Omicidio a piazza Bologna. Una storia di sicari, mandanti e servizi segreti 8866520030, 8866520634

11 settembre 1958. Una donna, Maria Martirano, viene trovata strangolata nel suo elegante appartamento di via Monaci, a

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Italian Pages 208 [209] Year 2014

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Omicidio a piazza Bologna. Una storia di sicari, mandanti e servizi segreti
 8866520030, 8866520634

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INCHIESTE

Fabio Sanvitale ‒ Armando Palmegiani

Omicidio a Piazza Bologna Una storia di sicari, mandanti e servizi segreti

© SOVERA MULTIMEDIA s.r.l.. Via Leon Pancaldo, 26 - 00147 Roma Tel. (06)5585265 - 5562429 www.soveraedizioni.it e-mail: [email protected] I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

Un grazie ai ricordi di Donatella Coppetti, Enrico De Grossi, Marcello Lambertini e Titta Madia; alla competenza di Marisa Aloia ed Antonella Colonna Vilasi; e alla disponibilità di Paolo Musio. Siete stati preziosi per questo libro.

Capitolo 1

Sembrava un settembre qualsiasi

Seduti ad un bar di piazza Bologna. Otto e mezza di mattina di un settembre romano, meraviglioso come solo questa città sa offrire. Io e Armando abbiamo il piccolo tavolino tondo, di marmo, ingombro di vecchie carte ingiallite e quaderni di appunti. Il cameriere ci guarda perplesso: giustamente, non sa dove poggiare i cappuccini e i cornetti. Risolto questo importantissimo problema, siamo qui. Qui. Cinquantacinque anni dopo. Qui, a qualche decina di metri dal luogo dove tutto accadde. Qui, vicinissimi ad uno dei più grandi misteri del dopoguerra italiano. “Armando, riepiloghiamo quello che è successo. Cominciamo dall’inizio. Che ne dici?” “D’accordo…e non trascurare nessun dettaglio, se vogliamo capire davvero com’è andata”.

Via Monaci: il palazzo

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L’11 settembre 1958 era una giornata come tutte le altre. A Roma si stava bene, la temperatura prometteva di stare tra i 17 e i 27 gradi, che era come dire un bel settembre. Faceva ancora caldo, come se l’estate faticasse a staccarsi dalla terra. Come ogni mattina Maria Teresa Viti, di professione domestica a ore, se ne andava a piedi dalla fermata dell’autobus verso il portone di via Monaci 21, un palazzo d’angolo che era ed è esattamente dietro le Poste di Piazza Bologna, in quella che all’epoca era una zona residenziale. Entrò nell’androne, lo percorse in pochi passi, superò la porta di alluminio e vetro, camminò sul marmo rosso, dove per terra era ed è scritto Malo mori quam foedari (“preferisco morire che macchiarmi col disonore”) e svoltò nel corridoio della scala di destra. Corridoio bello lungo, con sopra una passatoia rossa, vetri opachi (quelli spessi come un mattone) che facevano passare molta luce; e con le kenzie, che ad ogni passo ricordavano alla Viti, se mai ce ne fosse bisogno, che i signori erano quelli che abitavano lì; e non lei. Le scale, primo piano. Ecco il campanello dell’interno 3: Fenaroli, dice. La Viti suonò tre volte, il segnale convenzionale. Niente. Risuonò. Niente. Strano, pensò lei: la signora Maria, la moglie dell’ingegnere, è così precisa, così puntuale, anche pignola. Beh, niente. Riprovò un’altra volta e si sedette sulle scale ad aspettare. Certo che dietro la porta non si sentiva neppure il rumore d’un passo. Starà dormendo ancora, la signora, pensò la Viti; e sarebbe stato strano anche questo. Nel frattempo la portiera del palazzo, Marisa Goracci, spazzando le scale a partire dall’ultimo piano, era arrivata al primo. E, sugli scalini, trovava la Viti, seduta e preoccupata, cominciò a dire che la signora non rispondeva, “ecchessaràsuccesso”: e che non sapeva cosa fare. Strano, rispose la portiera, “Ieri l’ho vista uscire di casa verso le 17,30, accompagnata dalla domestica di una sorella, che credo faccia di nome Anna”1. E già. Che sarà successo? Anche la Goracci risuonò, ma niente. Il risultato era lo stesso silenzio. Allora disse alla Viti: senti, telefona al fratello della signora, Luigi, che ha l’ufficio qui dietro, a cento metri. Vedi un po’ 1 E aggiungerà, a verbale: “Non l’ho vista rientrare, ma faccio presente che alle 20,20 lasciai la guardiola per andare a cena e vi tornai alle 21 per starci fino alle 22, quando chiusi il portone”.

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se vuole venire. Armata di gettone, Maria Teresa Viti, di professione domestica a ore, chiamò dal vicino supermercato il signor Martirano Luigi, fratello di Maria. E s’erano fatte le 8.50-9. Erano quasi le 9 quando Luigi arrivò in via Monaci, risuonò anche lui, niente. Controllò le finestre di casa: erano tutte chiuse. Accompagnato dalla Goracci, entrò nella chiostrina del palazzo, dove davano le finestre delle cucine. La portiera se n’era ricordata, di quella finestra: se non lo sapeva lei! Ecco, sì, quella della cucina era semiaperta! Bene. Luigi Martirano pensò allora di procurarsi una lunga scala, di almeno 7 metri, per entrare da lì. Andò anche nel palazzo dove aveva l’ufficio, a chiederla, in via Ravenna 34. E fu in questo momento che saltò fuori Marcello Chimenti. Marcello aveva 25 anni e faceva lo studente; ma era anche speleologo. No, una scala così lunga non si trovava, ma il ragazzo ebbe un’idea: disse che poteva scendere lui dal piano di sopra, calandosi con una delle sue scale di corda. Mentre Chimenti andava a prendere l’attrezzatura, Luigi si recava al vicino bar e chiamava, intanto, il commissariato di P.S. di Sant’Ippolito. Si ritrovarono fuori dall’abitazione che erano le 10 passate. Al secondo piano non rispose nessuno; salirono le scale fino al terzo, fino a casa Curcio, spiegarono la situazione, poi il piccolo gruppetto si avviò verso la cucina, Chimenti assicurò la scala ad un termosifone, oltrepassò la finestra e cominciò a scendere lungo il muro del palazzo, nel vuoto. Nel frattempo una piccola folla s’era radunata nella chiostrina. C’era Luigi, che voleva sapere cos’era successo alla sorella, c’era la Viti, c’era la Goracci, c’era Valsecchi, l’autista-tuttofare della società per cui lavorava Luigi. Il trambusto cominciava ad attirare gli altri abitanti del palazzo, qualcuno si affacciava, chiedendo cosa stesse succedendo. Chimenti intanto era sceso, era arrivato all’altezza della finestra. Guardò dentro. Fece un gesto a quelli che stavano sotto, come per dire che aveva visto qualcosa di grave. Ma gli altri non capirono. A quel punto, aveva alzato la serranda chiusa per due terzi, aveva scavalcato il davanzale ed il lavello di quelli bianchi, di una volta, era entrato ed era rimasto senza fiato. Sembrava che dormisse. Ci fu un lungo attimo di silenzio. Poi Chimenti, cercò e trovò la porta della cucina, percorse il corridoio immerso nel buio, si diresse verso la porta d’ingresso. Vide un puntino rosso, nel nero,

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a qualche metro da lui. Andò oltre. Trovò la porta, che era solo chiusa con lo scrocco, senza mandate2. Chimenti era pallido cercò di bloccare Luigi, ma fu inutile. E tutti si precipitarono dentro. Luigi trovò la sorella, le toccò la guancia. Maria Martirano era sul pavimento della cucina, indubbiamente a terra, indubbiamente fredda, indubbiamente morta. Luigi chiamò di nuovo la polizia: stavolta c’era un cadavere. Era cominciato il caso Fenaroli. Erano le 10.30 quando una camionetta della Pubblica Sicurezza arrivò al 21 di via Monaci, precedendo di pochi attimi i carabinieri. Per un patto tacito furono dunque quelli della Questura a fare le indagini ed i secondi invece a dare una mano. Poi frenò davanti al portone un’Alfa 1900 con i pezzi grossi della Mobile. Non erano investigatori di poco conto, quelli che entrarono nell’appartamento del primo piano. Tra loro c’era Ugo Macera, abruzzese, capo della Omicidi, uno dei più grandi poliziotti della storia italiana. Stava per partire per le vacanze, Macera, quel giorno. Ebbe la pessima idea di passare alla Mobile per salutare prima di andare, per dare le ultime istruzioni. Non fu la sua migliore idea: in quel momento arrivò in sala operativa una chiamata, quella di Luigi Martirano. E così andò a dare un’occhiata. Un cadavere in cucina: pensò ad una fuga di gas, Macera. Ancora non lo sapeva, ma le valige sarebbero rimaste lì per un pezzo. Maria Martirano, 49 anni, si vedeva anche a occhio nudo, era stata strangolata. La lingua era gonfia e sporgeva dalle labbra, il corpo era composto, sul pavimento, freddo come le mattonelle. Aveva ancora dei sandali ai piedi, strano. Era vestita con un abitino a fiori, lo stesso che aveva la sera prima. La casa era in un ordine incredibile, immacolato. Una sola stanza era fuori posto: la camera da letto di lei, dove i cassetti erano stati aperti, l’armadio rovistato, delle carte buttate per terra. Tra queste, spiccavano la bellezza di tredici polizze assicurative, in bella mostra sulle mattonelle di marmo nero. Per il resto, confusione era una parola sconosciuta, in quella casa. Regnava un ordine assoluto, 2 Circola, ancor oggi, una versione dei fatti per cui la porta era chiusa a chiave dall’esterno, ma non è vero: era solo chiusa senza mandate, come d’altronde dice il verbale della Mobile.

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quasi esagerato, razionale. Una forma impeccabile. Ecco, però, una cosa che si notava erano i pacchetti vuoti di Nazionali senza filtro: ed in salotto, in camera da letto, i posacenere erano pieni di cicche. Fumava tantissimo, Maria, anche due pacchetti al giorno. Ah, e poi c’era la presa del telefono, che era stata staccata. L’aveva reinserita Valsecchi, ce lo ricorda nella sua testimonianza Chimenti: è stato quando Luigi ha chiamato per la seconda volta la Polizia, la Squadra Mobile, da casa. Maria Martirano non viveva da sola, però: aveva un marito. E dov’era il marito? Giovanni Fenaroli, 50 anni, era a Milano, disse Luigi. Lo sapeva bene, lui: era il suo capoufficio, Fenaroli. Alle 10.30 Fenaroli rispondeva al telefono, dalla sua scrivania nella centralissima via Gesù, che stava dalle parti dell’elegantissima via della Spiga: “Vieni, hanno ammazzato Maria! Cani! Quegli assassini!”, urlò nell’apparecchio Luigi. Sconvolto, Fenaroli disegnò con la biro una grossa croce sulla sua agenda, alla pagina di quel giorno, ci scrisse accanto “Maria” e volò a prendere il primo aereo per Roma, quello delle 12.

Planimetrie a confronto: quella in alto è presa dal fascicolo di sopralluogo e quella in basso da «Il Paese»

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Alle 11.30 iniziava il sopralluogo della Scientifica. “Armando, come hanno proceduto? Ma non è strana questa scena del crimine? Voglio dire, perché l’assassino ha frugato solo in camera da letto di lei e in quella di lui non ha toccato nulla?” “Strana, la scena del crimine? Ma perché, la casa no? Ti dico subito un fatto curioso, la planimetria inserita nel fascicolo è totalmente sbagliata. Guarda qua. Il palazzo ha una struttura singolare. Il balcone della Martirano, situato al primo piano, dà proprio sul portone d’ingresso: ma questo prospetto ha la larghezza del solo balcone, che corrisponde al suo salotto, poi si hanno i suoi lati, cioè per capirci è come se l’ingresso fosse su uno spigolo, smussato, del palazzo. Detto questo, la struttura dell’appartamento è di conseguenza irregolare, al punto che la cucina è di forma esagonale ed il corridoio che attraversa la casa, e che cintura la cucina, è formato da vari tratti. Vedi invece com’è stata fatta la planimetria? Te la metto in comparazione con quella pubblicata su «Il Paese», che invece risulta fedele. Fatta questa premessa… vediamoci il sopralluogo. Porta d’accesso, ingresso, corridoio che piega verso destra: subito notiamo un mobiletto con il telefono. Vedi, la spina è inserita”. “Vedo, eccola qua”. “Subito dopo il mobiletto, abbiamo a destra l’ingresso della cucina. Sul pavimento del corridoio, vicino all’ingresso della cucina si rinviene un mozzicone di sigaretta ‘Nazionale Esportazione Super’, senza filtro. Pensa che Chimenti di quella mattina ricorderà due cose importanti, che riferirà agli investigatori: la lucina rossa dello stabilizzatore della corrente della televisione e questo mozzicone di sigaretta. Si ricorderà anche che, quest’ultimo, non era nella posizione che vediamo nelle fotografie, ma più parallelo alla parete. Forse si spiega col fatto che non appena Chimenti aprì la porta d’ingresso nell’appartamento entrarono, oltre che Luigi, Valsecchi, la Viti ed una signora anziana che abitava nel palazzo. Un’altra scena del crimine ‘affollata’...” “Non ci sono poi tutte ‘ste foto, nel sopralluogo, eh?” “Sì. Le immagini fotografiche non sono molte, forse in linea con i tempi dove ogni ‘scatto’ era comunque costoso e laborioso. Ricordiamoci che si lavorava con la pellicola ed il flash non era automatico. Ad ogni suo utilizzo si sostituiva una piccola lampadina. La casa, comunque, si presentava in ordine, poco arredata e

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con pochi soprammobili. Ma veramente pochi: per farti un esempio, nel salotto intercomunicante con la sala da pranzo possiamo trovare rari oggetti sui mobili. Invece, in quasi tutti gli ambienti ci sono pacchetti di sigarette, dello stesso tipo del mozzicone rinvenuto, appena iniziati. Nel salotto poi notiamo una cosa particolare, vedi qua?” “Certo, è un posacenere”. “Ecco, vicino a questo pacchetto di Nazionali si trova un posacenere in cristallo, dentro ci sono vari mozziconi di sigarette di cui uno con il filtro, singolare no? Facciamo una considerazione, in un 1958 in cui non esisteva l’esame del DNA. Questi reperti, pur se importanti ai fini investigativi anche all’epoca, venivano ‘analizzati’ esclusivamente dal punto di vista merceologico. Nel senso che si andava a determinarne la marca, la lunghezza, messe poi in comparazione con le abitudini della vittima. Per esempio, con la testimonianza dei familiari: che vedono la Martirano come una grande fumatrice che però non finiva le sigarette, ma ne fumava solo una minima parte. Addirittura spesso, all’epoca, si faceva uno studio su come venivano spente nel posacenere, ma ovviamente questo non ci poteva aiutare dal punto di vista strettamente identificativo del DNA”. “Scusa, ma non potrebbe averlo lasciato l’assassino?” “E invece siamo sicuri che quel mozzicone di sigaretta non sia stato lasciato da qualche ‘ospite’ della scena del crimine, la mattina in cui venne scoperto il corpo? Al momento del sopralluogo effettuato dal personale della Polizia Scientifica – coordinato dal funzionario Rocco Paceri, che poi diverrà direttore della Scientifica – c’erano il Giudice Istruttore Modigliani, il Pubblico Ministero Felicetti e poi ben quattro funzionari di Polizia con il loro personale. Oltre, ovviamente, al medico legale. Ma quanti erano presenti in quella casa? Vedi Fabio, leggendo tutti gli atti d’indagine si nota chiaramente che non hanno dato particolare importanza a quel mozzicone con il filtro. Ti pare normale? Fa pensare che già dalle prime fasi ci sia stato il dubbio che sia stato lasciato non dall’assassino, ma da qualcuno intervenuto dopo. Non credi?” Va bene, va bene: mi hai convinto. Il ragionamento di Armando non fa una grinza, sto per fargli una domanda, ma già lo vedo girare pagina e continuare, tutto preso dalla spiegazione. “Adesso andiamo a vedere il resto dell’appartamento. L’at-

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tenzione dell’assassino si è concentrata esclusivamente sulle camere da letto e in particolare su quella di lei. I coniugi Fenaroli dormivano in stanze separate. Pensa che nel salotto-camera da pranzo non sono state neppure aperte le ante delle credenze. Eppure, come verrà segnalato dalla Squadra Mobile in una sua informativa, erano in bella vista servizi d’argento, anche di un certo pregio... Nella camera da letto della Martirano l’assassino invece compie un’ ispezione decisamente accurata… Per prima cosa vediamo come viene descritto il letto matrimoniale nel sopralluogo: ‘il letto matrimoniale è rifatto, con il lenzuolo superiore e la coperta rimboccati sulla metà inferiore del letto stesso. In esso si notano cinque borsette da donna di cuoio nero, una di camoscio nero ed una di cuoio bianco, una vestaglia a fiori, una camicia da notte a fiorellini, un portamonete, un accendisigari; il tutto è alla rinfusa’. Nella parte descrittiva del sopralluogo, che è quella che stiamo leggendo adesso, non si fa menzione di un mazzo di chiavi, che invece viene fotografato nel rilievo nr. 62, senza indicarci però dove erano posizionate, con la didascalia che invece ci specifica che era relativo alle nuove serrature. Teniamolo da parte, ok? Ora continuiamo a vedere il nostro fascicolo ed in particolare l’armadio... Ha cinque ante, tutte aperte, di cui quella centrale singola. Si nota subito che è stato frugato in maniera apparentemente accurata, senza che il materiale contenuto sia stato gettato via. Ci sono cassetti aperti e carte sparse sul pavimento, tra cui le tredici polizze assicurative cui accennavi prima...” Gira un foglio, appare la cucina. Il luogo del delitto. “Ma adesso entriamo nella cucina, abbiamo già detto che ha questa curiosa forma esagonale, no? Quando viene descritta dall’operatore della Polizia Scientifica è curioso leggere: ‘addossato alle due pareti di destra è posto un armadio tipo cucina all’americana a più elementi’. Ci pensi? Era così inusuale all’epoca avere una cucina componibile… che viene descritta come ‘armadio’. Vedi? I mobili che compongono l’ ‘armadio’ sono spogli, si nota solo una bilancia per alimenti ed un barattolo. Anche l’ampio tavolo è vuoto. Il lavello è scorporato dal mobile ed è posto sotto la finestra: infatti sarà d’intralcio a Chimenti quando entra, e si nota – all’interno delle due vaschette – ‘in quella di destra un capello lungo circa 18 cm. Mentre in quella di sinistra si notano: un piatto con tracce di cibo, un coltello da tavola, una

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forchetta, un bicchiere di vetro bianco, una tazza da caffè con relativo piattino e cucchiaino’. Il medico legale verrà incaricato di capire se il capello appartenesse alla Martirano. E poi, a ridosso del mobile da cucina c’è il cadavere”. Eccolo. Così stranamente composto, quasi addormentato. Niente fa pensare che la violenza sia passata di qui. Fin quando non ti avvicini, non vedi gli ingrandimenti. Armando sfoglia le vecchie pagine del rapporto della Scientifica di 55 anni fa. “…Ma dove l’ho messo? Ah, eccolo! Viene descritto così: ‘Il cadavere si rinviene nel quadrante posteriore destro della cucina e precisamente nella zona compresa tra il tavolo e l’armadio. Esso è integro, inodoro, vestito, rigido, cianotico e giace disteso sul fianco destro con la testa rivolta alla parete posteriore dalla quale dista cm. 40 circa; i piedi, in direzione della finestra, distano cm. 56 circa dalla parete anteriore. La testa poggia con la guancia e la regione temporale destra sul pavimento; le palpebre degli occhi sono chiuse con i bulbi oculari leggermente protrusi; dalla bocca semi aperta, con la lingua protendente tra le arcate dentarie, fuoriesce del sangue che, seguendo la linea di gravità, termina sul pavimento, formando una vasta chiazza, in parte semi coagulata, mista a sangue sieroso. Parte dei capelli della regione temporale sono intrisi di sangue. Sulla regione giugulare del collo si notano lievi abrasioni e piccole infiltrazioni ematiche; nell’angolo destro della mandibola si nota una lieve escoriazione con infiltrazione ematica della grandezza di cm. 0,5 circa. Il braccio destro sul quale gravita la metà superiore del corpo è indotto e l’avambraccio leggermente disteso, poggia con la regione ulnare sul pavimento; la mano con le dita unite e leggermente flesse, aderisce con il dorso alla base dell’armadio. Il braccio sinistro, anch’esso indotto, con l’avambraccio flesso verso il viso, aderisce al pavimento con la regione ulnare; la mano sinistra, che poggia sul pavimento con le nocche, ha le dita unite e flesse all’altezza del naso. Le unghie delle dita delle mani sono smaltate di colore rosso carminio. All’anulare sinistra è infilato l’anello nuziale di metallo giallo. Gli arti inferiori sono distesi e leggermente divaricati alle estremità con le punte dei piedi rivolte alle pareti di destra. Il cadavere indossa: un vestito a fiori rossi fantasia senza maniche con abbottonatura anteriore; un reggiseno con all’interno coppette di gomma; un pannolino di spugna bianca

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sorretto da uno slip del tipo cip, ed un paio di pianelle di cuoio con una striscia di tomaia bianca’. Ma tutto deve essere sempre descritto così minuziosamente? Vedo lo sguardo di Armando con gli occhi al cielo: non credo che mi risponderà… D’accordo: proseguo. “Che ne pensi della sigaretta trovata in corridoio, accanto alla cucina? Forse può dirci dove si trovavano vittima e assassino fino ad un attimo prima. Perché, se la Martirano fosse fuggita dal salotto, non si sarebbe certo portata dietro la sigaretta… non so, ho l’impressione che deve essere stata aggredita di colpo, mentre entravano in cucina, a pochi passi da dove è stata trovata. Che ne dici?”. “L’idea non è male, ma leggiamoci prima le risultanze medico legali: ne parliamo dopo?”. “Certo, non deve averci messo molto, l’assassino, a fare fuori la Martirano. Una donna esile, che è stata sopraffatta subito. Una donna che aveva una paura immensa degli estranei. Che poi, solo pochissimi giorni prima, era successo qualcosa di molto, molto strano, in via Monaci…”. “E qui ti riferisci alla faccenda di domenica sera” fa Armando. “Esatto, quella”.

Il cadavere della Martirano.

