me i cine­ giornali sono una delle grandi direttrici del nuovo ci­ nema. Si capisce che sono proprio i cinegiornali proibiti quelli che ipotizzo, nei quali il rapporto con la realtà è infinitamente vario e incalzante e se ci fos­ se la libertà si sentirebbe il bisogno di fame uno al giorno e si creerebbero dei cinegiornali di club, ap­ punto, di interpretazione della realtà che giungereb­ bero, fatti e cotti, di fronte all’opinione pubblica, obbligandola a una presenza di ben altro genere che quella dei cinegiornali correnti. Si pensi all’esercito dei cinedilettanti, che cosa potrebbero essere se en­ trassero nello spirito del nuovo cinema, massa di uo­ mini e di macchine totalmente inerti, inutili, dilet­ tantesche, turistiche, che non hanno coscienza di che cosa è il cinema e di che strumento analitico han­ no nelle mani e che vivono con dei complessi d’infe­ riorità nei confronti del cosiddetto cinema grande, che non dispone di una libertà come potrebbero di­ sporne loro. Si pensi soprattutto ai cineasti disoccu­ pati o male occupati, succubi dell’attesa di combina­ zioni cinematografiche tradizionali, cioè un film che per scattare ha bisogno di tutta una costellazione di rapporti di interessi difficili e per il 90% corruttori, se questi cineasti invece di tante attese, per cui molti si perdono anche per la strada, tentassero - ecco qui che si può parlare di una libertà che esiste e di cui non si fruisce - tentassero di fare i loro cento metri; i loro duecento metri, quel qualche cosa che urge, magari a 16 mm, a 8 mm, totalmente al di fuori dal pensiero di un libro, di un racconto, di filiazioni in­ somma tradizionali. Bisogna associarsi e costituire questi club che sono raccolte di uomini prima che di

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pellicole, perché in questo modo si ha già in parten­ za una certa possibilità di assembramento, di aiuto reciproco, di solidarietà, di reperimento di canali di consumo che saranno in parte quelli che già ci sono ma tanto più numerosi e tanto più nuovi quanto più questa materia cinematografica nascerà non solo dai dilettanti, ma dai professionisti. Può parere un so­ gno e non è un sogno che una ventina di cineasti si dissemini in vari di questi club, e per ora pensiamo a Roma solamente, e accanto alla produzione normale tentino questa produzione anormale: uno tenta un tipo di cinegiornale; un altro dei personaggi di oggi colti così nel midollo dell’attualità, accusati o difesi, con una polemica di fondo sui valori in continua contestazione oggi, dal papa a un ministro, a un arti­ sta, a un saggista; un altro farà delle illuminazioni sa­ tiriche di cinque minuti, una specie di strip cinema­ tografiche da vedere in cinebox per adesso ideali, che possono diventare di uso comune perché lo svi­ luppo del mezzo tecnico è anche determinato dai bi­ sogni effettivi, quindi se questa merce critica fosse fatta da cretini è ovvio che lo sviluppo tecnico sareb­ be assai più lento che non se fosse fatta da cineasti di valore; e per cineasti, oltre che la classe già costitui­ ta, intendo soprattutto una vera e propria invasione di nuovi ingegni reclutati in tutti i campi e che di fronte a un’articolazione di questo genere, economi­ ca e contenutistica, si moltiplicherebbero a migliaia, rompendo tra l’altro le remore di un cinema deifica­ to. Come sempre evito di continuare l’elenco perché ciò che importa è il principio e l’elenco può far di­ minuire la forza, la dinamica, la potenzialità del prin­ cipio. Questo non è un andare verso una cultura di massa intesa degradantemente: il suo senso più 195

profondo è un miglioramento e un aggiornamento critico a tutti i livelli, perché il nostro paese ha biso­ gno di togliersi di dosso un carattere di poco carat­ tere, che è in tutti gli ordini e solo da uno scambio fra tutti gli ordini si può favorire una mentalità rivo­ luzionaria, poiché le rivoluzioni non vengono fatte solo da chi ne è beneficiato e siamo così lontani dal possedere una coscienza rivoluzionaria che gli arti­ sti, gli intellettuali, i cinematografari ecc. costituisco­ no, in effetti, una delle più consistenti remore al for­ marsi di una mentalità rivoluzionaria. Sarebbe quin­ di un processo di osmosi non per formare una nuo­ va classe ma per creare una coscienza rivoluzionaria che richieda in ogni settore dei reclutamenti, poiché il senso del dialogo non può essere che quello, da parte nostra, non di diminuzione ma di rinforzo del criterio rivoluzionario. Ma senza addentrarci in un esame, che io non so­ no neanche capace di fare, delle possibilità reali e ri­ voluzionarie del paese, ritorno al cinema, per con­ cludere, dicendo che il cinema è tradito da coloro che lo fanno, ma ha ancora la possibilità di riscatto se si mette su questo piano radicalmente nuovo, sen­ za tuttavia abbandonare completamente l’altro cine­ ma, sia per influenzarlo con questo spirito che oggi toma alla luce, sia perché i punti di contatto ci sono naturalmente e non si può in modo schematico sepa­ rare così ex abrupto le due forme. Stabiliamo il prin­ cipio se siamo capaci di fissarlo realisticamente, il principio rivoluzionario immediato nella sua esigen­ za e nella sua formulazione ma può anche non esse­ re immediato nei suoi risultati tangibili, però ci dà una massa di lavoro da svolgere e una piattaforma di lotta e di finalità che coinvolge, unifica il fatto cultu196

rale col fatto politico e offre alla cultura delle sugge­ stioni di sperimentarsi molto importanti e concrete nell’ambito di questi club che vedremo moltiplicarsi nella misura che si sarà saputo precisare lo spirito ri­ voluzionario che li muove e, aggiungerei, nella misu­ ra del coraggio con il quale si assume la responsabi­ lità a tutti gli effetti di un programma rivoluzionario, di rottura effettiva. Un discorso così sarebbe prema­ turo e impratico se fosse fatto solo con il teatro o so­ lo con la pittura e perfino solo con l’editoria in tutte le sue branche; è ancora attuale e pratico se fatto con il cinema per questo essere in piazza del cinema, per questa collaboratività che è implicita ed esplicita nel cinema e perché ha sempre covato sotto la cenere un raccordo, interrotto dalla politica di questi quindici anni, con le illuminazioni culturali rinnovatrici del ’45. Quindi è un cinema nuovo ma non che nasce da un estro, da un umore improvviso, ma non è che il logico svolgimento di tutte le premesse del ’45, alle quali non ha tenuto fede nessuno perché - ripetia­ molo - gli stessi capolavori non sono capolavori di rottura, non sono capolavori rivoluzionari, sono il meglio, assolutamente il meglio, nell’ordine di un ci­ nema - come abbiamo detto in principio e ripetuto - che può essere accettato da un centro-sinistra che non dovrebbe finalmente aprire gli occhi a un parti­ to che non accetta la cultura in queste forme di in­ termittenti adesioni ma cerca di creare una cultura continua, che si potrebbe dire integri la politica più ancora che essere integrata dalla politica. Siamo alla ricerca di una cultura in questo senso, ma le si toglie continuamente la sedia sotto il sedere, quando cerca di diventare coerente e stabile e per questo non si forma mai e diventa aneddotica, romantica, confon­

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de gli uomini con le opere o il contrario, psicologi­ camente è borghese con delle finalità non borghesi, e per dei successi provvisori (la forma stessa di suc­ cesso, che è di natura borghese) si rinuncia a delle prospettive, a delle prese di posizione di fondo, cioè a una struttura rivoluzionaria che è la sola ragione di un partito rivoluzionario. Si verifica che, accettando le collusioni, si risulta battuti in rivoluzione da quel­ li che fanno delle rivoluzioni provvisorie e settoriali, cioè viviamo quel papocchio all’italiana in cui si ha paura di essere tacciati di anticlericali, svolgendo conseguentemente l’analisi della situazione politica attuale vaticanizzata nell’ultimo mezzo secolo e di cui oggi c’è l’acme. Come si pende per una cultura di gusto, così si pende per una rivoluzione di gusto, e tutto il contesto cinematografico è un contesto bor­ ghese, in cui, come ho sentito io a Reggio Emilia per esempio, i valori di Rosi erano sottoposti a un esame di gusto, senza neppure il sospetto che bisognava correre il rischio della impopolarità rispetto al gusto perché quello era anche il modo di cominciare la ta­ bula rasa da cui poi sorgerebbe un tipo di gusto di­ verso (solo i valori eterni che la scienza mette sotto processo e che la borghesia mantiene nell’arte della morale e di cui noi siamo mancipi, come si verificò luminosamente al tempo di La strada). Tanto più dobbiamo riconoscere che c’è un soprawalere sia organizzativo, sia contenutistico di un cinema che accetta di svolgersi in ambiti precostitui­ ti, così tanto è meglio, nel senso che siamo costretti a una resa dei conti. L’occasione della legge in Italia è un’occasione per riesaminare il fenomeno del cine­ ma nel suo insieme. La prima constatazione che dobbiamo fare, è che

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il cinema è prima di tutto un fenomeno borghese. Che poi abbia delle possibilità d’incidenza fram­ mentarie e indirette sopra una evoluzione del pub­ blico, noi pensiamo che sia possibile ma nella misu­ ra in cui è possibile in letteratura, in musica, in pit­ tura, cioè di influenze - ripetiamo - positive ma co­ me possono esserci e ci sono sempre state. Registria­ mo il fallimento del cinema come un qualcosa che per natura endogena abbia assunto una influenza determinante nei processi vitali della società al pun­ to da mutarne le strutture individuali e collettive. Registriamo il fallimento in contrapposto a quello che era avvenuto nel ’45, intuizione di una trasfor­ mazione radicale di una società, evento storico, e coincidenza del mezzo del cinema per confermare, accelerare, espletare, analizzare, coinvolgere, coone­ stare, per cui l’artista del cinema si distaccava asso­ lutamente da qualunque altra forma di artista in quanto contemporaneamente il momento storico e il mezzo tecnico, quasi che si fossero cercati per anni, combaciavano, lasciando gli scrittori in una specie di disperazione, di scontentezza, d’insoddisfazione, e solo in rarissimi casi lo scrittore tentava di far diven­ tare un mezzo tecnico meno parallelo ma più inte­ grato il suo mondo poetico. Il cinema invece annul­ lava non solo il mondo poetico ma faceva diventare mondo poetico prima di tutto la necessità stessa di rifiutare una posizione parallela. Solo attraverso il ci­ nema nasceva una prospettiva nuova per il cosiddet­ to intellettuale. E la prospettiva nuova non era nes­ suna tematica, ma questo principio di rifuto di svol­ gimento di tematiche che, nel migliore dei casi, sa­ rebbero state poi divulgate successivamente, ma era­ no sempre i due momenti che si accettavano, che so­ 199

no poi i due momenti che il cinema attuale ha ricon­ sacrato come le espressioni letterarie più codificate. La carica rivoluzionaria non poteva essere solo in certi film, ma doveva essere nel cinema, in tutta la concezione del cinema. E mancando questa conce­ zione totale, era naturale poi che i singoli autori fos­ sero risucchiati di nuovo nelle strutture preesistenti (non c’è bisogno di dimostrazioni, perché i fatti lo dimostrano). Non si è verificato un processo evoluti­ vo in senso rivoluzionario, ma recessivo sempre per­ ché il lampo, l’intuizione rivoluzionaria, è stata con­ sumata, spenta in questo o quel film che già aveva, in quanto film, dei limiti perché giocava dentro all’or­ ganizzazione industriale. Bisognava approfittare del­ lo slancio e della coincidenza storica per essere con­ seguenti e allora vedrete quali possibilità avevano i grandi registi, che ci sono stati, di concepire dei film che prima di tutto erano del cinema il cui primo bi­ sogno era di divincolarsi dalla camicia di forza del concetto di film... e allora sarebbero nate dislocazio­ ni geografiche, forme diaristiche, forme autobiogra­ fiche, commistioni tra cortometraggi e lungometrag­ gi, tra cinegiornali e novelle, necessità urgente di far conoscere, proiettare questa roba al di fuori degli iter tradizionali, tematiche che non erano mai preesi­ stenti se non nello spirito come necessità di massima, che era appunto la necessità di usare la macchina da presa al livello dello svolgimento storico, seguendo­ lo e precedendolo, qualche volta essendo anche l’ae­ do della colonna in marcia ma rinnovando il concet­ to stesso di aedo, che non poteva più essere un eli­ cottero invulnerabile che passava sulla colonna ma vulnerabile e rinnovabile e aumentabile nelle sue di­ sponibilità tecniche in quanto crescevano, si molti­ 200

plicavano, si rinnovavano i dati da usare e quindi le dimensioni della realtà con questo modo di parteci­ pazione. Non si tratta di dire che ne sarebbero usci­ te delle cose liriche, epiche, drammatiche, documen­ taristiche; ogni uso di queste parole rimette l’artista in una posizione anche strumentale tradizionale. Ne sarebbero uscite delle manifestazioni di realtà, in cui l’oggetto e il soggetto tendevano a unificarsi sempre più quando invece si è verificato il fenomeno lettera­ rio - in questo la letteratura ha influenzato male - di una specie di sfogo comunque tardivo e inefficace o troppo lentamente efficace, che diventa perfino una manifestazione d’impotenza. Anche un capolavoro può testimoniare questa impotenza, questo ingresso del cineasta in valori di cinema uguale a stanza dove si può sognare o sfogarsi ma mai di cinema che sia compromissione morale e fantastica nel tessuto della storia in atto. Un concetto rivoluzionario di cinema non poteva essere contenuto solo nella scelta di un tema o di un altro tema. A chi guardi la storia del cinema, si ac­ corgerà che ogni tanto ci sono stati film, dentro i re­ cipienti più borghesi, che sono stati dei veri e propri éclats antiborghesi. Ma pensate come quei meravi­ gliosi film appartengono a una storia di rivoluzioni non compiute e cioè giunte al livello consentito e mai travalicanti alle estreme conseguenze del pensie­ ro d’impostazione, che è la rivoluzione. Per cui si as­ sistette e si assiste a dei processi interni dei cineasti di moto a... verso la qualifica d’intellettuale che è una qualifica nella quale si è equiparati a dei modi di vita del pensiero e dell’azione disgiunti, tutt’altro che unitari, intendendo pensiero e azione come due momenti quando il cinema li identificava. Basta ve­ 201

dere anche l’orientamento dei critici. Il concetto stesso di critica quotidiana sui giornali porta già un’accettazione antirivoluzionaria del cinema, consi­ dera il cinema entrato in queste costellazioni di frui­ zione e di creazione, mai di natura eversiva, e questo gli stessi critici di sinistra, che saranno sempre pron­ ti a giudicare velleitario qualunque vero processo ri­ voluzionario tanto è vero che non si vede mai dedi­ care la colonna delle recensioni a dei fatti che, pur essendo di cinema, non passano attraverso la trafila tradizionale. E questo perché la recensione antirivo­ luzionaria del cinema è avvenuta nel suo complesso. È un volume integrale di cultura che ha tutto fuor­ ché della rivoluzione dei valori. Accettando l’acco­ stamento con la letteratura, i cineasti si sono scavati la fossa, hanno favorito il crearsi di quello che è già nella natura dell’uomo, di una psicologia particolari­ stica, professionale, la psicologia dei due momenti, la psicologia che divide l’opera dall’uomo, e si sono tolti la possibilità di avventure molto più pertinenti al cinema, naturalmente rischiose. Si può dire che il cinema ha subito un processo riformistico dal 1945 per essere oggi tale da poter essere considerato un ti­ tolo di onore nazionale di natura accademica. E, malgrado qualche finzione, anche i film più avanzati non danno fastidio, possono essere elogiati da tutte le parti e si sorveglia solo che non siano poste le basi di uno sviluppo del cinema in direzioni che sfuggano al controllo del ministero, della burocrazia, della di­ stribuzione, del noleggio, delle sale, di un certo pub­ blico, dei capitali, ecc., ecc. Quindi la crisi del cinema è una crisi dell’uomo moderno, che nei suoi slanci di autonomia arriva fi­ no a un certo punto. La letteratura, che è più libera, 202

non serve in quanto il sistema ha creato delle sostan­ ze conducenti, come dei parafulmini che scaricano sottoterra la critica di quei libri. È avvenuto altret­ tanto nel cinema e anche i maggiori cineasti sono riusciti a convincersi e a farsi convincere da tutte le estetiche che loro sono a posto; mentre non si accor­ gono che sono a posto letterariamente ma non sono a posto cinematograficamente; che cioè sono dei campioni straordinari in una pista che hanno dise­ gnato gli altri e che è gestita dagli altri. E dove può capitare per caso che un fotoreporter schiacci una fotografia in cui c’è il presagio di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, seguendo il lavoro dei grandi. In altre parole, la crisi del cinema è crisi del­ l’uomo moderno inteso come scompenso tra le pos­ sibilità che ha nelle mani e il loro uso imperfetto. Una delle componenti dell’angoscia sta in questo: non fare ciò che è chiaro che si dovrebbe fare, e quando si pensa alla macchina da presa, che come un uccello ha possibilità di andare dappertutto, den­ tro e fuori di noi, non si può non riconoscere che es­ sa va soprattutto nel romanzo, ricavandone le lodi quanto più è romanzo cioè quanto più riconsacra ti­ pi di distanze tra il fatto e la sua espressione, che so­ no proprie di un’amministrazione spirituale borghe­ se. Naturalmente questo cinema, che sia cinema ri­ voluzionario, si pone alla radice di questa alienazio­ ne dell’intellettuale e cercherebbe di riconquistare un’autonomia. È possibile? Prima di tutto bisogna essere convinti che il cinema ha una funzione rivolu­ zionaria. Che la società richiede obiettivamente que­ sto mutamento di fondo. Terzo: che questo muta­ mento di fondo va inteso con tanti suoi fattori, il principale dei quali è l’intuizione e la convinzione

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della necessità di un mutamento di fondo e questo è nell’aria, nelle parole, nei silenzi, nelle cronache, nel­ le guerre, nelle fami, nelle pazzie, nelle malattie, nel­ le commedie, nelle contraddizioni, nelle ipocrisie, cioè in tutta una civiltà che non condividiamo ma che avalliamo continuamente accettandola nella so­ stanza, nella realtà, nella effettualità e rifiutandola nel pensiero. Per rivoluzione intendiamo tutti gli sta­ di, quindi tutte le necessità più inderogabili di mag­ gior conoscenza nei vari settori, un’accelerazione del ritmo conoscitivo che trova anche oggi degli equivo­ ci perché viene creduto un abbassamento del livello culturale, intendendo con ciò implicitamente una cultura a latere. Il cinema parte da questa convinzione rivoluzio­ naria - è stato detto tante volte - perché assomma due cose: la conoscenza diretta e una istanza natura­ le di quantità che diventa quantità dell’oggetto e quantità di coloro che di quell’oggetto devono frui­ re; direi che il concetto di quantità diventa qualitati­ vo nel cinema mentre nella letteratura e nella pittura si è abdicato a questo concetto e infatti abbiamo as­ sistito ai letterati e ai pittori, anche quelli più di sini­ stra, che non gli viene più neanche il sospetto di po­ ter pensare di usare la penna e il pennello in forme diverse che non siano quelle congelate industrial­ mente e per una data destinazione. Molti di sinistra non si accorgono che è proprio in quello che pare un fatto secondario e caso mai di sola fruizione che sta la necessità di rinnovamento, poiché diventa un mo­ do non solo di vedere la vita ma di viverla in un’altra maniera, di scoprirla in un’altra maniera. L’apertura del cinema 1945 - lo abbiamo già detto - era una apertura che rinnovava gli stessi modi di vita. Oggi

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siamo stati integrati nei modi di vita più antirivolu­ zionari che si possono immaginare, ritornando in­ dietro di un secolo e il cinema stesso è tornato indie­ tro ma anzi è scomparso, se lo si pesa con la bilancia rivoluzionaria, se lo si confronta alla data del ’45 in cui l’intellettuale decadeva dalla sua particolaristica qualifica d’intellettuale proprio nell’istante in cui at­ tribuiva al cinema il valore risolutivo di tutti i pro­ blemi dell’intellettuale che si erano incrostati attra­ verso secoli e che in Italia, in un modo da ragnatela, avevano assunto un carattere che pareva privo di svi­ luppi. In questo senso, per il gran desiderio, di cui abbiamo detto in principio, per alcuni misterioso e per altri più esplicito, di debordare nel cinema attri­ buendogli dei caratteri risolutivi, di fine di una crisi, si aprì una nuova politica, una nuova forma di arte ma si identificava politica e arte e altrimenti, se non fosse stato così, che differenza ci sarebbe stata ri­ spetto al passato, costellato a sua volta da tanti capo­ lavori? Ma non erano lavori di rivoluzionari perché nel passato - questo è il punto - non ci si era mai proposti il problema del cinema nel suo insieme. Si pensi quanti fatti storici erano avvenuti nel corso dei 70-80 anni del cinema, ma non era mai avvenuto un rapporto determinante fra il fatto storico e il proces­ so cinematografico. Mai. E avvenuto invece nel 1945 perché il fatto storico era diverso, era già rivoluzio­ nario di per se stesso e allora cercava i mezzi espres­ sivi adatti. In Russia aveva illustrato la propria esplo­ sione, ma qui non si trattava di illustrare i fatti avve­ nuti ma di fare un cinema che vedesse, provocando­ li, gli svolgimenti anche capillari di questi fatti, chia­ mando a parteciparvi un pubblico definitivamente strappato dalla sua posizione di spettatore. Non era

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più un cinema da spettatori ma era un cinema fatto in mezzo agli spettatori e si potrebbe dire che era un cinema che diceva continuamente che oggi si recita a soggetto; altro che accontentarsi, come ci siano ac­ contentati, di una diecina di film dove c’era sì una presa di coscienza che però nell’atto stesso in cui si esternava già camminava all’indietro, accettando complicità sia di linguaggio che economiche, che or­ ganizzative, che temporali, temporali con le vecchie strutture. Io l’ho già chiamata in altre sedi una legge di com­ promesso!*] Nel senso che c’è un compromesso tutte le volte che non si realizza quello che è stato in­ vece raggiunto sul piano dell’intelletto e della co­ scienza. Quando c’è insomma un dislivello tra una interpretazione critica della storia e una interpreta­ zione politica che di questa visione critica tiene con­ to troppo parzialmente. Del resto, lo stesso centro­ sinistra, tutti lo sanno, rispecchia questa ambiguità e questa prospettiva dei lenti miglioramenti e non dei sostanziali mutamenti, dei radicali mutamenti. La legge ha scongelato alcune situazioni, che si possono chiamare vergognose, come quelle del documentarismo, e malgrado tutto consente dei giochi d’aria, dei giochi di idee un po’ più ricchi che nel passato, riconoscendo non più stancamente ma con un calore cui l’ufficialità non toglie la sua esistenza, i principi di qualità che ruotano intorno alla identifi­ cazione, ormai pacifica, tra cinema e cultura. Credo in proposito che questa identificazione favorisca al­ meno dei discorsi e delle polemiche a un livello più alto e consapevole che nel passato. La cultura non è un fenomeno astratto, tende a immedesimarsi addirittura nella cosiddetta vita quo-

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tidiana, assume cioè delle responsabilità dirette. Bi­ sogna domandarsi se per la cultura questa legge è una legge soddisfacente. Ripetiamo che il rapporto tra coscienza e azione è forse sinonimo più specifico, parlando in termini moderni. Ci poniamo, cioè, di fronte a ogni feno­ meno artistico o no in modo da esprimere un giudi­ zio, che ci impegna appunto al livello della cultura, che è una puntuale interpretazione della vita che stiamo vivendo. Da questo punto di vista, la lotta è per una cultura unica ma non è vero che c’è una cul­ tura unica, si aspira a una cultura unica e siamo in­ vece, in effetti, di fronte a un disgregarsi dei risulta­ ti teorici nel momento in cui devono convertirsi in risultati pratici. U processo che il cinema aveva iniziato proprio in questa attestazione di convergenza del fattore teori­ co e del fattore pratico non ha nessun riflesso nella legge del cinema. Non si sente in questa legge il ri­ flesso di quelle intuizioni, che non prevedevano dei mutamenti amministrativi, dei miglioramenti, ma una trasformazione vera e propria del cinema in quanto riconosciuto fenomeno culturale. Vorrei che altri più autorevoli di me e con un lin­ guaggio più appropriato riuscissero a fare intravede­ re quali erano le possibilità prima di tutto italiane del cinema subito dopo la guerra, le sue prospettive, e quello che è, in verità, accaduto. Si può parlare di re­ censione, di sconfitta e usare parole anche più dram­ matiche. Il ritmo e i contenuti e la stessa tecnica di questo sviluppo sono stati condizionati, impoveriti, avviliti, si è continuato a restringere il campo anziché allargarlo degli afflussi sia delle persone che dei con­ tenuti. Siamo ancora a un cinema riservato, con le 207

mitologie di un’arte di casta, perfino nei prodotti de­ cisamente commerciali. Un’altissima autorità, pochi giorni fa, parlava di un pericolo che incombe sul nostro paese e io ho avuto la fortuna di ascoltare con i miei orecchi que­ ste parole: egli diceva che la scuola attraversa un pe­ riodo, nel suo insieme, di restrizione in quanto ci so­ no forme di legislazione che diminuiscono e non in­ crementano gli afflussi di energie nuove in mezzo al­ le quali si deve poi compiere la selezione. Questa al­ tissima autorità non ha neppure per scherzo pro­ nunciato la parola rivoluzione, ma il suo punto di vista non era un punto di vista riformistico perché se ha detto, come ha detto che, continuando come stia­ mo facendo, nel periodo di una diecina di anni ci troveremo con una cultura da paese sottosviluppato, vuol dire che il problema è di fondo e che va affron­ tato con dei mezzi drastici, con un rivolgimento pro­ spettico dentro il quale il latino o no diventa un epi­ sodio secondario. Così per il cinema, come nascono, malgrado la si­ tuazione denunciata dall’altissima personalità, inse­ gnanti di fama internazionale e vi sono manifesta­ zioni che hanno delle fiammate in cui il passato, il presente e il futuro riescono ad amalgamarsi, sap­ piamo a priori che avremo, come stiamo avendo e come abbiamo avuto, film esemplari, degli eroi possiamo dire - dei film, insisto, ma non un cine­ ma, che rispecchi quello che era nei voti, ma non utopisticamente, era nei voti in quanto c’erano le premesse documentate di un discorso avviato con una originale concretezza storica e questo discorso è stato interrotto. La prospettiva aperta subito dopo la guerra non prevedeva solamente, e direi non tan208

to, una maggiore tastiera critica, ma prevedeva che la tastiera critica doveva essere tradotta in strumen­ ti, contatti, rapporti talmente diversi che nel passa­ to che la stessa esigenza critica avrebbe subito dalI’interno variazioni e moltiplicazioni perfino non tutte prevedibili. Si andava contro il passato nel cinema, in quello che esso esprimeva di storicamente equivalente a una mentalità e a interessi anteguerra. La frattura guerra non poteva accontentarsi di provocare dei film diversi comunque prodotti e consumati nell’am­ bito di certe strutture economiche che finivano per forza con il condizionarne le articolazioni, gli svilup­ pi, direi le sorprese nel senso dell’avventura che è implicita nel seguire quello che un fatto culturale propone nel passare dalla carta all’azione. Si rompe­ va, quindi, il concetto stesso di film, delle sue lun­ ghezze, delle sue fruizioni, delle sue produzioni e non si è detto abbastanza - o almeno si è riusciti a di­ menticarlo - che il valore rivoluzionario di un film come Roma, città aperta consisteva sì nel fatto, an­ che, che si prendeva contatto con argomenti innesta­ ti proprio nella sostanza più nobile e più attiva e più consapevole e nuova del paese, ma quanto di più il suo valore consisteva nell’awertirci che i modi di produzione potevano essere totalmente sovvertiti e tra le pieghe e i fotogrammi di quel film non impres­ sionarono tanto questa o quella battuta o quella im­ magine, ma la continua speranza di una trasforma­ zione spaziale e temporale del prodotto cinemato­ grafico, che non doveva più subire una trafila all’a­ mericana, una catena di completamento all’america­ na, ma che tutto era possibile e che quindi i nuovi prodotti si liberavano, avevano la possibilità di libe-

