Plastica

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1994

/jèj

Acsthetica (;dizioni

via Giusti 25

Progetto grafico dello Studio Maravigna

90144 Palermo

Indice

Presentazione, di Giorgio Maragliano

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Plastica, di Johann Gottfried Herder Capitolo primo

39

Capitolo secondo

51

Capitolo terzo

67

Capitolo quarto

81

Capitolo quinto

93

Note

107

Appendice biobibliografica, di Giorgio Maragliano

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Indice dei nomi

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Presentazione di Giorgio Maragliano

Libro doppio, la Plastica. Essa è certo un saggio di teoria del-

1' arte figurativa, dove per la prima volta pittura e scultura vengono considerate arti pienamente autonome l'una dall'altra, al di là delle preoccupazioni gerarchiche del "Paragone" cinquecentesco. Per quanto tuttavia Herder conosca e discuta, spesso tacendo le fonti, le tesi di autori seicenteschi come Junius, Bellori, De Piles, e di contemporanei quali Caylus, Falconet, Dandrè Bardon, Hemsterhuis, Hogarth, per tacere di Winckelmann e Lessing, il libro non è solamente un saggio di teoria dell'arte. Esso è anche un lavoro di estetica, nel senso di teoria della percezione sensibile e del bello: bello che per Herder non è l'oggetto di una facoltà distinta dell'anima, né è il frutto di una trascendenza ideale della forma, ma rimane nella sua caratteristica riluttanza all'analisi il segno certo della determinatezza sensibile delle nostre conoscenze. Qui gli autori di riferimento sono Leibniz, Locke, Berkeley, Condillac, W olff, Diderot. Berkeley e la distinzione tra idee della vista e idee del tatto; Leibniz, l'albero di Porfirio in cui la conoscenza si articola secondo i gradi della sua chiarezza, e la vis repraesentativa; W olff, il sistema e la psicologia; Condillac e la metafora della statua; Diderot e l'esempio della cecità; Kant e la critica del concetto logico di esistenza ... quest'elenco un po' caricaturale di filosofi e concetti, sui quali dovremo ritornare, non basta certo a rendere ragione della novità del libro. I momenti di pensiero mediante i quali la filosofia del primo Settecento cercava di rispondere al problema della costituzione della soggettività vengono posti al servizio di una domanda nuova, appunto quella che l'estetica filosofica cerca di formulare. Se i trattatisti del Seicento non avrebbero mai pensato di dover fondare ex novo una dottrina della conoscenza per scrivere di Raffaello e Poussin, né Diderot né chiunque altro dei nomi sopra ricordati aveva posto le sue tesi sulla sensibilità al servizio di una nuova definizione del-

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lo statuto deUe arti figurative. Herder lo sapeva, quando scriveva

nel Giornale di viaggio 1769: t)1111nto in Wotff è nient'altro che sistema, aggiustamento, forma, metodo! Una prova

ne è l'estetica! Quanto ci sembra di aver pensato, e quanto poco pensiamo! Ho elaborato per esempio qualcosa sull'estetica, e credo sia veramente nuova, ma in quante poche cose? Nel principio, la vista vede solo superfici, il tatto non tocca che forme, esso è già noto in ottica ~ geometria e sarebbe una disgrazia se non fosse già stato dimostrato 1•

L'interrogativa sobrietà di questo passo, tratto da un manoscritto non destinato alla pubblicazione, non deve ingannare. Motjvi esteriori hanno fatto sì che alcuni tra gli scritti più penetranti degli anni 1765-70, periodo in cui il progetto "estetico" era il fuoco virtuale del pensiero di Herder, siano rimasti allo stato di frammento, oppure inediti sino a ben addentro l'Ottocento, come nel caso della quarta Selva. Non per questo la novità filosofica del progetto di Herder è meno chiara. L'estetica non è, come per Baumgarten, «ars pulchre cogitandi», essa non è sapere tecnico deputato al miglioramento della conoscenza sensibile, "arte" che educa dilettando. Né d'altra parte Herder pensa che la comprensione del bello possa esaurirsi in analisi delle sensazioni, come avveniva nel pensiero degli illuministi berlinesi Sulzer e Mendelssohn. Due sono gli effetti principali di questa impostazione. Da una parte, contro la pretesa coeva di ridurre tutte le arti e scienze ad un unico principio soggettivo produttivo o psicologico, sia esso l'imitazione o il sentimento di piacere e dispiacere, la condizione di chiarezza confusa che contraddistingue il bello viene ascritta al rapporto tra i sensi specifici e le arti che vi si rivolgono. Dall'altra, l'irriducibilità al concetto che trovava espressione nel "nonso-che" o nel "gusto" diviene proprietà della cosa bella, nel momento in cui rivela una formatività che si manifesta all'uomo soltanto quando la cosa è già del tutto formata. L'unità indivisa della figura bella orienta finalisticamente la percezione, senza che per questo l'esperienza estetica sia riconducibile ad una causalità di cui si possa dare ragione. L'idea ancora viva nel Seicento di una poieticità originaria della natura non è affatto estranea al pensiero di Herder. Essa attraversa tuttavia una trasformazione essenziale, nel momento in cui viene a cadere il riferimento ad un sapere insegnabile che orienta e informa l'attività dell'artista, offrendogli i modelli ai quali guardare per riuscire ad attingere la naturalezza di ciò che agisce "de