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Era stato la sera di domenica 7 settembre. Come ogni domenica, Giovanni ripartiva per Milano col treno-letto della notte. Erano andati al cinema, al Fiamma, marito e moglie, poi a cena fuori con Luigi, al ristorante “Regina”, vicino Piazza Indipendenza. Il programma prevedeva che poi Maria avrebbe accompagnato il marito alla stazione. Ma erano le 22, la cena era finita, l’irritabile signora Martirano non se l’era sentita: e così marito e fratello l’avevano riaccompagnata a casa. Erano arrivati alle 22.30 e i due uomini s’erano messi una mezz’oretta davanti alla tv per vedere i risultati delle gare ciclistiche, di cui Fenaroli era appassionato. Era stato poco prima delle 23 che Maria gli aveva ricordato che, se continuava a restare lì, perdeva il treno: e così, ecco che i due uomini avevano salutato e se n’erano andati a Termini. Erano le 23, ormai. Ancora pochi minuti e il silenzio dell’appartamento del primo piano si sarebbe riempito del gigantesco suono delle mandate della porta che venivano via, ad una ad una. Giovanni non poteva essere, era appena uscito! La Martirano, col cuore a diecimila, aveva capito che era di fronte al pericolo, che uno sconosciuto le stava entrando in casa. Era corsa verso la porta, mentre quella chiave sconosciuta continuava a girare nella toppa e percorrere la strada verso la paura. Era corsa alla porta, quasi volando, aveva gridato “Giovanni, Giovanni corri, ci sono i ladri!”: poi s’era appiattita sul legno, poi aveva sentito dei passi che correvano via per le scale, poi aveva girato tutte le mandate della serratura – e non bastavano mai – poi s’era accorta di essere bagnata di sudore e barcollando era andata nervosamente ad accendersi la prima di centomila sigarette. La notte era andata via così, con i mobili messi contro la porta in attesa che lo sconosciuto tornasse, con la paura di morire, con un sonno che non veniva mai e il buio intorno. Poi, i primi uccelli avevano annunciato il nuovo giorno, s’era fatta il caffè ed alle 9 aveva chiamato Luigi per dirgli della sua notte di terrore. Racconterà ai cronisti la sorella, Anna: “Il lunedì la mia domestica mi disse che mia sorella aveva telefonato. Maria aveva detto alla domestica, alla quale era parsa in preda ad una viva agitazione, che durante la notte qualcuno aveva tentato di forzare la porta d’ingresso. Mia sorella è sempre stata facilmente suggestionabile. Negli ultimi tempi poi aveva paura di tutto, era sospettosa per cui pensai che si trattasse di una delle sue solite

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suggestioni e non me ne preoccupai molto. Telefonai solo verso sera”. 3 Maria, quel lunedì mattina, ne aveva parlato a tutti: alla Goracci, alla Viti ovviamente – non sai che m’è successo stanotte! – a Valsecchi, quando come ogni mattina era era andato a portarle il giornale. Giovanni era stato informato la mattina stessa, da Luigi. S’era precipitato a Roma, per tranquillizzare la moglie. Alle 21 di lunedì sera era già a Ciampino. Il fabbro, Natale Buttinelli, aveva cambiato le due serrature (e aggiunto un catenaccio) martedì. Aveva consegnato le chiavi nuove alle 20, mentre Giovanni stava chiudendo la valigia: alle 23.35 avrebbe ripreso il treno per Milano. Maria, in quei giorni, gli aveva detto che mezz’ora dopo che lui e Luigi erano usciti aveva sentito una chiave infilarsi nella toppa e fare due mandate, aveva gridato, poi aveva guardato dalla finestra senza vedere nessuno. E poi aveva messo un divano contro la porta. Questo, era successo. Sì, perché Maria Martirano aveva una paura enorme di essere ammazzata. Eppure non era sempre stata così, la signora Fenaroli. Fenaroli Maria, nata Martirano, classe 1907, veniva da Trepuzzi, in provincia di Lecce, dove era vissuta fino al 1916. All’epoca la sua famiglia stava bene, i soldi c’erano. Ma dopo un po’ avevano subito un tracollo, perso quasi tutto. Se n’erano venuti a Roma e lì era stata anche lei, fino al 1928. Dopo quella data Maria Martirano riappare a Milano, per poi diventare nel 1937 la signora Fenaroli. Dal 1948 li ritroviamo tutti e due, marito e moglie, a Roma. Per otto anni abitano in via Ravenna 34, quarto piano, interno 8. Poi si trasferiscono in via Monaci. Lui faceva l’imprenditore, lei la moglie dell’imprenditore. Fino a qualche anno dopo, quando troviamo lui che dal lunedì al venerdì faceva sempre l’imprenditore sì, ma a Milano: e poi rientrava a Roma, nel fine settimana. E lei che restava sempre a Roma, a fare la moglie del marito assente. Sì, va bene, però c’ erano dei buchi in questa storia. Dal 1928 ce n’è uno di quasi dieci anni, nella vita di Maria Martirano, un buco che va fino al 1937. Intanto che cercavano la risposta a questa domanda, gli investigatori fecero il classico giro di domande nel palazzo. 3

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Da «Momento Sera» del 22 febbraio 1961.

I vicini, dicevamo. Sulle prime erano concordi nell’affermare che la donna uccisa era scostante con loro, quasi villana. Ma i pareri non erano tutti uguali. Il marito della Goracci, Pietro Morgantini, ad esempio, testimoniò che la Martirano gli raccomandava di avere sempre occhi aperti, che quando usciva lasciava le finestre aperte e le luci accese per far credere che ci fosse qualcuno, in casa. Qualcun altro raccontò che aveva un debole per la 26enne figlia della portiera del palazzo di via Ravenna 34 (nello stesso appartamento dove avevano abitato, ora si trovavano gli uffici romani della Fenarolimpresa, la ditta del marito): la portava a cena fuori, in villeggiatura, a casa sua. La proteggeva, in qualche modo. Sì, perché Maria Martirano era generosa. Una ex domestica chiarì che si spogliava non appena rientrava a casa: ed invece l’avevano trovata con addosso lo stesso vestito che aveva quando era uscita nel pomeriggio. Strano: come mai? Aggiunse anche, la domestica, che era sospettosa e bisognava sempre scampanellare tre volte, per farsi aprire. E non bastava perché, alle volte, la Martirano chiamava comunque la portiera per accertare chi fosse il visitatore: una volta era successo perfino al marito, arrivato a sorpresa da Milano. Era stato solo qualche mese prima, nel giugno precedente: siccome non aveva annunciato il suo arrivo in anticipo, lei non gli aveva aperto, nonostante tutto il sistema di scampanellate e colpi di tosse convenzionali. Non invitava nessuno, né accettava inviti, la Martirano: aveva fatto un’eccezione solo qualche giorno prima, quando aveva invitato una coppia di giovani sposi a vedere la tv (la famosa figlia del portiere, che si sposerà proprio un paio di giorni dopo il delitto). Non andava mai da sola al ristorante, si faceva accompagnare, mangiava poco e dava belle mance. Strana donna, agitata da una paura immensa e totale. Una che aveva paura a uscire da sola, anzi aveva paura perfino a attraversare la strada: dovevano accompagnarla anche per fare cento metri. Temeva di imbattersi in un maniaco, di essere derubata: “Vedrai che un giorno di questi mi daranno una botta in testa e mi ruberanno tutto” aveva ripetuto per l’ennesima volta a Vittoria Del Bufalo, la cameriera di Anna, la sorella, che proprio il pomeriggio del giorno del delitto era andata a prenderla per scortarla dalla sua padrona. Aveva così paura dei ladri che ogni volta che rientrava a casa,

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puntualmente accompagnata, prima di salutare si faceva il giro della casa per controllare che non ci fosse qualcuno nascosto dietro le porte o, chissà, sotto i letti. Non si sa mai! Eppure era stata proprio questa donna così ansiosa, così consumata dal nervosismo di un milione di sigarette ad aprire la porta all’assassino. Ah! Su questo non c’erano dubbi: nessun segno sulla porta, neanche mezzo. Aveva aperto lei: incredibile. Tornata a casa verso le 20.30, dopo la visita alla sorella, s’era cambiata, s’era messa comoda, lasciando il vestito a fiori sul letto. In televisione era iniziato da poco “Music Hall”, un varietà musicale presentato dal grande Renato Carosone. Quando era finito, alle 22, era andata in cucina, aveva preso dei pomodori, del riso, della carne e se li era mangiati, bevendosi un bicchiere di vino. Poi aveva messo i piatti nell’acquaio ed era tornata alla tv. D’altronde era proprio in salotto, nel posacenere davanti al televisore, che c’erano sette mozziconi... Ed era qui, a questo punto, che doveva essere successo qualcosa. È il punto in cui si riveste e apre la porta alla morte. Ma quella della sera del 10 settembre 1958 era la scena più domestica e privata che si potesse immaginare, quella che meno di tutte suggeriva segreti o misteri. Una donna di mezz’età, la tv accesa, dei pomodori, il caldo di un settembre romano, le finestre aperte. Eppure, un mistero c’era: l’ingresso dell’assassino nella timorosa quiete di Maria Martirano. Eppure, questa donna non era stata sempre così. Lo era diventata negli ultimi mesi, forse nell’ultimo anno. Ecco, in questo arco di tempo aveva ingigantito le sue paure e la sua diffidenza. Perché? Maria Martirano, che descrivevano come volubile di carattere: a momenti allegra, a momenti scontenta, remissiva oppure irritabile, generosa, nevrotica… Ma adesso scendiamo dal primo piano, rifacciamo tutto il corridoio, attraversiamo l’androne ed eccoci sul marciapiede. La polizia è arrivata da un’oretta. C’è un uomo con la penna in mano. È un giornalista che passa per caso da quelle parti tornando a casa, dopo aver fatto la notte. È stanco, distrutto, ma è giovane. Vede il casino, ha idea che sia successo qualcosa, si avvicina, capisce che è il primo ad arrivare, sente odore di scoop. Comincia a fare domande e uno dei primi che becca è proprio lo speleologo

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Chimenti: “Ho sentito un ronzio e visto una lucina rossa passando davanti al salotto” – racconta – “era lo stabilizzatore che era rimasto acceso, mentre la tv era spenta”. Non è un dettaglio. Fin dalle prime ore lo stabilizzatore sarà subito importante – l’abbiamo visto anche prima – per un motivo molto semplice: per capire a che ora la morte è entrata in via Monaci. Nelle vecchie tv, infatti, non bastava accendere l’apparecchio, bisognava anche accendere il pesante stabilizzatore, un aggeggio di ferro che rendeva la corrente della spina adatta a far funzionare la tv. Senza non si poteva fare, allora: era una questione di tensione elettrica. E dunque la tv era spenta, ma lo stabilizzatore acceso: cosa significava? Chimenti dice al giornalista che gli hanno confermato che la signora, come tanti altri, accendeva e spegneva tutto direttamente dallo stabilizzatore: era logico, insomma, pensare che la tv l’avesse spenta l’assassino. Anche Macera lo pensava. Particolare non da poco: all’epoca, infatti, le trasmissioni tv, ad una certa ora, finivano e tanti saluti alla mattina dopo. Quindi, l’omicidio doveva essere avvenuto prima della fine delle trasmissioni… Nello stesso momento in cui il giornalista prendeva appunti sul taccuino, al primo piano, Guarino e Macera pensavano che si fosse trattato di un furto, un furto finito male. Era solo la prima idea. Ma ci si metteva anche la sfiga. Di fronte al palazzo c’era un ufficio diplomatico cinese, ma il carabiniere di guardia, la notte prima, non aveva notato nulla. Che roba… Diverse ore dopo, alle 14.30, Fenaroli atterrò a Roma e si precipitò in via Monaci. Guarino e Macera si trovarono davanti un ometto ben vestito, coi baffetti curati, magro, distrutto dal dolore. Gli chiesero subito cosa mancava, visto lo stato della camera da letto. Gioielli e soldi, disse lui; ma avevano un altro miliardo di domande da fargli e se lo portarono a Piazza Nicosia, dove allora c’erano gli uffici della Squadra Mobile. Fenaroli, scese le scale di via Monaci in lacrime, aggrappato ad un amico. Fu solo in Questura che cominciò a riprendere la sua calma, quella solita e abituale capacità di controllo che lo contraddistinse in ogni momento. Raccontò che lui e Maria si erano conosciuti nel febbraio 1936, su un treno dalla Sicilia a Milano, in seconda classe. Lui le aveva dato il suo biglietto da visita. Si erano poi rivisti a Milano. Che tipo era sua moglie? Una che aveva improvvise arrabbiature, che poi svanivano – rispose. E quanti

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mazzi di chiavi c’erano, in casa? Tre, disse: uno ce l’avevo io, uno lei e il terzo a casa4. A domanda rispose che la moglie, quando spegneva la tv, spegneva anche lo stabilizzatore e staccava la spina. Armando mi interrompe. “Fabio, ma avrà spento realmente l’assassino la televisione? Supponiamo che la Martirano sia andata incontro al misterioso individuo contando che sarebbe rimasto poco in casa sua… avrebbe spento solamente l’apparecchio televisivo, quindi senza staccare la spina e spegnere anche lo stabilizzatore, proprio perché pensava di poterlo riaccendere dopo pochi minuti, per vedere la fine delle trasmissioni…”. Sì, la tesi di Armando è convincente. Non ci avevo proprio pensato… Mentre dalla Squadra Mobile partiva una telefonata alla Rai per sapere l’esatta ora in cui erano finiti i programmi il 10 settembre, Fenaroli continuava a parlare. Cos’aveva fatto la sera del delitto? Facile: era a Milano, aveva cenato con il suo fido collaboratore, Egidio Sacchi, da “Berti”, insieme ad altre persone. Quindi era rientrato in ufficio in via Gesù 17, per sbrigare qualche pratica; ed era sempre da qui che aveva telefonato a casa, al 242703. A questa chiamata aveva parzialmente assistito Sacchi. E più o meno, a che ora? Più o meno alle 23.30, disse Fenaroli. E poi? E poi sono andato a dormire in ufficio – rispose – sono restato lì. A domanda rispose che constatava, infine, la mancanza in casa di: “Nell’armadio della camera da letto, in un cofanetto d’argento: due braccialetti d’oro piuttosto larghi, un anello in oro con brillante piuttosto grande, alcune spille in oro con brillantini, un paio di catenine in oro con medagliette, un orologio con bracciale d’oro, un paio di orecchini di perle ed altro oro e brillantini”. Manca anche altro, aggiunse lui, mancano dei soldi: un milione di lire. Si trattava di due buste gialle, che erano in un incavo di un cassetto dell’armadio, là, in camera da letto. Mentre ce n’erano altre due (con dentro un altro milione) e quelle sono ancora là – disse Fenaroli – al loro posto, nella stanza guardaroba, 4 Anche sulle chiavi è stato detto, molte volte, che mancasse un mazzo da casa. Il particolare, però, è del tutto sbagliato e non trova conferma nei documenti ufficiali.

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nel “tessilsacco” di una pelliccia. Così come erano ancora al loro posto altre 400.000 lire nella camera da letto di lei e 2 milioni in quella di lui. E qui Macera e Guarino si guardarono senza dire nulla: fu il primo momento in cui pensarono, all’unisono, che questa storia del furto proprio non stava in piedi. Ma si era mai visto un ladro che lasciava sul posto la metà del bottino più facile da smerciare, i soldi? A proposito, ci stiamo dimenticando i Martirano: oltre Maria, c’erano Anna, Franca, Luigi, Gaetano. Sono cinque, tra fratelli e sorelle. Teniamoli a mente, perché torneranno nel racconto di questa storia. Qualcosa, intanto, la dicono. Anna diceva che la sorella era volubile, eccitabile, esagerava sempre. Che aveva prestato soldi a Gaetano, senza farlo sapere a Giovanni. Che non credeva al tentato furto del 7 settembre. Franca la descriveva instabile, una che litigava con tutti: ma che non serbava rancore a nessuno. Poi c’era Luigi, che era con Fenaroli dal 1955. Diceva che i rapporti tra i coniugi andavano sempre più deteriorandosi. Lei non si fidava di lui e aveva preteso che le pagasse l’affitto per l’appartamento di via Ravenna, che era intestato a lei: soldi che Luigi stesso versava su un libretto intestato alla sorella. Poi ad un certo punto, Giovanni non aveva versato più nulla e, anzi, i libretti li aveva presi lui. Così, Maria aveva voluto vederli ed aveva scoperto che c’erano solo 150.000 lire. Aveva gridato, pianto, “ridammi i miei soldi, rivoglio quello che è mio!”. Mancavano 900.000 lire. Venne incaricata di indagare una persona ritenuta super partes, Carlo Angelini Marinucci, il marito di Anna: e scoprì che gli incassi fraudolenti non erano di Giovanni, ma del fratello Luigi, a volte anche con firma falsa… il marito non c’entrava niente. La Martirano andò su tutte le furie: pretese dal fratello una dichiarazione di riconoscimento del debito e di impegno ad onorarlo. Nell’occasione, fece i conti con tutti: ne pretese una anche dalla sorella Anna, che da ormai molto tempo le doveva 450.000 per dei mobili che aveva comprato da lei. Da Franca, invece, pretese e ottenne un anello con brillanti, in pegno per un debito di 1.200.000 lire che le doveva. No, Maria Martirano non era davvero in buoni rapporti coi parenti. S’era capito già la sera in cui

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Buttinelli aveva consegnato le chiavi nuove: era stata lei a dire ad alta voce che non si fidava di nessuno (parenti inclusi, quindi), che le avrebbe date solo a Giovanni. Subito, Guarino e Macera chiesero ai cronisti di non lanciarsi in indagini private: ma di lasciar fare a loro, di lasciar montare la trappola per l’assassino. Una prima idea se la erano fatta, ma non avevano ancora le prove. Per ora era una questione di intuito: altro che dna e traiettorie del sangue! Roba classica, roba che funzionava da sempre. Roba di fiuto. Si stabiliva così, mentre la sera scendeva su Roma, uno strano patto: lasciate fare a noi, scrivete quello che volete, ma non dite la nostra idea. “D’accordo”, risposero i giornalisti. Da quel momento in poi, solo leggendo a ritroso i quotidiani di quel 1958, sarà possibile trovare qua e là le tracce non scritte di quell’accordo. Tra le righe si vede bene: la stampa sapeva chi fosse l’indiziato numero uno. Ma che non poteva dirlo. Non ancora. Macera resterà legato, nella sua carriera, a questa vicenda. Una carriera che scolpirà davvero il suo nome nel marmo della storia della polizia italiana. Ex ufficiale di cavalleria, laureato in Giurisprudenza e Scienze Politiche, inventore della Squadra Omicidi, sarà Questore di Agrigento, di Salerno nel 1970 e poi Direttore della Sicurezza degli Aeroporti di Fiumicino e Ciampino, nel 1973. E poi Questore della Capitale, nel pieno degli anni difficili della Roma a mano armata. Combatterà con bei risultati i Nuclei Armati Proletari ed Autonomia Operaia, sarà Vice-capo della Polizia e Direttore dei Servizi di Polizia Criminale; risolverà il delitto del magistrato Vittorio Occorsio, ricoprirà importanti incarichi all’estero, guidando delegazioni italiane in Germania, Francia, Svezia, Panama e Kenia, prima di chiudere la carriera nei Servizi. Ma di questo preferiva non parlarne. Qualcosa non doveva essergli piaciuto, visto che se ne era andato presto. Non sarà mai uno facile alle interviste, Macera. Anzi. Si occupava del suo lavoro, era un uomo all’antica, uno operativo. E se non s’era mai fatto una famiglia era perché, diceva, «se devi prendere un assassino non puoi dire: “stasera ho un impegno”». Con i suoi abiti severi, grigi o blu, le camicie bianche e l’immancabile cravatta, il taglio militare dei capelli, la voce curiosa, fortemente di gola, inconfondibile, era per tutti una persona seria,

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un funzionario che non avrebbe mai barato, uno per cui potevi spendere le parole “rigore morale” senza esagerare d’un millimetro. E nel delitto di via Monaci resterà la sua impronta, perché Macera ne sarà protagonista assoluto. Intanto, però, l’Italia che si muoveva intorno al caso Fenaroli era davvero un altro Paese: lo guardi oggi e stenti a riconoscerlo. Ma eravamo proprio così? Perché in quel settembre del 1958 l’Italia è in pieno boom economico, c’è un’aria di euforia nelle strade, nella gente, sui tram; un’aria di rinascita e di fede. L’Autostrada del Sole è in costruzione, ma è nel sesso che sta per accadere uno dei cambiamenti più epocali. Il 20 settembre 1958 entra in vigore la Legge Merlin e le case di tolleranza chiudono per sempre. È un mondo che se ne va, è la fine di un’epoca, è l’anteprima del femminismo, secondo alcuni. Di sicuro, è il segno di un Paese che va veloce, che cambia le regole, che affronta il futuro. E il futuro porta anche la ballerina turca Aichè Nanà che, il 5 novembre 1958, durante la cena per il compleanno di Dado Ruspoli al “Rugantino” (un ristorante che stava all’inizio di Viale Trastevere), sull’onda di una serata carica di energia, deciderà di fare il primo strip-tease della storia d’Italia. Perlomeno: il primo in un locale pubblico. C’è chi dice che la Dolce Vita sia iniziata quella sera: probabilmente non è vero, ma di sicuro fu uno shock per tutto il Paese. Se ne parlerà ancora per anni, perché quella serata fu qualcosa che esplose come un’atomica, in una società dove ogni cosa che riguardasse il sesso era argomento proibito, in senso assoluto. Era peccato e schifezza allo stato puro, era allontanarsi dalla Fede, era andare contro il sacro triangolo Dio-PatriaFamiglia. D’altronde, sono anni in cui sui settimanali femminili ci si interroga su argomenti del tipo: sino a dove ci si può spingere nel toccarsi? Fin dove possono arrivare i fidanzati? Tutta roba di cui pentirsi in confessione, s’intende... Il futuro però è anche nella neonata televisione: la Rai trasmette da poco, dal gennaio del 1954, alternando a bucolici documentari sulle bellezze d’Italia programmi innovativi che un certo Bongiorno Michele ha portato dagli Stati Uniti: il quiz-show. “Lascia o raddoppia?” diventa un tormentone inimmaginabile. Ma siccome non tutti hanno un costoso “apparecchio televisivo” in casa (solo 81 italiani su 1.000 hanno questa fortuna, alla fine

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degli anni Cinquanta), ci si organizza per trovarsi con gli amici al bar a vedere tutti insieme i programmi. E i bar con la tv chiudono tardi, in quel 1958… Sono, anche, anni in cui l’analfabetismo si riduce all’8%, in cui quasi metà degli italiani è proprietaria della casa in cui abita, in cui sempre di più dicono “addio campagna” e vanno a lavorare in fabbrica. La ricostruzione del dopoguerra è finita, ma gli emigranti partono ancora a frotte dal Mezzogiorno: per l’Argentina, il Belgio, l’Australia, gli Stati Uniti, la Svizzera. I viaggi in treno sono ancora un’avventura, roba che dura ore e ore. L’aereo è roba per ricchi e durante i voli intercontinentali si mangia nei piatti di ceramica. La Milano di Giovanni Fenaroli ha un reddito che è due volte e mezzo quello medio degli italiani: tanto per dire dove stessero i soldi, allora. E infatti è qui che c’è la più alta densità di televisori di tutto il Paese... E non solo: anche di frigoriferi, un lusso niente male (un Rex stava a 138.000 lire: come si diceva all’epoca, “costava un Perù”, visto che gli stipendi non toccavano quasi mai quota 100.000). Gli altri? Arrangiarsi: il burro viene piazzato in una bacinella d’acqua fuori la finestra, se è inverno. E si compra giorno per giorno, se è estate. Ah, a Milano ci sono anche le lavatrici, nel 1958: e già, c’eravamo scordati delle lavatrici… Nella Milano che soffoca per l’aria bollente di quell’estate i bordelli storici (come il Disciplini, il Filelfo, il Fiori Chiari) si preparano ai loro ultimi giorni, contando i soldi che file di aficionados stanno portando prima della chiusura. È il passo d’addio di un modo di vivere il sesso che ha attraversato la memoria di nonni e nipoti: e che conta, solo in città, 5.000 professioniste. Non è tutto qui, però. I quotidiani pubblicano la foto di ragazzini e pensionati a mollo nella fontana di piazza Castello. I concessionari vendono Cinquecento e Seicento molto diverse da quelle di oggi (che semmai riprendono il mito di quelle di ieri): perchè la Cinquecento è l’auto di massa, che davvero mette sulle quattro ruote gli italiani, mentre la Vespa già da anni li ha messi su due. E infatti, chi non può permettersi l’auto gira in scooter, anche per andare a lavorare e fare decine di chilometri al giorno. Naturalmente, auto e moto vengono comprate con etti di cambiali. La Milano della Fenarolimpresa guarda al futuro e si vede:

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da poco hanno inaugurato Torre Velasca, un grattacielo futurista nelle forme, che sorge in pieno centro. L’anno prima, in viale Regina Giovanna, è stato aperto il primo supermercato italiano: si chiama “Supermarket”. Ma nelle radio, a Roma come a Milano, suona la stessa canzone, che ormai è già sbarcata oltreoceano. La canta Domenico Modugno, si chiama “Volare” e ha vinto San Remo pochi mesi prima. Un altro segno – musicale stavolta – di quanto l’Italia stia cambiando. Altro che cantanti eredi della tradizione lirica: è l’era degli “urlatori”. Dalle frequenze urla Antonio Lardera, in arte Tony Dallara, urla Baby Gate (che non è ancora diventata Mina). I juke-box esplodono di musica americana, i ragazzini giocano a flipper e i coniugi Fenaroli sono appena tornati dalle vacanze. O meglio, lei è andata in vacanza; ed anche questo colpisce, che non ci fossero andati insieme (anche se lui, ad agosto, era andato a trovarla due volte). Così come non dormivano insieme, così come dal lunedì al venerdì non stavano insieme, lei a Roma e lui a Milano. Un altro argomento da approfondire, per la Polizia. E dunque, dal 16 agosto al 6 settembre – quando Giovanni era andato a riprenderla – Maria era stata vicino a Genova, dalla sorella di una cognata, a Quinto. Tre settimane in cui era apparsa sempre molto preoccupata per i ladri, tanto da non uscire mai da sola nemmeno in vacanza. Un’ossessione. «Il Messaggero», il 12 settembre, titolava: “Strangolata nel suo appartamento la moglie dell’industriale Fenaroli”. Il 13 i risultati dell’autopsia erano già “trapelati” nonostante il “rigorosissimo riserbo degli inquirenti” (si fa per dire: e chi avrà mai dato quei risultati alla stampa, se non gli inquirenti stessi?). La vittima era stata colta di sorpresa. L’assassino l’aveva aggredita frontalmente ed aveva avuto il coraggio di vederla morire, scrivono. Già, l’autopsia. 12 settembre 1958: la notizia dell’omicidio su «Il Paese».