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tarsi da tutti quei condizionamenti che avevano trat­ tenuto il cinema in un'area da tempo libero, com’era concepito allora e come molti continuano a conce­ pirlo oggi, da camera, come hanno detto, dove si va un po’ a respirare. Ebbene, quel balenio di possibi­ lità si è spento. Implacabilmente si è ritornati al pas­ sato, che è anche un passato di contenuti. Lo so che è facile obiettare che i contenuti di alcuni registi se­ gnano degli avanzamenti. Ma siamo sempre alle soli­ te. Si accetta una storia del cinema condizionata e non si pensa mai alla storia del cinema che avrebbe dovuto essere. E allora, se si può sollevare da ogni responsabilità questo o quel regista che opera dentro a certe condizioni storiche, non si possono sollevare dalla responsabilità coloro che determinano quelle condizioni storiche. Quindi è un atto di accusa specifico, preciso, con­ tro una interpretazione del cinema di natura conser­ vatrice, senza ombra di preoccupazioni culturali, a meno che non siamo intontiti al punto da credere che la sessuofobia possa essere contrabbandata per un passo avanti nella vita culturale di un paese. Gli uomini stessi di cinema hanno la loro parte di corre­ sponsabilità, poiché per le solite ragioni ben cono­ sciute da chi è al potere hanno finito per pigrizia e per debolezza, ecc. ecc. con l’accettare di muoversi nella scacchiera dialettica che è stata loro proposta. Qualche timido tentativo, e siamo sempre ai casi eroici, ma nella sostanza, il fondo è sempre rimasto quello di una cinematografia legata con il cordone ombelicale allo Stato e al denaro. Gli impulsi, anche i più generosi e rinnovatori, hanno sempre dovuto muoversi e assopirsi quindi dentro all’ambito di que­ sta organizzazione, di cui la legge - in fondo - fìni210

see per consacrare una specie di fatalità. Non si ripe­ terà mai abbastanza che la persistenza di quei canali di produzione e di quei canali di consumo limitano enormemente l’evoluzione del cinema e ne impedi­ scono, dalla radice, lo slancio coesivo, le prospettive di movimento, le sperimentazioni, i contatti che per ora continuano ad essere limitati a un tipo di spetta­ tore opportunamente condizionato. E a sua volta condizionatore. C’è una bilateralità, in questo con­ tratto segreto tra creatore e pubblico, che non è mai eversiva e neanche trasformatrice perché la trasfor­ mazione avviene con impulsi talmente indeboliti che nel momento stesso in cui avviene i tempi sarebbero già maturi per richieste più avanzate. In questo ordi­ ne di idee, possiamo domandarci se alcuni prodotti cinematografici, di grande livello, e che hanno con­ fermato nei confronti di un cinema mondiale ancora un nostro primato sono, nei confronti di un proces­ so culturale generale, giunti in porto tempestiva­ mente o con ritardo. Il carattere del loro ritardo non menoma - ripeto - il valore dei singoli, che non potevano progettarsi, programmarsi diversamente da come hanno fatto, essendo la situazione determinata in quei modi di produzione e di consumo, quei film sono arrivati in ritardo e, se da un lato portano un contributo sem­ pre apprezzabile, malgrado il ritardo, da un altro la­ to appoggiano più la continuazione di una specificità cinematografica tradizionale invece che di una cinematograficità che si svincoli da tutte le false alleanze cui l’hanno costretta. Che oggi, vent’anni dopo quel­ la impostazione, si sia ridotti a parlare di film morali e immorali e, con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho sempre avuto per Pasolini, di cinema di poe­

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sia che si distacca dal cinema di prosa, di un’era che si apre davanti a noi con linguaggi più celeri e direi quindi più morali e tempestivi, sta bene all’enorme iato fra il ’47 e il ’60 e allora si vedrà come, montagne stesse, quali Antonioni e Fellini, hanno tardato a emergere ma sono emersi, a mio avviso, in una pro­ gressione non geometrica, rispetto alle realtà e alle loro istanze, ma in ritardo. Cioè si è rallentata la sto­ ria del cinema, perché si è rallentata la storia dell’uo­ mo e le enormi cose che accadono, le meravigliose cose che accadono sono enormi e meravigliose, ma in ritardo. Questo del ritardo è il terreno di lotta sul quale siamo e nel quale gli avversari sono molto be­ ne accampati. Essi non parlano mai del ritardo, par­ lano della morale. E invece quando noi diciamo ri­ tardo parliamo di fallimento, parliamo di imbroglio, parliamo di venir meno alle progressioni naturali, parliamo di atti contro natura, si potrebbe dire, e an­ che qui ci troviamo di fronte a due concezioni di vi­ ta. Nella concezione di quelli che sono al potere non si creano mai condizioni obiettive e automatiche per cui il processo evolutivo di ogni fenomeno dello spi­ rito abbia il suo proprio ritmo, il suo decorso giusto e potremmo dire meccanico in quello che di conseguenziale anche i fenomeni dello spirito devono ave­ re, equiparandosi consapevolmente a quelli scientifi­ ci. Le convenienze di quelli che sono al potere non sono, a tutt’oggi, in parecchie parti del mondo, le convenienze della cultura. La cultura tende attraver­ so il molteplice a una unità e potremmo dire a una civiltà; la civiltà intravista attraverso l’obiettivo cine­ matografico vent’anni fa non ha niente da spartire con la civiltà in atto, che è una civiltà di compromes­ so. Parlo naturalmente di questo periodo, di questi 212

venti anni che possono essere ingoiati, per fortuna, di momento in momento, spazzati via per riprende­ re l’aggancio con venti anni fa. Ma oggi, il centro-si­ nistra finisce con l’avallare il processo anticinemato­ grafico, antiliberale - e do alla parola un vecchio senso - che è dimostrato da processi paralleli in tut­ ti gli altri settori nazionali, e cioè un processo conformista, al quale possono essere date responsa­ bilità molto precise, che possiamo anche chiamare antirisorgimentali. Il timbro paternalistico del cine­ ma, la sua sostanza paternalistica, si ricollega a que­ sta situazione generale e non ci accorgiamo di subire il metro imposto da interessi che si dipanano con una profonda organizzazione da venti anni a questa parte e riescono a favorire concezioni dentro le qua­ li gli artisti si affermano individualmente e, più si af­ fermano, più sono nello stesso tempo condannati al tradizionale isolamento. Non mi hanno stupito le dichiarazioni dei singoli in questa battaglia contro gli emendamenti, poiché si è tornati alle più classiche visioni dell’artista come individuo che chiede per sé il grado di libertà di cui ha bisogno e non gli importa il grado di libertà, di cui il tempo ha bisogno; queste differenze furono notate anche in altri momenti della lotta, negli anni scorsi, ma mentre allora, forse perché eravamo più vicini al 1947, c’era sempre una carica di attesa e di speranza di mutamento, oggi queste concezioni fini­ scono, proprio per l’autorità da cui emanano, con il costituire forme d’intimidazione più o meno dirette verso i giovani ai quali soprattutto si dice che la stra­ da della gloria è quella e non un’altra. E tutto sembra dare ragione a questo punto di vista. Ma noi pensia­ mo che concezioni opposte non portino all’annulla­

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mento dei prodotti artistici, bensì a dei prodotti arti­ stici ancora più validi e cioè più determinanti nella storia in atto. Cerchiamo di imporci una domanda più perentoria: che cosa sarebbe allora il nuovo ci­ nema? Non è questione di teorie, di poetiche, di inven­ zioni settoriali. Questo e altro defluirà da un solo ce­ spite. Quello della libertà. Ma il cinema nuovo ha bi­ sogno di una libertà effettiva e in questo sta la sua novità. Nel 1945 la libertà era effettiva, nel 1965 la li­ bertà non è effettiva e non lo può essere essendo il prodotto di venti anni di logoramento consapevole, organizzato contro questa libertà effettiva, al punto che ne abbiamo perduto il senso e il gusto e la indi­ viduazione della sua forza concreta e precisa storica­ mente. Un cinema libero, in questo momento, è il ci­ nema più legittimo e più difficile da ottenere. È legittimo perché tutte le sue esigenze di rinno­ vamento e quindi di ricongiungimento con il suo rit­ mo sorto con la svolta del ’45 sono di carattere pro­ priamente cinematografico e cercheremo di dimo­ strarlo un poco più avanti. E difficile da ottenere perché il conflitto è appunto basato su due interpre­ tazioni di questa libertà. La libertà non è stata una invenzione generica, astratta, retorica, ma coincidente con l’intuizione del particolare mezzo del cinema. Siamo d’accordo che la stampa deve essere libera, che il teatro deve essere libero, ma il cinema o è libero o è destinato a fallire. Ed è fallito nella misura in cui questa libertà gli è sta­ ta contestata. L’affermazione è grave, può parere di­ sfattista, ma è fallito se lo raffrontiamo - come già abbiamo detto prima - a quella che doveva essere la sua funzione. Non penso che a certi grandi registi 214

dell’ultimo decennio suoni convincentemente la fra­ se che il cinema è fallito. È assurdo. E possiamo ag­ giungere che è anche umano, come si suol dire, che dentro il loro animo si siano a poco a poco equili­ brati i valori in contestazione e le contraddizioni in una definizione perfino umile che essi hanno fatto ciò che potevano. Ed ecco ancora una volta un par­ ticolarismo che dà alla libertà un peso emblematico, e non un peso effettivo di lotta. Si finisce con il cre­ dere in qualche mondo, il più estremo dei mondi, e la propria attualità, la più esemplare e la più norma­ le. Orbene quando si parla del cinema in generale, bisogna, a mio modesto avviso, riuscire a convoglia­ re queste energie individuali dentro un quadro, in cui esse non sono deprezzate ma nello stesso tempo non possono essere prese come la chiave di volta del sistema dialettico contemporaneo. Anche perché queste punte, questi valori, non sono il prodotto del massimo quantitativo e qualitativo che un paese può esprimere nell’ambito del cinema; sono il massimo e mi pare di averlo già detto all’inizio - di una con­ dizione cinematografica che non si è svolta con le sue leggi interne e con i contributi che la storia pro­ poneva, ma faticosamente e - ripeto - eroicamente in un terreno limitato, tanto limitato che il timbro, di suono di fondo, viene dato dalla preponderante quantità dei film negativi. Libertà significa tempestività, sempre. Altrimenti è un fatto inerte. Il cinema italiano aveva tanto biso­ gno di libertà quanto aveva intuito l’esigenza di tem­ pestività, cioè l’esigenza di interventi e cioè ancora di un cinema fatto insieme. Era chiaro che un orizzon­ te di questo genere non poteva più accettare i tempi e i modi della consueta trafila. Le Roma, città aperta

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non postulavano solamente delle altre Roma, città aperta più tempestive, ma una vera e propria rivolu­ zione relativa agli interventi che, ho detto, erano rea­ lizzabili solo svincolandosi totalmente dai mostruosi impedimenti alla libertà costituiti dall’iter che deve compiere un film, partendo dalla testa dell’autore per arrivare nelle sale cinematografiche. Veniva logi­ camente fatto di pensare al cinema e non ai film, e un rimetterci in una specie di verginità con la macchina da presa in mano e l’autore libero; da questi due ele­ menti e solo da questi doveva scaturire il nuovo ci­ nema e non ci vuole molta immaginazione per com­ prendere quale sorta di ipotesi, di variazioni, di rea­ lizzazioni potevano nascere. E quindi quali forme di contatto e dalle forme di contatto quali forme creati­ ve inaugurarsi, incalzate proprio dalla libertà, che di­ ventava nel cinema un elemento costitutivo e provo­ catore e non una sorta di sole da citare più che da germinargli sotto. Allora la gara con gli altri raggiun­ gimenti della mente sarebbe stata proficua. Oggi do­ mando se in coscienza si può rispondere che il cine­ ma è in grado di dimostrare che i suoi risultati sono risultati che hanno annullato il distacco con gli altri prodotti culturali, ricchi di secoli di esperienza, e se ha influenzato democraticamente il movimento del­ le idee. Cioè se ha creato delle condizioni nuove. Non è avvenuto perché è stato interessatamente con­ finato nella solita concezione di spettacolo e nella so­ lita concezione industriale. Sia l’una che l’altra sono forme attualmente condizionatrici, limitatrici, inter­ dipendenti, complici. E basta vedere i complessi, che questa situazione generale del cinema ha creato in tutti quelli che posseggono una macchinetta cine­ matografica- diciamo i dilettanti — essi o scimmiot­

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tano il cinema grande, avvicinandosi a quei moduli spettacolari o finiscono nelle dimensioni turistiche più viete. Perché è proprio lo spirito di libertà che è carente, perché non si ha bisogno di libertà e il do­ mandarne la misura necessaria è diventato perfino impopolare a noi stessi e allora dobbiamo riconosce­ re che Corona è un bersagliere rispetto a Ermini, che sarebbe la vecchia territoriale. Ma guardate che amorosi sensi ci sono non tanto tra gli autori e la bu­ rocrazia quanto fra la burocrazia, il governo, i capi­ tali e noleggi, distribuzioni, produzioni. C’è una ma­ ledetta confusione per cui ci si trova sugli stessi ban­ chi ad aspettare con ansia la legge del cinema ma le finalità sono estremamente diverse. Quei signori non hanno assolutamente bisogno della libertà, di cui ha bisogno l’autore, perché questa libertà rifiuta, o me­ glio la rifiuta non come condizione essenziale, una struttura industriale del cinema. Anche questo è un a priori che la libertà deve rivedere. Gli interessi enormi che sono dietro al cinema sono interessi che non hanno niente da spartire con la libertà. E allora come volete che l’opinione pubblica veda chiaro in questa quasi ventennale polemica del cinema quan­ do gli autori si trovano troppo spesso al fianco dei produttori, dei burocrati, dei noleggiatori, dei distri­ butori? Si obietta che questa è la realtà dentro cui bi­ sogna operare, e siamo d’accordo che la lotta va fat­ ta per ottenere anche in questa interpretazione il massimo. Ma l’errore è che noi, per ottenere il mas­ simo in quell’ambito, ci strumentiamo dialetticamente rispetto al cinema in modo che sembra solo quello, alla fine, il campo di lotta autentico. Gli autori devono parlare di libertà, riuscendo a chiarirne il significato.

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Voi andate in un’assemblea dove ci sono degli operai, che non lavorano o che sentono il pericolo di non lavorare, e andate a fare dei discorsi tutti imper­ niati sulla libertà. Non è facile intendersi. Ma se voi spiegate che la libertà è un rinnovamento strutturale di natura anche economica, che il cinema che oggi muove un certo numero di miliardi e di uomini e di opere domani può muoverne anche il doppio, quan­ to più è libero, allora comincia la possibilità di in­ tendersi. Perché la nostra contrapposizione al cine­ ma americano, che era quella dei vinti di fronte ai vincitori, era, è il frutto di una tragica esperienza che rinnovava contemporaneamente le strutture econo­ miche. La nostra era una rivoluzione bianca, chia­ miamola così, che si riversava nel cinema, ma come poteva essere che questi bisogni di rivoluzione tro­ vassero il modo di esplicarsi secondo un ritmo con­ geniale, autentico, fino in fondo, dentro strutture che non solo ripetevano forme politiche e sociali di paesi con una storia totalmente diversa e perfino in antitesi con la nostra; dentro strutture in cui magari il cinismo industriale poteva anche consentire in qualche occasione, avendo intuito, diremmo tecno­ logicamente, l’affare insito proprio nella libertà, se non altro per il valore di scandalo; ma altri elementi asfissianti sono entrati che hanno determinato dei respiri corti, dei problemi corti, intervenendo in mo­ do che tra uomo e uomo, tra problema e problema ci fossero sempre abbastanza distanze e ostacoli da non consentirne una configurazione esplicita e stori­ camente invadente. La libertà, di cui gli industriali, i capitali in qualche momento hanno intuito l’affare è proprio l’affare del cinema in quanto il suo oggetto e il suo modo di esprimerlo è il non differire, è l’incal-

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zo, è lo sforzo di tentare delle informazioni a tutti i li­ velli, che producono una smitizzazione del futuro come luogo di perfezioni e di ipotesi e dare quindi al presente quello che altre forme culturali hanno sem­ pre dato in subordine, potremmo dire, mentre inve­ ce il cinema si differenziava dagli altri mezzi di cul­ tura per questa sua implicita deliberazione diretta. In questo senso si distaccava anche dal teatro, che perfino nelle sue più ultimissime ipotesi è sempre le­ gato alla terza persona. Il cinema anticipava la rottu­ ra con la terza persona, sentendosi obbligato a scen­ dere in piazza. Qui cominciano le solite paure. E mentre si riusciva ad attardare il cinema nei suoi im­ pulsi e nelle sue acrobazie sociali, nel senso che era disposto e pronto a qualsiasi metamorfosi, come un’acqua che preme pur di dilagare oltre i luoghi e i dibattiti consueti, nasceva la televisione che era cine­ ma, totalmente cinema, era anzi una tappa del cine­ ma, offriva agli autori la possibilità tecnica di espri­ mersi al di fuori e perfino contro le vecchie regole e imposizioni e di avere un pubblico numerosissimo, addirittura totale e giorno per giorno. Se non altro la televisione ha dimostrato non che si faccia, ma che si potrebbe fare quello che si vuole quando ci sia sotto la libertà. La televisione è il cinema nella sua tappa più moderna, ancora una volta dimostrando che la tecnica precede i desideri spirituali, morali. E agevo­ la (agevolerebbe poiché le cose non si sono svolte così) il compito degli autori. Se avessimo detto, vent’anni fa, che bisognava usare il cinema per fare una produzione che fosse non sempre di 3.000 metri e che non fosse solo di film in terza persona, favoli­ stici, comici, ecc., ma anche di 100 metri, di 50, dai più vari generi prendendo e commistionando e

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creando quindi anche generi nuovi, e che questo ci­ nema si sarebbe potuto vedere al di fuori delle sale cinematografiche, saremmo stati giudicati male. E tutto questo era alle porte. Perciò sappiamo di esse­ re giudicati male anche oggi, dicendo che un cinema di libertà è un cinema nuovo, che un cinema nuovo ha canali di produzione e di consumo nuovi e che, essendo strapotenti le forze organizzate per mante­ nere un cinema di non libertà e un cinema nel suo in­ sieme vecchio, chiunque voglia svolgere un discorso culturale libero nel cinema non può che contribuire alla ricerca di diverse forme di espressione, nell’am­ bito del cinema stesso, e di contatti. Lascio a chi ha più fantasia di me l’elencare le probabilità che ci so­ no in questo ordine di idee. Proviamo a prendere un’ipotetica unità di misura: un uomo che ha una macchina da presa, della pellicola e qualche cosa da dire. Non ipotechiamo il suo qualche cosa da dire. Può essere Pasolini, Moravia e mille altri. E certo che hanno qualcosa da dire. Se la macchina da presa non è presentata come un mistero, e se i risultati so­ no buoni, i Pasolini diventeranno mille e i tipi come Moravia, che non si servono del cinema per espri­ mersi, potranno domani servirsi del cinema. Noi sia­ mo, come siamo sempre stati, per un ingresso in grande nel cinema di tutte le forze della cultura. Ma attualmente queste forze devono passare una tale trafila di congiunture che finiscono con l’essere re­ spinte dentro loro stesse, da loro stesse. Ma a loro non si tratta di domandare il film ma di esprimersi comunque con il cinema e questa esigenza rinnova­ trice li porta anche organizzativamente alla ricerca di canali di contatto completamente nuovi. La televi­ sione è nei caffè, il cinema nuovo sarà in tutte le sedi

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dove quel prodotto potrà essere comunicato, non solo, ma vorrà strumenti tecnici relativi a questa esi­ genza di contatti, che via via si perfezioneranno e si moltiplicheranno. Bisogna riuscire a creare il cinema come bisogno di espressione totale nell’autore, e pertanto come bisogno di contatti totali e nel cuore della realtà. Questo uomo può avere una mentalità per cui è commosso e sollecitato dal Vietnam o può essere sollecitato da un incidente sul raccordo anula­ re o da un delitto o dal volo spaziale o da un fatto re­ ligioso e via dicendo. Lo spirito nuovo è nel porsi di fronte a queste realtà con un bisogno di libertà non condizionata dall’economia in quanto è possibile creare una economia cinematografica, che si esplichi al di fuori del rapporto distribuzione-noleggio, ecc. Direi che le difficoltà stesse - queste di rompere un sistema tanto prepotente - obbligano ad abbando­ nare ogni idea di concorrenza sul terreno del film normale. Questo uomo può sperare proprio per i contenuti di poter piazzare il suo prodotto a dei nuovi spettatori che saranno raccolti nelle piazze o in qualsiasi luogo di raduno o anche al di fuori di un raduno inteso nel senso di quantità, in una sola vol­ ta, ma di spettatori uno per uno, e cioè di una pro­ duzione che riesca a raggiungere il destinatario nelle case stesse. E tale l’afflusso di idee nuove che l’im­ missione di uomini nuovi con una macchina e della pellicola a qualunque millimetraggio può provocare che nascano gli strumenti relativi a questa esigenza. I discorsi, che diventano possibili con il cinema, sono talmente diversi e nuovi che non è facile immaginar­ li, ma s’immagina che sarebbero diversi e nuovi, con varie gradazioni di qualità ma sempre determinati e in sviluppo dentro al ritmo di una libertà civile e ar221

tistica in simbiosi che giorno per giorno ha le sue provocazioni, le sue vittorie e a volte anche le sue sconfitte. Questo uomo può lavorare da solo o con un altro o si costituisce in équipe e possono esserci anche catene di équipe, che sorgono proprio dalla qualità del prodotto, dalle sue esigenze di tempesti­ vità e, domani, dalle richieste. Dicevo, all’inizio, che il volume dei miliardi che muove un cinema nuovo e libero può anche raddoppiarsi. Noi non crediamo a una produzione intellettualistica, riservata, ma a una produzione che oggi interpreterebbe richieste laten­ ti alle quali si è rinunciato per questo lavoro di con­ gelamento che è stato compiuto con una produzione che chiameremo tradizionale. È chiaro che per rea­ lizzare questo si richiede come base una qualità mo­ rale particolare, cioè legata a una necessità di porta­ re i dialoghi nell’intimo stesso dei fatti e quindi una fede nel dialogo, poiché alle tesi saranno opposte le antitesi ma sempre in questo nuovo ordine in cui il cinema accetta di strutturarsi in qualsiasi forma pos­ sibile e immaginabile da qualunque punto di vista economico, tecnico, purché ne sia avvantaggiata la qualità e la quantità e la stabilità dei dialoghi. E i mo­ di di questi dialoghi saranno potenziati, quindi rive­ latori, quindi demistificatori in ogni settore, quindi liberi e stradali — potremmo dire — in quanto la li­ bertà non sia più ridotta a dover concedere dei favo­ ri a questo o a quello lungo il suo tragitto, ma secon­ do la Costituzione e sciolta come il libro da ogni sor­ veglianza amministrativa ed economica. Oggi si parla di cooperative. Pare che siano facili­ tate. Anche le cooperative o sorgono non tenendo conto delle strutture esistenti o possono costituire solo dei doppioni; il pericolo è questo. Esse hanno

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una ragione di essere se studiano e provocano forme di cinema, forme di collaborazione, forme di contat­ to con il pubblico più libere delle attuali, più inven­ tate quindi, favorendo gli afflussi più ampi e insoliti in modo che il cinema diventi il mezzo di cui oggi molti che militano in altri campi della cultura sento­ no il bisogno perché gli altri campi della cultura so­ no rallentati da intercapedini che tolgono quasi il gu­ sto vitale della cultura stessa.

Intervista registrata da Mino Argentieri nel settembre 1965. Doveva comparire sul settimanale Rinascita ma, dopo alcune sedute, non fu condotta a termine.

* Nei 1965 viene votata dal Parlamento una nuova legge del cinema su proposta del ministro del Turismo e dello Spettacolo, on. Achille Co­ rona (PSI). Per la prima volta nella storia delle legislazioni italiane, il cinema è inteso nella duplice natura di attività industriale e di fatto culturale, che ha una risonanza sociale. Malgrado la proclamazione di questo principio, la legge del 1965 è inconseguente: avara di provve­ dimenti a sostegno delle iniziative culturali, foraggia soprattutto l’in­ dustria e i prodotti commerciali.

