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Italian Pages 442 [228] Year 2013
Roma 2013 ( Ricerche e studi 25)
PIAZZA TIBURTINO III Riccardo Morri Marco Maggioli Paolo Barberi Riccardo Russo Paola Spano
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Indice Presentazione di Ivano Caradonna Prefazione di Alessandro Portelli Come nasce la ricerca di Paola Spano Paesaggi urbani di Marco Maggioli 1. Introduzione 2. Tra città e campagna: labirinti periferici 3. Colonizzare, abitare: geografie morali 4. Città come narrazione 5. Luoghi, memorie, racconti 6. Confini 7. Migranti 8. Conclusioni Borgo versus borgata di Riccardo Morri 1. Introduzione 2. Nascita e relazioni spaziali con la città 3. La denominazione 4. La localizzazione e la struttura urbanistica 5. Le tipologie edilizie 6. La provenienza degli abitanti 7. Demolizioni e ricostruzioni 8. Le case nuove 9. Una battaglia vinta? Voci della memoria di Paola Spano 1. Il racconto è la cosa principale 2. Lontano da dove 3. La libertà di essere bambino 4. Il fascismo, la guerra, la fame 5. Il quartiere 6. Tiburtino com’era 2
7. Tra progetto e realtà 8. Le scuole 9. Lavorare 10. L’oratorio e il parco 11. E’ stata una guerra, lunga 12. Un mondo a parte 13. Storie Filmare la borgata di Paolo Barberi Sguardi dal margine. Note sul documentario «Piazza Tiburtino III» di Riccardo Russo 1. Introduzione 2. Filmare al Tiburtino 3. Gli spazi/le storie/i personaggi 4. Il gruppo di lavoro I narratori Bibliografia
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Presentazione IVANO CARADONNA Presidente del V Municipio – Comune di Roma La mia storia inizia nel lontano 1957 e si costruisce, per la maggior parte di essa, proprio attorno a quella di Tiburtino III, una parte della periferia romana nata già negli anni Trenta, quando in epoca fascista, secondo un disegno che vedeva Roma come una città imperiale, gli abitanti di Porta Metronia e delle aree circostanti furono allontanati dal centro storico e trasferiti nelle zone più periferiche della città. Gli stessi trovarono una nuova casa in veri e propri quartieri dormitorio, che in seguito sarebbero diventati le borgate di Roma. Luoghi privi di servizi, infrastrutture, lontani da tutto, come Tiburtino III, San Basilio o Pietralata. Ricordo una citazione che descriveva bene questi luoghi: «Lungo le rive del biondo Tevere e ad est dei Colli Albani», poche parole che rendevano l’idea della collocazione urbanistica delle nuove realtà, che si andavano man mano popolando. E proprio da questi quartieri nacquero e si svilupparono buona parte dei movimenti legati, ad esempio, al diritto alla casa, al senso di appartenenza a una comunità o di solidarietà tra le famiglie che avevano condiviso quegli anni. Buona parte degli intellettuali, artisti e registi, come Paolo Ganna, Ennio Calabria, Pierpaolo Pasolini o Bruno Cirino trassero proprio da questi quartieri ai margini della città le storie dei loro personaggi, raccogliendo e amplificando racconti di vita vissuta, spesso caratterizzata dalla forte passione civile sentita da chi abitava in queste zone, che negli anni a seguire sarebbero state travolte dal fenomeno della riqualificazione, ormai in una Roma più grande rispetto alle dimensioni storiche che la vedevano estesa entro le mura aureliane. Le famiglie di Tiburtino III furono interessate in prima persona dai processi di demolizione e ricostruzione del territorio; il loro fu l’unico caso in cui, nonostante la forte ristrutturazione in atto, gli abitanti poterono rimanere a vivere nel quartiere, dove oggi abitano i discendenti proprio di quei nuclei che lasciarono Porta Metronia ormai più di settant’anni fa. Alle trasformazioni di Roma si aggiungono le storie di vita di chi è nato in quegli anni. La mia nasce il 4 luglio 1957, in uno di quei lotti, il numero 16, che hanno visto crescere tanti giovani che oggi sono diventati membri delle famiglie di Tiburtino III. Tutti noi avevamo in comune la sora Iole, la nostra levatrice, che, ironia della sorte, è la stessa che fece nascere mia moglie Nerina. Gli anni Sessanta erano anni in cui nei lotti si determinavano e si rafforzavano la conoscenza, la coscienza e l’impegno civile. Gli abitanti del quartiere erano persone impegnate per lo più nell’edilizia e solo pochi di loro avevano avviato attività commerciali. Chi doveva andare a lavorare in centro diceva «vado a Roma». Alcuni provavano quasi vergogna nel confessare la propria provenienza; anziché citare Tiburtino III, preferivano rimanere vaghi e dire «vengo dalla Tiburtina». Una grande consolare che collega Roma con la provincia, in particolare con quel luogo pregno di storia e di bellezze che è Tivoli. Erano anni, quelli, in cui si cresceva sostanzialmente in due luoghi: la sezione del PCI e la parrocchia. Ricordo il mio primo incontro con la politica e quindi con il partito. All’epoca avevo quattordici anni e un giorno andai da solo a piazza San Giovanni dove si stava svolgendo una manifestazione antifascista. Si respiravano ideali comuni tra la gente presente: passione politica, senso di appartenenza ad un’ideologia, coscienza critica e amore verso un credo. A conclusione di quell’evento notai un pullman con uno striscione sul quale si leggeva: «Tiburtino III antifascista». Dai finestrini vedevo sporgersi tanti giovani del quartiere che conoscevo. C’erano, tra gli altri, Bruno Ciciani, che divenne in seguito docente universitario a Tor Vergata e Massimo Marcucci, oggi attore. Proprio loro si accorsero di me e mi invitarono a salire sul pullman e a tornare con loro. Da quel momento non lasciai più la politica. Furono anni bellissimi, che mi aiutarono a crescere come uomo e a capire cosa potevo fare per il quartiere che mi aveva visto nascere e crescere. Certo, non mancarono momenti difficili. A volte il confronto con la generazione che mi aveva preceduto non fu facile. Di loro, ricordo Virgilio Speranza, Otello Ciciani, Ornella Boncompagni, Morelli detto «Pennellone», persone che, assieme a mio padre, mi hanno aiutato negli anni della mia 4
formazione. E poi, più in là, Domenico Zanella e Marisa Marcellino, due persone che, ancora oggi, rappresentano un punto di riferimento per il mio agire quotidiano. Ricordo, di quegli anni, le innumerevoli giornate passate ad attaccare i manifesti, a distribuire numeri dell’«Unità» e di Vie Nuove o a realizzare mostre per le feste dell’Unità. Proprio in occasione di una mostra ebbi uno scontro verbale con Virgilio Speranza: io avevo pensato e concepito il contenuto di essa come la voglia di noi giovani di uscire dal conformismo di una società statica; in lui, invece, trovai un atteggiamento resistente al mio, tipico della forma mentis dei compagni di quell’epoca. Fu proprio in quegli anni che, grazie all’impegno economico degli abitanti del quartiere, la sezione del partito riuscì a realizzare un obiettivo: il parco dell’Unità, dove per decenni è stata ospitata la Festa dell’Unità e ancora oggi rappresenta l’unico vero spazio verde del Tiburtino III, punto di riferimento per le realtà associative territoriali che organizzano manifestazioni ed eventi. La parrocchia del quartiere, invece, era l’unica realtà nella quale i giovani potevano incontrarsi, socializzare e praticare attività sportive come il calcio o la pallavolo. Dove un parroco bergamasco, padre Tarcisio, era sempre pronto ad ascoltare i tanti giovani che andavano incontro alla maturità. Proprio a lui, per anni, ho confessato le mie preoccupazioni, le mie gioie, il mio amore per Nerina, oggi mia moglie; con lui ho condiviso la passione per l’Inter, andando insieme allo stadio quelle volte che la nostra squadra del cuore giocava all’Olimpico (oggi, devo ammettere, che il mio cuore batte per un’altra squadra, la Roma). Intanto passavano gli anni e in me si consolidava il desiderio di fare qualcosa per il quartiere che mi aveva visto nascere e crescere. Tiburtino III doveva riuscire a diventare un luogo piacevole in cui vivere, dotato di servizi e ricco di opportunità per i giovani. Per fortuna ebbi un’occasione per fare, in questo senso, la mia parte. Nel 1993, contemporaneamente alla elezione di Francesco Rutelli a Sindaco di Roma, divenni consigliere della V circoscrizione. All’epoca Roma si preparava a venir fuori dagli anni degli scandali e del commissariamento per rinascere nuova, cosa che accadde anche a Tiburtino III. La sua trasformazione cominciò con il rialzo igienico delle strade più importanti del quartiere come via del Frantoio e via del Badile. Così riuscimmo a risolvere i problemi legati ai frequenti allagamenti che si ripetevano nel corso dell’anno. Poi pensammo a dotare il territorio di una nuova illuminazione pubblica; fu realizzato uno dei più bei centri anziani di Roma; vennero ristrutturati la scuola «Fabio Filzi» e, in via del Frantoio, l’asilo nido e la piscina, per anni occupata da famiglie che vennero finalmente trasferite in abitazioni dignitose. Una piscina che fu restituita agli abitanti di Tiburtino III, in una giornata per me indimenticabile, alla presenza del Sindaco di Roma di allora Walter Veltroni. Fu costruito l’impianto sportivo di via Grotte di Gregna, riattivato il vecchio Silver Cine, poi Tristar, che oggi, purtroppo, per decisione del proprietario della struttura, è tornato ad essere chiuso. Proprio recentemente, negli spazi della ex vaccheria Nardi, è stata trasferita la storica biblioteca di via Mozart, cosa che completa, quasi interamente, gli obiettivi che mi ero posto nel programma politico che ho condiviso negli anni con la maggioranza che mi ha sostenuto sin dal 2001, anno della mia elezione a Presidente del V Municipio. Ora, a Tiburtino III, per sentirmi davvero soddisfatto, restano da realizzare due cose: il Polo dell’infanzia e dell’adolescenza nei locali di via del Frantoio, ex sede dei Vigili urbani, progetto per il quale abbiamo ricevuto i finanziamenti della Regione Lazio che ci permetteranno di realizzarlo entro la fine del mio mandato. E in ultimo, ma non per importanza, la piazza del quartiere, che deve attendere però l’accordo tra Ater e Comune di Roma per essere realizzata, su un’area che abbiamo già individuato. Queste poche pagine racchiudono la mia storia di vita legata indissolubilmente e inesorabilmente a quella di Tiburtino III, per offrire un piccolo, ma spero significativo, contributo ad un encomiabile progetto di ricerca, che oggi vediamo realizzato, volto al recupero della memoria del quartiere. Desidero ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questo importante lavoro: chi lo ha ideato e condotto, ma anche chi è stato ascoltato, intervistato e ha voluto mettere a disposizione i propri ricordi per non dimenticare mai cos’era e cosa è potuto diventare il nostro quartiere.
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Come nasce la ricerca PAOLA SPANO Nei due anni in cui ho insegnato a Tivoli tra il 1969 e il 1971, passavo quasi tutte le mattine, percorrendo la via Tiburtina, tra la parrocchia di Santa Maria del Soccorso e il Monte del Pecoraro: in settembre c’erano i manifesti che annunciavano la Festa dell’Unità di Tiburtino III e io mi chiedevo il perché di quel «III» visto che non conoscevo l’esistenza di un Tiburtino primo e secondo. Poi, nell’anno scolastico 1972/1973 fui trasferita alla scuola media «Cornelio Nepote», con una prima in centrale, ai margini del quartiere di Casal Bruciato, e una in succursale a piazza Ardimento, in un prefabbricato di lamiera costruito nello stesso luogo in cui, da un palco, Mussolini aveva arringato in più occasioni la popolazione di Tiburtino. L’anno dopo, la mia cattedra era tutta a piazza Ardimento, e l’anno successivo la succursale divenne scuola autonoma. Agli insegnanti s’imponeva la scelta di una delle due sedi e con Bruno Ramogida, Elvira Paladini e la mia amica Giovannella scegliemmo la sede di Tiburtino III. Lì cominciò un’avventura durata quasi trent’anni: per motivi logistici o di amicizia o di passaparola cominciarono ad affluire in quella scuola una serie di insegnanti che nel giro di pochi anni formarono un sodalizio di lavoro e amicale che resiste tuttora. Resiste naturalmente solo il sodalizio amicale, perché quasi tutte ormai siamo andate in pensione. E qui vengo al punto: quando sono cominciati i pensionamenti, nella seconda metà degli anni novanta, con Giovannella abbiamo sentito il bisogno di raccontare la storia del nostro gruppo e, con l’aiuto di alcune delle amiche, abbiamo scritto un libretto che in mancanza di editore, è stato pubblicato a nostre spese. Intanto, con la costruzione successiva di succursali che poi diventavano autonome, la scuola si era spostata da Tiburtino III all’interno del quartiere limitrofo di Colli Aniene, e noi con lei. Ma da quel libretto risultava che nella memoria di tutte il momento magico, il punto di partenza della nostra avventura erano stati, in quel prefabbricato di lamiera, i ragazzini di Tiburtino III. Quei ragazzini ci avevano nello stesso tempo dannato e conquistato, ma, cosa più importante, avevano reso urgente e concreto il bisogno che, dopo La lettera a una professoressa e il Sessantotto, stavamo maturando, di un rinnovamento profondo del fare scuola. Con le mie colleghe-amiche avevamo lavorato a un aggiornamento della didattica e dei libri di testo che rispondesse meglio ai bisogni dei nostri alunni, ci eravamo impegnate in quella che allora si chiamò «lotta alla selezione di classe», nella relazione con i ragazzi e con i loro genitori. Attraverso i genitori incontravamo i due poli di aggregazione del quartiere, la sezione del PCI e la parrocchia di Santa Maria del Soccorso, il cui parroco, uno dei personaggi cardine di Tiburtino III, era anche il nostro insegnante di religione. Ma nessuna di noi aveva partecipato direttamente alle lotte per la riqualificazione del quartiere e per la casa, alle iniziative contro l’invasione della droga, non frequentavamo la sezione e la parrocchia, non partecipavamo alla Festa dell’Unità né alla processione. Tuttavia registravamo i cambiamenti che man mano intervenivano a modificare la comunità, sia fisicamente, con la costruzione delle nuove case, sia come aggregazione umana, nel rapporto con i ragazzi, anche quando, con lo spostamento progressivo verso Colli Aniene, gli allievi di Tiburtino divennero nelle nostre classi una minoranza, sia per il calo demografico che cominciava a farsi sentire sia perché una parte di loro faceva riferimento alla scuola media dell’Istituto di Arte Sacra. Quando arrivò anche per me il momento di andare in pensione, si fece più acuta la nostalgia del tempo in cui, a piazza Ardimento, avevo veramente scelto e non più subito il mestiere d’insegnante; e con la nostalgia del Tiburtino che avevamo incontrato quando tutto era ancora da vivere e da inventare, si rafforzò il mio desiderio di conoscere meglio una realtà che avevo guardato soprattutto attraverso il filtro della scuola. Pensavo in modo molto vago d’impegnarmi, un volta libera dal lavoro, in un qualche tipo di ricerca sulla memoria e le trasformazioni del quartiere, ma sapevo bene che non era impresa da affrontare da soli. D’istinto avevo deciso che avrei fatto questo lavoro con un mio ex alunno di Colli Aniene; suo padre, nativo di Tiburtino, e sua madre avevano per tre anni sostenuto e aiutato noi insegnanti nel lavoro in una classe difficilissima. Sapevo che Riccardo si era laureato in geografia e che continuava a fare ricerca, ma da un po’ di tempo non lo vedevo e rintracciarlo non è stato facile. Ci 6
sono riuscita attraverso una catena di ex alunni e la sua reazione alla mia proposta è stata subito positiva; anche lui, oltre all’interesse geografico, ha un legame affettivo con il quartiere di Tiburtino III. Io poi venivo dalla collaborazione con un gruppo di storia orale che, sotto la guida di Alessandro Portelli, aveva lavorato sul Sessantotto a Roma; così abbiamo cominciato a fare interviste: ai nonni e al padre di Riccardo, poi a cinque mie ex alunne della scuola di piazza Ardimento e ad altri, seguendo una catena di segnalazioni e di ricordi. Abbiamo raccolto anche alcune mappe mentali del quartiere e una documentazione fotografica dalle raccolte personali di abitanti del Tiburtino. Riccardo ha molto presto coinvolto nella ricerca un altro geografo, Marco Maggioli, e nella prima fase il lavoro si è svolto sotto la guida di Alessandro Portelli, con il patrocinio e la collaborazione dell’associazione D’altrocanto. In seguito, con l’associazione Esplorare la metropoli (Paolo Barberi, antropologo e Riccardo Russo, geografo) abbiamo cominciato a fare interviste video. Riccardo e Marco intanto hanno fatto una ricognizione del materiale filmico, letterario e televisivo esistente sul territorio di Tiburtino nei principali archivi di audiovisivi presenti in Italia con sede a Roma. Attraverso le parole e i volti registrati il coinvolgimento affettivo nella ricerca è cresciuto anche in chi non aveva precedenti rapporti con il quartiere, e così, nonostante difficoltà personali e di organizzazione, siamo riusciti, con il contributo di tutti, a portare a termine questo lavoro che ora presentiamo.
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Paesaggi Urbani MARCO MAGGIOLI Dipartimento di Scienze Documetarie, Filologico-linguistiche e Geografiche Sapienza Università di Roma Oggi ho letto un articolo sul giornale Metro de uno scrittore […] Praticamente de uno scrittore che diceva «Vi siete fatti mai fotografare sull’entrata della porta di casa, tra la strada e la casa» dice «perché, se voi ce pensate bene, la casa e la strada, fa parte della vita vostra, cioè c’è una relazione tra queste due cose» [intervista a Paola Padella, ].
1. Introduzione Nell’immaginario diffuso, per gran parte della storiografia e dell’analisi geografico-territoriale, la città di Roma ha da sempre un confine abbastanza certo nell’agro romano. Questa superficie di campagna, almeno fino ad oltre mezzo secolo fa, appariva ancora fondamentalmente spopolata come risulta chiaramente dalle testimonianze storico-geografiche, da quelle cartografiche e letterarie, dalla cinematografia del neorealismo italiano e dalle foto del dopoguerra (Piccioni, 2003 e Bortolotti, 1988). Il modo in cui è conformato lo spazio fisico del comune più grande d’Italia, le modalità con cui si è pervenuti al suo «ritaglio» amministrativo, l’organizzazione e le vicende storiche che ne hanno contrassegnato l’evolversi hanno anche inevitabilmente orientato le scelte dei singoli e dei gruppi nonché le loro stesse modalità di rapportarsi con lo spazio urbano. Ad esempio, il risultato della progressiva e inarrestabile trasformazione dei contesti frammentati delle periferie romane, e non solo (Lanzani, 2003) – dove l’ambito agricolo permane oggi in forma di brani all’interno dell’edificato e riappare, confondendosi, negli incerti e deboli confini urbani – rappresenta un paesaggio del tutto particolare. Esso ci appare nella contemporaneità come costituito da aree in degrado ed abbandono, in attesa di destinazione, interessate da abusivismo edilizio o in condizione di ibrida trasformazione (Bellicini e Ingersoll, 2001) accanto ai nuovi spazi della città contemporanea. Quello delle periferie urbane è oggi un paesaggio dove tentano di sopravvivere incerte tracce della storia urbana e dove altrettanto incerto si manifesta il procedere dell’edificato. Luoghi dove l’idea di sviluppo e di espansione può sembrare antitetica al godimento ed alla conservazione del paesaggio, al godimento estetico. Queste situazioni peculiari rendono assai ardua la percezione immediata delle potenzialità, umane e paesaggistiche, delle aree di margine della città: esse sembrerebbero ribadirne piuttosto la natura di «non luoghi» e confermarne, anche dal punto di vista percettivo, la varietà e la precarietà degli usi. Tuttavia, proprio nei quartieri delle nostre periferie accanto agli edifici residenziali già densamente abitati, ad insediamenti abusivi, ad infrastrutture di trasporto e strutture di servizi più o meno definite o in attesa di completamento, ad aree di frangia disordinate, si possono scoprire frammenti e segni del tutto significativi per un tentativo di «storia dei margini», antichi o meno antichi. Questi elementi, questi segni, queste tracce ci offrono la possibilità di rappresentare, nel loro insieme, una ricostruzione dei processi identitari dei luoghi1 e costituire significativi riferimenti per la coesione delle comunità insediate; in definitiva, offrire un concetto innovativo di paesaggio urbano. 1
L’ampia produzione sul concetto di identità urbana proveniente da diversi campi di studio (sociologia, antropologia culturale, geografia, urbanistica ecc.) su cui in parte ritorneremo in questo capitolo, non ci consente di esplicitare pienamente l’intera bibliografia. Pur tuttavia, appare necessario evidenziare in questo quadro alcune angolazioni di analisi provenienti da ambiti di riferimento diversi. In riferimento al rapporto tra identità e paesaggio in una prospettiva essenzialmente geografica si veda Bonesio (2007). Sul rapporto tra luoghi e identità in una chiave prevalentemente legata all’analisi urbanistica si veda Decandia (2000). Sulle relazioni tra memoria, narrazione e processi identitari letti, anche qui in una chiave prettamente geografica, si veda tra gli altri Guarrasi
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Roma è una grande conurbazione di più di quattro milioni di abitanti, ma l’edificazione come è noto non presenta caratteri di continuità territoriale. Il territorio comunale è contrassegnato da vuoti e pieni: grandi e piccole aree boscate, vigneti, campi di olivi, di cereali, orti e frutteti si alternano a quartieri densamente popolati, case, villette, edifici, attraversati da infrastrutture e fossi, su colline e pianori, ancora leggibili nel vasto territorio di frangia della città2. Parte del territorio periurbano, inoltre, è interessato da insediamenti abusivi, originati dall’espansione spontanea di piccoli borghi agricoli o cresciuti su antiche aree di insediamento (Clementi e Perego, 1983) di cui ancor oggi si leggono le tracce attraverso resti archeologici, torri medievali (Morri, 2002), tracciati di strade, casali agricoli, accanto a realizzazioni edilizie pensate e progettate a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. «Le borgate romane non hanno fisionomia di insieme ma solo di episodi; l’applicazione parziale delle nuove concezioni ha inibito la memoria del tutto. Resta, a nostro avviso, intatto il valore documentario di queste realizzazioni pubbliche, prive in fondo di passato e di futuro e la carica storico-sociale che rappresentano, dalla segregazione, alle lotte, alla contro cultura […]» (Ricci, 1994, p. 23). È in questo contesto in continua evoluzione che si collocano le borgate romane «ai margini di Roma, oltre gli estremi margini di Roma, isole derelitte nel magro agro dell’Agro, queste sono le borgate» (Caproni, 1946 b). E in effetti, il paesaggio urbano della periferia romana proprio all’indomani della fine della seconda guerra mondiale sembra configurarsi proprio come indicato da Caproni. Al di là dei margini della città consolidata, immerso nei paesaggi agricoli dell’Agro Romano, un insieme slegato di insediamenti che solo nei quadranti est e nord-est – tra Tiburtina e Casilina – tendevano a definire limitate porzioni di sistema urbano. Il cuore di questi insediamenti era costituito proprio dalle borgate, i nuclei abitati realizzati dalla mano pubblica, Governatorato e Istituto per le Case Popolari., durante il periodo fascista tutto intorno alla città a considerevole distanza da essa come risposta al disagio abitativo dei ceti popolari e alla necessità di de-localizzare gli abitanti espulsi dal centro storico in seguito agli sventramenti e alle demolizioni attuate tra la metà degli anni Venti e la fine degli anni Trenta. Percorrendo un ipotetico anello periferico a partire da nord si incontravano i complessi ICP di val Melaina, della Bufalotta e del Tufello; lungo la via Tiburtina la borgata semirurale di San Basilio e, più all’interno, quella appunto di Santa Maria del Soccorso e di Pietralata; lungo la Prenestina, la borgata Prenestina, il Quarticciolo e, in vista della Casilina, la borgata Gordiani con accanto il nucleo di via Teano. Più lontano, lungo la stessa via Casilina, il villaggio Breda costruito dall’Istituto Case Popolari per gli operai dello stabilimento Breda. A sud, lungo via Laurentina, il complesso di Tor Marancia e, al di là del Tevere, nella zona della Magliana, la borgata del Trullo. Nel quadrante occidentale la borgata di Primavalle e dispersa sull’asse via Ostiense-via del Mare la borgata più antica di tutte, costruita nel 1916, quella di Acilia. A completare il quadro dei principali nuclei abitati della periferia, la borgata di Tor Sapienza, Villa Certosa, il Quadraro, Centocelle e la borgata Alessandrina tra Prenestina e Casilina. Lungo l’Appia le case della borgata Statuario e altri piccoli episodi nei pressi dell’ippodromo della Capannelle e ancora più a sud la borgata Laurentina, a occidente la borgata Villini, il borghetto alla valle dell’Inferno. V., Memoria di luoghi, in «Geotema», 2008, 30, pp. 13-22. Sullo stesso tipo di relazioni ma in funzione più propriamente storica si veda il già citato volume di Tarpino A., Geografie della memoria, Einaudi, Torino, 2008. 2 Almeno da un punto di vista storico-geografico Roma contemporanea è stata paradossalmente a lungo poco studiata. Tra le opere di carattere generale che tuttavia appare necessario qui richiamare va evidenziato, da un punto di vista geografico, l’ormai noto studio di Seronde Babonaux A.M., Roma. Dalla città alla metropoli, Editori Riuniti, Roma, 1983 mentre sul versante della storia urbana i fondamentali volumi di Insolera I., Roma moderna, Torino, Einaudi, 1976 e Caracciolo A., Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale, Editori Riuniti, Roma, 1999. Per una analisi sensibile della collocazione della città nel suo territorio, si veda tra gli altri, Talamo G., Bonetta G., Roma nel Novecento, Cappelli, Bologna 1987 (manca in bibliografia), mentre per la ricchezza bibliografica e gli aggiornamenti sulle vicende storiche, politiche e urbanistiche, Vidotto V., Roma contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2001. Per un primo approccio di carattere urbanistico e storico-sociale alla crescita tumultuosa e soprattutto abusiva e disordinata della città tra il fascismo e il dopoguerra cfr. Clementi A., Perego F., Le metropoli “spontanea”. Il sacco di Roma, Dedalo, Bari, 1983 e anche Sanfilippo M., Le tre città di Roma. Lo sviluppo urbano dalle origini a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1993.
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Insediamenti questi tutti molto diversi tra loro per storie sociali, localizzazioni, capitali utilizzati, ma uniti dall’essere tutti, inevitabilmente, un altrove rispetto alla città e nei quali gli abitanti vivevano uno sradicamento dal tessuto sociale cittadino3. Primavalle, il Trullo, il Tufello, il Quarticciolo, Santa Maria del Soccorso e Torre Gaia erano quartieri progettati dagli architetti dell’Ufficio Tecnico dell’ICP o da quelli che che abitualmente collaboravano con l’Istituto, erano strutturati secondo un disegno urbano compiuto e con alcune attrezzature di servizio, avevano case alte di norma quattro piani, costruite con materiali non troppo scadenti secondo lo schema prevalente della «casa in linea».
Le analisi che sono state effettuate nell’ultimo decennio sui quartieri, i rioni e le borgate di Roma iniziano ad essere molte, tali da rappresentare quasi un primo abbozzo di un vero e proprio Atlante sociale della città. Tra le ricostruzioni e le analisi vanno ricordate, in virtù di un approccio legato prevalentemente al rapporto tra storia orale e ricostruzione dei luoghi, in primo luogo Portelli A., Il borgo e la borgata. I ragazzi di Don Bosco e l’altra Roma dal dopoguerra. Una ricerca del circolo Gianni Bosio, Donzelli editore, Roma, 2002 sulla storia del «borgo ragazzi» don Bosco situato per i primi tre anni nei pressi di Stazione Termini e quindi, dal 1948 e fino alle fine degli anni Sessanta, nel Forte Prenestino. Vanno ricordate più in dettaglio le analisi su San Lorenzo in Piccioni L., San Lorenzo. Un quartiere romano durante il fascismo, Storia e Letteratura, Roma, 2002, sul quartiere di Centocelle in Portelli A., Bonomi B., Sotgia A., Viccaro U., Città di parole. Storia orale di una periferia, Donzelli, Roma, 2006, sul quartiere Tuscolano e in particolare sulla più importante realizzazione del Piano Ina Casa a Roma cfr. Sotgia A. Ina Casa Tuscolano. Biografia di un quartiere romano, Franco Angeli, Milano, 2009, sulle vicende dell’evoluzione della borgata Gordiani cfr. Viccaro U., Storia della borgata Gordiani. Dal fascismo agli anni del «boom», Franco Angeli, Milano, 2007, mentre su Tor Pignattara, quartiere situato lungo la via Casilina si veda Ficacci S., Tor Pignattara. Fascismo e resistenza di un quartiere romano, Franco Angeli, Milano, 2006. Molto prossimo alla nostra area di studio è l’analisi effettuata sulle memorie degli abitanti di Pietralata dalle sue origini negli anni Venti fino allo sviluppo e all’espansione edilizia dei nostri giorni, cfr. Camarda E. Pietralata. Da campagna a «isola di periferia», Franco Angeli, Milano, 2007. Sulla storia di uno dei «quartieri intermedi» per la piccola e media borghesia della città si veda Masini E., Piazza Bologna. Alle origini di un quartiere «borghese», Franco Angeli, Milano 2009. Il caso di studio del quartiere delle Valli, sorto a partire dagli anni Cinquanta nella zona di Monte Sacro-Prati Fiscali, allora estrema periferia settentrionale, in buona parte per iniziativa della Società generale immobiliare, uno dei maggiori proprietari fondiari della città e promotore edilizio di livello internazionale si veda Bonomo B., Il quartiere delle Valli. Costruire Roma nel secondo dopoguerra, Franco Angeli, Milano, 2007. 3
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Fig. 1 - Le borgate realizzate dal Governatorato e dall’Istituto Case Popolari negli anni del fascismo. Fonte: Rossi (2009, p. 115)
2. Tra città e campagna: labirinti periferici Spostandosi dunque verso l’esterno della città, in direzione orientale, al confine tra lo spazio urbano consolidato e lo sfrangiamento periferico, nei pressi di una delle ultime stazioni della metropolitana romana, quella di Santa Maria del Soccorso – toponimo che rimarrà quasi esclusivamente presente nella cartografia ufficiale ma non nelle descrizioni delle persone – si incontra il quartiere di Tiburtino III. Questo nucleo abitato, un tempo marginale e definito borgata4, è oggi – non troppo diversamente da quanto si possa riscontrare in molte altre grandi città italiane ed europee – quasi completamente immerso nei flussi quotidiani di spostamento. Un luogo reale comunque tra spazi liquidi, tra svincoli e attraversamenti della contemporaneità. Non si nota neanche. Un luogo che presenta ad esempio una toponomastica davvero singolare testimonianza, una delle poche in realtà, della propria origine e della propria collocazione geografica originaria, rurale e suburbana: via del Frantoio, via del Badile, via della Vanga uniche tracce queste dell’originario tessuto urbanistico. Testimonianza di condizioni di lavoro e di origini. […] il vecchio quartiere, la parte bassa, e la parte bassa, dico, dall’inizio di via del Badile fino a via Tiburtina, erano tutte quante strade titolate a strumenti agricoli, quindi abbiamo via della Vanga, via dell’Erpice, via dell’Aratro, via del Frantoio, via della Trebbiatrice, erano queste le strade che erano di Tiburtino III [Domenico Zanella, 1941].
Dall’inizio degli anni Settanta la gran parte di queste abitazioni originarie, i cosiddetti lotti, che costituivano, dalla metà degli anni Trenta in poi, un quadrilatero ai cui margini una platea di edifici non elevati la distaccavano dal contesto circostante, venne abbattuta, sostituita da palazzi in cemento armato e pannelli di gesso. Le vie sono ora nominate, per la maggior parte, in modo nuovo, meno duro: via Debussy da cui si arriva a piazza Brahms e che incrocia via Mozart. Ci sono nomi nuovi ora. Quei palazzi che vedi laggiù sono i palazzi dove sono cresciuta, da piccola, dove abitano tuttora i miei genitori, si chiama lotto XVII e prima che venissero costruite queste case erano i palazzi più alti. E poi mi ricordo, quand’ero piccola, hanno buttato giù tutti gli altri lotti piccoli che stavano davanti e mi ricordo che la gente piangeva, insomma c’era una grande tristezza a vedere queste ruspe che... con questa palla di piombo, vuum, bum, e buttava giù questi piccoli palazzi, sembravano fatti di... di niente. Quindi poi dopo hanno costruito queste case, le chiamavamo le case nuove, questi palazzoni alti che facevano un grande effetto allora, insomma allora, io, quand’ero piccola... comunque quelli, il lotto XVII sono gli unici palazzi che sono ancora rimasti con l’intonaco originale, che hanno un po’ questo colore aran... mattone, perché per il resto, stanno tutto ristrutturando, le stanno tutte ristrutturando, anche queste qui davanti le hanno ristrutturate e quelli, quei palazzi a fianco sulla sinistra che hanno questo tetto a cuspide li hanno completamente ricoperti con questi mattoncini a cortina, diciamo. Non so se anche quei palazzi li copriranno allo stesso modo e, se così fosse, poi finirà... non ci sarà più, non ci sarà più niente che ricordi il vecchio Tiburtino III, comunque va bene. E quindi questo piccolo cortile qua davanti, anche questo è stato completamente trasformato, prima c’erano gli alberi, questo parcheggio non c’era, quindi, voglio dire, è un po’ la testimonianza del cambiamento, del tempo 4 Il termine borgata venne introdotto ufficialmente in occasione dell’edificazione di Acilia nel 1924 a circa quindici chilometri da Roma. Qui vennero trasferiti gli abitanti delle zone centrali della città (foro di Cesare e Traiano) secondo un meccanismo di vera e propria deportazione che ritroveremo inalterato in tutte le borgate romane. Come sottolinea Insolera: «C’è qualcosa di dispregiativo in questo termine che deriva da borgo: un pezzo di città cioè che non ha la completezza e l’organizzazione per chiamarsi “quartiere” oppure un agglomerato rurale chiuso da un sistema economico feudalistico in una dimensione che vieta lo sviluppo a organismo completo. Borgata è una sottospecie di borgo: un pezzo di città in mezzo alla campagna, che non è realmente né l’una né l’altra» (Insolera, 1976, p. 137).
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che passa, e alcune cose rimangono sempre le stesse come la famosa pineta di cui ti parlavo dove io da piccola amavo giocare e passare gran tempo della ricreazione, e credo che... spero presto di poter andare a dipingerla, mi piacerebbe molto [Alessandra Giacinti, 1975].
Una seconda traccia della storia e delle vicende del quartiere la si incontra proprio lungo via del Badile, al numero civico 16. Qui i fascisti uccisero, il 3 maggio del 1944, Caterina Martinelli5, «una madre che – come ricorda la lapide scritta da Mario Socrate – non poteva sentir piangere dalla fame, tutti insieme, i suoi figli». A sparare fu la PAI, Polizia Africa Italiana6, posizionata al tempo proprio all’interno del forte Tiburtino, poco distante dal nucleo abitato di Tiburtino III quasi ad esplicitare una vera e propria forma di controllo, quasi coloniale, che il governo esercitava su questi cittadini. Spazi di margine interpretabili così come vera e propria condizione coloniale, sintomo e risultato della fine dell’«avventura coloniale» che aveva permesso in passato di distinguere la dimensione spazio-temporale delle colonie dagli altri spazi urbani (Mezzadra, 2008 manca in biblio). I lotti in quel periodo erano ancora diciassette, case con i ballatoi e la fame. Riccardo: La storia di Caterina Martinelli la conoscete? Primo: La Martinelli? No... Riccardo: Una donna che è morta per l’assalto al forno. Giuseeppa: Ah! quella signora... La PAI, però praticamente erano fascisti. Si faceva la fila per il pane, dal fornaio che stava dietro le case. Paola. Dove adesso c’è il giardino? Giuseppa: Sì, lì, la mattina si faceva la fila, prima c’erano le casette di legno e c’era il fornaio che aveva posato la cesta del pane e dovevamo aspettare che aprisse per prendere il pane, avevamo tutti le tessere con i bollini, questa signora non si sa, se gli serviva urgentemente il pane, si é mossa ed è vicino alla cesta del pane, quel cretino ha preso ed ha sparato. Paola: Ha sparato in alto? Giuseppa: No, no! Ha sparato proprio a lei, poi a quell’epoca dopo diceva che aveva sparato in aria, ma non era vero. Primo: Ma era pure incinta lei. Giuseppa: Non mi pare, no! Primo: Sì! Era incinta, come no?! L’episodio dell’uccisione di Caterina Martinelli si inserisce chiaramente nel più ampio scenario della situazione alimentare di Roma nella primavera del 1944. L’approvvigionamento alimentare della città in effetti si presentò ad esempio come un problema di trasporti, visto che i rifornimenti di viveri arrivavano non solo dal Lazio, ma anche da regioni molto più lontane. Se fino al gennaio 1944 gli alimenti, nonostante gli attacchi aerei alle linee ferroviarie, erano ancora trasportati con i treni merci, dopo lo sbarco a Nettuno e l’aggravarsi della situazione per tutte le ferrovie dell’Italia centrale, i trasporti avvenivano per mezzo di autocarri. Ma i viveri che arrivavano non erano comunque sufficienti, tanto che l’Ufficio alimentare dell’Amministrazione militare vide nella parziale evacuazione della città l’unica possibile «soluzione», ma, prevedibilmente, il tentativo non venne mai fatto. Interi quartieri restavano senza pane. A peggiorare la situazione delle classi popolari le disposizioni circa l’aumento del prezzo del pane e la ritardata distribuzione di parte della già modesta razione di pasta che favorì la corsa al rialzo dei prezzi e la speculazione di commercianti e borsari neri. In questo quadro generale le donne ricoprirono un ruolo molto importante nello stabilirsi di reti di baratti, nelle compravendite nei quartieri della città e nell’organizzazione di proteste e «assalti» ai forni. È in questo contesto che va ricordato ad esempio anche l’episodio del 7 aprile al ponte dell’Industria all’Ostiense dove vennero fucilate dalla polizia tedesca dieci donne. Nello specifico della vicenda dell’uccisione di Caterina Martinelli a Tiburtino III si veda C. Capponi, Con cuore di donna, Il Saggiatore, Milano, 2000, pp. 246-247 (manca in biblio); C. De Simone, Roma città prigioniera, Mursia, Milano 1994, pp. 130-196 (manca, forse si possono lasciare solo qui?). Un estratto dell’«Unità» clandestina che riporta i fatti del 3 maggio del 1944 è inoltre presente in Berlinguer G., Della Seta P., Borgate di Roma, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 283-284. 6 Sulla storia della Polizia Africa Italiana cfr. Girlando R., Polizia Africa Italiana 1936-1945, Italia Editrice New, Foggia, 2004 (manca come sopra). Anche Pier Paolo Pasolini sembra far cenno al ruolo che le milizie della Pai svolgevano a Roma. Se ne rintraccia un episodio, non riferito in modo specifico a Tiburtino III ma ai Mercati Generali all’Ostiense in P.P.Pasolini, Ragazzi di vita, Torino, Einaudi (in bibliografia è Garzanti, quella del 1955),1979 (I ed. 1955), pp. 6-7. 5
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Paola: Lei c’era quella volta? Giuseppa: No io non c’ero, stavamo a Tiburtino ma no lì. [Giuseppa Cassone, 1925 e Primo Morri, 1921]
Due tracce, quella della toponomastica e della memoria, che sembrano individuare in qualche modo quell’inevitabile legame che un gruppo sociale sviluppa nel corso del tempo con il proprio territorio di riferimento. Legame tra soggetti sociali e territorio che non può trascurare la carica simbolica che processi quali quello di nominazione e di costruzione della memoria finiscono per assegnare a un territorio, trasformando appunto lo spazio in un luogo (Turri, 1998; Turco 2010, 2001). Il Tiburtino III è un luogo7.
Fig. 2a - La borgata di S. Maria del Soccorso (Tiburtino III) nel 1962. Fonte: ????
7 L’uso del concetto e del termine luogo appare ormai ampiamente presente in molte caratterizzazioni disciplinari che in un modo o nell’altro si occupano di territorio. Per quanto riguarda ad esempio le riflessioni più legate alla psicologia ambientale si fa solitamente riferimento alla considerazione del luogo quale interazione dialettica tra una internalità esistenziale, relativa al grado in cui le persone si sentono parte del luogo e una esternalità esistenziale, che comporta invece sentimenti di «lontananza» rispetto al luogo. Per un avvio di riflessione sul tema rispetto ad un approccio di tipo psicologico si veda Bonnes M(1998;2003).
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Fig. 2b - La borgata di S. Maria del Soccorso (Tiburtino III) nel 1984. Fonte: ???
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Figura 2c - La borgata di S. Maria del Soccorso (Tiburtino III) nel 1991. Fonte:
3. Colonizzare, abitare: geografie morali Questa dimensione territoriale del vivere urbano, presente in molte borgate di Roma già a partire dalla metà degli anni Trenta, con i quartieri periferici edificati durante il periodo fascista e descritta così lucidamente da Caproni, sembra rimandare, come si accennava in precedenza, ad una sorta di colonialismo interno, ad una dimensione spazio-temporale presente di fatto già nelle colonie. La delimitazione netta dello spazio abitato, del quartiere, della borgata, la sua «riconoscibilità» come chiaramente emerge dalle cartografie ufficiali e dagli «schizzi» prodotti dagli intervistati, associata ad un vero e proprio controllo politico-poliziesco, che porterà anche all’episodio dell’uccisione della Martinelli, appaiono come elementi indifferibili delle politiche di «riordino» interno degli spazi urbani da parte dei paesi europei protagonisti del periodo coloniale8. 8
La considerazione del vivere e dell’abitare la borgata come condizione coloniale è ampiamente presente anche nelle riflessioni della metà degli anni Settanta su Roma in riferimento soprattutto agli studi di Frantz Fanon. «Vi è però un orientamento prevalente, che merita di essere discusso, perché rischia di far compiere a molti ricercatori un salto culturalmente pericoloso: dal disprezzo aristocratico, all’esaltazione acritica del borgataro come modello di libero comportamento; dal silenzio sui ghetti urbani, alle trombe che amplificano la lotta degli esclusi come avanguardia rivoluzionaria. Questi orientamenti, recentemente declinati, si sono riallacciati alle concezioni diffuse nella sociologia fra il 1965 ed il 1970, e teorizzate con diversi intendimenti da Marcuse in occidente e da Lin Piao in oriente (la lotta delle campagne del mondo contro le città del mondo), sulla perdita della capacità trasformatrice della società da parte del proletariato e sul trasferimento di tale capacità verso gruppi sociali «non integrati». E così, per Roma, gli abitanti delle borgate vengono assimilati alle «condizioni della colonizzazione» perché soggetti a “un processo di trasformazione in dannati della terra” [M.
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Le borgate, e per alcuni versi anche i villaggi operai (Maggioli, 2008), suggeriscono proprio questo: segni di demarcazione territoriale «altre» rispetto alla città che li contiene. La vicinanza al Forte, ad esempio, nel caso del Tiburtino III così come nei casi di Pietralata o di Primavalle o del Quarticciolo, non sembra essere del tutto casuale ma risponde, anche qui, a precise logiche di controllo e vigilanza che, come ci ricorda Insolera, sembrano nascere dalla «Relazione per il 1929 a S.E. il principe Francesco Boncompagni Ludovisi, governatore di Roma, del delegato dei servizi assistenziali del governatorato, Raffaello Ricci» in cui si prefigurava la costituzione di borgate rurali sotto la vigilanza di una stazione di carabinieri e della milizia volontaria per la sicurezza nazionale a causa della presenza, nelle baracche vicine alla città oggetto di sgombero, di «famiglie di irregolare composizione, di precedenti morali non buoni» (Insolera, 1976, p. 141). «Precedenti morali non buoni» ci ricorda Insolera con le parole della Relazione del ‘29 che chiariscono ancora una volta l’intenzione di correlare le condizioni di vita della classe lavoratrice a presunte geografie morali e politiche (Torres, 1996) con le argomentazioni tipiche sollevate dai medici igienisti ottocenteschi per Parigi (Chevalier, 1976) o per gli slums della città di Londra. Ricordo una frase che venne usata a suo tempo da Mussolini, nel motivare i trasferimenti dal centro alla periferia, la frase che si usava era: «Lungo le rive del biondo Tevere e ad est dei Colli Albani». E a fronte di quella indicazione che doveva essere un indicazione di carattere, io l’ho letta dal punto di vista delle espulsioni dal centro storico per realizzare la Roma Imperiale, Porta Metronia e quant’altro, l’idea è quella di segregare le popolazioni quelle forse meno eh…gestibili, eh…appunto in questa parte della città di Roma. Basta vedere alcune foto dell’epoca…oggi noi ci lamentiamo quando riusciamo a realizzare dei piani di zona e fatichiamo per realizzare le strade, le fogne, l’illuminazione pubblica, i servizi, ma per ragioni che prescindono dalla volontà di espellere qualcuno, problemi di carattere proprio gestionale e di risorse a disposizione. All’epoca se vedete le immagini noi abbiamo questi quartieri che sono di fatto calati nel deserto e quindi sembrano davvero, sembra quasi assistere a delle caserme che vengono sistemate ai confini del mondo. E questa è stata la storia di Tiburtino III, di Pietralata, di San Basilio [Ivano Caradonna, 1957]. Perché parlare di questo quartiere, se ne potrebbe parlare... si può fare un seminario... di tanti giorni, perché per esempio non abbiamo parlato, e sarebbe importante parlarne ma diventerebbe anche troppo lungo, come è nato questo quartiere e perché è nato questo quartiere... eh, questa è la storia, voglio dire, questo quartiere come altri quartieri delle borgate romane, o dei borghetti romani, è nato dietro le mire della Roma imperiale fascista, demolendo le vecchie case dove abitavano questi, all’epoca quasi tutti artigiani, muratori, idraulici ecc. ecc. che portati via nel loro habitat naturale che era, come dicevo, parte Porta Metronia, la Navicella, Monte Caprino, via della Conciliazione, ecc. ecc. e altri luoghi ancora, furono trasferiti con camion militari, c’è un bel pezzo su quel film, in questi lotti, in questi lotti in cui altri quartieri erano ancora più brutti di Tiburtino... Pietralata, c’erano per esempio le famose casette di sette lire, in cui avevano una cabina [Domenico Zanella, anno?].
Quartieri calati nel deserto, caserme sistemate ai confini del mondo. In questo modo può essere sintetizzata la vicenda di brandelli consistenti della periferia romana e del loro controllo. 4. Città come narrazione Del brano riportato dell’intervista a Paola Padella, abitante del Tiburtino III, che introduce questo contributo, colpisce poi un elemento su tutti: la casa come luogo che per definizione circoscrive lo spazio del «dentro», luogo per eccellenza della memoria e del racconto (Bachelard, 1993in biblio 1975). Essere fotografato «tra la strada e la casa» assume in questo contesto un significato del tutto particolare Lelli, Dialettica del baraccato, De Donato, Bari, 1971, pp. 10 e segg, e poi collocati, nei confronti della classe operaia, «come il negro di fronte ai radicali bianchi». Vengono giudicati analfabeti politici, poiché «il baraccato non sa chi è il presidente della repubblica, non va mai alla riunione di partito, magari il 13 giugno si scopre una strana vocazione a votare a destra, ed è isolato, un apolitico» (Berlinguer G., Della Seta G., 1976, p. 355).
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tra il «dentro» e il «fuori», due luoghi – la casa e la strada – a partire dai quali l’individuo si colloca, si posiziona e, soprattutto, inizia a raccontarsi9. Esiste una relazione tra questi due elementi, conclude l’intervistata. Quasi che il racconto sia lì a rimescolare spazio pubblico e spazio privato, uno spazio inedito che demolisce i confini tra individui e collettività: «spazio come luogo allora, memoria come traccia: lungo questa linea si giunge nel vivo di una tematica, quella dei luoghi della memoria, che ha dato vita, nei decenni passati, a una fortunata produzione storiografica» (Tarpino, 2008, p. 20). Dentro casa tutte brande, c’era un armadio solo, fatto sai... quegli armadi vecchi, antichi, e tutti letti praticamente, e mamma dormiva pure in cucina, perché ciavevamo due camere e cucina per quattordici persone [Anna Antonini, 1942].
Fig. 3 - Case del Tiburtino III Fonte: ?
Lo spazio abitato, realtà visibile e materiale si manifesta allora come spazio della memoria, collettiva e individuale, spazio di sovrapposizione delle appartenenze e delle diverse narrazioni dove si formano, nel corso del tempo, soggettività plurime che definiscono e strutturano una molteplicità di «paesaggi culturali», una molteplicità di «geografie» possibili10. Di questi cittadini abbiamo provato qui a rintracciarne e a tracciarne i segni ancora attivi della loro memoria incrociando la fitta rete dei ricordi con quella del loro racconto: uno dei tanti possibili canovacci toponomastici su cui sovrapporre la mappa, quella reale, dei luoghi. È in questo senso che lo spazio urbano viene prodotto, attraversato, utilizzato, vissuto. È qui che si inscrivono le pratiche 9 Sul tema dell’abitare e della casa, su cui si torna più volte nel testo, forse poche discipline oltre alla geografia possono vantare una tradizione così lunga, quasi quanto quella sul paesaggio, che risale certamente alle ricerche coordinate da Biasutti sulla casa rurale tra la metà degli anni Venti e il primi anni del decennio successivo. Senza qui ripercorrere per intero il percorso critico (si veda su questo Varotto M., Abitare oltre le abitazioni: aperture geografiche, in «Rivista Geografica Italiana», 113, 2006, pp. 261-284), interessa qui sottolineare come risieda soprattutto nelle elaborazioni della geografia francese degli anni Settanta attorno all’idea di spazio vissuto, il passaggio forse fondamentale nella considerazione dell’abitare come sentimento di appartenenza e non solamente quale oggettività insediativa. 10 Circa l’ampio rapporto tra spazio e memoria si veda su tutti un testo classico come Leroi-Gourhan A., Il gesto e la parola, Torino, Einaudi, 1977 (ed. or. 1965 ). In particolare, nel secondo dei due volumi di cui il testo si compone, l’autore riconosce proprio alla coppia spazio e memoria l’atto costitutivo dell’origine della vita dei gruppi umani.
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individuali e quelle comuni, è qui che si intrecciano le storie singole e quelle collettive. La città diventa così anche spazio esistenziale e, al tempo stesso, spazio percepito. Se lo spazio percepito corrisponde ad una pratica concreta dello spazio, lo spazio concepito (quello degli urbanisti o dei pianificatori) è invece in tutto una rappresentazione. Quanto allo spazio vissuto, esso è costituito dagli spazi di rappresentazione che vengono esperiti e percepiti attraverso simboli e immagini. Paola: Il lotto X esiste ancora?. Marcello: No, il lotto X è stato tolto, era proprio in direzione de questo fabbricato qui. Paola: Ah e quando è stato tolto? Marcello: È stato tolto nell’Ottanta. Paola: Quindi siete passati qua. Marcello: È il nuovo rifacimento che hanno fatto, hanno fatto ‘ste case che fanno pena, dice mo’ ... basta controllare che c’è tutto il cemento esterno, i terrazzi che fanno pena, i garages, le cantine, l’immondizia a secchi, nun c’è nessuno che prende provvedimenti. Paola: Dove stava il lotto X? Marcello: Il lotto X era in direzione de via del Badile, via del Badile n. 10, c’era questo fabbricato, c’era un palazzetto con due piani e cinque scale, e altri quattro fabbricati invece de quattro piani. Dopo il palazzone, dopo il palazzone lungo una via, quella era via della Trebbiatrice, angolo a via del Badile c’era tutto il lotto X. [Marcello Carboni, 1935]
Non solo e non tanto testimonianze che ci informano su di un territorio, ma testimonianze che dal territorio, dai luoghi stessi del vivere quotidiano, si dipanano: «storie non rappresentative ma esemplari […] un orizzonte di possibilità» (Portelli e altri, 2006, p. 3) utilizzabili nella descrizione dei luoghi, non certo una ricostruzione necessariamente oggettiva, né un campione statistico. Impressioni, narrazioni, punti di vista. Storie dunque autobiografiche che raccontano di «paesaggi» urbani della soggettività, spazi anche immateriali dell’immaginazione, della memoria, dei desideri11. 5. Luoghi, memorie, racconti A partire dagli ultimi venti anni del Novecento si è inaugurato, come si diceva, proprio in questa direzione un fortunato filone di ricerche intorno ai «luoghi della memoria» che i diversi approcci disciplinari hanno espresso, caratterizzato e declinato variamente nel corso del tempo. Questo rapporto tra luoghi e memoria si è collocato oltre la soglia delle geografie storiche, affondando le proprie radici più nel pensiero sociologico, storico e antropologico classico (Tarpino, 2008) che non nel rapporto che queste memorie intrattengono con la concretezza dei territori su cui si formano. Il genere di memoria a cui si fa spesso riferimento rimanda, a ragione, al «valore della memoria», alla possibilità cioè di ricondurre da un lato ad un comune e condiviso «principio di verità» e dall’altro ad una necessità di affiancare alle analisi disciplinari le esperienze vissute direttamente dai protagonisti. Accanto a questa lettura di fatti specifici, che comunque attribuiscono senso all’abitare, si cerca qui di affiancare un’idea di «memoria» che può configurarsi quale dato culturale che si lega al territorio abitato. In questo senso la memoria può rappresentare il tratto comune per la costruzione, da parte dei cittadini, di linee di continuità che spiegherebbero anche l’assetto attuale degli spazi urbani, della borgata nel nostro caso. Questo approccio, che potrebbe risultare a prima vista poco rassicurante proprio in virtù del sospetto di essere strumento utile alla costruzione di identità rigide, ci appare in Si è sviluppato di recente, prevalentemente in ambito accademico anglosassone, un vero e proprio filone di studi che prende a riferimento le autobiografie come elemento di analisi dei fatti territoriali. Un primo esempio di questo tipo di approccio ai «fatti territoriali» lo si può rintracciare in Boyer, M.C., The city of collective memory, Cambridge, MA, MIT Press, 1996 e nei più recenti contributi di H. Lorimer Telling Small Stories: Spaces of Knowledge and the Practice of Geography, in «Transactions of the Institute of British Geographers», New Series, Vol. 28, No. 2, Jun., 2003, pp. 197-217 e di Daniels S., Nash C., Lifepaths: geography and biography, in «Journal of Historical Geography», 30, 2004, pp. 449-458. 11
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realtà come uno degli itinerari di ricerca possibili nell’approccio ai fatti territoriali in quanto pone al centro del discorso i luoghi stessi del vivere sociale. Il confronto nostalgico tra un «Tiburtino III di un tempo» e un «Tiburtino III di oggi» potrebbe apparire in sostanza operazione del tutto regressiva se letta esclusivamente in una prospettiva fissa e oggettiva dove la memoria rappresenta un deposito inerte e non in continuo divenire. Paola: Dove la facevate la spesa? Regina: Nel quartiere, c’era il negozio, Bastiano, che adesso lui è morto, però ce stanno i fratelli, i figli, i Salvatori... fino a quando abbiamo cambiato casa lui era ancora vivo, Bastiano. Sandra: L’unico rimasto. Regina: Quand’ero piccola piccola c’era il forno che si chiama Tritelli, poi c’era Natale che mo’... Sta... a via Mozart adesso, ‘a piazzetta su. Sandra: Sul piazzale, verso la chiesa, dove c’è quello spiazzo... Regina: Prima no, prima era sempre giù in fondo... il macellaio, quello che vendeva il cavallo... Paola P.: Eh, Lauro! Ch’abitava qua sotto. Regina: ...tutti i vari negozi, perchè ogni cosa cià ‘na storia sua, ecco, mo’ ripensandoce chiudi gli occhi... Paola P.: ‘A tintoria... Regina: ...te ricordi tutto, insomma... c’era il negozio, Bastiano, che adesso lui è morto, però ce stanno i fratelli, i figli, i Salvatori... fino a quando abbiamo cambiato casa lui era ancora vivo, Bastiano... quand’ero piccola piccola c’era il forno che si chiama Tritelli, poi c’era Natale che mo’... sta a via Mozart... ‘a piazzetta su. Prima no, prima era sempre giù in fondo... il macellaio, quello che vendeva il cavallo... tutti i vari negozi, perché ogni cosa cià ‘na storia sua, ecco, mo’ ripensandoce, chiudi gli occhi... te ricordi tutto. [Paola Padella,1964; Sandra Fortuna, 1964; Regina Bruschi Polidori, 1960]
In ogni modo è proprio nei luoghi, cantieri in cui si formano incessantemente i nostri ricordi, che si consuma una memoria sovrabbondante quanto priva di parole (Assmann, 1997). È proprio qui, nei luoghi, che gli eventi storici e sociali si inscrivono tra le pietre; porzioni di spazio urbano ci narrano le diverse vicende delle generazioni che si sono succedute. Lo spazio costruito oltre a fornirci il racconto dei protagonisti che lo abitano, costituisce così una parte fondante di un puzzle in continua formazione – il racconto, la memoria e l’evoluzione della città non sono mai in sé definitive – attraverso cui cercare di ricostruire i contorni dell’intero mosaico. Memoria e racconto capaci entrambi di definire da un lato vere e proprie «geografie personali» (Demetrio, 2008) e dall’altro di rivestire una determinante capacità evocativa rispetto ai luoghi vissuti. Carte geografiche dei soggetti e del vissuto che amplificano e collocano gli eventi in un «palinsesto» territoriale e si fanno in qualche modo, in tutto, «paesaggio» (Pieraccini e Matucci, 2001 ; Guarrasi, 2006 in biblio 2008). Memoria come atto costitutivo degli individui e dei gruppi sociali, che si colloca negli oggetti, anche loro spesso avvolti dal lavoro della memoria, che continuamente ne cambia sia il senso sia la percezione. Memoria dell’abitare, attenta alle stesse configurazioni territoriali, alla stessa geologia, alla stessa origine e provenienza sociale e territoriale degli abitanti che viene assunta quale modello dalla collettività in perfetta sintonia con l’ambiente circostante: «La memoria si consuma ormai in prevalenza oltre la sfera canonica dell’autorictas (lo spazio pubblico della tradizione) per investire impercettibilmente la dimensione ibrida del quotidiano (lo spazio domestico della vita)» (Tarpino, 2008, p. 4). A questo inevitabile senso di appartenenza ai luoghi può essere attribuita una duplice quanto semplice lettura che tiene conto del farsi luogo dell’individuo sociale e viceversa: «un luogo può appartenerti, come i tuoi oggetti, o tu puoi appartenere a un luogo. Il senso di appartenenza è fatto in larga misura di memoria: per appartenere a un luogo devi legargli la memoria; per legare le tue memorie a un luogo devi viverci esperienze memorabili. È strano che la gente trasformi qualunque cosa accada in esperienza, senza differenza tra ciò che è assolutamente ordinario e ciò che non lo è. Così, persone che vivono in condizioni di totale ordinarietà, senza che niente di straordinario accada, possono provare un 19
forte senso di appartenenza: ciò che conta realmente è l’intensità dei ricordi, o l’enormità di ciò che può essere rinvenuto nella memoria» (Casu e Steingut, 2000, pp. 143-144). È possibile cartografare, ordinare, classificare questi meccanismi di riconoscimento dei luoghi? È possibile ridurre alla razionalità cartografica la complessità delle storie che compongono i luoghi? O non ci si scontra inevitabilmente con la considerazione che i territori, e i luoghi che li compongono, sono tutt’altro che fissi e immobili? E che questa dinamicità altro non è che la risultante di un’incessante dialettica tra soggetti sociali, tra spazio della soggettività e spazio pubblico, tra spazio delle norme e spazio della trasgressione? «Il paesaggio che la carta si propone di rappresentare è innanzitutto il territorio della memoria di chi lo abita e lo lavora e lo vive quotidianamente; solo in seconda battuta è il diagramma dei “cartografi”, dei suoi interpreti autorizzati dal potere. Più la memoria storica è sviluppata e dà spazio al suo spessore culturale, più il territorio si presenta in tutta la sua ricchezza non solo concretamente paesistica e geografica ma anche simbolica e mitica» (Quaini, 2002, p. 76 ). D’altro canto, nel suo lavoro più noto, L’immagine della città, Kevin Lynch evidenzia proprio come affinché una zona della città possa essere considerata come quartiere è necessario pensarla come tale: «quartieri sono le zone della città, di grandezza media o ampia, concepite come dotate di una estensione bidimensionale, in cui l’osservatore entra mentalmente “dentro”» (Lynch, 1962, p. 66 ). Il quartiere, e dunque una porzione più o meno consistente dello spazio urbano, ci appare da un lato rappresentazione cartografica (bidimensionale e piana) e dall’altro anche rappresentazione «pensata», e narrata. Lo spazio fisico della città quindi, come d’altro canto il tempo, si manifestano come parte integrante dell’esperienza di ogni individuo, della formazione della sua identità, del suo rapporto con la realtà territoriale che lo circonda. 6. Confini La città può essere considerata una porzione di territorio percepibile tendenzialmente come unitaria, continua ed omogenea in virtù della presenza di «confini», più o meno formalizzati, che ne indicano i limiti entro i quali si relaziona la posizione del singolo rispetto al tutto. All’interno di questo territorio si svelano tuttavia numerose differenze che possono essere indicate, almeno in prima approssimazione, con le partizioni dei quartieri, dei rioni, delle zone urbanistiche. Queste differenze possono esplicitarsi poi, in maniera ancora più dettagliata, facendo riferimento tanto alla pluralità dei volti architettonici, alla presenza o all’assenza di determinate funzionalità, alla varietà degli usi del suolo e delle strutture, quanto alle vicende storiche dei singoli e delle comunità che vi abitano. All’interno di questo tessuto, complessivamente «omogeneo», si possono rintracciare dunque porzioni di territorio che presentano a loro volta una loro omogeneità intrinseca a cui non sono certamente estranee, come abbiamo sottolineato in precedenza, le stesse politiche urbanistiche e le intenzioni dei pianificatori. Le storie che si incontrano a Tiburtino III, quartiere che si colloca originariamente in una posizione di confine tra città e campagna, sono esse stesse storie di confine, tra pratiche dell’abitare e forme assunte da queste pratiche nello spazio urbano. Molte delle storie raccolte si snodano tra questi limiti. Confini che sembrano risolversi in una doppia dimensione spaziale: quella interna delle vicende individuali dove il senso di appartenenza al luogo si muove attorno a margini, reali e immaginari, e quella esterna del luogo stesso come spazio, almeno originariamente, circoscritto, in qualche modo chiuso, delimitato nella sua stessa conformazione urbanistica e dalla posizione assoluta assunta nel quadro territoriale complessivo della città. Me ricordo un fatto che è stato un’emozione, con mi’ sorella, c’era il capolinea qui del 309, e come ho detto sempre, era un discorso che Tiburtino era un circolo chiuso, e «annamo a Roma», presimo l’auto, pagammo il bijetto, semo saliti dietro in piattaforma, e a guardà tutte le vetrine, sulla via Tiburtina, fino alla stazione Tiburtina [Marcello Carboni, ]12. 12
Il tema della «chiusura» del quartiere risulta abbastanza frequente nelle interviste. Un esempio, oltre a quello già citato, può essere rintracciato anche nel testo di Paola Spano dove si riporta l’intervista a Giulio Fortuna e Anna Antonimi che ricordano come: «Era chiuso Tiburtino, era un nucleo a sé, quando che se parlava
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Confini che nel racconto si identificano in primo luogo con le stesse strutture naturali del territorio abitato, con la sua conformazione geologica. Il fiume – l’Aniene in questo caso – le grotte, la pineta, la marrana costituiscono al tempo stesso luoghi di rifugio e di riparo, elementi di separazione e di comunicazione. È a partire dalla materialità dello spazio che si definisce se stessi e il proprio rapporto con lo spazio circostante. Paola: Dove era il Maranone, sulla Collatina? Amelia: No, uno passa sotto il palazzo di Regina... il Maranone, poi c’era l’isolotta chiamata l’isolotta perché questa marana girava ed andava nell’Aniene, di là veniva la cascata, la chiamavamo, ed era un’altra marana più grande che veniva dal Quarticciolo... noi pe’ anda’ all’isolotta, perché poi c’erano i reticolati che se confinava coi Fabrizi, e allora noi pe’ anda’ all’isolotto, si chiamava l’isolotto proprio, c’era un bel ponte grande de legno, grande come ‘sta stanza... il portone de Regina sta proprio dove passava la marana sotto, e più giù a venti metri c’era il ponte che andava all’isolotta. [Amelia Mancini, 1932]
Andare dall’altra parte, per entrare in un altro «spazio del dentro», quello della grotta, della conformazione geologica del territorio dopo aver superato l’impedimento del fiume che quando pioveva invadeva con le sue acque limacciose le strade sterrate. ... da sta parte qui dove ce stanno i marmi c’era il Pescatore, se chiamava Peppone e quando se allagava tutto, veniva su con la barca. Noi quando andavamo a Ponte Mammolo, ragazzini, ci apriva il cancello, perché c’era un cancello che passava sull’Aniene e attraversavamo lì per non fare tutto il giro pe arriva’ a Ponte Mammolo; andavo quando era tempo delle biocche, le prime galline che si abbioccavano, andavo giù io col cestino a rimediare le uova, quelle della prima biocca... [Amelia Mancini].
Territorio di confine e dell’esilio quello del Tiburtino III dove le case, lo spazio del dentro, sono descritte efficacemente da Giulio Caproni, in un’inchiesta del 1946 del «Politecnico», con l’elementare figura del rettangolo. Abitazioni con un perimetro nettamente delimitato e riconoscibile: «Potrebbe un bambino di IV elementare disegnare la pianta di ciascuna di queste borgate: ogni fabbricato un rettangolo diviso in due o tre quadrati: ogni quadrato è un vano e spesso ogni vano è un’abitazione. E su ciascuna di tali piantine topografiche, tutte contornate dal verde dell’agro, un nome: Tor Marancio, Pietralata, Tiburtino III, Gordiani» (Caproni, 1946 b). «Rettangoli come case» le chiamava dunque Caproni ad indicarne la semplicità della forma e la centralità nella dimensione spaziale più ampia della borgata e della città che li conteneva. Cubature di uno scaffale anagrafico. In questo quadro, la casa, luogo e metafora delle memorie, spazio di testimonianza delle grandi fratture epocali, oltre che elemento architettonico che struttura paesaggi e territori, assume significati del tutto centrali in un discorso sui territori urbani. In molte aree del nostro paese ad esempio l’avventura industriale come l’hanno immaginata gli urbanisti più sperimentali e come si è poi sorprendentemente stratificata ha assecondato, paradossalmente, la pianta degli antichi rustici e dei cascinali. O ancora, e nel caso più specifico in esame, le case altro non sono che il richiamo, inconsapevole certo, ad una memoria rurale dei migranti interni di quegli anni. L’abitare dunque in questo senso non può essere limitato alla sola analisi dell’oggetto-casa ma va considerata la sua complessità semantica (Varotto, 2006): «Non basta considerare la casa come un “oggetto” è necessario dire come abitiamo il nostro spazio vitale in accordo con tutte le dialettiche della vita, come mettiamo radici, giorno per giorno, in ogni angolo del mondo» (Bachelard, 1975, p. 35). Se
per dirti del Quarticciolo, sembrava che il Quarticciolo fosse stato in provincia dell’Aquila, e il Quarticciolo stava qui de dietro. Capito? Era proprio… s’eravamo richiusi a riccio un po’ tutti, c’era proprio quella cosa».
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dunque, afferma Bachelard, ogni spazio abitato contempla in sé la nozione di casa, è l’azione di abitare e di spazio abitato che implica la nozione di casa e non viceversa. Qui a Tiburtino III c’erano tutte casette basse, come a Tor Marancio, però qui c’erano i bagni, a Tor Marancio dovevi andare fuori a fa i bisogni, la notte, in pieno inverno, perché non c’era niente. Io non ci ho abitato a Tor Marancio, ma c’era mio zio, io stavo alla Garbatella, mamma mia tante volte, quando lo rimediava, metteva un pezzetto di carne, andavamo da mio zio e facevamo una festicciola. Qui a Tiburtino c’erano le casette, ma io abitavo al lotto X, un bel palazzo, avevo una bella casa, tre camere e cucina, vicino alle suore Sacramentine, ma erano meglio di queste, quelle non le sfondavi neanche con i cannoni, queste so’ fatte de ricotta [Umberto Mattioli, 1932].
«Memorie dei luoghi che si rimescolano raccontando, attraverso tracciati invisibili, le storie di uomini e del loro lavoro o le comunità spezzate del disordine anonimo postindustriale» (Tarpino, 2008, p. 7). In un certo senso si potrebbe ricordare quanto Camporesi scriveva in questa direzione a proposito del paesaggio (Le belle contrade, 1992 ). Se in Camporesi il paesaggio è la materializzazione delle fatiche umane che si esplicitano nella presenza, accanto alla città dotta, di una città fatta di case laboratori, di luoghi del lavoro, la memoria dello spazio abitato può rappresentare qui la trama attraverso la quale indagare, al di sotto della filigrana, le piante urbane di borghi e quartieri (Tarpino, 2008). «La memoria rimescola il pubblico e il privato, il singolo e il gruppo, ma lo scenario della vita quotidiana, cui si attaglia sempre più, disegna uno spazio inedito che abbatte i confini rigidi tra individui e collettività, tra le ombre domestiche dell’oikos e le luci della polis […] spazio come luogo allora, memoria come traccia […] I luoghi della memoria sono i nuovi testimoni, su cui grava la traccia del passato: e in nome di quell’impronta, carica di pathos, lo spazio da pura estensione, animata solo dal fluire del movimento, si trasforma in luogo» (ibidem, pp. 19-20). Questa stretta relazione tra luoghi e memoria «segna» il territorio in maniera indelebile, ne riattiva i codici narrativi e ne trasmette di nuovi. È a partire da questi elementi (l’abitazione, la pianta urbana, le linee di confine esterno e interno, gli elementi concreti dello spazio) che si producono nelle nostre periferie molteplici paesaggi urbani, luoghi dalle diversificate forme identitarie (Bonesio, 2007) in cui il senso di assegnazione di significato ai luoghi appare strettamente connesso a rapporti di potere. Questa attribuzione di senso ai luoghi viene costruita, e si muove, a partire da strutture di potere (Massey e Jess, 2001 manca) e solo in parte attraverso elaborazioni «dal basso», attraverso il « vicinato» quale realizzazione variabile della località13. Dal nostro punto di vista è dunque più l’idea di vicinato, che non quella di località, ad aver acquisito maggior rilevanza nei processi di costruzione delle periferie negli ultimi anni. Vicinato come realizzazione «variabile» delle località.
«Uso il termine vicinato per riferirmi alle forme sociali effettivamente esistenti in cui la località, come dimensione o valore, si realizza in misura variabile. I vicinati, in questo senso, sono comunità effettive caratterizzate dalla loro concretezza spaziale o virtuale, e dal loro potenziale di riproduzione sociale» [Appadurai, 2001, pp. 231-232 manca]. 13
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Figura 5 - La palude al Tiburtino III. Fonte: «Il Politecnico», 22, 23 febbraio 1946
7. Migranti «Il Tiburtino è definito Terzo, nella denominazione dell’Istituto Case Popolari, in quanto preceduto da altri due “Tiburtini”: il Primo, San Lorenzo, il più antico (Sanfilippo, 2003 ), il Secondo completato nel 1926 dall’Istituto Case Popolari su un’area di proprietà della contessa Narducci14 all’ingresso di Piazza Bologna e composto da sette lotti, con circa cinquecento alloggi e mille residenti. In realtà, «Santa Maria del Soccorso, [a differenza di Pietralata che sorge all’interno dello stesso Municipio NdA] faceva parte di un gruppo di borgate – con Primavalle, il Trullo, il Villaggio Breda e il Quarticciolo – costruito dall’Istituto Case Popolari secondo un disegno, un impianto e un sistema di gerarchie urbane forse schematici, ma comunque strutturali. Le avevano progettate Giuseppe Nicolosi e Roberto Nicolini» (Rossi, 2005, p. 19). Il racconto della storia del Tiburtino III inizia, come altre borgate nate nello stesso periodo, da lontano, da Porta Metronia, o comunque dai nuclei sorti nell’area destinata ad ospitare l’Esposizione Internazionale del 1942: «Calza Bini presidente dell’ICP nella sua relazione del 27 febbraio 1927 alla Presidenza del Consiglio, fa presente che più di mille sono le famiglie che vivono ancora nelle luride e malfamate baracche di Porta Metronia, Porta Latina, della Ferratella e dell’anfiteatro Castrense, in quelle baracche, cioè, che le Amministrazioni comunali di Roma dal 1911 in poi hanno solennemente promesso di demolire e che solo in piccola parte l’Istituto ha potuto abbattere a Porta Metronia» (Coiro Cecchini, 2001, p. 75).
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L’area era di proprietà della contessa Narducci fin dai primi anni del Novecento. Il cosiddetto Tiburtino Secondo è composto da 7 lotti, con circa 500 alloggi e oltre 1.000 residenti.
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Fig. 6 - Pianta di baraccamento a Porta Metronia (1911). Fonte: Politecnico, 16, 12 gennaio 1946
La storia della borgata inizia da quei quartieri che oggi si direbbero consolidati della città: è da lì che arrivano, o sarebbe meglio dire vengono deportate, gran parte delle famiglie del Tiburtino III. È da lì che tutto inizia, per lasciare spazio ai nascenti quartieri delle piccola borghesia impiegatizia e all’architettura autorefenziale del regime: lì case per impiegati, qui case per operai, lì grandi spazi ordinati e marmorei, qui piccole abitazioni a due piani. Prima di Tiburtino III gli sfrattati di Testaccio li mandavano alla Magliana periferia (Valchetta Ronchi-San Paolo) che era tutta campagna. Poi Mussolini con Esposizione ‘42 mandò tutti via dalla Valchetta; tra Primavalle e Tiburtino III. Noi preferimmo Tiburtino III. Nel ‘36 tutta la gente delle borgate fu trasferita a Tiburtino, specialmente quelli di Porta Metronia. Perciò con l’Esposizione ‘42 i trasferimenti sono stati: da Testaccio a Valchetta Ronchi e da lì a Tiburtino III. Perché le case di Testaccio furono messe in vendita, perché erano della Cassa di Risparmio [Primo Morri anno?]. Papà ha lavorato quarant’anni al mattatoio, perché era di Testaccio, lui stava ai cavalli era specializzato, prima faceva lo scalpellino in selci, i sampietrini, lui li faceva nuovi ad Amatrice, andava con la bicicletta, si portava uno sfilatino pieno di patate, solo quello c’era, gli amici sua ciavevano i soldi si facevano gli spaghetti alla amatriciana, lì ad Amatrice lui con la bicicletta [Umberto Mattioli anno?].
È il 1937 dunque e gli operai edili di Porta Metronia sono obbligati a raccogliere le loro cose e a trasferirsi in una striscia di terra non molto ampia che dalla via Tiburtina arriva a lambire i terreni incolti che confinano con la Collatina Vecchia, stretta tra via Grotte di Gregna e il Forte Tiburtino. La deportazione avviene nel giorno di Sant’Antonio. Mia madre è venuta da Porta Metronia [Marisa Marcellino, 1938]. Dove sei nata? A Porta Metronia [Ornella Speranza, 1927]. Sono nata il 26 maggio 1935 a Porta Metronia [Maria Pia Lattanzi]. Il I lotto so’ venuti nel ’33. Ereno tutti de Porta Metronia [Amelia Mancini].
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Figura 7 - Vista dall’alto dei baraccamenti a Porta Metronia (1911). Fonte: Politecnico, n.16, 12 gennaio 1946
Un lembo di terra in cui in oltre 60 anni di storia ha convissuto una popolazione che è andata progressivamente dimezzandosi, dai quasi 20.000 residenti del 1951 ai circa 10.000 del 2001, destinata appunto a perdersi già all’interno degli oltre 620 ettari del vasto territorio dell’odierno V municipio. Così Pasolini descrive la zona nel racconto La Mortaccia: «Lì c’era la fermata degli autobus, il 109 che voltava già verso il centro di Tiburtino, il 211, il 213 che seguitavano verso Ponte Mammolo e San Basilio, e pure i pulman che andavano a Tivoli: la fermata era sotto dei pali della luce elettrica, lungo la strada, in mezzo a uno spiazzale: dietro lo spiazzale cominciavano i lotti di Tiburtino, bassi e chiari, come magazzini, in fila, con la chiesetta, e, più in fondo, dei palazzi più alti di stile fascista» [P.P. Pasolini, 1965, p. 245] e ancora poco più avanti sempre nello stesso racconto «... laggiù i lotti di Tiburtino, tutti uguali, si scandagliavano appena perché erano intonacati di bianco: e così il Silver Cine, e la fabbrichetta di sapone costruita da poco. Da lì al ponte dell’Aniene c’era almeno un chilometro di strada. Ecco, anche l’osteria del ponte e la fabbrica di varechina sopra i vivai sul fiume: tutto deserto, come disabitato da almeno mille anni» [ibidem, p. 247]15. 8. Conclusioni L’attenzione nei confronti della dimensione residenziale delle pratiche abitative ha rappresentato per alcune discipline un elemento continuo di ricerca e di lavoro. La dimensione territoriale di questo fenomeno assume contorni tuttavia più sfumati e chiama in causa categorie semantiche molto più ampie. Si tratta infatti di un tema che può essere declinato in modi molto diversi fra loro, secondo scale e dimensioni molteplici che vanno da quella più minuta e introversa della sfera domestica, a quella
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Si veda P.P. Pasolini, La mortaccia (frammenti), in Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano, 1965, p. 245 e 247. Come è noto, lo stesso Pasolini si è soffermato in più di una occasione nelle sue opere, anzi se ne potrebbe rintracciare un vero e proprio filo rosso, ad analizzare quel processo di sradicamento che una parte della popolazione romana ha subito nello spostamento forzato dal centro alle borgate periferiche. Tra le numerose indicazioni che si possono rintracciare nell’opera pasoliniana ci sembra particolarmente significativo quanto indicato complessivamente in Appunti per un poema popolare del 1953, contenuto sempre nel già citato Alì dagli occhi azzurri: «I Bevilacqua non è sempre stata a Pietralata; viene dal centro di Roma, forse da Borgo Pio, o Trastevere, o San Lorenzo. I fermenti che giocano sotto la vicenda di Amerigo, sono appunti i rapporti d’onore, suoi e della sua famiglia, con la Borgata» (p. 91) e ancora poco più avanti: «Le famiglie che dallo sventrato Borgo Pio vanno a Primavalle o al Quarticciolo o al Tiburtino, regrediscono non solo nella vita sociale, ma forse anche nel tempo: i vizi dell’unione famigliare si acuiscono. Ma portano la nobiltà della casta in cui si è chiusa la plebe, il sottoproletariato romano, nel corso dei secoli. Un borghese non immagina nemmeno la chiusura e la sufficienza a se stessa di questa casta: che vive una vita moderna solo coi moderni […] mentre riaffonda in un linguaggio, in un valore della vita che non sono del nostro tempo, quando è sola, nel rapporto dei propri membri» (ibidem, p. 94). Si veda, sempre nello stesso testo, quanto indicato a p. 91: manca qualcosa o c’era solo un punto?
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intermedia relativa a porzioni dello spazio urbano, a quella infine più ampia legata alla conoscenza e all’esperienza del e sul paesaggio urbano. In funzione di queste diverse scale di analisi, i relativi processi identitari di appartenenza, di autoriconoscimento e significazione che ne scaturiscono sembrano configurarsi a volte in maniera opposta e a volte conflittuale. Ormai qualche anno fa, nell’ambito di un importante convegno di studi che si interrogava circa gli impatti e le trasformazioni territoriali e sociali indotti dalla «nuova cultura della città» (De Bonis, 2003 ) Giuseppe Dematteis e Francesca Governa illustravano, da un punto di vista geografico e molto chiaramente il senso da attribuire al concetto, molto ampio, di identità territoriale. Gli autori evidenziavano in quel contributo come l’idea di identità, trasferita in una dimensione territoriale, altro non è che il momento di incontro di tre diversi «assi» di analisi: «quello della coerenza interna, che rinvia alla differenza e al confine con l’altro; quello della continuità nel tempo, che chiama in causa memoria, tradizioni, abitudini, e quello della tensione teleologica, che si collega all’azione proiettata nel futuro» [Dematteis e Governa, 2003, p. 265-266]. Questi tre diversi momenti intervengono alternativamente in funzione degli obiettivi di studio: in funzione delle città o delle regioni, ad esempio, sono spesso chiamati in causa i primi due assi (coerenza interna e memoria), mentre nel caso di analisi sullo sviluppo la linea teorica tende a privilegiare più la tensione teleologica che non gli altri due tipi di approccio. Il risultato, come in effetti molto spesso si nota, è lo svuotamento dell’idea di identità territoriale e l’inevitabile approdo verso territori retorici. Solo la simultanea considerazione dei tre assi indicati può originare, forse, «un significato cognitivo e, in una certa misura oggettivo, all’identità territoriale» (ibidem, p. 266) evitando così il rischio di definizioni parziali e rischiose oltre che nostalgico-regressive. L’indagine su Tiburtino III cerca di rendere esplicite tali dinamiche: uno spazio esterno al confine della città «matura», ritagliato in una logica di segregazione e ghettizzazione, nelle intenzioni mero contenitore di povera gente, diventa con il tempo luogo della solidarietà religiosa e familistica, terreno di rivendicazione politica, area di lotte civili a partire dalla «semplice» condivisione di un vissuto, in cui segni del paesaggio culturale si strutturano come tali in virtù principalmente della loro capacità di aggregazione, vuoi perché oggetto delle comuni battaglie civili (la riqualificazione urbanistica) vuoi perché sede di incontro e di confronto (l’oratorio, le sezioni di partito, il parco dell’Unità, la piscina). I lotti dell’edificazione del 1936, oggi non più presenti, sono lì a rappresentare, nell’immaginario della comunità, un momento di quel sentimento di appartenenza che rinsalda il rapporto con il luogo. Il Tiburtino III ha dunque una sua identità territoriale ben definita? È possibile un suo «riconoscimento» che vada oltre la semplice, per quanto importante, collocazione ai margini del tessuto consolidato della città? In questo senso, sono forse proprio le forme dell’abitare che assumono un significato geograficamente rilevante laddove l’oggetto casa, in relazione al contesto che lo accoglie, si configura come componente imprescindibile dell’atto insediativo e dove questa relazione con il contesto assume nel corso del tempo dimensioni e significati progressivamente diversi (Varotto, 2006).
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Borgo versus borgata RICCARDO MORRI Dipartimento di Scienze Documetarie, Filologico-linguistiche e Geografiche Sapienza Università di Roma Borgata è una sottospecie di borgo: un pezzo di città in mezzo alla campagna, che non è realmente né l’una né l’altra cosa, e in cui l’unica attività sociale possibile è la speranza: speranza di andarsene o speranza che la città dei ricchi cresca e arrivi fin lì [Insolera, 1959, p. 45]
1. Introduzione L’obiettivo di questa sezione consiste nel rendere conto dell’assetto urbanistico e del quadro sociale ed economico di Tiburtino III, legandone i mutamenti diacronici al vissuto dei suoi abitanti. Si intende in questo modo «narrare» la metamorfosi della borgata da, nelle intenzioni dei suoi fondatori, sterile contenitore di uomini e donne relegato in uno spazio eccentrico e marginale a territorio «denso». Vale a dire, cercare di descrivere la progressiva affermazione di un contesto territoriale di riferimento per una comunità (dalle caratteristiche mutevoli, ma storicamente determinatasi anche in virtù del proprio radicamento al territorio), caricatosi di significati e arricchitosi di simboli in virtù del rapporto con gli individui e le famiglie ivi insediate. Protagonisti essi stessi di una palingenesi che vede un gruppo umano trasformarsi da «semplice» giustapposizione di esiliati ed esuli riallocati a conglomerato di «genti» vieppiù coeso di borgatari e cittadini. Un ossimoro (borgatari vs cittadini), che fa il paio con quello proposto anche nel titolo della sezione (borgo versus borgata), che proprio nella sua capacità di sciogliersi, mantenendo però inalterata la forza della coppia di termini che lo generano e costituiscono, decreta, in una determinata fase storica, il fallimento del progetto politico di emarginazione e di alienazione dei borgatari dalla vita pubblica. L’evoluzione urbanistica può essere vista e interpretata come il risultato della capacità di organizzazione e di mobilitazione degli abitanti di Tiburtino III, della forza e della determinazione di costoro ad accreditarsi come tra i principali interlocutori delle istituzioni pubbliche (essenzialmente il Comune di Roma per quanto concerne le opere di urbanizzazione primaria e la dotazione di servizi e lo IACP, oggi ATER, della Regione Lazio per quanto concerne il patrimonio abitativo), farsi appunto membri attivi e considerati della polis, cittadini. Una contrapposizione, quella tra centro e periferia, logico-geometrica ma non topologica, che in maniera più o meno convinta negli ultimi anni si è cercato di superare riducendo le distanze non solo fisiche: tra gli esempi più significativi si consideri da un lato l’avvenuta presa d’atto che, tanto da un punto di vista semantico quanto in una prospettiva spaziale, la relazione tra i due termini è biunivoca (un centro per essere tale ha pur sempre bisogno di un intorno) e, dall’altro lato, la decisione di definire la localizzazione e concentrazione di servizi in ambiti territoriali periferici nel Nuovo Piano Regolatore di Roma con il termine «centralità», nello sforzo (ideale, reale, a fini di speculazione edilizia, in questo momento non interessa esprimere una considerazione nel merito) di portare, con uno slogan spesso abusato, al centro la periferia. La scelta sul metodo secondo il quale la ricerca è stata prevalentemente condotta è stata già adeguatamente illustrata nelle due sezioni precedenti. In questa sede preme però sottolineare come la rilevanza data alla memoria si accompagni ad un parco uso del dato statistico e a una selezione critica e ragionata di riscontri documentali essenzialmente per due ragioni: − la grandezza della scala alla quale si è proceduto con lo studio e, in particolare, con la ricerca sul campo, rende di per sé insignificante il ricorso sistematico al dato statistico. La scelta del termine insignificante in luogo dell’espressione «non significativo» o «poco significativo» è dettata dalla convinzione che i dati comunque raccolti e in possesso del gruppo di studio possano certamente e facilmente assumere significatività statistica: ma questo aspetto resta comunque marginale ai fini della ricerca, dal momento che nella tensione alla «conoscenza 27
della conoscenza territoriale» (Tinacci Mossello, 2008 ) hanno inciso molto di più i racconti raccolti e le numerose e ripetute ricognizioni nella borgata (Alaimo e de Spuches, 2009 ); − la borgata di Tiburtino III non solo non è un universo amministrativo o statisticoamministrativo di riferimento (e il Comune di Roma ne ha diversi)16, ma trova tardive e comunque sporadiche «legittimazioni» anche dal punto di vista toponomastico, dal momento che sovente nella cartografia ufficiale ricorre invece la denominazione «Santa Maria del Soccorso». Essendo quindi l’interesse concentrato sulla comunità di coloro che riconoscono e si identificano con Tiburtino III, un microcosmo peraltro dai confini assai netti e riconoscibili anche nell’odierno assetto urbano della Capitale, la sua struttura demografica, la localizzazione relativa e la concentrazione/segregazione dei gruppi e degli individui che la compongono rispetto allo spazio abitato sono in questo contesto non direttamente rilevanti, o per meglio dire non interessanti. Se è al vissuto che realmente si guarda, se è la mappa dei luoghi della memoria che realmente (e con un briciolo di presunzione) si aspira a ricostruire, allora la consistenza e la struttura demografica della comunità finiscono inevitabilmente in secondo piano. Semplicemente la validazione (o la confutazione) scientifica delle ipotesi e delle tesi esposte e dei risultati che si pretende di aver raggiunto non si crede che debba rispondere a una prassi che tende a ricorrere alla (e rincorrere la) forza dei numeri. Una forza peraltro spesso confusa con la sterile proposizione e rappresentazione del dato (si pensi all’abuso di carte tematiche) secondo una logica riduzionistica, figlia di una pulsione tassonomica più o meno latente17. Una operazione necessaria d’altronde quella appena in sintesi descritta, per cercare di evitare, nei limiti del possibile, a chi scrive di fare di questa sezione una rozza e caricaturale riproposizione di opere che in maniera assai più degna e competente hanno affrontato in modo più o meno analitico e circostanziato il tema delle borgate e della crescita urbana di Roma (Berlinguer e Della Seta, 1976; Caracciolo, 1984; Ferrarotti, 1974 ; Insolera, 1976; Martinelli, 1987; Seronde Babonaux, 1983; Vidotto, 2001). Opere che certo costituiscono la fonte principale per individuare lo scenario di riferimento sul quale muoversi (i paragrafi in cui questa sezione è articolata debbono chiaramente un tributo agli autori di tali testi, ad esempio), anche se la minore scala geografica di osservazione e/o il diverso taglio monografico rendono plausibile un approfondimento su Tiburtino III come quello proposto nel presente volume.
«Ma, innanzi tutto, che cosa sono le borgate? Giova dire subito che esse, nella vita amministrativa del Comune di Roma, non godono, per così dire, di un’esistenza ufficiale. Il Comune, ufficialmente, le ignora: in tutti gli atti della sua vita amministrativa, i fatti, i dati, i fenomeni della vita delle borgate non sono mai analizzati a sé, ma vengono scrupolosamente diluiti e dispersi nel fenomeno più generale della metropoli» (Berlinguer e Della Seta, p. 152). 17 In questi casi, allora, «si avrà ragione di dire, con Mark Twain, che esistono tre tipi di bugie: le grandi, le piccole e le statistiche, che sono le più grandi di tutte» (Berlinguer e Della Seta, p. 156). 16
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2. Nascita e relazioni spaziali con la città Tutto quello che di grande, di bello, di venerabile è rimasto, noi lo conserviamo, non solo, ma lo aumentiamo […]. Demoliamo tutte le casupole, infette, facciamo i diradamenti necessari a tutti i fini, diamo del sole, della luce, dell’aria al popolo [Benito Mussolini, Discorso al Senato, 18 marzo 1932 – X, in Mastrigli, 1938, p.I].
Le parole di Mussolini al Senato sopra riportate esprimono contemporaneamente la premessa ideologica e la giustificazione populista della nascita delle borgate. Il risanamento delle condizioni abitative e la riqualificazione urbanistica del centro storico vengono proposte in maniera simbiotica, in cui il trait d’union che lega strettamente entrambi gli aspetti sembra essere l’esigenza di spazio: una contraddizione in termini, in realtà, perché il recupero e l’esaltazione della Roma imperiale dipende dai vuoti da creare intorno alla vestigia storiche e da preservare per il disegno di una nuova, moderna viabilità18. Il sole, la luce e l’aria per il popolo, quindi, sono da cercare in altri luoghi, diversi da quelli finora abitati. Nella Capitale degli anni Trenta, così come in quella odierna tutto sommato, lo spazio a disposizione non manca: la scelta dell’ubicazione delle borgate non risponde allora a un determinato disegno urbanistico (la loro presenza nel Piano Regolatore del 1931 è dissimulata: «nello Zoning sono indicate sotto la disurbanizzante dicitura di “casette a schiera”. Nelle carte del Piano troviamo questi insediamenti lungo le fasce estreme ma alcuni, in virtù di leggi speciali, sorsero addirittura fuori dei suoi confini; isole popolari non casualmente remote e disperse […]», in Ricci, 1994, p. 21)19, ma è in realtà funzionale a diverse esigenze, politiche e speculative, già ampiamente dimostrate in letteratura. Da un lato, infatti, esiste la volontà di allontanare il più possibile dal centro, dai luoghi cioè della gestione e, soprattutto, della rappresentanza e della rappresentazione del potere, gli strati più poveri della popolazione (operai non qualificati e sottoproletariato urbano), dall’altro lato, c’è la necessità di aumentare la rendita di terreni ancora in quel periodo troppo distanti dalla città costruita e consolidata. L’allontanamento delle fasce di popolazione meno abbienti soddisfaceva molteplici bisogni: diluire la concentrazione di queste famiglie e individui, inibirne la capacità di organizzazione e quindi di manifestazione e rivendicazione, aumentarne, allontanandole e isolandole dalla città, il controllo in termini di ordine pubblico. Per quanto concerne la speculazione edilizia, le borgate non si rivelarono in realtà che l’ennesimo strumento di un malcostume inveterato fino ai giorni nostri nel modo di edificare nella capitale, teso a scaricare i maggiori oneri possibili sull’amministrazione pubblica e lo Stato e a garantire profitti sempre più elevati ai proprietari dei terreni (Berdini, 2008; Zocca, 1958). «Rientrano ancora nell’ambito dell’attività svolta dall’I.C.P. [Istituto Case Popolari, NdA] l’acquisto di terreni su cui edificare, anche fuori piano regolatore, costringendo l’amministrazione ad eseguire, a lavori compiuti, le indispensabili opere di Secondo una logica inadeguata che il Piano Regolatore del 1931 aveva adottato: «Furono, come al solito, l’illusorio concetto di risolvere i problemi del traffico con aperture di nuove strade o allargamento delle esistenti, anziché con una nuova impostazione della struttura urbana, e l’altro di ritenere che per la valorizzazione dei monumenti antichi fosse indispensabile il loro isolamento con la formazione di spazi molto vasti nelle adiacenze, a determinare i criteri per le sistemazioni interne, ripetendo su scala più vasta gli stessi errori compiuti dall’Ottocento» [Zocca, 1958, pp. 705-706]. 19 «L’espansione urbana che era necessario prefigurare e pianificare nel concreto piuttosto che nell’immaginario, non fu regolamentata» [Ricci, 1994, p. 21]. Molte delle borgate ufficiali, infatti, furono aggiunte al Piano Regolatore nel 1935 con una specifica delibera: alle cinque borgate iniziali (Acilia, San Basilio, Tor Marancio, Prenestina e Gordiani), furono aggiunte Pietralata, Valle Melaina, Tufello, Tiburtino III, Quarticciolo, il Trullo e Primavalle, «che costituiscono […] le dodici borgate ufficiali storiche, ancora in via di completamento nel dopoguerra» [Martinelli, 1987, p. 21]. 18
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urbanizzazione e speculando sul conseguente aumento di valore degli immobili» [Coiro Cecchini, 2001, p. 76].
I lavori per la costruzione della borgata iniziano nel corso del 1936 e vedranno la conclusione in un anno circa: nel novembre del 1937, infatti, i cineoperatori dell’Istituto Luce documentano puntualmente la consegna delle chiavi dei primi alloggi edificati alle famiglie assegnatarie20. Quattro aspetti in particolare relativi alla nascita della borgata preme sottolineare: la denominazione, la localizzazione e la struttura urbanistica, le tipologie edilizie adottate, la provenienza degli abitanti. 3. La denominazione Alla borgata ci si riferisce da subito con una duplice denominazione, Santa Maria del Soccorso e Tiburtino III, in maniera quasi del tutto indifferente. Nel tempo, tuttavia, il toponimo Santa Maria del Soccorso, come detto, tenderà a preservarsi soprattutto nella designazione cartografica ufficiale, mentre in letteratura e nella vulgata, così come nella cronaca e negli atti amministrativi, l’espressione Tiburtino III si andrà progressivamente affermando. Un’ambiguità la cui genesi appare facilmente intuibile: «Davanti al Monte del Pecoraro c’era un gran piazzale e vicino al cartello con la scritta “Fine zona” - “Inizio zona”, poco prima di dove cominciava la gran distesa dei campi fino all’Aniene, s’alzava la vecchia pensilina del 309 che a quel punto svoltava, lasciando la via Tiburtina, e puntando tra i lotti della Borgata, verso la Madonna del Soccorso» [Pasolini, 1965 pp.183].
Alla edificazione della borgata si accompagna quasi contestualmente la costruzione della parrocchia dedicata alla «Madonna nell’espressione Santissima del Soccorso» (Ceroni, 1942, p. 94)21, la quale finirà per imprimere un marchio indelebile nella riconoscibilità del territorio, il cui simbolo più evidente è la fermata della linea B della metropolitana di Roma, battezzata proprio Santa Maria del Soccorso e prospiciente la borgata. Il toponimo Tiburtino III risponde invece alla logica della progettazione urbanistica22, che spesso procede appunto con una numerazione progressiva per indicare e individuare aree di pertinenza di Piani di Zona o di Piani Particolareggiati. In questo caso Tiburtino III succede al Tiburtino I (il quartiere di San Lorenzo) e al Tiburtino II (il quartiere di Piazza Bologna)23. Ciò che colpisce è il diverso livello di veicolazione e affermazione di tali toponimi: se si eccettua infatti la cartografia ufficiale, la fermata della metropolitana e alcune pagine della letteratura sull’argomento, il toponimo Tiburtino III è adoperato in maniera assolutamente prevalente. Soprattutto, è l’espressione con la quale gli abitanti identificano il proprio quartiere e il territorio in cui vivono o hanno vissuto e nella quale è insita la matrice del termine con il quale alcuni sono soliti L’inaugurazione di un complesso abitativo costruito nel quartiere Tiburtino Terzo, 24/11/1937, Giornale Luce B1205; durata: 1.42. 21 «La chiesa, costruita nel 1938 su progetto dell’arch. Tullio Rossi, ha un’architettura semplice e misurata e una sua originalità di espressione a cui non mancano i richiami tradizionali della Campagna Romana» [Calci, 1998, p.8] 22 «Il Tiburtino è definito Terzo, nella denominazione dell’Istituto Case Popolari, in quanto preceduto da altri due “Tiburtini”: il Primo, San Lorenzo, il più antico (Sanfilippo 2003), il Secondo completato nel 1926 dall’Istituto Case Popolari su un’area di proprietà della contessa Narducci all’ingresso di Piazza Bologna e composto da sette lotti, con circa 500 alloggi e 1.000 residenti. In realtà, «Santa Maria del Soccorso, [a differenza di Pietralata che sorge all’interno dello stesso Municipio, Nda] faceva parte di un gruppo di borgate – con Primavalle, il Trullo, il Villaggio Breda e il Quarticciolo – costruito dall’Istituto Case Popolari secondo un disegno, un impianto e un sistema di gerarchie urbane forse schematici, ma comunque strutturali. Le avevano progettate Giuseppe Nicolosi e Roberto Nicolini» (P.O. Rossi, 2004, p. 19)» [Maggioli e Morri, 2009]. 23 Tanto è vero che tra i documenti pubblici/ufficiali in cui compare il toponimo Tiburtino III, le piante della borgata e i piani di zona relativi agli interventi di riqualificazione o costruzione di nuovi alloggi prevalgono nettamente (ad esempio Piano di Zona Tiburtino III n. 15 bis, Cocchioni e Pontoriero, 1979). 20
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nominare se stessi e la propria comunità, tiburtinensi. La richiesta intercettata nel corso delle interviste di avere finalmente nella borgata una Piazza Tiburtino III risponde tanto a un bisogno di riconoscimento autoreferenziale quanto alla volontà di una maggiore visibilità e riconoscibilità verso l’esterno, che alcuni degli individui intervistati vedono significativamente legittimate solo con il ricevimento ufficiale di Tiburtino III nella toponomastica istituzionale. 4. La localizzazione e la struttura urbanistica In base alla Carta dell’Agro Romano di Pompeo Spinetti (scala 1:75.000), il quadrilatero in cui sorgerà la borgata di Tiburtino III al 1914 appartiene tutto alla tenuta di Grotta di Gregna (di cui è rimasta memoria nella toponomastica contemporanea: via Grotta di Gregna collega via Tiburtina a via Collatina Nuova, dove una volta sorgeva il casale di Bocca Leone), suddivisa però in diversi lotti appartenenti a differenti proprietari. Sulla base dei rilievi compiuti dallo Spinetti, sembrano essere interessati soprattutto i lotti 1, 3, 4 e 5, i cui proprietari risultano essere rispettivamente: Cesare Ranucci, Michele Sinibaldi, Achille Scarpitti, Giuseppe e Raffaele Nardi. Due i dati particolarmente evidenti: due di questi proprietari, sulla base del cognome, sono tra i primi esponenti di quella aristocrazia borghese romana che proprio sulla lottizzazione di terreni e sulla speculazione edilizia costruiranno negli anni a venire le proprie fortune (leggi Ranucci e Scarpitti); compare la famiglia Nardi, la cui storia, come si vedrà poco oltre, è in qualche modo intrecciata con quella della borgata in funzione della presenza della omonima Vaccheria, sita proprio lungo l’odierna via Grotta di Gregna. Tiburtino III, inserito oggi nel vasto territorio del V Municipio del Comune di Roma (come pure le borgate di Pietralata e San Basilio), sorge sulla destra della via Tiburtina (all’ottavo chilometro, Ceroni, 1942), asse viario che rappresenta il limite nord della borgata, mentre le mura e la pineta del Forte Tiburtino (oggi Caserma Albanese Ruffo) ne costituiscono il limite occidentale24. Questi sono i limiti storici e inamovibili di quel nucleo che nella topografia, alle differenti epoche di costruzione, si configura come un parallelepipedo più o meno regolare: il tracciato della via Tiburtina in questo tratto, infatti, è ormai definitivamente costretto tra la borgata e le strutture della linea B della metropolitana, il cui percorso corre parallelo alla consolare. Il Forte è un’installazione altrettanto stabile, con l’elemento pineta a fare da cuscinetto con gli alloggi popolari, ma per buona parte, fin dai primi anni di vita di Tiburtino III, considerato (di fatto o di diritto) una componente della borgata. Uno spazio verde strutturato che diventa una sorta di compensazione delle previste «zone a verde quasi mai rese tali» (Ricci, 1994, p. 22)25. Anche se naturalmente, la distanza dal resto della città collocava inizialmente il nucleo insediativo in un contesto fin troppo «verde», «a diretto contatto con zone di coltivazione sia estensiva che semintensiva» (Ricci, 1994, p. 22)26. Ad est e a sud, Tiburtino III confina oggi con gli alloggi, le infrastrutture e i servizi realizzati nell’ambito del «Piano di Zona Tiburtino Sud» (rispettivamente, gli odierni quartieri di Colli Aniene e di Verde Rocca): il limite lineare orientale può anche essere considerato via Grotta di Gregna, che collega la via Tiburtina a via Collatina, fino al suo intersecarsi con via Igino Giordani (?), che può essere adottata come limite perimetrale meridionale. Questi limiti in realtà sono meno fissi di quanto si ricavi dalla immagini topografiche dell’area: innanzitutto la borgata si è progressivamente estesa, fin dagli anni «La vicinanza al Forte, nel caso del Tiburtino III così come per Pietralata o per Primavalle o per Quarticciolo, non è del tutto casuale ma risponde, anche qui, a precise logiche di controllo e vigilanza che, come ricorda Insolera, sembrano nascere dalla «Relazione per il 1929 a S.E. il principe Francesco Boncompagni Ludovisi, governatore di Roma, del delegato dei servizi assistenziali del governatorato, Raffaello Ricci» in cui si prefigurava la costituzione di borgate rurali sotto la vigilanza di una stazione di 5 carabinieri e della milizia volontaria per la sicurezza nazionale a causa della presenza, nelle baracche vicine alla città oggetto di sgombero, di «famiglie di irregolare composizione, di precedenti morali non buoni» (Insolera, 1976, p. 141)» [Maggioli, Morri, 2009]. 25 «La macchia verde a ovest della borgata […], che contrasta con l’assenza di alberi all’interno dell’abitato, è il forte Tiburtino» [Insolera, 1959, p. 51]. 26 «La zona della borgata era allora, ed è ancora oggi, intensamente coltivata, ma nessun rapporto si è stabilito tra l’economia della borgata e quella dei casolari rurali, come del tutto separate sono rimaste le due popolazioni» [Insolera, 1959, p. 50]. 24
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immediatamente successivi alle prime edificazioni, verso sud, per tappe successive. Lo stesso vale a dire per il margine occidentale, anche se la sua estensione in termini di costruito parte dagli anni Settanta, a seguito degli interventi di costruzione di nuovi alloggi in sostituzione, come si vedrà, dei vecchi edifici quasi tutti demoliti. Ma il confine meridionale e quello orientale in particolare sono in qualche modo più sfrangiati, in virtù principalmente della fruizione di alcuni luoghi da parte degli abitanti di Tiburtino III. Oltre la via Grotta di Gregna, la cui pavimentazione e sistemazione sono comunque successive alla
Fig. 1 - Il lato sud degli edifici della Vaccheria Nardi negli anni Cinquanta. Fonte: Archivio Esplorare la metropoli
nascita della borgata, si trova innanzitutto uno dei numerosi casali ancora presenti all’epoca nell’Agro romano, la Vaccheria Nardi. Sul lato orientale della via Grotta di Gregna, a m 400 dalla via Tiburtina, ormai assediati e circondati da una teoria di abitazioni intensive dei piani di zona Tiburtino sud e Tiburtino III e nascosti da una vegetazione lussureggiante, rimangono, su un basso rilievo tufaceo, occupato in origine da una villa romana, i fabbricati dell’azienda agricola dei fratelli Nardi come ricorda l’iscrizione dipinta sul fronte nord dell’edificio principale: PREMIATA VACCHERIA/FRA.LLI NARDI/VIA CROCIFERI 22 ROMA [Calci, 1998].
Attiva prima della nascita della borgata e dell’insediamento della popolazione, la Vaccheria, pur senza creare relazioni strutturate dal punto di vista economico con la borgata, entrerà a far parte in maniera significativa del vissuto di alcuni dei suoi abitanti27: Regina: J’ hanno dato il posto lì alla vaccheria Nardi... Amelia: Sì, sì e lì più che altro era mamma che ave’a preso il posto, papà s’arrangiava qua e là; e mamma… mandava avanti, diciamo, la vaccheria nel senso che ciaveva le chiavi pe’…che ciavevano i fini… filimenti de gli animali e il magazzino de, der frumento, ce pensava tutto lei; e ‘n più ciaveva l’allevamento delle galline. E… niente, lei alla sera portava pure il latte… giù a Tiburtino che c’erano le famiglie che… tante famiglie che, ‘nsomma, non è che se ‘a passavano tanto bene e cercava d’aiutalle pure come poteva… ah… lo metteva sempre de meno di quanto costava… a… a la latteria. E così siamo andati avanti, poi è venuta la guerra, io andavo a scuola, mia sorella
Abbandonate per molti anni, come si vedrà poco oltre, le strutture della Vaccheria Nardi sono state oggetto da parte del V Municipio del Comune di Roma di un importante intervento di recupero architettonico finalizzato al loro riuso, nella prospettiva di una rifunzionalizzazione di questo luogo. 27
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lavorava, mio fratello pure, e lavoraveno dentro Roma che allora se diceva «andamo a Roma» perché… (ride) era ‘na passeggiata p’anda’ al centro, n’si parlava del centro… Regina: Perché tutti dicono così, tutti ‘a dicono ‘sta cosa… Amelia: Si, nun se parlava del centro, se diceva andamo a Roma, infatti loro lavoraveno a Roma. [Amelia Mancini, 1932]
Prima dell’avvio dell’urbanizzazione dovuta agli interventi del Piano di Zona Tiburtino Sud, un altro elemento, questa volta di carattere fisico, posto oltre via Grotte di Gregna influiva pesantemente sulla vita questa volta di tutta la comunità tiburtinense: il fiume Aniene. Nei ricordi degli intervistati, il rapporto con il principale affluente del Tevere, per inciso oggi uno dei corsi d’acqua più inquinati d’Italia, assume una duplice, opposta valenza, sovente in relazione alle esondazioni del fiume dal proprio alveo. In occasione delle piene dell’Aniene, infatti, gli abitanti di Tiburtino III per primi ebbero modo
Figura 2 - L’immagine documenta il livello di urbanizzazione della borgata e il contesto prevalentemente rurale nel quale era inserita: una famiglia raggiunge a piedi lungo un fosso e dei campi coltivati la Chiesa di S. Maria del Soccorso per una prima comunione. Fonte: Archivio Esplorare la metropoli
più volte di rendersi conto della scarsa cura posta dal regime e dal Governatorato nella scelta del sito e della fatiscente qualità degli interventi realizzati. Infatti praticamente tutto il nucleo originario di questo insediamento si trova al di sotto del livello degli argini del fiume, per cui la borgata e particolarmente le abitazioni dei piani terra venivamo puntualmente allagate in occasione delle piene. Un evento talmente frequente che piuttosto che la recriminazione e la rabbia per i problemi connessi con tali fenomeni (i cui ricordi certo non mancano: umidità che intacca le pareti e i pavimenti degli alloggi realizzati con pessimi materiali, circolazione di fango e liquami, ratti che attraversano strade e appartamenti)28, a molti anni di distanza, gli abitanti di Tiburtino III ricordano soprattutto i diversi stratagemmi escogitati per convivere con le fasi acute della piena (in attesa quindi del deflusso delle acque), tra i quali spicca la disponibilità degli inquilini dei piani bassi non allagati a offrire un’uscita secondaria attraverso la propria porta o le proprie finestre.
«Dove stavo io, ciavevo umidità, il cassone dentro, le finestre, quando soffiava un po’ di vento sembrava da sta’... in alto mare, sentivi proprio umidità tremenda... i termosifoni per esempio io non ce li avevo, perché quando uscirono i termosifoni mio suocero non se lo poteva permettere perché se pagano.... e senza termosifoni...» [Roberto Caretta, 1953]. 28
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Tiburtino III si allagava continuamente, bastavano due gocce d’acqua ed era tutto allagato…le fogne…perché c’era l’Aniene, si alzava l’Aniene e quindi era tutta una palude [Fulli Emilia, alias Marisa Marcellino, 1938]. Ivano G.: […] i cambiamenti importanti che so stati fatti qui a Tiburtino, una cosa importantissima, è le fogne, so state fatte, so state fatte e fogne che na volta… Paola: Quando? Ivano G.: Ma se parla de circa una ventina di anni fa, hanno fatto e fogne, che prima a quando tracimava l’Aniene, Tiburtino andava sempre sott’acqua. [Ivano Giacinti, 1954] Se io penso, fino al ‘93 qua non c’erano le fogne, […] si andava sotto quota 23 per cui c’era l’invasione delle acque quando il fiume Aniene saliva [Ivano Caradonna, 1957].
Figura 3 - Ancora negli anni Cinquanta, l’osmosi tra la marana e gli edifici della borgata: la mancanza di adeguate opere di urbanizzazione primaria rendevano evidentemente inevitabili l’allagamento di strade e alloggi. Fonte: Archivio Esplorare la metropoli
Ma accanto a questa prevalente componente di forte disagio, l’Aniene e l’ambiente circostante sono anche uno spazio fondamentale per la fruizione del tempo libero, in particolare nella dimensione ludica dei bambini, ma non solo. Nei ricordi di chi scrive ci sono i racconti dei nonni che narrano, ad esempio, della puntuale comparsa del barcarolo subito dopo le piene, che per pochissime lire consentiva di trascorrere un po’ del proprio tempo libero sugli specchi d’acqua effimeri che si formavano nelle diverse e ampie concavità (gli stessi dove si pescavano le rane, per poterne poi gustare le cosce fritte) presenti numerose nella piana alluvionale dell’Aniene non ancora urbanizzata. Dove c’era Colli Aniene era tutta la valle dell’Aniene, era tutto una palude, tutto... mio padre andava a farsi il bagno, insomma, nell’Aniene, ed era tutta una distesa di verde... [Alessandra Giacinti, 1975]. C’era una strada che congiungeva ‘ste due parti della città, era tutta aperta campagna, palude. Io da ragazzino, sentendo mia madre, d’estate andavano a fa’ i bagni... al fontanone, o nei laghetti a raccoglie’ le rane… [Roberto Caretta, 1953].
Nell’iniziale struttura della borgata, comunque, non erano previsti solo edifici a scopo residenziale, ma da subito vennero realizzate alcune strutture provvisorie destinate ai servizi, come ad esempio le scuole. Tuttavia tali realizzazioni erano inadeguate anche per ammissione della stessa stampa 34
di regime, al punto che già nel 1939 si resero necessari degli interventi per la realizzazione di nuove strutture, che dal quel momento in poi segneranno l’esistenza della borgata, configurandosi alla luce dell’attuale ricerca, come veri e propri «luoghi della memoria»: le scuole e la piscina.
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Allo scopo di sopperire alla attuale deficienza di locali scolastici, nella borgata residenziale di Tiburtina III [l’errata denominazione della borgata, che compare anche nel titolo dell’articolo, è presente nel testo originale, n.d.r.], costruita in questi ultimi anni dall’Istituto delle Case Popolari, abitata da circa 6000 operai, l’Amministrazione or non è molto decise di sostituire agli insufficienti ed inadatti padiglioni scolastici in legno, un edificio capace di accogliere tutta la scolaresca della borgata. […] Il complesso scolastico inaugurato il XXI Aprile XVII comprende: un edificio scolastico contenente n. 32 aule […]; un refettorio […]; una palestra […]; una Casa del Fascio[…]. Durante la esecuzione di tali lavori, l’Amministrazione, venendo incontro ai bisogni della Borgata, ha deciso la rapida costruzione di un altro complesso di attività, quali, una scuola all’aperto, un laboratorio femminile, un nido materno ed una piscina [AA. VV., 1939, p. 177].
In realtà, l’originale carenza di questi e altri servizi di base era indirettamente segnalata dalla presenza di «operatori» di volontariato che cercavano in qualche modo di sopperire ai disagi derivanti: ovviamente l’unica forma di associazionismo «militante» tollerata al di fuori degli organismi di stato e di partito erano gli ordini e congregazioni confessionali della Chiesa cattolica italiana. Nella fattispecie, fin dal 1937, fu attivo nella comunità di Tiburtino III un nucleo di cinque suore sacramentine, inizialmente aggregate alla comunità di Pietralata. Il 5 agosto 1940 si è costituita qui [a Tiburtino III, NdR] la comunità vera e propria. L’ha voluta il Vicario di quel tempo, che ne vedeva urgente la presenza per l’aiuto in parrocchia e per togliere dalla strada numerosissimi bambini. Per questo già nel 1941 aveva inizio la Scuola Materna. Nell’anno 1943 aveva inizio anche la Scuola Elementare con il nome di Scuola Maria Immacolata, in seguito chiamata Scuola Suore Sacramentine […]. Un altro motivo per cui il Vicario di quel tempo, voleva le Suore Sacramentine in questo ambiente era quello di aiutare le ragazze ad apprendere un lavoro, per questo è stato aperto, sempre nel 1940, un laboratorio per taglio e cucito, maglieria, ricamo. Era frequentato da più di cento ragazze è stato chiuso nel 1964 [da un testo a stampa consultato e fotocopiato presso la struttura che continua a ospitare nella borgata le suore sacramentine, dove attualmente è ancora attiva una scuola dell’infanzia paritaria].
La presenza delle scuole nella borgata fin dalla sua nascita è un elemento costante in chi narra le vicende sue e del quartiere in cui ha abitato o ancora vive. Esiste nei ricordi degli intervistati una vera e propria geografia dell’istruzione a Tiburtino III: ogni volta che si tocca l’argomento in prima persona o relativamente ai percorsi di crescita dei propri figli e nipoti, una delle prime informazioni che si tende a fornire è la localizzazione dell’Istituto in questione, o attraverso riferimenti alla toponomastica o segnalandone la vicinanza ad altre emergenze del quartiere (la piscina, la casa del fascio, ecc) ovvero con un rapido cenno teso a sottolineare l’evidenza dell’informazione, rispetto alla quale quasi non si ammette (comprensibilmente) l’ignoranza di chi svolge la ricerca e/o pone la domanda. D’altronde queste strutture sono elementi fissi nel quartiere, una presenza costante che sopravvive alle demolizioni, alla nascita di nuove scuole nei quartieri limitrofi, alle riforme scolastiche e, in qualche caso, anche ai cambiamenti di destinazione d’uso. E questa stratificazione verticale degli elementi scuola riguarda tanto le strutture pubbliche quanto quelle private: certo si assiste in entrambi i casi a una riduzione degli studenti (sia per effetto del calo demografico sia per la «concorrenza» di plessi più moderni) e quindi a un ridimensionamento e/o rimodulazione dell’offerta didattica, non mancano gli interventi (anche strutturali) di riqualificazione o adeguamento degli spazi, così come alcuni locali 35
della scuola pubblica vengono ceduti negli anni ad altri servizi (vigili urbani, assistenza sanitaria, associazioni per il contrasto alla tossicodipendenza, ecc). Emblematica da questo punto di vista appare la storia della scuola dell’infanzia (attuale asilo nido Elefantino Elmer): la struttura del nido di infanzia è presente nella borgata praticamente fin dalle sue origini, dal momento che il Governatorato consegna all’OMNI (Ente Opera Nazionale Maternità ed Infanzia29) l’edificio nel 1939 e già nel 1940 ottiene dall’Ufficio del Genio Militare della Difesa Territoriale di Roma la concessione di una parte della pineta del Forte Tiburtino. Nonostante i successivi interventi di manutenzione e ristrutturazione, in molti casi sollecitati dagli abitanti della borgata – a ulteriore testimonianza del legame esistente – l’assetto e la ubicazione del nido di infanzia (compresa l’intestazione OMNI sulla facciata dell’edificio principale e la bella cornice della pineta) sono praticamente rimasti immutati30. Fig. 4 - La planimetria di uno dei primi progetti di ampliamento della borgata dell’Istituto Fascista Autonomo per le Case Popolari (19 novembre 1940). Fonte: Archivio Ater (ex Istituto Autonomo Case Popolari – IACP)
Naturalmente la stabilità non rappresenta un valore in sé, poco sopra si è parlato di stratificazione riferendosi implicitamente alla carica simbolica di cui negli anni questi oggetti si sono
evidentemente caricati per poter quindi essere considerati «luoghi della memoria» (e in questo senso le vicende del nido di infanzia sono tra le più lineari come evoluzione), in virtù molto spesso di lotte e L’OMNI fu istituito tra il 1925 e il 1926 al fine di provvedere alla protezione ed assistenza «della madre e del fanciullo». L’ente è stato soppresso nel 1975. 30 Si ringrazia per queste informazioni il personale dell’asilo nido «Elefantino Elmer» e dell’Ufficio Scuola del V Municipio. 29
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campagne per la difesa e l’ammodernamento di questi edifici, derivanti in genere dalla rivendicazione del diritto a un’istruzione di qualità anche per i figli dei borgatari. Tuttavia, se si guarda anche ai meccanismi attraverso i quali, al di là delle personali biografie, la memoria (o le memorie) si costruiscono e prendono forma, questa ubicazione stabile, ricorrente, di alcuni elementi del territorio è una circostanza che vale la pena di sottolineare: questi luoghi sembrano infatti aver assolto a una funzione di elementi catalizzatori dei ricordi, secondo le modalità con cui ad esempio agli oratori in età romana si insegnava ad archiviare scientemente parte dei propri discorsi in cassetti della mente o nel Rinascimento si procedeva alla costruzione di strutture architettoniche o si disegnavano «teatri del mondo» per ospitare (e occultare) stanze e luoghi della memoria. Non è difficile afferrare i principi generali della mnemonica. Il primo passo consisteva nell’imprimere nella memoria una serie di loci o luoghi. Il più comune, benché non il solo tipo di sistema mnemonico di luoghi, fu il tipo architettonico. […] Noi moderni, che non abbiamo sistemi di memoria, possiamo […] adottare di volta in volta mnemotecniche personali […]. Ma nel mondo antico, privo della stampa, senza la possibilità di disporre di carta per prendere appunti o per battere a macchina le conferenze, una memoria educata era di importanza vitale. E la memoria degli antichi veniva appunto educata da un’arte che rifletteva l’arte e l’architettura del mondo antico e che doveva dipendere da facoltà di intensa memorizzazione visiva, da noi perdute [Yates, 1996, pp. 4 e 6].