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Ci troviamo di nuovo all’obitorio de “La Sapienza”, una volta l’unico di Roma, e ci aggiriamo nelle stanze dove sentiamo un odore forte di disinfettante, che ci lascia capire facilmente per quale motivo venga spruzzato. È Armando a fare da guida tra questi corridoi che hanno avuto così tanti ospiti silenziosi. Entriamo in una piccola stanzetta che su una parete ha un armadio che la ricopre completamente. Ante vecchie, roba di una volta. Le apriamo con difficoltà e dentro troviamo le copie delle autopsie. Sono volumi rilegati in rosso, sulla cui costola è incisa, in caratteri dorati, la data cui fanno riferimento. Una meticolosità difficilmente riscontrabile ai giorni nostri. Prendiamo il volume di quel tragico settembre del 1958 ed iniziamo a sfogliare le pagine. “Martirano Maria 11/9/58. Proveniente da V. Ernesto Monaci 21... data dell’ingresso in frigorifero: 11//9/1958 ore 15,45. Data dell’esame esterno 12.9.58… Settore CarellaMarracino”. “Vedi Fabio, il Giudice Istruttore diede un incarico ben preciso ai due illustri medici legali, un incarico basato su cinque domande: ‘l’epoca della morte; la causa; se vi fu colluttazione; se il soggetto avesse assunto sostanze tossiche; se la formazione pilifera rinvenuta nell’appartamento appartenesse alla Martirano’. Iniziamo con l’epoca della morte che praticamente, per la quasi totalità degli omicidi, risulta di fondamentale importanza. Però qui ti devo fare una premessa, voglio prenderti come esempio quanto riportato dai periti del Giudice delle Indagini Preliminari di Vigevano, nell’elaborato medico legale per l’omicidio di Chiara Poggi. Te lo ricordi, no? Garlasco, 13 agosto 2007. Come sai viene accusato il suo ragazzo, Alberto Stasi. Le sue dichiarazioni sono apparse subito curiose, in alcuni tratti insensate. Era importante determinare con certezza quando fosse avvenuto l’omicidio. I periti citano, nella loro premessa, un passo di una pubblicazione scientifica inglese, che tradotta recita più o meno così: ‘la stampa popolare e gli scrittori di romanzi gialli tendono a far credere che il patologo possa determinare l’epoca della morte con precisione e accuratezza. Sfortunatamente, nulla è più lontano dalla realtà. Senza che la morte sia testimoniata o registrata… tutto ciò che si può dire con una qualche sicurezza è che è avvenuta in qualche momento compreso tra l’ultima volta che la persona è stata vista viva e la scoperta del cadavere. … La

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ricerca di un metodo affidabile che permetta di calcolare l’ora della morte è divenuto una sorta di ricerca del Sacro Graal della patologia forense…’ Capisci? La determinazione del tempo di morte si basa sull’esame di elementi primari e secondari. Mi spiego meglio. I primari sono la temperatura, la rigidità e le macchie ipostatiche. Torniamo in via Monaci, adesso… In fase di sopralluogo, avvenuto alle 11-11.30, sul posto, il dottor Marracino misura la temperatura corporea, che risultò di 31,5 gradi, constata che la rigidità risultava ‘completa ed assoluta’, che le macchie ipostatiche sono: ‘di colorito rosso-cianotico, più intense nella regione supero-anteriore del corpo ed impallidiscono molto leggermente ad un prolungato massaggio’. Non ci sto capendo niente ed evidentemente si deve proprio vedere. Ma perché Armando mi sta dicendo tutte queste cose? In ogni caso, lui prosegue. “…Vediamo cosa ha controllato nell’immediatezza il medico legale: le macchie ipostatiche, o ipostasi, sono dovute al sangue che a seguito della morte, non essendoci più il battito cardiaco ed essendo però ancora liquido, per gravità si concentra nelle zone declivi del corpo. Appaiono dopo 1 o 2 ore dal decesso. In una prima fase, quando il sangue è ancora fluido, lo spostamento del corpo le modifica (si chiama ‘fase di migrabilità’), ma superate le 10-12 ore diventano progressivamente più persistenti, fissandosi definitivamente dopo circa 15 ore, adesso è più chiaro?” Forse ho capito dove vuole andare a parare… “Vedi, le ipostasi della Martirano non sono ancora del tutto fissate: perché si schiariscono al messaggio del medico. Nella relazione, poi, i periti fanno notare che in caso di morte per asfissia le ipostasi possono essere rinvenute in luoghi anche non declivi, e sono dovute per esempio alla costrizione, come nel nostro caso di morte per strozzamento, che impedisce il deflusso del sangue dai capillari alle vene. Per quanto riguarda la rigidità, che il medico trova ‘completa ed assoluta’, la stessa inizia da 30 minuti a 3 ore dopo la morte, iniziando dalla mandibola.” “Scusa, ma perché mi dici tutto questo?” Gli faccio. “… ed espandendosi fino agli arti. Completandosi, e cioè rendendo tutto il corpo rigido, dopo circa 12-24 ore. Si mantiene quindi per più di 36 ore. Anche questo dato, quindi, permette di

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stabilire che la morte, al momento del sopralluogo era avvenuta da oltre 12 ore. Per quanto riguarda la temperatura, che viene considerata l’elemento più importante, c’è innanzitutto una regola generale che vede nelle prime 3-4 ore un abbassamento della temperatura soltanto di 0,5 gradi all’ora, nelle successive 5-10 ore il calo è di circa 1 grado (sempre all’ora) e nelle successive 12 ore la perdita si riduce progressivamente a 3/4, 1/2 e 1/3 di grado all’ora fino a raggiungere, ovviamente, la temperatura ambiente. Questi principi, però, variano sensibilmente a seconda della temperatura ambiente, della corporatura della persona e della causa di morte. È documentato che la morte asfittica rallenta la dispersione corporea del calore. In questo caso, poi, sicuramente la temperatura ambientale era alta, la casa è esposta al sole, sono i primi giorni di settembre, la temperatura massima prevista è di 27 gradi, quindi il calo della temperatura corporea della Martirano è stato più lento… così, i periti assegnano come data di morte: ‘al momento del sopralluogo (ore 11,30 dell’11 settembre 1958) doveva risalire a circa una decina di ore; tale termine potrebbe essere, però, ben più prolungato che ridotto’. Hai capito adesso?”. “… Ah, adesso ho capito!”. “Per quanto riguarda la causa di morte, come ho già accennato, non c’è dubbio, i periti la identificano subito per morte asfittica-meccanica da strozzamento ed è molto importante come la descrivono. Ecco come è morta la Martirano. Possiamo quasi vederlo:“i caratteri, poi di particolare configurazione ed ubicazione delle lesioni ecchimotico-escoriate sul collo dimostrano che lo strozzamento è stato effettuato mediante la stretta esercitata sulla vittima con entrambe le mani; in maniera, cioè, che i due pollici venissero a premere contemporaneamente in corrispondenza della linea mediana del collo. In tal modo, infatti, si spiegano agevolmente la simmetria delle impronte ecchimotiche riscontrate sui due lati della linea mediana del collo e in tutta prossimità di questa, nonché la seriazione delle escoriazioni lineari, comprese nelle ecchimosi stesse, a decorso nettamente orizzontale. Così operando, i polpastrelli delle dita hanno potuto esercitare la loro pressione ripetutamente e a diversa altezza sulla parte mediana del collo, determinando le impronte ecchimotiche sufferite e, in esse, le escoriazioni seriate per la

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contemporanea azione lesiva del margine libero delle unghie”. Inoltre, i periti riscontrano una serie di lesioni sul viso tali da far pensare che l’azione dell’omicida sia avvenuta chiudendo forzatamente la bocca. Ma non riscontrano lesioni riconducibili ad una colluttazione”. “E il capello? Che dicono del capello?” “Ritengono che non appartenga alla Martirano… però, Fabio, in quella casa sono entrati tutti, dopo il ritrovamento e non risulta dalla perizia che il capello sia stato confrontato con quello della domestica, ad esempio. Comunque, l’eventuale confronto, in ogni caso, sarebbe avvenuto secondo dei parametri merceologici di colore, lunghezza e diametro. Certo, al giorno d’oggi avremmo potuto effettuargli un esame del DNA mitocondriale, visto che già i periti avevano determinato la mancanza del bulbo, indispensabile per un esame del DNA nucleare. Il DNA mitocondriale, meno caratterizzante, ci avrebbe comunque aiutato a determinare a chi appartenesse. Vedi Fabio, questa autopsia ci dice tanto, ma non ci aiuta moltissimo: l’orario della morte rimane indefinito ma al di sopra delle 10 ore. Poi si parla di strozzamento. Poi ci dice che la Martirano ha ingerito dell’alcol, ma non possiamo sapere se abbia bevuto un ‘bicchierino’ insieme al misterioso individuo o se abbia bevuto un bicchiere di vino a cena, cosa senz’altro più probabile. Il capello, poi, pur riscontrando che non apparteneva alla Martirano, non viene confrontato con le altre donne protagoniste di questo intricato omicidio…” “Annamo bene, Armà…” “Beh, possiamo provare a fare alcune considerazioni su come è andata”. Ci guardiamo e intuiamo di pensarla allo stesso modo. “Vai”. “Ascolta. Se la Martirano si è fatta avvicinare così tanto da porgere il collo al suo omicida, o lo conosceva o comunque per un qualche motivo aveva modo di fidarsi di lui. L’assalitore non ha dovuto colpirla di sorpresa, tramortirla o stordirla e solo successivamente strangolarla. Se la colluttazione non c’è stata, dove è iniziata la fase di strangolamento? Ecco, adesso si spiega la sigaretta nel corridoio, l’azione è iniziata lì: in quel punto ci troviamo davanti alla cucina. Due le ipotesi: uno, la Martirano dopo aver aperto la porta precede il suo omicida e, quindi, ha

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piena fiducia nella persona… non solo per averla fatta entrare in casa, ma anche per potergli, dopo pochi convenevoli, dare le spalle. Oppure, due, gli cammina di fianco. Magari pochi centimetri dietro, per condurlo, ad esempio, nel salotto. Quest’ultima ipotesi sembrerebbe la più probabile. Siamo arrivati davanti alla porta della cucina, l’assalitore ruota verso di lei e mentre Maria lo guarda negli occhi lui la afferra e la spinge all’interno, contro un pensile, strozzandola a mani pressoché unite... sì, credo che sia andata così.” Usciamo: e riprendiamo da dove ci eravamo interrotti. L’odore del disinfettante, invece, continueremo a sentircelo addosso ancora per molte ore. Torniamo alla cronaca: il 15 settembre, con grandissimi eufemismi, iniziava tutto un dire-non dire sui giornali. Si cominciò a parlare di un ricatto che sarebbe stato alla base del delitto. I giornalisti sapevano già molto più di quello che scrivevano, sapevano cos’era accaduto in quei dieci anni misteriosi della vita di Maria Martirano. Ma non lo dicevano e non perché la polizia glielo vietasse, stavolta, ma perché era la morale dell’epoca a vietarglielo. Che fosse qui il movente dell’omicidio di via Monaci 21? Le prime indagini erano, intanto, tra le persone conosciute e frequentate dalla vittima. Per due motivi. Uno era statistico, i tre quarti di tutti i delitti sono commessi da assassini che conoscono le loro vittime. Il secondo era che la diffidente e paurosa Maria Martirano non avrebbe aperto ad uno sconosciuto, questo è certo. E allora? Il marito no, era a Milano. Un fratello? Una sorella? Che l’assassino conoscesse bene il palazzo, d’altronde, lo dimostrava anche un altro fatto, apparentemente insignificante. In quei giorni di settembre il meccanismo per aprire il portone non funzionava, dagli appartamenti. Bisognava scendere per aprire a chi suonava. E, una volta scesi, bisognava sapere dove stava il pulsante. Che nell’androne era abbastanza ben nascosto: si trovava sul davanzale della guardiola del portiere. Allo stesso modo, per uscire dal palazzo, l’assassino doveva saperlo: per forza. E doveva essere quindi un frequentatore abituale di via Monaci 21. Anche se non era assolutamente detto: poteva facilmente aver visto dov’era il pulsante quando era entrato, quando la Martirano era scesa ad aprirgli il portone… Sfogliamo «Il Messaggero» del 17 settembre: “L’assassino di

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Maria Martirano è ancora ignoto. L’opinione pubblica comincia a vacillare. Dubita che l’uomo misterioso, il quale intorno alla mezzanotte di mercoledì scorso strinse le mani intorno al collo della fragile donna, resterà per sempre impunito: tornerà del tutto rispettabile, fra la gente onesta”. Chi era quest’uomo misterioso? Una delle prime cose che fecero Macera e Guarino fu dipingere il quadro dei coniugi Fenaroli. Il matrimonio, checché ne dicesse Giovanni nei primi interrogatori (minimizzava molto), era ampiamente alla frutta; e da un pezzo. Per capire il perché bisognava parlare anche di soldi. Il padre di Fenaroli era stato sindaco di Airuno, Lombardia, e aveva molte filande. Giovanni aveva iniziato la sua carriera di imprenditore in società col fratello Giuseppe. Geometra il primo, ingegnere il secondo. Poi era arrivata Maria ed aveva sposato Giovanni il 27 settembre 1937, a Lambrate: solo che i Fenaroli avevano disapprovato il matrimonio. In quel 1958 se ne parlava con molto pudore ed eufemismo, di questa “disapprovazione”. Nessuno spiegava perchè, si diceva e non si diceva. I Fenaroli, si sussurrava, giudicavano Maria troppo “indipendente ed autoritaria”. Piccoli indizi di una storia da raccontare, messi là tra le parole dei giornali: “La Martirano proprio negli anni tra il 1930 ed il 1934 aveva avuto modo di allacciare amicizie, conoscenze, rapporti con persone di diverso ceto sociale”, ad esempio. In buona sostanza, i cronisti sospettavano, e lo dicevano chiaramente, che da quelle “conoscenze di diverso ceto sociale” fosse nato il ricatto… Ma torniamo al matrimonio tra Giovanni e Maria. All’inizio tutto bene, gli operai dei fratelli Fenaroli costruivano case, ponti, strade, ferrovie nell’Africa Orientale e gli affari andavano bene. Poi, persero tutto col tracollo dell’Impero d’Africa: la guerra dà, la guerra toglie. Qualche anno dopo, i fratelli avevano litigato: era il 1951. La ditta in comune era finita e s’erano rivisti addirittura nel 1955, e solo perchè era morto il figlio di Giuseppe. Era stata l’occasione giusta per tornare a parlarsi, ma nel 1956 stavano già litigando di nuovo. La differenza tra Giuseppe e Giovanni, ancora nei giorni del delitto, era chiaramente di carattere. Entrambi avevano il milione facile, ma il primo ne parlava con nonchalance, il secondo invece con un’eccessiva sicurezza che non trovava sempre conferme nella liquidità bancaria. Più funambolico e chiacchierone

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Giovanni, più serio il fratello. Se c’è una cosa che li accomunava, però, era la passione per il ciclismo: Giuseppe era l’animatore del Trofeo Ciclistico Fenaroli (una corsa su strada che si tenne dal 1953 al 1961), amico di Coppi e Bartali, un vero appassionato. Solo che proprio quel tracollo economico e poi la separazione professionale tra i fratelli misero Fenaroli in cattive acque e crearono le prime crepe nel matrimonio tra Giovanni e Maria. Quando il fratello lo piantò in asso, infatti, Fenaroli si ritrovò pieno di debiti e dovette vendere parecchie proprietà, trasferendosi a Roma in un piccolo appartamento di due stanze, dove ricominciò da capo. Le scenate di Maria diventarono frequenti, la povertà non le piaceva per niente e rinfacciava al marito di essere un incapace. Così, quando gli affari si risollevarono, Fenaroli aveva ormai le idee chiare: riportò la ditta a Milano e lasciò la moglie a Roma. Era tornato il sereno economico, non quello matrimoniale. Anche perchè lei, intanto, non riusciva ad avere quei figli che lui avrebbe voluto. Proprio in una lettera alla moglie del 1 dicembre 1949, Giovanni ricordava infatti a Maria che nel 1938 seppero che non avrebbero avuto figli. Maria aveva seri problemi ginecologici, era stata anche operata verso il 1947, ma niente. Così, anche questo aveva finito per mettere una crepa profondissima tra loro, in cui erano cadute la giovinezza, le speranze, i sogni, la gioia. Tutto era diventato routine; tutto si era irrigidito in un automatico rispetto della forma. Nella stessa lettera, però, lui le scriveva anche ben altro: che il carattere di lei si era rivelato da subito quello che era, troppo gelosa. Quel matrimonio aveva preso subito una brutta piega. «In questo stato d’animo nacque nel 1939 a Roma la mia relazione con Bruna Landini – scriveva Fenaroli alla moglie, confessandosi – che mi consentiva di passare qualche ora di tranquillità e di illusoria serenità che in casa non mi era data passare. Conseguentemente ero più tollerabile anche in casa, cercavo di squagliarmela frequentemente e, senza colpo ferire, facevo una doppia vita. (…) Arrivammo così al mio arresto nel settembre 1942: in quel periodo io assente scopristi la tresca con la Landini». Maria, tuttavia, lo perdonò. Le loro serate si riempirono di amici, il classico rimedio delle coppie in crisi per non stare da soli.

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Nella stessa lettera, però, c’è anche l’esemplificazione del punto fin dove era in grado di arrivare Maria Martirano. Nel 1948 era infatti arrivata a dire al marito di avere un figlio in collegio a Torino, un figlio segreto. Lui c’era cascato e s’era offerto di unirlo a loro, ma lei aveva rifiutato: era tutto falso, era solo un modo per tenerlo legato, per metterlo alla prova… La Martirano arrivò a sospettare che avesse delle relazioni addirittura con Anna e Franca. Fenaroli reagiva, chiedendole di sottoporsi a cure per i nervi, per l’esaurimento. Non servirà a nulla, se in un’altra lettera del 7 febbraio 1950 Fenaroli le rimproverò di andare ancora in giro a chiamare la Landini ed i suoi parenti! Undici anni dopo! Anche la risposta della Martirano, però, vale la pena di esser letta. A penna e con molti errori di grammatica gli diceva: «Mi hai detto che mi odi, che era meglio se fossi morta. Tu usi le donne due anni e basta, mi hai fatto passare anni di umiliazioni, facendomi lavare i fazzoletti sporchi di rossetto delle tue amanti. (…) La moglie non è un soldato che si comanda». Non era un matrimonio, no: ma un inferno salvato dalle apparenze.

Maria Martirano

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Passano otto anni e ritroviamo i coniugi Fenaroli in via Monaci 21. Lei ormai viveva a Roma una grigia ordinarietà, fatta di ripetizioni e paure. Fenaroli faceva su e giù nel cielo che divide Milano da Roma e si toglieva i suoi piccoli sfizi. Uno fra tutti, la velocità. Oltre l’Alfa Romeo 1900 super, targata Milano 396875, che lo aspettava al nord, a Roma – custodita da Valsecchi – aveva anche una Appia coupè bianca. Quello che ancora non si sapeva – ma lo avevamo capito leggendo quella lettera – era che Giovanni Fenaroli aveva dei precedenti penali. Non gravi, visti col senno di poi, ma c’erano; e a quei tempi non facevano una bella impressione. Nel 1942 si era costituito alla polizia, a Roma, che lo cercava per fargli scontare una condanna per “sottrazione di grano all’ammasso”. Poi lo avevano trasferito da Regina Coeli a San Vittore e da qui Fenaroli aveva scritto tenere lettere alla moglie. È un reato che oggi non esiste più, ma che si può tradurre in “borsa nera”: quando sottrai qualcosa alla vendita pubblica, per rivenderlo sottocosto. Un reato non grave ma da furbo, da uno che approfitta, che cerca la piccola truffa, da maneggione. Ecco, è un po’ il simbolo di quello che sarà anche dopo Fenaroli: uno che si lascia chiamare ingegnere quando è geometra, che è costituzionalmente disposto a fare trucchi, che inevitabilmente non arriva mai primo, anche se continua a sentirsi il migliore. Di lui scatta una perfetta fotografia quel genio di Indro Montanelli: “Fenaroli appartiene a quelle persone che aspettano cinquant’anni nell’attesa e nella speranza di diventare protagonisti di qualcosa di clamoroso. Nato in quel di Como, tra una popolazione attiva e laboriosa, Fenaroli, che nei sogni giovanili certamente aspirava a diventare un potente capitano d’industria, acquisì o forse ebbe innato il lato deteriore della mentalità dei suoi conterranei, quello di considerare la ricchezza come massima aspirazione dell’uomo, di vedere nel denaro l’unico strumento di potenza e di considerazione, di valutare col metro del denaro uomini e cose… egli insomma non si dava arie per guadagnare soldi, ma cercava soldi per poter continuare a darsi delle arie”. “Aspetta, Fabio” mi fa Armando “non è tutto. Una volta cancellata dalla fedina penale la ‘sottrazione di grano’, troviamo negli anni ’50 una denuncia per diffamazione, da cui viene assolto per insufficienza di prove, e nel ’52 l’emissione di un assegno a vuoto per cui viene multato di ben 35.000 lire, che però non pagherà per una sopravvenuta amnistia...”.