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Allargare l’area della conoscenza e della verità

L’assemblea dell’ANAC ha preso atto delle dimis­ sioni di una parte dei soci e del fatto che un gruppo di essi ha costituito una nuova associazione!*] Il programma di tale associazione si basa su due punti: accentuata difesa degli interessi economici della ca­ tegoria e difesa del cinema italiano. Quale cinema italiano? E ancora possibile difendere tutto il cinema italiano? La difesa del cinema italiano in quanto tale è stata per anni la politica dell’ANAC. Erano anni di grave crisi economica del settore e il problema più urgente sembrava quello di sopravvivere comunque. Così come sembrava che il problema della libertà di espressione si esaurisse nella lotta contro la censura amministrativa. Oggi la situazione economica della cinematogra­ fia in Italia ha una apparenza florida. Anche se sono in piena crisi le strutture del cinema italiano, si pro­ ducono circa duecentocinquanta film. La censura amministrativa tradizionale, pur ostacolando, anche per il solo fatto di esistere, la libertà di espressione, non è più determinante. La vera e più grave censura sta altrove, nelle strutture stesse del cinema. Gli industriali sono soddisfatti. Gli autori no. Il carattere mercantile dell’industria privata e la grave insufficienza dello Stato a sollecitare e sostene­ re un altro cinema, utile all’uomo, hanno determina­ to una serie di inevitabili conseguenze: spersonaliz­ zazione delle opere, condizionate dalle presunte esi225

genze del mercato intemazionale; avvilimento di una ricerca originale di linguaggio e di contenuti; auto­ matica sordità o censura a quanto di preoccupante per il sistema avviene nel mondo o in casa nostra. Gli autori cinematografici sono stati strumenti di questa involuzione. Insieme con il pubblico, coin­ volti nell’ingranaggio dei consumi, l’hanno creata e subita. Il cinema italiano, nell’abbondanza, è in crisi. Il cinema tutto, d’altronde, si dibatte in una crisi, più ampia e più grave di qualsiasi crisi economica. Essa investe la funzione stessa del cinema e la sua respon­ sabilità; tanto più oggi che le trasformazioni, i sov­ vertimenti nel mondo sono drammatici e incalzanti. Un richiamo moralistico alle responsabilità indivi­ duali non serve. Occorre creare le condizioni e gli strumenti che rendano possibile un cinema diverso, che abbia una continua coscienza civile. Per questo è necessario riunirsi, discutere, svilup­ pare un ampio e sincero dibattito, giungere a propo­ ste concrete, impegnarsi ad attuarle. Bisogna creare una nuova unità ed un nuovo slancio per una peren­ toria utilità del cinema. Chiunque con la macchina da presa operi per al­ largare l’area della conoscenza e della verità ha dirit­ to a fare parte dell’ANAC. PERCHÈ RESTO NELL’ANAC

Centocinque nostri soci se ne sono andati. L’avve­ nimento non è solo storico, è anche triste. I secessio­ nisti sono quelli che hanno fatto il cinema italiano e che continueranno a farlo: con parecchi di loro ho 226

lavorato e ho passato venticinque anni di vita asso­ ciativa. Hanno abbandonato l’ANAC, sbattendo la porta. Senza neanche dare i conti della loro gestione. Io resto nell’ANAC per il patrimonio di lotta, di pensieri che rappresenta. Nell’ANAC oggi più che mai. La situazione del nostro cinema può ricavare, malgrado l’ampia gamma interpretativa di questa si­ tuazione, vantaggi e stimoli dalla solidarietà degli au­ tori anziché dalla loro divisione. Per questo mi sono battuto sempre per l’unità. Qui siamo riusciti a re­ primere gli impulsi troppo individuali, la vocazione nostrana a scambiare gli umori e i fatti personali per idee, qui è nata insomma una tradizione democrati­ ca. Per andare avanti bisognava continuare ad accet­ tare il gioco democratico, cioè saper vincere ma an­ che perdere. Il problema del lungometraggio e del cortometraggio l’ho considerato sempre un falso problema. Ho diffidato sempre delle discriminazio­ ni di qualsiasi genere. Le discriminazioni dei nostri amici limitano il pa­ norama creativo del cinema, lo riducono nell’ambito di un mercato coatto in altre parole, alla mercé più o meno mascherata dell’industria e del sistema, per usare un termine corrente. I nostri amici si chiudono in una casta, ma non è il tempo di chiudersi in una casta, è invece il tempo di aprire le porte a tutti quel­ li che fanno del cinema. Sono autori tutti quelli che a colpi di macchina da presa, sia pure la umile mac­ china a otto millimetri, cercano di farsi largo nella foresta dei miti, dei riti, per allargare più che si può, che si deve, lo spazio della verità. Ci sono in Italia decine e decine di persone che con una pazienza da formica stanno cercando di sta­

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bilire colloqui con il pubblico al di fuori dei soliti ca­ nali, contro i soliti canali. Il mezzo tecnico diventa sempre più economico promuovendo una vera e propria rivoluzione, un moltiplicarsi di voci, d’inter­ venti di linguaggi, di commistioni espressive che ur­ gono per ridare alla macchina da presa la sua origi­ naria indipendenza, un ritmo di sviluppo critico ra­ dicalmente nuovo. L’ANAC deve tenerne conto. Sorgeranno anche tra noi rimasti serie discussioni, polemiche. Sorgeranno una minoranza e una mag­ gioranza. Se accettiamo a priori questa regola, le questioni statutarie, procedurali, finanziarie che i secessionisti ci hanno buttato brutalmente fra i piedi, saranno ri­ solte. Noi dobbiamo comunque approfittare della lezio­ ne, aumentare la nostra autocritica, svolgere una po­ litica cinematografica che, con l’arricchimento della sua dialettica, ci porti con coerenza a batterci per un cinema veramente libero. E una facile profezia dire che se i secessionisti non si chiuderanno davvero in un gretto professionismo, la realtà difficile del nostro cinema, cacciata dalla porta, rientrerà nella loro sede, con o senza piscina, dalla finestra. Non potranno eluderla. Spero quindi che si troveranno più di una volta al nostro fianco per lottare, e noi saremo felici di rivederli in queste occasioni.

Manifesto dell’Associazione Nazionale Autori Cinematografici, pre­ sieduta da Cesare Zavattini. * H 6 marzo 1968, un’assemblea dell’ANAC prende atto del divorzio consumato da un centinaio di soci, i quali hanno costituito un nuovo

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raggruppamento, l’Associazione Autori Cinematografici Italiani, alla quale aderiscono — fra gli altri — Antonioni, Blasetti, Bolognini, Comencini, Fellini, Germi, Lattuada, Leone, Loy, Monicelli, PatroniGriffi, Pietrangeli, Scola, Sordi, Visconti e Zampa. La scissione è ma­ turata nelle tensioni del ’68, che elettrizzano il milieu cinematografico. Molti reagiscono con insofferenza e senso di fastidio alla politicizza­ zione dei dibattiti intestini e non tollerano che i loro colleglli si inte­ ressino blandamente ai problemi immediati della categoria. Alcune frazioni invocano una ANAC, che tuteli con più efficacia e assiduità lo status professionale dei suoi membri; altri, invece, vorrebbero un or­ ganismo associativo più pugnace nel richiedere al governo una politi­ ca cinematografica rinnovatrice. Vecchi nodi vengono al pettine e le divisioni si incuneano attraverso i diversi schieramenti ideologici e partitici. L’unità dei cineasti italiani, mantenuta dal dopoguerra grazie al coagulo di un comune denominatore - la difesa della censura am­ ministrativa - si sgretola non appena una parte dell’ANAC si fa fautri­ ce di un’azione per “creare le condizioni e gli strumenti che rendano possibile un cinema diverso”. Affinché la spaccatura avvenuta sia ri­ marginata trascorreranno alcuni anni, durante i quali le due associa­ zioni si adoperano per raggiungere una intesa operativa che, ristabili­ ta nel marzo 1969 durante l’occupazione dell’Ente Gestione Cinema e dell’istituto Luce, avrà il suggello nel 1972, organizzando in pieno ac­ cordo “le giornate del cinema italiano”, a Venezia, allo scopo di acce­ lerare la riforma della Biennale. Il manifesto, che nel ’68 giudica la se­ cessione come un salutare chiarimento, sanziona un principio innova­ tivo, secondo cui l’ANAC aprirà le sue fila anche ai non professionisti del cinema. E un colpo infetto allo spirito di corporazione che aveva impregnato l’associazione degli autori cinematografici. Presentano il documento Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Libero Bizzarri, Giuseppe De Santis, Vittorio De Seta, Ugo Gregoretti, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Lino Micciché, Giuliano Montaldo, Valentino Or­ sini, Pier Paolo Pasolini, Elio Petri, Ugo Pirro, Gillo Pontecorvo, Nelo Risi, Franco Solinas, Paolo e Vittorio Taviani, Florestano Vancini e fra i principali firmatoti ed estensori v’è Zavattini, il cui contributo al­ la formulazione del testo suona inconfondibile.

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Le avanguardie

Caro Bompiani, finalmente ti mando il contratto firmato. Avrei vo­ luto incontrarti e questa era l’intesa, poi non ti face­ sti vivo. Non mi hai detto il tuo giudizio sul mio poemet­ to, chiamiamolo così, eira Ligabue. Ho avuto delle ottime reazioni, meno Laurenzi che, pur notando punti efficaci, denuncia “gravi cadute di gusto”. Non conosco Laurenzi né, a fiuto, mi aspettavo qualche cosa di diverso da lui. Non poteva, ammes­ so che sia in buona fede, non sfuggire alla sua forma mentis che certe parole pesanti (sono un paio di ri­ ghe) sono nate da un vero e proprio bisogno dell’a­ nima. Chi tace fermamente sono le cosiddette avan­ guardie. Uno dei loro, un amico, mi ha detto in se­ greto, proprio in segreto, pensa un po’, che Renato Barilli e un altro erano rimasti colpiti da Straparole e che intendevano occuparsene. Ma non dicessi nulla per ora. E sto zitto infatti da sei mesi! Ora te lo dico in confidenza per aggiungere che solo un cieco non vede in Italia questa lotta di ambienti, di circoli, di avanguardie, purtroppo sul piano pratico che com­ promette quello ideale. Ci sono delle feroci e tacitur­ ne alleanze. E del resto tutto è sostenibile. Ho detto scherzando a Bologna che le avanguardie devono stare attente a usare questa parola che è un po’ lun­ ga in quanto corrono il rischio di non esserlo più pri­ ma di arrivare alla sua fine; consigliavo pertanto di chiamarsi avang. E uno scherzo, ripeto, ma sincera­

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mente sorrido (con la umiltà che ho io di fronte a un’arte che ha una consapevolezza culturale tanto deliberata e profonda) perché suppongono di essere in un territorio sconosciuto agli altri. La verità è che uno come me, per esempio, apprezza senza reticen­ ze le manifestazioni di quest’arte che è fatalmente di­ versa da quella precedente, ma non se ne meraviglia. Cioè, era già matura in me, la conosco, è il futuro del passato come mia capacità critica, ne prevedevo il suo decorso e insomma c’è più in me verso loro un consenso razionale che un vero e proprio stupore. Un altro amico, anzi una amica, mi ha detto che di­ cono di me con un po’ d’ironia che sono omnipresente. È vero e spesso provo degli improvvisi smarri­ menti per il mio essere tanto alla ribalta come se mi accorgessi, con l’altra parte discreta di me, di essere in mutande coram populo. E poi non si ha mai torto a processare gli altri, mai, assolutamente mai; mi ac­ corgo che è costruttivo come la fame, cioè il bisogno di mangiare. Ma le avanguardie, che non lo sono ab­ bastanza, non si accorgono di accademizzare troppe cose e che hanno probabilmente fallito l’occasione di rovesciare la cultura in azione; essi perpetuano la disgiunzione e in coscienza, con calma, con tutta la intuizione che ci posso mettere sento che non è av­ venuto nulla che contesti veramente dal fondo (con terrore, mi pare di accorgermi che ci sono delle con­ nessioni coi futuristi con in meno la ignoranza e la genialità, per cui essi fermarono un momento, sul quale ancora si vive di rendita). Le corruzioni suc­ cessive del futurismo non disdicono quel momento che in sostanza equivale a qualsiasi altro momento rivoluzionario che si esplica comunque rovesciando i termini; anche nell’accezione più esterna del termi­

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ne, c’è nel futurismo un dato rivoluzionario reale e eterno direi, che può durare un’ora come un anno, influenzare o no socialmente, tuttavia è, e durò lo spazio di un mattino e Marinetti non lo era più nel­ l’attimo stesso che si era annunciato. La sua storicità consiste non nel senso di aver determianto dei fatti socialmente progressivi ma semplicemente nella conferma del ricorrente momento rivoluzionario dello spirito al di fuori di una politica progressiva. E ancora possibile purtroppo una storia dello spirito e una storia della politica e perfino una storia della psicologia; si provi a unirle e si comincerà a capire qualche cosa. Ciascuno dice: io faccio la rivoluzione nel mio ambito perfezionando il mio lavoro. Me lo ha detto un certo Leonardi in questi polemizzando con me a proposito del cinema. Sembra così chiaro. Io, magari a torto, non sento più i sapori parziali e mi pare che li creino dei cucinieri abili per distrarci dal sentire se sotto i denti c’è la m. o la ricotta. Per cui ho una grande tradizionale patetica ammirazione per Manzù, mettiamo che fa, che fa, che fa, o per Max Ernst (potrei citare cento artisti viventi di valo­ re supremo di fronte ai quali mi reputo uno che va­ gisce), però ne avverto desolatamente l’inefficienza rispetto a un bisogno che è diventato ovvio, come il bisogno di giustizia, anche se ha perduto le carte giu­ stificatone e definitorie. Vuol dire che è terribilmen­ te così e che l’epoca è morta rispetto a quell’esigenza così. Questo nei confronti di una storia morale, del­ la quale può darsi che ci sia già stata la fine come di quella artistica; non escludo cioè che la moltiplica­ zione delle esperienze scientifiche provochi degli sviluppi totalmente diversi dalle nostre congetture 233

morali. Lo psichedelismo raffrontato alle legittime ipotesi scientifiche è proprio un piétiner sur place.., Roma 25 marzo 1968.

Da Cinquantanni e più... di Valentino Bompiani e C. Zavattini, a cura di Valentina Fortichiari, Bompiani 1995.

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Perché contestare il Festival di Venezia

Parlo a nome dell’Associazione Nazionale Autori Cinematografici. Parte della stampa ha cercato di sviare l’opinione pubblica da quelle che sono le ra­ gioni di contestazione della nostra associazione. Noi le riassumiamo. A Venezia, noi contestiamo il siste­ ma cinematografico italiano e straniero. Conte­ stiamo un cinema determinato, limitato, soffocato nelle ferree regole di una struttura economica e poli­ tica che ha il suo vertice celebrativo di consacrazio­ ne, proprio, nei festival. Anche i festival corretti, che consentono la presenza di opere culturalmente effi­ cienti, partecipano comunque di una concezione ci­ nematografica dentro la quale chiunque voglia fare del cinema, servirsene come strumento di lotta nel cuore della realtà effettiva degli avvenimenti, è con­ dizionato. Una volta all’anno un festival raccoglie le espressioni cinematografiche dei vari paesi. Queste espressioni centrate in un breve periodo, organizza­ te sotto gli occhi della stampa di tutto il mondo, dan­ no l’illusione di una coscienza cinematografica atti­ va, numerosa, decisiva e sostanzialmente soddisfa­ cente sul piano della lotta che dicevamo. La verità è che i festival sono diventati la falsa co­ scienza del cinema, e nascondono la sproporzione paurosa tra quello che dovrebbe fare come interven­ to nella lotta un cinema veramente libero e quello che in effetti fa. Si continua a voler far credere che un numero esiguo di film sfuggiti alla rete della pras­ si cinematografica imperante basti per considerare

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che lo sviluppo culturale del cinema abbia il miglio­ re dei ritmi possibili. È in questo senso anche che i festival finiscono col subire la realtà cinematografica anziché creare una nuova dinamica del cinema in tutti i suoi aspetti, da quello ideativo a quello di consumo. I festival non devono correggere la loro rotta, ma invertirla. Il pro­ blema non è informare dello stato dei lavori del ci­ nema ma rifiutarne a priori la cadenza, la sua lenta articolazione nei confronti degli avvenimenti. I diri­ genti della Mostra, con una volgare e opportunistica manovra, cercano di far sembrare la nostra contesta­ zione un qualcosa che abbia punti di riferimento con l’offesa alla libertà che in questi giorni viene fatta contro una nazione. Noi diciamo che è proprio per­ ché abbiamo coscienza della tragica realtà che ci cir­ conda, della insufficiente partecipazione del cinema a voler conoscere questa realtà e a voler intervenire in questa realtà, che dagli avvenimenti in corso ab­ biamo tratto sostegno all’azione che stiamo com­ piendo. Noi ci battiamo per un cinema che si ribelli alla periodicità imposta dall’organizzazione capitalistica, ai riti interessati dell’organizzazione capitalistica co­ me sono, anche nei casi migliori, i festival. Noi siamo per quelle forme di confronto che nasceranno da un cinema che si pone senza mezzi termini come corre­ sponsabile in tutte le forme di lotta che gli eventi di volta in volta reclamano. L’ANAC non ha improvvisato le sue impostazioni. Nel suo statuto si dice... In un suo noto documento assembleare l’ANAC ha detto... L’ANAC ha voluto responsabilizzare al massimo gli

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autori italiani. Affermare il principio della autoge­ stione significa portare appunto al massimo la co­ scienza di rinnovamento del cinema. È un’operazio­ ne politico-culturale radicale. La cultura non è una mongolfiera che si libra al di sopra dei fatti. Questa presa di posizione che a Venezia ha il suo primo atto pubblico nasce dal convincimento che siamo in un momento storico fondamentale. Una esigenza che è matura nelle nostre coscienze, ci fa riacquistare il tempo che abbiamo perduto e quindi occorre trava­ sarla nell’azione per una democrazia effettiva, diret­ ta. E il momento storico che ha fatto accettare con orgoglio all’ANAC la solidarietà di altre forze che han­ no a cuore, non meno di noi, la accelerazione del pro­ gresso effettivo che il nostro paese deve compiere. E banale, falso dire che noi distruggiamo. Noi ve­ diamo anzi, fra le tante concrete ipotesi di lavoro che il rinnovamento del cinema può darci, un centro ve­ neziano, proprio costruito sulle ceneri dei compro­ messi riformistici in atto, noi vediamo un centro di operazioni continue, incontri continui, fra cineasti e non solo fra cineasti, ma fra cineasti e uomini di cul­ tura, fra cineasti uomini di cultura e pubblico, per la ricerca di un nuova forma del cinema, giorno per giorno potremmo dire, un centro intemazionale per­ manente, che rompa i miti calendariali in corso ma a tempo stretto dia al cinema la forza di intervento che oggi non ha. Queste sono le ragioni di fondo della nostra lotta.

Intervento a Ca’ Giustiniani, a Venezia, il 24 agosto 1968, a nome dell’ANAC, durante la contestazione. Alle manifestazioni contestative partecipano gli autori cinemato­

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grafici dell’ANAC, gli allievi del Centro sperimentale di cinematografìa, la Federazione italiana circoli del cinema, la Federazione dei centri ci* nematografìci universitari, l’ARCI e i critici delle riviste Cinema nuovo, Cinema Sessanta, Filmcritica, Cinema e film. Si dichiarano solidali con i contestatori le sezioni cinema del PCI e del PSIUP, la giunta comunale di Reggio Emilia, l’organizzazione dei Cinegiornali Liberi, l’Unione nazionale studenti francesi, la Lega degli studenti socialisti tedeschi e il movimento studentesco veneziano. Avverse alla contestazione sono le associazioni dei produttori, dei distributori e degli esercenti, dei giornalisti cinematografici e l’AACI. Al Lido, scoppiano incidenti con la polizia e con gruppi di picchiatori fascisti aizzati dai bottegai e dai grandi proprietari alberghieri. Zavattini, Pasolini, Ferreri, Maselli, Massorbio, Angeli, De Luigi saranno denunciati d’ufficio e assolti in giudizio. La contestazione del ’68 è il preludio alla prima controversa e incerta riforma della Biennale d’arte e della Mostra del cinema.

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Cinegiornali liberi

Contro il cinema delega ... La tremenda e nello stesso tempo meravigliosa crisi che stiamo vivendo può essere riassunta nel bi­ sogno profondo di ciascuno di noi di partecipare al­ la vita contemporanea da protagonista, dentro ai li­ miti delle proprie vocazioni, delle proprie doti: in quanto un definitivo esame di coscienza ha constata­ to che la maggioranza non è riuscita a sorvegliare l’andamento degli avvenimenti e a indirizzarlo verso quegli esiti che la Resistenza, per quanto riguarda l’I­ talia, aveva inequivocabilmente indicati. Si sono ri­ costituiti dei gruppi di potere che hanno chiuso l’o­ rizzonte anziché allargarlo, all’impegno è subentrato il disimpegno, e la cultura ha molto ridotto le sue trasgressioni, la traduzione della sua conoscenza, delle sue intuizioni, in una necessità di provvedere. La cultura, e il cinema, una delle sue moderne espressioni, hanno accettato i tempi lunghi imposti dal sistema vigente. La cultura e il cinema continua­ no ad arrivare sul luogo del delitto sempre in ritardo. Sembrò, una quindicina di anni fa, durante una riunione dei cineasti più famosi, che il cinema voles­ se ricongiungersi davvero alle aspirazioni del dopo­ guerra, e si definì una grande discriminante: il cine­ ma utile all'uomo. Ci fu una fervida intenzione di la­ vorare tutti insieme per fare dei film, soltanto dei film utili all’uomo. Ma tutto questo durò lo spazio di un mattino. 239

Oggi ci sono molti segni favorevoli che il problema venga riproposto per esigere una utilità flagrante, da vedere e da toccare con mano, cioè non rimandabile secondo schemi morali e interpretazioni del tempo e dello spazio ai quali non crediamo più, poiché con quegli schemi non siamo riusciti a impedire il verifi­ carsi di avvenimenti a parole esecrati. Ci si è lasciati convincere, con un po’ di ipocrisia anche da parte nostra, che quegli avvenimenti non possono essere dirottati da un nostro intervento. Per fortuna non sono pochi coloro che credono che invece si possa e si debba influenzare ostensibilmente il corso della storia. I giovani sono esplosi nello spirito di questa convinzione. Essi non contraddicono le idee delle generazioni che li hanno preceduti, ma se ne appro­ priano per farle diventare operative. Non ha più va­ lore capire soltanto, capire è soltanto la prima fase dell’agire. Noi anziani abbiamo negli ultimi ventan­ ni cercato surrettiziamente di compiere un processo d’identificazione tra i due stadi, e questo si è dimo­ strato falso e pronubo del sistema vigente. Lasciamo ai critici, ai saggisti, ai filosofi trovare parole più appropriate per esprimere questa profon­ da scontentezza che, per quelli che fanno del cine­ ma, significa tentare il ricupero del cinema con la sua funzione più costruttiva e in tal senso più rivoluzio­ naria. Il cinema è una macchina da presa. Le successive aggettivazioni hanno confuso e indebolito le ipotesi attive che dal contatto libero fra la macchina da pre­ sa e noi potevano derivare. I cinegiornali liberi si inscrivono in questa esigen­ za di ritorno alle origini, credendo che il cinema sia ancora quel mezzo che può ridurre al minimo le me­ 240

diazioni e obbligarci a prese di contatto, a modi di vita, a metodi di analisi, a scelte insomma decisa­ mente attuali, con la consapevolezza, il coraggio, il rischio che comportano. Chiunque disponga di una macchina da presa a 8 mm, oppure a 16 mm (o a 35 mm) può fare un ci­ negiornale libero. Non tutti hanno le conoscenze tecniche per girare un cinegiornale libero, ma tutti possono collaborare alla sua realizzazione, con idee e con denaro; collaborando ai cinegiornali liberi, tutti riusciranno a svincolarsi da queste remore tecniche che, mitizzate, e complicate dagli schemi industriali, hanno sempre più ridotto, qualitativamente e quantitativamente, Farea dialettica del cinema. Per questo la umile macchina a 8 mm è il simbolo della lotta che i cinegiornali liberi cominciano contro i privilegi e le preclusioni della nostra società, contro lo spostamento della lotta su vie parallele e non mai su quelle stesse dei fatti. Il momento è aperto: si prende la macchina da presa in mano come l’ultima arma, essendo fallite le altre, per contribuire a trasformare nel più breve tempo possibile questo tempo genericamente mora­ le in un tempo di azione; il cinema è azione in quan­ to porti verso l’azione. In tal senso i cinegiornali libe­ ri sanno di voler svolgere un servizio sociale impro­ rogabile. Si diceva nel 1967, e anche prima, che tentare un cinema che ignora la sua organizzazione trionfante può parere di dover vuotare il mare con un cuc­ chiaio; e che per farlo bisogna affrontare anche un periodo d’impopolarità. Ma ormai siamo sicuri che bisogna mettersi lì a vedere come si può entrare nel­ 241

le case con qualche metro di pellicola a sedici e a ot­ to millimetri, inventare dei comizi fra le quattro pa­ reti domestiche, insomma fuori dai circuiti normali e da qualsiasi altra legge della domanda e dell’offerta subita. Anche il progetto del film-libro, di cui si è parlato anni or sono, rientra nei tentativi di rompere decisamente i modi di fruizione e di creazione del ci­ nema trionfante. In ogni parte d’Italia (del mondo) può nascere un cinegiornale libero, in un villaggio, in una grande città. Ne può nascere più di uno nello stesso luogo. Persone di ogni età, di ogni classe si uniranno intor­ no a un cinegiornale libero per affrontare insieme, de visu, i problemi che ci coinvolgono come individui e come cittadini, problemi locali e problemi generali tra i quali si è sempre più spinti a trovare importanti correlazioni. Ogni cinegiornale libero deve diventare un nucleo di analisi, di documentazione, di guerriglia: lo abbia­ mo chiamato cinema di guerriglia per la povertà del­ le armi delle quali dispone, la strapotenza di quelle avversarie, per la fede nei risultati quando si sanno compiere i sacrifici continui che si chiedono per rag­ giungerli. Un cinema continuo quindi, e non più un cinema una tantum, un cinema subito, che a colpi di mac­ china da presa vuol farsi largo subito tra i miti e i ri­ ti odierni, con il ritmo medesimo delle cose. Non è una rivoluzione del cinema che si sta compiendo, è una rivoluzione più generale, con la quale il cinema può avere ancora un primato di coincidenza. Il ci­ nema dei cinegiornali liberi è un cinema a zero co­ sto, tende al minimo della spesa per avere il massi­ mo di libertà, è lo stesso cinema chiamato a basso 242

costo che, d’altra parte, ha rappresentato una fase positiva dell’evoluzione della presa di coscienza del­ l’uomo di cinema, finisce col subire intrinsecamen­ te condizioni dell’altro cinema in apparenza solo estrinseche. Ogni cinegiornale libero deve vivere con i propri mezzi, anche con il contributo degli spettatori. Non sarà il modo inerte di pagare il bi­ glietto d’ingresso per liquidare la nostra responsabi­ lità ma anzi per assumerla e uscire dalla informe ca­ tegoria dello spettatore. Abbiamo aspettato per anni che il mezzo tecnico fosse alla portata di tutti, come l’inizio di un’era che favorendo scambi di idee più fitti, quotidiani, un flusso e riflusso di rapporti e di emozioni, di doman­ de, e di risposte incalzanti, avrebbe mutato il mon­ do. Ma, più il mezzo tecnico progredisce, sia esso la radio, la televisione o il cinema, più chi comanda se ne impadronisce e ne svia lo sviluppo. L’esercito im­ menso, per esempio, di coloro che posseggono la macchina da presa a passo ridotto non usa la libertà di cui potrebbe disporre; ma nutre soltanto l’ambi­ zione di entrare negli usi e costumi del cinema detto maggiore. Lo imita. E qualche eccezione conferma la regola. Il cinema a passo normale o a passo ridotto seguita, la maggior parte dei casi, a perpetuare forme di cinema ideate da una casta, cioè un cinema ideato da pochi per tanti. I cinegiornali liberi al contrario sono un cinema di tanti per tanti in cui il cineasta perde i suoi contorni consacrati e lo spettatore si emancipa dal complesso d’inferiorità di fronte alla macchina da presa e ai suoi rituali, e diventa un coautore, un corresponsabile. I cinegiornali liberi ri­ chiedono a ogni cittadino di essere parte del feno­ meno cinematografico, ora soggetto e ora oggetto,