E non si può non prendere atto come nelle singole narrazioni, si prenda spunto o si finisca per far convergere i propri ricordi verso alcuni di questi elementi fissi, i quali anche per questo, oltre ai momenti in cui diventano protagonisti o partecipi del vissuto degli abitanti di Tiburtino III, finiscono così per assumere la connotazione di «luoghi della memoria». Amelia: Sì, è venuto [Mussolini, n.d.a.] quand’ha inaugurato la scuola de Tiburtino, io… ciaveo… ciò fatto la seconda, perché la prima l’ho fatta a ‘e baracche, c’ereno ‘e baracche, la scuola de’e baracche a Tiburtino, poi la seconda elementare ‘nvece l’ho fatta a la scuola che tuttora ce sta su via… che via è quella? Regina: Via del Frantoio. Amelia: Via del Frantoio, sì. E sì, è venuto al Fascio perché dove ce stanno i carabinieri adesso, allora c’era il Fascio. [Amelia Mancini] Riccardo: La scuola dove l’hai fatta? Antonio: La scuola praticamente,…quelli so’ gli anni dove la scuola pubblica di fatto non esisteva, e quindi ho passato i miei primi cinque anni di elementari dalle suore sacramentine… Paola: Che facevano scuola anche ai maschietti? Antonio: Sì, però classi separate, e poi dopo ho fatto il terzo avviamento professionale all’istituto salesiano Teresa Gerini e lì ci fu il primo scontro che un po’ ebbi con le strutture esterne, in quanto c’era il famoso esame di ingresso per gli istituti e quindi promosso in quinta elementare con otto in italiano e otto in matematica, l’esame d’ingresso presi tre in italiano e tre in matematica, ma perché poi scoprimmo che io ero andato a fare l’esame all’istituto aeronautico, dove di fatto gli ingressi erano bloccati, quindi più di cinquanta non prendevano. [Antonio Morri, 1947] Paola: All’inizio era la Fabio Filzi... Marisa: Era la Fabio Filzi. I bambini del Tiburtino III che dovevano andare alle medie, la direttrice aveva dato due aule e poi tutti gli altri ragazzi andavano alla Cornelio Nepote, che era una succursale, poi invece con lei, la Rocca Cappello, la direttrice, siamo riusciti come consiglio di istituto a farci dare due aule una volta, tre aule una volta, finché non ci siamo fatti dare tutto il padiglione. Allora si è fatto la scuola media nel Tiburtino III...
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Paola: Questo nel 1973?! Marisa: Quindi abbiamo scelto poi il nome da dare a quella scuola, allora è venuta fuori la scuola media […]. [Marisa Marcellino] Antonietta: La storia di questa scuola comincia con lui [Enzo Rossi] perché fortemente voluta; e insomma una scuola piccola gestita con molta intelligenza, in un quartiere difficile, ma... noi siamo stati perfettamente integrati nel quartiere, grazie anche all’alleanza con Ornella e Virgilio... […] io ho fatto lavorare i ragazzi sul quartiere proprio... la nascita di Tiburtino III, il come, il perché... insomma leggevamo Insolera, che per loro era tosto, però c’era anche la curiosità di capire di più e poi abbiamo fatto una bella mostra fotografica in occasione di una Festa dell’Unità... poi tante altre storie di rapporto con il quartiere... tramite appunto questa sezione molto attiva del PCI [Antonietta Destro, 1945, insegnante di storia dell’arte a Tiburtino III dal 1969 al 1978].
Come nota a margine, appare interessante evidenziare l’attenzione tanto da parte delle istituzioni pubbliche quanto di quelle ecclesiastiche alla formazione professionale dell’universo femminile di questa comunità di borgata. Pur essendo questa offerta fortemente connotata da un punto di vista di genere, sulla base delle testimonianze raccolte emerge però come queste competenze acquisite permisero in diversi casi alle donne di Tiburtino III di esercitare alcuni mestieri, sovente, ma non esclusivamente, nei circuiti dell’economia informale, con un duplice, differente vantaggio: da un lato, quando possibile, di esercitare questo mestiere in un ambiente esterno (spesso anche fisicamente) all’economia domestica; dall’altro lato, di avere un utile strumento di integrazione a un reddito familiare di frequente deficitario rispetto anche alla soddisfazione di bisogni essenziali31. Per le femmine c’erano le suore che facevano laboratorio di sartoria [Giuseppa Cassone, 1925]. ... lì si andava solo per imparare, era una scuola per imparare, che c’erano le sacramentine, poi mo l’hanno tolto e vabbe’, poi dopo sono andato al Regina Elena all’ospedale a lavora’, e lì ho lavorato trentatré anni, per l’ospedale. […] il laboratorio che stava qui in pineta, forse tu te lo ricordi il laboratorio della pineta, eh, quello non era delle suore, era del Comune, allora il Comune gli ha dato ‘sto laboratorio per imparare i bambini e bambine del quartiere a lavora’, e allora andavamo su a lavora’ dalle suore. [Maria Pia Lattanzi, 1935] Maria: No per conto mio, sono andata... so’ andata a lavora’ sotto padrone perché le suore te daveno una lira... Paola: Chi era questo padrone? Chi era il padrone? Maria: Mah, certi ebrei, Di Castro... Di Castro e Piattelli […] fornivamo i negozi, sempre loro... Paola: E, facevate... lavoravate a casa o andavate... Maria: No, no no, era un appartamento e lui l’ha messo come laboratorio... Paola: E dov’era questo laboratorio? Maria: Eh, alla stazione Termini […]. A via... a via Palestro. [Maria Pala, 1936]
Intorno alla piscina si sviluppa invece una sorta di mito: tutti ne ricordano il funzionamento con nostalgia, vuoi perché legata ai piacevoli ricordi dell’infanzia (l’apprendimento del nuoto e le vacanze «Le donne incontrate fanno parte di quella categoria di persone che sono rese invisibili poiché non hanno, all’interno della città, spazi pubblici di parola e che sfuggono perciò alla memoria della città stessa». Ma «[…] è nel loro posizionarsi rispetto alle proprie famiglie, alla città, agli universi culturali di riferimento che emerge la loro forza» [Alaimo e de Spuches, anno, pp. 21 e 25 manca in bibliografia]. 31
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estive), vuoi perché in realtà la comunità riesce ad usufruirne per un periodo piuttosto ridotto. Nella fase di avvio delle demolizioni alla fine degli anni Sessanta e a causa della carenza quasi endemica nella Capitale di alloggi popolari, infatti, questi locali verranno occupati da alcune famiglie, che li eleggeranno a propria residenza per moltissimi anni. L’appartenenza di queste famiglie alla comunità di Tiburtino spiega probabilmente come mai, nonostante il legame più o meno sentito, ma comunque rivendicato praticamente da tutti gli intervistati, con questo luogo, il recupero alla sua dimensione pubblica sia avvenuto solo da circa un anno. Come si è già avuto modo di scrivere, riflettendo su questo passaggio, la piscina diventa di fatto un «luogo della contraddizione, dove un interesse generale (quale si configura il diritto alla casa) nella sua dimensione individualista (l’occupazione di pochi nuclei famigliari) priva l’intera comunità di quartiere di un diritto acquisito (la pratica dello sport giovanile in una struttura pubblica) e di quello che tuttora, nei ricordi degli intervistati, è uno dei pochi privilegi di fatto del vivere a Tiburtino III» [Maggioli e Morri, 2009, p. 182]. C’era una piscina che addirittura mia mamma, quand’era piccola (anche i miei genitori sono cresciuti in questo quartiere) mia mamma, quand’era piccola, insomma, andavano a nuotare, poi è stata chiusa per tanti e tanti anni. [Alessandra Giacinti] I miei fratelli, noi siamo cinque figli, praticamente li ho portati tutti in piscina, io non ho mai avuto la gioia di entrarci dentro, quindi da ragazzo, poi per anni è stata occupata. [Ivano Caradonna] Riccardo: Ma c’era già la piscina anche? Marisa: Sì, perché c’era la scuola professionale, l’avviamento professionale dove sono andata anche io, e c’era la piscina, una cosa bellissima perché tutti i ragazzi, lì c’erano gli insegnanti di nuoto, era aperta quella piscina tre mesi all’anno di estate, perché era scoperta e lì c’erano degli istruttori che hanno insegnato quasi a tutti i ragazzi a nuotare, compresi i miei figli quando andarono, quando toccò il turno loro. [Marisa Marcellino]
5. Le tipologie edilizie L’interesse per le tipologie edilizie in questa sede non intende esprimere valutazioni relative al disegno, alla forma e alla qualità estetica e architettonica degli edifici realizzati a Tiburtino III, sia perché esulano le competenze di chi scrive sia perché diversa è l’importanza che a questi elementi si intende dare. Nei racconti degli intervistati, spesso su sollecitazione del ricercatore ma in maniera altrettanto frequente in modo spontaneo, le caratteristiche morfologico-strutturali degli alloggi realizzati nella borgata hanno una notevole rilevanza. In genere, questi aspetti vengono rimarcati direttamente per operare un confronto rispetto alle condizioni abitative delle aree di provenienza e/o per sottolineare gli aspetti che maggiormente incidevano, il più delle volte in maniera negativa, sulla qualità dell’abitare. Tuttavia le considerazioni più interessanti nascono quando momenti importanti della vita di queste persone, in particolare nella loro dimensione collettiva, hanno in questi elementi non solo un supporto fisico (il palcoscenico di un teatro, per intenderci) ma in qualche modo uno scenario «naturale» (l’impianto della scenografia, per insistere con la metafora) che per uso e consuetudine concorre in maniera organica alla costruzione, elaborazione e riproposizione della rappresentazione di tali momenti. Gli edifici nel loro complesso, allora, non sono più lo sfondo in bianco e nero di un vissuto, ma delle tessere senza le quali, al pari delle scuole, della parrocchia e della piscina, ad esempio, il mosaico della memoria collettiva di questo gruppo umano non potrebbe essere ricostruito. Il filo lungo cui far correre questo ragionamento è rischioso, si può facilmente (e maliziosamente) essere accusati di far dell’apologia e della retorica spicciola su dei manufatti di scarso pregio e in ogni caso fonte, e al tempo stesso simbolo, di significativi disagi sociali ed economici. 39
Pur senza voler negare la drammaticità che il vivere in una periferia di una città come Roma ha rappresentato e sovente ancora rappresenta, una ricerca di questo tipo trova tuttavia ragion d’essere se all’immagine (puntuale, corretta, documentata, addirittura inconfutabile per certi versi) che accomuna Tiburtino III a tutte le borgate di Roma non si sostituisce, ma si affianca, il valore che questo territorio, e gli elementi che lo costituiscono, ha assunto in passato o continua avere nella memoria di chi nel quartiere ci ha realmente abitato, vissuto e/o lavorato. Soprattutto quando questo valore trascende la singola storia di vita ma è riconosciuto (o riconoscibile) da un gruppo di donne e uomini che in qualche modo a questa appartenenza (senza voler scomodare il termine identità) si richiamano. Senza dimenticare l’annoso dibattito sul rapporto tra forma e funzione (sociale, in questo caso in particolare), cui gli urbanisti dedicano per primi grande attenzione, spesso proprio in relazione a problematiche proprie delle periferie delle grandi città e a seguito anche di esperienze, se non di vere e proprie sperimentazioni, dai risultati discutibili se non evidentemente nefasti32. Nell’ambito di questa ricerca, ad esempio, è interessante mettere a confronto, sia in questa fase sia per l’epoca della ricostruzione successiva alle demolizioni, le intenzioni dei progettisti con i risultati concretamente ottenuti, vale a dire le reali modalità di utilizzo dei diversi spazi e i commenti, le sensazioni e i ricordi di chi questi spazi li ha abitati, rendendoli luoghi. «Le borgate romane non hanno fisionomia di insieme ma solo di episodi; l’applicazione parziale delle nuove concezioni ha inibito la memoria del tutto. Resta, a nostro avviso, intatto il valore documentario di queste realizzazioni pubbliche, prive in fondo di passato e di futuro e la carica storico-sociale che rappresentano, dalla segregazione, alle lotte, alla contro cultura […]» [Ricci, 1994, p. 23].
Nel Tiburtino III delle origini vengono realizzati edifici che rappresentano i due modelli più utilizzati nelle borgate, vale a dire quello della casa in linea, cui bene si adatta l’espressione di «rettangoli come case» (Caproni, 1946 a o b?)33, e quello più «ricercato» della casa a ballatoio: «Il tipo edilizio d’uso corrente nelle borgate, sebbene il meno «ricercato» è la casa in linea, a modulo singolo, doppio o ripetuto fino a quattro corpi di scala, composta con appartamenti di piccolo e medio taglio, cucina e gabinetti accorpati ed in colonna, locali giorno sovente più piccoli di quelli notte a ratifica dell’ipotesi dormitorio. […] Più feconda invece la ricerca sul tipo edilizio a ballatoio […] lo possiamo definire una prerogativa delle borgate popolari romane […]; a favore, giocava l’opportunità di fornire numerosi minialloggi con una spesa modesta, contro, l’introspezione e la promiscuità sui percorsi. […] Le case a ballatoio di Nicolosi realizzate al Tiburtino III ed oggi rase al suolo, nella loro calibratura, sono certo esemplari per armonia tra involucro e contenuto. Alla chiarezza distributiva degli alloggi si aggiunge la definizione quasi teorica delle facciate, piene su un lato e permeabili sull’altro attraverso il ritmo di portali, eredità storicolinguistica italiana e romana, che diventano portico e ballatoio» [Ricci, 1994, pp. 22-23].
La regolarità delle case in linea riproduce quella immagine di ordine tanto cara al regime soprattutto a livello topografico; e infatti questa rappresentazione di uso razionale di uno spazio, come sopra descritto, non trovava affatto traduzione nelle effettive condizioni di vita, a partire proprio dalla infelice scelta del sito per finire con la qualità stessa delle costruzioni. Vero è che il retaggio di questo disegno regolare rimarrà negli anni praticamente immutato, dal momento che le nuove edificazioni La realtà del Serpentone del Corviale a Roma è un esempio concreto, intorno al quale si anima spesso il confronto tra sostenitori, convinti o di maniera, e oppositori dell’applicazione dei principi di Le Courbisier, non solo in chiave teorica. 33 L’espressione nasce dalla sintesi di due titoli utilizzati da Giulio Caproni nella sua inchiesta sulle borgate di Roma per «Il Politecnico» (1946). 32
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rispetteranno o adotteranno come sistema di riferimento gli assi viari perpendicolari alla via Tiburtina e tra di loro, che informano l’assetto originario così come quello attuale della borgata. Questo giustapporsi di elementi lineari è la causa, o meglio è coerente con la decisione di non realizzare una piazza nella borgata. Un’assenza come già accennato tuttora avvertita, che in parte nasce da una visione urbanistica dei quartieri periferici che sembra imporsi con il Piano del 1931: «[…] si deve rilevare come i quartieri periferici manchino di piazze nel vero senso del termine, perché quelle figuranti con tale denominazione nella toponomastica ufficiale sono slarghi, generalmente informi, che nulla hanno di comune con quelle della vecchia Roma» [Zocca, 1958, p. 681], ma che certamente risponde anche all’esigenza di non fornire spazi pubblici di ritrovo e possibile aggregazione. Ma se spazi con queste caratteristiche non esistono, è evidente che in qualche modo la popolazione riesce a surrogarli. Il primo passo verso questa direzione si può leggere in embrione proprio nella funzione assolta dall’altro modello edilizio presente come detto a Tiburtino III, la casa con i ballatoi. «Questo elemento architettonico risponde già nella sua struttura e funzione ad una logica di condivisione degli spazi: rappresenta un elemento di connessione tra i diversi alloggi in cui i blocchi dei singoli edifici sono modulati e un comune affaccio sui cortili. In realtà, però, quello che doveva essere un semplice spazio di transizione si trasforma in un luogo conviviale, dal momento che intere famiglie si riuniscono proprio in queste zone comuni sia in occasioni particolari (un compleanno, ad esempio, fig. 3) sia per trascorrere parte del proprio tempo libero. Un uso per lo più stagionale, essendo questi spazi all’aperto fruibili in maniera stanziale naturalmente in buone condizioni atmosferiche: anzi, è molto probabile che inizialmente la “colonizzazione” di questi spazi sia imputabile soprattutto all’esigenza di fuggire dagli effetti della canicola estiva, amplificati dalla qualità degli alloggi, cercando refrigerio all’aperto nel ponentino che ancora soffiava su Roma» [Maggioli e Morri, 2009, p. 180-181].
Fig. 5 - Particolare di un ballatoio a Tiburtino III.
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Fonte: Archivio Esplorare la metropoli
In maniera analoga possono essere considerati i porticati, come spesso evidenziato elemento avulso certo dalla tradizione edilizia romana preunitaria, che però in questo contesto, rappresentando spesso anche l’affaccio di locali destinati a servizi commerciali, finiscono per essere luogo di frequentazione e incontro. 6. La provenienza degli abitanti
«Nel risanamento di Roma, allorché furono abbattute le famose baracche di Porta Metronia, l’Istituto Case Popolari provvide ad erigere un vasto numero di caseggiati ad un piano o due al massimo, con orticelli e tutti quei lavoratori che conducevano un’insalubre vita a Porta Metronia andarono quasi in massa ad abitare a Tiburtino» [Ceroni, 1942, p. 94]. «Purtroppo, come si ricava dagli scritti del tempo, né l’I.C.P. né le case convenzionate risolvono il problema degli alloggi per il popolo il cui fabbisogno continua a crescere non solo per la necessità di sistemare in qualche modo gli sfrattati del Piano Regolatore e gli sbaraccati, ma anche per il flusso immigratorio inarrestabile nonostante le limitazioni imposte dal governo. […] Mussolini […] giacché la costruzione di case non basta decide di risolvere il problema delle baracche istituzionalizzandolo: “per sbaraccare occorre baraccare” […]. In quest’ottica, accanto alle borgate abusive che continuano a proliferare, sorgono le borgate ufficiali» [Coiro Cecchini, 2001, pp. 77-78 ].
In queste due descrizioni sono chiaramente evidenziati i due principali serbatoi dai quali la borgata di Tiburtino III attingerà per il suo popolamento prima della Guerra34. Durante gli ultimi anni del conflitto mondiale e subito dopo, questo contingente conoscerà un ulteriore incremento in virtù degli sfollati che arrivano a Roma in fuga dalle zone di prima linea (in particolare i paesi e villaggi di Lazio e Abruzzo dislocati lungo la Linea Gustav) e per la crescente massa di immigrati di varia provenienza. Al censimento del 1951, il primo disponibile dopo l’insediamento a Tiburtino III, nelle sezioni di censimento di pertinenza del territorio della borgata (su di un’area ampia poco meno di 23 ettari) risulta così una popolazione residente di quasi 17.000 abitanti, accanto alla quale vive però un pari numero di persone presenti, per un totale di quasi 35.000 persone. ... e poi nel ‘44... siamo venuti ad abitare in queste case ch’erano state assegnate praticamente agli sfollati di Cassino o altri... parlo delle case ultime costruite, non quelle ... quelle prima sono state costruite nel ‘35, ma poi quelli di Cassino ovviamente si sentivano strappati dalle loro radici eccetera eccetera, se ne ritornarono tutti quanti al loro paese dove avevano la terra, le bestie o altro... queste case rimasero un pochino sfitte e i miei genitori con altri genitori vennero a occupare queste case... [Domenico Zanella, 1941]
Questo è il momento di massimo affollamento della borgata, dove i guasti provocati dagli errori o dalla scarsa cura nella pianificazione e realizzazione dell’insediamento si avvertono maggiormente: sovraffollamento, servizi insufficienti o completamente assenti, isolamento dalla città, ambiente malsano sono condizioni tutte ben rappresentate sia nei racconti raccolti sia nelle immagini degli Archivi di audiovisivi, come quello dell’Istituto Luce, che documentano soprattutto gli sforzi per alleviare occasionalmente i disagi degli abitanti: particolarmente significativo è il filmato del 1947 che documenta il «sopralluogo» di alcuni scrittori nella borgata che ben evidenzia le pessime condizioni di
Anche in questo caso, un contributo significativo viene dalla documentazione audiovisiva, che registra ed esalta le fasi finali delle costruzioni di abitazioni per il ceto impiegatizio del regime proprio a Porta Metronia, sancendo così il successo del processo di deportazione/sostituzione di gruppi sociali nelle aree urbane prescelte dal regime (Le case dell’Istituto Nazionale per le Case degli Impiegati dello Stato nel quartiere di Porta Metronia, 8/6/1938, Giornale Luce B1317; durata: 1’07’’). 34
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vita in particolare dei baraccati, così come il pranzo offerto alla fine del 1952 dal Presidente della Repubblica Einaudi per il primo dell’anno ai bambini di Tiburtino III (e Pietralata)35. Queste condizioni di indigenza e precarietà sono il connotato distintivo dei primi anni di vita della borgata e sono probabilmente anche l’humus che progressivamente rinsalderà i legami tra molti dei componenti di questa comunità. L’eterogeneità delle aree di provenienza, infatti, inizialmente sembra prevalere anche sulla comune estrazione sociale, particolarmente connotata in ragione soprattutto del quasi totale travaso a Tiburtino III degli operai edili di Porta Metronia. Tuttavia il peggiorare delle condizioni di vita con lo scoppio della seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra pare risultino decisivi nell’affossare i rigurgiti provinciali di familismo amorale a tutto vantaggio dell’emergere di una coscienza collettiva, condivisa, in quel determinato momento storico, di classe: «Dove c’è solidarietà – una solidarietà che non può venire dall’esterno, che non ci si può aspettare da nessuno – ovvero quando si rompono i vincoli dell’antagonismo, c’è coscienza di classe e viceversa» [Cavalletti, 2009, p. 40 manca], unica possibilità concreta per emanciparsi dalla condizione di folla solitaria intesa come prodotto dell’urbanizzazione illimitata (Cavalletti, 2009). Una evoluzione che trova in qualche modo ulteriore linfa in un intervento di programmazione territoriale che, per l’epoca in cui fu varato, risulta quasi paradossale: la legge 6 febbraio 1941 istituisce nel Comune di Roma una Zona industriale che «comprendeva inizialmente due comprensori: uno vicino alla borgata di Tor Sapienza delimitato approssimativamente a nord dalla via Tiburtina (da Ponte Mammolo al km. 15) e a sud dalla via Prenestina (dal km. 8,5 al km. 12); l’altro sulla via Casilina (tra il km. 14,3 e il km. 15,1 nelle località chiamata Grotte Celoni) […] la maggior parte delle nuove iniziative industriali sorte nel Comune di Roma si sia concentrata su quella parte del territorio compresa nei limiti della Zona industriale o immediatamente ad essa adiacente» (AA. VV., 1964). Vale a dire nel momento in cui si espellevano dalla città gruppi considerati socialmente e politicamente pericolosi per il regime, in realtà si creavano di fatto le condizioni per la loro ulteriore crescita e concentrazione. Una scelta quanto meno poco lucida, ché anche se dettata da una fiducia illimitata nelle capacità di controllo e repressione del dissenso e nella costante ulteriore crescita del consenso (come in realtà già non era però nel 1941), sottovalutava in ogni caso gli «appetiti» legati alla espansione urbana di Roma, che prima o poi questi nuclei avrebbe riassorbito. Sta di fatto che il tessuto sociale della borgata tende a diventare tra gli anni Sessanta e Settanta piuttosto omogeneo, amplificandone l’originario carattere operaio, in virtù proprio delle possibilità di impiego delle aziende comunque presenti lungo la via Tiburtina. Giorgio: […] il primo, che ora già non c’è più perché adesso è morto, nel ‘86, a cinquantadue anni, con un infarto fulminante, lui lavorava a San Lorenzo all’Arte della Medaglia.. c’era una fabbrica che fabbricavano metalli, coppe, roba del genere. Eh.. il secondo fratello, che io mi ricordi ha sempre lavorato nei marmi.. lavorava qui... sì che ancora c’è, Ciocchetti, però allora si chiamava Brai, poi non so’ se erano imparentati tra di loro o eccetera. E lui c’ha avuto anche un paio di episodi di emigrazione, ha emigrato una volta in Canada e una volta in Belgio. È stato qualche mese, insomma emigrazioni temporanee... E poi invece... Riccardo: Erano gli anni Sessanta? Giorgio: Sì erano gli anni Sessanta. Il terzo fratello, anche lui maschio, ha sempre fatto il tipografo, anche lui ha iniziato presto a lavorare in tipografia e è rimasto fino alla pensione... Riccardo: Sempre qui vicino? In questa parte della città? Giorgio: Dunque lui..., sì, lui quando era apprendista mi diceva che lavorava a via Giovanni Lanza, lì c’era la chiesa di San martino ai Monti credo... e credo che all’interno dei locali parrocchiali ci fosse una tipografia gestita dai frati, dai preti di quella parrocchia. Poi lui entrò a lavorare alla Fotocolor, per’altro anch’io ho lavorato lì... qui in via Tiburtina, dove diciamo che il settimanale più famoso che stampavamo è l’«Espresso», e altri mensili, tipo «Carabiniere», «Finanziere», «Ciao 2001», «Città nuova», quello dei focolarini [Giorgio Arezzi, 1950].
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Scrittori in visita alle borgate povere, 06/03/1947, Settimana INCOM 00048; durata: 0.52. Einaudi e i bambini, 31/12/1952, MondoLibero M073; durata 1.11.
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«Lì sotto c’erano delle bambine, in mezzo alla spianata gialla che s’appiattiva tra le quattro o cinque dentellature del monte e la Tiburtina, piena di operai che rincasavano in bicicletta, qualcuno proseguendo verso Ponte Mammolo o Sette Camini, qualcuno svoltando proprio davanti a quella spianata, verso i lotti di Tiburtino III e la Madonna del Soccorso. […] Sotto, dall’altro versante del Monte del Pecoraro, sempre tra le vecchie cave di tufo, era incastrato lo stabilimento Fiorentini, che faceva vibrare l’aria coi suoi motori. E di tanto in tanto scoccavano dalle vetrate, dai finestroni rabberciati, i lampi bianchi delle saldature autogene […]» [Pasolini, 1976, p. 141]
7. Demolizioni e ricostruzioni «Oggi la borgata sta crollando. Gli alloggi sorti con il criterio delle borgate rapidissime, tirati su in fretta senza alcuna preoccupazione di costruire razionalmente, non sono più abitabili. Lo stesso vale anche per le case dell’IACP, di costruzione più recente. La borgata non “regge” più. Di ciò si è preso atto ufficialmente. È previsto il risanamento della zona; esiste un piano particolareggiato. Si è proceduto alla demolizione di alcuni lotti; poi, tutto si è fermato. Ora cumuli di pietre, mattoni e calcinacci danno un aspetto ancora più desolato alla zona. Vi sono poi gli alloggi in stato di semi-demolizione, senza porte né finestre, con muri screpolati, solcati da crepe o metà abbattuti, con pareti che crollano. In questi sono tornate a installarsi “abusivamente” altre famiglie; ormai sono tutti occupati. E la borgata continua a sussistere tale e quale» [Ferrarotti, 1974 p. 171].
Questa descrizione di Ferrarotti, insieme alla immagine di borgata omogenea dal punto di vista della composizione sociale e «regionale» (soprattutto per contrasto rispetto alle altre borgate, ufficiali e non, e periferie romane), costituiscono una vera e propria radiografia della realtà di Tiburtino III nella prima metà degli anni Settanta, ben presente anche in molti dei ricordi degli intervistati. Il momento dell’avvio del risanamento del quartiere non rappresenta certo una catarsi dal punto di vista sociale ed economico per gli abitanti della borgata, non è il sintomo di una promozione ed emancipazione sociale, è piuttosto, in maniera quasi causale, l’effetto delle rivendicazioni spontanee ma sempre più organizzate. Il processo di riqualificazione urbanistica, in realtà, non solo procede a singhiozzo come sopra descritto, ma è anche parziale e incoerente: specialmente nei primi anni, si interviene praticamente in maniera quasi esclusiva sul «patrimonio» abitativo, trascurando inopinatamente la rete dei servizi, dalla viabilità al sistema fognario, dalla dotazione di aree verdi alla presenza di servizi alla persona. D’altronde le abitazioni sono un patrimonio non solo (e non tanto) per le famiglie che le abitano e che aspirano a una miglioramento delle proprie condizioni di alloggio, ma costituiscono un’evidente occasione di remuneratività degli investimenti seppure operati da soggetti pubblici. L’avvio quindi delle demolizioni e il procedere delle ricostruzioni rappresentano, piuttosto che un momento di arrivo, in realtà il culmine della battaglia sociale in atto, l’avvio di un lungo travaglio in cui la comunità dovrà farsi ancora di più soggetto attivo e vigile dei processi in atto. L’assetto attuale di Tiburtino III, in realtà, non corrisponde alla sorte preconizzata da Ferrarotti, la borgata ha retto, non è crollata, si è trasformata, nei suoi caratteri esteriori e «interiori», in quartiere, esempio di continuità nella discontinuità, ma anche di trasformazione nella conservazione selettiva (e purtroppo spesso dissipatrice) di alcuni caratteri «fondativi» dell’essere comunità.
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Figg. 6 e 7 - Due diverse fasi degli interventi di demolizione: il completo abbattimento di un fabbricato (sopra) e interventi mirati per rendere inagibili i fabbricati da demolire successivamente per scoraggiare le occupazioni (sotto). Fonte: Archivio Esplorare la metropoli
D’altronde, i termini antitetici che segneranno l’evoluzione di questo contesto sono chiaramente presenti anche nell’orizzonte di ricerca dell’insigne sociologo («la borgata sta crollando» vs «la borgata continua a sussistere tale e quale») e d’altronde il risultato compiuto delle dinamiche messe in atto in quegli anni è valutabile solo ex-post. Certo è, che solo verso la fine degli anni Ottanta la maggior parte degli edifici previsti risultano finalmente realizzati, mentre ancora nel 1978 solamente trentasei alloggi (per un totale di centottanta vani) risultavano ultimati (Cocchioni e Pontoriero, 1979; Abitare la periferia, camera di commercio, …). 45
«Il quartiere deve essere ancora completato e presenta già elementi problematici: come molti altri casi, i negozi e i locali destinati ad attività ricreative e commerciali, previsti al primo livello di un edificio in linea per residenze, non hanno trovato ancora utilizzazione e sono in una situazione di abbandono, accentuando lo stato di degrado generalizzato delle parti comuni» [Roma Anni Novanta, p. 83]
Si è propensi a pensare però che almeno tre elementi possano avere concorso a evitare un’implosione generalizzata di Tiburtino III, segnandone al tempo stesso alcuni tratti di conservazione e di progresso. Uno di questi elementi è certamente esogeno, e pur rappresentando una netta cesura con il passato per quanto riguarda la qualità degli alloggi, si inserisce comunque in una tradizione «embrionale» di progettazione urbanistica di avanguardia che in qualche modo si è visto essere un elemento ben presente nella storia architettonica della borgata. «La cultura architettonica disponibile, a partire dal 1965, non era troppo preoccupata del problema del disegno urbano come creazione di spazi conformati per dialogare con l’esistente, anche nella libertà di creazioni originali. Prevaleva l’esigenza dello studio attento di ciò che si faceva nell’Europa del nord-ovest, perché in quei Paesi è nato il Movimento Moderno e in quei Paesi le città moderne hanno iniziato il loro sviluppo. […] Anche perché il ripudio dell’accademia fascista e la delusione per il maldestro neo-realismo tentato nel dopoguerra, riportavano l’attenzione sulle cose che si realizzavano e che diventavano subito efficienti e vive» [Lenci, s.a., p. 22].
Due infatti gli aspetti innovativi che, sulla base della testimonianza di Giorgio Zama, uno degli estensori del progetto urbanistico di riqualificazione e che seguì personalmente anche buona parte della realizzazione dei previsti interventi, sembrano essere stati esperiti nell’ambito dell’applicazione del Piano di Zona Tiburtino III – n. 15 bis previsto dalla legge 16736. Il primo riguarda gli aspetti direttamente strutturali e, addirittura, le tecniche di costruzione, l’altro ha invece a che vedere con la concezione e la funzionalità degli spazi progettati, in particolare quelli destinati a servizi o comunque ad attività rivolte alla collettività. Giorgio Z.: Mi chiamo Zama Giorgio sono del 1928 e sono stato in contatto, ho avuto occasione di conoscere il Tiburtino prima come studente, poi come laureato progettista e anche diciamo nell’attività di professore universitario […]. Dalla fine degli anni ‘40, Tiburtino III aveva ospitato […] le costruzioni che erano state fatte, ma praticamente dalle élites dei progettisti romani. Adesso non so ricordarli tutti, ma penso che studiando su qualche libro, io ricordo solo un nostro professore che si chiama, si chiamava, Giuseppe Nicolosi, noi lo chiamavamo un maestro, un poeta. Solo che queste case erano fatte malissimo, nel senso che erano addirittura senza nemmeno i servizi. […] Non tutti gli edifici del quartiere furono abbattuti. Però avendo la mappa di quelli che dovevano essere abbattuti noi progettammo una... serie di nuovi edifici con i sistemi di prefabbricazione più moderna, quasi fu una gara insomma […]. Tutta la progettazione di questo sembra uno scherzo e invece è complicatissima. [si riferisce all’edificio che delimita a est via Mozart, destinato a ospitare negozi e servizi per la collettività, NdR]. Riccardo: Perché qui fu più ardito? Giorgio Z.: Perché essendo l’edificio, diciamo, più significativo, non ci sono abitazioni qua, salvo nella parte alta là, ma nella parte bassa non ci sono abitazioni. Quindi essendo questo edificio più urbano, allora era stato trattato... questo in particolare era stato fatto da un ottimo elemento del gruppo, il professor Biscogli, che è morto, lo so ch’è morto, e i disegni di questo edificio sono stati molto abbondantemente illustrati nelle riviste delle Case popolari. Perché aveva una sua... praticamente accoglieva una gran massa di proposte e soluzioni studiate negli uffici tecnici delle Case Popolari... e che qui finalmente potevano essere realizzate. Perché in genere, come dicevo, nonostante la Gescal che prevedeva tanti Il progetto urbanistico del Piano di zona 15 bis è del 1972 ed è stato realizzato da L. Biscogli, G. Gigli, A. Moraggi, G. L. Rolli, C. Tiberi e G. Zama (Roma Anni Novanta, p. 82). 36
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metri quadrati di questo servizio e quell’altro... in genere si mettevano un ambulatorietto, quattro edificetti qua e là... […] Tiburtino III faceva parte della 167 che... di cui ho partecipato insieme ad un altro gruppo che si chiamava Tiburtino Sud cioè un complesso di ehm circa di quarantamila abitanti, quindi una grossa città, un’enorme città, quarantamila abitanti [l’odierno quartiere di Colli Aniene, n.d.r]. Questo Tiburtino che era sud, che era legato come vi dico ad un anello con tanti nuclei appoggiati su questo anello e in pratica aveva questo Tiburtino III già costruito che... sarebbe stato attaccato ma che per il momento non c’aveva... non esisteva insomma era cioè da abbattere e da ricostruire per una certa coerenza per... una certa coerenza che mi pare fosse fatta bene dettero l’incarico allo stesso gruppo che aveva fatto il Tiburtino sud di progettare questa volta architettonicamente Tiburtino III. […] Il quartiere nasceva con ampie aree, per esempio, di negozi; questa è una delle cose più interessanti. I negozi che andavano negli edifici nuovi sarebbero stati occupati dai negozianti che già avevano sul posto, e non era mai capitato di dover fare una progettazione non solo quantitativa ma addirittura nominale. […] Che succede? Che tutti questi servizi che ho descritto sono stati però intaccati da una presenza che nelle statistiche che io ho letto sui libretti non era stata mai rilevata, non era stata mai, mai mai rilevata... […] E cioè la delinquenza, cioè la presenza massiccia e veramente condizionante della delinquenza. […] Ricordo proprio di un papà, un uomo anziano, un po’ storto, un po’ un poverino modificato dal lavoro che sotto... davanti a me mi venne a urlare tu saresti un urbanista... e aveva ragione lui cioè questo che voglio dire cioè il distacco tra la cultura dell’utente e la cultura dell’architetto effettivamente doveva scendere in altri livelli insomma... Riccardo: Diciamo che c’era la paura se non la consapevolezza che questi spazi comuni sarebbero stati... Giorgio Z.: Sarebbero stati male utilizzati, diciamo che non avevano assolutamente torto. Le situazioni di droga già erano molto molto forti... [Giorgio Zama, 1928]
Secondo elemento è il risultato di una decisione certo esogena, ma nel determinare e prendere la quale hanno certamente influito la considerazione del contesto «ambientale» nel quale queste decisioni dovevano essere calate e produrre i propri effetti. «La ristrutturazione urbanistica di Tiburtino III è stata condotta in un costante rapporto con il Consiglio di Circoscrizione e il Comitato di quartiere, con i quali sono stati discussi il progetto urbanistico, il progetto edilizio, la scelta dei materiali, le modalità di consegna dei nuovi alloggi e di sgombero e demolizione degli alloggi di provenienza, onde evitare occupazioni abusive» [Abitare la periferia, p. 258]
La scelta del confronto non tanto sul tipo di intervento da effettuare, quanto sui tempi e i modi in cui procedere per realizzarli è evidentemente appannaggio di chi produce ed effettua queste azioni; tuttavia questa scelta appare difficilmente eludibile, considerando che di fatto «Il “borgataro” o il “baraccante” da partecipanti passivi di una lotta politica che passava sempre sulla loro testa e nel corso della quale essi erano, anche soggettivamente a causa della disgregazione sociale in cui vivono, sempre oggetti di decisioni altrui, cominciano, faticosamente, ad acquisire coscienza di se stessi e a sostituire alla subalternità culturale i primi segni di una nuova visione di sé e della società» [Ferrarotti, 1974 p. 9].
Questo modus operandi ha tra i suoi principali effetti, ad esempio, quello di invertire la sciagurata tendenza che il Piano Regolatore del 1931 aveva reso prassi, vale a dire l’abbandono della logica di far precedere alle demolizioni la costruzione di nuove abitazioni (Zocca, 1958). Come si vedrà tra poco, questo è un tema particolarmente avvertito e sensibile per la popolazione di Tiburtino III, rimanendo costantemente in allerta, soprattutto quando il ritmo delle nuove costruzioni tende a crescere in maniera rilevante rispetto al periodo iniziale (dal 1967/68 al 1978 circa).
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Naturalmente le parole di Giorgio Zama sulle reali «buone» intenzioni dei progettisti37 e la costante «ritualità» (?) del confronto, non azzerano magicamente problemi e disagi: lo scarto tra tecnica e politica, i tempi lunghi degli interventi e l’inerzia di condizioni di disagio erette a sistema (oltre ai vizi e alle disfunzioni imperiture della burocrazia e dell’intervento pubblico in Italia) sono gli elementi che rendono impossibile una rapida ed efficace soluzione. Osvalda: Questi tre, quattro edifici erano stati costruiti insieme a quelle dove sta tuo padre, su via Schubert, nel 1980; solo che queste dovevano andare a un ministero, mi pare che l’avevano promesso a un ministero, ai dipendenti di un ministero, mo non so qual è, se non che ad un certo punto è successo un qualche cosa, perché tutto un botto hanno fermato i lavori, perché dovevano costruire quei due, che hanno fatto dopo in un secondo momento... Paola: Sempre di fronte alla chiesa? Osvalda: ... e non sono state fatte in contemporanea con queste, e allora hanno chiamato tutti quelli che avevano una famiglia sopra le cinque persone e che erano parecchi anni che abitavano nel quartiere. Regina: Ma voi in che anno l’avete presa questa casa? Osvalda: Nell’Ottantadue. Regina: Quindi voi avete aspettato più tempo di me, perché noi nell’Ottanta... Osvalda: Noi dicembre dell’Ottantadue. Queste siccome che s’erano portati via quasi tutto, perché poi avevano rubato i sanitari, i cosi dentro, allora poi se so’ decisi e l’avevano dati questi fondi. Cinquantaquattro famiglie mi pare che sono, e gli hanno dato ‘ste case, noi eravamo rientrati nel gruppo famigliare e cianno dato ‘sta casa [Osvalda Screponi, 1935].
In tale quadro si colloca quindi l’ultimo dei tre elementi che si pensa abbiano però concorso al raggiungimento di un traguardo da ritenere soddisfacente, specialmente rispetto al possibile e paventato collasso. Questo elemento è spiccatamente «autoctono»: è, infatti, il protagonismo degli abitanti di Tiburtino III in tutte le fasi della demolizione e della ricostruzione. Un protagonismo che si nutre certamente della già richiamata omogeneità che si coalizza intorno al PCI e al Comitato di Quartiere. L’abilità dei dirigenti locali consiste soprattutto nel buon senso di cercare spesso sponda, o comunque la non contrapposizione, con il mondo cattolico, politicamente scarsamente rappresentato nel quartiere ma socialmente diffuso in maniera capillare in virtù dell’operato delle suore e dei cappuccini della Parrocchia di Santa Maria del Soccorso. Una saldatura facile da trovarsi sui bisogni essenziali di cui la lotta per la casa è espressione ed emblema, ma che trova ulteriore stimolo in due passaggi: l’istinto alla conservazione e la necessità di rispondere in maniera autonoma (se non addirittura autarchica) a necessità insoddisfatte e ad aspettative disattese. L’istinto alla conservazione si palesa in diverse forme, la cui manifestazione più evidente è forse la forte resistenza iniziale al trasferimento in altri quartieri periferici di nuova costruzione. Si può dire che il principio d’ordine che dovrebbe vedere la demolizione preceduta dalla costruzione di nuovi alloggi viene in molti casi recepito in maniera ortodossa. Vale a dire che molto spesso i nuovi alloggi si vorrebbero disponibili «immediatamente» all’interno della stessa borgata e molti sono sulle prime i rifiuti a trasferire la propria residenza (Primavalle, Settecamini e Monte del Pecoraro/Pietralata le aree dove molti poi accetteranno di spostarsi). Domenico: E questo punto della ricostruzione e della assegnazione ch’è andata dai primi lotti da... le prime assegnazioni furono fatte nel 1966... Sessantasei, Sessantasette, demolendo lotto I, lotto II e lotto III. Paola: Stavano qua? Domenico: Erano quelli vicino alla chiesa, vicino a Santa Maria del Soccorso, dopo di che nel Sessantotto, Sessantanove, fu demolito lotto IV, che era stato in questo parco, lotto V che è «La programmazione, progettazione e costruzione di un quartiere con l’affidamento dell’incarico professionale diventava un fatto concreto […]. La responsabilità delle scelte, ricadeva, così, sulle spalle degli architetti: essi avrebbero dovuto sottoporre i loro progetti alla Commissione Urbanistica del Comune, unico vaglio, puntiglioso sì della verifica degli standard, ma inadatto a qualsiasi altra considerazione, anche perché interviene a progetto finito» [Lenci, ... , p. 20]. 37
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dietro le nostre spalle, e poi successivamente lotto VII, lotto VIII e lotto... lotto VII, lotto VIII, sì. Diciamo che i primi lotti, I, II, III, IV e V comunque andarono quasi tutti quanti a Monte del Pecoraro. Gli altri invece aspettarono la ricostruzione del Tiburtino III, e quindi mano mano che venivano costruite le case venivano assegnate, le prime assegnazioni furono fatte nell’Ottanta, del nuovo Tiburtino, e per terminare poi nell’Ottantadue. E quindi furono demoliti all’epoca poi lotto VI, lotto… XI, lotto XII, lotto XIII, lotto XIV, lotto XV e lotto XVI, sono i lotti che sono rimasti qua... poi erano i lotti quelli che ti dicevo della Tiburtino alta, parzialmente... quelli della toponomastica Abruzzo – Molise” [Domenico Zanella].
Questa richiesta o pretesa può assumere però differenti connotazioni: la difficoltà ad abbandonare il territorio e il gruppo all’interno dei quali si erano creati nel tempo rapporti che andavano dalla consuetudine alla forte solidarietà e comunanza, con il conseguente senso di sradicamento e straniamento che quindi uno spostamento di residenza «forzato» finisce inevitabilmente per generare la preservazione dei nuovi alloggi a uso e consumo della comunità che vedeva in questi interventi il risultato del proprio impegno e delle proprie battaglie civili e politiche, al punto però di arrivare così spesso a negare il diritto alla casa ad altri nuclei famigliari con analoghi bisogni, ma provenienti da altre borgate o altre aree comunque del disagio urbano. In alcuni casi, in realtà, il diritto si considera acquisito al punto tale da correre il rischio di trasformarlo in privilegio: vale a dire che si nutre la speranza (in più di un caso concretizzatasi) che tra demolizioni incomplete e nuove edificazioni ci sia la possibilità di ottenere alloggi per le nuove famiglie che si «staccano» dai nuclei famigliari di prima assegnazione. Questo è in particolare il meccanismo che in maniera del tutto informale governa però spesso la pratica delle occupazioni di nuove e (soprattutto) vecchie abitazioni. Di nuovo quindi una spiccata tendenza all’omogeneità, che peraltro ai giorni nostri determina una presenza di residenti stranieri assai esigua e con concentrazioni del tutto irrilevanti rispetto ad altre realtà di periferia della Capitale da ultimo, ma non meno importante, un sano e legittimo atteggiamento di diffidenza nei confronti degli scenari dipinti o proposti dagli amministratori sulle sorti del proprio territorio di appartenenza. Per quanto la storia non si faccia con i se, certo non è del tutto scontato che l’area di Tiburtino III, svuotata della maggior parte dei residenti, potesse continuare ad avere una assoluta prevalenza di edilizia popolare, specialmente in un quadro in cui il valore degli immobili era destinato ad aumentare esponenzialmente sia per l’arrivo della fermata della metropolitana sia per la forte infrastrutturazione del territorio e la crescente densità di servizi che il completamento del Piano di Zona Tiburtino Sud (ossia la nascita di Colli Aniene) avrebbe in pochi anni (gli anni Novanta) determinato.
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Fig. 8 - Gli edifici realizzati a Tiburtino III tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Fonte: Archivio Esplorare la metropoli
L’altro passaggio, come anticipato, nasce dalla constatazione che gli interventi legati alla legge 167 non sono la panacea dei mali della borgata (e più in generale delle periferie delle grandi aree urbane). Ci sono due ordini di urgenze con i quali si è obbligati a continuare a confrontarsi: problemi di ordine pratico, che discendono da interventi poco adeguati, intempestivi o incompleti (la rimozione dei calcinacci, la realizzazione o il ripristino di aree verdi o di spazi destinati al tempo libero e alla socializzazione) e bisogni che attengono alla sfera del sociale (i rapporti tra «contenitore» e «contenuto» non sono informati da relazioni causali o meccanicistiche). 50
In entrambe le situazioni, la comunità non solo rimane allerta e vigile, ma è sempre pronta a mobilitarsi e impegnarsi direttamente: l’esempio più chiaro nei ricordi e più caro a molte delle persone intervistate, nel primo caso, è certamente la nascita del Parco dell’Unità, un’area attrezzata a verde e a circolo ricreativo e sociale in luogo di un’area dismessa nella quale giacevano resti dei palazzi abbattuti. Una borgata che mano mano, da borgata è diventato un quartiere… Abbiamo fatto, sono state fatte, sempre con le lotte dei cittadini del quartiere, sono state fatte il parco... che chiamiamo il parco dell’Unità, fatto dai compagni. Era un pezzo di terreno, poi hanno cominciato a spianare, la terra, a costruì, a fa’ le piste di pattinaggio, a fa’ la casetta, avevano tirato su un parco dell’Unità, dove si ritrovavano i compagni di Tiburtino III, là o nella sezione dell’allora PCI. [Roberto Caretta] Questo terreno pieno di calcinacci e demolizioni, abbiamo anche le fotografie... calcinacci, demolizioni ecc. ecc. fu bonificato, ci furono portati quarche cosa come oltre cinquecento camion di terra, forse all’epoca agevolati dalle costruzioni di Colli Aniene che smantellavano... cioè che smottavano il tereno e quindi… e furono cominciati a fare dei lavori qua dentro […] questa è un po’ la storia del parco che è frequentata e dal circolo stesso in cui noi siamo affittuari, perché il terreno è della ATER, ex IACP, oggi ATER... [Domenico Zanella]
Nel secondo caso sono soprattutto due gli ambiti di maggior impegno: il primo è quello della scuola, come si evince da buona parte delle interviste già riportate, il secondo riguarda invece l’esplosione del problema droga e la volontà di affrontarlo e assistere i soggetti più deboli o esposti della comunità. Una forma di impegno che è accomunata da una forte connotazione di genere, dal momento che le madri si schierano in prima linea, ma che trova supporto nei soggetti organizzati che sono espressione della borgata. Nell’ambito scolastico, naturalmente, si tratta di un impegno a cadenza immediata, che di volta in volta richiede capacità di organizzazione e mobilitazione in risposta a specifiche ed estemporanee (anche se sovente consuete) necessità. «Le borgate, quelle storiche, quelle originali, sono state costruite spesso dalle donne […]. In queste realtà loro erano anche un motore economico, un motore sociale, erano quelle che, diciamo, custodivano e presidiavano il territorio […]. Penso alle grandi battaglie fatte dalle mamme delle borgate, per i trasporti pubblici scolastici, per la scuola, contro i doppi turni; penso alle grandi battaglie fatte sul diritto alla casa, per l’acqua… sono pagine di storia urbana, che vanno documentate e conservate, perché fanno parte del patrimonio collettivo di questa città». [Giovanni Carapella, Presidente Commissione Lavori Pubblici e Politiche della Casa (20052010), Regione Lazio; www.borgate.it]
La risposta alla piaga della droga viene elaborata invece nel medio periodo, con forme di partecipazione più o meno ampia e più o meno organizzate a seconda del momento. La dimensione e l’articolazione sociale del problema sono tali che difficilmente possono essere riassunte in poche righe: quello che preme però evidenziare è che, anche in questo caso, la comunità che abita a Tiburtino III riesce a (o dà l’impressione di) rispondere come tale all’ennesimo volto che per loro assume il disagio del vivere in borgata: dalle prime battaglie (e purtroppo numerose sconfitte) principalmente personali, delle singole famiglie, si arriva a una risposta di gruppo, che raccoglierà le proprie forze ed esperienze nell’Associazione La Tenda, incorporando nella propria denominazione il simbolo del presidio che le madri di Tiburtino III organizzarono sulla via Tiburtina per richiedere attenzione e sostegno. Oggi l’Associazione ha trovato anche una collocazione fisica stabile nel quartiere, dove continua a operare dando assistenza ai giovani in difficoltà e alle loro famiglie. 1982, la droga cominciò a entrare dappertutto… 1980, Ottantuno, Ottantadue, dappertutto... […] Lo spunto me lo dettero alcune mamme di ragazzi tossicodipendenti che un giorno si misero qua sulla Tiburtina, davanti la parrocchia Santa Maria del Soccorso con un lenzuolo
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bianco con scritto a vernice «Via la droga dai nostri quartieri, salviamo la vita ai nostri figli» […]. Ancora oggi, a distanza di ventisei anni, La Tenda esiste e cià un suo ruolo, è qua in via del Frantoio... via del Frantoio, via Venafro, qua subito dopo la scuola, vicino a dove è la condotta medica […]. Dopo due anni di questo lavoro, siamo riusciti a diventare Ente Ausiliario Regione Lazio e abbiamo cominciato anche a prendere alcuni fondi, che ci hanno aiutato molto, […] La Tenda cià avuto questo gruppo che ha mantenuto, che mantiene e che ancora oggi funziona: c’è il centro diurno, segue anche i carcerati, fa anche colloqui a Rebibbia, fa anche molte altre cose... e quindi fu una di quelle iniziative fatte in questo quartiere in un momento di particolare difficoltà di spaccio di droga [Domenico Zanella]. E l’iniziativa nacque grazie ad un gruppo di mamme, di persone tossicodipendenti, che misero una tenda e da qui nacque il nome l’associazione La Tenda, esattamente all’incrocio di via Tiburtina. Allora all’incrocio di via Tiburtina ci fu questa esperienza, di questa lotta per sottolineare il problema della tossicodipendenza e del dramma che le famiglie vivevano e niente, quindi questa è una delle storie che a me piace davvero sottolineare perché credo che fa pendant con, con la battaglia per aver il diritto alla casa, per avere i servizi, che è un tema ancora attuale, perchè ahimè non soltanto Roma, le grandi metropoli ancora hanno delle sacche, dei luoghi di povertà, ai quali bisognerà ovviamente impegnarsi ancora di più rispetto a quello che si fa già in parte [Ivano Caradonna]. Paola P.: No, nun c’è stata ‘n’iniziativa qui nel quartiere... Paola: Questa della Tenda chi l’ha fatta? Paola P.:È iniziata co’ le mamme... Stefano: Le mamme dei drogati, non è ‘n’iniziativa del quartiere, è ‘n’iniziativa de’ quattro disperate che ciaveveno i fiji drogati e hanno chiesto aiuto, e aiuto ce l’hanno avuto minimo... ma minimo minimo. Paola P.: Si, si minimo... e quello volevo di’... Paola: Chi gli ha dato aiuto? Paola P.: Niente, c’è stato giusto... Stefano: Sempre i parenti de ‘e mamme dei drogati... tutti i parenti. Paola P.: No, veniveno... c’è stato ‘n dottore... che veniva… […] Flavio Veneziale... ch’è stato ‘na persona... brava! […] che veniva a controlla’ ‘sti ragazzi, perché chiaramente ‘sti ragazzi... c’erano dei ragazzi che dormiveno, diciamo, qui... aveveno dato, all’inizio dalla Tenda avevano spostato qui su via Mozart […] e poi c’erano delle persone, le stesse mamme, gente che voleva aiuta’... e all’epoca c’er’andata pure io; e stavi lì co’ questi ragazzi, ‘nsomma, je tenevi compagnia... [Paola Padella e Stefano Liberati, moglie e marito, nati entrambi a Tiburtino III nel 1964]
8. Le case nuove Oggi la stratificazione dei diversi interventi urbanistici nel territorio di Tiburtino III è ancora immediatamente leggibile, sia per le evidenti differenze nella tipologia edilizia e nello stile architettonico, sia per la loro ubicazione: le case più vecchie, quelle di primissima costruzione e scampate alla demolizione o quelle costruite con i successivi interventi di edilizia popolare nell’immediato Secondo dopoguerra, ad esempio, sono a una quota inferiore rispetto agli edifici realizzati tra la fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta. Perpendicolarmente all’asse nord sud (rispetto quindi a via Tiburtina e via Collatina, per intendersi), la borgata assume così un caratteristico assetto a schiena di asino, la cui dorsale, il cui spartiacque (se si pensa agli effetti delle esondazioni dell’Aniene sopra descritti) ha il suo vertice nell’asilo dell’OMNI. Le case di più recente edificazione, infatti, hanno contribuito a modificare sensibilmente l’aspetto originario della zona anche perché, proprio per debellare una volta per tutte il disagio degli allagamenti periodici, oltre alla realizzazione finalmente di un sistema fognario efficiente, il piano strada (soprattutto lungo il limite orientale della borgata, verso Colli Aniene) è stato sollevato almeno allo stesso livello di quello del più moderno Piano di Zona di Tiburtino Sud.
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Pur nel persistere di evidenti disagi dovuti in generale alla qualità non altissima dei materiali utilizzati nelle costruzioni destinate all’edilizia popolare38, buona parte delle famiglie di Tiburtino III registra un miglioramento delle condizioni di alloggio con il trasferimento nelle residenze di nuova edificazione. In particolare, le differenze più marcate rispetto alle sistemazioni più vecchie sono nella destinazione di spazi adeguati ai locali di servizio (bagni e cucine) e nell’aumento del taglio medio degli appartamenti, con un maggiore numero di stanze disponibili per nucleo famigliare. Questi d’altronde erano gli ambiti in cui con maggiore ricorrenza emergono nei ricordi degli intervistati carenze e insoddisfazione quando raccontano del periodo di primo insediamento nella borgata, e a tali bisogni in qualche modo gli interventi di risanamento rispondono. Anna: E poi, per forza, cianno dato ‘ste case che erano finite quando… anzi, che noi siamo stati pure fortunati che cianno portati a vede’ il modellino, perché a nessuno lo facevano vede’ quando davano le case, invece a noi ce l’hanno fatto pure vede’ com’erano disposte le tre camere. Infatti a me m’è piaciuto tanto… a me m’hanno dato quattro camere. Regina: E come so’ cambiate poi le cose? Che anni erano? Anna: Era nell’Ottanta e, niente, avemo preso ‘ste case contenti, capirai, a me me sembrava una reggia, non sapevo più dove stava la porta d’uscita, l’entrata, perché era talmente grossa che me stancavo [Anna Antonini, 1942].
Puntando sempre verso la linea d’orizzonte che le interviste raccolte descrivono, a fare tuttavia da contraltare alla gioia (specialmente dei bambini) e alla soddisfazione per l’ingresso nelle nuove case, ci sono, ad alcuni anni di distanza, i sentimenti di nostalgia e vero e proprio rammarico per quello che, con i palazzi abbattuti, è andato disperdendosi del vecchio Tiburtino III. Il riferimento, come è facile intuire, non è tanto ai lotti e agli edifici, anche perché è stato sottolineato come questo lembo di territorio si contraddistingue nel legame di parti importanti della popolazione che lo abita proprio per la persistenza, l’inerzia di alcuni caratteri. Una esemplificazione di tale stabilità nel cambiamento è certo la pianta della borgata, che non risulta stravolta dagli interventi succedutisi nel corso degli oltre settanta anni di storia (il che limita, se non addirittura inibisce, la percezione di disorientamento39) e dalla stratificazione storica di luoghi che questa storia l’hanno attraversata (in alcuni fasi da protagonisti), come la piscina, la pineta e le scuole, come detto. Nel momento invece in cui se ne lamenta la perdita, si assiste alla personalizzazione di Tiburtino III, alla sovrapposizione, o forse meglio coincidenza, tra la borgata e la comunità che la abitava e l’ha resa «viva». ... le case sicuramente erano più belle rispetto alle case che lasciavano piene di umidità e quanto altro, però... è stato il primo segno della rottura proprio di unità di quartiere... [Antonietta Destro]
Eh... è cambiato tanto dopo... io... qui ce so’ state parecchie del lotto XI, dico la verità e semo capitate... però i primi giorni sembrava che tutto andasse come prima no? E invece tutto è cambiato... ognuno si è rifugiato dentro casa sua. Così. Ognuno... se sta male, se sta bene non te vede nessuno... invece prima... se so’ persi i valori, c’era più umanità, ce s’aiutava… [Anna Antonini].
«Queste cose fanno parte di tutti i quartieri di edilizia pubblica e chiunque le può vedere e studiare come un’antologia delle cose da non fare […]. Materiali di coibentazione che non coibentano facendo sviluppare muffa nell’interno degli appartamenti. Trasmissione del rumore che abbatte a zero ogni concetto di privacy trasformando le case in scatole di rimbombo. Adozione di materiali su base plastica che nel tempo si deformano, si spaccano, si staccano (anche per pavimenti). Adozione di gomma nera per la zona comune di portici e garage […]» [Lenci, s.a., p. 21]. 39 Significativo, ad esempio, che nonostante la parziale o totale demolizione di diversi lotti, molto spesso nei racconti degli abitanti questi fungano ancora da riferimenti geografici per l’orientamento, sia per l’impressione che il vissuto in questi contesti ha lasciato nella memoria sia perché sono segni, seppure fisicamente non più presenti, comunque intellegibili nel territorio, in virtù proprio di questa memoria collettiva. 38
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Vedi perché le case nuove hanno fatto un po’ perdere questo clima paesano che si respirava prima. Perché adesso c’è la tentazione di... c’è e c’è stata perché se i risultati so’ questi, di rinchiudersi nella casa nuova no? [Giorgio Arezzi]
Comprendere e soprattutto discernere quanto e quali di questi cambiamenti siano il risultato dell’impatto su Tiburtino III di mutazioni sociali e, per certi versi, antropologiche che hanno investito per intero la società contemporanea piuttosto che di dinamiche endogene può essere al tempo stesso estremamente facile (se si assume che questa comunità, pur nei suoi caratteri di microcosmo, non è certo un corpo estraneo e isolato) o complesso (se ci si sforza di individuare dei caratteri di originalità nell’evoluzione più generale). Non occorre però in questo caso «scomodare» la numerosa letteratura esistente sui rapporti tra globale e locale, perché il fine di questa ricerca, o meglio ancora i presupposti politici e scientifici da cui questo percorso ha preso le mosse, sono altri. Hanno a che vedere, infatti, con la convinzione che la cultura e, soprattutto, la pratica della memoria non esauriscano la propria ragion d’essere con il bisogno di documentazione e conservazione, ma debbano in qualche modo recuperare, e perché no, esaltare, la dimensione di testimonianza, in questo caso, di un modo diverso di vivere il proprio rapporto con il territorio. L’abusata espressione, perché spesso banalizzata, della necessità di «riannodare i fili della memoria», informa in realtà non solo quanto scritto, ma l’intera attività condotta sul campo e negli archivi ed è servita da pungolo anche nei diversi momenti di confronto con istituzioni e amministrazioni locali. Questa determinazione, insieme all’iniziale collaborazione con l’associazione D’Altro Canto e il Circolo Gianni Bosio, ha consentito di ricevere un sostegno di carattere economico (da parte dapprima del Comune di Roma e in seguito del V Municipio) che ha permesso di proseguire l’attività per un periodo lungo oltre 5 anni e di arrivare a realizzare (grazie anche al sostegno del CNR e della Società Geografica Italiana) questa pubblicazione e il video-documentario allegato. Ma, allo stesso tempo, ha prodotto l’impegno dell’attuale Presidente del V Municipio, Ivano Caradonna, affinché un congruo numero di questi prodotti contenenti i risultati della ricerca sia distribuito nelle scuole presenti in questo territorio (quello del V Municipio). Al di là infatti dell’attenzione che oggi, sia a livello istituzionale sia nella comunità scientifica, il tema della memoria suscita e riscontra, è evidente che i destinatari primi di queste opere (almeno così intende questo gruppo di ricerca) sono le generazioni più giovani, che non solo non hanno vissuto questi eventi, ma che probabilmente non hanno più modo od occasione di ascoltarne i racconti. Tentando un accostamento ardito, si può pensare che queste «narrazioni» così proposte e documentate, vogliano assolvere, in maniera assai più esplicita, alla funzione che le fiabe, così come ci ha insegnato Italo Calvino40, hanno sempre svolto nei confronti dell’educazione e della maturazione dei più giovani, in un mondo assai diverso. 9. Una battaglia vinta? Come ogni buona favola allora che si rispetti, anche questa di Tiburtino III a volerlo cercare, senza neanche troppo sforzarsi, ha il suo lieto fine. A distanza di quasi quaranta anni dalle lotte per la casa e la riqualificazione del quartiere, infatti, il tessuto politico e sociale della borgata/quartiere ha saputo raggiungere i vertici della rappresentanza politico-istituzionale a livello locale, esprimendo sia rappresentanti in seno al Consiglio del Comune di Roma sia «assumendo la guida» del V Municipio, dal momento che Ivano Caradonna, alla sua terza consiliatura da presidente, è nato e vissuto nella borgata. Naturalmente qui non è in discussione la figura politica né tantomeno la persona di Ivano Caradonna: quello che interessa è fornire un ulteriore spunto di riflessione rispetto a un percorso di riconoscimento e rivendicazione che in questa presenza istituzionale potrebbe vedere la sua sublimazione. Altri potrebbero vedere in questa sorta di istituzionalizzazione del conflitto, invece, la maniera subdola del sistema per disinnescare movimenti di lotta e di protesta e quindi parlare di sconfitta. Queste dinamiche certamente esistono, tuttavia l’opinione di chi scrive non propende per questa interpretazione, per una ragione che scaturisce direttamente dall’esperienza di ricerca. Alla luce 40
E a me personalmente, Paola Spano.
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dei vantaggi che l’operato dell’attuale presidente pare abbia portato e stia portando alla borgata, questa presenza sembra veramente essere la conclusione di un percorso, la via più concreta e proficua per dare risposte ad alcune delle tante aspettative rimaste comunque disattese. Due esempi su tutti possono valere in questo senso: da un lato il recupero e la riapertura al pubblico della piscina, dall’altro l’aver reso fruibile per alcuni giorni dell’anno lo spazio verde costituito dalla pineta. Due «beni» certo oggettivamente importanti nel tessuto sociale e urbanistico di una periferia di una metropoli come Roma e che avrebbero potuto comunque normalmente essere oggetto di azioni di valorizzazione da parte dell’amministrazione locale: tuttavia, alla luce del significato che questi luoghi della memoria hanno per gli abitanti di Tiburtino III, appare difficile evitare di pensare che nella definizione delle priorità non abbia inciso, come è inevitabile che sia, la sensibilità di essere membro della comunità della borgata. Inoltre, poiché una delle lamentele ricorrenti tra gli abitanti vecchi e nuovi nasce dalla perdita di servizi a favore del vicino e più «borghese» quartiere di Colli Aniene, altri interventi hanno riguardato il potenziamento delle strutture della biblioteca comunale di via Mozart, il recupero e riuso degli edifici della Vaccheria Nardi, che oltre a ospitare la nuova sede della biblioteca funzionerà da centro culturale e, come si è appreso per bocca di Caradonna, il trasferimento in un edificio dismesso della nuova sede dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AMOD). Non mancano naturalmente le critiche, sia politiche sia personali, all’operato del Presidente del V Municipio, e si ribadisce che il fine di queste poche righe non è l’espressione o il tentativo di indirizzare un giudizio politico: sarebbe però altrettanto parziale evitare di constatare che questa presenza istituzionale si è tradotta anche nella realizzazione di interventi (come ad esempio quelli sopra citati) che certo hanno un impatto significativo (e potenzialmente positivo) nel territorio di Tiburtino III. Questa constatazione è foriera, per chi scrive, di una riflessione che coinvolge anche il ruolo dei più giovani nella fase attuale del rapporto tra popolazione e quartiere: i giovani sono assenti o rimasti comunque ai margini di questa ricerca. Questo dipende da un lato da come si è proceduto nella raccolta delle interviste: al di là infatti delle testimonianze dalle quali era impossibile prescindere (per il ruolo istituzionale, politico o storico che la persona in questione ha avuto o ha nella vicenda di Tiburtino III), la sequenza dei racconti è stata «ammassata» in maniera spontanea, vale a dire in base alle indicazioni che le stesse persone intervistate (il cui connotato distintivo e in comune è semplicemente quello di vivere o avere vissuto nella borgata) hanno di volta in volta suggerito, secondo un meccanismo di autoreferenzialità che è stato ritenuto essere proprio del riconoscersi come membri di una comunità. In questo incedere, pochissimi sono stati i giovani nei quali ci si è imbattuti. Soggetti che sono rimasti sullo sfondo anche quando se ne è cercato traccia in movimenti e contesti «extra-politici», in una fase in cui appunto l’organizzazione strutturata del consenso politico (ossia le tradizionali strutture e organi di partito) proprio dai più giovani vengono guardati con una certa diffidenza. Nell’area del V Municipio, anche in quartieri limitrofi a Tiburtino III, infatti, non mancano esperienze come quelle dei centri sociali e quindi, ad esempio, di autogestione di aree abbandonate o marginali. Dalle (poche) interviste raccolte al riguardo, tentativi recenti in questo senso sono stati pochissimi, di periodo assai breve, quasi nessuno nella borgata e, soprattutto, in cui i giovani di Tiburtino III erano assai poco o niente affatto coinvolti. Volendo provare a dare una spiegazione a questa riduzione a ruolo di comparse (termine che non esprime un giudizio di merito, ma che fa il paio con il protagonismo di cui si è parlato), vengono in mente almeno tre possibili chiavi di lettura: la prima è stata già richiamata, ossia una marginalizzazione dettata da alcune declinazioni che il mondo giovanile nella società attuale tende ad assumere, che quindi poco ha a che vedere con le vicende di Tiburtino III. La seconda riguarda invece il carattere di omogeneità, questo pure già descritto: la scarsa permeabilità che questa omogeneità in alcuni casi ha prodotto, potrebbe aver reso difficile anche il travaso tra generazioni in cui il legame con il territorio ha assunto valore diverso; l’allentamento di questo legame (anche per il diradarsi dei momenti organizzati di rivendicazione) potrebbe anzi aver significato una maggiore difficoltà per i più giovani nel conquistarsi o vedersi riconosciuta una legittimità all’interno della comunità. La terza richiama infine proprio il carattere vieppiù organizzato (portato al suo estremo, in un certo senso, nella sua dimensione 55
istituzionale) del dissenso, delle richieste e delle aspettative di emancipazione e miglioramento della propria qualità di vita: esperienze compiute come quelle de La Tenda, il protagonismo per certi versi esasperato nelle fasi di ricostruzione e, da ultimo, l’insediamento nei vertici della amministrazione locale possono effettivamente rendere difficile immaginare nuovi percorsi di mobilitazione o, ad esempio, inibire richieste di soddisfazioni di nuovi e vecchi bisogni? In realtà, per chiudere, si ritiene che la risposta a questi ultimi quesiti sia «no» e che piuttosto ci sia la necessità di segnalare (e ricordare) quali frutti concreti le battaglie passate hanno sortito, contribuendo a migliorare (o anche solo evitando di peggiorare ulteriormente) il contesto in cui si vive, preservando e valorizzando le componenti di «pregio» e rimuovendo o reinventando gli elementi che generano degrado.
Voci della memoria PAOLA SPANO 1. Il racconto è la cosa principale «… a casa mia il racconto è stato sempre la cosa principale, noi se racconta sempre…». Sono parole di Rosanna Paolessi durante l’intervista a sua madre Elsa Cedroni e corrispondono perfettamente all’atteggiamento con cui ho lavorato sulle interviste registrate a Tiburtino III. Anche per me «il racconto è la cosa principale». Nel corso della ricerca abbiamo intervistato poco meno di cinquanta persone, raggiunte attraverso una catena di rapporti personali che ha il suo primo anello nella scuola media di Piazza Ardimento (poi Caterina Martinelli), dove chi scrive ha insegnato negli anni Settanta. Dagli ex alunni siamo passati ai loro genitori e, sommando ricordi e segnalazioni, man mano il cerchio si è allargato. Non però quanto avremmo voluto, poiché il percorso della ricerca è stato in molti momenti intralciato da diversi problemi. Sono quasi assenti tra gli intervistati voci e volti di giovanissimi, e questo è senz’altro un grave limite; mancano anche, quasi del tutto, voci e volti esterni al quartiere, ma questo è sicuramente meno grave. Tuttavia, a dispetto di queste «mancanze», il materiale che abbiamo raccolto è talmente ricco di racconti che è stato molto difficile farne una selezione da offrire ai lettori di questo libro. Siamo stati spinti a questa ricerca sia dal desiderio di conservare memoria delle cose che a questo quartiere ci avevano legato affettivamente, sia dal bisogno di comprendere i cambiamenti che in esso si sono verificati negli ultimi decenni; che sono specifici di Tiburtino III ma nello stesso tempo rispecchiano la trasformazione più generale avvenuta nello stesso periodo nella città di Roma e nelle nostre vite. A partire da questo punto di vista, agli intervistati abbiamo fatto domande e chiesto informazioni, cercando tuttavia di non costringere il loro desiderio di raccontare entro schemi predefiniti. I narratori sono quasi tutti, come già detto, di Tiburtino III per nascita o residenza, hanno un forte senso di appartenenza al quartiere; hanno tutti o quasi una visione positiva del vivere in comunità e delle istituzioni che possono sostenerlo, benché, per molti di loro, questo non si traduca 56
nella fase attuale in un impegno politico di qualsiasi tipo: in altre parole, l’individualismo, il farsi i fatti propri, il rifugiarsi nel proprio guscio non hanno buona stampa tra i nostri intervistati. Non ci sono giovanissimi, abbiamo detto, ma le età variano molto: la data di nascita più lontana è il 1916, quella più recente il 1985. Di ognuno dei narratori è comunque presente una breve scheda nel capitolo intitolato appunto I narratori. Le prime interviste sono state registrate su nastro e poi su un registratore digitale, ma abbastanza presto siamo passati alla videocamera. Per i capitoli che seguono ho lavorato sulle trascrizioni delle interviste, e nelle trascrizioni purtroppo si perde molto dello stile dei racconti, che è fatto non soltanto di parole e giri di frase, ma anche di pause, risate e sorrisi, variazioni del tono di voce, passaggi significativi dal dialetto alla lingua. Poiché non era possibile, per motivi sia di spazio che di leggibilità, riprodurre in questo libro le trascrizioni nella loro interezza, ho cercato di offrirne una selezione tematica. In questo lavoro ho avuto come guida le cose imparate ascoltando e leggendo le riflessioni di Alessandro Portelli sulla storia orale e come modello i suoi libri, in particolare L’ordine è già stato eseguito e Il borgo e la borgata. L’obiettivo era rappresentare il quartiere Tiburtino III facendo vivere sulla carta, per quanto è possibile, le persone che ce lo hanno raccontato, e ricreando per i lettori, attraverso i loro racconti, l’interesse e la commozione che hanno coinvolto chi li ha ascoltati. La scelta dei temi e dei brani di trascrizione più adatti non poteva che essere, in quanto personale, arbitraria; ma va detto che è maturata in ripetuti ascolti delle interviste e nel confronto con gli altri ricercatori, ed è stata fatta a partire da grande simpatia e profondo rispetto per i «narratori» e per la loro visione delle cose. Comunque, a bilanciare questa necessaria intrusione, nei vari capitoli i miei interventi sono pochi e brevi, e la parola è quasi sempre agli intervistati. Le parole dei narratori sono riportate in modi diversi: quando il racconto è strettamente legato alle domande dell’intervistatore ho mantenuto la forma del dialogo, mentre quando fluisce indipendente dalle domande ho accentuato questa caratteristica unificando diverse battute e restituendo una continuità che, nel parlato, esisteva già nella sostanza se non nella forma. Ho sfrondato poi le trascrizioni dalle ripetizioni, digressioni ed esitazioni che rendono il parlato vivo e ricco ma appesantiscono lo scritto. In pochissimi casi ho aggiunto per chiarezza a frasi incomplete una o due parole. I nomi dei narratori, sempre in corsivo, sono indicati in genere prima delle loro parole, ma qualche volta alla fine, e in questo caso tra parentesi; in alcuni capitoli ho aggiunto al nome la data di nascita come indicazione del punto di vista di chi parla. Quando è riportato un dialogo, alla prima battuta indico nome e cognome, nelle successive soltanto il nome di battesimo. Una specie di omaggio ho voluto fare a Ornella Boncompagni della quale quasi sempre scrivo soltanto il nome, Ornella e basta. Per rendere più scorrevole la lettura, gli interventi dei ricercatori sono stati a volte omessi, mentre sono stati conservati, indicati dal corsivo, quando erano parte integrante del racconto. Sempre per motivi di leggibilità, alcune volte ho rinunciato a indicare il nome di chi fa la domanda, comunque indicata in corsivo. Tra le intervistate, alcune hanno avuto in qualche caso anche il ruolo di intervistatrici: sono Regina Bruschi Polidori, Tiziana Del Citto, Sandra Fortuna, Nadia Gallo e Paola Padella. Quattro delle persone che ci parlano da queste pagine sono scomparse dopo che le avevamo intervistate: Ornella Boncompagni, Maria Lattanzi, Giuseppa Cassone e Primo Morri. Li ricordo, non potendoli ringraziare, come invece ringrazio tutte le altre e gli altri che ci hanno regalato la loro voce e il loro volto insieme con tanta vivacità, intelligenza e umorismo. Ho passato molto tempo ad ascoltarli e riascoltarli e, se non ci fosse stata la pressione del far presto e del non far male, l’ascolto sarebbe stato puro godimento. Spero di aver trasferito, almeno in parte, questo piacere nello scritto.
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2. Lontano da dove… Elsa Cedroni (1931). … abitavo a via dei Cerchi, di fronte al colle Palatino, dal tetto de casa mia vedevo tutti i fori imperiali, vedevo Caracalla e me ricordo ancora quand’è venuto il Negus in Italia, vedevamo passa’ Badoglio, Graziani a cavallo, il Duce… Dopo settant’anni che abito a Tiburtino, quanno me sposto dico che vado a Roma… Marcello Carboni (1935). Io so’ venuto a Tiburtino nel ‘36, ciavevo un anno. Da via Cavour, mio padre abitava a via Cavour. E mamma era de Alatri de Frosinone, papà invece romano de sette generazioni. Dopo settant’anni che abito a Tiburtino, quanno me sposto dico che vado a Roma. Si dice «vado a Roma» perché Tiburtino non è Roma. Tiburtino cià un degrado talmente grosso che è difficile pure raccontarlo, perché è proprio un dormitorio, dormi e basta. Ciabbiamo una farmacia, un fornaio e nient’altro, non c’è nessun negozio, nessuna attività, nessuna cosa. Cosa bella che so’ cinque anni che è aperto, il centro anziani, e basta, però non c’è più niente, nun ciabbiamo un fioraio, nun c’abbiamo nulla. C’è un bar, prendere o lasciare, frequentato da ragazzi giovani, certo a settant’anni io, loro ventenni, dico c’è un abisso, una mentalità proprio differente. Eh… te trovi spaesato, dice ma, per settant’anni come hai vissuto? Come ho vissuto? Io da quattordici anni vivevo al centro, lavoravo giù al centro, alla stazione Termini, piazza di Spagna, mi piaceva, vedevo Roma e io quando vado a Roma dico «sto a Roma» passo per il lungotevere, gioisco, godo, perché dico «Ecco Roma!». Ecco, capito, è quello che è, e invece qui che vedi? Vedi niente, c’è un auto che passa quando se ricorda. Con mia grande fortuna, vuole che ci abbiamo la metropolitana, oggi come oggi, però c’è un degrado! Proprio quindici giorni fa, ho preso la metropolitana B e la A, la A era un salotto: aria condizionata, niente scritte, gente composta, anche stranieri, noi diciamo che l’extra-comunitario nun ce piace, però educati, rispettosi. Prendi la B, da come sali i primi cinque scalini, scritte, sporcizia, eh… i vagoni che non leggi manco de fuori per quante sporche scritte vedi sui vetri. Quando scendi poi da questa metro B, ecco Roma, e allora dico, poi anche i centri, meno Roma, vai a piazza Bologna, già è un altro ambiente, incontri altre persone, le incontri, ci fai un sorriso, buongiorno, entri, qui a Tiburtino non c’è niente. Mancano ‘e strisce pedonali, mancano ‘e strisce blu… Semo immigrati a Roma come immigrano adesso l’africani… Giulio Fortuna (1936). So’ nato a Arquata del Tronto, provincia di Ascoli Piceno e semo immigrati a Roma come immigrano adesso l’africani: perché era il momento della trasformazione, perché noi siamo passati dalla civiltà contadina alla civiltà industriale e mia madre ha pensato di portarci a Roma, per scappa’ via, per non farci avere a noi la stessa vita che ha avuto lei, che era fatta di stenti. Nel… dunque io ciavevo undici anni, nel ‘47. Amo abitato un anno a San Lorenzo, dentro a ‘na baracca. Non era una casa, era una baracca, una casupola dentro a un cantiere de marmisti. Era a tegole sopra, quando pioveva cacciavamo l’acqua con la scopa perché entrava dentro, così, e siamo stati circa un anno e mezzo o due là. Era un vicoletto de piazzale del Verano, che sarebbe il prolungamento de via dei Volsci, quando attraversa via dei Reti e viene giù. Dentro al vicoletto. Mio padre lavorava al camposanto, col Comune, al Verano, faceva il beccamorto, se dice così o no? E invece mia madre s’arrangiava, andava lavando i panni a varie signore a piazza Vittorio… cosa che lei già conosceva perché c’era stata già a servizio da ragazzetta, a Roma, capito? Probabilmente è quello che l’ha portata, aveva conosciuto un altro modo di vivere e dopo l’ha messo in atto. Poi nel ‘48, cianno dato casa de l’Istituto de ‘e case popolari, al lotto XIII. Allora, mi’ padre lavorava al camposanto no? Lui pijava du’ sbornie al giorno, quann’annava bene. Allora ‘na sera vie’ a casa, a mi’ madre che se chiamava Teresa fa: «Teresì, adesso ho conosciuto uno… che mo’ ce danno casa». Mi’ madre a noi figli: «Questo stasera ha bevuto più del solito». Invece lui, dentro un’osteria Dal galletto a piazzale del Verano, ave’a conosciuto uno che questo forse era un vecchio gerarca di prima, che dopo stava nel partito liberale, ma era un barbone tutto mezzo sganghenato con li pedalini, certi buchi così… E questo, chissà che conoscenze ciaveva, che appoggi aveva, dopo cinque giorni cianno dato casa per davvero. Eh… «Oh! Mo’ domani dovemo fa’ il trasporto». «E co’ che ce ‘a portamo ‘a roba? Col carrettino de Di Carlo?» dice «No, no ho detto lì ai 58
carri da morto, vengono col coso, cor camioncino». Che con ‘sto camioncino ce portavano i fiori, riportavano via ‘e corone, capito? Vabbe’, poi trasloco… me vie’ da ride’, nun è ch’era ‘n trasloco, perché ciavevamo un comò, due o tre brande, una scatola de cartone coi piatti dentro e ‘na credenzetta che io già da ragazzetto avevo riverniciato che prima prima ce stava scritto Lupini, davanti, che vennevano i moccolotti a piazzale del Verano. E basta. Quelli, tutti i mobili che ciavevamo. Amo buttato dentro ‘sti quattro bagattelli e quanno amo passato Portonaccio sembrava d’anna’ all’estero. Aho! Portonaccio era il limite del mondo per noi! Infatti a Tiburtino, quando che s’annava via dice «‘Ndo vai?». «Vado a Roma». L’estero era! Mario Gallo (1935). Io sono nato nel 1935 a Acuto, provincia de Frosinone, siamo arrivati a Tiburtino III nel ‘56, ‘57, non lo so adesso de preciso, io ciavevo dodici, tredici anni. Vabbe’ il discorso è questo che noi stavamo a Acuto e dovevamo venire a Roma e in quei tempi se tu venivi dal paese dovevi fatte fa’ ‘l visto che tu ciavevi sia il lavoro che il posto di locazione sennò nun c’era niente da fa’... allora mio padre parecchi anni è stato a piazza Vittorio a abitare da mio zio che ciaveva un portierato, e però lavorava alla stazione Termini perchè faceva il muratore; poi trovò tramite un parente de mio zio una casa a Tiburtino III, quelle che Mussolini aveva fatto e poi l’aveva dismesse… c’era un ballatoio senza inferriata , senza gabinetto, senza niente che poi piano piano noi abbiamo potuto metterle a posto. Ossia l’acqua ce stava, però c’era solo il lavandino, il gabinetto nun ce stava perché i lavori erano stati tutti fatti così, smezzati, e avemo dovuto ricomincia’ da capo… la casa, l’inverno te morivi de freddo e l’estate te morivi de caldo… Domenico Zanella (1941). …e quindi ci fu i primi tempi molto difficili per il lavoro e per tutto, e poi, come ti ripeto, qua eravamo veramente fuori Roma, cioè oggi fuori Roma se chiama l’anulare, e qua c’era un cartello di Roma che terminava a Pietralata e, quando che le nostre mamme andavano a fare la spesa a piazza Vittorio, perché a piazza Vittorio era il mercato che in termini di economia era il migliore, dicevano «vado a Roma, a fare la spesa» era proprio una cosa tranquilla... «‘N do vai, Felice’?», «Vado a Roma, perché devo compra’ ‘n po’ de frutta…» andava a piazza Vittorio. Nativi Antonio Morri (1947). [La casa dove sono nato] è stata buttata giù per realizzare un deposito dell’ATAC, che poi dopo non è stato più fatto. Ma diciamo che erano case che, alla fine, erano fatiscenti, per cui sicuramente è stato giusto quello che hanno fatto … Giancarlo Carbonara (1947). Io mi chiamo Giancarlo Carbonara, sono nato nel quartiere, Tiburtino, nel 1947. Più di me non c’è nessuno. Questa è a vita… io nel quartiere, ecco, ce so’ nato, vissuto e ciò lavorato, dopo de là, come se dice, non so’ mai uscito de fuori dal quartiere. Nell’insieme nun me lamento, m’è sempre piaciuto vive’ nel quartiere, ho cercato de comportarmi sempre meglio possibile, da migliorare un po’. Ivano Caradonna (1957). La cosa che a me fa piacere è che sono nato a Tiburtino III. I miei genitori sono stati i primi anni con mia nonna che era un’abitante del lotto XIII. Io sono nato al lotto XVII sono stato fatto in casa con la Sora Iole e mi sono sposato con una ragazza sempre del Tiburtino III e anche lei ha avuto la Sora Iole come seconda mamma. Per anni abbiamo vissuto da mia zia che ci ha ospitato nel suo alloggio e poi grazie alle condizioni reddituali e familiari siamo riusciti ad avere una casa nel quartiere. Mia nonna era romana, era arrivata da porta Metronia, mio nonno era originario delle Puglie, di Andria, Cerignola. Laura Morelli (1954). A Tiburtino ci sono nata, nel ‘54. Diciamo di una certa estrazione sociale... erano tutti i poveri di questa città. Mio padre venne qui credo nel ‘38, erano di Monterotondo, non erano neanche di Roma città… me pare che prima stavano vicino san Pietro, poi sono stati mandati qui insieme ad altri cittadini… Roberto Caretta (1953). Io sono nato a Tiburtino III, a quattro passi da qui, dalla sezione, mia madre c’è venuta nel ‘44,’45. Erano sfollati di San Lorenzo. Negli anni Sessanta, ‘64, mia madre ha trovato un cambio alle case popolari e sono andato ad abitare all’Alberone, poi ho conosciuto per caso mia moglie che era di Tiburtino III, mi sono sposato e sono ritornato a Tiburtino III, il quartiere dove ero nato. Tiziana Del Citto (1964). I miei genitori sono tutti e due nativi di Tiburtino III perché i miei nonni, sia paterni che materni, si sono trasferiti qua… proprio all’inizio del fascismo perché abitavano a piazza 59
Navona e Mussolini… e appena sposati sono stati trasferiti qua e infatti noi abitavamo al lotto II, uno dei primi lotti di Tiburtino III… [i miei genitori] si conoscevano da bambini, giocavano nel cortile e si sono sposati… hanno preso poi una casa per conto loro con una camera, la cucina e un water; che lì non c’era il bagno, sempre a Tiburtino, fino al 1966. Poi cianno trasferiti al Monte perché lì proprio l’hanno distrutte le case… Di quando abitavo a Tiburtino non mi ricordo, perché io sono nata nel ‘64… Regina Bruschi Polidori (1960). Allora, mio padre è arrivato a Tiburtino III da Testaccio, da… Trastevere, si. Prima è andato a Pietralata, alle case… le chiamavano le case da Quattro lire… mia madre invece abitava al Casale, al famoso Casale Nardi… Sandra Fortuna (1964). Mia madre ha vissuto sempre a Tiburtino perché lei venuta qui ch’ave’a due anni. Mio padre invece è marchigiano, quindi è venuto a Roma ch’era piccolino, mi sembra aveva undici anni... mio padre è venuto perché lì facevano proprio la fame e sono andati a San Lorenzo nelle baracche. Alessandra Giacinti (1975). Sono nata e cresciuta a Tiburtino III, ho fatto la scuola a via del Frantoio, le elementari… Ivano Giacinti (1954). So’ nato a Tiburtino, ciò cinquantasette… cinquantasei anni, vivo a Tiburtino. Alvaro Bergamini (1938). Famiglia de papà era de Ponte, de mamma era la Garbatella. Stavamo in subaffitto… Bruno Padella (1935). La mia famiglia, provenienza San Lorenzo, stavamo in subaffitto da un fratello di mamma, a via Tiburtina e papà mo’ già ciaveva tre figli, perché io so’ il terzo, più loro due, e poi siccome loro due lavoravano tutte due al Verano, hanno conosciuto qualcheduno che poi… e nel ‘35, di settembre-ottobre semo venuti a Tiburtino III, al I lotto. Giorgio Arezzi (1950). I miei genitori erano di Vitorchiano in provincia di Viterbo, e sono arrivati a Tiburtino III quando ci furono i vari sfollamenti, i vari trasferimenti dalle zone più centrali di Roma… posso citare Porta Metronia, i fori imperiali... Loro abitavano alla Garbatella ed erano in subaffitto, e dopo la guerra, nel ‘46 se non erro, si so’ trasferiti qui a Tiburtino III. Primo Morri (1921). Papà era romagnolo, però era cinquant’anni che stava a Roma, io so’ nato in Trastevere, alla maternità Savetti… Tutta la gente de Tiburtino III erano gente de Porta Metronia e gente de Testaccio come stavo io, e a quell’epoca Mussolini, niente, gli sfratti, fece ‘ste case qui a Tiburtino III, e Porta Metronia ‘a mando’ tutta qua... prima stavamo a Testaccio però stavamo a subaffitto ch’era ‘na commare mia, Marianna, e ce mannarono alla Valchetta Rocchi, chiamata, ‘na periferia dietro San Paolo, era tutta campagna lì. Poi lì fu periodo che Mussolini fece l’E 42, Esposizione 42, e ce mandò via a tutti dalla Valchetta, ce mandò, chi voleva anda’, fece du’ scelte, Primavalle o Tiburtino III, niente, noi scegliemmo Tiburtino III. Col camion Ornella Boncompagni (1927). Sono nata il 10 - 10 - del ‘27 a Porta Metronia. Sono andata a Tiburtino III nel ‘37. Una sera è venuto il camion, ha detto «Domani mattina dovete anna’ tutti via». Sì. E il giorno appresso semo arrivati a Tiburtino III, perché c’ereno tre possibilità, Tor de’ Schiavi, Primavalle e Tiburtino e mi’ padre ha scelto Tiburtino III. Eh! E allora semo arrivati a Tiburtino III col camion, quanno semo arrivati non c’era… ‘a chiesa… ‘n c’era niente... perché noi abitavamo ai padiglioni de sopra, a Porta Metronia, quelli che abitaveno de sotto, s’era allagato, era andato fori il collettore e l’hanno mandati al I lotto. Quanno semo arrivati al I lotto, io stavo insieme a mi’ fratello quello più grande perché mi’ padre s’era inteso male, ‘n’è venuto sul camion. Semo arrivati lì e se sentimo di’ «Ecco i sfrattati». E allora io, dar camion, perch’ero secca secca, allampanata, je dico «I sfrattati sete voi, mor…» i morti j’ho detto. «A noi cià mannato quel fio…eh! de Mussolini» Mi’ fratello me da’ ‘na pizza! dice «Questa ce fa carcera’ » perché lui era grande, eh, mi’ fratello era del ‘14. Mi’ marito invece abitava a viale Castrense. Vicino a via dell’Amba Aradam. Lui quando è stato il tempo sempre del Fascio, l’hanno mandati a Pietralata a’e case de sette lire. Ciavevano er bagno de fori… dopo invece, dopo un ber po’ de tempo j’hanno dato casa al II lotto. Due camere e cucina, a Tiburtino III. Se semo conosciuti a Tiburtino. 60
(Le case sette lire) l’hanno buttate giù, prima della guerra. Eh, ‘ndo annavi? i bagni ‘n c’ereno Un casino era Pietralata, era peggio de noi… almeno noi ciavevamo ‘a tazza del cesso… Dalle baracche Anna Antonini (1942) Io sono nata a Pietralata, a via Feronia, nel 1942. A quelle che dicevano ‘e casette da due lire? Sì. Eh, c’erano i genitori mia lì... loro venivano da San Lorenzo. Per i bombardamenti? Penso di sì. Allora tu quindi a Tiburtino ce sei venuta da Pietralata, perché? Ma forse mamma perché era piccola ‘sta casa… ha cercato da ingrandirsi un po’ de più, capito? Ha visto che stavano a fini’ ‘ste case, c’era ‘l cantiere, hanno fatto l’occupazione… io ciavevo du’ anni però. Me ricordo come un sogno. E praticamente avemo fatto l’occupazione al lotto XVI. Osvalda Screponi (1935). I nonni no, so’ uno di Albano, l’altro de… però i genitori mia proprio romani, sì. La famija mia era composta de nove figli Venivamo da Sant’Agnese, qui a via Nomentana, sotto c’ereno de ‘e baracche e noi stavamo lì però te lascio pensa’ ‘e baracche che potevano esse’, senza acqua, senza strade, senza luce, stavamo co’ e candele, il bagno fuori in comune co’ altra gente, insomma era una cosa propria disastrosa.. Poi certo io so’ cose che ho sentito in seguito, parlando, dai miei genitori, perché ero piccola, ciavrò avuto quattro o cinque anni… So che quella zona lì è stata espropriata perché doveva passarci una ferrovia, una cosa del genere, cianno mandato qui a queste case che aveva costruito Mussolini proprio pe’ ‘e famiglie numerose. Il giorno di sant’Antonio Marisa Marcellino. Io sono nata a Tiburtino III, mia madre è venuta da Porta Metronia, papà e mamma, all’esportazione di Porta Metronia nel 1936, il giorno di sant’Antonio, giugno del 1936. Mia madre era incinta di mia sorella più grande, la prima figlia, e incinta grossa, perché è nata a settembre mia sorella. Si vede che gli ha fatto compassione e l’hanno fatta salire sul camion con tutta la sua roba. Papà è andato dietro ed è andato ad abitare al lotto II, vicino alla chiesa. Mio suocero (era) di Corrado e mia suocera della Cerignola, e poi vennero a Roma e abitavano allo scalo di San Lorenzo… Domenico Zanella. Son venuto qui che ero bambino il 13 giugno del 1944, quindi era il giorno di sant’Antonio, sono nato qua a Bocca Leone, dove adesso c’è un ristorante... prima c’era una stalla, con sessanta mucche da latte di cui mio nonno era, come dire, il gestore per conto di Torlonia. E mio padre lavorava lì con lui, in questa azienda… Da Cassino via Lione Il figlio, Antonio Morri. Io ciò avuto dei nonni che sono stati degli emigranti continui, perché so’ stati prima in Francia e poi dalla Francia so’ andati negli Stati Uniti. La madre, Giuseppa Cassone (1925). Io vengo da Cassino, io vengo dalla Francia… stavamo a Cassino, a San Vittore del Lazio, papà faceva il contadino e mamma pure, dopo non è che c’erano ‘ste gran proprietà che uno ce poteva… da lì nel trentacinque mamma e papà si trasferirono in Francia a Lione, papa faceva il manu’ale. Siamo tornati quando l’Italia dichiarò guerra alla Francia, nel quaranta, ci rimpatriarono in ventiquattr’ore che noi lasciassimo le case, chiuso e scappa’ via. Dalla Francia siamo ito a Cassino e semo stati du ‘anni a Cassino. E allora stavamo lì al paese, proprietà non ce n’ereno, eravamo quattro figli e la fame se cominciava a vede’, c’è poco da fa’, e allora papà fece la domanda per l’UMPA, una specie de vigili del fuoco erano, quando c’ereno i bombardamenti loro dovevano partecipa’… lo presero e in seguito alla domanda che aveva fatto ce diedero ‘sta casa a Tiburtino III. Mamma e papà poi sono ripartiti per la Francia e noi siamo rimasti in casa di mamma. Dopo la Francia, se ne sono andati in America, poi dall’America so’ venuti a mori’ tutte e due in Italia…
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Il padre, Primo Morri (1921). … qui da noi, mia suocera non ce stava più con la testa, sennò non ce sarebbe mai venuta, lei non l’ha mai potuta vedere l’Italia. Stavano bene lì nel Connectum (Connecticut); quando è tornata in Italia, si metteva sul terrazzo e diceva al marito «Portami in giardino», perché in America ciavevano quelle case prefabbricate e ciaveva un bel pezzo d’orto, ciaveva i pomodori, faceva tutto. Da Cascia Maria Lattanzi (1935). Mia mamma co’ mio papà ereno di provincia di Perugia, di Cascia mio padre e mia madre di Lucio. Se so sposati a Cascia, no, poi dopo lui faceva il camionista, papà ha trovato il lavoro a Roma e so’ rimasti a Roma. Tutta ‘a storia è questa. Io [sono nata] il 26, 5, ‘35 a Porta Metronia e [sono andata] al Tiburtino a nove anni, ciavevo nove anni, con mio madre, mio padre, ciavevano una casa, poi siamo stati fuori lì alle case de Mussolini, una camera e cucina, ecco fatti conto qui era la cucina, questa era la camera che c’ereno nove persone, ma te ‘o lascio immagina’, noi stavamo in camera con mio padre e mia madre. No, (la casa di Porta Metronia) era più piccola, dentro una camera così c’erano tre famiglie, questa era un pochino più grande de Porta Metronia. Mio marito, di Roma pure lui, io andavo a trova’ mia cognata che abita a Torpignattara e lì bazzicava lui, e ci siamo conosciuti. Dalla Sicilia. Emiliano Sciascia (1979). I nonni paterni erano siciliani, e dopo la guerra si sono trasferiti a Roma e sono venuti ad abitare qua. I nonni materni invece… mia nonna era di Testaccio, fu cacciata da Testaccio e costretta a trasferirsi qui a Tiburtino III. Sia mia madre sia mio padre sono nati qui a Tiburtino III, quando si sono sposati si sono trasferiti a San Basilio, quindi io sono nato a San Basilio. Poi però loro si sono ritrasferiti a Tiburtino III… tutte le scuole elementari le ho fatte alla Fabio Filzi e quindi alla fine si può dire che sono cresciuto qua, e a me ha sempre fatto piacere ribadire il fatto che sono di Tiburtino III. Dalla Sardegna Maria Pala (1936) e Pina Pala (1947) Pina. Io mi chiamo Pina Pala e sono nata il 12 giugno del ‘47 a Tiburtino… mia madre è venuta a Tiburtino III che aveva una casa… una baracca a Boccea e di conseguenza Mussolini fece… le case pe’ le borgate e mandò mia madre qui, come del resto altri, per esempio mia suocera abitava, mi sembra a Tormarancio, dentro a ‘e case che Mussolini sgomberò per lasciare libero il centro; e allora ci mandò ne’e borgate. Maria. Allora… io uguale… mi chiamo Maria Pala e sono nata a Roma nel 1936, no a Tiburtino però. Siamo venuti a Tiburtino nel ‘40, ‘41, forse nel ‘41. Sì, sì, infatti Antonio, mio fratello, qui a Tiburtino, che lui è nato nel ‘41 a Boccea, qui s’è imparato a cammina’ solo perché la casa era più spaziosa. A Boccea era ‘na baracca, era ‘na casetta de mattoni, una casetta messa così, però noi ce pagavamo ‘affitto perché questa voleva l’affitto da mia madre. Io non me la ricordo, però mi’ madre lo diceva, era proprio un buco. Pina. Spiega che mamma è venuta a Roma dalla Sardegna, noi siamo di… mi sembra Domusnovas… mio padre è venuto ragazzo… io lo so, perché mamma lo raccontava… lui era innamorato di questa donna, ma mia madre s’è sposata co’ un altro uomo, ha fatto due figlie, mie sorelle, però è rimasta vedova a ventun anni perché il marito è morto, così, all’improvviso. Allora mio padre che lavorava a Roma, quando ha saputo che mia madre gli era morto il marito, è tornato in Sardegna, e chiese la mano al… suocero di mia madre. Sì, però certo... il primo è stato il suo amore, il secondo... però dice che mio padre era molto buono. Maria. Io me lo ricordo. Pina. Io non l’ho conosciuto, no, perché mia madre quando lui poi è morto, ch’è morto a quarantanove anni, mia madre era incinta di me...
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Dalla Puglia alla Vaccheria Nardi Amelia Mancini (1932). Dunque, papà Mancini e mamma Savino. … Mamma era de Minervino Murge, delle Puglie, papà invece era proprio romano romano. Se so’ conosciuti a Roma perché mamma era venuta a abitare qui co’ ‘na sorella che s’era trasferita col marito a Roma e ha preso mia madre che je dava ‘na mano con i bambini. E portando a spasso i bambini, ha conosciuto papà. Papà all’epoca faceva il fornaro, aveva fatto otto anni de soldato perché ha fatto la prima guerra mondiale… ha fatto tutta la guerra mondiale. E… poi è ritornato e ha fatto pure… è stato pure de guardia al terremoto de Messina, insomma ha fatto otto anni in tutto, tra soldato e il terremoto che c’è stato. Eh… poi se so’ sposati, in sette mesi se so’ sposati, sono andati abita’ a San Giovanni perché papà era de San Giovanni, poi da lì se so’ trasferiti alla Maranella, Torpignattara… mia sorella è nata a San Giovanni e io e mio fratello siamo nati… a Torpignattara. I genitori de’ mamma non voleveno, però mia zia se voleva leva’ le responsabilità perché sennò doveva ritorna’ al paese, al paese mamma non ce ritornava perch’era ‘nnamorata e così se so’ dovuti sposa’ in sette mesi, nel venti. Nel ventuno cià avuto mia sorella, dopo un anno; e poi da lì, siccome doveano butta’ giù de le case su ‘sta Maranella ch’era proprio chiamata la Maranella, so’ venuti qui a Tiburtino. Mamma ha trovato… perché nel frattempo papà s’era ammalato d’asma, cioè ce l’aveva già da prima l’asma, perché l’ha presa in guerra, però ha seguitato a lavora’ finché gliel’ha fatta; poi sono venuti qui a Tiburtino a la Vaccheria Nardi. Mio marito pure come me… lui pure era stato alla Maranella che l’hanno spostato pure lui e l’hanno mandato a Pietralata. Poi da Pietralata lui è venuto abita’ a Tiburtino, che c’era ‘na zia che j’ha lasciato ‘sta casa. Sarebbe la casa dove so’ andata poi a abita’ pure io, insomma tutti noi. Eh, lì ciò fatto quattro figli.
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3. La libertà di essere bambino In questo capitolo l’indicazione delle date di nascita è importante perché le diverse generazioni non hanno vissuto l’infanzia nello stesso modo: per alcuni, quelli che sono nati prima, la libertà di essere bambino non c’è stata.