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son bon gré", liberamente, al di qua delle costrizioni dovute al-

!' ambiente, all'abitudine e all'istruzione 2 • Condizione, questa, alla quale l'uomo poteva avvicinarsi quando l"'arte" nel senso ampio di tecnica produttiva si tendeva al limite delle sue capacità, e arrivava così a realizzare opere che nascondono la loro fattura. Caduto il riferimento ad un "saper fare", ad una aristotelica episteme, lo stesso concetto di "arte" si svuota dall'interno, per assumere il suo senso moderno. Nelle opere d'arte si manifesta un principio eccentrico alla intenzionalità tecnica, una "Bildung" autopoietica 3 che informa, nei suoi correlati semantici ("bilden", formare; "Bildner", scultore), l'agire dell'artista. Herder recide così la complicità tra "arte" e "natura" che sottendeva l'idea, ancora presente in Winckelmann, di una imitazione della natura bella attraverso lo studio e l'imitazione normativa dell'antico. Le belle figure greche, che egli ha imparato a conoscere leggendo i testi di Winckelmann e visitando Mannheim e Versailles, sono alla lettera corpi viventi fermati nel marmo. Nessuna "arte" può riprodurre i corpi greci, poiché la loro bellezza dipende da condizioni irriproducibili, quali ciò che egli chiama «carattere della stirpe». Non è questo il luogo per discutere le interpretazioni naziste alle quali questo motivo ha dato la stura: ci basta notare che nella Plastica esso è funzionale ad un intento del tutto opposto a quello, attualizzante, della riproposizione di una classicità mediterranea o ariana. Proprio perché la bellezza greca è dovuta a condizioni contingenti, è impresa folle voler riproporre nella contemporaneità opere che mimano la funzione delle statue antiche. Come un adulto non può apprendere di nuovo ad esperire il mondo attraverso il tatto al pari di un bambino, così un artista moderno mai potrà produrre statue greche, poiché la sua stessa formazione ("Bildung") glielo impedisce. L'antico assume così una determinatezza temporale del tutto impensabile ancora nei primi venti anni del Settecento. Certo, la cesura temporale imposta da Herder viene preparata lungo il secolo dall'enorme trasformazione dello statuto significante attribuito ai resti dell'antichità che viene a giorno nei libri di Richardson, Caylus, Winckelmann. Trasformazione, questa, in cui la statua greca a figura intera emerge dall'insieme indifferenziato che a fine Seicento è designato come "antico", dove gemme, medaglie e pietre incise greche e romane convivono con i resti statuari. L'osservazione diretta dell'opera antica costituisce nella prima metà del secolo il veicolo essenziale di un'esperienza per nulla ovvia, se si

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pensa che Lessing non sentirà mai il bisogno di vedere il "Laocoonte", esperienza che incrina la compatta unità di resti ancora intesi come sussidio erudito. Il processo in cui si costituiscono le nuove discipline di archeologia e storia dell'arte non sarebbe in questo senso stato possibile senza la liberazione dei resti antichi dalla soggezione ai testi. Lo sforzo attributivo diretto alla differenziazione di originale greco e copia romana si accompagna qui all'isolamento "estetico" della statuaria rispetto alle opere di anaglifica, quali medaglie e pietre incise 4 • La formazione di uno sguardo che si dirige ad opere d'arte nel nuovo ed enfatico senso moderno cerca in esse i segni formali di una temporalità autonoma: la storia dell'arte è sin dall'inizio in un rapporto problematico e contraddittorio con una erudizione che intende i resti antichi come documenti di una storia già scritta. Per una storiografia antiquaria che cerca nei documenti dell'antichità gli exempla ripetibili di una temporalità da cui è esclusa ogni pro tensione verso l'asso1u tamente nuovo, massimamente significativi saranno quei resti, come le monete, in cui l'unione di immagine e scrittura può confermare ciò che è già contenuto nei libri antichi, intesi come autorità indiscussa, testimoniale, nel senso greco-latino di "historia". La stessa accezione particolare del termine "Antique" a fine Seicento, per la quale esso designa come sinonimo di scultura «sia le statue che i basso-rilievi che le medaglie e le pietre incise» 5, manifesta uno statuto significante nel quale il valore di modello "naturale" delle statue antiche convive con il pregio documentale di oggetti doppiamente preziosi poiché recano su di sé i segni che li rendono leggibili 6, così esibendo quella continuità tra segni della "historia" e della "natura" che è tanto caratteristica del pensiero seicentesco 7• La storia dell'arte diviene possibile allora nel momento in cui l'opera antica perde la genericità erudita per la quale essa era allo stesso tempo espressione ed oggetto di un sapere, corpo di un significato enunciabile perché già enunciato. La temporalità contingente, e perciò aperta, nella quale anche i resti dell'antichità vengono ora inscritti s'instaura certo al prezzo del)' opacità muta di oggetti che divengono opere d'arte nel nuovo senso moderno quando l'unità continua di una "historia" fatta di azioni e uomini esemplari non è più l'orizzonte dal quale sorge il senso di ogni produzione umana. La sensazione di fastidio che molti di noi provano davanti ad un monumento celebrativo degli ultimi due secoli, nella sua ibrida condizione di opera rappresentativa che tuttavia ambisce ad autonomia estetica, pone a giorno