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con un’alternativa talmente serrata da costituire unità. I cinegiornali liberi possono avere rapporti fra lo­ ro, scambi integrali o parziali. Ma ogni cinegiornale libero non dipende che da se stesso; è accomunato agli altri cinegiornali liberi dal titolo che esprime, pur nella gamma delle diversità, un movimento, una tensione critica che si diffonde inesorabilmente. A Milano, il cinegiornale libero si chiamerà cine­ giornale libero di Milano, a Cagliari di Cagliari, in un qualsiasi agglomerato col nome di quell’agglo­ merato. Possono dare a un cinegiornale libero il loro ap­ poggio, vorremmo dire la loro complicità, cineasti, intellettuali, studenti, operai, contadini, chiunque nel cinegiornale libero trovi un punto di convergen­ za delle proprie più avanzate richieste sociali. Per il collaboratore al cinegiornale libero la cen­ sura che conta è soltanto quella della propria co­ scienza. Qualche cinegiornale libero avrà una periodicità mensile, qualche altro bimestrale o settimanale; ogni cinegiornale libero finirà con l’avere la periodicità più vicina alle istanze degli avvenimenti e alle capa­ cità di avvertirle. I cinegiornali liberi avranno le più varie lunghezze. Ve ne saranno dei cortissimi e dei lunghissimi; frutto di un lento lavoro o di fulminee decisioni. Nello stesso cinegiornale libero si potran­ no avvicendare i due modi e altri ancora. I temi possono essere locali, e no, ma sempre con­ trassegnati dall’urgenza di diventare pubblici. Il cinegiornale libero può essere composto da bra­ ni di dieci metri come di cento o di mille metri, ap­ partenere al lavoro di un singolo o di un gruppo.

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Dalla forza e dall’esattezza dei contenuti, dalla loro urgenza di manifestarsi, saranno influenzati i lin­ guaggi; la "fretta” stessa cui i cinegiornali liberi sa­ ranno talvolta costretti per esprimersi tempestiva­ mente, potrà diventare una misura etica ed estetica propria dei cinegiornali liberi. Si diceva, nel 1962, a proposito del Cinegiornale della pace, che si aspettavano le ultime notizie dell’a­ nimo degli uomini e soprattutto dei giovani. Lo stes­ so appello è valido per i cinegiornali liberi. Cineasti illustri e cineasti che cominciano potran­ no trovarsi a fianco in un cinegiornale libero. Scrit­ tori, pittori, scultori, artisti insomma, potranno ri­ versare nei cinegiornali liberi quanto non sempre è possibile riversare nelle altre loro opere di più lenta maturazione o di più complessa e perifrastica parte­ cipazione e destinazione. I cinegiornali liberi posso­ no anche servire, in tal senso, a una verifica continua della propria situazione in mezzo agli altri. Ogni cinegiornale libero deve cercare d’istituire il proprio circuito, fuori dei canali esistenti, e in oppo­ sizione. Il che non significa rifiutare a priori i vecchi canali quando siano conquistati. La ricerca di nuovi canali è una delle componenti maestre del cinegior­ nale libero, la sua caratteristica di fondo, potremmo aggiungere il suo stile. Basta un muro per proiettare un cinegiornale libero. Qualche volta potrà essere possibile proiettare il cinegiornale libero solo clandestinamente. Il cinegiornale libero farà sorgere per gemmazione il suo pubblico, i suoi alti complotti. Naturalmente s’incontreranno insuccessi, ostacoli consistenti. Non pochi si stancheranno per l’assedio

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cui saranno sottoposti, per gli attacchi di ogni gene­ re che contro di essi saranno promossi. Una palla di gomma per risalire ha bisogno di giungere in basso. Noi sappiamo di essere giunti co­ si in basso che non può esserci altra soluzione che il risalire. Esiste intorno a noi lo stupore che sia stato possibile vivere per tanto lungo tempo in tanta ri­ nuncia, la rinuncia cioè allo scatto per risalire. A parecchi sembra in tal senso che i cinegiornali liberi siano uno dei tanti segni positivi del tempo. (Bollettino dei cinegiornali liberi, giugno 1968)

Zavattini annuncia la nascita dei cinegiornali liberi, a Reggio Emilia, nell’inverno del 1967, durante un dibattito pubblico; dalle colonne di Rinascita e di Paese sera ne spiega le ragioni di essere. Nella primave­ ra del 1968 è già in funzione un primo centro promozionale a Reggio Emilia e nel mese di giugno esce ù primo fascicolo del Bollettino dei ci­ negiornali liberi, al quale collaborano, oltre agli animatori reggiani (Renzo Bonazzi, sindaco della città, Corrado Costa, Paolo Carta, Dino Medici, Giancarlo Monticelli, Marisa Bonazzi, Ennio Scolari) anche Zavattini, Mino Argentieri, Libero Bizzarri, Giovan Battista Cavalla­ ro, Filippo Maria De Sanctis, Giuseppe Ferrara, Gabriele Orfani e Gianni Toti. In quel periodo, a Torino, circola uno dei primissimi ci­ negiornali liberi, redatto da Nino Ferrero, Gabriele Orfani, Paolo Ber­ retto, Pia Epremian, Tonino Debemardi, Armando Ceste, Sergio Sar­ ti, Renato Dogliani, Emanuele Centazzo, Mario Ferrero e il cui som­ mario contempla numerosi reportage, di attualità: “Scioperi unitari al­ la FIAT”, “Comizio monarchico a Torino”, “Opere pubbliche: inaugu­ razioni per tutti i gusti”, “Impressioni libere”, “Servizio n. 1”, “Pro­ spettive politiche del movimento studentesco”. In pochi mesi, all’insegna dei cinegiornali liberi, si formano gruppi in varie località, a Bologna, Parma, Roma, Mantova, Campobasso, Impruneta, Firenze, Monteolimpino, Palermo, Pesaro, Guastalla e da ogni parte d’Italia pervengono a Reggio Emilia lettere di adesioni, proposte, richieste di materiali da proiettare o di attrezzature tecniche. Nel marzo del 1969 è istituito a Roma un centro nazionale ed eletto un comitato direttivo in cui figurano: Mario Benocci, Sergio Boldini, Marisa Bonazzi, Renzo Bonazzi, Paolo Carta, Giuliette Chiesa, Corra­ do Costa, Diego Fiumani, Michele Gandin, Ugo Gregoretti, Dino Me­ dici, Giancarlo Monticelli, Pier Luigi Murgia, Ennio Scolari, Gianni

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Tori, Venturo Valentini, Giovanni Vento e Cesare Zavattini. A circa un anno dall’inizio dell’attività, si contano svariati cinegiornali. Ne con­ densiamo i rispettivi sommari: C.L. n. 1 di Roma - “I silenziosi” (G. Bellecca), “Un uomo e una donna” (Giuseppe Ferrara, Marco Zavat­ tini), “Roma brucia” (Giuseppe Ferrara), “I garanti e la speranza” (El­ da Tattoli), “Il cupolone di San Pietro” (Domenico D’Alessandria), “Il giorno dopo” (Giuseppe Ferrara), “Dobbiamo continuare?” (Mario Carbone e Aldo Paladini), “L’ascolto dell’esito” (Antonio Degli Espi­ nosa), Dibattito n. 1 sul tema “Il cinema è finito?” (partecipanti: Sil­ vano Agosti, Alfredo Angeli, Marco Bellocchio, Domenico D’Ales­ sandria, Giuseppe Ferrara, Alfredo Leonardi, Pier Giuseppe Murgia, Salvatore Samperi, Elda Tattoli, Gianni Toti, Cesare Zavattini); C.L. n. 1 di Bologna - “Manifesto del cinema povero” (Paolo Barilli, Mauro Bonifacino, Piero Coppertini, Domenico Fanti, Paolo Grandi, Bruno Stefani, Stefano Teglia, Riccardo Violi, Paolo Zanardi); C.L. n. 1 di Parma - “Una discussione con immagini di disturbo” (gruppo par­ mense: A. Dalla Giacoma, Roberto Allodi, Gianni Castelli, Linetta Gaibazzi, Isidoro Lamoretti, Flavio Magnani, Gustavo Marchesi, Ugo Sassi, Franco Somacher, Serati); C.L. di Torino - “Per abolire le armi bisogna prendere le armi” (Gabriele Orfani); C.L. di Monteolimpino - “Prime esperienze con la macchina da presa” (ragazzi della locale scuola); C.L. n. 2 di Roma - “Apollon, una fabbrica occupata” (Ugo Gregoretti, Sergio Boldini, Giuliette Chiesa, Diego Fiumani, Valerio Veltroni e il comitato dell’occupazione dell’Apollon). Intanto, in seno all’Associazione nazionale autori cinematografici è stato promosso un gruppo di lavoro con il compito di favorire la produzione e la diffu­ sione di cinegiornali liberi: vi hanno aderito Alfredo Angeli, Gianni Bisiach, Libero Bizzarri, Antonello Branca, Luigi Di Gianni, Andrea Frezza, Marco Ferreri, Michele Gandin, Ugo Gregoretti, Lionello Massobrio, Pier Paolo Pasolini, Ugo Pirro, Giulio Questi, Franco Solinas, Giovanni Vento. Da questo ceppo, in seguito all’attentato di piazza Fontana a Milano e alla morte di Pinelli, deriveranno due cor­ tometraggi sulla repressione rispettivamente diretti da Elio Petri e Luigi Comencini. Nel luglio del 1970, il Bollettino del movimento dà notizia di una iniziativa presa dalla Federazione delle Colonie Libere Italiane (Svizzera), che ha bandito un concorso fra i lavoratori emigra­ ti per un soggetto destinato a trasformarsi in un documentario “vero”, in un cinegiornale libero. Attestati di simpatia e di solidarietà arrivano al Centro nazionale da Joris Ivens, dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani, dal pittore Ennio Calabria e dal poeta Salvatore Quasimodo. Poiché talvolta l’entusiasmo dei cinegiornalisti liberi non è sufficiente a met­ tere insieme un po’ di pellicola e una cinepresa, i più indomiti ricorro­ no alla documentazione fotografica: è il caso di un “fotogiornale libe­ ro” impaginato, stampato e affisso da alcuni giovani militanti comuni­ sti (sezione Tuscolano di Roma), autori di una foto-anatomia del pro­

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prio quartiere. Nel 1970, il repertorio dei cinegiornali liberi si arric­ chisce di altri titoli, in genere “numeri monografici”: “Isolotto, quar­ tiere liberato” (Francesco Crescimone, Piludu, Frasca, Vicinelli, Gra­ ziella Beliucci, Daniele Protti), “La sentenza del Vajont” (Luigi Di Gianni), “Sicilia: terremoto anno uno” (Beppe Scavuzzo), “Battipa­ glia” (Luigi Perelli), “Se questo resta com’è - siete perduti” (Michele Gandin), “Anatomia di un quartiere operaio” (Bruno Grieco e Sergio Fredduzzi). La distribuzione dei film avviene direttamente oppure at­ traverso organizzazioni consorelle: l’ARCl innanzitutto. Si vendono an­ che copie a 16 o ad otto millimetri: il prezzo si aggira sulle 2.000 lire al minuto. Le quote di noleggio variano da 3.000 lire (film di durata fino a mezz’ora) ad 8.000 lire (film che superino i 60 minuti). Rappresen­ tanze dei cinegiornali liberi sono frequentemente presenti nei dibatti­ ti sui problemi del cinema e partecipano alla contestazione della Mo­ stra di Venezia, nell’agosto del 1968. Nel 1970, le maglie del movi­ mento paiono allargarsi e il Centro dei cinegiornali liberi annuncia che terrà a battesimo il cinegiornale libero del proletariato, “espressione cinematografica degli organismi di massa, dai sindacati alle cooperati­ ve, all’ARCI”.

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Appunti per un brindisi a Mosca

Cari amici sovietici, vi sono molto grato dell’invi­ to che mi avete rivolto con affettuosa insistenza in questi anni a nome dei cineasti sovietici. E un gran­ de onore per me, un onore non solo come uomo di cinema, ma più semplicemente come uomo, cioè uo­ mo politico, uomo sociale. Devo farvi subito una confidenza fraterna. Ho rinviato più di una volta questo viaggio perché ho temuto di non essere nello stato d’animo migliore per compierlo. C’erano e ci sono dei punti di non perfetta convergenza tra il mio modesto modo di vedere e quello niente meno che di un paese immenso e glorioso come il vostro. For­ se voi sapete che io sono uno dei presidenti dell’Associazione “ITALIA-URSS”. Forse sapete che nel mio paese la mia posizione è quella di uno che, pur non essendo iscritto al partito comunista, appoggia in so­ stanza, esplicitamente, la politica del partito comu­ nista; probabilmente, ci sono in me dei residui che chiameremo intellettuali, per i quali voglio conserva­ re un margine di autonomia individualistica di quel­ lo che la iscrizione a un partito consentirebbe. Eb­ bene, non crediate che me ne vanti. Considero que­ sto mio stato uno stato impreciso, un po’ ambiguo e tuttavia sincero, dal quale vorrei uscire. Quel poco che sto scrivendo quest’anno riflette il bisogno di uscire da forme che risentono di due culture anziché di una nuova e radicale cultura. Non è facile com­ piere queste operazioni e non è neppure vero che nell’amministrarle ci sia soltanto un principio econo249

urico inesorabilmente egoista. Non è vero, c’è qual­ cosa di indefinibile ma potente che ci tiene sospesi nell’aria e in quella strana posizione tu cerchi di agi­ re come avessi i piedi per terra. Di agire in sintonia con gli altri. Non è facile. I nostri gesti possono sem­ brare assurdi e inumani come quelli degli astronauti neivuoto. E certo che viviamo in un momento talmente im­ portante che ci sembra di essere noi i pionieri di tan­ ta angosciosa incertezza, di tante contraddizioni. In­ vece prima di noi ci sono già stati degli uomini che hanno risolto o affrontato il loro rapporto con la sto­ ria rinunciando a qualche cosa o addirittura alla vita. Vi ho detto che ho delle ragioni di dissenso. Riu­ scirò a spiegarvele: questo viaggio non ha un signifi­ cato turistico per me. Arrivo a Mosca sapendo be­ nissimo quello che succede nel mondo e abbastanza anche quello che succede nei nostri animi. Siamo al­ la vigilia, se non nel cuore stesso di avvenimenti grandiosi e terrificanti. Nasconderselo può essere tatticamente utile, strategicamente dannoso. La ve­ rità è sempre una strategia. Voi uscite dal recente festival che si è svolto in questa città. Una specie di apoteosi del cinema. Qualche cosa che unisce attraverso il cinema, la geo­ grafia dei festival ha tutta la buona volontà di essere una geografia di pace e di coesistenza. Molti sono tornati ai propri paesi con un ricordo allegro, simpa­ tico, dell’ospitalità moscovita. Si sono visti film delle più lontane parti del mondo ed è sembrato una vol­ ta di più che l’intelligenza in essi espressa possa ga­ rantire che niente di terribile può più avvenire sulla faccia della terra. Hiroshima è un luogo da rievocare con dei film. Facciamo dei film, allora, per esecrare 250

la bomba atomica? Per spaventare? Per far toccare con mano che cosa significa un genocidio e soprat­ tutto la morte di un solo uomo? Su questo siamo tut­ ti d’accordo. Non siamo d’accordo su molte altre co­ se, e il cinema dovrebbe aiutarci ad aprire gli occhi sulle molte cose che non ci trovano d’accordo. Pare che nel festival di Mosca sia aleggiata un’aria cinematografica occidentale, nel senso che gli usi e costumi, i riti del cinema, si sono tutti orientati verso quelli tradizionali e che sono stati imposti da una concezione del cinema euforica e generica, non sto­ ricamente rigorosa, non politicamente funzionale. Essere storici, essere politici, non può che voler dire cogliere le esigenze di un dato momento storico e politico, renderne consapevole il maggior numero di persone, insomma dare una coscienza storica e poli­ tica a questo maggior numero possibile di persone. Qualche cosa si è fatto in tal senso. Anche fra di voi vi sono dei film che rispondono a questa istanza. Ma è chiaro che ce ne devono essere di più, anche chiaro che presso di voi, paese guida del socialismo mondiale, il problema del cinema va radicalmente commisurato alle esigenze storico-politiche di questi anni decisivi. A priori, non può essere che il fenome­ no cinematografico, che la macchina da presa, venga in questo momento interpretata alla stessa stregua dai paesi capitalisti e dai paesi socialisti. Non si trat­ ta di rinfocolare a priori dei contrasti, di schematiz­ zarli, di trincerarsi dietro dei punti di vista privi di ogni dialettica. Si tratta invece di usare ogni e qual­ siasi mezzo, specialmente i mezzi di comunicazione, per tradurre le questioni scottanti che ci possono coinvolgere tragicamente di ora in ora sul tappeto. Il bisogno di verità, di conoscenza, di un paese sociali­ 251

sta è diverso dal bisogno di verità e di conoscenza di un paese occidentale. Sono due strutture antitetiche. Certo che ci sono anche nei paesi occidentali delle forze socialiste di profondo impegno e di peso de­ terminante in un prossimo futuro. Ma perché na­ sconderci che voi, compagni dell’URSS, siete quelli ai quali le forze guardano per ricavare delle indicazioni importanti e spesso decisive? In Occidente, il problema del cinema si sta po­ nendo in un modo radicale perché si radicalizza la lotta politica. Una volta sembrava che cinema e po­ litica potessero andare lungo delle parallele che non si incontravano mai o si incontravano per qualche sottopassaggio in occasioni eccezionali, più o meno celebrative. Oggi non ci sono dubbi che cinema e politica sono interdipendenti, e che non è concepi­ bile una pace, una filosofia, una prassi cinematogra­ fica, diversa dai rapporti, dalla teoria, dalla prassi politica. Prima di scandire meglio questo punto di vista, dirò subito ad alta voce che in questo punto di vista non si nascondono nostalgie per quello che fu chia­ mato il realismo socialista. Non c’è nessun nesso. La concezione di un cinema politico è realista, ma non dittatoriale. Chiamando le masse a partecipare all’a­ nalisi delle situazioni, non impone una interpretazio­ ne della realtà ma offre i mezzi per trovarla anche contro noi stessi che quei mezzi offriamo. E una via per lo sviluppo del socialismo e si contrappone netta­ mente alla concezione borghese, che privilegia sem­ pre gli strumenti di conoscenza. Queste cose, voi ce l’avete insegnate. Sulla scia del vostro insegnamento, noi siamo giunti a certe logiche conseguenze. Lotta, cultura, ci­

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vilizzazione, sono tre termini di un’unica volontà, di una unica creazione. Il cinema deve tendere a con­ fluire in questi tre termini correlati, e come prima presa di posizione si chiede naturalmente, alla luce del tempo, che cosa è. Rifiuta quindi le precedenti definizioni, o meglio anch’esse le verifica alla luce del tempo, che è un tempo di emergenza, un tempo rivoluzionario. La difficile parola l’abbiamo pronun­ ciata. Anche questo ci avete insegnato, che vi sono dei geniali opportunismi, necessari, costruttivi, e che anche nel passato vi sono stati dei passaggi rivoluzio­ nari, e che bisogna saperli tradurre secondo le nuove esigenze. Le cineteche sono piene di film che hanno un valore rivoluzionario autentico. Oggi stesso, qua e là vi sono dei cineasti che esprimono dei valori ri­ voluzionari e che pertanto continuiamo a considera­ re come dei maestri. Nei paesi giovani naturalmente si esprimono attraverso il cinema delle forze rivolu­ zionarie, anche se corrono il rischio di essere insidia­ te, rallentate, talvolta dirottate da una devozione all’Occidente che da aspetti formali minaccia di tra­ sferirsi in contenuti. Fra l’altro, la quiescenza verso i festival è uno di questi momenti di pigrizia, di non sospetto, di partecipazione al sistema nelle sue per­ suasioni occulte. Infatti, il vertice della escalation che i cinema nazionali tentano è quello di un festival, di un luogo ideale, o che tale sembra, nel quale il ri­ conoscimento intemazionale appaga del coraggio e della fatica manifestati. Non siamo dei manichei. Non avremmo nulla contro i festival se essi fossero una delle articolazioni in grande del cinema e non l’articolazione, l’ambi­ zione suprema. E non un finto problema, a scapito dei problemi che un cinema politico, un cinema di 253

lotta, deve affrontare in un modo più diretto e dra­ stico. Nei festival si confondono le lingue. E tenendo presente il festival, anche nel proprio paese ci si struttura, a livello individuale e collettivo, in modo da rispondere a quelle richieste e non alle richieste rivoluzionarie. Quali sono le richieste rivoluzionarie? Se dovessimo riassumerlo in poche parole, direm­ mo subito che si tratta di stabilire un nesso sempre più stretto tra cinema e politica. Se volete, possiamo anche dire tra cinema e storia. Il cinema non può più essere genericamente solidale con la situazione poli­ tica, ma intrinseco. Esso deve partecipare alla lotta, alla pari con qualsiasi altro strumento, spremendo da sé quanto esso ha di specifico per fame uno spe­ cifico rivoluzionario. Rivoluzionario, se non vuole essere “una frase”, è un valore che si oppone ai valori non rivoluzionari, che identifica con sempre maggior precisione questi oggetti del sistema da rovesciare. Molti sono convinti che uno degli oggetti integra­ ti nel sistema, che vogliamo combattere, è proprio il cinema. Esso è riuscito a imporsi come un fenomeno nel quale sono possibili alleanze che fuori di sé non lo sono. È una specie di portofranco dove ci si riuni­ sce per abbracciarci mentre non molto lontano gli stessi conflittuano mortalmente. In questo modo, chi ci rimette non è il sistema borghese. Esso riesce a svolgere il discorso cinema­ tografico tenendolo nei limiti che gli convengono, nei limiti che è riuscito a creare. In questo momento si può riconoscere che la guida del cinema sia nei suoi usi e costumi, sia nelle sue regole di produzione,