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E siamo arrivati a quell’estate del 1958, l’ultima di Maria Martirano: quando i coniugi Fenaroli erano arrivati ai ferri corti. Sul punto di separarsi, andarono dall’avvocato Basili, ma poi la cosa si ricomporrà. Racconterà l’avvocato: “Erano molto affezionati e premurosi l’un l’altro. Lei era gelosissima. A luglio 1958 erano venuti da me per separarsi. Lei lo accusava di aver venduto tutto l’appartamento di via Ravenna, lui diceva due stanze: e s’era scoperto che aveva ragione lui”. Insomma, un clima da guerra neanche tanto fredda: ma la situazione era probabilmente ben peggiore di quella tratteggiata da Basili: che, in fondo, era amico di lui. E che, in fondo, aveva visto nel suo studio solo il lato formale dei coniugi Fenaroli, non il resto. Nel foglio dei sospettati ci finiva intanto Alessandro Valsecchi, l’autista romano della Fenarolimpresa. A servizio da ottobre 1957, faceva anche le pulizie in via Ravenna (dove peraltro dormiva) ed era un ragazzo grande e grosso. In agosto, raccontò, la Martirano gli aveva lasciato le chiavi di casa e lo aveva fatto stare lì, per evitare che rimanesse incustodita. Per la sera del 10 fu però costretto a dire dov’era stato: a casa dello zio fino alle 22.45, poi in una casa di tolleranza di via Mario dei Fiori 57. Uscito alle 23.35, era poi andato in un garage di piazza Bologna dove era restato fino all’1.30 (e a fare che?). Dopo, se ne era andato a dormire in via Ravenna, negli uffici della Fenarolimpresa. “Armando, che ne pensi? È un alibi? Valsecchi conosceva la casa, c’era stato in estate, poteva aver frugato e scoperto dove e quanti soldi c’erano”. Vedo Armando perplesso: “Non credo, la prima fase delle indagini vede al centro dell’attenzione proprio Valsecchi. Ed ecco che già dalle prime informative – dove le ho messe… eccole! – si precisa cosa fece nella fatidica giornata. Dapprima gli investigatori si portano nella casa di tolleranza e prendono informazioni dalla ragazza che gli tenne compagnia, Nadia. Poi vanno nel garage S.I.M.M.A., dove interrogano i due suoi amici, i guardiani, La Vecchia Salvatore e Ippoliti Claudio. Non paghi di queste testimonianze fanno anche il riscontro del tempo occorrente per recarsi da via Mario dei Fiori a via del Tritone, a piedi, e poi a piazza Bologna con il filobus. Tutto ha dei precisi riscontri. E quindi Valsecchi esce definitivamente dalle indagini”. Ma più passavano i giorni più il delitto di via Monaci diventa-

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va intricato, si arricchiva di fondali davanti i quali si muovevano i suoi personaggi. La trama diventava sempre più articolata, densa di sotto-storie che scoprivano nuovi colpi di scena. E altri protagonisti che si fermavano lì a guardarci, lasciandoci il compito di fidarci o no di loro. Una di questi era Pierina Impiccini, 29 anni, di Ascoli Piceno, donna di servizio che era stata dalla Martirano dal settembre 1955 al 4 giugno 1958. Prendeva – dirà – 25.000 lire al mese: e aveva cominciato ad andare a servizio da loro quando abitavano ancora in via Ravenna. Com’era la padrona? Chiesero i cronisti. “Abitudinaria, stava sempre in casa, raramente riceveva visite dei parenti. Fumava molto e faceva scenate per un po’ di cenere per terra. Non voleva che restassi per la notte: diceva “non voglio avere una cameriera che la sera mi aspetta in casa per vedere con chi rientro”. E poi? “Poi diceva anche di aver licenziato la cameriera precedente perché era troppo curiosa. Era molto esigente e pignola, ma anche generosa – con regali nell’ordine delle diecimila lire e collier – e mi pagava il parrucchiere. Mi aveva dato le chiavi di casa”: e sarà l’ultima domestica ad averle, perché poi alla Viti non verranno date. E del marito, del marito che diceva, non diceva niente? “Non si occupava degli affari del marito, ma lo rimproverava di prestar soldi a tutti”. Ma come si comportava, che donna era? “Viveva in uno stato di tensione perenne, di angoscia. Non voleva rispondere a telefono e quando squillava mandava me facendo gesti di contrarietà, di timore, chiunque fosse”. Ma poi era cominciata a succedere una cosa strana. “Da settembre 1957 telefonavano, io dicevo pronto? Ma non rispondeva nessuno: telefonavano e subito riattaccavano. Solo una volta udii un colpo di tosse, di un uomo. Queste telefonate non avvenivano mai prima delle 10.30 e durarono un anno, succedeva anche tre volte al giorno.” E la Martirano che diceva? “La Martirano diceva che doveva essere qualche ladro che voleva vedere se lei era a casa”. Entravano così, nel giallo di via Monaci, le telefonate mute che, di fatto, aprivano ad ogni interpretazione. Per molti cronisti saranno la riprova che il passato – quello che non si poteva nominare – era tornato a fare visita alla signora Fenaroli; e che quei silenzi, in realtà, parlavano. E non poco. Pierina Impiccini, però, ne disse di cose, ai cronisti che andarono a trovarla… “Come dice? No, non staccava mai il telefono, la sera”. Ci

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racconti ancora qualcos’altro della signora, ecco, come si comportava, si ricorda qualcosa di particolare? “Beh, poi altri giorni era intrattabile e ogni servizio era mal fatto: certi giorni raccontava il suo passato, altri si chiudeva nel mutismo. Ad esempio, raccontava che da giovane a Milano aveva avuto una grande casa di moda e che lì aveva conosciuto il marito. Non si curava molto di mangiare, ma beveva un litro di vino al giorno, consumava due etti di caffè e fumava due pacchetti di sigarette Esportazione. Qualche volta, al mattino, trovavo in disordine la cucina o il salone, con doppie tazzine di caffè e piatti sporchi. La signora diceva che era venuta a trovarla la sorella o il fratello e che non erano fatti miei, ma poi sentendo le loro telefonate si capiva che non erano venuti loro”. Ma la padrona era l’eterna scontenta e così, alla fine, la Impiccini prese e se ne andò. Telefonate misteriose, ospiti sconosciuti: cosa accadeva nella vita di Maria Martirano? Però… il terrore della Martirano era iniziato un anno prima di quel settembre del ’58, proprio con quelle telefonate. “Prima era timorosa, sì, ma non fino a quel punto” concluse la Impiccini. Qual’era il segreto di quella donna, allora? «Il Messaggero», il 14 settembre 1958, scriveva: “La paura di Maria Martirano non ha ancora un nome. E perciò anche il delitto di via Monaci non ha ancora un assassino. Maria Fenaroli è stata uccisa dall’uomo che temeva. Ma chi era costui? Di chi fu la mano spietata che s’allungò sul collo della donna, lo strinse tenacemente, fin quando il corpo scivolò al suolo privo di vita? La difficoltà dell’indagine sta nell’ambiente in cui la cupa vicenda è maturata. Un ambiente rispettabile, nel quale molte delle persone che hanno avuto contatti con la morta sono al di sopra di ogni sospetto ed insieme sospettabili. Proprio per questo, proprio per l’imprevedibilità della figura dell’assassino le ipotesi che si possono fare sono due: il delitto resterà per sempre impunito, o la vicenda si scioglierà con una rivelazione sensazionale”. Passarono quattro giorni e si diffuse la sensazione che la polizia stesse per chiudere, che avesse in mano il nome. L’attesa cresceva ancora. E restava sospesa nell’aria, come un’immensa domanda che si muoveva nel cielo di Roma.

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Capitolo 2

Cercavamo di stancarlo

“Alle 22 in punto di ieri sera, giovedì, il geometra Giovanni Fenaroli, marito della donna strangolata nell’appartamento di via Monaci 21, ha lasciato gli uffici della Squadra Mobile di Lungotevere Marzio. Vi era entrato avant’ ieri, mercoledì, alle cinque del pomeriggio. Salvo una brevissima pausa, egli è stato sempre a disposizione dei funzionari di Polizia, che l’hanno interrogato sulla vita e sulle abitudini della signora scomparsa, sui suoi affari, sui suoi viaggi, sugli avvenimenti recenti e lontani che possano offrire un appiglio per la scoperta dell’assassino. Pare che se ne sia cavato pochissimo”. «Il Messaggero», 19 settembre 1958. Fu un interrogatorio talmente lungo che Fenaroli non lo fecero uscire nemmeno per mangiare. Mangiò con la polizia. Dal ristorante di Piazza Nicosia gli portarono due uova all’ostrica, un quarto di vino, una minestra, il caffè. I cronisti che stazionavano in sala stampa maledicevano il tempo che passava e la maschera immutabile di Guarino, che non diceva una parola. Pignolo, Fenaroli continuò ad appuntare “interrogatorio vario” ogni santo giorno dal 12 fino al 19 settembre, sulla sua agenda, quando apparve invece un “interrogatorio giudice istruttore”. C’era una pressione enorme, su di lui.

Fenaroli durante un interrogatorio

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“Fenaroli era calmo, calmissimo, sempre – ricorderà anni dopo Macera – era sempre tranquillo, sereno, sicuro. Cercavamo di stancarlo e di farlo cadere in contraddizione; e non era facile. Non è stato facile”. Fu solo molto tardi, quando Fenaroli se ne era già andato, che i cronisti notarono una strana agitazione dietro le finestre del primo piano, quelle della Mobile. E la cosa aveva un senso. Perché all’una di notte videro uscire il capo della Mobile, Guarino, insieme al commissario Fedele: li inseguirono e videro che andavano a Termini, su un treno. Si misero a sedere in uno scompartimento riservato di prima classe: e passarono tutta la notte con la luce accesa, a discutere. Il treno correva nella notte, verso Milano. I giornali di Roma chiamarono le redazioni del nord: altri cronisti andarono ad aspettare l’arrivo del treno. A Milano Guarino e Fedele trovarono un’altra leggenda della Polizia italiana, il commissario Mario Nardone: e subito sentirono Egidio Sacchi, 34 anni, il braccio destro del geometra alla Fenarolimpresa. Poi parlarono anche con Angelo Traversi, 55 anni, ed Angela Manzi, 17 anni, impiegati della ditta; e con Carlo Inzolia, che era a cena con Sacchi e Fenaroli la sera del delitto. A Sacchi chiesero se avesse sentito cosa si erano detti marito e moglie nella telefonata: ma il ragioniere disse di no, che per buona parte della chiamata era stato in un’altra stanza. Una fitta rete di intercettazioni veniva intanto predisposta. Nel silenzio più assoluto, molti telefoni furono messi sotto controllo. Quelli dei Martirano, quelli di Fenaroli e delle sue sedi, addirittura il bar di via Catania 53 dove andava sempre Luigi; e perfino quello dello zio di Valsecchi. Nelle stesse ore c’era, però, un intenso movimento anche a Roma. Macera, uscito dalla Questura, venne pedinato dalla stampa fino alla sede romana delle Assicurazioni Generali. Ma che stava succedendo? Stava succedendo che, oltre quelle polizze trovate sul pavimento di via Monaci, ne era saltata fuori una quattordicesima, negli uffici di via Gesù. E questa polizza era importante, molto importante: era sulla vita di Maria Martirano, beneficiario il marito per l’astronomica somma di 150 milioni di lire. C’era di più, tra i rischi ne prevedeva uno che era davvero inconsueto: morte per omicidio. E questo sì che era davvero un bel movente…

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In realtà non s’era trattato di un’intuizione, ma di una perquisizione mirata. Erano state le polizze gettate per terra in via Monaci che avevano obbligato Macera a indagare. E a scoprire che ce n’era un’altra. E Fenaroli, che non ne aveva fatto parola, aveva dovuto ammetterne l’esistenza. Nelle stesse ore si sussurrava anche di un misterioso testimone che sarebbe saltato fuori nella città lombarda. Ma non se ne sapeva niente di più. Giovanni Fenaroli diventa quindi il sospettato numero uno, ma questo non lo sapeva ancora nessuno. Perlomeno, non ufficialmente. Perché Macera e Guarino si tenevano tutto per loro. Continuavano a indagare, convinti che questa fosse la pista giusta. Centocinquanta milioni: una somma enorme, per il 1958! Questo sì che poteva essere un fantastico movente: i soldi. E i rapporti tra Giovanni e Maria, ormai alla guerra fredda, aiutavano ad andare in questa direzione. Intanto, la stampa – che non sapeva un bel nulla della polizza numero 14 – si chiedeva ancora quale fosse il movente… Così, la mattina del 19 settembre si cominciò a leggere di “voci ormai insistenti sul segreto che opprimeva Maria Fenaroli. Il segreto risale ad un quarto di secolo fa allorchè Maria Fenaroli, giovane ed avvenente, ebbe probabilmente qualche trascorso di cui dovette in seguito pentirsi”. A dimostrazione che la stampa sapeva su questo aspetto più di quanto scrivesse, leggete quest’altro pezzo: “Il geometra è scagionato da ogni sospetto di uxoricidio a meno che non si voglia arrivare all’azzardata ipotesi di un crimine effettuato ‘per commissione’. Ipotesi che tuttavia la polizia sembra tenere di riserva, accanto a quella dell’omicidio per rapina o per ricatto, visto che allega tanta importanza ai benefici ereditari che la morte della povera signora poteva procurare ad altri”. Erano giorni, ore, in cui a Roma non si faceva altro che parlare del delitto di via Monaci. Ma non solo nella capitale: in tutta Italia i nomi della Martirano, di Fenaroli, erano all’ordine del giorno. L’ignota via Monaci divenne di colpo famosissima, i Martirano venivano fotografati ogni volta che entravano in Questura, di Fenaroli era descritto anche l’abbigliamento; e veniva riempito di flash ogni santa volta che usciva in auto. I vicini di casa erano intervistati, persino chi aveva prestato servizio anni e anni prima nella casa del delitto veniva rintracciato dai giornalisti. Perché un

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delitto come quello non capitava tutti i giorni. Quello che i cronisti non sapevano era che il bello doveva ancora venire. Intanto, però, la figura del marito era indecifrabile, per tutti. “In tutta la tragica vicenda di via Monaci, Giovanni Fenaroli pare un’ombra. È quello che sa meno di tutti, che non ha visto niente, che non sapeva nulla delle telefonate anonime, che non ha denunciato alla polizia il tentativo di effrazione alla porta di casa, che non ha spiegato le paure della moglie, che non ha indicato nessun nome utile, nessuna pista, nessuna traccia agli investigatori. Pare insomma che questo marito vivesse sulla luna”. Scriverà «Il Messaggero», 19 settembre. Eccoci qui. In questa stanza della Corte d’Assise, con due tavoli pieni dei fascicoli dell’inchiesta di allora. Abbiamo polvere sulle mani e sulle maniche delle camicie, mentre giriamo questi fogli che provengono da un passato lontanissimo. Armando, Fenaroli veniva interrogato per ore e ore Macera cosa sperava che accadesse? Che cedesse? “È strano, leggere questi interrogatori... Generalmente, specie quando ci si trova di fronte alla persona che teoricamente si ritiene l’autore del reato, si seguono delle regole ben precise. Una di queste, forse la più importante, è evitare le domande dirette, cioè di porre il soggetto sulla difensiva. Qui la tecnica invece è totalmente stravolta, ma non per incapacità degli investigatori, la cui professionalità è nota, ma per le grandi e palesi incongruenze che si presentavano loro davanti. Già dalle prime battute se ne notano tra le dichiarazioni di Fenaroli e i familiari della Martirano. Un esempio? Luigi racconta alla Polizia che Fenaroli, sentito il lunedì mattina, gli riferisce che sarebbe tornato la sera a Roma, avendo dimenticato diverse pratiche della ditta e pregandolo di prenotargli un vagone letto sul treno. Successivamente, fece spostare la prenotazione per il giorno successivo. Alla telefonata assistettero anche Valsecchi e il personale della Comet, cioè dell’agenzia di viaggio. La testimonianza che Fenaroli rilasciò alla Squadra Mobile fu invece totalmente diversa. Disse che, parlando al telefono con Luigi di pomeriggio, gli accennò alla preoccupazione di Maria per il tentativo di scasso che aveva subito dopo la sua partenza per Milano. E ribadì che era proprio per questo che tornava di

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corsa a Roma, con il volo delle 19.35. Qual era dunque la vera causa del suo ritorno a Roma? Altro esempio? Fenaroli dichiara alla Polizia che il lunedì sera disse alla moglie che avrebbe denunciato il tentativo di scasso ai Carabinieri il giorno successivo, ma aggiunge che la moglie lo avrebbe fatto desistere, dicendogli che ormai non era più importante: aveva fatto cambiare le serrature. Diverse sono invece le dichiarazioni rese da Luigi:‘dopo aver lasciato Maria in casa, Giovanni ed io salimmo in auto per recarci alla stazione. Durante il percorso mio cognato mi disse che, se mia sorella mi avesse chiesto se egli avesse sporto denuncia del fatto avvenuto la domenica, io avrei dovuto rispondere affermativamente. Aggiunse la verità, egli la denuncia non l’aveva fatta e non riteneva opportuno redigerla, dato che non credeva al racconto, e che riteneva si trattasse di una montatura’. Incongruenze a non finire: e queste sono solo le prime, come vedremo. A proposito, guarda la sua agenda: dal giorno dell’omicidio al 29 settembre è stato praticamente interrogato tutti i giorni, e guarda le interviste che si è annotato, con una meticolosità fuori del comune, sull’agenda”. Venne il giorno del funerale. Quando, alle 8.50 del 20 settembre 1958, la cappella dell’obitorio fu aperta al pubblico, dall’interno emerse la massiccia figura di Ugo Macera. Entrò un gruppo di persone, vestite di scuro. C’erano gli impiegati di via Ravenna, c’era Chimenti, le ex domestiche, la Goracci, i parenti tutti, gli amici di famiglia. Alla vista della salma, nella cappella mortuaria, Fenaroli ebbe un attimo di smarrimento, sembrò che stesse per cadere. Arnaldo Signoracci, storico perito settore dell’obitorio di Roma, lo trattenne. Maria indossava un abito di seta nero con disegnati dei fiori gialli e rosa e delle foglie sfumate verdi. Non aveva le scarpe: i parenti, chissà perché, avevano voluto così. Tra le mani, il rosario. Giovanni aveva inviato un cuscino di fiori gialli e rossi. Ogni fase del funerale venne filmata dalla Polizia, per tutto il breve percorso del corteo funebre. Gli operatori della Squadra Mobile erano nascosti all’interno della Città Universitaria e nelle abitazioni che danno sul piazzale del Verano, dove il corteo doveva per forza passare, mentre l’ultima cinepresa era addirittura sul

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coro della Chiesa di San Lorenzo. Fenaroli continuò a torturarsi le mani per tutta la messa ed alla fine scoppiò a piangere a dirotto. Durante il funerale, ad un certo punto, si voltò e chiese a Macera: “Ma quando finisce?”. Quella frase colpì il poliziotto e gli confermò che in quell’uomo c’era qualcosa che non andava. Strano, pensò Macera. Ma forse il geometra, più semplicemente, davvero non stava reggendo lo strazio e non vedeva l’ora che tutto finisse. Tutti i presenti verranno identificati, riconosciuti; ma nessun volto nuovo, nessuna faccia che potesse dare una svolta alle indagini. E dunque, niente di nuovo. La salma di Maria Martirano intanto se ne andava a Trepuzzi, il paese d’origine. Quando la bara stava per scomparire nell’oscura cavità del loculo provvisorio, che sembrò a molti che anche Fenaroli stesse per abbattersi al suolo. Già il mattino dopo, alle 9 – è il 21 settembre 1958 – riprendevano i lunghissimi interrogatori del geometra, alla Mobile. Fenaroli continuava ad appuntare i suoi impegni sull’agenda. Il 20: “funerali Maria”. Il 21 e il 22: “ore 10, interrogatorio squadra mobile”. Il 23: “giudice istruttore”. Il 24: “interrogatorio vario”. Il 25: “giudice istruttore”. Il 26, 27, 29: “interrogatorio vario”. Il 1 ottobre: “ore 13, Guarino”. Il 2: “ore 13 Macera, ore 18 Guarino”. Il 3: “9-14, Giudice Istruttore”. Il 4: “ore 11 Macera, ore 13 Guarino”. Il 5: “11, Squadra Mobile. 18, Guarino”. Il 6: “9, Giudice Istruttore”. Alle 20, finalmente, partì per Milano. Ma l’8 ottobre, alle 14 si riprendeva con Guarino e Macera. E addirittura era Guarino ad andare da Fenaroli in via Monaci l’11 ottobre, alle 18.30. Ma torniamo alla mattina del 21 settembre, adesso. I cronisti rimanevano in agguato, in sala stampa, aspettando che succedesse qualcosa. Il punto, però, era che non succedeva nulla. Valsecchi rimaneva in Piazza Nicosia, nel suo vestito grigio, vicino alla Lancia Appia bianca, ad attendere Fenaroli, in un’attesa estenuante. Il passare delle ore si confondeva con la stanchezza e l’esasperazione della stampa, pronta a fare notizia, a quel punto, anche di una carta spostata dal vento. Ad uno ad uno, cominciarono però ad entrare in Questura tutti i protagonisti del giallo: ecco i Martirano, ecco quelli dell’ufficio di via Ravenna, ecco la Viti… Che ci fosse un clima d’attesa delirante lo si capisce anche dai