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un'antinomia tra tempo e forma che ha la sua origine nella stessa nascita del sapere moderno sull'opera d'arte. L'esigenza che il significato dell'opera d'arte si risolva nella sua forma entra in contraddizione con qualsiasi determinazione estranea, che in una storia ormai temporalizzata quale si afferma nell'ultimo quarto del secolo consuma rapidamente in semplice occasione la circostanza "storica" che la statua deve eternare. Ma d'altronde proprio nell'accelerazione temporale moderna l'eternità "estetica" dell'antico diviene motivo di una seduzione tanto più forte quanto la sua conservazione museale pare ristabilire una continuità delle epoche. Il nuovo senso estetico della statuaria antica, così come la nuova esigenza di un sapere positivo per la classificazione storica delle opere d'arte, sono allora due forme di una domanda che non trova conciliazione in un unico discorso, come poteva ancora essere per gli eruditi seicenteschi; tra un sapere che cerca di dare ragione di un'esperienza senza concetto, e una periodizzazione delle opere secondo la loro forma visibile rimane la cesura lasciata da una presenza che è "bella" perché tiene in riserva il proprio significato, risolvendosi nella sua forma, e che tuttavia produce proprio per questo un'apparenza di eternità che non coincide con la sua determinazione temporale. Nel momento in cui Herder pone nell'oscurità sensibile del tatto l'origine storica e antropologica ad un tempo dell'esperienza plastica egli offre un' articolazione di questa domanda che ha il non piccolo merito di impedire superamenti abusivi e mitizzanti di questa polarità tra forma e storia immanente al moderno. Ci si chiederà cos'abbia a che fare tutto questo con l'estetica. Molto, siamo anzi forse di fronte ad una delle sue condizioni. Herder ci dice che l'estrema manifestazione plastica della bellezza è per noi un passato: ma la contingenza storico-eventuale in cui possiamo comprendere questa lontananza irrimediabile, che nessuna imitazione può colmare, è anche quella di un'epoca il cui eccesso di astrazione e di sapere oggettivato fa sì che la coscienza possa attingere la bella immediatezza sensibile incarnata nelle opere greche soltanto a posteriori, nella forma di un sapere. L'argomentazione herderiana è scandita qui dal ritmo di un'analogia pervasiva tra storia dell'umanità e genesi dell'individuo. Come nelle condizioni attuali la singolarità tattile della forma si dissolve nella · parvenza, nello "Schein" dell'impressione visiva, così la genealogia della percezione che restituisce al tatto i suoi diritti "plastici"

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può avvenire soltanto a posteriori, senza poter reintegrare la stazione antropologica e quindi la posizione storico-eventuale d'origine. La "Bildung" è un processo inarrestabile, che non concede la possibilità del ritorno, pur generando in sé il sapere che permette di conservare la memoria del passato da cui si prende congedo. È difficile non riconoscere qui i motivi essenziali di quella fascinazione lacerata per la grecità che contraddistingue l'intera temperie classico-romantica, da Moritz a Holderlin, dal primo Schlegel a Goethe e Schiller. Potremmo notare che il verdetto di Hegel, per il quale l'arte stessa è cosa del passato, contiene in sé risolvendola la polarità tra forma e concetto che Herder dispiega. Più urgente ci pare tuttavia, laddove questi temi continuano a tTovare interpreti, comprendere perché una tesi apparentemente così innocua quale l'originaria determinazione tattile della scultura potesse diventare tanto cruciale per il moderno pensiero sull'arte. A questo fine è necessario guardare indietro, nella trattatistica e filosofia del Seicento e Settecento. Lo statuto obliquo della scultura è uno tra i fenomeni più enigmatici della teoria artistica tra Cinquecento e Settecento. Il valore esemplare delle sculture classiche, come modelli per la raffigurazione pittorica dei corpi, si accompagna nell'intero Seicento al relativo silenzio della teoria, come se l'opera d'arte a tre dimensioni non fosse degna dell'attenzione rivolta alla pittura. Così il conte di Caylus poteva notare nel 1759 8 l'assenza di trattazioni su un'arte che all'epoca era ancora praticata da artisti che mai avrebbero potuto ambire alle cariche pubbliche ed agli onori destinati ai pittori di storia. Questo silenzio non è dovuto soltanto alla greve materialità del lavoro scultoreo, che sin da Leonardo è addotto a motivo della sua inferiorità rispetto alla nobile pratica della pittura. Certo, l'apparente immediatezza e velocità del pittore nell'eseguire la sua opera fa sì che la sua attività si presti assai meglio ad essere inclusa nel novero delle arti liberali. Ma questa stessa gerarchia assume il suo peculìare significato all'interno di un'articolazione di pensiero ben più complessa, di cui dobbiamo qui limitarci a descrivere i contorni più evidenti. Nel 1547 il dotto fiorentino Benedetto Varchi pubblica il risultato di un'inchiesta che ha promosso tra gli artisti più importanti del tempo, come appendice ad una sua «disputa quale sia pii'1 nobile arte, la scultura o la pittura» 9. Riferendo gli argomen-