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sia nei suoi riflessi politici culturali, è di marca bor­ ghese.^ La stessa grande catena dei festival lo dimo­ stra. È una catena di carattere elitario, sotto ogni profilo, alla quale alcune contestazioni qua e là rie­ scono a far allargare un poco le maglie, per cui rien­ trano dei film di attacco, anche dei film antiborghe­ si. Tanto, sono discorsi fra intellettuali, fra tecnici, fra capitalisti, e gli artisti riescono perfino a ricevere le congratulazioni di coloro contro i quali, in fondo, hanno pensato la loro opera. Un clima idillico, qua­ si, che sembra debba durare eternamente, con delle variazioni formali che lasciano intatta la concezione pratica e teorica del cinema. In tali condizioni non può venire facilmente in te­ sta a molti che il cinema può essere anche un’altra cosa. Che per la macchina da presa il luogo della lot­ ta può essere anche fuori dalle sale cinematografi­ che, dai circuiti tradizionali; e che, in poche parole, la macchina da presa può essere adoperata e evol­ versi fuori dall’ambito industriale. Rivoluzionario significa, dunque, prima di tutto domandarsi se il cinema può essere anche un’altra cosa da quella che è nella mitologia contemporanea e se può essere uno strumento di lotta - parlo della lotta di classe - più efficace di quanto non lo sia fino a ora. Noi siamo tentati di dire che oggi il cinema non è un efficace strumento della lotta di classe. Non lo è. Può darsi che qualcuno riesca a sostenere che un po’ di utilità c’è in questo concerto intemaziona­ le del cinema. Non siamo dei manichei e siamo an­ che disposti ad ammetterlo. A condizione, però, che si ammetta che vi è anche un’altra strada per il cine­ ma e che non sarà certo il sistema borghese ad aprir­ cela o a rendercela più piana. E la strada lungo la 255

quale ci si contrappone operativamente ai circuiti fin qui stabiliti e si lavora per fame dei propri. Ma non è sufficiente fare dei circuiti propri per immettervi dei prodotti degli altri. Cioè consumare il prodotto borghese in un circuito antiborghese. E qui dobbiamo parlare un minuto dei prodotti. Vi scandalizzeremo dicendo che non sappiamo che prodotti bisognerebbe immettere in questi cir­ cuiti. Sappiamo che questi circuiti non vanno intesi co­ me dei centri nei quali il pubblico va a vedere un film di Eisenstein o di Rossellini. Anche questo. Non si rifiuta nulla di quello che il cinema ha fatto fino a oggi in senso rivoluzionario. La nostra è una continuità calcolata, un trapasso logico da certe for­ me a certe altre forme. Questi centri sono oggetto e soggetto nello stesso tempo, creatori e consumatori. Di che cosa? Di cinema. Non di film. Di cinema. Cioè di notizie, di informazioni, di analisi, di opera­ zioni di conoscenza a tutti i livelli da opporre alle notizie, alle informazioni, alle analisi, che nel loro insieme costituiscono un modo di interpretazione della realtà, un lungo momento della lotta. Sono operazioni che aiutano a prendere conoscenza della propria condizione di classe, a politicizzare quello che gli altri chiamano un pubblico e che come tale non è più politicizzabile. Il cinema deve diventare lo strumento più organi­ co di propaganda politica. Ma la novità, il salto qua­ litativo, rivoluzionario, consiste che non è una pro­ paganda fatta da pochi per le masse, ma è una pro­ paganda concreta delle masse, anzi determinata dal­ le masse. In parole ancora più povere, tutto ciò nasce dalla convinzione che le masse hanno bisogno di po256

liricizzarsi. Di diventare coautrici. Non è che diamo la macchina da presa in mano a questi gruppi, che politicamente vogliamo vedere sorgere intorno a una macchina da presa, perché facciano il loro compiti­ no artistico, quindi si mimetizzino nella concezione del cinema vigente. Oggi il tema, il contenuto, è la lotta considerata in una fase di emergenza. Allora queste forze popolari, che sono fin qui tributarie di linguaggi altrui, inventeranno i propri ma non speri­ mentalmente bensì decisamente nel cuore stesso del­ la lotta. Queste masse sono di continuo protagoniste di avvenimenti, che non entrano nella pellicola o vi entrano per vie indirette e tardive. Il cinema vigente può prendersi il lusso di darsi dei convegni annuali coi suoi festival, ma la realtà politica non può accet­ tare questo tipo di scadenza poiché le masse fanno prima la lotta e poi vanno al cinema. Mentre invece ora bisogna che, facendo la lotta, facciano anche del cinema che serve a chiarire, a potenziare e a indiriz­ zare la lotta. Non u’è un giorno, non c’è un’ora in cui non succeda qualche cosa che dovrebbe essere as­ sunto nella pellicola e immediatamente trasmesso con la stessa velocità con la quale la classe dominan­ te trasmette i suoi prodotti. Uno sciopero, un episo­ dio della repressione, aspetti sempre diversi e sem­ pre più duri della realtà del potere, vengono trascu­ rati per quello che hanno di illuminante, vengono sempre demandati a altri, come se il racconto, l’ana­ lisi, la denuncia di un fatto fossero a priori da de­ mandare a altri e non da affrontare in proprio con­ naturandoli alla lotta e da essi ricavando immediati risultati di lotta. Pensate a una qualsiasi lotta fra po­ lizia e operai: e come un fatto così possa essere dagli operai protagonisti non solo fotografato nella sua ac­ 257

cezione più esterna, ma anche aperto in tante di quelle correlazioni che sfuggano agli stessi protago­ nisti i quali nel fatto espressivo trovano un fatto rivelatorio, un passo avanti nella lotta. Questi problemi, che si affacciano alla nostra co­ scienza con sempre più insistenza, non interessano i cineasti borghesi. Essi sono certi che il modo ancora migliore di influenzare l’opinione pubblica è di fare il proprio dovere di artisti e quello di cercare di esprimere un buon film. Non hanno torto del tutto. Ci sono dei film che misteriosamente entrano nel no­ stro animo con una luce positiva e ne raccogliamo i vantaggi in momenti impensati. Non saremo noi che proibiremo Quando volano le cicogne, o I girasoli o tanti di quei film che anche nel mio paese stanno per andare sullo schermo, portando un loro contributo alla critica del nostro tempo. Prima di partire, ne ho visto uno di un giovane, Ansano Giannarelli, che ec­ cita il nostro spirito d’intervento e di presa di con­ tatto dei rapporti che intercorrono tra le situazioni rivoluzionarie generali e quella locale. Dobbiamo lottare anche in questo settore perché se ne possono fare sempre di più di film così, perché li possa vede­ re il maggior numero di persone, perché il cinema sia gestito in forme sempre più dirette di democrazia, perché lo Stato entri nell’ordine di idee che il cinema è un servizio pubblico e lo Stato ha l’obbligo di fa­ vorire il sorgere di iniziative che entrino in questa esigenza, ecc. Ma, vedete di quanti “ma” il mio resi­ duo attaccamento al cinema tradizionale è cosparso (e per tradizionale non intendo certo dimenticare quanto di rivoluzionario ci sia anche nel cinema tra­ dizionale e in alcuni momenti della stessa cultura borghese), ma dando uno sguardo alla situazione del

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mondo, alle feroci spaventose spietate contraddizio­ ni nelle quali viviamo, con la guerra che non è mai cessata e che può esplodere su tutti i continenti quando meno lo crediamo, di fronte alla situazione socio-politica mondiale, dobbiamo almeno avere il sospetto che noi del cinema non abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Questo sospetto venne davan­ ti ai nostri occhi anche nel 1949 a Perugia. Se ne parlò con un grande uomo e con un grande cineasta: Pudovkin. Espressi davanti a lui e a tutti i convenuti a Perugia il sospetto che malgrado i suoi meraviglio­ si capolavori il cinema desse un contributo al cam­ biamento del mondo un po’ lento, un po’ mediato. Pudovkin era pieno di vitalità, di fede, credeva nella rivoluzione che era avvenuta e credeva che la rivolu­ zione continuasse. Io, da occidentale più stanco, mi lasciavo invadere dai dubbi. E i dubbi ci sono anco­ ra. Che fare? Nel mio paese abbiamo cercato di rispondere. Stiamo cercando di rispondere. Vogliamo risponde­ re. Intendiamo fare nascere decine di centri cinema­ tografici. È un’operazione di decentramento. Abbia­ mo cominciato, da due anni precisi. Stiamo racco­ gliendo i primi risultati. Sosteniamo, con qualche tensione polemica, che tutti possono fare del cine­ ma. Non è demagogia. Quando noi parliamo delle masse, della base, attribuiamo alle masse e alla base un peso nuovo nella dialettica culturale. Noi credia­ mo di poter fare un cinema nuovo nella misura in cui interessi nuovi, interpretazioni quindi di tempo e di spazio, di rapporti di società di lotta, siano nuovi. Riunirsi intorno a una macchina da presa in posti di­ versi ha per costante una necessità di comunicazione autonoma, indipendente, di stabilire dei piccoli cen­ 259

tri rivoluzionari ai quali non si dice: fate dei film. Ma si dice: usate la macchina da presa per quello che contiene di sintesi oggi nel voler essere creatori di notizie, diffusori di notizie, viste, vissute, sofferte, godute, analizzate su un campo completamente op­ posto al monopolio della notizia detenuto dal regi­ me. Per noi ogni notizia ha una gamma di valori di conoscenza che va da quella più brutale, esplicita, diretta a quella più elaborata, più piena di riflessio­ ne, che ha la immediatezza e la necessità del tam tam, cioè di un richiamo in piazza, a prese di posses­ so degli ingredienti, delle correlazioni, dei significati che la notizia contiene prima e dopo del suo accade­ re. In un paese come il nostro siamo alla vigilia di un ordinamento regionale. Aspettiamo con fiducia que­ sto mutamento. Lo vogliamo già cominciare col ci­ nema. L’accentramento romano del cinema diventa un accentramento di potere. Infatti, la struttura ci­ nematografica è nel suo prevalere una struttura di potere. Nel corpo di questa struttura i risultati di at­ tacco, mi ripeto, sono scarsi, vengono cancellati da una quantità negativa in cui la qualità positiva si an­ nacqua, si disperde. Il decentramento è già una non accettazione di un eccessivo potere centrale che de­ termina una cultura, l’uso dei mezzi di cultura, dei contenuti, e noi opponiamo i nostri contenuti, senza preoccuparci che abbiano la forma dei contenuti av­ versari. Noi non contrapponiamo dei film a dei film. Noi partiamo da una esigenza che non è cinemato­ grafica, è politica, ma crediamo che la esigenza poli­ tica sia talmente globale oggi, totale, da inventare contemporaneamente un suo esprimersi che può servirsi anche di elementi etici e estetici sublimati da esperienze precedenti a questo momento storico, ma

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che questo momento storico fa rivalutare, verificare, sperimentare non parallelamente ma intrinsecamen­ te alla volontà di lotta. Questi centri noi li chiamiamo cinegiornali liberi. Hanno la urgenza e la praticità del cinegiornale. Scoppiano, possiamo dire, nei posti insieme all’avve­ nimento e cercano di ripercuoterlo in tutto il paese con una deliberata interpretazione di classe, essendo l’avvenimento, la analisi, il processo di conoscenza un processo di classe. I nostri cinegiornali liberi possono essere fatti da due o tre persone come da venti o trenta. Molti so­ no gli aspetti della collaborazione nei cinegiornali liberi. Sono lavori di gruppi, sono dei collettivi, do­ ve le forze finiscono con l’equilibrarsi a seconda delle effettive capacità e disponibilità. Ma già nel nascere, già nel voler essere un lavoro collettivo, un lavoro dalla base, c’è lo stretto legame con la situa­ zione di lotta. In questi gruppi, in questi collettivi, si mescolano operai, studenti, intellettuali, piccoli borghesi. In Italia c’è una situazione protestataria su larga scala che attraverso una gamma anche troppo vasta, le for­ ze preminentemente ruotano intorno a una conce­ zione di sinistra, a una concezione rivoluzionaria. C’è una situazione rivoluzionaria innegabile, anche se non tutta coordinata intorno a un punto organiz­ zativo unico. Il partito comunista è il collettore natu­ rale e principale, in quanto storicamente è defluito da quei principi. I cinegiornali liberi mirano a contribuire a un as­ sestamento delle forze rivoluzionarie intorno a un asse unico mediante il cinema. I cinegiornali liberi, in questo senso, abbandonano ogni aggettivazione

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che non sia quella politica, fanno il cinema politico. Fanno politica col cinema. In quanto il cinema, in questo momento, è ancora in grado di convogliare tutte le esigenze tattiche e strategiche della lotta. Questi collettivi di lavoro sono dei nuclei rivolu­ zionari che creano una cultura rivoluzionaria. In quanto si oppongono al tradizionale concetto di im­ pegno della cultura cioè dell’alibi artistico. ... L’arte non ci interessa in questo momento an­ che se sappiamo che certi valori li rincontreremo, ma li rincontreremo non cercando di cambiare l’arte ma cercando di cambiare la qualità del nostro interven­ to che deve esercitarsi fuori proprio dall’ambito pre­ concetto dell’arte. Per questo i festival ci sembrano insidiosi. Non so­ no una nuova vita. Sono sempre i privilegi delle élite. Sono sempre la rivoluzione per interposta persona. Noi a Venezia parlammo di un festival continuo. A Pesaro abbiamo parlato di un festival continuo. Di un luogo cioè dove nasce il cinema politico, dove da tutto il mondo si convogliano le forze i progetti le al­ leanze per un cinema politico, per un cinema di lotta di classe o meglio per la lotta di classe fatta attraverso il cinema. Anche nel vostro animo vorremmo infiltra­ re un sospetto che c’è anche questa immensa zona di lavoro nuovo per la macchina da presa. Se volete es­ sere alla testa delle rivoluzioni, dovete essere anche alla testa di un cinema rivoluzionario. Bisogna aiuta­ re tutti i paesi a svolgere la loro lotta anche con il ci­ nema. È un’alleanza in grande che bisogna compiere e che non ha niente a che fare col diffondere delle storie più o meno edificanti nell’ordine di un sociali­ smo già in collusione col non socialismo. Bisogna da­ re le macchine da presa in mano a più gente che si 262

può, dire loro: conoscetevi e conoscete, entrate nelle case, nelle officine, dappertutto. Il capolavoro per ora consiste nell’attuazione, precisa, capillare, orga­ nizzata di questo uso della macchina da presa. Siamo disposti a rinunciare a tutti i festival del mondo pur di diffondere la macchina da presa con questo crite­ rio. E un criterio socialista, che si articola in ogni pae­ se secondo le esigenze di lotta di quel paese. Portare per esempio nel Sud dei capolavori di cinema è utile, d’accordo. Ma non ha niente a che fare con le esigen­ ze della lotta oggi. Far nascere invece intorno a una macchina da presa questi collettivi di critica, di lavo­ ro, di analisi, di lotta mettendoli in relazione l’uno con l’altro per uno scambio sempre più intenso dei prodotti, questo è utile subito.

Zavattini non ricordava con precisione se i suoi “appunti per un brin­ disi”, riuniti dopo il Sessantotto, fossero o no stati trasformati in un di­ scorso oppure in una conferenza. Certo è che egli li ha abbozzati in vi­ sta di un franco scambio di idee con i cineasti sovietici. Da queste no­ te trapela un esplicito dissenso verso la conversione, in campo sociali­ sta, a forme produttive, diserzioni e ritualità sempre più somiglianti a quelle dell’occidente. Un bersaglio, più di altri, è visibile: la tribuna dei festival organizzati a Mosca e a Karlovy Vary. Può anche darsi che in Zavattini fosse vivo il rammarico per l’incomprensione che nel ’68 incontrò, fra i dirigenti e la burocrazia di alcune cinematografie dell’Est, la contestazione del festival veneziano. Tuttavia, egli coglie l’oc­ casione per rilanciare nuovamente, forse senza illusioni, la proposta di un’alleanza “per aiutare tutti i paesi a svolgere la loro lotta anche con il cinema”. È una sollecitazione alla quale i sovietici sono sordi e che rimanda al 1954, a un intervento di Zavattini in Realtà sovietica (nu­ mero di aprile) e a un successivo scritto del giugno 1957 apparso sul­ lo stesso periodico: “Dei due grandi blocchi, l’America, con il suo ci­ nema, è riuscita a diffondere nel mondo la sua poetica e la sua morale; l’URSS non è riuscita a farlo. La cinematografia sovietica ha attualmen­ te una concezione e una organizzazione nazionale nel senso di uso e consumo nazionale, ancora di propaganda e di elaborazione di temi strettamente per l’interno. Non dico che non ci debba essere una pro-

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duzione per l’interno, ma una produzione concepita per l’esterno do­ vrebbe servire anche per l’interno. Si tratta di individuare quei temi fondamentali della coscienza socialista che in questo momento sono necessari a tutti i paesi per dimostrare la legittimità della lotta sociali­ sta. Si vuole un mondo nuovo e si continua a fare delle favole di un vecchio mondo, si va avanti, nel migliore dei casi, ma con la testa ri­ volta al passato... Si continua a essere fermi, anche con la fantasia, a un linguaggio, a motivi vecchi mentre invece il socialismo, pur essendo una parola ferma, è in continuo movimento, generazione per genera­ zione, con sempre diverse esigenze di attualizzarsi. In questo senso, il cinema che era nato apposta per questa funzione di attualizzazione dei principi socialisti si è sempre manifestato come un formidabile stru­ mento della conservazione della borghesia, attraverso i suoi miti e le sue favole. Tanto è vero che come è nata una Hollywood, che potrem­ mo chiamare della conservazione, non c’è stata invece neppure l’om­ bra di una Hollywood che possiamo chiamare del contemporaneo, della problematica progressista moderna, una Hollywood sperimenta­ le del mondo socialista. Ma per realizzare questa Hollywood abbiamo bisogno di un disgelo che non sia quel crich che accenna la prima rot­ tura sotto i raggi del caro sole, ma veri e propri torrenti che scroscia­ no a valle. Questo miracolo possiamo aspettarlo solo dal socialismo purché il socialismo usi per svolgersi una strumentazione psicologica socialista. Dobbiamo riconoscere che un fatto negativo contro il qua­ le bisogna andare è che si vuole fare il socialismo con una strumenta­ zione psicologica borghese. La Hollywood che vagheggiamo dovreb­ be infatti essere il centro di raccolta dei sentimenti, delle idee, dell’u­ manità di tutti i popoli: solo così diventerebbe la fucina della demo­ crazia per insegnarci, con la virtù propria dell’arte, a toglierci di dosso tutte le idee ricevute, a sfruttare tutta la nostra ansia creativa, a farci ammirare solamente quegli uomini che veramente operino contro il culto della personalità, insegnandoci, con un’apertura di fiducia nei propri simili, che non si può fare a meno di loro...”. Dieci anni dopo, lo scrittore, interpellato da un giornalista russo, si augura che abbia luogo un evento: “I film liberi a Mosca, cioè un cen­ tro libero del cinema a Mosca, significa che a Mosca dovrebbe costi­ tuirsi una commissione composta di alcuni uomini rispettati in tutto il mondo per la loro libertà, per la loro indipendenza. Sul loro tavolo do­ vrebbero affluire da tutte le parti del mondo proposte di cinema che siano impossibili da realizzare nei singoli paesi. Poter fare a Mosca ogni anno sei o sette film con questo spirito, con questa libertà, con questa solidarietà fra tutti quelli che, svincolando il cinema dalla sua routine e dal suo troppo lento sviluppo anche nei casi migliori deter­ minato appunto dalla sua struttura materialistica, significherebbe ri­ dare al fenomeno del cinema la sua forza di movimento e di bandiera nella lotta del mondo per la liberta e per il socialismo...”.

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Cristo e i cristiani

... Non ti sembra che, almeno sul piano individuale, di singole persone, la proposta di Cristo sia stata rea­ lizzata? No. Temo anzi abbia contribuito a mascherare il fallimento storico. Individualmente ci sono sempre stati dei salvataggi, anche prima di Cristo. Cristo ha vissuto proponendo la sua imitazione, voglio dire i tempi corti. E il massimo che possa l’uomo facendo coincidere pensiero e azione. E quando egli s’indìa, ri­ petendo appunto l’esempio di Cristo che paga tutto, assolutamente tutto, quello che dice. Lì è il suo esem­ pio più alto. Da Socrate a Che-Guevara vi sono per­ sone che non parlano se non è già coevo il fare, il parlare è una garanzia, una somma. Noi invece sia­ mo - insisto - in tempo di parole, addirittura di ger­ ghi, non si tratta, è ovvio, della morte della parola, bensì di una resarzione in loco, e la riassunzione del Vangelo potrebbe essere, a me pare, una inversione di rotta, di civiltà. Anche se intriso di avvenimenti, di fatti, di date, che importa l’essere noi in grado di esprimere considerazioni sulle bombe che ieri sono cadute a Cipro, e persone sono morte? Questo non ha più nessun valore. Sono tutte presenze di ordine speculativo, di ragionamento sulla cosa, non di par­ tecipazione alla cosa, presenza finta, espressa da in­ teressi fondati su filosofie e su prassi recessive, anzi antiche nel senso reazionario del termine. H mo­ struoso è nell’attrezzatura tecnica, accresciuta a di­ 265

smisura per cui quanto più l’informazione è imme­ diata e completa, tanto più si annulla. Non c’è rap­ porto ormai tra sapere e provvedere. E la sfasatura è il simbolo del nostro tempo, uno dei meno rivoluzio­ nari effettivamente registrandosi una maturità della notizia e immaturità per trame le conseguenze o ad­ dirittura la notizia come stallo. La necessità di esau­ dire i bisogni si sposa con la perfetta non volontà di esaudirli, volontà segretamente coordinata, tipica che sopraffà. Pensi allora alla responsabilità addirittura emblematica di coloro che dicono: “Siamo evangeli­ ci, cristiani!”. Dovrebbero aver paura, terrore di chiamarsi tali rivelando lo spazio siderale che esiste tra il nome, che prendono da Cristo, e ciò che fanno. Cristianesimo finisce così col significare carenza uffi­ ciale, inconciliabilità tra spirito e politica. Nessuna nostalgia platonica, no davvero, ma la moralità prima della cosiddetta arte del possibile sta nell’annunciarsi costruttivamente secondo le proprie possibilità ap­ punto. H non fare è già consacrato nel falso annuncio. La religione cristiana è riuscita a creare una cosa che continua a voler sembrare attuale, quando inve­ ce non lo è più quanto più è immensa, quanto più c’è Cristo. Ma non è più il Cristo del Vangelo. Questo è il punto. H Cristo reale che dice: “Uscite, lasciate, abbandonate!”; che grida: “Avanti! Avanti! Avan­ ti!”, ed egli esce per primo e cammina sino alla cro­ ce, con quel suo enorme senso del non potere più rinviare ciò che gli è apparso giusto, che perciò nem­ meno è più effabile. Le sue successive stazioni sono il silenzio. È dunque attuale un cristianesimo incapa­ ce “di fare oggi Cristo come egli ci ha mostrato di es­ sere”? La cristologia diventa una superfetazione, un “parlare” appunto...

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... Quello che risalta in Cristo, non è tanto se egli sia riuscito a parlare a tutti, quanto che abbia capito ed abbia preso sulle spalle il problema di tutti. Il suo non era un problema parziale, ma universale. Egli aveva capito qual era la chiave dell’umanità, e cioè l’eguaglianza di tutti gli uomini. Esiste un equivoco su questa proclamazione: l’uguaglianza originaria provoca odio, non amore, per la stessa fìsica impe­ netrabilità dei corpi. Ma non significa doverla nega­ re. L’aspirazione al superamento della situazione di odio sorge proprio e solo dall’obiettiva condizione di uguaglianza. Quello di Cristo non era comunque un problema di metafore, ma di sostanza. Su questa possiamo poi condurre esami a non finire, valutare azioni, comportamenti interni ed esterni, prevedere interventi uno più straordinario, drammatico, tragi­ co dell’altro, per verificare se, e operare affinché tut­ ti gli uomini siano trattati e si trattino come uguali tra loro. È implicito che egli voleva parlare a tutti, perché riteneva tutti degni di essere comunicati, ma prima aveva sentito uno stupore e sofferenza infinita per la parzialità dell’uomo nei confronti dell’uomo. Era già nella seconda fase dell’essere uguali. Per cui questa è la “indignazione” che lo rende esemplare. Poteva perfino non sapersi esprimere oltre conside­ rando sufficiente aver detto: “Siamo tutti uguali”. Da ciò, dalla sentenza, la ribellione agli istituti, agli ordinamenti, eccetera, dai quali veniva e viene la di­ scriminazione tra uomo ed uomo. Ma dicendo: “Sia­ mo tutti uguali", Cristo aveva anche detto: “Ammaz­ zatemi! Non potete che ammazzarmi, perché io vi pongo sopra un piano che voi rifiutate, il piano che vi nega di essere gli arbitri, i despoti tra persone che sono uguali”. Dopo l’alternativa posta da Cristo, è

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evidente la logica della sua soppressione: o l’elimina­ zione degli arbitri o quella di Cristo, arbitri che an­ davano dagli scribi e dai farisei, dal Sinedrio e da Erode e da Pilato, ai sofferenti, alle vittime, agli schiavi che supinamente accettavano, in un guasto, in una complicità generale: una montagna di dieci­ mila metri, piena di cocci, ed una mattina Cristo è uscito di casa e ha detto: “Vi salgo a piedi nudi”. E l’ha fatto. Con quale efficacia? Ti parlo come se non ci fosse questa parete, come altre volte tra me e te. Certo che si può comporre una silloge meravigliosa dei fatti positivi avvenuti nel nome di Cristo, ma ciò ha poco significato di fronte alla globalità di una situazione rimasta iniqua. Senza dire che si può comporre ima silloge meravigliosa di fatti di civiltà, di umanità, di arte, avvenuti anche prima ed al di fuori del cristianesimo. Nella storia è mancato lo scatto qualitativo unitario che avremmo atteso dal cristianesimo (l’ispirazione effettiva del “siamo tutti uguali”). Molti hanno bisogno della trascendenza per legit­ timare ciò che Cristo ha detto, ma il solo fatto che egli lo abbia detto come uomo è già una prova (mi ripeto) che noi abbiamo armi potenti da usare secondo quel pensiero che egli ci ha dato, armi tuttavia che noi non sappiamo usare, abbiamo paura di usare. Personalisticamente, entro a ciascuno di noi, quel­ le sue parole sono diventate magari un canto, un poema, una sollecitazione eroica, ma la massa (parlo di miliardi) continua ad essere inficiata da un pen­ siero sbagliato, la paura, la sottomissione. Cristo non

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ha detto: "Ragazzi, riuniamoci e nel giro di ventan­ ni dobbiamo raggiungere questi risultati”. Egli inve­ ce ha aperto l’uscio di casa ed era subito nella storia, era anche nella cronaca, quindi tutto da spendere e tutto speso. E noi? Quella parte di Cristo che si è tra­ dotta nel cristianesimo, è priva proprio di quella co­ scienza delTattuale che egli aveva in maniera unica. Poter riprodurre una giornata di Cristo! La nostra è una contrattazione continua. Noi procrastiniamo, quindi deturpiamo. Noi siamo incapaci di incorpo­ rare la vera struttura di lui, fingendo però il contra­ rio, dichiarando continuamente che siamo cristiani quando “non possiamo chiamarci cristiani”. Questo è molto triste: dichiarare di essere una co­ sa per poi non esserla. Non basta che ogni tanto si le­ vino grida di terrore e di rivolta, cortei nei quali si condanna l’errore con certi empiti di solidarietà me­ ravigliosi, perché sappiamo che allo svolto si ritorna ad essere quelli di prima, nel senso peggiore, con gli stessi capi, la stessa cultura. Per proclamare l’errore ci rifacciamo a Cristo ed agli eroi a lui simili della storia, ma giuocando due carte: ci serviamo di Cristo come di una cartina di tornasole, per sentire l’erro­ neità macroscopica, addirittura scientificamente, del­ la situazione, la sua crudeltà operante ventiquattro ore al giorno, ma insieme ripudiamo Cristo derivan­ do da lui quel tipo di pazienza, di “comprensione” che è invece sempre altro dal suo vero messaggio. Se dobbiamo essere giudicati sempre con tanta pazien­ za, con le attenuanti che ci disobbligano dal fare, evi­ dentemente non cè più allora nemmeno la macroscopicità dell"errore. Perché dobbiamo dire che l’errore è macroscopico, se non c’è nessuno che ne debba es­ sere condannato? Allora Cristo ha esagerato, ha di­ 269

sturbato, arrivando ad estremi, ad assoluti che non avevano possibilità di esecuzione, era “fuori”, cioè un profeta che in definitiva ci ha traditi? È così? Cre­ do il contrario. Credo che lui abbia visto concreto, giusto. Il fatto che in duemila anni noi siamo stati ca­ paci di non fare niente nell’ordine di Cristo, non vuol dire che abbia sbagliato lui, siamo noi a sbaglia­ re... (Clemente Ciattaglia, Voci di oggi sul Vangelo, Cinque lune, Roma, 1974).