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quotidiani: lo stesso giorno in cui tutti i protagonisti del giallo si ritrovarono a Piazza Nicosia le indagini sembrarono concluse; come sembrava anche che la magistratura stesse per pronunciare il suo atto d’accusa; ma non c’erano personaggi nuovi, così, si dava per scontato che avrebbe accusato uno dei presenti. E chi? Tutti gli occhi erano puntati su Giovanni Fenaroli. Gli interrogatori continuavano, senza che dalla Mobile uscisse nemmeno mezzo funzionario a rilasciare uno straccio di dichiarazione. Le finestre del primo piano del palazzo si accesero solo nel tardo pomeriggio: e rimasero accese fino ad ora di cena. E anche dopo. I giornalisti si davano il cambio, mentre nessuno usciva dalla porta a vetri della Mobile per dare una qualsiasi notizia, un brandello di informazione. “L’atmosfera notturna che si respirava alla Squadra Mobile era di alta tensione, quasi di attesa. I cronisti fissavano in silenzio la porta impenetrabile dietro la quale si svolgeva un atto, forse il più drammatico dell’intera vicenda. Il riserbo dei funzionari, il viavai dei testimoni, aumentavano la spasmodica aspettativa”5. Restarono sul Lungotevere tutta la notte: alle 2 le luci erano ancora accese. Ma che stava accadendo? Alle 2.45 videro Macera che in automobile se ne andava a casa. E Fenaroli? Incredibile, era ancora dentro! Dopo un po’ si accesero le luci dell’ultimo piano della Questura, dove il capo della Mobile aveva una brandina in un angolo, per quando restava a dormire in ufficio. Ogni tanto, dalle cabine del telefono, dal bar all’angolo, i cronisti che facevano la notte chiamavano le redazioni per dire che no, nessuna novità da mettere in pagina per l’indomani. Armando sospira: erano altri tempi. La Squadra Mobile non stava nello stesso palazzo della Questura, ma sul Lungotevere, dall’altra parte del “Palazzaccio”, a piazza Nicosia; e il suo dirigente che dormiva in ufficio… Armando mi guarda con un barlume che sembra di nostalgia: “Altri tempi, Polizia militare a tutti gli effetti! Fino alla riforma del 1981 si portavano ancora le ‘stellette’, c’era sempre un’aliquota di personale che dormiva nelle caserme, e quindi il capo della Mobile che dormiva praticamente in ufficio non ci deve meravigliare”. “Ma poi”, continua Armando, “per quanto siamo sempre portati a dire la mitica frase ‘i bei vecchi tempi’, e a lamentarci della 5

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delinquenza attuale, per certi versi non possiamo dire che fosse un periodo proprio tranquillo, quello, per la criminalità romana. Prendiamo per esempio proprio la residenziale piazza Bologna. ‘Crimen’, la rivista settimanale, che usciva all’epoca, la definiva ‘la zona della morte’, riportando, oltre l’omicidio della Martirano, anche l’omicidio di Nedda Calore Carfagnano, di 49 anni, insegnante di scuola elementare e uccisa nella sua abitazione di via Cremona 71; e l’omicidio di Pasqua Rotta, di 29 anni, di professione ‘mondana’ che esercitava alla stazione Termini e che venne rinvenuta strangolata da una cintura nel suo appartamento di via Belluno 5. Un periodo che vide anche l’uccisione di altre due ‘mondane’, Luciana Monti e Filomena Porcaro. In particolare, l’omicidio di Pasqua Rotta, avvenuta nel 1957, è un caso storico del crimine romano. Fu trovata uccisa nella propria abitazione, dove non esercitava: e infatti preferiva una pensioncina di via Giolitti. Non ti ricorda niente, questo nome?”. “Ma certo, la Martirano ne parlava sempre! Dove l’abbiamo letto?” “Ti ricordi? Non faceva che ripetere: ‘farò la fine di Pasqua Rotta, farò la fine di Pasqua Rotta, una botta in testa e svuoteranno casa!’ La scena del crimine della mondana, comunque, apparve subito singolare, delineando un omicidio sicuramente non d’impeto, ma con una certa premeditazione. La donna venne rinvenuta sul letto, come se dormisse, i polsi legati dietro e una cinta che girava intorno al collo. La camera da letto era in incredibile ordine, i cassetti chiusi e dalla borsa, che appariva non frugata, non mancava nulla. Sul comodino, bene in mostra, un profilattico non usato. Come nel più classico dei libri, il suo fidanzato era un musicista squattrinato, Marcello Coletti, che scoprì il corpo dopo mezzanotte, entrando nell’appartamento con le proprie chiavi. La porta non risultò forzata; ovviamente fu anche il primo sospettato, se non altro per il fatto di aver aspettato più di 20 minuti prima di chiamare la Polizia… Coletti venne riportato sul luogo dell’omicidio – quando le indagini procedevano pressoché prive di un aiuto ‘scientifico’, succedeva spesso – e dovette ripercorrere tutti i momenti del ritrovamento di Pasqua. Raccontò di come aveva aperto la porta, di dove aveva poggiato la giacca, della luce che aveva acceso. La Polizia gli chiese di posizionare il cuscino come lo aveva tro-

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vato, ma lui non aveva toccato nulla ed alla fine sbraitò: ‘vi farei comodo come assassino, un conto è essere un sospetto ed un conto è lasciare un’ impronta’. Ovviamente fu subito tranquillizzato dagli investigatori dato che nell’appartamento c’erano decine d’impronte di lui, abitandoci. Ma una serie di testimoni avevano visto Pasqua Rotta in vita, proprio mentre Coletti era a casa con i suoi familiari, che confermeranno che era uscito per raggiungerla verso mezzanotte meno dieci. Insomma, mancava il tempo materiale per compiere l’omicidio, e quindi uscì di scena completamente. Pensa che in sede autoptica si scoprì che i polsi erano stati legati dopo che era morta: e giù con tutta una serie di congetture legate anche al tipo di nodo, ‘a fiocco’, che faceva propendere per una donna. Ed ecco andare sotto interrogatorio la sua amica più intima, che l’aveva vista per l’ultima volta verso le 23.10; ma anch’essa aveva un alibi, tra l’altro fornito da due militari americani… Un altro caso che rimarrà insoluto. Le ‘mondane’, ieri come oggi, sono a rischio per la loro professione, capita spesso che siano vittime di morti brutali e che proprio per tutte le loro frequentazioni sia difficile scoprirne l’omicida, come anche nell’altro caso che ti ho accennato, quello di Luciana Monti. Se con Pasqua ci siamo trovati di fronte ad uno strangolamento, con la Monti ci troviamo di fronte ad un brutale accoltellamento: quattro colpi dati con mano precisa, sotto la mammella sinistra. La donna venne ritrovata alla ‘Torraccia’, sull’Appia Pignatelli, vicino alla tomba di Cecilia Metella, su un giaciglio fatto di paglia, dove consumava gli incontri con i clienti: certo era di un rango più basso di Pasqua Rotta. Qui le indagini si indirizzarono dapprima verso l’ex marito, dal quale era separata, poi sul convivente Alvaro Del Sere, di cui le colleghe di lavoro avevano raccontato le grandi litigate con Luciana, nell’ultimo periodo: ‘dov’ero, l’ho già detto. Poi, alle due e mezza, sono venuto all’Appia Pignatelli per prendere Luciana e accompagnarla a pranzo; anche lei aveva bisogno di un poco di riposo, poveretta. Ma ho visto una gran gente davanti alla Torraccia, ho sentito che c’era stato un delitto, da conoscenti ho saputo che la vittima era anzi proprio lei e allora sono scappato. Ma certo che no, non per paura; ma per il dolore, ero sconvolto e sono corso a casa’. In realtà Del Sere aveva rac-

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contato di aver visto la Monti bocconi e aveva raccontato anche un particolare che lo aveva colpito molto, che aveva il pungo chiuso come per stringere qualcosa. A questo punto si creò una situazione paradossale: Del Sere comunque finì in prigione per sfruttamento della prostituzione, continuando però a professarsi innocente del delitto, dicendo che era vero, l’aveva vista morta ed era fuggito; tutto questo mentre la Polizia praticamente non lo ascoltava, ma non perché non volesse credergli: anzi, proprio perché non riteneva che potesse essere lui l’assassino. Il motivo era semplice: la Monti era stata rinvenuta bocconi perché l’assassino l’aveva girata per impadronirsi della borsetta che lei, mentre ‘esercitava’, metteva sotto le spalle per evitare furti. Precauzione che non avrebbe adottato, se l’incontro fosse stato con il suo protettore. Inoltre perché Del Sere avrebbe dovuto uccidere la gallina dalle uova d’oro? Un altro di ‘mondana’ irrisolto, così come il delitto successivo, che avvenne nel novembre del ’59, quando la vittima fu Filomena Porcaro. Eppure il Questore, Carmelo Marzano, appena insediato nella Capitale aveva detto in conferenza stampa:‘Signori, sono abituato a dare un’ impronta personale alle Questure che dirigo. Qui ho trovato parecchie cose che non vanno. Datemi un po’ di tempo e vedrete... ’. Ma torniamo alla nostra storia, alle 6 di mattina del 22 settembre il sole sorgeva su Roma: e Fenaroli era ancora dentro. Verso le 7 si riaccesero le luci dell’ultimo piano: Guarino si era alzato. Lo intravidero per un attimo dietro i vetri del suo ufficio, alle 7.30. Voleva dire che era già al lavoro. Intanto, uscivano i giornali. “Ieri sera la Polizia ha offerto ai cronisti ed ai fotografi una vera e propria atmosfera da ultimo capitolo. Come nei romanzi, quando tutti i personaggi della vicenda si riuniscono per attendere il finale, la polizia ha infatti ieri sera convocato nei suoi uffici tutti o quasi tutti i volti più noti del ‘dossier’ Fenaroli”6. Fu soltanto alle 19.30 che Guarino si decise a incontrare finalmente i giornalisti, per dire che aveva capito chi era il colpevole. Ma Fenaroli, intanto, veniva rilasciato: dopo 28 ore di interrogatorio! Gli ridettero le chiavi di via Monaci e tolsero i sigilli all’appartamento. In buona sostanza, era chiaro che a Guarino 6

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mancava la prova decisiva, che per ora aveva una serie di indizi gravi. Lui stesso lo dichiarò: “Non ho ancora le prove per spedire in Corte d’Assise l’omicida”. Il punto era che Giovanni Fenaroli, di cose da spiegare, ne aveva tante. Proprio tante. Come aveva conosciuto Maria, ad esempio. O la situazione economica della sua ditta. O la loro situazione matrimoniale. Ecco, di cosa avevano parlato per 28 ore. Avevano parlato del fatto che il 13 maggio 1958 era stato dichiarato il fallimento della Fenarolimpresa, la principale delle società del geometra, che dunque era in cattive acque, economicamente parlando. Ma, se la Fenarolimpresa era fallita, gli rimanevano comunque in piedi altre attività, altre società. Fenaroli era infatti nel Cda dell’ Icrea, (Immobiliare Costruzione Ricostruzione Edili Appalti, sede a Roma in via Padova 35); e possedeva l’OCI, (Organizzazione Consulenze Industriali, sede in via Gesù 17, Milano). Imprese, a dire del geometra, per un totale di 177 milioni di attività e passività per 89. Aveva un terreno a Primavalle, un castello ad Alessandria e azioni in altre società. Restava però il fatto che la Fenarolimpresa era venuta giù sotto la valanga di un debito astronomico, 500 milioni di lire. Rosa, la portiera del palazzo di via Gesù 17, dove al secondo piano c’erano gli uffici della ditta, diceva che, dal maggio scorso, il numero dei clienti che salivano negli uffici s’era ridotto. Ma, aggiungeva il curatore fallimentare Mario Papeschi, la società aveva anche vari crediti: i lavori del Macello e dello stadio comunale di Savona, la costruzione di case popolari in via Avezzana, a Milano, per gli impiegati delle Poste; e infine la sopraelevazione del palazzo delle Poste di Como... insomma, una situazione non disastrosa, con un gran debito ma anche con diversi crediti per ridurlo. Il geometra aveva anche parlato d’altro, in quelle 28 ore. Per esempio, di un milione di lire che Fenaroli aveva versato in banca proprio nei giorni successivi al delitto e che insospettiva molto Macera: perché era la stessa somma rubata la sera del delitto. Fenaroli chiarì che si era fatto portare i soldi da Sacchi il 12 settembre, da Milano. Sacchi confermava. E tutti e due affermavano che i soldi venivano dal Commendator Plinio Boesi, che aveva scontato una cambiale al geometra. Boesi, però, smentiva in modo assoluto: era fuori Milano dall’8 al 18! La

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bugia era palese. Lo avevano contestato a Sacchi, che però non aveva saputo rispondere. Macera pensò, senza dirlo, che i due nascondessero qualcosa. Comunque fosse andata, restava l’immagine di un imprenditore che passava da una banca all’altra, che prendeva dei soldi di quà per tappare un debito di là, che si faceva prestare dei soldi da una parte per tacitarne un’altra. Questo era Fenaroli. Macera, a questo punto, aveva molte carte sul piano di vetro della scrivania. Un fallimento. Una polizza nascosta. Contraddizioni nelle deposizioni. Bastava fare due più due ed ecco che ce n’erano, di cose da spiegare… In quelle ore, infine, avevano parlato dei suoi movimenti per il giorno del delitto. Fenaroli risultava arrivato a Milano alle 8.25 del 10 settembre, in stazione. Per la serata, il geometra diceva di essere uscito dall’ufficio di via Gesù alle 19. Di essersi trovato con il suo segretario Egidio Sacchi, con un suo amico, Carlo Inzolia (e la moglie, la madre e la nipote di quest’ultimo) alle 20 circa, in Piazza Napoli. Di aver portato tutti da “Berti”, un ristorante vicino alla stazione, dove era di casa, fino alle 22.30. Poi, tutti a prendere il caffè da Ricci, in via Vittor Pisani. Inzolia gli aveva quindi chiesto in prestito la Giulietta per portare la famiglia sulle Dolomiti, la mattina dopo, ed avevano fatto a cambio di macchina. Quanto ai movimenti della vittima per il giorno del delitto, invece, a questo punto erano già stati ricostruiti con esattezza. Vediamoli. • Ore 8.30, arrivo di Maria Teresa Viti in via Monaci 21. • Ore 9.30, passa Luigi, porta le pile per un orologio elettrico, le monta, resta circa mezz’ora. Mentre sta montando le pile arriva Valsecchi e Luigi assiste ad un duro rimprovero mosso dalla sorella all’autista e alla Viti, perché, durante le vacanze, non hanno svolto bene le pulizie e hanno speso “ben” 40.000 lire per i pasti. • Ore 13, viene Gaetano. Non si vedono da circa venti giorni: passando davanti via Monaci, per caso, va a trovarla. In quel momento la Viti sta cucinando. Gaetano rimane mezz’ora, rifiutando l’invito a pranzo. Mentre sono nel salotto a fumare, la sorella gli racconta del tentativo di scasso che è avvenuto

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la sera della domenica. E cosa fuma Gaetano? Proprio una Nazionale col filtro, quella ritrovata nel posacenere. Ore 17, la Viti se ne va. Ore 17, Maria chiama Anna, che non vedeva da prima delle vacanze. Anna le manda incontro la sua cameriera, Vittoria Del Bufalo. Ore 18, Maria e la Del Bufalo arrivano in via Carnia, a casa di Anna. La Martirano appare contenta, stranamente di buon umore. Porta ad Anna un gran mazzo di gladioli, che Anna posiziona davanti al ritratto del marito, scomparso da qualche mese. Nella chiacchierata che segue, Anna spinge la sorella a raccontarle il tentativo di scasso. Alla Polizia dirà di non aver creduto inizialmente al racconto della sorella, che le era sembrato: “Di gran lunga esagerato, o forse addirittura inventato di sana pianta, o fonte di autosuggestione”. Ore 20.10, Maria rifiuta l’invito a cena di Anna, dicendo che finché non aveva cambiato le serrature la preoccupazione non l’aveva fatta dormire bene e che, adesso, aveva proprio voglia di andare a dormire presto. E le mostra le nuove chiavi. Anche Maria invita a cena Anna. Quindi si avvia verso casa, sempre con la Del Bufalo, dove arriverà alle 20.20.

Una giornata normale, che non fa presagire la sua violenta conclusione. Ma d’altronde, quand’è che la morte si annuncia prima? “Non so a te, Armando, ma a me colpisce che nessuno creda alla Martirano. Non il marito, non la sorella, nemmeno il nipote, Raffaele Martirano, figlio di Gaetano: dirà che lui non ha mai creduto alla faccenda della porta, che la zia ingrandiva i fatti”. “Ma sarà davvero successo, che qualcuno ha tentato di entrarle in casa?” risponde Armando. Nelle stesse ore, però, emergevano vistosamente i rapporti non buoni tra i fratelli Fenaroli. Giuseppe, infatti, diramò un comunicato stampa in cui teneva molto a specificare che l’unico ingegnere Fenaroli era lui e che chiamare così anche il fratello – lo facevano abitualmente tutti – ledeva il suo buon nome. Il fatto era che Giuseppe non voleva proprio essere confuso col fratello. E non una parola sulla cognata, in quel comunicato... Comun-

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que, ci teneva talmente tanto a non essere confuso che, nella primavera 1957, aveva fatto causa a Giovanni, perdendola, perché riteneva che il nome “Fenarolimpresa” lo danneggiasse… Non era l’unica crepa nell’immagine della famiglia Fenaroli. La morte di Maria sembra come una frana che travolge tutto, che porta a galla cose vecchie e sepolte. Così, nei giorni successivi, sui giornali, si cominciò a parlare di un figlio segreto della Martirano e si disse che si sarebbero diramate le ricerche in tutt’Italia a chi avesse il cognome Martirano. Non se ne caverà nulla. Il 24, invece, c’era molta agitazione nei corridoi milanesi della Mobile. Il vice-capo Nardone era con Fedele, arrivato da Roma. Ma che stava succedendo? Veniva interrogato un personaggio importante. Era uno che sapeva qualcosa? Gli interrogatori procedettero fino all’alba, poi la persona veniva scagionata. Chi era? Che c’entrava? Su Giovanni Fenaroli si stavano addensando, ormai, nubi gonfie di pioggia e allora il 25 settembre, nella sede di via Ravenna, il geometra pensò bene di incontrare i giornalisti, di parlarci a quattr’occhi e spiegare quelli che, secondo lui, erano un bel po’ di equivoci. Alle pareti della sede romana della ditta c’erano le classiche fotografie dei suoi cantieri, delle opere costruite; il diploma di dottore rilasciato da una “Academia Latina Scientiarum ed Artium”, quello di ingegnere preso in Svizzera, all’Hohes Technisches Institut di Zurigo (e che allora doveva valere come il due di coppe, in Italia). Fenaroli, visto da vicino, appariva magro e nervoso. Raccontò anche lui – giusto per dare il tono di chi fosse stata la moglie – l’episodio di quella sera che arrivò alle 22.45 in via Monaci senza chiavi. Le spiegazioni non bastarono, dovette fare i colpi di tosse, questo per dire quanto fosse impossibile che Maria avesse aperto ad un estraneo. Stava suggerendo responsabilità dei Martirano? Colpiva l’episodio delle polizze: e lo sapeva. Come mai ne aveva così tante? Gli chiesero. Ammise di essere un maniaco delle assicurazioni. Disse che aveva cominciato in Brianza, regalandole quando lo invitavano ad un battesimo. “Nel 1948 cominciai a fare di più: presi a stipulare delle polizze sulla mia vita, con beneficiaria mia moglie, per cifre rilevanti. Queste polizze io, ogni anno, le incrementavo con altre polizze, in modo da arriva-

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re al concetto che se per caso a me fosse capitata una disgrazia, mia moglie avesse un minimo, un tanto a disposizione immediatamente”. Ma scusi, perché doveva avere una disgrazia? “La mia vita è molto pericolosa, fra aerei e automobili. In automobile poi sono un individuo che non scherza. Cammino forte, quindi posso essere esposto al pericolo”, rispose. Ma quante polizze aveva? “7-8 polizze su mia moglie, una cumulativa contro gli infortuni comprendente me ed il mio ragioniere, il mio ingegnere, un capo mastro. Giunti all’inizio di quest’anno, aderendo alle pressioni fattemi da un amico, il commendator Mazzucchelli, ho fatto anche una polizza sugli infortuni dell’importo di 200 milioni, rendendo beneficiaria mia moglie. Contemporaneamente, contraevo una polizza che assicurava mia moglie per 150 milioni, beneficiario me. Lo stesso titolo ‘polizza infortuni’ dice come io vedevo questa polizza. Cioè, proprio per garantire dall’accidente imprevisto che poteva capitare domani: che andassi fuori strada, che andassi sotto un treno”. Ovviamente glielo chiesero: scusi, ma in quella polizza, la numero 14, tra i rischi c’è la morte per omicidio! E qui Fenaroli negò decisamente di aver fatto aggiungere tra i rischi la morte violenta della moglie: no, fu l’assicuratore ad aggiungere “l’appendice numero 1, che tra l’altro comprende rischi che io non avevo richiesti e che mi venivano concessi in quanto quello era il modulo predisposto dall’assicurazione”7. Aggiunse che fu la moglie, vedendo che le polizze erano a vantaggio degli eredi legittimi e testamentari, a farle correggere inserendo, con una lettera successiva, solo lei e il marito, proprio per evitare complicati problemi di successione. Armando apre un faldone e tira fuori la lettera, ha la data del 6 maggio 1958, pochi mesi prima dell’omicidio: «Su conforme richiesta dell’Assicurata e a rettifica di quanto risulta dai precedenti atti contrattuali si dà atto che: 1) Il cognome dell’Assicurata è Martirano Maria in Fenaroli (anziché Martorano Maria). 2) In caso di morte dell’Assicurata stessa in conseguenza di infortunio, il capitale garantito con la suindicata polizza verrà pagato al marito Signor Ing. FENAROLI GIOVANNI fu Quirino. Fermo il resto. La presente appendice forma parte integrante della sudNelle clausole speciali dell’appendice era infatti compresa l’aggressione, il ferimento e l’uccisione per rapina o per azione delittuosa. 7

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detta polizza”. Ma la firma in calce, della Martirano, è proprio la sua? Su questo argomento torneremo più avanti.

La rettifica della polizza assicurativa

Adesso torniamo nella sede di via Ravenna e vediamo come Fenaroli spiegò il suo fallimento, che ricollegava ad un progetto edilizio in Turchia, nato dalla collaborazione con l’Italcasse: “A settembre 1957 ritenni opportuno, non essendo d’accordo col pensiero dei miei associati, ritirarmi dall’attività, rassegnando le dimissioni. Tale mia uscita dall’attività in Turchia (la costruzione di case vicino Istanbul e quella dell’aeroporto di Erzurum, Nda) rese necessario un inquadramento ed aggiornamento dei rapporti economici e finanziari intercorsi tra la Fenarolimpresa e l’Italcasse. Le trattative si svolsero con una certa difficoltà, tanto che si conclusero con l’opportunità che io stesso presentassi al Tribunale di Milano la domanda per l’amministrazione controllata.