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ti proposti dai suoi amici artisti attorno alla disputa, Varchi rileva e discute in una chiave filosofica di nitida origine aristotelica i motivi che Herder porrà due secoli dopo al centro del suo libro. Ciò vale anche per il tema della certezza tattile offerta dalla scultura, forse l'argomento principale rivolto, già nella metafora del cieco, contro i sostenitori del primato della pittura 10 . Si potrebbe pensare allora che la ripresa svolta da Herder di questi argomenti sia in diretta continuità con la tradizione 11 • Ma non è così. Comprendiamo perché, quando osserviamo come la soluzione di compromesso alla disputa escogitata dal Varchi sia stata intesa dagli interpreti successivi in un senso che annulla le differenze specifiche di pittura e scultura a tutto vantaggio della prima. Le due arti sono in realtà una sola, poiché esse hanno il medesimo fine, «una artifiziosa imitazione della natura», e anche lo stesso principio, cioè il disegno. I contorni della cosa raffigurata, che delimitano la sua forma sostanziale permanente senza i suoi accidenti, sono ciò che arti pur diverse mirano a riprodurre. Se in Varchi tale conciliazione risponde ad una intenzione filosofica più che assiologica, cosa che emerge dal!' assenso che traspare nel suo testo alla tesi per cui «sa ognuno che il tatto trova in una statua tutto quello che l'occhio vi vede [ ... ], dove in una pittura non ve ne trova nessuno», opinione ribadita lì dove egli scrive che l'artista non fa solo la forma, «ma la forma colla materia insieme» 12 , gli autori dell'ultimo quarto del secolo amplieranno l'estensione del concetto di disegno in senso metafisico, sino ad assegnarvi determinazioni conoscitive ed etiche. L'eminenza della pittura viene fatta derivare dalla universalità dell'immagine interiore, per cui Francesco De Hollanda faceva dire a Michelangelo che «ben considerando tutto ciò che si fa in questa vita, ciascuno senza saperlo sta dipingendo il mondo» 13 • Riconosciamo qui la dottrina di origine agostiniana della species intelligibile, secondo la quale la conoscenza avviene nel medio di un'immagine che riproduce la forma della cosa 14 • La vicenda del "Paragone" è nella seconda metà del secolo del tutto compresa nella progressiva ascesa del disegno a principio sommo di un'arte che proprio perché capace di rappresentare la forma del corpo nel contorno lineare del piano esposto alla vista lascia dietro di sé le pretese di chi lavora sul composto di forma e materia. La compiuta universalizzazione di questo concetto del "disegno" sarà opera di Federico Zuccari, per il quale il concetto designa la «forma e ijgura senza sostanza di corpo» 15 •

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U concetto di disegno comprende per lui anche un altro significato, presente ancora nella nostra lingua: intenzione, volontà di dire o fare qualcosa. L'oggetto del disegno non è tanto una forma sensibile, quanto è questa a confermare la sua pura intenzionalità rappresentativa. Nella complessa costellazione semantica del termine, questo momento intenzionale è deputato a porre in opera la finalità presente in quella che in Francia sino a metà Settecento verrà chiamata "pittura del pensiero", il "disegno interno", finalità verso la quale si dirige, senza esaurirla, la pratica dell'artista. A partire da qui è facile comprendere l'inferiorità teorica della scultura. Sotto la tutela del "disegno", la scultura diviene una parte della pittura, subordinata come tale ad un'arte in cui la volontà dell'artista pare arrivare a riprodurre la forma stessa della cosa come noi la conosciamo, nella universalità della natura comune a tutti gli individui di una specie 16 • Potremmo ricordare qui come nel pensiero dell'epoca la formazione dell'immagine sia intesa come una impressione della species corporea, disegno al tratto di ciò che esiste in atto della cosa, mentre ai colori è ascritta una natura puramente potenziale e accidentale. Per Alessandro Allori dipingere è «dare con la spessezza delle linee rotondità e rilievo» 17 , e il segretario dello Zuccari, Romano Alberti, scrive nel 1604 che la pittura, «figlia e madre del disegno», è «forza di chiari e di scuri» 18 • Questo classicismo conseguente non può apprezzare il colore proprio perché esso è mutevole, dipendente dalle condizioni della luce. La luce stessa, principio fisico e teologico, è di per sé incolore 19: chiave questa di una concezione del chiaroscuro lineare in cui al colore in quanto tale è negata qualsiasi determinazione costruttiva all'interno del quadro. E la maggiore o minore saturazione dei toni chiaroscurali a generare nel quadro il rilievo dei singoli corpi e il rapporto tra di essi e con lo sfondo. La scultura, certo, è l'arte del rilievo e del tutto tondo. Ma proprio perché la statua riceve la sua luce dalla natura, senza doverla produrre artificialmente, essa è di minore ingegno rispetto ali' arte del pittore, che imita il rilievo in un medium estraneo. L'argomento leonardesco è ripreso come tale da Galileo nella famosa lettera al Cigoli attorno al "Paragone". Si tratta di un documento affatto risolutivo, poiché mostra come l'ascrizione del chiaro e dello scuro ad essenza della pittura fosse propria alla cultura del primo Seicento, al di là di interpretazioni attualizzanti che distinguono troppo nettamente lato scientifico e teologico, ricerca di leggi immanenti dei fenomeni sensi-