Antonio Morri ( !947) Il primo ricordo che ti viene in mente di Tiburtino… La libertà di essere bambino. Sicuramente il fatto di poter essere libero nei movimenti, tranquillamente, senza nessun problema. Nel senso che potevamo giocare per strada, giocare a pallone, non c’era problema di traffico, di persone a cui davi fastidio, oppure nel cortile del lotto dove c’era un campetto che avevamo attrezzato con dei piccoli pali per fare le porte. Praticamente il tempo si passava a giocare a pallone, oppure, all’epoca, anche a spaccapicchio; con i picchi fatti di legno, e poi chi perdeva vedeva il suo picchio rotto da una mattonata perché era la punizione per aver perso al gioco. Eravamo completamente liberi, passavamo ore e ore a giocare… ma io credo fosse una questione di mentalità, non c’era il discorso del rapporto genitori-figli nelle attività al di fuori della scuola. Cioè davano molta importanza a come andavi a scuola, non uscivi se non avevi fatto i compiti, però una volta effettuato il controllo sui compiti, eri libero, specialmente d’estate. L’estate era una libertà estrema, nel senso che fino alle nove, dieci di sera si stava tranquillamente in mezzo alla strada senza nessun problema. L’inverno un po’ meno, anche se l’oratorio ti portava comunque a poter stare fuori di casa… la corsa a casa era per andare a bere, per andare al bagno e la merenda: il panino con il salame, pane e olio… Talmente pane e olio che da ragazzino io andai a una cresima dai parenti di mia madre a Cassino, a San Vittore del Lazio: questi avevano un casale, quindi galline, conigli, tutta roba casereccia, fecero un pranzo di cresima che credo erano anni che non mangiavamo a quel livello, e io mi ricordo che a un certo punto del pranzo andai in cucina da questa zia Diamante e gli chiesi una fetta di pane con sale e olio sopra, che non riusciva a capacitarsi. C’erano le biciclette di comunione, nel senso che se qualcuno aveva la bicicletta permetteva anche agli altri di andare… quello che andava molto era il famoso monopattino costruito da noi, o il carrettino… facevamo i carrettini con i cuscinetti a sfera e si faceva a gara, perché poi noi avevamo due discese, quella su via del Badile e quella su, credo che era via del Frantoio, e poi quella più piccolina ma più ripida, dove adesso c’è via Mozart, che arrivava fino a via Grotta di Gregna che era ancora più bassa all’epoca e quindi era la più ripida… poi che io ricordi c’erano i pattini con le ruote di pietra, qualcuno aveva anche quelli… Le bambine, nei miei ricordi sinceramente ne ho pochissime, nel senso che c’era una netta divisione. Forse l’unico gioco che veniva fatto insieme alle bambine era nascondino, d’estate… del resto… acchiapparella, oppure i quattro cantoni, ecco, da piccoli, poi già alle elementari per i bambini il gioco era il pallone, pallone, pallone. Mario Gallo (1935) … se dovevi anna’ a fa’ il bagno dovevi anna’ a fallo a la marrana, quindi ciavevo un paio de zoccoletti, ‘e mutandine fatte a la Tarzan e annavamo alla marrana. Poi dalla marrana piano piano semo annati a fini’ a fiume… l’acqua era pulita e te la potevi pure bere per quant’era bella limpida, e quindi l’estate s’andava là, poi noi lì a via PalmiroTogliatti c’erano tutti campi de pomodori, de meloni, era pieno... noi, quando ciavevamo voglia da mangiasse el melone non facevamo altro che anna’ lì, e c’eravamo messi d’accordo tra amici che s’andava ‘na vorta per uno: ‘na vorta stavano a aspetta’ a fiume quelli che arrivava la merce ,’naltra vorta quelli andavano a pijalla e la buttavano lì. Tramite la corrente del fiume se pijava ‘sta roba e stavamo lì e se ‘a mangiavamo. Ma tu sapevi già nuota’? No, i primi tempi no, io li primi tempi c’era quest’amico che avevamo preso casa insieme, un parente de mio zio, e lui m’accompagnava là, me legava co’ ‘na corda, poi piano piano me so’ ‘mparato… C’era uno che lo chiamavano Giggetto er matto… uno da regazzino pensava che fosse ‘n soprannome e invece quello era matto sul serio perchè ce fece fa’ ‘na zattera, a fiume, no, e tutta co’ le canne, tutte le cose messe intrecciate «Sta tranquillo, ‘n te preoccupa’ se succede qualcosa» sia a me che all’altri regazzini, no, e allora semo montati su ‘sta zattera, poi co’ la corrente del fiume ‘sta zattera ‘s’è sfaldata, allora avoja che ‘o chiamavi «Ah Gigge’, ma qui…» «‘N te preoccupa’» insomma alla fine se semo 64
trovati in mezzo al fiume, si l’Aniene, e semo annati pe’ corrente e se semo messi attaccati alle canne del fiume e da lì fino a ponte Mammolo. E poi a ponte Mammolo io non lo perché, c’era il posto proprio d’angolo, che lì c’era ‘na fabbrica de varecchina e c’era un risucchio, un mulinello che lì ce so’morti tre quattro persone, nessuno ha mai pensato a mettece una cosa «divieto» de fasse il bagno o che… io ‘na vorta, stavamo nuotando, siccome c’era sempre quel sistema che se buttavano i meloni o se buttavano la roba e poi facevamo una specie de picnic… e allora io so’ rimasto dentr’a ‘sto mulinello, però ormai io avevo già preso tanta confidenza co’ l’acqua che ho fatto tre quatro giri dentro a ‘sto mulinello e alla fine, a forza da fa’ notate una ventina de bracciate tutte insieme, so’ riuscito a usci’ fuori da ‘sto vortice, che è come se qualcuno m’avesse dato un calcio, so’ uscito e me so’ salvato… ma sennò molte volte molti amici proprio… chiamavano i pompieri pe’ recupera’ i cadaveri , diciamo, de ‘sti ragazzi e ‘i trovavano quando ormai erano gonfi che il risucchio li buttava fuori… Giorgio Arezzi (1950). Ma sai la vita dei lotti era una vita comunitaria, perché si giocava tutti insieme, all’aria aperta… giochi, chiaramente, quelli tradizionali, a nascondino, a nizza, a palla avvelenata, e poi diciamo che non essendo ancora stato edificato Colli Aniene noi andavamo anche qui nei… vogliamo chiamarli prati? Non erano prati, c’erano i ruscelli dell’irrigazione, c’erano le marane… e niente, se facevano chilometri, .anda’ a caccia de lucertole, de’ grilli, insomma quello che ce diceva la fantasia... Anche il Monte del Pecoraio era meta dei nostri raid, perché il Monte del Pecoraio era una collinetta, ecco, da qui il nome, siccome ci veniva un pastore spesso, e ricordo che c’erano delle grotte, scavate nel tufo... Mo’ se quelle grotte fossero servite da rifugio quando in tempo di guerra c’erano i bombardamenti, questo non saprei dirtelo, però noi andavamo a esplorarle queste grotte, c’era questo, l’occhialone lo chiamavano, che… un po’ sul genere l’ho viste a Tor Cervara, lì dove ci sono i laghi sportivi, e credo che anche quelle siano servite come rifugio. Alessandra Giacinti (1975). Sono cresciuta a Tiburtino III, ho fatto la scuola a via del Frantoio, le elementari e ho un ricordo bellissimo di quella meravigliosa pineta, ore e ore di giochi con gli altri bambini… Marisa Marcellino (1938) Io ho potuto giocare poco perché, delicata di salute, come sudavo mi ammalavo, quindi ero sempre in mano ai dottori. C’era la pontificia commissione assistenza, dopo la guerra… e alla crocerossina gli ero piaciuta, avevo nove anni e mezzo, e aveva chiesto a mamma se mi mandava alla pontificia, anche che aprivo la porta e facevo passare la gente… era dove sta la scuola di Arte Sacra, dove ce sta la piscina, ce sta quella casetta del custode, lì era. Quindi mamma gli disse di sì. Quindi praticamente lavoravi? No, era volontariato, io ho fatto sempre il volontariato. Lì i dottori mi avevano preso in simpatia, mi venivano con un disegno del sedere e mi insegnavano a fare le punture; c’era il chirurgo che faceva dei piccoli interventi e voleva che lo assistevo. Poi c’erano le colonie, le cartelle delle colonie, e poi c’erano le medicine. Colonie diurne? Che mandavano nei paesi… e il tempo di fare questo lavoro in pontificia non ce lo avevo, perché uscivo dalla scuola e poi andavo alla pontificia alle quattro e mezza; allora prendevo soltanto gli appunti e mi portavo le cartelle a casa e dopo la cena, le mie sorelle tutte fuori nel cortile a giocare, e io lì a scrivere… stavo alla scuola professionale, l’avviamento professionale, dove stava la piscina, e me facevano apri’ ‘na porta e basta per far passare la gente e per tenere l’ordine. Poi passando gli anni, fino a quattordici e quindici anni ho fatto questo. Infatti c’era la vecchietta vicino casa, vecchietta vecchietta era, a mamma gli domandava «Marisella dove sta?» «Ma, dice, sta dentro a scrive’ sul comodino», con la lampadina piccola, perché c’era troppo consumo, e io lì a scrivere. Ornella Boncompagni (1927) Vabbe’ siamo vissuti lì a Tiburtino e non c’era l’auto, dopo un anno un anno e mezzo hanno messo un auto che se chiamava… Salvatore, l’auto de Salvatore. Passava ogni ora e mezza. E se… io volevo anna’ 65
tutte le settimane al cimitero, me ‘a facevo a piedi perché ‘n c’era l’auto. E vivevamo così a ‘a bona, perché che facevi? Niente, nun c’era niente. Perché andavi al cimitero tutte le settimane? E perché l’unico svago che era è quello... me portavo appresso ‘e amiche mie poi dopo lì dentro je menavo e me n’annavo. Perché io ero cattiva quando ero piccola! Beh, insomma, pur’adesso. E dopo semo diventati grandi, hanno fatto il cinema, poi hanno fatto ‘a parrocchia. Mia madre me dava i soldi per la tessera da piccola Balilla, piccola italiana e quand’era la fine dell’anno la maestra me ridava i soldi perché non ce arrivavo mai a da’ i soldi per la tessera. Perché mi’ madre me dava tanto poco… non bastavano. Maria Evangelista (1916) Io ho fatto scuole poco, perché da noi prima ‘n ce mannavano a scuola, noi eravamo undici figli in casa, io ero ultima, l’ultima figlia de undici figli. I maschi ci andavano fino alla terza, a me mi cià mannato, però mi mannava due volte la settimana. Mio padre, mia madre me ce sarebbe voluta manna’. Allora la maestra diceva «Ah Dome’ » faceva a mio padre «Mandacela Maria a scuola, perché è brava, in matematica è ‘n cannone, è brava, faccela veni’!» E perché non la mandava? Perché dovevo lavora’. In campagna. Tutti lavori di campagna, vangavo, zappavo, facevo di tutto, a mietere il grano… da noi se lavorava come che. Prima della guerra poi… A cinque, sei anni già ci mettevano in mezzo alla campagna, emo lavorato sempre, io a undici anni so’ annata a mietere il grano, insomma no a casa mia, a ‘n’altra famiglia. Undici giorni a mietere il grano, se mieteva de luglio, a fine giugno e a luglio, no? Ma mieteva o faceva la spigolatrice? No, no, proprio a mietere il grano co’ la falcetta, «zing, zing zing». Allora c’era il padrone de casa «Ah Marì, quanto sei brava!» me diceva «Si meglio di quelle che cianno tanti anni» dice « ‘n altr’anno te ce faccio riveni’» «Si, ‘n altr’anno ‘n ce vengo!» dicevo io. Eh, era faticoso, si, si sudava. Maria Lattanzi (1935) E di scuola cosa si ricorda? E che me ricordo? io non me ricordo più niente, io me ricordo solo ‘a stanchezza che ancora ciò di quello che ho lavorato. Si, la terza media, però a me, me piaceva anda’ a scuola, anzi gli dicevo a mio padre che io volevo continua’ a andà a scuola, «No, bella de papà, non ciai tempo d’anna’ a scola, t’abbasta quello che hai imparato» perché c’era mia madre che non se sentiva bene, ciaveva cinque maschi, «E chi l’aiuta tua madre?» Marcello Carboni (1935) A quanti anni ha cominciato a lavorare? A quattordici anni. Io nel ‘50 già lavoravo, e mi è nato il primo nipote, già ero zio, già ero grande perché io eh… io a quattordici anni! Ma prima giocavate per strada? A me non era concesso giocare pe strada, ma me diceva «Se lavori, in mezzo a strada nun ce vai». Che è il gioco de ‘a nizza? No no, era vietato, dentro casa non m’o permettevano. Stavo a casa, «devi studia, sei ito a scola? mo’ studi». Osvalda Screponi (1935). … purtroppo mi’ madre, come cresceveno li mandava a lavora’, perché c’era bisogno. Sì sì, quando che il periodo de ‘a guerra ce faceva lavora a tutti, ce dava a ognuno l’impegno suo quello che dovevamo fa’, per esempio annavamo a fa’ la spiga no… se svolgeva che faceveno la mietitura, poi lasciavano qualche spiga così sparsa, noi raccoglievamo quella, ‘a portavamo a casa co’ sti sacchi in collo a piedi da Settecamini, da Santa Rosa e insomma parecchi chilometri de strada co’ ‘sto grano, mamma ‘o metteva dentro i sacchi, mia sorella co’ un bastone lo batteva, in modo che se sgranava tutto, poi c’era quella grande che lo macinava con un macinino a mano, chi lo macinava, chi lo passava col passino, poi ce se faceva il pane, un po’ rimaneva pe’ noi, un po’... Poi siamo andati pure a 66
fa’ ‘a cicoria, e niente facevamo ‘sta vita così, quando che c’era la guerra. Lì al piano dove stavamo noi, che erano sei femmine, e queste erano giocarellone, organizzavano, facevamo i teatrini dentro ‘sta casa, però quando non c’era la madre, perché se c’era la madre faceva salta’ tutte, era una carabiniera. Allora prendevamo i giornali a fasse i vestiti con la carta colorata crespata e passavamo il tempo sul pianerottolo, facevamo i vestitini, se cucivamo le scarpe de pezza, chi stirava, chi cuciva. GiulioFortuna (1936). Le femmine no, giocavano a campana, coll’ossi de pesca. Anna Antonini (1942). Beh, in cortile se giocava, ciavevamo le amiche, lì della stessa scala e se giocava a campana, se giocava coi sassetti, le breccoline, suonavi magari i campanelli del lotto XVII, che era una novità no? quando misero i campanelli. Eh, ‘49, ‘50, io so’ del ‘42 perciò che ciavevo? ott’anni. A sgommarella se giocava, a nizza, ma poco a nizza noi femmine… Cioè il gioco nostro era questo, ma dovevi fatica’ pure perché, insomma, eri la femminella più grande, dovevi aiutare nonna in fontana a lava’ i lenzuoli capito? Tutte ‘ste cose. Prima la marana, me ricordo, c’era ‘st’acqua, le pietre che se lavavano i panni coi piedi la dentro, dentro l’acqua. L’acqua era pulita? Sì sì, si beveva. Mi ricordo mio fratello là ce faceva i crescioni, ce faceva le cannelle, che allora erano buone, sarà la fame ma erano buone. E dopo hanno messo ‘ste fontane nei lotti quando hanno finito ‘sto cantiere e aiutavo mia nonna perché ero femmina, ero la più grande e dovevo aiuta’ lei. Amelia Mancini (1932). Sì, l’infanzia è stata bellissima, perch’ero libera, in campagna, giù pei campi, nun conoscevo ‘a villeggiatura però era come se ce l’avessi, perché all’epoca se faceva pure er bagno a ‘a marana, il pomeriggio… quand’era l’estate chi ce stava dentro casa? C’era tutta campagna fino a giù, perché poi c’era la marana quella che veniva dal Quarticciolo, noi la chiamavamo la cascata, una è stata coperta, sotto via Palmiro Togliatti ce passa una marana di quelle grandi, perché lì c’era una cascata proprio. Andavamo a gioca’ lì tante volte e facevamo il pranzetto, se portavamo il tegamino pe’ cucina’, una volta avevamo mandato a foco tutta ‘st’erbaccia… e con il vento che tirava era arrivato fino a giù, infatti quelli che stavano a taglia’, insomma a lavora’ i campi, hanno lasciato tutto per veni’ a stacca’ i motori su alla cascata, perché le fiamme correveno che erano una bellezza… Ogni tanto quando facevamo qualche danno se ‘a squagliavamo e non rientravamo neanche la sera a casa, avemo mandato a foco pure il giardino qua sotto, sempre pe’ fa ‘sto lavoro qui: avevamo acceso il foco vicino al forno, con il vento aveva preso foco la legnaia che era di una signora che abitava proprio sopra al forno, e ‘ste fiamme so’ arrivate fino sulle palme e allora scesero fori i vaccari, misero la scala e coi secchi hanno buttato acqua sopra ‘ste palme per raffeddalle un po’. Ne abbiamo combinate parecchie. Quelli erano i giochi nostri… Eh, ma se stava bene! perché undici famiglie c’ereno nella vaccheria Nardi, e lì se organizzaveno le feste, la sera, la televisione nun c’era, ma se faceva sempre mezzanotte, l’una, o se ballava o se giocava o se faceva l’altalene… Comunque ‘a vaccheria, dove ce so’ cresciuta tutta l’infanzia, fino a vent’anni, era bellissima! perché poi c’era ‘na parte ch’era tutto giardino, le palme che ce so’ tuttora, ma era bella, papà la manteneva bene, perch’era lui che s’enteressava pel giardino. Certe rose che ereno bellissime, c’era le frutta… In principio, quando diciamo c’erano i vaccari, tutta piena la vaccheria, eravamo diversi, all’ultimo ero rimasta io, Gina che siamo cresciuti insieme, eravamo rimasti uno, due, tre, quattro più fissi, poi venivano i ragazzini dalla borgata, erano tanti ragazzini che glie piaceva sta’ qui, quand’erano le vacanze magari, per non sta’ in mezzo alla strada, glielo dicevano proprio a mamma «Signora me ‘o tiene là?». Mamma poi ciaveva diversi comparati, lei portava il latte e glie diceveno se gli facevano il comparato ai ragazzini. C’erano amicizie pure nel quartiere, tante volte veniveno su da noi… ’sti ragazzi, co’ mi fratello… tant’è vero che ‘n tempo dei tedeschi gli amici de mio fratello se veniveno a nasconde’ su da noi, prima che venissero i tedeschi da noi; infatti come se vedeva qualche tedesco ‘n giro, c’ereno dei cassoni dell’acqua… uno lo vuotarono proprio pe’ mette’ ‘sti ragazzi dentro, ‘sti cassoni grandi. E poi ‘nvece, sempre co’ ‘a venuta dei tedeschi, allora certo, staveno alla larga. Poi dopo, finita la guerra, c’era quell’amicizia ch’è rimasta sempre, e staveno sempre ‘nsieme, io co’ ‘e ragazzine de Tiburtino, tante vorte veniveno a casa mia che dormivano pure… E il maranone di via Palmiro Togliatti era acqua pulita? 67
In principio sì, in principio c’era era acqua pulita, tant’è vero che su al Monte, diciamo così, ce se facevano il bagno, noi se sbrigavamo anda’ giù pe’ fasse il bagno, perché poi arrivava tutta l’acqua sporca di piante, roba del genere che veniva giù, perché c’erano l’altri su che se facevano il bagno. Tante volte vedo ‘sti ragazzini che non fanno niente, dico «Ma è possibile?» l’arberi io li ho scalati tutti, l’alberi lì della vaccheria, specialmente quelli della scarpata che andava giù ai prati de là, quelli li ho fatti tutti quanti. Tutti. Quando se giocava a nascondarello, ciavevamo cinquanta posti dove nascondese, s’arrampicavamo dappertutto, su quei tetti, andavamo a prende l’uccelletti sotto le tegole, poi… d’inverno ce pioveva perché je ‘e spostavamo tutte quante… E a noi ragazzini, il signor Carlo ce baccajava… nsomma, certo quando ce vedeva che facevamo i danni, ce strillava; e je diceva a mamma: «Quando la prendo tua figlia!» perch’era milanese, no, «Nunzia, quando prendo tua figlia!» e mamma je rispondeva «Mena, signor Ca’, mena!». Io scappavo… C’era il II lotto, che la chiamaveno l’arena perché quand’era l’estate, andavano i camion con la sabbia, mettevano tutta ‘sta sabbia dove giocaveno tutti ‘sti ragazzini… chi andava al mare? E allora dicevamo «Annamo all’arena, annamo all’arena!». Il racconto che segue Amelia Mancini l’ha fatto mentre visitava la vaccheria restaurata. A nascondarella andavamo dappertutto. Qui entravamo, ce facevano entra qui perché metteveno il fieno e allora andavamo a pista’ il fieno. De là c’era una gru, una carrucola con le balle, noi co’ sta carrucola saltavamo da un mucchio de balle da una parte e andavamo dall’altra, una volta io hehehe, che facevo sto lavoro qui, come so’ arrivata me so sentita acchiappa una gamba, allora so ripartita un’altra volta co’ sta corda, quando so arrivata là, ho guardato che m’era successo: c’era un gatto infilato dentro, dopo un minuto ho visto che se portava via i gattini, ciaveva i gattini e lei se li è portati via tutti quanti, a uno a uno li aveva spostati. Nadia Gallo (1964) Nadia. Io mi ricordo... i giochi cogli altri bambini, giù c’era il campetto per noi, i giochi all’aperto, c’era l’arenile dove si giocava, questo al Monte del Pecoraro… Beh, facevamo il gioco della campana, io giocavo anche a pallone coi ragazzi e acchiapparella... Nascondino anche, palla avvelenata, mondo, campana... Ecco, ah sì, punteruolo era uno dei giochi che a me mi piaceva tanto: punteruolo era una campana fatta sul terreno, spesso dopo che magari aveva piovuto, se rimaneva la terra umida… si disegnava una campana per terra, quella con i numeri, e poi con il cacciavite, invece che tirare il sasso, tu dovevi centrare la casella con il punteruolo, quindi lanciarlo in quella casella, se sbagliavi dovevi da’ il posto all’altro, diventava un discorso di mira... Io tiravo sempre alla Tarzan, dalla punta… Ogni tanto sgarravi qualche piede, Pa’, era un gioco abbastanza pericoloso... nizza no, un gioco che nun ciò mai giocato perché m’ha sempre un po’ preoccupato ‘sta nizza... Regina. Ma nizza era più dei genitori, mia madre me lo riraccontava... Nadia. No, da noi qualche ragazzo ce giocava co’ ‘sto picchio di legno, però ‘sto fatto che volava per aria ‘sta cosa che non sapevi mai dove dovevi posizionatte, a me me spaventava un po’, de prendelo in faccia o comunque in posti dove te poteva da’ dolore. Tutte le domeniche mattina, ecco questo me lo ricordo benissimo, ero spedita in chiesa... Spedita sì, al Monte del Pecoraro, perché dove’amo anda’ in chiesa, era importante andare in chiesa. La mattina verso le nove e mezza, così, dopo aver fatto il bagno, queste cose della domenica, si andava in chiesa perché mamma doveva fa’ le pulizie generali, quindi tutti fuori di casa e lei spostava macchine del gas, frigoriferi, lavava per terra, tutto ciò che nonna da sola magari nel corso della settimana non poteva fare anche per l’età... La chiesa stava sotto via Michelotti e poi all’uscita dalla chiesa si rimaneva comunque in cortile, si facevano un po’ di passeggiate pel quartiere. Prima dei palazzi dell’AIC c’era tutta quanta campagna, quindi andavo co’ papà... spesso magari ci portava lì coll’aquilone che costruiva lui o comunque passeggiavamo, raccoglievamo erbe strane, cardi, ‘ste cose, lui andava alla ricerca, ce faceva vede’ ‘a cicoria, noi portavamo il pallone e giocavamo col pallone, io perché ciavevo Walter, mio fratello... spesso incontravamo altri bambini che magari non avevano l’aquilone, quindi giocavano con noi. Uno dei giochi che me ricordo terribili, adesso terribili, allora, all’epoca... con i maggiolini, quello verde, non so come si chiama, quell’animale verde smeraldo lucido, io lo chiamavo il maggiolone, come 68
forma è lo scarabeo, però è color verde smeraldo e quando lo trovavamo legavamo una zampina a ‘st’animale e lui volava a mo’ d’aquilone, quindi tu je correvi dietro col filo, col filo legato alla zampa, quando te stufavi de vedello troppo in alto, lo tiravi giù e lui risaliva. Quindi c’era chi ce stava con l’aquilone, chi non ciaveva l’aquilone s’arrangiava col maggiolino. Un altro dei giochi che facevo coi maschi del cortile invece era un altro gioco terribile, con le lucertole. Io infatti non ciò mai avuto paura degli animali perché ho imparato a toccarli tranquillamente, quindi, adesso, non lo so, le mie figlie, ogni volta che me vedono magari prende’ ‘n’animale in mano «Ih, che schifo!» qui e lì... Io ho imparato a ave’ ‘sta manualità da piccola, quindi non me spaventava ‘sta cosa. Se giocava a macchinette al Monte, coi maschietti, l’hai mai fatto? A macchinette con le lucertole. E il gioco consisteva in questo: si facevano mangiare alle lucertole dei pallini di ferro, i pallini delle cartucce dei fucili, s’apriva la bocca, andavano giù, tipo una pasticchetta pe’ volta, quattro o cinque di queste dentro, e poi su un piano di legno, di compensato molto sottile, ognuno ciaveva la sua lucertola e la sua calamita, quindi la lucertola stava al di sopra del piano e la calamita stava di sotto; la maestria era quello che ciaveva la mano più veloce, sotto, si stabiliva tipo una porta e chi arrivava prima dall’altra parte... roba da senti’ male, po’re lucertole. Poi dopo se diceva «Ma no, ma tanto ‘n’ je facciamo... » C’era qualche bambino, io pure all’inizio, tutte le bambine dicevano «Poverini! gli famo male!» «Ma no, quella poi caca e finisce lì...» Invece probabilmente no, perché ‘sti pallini je rimanevano dentro, mo’ non lo so… qualche volta se staccava facilmente la coda, ma quella è una cosa che poi ricresceva e quindi non succedeva niente. Su ‘st’arenile se faceva un po’ de tutto, facevamo ‘e polpette coll’acqua… beh, fino ai dieci anni, sì, fino ai nove, dieci anni. Regina Bruschi Polidori (1960) Regina. Allora, io sono Regina, sono quattr’anni più grande di lei... rispetto a lei magari, vabbe’, rispetto proprio all’estrazione forse familiare, diverse le cose... me veniva da ride’ prima quando parlava de... andava al mare, in vacanza, perché io ho fatto la mia prima vacanza con la famiglia nel Settantacinque, a Terracina. Ma tutte le altre vacanze erano avanti e dietro a Fiumicino... Nadia. Sì, no, le mie pure erano avanti e dietro... perché io ciavevo mia nonna che ciaveva la fortuna de sta’ a venti minuti dal mare, però andavamo avanti e dietro pure noi, sempre. Regina. Il mese d’agosto noi se rimaneva a Roma, però mia madre s’era inventata ‘na sorta de piscina: prendeva la bagnarola che s’usava per lavarci perché non ciavevamo ‘a vasca, ‘a metteva sotto casa, ‘a riempiva d’acqua, quella se scaldava al sole, ce metteva ‘n costume, ce metteva l’asciugamano per terra, e noi eravamo ‘e più ricche del caseggiato, perché ciave’amo’a piscina! ‘A piscina, avanti e dietro, tutti l’altri ce guardavano, quand’eravamo piccole... sì, fino a dieci anni ce faceva ‘sta cosa. Per quanto riguarda, no, le vacanze, se passavano nel quartiere. Poi, all’epoca non c’erano tutti i palazzi, c’era tutto prato, allora se iniziava, a giugno a anda’ ‘n mezz’al prato co’ gli animali... e noi vicino avevamo la marrana, allora ‘n’altro gioco era montare sulle canne, prenderne un po’, ne prendi un po’ così, le ammucchi un pochino e poi cominci a montare sopra le canne e vai avanti, vai avanti, vai avanti e le canne poi cominciano a flette’... e noi arrivavamo al punto più critico e cominciavamo a fa’ ‘sta specie d’altalena, che se poco poco cadevamo dentro la marrana… non sapevamo nuotare, nessuno de noi sapeva nuotare... no, eravamo proprio abbandonati al prato, attraversavamo ‘a strada, stavamo ‘e giornate intere al prato, ritornavamo per l’ora de pranzo... Prima era tutto prato, quindi calcola che noi abbiamo passato l’infanzia tra le rane, i passeretti, ‘e tagliole, i grilli, tutti i animali del mondo, le verdure in tutte ‘e maniere... Io me ricordo che usciva fuori un fungo, ‘o spellavo e me ‘o mangiavo, ‘n’ho mai capito che me so’ mangiata però ‘ho mangiato… le radici! certe radici, me ricordo, dei girasoli, ma quant’erano buone, erano de’e radici bianche ricoperte di una pellicina violetta, tu la strappavi, spellavi tutta ‘sta pellicina... il periodo dei cardi, mangiare i cardi... Nadia. I cardi me li ricordo pure io.... Paola. ‘E more, more gelse! Regina. ‘E more gelse qua sotto, cioè c’erano tante cose insomma così, a portata di mano. E c’era ‘sto scarico der sor Checchino, quello era un altro momento de gioco, cioè tu andavi lì e trovavi tutto! Io me riportavo a casa ‘ gomme vecchie de Rintintin, i medicinali, cioè le peggio porcherie e se giocava anche co’ quello… Beh, i giochi che se facevano nel cortile... palla pugno, palla avvelenata, a 69
mondo, col puntaruolo, co’ la corda, co’ la palla, nascondino, però il bello era che tu iniziavi un gioco e ce passavi ‘na giornata intera! Nadia. Fin’a che ‘n ce chiamavano... Regina. E forse anche il giorno dopo... cioè non è come adesso, adesso io li vedo, non costruiscono niente, dopo cinque minuti litigano, che quello «No, ciò ragione io», «Ciò ragione io», «Non m’acceco», «Non m’attappo» e tutte ‘ste cose. Invece noi no, c’era la regola, cioè, quello più piccolo non lo facevi mette’ a nascondino sempre, perché capivi ch’era piccolo, allora c’era quello più grande che faceva «Levete, levete, va, me ce metto io» c’era ‘sta protezione, ‘nvece adesso me capita a me de vedelli in montagna, Domitilla, mia nipote ch’è ‘a più piccola, sempre lei fanno ceca’, mi’ fijo cià dodici anni «Tocca a Domitilla!». Ma come «tocca a Domitilla»? questa cià sei anni, cioè, capito? invece noi no, non era così! Paola Spano. Eravate di più però! Regina. Eravamo tanti! ‘e regole però erano sacrosante! Paola. ... poi c’era quello grande che difendeva quello piccolo... Nadia. C’era quello che diceva, quando se cominciava a gioca’... se quello piccolo non lo conosceva, dice «Lui gioca pe’ pera» Per pera, vuol dire che faceva la prova, faceva una specie de rodaggio... Giocava, però... chi giocava pe’ pera poteva gioca’, se prendeva seriamente. Regina. Qui me viene in mente il film de Ligabue, non so se l’avete visto Radio freccia quando dice «A un certo punto, tu sei piccolo e poi devi entra’ nel mondo dei grandi e devi passa’ varie fasi e vari esami per poi esse’ acquisito da quelli più grandi» e in fondo era così, cioè tu facevi i giochi da piccolo però piano piano maturavi e ciavevi ‘sta, ‘sto potere... passavi de grado insomma! Riccardo Morri. E’ curioso, perché noi, uguale, ciavevamo la stessa formula però noi «gioca pe’ finocchio» Quindi... il discorso del gioco, secondo me, nell’infanzia è fondamentale, perché le regole se ce l’hai a quell’età te rimangono per tutta la vita! Ma tutto! noi trovavamo le ruote, no, ce mettevamo sopra ‘na palanca e cominciavamo a fa’… ‘a bilancia. Poi ciavevamo tutti i muretti, c’erano i lotti a Tiburtino, no, e c’erano tutti muretti alti così, co’ delle crepe, dei passaggi, larghi un metro, e noi correvamo tutti su ‘sti muretti... e saltavi ‘sti... che se ‘o vedi adesso fa’ a ‘n fijo così, cominci a di’ «A chi è fijo, ‘a madre, guarda ‘sto ragazzino!» O co’ ‘sti punteruoli, ‘ste raspe, erano grandi così, ma... ‘o sai quando se faceva campana, tu a parte dietro tiravi questo così senza guarda’ eh, delle cose! O fare il fuoco ‘n mezzo al prato... se prendevamo tutte cose, io ogni tanto bruciavo quarche cosa perch’ero tremenda, però se faceva il fuoco, se portavamo ‘e patate… Devo dire che io ho giocato tanto, me so’ tanto divertita! Questo, tutto er periodo estivo... ma pure quando tornavi da scuola, perché tanto non è com’adesso, lasciavi tutto e... e vivevi er cortile, te chiamavano all’ora de Carosello, sentivi tutte ‘e case (canta la sigla di Carosello), dovevi sali’ perch’era il momento de Carosello… Sì, però dopo se riscendeva! Nadia, Paola e Sandra. D’estate! Regina. Ma io scendevo pure d’inverno... cioè ero una che insomma stava sempre un po’ pe’ strada, anche perché abitavo al piano terra... Ero libera, sì! Sandra Fortuna (1964). Poi era carino quando te chiamavano, perché ognuno ciaveva una tonalità sua, io me ricordo Osvalda «Paola!» Regina. Sì, sì sì. No, ma poi eh, eravamo tanti, io me ricordo, allora su c’era Filitea, nove figli, nove ce l’aveva lei, Marietta ‘n’altri sette, mia madre quattro, cioè tu immagina tu... chi più chi meno, tutti della stessa età… Nadia. ‘E merende, ne vogliamo parlare? Regina. Eh, ‘e merende, ‘a facevi tu? io nun ero una... Nadia. No? Mai? Io pane e zucchero, sempre pane e zucchero. Regina. Ah sì, sì, il pane duro bagnato co’ lo zucchero... Paola. La panzanella... Regina. Pane e olio, la panzanella… Paola. E poi comunque erano tutte in comune e’ merende, nel senso che se stavi co’ due tre amichette facevi ‘a merenda insieme Regina. L’ovo sbattuto... pane a bruschetta, bruschetta sul gas, ojo e sale... Nadia. Nonna, me ricordo, ‘a rosetta co’ lo zucchero me ‘a lanciava proprio dal secondo piano «Nadia, 70
‘a merenda!» e io sotto... Regina. Sì, non c’erano biscotti... si c’erano gli Oro Saiwa, e però non c’erano merendine... E la domenica, me ricordo che la mia domenica era andare a messa, in chiesa, a Santa Maria del Soccorso, poi se stava all’oratorio perché c’era quarche interesse, c’era qualche ragazzino che te piaceva, quindi andavi sempre, era un luogo d’incontro. Poi camminando, io stavo giù in fondo, c’era tutta ‘a chiamata de’ amiche, capito, mano mano che camminavi, chiamavi quella, chiamavi quella, quindi partivi da sola e arrivavi giù ch’eravamo quindici. E la domenica poi c’era ‘a pasta al forno, er pollo, ‘ste cose qui… La gallina messa sopra, per la domenica sera, mia madre la preparava il sabato, pe’ fa il brodo, col pane dentro, buona tra l’altro era, ogni tanto me viene in mente, la rifaccio... loro dormivano, cioè face’ano finta de dormi’, adesso l’ho capito, però diciamo che dormivano, che co’ quattro fiji tutti intorno, io je dormivo de qua, io je dormivo de là, me ricordo... sì, perché tanto noi andavamo o in parrocchia, c’era il cinema, c’era Mazzinga, no Mazzinga, facevano Gozzilla, tutti quelli brutti... quei film giapponesi co’ i mostri, prendevano l’aeroplano, ‘o spaccavano così... Paola. Io me ricordo un film de Raffaella Carrà Regina. Poi c’erano quelli, che ne so, de Morandi… E se batteva, tutti a fa’ così (batte in fretta ritmando sul tavolo) se vinceva il buono, tutti... te mettevi in fila, la domenica pomeriggio, solo ‘a domenica pomeriggio. C’era il cinema e s’andava al cinema, questo però sempre intorno agli anni Settanta, Settantuno al massimo, dopo le cose so’ cambiate. Poi ‘n’altra cosa che se faceva, che questi non lo... cioè loro non fanno, s’andava a fa’ la spesa e io non ciavevo il frigorifero, io ciavevo un frigorifero con dentro i chiodi, i bulloni, i cacciaviti e andavi a compra’, te chiamava «Me vai a compra’…?» Mezzo chilo de pasta, mezz’etto de burro, mezz’etto de parmigiano, quattr’etti de carne, trita de solito, ‘na pianta de insalata e poi... tre mele, ecco questo. E tu andavi per pranzo, poi il pomeriggio te richiamava «Me vai a compra’ un barattolo de pomodoro, sì, come ‘a faccio la pasta?» cor tonno, un etto de tonno, perch’era tutto sciolto eh, e s’andava a fa’ ‘a spesa per la cena… Paola Padella (1964) Paola. Vado io? Allora, io sono Paola e so’ nata nel ‘64, io abito qui e da bambina ero sempre qui, quindi i miei giochi avvenivano sotto casa, dove sto adesso perché c’era un bel cortile che si prestava molto a qualsiasi gioco... questo, sì, quello dove adesso invece hanno tutto mattonato mentre invece prima c’erano dei begli alberi, c’era uno spazio con la terra, diciamo, era da una parte mattonato, però c’era anche del terreno così, c’erano delle panchine dove la gente più grande, magari quand’aveva voglia, scendeva e se metteva seduta e passava i pomeriggi lì, da mia nonna a mia madre insomma gente anche grande. E quindi niente, io so’ affezionata a ‘sto cortile. Se tornava da scuola, se scendeva subito, co’ qualche bisticcio perché nel periodo estivo c’era l’ora del silenzio e quindi il portiere, come sentiva insomma un po’ di... Sì, sì, c’era il portiere. Ogni lotto aveva un suo portiere, usciva fuori e strillava, ce mandava via e noi che facevamo finta di ritornare nelle nostre case mentre invece per le scale, quatti quatti riscendevamo… poi c’era una signora qui che abitava nel palazzo, all’ultimo piano, sopra a me, che aveva tipo una bancarella, il pomeriggio vendeva le fusaje, le olive, i dolcetti, le liquerizie, mostaccioli e niente, quindi era tutto un po’ carino, così, divertente. I giochi che si facevano erano quelli che già hanno menzionato loro, la palla-pugno, la corda, molto noi femminucce, spesso e volentieri la corda, però un gioco pure che andava molto che si faceva poi anche insieme ai maschietti era la palla-pugno; perché si facevano le squadre miste e quindi si giocava insieme a loro. Poi ‘n’altro gioco che invece facevamo tra ragazze era il fornaio: praticamente si apriva l’attività co’ le foglie, sopra queste panchine, si allestiva le foglie degli alberi, i rami, la terra e si vendeva, si faceva finta di vendere alimenti. E pure lì se passava ‘n’oretta giocando così al fornaio, poi se buttava tutto per terra e la gente «Guardate! Avete sporcato!» E niente, tutto il pomeriggio, fino all’orario di cena si stava giù a gioca’ nel cortile... Paola Spano. Senti, mi viene in mente una domanda, ma voi aiutavate in casa? Paola. Poco. Nadia. Io sì. Paola. Poco, fino a, non so, ai dieci anni, undici anni, quasi niente, poi dopo sì, se cominciava... 71
Paola Spano. I maschi? Paola. Pe’ niente. I maschi assolutamente... Nadia. Io forse un po’ prima perché ciavevo mamma che stava male, c’era nonna, quindi era necessario l’aiuto, quindi mi si chiedeva proprio. Però prima no. Paola. Le commissioni, sì, le commissioni tutte, il latte... il latte, la spesa oppure se se doveva anda’ da ‘n’altra persona, ‘e commissioni tutte, anzi era anche piacevole... ah, io ‘na cosa che mi piaceva tanto fare era nel periodo estivo perché qui sotto casa, c’erano le fontane, no, dove si andava a lavare i panni e nel periodo estivo per me era un gioco quello, perché dopo, nell’ora calda se prendevano ‘sti panni e s’andava giù co’ qualche amica sempre della stessa età e si lavavano dentro ‘e fontane… era proprio qui sotto nel cortile, c’era lo stenditoio e però era più che altro una cosa di piacere perché alla fine che lavavi ‘sti panni entravi dentro ‘e fontane e te bagnavi te. Sì. Riccardo Morri. C’era qualche motivo ricorrente per cui magari se discuteva tra inquilini? Sì, i ragazzini che face’ano chiasso era uno dei motivi più ricorrenti. I bambini ce l’ave’ano tutti però poi c’era chi era più tollerante, chi meno, soprattutto in estate perché d’estate... cioè in inverno pure se stava nel cortile però in estate era proprio la casa, diciamo, perché uno passava proprio tutta la giornata, anche dopo cena se scendeva; me ricordo che dopo cena si giocava a nascondino che era buio e quindi, poi s’andava dietro i palazzi, co’ un po’ de paura perché comunque sia, se faceva sempre tardi, insomma’e dieci, ‘e dieci e mezza e... e però era bello! proprio bello, sì sì. In estate poi s’andava a... di solito, anche mamma veniva perché non sempre me mandava magari da sola a me e mio fratello, magari lei co’ ‘n’altra amica se portava il cortello co’ la busta e faceva la cicoria, e noi invece andavamo pe’ more, vicino alla marrana, però anda’amo sempre in tanti insomma, lei andava co’ altre amiche e noi coi figli, co’ un gruppo de regazzini. E niente, poi la domenica s’andava a messa, il pomeriggio s’andava al cinema... Le scampagnate si facevano e poi ogni tanto la domenica, sì, la domenica, andavamo noi, la mia famiglia co’ la famiglia magari de uno zio, de altri zii, s’andava dal Frustone, se portava da mangia’ cucinato da casa, e lì prendevi le bevande e stavi tutti insieme però incontravi più de una famiglia del Tiburtino, perché molta gente, insomma, se riuniva e andava lì. Invece de anda’ a un ristorante... Scampagnate lì, poi vabbe’, quando era Primo maggio o Pasquetta s’andava un po’ ai prati sempre verso la Nomentana. Poi me ricordo, durante la settimana sempre nel periodo estivo qui c’era un pullman che portava al mare, no, e quindi si partiva la mattina... se pagava un tot, passava a una cert’ora e raccoglieva tutte le persone da Villa Gordiani a Tiburtino... a Ostia. E mi ricordo che se facevano imbarcate proprio tipo i film che fanno in televisione, co’ ‘e fettine panate, i pomodori cor riso, i regazzini... noi eravamo tre, però magari c’era qualch’altra signora che ce n’aveva sei... e poi erano soltanto donne perché era durante la settimana, quindi i papà lavoraveno. Quando finivano le scuole, qualche giorno alla settimana ce portavano a Ostia, così avanti e dietro, però, non avendo la macchina, approfittavano di questo pullman che passava... Tornavamo stanchi, mamma specialmente, era insomma ‘na bella faticata perché poi tornavi, dovevi ricomincia’ magari a casa a sistema’ gli asciugamani, ‘e pentole che avevi sporcato eh, però era divertente perché, cioè tutti insieme, usciva fuori un po’ ‘na caciarata... Tiziana Del Citto (1964) Tiziana. Prettamente in strada, nei cortili, io al Monte. Tiburtino, beh, qualche volta pure qui a Tiburtino... noi lì al Monte ancora avevamo tutto il prato, no, perché c’erano pochi palazzi, quindi giocavamo sul prato dove poi hanno costruito le case, bello... beh, uno dei giochi preferiti, erano tutti giochi movimentatissimi, la palla, nizza, sette piastre… si mettevano proprio sette pezzi di sassi, di solito erano mattonelle, una sopra l’altra, uno tirava con una palla, dovevi far cadere le piastre e poi dovevi rincorrere gli altri prima che rimettevano a posto queste piastre... dovevi acchiapparli tutti, eh sì, sennò era troppo semplice, uno solo lo prendevi. Ecco, erano giochi di movimento... e poi un altro, la mia passione, era la caccia alle lucertole, so’ schifosa però quella era una cosa... Paola Spano. Le cacciavate e poi che ci facevate? Ho imparato a fa’ l’infermiera co’ le lucertole, gli tagliavamo la coda perché c’era questa cosa che la coda continuava a muoversi, poi c’erano questi piccoli interventi chirurgici, poi insomma le studiavamo: gli aprivamo la pancia, queste cose… oppure il cerino in bocca o la miccetta, esplodevano, vabbe’ 72
insomma però poi so’ passate, non l’abbiamo più fatte... Paola Spano. Nadia ha raccontato delle corse con le calamite... Tiziana. Sì infatti co’ Nadia... anche perché noi, quando siamo andate ad abitare al Monte c’era molto prato, tanto cioè, e poi ecco c’inventavamo, ai genitori dicevamo «Andiamo a fare il picnic» co’gli amichetti, che ci preparavano il cestino co’ le merendine, no ‘e merendine, la merendina nostra era il pane casareccio col burro e lo zucchero, e però invece s’andava lì a caccia di lucertole. Paola Spano. Loro s’immaginavano voi intorno alla tovaglietta... Tiziana. Sì, co’ la tovaglietta, carini, i bicchierini, invece no. Bande rivali Antonio Morri. Al cinema noi ci arrivavamo attraversando quello che poi è diventato Monte der Pecoraro, perché c’era la stradina tutta in terra battuta che passava in mezzo alle due montagnole del Monte der Pecoraro, che era poi er monte della sassaiola, perché era er monte dove noi ragazzi di Tiburtino III facevamo a sassate con quelli di Pietralata, che ce menavano sempre perché loro stavano alti e noi stavamo bassi: l’obiettivo nostro era la conquista der montarozzo che non conquistavamo mai perché ce menavano sempre. Non c’erano case, era tutta campagna… Amelia Mancini. Quando noi uscivamo da scuola, andavamo su... all’incrocio... come si chiama? Dove c’è la via Tiburtina... c’era il monte del Pecoraro e l’altro monte da ‘sta parte... allora andavamo su e se faceva la sassaiola co’ quelli de Pietralata. Allora quando se partiva da scuola tutti quanti a canta’... «Corete, scappate, che arriva lo squadrone de Tiburtino, de Tiburtino! Tiburtino è quella cosa che si chiama prepotenza, fa scappa’ tutta la lenza che cià voia da mena’». E arrivavamo lassù coi sassi in mano, e le teste rotte ogni tanto... ne sa qualcosa papà, perché siccome c’era l’ambulatorio che stava a Pietralata, no? E allora portavano tutti a Pietralata... e lui diceva che quando arrivavano quelli de Tiburtino, noi facevamo Caporetto... prima la Tiburtina era stretta e adesso è stata allargata, hanno buttato giù tutta una metà del monte, però da ‘sta parte qui è rimasto ancora, da qui dopo i carabinieri se passava in mezzo ai due monti, questo de qua e quello de là, era molto più stretto... e noi facevamo la sassaiola da una parte all’altra della strada... Senti, quand’eravate per strada, c’erano le bande di ragazzini, rivali? Nadia. Sì sì, ce n’erano parecchie di bande lì intorno... Facevate a sassate o no? Nadia. Eh... no. No, non mi ricordo a ‘sti livelli... Regina Bruschi. No, perché nasce ‘na specie... ‘na forma de rispetto, no? Io ciavevo ‘a banda mia e c’era l’altra banda, allora... lui me temeva, era ‘n maschio, quindi lui temeva me, io temevo lui e allora c’era sempre il territorio de confine, vabbe’ ciao, vabbe’ ciao... Nadia Gallo. Io l’unica cosa di banda, sai che mi ricordo? Quando all’uscita della scuola, il giorno che c’era il mercato al Monte del Pecoraro, rimanevano tutti quanti per terra mandarini, aranci, pomodori... Credo che fosse un mercoledì o un giovedì, in mezzo alla settimana... io facevo il tempo pieno… quando si usciva dalle elementari e c’erano i bambini dell’altra classe, coi maschietti e le femminucce si tornava a casa, io in terza o quarta elementare già andavo e tornavo da sola, e cominciavano a esserci anche le simpatie tra i maschietti e le femminucce, quindi c’era ‘sto divertimento di sfidarsi... e co ‘tutta ‘sta roba che stava per terra, che rimaneva, ci si tirava, per’ stuzzicarsi più che altro, ‘sti pomodori, ‘st’aranci, ‘sti mandarini e… che te lo dico a fa’... a parte che il grembiule già era sporco! Giorgio Arezzi. Sì, io mi ricordo che quando ero ragazzino se parlava de sassaiole… Marisa Marcellino. No, aspetta non c’era il monte del Pecoraro… era tutto… le sassaiole sai con chi le facevamo? Noi …e… con Pietralata, con squadroni di Pietralata. Giorgio. Eh, te lo sto a di’… i primi scontri al Monte, che era ancora brutto… Marisa. Sì, c’erano solo i contadini che lavoravano la terra, e con Pietralata si facevano le sassaiole, si facevano gli squadroni, de loro, i nostri… Giochi pericolosi 73
Amelia Mancini. …però là c’erano le munizioni, parecchie... da ragazzina prendevamo i bossoli e li accendevamo... oppure facevamo dei giochi con la polvere... un azzardo pure quello... aprivamo ‘sti bossoli… Antonio Morri. I primi scoppi col carburo, i primi giochi pericolosi… si prendeva del carburo, si metteva per terra, ci si metteva un barattolo sopra e si accendeva per far saltare il barattolo più alto possibile… e l’altra cosa che me ricordo molto forte erano le escursioni al Forte, alla caserma Ruffo, che l’ingresso sta sulla Tiburtina, praticamente tutta la parte interna finisce quasi a ridosso di via Grotta di Gregna; la parte finale, dietro dove ci sono le suore, hanno fatto i primi palazzoni a Tiburtino III, quelli a cinque piani… il lotto XVII… E alle spalle di questi palazzi c’era tutta un’area che era di proprietà del Forte, della caserma, dove poi su una parte c’è stato fatto il campo di calcio, dove adesso c’è il centro sportivo. Lì c’era un burrone, che tu scendevi e andavi a finire praticamente dentro la caserma e lì c’erano tutti questi cunicoli, andavamo nei cunicoli, nei sotterranei della caserma, dove trovammo anche camicie insanguinate… c’è qualcuno che pensa che possano essere state del tempo di guerra e qualchedun altro che invece le motivava come di qualche ferito di qualche sparatoria, qualche rapina che se nascondeva lì, perché era un ottimo nascondiglio… ciandavamo di nascosto da tutti, perché se i militari ce beccavano, ci portavano dentro, chiamavano i genitori e quindi… sì, sopra c’era la caserma, però non erano custoditi, ricordo che trovammo anche qualche residuato bellico. Era un divertimento giocare nei cantieri del Monte e mi ricordo anche che una volta un ragazzo è cascato nel vano centrale di un palazzo in costruzione, fortunatamente cià avuto fratture ma non è morto. C’era praticamente all’epoca via Grotta di Gregna che passava sopra una marana, dove noi andavamo a fa’ il bagno da regazzini. Facevamo il bagno a la marrana e nell’Aniene, all’epoca (l’acqua) era pulita, sì, riuscivamo a fare il bagno sotto il Ponte di Ponte Mammolo… era pericoloso… litigavamo sempre con i contadini perché i contadini baccajavano che ie rovinavamo il campo; pure lì era sempre fatto tutto di nascosto, perché i genitori non dovevano sapere. I genitori AntonioMorri. Ho fatto anche l’esperienza del fumo, che poi io non fumo! Però lì pure c’è stato questo rapporto con mio padre, nel senso che iniziando a fumare si fumava di nascosto al bagno, perché era l’unico punto dove uno poteva avere un po’ di intimità, però essendo come erano le case allora, con il bagno di un metro per mezzo metro, la persona che successivamente andava al bagno capiva subito. E lì ricordo che mio padre mi disse: «Se devi fuma’ al bagno, devi fuma’ de nascosto, non c’è problema, fuma a casa» e da quel giorno non ho più toccato ‘e sigarette, quindi era proprio evidentemente un problema di farlo di nascosto, di trasgressione. E con tua madre ci parlavi? Sì, con mia madre c’era più rapporto, poi devo dire che mia madre mi seguiva in tutto, io credo di essere stato coccolato e viziato da mia madre, ero cioè un ragazzo che la mattina quando me svejavo trovavo vicino al letto cappuccino, cornetto e «Corriere dello sport». Maria Evangelista. Io da piccola, mio padre perciò me voleva più bene a me... ivo vennenno ‘a cicoria pe’ strada, l’annavo a vende’ a ‘e signore, a Cassino, e co’ quei soldi me c’ero fatta ‘na macchina, da cuci’… c’era ancora mi’ padre, quanno me avevo fatta, ciavevo quattordici anni. C’era ‘n’amica nostra che faceva la sarta, mie sorelle s’addormivano ogni giorno all’ora ch’è caldo, d’estate, il giorno se riposaveno, e io me n’annavo da quella signora a vede’ come faceva i sottopunti «Me devo impara’ pure io, facevo i’, me devo impara’ pure io!». Me s’ho fatta i soldi co’ la cicoria pe’ me fa’ la prima macchina da cuci’, settanta soldi la pagai. E allora quanno io… mica ciavevamo la luce dentro casa, ciavevamo il petrolio, e io me compravo il petrolio da me, me facevo tutto quanto. La sera, loro se ne andavano a dormi’, io me mettevo a cosa’ co’ la macchina, cucivo le cose. E la mattina, quanno portavo a venne’ la cicoria, compravo prima il sigaro a mi’ padre, poi il sale a mi’ madre, mezzo chilo de sale, e il resto me ‘o mettevo da parte, cioè due tre soldi, pagavano in centesimi ‘sta roba… Dove la vendeva, sulla strada? No, no, la portavo, ciavevo le signore, me dicevano «Portamela a me, portamela a me», tutte le mattine la portavo, annavo giù, posavo la cicoria… Io il giorno facevo la cicoria, perché me mannavano a 74
pascola’ gli animali e appresso agli animali me trovavo ‘a cicoria. Erano… le pecore, insomma tutti animaletti che se deve anna’ appresso. E allora facevo la cicoria, la lavavo, la mattina m’alzavo presto e l’annavo a vende’, alle otto già stavo a casa. E portavo ‘sta robetta a mi’ padre e mi’ padre me voleva bene. So’ stata sempre un po’ fatta così, io senza fa’ niente ‘n ce so sta’. Giulio Fortuna. … e poi mi’ padre ciaveva un po’ il vizio de beve’, era un po’ una via Crucis… Marcello Carboni. Io me ricordo un fatto, quando lavoravo alla ferramenta e ciavevo quattordici anni, e facevo anche ‘e mancette, per consegna’ la roba ai clienti. Papà me disse «Marce’, quanto prendi a settimana?» come se lui no’ lo sapesse, e prendevo cento lire al giorno, seicento lire a settimana, però ‘e mancette… «Allora fai ‘na cosa a papà, la settimana la paghi a mamma e le mancette te ‘e prendi te». Essendo anche un ragazzino un po’ sveglio, paraculetto «Embé papà però io mo’ so obbligato a fa’ e mancette, a fa’ e commissioni pe’ pote’ guadagna’ ‘e cinquanta lire mie» «E te con cinquanta lire che ce fai, per te so pure tante a papà, te compri il gelato, basta, non è che te devi compra’ ‘na cosa». E me ricordo quando era ‘a Befana, dice «Mo’ papà pe’ ‘a Befana te faccio un bel cappottino, almeno eh…stai caldo, te copri tutto». A parte che di giocattoli ne avevo… lui era elettricista privato delle sorelle Adamoli e i giocattoli se trovavano, anche all’epoca c’era il pacchetto che girava sotto. Però lui dice sempre «Te compro ‘e magliette, te compro ‘e scarpe», non è che diceva «Mo arriva ‘a Befana e te compro il trenino» no, «Se capita che a papà glielo regalino». Però io ho sempre lavorato, mi è sempre piaciuto, e oggi i giovani nun ce l’hanno ‘sta mentalità. Pure papà, come abitudine del costume, un po’ economico, un po’ come mentalità, a parte che era lui che manteneva la famiglia, lui è andato sempre in bicicletta, lui inverno, estate, montava ‘a bicicletta e annava a lavoro, non è che ciaveva i pensieri del motorino. Io dissi «Ah papà perché non te fai il motorino?» «Hai detto il motorino? il motorino ce serve ‘a benzina» se pagava un bollo che andava messo sul manubrio, dice papà «Ce sta ‘a bicicletta, faccio un movimento uguale, cioè il motorino non serve perché è una spesa ma inutile, tanto non è che posso portarti sul motorino». E io pure de ‘ste cose che papà me inculcava, in un modo normale, senza… Ma papà, uno se ‘a faceva sotto soltanto se ‘o guardavi, mai presi schiaffi o botte da papà o da mamma eh… Mamma era quella pacioccona, analfabeta, se pioveva mi diceva «Che ce vai a fa’ a scola, stattene a casa», e papà diceva «Non sei andato a scola?» «Ma pioveva!» eh vabbe’, ma d’altronde lei a scola ‘n c’era stata, sapeva appena mettere la firma… Nadia Gallo. I miei non c’erano proprio a casa, cioè quando io ero giù in cortile io stavo con nonna, loro lavoravano tutt’e due nel commercio quindi tornavano a casa la sera ch’erano le nove. L’unico momento libero che avevano era dal dopopranzo a prima dell’inizio del lavoro pomeridiano e papà spesso dormiva, riposava, e mamma sistemava qualcosa o si anticipava magari per la cena, perché c’era nonna in casa però... Le scarpe Marcello Carboni. Quei svaghi nel giardino erino pochi, giusto giocavi a nascondarella. Poi anche in modo caratteriale, io osservavo tutti i amici miei che giocavino, io incameravo, studiavo il sistema, però io non giocavo, né a palline, né niente, guardavo sempre, incammeravo, studiavo il sistema. Talmente eh… che papà me controllava ‘e scarpe. Me ricordo una volta, eh questa è bella, io con gli amici barattai dei giocattoli miei con un monopattino, e io avevo un paio de sandali novi, ‘sto monopattino lo nascondevo sotto ‘e scale. Eh, certo il genitore che ti controlla, ha notato che una scarpa era bucata e una era nova, e allora m’ha detto «Senti un po’ Marce’, ma come mai ‘sta scarpa?» e io «Boh?» e «T’o dice papà , tu hai il monopattino, col piedino così, hai consumato la scarpa, allora quel giocherello lo butti, e papà te fa risola’ ‘a scarpa, però aridallo a chi te l’ha dato, perché quello non è un giocattolo pe’ te, in mezzo alla strada, passano ‘e biciclette, passano ‘e macchine» all’epoca era meno transitata però, eh… io accusai il colpo, ho detto «Embe’ ciai ragione» gli ho fatto vede’ a scarpa «Vedi a papà questo è un paio de scarpe nuove, de un mese, le hai distrutte, non è un gioco» Forse era pure un gioco, però lui me diceva «Evita certi giochi, me rovini ‘e scarpe». Me ricordo un fatto che è stato un’emozione, con mi sorella, c’era il capolinea qui del 309, e come ho detto sempre, era un discorso, che Tiburtino era un circolo chiuso, e «annamo a Roma»… Presimo l’auto, pagammo il bijetto… sulla piattaforma e a 75
guarda’ tutte le vetrine, sulla via Tiburtina, fino alla stazione Tiburtina. E quanno vedemmo tutto questo, io e mia sorella, tutti contenti, che cià un anno più de me. Il fattorino se ne accorse che noi eravamo du’ scappatelli, che stavano a vede’ tutti meravigliati ‘sti negozi perché a Tiburtino i negozi che c’ereno, erano quelli del fornaio e del tabaccaio non è che, fecimo il giro del capolinea, scesimo e risalimmo. Allora quanno semo tornati a Tiburtino, «Ah ragazzi’ annate a casa perché adesso telefono a tu’ padre e je ‘o dico» e noi «No, non je ‘o di’, non je ‘o di’». Regina. … un armadio corto così, che dove mettevamo le cose? noi eravamo in sei! tante volte me domando «Ma dove mettevamo tutte ‘e scarpe, no, che non basta tre scarpiere...» Sandra. Vabbe’, ma ce n’abbiamo tante de più adesso, prima ‘n ce l’avevi neanche... Nadia. Prima ce n’avevi un paio e basta. Regina. Infatti, no, c’era ‘a scarpa de ‘a stagione, buttavi quella... Nadia. Poi la passavi a tu’ fratello... Non c’era il modello che te piaceva, c’era l’esigenza della scarpa... Regina. Io me ricordo, andavo in chiesa, quando me dovevo inginocchia’ me prendeva un colpo, ciave’o certi buchi dietro a ‘e scarpe così. Ancora adesso, ma non ce se crede, io ancora adesso se me inginocchio so’ sempre co’ idea che quelli dietro me vedono i buchi de ‘e scarpe. Allora, quando arrivavo proprio alla ciccia, me dove’o mette’ un pezzo de cartone, pe’ strada me fermavo, come trovavo ‘na cosa la infilavo dentro... t’arrangiavi, però non era quello il problema, se superava, ‘n so’ que’e cose che te fanno sta’ male perché poi in fondo era, era più o meno un po’ così per tutti. Nadia. … solo quando c’era effettivamente l’esigenza, nel senso che le scarpe stanno a un punto che non possono più anda’ avanti, cominci a vede’ non dico il buchetto ma insomma qualche scollatura, allora mia madre diceva a mio padre «Mario, è ora d’anda’ a fa’ le scarpe a ‘sta bambina» e quindi si partiva e si andava alle Tre strade... Regina. Da Piter. Nadia. Da Piter, s’andava da Piter... c’è ancora? Sandra. Ch’era il massimo! Regina. C’è ancora Nadia. Si andava da Piter, si guardava... c’erano anche altri negozi, anche più giù ce n’era un altro e uno di fronte, insomma si facevano due, tre negozi, tanto pe’ guarda’ dove te poteva piace’ il modello, dove se risparmiava, e poi alla fine si decideva... oppure, no ‘o so, i jeans, il cappotto, ma era una cosa periodica che succedeva ‘na volta l’anno, per le scarpe due, massimo tre volte l’anno, solo al bisogno, proprio quando serviva. Regina. Perché co’ l’ovatta davanti, il numero più grande, intanto co’ l’ovatta e poi piano piano recuperi? Un vestito di seta Ornella Io me ricordo che mi’ madre, mi’ sorella che cuciva, me fece il primo vestito de fustagno, grigio e bianco, e a me, me so’ messa a piagne quando ‘ho visto, era fatto carino… Ma non ti piaceva? No! Allora tutte ‘ste amiche semo ite ai giardinetti de Piazza Vittorio. Alberta, n’amica mia, ciaveva il vestitino de seta, dice «Quant’è carino quel vestitino!» io me so’ spogliata e ho detto «Tiè, mettete’o te. Damme el vestito de seta» e io so’ ita a Piazza Vittorio cor vestito de seta. Primi baci … e poi tanti ricordi, da ragazzina, il cortile... quando c’inguattavamo nei scantinati pe’ dacce pure un bacio... (Sandra) Io, il primo bacio della mia vita l’ho dato proprio qui a Tiburtino III, proprio di fronte… qui, al parco (Nadia) Il cinema Il cinema a via Grotta di Gregna si chiamava l’Ars Cine (Antonio Morri)
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A Pietralata c’era il Nevada, che c’era l’arena anche d’estate e questo a via Grotta di Gregna si chiamava Silver Cine, che lo hanno chiuso negli anni Settanta. Qui facevano anche l’avanspettacolo, c’era una ballerina E in parrocchia facevano il cinema la domenica. (Giorgio Arezzi) … dopo aveveno messo un cinema e annavamo tutti ar cinema. Sempre prima de ‘a guerra, c’era ‘sto cinema e lì se conoscevamo tutti. Sì, ma era ‘n pidocchietto. Io per riguadagna’ i soldi, mo’ t’o voglio proprio di’, c’era una su casa mia che era piena de pidocchi, io gli andavo a ammazza’ i pidocchi ai nipoti. E i lendini, i lendini un prezzo e i pidocchi ‘n altro. E me dava i soldi e andavo al cinema. (Ornella) Nadia. Cinema... eh, il cinema è ‘na bella cosa, nel senso che mentre adesso io, magari, quando vado al cinema, quando porto le mie figlie, voglio di’, scelgo qualcosa che possa piacere a loro e quindi andiamo al cinema insieme... Mio padre, andavamo al cinema insieme però andavamo al cinema a vedere quello che piaceva a lui, quindi io conosco tutti quanti i film... a lui gli piaceva 007, La cascata di diamanti, La pugnalata... capito? tutte queste cose, quindi noi andavamo, c’era il cinema Nevada a Pietralata... Il Nevada stava dove c’è ora Panorama, a quell’altezza, all’inizio di via di Pietralata, sulla sinistra c’era questo cinema, proprio sulla strada. E ciaveva anche l’arena, estiva. Andavamo di domenica, la domenica sera o il sabato sera raramente, ma prima di entrare c’era comunque questa cosa «Non chiedete niente, già v’ho portato al cinema, niente pop-corn, sennò ritornamo a casa» E quindi, niente, non se poteva niente! Io me giravo, guardavo gli altri bambini, ogni tanto vedevi qualcuno che mangiava i pop-corn... Regina. Mi’ madre se portava ‘e pagnottelle. Nadia. «Ma io volevo i pop-corn» «Ssch...» «Ma io...» «Ssch...». Ero sempre io, mio fratello stava sempre zitto, ero sempre io che dicevo «Guarda, papà, c’è quello che porta i cornetti!» A papà da una parte j’entrava e dall’altra je usciva. E basta! Regina. Penso che il cinema non era una cosa tanto cara perché mio padre ce portava al cinema. Eh! e ce portava ar cinema Argo, questo su ‘a Tiburtina, all’Ars Cine, spesso... quando ero più piccola anche durante ‘a settimana, la sera così. Tiziana. Cinema... per lo meno io personalmente, da piccola no. Nadia. Mai? Al Nevada ‘n ce sei mai andata, Ti’? Tiziana. No! Il Nevada, me lo ricordo, tre volte mi cianno portato perché mia sorella era ricoverata, mia madre stava in ospedale co’ mia sorella, a me mi portavano al cinema e quindi a volte io dicevo «Mah, gli verrà la febbre a mia sorella, ce la portano in ospedale stavolta?» poverina! Braccobaldo e Bob Kennedy Regina. Sì, sì, pe’forza, c’era ‘n televisore, poi io ciavevo il letto così, mia madre il letto matrimoniale, mia sorella... I miei fratelli che dormivano in camera da pranzo se mettevano co’ noi, quindi se vedeva tutto, se c’era San Remo, Canzonissima, ‘a tribuna politica. Quando cantava Sergio Endrigo ciaddormentava a tutti. Io me ricordo «Ma’, se dopo m’addormento, che me svegli?» c’era il telegiornale... ah, poi il sabato c’era, a le medie, io me lo ricordo, c’erano le comiche e c’erano i cartoni animati, Braccobaldo Nadia. Braccobaldo show... Regina. ... Braccobaldo show e tornavamo de corsa perché dove’amo... Nadia. Il sabato era all’una, me sa… Regina. Sì, sì! E sempre a quell’ora diedero ‘a notizia de Bob Kennedy, no de... Sì, ch’era morto, e sicuramente era de sabato perché io me ricordo stavo a casa... ‘69, ‘68, ‘69. Però ero piccola, ma me ricordo che mi’ madre piangeva, che diceva «Ma guarda qua, po’ra madre, je ‘n’hanno ammazzato un altro»
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4. Il fascismo, la guerra, la fame Nei racconti sul periodo della guerra, la Resistenza quasi non compare, ma ci sono accenni al fascismo, all’antifascismo e anche alla persecuzione degli ebrei. I ricordi più vivi però sono legati alla paura dei bombardamenti, alla fame, al servizio militare e alla prigionia in Germania di alcuni parenti. E a due episodi entrati nel mito: l’uccisione di Caterina Martinelli e la storia «dei fusti di benzina». Il ricordo di quando si pativa la fame si riferisce al tempo della guerra ma anche al primo ventennio del dopoguerra; non ha sofferto la fame chi viveva in un’azienda agricola come Amelia Mancini o chi, come Anna Antonini, aveva il padre «scopino» con a disposizione una discarica in cui si allevavano i maiali (una storia simile a quella raccontata nel 1948 da Michelangelo Antonioni nel suo documentario Nettezza Urbana). Altra risorsa contro la fame è un padre cacciatore. Un quartiere antifascista Emiliano Sciascia (1979). … e dai racconti che faceva mio padre, anche lui è andato a scuola qui dalle suore, e lui racconta che nel Sessanta credo, nel governo Tambroni, il MSI tentò di fare un comizio qua nel quartiere… ora di preciso non lo so, però in teoria i lotti dovevano essere quelli che hanno buttato giù, le case basse comunque... e lui mi racconta che il comizio fu tenuto davanti alla Madonnina che sta qui dietro le suore, vicino a via Tagliacozzo… mio padre abitava al lotto XII, e dice che questi fascisti vennero con il loro banchetto, con tanto di Faccetta nera, e lui da ragazzino, insomma ciaveva dieci, undici anni, si ricorda che… non so se l’oste di Tiburtino III si avvicinò e disse: «Guardate, tanto qui non viene nessuno ad ascoltarvi, siete pregati di andarvene..» e i tipi non se ne andarono, anzi, aumentarono il volume della canzone e lì insomma finì male per loro, perché furono cacciati a sassate e nello scappare si sono buttati in mezzo ai lotti, perché non sapevano dove andare... ed è stato peggio, perché la gente si affacciava dalle finestre e gli tirava tutto quello che trovava dentro casa, nemmeno fosse capodanno. Questo racconto a me m’ha sempre fatto effetto, nel senso che poi sono cresciuto pensando ad un quartiere in cui la coscienza fosse comunque radicata, molto radicata a sinistra, quindi un quartiere fortemente antifascista. Domenico Zanella (1941). Questa cosa della destra a Tiburtino c’è sempre stata in realtà, anche se non risultava, non era visibile... a meno che di tre, quattro che sapevamo perfettamente che erano ancora dei vecchi fascisti che venivano qualcuno anche dalla Repubblica di Salò, magari adesso morti… però alle elezioni diciamo che il MSI era sempre tra il terzo e il quarto partito nel quartiere... il primo era il partito comunista, alla grande, oltre il 60%, il secondo la Democrazia Cristiana che a Tiburtino III prendeva 18/19%... e il terzo, se lo combattevano tra il partito socialista e il MSI... che prendeva mediamente dai 100 ai 105 numerici, non percentuali, numerici, quindi su circa 2000 elettori, 100 elettori del MS... era una grossa fetta, erano grandi quanto i socialisti, però mentre i socialisti li conoscevamo, si facevano iniziative insieme, anche nel comitato di quartiere, con questa destra non c’è stato mai un grosso rapporto, né grossa iniziativa nel quartiere. In questi ultimi tempi, sì... in questi ultimi tempi la destra, soprattutto in questo periodo pre-elettorale è venuta qua a fare dei comizi con Teodoro Bontempo, Alemanno è venuto più volte qua... All’inizio tra via della Vanga per esempio e via Grotta di Gregna, lì aprirono non una sezione, un’associazione che Gianni Alemanno c’è stato più volte... e ultimamente durante la campagna elettorale Bontempo qua in via Mozart venne con le truppe cammellate, con gente che si è portato appresso pe’ attacca’ i manifesti... un’oretta la mattina, insomma però cose che prima qua a Tiburtino nun succedevano. Anticamente due volte provarono a fare dei comizi, uno davanti la chiesa e uno davanti largo Boiano, davanti la Madonnella, chiamata così perché c’è un’effige della Madonna lì sul muro del convento delle suore... ma tutte e due le volte furono cacciati via e ci furono grossi scontri... Eh, ‘58 grosso modo, prima di Tambroni, sì, ci provarono e però non riuscirono a fare il comizio. Maria Evangelista (1916) Ma lei, qualche ricordo del fascismo ce l’ha? E come no? Io quando c’era Mussolini ho fatto pure la piccola italiana, la balilla… eh, so’ venuta qui a Roma a cosa’… perché se veniva a Piazza Venezia, a grida’: «Viva il duce, viva il duce!» Quante volte! 78
Quanta stanchezza, me ricordo. Annavamo a scuola allora, e c’era la maestra, a mio padre gli dice «Deve veni’. Je deve fa’ il vestito da piccola italiana. Gonna nera, camicetta bianca e cappello nero» Eh… non c’erano soldi. Ornella (1927) Com’è che sei diventata comunista? Perché mi’ padre era ‘n comunista. E durante il fascismo è stato perseguitato? Mi’ padre sì. Perché noi abitavamo a Porta Metronia, no? Allora c’ereno tutte case con ‘e tegole, e da ‘a parte de là c’ereno i giardini, allora se sentiva di’… mi’ madre ciaveva un buco dentro casa, noi da dentro potevamo vede’ chi era, però quelli de fori no. Allora se sentiva fa’ «Pe’ primo Boncompagni eia, eia….» E allora lui chiamava tutti i amici sui e scappaveno perché eravano chiamati sovversivi. E lui non c’è mai stato in carcere? No, mi’ padre no. Mi’ fratello sì, cià preso ‘e botte. Non è stato in carcere però cià preso tante botte. Mi’ padre l’hanno preso i tedeschi. Perché era imbriaco, e diceva male dei tedeschi e l’hanno portato qui a Ponte Mammolo. Poi è venuto uno che lo conosceva e ha detto «Ma chi avete carcerato?». Che mestiere faceva suo padre? Mi’ padre faceva il calzolaio. Apposta ‘n ciave’a ‘a tessera, lavorava pe’ conto suo, eh! Mi’ fratello faceva il macellaio e non ciaveva ‘a tessera, lui lavorava a’a ammazzatura... Mi’ madre me dava i soldi pe’ ‘a tessera da piccola italiana, da piccola Balilla là, e quand’era ‘a fine dell’anno ‘a maestra me ridava i sordi perché ‘n ciarrivavo mai a da’ i sordi de’a tessera. Perché mi’ madre me dava tanto poco… non bastavano. Allora me diceva «Boncompagni, a riecchete i soldi» «Menomale!» Amelia Mancini (1932) Regina. S’è mai visto Mussolini a Tiburtino? Eh sì, è venuto al Fascio perché dove ce stanno i carabinieri adesso, allora c’era il Fascio. E c’era il piazzale, lì è venuto... io ero ragazzina, vestita da piccola Balilla, anzi no, da fija de ‘a lupa e… poi Farfarelli lo buttarono giù perché doveva passa’ Mussolini, buttarono giù Farfarelli in quattro e quattr’otto, prima c’era una trattoria, c’era il forno... senza preavviso e niente e gli diedero una casa al XII lotto... perché doveva passa’ Mussolini e dalla strada se doveva vede’ il fascio... e allora gli buttarono giù ‘sta casa... poi penso che gliel’hanno risarcita, non so com’è andata a fini’, perché l’hanno rifabbricata, ma quella che ce sta adesso è nuova, non è più il vecchio Farfarelli de ‘na volta. Regina. E ch’effetto te fece vede’ Mussolini, a quell’età? Amelia. Beh, a me niente pe’ di’ ‘a verità, perché io a casa sentivo tanto parla’ papà de… fascismo che nun è che c’ero andata… ce so’ andata perché ce dovevo anda’, a scuola… Tant’è vero che una volta me diedero ‘na mantellina, mi’ padre me l’ha strappata; io ciavevo tanta cosa co’ ‘sta mantellina, ‘nvece me ‘a levò e, niente. Regina. Non te ricordi se je fecero tanta festa… Amelia. Sì, ‘a festa je ne fecero tanta. Me ricordo pure ‘n’artra cosa, rispetto de oggi che pe’ fa’ ‘n fabbricato, specie pe’ i poeri disgraziati, ce metteno dieci anni, ‘nvece allora le scuole le fece in quattro e quattr’otto e lavoraveno pure de notte perché c’ereno i fanali grandi, no, e illuminaveno tutto Tiburtino. E in quattro e quattr’otto fecero quelle scuole lì, poi c’era ‘na bella palestra, c’era ‘na bella piscina e ‘nsomma… sì… beh però io nun che ciavevo tutto ‘st’entusiasmo. Un altro giorno venne el duce a Tiburtino perché su a la pineta noi ragazzine, che io già stavo in quarta o in quinta, siamo andate a pianta’ i pini, i pini che mancaveno, perché poi fecero quell’altre scuolette, sopra, che adesso ce so’ i vigili. Lì davanti, l’alberi là davanti, l’avevamo piantati noi ragazzini; allora, c’erano i buchi fatti, uno reggeva la pianta, l’altro metteva la terra, tre bambini per parte, e venne il duce, su in pineta, a vede’ ‘nsomma questa cosa qui dell’alberi. E papà era contrario perché non… ah, ‘n’antro particolare, papà, ‘na vorta, siccome mamma je diceva sempre «Se nun vai al Fascio, tu lavoro nun lo trovi mai», allora andiede al Fascio e cercava lavoro, e je domandarono «Ce l’ha la tessera del Fascio?» Papà j’ha detto «No» Dice «Tu senza tessera del Fascio vieni nella casa de Mussolini?» Papà, pe’ nun fa’, j’ha detto «Ma, 79
scusi, ma Mussolini abita qui sopra?» Ha fatto il finto tonto, sì. Ma ‘a tessera nun cià avuta mai de nessuna parte però, né de una né de ‘n’antra. Lui poi ha passato, giusto quand’è stato le prime votazioni, ha fatto ‘a prima votazione, perché poi è morto nel quarantasette. Mah, poi… che je posso di’? che mio padre era socialista ner periodo der fascismo… mamma raccontava de quando io ancora nun ero nata perché io so’ nata dopo nove anni da mio fratello, quindi c’era mia sorella già grandina e so’ stati a’a Maranella tredici, quattordic’anni, perch’io so’ venuta qua che ciavevo undici mesi… e mamma me raccontava che c’era ‘na famiglia vicino casa che lo voleva denuncia’ a papà, je diceva «Te mando in galera» diceva che lo mandava ai confini, perché ‘na vorta quelli sovversivi li mandaveno ai confini, gli davano ojo de ricino, roba del genere. Era ‘n fascista. Infatti se ‘a prendeva co’ mamma, poi ce stava pure la cosa magari che tra ragazzini se bisticciaveno, e ogni volta, basta che un ragazzino se bisticciava ‘n po’, la prima cosa che te diceveno «Te mando ai confini, io te mando tuo marito ai confini» Mamma ‘n giorno je disse «Se tu levi il padre ai miei fiji, il Padreterno penserà pe’ te» j’ha detto, poi s’è pentita l’anima sua perché quello è ‘nnato sotto a’n tranve de ‘e vicinali. E mi’ madre diceva sempre «Ciò ‘n peccato su ‘a coscienza». Regina. Perché, è morto quello? Amelia. No, nun è morto… Però, l’ha passata brutta, tant’è vero che ‘sta… ‘sta signora qui è ‘ndata da mi’ madre a chiedeje perdono, ‘nsomma s’è scusata, dice «E’ vero ch’esiste ‘n Padreterno» e insomma… niente! Regina. Si vede che il Padreterno è comunista, anzi è socialista… Olio di ricino Rita Morelli (figlia di Marisa Morelli). La questura la raccontava mi’ socera, quando i fascisti una volta te facevano beve’ l’olio de ricino… perché mia suocera, diciamo, mio marito era l’ultimo de tredici figli… Ecco, quest’anno, l’anno prossimo ciavrebbe avuto cent’anni… e lei raccontava che durante il fascismo… perché lei pure, come mamma, ciaveva ‘sti figli uno dietro l’altro e all’epoca davano i soldi… e quella volta a lei avevano dato poco e lei, come mi’ nonna era, evidentemente qui qualcuno aveva offeso e l’hanno portata ‘n questura, dice «M’hanno dato un po’ di botte, m’hanno dato l’olio di ricino e m’hanno rimandato a casa» Elsa Cedroni (1928) Eh sì, quanno vennero a prende’ papà che stava quasi pe’ casca’ er Fascio, lui ‘n ciaveva né tessera né niente, allora venne là ‘sta sora Nicolina che stava al Fascio, faceva tipo guardiana de lì, a piazza dell’Ardimento… siccome conosceva mamma, sapeva che noi eravamo gente che non davamo fastidio a nessuno, venne lì e disse «Sora Mari’, ve devo di’ ‘na cosa, però me raccomando, non ve n’uscite co’ nessuno. Stasera vengheno a pija’ vostro marito pe’ daje l’olio, cercate de rimedia’ come potete» Allora (mamma), mi’ fratello, porello, ciavrà avuto sett’anni, mica de più, dice «Corri, va da tu’ padre», però ce sapeva anna’, perché ormai era talmente addestrato a fa’ ‘a strada un po’ a piedi un po’ coi mezzi, annette da papà, je disse «Papà, nun te move, perché mamma m’ha detto così e così, è venuta ‘a sora Nicolina, ha detto che stasera vengheno a datte l’ojo, nun veni’ a casa». Difatti poi so’ venuti questi «Signora, suo marito? » «Mi’ marito? Nun me ‘o nominate, pe’ carità, quel sozzo porco m’ha piantato co’ cinque fiji, senza daje niente da magna’, ‘n so più come devo fa’, disgraziato! quindici giorni so’ che nun lo vedo, quindici giorni, nun se vergogna pe’ niente» mi’ madre a piagne’ proprio co’ ‘e lacrime perché ha fatto proprio l’attrice, pe’ piange’ co’ ‘e lacrime! Difatti poi papà non è venuto e la notte è cascato il Fascio e a mi’ padre l’ojo non je hanno potuto da’ perché sinnò fino all’ultimo je avrebbero voluto da’, in tredici erano. Giulio Fortuna (1936) Eh vabbe’ ma col fascismo all’epoca parecchia gente cià avuto problemi, per esempio, che io sappia, mio nonno ce n’ha avuto de belli grossi, il padre de mi’ madre. Perché noi al paese… c’è una comunanza agraria e allora c’erano delle riunioni periodiche e all’epoca ce stavano tre o quattro del paese che erano stati strumentalizzati, come succede oggi con questi extraparlamentari, erano strumentalizzati… col gagliardetto, bacia il gagliardetto, piripì, parapà… e allora mio nonno si permise di dire «Un governo senza opposizione va alla vergogna» Beh, l’hanno processato... cià passato li guai. All’ultimo l’ha salvato un cieco che stava lì e che ha testimoniato: «Guarda ce stavo io, ha detto così così così, però lui se riferiva…» e insomma s’è salvato per il rotto della cuffia. 80
Lui fu l’unico… al paese che c’erano mille anime, erano in tre quattro che sapevano leggere e scrive’ eh… uno di quelli era mi’ nonno. Ecco, perché leggeva all’epoca già era in grado de riflette’… Elsa Cedroni. Lui era tappezziere e ciaveva i mejo lavori de Roma perché mi’ nonno, quando morì, gli ha lasciato i negozi in piedi co’ l’operai, però essendo lui un omo che «l’amici, l’amici, l’amici!» mano mano ‘sti negozi so’ iti a rotta de collo, però da che lui nun ciaveva la tessera del Fascio allora: Ministero dell’Interno gliel’hanno levato, ‘a Galleria Borghese je l’hanno levata, il palazzo Madama je ‘hanno levato… allora dopo lui andava a lavora’ da quelli che prima erano i suoi dipendenti perché da padrone era diventato garzone... Bruno Padella (1935). E tutte le domeniche qui sulla piazza, piazza dell’Ardimento c’era il raduno dei balilla, dei fiji della lupa, alla scuola questa qui, de piazza Ardimento c’era una palestra, bellissima, che ancora penso che ce sia, eh andavamo lì, ‘sta maglietta bianca, i calzoncini neri. Venivano proprio i gerarchi a parlare, tutte le domeniche c’era il raduno, arrivava uno che parlava e poi dopo davano il via libera. E la maggior parte della gente al Tiburtino, era fascista ? Ma io penso di no, perché questi erano tutta gente che veniva da Porta Metronia. Qualche sopruso de qualche camicia nera c’è stato? Beh sì, forse qualche cosa è successa, ma poca roba, perché più o meno se conoscevamo quasi tutti, pertanto de incidenti proprio gravi qui niente, sì qualche scazzottata, qualche magari parola… però finiva lì… Orti di guerra Giulio Fortuna. Beh, qualche cosa ho visto, sono passate le truppe d’occupazione, i tedeschi, però non è che ci siano stati morti o meno, ‘l fronte nun… ce so’ passati quanno stavano in ritirata… ho visto quando hanno spallato la centrale elettrica che ciavevamo, hanno minato i ponti, insomma… Qualche cosa del fascismo me ‘o ricordo perché io, al paese, prima de veni’ a Roma, so’ stato fijo de ‘a lupa. Me lo ricordo come un sogno… All’epoca, ‘a befana fascista me portò ‘na maglietta che era nera con delle righette per traverso mezze rosse e bianche, a distanza l’una dall’altra, come i bacarozzi insomma, tutta a righe, e quella è l’unica cosa che me ricordo. Beh, ciavevo cinque, sei anni penso… Poi dopo quann’ andavamo a scuola, perché io fori ho fatto fino alla terza elementare, ciavevano fatto fa’ l’orto de guerra, ce facevano semina’ i pomodori, seminavamo ‘e patate, ‘a bieta da ragazzini, con la scusa de imparaccelo ce facevano fa’ quarche cosa che se poteva magna’. Ma perché a Roma, a Milano all’epoca non seminarono, durante ‘a guerra, er grano dentro alle aiuole? e così era lassù, capito?... Senti e papà tuo cià avuto difficoltà col fascismo? No papà mio è partito in guerra, è rivenuto, ciaveva li pidocchi che portavano l’ermetto, pesava quarantasei chili. È stato in Corsica e Sardegna, disperso. Mi’ madre quanno ch’è rivenuto già portava il lutto, perché ‘n se sapeva ‘ndo stava, poi quanno ch’è sbarcato a Bari… ‘a prima cosa ch’ha fatto, ha buttato il cappotto perché gne ‘a faceva a portallo, era tarmente secco che gne ‘a faceva, er zaino, impicci, imbrogli, s’è fatto da Bari a Ascoli Piceno a piedi… quanno è arrivato ha detto: «Perché ce stava de mezzo l’acqua, perché sinnò ma chi me ce teneva là?». Oh, da Bari a Ascoli è un ber pezzetto,eh!... Peregrinazioni Maria Evangelista I’ stavo a via Cava di Pietralata. Ciavevo ‘na casetta lì che ce passava ‘na strada vicino, e tutti li soldati che passavano quando è stati i bombardamenti, noi stavamo proprio a taglio de strada. Mi’ marito la notte diceva «Oh, vu anna’ fori, perché a qui è ‘n macelle, c’è periculo, porta i ragazzini fori» Dopo al sette settembre… «C’è l’armistizio, l’armistizio a Roma!» eccetera. Mi’ marito stacca da lavora’ e me ve’ a prende’ a Cassino. Me ve a prende’ a Cassino e la notte i tedeschi hanno occupato Cassino. Semo stati sei mesi. Paola Spano. Ma voi perché siete andati via per i bombardamenti? A voi non vi hanno colpito…
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Non cianno colpito però noi stavamo quasi vicino perché San Lorenzo allì, la stazione Tiburtina, San Lorenzo era ‘na cosa tremenda. Io po’ ciavevo tutt’e du’, questa malata, quell’altro era piccolo. Sandra Fortuna. E quand’è che siete rimasta sotto ‘e macerie co’ Teresa, che m’avete raccontato una volta? Noi, quindici minuti e poi lì tirava le bombarde, noi stavamo al rifugio, a Cassino. Con ‘na bombarda, è venuto giù, so’ morte diciotto persone, me so’ salvata solo io e Teresa. M’hanno ricacciata dopo quindici minuti. Quando bombardavano, Teresa me ‘a mettevo sempre accussì, dicevo se moro io more pure lei, me ‘a strignevo sempre così. Il padre se teneva il maschio e io mi tenevo lei. In campagna, a Cassino, quando bombardavano Montecassino noi sentivamo tutto che sembrava che stava addosso a noi. La guerra è stata brutta al paese. Altroché! io mo’ quando vedo le guerre, noi avemo visto centinaia di morti per terra, bambini mezzi morti e mezzi vivi che scappaveno, le cose, tutte quelle che se vede in televisione, noi l’avemo visto tutto. Teresa è nata il 1 Ottobre del ‘39, e il maschio nel ‘42. Erano piccoli tutti e due. Paola. Lei in che anno è arrivata a Tiburtino, nel quarantacinque? Nel quarantacinque so’ arrivata qui, perché nel quarantaquattro hanno passati gli americani, poi, entrato nel ‘quarantacinque, già rimpatriavano tutti, ognuno alla loro casa. Però noi casa ‘n ce l’ave’amo più, quella casa nostra era stata bombardata. Io ho perso tutto, tutto. Com’è che avete deciso di non restare a Cassino? Eh, ma mio marito ciave’a il posto qui, faceva il vigile, faceva il vigile notturno, e stava qui a Roma a lavora’. E la famiglia la vole’a tene’ vicino. E quando so’ arrivati gli americani è stato brutto? No, noi stavamo a Ferrara quando so’ arrivati gli americani, perché noi, da settembre che hanno occupato Cassino, noi semo scappati agli ultimi di febbraio… E dopo semo stati un mese a Arpino, un paese vicino Cassino, sopra ‘na montagna. Poi mi’ marito veniva a Roma, e mentre venivamo a Roma cianno acchiappato i tedeschi, vicino Frosinone. Noi stavamo aspetta’ che doveva passa’ un treno pe’ anna’ a Roma, fin’allà eravamo annati a piedi, coi ragazzini in braccio, poi stavamo a aspetta’ il treno e arrivarono un gruppo di tedeschi, cianno acchiappato, cianno messo sopra al camion e cianno portati fino a Roma. A Roma cianno fermato a Piazza dei Cinquecento, con le mitraglie pe’ paura che scappavamo, allì cianno messo le guardie e alla sera cianno portato via, cianno portato alla stazione... Cianno messo sopra il treno a ‘na stazione, treni scassati, treni brutti, senza mangia’, senza beve’, senza niente, li miei figli… Tu pensa quando semo arrivati a Ferrara, che semo scappati, cianno tenuto più di quarantacinque giorni all’ospedale pe’ ci fa’ rimette’ i ragazzini. Io, tutti quanti. Paola. Ma a Ferrara c’erano tedeschi anche? C’erano, però quando t’hanno acchiappato il Comitato italiano, te metteva da profuga, non te pigliavano… Sandra. Come siete scappati voi? Semo scesi alla stazione, ci hanno fermato che dovevano aspetta’ perché dovevano passa’ il Po… Mio marito portava Teresa, io portavo Bruno in braccio, semo scesi e allora c’erano i paesani già che ci steveno, diceveno «Scappate, che quelli lì v’ammazzeno! se annate in Germania vi ammazzano!» Noi emo scappati… Ce semo presentati insomma, e loro hanno cominciato, dice «Vi accompagnamo noi, do’ stamo noi» e cianno portato a nu salone, come una scuola, grande, che ce steveno tutti i dormitori, c’erano ‘e brandine però c’erano quaranta, cinquanta persone in un camerone. E ci semo messi allà, ci semo messi in un cantone allà e dopo è passata ‘sta signora, ha visto che stavo io, co’ Teresina e Bruno, e m’ha preso a core, dice «Signora, sei contenta se te damo un appartamentino noi» dice «vieni, t’aiutiamo noi»… allora amo fatto ‘na cosa così, a mangia’ lo annavamo a piglia’ là, perché ce facevano la roba da mangia’ e… Era lontano? Ferrara, proprio la città di Ferrara. Tu pensa quando siamo venute via, piagnevano … Dopo la guerra, che erano passati gli americani, dicevano «Rimanete qui, Rimanete qui, state con noi qua che ve truvamo un posto pe’ lavoro, che lavorate qui; mo’ perché c’era la guerra… dopo la guerra» dice «se sta’ bene». Gli volevano da’ il posto a mio marito, a Ponte de Lagoscuro a fa’ il vigile là, eh però mi’ marito è voluto veni’ a Roma, non voleva tradi’ la famiglia sua, vede’ chi era rimasto eccetera… E semo venuti, come semo arrivati a Roma semo trovato il fratello alla stazione, e cià portato a casa sua. Ciaveva una 82
casa alla stazione Tiburtina, faceva il ferroviere, e cià dato ‘na camera e dormivamo per terra, poi mi’ marito si è presentato a lavoro e l’hanno ripreso subito. Il primo mese ci siamo fatti le reti, il secondo mese ci siamo fatti i materazzi de crino, e mese pe’ mese, come si pigliava qualche lira se faceva qualche cosa. Quando siete venuti a Roma ancora è durata la fame? No, io so’ venuta a Roma nel ‘45, però mio marito il giorno appresso ha preso il posto, io a Ferrara ho lavorato, m’era fatta qualche soldo, me i so’ purtati. Se ‘n mi s’era ammalato mi’ marito… [Mio marito], a Ferrara, al paese appresso, che già stavamo rimpatriando gli è venuto il tifo e i dottori l’avevano licenziato che moriva. Tenevo Bruno piccolo, Teresa all’ospedale a Bologna, ce tenevo mi’ cognata vicino, mi’ marito ‘n gli truvavano il male che ciaveva…E io stavo in campo di concentramento che passavano la gente che annavano via e io stavo sempre lì. Bruno era piccolo, se l’erano preso i soldati, gli inglesi, no, gli americani, se i portavano con loro, e io come ni fussi tenuta l’ammezzo, quarantacinque giorni, quelli gli hanno fatto pure il vestitino da militare… Se i portavano sempre co’ loro, sapevano che i’ tenevo mi’ marito cussì, allora loro dicevano: «Stai tranquilla signora, tu’ figlio ci vediamo noi» E così io andavo a trova’ mi marito all’ospedale, poi un giorno m’incontrai il professore, dice «Signora, emo risolto il male di tu’ marito, emo ritruvato il male che cià, cià il tifo». Era brutta! Se doveva guari’ col latte, non poteva mangia’ nient’altro, sempre latte, dovevi consuma’ due, tre litri di latte al giorno. E i’ come faccio? All’ospedale ce ne deveno un litro, io i due litri li dovevo anna’ a truva’ nelle campagne. E chi c’era andata mai alle campagne de Ferrara? io avevo paura pure che me perdevo. Allora annavo, trovavo ‘stu latte, ho trovato una famiglia e ho fatto «Per favore, me lo date tutti i giorni?» e così con i soldi che m’ero guadambiata, io m’ero guadagnata a quei tempi quarantacinque mila lire, erano tante, e ci potevo fa’… me potevo mette a posto casa quando venivo, tutto quanto, e invece so’ rimasta con tremila lire, quando so’ venuta a Roma con quelle tremila lire ce dovevamo magna’, fino a che non pigliava la paga mio marito. Una settimana di festa Osvalda Screponi (1935). Un fratello mio l’avevano preso prigioniero i tedeschi, pure lui porello s’era allontanato un po’ pe’ cerca da rimedia’ da ‘sti paesi qualcosa, tipo fagioli, legumi, pe’ pote’ avvantaggià un po’ ‘a famiglia, invece se ‘o so preso i tedeschi e l’hanno portato in Germania. Tramite un monsignore di Perugia che lui è riuscito a daglie una lettera de nascosto a ‘sto prete, siamo riusciti a sape’ che stava prigioniero lì in Germania, però ‘l punto preciso no, e quindi ‘n sapevamo più notizie, certo a casa era una cosa bruttissima soprattutto pe’ mi madre che glie mancava ‘sto figlio. Noi magari, giovani, sì ci mancava, però gli davamo poca importanza, perché magari un momento giocavi, un momento parlavi, invece mamma stava sempre col pensiero de ‘sto figlio, che fine farà, come starà, che farà, e tutte ‘ste cose qua. Poi invece Dio ha voluto che ciavevo ‘e sorelle più grandi, andaveno sempre a la Madonna del Divino Amore a chiede’ ‘a grazia pe’ ‘sto fratello che non glie succedesse niente de grave. E fatalità un giorno che so’ andate a ‘a Madonna del Divino Amore che allora non c’ereno i mezzi, c’ereno e camionette, quelle che trasportaveno alla gente insomma, loro ritornavano da ‘sta Madonna del Divino Amore e nel frattempo era ritornato mio fratello, e la gente del palazzo dove abitavo, tutti incontro a ‘e mi’ sorelle più grandi, che glie dicevano «Guarda è ritornato…!» e allora loro «Oddio, la Madonna cià fatto ‘a grazia, menomale!» insomma è stata ‘na tragedia, e mamma pe’ ‘a contentezza de ‘sto ritorno de ‘sto fratello ha fatto una settimana di festa, proprio tutta ‘na settimana d’ allegria, de contentezza, faceva balla’, faceva i rinfreschini, miseri però ‘i faceva, a tutta ‘a gente del palazzo, ‘a gente che veniva a congratulasse che era ritornato mi’ fratello. E poi un’altra cosa precedentemente: i militari qui americani avevano occupato la caserma de Pietralata, i alleati… e mamma e ‘na sorella mia j’andaveno a lava’ la biancheria e loro nun è che le pagavano a soldi, a denaro, glie daveno le scatolette de carne, le sigarette, le cioccolate, tutte ‘ste cose qua… e mamma nun toccava niente, metteva tutto via, perché lei diceva che se lo sentiva che ‘sto fijo sarebbe ritornato, metteva tutto via, tutto via e infatti quando poi è ritornato ha tirato fuori tutta ‘sta roba, regalava ‘e sigarette… Ha fatto come il figliol prodigo. E ‘sto fratello ha mai raccontato quello che gli è successo? Non ha mai voluto racconta’ niente. Era giovine, che ciavrà avuto, diciannove, vent’anni, c’è stato quasi un anno, poi dice ch’è riuscito a scappa’… passava un contadino co’ un carretto de fieno, è 83
riuscito a usci’ da ‘sto reticolato der recinto del campo di concentramento, e mentre passava ‘sto caretto lui si è infilato sotto al fieno de ‘sto contadino, e ‘sto contadino l’ha portato a ‘na chiesa, mo’ non mi ricordo dove, e poi tramite ‘sta chiesa, ‘sti preti l’hanno aiutato e sono riusciti a farlo ritorna’ a casa. Non ha voluto mai parlare, perché noi glielo chiedevamo, solo ch’è ritornato porello che soffriva tanto co’ lo stomaco, perché dice che mangiaveno ‘e bucce de ‘e patate, robaccia, bevevano l’acqua sporca, è ritornato co’ ‘sti forti dolori allo stomaco e c’è voluto parecchio tempo prima che se riprendesse. Un lutto Maria Evangelista. Poi, a mio fratello un figlio glielo hanno ammazzato i tedeschi. Stavamo a Cassino, sai, s’annava da una casa all’altra a vede’ qualche cosa pe’ da’ da mangia’ a qualcuno. Quel ragazzo era uscito così e i tedeschi l’hanno visto, gli hanno sparato e l’hanno ammazzato. Perché ciavevano paura sempre, i tedeschi li ammazzavano tutti gli italiani se li vedevano un po’ sospetti. A me quattro cinque volte m’hanno puntato la pistola al petto, me volevano ammazza’ ché volevano le ragazze. Volevano ch’i’ i truvavo le ragazze. Hanno portato sotto nu rifugio, a Cassino, più de diciotto ragazze, ragazzette di quindici, sedici anni, vent’anni, l’hanno rovinate tanto che sono rimaste senza parole per quello che gli hanno fatto. L’hanno rovinate li tedeschi, tante! C’era ‘na cugina mia, non parlava più dopo… La sedia rotta Osvalda Screponi. Allora… mamma ciaveva ‘na sedia rotta, però già abitavamo qui al palazzone, mi ricordo che era d’inverno e faceva tanto freddo. Mo’ te premetto che qui a Tiburtino era rimasto un tedesco che era bravo, faceva tanto del bene, perché ciaveva una roulotte che lui ce dormiva. Bruno Padella Un camion ciaveva e ciaveva la moglie. E ciaveva ‘na mucca e ‘a mattina ‘sta mucca la mungeva e dava il latte, certo fino a che riusciva a contenta’ tutti, cioè quelli che se metteveno lì in coda pe’ ‘sto latte, era bravo, solo che era tanto amico de i Rinaldi… allora c’era ‘n’osteria che si chiamava Il buchetto, era veramente un buchetto. ‘Sto tedesco aveva fatto tanta amicizia col proprietario de ‘sta osteria, e c’era qui al lotto IX lo spiazzale tutto aperto, perché c’era solo il palazzone, ‘n c’era altri fabbricati. Allora mamma co’ ‘sta sedia dice «Mo’ mamma v’accende il foco, ve venite a riscalda’ tutti qui sotto al cortile» E ‘sto tedesco viene lì tutto infuriato co’ ‘a pistola in mano,faceva «???» noi non ‘o capivamo, e allora ‘sto proprietario dell’ osteria che ha visto il gesto de ‘sto tedesco, è venuto lì de corsa, e gli diceva in tedesco da sta’ fermo, calmo… insomma in poche parole lui se credeva che mamma stava a fa’ de’e segnalazioni all’aerei che passaveno capito?… bombardaveno, ma non era de sera, era de giorno, però passaveno aerei in continuazione perché bombardaveno ‘a Tiburtina, San Lorenzo, quindi gli aeroplani passavano, e niente, questo voleva ammazza’ mi madre, perché diceva che stava a fa de’e segnalazioni e invece ‘sto signore disse «No, per carità, è gente…» parlava con loro in tedesco e l’ha salvata Comunque, i vestiti se so’rifatti Amelia Mancini. E s’andava avanti così, finché è venuta la guerra, so’ venuti i tedeschi, hanno preso possesso… su a la vaccheria, se so’ presi le stanze, tutto quello che c’era libero. Prima dei tedeschi ce so’ stati i soldati nostri; e co’ l’armistizio i soldati sono andati via e tutti noi della vaccheria, hanno cercato tutti de daje i vestiti, mamma j’ha dato i vestiti de mio fratello perché faceva il soldato a Rimini, e pensava che qualcuno aiutava pure mio fratello pe’ ritorna’ a casa. L’8 settembre. Infatti mio fratello è ritornato a casa, un po’ tutto malandato ma… nun ciaveva neanche… non ha trovato neanche più i vestiti che ciaveva lui. Comunque i vestiti se so’ rifatti. E… s’andava avanti così! Poi so’ andati via i soldati nostri e so’ venuti i tedeschi, pure i tedeschi hanno preso possesso de la vaccheria… V’hanno trattato male i tedeschi? No, a noi no, perché passaveno… loro ciaveveno il posto de blocco, diciamo il centro, alle scuole de Tiburtino, sotto lì ai carabinieri, sì, a piazza dell’Ardimento e traversaveno Tiburtino, le case che c’erano allora, eh… però non dicevano niente a nessuno , tanti anzi li insultaveno pure, però loro face’ano finta de niente, passaveno, non hanno mai dato fastidio a nessuno. Ah, prima dei tedeschi, siccome al I lotto c’era una famiglia d’ebrei, quando succedeva qualcosa che i tedeschi giraveno, loro se venivano a nasconde’ su e mamma li metteva dentro la legnaia, c’era la legnaia che ciaveva fatto una specie de 84
nascondiglio dentro e li metteva lì; poi invece i tedeschi hanno preso possesso da noi e questi, poretti, non so’ potuti veni’ più. Comunque j’è andata bene perché nessuno l’ha… se so’ salvati. Te ricordi come facevano de cognome No. Non lo so perché io ero ragazzina e non capivo perché questi venivano a nasconnese su a’a vaccheria. Immaginavo qualcosa però non è che sapevo più de tanto. E niente, dopo dei tedeschi so’ venuti l’americani, ma nun erano americani americani, erano de tutte ‘e razze, c’erano indiani, de tutte ‘e razze, francesi… e ce so’ stati tutti lì da noi, ce so’ passati da noi. Rastrellamenti Primo Morri e Giuseppa Cassone (1921 e 1925) Ma quando sei tornato dall’Africa? A marzo, a marzo del’43, in Africa feci la scuola autieri, portavo la macchina. Sono stato tre anni dal’40 al ‘43, perché poi mi hanno rimpatriato. I tedeschi a Tiburtino terzo? Ci sono stati, avevano il Forte lì dietro, e lì durante la fuga dei tedeschi, anzi prima, mi presero al Forte, ciavevo una pistola e mi portarono dentro al Forte. Niente loro se credevano… rastrellavano, insomma mi portarono lì dentro, io e un altro. Mi mettono a caricare, i tedeschi sul camion e noi italiani dovevamo caricare i pezzi di bombe e artiglierie, io conoscevo bene il Forte e sapevo che c’erano certe finestrelle di dietro, ma non sapevo come scappare, c’era una sentinella italiana, perché c’erano ancora gli italiani, e gli feci cenno che volevo scappa’, questo mi fece cenno di sì, mentre caricavo, il tedesco, ‘sto stronzo, che aveva capito, mi tira una cassa, mi prende il piede... madonna!.. basta, riesco a scappa e passo dalla parte di là, io a casa poi ciavevo una cassetta di munizioni, tre pistole. L’avevo prese al Forte, alla Caserma Ruffo, ciavevo due fucili. C’era un tedesco nel Forte, gli volevo spara’, allora mio suocero disse «Ma che fai, su uno che ne ammazzi loro ne ammazzano dieci» quella era la loro legge (quello che dovrebbero fare a Baghdad, se no lì non finisce mai davvero) e niente, allora mi ha convinto. Di rastrellamenti ne hanno fatti tanti a Tiburtino, i giovani li portavano a lavora’, pure a me, però io avevo le stellette. Giuseppa. I fratelli di Primo sono stati presi più di una volta. Li portavano dove c’era bisogno di lavorare obbligatoriamente e manco sapevamo dove andavano a finire, soltanto che li facevano lavorare e poi li riportavano. Di giorno, per strada, tutti quelli che trovavano per strada li prendevano. Il fratello più grande è stato preso due o tre volte dai tedeschi, poi quando sono arrivati gli americani, è andato a lavorare per loro, come cuoco. Però, sinceramente se vogliamo dire che i tedeschi a Tiburtino hanno fatto veramente del male, no, andavano in giro, certamente la popolazione aveva paura di loro. Primo. C’erano le squadracce, il coprifuoco. Giuseppa. Vabbe’, però a Tiburtino proprio del male non l’hanno fatto. Primo. Se ti prendevano per strada alle nove te menavano. I fascisti, fascisti, no? i tedeschi, se vogliamo dire, non hanno fatto del male, si può dire che erano più antipatici i fascisti che i tedeschi, tanta gente li faceva entra’ in casa, gli offriva qualcosa, sinceramente i tedeschi non hanno fatto del male alla borgata. Conoscete qualcuno che ha fatto la Resistenza, il partigiano? Primo. Qua da noi sono stato io, non la lotta partigiana, patriottica era chiamata: andavamo a dare i biglietti, andavamo al cinema, al teatro, (rivolto alla moglie), noi ancora non ci conoscevamo. Erano volantini, come organizzavano le Brigate Rosse, noi a quell’epoca saremmo stati partigiani, però noi non facevamo il lavoro da partigiani, andavamo a distribuire queste cose. Era pericoloso perché eri sempre legato lì, poi niente, lo abbandonai, finì tutto, finì la guerra. E le Fosse ardeatine? Lo avete saputo? Giuseppa. Noi abbiamo saputo tutto dopo, le cose succedevano lontano, noi lo sapevamo dopo. Voi eravate bloccati qui? Giuseppa. Sì, un po’ per la paura e un po’ stavamo lontano noi. Primo. Ci sono capitati pure gente innocente in mezzo a quella gente, quanti sono stati, duecento, trecento? trecentoquarantacinque! mamma mia, mettevano dieci a dieci nella buca, li fucilavano e poi hanno messo una mina sopra e l’hanno chiusa. A quell’epoca c’era anche via Tasso, dove facevano le torture. 85
Elsa Cedroni (1928) ... ‘na sera venne mi’ padre ch’era ito co’ altri amici niente di meno che su via de ‘e Messi d’oro che c’erano i carri armati tedeschi... j’ha smontato la pompa del carro armato, l’ha portato a casa che io dico «Ciai cinque figli, ci devi pensa’ ch’è pericoloso, no?»... pe’ sabota’ il carro armato e nun fallo più cammina’... lui annava sui mezzi, sui tranve, alle volte lasciava tutti ‘sti volantini, un giorno mi’ fratello «Ah papà, ma lo vedi che te sei perso?» « Ma che me so’ perso, lascia sta’ lì, nun te preoccupa’ che non è roba nostra» e invece no, i lasciava lui, un po’ qua,un po’ là tutti ‘sti volantini che dicevano male del Fascio... perché lui poi annava a Tolfa, annava a Manziana, annava da questi che staveno nascosti ne ‘e grotte e poi dopo faceva a ‘a borsa nera e je portava da mangia’, perché nun è che pensava solo a lui... lui insomma ha fatto pe’ ‘sti partigiani, però in ultimo non è stato riconosciuto, niente... Bombardamenti Osvalda Screponi. Noi sul al Palazzone sul terrazzo, ciavevamo la sirena, l’allarme, quindi come sentivamo sona’ ‘sta sirena tutti acchiappavamo i cappotti, ‘e coperte e scappavamo. A l’inizio se mettevamo, sempre lì dentro al palazzo, dentro casa de ‘na signora che ciaveva il corridoio lungo no, se mettevamo lì tutti ché credevamo a ‘sto corridoio potevamo sta’ tranquilli, invece morivamo peggio. E niente se mettevamo lì e pregavamo, pregavamo affinché non succedesse niente, però se sentiva bombarda’, e bombe che cascaveno. E chi le tirava? Eh, in quel periodo, penso l’americani. E niente, poi invece dopo da lì correvamo su ‘a pineta che c’era il rifugio, che li proprio ‘a facevamo bella, perché c’era tutte le munizioni dei militari. Allora ‘na sera, sempre che sona ‘a sirena de notte, acchiappamo ‘ste coperte, ‘sti cappotti, scappamo, però ciammancava un fratello, el più piccolo, in fasce porello, l’avevamo lasciato solo. Allora mamma «Chi cià Giancarlo?, ‘ndo sta?» «Io no’ ho preso, io no …» allora una de ‘ste sorelle se ritorna indietro a prende’ ‘sto regazzino che dormiva, e ricorre su a ‘sto coso, ‘sto rifugio, che lì pure, ma che annate a un rifugio...? Non era un rifugio, era un burrone, tipo de’e grotte,i grottoni! che ce stanno ancora. Maria Pala (1936) Maria. Mi ricordo i bombardamenti, eh, me li ricordo si! me li ricordo: venivamo giù da ‘e suore e dove’amo fa’ presto a anda’ a ricoverasse perché ce passavano sopra li aeroplani. E dove vi ricoveravate? Maria. E lì c’era un ricovero, no? vicino alle suore, perché prima laggiù in fondo era tutto prato, prato, montagne... Regina. I grottoni? I grottoni. E lì, quando venivano i bombardamenti, suonava ‘a sirena, andavamo tutti là... non ‘o so ‘e suore si venivano, nun me ‘o ricordo, anda’amo tutti là, poi quando risuonava ‘a sirena ognuno a casa sua. Regina. Le tue sensazioni da bambina? quando sentivi ‘sta sirena? Maria. Ma non ce pensavo, perché eravamo piccole e non pensavamo a una cosa grave, capito? Poi quando non face’amo in tempo, quelli del palazzo venivano tutti giù dentro casa nostra... perché c’avevamo certi muri, spessi, perché ave’ano fatto bene i muri, ‘nsomma... tutti lì perché, se veniva giù il palazzo se salvavamo, diciamo, se non face’amo in tempo a anda’ al ricovero. Giuseppa Cassone. Invece quel ricovero... ha visto dove stavano le Sacramentine? Quella strada, tutta una montagnola, s’immagini quello che poteva essere! Purtroppo quello ciavevamo, quando si sentivano le sirene, anche se c’era sempre più gente che rimaneva in casa, noi c’eravamo vicini e andavamo. Marisa Marcellino 1938 Il padre [di mio marito è morto] al bombardamento di San Lorenzo, nel 1943, mio suocero era dottore di vini, quelli che ti dicono se il vino…e avevano il carretto e i cavalli. Carlo, che era il più grande, lo portava a lavorare con lui. Quella mattina, quando fu bombardato San Lorenzo, è scattato l’allarme, il 86
padre gli ha detto di scappare, che poi lo avrebbe raggiunto dopo aver legato i cavalli, perché allora erano un tesoro; avrebbe legato i cavalli e lo avrebbe raggiunto subito; Carlo è scappato, si è nascosto non so dove, le bombe son cascate giù e mio suocero si è ritrovato il cavallo e il carretto sfracellati, e hanno riconosciuto mio suocero dal cinturone, perché allora si usavano i cinturoni coi fibioni, è stato riconosciuto in quel modo. Completamente centrato, e Carlo si salvò, però immaginiamo ‘sto Carlo…Erano undici figli. … ricordo quando su Tiburtino si sentiva l’allarme, e mamma ci prendeva; i due piccoli in braccio, io e mia sorella attaccate alle gonne e correvamo nei rifugi. Dove erano i rifugi? In rifugio andavamo molte volte dove sta la Pineta, dove sta la Fabio Filzi, lì c’erano delle grotte. Alcune volte scappavamo al Pescatore... Lì c’erano le grotte e correvamo, mi ricordo che ci mitragliavano, ci sparavano, però scappavamo e c’era la scaletta per scavalcare l’Aniene: quindi c’era tipo un muro, con questa scaletta di ferro che andavamo lì, scavalcavamo il fiume e andavamo dall’altra parte e lì c’erano le grotte. Una volta cadde un aereo, ma non mi ricordo se era tedesco o inglese, comunque straniero, non era un aereo nostro… tutta la gente è corsa e poi abbiamo parlato con questo straniero ma non capivamo niente. La cosa che ricordo meravigliosa e bruttissima: di un tedesco trovato qui a Boccaleone, qualcuno lo ha ammazzato. E allora per ogni tedesco ammazzato cercavano dieci italiani. Una sera, papà aveva avuto il permesso e si trovava in casa in quel momento, perché la Batteria Nomentana è vicino, e quindi come aveva un permesso lui veniva a casa; e sentivamo questi stivali, perché venivano con la baionetta, il fucile con la baionetta, questi sono i ricordi che mi sono rimasti più impressi. Se ho giocato non me lo ricordo, ma il terrore di queste guerre me le ricordo tutte. Allora con questi stivaloni che battevano addosso alla porta e chiedevano di aprire per cercare dentro. Poi vennero su da noi, che noi stavano al primo piano e hanno battuto anche alla porta nostra e papà si è nascosto, perché era magrolino, tra le persiane a gancio; mamma mise il gancio, e papà si mise lì tutto rattrappito e ha chiuso i vetri. La fortuna ha voluto che allora c’erano le tende spesse di stoffa e ha tirato subito…questi hanno battuto, mamma è andata ad aprire e noi piangevamo: la più ribelle ero io, sono stata sempre tremenda e allora sono entrati dentro e mamma gli disse che non c’era un uomo dentro casa, ma solo i bambini, noi piangevamo perché sapevamo che c’era papà di là… c’era un panchettone su a casa, su al soffitto, un panchettone dove si mettevano tutte cose che non servivano, rimanevano lì, talmente la casa era piccola e non c’era spazio. Questo co’ ‘sta baionetta, uno era più buono e uno cattivo, quello me lo so’ sempre ricordato. E allora questo più buono ci diceva a noi di non piangere perché anche lui aveva dei bambini in Germania; noi invece piangevamo e questo qui co’ ‘sta baionetta guarda il panchettone, si mette sotto il letto, e poi è andato in cucina, insomma andava dappertutto e allora piangevamo tutti e quattro. Io ero una boccolona con tutti ‘sti fiocchi che mamma se divertiva a mette’…diceva «Bella bambina, non piangere» e mi prese in braccio e diceva di non piangere. Mamma gli disse «Gli mettete paura, certo che piangono». Allora lui disse all’altro tedesco di andare via perché stavano solo facendo piangere i bambini, tanto non c’era nessuno, e l’altro tedesco si convinse e andarono via. Come mamma chiuse la porta, gli apre subito la finestra a papà e salta dentro, ma se sganciava il gancio delle persiane se ne andava di sotto. Primo Morri. Voglio dire che nel periodo del fascismo, dopo i fatti di Porta San Paolo, noi stavamo sempre a Tiburtino, gli americani bombardavano sempre, la gente di Tiburtino andava dentro ‘sto rifugio, lì c’erano pure mia madre, mio padre, io volevo rimanere fuori, perché visto che ero stato in Africa sapevo, dai rumori degli aerei, da dove venivano. Venne un fascista in divisa, bella, tutta verde, io invece ciavevo una divisa che era diventata tutta bianca dal sole, con le stelline, insomma con arroganza mi dice «Che stai a fare qui?» «Come che sto a fa’ qui? Sto a vede’ gli aerei» «Che li guardi?» «No, non li guardo, voglio sentire il rumore da dove passano, perché qui dentro c’é mio padre». «No, tu devi andare dentro». Insomma ci siamo presi a botte. Allora c’era il maresciallo che abitava di fronte a casa, é venuto giù con arroganza, stava in borghese, e ha pensato: «Mo’ lo sistemo io». Quando é venuto, noi ci prendevamo a botte, ci ha diviso e quando ha visto le stellette é rimasto, allora ci ha chiesto cosa era successo. Quell’infame, disgraziato, gli ha detto che stavo a fuma’ «Ah, io sto a fuma’, a fa’ i segnali agli americani co’ lì dentro mi’ madre e mi’ padre?!». 87
Elsa Cedroni. … si, eravamo ite co’ ‘st’amica mia a compra’ ‘ste ova a San Lorenzo, avevamo comprato trecento ova, me ricordo, co’ ‘na borsa e se trovavamo quasi sul ponte de Portonaccio; e io avevo comprato er pane co’ ‘sti bollini falsi, dieci chili ne avevo presi. Sempre tutto a piedi, eh! Senonchè a un certo punto soneno ‘e sirene, stavamo a centocinquanta metri dal ponte de Portonaccio, verso el cimitero però, no de qua. Sonano ‘ste sirene «Che famo, che nun famo, Marce’?» vedemo una carriola co’ la pozzolana sopra, pieno de terra. Amo detto «Aho, ce fate sali’ per favore, che dovemo attraversa’ el ponte de là, ciavemo paura, er cavallo corre de più» ciavevamo i pesi, porelle, nun è ch’eravamo granchè. Difatti cià fatto sali’, questo. Quando ha fatto ‘na diecina de metri, gli se sfila ‘a tirella al cavallo, qua sotto, ‘a cintura che reggeva il carrettino, er carriolo fa de questo, noi sotto a la terra co’ tutte ‘st’ova, non je dico che frittata ch’avemo fatto. ‘St’amica mia nun se calmava più dal pianto, impaurite, insomma poi semo uscite fori da ‘sta terra, co’ tutte ‘ste ova che colaveno e semo ite da la parte di là del ponte e difatti semo scappate verso su e da lì poi hanno cominciato a bombarda’… e nun je dico quello ch’è successo lì col bombardamento, perché c’erano i fili dell’alta tensione, facevano certe lingue de foco. Impaurite. C’era il chiosco dei giornali, me ricordo, c’era attaccato il cervello, ho visto una donna cammina’ senza testa, fa’ una decina de passi senza la testa, c’era per terra tutto sangue, come carne macinata… Caterina Martinelli Ornella … io non so’ si Marisa t’ha raccontato de Caterina Martinelli…quella che hanno ammazzato. Tu l’hai conosciuta? Io si. Perché que’a mattina c’ero io a fa’, a assarta’ er pane. Ah si? Dov’era ‘sto forno? No, veniva un cascherino, al III° lotto che c’ereno i fornai. Noi stavamo de dietro al cortile del III° lotto. Io «Fermo!», sai ero una ragazzetta, quando c’era i giovanottelli… J’ho detto «Fermo!» e lì amo fatto… quello della PAI ha sparato e… questa era ‘a prima volta… e ha acchiappato Caterina Martinelli. Ma è vero che era una pallottola di rimbalzo che l’ha colpita? Questo ha sparato, poi non se sa se era ‘na de rimbalzo... perché chi te ‘ha detto, lei? Perché se so’ sbagliati pure a mette ‘a lapide... No, no, nun è quello il posto ‘ndo ‘hanno ammazzata… No, hai visto dove sta ‘a funtanella vicino a’a parrocchia? Lì. Lì c’era il III° lotto e c’erano ‘e funtane. Dentro al cortile hanno ammazzato Caterina Martinelli. Cos’era, il ‘44? Eh si. C’era ‘a guerra. C’erano i tedeschi ancora. Si. Però chi l’hanno ammazzata so’ stati quelli de ‘a PAI. Roberto Caretta (1949) Io per esempio la storia della Martinelli non la sapevo, però è una storia che raccontarla… diciamo che a quei tempi qui c’era la fame... Però non è vero che non se ne parla… perché adesso, quando facciamo il venticinque Aprile, qui alla lapide della Martinelli, gente ce n’è, gente anziana, partigiani, gente che ha vissuto l’antifascismo, anche i giovani. Però, parliamoci chiaro, se non se ne parla, noi ne abbiamo parlato sempre, andiamo qui in sezione e ne parliamo della storia di Tiburtino III, però se uno non ne parla è normale, come Emiliano, che ne po’ sape’? Che ne sa della storia? Laura Morelli 1954. …e quando spararono a Caterina Martinelli mio nonno si mise lì a fare una specie di comizio davanti a questi gerarchi fascisti… tanto è vero che l’hanno preso, l’hanno dovuto prendere e portare via per un sacco di tempo, per nasconderlo, perché lo cercavano. Quindi credo che il fatto dell’antifascismo sia radicato proprio perché vissuto in prima persona, qui nel quartiere.
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I fusti di benzina Osvalda Screponi, Bruno e Paola Padella(1964) E la fine della guerra dentro la famiglia come è stata vissuta? Osvalda. Eh beh, è stata vissuta bella, perché eravamo tutti contenti che era finita ‘sta guerra, però dopo la guerra, ciavevamo avuto sempre ancora problemi grossi, perché sempre su ‘sto forte dei militari, c’erano i fusti de benzina…. Bruno. Ma quello già ave’ano lasciato i tedeschi. Osvalda. Eh, avevano lasciato tutti ‘sti fusti e allora la gente che voleva guadagna’ qualcosa… Bruno. I tedeschi scappando, lasciavano tanto materiale, benzina, roba del genere e avevano minato tutti ‘sti fusti de benzina… quando so’ andati via, questi che hanno fatto, dice «Annamo a pija’ la benzina», allora se guadagnava…. rotolaveno ‘sti fusti perch’ereno così grossi e questi scoppiaveno col calore, capito?… e qui sotto alla chiesa piena di morti, qui sotto l’ambulatorio pieno di morti. Eh ha fatto tanti morti qui ne ‘a borgata. Perché allora dopo qualcuno ha capito quello che era, che facevano, glie sparaveno addosso co’ i fucili, svuotavano ‘sti cosi e cercaveno da… Paola. Lo zio de Stefano è tutto bruciato… uno zio di mio marito, era andato a prende ‘sto fusto de benzina, perché tutte ‘e famiglie ciavevano problemi e quindi se davano da fa in qualche modo, gli è scoppiato ‘sto fusto de benzina e si è tutto bruciato. Sono riusciti a salvarlo, a medicarlo in tempo, però lui da qui, da sopra un po’ alla faccia fino a tutto qui sotto è bruciato, ha tutta una cicatrice. Marisa Marcellino.Ecco perché dicevo il ricordo bello e brutto, perché ci è andata bene e poi quando finì la guerra che arrivavano gli americani, i tedeschi avevano lasciato alla scuola di Arte Sacra, che allora invece era scuola professionale, tutti barili di benzina con l’esplosivo dentro, però non lo sapeva nessuno e allora tutti gli uomini sono andati e hanno preso ‘sti bidoni di benzina e infatti nel pomeriggio noi stavamo sul balcone e sentivamo tutti ‘sti scoppi dal lotto II°. Si, portava la gente sui carretti tutti i feriti e allora si è capito che questi bidoni di benzina erano minati, e allora papà col sor Pasquale, lo chiamavano così ed era un infermiere che abitava vicino a noi, che stava ugualmente alla contraerea con papà, hanno preso questo bidone, scalino per scalino lo hanno portato di sotto, più lontano e gli hanno hanno sparato e lo hanno fatto esplode’, ci siamo salvati anche su quello, e meno male che c’era papà. Giuseppa Cassone. Gli americani... allora l’avvocato ha dato l’assalto alla caserma, sapendo che c’era qualche cosa da mangiare e hanno preso anche tanti tanti fusti di benzina, che poi successe che facendo rotolare ‘sti fusti di benzina dalla caserma fino a Tiburtino un paio di fusti sono scoppiati. Non ci sono state vittime, non c’é stato niente, però é stata tutta una baraonda perché ad esempio (a casa di zio Romolo) noi ne avevamo messo uno nello sgabuzzino, avevamo lo sgabuzzino proprio di fronte alla porta di casa… quando hanno cominciato a scoppiare i fusti e il problema era che l’avevano fatti rotola’, tutti a dire «Ci sono mine, ci sono mine!» mentre poi visto lì, dove stavamo noi al V° lotto, li c’era la discesa e ‘sti fusti che rotolavano giù per la borgata… Amelia Mancini. No, non hanno minato i bidoni, è che quando la mattina so’ andati via i tedeschi… cioè, i tedeschi so’ andati via la sera, hanno abbandonato tutto e se ne so’ andati, perché la mattina appresso… perché già c’ereno la sera i americani a Palestrina. Infatti c’era ‘n tedesco che era tedesco d’origine però lui aveva studiato qui in Italia, a Torino, che parlava perfettamente l’italiano… la sera, quando j’hanno domandato «Perché andate via?» quann’ hanno caricato tutti i camion e portato via tutto quanto, il fattore je domandò «Com’è ch’andate via così de corsa» e lui ha detto,dice «Perché l’ americani stanno a Palestrina». Comunque lì siccome hanno lasciato ne’e stanze qualche cosa, ha detto «Se possiamo, domani prendiamo l’altra roba, sennò prendetevela voi». Infatti quanno ‘a mattina già se sentivano ‘e raffiche de’e mitragliatrici su la campagna perché staveno già ‘e pattuglie che s’avvicinaveno, è successo lì che so’ esplosi tutti ‘sti bidoni, perché tutti quelli de Tiburtino so’ andati al Forte e l’hanno portato via tutti; rotolando ‘sti bidoni e ogni tanto n’esplodeva uno… Esplodevano, era il 4 giugno, col caldo, loro rotolavano ‘sti cosi tant’è vero che l’avevano buttati de sotto da noi sul grano e un po’ de grano andiede a fuoco, e so’ andati giù tutti l’operai, i vaccari, 89
insomma ‘a gente de’a vaccheria a spegne’ il foco… e senonché mio fratello e ‘n altro ragazzo, quando l’hanno buttati de sotto, perché prima c’era ‘n avallamento su a Grotta de Gregna, si, c’era ‘na scarpata su p’anda’ al prato, so’ andati giù co’ ‘na carabina e hanno bucato ‘sti bidoni perché sennò esplodeveno. E infatti ce so’ stati più morti a Tiburtino quel giorno, el giorno della liberazione che tutta ‘a guerra che c’è stata, si…qualcuno è morto… Il fatto del cavallo Primo Morri. E il fatto del cavallo? un cavallo di quelli grossi, un cavallone. Era dei tedeschi... dietro il forte, è lì che prendemmo i fusti di benzina. Basta, prendiamo ‘sto cavallo, prima il compressore, poi una macchina, insomma prendiamo ‘sto cavallo, lo portammo in quel palazzone dove stava tua zia (rivolto alla moglie) che ancora dovevano finirlo, lo portammo lì, un bestione, madonna mia, riuscimmo ad ammazzarlo con le bastonate... ‘sta carne a pezzi, prendevamo la carne. In caserma era un pija pija, perché quelli avevano abbandonato tutto. Elsa Cedroni... l’dea da ruba’ il cavallo è stata de ‘sto Totto, ‘st’amico suo che faceva il macellaio e abitava al piano de sopra, sempre vicino a me su Grotta de Gregna. Je disse «Ah, Ra’, qui ‘n se magna, che famo? qualche cosa bisogna inventasse. Che famo? Ci so’ tutti ‘sti cavalli in giro ch’hanno sequestrato lì a ‘a Vaccheria, azzardamo, vedemo quello che ce riesce da fa’». Difatti annettero in due, tre e hanno preso ‘sto cavallo che stava un po’più spostato verso il cinema, da lì ‘hanno preso e ‘hanno nascosto. Quann’è stato mezzanotte so’ venuti a casa mia perchè j’avevano detto «Guarda Ra’, è un vannino, non è poi un cavallo grosso» dice «Vabbe’», difatti quando hanno portato ‘sto cavallo nun entrava neanche sotto ‘a porta. Quanno amo visto così «Come famo, come non famo?» difatti hanno portato dentro ‘sto cavallo, avevamo levato er tavolo, ‘e sedie, tutto e j’hanno messo ‘sto cappuccio in testa, j’hanno legato ‘ste gambe e poi quello lì che faceva il macellaio sapeva come s’ammazzeveno ‘e bestie: co’ ‘na mazzetta grossa je doveva da’ ‘na martellata sul cervello pe’ fallo casca’, difatti jave’a dato la martellata, però no proprio nel punto giusto perchè se vede che col cappuccio non cià azzeccato bene... difatti è cascato pe’ terra ‘sto cavallo, scalciava non ve dico come, noi dal buco della chiave de la camera da letto volevamo vede’ com’era ‘sta cosa... poi all’ultimoil cavallo è morto... a un certopunto mi’ padre ce fa «Guarda, è mejo che ve n’annate» perché avevamo oscurato tutta ‘a finestra co’ un telone blu chè non dove’a usci’ la luce perché c’era il coprifoco, non è che potevi esse’ tanto tranquillo... difatti uscimo dalla finestra, perchè do’ abitavo io poteva esse’ alto un metro e mezzo, spalancamo ‘a finestra de ‘a camera de là, uno pe’ volta zompamo e andamo su casa de ‘sto Totto... però chi ha dormito? che ciaveva er posto da mettece a dormi’? Quand’è stata ‘a mattina verso ‘e cinque dico «Ah ma’, annamo a casa...» perché avevano pure chiamato questa gente che se ‘a comprava ‘sta carne... trafficaveno. Hanno portato via ‘sta carne, poi noi semo scesi verso ‘e cinque, però semo entrati da ‘a porta de casa perchè il cavallo già l’aveveno sezionato e ‘n te dico, tutto sangue pe’ terra, ‘na puzza de sangue de cavallo, un macello! Mia sorella quella più grande va dentro al bagno, come apre la porta riscappa subito perchè te vede ‘sta testa del cavallo coll’occhi aperti, s’è messa paura «Che c’è, che c’è?» «Cià l’occhi spalancati, me guardava!»... Comunque mi’ madre la carne de cavallo non l’ha mai cotta, non l’ha mai voluta, non l’ha mai mangiata, e se ‘ a cuocevi, buttava pure ‘a padella... Le divise americane Primo Morri e Giuseppa Cassone Primo. Quando c’erano anche i tedeschi che scappavano, vidi le divise americane, perché i marocchini non li fecero venire a Roma, dopo il disastro che hanno fatto dalle parte sue (Cassino). Insomma vennero americani e inglesi e vedo gli americani che sbucavano e facevano segno se c’erano tedeschi, io gli dissi di no, era una pattuglia che veniva avanti, i tedeschi erano andati via con un carro armato, allora anche a Tiburtino si fece ‘sta festa. Giuseppa. Una gran festa c’é stata, quando sono entrati gli americani: in borgata c’erano due grandi antifascisti, ma propri antifascisti, avevano un calessino con il cavallo, correvano e scherzavano, ogni giorno passavano e gridavano «Stanno lì» però non si facevano capi’ perché c’erano ancora i fascisti. Poi dicevano «Stanno a Settecamini», scherzavano con ‘sto cavallo, poi quando sono arrivati a Boccaleone, allora so’ passati a dire «A Boccaleone, a Boccaleone!», allora tutta la borgata é uscita fuori 90
Questi antifascisti chi erano? Giuseppa. I più morti di fame che se potevano trova’, erano comunisti, che poi pure loro hanno sbagliato perché hanno cominciato a senti’ che arrivavano gli americani.... Primo. gli antifascisti erano tutti comunisti, socialisti, democristiani che hanno fatto la lotta partigiana. Giuseppa. Si però, quelli che più stavano a Tiburtino, hanno cominciato a mettere i pali «qui ci impicchiamo quello, lì ci impicchiamo l’altro» davanti a Farfarelli, erano tutti fascisti che si conoscevano. Primo. Vabbè ma questo dappertutto, mica solo a Tiburtino. Perché, che hanno fatto? Hanno messo i pali a Tiburtino? Giuseppa. Lo dicevano, hanno cominciato a fare la propaganda, «mettiamo qui, facciamo lì», e quelli sono scappati prima del tempo, è logico. Quando sono arrivati gli americani quei pochi che erano rimasti, erano più comunisti dei comunisti. Primo. Poi alla stazione quelli di sinistra hanno messo un gorilla grande come ‘sto palazzo come per dire «attenzione» Si, un gorilla finto. Quando ci sono state le prime votazioni, quando c’era De Gasperi, Togliatti, Nenni, nel’46 Quando fu per la repubblica o la monarchia, voi avete votato quella volta.? Primo. Si. Per la Repubblica, ci sono stati dodici milioni contro dieci. In tempo di guerra Bianca Karpati. In piscina ho conosciuto una signora di ottantacinque anni che mi ha detto di essere stata maestra alla Fabio Filzi durante la guerra. E mi raccontava di questo episodio durante la guerra, gli anni proprio della fame, che arrivarono a Natale, le portarono il cesto di zucchero, farina, tutto, e lei dice «No, bambini, no, non posso togliervi questo cibo, perché per voi è prezioso…» «Maestra non te preoccupa’ domani papà lo rifa il furto» Ornella. Mia mamma lavorava a servizio. Dalle signore. Andava a Piazza Fiume. E difatti in tempo de guerra me portava la pagnottella. Si, lei non se la magnava e me la portava a me. Andava da una signora e poi andava dall’altre. La minestra pe’ ‘a truppa Amelia Mancini. No, in tempo de guerra non l’ho sofferta la fame, anzi… Noi ciavevamo de tutto, perché il burro lo facevamo noi, i legumi ce l’avevamo, l’orto c’era, le galline ce staveno, l’ova non ce mancaveno; anzi era mamma quella che portava… a chi ciaveva i ragazzini je portava mezzo litro de latte in più, non so, je rimediava sempre qualche sacchetto de fagioli, cercava d’aiuttalli come poteva, la verdura je portava, specie a chi ciaveva i bambini. Eh niente, poi quando ce furono i sfollati de Cassino, il giorno veniveno tutti ‘sti bambini, tant’è vero ‘a fame io nun l’ho sofferta perché tante vorte nun m’andava de mangia’ e a mamma avanzava ‘sta minestra, diceva «Nun te preoccupa’ che oggi pomeriggio c’è chi se ‘a mangia». ‘nfatti il pomeriggio, quanno venivano ‘sti ragazzini, io rimanevo a vede’ questi che ciaveveno fame, mamma cercava de dargli tutto quello che ciaveva, il pane, il coso… Ma pure noi, la fame nun l’abbiamo patita, però… ciavevamo el grano contato perché metà de grano ce lo levaveno pe’ la tessera, e l’altra metà ‘nvece mamma se prendeva el grano al posto de la tessera; così s’aiutavamo tra il pane che se comprava e quello che se faceva durante la settimana. Poi portavamo il latte al fornaio e ce dava tre sfilatini, sempre pe’compensa’, diciamo, pe’ fini’ la settimana. Però stiamo sempre lì, che mamma cercava de rimedia’ ‘e cose e poi magara lo dava all’altri, lo portava a chi ciaveva più bisogno… Tante volte mia sorella ch’era più grande lei, quando (mamma) je diceva «Metti ‘n po’ d’acqua de più alla minestra che oggi vengheno que’e creature» je risponneva «Che facciamo la minestra pe’ ‘a truppa oggi?» Però mamma cercava sempre modo e maniera de fa scappa’ pe’ tutti l’altri. La mattina andava a prende’ il latte, la sera pure, portava il latte a quelli de Tiburtino. E infatti ciavea diverse poste che ‘a conosceveno tutti. Tante vorte i sordi li pijava dopo un mese, quando se ricordaveno, poretti, de dajeli perché c’erano pure de ‘e famiglie ch’aspettaveno l’assegni familiari pe’ paga’.