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Il Tribunale accolse la richiesta, ma per opposizione di terzi dichiarò il fallimento. E comunque il curatore entro due mesi potè pagare tutti i crediti privilegiati”. A ben vedere, era molto meno di una mezza spiegazione, nel senso che doveva essere andata di certo in una maniera più complessa di così. Non era scemo, il geometra. Nell’incontro con i giornalisti era pienamente consapevole che da più parti lo si indicava come responsabile dell’omicidio della moglie. Sapeva di avere contro parte della stampa. E si vedeva. Un cronista annotò che gli tremavano vistosamente le mani. Finito l’incontro compì un gesto, che «Il Messaggero» racconterà il giorno dopo. “Da ieri notte il geometra Giovanni Fenaroli è tornato ad abitare nel tragico appartamento di via Monaci 21. È una decisione, ci ha detto, che si è imposta deliberatamente per vincere l’atmosfera di incubo che si è creata intorno alla sua casa ed alla sua famiglia. Per ora gli fa compagnia nell’abitazione il fido autista Sandro Valsecchi”. Il caso Fenaroli, però, è una fabbrica di colpi di scena che superano la fantasia. Abbiamo appena ricollocato da poche ore Giovanni Fenaroli sulla scena del crimine, lo abbiamo appena immaginato mentre la mattina del 27 si alza e mette su il caffè camminando sulle stesse mattonelle sulle quali è stata assassinata la moglie, che c’è un nuovo colpo di scena. Tutti a cercare questo figlio misterioso di Maria Martirano: e invece salta fuori una ragazzina che si chiama Donatella. E che non ha a che vedere nulla con la Martirano. Donatella, 14 anni, infatti, era la figlia di Amalia Inzolia… questo cognome lo abbiamo già sentito, vi ricordate? Abbiamo nominato Carlo Inzolia, che era a cena con Fenaroli e Sacchi la sera del delitto. Carlo Inzolia era dunque un pezzo dell’alibi di Giovanni Fenaroli. Ecco, Amalia era la sorella di Carlo. Donatella quindi era la nipote di Carlo e faceva parte anche lei dell’alibi di Fenaroli, anche se eratroppo piccola per saperlo. D’accordo, va bene, ma che c’entrava in tutta questa storia, allora? In realtà c’entrava il misterioso testimone, quello di cui non si sapeva nulla. Quello interrogato da Nardone e Fedele fino all’alba, qualche giorno prima. E che ora un nome: Buzzi Mario,

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detto Bernasconi. Nel senso che a volte usava questo secondo nome, quando doveva fare qualche colpetto… A scovare Buzzi, al civico 14 di Piazza Fontana, era stato Nardone, dopo lunghe ore di appostamenti. Viveva con una ballerina d’avanspettacolo, Buzzi Mario: lo presero e lo portarono in Questura. La polizia lo sospettava, se è vero che gli sequestrò dall’armadio un abito blu. E che raccontò l’uomo? Che aveva avuto una relazione con la Inzolia, dopo che lei si era separata dal marito. Nel 1954, però, lei l’aveva mollato per Fenaroli: era ovvio che il geometra poteva prometterle ben altra solidità economica. E infatti l’aveva sistemata in un appartamento di via Clefi 5. Di più: per renderla economicamente indipendente le aveva affittato un negozio di elettrodomestici dal pomposo nome di “Lux Maison”, all’angolo tra Piazza Napoli e via del Giambellino. Due vetrine piene di lampadari ed altre diavolerie moderne, che forse scontava il fatto di vendere cose troppo care per stare in un quartiere iper-popolare come il Giambellino, appunto. E comunque, lì ci stavano Amalia e Carlo, nel dicembre 1956. Per gli Inzolia, Buzzi era sempre stato solo un pregiudicato che si ostinava ad andare dietro ad Amalia. Ma Buzzi la rivoleva, le andava dietro, la tampinava. A suo dire, lei gli aveva detto di conoscere un segreto di Fenaroli per il quale poteva ottenere qualsiasi cosa da lui. Vero o falso che fosse, ma soprattutto alla fine rassegnato all’idea di aver perso Amalia, Buzzi detto anche Bernasconi si era vendicato. Aveva preso carta e penna e il 30 aprile 1954 aveva informato la Martirano che il marito aveva un’amante. Risultato: una gelosissima Maria si era fiondata a Milano, dove era avvenuto un incontro a quattro. Lei, Giovanni, Buzzi e l’avvocato di Fenaroli, Alcibiade Basili a mediare. Era stata l’unica volta in cui Buzzi aveva incontrato gli altri e in cui aveva dovuto fornire prove dell’esistenza di una Amalia Inzolia nella vita di Giovanni Fenaroli. E le aveva fornite. La lite tra marito e moglie era stata colossale, ma lui non aveva neanche per mezzo secondo pensato di lasciare Amalia. Buzzi usciva così di scena; non aveva ottenuto nulla e non aveva nessun movente per uccidere la Martirano. Lo stesso Fenaroli ammetteva di aver rassicurato la moglie sul fatto che avrebbe interrotto la relazione con Amalia e che dopo un po’ l’aveva tranquillamente ripresa, senza che lei se ne accor-

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gesse. Si può dire che Maria avrebbe comunque potuto poco per riprenderselo, visto che dipendeva economicamente da lui e che gli affari del geometra erano a Milano; ma è più di così. Perché gli Inzolia erano davvero diventati molto importanti, per Giovanni. Molto. Tanto che, anche quando Amalia era morta, a dicembre del 1957, lui aveva continuato a frequentarli. E qui c’è da chiedersi cosa ci trovasse di tanto speciale, l’imprenditore che nuotava nei milioni, nella famiglia Inzolia, che stava invece al terzo piano di un modesto palazzo di via Metauro 15, che si trovava anch’essa al Giambellino. La spiegazione, probabilmente, è che a Fenaroli non pareva vero di crogiolarsi in un ambiente familiare come quello di questa famiglia siciliana, di sentirsi circondato di una stima e di una riconoscenza che erano reali, visto che per loro era il benefattore. Considerava, insomma, gli Inzolia la sua vera famiglia. C’era da capirlo: i rapporti col fratello li abbiamo visti, e la famiglia della moglie non lo sopportava. Era con gli Inzolia, invece, che Fenaroli era tutto: il mecenate, lo zio affettuoso, il datore di lavoro; e il suo naturale senso di protagonismo, il suo bisogno di visioni grandiose, di avere una platea che lo ascoltasse a bocca aperta poteva, adesso sì, essere finalmente soddisfatto. Anche senza Amalia, gli Inzolia erano parte indispensabile dell’equilibrio di Giovanni Fenaroli. E i Martirano? Nei lunghi giri d’orologio a Piazza Nicosia c’era stato posto anche per loro, fin dall’11 settembre. Seduti sulle panche di legno del corridoio, avevano desiderato di essere altrove, ma quella era la prassi. Dovevano testimoniare, rendersi utili. Conosciamoli meglio, allora. Anna Martirano era dattilografa all’Inps e vedova da gennaio 1958. Abitava nella vicina via Carnia, l’abbiamo visto. Luigi l’abbiamo incontrato, lavorava nella sede romana della Fenarolimpresa, la ditta di Giovanni Fenaroli. Gaetano: impiegato all’Università, arrotondava facendo il rappresentante della Pirampepe. Ma, a parte questo, negli interrogatori Anna e Gaetano confermarono, soprattutto, che Maria era un ex prostituta. Perché è questo che aveva fatto Maria Martirano tra il 1930 ed il 1932: aveva lavorato nei bordelli di molte città, anche se aveva conosciuto Fenaroli dopo aver smesso. Era questo, l’oscuro passato che i giornalisti non potevano raccontare. Passato che, ov-

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viamente, Macera sapeva fin dall’inizio. Passato che Fenaroli era arrivato, di fronte ad Anna, a negare di aver mai saputo, causando la reazione rabbiosa della cognata: “Ma come, neghi di sapere dove l’hai conosciuta, dove l’hai prelevata, se era quello che gli rinfacciavi ogni giorno!”. Una versione dei fatti che sarà sempre sostenuta da Anna e che confermerà anche Gaetano, in un memoriale che consegnerà alla Mobile il 15 ottobre successivo. Napoli, Taranto, Palermo, Ancona, Venezia, Padova, queste le città dove la Martirano aveva esercitato nei primi anni Trenta, per poi trasferirsi a Milano e diventare l’amante di un certo Enrico Gruppi. E per poi conoscere Fenaroli, con cui si era sposata il 29 settembre del 1937. Naturalmente, sono circolate tante versioni, su questa faccenda. Una è quella che vuole che Fenaroli non sapesse nulla del passato di Maria e che fosse stato proprio suo fratello Giuseppe ad informarlo, dopo aver chiesto notizie ad un amico, ufficiale dei Carabinieri. O forse non ce n’era stato bisogno: Giovanni lo sapeva benissimo – cosa ben più probabile – e i Fenaroli s’erano informati da soli sulla futura cognata, avendo ricevuto delle voci. Anche qui, altre versioni: Fenaroli che conferma, oppure Fenaroli che risponde che non è vero, si erano confusi con Anna. Ha importanza? Di certo, lui non ammetterà mai che la moglie era un ex prostituta. Va detto, però: che dopo quei tre anni nei bordelli Maria Martirano aveva completamente cambiato vita. Era diventata la signora Fenaroli, e basta. Quel passato era però destinato inevitabilmente a tornare e ritornare sempre. Anna ripeterà ad alta voce, nei lunghi anni del caso Fenaroli, che tante volte, durante le liti tra marito e moglie, aveva sentito Giovanni minacciare Maria di “ricacciarla nel fango dove l’aveva trovata”. Questa frase è più di una confidenza che viene riportata alla polizia. È la prova di una guerra nemmeno fredda, ma al calor bianco, tra i Martirano e Giovanni Fenaroli; il ritratto di una disistima reciproca, di una diffidenza che esisteva da decenni tra loro e che esplose proprio in quei giorni di settembre. Perché anche i Martirano sospettavano di Giovanni, specie dopo aver scoperto, dissero, che esisteva quella quattordicesima polizza, che lui aveva sempre negato esistesse. Ma in quei giorni, in quelle ore, c’era fango per tutti. La Poli-

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zia scavava nelle vite di ogni protagonista del giallo. Tutto il clan dei Martirano, nelle intercettazioni telefoniche, disegnava un ritratto molto poco cordiale della sorella morta: volubile, egoista, capricciosa, noiosa, superba, esibizionista… Emergeva, costantemente – confermata anche dalle deposizioni – l’invidia verso il suo status di moglie ricca e la pretesa che lei fosse tenuta a sostenerli economicamente, ogni volta che ne avessero bisogno, ogni volta che andavano a chiederle soldi, semplicemente perché lei se li era fatti e loro no. Lei ricambiava le cortesie. Nell’ultimo anno, infatti, la Martirano si era raffreddata rispetto ai suoi parenti, li cercava poco, tutti. A Gaetano aveva negato, pochissimo prima di morire, i soldi per entrare nella gestione di un bar. Gli altri la ripagavano in egual moneta. D’altronde, la stessa Anna, cercata l’8 settembre dalla sorella che voleva raccontarle la paurosa avventura notturna di domenica, aveva evitato di richiamarla. In ogni caso, i Martirano erano terrorizzati che il passato di Maria venisse fuori dalle stanze della Questura; infatti, in un’intercettazione del 10 ottobre, alle 14.50, l’operatore della Polizia sentì Gaetano ed Anna dirsi una frase che resterà emblematica: “Se dovesse venire a galla quella faccenda è meglio che ci sprofondiamo tutti sotto terra”. Siamo nel 1958 e avere una escort in famiglia non era motivo di orgoglio come oggi, ma una vergogna: ecco perché, contro ogni evidenza, Fenaroli continuava a negare il passato della moglie. Le indagini andavano avanti anche su altri fronti, però. La Compagnia dei Telefoni informava che la sera del 10 settembre 1958 era partita, in effetti, una telefonata dalla Fenarolimpresa di Milano verso l’utenza di via Monaci 21, esattamente dalle 23.24 alle 23.27. Eh sì, perché una volta la faccenda era diversa. “Assolutamente, si!”, mi risponde Armando, “c’erano i selettori parzialmente automatici ed in questo caso ci fu la fortuna che eravamo in anni in cui venivano registrate le telefonate extraurbane; poichè venivano, allora, fatturate in maniera diversa. Se fosse stata una telefonata urbana non avremmo saputo nemmeno il tempo di durata”. “All’epoca c’erano i cartellini – ricorderà Macera, anni dopo – facemmo controllare i cartellini e scoprimmo che questa telefonata c’era stata ed a che ora”.

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Non c’è dubbio, quello era un altro mondo e Roma era un’altra città. Basta sfogliare i giornali di allora per accorgersene. Era un’epoca differente, più semplice. “Guarda questo articolo de «Il Paese» del 31 dicembre di quell’anno – fa Armando: “Per un lupo mannaro allarme alla Garbatella”. La terra dei Cesaroni è stata quindi vittima dell’assalto di un licantropo... Leggiamo l’articolo: “era da poco passata la mezzanotte quando il signor Gaetano Pinto, che abita nello stabile con la moglie ed i sette figli, sentiva dei forti colpi battuti sulla porta di casa, seguiti da insistenti ululati. I violenti colpi proseguivano per qualche tempo e gettavano nel terrore la famiglia, poiché il misterioso individuo sembrava deciso ad abbattere la porta e sempre più forte si udiva un urlo rauco modulato come un urlo felino, dell’infelice malato. (…) I vigili del fuoco si recavano sul posto, ma il suono della sirena dell’automezzo provocava la fuga del misterioso individuo. Vane erano le ricerche, condotte anche dagli agenti del locale commissariato di P.S.”. Ma si trova pure di meglio: “Clamorosa rissa in una borgata per un secchio di latta rubata” Oppure, che ne dici di questo? “Il pollaio invaso da galline forestiere”. “Semplicemente stupendi, Armà. Ma ce ne sono anche altri che ci fanno capire cosa faceva notizia e cosa no. Ad esempio, ho trovato questo: in via Scarampo, a Milano, fece grande impressione che fosse stato messo un incrocio senza semafori, ma con una grande rotonda al centro. Una rotatoria, diremmo oggi… beh, nel 1958 era talmente grande che meritò articolo e foto”. “Scusa, e questo allora? Dove lo metti? ‘La donna nella società italiana. La politica non le interessa. Vanno a votare come andrebbero a farsi vaccinare e dei ministri le impressionano più le cravatte che l’attività di governo.’

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…leggermente prevenuto, eh?” “Adesso non esagerare, era solo una società maschilista al 1000%... E poi avevano bisogno di capire, guarda quest’articolo che spiega cos’è il misterioso palinsesto…” “Ma c’erano anche altri problemi. Ad esempio, stanziavano soldi per togliere dalla strada le prostitute, dopo la legge Merlin, ma come al solito non ce n’erano abbastanza. Ecco, guarda: “Solo 20.000 lire disponibili per ogni mondana da redimere”. “È la solita vecchia storia, hai ragione. Però anche i delitti, intendo dire i grandi delitti, non mancavano. Leggi che titolo: “Processo Rosalia Garofalo: legò l’amante al letto e baciandolo lo pugnalò”. “Chissà che processone deve essere stato! Però, scusa: e questi? “Una ragazza si uccide ingerendo insetticida” “Uccide la cognata perché non lo fa volare” “Singolare evasione di quattro scimmie a Lodi” Più vari articoli sullo scandalo di ‘Lascia o raddoppia?’…eh sì, ci fu uno scandalo anche su questo! Non ci facciamo mancare proprio niente, in Italia…”.

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Capitolo 3

Saltano fuori tre testimoni

“Qualcuno è entrato nell’appartamento di via Monaci e ha ucciso. Perchè l’abbia fatto e chi sia ancora non si sa. Siamo in pieno ‘giallo’: da un momento all’altro potrebbe venir fuori un nome, un nome che potrebbe sbalordire tutti”. («Il Paese», 15 settembre 1958) Ma in quei giorni di settembre così carichi di colpi di scena succedeva anche altro. Anzi, più d’una cosa, perché se c’era un fatto certo era che via Monaci, alle 23.30 della sera del delitto, era stata un crocevia allucinante. Testimoni? Quanti ne volete. Se era vero che il carabiniere di guardia di fronte alla Legazione Cinese non aveva notato nulla di strano, era pur vero che la sera del 10 settembre 1958 più d’una persona era entrata e uscita dal civico 21. E proprio intorno alle 23.30. I testimoni chiave erano quattro, anzi sei: Reana Trentini, Maria Maniccia, Benito Sensoli, Alfia Anellini. E i ragazzi che stavano insieme alle prime due testi, Antonio Sica e Marcello Colitta. Il problema era che dicevano tutti cose diverse. La più importante del gruppo non si presentò spontaneamente alla Polizia. La trovarono il 30 settembre: aveva paura della vendetta dell’assassino. Era Reana Trentini, 32 anni, fisico tutta curve, carattere di ferro, di professione “guardarobiera”. La Trentini era veneta e si trovava ospite dei Fabianelli, all’interno 10. In realtà però lavorava da una famiglia che stava a circonvallazione Nomentana. Alle 23.40 si trovava davanti al portone, perché stava salutando il suo fidanzato, Antonio Sica, ragioniere, che lei chiamava “Grissino”: dell’orario era abbastanza sicura, perché non appena usciti da un bar di viale XXI Aprile, aveva chiesto a Sica che ora fosse. Le 23.35, giusto il tempo di percorrere via Severano, aveva risposto lui. La finestra sopra il portone, in quel momento, era illuminata. Dunque erano lì, proprio a destra del portone, da circa 2-3 mi-

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nuti, quando la Trentini vide sbucare da via Severano “un individuo di 35-40 anni, corporatura atletica, capelli lisci, scuri o neri, tirati alle parti ed un poco alzati in mezzo. I capelli erano piuttosto lucidi, come se vi fosse della brillantina (per i lettori al di sotto dei 30 anni: è l’antenata del gel, Nda). Aveva una fronte piuttosto alta. Preciso aveva l’attaccatura dei capelli piuttosto alta e piuttosto quadrata. Non ritengo che l’attaccatura dei capelli, piuttosto alta, fosse dovuta ad una calvizie incipiente; ritengo piuttosto che fosse naturale, perché la capigliatura era di una foltezza normale, senza baffi e occhiali, con indosso un abito blu di buon taglio. Appariva elegante, non notai il colore della camicia, non notai nemmeno il colore della cravatta. Sottobraccio teneva una borsa marrone scura, in cattivo stato, non gonfia”. Ricorderà Macera, anni dopo: “La colpì questo enorme colosso, in relazione al suo fidanzatino piccolissimo. Fu per questo che lo notò e poi per un secondo particolare. Quando lo vide andare verso la Martirano, che stava al portone, pensò: guarda un po’ la signora che bel giovane che si è trovata! Quindi, una donna scesa nel pettegolezzo”. Ma qualcosa dell’uomo la inquietava, le faceva paura. “Che vuole questo?” chiese a “Grissino”; e Sica rispose “buona, che adesso se ne va”. A questo punto i due, a ogni buon conto, si spostarono dalla parte opposta, a sinistra del portone. Quindi sentirono scattarne la serratura (vi ricordate? Non funzionava da sopra, bisognava scendere per aprire). L’uomo allora li superò; e dietro il portone a vetri videro che appariva una figura di donna, minuta, in un abito a fiori e con un paio di sandali bianchi aperti, che contrastavano con il vestito. E furono proprio questi ad attirare l’attenzione della guardarobiera perché, non avendola sentita arrivare, era particolarmente curiosa di sapere che tipo di calzature avesse mai indossato la signora. Reana Trentini la riconoscerà in foto: era Maria Martirano. L’esame di tutti gli inquilini presenti nel palazzo quella notte – e delle loro fattezze – escluse che potesse aver visto un’altra persona. L’uomo si avvicinò, si fermò, fece un breve inchino, si dettero la mano, parlarono un attimo e si avviarono lungo il corridoio che portava ai piani. Reana Trentini e Antonio Sica, in quel preciso momento, furono gli ultimi ad aver visto viva Maria Martirano.

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E i primi a poter descrivere un nuovo personaggio di questa storia: l’uomo in blu. L’assassino. “A vederlo, l’ho visto – racconterà anni dopo la Trentini, col consueto piglio – io l’ho visto bene, mi camminava davanti, sicchè l’ho visto in tutti i modi, di davanti, di profilo e di prospetto! Io l’ho visto salire, ma non ero nell’appartamento, non posso dire che ha ucciso qualcuno!”. Poi c’era un’altra ragazza, Maria Maniccia, infermiera, che stava tornando dal Cinema Italia con Marcello Colitta. Mentre il misterioso uomo in blu passeggiava avanti e indietro (incredibile: facendosi notare per bene da due testimoni!) al portone, la Maniccia e Colitta stavano arrivando in via Monaci. Anche loro, prima di entrare, restarono fermi a parlare un po’. Poi la ragazza entrò nel portone, subito dopo la Trentini, tanto che le due si incontrarono mentre quest’ultima stava andando all’ascensore della scala B (la Martirano abitava invece nella scala A). Perché ci interessa la sua testimonianza, allora? Innanzitutto perché conferma i tempi della Trentini. Nonostante la Maniccia e Colitta stiano qualche momento fuori dal portone, però, non videro nessun uomo in blu. Ma si ricordavano che la signora era affacciata alla finestra del soggiorno. Come se aspettasse qualcuno. Crea sicuramente confusione, invece, Alfia Anellini, che in realtà non abitava nel palazzo ma era andata a vedere la tv dalle amiche. Ad un certo punto era uscita a cercare “inutilmente” (così dicono i verbali…) il marito al bar “Graziani”. Mentre rientrava, scorse l’infermiera Maniccia, che conosceva, con il fidanzato, a breve distanza dal portone: erano, ricorda, appartati all’ombra di un albero. Non vide sul cancello la Trentini con il fidanzato: questione di attimi, forse. Non poteva escludere, però, che la guardarobiera stesse arrivando in quel momento. E poi c’era Benito Sensoli, meccanico: l’unico testimone che si trovò fisso in un punto per tutta la scena. Se ne stava seduto in via Severano, nella sua Fiat 1100, ed aspettava qualcuno, un suo cliente: che però non verrà. Poiché dava le spalle al portone, tutto quello che vide fu un’immagine riflessa nello specchietto interno dell’auto. Sensoli mise a verbale di aver visto un’altra Fiat 1100 (precisamente: tipo 103 primo modello, addirittura specificò, molto professionalmente, che l’auto era provvista di una marmitta Abarth…), passare per via Monaci e dare due potenti acce-

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lerate a vuoto davanti al portone. Poi – attenzione – vide nello specchietto apparire una signora che uscì dal portone, si avvicinò al cancello, controllò che fosse aperto e tornò indietro.Intanto, l’auto ripassava una seconda volta, stavolta senza fare casino. E fu solo allora che vide anche lui passare l’uomo in blu: e andava verso il portone: “Aveva sui 35-40 anni, era interamente vestito di bleu, aveva le spalle ampie, era alto circa 1,75-1,80, aveva i capelli sul nero, piuttosto folti lunghi sopra le orecchie, era leggermente stempiato. Non era grasso, aveva un portamento molto disinvolto e distinto. Non aveva occhiali nè baffi. Aveva la cravatta, della quale non ricordo il colore”. Solo che l’uomo in blu di Sensoli entra in scena esattamente dalla parte opposta a quella indicata dalla Trentini, cioè da viale XXI Aprile. Il meccanico vide questa figura arrivare al cancello, spostarlo ed entrare. Lo vedrà ripassare 20 minuti dopo. Ci sono però alcune importanti differenze tra il suo uomo in blu e quello degli altri testimoni: quello di Sensoli sotto il braccio non porta nulla, nessuna borsa; al portone non nota nessuna coppia; arriva da un’altra strada. Quanto alla 1100, verrà cercata a lungo, ma senza nessun risultato. Resta che la testimonianza di Sensoli e quella della Trentini sono del tutto difformi, come se avessero visto due persone simili e diverse entrare nello stesso portone… Come si spiega? Vedo Armando mugugnare: “Facciamo però una considerazione, perché Sensoli verrà sentito molte volte, anche pochi giorni dopo l’accaduto, ribadendo sempre che la sua testimonianza si riferisce alle ore 23.40. Ma è soltanto nella deposizione del 16 ottobre, quindi più di un mese dopo, che afferma di non aver avuto l’orologio, quella sera, e che l’orario lo aveva desunto esclusivamente dal tempo che successivamente aveva impiegato per tornare a casa! Ma siamo sicuri che stia parlando del misterioso individuo? Ma se non fosse quello visto dalla Trentini? Ricordiamoci i tempi dettati da Reana: lei staziona con il proprio fidanzato davanti l’androne solo pochi minuti, circa 2 o 3. È un lasso di tempo relativamente breve: basterebbe che Sensoli fosse arrivato verso le 23.30 o poco prima e sarebbe tutto diverso. Già obiettivamente risulta difficile credere ad un testimone che dice che a quell’ora è andato a portare l’autovettura ad un suo cliente (che poi stranamente non si presenterà)… ma non basta. Dice pure di aver osservato tutta la scena dallo specchietto retroviso-