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bili e loro esegesi simbolica. Per Galileo la pittura è «quella fa. coltà che col chiaro e lo scuro imita la natura» 20 • Nulla di nuovo; ma egli deriva la superiorità dell'arte in due dimensioni da quelle che gli sembrano le leggi stesse della visione. L'occhio percepisce soltanto le due dimensioni della superficie, e non la profondità. L'insufficienza della vista, testimoniata dai fenomeni di illusione che sin dal Medioevo attestavano la sua inaffidabilità scientifica, diviene fondamento dell'esclusione delle qualità secondarie (quali il colore) dall'indagine volta a fissare le leggi quantitative e matematiche dei fenomeni. Una certa cecità al colore è la condizione per una buona rappresentazione, il cui carattere intelligibile è preformato nella schematicità chiaroscurale della visione. Ciò che è più importante per noi, la realtà potente della rappresentazione compensa in operatività strumentale il residuo accidentale che non rientra in essa. Galilei scrive così che la pittura è superiore alla scultura nella rappresentazione del rilievo «perciocché quanto più i mezzi, co' quali si imita, son lontani dalle cose da imitarsi, tanto più l'azione è maravigliosa» 21 • Questa riduzione in senso funzionale della vista al chiaroscuro impronta un pensiero per il quale il massimo effetto di presenza attinto dall'arte è prodotto per via di mediazione, dove il corpo solido deve essere tradotto, per manifestarsi pienamente, nell'apparenza del piano ottico del quadro. È chiaro allora perché la scultura abbia così poco corso nella trattatistica, sino a metà del Settecento. Se isolati autori 22 sostengono ancora a metà Seicento la qualità tattile dell'opera plastica, essa non è più intesa come argomento a favore della supremazia della scultura, quanto nella veste di momento correlativo ad una medesima origine disegnativa delle due arti sorelle. Perché l'argomento potesse tornare a valere, e la scultura diventare di nuovo problema e oggetto di attrazione in quanto tale, occorreva che la pittura venisse considerata come veicolo di effetti che non derivano tanto dal disegno, con le sue connotazioni etico-metafisiche, ma dal colore. È ciò che avviene con il prevalere, a inizi Settecento, della teoria pittorica di Roger De Piles. Nel momento in cui il colore diviene la differenza specifica dell'arte pittorica, la mediazione di secondo grado che relega la scultura nel ruolo ambiguo di modello funzionale da convertire sul piano non ha più ragioni d'esistenza. Non a caso De Piles riprende con forza e penetrazione l'argomento tattile della scultura, con tutti gli esempi e le metafore avanzati dagli scult?ri e dal Varchi nel "Paragone"

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dnquec~ntesco, e ciò negli anni in cui prima Malebranche e poi Berkeley sottopongono ad una critica radicale le qualità eidet,tche 11scrirte al senso della vista. La domanda enunciata a chiare lettere , , nelle Conversations del 1677, «cosa appartiene al pittore e cosa allo scultore» 23 , inaugura un'epoca nuova; la ricerca delle regole e dei principi propri a ciascuna arte riprende le ragioni dell'esperienza lì dove erano state lasciate cadere. Una lettura della Plastica non può che partire da quello che lo stesso Herder considerava il nucleo originale del libro, e cioè l'originaria determinazione tattile dell'opera a tre dimensioni. Non si trattava di una scoperta assoluta; ma la radice del problema, come abbiamo visto, non era tanto "estetica" nel senso dimidiato del termine, quanto conoscitiva. In questo senso Herder poteva a buon diritto sostenere l'originalità della scoperta di quello che con Alois Riegl verrà chiamato il momento "aptico" dell'opera di scultura 24 , momento che non era per nulla ovvio né facilmente accettabile all'epoca in cui apparve il libro. L'unica recensione ' che esso ricevette certo non poteva dirsi positiva 25 , e l'autentico divieto che la generazione successiva lasciò cadere sulla mera possibilità che il tatto potesse svolgere una funzione nell'apprezzamento di opere d'arte indica quanto l'apparente ovvietà della scoperta herderiana non tanto fosse stata dimenticata, quanto rimossa a forza. Leggiamo nell'Estetica di Hegel: «mediante il tatto il soggetto, inteso come una singolarità sensibile, si rapporta meramente alla singolarità sensibile ed al suo peso, durezza, morbidezza, resistenza materiale; l'opera d'arte non è però nulla di meramente sensibile, ma lo spirito che si manifesta nel sensibile» 26 . Il tatto, infatti, è senso che non permette ancora la distinzione tra interno ed esterno, tra affezione del soggetto e suo contenuto 27 • Al "Gefiihl", tatto e "sentimento", nella feconda duplicità che ancora appare nel testo di Hegel, manca proprio ciò che è necessario al soggetto per riconoscersi tale, e cioè la distanza. Distanza letterale, nel senso della lontananza spaziale in cui lo sguardo può attingere l'oggetto nella sua totalità, e metaforica, come momento necessario alla individuazione, al riparo dalla mescolanza empatica dei corpi. Pensare il "Gefiihl" come costitutivo della scultura è impossibile, se si assume a norma la distanza dell'io da sé e da ciò che gli si oppone come la condizione elementare della differenza tra soggetto e oggetto, distanza nella quale la stessa percezione dell'opera d'arte appare bisognosa dell'integra-