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Patate rubate Amelia Mancini (durante una visita alla Vaccheria Nardi) … se raccoglievano i pomodori, e che stavamo a sciacqualli? mentre che camminavamo mangiavamo i pomodori, i cetrioli che ancora non s’erano fatti grandi, i cetrioletti, e tutta roba che magara neanche era matura. C’erano quattro, sei piante d’aranci però erano amari, ancora ce stanno, e poi sotto… giù alla scarpata… c’erano ‘ste cinque piante de pesche che dovevamo fa a guardia perché venivano ‘stì ragazzini, diciamo come noi, che entraveno dal reticolato e andaveno a mangià ‘a frutta, perché c’era solo un reticolato basso, non è che era tanto recintato. Quando invece è venuto il capitano, l’ultimo che ha comprato la vaccheria, aveva messo tutti quei reticolati… a rotolo e aveva messo tutte piante con le spine quelle piante che chiameno de Gesù Cristo, aveva recintato proprio tutto quanto bene, non era più come una volta che i ragazzini passaveno sotto i reticolati e entraveno. C’era tutto, facevano bene le patate a ‘sto punto perché era argilla e se non stavamo a tempo gli ultimi tempi che se maturaveno, eh, noi tante volte la sera giocavamo qui pe’ fa la guardia ma ce ‘e rubaveno sotto l’occhi…. E la mattina trovavamo tutte le patate già raccolte e se la prendevano con noi che stavamo li a gioca’ e non avevamo visto nessuno… Ornella … mi’ marito annette a ruba’ le patate… annette a ruba? prese du’ patate! quello de ‘a latteria… glie dette ‘n sacco di botte. Oh, l’ha denunciato eh… era cattivo quello… Elsa Cedroni (1928) …verso do’ stava’a piantagione de patate, ‘e patate e poi che altro… pijaveno nun me ricordo, però quella volta fu ‘e patate… ave’a fatto un sacchettino de patate, certe patatelle piccole porelle che stavano a cresce’ allora, e sor Umberto, che sarebbe stato er guardiano de ‘a Vaccheria l’ha viste che staveno a pija’ le patate, è corso co’ ‘sto forcone, l’ha terrorizzate… era mi’ sorella co’ ‘n’altra amica sua, l’ha acchiappata per i polsi, je ha stretti talmente tanto che j’ha fatto i polsi neri, e poi era tutta graffiata perché j’aveva pure menato… poi quanno venne a casa mi’ madre dice «Che je vado a di’? stamo in torto» però ‘a fame era tanta, non era pe’ruba’, era perché c’era fame, e così un po’ de quello, un po’ dell’altro ciarrangiavamo, annavamo a pija’ i crescioni dentro ai fossi… i papaveri, buonissimi ripassati in padella col grasso de pecora, ‘sta cicorietta, i cardi selvatici, poi c’erano ‘e cocce dei piselli, de ‘e fave, de ‘e patate… La borsa nera GiuseppaCassone. Io tutte le mattine mi partivo da Tiburtino terzo e venivo fino a qui, dove c’é la pasticceria, davanti al Forte, dove c’é la caserma. Tutte le mattine mia madre mi dava la borsetta con la tessera e i bollini falsi comprati e andavo lì a prendere il pane, le ciriole, quello che potevi trovare, sennò c’era la borsa nera, c’era mamma che faceva la borsa nera, no che faceva la borsa nera per rivendere la roba, però andava a Piazza del Gesù che c’era un gran negozio di stoffe, che gli dava tutti scampoli di stoffe che gli rimanevano. Mamma con gli scampoli andava a Cassino, perché lì i tessuti, gli scampoli, non si trovavano e ci prendeva i fagioli, ceci, olio, farina, tutta roba così. No, non li rivendeva, faceva un cambio, per modo di dire, chi aveva una macchina da cucire che Mussolini dava a quell’epoca a chi aveva quattro figli, per invogliarli, siccome questa signora l’aveva avuta questa macchina ma non ne sapeva niente di cucito, allora la diede a mamma, e mamma gli dava una volta la farina, una volta i fagioli, insomma ci arrangiavamo come potevamo. Osvalda Screponi. Papà muratore e mamma casalinga perché ciaveva tutti i figli, però s’arrangiava a fa tutto, anche ‘a borsa nera, in tempo de guerra per pote’mantene’ noi figli che eravamo tanti. Era pericolosissimo però lei ha azzardato e Dio ha voluto che gli ha detto bene. Perché lei anche ‘e sigarette a borsa nera alla stazione Termini andava a vende’, faceva il pane per potello vende’ sempre a borsa nera, perché in qualche modo se doveva arrangia’. Croste di pane Maria Evangelista. Siamo scappati da Cassino, siamo andati a nu paesetto, chiamato… ‘nsomma sopra una montagna, e non c’era niente! Arpino… E allora io pigliavo, compravo le fusaje, le bagnavo e andavo vicino alla porta della chiesa la domenica e le andavo a vende’. E allora co’ quelli soldi annavo a 92
fa’ qualche cosa, però nun c’era la farina de grano, se faceva la farina de ghiande, facevano la pizza e ‘n se poteva mangia’.....’N’avemo vista tanta di quella fame, ma proprio tanta tanta. Quando annavamo via, no… quando ce semo fermati pe’ aspetta’, vicino Frosinone, mi’ figlio ha visto na crosta de pane nero, ché i tedeschi ciavevano il pane nero, scuro, e m’ha chiamato: «Ah ma’, ecco il pane! » mi’ figlio era piccolo, era del ‘42, ‘era nel 43,’n teneva manco… «Ma’, ecco il pane! » S’era preso quel pane, io ce l’ho buttato ch’era… s’è messo a piagne che j’avevano buttato quella crosta de pane che era tutta brutta, perché l’erano buttata i tedeschi. Marisa Marcellino. Quindi noi i tempi della guerra, e anche dopo la guerra, mi ricordo che c’era la borsa nera, e che quel pane nero, se cadeva una mollica per terra, io mi ricordo che mi bagnavo le dita e mi inchinavo, la raccoglievo, e me la rimettevo in bocca, e per questo molti bambini hanno avuto la TBC, molti di loro, io compresa. Mamma mi portava al Forlanini, e dovevano ricoverarmi perché aveva altri figli in casa quindi… e mamma le disse che disinfettava tutto, faceva bollire tutto, ma «Me la porto a casa» perché non ero così contagiosa e disse «Se non è contagiosa si contagia di più». Avevo cinque,sei anni, subito dopo la guerra. E quindi la storia nostra, cresciuti in quel modo, per la denutrizione, perché non c’era da mangia’ e ciavevi sempre fame. Perciò sono venuta su delicata di salute e mamma ha dovuto avere tanti riguardi nei miei… per me. Pastina all’uovo Marcello Carboni. Era semplice, era er periodo de guerra, coi bombardamenti, pe’ paura de ‘sti bombardamenti dice «Annamo a dormi’ fuori casa» e andamo al prato, co’ le tende, le coperte, coperte imbottite, però l’umidità e quello che è , e io essendo piccolo, cinque anni, mi so’ preso il mal d’ossa e so che mi portarono al Bambin Gesù per farmi le cure. L’unico che ero fortunato, oggi riconosco che ero fortunato, che papà me portava la pastina all’uovo, i fratelli erano più grandi, però io essendo malato, il pupo piccolo, avevo bisogno sostanzialmente de nutrirmi, perché nun c’era, e me ricordo ‘sta pastina all’uovo che «Mangia, che questa fa bene» L’Assistenza Anna Antonini. E quando ero piccola, niente, io me ricordo che andavamo a prende’ con mio fratello, sempre, qui a Pietralata, all’Assistenza… me portava sempre in collo lui e ciavevamo… e andavamo lì e ce davano, me sembra, uno sgommarello e mezzo de minestra ogni persona. Perché poi a noi veniva il coso pieno, ovviamente, perché c’erano tante persone, così quando si arrivava a casa, si tornava a piedi a Tiburtino, già te la davano scotta, quando arrivavi a casa i cannolicchi erano diventati così grossi. Poi te davano i pacchi, dopo pure. Davano la pasta, la davano alle famiglie numerose. Giulio Fortuna Io me ricordo, l’Assistenza lo sai dove stava, davanti al Forte, che c’era l’ufficio postale, davanti alla caserma dei carabinieri. Noi invece a San Lorenzo andavamo a piglia’ la minestra dentro il camposanto, al semenzaio, se chiamava, era do’ facevano tutte le piantine pe’ i giardini di Roma, annevamo co’ ‘na gavetta militare e te daveno ‘no sgummarello a persona, tre,quattro, quante persone, tanti sgummarelli. C’era tanta gente che ciandava? Ciandavano quasi tutti, ‘no tanta gente. Ma ‘a fame era fame, oh! Ma questo è il dopoguerra inoltrato? Beh, ‘47, ‘48… ma guarda che la cosa è continuata perché io quanno so’ ito a lavora’ che ciavevo quattordici anni, il giorno, annavo a magna’ all’ECA, che stava vicino piazza Campani a San Lorenzo, e ce lavorava una mi’ zia, se pagavano du’ lire o du’ lire e mezzo, ‘na cosa del genere, e annavi là e te magnavi ‘n primo, te davano un piatto de pasta. Sorelle Pala Pina. E difatti mia madre, quando poi era incinta di me, lei co’ tutti ‘sti figli numerosi è andata a prendere la minestra da’e suore... Maria. No, no! mamma andava alla Maternità che ancora ce sta la Maternità, però c’era pure ‘na suora, 93
mo’ non mi ricordo come si chiamava e tutte ‘ste donne incinta della borgata, quando sapevano ch’erano incinta andaveno a mangia’ lì er pranzo. Regina. Che era, ‘a Pontificia? Maria. ‘A Pontificia, si. Sempre lì in pineta, si si! Ma voi la fame del dopoguerra ve la ricordate? Maria. Embe’ io, guarda, io proprio fame fame nun me lo ricordo, forse mi’ madre e l’altri figli, io lavoravo dalle suore, no? e ‘esuore me daveno... c’era suora Assunta co’ questa qui che sta sul giornale, ch’è poco ch’è morta, ce portava su ‘a merenda, ce portava un bel fagotello così, a me e a un’altra perché nun ciavevamo il padre. Famiglia bisognosa Giorgio Arezzi. Diciamo che io non ho patito la fame se è questo che intendi, perché negli anni Cinquanta, voglio di’, a cinque anni dalla fine della guerra la situazione s’era stabilizzata ecco... però mi ricordo che per esempio a refezione ci davano un formaggio rosso, che secondo me era un retaggio degli aiuti degli americani. Però ecco mi ricordo che anche qui in oratorio, quando ho cominciato a frequentare l’oratorio per il sacramento, per la prima comunione, mi ricordo che i frati ce davano questi formaggini strani, che penso appunto avevano portato gli americani … io ricordo sempre che quando andavo a scuola bisognava produrre un certificato di famiglia bisognosa… ecco e c’erano delle facilitazioni, passavano i libri eccetera eccetera. E mi ricordo che io vivevo questa cosa come una discriminazione, dicevo «Perché noi non siamo una famiglia bisognosa?» E invece no, perché bisognava avere il sesto figlio. Vedevo i compagni che avevano… che allora per me sembravano dei privilegi, e invece… La discarica Anna Antonini. Io a casa mia non ho patito fame, anche perché a casa stavano bene, papà cogli scarichi ce guadagnava, perché prima se capava gli stracci, i cartoni, il vetro se vendeva... poi ciaveva i maiali papà capito? a casa mia era sempre venti, trenta persone a mangia’. Sempre conoscenti che ciaveva papà e che lavoravano con lui, perché sanno che se mangiava. Tante volte venivano ad aiutare proprio perché se mangiava, e manco volevano esse’ pagati. Sandra Fortuna. … famiglia molto numerosa. Però mio nonno faceva, come se dice qua, lo scopino, e andava proprio col carretto, a spazza’ le strade, e mia madre dice sempre che c’era la discarica della spazzatura dove lui teneva i maiali, per cui, ‘nsomma, a casa c’era sempre da mangiare perché lui ciaveva ‘sti maiali e quindi riuscivano a mangia’ bene, non si ricorda mai proprio la fame nera nera. Mi dice sempre, mia nonna, dava comunque al resto della scala perch’era la persona che aveva più possibilità... se c’era il maiale e mia nonna cucinava, poi lo dava anche alla signora di sotto, a chi magari non ce l’aveva... anche perché lei, mia nonna, faceva la cuoca, alla scuola, a Tiburtino. Penso qui alla Fabio Filzi, l’ha fatta per tanti anni, ma ti parlo, che ne so, del dopoguerra… e anche da scuola poi riusciva a porta’ via qualcosa... La caccia Maria Lattanzi La carne la mangiavate? Come no signo’, mi’ padre annava a caccia, ogni tanto faceva certe belle pulentate con l’uccelletti sopra. Ma a caccia dove andava? Andaveno fuori, andaveno fuori Tivoli, a Palombara andaveno. Poi quando non portaveno l’uccelletti portaveno ‘e rape, ‘e barbabietole, ‘a cicoria, mi’ padre se metteva pure a fa’ la cicoria, e le rane. Ma la carne non la compravate dal macellaio? Ah signo’ ma se non ciavevamo manco i sordi pe’… nun ciavevamo niente, sa che vor di’ niente? Mi’ madre non ciaveva nemmanco ‘a tessera annonaria, la sa che è? È la tessera che ti danno, tu ciai tante persone? I bollini, ogni volta che annavi a compra’ il pane te staccaveno un bollino, noi eravamo nove persone, nove bollini ce staccaveno. Ma questo durante la guerra oppure dopo? 94
Ma pure dopo tesoro mio, dopo c’era ‘a borsa nera eh, ma tu forse ‘n te ‘a ricordi ‘a borsa nera, ma sapessi la fame, fijo mio, che avemo passato che te credi te? Mi’ madre quando faceva pasta e patate, siccome noi ciavevamo una stufetta de ghisa, l’inverno mica c’ereno i termosifoni, mia madre faceva le bucce delle patate un po’ erte e le metteva sopra la stufa, così, perché se coceveno, e mi’ fratelli le mangiaveno, perché ‘n c’era niente. ‘N c’era niente, tesoro mio. Regina Bruschi Polidori. Quindi il mio vivere dentro ‘sta famiglia, non è ch’è stato tanto semplice, perché co’ ‘sti genitori sempre gelosi, focosi, un po’, sempre un po’ troppo vivaci. Poi soldi ce n’erano pochi perché mio padre faceva il muratore e diceva sempre che il sangue al padrone non glielo dava, quindi: come pioveva no ‘o pagavano, un giorno che ciaveva da fa’ no ‘o pagavano… E s’è sempre un po’ arrangiato con la caccia, lui andava a caccia e portava da mangiare: m’ha sfamato con piccioni, uccelli, trote, de tutto. Lui andava a caccia perché praticamente la caccia è stata libera fino… nel Settanta: era libera, potevi mettere le reti, non so se tu sai che non c’era solo il cacciatore col fucile, c’era quello de reti, co’ le leve, le portavi sui prati, tu te vedevi un campo dove c’erano gli uccelli, andavi lì ‘a mattina, te facevi il capanno, proprio la caccia dei primitivi… Lui cacciava dappertutto, andava pure verso Fiano Romano, era bravo. Infatti a Pietralata lo chiamavano il maestro perché era pure insomma uno che co’ la natura, ancora adesso, ce capisce. Quindi, ha arrotondato sempre in questa maniera, co’ ‘sti uccelli, andava a pesca, pesci, uccelli, uccelli, pesci… ‘n se ne poteva più. E poi la campagna, l’erba, ancora adesso mio padre trova delle verdure che io penso che poca gente le sa riconosce’, raponzoli, ramoracci, tutte cose che quando morirà lui non mangeremo più niente de questo, perché questa è una grande ricchezza devo dire. Ogni tanto je ‘o dico «Ah ma’, portame… » perché un po’ de cicoria la conosco, però loro pure i posti conoscono, ndo’ vanno a scava’, a butta’ dentro a ‘sti prati che qualche volta ce rimangono secchi perché vanno proprio in posti isolati… Si, si anche mia madre, cià sempre avuto ‘sta passione, forse una de ‘e poche cose che l’ha tenuti uniti… Dicevo insomma, s’è sempre arrangiato così, e casa era piccola, un bagno senza acqua… Allora: una cucina abitabile, poi una camera da letto, una camera da pranzo e il bagno. Il frigorifero, me ricordo, è una cosa che a casa mia è arrivato forse intorno al 1973. perché ciavevamo un frigorifero in cucina, però dentro c’era il martello, i chiodi, il giornale, lo spago… Sul pavimento, per terra, questo te devo racconta’, io coi miei fratelli ce giocavamo a palline perché c’era ‘a buchetta… Io ho dormito fino a vent’anni dentro una branda, de quelle che ‘a sera apri e chiudi così, la casa proprio l’essenziale…(Io sono la terza) di quattro, quindi sei persone, due maschi grandi, io e mia sorella del ‘63. E vivevamo dentro ‘sta casa… Il bagno, c’era il vaso e il lavandino, e poi dividevamo il bagno con gli uccelli de mi’ padre perché chiaramente lui, p’anda’ a caccia, ciaveva bisogno de’e leve… in pieno inverno dovevi tene’ la finestra aperta perché il piccione doveva fa’ avanti e dietro dentro casa… Si, i piccioni, che spesso e volentieri, se ‘i vendeva, però erano quelli viaggiatori e ritornavano a casa. Mi’ padre cominciava a guarda’, mi madre «Che guardi?» Dice «Ho venduto i piccioni, ma mo’ ritorneno» Gli stessi piccioni se li vendeva tre volte. Li addestrava lui, perché lui aveva capacità sugli animali… Dentro al bagno se curava più dei piccioni, de uccelli, passeri, verdoni, cardellini, io so tutto de ‘ste cose… Tutti nel bagno, tanti, i piccioni saranno stati una trentina e tutte ‘e gabbie d’uccelletti, n’altri trenta, quarantina. Mio padre ha preso la patente nel Settanta, ciaveva ‘a lambretta, noi andavamo al mare in quattro su’a lambretta; cioè io davanti così, mia sorella dietro in braccio a mi’ madre. I fratelli grandi no, però quand’erano più piccoli loro, e anche adolescenti, andavano a caccia co’ mio padre… E allora partivano alle tre, quattro de’ notte, mio padre s’era fatto tutto uno zaino strano, ce metteva dentro tutte ‘e gabbiette co’ gli uccelli. Succedeva che i miei fratelli s’addormentavano dietro, je cascavano mentre guidava… Le ranocchie Alvaro Bergamini Ma il padre vostro che faceva? ‘N ciaveva lavoro, no, perchè lui era fijo de un macellaro de Ponte, a via Giulia, er primo portone ce stava po’ro nonno che di mestiere lui faceva il macellaio... poi ci fu un bisticcio perché j’è morta la moglie e s’è messo co’ un’artra persona e i figli, ‘n’ je stava bene ai fiji. Se ne so’ andati da casa e 95
ognuno ha preso ‘a vita sua. Papà dopo da lì è andato a San Lorenzo, da San Lorenzo, via dei Sabelli, a Tiburtino III e Tiburtino te dovevi a inventa’ un lavoro. Che nun c’era. Allora noi dimo sempre «la fame ce pijava a botte e cazzotti» se dice. Vabbe’, il modo nostro che vivevamo noi, che non c’era lavoro, non c’era niente e spesso e volentieri stavamo a sede’ al tavolino in attesa si s’apriva ‘a porta e veniva da magna’, cioè un zio, una zia, quarche persona portavano da magna’, perchè ‘n c’era, io parlo ‘45,’46 Io a sett’anni ho lasciato ‘e scole pe’ anna’a lavora’: me metteva po’ro papà, dentr’a na cesta de patate che venivano legate dietro a i portabagagli de ‘e biciclette, prima ‘n c’ereno i motorini,’e macchine, chi ciave’a ‘n motorino era ‘n coso... ‘na macchina poi nun ne parlamo… e me portava a Maccarese, Fregene e me lasciava lì, io dormivo e ‘a mattina... dormivo sotto i ponticelli secchi… me lasciava lì perchè io lì la mattina me dovevo sveja’ pe’ pesca’ ‘e ranocchie, però me diceva «Ti metti sott’a un ponte, sotto a un ponte asciutto perché c’è la rena, ce metti ‘na frasca de là, ‘na frasca de qui che lo chiudi pe’ l’animali, un sacco de ranocchie voto sotto ‘a testa…» e dovevo da dormi’ là... la mattina com’arbeggiava, uscivo, pescavo. Serale, lui veniva ‘l pomeriggio, me portava i filoni quelli che pesavano un chilo, un chilo e ‘n’etto, erano pieni de ‘a frittata de patate, ‘n costavano niente, oggi costano ‘na cifra. Allora uno me ‘o magnavo subito co’ lui e uno lo mangiavo dopo. Allora lui stava ‘n’oretta, ‘n’oretta e mezza così, poi pijava ‘l sacco de ‘e ranocchie e annava a Roma, sempre co’ ‘a bicicletta. A Roma le capava, le ammazzava, tutto, la mattina faceva i mazzetti e le annava a venne’, perchè nun ciaveva lavoro, una vorta lasciato er padre... e dopo riannava a casa, riposava i sordi, la roba che ciaveva e ripartiva da me in bicicletta e riveniva pe’ portamme da mangia’ e riprendeva ‘e ranocchie di nuovo E quanti giorni lei stava lì? Eh, fino a settembre che… com’adesso, quando termineno ‘e ranocchie, el tempo bello, poi si leva... allora dopo annavo a pija l’uccelletti, l’uccelletti pe’ rivenderli... io pensate quant’ero grosso che non arrivavo a monta’ sopra ‘a bicicletta, ciannavo sottocanna, se diceva, sotto, perché sinnò ‘n ciarrivavo... Allora io andavo a ‘e quattro de mattina da un bar ch’era chiamato Lupo, ch’era aperto, c’erano i cacciatori, io annavo appresso a loro. Loro annaveno su ‘a tesa, è chiamata la rete, mettevano ‘sta rete e io quand’erano verso le dieci annavo sott’a ‘sto capanno, me pijavo l’uccelletti e li annavo a venne’… questo era un lavoro... potevo anna ‘a tante parte, a piazza Fiume, cioè io annavo lì, aprivo ‘sto setaccio e vennevo ‘st’uccelletti. I miei fratelli facevano altre cose, ma sempre tipo de lavoro. ‘A cicoria no, però... tutto, pesca, tutto…
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5. Il quartiere I nomi Domenico Zanella.Tutti nomi di musicisti, mentre il vecchio quartiere, Tiburtino III nelle carte topografiche lo troviamo come borgata Santa Maria del Soccorso, non come Tiburtino III, tanto più che la fermata della metropolitana nel nostro quartiere si chiama Santa Maria del Soccorso, che va benissimo così, comunque… rispetto alla toponomastica, il vecchio quartiere, la parte bassa dall’inizio di via del Badile fino a via Tiburtina, erano tutte quante strade titolate a strumenti agricoli, quindi abbiamo via della Vanga, via dell’Erpice, via dell’Aratro, via del Frantoio, via della Trebbiatrice. Demolita questa parte del vecchio quartiere, le strade hanno avuto tutte nomi di musicisti, da via Mozart a largo Sebastiano Bach, a via Bartok. Mentre invece la parte alta del quartiere, cioè, diciamo da largo Boiano giù a via Atri, hanno tutte nomi del Molise, Abruzzo-Molise... quindi via Trivento, via Agnone del Sannio, via Atri, largo Boiano, via Tagliacozzo... quindi anche come toponomastica il quartiere era spaccato a metà: la prima parte quella costruita prima, ‘35, ‘36, ‘37, tutti nomi di attrezzi agricoli, la seconda parte tutti nomi di paesi dell’ Abruzzo-Molise. Piazza Tiburtino III Giorgio Arezzi. Secondo me ci sono problemi aperti, perché intanto stiamo ancora, diciamo così, anelando per l’edificazione della Piazza di Tiburtino III nell’area dove prima c’era il lotto XI, il lotto demolito. Noi vogliamo conservare la memoria storica di questo nome, Tiburtino III, perché siamo circondati da giornali e giornaletti.. L’Aniene è, Abitare a in cui sembra che ormai esista soltanto Colli Aniene. No! Colli Aniene si è appropriato di luoghi tradizionali del Tiburtino III. E pur non essendoci una via o una piazza intitolati a Colli Aniene, sembra ormai che Colli Aniene sia più conosciuto di Tiburtino III a livello cittadino. Perché se tu dici «Abito a Tiburtino III» Ti dicono «E dove sta?» Invece se tu dici Colli Aniene dicono «Ah si si… » Oppure bisogna dire Santa Maria del Soccorso, ora, è vero che ‘sto quartiere si può chiamare in tutti e due i modi, ma a noi, ‘sto Tiburtino III ce piace, e anche a Ivano Caradonna, che tra l’altro lui è nato nel quartiere, al Tiburtino III… l’attuale presidente del V Municipio... piace ‘sto fatto di conserva’ comunque ‘sto nome attraverso l’intitolazione di una piazza o di una via. A noi sarebbe più piaciuto intitolare una via, magari principale, però sembra che ci siano problemi a livello di toponomastica perché dice che poi la gente è costretta a cambiare i documenti… Allora, visto che è previsto ‘sto parco su l’ex area del lotto XI… chiamiamo piazza o piazzale del Tiburtino III ‘st’area. Comunque lì non ci stanno numeri civici, perché è compreso tra via Tagliacozzo, via della Vanga e largo Boiano, via Civitella del Tronto… Lì c’era un contenzioso tra IACP e Comune di Roma, perché il comune de Roma ha chiesto l’area allo IACP, e l’IACP sembra che abbia chiesto una cifra esorbitante per mollare l’area, e quindi siamo ancora lì… ‘st’area è piena di sterpaglie… ogni tanto ci vanno delle giostre... Speriamo che sia arrivata la volta buona adesso. Ora che è cambiata amministrazione… che non ci siano più dispettucci tra comune che era di un colore e regione che era di un altro. Orgoglio di appartenenza Diciamo che Tiburtino III ha sicuramente influito per quanto riguarda la mia formazione mentale. (Antonio Morri 1947) Il mio cuore sta lì anche se non è più il Tiburtino che per anni ho amato.(Ivano Caradonna 1957). Mi chiamo Giorgio Arezzi, come la città toscana, sono nato il 15 Luglio del 1950. Sono fiero di essere nato in questo quartiere che molti bistrattano ma che in realtà penso sia uno dei quartieri ancora più genuini rispetto ad altre realtà... (Giorgio Arezzi 1950). Ho il ricordo di questo quartiere negli anni Sessanta, che aveva questo lungo corso, dove ai due lati della strada c’erano i negozi. Io l’ho vissuto un po’ come un ghetto è vero, però allo stesso tempo c’era un po’ come l’orgoglio di appartenenza a un certo tipo di realtà, di società diversa… che poi è diventata ancora più diversa e mi ha fatto crescere, me l’ha fatto vivere anche con orgoglio, quando ho cominciato a frequentare la sezione di partito, quando ci sono state le lotte nel quartiere, per la casa, per il semaforo sulla Tiburtina, ci sono state tante cose nel corso degli anni. E tutto questo penso che, non solo a me ma a tanta altra gente, a tanti altri compagni, ci faceva sentire un qualcosa al di sopra, non so forse può 97
sembrare una presunzione dire questo… però ci faceva sentire veramente diversi. Anche nella nostra condizione di povertà economica, però poi cercavamo allo stesso tempo di uscire da questa cosa, frequentando la sezione, cercando appunto di crescere. (Laura Morelli 1954) Un paese Tiburtino per me è stata diciamo una… un paese, un piccolo paese, all’epoca che ero piccola io, e la gente era tutta unita, era come una famiglia. Se lasciava la chiave alla porta… (Pina Pala 1947) Il Tiburtino è come se fosse un piccolo paese, dove tutti conoscono tutti, io si sa che sono la figlia del marchisgiano ch’è mio padre, danno tutti i soprannomi... (Alessandra Giacinti 1975) Sai, Tiburtino era come un paese a un certo punto. Era chiuso Tiburtino, era un nucleo a sé… quando che se parlava per dirti del Quarticciolo, sembrava che il Quarticciolo fosse stato in provincia dell’Aquila e il Quarticciolo stava qui de dietro. Capito? Era proprio… s’eravamo richiusi a riccio un po’ tutti… (Giulio Fortuna 1936) Semo malati, comunque vogliamo torna’ qua … e so’ tornata in affitto qui a Colli Aniene a via Franceschini, sempre coll’idea però de torna’ a Tiburtino, perché noi de Tiburtino purtroppo ciabbiamo ‘sta cosa genetica… Semo malati. Perché noi, niente, tutti comunque vogliamo torna’ qua (Regina Bruschi Polidori 1960) I miei vivono a Case Rosse però vengono al Centro anziani a Tiburtino III, come mai?… il centro anziani di Tiburtino III dove rincontrano i loro amici da giovani. (Nadia Gallo 1964) … c’erano delle persone anziane che non volevano assolutamente distaccarsi da Tiburtino III; e quindi si sono praticamente accordati per una sorta di cambio con una famiglia… con una signora che erano moglie e marito, credo, anziani…( E’ la spiegazione che Nadia Gallo dà di come i suoi sono riusciti ad avere la casa al Monte del Pecoraro). No, diciamolo che, quando hanno dato le case, c’è stato un trauma... poi i ragazzini de quella generazione, parecchi amici nostri, se so’ persi. Si so’ persi in quel periodo al Monte. Perché poi è subentrata... ‘n sacco de altri fenomeni che era ‘a droga. E t’assicuro che, me ricordo, i miei amici me dicevano quanto si stava bene a Tiburtino III. Poi certo uno enfatizza, perché che vuoi, come dice Vasco Rossi «Il meglio è già passato»… Altrove AntonioMorri Da sposato, sono andato ad abitare a Colli Aniene… prima sono stato un anno a via Prenestina, in una camera e cucina che però già mi sembrava grande rispetto a quello che era il mio spazio a Tiburtino. Poi dopo so’ andato ad abitare a Portuense, a via degli Irlandesi, dove ho abitato per dieci anni, ma dove il giorno che sono andato via, chi mi ha incontrato per le scale che facevo il trasloco ha detto «Meno male, viene una coppia giovane ad abitare qui» e io erano dieci anni che ci abitavo. Le case La storia comincia nel 1936 con la deportazione degli abitanti di Porta Metronia e altre zone del centro nella borgata isolata in mezzo alla campagna. In questo paragrafo gli intervistati raccontano le loro case negli anni tra la fondazione della borgata e l’inizio del risanamento con la distruzione dei lotti più vecchi e malsani. Domenico Zanella (1941) Questo quartiere come altri quartieri delle borgate romane, o dei borghetti romani, è nato dietro le mire della Roma imperiale fascista, demolendo le vecchie case dove abitavano questi, all’epoca quasi tutti artigiani, muratori, idraulici, che portati via dal loro habitat naturale che era Porta Metronia, la Navicella, Monte Caprino, via della Conciliazione e altri luoghi ancora, furono trasferiti con camion militari in questi lotti e altri quartieri ancora più brutti di Tiburtino... a Pietralata c’erano per esempio le famose casette di sette lire, in cui avevano una cabina di un metro quadro, non lo chiamiamo bagno, in comune per varie casette, e poi parliamo di epatite, parliamo di tubercolosi… e pure quelle furono demolite dopo il ‘56, insomma non è che furono demolite poi tanto presto… Fu costruito all’epoca San Basilio, Tiburtino III, Pietralata, Ponte Mammolo, successivamente INA casa, poi c’era il Borghetto Gordiani, Borghetto Prenestino, che furono demoliti nel ‘77... Borghetto 98
Gordiani, mica ‘na cosa da niente insomma, voglio di’, bagni in comune, senza fognature, senza niente, era questo… E quindi questa gente fu trasportata qua in queste case… e moltissimi persero il lavoro… Amelia Mancini, nata nel 1932, ha vissuto alla vaccheria Nardi, dall’età di pochi mesi fino ai vent’anni circa quando si è sposata ed è andata a vivere al lotto X. E’quindi arrivata a Tiburtino prima che Tiburtino esistesse. Amelia Mancini. Eh, comunque, niente, Tiburtino l’ho visto veni’ su, sia quann’ero ragazzina che man mano fabbricaveno perché poi c’era il I°, II° e III° lotto, poi man mano che veniveno, i lotti appresso, quelli me li ricordo tutti bene. Su lotto VIII, VII° lotto, ereno tutti olivi, e io me ricordo che se raccojeeno le olive, me ricordo i bariletti d’olive sotto a ‘a finestra co l’acqua che mamma metteva a fa’ ‘ste olive. E lì quell’artri l’ho visti cresce’ e fabbricalli, diciamo, fino giù al XIV° lotto dove abitavamo noi. Ma i primi tre lotti me li ricordo poco, so’ stati fatti nel trentatré, er periodo che semo venuti noi… Ereno tutti de Porta Metronia, mentre ‘nvece su quelli dei palazzi che so’ venuti dopo, dove stavamo noi, ereno i sfollati de San Lorenzo, veniveno da San Lorenzo, da Pietralata, si. I primi ‘i chiamaveno i sfrattati de Porta Metronia. Perché Mussolini, non so che dovea fa’, dovea anda’ al Celio, non lo so, ‘nsomma da que’e parti, lì l’ha mandati tutti a Pietralata e a Tiburtino. Je fece que’e casette da sette lire … Ornella Boncompagni (1927) . Solamente ‘a tazza, e un lavandino piccolo, noi se ci volevamo fa’ il bagno se lavavamo dentro ar bagnapiede. Perché non c’era niente. (Nella casa di porta Metronia) c’era tutto, e difatti Mussolini l’ha fatte per quelli impiegati, a noi cià mandato via… a Tiburtino III che ‘ste case ereno fatte per dieci anni, e invece ce semo stati quarant’anni. Sei figli, poi c’era mi’ nonna, mi’ padre e mi’ madre, eh. Maria Lattanzi (1935). Il lavandino e il water, e basta, poi mia madre te comprava ‘a bacinella, allora una a te, una tu’ sorella, e questa è ‘a mia, guai a voi se toccate quella… ognuno doveva ave’ ‘a bacinella sua, questo è l’asciugamano tuo e te ce metteva le iniziali lei, le crocette col filo rosso te metteva, guai se te toccaveno un asciugamanetto de mi’ sorella oppure mi’ sorella er mio, che scherzi? succedeva ‘a guerra. Mia madre per correttezza, per igiene, ognuno doveva avere l’asciugamanetto suo, i maschi uguale, ognuno l’asciugamano suo. La bacinella loro ce l’avevano una in comune, erano tutti maschi. Osvalda Screponi 1935. E niente, dopo siamo venuti qua (dalle baracche di via Nomentana), cianno dato una casa ugualmente piccola, però bene o male c’era dentro il bagno, c’era la cucinina per cucinare, c’ereno ‘nsomma più comodità. Era una camera e mezza diciamo. Eravamo nove persone, sette figli, mamma e papà nove, poi dopo so’ venuti loro. Mi ricordo ‘sta casa che avevamo qui al V° lotto che era uguale piccola, e dormivamo tutti ammucchiati, e se volevamo girà pe’ ‘a stanza, la mezza stanza, dovevamo mette le sedie attaccate al muro coi chiodi perché sinno nun camminavamo. Se cucinava col carbone ancora, non c’era gas, non c’era metano, niente, e dopo fatto pure ‘sto luogo qui del V° lotto, cianno mandato a ‘na casa più grande che sarebbe stato il lotto IX, il Palazzone, chiamato il Palazzone. Primo Morri (1921).Le camere da letto erano quattro per quattro, più ‘na cameretta poco più grande della cucina. I maschi, tre, dormivano in camera da letto con i genitori; la femmina nella cameretta, la cucina piccola e il «bagno» (solo il water). Il bagno si faceva con la bagnarola. Giuseppa Cassone (1925). … allora la cucina, fatte conto, era come il bagno mio, ma un angolo de ‘sta cucina era adibita a bagno. Zia Ida era grossa, era centoventi chili, ma poi era grossa di tutto, de personale, allora é entrata nel bagno perché la porta si apriva all’interno ma non é riuscita a usci’, é toccato sega’ la porta, questo per di che case ciavevamo... il famoso Mussolini. AntonioMorri (1947). Eh, le condizioni dell’alloggio erano molto precarie, in quanto c’erano una camera da letto dove c’erano i genitori e mia sorella più piccola che dormiva con loro in un lettino, e io dormivo nella camera da pranzo, con un mobile letto, e di fronte a me c’era la cucina. Quindi praticamente ero sottoposto al via vai continuo… non potevo andare a dormire la sera fino a che c’era gente per casa, perché dovendo tira’ giù il mobile letto non si poteva. Ho passato gli anni della mia infanzia in una perenne discussione politica, in quanto papà era socialista di Nenni, faceva parte della segreteria della sezione del Partito Socialista di Tiburtino III e a casa nostra c’erano riunioni continue, che non si facevano nelle sezioni di Tiburtino, perché c’era il discorso dell’ingresso o no del Partito Socialista nel famoso centrosinistra, all’inizio degli anni ‘60, e quindi c’era tutta questa discussione e io ho passato serate ad aspettare che andassero tutti via per poter poi andare a letto… 99
Marisa Marcellino (1938).Quindi vennero in queste case che erano ghetto, sei persone in una camera. Mamma, papà, io e i miei fratelli. Quattro figli. Un gabinetto, che se mamma fosse stata cicciona non ci sarebbe entrata, con un lavandino piccolissimo, il water e non c’era altro. Allora si usavano le concoline per farci il bidet, e le bagnarole per farci il bagno. Mamma riempiva il fiasco del vino, invece del vino l’acqua calda e ci metteva uno alla volta dentro alle bagnarole e poi con il fiasco ci faceva la doccia. Vabbe’ per noi era normale perché non conoscevamo altre cose e siamo cresciuti in questo modo. La tendopoli E io so’ andata nel ‘47 e c’era la tendopoli… tutte tende, perché non c’erano finestre… con le tende, perché non erano finite le case. Questa povera gente sono entrati dentro… io stavo a via Trivento... il lotto XVI, il lotto XV, il lotto XIII… (intervista anonima) La tendopoli sono le case la cui costruzione era iniziata durante la guerra e che, non finite, furono prima assegnate agli sfollati di Cassino e a chi aveva perso la casa nei bombardamenti di San Lorenzo, poi occupate da cittadini di varia provenienza. Maria Evangelista approda a Tiburtino III da Ferrara, ma è nata a Cassino.
Maria Evangelista (1916). Io a Tiburtino me so’ trovata che un signore m’aveva trovato questa casa e noi semo venuti a abitarci che ‘n ciave’amo niente niente, ave’amo perso tutto alla guerra. Non c’erano né porte qui, erano solo i muri. Non erano finite, non c’erano nemmeno i pavimenti, pensa un po’. Allora io ho portato una porta, un portoncino da casa, dalla stazione Tiburtina fino a qua, sulla testa, per metterla. Ho fatto tanti sacrifici, proprio tanti tanti, signora mia. Domenico Zanella (1941). Nel 1944 siamo venuti ad abitare in queste case ch’erano state assegnate agli sfollati di Cassino… queste case rimasero un pochino sfitte e i miei genitori con altri genitori vennero a occupare queste case che in realtà non erano neppure terminate, cioè non c’erano le fognature, non c’era la luce, non c’erano neanche le finestre, non c’era nulla. Mi ricordo che le fognature le facevano i miei, mio padre con altri genitori... la sera, usciti dai cantieri, si mettevano con la pala e il piccone a scavare fino alla Marana, che c’era qua a via Grotte di Gregna.... Io avevo tre anni, sono di una famiglia di cinque figli, quindi una famiglia media per allora, oggi sarebbe una famiglia ultranumerosa... E quindi siamo venuti qua, mio padre seguitava a fare il suo lavoro lì con il bestiame, con le vacche, con mio nonno... era vicino, dalla Tiburtina a Boccaleone sono pochissimi... circa un chilometro... poi si passava attraverso i campi, si diceva «passare tronco quarti», i quarti erano gli appezzamenti di terreno. Anna Antonini (1942). Dieci figli. Poi c’erano nonna, nonno, insomma eravamo quattordici persone. Io so’ settima. Dopo sei maschi. E niente, quello me lo ricordo bene, me ricordo quando siamo venuti a abita’ a Tiburtino… e che c’era un cantiere, ma io ciavevo due anni però. Me ricordo come un sogno. Perché veramente avevamo fatto l’occupazione al lotto XVI e stavano a fini’ ‘ste case. E niente, me ricordo che le finestre non c’erano, non c’era niente. Non c’era il bagno, niente, e io ciavevo il terrore de ‘sto buco, quello me lo ricordo bene. Che non volevo fare le cose là dentro insomma. Però... io so’ stata bene, venivano tutti quanti a casa mia a balla’, perché papà era contento che se facevano ‘ste feste a casa mia, perché non s’andava in giro capito? Perché lui ciaveva il terrore dei figli, dei maschi che potessero diventa’ delinquenti, perché ancora diciamo la delinquenza c’era, mica che non c’era. E allora lui era innamorato de fa’ ‘ste feste a casa, noi per Natale eravamo venti, trenta persone… Lo scantinato Maria e Pina Pala (1936 e 1947) Maria. Aspe’, però a noi Mussolini ci ha dato casa perché eravamo una famiglia numerosa, eravamo nove figli eh, e ci ha dato ‘sta casa da tre camere e abbiamo vissuto là fino a che… lotto X, però stavamo allo scantinato, ciaveva dato perché eravamo tanti figli, forse ciavevano paura che se buttavamo de sotto… Regina. No, è vero, una volta a Tiburtino III c’erano parecchi scantinati, cioè… erano regolari, case regolari, fatte sottoterra, ciavevano il finestrone a livello de ‘a strada Maria. Io me ‘o ricordo: là dove abitavamo noi, no, al primo piano dove stava ‘a toscana, c’era il Fascio, c’era ‘a sezione del Fascio, proprio nella scala nostra, e, poi quann’è annato giù il Fascio quell’appartamento s’era liberato... allora gli avevano detto a mamma «Prendelo te,prendelo te, tanto ‘n 100
te fanno niente, co’ tutti i fiji», e mi’ madre nun c’è andata perché ciaveva paura… Pina. Che gliela toglievano. Maria. … c’è andata un’altra famiglia e poi c’è rimasta. Paola Spano. Ma tu te lo ricordi quando è morto tuo padre? Maria. Si, è morto forse che ciavevo dieci anni... E’ morto all’improvviso, in due ore è morto, ‘n’infarto. Si, perché s’eravamo allagati, no, sotto... ogni tanto ce s’allagava, s’atturaveno ‘e fogne e veniva su l’acqua da... Pina. L’acqua veniva dal water, capito? Maria. Eh, era sporca.! Allora lui quel giorno se vede che se ‘o sentiva, ‘n’ha voluto anda’ a lavora’ p’aiuta’ noi, a mi’ sorelle e mi’ madre insomma. Invece, quand’è stata ‘a sera s’è ‘nteso male e allora mia madre ha chiamato ‘sta signora, ‘sta commare Cristina che ciabitava proprio di fronte e j’ha detto «Corri, corri, che mio marito sta male» Insomma, vabbe’ è venuta, j’hanno fatto du’punture ma ‘n c’è stato niente da fa’. L’invasione dei rospi Regina Bruschi Polidori. … ‘n anno ce fu un’invasione de rospi... Sandra Fortuna. De rane. Nadia Gallo. Rospetti erano. Regina. Perché… avevano fatto il cantiere dell’autostrada, hanno chiuso tutte quelle fosse che usavano eh... si vede che hanno fatto un botto de uova ‘sti rospi, c’è stata un’invasione pe’ Tiburtino, ma siamo andati pure sul giornale, cioè tu camminavi, ne schiacciavi cinquanta ogni volta... Ma non ve lo ricordate? Oh, ma ce cadevi sopra, eh! Ma che anno era? Regina. Ma sarà stato il settantatre, settantaquattro Sandra. Guarda, io me ricordo ch’ero piccola e ho riempito la vasca del bagno di mia madre, io e mio fratello, perché n’abbiamo raccolti ‘na busta... Regina. No, era invaso! E’stata una cosa, una cosa eccezionale, cioè ‘sti rospi pe’ Tiburtino, era pieno, tu vedevi tutto nero, tutti ‘sti rospetti che zompettavano… Sandra. Perché poi mi ricordo che, quando pioveva, uscivano proprio da ‘e fogne... Regina. No, da ‘e fogne uscivano proprio i topolini… li vedevi... Sandra. Si, ma l’anno pure i rospetti... Paola Padella. Ma comunque Tiburtino cià avuto proprio un problema di fognature perchè quando anche si allagava, mamma me racconta, quando... c’era il fiume che saliva, questo qua... l’Aniene, e veniva fuori... l’acqua arrivava fino ai caseggiati. Al Monte del Pecoraro, finestra e balcone. Pina Pala. Io adesso non abito più nella borgata, perché poi dopo hanno dato la casa a questi che staveno [nei seminterrati]. Perché, essendo la più piccola, stavo co’ mamma, abitavo co’ lei, dopo tre anni che mi so’ sposata cianno dato casa, cianno fatti abitare al Monte. Difatti, la prima volta, come so’ arrivata, me so’ affacciata a ‘a finestra. ‘N c’era nessuno, de pomeriggio, a persofiato, bello! Maria Lattanzi. Una camera e cucina, in nove con papà e mamma, nove persone datte una regolata Nadia. Io, quando cianno dato ‘ste case, ho toccato il cielo co’ le dita eh, me sembrava una reggia, io la notte giravo intorno «Ma che è casa mia questa?», sul balcone, ma chi se l’era mai sognato er barcone? annavo a vede’, mo’metto ‘e tende così, metto ‘e tende cosà, quante cose volevo fa’! Cambio casa Anna Antonini e Giulio Fortuna Anna. E niente stavamo a abita’ con mi’ socera, non so’ state giornate felici perché mi’ socera era cattiva, dopo tre anni non ce la facevo più. Eravamo cinque, e sei con me, e poi è nata Sandra. E niente, da lì dissi a lui che me ne volevo anda’, però non ciavevamo una lira. Perchè guadagnava poco… Giulio. Ciavevamo centocinquantamila lire. 101
Anna. Dunque io, talmente testarda, ho cercato una casa perché, pure se non ciavevo tanti soldi, volevo scappa’, si perché lui andava via la mattina e tornava la sera, chi stava a casa ero io. Niente, ce capito’ una casa al lotto XI, dice «… però questa vuole… settecentocinquantamila lire» insomma a fondo perduto e io ho detto «Mamma mia, come famo… » A lui non gli ho detto niente, ho detto «Vabbe’, andiamola a vede’» questa me fa’ «Guarda, tu però me devi da’ un acconto perché io ho preso casa sulla Tiburtina... » Io «Si, si, si… » vado a casa, pijo settantacinquemila lire e gliele porto. Le ho detto «Mo je posso da’ queste, poi, quando va via, finisco da darle i soldi» Però centocinquanta ce l’avevo, ce ne mancavano seicento… Mi’ suocero m’ha visto un po’… perché mi’ suocero, devo di’ la verità, è stato un pezzo di pane, buono, me fa «Ma che hai fatto? Te vedo un po’ triste… » E io «Ma veramente m’è capitata una casetta così e così… però non ciò tanti soldi… » «Non te preoccupa’, quanto te serve? » e io «Eh, me servono seicentomila lire… » «Vabbe’, mo’ vedemo... » Perché loro ciavevano una società, dentro al camposanto… e dice «Posso vede’ quanto te posso pren » de... lui è riuscito a piglia’ ducentocinquantamila lire, duecentocinquanta e centocinquanta, erano quattro! Allora dice «Gli dai ventimila lire al mese… » e io «Si si, non ve preoccupate, prendeteveli… » Poi sapevo che mio fratello doveva sposa’, dopo un anno o due, mi so’ raccomandata a lui, dico «Marce’, la situazione mia la sai… » «A me me servono così e così… » e lui me fa «Vabbe’, te li do, però me li devi rida’, perché me servono» «Certo, non te preoccupa’, quando è Natale te finisco da darti i soldi...» Io ho preso casa a Settembre e a Natale gli amo dato i soldi. Fatalità la sera che dovevamo entra’, questo era agitato, io pure ero agitata, me so’ presa ‘sti soldi, pare che portavo chissà che... l’avevo messi in petto, era sera... che poi ‘sta casa non te dico com’era… allora per me era una reggia… Ce stavano i fornelli a carbone no?... ecco era nera, nera, come i negozi del carbone! a me me sembrava tanto grande, ciaveva una cucinetta, c’era un bagno che era un metro per un metro, due camere e cucina, lotto XI... e insomma la sera questo qua ciaveva paura, dovevo fa’ il trasloco e m’ero messa d’accordo col portiere… fatalità mentre stavamo a scarica’, passa la polizia… Questo comincia «Hanno fatto una spiata, ce mandano via… » la paura era anche per i soldi che perdevi, invece è andato tutto bene... allora la sera, entra lui, c’era, dietro l’armadietto, figlia mia, i bacarozzi, grossi così… La sera mettemo ‘sta rete, ‘sto letto, ma chi ha dormito… sembrava la cavalleria. Però ero contenta. Ascolta, lui quando è entrato che ha chiuso la porta, c’era un catenaccio de ‘sta portata no? Tutto dentro l’ha mandato, ha cominciato a di’ «Ah, finalmente casa mia!» Poi dovevamo rida’ ‘sti soldi. Allora ha comiciato a fa’ le porte, a cottimo, tremila lire a porta.. Giulio. Dopo l’orario de lavoro facevo a cottimo, una porta a montarla col materiale del principale… duemilaottocento lire l’una, ne facevo quattro per sera. Fino alle nove, alle dieci. Una sera, ho tagliato centocinque quintali di lamiera in quattro ore. Con una macchina, però dopo non ce la facevo più a piega’ le gambe. So’ state lottate ‘ste case
La casa è il tema centrale della storia di Tiburtino III, le lotte per case più civili e dignitose attraversano circa un ventennio e conoscono diverse tappe. Ma nei racconti di chi le ha vissute queste lotte vengono confuse in un unico tempo, semplicemente passato. Il picchettaggio di cui racconta Ornella è verosimilmente degli anni Sessanta, l’occupazione «simbolica» degli anni Settanta e l’episodio dello smantellamento del campo di pallone si colloca nella seconda metà degli anni Settanta.
Amelia Mancini (1932). Ah, a Tiburtino, si,’mbeh, so’ state lottate ‘ste case, perché se parlava de ‘ste case, se ne parlava tanto, ma ‘ste case nun se vedeveno perché ‘a casa dove stavamo noi, oddio, c’ereno du’ belle stanze perché ereno belle grandi e tutto quanto, però nun c’era il bagno, nun c’era l’acqua calda, i termosifoni, nun c’era niente…’mbeh, tutti volevamo casa, perché non ereno condizioni… perché poi io stavo a ‘na casa ch’ereno l’ultime fatte, ma quelli che staveno proprio al primo Tiburtino ciavevano una camera sola che dovei passa’ da ‘a camera pe’ anna’ a la cucinetta e pe’ anda’ al bagno. Quindi era una camera sola che all’epoca poi, fiji ce n’ereno tanti, c’ereno sett’otto persone dentro una camera e cucina, e allora è logico che ‘sta casa è stata lottata proprio. Perché poi i primi… Tiburtino primo lotto, il secondo lotto, il III° lotto so’ andati al Monte del Pecoraro a abita’, poi in seguito su ‘st’area qui hanno fabbricato le case per noi però nun se trovava l’aria che finissero ‘ste case. ReginaBruschi Polidori. Te ricordi qualche particolare de ‘ste manifestazioni che se parlava…? 102
Amelia. Si, come no, sempre se faceano le manifestazioni, s’andava al Campidoglio, de sera a fa’ pure ‘e nottate. E me ricordo che… Regina. Quindi che succedeva, partivate tutte donne… ? Amelia. Tutte le donne si, ciandaveno tutte… Regina. T’hanno mai menato? Amelia. Eh, tante vorte ce so’ stati de i scontri… tant’è vero che noi a ‘n certo punto ave’amo pensato de mettesse dentro a ‘a borsa un barattolo de ‘a conserva perché… male che vada,’na botta de borsa, a ‘n certo punto te dovevi pure difende… Eh, finchè all’ultimo cianno dato, cianno assegnato… Marisa Marcellino Riccardo Russo. Quanto sono state importanti le donne per avere questi progressi? Marisa. Molto... molto, sai perché? ai pullman, cinque sei pullman che riuscivamo a riempire, eravamo soprattutto donne e c’erano pochi uomini con noi... a fare manifestazioni sotto alla Regione, alla Provincia, sotto al Campidoglio, sotto a Tor di Nona, appunto in tutte le battaglie, e gli uomini ce n’erano pochissimi, quindi la maggior parte delle lotte le ha fatte la donna. Riccardo. Nelle manifestazioni, però anche nella presenza, nella vita del quartiere, nello stare appresso alle cose...? Marisa. Sempre soprattutto le donne... gli uomini magari andavano al parco de L’Unità a fasse la partita a carte ,però eravamo noi donne che camminavamo. Riccardo. Poi ciavevate un sacco de figli... e com’erano, com’erano ‘ste donne, erano forti? Marisa. Io ne avevo soltanto due de figli, c’erano chi ne aveva solo due, ma c’erano chi ne aveva dieci, undici, dodici. Allora erano tanti figli. C’era una signora, mi ricordo, ventuno figli. Ventuno figli, sa che cosa vuol dire dare da mangiare a ventuno figli? Domenico Zanella 1941.Credo che Tiburtino III deve molto, anche in termini di ricostruzione del quartiere, deve molto a tutta questa battaglia e questa vitalità (di) Virgilio Speranza… che ha saputo aggregare centinaia e centinaia di persone, quanno che si facevano dei pullman per andare magari a protestare sotto Tor di Nona, si riempivano minimamente tre o quattro pullman, o lo stesso al Campidoglio. C’era poi la moglie Ornella, lei riusciva a gestire… soprattutto le mamme, le donne di questo quartiere... bastava che si metteva in mezzo a un lotto a urlare che scendevano tutti, si prendeva il pullman e si partiva… Lo smantellamento del campo di pallone Amelia Mancini. Regina Bruschi Polidori. Tiburtino de che partito era, grosso modo? Amelia. Ah, tutto comunista all’epoca Tiburtino era… Comunque cià aiutato pure tanto er parroco, Tarcisio, allora nun era parroco, perché c’era un campo da gioco che nun voleveno smontarlo… pe’ ‘sto campo da gioco non cominciavano mai a fabbrica’. Allora… de sera semo ‘ndati tutto Tiburtino lì co’ quattro e quattr’otto avemo smontato il ricinto, le porte del campo, amo arrotolato tutto e semo riusciti a porta’ via tutto quanto, hanno spianato e l’indomani hanno dovuto fabbrica’ … Regina. Ah, finchè c’era ‘sto campo, che stava a fianco a’a chiesa… Amelia. Finchè c’era ‘sto campo nun se cominciaveno i lavori, e così, d’accordo col prete, col frate, semo riusciti a sfascia’ tutt’er campo. Prima amo calcolato che passava ‘a sera er vigile… Regina. Quindi, ‘nsomma Tarcisio cià avuto un ruolo positivo, partecipava… Amelia. Si, si, cià aiutato pure, lui, come no! Infatti era proprio lui che sapeva il periodo quando passava la ronda, quelli del controllo. Ornella … perché c’era un campo di pallone, allora me telefona quello ch’era dentro de ‘amministrazione, Canullo, e me dice «Senti Orne’, domani mattina il campo de pallone deve anna’ via» era de i socialisti… eh, dico «Ce stanno pure ‘e docce, come fai?» Trentacinque donne, co’ qualche omo, mi’ marito ‘n’è potuto veni’, perché lui era stato operato a ‘na corda vocale, io con tutta trentanove de 103
febbre, e la Marcellino non c’era, che era del comitato di quartiere, né lei, né lui né Antoine… c’ero io. Trentacinque donne, amo buttato giù il campo del pallone. Tutto, j’amo buttato tutto. Quann’è stata ‘a mattina a ‘e cinque… Paola Spano. Ma perché l’avete buttato giù? Perché sinnò non poteveno costrui’. Allora ‘a mattina a ‘e cinque io ancora stavo pe’ strada… passa er segretario dei socialisti, Biddau, dice «Hai visto, cianno buttato il campo del pallone?» dico «Davvero? Non me ne so’ accorta!» Dice «Dai che sei stata te, me l’hanno detto» e dico «No, io nun so’ stata, vedi, sto male… » Ho fatto tutte le lotte. Giorgio Arezzi. Anche la parrocchia ha collaborato con il comitato di quartiere. Specialmente dopo la gestione dei frati e quindi la parrocchia è tornata ai preti, ci fu il primo parroco, era Jean Rochelle, lui partecipava a tutte le iniziative che si facevano tramite il comitato di quartiere, i pullman al Campidoglio per sollecitare l’assegnazione delle case, e lui era sempre presente. Ricordo anche don Pino, che è stato il parroco che è succeduto a don Jean Rochelle, lui pure a richiesta partecipava e soprattutto quando il comitato di quartiere invitava i tiburtinesi che spesso si dimenticavano che al locale c’era l’affitto e le bollette della luce da pagare… e quindi nell’occasione della richiesta annuale che noi facciamo ai tiburtinesi, per un piccolo contributo per sostenere le spese vive, don Pino faceva gli annunci anche in chiesa, così come don Jean, dicendo «Il comitato di quartiere ha bisogno del vostro contributo». Chiaramente il messaggio raggiungeva solamente chi praticava, ma anche quello serviva. Diciamo che ultimamente i tiburtinesi sono diventati un po’ taccagni su questa cosa, perchè spesso mettiamo gli avvisi ai portoni, oppure come quest’anno abbiamo fatto un volantinaggio nelle cassette della posta, però i risultati non è che siano stati eclatanti... Diciamo che forse la gente, dopo essersi sistemata nelle case nuove, ha perso un po’ la sensibilità su coloro che hanno reso possibile questo. Occupazioni e picchettaggio
Occupazioni di case: simboliche e di protesta contro la speculazione, per risolvere un problema familiare. Picchettaggi: per impedire che altri occupino le case già assegnate.
Ornella intervistata da Regina Bruschi Polidori e Paola Spano Regina. E le occupazioni Orne’? ‘E occupazioni l’amo fatte a Casal Bruciato… Tozzetti, no? ce disse «Tremila case» Noi amo fatto, tremila case se dovevano occupa’, perché la prefettura diceva che n’ c’ereno ‘e case e io ciò portato tutti i giovani, tutti co’ me venivano, me chiamaveno mamma. E allora quando che l’amo occupate ‘e case… ma belle, a Casal Bruciato. Ma belle case! Paola. Questo che anno era, il ‘66? No, dopo del ‘66, e amo occupato tremila alloggi, mi’ fijio, porello, aveva preso una casa, quattro camere e cucina. E dentro però ce n’era ‘n’altra… Paola. Un’altra famiglia? Si, mi’ marito che venne, me dice «Fa schifo ‘sta casa, troppo grande» Dico «Ma tanto mica ce ‘a lasciano» La mattina alle quattro io ancora giravo, perché, aho, io ciavevo una responsabilità, staveno tutte con me . Quando te vedo… tutti elmetti! Dico «Oddio!» Eh, la polizia, era pieno! allora chiamo Linda, dico «Linda, comincia a bussare alle porte. Falli arza’» Mica cianno aiutato a fa’ niente, i materazzi… io ‘n ciavevo niente, ‘n m’ero portata niente e tutti ‘sti giovanottelli l’ho fatti scappa’, perché ereno grandi, eh! allora quando me chiappa il commissario, dice «Tu saresti ‘a madre de tutti questi?» «Si, so’ ‘a nonna, ‘a zia, tutto» E cianno lasciato perde’, e semo venuti a casa. Paola. Però vi hanno cacciato dalle case. Si, subito. Regina. Ma erano case private? Private. Paola. Però non erano affittate. No. Regina. Diciamo che è stata un occupazione de protesta. ‘N ‘occupazione simbolica. 104
Paola. Qua le case, hai detto queste nel ‘74, ma ce n’erano già da prima? Dal ‘66. Pure queste ciavevano occupato, io ho fatto sette mesi de picchetto, eh! Paola. Ma chi le aveva occupate? L’altra gente, quelli che veniveno, e difatti qui ce so’ state tre ferite, perché era mezzanotte e dico: «Ma che ve n’annate già?» «Si, se ne annamo, se semo stufate...» perché era tra mezzanotte e l’una l’occupazione. Allora, io conoscevo il vice questore, io come gli telefonavo lui veniva. Co’ due minuti mannava via tutti. E noi telefonavamo a lui… però, poi dice che io dico male del partito... ciavevano chiuso pure ‘a sezione, de qui, de MarioAlicata, non ciavevamo un telefono... Allora io conoscevo el cantiere, me faceva telefona’ lui. Regina. E quando vedevi ‘e brutte chiamavi il vicequestore… Chiamavo quello. E qui, noi stavamo tutti qui, io lo chiamo il palazzo… Paola. Per difendervi da quelli che volevano occupare le vostre case.. Si, lì cominciavi a mena’. Paola. Ma le case, come facevano a occuparle se c’eravate voi? No, non ce stavamo dentro noi. Ancora ce le doveveno da’. Regina. E’ sempre un rischio quello delle case; anche adesso, l’ultima volta che hanno fatto le case, hanno dovuto tene’ sempre un po’ il cantiere aperto, un po’ gente che c’è rimasta ne ‘a tenda, perché c’è sempre rischio. L’altre parti sanno che ce so’ de ‘e case popolari lì che devono assegna’… Le occupano, perché magari sulla carta cianno diritto pure loro, magari pure loro stanno in lista… Beh! Guarda che io ho fatto pure ‘a denuncia alla prefettura che per esempio tu già ce l’avevi avuta e io te facevo nome e cognome, sai quante volte so’ venuti? Ce l’hai avuta tre volte, perché devi ripija’ casa? E gliela daveno. Regina. A un certo punto c’era ‘na specie de commercio. E allora que’a sera mi’ marito je disse «Perché annate via?» tutto un botto sentimo… tre persone, Domenica, Giulia e Silvana, Silvana ‘n’era mai venuta, era ‘a prima volta… sentimo una frenata, alla Tiburtina, sotto lì dove sta ‘a metropolitana, allora vie’ su uno, dice «Stanno tutte per terra» Semo iti giù, staveno tutte e tre per terra, una già era coperta dal lenzolo. Ih! Capirai! Invece questa era viva, e l’amo portate al pronto… e quello che l’ave’a investite se credeva che l’ave’a ammazzata, poi questo me braccicava perché io strillavo. Era ‘n carabiniere, era lui quello che l’aveva investite «Nun me ne so’ accorto, nun me ne so’ accorto!» Paola. Ma loro perché stavano in mezzo alla strada? Perché stavano a attraversa’, prima il semaforo ‘n c’era, eh! Da lì amo cominciato a lotta’ pel semaforo. Che voi fa’... la vita è una lotta pe’ me. Regina. Però ‘na bella vita hai fatto. Se non altro convinta, co’ soddisfazione. Tu dici «Ho tribolato», avrai anche tribolato però ciai avuto degli ideali, gli ideali ce l’hai sempre avuti, questa è una bella cosa. No, no, io sempre avuto, vedi, se a me me dicheno «Domani mattina c’è da sta ‘n mezzo alla strada» io me alzo….e si nun ce vado io, ‘n vengheno, eh. Devo comincia’… Come spiega qui Roberto Caretta, il Palazzone, una delle costruzioni meno antiche ma di migliore qualità del quartiere, doveva diventare sede di uffici dell’IACP. Però, non appena liberato dalle persone che ci abitavano per l’assegnazione di nuove case, fu occupato da abitanti di Tiburtino III. Tra loro Paola Padella che nel Palazzone è cresciuta, in un appartamento prima assegnato a sua nonna e poi passato ai suoi genitori che con la nonna convivevano. Paola, intervistata con il marito Stefano Liberati, ha raccontato quest’occupazione.
Senti ma il Palazzone, doveva essere distrutto, invece? Roberto Caretta. No, doveva rimanere, dovevano fare gli uffici dello IACP. Poi invece non è stato fatto, perché nel momento in cui sono usciti, sono stati occupati da persone di Tiburtino III, sempre persone di Tiburtino III, perché parliamo chiaro, quando vedevamo… come me che vivevo in coabitazione, eravamo due famiglie dentro a due camere, è normale ma non perché uno voleva occupa’, ma invece di farle occupare agli altri... era più preferibile che lo facevamo noi di Tiburtino III e so’ stati occupati da Tiburtino III, non da gente estranea. Paola Padella e Stefano Liberati intervistati da Paola Spano. 105
Paola. Quando ci siamo sposati abitavamo ‘n coabitazione co’ mamma. Po’ dopo siamo ‘ndati a Casal Bruciato, in affitto, che però appena sposati, du’ sordarelli che ciave’ano regalato, l’hanno voluti come bonuscita. Stefano. Eh, abbiamo fatt’i mobili, tutto quanto... Paola. Dop’un mese… ristavam’a casa de mamma, perché nun ce rinnovavano er contratto e quello ‘n ciave’a detto che dove’a usci’. Così abbiamo perso quei sordarelli e... e siamo ritornati da mamma. Poi dopo mio socero ce prese un buco a Quarticciolo. Stefano. ‘Na Casa... trentasei metri de casa. Io, lei e Agnese. Paola. E Valentina pure, dopo,eh! Quanto ci siete rimasti? due o tre anni? Stefano. Du’ anni. Poi abbiamo saputo che mandaveno via quelli che staveno a ‘abita’ qua, j’assegnaveno ‘e case nuove ch’avevano fatto… E allora avete occupato. Paola. E allora io so’ venuta qua, solo che qua ho dovuto pure mezzo un po’ discute’... perché qui già s’erano messe ‘n po’ tutte d’accordo pe’ occupa’ ‘sta casa… Stefano. ... come se andavano a un’agenzia e s’ereno comprate casa, a me quella, a me quella. A me m’hanno detto... so’ venuti a casa mia, che sapeveno che io stavo lì «Ah, abbiamo fatt’a riunione, a te te spetta questa qua al piano terra ». ‘Na camera senza ‘a cucina... Paola. Dico, io ciò già ‘n’occupazione là… Stefano. Da trentatre metri quadri che sto a occupa’, vengo qua pe’ famme venti metri de casa? senti, ‘occupazioni so’ ‘occupazioni, chi entra prima se ‘a pija... Paola. ‘Nvece qui ciabitava ‘na zia, cioè la sorella de una zia mia e quindi io so’ venuta qua, j’ho detto «Ah zi’, guarda, io devo entra’ qua... » ‘nfatti m’ha detto «Vabbe’, come esco io...» Io mi so’ messa qua... Stefano. Si, spetta, però mica era così... Paola. Era ‘na grotta... Poi eran’entrati gli operai... Stefano. Ave’ano sfondato tutt’i muri... Er bagno tutto sfondato, tutto, sanitari, tutto, muri. Qui ho levato ‘a parete perch’er muro era tutto calato giù, quest’era ‘a cucina, qui c’era ‘na porta... questa era ‘n’altra camera. Tutto sfonnato! Paola. E però i primi tempi a dormi’ io e lui, co’a bombola, co’a candela, ‘n mezzo a ‘e macerie… E le bambine? Paola. ‘E bambine, da mamma. Solo che poi papà nun era d’accordo co’ ‘sta cosa... Si, perché lui è ‘n tipo un po’, ‘nsomma che... mamma si, era d’accordo e ‘nfatti ha aiutato, ‘nvece lui così... Allora io j’ho detto «Io nun’a lascio, a me nun me ne frega niente, io da là ‘nun me ne vado» perché lui diceva «Tanto, ve butteno fori, st’a perde’ tempo… » qua, là... Stefano. E’ ‘n pessimista... Paola Allora, ‘nsomma, pe’ non dajela vinta, presi ‘e regazzine e le portai a casa de mi’ cognata, la sorella di Stefano. E mia cognata «Nun te preoccupa’, Pa’, che stanno da me... » ma Valentina ciaveva quattro mesi, era piccola, avevo appena smesso d’allattalla. E quant’è durata l’occupazione? Paola. Beh, quant’è stato? i mesi più brutti, tutt’inverno sicuramente… Stefano. Tutt’inverno io ho dormito sul divano qui sull’androne, sul divano tutto rotto, pieno de topi dentro, col foco al centro de ‘androne… Paola. Perché poi facevamo i turni, a fa’ i controlli... La polizia ha tentato di buttarvi fuori? Paola. So’ venuti... però so’ riandati via. Solo che , ecco, ogni tanto girava «Ah, stanotte hanno detto che vengono a sgombra’ » quindi dovevi sta’ a fa’ ‘e nottate, o te mettevi tutti dentro ‘n’appartamento... Ma, secondo te, come mai non v’hanno sgombrato? Stefano. Perché c’ereno troppi impicci… Paola. ‘N’hanno sgombrato, perché, come sempre, ogni volta ch’hanno dato ‘e case, hanno fatto i casini... Stefano. Ha preso casa chi no’ ‘a dove’a prende’... magara era parente di... era coso di... Paola. ... quindi, qui ha occupato gente che ciave’a veramente diritto alla casa co’ tanto de domanda e 106
tutto quanto... Io ave’o fatto domanda… Stefano. ... e rientrava pure a prende’ ‘e case nove... Paola. … e quindi, quando c’è stata ‘st’occupazione hanno lasciat’anda’, giustamente! E poi ve l’hanno assegnate, ufficialmente? Paola. Però abbiamo dovuto fa’ ‘na causa perchè ciaveano fatto ‘na denuncia de scasso, nominativa, a me, a lui, a ognuno… che però non era vero, perché, dico, ma che denuncia de scasso? Che avete rotto voi, avete sfasciat’i muri... ‘nfatti è ‘ndato tutto in tarallucci e vino... Ma adesso è assegnata a voi ? Come casa popolare? Paola e Stefano. Si si si. Quindi, mesi e mesi avete occupato, tutto l’inverno. E come facevate ad andare a lavorare? Paola. Eh... s’alzavamo, se lavavamo co’ l’acqua fredda... No, chi ci lasciavate qua? Paola. Beh, c’era sempre qualcuno. Si, se facevano i turni, chi magara lavorava de pomeriggio, chi je capitava... Stefano. Mi’ sorella pure... Paola. Po’ per esempio è successo che Valentina, ‘a prima notte ch’è rimasta a dormi’, o a seconda notte, da mia cognata, praticamente j’ave’a preso ‘n convulso a piange’ che nun azzittava con tutto ciò che c’era il padre. Quindi mi’ cognata all’una, co’ ‘sta regazzina de notte, quel periodo de’e nottate, porella, c’è stata lei... Che anno era, questo? Paola. Ottantanove. Però ce siamo divertiti, guarda... Ce siamo divertiti, perché talmente ‘l freddo, quello, quell’altro... a Natale ce siamo inventati... c’era questo ragazzo qua sotto, Enrico, ‘o conosci Enrico? Pierannunzi! Abita qui sotto da me! cioè abitava, mo’ s’è separato, [ci abita] la moglie coi figli, si. Eh, lui sona ‘a chitarra, no? E quindi lui, me ricordo que’a volta, se mette a sona’ ‘a chitarra e noi a canta’… poi abbiamo fatto ‘na specie de lotteria, eravam’andati tutto pe’ ‘e macerie, avevamo raccolto tutta monnezza, ‘na giacca...quello ch’ave’amo trovato... e facevamo tipo ‘na tombola, così. Ma ce siamo, guarda, a ride’, a ride’… Stefano. ‘E risate de ‘a disperazione… Paola. Perché poi eravamo tutti giovani, tutti coi ragazzini piccoli... quella più grande qua che ce po’ ave? cinquant’anni adesso forse, quindi era giovane. Poi tutti regazzini piccoli... La guerra dei poveri
E’ passato molto tempo da quando era Ornella a organizzare il picchettaggio (erano gli anni Sessanta e siamo ormai negli anni Ottanta) ma Roberto Caretta racconta una storia simile: la difesa di case, già assegnate in base al principio ormai affermato della demolizione-ricostruzione, ma ancora non abitabili. E Regina Bruschi Polidori e Sandra Fortuna raccontano «il terrore» di perdere la casa cui si ha diritto. Invece l’occupazione degli spogliatoi della piscina comunale, nonostante abbia sottratto al quartiere un servizio importante, non ha suscitato risentimento, forse perché a occupare erano famiglie amiche .
Roberto Caretta In quei periodi era la guerra, come dice Laura, dei poveri, perché tante volte cianno provato a occuparle... facevano le lotte, venivano da San Basilio… io lo capisco che pure loro... però pure noi, vivevamo dentro a case che sinceramente, dove stavo io, ciavevo umidità, il cassone dentro, ‘e finestre, quando soffiava un po’ de vento sembrava da sta’ in alto mare, sentivi proprio umidità tremenda. I termosifoni per esempio io non ce li avevo, perché allora quando uscirono i termosifoni mi’ suocero non se lo poteva permette’ perché se pagano... e senza termosifoni. E’ normale, facevo le lotte pure perché non volevo che mi occupassero questa parte, perché poi cominciavano a crescere i figli, è normale vedevo una parte quasi finita e io dovevo sta’ lì… Me ricordo c’era il po’ro mi socero che apriva sempre ‘a finestra, e c’erano le vasche da bagno, quelle che dovevano monta’, e lui le contava sempre, tu, tu, tu, tu.. e una mattina fa «A Robe’, io le vasche da bagno non le vedo più» E io «E che hanno occupato? » perché sai.. qualcuno è entrato.. s’erano portati via ‘e vasche da bagno, qualcuno stava a comincia’ a entra’ dentro, due persone occuparono in questa fase qua. Io me ricordo, vidi un movimento strano, vado su, salgo ‘ste scale, che ‘n c’era niente, solo scheletri… Me se presentano due bestioni così, me so’ fermato… «E che è successo qua?» e scendevo piano piano… mentre è, nella 107
notte avevano occupato. e gli stessi cittadini de Tiburtino III, io ancora me ricordo, facevamo nottate intere, nottate intere.... Mi ricordo, sapevamo che dovevamo anna’ via e... «Stai a butta’ l’armadio? Portalo giù!» e facevamo, d’inverno facevamo… perché il freddo era freddo… Regina Bruschi Polidori (1960) e Sandra Fortuna (1964) Regina. C’era il terrore, sempre stato il terrore, che te ‘e prendeva quarcun altro.. Paola Spano. Perché, non c’era una lista? Regina. C’era pure, ma erano tutte promesse, ogni volta c’erano ‘e promesse del momento... Sandra. Si, era anche quella una questione politica penso, perché a volte c’era una spartizione di queste case, no? quindi in realtà non c’era mai una cosa definitiva, insomma, infatti io me ricordo che mia madre aveva fatto già gli scatoloni, dovevamo traslocare, ma ancora non era sicuro... che ci mandavano via. Noi ci siamo trasferiti Ottanta, Ottantadue, non mi ricordo, Ottantadue, forse. E mi ricordo che soprattutto nel mio lotto c’è stato questo movimento perché veramente c’erano delle crepe nel muro, quindi so’ stati chiamati i vigili, l’Ufficio d’Igiene pe’ fa’ vede’ in che condizioni, e dentro casa era venuta tutta ‘sta gente a fa’ queste verifiche, poi in realtà forse avranno visto che la situazione sul serio era tragica e poi insommma, alla fine, ce l’abbiamo fatta e me ricordo, io, la prima impressione quando so’ entrata dentro ‘sta casa... non lo so, già il fatto di passa’ da i lotti bassi al settimo piano, ‘na casa così, grande, a me me sembrava enorme, perché in realtà insomma poi era vero che vivevamo in condizioni un po’ precarie. Me ricordo che loro hanno fatto tanto, anche queste lotte, l’hanno vissute loro, tutte ‘e donne, raccojevano le firme, andavano lì col pullman, lì sotto al Campidoglio a reclama’... Regina. Poi c’era il comitato de quartiere, sempre quello lì guidato da ‘a Marcellino... Sandra.. E devo di’ che lei, insomma, ne ha fatte di lotte anche qua, si. La piscina occupata Paola Spano.… tra l’altro non ho capito perché non hanno mai restaurato quella piscina… Varie voci. Adesso lo stanno facendo, adesso fanno i lavori. Regina. Perché anche quella era stata occupata, è stata occupata fino all’anno scorso che non hanno dato una nuova casa… ci vivevano…c’erano dentro le persone, dove c’erano gli spogliatoi… ‘N’amica nostra ciaveva sei, sette bagni… è vero… Nadia. Quando troppo, quando niente eh. Paola. E poi queste persone dove sono andate? Regina. Gli hanno dato casa, qui, a via Cortina. Sandra Fortuna. Un paio d’anni fa, no? (questa conversazione è del 2004, nel frattempo la piscina è stata restaurata e funziona) Primavalle e Settecamini…
All’inizio degli anni Sessanta vengono distrutti i primi lotti e assegnate nuove case, ma è di nuovo una specie di deportazione perché molti abitanti di Tiburtino finiscono a Primavalle o a Settecamini. Il trauma (tragedia addirittura, viene definito) di questo allontanamento e il senso di appartenenza al quartiere fanno nascere le lotte per l’affermazione del principio «demolizione-ricostruzione», lotte che ancor più rafforzeranno senso di appartenenza e identità collettiva del quartiere. Una prima volta si occupano i terreni del Monte del Pecoraro e qui vengono costruite e assegnate le nuove case, a poche centinaia di metri da Tiburtino III; a posteriori anche questa risulterà essere una separazione non irrilevante, benché non traumatica come le precedenti. A metà degli anni Settanta nuove lotte e tra il 1979 e il 1982, proprio negli anni in cui esplode la diffusione dell’eroina, vengono consegnate le nuove case di via Mozart e dintorni; i problemi di questa seconda fase di demolizionericostruzione sono esposti nel capitolo Tra progetto e realtà.
Antonio Morri, 1947. Dove secondo me ci sono stati grossi problemi è stato nel trasferimento di quei lotti di Tiburtino III a Primavalle, dove si sono trovati in una situazione veramente… nel ‘68, ‘69, perché praticamente le case di Monte del Pecoraro non erano sufficienti a trasferirci tutte le persone dei lotti che erano stati abbattuti a Tiburtino, e quindi una parte furono trasferiti a Primavalle e sono andati a finire, secondo me, in un quartiere ancora più degradato di Tiburtino III. 108
Giancarlo Carbonara, 1947. Sono andati al famoso Monte del Pecoraro, Pietralata, e i primi lotti, diciamo lotto I°, lotto…, poi questi di fronte, lotto IV°, lotto V°, lotto VI°, chi a Primavalle , chi al Trullo, era si, per quella famiglia era una tragedia anna’ via da Tiburtino. Marisa Marcellino). …avevano saputo… che demolendo lotto per lotto, avrebbero venduto il terreno, per far costruire ai privati. Allora la gente di Tiburtino, mano a mano che buttavano i lotti, mandavano chi al Trullo, chi a Settecamini, chi a Primavalle… cioè stavano rifacendo quello che fece Mussolini nel 1936, lo smembramento, e quindi con le nostre forze e con le nostre lotte della DC, di tutti quanti perché era un gruppo affiatato che lavoravamo, siamo riusciti non solo a non far vendere a privati, ma a far ricostruire sullo stesso terreno le case dei cittadini. Nel racconto che segue le due fasi delle lotta per la demolizione-ricostruzione sono fuse in un fatto unico, ma il grande comitato di quartiere unitario è quello della seconda metà degli anni Settanta
Domenico Zanella (1941)…e in questo passaggio di anni c’è stata la demolizione e la ricostruzione del quartiere. La sezione del Partito Comunista Italiano ha portato avanti questa battaglia con la conquista delle terre del Monte del Pecoraro, perché c’era anche qua la logica ancora dell’emigrazione, quello che è successo nel ‘35,’36 da Porta Metronia, da ‘a Navicella, da Monte Caprino, c’era quella logica di mandare all’Albuccione, di mandare a Settecamini, di mandare a Ostia e a Primavalle. Ci fu una grande battaglia, occupammo le terre del Monte del Pecoraro... nel ‘56, ‘57, ‘58... grosso modo ‘58, diciamo che all’epoca era credo Leo Canullo presidente della Camera del Lavoro... credo, ma c’era Edoardo D’Onofrio, c’era Aldo Tozzetti, uno che sulle case ha lavorato tantissimo, tutta gente che ora non c’è più… e occupammo quelle terre e le facemmo passare nella 865, credo che si chiamava così la legge dell’edilizia residenziale pubblica che poi fu applicata per le cooperative e altro. E quindi impegnammo lo IACP, all’epoca si chiamava ICP, era andata via la A, non era più autonomo, era Istituto Case Popolari, a costruire e quindi a demolire e assegnare le case al di là della via Tiburtina, cioè ci divideva poche centinaia di metri da dove eravamo stanziali, e tutta questa grande battaglia della demolizione ricostruzione, io l’ho vissuta insieme ad altri... l’epoca ch’ero ragazzino è l’occupazione delle terre... no, quando ci fu la demolizione qua ero già segretario, ero nel Comitato di quartiere, nel grande comitato di quartiere unitario che avevamo promosso qua insieme con tutte le forze politiche e sociali... Ce stavano le ACLI, i socialdemocratici, i socialisti, c’eravamo noi comunisti, diciamo che c’era la democrazia cristiana con due ottimi rappresentanti... e abbiamo lavorato unitariamente molto bene, perché quando che la cosa si fa in una maniera unitaria si ottengono anche meglio le cose e il merito va tutto quanto al quartiere, a tutte quante le forze politiche e sociali che hanno lavorato... certo qualcuno ha fatto un pochino di più, tipo il Partito Comunista Italiano, e qualcuno ha fatto magari un pochino di meno, però tutti quanti abbiamo lavorato in maniera coesa... e... trasferire oltre seicento famiglie non è cosa facile… Ivano Caradonna rivendica la scelta della demolizione-ricostruzione e il fatto che quindi nessuno sia stato più sradicato, ma ritiene una manfestazione di «padanismo» la pretesa che i figli di Tiburtino abbiano comunque la precedenza nell’assegnazione delle case nel quartiere.
Ivano Caradonna 1954 Io sono orgoglioso di essere nato in questa borgata la cui ricostruzione è stata una ricostruzione particolare, perché si adottò il criterio della demolizione-ricostruzione, non come è avvenuto in tanti altri casi, in cui si demolivano degli edifici e le persone andavano ramenghe in altre parti della città, gente che è andata ad Ostia e non soltanto. Tiburtino III ha avuto questa fortuna, grazie alle lotte ma anche credo a una scelta dell’epoca, quella di demolire e ricostruire nello stesso luogo; in particolare una fautrice di questa tecnica è l’architetto Ilaria Gatti, architetto con l’ATER di Roma, ex IACP. Era una scelta importante, perché consentiva alle famiglie di rimanere nel proprio territorio, c’era un problema di pianificazione e di organizzazione di questo processo, però ne valeva la pena perché nessuno è stato sradicato. C’è stata una parte negativa e l’abbiamo riscontrata negli ultimi trasferimenti, quella di dire «edifici nuovi che si realizzano nel quartiere debbono essere utilizzati dagli abitanti di Tiburtino III, se non i genitori, se non i padri e i nonni, ma i figli»… quindi nelle persone di Tiburtino III, una specie di «padanismo» locale e questo non poteva essere, la demolizionericostruzione teneva a mettere insieme e a mantenere la storia, la socializzazione che c’erano, una 109
continuità di tipo generazionale legata alle lotte, però l’assunto che i figli fossero dei figli privilegiati rispetto a un tema e a un dramma che è quello della casa era inaccettabile culturalmente e siccome per quanto mi riguarda sono una persona molto schietta, mi sono dichiarato contrario a questa occupazione. Ma poi le dinamiche della politica e dei partiti hanno determinato una presenza particolarmente forte di… all’epoca di Alleanza Nazionale, ma in particolare di Storace…
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6. Tiburtino com’era Tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, Giorgio Zama aveva partecipato alla progettazione e seguito la costruzione delle «nuove case di via Mozart». Nel febbraio 2006 è tornato a Tiburtino III per essere intervistato, e sono queste le prime parole che ci ha detto, mentre cominciava a guardarsi intorno.
Giorgio Zama (1928). Qui mancano i ragazzini… Mi mancano i ragazzini, si vede che so’ andati da qualche altra parte… a quell’epoca c’erano più ragazzini e meno negozi… insomma il calo delle nascite a quell’epoca già c’era, ma non era al punto di chiudere le scuole… Ci sono pochi ragazzini anche negli altri quartieri, è una perdita comune a tutti, ma Giorgio Zama ritrova Tiburtino dopo venticinque anni, e l’effetto deve essere quello di chi incontra in età matura un compagno di scuola perso di vista: la trasformazione che non è stata vissuta gradualmente ha un impatto più forte. Anche da altri intervistati il cambiamento ci è stato raccontato come negativo; per qualcun’altro, invece, «è meglio l’attuale». Per quasi tutti, comunque, la geografia dei vecchi lotti scomparsi è un sistema di riferimento ancora oggi. La nostalgia che sempre accompagna i ricordi della giovinezza si confonde in loro con il rimpianto della socialità solidale di un tempo, quella di una generazione combattiva e vitale: combattiva per necessità ma anche per speranza, vitale anche perché numerosa. Una generazione che però, secondo Marisa Marcellino, non ha saputo trasmettere la propria esperienza.
Marisa Marcellino. Se tu vai a vedere, i padri che hanno lottato anche loro insieme a noi, le mamme, non è che fanno i racconti ai figli, ai nipoti eccetera... Le memorie, queste memorie, sono più che valide, se i genitori di allora avessero raccontato tutto quello che hanno fatto nella loro vita, io penso che anche i giovani avrebbero maturato diversamente... .. Io se chiudo l’occhi Amelia Mancini (1932). Io se chiudo l’occhi vedo Tiburtino vecchio, perché… se devo paragona’ i palazzoni d’adesso tutti grigi a Tiburtino de ‘na vorta, lo vedevo luminoso, vedevo er sole, me sembra più bello ecco. Io, quando chiudo l’occhi, me rivedo Tiburtino com’era allora. E in piazza c’era la piazza coperta, solo coperta, no chiusa proprio, e c’erano le fontanelle che quann’era estate ce giocavamo a anda’ riempi’ i bidoni pe’ gioca’, tirasse l’acqua. E c’erano i banchi, in piazza che ce staveno sempre, pure ‘a sera de Natale fino a mezzanotte i banchi ancora staveno aperti… Si, era ‘n quartiere vivo Tiburtino, e poi bello perché ‘a gente stava tutta in mezzo a ‘a strada; ‘a televisione nun c’era… quann’era l’estate se faceano le due de notte sotto i lampioni, a gioca’… La mentalità de ‘a gente d’allora era… la gente che ciaveva le case aperte, co ‘a cordicella perché ognuno entrava e usciva come je sembrava, nun c’era quello che ce sta’ adesso, ch’ognuno se chiude dentro casa, se po’ di’ che nun c’è più neanche er saluto, ‘nvece prima, diciamo, se domandavamo «Che fai tu oggi da mangia’?» L’unica cosa che me ricordo ecco, che la borgata era bella, che poi le case erano quelle che erano, però diciamo che c’era gente che le sapevano tene’, poi c’era tanta de quella pulizia… era tutta un’altra cosa. Regina Bruschi Polidori. Era tutto de Scarpitti... Scarpitti è il padrone de tutti ‘sti terreni, qui il padrone era Gianni, Gianni Anacleto e Scarpitti, c’è ancora il casale lì de Scarpitti, vecchio, restaurato, nascosto, ma c’è ancora… quello che sta tra que’e due torrone... Nadia Gallo. Si, c’era ‘na trattoria... Paola Padella. Si, si, c’era una trattoria, ce so’ andata a balla’ io... Regina. Eh, non lo so, però quello era il casale, noi quand’eravamo piccoli, era pieno de mucche, era proprio un casale, bellissimo, ora se io chiudo gli occhi vedo i recinti, le mucche al pascolo, uscivano dalla vaccheria verso la Collatina. Era tutto in discesa, ‘sto giallo per terra, poi attraversavano via Grotta de Gregna e andavano all’altro prato dove adesso è Colli Aniene... Elsa Cedroni (1928). Ricordallo com’era prima, era un quartiere un po’ degradato, un ber po’ degradato… a Tiburtino III era bello, sa che cosa? quella via alberata piena de scarpette che da la via Tiburtina arrivava fino su a Boccaleone e sembrava tutta una grotta de fiori quando era il periodo de ‘ste scarpette… poi in tempo de guerra hanno segato tutti l’alberi pe’ fa’ il foco… d’estate era un 111
profumo che non glie dico... Adesso nun lo vedo bene neanche adesso... tutte quelle case scure color cemento lì a Tiburtino che me fanno quasi paura, je devo di’ ‘a verità, tutto quel grigiore così te mette tristezza.... forse era mejo prima, c’era più aria, più sole... ‘e case ereno basse, no’ ‘o so... Marisa Morelli (1932). Però te devo dì... io me so affezionata a sto’ quartiere, però me piaceva prima! Adesso no... prima c’erano le casette basse, c’era la strada in mezzo, de qua, de là… via del Badile e c’era di tutto... negozi, frutterie, pizzicaroli e... pure l’osteria che a me non me serviva però intanto c’era. E insomma… le uniche case vecchie so’ rimaste queste, perché queste so’ le ultime che hanno fatto in questa zona che poi queste non so’ dell’Istituto ma erano del Genio Civile, queste so’ cose che me diceva mamma, mi’ suocera. Queste non l’hanno buttate giù ma le devono rimette a posto e so’ rimaste così… (Marisa Morelli parla del lotto XVII) Il lotto dei signori Antonio Morri(1947) Sì, la parte centrale è quella più nuova, quello che è rimasta di Tiburtino III è tutta roba che è stata costruita dopo Mussolini… dove ci sono le suore, hanno fatto i primi palazzoni a Tiburtino III, quelli a cinque piani… il lotto XVII, «il lotto dei signori» noi lo chiamavamo, c’è ancora, perché praticamente è il lotto dove erano presenti i primi bagni con il bidet, dove sul terrazzo c’era la vasca per lavare i panni, furono i primi palazzi vivibili di Tiburtino III (Antonio Morri 1947). Giuseppe Moscheni (padre Tarcisio). … e mi ricordo anche che il lotto XVII noi lo chiamavamo il Parioli del Tiburtino III, invece oggi sono diventati dei palazzi fatiscenti, stanno ristrutturando; era il quartiere alto quello… Alessandra Giacinti (1979) ... comunque quelli, il lotto XVII, sono gli unici palazzi che sono ancora rimasti con l’intonaco originale, che hanno un po’ questo colore aran... mattone, perché per il resto, le stanno tutte ristrutturando, anche queste qui davanti le hanno ristrutturate e quei palazzi a fianco sulla sinistra che hanno questo tetto a cuspide li hanno completamente ricoperti con questi mattoncini a cortina. Non so se anche quei palazzi li copriranno allo stesso modo e se così fosse, poi finirà... non ci sarà più niente che ricordi il vecchio Tiburtino III, comunque va bene. Domenico Zanella (1941). Lotto XV, era un lotto molto bello, in mezzo al lotto ci stava molto verde, molti alberi; erano case di tre piani, il pianoterra più tre piani… erano case fatte tutte tradizionali, con i muri che partivano da cento centimetri al piano terra e arrivavano a settanta centimetri al quarto piano, tutto muro romano, pavimenti tutto quanto in veneziano... molto molto bello...erano case belle insomma... Anonima( 1926) . Demolite, signora mia... è stato un vandalismo… erano proprio case de muro, muri antichi ma grossi, grossi che non si sentiva né caldo né freddo. E l’hanno buttati giù. Io ciavevo una figlia che ciaveva tre camere, una casa signorile che solo i pavimenti... I vigili… perché io ciavevo il negozio, dice «Signora..fate una sommossa, occupate le case!» «E io vado a occupa’ le case? Ditelo alla gente!» e c’è andata la gente a occupa’ le case, però qui c’era un partito che l’ha fatte butta’ tutte giù, l’ha fatti tutti caccia’ via. E hanno preso una macchina, con una gru, con un coso che faceva bobobom, per butta’ giù ste case… I pianti! mamma mia, quanto ho pianto! La piscina Roberto Caretta(1953). La piscina, la nostra ex piscina dove da bambini, da ragazzini... era la piscina più bella… sinceramente più bella d’Italia, era una piscina favolosa. Noi d’estate andavamo lì, perché oltretutto avevamo una grande pineta, dietro la piscina, la più bella pineta di tutta Roma. Poi, mano mano... la piscina l’hanno cominciata a occupa’, s’era un po’ isolata, invece adesso, grazie al V municipio, al Tiburtino III abbiamo riportato la piscina. E penso che durante l’anno riaprira’, così avremo il nostro mare d’estate. Le fontane Antonio Morri. C’erano le fontane, in mezzo, ogni lotto aveva le sue fontane: un locale chiuso con le fontane sia sulla sinistra che sulla destra e poi all’interno del lotto c’erano anche i fili per poter stendere. 112
Praticamente il lotto come era costruito: era costruito dai palazzi che facevano quadrato e, all’interno, c’era la cabina elettrica, lo stenditoio, tutti i pali con i fili per poter stendere i panni, poi c’era una parte di cortile più grande dove noi giocavamo, facevamo le partite, e il lavatoio. Giuseppa Cassone(1925). … al V° lotto era fatto così: due strisce in mezzo al cortile erano gli stenditoi e in fondo c’erano le fontane, allora noi per prendere il posto alle fontane, perché noi eravamo otto palazzine, di otto famiglie, quattro sotto e quattro sopra (sessantaquattro famiglie), le fontane erano dieci, dodici, allora per prendere la fontana bisognava andare alle quattro, le quattro e trenta la mattina mettevamo un pezzetto di stoffa al cancelletto, a modo di segno, perché le fontane a quell’ora erano chiuse. E poi per stendere era la stessa cosa, perché gli stenditoi erano pochi e perciò dovevamo aspettare che si asciugassero le cose e poi stendere le altre. Chi apriva le fontane? Giuseppa. C’era il portiere dell’istituto, a quell’epoca c’era il portiere. Ci sono ancora le fontane? Paola Padella (1964). No, le fontane l’hanno tolte, si... mi ricordo, mamma scendeva presto, se doveva lavare i panni, scendeva presto e metteva un pezzettino di stoffa, il segno, sopra la fontana che voleva dire che era occupata. Si, poi quando finiva di lavare lo toglieva e se un altra persona voleva andare… però capitava anche che, se andavi tardi, trovavi tutte le fontane occupate, eh, tutti i pezzetti de stoffa sulle fontane... Sandra Fortuna (1964). Oppure la scatola del sapone, tante volte ce lasciavano, un segno... La salitella del Monte e il mercato coperto Nadia Gallo (1964). La salitella era... Tiziana Del Citto (1964). La via più breve che metteva in comunicazione il Monte con Tiburtino Nadia. … dal Monte che sta su, una collina, e Tiburtino invece che rimaneva più basso... Tiziana. Dove adesso c’è la fermata di Santa Maria del Soccorso... Nadia. Si, la strada ch’era stata asfaltata aveva l’uscita su via di Pietralata, è quella che c’è tuttora, però tutti quelli che so’andati al Monte erano comunque collegati da amicizie, dalla scuola, da tante cose a Tiburtino III... e c’era in più la fermata dell’autobus che era sulla Tiburtina proprio alla fine di questa discesa del Monte che era tutta terra... era tutto sterrato, praticamente s’è formata camminando... perché all’inizio era piccolissima, c’era erbaccia a destra e a sinistra. Era come se fosse un campo che a forza di camminarci sopra s’è fatta la stradina. Sempre più grande, perché poi c’era chi saliva e chi scendeva, chi camminava a destra, chi camminava... e la terra battuta s’allargava, fino a diventa’ un metro e mezzo, quello ch’è diventato. Poi. credo, nel tempo … Tiziana. Qualcuno cià messo il corrimano... Nadia. Comunque operai o persone che facevano parte del Partito… Tiziana. Poi la sezione... La sezione dopo fece fare proprio dei gradini di cemento perché comunque la gente lì doveva passare... Nadia. Dei gradini di cemento co’ questo corrimano ch’era fatto di tubi, no tubi Innocenti, era fatto tipo coi tubi dell’idraulico no? dove potesse sostene’, quando si scendeva. Era abbastanza ripida, però ecco questa era la via più breve pe’ anda’ a prende’ l’autobus, che stava sulla Tiburtina... Tiziana. E per noi, per la scuola. Si, ma poi mia madre, prima che nasceva il mercato al Monte, continuavamo a venire al mercato di Tiburtino. PaolaPadella. Si, si. C’era il mercato coperto, aperto tutti i giorni. Tiziana. Come c’è adesso al Monte. Era coperto. Paola Spano. Dov’era? Nadia. Qui dietro. Dietro i portici, alla fine dei portici. Paola. Si,si. alla fine dei portici, c’era un altro edificio, dietro quest’edificio c’era il mercato. Tiziana. E c’era pure il macellaio Paola. Adesso praticamente c’è, si, c’è adesso, più spostato, hanno fatto un edificio che sarebbe dovuto essere un centro commerciale ma che dentro ce stanno soltanto tre negozi. Nadia. Si, dove c’era anche il collocamento, no, questo qui? 113
Paola. Si, mo’ il collocamento però non c’è più. Paola Spano. Questo mercato coperto, quand’è stato costruito? Era del tempo del fascismo? Nadia. Si, si, sicuramente, come struttura si. Tiziana. Paola, ciai presente quello che sta a via Catania? Paola. Brava! si Nadia. Eh, uguale, mercato rionale proprio, comunale Tiziana. Ma guarda... forse, quando venivamo a scuola già non c’era più Paola. E certo, quand’hanno cominciato a buttare giù le case , hanno buttato giù anche quello. Tiziana. Guarda, noi siamo venuti su nel Sessantasei e io abitavo al lotto II°, dietro a questo mercato... dall’altra parte c’era dove abitavo io e dopo tre quattr’anni hanno distrutto il lotto II° e hanno buttato giù tutto... Nadia. Quindi alla fine degli anni Sessanta. C’era il vespasiano davanti, le fontanelle…. Paola. … c’erano due fontanelle. Però era un bel mercato, c’erano parecchi banchi... Nadia. C’era tutto. C’era pesce, c’erano i fiori... Paola. L’abbigliamento Nadia. Peccato che l’hanno buttato giù! Alimentari Volevo sapere di questi negozi che andiamo a intervistare perchè ci hai detto che altri negozi sono finiti… Sandra Fortuna. Io me ne ricordavo tre, invece ieri parlando con Pino, m’ha detto addirittura sei, sei alimentari… alcuni non li ricordo perché poi quando c’è stato il trasferimento alle zone nuove non hanno proprio aperto l’attività, l’unico ch’è rimasto è questo qui che ti porterò a vedere oggi… noi diciamo «da Bastiano», in realtà Bastiano è il nome del padre, del vecchio proprietario ch’è morto e adesso la gestione sta in mano ai figli… e loro adesso fanno parte di una catena della Sisa, cioè se so’ associati, non è più l’alimentari com’era una volta… i tre dove andavamo, eravamo un po’ divisi, chi sceglieva l’uno, chi l’altro… ancora da Pino c’è un po’ questo clima così di quartiere nel senso che uno va e poi alla fine è come anda’ a trova’ un vecchio amico perché se parla di tutto, ci conosciamo, mi chiede dei figli, c’è pure questo contatto proprio umano… e poi se incontra tutta la gente del quartiere ch’è rimasta legata alla bottega, al negozietto, vedi anche le più anziane… Ma questi ricordi, diciamo, più vecchi a che anni corrispondono? Beh, io da sempre… mia madre addirittura me diceva che quando andava, io ero neonata, mi pesavano sulla bilancia del pane, per me è una presenza da sempre, da quando ero bambina, poi dopo quando so’ cresciuta me mandava da sola e a volte mi faceva prende’ le cose e poi le pagava il giorno dopo, ancora adesso c’è un po’ questa cosa… Una cosa che m’è rimasta impressa è che la gente andava a fa’ la spesa col libretto, cioè andavano, segnavano tutta la spesa e poi a fine mese, quando uno prendeva lo stipendio, si pagava e chi non poteva, magari stabiliva di restituire un tot al mese, una quota fissa, alla fine mangiavano tutti perché pure i negozianti erano poi disponibili… Le osterie Marisa Marcellino(1938) Io mi ricordo molta solidarietà tra le mamme dei miei alunni. Questo si, c’è sempre stato. E rispetto ai mariti com’era la situazione? I mariti, tieni conto che i mariti andavano a lavora’ e poi la sera andavano a farse una partitella e bevevano pure un bicchiere in più; poi tornavano a casa… Dove la facevano la partitella? Alle osterie, Ce ne erano molte? Si, ce n’era una al lotto IV°, ce n’era una al Partito Socialista… diverse, un’altra al lotto IX da Orlando. Tutti andavano all’Osteria?
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Si, la maggior parte. Si, ma tieni presente che non c’era il televisore, non c’era niente e quindi o facevi i figli uno dietro l’altro e quello era normale, diciotto, venti figli… quindi non c’erano altre possibilità come oggi che vai a vede’ la partita, chi va in un posto, chi va in discoteca… allora non c’era… E gente che si ubriacava c’era? Giuseppa Cassone. Ah ! quelli si, ringraziando Dio, quelli ce ne erano abbastanza, le osterie erano sempre piene. C’era Il buchetto, c’era Serafino… Ma questo prima o dopo la guerra? Giuseppa. C’erano prima e dopo. Osvalda Screponi e Bruno Padella(1935) Osvalda. Papà purtroppo lavorava, usciva ‘a mattina e rientrava a ‘a sera, poi era un omo che beveva, sai il proverbio dice «l’omo de vino non vale un quadrino» però ‘l dovere suo ‘o faceva. Regina Bruschi Polidori. All’epoca me pare che bevevano tutti. Bruno. Nun vo’ di’ niente, perché era gente che lavorava dieci ore al giorno, arrivava stanco morto, se faceva un bicchiere… Elsa Cedroni. ... e me ricordo che c’era er cocciaro che vendeva er vino e i cocci, se chiamava sor Serafino, e il padre de ‘st’amica mia che v’ho detto che je se so’ rotte le uova, ‘e faceva sode e le vendeveno a borsa nera, perché chi beveva almeno ciaveva lì quell’ovetto... Cianno raccontato che quando s’allagava c’era un barcarolo che andava in giro... No, non era un barcarolo, era Il Pescatore che ancora ce sta adesso, che abitaveno lì, ciaveveno una bettola, un’osteria, se chiamava Il Pescatore la trattoria.... era moglie, marito e tre figli, tre femmine ciaveva, una Maria, una se chiamava Rosina e l’altra... lui era un omo de quelli un po’ prepotenti, diciamo... e quando che lui veniva a fa’ la spesa doveva veni’ in barca, perché ovvio, come faceva? dovevano ave’ la trattoria, fa’ da mangia’ e roba varia, doveva veni’ in barca. Però certo quei giorni che c’era quella piena lì, stia tranquillo che a magna’ nun ciandava nessuno, perché lì ce s’andava a fa’ le scampagnate d’estate... Giuseppa Cassone. Farfarelli era un ristorante, si, da sempre. Tanti, tanti della borgata ci andavano a mangia’ la pizza la sera… al principio lui ci permetteva de porta’ la cena e lui ci dava il vino però non ci metteva nella sala del ristorante ma in un’altra sala grande. Poi piano piano ha cominciato ad anda’ meglio e ha eliminato pure quel fatto lì. Paola Padella. Ogni tanto la domenica, si, la domenica, me ricordo, andavamo noi, la mia famiglia co’ la famiglia magari de uno zio, de altri zii, s’andava dal Frustone. Dallo spaghetto alla porta blindata
Nei racconti degli intervistati il passaggio alle case nuove «tanto lottate» e a una maggiore agiatezza segna la fine di un’età dell’oro, e nella nostalgia con cui viene ricordato e forse mitizzato il vecchio Tiburtino III, quello degli anni dell’infanzia e della giovinezza, delle vecchie case e delle lotte, è centrale il rimpianto della «vita in comune», dei cortili, delle porte aperte di allora contro le porte chiuse o addirittura blindate di oggi. Non c’è unanimità sia nel rimpianto che nelle valutazioni del tempo che fu, ma, con l’eccezione del fenomeno della droga, i cambiamenti epocali che hanno coinvolto non soltanto Tiburtino III, ma tutta la società italiana (trasformazioni economiche, consumismo, calo demografico) vengono spesso sottintesi o citati in modo implicito dai narratori che quasi mai li assumono come cause del cambiamento, ritenuto negativo, della propria comunità. Il cambiamento, se non è, come lo è per qualcuno, colpa degli «altri» venuti da fuori, è quasi sempre rappresentato come fatale.
Ivano Caradonnna (1957). Il momento di frattura, e sembra quasi incredibile, forse è stato il momento dell’assegnazione delle nuove case, perché dalla socializzazione, si scendeva da un piano all’altro, erano strutture anche basse, di due tre piani e quindi si passava al piano sottostante o nel piano superiore oppure nella porta accanto per chiedere il limone, per chiedere un po’ di vino, nei palazzoni come questo, ha iniziato a frantumarsi questa solidarietà e questo rapporto che c’era. Non c’è più il cortile. Lo 115
sforzo di questi anni, parlo dell’amministrazione Veltroni in particolare, è quella appunto dei cortili, la festa del condominio, di trovare momenti di socializzazione che però poi si scontrano con il cambiamento anche di stili di vita delle persone; eh, la televisione da questo punto di vista, ha davvero creato delle barriere, ma non soltanto qua al Tiburtino III, direi un po’ in tutto il paese, in tutto il contesto Occidentale. Domenico Zanella. Eh, però, ecco, io questa cosa la dico spesso, nel cambiare casa, dalle vecchie case, basse, piccole, strette in cui c’era molta coabitazione... si è persa molta socialità. Faccio un esempio: c’erano molti palazzi… palazzi!? case, anche qua in questo parco, in cui c’erano dei piani terra, tutti lunghi e c’erano appartamenti che si aprivano sul piano terra, quindi uno passava pe’ strada e vedeva tutte queste porte... poi c’era una scala centrale, che portava al piano superiore, c’era questo ballatoio dove si aprivano normalmente tre appartamenti de qua, tre appartamenti de là... o quattro o cinque secondo com’era grande... lotto IV°, lotto V°, lotto VII… tutti i primi lotti costruiti. E comunque c’era molta socialità, perché se io abitavo all’ultimo appartamento di questo ballatoio, prima di arrivare al mio appartamento, passavo davanti agli altri appartamenti... e quando che passavo, stranamente le porte erano sempre aperte, c’era questa simpatia... c’era anche un senso grosso di responsabilità, molte mamme che all’epoca lavoravano, magari, come si diceva allora, andando a servizio a Roma, perché questa non era Roma... si andava a Roma... lasciavano i figli comodamente ad un’altra mamma, se andava via mia madre, lasciava alla sora Catina... se andava via la sora Catina, lasciava a mia madre... e c’era questa forma ampia di solidarietà nel quartiere... non so, la gioia di uno era la gioia di tutti, il dolore di uno era il dolore di tutti… veniva a mancare un persona cara a una famiglia che magari aveva… tutti allora avevano grosse difficoltà economiche, si faceva… era proprio chiamata così, la colletta; alcune persone passavano casa per casa a raccogliere soldi che permettevano di fare il funerale… Le porte di casa, il portoncino di casa, veniva usato uno spaghetto, cioè si faceva un buco al portoncino, si legava lo spago al ferretto della serratura, dall’altra parte si facevano due tre nodi in modo che non gli entrava dentro, quando venivi infilavi lo spaghetto e aprivi la porta. Alle case nuove, siamo passati dallo spaghetto alla porta blindata, completamente alla porta blindata... è vero che cambiano anche i tempi... Ma guarda, te posso dire una cosa? Io da qui, dal Palazzone so’ andata abita’... qui vicino, sempre su via del Badile, eppure per me, mi’ fratelli, mia madre è stato un trauma, credimi, lo sai perché? Perché innanzi tutto te sei ritrovata co’ un vicinato diverso... poi qui noi eravamo abituati a avere le porte aperte... che ne so, la signora vicina entrava così senza suona’ la porta a casa mia, magari chiamava mamma per un consiglio... noi, uguale, entravam’a chiama’ l’amichetto a casa sua, quella faceva ‘a merenda a quell’altro, ecco, eravamo tutta una famiglia, era proprio, ecco, la vita in comune. Quindi quando ce siamo spostati ‘nvece in quest’altro fabbricato, più bello, casa più grande, più nuova... ognuno co’ ‘a porta chiusa. Io ti posso dire che mia madre, cioè mia madre, passa l’estate qui sotto al muretto, co’ i nipoti... si si, qui sott’ al muretto. Dopo cena l’estate scende, se mette qua sotto, co’ Pia, co’ Pippo co’ Enrico,a parlare, a chiacchierare, perché anche lei è rimasta legata qua (Paola Padella). (Siamo venuti via che) io avevo sedici anni... nell’Ottanta era, si nell’Ottanta cianno dato la casa qui a via Mozart. E lì me ricordo è stata ‘na festa perché finalmente ciavevo la mia stanza, perché la stanza da pranzo praticamente era tutto, sala da pranzo, dove studiavamo, dove dormivamo... Noi abbiamo cercato, vabbe’ più o meno ci siamo andati co’ le persone che abitavamo vicine, ci siamo ritrovati. Si, però era cambiato... è cambiato proprio il modo della vita perché lì, al lotto XI poi c’era il ballatoio, ‘sta balconata lunghissima dove c’erano le porte dell’entrata della casa, quindi d’estate si viveva fuori, mia madre, che ne so, cuciva fuori, stirava fuori, capava ‘a cicoria fuori…E’ mancata anche a me, cioè, la vita de cortile che facevamo... una vita diversa (Sandra Fortuna). Infatti la cosa bella che ciaveva Tiburtino è che ogni lotto aveva un cortile, i bambini giocavano in cortile, tranne l’orario scolastico sennò stavi sempre in cortile, sempre...Qualcuno, bene o male, te guardava (Paola Padella). Ma comunque, guardi, prima se stava meglio a Tiburtino... prima cosa la gente, poi le case le facevano coi cortili, allora ‘a sera tutti noi regazzini stavamo lì a gioca’, e chi ‘na cosa e chi l’altra e le mamme nostre dopo cena uscivano, se metteveno sedute lì de fori... Adesso niente, adesso chiudi ‘a porta, ‘n vedi più 116
nessuno… Quanno face’ano ‘a processione, face’ano la festa de’a Madonna... domenica mattina hanno fatto ‘a festa, nemmeno se ne semo accorti... Adesso è tutto un macello! (Maria Pala) Bianca Karpati (1949). Subito entrata in rapporto molto bello con queste mamme, le nonne, veramente erano persone che partecipavano molto alla vita della scuola, erano molto presenti, anche in modo molto enfatico, perché appunto qualsiasi cosa succedeva loro arrivavano, dovevano discutere con la maestra. Però poi ti venivano anche a portare il caffè, regolarmente dopo pranzo arrivava la nonna col thermos del caffè, arrivava il ciambellone. Mi ricordo queste splendide merende dei bambini che noi invidiavamo, perché arrivavano con la merenda, pane casereccio con broccoletto ripassato, la frittata fatta in casa, per cui «Uh, che buona!», allora arrivava pure la pagnottella per la maestra, e poi si, qualche volta sono stata anche invitata a casa a vedere, abbiamo fatto infatti un lavoro una volta proprio sui bambini e sulle loro case, sulla strada che facevano per venire a scuola e viceversa, quindi siamo andati poi a trovare i bambini nelle loro case, siamo entrati in questi lotti che effettivamente c’erano delle case veramente incredibili, cioè una cameretta, non c’era il bagno, c’era il gabinetto fuori… Negli anni Settanta si, ma quello che mi avevano detto le mamme, le stesse mamme che poi sono andate a vivere nei palazzi, mentre lì, all’inizio, era tutta una vita comunitaria, in mezzo al lotto c’era questo cortile dove i bambini giocavano tutti insieme, le case erano tutte aperte, le porte erano tutte aperte, ognuno guardava i bambini di tutti e cosi via; invece poi, m’hanno detto, quando sono andate a vivere nei palazzi, «siamo state noi stesse a chiudere le porte, a mettere le sbarre alle finestre» e poi sono incominciati i furti, mentre prima assolutamente c’era questa vita proprio comunitaria, dove tutti sapevano i fatti di tutti, però anche tutti collaboravano molto. Giorgio Arezzi (1950). Eh ti dicevo che si viveva tutti comunitariamente al lotto VII.. perché io me ricordo che le mamme se mettevano tutte fuori con le sediolette e d’estate era... tutti fuori… E ricordo che noi ragazzini eravamo guardati da tutte le mamme, non è che... Loro vegliavano che tutto andasse bene... Qualche volta anche mamma che andava a lavorare, e io non andavo perché probabilmente era periodo scolastico, mi lasciava dai vicini... e quindi mangiavo dai vicini, dormivo dai vicini, perché poi un retaggio che m’è rimasto a me dalle suore è il fatto che dopo pranzo te facevano schiaccia’ un pisolino così... e io adesso, a cinquantacinque anni compiuti l’altro giorno, se non mi metto a letto per lo meno un’ora… sto distrutto. Le case nuove hanno fatto un po’ perdere questo clima paesano che si respirava prima. Perché adesso c’è la tentazione di… c’è e c’è stata, perché se i risultati so’ questi, di rinchiudersi nella casa nuova no? Alloggio nuovo. Anche se in parte c’è ancora ‘sta cultura del muretto, d’estate vedo che lì in via Mozart ci sono alcuni palazzi in cui le donne scendono. Probabilmente perché c’erano i cortili interni che adesso non ce stanno più, se non nell’ultimo lotto che hanno costruito, dove io attualmente abito… perché la casa al lotto XII era una casa di cinque piani, senza ascensore, dove mamma e babbo se so’ invecchiati e dove anch’io so’ diventato più che adulto, ma che però poi so’ diventate trappole per le persone anziane perché mia madre e mio padre per esempio e altri come loro, che all’epoca dello spostamento avevano sui cinquant’anni, hanno sempre vissuto al piano terra, al lotto VII, coi scarafaggi per casa, questi me ‘i ricordo. Mi ricordo pure una volta che è entrato un topo, che è uscito da un tombino… perché se stava co’ ‘e porte aperte all’epoca, no, perché non c’era paura dei ladri, t’ho detto, tutta una vita comunitaria.. Spesso i vicini o avevano le chiavi di casa o addirittura ricordo che c’erano degli spaghetti, che uscivano fuori dalla porta d’ingresso, collegati alla maniglia, per cui dall’esterno tu tiravi lo spaghetto e s’apriva la porta. Molte porte così. Come ricordo questo grosso topo, che uscito dal tombino antistante casa mia non ha trovato meglio di… io ho dato l’allarme, mia sorella si mise a urlare in una maniera allucinante. E poi c’era una vecchietta che abitava vicino casa mia, che era la classica vecchietta che vendeva i dolcetti, col banchetto, per strada, che lei era maestra nell’accoppa’ i topi. Lei venne con la sua scopa, lo scopettone e due colpi bene assestati, il topo.. stecchito. Poi ricordo mia sorella con l’alcool, con lo spirito che passava dove questo aveva posato i piedi. Ti dicevo che poi ‘sti alloggi so’ diventati fuori legge… e quindi quando hanno costruito l’ultimo lotto, il lotto XXIII hanno fatto questa servitù, però anche là hanno fatto i giardini privati all’interno, a anche là io non vedo che ci sia una socializzazione tra la gente, perché o se fanno le cene e invitano gli amici coi gazebo di cui hanno dotato i giardini, oppure nei giardini cianno messo il cane. Perché il cane, per carità, non è che 117
so’ contro ai cani, però il cane da qualche decennio a ‘sta parte è diventato quasi uno status symbol, quando uno cià la casa nuova se fa il cane. E quindi più che il vociare dei bambini si sentono i latrati dei cani che a me danno fastidio, perché… anche per quella famosa abitudine che ciò di riposarmi il pomeriggio. Giulio Fortuna (1936). Eh, ma so’ presi dall’arrivismo… la palestra, il cane… Antonio Morri. Lì c’era il fornaio che vendeva tutto: quello che c’era de bello era che la mattina alle cinque je portavano er pane fresco, e la cesta der pane veniva lasciata fuori dal negozio, e chi doveva andare a lavorare presto, passava, prendeva il pane e poi tornava a pagare successivamente. (Il fornaio) sapeva che in una certa misura si poteva fidare. Beh, io ricordo che avevamo ancora le chiavi alla porta quando ero ragazzino, poi già gli anni intorno al Sessantacinque iniziarono i primi furtarelli… Marcello Carboni 1935. Non c’è niente, non c’è saluto, non c’è rispetto. Dice e vabbe’ «io vivo da quando ciavevamo la porta aperta dentro casa, eh…ciao Maria..ciao eh»…e oggi non c’è più quest’amore, non c’è più. E questo dispiace, fa male, a uno de settant’anni glie fa male, vissuto con amore, co’ ‘na certa cosa, fa male… vai dal fornaio a prenne’ ‘na cosa, ciai ‘o sconto, te te scordi de dargli il tesserino, t’o fa paga’ per intero, dice «Come nun m’hai detto, come tu nun m’hai dato», «Tu me fai paga’ il doppio, so cliente da cinquant’anni» Non c’è niente, non c’è niente. Giuseppe Moscheni (Padre Tarcisio) Ripeto gli anni più belli, perché ringrazio Dio che io non sono stato mandato ai Parioli, una certa noblesse, un certo livello sociale dove uno emerge sull’altro, invece nella povertà e nella miseria uno aiuta l’altro, uno si apre all’altro. Ricordo ancora alcune volte, magari la mamma, il papà che ciavevano tutti questi ragazzi, e il vicino che conosceva la situazione incresciosa e di sofferenza e gli va incontro con una tazza di minestra, un po’ di pasta, è la povertà che affratella, non la ricchezza, la ricchezza divide, allontana, c’è l’egoismo della persona umana. Paola Spano. Qualcuno sostiene che dopo questa costruzione Tiburtino è cambiato Si si, si, il rapporto umano, quello che ho detto all’inizio, la povertà, il fratello vive nella medesima barca, ci si capisce, ci si aiuta, mentre il benessere porta un certo distacco, l’invidia, la gelosia, e magari nel medesimo palazzo forse ci scappa solo un saluto, mentre prima la porta del vicino era aperta. Il potere e il denaro sono sempre quei due, quel binomio che rovina il rapporto umano. Antonio Morri (1947). Io credo che sia legato al discorso del reddito! È la stessa cosa che è successa a me a Colli Aniene: quando siamo andati ad abitare noi a Colli Aniene, i primi tempi c’era una vita sociale intensa: tutti ci si aiutava, tutti si faceva le cose, si collaborava perché alla fine avevamo visto che era anche una forma di risparmio. Nel momento in cui le condizioni economiche delle varie famiglie sono mutate, e sono migliorate, quindi il reddito è cominciato a crescere, è anche diminuito il sociale, la collaborazione. È cominciato a subentrare, «Ma perché lo devo fa’ io, quando possiamo chiamare una persona che lo può fare?». Faccio un esempio: all’inizio se pulivamo le scale da soli, avevamo fatto i turni; nel momento in cui è aumentato il reddito, magari prima avevamo dovuto fare sacrifici per comprare casa… e credo che la stessa cosa sia successa a Tiburtino III… E’sempre meglio l’attuale… Giancarlo Carbonara (1947). (Mio padre) era un muratore, un muratore specializzato, all’epoca che, diciamo, ha costruito quasi Roma, come tutti i muratori del quartiere, perché il novanta per cento erano muratori e manovali, e pittori, tutto nell’edilizia il quartiere. E’ cambiato, prima era più un quartiere diciamo a livello proprio popolare, ‘a gente rimpiange come era prima, però io so’ convinto che si rimpiange tutto, ma è sempre meglio l’attuale. Una volta le case erano, diciamo molto malsane, erano piccole, ci convivevano famiglie de dodici, tredici figli, tutte famiglie numerose, tutte tutte… era un quartiere dove c’era ‘a povertà, una povertà dignitosa, de lavoratori che lavoravano, da mattina a sera, eh… e producevano figli… .E’stato un quartiere che fino a un periodo di tempo ha vissuto in questa maniera, dopo c’è stato il boom economico. Qual è stato il boom economico nel quartiere, proprio a 118
livello commerciale? Che i figli so’ diventati grandi, e ogni famiglia, sette, otto, nove persone lavoravano tutte… Negli anni Sessanta è cominciato il boom economico, dal ‘60 quanno ‘sti ragazzi so’ diventati tutti giovanotti e tutti sono andati a lavora’, chi pittore, chi ne’e officine, chi nei impieghi… diciamo che la borgata si è evoluta molto, ha cominciato proprio a venir fuori, piano piano, e poi ‘63, ‘64 le demolizioni, le prime demolizioni. E niente eh, er quartiere sta morendo, muore, muore di vecchiaia, non c’è sta rinnovamento. L’unico quartiere dove c’è sta una metropolitana, non sfruttata, non ci sono abitazioni nuove, uffici. Lei sa bene, che glielo devo insegna’ io? dove ci sta ogni stazione de treno, de metro, c’è sviluppo. Glie cito l’Arco del Travertino che era una de ‘e zone più abbandonate de Roma e da quanno gli hanno portato ‘a stazione, è diventata un’altra… pochi giovani aprono attività, pure un mercato hanno fatto sprecato, miliardi buttati al vento. Sapendo anche che sarebbe non funzionante, l’hanno fatto apri’, cianno perso i sordi, tutto fallito, non c’è attività, non c’è niente. A gente più l’anni passano più ‘nvecchia, ‘nvecchia significa che a gente va avanti co’ ‘na pensione. Nun c’è più possibilità, i figli vanno via, chi se sposa va via, ‘a borgata è amorfa. Guardi a livello commerciale, se leggi la borgata, vedi tutte attività chiuse, parecchie, guardi qua…se lei riprende qui sotto… so’ quasi attività tutte chiuse, ‘a parrucchiera, ultimamente hanno chiuso due, una è ‘a pizzeria e uno è l’orologiaio, perché è una zona... poi sta pure attaccata a un quartiere come i Colli Aniene, dove i servizi ce so’ tutti, i negozi ce ne so’ parecchi, quei due o tre persone che devono, vanno ai Colli Aniene, che a Tiburtino a livello commerciale zero. Quanno un quartiere a livello commerciale è zero, è morto… E’ un quartiere che più sta più va a morire, l’unica prospettiva se glie danno un po’ de sviluppo si no è un quartiere che va a morire in tutto e per tutto, non cià strutture, nun cià niente Il diritto alla casa popolare in qualche caso è stato venduto, quindi «non siamo più tutti noi di Tiburtino III» e il degrado dei rapporti è da alcuni attribuito al fatto che, come è detto altrove, «siamo un po’ imbastarditi». Con un atteggiamento che rimanda alle parole di Giulio Fortuna sulla «chiusura» di Tiburtino.