Intervista organizzata in due tempi, nella primavera del 1972 e nell’e­ state del 1974. Pubblicata in un volume contenente testimonianze di Attilio Bertolucci, Giuseppe Berto, Alberto Bevilacqua, Carlo Bo, Li­ liana Cavani, Diego Fabbri, Federico Fellini, Alfonso Gatto, A.C. Jemolo, Giulietta Masina, Isa Miranda, Alberto Moravia, Ermanno Ol­ mi, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e altri intellettuali. Il tema religioso è entrato sporadicamente nei film di Zavattini: rico­ noscibile in La porta del cielo, il film di De Sica concepito nel ’44 (in piena occupazione tedesca) insieme con Diego Fabbri, Adolfi Franci, Carlo Musso, si evidenzia anche in una sceneggiatura di Fabrizio Onofri desunta dai Vangeli, ideata per Gillo Pontecorvo e arricchita dallo scrittore emiliano, un progetto incompiuto. È, tuttavia, incontestabile la ricorrenza di appigli al sentimento religioso in numerosi articoli, saggi, interviste, testimonianze. Dal folto archivio zavattiniano abbiamo espunto, a titolo indicativo, alcuni passi di due scritti, non essendo purtroppo riusciti a ripescare la formulazione di una proposta datata 1953, in cui Zavattini spende­ va parole affinché fosse fatta una inchiesta (giornalistica o cinemato­ grafica?) sul tema: “Cristo è vivo o morto?” Il primo stralcio è del 1966, si impernia sul dialogo tra comunisti e cattolici, alla luce delle apprensioni che destava il conflitto vietnamita, e l’abbiamo estrapola­ to da una intervista pubblicata nel n. 5 (giugno 1966) di Bassa Reggia­ na, periodico del Comitato di zona del PCI: “Sono per il dialogo in quanto accrescimento critico. Il problema religioso è ovviamente fon­ damentale, è una componente profonda della nostra storia e della no­ stra personalità. Non è l’ideologia in sé che va combattuta, anche se va studiata, ma è la sua escrescenza, il clericalismo, di cui da troppe par­ ti si cerca di misconoscere l’importanza determinante nella storia ita-

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liana. Lo so che si può apparire fuori tempo a dire questo, ma io pen­ so che il fenomeno clericale, che determina risultati politici, non vada affrontato con vecchie cravatte svolazzanti e dei bons mots ma a livel­ lo delle più approfondite e responsabili tavole rotonde. È necessaria, a mio avviso, una distinzione precisa: va bene il dialogo purché non venga meno, sacrificandola, una individuazione di profonda critica e di rifiuto nei confronti del fenomeno clericale: sarà un dialogo più sin­ cero e quindi più fruttuoso, se manterremo netto il nostro giudizio su questa classe che non va più identificata con la massa dei cattolici. Questo però non ancora avviene. H dialogo è un atto di coraggio ap­ punto perché è inteso come confronto; è evidente che il rifiuto del dia­ volo è un atto di paura, di non-movimento, di pregiudizi secolari, di una cultura settoriale. È pazzesco parlare di pace senza dialogo, ma non in quanto sia una espressione tautologica: piuttosto un tentativo di ricerca di analisi. Certo, sul problema della pace si può intessere un dialogo, ma per la pace occorre un lavoro di prospettiva e insieme di immediatezza. La pace bisogna farla subito: certamente. Ma quali e quanti elementi impediscono una pace immediata? Bisogna conoscer­ li scientificamente. Evidentemente dopo il Vietnam non ci sarà una ve­ ra pace; proprio perché essa per realizzarsi ha bisogno della conquista di determinati obiettivi che investono una visione nuova della vita che spesso dimentichiamo. Ma intanto il Vietnam è il banco di prova. Per la pace è necessario sconfìggere l’interpretazione del mondo del capi­ talismo; ma non di un capitalismo oggettivato, impersonale: un capi­ talismo ben identificato in tutte le sue espressioni, che possono anche mutare il nome, come nel caso del neocapitalismo”. Il secondo brano l’abbiamo estratto dalla replica a una domanda ri­ volta a Zavattini (“Crede che sia giunto il momento di affrontare aper­ tamente il problema religioso nel cinema? Quali sono le possibilità e i rischi di una tematica religiosa nei film d’oggi?”) in una intervista del 1966, non meglio identificata: “Per me il momento l’abbiamo perdu­ to, da vent’anni dovevamo aver agito in tal senso. Il problema religio­ so non è uno dei problemi, è il problema fondamentale, sia che lo si intenda in senso politico con riguardo cioè alla situazione religiosa nel nostro paese, sia che si intenda la religione in sé come trascendenza... ... Se faccio un’accusa è che non se ne parla mai. Il cinema dovrebbe affrontare il problema religioso con tutti i mezzi a sua disposizione, compresa l’inchiesta filmata, il documentario ecc., per operare una ve­ rifica, una forma di conguaglio continuo fra religione e storia. Oggi la religione la fanno diventare come il latino, un’imposizione. Manca il mettersi all’origine, il far sentire come è la vita. Questo è un tema me­ raviglioso, il guaio è che nessuno ha il coraggio di affrontarlo. Siamo sinceri: se lei volesse fare alla televisione una sorta di tribuna religiosa, un pubblico dibattito sulla religione, crede lei che glielo lascerebbero fare? Ma neanche per sogno, si teme di turbare le anime. E così tutto

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resta fermo. Occorre arrivare a una presa di coscienza, che significa presa di coscienza della propria anima. I valori della trascendenza so­ no dentro quest’anima, volerlo o no...”. Un altro richiamo è rinvenibile in un contraddittorio fra Zavattini e Carlo Bemari, “La parola e l’immagine”, registrato al Centro cultura­ le “Merolla» di Aversa e riprodotto nel n. 2 dei Quaderni (1975) pub­ blicati dalla suddetta istituzione. La discussione è avvenuta nel perio­ do che va dal 1972 al 1975 e si incastona in una serie di conferenze su argomenti vari tenute da Adriano Bozzati Traverso, Franco Ferrarotti, Ernesto Balducci, Francesco Saverio Gaeta, Giorgio Bocca, Giuseppe Carrieri, Cesare Musatti, Dacia Marami Carlo Sirtorio, Sabatino Mo­ scati, Liliana Cavani, Bruno Zevi ecc.

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Qualità e quantità elitarie

Continuo oggi alla mia età a progettare e a recu­ perare vecchi progetti: per alcuni aspetti sono sem­ pre gli stessi, sempre quelli, ma si animano, stabili­ scono dei nessi, approfondiscono le ragioni di par­ tenza, le prime motivazioni da cui sono nati. Non è immodesto pensare che tutti assieme vengono com­ ponendo un ritratto di un certo modo di vedere e di reagire alla situazione degli intellettuali. Intellettuale anch’io, finisco con l’aver creato un certo modo di reagire e di agire: la mia progettistica mette capo a qualcosa di diverso dai saggi e dagli articoli. Se pen­ so a due intellettuali che nel loro ambito mi sembra­ no significativi, cioè Lucio Colletti e Franco Fortini, devo subito dire che tra me e Colletti, tra me e For­ tini non ci sono stati scambi, non ci sono stati rap­ porti diretti: il loro linguaggio è diverso, ma spesso le esigenze collimano. Io non posseggo il loro linguag­ gio, ma, non assumendo il loro linguaggio, non con­ divido neppure certe modalità interpretative. In un recente articolo sul Corriere (“Per un buon uso del passato”, 20 gennaio 1976), Fortini cercava di stori­ cizzare il comportamento degli intellettuali negli an­ ni cinquanta: la volontà di storicizzare è il loro limi­ te. È curioso che delle persone più intelligenti di me, siano meno intelligeni di me. Sono più intelligenti perché hanno capacità analitiche che io non possie­ do, ma queste capacità analitiche si svolgono nella continuità con un tipo di cultura alla quale basta esercitarsi in una continua ricerca di ciò che è stato, 273

attribuendo quindi alla storia un valore - dal mio punto di vista - arbitrario, un valore nel migliore dei casi di carattere liberale. Mi ha colpito, leggendo il libro di De Felice, [*] il fatto che storiografizzando gli eventi si finisce con rinserirli in un contesto di natura liberale per non dire borghese: gli elementi innovativi vengono assorbiti in un processo di natu­ ra borghese, conservativo, per cui la storia non si rin­ nova dalla radice. C’è una collusione tra questo tipo di intellettuale e l’intellettuale in genere. Più a destra più a sinistra, è la solita figura dell’intellettuale bor­ ghese, caratterizzato dal ripiegamento sul passato, dal ripensamento dei fatti avvenuti, che è una forma di alibi ormai tradizionale che allontana dalT^/c et nunc, dalla milizia, che va dalla cosa più semplice, l’i­ scrizione al partito, all’opposizione ai modi di prima di fare cultura. E i modi di prima di fare cultura so­ no modi di casta, di privilegio, di élite, non turbano questa logica che i liberali hanno consacrato come chiave di volta comunque di ogni azione e di ogni in­ terpretazione, anzi basta l’interpretazione. Ecco per­ ché tu ti accorgi che in loro il concetto di massa è quasi sempre assente, fanno sempre il discorso inter pares. Non li sfiora neanche per scherzo l’idea di do­ ver essere un ponte di passaggio tra due situazioni antitetiche, tra la situazione di oggi e quella futura: e in quanto ponte non possono mica usare gli stessi metodi ragionativi che hanno usato fino ad ora, de­ vono mettere in mora la loro supposta superiorità che non è servita a raggiungere risultati solidi, consi­ stenti. Nel riconoscimento della loro deficienza è na­ to tuttavia un elemento in più di conoscenza, che non è un elemento di continuazione con quello che hanno fatto fino ad ora ma addirittura un elemento 274

di negazione di quello che hanno fatto fino ad ora. Nella loro affermazione si servono di essa per arriva­ re alla negazione di una concezione di vita: l’ultimo atto dell’intellettuale sta nell’accelerare i tempi della sua sparizione per accelerare i tempi non dell’appa­ rizione di un intellettuale diverso ma quella di un uo­ mo che assorbe in sé le caratteristiche dell’intellet­ tuale. Scompare il rapporto massa-intellettuale. La massa diventa élite non nel senso che fino ad ora si è inteso, ma come ricongiungimento alla qualità élitaria dell’uomo. Fino ad ora le élite hanno tradito il lo­ ro compito per secoli e secoli: in fondo nascevano come reazione alla condizione ilotica, e fin qui sta bene. Se io rifiuto la condizione ilotica e cerco di er­ germi al di sopra di essa, al di sopra delle condizioni date, questo allora non può essere un momento acci­ dentale, ma un momento fondamentale. Il mio com­ pito, il mio primo compito è quello di rifiutare me stesso: provocare a catena una serie di liberazioni che provocano altre liberazioni in un crescendo di progressione geometrica che provoca il movimento di trasformazione. La qualità élitaria ha per funzione di diventare quantità élitaria perché altrimenti non giustificherebbe neppure la sua preminenza spiri­ tuale, risolvendosi in un altro abbiamo il potere e lo conserviamo. Cosa c’entra tutto questo con Zavattini? C’entra anzitutto perché lo dico, ma anche perché nei con­ fronti di una concezione così suggestiva come quella che sto contestando so di poter essere chiarissimo, di poter andare fino in fondo: mi sembra che una con­ cezione come questa sia ormai in una posizione di stallo. Io, privo del linguaggio di quelli che sto con­ testando, credo che al di fuori di una concezione del 275

genere della cultura e dell’intellettuale ci siano valo­ ri consistenti, valori che è tempo di prendere in con­ siderazione. Finisco sempre con il sentire il fascino discreto e indiscreto della filosofia, ma direi il fasci­ no della filosofia organizzata: la filosofia come moto dell’uomo è l’insopprimibile esigenza, e di questa fi­ losofia fa parte la negazione e l’affermazione, fa par­ te quello che dicono i miei amici che contesto e quel­ lo che dico io in questo momento. Non posso mica negare al mio modo di reagire una natura riflessiva, filosofica: anche se, naturalmente, c’è Aristotele e c’è il filosofo da caffè. La grande lotta è perché non ci siano questi estremi, quella soluzione di continuità che riguarda la natura dell’uomo, non la filosofia. E questo è il mio ottimismo che contrappongo al mio stesso pessimismo, secondo il quale nessuna delle forme filosofiche vigenti ha gli elementi per fare quello che la situazione attuale richiede. Dico filosofia, ma potrei anche dire arte, perché anche questa rientra nella struttura élitaria; è vero che l’arte ci dà prodotti tra i quali c’è gerarchia. L’er­ rore è confondere questi valori, che hanno rapporti con la storia, con valori assoluti. L’arte di Michelan­ gelo non è qualcosa di assoluto e di originale, ma è una forma di comprensione e di interpretazione del­ la realtà. Questo dell’arte è un tema che mi sta mol­ to a cuore, e ormai da parecchio tempo: proprio l’al­ tro giorno, mentre cercavo di chiarirmi alcuni pro­ blemi, mi sono trovato che stavo scrivendo senza quasi essermi accorto di aver cominciato e ho scritto dieci pagine contro l’arte. Il discorso è grosso. E chiaro che intendo parlare della struttura societaria dell’arte, perché è la struttura societaria dell’arte che è totalmente negativa. Il rapporto con l’arte è molto

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negativo anche nell’ambito della cultura di sinistra. Chi è all’opposizione rischia sempre di credere nella sublimazione mentre invece in questo modo rischia di fottere l’elevazione delle masse. E l’elevazione del­ le masse è più importante, tanto importante che può darsi che occorra rinunciare all’arte perché ci si può esprimere in altro modo, con la vita. Se penso al pro­ getto dei“Dieci libri-base”, mi accorgo che parte dal presupposto che gli uomini non sono uguali, ma ten­ dono ad esserlo, non sono uguali perché hanno di­ versi ingredienti, diversi cibi, eccetera. Non me ne frega niente che diventino Michelangelo, perché ne sento l’inutilità immanente, diventa cancrena anche lui. Sembra impossibile che un fatto così sublime di­ venti cancrena, eppure si tratta di tutta una serie di connessioni e di collegamenti, di conseguenze e di ri­ sultanze accumulate in migliaia d’anni come i coral­ li. E ad un certo punto capiamo che con Michelan­ gelo siamo fottuti. Nessuno ci ha detto che il fatto ar­ tistico si deve esprimere in cattedrali, statue, pitture. Ma ci siamo così abituati che per ipotizzare un mon­ do che non si esprime in cattedrali, statue, palazzi, pitture, poesie, narrazioni ci vuole una tale forza di fantasia alla quale non siamo allenati, in quanto noi siamo allenati ad ipotesi di lavoro proprio in quella direzione lì. Siccome io la nego quella direzione lì, non mi resta altro che sperare che siamo già tutti ar­ tisti, che possiamo trovare altrettanti equivalenti so­ ciali, che possiamo scatenarci in questa direzione nuova, perché cattedrali, statue, pitture eccetera so­ no il prodotto meraviglioso di una situazione non meravigliosa. Perché una situazione per quanto non meravigliosa produce sempre prodotti meravigliosi, non parlo dell’artista ma dell’uomo. Sono qualità,

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dolore, pietà, solidarietà eccetera, sono qualità straordinarie precedenti la utilizzazione che ne è sta­ ta fatta nell’ambito delle strutture sociali. È chiaro che mi riferisco alle qualità precedenti ogni utilizza­ zione o inserimento nel quadro delle strutture socia­ li (e in questo momento non mi importa che queste qualità siano native o siano frutto di uno sviluppo, perché anche quelle native possono essere in qual­ che modo il risultato di uno sviluppo, oltre ad essere a loro volta motivo e fonte di sviluppo). Naturalmente, questi problemi grossi, questi temi di carattere generale non sempre sono immediata­ mente presenti nei progetti che ho via via avviato e messo in moto. Quando attraverso un’idea elemen­ tare, perfino demagogica come può essere 1’“Italia che ride”, mi sono proposto di stimolare il fatto po­ polare, probabilmente non avevo in mente le consi­ derazioni, o tutte le considerazioni che ho svolto ora. Ma nei vari progetti sono immanenti molti motivi, motivi di varia natura che portano verso queste con­ siderazioni: naturalmente, ci sono anche motivi che io magari non ho neanche pensato quando ho avuto quell’idea. Non solo non ho mai negato di essere un tipo fondamentalmente individualistico, ma devo anche aggiungere che sono cresciuto con l’ambizio­ ne dell’arte, dell’inquadramento storico, di storia della letteratura, di storia dell’arte: ma non ho perso di vista e non perdo di vista anche tutto quell’altro lato, quello della storia-qui-e-ora, dell’uomo come insieme di circostanze obiettive che è stato sacrifica­ to, che doveva uscire orizzontalmente e invece è uscito a viottoli. Doveva uscire come pianificazione dell’animo umano, sappiamo i risultati della subli­ mazione di pochi, li abbiamo consumati tutti, obbli­

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ghiamo quelli che hanno bisogno di un altro tipo di alimentazione a consumare i prodotti nostri, prodot­ ti già consumati. È un’opera di corruzione, e che opera di corruzione. Leggevo l’altra notte nel Socrate di Adorno una pagina notevole sul "non scrivere” che mi pare at­ tuale, molto vicina a certi discorsi che ho fatto e con­ tinuo a fare anch’io. Il mio rapporto con i testi e i di­ scorsi concettuali è abbastanza complicato perché nell’elemento concettuale io introduco sempre un elemento drammatico, non mi rovescio tutto nel concettuale, mi frena il senso della drammaticità, che certamente possiedo assieme a tutta una carica immaginativa per cui i soggetti, anche uno al giorno, non mi venivano e non mi verrebbero difficili. Il pa­ radosso può consistere nel fatto che io sono contro la narratività, mi sono battuto contro la narratività. Questo è un altro problema. Ma ora mi chiedo come mai tanto sapere queste cose non è servito un cazzo. Allora c’è un difetto. Ma ad un certo punto arriva Hegel, arriva Marx e sembra che i problemi siano ri­ solti. Come nell’arte metti un quadro bianco e puoi credere di aver fatto una rivoluzione: sono rotture che non sono rotture, rotture che non escono dalla galleria. H nuovo non è come la verità che è sempre rivoluzionaria, il nuovo non è sempre rivoluzionario. La verità è sempre rivoluzionaria, noi non la cono­ sciamo ma tendiamo a conoscerla, ma tutte le tra­ sformazioni nel campo dell’arte le possiamo preve­ dere, possiamo essere profetici, come in laboratorio possiamo accelerare certi processi. Che l’arte si tra­ sformi, che ci siano per quanto riguarda l’arte tra­ sformazioni in libreria e in galleria non mi interessa. Siamo d’accordo che ci sono dei collegamenti, delle 279

inferenze, delle connessioni per cui anche queste tra­ sformazioni, queste modifiche, questi rinnovamenti si legano poi al resto: siamo d’accordo ma non siamo d’accordo più, perché ci vogliono ormai altri mezzi. Altri mezzi che vanno oltre la narratività, la dram­ maticità borghese. So che avrei potuto andare avan­ ti per molto in questa strada, nella strada della dram­ maticità borghese. La drammaticità della borghesia. Penso talvolta che ho abbandonato una grossa possi­ bilità di successo, ma non mi dispiace se vado a fon­ do in quest’altra cosa qua.

Conversazione con Orio Caldiron, 23 febbraio 1976. Inedita.

* Renzo De Felice, Mussolini il duce: gli anni del consenso, 1929-1936, Einaudi, Torino 1974.

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Se fossi il padrone della tv

Sarò breve: se fossi il padrone della tv, spalanche­ rei le porte di via Teulada almeno una volta al mese, avanti, avanti, avanti, e lascerei che chiunque appa­ risse sul video a modo suo, chi con un turacciolo sul naso, chi in pigiama, chi urlante, chi solo, chi con i coinquilini o i compaesani. Fate, dite, liberatevi dai complessi d’inferiorità alimentati proprio dalla tv stessa in tutto il mondo. Mi spiego: il pubblico gira un bottone e si trova di fronte a cose meravigliose, tutto è meraviglioso. Senza avere il coraggio di dirlo, pensano i teleabbonati: e noi non siamo meraviglio­ si? Si sentono derelitti mentre vanno a letto dopo che il puntino luminoso sul teleschermo ha dato l’ul­ timo segno di quel regno precluso: e certe facce lun­ ghe, che si vedono dopo questo o quello spettacolo, non esprimono come si crede giudizio sullo spetta­ colo in sé, ma soltanto questo patetico: e noi? Tutti bravi e famosi lassù, lucidi, allegri, si amano tra loro là; dentro al video si danno del tu, attori, principi, ministri, cordiali manate sulle spalle, e mai può dar­ si che affacciandosi si scorga qualcuno di quegli eroi che passa sotto la nostra finestra, e magari scivoli. Non scivolano neppure se gli butti banane tra i pie­ di, non hanno mai dispiaceri, problemi col fisco. Esagero, lo so, polemizzo. Ci sono anche in quel pic­ colo riquadro dei feriti, dei morti, dei sofferenti. C’è la cronaca insomma; ci sono dei primi piani di dolo­ re, di pena, d’ingiustizia, lo so, ma ci capitano sotto

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l’occhio talvolta mentre a tavola si sta dicendo alla moglie che la bistecca non è cotta abbastanza. Proibirei perciò di vedere la televisione mangian­ do. O avvertirei prima (con un annunciatore serio, “smettete di mangiare”. Si nascondono piatti, bic­ chieri, si manda giù l’ultimo boccone in fretta come un peccato, e si sta in seria attesa anche se ci siamo dimenticati di toglierci il tovagliolo). Un’altra cosa farei: proibire certe finzioni. Quegli operai obbligati a fìngere di essere colti di sorpresa dal microfono. “Lei che cosa ne pensa del tempo libero?”. Si vedo­ no operai che stanno lavorando col terribile martel­ lo pneumatico e che si voltano con un sorriso e con la risposta pronta, come se essere interpellati a tutti gli angoli di strada da estranei sui problemi più seri dell’epoca sia per uno spazzino o per uno sterratore la cosa più quotidiana. Orbene in tal modo si cor­ rompono le macchine, che sarebbero poverine per loro natura sincere; corrompere un usciere, non so, è nella tradizione, ma corrompere un cavo, un obietti­ vo, un microfono, un carrello non si dovrebbe, sono indifesi e disposti a lasciar vedere tutta la verità, solo la verità, cioè quel facchino, quel tramviere, colti di sorpresa che balbettano prima di rispondere e devo­ no pensarci su. Avete notato che nessuno ci pensa mai su? Parla­ no tutti senza esitazione e senza silenzi, in Francia in Germania e altrove. Come sono belli invece i silenzi. Il teatro moderno è riuscito a portare il silenzio in primo piano, un silenzio di un quarto d’ora io l’ho visto in quel Living Theatre-, invece sul video è come per le telefonate interurbane, si ha una misteriosa paura di fermarsi, da avari, bisogna parlare; come una mitragliatrice: ma come fanno tutti ad essere co282

sì sicuri? Non hanno dubbi. Ah, se fossi io il padro­ ne, farei la mia brava settimana del dubbio, la bella annunciatrice che dice: “Forse alle 20.30 trasmette­ remo...” E l’annunciatore: “Ma...”. E non gli cavi fuori una parola per un’ora; e stiamo lì quieti a guar­ dare, a riflettere un po’. Ma cerchiamo di fare qualche proposta concreta. Che cosa direste di un canale che consenta di met­ tersi in contatto quando si voglia, all’improvviso, con il Parlamento e con il Senato? Cioè, io schiaccio un bottone, e ecco un deputato o un senatore, vedo che cosa fa in quelle aule solenni, quasi che cosa pen­ sa; lo colgo di sorpresa, lo sorveglio insomma e così mi sento responsabile quanto lui dei destini della no­ stra patria. E se non c’è nessuno? Medito. Mi piacerebbe, poi, estrarre ogni giorno a sorte un italiano: sarebbe la regolamentazione democrati­ ca dell’anarchico inizio di questo scritto. Mezz’ora, un italiano dice i suoi desideri, i suoi sfoghi, 365 ita­ liani all’anno, ogni mattina. Ma devo dire che sono i bambini, i ragazzi cui an­ drebbero le mie prime cure. Macché i maghi, i lu­ strini, il pargoleggiare. Vedo proprio i nostri più grandi uomini, poeti, scienziati, anziani di preferen­ za, che almeno una volta alla settimana parlano coi milioni di bambini, di ragazzi italiani e dicono: “Quanto io so, giunto al sommo della mia vita, è questo!”. Ci vorrebbe una spaventosa ipocrisia a non comunicare integralmente alle nuove generazio­ ni il po’ di verità che si conosce, anche se tra qualche anno non sarà più tale. Nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo dell’Onu ci sono i dieci diritti del fanciullo; è un testo esemplare, ma ci manca l’undicesimo, quello di co­