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zione riflessiva da parte del contemplante. Il momento affettivo e inconsapevole nella percezione dell'opera plastica viene così superato e conservato all'interno di un processo riflessivo, in cui si riconosce infine che «all'opera manca l'autocoscienza compiuta» 28 • Sarebbe tuttavia fuorviante assumere il punto di vista hegeliano per una valutazione contemporanea delle tesi esposte da Herder. Possiamo infatti comprendere la Plastica soltanto se prendiamo sul serio il problema da cui essa muove. Sin dall'inizio, l'ambito estetico abbraccia per Herder sia la sfera della percezione sensibile che quella del giudizio sulla bellezza di un corpo o di un'opera d'arte. La bellezza, troviamo in un frammento giovanile sulla Aesthetica di Baumgarten, è parte della «conoscenza sensibile» 29 • Per questo motivo la ricerca sulle condizioni di giudizio sul bello deve procedere dalla costituzione sensibile del corpo, e distinguere le arti secondo i sensi rispettivi alle quali esse si dirigono. Questo significato originario dell'estetico, che precede la fondazione dell'estetica speculativa e la conseguente separazione tra sfera delle sensazioni e della contemplazione del bello, è il momento essenziale di una "antropologia estetica" il cui rilievo filosofico va ben al di là della sua posizione storica. Non è possibile qui neanche accennare ai fondamenti filosofici dell'interpretazione che Herder compie dei testi di Wolff, Baumgarten, attraverso l'insegnamento decisivo di Kant, interpretazione che prese forma soprattutto nell'importantissimo frammento giovanile che reca il titolo Saggio sull'essere 30 . Con una semplificazione obbligata, Herder delinea lì i tratti di una critica della identità di essere e pensiero, a partire da una considerazione "esistenziale" della originaria limitatezza sensibile della conoscenza che radicalizza le tesi del Kant pre-critico. Ciò che invece seguiremo è il percorso inverso da quello compiuto da Herder: procederemo cioè dalle singole arti figurative alla critica delle loro condizioni estetiche leggi "percettive" - che viene compiuta nella Plastica. Presupposto della distinzione tra le due arti è evidentemente la distruzione dei presupposti del modello umanistico, in cui la pittura comprende sotto di sé la scultura. Cominceremo quindi dalla prima. La presenza di un unico punto di vista fa della pittura l'arte della visione in senso proprio. Il quadro è un intero illusionistico, dove l'artificio di luce e colore produce una parvenza (Schein) che è in sé occasione di godimento, al di là della bellezza dell'oggetto rappresentato. Proprio qu~to carattere rappresentativo, nel

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senso teatrale e non conoscitivo che Herder sottintende usando il francesìsmo "Reprasentation", fa sì che la pittura non sia limitata ndl.t scelta dei soggetti alla raffigurazione del corpo umano, legitrima.n, in Ovidio, Metam., IV, 97; «La chiostra dei denti», in Anacreonte, II, 4.] 130 [Già Lessing criticava l'apertura esagerata della bocca, che è «nella scultura un incavo che fa l'effetto più insopportabile del rnondo»; vedi Laokoon, p. 29, trad. it. pp. 3132.] m [Cantico ih'i Cantici, 4, 3: «Come un nastro di porpora sono le tue labbra».] 132 [Il Libro dello Zohar è uno dei testi cardinali della Kabbalah, corrente esotericomessianica dell'ebraismo.] m [Corano, Sura 20.] 134 [È la fascia che Era ottiene con l'inganno da Afrodite in Iliade, XIV, 214-217, trad. di Calzecchi Onesti, cit., p. 489: « [. .. ] e sciolse dal petto la fascia ricamata, / a vivi colori, dove stan tutti gli incanti: / lì v'è l'amore e il desiderio e l'incontro, / la seduzione, che ruba il senno anche ai saggi».] 135 [Winckelmann, GK XXIII, ed. it. p. 17 .] 136 [Winckelmann, GK r, pp. 161 ss., ed. it. pp. 127-28.] 137 Numeri, 5, 21-27. 138 Cantico dei Cantici, 7, 2.