Marisa Marcellino. Allora io mi ricordo fin da bambina che appunto Tiburtino terzo era tutto una famiglia, tutti, uno correva per l’altro… quindi c’era quella umanità, quel rispetto… da che abbiamo consegnato queste case, purtroppo c’è molta gente che se le è vendute, molta gente che le ha comprate e quindi si sono mischiate. Quindi non siamo più tutti noi di Tiburtino III o nati a Tiburtino terzo. Eh, si, perché con queste case nuove è successo questo, anche io, anche della scala mia, che qui con l’ascensore ognuno arriva al suo piano, apre la porta di casa e chiude. Quindi tu ti incontri, se vai a far la spesa, ti incontri magari nel portone, uno che entra e uno che esce e ci si saluta, ma non c’è più quella confidenza che eravamo soliti avere noi. Io mi ricordo mamma, co’ tutte le altre mamme, si sedevano al cortile, in mezzo al cortile, e chi faceva la calza, chi le toppe del lenzuolo, l’elastico delle mutande… stavano lì sedute, noi bambini che si giocava intorno… e passavano il tempo loro donne, chi se metteva lì a scafa’ i fagioli, scafava i piselli… c’era proprio una familiarità. Invece qui adesso ci sono famiglie che non si conoscono nemmeno, c’è più freddezza.. Pina Pala, 1947. Era più vivo Tiburtino, perlomeno quando ero ragazzina io, era più vivo... ‘a borgata, diciamo, s’è rinnovata, qui non c’è proprio più la gente di vecchia data, perché praticamente cominciando dal I° lotto, sono andati al Monte, poi dal quarto al quinto, l’hanno mandati a Settecamini, poi dal quinto al sesto l’hanno mandati a Primavalle, l’hanno un po’... Poi hanno rifatto i palazzi e poi c’è venuta altra gente, ecco pure perché è diventato così... Bianca Karpati risponde qui, sottolineando la chiusura del quartiere verso l’esterno, a una domanda che gli intervistatori pongono innanzi tutto a se stessi: come può essere che un quartiere periferico, popolare non abbia immigrati, oggi, in tempi di immigrazione massiccia? L’unica zona in cui qualche straniero c’è è quella di case popolari confinanti con la Palmiro Togliatti, esterna al perimetro originario nel quale non si è più costruito dopo la fine degli anni Settanta. Gli abitanti di Tiburtino « non se ne vanno» e le case popolari passano quasi sempre in eredità a figli e parenti. Come risulta poche righe più su, non c’è bisogno di essere
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stranieri per essere percepiti come estranei, e gli estranei, se privi di identità e di una storia comune, sono facilmente una causa in più del disgregarsi di quella vita comunitaria da molti rimpianta.
Paolo Barberi. Ci sono pochi immigrati… Bianca Karpati. Questo è vero, loro si, sono molto chiusi tra di loro, questo si, il vecchio nucleo, il vecchio nucleo storico. C’è tutto un tessuto di questi vecchi storici, che non posso mette’ la mano sul fuoco che qualche impiccio non abbiano fatto pure loro, però molto coesi. Poi ci sono questi nuovi, che erano vecchi occupanti di case in altri quartieri a cui è stata data la casa qui, popolare, che non hanno una storia comune, non hanno una identità e poi c’è il vecchio ceppo della malavita… che c’è ancora; mentre prima si sapeva che solo rubavano, adesso che cosa facciano di preciso non si sa. Riccardo Russo. Secondo me ci sono delle zone da cui le persone non se ne vogliono anda’ e quindi se non se ne va nessuno neanche possono arriva’ quelli nuovi… Bianca. No no no, non se ne vanno, sono tutti molto molto integrati. Il vecchio ceppo della malavita Paola Spano. Però gli scippi non c’erano qui nel quartiere. Sandra Fortuna. Ma qui no.. Forse ecco abbiamo avuto problemi quando so’ venuti da fuori.. C’è stato un periodo ecco in cui magari rubavano negli appartamenti… o che c’era qualcuno che.. Però durava poco perché c’era anche la delinquenza del posto che comunque creava sicurezza, è un controsenso, ma è così. Paola Spano. Ma questa delinquenza del posto che tipo di delinquenza era? Sandra. Ma sai.. tu le vivevi come persone normali, non la vivevi come delinquenza perché erano persone che avevano anche un certo codice… Anonima. A noi c’hanno protetto… Sandra. Forse qui te ne accorgevi se uno ciaveva giri loschi, dal benessere, che stavano meglio… però nessuno parlava, nessuno mai gli chiedeva niente, loro facevano la loro vita, noi la nostra. Però in tante occasioni me ricordo, soprattutto in passato che c’era qualcuno che veniva da fuori, e mi’ madre raccontava che qualcuno del posto… «qui non doveva veni’nessuno» Anonima. E infatti c’è stata la sparatoria, davanti le case, perché quando hanno acchiappato questi del Quarticciolo, anzi de Villa Gordiani ereno… o Quarticciolo o Villa Gordiani... Paola Spano. Ma questi che anni erano? Sandra. Settanta? Zingari
Chi viene da altre zone della città o da fuori Roma viene quindi percepito come «estraneo», ma, a parte i tedeschi e gli americani del tempo di guerra, gli unici «stranieri» che Tiburtino III ha conosciuto sono gli zingari, verso i quali l’atteggiamento è prevalentemente ostile, ma anche a volte non privo di interesse e «rispetto».
Riccardo Morri. Gli zingari? Paola Padella. Ah, i zingari, Regi’ vie’qua che te ‘o sai meglio. ReginaBruschi Polidori. Allora, i zingari, nun me ricordo l’anno ma sicuramente era, forse Settantaquattro, ‘n’età così, che io ciavevo quattordici anni... Sandra Fortuna. Era intorno Settantaquattro, Settantasei, io me ricordo ch’ero piccola. Regina. Eh, quattordici, quindicianni, e niente, sai come fanno pure adesso, se mettono, fanno una casupola, poi ne fanno un’altra, ‘n’altra ancora... S’erano messi tra la marrana e lotto XIV ch’era il lotto dove abitavo io... e sotto la vaccheria, il territorio della ex vaccheria dove ciandavano prima a pascola’ ‘e mucche, c’era tutto ‘st’accampamento. Quindi hanno iniziato co’ ‘na baracchetta, ‘n’altra baracchetta, ‘n’altra... nel giro de ‘n’anno e più, che non ce so’ stati poco i zingari eh... nel giro de un paio d’anni se so’ allargati, ma se so’allargati proprio nel quartiere perché c’è stato quarche negoziante, il bar, che alimentava ‘sta cosa perché questi arrivavano, consumavano birre, sgommavano dentro la strada, poi ‘e strade de Tiburtino vecchio erano piccoline... Il bar, me ricordo che c’era il juke-box che gli aveva addirittura messo i dischi zingari... Tutta ‘sta gente ha cominciato a 120
innervosisse, a Tiburtino, perché c’erano stati i furti... c’erano parecchi furti. Nelle case, si si, ma mo’ uno a quello uno a quell’altro... Sandra. Mia madre me parlava che siccome avevano iniziato a fa’ ‘sti furti e la gente di Tiburtino andava da quelli di Tiburtino che sapevano che erano... diciamo, ladroni, andava a scoccia’ loro perché insomma non c’erano mai stati «Ma che state a combina’ , venite a ruba’ a casa nostra?» E me ricordo che questi s’arrabbiarono perché loro non erano, tant’è vero che poi so ‘stati loro a fa’ ‘sta lotta contro i zingari, perché dicevano «Venite a ruba’ a casa nostra, questi se ‘a pijano co’ noi!» Anche pe’ nun passa’ da stupidi, quindi poi alla fine so’ stati loro e...c’è stata ‘sta lotta. me ricordo che fecero a botte poi. Regina. No, c’è stata ‘na rivolta perché tu dovevi ‘sta attento a quando attraversavi perché questi, ‘mbriachi, te sfrecciavano, te inchiodavano... Paola Spano. E in che cosa è consistita questa lotta? Regina. E niente, me ricordo ch’era di domenica, tutta ‘sta fiumata de gente, so’ andati proprio co’ i fucili, j’hanno dato foco a tutte ‘e baracche, cioè è iniziato, capito... proprio co’ «Andatevene, andatevene» e basta. Paola. E’ stata proprio ‘na guerra. Regina. E so’ andati via, poi lì c’era de tutto, madri, donne, ragazzini, io me ricordo che... a ride’, lì, a guarda’ «Anvedi che sta a succede’!» tutto fuoco! Se ne so’ andati e ‘n so’ più tornati!. Metodo certo, insomma, discutibile forse, no ‘o so, però efficiente. Guarda, e io ti dico un particolare, che anni prima, ero piccola, s’erano accampati i zingari sempre lì a Tiburtino, ma erano belli, erano ricchi. E se dove’ano prepara’ pel matrimonio de una fija, e c’era un capo zingaro, ma un signore, io me ricordo, ma così gentile, ciaveva invitato tutti noi ch’abitavamo là davanti, a mangia’, c’erano i pasticcini... Non erano gli stessi, erano proprio signori... Sandra. Quelli erano proprio di tradizione tsigana... Regina. Ecco, erano gitani, erano... Paola. Ma anche quando veniveno che c’era la festa, che veniveno i giostrai, no, che erano zingari, però, io me ricordo, ero affascinata... a parte erano sempre belle persone, sia uomini che donne, poi venivano co’ ‘ste roulottes lussuose, e poi, se creava proprio un po’ un’amicizia... Regina. Un rispetto... reciproco Paola. ... un rispetto, perché in fondo poi ‘i conoscevi... Paola Spano. Questo quand’eri più piccola? Paola. Quand’ero più piccola che era il periodo delle feste, spesso e volentieri venivano co’ le giostre, i carcinculo, ‘e macchinette... Sandra. Però quelli non erano proprio zingari… Paola. ... però, ecco, erano persone che poi... io me ricordo che all’elementari ce ne abbiamo pure avuto uno… Sandra. Te ricordi Moreno? Paola. ... Moreno, ch’era bello... Sandra. Ci siamo fidanzati... Paola. ... ci siamo fidanzati... Sandra. Mandava i bijetti d’amore... Paola. Ma era proprio bello! era un bel ragazzino e insomma... era bella gente, brava gente, ciavevano ‘sta roulotte, me ricordo, bella, che quanno noi annavamo lì a ‘e giostre sbirciavamo da ‘e finestre pe’ vede’ poi dentro com’era... Sandra. Perchè era molto lunga e ciaveva, che ne so, tre quattro finestre tutte co’ le inferriate, te ricordi? Paola. Le inferriate, le tende! Sandra. Noi, ci affascinava… Confinante con il parco dell’Unità c’è un terreno abbandonato coperto di sterpaglie, risultato dell’abbattimento, risalente a parecchi anni fa, di alcuni vecchi lotti. Qui Marisa Marcellino risponde a una domanda dell’intervistatrice sulla destinazione di questo terreno.
Marisa Marcellino. No, si dovrebbe chiedere al quinto municipio che cosa hanno ideato… che cosa vogliono fare, un qualcosa ci dovrebbe essere. Abbiamo fatto mettere tutte quelle inferriate con i 121
cancelli, perché lì i nomadi ci si mettevano, di cui l’ultima tribù c’è stata otto mesi, in quell’area, ancora non era recintata. Tutte carovane, non ti dico… Riccardo Morri. Senti, che rapporto ha avuto la popolazione di Tiburtino con i nomadi, nel tempo? Marisa.Il rapporto non buono, non buono anche perché succedono molte cose… Paola Spano. Ma spesso venivano i nomadi? Marisa. Si, si poi andava via ‘na tribù e ne veniva un’altra, e quindi in tutti questi spazi aperti era un continuo e non è che si comportassero bene! Paola Spano. Anche quando eri bambina? Marisa.No, no, lì c’era l’abitato prima, ci abitava gente, e da che hanno demolito i lotti in tutti gli spazi aperti questi se mettevano lì. Tanto è che pure al lotto XIV, qui giù in fondo, si sono messi e ci sono stati tantissimo tempo. Padre Marco, un frate della parrocchia ci chiedeva, come comitato di qurtiere, di far inserire questi bambini alle scuole. Abbiamo fatto riunioni su riunioni, siamo riusciti a farli inserire e siamo stati dentro a quella tribù con padre Marco, perché io avevo pure paura a starci dentro, per quello che si sentiva. Poi a un certo punto un gruppetto di persone sono andate lì, siccome il loro comportamento non era per la quale… prendevano di petto le ragazzette che tornavano dal lavoro, gli uomini, facevano la pipì davanti a tutti sui marciapiedi, insomma delle cose un po’ brutte, e quindi alcuni uomini che hanno i fucili sono andati lì e hanno sparato e gli hanno dato anche fuoco. Questo io non lo ammetto perché lì dentro c’erano anche i bambini. Allora puoi aver rabbia tu col comportamento degli uomini, tutto quello che vuoi, però tu uccidi tutti… e gli hanno appiccato il fuoco. Paola Spano. E’ morto qualcuno? Marisa. No, grazie a Dio no. Paola Spano. Ma come mai erano con i fucili? Marisa.E si vede che sono cacciatori e quindi si sono stancati di subire e sono andati lì in gruppo e hanno fatto questo lavoro. E poi se ne so dovuti annà via. In quanto all’ inserimento dei bambini nella scuola, lo avevamo ottenuto, siamo riusciti, anche se molte mamme del Tiburtino III dicevano di no e non erano d’accordo. D’altronde era anche una scusante perché questi bambini nomadi ci andavano un giorno si e dieci no, quindi era una cosa per coprirsi in modo che loro rimanevano sul posto, tutto lì… l’ingegno è quello. Paola spano. Ma di che epoca stai parlando adesso? Marisa. Sto parlando del 1974, 1975, anche sotto al convento delle suore in quello spazio, che prima c’era il capolinea del 309, anche lì c’era il lotto VI° a ridosso del convento delle suore e non appena che è stato demolito si sono accampati di nuovo dovunque, anche all’ex lotto XI; ‘na vorta demolito e infatti siamo riusciti a far recintare lì al lotto XI con una rete metallica però…
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7. Tra progetto e realtà La grande coesione e partecipazione del quartiere prima, durante e dopo i lavori e la difficoltà di conciliare le migliori intenzioni urbanistiche con una realtà difficile e contraddittoria. Questo è ciò che ci racconta Giorgio Zama, uno degli ingegneri che hanno progettato e seguito la costruzione delle «nuove» case di Tiburtino III all’inizio degli anni Ottanta. Il vecchio Tiburtino Ho avuto occasione di conoscere il Tiburtino prima come studente, poi come laureato progettista e anche, diciamo, nell’attività di professore universitario, perché questo quartiere è stato oggetto di studio da parte di diverse classi sia della facoltà di ingegneria che della facoltà di architettura. La mia frequentazione da studente è della fine degli anni Quaranta. A Tiburtino III le costruzioni erano state fatte praticamente dall’élite dei progettisti romani, adesso non so ricordarli tutti, io ricordo solo un nostro professore che si chiamava Giuseppe Nicolosi, un maestro, un poeta. Solo che queste case erano fatte malissimo, nel senso che erano addirittura senza nemmeno i servizi. Avevano ospitato le persone romane autentiche che abitavano gli edifici demoliti per la costruzione di via dell’Impero.. E le costruzioni poi sono andate avanti negli anni dopo questa testimonianza storica che io riterrei notevole perché rappresentava, uno dei primi esempi di urbanistica razionalista a Roma…. Quando andavamo come studenti a fare la ricerca su questi abitanti, dovevamo subito dire che i progettisti erano stati dei delinquenti, dei mascalzoni, perché sennò rischiavamo di essere cacciati via, perché effettivamente la situazione era di grosso disagio. Il nuovo Tiburtino, il progetto … la necessità derivava dalla fatiscenza di quasi tutto il quartiere, non gli ultimi edifici perché gli ultimi edifici essendo più recenti avevano una condizione, diciamo, statica, una condizione tecnica, abbastanza valida e quindi non tutti gli edifici del quartiere furono abbattuti. Però, avendo la mappa di quelli che dovevano essere abbattuti, noi progettammo una serie di nuovi edifici con i sistemi di prefabbricazione più moderna…Ma una cosa straordinaria, interessantissima, un flash tecnico: per fare un pilastro di cemento armato e una trave di cemento armato tocca fare tutta una cassaforma di legno… ecco guardate un attimo quel nodo lassù, pensatelo fatto in legno, quello lì, quanti pezzetti, pezzettini quanto tempo ci vuole per fare… questi qui sono fatti tutti con dei pilastri a croce, costruiti in un cantiere che stava poco distante, a centinaia per volta perché era semplicissimo… la cassa forma, cioè quell’intreccio lì era fisso, di acciaio, quindi, il tempo di farlo e questi qui venivano montati con una rapidità incredibile, con delle travi che erano adatte proprio esattamente a questo schema. I pannelli di facciata erano tutti prefabbricati, tutti cioè a grandissime dimensioni. Mi ricordo che a un certo punto stavano montando uno di questi pilastri a croce, gli si sganciò, crollò di sotto su un pacco di pannelli di facciata, erano 30 cm, insomma molto grossi, tutti di cemento armato, questo qui li tagliò come se fosse il burro… il sistema costruttivo era brevetto della Grandi Lavori, la società che aveva vinto l’appalto, bisognava adattare… uno di noi, uno del gruppo progettista, praticamente si piazzò mattina e sera alla Grandi Lavori, e non ammise nemmeno mezzo minuto di ritardo perché gli sfornava le soluzioni mano mano che le cose si venivano complicando. L’unico edificio non prefabbricato è quello lungo lungo a via Mozart, perché la Società Grandi Lavori si rifiutò di affrontare questo tema un po’ strano… però anche lì la prefabbricazione è stata utilizzata. Erano previsti parcheggi, campi da gioco, un parco. Le cose che normalmente nel quartiere nuovo invece occorre porre, la chiesa, le scuole, quelle erano già costruite e anche poi, come posso dire, la gente era molto affezionata… E tra l’altro tra queste scuole c’erano anche, mi pare, una o più scuole prestigiose, che cioè non avevano un’attività solo locale… Ma avevano piscine, cioè scuole con piscine! beh, insomma, a Roma una scuola con la piscina proprio era difficile immaginarsela, era difficile cioè pensare a questa attività urbana di scambio tra la città e la scuola… insisto su queste caratteristiche molto solide. E così, facendo riferimento a quelle che all’epoca erano le regole delle leggi urbanistiche, il quartiere nasceva con ampie aree, per esempio, di negozi, questa è una delle cose più interessanti. I negozi che andavano negli edifici nuovi sarebbero stati occupati dai negozianti che già erano sul posto 123
e… non era proprio mai capitato di dover fare una progettazione non solo quantitativa ma addirittura nominale, perché una delle cose, così, buffe, per dire che non era facilissimo, è che un calzolaio improvvisamente richiese delle aree a due piani … perché dice che doveva fare un negozio di calzoleria... assurdo, nemmeno, diciamo, al centro si trovavano spazi così grandi. Quindi, da un lato la stranezza, ma dall’altro invece la partecipazione. Sempre per fare salti, per non essere ordinato nel discorso, dico che poi abbiamo avuto il piacere di vedere funzionare questi negozi prima, dove stavano prima, e poi dove stavano dopo, mi ricordo un fornaio che aveva un forno gigantesco che non so quanti panettieri di Roma riusciva a a servire. E una cosa che faceva addirittura invidia a me, tutti quanti avevano il garage cioè tutti gli appartamenti avevano almeno un posto macchina. Io non ce l’ho il posto macchina a casa mia … Poi: ogni tanto ci sono delle corti aperte, in mezzo c’è un giardino, in questo giardino doveva essere costruito un centro che all’inizio si chiamava sociale, un centro sociale. Che succede? che tutti questi servizi che ho descritto sono stati però intaccati da una presenza che nelle statistiche che io ho letto sui libretti non era stata proprio mai, mai mai rilevata e cioè la delinquenza, cioè la presenza massiccia e veramente condizionante della delinquenza. Allora questi parcheggi non erano mai stati utilizzati. Perché? e qui bisognava avere registrato in queste riunioni a cui ci convocarono, le dichiarazioni delle mamme, delle famiglie, che appunto avevano ricevuto minacce da gente per strada. Le macchine venivano tenute tutte fuori perché sotto, nonostante che erano stati costruiti con tutti i criteri anti incendio eccetera eccetera, non si fidavano… una mamma dichiarava che un tizio in lambretta, urlandogli dalla finestra alludeva che lei ciaveva una figlia, giovane, piccola, un’adolescente e gli minacciava la figlia, quindi c’era ben poco da discutere I centri condominiali E per questi centri che noi chiamavamo non sociali ma di condominio, perché avevano delle sale… perché fare musica in casa propria avrebbe disturbato tutti, queste erano tutte insonorizzate, per fare feste, anche abbastanza grandi, per fare una palestra cioè questi centri piccoli erano accessibili immediatamente perché si scendeva dagli appartamenti, dalle scale e si poteva utilizzare nei vari modi, cineclub, insomma tutto… E mi ricordo che quando si cominciò a costruire questo, delle mamme si sdraiarono per terra e impedivano alle ruspe di andare avanti, perché prima domandarono che cos’erano queste fondazioni, gli spiegarono che cos’erano e si ribellarono tremendamente… E’ molto buffo, perché dovevano servire per le persone anziane e per i giovani, soprassiederò su cosa dicevano delle ragazze, ma i giovani erano tutti drogati, le ragazze… eccetera e i vecchi tutti ubriachi, non c’era nessuna possibilità che fossero messe in dubbio queste diagnosi E quindi non bisognava costruire questi edifici, credo che le fondazioni siano… qualcuna rimasta, che le abbiano poi chiuse. Insisto sul confronto che io facevo con casa mia, per certe cose che a casa non ciavevo, che lì venivano offerte dalla nostra teoria e poi realizzate in pratica urbanistica, che invece poi avevano questo riscontro sulla situazione di vita vissuta, reale, autentica. E mi ricordo che noi nelle riunioni che facemmo, eravamo appoggiati dai gruppi politici che ci tenevano a mostrare che l’impegno urbano era di alto livello, e invece gli abitanti, che erano proprio loro parenti, amici, cioè erano identici, invece assolutamente rifiutavano questa situazione… il distacco tra la cultura dell’utente e la cultura dell’architetto… Riccardo Morri. Diciamo che c’era la paura se non la consapevolezza che questi spazi comuni sarebbero stati… Sarebbero stati male utilizzati, ecco, diciamo mal utilizzati, e non avevano assolutamente torto. Le situazioni di droga già erano molto molto forti… ma poi non c’è rimedio, non è che uno possa dare il voto alla famiglia, dare il voto al gruppo di abitanti… la droga sta ai livelli più elevati… insomma degli Agnelli oppure ai livelli più bassi… solo che effettivamente può essere veramente dannoso se in un gruppo condominiale, io ho creato un piccolo centro di sfogo di questa situazione; io do ragione a loro, ecco, mi sarebbe piaciuto che fosse stato costruito perché la nostra invenzione, l’estetica, l’architettura sarebbero appagati, però assolutamente non era possibile fare così. La partecipazione Il rapporto dei costruttori con la popolazione avveniva sempre tramite le istituzioni, non c’era nessun rapporto individuale, sempre in termini genericamente tecnici, ma poi stranamente umanizzati 124
all’interno delle istituzioni, perché formarono un ufficio all’interno dello IACP che prima non c’era, che si interessava proprio dei rapporti con gli assegnatari e quindi a noi che ci interessavamo, portavano il contatto con la popolazione. E la guida di questi comitati per spiegare quali erano le loro esigenze non riguardava tanto la forma o la dimensione degli appartamenti, le composizioni familiari (che questo nella statistica c’era stato tutto fornito), la partecipazione riguardava sostanzialmente la situazione più strettamente sociale, più strettamente familiare, più strettamente di gruppo. Noi le riunioni le abbiamo fatte nella sala parrocchiale e non c’era nessuna differenza, che a quell’epoca invece era più sentita, tra democristiani e comunisti. La prevalenza erano comunisti, ma la posizione della politica era omogenea, cioè …i politici sostenevano tutti sempre le stesse cose. La partecipazione politica era veramente sentita, cioè ho visto uno sforzo fatto da persone… nessuna di loro credo che fosse laureata, ma la loro capacità di esprimersi in termini tecnici, sociologici, a volte anche medici, era notevole, quindi gente molto molto preparata… mi ricordo che c’era una signora imponente… Marcellino! Me lo ricordo sì, sì Marcellino… uno sforzo per comprendere i problemi, ma quando parlava non so appunto della nonna con termini estremamente affettuosi… se c’è una persona emblema di come si può essere contenti di un luogo urbano, sicuramente la signora Marcellino… potrebbe essere un bel personaggio di una storia, sì. Ecco… una cosa che a me interessa molto è proprio vedere l’attaccamento a un luogo, l’ho detto prima, cioè il sentire la città… La sovrintendenza ci voleva proibire di fare un edificio perché diceva che sotto c’erano delle fondazioni romane, una strada romana e… sotto c’erano in realtà le fondazioni delle case fatte dal fascismo demolite, e io cercai di sostenere l’idea: «Guardi, se il fascismo avesse trovato una casa romana… l’ avrebbe rispettata, esaltata, avrebbe detto che le aveva scoperte lui, insomma tutte le cose meravigliose, se l’ha fatto vuol dire che non c’era» Oh non si muoveva, non c’era niente da fare. Lo IACP fece una convocazione della sovraintendente, che parlasse con i cittadini… subito dopo fu tutto approvato. No, adesso io vi parlo sempre per aneddoti, è che si presentò un macellaio tutto insanguinato, adesso ci aggiungo un coltellaccio in mano, ma non ce l’aveva, insomma cittadini veri, cioè questo era uscito dal negozio di macelleria, non era uno che faceva politica tanto per farla, no? e ci furono poche resistenze. E poi dopo sempre un comitato, stavolta un po’ più robusto, andò a via de’Burò, non so se la conoscete, lì davanti a Sant’Ignazio quindi un posto di Roma particolarmente carino, si misero sotto, ‘n’altro po’ sfondavano tutto. In televisione (nelle righe che seguono ci si riferisce a una trasmissione televisiva degli anni ottanta, dedicata a Tiburtino III) Alla Rai me li trovai tutti quanti elegantini e dissi «Ma perché…?» Dice «No, perché c’è una trasmissione» . Io no, non lo sapevo che bisognava andare in modo adeguato quindi la cosa mi fece un po’ sorridere. I discorsi alla televisione riguardavano proprio questi problemi che vi ho detto… degli spazi comuni. Mi ricordo proprio che mi convocarono, rimasi sorpreso di trovare tutti i tiburtinesi, che in genere erano… a briglia sciolta… C’erano questi scontri, a me mi chiamarono perché io spiegassi a che cosa erano destinati gli spazi condominiali. E mi scocciò un pochetto perché, non so se conoscete Celentano «dove era un prato ora c’è una città», il servizio cominciava con questo… la via Gluck, esatto. Era fatto bene da questo punto di vista, mica che…a difendere il cemento armato. Le norme urbanistiche di Roma imponevano che ci fosse un notevole numero di alberi, alti almeno mi pare tre o quattro metri… Paola Spano. E questa trasmissione come andò? Questa trasmissione alla Rai? Non era… non credo che fosse «Mi manda Raitre»… sicuramente non era questo il titolo, ma… Voce alla gente, Diteci qualcosa, Parliamo di voi, qualcosa improntato a questo criterio. Beh loro erano tutti entusiasti anche perché avevano potuto controbattere… notizie giornalistiche… sempre per questa vivacità politica, sociale, questa difesa di un proprio luogo, di un proprio quartiere riconosciuto. E, ripeto, mi meravigliò che avevano fatto tutte queste foto con un elicottero, ed erano bellissime queste foto aeree, fatte in una giornata di sole. Poi, parlando sui singoli luoghi, insomma a me mi scocciava molto questo fatto che i vecchi erano tutti ubriaconi, le ragazze tutte di facili costumi, i ragazzi tutti 125
drogati… Dico, ma cominciamo col dire che questo è un luogo di tutti gli abitanti, dei palazzi che gli stanno intorno, quindi non potete definire i vostri figli e i vostri nonni così, perché siete voi che ciandate… quella striscia che dicevo nell’edificio lungo era tutta di utilizzazione condominiale o gran parte di utilizzazione condominiale. Il corridoio Ma ecco, in origine lì ci doveva essere sempre un servizio che noi chiamavamo condominiale, per dire che era proprio privato dell’isolato, ed invece subito decisero di metterci le Asl, cioè dei servizi pubblici che non erano assolutamente previsti. C’è una rampa, alla fine o all’inizio non so, e io ebbi proprio la gioia di vedere che questa rampa aveva entusiasmato i ragazzini. Pensata per le persone handicappate, in realtà invece era presa come gioco. Poi c’è un grosso corridoio interno che passa addirittura su un ponte; l’edificio lungo cià uno squarcio e c’è proprio un ponte… Questa è una via interna che arrivava fino a quello che avrebbe dovuto essere il mercato, che non so se funziona come mercato… Riccardo Morri. Non è mai entrato in funzione, cianno provato più volte a riqualificarlo però quello non ha mai preso piede… Lì l’Annona proprio ci seguì, come posso dire, puntualmente dicendoci quanto pesce, carne, verdura… ma sul serio eh, non glielo dico per… cioè la partecipazione non è stata con solo i dirigenti dell’IACP, ma con tutti, con il coinvolgimento di tutti gli altri enti interessati e che poi purtroppo … cioè, eccolo lì, arriviamo a quello che vi dicevo a un certo punto: un conto è il progetto, la tecnica, l’urbanistica, poi c’è la politica che non può scavalcare le realtà, ne deve tener conto, questa delinquenza in quel momento c’era… credo che si sia scatenata nel modo più spaventoso a Tor Bella Monaca. Lì speriamo che sia superata, perché, ripeto, parlo di tantissimi anni fa. No, ma il distacco tra i nostri sogni, che poi purtroppo sono colati in cemento armato e le realtà abitative sono enormi… L’occupazione Eh questa dell’occupazione… purtroppo fu un… credo che nei film dovrebbe essere raccontata, fu un incidente di ritardo, perché le case abbandonate dalla popolazione… insomma, tolti e messi gli infissi o cose di questo genere, trac, furono occupate, con un sistema quasi proprio criminale… no, più che criminale organizzato; perché dalla sera alla mattina si presentarono dentro questi con la ditta che stava lì, stava lì per procedere… portarono un grosso ritardo con dispiacere di quelli che da un lato gli dispiaceva di cacciare via gente miserabile e dall’altro però, ormai la casa non ce l’avevano più e che gli impedisssero di riaverla quella nuova… Pareti mobili L’ingegnere (Giorgio Zama) … poi lo IACP ha un’ altra idea formidabile, che non so se seguano ancora, ma a quell’epoca c’era un formidabile dirigente, un uomo in gambissima, Petrangeli mi pare che si chiamasse; loro costruivano un unico pavimento per tutte le stanze e poi sopra si appoggiavano i tramezzi, per cui se la composizione familiare cambiava, potevano dividere rispetto al ritmo delle finestre con un nuovo tramezzo oppure eliminare un tramezzo per avere uno spazio più ampio. L’abitante (Domenico Zanella) Quindi avendo demolito il quartiere, riassegnato i nuovi alloggi ai cittadini di Tiburtino III, più grandi, ideati molto bene, cioè gli architetti ci hanno lavorato molto bene, nella spaziatura degli appartamenti... quello che invece è mancato è stato nella costruzione... nel senso che tutti quanti i tramezzi che sono in questi appartamenti, son stati fatti in pannelli di gesso, non c’è forato, non c’è niente, non c’è calce... tutto in pannello di gesso interno e cemento armato esterno, cemento armato pre-costruito, non sul posto, ma nell’officina del cantiere diciamo, che veniva qua ogni mattina con i camion, e venivano montati e assemblati i pezzi già fatti. Allora il gesso col cemento, al minimo rumore, al minimo… passa un camion o altro, c’è questo momento di movimento e il gesso si spacca… ovviamente, essendo la materia più debole, si spacca e nello stesso tempo, il gesso che è interno, dove partono le tubature dell’impianto idrico si mangia i tubi di ferro... e tutti quanti i bagni sono stati parzialmente… totalmente 126
rifatti perché le perdite agli inquilini di sotto e così via... esperienza che ho avuto anche io... perché si bucavano tutti questi tubi di ferro, venivano proprio mangiati dal gesso... quindi mentre erano stati progettati, secondo una mia visione, molto bene dagli architetti, poi in fase di costruzione, si è mancato un po’… Devo dire, le fondamenta sono state fatte molto molto bene però… credo che le fondazioni erano delle opere d’arte, mi fermavo a vedere le fondazioni, veder lavorare questi ferraioli, carpentieri, fare questo cemento era stupendo, poi invece questi blocchi di cemento che venivano assemblati con la gru, messi lì con bulloni o altre cose, no, non era una cosa positiva, e l’interni in pannelli de gesso c’è il rischio che se tu ci metti una cucina, ti casca addosso, parlamose chiaro. La casa ideale è quella abusiva. Lì è nata una esperienza, diciamo, di partecipazione vitale che normalmente non si fa. Conoscete il quartiere di Quaroni quello con le case inclinate,il quartiere Casilino, son tutte frecce lunghe che vanno tutte a convergere… e sono tutte con il tetto totalmente inclinato, una figura straordinaria, inconsueta … allora, ripeto, tutti questi quartieri che sono stati fatti sulla linea dell’est, sono stati poi soggetti di studi , di statistiche, di inchieste. E’ molto triste il risultato di tutto questo perché la popolazione rispose protestando contro la cultura urbanistica, dicendo che il loro ideale era una casa abusiva. Ed è perfettamente comprensibile che fosse una casa abusiva, perché la casa abusiva è grande, è libera me la faccio un po’ per volta, la faccio come voglio io….. Meno proteste furono rilevate sul Tiburtino III proprio perché loro erano ben contenti. Mi ricordo che quando era in costruzione, non saprei dire chi ci sollecitava dicendo «ma dite all’impresa costruttrice di andare più veloce, perché qui ci sono le nonne che vogliono entrare nella casa nuova e hanno paura di morire prima»… e dei giovani in queste riunioni, mentre appunto qualcuno ci urlava che ci dovevamo vergognare c’erano… adesso, insomma, parliamo pure dei complimenti… dei giovani studenti, maschi, femmine ci dicevano «Sbrigatevi, le case che abbiamo visto sono meravigliose». Questo appagava un po’. Poi, in questi film che vi dicevo una delle scene più carine era proprio questa del matrimonio, cioè una coppia che usciva dalla casa vecchia…con lei vestita da sposa, poi andavano nella casa nuova. Una passeggiata nel corridoio di via Mozart
Alessandra Giacinti guida Riccardo Russo e la sua camera nell’esplorazione del corridoio del palazzo «lungo lungo» di via Mozart.
Allora, apriamo questa porta… che cosa è successo, che una volta per stendere i panni mi è caduto un panno giù, di sotto, ma non è andato di sotto, è andato su un pianerottolo, allora ho detto «Ma io come faccio ad arrivare là?» e poi la prima volta che ci sono arrivata, è stata una sorpresa. Allora, quando ho visto questo luogo, ho detto «Vedi, ma come è strano!» adesso è diventato un po’ un immondezzaio, queste cose non c’erano prima, ogni tanto trovi che la gente deposita rifiuti. Ah, vedi questo murales, non c’era nemmeno prima, quando sono venuta io. Allora, di qua c’è una bella prospettiva perché tu ti vedi in tutta la lunghezza, guarda che fico, bello eh? Io non capisco perché la gente, è ignobile, ma questo è uno spazio... cioè non è una discarica abusiva, prendono e buttano qua, ma io non capisco... facciamo una passeggiata? Dai! ... mi ha colpito perché c’è questo spazio... guarda qua, mamma mia, che dici, so’ venuti ad abitare qua? Questo era quello che ti dicevo, qua sotto c’è la biblioteca e vedi qua? sembra come una specie di piccolo teatro, palco, c’è una gradinata, non so, magari ci si poteva... usare questo spazio per fare delle rappresentazioni o degli incontri... era bello, no, l’idea di avere la biblioteca e poi d’estate fare delle discussioni sopra, all’aria aperta. Invece, guarda ch’è diventato, una discarica abusiva, mamma mia, che peccato! Proseguiamo! Ah, poi un’altra idea che m’è venuta, sai con gli skate, con i pattini a rotelle lo sai che ficata, qua sotto? da parte a parte, perché qui continua, dall’altra parte, è altrettanto lungo. Tutte queste scritte non c’erano prima, quando sono venuta io la prima volta, questo era tutto libero e non c’erano scritte. Qua sotto c’è il centro anziani, forse da qui lo vedi? c’è il centro anziani e il pomeriggio sembra proprio 127
una balera perché... cioè, non è che sembra, diventa una balera. Tutti i pomeriggi, soprattutto il giovedì pomeriggio e la domenica pomeriggio ballano e la musica si sente dappertutto, quindi senti questa musica... da balera appunto. Bisognerebbe chiedere agli architetti che hanno progettato quest’architettura, se per loro questo spazio doveva essere adibito a qualcosa, come luogo comune, luogo di socializzazione, bisognerebbe capire e poi magari farli venire qua e fargli vedere com’è diventato invece adesso questo luogo, una discarica abusiva. Ecco, quindi tu ti fai tutta via Mozart, fico, no?, tutta via Mozart... dentro un palazzo.
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8. Le scuole
La scuola, cioè il grado d’istruzione raggiunto o non raggiunto, gli insegnanti e gli edfici scolastici, sono sempre molto importanti nel ricordo e nelle parole di chi ci ha raccontato la propria storia.
Chi ‘a quarta chi ‘a quinta Osvalda Screponi (1935). … chi ‘a quarta e chi ‘a quinta però a ‘e medie ‘n c’è arrivato nessuno. Anna Antonini(1942). Si, a scuola andavamo tutti. Io me ricordo, all’inizio mamma lavorava alle suore, poi alle comunali, quindi insomma… questo ci favoriva. Elsa Cedroni (1928). … ognuno de noi, dopo finita la quinta elementare se n’è andato a lavora’, perché che facevi? E io so’ stata un paio d’anni a casa dopo che ho smesso la scuola, tiravo avanti l’altri due più piccoli. Però a tredici anni, neanche ce l’avevo, so’ andata a lavora’ in fabbrica d’armi, qui al Forte… Bruno Padella (1935). Io ciò solo un rammarico dei miei figli, perché nessuno dei tre se so’ diplomati, questo è un cruccio che mi è rimasto proprio, anche perché io… magari perché ce so dovuto pe’ necessità… Maria Evangelista (1916). Mio marito ha fatto la terza elementare e poi ha preso la quinta quando lavorava perché volevano il certificato di quinta, ma prima le scuole le facevano solo i signori AmeliaMancini (1932). Comunque, niente, la vita andava avanti, io ho fatto le scuole a Tiburtino, ho fatto ch’allora se chiamava l’Avviamento, per dire erano le medie che nun l’ho finite, non ho finito ‘a terza media ecco, perché il tempo dei tedeschi la scuola era stata ferma, coi bombardamenti e tutto quanto. Poi quando ha ripreso la scuola, so’ ritornata a scuola ma nun è che ci so’ tornata co’ tanto entusiasmo, perch’ormai ave’o perso un anno. Nun l’ho finita… basta; poi so’ andata a lavora’ perché io c’avevo ‘a passione de cuci’…del cucito. E so’ andata da ‘na sartina che l’aiutavo e lì ho ‘mparato… GiulioFortuna (1936). Ho fatto la seconda media, poi a quattordici anni ho deciso de lascia’ perde, e so’ andato a fa’ il fabbro, sempre a piazzale del Verano. Marcello Carboni (1935). Io dico, ciò appena a quinta elementare, però so diventato caporeparto co’ a quinta elementare, da ignorante come so’, soltanto pe’ meriti acquisiti di lavoro. Primo Morri (1921). Beh, ho fatto la quinta, dopo sposato, poi ho proseguito andavo alle scuole serali, la sera a Tiburtino III, c’era il fascio là, c’era una signorina che il padre era ferroviere, quando me fece fa l’esame, il professore me dice:«Lei ha fatto la guerra?» dico di si «Dove?» – «In Egitto» - «La conosce la capitale?» – «Il Cairo» rispondo - «Ma lo sa che in Egitto ci passa un fiume? Lo sa come si chiama?» - «Il Nilo!» - «Mi faccia una moltiplicazione, lì alla lavagna». Insomma, ciò tutti 8 e con quello so’ potuto entra’ in ferrovia. Ornella. (1927) Io ho fatto la terza media, l’ho presa lì all’Istituto d’arte… Ah, cioè da piccola avevi fatto le elementari? ‘a quinta… Mi’ marito ha fatto pure lui ‘a terza media. Domenico Zanella (1941).E quindi l’infanzia l’ho vissuta qua in questo quartiere ad eccezione di un periodo di collegio che in quel momento è stato anche molto utile perché mi ha permesso di studiare un pochettino... e di gravare meno sulla famiglia di cinque figli che… Sono stato in un primo momento a Pesaro, molto bello, ho dei ricordi bellissimi, quindi la quinta elementare, e poi dopo da Pesaro andai a Nocera Umbra, e da Nocera Umbra passai a Bassano di Sutri, oggi si chiama Bassano Romano... Quattro anni, si, quattro anni, dalla quinta alla terza media... E poi son tornato a Tiburtino… e poi si è iniziato a lavorare come si faceva normalmente in quel periodo, anzi... diciamo che chi in quel periodo faceva la terza media era già abbastanza fortunato… i resti cominciavano a lavorare già dopo la quinta elementare, quando ciarrivavano... e infatti della mia famiglia sono l’unico che ha la licenza media inferiore, gli altri... Maria e Pina Pala, (1936 e 1947) Pina. Io ho fatto la quinta... Maria. Beh, guardi, io veramente quando facevo le elementari, mia madre me mandava a scuola... io ‘a mattina andavo a scuola... E il pomeriggio andavo dalle suore. E poi ‘n mi cià mandato più, facevo la quarta, poi invece le suore m’hanno fatto prende’ la licenza elementare, e basta, non ho fatto più... Pina. E io invece ho fatto la quinta 129
Le vostre figlie…? Maria. Carla è andata qui all’Arte sacra fino... ha preso il diploma de Maestra d’Arte, invece Paola mia è andata a… Operatrice turistica, là al Colosseo, da que’e parti... non s’è diplomata, ha fatto tre anni e poi ha lasciato perde’. Pina. Invece la mia ha fatto il liceo linguistico, sempre privato ... E poi dopo è andata all’università e si è laureata in Scienze politiche. La piccola fa la maestra. Una scuola di legno Domenico Zanella. …e qui nel ‘38, 1938 fu costruita ‘a chiesa, ‘43 la scuola, prima del ‘43 c’era una scuola di legno qua alle mie spalle che si chiamava allora lotto X, questo fino al ‘43, quando che si costruì, ma la prima scuola media venne nei primi anni Sessanta, la Scuola Media dell’Arte Sacra... prima i ragazzi di Tiburtino, chi poteva andare a scuola media, andava alla Cacciarella, si chiamava così, quella che adesso è all’avvio della Tiburtina, dove cominciano le Tre strade, sulla destra, via Casal Bruciato. Giuseppa Cassone(1925). Il primo asilo è stato fatto dentro un appartamento vicino alla chiesa, proprio all’inizio della borgata. Un appartamento l’avevano adibito ad asilo per i bambini piccoli e un altro appartamento per i bambini della scuola elementare. Poi, successivamente, fecero delle scuole di legno; proprio di fronte al V° lotto, dove abitavamo noi, e di fronte c’era il lotto X. Quelle, nel ‘40,’41... Rosella le medie le faceva qui sulla Tiburtina, invece Tonino me pare l’ha fatte dai Salesiani, sia le medie che le professionali, al Gerini. Si, si, Tonino al Gerini. Si. Siccome non erano parificate le scuole, a quell’epoca, con lo Stato, allora l’esame lo dovevano andare a fare fuori. BrunoPadella. C’erano le scuole di legno che mio fratello c’è andato perché ha fatto la prima lì, poi dopo hanno fatto questa scuola qui, questa che sta a via del Frantoio. GiorgioArezzi (1950). Dalle suore ho fatto un anno di scuola materna, e poi gli altri due anni l’ho fatti qui alle comunali, alla Fabio Filzi. Poi ho fatto cinque anni di elementari, con la maestra Candone. Poi invece per la scuola media dovetti andare a via di Casal Bruciato, alla Pio XII, credo fu il primo esperimento di scuola media unificata. Dopo tre anni di scuola media ho fatto l’istituto professionale di arti grafiche Panfilo Castaldi che era attiguo alla scuola media e lì ho preso l’attestato di compositore a mano, con cui ho iniziato quasi subito a lavorare. Mia sorella... ci fu qui un ciclo di avviamento al lavoro che, dai suoi racconti, perché lei è sette anni più grande di me, si svolgeva in locali nei pressi della piscina, qui in via del Frantoio. E mi ricordo che erano classi in legno, perché nella Fabio Filzi c’era la scuola elementare, in muratura, e c’erano queste baracche, perché in realtà di questo si parlava, in legno dove ci fu l’avviamento al lavoro di mia sorella. Poi furono distrutte e mi ricordo di questo legname buttato nella piscina… La Fabio Filzi e la scuola speciale Marisa Morelli (1932) I figli sono andati tutti alla Fabio Filzi? Tutti! Allora la Fabio Filzi era una scuola così bella, bella prima di tutto come posto, per la posizione dove sta, poi come funzionava bene… c’era di tutto, c’era il guardiano… in effetti pure le prime figlie mie ci so’ andate qui alla scuola delle suore, c’era la Filzi, però che ne so io, si andava dalle suore… però all’asilo io ce l’ho mandate, solo l’asilo. Che poi non ce so’ volute anda’ più perché la pupa me diceva che la suora gli dava sempre le botte sulle mani… Però prima era più bella la scuola, perché c’era intanto la vigilatrice, tutti i giorni, l’assistente sociale, i medici, i medici scolastici che facevano il giro co’...Adesso è sparito tutto, non c’è più niente Marisa Marcellino (1938). Il parco che c’è la pineta, quello ha sempre fatto parte della scuola, la Fabio Filzi, poi è stata data ai vigili, adesso ci sono i vigili urbani. Si, c’era la scuola professionale,l’avviamento professionale dove sono andata anche io, e c’era la piscina, una cosa bellissima, era aperta tre mesi all’anno di estate perché era scoperta, e lì c’erano degli istruttori che hanno insegnato quasi a tutti i ragazzi a nuotare, compresi i miei figli quando quando toccò il turno loro. Giancarlo Carbonara (1947). Niente, niente cambiamenti. Quello che ti ho spiegato prima, è sempre andato in peggioramento, i cambiamenti ce ne so stati molto pochi. C’è stata anche ‘a decadenza de ‘e 130
scuole. Era una de ‘e migliori scuole diciamo a livello de Roma, co’ ‘a pineta, un parco del genere. E’stata abbandonata. Cercano d’arimetterla a posto, dimostra il fatto che essendo un quartiere in decadenza, ce so’ iti i vigili, ma lì c’erano le classi degli alunni, là, dove stanno i vigili. Prima era tutt’occupata da bambini. Bianca Karpati (1949). E questa è la Fabio Filzi,si, è materna ed elementare, però sono rimaste tre, quattro classi in tutto. Di materna non lo so, di elementari tre, quattro classi, infatti è un mistero perché la tengano aperta, con tutto quello che comporta di manutenzione, di bidelli, mensa ecc… questo è il giardino della materna, qui c’è il refettorio, poi c’è dietro quell’altro edificio prefabbricato… era sempre scuola, era tutto pieno allora. Anche perché non esistevano ancora la Santi e la Calvino… E quindi noi avevamo bambini di Tiburtino e di Colli Aniene, insieme. Dove adesso ci sono i vigili erano tutti laboratori bellissimi perché qui c’era la scuola speciale più all’avanguardia di Roma. Per bambini handicappati. Io lavoravo all’inizio nelle scuole speciali, nel ‘74,’75, facevo le supplenze nelle scuole speciali, sono andata a Ponte Bianco, alla Mameli, erano veri e propri lager, ho avuto esperienze terrificanti nelle classi. E questa invece era una scuola speciale proprio all’avanguardia, venivano i bambini dall’Eur, da tutta Roma… c’era il laboratorio di ceramica, il laboratorio di musica tutto attrezzato con strumenti musicali, il laboratorio di economia domestica con la cucina, i divani, i giochi di società, poi c’era l’aula di psicomotricità. Inizialmente io lavoravo coi bambini rom e allora per lavorare coi nomadi ci voleva il titolo di scuola speciale, perché erano considerate comunque classi speciali, e poi un altro titolo in più, e io sono arrivata qui nel 1975. Non conoscevo assolutamente Tiburtino se non dai libri di Pasolini, e ho iniziato con questa classe di sedici bambini rom, i nomadi questi qui stanziali, si si, però allora frequentavano le classi speciali. E poi proprio l’anno dopo che io sono arrivata, c’era una direttrice favolosa, la Rocca Cappelli, che iniziò l’integrazione, per cui io quell’anno ho curato l’inserimento di questi bambini nelle classi normali, e poi l’anno successivo ancora, nel 1977, ho avuto proprio la mia classe e ho iniziato a lavorare con i bambini di Tiburtino. All’inizio l’integrazione dei bambini rom è stata un po’ difficoltosa, si, abbiamo dovuto fare delle assemblee, c’erano queste mamme che erano molto perplesse, però noi abbiamo avuto una direttrice molto illuminata, molto aperta, la Rocca Cappelli che ha saputo mediare molto bene… ecco io prendevo questi bambini, inizialmente li portavo prima un’ora al giorno nella classe, poi un po’ di più, li facevo abituare, insomma è stata una cosa molto graduale. Ha funzionato, si, infatti fino che ci sono stata io, son sempre rimasti i bambini inseriti… Poi dopo il campo nomadi che stava dove adesso c’è il centro sportivo è stato smantellato, è stato spostato a Ponte Mammolo, lì sotto Il Frustone, poi adesso sono state date… la zona a via della Martora, verso la Collatina vecchia, adesso stanno lì tutti lì i campi attrezzati, diciamo attrezzati… Partecipavano anche i genitori rom? No, no, assolutamente no… noi andavamo a prenderli spesso, c’era un’assistente sociale, Maria Rinaldi, andavamo con lei, la mattina, a piedi, facevamo proprio la raccolta dei bambini e poi li portavamo a scuola e seguivamo, ci occupavamo delle loro vaccinazioni. Dove adesso c’è l’asilo nido, prima c’era un ambulatorio, c’era uno storico infermiere, Domenico: lui vaccinava tutti questi bambini, si era fatto tutte le cartelline cliniche di questi bambini… ci chiamava lui quando dovevano essere vaccinati, avevamo seguito proprio tutto un piano di vaccinazioni… Però c’era meno burocrazia a quei tempi e quindi le cose si potevano fare in modo più facilitato, adesso per ogni cosa ci vogliono permessi, contro permessi… Paola Spano. Nel giro tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta hai visto un cambiamento nella partecipazione dei genitori? Allora, io dopo, negli anni Ottanta sono andata a lavorare alla Calvino che è la scuola elementare di Colli Aniene, perché ho avuto l’incarico lì, però poi mi sono sempre portata dietro alunni di Tiburtino III. Molte famiglie anche hanno scelto di andare alla scuola Calvino e hanno rifiutato la scuola Fabio Filzi perché volevano in qualche modo elevarsi socialmente, altri invece hanno continuato a combattere per la scuola di quartiere, ma sono sempre di meno perché ormai qui ci sono rimaste tre, quattro classi… attualmente nella mia classe, metà sono bambini di Tiburtino e molti sono figli di alunni … sappiamo che nei quartieri si crea un po’una tradizione, si affezionano a una maestra, e vogliono continuare e quindi ho ancora tanti di questi bambini. Sto pensando a cosa è cambiato, bah… Certo ci sono delle famiglie splendide, famiglie che hanno dato possibilità ai loro figli veramente di esprimersi e di realizzarsi 131
anche se partivano da situazioni, magari i genitori analfabeti. C’è un mio ex alunno che si è diplomato col massimo dei voti, lui voleva sempre sin da piccolo diventare calciatore, e io gli dicevo «Prima studia, poi diventa calciatore»; e poi si è diplomato con il massimo dei voti ed è diventato anche calciatore, mentre la sorella ha cominciato scrivendo sul giornale di quartiere e ora scrive su Il manifesto. Infatti la mamma diceva «Da dove saranno usciti questi figli miei che io sono una casalinga analfabeta e il papà è un lucidatore di mobili?». Un’altra mia alunna, facendo un’esperienza di teatro, aveva voluto a tutti costi fare Angelica, nell’Orlando Furioso, dice «A me piace questa idea di essere la principessa del Catai», e poi le è rimasta questa curiosità e si è iscritta a lingue orientali e ora mi diceva che va a lavorare in Giappone. Quindi questo è un aspetto… ci sono queste famiglie che danno ai figli, questa possibilità di seguire una propria strada, che non sia quella, diciamo, più banale ecco. E il risvolto della medaglia è che invece ci sono quei cosiddetti bambini sgarrupati e ce ne sono tanti… sono famiglie seguite dai servizi sociali, oppure ci sono bambini che avrebbero realmente bisogno di aiuto, e i genitori rifiutano e quindi lì ci dobbiamo arrabattare noi, non abbiamo nemmeno la possibilità di avere un appoggio dal consultorio, dalla Asl, di avere un sostegno oppure una terapia esterna, perché i genitori hanno paura di dire «Mio figlio non è come gli altri, mio figlio non è all’altezza» e quindi preferiscono lasciare che il bambino abbia delle difficoltà che seguirlo, insomma. Paola Spano. Ma c’è tutto un mito, appunto, degli anni Settanta «con le porte aperte» no… a te risulta, rispetto ai bambini che hai adesso in confronto a quelli degli anni Settanta, questa differenza? Ma adesso è cambiata la scuola! Eh no, loro magari verrebbero, per esempio una mamma l’altro giorno m’ha detto, sempre la mamma di Tiburtino di cui già ho avuto un figlio che ora ho l’altro figlio «Senti quando posso venire a prendere il caffè da te perché, dice, qui non possiamo parlare» oppure c’è l’altra che mi telefona a casa, la scuola ora è diventata molto più burocratica… Negli anni Settanta non esisteva l’insegnante di sostegno, cioè ci facevamo un po’ tutto da sole e però appunto c’era anche la possibilità di fare molte più cose, quasi vivevamo dentro la scuola, eravamo noi stesse che spidocchiavamo i bambini, ci mettevamo lì nella famosa pineta, sedute col bambino seduto davanti e gli levavamo i pidocchi, facevamo le docce ai bambini; adesso per ogni cosa ci vuole autorizzazione, poi la sicurezza, la privacy, il bambino va tenuto a distanza, insomma tutta una serie di cose; quindi dipende più forse da un contesto generale questo che non dal quartiere; no, sicuramente dal quartiere no, perché, come ti ripeto, queste mamme ancora mi cercano proprio a livello personale, appunto, dice «Posso venire a casa tua?» La partecipazione dei genitori Mi sono trovata al consiglio di circolo prima, poi quando mio figlio grande è passato alle medie, sono passata anche alle medie. Io mi son trovata bene, per il mio temperamento che prendo e me butto nelle cose… Con Leda Rocca Cappello all’inizio, lei sapendo di che partito fossi io, logicamente eravamo un po’ in contrasto… però sono riuscita a farmi dare tutto il padiglione per la scuola media, quindi ho avuto un successone lì, ormai c’era la stima tra di noi… Ma questo è avvenuto anche perché quando le bidelle erano in sciopero, noi prendevamo il posto delle bidelle, noi genitori del consiglio. Riccardo Morri. Questo non contrastava un po’ con l’essere iscritto al Partito Comunista, lavorare al posto delle bidelle in sciopero? No, perché noi pur di far funzionare la scuola, noi mamme è logico che ci adattavamo a tutto. Quando le insegnanti hanno dovuto far dei corsi di preparazione perché avevamo chiesto il tempo pieno per tenere aperto sino alle quattro e mezza, noi abbiamo dato la possibilità alle insegnati di andare a fare il corso. Allora Anna Catroppa, c’era in quell’epoca al consiglio di circolo, portava i libri di fiaba e nella classe gli leggeva il libro di fiaba; io con la matematica e l’italiano, si giocava, saltando le tabelline…Ogni mamma si teneva una classe e le insegnanti poterono così fare il corso tranquillamente. Quando d’estate i vandali… abbiamo trovato la scuola dei disabili distrutta, con tutti escrementi per terra, i vetri tutti rotti… e quindi Leda Rocca Cappello ci chiamò e ci disse che la scuola non si sarebbe potuta iniziare il giorno di apertura e in effetti non sapevi dove pote’ mette i piedi. Le bidelle si rifiutarono di pulire tutti quegli escrementi e quei vetri, anche perché era pericoloso, e allora ho organizzato tutte le mamme del consiglio di circolo di avvertire tutte le altre mamme, con i papà. Quindi di sabato e di domenica siamo andati dentro la scuola con gli spazzoloni e i disinfettanti, de tutto…uomini, donne, anche i nonni son 132
venuti, squadroni proprio e abbiamo pulito. Abbiamo telefonato all’assessore che allora era Mirella D’Arcangelo e gli abbiamo chiesto di mandare a mettere i vetri perché non si poteva aprire la scuola. Mirella D’Arcangelo venne di persona a verificare, perché logicamente era una grande spesa… La scuola era più pulita quell’anno degli altri anni… e Mirella D’Arcangelo, non appena abbiamo detto e che potevano venire gli operai, ci mandò la squadra del comune e fece rimettere tutti i vetri, e il giorno dell’apertura de tutte le scuole, si è aperta la scuola nostra. Riccardo Morri. Ma la vostra reazione, diciamo così forte, era dettata dal fatto che non si voleva darla vinta ai vandali oppure legata al fatto che la scuola era un bisogno reale, per cui tener chiusa la scuola una settimana o dieci giorni, avrebbe portato un grosso discapito alle famiglie di Tiburtino terzo? La scuola era una necessità, anche perché molte mamme andavano a lavoro, quindi non tutte le nonne si tengono i loro nipotini, o perché non possono o perché stanno male o per qualsiasi cosa. Le mamme andavano al lavoro tranquille che i ragazzi stavano dentro la scuola e per questo abbiamo fatto mettere la scuola a tempo pieno. L’Istituto d’Arte Sacra Giorgio Zama (1928). E tra l’altro tra queste scuole c’erano anche una o più scuole prestigiose, che cioè non avevano un’attività solo locale… L’istituto d’Arte, ecco. L’Istituto d’Arte, quando fu fatto il concorso sulle nuove chiese a Roma, ma parlo degli anni Settanta, addirittura si aggregarono, spero di non essere impreciso, al più grosso architetto romano che è Quaroni. E Quaroni presentò una strana sfera, ma in cui praticamente chi aveva partecipato erano gli studenti, forse anche i professori di questo istituto d’arte… Giancarlo Carbonara. E’ stato…nel 1967, è stato aperto dal famoso preside Rossi Si, Rossi, eh.,i fascisti, dicevano, causarono ‘a morte… l’Istituto d’Arte poi è cambiato, mo’ è diventato un liceo, prima era proprio specifico per artisti. Nel ‘67 l’Istituto non arrivava manco a cento alunni, poi è cresciuto ovviamente, piano piano è cresciuto… Se andava là dentro a quell’epoca trovava proprio le opere d’arte fatte da artisti, fra cui uno dei maggiori scultori italiani che è Nena. Non insegna più, ma sta qua. E lui ha insegnato molto, era professore anche de mio figlio; che ha fatto l’Istituto d’Arte, è pure maestro d’arte. Ornella. Io ho fatto prende’ la scuola a Enzo Rossi, l’Istituto d’Arte. E quando è venuto Enzo Rossi io gli ho detto «Senti, noi te famo prende’ ‘a scuola» Quando lui è venuto me pareva ‘n prete… E’ quello che gli hanno ammazzato er fijo all’università.Venne ‘sto signore, e io je dicevo a mi’ madre «Ah, ma’…» io già ciavevo Marco e Katia «Ma’, questo me vie’ appresso, ma che vo’ da me?» Allora mi’ madre dice: «Ma tu ‘o conosci?» «No, non ‘o conosco». Allora un giorno me dice «Ma tu te….» Perché me chiamaveno Speranza, il nome de mi’ marito, dice «Ma tu sei Ornella Speranza?» dico «Si, ma che voi da me?» Dice «Io vorrebbe prende’ ‘sta scuola, sono andato anche dai preti...» «Ecco, allora seguita a anda’ dai preti perché io nun t’aiuto» E me ne so’ annata. Dopo invece è venuto il giorno appresso, m’ha detto «Senti, Ornella, a me mi manda Marisa Rodano» «Ah, me lo potevi di’ prima!» Ho lottato tanto, j’amo fatto prende’ ‘sta scuola, e c’ereno sei aule de le medie. Dopo amo lottato e hanno aperto, hanno fatto quella a piazza dell’Ardimento. Dopo lui m’ha detto «Vieni a lavora’ da me» perché i regazzini ‘n ce volevano anna’. Questo me ‘ha detto nel ‘66. E io tutti i giorni stavo là dentro, perché c’ereno quelli che je rompeveno i vetri, io conosco tutto Tiburtino, allora annavo pe’ ‘e case… «State boni, a noi ce serve ‘a scuola» E vabbe’!. Nel ‘74 mi’ marito, quando lui me l’ha chiesto, m’ha detto «No, tu non ce vai a lavora’ Perché? dopo ‘a gente dice che tu sei ita… j’hai fatto prende’ ‘a scola pe’ anna’a lavora’» che mi’ marito era… «Vabbe’, ‘n me ne frega niente» Il giorno appresso so’ ita da Enzo Rossi e j’ho detto «Io te mando’n’amica mia» Dice «No, io vojo a te, no ‘n’amica tua!» E basta, è finito così. Nel ‘74 m’ha chiamato il vicepreside e m’ha detto «Ornella, qui succede ‘na baraonda, vieni a lavora’, sei ‘na cretina!» Dico «No» a me mi’ marito me portava ‘a mesata, eravamo quattro persone, dico «Sai che faccio? io ce vado!» Però io già lavoravo a la cooperativa dei muratori, a Colli Aniene, ai cantieri e facevo ‘a mensa.. Dico «Mo’, ce vado» So’ annata là, me pagava Enzo Rossi, me dava settantamila lire al mese. E quanno è ito a casa mi’ marito, m’ha detto: «‘Ndo sei annata?» «So’ ita a
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lavora’, perché non ciavanzeno i piedi fori dal letto, Virgi’. Mo’ vado a lavora’». E ciò lavorato vent’anni. Antonietta Destro (1945). Per me è stato una folgorazione l’incontro con Rossi...quasi una sorta di innamoramento...se si può dire, perché era una persona molto calda, piena di umanità... La storia di questa scuola comincia con lui, perché l’ha fortemente voluta; ha fatto tutte le battaglie burocratiche molto appoggiato in Vaticano, da Monsignor Ciattaglia e di fatti nasce come Istituto d’Arte per l’arredo e la decorazione della chiesa, tant’è che tra le materie curricolari, a parte religione, c’era anche storia sacra con un prete di questi sanguigni, venuto da Parma, molto sgarbato e sgradevole, di grande cultura, ma insomma pure lui faceva parte del circo. Io sono arrivata nel 1969 in modo del tutto casuale perché la mia amica Orietta, la figlia di Enzo, mi ha detto che suo padre aveva bisogno di una insegnante di storia dell’arte. E venivo a sostituire una specie di mito, Marisa Volpi Orlandini, che aveva appena avuto un incarico all’università di Cagliari e... niente, ho preso le classi, compresa quella di Miriam che poi è diventata una carissima amica., anche perché la differenza d’età era minima. Miriam era una specie di capo popolo in classe.e vabbe’, non racconto la storiella di come mi hanno accolto i ragazzi... mi hanno sicuramente messo in prova, me lo ha detto poi Miriam a distanza di anni... «Questa chi è? Che c… vuole... le diamo una settimana» ma dopo qualche tempo mi hanno accettata ed anche direi amata perché poi essendo così giovane e piena di entusiasmo... non avevo mai insegnato e mi era toccata una cattedra, oltre a storia dell’arte che era la mia specificità, anche italiano e storia, quindi ho studiato come una pazza per potere, come dire, essere all’altezza. Era una seconda o una terza, perché poi c’erano i due anni compensativi, aggiuntivi che consentivano l’ accesso all’Accademia e all’Università. L’Istituto d’Arte di per sé tecnicamente era una scuola professionale, un istituto triennale, ma con una sua forte specificità, infatti alla fine del triennio si conseguiva il diploma di maestro d’arte. I ragazzi in parte erano del quartiere, però molti venivano da fallimenti scolastici, magari al liceo e quindi c’era anche uno strano mix dal punto di vista sociale… c’erano i Tiburtaros, come si chiamavano loro, sempre attentissimi e pronti alla lotta e gli studenti di estrazione alta... Una delle persone più care, purtroppo è morto, si chiamava Massimo Avvisati, detto Pelle per quanto era magro, un bellissimo ragazzo, molto battagliero ma pulitissimo… quando ammazzarono Pasolini, lui scrisse un bellissimo articolo su Lotta Continua, perché Pasolini veniva e loro lo conoscevano bene… C’era anche un altro Pelle, Massimo anche lui, Pelleuno e Pelledue, era il soprannome, perché erano secchi… Enzo Rossi è stato bravissimo a convogliare le persone più diverse su un obiettivo comune e l’obiettivo comune e che io ho sposato subito era quello di una scuola laboratorio. I laboratori sono parte intrinseca e caratterizzante per un istituto d’arte... non a caso gli istituti di arte sono spesso legati ad attività artigianali tipiche del territorio, Questo istituto nasce con questa buffa specificità di arredo e decorazione della chiesa, però gli artisti che operavano come direttori di laboratorio erano di altissimo livello, da Bebbe Uncini, anche lui non c’è più, scultore le cui opere sono in giro per il mondo, nella stessa Galleria di arte moderna di Roma... o Carlo Lorenzetti... o. Ghigo Gallian, anche lui non c’è più . Adesso non ricordo tutti i nomi… Bendini , che è venuto da Bologna.... e in realtà l’etichetta «arredo e decorazione per la chiesa» ha poi significato una sperimentazione anche per i ragazzi veramente di alto livello e senza limiti… molti di questi ragazzi non sono diventati artisti, uno faceva la guardia giurata, un altro il vigile...chi ha studiato e chi si laureato... però alcuni sono diventati degli artisti di chiara fama come Nunzio che nasce con uno studio a San Lorenzo, anche lui notissimo... Un’altra ragazza è diventata una famosa stilista, qualcuno purtroppo si è perso e... insomma una scuola piccola, di qualità, gestita con molta intelligenza, in un quartiere difficile ma noi insegnanti siamo stati perfettamente integrati nel quartiere, grazie anche all’alleanza che Enzo stabilì con Ornella e Virgilio Speranza. Come mai Enzo Rossi ha voluto così fortemente questo istituto d’arte, quando già c’era il liceo artistico? Perché la sua idea molto forte era che per iniziarsi all’arte, bisogna cominciare da subito, e lui ricordava la sua esperienza, ha cominciato da ragazzino, alle medie, in un istituto d’arte di Perugia. Come preside Enzo Rossi era meraviglioso… .io infatti quando poi ho incontrato i presidi veri mi sono resa conto di che razza fossero... lui era capace di dialogare con i ragazzi, li prendeva uno per uno, li convocava in presidenza... mai il pugno di ferro, sempre il dialogo apertissimo e credo che lo hanno amato veramente tutti, tutti quelli che sono passati per questa scuola hanno, perlomeno per gli anni in cui Enzo è rimasto, hanno un ricordo eccezionale degli insegnanti, di lui, dell’ambiente... insomma 134
sicuramente è una cosa che ha fatto storia nel quartiere... Senti, e quanti alunni avevate? Pochi, centocinquanta, si, pochi. Nei laboratori a parte il direttore di laboratorio c’erano gli assistenti e un ragazzo, con il solo diploma di maestro d’arte, quindi dopo tre anni di scuola, se non andava all’accademia, poteva diventare subito assistente. Difatti, un alunno, finiti i tre anni me lo sono ritrovato collega.. Walter Gatti, ancora mi ricordo il nome... e poi,.scuola piccola, radicata bene nel quartiere, corpo docente selezionato; gli studenti no, perché ti prendevi quelli che arrivavano, però venivano immediatamente coinvolti.. Addirittura Enzo volle fortemente in via sperimentale un insegnamento di economia e venne appunto a tenere queste lezioni un bravissimo economista giovane, ambizioso, inglese, Edwin Fletcher... e i ragazzi erano contenti, nello stesso tempo però quei ragazzi di cui parlavo prima, quelli più politicamente impegnati… tipo Pelle.che faceva «No, no, no con i tuoi discorsi a me non mi freghi, io non ho le tue parole ma non mi freghi» proprio a pelle sentiva che c’era qualcosa di subdolo che comunque lo voleva portare da un’altra parte. Miriam Fiorellino (1952). Guarda, parlare di Tiburtino III è sempre una fonte di grandi emozioni. Ancora, guarda, mi emoziono,è stata un’esperienza fortunatissima, è come un grande amore che non tutti possono conoscere, era questo amore travolgente, importante, anche perché andava a toccare delle fasi della vita dei ragazzi… perché lì poi ce n’erano parecchie di storie particolari, ci sentivamo molto costretti... io ero fuori da ogni grazia, fuori dalla famiglia, con la testa grande competizione col mondo fuori, la mia parola preferita era «No, vaff......». Ci sono arrivata tardi, perché la mia famiglia voleva che facessi il classico, iovolevo fare il liceo artistico, ma una ragazza di buona famiglia non fa il liceo artistico. Obbligata a fare un pezzo di classico, due mesi, m’hanno sbattuto fuori, allora per punizione mi hanno mandato, perché a casa mia da padre fascista, simpatico ma fascista, poi secondo me proprio non ci capivano niente con l’educazione dei figli, poveretti, e allora punizione, bene «Vai a fare la segretaria d’azienda» io ero furiosa. Allora, segretaria d’azienda, in viale Manzoni. La cosa è andata molto velocemente perché il secondo giorno già ‘n ce so’ andata più e andavo in via Emanuele Filiberto e lì ci vivevano tutte le puttane, tutte le case chiuse, c’era anche una clinica dove facevano aborti. E c’era l’unico bar, tra l’altro di un omosessuale. E veniva sempre questa puttana, che veniva e gli cantava, s’era innamorata del barista omosessuale. Ciaveva un figlio in Ciociaria, dalla solita balia. Venne lì e mi disse «Ma perché non vai a scuola?» «Perché non me va» «Senti, allora te vuoi guadagna’ qualche soldo?» dice «Mi vai a portare a viale del Tritone, al Messaggero…?» ogni mattina prima portavano AAAcercasi. E io quindi andavo con l’autobus, che io da sola non l’avevo mai preso, mi sembrava lontanissimo… Avevo quindici anni, quattordici e mezzo, e vabbe’ e mi ricordo questo bancone bellissimo del Messaggero che non ciarrivavo, quindi con la punta dei piedi e passavo il bigliettino AAAcercasi, pagavo, me davano la ricevuta e andavo a casa. E io lì mi ci compravo i libri, i dischi... Poi però a un certo punto è arrivata la pagella e quindi dopo ben tre mesi s’è scoperto tutto l’arcano, alla fine ho lasciato. «Dimmi dove vuoi andare» «Non lo so» l’affronto era stato troppo. Poi a un certo punto, eravamo sull’autobus con mia madre e c’era la pubblicità, Istituto statale d’Arte per la decorazione della chiesa. A me mi sembrava un affronto a me, a loro, era l’arte sacra, Lì mia madre rincuorata ha detto «Andiamo» e così sono entrata. Però sono entrata poi male. C’era Enzo Rossi molto affabile, anche molto paterno che in quel momento la figura paterna a me piaceva molto, ero molto attratta e poi mi ricordo questo incontro in palestra, tipo assemblea, un po’ con tutti «Tu che vorresti fare, che ti piacerebbe fare» per poi scegliere le sezioni dove andare. E io dissi «Per me è uguale tutto» «Ma come?» c’era la Benedetti «Ma Miriam, ma dicci, no, dove vuoi provare?» prima uno, poi l’altro, perché bastava l’iscrizione però poi dopo si prendevano il loro tempo e ti lasciavano prendere il tuo tempo per decidere quale specializzazione. Erano tutti così dolci e paternali che io ho detto «Allora, premetto, io farò quello che devo fare, quindi studiare, però non mi serve l’aiuto di nessuno, non mi sarete utili nè voi a me nè io a voi. Punto, finito» E poi, che ne so, invece io ho dovuto crollare... sciogliere per forza, con un impatto dove nessuno ha preso posizione, dove nessuno chiedeva cose, dove nessuno teneva conto... o meglio nessuno teneva negativamente conto... d’altra parte lì dentro tutti erano guardati molto con rispetto, era proprio il modello di capire la 135
persona che era davanti. E si partiva dal concetto che qualsiasi persona era davanti aveva delle potenzialità, e questo, è innegabile, questo è stata la cosa grande di quella scuola, nessuno era lasciato a piedi… Non c’era nessuno che non... stavano tutti a scuola, chi usciva alle due, chi usciva alle sette, chi usciva alle sei, non c’era un orario, non è che tutti scappavano, tutti rimanevano lì, rimanevamo tutti lì! Non solo, chiedevamo pure il permesso «Devo finire una cosa» dice «Vabbe’, il bidello va via, chi è che chiude? professori chiudete...» i professori dei laboratori ciavevano le chiavi. Era tutto molto unito, nessuno lavorava da solo, neanche loro, tra insegnanti, c’era tutto un lavoro di squadra, era tutto legato. Ma le differenze di classe le percepivate? No. Assolutamente, neanche tra gli insegnanti, perché c’erano,capito? eh, c’erano! C’era una Benedetti piena di soldi, c’era Felice Ragazzo, con il padre falegname. E’ questa la grandezza di questa storia, che nessuno si trovava a disagio, nè culturalmente nè nello stare, poi andavamo a casa di tutti... Antonietta Destro. Però, io non lo so, persone come la figlia di Angelica De Chirico o la Bacalov o la figlia del regista De Seta, è vero che diciamo c’era questo amalgama, però è vera anche una cosa, che poi Massimo Avvisati, che cantava «questa casa è tutta da bruciare», se ne tornava nella sua catapecchia di Tiburtino III e quelli se ne tornavano nelle ricche case borghesi coi quadri... Le sacramentine Regina Bruschi Polidori (1960). Le Sacramentine so’ venute come suore missionarie, qua, nelle borgate difatti, le suore Sacramentine, quando vennero: Tiburtino, Pietralata, San Basilio, Primavalle... Pina. Però, io devo di’ ‘a verità, me ce so’ trovata bene... Regina. E’ stata un’isola felice! Pina. Eh... so’brave! Adesso sono sei Maria. Poi tutte anziane... Pina. No, la superiora, me pare che ciabbia… Paola Spano. E invece la scuola che tenevano prima, quanta gente c’era? Pina. Eh, tanta! Paola. E in convento quante suore c’erano? Maria. Tante, tante suore prima! E tutte giovani poi... Tutte su dall’alta Italia veniveno e infatti loro, almeno quando c’ero io, ciaveveno doppie... c’era ‘a prima maschile e e ‘a prima femminile, la seconda... fino alla quinta. Paola. E c’era anche la scuola materna? Maria.Si, pure l’asilo c’era Pina. Ogni classe portava sessanta bambini, e una suora sola! Si, era tanto, però… Regina. Però insegnavano, veramente… Pina. … hanno insegnato bene, cianno insegnato l’educazione, cianno insegnato i valori che oggi nun ce sono più… Paola. Com’è avvenuto il cambio con queste suore che ci stanno adesso... Pina. No... sempre Sacramentine sono... solo che adesso hanno chiuso perché... Praticamente adesso ci sono troppe esigenze, vogliono l’area della classe, vogliono la palestra, e vogliono la sala pranzo… Paola. Non c’è neanche scuola la materna? Pina. Si si! e ci lavoriamo... Paola. Quanti bambini ci stanno? Pina. Adesso, all’incirca cinquantadue bambini, da tre anni in poi... Paola. Quand’è che hanno smesso di fare le elementari, le Sacramentine? Regina. Novanta....nel duemila più o meno? Eugenio è nato nel Novantadue, quindi a sei anni che cos’era?Il Giuseppa Cassone. Si. Antonio è andato dalle suore, invece Rosella l’avevano presa in antipatia e c’era una suora che gli dava tante di quelle botte. Eppoi, nun so’ bugie, perché me lo raccontava mia nipote Gina e un’altra bambina che stava lì; volevo anda’ da ste suore a reclama’, ma mi dicevano di non andare altrimenti facevano la spia e li trattavano peggio. Alla terza elementare l’ho portata via. 136
Amelia Mancini. Comunque, stringendo i denti, so’ riuscita a manda’ i bambini a scuola tutti quanti da’e suore, tutt’e quattro. ReginaBruschi Polidori. Le suore de Tiburtino. Amelia. Le suore de Tiburtino. Un anno ce n’avevo addirittura tre, da ‘e suore, che so che adesso quando so’ tre ne pagheno due soli, ‘nvece ‘na vorta pagaveno tutti quanti… Regina. Tu ce sei mai andata da’e suore? Amelia. Si, quand’ero ragazzina io andavo da’e suore, al doposcuola. Regina. Già c’erano quindi. In che anno so’ venute ‘e suore? Amelia. Beh, che anno so’ venute nun me lo ricordo, però ero ragazzina io, quando so’ venute, perché ce favevano il teatrino, anzi mamma je prestava de’i scialli quando faceveno il teatro, ‘ste cose qui… e io da ‘e suore… Regina Bruschi Polidori. Mia madre, nella sua confusione mentale, però aveva stabilito che l’insegnamento dovea esse fatto bene, e sono andata dalle Sacramentine e tutti, io coi miei fratelli. E me so’ trovata molto bene, perché ‘e ho fatte impazzì com’ho potuto… Addirittura in terza elementare, d’accordo co’ mia madre, me legavano al banco, mia madre j’ha mandato la corda, si, era autorizzata la suora a legarmi al banco. Se stava fino alle tre e mezza, fino alle tre e mezza e mezza giornata il sabato, si. Però io ero una de quelle agitate, quindi ‘na volta andavo aiuta’a ‘e galline da’a suora quella che faceva tutti ‘sti lavori, ‘na volta portavo la legna, ‘na volta distribuivo ‘e penne, perché ferma non ce stavo, quindi qualcosa me davano da fa’. Mo so’morte tutte quelle mie, porelle… Sandra Fortuna (1964). Poi per metà adesso c’è un centro di accoglienza per ragazze madri, cioè la scuola è stata sostituita, una parte l’hanno venduta perché hanno chiuso la scuola elementare; hanno solo la materna ch’è gestita dalle suore Sacramentine che abitano lì, e un’altra, una metà è stata ceduta e ci sono…un altro ordine di suore che adesso non so come si chiamano. Portano via dalla prostituzione le ragazze prostitute che poi magari hanno un figlio…Si, è una casa d’accoglienza. Regina. Le accolgono, le aiutano anche a trovare lavoro… gli tengono i figli, nel frattempo loro se possono vede’ ‘n attimo con calma fino a che non le sistemano, poi c’è il ricambio, er ricambio de’e ragazze, di tutte le razze, anche se il concetto de’ razza non esiste però…tutti i colori veramente, si; anche ‘e sudamericane,anche rumene, si, de tutte ‘e parti… è carina ‘sta cosa. Sono quindici persone compreso tre suore. Il laboratorio Amelia Mancini. Si, beh ce so’ stata io a ricama’, da le suore. Perché prima ‘e suore, quando so’ arrivate, non staveno dove stanno adesso a Tiburtino, staveno su a la pineta, a la casa de la pineta, staveno lì. E lì io ciò lavorato pure a ricama’, a fa’ l’orlo a giorno ai lenzuoli. E niente, io da le suore ciandavo il pomeriggio a fa’ i compiti, quand’ero ragazzina, perché a scuola andavo a le comunali, ‘nvece il pomeriggio andavo da le suore, lavoravo e facevo i compiti lì. Maria Lattanzi. Ho cominciato a quattordici anni. Ricamavo, cucivo, lì te impari tutto Nadia, tutto, quello che non vuoi imparare non t’impari, meno che le parolacce non te impari lì, perché non te le fanno impara’, è un luogo che non si dicono. Quattordici anni so stata da’e suore, a Tiburtino. Lì se imparava e se lavorava, tutte e due ‘e cose, dovevi fa presto a imparatte, signo’, perché dovevi guadagnà quarche soldino. E quel lavoro che si svolgeva presso le suore a Tiburtino per chi era? Per Madre di famiglia, Maisano, so’ tutte queste grandi ditte, capito, che portaveno la roba per ricamare, per cucire, pe’ tutto quanto; lenzoli, specie quando ci sono state queste alluvioni, che hanno portato lenzoli, federe, nun so quante, perché tutti ereno rimasti senza, no? Signo’ ho lavorato tanto, so stufa pure a parla’ de quanto ho lavorato. Sorelle Pala 137
Maria. Io, facevo la maglierista dalle suore, su in pineta. E lì io mi so’ imparata il mestiere... Co’ la macchina, me so’ ‘mparata il mestiere e a ventidu’ anni… ventiquattro, so’ venuta via, so’ andata a lavora’ sotto padrone perché le suore te daveno una lira... Pina. Ce daveno poco. Maria. Ce daveno poco. Pina. E io invece, finita la scuola, sono andata con mia sorella a impararmi da camiciaia.. Poi dopo io avevo una comare che conosceva bene le suore , era l’infermiera qui della borgata, perché prima c’era l’ambulatorio. Al lotto X. Quella signora parlò con le suore, siccome mia madre, giustamente, io ero la più piccola e dovevo stare io con lei perché ormai era diventata anziana... allora io dovevo da fa’ il bucato, io dovevo stirare, però nei momenti liberi… e allora, prima la mattina pulivo la casa e poi andavo dalle suore, alle nove già stavo lì, mi sbrigavo... io però in sartoria, no in maglieria. E me so’ ‘imparata, diciamo, a adoperare la macchina «sagome veloci» Regina. Quante persone c’erano dalle suore? Pina. Embe’, era un bel gruppo, quasi una ventina, all’epoca che c’ero io c’era una ventina! Bei momenti, eh!... forse i più bei ricordi, guarda, le più belle giornate l’ho passate lì dentro! Paola Spano. Ma venti persone in sartoria o venti persone in tutto? Maria. No, no, in sartoria. Maria. Poi in maglieria ce n’ereno pure quasi, forse pure più de venti... Pina. Veramente lì te ‘mparavi el mestiere, te daveno, diciamo, ‘a quindicina, era a cottimo, quello che facevi, e venivi a prende’ su ‘e sette, ottomila lire a quindicina, che praticamente pe’ me, appena arrivate le davo a mi’ madre... Paola. Che anno era? Pina. Eh, era…. calcoli che io poi ho conosciuto mi’ marito che ciavevo sedici anni, quindici anni... Ce so’ stata quattro anni! perciò... Paola. Ma che faceva la sartoria? Pina. E cuciva roba degli ospedali, del Regina Elena... Quindi i giacconi, i camici dei dei medici, però no quelli bianchi... quelli verdi della sala operatoria... Paola. Ed erano le suore che insegnavano... Pina. Si, si, si si. Paola. Quante suore c’erano nella sartoria? Pina. Quando c’ero io ce n’ereno due, nel mio reparto. Poi ce n’era ‘n’altra dal ricamo. E poi ce n’era due in maglieria. Paola. E il laboratorio quand’è che l’hanno chiuso? Maria. Tanto! Pina. ... io avevo diciasett’anni, diciott’anni, diciasette quando chiusero il laboratorio. Si si, l’hanno chiuso perché poi è uscito il fatto che... dei libretti. Maria. Si, si, qualcuna j’ha fatto ‘a vertenza... Pina. Praticamente erano povere, capito? loro, ‘a cosa de povertà, hai capito, e allora non potevano ave’ ‘n’azienda, loro prendevano ‘ste ragazze de’a borgata, le insegnavano il mestiere, le faceveno guadagna’ qualche cosa e basta. A piazza Ardimento, il prefabbricato della scuola media Regina Bruschi Polidori e Nadia Gallo (1964) Io me ricordo l’appello: io stavo ne ‘a sezione I , non me chiamavano mai…che era la peggio sezione, e non me chiamavano mai, il primo giorno di scuola. E l’effetto… ma te posso di’ quello della prima elementare, un effetto de tristezza, come te posso spiega’, me trovavo sola, io ero sola, a dovere affronta’ ‘sta cosa nuova, si, de solitudine…Me faceva anche, più che paura tristezza… io me ricordo la prima elementare che salivo le scale de ‘e suore, a un certo punto c’era un muretto, me so’ fermata, così, come per dire «Ma mi madre perché non m’ha accompagnato?» perché poi c’erano ‘e mamme che accompagnavano i figli prima di entrare alla classe, ma non mia madre. Paola. Ma l’edificio delle Sacramentine era meno squallido della scuola media? 138
Si, si, ma al di là dello squallore, io in que’e situazioni non è che guardo… cioè voglio di’, io ciavevo uno squallore dentro casa mia che lasciamo perde’, figurarsi se stavo a guarda’… anzi que’e pareti così che se movevano me sembrava ‘na tecnologia… cioè voglio dire non è che… que’e finestrone, rispetto a casa mia era una cosa moderna… Nadia. La cosa strana era questa, ch’erano scorrevoli… erano le prime finestre scorrevoli ch’avevo visto in vita mia. Quei pannelli movibili… Regina. Tutti grigi, co’ ‘a struttura supermoderna…Le finestre molto grandi… E poi anche l’entrata, cioè tu entravi… poi la rampa, salivi, c’erano l’elementari e poi ancora c’eravamo noi. Quelle due rampe così… Pippo… perché Pippo va nominato cioè, eh…quindi no, ‘sta sensazione «che brutto edificio che m’è…» no, no, non è un a cosa che noto, manco adesso… Nadia. A me me dava un senso di precarietà più che altro Regina. Lo squallore me lo dà… le persone me danno un senso de squallore, ma no’ i posti, quindi no. Magari ‘e persone alle volte me danno un senso de tristezza, de desolazione.
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9. Lavorare Anche in questo capitolo non si vuole né si può dare un quadro completo dell’argomento, i mestieri e le attività di lavoro degli abitanti di Tiburtino. C’è il racconto del nonno «barcarolo romano» che ha trasmesso la passione del fiume ai suoi nipoti, ci sono molti muratori ma anche operai specializzati. E ci sono le donne: che non lavorano perché hanno troppi figli o perché il marito è geloso, che lavorano perché è necessario o per scelta, perché «voleva qualcosa di più», magari una casa col bagno. Barcarolo Romano Alvaro Bergamini (1938) I mi’ fratelli lavorano per la Sapienza, sono i più vecchi pescatori del Tevere Riccardo Russo. Ah, li conosco, quelli che stanno sotto al raccordo all’Anaconda. Esatto e sono i miei fratelli, tutti e due. No, perchè danno l’itticità della roba, del pescame, della roba che c’è dentro al Tevere, cioè, la Sapienza come fa a saperlo? Infatti loro cianno tutta la roba per le scolaresche, si lui c’è stato lo sa. Riccardo. Si, si, vanno a fare gite, soprattutto le scuole medie.. Regina Bruschi Polidori. Quello più grande, tu’ fratello, quello cogli occhiali, come se chiama? Alfredo, quello che sta al fiume, Alfredo e Cesare, mentre invece er roscio sarebbe il più piccolo, er fioraro. Lui è il più forte fioraio… a Prima Porta, al Labaro. Però lui pure pescava, ha pescato sott’a ‘a diga. Loro hanno tirato fori ‘n tipo di pesca, di pesca de le cechette, sarebbero l’anguillette piccoline, sono loro che le pescano. Uno ha preso de po’ro nonno, sarebbe Cesare, il secondo, quello je poi da’ quanti mijardi voi, dopo ‘na settimana sta là, quello esclusivamente per la pesca, er fiume… er po’ro nonno, che sarebbe er papà de mamma, era barcarolo, come mestierante. Romano. C’è la cosa no? «barcarolo romano» e lui ha preso proprio de nonno, cioè amo preso un po’ tutti per la pesca… Riccardo. … ce raccontava del nonno barcarolo.... la famiglia di che parte è originaria? Famiglia de papà era de Ponte, de mamma era la Garbatella, dei quali, de Ponte de via Giulia era macellaro, er po’ro nonno, e de ‘a Garbatella barcarolo, cioè quello de mamma Paola Spano. Che faceva il barcarolo, trasportava merci? No, no, prima il barcarolo era come el tassì, cioè ce staveno delle barche, delli punti che se metteveno le barche, io , ‘n’ipotesi, volevo anna’ a pesca’, avevo ‘n’ora, scendevo e prendevo in affitto questa barca, ma cor barcarolo però... lui mi portava, in una parte mi attaccava la barca ferma, me dava la canna e io pescavo quell’ora, quelle du’ore… Paola. Questo fino a quando si è fatto? L’anno non je ‘o saprei di’ preciso, io m’aricordo però che noi annavamo ogni festa a la Cappoccetta, si è pratica, sarebbe su la via Ostiense, prima d’arriva’ su a ponte Marconi… c’è un grosso ristorante che sta sul Tevere, quello è chiamato Capoccetta, dei quali po’ro nonno, ogni festa la faceva là, perché lì sotto lui ciave’a la barca... però la barca lui lo faceva secondo periodo, c’era il periodo estivo ch’era bono per pescare là, poi c’era la cosa che lui annava pe’ piccioni, pe’ uccelletti, nun so’ se sete pratici di piccioni, la caccia ai piccioni com’è… lui ciaveva la finestra su la Garbatella, co’ ‘na piccola cosa di fuori, fatta proprio in marmo proprio de la casa e sarebbe l’Alberghi rossi, dove ‘sti piccioni che lui ciaveva, li prendeva e li portava a caccia… ciavevano una pettina, un legaccio che je legava le braccia però senza farglie male, co’un nodo sotto. Metteva questa rete, poi metteva uno che lo poteva tira’ su quando vedeva i piccioni e quarchedun altro che je camminava lì e proprio non andava via perchè era legato, allora venivano ‘sti piccioni, tirava e li prendeva insomma. Paola. Cioè li attirava con un piccione? Co’più piccioni, però erano piccioni sua de casa che co’ ‘ste pettine se pote’ano mette’ la’. Poi dopo quanno ave’a levato tutte le stajole, erano chiamate, la rete tutta fatta, messa in bicicletta, lasciava ‘sti piccioni… lasciando questi piccioni suoi, arrivando a casa, po’ra nonna preparava da magna’ che stava a veni’… Regina. Perché i piccioni arrivavano prima de lui. Cioè questo era un mestiere, mestiere invernale e mestiere estivo, il mestiere estivo era de barcarolo… che poi prima c’erano delle sfide, c’erano dei punti del Tevere ‘ndove si riunivano questi barcaroli e chi 140
passava de là co’ ‘na mano solamente , controcorrente… ma nun erano sfide tra de loro, erano proprio, come potrei di’? come el Palio de Siena, diciamo, quello è unico co’ ‘na corsa, mentre invece quello, c’era un modo de camminare così, chi arrivava prima de là, chi ciarrivava co’ ‘na mano , chi è che annava più diritto de là… tra barcaroli… durante l’anno una volta, du’ volte, ‘n je ‘o saprei di’ … cioè quando io so’ nato, già se po’ di’ ch’ero piccoletto, nun je posso di’ si io l’ho viste Paola. Nonno che raccontava… Nonno, l’altri, gente pure qui de Pietralata che vengono sempre da là… però venivano, mo’ ce so’ passati un sacco d’anni… Er po’ro nonno era nominato in un modo tremendo, po’ro nonno… Regina. Aveva un soprannome? Er sor Adolfo ‘o chiamavano, però era ‘n tipo… un bel tipo! Regina. Rispettato. Molto. Muratori Osvalda Screponi (1935) Senti e tuo padre che lavoro faceva? Muratore Amelia Mancini (1932) Mio marito era ‘n periodo brutto perché se lavorava, nun se lavorava… Regina. Che lavoro faceva? Faceva il manuvale… soltanto che il lavoro non era com’è adesso che è tribuito pure se nun lavoreno, prima se pioveva o… gelava nun lavoraveno, la giornata se perdeva; così tra i scioperi e le giornate che se perdeveno, quand’è la fin del mese di soldi ce n’erano poco Maria Pala (1936) Paola. Senti, e tuo papà cosa faceva? L’edilizia, il muratore. Tiziana Del Citto (1964). Professione dei genitori… mio padre era un manovale edile, poi mia madre a un certo punto ha deciso il fatto di andare a lavorare… eravamo senza uno spillo perché mio padre non lavorava quasi mai, quindi è andata, ha vinto il concorso in ospedale come ausiliaria. Poi dopo qualche anno lo stesso concorso l’ha fatto mio padre ed è riuscito pure lui a entrare e hanno lavorato in ospedale… mia madre fino a sei anni fa, mio padre è andato in pensione un po’ prima perché è stato male. Io chiaramente ho fatto l’infermiera, perché figlia d’arte. Ho lasciato la scuola superiore al secondo anno perché bastava il biennio, ho fatto il corso di tre anni da infermiera, ho fatto l’infermiera, la faccio ormai da ventun anni… Annna Antonini (1942) Papà, prima lavorava coi Vaselli, faceva gli asfalti alle strade, poi dopo passò al comune… Mamma pure ha sempre lavorato, io che me ricordo… alle scuole, sempre alle scuole. Ha lavorato prima dalla suore e poi alle scuole comunali. Marisa Marcellino (1938) Papà prima edile, poi entrò al comune dopo finita la guerra, nel 1943, 1944, già eravamo nati tutti e quattro. Papà quando è entrato nel comune, siamo stati un pochino meglio, però in quell’epoca chi lavorava al comune erano con quel camion, la mondezza, che poi qui gli ascensori allora non c’erano, e quindi dovevano fare le scale, le scale su e giù. Con il sacco sulle spalle. Se qualcuno buttava qualche pezzo di vetro, si tagliavano, e poi quando si spostava il camion salivano sul camion in mezzo a tutta la mondezza. Riccardo Morri. Quindi lavorava pure a Tiburtino terzo?
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Si. E molti di questi che lavoravano e raccoglievano la mondezza si sono ammalati con la TBC, perché immagina su quel camion con tutta la mondezza che tu rovesciavi. Che lavoro brutto che hanno fatto! Dopo… mi sono fidanzata con mio marito, a diciannove anni mi sono sposata, e poi siamo andati all’estero, a Buenos Aires… i cantieri erano tutti chiusi e quindi il lavoro qui non si trovava, allora mio marito siccome era orfano di guerra… è uscito un concorso che servivano operai specializzati in via Cesare Lollis, e andò e fece questo concorso; e infatti andò bene, ma è dovuto parti’. Dopo dieci mesi l’ho raggiunto; infatti il mio primo figlio è nato a Buenos Aires. Paola. Ma lavorava per chi tuo marito? C’erano delle ditte che richiedevano personale specializzato. Giorgio Arezzi. Partivano in effetti navi piene… Si, navi piene…operai specializzati volevano. Paola. Ma lì quale era la specializzazione? Mattonatura e maiolicato. … e quando siamo tornati dall’Argentina…nel 1967… Riccardo. Dieci anni siete stati fuori più o meno? Io otto anni… fece la domanda come orfano di guerra emigrante e entrò al Zeppieri, che stava qui a Portonaccio… che poi è diventato Cotral, Acotral… Giorgio. Aveva un deposito anche qui vicino da noi. Si, infatti lavorava lì, è entrato per fare le pulizie ai pullman, come pulitore… che poi all’officina si so resi conto che… sapeva mettere le gomme, che era meccanico… e allora lo mise dentro all’autorimessa con lui e cambiava queste gomme. La paga era da manu’ale, però faceva il lavoro del meccanico; poi usci un concorso interno e lui lo fece, come meccanico: finalmente andò bene e prese la qualifica sua… e quindi dopo che siamo tornati dall’Argentina, siamo stati con il lavoro di Carlo un pochino meglio. Nel commercio Giancarlo Carbonara (1947) Che faceva suo padre? Era un muratore, un muratore specializzato…. noi abbiamo l’attività commerciale dal 1956 Lei l’ha aperta? No, i miei fratelli. No, in poche parole questo locale è chiamato il bar de Riccardo, che è il mio fratello maggiore che è stato lui che ha aperto l’attività commerciale E adesso non c’è più? E’ morto, è morto co’ na grave malattia… Nadia Gallo (1964). Hanno sempre lavorato nel commercio, mamma come sarta; e papà invece era macellaio…quindi ha sempre lavorato, prima privatamente, poi in un supermercato, non ha mai avuto un negozio proprio, mai, ha lavorato in una serie di supermercati, comunque anche quello in un reparto di macelleria sempre… fino a che non è andato in pensione… Clara Petrini (1931).
Con i figli ha ereditato la gestione del negozio di alimentari di suo marito Sebastiano Salvatori, noto nel quartiere come Bastiano
Mi’ marito è venuto a Roma dopo la guerra, era ragazzo. Da Sellano, in Umbria. Ha lavorato sodo, i maiali se li incollava tutti interi… semo venuti dal niente, coi sacrifici, mica come adesso, prima se stava sempre aperti… solo mezza giornata la domenica e il Primo maggio, solo il Primo maggio se stava chiusi. I figli sono nati a Tiburtino? Si… no, Pino è nato a Centocelle, poi dopo du’ anni amo preso una casa qui a Tiburtino e la femmina è nata a Tiburtino. I figli pure so’ venuti su co’ un po’ de sacrifici. Adesso me rimproverano, dice «Perché non ciai mandato là, non ciai…» Eh, dico, io non so’ andata mai a nessuna parte… i sacrifici che avemo fatti, se je li racconti, manco ce credono Da che anno state in questo posto? 142
Qui dal’Ottanta, prima semo stati giù… alla fine de Tiburtino, in fondo si, c’era la fermata del 309, c’era solo quello d’auto. Stavamo lì in quell’angolo, poi c’era la porta appresso che vendeva il pane, la pasta, ‘ste cose… noi solo il banco della pizzicheria e la roba de maiale, se faceva la coppa, le salsicce, tutto lavorato da noi… poi… avemo smesso… saranno ‘na trentina d’anni, pure più, ch’amo smesso… dopo lì hanno demolito, semo stati costretti a veni’ qua… qui non era un negozio, era un magazzino, amo dovuto trasformallo a negozio… ce so’ voluti soldi… E dall’Ottanta in poi è cambiato il quartiere? Beh, un pochino meglio, prima se segnava tutto sui quaderni, tutto, chi te pagava, ‘n te pagava, adesso ce so’ tutti ‘sti supermercati che la spesa grande la fanno là… Ma c’erano molti che non potevano pagare? Eh si, erano tutti operai, non è che erano impiegati, prendevano la settimana, ciavevano parecchi figli, poi se facevano sempre il passo più lungo della gamba perché me ricordo che i prim’anni quando usciva la televisione, noi ‘n ce la potevamo fa’ e loro se la facevano, però venivano a segna’… La gente non è cattiva,insomma ce sta boni e cattivi, ma sempre ciavemo avuto furti… quando stavamo laggiù ciapriveno e qui invece so’ venuti due volte co’ la pistola… se lavora, ma se lavora male… Un bel mestiere Maria Pia Lattanzi (1935) Mio marito faceva un bel mestiere, faceva il restauratore e lucidatore di mobili; la bottega ce l’aveva a Torpignattara, vicino al cannone, di fronte aveva il negozietto. Mio padre faceva il camionista. Riccardo Morri: i fratelli che mestiere facevano? Tutti l’autisti facevano, tutti camionisti, camionisti come mi’ padre. Riccardo. Che trasportavano? La pozzolana, l’arena, le fabbricazioni, hai capito, mattoni? avevano i camion loro, ciavevano i camion grandi, se lo portavano da loro, perché non c’erano i soldi da paga’ l’operai, erano capaci da soli. Lavoravano a Montesacro, poi la sera quando venivano, c’era il primo fratello che era un meccanico e allora gli controllava i camion se mancava qualche cosa, se doveva mette’ l’olio, insomma avemo lavorato sempre Nadia, io non so la gente come fa a non lavora’, vorrei tanto saperlo…. li vedi tutti che se alzano a mezzogiorno e io me scordavo da dormi’ quando ero più giovane… adesso che posso dormi’ non dormo. Domenico Zanella (1941)… e tornato a Tiburtino, tornato in famiglia, dopo la terza media cominciai a lavorare come molti della mia età... Beh... i lavori che si facevano in quel momento era tutto quello che uno riusciva a trovare, il primo lavoro fu quello di lavorare in un forno di panificazione, vicino a Piazza Bologna, in cui facevo anche delle consegne in casa… dopo di ciò feci l’idraulico, che mi piaceva molto, e ancora ciò buoni ricordi e buone nozioni di idraulica… dopo andai a lavorare in una galvano, in cui si facevano molti lavori anche… per la stampa. E si facevano sopratutto delle bilance, le bilance Berkel all’epoca si chiamavano, non so s’esistono ancora. E poi… vabbe’, fatto il militare ‘63,’64, ‘65 mi sono sposato, ‘66 di marzo andai a lavorare al Poligrafico, all’Istituto Poligrafico dello Stato. Come si entrava al Poligrafico? Io sono entrato tramite concorso, diciamo, però in quel periodo già era qualche anno che ci lavorava mia madre, e quindi c’era un po’ un fatto di... se un anziano voleva cedere il posto a un figlio… aveva questo vantaggio…Si, si poteva fare, ed infatti mia madre rinunciò... però già io avevo, come dire, nove anni di mestiere, di galvano... Come lo hai chiamato? Galvano si chiama, si chiama officina galvanica, dove si fa dei riporti metallici… delle lastre Dove era questa officina? Quella prima era in via Ardeatina, poi il Poligrafico era a Piazza Verdi, cioè la sede centrale, in cui si facevano… era un reparto carte-valori… infatti l’officina Galvano era una dei perni, diciamo, dei fulcri della carta valore, perché tutto passava attraverso noi, dal bollo a secco, al passaporto, ai buoni postali, ai BTP, ai CCT, alle cambiali, tante cambiali in quel periodo, non ti dico… 143
Antonio Morri (1947) Qual è il primo lavoro che hai fatto? Le prime esperienze sono state… ho lavorato al mercato di via Sannio e a Porta Portese… avevo appena finito il militare, non c’era niente in giro come radioriparatore… diciamo che come radioriparatore la mia prima esperienza vera, che ancora andavo a scuola, fu nel Sessanta, l’anno delle Olimpiadi. Ciavevo tredici anni, stavo appunto iniziando a fare l’avviamento professionale radio e televisione e i mesi estivi ci consigliarono di fare esperienza presso qualche laboratorio. E io trovai un laboratorio a corso Trieste, dove questa persona fu disponibilissima a prendermi come apprendista, però la prima cosa che mi disse «Non ti do una lira, semmai mi devi dare qualcosa tu a me, perché sono io che ti insegno il lavoro». Fu il mio primo sfruttamento, in quanto essendo l’anno delle olimpiadi credo di essermi montato centinaia e centinaia di antenne sui tetti di Roma perché ci fu il boom dei televisori, quindi c’erano da montare tutte le antenne… senza prendere neanche il rimborso spese… andavo con un altro ragazzo, io tredici anni e lui quindici anni… E a via Sannio e a Porta Portese che facevi? Facevo il commesso in un banco, e lì è stato un altro spaccato di vita che mi ha fatto cresce’, veramente, perché ho visto tante realtà. È stato un periodo prima di andare a fare il militare e uno dopo il militare, complessivamente sarà stato un anno, un anno e mezzo Riccardo. Senti, disoccupazione , com’era? Ma guarda quello che c’era all’epoca era molto legato alle attività artigianali, nel senso che i ragazzi che io conoscevo che lasciavano perde’ di venire a scuola, andavano tutti dentro le officine a fa’ il meccanico o l’elettricista… Riccardo. …ma questo perché la Tiburtina era già quell’asse industriale dove si andavano concentrando alcune delle fabbriche di Roma, quindi in qualche maniera erano attività di supporto a questo settore? Molto probabilmente sì, perché quello che c’era, c’erano parecchie officine meccaniche, c’erano parecchi elettricisti… Paola. Meccaniche, nel senso dell’automobile… All’epoca motociclette, biciclette, poi successivamente le macchine, però ecco quello che io ricordo è che i ragazzi «vado a fa’ er meccanico, vado a fa’ l’elettricista». Riccardo. Tu hai ricordi di amici con il papà disoccupato? No guarda, perché io ricordo che allora la gente di Tiburtino III a livello di manovali o muratori erano quasi tutti impiegati, erano praticamente tutti edili e c’era una grossa richiesta…. uscivano da Tiburtino perché sicuramente non lavoravano a Tiburtino, partivano la mattina presto cor pacchettino, ce n’erano tantissimi. Riccardo. Di persone che siano rimaste ferite o morte sul lavoro te ne ricordi? Onestamente no. Lo zio che mi portava allo stadio era idraulico e per l’epoca aveva una professionalità altissima, purtroppo non aveva avuto la fortuna di studiare e quindi non aveva mai fatto fruttare a pieno le sue capacità, tanto è vero che non ha mai trasmesso a nessuno la sua professionalità, neanche ai suoi due figli maschi, uno fa il muratore e l’altro il meccanico. Doveva essere proprio una questione di famiglia, perché pure mio padre che faceva il pittore, sapeva ristrutturare gli appartamenti, non mi ha mai insegnato a mettere la carta, io ho dovuto imparare da solo. Paola. Poi tuo padre ha smesso di fare il pittore? Sì, perché poi come pittore è entrato alle ferrovie, faceva praticamente le scritte alle carrozze, lavorava al deposito a San Lorenzo, allo scalo con l’uscita su via Predestina… da ragazzo andavo molto spesso, si poteva entrare e quindi l’ho frequentato parecchio quel tipo di ambiente: ricordo che mi portava con lui in trattoria, perché lavoravano la mattina, poi c’era la pausa pranzo, all’epoca non c’erano ancora le mense e quindi si andava con il panino alla trattoria dove non diventava più un’ora di pausa ma diventava tutto il pomeriggio. Primo Morri (1921) e Giuseppa Cassone (1925) Paola Spano. Che faceva in ferrovia? 144
Il verniciatore. Paola. Un mestiere duro? Sì, sempre con l’acqua, pomice, spruzza la vernice… Paola. Prima che lavoro faceva? Giuseppa Cassone. Andava appresso al padre. Come lavoro so stato sempre fortunato, non ho mai trovato lavori pesanti, con il fatto che so’ invalido di guerra.... una volta m’hanno mandato a una società de cemento, grande, qui c’è da fa il manovale, lavoro pesante, invece me mandano ai Parioli, c’era un cancello e io suono: vengono due signorine, con educazione mi dicono «Venga, venga», me portano dentro, c’erano sedici impiegati, due ingegneri, il capo però era un ragioniere più vecchio, mi portò in una saletta, «Sa, lo stipendio é di cinquantaduemila lire». Paola.Quando e’ tornato dall’Egitto? nel’42? In Italia nel’43 Paola. Non le hanno riconosciuto subito l’invalidita’? No, me l’hanno riconosciuta nel ‘56. Giuseppa. Ha lavorato nel Genio Civile, nel’43. Ah si, allora c’era il Genio Civile.... i lavori non ce ne erano Giuseppa. Presero tutti ‘sti disoccupati e li portavano a fare i lavori così. Che poi non so se gli interessa queste cose. Paola. Ci interessa tutto. Al genio civile ero un capocetto e me mandarono all’aeroporto dell’Urbe… c’erano tutte buche perché avevano bombardato. Viene l’assistente e mi dice «Porta la squadra tua sopra il palazzo bombardato» quel palazzo era spaccato in due, in mezzo «cominciate da quella parte là, a demolire piano piano» Vabbe’, come andiamo su, io e gli operai, a me non me sonava da sta’ lassù, qui crolla tutto, io gli feci all’operai «Dite che vi gira la testa». Invece uno ce stava contento, però dieci su uno non lo erano. L’assistente allora dice... «Vabbe’, prendi la squadra va giù e chiudi le buche al campo». Uno di Tiburtino III che era un ferraiolo andò a tagliare un cavo che allacciava ‘sto palazzo, ce so’ stati sedici morti, padre, figlio del capoccia, mamma mia! Paola Padella (1964). Mio padre stava a… ai telefoni di stato, che poi dopo è diventata una società privata e lui dopo un pochino è andato in pensione… l’ufficio stava vicino a Fontan de Trevi, lì stava bene, cioè come soldo insomma… a parte un po’ di gavetta, perché all’inizio è dovuto andare a Milano… nfatti mia madre, dopo sposata, ha vissuto per un anno a Milano, un anno e più, un’esperienza bruttissima, lei non l’augura a nessuno, piangeva in continuazione… perché non ce se trovava proprio… Ivano Giacinti (1954) Io lavoro ancora. Cosa fa? Io sono guidatore de auto… de tram A trambus adesso, e per quanto me riguarda, forse io col lavoro sarò stato uno dei più fortunati, altra gente magari meno fortunata che hanno trovato dei lavori meno sicuri… Marcello Carboni (1935) Una vita, io ho sempre lavorato, da quattordici anni, ho sempre lavorato. Cosa faceva? Ho lavorato prima a un negozio di ferramenta, da Maridi alla stazione Termini, poi ho fatto sempre l’elettricista, eh, papà faceva l’elettricista e io di conseguenza ho appreso proprio nel DNA, e ho sempre fatto l’elettricista. Ho fatto di tutto, telefonista, rigattiere, appalti dell’ENEL, poi so entrato all’ENEL. Mio padre, essendo l’elettricista di mestiere, lavorava alle poste, alle posta pneumatica, prima a san Silvestro, a stazione Termini, e me ricordo io quanno ‘o annavo a trova’, ce stavano ‘sti motori grossi che mandavano avanti l’aria compressa per la posta pneumatica sotto Roma. Mio fratello è entrato alle 145
poste e ha fatto il fattorino, cià fatto tutta la vita, ha fatto il postino a Viale Regina Margherita, pe’ quarant’anni. Giorgio Arezzi (1950) Mio padre era del 1904, è andato in pensione... un po’ prima dei sessant’anni, perché visto che lui faceva il verniciatore, lavorava da Stroppaghetti, e quindi i fumi di queste vernici… lui verniciava le macchine edili, gli hanno provocato una bronchite cronica, per cui è andato in pensione sui cinquantacinque anni, se ricordo bene. Lui dai discorsi che faceva so’ che ha lavorato anche al poligrafico… e poi non so… lui parlava di epurazione, perché nel dopoguerra ci fu l’epurazione di quelli che avevano aderito al partito fascista. Quindi si ritrovò... e poi so’ che ha fatto sempre il verniciatore da Stroppaghetti qui a via Tiburtina. … ho preso l’attestato di compositore a mano, con cui ho iniziato quasi subito a lavorare… all’inizio in una piccola tipografia artigianale dalle parti di Tor Pignattara, e poi ho proseguito diciamo altre esperienze… sempre nel campo, sempre compositore a mano. Ricordo L’Alphagraph qui a Ponte mammolo, poi ho lavorato a via Barberini… e poi anch’io entrai a far parte della Fotocolor, prima facendo cambio ferie per due-tre anni… e poi assunto come compositore a mano… peccato che poi è andata avanti la fotocomposizione… il mio reparto fu chiuso, e quindi mi sono riciclato come incisore, incisore di cilindri per rotocalco, e poi come galvanista… finché poi ha chiuso proprio lo stabilimento, nel senso che si trasferirono a Orticola, e lì io dovetti fare proprio una scelta di vita, perché avendo i genitori ormai anziani, ormai ultraottantenni, e tante volte dovevo lasciare mio padre o mia madre malati… perché dovevo fare lì il turno di notte… e io non stavo più tranquillo. Ho fatto una prima scelta che è quella di lasciare quel lavoro e trovarmene un altro come factotum vicino al policlinico… factotum perché consisteva in quello che c’era da fare.. quindi centralinista, pulizie, autista… però ciavevo il vantaggio di stare vicino casa… Finché poi nel ‘93 mia madre ebbe un ictus e si allettò.. In realtà la chiusura della fabbrica, contestualmente si veniva assunti dall’altra, a Orticola. In pratica ha cambiato ragione sociale… Riccardo Morri.Perché penso che quella rientrasse come Cassa per il mezzogiorno. Bravo. Io non lo volevo di’.perché non so chi va a vedere sta cosa… però è quello, perché la Cassa del mezzogiorno abbracciò quell’area e credo che neanche fosse l’unica fabbrica… si riceveva la lettera di licenziamento e contestualmente si riceveva la lettera d’assunzione a Rotosud, così si chiamava. Alcuni furono mandati in un altro centro… che si chiamava CBS che era esclusivamente un centro di fotocomposizione dove venivano preparati i testi della rivista, quello che prima si faceva in piombo… tutti i linotipisti, la linotipia sapete che cos’è… insomma la macchina che produceva le righe di piombo, le righe che poi noi compositori usavamo per impaginare la pagina del giornale. Ci fu anche il pensionamento comunque… quasi tutti quelli che erano vicini alla pensione… gli hanno dato lo scivolo e… in questo caso rientra anche mio fratello, lui ebbe lo scivolo, ciaveva trent’anni di contributi versati e riconosciuti, altri cinque anni e lui ha preferito andare in pensione… e altri hanno seguito questa strada. Alcuni invece sono andati a Pomezia, in questo centro di fotocomposizione, quelli magari che erano lontani dalla pensione… così come me, che ero lontano ma m’hanno mandato lì a Orticola. Certo i malumori ce so’ stati all’inizio perché i sindacati volevano vedere bene quello che si andava a perde’ e quello che si andava a guadagna’, come in tutte le cose, no? C’era chi faceva la sarta C’era qualche lavoro che la gente faceva un pò di più o un pò di meno? Giuseppa Cassone. A quell’epoca erano tutti manovali e le ragazze, le donne, erano quasi tutte a servizio o facevano le sarte, gli uomini erano stagnari, pittori… Senti che lavori facevano le donne? Tu hai detto che lavoravano… Marisa Marcellino. Servizio…c’era chi faceva la sarta, allora lavorava in casa, ma soprattutto era di servizio. Al servizio quando una volta passavi la cera te dovevi sta’ coi ginocchi per terra, non c’era la lucidatrice, quindi a quei tempi lì era veramente che lavoravano, e quando tornavano a casa dovevano
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ricominciare, quindi pensa che vita che faceva la donna. Non c’era la lavatrice, quindi dovevi lavare tutto a mano. Marcello Carboni. Le femmine no, so’ rimaste a casa coi mariti, hanno tirato su tutti i figli, ‘na carrettata de figli, l’altra ce n’ha cinque, l’altra ce n’ha quattro. Regina Bruschi Polidori (1960) Mia madre non lavorava perché mio padre era geloso… però insomma penso che neanche a lei je andava da lavorare perché poi non ha mai lavorato, voglio di’, se non vuoi… te imponi Annna Antonini Regina BruschiPolidori. Quanti anni ciavevi tu? All’RCA come ce sei entrata? Ce so’ entrata tramite ‘sta Fiorina, st’amica mia, ma sempre coi preti però.. Regina.Stavi bene là.. Si stavo bene.. Regina. E quando l’hai lasciato ‘sto posto? L’ho lasciato prima da sposamme, m’ha fatto lascia’ sto posto che io prendevo tanti soldi… Giulio Fortuna. Io so’ una persona intelligente.. Seh, intelligente, era geloso… me veniva a guarda’dal ponte. E mamma che faceva? Marisa Marcellino. Casalinga, talmente era bella, una bambola, che papà era gelosissimo e quindi non le avrebbe mai permesso di andare a lavorare, comunque mamma lavorava in casa diciamo, perché con le lenzuola rotte ci faceva le mutandine, con tutte lumachelle intorno alle gambe; cioè lei ci cuciva, ci faceva i calzettoni, ci faceva le magliette, quindi è un lavoro anche quello, e in quel modo ci aiutava. Maria Pia Lattanzi. Mia madre con sette figli che doveva fare? la donna di casa e basta. … al Regina Elena, all’ospedale stavo in guardaroba, perché ciavevo il diploma da sarta, no, allora m’avevano messo in guardaroba, però stavo bene, insomma bisognava lavorare… poi s’andava alla pressa, il mangano. Lo conosce lei il mangano, quell’attrezzo pe’ stira’? Te ‘i conosci, Ni’? io ho lavorato su tutti e due quelli e alla presse, quelle che stiri i pantaloni, giacche, camicie, ce stiri tutto,una brava ce stira tutto… se una non è bona a manovrarla allora non ce fai niente Nadi’. Tutto l’abbigliamento dell’ospedale… le lenzuola, le federe e tovagliato, se stirava al mangano, mentre invece il vestiario da medico, da portantino se stiraveno alla pressa. Me ‘i so’ sudati stì dù soldi, Nadia, ‘sta pensione. Pina Pala (1947) Dopo sposata mi comprai una macchina industriale e presi il lavoro a casa... per cucire che ciavevo mamma che... era anziana, io non potevo andare fuori. Poi dopo mi feci ‘sta macchina e prendevo il lavoro in nero... Regina. A cottimo! Pina. ... da un signore che mi pagava una tuta mille lire… e pe’ fa’ dieci tute, eh... ero sfruttata! Pe’ fa’ dieci tute, dovevo sta’ ott’ore su ‘a macchina e guadagnavo diecimila lire. Maria Evangelista (1916)
(per subentrare nelle casa popolare di qualcun altro, nel 1945)
Abbiamo dovuto cacciare tremila lire, che allora erano soldi che io me l’ero guadagnati a Ferrara perché io lì avevo lavorato, facevo la sarta.