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noscere, ripeto, quel po’ di verità che la mensa del tempo offre. Provate ad immaginarvi l’avvicendarsi dei vecchi, diciamolo, vecchi e famosi, che rispondo­ no tra l’altro alle domande dei minori di quattordici anni senza fare la voce falsa dei pedagogisti, dicono proprio quel che sanno, perfino le delusioni. Ai giovani domanderei qualche particolare, nuo­ vo contributo. Che ne direste di una giovane cavia? I nostri giovani hanno detto alla tv, che in proposito vanta un primato, cose molto serie. Ne prenderei imo, di quei giovani, e la macchina da presa lo segui­ rebbe costantemente, 24 ore al giorno. Perché vor­ remmo vedere come in vitro il fenomeno del cam­ biamento come talvolta avviene che i giovani, andan­ do avanti con gli anni, perdono lo smalto, la memo­ ria di ciò che si sono chiesti con tanta passione per cui c’è da temere vi possa essere uno scarto tra i loro profondi interrogativi del 1967 e la risposta che ne daranno, mettiamo, nel 1970. C’è un giovane che si presta? Ma in fatto di giovani, penso naturalmente con trepidazione ai cineamatori. Sono milioni, a 8, a 16 millimetri, che bisogna togliere dall’ignavia o dalla vocazione che chiameremo turistica. Abbiamo tutti auspicato per anni e anni che la macchina da presa potesse andare nelle mani di tutti, ci pareva che quando questo si fosse verificato avremmo assistito ad un processo critico senza precedenti, a un balzo come fo dal sistema tolemaico a quello copernicano. Invece siamo rimasti alla ripresa dello zio che fa il pediluvio, nei casi migliori a colori. Forse la causa è che a queste pecore sparse mancano i buoni pastori; la tv dia un tema, un tema che li rianimi, che dia lo­ ro la libera coscienza del mezzo, una specie di con­ 284

corso permanente, che sfogo sarebbe, e il tema l’ho qui sulla punta della lingua ma non vorrei sembrare invadente (in un orecchio; ogni tema vale, se lo spiri­ to che lo informa vale). A me vanno a genio i concorsi, lo avevate capito. Per questo un concorso tv chiamato Italia che ride lo ordinerei issofatto. Una gara tra le provincie. Scom­ metto un milione contro diecimila lire che in qual­ siasi frazione di mille abitanti si possono raccogliere tanti aneddoti degni di essere resi noti. Sembra che oggi in Italia si possa ridere solo di quello che dico­ no i comici. Che non si rida più in proprio. Io provai dieci anni fa in un paese a grattare un po’ di abitanti e vennero fuori quaranta storielle che il più autore­ vole giornale italiano pubblicò! C’è un’Italia sotto la cenere, piena di umore e di satira, coi suoi rustici e spregiudicati protagonisti, mi divertirei follemente ad ascoltarli nelle loro sedi. Con questi progetti, il mio governatorato passe­ rebbe alla storia con la qualifica di populista. Lo so. E me ne vanto avvertendovi che imporrei anche la Lotteria Nazionale dell’Arte, altra mia antica fissazio­ ne, sia detto tra noi. Vorrei che trentamila quadri al­ l’anno entrassero in tal modo nelle case. Sarebbe una rivoluzione nei rapporti tra arte e pubblico, l’arte stessa sarebbe influenzata nella sua formazione. Ma ne parlo a lungo in altra sede (ah, raccontare la storia dell’arte come un giallo e inaugurare la tv a colori). Tra i premi comunque ci metterei anche dei buoni per ritratti e affreschi. Se uno ha un debito, può il creditore venire a staccare dal muro l’affre­ sco? Lo vieterei per legge. Instituirei al volo una tribuna culturale. C’è quel­ la politica? Benissimo. Perché non deve esserci quel­ 285

la culturale? Perché non devo sapere che cosa pen­ sano i nostri maggiori scrittori e scienziati sui fatti più importanti del giorno? Sarebbe utile, rivelatore, saggiare questi fatti con un linguaggio che non ha niente di comune col solito e tuttavia non è meno re­ sponsabile. Io voglio degli specialisti in uomini. E magari li inserisco nel telegiornale. Al telegiornale intanto darei quattro ore al giorno! Anzi, per me la tv dovrebbe essere tutto telegiornale. Con ingredien­ ti inattesi ma funzionali, per rivelare componenti di quell’avvenimento sfuggite fin qui e la correlazione tra cinema e storia, un’inchiesta permanente insom­ ma che accresca il flusso e il riflusso tra la base e il vertice. Evviva, mi è uscita una frase da articolo di fondo. Devo concludere, peccato, come ci si diverte a fare il dittatore. Fatemi conoscere l’Italia, direi, me­ tro per metro. È così lunga. Me ne date dei pezzet­ tini, specie con l’intervallo, grazie, ma si ha l’idea un po’ di un’Italia abitata da un solo cittadino, l’i­ spettore ai monumenti. Manderei in giro i registi a frotte, fatemi vedere Milano per mezzo di Visconti, Rossellini a Roma, De Sica a Napoli, Germi a Ge­ nova, Lattuada a Marsala (non mi si chieda il moti­ vo, comando io), ci sono venti registi tra vecchi e nuovi che scoprirebbero l’Italia (quante volte l’ho detto?), Antonioni a Ferrara, Fellini a Rimini, Blasetti a Fregene e Bolognini sul monte Bianco, Da­ miani subacqueo dentro il golfo di Sicilia e Monicelli con l’elicottero, e quanti me ne dimentico, Bel­ locchio a Piacenza, Bertolucci a Parma, Brass a Ve­ nezia e i nuovissimi dove vogliono. Si dirà: ma la­ sciali alle loro fantasie, alle loro favole dalle quali è uscito e continuerà a uscire ugualmente un luogo

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più reale del reale, non è vero? Vecchie questioni. Ma rispondo rispettosamente di no.

Da una puntata della trasmissione radiofonica, Voi ed io, Rai, Radioli­ ne, ottobre-novembre 1976. Antologizzato in Zavattini mago e tecnico di Giacomo Gambetti, Ente dello Spettacolo, 1986.

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Non teatro

... Circa il capire, al mio paese mi sarebbe piaciu­ to dare l’avvio anche a un’altra delle cose che non farò, si chiama Non teatro. Risale agli anni Sessanta. Basta un nucleo di tre o quattro cinque persone con­ genialmente associate. Tutto fuorché attori. Il tema è la situazione del giorno. Perché il giorno prima o il giorno dopo? Vogliamo capire adesso. Apriamo il giornale, quindi, davanti a un pubblico poco o no in questa stanzetta dove ci saremo riuniti con qualche compaesano o in qualsiasi luogo, senza preclusione di nessun modo espressivo e di quelle collaborazioni che emergeranno nello svolgimento del discorso, as­ sassini, evasi, prostitute, notai, levatrici, scienziati, ogni cosa o persona chiamata stupidamente pubbli­ co e convenuta per cercare con noi di capire di più subito. Nessuno sa a che cosa porterà questa specie di esame della giornata. L’intento sarebbe: diminuire il troppo tasso di ignoranza, che è tanto grande da impedircene una seria constatazione. Siamo presi tutti di contropiede, e specialmente il proletariato, dagli avvenimenti. Se tiro un sasso contro un sopraf­ fattore, sbaglio direzione essendo pieno di dubbi, la mano trema, anche se dico: no. Il mio avversario di­ ce sì invece. Tutto scivola come unto, le parole e i fat­ ti, che sono qualche volta le parole (perché qualche volta?). La nostra conversazione del non teatro può avere coincidenze formali con il teatro, in quanto non rifiutiamo nessun linguaggio, nessun mezzo per scambiarci le nostre domande, le nostre afferma289

zioni per capire subito. Hanno creato perfino degli slogan più raffinati di questo schematico avverbio. Subito, significa per lo meno ammettere che il teatro è sempre dopo. La conversazione si manifesta come dialogo lì, o dialogo mosso, che può portarci fuori dalla stanzetta, col ritmo e i dislocamenti insiti nello sviluppo del dialogo e nostro volere renderci conto. L’articolo di fondo del giornale diventerà insop­ portabile come il teatro. Esso si ammanta di un sa­ pere sempre sfasato rispetto agli avvenimenti. Avete mai pensato a raccogliere una ventina di giornalisti, Ì più stimati, un’altra ventina di sapienti? Non risolverebbero. Dal che si evince che la verità sta fuori da quel cerchio ragionativo, e non può essere altrimenti essendo ciascuno di loro tributario della cultura di pochi, anche chi ne avversa i nefandi ri­ sultati. Non vorrei immaginaste che il non teatro, queste conversazioni, richiedono meccanismi, dana­ ro. Contentiamoci di un po’ d’ordine, che non ha molto da spartire con l’ordine che ha fama di unire i dissimili, di sanare gli opposti, come l’arte. Ma si conformerà - si inventerà - via via per le necessità di svolgimento del discorso. I quattro o cinque che hanno costituito il gruppo non dispongono che di una macchina da scrivere per qualche ciclostilato, un registratore, una macchinetta fotografica, proprietà del gruppo. Ma se sul serio si è decisi a ragionare, una fotografìa qualsiasi, se rispecchia un fatto nega­ tivo del passato che ci indigna, calma, signori, sarà sufficiente per riconoscere che siamo così arretrati da non aver colto la insopportabilità di quei gesti, e allora che cosa c’è di insopportabile in quello di cui il giornale oggi parla? Ci sforzeremo di comprende­ re come mai malgrado tutto lo sopportiamo. Siamo

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troppo invischiati nella cultura dei pochi, questo è un timido tentativo per uscirne. Se ci convinceremo durante le nostre conversazio­ ni che siamo uguali, è la rivoluzione finalmente. So le sghignazzate culturali. Arriva lei, aspettavamo lei per svelarci l’uguaglianza! Ma lasciate stare Cristo che almeno a metà era figlio di Dio. E poi l’uguaglianza diventa la chiave, dimostrato a noi stessi che non c'è anima viva che non sia in grado di provare in proprio la strabiliante varietà e altezza della nostra razza, va­ ria e alta nell’uguaglianza. Solo degli illusi come gli artisti possono credersi irripetibili e ne accettano la conferma da chiunque in qualche modo li onori, ci lasciamo cuocere come zamponi nel brodo della va­ nità. Finalmente abbiamo un principio attivo da se­ guire (al pensiero, che non è pensiero, cosa costa di­ re che siamo uguali?). Attivo, che sconvolge radical­ mente la prassi. Qualche vittima, qualche vittimone, ci sarà che dirà: uguali sì ma. Nei ma anziché salvar­ si affoga. La rivelazione dell’uguaglianza fa crollare ogni ma. O si è o non si è uguali. L’educazione, nel prendere in forze questa strapotente uguaglianza il cui uso darà sommandosi in ciascuno e scambiando­ si con tutti dei risultati che per ora possiamo appena appena intrawedere. All’ingrosso, è come un eserci­ to di zoppi, di guerci, di afasici, di spaventati che si mette in moto risanato. Non per fare dei quadri, per scrivere dei poemi, spero non ci siano più obiezioni in proposito. Sono ovvio, confuso? Non ho nostalgia della non ovvietà e della chiarezza anteriori. Cosa ne ricavavo? Si potrebbe dire che mi sono accorto della mia ar­ retratezza solo quando presumevo a torto di esser­ mene liberato “scrivendo qualche cosa di buono”.

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Ma ho fatto il discorsetto sulla fotografia? La foto­ grafia di un massacro, uno dei tanti. Questa fotogra­ fia ci aiuterà a prendere atto che in effetti non rifiu­ tiamo la storia, la subiamo. La differenza tra l’imma­ gine e l’accaduto non ha più senso. Il teatro, dirò di passata, è troppo creativo rispetto alla vita. Abbiamo bisogno di meno. Non mi muovo da qui, vorrei con­ cludere, se non ho capito questa vecchia foto, e non ne ricavo un’azione immediata. Tireremo le cuoia nella stanzetta. Troppo comodo proporci altro. Vi vantate della novità in sé e dormite tranquilli. Mi an­ noio a vedere mutare i costumi sul palcoscenico, me­ no se vado a prendere possesso del Quirinale o dei Palazzi Vaticani vestito retroattivamente come colo­ ro che quell’idea cento anni fa promossero e non realizzarono per lo stesso motivo che noi oggi non realizziamo ciò che dobbiamo. Continua cioè l’orgia dei due tempi, quello del non fare e quello del pen­ tirsi di non aver fatto, poi ci sono gli “storiografi”, gli storioni, che rendendo tutto solenne mi hanno con­ vinto che la storia non c’è, perché se c’è essi mi co­ stringono a riempire di valori persone prive partico­ larmente del senso dell’uguaglianza. Il regista, il ca­ po dello stato, del governo, di qualche cosa, in que­ sta dualità, è diventato il confessore e i rimorsi si ac­ quietano impartendo indulgenze se hai del talento (che è una entità a sé stante anche esso). Gli spetta­ tori sarebbero altri. Noi però a cazzo moscio, e con delle erezioni da non prendersi troppo sul serio. Li abbiamo sacrificati per sempre col chiamarli spetta­ tori, malgrado certe partecipative confessioni anch’esse concepite e consentite dai pochi. Una volta c’erano le filodrammatiche in tanti paesi e anche a Luzzara e le gestiva la piccola bor­ 292

ghesia, che non è una categoria equivoca, è la cate­ goria di quelli che non sanno cosa vogliono e per­ tanto vorrebbero tutto accampando diritti uno a uno. Ci si prefigge di mettere in moto delle filo­ drammatiche dal basso? No, proprio no. Può capita­ re che si spari anche, nel corso del dibattere e non per un preconcetto credere nella fatalità della vio­ lenza. Esattamente l’opposto. La violenza non verrà dal ragionamento, ma da chi lo impedisce quotidia­ namente. Io sono quotidiano e anche voi. Ma conti­ nuiamo col non teatro. Ogni nostro gruppo di lavoro sorgerà allo stesso modo? La stessa causa, poi si vedrà. Lo sviluppo e la verifica del conoscere e conoscersi avrà sorprenden­ ti aspetti per differenze ambientali, temperamentali, provocazioni sociali locali e oltre. Chi disporrà di più strumenti, chi di più circostanze favorevoli o sfa­ vorevoli, chi di più “fantasia”. E siamo giunti a uno degli ingredienti considerati sacri, accaparrato dal­ l’arte della quale il teatro è senza dubbio imo dei più ufficiali fruitori. Non a torto. Malgrado queste mie considerazioni assai opinabili (è la mancanza di co­ raggio che mi rende tanto modesto?) farei volentieri la coda per avere un posto in un anfiteatro o in una cantina, dovunque lo spettacolo operi. Mi diverto follemente. Sono io pure compromesso con queste meraviglie. Che si mordono gloriosamente la coda nella loro fase mortale. Ma non per una crisi che lascerebbe come sempre adito a resurrezione del me­ desimo Lazzaro. Non c’è niente di miracoloso e niente di teatrale nella crisi che chiamiamo somma, che non c’è se non la riconosciamo come parte della crisi e addirittura dello spirito. Se ci sei, batti un col­ po. Può non essere in crisi il teatro e essere in crisi il 293

pensiero, la logica, la fantasia senza virgolette? Sta­ remmo precipitando? Meno il teatro perché la fantasia lo salva. Quale fantasia? È la stessa del regime impe­ rante, né può non essere. La fantasia salva troppe co­ se sublimi e non il corpo. H teatro ha una sua incor­ poreità quanto più è teatro, e la fantasia diventa sud­ dita quanto più la si privilegia. La fantasia della qua­ le ognuno è il portatore più ambizioso fin dai giorni del creato ha strumentalizzato se stessa e si program­ ma dentro queste mansioni. È defunzione supporre un avvenire di secoli e secoli nel quale il suo proce­ dere più egregio seguita nell’impiego nobiliare del teatro (con la sua propria “fantasia” poi!). Il teatro di massa incula la situazione riducendo a presunti in­ terlocutori tanta gente che per vocazione storica non dovrebbe esserlo, anche se non se ne rende conto. Il teatro non ci sarà più allora? Che cosa ci sarà al suo posto? Lo ignoriamo per fortuna. Non ignoro che i gruppi di non teatro possono intanto trovare e susci­ tare in un piccolo paese dei contatti imprevedibili ogni notte d’inverno oltre che di mezza estate sul fi­ lo del sapere subito col contributo di una macchina da scrivere, ho detto, una polaroid, un altoparlante, ma sì anche teatro, ma si lo abbiamo ammesso poco fa, certi reperti del teatro chissà come assunti, o del cinema o di ciò che l’uomo e non altri ha accumula­ to senza fruirne conseguentemente, ma non a priori bensì assunti come parti della proposizione, come ingredienti logici. Ma temo di aver lasciato credere che abbiamo tanta urgenza di ulteriori notizie. Ab­ biamo solo bisogno di appropriarci meglio di quelle che abbiamo e si svolgono sotto i nostri occhi (pen­ sare meglio significa pensare subito) e consentitemi un po’ di orgia delle ripetizioni: il gruppo del non

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teatro una sera potrà stare nel suo guscio, ci saranno solo i vicini di casa, e un’altra sera trasferirsi in cano­ nica o dove chiamano materiali più caldi rispetto al tema scattato, seguire anche fisicamente l’iter reale della conversazione. Non tutti chiuderanno i porto­ ni in faccia se andremo a bussare. Anche se non si sparge una goccia di sangue e non si contravviene al­ le leggi, potremo essere definiti degli eversori e chia­ meranno il 113. Non manca quindi del rischio (sa­ rebbe istruttivo riesaminare con la cartina di torna­ sole del rischio l’ultimo mezzo secolo morale e poli­ tico italiano). Nel dipanarsi della conversazione pos­ sono accendersi incidenti, tutt’altro che programma­ ti, la varietà degli apporti e la loro gravità, specie al primo impatto, non saranno tranquilli, siamo così poco abituati a ragionare, il ragionare non è sempre sinonimo di tranquillità. Si tenga davvero conto che ci saranno ladri, omosessuali, preti, madri, donne in­ cinte, deputati, soldati, non è un elenco improvvisa­ to, e quanto unisce gente così eterogenea è la neces­ sità di considerarsi ansiosi, alla pari, di giudicare e essere giudicati subito. Potremo andare a Napoli, a Torino da Luzzara se il discorso ci porta a Torino? Si confedereranno anche le spese. A che valgono le ipotesi con il nostro tipo fallito di intelligenza e di “fantasia” gestita da pochi? Magari non si andrà a Napoli, ma a Corleone, per impiantarvi un gruppo se non c’è già. E se non si può, raggiungiamo Corleone con circuiti audiovisivi lettere ciclostilati che sono ipotesi scaturite nella stanzetta palcoscenicamente, avverbio che vuol solo ribattere che nessuna esperienza è esclusa, né di freddo intelletto né di col­ pi di scena, purché sorta nel corso dell’indagine, pro­ mossa dall’indagine, innestata lungo l’asse dell’inda­ 295

gine, è l’indagine stessa. Abbiamo seri sospetti perfi­ no nei riguardi delle canzoni contro. Il contro è sem­ pre più globale, determinando non l’abolizione del canto, certo, ma l’abolizione del suo uso attuale che diventa un’oasi. Può sembrare, se accendi un rogo, che scena!, che il teatro cacciato dalla porta rientri dalla finestra, si ripristinano le vecchie regole del giuoco. Può sembrare. Ogni sera si cambia “spetta­ colo” effettivamente perché Paver cominciato a capire significa un voler capire di più, con le richieste via via emergenti. H voler conoscere chi è il colpevole (posso essere io) non è un giallo solipsistico ma col­ lettivo in quanto siamo uguali, e è giunta l’ora di esaltarcene (per esattezza, vogliamo essere uguali es­ sendolo già), e chi lo procrastina è un figlio di putta­ na che sarà punito (dopo che gli avremmo fatto toc­ care con mano che le sue vittime erano uguali a lui come gocce di acqua). Mi accorgo che adopero espressioni di quando propagandavo solitariamente i cinegiornali Uberi, oppure il progetto di un metro di libri in ogni casa per dare un umile contributo alla gente di scrollarsi di dosso quello che gU abbiamo insegnato. Eviden­ temente, un qualche mio associazionismo devo aver­ lo assorbito dai posti natali, chissà per quaU canali, mi piacerebbe saperlo. Ce riè, a ogni modo, da fare del lavoro in ogni piccolo luogo. I giovani si facciano su le maniche, entrino in ogni casa, nelle scuole, col presupposto che urge dirottare da una cultura che non esiste più e forse per questo ci sevizia. Si posso­ no solo commettere defitti perciò di estrazione ma­ sochistica o sadica. Questi benedetti intellettuali fanno un mestiere che non c’è più. L’inattualità è del resto un crimine. Ma i partiti come vedono la

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faccenda? Penso che siano gli artisti casomai a met­ tere i bastoni fra le ruote. Sono i più arretrati. Non vogliono rogne. Arte, vogliono arte, arte. Vogliono che diventiamo tutti artisti e sulle loro orme. E un programma infernale. Tutti possono scrivere, dipin­ gere, non c’è dubbio, fare dei capolavori come fece­ ro i sommi, sarebbe sufficiente una generazione o due o tre per tirar fuori da tutti cappelle sistine e partenoni e vitenove aggiornati previo un po’ di al­ levamento, mostrato che quelle singolarità si mani­ festarono e non potevano manifestarsene altre e al­ trimenti in quel concerto, e che più sarete consape­ voli di voi supremi meno vi verrà la voglia di appar­ tarvi per creare e fare del vostro carattere materia di leggenda in quanto “autori”, saremo autori all’aper­ to, sempre, senza rattrappirci nei sindacati, ma una civiltà della uguaglianza abolirebbe queste soprav­ vivenze costrittrici. C’è ben altro e siamo così malri­ dotti, come un pollo alla diavola, pesti, che più lo spazio davanti è grande, più non osiamo avventurar­ ci. Proseguiamo. Ciascun gruppo, gruppetto, grop­ pone si organizzerà per entrare nei quartieri e nella scuola anche per vie eteree e ci sarà uno scambio fra l’altro dei risultati via via raggiunti tra Luzzara Lam­ pedusa e Bolzano, una osmosi creatrice in crescendo tra promotori e promossi, e si “annunceranno” in­ terventi come i testimoni di Geova ma Dio non c’en­ tra, lui sta con chi persiste nel differenziarsi. Sono pertanto cazzi da pelare se non vogliamo più correre a tappare falle a poppa, a prua, nella cambusa, in una nave che affonda tutta. Il caso per caso fa scal­ pore nei rotocalco. Basta una idea a salvarci contem­ poraneamente, ma non falla per falla, non imbro­ gliamoci più coi pronti soccorsi, coi giovani nei par­

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chi col membro ritto e levo il cappello al membro per l’enorme rispetto che merita, probabilmente è Dio, ma finiscono con l’impallare il bosco delle vere urgenze del 1976, fra le quali V uguaglianza emerge. Certo che si può partire da qualsiasi punto del gior­ nale di stamattina per cominciare a capire. Impian­ tiamone tre quattro di questi nuclei di sorprendente fatica e di poco costo? Uno, due, tre. Per voler sape­ re a Luzzara coi luzzaresi, a Gravina coi gravinesi e poi raccordare Luzzara Gravina e il supramonte. Ci sono tre o quattro anni di lavoro capillare prima di convincerci dell’uguaglianza, di assumerla nella sua regalità. È tattica o strategia? Vi condanno a morte se insistete con tali distinzioni. Si può essere fatti fuori in tempi stretti mentre facevi un lavoro di stra­ tegia, da tempi lunghi. All’erta, all’erta!

Dall’introduzione al volume Un paese ventanni dopo, realizzato con il fotografo Gianni Berengo Gardin, Einaudi nel 1976. A proposito del “non teatro”, Zavattini precisa e dettaglia alcuni con­ torni del suo disegno in una intervista che Sandra Giannattasio aveva ottenuto per Sipario nel settembre 1974 e che non è mai giunta sul ta­ volo della redazione: Il contrario del teatro. L’argomento, non nuovo nelle problematiche zavattiniane, era stato lambito in qualche formu­ lazione del periodo bellico e postbellico, poi evocato su Paese sera del 23 novembre 1968 in una intervista firmata da Oretta Bergonzoni: Za­ vattini propone un teatro di sfida. La circostanza era stata dettata dalla promessa consegna di Uomo 67, una pièce per Strehler e il Piccolo di Milano. Nella conversazione con Sandra Giannattasio (molti spunti riaffiorano in un’altra intervista che ha trovato ospitalità sull'informa­ tore librario, luglio 1978), Zavattini ricapitola l’esperienza teatrale di Come scrivere un soggetto cinematografico e il progetto irrealizzato di un testo: “Si può avere una poesia alla vigilia della guerra?”, che avrebbe dovuto essere diretto e interpretato da Strehler. Zavattini ri­ corda inoltre le sue ipotesi di teatro-inchiesta e poi illustra dettagliatamente i lineamenti di una rivoluzione teatrale, che egli chiama “non-teatro”. “... Prendo dunque un gruppo di persone, una compagnia teatrale?