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re, con l’autovettura che distava dal cancello 28 metri e mezzo, come accerterà la Corte d’Assise, ma ti rendi conto?”. Armando ha ragione: infatti prevarrà la deposizione della guardarobiera, perché è quella più affidabile ed attendibile, quella che ha visto più a lungo e più da vicino l’assassino. Già, ma l’assassino chi è? In ogni caso, la Polizia impose a Sensoli di andare al funerale della Martirano, per vedere se riconosceva qualcuno. E lui disse: “Sì, è quello!”. Chi aveva riconosciuto? L’uomo che stava indicando era Raffaele Martirano, 19 anni il nipote della vittima. Ma il ragazzo aveva un alibi ed uscì rapidamente dalle indagini, tanto quanto la credibilità del meccanico dopo questo episodio… Più utile di Sensoli fu una delle inquiline del palazzo, Anna Guerrieri: dichiarò, la mattina stessa dell’11 settembre, che, rientrando nel palazzo la sera prima, poco dopo mezzanotte, aveva notato che la finestra del salone era ancora illuminata. Segno che l’assassino era ancora nell’appartamento. Ora facciamo un salto in avanti. È il 6 maggio del 1961, nel palazzo di via Monaci sono tutti affacciati alle finestre, non accadeva da quasi tre anni che si vedesse così tanta Polizia nella tranquilla stradina: da quando venne uccisa la Martirano. In quel breve tratto di strada si trova una Corte d’Assise intera. Ma cosa sta succedendo, Armando? “Il processo in Corte d’Assise, come vedremo meglio in seguito, è in pieno svolgimento e l’intera Corte vuole capirci meglio su queste testimonianze. Così, alle 22.30 del 6 maggio 1961, davanti a quel portone di via Monaci, si effettua una ricostruzione, documentata ovviamente dalla Polizia Scientifica. Vengono riposizionati tutti i protagonisti. Si inizia con la Trentini ed il suo fidanzato Sica, che vengono messi davanti al cancello. L’accuratezza delle testimonianze si vede anche nelle didascalie che illustrano le fotografie allegate: ‘l’ingresso dello stabile, fotografato dalla distanza di mt. 14 circa dal cancello con i testi Trentini e Sica nella posizione che gli stessi, a loro dire, assumevano al momento in cui raggiunsero detto ingresso; la Trentini dista dal cancello cm. 80 mentre il Sica cm. 91’. Nella scena successiva si posizionano i due ricostruendo il momento in cui si sono salutati. Guarda che faccia imbarazzata che ha Sica, probabilmente nella realtà il saluto non sarà stato così formale… Ecco che nella ricostruzione subentra una terza persona, un

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agente di Polizia in divisa, che si posiziona nella scena simulando l’uomo in blu. Dopo varie riprese di questi, vediamo la Trentini portarsi nella posizione assunta quando stava per prendere l’ascensore. Vedi questo lungo corridoio, in fondo sulla destra? Qui si apre la porta dell’ascensore e la Trentini è lì, proprio dove la vedrà la Maniccia. Poi tocca alla Anellini: secondo le sue dichiarazioni passa a poco più di un metro dalla Maniccia che, pur stando a pochi metri dal portone, si era leggermente defilata sotto un albero. Ma com’è possibile che non vede la Trentini? La cosa continua, anche dopo la ricostruzione, ad essere misteriosa, perché o la Maniccia arriva prima della Trentini e rimane nella sua posizione defilata non facendosi scorgere, e quindi l’Anellini ha transitato precedentemente e tutto torna… o l’Anellini è passata a circa 10 centimetri dalla Trentini senza scorgerla. Misteri dei testimoni... Conclude la ricostruzione la Fiat 1100 con il teste Sensoli a bordo, che nelle due fotografie della ricostruzione si mette: in una ad osservare lo specchietto retrovisore e nell’altra invece si gira parzialmente. Anche dalle immagini si deduce che non era una posizione naturale”. «Il Paese», 15 settembre 1958: “Poco dopo le 23.30 la signora è vista viva, affacciata al balcone, da Maria Maniccia, infermiera che abita nel palazzo. Poi non si sa più nulla di sicuro. La prima persona che vedrà la donna sarà lo studente speleologo Marcello Chimenti: la rinverrà bocconi in cucina, vicina all’acquaio, priva di vita. Qualcuno è entrato nell’appartamento di via Monaci ed ha ucciso. Perchè l’abbia fatto e chi sia, ancora non si sa. Siamo in pieno ‘giallo’: da un momento all’altro potrebbe venir fuori un nome, un nome che potrebbe sbalordire tutti”. Non c’è niente da fare, i giornali lo sapevano già, quel nome. Ogni giorno aspettavano che lo arrestassero, ma niente. Lo sapevano e non potevano nominarlo: questo è certo.

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Capitolo 4

La quattordicesima polizza ed un fallimento da ridere

“Un nuovo particolare, che sembra rivestire una notevole importanza nel corso delle difficili e delicatissime indagini che la Squadra Mobile sta conducendo ormai da una settimana sul delitto di via Monaci si è appreso nel tardo pomeriggio di ieri: la signora Maria Fenaroli avrebbe una assicurazione sulla vita. (…) È in ogni caso quasi assurdo pensare che l’omicida sia proprio la persona che trarrà beneficio diretto dalla morte della povera signora”. «Il Paese», 17 settembre 1958. La situazione economica di Giovanni Fenaroli continuava a tenere banco. E insieme a lei, la storia delle polizze. Ormai i due argomenti si erano saldati nella testa degli investigatori e così le indagini procedevano su entrambi questi fronti. La Fenarolimpresa era fallita, la polizza sulla moglie valeva 150 milioni. Era pur sempre una bella somma. Una gran bella somma, per la fine degli anni Cinquanta. E più si indagava, più questi due argomenti si saldavano. Come già sappiamo, di quelle quattordici polizze ce ne interessa solo una, quella del 25 febbraio 1958: sulla morte di Maria (beneficiario Giovanni) per 150 milioni di lire. Alcune altre invece erano piccole polizze, stipulate tra il 1942 ed il 1946, sulla vita della Martirano (beneficiari nipoti e figli del personale di servizio della villa Fenaroli di Airuno); altre, invece, per un ammontare complessivo di 35 milioni di lire, erano sulla vita di Fenaroli, beneficiaria la moglie. L’ultima, infine, non era sulla vita, ma sugli infortuni di Giovanni, per un valore di 200 milioni e prevedeva, inizialmente, come beneficiari, i suoi eredi legittimi. Ma poi c’era stato un cambiamento: unica beneficiaria di questa polizza era diventata solo la moglie. Lo abbiamo visto prima: serviva a far fronte, in caso di suo decesso, alle necessità dell’azienda e a permettere a Maria di avere subito dei liquidi su cui contare.

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E, fin qui, tutto bene. Ma c’era, nell’altra polizza, quella sulla vita della moglie, quella incredibile clausola che conteneva la frase: “compresa l’uccisione per rapina o per azione delittuosa”. Ora, quello che sappiamo è che quella polizza, inizialmente, però, prevedeva altri beneficiari, cioè gli eredi legittimi (quindi non solo Giovanni). Sappiamo anche che la polizza era stata stipulata il 25 febbraio 1958. Il 13 marzo successivo, attenzione, era arrivata alle Assicurazioni Generali (sede centrale di Milano) una lettera (proveniente dalla sede romana di Piazza Poli), in cui si rettificava, nella polizza stipulata, il nome: che era stato scritto in modo sbagliato (il che era verissimo: Martorano invece di Martirano). Ma si aggiungeva, anche, che “in caso di morte dell’Assicurata stessa in conseguenza di infortunio, il capitale garantito con la suindicata polizza verrà pagato al marito Signor Ing. FENAROLI GIOVANNI fu Quirino”. In realtà questa rettifica, tra sedi assicurative, era stata preceduta da una lettera della Martirano, che invitava la sede romana ad effettuare le rettifiche di cui abbiamo detto. Insospettiti da questo cambio di beneficiario, i poliziotti fecero esaminare la firma: e scoprirono che era falsa. Erano passati undici giorni dal delitto e già il 22 settembre la firma di Maria appariva per quello che era: falsa. Talmente falsa che Fenaroli finì per ammettere di averla messa lui, al posto della moglie. Macera e Guarino fecero due più due, proprio come voi adesso. Questo fu il momento in cui ebbero la conferma, in cui si dissero: sì, abbiamo il movente. Eppure qualche crepa in questa ricostruzione così logica c’era, anche se venne praticamente ignorata. E si trattava di più d’una crepa. Una arrivava da Renato Libanora, titolare della agenzia di Piazza Poli, e da Angelo Mazzucchelli, l’intermediario: dichiaravano, infatti, che la famosa clausola sulla morte violenta era stata idea di Libanora, per invogliare quell’ottimo cliente a stipulare altre polizze. E che quando furono portate al geometra per la firma, questi dette loro appena un’occhiata. Non era roba da poco. Un’altra la apriva Giancarlo Tomassini (uno dei dipendenti di via Ravenna), quando molti anni dopo ricorderà: “Ero presente io quando la Martirano disse al marito per telefono ‘firma tu’”. Cioè proprio quello che disse Fenaroli nel 1958: che quella firma l’aveva messa lui non per un intento criminale, ma per incarico

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della moglie. Aggiungendo (ma questo stava tutto sulla sua parola, ovviamente) che era stata la moglie a far spostare l’intestazione della polizza dagli eredi al marito, per semplificare la successione. Una cosa va detta. Non è vero che i Martirano, come affermarono, non sapessero l’importo delle polizze. Lo sapevano benissimo. Luigi possedeva, infatti, un promemoria di tutta la situazione assicurativa, datogli da Fenaroli stesso, che gli venne trovato, durante una perquisizione, a casa sua. Il geometra gliel’aveva dato – previdente com’era – in caso di sua premorienza; e se Luigi sapeva queste cose, le sapevano tutti i Martirano. Un’altra copia del promemoria fu sequestrata in via Monaci. “Fabio, la cosa non quadra” mi interrompe Armando, mentre si rigira la perizia grafica sulle firme tra le mani “la raccomandata tra sedi assicurative è partita da Roma e pure in duplice copia. Guarda qui, la perizia di comparazione della scrittura, disposta dal giudice Modigliani. Le firme da verificare sono tre: quella della lettera che la Martirano invia all’agenzia assicurativa di Roma e quelle sulla variazione della polizza, che l’agenzia invierà a Milano. Sono da comparare con le firme, certe, della Martirano, prese dalla carta d’identità e dal passaporto. I periti fecero un’ottima comparazione grafica; senza il prezioso aiuto della tecnologia moderna fecero degli ingrandimenti in scala e misero in comparazione le varie firme. Anche ad occhio, come si accorsero gli investigatori, le firme erano diverse. Dopo il primo giudizio di falsità (“le tre firme ‘Martirano Maria’ precisate in incarico sono false”, scrissero), le compararono con la scrittura di Fenaroli ed appurarono che erano state fatte da lui. Aspetta Fabio, che te ne leggo un piccolo stralcio: Nella parola ‘Maria’ analoga accentuata pendenza dell’asse della prima minuscola ‘a’ ed analoga apertura in alto a sinistra del curvilineo di essa; analoga struttura della ‘i’ in corpo di parola; analogo sviluppo del curvilineo della terminale ‘a’ largamente incompleta a sinistra ed analoga forma e direzione della prima parte della codina di essa”. Poi ovviamente la relazione continua. Però, Fabio, penso che anche un ‘non addetto’ ai lavori avrebbe potuto intuire che c’era qualcosa di sospetto, in quelle firme”. Armando mi ha messo curiosità e mi rigiro tra le mani la relazione: sì, è vero. Non l’avevo notato, eppure è così evidente… le firme false riportano prima il cognome e poi il nome, mentre in quelle

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autentiche, ovviamente, è il contrario. Un piccolo particolare che spesso sfugge ai falsari improvvisati. “Quindi, se dobbiamo credere a Tomassini – conclude Armando con aria soddisfatta – probabilmente quella telefonata si riferiva a qualche altra firma, chissà…”.

Il confronto delle firme della Martirano nella perizia grafica

Infine, è proprio il fallimento che apre la terza crepa nella ricostruzione di Macera. Per due motivi. Il primo è che Fenaroli non aveva bisogno di quei 500 milioni per chiudere il buco del fallimento (c’è, d’altronde, una dichiarazione dello stesso Sacchi: “Non è esatto parlare di dissesto, in quanto c’erano delle trattative in corso con i creditori e tutto lasciava sperare in un onorevole accomodamento”8). Il secondo è che, Fenaroli, proprio nei mesi del delitto, si preparava a rinunciare ad una parte dell’ eredità (circa 60 milioni, una somma niente male) derivata dalla morte della madre, avvenuta proprio il 15 luglio di quel 1958. Lo sapevano, a quanto sembra, in tanti: il fratello Giuseppe, Sacchi, l’avv. Basili, la moglie, forse anche Luigi. Era stata una sua scelta, fatta in favore del nipote Antonio: scelta che poi formalizzerà il 12 novembre dello stesso anno. 8

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«L’Unità», 3 gennaio 1959.

Come anche rinuncerà all’assicurazione sulla morte della moglie, di cui non chiederà mai il pagamento. Gli stessi assicuratori lo confermeranno. Strano, per uno che avrebbe architettato tutto proprio per quei 150 milioni. Ora, diteci, se tutto era stato combinato per il disperato bisogno di quei soldi, che senso aveva? Il problema è che c’è, in questa storia, una faccenda che abbiamo dato tutti per scontata. E che invece non lo è affatto: il fallimento di Fenaroli, come causa scatenante del delitto. Con la polizza assicurativa come occasione. Solo che il geometra non richiese mai il pagamento della polizza, appunto, e che il fallimento di Fenaroli, a vederlo da vicino, era economicamente ridicolo. Dobbiamo spiegarvi perché, altrimenti non si capisce più niente. E altrimenti potreste pensare davvero che i soldi siano stati il movente. Allora… la Fenarolimpresa spa è dichiarata fallita, lo sappiamo, il 13 maggio 1958. Quello che emerge dai suoi libri contabili è semplice: che per tutti i lavori della società accadeva puntualmente che i preventivi erano sbagliati e che i costi, alla fine, si dimostravano puntualmente ed enormemente superiori. Oltre questo, il disastro era stato anche dovuto alle manie di grandezza di Fenaroli, che per fare il capitano d’industria aveva completamente gonfiato la sua società con dei quadri imponenti. C’erano ben tre ingegneri a libro paga, un direttore amministrativo, diversi impiegati, cinque geometri, due autisti, Sacchi come consulente; due sedi (Milano e Roma) più Fenaroli continuamente in viaggio tra Roma e Milano. Il curatore Papeschi fulminò Fenaroli con questa descrizione: “Animato da un ottimismo pericoloso per sé e per gli altri, Fenaroli ha condotto gradatamente la società al completo esaurimento economico, fino all’impossibilità di pagare operai ed impiegati. (…) Fenaroli riusciva ad imporre la propria personalità ai collaboratori, ai quali amava dare cariche altisonanti, anche se questi non avevano la possibilità di muovere foglia senza una precisa disposizione. (…) Il dirigente amministrativo Enriotti doveva registrare i movimenti contabili quando questi erano già avvenuti a sua insaputa. (…) La Fenarolimpresa ha avuto solo formalmente l’aspetto di una spa, in effetti essa ha funzionato alla stregua di una ditta individuale. (…) Le attività edilizie e finanziarie del Fenaroli sono caratterizzate da un

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ottimismo che sconfina nel visionario. (…) Egli proseguiva imperturbabile, dimostrando ai suoi collaboratori una impressionante sicurezza nel successo, tanto più accentuata mano mano che le difficoltà aumentavano. Nemmeno risulta che il Fenaroli abbia avuto un tenore di vita eccessivamente lussuoso. (…) Un vero lusso era da lui sfoggiato nell’organizzazione della sua azienda; il numero stesso dei suoi collaboratori (tutti munificamente retribuiti) gli consentiva di considerarsi un vero capitano d’industria e di appagare in tal modo questa sua ostinata aspirazione”. Ora, al momento del fallimento, l’abbiamo detto, la società aveva in corso: la costruzione del macello e dello stadio di Savona, quattro case popolari per le Poste in via Avezzana, a Milano, e il sopralzo del palazzo delle Poste di Como. Il passivo ammontava apparentemente a ben 120 milioni di lire, escluse le spese successive dovute ai lavori in questione, ancora da finire. Ma il crac era molto più grosso di così, perché la Fenarolimpresa aveva un gigantesco debito di 376 milioni di lire verso l’Italcasse (parleremo meglio di questo ente nel capitolo 8). Totale: 500 milioni, lira più, lira meno. Ora, è evidente che il creditore più grosso era proprio l’Italcasse, no? Papeschi, per risolvere la situazione, fece, allora, un ottimo accordo con loro: li tacitò trasferendogli il valore delle azioni che Fenarolimpresa possiedeva in Icrea, pari a 113 milioni, liberando così il fallimento dal peso Italcasse. Era un accordo sorprendente, perché quelle azioni erano praticamente carta straccia: l’Icrea, infatti, stava per essere messa in liquidazione. Il loro valore era puramente nominale. Per ora prendetela così: sempre nel capitolo 8 vi spiegheremo i retroscena di questa trattativa e cosa c’entra con il delitto... Torniamo al fallimento. A questo punto, restano quei 120 milioni di debiti. Ma la Fenarolimpresa aveva, nel frattempo, ritirato anche delle cambiali che aveva in circolazione, alleggerendo il peso della massa debitoria. Totale: restavano 86 milioni da pagare, ma sapendo di avere crediti da riscuotere (per quei lavori, Savona e Como, da finire) per 82 milioni. Di lusso! Questo era l’accordo con i creditori che Papeschi, il 26 no-

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vembre 1958, propose al Tribunale di Milano: e che venne accettato il giorno stesso. Il giorno stesso in cui viene ritrovato il cadavere della moglie è quello in cui Fenaroli avrebbe dovuto firmare l’accordo preventivo con l’Italcasse. Verrà ovviamente rimandato, ma è importante la coincidenza: ci dice che l’11 settembre, al geometra, non servivano i 150 milioni della polizza, perché stava per risolvere concretamente i suoi problemi economici. Di più: se anche avesse voluto buttarli dentro il fallimento a ogni costo, con tutto il suo carattere di visionario, come poteva pensare che l’assicurazione avrebbe pagato subito? Questo delitto, Fenaroli, avrebbe dovuto commetterlo molti mesi prima. Certo, quell’appuntamento con l’Italcasse era una grossa ansia per lui, se il 10 settembre, nel suo ultimo giorno di vita, Maria aveva detto ad Anna, di colpo in bianco: “Speriamo che Giovanni domani sistemi i suoi affari. Non mangia più, non dorme più, è sciupato in modo tremendo”. Ma Fenaroli, in quel momento, non era così alla canna del gas da dover ammazzare la moglie: aveva l’appuntamento che stava per risolvergli tutto. C’è dell’altro: perché, se anche nei mesi successivi avesse incassato i soldi dell’assicurazione, non avrebbe avuto alcun obbligo di metterli nel fallimento. La Fenarolimpresa era una spa e il suo proprietario non era legalmente tenuto a rispondere col patrimonio personale. Quei 150 milioni se li poteva tenere tranquillamente lui. E quindi: l’assicurazione e il fallimento non sono il movente. Non è come ce l’hanno raccontata i giudici e gli investigatori.

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Capitolo 5

Il geometra, il ragioniere, l’elettrotecnico e il commerciante

“Per l’assassinio di Maria Fenaroli altre indagini nella nostra città. Giunti da Roma il capo della Squadra Mobile con tre funzionari. In preparazione un mandato di cattura?” («Il Corriere della Sera», 9 ottobre 1958) È a questo punto l’inchiesta si addormentò. Proprio dopo che a fine settembre era parsa ad un passo dalla conclusione. E invece no: non succede più nulla. La grande onda si deposita sulla spiaggia, si ritira e lascia la stampa in un’attesa insoddisfatta. E non si capiva se, dietro le quinte, la Polizia stesse lavorando sul caso, oppure no. Se stesse per succedere qualcosa, oppure no. Forse tutto si era arenato, perché mancava la prova per inchiodare l’assassino. Forse la stavano cercando e non volevano dirlo. C’era uno strano silenzio, ad ottobre 1958, intorno al 21 di via Monaci. Fenaroli aveva ripreso la sua vita. L’8 novembre aveva portato con sé, ed ospitato a Roma, Donatella. Era il premio per la promozione della terza media. L’ aveva accompagnata ad Anzio, a vedere il mare, con l’avvocato Basili, l’onnipresente Sacchi e relative mogli. Nel “Diario del Dolore” scriverà che “avrebbe voluto presentarla a Maria, che è buona, brava e ingenua, che è stata bersagliata fin da piccola da un destino cattivo”. Scriverà che vederla lo aiuta, che è andato a trovarla anche a Milano il 2 novembre, perché questo gli dà serenità. Che le è affezionato. Intanto, nelle intercettazioni, i Martirano parlavano di eredità, dell’ appartamento… 16 ottobre, ore 11, Franca chiama Gaetano: “Sono stata con Anna alla serata d’addio (avvenuta il giorno prima, Nda) di Giovanni ed abbiamo fatto man bassa. Anzi, se vuoi qualche pelliccia e vestito non fare complimenti”. Fenaroli annoterà nel suo “Diario” che sembrava fossero passati

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gli sciacalli, la sera prima: “Non c’è rimasto nemmeno un fazzoletto”. Anna chiama Gaetano, 20 novembre, ore 14.40: “Adesso Giovanni va a Milano e quando torna smonta la casa. Io voglio parlargli e prenderlo con le buone per essere presente e prendermi l’argenteria”. Poi, a novembre, accadde qualcosa. Il 24 venivano convocati Sacchi e Fenaroli, a Palazzo di Giustizia. Il dramma del delitto di via Monaci sembrava vicino all’epilogo. Li tennero negli uffici, tutti e due, per ore e ore. Furono interrogatori martellanti, duri, pesanti. Sacchi dava ormai l’impressione di sapere cose che non diceva. Comunque, dopo mezza giornata, ripeteva ancora che lui non sapeva nulla. Fenaroli, invece, era tenuto sotto pressione in un’altra stanza. Il tempo sembrava passare senza fine. Quattordici ore di interrogatorio anche lui: e niente. O forse un po’ di nervosismo glielo misero addosso, perché quando risalì in auto, a piazza Cavour, era ormai mezzanotte e i giornalisti, stremati da un’attesa senza novità, presero a inseguire il coupè bianco del geometra che, per seminarli, si mise a correre sempre di più finché, in via Tripoli, al Nomentano, finì col prendere in pieno una Seicento. Era mezzanotte e mezza. E voilà: anche per stasera una notizia ce l’abbiamo! Anche perché la Mobile non diceva nulla, semmai faceva trapelare solo una cosa vecchia, ma che i giornalisti non sapevano ancora: la faccenda della firma falsa. In realtà era successo ben altro, ma questo lo si verrà a sapere soltanto il giorno dopo. La notizia era ghiotta: “A Regina Coeli il rag. Sacchi, braccio destro di Fenaroli”. Non ebbe un’eco enorme, come notizia: la misero a mezza pagina, ma tant’era: chi vuol capire capisca. Il giudice aveva deciso di mettere Sacchi a Regina Coeli, a schiarirsi le idee. L’accusa non era di quelle clamorose, falsa testimonianza, ma all’epoca si usava per convincere a parlare9. Magari – pensarono – questo gli avrebbe fatto ricordare meglio certi avvenimenti. In effetti Sacchi non aveva affatto la tempra del leone, semmai quella dell’occhiuto collaboratore. 9 Il codice di procedura penale dell’epoca prevedeva l’arresto per l’accusa di falsa testimonianza. Abbiamo parlato di un caso simile nel nostro “Morte a Via Veneto”: per l’omicidio di Christa Wanninger (1963) fu incarcerata, con la stessa accusa di Sacchi, l’amica di lei Gerda Hodapp. Fu una battaglia di nervi, ma non funzionò: la Hodapp non disse nulla e dovettero liberarla.