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m Proverbi, .3, 8 [: «sarà tanto di sanità per le tue carni e di succo per le tue ossa [Cantico dei (àntù:i, 7, 3-5: «Le giunture dei tuoi fianchi sembrano monili lavm da mano d'artista».] · 141 Salmi, l3 9, 14 [: « Ti ringrazio di sì mirabile fattura; stupende sono le opere t1 e della mia persona prendesti gran cura»]. 142 Giobbe, IO, 9-11; 33, 5. 14 ' Giobbe, 33, 4-6. 144 Genesi, 2, 7 [: «E allora il Signore Iddio formò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle narici un alito di vita, e con ciò fu l'uomo un'anima vivente»]. 145 [«Ma io, regina degli Dei»: Virgilio, Eneide, I, 46.] 146 [Vedi Winckelmann, GK 1, p. 161, trad. it. p. 127.] 147 [Parafrasi di Iliade, II, 477-481.]148 [Si tratta di una contaminazione di due passi della Iliade; III, 193-198 e 210-21: 149 [Vedi Carmina Anacreontea, XVII, 27-33 e 42-45. L'ode oggi non è più attribuita poeta greco, ma ad un autore che segue la sua maniera. Lessing vi si era richiamato 1 corso della sua discussione sulla possibilità, da lui negata, che la poesia l'otesse rappresi tare la bellezza corporea; cfr. Laokoon, pp. 152-53, ed. it. pp. 91-92. E da notare che passo di Herder contiene una sottile critica dell'argomento lessinghiano, che salva que: poesia rispetto ad altre descrizioni della bellezza corporea poiché essa raccoglie le pa più belle di molti dipinti, al punto che «diviene dubbio in onore di chi Anacreonte a bia destinato effettivamente l'ode» (cit. p. 92).] 150 [L'Ermafrodito è una copia romana da un bronzo del II sec., ora custodito al Le vre, che nel 1620 era stato provvisto di un "matarazzo" da Bernini. Opera davvero cc turbante, di cui Lady Townshend disse che era «l'unica coppia felice che avesse mai 1 duta»; vedi Haskell, cit., pp. 282-86. Ne esisteva un raro calco in gesso allo Antikens1 di Mannheim.J 151 [Plinio il giovane, Epistulae, vrr, 9, 15.] 152 [È significativo qui l'accostamento encomiastico di Raffaello e del pittore di scuc bolognese Domenichino (1581-1641): ritenuti maestri dell'"espressione" e del "disegn agli inizi Settecento da De Piles, i due pittori valevano a metà secolo come esponenti un'arte semplice e decorosa. È in questo senso che il Domenichino viene citato da Hc der nel 1775 assieme ad altri artisti della scuola emiliana come esempio di equilibrio gi vanile tra "genio" e "carattere", tra l'apertura verso l'esterno simbolizzata dal colore e ritorno riflessivo presso di sé che si mostra nel disegno: cfr. Vom Erkennen und Empfi den der menschlichen Seele, stesura del 1775, in W, II, p. 658. Notiamo di passaggio cor Herder segua qui un gusto oramai più che secolare, comune alla trattatistica romano-b lognese e francese del '600, e ritornato in auge verso la metà del secolo; si veda ad ese1 pio ciò che scrive di Domenichino Roland Freart de Chambray, in La perfezione de, Pittura (Idée de la per/ection de la Peinture, Mans, Ysambart 1662), a c. di F. Faniz, Palermo, Aesthetica 1990, pp. 89-90.] 153 [Dedalo è nella tradizione greca più antica il rappresentante mitico dell'abilità te nica, ritenuto più tardi artefice delle sculture in legno, gli xoana, adornate con oro ed av rio (~6ava = oaioa1'.a), infine di elaborate costruzioni d'ingegno quali il labirinto di Mine se tramandato nel mito di Arianna e il Minotauro. Importante per la comprensione d passo di Herder è la tradizione secondo la quale Dedalo venne considerato già a parti dalla Sofistica come l'inventore di statue che possedevano la virtù del movimento e pe sino del linguaggio. Da questa determinazione mitica sorge più tardi quella che noi chi meremmo storico-artistica, per la quale a Dedalo era attribuita la progenitura nella ere zione di statue con i piedi discosti l'uno dall'altro, le braccia staccate dal corpo e gli occ aperti, una tradizione secondo la quale i nomi più antichi della scultura greca (vn se< venivano assegnati così ad un periodo "dedalico" che avrebbe avuto il suo centro a Crei In questo senso Winckelmann ricordava la figura di Dedalo nella Geschichte... (cfr. G 1, I, p. 7, trad. it. p. 25) in un passo citato e discusso da Herder nello Alteres Wiildch, (KW, pp. 655-56). Nell'ordine del sapere post-rinascimentale le statue viventi di cui D dalo sarebbe il precursore divengono esempi estremi di quella facoltà "tecnica" in sen: 1411