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Giorgio Arezzi. Mia madre era casalinga… so che prima della mia nascita, lavorava come domestica presso alcune famiglie benestanti di Roma: da una signora all’Aventino, un’altra si trovava in Prati, in via Valadier, e l’altra ancora credo dalle parti di piazza Verbano... ah no... un’altra stava in piazza del Parlamento, caspita, questa me la stavo dimenticando… E niente, ‘ste signore molto affettuose me facevano la frittata e io andavo al settimo cielo perché io… le uova me piacevano molto.Beh, mamma non è che andava a lavorare tutti i giorni, al massimo una volta alla settimana... ha smesso di lavorare quando babbo (perchè noi, essendo di origine viterbese, diciamo babbo al genitore) andò in pensione. Mia sorella anche lei ha cominciato prestissimo a lavorare, ricordo che entrò come commessa alla UPIM, erano tempi in cui si trovava forse facilmente lavoro perché si preparava il boom economico. Poi mia sorella dalla UPIM andò a lavorare alla Voxson, lì a Tor Cervara, e lì è rimasta fino a che s’è sposata. Perché lì conobbe il suo attuale marito, un collega di lavoro, che poi preferì comunque farla licenziare perché… preferiva che lei badasse più ai figli che… Giuseppa Cassone. Paola. Lei ha mai lavorato? Da ragazza ho lavorato sempre in via Tiburtina, dal portiere. Aveva la moglie e il cognato che facevano i sarti, che lavoravano dentro casa. I clienti erano gente di borgata e anche gente di fuori, poi dopo sposato loro si sono trasferiti a Piazza Bologna. Allora io avevo il mio bambino Tonino, me lo portavo con la borsa pieno di fasciatori… adesso cianno un figlio e non si sa che cianno, di tutto! Quello aveva quattro figlie femmine e il bambino lo tenevano lì, stava per casa e poi la sera alle quattro venivo via . Ho lavorato lì fino a che non é nata Rosella. Per un po’ ho fatto la pantolanaia a casa, però a quell’epoca non ci si guadagnava, bisognava andarli a prendere, metterlo in prima prova e riportarglielo, poi riprenderlo e per la seconda prova riportaglielo, poi finirlo e riportaglielo finito; a quell’epoca si faceva tutto a mano: le tasche, le cinte, le fodere, non é come adesso. Paola.Per chi lo faceva? Per il sarto stesso, lui faceva le giacche, però ho fatto sei, sette mesi, poi ho lasciato perdere, non era un lavoro che si poteva fare a casa, il lavoro era tanto e non ci riceveva niente, così smesso. Poi mi fecero conoscere la professoressa del Sant’Orsola e sono stata sempre con lei e basta. Ho lavorato un periodo di tempo a Regina Elena, l’ospedale. Stavo in sartoria, ero riuscita ad entrarci per caso, mi fece entrare la superiora delle suore Sacramentine, come supplente, poi ho fatto amicizia con quelle che ci lavoravano, si dava malata una, si dava malata l’altra, ci ho lavorato due anni. Paola. Aveva già i figli? Si, li portavo a scuola la mattina, lui stava in Ferrovia perciò sarà stato il ‘53. Poi il cognato di un amico suo che lavorava a Regina Elena mi aveva proposto di lavorare fissa all’ospedale, però dovevo andare ai reparti e ho detto di no. Paola. Dopo ha lavorato più? No, dopo sono stata con una famiglia, trentacinque, trentasette anni, che abitava a piazza Bologna, tutto qui.. Paola. Le hanno messo i contributi? Si, si Paola. Allora era un lavoro... Si, si ho lavorato dalle otto alle quindici, perché questa era un professoressa di greco, latino e italiano, stava dalle Orsoline a Via Livorno, andavo li la mattina e rimanevo fino alle quindici. Nadia Gallo racconta di sua madre Anna Paolini (1939) Lei ha conosciuto mio padre perché era ospite di una famiglia che stava a Montesacro e faceva la babysitter, aiutava, collaborava con questa famiglia che era un… un lontano parente della sua famiglia in Abruzzo. Si è fidanzata qui a Roma, lui lavorava, credo, a Montesacro… perché poi ha sempre fatto il macellaio… lavorava in una macelleria privata… si sono conosciuti da ragazzi, si so’ sposati subito, dopo un paio d’anni che stavano insieme. Si è sposata nel ‘60, è andata ad abitare con la 148
suocera, con mio padre che era rimasto con la mamma... e vivevano in queste due camere, questo cucinino con questo bagno, dove non c’era la doccia… si lavavano con la bacinella e mamma mi raccontava che lei invece in Abruzzo aveva il bagno, la doccia… mio padre gli aveva descritto che abitava a piazza Bologna quando la conquistava, quando poi s’è sposata s’è trovata a Tiburtino III, non sapeva manco che era… e insomma ha chiamato il fratello che s’arrangiava un pochino come muratore e s’è fatta mette’ una doccia in questo cucinino che tutti quanti del lotto XI, andavano dentro casa a vede’ ‘sta doccia perch’ era… ‘na cosa… rara… la doccetta a cipolletta in un angolo della cucina ch’era divisa da una tenda… finalmente si lavavano … siamo nati io e mio fratello, lui nel ‘61, io nel ‘64; a noi cianno trasferito in Abruzzo, io avevo nove mesi, mio fratello aveva tre anni… da nonna in Abruzzo, perché mia madre a un certo punto… lei voleva qualcosa di più di quello che aveva avuto in quel momento, forse è rimasta delusa della vita che… e mio padre invece era contrario al fatto che lei lavorasse perché a Tiburtino comunque pochissime donne lavoravano, la stragrande maggioranza delle persone erano casalinghe. Lei è sempre stata abituata a lavorare, ha sempre lavorato da sarta anche in Abruzzo… le piaceva cucire, quindi da Tiburtino III ha frequentato una scuola a piazza Vittorio, Taglio e cucito, è diventata sarta… ha detto «No, io devo andare a lavorare perché per i miei figli voglio dell’altro»… mia madre è sempre stata una donna che ha voluto... di più, per sé, ma soprattutto per i figli e… e allora ha chiesto aiuto alla mamma e ci ha portato in Abruzzo a me e mio fratello… e tutti i week end, lavorava fino al sabato sera, lei e mio padre prendevano il treno, a mezzanotte stavano in Abruzzo e ripartivano la domenica sera per poter stare la domenica con noi. Quindi mamma ha cominciato a lavorare in una sartoria che stava a piazza Bologna, finalmente è arrivata a piazza Bologna, dopo breve tempo è diventata capo-sarta… era una che… mia nonna le diceva sempre che se lei si metteva a fa’ i cappelli, nasceva la gente con du’ teste; perché era una comunque sempre riuscita, molto capace… durante la settimana, non avendo i figli, aveva molto tempo a disposizione e quindi faceva anche riparazioni in casa fuori dell’orario di lavoro, straordinari, durante la notte, spesso la mattina s’alzava presto, le quattro di mattina e cuciva per le signore magari di Tiburtino III che avevano bisogno di riparazioni… e poi a un certo punto so’ riusciti praticamente a trova’ uno spiraglio per una casa… hanno cominciato a dare… le case… del Monte ai lotti… probabilmente lotto V°, lotto VI° non lo so… Regina. Si, i più piccoli, i più racchi… Danno da lavoro Marcello Carboni. E come si sono conosciuti? Eh, che mamma faceva la babysitter a Roma, con papà se sono incontrati La baby-sitter o la balia? ‘A balia, più che mai ‘a balia, guardava ‘sti ragazzini, un ragazzino in famiglia, roba del genere. E quant’è vero che mamma era… aveva un difetto fisico de una spalla, un po’ gonfia, non è che ciaveva la gobba però, talmente che reggeva sempre ‘sti ragazzini, glie venne questa scoliosi, questa spalla un po’ più sollevata del normale… tante volte papà la rimproverava «Guarda come sei annata a ridurti, te fai cresce’ ‘a gobba pe’...» Domenico Zanella. Sai che c’è, Paola, che io ho dei problemi di orecchie... cioè mi è stato riscontrato come danno da lavoro... si chiama ipoacusia da rumore Perché, che lavoro hai fatto tu? Ero al poligrafico io... quindi grandi macchinari… Macchinari molto rumorosi? Ma soprattutto poi me ne sono accorto che in realtà un rumore sordo e continuo, erano i grandi gruppi aspiratori... noi avevamo dei grandi gruppi aspiratori che non te ne accorgevi, non lo sentivi… Infatti io me ne sono accorto quando che poi sono andato in pensione e mi hanno fatto il filmetto... dal film si sente molto bene questo rumore sordo... allora questo continuo rumore che uno 149
non sente però... danneggia... credo che sia stato quel fatto lì... Bruno Padella (1935) Allora io so’ annato a lavora’ a quattordici anni a una cartoleria, viale Regina Margherita 168 e la cartoleria se chiamava Cartoleria Regina, pensa un po’, e ci sono stato sette anni. Poi andando che giravo, per anda’ a prende’ ‘a roba, perché ‘a cartoleria andava ai grandi magazzini e faceva i rifornimenti, so’ annato a ‘sto magazzino della cartiera Pigna, che erano di Bergamo, dei Pesenti… E la signora me disse, «Che te piacerebbe veni’ a lavorare qui con noi» e io dissi «Si, ma...» dice «Se vuoi venire, puoi venire pure lunedì». E io dissi «Ma che ce da fa’, signo’?», dice «Ecco qui arriva tutta ‘sta roba, i camion arrivano uno o due camion a settimana, devi scaricare, mettere a posto ‘sta roba, ‘sti quaderni, risme de carta…», ho detto «Vabbe’». Quanto prendevi? E lì prendevo tanto, però è tutto rapportato, Regi’. Allora tu sai che la carta, procura, passando attraverso… addirittura te copre i polmoni, e te procura la tubercolosi. Io me ‘a so presa a Regi’, allora io nun capivo perché lì questa dice «Eh, sa, un ragazzo s’è ammalato e se n’è annato»… poi quanno stetti lì, ‘n’altro pure s’ammalò… Tu pensa, io giocavo al pallone a quell’epoca, però gli ultimi tempi me sentivo sempre un po’… ‘a testa me faceva un po’ male, ma com’è? poi ‘na mattina m’alzai, ho tossito: rosso. Ho detto «E che è?», non è che ciavevo la gola… e invece mi’ madre m’ha preso e m’ha portato da un medico perché ‘o disse alla infermiera, alla signora di sotto, e questa glie disse «Me sa che cià qualche cosa ai polmoni» perché m’ero un po’ sciupato. Allora m’ha portato da ‘sto professore, Misiti si chiamava, da ‘e parti de Piazza Istria. E questo disse «E guardi, ma ‘sto ragazzo che fa?» dice « Lavora a ‘na cartiera» «Eh, dice, allora signora questa, è procurata da ‘sta carta» è come la silicosi che si prende… M’ha rimesso a posto, si era richiuso tutto quanto, so’ riannato a lavora’, dopo sei mesi… allora da lì m’hanno portato all’ospedale e poi dall’ospedale so’ rivenuto a casa, invece ‘a signora m’ha mannato su a Sondrio al Sanatorio. Ce so’ stato sei mesi, so’ ritornato giù, io dal Sessanta, dalle olimpiadi del Sessanta, perché l’ho viste lì, sono annato lì a gennaio, il 12 gennaio del Sessanta e so’ ritornato ai primi de settembre del Sessanta, da allora ‘n so’ stato più male, e da lì sono annato via, cioè m’hanno… so’ annato via e chiuso.
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10. L’oratorio e il parco Nel quartiere i punti di aggregazione sono parrocchia e sezione, sezione al singolare, quella del PCI, perché altre sezioni ci sono ma contano poco. Nonostante la rivalità ideologica, parrocchia e sezione s’incontrano nella lotta per la casa ma soprattutto s’incontrano nella vita degli abitanti, che frequentano l’una e l’altra senza pregiudizi. La più importante delle molte attività della parrocchia è quella dell’oratorio, rivolta soprattutto ai ragazzi maschi perché centrata sul calcio; le bambine e le ragazze, che poi saranno coivolte in gite, viaggi e altro, hanno la scuola e il laboratorio delle Sacramentine di cui si parla nel capitolo sulle scuole. La sezione, oltre a essere impegnata nelle attività politiche di tutto il partito, guida la lotta per la casa e il Comitato di quartiere unitario che si costituisce negli anni Settanta, e in generale è promotrice di tutte le lotte per il risanamento del quartiere. E’ protagonista, con un’opera massiccia, di volontariato, della trasformazione in parco di un terreno abbandonato: il parco de L’Unità (vi si svolgevano le feste del giornale comunista) poi chiamato « il partito» perché in una costruzione al suo interno, oggi gestita da un circolo ARCI, aveva sede la sezione. Motivi di spazio rendono impossibile ricostruire completamente la storia di questo, come di altri aspetti della vita del quartiere, ma le parole degli intervistati rievocano atmosfere, ambienti e situazioni, disegnando se non un quadro almeno uno schizzo di ciò che si vuole raccontare. Maria Pala. Si si, si si. Io poi pure a ‘sta chiesa me so’ sposata. Co’ pure uno de Tiburtino. Perché mi piaceva... Infatti pure mie figlie, no, quando un domani se sposeno, a questa chiesa, perché è bella. Se ‘a sistemano è bella... Giorgio Arezzi. Quando io dico parrocchia non intendo le quattro mura. La parrocchia chiaramente nasce insieme al quartiere, era parte di due alloggi del lotto I°, però la chiesa è stata ultimata e inaugurata nel 1938. Maria Lattanzi Quando uscivi da questa scuola di sartoria, che facevi lì al Tiburtino? Andavamo in chiesa! Ciavevamo le prove del canto, e c’era Bucarella, non so se tu ‘o conosci, professor Bucarella, mo è morto porello, vabbe’. Che faceva questo professore? Ce imparava a noi il canto, tutti i cantici religiosi, perché la domenica s’andava in chiesa a canta’, se c’ereno i matrimoni, si cantava ai matrimoni. Facevi parte del coro? Si si, ero pure solista. L’oratorio Giuseppe Moscheni (Padre Tarcisio). … Tarcisio per gli amici e in arte, e quando mi chiamano Tarcisio subito il mio pensiero e il mio cuore scattano ricordando gli anni più belli della mia vita, eh si, sono esperienze… tu valorizzi la salute quando l’hai persa, valorizzi certe esperienze quando sono lontane, sono finite, come questa… Nel ‘61, io abitavo a Salò sulla gardesana perché sono un lombardo-bergamasco, ritornando da una predicazione, trovai una lettera ubbidienziale che mi destinava alla nuova esperienza, c’era stato affidato a noi lombardi il Tiburtino III, Roma. Io aspettavo di venire a Roma, perché studiando mi ero fatto un concetto, un’idea di Roma. Arrivai al Tiburtino III, rimasi gelato. Immaginavo Roma di una bellezza storica, architettonica, ma mi trovai in quel quartiere, non avrei mai immaginato, case minime, povertà, la vedevi nel vestito, la vedevi nelle strade, la vedevi dappertutto, questi volti ancora emaciati, incavati no, la sofferenza,la miseria, e rimasi… Mi ricordo che dalla finestra della camera dove alloggiavo sotto nel cortile pieno, gremito di ragazzi, sapevano che arrivava un frate addetto ai ragazzi, li salutai così, e già rimasi scioccato per vedere i loro capelli neri, il colorito più scuro, lì nell’alta Italia siamo più bianchi, già rimasi così. Avevo portato con me due palloni di un certo valore, li buttai giù dalla finestra, e mi avviai a scendere, l’hai più ritrovati tu? Quello è stato il primo impatto. Poi c’era la miseria anche nella nostra abitazione, si dormiva per terra c’era la miseria in sintonia col contesto….. chi c’era stato prima di noi aveva portato via tutto. 151
Noi eravamo cinque, erano diciottomila abitanti allora, più avanti la borgata è stata ristrutturata, ma allora erano diciottomila abitanti. Eravate cinque ma tu non eri ancora parroco? No ero viceparroco io ho fatto dodici anni di viceparroco, anni bellissimi perché se tu stai coi ragazzi e coi giovani ti trasmettono la giovinezza il loro vigorio, il loro entusiasmo diventi vecchio, porello anche tu, ma dentro siamo sempre ragazzin, è all’anagrafe che hanno sbagliato ma dentro siamo sempre ragazzin. Antonio Morri. L’altra cosa che ricordo poi è l’inizio della frequentazione dell’oratorio, l’unico punto di aggregazione d’inverno specialmente…d’estate c’era la libertà estrema, nel senso che fino alle nove, dieci di sera si stava tranquillamente in mezzo alla strada senza nessun problema. D’inverno invece, quando alle quattro e mezza, cinque era già buio nasceva il problema di poter stare da qualche parte, e li è venuto l’incontro, la creazione dell’oratorio… quando ce so stato io c’erano già i frati giù, si, l’oratorio era gestito dai frati cappuccini, devo dire che fu l’intelligenza di un frate, padre Tarcisio, che aprì l’oratorio ai ragazzi… … ma guarda, fu essenziale secondo me che l’oratorio e la scuola dei salesiani mi hanno tolto dalla strada. Perché praticamente l’alternativa era andare presso i bar…tutti, andavamo tutti, per due motivi: uno perché era un punto di ritrovo, perché anche lì c’era il biliardo, il gioco delle carte, la televisione, che in quegli anni non c’era in tutte le case. Quindi mi ricordo che andavo a vedere il Giro d’Italia quando c’era alle tre e mezza l’arrivo della tappa e si correva tutti al bar. E il bar era anche la fonte di reclutamento della delinquenza, che putroppo a Tiburtino III c’era… era delinquenza legata ai piccoli furtarelli: il furtarello al tabaccaio, al negozio, fatti magari quando i negozi erano chiusi. Quindi praticamente i ragazzini venivano presi per fare i pali… era tutta gente che viveva nel quartiere, che era già stata in carcere, perché mi ricordo queste braccia tutte tatuate, che oggi vanno così di moda, ma all’epoca no; però ripeto quello che sicuramente non c’era era il furto a mano armata, era una microdelinquenza, almeno quella fatta nel quartiere, poi esternamente se si entrava in qualcosa di più grande fortunatamente non ho avuto neanche la possibilità di saperlo. Ma tuoi compagni che siano finiti male in questo senso, che abbiano preso la strada della delinquenza? Ce ne sta soltanto uno, soltanto uno che purtroppo poi è anche morto in un conflitto con la polizia…gli altri no, devo essere sincero, quando ci siamo rincontrati, rivisti avevano quasi tutti trovato una strada regolare, anche quelli che avevano fatto il palo. Una volta so’ stato coinvolto anche io a fare il palo per una tabaccheria, rubavano sigarette per rivenderle al mercato nero Che stava sotto i portici il tabaccaio? No, ancora non c’era quel palazzo in quegli anni, stava sotto lotto XIII credo questa tabaccheria, che si tiravano su le serrande. C’erano solo i lotti costruiti da Mussolini, poi dopo negli ultimi anni, intorno al ‘65 è venuto quel grosso palazzo che cià i portici sotto…. Quindi fuori dell’orario scolastico c’era l’oratorio e i bar? Il pallone Giuseppe Moscheni (Padre Tarcisio)Gli anni belli. Nell’oratorio centinaia di ragazzi, perché non avevano alternative, non c’era il danaro per prendere e andare in città per trovare il divertimento e la vita, fortunatamente io l’avevo nel sangue, di stare sempre a contatto con i ragazzi: il pallone, avevano le sale con dentro i giochi, entravano, alle tre del pomeriggio aprivo l’oratorio, centinaia di ragazzi. Li mettevo contro il muro dell’oratorio poi sceglievo una decina o più, tu sei il portiere fatti la squadra, e si ammazzavano per arrivare a mangiare un ghiacciolo! Un ghiacciolo! Poi lì mi sono venuti i capelli e la barba bianchi prima del tempo, perché mi ero fatto un debito di novanta milioni, perché sul terreno la su, al lotto XVII che apparteneva al demanio militare, allora ministro della difesa era Andreotti, ottenni un grosso appezzamento di terreno dove costruii un campo sportivo da cui ho tirato fuori anche dei ragazzi di serie A, ad esempio i due Carroni, uno alla Sampdoria e uno alla Fiorentina, ragazzi in B, in C… C’è ancora il campo? Regina Bruschi Polidori. Si, a’ voja si si, il san Francesco, Padella, il papa’ de Paola, faceva l’allenatore. 152
Poi anche i giochi da bocce, perché gli uomini di una certa età erano sempre dentro nelle osterie… lassù, e la posizione, e il movimento e l’interessamento li aiutava anche fisicamente, perché oltre a star lontano dall’alcool, va bene…..E avevo creato anche un circolo, centocinquanta bocciofili, col loro presidente. E avevo anche buoni rapporti specialmente con la Roma, perché avevo tante squadre, terza, seconda categoria juniores, allievi, pulcini, ciavevano bisogno di vestiario. Allora andavo giù dalla Roma ed ero amico di Cudicini, di De Sisti, io ero interista, mi ero fatto dare una bandiera grande, allora c’erano il pennoni no, la Roma la mettevo sempre su, e quando perdeva la mettevo a mezz’asta e quella dell’Inter su. Poi li portavo all’Olimpico a vedere le partite, se l’Inter perdeva li lasciavo lì e tornavano a casa a piedi. Mamma mi chiamava balordo e aveva ragione. Però vedi se io sono malato e tu sei malato ci comprendiamo meglio, balordo io, li capivo meglio………. Antonio Morri Quindi, riassumendo, Tiburtino III era collegato con Villa Gordiani con il 212, poi il primo pezzo di città era Portonaccio e da qui si prendevano altri mezzi per andare verso altre borgate o …? Verso altre borgate e verso il centro, però che io ricordi al centro non ci si andava. Si andava più verso le altre borgate che verso il centro. Ma nelle altre borgate c’erano punti di riferimento familiari, persone? C’erano ragazzi, ragazzi che si conoscevano o attraverso la scuola, attraverso il pallone, per questo si frequentavano quei quartieri, erano proprio i tornei dei quartieri poveri, Tiburtino III, Villa Gordiani, Tufello, Quarticciolo: la squadra della parrocchia che si incontrava con quelle di altre parrocchie, perché poi non è che ci si iscriveva a tornei ufficiali: solo un anno ci iscrivemmo al torneo ufficiale juniores ma a Tiburtino III non avevamo il campo vero e prendemmo il famoso campo a Casal Bruciato, dove adesso hanno fatto la stazione Quintiliani della linea B. Comunque io mi ricordo di quanto il calcio fosse motivo di discussione e di unione tra ragazzi: lì sotto i montarozzi der Monte c’era un’area che alla fine tutti quanti insieme adibimmo a campo di calcio, e diventava così l’area di una sfida pacifica tra Tiburtino III e Pietralata…si finiva pure lì a litigare, però diciamo che era più litigio per la partita, mentre la sassaiola era per la conquista dello spazio. Il campo di calcio divenne poi il terreno di confronto della rivalità ma anche di incontro, perché fu una delle prime cose che facemmo insieme proprio per poter giocare, intorno ai tredici, quattordici anni. Dopo padre Tarcisio altri si preoccupano di levare i ragazzini dalla strada con il calcio. Qui è Bruno Padella che racconta, accennando alla collaborazione con don Antonio che sarà ricordato anche più avanti.
BrunoPadella. Antonio a me m’ha fatto diventa’ scemo con quel campetto sopra lì dove staveno ‘e suore…Portavamo centocinquanta regazzini a gioca’tutti i giorni, davamo e majette a lava’ a le madri, perché facevamo quattro, cinque partite, poi dopo a’a fine è annato tutto all’aria. Non è che facevo l’allenatore, me piaceva sta’ in mezzo a i regazzini. Invece da fallo qui che era piccoletto lo facevamo su alle suore amo fatto veni’ pure il presidente de ‘a Roma qui a innauguracce er campetto. ‘E maglie ce dettero, qualche cosa l’avemo comprato noi, poi dopo, lasciato lì, e abbiamo fatto proprio una società io e altri ragazzi del quartiere e l’abbiamo chiamata Santa Maria del Soccorso all’inizio, e poi dopo Nuovo Tiburtino e semo annati avanti. Quanti anni tutta ‘sta? storia? Sette, ott’anni… E ha dato buoni frutti? S,i per me si, anche perché abbiamo levato tanti tanti ragazzi da ‘a strada, perché tutti giorni li tenevamo impegnati sul campo quel tanto che andavano via che uscivano da scola, venivano su, andavano a casa, andavano a dormì perché erano distrutti ecianno dato tante belle soddisfazioni, che c’avevamo belli regazzini, qualcuno l’amo dato a ‘a Roma, qualcuno alla Lodigiani, qualcuno a ‘a Lazio. Cudicini diceva Tarcisio… 153
No, il periodo di Tarcisio è ancora prima, quando io ancora giocavo I viaggi Giuseppe Moscheni (padre Tarcisio) Poi facevo sempre i campeggi con i ragazzi, li portavo all’estero e, un anno, il primo in bassa Italia, l’ anno successivo in alta Italia… Quanti te ne portavi appresso? Eh una ventina… Abbiamo qualcosa dell’Italia, possiamo adesso andare all’estero siamo andati fino in Danimarca. Un anno mi ricordo in Iugoslavia… Siamo andati giù in Sicilia… Quando un’altra volta siamo ritornati dalla Spagna, arrivati alla frontiera francese-italiana, la finanza ci chiede se avevamo liquori, Cardinal Mendoza, se avevamo armi, armi di Toledo… Scappiamo via che siamo rimasti squattrinatiArriviamo giù a Ventimiglia Dai andiamo a prenderci qualcosa per la cena. Ritorno, un montarozzo così di Carlos primeiro, Cardinal Mendoza… Regina. Ma lui prima si occupava dei ragazzi, solo maschi… Si perché allora c’era questa mentalità e quindi con i maschi, poi, diventato parroco, invece feci quello che avevo fatto con i ragazzi, lo allargai… Però anche con la gente siamo stati in varie nazioni, li ho portati fuori. Regina. Io posso testimoniare, le poche cose che ho visto fuori, tutte con lui, io a mio marito ancora adesso je dico Se io ho visto l’Italia, se conosco l’Italia, ho girato, devo ringrazia’ padre Tarcisio. io con lui so’ stata all’isola del Giglio, a Venezia, tutti i santuari… Giorgio Arezzi Ecco visto che tu prima m’hai fatto la domanda delle ferie, no? In parrocchia c’era un Volkswagen nove posti, vecchio glorioso pulmino che i ragazzi dicevano che faceva le caciotte quando camminava, perché un fumo nero! Qui la parrocchia era presa in carico ai cappuccini lombardi, quindi venivano tutti da là.. e una delle iniziative che padre Marco fece era quella di formare questo gruppo giovane, e per farci cementare organizzava le ferie a casa sua..in Val Seriana: a scaglioni partivamo con ‘sto pulmino e alloggiavamo nelle varie famiglie, lì al paese suo, si chiamava Fiorano al Serio. La processione Giorgio Arezzi. Senti volevo chiedere a te Giorgio, questa processione che hai detto, è da molto che la fate a Tiburtino terzo? Da sempre? Quando la fate? L’ultima domenica di maggio, da quando io frequento la parrocchia, dal 1974…la abbiamo sempre fatta. E che percorso ha? Ogni anno cambia, anche perché i palazzi comunali di via Mammuccari e via Tamburrano e via Cassiani, sta parte nuova tra viale Ferdinando Santi e la Tiburtina, quelli sono parrocchia nostra, quindi facciamo un anno di là e un anno nel vecchio Tiburtino. Quanto dura la processione? Tutta la mattina? La sera, durerà un paio d’ore. Con le fiaccole la fate? No, solo un anno abbiamo fatto la fiaccolata la sera alle nove…n, c’è il simulacro del quadro della Madonna, una copia, perché quella autentica si stava rovinando e purtroppo…allora abbiamo fatto una copia del quadro che viene messo in un baldacchino e poi le donne lo riempiono di fiori… con due staffe… In quanti siete che lo portate? Che lo portano… perché io siccome canto… Ma noi vogliamo una descrizione completa! Io me la so sempre fatta in macchina col microfono cantando a ogni decina del rosario, dai tempi de padre Tarcisio, che ha scoperto questo mio dono della voce, che poi padre Marco, quello di cui abbiamo parlato prima, anche lui musicista, ha contribuito… E che cosa cantate? 154
Durante la processione si fanno i canti tradizionali…mica se può cantare bandiera rossa…anche se a Marisa la cosa farebbe piacere… Senti, ma i giovani partecipano alla processione? Ma guarda io giovani purtroppo come in tutti gli strati sociali, anche nei partiti ce ne stanno sempre de meno, perché vengono a mancare proprio gli stimoli e le ideologie… che vuoi che ti dica… si stanno tutti appiattendo… basta che se pigliano ‘sta polverina, ‘sta cosa e il mondo finisce là… il sabato in discoteca… tu non c’è un giovane che la domenica puoi chiama’ prima dell’una del pomeriggio, perché immancabilmente sono tutti rientrati alle cinque di mattina… c’è ancora qualche giovane in parrocchia, però non sono tantissimi. Chi partecipa alla processione? Ma in genere le persone anziane, ma anche le persone di mezza età, diciamo che è un appuntamento ormai fisso che… però ogni anno c’è sempre meno gente, questo è doloroso constatarlo. Ivano Caradonna. Si, beh il mio Domenico Zanella, che insomma lo posso citare oltre che una persona straordinaria, lui nella sua vita, è stato lì lì per diventare anche prete, però poi nella vita si compiono altre scelte, è stato segretario del Partito Comunista Italiano di questo quartiere e prima di lui altri personaggi importanti, che per quanto mi riguarda hanno segnato sia la mia storia personale sia quella di questo quartiere, Virgilio Speranza, Ornella Boncompagni. Domenico in particolare. ricordo che un anno organizzò lui la festa della Madonna di questo quartiere, ecco l’incontro, se volete nel tracciato di quello che poi è stato il compromesso storico, l’idea dell’incontro tra le grandi componenti comuniste, socialiste e cattoliche quindi ecco su questo percorso, su questo tracciato si è sviluppata anche la storia di questo quartiere. Ovviamente con contraddizioni, con problemi… Una conversione Giorgio Arezzi. Dopo la prima comunione e cresima, che io ho ricevuto a nove anni, so’ stato ancora qui fino ai quattordici anni i oratorio così.. e poi mi ricordo che mi allontanai.. facendo l’esperienza che molti giovani fanno.. di non frequentare.. magari uno si vergogna, perché gli amici gli fanno:Ah ma ancora vai in chiesa, ancora ce credi.. Come ti sei avvicinato alla chiesa mi dirai..adesso me la faccio io la domanda. Non so, intorno ai ventitre, ventiquattr’anni ho cominciato a sentire dentro di me una specie di vuoto nella mia vita, perché.. perché mi morì una carissima amica, di cancro, e lei si che ha fatto veramente un calvario…e lei lasciò sei figli. In successione, la prima, carissima amica mia, ciaveva ventun anni, e poi a scalare fino all’ultima rimasta che ciaveva tre anni... Teresa, che era la sorella di questa amica, si prese carico, lei era nubile, si prese carico de ‘sti bambini.. Però ecco la morte de ‘sta amica io l’ho sentita come un’ingiustizia… questa ha fatto sto calvario, ha lasciato sei figli… e chi siamo? le domande esistenziali, no? Da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo? E mi ricordo che questo mi provocò una certa inquietudine che si placò solamente quando un bel giorno entrai in chiesa, era il mese di Maggio e ricordo che c’era il rosario in onore della Madonna, recitato dai bambini delle suore.. Entrai dalla porta principale, e subito ebbi un senso di pace. C’era la chiesa piena di fiori bianchi, ricordo, ‘sti bambini che pregavano, ‘ste suore vestite di bianco e subito mi placai… e… forse mi manca Dio nella vita, che ho dimenticato da un po’ di anni. E lì cominciai tutte le sere ad andare in chiesa e padre Tarcisio, che era alla perenne ricerca di persone che leggessero le letture per la messa…allora c’erano sempre le persone anziane che dicevano.. : Ah io non ciò gli occhiali! Ah io non ho mai letto!.. e allora disse Largo ai giovani. E venne sparato da me e mi chiese de legge’ la lettura della sera. Mi ricordo che quando stavo lì al microfono me se incrociavano le righe, poi però ho incominciato a leggere regolarmente.. Poi padre Marco, un altro frate che stava lì insieme a lui, che era musicista, lui era organista, che stava per creare un coro parrocchiale eccetera.. sentì che cantavo bene, che ero intonato e ho cominciato pure a cantare e diciamo che da allora, ventiquattro anni, fino ad adesso che ce n’ho cinquantacinque ho fatto l’animatore liturgico, questa è la dizione. Era il 73, poi nel 74 fu formata qui una comunità neocatecumenale, conoscete? E diventai cantore anche della comunità neocatecumenale per cui sta cosa ha preso connotati più nitidi, più certi. Per cui ero cantore della prima comunità neocatecumenale di S: Maria del Soccorso, e cantore ufficiale della
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parrocchia, perché poi il cantore della prima comunità era il cantore ufficiale della parrocchia.. Adesso le comunità neocatecumenali non ci sono più in parrocchia, però io ho conservato un alone di ufficialità, anche perché sto diventando vecchio e un cantore vecchio è quello che cià un particolare carisma. Ornella e la parrocchia Senti, ci racconti i rapporti con la parrocchia? No, io ‘n ce ‘ho avuti mai i rapporti co’ ‘a parrocchia. No, io ciannavo quand’ero ragazzetta e poi ‘n ce so’ ita più. Ma ti sei sposata in chiesa? Si. Ho fatto un matrimonio dalle nove e venti alle dieci, e neanche l’addobbo. Rapido, perché prima de me aveva addobbato una che faceva ‘a fioraia. Lì a S Maria del Soccorso? Si, c’era don Duilio. Me disse, me voleva fa’ sposa’ a novembre, dico : Perché devo sposa’ a novembre? Famme capi’.diceAllora dalle nove e venti alle dieci. Quando so’ entrata suonaveno l’organo! Mi’ padre me guardava, dico : Ah papà, l’amo fregati! Vedi, suoneno pure l’organo, semo arrivati sull’altare, hanno smesso tutto. Eh, hanno visto che io non gli ho dato una lira! Perciò… però se rinascerei, non ce sposerei in chiesa. Ma i tuoi figli li hai battezzati poi? Katia si, Marco no. Però né ‘a cresima nè ‘a comunione ‘n l’hanno fatta. Quindi non erano di quei ragazzini che andavano in parrocchia.. No. Regina. Tarcisio te ‘o ricordi? Si, bono! Ma a me mi risulta che c’erano anche rapporti di collaborazione con la parrocchia. Per esempio, quando che padre Tarcisio lui venne da noi, perché c’ereno i manifesti, no? i striscioni deVota Partito Comunista, Vota…eh, allora lui doveva fa’ ‘a processione, venne, ma io ciò avuto ‘na lite co’ tutti, me disse: Ornella me poi levare lo striscione che passa ‘a processione, non è bello…? Dico Si , perché? e gli amo levato ‘o striscione. Io in sezione ho fatto ‘na lite santissima parché non voleveno. Dico No, me l’ha chiesto e io je ‘o levo Passata ‘a processione l’amo rimessi su i cosi. Perché prima se eri comunista in chiesa non c’entravi, eh. Quando morivi in chiesa ‘n c’entravi. Beh, questo lo so che è successo, ma è successo anche a persone che conoscevi? Si. Pure a tuo padre? No, mi’ padre ‘n l’amo portato per niente in chiesa. No, io mi’ marito mica ‘ho portato in chiesa. Né mi’ marito né i mi’ cognati, nessuno. Io già j’ho detto a mi’ fija,: Se moro, non me porta’ in chiesa. Ma che è? te dice ‘n’ora de messa Era bona, era qui, era lì che manco me conosce. No, ma pure che una ce crede, che quella che è morta non la conosci, che je dici dididì dididì dididì che è ‘sto dididì? Je dai ‘a benedizione e basta. Senti ma nelle lotte per la casa la parrocchia c’è entrata? Ma che entrata! T’ho detto, c’era Antoine che era democristiano, stava nel comitato de quartiere e ‘n veniva mai. Don Antonio Osvalda Screponi e Regina Bruschi Polidori Osvalda. Eh, prima me piaceva molto de più ‘a parrocchia, Regi’, adesso nun è che so’… perché prima andavo pure da ‘e suore, andavo a ‘mparamme a cuci’ a ricama’, però c’era più armonia, più familiare, hai capito? le suore te daveno più ascolto, se dedicaveno de più… Regina. C’era più miseria, quindi c’era più altruismo Eh, se dedicaveno de più, come pure i preti, ciavevamo un frate, don Antonio, te ‘o ricordi quant’era bravo? Era così gioioso, familiare, je piaceva veni’ pe’ ‘e case, te ‘o ricordi,veniva pure al partito. Regina.E’ andato via poi lui, non c’è stato tanto don Antonio. 156
Osvalda. Si, ma più che altro l’hanno sbolognato, Regi’, nun sene voleva anda’ lui, perché qui stava bene, forse proprio perché lo vedeveno troppo dentro al quartiere, alle famiglie, perché a lui je piaceva, e secondo me se ‘o so’ sbolognato proprio don Antonio, si si! Giuseppe Moscheni (padre Tarcisio) Ma, quando diventai parroco, ebbi due frati, perché la vita è fatta a tappe, a ruote, quando ero giovane ero con i giovani, gli anni passano... Fortunatamente c’è stato un ricambio, tra di noi, e hanno mandato due frati giovani, che non so se era una loro scelta, una loro convinzione, ciavevano un bel rapporto col partito comunista, passavano parecchie ore anche in sezione. L’impegno Antonio Morri In quel periodo mio padre era molto preso dalla politica, ha fatto veramente tanta, tanta politica. E tu ti sei avvicinato alla politica tramite questa situazione familiare? Sì, per questo e per la mia frequentazione della Chiesa, nel senso che io frequentando l’oratorio ho fatto il chierichetto, e quindi ci sono state mattine che mi alzavo alle cinque e trenta , le sei, andavo fuori della porta della chiesa a aspetta’ che il parroco aprisse per poter servire messa. Poi ho frequentato le scuole dalle suore, dai salesiani e lì ho cominciato ad avere le prime avvisaglie del mio modo di pensare, di essere, che poi è stato quello che mi ha caratterizzato nella vita, nel senso che non riuscivo a capire l’obbligo della messa la domenica, l’obbligo della preghiera…e tutto quanto poi vedevi che era legato al fatto che se andavi a messa la domenica poi potevi giocare all’oratorio, in sala biliardo o al campo di calcetto, e l’altro aspetto poi era quello famoso della galletta e del formaggino di cioccolata... a quei tempi c’era anche quell’esigenza, non della fame, perché devo esse sincero, i miei se c’è una cosa che non m’hanno fatto patire è la fame, penso con enormi sacrifici, e anche il sacrificio che hanno fatto per potermi far studiare alle scuole dei salesiani, dove si pagava, non è che era gratis… e però, ecco, certe cose mancavano e il formaggino di cioccolata era uno dei premi a cui ambivi, però bisognava andare a messa, bisognava farsi firmare la tesserina, tutta una cosa che io non cominciai a capire perché secondo me se uno fa una cosa la fa perché è convinto e non perché a fronte di quello che fa c’è poi un premio oppure una disponibilità di qualche cosa legata soltanto al modo di fare e non al modo di pensare. Nello stesso tempo ciò avuto questa perenne discussione politica dentro casa, che poi mi portava a pensare, a discutere, a entrare in questo mondo… diciamo che ce so entrato naturalmente, senza neanche forzature…come ho iniziato a lavorare, sul primo posto di lavoro, subito so’ stato visto dai colleghi come un punto di riferimento, come rappresentanza per il sindacato. Difatti furono i primi consigli di fabbrica e quindi alle prime elezioni dei delegati di base fui eletto subito, immediatamente. Attraverso tuo padre e l’esperienza che dicevi dell’oratorio ti sei poi iscritto alla sezione socialista tu? No, io mi iscrissi alle ACLI, giovanissimo, credo che fui uno dei più giovani segretari provinciali dell’ACLI, se non d’Italia di Roma sicuramente. E tuo padre come la viveva questa cosa? Mah, devo esse sincero, sotto questo aspetto credo che mio padre m’abbia lasciato abbastanza libero di poter decidere. Non so se alla fine sia stata libertà o anche disinteresse, perché poi sta cosa col tempo l’ho un po’ sofferta, nel senso che forse non ho avvertito la vicinanza di mio padre E di queste attività nelle ACLI…? Beh, è stata la mia prima esperienza, non lo so forse quello che poi negli anni ho visto è che riuscivo sempre a dare fiducia e speranza e tranquillità agli altri, per cui venivo sempre visto come una persona che dovevo rappresentarli. Diciamo che poi di fatto era soltanto l’attività dell’oratorio Quindi sei passato da ragazzino che giocava a grande che faceva giocare gli altri? Sì, diciamo che prendevo decisioni su quelle che erano le attività, più che altro attività sportiva, poi qualche volta c’era qualche film, qualche proiezione di qualche documentario, qualche discussione di questo tipo. Devo dire che già allora da parte delle ACLI non era improntata sul discorso del cattolicesimo, della Chiesa, cioè aveva uno spazio più ampio, guardava al mondo del lavoro… E quanto tempo hai fatto questa attività? Credo un anno, un anno e mezzo Perché io t’ho conosciuto comunista… 157
Sì, diciamo che la mia grossa evoluzione c’è stata nel momento in cui ho preso il posto di lavoro e ho iniziato a fare attività sindacale e lì mi sono ritrovato praticamente nella CGIL come delegato di base, ho fatto tutta la trafila dentro al sindacato fino ad arrivare a segretario regionale del Lazio per il sindacato delle telecomunicazioni con la possibilità di entrare nella segreteria nazionale, ma lì pure poi fu una scelta di vita, in quanto entrare in segreteria nazionale significava andare in giro per l’Italia e quindi avere un rapporto diverso con la famiglia cosa che io non volevo, per cui decisi di rinunciare. Ma tu sei stato distaccato dal lavoro? No, io non ho voluto mai esse distaccato! Perché io sono stato sempre convinto che l’attività sindacale va fatta sul posto di lavoro, e questo mi procurava però enormi sacrifici, nel senso che era doppio lavoro in quanto io lavoravo e lavoravo a turno, anche di notte, l’attività sindacale era fatta dal lunedì al venerdì, per cui succedeva che io per fare sindacato molte volte non dormivo, molte volte rinunciavo al mio giorno di libertà… … e quindi andai via, però, ripeto, avevo una rappresentanza tale all’interno del posto di lavoro per cui quando nacque questo problema anche i lavoratori diedero tutti le dimissioni dalla CGIL e io ebbi un primo confronto con i COBAS e scelsi di fare questo sindacato autonomo, che si riconosceva nella confederazione di base… Una bandiera rossa sulla via Tiburtina PrimoMorri e Giuseppa Cassone Tuo padre, quando stava aTiburtino III, non gli dava fastidio nessuno pur sapendo che era socialista? Primo. No, No. E a Testaccio? Primo.No, mio padre non era un tipo che dava fastidio, era socialista come idea, ma non faceva nulla. Però metteva un quadro di Matteotti nascosto dietro alla Madonna? Primo.Più io, ero più io che lui, so’ stato vice segretario dei socialisti, dovevo essere il segretario ma non ho mai voluto, mi piaceva sta, il partito era arrivato quasi al 14%, poi purtroppo a causa di Craxi... Voi avevate buoni rapporti con i comunisti, qui a Tiburtino Primo.Si, c’era qualche sfottò, così, ma contrasti forti non ci sono mai stati. Loro erano sempre più presenti, noi invece eravamo di meno, a Tiburtino erano tutti comunisti… Quando sono nate le prime sezioni a Tiburtino III? Primo. Le sezioni c’erano pure quando sono andato a fare il soldato, poi l’hanno tolte, l’hanno rifatte dopo l’armistizio, dopo l’8 settembre, come sono entrati gli americani, una stava al IV° lotto, ti ricordi (rivolto alla moglie), della sezione comunista, e quella socialista al X° lotto, al Palazzone. C’era qualche altra sezione di partito oltre quelle comunista e socialista o neanche ce la facevano ad aprire ? Primo.Si, c’erano, quella dei democristiani che stavano giù, giù in fondo alla borgata. Giuseppa. oltre, ancora più giù, c’erano i comunisti, i socialisti, i democristiani, solo che i socialisti stavano al lotto X, nel sottoscala, e c’era il fratello che lo gestiva come osteria e lì andavano a gioca’ a carte, a passa’ un’oretta così, poi quando c’era da mette’ i manifesti e via di seguito, lui a casa nostra aveva messo un manifesto, quelli che si accendono, vabbe’, fuori dalla finestra di casa, quello che rimane sempre acceso, aveva attaccato la luce dentro casa: PARTITO SOCIALISTA ITALIANO, lui per i socialisti, guarda.... L’Avanti e L’Unità c’era la diffusione casa per casa? Antonio Morri.L’Unità sicuramente, venivano anche da noi, ma mio padre non la comprava. Mentre l’Unità la facevano tutte le domeniche, l’Avanti la facevano solo in occasioni particolari, c’era il banchetto fuori della sezione. La festa de L’Unità Marisa Marcellino. Quella c’è sempre stata…anzi se un anno non la facevi la gente ti sgridava pure Perché non la avete fatta? perché era l’unico modo pe’ sta tutti quanti insieme e veniva gente da Pietralata, da San Basilio, Monte del Pecoraro, tutti quanti ritornavano a Tiburtino e se divertivano. 158
Antonio Morri. Della sezione comunista ho pochi ricordi, quello che mi ricordo era la grossa attività per la festa de L’Unità, c’era una grossa preparazione, una grande partecipazione. Però la vita di sezione in quell’epoca la ricordo pochissimo, se non quella socialista, che era sotto uno scantinato, con un piccolo baretto, ma non è che facessero iniziative… Sotto il profilo del sociale, come per i giardinetti, lì la sezione comunista lavorò molto, anche forse per poter poi utilizzare lo spazio per la festa de l’Unità che si faceva lì poi… Emiliano Sciascia. Qui al parco de L’Unità, veniva organizzata ogni anno la festa de L’Unità, e ricordo che era un po’come una festa del patrono… non per un punto di vista solo ideologico, cioè era la festa del partito, ci si dove a andare, ma da un punto di vista anche di coinvolgimento, nel senso che ad esempio c’erano due compagni miei di classe che facevano judo, qui alla palestra a via Mozart, e loro facevano la rappresentazione di judo all’interno della festa de L’Unità. C’erano magari delle bambine che facevano danza, e facevano il saggio dal palco della festa de L’Unità. Cioè diventava un momento in cui tutto il quartiere si ritrovava. Io avevo dieci, undici anni, e ricordo che quando si tornava a casa, il pomeriggio, si diceva per esempio: Ma stasera vai al partito? Eh si ci vediamo lì! perché magari ci andavano i genitori e ci si ritrovava tutti lì. La sezione Antonietta Destro. La sezione del PCI era attivissima. Giancarlo Carbonara. Ornella doveva esse’ quella donna famosa, è morta Ornella no? quanto me dispiace! Me dispiace perché eravamo amici di famiglia, abitavamo proprio attaccati a ‘a porta al lotto VIII, il lotto vicino a noi. Ornella era, diciamo la rivoluzionaria del quartiere. La famosa Anna Magnani che combatteva per il quartiere, era una donna che ha fatto tutto per il quartiere, ma fatto veramente senza interessi tutto per il quartiere… Era la moglie di Virgilio. Virgilio era ‘na bravissima persona, Virgilio era pure lui un amico, ecco ‘a storia è questa, pure lui era un amico de i miei fratelli. Virgilio era segretario del Partito Comunista.E’ genteche ha lavorato solo per il Partito, purtroppo se dovrebbe rinascere, vederebbe a situazione attuale, se pigliano ‘a pistola e se sparano, ‘a realtà è quella. Comunque hanno vissuto solo per la famiglia e il Partito, famiglia e Partito, hanno dato tutto al Partito veramente. E poi c’è stato un personaggio storico del quartiere di cui voglio parlare, il famoso Angelino Morelli. Angelino Morelli è stato il segretario, dopo Virgilio, del Partito Comunista Italiano, un uomo alto un metro e novanta, è morto, molto giovane, con la bellezza di otto, nove figli. Si, è stato una persona storica del quartiere perché poi era un’epoca che se combatteva contro, diciamo, il fascismo, c’erano ‘ste cose… è morto giovane, però ha lasciato impronta di un grande segretario di partito di quartiere Io ho conosciuto Gaeta che era segretario… Armandino, qui lo chiamavano Armandino. Armandino non fa più politica, è stato un bravo politico pure Armandino, è diventato anche lui dopo segretario, era molto preparato, ha fatto anche la scuola di Partito e si, si pensava che lui avrebbe fatto carriera politica, è diventato anche a livello circoscrizionale, che ancora non c’era ‘st’importanza attuale, però c’era un’importanza un po’ concreta. Era diventato poi pure Presidente della Asl dell’epoca Armandino. Ornella Poi dopo io so’ diventata grande, me so’ messa a fa’ ‘amore e dopo ott’anni ho sposato. Mi’ marito era un comunista, e io pure, e siamo iti in sezione. E lì se semo messi a vende’ i giornali, a fa’ il tesseramento. E poi amo cominciato a fa’ ‘a lotta per ‘a casa, e lì ho preso tante botte. Dai vigili,si. Dai vigili o dai…? Dai vigili, i vigili urbani perché io ho detto una parolaccia al sindaco. E chi era il sindaco allora? Oddio, aspetta.. Darida? 159
Darida si. E dopo lì è successo il macello e quando siamo arrivati ‘a sera a casa io ero tutta nera. Si, si, ma ‘e botte che cianno preso loro. Dopo io telefono a la federazione e je dico: Senti c’era Vetere Senti, ah Ugo, noi dovemo anna’ al Policlinico perché quella cià il dito rotto, io so’ tutta pista.. allora lui dice: Aspetta te faccio senti’ la telefonata ha telefonato a Darida e gli ha detto: Non ce ‘e manda’ al policlinico perché ci stanno sette vigili sfigurati. Pe’ ‘e botte che avevano preso da ‘a gente. Perché a me, chi me tirava de qua, chi me tirava de là e ero tutta pista. E dopo… Dove era stato questo scontro? Questo scontro è stato al Campidoglio, ce doveva riceve’ l’assessore Crescenzi, un socialista. Che anno era Ornella, te lo ricordi? Beh, prima de ‘e case, penso che sarà stato, nel ‘66 hanno fatto ‘e prime case, nel ‘74 quest’artre… quelle vostre, quelle che stanno vicino al fornaio… verso l’80. La sezione quando l’avete fondata? ‘A sezione l’amo fondata subito perché stavamo dentro a ‘na casa, eh. Poi dopo cianno dato quell’altra vicina all’ambulatorio, al lotto X. Dopo di che… La sezione del partito comunista, oltre alla lotta per la casa che altre cose faceva? Ha fatto tutto, quanno che io te dico ‘a lotta pe’ ‘a casa, questa è tutto pe’ me, eh, perché sinnò ancora stavamo a Tiburtino III, si amo messo er cartelloQuesta casa è inabitabile Faceva tutto! Io ho fatto pure ‘e strisce per terra. Je diceveno, c’era il commissario a Quarticciolo: Guarda che qualche sera famo ‘e strisce, qualche sera famo ‘e strisce... a ‘e due di notte amo fatto ‘e strisce. De donna ero io sola. Io mi ricordo la lotta per il semaforo. E pel semaforo, embe’, ‘n ce so’ stata pure io’n mezo a ‘a strada? co’ Cipollone, cor maresciallo… Senti ma come attività normali, riunioni, in sezione che facevate? Facevamo ‘e riunioni. Veniva ‘n sacco di gente, si. C’era ‘a biblioteca, si, si… poi facevamo i festival, allora lì era pieno de gente. El primo festival, amo cominciato quando hanno buttato giù er IV° lotto. L’amo fatto proprio al IV° lotto… Senti e quand’è che poi lì si è allentata l’attività della sezione? No, non si è mai allentata, se so’ allentati questi che so’ venuti adesso. Marisa Marcellino, «ho chiesto la parola e ho detto la mia» …poi io ho iniziato in mezzo alla politica e al comitato, e abbiamo iniziato le lotte per il risanamento del quartiere. La politica con chi la facevi? Stavi in un partito? Allora… nel Partito Comunista Italiano. I tuoi anche erano antifascisti? Papà certo. Mamma no, era la nipote del generale Graziani, se è per questo, però poi la abbiamo portata dalla parte nostra. Allora, la domanda che mi avevi fatto era con chi…io facevo parte del Partito Comunista Italiano e Virgilio Speranza altrettanto, c’erano le Acli…abbiamo formato un comitato di quartiere. In che anni siamo? Io sono tornata nel 1967…allora nel 1970/1972…il gruppo faceva parte le Acli, Partito Comunista Italiano con Virgilio Speranza. C’era la Democrazia Cristiana e Rampini Antonio, che era in gambissima, che abbiamo lavorato per tanti anni assieme, fianco a fianco, che ci rispettavamo sia come ideale politico, lui rispettava il mio e io rispettavo il suo; e ci teneva molto a questo risanamento, e quindi ci siamo trovati in un gruppo affiatato… le ali del Partito Socialista pure. Io mi ricordo Gaeta… Allora era giovanissimo? Armando Gaeta, si, poi è diventato segretario del Partito Comunista. Si, era giovanissimo... si, ma anche io ero giovanissima, tutti eravamo giovanissimi. Facevi attività insieme al marito o eri tu quella più impegnata? No, ero io…mio marito era di colore politico diverso. Di destra, lui si sentiva ancora con i Balilla, adorava i Balilla e mia suocera pure… una battaglia, molte discussioni… discutevamo perché c’era un televisore solo e quando c’era Enrico Berlinguer mi cambiava il canale e io mi arrabbiavo; quando c’era Almirante, tutti zitti, dovevamo sentire. Non è che mi dispiaceva Almirante, perché parlava in un certo 160
modo, poi a me piace sentire anche le altre campane, e dicevo Perché quando c’è Berlinguer, che lo vojo senti’, me lo levi e io il tuo lo devo senti’?… vabbe’ le discussioni erano queste. Se ci fosse stato un altro televisore, me ne andavo di là…aspettate, non vi cucino, dopo mangiate, alle ventidue e alle ventitrè. Quindi le discussioni nostre erano soprattutto sulla politica, tanto è vero che io in sezione ho lavorato in prima linea come simpatizzante ma non potevo farmi la tessera perché mio marito diceva che sarebbero stati guai se mi fossi fatta la tessera. Ma tu come ti sei avvicinata al Partito Comunista? Levando il fatto che io so venuta su e cresciuta con papà e mia sorella, quella più grande, che portavano la bandiera rossa, quindi sono cresciuta in questa cosa, e poi sono andata perché era giusto che andassi e che mi interessassi alla vita politica; non potevi fa’ la casalinga…come presidente del primo consiglio d’istituto… fui eletta, il primo consiglio che uscì fuori, lei, la Rocca Cappello, lo mise subito in atto. Cioè, è partita dalla scuola? E’ partita dalla scuola, ma è partita anche perché mia sorella più grande mi portava in sezione ..…... da grande, avevo ventisette ventott’anni, avevo già due bambini piccoli, per la prima volta misi piede nella sezione del partito comunista, perché tutti dicevano che ero democristiana ma io non sono mai stata democristiana, unicamente perché ho dato attività alla Pontificia tutti mi facevano... la prima volta che misi... avevo la tremarella perché le suore... tutti, dicevano che i comunisti se mangiavano i bambini, no? ciavevano sempre messo quel terrore addosso, quindi mia sorella grande che era comunista fin da piccola mi ha convinto a entrare in sezione... tutto il tempo, nessuno ha mangiato nessuno, anzi mi è piaciuto, ho iniziato a parlare, ho chiesto la parola e ho detto la mia così come ho fatto sempre e ero piaciuta... quindi quando è finito il tutto, sono uscita e ere soddisfatta di essere andata...e poi mano mano mi ci so ritrovata con tutti i piedi, però ero portata a questo. Allora, per dirti, quando mio marito si ammalò a ottobre del 1988… e prima di morire mi disse «Marisella se tutti i comunisti fossero come te, me farei la tessera anche io». Dopo due giorni è morto. E gli dissi «Questo era il regalo più bello che mi hai potuto fare». Abbiamo discusso tanto, tanto tempo per poi farmi ‘sto regalo all’ultimo momento che te ne vai? Domenico Zanella.Beh, a Tiburtino ciò lavorato molto, ci lavoro ancora, ci ho lavorato politicamente, perché nel Poligrafico facevo l’attività sindacale ed ero iscritto al Partito Comunista Italiano, quando mi iscrissi, il segretario era Luigi Longo, poi diventò Berlinguer... e questo quartiere iniziò una demolizione dei vecchi lotti (piano terra e piano rialzato, con ballatoio) che erano molto anti-igienici, perché forse non avevano manco il vespaio sotto... furono mandati alcuni a Primavalle, altri a Settecamini, e altri ancora qua a Monte del Pecoraro... e il corpo dirigente dell’allora sezione del Partito Comunista Italiano, ch’era titolata a Edoardo D’Onofrio fu trasferito quasi completamente. E allora mi chiamò il segretario della federazione romana, diventato poi sindaco di Roma, Luigi Petroselli, e mi disse tu sei di Tiburtino, vai a lavorare a Tiburtino e quindi io dal settantaquattro, la prima battaglia che feci qua nel quartiere, ma non solo qua perché io ero iscritto alla sezione Parioli come cellula Poligrafico... fu la grande battaglia sul referendum del divorzio, poi vinta in maniera anche abbastanza di larga misura... però non fu una battaglia semplice, era una grande battaglia di libertà ecco questa... e venni qua dal settantaquattro e cominciai a fare il dirigente politico di questo quartiere.... Sono diventato segretario qualche anno dopo... in principio il segretario fu un altro ragazzo, allora eravamo ragazzi,Gaeta Armando, che poi andò a fare, e lo fece ottimamente,il presidente della… allora si chiamava la USL, mo’ si chiama ASL, RM5, ora RMB, cambiano pure le sigle, cambia un po’ tutto quanto... E io con altri compagni che all’epoca mi hanno dato un contributo notevole, feci il segretario e l’ho fatto fino allo scioglimento del Partito Comunista Italiano nel 1990, cioè la Bolognina e poi Rimini, con Occhetto pe’ capirsi… Nei primi anni, ultimi Cinquanta, primi Sessanta abbiamo avuto un ottimo segretario che si chiamava Roberto Iavicoli. Era un medico, che è stato anche consigliere comunale e ha lavorato molto, sopratutto per l’ambiente… uno dei suoi primi libri, chiamato i Litosauri,questa città di pietra, parla molto di Tiburtino III e non soltanto di Tiburtino III, e parla molto anche della situazione igienicosanitaria del quartiere, all’epoca delle case vecchie, che era drammatica… e nei primi anni settanta con un gruppo di giovani medici facemmo una indagine conoscitiva, chiamata proprio così, sembra un 161
titolo un po’ troppo tecnico... Indagine Conoscitiva sullo Stafilococco beta emolitico di gruppo A. E’uno stafilococco che si trova al solito nella gola, però se non curato in tempo può portare alla cardioreumatia... e abbiamo... abbiamo perché io ero con loro.... abbiamo visitato, loro hanno visitato e fatto il prelievo del sangue e le analisi quindi, e il prelievo del tampone faringeo, a oltre cinquecento bambini delle elementari, parlo di cinquecento bambini delle elementari, non è poca cosa, di cui una percentuale abbastanza alta, diciamo intorno al 17-19%, lo ritrovammo positivo a questo stafilococco beta-emolitico di gruppo A. Questo è chiaro che si prende nelle case malsane, nella coabitazione molto coatta ecc. ecc. ... e ai bambini che abbiamo trovato positivi, con una visita presso l’ospedale di San Camillo con dei cardiologi gentilmente messisi a nostra disposizione... gli fu assegnato una iniezione di penicillina per dodici mesi, una al mese, e al dodicesimo mese, e ai successivi controlli, sparito tutto, quindi questo è stato un modo come fare prevenzione nel nostro quartiere, sopratutto in quel momento in cui si veniva da una casa malsana, umida e con una coabitazione molto massiccia... Ivano Caradonna. Io entrai a quindici anni dentro la sezione del Partito Comunista Italiano e ricordo ci entrai in maniera un po’ particolare, perché andai in una iniziativa antifascista a Piazza San Giovanni, ma così, da solo, perché mi andava di capire, di vedere come funzionava il mondo. E vidi un pullman con uno striscione fuori Tiburtino III antifascista e dal finestrino uscivano dei miei amici Ma che fai tu? No, che fai tu, che fai tu? Vabbe’, torna con noi e tornai con loro. Un viaggio disgraziato, perché mi proposero subito di diventare segretario della Federazione Giovanile Comunista, della FGCI, e io dissi di si, va bene insomma, e iniziammo a lavorare, una piccola cellula, un piccolo gruppo di ragazzi, poi più rapporti umani e personali, di amicizia che non politici, che poi si costruirono. Ebbi la fortuna di avere, di conoscere in questa storia, per dire a volte io scherzo con mia moglie, noi stiamo insieme dai quattordici anni, quindi il PC è nato con lei e lei è nata con il P.C. Iniziammo a preparare le feste de L’unità… con Paolo Ganna, anche dei pittori importanti, e insomma davvero fu una bella stagione… La prima discussione l’ebbi con uno storico rappresentante del quartiere, Virgilio Speranza, che era un uomo rude, un comunista di quelli… veri, sanguigni, che m’ha rovinato tutte le domeniche mattine, perché tutte le domeniche mattine facevamo la diffusione de L’unità porta porta, lottoXII, lotto XIII, lotto XI, per cui c’è chi ti offriva il caffè, chi ti offriva il cappuccino, il cognac di mattina perché c’era anche questa abitudine… … Ricordo la prima discussione con Virgilio, perché io volevo realizzare una mostra sul ruolo dei giovani all’interno della società… e l’avevo immaginata in questo modo: una casa e un pugno; il pugno per me era la forza dei giovani, la volontà di uscire e che sfondava le pareti di questa casa e andava oltre, cercava di darsi degli obiettivi. Passò lui nella sezione e Che è ‘sto schifo?, proprio cosìChe è ‘sto schifo, e io gli dissi, ‘St’anno l’ho fatta io, l’hanno prossimo lo fai te, cioè, visto che non ti piace, l’anno prossimo ti metti là e lo fai te però devo dire gli altri poi, anno dopo anno, hanno un po’ abbandonato… oggi parliamo di distacco tra cittadini e politica… Di che anno parla lei? Beh, io sono nato nel ‘57, se ci mettiamo sopra quindici anni, siamo ‘72-’73, quegli anni là. Il parco Ornella Mi’ marito è stato. L’avemo occupato. Cosa c’era lì? Erano i lotti distrutti? Du’ lotti, il III° e il IV° lotto. C’era la sezione del partito in quel posto. Allora, una parte cianno costruito do’ stava ‘a madre de mi’ nora, ‘e prime case, e quello veniva Verde attrezzato. Che anno era? Inizio degli anni settanta? Si, e un giorno mi’ marito ha detto Se vie’ Verde attrezzato perché nun lo occupo? cià avuto pure la causa lui. E l’ha vinta? L’ha vinta si! Una cosa giusta, che adesso fa’ schifo com’è diventato. Beh, però è bello.
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È bello però quando c’eravamo noi c’era il comune che ce veniva a taglia’ l’alberi.. adesso qui è un cerchio de soldi… E la casa chi la gestisce adesso? Adesso ‘a gestisce una del partito, de Rifondazione. Il comune non contribuisce? No. Io proprio non ce so’ ita più, me dispiace. Perché ‘e fatiche che amo fatto noi, non l’hanno fatte loro, capito? Mi’ cognato, mi’ marito, mi’ genero, tutti a lavora’ li’. Poi Maurizio ‘o conosci te, tutti a lavora’ lì, poi a ‘a sera facevo ‘a cena, coi soldi mii, perché chi te ‘i dava? Ho sempre tribolato io. Maria Pala e Pina Pala. Paola Spano. Voi avete mai frequentato qualche sede dei partiti, qui a... Pina. No. Maria. No, no. Paola.Neanche nessuno della vostra famiglia? Pina. No. Maria. No, no. Pina. Beh, ‘l marito... Maria. Beh, si, mio marito un po’, ma... Andava in sezione, lì al partito Paola. Dai comunisti? Maria. Si. Regina. Lì, al lotto X, voi ciave’ate la sezione, no? Maria. Si, si, proprio davanti casa, si. Paola. E ha partecipato anche alla costruzione del giardino? Maria. Del parco? Si, si, mio marito, si Pina. Difatti, dopo se so’state fatte parecchie cosette, ‘nsomma, con il parco, difatti io ce portavo i bambini de mi’ fija... Maria. Ma tutti! Adesso però l’hanno ridotto ch’è un macello, ha visto? Non so se ha visto… Paola. Ma chi lo gestisce? Maria. Ma che ne so? Regina. No ‘o so nemmeno io. Maria. Non l’ho mai saputo. Regina. Poco tempo fa cianno fatto un funerale de uno scrittore, Maurizio Milani. E’ de Colli Aniene. E’ uno che c’ha avuto un incidente… Maria. Dentr’al parco? Regina. Si, dentr’al parco. Però, sinceramente, chi ce lavora non sappiamo. Domenico Zanella. Volevo arrivare al parco. Questo era il famoso lotto IV°, famoso perché in questo lotto c’era la sezione del Partito Comunista Italiano, subito dopo la guerra e c’è stata la prima grande biblioteca popolare, in questo lotto e in questa sezione... all’epoca vennero vari intellettuali, tra cui Dario Fo, Franca Rame, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, che era un po’ di casa qua a Tiburtino e molti dei suoi romanzi e dei suoi libri, La Vita Violenta, eccetera eccetera, un po’ rispecchiano quello che era Tiburtino III e le storie che Pier Paolo Pasolini ha ascoltato da i nostri anziani. E era diventato un punto di riferimento anche per vari intellettuali, il gruppo dell’ Alzaia,un gruppo di artisti tra cui Ennio Calabria, Paolo Ganna e altri, era di casa qua a Tiburtino......Ennio Calabria è un pittore che ormai è internazionalmente noto, Paolo Ganna era bravissimo a fare i grandissimi murales… quindi era pure questo momento in cui il proletariato, e a Tiburtino ce sta anche un sotto-proletariato ma c’è sopratutto un proletariato che è molto diverso... il proletariato ha avuto questi contatti con questa gente di cultura e ovviamente questa gente di cultura ha lasciato dei segni, anche a me stesso li ha lasciati questi segni. Ivano Caradonna. Ennio Calabria ci regalò cento serigrafie alla sezione del Partito Comunista Italiano, per recuperare un po’ di risorse per l’attività, e ognuno di noi acquistò una serigrafia che tiene gelosamente affissa ormai da trent’anni. In un quartiere popolare come questo, che Pasolini definiva all’epoca una 163
bandiera rossa che sventola sulla via Tiburtina sono attecchite queste storie che appartengono al mondo della cultura, dell’arte… Domenico Zanella. Ritornando poi al discorso dell’assegnazione degli alloggi e alla demolizione del lotto IV°, dove siamo adesso noi... mo’non è che faccio un gioco di parte, scusatemi, ma tutte le iniziative sono state prese dalla sezione del Partito Comunista Italiano. E il Partito Comunista Italiano all’epoca... che non c’ero neppure io... voglio dire, ‘69,’70, ‘71... il responsabile della sezione era Virgilio Speranza, una persona che sapeva trasmettere proprio molti valori, era molto bravo, era uno che poi aveva una volontà e un entusiasmo incredibile, lui era quello che partiva pe’ poter costruire, dal campo sportivo al parco di Tiburtino III... noi lo abbiamo chiamato parco dell’Unità nel senso che prima de L’unità si riferiva al giornale, adesso dell’Unità si riferisce all’unità di stare insieme, però credo che dovrebbe essere dedicato a Virgilio, perché è stato lui il promotore e quello che ha dato più di ognuno di noi proprio nella costruzione... lui si era fatto gli stampi, la domenica mattina quand’era libero, per fare questi cordoli delle aiuole in cemento armato, preparava il cemento, i ferri, li faceva e poi dopo li montava e poi andava sempre a chiedere un albero, questo e quell’altro... è stato sempre fino all’ultimo momento con un entusiasmo e una capacità... uno strascinatore… questo terreno pieno di calcinacci e demolizioni, abbiamo anche le fotografie, fu bonificato, ci furono portati qualche cosa come oltre cinquecento camion di terra, forse all’epoca agevolati dalle costruzioni di Colli Aniene che smantellavano, cioè che smottavano il terreno… il primo lavoro fu il parco giochi dei bambini, dove adesso vedete le altalene, gli scivoli , dopo di che fu fatta la pista di pattinaggio, che è una pista di oltre seicento metri... Eh… tutto quanto col volontariato! Dopo la pista di pattinaggio fu fatto quel locale che vedete lì alle nostre spalle, e poi successivamente fu fatto i campi di bocce che oggi non funzionano più perché alle nostre spalle è stato costruito il centro anziani e nel centro anziani hanno fatto dei bei campi di bocce e quindi i nostri bocciofili vanno a giocare al centro anziani. Questo qua stiamo pensando di recuperarlo e abbiamo fatto varie cose, qualche concerto, due spettacoli teatrali, una scuola di teatro per bambini, mo’ c’è una scuola di questi ragazzi che scrivono con le bombolette, che poi ti faccio vedere… Nella scissione dell’allora Partito comunista noi abbiamo pensato di mantenere questo posto come un monumento di amalgama per tutte le anime, e quindi abbiamo fatto il circolo Arci, che l’abbiamo titolato molto pomposamente a Concetto Marchesi, magnifico rettore dell’ Università di Padova, famoso per l’intervento del 1943 all’università, quando che invitò i ragazzi a lasciare i libri e a prendere il fucile per liberare l’Italia e lui stesso poi andò nella repubblica di Ossola ecc.ecc.... fu il grande latinista Concetto Marchesi, e oggi si chiama Circolo Arci Concetto Marchesi, e la sala è stata dedicata al nostro socio che ci ha lasciato molto giovane tre, quattro anni fa, che è stato il perno poi attivo di questi lavori, quello che lo trovavi sempre e si chiamava Luigi Galimberti...questa è un po’ la storia del parco. Noi siamo affittuari, perché il terreno è della ATER, ex IACP, oggi ATER, cambiano le sigle, Azienda Territoriale Residenziale... Paghiamo un affitto, di circa quattrocento euro, paghiamo l’acqua, paghiamo l’illuminazione del parco, tutto quanto... e però non è che lo teniamo soltanto riservato ai soci del circolo, è aperto a tutti i cittadini, ai nonni, ai bambini, ai genitori, la sera qua è un piacere... questo parco è pieno di gente e di bambini e tutto, perché poi è l’unico punto verde che abbiamo nel nostro quartiere. Ultimamente abbiamo fatto una potatura drastica di questi alberi, perché c’erano degli alberi ormai diventati altissimi e pericolosi, come gli eucalipti che possono crollare... E questa è la storia del parco... io sono stato presidente di questo circolo fino a un mese fa, oggi rivesto la carica di vicepresidente e l’attuale presidente si chiama Alberto Orsini: ci alterniamo, una volta il vicepresidente, una volta il presidente, anche perché è chiaro che bisogna darsi anche un po’ di respiro ogni tanto... Senti, noi abbiamo avuto qualche lamentela invece da persone intervistate... sul fatto che la gestione di questo parco è un po’ troppo privatistica, non è abbastanza aperto al quartiere… Assolutamente non è vero, molta gente magari non partecipa perché ancora qua questo posto viene chiamato il Partito… Quanno che le donne chiacchierano, dice No, mi’ marito sta al Partito… ma in realtà questo non è il Partito, questo è un circolo Arci, cioè ci stanno tutte le anime, da ex comunisti, tra chi non è stato mai comunista, tra chi si riconosce nei DS, nel PD oggi, tra chi si riconosce in Rifondazione Comunista. Noi in questo parco facciamo delle belle iniziative, che speriamo di 164
mantenere anche se ci costano sia economicamente sia di sacrifici... facciamo il carnevale dei bambini, è ormai il terzo anno, la giornata del gioco, che è quella cittadina… si fanno feste private, private tra virgolette, perché poi il quartiere, sono tutti imparentati, cioè dalla comunione, al battesimo, ai compleanni... ci abbiamo fatto nozze d’oro, nozze d’argento, ciabbiamo fatto, si, anche delle nozze e ciabbiamo fatto anche un funerale, un funerale, chiaramente ateo, di Maurizio Melani, un ingegnere che lavorava alla Elenia. La moglie preferì fare questo funerale qua dentro, in una mattina che pioveva non ti dico quanto, e con il parco pieno di gente, tutti sotto l’ombrello… poco prima che morisse, pochi giorni prima presentò un suo libro qua, che si chiama L’astronave a pedali, Abbiamo fatto soprattutto delle grandissime feste dentro questo parco... prima le feste de L’Unità... in cui abbiamo fatto anche del teatro con Bruno Cirino, facemmo Rocco Scotellaro… Abbiamo avuto grandi spettacoli, tra l’altro un Ron piccolissimo si esibì qua... erano di casa un po’ tutti in queste feste. Giancarlo Carbonara Praticamente il parco è stato costruito dove c’erano i lotti? Perfetto, si, che se dopo inquadra le fotografie qui dentro al locale, si vede proprio che c’erano i lotti di fronte,. Questo parco è stato costruito dagli operai che andavano a lavora’ la mattina, siccome non c’era nessun posto pe’ i bambini, un parco per i bambini, e gli operai, fra cui erano operai che andavano a lavoro la mattina, erano del partito comunista, occuparono ‘sto, sto pezzo di terreno che era stato demolito e hanno costruito ‘sto parco utile per la borgata. Infatti è bello adesso. No, tanto bello non è adesso, un po’ abbandonato Ma adesso chi se ne occupa? C’è un circolo ricreativo che sta lì dentro,credo che sia dell’ Arci, è un circolo ricreativo… Il terreno di chi è? Dell’Istituto, il progetto era di costruicci ‘e case, poi ad un certo punto invece non hanno voluto costrui’ le case, che stanno pagando tutt’ora, gli errori che hanno fatto durante sti anni. I famosi comunisti non l’hanno voluto, l’hanno voluta solo zona verde, non pensando che qui avrebbero costruito le case, avrebbero costruito le case a costo molto basso perché essendo terreno dell’Istituto ce poi costruì le case che servivano, perché oggi come oggi servono ‘e case. Invece hanno preferito il verde, tutto verde senza niente Nel gennaio del 2006 abbiamo intervistato il segretario e alcuni iscritti della sezione DS di TiburtinoIII, chiusa per dieci anni, dal 1993 al 2003, perché, dopo la fine del PCI, si era deciso di unificare le due sezioni di Tiburtino e Colli Aniene in un’unica sede a Colli Aniene. Ma la decisione era stata vissuta molto male dagli iscritti di Tiburtino così come la riapertuta della sede a via Grotta di Gregna è stata accolta con grande soddisfazione. Dal 2006 le cose sono ancora cambiate ma il Partito Democratico ha ereditato la sede dei DS.
Riccardo Morri. La vicenda della sezione a noi è sembrata abbastanza interessante, nel senso che alcuni intervistati a Tiburtino III hanno vissuto molto male il fatto che a un certo punto la sezione di partito sia praticamente quasi sparita… quella che si è spostata a Colli Aniene. Ivano Caradonna (1957). No, ma troppi anni dopo, quella è colpa mia, la volli chiudere io… con la svolta, con la caduta del muro di Berlino e la nascita del PDS, di fatto c’è stato questo contrasto, la nascita di Rifondazione Comunista e la nascita del PDS, ci fu una frattura, per cui all’inizio si tenne Rifondazione la sua sezione e il PDS la nostra. Ecco, ovviamente i primi anni il tema è che c’è anche un problema di risorse e di energie, avere due sezioni, Tiburtino III e Colli Aniene, che erano molto vicine tra loro mi sembrava… Roberto Caretta.L’apertura di questa sezione è stata anche una grande richiesta dei cittadini, perché era un punto di incontro, vedendo chiusa una sezione in un quartiere come Tiburtino, un quartiere popolare, la gente cià fatto grande richiesta. E io con altri compagni abbiamo deciso, siccome lì nella realtà… andavamo lì , se mettevamo a sede e parlavamo noi, era come se parlavamo al muro... Noi l’abbiamo riaperta, nel duemilatre abbiamo fatto la festa dell’Unità. Sinceramente per noi compagni ritornare a Tiburtino III a fare la festa dell’Unità, vedere la gente ritornare, incontrarsi.. è stato veramente un 165
successone, e anche una bella soddisfazione. Poi abbiamo visto che la gente si avvicinava, perché prima non si avvicinava mai, qui si è avvicinata, ha portato problemi. Perché questo è un punto di aggregamento, dove c’è contatto, se parla… chi cià problemi, se risolvono, è un momento di incontro e sinceramente è una bella soddisfazione, in tre anni da zero iscritti siamo diventati centodieci iscritti. E fa capire che c’era qualcosa che i cittadini stavano perdendo… Nel 2006 abbiamo intervistato i DS e lì hanno parlato del fatto che c’era stato un momento in cui la sezione era stata spostata a Colli Aniene e che questa cosa era malvista eccetera... volevo sapere se c’era stato qualcosa del genere anche per Rifondazione... Domenico Zanella. Beh, forse è meglio evitarlo questo passaggio, perché purtroppo la sezione di Rifondazione… dopo che io e un altro gruppo di compagni siamo andati via, nei Comunisti Italiani nel sostenere il governo Prodi, è stata tenuta un altro pochino e poi è stata chiusa, e lì in Grotta di Gregna, lì chiusa e abbandonata vicino a dove adesso è la sezione dei DS, c’è un’altra sezione di Rifondazione, ancora con la targa originale della vecchia sezione del partito comunista... E’ chiusa, è chiusa da molti anni. Io avevo chiesto di riattivarla anche ai compagni di Rifondazione magari lavorandoci insieme, ma c’è stato un po’ un muro in questo senso…
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11. È stata una guerra, lunga Miriam Fiorellino. C’era un discorso di attenzione, erano tutti molto all’erta sia quelli di Tiburtino, sia la scuola, sia Enzo perché c’erano tutti questi che giravano intorno… Antonietta Destro. Ma sai cosa c’è? c’era parecchia politicizzazione, vuoi il PCI che i gruppi… erano gli anni, io andavo a fare interventi alla Voxson, che eravamo sia noi di Avanguardia operaia che quelli de Il manifesto, Lotta continua, quindi c’era un controllo sul territorio... Miriam. Molto molto duro, molto fermo Antonietta. Quando lo dici oggi, quando lo dici oggi, ti vengono i brividi, perché abbiamo lasciato che queste cose andassero... abbiamo ridotto le persone alla solitudine e all’isolamento, non c’è più controllo del territorio, non c’è... reale, non le ronde… Ornella. Senti questo cambiamento nei giovani, con la sezione che s’è un po’ vuotata, quando è stato, dopo l’Ottanta, secondo te? Si. E coincide secondo te col problema della droga? Si. Tu puoi raccontarci qualcosa sull’arrivo della droga? Io non te racconto niente, io voglio vive’.Lo sanno tutti però… No, no, non nel senso di chi spacciava… di chi c’è cascato in mezzo… E tanti ce so’ cascati… ancora ce cascano! Tanti se so’ liberati, tanti no.. Regina Bruschi Polidori.E tanti so’ Zombie. Ma adesso gira ancora l’eroina oppure no? Gira tutto. E so’ sempre le stesse persone che la spacciano? No, ogni tanto cambiano. Ma è gente di qua o è gente di fuori? No, di fuori zona, no…A me me pare che ora è diventata una consuetudine quasi normale, faccia a faccia. La droga comincia ad arrivare a Tiburtino III dopo la metà degli anni Settanta, ma «esplode», secondo l’espressione di un’intervistata, tra la fine di quel decennio e l’inizio degli anni ottanta, proprio in un periodo di grande trasformazione del quartiere: demolizione di molti vecchi lotti e costruzione delle nuove case «di via Mozart». Molti, tra quelli che abbiamo ascoltato,dicono che la droga è arrivata dal Monte del Pecoraro, dalle case nuove dove agli abitanti provenienti da Tiburtino si erano mischiati altri da altri quartieri, «‘a crema de tutti ‘sti sfrattati»; e anche a Tiburtino, con la pratica degli scambi di casa, «se semo un po’ imbastarditi». In molti racconti torna il ricordo della tenda contro lo spaccio che poi ha dato vita a un’associazione, La Tenda appunto: alcuni ne parlano come di un’esperienza molto importante, altri rimpiangono che non sia stata un’iniziativa veramente efficace, alcuni ne danno il merito prevalentemente alle mamme dei ragazzi tossicodipendenti che presero l’iniziativa, altri accentuano il ruolo delle istituzioni locali, la sezione del PCI in particolare. L’associazione La Tenda è tuttora attiva nel quartiere, ma anche la droga non se n’è andata.
Marisa Marcellino. No, penso che c’è ancora… C’è de tutto. Anche qui, anche qui in questi cortili… Giorgio Arezzi. E’ peggio adesso dell’epoca di cui parliamo, perché ci sta uno spaccio proprio porta a porta. Bianca Karpati… negli anni ‘80: si è cominciato a sentire di ex alunni che stavano passando dei brutti momenti, li vedevamo a volte accasciati nel quartiere, sono cominciati furti, scippi, minacce ai ragazzi per rubare un motorino, per rubare un giubbetto di pelle, mi ricordo il famoso Timberland, che i ragazzi non potevano più andare con le Timberland ai piedi, che poi appunto tutto questo veniva venduto per… per la droga. E poi appunto mi dicevano le mamme del nuovo quartiere, che erano andate a vivere nei nuovi palazzi, che poi c’è stata una contaminazione, perché, nei nuovi palazzi di Tiburtino, si sono trasferiti quelli dei vecchi lotti, ma sono stati dati anche a persone che venivano da altri quartieri ed è iniziato appunto questo spaccio di droga e quindi anche i furti negli appartamenti, le sbarre alle finestre… prima, negli anni Settanta, noi sapevamo che molti vivevano di furto… mi ricordo una volta un tema, un bambino scrisse «Mio papà lavora nei camion» Ripuliva i Tir! Oppure lunedì spesso molti bambini mancavano perché era il giorno di ricevimento a Rebibbia, quindi si sapeva che c’erano persone che vivevano di 167
furto e di ricettazione. E poi invece si è passati allo spaccio, quindi c’è stato questo degrado, quindi anche le rapine, le rapine nello stesso quartiere! Qualcuno c’ha detto che invece gli spacciatori non erano di Tiburtino, almeno all’inizio. All’inizio probabilmente no, erano queste persone che sono venute a convivere con i vecchi Tiburtinari; loro ovviamente si tirano fuori da questa cosa, ma poi alcuni si sono fatti coinvolgere, soprattutto i ragazzi giovani, purtroppo. Probabilmente non le vecchie famiglie storiche che vivevano appunto un po’ arraggiandosi, ma i ragazzi che hanno visto questi facili guadagni nello spaccio e che poi purtroppo hanno iniziato a drogarsi e per procurarsi la dose sono caduti nel giro. Sandra Fortuna. Secondo me, la droga è cominciata un po’ co’ lo spostamento al Monte, no? le case nuove al Monte... è venuta dal Monte, perché Tiburtino un po’ era anche chiuso... Perché quelli che di Tiburtino se so’spostati e so’ andati al Monte, io mi ricordo che si diceva questo poi, me ricordo anche, tra noi ragazzi parlavamo che gente, nostri amici magari, persone che avevano cambiato casa e erano andate al Monte, nel giro di poco tempo aveva frequentato altre compagnie lì e quindi erano entrate in questo giro di droga, e poi da lì... si è spostato a Tiburtino… verso la terza media si, forse si. Regina Bruschi Polidori. Beh, io me ricordo... settantaquattro... Poco ancora però Paola Padella. Poco si, ancora non era proprio esplosa, poi nell’ottanta… Sandra. … perché fino ad allora, proprio noi, tutto sommato ‘n c’era mai capitato insomma d’ave’ un problema così, dopo si, dopo invece è stato un continuo, un periodo più pesante. Paola. Dopo è stato brutto, è stato proprio brutto. Sandra. Si, si. Infatti tanti ragazzi che conoscevamo, ancora adesso, a quarant’anni, insomma alla fine son morti così, non ne son proprio usciti. O per malattia o per overdose. Regina. E’ stata una guerra, lunga... Paola. … io me ricordo quando alcune mamme non solo di Tiburtino, anche di altri quartieri qui vicino, Casal Bruciato, hanno fatto una protesta: avevano piantato una tenda qui sulla via Tiburtina, a uno spiazzaletto con... cartelloni, co’ striscioni, perché ave’ano dei figli che si drogavano, e io sono stata vicino a loro. Queste donne chiedevano prima di tutto un aiuto per i figli, come cure e tutto quanto, e poi, c’era qualcuno che iniziava a spacciare, chiedevano da mette’ più controlli nel quartiere... ma più che altro volevano un aiuto per i figli, ecco, qualche assistenza. Insomma stavo con queste donne che ereno lì giorno e notte, nel senso che io andavo il pomeriggio, quando tornavo da scuola, stavo insieme a questi ragazzi che purtroppo... poi dopo, da lì qualche persona s’è mossa e j’hanno dato su via Mozart, j’hanno dato dei locali pe’... dove questi ragazzi insomma vivevano là e sono venuti dei medici, no’ ‘o so se tu ‘o conosci Flavio Veneziale? Un medico, è stato molto, molto bravo,si si, un medico che veniva a controllare ‘sti ragazzi anche perché poi questi ragazzi, trovandosi lì, uno doveva tenerli a bada, sotto d’occhio perché quando stavano, non uscivano e chiaramente non prendevano droga… si, dormivano là, la gente del quartiere, insomma le mamme, i familiari, la gente che come me, diciamo, andava lì in aiuto, stava co’ loro, ci parlava, insomma passava il tempo co’ loro... Questa cosa l’ho fatta nell’ottanta, ottantuno...Io ce so’ stata un anno all’incirca… poi dopo loro l’hanno spostati qui a via del Frantoio… E ne sono usciti questi? Paola. Qualcuno, pochi, pochissimi. Laura Morelli. Però quello che volevo dire è che l’esperienza di valore umano, grandissima, che ha portato lo stare qui in questo quartiere è stata proprio l’esperienza dell’associazione la Tenda… la Tenda è nata da una manifestazione di donne, erano cinque o sei donne e io mi ricordo che camminavo per strada e ho visto queste sei donne con uno striscione dove c’era scritto «Abbasso gli spacciatori» ed erano tutte mamme di ragazzi tossicodipendenti. E diciamo.. in quel momento era una grande prova di coraggio. Si è creato un Tam Tam qui nella zona, in tutta la Tiburtina e hanno partecipato a questa cosa tutti i giovani della FGCI… Abbiamo piantato una tenda in mezzo alla strada, davanti alla chiesa di Santa Maria del Soccorso, proprio davanti alla metropolitana, in quello slargo, e si sono avvicinati immediatamente dei ragazzi tossicodipendenti che evidentemente nel loro inconscio cercavano aiuto. E noi li abbiamo accolti, senza
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diciamo la minima conoscenza del problema, di come intervenire, di come fare… e invece è stata un’esperienza molto bella, e qualche ragazzo di questi si è anche salvato. Paola Padella. Io me ricordo che questo Flavio [Veneziale] era un medico, è un medico condotto però lui veniva per un volontariato ecco, però invece lì ce voleva proprio gente... perché ‘sti ragazzi andavano pure incontro a crisi d’astinenza.. Sandra Fortuna. All’inizio era gestita bene, poi, non so per quale motivo, poi questa gente ch’era addetta... cioè ce voleva poi un gruppo de specialisti... non solo persone del quartiere, che invece poi, ho visto, hanno mollato tutto per cui la cosa è degenerata. Lì era diventato solo un dormitorio,infatti poi dopo gli so’stati tolti questi locali... perché non erano più gestiti da persone competenti. ... peccato perché veramente è stata... cioè all’inizio sembrava ch’era ‘na cosa che poteva funzionare e poi lasciati a se stessi… Giancarlo Carbonara. M’o ricordo perché l’ho vissuta, ‘a droga è stata una piaga molto molto drammatica in questo quartiere, ma in due quartieri, questo e il Monte del Pecoraro, perché erano figli del quartiere, erano quelli che erano andati via de qua, ch’ avevano preso le case sopra i genitori, figli del quartiere erano pure loro. Ho visto tutti nascere e tutti amici, erano amici, figli di amici, e pare che c’è stata ‘na strage. Ragazzi che so morti da i venti, ventidue, venticinque, ma decine, decine e decine de ragazzi. C’è chi s’è salvato, quarcuno s’è salvato, ma stagrande maggioranza se n’è andata via tutta. E tuttora seguitano..eh, seguitano, perché…’a droga ancora ce sta e pure troppa. Però ha fatto ‘na strage de gioventù, una strage proprio, tanti tanti tanti tanti tanti ragazzi che so morti, giovani, e uno li ha visti proprio sia nascere che cià vissuto insieme. Che poi io li ho conosciuti quasi tutti, perché è stato uno dei locali che frequentavano nel quartiere, tutti frequentavano qua, li vedevo tutti. I primi tempi i spacciatori erano de fuori, a Tiburtino non c’erano chi spacciava, venivano tutti da fuori, e poi venivano diciamo da altre parti, non c’erano spacciatori del quartiere… solo i giovani che consumavano. Embè, io mo’ l’anno preciso… so che hanno cominciato co’ i famosi spinelli, tutti quanti, è innegabile, tutti hanno cominciato co’ gli spinelli, chi dice no è una menzogna. Tutti hanno cominciato co’ gli spinelli, so finiti tutti all’eroina, tutti. C’è anche chi ha cominciato co gli spinelli, s’è fermato agli spinelli e se n’è uscito fuori, però tutti dagli spinelli hanno cominciato, scherzando, giocandoci sopra, e poi hanno cominciato solo l’eroina, a cocaina ‘n c’era ancora, era solo eroina, eroina, eroina e tutti morivano così. Te affacciavi, te svegliavi la mattina e dicevano «quello l’hanno trovato lì, è morto, co’ na siringa, quell’altro…». Questa è ‘na tragedia che noi del quartiere abbiamo vissuto, perché erano ‘sti ragazzetti, ma figli di amici. Adesso i genitori che so’ amici miei, cianno sessant’anni come me, i figli, eh… è ‘na tragedia de Tiburtino ma penso de tutti i quartieri de Roma. Giorgio Arezzi. Purtroppo anche qui in parrocchia abbiamo dovuto pagare uno scotto con questa problematica della droga. Al gruppo originario del Tiburtino, si aggiunsero dei ragazzi dal Monte che cominciarono a portare qui delle sostanze, che io non so esattamente cosa fossero… però vedevo che quando arrivavano questi ragazzi… c’era il fuggi fuggi… stavamo a fa’ una cosa e alla spicciolata i ragazzi uscivano per incontrarsi con questi altri che arrivavano. Finché qualche genitore si accorse che qualcosa non andava nei loro figli e furono costretti a chiudere l’oratorio… entrava in oratorio soltanto chi… però ormai il danno era fatto perché per esempio alcuni de ‘sti ragazzi con cui avevamo formato un complessino, ci esibivamo anche, perché quando andavamo a Bergamo padre Marco ci faceva esibire nei teatri parrocchiali, purtroppo alcuni non so’ più venuti qua, hanno cominciato a voler, diciamo così, alzare il tiro. Qualcuno gli ha proposto di andare a suonare ad altre feste intorno, dell’Unità.. per cui hanno un po’ tagliato il cordone con la parrocchia e so che alcuni di questi so’ andati a fini’ nell’eroina, però sono cose che m’hanno riportato, perché poi non ce l’avevo più sott’occhio. Considera poi che Monte del pecoraio è stato popolato comunque da gente di Tiburtino III, quindi, ora non voglio dire che Tiburtino III era immacolato e che se non fossero venuti quelli… purtroppo gli anni dell’esplosione furono quelli. C’era addirittura un ragazzo, che tra l’altro è figlioccio mio perché m’aveva chiesto espressamente da fargli da padrino alla cresima, e lui le prime sostanze se l’è prese… gliele hanno offerte che ciaveva undici anni. C’era padre Marco che ha messo anima e corpo in questa azione de recupero, specialmente di ‘sto ragazzo di cui ti parlavo, lui si bucava, si bucava a quindici, sedici anni. L’attività di padre Marco consisteva, oltre che nel 169
passare molte ore con lui, …anche io una volta m’ha fatto fa’ le tre, le tre di notte al policlinico, perché s’andò a bucare in un campo qua a Rebibbia, perse i sensi, e quando si riprese ebbe la forza di arriva’ sulla Tiburtina e fermò una volante…. padre Marco faceva riferimento soprattutto al CEIS di don Picchi, e cercava di coinvolge’ anche i genitori dei ragazzi. Diciamo che come parrocchia l’azione s’è esaurita là..Oltre naturalmente all’essere più vigili rispetto al passato, perché al primo episodio che ci fu, quando questi ragazzi cominciarono a porta’… pasticche credo… eravamo abbastanza impreparati. Anche perché adesso c’è quel centro lì, La tenda, ma all’epoca non c’era nulla, se non don Picchi che appunto sembrava quasi una cosa pionieristica per l’epoca, ‘ste comunità di recupero. Domenico Zanella. … 1980, ‘81, ‘82, la droga cominciò a entrare dappertutto... molte professoresse, molte maestre venivano da me nella sezione in cui io ero segretario a chiedermi se si poteva fare qualche cosa e io... oltre che fare qualche riunione, qualche discussione, tutto quanto… più di questo non sapevo che cosa inventarmi. Lo spunto me lo dettero alcune mamme di ragazzi tossicodipendenti che un giorno si misero qua sulla Tiburtina, davanti la parrocchia Santa Maria del Soccorso con un lenzuolo bianco con scritto a vernice «Via la droga dai nostri quartieri, salviamo la vita ai nostri figli», lì fu un po’ ecco la lampadina che ti si accende. Io presi in mano da subito la situazione con vari gruppi, tra cui alcuni medici, alcuni psicologi, alcuni sociologi e con il grande aiuto di Armando Gaeta, all’epoca presidente della ASL, attraverso degli operatori della ASL , e siamo stati sette giorni e sette notti lì sulla Tiburtina aggregando ragazzi, tenendoli con noi, cercando di controllarli, chiedendogli chiaramente se avevano voglia di fare sacrifici perché altrimenti avrebbero distrutto il gruppo… il primo Aprile del 1982, il primo ad arrivare e a darmi una mano fu il grande medico Flavio Veneziale a Pietralata, un medico stupendo proprio, lu, Giulio Divisa... vanno ricordati questi nomi perché è importante... poi Giulio non c’è più... Aldo Calderone che oggi gestisce Magliana 80, e più dalla ASL mi venne il contributo di... ora mi sfugge il nome...vabbe’ dopo te lo dico ma... Gaetano de Pasquale, sociologo, che era un dipendente della ASL, e poi ci fu Gabriella, un’altra psicologa che anche lei ormai non c’è più, e cominciammo a fare un lavoro sui ragazzi con la supervisione stupenda dell’allora responsabile della ASL del CIM e del SERT, il professor Fausto Antonucci, che è stato anche lui poi consigliere comunale ma è stato quello che ha messo il CIM a San Basilio.... un lavoro stupendo con Fausto. Si doveva cominciare a passare dalla strada al dopo strada, quindi nelle nuove costruzioni mi era stata assegnata la nuova sezione del PCI Io che ho fatto? Ho fatto l’associazione La tenda, senza fare la sezione... mantenendo la vecchia sezione al lotto X, che ancora non era stata demolito. In questo locale che era grande non c’era pavimento, non c’era niente. All’epoca il nostro presidente del municipio era Walter Tocci e il sindaco di Roma era Ugo Vetere: mi rivolsi alle istituzioni per avere degli aiuti, pochi in realtà, altri li ho avuti a livello personale da... da uno, si chiama Alfano che aveva grandi mostre di bagni, laterizi ecc.. a Cerveteri, e lui mi fornì tutto il materiale di pavimentazione, di pareti, di maioliche e cominciammo a costruirla letteralmente questa associazione La Tenda, dal pavimento, dalla luce, dalle docce... In un locale che c’era, ma c’era soltanto il locale, abbiamo costruito due bagni, una doccia, la sala riunioni, la sala grande diciamo dei servizi, e abbiamo cominciato a stare lì con i ragazzi, quelli in difficoltà, giorno e notte... e ci fu in un primo momento anche una grossa solidarietà da parte del quartiere. Infatti si mangiava insieme, si stava insieme, si stava la notte insieme… Eh, la notte anche perché molte volte ci stavano delle dosi di roipnol eccessive che dovevi correre all’ospedale, insomma quando si tratta di lavorare coi tossicodipendenti succede di tutto... e ci fu una grossa solidarietà verso questi ragazzi a rischio da parte dei ragazzi tra virgolette normali, soprattutto da parte di quelli che facevano capo alla Federazione Giovanile Comunista Italiana della via Tiburtina, che quasi di sana pianta si spostarono verso l’associazione La Tenda e crearono un gruppo abbastanza omogeneo tra loro e gli altri ragazzi, cioè si andava... al mare a Ostia, si andava al lago a Bracciano, si andava sempre in gruppo...in modo che c’era anche un certo controllo… è stato un lavoro molto difficile. E coi giovani della FGCI lavorammo insieme quindi... c’era chi sapeva suonare la chitarra e cominciò a far suonare la chitarra, c’era chi... cominciammo a fare delle partite a pallone miste tra noi... anche io che all’epoca avevo quarantuno anni... noi e questi ragazzi, insomma fu una cosa molto bella, molto partecipata, ancora oggi a distanza di ventisei anni La Tenda esiste e cià un suo ruolo, è qua in via del Frantoio... però tra la realtà romana di quel tempo in cui le mamme di Primavalle o le mamme di Trastevere, o le mamme di Ostia fecero delle cose analoghe e furono anche abbastanza seguite, aiutate anche quelle… non so perché... se non ce sta poi chi si sacrifica e porta avanti le cose, poi le cose cianno un momento e poi però se 170
sgonfiano da sé... invece La Tenda cià avuto questo gruppo che mantiene e che ancora oggi funziona… E’ vero che non è che la droga poi è sparita da Tiburtino in quel periodo... magari è aumentata a Casal Bruciato, magari è aumentata a Monte del Pecoraro, magari è aumentata a San Basilio, però, voglio dire, questi maledetti… assassini... con la droga si fanno soldi facili e i soldi agli ingordi fanno sempre gola...e poi non importa quello che viene fuori dopo. Ci sono stati momenti belli di questa lotta alla tossicodipendenza… il nome gliel’ho dato proprio io...La Tenda... partendo dalla tenda in Piazza e... dai primi momenti... poi abbiamo anche avuto dei momenti di grossi drammi…Io mi ricordo una mattina di ottobre, quella mattina mi ero preso un riposo e con la famiglia volevo andare alla festa delle castagne a Soriano nel Cimino... quando passai qua davanti alla sezione, che era proprio esattamente qua dietro alle nostre spalle, c’era il banchetto del compagno e mi so fermato a prende’ l’Unità, e il compagno mi ha detto «Sai Dome’, abbiamo trovato un ragazzo morto qua alle scalette del mercato» e a quel punto non sono più andato a Soriano... Una storia a lieto fine
Ora è Stefano Liberati che racconta la propria odissea, sollecitato ogni tanto dalle domande dell’’intervistatrice e dagli interventi di Regina Bruschi Polidori, un’amica, e Paola Padella, la moglie. Sono riprodotte in corsivo e senza l’indicazione del nome le parole dell’intervistatrice, in corsivo con l’indicazione del nome quelle di Regina e Paola.
Quando se semo conosciuti? Nel Settantotto. No, se semo conosciuti prima, nel ‘78 se semo fidanzati… Paola. Settembre ‘78 Se semo conosciuti qui, a Tiburtino... Eh, sempre il discorso che poi basta ‘na cosa che te cambia ‘a vita: noi dovevamo anda’ a la festa de L’Unità a villa Gordiani, ch’era quella centrale, co’ amici mia, però «eh, no, no dai, a me me va, a me nun me va»...ce stava pure a Tiburtino? Sem’annati a Tiburtino. ‘N’amico che stava nel gruppo mio conosceva lei perché stava nel gruppo suo prima...nel gruppo, è brutto di gruppo... ‘a comitiva. E noi, passando qui pe’ veni’ a Tiburtino, ha ‘ncontrato lei ‘st’amico, e s’è messo a parla’, e se semo conosciuti così... Si, ‘78, quattordici (anni). Siamo usciti, si siamo fidanzati: ergastolo, fine pena mai! Vabbe dai, come uscivamo,uscivamo co’amici; poi dopo io me so’ deviato e le uscite so’ state un po’più sporadiche, e io ciavevo sempre da fa’...pe’ un po’ de tempo... e niente, così... ‘nsomma ‘n’infanzia brutta eh...brutta, brutta... sempre de corsa, sempre... ‘n chiodo fisso, è brutto dillo eh, però è così...è ‘a vita… se viveva che se tu scendevi da casa e te mettevi a sede a un posto diventavi ‘na persona, se te mettevi a sede dieci metri più in là c’era ‘n’altro gruppo e diventavi ‘n’altra persona, da come ‘o vedo io adesso. Se ‘n te mettevi a sede... io me so’ messo sempre a sede da tutte ‘e parti ... (potevodiventa’) tutte ‘e persone, ma non me piaceva nessuna: o potevi diventa’ un filo pallottino, c’era ‘a chiesa di San Vincenzo Pallotti, i boy scout, o diventavi uno dei delinquentelli de zona o diventavi uno der gruppo de una determinata area, area politica, o diventavi de ‘n altro gruppo de pochi, insomma de sinistra tanti, e niente... due, tre scemi, proprio che ce stavano a fa’ ‘n se sa ancora... vabbè sappiamo pure chi erano, poi porelli, poi fiji d’operai, proprio sofferenze de famijia loro...vabbe’, annaveno di moda i pariolini e era il tempo. Beh, secondo dove te mettevi a sede… mo io dico so’ scemi loro, loro magari staranno a parla’ de me, dicono «Che scemo quello, s’è messo a sede là, ha fatto que’a fine» Mo’ va a vede’ chi è que’o scemo, dai. Io dico, loro , perché se ‘i vedi, ciaanno cent’anni, quelli ‘a fine l’hanno fatta a sedic’anni, ereno morti già allora… Regina. Al Monte del pecoraro so’ successe parecchie cose...E’ stato un quartiere travagliato... negli anni settanta… Eh si, se sparava tutti i giorni… Tu abitavi al Monte? Da quando? Sei nato al Monte? S. No, io so’ nat’ a Tiburtino. E nel ‘69 semo annati al Monte... Er Monte era ‘n quartiere bello, stupendo fino a che c’era solo il Monte; quelli de Tiburtino sono andati al Monte. Poi dopo hanno costruito ‘e case nuove, le famose case nuove a via Matteo Tondi, dove ce stava il monte, il boschetto, dove noi giocavamo, prati, marana... Hanno levato il boschetto e so’ nate ‘ste case nuove, però ‘ste case nuove, non è ch’è venuta gente di Tiburtino... si, pure ancora ‘n’ondata de quelli de Tiburtino, però so venuti da Villa Gordiani, ‘a crema proprio, ‘a crema de... tutti ‘sti sfrattati, porelli mica che se ‘o so’ comprato... Torpignattara…e più dell’Eritrea, ce so’ parecchi amici mia che poi so’ cascati... Vabbè insomma il Monte era ‘n’isola felice, poi dopo, da quando s’è ingarbugliata ‘a situazione, cose così, so’ nati piccoli gruppi, quello contro quello, quello contro quell’altro… e poi è cominciata a veni’ a droga, eroina, perché prima c’era er fumo, er culto del fumo… il fumo si, a tutte l’ore, ventiquattr’ore al giorno, c’era un punto… ventiquattr’ore al giorno, 171
sempre... Er fumo... No io so’ favorevole, no, non è grave, a quantità industriali, se ce ne fosse pe’ tutti. Invece da pija’ ‘a gomma americana e i ansiolitici, se prende er fumo… E niente, poi è arrivata ‘a droga, i primi approcci co’ ‘a droga e io ero piccolo, ero piccolo, c’aveo quattordici anni e... ma, sempre bazzicato gente più grande pe’ datte ‘n po’ d’importanza, ‘ste cose così…e niente a’a fine… Regina. Tanta gente cadde ne l’eroina, io me ricordo…Tanta, al Monte tanta, forse più ch’a Tiburtino come percentuale, è stata una cosa... Si, perché c’è stata una disgregazione incredibile perché quelli che so’ arivati dopo a via Matteo Tondi... No, perché a Tiburtino c’erano ancora dei valori, c’erano ‘e case a du’ piani, c’era ‘a porta aperta, se conoscevano tutti... Al Monte, quando so’ arrivate ‘e case nuove se so’ chiusi tutti dentro ‘e case, tutti estranei, tutti contro. ‘N c’è stata più que’a parentela, quella fratellanza...’A madre de ‘n’amico tuo che te strilla, te mena pure, che te dà pure ‘no schiaffone se stai a fa’ ‘na cosa che nun va fatta. Era finito quello, eravamo tutti liberi... Perché poi i genitori, chi lavorava via e tu stavi allo stato brado. Nessuno te controllava , non te ne fregava niente dell’altri perché non li conoscevi… Regina. Poi l’offerta c’era... L’offerta c’era… Io ciò soprannome Tittoletto, perché... da piccolo.. sempre co’ quelli più grandi... allora quelli più grandi, Tittoletto me chiamaveno, eh, er piccoletto. C’era Tittolo, beh era grande, io Tittoletto… Tittolo, perch’era il più piccolo tra tutti quelli che bazzicava. E’ morto, pe’ droga. Regina. Gli prese, me sembra, un cancro al fegato… Si, si… e ‘nsomma pe’ sta’ a paro coll’altri, poi quelli fumano, io fumo, quelli sniffano e io sniffo. Po’ quelli se bucheno, tu che fai, quando vai a prende’...? ‘A prima vorta che io me so’ bucato,’a prima vorta… Mannaggia la miseria! A prima vorta che me so’ bucato, me ricordo come se fosse adesso! Partimo ‘n quattro, tutti grandi, ciaveeno ‘a machina, io no, ero piccolo, ciavevo sedic...quindici anni, così, e stavo co’ loro. Annamo a prende’ quello che dovemo prende, se fermeno davanti a ‘na farmacia, uno de questi scende, dice «Che faccio, ne prendo quattro e una, quattro siringhe e ‘n’acqua?» Perch’eravamo quattro, con me. Allora j’ho fatto «No, tre e una...», allora questo m’ha fatto come segno «po’ pe’ divide è un macello» (io la doveo sniffa, l’altri se la doveveno squajà) allora io pe’ no crea’ probblemi «quattro, quattro»… perché io ero il più piccolo, pe’ non crea’ probblemi, pe’ nun passa’ da quello che rompe sempre... Fin’a che c’è, all’inizio tu non lo sai che sei ‘n drogato, perché ce l’hai, stai bene. Il giorno che non ciai i soldi o nun... devi andà fori co’ tu madre… perch’ero piccolo «‘Namo fori, ‘namo fori» Namo fori, quanno cominci eh, a sudà, ciai freddo, eh, sto male, eh, fin’a che ‘n te fai. Poi quanno te fai stai bene, sei normale; te n’accorgi lì, prima ‘n te n’accorgi. E sennò smetterebbero subito, no? No, io me piacevo, me piacevo proprio. ‘O sai, fatto sempre ginnastica artistica. so’ rivato pure a’n buon livello, cinqu’anni, ho cominciato a sei anni… sempre, pure a buoni livelli. E ce tenevo a tutto, al fisico, a sta’ bene, a sta’ bene soprattutto. Eh... quanno me me drogavo ero dimagrito, tutto pelle e ossa e io ‘n me potevo vede’ a’o specchio. Anvedi, ma che sto a fa’, no pell’altre cose, solo pe’ quello, io me ce corrodevo dentro, pe’ quello… ‘n’ero più io, no? Forza ‘n ce n’aveo, o meglio ce l’avevo solo quanno... E i genitori? I genitori fanno finta de non sapello, almeno i miei. Io ‘o sapevo che lo sapeveno. Ciò ‘na sorella più piccola, poi c’era mio fratello che ‘n’era nato quanno io… Si, mio fratello è nato...eh mio fratello è nato che io stavo ‘n carcere che però era l’ultimo... stavo a smette’… Ma tu perché sei finito in carcere, per spaccio? Non ho mai spacciato! Pe’..rubare… no, no, non scippo, furti...negozi, appartamenti… Ma questo periodo che hai passato in carcere, è stato lungo? No, è stato brutto, poi è stato piccolo... Paola. Poco, è stato dieci giorni No, undici. Undici giorni… A Regina Coeli. Era come se stavo al Monte… Io so’ uscito alle sette e quarantacinque da là, l’ora d’aria, la mattina, perché stavo in isolamento «Ah Tittoletto!» St’occhi, tutti affacciati alle finestre... Addirittura uno m’ha detto «Ma che st’a fa’ qua?» «Sto ar mare, che sto a fa qua!?»… poi m’ha interrogato il giudice e m’ha mandato in causa, hanno fatto ‘a causa, m’hanno condannato e so’ uscito perch’ero ‘ncensurato.