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No. La mia non è una compagnia ‘teatrale’, è una compagnia. Cioè un gruppo di persone che convengono nell’idea-madre della necessità di conoscere questa realtà che non siamo riusciti a conoscere fino a og­ gi... e ci sembra di non esserci riusciti, per difetto di metodo e per di­ fetto di cultura come preparazione delle masse. Una compagnia di cinque, sei, sette, quattro, otto persone, in una qualsiasi parte d’Italia e in una qualunque caratterizzazione sociale, che hanno idee comuni, che si sentono affini in questo ordine di idee negatrici di tutto un passato e desiderose di penetrare la realtà con questo concetto base: la realtà di oggi. Infatti, uno degli aspetti della vecchia cultura (per vecchia cultura intendo una cultura che pur at­ traverso forme varie e anche antitetiche, però è sempre stata una cul­ tura nel suo insieme, espressione di una civiltà che ha avuto un con­ cetto di storia abbastanza monotono e cioè un concetto gerarchico, un concetto di due momenti, cioè un momento dell’azione e un momen­ to del racconto, privilegiando addirittura la struttura del racconto sul­ la funzionalità dell’azione) è che un fatto diventa storia. Interviene quella che chiamiamo storiografìa, successivamente. Invece dobbiamo fare l’ipotesi che la nostra reattività debba esprimersi tutta in questo istante. Da ciò deriva una responsabilizzazione integrale. Ma per essere responsabili a tutto tondo, bisogna conoscere a tutto tondo, che è un esperimento diffìcile da fare. Che cosa vuol dire ‘a tut­ to tondo’? Ci sono le solite insidie di raffrontarlo, il presente con il passato, raffrontarlo col futuro, poi scandirlo sempre in tre momenti se bastavano - quando invece il dramma a cui ci eravamo di colpo tro­ vati davanti era che quel fatto negativo succedeva con un’unità vera­ mente di tempo. Ed ecco allora un bisogno di raccorciamento di distanze, che si riassu­ meva nell’oggi. Formule che giravano nell’aria: ‘hic et mine’... Ma non c’erano iniziative adeguate. E questo delle ‘compagnie’ mi pareva uno dei modi, che era di dire: Signori, ci riuniamo in gruppo, in uno spazio che chiameremo come vorrete, ma che in realtà è uno spazio logico. In questo spazio, cosa facciamo noi, noi ogni sera? Leggiamo il giornale, di fronte al pubblico. Leggiamo il giornale, che ha l’articolo di fondo, che ha tutta la gamma dell’esistenza e lo affrontiamo, d confrontiamo noi stessi con il giornale, con questi avvenimenti. Non andiamo, preparati, a recitarli. Andiamo disposti a comprenderli in tutte le loro componen­ ti, a sviscerarli, ad assalirli, didamo così. Non con una concezione spet­ tacolare, ma con una apertura a verificare e un bisogno di sbucciarlo, aprirlo, penetrarlo, costi quello che costi, implicandovi modi analitid e riflessivi, di cui possediamo una parte, il cinquanta per cento... e l’altro cinquanta per cento ci sarebbe venuto con l’azione. Prendi questo momento... C’è la crisi del governo, no? Noi la crisi del governo non la accettiamo in questa sua definizione: la crisi del gover­ no, per noi questo fatto dovrebbe essere affrontato in maniera che as­

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sorba potenzialmente la nostra attitudine globale a comprendere il fe­ nomeno... E diventa un assoluto, la crisi del governo diventa il tutto, diventa veramente una domanda alla quale dobbiamo rispondere da qualunque punto di vista, filosofico, economico, morale, storico, poli­ tico, sociale, logico... E se ce la facciamo a rispondere, vedremo che cos’è. Se non ce la facciamo, diremo che non ce la facciamo. Diremo an­ che perché. Mentre invece quegli altri modi sono sempre delle elusioni, sono sempre delle scappatoie. C’è sempre un rinvio al giorno dopo, diciamo così. Invece proviamo a fare ciò che abbiamo detto per una settimana! Na­ turalmente, una settimana vuol dire un’unità di tempo, può voler dire un’ora... quindi può darsi perfino che io non vada oltre il secondo giorno, perché posso trovarmi di fronte a questa analisi e riflessione, a questo contatto, a questo toccare e vedere in forme che non abbiamo mai fatto (almeno noi della ‘compagnia’), in modo che può darsi be­ nissimo che diciamo: o ci ritiriamo dalla vita o compiamo consapevol­ mente degli atti che possono essere degli atti di violenza, che possono essere degli atti di umiltà, possono essere degli atti di ignoranza: il fat­ to del non saperlo è, direi, la nostra forza, garantita dal fatto di voler sapere in un modo diverso da come abbiamo saputo fino a questo mo­ mento. È chiaro che, come con questi compagni, per il cinquanta per cento, i fatti li svisceriamo nel loro muoversi (e nel loro interpretarli ci si rive­ lano), così anche le necessità della nostra compartecipazione non sono tutte preconcette. Ora, so che io dovrò a un certo punto gridare, pian­ gere perfino, se fosse necessario, o ridere o fare il buffone, ma non se­ condo uno schema, secondo un ‘prè’... bensì in quanto è una necessità di suprema comunicazione. E allora in questo caso, veramente verreb­ be proprio di dire: ‘Rem tene, verba sequentur’. Cioè quando io capi­ sco veramente, troverò il modo di espressione. Perché non ho doman­ dato ai compagni: sai recitare? Gli avrò detto: sai o vuoi capire? Allora possiamo inventare anche delle ex scene, chiamate scene una volta, ma inventarle, perché nascano proprio da una dialettica, dicia­ mo così, tutta di genere nuovo e che in parte la studiamo, in parte la provochiamo e non è detto che questo si limiti, nota bene, a un rap­ porto, a un intervento con quelli che assistono. Anche il concetto di quelli che assistono va modificato, e cioè va modificato tutto il mate­ riale, gli strumenti di cui si può avere bisogno in quella sera. Faccio per dire, se nel giro del discorso, nell’inquisire, necessita chia­ mare un uomo che è uscito dal carcere quel giorno lì... lo chiamo: mi serve, qualunque cosa mi serve, ecco il punto. Anche se ho bisogno di dire al capo del governo: vuole venire?, lo faccio, perché bisogna ma­ turare la cultura di fare le domande che si devono fare. La domanda non è a priori provocatoria, è necessaria, caso mai. È provocatorio quel tanto che gli altri si asserragliano in un rifiuto di partecipazione.

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Perché la mia compagnia è una compagnia che non ha altro che il bi­ sogno di sapere da nuove angolazioni, perché è convinta di una inac­ cessibilità di qualsiasi informazione com’è. Il concetto di proroga va via perché tutto ciò nasce dalla coscienza di emergenza, che ci trovia­ mo in una situazione di emergenza, che ci è stata rivelata una situa­ zione di emergenza. Altrimenti accettiamo le suddivisioni del tempo, che diventano poi, tanto lo suddividiamo, momenti statici e non mo­ menti di progressione. Quanto a questo prodotto, questo nuovo prodotto, diciamo così del­ l’intelligenza, diciamo che è intesa non come privilegio, ma corretta co­ me disponibilità: in questo senso, l’intelligenza perde la sua convenzio­ nale caratteristica concettuale, e in questo senso c’è qualcosa di maieutico verso noi stessi, nel senso che accettiamo che c’è una parte di sa­ pere e una parte di non-sapere. La parte di sapere è potenziale in tutti e la parte di sapere stessa diviene poi anche dinamica della analisi e ri­ messa in circolazione. Ma tutto questo è giustificato, da doversi domandare... ‘come mai pri­ ma abbiamo permesso che questo che sta succedendo continuasse a succedere?’. Oggi noi partiamo dalla pregiudiziale che non deve suc­ cedere. Come? Non lo so. E questo non lo so in partenza. È nella mi­ sura in cui lo accetto come succedibilità... Quando invece io rifiuto che possa succedere, in quanto il rapporto ormai tra la mia coscienza e l’accadimento non può essere più che un rapporto di causa ed effet­ to, non può avere dei tempi lunghi. È già rivoluzione, che io compio fin da questa impostazione e mi dirà le forme le quali mi rappresentano obiettivamente e come si evolveranno. E allora lo stesso pubblico non è più pubblico, come io non sono più una élite. Noi possiamo adoperare tutti gli strumenti di cui disponiamo, dal ciclostilato fino agli altoparlanti, comunque siano per renderlo, in quel momento, efficace. Ma è un’efficacia che può prolungarsi anche un’ora dopo, la mattina dopo, la notte durante. Questa è una fruizione di tutti i materiali, che di volta in volta viene provocata dalla cosa in sé. Quindi è l’attualità portata a una liberazione dal carattere convenziona­ to come artistico. Però, quando io mi esprimo e quando io faccio un’a­ nalisi, non rifiuto un dovere, una necessità di esprimermi meglio. Espri­ mermi meglio s’apparenta con un esprimersi degli attori, fai conto, ma non equivochiamo. La ‘compagnia’ ha la massima duttilità tecnica in funzione della massima duttilità di comprensione e informazione. E così pure, se io improvvisamente passo da un momento di analisi matematica a un momento in cui faccio l’apologo, niente di male, per­ ché non è il fine, mantiene anzi la distanza dal fine. Non privilegiamo minimamente il momento artistico che, se anche si presenta come ta­ le, ha una sua diversità per la differenza della sua genesi. È solamente il vedere la crisi, la crisi veramente che cosa significa, che concentra e assorbe tutta la dialettica.

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In mezzo a tutto questo turbinio di giornali, di articoli, di comunicati, che cosa siamo capaci, fino a che punto c’è una possibilità di essere ca­ paci di buttarvi sopra i riflettori e di fame poi un perno, una cartina di tornasole effettiva, che è cronaca, storia individuale, collettiva. Ma con questa dinamica, domani possiamo essere cacciati via dal luogo logico dove lavoriamo, costretti ad andare a lavorare altrove. Tutte queste so­ no geografìe che dipenderanno tutte dall’incalzo, dallo sviluppo, dalFarticolazione di questo nascente materiale. Ora... spesso, il teatro è arrivato vicino a queste forme, a queste neces­ sità, ma ha finito poi coll’autoesaltarsi ancora nel teatro...

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CESARE ZAVATTINI: SCRITTI SPARSI Bibliografia essenziale

Cinema illustrazione. Mimetizzatosi dietro molti pseudonimi, Zavattini scrive alcune fantasiose corrispondenze da Hol­ lywood, negli anni a cavallo fra il 1930 e il 1934. Le ha riunite Giovanni Negri nel ’91 in un volume, Cronache da Hollywood, edito da Lucarini e riproposto nel ’96 dagli Editori Riuniti. Il Settebello, 1938-1939. Direttore del settimanale umoristico insieme ad Achille Campanile, Zavattini cura una rubrica di “lettere” aperte, indirizzate a personalità della politica, dell’in­ dustria, dell’arte e dello spettacolo. Alcune si rivolgono a Elli Parvo, a Mario Camerini, al presidente dell’istituto Luce Paulucci di Calboli, a Vittorio De Sica, all’ex direttore generale del­ la cinematografìa Luigi Freddi, al maestro D’Anzi, al giornali­ sta Marco Ramperà e a Giulio Benedetti. Questi brevi inter­ venti e altri sono stati antologizzati in Al macero, a cura di Gu­ stavo Marchesi e Giovanni Negri, Ed. Einaudi, 1976. Tempo, 1939. Recensioni cinematografiche: Scacco alla regina (n. 1), Duomo che vide il futuro (n. 2), Lotte nell’ombra (n. 3), La Venere d’oro (n. 4), Un avvenimento memorabile (n. 5), I ca­ valieri della morte (n. 6), Un dramma nell’Artide (n. 7), Elogio della pazzia (n. 8), Confessione di un padre (n. 9), Quattro ra­ gazze coraggiose (n. 10), Grandi magazzini (n. 15), Ballo al ca­ stello (n. 16), Bionda sotto chiave (n. 17), Abbasso i ladri (n. 18), La fretta (n. 19), Eollie del secolo (n. 20), Imputato alzatevi (n. 21), Il pirata ballerino (n. 22), Il fornaretto di Venezia (n. 23), Il documento (n. 24), Delirio (n. 25), Cavalleria rusticana (n. 26), Montevergine - La grande luce (n. 27), Alba tragica (n. 28), Quattro chiacchiere (n. 29), Dora Nelson (n. 31), Lo vedi come sei? (n. 32,1940), I prigionieri del sogno (n. 33), Tre film italia­ ni (n. 34), Moltiplicare i contatti (n. 35), Manon Lescaut (n. 36), Scandalo per bene (n. 37), Un’avventura di Salvator Rosa (n. 38), Il caso De Sica (n. 39), Addio alla critica (n. 40).

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Tempo, 1940. Critiche di “Teatro e Varietà”: Fabrizi (n. 42), Fi­ ne dei dilettanti (n. 43), Lina Germani (n. 44), Fratelli De Rege (n. 45), Renato Rascel (n. 46), Autori alla ribalta (n. 48), Delia Lodi (n. 49), Via della Vite (n. 50), Tutto bene (n. 51), Wanda Osiris (n. 52), Totò (n. 53), Fiuto Navarrini (n. 54), I tre Bonos (n. 55), Ripresa (n. 70), Nino Taranto (n. 71), Appunti (n. 72), Ancora appunti (n. 73), Diario (n. 74), Pasquariello, Zara Prima, Catoni (n. 75), Tutte donne (n. 76), Fineschi, Donato e Rubens (n. 77), Inaugurazione del Reale (n. 78), La scrivanetta (n. 79), Edoardo e Armando contro Thornton Wilder (n. 80), Rionale (n. 81), Billi le dediche (n. 82), Gabré (n. 83), Quando meno te lo aspetti (n. 84), Sul giornale (n. 85). Quadernetto di note - Cinema, 25 marzo 1940. Quadernetto di note - Cinema, 10 novembre 1941. Dunque, sono un soggettista - (Conferenza tenuta a Imola nel­ l’autunno del 1942). in Zavattini, cinema e vita di Giacomo Gambetti. Sei risposte - (Intervista radiofonica trasmessa tra la fine del 1942 e gli inizi del 1943). Archivio Zavattini. UAssociazione culturale cinematografica italiana - (Relazione, inverno 1944). Archivio Zavattini. Poesia, solo affare del cinema italiano (Interv. di Franco Deci) Film d'oggi, 10 agosto 1945. Tre domande - (Intervista radiofonica - primavera 1946). Ar­ chivio Zavattini. Né soggetto né sceneggiatura - La critica cinematografica, 10 di­ cembre 1946. Il cinema - in Dopo il diluvio, Ed. Garzanti 1947. Il diario della miseria - L'Unità, 7 gennaio 1949. Sono ottimista - Cinema italiano, marzo 1949. In difesa del cinema italiano - Rinascita, novembre 1949. Cinema italiano domani - in Cinema italiano oggi (prefazione), Ed. Bestetti 1950. Morirà il cinema? - Vie nuove, 7 maggio 1950. Basta con i soggetti - (Intervista rilasciata a Elio Petri nel 1950. Avrebbe dovuto comparire su Filmcritica. Rimasta incompiu­ ta). Archivio Zavattini. Il cinema, Zavattini e la realtà - (Interv. di Pasquale Festa Cam­ panile), Fiera letteraria 9 dicembre 1951.

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Che cos’è il film lampo - in Premio letterario 1952, Viareggio (numero unico). Archivio Zavattini. La coproduzione - (Relazione al congresso della Federazione intemazionale degli autori cinematografici, a Parigi, 4 maggio 1952). Archivio Zavattini. Lettera a Chaplin - Milano sera, 5 gennaio 1953. Si presentano vestiti in tutù e decretano che il neorealismo è mor­ to- Vie nuove, 1 febbraio 1953. Come non ho fatto Italia mia - La Rassegna delfilm, marzo 1953. Il neorealismo continua - La Gazzetta di Parma, 18 maggio 1953. Tesi sul neorealismo — Emilia, novembre 1953. Cinema e resistenza - Patria indipendente, 9 maggio 1954. Neorealismo, fatto morale - (Interv. di Femaldo Di Giammatteo), Rassegna del film, n. 21, giugno 1954. Zavattini propone un film contro la guerra - (Interv. di Giovan­ ni Vento) - LTJnità, 15 giugno 1954. Dieci anni dopo - (Interv. di Daniel Anseime) - Il contempora­ neo, 21 agosto 1954. Il cinema italiano attende una legge - (Relazione all’assemblea del Circolo Romano del Cinema, 2 dicembre 1954). Archivio Zavattini. Terrestrità del neorealismo - Ampio appunto sul neorealismo e cattolicesimo italiano. 1954, data imprecisata. Archivio Zavat­ tini. Storicità del neorealismo - (Interv. radiofonica di Attilio Berto­ lucci, 14 gennaio 1955). Archivio Zavattini. Mettiamo insieme con coraggio tutte le nostre paure - Vie nuove, 22 maggio 1955. Il neorealismo - Il contemporaneo, 2 luglio 1955. La terra e la luna - Il contemporaneo, 24 settembrel955. Addio al cinema - (Testo di una conferenza tenuta a Firenze nel 1955, data imprecisata). Archivio Zavattini. Cultura popolare - (Intervento al Congresso della cultura po­ polare, 8 gennaio 1956, a Livorno). Archivio Zavattini. Il film utile - (Relazione al Congresso intemazionale degli au­ tori, Parigi, 12-18 maggio 1956). Archivio Zavattini. Conferenza economica del cinema - (Prolusione, 30 ottobre 1956). Archivio Zavattini. Dialetto e neorealismo - (Testo scritto in occasione di un dibat-

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rito sul libro Un paese, svoltosi a Livorno nel 1956, data impre­ cisata). Archivio Zavattini. La solitudine di Zavattini - (Interv. di Giuseppe Ferrara) Film,n. 11,1958. Salviamo il nostro cinema - (Intervento in un convegno di scrit­ tori e cineasti, 29-30 gennaio 1958, Milano). Archivio Zavattini. La cultura e la pace - (Intervento alla Conferenza Nazionale della Pace, Firenze 1958). Archivio Zavattini. La nostra Rai è all’altezza della situazione? - (Dattiloscritto. Ri­ sale al 1958. Data e destinazione imprecisate). Archivio Zavat­ tini. Confidenze di un soggettista - (Conferenza a Sanremo, 3 marzo 1959). Archivio Zavattini. Cinema e Tv - (Testo forse inedito, 1959). Archivio Zavattini. Cinema e ragazzi - (Dattiloscritto. Datato 1959). Archivio Za­ vattini. Rapporto sul neorealismo - (Conversazione con Pio Baldelli), Mondo operaio, luglio-agosto 1960. Parliamo della guerra e della pace - (Interv. di Tommaso Chia­ retti), Mondo nuovo n. 46, novembre 1960. Un atto di coraggio - (Interv. di Tommaso Chiaretti), Mondo nuovo n. 49, dicembre 1960. Della paura - (Testo forse inedito, dicembre 1961). Archivio Zavattini. Tv aperta - (Interv. di Arturo Gismondi), L’Unità, 6 maggio 1961. La Tv e il tempo - (Relazione a un convegno promosso a Roma dall’ANAC, il 17 giugno 1961). Archivio Zavattini. Cercando di vedermi in prospettiva - (Interv. di Lorenzo Pellizzari. Marzo 1962. Inedito sino al 1979, allorché lo pubblicherà, Cinema e cinema nel n. 6, luglio-settembre). Il cinema è in ritardo rispetto alla letteratura? - (Intervento al convegno degli scrittori europei, Firenze, primavera, 1962). Archivio Zavattini. Appunti per T misteri di Roma” - (Ampio dossier inviato il 13 maggio 1962 ai realizzatori dei film, alla vigilia dell’inizio delle riprese). Archivio Zavattini. Confessioni e battaglie - (Interv. di Giovanni Melli), La Fiera letteraria, 6 maggio 1962. Parliamo tanto di me — (Trasmissione televisiva realizzata da Fa-

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bio Carpi per la serie incontri 1963). Ufficio Stampa Rai-Tv. Posizione e funzione della cultura italiana negli anni della Resi­ stenza - (Intervento in una tavola rotonda indetta dal settima­ nale Rinascita nel luglio 1965. Vi partecipano Mario Alicata, Carlo Levi e Renato Guttuso. Testo inedito). Archivio Zavattini. Conversazione prima - Cinema documentario, aprile-giugno 1966. Io e il cinema - (La vita di Zavattini al magnetofono) Oggi, gen­ naio 1967. A puntate. Versione integrale. Archivio Zavattini. Rimprovero ai giovani di essersi fermati - (Interv. di Luce D’Eramo) La fiera letteraria, 23 febbraio 1967. Dieci proposte - Video, agosto 1967. Ignorare la mastodontica organizzazione vigente - Rinascita - Il contemporaneo, 25 agosto 1967. “Apollon”, cinema d’azione - Vie Nuove, 13 marzo 1968 (tav. rot. con Ugo Gregoretti, Emilio Garroni, Gianni Toti, Antonio Bertini, Lorenzo Magnolia). Del neorealismo e di alcuni neorealisti - (Dattiloscritto: appun­ ti per una tesi universitaria. 1970). Archivio Zavattini. Mille cinegiornali liberi - Bollettino dei cinegiornali liberi, mar­ zo 1969. Cinegiornale libero del proletariato - Bollettino dei cinegiornali liberi, luglio 1970. Occasioni perdute - (Interv. raccolta da Nabil R. Mahini per un giornale arabo, il 9 aprile 1971). Archivio Zavattini. Io e il cinema - (47 cartelle di un dialogo fra Zavattini e la stu­ dentessa Nadia Ridolfì, che prepara una tesi sul neorealismo. 26-27 luglio 1971). Archivio Zavattini. Cinema e rivoluzione - (Relazione letta al Festival di Locamo nell’estate 1972. Dattiloscritto). Archivio Zavattini. Ormai l’intellettuale è finito - (Interv. di Corrado Incerti), L’Europeo n. 17,26 aprile 1973. Incontro con i giovani - (a cura di Luciano Messina), Incontri n. 9, dicembre 1973, Palermo. Racconto e azione - (Trascrizione intervista per una tesi univer­ sitaria, 1974). Archivio Zavattini. Il cinegiornale libero del proletariato - Bollettino dei cinegiorna­ li liberi, ottobre 1974 (tav. rot. con Carlo Bemari, Carlo Faglia­ rmi, Antonello Branca, Mario Roscani, Mario Benocci, Sergio Boldini).

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Colloqui - (Avuti con la studentessa Laura Micozzi nel dicem­ bre 1974. Argomenti: autobiografismo in Ipocrita 1943, senti­ mento religioso e politicizzazione). Archivio Zavattini. Ad Asiago - (Interv. a Pietro Cimatti in occasione del convegno su Zavattini, ad Asiago, febbraio 1975). Archivio Zavattini. Cinema italiano e fallimento - (Interv. di Alberto Ongaro), EEuropeo n. 7-8,27 febbraio 1975. Un paese vuole conoscersi - Cooperazione ravennate n. 8, set­ tembre 1975. Antologizzato in Zavattini mago e tecnico di Gia­ como Gambetti. Propongo “Controcarosello”-Pubblicitàdomani, dicembre 1975). Umorismo ieri e oggi - (Discorso inaugurale alla mostra “Cen­ to anni di satira politica italiana 1876-1976” a San Sepolcro. 1976). Archivio Zavattini. Sul neorealismo, 30 anni dopo - (Conversazione con tre studen­ tesse dell’università cattolica di Milano, maggio 1976). Archi­ vio Zavattini. La Biblioteca dell’italiano - Corriere della Sera, 6 maggio 1976. Parliamo tanto di me - (Interv. di Gigliola Jannini), Panorama, 28 ottobre 1976. Intervenire dal basso - (Interv. a Servire il popolo, 1976). Archi­ vio Zavattini. Il cooperativismo - (Intervento di Aldo de Jaco. Inverno 1976). Archivio Zavattini. Ennesima crisi: attenti alle vecchie risposte - (Interv. di Paola Cavalieri e Agostino Orabona), Settima arte n. 1-2, gennaiofebbraio 1977. La sceneggiatura - (Risposte di Zavattini a uno studente uni­ versitario. 1977). Archivio Zavattini. Cento parole che fanno e disfanno il mondo - Civiltà delle mac­ chine, settembre-dicembre 1977. Risposte di un “intelligente” - (Risposte a un questionario for­ mulato da Vincenzo Guerrazzi per il volume Gli intelligenti), Ed. Marotta, 1978. Tre domande conclusive - (Tre quesiti che chiudono il volume Neorealismo ecc.), Bompiani 1979.

Dal dopoguerra agli anni settanta, Zavattini ha sistematicamen­ te scritto un diario cinematografico, che, di volta in volta, è sta­ to ospitato dai periodici Bis, cinema, Cinema nuovo, Rinascita e

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dal quotidiano romano Paese sera. Un’ampia ed esauriente rac­ colta delle annotazioni zavattiniane è stata curata da Valentina Fortichiari nel volume Diario cinematografico, Bompiani 1979 (ripubblicato da Mursia, nel 1991).

Per districarsi nella copiosa bibliografìa zavattiniana, si consi­ glia di consultare la nutrita e dettagliata mappa predisposta a cura di Guglielmo Moneti nell’appendice di Lessico zavattiniano, Ed. Marsilio, 1992.

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Indice

Introduzione di Mino Argentieri Per interposta persona * una idea di cinema Il cinegiornale umoristico Evviva il varietà e l’avanspettacolo Elogio della pazzia Il pirata ballerino Montevergine. La grande luce Totò I sogni migliori La guerra costringe a rapidi bilanci Un minuto di cinema L’importanza del soggetto Atti, non parole Le nostre colpe Manifesto morale I pesci rossi e “Il disonesto” Il cinema e l’uomo moderno Polemica col mio tempo Film-lampo: sviluppo del neorealismo Alcune idee sul cinema Il neorealismo, secondo me I Circoli del Cinema Un corso dell’immagine Conversazione alla Casa della cultura di Milano Il Circolo Italiano del Cinema Televisione e Cinema Prima reazione all’invito di Piovene Il “Cinegiornale della pace” Del film inchiesta, autobiografico e altro

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I 5 7 13 17 19 21 23 27 33 37 43 47 49 51 55 61 67 73 77 99 119 123 127 137 143 163 175 179

Contro il passato nel cinema Allargare l’area della conoscenza e della verità Le avanguardie Perché contestare il Festival di Venezia Cinegiornali liberi Appunti per un brindisi a Mosca Cristo e i cristiani Qualità e quantità elitarie Se fossi il padrone della tv Non teatro Cesare Zavattini: scritti sparsi Bibliografia essenziale

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Come Bunuel e Chaplin, cineasti di lungo corso, Cesare Zavat­ tini ha rifiutato di invecchiare: sino all’ultimo respiro non si è arreso al buonsenso, alla moderazione, alle acrobazie concet­ tuali degli italiani svelti a cambiar bandiere e restii ai profondi mutamenti. Erede delle avanguardie storiche, sovvertitore dei tinguaggi cristallizzati, eterno dissidente, in rotta con il suo e il nostro tempo, Zavattini vive in queste pagine che riuniscono articoli, saggi, interviste, lettere, recensioni pervasi da un gran­ de rigore intellettuale e morale e da una fervida fantasia. Cine­ ma, arte, giornalismo, televisione, letteratura, teatro sono gli ar­ gomenti ricorrenti. L’autore li affronta incorporandoli in un più vasto orizzonte problematico e connettendoli a una critica ra­ dicale che non risparmia la società, la cultura, la classe politica, la religione istituzionalizzata, i conservatorismi di ogni specie, le ipocrisie, i cedimenti e i compromessi della coscienza priva­ ta e pubblica. Mino Argentieri è critico cinematografico, direttore di “Cinemasessanta”, docente di Critica e storia del cinema all’istituto Universitario Orientale (Napoli) e autore di svariati libri: La censura nel cinema italiano, L'occhio del regime, Il cinema sovie­ tico degli anni Trenta, Cinema, storia e miti, Il film biografico, L’Asse cinematografico Roma-Berlino, ecc. In copertina: Fotografia di Duilio Pallottelli Progetto grafico di Carla Moroni

L. 30.000