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lato, comune alla natura come a1 suo culmine, l'uomo, che trova il proprio compimento nelle machinae capaci di muoversi da sé, gli automi. Su questo si veda l'importante libro di Horst Bredekamp, Antikensucht und Maschinenglauben. Die Geschichte der Kunstkammer und die Zukun/t der Kunstgeschichte, Berlin, Wagenbach 1993, in part. pp. 49-52.] 154 [Secondo le edizioni Suphan e Lambel si tratta del Wilhelmplatz a Berlino, Schnd• der cita invece la piazza delle parate a Potsdam. In un caso e nell'altro non vengono tuttavia offerte motivazioni, che d'altronde sarebbero difficilmente verificabili, visto che ambedue le piazze non sono più esistenti. L'intero passo ricorda l'atteggiamento estremamente critico assunto da Herder verso il militarismo "illuminato" di Federico II, atteggiamento rafforzato dall'ispirazione francese della politica culturale del Re: si veda al riguardo Journal, p. 82, ed. it. cit. p. 96, e f.i postfazione all'edizione critica, pp. 221-222.] 155 [Ad esempio in Nemea, v, 1.]' 156 [È l'ennesimo accento sul momento individuale della forma, che qui Herder esprime interpretando il motivo hogarthiano della linea della bellezza. Può essere interessante notare come Lessing rimproverasse a Hogarth di non chiarire quale fosse l'esatta misura della curvatura che compone la linea della bellezza, augurandosi che la ricerca proseguisse con l'aiuto delle scienze matematiche di un «fùosofico artista della misura»; vedi la nota preliminare alla ristampa del libro di Hogarth in tedesco, ed. Berlin und Potsdam 1754, Vorbericht zu diesem neuen Ausgabe, in Siùntliche Schri/ten, ed. Lachmann-Muncker, v, Leipzig, Goschen 1890, pp. 368-72. L'accenno che Lessing fa a C. Audran, autore di Les proportions du rorps humain, mesurées sur !es plus belles /igures de l'antiquité (Paris 1683), indica come la sua interpretazione idealizzante delle arti figurative non vada senza l'adesione ad il canone matematico delle proporzioni, che torna ad essere oggetto di studio nel Settecento (si veda P. Gerlach, Schadows Po/yclet (1834). Die Bedeutung der Vermessung antiker Statuen far die Proportionslehre, in Beitriige zur Theorie der Kunste im 19. Jahrhundert, a c. di H. Koopmann e J. A. Schmoll, Frankfurt a. M., Klostermann 1971, in part. pp. 161-173). L'individualità della figura bella viene invece posta in evidenza da Winckelmann, che pure dedica un'ampia parte della sua storia del!' arte antica alla teoria della proporzione. Herder riconobbe ben presto che «proprio questo sentimento della differenza tra bellezza e arida proporzione, proprio questo sentimento ha formato come una creatura degli angeli la parte migliore delle opere di Winckelmann» (À!teres Wiildchen, in KW, p. 665). Ma dove Winckelmann, distinguendo tra correttezza delle proporzioni e bellezza, che in quanto tale «non cade sotto il numero e la misura» (Erinnerung uber die Betrachtung der Werke der Kunst, apparso nella "Bibliothek der schonen Wissenschaften", V, 1759, p. 6), sembra già distinguere anche momento tecnico-produttivo e contemplazione del bello, "arte" e bellezza, Herder accentua ulteriormente la differenza tra l'uno e l'altro: vedi al proposito KW IV, pp. 468-69, e ancor prima Altere.i· Wiildchen, in KW, p. 666, dove si dice «mi pare che i concetti della bellezza, che consiste nella forma e non nella proporzione, si fondino su concetti dell'apparenza oscuri ma tanto più potenti, che quindi sia nell'arte che nella poesia non possono e non debbono essere fatti scaturire dalle scienza normativa».] 157 [Il tema della linea ellittica è già in Winckelmann e Webb. Vedi del primo Erinnerung uber die Betrachtung der Werke der Kunst, cit., p. 6.] 158 [In Hogarth cerchio e linea sono i due costituenti elementari di tutte le forme; vedi Analysis, cit., cap. VII, p. 37. Peculiarità di Herder è la fondazione antropologica di tale dottrina, per cui linea e cerchio sono intesi come estremi polari della forma corporea, cosl come eros nasce, nel mito narrato da Platone, dagli dèi del bisogno e dell'eccesso Penia e Poros; vedi Simposio, XX!Il, 202-04.] 159 [La definizione della grazia come bellezza in movimento è originariamente in Lomazzo, e viene ripresa testualmente da Hogarth nella Analysis o/ Beauty, cit., VI. L'autore che comunemente viene ritenuto aver introdotto il concetto in Germania, Henry Home Lord Kames, pubblica i suoi Elements o/ Criticism soltanto nel 1760, cioè sei anni dopo la traduzione tedesca del libro di Hogarth. La sua nozione è comunque ibrida, poiché mescola grazia e dignità: «La grazia [ ... ] è quel piacevole apparire che proviene 6; la trad. tedesca, Versuch uber den Geschmack, Breslau und Leipzig, bey Johann Ernst Meyer 1766). Si veda il capitolo "Sul grande e sul sublime" della quarta Selva, KW IV, pp. 611-18. A distinguere la posizione degli inglesi da quella qui espressa è l'assenza di una determinazione intensiva della grandezza; lo stesso Herder nel testo del l 769 accenna a sentimenti simili a quello della grandezza, «intensivamente più forti, ma estensivamente non così chiari quanto gli oggetti della vista» (ivi, p. 614), ma non trae come qui le conseguenze di un'argomentazione per la quale il tatto è già il senso in cui la grandezza