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Con lei come ‘a gestivo? Male! Paola. M’ha nascosto fino a che ciave’o sedici anni? Si, dopo un anno e mezza. Te ‘ho detto sur motorino… Paola. Stavo in vacanza fuori e lui m’è venuto a trovare… e me ricordo che io ho notato ch’era tanto dimagrito, insomma un colorito che non mi piaceva... e ho cominciato a domandare « Ma come mai? Ma che hai fatto? Ma com’è che stai così, Ste’, te sei dimagrito...» e lui me diceva «Eh, ma sto a lavora’...» In effetti lavoravi vero Ste’, quel periodo, si? Vabbe’, me diceva che stava a Roma, che lavorava insomma. Io ‘n po’, insomma, dico, si forse sarà quello, sta a Roma, è caldo, insomma sta a lavora’, se stanca... Poi me ricordo ‘n giorno, così, noto un segno s’un braccio e dico «Ma che ciai qua? ciai ‘na crosta...». Dice «Niente, me so fatto male sul lavoro». Lui era venuto al mare, da me, pe’ ‘na diecina de giorni… I tuoi lo ospitavano allora? Paola. Si,si, ma lui diciamo è ‘ntrato in casa mia subito come un figlio e ‘nfatti dietro a ‘sta storia c’è che mia madre e mio padre cianno sofferto come dei genitori perché... Poi dopo me ricordo che quel... quel periodo ce viene a trova’ un amico suo che se drogava… M’era venuto a porta’ ‘a droga. Paola. Poi, vabbè, ‘sto ragazzo è ‘ndato via co’ la fidanzata, so’ ‘ndati via. Lui dopo due,tre giorni è ritornato a Roma perché dovea rientra’ e io dopo tre, quattro giorni... era finito Agosto, so’ tornata a Roma co’ tutti quanti. Me ricordo, appena arrivo, lui me viene a prende qui a casa, me prende co’ ‘sto motorino, mentre camminavamo dice «Senti, io ‘n ce la faccio più, te devo di’ ‘na cosa... perché ‘n’è giusto che te tengo nascosta ‘sta cosa…» dice «io... me buco» «Come, te buchi?» Per me, ti giuro, è stata ‘na doccia fredda proprio, no ‘o so… Figurete pe’ me! Paola. Eh, però lì un po’ ho capito che lui s’era reso conto e voleva fa’ qualcosa perché… pe’ dimmelo, ‘nsomma! E’ come se m’avesse quasi chiesto aiuto, però, io dico, e mo’ che faccio? Cioè so rimasta che... però io a lui je volevo già... tanto bene… (due anni che stavamo insieme) Si. solo che poi te viene il pensiero dei genitori tua, de ‘a famijia sua, ‘nsomma tante cose che tu dici, come fai a gesti’ ‘sta cosa da sola, perché lì per lì non è che ne vuoi parla’, no? vuoi cerca’ de uscirne fuori tra te e lui, ‘nsomma. Ma tu, scusa se t’interrompo, ma tu lavoravi veramente in quel periodo? Si, no, a periodi, però lavoravo… ascensorista… tutti e due lavoravamo… Paola. Si, si, stava in regola... eh poi, vabbe’, io ho detto «Allora giurame, giurame de smette’» ‘N’ho fatti pochi de giuramenti! Paola. E’stato un calvario ... perché... nun era facile. Io lì per lì non me n’ero resa conto de... Pensavo ch’era ‘na cosa più semplice, ‘nvece proprio... a parte ‘e bugie… Però lui, verso de me s’è comportato sempre bene, devo esse sincera... e cercava da farme soffri’ il meno possibile, però non era così perché chiaramente ‘e cose, o se venivano a sape’, o ‘e scoprivi o ‘e vedevi ... quindi ‘a sofferenza c’era. Poi dopo se ne so’ accorti pure a casa mia e niente... mamma era quella che l’a avea presa un po’ più male de tutti. E così abbiamo.. .cioè j’ho detto «Senti, viettene a viv’ a casa mia» perché io sapevo ch’er Monte purtroppo... Pure Tiburtino, però il Monte era proprio il centro... stavano tutti là. Per me pensavo, forse se viene a vive a casa mia... I tuoi erano d’accordo….? Paola. Si, si. Infatti lui è venuto a casa mia e ha vissuto a casa mia... Si, nell’Ottanta, e fino a che nun sei partito a fa’ il militare, no? Ma, quando sei andato a fare il militare, eri già uscito da questa cosa? come hai fatto sotto il militare? Un po’ di pensieri. Però io ho sempre tenuto nascosto tutto a tutti, pure ai militari…Cioè no, lo sapevano tutti de quello che facevo io, però niente scritto su carta ... Su foglio non risultava niente, magara facevo ‘n macello ma su foglio nun dovea risulta’. Poi ciò avuto sempre... Vabbè, dopo un mese so’ tornato a Roma, però durante quel mese io uscivo ‘a mattina a’e sette da’a caserma e rientravo la sera a mezzanotte… io nun facevo il militare, nun facevo niente... perché, diciamo, come un accordo co’ i comandanti de’a caserma, io me dovevo cura’, stavo ‘n cura, j’aveo detto che stavo ‘n cura al Sert, però nun j’aveo mai portato giustificazioni, ‘n’era vero… io comunque a parla’ de la caserma... vabbe’, tutti episodi piccoli, però ce vole ‘na vita... Perché io, quando so’ entrato a fa’ il militare, nun m’annava…Tutte file, poi i militari, le divise non è… pure adesso… ma qualsiasi tipo di divisa… Alle divise so’ allergico, tutte file pe’ vestitte, file pe’.. E io stavo col problema mio, stavo a pensa’ a loro! Signorsì, signorno, ‘n conoscevo i gradi, non conoscevo niente... Il primo giorno io vado a la mensa, ciavevo i capelli lunghi io, biondi… insomma uno che cresce in una zona come il Monte, nun è che… non voglio di’ ch’è ‘n cattivo ragazzo ma nemmanco uno che evita… 173
io so’ entrato dentro alla mensa la prima volta, nun conoscevo i gradi, te trovo uno co’ un cappello tutto così, un cappotto co’ tutte ‘e stellette, la prima cosa che m’ha detto, io non sapevo ‘ndove dovevo anna’, stavo co’ ‘n’altri due, ha detto «Molti froci fanno il militare» proprio ‘ste parole qua, lui ha finìto «militare» e io te do ‘na pezza ‘n faccia... Era ‘n tenente. Ma io che ne sapevo ch’era ‘n tenente? Me l’hanno levato perché ‘o volevo ammazza’ proprio, tutti quelli che staveno a magna’ a reggeme a me e m’hanno portato dal comandante de ‘a caserma. J’ho spiegato i motivi «Eh, pero io te devo puni’» «Tu me devi puni’? de che? io è il primo giorno che vengo a fa ‘l militare, nun conosco gradi, nun conosco niente, vado e m’offende... a me me devi puni’?» Poi j’ ho spiegato tutto er problema, «Ma che problema ciai?» perché me vedeva ch’ero agitato, j’ho spiegato tutto, e il giorno dopo m’ha fatto il permesso che io alle sette de mattina uscivo... che ‘a prima settimana c’era l’uscita de quelli che abitaveno a Viterbo a’e tre, io uscivo a ‘e tre e rientravo a mezzanotte, e poi, dopo ‘na settimana, uscivo a ‘e sette de mattina e rientravo a mezzanotte. L’ha fatto per non avere rogne, perché non è che ho fatto solo quello... Eh, tutto quello che me dicevano me dava fastidio perché me ‘o diceveno i militari e a me nun me va... so’ un po’ scattoso... Ma quando sei andato a vivere a casa di Paola avevi l’idea di farti aiutare da qualcuno per smettere? Si io ciave’o l’idea da smette’, non de famme aiuta, perché da famme aiuta’ nun ce pensavo. Da smette’ io pensavo, proprio da smette’... no «pensavo», io ‘o sapevo che ce riuscivo, prima o poi ce riuscivo, ‘o sapevo, ma davvero, non è che sto a scherza’: ‘n sapevo quando, ‘n sapevo come, ma ce riuscivo. Però... quando ‘a vivi ‘a cosa, dici sempre «domani smetto», «domani smetto» Adesso nun ciai niente, stai qui a casa, «vabbe’, smetto» Poi magara te capitano cinquantamila lire fra ‘e mani, te riviene subito er... che... «domani smetto» In pratica ‘e tramuti subito in... Ma non è la sofferenza dello stare senza che non ti fa smettere? Quanno è ‘a fine quello è... se uno ‘o sa prima, è ‘na stupidaggine perché so’ tre quattro giorni de dolori. Rispetto a ‘a vita che se fa, è ‘na stupidaggine. ‘Na vita de dolore e tre quattro giorni, uno se fa lega’, è finito. No? Però nun è così... E’ ‘l pensiero, è l’ago, è... difficile da smette è... l’assenza dell’ago, perché tante volte quanno tu nun ciavevi sordi, nun c’avevi niente, prendevi ‘a siringa, ‘a riempivi d’acqua e te mandavi dentro l’acqua: ‘a fissa del buco... Che ne so che rappresenta? Mo te dico ‘n paradosso: ‘a droga è... bella. No, sarei ‘n’ipocrita se dico «No, fa schifo, no» A me se me... io dico ‘na cosa a lei... lei già ‘o sa come... Se a me me dicono «Guarda tu ciai un...un male brutto, campi sei mesi», lei già ‘o sa: io sei mesi, senza fa’ del male a nessuno... e comincio... Senza cure, senza... Oppure dicono «Ciai due giorni de vita» Due giorni, dico... Voglio sentì er nodo a’a gola, è così, è così... Poi tutto quello che c’è ‘ntorno, lo so, comporta fame, miseria, crudeltà, assassinii... è brutto, è tutto brutto quello che deriva da quel nome, ma tutto tutto, da quando ‘a coltivano a quando arriva ‘n piazza, e ogni passaggio è sempre più brutto, sempre più brutto, più brutto, più brutto... Ma quand’è che hai deciso , la mia idea è che c’entra Paola... Se ‘n c’era Paola quando smettevo? io ero morto... chi smetteva? Ma io ciavevo ‘n’impegno morale, a parte ch’ero ‘nnamorato, poi era proprio, un impegno verso de lei, no. Mai l’ho messa al secondo piano, quanno me dove’o fa me doveo fa, però poi dopo ritornavo su da lei, pure ch’ero fatto e ce litigavo e lei piagneva e me diceva ‘e peggio cose... Però ritornavo... nun è che stavo settimane e settimane... (Erano due cose) de una ormai ero malato, e dell’altra invece no, ‘a volevo! Eh… Ma tu perché l’avevi lasciato poi? Vabbè! Perché... perché quanno « ‘N’je ‘a faccio più, ‘n’je ‘a faccio più, eh, eh...» te ‘o dico io perché, io ‘o so, ‘a gente dice «Ah, ma che, ma sei sprecata, ma vedi che vita che stai a fa’...» te fai convince’… Ma è giusto, è normale, è vita. Te fai convince’... I drogati, l’ex drogati, stanno’avanti dieci anni a voi. Te fai convince, eh, e piji ‘sta decisione che dentro de te sai ch’è sbajata… Poi se trovavi ‘o scemo che se perdeva definitivamente tu ave’i preso ‘a decisione sbajata e ‘o scemo era morto... invece ‘o scemo ‘n s’è allontanato definitivamente, è rivenuto sotto e tu hai capito che ‘a decisione era sbajata e sei rimasta e ‘n’hai sentiti l’altri. Perchè sennò, se tu sentivi l’altri, t’o dico io... Tu’ madre? te dice’a che facevi bene? «Si, fai bene, stacce, no ‘o perde’» ? No!? Tutti quelli intorno a tu’ madre diceveno così? No! Silvana, ‘a amica tua del cuore diceva così? No! E’ normale... Nemmanco te rimprovero, però io ‘o so, io sapevo tutto… Paola. Si, pure perch’era arrivata ‘n po’ de stanchezza. Ormai, dicevo, tanto ‘n c’è più...è vero, forse è vero che...Nun c’è più niente da fa’. Più di tre anni, si, stavi a fini’ er militare. Io me ricordo che, vabbè, ho detto basta... Poi ‘nvece… No, tu ‘n’hai detto basta, te ‘o ricordo io, visto che io so’ annebbiato. Io t’ho telefonato e tu stavi al ve174
glione a Settecamini, co’ Roberto, Silvana, Lello, era di carnevale... carnevale Paola. E lui m’ha telefonato e j’ho detto «Ste’ io te do l’ultima chance, anche perché te sei comportato male co’ me, te sei comportato male co’ ‘a famijia mia, perché stavi a abita’ a casa mia e nun ciai avuto rispetto perch’hai continuato e tutto quanto, hai preso’n giro pure a mi’ madre, mi’ padre che ‘nsomma... Allora, se tu vuoi tornare con me… devi veni’ a casa mia davanti a mi’ madre e mi’ padre... ‘n’è cosi?» e poi dopo lui infatti il giorno dopo è venuto a casa mia, de pomeriggio a parla’ a mi’ padre e j’ha detto «Io... Si però, Pa’, quelle so’ cose che se devono fa’... nun è che io so’ venuto a parla’ co’ tu’ padre perché io ho smesso... Se devono fa’, se fanno per rassicurare che uno cià ‘a volontà. Che la volontà c’era, però ‘a certezza, te ‘o dico io adesso, no: ho smesso, poi magara scendo, vabbe’ io scenno, nun me vede nessuno, io monto sul motorino e me ne vado... Paola. No però dopo, hai finito il militare, me ricordo, il padre ce prese un banco de frutta e verdura e noi siamo andati a lavora’ insieme.... Si, lavoravamo ‘nsieme e co’ ‘n’anno abbiamo deciso de sposarci... infatti a vent’anni ce siamo sposati... si, e a vent’uno ciò avuto Agnese. E lui, ‘nsomma, come ce siamo messi a lavora’, lui aveva proprio... Tornato dal militare… l’ultime cartucce io l’ho sparate sotto al militare… Io quando so’ tornato dal militare me so’ chiuso dentro casa ‘n’anno, n’anno so’ stato chiuso dentro casa, a casa sempre sorvejiato. Stavo’a casa de loro, io scennevo con uno de loro... Si, io dico così, «nun me lasciate mai solo, mai mai mai» Qualsiasi cosa. Perché ‘l cervello m’annava dopo... Se ciavevo dieci minuti, ‘o so, come funziona, so quello che te pjia, quello che te passa pe’ ‘a testa. Un anno sempre così poi ho detto «Aho, basta! basta co ‘sti controlli!» Però non è che m’hanno subito «basta» i controlli… Hanno fatto bene, però! Dopo ‘n’anno, uno dice, mo’ basta, ‘a prova l’ho data, perché uno è sicuro del fatto suo, però... sempre... Senti, ma dispiaceri, diciamo, rispetto ai tuoi amici sia perchè gli è andata male a loro sia perché tu te ne sei tirato fuori, ce n’hai avuti? Ce l’ho! Quanno, ogni volta che ‘i vedo... quelli che so’ rimasti... Tanti so’ morti, ce stanno tutte ombre, io ce l’ho vicini… quelli che vedo de i tempi mia campano alla giornata, se bucheno....però non rompeno il cavolo a nessuno... i dinosauri del buco. Io ce so’ cresciuto insieme... fino a che ‘n se spengono... Ma li puoi frequentare? Come no... io a’a domenica vado a vede’ la partita qui al bare che ce’n’amichetto mio che semo cresciuti insieme... stessa esperienza, lui un po’ più sfortunato... io dico sfortunato perché può darsi che lui non ha trovato mai l’appiglio giusto, io incontrato lei, lui magari ha incontrato una ch’era peggio de lui... io parlo de fortuna e sfortuna, c’è sempre... se uno scende da casa cinque minuti prima cinque minuti dopo je po’ cambia’ ‘a vita... è quello che dico io... almeno a me me pare… Tutto al caso io attribuisco, la vita è ‘n caso. Paola. Tanti invece so’ morti... Tanti... proprio de l’età sua, del millesimo suo... Millesimo mio, cresciuti co’ me, stesse esperienze, inizi insieme... Si, ma... che cosa ti funziona nella testa per portarti a questo, c’è qualcosa, ci caschi per caso, appunto? No no, per caso no, ce stanno proprio de’e trappole ben disegnate: vabbe’ qui al Monte hanno costruito er Monte, cianno levato da Tiburtino che c’erano quattro entrate e quattro uscite e cianno mandato al Monte, c’era un’entrata e un’uscita, io parlo del Settantasette… c’era l’entrata dal cinema Nevada, facevi el giro della piazza e riuscivi dal cinema Nevada... ‘N’entrata e ‘n’uscita… tu stavi là dentro, non uscivi mai da là, la vita era là dentro, un ghetto... le classiche borgate ch’hanno costruito... Io adesso porto i fiji de qualcuno, faccio l’autista, e vedo la vita che fanno quei ragazzetti de ‘n’antra parte de ‘e borgate... cianno più opportunità, più tutto… fuori, al centro. Molte più opportunità, molto più aperti de testa proprio e... lì è chiuso, lì è chiuso. Lì, se te metti a sede’ lì, diventi così, se te metti a sede’ lì, diventi così, se te metti a sede’ lì, diventi così. Perché dici ch’è diverso a Tiburtino? A Tiburtino, è nato come Tiburtino de tante generazioni, semo tutti de Tiburtino, c’è più fratellanza, se conoscono tutti, magara se io vedo il fijio de un amico mio che st’a fa’ ‘na cosa... ‘no schiaffo, je stacco ‘a testa, ce pensa tre volte prima da fa’... se deve allontana’ pe’ fa’ ‘na cosa de male. Ma poi la cocaina è arrivata? La cocaina c’è, ‘a cocaina adesso è il male de tutti, ‘a cocaina e ‘l sintetico. Io nun capisco come fanno... io so’ stato un drogato, ma a me me piace’a droga. Ma la droga. Cocaina ‘n’è droga, pe’ me cocaina è ‘n’eccitante, un forte eccitante. ‘A droga te fa vola’. ? ‘A cocaina te fa’ sta’ da solo, ragioni a dumila, te se freddano i piedi, te se freddano ‘e mani... niente, ‘n’è niente. Ho fatto pure ‘a cocaina. Sei anni, cinqu’anni de cocaina... però, poi ho smesso, ciò avuto pure ‘n periodo de brutto co ‘a cocaina. 175
Ma la cocaina non ti rimbecillisce però.... No, però ‘a cocaina è peggio de l’eroina... molto peggio, te cambia proprio... diventi ‘na bestia. Ragioni in un modo duro... brutto! Eroina, eroina, sei ‘n drogato, sei ‘n drogato vabbe’. E’ brutta ‘a parola, di’ «sei un drogato». Pero sei ‘n drogato, te fai, stai lì, te gusti a er fatto tuo, non rompi le palle a nessuno... a meno che non vai a ruba’ e fai danni. E’ quello il brutto, no? Però... tu, drogato d’eroina, te metti a sede’ su ‘sta poltrona, fin’a che ‘n’hai finito... Stai fin’a domani, stai così... po’ crolla’ il palazzo, basta che ‘n crolla ‘a poltrona, ‘n dai fastidio a nessuno. ‘A cocaina ‘n’è così, ‘a cocaina fa i danni a te, a l’altri... perch’è ‘n’eccitante, ‘n’è ‘na droga; com’el sintetico… diventano aggressivi. Poi, nun te fa’ dormi’, nun te fa mangia’, nun te fa ave’ rapporti sessuali perché ‘n’è vero che ‘a cocaina... ‘a cocaina serve... solo de testa, perché la testa te va a mille e col pensiero fai tutto, però all’atto pratico... fai niente. Apposta io so’ un profeta della canna, ma stile mangi, bevi, dormi, vai al bagno, fai l’amore, fai tutto. Questa storia vostra l’ho voluta sentire perché mi sembrava bello che c’è una storia a lieto fine su questa cosa così terribile della droga. Tu come pensi che si potrebbe fare per averne di più, di storie a lieto fine? I pensieri qui ‘n contano. Qui hanno fatto una guerra, in Afaganistan, pe’ pijia una persona... se so’ ‘nventati le bombe in profondità, a cento chilometri c’erano le piantagioni d’oppio, manco una miccetta è cascata lassopra, e io devo risolve’ quer problema? Io so ‘a vita mia, so chi so’ io, so se je la faccio a fa’ ‘na cosa o nun je ‘a faccio, o se ce posso prova’ o nun ce posso prova’, ma dell’altri nun je posso risponne’.
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12. Un mondo a parte Per questo lungo capitolo ho utilizzato le trascrizioni di cinque interviste: le prime tre sono state registrate su cassetta audio in casa di Paola Padella, dove la stessa Paola, Tiziana Del Citto, Sandra Fortuna, Nadia Gallo e Regina Bruschi Polidori si sono incontrate con Riccardo Morri e Paola Spano che le hanno intervistate: sono stati incontri bellissimi nei quali si sono alternati a solo e momenti a più voci, che, anche se hanno complicato non poco il lavoro di sbobinatura, hanno arricchito e reso più vivace il discorso. Le altre due interviste sono state fatte in video ad Alessandra Giacinti, la prima da Riccardo Russo e Paolo Barberi nel suo studio di pittrice a Trastevere, la seconda dal solo Riccardo Russo nel palazzo di via Mozart dove abita. Comune alle cinque interviste è il racconto, insieme con molte altre cose, di percorsi di formazione e realizzazione personale nei quali l’appartenenza a Tiburtino III è fondante dell’identità. La valutazione dell’influenza che il quartiere ha avuto sulla vita di ognuna è di volta in volta positiva, negativa o ambivalente, a seconda che si sottolinei la familiarità, la protezione, la rivendicazione dell’appartenenza rispetto all’emarginazione imposta da altri o invece la chiusura che emarginazione, appartenenza e protezione comportano. Ho cercato di restituire questa complessità con la scelta e, qualche volta, la combinazione dei brani delle trascrizioni significativi per il tema di questo capitolo. Le cinque donne intervistate a casa Padella sono state tutte mie alunne nella scuola media di piazza Ardimento, poi intitolata a Caterina Martinelli: Nadia, Paola, Sandra e Tiziana erano nella stessa classe e sono quindi coetanee, tutte nate nel 1964, Regina è di quattro anni più grande. Le parole delle donne non hanno tradito il ricordo delle ragazzine che ho conosciuto negli anni Settanta a scuola: vive, determinate, presenti a se stesse e agli altri e perché no, belle. Alessandra Giacinti appartiene a un’altra generazione e il suo percorso, pur nel carattere comune che si è detto, è eccentrico rispetto a quello delle altre; ma anche se la conosco soltanto attraverso le immagini della ripresa e la voce, ascoltata a lungo durante il lavoro di trascrizione, mi sentirei di attribuire a lei gli stessi aggettivi usati per descrivere le altre. Il racconto tratto dalla sua intervista è più omogeneo, proprio perché è il racconto di una sola persona, mentre quello delle altre alterna momenti di scambio a più voci a racconti individuali. Dentro e fuori Paola. Io mi ricordo ch’ero piccola, andavo in Sardegna da mio zio, che lui in quel periodo viveva là co’ la famiglia perché lavorava a Cagliari, e noi, quando finivamo le scuole, andavamo a Cagliari. Viaggiavamo di notte, coll’aereo, perché si pagava pochissimo e tornavamo coi viaggi notturni, alle undici, mezzanotte. Siccome papà non ciave’a la patente, quindi dovevamo prende ‘n taxi, e il taxi mica ce portava fino qua… No, ce lasciava su ‘a Tiburtina, davanti a Farfarelli, si si, non entrava nel quartiere. E io je dicevo sempre poi a mi’ padre «Ma perché questo fin’a sotto casa ‘n ce porta?» e mi’ madre «Eh, poi te ‘o spiego perché nun ce porta...» Nadia. Nei film americani si vedevano sempre ‘sti tassì che arrivavano sotto casa... Paola. No, ‘nvece quello ‘n c’entrava proprio... Sandra. Ma no, perch’era un quartiere malfamato questo qua… Regina. Come dicono, chi te ruba, de qua de là, io ciò quarantaquattr’anni, a me ‘n m’ha mai rubato nessuno... a-me-non-m’ha-nno-mai-rubato, voglio di’, io sto a Tiburtino III, eppure non m’hanno mai rubato. Per dire, è capace che se vado, non so, al centro, me succede più facilmente che qua, cioè tanti timori, tante cose che... che sembravano, poi non erano… quand’eravamo ragazzi «Dove abiti?» Io me ricordo, ‘o dicevo «A Tiburtino III», ma i miei fratelli dicevano «Da Farfarelli», altri «A Santa Maria del Soccorso»... Nadia. Mia madre diceva «Piazza Bologna» Regina. ... altri «Prima de Ponte Mammolo», «Albanese Ruffo», io che dicevo «Tiburtino III» me dove’o sempre senti’ di’ tutta ‘a tiritera… Mentre, me ricordo, quand’ero ragazzina, arrivavi a’e Tre strade, già ciavevi ‘a città, la Standa... qui bastavano due chilometri, Er Buchetto, Er Cipolla, er Padella, hai capito? tu facei parte sempre della città, però ciavevi ‘na cosa ‘ntorno che te proteggeva, ‘sta familiarità. Sandra. Dipende anche dal fatto ch’abbiamo vissuto delle situazioni che cianno unito... quindi, che ne so, io me sento molto più capita da Paola e da Regina che da altre persone che non hanno vissuto le 177
mie stesse esperienze perché veramente io dico che questo qua era un mondo a parte... a noi ce capita a volte anche, non so, se facciamo qualcosa alla parrocchia, che quando vengono persone già da Colli Aniene c’è poi ‘na sorta un po’ de... cioè queste arrivano e so’ convinte de sape’ tutto «Vanno prese così le persone, si fa così»… e invece noi che siamo state qui da ‘na vita, noi ce guardiamo ‘n faccia e ridiamo, perché so’ situazioni… Regina. Partono da cinquanta, noi semo partiti da sotto cento, allora prima dovemo arrivare a zero e poi… No, è stato... E poi la differenza, per esempio, te ricordi quando parlavamo de ‘a generazione d’adesso? Che noi cercavamo d’usci’ comunque poi da Tiburtino, che io oggi riconosco che so’ stata bene a Tiburtino, però quando ciavevo quattordici, quindici, sedici anni, a Tiburtino era... era ‘na condanna, e cercavamo di uscire, de mimetizzasse cogli altri. Io me ricordo a sedici anni lavoravo, m’ero fatta il vespone, perché che vuoi, era comunque...poi ero strana, perché sopra ero ‘na zecca e portavo il vespone che ‘nvece era de destra, quindi poi ‘n ce se capiva mai; ma io lavoravo, si io lavoravo, ciaveo tanta de que’a confusione… lavoravo dentro a un laboratorio de bigiotteria. Quindi che ti stavo dicendo?... che noi cercavamo de usci’ fuori, si eravamo de Tiburtino però poi quando andavamo a balla’, me ricordo, ‘n giro, sempre «Farfarelli», mimetizzati, capito, come vestiario perché io magari pure un paio de scarpe ma dove’ano esse’ quelle che dicevo io... io nel Settantadue me ne so’ andata da sola a via del Corso, tornando a i stimoli, perché io me dovevo anda’ a compra’ le scarpe da Marco a via del Corso, cioè io dovevo anda’ a vede’ via del Corso com’era, me imbarcavo da sola, poi a tredici anni e poco più ho avuto il motorino, andavo pel centro, me so’ ‘mparata tutte le strade, me piaceva anda’ a guarda’, anda’ a vede’... ‘Nvece questi er contrario, io vedo i nostri ‘n cianno ‘st’ambizione, ‘sto stimolo… ecco, noi dove’amo comunque in qualche maniera farse nota’ perché altrimenti eravamo proprio emarginate... No, loro so’ più tranquilli, io vedo so’ meno, no ambiziosi, perché, pe’ carità la parola ambizione raccoglie sempre un sacco de altre parole, perché potrebbe esse’ ‘na bella parola e ‘na brutta parola, ‘a parola ambizione, eh... Però loro so’ più... si hai detto bene te, non ce n’hanno forse motivo, de dimostra’ niente… Riccardo Morri. Mano mano che crescevi, le diverse zone de Roma che hai cominciato a scoprire. Cioè le prime mi sembra che siano state, Ostia, no perché appunto era quella dove andavi al mare durante l’estate. Piano piano crescendo I rapporti magari con le altre zone qui intorno, con gli altri quartieri? Paola. No, ai Colli Aniene, io ho fatto sport co’ la palla a volo, quindi andavo giusto quando andavo a allenamenti, però no, perché le amicizie, diciamo, erano tutte di qua o der Monte. Poi piano piano pure io magari co’ diverse amicizie, me so’ fidanzata molto presto, ho cominciato a usci’ andando al centro, a balla’, insomma ‘e solite cose che se fanno... al Piper e poi s’andava ai cinema al centro, insomma, si, tutt’al centro se faceva. Proprio che mi spostavo da Tiburtino e andavo in un altro quartiere come questo, no, nun m’è capitato. Regina. All’epoca Roma non era bella com’adesso, perché ce so’ state delle giunte, dei sindaci a Roma, incredibili! me ricordo quella de Carraro ch’è stata devastante, proprio la mondezza a piazza Venezia alta così! Me ricordo quell’altra, de quello cicciotto, no Publio Fiori,’n’altro,’n’altro ancora prima, cioè so’ state una giunta... una dopo, dopo Petroselli, dopo quella parentesi felice che ciabbiamo avuto e dopo anche coso, come se chiama ‘o storico? Argan, eh! Dopo c’è stata un’altra volta, semo ricaduti dentro... loro! E Roma faceva proprio pena! Io me ricordo che de domenica giravamo pe’ Roma, eravamo ragazzi, stavamo bene, però un senso di squallore, de trascurato, de non vissuto, era tutto spento... Anni ottanta, si, pure sotto un po’ e appena sopra, non tanto sopra, perché dopo me so’ sposata nell’ottantuno e ciò avuto un’altra parentesi da sposata, insomma te s’aprono altre cose. Riccardo Morri. La generazione precedente la vostra cianno raccontato che se riunivamo nelle case per le feste da ballo, facevano irruzione dentro le case il sabato, le svuotavano le case e mettevano fuori i mobili perché dovevano ballare... Regina. Quella era la generazione de Rita Pavone perch’io me lo ricordo che vicino casa mia c’erano quelli che davano ‘ste feste, io m’arrampicavo sul muretto e me ricordo… ma io ero piccola, perché Rita Pavone... Paola. Pure mia madre, si. Io no, di festa n’avrò fatta, guarda, una o due, basta. Però s’andava a balla’, però ecco magari invece durante la settimana, magari se non trovavi niente da fa’ andavi o casa mia, se riunivamo due tre amici, così, magari pe’ prendese ‘n the insieme, ascolta’ qualche disco, o a casa de un altro, ma sempre al Monte, tra Monte e Tiburtino ecco, perché le amicizie erano quelle... 178
Sandra. Io però l’altra volta ho detto, noi l’abbiamo un po’ fatto co’ Daniela, perché invece noi, avendo i genitori più rigidi che ‘n ce mandavano a balla’, io e Daniela spesso ce semo ritrovate a casa de Giovanna che tojeva il letto e il sabato se ballava, eh, c’erano pure ragazzi, si, si, io l’ho fatto, qualche volta. (risate e commenti) Si, me ricordo che insomma io avevo quest’amica, Daniela, che poi non stava in classe nostra ma ha frequentato la scuola sempre qui dov’andavamo noi, e lei era, cioè j’era morta la madre quando ha partorito della sorella, quindi lei a otto anni s’è ritrovata a vivere a casa della zia, e quindi siamo diventate amichette a otto anni e poi quest’amicizia è andata avanti fino a che io avevo quattordici, quindici anni. E mi ricordo che loro avevano praticamente una casa di due stanze e cucina, però una stanza era del suocero e quindi non si toccava, era chiusa e in una stanza dormivano la zia, lo zio con i due figli e lei. E però lei, mio padre era un po’ rigido in quel senso, non mi lasciava tanto uscire e lei uguale gli zii, però mi ricordo che lei il sabato smontava il letto, toglieva il materasso… quell’altri se chiudevano, erano tutte brandine. E poi, niente, i primi stereo, me ricordo, e ci chiamava tutti a balla’, ma eravamo parecchi perché poi insomma diverse ragazze e diversi ragazzi, ch’erano lì del lotto mio e ballavamo, e poi alla fine ci faceva ajo e ojo, ‘na fettina, se mettevamo tutti a sede’per terra… Io in effetti col fatto che mio padre era marchigiano andavo spesso al paese di mio padre, vicino a Arquata del Tronto in provincia di Ascoli Piceno, si chiama Capodacqua, è una piccola frazione. E lì io ha fatto tante amicizie, ce l’avevo lì perché le vivevo l’estate, quindi frequentavo molto queste persone che però ciavevano una realtà completamente diversa dalla mia, perché una abitava a viale Angelico, un’altra a via Amba Aradam vicino villa Celimontana, quindi una vita completamente diversa da quella che poi facevo io, però spesso insomma, quand’era possibile, anche c’incontravamo perché ci volevamo veramente bene poi in fondo… qualche volta si, quando ho cominciato a spostarmi da sola, a prende’ l’autobus, insomma il periodo delle superiori me incontravo anche con loro. Paola Spano. Ma le amicicizie, le amicizie alla scuola superiore, no? Sandra. Scuola superiore, no. Anche perché, Paola ‘o sa, anche quella era una realtà... te ricordi,noi la prima volta che siamo andate a casa di una nostra amica, me ricordo che io e Paola ci siamo guardate perché siamo arrivate al cancello e c’era il videocitofono,’sta telecamera, questi ciavevano una villa e la madre tutta preoccupata perché ciaveva ‘ste unghie smaltate, dove’a uscire e ce l’aveva appena appena rovinato lo smalto, ‘e nostre, certe mani ruvide!... ma non era poi, andavamo sulla Prenestina, a via Aquilonia, quindi non era...però insomma me ricordo che io e lei ce capivamo, perché ce guardavamo, che poi erano carucce, noi siamo state molto amiche, cioè erano veramente amiche, però... poi al di fuori no, perché erano troppo... Paola. No, solo a livello de scuola, de compiti, se ce dovevamo vede’ magari pe’ un compito, però erano molto carucce eh... Regina. Ma sai, forse non c’era ‘sta ricerca per il fuori perché, non lo so se poi succede pure nel regno animale, però stavi bene dentro, capito? cioè, le persone che ciavevi intorno te piacevano!… perché poi io, tra gli amici miei, me ricordo, c’è chi è diventato pure medico, chi s’è laureato, cioè ce sta un po’ de tutto, non è che ce sta solo... Paola Spano. No, io dico il fuori perché mi ricordo, nella classe di Riccardo, a Colli Aniene, parlavamo, non c’era ancora il Croce, allora si disse «Ma non c’è neanche un liceo, in questo quariere...» e una ragazza disse «Ma noi non vediamo l’ora di andarcene dal quartiere!» Regina. Si, no, ma c’era il vivere fuori, tu dovevi anda’ fuori e mischiarti... Però poi, quando conoscevi le persone fuori, te ‘e guardavi e «Di’ un po’, ma da dove è uscita questa?» cioè certe se le guardavamo, perché il nostro vissuto era proprio diverso! capito? non je riconoscevi l’odore tuo praticamente, come dice lei... me racconta sempre un amico mio, Italico, che a scuola sua, un amico suo, lui faceva Tecnico di radiologia... un amico suo disse «Io, a casa mia ciò sedici finestre» Italico ha contato ‘e sue, erano tre, ecco, questo era, tu non partivi nemmeno, come posso di’, a Pa’... o t’allineavi subito che te piacevi, perché succede, insomma poi ognuno de noi ha trovato de’e persone, ma non c’era ‘sta... Poi sa che c’è, il fatto d’esse’ nati in un quartiere, anche... io co’ lei e co’ lei, da piccole non mi sono frequentata, io a malapena me le ricordo, però, non c’è niente da fa’, c’è un marchio, te conosci, nun c’è niente... te conosci, nun è importante che te sei frequentato a dieci anni... tu sai che stai a ‘a stessa lunghezza d’onda, quindi, ho detto, io non è che so’chiusa nei confronti del prossimo, anzi so’ una che me piace poi conosce’, parla’, dove vai, do’ vado, io parlo co’ tutti che so’ proprio esagerata, eh, però poi 179
comunque il mio... sto bene ecco, ciò le mie amiche che... ma io ciò le amiche da quando ero piccola, io ciò le amiche da quando ave’o sette, ott’anni, gli amici uguale, un Italico, un Maurizio e tanti altri, noi ciavevamo quattordici anni insieme e andavamo a balla’ e ancora semo amici, co ‘e mogli, co’ i figli, famo ‘e vacanze insieme... eh, però ecco, te per esempio (si rivolge a Paola Spano), no, tu sei una persona che insomma t’ho incontrato sulla mia vita, e io poi ciò... sai che me succede? ciò forse un problema de complesso de inferiorità, che certe persone pe’ me so’, so’ sacre, capito? cioè qualsiasi cosa, io sono qui, sono pronta, però mai te verrei a rompe’ ‘e scatole, mai... e questo sicuramente può esse’ un limite Sandra. E poi insomma a me, lei l’ha visto, io ho fatto, ho festeggiato i quarant’anni e ho invitato anche queste amiche e so’ persone semplici, molto... però che in realtà vivevano, cioè veramente avevano una realtà diversa dalla mia. Abbiamo la stessa età. La differenza sai qual’è della realtà vissuta del quartiere? che poi in un certo senso uno forse ci si lega e non ti permette di fa’... cioè forse il salto di qualità lo faranno i nostri figli, non so come spiegarti, loro per esempio si so’ tutte laureate... perché io ho riflettuto, mio padre, stessa generazione dei loro genitori, no, quindi mio padre veniva da una tradizione di paese come i loro genitori e però noi siamo capitati a vive’ qua e loro invece so’ capitati a vive’ al centro. La differenza tra me e loro è che poi loro invece so’ riuscite comunque in qualche modo a anda’ avanti, che ne so, a fini’ gli studi, affermarse nel lavoro, così, invece a me questa parte del quartiere poi a cui io so’ affezionata perché in realtà è ‘na scelta fatta perché... ma forse m’ha fermato, perché poi ho ripreso, che ne so, la mentalità un po’ che era della... del quartiere, è vero, forse è quello perché vedo tante volte... ce l’hanno pure un po’ i figli forse, no? Regina. Che noi ciabbiamo i valori veri. Sandra. Si, ciai anche ragione, però è vero guarda! Paola Spano. Però io capisco quello che dice lei perché mi ricordo i vostri temi di terza media, della loro classe tutte…nessuna si voleva sposare, tutte volevano lavora’, tutte volevano diventa’ come la Spano, che io non ero sposata e questa era una cosa abbastanza singolare, e invece poi è stata fatta una scelta tra virgolette più tradizionale... Sandra. Tutta diversa, tradizionale, è vero, quello che volevo dire io. Paola Spano. E poi però eravate delle ragazze molto combattive, no, non delle pecorone, non delle donnette, quindi è vero che, come dici tu, avete fatto una scelta riduttiva... Sandra. E’ vero, io ciò riflettuto e penso che, secondo me, ha inciso, in questa parte ha inciso negativamente il quartiere… io adesso che ho quarant’anni me rendo conto che ce l’ho dentro voja di fa’, che adesso certo a quarant’anni, si, posso farlo perché per carità ancora so’ giovane, ma avrei voluto ave’ questo modo di pensa’ a vent’anni, cioè non me so’ resa conto lì per lì... In un altro contesto avremmo dato di più. Regina. ... noi semo sempre cresciute co’ l’insicurezza, ma chi ce incoraggiava? a Sa’! Sandra. Ti sto dicendo, in un altro contesto noi avremmo potuto fare di più. Paola. Ma i tuoi genitori, per esempio, i tuoi genitori puntavano su di te? sulla tua riuscita negli studi? Sandra e Regina in coro. No, mai! Nadia. I miei proprio neanche... Paola Spano. E su tuo fratello? Sandra. Neanche. Cioè mia madre ha sempre voluto, loro cianno sempre spinto a studiare, quindi loro il fatto del diploma lo vedevano come almeno un salto de qualità rispetto a loro, però poi mia madre... m’ha sempre riportato coi ragionamenti al fatto de... ai valori, della famiglia, dei figli, de sta’ a casa, de seguilli, de non lasciarli perché comunque vanno seguiti, perché comunque è un peccato, perché poi te sfuggono e nun te li godi, una mentalità che poi, insomma, io mi ci so’ trovata coinvolta ed è vero che m’è stata bene per tanti anni, perché io so’ arrivata fino adesso e tutto sommato mi sento molto realizzata nella famiglia, però m’ha tagliato le ali su quell’altra parte che invece io ciavevo delle potenzialità che forse, sfruttate al momento giusto, m’avrebbero portato un pochettino più avanti. Regina. E’ quello, chi t’aiutava? Paola Spano. Anche tu (a Nadia) non hai finito la scuola e invece l’avresti potuta finire. Nadia. Io si. Io, vabbe’, io me so’ arresa. Me so’ arresa perché comunque forse non avevo tante potenzialità, però se ciavessi avuto qualcuno che me sosteneva, capito? Sandra. Che ti avesse spinto... 180
Regina. Che poi non t’incoraggiavano, qualsiasi cosa decidevi di fare... io me ricordo, a sedici anni je dissi a casa mia «Io me vado a segna’al metodo Shenker» de via Sistina, inglese, perché tutte andavano a scuola, ciav’eo ‘sto complesso, però ho detto «Che faccio? me segno al metodo Shenker o me faccio er vespone?» «Fatte er vespone!» e certo, a sedici anni che vuoi decide’? Però se ci avessi avuto vicino un genitore che avesse detto «Regi’, prendete l’inglese, che poi invece de sta’ a marci’ dentro ‘sto sotterraneo, magari te ne vai a lavora’ in Inghilterra» quello che io direi a mia figlia… «Prendete un piccolo strumento, che poi te serve pe’ fa’ ‘n’altra cosa!» Meglio l’indipendenza… Nadia. Mio padre voleva che io facessi il pilota, mo’ tu dimme se una donna, cioè, voglio di’... si, se ti piace, per carità lo puoi fare, però non è che puntava su quello che a me piaceva... Era una cosa sua, magari lui avrebbe voluto fare il pilota, siccome il figlio non ne voleva sape’, puntava su di me. Quindi, quando io ho fatto Assistente all’infanzia, ho cominciato la scuola «Capirai, pe’ fa’ ‘a bambinaia, ce vole tanto a puli’ il sedere ai bambini...» cioè questi erano i discorsi che t’accompagnavano nello studio. Io vabbe’ poi ero maggiormente in difficoltà perché comunque, non vivevo con loro, vivevo con mia nonna, quindi tutte le situazioni che magari a quell’età altre bambine dell’età mia non avevano, di responsabilità, comunque io lavoravo all’interno della casa, la seguivo in tutto quello che ciaveva bisogno, quindi me so’ trovata co’ ‘st’enorme... Regina. Co’ già un lavoro da fare. Nadia.Io ciavevo già un lavoro e in più seguivo lo studio, dove nessuno però…«Sta’ a perde’ tempo, ma lascia perde’, ma che stai a fa’?» Quindi la mia forza forse non ce l’ha fatta a sormontare questo, non so’ riuscita, non ciavevo forse poi le basi per poterlo fa’, non ciavevo né economicamente, né niente, capito? Mio padre criticava, criticava, criticava e mi disse «Se vuoi continua’, te finanzi da sola. Sennò vai a lavorare, fai la parrucchiera» questo già dal secondo anno di scuola superiore. Ho fatto il terzo anno, ho preso l’attestato sempre co’ ‘sti discorsi alle spalle e poi non ce l’ho fatta più. Fino al quarto anno ho frequentato, so’ stata sempre promossa, mai rimandata, non ero la cima della classe, però m’arrangiavo, un po’ studiavo, studiavo poco ma seguivo molto, cioè riuscivo a capi’ il concetto di quello che me se spiegava... Il mio quarto anno mi sono pagata i libri da sola, perché per loro, il terzo anno, ormai ciavevo avuto l’attestato e finiva lì, mi son pagata i libri da sola andando a lavorare l’estate come baby-sitter; me ne so’ andata due mesi al mare co’ due bambini, uno più ciccione dell’altro, voglio di’, per carità, dei bambini meravigliosi perché poi mi piaceva, comunque a me è sempre piaciuto sta’ a contatto coi bambini, gioca’ co’ loro, mi sentivo proprio realizzata. Quindi ho scelto ‘sto tipo de scuola perché per me non era un lavoro, non era un impegno, era quasi una normalità. Ho frequentato il quarto anno, dovevo sostene’ l’esame, quell’anno non ero preparatissima anche se ciave’o sempre la sufficienza… non ce l’ho fatta,... mi so’ arresa e ho detto «meglio l’indipendenza economica che continua’ a studiare in questo modo,avendo sempre dietro «Bu bu, bu bu, bu bu ». Quindi ho scelto di comincia’ a lavora’ come baby sitter, poi ho lavorato in un’autoscuola e ero abbastanza indipendente, perché svolgevo tutte le pratiche amministrative di questa autoscuola, per le patenti,i certificati, tribunali, mi piaceva perché comunque giravo sempre e me sapevo districa’ abbastanza bene in questo... ero entrata in questa agenzia automobilistica in sostituzione di un’altra persona ch’era la sorella più piccola de mi’ madre che era rimasta in stato interessante, l’ho sostituita per un anno e mezzo, due anni circa. Poi lei aveva bisogno di tornare al lavoro e ho lasciato. Ho continuato a fa’ un pochino la baby sitter e nel frattempo comunque avevo conosciuto il ragazzo col quale stavo, ch’era molto più grande di me, e invece ecco è stato una persona un po’ che ha sostituito la figura paterna; nel senso che per quanto riguarda invece il discorso degli studi è la persona che m’ha spronato poi a fare dei corsi, corsi alternativi alla scuola, che mi completassero in un certo senso. E quindi ho cominciato a fa’ un corso de steno... ecco, lavorando, non so’ mai riuscita a impegnamme tantissimo nello studio però m’accontentavo di fa’ questi piccoli corsi che in qualche modo mi dessero possibilità a livello lavorativo de ave’... qualche qualifica, perché comunque il diploma non l’ho più preso, assolutamente. E poi me so’ iscritta al collocamento obbligatorio: avendo mia madre invalida al novantacinque per cento, rientravo in una categoria di orfani equiparati…
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Qualsiasi lavoro Paola.Io ho smesso di studiare, ho fatto fino al terzo anno di ragioneria. Facevo il terzo anno de ragioneria, ero andata in gita. Il giorno che dovevo torna’, la mattina, ho parlato co’ mia nonna al telefono, so’ rivata la sera a mezzanotte e ho trovato mi’ nonna morta. E quindi ciò avuto tipo uno shock, perché poi tra l’altro mamma e papà non vennero a prendermi a scuola, no; e io ho visto mio cugino, m’era venut’a prende’, rimasi un po’: «Ma come, mamma ‘n’è venuta?» Dice «No, perché s’è sentita poco bene...» Che poi ‘sto cugino mio era giovane, era un ragazzo... poi invece da portamm’a casa, me ricordo, io abbitavo qui al Palazzone al secondo piano, me portò a casa de mi’ zia e c’erano i miei fratelli. Io lì ho cominciato a ‘sta male perché pensavo ch’era successo qualcosa a mamma e papà. E ‘nvece poi me dissero… zia me disse ch’era morta nonna e niente,... io proprio so’ stata malissimo perché nonna vive’a ‘n casa co’ noi, cioè noi vivevamo co’ lei... Ero legata, e poi, ‘a mattina ce parlo al telefono, ‘a sera ritorno, no ‘a trovo più, perch’è morta d’infarto... Nonna è morta a marzo, io lì so’… ero rimasta a casa ‘n po’ de giorni perché stavo male, e poi da lì, no ‘o so, me prese ‘na paura... perché ‘n effetti c’era poi ‘na professoressa che non era brava, ‘nsomma te dicea sempre che... se nun arrivavi a’n certo voto te bocciava, te metteva paura, io forse ero un po’ debole quel periodo, ho pensato che nun ce ‘avrei fatta; invece mamma poi andò a parla’ pe’ nun famme lascia’ scuola e je dissero che ‘nsomma nun è che ciave’o grossi problemi, che potevo faccela benissimo... però io quel periodo nun vole’o sape’ niente de scuola e rimasi a casa. E niente, perso l’anno... perch’era fine marzo, poi giugno è finita scuola, ho perso quei du’ mesi. Certo mamma e papà stavano co’ ‘a speranza che riprendevo, ‘nvece no. So’ rimasta a casa un anno, ho provato a riandare in una scuola privata dove insomma mi avrebbero aiutato per ricuperare gli anni e farmi fare un esame, invece quand’è stato il momento di quest’esame c’è stata un casino con le commissioni, io dove’o anda’ a Monterotondo a da’ quest’esame, e quindi è andato tutto a carte per aria. Il diploma non so’ riuscita a prenderlo. Lì è venuto insomma un brutto periodo... Si, perché ti ritrovi a casa, così senza... in attesa di un lavoro, perché poi certo a quel punto io aspiravo a qualsiasi lavoro, anche perché anche quando andavo a scuola cercavo sempre di essere un po’ indipendente, di non pesare troppo sulla famiglia e quindi per un periodo de tempo ho guardato dei bambini pe’ poter avere questa piccola indipendenza, anche soltanto per la domenica, ecco, per uscire o comprare qualcosa ‘n più che magari i genitori non potevano. E quindi quando me so’ ritrovata a casa... già da una delusione per la scuola, me so’ resa conto che forse avevo fatto un errore un po’ troppo grande. Però nel frattempo me so’ messa in cerca e quello ch’è venuto fuori era la commessa: sono andata prima a lavorare a due negozi al centro e però in sostituzione di una ch’era andata in maternità. Lì ho smesso e a settembre però mi avevano già richiamato per assumermi, ma nel frattempo mi avevano presentato a una diffusione qui a Verde Rocca, l’orario era minore rispetto a quello là, poi mi conveniva perch’era vicino casa e quindi ho scelto di... Una diffusione di abbigliamento, lì era sempre abbigliamento però vendevo ai negozianti, ai grossisti... Me so’ diplomata pe’ rabbia. Regina.Allora io so’ andata a scuola fino alla terza media e poi so’ andata a lavora’, m’hanno mandato subito a lavorare... Lavoravo dentro un laboratorio di bigiotteria. Io ho fatto per sei anni la bigiotteria, a via Avacuna, su via Tiburtina, avevo quattordici anni e mezzo, avevo provato a anda’ a scuola, a ‘e superiori, però ‘n casotto, ‘n sacco de problemi perché quello no, quello no, quello no, sai quando te cominciano poi a toglie’ tutto, allora trovi ‘n sistema diverso, te devi difende’, allora ho detto«Guarda, io smetto d’anda’ a scuola, basta che, ‘nsomma, me trovo un lavoro, almeno…» Sono stata obbligata a informarmi, documentarmi, me leggevo tutte ‘e manifestazioni... io me ricordo, quand’è morta Giordana Masi, eh, io stavo attaccata allla radio, cianno detto ch’era morta ‘sta ragazza sul ponte Garibaldi, me sembra… Io perché non potevo, avevo invidia delle mie amiche che andavano a scuola, che facevano sciopero, che occupavano, io soffrivo, però io ero costretta a anda’ al lavoro perché ormai... perché poi pure questo fu nella mia famiglia, che nessuno di noi è potuto anda’ a scuola perché mio padre ha detto «Fino a ‘a terza media» dopo di che via! Io debbo dire su questo che ciò ‘l fratello più grande ch’era veramente bravo, Giulio, era proprio bravo bravo, tant’è che i figli stanno’a fa’ ingegneria, fanno tutti gli esami, stann’a pija trenta tranquillamente, quindi, ‘nsomma, geneticamente, 182
l’intelligenza c’è. Però nemmen’a lui hanno mandato a scuola, perché poi erano venuti i professori a chiede’ a mio padre... Io me so diplomata ‘st’anno, proprio pe’ rabbia… In questo laboratorio eravamo dodici, quattordici persone, tutte ragazze... giovani e anche più grandi, io ero tra ‘e più piccole… Sei anni. So’ andata via si, quasi a vent’anni. Sei anni, si. So’ andata via perché m’ero rotta, da mo’ che dovevo anda’ via però ero rimasta lì nemmeno so perché, ecco se me dici de quel periodo non è che me ricordo molto... era un lavoro pure piacevole, perché tutte ‘ste cose, ecco, ‘a bigiotteria se monta, no, ero pure brava, me piaceva, ero considerata. Me ricordo che una volta el principale, che poi è morto poverino, voleva licenziare una mia amica che adesso... è del ventotto, quanti anni cià? ce n’ha un botto... Del ventisette ventotto, quindi cioè, io so’ del sessanta, quant’anni ciaveva più de me? Quindi lei ciaveva cinquant’anni e più, la voleva licenziare, e io, zitta zitta, so’ andata di là da lui e j’ho detto «Guarda, ma che fai, licenzi a lei? Ma licenzia a me, cioè io so’ ‘na ragazza, vado ‘n giro e lo trovo il lavoro, ma questa dove ‘o trova... » poi era single... era zitella perché poi a quei tempi non è ch’eri single... E così, e niente lui ce ripensò e disse ad alta voce, dice «Non immaginavo che una lezione di vita me ‘a dovesse da’ una de Tiburtino III» questo ancora me ‘o ricordo. E non ha licenziato nessuno dei due, né me né lei, no. E poi io me ne sono andata dopo perch’è andata via una mia amica, è andata dentro una clinica, a lavora’ come portantina, m’ha detto «Vuoi veni’ pure te?» che insomma se guadagnava de più, era un altro tipo de lavoro e ho accettato. L’ho fatto per un anno e mezzo così e poi ho aperto un’attività mia, un negozio insomma, poi nel frattempo sai, qui te sto parlando ch’era l’ottantuno, quindi c’è stato quella specie de boom economico che potevi fa’ tutto, qualsiasi cosa era possibile, e dopo è cambiato. Era un negozio di arredamenti da bagno, arredamenti, bagni, mattonelle... mo’ te spiego, mio marito lavorava dentro la fabbrica insieme col padre e ciavevano gli arredamenti da bagno e io non lavoravo, ero sposata già, nell’ottantuno me so’sposata, e mia cugina non lavorava. IL marito di mia cugina ciaveva la moto, ‘n’Honda setteecinquanta, ha detto «Sentite, io me vendo ‘a moto, famo quarcosa» perché lui è così, ancora adesso, Maurizio, tutte ‘e idee vengono a lui. «Vabbe’, famo qualcosa! Apriamo un negozio» A piazza dei Gerani, centrale , ancora c’è il nostro negozio «Cose da bagno», Centocelle. Quindi i soldi so’ serviti per quello, l’allaccio de... ma era carino perché ce semo fatti tutti i lavori noi, eravamo due ragazze, che ne so, arrivava quello della SIP «Che posso parla’ col responsabile?» Noi scendevamo, tutte piene de polvere perché s’eravamo messe a scartavetra’… E’ durata quattro, cinqu’anni. Poi io ciò avuto Marta, lei ha avuto Davide e abbiamo venduto tutto. Poi co’ quei soldi abbiamo comprato un terreno, a Parco Azzurro, su ‘a Nomentana. Anche lì progetti, e avevamo costruito una bifamiliare, però poi, vabbe’, Enrico j’è successo un tracollo finanziario e ha dovuto da’ via tutto, de corsa, per quello che s’è potuto salva’, niente! Così. e penso che se non ciavevo ‘a preparazione, mia, da bambina, penso che quarche pasticchetta de prozac me serviva eh, quel periodo! Di tutto, di più! Però so’ passata, anzi, ‘n me lamento... Si, lavoro, lavoro dal duemila, quindi a quarant’anni, ho ripreso a lavorare, lavoro dentro una scuola, faccio ‘a ditta mensa, sto coi bambini, sto bene. Mo’ sto a fa’ ‘e domande da bidella, a proposito ciò ‘e domande, amo scoperto che il lavoro da bidella è uno dei mejo lavori. Ali tagliate Sandra.Io pure so ‘ andata a scuola da le suore, tre anni. I primi tre anni de la materna li ho fatti da le suore. Dopo mio padre, una sera che m’ha visto che me so’ ‘nginocchiata a prega’ davanti al letto, gli ha preso un colpo! Le (elementari) le ho fatte con Paola qui alla Fabio Filzi. Ci siamo conosciute in prima elementare, abbiamo iniziato a anda’ a scuola insieme, abbiamo fatto tutte le medie, poi ci siamo iscritte a ragioneria insieme, poi lei m’ha abbandonato e io so’’ndata in crisi perché lei... Io l’ho finita. Invece lei al terzo non ce ‘ha fatta più, a me m’è dispiaciuto, me ricordo, ‘sta cosa era un po’ traumatica perché in fondo eravamo state veramente insieme, era un punto de riferimento, poi cioè è vero che anche a le superiori, poi che ne so lei stava seduta al banco co’ ‘n’altra persona, io ‘n’altra, ‘nsomma avevamo anche altre amicizie però... Paola. Stavamo insieme. Sandra. Anche perché, è vero, è stato ‘n’anno, me ricordo, faticoso, cioè ero tentata anch’io de lascia’ perché... e poi dopo vabbe’, l’ho finita. Solo che l’ho finita, devo dire anche benino e sono soddisfatta, poi però io nel frattempo ho conosciuto mio marito, lui veniva dalla Calabria, lavorava qui, era solo e 183
c’erano tante questioni, così abbiamo deciso di sposarci; quindi io mi so’ diplomata, diciamo, a diciannov’anni, l’anno dopo mi so’ sposata, l’anno dopo ancora ero già mamma. Quindi ho bruciato tutte ‘e tappe... E non ho lavorato mai, infatti adesso che... No, non mi pento d’ave’ fatto questa scelta, perché io quando l’ho fatta questa scelta ero... è vero che sono stata un po’ impostata dai genitori in questo senso, e me ne so’ resa conto dopo, in fondo questo senso della famiglia, dei figli, ce l’ho avuto un po’ da mia madre, ciò avuto sempre... pure mio padre in fondo, una famiglia un po’... diciamo che in un certo senso m’hanno tagliato un po’ le ali… Paola Spano. E’ strano, perché quando eri a scuola avrei detto che tu invece avresti puntato di più sull’autonomia. Sandra. Si, si! E infatti m’è rimasto, però dopo è stata una scelta mia, cioè il fatto anche d’ave’ avuto Francesca, ‘a prima figlia, quindi il fatto che comunque mi dava... m’appagava tanto stare con lei e non è... cioè non so, non ciò rimpianti per quello ch’ho fatto, però adesso... adesso ho voglia di ricominciare ecco, quello, più che un rimpianto è una cosa che ho lasciato da parte e che vorrei ricomincia’ in qualche maniera, perché insomma c’è una parte di me stessa che non s’è realizzata, ho realizzato una parte e una parte no; quindi qualcosa farò, non so ancora cosa… Anch’io ho fatto il discorso nel senso che mi so’ sposata... poi mio marito diciamo che abbiamo accelerato un po’ i tempi perché lui veramente era uno sbandato, ‘n ciave’a una fissa dimora, un po’ da ‘ parte un po’ da ‘n’altra, e mi ricordo che mi so’ sposata perché avevo mia nonna che aveva questa casa molto grande, un cento metri quadri sempre a via Mozart e mio padre diceva «Ma vabbe’, ma tutto sommato è sola, è anziana, che vuoi... » La madre di mio padre, nonna paterna, e quindi sono andata ad abitare con mia nonna. Figlia d’arte Tiziana. La musica, si, una passione! I libri! però ecco, io ero una che amava molto leggere, poi il dramma è stato nella mia famiglia che quando abbiamo cominciato a avere dodici tredici anni, noi tutte le domeniche papà il sabato sera ci segnava per la diffusione dell’Unità, quindi la mattina alle sette e mezza di domenica c’era la... e così abbiamo iniziato tutte, insomma, l’attività politica in sezione. Paola Spano. Militante un po’ forzata. Tiziana. Da tredici anni... beh, quella della vendita dell’Unità si, il resto no... e devo di’, io personalmente gli devo molto a questa cosa, mo’ a prescindere poi che uno cresce, poi ha le sue idee, in certe cose veramente siamo stati troppo inquadrati, però io gli devo di non essere insomma cresciuta... perché poi al Monte, non so a Tiburtino... ma il Monte del Pecoraro in quegli anni è diventato un dramma, è arrivata la droga, la violenza, la prepotenza, è arrivato di tutto. La droga soprattutto ha rovinato la generazione prima di me, la mia e quella dopo. Ha rovinato tre generazioni al Monte del Pecoraro. Quindi questo proprio, secondo me, glielo devo a quel tipo di... e poi al fatto che io a sedici anni ho cominciato a andare a scuola a Monteverde, quindi poi sono proprio cresciuta fuori dal quartiere, dall’età di sedici anni, praticamente me lo sono vissuto molto meno. Riccardo Morri. Com’è la scelta della scuola a Monteverde? Tiziana. Perché ho fatto una scuola per infermiere e sono riuscita ad entrare in quella, ho fatto svariate domande dopo il biennio. Io so’ andata a scuola a Ponte Mammolo, i primi due anni ho fatto Assistente all’infanzia e poi mi so’ iscritta a scuola de infermiere. E quindi ecco da quell’età poi, fra l’attività politica e questo tipo di scuola che m’impegnava tantissimo, praticamente non ho più vissuto... il quartiere. Riccardo Morri. Ma la sezione, secondo te, in che misura t’ha protetto da problemi come la droga, perché eri troppo impegnata per pensare a la droga o perché comunque s’era creato, che ne so, anche una sorta di autodifesa, no, per evita’ che le persone, i giovani che frequentavano la sezione venissero a contatto con i personaggi che spacciavano, con il problema che c’era... Tiziana. Mah, questo no, soprattutto nel mio periodo devo dire perché noi abbiamo... anzi, noi avevamo formato un gruppo di recupero per i ragazzi «del muretto», quindi ne avevamo recuperati tanti all’interno della sezione e insomma per anni sono stati con noi, qualcuno ne è uscito, qualcuno... e quindi insomma, no, il contatto c’è stato, forse cià, m’ha salvato nel senso che poi c’erano pure altre cose, cioè ecco conosci un altro tipo di cultura, i libri cominciano ad essere anche diversi e quindi cominci proprio a ragionare anche su cose che magari, se continuavi a stare sul muretto non ciavresti ragionato più di tanto, ecco questo. Però insomma, no, anzi io ho avuto un’esperienza proprio più che 184
diretta e quindi insomma... Paola Spano. Cioè, era interna la protezione rispetto a queste esperienze negative, no? Tiziana. Si, forse si, forse proprio perché vedevi, che ne so, il ragazzo che tu c’eri andato a scuola elementare e ti dicevano da un giorno all’altro «sai, ti ricordi? si buca» Allora per te diventava proprio una cosa, dice, ma come, abbiamo fatto le elementari?... proprio dicevi, vabbe’, no allora devo fa’ qualcosa, ma in questo senso, però non li abbiamo mai, Nadia era un’altra che faceva parte del nostro gruppo, quindi insomma anzi, li abbiamo sempre più che avvicinati, quindi non c’eravamo protetti, esclusi da questo tipo di gioventù. Però ecco io come mentalità molto mi sono aperta lì, poi certo molto mi sono aperta a sedici anni, stare in una corsia d’ospedale, quella è un’esperienza che insomma, penso che possa far crescere chiunque. Riccardo Morri. Libri e musica, dove trovavate, ve li scambiavate? Tiziana. Scambiavamo ?! Noi avevamo il fratello di Nadia ch’è sempre stato un ricco in questo, cioè io molta musica l’ascoltavo a casa di Nadia perché Valter aveva... Nadia. Gli Inti-Illimani... Tiziana. Tutti i dischi, molto, no, tutto aveva, anche la musica rock, la musica rock l’abbiamo conosciuta co’ Valter, per lo meno io personalmente... Nadia. Loro anche sintetizzavano a casa e facevano musica con i suoi amici perché frequentando la parrocchia avevano imparato, attraverso un prete, a suonare la chitarra... e s’erano fatti la chitarra normale, praticamente col jack era diventata elettrica, suonavano delle cose, cose a livello artigianale, insomma, fatte in casa, quindi quando c’erano i suoi amici effettivamente si sentiva... Tiziana. E anche nel gruppo della sezione c’erano molti ragazzi anche che suonavano… Paola Spano. Ma c’erano molti giovani in sezione? Tiziana. Si, beh, quando c’eravamo noi, si. Eravamo una delle sezioni della Tiburtina che aveva più giovani in assoluto. Riccardo Morri. Tutti del Monte? Tiziana. No, beh, Monte e Tiburtino, pure. Pure forse qualcuno di Colli Aniene c’era... qualcuno della Tiburtina... Paola Spano. Mentre a Tiburtino non c’erano giovani? Tiziana. Beh, io la sezione di Tiburtino l’ho frequentata poco. Paola. ... c’erano quelli più grandi. Regina. Quelli del cinquantacinque, cinquantaquattro si! poi c’era Maria Scafati pure... Torelli, la compagnia che mi ricordo, perché c’erano i miei fratelli, ch’erano più grandi de me uno de cinque anni e uno de sette anni e c’era tutto un bel gruppo de ragazzi, qua sotto quando passavi era pieno. Erano più grandi, e poi comunque tutti ragazzi che lavoravano, capito? Dopo, hanno iniziato, la generazione mia a esse’ un po’ più politicizzati, ma quella un po’ prima andava tutta a lavora’, specialmente a Tiburtino... Tiziana.Infatti quella è stata pure la fortuna, che poi in sezione cominciavi a vedere questi che andavano al liceo, andavano all’università... per esempio per me quello della mia età che andava al liceo per me era, cioè lasciare gli studi per me è stato proprio doloroso, quindi, quando vedevo questi che facevano la maturità, cioè io dico, questi fanno la maturità, io prendo il diploma da infermiera, mi sentivo un po’, no? E comunque li vedi sempre, erano, non lo so, un mito, l’ideale era quello per me. Però insomma poi uno, non le fa da piccolo, le fa da grande certe cose. Riccardo. Cinema? Tiziana.Il cinema proprio ecco da grande, quando uno ha cominciato a avere un po’ la sua indipendenza economica. Soprattutto da grande rimane una passione, il teatro, quello si. Però ecco, son tutte cose, esperienze che... io personalmente le ho iniziate a fare a diciotto anni, a vent’anni. Nadia. Io il teatro, la prima volta che so’ andata a teatro, andammo al Brancaccio a vede’ Gigi Proietti… Tiziana. Co’ quell’insegnante di Educazione fisica che ciavevamo il primo anno, me sembra. Nadia. La prima volta che so’ andata a teatro in vita mia! Tiziana. Eh, si pure io, quella è stata la prima volta in assoluto... Riccardo. Poi... quindi i tuoi luoghi d’incontro erano la sezione? essenzialmente quelli... Tiziana. Si, per me la sezione e lo spogliatoio della scuola infermieri... però si, prettamente la sezione. 185
Riccardo. Quando da Tiburtino o dal Monte dovevate anda’ in qualche altra parte de Roma, ciandavate solo... quali erano i motivi che vi spingevano a spostavve? Tiziana. Le manifestazioni. Poi, vabbe’, i concerti quando è iniziata l’era dei concerti sempre se c’era qualcuno che ci finanziava, ma forse si, pure un po’ qualche volta quando, con Nadia spesso, per fa’ un po’ di shopping. Shopping? guardavamo le vetrine, ammiravamo... E poi ecco quando andavo a casa di Nadia, in campagna… a parte che per me poi già arrivare lassù a Monteverde con gli autobus e tornare, la sera... ad arrivare ci mettevo un’ora, un’ora e mezza. Io andavo via la mattina e poi tornavo la sera, perché noi facevamo tirocinio... se facevamo la teoria la mattina, il pomeriggio andavamo in corsia e facevamo tirocinio, se facevamo tirocinio di mattina, pomeriggio era teoria a scuola, quindi... E la domenica, tu dici, mi riposo... no! eri sempre iscritta alla diffusione dell’Unità, non poteva mancare! Riccardo. E... vacanze, ferie?d’’estate. Nadia. Beh, tu sei privilegiata sotto ‘st’aspetto, dai, eh cia la roulotte mamma! Tiziana. I primi quattro anni abbiamo avuto la tenda, che montavamo al Lido dei pini…. già facevo scuola infermieri, alle superiori, avevo quattordici anni il primo anno che i miei hanno voluto fa l’esperienza del campeggio perché eravamo diventati quasi ricchi, insomma questa tenda. Poi è diventata una roulotte, poi insomma uno è cresciuto e poi le vacanze se l’è un po’ gestite da solo. Dopo il matrimonio devo dire eh, perché insomma prima… No, la prima vacanza l’ho fatta sei mesi prima del matrimonio... avevo vent’anni, so’ andata a Venezia, col fidanzato... Una settimana, ma perché poi insomma lì già lavoravo... Sandra. Io non è che so’ stata indifferente perché io vedevo soprattutto la loro de attività,per esempio me ricordo Tiziana e Nadia co’ questa, loro ne parlavano tanto in classe, quindi io, diciamo, l’ho sempre seguita, però a casa mia s’è sempre parlato poco di politica. Infatti io, mio padre so di sicuro che non è mai stato di destra ma non s’è mai molto espresso, perché… anche nell’attività che c’era di sinistra nel quartiere, secondo lui era mettersi troppo in mostra. Quella era un’idea sua che rimaneva a lui, e io, si l’ho seguita però in realtà quel periodo, me sentivo, cioè non ero sicura io della... non m’ero fatta io un’idea politica e quindi non mi son mai esposta e non ho mai frequentato, né per curiosità, perché comunque non ciavevo degli amici che mi ci portavano e quindi, non essendo poi convinta non mi sentivo neanche d’anda’ lì pe’ fa’ politica perché in realtà non ce l’avevo poi ‘st’idea nella mia mente. Però dal di fuori l’ho sempre seguite, cioè le vicende del quartiere, anche del partito, insomma ‘e cose le seguivo, però dal di fuori Nadia.Poi dopo, io da quando ho cominciato quel periodo delle medie che ho frequentato Tiziana che aveva il papà e la mamma che erano attivisti nella sezione, abbiamo cominciato invece a impegnarci in questo, nella FGCI, no? perché inizialmente per me era effettivamente solo un diversivo, un modo diverso de impegna’ il tempo libero, perché comunque si facevano tante cose creative, al livello de manifesti, cartelloni, con proiettore, praticamente proiettavamo un disegno che poi se riportava pe’ la festa de L’Unità, o queste cose, quindi era un collaborare alla realizzazione de un lavoro che te teneva impegnato, te insegnava delle tecniche. E poi, crescendo, so’ rimasta sempre nell’ambiente ... non a tempo fisso, mentre Tiziana invece lo frequentava assiduamente... Non a tempo fisso perché poi ho cominciato a anda’ in piscina, quindi avevo dei giorni pure io impegnati e spesso ero anche in casa da sola perché ciavevo nonna che non stava bene. Regina. No, mai andata in sezione, mai avuto nemmeno la tessera, ciò ‘a tessera de’a CGIL come sindacato però mai, devo di’ la verità, mai. Si, no, io ciavevo la mia idea che è sempre stata quella, che ho sempre combattuto, che me so’ sempre informata perché ogni volta che dove’o discute’ co’ ‘na persona poi comunque lui diceva ‘na cosa e io dovevo contrabattere... Discutevo, perché poi a Colli Aniene era molto politicizzato, te ricordi? e anzi a Colli Aniene c’era pure ‘na sorta de fanatismo, c’è stato ‘n periodo che c’era proprio ‘na specie de fanatismo perché poi, diciamo che rispetto a noi , qui a Tiburtino che se semo fatti proprio... noi ‘n ce pote’a vede’ in giro pe Roma ‘a borgata Tiburtino III, noi ciabbiamo avuto ‘na vorta ‘na votazione, novantanove virgola nove per cento de voti de sinistra, cioè se sapevano chi erano quei dieci... se sapevano, quindi noi eravamo proprio malvisti, capirai, me ricordo er sindaco, Darida, democristiano, macché, a noi ‘n ce potevano proprio vede’, non ce facevano niente, potevi proprio crepare, e era così. Era così, era normale, tu eri don Peppone e... vabbe’, quell’altro. E invece a Colli Aniene c’era ‘na sorta de... si, sempre de sinistra, però era ‘n po’ più... era un 186
po’ più tenera la cosa, era anche un po’ più facile. Beh, io ho cominciato a anda’ a Colli Aniene che ciavevo sedici anni, Settantasei... Quando m’hai visto tu? te ricordi che ero fidanzata? si, ci stavo sempre, più o meno; però, un paio de volte lì so’ andata alla sezione, era quella dietro così, però non è che non ce so’ andata per antipatie, simpatie, no, era presa da altre cose, ero fidanzata, ciavevo amici... Enrico, lui si, prima de fa’ il militare, me ricordo che lui stava alla scuola areonautica,quindi erano tutti de destra, lui ha fatto pure il paracadutista, lui annava a scuola co’ l’Unità e se doveva sempre sta’ a mena’ co’ qualcuno... Però poi, insomma, cià avuto una vita semplice, normale, sempre la sua idea rimane quella, perché poi tra l’altro ha fatto l’imprenditore, era l’unico imprenditore de sinistra, mi’ marito, quando ciaveva quaranta operai, del PCI era e del PCI è rimasto, ancora adesso litiga co’ tutti. No, nel nostro piccolo questo, però proprio, io j’ho dicevo pochi giorni fa a mio nipote, che se sta a fa’ tutte ‘e manifestazioni, carino, no-global, tutte ‘ste cose, j’ho detto«Bello de zia, io non ho mai fatto una manifestazione» Lui ogni volta me chiama«Ah zi’ , che fai vieni? vieni a que’a de la pace?» Figlie e madri Paola Spano. A proposito del viaggio di Tiziana prima del matrimonio volevo domandare com’era il controllo sulla vita affettiva, sessuale di voi ragazze, cioè c’era un occhio... dei genitori, si, e anche dei vicini, anche un controllo sociale... Tiziana. Ce n’erano quattro de occhi. Paola. Io, devo di’, non ero proprio controllata a vista, nel senso che io, quando all’età di quattordici ho conosciuto mio marito, lui era del Monte, e quindi ero io che mi spostavo perché lui praticamente ciaveva ‘sta comitiva, io il pomeriggio lo raggiungevo su al Monte però non è detto che se rimaneva lì nel quartiere perché molte volte s’usciva o insieme altri amici, altre coppie oppure anche da soli. E mia madre me diceva... «Dove vai?» «Eh, vado a famme una passeggiata al Monte», le prime volte ciandavo, non ce so’ andata sola, ciandavo co’ ‘n’amica, per cui lei pensava, insomma che andavo a famme una passeggiata o a trova’ altri amici... E poi, però dopo vabbe’ ha capito che insomma io ciavevo questo ragazzetto, perché poi anche lui quarche volta è venuto giù a Tiburtino e quindi je dicevo «Guarda, io l’appuntamento ce l’ho al Monte però poi esco, nun è detto che sto là» Però non è che ciò avuto un controllo troppo... perché io, anzi devo di’ che ciò avuto dei genitori, più papà che mamma, cioè mio padre m’ha sempre detto «… sai quello che devi fa’ , adesso ciai un’età che me sembri abbastanza matura, quindi, vojo di’, regolete te! eh, chi sbaja paga, insomma a ‘a fine. Perciò se tu non sbaji’ sicuramente t’andrà sempre mejo » dice «se tu sbaji poi un giorno certo ‘sta fiducia non ce ‘avrai» Io infatti, devo di’ che me lasciava anda’... Paola Spano. Ma per sbagliare, che cosa intendeva? Paola. Beh, sbaja’, sbaia’, ritrovamme co’ un regazzino, ecco quello, eh! «Perché, dice, sei ‘na regazzina te, cioè voglio di’, godete la vita» Io devo di’ che mio padre, mio marito è venuto a vive’ a casa mia ch’ancora non eravamo sposati, è venuto un anno prima del matrimonio, dormiva in cameretta con mio fratello perché aveva la stanza con lui, e mio padre, quando io poi j’ho detto che me volevo sposa’, lui m’ha detto «Guarda, se tu vuoi proprio sposarti fallo perché è una scelta tua, però sennò per me, se tu vuoi convive’, pe’ me nun ce so’ problemi» Per questo devo di’ che so’stati molto, molto aperti, cioè se io rimanevo a casa sola co’ Stefano, Stefano sarebbe mio marito, loro uscivano, nun è che se so’ fatti mai problemi cioè, nun ce controllaveno... Nadia. Avevano fiducia, insomma, si fidavano. Paola.Avevano fiducia. No, soltanto una cosa, mia madre me faceva ride’ perché mia madre un po’ più... «Mi raccomando, se vai nei posti appartati...» perché lei ciaveva paura invece delle persone magari che poteveno veni’ a guarda’... Eh, lei se preoccupava di quello, perché poi in effetti anche mio marito era giovane, lo vedeva insomma come un ragazzetto, nun è che lo vedeva come un uomo, vicino a me. Nadia. Io forse ciò avuto più libertà di tutti in questo, nel senso che, vivendo comunque da sola, con una nonna che sicuramente cioè non sapeva neanche che significava per lei ave’ ‘sta libertà sessuale, perché chiaramente veniva da un’esperienza in cui loro, i primi rapporti ce li avevano avuti dopo il matrimonio, quindi per lei era quasi scontato, non mi controllava, mi chiedeva solo la sera de non torna’ tardi a casa e di magari dirgli sempre dove andavo per non farla preoccupare, e basta. Mamma e papà in quel periodo dell’adolescenza non avevano proprio modo di controllarmi e neanche avevano... 187
cioè erano presi da altre problematiche, ecco la salute di mamma, un po’ per ignoranza,un po’ perché non ciavevano proprio il tempo. Quindi io ero in piena libertà e tutte le mie paure me le so’ vissute da sola perché poi non ne potevo parla’ co’ nessuno, perché mia madre che magari uno ce l’ha come riferimento adolescenziale, non ce potevo parla’ perché non... mia nonna ch’era tutta ‘n’altra generazione, ‘n sapeva manco che voleva dire, mio padre non era proprio il caso, quindi non ho avuto dei riferimenti. I miei riferimenti erano le coetanee, quindi si parlava di esperienze «Ma tu ch’hai fatto ? Ma tu che non hai fatto? Ma quando ve siete visti la prima volta, lui ch’ha fatto, ha cercato de toccatte, ha cercato de fa’ quest’altro?» cioè le esperienze tra di noi che io ero poi terrorizzata, tant’è vero che è diventata poi ‘na barzelletta, perché io è una delle prime esperienze che ho avuto, che so’ stata a contatto con un ragazzo e c’era ‘st’approccio e io ero terrorizzatissima, cioè pe’ me il rapporto fisico era un bacio, finiva lì, non sapevo neanche che c’era dopo e ‘sta cosa me terrorizzava, diventavo proprio un pezzo de legno. Quindi la prima volta che io me so’ incontrata con un ragazzo, non ero andata a scuola, avevamo deciso di fa’ sega, come se dice, no? e ciavevo tredici anni e mezzo, quattordici anni. Sono andata a questo incontro terrorizzata perché lui già qualche volta aveva tentato d’allunga’ una mano, con una tuta de jeans che ciaveva trentadu’ bottoni, ancora me lo ricordo, trentadue bottoni, il primo partiva praticamente dallo sterno e l’ultimo arrivava qui, e era contro qualsiasi tentazione perché uno ce pensa... anche perché erano difficili, tutti bottoni de jeans, poi, non puoi capi’, tutti ‘sti bottoni de jeans, sotto, la dolce vita, il body, di quei body che attaccati praticamente, è stata un’impresa! quando je l’ho raccontato a loro «Ma che sei matta? ma che fai?ma che qui, ma che... » gradualmente insomma ho perso le mie paure, mo’ non è che ve posso di’ tutto… Però poi invece ho avuto il problema contrario quando, intorno ai diciassette anni, diciott’anni, son tornata a vivere con i miei genitori: hanno cominciato a mettere limitazioni d’orario, cioè io a tredici, quattordici anni, rientravo tranquillamente mezzanotte, mezzanotte e mezzo, l’una, e nessuno mi controllava, nessuno mi diceva niente, nessuno aveva neanche la possibilità de fa’ un colpo de telefono «Sei viva, sei morta?». A diciassette anni invece volevano che io alle otto, otto e mezzo, tornassi a casa. E allora lì c’è stata anche, dovuto anche magari a un discorso caratteriale, però mi so’ ribellata di brutto rispetto a ‘sta cosa perché mi sembrava ‘n’ipocrisia, chiaramente, tu a tredici anni mi lasci sola, al Monte del Pecoraro, dove posso rientra’ all’una di notte, e poi magari a diciassette, diciotto, mi dici «Rientra alle otto e mezzo, perché sennò, a me mi dispiace, so’ preoccupata, e poi che pensano i vicini?» ma che me ne frega a me dei vicini? Però ecco, rispetto al discorso invece dell’educazione sessuale io so’ stata forse una delle poche che invece de apprende’ da mia madre, gli ho portato, nel senso che lei praticamente non aveva la minima idea di che cosa significasse un discorso anticoncezionale. Io un po’ con la sezione, un po’ a scuola, le varie ricerche che facevamo , ero espertissima di tutti i sistemi, anche sul discorso teorico, poi me interessava proprio ‘sto tipo de discorso, quindi m’ero informata su tutto, su le varie caratteristiche, i periodi, le cose e... ‘a spirale, il diaframma, le varie modalità… Praticamente mia madre che fino a quel momento aveva avuto rapporti con coito interrotto, l’ho portata io dal ginecologo a faje prescrive’ la pillola. Quando siamo andate noi dal ginecologo io gli ho detto al ginecologo «Prescriva qualcosa a mia madre perché sennò questa continua a fa’ il salto de’a quaglia» proprio così… io, prima d’ave’ un rapporto, so’ andata dal ginecologo, perché ero terrorizzata comunque de ‘sta cosa, m’aveva prescritto il diaframma, quindi avevo imparato ad usa’ ‘sto diaframma eccetera, e mia madre, quando stavo a casa sua, un giorno, dopo qualche tempo, ave’a trovato ‘sto diaframma e io so’ stata proprio diretta perché lei m’ha detto «Ma che cos’è ‘sta cosa?» io so’ stata due minuti così ferma a riflette’ «Mo’ che gli dico?» e avevo la mia amica Titti che eravamo sempre insieme, co’ Tiziana forse in quel periodo un pochino di meno, e, ciò pensato un attimo, ho detto «Perché devo racconta’ stupidaggini?» cioè, gli ho detto «Che preferisci? Che ti dico che è della mia amica Titti che me l’ha prestato perché non lo poteva tene’ in casa perché la mamma la controlla, o che ti dico ch’è mio?» Regina. Lei dice «Si, ma che cos’è?» Nadia. Lei s’è trovata, s’è trovata di fronte... non sapeva manco che cosa fosse, «Che cos’è?» m’ha detto, e io ho detto «Che preferisci?» quindi, a quel punto lei m’ha detto «No, no, dimmi quello...» «Allora, è un diaframma, mamma!» E più je parlavo, più lei sbiancava «E’ un diaframma, mamma! si usa come metodo anticoncezionale, si mette prima e si leva dopo» e da lì poi m’ha detto «Ma come fai a sape’ 188
tutte ‘ste cose?» e l’ho accompagnata dal ginecologo, con me, dove andavo…quindi aveva pienamente fiducia in me nel senso che non poteva pensa’ che io tornassi a casa in tre perché prima d’ave’ un rapporto ero andata dal ginecologo e ciavevo portato pure lei, quindi su questo era un problema proprio superato. Per lei erano le compagnie, quelle che potevano esse’ un problema, che magari ecco incontrassi persone che me portavano su ‘a cattiva strada o altre cose. Controlli da altre persone non ne ho mai avuti. No. Mia nonna non ci pensava proprio, era ingenua sotto questo aspetto... Riccardo Morri. E i vicini? Anche in maniera bonaria eh... magari un senso de protezione, proprio perché vivendo da sola così... Nadia.I vicini, no! assolutamente no, neanche in maniera bonaria, io vivevo sola, quindi chiunque poteva in qualche modo vede’ ‘sta ragazza, tredici anni, stava da sola... No, anche perché comunque forse dove vivo adesso magari c’è un rapporto più, come te posso di’, tra vicini... Monte si, ognuno stava a casa sua «Buongiorno, buona sera» Non c’era, non c’era invece il discorso dell’intervenire, capito, di familiarità... Paola Spano. Neanche da te c’era un controllo di vicini? Paola. Ah, no, no, no. Si, c’era magari qualcuna che je diceva «Ma che Paola s’è fidanzata?» «Ma che quello è il fidanzato de Paola?» però non è che poi giudicavano o mettevano bocca sulla cosa, no, no, devo di’, no. Tiziana. Io che ve devo di’, con un padre comunista, io chiaramente... Paola Spano. Controllatissima! Molto moralismo? Tiziana. Molto!... mia madre per esempio era una che, siccome papà diceva che alle sei del pomeriggio bisognava tornare a casa, cioè tutte le restrizioni che dava mio padre, per mia madre erano oro colato, cioè le rispettava lei e non riuscivi a farla ragionare sul fatto «Mamma, non è giusto per te, non è giusto per me, non è giusto per nessuno!» Paola Spano. Ah, perché valevano anche per lei? Tiziana. Si. Si, e mia madre ha cominciato un pochino, ecco mia madre, a parte il punto di vista sesso, ma proprio sulla… cioè mia madre ha cominciato a truccarsi quando io ho iniziato a truccarmi... e ha iniziato a parlare di comunismo, di femminismo, di sindacato, mia madre lavorava poi, eh! però fino a che io non ho iniziato... la sua prima manifestazione è stata con me, una manifestazione dell’8 marzo, a tredici anni. Paola Spano. Ah, perché tuo padre era comunista, ma lei in sezione non ciandava? Tiziana. No, mia madre no. Noi ci obbligava, ma mia madre in sezione c’è venuta dopo quando noi ormai... l’abbiamo proprio portata noi! perché lui si viveva questa cosa da solo, per noi era un obbligo, era un dovere, per mia madre, era una donna e ne stava fuori, io a quel punto ho detto «Scusa, mamma eh, ma te ‘nteressa? Vieni!» e mio padre devo di’ che all’inizio aveva detto «Ma che fai, dove vai co’ le figlie?» perché l’ultima era piccolina, noi ce ‘a portavamo dietro in sezione, mia sorella è cresciuta proprio così, però poi insomma lei ha cominciato un po’ a puntare i piedi su questo, ma sempre fino a un certo punto. Cioè noi ecco a casa da sole col fidanzato, ma neanche se...! anche perché invece noi ciavevamo una vicina ch’era un cane da guardia, perché lei noi un pochino cià cresciute perché mia madre lavorava, poi noi proprio si stava con le porte aperte, era tutta una casa con la vicina, e quindi dopo c’era pure questa cosa, lei ciaveva la funzione proprio di controllo, cioè mio padre «Mi raccomando, Silvana... » I primi ragazzi... per me è stato un dramma, cioè io so’ stata, m’hanno chiusa proprio dentro casa, il primo fidanzato. Che poi tutto s’è scatenato per una borsa, ve le ricordate quelle di Tolfa? Quello è stato il regalo per il mio compleanno, io avevo quattordici anni... mia madre mi disse «Glielo dobbiamo dire a papà, perché questo è un regalo impegnativo!» è stato l’unico regalo impegnativo che ho ricevuto da quel fidanzato e basta! M’ha incastrato quella borsa de Tolfa, perché l’ha detto a mio padre che ha detto «Per un anno non vi vedete, a quindici anni se ne riparla» per un anno non vi vedete è stato impossibile, perché poi insomma uno, pure se portavo a spasso mia sorella col passeggino, insomma uno se incontrava... Nadia. Anzi se portava spesso ‘sta creatura a spasso... Tiziana. Mia sorella ciaveva due rossi da bambina! però insomma poi vabbe’, invece la storia è andata avanti, però quindici anni, classico fidanzamento a casa, e io non potevo più frequenta’ nessuno, nel 189
senso non potevo avere amicizie al di fuori della sezione... io quando ho iniziato a fa’ la scuola infermieri vivevo ancora coi miei, però se telefonava qualcuno per i compiti doveva essere una donna, s’era un uomo mio padre «Chi è? Chi non è? domani lo dici al fidanzato che questo ha telefonato, che vole?» Paola. Io ‘n ce ‘o facevo tu’ padre così, sa Tizia’? Tiziana. Mio padre, mio padre è stato terribile... cioè, il giorno che io ho detto a mio padre «Guarda» ormai lavoravo, c’eravamo comprati la casa in cooperativa, ho detto «Guarda, papà, ci sposiamo» ma perché poi, anche il mio fidanzato, perché era dura dire «Usciamo alle quattro la domenica, papà, dopo il cinema possiamo andare a mangiare una pizza?» «L’importante è che alle otto sei a casa» cioè «Papà, dove me la prendo, la pizzeria a taglio, perché come faccio a sta’ alle otto a casa?» ed è stato «alle otto a casa» fino a quando j’ho detto «Guarda, io mi sposo»... e lui ha detto «Io non sono d’accordo perché lui non è il tuo tipo, lui non fa per te... » però il «lui non fa per te» non è che m’hanno mai dato la possibilità di frequentare altri. E poi infatti dopo, la separazione e il divorzio, allora uno dice «Forse, se t’ave’o lasciato frequenta’, te lo ricordi quel ragazzetto che ti veniva... » ecco. E queste so’ le cose, però insomma è stata veramente dura per me... Paola Spano. E loro alla separazione come hanno reagito? Tiziana. Hanno reagito... male, nel senso che poi, vabbe’, s’erano affezionati anche a lui, poi c’era un bambino di tre anni, perciò è stato proprio veramente un dramma per tutti e... io consolavo tutti, perché poi alla fine tu diventi quella che deve... però poi, la reazione loro è stata quella di dire «Va bene» Hanno cercato una casa più grande al Monte perché volevano che io tornassi a vivere con loro. Ho detto «Fermi tutti! cioè, adesso basta, a venticinque anni dico no, basta!» e no, io me ne sono rimasta a casa con mio figlio, col mio lavoro, ho fatto tre lavori contemporaneamente, lavoravo in ospedale, in ambulanza privata, in clinica privata, però mi sono mantenuta la casa, me la sono tenuta, me la sono pagata, mio figlio e tutto. Le vacanze, lì poi hanno iniziato proprio ad essere delle vacanze... cioè io lì, si, io devo dire, la mia proprio indipendenza totale, a venticinque anni. Ho mandato a quel paese tutti, si, ma anche la famiglia «No, devi vivere con noi perché ciai questo figlio, chi te lo cresce?» «Me lo cresco io!» e ho vissuto per tre anni e mezzo, io e mio figlio, da soli... infatti mio figlio, il grande, se lo rimpiange quel periodo, perché dopo c’è stato il terremoto a casa nostra, e quindi ogni tanto dice «Ma’, ti ricordi... eh? quand’eravamo soli?» insomma è così, io proprio l’indipendenza, a venticinque anni. Da quel momento in poi, guai a chi me la tocca. Non mi concedo più di tanto neanche per i figli, c’è un limite pure per loro... è stata la prima cosa che ho detto al mio secondo uomo «Adesso vieni qua in questa casa a vivere, però sappi che... io ho mille cose da fare, le camicie te le stiri, te le lavi, sennò c’è la tintoria e poi... » il controllo su di me non c’è mai stato, dopo quel periodo Regina. Allora io praticamente sono la terza, prima più grandi ci sono due fratelli maschi, una famiglia supermaschilista ancora adesso, Paola ‘i conosce i miei fratelli, so’ ancora tremendi Paola Spano. Comunisti? Regina. Si, no hanno cambiato pure loro, si, erano mascherati da comunisti, ma so’ sempre nazisti, specialmente quello più grande, ‘o dico proprio, è un nazista, cioè uno che s’è permesso de dire delle cose ai miei: io ciò due nipoti che non stanno bene, di cui uno cià la distrofia muscolare, e un altro cià un ritardo cognitivo, una forma d’autismo, uno è di un fratello e uno è di un altro fratello, e lui s’è permesso... cioè negli anni, perché mo’ dovevo parlare di quando ero più piccola, però adesso già so’ passata a grandi co’ i figli, e lui s’è permesso de di’ che in fondo i soldi pe’ ‘a ricerca, i soldi da Teleton, tutti sordi sprecati perché in fondo è giusto quello, che devono anda’ avanti quelli che cianno ‘e teste, no quelli che... Ecco, quand’uno parla così, nun me dite ch’è comunista, perché se ancora vota comunista s’è mascherato. E lui è uscito fuori, dopo una decina d’anni, che sia de destra, ma lo è sempre stato, io je ho detto... Questo è il maggiore. Sette anni più de me. Quindi io ciavevo ‘sto fratello maggiore che, quando ciavevo dieci anni, dodici anni, io ero abbastanza precoce, insomma ero abbastanza prosperosa come tipa, non me se poteva accosta’ nessuno ma nemmeno! io poi ero amica de tutti, perché lui arrivava, pinchete panchete, me pistava de botte, cioè provava a pistarmi de botte perché poi io me giravo, certe ombrellate, insomma! me so’ sempre ribellata. Allora io penso d’esse’ stata fortunata nel carattere, perché me so’ sempre ribellata, da quando ero piccola , a ‘sti due maschi, a 190
mio padre e anche a mia madre, che mia madre ancora oggi è ‘na sottomessa, di mio padre e di mio fratello, capito, quindi lei è ‘n’altro maschio, cioè un’altra contro di me perché il mio carattere e il mio essere ribelle, e il mio essere comunque per me unica, a lei gli dava fastidio. Ecco, mi sono salvata dall’aggressività dentro ‘sta famiglia, perché se semo sempre menati tutti quanti, e so’ uscita fuori insomma così... Allora io facevo ‘e prove, no, magari dicevo «Stasera devo fa’ due ore de straordinario» si, si potevano fare, potevo torna’ pure a casa a ‘e sette, però «Vado al cinema» non si poteva. devo dire che da ‘sto punto de vista, più che erano duri era il fratello più grande e mia madre, s’erano proprio alleati. Poi a quattordici anni me veniva dietro un ragazzo che poi è diventato il mio ragazzo, ott’anni più grande de me, lui aveva ventidue anni, era un amico di mio fratello, era andato a fa’ il militare ‘n anno e mezzo, non m’ha visto pe’ un anno e mezzo... Quando m’ha rivisto, dopo un anno e mezzo manco m’ave’a riconosciuto, ho detto «Ma io so’ Regina» questo «Regina?» ero trasformata. Quindi lui, mio fratello gli è cresciuta lì la gelosia, ancora peggio, perché questo me stava sempre intorno... E mi fidanzai con questo ragazzo, l’unica nota buona, perché poi ragazzo carino, bravo, insomma m’ha sempre voluto bene, ancora adesso me vuole bene, quando me vede ancora adesso se vede che me vuole bene. E quindi mi sono fidanzata, tra tutte ‘ste storie… Eh, si opponeva mio fratello, più che s’opponeva non era d’accordo... ma lui s’è sempre opposto a tutto, quindi qualsiasi cosa io facevo, lui nun je stava bene. Allora mia madre ha cominciato a di’ «Dove vai? E solo tu fai così, e solo tu fai cosà, e solo eh... » fino arriva’ allo scontro, proprio scontro, fisico, io un giorno me so’ proprio menata co’ mio padre… perché sempre l’ennesima, sempre lui fomentato da mia madre «Tu’ fija, tu’ fija, tu’ fija...» perché mi’ padre me diceva, come diceva el padre de Paola «Quello che fai te ritrovi» e io de ‘sta cosa qui ne ero cosciente perché io me ricordo che a quindici anni tutte le amiche mie, io tutti i mesi andavo a porta’ analisi de ‘a gravidanza , sempre a nome mio, quindi diranno «Questa?» ma non ereno ‘e mie perché ciavevo tutte le amiche tonte, no? Ma io le ho portate all’AIED, io andavo a lavora’ però me documentavo uguale perché insomma facevo parte de quer mondo, poi ecco io a quattordici anni già ciavevo il motorino, ecco, ‘sti cenni de indipendenza ce ‘ho sempre avuti. E io me ricordo l’analisi cliniche, che tutti i mesi stavo là «Bruschi! Bruschi!» ma tante vorte, dopo quindici giorni arrivavo, «Bruschi!»... o compra’ anche i profilattici, ‘i compravo io, pure quello, andavo io, perché ‘n me vergognavo, tanto a me nun me servivano... Nadia. Io pure me ricordo che a me, c’era una cosa de sfida questa.... me piaceva proprio guarda’ la faccia della commessa quando a quattordici anni dicevo «Mi dai una scatola de profilattici?»... e alzavo pure la voce pe’ famme senti’ da ‘e vecchiette che stavano intorno… Regina. Si, si, io uguale! E insomma, niente, quindi c’era ‘sta cosa. Nel frattempo poi ho cominciato pure io a avere i miei rapporti, però io me so’ presa subito ‘a pillola perché ‘n’ero cretina come quest’altre, ho fatto com’ha detto lei, so’ andata subito dar dottore, me so’ fatta da’ subito una pillola che poi ero piccola perché ciavevo quindici anni e mezzo, non è che faceva bene ‘a pillola a quindici anni e mezzo... Però me l’hanno data e me ‘a so’ presa, insomma. Ho provato anda’ a un corso co’ tutte que’e cose che diceva lei, ma ciò rinunciato… Quindi me so’ sempre organizzata da sola. Il rapporto co’ la madre nun c’era, perché con mia madre nun... non è che lei non era all’altezza di capire, perché mia madre io ‘a reputo una donna tanto intelligente, nun voleva! nun je ‘nteressava. Era un problema che lei ‘n se voleva prende’.Perché lei se ciavevo un problema io, poi cominciava a di’ «Guarda che ‘o dico a tu’ padre» come ‘na sfida, invece mi’ padre se je andava a di’, mi padre faceva «Ma che me frega a me!» Poi io li ho fatti passa’ pe’ parecchie esperienze strane in quegli anni lì, tipo a sedici anni me so’ fatta sette giorni de galera pe’ ‘n’oltraggio a ‘n carabiniere ‘n borghese... Perché, si perché io stavo a casa, era de sabato, dove’o usci’ col mio fidanzato ch’era ‘sto ragazzo che te dico, lui era ritornato dalla caccia e se ferma un 127 rosso co’ tre dentro, in borghese, e vedo che stanno lì a chiacchiera’ co’ lui, uno ‘o prende, je dà ‘na botta, insomma fanno de’e cose che nun capivo. Però io sapevo ch’erano carabinieri in borghese, perché giravano quel periodo, so’ uscita de corsa, insomma poi a uno j’ho dato un cazzottone, j’ho rotto er setto nasale, questi se so’ messi a spara’ per aria e cianno portato a me a Rebibia e a lui a Regina Coeli. Sette giorni, poi cianno fatto un processo per direttissima e... no, io so’ stata assolta perché piccola, perché poi lavoravo ‘nsomma così; lui pure l’hanno assolto però j’hanno tolto il porto d’armi, lui era cacciatore, j’hanno tolto il porto d’armi, pe’ cinque anni non ha potuto anda’ a caccia. Quindi avevano passato ‘st’esperienza... l’anno prima m’ero ustionata, cioè ogni tanto ne 191
combinavo qualcuna... io me ricordo quando mia madre dentro a ‘a borsetta tirò fuori ‘e pillole «Queste de chi sono?» io no’ ‘o so se ciavevo sedici anni e mezzo, sedici. Dato che lei parlava sempre de ‘e disfunzioni, quand’era ragazza ciave’a ‘e disfunzioni, io ho detto «Ah ma’, guarda ciò ‘na disfunzione ovarica... m’hanno dato ‘ste pillole». Poi me ricordo... mia sorella, je portavano la pillola anticoncezionale loro, cor bicchiere mi’ padre ‘a sera «Tie’ » perché ciaveva ‘a disfunzione ovarica, cioè, capito?... lei è sempre stata ‘n po’ problematica fin da piccola. Sempre stata silenziosa, e chiusa, per me è sempre stata ‘n impiccio mi’ sorella... più piccola, tre anni, solo tre anni. Però non è mai stata proprio bene bene da piccola, lei era gracilina e invece io che crescevo tutta bella eh, era un affronto capito? quando , che ne so, mi’ madre je dicevano «Madonna, quant’è bella Regina» mi’ madre se innervosiva... perché l’altra no’ ‘a nominavano mai. Io poi, quando so’ cresciuta, me ne so’ resa conto pure io, però nun me ricordavo perché mi’ madre ce l’ave’a co’ me, dice «Che, questa? questa è ‘na fija de ‘na bona donna» ce l’ave’a sempre co’ me, me disprezzava sempre. Paola Spano. Senti, e un controllo sociale dei vicini come...? Regina. Si, si, come dici tu, c’era proprio il vicinato, no, anche perché c’erano tutte figlie della mia età. Allora mia madre faceva il paragone «Guarda Celestina! guarda quella! guarda quell’altra» face’a tutti ‘sti discorsi. Allora, io il fratello più grande ce ‘ho sempre avuto nemico, del tipo «‘N’a fate usci’», qua e là, invece l’altro, no, m’ha sempre aiutato. Perché poi a me le cose mi piaceva farle alla luce del sole, cioè io ‘n te devo di’ ‘e bugie, io vado là e vado là, se te dico che a quell’ora ritorno, ritorno, se ciò ‘n problema, te telefono e tu te devi prende’ quello che te dico io, perché se so’ grande p’anda’ a lavora’ sarò grande pure p’anda’ ar cinema insomma. E ‘nvece mi’ fratello che gironzolava je cominciava a di’ a mi’ madre «Stai a rompe’ le scatole a lei, che te credi che io ‘n’e vedo l’artre?» e cominciava a di’ che vedeva una sott’a un muro, una sotto, capito? quindi c’era ogni vorta ‘sta storia dentro casa, però mi’ fratello dice «Lasciala perde’ lei, lasciala perde’, che se sa comporta’ » Quindi io poi ho cominciato, finché ero fidanzata co’ Amleto, si, uscivo pure, poi quando me so’ lasciata co’ Amleto, ch’era, sedici anni e mezzo circa, ho cominciato a usci’ tipo, io sola dodici maschi, tutti i amici de mio fratello, e io stavo sempre insieme a tutti ragazzi, andavo al cinema tutte ‘e sere, al campeggio… Sostenere lo sguardo Paola Spano. Ma, diciamo, Celestina e tutte le altre che vita facevano? c’era libertà per le ragazze? Regina. Beh, Celestina, caruccia, a diciott’anni s’è sposata e... no, per esempio, che ne so, ‘na cosa, a Tiburtino c’erano due marciapiedi, no? c’era ‘n marciapiede ch’era, diciamo, per le donne e l’altro marciapiede era dei maschi, perché c’era il bar, la bisca... Io so’ stata veramente una de’e prime che me so’ stufata, attraversavo alla fontanella e dicevo «No, io devo passa’ dal marciapiede dei maschi» anche perché... non era obbligatorio, però ‘e ragazze non sostenevano ‘o sguardo. A me mio fratello, Guglielmo, me diceva «Tu devi sostene’ ‘o sguardo de’e persone, nun te fa’... quando stai sull’autobus se quarcuno te guarda, tu ‘mparate a sostene’ ‘o sguardo» quindi io ero aiutata da lui, capito? allora erano sfide per me. Allora andavo al bar a prendeme le cose al bar, mica se faceva, eh... io arrivavo «Me fai ‘n bicchiere d’aranciata?» Ferma lì, ch’aspettavo... Paola. Poi lì era un bar veramente de tutti uomini Regina. Tutti uomini. Cioè poi gli stessi uomini, me ricordo, passavi sotto loro, te facevano tutti «FFF» (simula il fishio) magari dall’altra parte manco te guardavano, però quando je passavi... Eh si, c’era tutto un comportamento strano, tipo quello de Quark... cioè tre metri de distanza, erano tutt’altre persone, guarda certe scene! E io ciavevo questa de cosa, si! Io lo do-ve-vo fare. Quando mio fratello me diceva «Guarda, che ‘e donne ar centro, vann’al bar e se prendeno ‘e cose!» io subito so’ partita «Oh, se ‘o fanno al centro, ‘o faccio pure io!» O se un uomo me guardava, io, anche se dentro diventavo rossa... o fuori pure, però sostenevo ‘o sguardo fino a che nun l’abbassava lui. Nadia. Io invece, quest’aspetto, invece no. Per tanto tempo ciò avuto’sta difficoltà de non riusci’ a sostene’ lo sguardo. Regina. Però a me, a me m’ha aiutato lui! Nadia. … ero come lei, caratterialmente ero molto ribelle, rifiutavo, però non riuscivo invece, c’era una timidezza interna, forse perché non ciavevo nessuno con cui relazionamme come te co tuo fratello, e mi ricordo, ecco, ‘sta particolarità che io comunque per carattere ero sfrontata, però non riuscivo a 192
sostene’ lo sguardo. Se andavo al bar, a prende’ il latte «Che me dà un litro de latte?» a testa bassa, comunque. Non riuscivo... perché erano tutti uomini oppure... entravo, mi sentivo osservata ma non guardavo direttamente, compravo ‘a roba a la cieca La conquista del nuoto Nadia.La piscina, andavo a... su via di Pietralata, ai Rari nantes che c’è ancora, ci so’ andata da piccola, poi ci so’ tornata da più grande... si, in terza media ho cominciato a andacce Regina. Eh, me vie’da ride’, che noi andavamo in piscina, mia madre diceva ch’era meglio che non sapevamo nuotare, almeno non ciallontanavamo al mare Nadia.Eh, hai capito? invece mia madre faceva il discorso contrario perché lei non sapeva nuotare e aveva paura. Regina. Che generazioni diverse, no? Mia madre «E’ meglio che non sapete nuotare!» Io me so’ imparata a diciott’anni perché me so’ segnata in piscina da sola. Nadia. Io da sola no, però l’ho deciso io comunque d’andacce, perché mio fratello già c’andava da prima... il medico aveva consigliato a mia madre di mandarlo perché lui era un po’ gracilino, ciaveva ‘ste spalle strette e quindi lui doveva, io non era importante, tutto sommato perché si vede che la donna non dove’a ave’ ‘ste spalle giustamente, quindi l’uomo… era giusto, e mentre da piccoli invece me ce forzavano a imparare a nuotare, mio padre sapeva nuota’ benissimo lui, era convinto che siccome sapeva nuota’ benissimo lui, a noi bastava che ce buttava in acqua, era semplice... Questo in Abruzzo perché comunque l’estate noi, quando chiudeva la scuola, andavamo in Abruzzo dai miei nonni e lì... loro venivano il sabato e la domenica. Venivano con il treno quando non avevano ancora la macchina, e si stava lì intorno, si facevano escursioni fuori del paese, fino alla montagna... e poi al lago, e lì ce buttava dentro tranquillamente, così, via, impara a nuotare, come i pesci! Così! E io ero terrorizzata, quando lui entrava in acqua, io lo guardavo da lontano, m’allontanavo, perché avevo paura che mi ributtava sempre in acqua... Io comunque lavoravo, andavo a scuola, facevo tutto pe’ conto mio, vivevo pe’ conto mio, appena arrivata da loro, l’estate avevo deciso di anda’ in vacanza in un campeggio con il fidanzato che ciavevo in quel momento, ch’era il mio primo ragazzo effettivo... mio padre m’ha detto «Se tu esci, non rientri più! se tu vai in vacanza con questo ragazzo non rientri più». E io con molta tranquillità ho detto «Vabbe’ quando tornerò dalle vacanze! Tanto, me so’ arrangiata fino adesso! che cosa me può succede’ più de questo, dovrò continua’ a arrangiamme» Quindi ho preso il mio bel zaino, ciò messo dentro tutte le mie cose e siamo andati in Puglia, a un campeggio. Poi quando so’ tornata, non li ho chiamati, zero proprio, non li ho chiamati né al telefono né niente, solo mia madre quando sapevo che non c’era mio padre. Quando so’ tornata da ‘sta vacanza «Bella de papà! Perché non hai chiamato?» quindi si vede che ciaveva avuto tutto il tempo pe’ medita’ ‘sta reazione che ciaveva avuto. E io lì ho deciso d’anda’ in piscina e impara’ a nuotare, perché ero andata su ‘sta vacanza, me ricordo, senza saper nuotare né niente, però era talmente tanto l’interesse che avevo pe’ il mare, pe’ visita’ ‘ste cose che veramente da deficiente, m’ero buttata al largo da uno scoglio in Puglia, senza saper nuotare con le pinne e un materassino al seguito… io e ‘sto ragazzo… mi son buttata, ho visitato tutte le grotte che si potevano visitare, a nuoto con le pinne, attaccata a ‘sto materassino che se poco poco ‘sto materassino se bucava io ero morta. Quanno so’ tornata ho detto «No, forse è il caso che magari lascio sta’ il materassino e me trovo quarche altro sistema». E me so’ iscritta a un corso di nuoto a Pietralata... Mi so’ iscritta al corso di nuoto e ho imparato a nuotare. E andavo in piscina, inizialmente da sola, poi con la mia amica Tiziana, non lei, un’altra, Titti, e ritornavo al Monte alle nove e mezzo, perché ciandavo la sera perché io comunque il pomeriggio lavoravo, e ritornavo la sera alle nove e mezzo e in giro c’erano soltanto il bar aperto e tossici. Quindi io mi travestivo da maschio, collo zuccotto de lana blu, tutta cappotto, giaccone, sembravo un maschiaccio e passavo in mezzo ai palazzi, non alzavo mai lo sguardo, se qualcuno me chiedeva quarcosa saltavo, pe’ ditte, però tiravo dritta, alle nove e mezzo era proprio un dormitorio, ‘n c’era nessuno in giro, soltanto i tossici, il bar aperto co’ qualche uomo... Tra Tiburtino III e Trastevere Alessandra. Ho fatto le scuole medie a Colli Aniene, in una scuola annessa all’Istituto d’arte, c’erano 193
delle materie inerenti al disegno, al plastico ornamentale, che appunto erano propedeutiche per poter fare una scuola d’arte. Io penso che sono capitata lì per caso, ma lì ho capito che avevo delle qualità in questo senso che però… non credevo che potevano essere il mio futuro perché comunque, essendo di una famiglia modesta, finiti gli studi, quelli primari, quindi il liceo, il primo pensiero è quello di essere indipendenti, di essere liberi, di diventare grandi e di lavorare e ho lasciato da parte il disegno, la parte più creativa ch’era in me per seguire la mia amichetta che aveva scelto di fare la scuola per il turismo. Allora io ho detto «Beh, la faccio pure io, perché tanto è bello viaggiare, è bello conoscere le lingue» quando si è piccoli non si sa bene quello che si vuole fare e i miei genitori mi hanno sempre sostenuto, mi hanno accompagnato, però loro, naturalmente, non avendo esperienze in questo senso, non mi potevano dare molti strumenti. Ho fatto cinque anni di scuola all’Istituto tecnico a Tor Sapienza, ho fatto altri corsi sempre inerenti al turismo e poi ho cominciato piano piano a pensare «Va bene, ma io che cosa voglio fare da grande?» e ho iniziato una scuola di grafica pubbli... «illustratrice grafica» e lì è rinato tutto questo fuoco che io avevo dentro, quest’amore per il disegno, e infatti il mio professore mi diceva «Guarda, tu sei brava, devi continuare» La coincidenza è stata che ho avuto anche l’opportunità di entrare in un’agenzia di viaggi e quindi d’iniziare a lavorare e ho dato la priorità a questo, ho accantonato il sogno e per più di quattro anni ho lavorato. Però è stato qui, lavorando ho capito che questo non era quello che volevo dalla mia vita e quindi, a venticinque anni ho detto «Adesso io ricomincio da capo». Mi sono licenziata e ho iniziato di nuovo a studiare, ho studiato restauro, per due anni, perché ho pensato che mi potesse instradare vicino al mondo dell’arte, però avendo una professionalità, quindi sempre vicino a una figura professionale e di lavoro. E ho iniziato a lavorare come restauratrice e ho fatto diversi cantieri, è stato molto molto bello. Ho lavorato al Pantheon, ho lavorato qui nel centro. Quando ho iniziato a lavorare a contatto proprio con l’arte, con le opere d’arte, frequentando altri tipi di persone, ho cominciato a uscire completamente dal quartiere... il mio lavoro, le mie aspirazioni, mi hanno portato fuori, cominciavano a esserci degli orari diversi, il lavoro concentrato in determinati periodi, poi in altri periodi si lavorava meno, insomma un tipo di vita diverso dal lavoro di ufficio, con gli orari fissi, casa, lavoro, palestra, e invece è cambiato tutto, con mia grande gioia!. E quindi le amicizie lì a Tiburtino III non le ho più di tanto coltivate... ho seguito altre strade. Contemporaneamente ho iniziato a studiare pittura veramente, perché… ho capito poi mano a mano con l’esperienza, che il restauratore, si, stai a contatto con le opere d’arte, hai a che fare con i materiali, è molto bello, ma non è un lavoro creativo, sei un tecnico, un tecnico e non hai niente a che fare con la creatività. E quindi ho iniziato a studiare pittura, il pomeriggio; la mattina lavoravo e il pomeriggio andavo a scuola, e sono stati tre anni meravigliosi perché facevo queste lunghe passeggiate da largo Argentina più o meno dove lavoravo, in diversi posti, diversi cantieri, fino quasi a piazza del Popolo, queste lunghe passeggiate in cui meditavo la mia vita e dicevo «Ah, come sono felice di aver fatto questa scelta!». E quindi, niente, ho fatto l’Accademia di Belle Arti e ho concluso tra virgolette gli studi, perché un mio sogno è quello di fare la specializzazione a Londra… Ecco perché è nato questo incontro, perché, io incontrando Daniele, lui mi ha parlato, dice «Noi stiamo facendo un documentario su Tiburtino III» allora io gli ho detto «Beh, guarda c’è la mia mostra ch’è ancora aperta ch’è proprio intitolata Tib.3» perché io da qualche anno a questa parte sto in qualche modo utilizzando il mio linguaggio, i miei strumenti, la mia arte per parlare di me stessa.... quello che fa l’artista è di mettersi a confronto con l’ambiente che lo circonda, di mettersi in relazione, è uno scambio e per me è stato questo: il mio strumento per capire l’ambiente da cui venivo e per poter instaurare un dialogo è stato appunto la mia pittura perché... la mia reazione era stata quella di distacco, perché io sono voluta andare via... nascere e crescere in una periferia è come se ti porti appresso un segno perché soprattutto quando riesci a confrontarti con il resto... in questo caso, della città, un microcosmo, perché poi Roma è un’altra provincia, cioè un altro piccolo luogo in confronto al mondo, e quindi io percepivo un disagio... questo è nato quando io ho iniziato ad andare alle scuole medie a Colli Aniene, allora sicuramente te l’avranno detto altri ragazzi, a Colli Aniene si sentiva... allora per la prima volta mi sono resa conto «Vabbe’, allora c’è un differenza, perché io vengo da Tiburtino III qui a Colli Aniene, eppure è a cento metri di distanza, perché è così diverso? perché mi sento così, come dire... in torto di qualcosa, perché mi dovrei sentire inferiore a loro, a quegli altri ragazzi che abitano qui a Colli Aniene, che differenza c’è?» quindi questo malumore 194
cominciava a formicolare dentro, ed è qualcosa che comunque io mi sono portata sempre dietro; e la prima reazione è stata proprio quella del distacco. Ma con la maturità ho cercato di riappacificarmi con il mio ambiente attraverso la pittura, ho cercato di utilizzare il mio linguaggio per mettere una misura di bello in quell’ambiente che ho sempre visto negativamente. Allora... rapporto col mio quartiere c’è sempre stato e... in qualche modo si è manifestato come lavoro concreto quest’anno con questa mostra, però anche durante l’Accademia. Quando ad esempio i professori davano dei temi da svolgere la prima cosa che ho fatto era... proprio all’inizio di via Mozart, c’è un calzolaio che se tu entri, vedi che tutto è rimasto immobile, la polvere inclusa, dagli anni Ottanta quando sono state date le case, no? che quand’ero piccola «le case nuove! le case nuove!», allora dove abito io adesso è dove abitavano i miei nonni, che io abitavo insieme ai miei nonni... quand’ero piccola io andavo a comprarmi le scarpe in questo calzolaio, a aggiustare le scarpe con mia madre e tutto è rimasto intatto, e quindi il primo luogo d’indagine è stato questo piccolo calzolaio; io sono andata da lui e gli ho detto «Senta, io vorrei fare delle foto, sto facendo un lavoro all’Accademia di Belle Arti...» e quindi sono andata lì a fare delle fotografie, queste fotografie poi son diventate dei quadri, sono diventate delle incisioni e lui... infatti avrà pure pensato «questa è matta» Dopo di che comunque ho continuato a accumulare, a collezionare immagini fotografiche del... del posto. Infatti, come ti dicevo per telefono, io ho centinaia e centinaia di fotografie, da qualche anno a questa parte, che poi sono diventate appunto questa mostra. Questa mostra è un tema molto molto ristretto ed è esclusivamente quello che vedo dalla finestra di casa mia. Infatti il primo quadro che ho fatto s’intitola Dalla finestra perché mi piace osservare quello che succede, i colori, i cambiamenti, perché tutto il cortile si è modificato nel tempo, hanno buttato giù gli alberi. E si, vivo un po’ un conflitto perché... all’inizio appunto una voglia di evadere, di andare via, sono stata anche fuori, a Londra, dopo che ho finito la scuola, però nello stesso tempo c’è la mia radice, i miei genitori, i miei nonni… i miei nonni sono venuti a Roma negli anni... sono quarant’anni, quindi quando c’erano le prime casette piccole, negli anni Cinquanta, i miei genitori sono cresciuti a Tiburtino III e io anche, quindi anche se c’è in un certo senso un odio ... perché mi ricordo il malessere che io ho avuto, quando ero piccola, quando ho cominciato a capire che c’era una differenza tra me, tra noi di Tiburtino III, tra me e gli altri, perché io mi vergognavo a dire... tutti quanti ti diranno «Ah, perché io mi vergogno a dire che sono di Tiburtino III» perché sembra che ciai il marchio. Adesso fortunatamente non è più così perché la città si è talmente espansa che adesso Tiburtino III è diventato parte integrante della città, ciabbiamo la metropolitana sotto casa, e non è più così, però... mia madre... è un’eredità che si porta, e io ho fatto del tutto per cercare... di migliorarmi, di apportare qualcosa di buono... in questo luogo… c’è comunque un legame, un legame molto forte... Allora vedi, qui ci sono le tele che io mi preparo e... quindi l’esperienza della scuola di restauro mi ha dato questa dimestichezza con i materiali. Questo è il cataloghino della mostra... «Racconto l’ambiente che mi ha cresciuta, formata; la visione dall’alto, distaccata, manifesta un disagio rispetto a quell’ambiente, necessità di distanziarsi, ma cerco di trovare anche il bello in in quello spazio…» sono le visioni delle due finestre di casa mia che sarebbero... si, est o ovest. Allora questo è stato il primo in assoluto. Era una domenica d’estate e io stavo facendo colazione, e mi colpisce una scena: c’è questo gruppetto di ragazzi che stanno sempre lì fuori, una comitiva e fanno un po’ di tutto, e c’erano questi due ragazzi vestiti di bianco ed erano bellissimi, in qualche modo erano eleganti ma, a loro modo, molto curiosi, quindi questi due vestiti in bianco, mentre l’altro gruppetto di amici, tutti un po’ scaciati, vestiti insomma normale… ho fotografato questa scena e... ho fatto questo bozzetto e da questo è nato tutto un discorso che ha portato a una ventina di piccoli pezzi … ecco per esempio questi ragazzi che... si accavallano l’uno sull’altro, per fare cosa? Non si sa, io lo so però non ve lo dico... ecco, questo qui magari, questo è il bozzetto piccolo e sono dei signori che stanno seduti là fuori, sempre, tra il cemento, cioè quella è una strada anonima dove c’è il garage, che pure quella è una discarica abusiva e poi c’è, la chiamano una bisca insomma quella lì, si... E’ una bisca! penso. Penso sia il retro del bar, ci stanno dei signori lì seduti a passare il tempo, giocando a carte. Allora però mi colpiva la disinvoltura di questi signori seduti in un luogo così… nel grigiore totale, tra scritte... dove assolutamente non c’è nulla, però con un grande relax, quindi c’è questo, questo contrasto, su cui mi piaceva riflettere. La mia prima comitiva stava sotto il porticato, un portico in mezzo al grigio, l’ambiente intorno non offriva niente di... bello. E quindi sto cercando di trasformare questo «niente di bello» dello spazio in 195
qualcosa di bello... se, insomma se ci riesco, non lo so. Mi hanno detto che sono molto tristi questi quadri... molto solitari… guarda, io sono consapevole che questi lavori sono un po’ difficili perché... io non sto puntando sul bello, sul, come posso dirti, ruffiano, ma sto cercando di andare in fondo… L’idea di Tiburtino III è una idea in evoluzione perché... perché, come ti ho raccontato, è molto cambiata da quando ero piccola e lo vivevo solo come conflitto, invece adesso lo vivo come risorsa. E’ venuta qui un po’ di tempo fa una... un’insegnante di pittura, una curatrice d’arte a cui sono molto piaciuta, è venuta a vedere la mia mostra e mi ha detto «Ah, ma sei proprio pittrice pittrice!» è venuta qui a studio e le ho raccontato da dove vengono questi lavori; allora le ho raccontato di questa mia... visione problematica, rispetto all’ambiente, che c’è stata questa spinta ad uscire dal quartiere... e lei mi ha detto «Ma guarda, c’è mio marito che ha uno studio proprio lì a via del Frantoio» dice «un posto molto bello.Vedi, dice, tu vai fuori, invece poi ci sono gli altri che ricercano questi luoghi» e quindi in questo momento è cambiato il mio concetto del quartiere, in qualche modo è più positivo Riccardo Russo. Ma dovessi dire due parole sul tuo quartiere, all’estero, diciamo, a chi non conosce niente di niente, come lo descriveresti? Se uno ti chiede «Ma che cos’è Tiburtino III?» E’ ... in definitiva un quartiere come un altro, è una periferia, è una delle periferie, però io ne parlo sempre del mio quartiere, soprattutto col lavoro che sto facendo, ne parlo continuamente e molte, molte persone che vengono da fuori non lo capiscono, non si rendono conto perché... gli altri da fuori lo vedono come un quartiere qualunque, un quartiere normale, non c’è il back-ground che ho vissuto io che ci sono nata e che ci sono cresciuta; quindi se io dovessi, lo descriverei come un piccolo quartiere ch’è un po’ come un paese, dove tutti si conoscono, che ha un suo linguaggio anche, dove le persone parlano in un certo modo, che ha dei suoi tempi, che ha delle sue leggi non dette, quando c’è un rumore, tutti sanno magari da dove viene questo rumore... insomma voglio dire, è un piccolo pezzo di mondo molto familiare, molto… aspetta, non mi viene il termine, si dice: la metropoli non è a misura d’uomo, questo quartiere a suo modo è a misura d’uomo perché è una piccola comunità, che però appunto nasce da un significato negativo, di emarginazione perché a Tiburtino III sono state relegate… insomma le persone cattive, le persone povere. Tiburtino III come Garbatella, come tanti altri quartieri di periferia, e quindi questa eredità si è tramandata e comunque il quartiere ne porta il segno. E’ un quartiere chiuso, non è un quartiere molto aperto, però la cosa bella che sto notando, che sto vivendo è che si sta aprendo, si! Paolo Barberi. ... visto che tu te ne sei voluta andare... Sono dovuta andare, adesso io vivo a Tiburtino III, io non me ne sono andata. Io si, si, si, sono residente lì e... io forse sono la persona meno indicata… perché appunto ho chiuso un po’ i contatti con i miei coetanei... cioè sono rimasta in contatto con alcune persone, adesso c’è il mio dirimpettaio, che era il mio compagno di periferia, si, il compagno di adolescenza insomma, di quand’eravamo piccoli come anche altri giovani che vivono tuttora a Tiburtino III con cui io andavo a scuola. Per esempio, adesso questa è una cosa un po’ strana, però tutte le ragazze, le donne della mia età con le quali io sono appunto cresciuta, ho fatto le elementari, adesso tutte sono sposate, cianno i figli, cianno una famiglia, cioè hanno indirizzato la loro vita, come posso dire? seguendo una tradizione, io sono diversa perché ho seguito un’altra strada, sono... potrei dire «la pecora nera»... una diversa e sento che gli altri mi vedono come una diversa perché... perché io non sono sposata, non ho figli, perché mi vedono che vado in giro con le stecche alte due metri di legno, insomma mi vedono che non ho instaurato... un dialogo, non parlo lo stesso linguaggio e... cioè... non dico che non parlo lo stesso linguaggio, però non ho più tante cose in comune con loro, o magari... o magari non è vero, è soltanto che... io non ho avuto l’occasione di poterle coltivare, queste amicizie perché appunto io ho cercato di fare altre cose, ho investito su altri aspetti… Però. ad esempio c’è quel... non so se lo... sicuramente lo conoscete, la Cacciarella, la…? La Cervelletta. Il parco della Cervelletta, quello è un luogo meraviglioso dove stanno facendo delle cose molto belle, no? e lì ci sono delle persone che io conosco, con le quali abbiamo un dialogo e... però una volta che tu ti stacchi ti senti come... per esempio c’è un fotografo, uno scrittore, poi ci sono i ragazzi che lavorano all’organizzazione di quell’evento, che fanno d’estate... c’è teatro, c’è mostre, c’è arte, c’è cultura, si chiama Eclettica. E’ bellissimo, quella... è una perla, è una perla nella periferia perché lì c’è questo casale, adesso non so esattamente se abbia origini medioevali, comunque molto antico; e allora per arrivarci, tu 196
ci puoi arrivare dal parco di Colli Aniene, quindi tu arrivi dove ci sono gli ultimi palazzoni di Colli Aniene, mi ricordo, mio padre mi raccontava che lui si andava a fare il bagno lì nel fiume, che c’era tutta la «marana», insomma l’acqua era pulita, ci sono questi racconti… Quindi ci sono delle piccole perle, come per esempio una perla per me di Tiburtino, è la biblioteca di via Mozart che quand’ero piccola, appunto, non ho frequentato moltissimo però era una grande risorsa per i giovani. Adesso sta lì, è caduta in disuso, non si sa più... perché adesso devono aprire quell’altra, ma quell’altra non la aprono... è la prima cosa che dovrebbero fare in un quartiere, un centro culturale, cioè dovrebbero puntare il massimo su quest’aspetto, invece passano gli anni, passa il tempo e quindi la gente si dimentica che ciabbiamo queste risorse. Perché per me è importante, la prima differenza che io vedevo quand’ero piccola, che a Colli Aniene le case erano belle, ci si teneva, mentre a Tiburtino era tutto un disastro, tutto sporco... quando verrai a casa mia, il peggiore portone di via Mozart è quello dove abito io. Perché le persone sono egoiste, pensano alla propria casa, non pensano che... invece che il luogo pubblico è quello che dovrebbe avere la priorità. E quindi alla biblioteca, a questi spazi, ai marciapiedi. Pensa se fosse tutto più bello, esteticamente, avrebbe un riflesso sullo stato d’animo delle persone, su... l’orgoglio delle persone di vivere in questo posto, questo posto che potrebbe essere... più bello… (Il rumore di una porta che si apre) Buongiorno! Prego, si accomodi (ride) benvenuto nella mia umile dimora! No, questa cancellala (ride). Ok.prego e... adesso ti faccio vedere, puoi accomodarti nella stanza più bella della casa che è la cucina. Ti offro un bicchiere d’acqua, va bene? (ride, rumori dall’interno e voci che vengono dall’esterno). Ecco, a quest’ora della giornata c’è questa... questa luce, perché il sole fa tutto il giro della casa, sorge di là e poi fa il giro così e tramonta laggiù. Allora, come hai visto nei piccoli quadrucci che stavano a studio, ci sono vari momenti della giornata, varie ombre, varie luci, vari colori e in qualche modo... così tu li puoi vedere dal vivo qui, qua fuori (rumore di acqua versata) invece dall’altra parte della casa c’è il grigiume, perché qui è tutto aperto, c’è il verde, c’è la luce e c’è il vento che viene sempre da questa parte, e invece dall’altra parte c’è un altro palazzo grigio e quindi c’è questo contrasto forte. Se vuoi ti faccio vedere di là... (rumore di passi) passiamo qui, se ti vuoi affacciare di qua, prego, ti affacci giù (rumore di automobili che passano nella strada) ecco vedi... Adesso tu dirai «Vabbe’ qui non è, non sembra molto grigio» però invece lo è. E guarda com’è strana la struttura del palazzo, dopo andiamo giù e, se riesco a riaprire quella porta che sta... sembra un titolo di un film Non aprire quella porta, giù nelle cantine, andiamo in questo spazio, in questo ambiente di mezzo tra gli appartamenti e la parte di sotto... sotto è la parte commerciale dove ci sono i negozi, dove c’è la palestra, dove c’è la ASL... quest’ambiente completamente disabitato, insomma non è vissuto, però è un ambiente molto strano (rumore di traffico stradale). La sera quando c’è un po’ di quiete, soprattutto in questo periodo, la sera si sente il rumore della fontanella, è molto romantico, è bello il rumore della fontanella. Il rumore della fontanella che scroscia, tutto silenzio perché a una certa ora, verso le otto, la gente va a casa, va a cenare... Riccardo Russo. Parlami un po’ della fontanella... Allora, quand’ero piccola e avevo la mia comitiva, la mia comitiva era proprio qua sotto, vedi questi due alberi, là sotto ci sono... vabbe’ queste case sono tutte strutturate con i portici al di sotto e quindi c’è quello spazio, chiuso, dove io avevo la mia comitiva, m’incontravo con i miei amici e... niente, passavamo il tempo là sotto a chiacchierare, non ricordo bene i discorsi che facevamo, ma credo che... non lo so... non credo mi siano molto serviti. E niente, passavamo il tempo così, a tuttora i ragazzi lo fanno, e credo che sia normale... stare insieme, fare gruppo, penso che sia una cosa comune in tutto il mondo. E... (rumore del traffico) che ti devo dire? E’ un po’ noioso... Abitando in questa casa, abitando in questo quartiere, ho assorbito, beh, è normale, quello che stava intorno a me, l’ho assorbito e, in questo modo, attraverso la pittura l’ho tradotto e ho realizzato questa mostra di piccoli quadri ad olio, dove appunto c’è la visione semplice dei due affacci, l’affaccio adesso non so se è il nord, il sud, l’est o l’ovest, comunque i due affacci della mia casa; soprattutto da questa parte perché mi sembrava come se fosse più raccolto, più vissuto, mentre di là è più un passaggio e poi non amo molto quella parte lì perché è più grigia, più triste. Da questa parte invece c’è come un piccolo paese, una piazza di un piccolo paese, dove succedono cose e la luce cambia in continuazione, ed è molto bello anche 197
quando piove; quando piove c’è tutta l’acqua che riflette i colori nell’aria, e poi c’è il verde che... vabbe’, è inutile che lo spiego io che il verde ha il suo effetto negli occhi. Ah, ti ricordi quel quadro con la visione dall’alto con i signori che mangiavano, che insomma, che stavano seduti al tavolino, ecco, è qua sotto...
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13. Storie Lui studiava Maria Evangelista. 1916 E, con mio marito noi ci semo conosciuti che stavamo a fa’ il granturco, allora mentre si stava a scartuccià’ il granturco lui mi guardava e poi la sera, dice «Te posso veni’ ad accompagna’?» «E vieni» ho fatto io. E così… Una volta non è che se faceva l’amore, se prendeva una persona vicino, un ragazzo, se diceva subito si… si pigliava tre quattro mesi, si pigliava tutto ‘sto tempo. Poi non sia mai se i genitori te vedevano parla’ un po’ al buio la sera, ce tenevano a freno… Quanti anni avevate quando vi siete fidanzati? Io? Con mi’ marito… io m’ero fidanzata, ciavevo quattordici anni e volevo bene a un ragazzo da mori’, ma no perché c’era stato niente, però gli volevo bene, pure lui era ‘n ragazzino però lui studiava, annava a studia’ al paese, faceva le scuole superiori, io ero ‘na contadina… allora l’ha saputo la madre e m’ha mannato a chiama’, m’ha detto «Senti Maria, non è pe’ te disprezza’, perché sei ‘na brava ragazza tutto quanto, però mio figlio è piccolo e deve studia’, non deve pensa’ all’amore. Allora io, dice, se tu lo lasci perde’, io ‘n dico niente a tuo padre, sennò chiamo tu’ padre e te faccio mena’». Ma il ragazzo, anche lui era innamorato? Eh pure lui, si! Tanto! E vi hanno obbligato a lasciarvi. E cianno obbligato a lascia’, e ce semo lasciati. E via. Un matrimonio bellissimo Primo Morri e Giuseppa Cassone (1921 e 1925) Eravate porta a porta? Giuseppa. Sì. Primo. Ma io non ‘a conoscevo. Giuseppa. Manco io conoscevo a te. Lui stava a fa’ il militare, quando io so’ andata ad abitare lì. Quand’é ritornato dal militare ci siamo incontrati. C’era la madre che diceva sempre a me «Eh, mo’quando vie’ Primo, quando vie’ Primo mio, vedrai tu, vedrai…» qua, là, sotto, sopra... io quando ho saputo che lui stava ritornando, sa, è ‘na borgata, «Uh, è arrivato Primo, sta giù, sta giù alla borgata, sta a veni’ su» perché l’auto fermava qui, vicino alla chiesa, e doveva veni’ su… Allora io, noi stavamo al pianterreno, che da sotto se potevamo parla’ per quanto erano basse le case, io allora ho messo la persiana così, stavo nascosta lì dietro, quando l’ho visto ho detto «Ammazza quant’é brutto! e la madre lo vantava tanto». Primo. Ciavevo un cappelletto de quelli gialli americani, no?, ‘a giacca gialla senza camicia, senza pedalini. A Chieti, all’ospedale dove lì ho fatto la convalescenza de quaranta giorni, j’ho detto «Ma dateme qualche cosa, no, almeno i pedalini» niente! Giuseppa. Me ricordo la prima volta che é venuto dentro casa e ha detto: «Sora Cristi’, domattina annamo al mare, eh, co’ Giuseppina». Lei se l’è sentito, seria seria je fa «Ma, che ce porti tu’ moglie al mare? da quant’è che ve siete sposati?». Lui ha detto: «Beh, che c’entra quello, annamo tutti amici, annamo al mare» lei j’ha risposto «Vabbe’, quann’ è tu’ moje te la porti al mare». Io la mattina, come ‘na cretina, aspetto, aspetto, aspetto che lui poi ‘a domenica mattina ciaveva l’abitudine da venisse a pija’ il caffè da mamma, che non é che noi eravamo più ricchi della madre, però mamma se dava più da fa’, c’era ‘na certa agiatezza insomma dentro casa. Lui se veniva a pija’ il caffè. Quella mattina, aspetta, aspetta, allora a un certo momento, erano le otto e mezza, un quarto alle nove, piano piano so’ entrata dentro casa sua e c’era Maria, la sorella. J’ho detto «Mari’, eh, ma Primo?» «Primo? é ito al mare col primo auto». E’ ritornato a mezzanotte, tranquillo e beato, e tutte ‘e volte così, quanno me voleva porta’ da qualche parte che mamma diceva «no», lui pijava, partiva tranquillo. Primo: Annavi al cinema e ciavevi dietro tutti e due fratelli! Giuseppa. Tutt’ e tre! E il matrimonio? 199
Primo. Chiedi a lei. Giuseppa: Abbiamo fatto un bellissimo matrimonio. Allora siamo partiti da casa mia… Primo. Tutti a piedi Giuseppa. Siamo partiti da casa mia che praticamente, mo’spiega tu, stava all’altezza lì de ‘a maternità, casa nostra stava al lotto V°, noi abitavamo a Via del Badile che era proprio il centro della borgata. Allora noi siamo partiti da lì, lui co’ tutti i amici suoi, tutti vestiti in blu, tutti col fiorellino blu, ‘n se sapeva chi era lo sposo. Primo. Co’ un fiore bianco, qua, ‘n se sapeva mica chi era il marito! Giuseppa. Siamo andati a piede, tutta la gente appresso, alla parrocchia, e abbiamo sposato là. No, amo fatto una bella messa, poi il pranzo l’amo fatto a casa mia. Il vestito era americano, me l’aveva mandato zia dall’America, e co’ quel vestito ci abbiamo sposato in tredici, io e tutte le amiche, chiunque doveva sposa’ che non ciaveva il vestito, a quell’epoca.... La prima so’ stata io. Poi abbiamo fatto il pranzo in casa, un pranzo normale tra la famiglia mia e la famiglia sua, e basta. Il signorino, dopo sposato è uscito dalla messa, é andato a da’ l’addio al celibato co’ gli amici, e si é presentato a casa alle due e mezza, avemo dovuto d’aspetta’ lui alle due e mezza. Primo. Però quello ch’è stato bello è che cianno fatto ‘a serenata Giuseppa. Ah, ‘na serenata splendida! Gli amici suoi, tutto, il violino, la fisarmonica, la chitarra, certe canzoni belle, qualche cosa de bello. De tutto, tutte quelle belle canzone d’amore che c’erano prima. Poi dopo io volevo apri’ ‘a finestra, perché se dovevamo affaccia, mamma non ha voluto assolutamente che aprissi la finestra. Lui. stava insieme a quelli che suonavano. Il giorno del matrimonio abbiamo ballato lì. Davanti casa c’era uno spazio, c’erano tre gradini pe’ sali’ e poi c’era un quadrato, su questo quadrato ce stavano l’appartamenti de qua e de là e noi abbiamo ballato in quel quadrato lì, e basta. Eh, tutti gli amici sua, che loro erano tutta ‘na squadra de ballerini, poi, piano piano, era tardi, la sera, sul marciapiede, dappertutto. Antonio Morri …quello era, credo, lotto I°, e lì c’era la cabina elettrica dove mio padre e mia madre hanno fatto il viaggio di nozze… quando si sono sposati mio padre e mia madre, la prima notte di matrimonio, non avendo dove passarla, gli avevano attrezzato dentro una cabina elettrica dove c’era una stanza a disposizione… e difatti me ricordo che mio padre me raccontava sempre che se trovava ‘sto teschio su la testa perché c’era «pericolo di morte» Perché io non me vergogno a racconta’ la vita mia… Marisa Morelli 1932 Che io tante volte parlo con le persone, no? non lo so che ciò Paola... dentro di me mi sento da rispondergli con un ritornello, cantando… perché io, da piccola, non ciavevamo nulla… né mangiare, né acqua, non ciavevamo niente, però il divertimento nostro era che se cantava.... gli stornelli, che ne so, in campagna una cantava da ‘na parte e l’altro che te rispondeva dall’altra... [Mamma] ci portava in campagna a raccoglie’ la spiga, de ‘sti tempi… perché papà mio non aveva i terreni del suo, allora lavorava i terreni dell’altri e quand’era la raccolta, faceva che ne so, du’ quintali de grano, uno a me, uno a te ch’eri il padrone della terra… e siccome i figli, eravamo sette, non bastava quello che raccoglieva papà, po’rello, no? Allora quando mieteveno il grano, non come fanno adesso, con la falce, anzi da noi chiamano il sorecchio, che è piccolo così... E io ciavevo tutti, mio fratello, mio padre che face’eno ‘sto lavoro, pe’ noi e pe’ l’altri. Le spighe che cadeveno per terra, noi appresso appresso le racoglievamo, e facevamo i mazzi de spiga così, facevamo più raccolta noi co’ quelle spighe raccolte che quello che faceva papà... perché doveva dallo al padrone, capito? E allora mamma, pe’ non ce fa’ veni’ sonno, perché lì ti dovevi alzare presto, ché quando usciva il sole dopo un po’ te potevi… che ne so, a seconda del punto dove dovevi arrivare, la strada che dovevi fare… dovevi alzatte presto, alle due, alle tre di notte, e dovevi fare quella strada a piedi, ché mica c’era la macchina che te portava. E allora lei cantava queste storie… Allora: una era questa «Eugenio e Teresina ereno due amanti, dalla età de quando sboccia un fiore» Me vengono i brividi a pensare a mamma. «Ereno contenti...» Perché co’ pochi giorni mamma è sparita, tant’è vero che io andavo a scuola, facevo la prima, a ottobre ho iniziato, aprile è morta mamma e a scuola non so’ andata più. Ma io... il cervello però prima ce l’avevamo de più, insomma, me so’ rimaste tutte le vocali in mente. Quando a quattordici anni so’ venuta a lavorare a 200
Roma e lavoravo a Piazza Risorgimento, la mattina andavo a fare la spesa a piazza dell’Unità, allora facevo quel pezzo de via Cola di Rienzo, ero furba, m’erano rimaste tutte le vocali dell’alfabeto, camminando, guardavo le scritte de qua e de là … accoppiavo le lettere…Ho imparato a legge’, io te leggo tutto adesso, che ne so, le scritte, pure ‘e scritte romane, coi numeri romani! Il 12 Aprile è morta mia madre e a scuola non ce so’ andata più perché allora al paese, Artena, vicino Colleferro, Valmontone, purtroppo a quei tempi la scuola stava lontano, eravamo sette figli... e… le possibilità, non c’era niente! mica è come adesso che uno si alza dal letto, c’è il caffè, c’è il the, i biscottini de questo, i biscottini e il pane... almeno se ciavevo il pane, già era tanto per me, perché io andavo… ero piccola, però andavo a casa de una vicina de casa che ciaveva quattro figli maschi e io andavo a reggergli i figli maschi perché me davano una fetta de pane e prosciutto, che allora per me era tanto insomma... Che quando c’era mamma, non mancava nulla… il necessario proprio: pane… pane, minestra. E allora, insomma, ‘e tribolazioni sono state tante, a quattordici anni so’ venuta a lavorare a Roma… Allora la scuola mia, non mi vergogno a dirlo, perché io non me vergogno a racconta’ la vita mia, so’ venuta a servizio a casa de un avvocato, ma allora, cinquant’anni fa, no, de più, perché adesso ce n’ho settantasei e ciave’o solo quattordici anni… per me la scuola mia è stata quella, perché so’ stata da avvocati, ingegneri, per me è stata una scuola, m’hanno insegnato... perché io parlavo paesano intanto… invece co’ pochi giorni me so’ insegnata a parlare romano, insomma, bene! Italiano no?. E io, se dovessi rinasce’, rifare quella vita, ritrovare quelle persone, lo rifarei. Io so’ stata bene… e capirai! ero abituata che a casa mia nun c’era niente, eravamo poveri proprio Paola Spano. Ma come l’ha conosciuto suo marito? Eh, mio marito, guardi, io poi ero una che ciò avuto tanti ragazzi che me veni’ano appresso perché me dice’ano loro, perché io me vedevo brutta, che ero bella, allora l’omo, non è come i ragazzi di adesso, la corteggiava la donna... io ero molto corteggiata... però, io non me fermavo neanche a di’ una parola con nessuno... perché non mi fidavo. Perché quando io so uscita da casa mia... i miei fratelli non me volevano mandare qui a Roma e il giorno che so’ partita mio fratello m’ha detto:«Ragazzi’! Vai, ma attenta a te come cammini! Perché se sgarri ‘sto gradino non lo sali più»Io ho insistito perché ero stanca da fa’ la vita de contadina, perché una bambina, sempre in campagna a fa’ i lavori de campagna, anda’ a prende’ la legna, anda’ a prende’ l’acqua.. anda’ a prende’ qualsiasi cosa, tutto in testa ‘nsomma, eh, m’ero stancata. A me me piaceva tanto a impara’ a fa’ la sarta e la matrigna mia ‘n me cià voluto mai manda’… allora un giorno, io andavo a prende’ l’acqua al paese, alla fontana del paese, ma dovevi fa’ la fila, due, tre ore, quattr’ore…E io facevo la fila tutte quelle ore, non portavo una conca sola [sulla testa], una sopra l’altra, piccola com’ero, me facevo aiuta’ dalla gente… Una sopra l’altra! Quella era ‘na vita pesante… allora un giorno me so’ stancata, ho preso, dovevi posa’ la conca, dovevi di’ «Chi è ultima?», capirai, me toccava mette’ quella conca verso la sera, so’andata co’mia cugina, quella andava dalla sarta, so’ andata dalla sarta pur’io quel giorno. Quando so’ ritornata la mia matrigna m’ha dato un sacco de botte, capito? «Perché dovevi sta’ a guardare la conca» capito? Mamma mia era morta, papà mio s’è risposato una sorella de mia madre, era vedova pure lei, co’ cinque figli… [Noi]sette, sette e cinque, poi nonno e nonna, s’immagini insomma come stavamo... Perciò, dice Marisella, adesso so’ stanca, prima pure, perché, ‘nsomma… E niente ho inteso che ‘sta persona cercava una ragazza e ho detto «Ce vado io!» La matrigna mia veni’a da ‘sto avvocato perché… ‘na cosa di fascisti, un incidente… gli hanno ammazzato un figlio per strada, che poi era mio cugino… Con la morte de ‘sto ragazzo mamma aveva trovato quest’avvocato e, sa, parlando gli aveva detto se gli trovava ‘na ragazza, e io ho detto: «Ce vado io!» però i miei fratelli non volevano. Ero l’ultima figlia. E niente, so’ voluta venire pe’ forza... e non me ne pento perché se no ero rimasta campagnola. E invece venendo a Roma, stando a casa delle persone così, perbene, perché adesso non so’ più neanche loro perbene come erano allora eh?! Perché adesso le parolacce le dicono tutti, non è così? e invece allora erano delle case proprio, che ne so, co’ l’educazione… io m’ero insegnata a apparecchiare bene la tavola, a servire bene a tavola, e sapevo dove dovevo servire, dove dovevo levare i piatti... pure la gente, signora mia, me se innammorava pure pe’ quello. Venivano a pranzo dall’avvocato tante volte? Gli dicevano alla signora:«Me la mandi Marisa che ciò una cena tale giorno...» e la signora diceva: «No, Marisa è una persona, non è un oggetto». E io, essendo giovane, io me so’ imparata subito a fa’ le cose, a parlare... 201
Bianca Karpati. E tuo marito, allora? Mio marito l’ho conosciuto perché ho conosciuto mia suocera, a Piazza Bologna. Faceva la fruttarola, quelle persone, sai, le fruttarole, so’ un po’ strillone... Allora io andavo a fare la spesa, passavo e questa me chiamava: «Ah bella mora! Vie’ qua, guarda che ciò!» ‘nsomma a me me dava un fastidio e dicevo che non mi serviva niente. Alla fine un giorno me so’ avvicinata e gli ho detto «Senta, signora... delle cose che vende lei non mi serve perché la sorella della signora dove io lavoro, lavora ai mercati generali e me porta le casse de verdura, frutta...» Certa frutta! a casa mia non c’era quella buona roba... e insomma lavoravo tranquilla, felice, insomma. E allora lei mi disse: «Ma a me non me serve che me compri qualcosa, io ciò un figlio ch’è tanto bello, va appresso a una ragazza che non me piace, tu a me me piaci tanto, e sarei contenta se tu conosci mio figlio...» Allora io je dissi «Signora, io vado a fa’ la spesa, non vado in cerca de marito» e dice «Ma sei giovane…» un sacco de cose… Alla fine m’aveva proprio stufato e allora a casa, dalla signora dove lavoravo, je dissi ‘sta cosa, dico «Madonna, signora mia, io la mattina non so come fa’ pe’ anda’ a fa’ la spesa, perché c’è una signora, come passo me dice tutte ‘ste cose...» ‘Sta signora che ha fatto, una mattina è venuta in piazza con me a parlare con mia suocera. Mia suocera subito gli ha detto «Guardi signora, che io so’ una persona perbene, mica so’...» e dice «No, perché Marisa lavora a casa mia, è una brava ragazza e mi dispiacerebbe insomma...» e insomma gli ha fatto un bel discorso, la signora. E la signora a casa m’ha detto:«Marise’, tu prova, conoscilo ‘sto ragazzo... » e io me vergognavo, dico «Oddio mio!»... ‘nsomma, insomma alla fine l’ho conosciuto, però come l’ho visto m’è piaciuto, perché era un bel ragazzo, alto, ciaveva dei capelli stupendi, un sorriso ch’era ‘n amore e insomma... Io so’ piaciuta a lui, lui m’è piaciuto a me subito, e insomma dopo un po’ de tempo ci siamo fidanzati, ecco com’ho preso marito io... Se io le dico, il primo giorno che ho conosciuto mio marito, io stavo seduta qui, lui dormiva in quella cameretta… ho ‘nteso il fratello ch’è andato a svegliare mi’ marito e gli diceva: «Angeli’, Angeli’, è venuta quella ragazza, se vedi quant’è bella!» Io, ‘na vergogna, me sarei messa sotto a ‘n mattone, no ‘o so. E lui, dopo ‘n po’ s’è alzato, è uscito da que’a cammera, ha fatto così coi capelli… Si, si… le minime cose me ricordo, insomma ci siamo conosciuti così… piano piano è andata avanti … e dopo un anno… troppe cose me so’ successe... Io stavo in villeggiatura, dove lavoravo, a Fregene, ch’era un sogno allora Fregene… tutte quelle belle villette, la mattina m’alzavo presto, andavo a comprare la verdura fresca agli orti che stavano lì vicino… ‘Na domenica è venuto mio marito e m’ha detto «Marisa, devi ritornare a Roma» dico «Perché?» «Devi anda’ al paese a fare le carte che mamma ha mandato a di’ ai tuoi fratelli che sei incinta di tre mesi» dico «Oddio, com’ha fatto a fa’ una cosa del genere tua madre?» Mio marito doveva partire a fa’ ‘l militare, no, e lei ciaveva paura che, stando lontano, s’innamorava de ‘n’altra e me lasciava a me... diceva lei. Ecco quella è stata una cosa pe’ me bruttissima, una grande vergogna, mia socera m’ha messo proprio in croce perché a casa mia c’era, che ne so’, educazione. Mo ‘n so se era educazione, se se faceva bene o se fa male a esse’ tanto sfacciati, ma a casa mia erano segrete certe cose, capito? La vergogna che ho tribolato io, e non era vero… poi, pe’ non fa’ fa’ brutta figura a la suocera io ho acconsentito a lei, capito come? Però dopo, quando io ho partorito della prima figlia, me so’ presi i dolori alle due de notte, mio marito stava a fa’ ‘l militare… mio socero stava vicino a me e mia suocera girava per casa, ma ha detto: «Ah, pure su questo m’hai voluto buggera’, ma che tu’ nora è una mula che partorisce a dodici mesi?» A me me voleva bene [mia suocera], certo che me voleva bene, se preoccupava perché ave’a capito che ragazza lavoratrice che ero, perché, entrata qui dentro, io non je dico quanto ho dovuto lavorare, Paola... perché lei lavorava in piazza, la mattina si alzava alle tre per anda’ ai mercati generali, e lei faceva solo quello, a casa non faceva proprio niente, non era proprio bona, le sorelle femmine non sapevano fare niente, mio suocero che lavorava per la campagna, io dovevo lavare pe’ tutti, stirare pe’ tutti, fa’ da mangia’ per tutti… e me dicevano pure che ero ruffiana con la mamma... Me so’ sposata qui, proprio in questa casa. Tre fratelli maschi erano, e due femmine, più socero e socera… no ‘o so… E quando so’ venuti i bambini, tutti in camera con me. Tre [ne ho fatti] qua. Se je dico la vita mia tutta, proprio ce vole, no oggi, qualche mese ce vole… Tre, che poi io so andata giù... allora se face’ano le riunioni, se andava a Tor di Nona a prende di petto il Presidente delle case popolari e io andavo con tutte ‘ste donne… però ce so’ andata due volte sole e poi ‘n ce so’ andata più perché… eh, quelle donne se n’accorgevano che ‘sto presidente invece da usci’ 202
da la porta da dove dove’a usci’, usciva da ‘na porta segreta , quelle se n’accorgeveno e una volta abbiamo preso il tassì e l’abbiamo seguito… però io, come ripeto, stavo insieme a loro, ma non ero capace a dì’ quelle parole che dice’ano loro, facevo il numero... E siamo andati fino dove abitava, proprio davanti a la porta de casa, quelle a daje le botte davanti la porta, a dije «Cornuto!» «Ciai una cesta de lumache in testa pe’ le corna che porti!!!» e insomma da quel giorno so’ rimasta disgustata da ‘ste persone… perché insomma, pure che [ciavevano anche ragione] che vole’ano casa, si però… non ‘o so... io per me allora, ero giovane, non dicevo una parola fuori posto… Allora ho visto dove abitava questo presidente, no… so’ andata dal dottore, allora qui c’era e tuttora c’è il dottore, però c’era il dottor Davanzo prima, era veramente un medico… ho rifatto la domanda, coi certificati che m’ha fatto il dottore che mi’ suocero non stava bene e io ciavevo tre bambini, insomma ho rifatto questa domanda e la mattina a le sette stavo davanti al portone del presidente delle Case Popolari pe’ daje questa domanda. Lui m’ha risposto «Non voglio essere disturbato, facci la domanda e la mandi giù a Tor di Nona!» dico «Guardi, signor Presidente, questa è la sesta domanda che faccio, è venuto anche il sopralluogo a casa ma non vedo nessun risultato, sia gentile, se la prenda». E no, non la voleva. L’unica prepotenza che ho fatto, che lui entrava nella macchina, ho messo il piede allo sportello e non gli ho fatto chiude’ lo sportello, dico «Sia gentile, se la prenda». E allora lui m’ha detto «Io gliela prendo, gliel’assicuro che la metto dietro a tutti!» «Faccia come vuole, basta che la prende» j’ho detto. Dopo quindici giorni m’hanno mandato a chiama’ e m’hanno dato quella casetta laggiù al lotto VII, si chiamava, perché qui era i lotti, c’era lotto I°, lotto II°…dov’è adesso via Mozart. Stanza dell’ingresso e ‘na stanza per dormire, un bagnetto così, c’era solo la tazza e un lavandino piccolino, e ‘na cucinetta. Però a me me sembrava tanto, che stavo sola, capito? E ho fatto l’altri tre figli... Poi dopo mia suocera, se so’ sposati tutti i figli suoi, e allora la domenica, quando veniva, trovava casa invasa dai letti, perché co’ sei figli e noi, insomma eravamo otto, eh... Allora me disse «Senti a mamma…» perché magari però lei me voleva bene, ‘n c’è niente da fa’ «I figli miei se so’ sposati tutti, facciamo ‘na cosa, io vengo qui, tu rivattene là» e m’ha ridato ‘sta casa, ch’io qua ciò conosciuto mio marito. Però il destino ha voluto, venticinque anni de matrimonio, dopo venticinque anni se l’è portato via Gesù Cristo, pe’ tre mesi. Riccardo Russo. Ma quindi, dentro a ‘sta casa, al lotto sette, alla fine, là s’è creata tutta la famiglia? Rita Morelli. No, là sei. Poi dopo quand’è venuta qui, c’era ‘na stanza in più, so’ diventati nove! Marisella Morelli. C’erano tanti letti a castello! Comunque in quella stanzetta lì c’erano tre letti a castello, uno qua, uno là e uno qua, tre letti a castello… che una notte m’è caduta ‘na figlia, è andata a fini’ co la testa sul tavolinetto de marmo che stava ‘n mezzo, s’è spaccata la fronte, Maria, no? Qui mio marito aveva fatto ‘l tramezzo, c’era ‘n ‘altro letto lì, uno qua, uno qua. E noi finalmente ciavevamo una camera nostra... però se respiravi… Nell’intervallo tra Lia e Massimiliano ce ne sono stati due che l’ho persi, se no ce n’erano undici, no nove. Vabbe’!... Voluto, c’era una donnina che abitava qui… siccome aveva lavorato tanto tempo all’ospedale, face’a ‘ste cosette… Non posso di’ come, però insomma… terribile, questa cosa…. Rita. Io me ricordo lei che andava al bagno co’ st’emorragia… Difatti, dopo la seconda volta, dopo un po’ so’ rimasta incinta un’altra volta La ‘ncontrai «Marisa, come stai?» dico «Sta zitta, so’ incinta ‘n’altra volta» «Vieni da me» «No, no, mi dispiace, basta!» dico... me misi a parlare col quadruccio della Madonna che ciavevo in cucina, ho detto «Madonna mia, se vede che io so’ nata per fa’ questo! Non faccio più niente, quello che me mandi te faccio e basta» E infatti me n’ha mandato altri tre. Quando è nato poi Massimiliano, settimo, lui me diceva «Guarda, guai a te se fai qualche cosa perché io so’ tuo marito e te vado a denuncia’» e io «Stai tranquillo, che non faccio niente, mica so’ matta!» e poi me diceva «Questo è maschio» dico «Angeli’, ma che ne sai se è maschio o femmina!» «Te lo dico io!» Quando è nato poi... ciò avuto un parto così bello! Ho lavato i panni fino all’una e mezza, ch’io qua ciavevo una fontana sul terrazzino, e quando io sapevo che dovevo partorire, me prendeva da lascia’ tutto pulito, i panni stirati, i cassetti tutti in ordine… non guardare adesso, ma io quand’ero giovane ero molto ordinata… aspettavo che me se passava il dolore, ricominciavo, lavavo ‘n’antro panno, lo stendevo, però alla fine ‘n je’a facevo più, telefonai all’amica mia, dico «Iolanda vieni su perché devo anda’ in ospedale..» «Come devi…?» e dico «Si, ciò i dolori...» Insomma m’ha accompagnato all’ospedale, erano verso le due e mezza, e m’hanno visitato e mi hanno detto «Portate su ‘sta donna che cià il parto aperto de sette centimetri, se no ce lo fa dentro l’ascensore!» Invece 203
m’hanno messo in camera del travaglio e nessuno me guardava, e io me so’ messa a strilla’ perché me sentivo proprio male, ‘sto ragazzino doveva proprio nasce’… «Mando in galera tutti! A casa ciò sei figli!» Insomma, è venuto il dottorino, piccolo piccolo... «Che c’è signora?» «Mi sento male!!» Quello ha preso ‘a cosa per visitarmi e invece poi ha capito subito che il bambino doveva nasce’, m’ha portato in sala da parto... m’hanno fatto una puntura qua, quando ho inteso il pupo che piangeva dico «Almeno, diteme che cosa ho fatto!» «Signora, un bel maschione de quattro chili e due!» «Grazie Madonna! Grazie a tutti!» Perché io pensavo a mio marito, no, che me diceva così… e lui dice «Signora, ma è il primo bambino?» dico «No, er settimo!» «Ah! Congratulazioni, dal modo come si è espressa sembrava il primo!» Allora m’hanno sistemato, fatalità, chi m’ha sistemato era un ragazzo che lavorava al Policlinico e che abitava alla scala appresso a me. Dico «Armando, già che stai qua, Le’, telefona subito a casa de sora Teresa…» una vicina perché io il telefono ‘n ce l’avevo «Fa sape’ ch’è nato il maschio!» Mamma mia, Paola mia, dopo un po’ è venuto mi’ marito co’ un mazzo de rose rosse, ‘na scatola de baci de quelle d’innamorati... Bianca. Ma tutti all’ospedale, fatti? Quattro, [i primi] so’ nati a casa.. e gli altri all’ospedale. Durante l’intervista accade qualcosa in casa a cui Marisa reagisce con queste parole. Non me ne so accorta, ero presa dal delirio! Rita. Delirio!! E’ una romanza questa! Che cantava mio marito! Eh, ciaveva ‘na voce bellissima! Marisella. Cantava, cantava! Da tenore! Pensi che mio marito dall’età de sedici anni lavorava al cantiere, fino a trent’otto anni c’è stato... e lui quando lavorava, faceva il pittore… era ‘n grande pittore, perché lui ha ripulito pure casa de donna Rachele, de Mussolini insomma, che ne so, del ministro Pella, perché lavorava molto bene, metteva pure il tessuto al muro, era bravissimo. Mentre lavorava, cantava. Cantava le romanze. Tant’è vero a me, quando m’abbracciava, mi diceva:«Eri tu che macchiavi quell’anima...» Oddio, quanto me piaceva! E insomma niente… allora stava lavorando a ripulire un appartamento a Monte Sacro, e lui cantava… c’era una professoressa de violino e ha chiamato una persona e gli ha detto «Io sento una voce che canta, me dovete trovare questo ragazzo che canta così». Hanno girato, l’hanno trovato, l’hanno portato da sta’ professoressa e questa gli ha detto «Senta, lei cià una bella voce, è un peccato sprecalla, la deve educare questa voce!» Lui lui me l’’ha raccontato così…«Io me so’ fatto una risatina, ho detto, professoressa, ma io ciò sei figli, come faccio…» Stavamo al lotto VII e ereno sei figli… Questa professoressa j’ha detto «Se tu ciai voglia di studiare, non te devi preoccupare perché non spendi una lira». Allora l’ha mandato da una professoressa di pianoforte, a via Arezzo a Piazza Bologna… che ce so’ stata pur’io a casa de sta’ professoressa, che la prima volta che so’ andata lì con mio marito, la professoressa m’ha detto «Marisa, adesso gli faccio sentire chi è suo marito» Come ha toccato il pianoforte, mio marito che cantava, io non me ricordavo più dove stavo... me sembrava di volare… perché pensavo «Questo è mio marito!»… Tant’è vero che lui ha cantato tante volte al Teatro delle muse… e io non ce so’ potuta mai anda’ perché ‘na volta allattavo, me pare Maria, Alfredo… io ‘n so’ potuta mai anda’ a sentillo. Rita. J’hai detto ch’era bello papà? Marisella. No, era bellissimo! Si, j’ho detto, subito! Ciaveva una presenza che era proprio bello.E niente, studiava, ancora lavorava al cantiere, la sera, quando veniva, io sempre pronta. perché ‘n ciavevamo il bagno, mettevo l’acqua a scalda’ con le pile, je facevo trova’… E insomma, alla sera, quando veniva mio marito dar cantiere, io sempre co’ ‘st’acqua calda sul gasse... allora lui si sdraiava sul letto pe’ legge’ lo spartito, io glie lavavo i piedi… Marisella. Oddio E lo so, tesoro mio, col bagnapiedi, gli mettevo a bagno i piedi. La prima volta non voleva perché era molto riservato lui, no? «Ma io so’ tua moglie! Faccio finta ch’è ‘n altro figlio!» insomma, eh «Ma no, me vergogno!» «Ma dai, metti qua, dai! Io, tanto che tu leggi, io te faccio… » e lo lavavo, l’asciugavo, gli mettevo il borotalco, gli mettevo i pedalini… E lui andava a cantare e io ‘n ci so’ potuta mai... Alla fine lui era riuscito, che doveva partire pe’ Londra, 204
doveva fare una tournée… Eh, ci voleva la firma mia… e io gli ho detto: «Angelì, ma, io non lo sapevo che dovevi parti’... Però io voglio pane e cipolla, ma tu devi sta’ vicino ai figli, la firma non te la metto» Era talmente, io so’ sincera, era talmente bello, piaceva troppo. Dico «Questo, se parte, non me ritorna più!» E insomma non gli ho messo la firma e m’ha detto «Me lo potevi di’ prima, tutti ‘sti sacrifici ch’ho fatto non li facevo» «Vabbe’, che ne sapevo io che te mandaveno fori» Veramente io non ciavevo pensato a tutte ‘ste cose… E allora ha smesso, lui è andato tre, quattro volte, ha cantato qui al Teatro delle muse e io non ci so’ potuta mai anda’, solo la gente che ciandava a vedello, quando tornava, me dicevano «Marisa mia, ma perché non sei venuta?» «Ma ‘ndo lo lasciavo Alfredo?» allattavo quello, insomma, come… non me la sentivo da lascia’ i ragazzini piccoli a mamma. Eh, io ho sofferto tanto! Pure lui, si, lo so. Però pure io,insomma! Marisella. In tutto questo faceva anche politica mio padre… Eh si, era ‘n grande politico!. [del partito]comunista, alla sezione di Tiburtino... Lui me diceva «Io ce l’ho dentr’al sangue, se me vuoi, Lella, so’ così, se non me vuoi, lascia perde. Io so’ così». Rita. Si, era il segretario. Difatti quel parco che sta quaggiù... lì ce sta la testa de mio marito, l’hanno fatto quando c’era mio marito co’ tutti l’altri compagni; però lui era sempre il primo che partiva pe’ ottenere le cose che servivano nella borgata… per esempio, l’ospedale Pertini, se ce sta, è la testa de mio marito che s’è messa avanti che dove’a nasce un ospedale in quella zona lì… perché me diceva che la zona del Tiburtino, Colli Aniene, Monte del Pecoraro, Pietralata, diventava tutta una zona… «Allora l’ospedale che c’è al Policlinico è poco, ce ne vole un altro». Difatti s’è messo in testa de fa’ quest’ospedale, l’ospedale è nato, s’è finito, e lui è morto e neanche l’ha visto finito. Solo che quando l’ospedale era finito, la sezione de Casal Bruciato andavano a fa’ ‘e dimostrazioni davanti lì per fallo aprire, con lo striscione grande con scritto «Angelo Morelli», quello era mio marito. E’morto nel settantanove e el prete che sta lì a quell’ ospedale, io, siccome so’ stata ricoverata tante volte, gli ho detto ‘sto fatto e quel prete me diceva: «Signora però, le cose che si fanno non si dicono... » Dico «Ma se nessuno le dice, nessuno le sa». Eh, ma se tu vedi, il giorno dei funerali de mio marito sembrava un personaggio… Tiburtino era pieno, da giù, prima della chiesa, davanti a Fiorentini arrivava la fila fino giù, qua, poi c’era la sezione, ai funerali di mio marito non siamo andati in chiesa, l’abbiamo fatti davanti alla sezione e ha parlato… coso… Canullo, me pare… Nel ‘68 è [ andato in Africa a lavorare]… ciavevamo già sei figli, la ditta che ciaveva lui ciaveva i lavori in Africa, e me l’hanno mandato in Africa. E lui me disse «Quando io ritornerò dall’Africa... muoio». «Angeli’, ma perché?» Lui è ritornato che stava bene, però dopo, piano piano s’è cominciato a sentire male e insomma co’poco, co’ tre mesi è morto, tumore ai polmoni. Perché lui diceva che quando uno è predisposto a una malattia. cambiando l’aria, lui diceva che veniva fuori la malattia. Poi, dopo ch’è morto mio marito, io so’ dovuta riandare a lavorare e, signore te ringrazio, che m’hanno dato il posto al consultorio di Pietralata, perché mio marito allora, a trentott’anni, era riuscito a prende’ il lavoro alla Nettezza Urbana. E allora il posto che ciaveva lui, me l’hanno dato a me invece che a un figlio. Io ringrazio quarche santo che m’ha aiutato, l’anima de mi’ marito che m’avrà protetto dal cielo perché a cresce’ nove figli, onesti… Rita. Lei non esiste, lei… c’è Dio! Va bene, c’è la forza nostra e l’aiuto de Dio, l’aiuto de uno superiore a noi ce deve sta’ che ce dà ‘na mano, che ne so. So che io, dopo ch’è morto mio marito, uscivo pe’… ho fatto ‘n sacco de giri. Ma io, una donna come me che ha vissuto solo dentro casa a lavorare, a combatte’ coi figli, coi soceri, coi cognati, dopo ch’è morto mio marito ho dovuto fa’ tante cose, su al Campidoglio, a gira’ tanti uffici che io non ce so’andata mai. Quando uscivo dalla porta gli dicevo «Angeli’, tu lo sai, Le’, come so io, stamme vicino perché io non lo so dove devo anda’». Paola, io ritrovavo tutto, capito? non lo so… Io so’ entrata al consultorio pe’ fa’ le pulizie… Allora io, le pulizie per me cominciava dar davanzale della finestra, i vetri, ‘a porta, le maioliche. L’assistente sociale «Marisa mia, ma lei fa troppo la casalinga, come stasse a casa sua». Dico «Signora Anna Pia, le pulizie per me significa questo» Insomma questa tant’ha detto tant’ha fatto «No, tu sei ‘na madre de famiglia, non poi fa’ tutto ‘sto peso» perché poi, quando venivo a casa, capirai, i figli, ‘na cosa e l’altra… tant’ha detto, tant’ha fatto, m’ha levato dalle 205
pulizie, m’ha messo al centralino a risponde’ ar telefono, era un lavoro impegnativo perché lì delle cose ce n’erano tante, assistenti sociali, dottore, ginecologo e tante qualità de’e cose, e io dovevo passa’ le telefonate a tutti ‘sti signori, no? Ce riuscivo! Questa viene «Mari’, me sai di’ com’hai fatto a capi’subito, oggi hanno cambiato la centralina, com’hai fatto?». Dico «Ah, Marilena, dico, ho chiesto aiuto a qualcuno, che ne so, ci riesco… » Co’niente me so’ imparata, , a spedire i fax, preparavo le cose pe’ la ginecologia, delle cose che servivano pe’… quando so’andata via io, che te lo dico a fa’, i pianti, non riuscivo a veni’ via. Che poi ho fatto ‘n rinfresco, era rinfresco, pranzo, era tutto, quello ch’ho fatto quer giorno. Però m’hanno fatto pure un bel regalo, catenina d’oro… e quella bella poltrona m’hanno fatto. Poi dopo so’andata a saluta’ la ginecologa, stavano lì a sede’, mi so’messa io co’ la mano così, j’ho detto ‘n pezzetto de ‘na storia che ce cantava mamma mia in campagna «Addio famiglia, io faccio partenza, vado in America pe’ non più tornare» ho detto ‘sta cosa, oddio «No, Mari’!» Oddio, tutti a abbracciamme, a piange’, è stato una tragedia quel giorno! L’album di famiglia Marisella. Quella là grande, lì stava in Africa a lavora’… Marisa. Questa è tutta la famiglia mia, mia nonna, mia madre, co’ tutte le sorelle e fratelli. La nonna è questa seduta. Mamma mia è questa qui. Paola. Tutti belli in casa vostra, eh! Marisa. Sì, sì. Paola. E quella piccola? È la sorella più piccola? Marisa. Si. Quella è stata la mia matrigna poi…. la sorella de mia madre… Guarda quant’è bello pure mi’marito là, tie’… sarà ch’ero innamorata, lo vedo tanto bello… però era bello… Paola. Chi cià in braccio? Marisa. L’ultimo maschietto, Alessandro, che, se lo vedi, è un ragazzo bello, alto! Insomma, ciò una bella famiglia! Eccolo Alessandro, adesso è questo, vedi! Questo è il bambino de Alessandro… Bianca. Guarda che bella ‘sta foto… Paola. E chi sono? Bianca. E’ lui, il famoso bel papà! Paola. Con chi sta? Marisella. Co’ un compagno… Paola. E quella fotografia è lui che canta? Marisa e le figlie. Si, lui che canta. Marisa. Era bello no? dai! Quando l’andavano a vede’ i vicini de casa mia, no, ritornaveno:«Marì, quant’è bello Angeli’, quando esce lui dar palcoscenico domina tutta la platea». Perché era bello alto, poi vestito bene faceva una figura bella proprio! Eh, marito mio, che vuoi fa’? Marisella. Questa è mamma coi bambini che guardava quando lavorava da’ avvocati… Marisa. Vede, questa pure, sempre i funerali de D’Onofrio… Questa è Rita col marito… Guarda quant’era carino, mi’ marito quand’era giovane! Beh, questa, eravamo fidanzati… Qui lavoravo, questa è la figlia de… del dottore dove lavoravo io. Paola. Chi è? Terracini? Marisa. Terracini, sì. Paola. E questa signora anziana? Rita. Questa è la madre di mio marito. Che pure lei ce n’ha tredici Marisa. Le prime figlie quand’hanno fatto la comunione… Marisa. Qui sto io co’ tutti i figli…
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Filmare la borgata. Tiburtino III attraverso gli audiovisivi PAOLO BARBERI Esplorare la metropoli La comparsa di Tiburtino III nelle cronache audiovisive avviene con un cinegiornale luce del 193741. Nel filmato è documentata l’inaugurazione del complesso abitativo costruito nel quartiere Tiburtino III dall’Istituto Fascista Autonomo per le Case Popolari di Roma alla presenza del Ministro dei Lavori Pubblici e dal Governatore dell’Urbe. Si tratta dei famosi lotti, quattrocentosettantaquattro alloggi, afferma il cronista, «popolarissimi, comodi, igienici ed economici». Dopo le riprese di rito delle autorità circondate e applaudite dalla folla («l’ennesima conferma di quanto il regime fa per il benessere del popolo»), le immagini si spostano per inquadrare la strada e documentare l’arrivo dei camion dei primi nuclei di inquilini che «abbandonate le povere baracche di Porta Metronia, prendono festosamente possesso dei nuovi alloggi, modesti ma sani e forniti del necessario, che l’Istituto concede in affitto per la locazione minima di quaranta lire al mese». Sappiamo che buona parte degli abitanti dei lotti erano abitanti del centro storico sfrattati per assecondare i piani di risanamento edilizio voluti dal Governatorato di Roma. Tuttavia ciò che ci interessa qui sottolineare è l’aspetto ideologico che comunicano queste immagini. La percezione dei nuovi inquilini definiti come baraccati li identifica come ostacolo alla modernizzazione della città e di un paese che si percepiscono in rapida trasformazione. In questo senso il progresso della città vedeva nei baraccati una alterità che in qualche modo sarebbe stata assimilata dalla modernizzazione. La progressione da baraccato a borgataro a cittadino fa parte di un continuum che rappresenta un preciso progetto univoco di modernizzazione in atto a cui le classi meno abbienti non possono partecipare in nessun modo se non passivamente. Possono solo essere rappresentate dall’istituzione come polo dell’arretratezza destinato a sparire in breve tempo, opposto all’immagine idealizzata di un polo del progresso rappresentato dagli urbanizzati di vecchia generazione. Malgrado lo sforzo delle istituzioni per la fornitura di alloggi, Tiburtino III continua ad essere rappresentato negli audiovisi come luogo di assoluto degrado. Lo schema viene riproposto dieci anni dopo in un altro cinegiornale del 1947 intitolato Curiosità: Scrittori in visita alle borgate povere. Nei filmato Cesare Zavattini, Corrado Alvaro e Libero Bigiaretti interloquiscono con gli abitanti delle borgate rigorosamente muti di fronte alla telecamera42: La sensibilità artistica e culturale degli scrittori viene qui completamente schiacciata dal commento a senso unico della voce fuori campo che descrive la borgata come un uniforme amalgama di squallore, ultimo grado della derelizione umana, che anche in questo caso fa da silente contr’altare all’inevitabile corsa verso il progresso rappresentata dalla modernizzazione. Dalle immagini stesse si evince che la descrizione da inferno dantesco non corrisponde alla reale situazione dei baraccati: gli uomini, ad esempio, sono tutti assenti, tranne un mutilato di guerra, proprio perché regolarmente sul posto di lavoro: «Tiburtino III, San Basilio, Pietralata, miseria che brulica alle porte di Roma. Bigiaretti vuole sapere dai bambini che cosa mangino e dove dormano. “Mangiamo, rispondono a Zavattini, quanto basta per farci sputar sangue quando tossiamo”. “Dormiamo, rispondono queste gravi donne ad Alvaro, in dieci o dodici in un letto e ci piove sopra”. Nei giacigli fetidi e promiscui spesso le donne esercitano la prostituzione, e non ne cavano neppure da campare. Un mutilato di guerra ricorda con nostalgia le trincee del Carso, più ospitali che queste case. E c’è la famosa unica Cinegiornale Luce, Roma. L’inaugurazione di un complesso abitativo costruito nel quartiere Tiburtino III dal regime fascista, Archivio Luce, 24/11/1937. 42 Gli attori involontari dei cinegiornali erano «teste mute» (e lo sarebbero rimaste per anni) non solo dal punto di vista ideologico. Esistevano infatti all’epoca oggettive difficoltà di riprendere il suono in presa diretta. Il primo caso in cui si fa un eccezione in quegli anni è per un già affermato Luchino Visconti, reduce dal successo di Ossessione (primo film, ad aprire il filone neorealista) e di La Terra trema, a cui il produttore permise il lusso in Appunti per un fatto di Cronaca, cinegiornale del 1951, di registrare i rumori e le voci d’ambiente a Primavalle utilizzando le sofisticatissime e costosissime apparecchiature che richiedevano un camion per il trasporto e uno stuolo di tecnici al seguito per la registrazione. 41
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latrina senza porte: quando le donne vi ricorrono i loro uomini devono nasconderle mettendosi a fare da uscio con le braccia spalancate in croce». 43
Rilevante in questo senso anche il fatto che la popolazione delle baracche viene vista come gruppo omogeneo; l’essere baraccato in quegli anni cioè assorbe le diversità, regionali o di quartiere, diversità che invece contemporaneamente nei rioni di Roma viene molto accentuata. Le differenze risultano meno evidenti a favore dello sviluppo di una solidarietà interna indispensabile per sopravvivere alla città che reagisce alle baracche come ad un corpo estraneo e oggettivamente necessaria per attivare un rapporto con le istituzioni, per avere servizi di prima necessità o semplicemente per prevenire le demolizioni delle baracche.44 Rapporto con le Istituzioni che viene registrato nel 1952, quando nella migliore tradizione assistenzialista, i bambini poveri di Pietralata e Tiburtino III vengono invitati a partecipare al pranzo di Natale organizzato dal Quirinale: «Trecento bambini di Pietralata e Tiburtino III hanno vissuto la bella fiaba di Natale. Il presidente Einaudi li ha invitati a pranzo in Quirinale, e donna Ida (moglie di Einaudi, la “first lady” dell’epoca, n.d.r.) con tenerezza quasi materna, aiutata dai nepoti, ha vinto le prime diffidenze dei Trecento. Si è occupata di loro riempiendo piatti di pastasciutta, tagliando bistecche e colmando calici di cristallo. Di ciascuno […] ha voluto sapere i grandi e piccoli drammi».45
Di Tiburtino III si occupa nel 1963 il regista Giuseppe Ferrara, con un breve documentarioinchiesta a tutto campo intitolato Vita di Borgata46 in cui vengono intervistati gli abitanti del posto sui disagi della vita in borgata, il malfunzionamento dei trasporti, il problema della casa e il conseguente fenomeno delle occupazioni, la totale assenza di strutture per il tempo libero. E ritroviamo gli abitanti di Tiburtino III nel 1967, infreddoliti spettatori in una notte invernale durante un servizio sul set di un film di Ettore Scola47, Per motivi di gelosia, che poi diventerà Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca48. La scena girata a Tiburtino mostra il protagonista Oreste, muratore di mezza età interpretato da Marcello Mastroianni, intento a smontare le impalcature di una Festa dell’Unità agli sgoccioli in un ambiente definito «di voluto squallore». In questo melodramma proletario, al di là dell’ennesimo ritratto degli umili e della condizione di povertà, cominciano ad emergere nuovi elementi nella rappresentazione della gente di borgata. Si La Settimana Incom, Curiosità scrittori in visita alle borgate povere, Archivio Luce, 06/03/1947. E’ del 1956 il film Il tetto di Vittorio De Sica, tratto, non a caso, da un testo dell’illustre «visitatore di borgate» Cesare Zavattini (selezionato al Festival di Cannes e vincitore del Nastro d’argento per la miglior sceneggiatura, assegnato nel 1957 dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani). Nel film due giovani di borgata, Natale e Luisa, muratore lui e domestica o ore nelle «case dei ricchi» lei, si sposano ma non avendo i soldi per comprarsi una casa vengono aiutati a costruirsene una abusivamente approfittando delle ambiguità di una legge edilizia: se riusciranno a costruire le mura e tirare su il tetto entro il sorgere del sole la casa non potrà essere demolita. Il film è ambientato sulle sponde dell’Aniene all’altezza del Ponte delle Valli, tra la tangenziale est e le rotaie delle ferrovie dirette alla Stazione Tiburtina. 45 Mondo Libero n. 73: Einaudi e i bambini, Archivio Luce, 31/12/1952. 46 Giuseppe Ferrara, Vita di Borgata, AAMOD, 1963. A partire dal dopoguerra e fino a meta degli anni settanta, questo genere di documentari, non solo di costume ma spesso anche a sfondo sociale, furono molto diffusi perché abbinati a un lungometraggio e proiettati al cinema. A questo proposito ricorda il regista Francesco Maselli, durante la conferenza stampa del suo film Civico 0 del 2007: «Giulio Andreotti s’inventò quell’intelligente legge per cui a ogni film che si proiettava nelle sale doveva abbinarsi un documentario di dieci minuti cui spettava il tre per cento dell’incasso totale del film. Tutta la nuova generazione del cinema italiano nasce con quella legge: da Antonioni a Risi, da Comencini a Zurlini, De Seta, Lizzani, Vancini. E tanti altri. All’epoca di quella legge io ricordo che portai avanti, sviluppandola, quella linea del realismo lirico che era stata indirettamente proposta nell’inverno del ‘48 da N.U. di Antonioni. Lui parlava degli spazzini, io proseguii con le fioraie ambulanti, gli ombrellai, gli stracciaroli e i bambini di strada. Erano immagini fortemente significative unite da un montaggio completamente poetico e da una musica che era il vero e fondamentale filo conduttore. Ed era in questi termini fortissimi – quanto volutamente indiretti, mai didascalici – che concretizzavamo l’espressione della denuncia sociale che ci premeva». 47 Radar, L’ultima fatica di Marcello Mastroianni, Archivio Luce, 18/12/1969. 48 Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca, Ettore Scola, 1970. 43 44
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inserisce l’elemento politico (le borgate sono rosse), Oreste è un outsider ma cerca riscatto attraverso la sua militanza nel PCI. Dal modello integrativo della modernizzazione forzata della popolazione delle baracche si passa ad una rappresentazione che inserisce il fenomeno delle borgate in un più articolato scenario di forze politiche, sociale ed economiche che agicono sulla città. La borgata comincia a far percepire la propria influenza sul resto del territorio urbano. Il problema non è più cioè l’assorbimento delle masse nel progetto della modernità ma semmai l’inadeguatezza delle politiche pubbliche in grado di dare loro un’opportunità di integrazione. Prende forma inoltre una vita culturale della borgata che diventa una componente della produzione culturale dell’intera città. L’elemento urbano informale non sembra aver esaurito il proprio ciclo storico ma al contrario si afferma come elemento in grado non solo di modificare lo scenario di una città ma addirittura di innestarsi nelle sue logiche culturali, con i propri valori e uno stile di vita che si distingue da quello degli altri abitanti della città. Come ribadirà in modo insuperato con i suoi scritti sulle borgate Pier Paolo Paolini, siamo di fronte ad un mondo che ha sviluppato un modo tutto suo di vivere nella città senza aspettare che le porte della modernizzazione venissero aperte dalle istituzioni o dagli altri abitanti della città. Sono di quegli anni gli studi sulla rivalutazione del foklore e sulle culture popolari49. E contemporaneamente nelle università la borgata diventa un oggetto di studio. Nel 1970, per i tipi della Laterza, esce il testo di Franco Ferrarotti, Roma, da capitale a periferia che fornisce per la prima volta un quadro generale del fenomeno supportato da un’analisi demografica, testimoniandone al contempo la complessità e la differenziazione delle tipologie abitative: «Circa novecentomila romani – un III della popolazione – vivono in borgata. Che cosa significa? Il termine borgata si è logorato. Non indica più un tipo determinato di insediamento umano. È necessario infatti procedere a una serie di distinzioni. Si danno infatti le “borgate ufficiali”, le “borgate spontanee” e infine “i borghetti”. Le borgate ufficiali sono le sole ad avere una sanzione pubblica; la loro origine risale all’epoca fascista;[…] Le borgate spontanee sono aggregati di costruzioni abusive sorte all’estrema periferia della città o nell’Agro romano su terreni abusivamente lottizzati, cioè lottizzati al di fuori del piano regolatore. Vi sono infine i cosiddetti “borghetti”, che consistono di gruppi di casette in muratura, di capanne e baracche costruite parte in lamiera e parte in muratura. Si trovano di regola alla cintura periferica estrema della città, ma talvolta si incontrano anche nel centro di quartieri nuovi. […] Non è facile offrire una stima attendibile quanto alla distribuzione degli abitanti a seconda dei tipi di borgata. […] Un censimento accurato non è stato ancora intrapreso e presenterebbe in ogni caso difficoltà notevoli. Possiamo però dire che il fenomeno tende ad aggravarsi».50
Studenti di varie discipline vengono instradati dalle analisi di Franco Ferrarotti a fare ricerca sul campo nelle borgate romane e si cominciano a creare gruppi di studio sul territorio. Cosi ricorda quel periodo Maria Immacolata Macioti, allieva di Ferrarotti, impegnata in quel periodo nella borgata di Valle Aurelia tra le famiglie dei lavoratori delle fornaci, dove viene documentato un ambiente in forte trasformazione: «(Dopo le ricerche di Ferrarotti, n.d.r.) …per noi , come gruppo di ricerca, era comunque normale occuparci di fenomeni di marginalità urbana, cercare di capire le lotte sociali dell’epoca. Ho cominciato intorno al 1969-1970. […] La situazione era in rapido cambiamento sin dall’inizio. Quando abbiamo iniziato le ricerche le fornaci erano quasi tutte chiuse. E quindi la caratteristica È del 1971 la prima edizione del volume Culture egemoniche e culture subalterne di A.M. Cirese, che oltre a sistematizzare gli studi italiani sul folklore, sviluppa un nuovo discorso sulla cultura popolare delineando l’emergere di studi di impianto strutturalista e marxista che mettono in discussione il concetto di cultura fornito dalle teorie sulla modernizzazione. 50 Franco Ferrarotti, Roma da Capitale a Periferia, Bari, Laterza, 1970, pag. 49-50. Anche in questo caso Tiburtino viene citato come «cattivo Esempio»: «Un raffronto tra le condizioni igienico sanitarie, per esempio, fra le borgate e il resto della città è illuminante. […] Per l’epatite virale l’incidenza media cittadina è di circa sette per diecimila; al Tiburtino III e in altri insediamenti con livelli di vita subumani, essa sale al quattro per cento». Ibidem, pag. 52. 49
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principale della zona, una delle poche a Roma dove si lavorava e si dormiva in un’unica unità di luogo, ormai non sussisteva più. La gente era costretta a cercare lavoro altrove e si sgretolava la compagine abitativa fatta di solidarietà basata sul lavoro condiviso».51
Questi ricercatori di borgata sono muniti delle prime apparecchiature audiovisive portatili che vanno diffondendosi sul mercato: i registratori a nastro magnetico (ai professionali Nagra si affiancano i più dilettanteschi ed economici Geloso che, con l’avvento della tecnologia a transistors, sono diventati meno pesanti e trasportabili) e le cineprese 16 millimetri sempre più leggere affiancate dalle super 8. L’alleggerimento delle tecnologie audiovisive permise nel vero senso della parola di dare voce agli esclusi poiché diventò molto più facile registrare le loro voci e accoppiarle alle immagini. All’inizio degli anni settanta il proletariato urbano prendendo la parola conquista anche lo spazio della città, lo fa suo, lo occupa simbolicamente. Mentre in passato a marcare lo spazio era l’istituzione che tendeva a nascondere quegli elementi sociali che non potevano o non volevano aderire ad un progetto di modernizzazione prefissato, adesso nuove voci si appropriano del territorio e prendono il loro posto sul palcoscenico della città. Al fermento studentesco e universitario si aggiunge anche l’impegno politico e con le nuove attrezzature «leggere» nascono anche le prime inchieste sulla lotta per la casa organizzate da militanti del PCI, che spesso potevano usufruire dei mezzi messi a disposizione dalla Unitelefilm, casa di produzione cinematografica legata al partito comunista fondata nel 1963. La casa è un diritto non un privilegio di Anna Lajolo Alfredo Leonardi, Guido Lombardi e Paola Scarnati, del 1970 è uno di questi esempi. Il documentario illustra la lotta per la casa nella metropoli romana descrivendo le battaglie contro la speculazione edilizia attraverso forme organizzate di lotta quali le consulte popolari e i comitati di agitazione. Proprio da Tiburtino III e da Pietralata provengono le 978 famiglie che stanno lottando per farsi assegnare delle nuove case occupate a Monte del Pecoraro, come testimonia una occupante: «Abitavo a Tiburtino III. Prima di sposarmi eravamo dieci persone, otto figli (cinque femmine e tre maschi) mia madre e mio padre. In stanzette piccolissime, la cucina era veramente un buchetto e il bagno uguale (circa un metro) che quando uno si doveva fare il bagno tutti noi figli dovevamo uscire fuori. Dopo me so’ sposata, abitavo al II° lotto e sono andata al I°. […] Eravamo in cinque, io, mio marito, mio cognato e due bambini in due stanzette piccole. E pagavamo circa tremilacinquecento lire di pigione, ma era pieno di umidità, di topi, bagarozzi, un disastro. E a noi ce scocciava che queste case (in costruzione a Monte del Pecoraro, n.d.r.) le dessero agli altri. Le davano a riscatto ai benestanti a cinquecento mila lire di anticipo e cinquantamila lire al mese di affitto. E noi stavamo in quelle case umide, malati di artrite, di tutto. Allora abbiamo fatto una lotta, aiutati dal comitato inquilini, abbiamo fatto manifestazioni all’Istituto Case Popolari a Tor di Nona, siamo stati al Ministero dei Lavori Pubblici. Tutte donne, coi pullman, andavamo casa per casa, ce davano duecento lire per i pullman, e noi quel dato giorno partivamo, tre-quattrocento donne coi bambini a manifestare. E non c’era verso. Senonché l’allora presidente dell’Istituto Case Popolari Scognamiglio, s’è deciso che ce l’avrebbe date a noi, ma ce le dava per quarantacinquemila lire al mese e noi non potevamo assolutamente pagarle. Questa è una borgata di edili, chi è pittore, chi è muratore, e lavorano circa sei mesi l’anno; chi c’ha tre, chi otto, chi dieci bambini. Insomma non si può. Allora abbiamo fatto una lotta, abbiamo incaricato il comitato inquilini e siamo andati avanti, sperando, andando ancora una volta al Ministero dei Lavori Pubblici a manifestare. Adesso spediamo dei vaglia all’Istituto Case Popolari, […] con tre camere paghiamo sedicimila lire (quindici d’affitto e mille di termosifone), quattro camere diciannovemila
51 P. Barberi, Memento urbis: ritrovare e reinventare la memoria di una città, in Roberto De Angelis (a cura di) Iperurbs | Roma. Visioni di conflitto e di mutamenti urbani, Roma, DeriveApprodi, 2005, pagg. 122-123.
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(diciotto d’affitto e mille di termosifone), due camere tredicimila (dodici d’affitto e mille di termosifone). Adesso so’ diciassette mesi che paghiamo il vaglia così speriamo di riuscirci».52
Le vicende e il susseguirsi degli avvenimenti legati alla lotta per la casa sono ben documentati anche in Dentro Roma del 1976, inchiesta a tutto campo sulla città realizzata da Ugo Gregoretti per la campagna delle elezioni comunali di quell’anno. Campagna che porterà poi alla vittoria Giulio Carlo Argan, primo sindaco di Roma non democristiano dal dopoguerra, eletto nelle liste della Sinistra Indipendente e impegnato in prima persona nella battaglia contro la speculazione edilizia. Il film è sempre prodotto dalla Unitelefilm che per un evento così importante non risparmia le risorse. La voce narrante di Gigi proietti ci introduce al racconto di una giornata come tante nella capitale, dall’alba al tramonto, iniziando dall’attesa di un pensionato per ritirare la pensione, passando per l’ufficio di collocamento, la fatica del lavoro, le manifestazioni. Non mancano vicende curiose come la benedizione delle automobili davanti al Colosseo il 9 marzo per la commemorazione di Santa Francesca Romana, protettrice degli automobilisti. E naturalmente non manca all’appello, tra i numerosi episodi dedicati alla lotta per la casa, Tiburtino III: «una delle ultime borgate lager costruite dal fascismo all’epoca dei famigerati sventramenti. Il piano di risanamento della borgate prevede la demolizione di questi fatiscenti edifici del lotto XIII ed il trasferimento delle famiglie che lo abitavano nei nuovi alloggi da costruire nell’area del lotto VII, già sgomberato da alcuni anni.. Ma gli edifici semi-demoliti e pericolanti del lotto VII sono stati occupati da 250 famiglie di senza tetto che hanno così bloccato i lavori, costringendo gli abitanti del lotto XIII a starsene nei loro vecchi alloggi». 53
La presunta omologazione della borgata «ghetto» si comincia a sgretolare. I vecchi abitanti dei lotti si coalizzano contro i nuovi occupanti, creando quella che una delle donne occupanti intervistate definisce una lotta tra poveri: «…Ci rendiamo tutti quanti conto del senso di ostilità (degli abitanti del lotto XIII, n.d.r.) dovuto anche al ragionamento che so’ quarant’anni che stanno a tribola’ ‘sta gente! Bisogna pure capilla perché se so bloccate le costruzioni da due anni (in seguito alle nuove occupazioni, n.d.r.). Però chi sta al governo se facesse un esame di coscienza e non mettesse operai contro operai. Non deve succedere che noi dobbiamo fa’ la guerra tra poveri; a questo punto dobbiamo fa’ la guerra coi ricchi!».54
La sequenza di immagini che segue le vicende dei lotti ha termine nel 1980 con la demolizione degli ultimi edifici, testimonianza visiva raccolta ne Il Pane e le Mele di Stefano Rulli e Sandro Petraglia55 Il film è girato su videocassetta ed è protagonista di un’altra piccola ma inportante rivoluzione tecnologica. Con la comparsa della videoregistrazione elettronica gli audiovisivi di documentazione sociale conquistano una diffusione senza precedenti. Il racconto si snoda attraverso una serie di sequenze che alterna le testimonianze delle persone alle operazioni di trasloco per trasferirsi verso le nuove case
La casa è un diritto non un privilegio di Anna Lajolo, Alfredo Leonardi, Guido Lombardi e Paola Scarnati, AAMOD, 1970. Sempre del 1970 è un altro documento, non montato e privo di audio, conservato all’AAMOD che testimonia la vista e le attività della sezione del PCI di via del Badile a Tiburtino III: le assemblee, la stesura dei cartelloni, la preparazione del palco per il comizio, l’attacchinaggio. Su alcuni dei cartelloni si legge: «Aspettiamo le case da trentacinque anni. Le donne di Tiburtino III. Il Lotto 14 è un lagher (sic!)»; oppure, «L’edile romano è come il feddayn palestinese per il capitalismo» e ancora: «Erano provvisorie. Sono passati trentacinque anni. Quando una casa civile?». 53 Dentro Roma, Ugo Gregoretti, AAMOD, 1976. Racconta Gregoretti: l’aiuto regista era un ragazzetto della sezione un po’ distratto e pasticcione ma pieno di entusiasmo, un certo Walter Veltroni. Cfr. Iperurbs | Roma. Visioni di conflitto e di mutamenti urbani, Atti del Convegno (non pubblicati), Roma, 9-13 maggio, 2005. 54 Dentro Roma, Ugo Gregoretti, AAMOD, 1976. 55 S. Rulli e S. Petraglia. Il pane e le mele, 1980. I due autori realizzano in quegli anni una trilogia sulle borgate romane: oltre a Il pane e le mele, Settecamini da Roma (1981) e Lunario d’inverno (1982). 52
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assegnate. E poi c’è la spettacolare ferocia delle demolizioni. Una palla gigante agganciata ad una gru che polverizza intere pareti alla volta sotto gli occhi attoniti di inquilini e curiosi. Concludiamo la nostra analisi delle fonti audiovisive su Tiburtino III con due visioni del territorio, entrambe contemporanee, ma di segno opposto. La prima è il documentario del 2003 I malestanti trent’anni dopo.56 Quella dei Malestanti è una storia che inizia da lontano. Esattamente nel 1973, quando Vittorio De Seta realizza per la RAI Diario di un Maestro57, uno sceneggiato televisivo in quattro puntate tratto dal testo Un anno a Pietralata di Albino Bernardini58. Un maestro alle prime armi (interpretato da Bruno Cirino) viene designato ad anno scolastico già iniziato presso una scuola a Tiburtino III e gli viene assegnata una classe di ragazzi «difficili» molti dei quali spesso non si presentano nemmeno a scuola. Il maestro non si perde d’animo e si mette alla ricerca dei ragazzi conoscendo le famiglie e i loro problemi, cercando di dare vita ad una forma di scuola sperimentale più adatta alle esigenze dei ragazzi di borgata che è malvista dai colleghi e dal preside. Per volere di Vittorio De seta viene selezionata e utilizzata per le riprese una vera scuola e una vera classe di alunni di Tiburtino III e lo sceneggiato assume un carattere sperimentale sin dall’inizio. I ragazzi infatti frequentano normalmente la scuola elementare la mattina con il maestro Sandro Ricci, mentre il pomeriggio sono impegnati sul set del film. Gli alunni della classe, molti dei quali residenti nel quartiere, diventano per un breve periodo dopo la messa in onda dello sceneggiato un simbolo della borgata.59 per poi tornare nell’anonimato e perdersi nei loro percorsi. È qui che comincia la storia de I Malestanti (neologismo inventato da uno dei ragazzi in opposizione ai benestanti dei quartieri ricchi) quando, dopo una fugace ma illuminante visione televisiva notturna del Diario di De Seta, gli autori del documentario decidono di rintracciarne i protagonisti. Racconta Claudio di Mambro: «Vedendo il film la curiosità che ci è venuta è stata quella di sapere che fine avevano fatto i ragazzini del film. Ci siamo chiesti oggi chi sono? Cosa fanno? dove vivono? Da li è cominciato il lavoro di ricerca, proprio dai nomi e cognomi dei titoli di coda del film di De Seta. Siamo andati a cercare sull’elenco telefonico i primi possibili contatti. E in effetti, al si là di qualche caso di omonimia, tre o quattro di loro li abbiamo raggiunti in questo modo».60
La possibilità di un rinnovato dialogo con i protagonisti del Diario permette una riflessione sul territorio di Tiburtino III nell’arco degli ultimi trent’anni. La chiave di lettura è proprio il racconto di un quartiere in forte trasformazione attraverso le vite vissute da queste persone. Sono storie di ragazzi difficili come abbiamo detto. «Lei sa, come me, che questi ragazzi sono candidati al riformatorio» dice il preside al maestro Bruno Cirino nel fil di De seta. E le spiacevoli profezie del preside nello sceneggiato in molti casi si sono avverate nella vita reale. Diversi di loro hanno conosciuto il riformatorio e il carcere. Le storie di droga si intrecciano a quelle della piccola delinquenza. Nonostante questo però le vicende di queste persone riescono a raccontare il quartiere in modo esemplare: «Parliamo dell’infanzia passata al Tiburtino III. Amedeo ci racconta degli aneddoti interessanti sulla vita che si conduceva nel quartiere ed in particolare nel microcosmo di lotti di case popolari dell’epoca fascista. […] L’infanzia è quella di tutti i bambini del quartiere: i giochi nei prati che circondano all’epoca la zona; le interminabili partite di pallone che finivano solo all’imbrunire; la libertà di entrare nelle case aperte del vicinato per bere un bicchier d’acqua o mangiare un pezzo di C. Di Mambro, L. Mandrile, M. Venditti, I malestanti trent’anni dopo, 2003. V. De Seta, Diario di un Mastro, Teche RAI, 1973. Girato in 16 mm e realizzato dalla RAI che lo mandò in onda tra il febbraio e il marzo 1973, è il film sulla scuola più credibile, onesto e appassionato che sia mai stato realizzato in Italia; […] è anche l’unico che abbia messo a frutto la lezione di Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, pubblicato cinque anni prima. Cfr. M. Morandini, Dizionario dei film, Bologna, Zanichelli, 2006. 58 A. Bernardini, Un anno a Pietralata, Firenze, La Nuova Italia, 1968. 59 Nel 1974 i ragazzi «protagonisti del Diario!» partecipano infatti, assieme all’attore Bruno Cirino alla realizzazione di Un giorno di storia. Diario di un No, un film inchiesta prodotto dalla Unitelefilm e realizzato da Gianni Serra in occasione del referendum sul divorzio. I ragazzi si improvvisano strilloni distribuendo volantini e gridando slogan per le strade del quartiere. 60 P. Barberi, Op. cit., 2005, pag. 126. 56 57
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pane. Lo spazio privato era lo spazio di tutti e i bambini si sentivano protetti da una comunità che vigilava sulla loro sicurezza e che esprimeva, pur nelle difficoltà del vivere quotidiano, uno spiccato spirito di solidarietà. [...] Tutto questo cominciò ad incrinarsi, ci spiega Amedeo, quando le famiglie passarono dalle case basse ed allineate dei lotti a quelle di otto piani costruite dall’Istituto Case Popolari a Monte del Pecoraro. I nuovi edifici avevano ascensori ed appartamenti di cento metri quadrati e furono costruite dall’altro lato della Tiburtina. “All’inizio per un periodo dormivamo in quattro in una stanza, perché non eravamo abituati a tanto spazio e per andare da una camera all’altra era come prendere l’autobus” ci racconta Amedeo. La suddivisione più netta degli appartamenti ed uno spazio comune più ristretto e meno accessibile rispetto alla realtà abitativa precedente avevano cominciato a minare quello spirito comunitario che aveva contraddistinto i rapporti tra le famiglie fino ad allora».61
E anche il ricordo del passaggio dalle baracche alle case è ancora vivido nella memoria di chi lo ha vissuto. Continua a raccontare Amedeo: «Io me le ricordo bene le baraccopoli […] per il semplice fatto che andavi a trovare i parenti de tu’ padre o tu’ madre e magari vivevano in baracca. Ma baracche vere, quelle fatte coi pezzi di legno inchiodati. Quella era “il normale”, quella era la regola. E della regola non ci si può vergognare».62
Se I malestanti si configura come una convincente operazione di scavo nella memoria degli abitanti di un territorio che ha coinvolto protagonisti e realizzatori in un’esperienza di vita che parte dal territorio stesso, di tutta altra matrice risulta essere ItiburtinoIII di Roberta Torre. Quello di Roberta Torre è un utilizzo postmoderno dello spazio urbano nel senso che è completamente decontestualizzato dal territorio e si configura come un’operazione puramente estetica. Un’immagine frammentata di uno ambiente creato a partire da un’immagine letteraria, dall’universo scaturito dalla penna di Pierpaolo Pasolini che con Ragazzi di vita marchia in modo indelebile l’immaginario legato alle borgate romane. La regista infatti non parte dal territorio ma parte da un assunto letterario, una presunta rilettura contemporanea di Pasolini la spinge a chiedersi: chi sono oggi i ragazzi di vita? E non è importante avere riscontri, verificare se il territorio produce ancora emarginazione di quel tipo o la borgata ha stratificato ormai una sua complessità. I personaggi sono parte di invenzione letterario-cinematografica, completamente distaccata dal territorio che rimane sullo sfondo come pura scenografia. Non a caso l’incipit del documentario e un lungo camera car sulla tangenziale est, abusato simbolo di un’urbanizzazione decandente e spersonalizzante, ma decisamente poco attinente con Tiburtino III. I personaggi non sono descritti come abitanti di Tiburtino, ma sono prima di tutto ragazzi di vita, attori e solo marginalmente sono un prodotto di uno specifico territorio, proprio per come vengono delineati. Er porpo («la gente me chiama così perché c’ho sempre le mani in pasta un po’ dappertutto!»), Kamikazen, er pipistrello, Rotolini, er cuculo sono ritratti macchiettisticamente, sovente a torso nudo, sullo sfondo di una parete illuminata da colori acidi, in uno scenario del tutto teatrale. Roberta Torre cerca simboli generici di periferia romana. Non è interessante osservare come una periferia localizzata come Tiburtino produce eventualmente emarginazione (le immagini ad esso dedicate sono volutamente mosse, sfocate, montate in modo serrato e accompagnate da una musica che dovrebbe richiamare nella mente dello spettatore echi di vita tribale) ma è la perifericità in se stessa il fulcro del discorso. Ma questa perifericità utilizzata come scenografia mute di un film che di documentario offre assai poco, non riesce a dirci molto sull’ identità di un territorio che invece mostra una compattezza raramente riscontrabile in altre periferie di Roma. Meglio allora rievocare Tiburtino III, attraverso un’immagine di attaccamento al quartiere che ci sembra riassumere pienamente la sequenza visiva che abbiamo fin qui suggerito al lettore e che ci vene C. Di Mambro, L. Mandrile, M. Venditti, Diario di un diario. I malestanti trent’anni dopo, FarFilms Edizioni, Catania, 2003. 62 C. Di Mambro, L. Mandrile, M. Venditti, Op. cit., 2003. 61
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indicata da uno dei «malestanti», Stefano Scafati, nato nei lotti popolari di Tiburtino III, residente da oltre trent’anni con la madre in un appartamento assegnato alla sua famiglia a Monte del Pecoraro, ragioniere «costretto» ogni giorno ad emigrare ai Parioli per lavorare presso lo studio di un commercialista: «Se tu me dici: rinneghi Tiburtino, io te dico de no. Me poi pure ammazza’ ma Tiburtino rimane sempre Tiburtino… III!».
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Sguardi dal margine. Note sul documentario «Piazza Tiburtino III» RICCARDO RUSSO Esplorare la metropoli 1. Introduzione Diversi intellettuali, artisti e cineasti hanno in passato raccontato le storie e filmato i luoghi del Tiburtino III a Roma. Pier Paolo Pasolini, Vittorio De Seta e Ugo Gregoretti per citarne alcuni, hanno contribuito con la loro produzione alla costruzione di un prezioso patrimonio culturale e cinematografico che continuerà a farci dialogare nel tempo con la storia di questa borgata (vedi paragrafo sulla filmografia di Paolo Barberi). Scorrere i filmati più datati di questi luoghi accanto a quelli più recenti può darci la misura di quanta ricchezza si porti appresso l’audiovisivo nel restituire a distanza di anni le immagini vive di spazi abitati che in quella forma finiscono per non esistere più. Osservando l’inaugurazione della borgata filmata dal LUCE nel 1937 o le demolizioni di quegli stessi lotti filmate da Rulli e Petraglia nel 1981 e confrontando quelle immagini con la realtà odierna di un quartiere moderno, non si riscontrano solamente informazioni visive o sonore su spazi ora diversi, ma anche indicazioni sul cambiamento dei modi di vivere in relazione alla propria casa, al territorio e alla collettività. Negli anni più recenti, con la maggiore diffusione degli strumenti audiovisivi, la capacità di produrre documentazione filmica si è scollegata dai circuiti tradizionali e anche chi si occupa di ricerca sociale ha cominciato a filmare la realtà contribuendo con motivazioni e linguaggi propri a fornire nuovi elementi per riflettere su cosa stia accadendo alla città e su dove stia andando la sua periferia. E’ in questo solco che s’inserisce il progetto di documentario Piazza Tiburtino III, un lavoro che è stato pensato proprio come supporto audiovisivo alla ricerca sulla memoria storica della borgata. Se la ricerca nel suo complesso vuole recuperare testimonianze e punti di vista originali per valorizzare questa memoria, il documentario che la accompagna aspira a farlo attraverso il potenziale visivo dei luoghi e la sensibilità delle persone, utilizzando un linguaggio proprio che è fatto di spazi, di suoni e di ritratti oltre che di parole e di pensieri di questo primo decennio del ventunesimo secolo. 2. Filmare al Tiburtino Se il contributo principale dell’audiovisivo alla ricerca è contenuto nel DVD che è distribuito insieme al volume, in questo paragrafo si vuole intervenire con alcune considerazioni sul lavoro di scrittura e produzione del documentario con particolare attenzione alle motivazioni che hanno spinto il gruppo di lavoro a realizzarlo e alle scelte metodologiche che l’hanno accompagnato. Dietro alla decisione di lavorare sulla memoria e sugli spazi del Tiburtino III c’è la sensazione che qui gli individui abbiano un rapporto peculiare con il loro territorio. Pur avendo avuto un’origine simile alle altre borgate romane e pur avendo conosciuto numerose fasi edilizie che ne hanno cambiato più volte la pelle, questo quartiere continua a conservare alcune sue caratteristiche proprie su cui ci è sembrato particolarmente interessante lavorare dando spazio alle immagini e all’immaginazione. Al Tiburtino III sembra che il passato si fonda col presente e il presente col futuro. In questa parte di città le indicazioni stradali si danno in base ad una vecchia struttura urbanistica che non esiste più e che è sepolta sotto nuovi grandi e edifici di cemento. Qui col termine “palazzone” s’identifica l’edificio più piccolo della zona che un tempo con i suoi tre piani di altezza svettava tra le altre case più piccole di due. Il nome stesso del quartiere sembra non comparire affatto nella cartografia della città anche se alcuni già se lo immaginano su un cartello a denominare una piazza che non esiste ancora davanti al lotto XII, dove un vecchio contenzioso tra l’Ater e il comune di Roma ne impedisce da anni la realizzazione. Quando abbiamo cominciato a filmare, nell’autunno del 2004, la ricerca era già avviata da alcuni mesi e fino allora tutte le testimonianze raccolte erano state registrate solamente in audio. La scelta di introdurre l’utilizzo della videocamera, per quanto motivata inizialmente dall’obiettivo 215
generico di creare un archivio audiovisivo delle interviste, conteneva già in sé la volontà di individuare delle storie che avrebbero potuto essere raccontate in un documentario. La ricerca delle storie è andata avanti alcuni anni di pari passo con le riprese anche se con alcune interruzioni e qualche lunga pausa. Un’intervista tirava l’altra influenzando la scelta degli argomenti da trattare e il lavoro di scrittura è rimasto aperto fino alla fine della lavorazione. La decisione di finalizzare un prodotto da allegare al libro si è andata consolidando con il tempo dato lo spessore dei contenuti che si andavano accumulando. Per quanto sia vero che il documentario è stato realizzato con un budget molto piccolo è anche vero che a causa delle sue peculiarità produttive il lavoro riesce a restituire momenti di grande profondità comunicativa. Nel condurre le interviste abbiamo cercato per quanto possibile di frugare nella percezione intima, sia individuale che collettiva, del rapporto tra la comunità ed il suo territorio concentrando la nostra attenzione soprattutto su quelle storie in cui le persone si raccontavano in relazione ai luoghi. Poiché l’uso della videocamera è stato introdotto a ricerca iniziata, alcuni testimoni presenti nel libro con i loro racconti non compaiono nel documentario. Inoltre a causa di esigenze narrative e di durata, molti contenuti sono stati eliminati nonostante il loro indubbio valore. Seppure siano state molte le persone intervistate, per il montaggio finale è stato selezionato un numero di limitato di personaggi principali cui è affidato il compito di sostenere la narrazione con interventi più corposi mentre tra tutti gli altri abbiamo scelto alcuni piccoli interventi che messi insieme potessero rappresentare il senso comune ed il punto di vista comunitario cui spesso si fa riferimento in questo testo. I personaggi principali del documentario nell’ordine con cui li abbiamo filmati sono Giorgio Zama, Amelia Mancini, Domenico Zanella, Alessandra Giacinti, Ivano Caradonna, Alberto Orsini, Elsa Cedroni e Marisa Marcellino. Con tutti loro abbiamo avuto degli scambi approfonditi. Li abbiamo filmati in relazione ai loro spazi, ognuno di loro poi, oltre a concederci la disponibilità a farsi filmare ha anche contribuito a suo modo alla crescita di questo progetto e per questo glie ne siamo grati. Molto grati siamo anche a un gruppo di donne che ha collaborato in maniera determinante alla riuscita di questo lavoro pur non avendo nel documentario un ruolo di primo piano. Parliamo di Regina Bruschi Polidori, Tiziana Del Citto, Sandra Fortuna, Nadia Gallo, Paola Padella (ex alunne di Paola Spano nella scuola media della borgata intitolata a Caterina Martinelli negli anni ‘70). Loro, che avevano già iniziato a collaborare attivamente alla ricerca nella fase delle registrazioni audio, ci hanno anche aiutato a orientarci nel territorio e ci hanno accompagnato tra le molte storie dei personaggi che si vedono nel film. 3. Gli spazi / Le storie / I personaggi I protagonisti del documentario sono uomini e donne di età diverse. Quello che hanno in comune è il fatto di avere una piccola parte di storia da raccontare di quella storia collettiva più grande che è oggi custodita in questi volumi moderni di cemento ma la cui origine è antica e risale a prima della nascita della borgata. Le prime famiglie che arrivarono qui nel 1936 avevano tutte alle spalle vicende simili. Erano famiglie romane di estrazione popolare che erano state cacciate dal centro storico della città per fare spazio alla Roma imperiale fascista. Da allora la borgata è cresciuta e si è trasformata ma nonostante i numerosi interventi di ristrutturazione edilizia operati negli anni, la comunità originaria è riuscita a rimanere compatta salvandosi dalla disgregazione e ottenendo sul posto i nuovi alloggi in sostituzione delle vecchie case malsane che il regime gli aveva riservato. E così oggi al Tiburtino III, in questi nuovi edifici che ne hanno ridisegnato il profilo ritroviamo una preziosa memoria storica condivisa che si porta dietro le tradizioni degli antichi rioni del centro storico, gli insegnamenti del tempo durissimo della guerra, i valori e le difficoltà della vita di borgata dal dopoguerra in poi e la coscienza politica maturata nei lunghi anni di lotte sociali per i diritti di base, per la casa e per la dignità. Di qui in avanti segue una breve descrizione dei personaggi e del loro contributo specifico al documentario. Tra tutti i personaggi, Amelia Mancini è quella che restituisce nei suoi racconti alcune delle immagini visive più antiche del territorio. Quando era bambina la sua famiglia viveva nella 216
Vaccheria Nardi, azienda agricola che precedeva la nascita della borgata. I suoi ricordi sono quelli della vita rurale del tempo, in cui i grandi lavoravano nei campi e si occupavano degli animali mentre i bambini giocavano tra grandi spazi aperti, orti, stalle e alberi da frutta. Uno dei momenti più significativi in cui abbiamo filmato Amelia Mancini è stata una mattina d’inverno in cui siamo entrati nella Vaccheria Nardi quando era ancora in ristrutturazione. Amelia non ci tornava da anni e ha voluto visitarla tutta. Abbiamo filmato le sue impressioni per poi montarle nel documentario. Amelia ricorda la fame che c’era in borgata durante la guerra, nei suoi racconti affiora spesso un riferimento alla ricchezza di relazioni umane e alla solidarietà che caratterizzava quell’epoca. Le sue parole si caricano di emozione quando ricorda i luoghi della sua infanzia rimasti sepolti sotto le costruzioni che vediamo attorno. Oggi la Vaccheria Nardi, completamente ristrutturata, ospita la biblioteca di quartiere e uno splendido centro culturale. La piccola cintura di verde che la circonda lambisce a Ovest le edificazioni più recenti del Tiburtino III, dove oggi vive la sua famiglia e a Est la più nuova urbanizzazione del quartiere di Colli Aniene. Il contributo di Elsa Cedroni è anche particolarmente importante. Lei è la sola a raccontarci in prima persona l’esodo delle famiglie di sfollati dal centro di Roma alla nuova borgata appena inaugurata. Era una ragazzina quando i funzionari del governo bussarono alla sua casa di via dei Cerchi, impartirono l’ordine di trasferimento e diedero a tutti un giorno di tempo per raccogliere le proprie cose e caricarle su file di carri con destinazione Tiburtino III. Il giorno dopo avrebbero iniziato le demolizioni e quella gente che “forse non era degna di stare al centro di Roma” avrebbe già preso possesso delle nuove abitazioni. Elsa ricorda l’arrivo in borgata, il suo primo impatto con quelle piccole case umide “nel mezzo della selva”. Gli anni della guerra sono vivi nei suoi racconti personali, racconti che si mischiano con quelli tramandati da un padre antifascista e che sono fatti di piccole storie quotidiane, di bombardamenti e borsa nera, piccole azioni di resistenza e grandi manifestazioni di solidarietà tra gli abitanti della borgata. Un altro personaggio che ci aiuta a capire i primi anni di storia della borgata è Domenico Zanella, tecnico del poligrafico dello stato in pensione che ha trascorso quasi tutta la sua vita al Tiburtino III essendovi giunto da bambino con la famiglia nel 1944. Zanella è uno dei personaggi cui spesso ricorriamo nel documentario per la sua capacità di ricostruire con lucidità le diverse fasi storiche della borgata. Dopo una lunga militanza prima nel PCI e poi nel PRC, è testimone diretto di una lunga stagione di lotte sociali. Nei suoi racconti si materializzano immagini nitide dei momenti più importanti della vita politica e associativa del quartiere e con la stessa nitidezza ci racconta di alcune persone che non ci sono più e cui si deve tanto del progresso sociale di questo territorio. Tra gli altri emergono soprattutto i nomi di Robero Iavicoli (medico che ha lavorato tantissimo per denunciare le condizioni di vita nei vecchi lotti malsani), di Virgilio Speranza (militante del PCI e trascinatore della comunità) e di sua moglie Ornella Boncompagni, donna di grande carisma che Paola Spano ha avuto la fortuna di intervistare prima della sua recente scomparsa. Partendo dai fatti del passato con Zanella si arriva a parlare della lotta per la casa, della lotta all’eroina con la cacciata degli spacciatori dal quartiere, dei picchetti per difendere le case in costruzione e della grande partecipazione che ha accompagnato la borgata nella lunga strada per le conquiste sociali. Nel raccontare i cambiamenti che ci sono stati dopo la ricostruzione delle case però Zanella ammette che con le nuove tipologie abitative è andata perduta molta socialità. I suoi ricordi ci riportano a quando nelle domeniche e nelle sere d’estate gli edili impiegavano il loro poco tempo libero e la loro abilità per migliorare lo spazio pubblico. Così facendo la sezione del PCI aveva occupato un’area dello IACP in disuso e la aveva trasformata in parco. E’ il Parco del’Unità, nome che si riferiva allora al quotidiano del Partito ma che oggi invece vuole richiamare al concetto di unione tra le persone. E’ lì che abbiamo incontrato Domenico Zanella la prima volta ed è lì che lo abbiamo intervistato, in quella piacevole cornice di verde urbano che a detta sua potrebbe oggi essere intitolata proprio a Virgilio Speranza dato il grande lavoro che quest’uomo mise in prima persona nella creazione di questo spazio. Del tutto singolare è il contributo di Giorgio Zama. Lui, tra tutti i personaggi, è l’unico esterno alla comunità del Tiburtino III. Zama è un ingegnere in pensione e tra gli anni ‘70 e ‘80, 217
proprio nell’epoca dei grandi interventi di ricostruzione edilizia del Tiburtino III, lavorava come progettista allo IACP. Lui è uno di quelli che hanno ridisegnato il quartiere come lo si vede oggi. Lo abbiamo accompagnato in una lunga camminata tra le nuove costruzioni, quelle che lui stesso aveva contribuito a progettare e dove non era più tornato da allora. Zama ricorda i dettagli di un’esperienza singolare legati alla rapidità con cui queste abitazioni dovevano essere costruite e al contatto diretto dei progettisti con gli assegnatari. Un rapporto di un’efficacia che raramente è stata raggiunta in altre circostanze. Attraversare il quartiere a piedi con Zama dopo tanti anni è stato entusiasmante. Lo stupore e la sorpresa delle continue riscoperte insieme alle tante riflessioni su quello che vedevamo della realtà che ci circondava e su come la avevano immaginata i progettisti. Quelli che allora erano disegni sulla carta oggi sono palazzi abitati, con già trent’anni di storia alle spalle. Un dettaglio che è stato subito evidente agli occhi di Zama nel corso della nostra passeggiata è stata l’assenza di bambini per le strade. Uno scenario completamente diverso da quello gremito di ragazzini che ricordava lui. La struttura demografica è un fattore che caratterizza fortemente l’uso dello spazio urbano. Il brusco calo delle nascite che ha investito il nostro paese negli ultimi decenni poteva essere previsto dai demografi di allora ma ad ascoltare le parole di Zama di sicuro gli ingeneri non se lo aspettavano. Si lavorava a diretto contatto con quei cittadini che avrebbero preso possesso di lì a poco dei nuovi edifici in costruzione. Quelle persone avevano aspettato una casa vera per anni e in quel momento gliela stavano costruendo davanti agli occhi. Di quei momenti Zama ricorda il lavoro incessante, processi costruttivi innovativi per accelerare la consegna delle case, il fervore e la partecipazione della comunità nel suo complesso di fronte alla possibilità di partecipare alla fase progettuale. Altro personaggio di rilievo del documentario è Ivano Caradonna, attuale presidente del Municipio V. Con lui siamo riusciti a incontrarci più volte avendo modo di ascoltare molti dei suoi racconti. Caradonna porta la sua testimonianza di cittadino nato e cresciuto al Tiburtino III e grazie alla sua lunga esperienza nell’amministrazione pubblica ci aiuta a ricostruire con precisione i passi con cui sono arrivati negli ultimi vent’anni i grandi progressi infrastrutturali che hanno contribuito a trasformare la vecchia borgata in un quartiere moderno. Nella ricostruzione di Caradonna si evidenzia che inizialmente gli abitanti del Tiburtino lottavano per i servizi di base e solamente dopo, ottenuti quelli, iniziarono a chiedere l’accesso all’istruzione e alla cultura. Non è un caso che al Tiburtino era presente una delle biblioteche comunali più fornite della città e che oggi si assista alla nascita di un nuovo centro culturale nell’ex Vaccheria Nardi. Parlando con lui abbiamo affrontato il tema della toponomastica e del fatto che continui a mancare sul territorio un toponimo legato al nome della borgata. Alessandra Giacinti è una delle tre donne protagoniste del nostro documentario. La abbiamo conosciuta quando già la lavorazione era iniziata da qualche tempo ma anche il suo contributo è stato determinante per la crescita del lavoro. Alessandra è una giovane artista e anche è lei è nata e cresciuta al Tiburtino III. Attraverso la pittura è riuscita a fare del suo quartiere uno strumento di emancipazione. La abbiamo cercata proprio perché sapevamo di una sua mostra intitolata Tib III, lei ha presto accettato di collaborare con noi ed ha anche messo a nostra disposizione della produzione i suoi dipinti, che adesso costituiscono la base per le grafiche del documentario. Una delle specificità di Alessandra come personaggio sta nel fatto che lei abiti proprio in uno dei grandi palazzi di via Mozart progettati da Zama e dai suoi colleghi oltre trent’anni fa. Quel palazzo in particolare potrebbe essere identificato oggi come l’edificio più importante del quartiere. Un manufatto ambizioso di sette piani e quasi trecento metri lineari, che è di centrale importanza perché ospita, oltre alle tante abitazioni, anche diversi negozi e servizi insieme ad ampi spazi immaginati per un intenso utilizzo pubblico. Fino all’autunno del 2009 questo edificio ha ospitato anche la nota biblioteca comunale di via Mozart che poi è stata trasferita nella Vaccheria Nardi. Con Alessandra abbiamo perlustrato quel grande palazzo addentrandoci in ambienti che oggi sono in disuso ma che invece dovevano costituire il valore aggiunto di questa costruzione. Questi ambienti erano stati pensati per gente dalla grande propensione alla vita pubblica ma evidentemente qualcosa nel frattempo doveva essere cambiato. Le scene filmate con Alessandra in quel palazzo offrono nel 218
documentario ripetuti spunti di comparazione con lo stupore di Carlo Zama nel verificare l’interpretazione che gli abitanti del luogo avevano fatto di quegli ambienti. Confrontare le impressioni dei due personaggi sull’edificio più rappresentativo del quartiere è assolutamente interessante e fornisce elementi per riflettere sul rapporto tra le prospettive della progettazione edilizia e l’interpretazione che le persone in carne ed ossa fanno degli spazi una volta realizzati. Alberto Orsini è una delle persone che hanno iniziato a collaborare con noi nelle fasi più recenti della lavorazione. Con lui siamo ritornati nel parco dove avevamo incontrato tempo addietro Domenico Zanella ma questa volta è stato in occasione della festa di quartiere. La festa nel parco a memoria di tutti gli intervistati è da sempre uno dei momenti topici della vita associativa del Tiburtino III. Tutti ricordano le Feste dell’Unità organizzate dalla sezione del PCI, la festa filmata nel documentario è invece organizzata dal circolo Arci di zona intitolato a Concetto Marchesi, che dal Partito ha ereditato la gestione dell’area. Alberto Orsini è l’attuale presidente del circolo e ci racconta tutte le vicissitudini e controversie che hanno portato negli anni i cittadini del quartiere a confliggere con l’Ater sul diritto di utilizzo di quell’area. Orsini ci spiega cosa significhi, per loro del circolo Arci, autogestire uno spazio pubblico oggi in un quartiere che è profondamente cambiato e dove coinvolgere le persone non è più facile come un tempo. Con Alberto parliamo del fatto che sono proprio i più giovani i grandi assenti di oggi dalla vita partecipativa. Lui vede la grande differenza che passa tra i ragazzi di borgata di allora e i ragazzi di periferia di adesso. Secondo lui prima i ragazzi di borgata erano diversi dagli altri ma nel bene e nel male avevano dei valori in più, dovuti a una genuinità che si alimentava nella vita comunitaria. Oggi la sua paura è che i ragazzi di periferia abbiano solamente qualcosa in meno, riferendosi alle opportunità di costruire un futuro e di guardare in avanti con fiducia. Sarebbe utile secondo lui se ai giovani del Tiburtino si potessero trasmettere quei valori che hanno contribuito al progresso di questo territorio e anche per questo spesso Alberto organizza mostre fotografiche sulla storia della borgata. Il suo contributo al documentario è andato infatti oltre alle interviste che ci ha concesso e a disposizione della produzione ha messo il suo archivio fotografico personale. Nel commentare le oltre cento fotografie che ci ha dato, rievocando le diverse fasi edilizie in cui lo scenario si trasformava attorno alle persone, Alberto ha ripercorso gli anni delle battaglie sociali rilevando con orgoglio in alcuni di quegli scatti la presenza d’intellettuali e artisti del calibro di Pierpaolo Pasolini, Dario Fo, Paolo Ganna ed Ennio Calabria, personalità di rilievo tutte legate, anche se per ragioni diverse, alla gente del Tiburtino III. In particolare Orsini ama ricordare quando gli operai del Tiburtino III invitarono Dario Fo nella sezione del Partito per regalargli una cazzuolina d’oro come gesto di solidarietà dopo che era stato allontanato dalla RAI. Lui ricorda ancora la soddisfazione e il senso di rivincita dei compagni del Tiburtino III quando a distanza di anni Fo ebbe assegnato il premio Nobel per la letteratura. Marisa Marcellino è, tra i personaggi principali, quello che chiude il documentario. La avevamo già incontrata qualche anno prima ma il suo contributo in video è arrivato solamente verso la fine della lavorazione. Marisa è da alcuni anni presidente del Comitato di Quartiere del Tiburtino III, altro punto di riferimento del territorio. Marisa ci racconta il ruolo delle donne nella storia delle lotte sociali della borgata. Erano loro che partivano in centinaia per affollare le manifestazioni più dure per il diritto alla casa in Campidoglio o allo IACP. Il racconto comincia con uno dei primi eclatanti atti di ribellione che si ricordino nel territorio, un episodio tragico che coinvolse le donne del Tiburtino III e che vide la morte di Caterina Martinelli, madre incinta di undici figli. Era il 2 maggio del 1944, in strada c’era anche la madre di Marisa quando un gruppo di donne del Tiburtino III tentarono un assalto per il pane spinte dalla necessità di portare ai figli qualcosa da mangiare. Per sedare il tentativo i militari della PAI aprirono il fuoco e a terra rimase uccisa Caterina Martinelli. A lei oggi è intitolata la scuola media del quartiere e il suo nome compare su una targa in via del Badile messa ad opera del Municipio V. Davanti a quella targa siamo andati a passeggiare con Marisa, così come abbiamo passeggiato anche davanti al lotto XII. Un’altra ragione per cui siamo andati a cercare Marisa infatti era nel fatto che il Comitato di Quartiere che lei presiede ha guidato 219
negli anni scorsi una battaglia molto sentita, quella per la costruzione della Piazza Tiburtino III. Fino a qualche tempo fa nella sede del Comitato era appeso in bella mostra il progetto di quella piazza, un oggetto che per noi aveva grande valore simbolico. Purtroppo l’hanno messo via, il passare degli anni ne aveva sbiadito i colori, la carta si era rovinata e alla fine non era più un bel vedere. Un’altra ragione per cui siamo andati a cercare Marisa infatti era nel fatto che il Comitato di Quartiere che lei presiede ha guidato negli anni scorsi una battaglia molto sentita, quella per la costruzione della Piazza Tiburtino III. Fino a qualche tempo fa nella sede del Comitato era appeso in bella mostra il progetto di quella piazza, un oggetto che per noi aveva grande valore simbolico. Purtroppo l’hanno messo via, il passare degli anni ne aveva sbiadito i colori, la carta si era rovinata e alla fine non era più un bel vedere. Secondo il punto di vista di Marisa ogni passo avanti nel progresso di questa comunità si poggia sulle conquiste ottenute da quelli che sono venuti prima. Di fronte ai principali problemi di oggi, come la disoccupazione giovanile, la precarizzazione della vita e il rischio tangibile di un ritorno al degrado gli esempi delle conquiste del passato, sudate in tempo di guerra o di povertà estrema possono dare ancora molto. Affondare le mani nel patrimonio dei saperi collettivi di una comunità che ha ottenuto con le sue forze dei risultati importantissimi può aiutare a recuperare strumenti da passare alle generazioni successive, a quelli che queste conquiste non le hanno conosciute. Il passato e il futuro si toccano e come ricorda Alberto Orsini il miglioramento della qualità della vita al Tiburtino è innegabile ma tutto è stato ottenuto duramente perché nessuno ha mai regalato niente a questa gente. 4. Il gruppo di lavoro Il documentario Piazza Tiburtino III è stato il frutto di lungo lavoro collettivo che ha coinvolto nelle diverse fasi produttive l’intero gruppo di ricerca. Tutti hanno partecipato in momenti diversi alla individuazione delle storie e dei personaggi, alla realizzazione delle interviste e ai momenti di confronto e riflessione che si sono susseguiti durante l’intero percorso. In particolare Marco Maggioli e Riccardo Morri hanno eseguito un’importante ricerca sui filmati d’archivio e sulla cartografia storica. Paola Spano, ha collaborato nella conduzione della maggior parte delle videointerviste dando un prezioso contributo sia concettuale sia organizzativo. Paolo Barberi ha collaborato negli aspetti produttivi durante tutta la lavorazione ed ha curato il rapporto con gli archivi. Al gruppo di ricerca si sono aggiunte nel tempo altre persone che hanno collaborato alla creazione dei contenuti aggiuntivi e al lavoro di post produzione. Alessandra Giacinti ha fornito le pitture a olio su tela su cui Daniele Spanò ha costruito parte delle grafiche del documentario. Daniele Spanò ha lavorato alla post produzione grafica. Dario Benedetti ha composto le musiche. Michele De Trucco ha curato parte del montaggio, il missaggio e la finalizzazione del prodotto. Riccardo Russo, la persona che scrive, ha curato la scrittura, la direzione e la fotografia di questo lavoro che è stato prodotto dall’associazione Esplorare La Metropoli di Roma.
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I narratori ANONIMA, nata a Roma nel quartiere di San Lorenzo nel 1926, proprietaria per molti anni di un negozio di alimentari a Tiburtino III e residente tuttora a Tiburtino; intervistata in casa di Sandra Fortuna a Tiburtino III da Sandra Fortuna e Paola Spano, il 20 maggio 2008. ANTONINI ANNA, casalinga, nata a Roma, a Pietralata, nel 1942, intervistata il 12 novembre 2005 nella sua casa di Tiburtino III insieme con il marito Giulio Fortuna, da Regina Bruschi Polidori e sua figlia Sandra Fortuna. AREZZI GIORGIO, tipografo in pensione, nato a Tiburtino III nel 1950. E’ stato intervistato nel 2005 nella parrocchia di Santa Maria del Soccorso da Riccardo Morri e Riccardo Russo. BERGAMINI ALVARO, nato a Tiburtino III nel1938, ha fatto vari mestieri. E’ stato intervistato nella sua casa di Monte del Pecoraro il 4 giugno 2008 da Regina Bruschi Polidori, Riccardo Russo e Paola Spano. BONCOMPAGNI ORNELLA, nata a Porta Metronia nel 1927, abitava a Tiburtino III dal 1937 e più recentemente si era trasferita a Monte del Pecoraro. E’ stata per molti anni presente e attivissima nel quartiere,nella sezione del PCI e in tutte le lotte che hanno interessato la comunità del Tiburtino. Ha lavorato per vari anni come bidella all’Istituto d’Arte Sacra. E’ stata intervistata nel centro anziani di Monte del Pecoraro il 29 aprile 2005 da Regina Bruschi Polidori e Paola Spano ed è scomparsa meno di un anno dopo l’intervista. BRUSCHI POLIDORI REGINA, lavoratrice precaria, nata a Tiburtino III nel 1960 intervistata da Riccardo Morri e Paola Spano il 10 marzo, il 7 e il 21 aprile 2004; ha intervistato, da sola o con altri, alcuni dei narratori di questo elenco. CARADONNA IVANO, nato a Tiburtino III nel 1957, presidente del V municipio di Roma, intervistato nel febbraio 2008 da Paolo Barberi, Riccardo Morri, Riccardo Russo e Paola Spano, la prima volta nel suo ufficio del V municipio , la seconda volta nelle strade di Tiburtino III. CARBONARA GIANCARLO, nato nel1947 a Tiburtino III, lotto otto, attuale gestore del bar di via del Badile,intervistato il nella primavera del 2008 da Ricccardo Russo e Paola Spano. CARBONI MARCELLO, elettricista, nato nel 1935 a via Cavour e residente a Tiburtino III dal 1936, intervistato al bar di Righetto nella primavera del 2008 da Riccardo Russo e Paola Spano. CARETTA ROBERTO, intervistato Paolo Barberi, Riccardo Morri, Riccardo Russo e Paola Spano il 17 gennaio 2006nei locali della sezione DS di Tiburtino III (oggi sede del PD) della quale era segretario. Risiede nel quartiere dove è nato nel 1953. CASSONE GIUSEPPA, casalinga, nata il 1925 in provincia di Cassino, ha abitato a Tiburtino III dal 1936, scomparsa a febbraio 2010. Intervistata a casa sua insieme con il marito il 29 ottobre 2003 da suo nipote Riccardo Morri e da Paola Spano. CEDRONI ELSA VEDOVA PAOLESSI, nata in Trastevere nel 1928. La sua famiglia di origine è stata una delle prime trasferite dal centro storico (via dei Cerchi) a Tiburtino III. E’ stata intervistata a casa sua, al Monte del Pecoraro, da Riccardo Russo e Paola Spano. DEL CITTO TIZIANA, infermiera, nata a Tiburtino III nel 1964, residente prima al Monte del Pecoraro, oggi a Settecamini. È stata intervistata da Riccardo Morri e Paola Spano il 10 marzo, il 7 e il 21 aprile del 2004. Con Nadia Gallo ha intervistato Anna Paolini e Mario Gallo. DESTRO MARIA ANTONIETTA, nata nel 1945, è stata insegnante di storia dell’arte all’Istituto di Arte sacra dal 1969 al 1977. Intervistata a Tiburtino III il 15 settembre 2008 da Riccardo Russo e Paola Spano. EVANGELISTA MARIA VEDOVA NARDONE, sarta, nata nel 1916 in provincia di Cassino, ,intervistata da Regina Bruschi Polidori, Sandra Fortuna e Paola Spano il 13 aprile 2005 nella sua casa di Tiburtino III, quartiere in cui abita dagli anni quaranta. 221
FIORELLINO MIRIAM, residente a Roma e nata a Filettino nel 1952; Lavora allla Rai. E’ stata intervistata da Paola Spano a casa di Antonietta Destro, insieme con la stessa Antonietta, il 27 agosto 2009. Negli anni settanta ha frequentato come allieva l’Istituto d’arte sacra di Tiburtino III. FORTUNA GIULIO, fabbro in pensione, nato nel 1936 a Arquata del Tronto (Ascoli Piceno). Arrivato a Roma nel 1947 si è trasferito a Tiburtino III dal quartiere San Lorenzo nel 1948. Intervistato nella sua casa di Tiburtino da Sandra Fortuna e Regina Bruschi Polidori. FORTUNA SANDRA, casalinga, nata a Tiburtino III nel 1964 e residente tuttora nel quartiere. Intervistata da Riccardo Morri e Paola Spano il 10 marzo e il 21 aprile 2004, e una terza volta da Paola Spano il 20 maggio 2008. Da sola o con altri ha intervistato lei stessa alcuni dei narratori di questo elenco. FULLI EMILIA, nota col «nome di battaglia» di Marisa Marcellino, casalinga, attuale presidente del comitato di quartiere, sempre molto attiva nella vita e nelle lotte della comunità di Tiburtino, dove è nata il nel 1938 e dove tuttora risiede. E’ stata intervistata nella sede del Comitato di quartiere da Riccardo Morri e Paola Spano il 4 febbraio del 2005 e una seconda volta in video da Riccardo Russo l’8 luglio 2010 di fronte alla lapide che ricorda l’uccisione di Caterina Martinelli. GALLO MARIO, macellaio, nato nel 1935 ad Acuto, in provincia di Frosinone, ha vissuto a Tiburtino III dal 1956 fino al 1966, quando si è trasferito al Monte del Pecoraro. Abita oggi a Settecamini dove è stato intervistato, insieme con la moglie, il 18 dicembre 2005 da Tiziana Del Citto e da sua figlia Nadia Gallo. GALLO NADIA, attualmente impiegata nella segreteria della clinica Italia, nata a Tiburtino III nel 1964, e da molto presto residente prima al Monte del Pecoraro, poi a Settecamini. E’ stata intervistata da Riccardo Morri e Paola Spano il 10 marzo e il 7 e 21 aprile 2004, con Tiziana Del Citto ha intervistato a sua volta i propri genitori. GIACINTI ALESSANDRA, pittrice, nata nel 1975 a Tiburtino III dove abita tuttora, è stata intervistata il 26 giugno 2008 nel suo studio di via della Lungara da Paolo Barberi e Riccardo Russo e il 20 luglio 2008 nella sua casa di via Mozart da Riccardo Russo. GIACINTI IVANO, guidatore di tram, nato a Tiburtino III nel 1954, intervistato al bar di Enrichetto da Riccardo Russo e Paola Spano nella primavera del 2008. KARPATI BIANCA, insegnante, nata nel 1949 a Bolzano, intervistata il 13 giugno 2008 a Tiburtino III da Paolo Barberi, Riccardo Russo e Paola Spano,alla presenza di Daniele Spanò, suo figlio. Ha lavorato nelle classi speciali per i bambini Rom e poi per molti anni nella scuola elementare Fabio Filzi di Tiburtino III. LATTANZI MARIA PIA, nata nel 1935 a Porta Metronia, Roma. Intervistata il 6 maggio 2005 nella sua casa del Monte del Pecoraro, è morta pochi giorni dopo l’intervista. Gli intervistatori erano Tiziana Del Citto, Nadia Gallo, Riccardo Morri, Riccardo Russo, Paola Spano. Ha lavorato per trentadue anni come guardarobiera all’ospedale Regina Elena. LIBERATI STEFANO, autista, nato a Tiburtino III il nel 1964, si è trasferito al Monte del Pecoraio con la famiglia di origine nel 1969. Oggi abita a Tiburtino III, nel “Palazzone”, dove è stato intervistato il 21 novembre 2005 insieme con la moglie Paola Padella. LORENZONI MARIA IN STEFANI, assistente sociale, nata nel1941 a Roma, ha lavorato nella zona del quinto municipio negli anni settanta, occupandosi tra l’altro dell’integrazione dei bambini delle scuole e classi speciali e dei malati di mente dimessi dagli ospedali psichiatrici. Intervistata a casa sua da Paola Spano il 9 settembre 2009. MANCINI AMELIA, casalinga, intervistata una prima volta a casa sua da sua figlia, Regina Bruschi Polidori, nel dicembre 2005, una seconda volta il 10 maggio 2008 alla vaccheria Nardi da Riccardo Russo e Paola Spano e una terza volta a casa di Sandra Fortuna il 2 luglio2008, sempre da Riccardo Russo e Paola Spano in presenza di Regina Bruschi Polidori e Sandra Fortuna. E’nata a Roma nel 1932, 222
nel quartiere di Torpignattara, ha trascorso l’infanzia e la giovinezza alla vaccheria Nardi, risiede a Tiburtino III da quando si è sposata, all’età di vent’anni. MATTIOLI UMBERTO, venditore di frutta e verdura, nato alla Garbatella nel 1932, vive a Tiburtino III dal1936. E’ stato intervistato nella parrocchia di Santa Maria del Soccorso il 15 aprile del 2005 da Riccardo Morri e Paola Spano. MORELLI LAURA, nata nel1954 a Tiburtino III, dove tuttora abita, è stata intervistata da Paolo Barberi, Riccardo Morri, Riccardo Russo e Paola Spano il 17 gennaio 2006 nei locali della sezione DS di Tiburtino III, oggi sede de PD. MORELLI MARISA (Rosina Pincarelli in Morelli), nata ad Artena nel 1932, abita a Tiburtino III da quando si è sposata. Prima casalinga e madre di nove figli, dalla morte del marito ha lavorato per vent’anni nel consultorio di Pietralata. E’ stata intervistata a casa sua il 18 giugno 2008 da Bianca Karpati, Riccardo Russo e Paola Spano, e una seconda volta sempre a casa sua il 7 agosto 2008 da Paola Spano. MORRI ANTONIO, pensionato Telecom, nato a Tiburtino III il 1947, è stato intervistato a Morlupo, dove attualmente abita il 21 novembre 2003 dal figlio Riccardo Morri e da Paola Spano. MORRI PRIMO, pensionato delle Ferrovie dello Stato, nato nel 1921 a Trastevere,vissuto prima a Testaccio, poi a Tiburtino III, poi al Monte del Pecoraro, scomparso nel marzo 2005. Intervistato a casa sua insieme con sua moglie il 29 ottobre 2003 da suo nipote Riccardo Morri e da Paola Spano. MOSCHENI GIUSEPPE (padre Tarcisio), nato a Bergamo nel 1930, ha vissuto a Tiburtino III per ventun anni, dal 1961 alla fine degli anni settanta , prima come viceparroco e poi come parroco della parrocchia di Santa Maria del Soccorso. Ha anche insegnato religione nella scuola media di piazza Ardimento. NENA ALFIERO, scultore, nato a Treviso nel 1933, vive a Roma dal 1958. E’ stato allievo e poi docente dell’Istituto d’arte sacra. Il suo studio, Centro Fidia, è in via del Frantoio. Le sue sculture hanno ottenuto numerosi premi e riconoscimenti. ORSINI ALBERTO, operaio edile, attuale presidente del circolo Arci che gestisce il parco dell’Unità. E’ nato a Tiburtino III nel 1953: PADELLA BRUNO, impiegato, nato nel 1935 a Roma, piccolissimo si è trasferito da san Lorenzo a Tiburtino III dove abita tuttora. E’stato intervistato il 14 novembre 2005 insieme con la moglie Osvalda Screponi nella sua casa di Tiburtino, da Regina Bruschi Polidori e sua figlia Paola. PADELLA PAOLA, dopo diversi altri lavori è oggi impiegata in una ditta di pulizie. È nata nel 1964 a Tiburtino III dove abita tuttora. E’ stata intervistata più volte a casa sua, nel “Palazzone”, il 10 marzo, il 7 e 21 aprile 2004 con alcune amiche citate in questo elenco da Riccardo Morri e Paola Spano, e il 21 novembre 2005 con il marito Stefano Liberati da ReginaBruschi Polidori e Paola Spano. PALA GIUSEPPINA (Pina), sarta e da molti anni collaboratrice tuttofare nella scuola delle suore Sacramentine del quartiere. E’nata il nel 1947 a Tiburtino III dove è cresciuta, oggi abita al Monte del Pecoraro. E’ stata intervistata da Regina Bruschi Polidori e Paola Spano nella parrocchia di Santa Maria del Soccorso il 3 giugno2005 insieme con la sorella Maria. PALA MARIA, maglierista. E’ nata a Roma nel 1936, abita tuttora a Tiburtino III dove è arrivata bambina con la sua famiglia. E’ stata intervistata da Regina Bruschi Polidori e Paola Spano nella parrocchia di Santa Maria del Soccorso il 3 giugno2005 insieme con la sorella Pina. PAOLINI ANNA, sarta, invalida del lavoro, nata a Sulmona nel 1939, ha abitato a Tiburtino III dal 1960 al 1966, quando si trasferita al Monte del Pecoraro, e vive oggi a Settecamini. E’ stata intervistata da Tiziana Del Citto e da Nadia Gallo, sua figlia, il 18 dicembre 2005 a casa sua insieme con il marito Mario Gallo. PETRINI CLARA, nata a Sellano in Umbria nel 1931. Il marito Sebastiano Salvatori, Bastiano,nato anche lui a Sellano nel1925 e scomparso da qualche anno, ha gestito per molti anni uno storico negozio di 223
salumi a Tiburtino III. Clara Petrini è stata intervistata il 14 maggio 2008 da Riccardo Russo e Paola Spano nel piccolo supermercato Sisa a via Mozart, nel quale si è trasferita l’attività della famiglia dopo la costruzione delle “case nuove”. QUARANTA FRANCESCA, infermiera, nata a Tiburtino III nel 1985 e residente nel quartiere. Intervistata nel luglio del 2009 da Riccardo Russo nel parco dell’Unità. SALVATORI GIUSEPPE, Pino, nato nel 1958 a Tiburtino III. E’ stato intervistato il 14 maggio 2008 insieme con la madre Clara Petrini nel supermercato di via Mozart, erede dell’attività commerciale di suo padre Bastiano. SCIASCIA EMILIANO, studente, nato nel 1979 a Tiburtino III dove abita tuttora. Attivo politicamente è stato intervistato il 17 gennaio 2006 in quella che era allora la sezione dei DS del quartiere, oggi sezionePD, da Paolo Barberi,Riccardo Morri, Riccardo Russo e Paola Spano. SCREPONI OSVALDA, casalinga, nata a Roma nel 1935. E’ stata intervistata da Regina Bruschi Polidori e dalla figlia Paola Padella il 14 novembre 2005 nella sua casa di Tiburtino III insieme con il marito Bruno Padella. ZANELLA DOMENICO, 1941, tipografo in pensione, attivo nella vita politica del quartiere, prima nel PCI, poi in Rifondazione Comunista e ne I comunisti italiani. Dopo esserne stato il presidente è oggi il vicepresidente del circolo Arci “Concetto Marchesi”che gestisce il Parco dell’Unità di Tiburtino III. E’ stato intervistato, nel Parco, da RiccardoRusso e Paola Spano il 28 maggio2008. ZAMA GIORGIO, ingegnere, nato nel 1928, faceva parte del gruppo che ha progettato e seguito la costruzione delle “nuove case” di Tiburtino III tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. È stato intervistato una prima volta nella sua casa di via Cipro il 18 ottobre 2005 da Riccardo Morri e Paola Spano, alla presenza di Federico De Vita, e una seconda volta, il 13 febbraio 2006 durante una passeggiata tra i palazzi da lui progettati, da Riccardo Morri, Riccardo Russo e Paola Spano.
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