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E, per esserlo di uno come Fenaroli bisognava condividerne i metodi, i trucchetti. Se c’era qualcuno che sapeva tutto del geometra, non c’era dubbio: quello era Sacchi. Fenaroli, come sempre, non cedeva: ecco perchè stavano puntando sul ragioniere. Insomma, gli stavano contestando di aver mentito sulla faccenda del milione. Sì, quello versato in banca da Fenaroli nei giorni successivi al delitto. Ricordate? La spiegazione di Sacchi e Fenaroli era stata subito smentita. Ed era restato nell’aria il dubbio che fosse lo stesso milione del delitto. Arrestato, Sacchi si ricordò improvvisamente che il 6 settembre era andato alla Cassa di Risparmio di Rieti (sede di Roma), dove si era fatto rilasciare un assegno circolare da un milione. Il 9 settembre aveva poi cambiato l’assegno in biglietti da 10.000 a Milano: gli servivano per saldare delle cambiali in scadenza. Ma, a seguito della notizia della morte della moglie del suo capo, aveva invece portato i soldi a Fenaroli. Probabilmente era andata così, ma il bello era che questo non era nemmeno più così importante. La faccenda del milione era solo un cavallo di Troia. Una trappola, per mettere in ansia Sacchi e fargli sputare sangue. Il giorno dopo si ricominciava: Fenaroli era di nuovo a Palazzo di Giustizia. Il giudice riprendeva a interrogarlo, per ore. Scese la sera su Roma. A Regina Coeli, Sacchi chiedeva di parlare con i giudici. Quando Fenaroli uscì dal Palazzo di Giustizia, due auto della polizia lo seguirono. Brutto segno. Passarono 24 ore e, mentre la città dormiva, arrivò il botto. Di colpo, il quadro fu chiaro. I giornali del 26 novembre aprirono con la notizia in prima pagina. Era successo quello che doveva succedere. “La sezione omicidi ha controllato ogni passo del geometra Fenaroli prima dell’arresto eseguito stamane nell’abitazione in via Monaci”, titolava «L’Unità». Era proprio vero! Il botto c’era stato! Era successo alle 3.40 di notte. Dieci minuti prima, Macera l’aveva svegliato dicendogli che sarebbe passato per mostrargli una foto. Alla scampanellata della polizia aveva aperto in vestaglia, la faccia assonnata. E se l’erano portato via nel suo abito “Principe di Galles”, mentre l’alba si preparava ad inondare Roma. Ma com’era successo? Era successo che Sacchi aveva parlato. Eccola, la svolta! Aveva bussato alla porta di ferro della cella e chiesto di essere interrogato. “Sacchi era un uomo fedele, fino al massimo, fino al limite della complicità – ricorderà Macera, anni

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dopo – ma quando si è trovato di fronte alle esigenze della giustizia, arrestato, ha detto: l’ho seguito fin qui, ma non vado oltre. In galera non vado per lui”. In realtà, quella che aveva raccontato il ragioniere era una storia un po’ confusa. Diceva che l’8 settembre 1958, mentre andavano a pranzo (Fenaroli già sapeva di dover tornare a Roma, dove la moglie era agitatissima per il tentato furto della notte prima), il suo principale aveva fermato l’auto in via Albricci, dove c’erano gli uffici dell’Alitalia, e lo aveva incaricato di acquistare un biglietto per il volo delle 19.35 dello stesso giorno, ma non a nome suo: a nome Rossi. E aggiunse: “Capii che si trattava dell’attuazione del noto progetto e cercai inutilmente di dissuaderlo, prospettandogli che egli si apprestava a compiere una enormità”. Il noto progetto? Ma che voleva dire? Più tardi, dall’ufficio, Fenaroli aveva mandato Traversi, un collaboratore, ad acquistarne un altro, stavolta a suo nome; mentre a Sacchi aveva chiesto di annullare il primo. La cosa si era ripetuta il 9: altra prenotazione per il volo delle 19.35 e altra disdetta; ed il 10, quando Fenaroli, disse Sacchi, gli aveva chiesto di nuovo di prenotare a nome Rossi, sullo stesso aereo. Stavolta, però, a via Albricci gli avevano risposto che, dato l’orario – erano circa le 17 – loro potevano solo prenotarlo, che il posto c’era, ma che avrebbe dovuto pagarlo direttamente in aeroporto. L’acquisto, insomma, andava perfezionato. Quella sera, concluse Sacchi, il geometra uscì alle 18.30-18.45 e mi dette appuntamento alle 20 circa, al negozio di Inzolia, in Piazza Napoli. Dopo cena tornammo in ufficio. E ci fu la telefonata. Queste parole ebbero il potere di rivitalizzare le indagini, perché era da settembre che, convinti della colpevolezza di Fenaroli, in Questura ne stavano cercando le prove. Ora, la presenza del misterioso signor Rossi cambiava tutto: perché doveva essere sicuramente lui il sicario, quello che era stato mandato da Milano a far fuori la Martirano! Tornarono allora a spremere Sacchi, perché bisognava anche capire come avesse fatto Fenaroli a far aprire la porta alla paurosissima moglie. E lo misero sotto torchio sulla telefonata; era chiaramente lì che stava la chiave di volta della faccenda. Sacchi aveva parlato. La telefonata che aveva sentito lui non si era svolta come aveva detto il geometra... Pochissime ore dopo la confessione di Sacchi, Fenaroli era stato arrestato.

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Il ragionier Sacchi con la famiglia nel 1959

Ora saltiamo a una ventina di ore dopo. Le lancette dell’orologio non hanno ancora concluso l’ultimo giro del 26 novembre. È notte, è tardi e fa un freddo cane, a Milano. Siamo all’aeroporto. “La fase milanese dell’inchiesta sul delitto di via Monaci si è iniziata l’altra sera, martedì, sulla pista dell’aeroporto della Malpensa, allorchè da un aereo militare hanno messo piede a terra il giudice istruttore Modigliani, il sostituto procuratore Felicetti, il commissario Guarino e alcuni sottufficiali. L’uso dell’aereo per un’inchiesta giudiziaria è già di per se stesso un fatto eccezionale”10. Sì, era davvero un fatto eccezionale. Uno dei tanti che hanno reso epocale il caso Fenaroli. Ma non era ancora successo niente… Mentre quegli uomini, intabarrati nei loro cappotti, scendeva10

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«Il Corriere della Sera», 27 novembre 1958.

no la scaletta dell’aereo, in Questura c’erano gli Inzolia. E che ci facevano, lì? C’erano tutti, Carlo, Donatella… Un’ora più tardi Guarino, insieme al commissario Scirè, della Mobile di Roma, scesero da un paio di 1100 nere in via Tarquinio Prisco, una stradina come diecimila altre, che stava dalle parti di San Vittore. Erano le 23.25. I loro passi risuonavano sul selciato, mentre si avvicinavano al civico 1. Suonarono al portiere del palazzo, mostrarono le tessere. Si fecero dire dove abitavano i Ghiani: al secondo piano. Sapevano già chi c’era in quell’appartamento: la signora Clotilde Guatteri (53 anni), la figlia adottiva Lia (27) ed i figli Luciano (26) e Raoul (27). Salirono su. “Aprite, Polizia!” ed una spaventata signora Clotilde socchiuse la porta, in vestaglia. Perquisirono casa, portandosi via un abito blu, da finire di pagare. Cercavano Raoul. Raoul non c’era. Dopo un poco arrivò, sul pianerottolo vide due uomini davanti la sua porta, ebbe paura: che volessero derubarlo? Allora si avvicinò alla porta del vicino, Colombi. E intanto li osservava, con la coda dell’occhio Fu allora che uscì Guarino: “Guardi che lei abita qui... ”. Armando apre una busta: sono gli effetti personali di Ghiani al momento dell’arresto. “Guarda, Fabio, quando lo arrestano ha ancora le due schedine giocate tre giorni prima: aveva tentato la fortuna con quattro colonne precompilate”. Già, ma chi è Raoul Ghiani? Gigi Ghirotti scriverà un pezzo magistrale su «L’ Europeo»: “sino a pochi giorni fa un uomo usciva ogni mattina, puntuale, alle 8.10, dal portone di via Tarquinio Prisco 1 e si affrettava verso la fermata del tram 29. Era Raoul Ghiani, un milanese come centomila, che la città si tiene stretto nel reticolo delle sue vie e delle sue abitudini. Quattro volte al giorno Ghiani sale sul tram, il 29 per andare e il 30 per ritornare. Quattro volte al giorno passa sotto l’orologio di controllo della sua ditta per marcare sul cartellino di lavoro le entrate e le uscite. La sera va al caffè, la notte dorme nella stanza da pranzo, sul divano allungabile; il sabato compila le schedine del Totocalcio. La domenica va al ballo ed al cinema con le ragazze. Il lunedì ricomincia a correre dietro al tram che lo sbarcherà alla Vembi, macchine calcolatrici, microfilm. Un giorno, il 26 novembre, le cronache staccano quest’uomo all’improvviso dal fondo opaco su cui si muoveva. Raoul Ghiani

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diventa il personaggio del giorno. La polizia lo accusa di delitto su commissione, ma gli italiani si chiedono come quel giovane dall’aria qualunque abbia potuto evadere dalle abitudini della sua vita, volare a Roma in tempi così stretti; diventare strumento quasi gratuito di un delitto a distanza. Un delitto senza gesti, senza passioni, senza grimaldelli, perché basta una telefonata per aprire la porta all’assassino di Maria Martirano e due mani robuste per strangolarla. (…) Gli amici parlano con simpatia, taluni con entusiasmo, di Raoul Ghiani e della sua cordialità buontempona. Certe notti d’estate guidava gruppi di amici a far chiasso per le strade deserte. Giocavano ai mimi di Silvio Noto, sotto il cono di luce dei lampioni. ‘L’è l’una – gridavano verso le finestre che s’accendevano impazienti – e dopo l’una tutte le stupidaggini son permesse!’. È significativo che quasi tutti gli alibi che il gruppo dei suoi fedelissimi ha cercato di mettere in piedi in questi giorni si riferiscono ad episodi di allegria rionale: una bicchierata per festeggiare il compleanno di un amico, una partita di calcio tra scapoli ed ammogliati che stava organizzando, la serenata nel parco Solari attorno all’amico chitarrista che aveva vinto il primo premio nella rassegna dei dilettanti”11. Possibile? Possibile che lo spietato assassino che per due mesi tutti hanno cercato, immaginato, intravisto, descritto, fosse un ragazzone che faceva l’elettrotecnico? Era stato Sacchi a incastrarlo, raccontando come si era svolta davvero la telefonata delle 23.24. Ad un certo punto Fenaroli aveva detto – questa era la testimonianza del ragioniere – alla moglie che sarebbe passato da Roma, quella sera, un suo amico, “il cugino del Traversi”, che lei gli avrebbe dovuto aprire senza problemi, perché veniva a portare, da Milano, dei documenti che la Tributaria proprio non doveva trovare. A telefonata finita, di fronte allo stupore di Sacchi che chiedeva chi diavolo fosse il cugino del Traversi (che nessuno conosceva), Fenaroli avrebbe risposto “è Raoul”; aggiungendo, di fronte alla faccia perplessa del suo ragioniere, un “adesso dica pure che sono un assassino”. Era andata così? Fatto sta che a Macera e Guarino non era parso vero. Entrava sul palcoscenico un personaggio nuovo, un Ghiani Raoul che finora nessuno aveva sentito mai nominare. Era talmente igno11

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«L’Europeo» numero 52 del 1958.

to agli inquirenti che avevano dovuto convocare gli Inzolia per chiedere loro dove diavolo abitasse: non potevano certo aspettare il giorno dopo per cercare l’indirizzo all’anagrafe. Carlo Inzolia aveva ammesso di conoscerlo, ma aveva anche fatto finta di non sapere dove stesse di casa, probabilmente per proteggere Raoul, che era suo amico da anni. A quel punto avevano convocato nella stanza Donatella. Ed era stata lei a dire, innocentemente, il nome della strada: via Tarquinio Prisco. E adesso che si ritrovava in una cella di San Vittore, accusato di omicidio premeditato, Ghiani doveva tirar fuori degli alibi. E non solo per la notte del 10 settembre, ma anche per quella del 7. Sì, anche per il 7 settembre. Ricordate? Siamo partiti da lì, dalla notte in cui qualcuno provò – forse – ad entrare in casa della Martirano. Quando diciamo che questo è il caso più affascinante del Ventesimo secolo, in Italia, è proprio per questo: perché c’è una concatenazione di colpi di scena che non ti aspetteresti mai, in un crescendo che lascia a fiato corto. Succedeva questo: che la notte del 7 era già passata alla storia col nome che i cronisti le dettero. Un nome perfetto: la prova generale del delitto. Era stato proprio Raoul Ghiani, secondo la Polizia, quello che aveva messo la chiave nella toppa, quello che aveva cercato di entrare nell’appartamento di via Monaci, prima che la Martirano gridasse e lo mettesse in fuga. La ricostruzione della Polizia – sulla base della confessione di Sacchi – era questa: Ghiani, il 10 settembre, era volato a Roma con l’aereo delle 19.35 (sotto il falso nome di “Rossi”) ed era tornato a Milano col treno della notte, probabilmente quello delle 00.20, in tempo per essere al lavoro il giorno dopo. Un delitto articolato nel dettaglio, calcolando i tempi e i minuti, i chilometri e le stazioni, la velocità e le combinazioni, pianificato da Fenaroli, marito infedele e trafficone, esperto dei viaggi Roma-Milano; ed eseguito da Ghiani, l’uomo dalle mani forti e le spalle atletiche. Egidio Sacchi (a destra)

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L’Italia rimase sbigottita. Era la prima volta che si sentiva una cosa del genere. All’epoca li chiamavamo ancora sicari, non killer; non eravamo ancora una colonia degli Stati Uniti. Ma, soprattutto, una cosa del genere non s’era mai vista. Un delitto così era una botta pazzesca. Si snodava tra due città, Roma e Milano, ed era affascinante per la sua modernità. Questo, a livello conscio, non lo sapeva ancora nessuno. Ma pensateci bene. Quali sono gli ingredienti del giallo Fenaroli? L’auto velocissima del geometra, per correre all’aeroporto di Malpensa, un aereo (che allora prendevano in pochi: quelli coi soldi), il telefono (altra modernità) per farsi aprire dalla Martirano, un treno che corre nella notte. E poi la combinazione fredda, razionale, logica, di tutti gli elementi utili ad ottenere lo scopo. Non era nemmeno una storia vera. Era il cinema, che usciva dallo schermo bianco e invadeva la realtà. Era un delitto diverso da tutti gli altri. Perché cominciava a Milano e finiva a Roma, perché sfidava il cronometro, perché sostituiva all’impulso di uccidere la pianificazione più geometrica, una specie di fredda amministrazione della morte. Era una cosa mai vista prima. Non si parlava d’altro. Non si parlerà d’altro, per anni e anni. A questo punto, sia Fenaroli che Ghiani (ma soprattutto quest’ultimo) dovevano giustificare i loro movimenti per la notte del 7 e del 10; e, conseguentemente, per le mattine dell’8 e dell’11. Dalle ricerche in Vembi (la ditta dove lavorava l’elettrotecnico), intanto, risultava che l’orario di Ghiani era 8.30-12 e 14-18.30. Vediamo allora cosa dissero i due. 7 settembre, sera: la prova generale del delitto. • Fenaroli disse – lo sappiamo già – che il pomeriggio era andato al cinema Fiamma con la moglie, quindi avevano raggiunto Luigi nel bar di via Catania 53 che il cognato frequentava sempre ed avevano poi mangiato al ristorante “Regina”, in via dei Mille, almeno fino alle 22. Quindi avevano riportato Maria a casa: era troppo stanca per accompagnarlo alla stazione. Lei si era messa in vestaglia, loro intanto guardava-

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no, alla Domenica Sportiva, la sintesi dei campionati mondiali di ciclismo. Quando il programma era finito, alle 23, lui e Luigi erano usciti dopo qualche minuto, per andare a Termini. Ci avevano messo pochi minuti ed aveva dato appuntamento all’autista Valsecchi in via Marsala, per lasciargli la macchina: cosa che avvenne infatti verso le 23.10-23.20. Fenaroli disse di essere quindi salito sul treno delle 23.35. Luigi e Valsecchi confermavano tutto. La Goracci aggiunse di aver incontrato alle 23, al portone, Fenaroli: lei stava portando il cane di un condomino a fare la passeggiatina serale e lui usciva. Ma la donna aggiunse anche qualcos’altro: che con quel cane stette davanti al palazzo per 20 minuti e non vide entrare nessun assassino nel frattempo (nessun estraneo, pardon…), tranne che tre inquilini. • La mattina dopo, Maria aveva chiamato Luigi e gli aveva detto del tentato furto; e che era successo appena loro due erano usciti. Questo lo raccontava Luigi ed era molto importante, perché collocava la prova generale del delitto verso le 23.05. Buttinelli, la Goracci, Valsecchi, la Del Bufalo confermeranno che anche a loro la Martirano disse che era successo alle 23, minuto più minuto meno. • Ghiani diceva di non ricordare dove fosse stato la sera del 7, ma essendo domenica la cosa più probabile era al Bar del Catanoso, che frequentava sempre, in via Coni Zugna. Oppure poteva aver passato la serata con Tina Dardi. Non riusciva proprio più a ricordare!

8 settembre, la mattina dopo la prova generale. • Fenaroli disse che era arrivato a Milano ed aveva subito raggiunto via Gesù, in taxi. Sacchi affermava, invece, che si era presentato alle 9 in ufficio. • Ghiani diceva di essere tranquillamente andato in ditta, al lavoro; alla Vembi, in via Col di Lana. Gli contestarono però che si era presentato in ritardo, alle 9.43. Era vero, ammise, ma perché andai a comprare alcune manopole, su richiesta del magazziniere. Controllarono. Alla Vembi le manopole risultavano rimborsate sì a Raoul, per 250 lire, ma il 5 settembre, non l’8. L’alibi non era confermato. Forse Raoul si ricordava male: erano passati due mesi e mezzo, d’altronde.

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Fatto sta che quel ritardo al lavoro rendeva compatibile l’aver preso il treno da Roma. Per l’accusa, il ritardo di entrambi era dovuto al fatto che si erano fermati a parlare alla Stazione Centrale, dopo il fallimento della prova generale.

10 settembre, la sera del delitto. • Ghiani proprio non riusciva a ricordarsi, a distanza di così tanto tempo, dov’era quella sera. Ad un brindisi dal Catanoso? Con gli amici al parco Solari, a festeggiare uno di loro che suonava la chitarra ed aveva vinto il concorso dei dilettanti? Era uscito con una ragazza? • Fenaroli affermava di essere uscito dalla ditta, la sera del 10, verso le 19, di aver messo benzina, poi comprato un cinturino da polso alla gioielleria Calderoni. Di essere andato a Piazza Duomo a comprare un regalo per Donatella, ma di aver rinunciato perché non c’era parcheggio. Quindi aveva raggiunto Sacchi in piazza Napoli verso le 20. Il resto lo sappiamo: cena, caffè, scambio di macchina con Inzolia, ritorno in via Gesù, una telefonata di lavoro e quella alla moglie.

11 settembre, la mattina dopo il delitto. • Ghiani affermava di aver timbrato tardi il cartellino, alle 14.04, perché, di sua spontanea iniziativa, era andato a fare due riparazioni presso altrettante banche, avendo riscontrato che c’erano dei difetti nelle loro apparecchiature. Già: poteva dimostrarlo? Esibì i “rapporti meccanici”, dai quali risultava la sua presenza nei due istituti. Macera non gli credette lo stesso. Vediamo perché. • Dalle 9 alle 10.15 Ghiani diceva di essere stato alla Banca Popolare di Milano. L’impiegato confermò che la firma sul rapporto era la sua. Però disse anche che aveva firmato sì, ma senza guardare, distrattamente, anche perché la macchina era ancora in garanzia e non gli serviva a niente l’attestazione della riparazione. Da questa affermazione la Polizia dedusse che la data poteva essere una qualunque, che Ghiani era andato in un altro giorno e poi aveva messo la data dell’11 settembre, per farsi l’alibi... Il commesso addetto alla microfilmatura, invece, non si ricordava affatto di Raoul. Tra l’al-

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tro, disse, di norma Ghiani andava di pomeriggio a vedere l’apparecchio, perché la mattina la macchina veniva usata intensamente: il primo turno di microfilmatura andava infatti dalle 9 alle 10.10. Se Ghiani avesse voluto fare una riparazione avrebbe dovuto farla per forza tra il primo e il secondo turno, che iniziava alle 10.30. Insomma, alibi non confermato. • Alle 11 Ghiani affermava di essere entrato negli uffici del Banco Ambrosiano, da cui era uscito alle 12.15; e qui invece un impiegato, Giovanni Elli, si ricordava di lui, di averlo visto sicuramente. Elli addirittura confermerà di essere stato lui stesso a dire a Ghiani di venire, quel giorno, di averlo chiamato lui. Alibi confermato ma, essendo caduto quello della Banca Popolare, avrebbe avuto comunque il tempo di tornare da Roma.

La prima a rendersi conto che sarebbe stato meglio snebbiare i ricordi di Raoul era stata la madre. Subito dopo aver letto sul giornale dell’arresto di Fenaroli, la signora Clotilde l’aveva aiutato a ricordarsi un po’ dove era stato il giorno del delitto, sapendolo amico di Fenaroli. In fondo, dell’ “ingegnere con un sacco di grana” Raoul aveva parlato a casa, così come dell’ Amalia: “Una così costa un sacco”, aveva raccontato. Ma anche l’avere la risposta pronta sul 10 e sull’11 s’era ritorto contro il ragazzone di via Tarquinio Prisco: i poliziotti l’avevano preso per un alibi precostituito… A questo punto si presentarono spontaneamente un po’ di amici suoi, a testimoniare. Erminio Sommariva ricordava di aver visto Ghiani al bar la sera del 10: aveva mal di testa ed era stanco, tanto che se ne tornò a casa. Anche Angelo Brocheri e Primo Basso erano tra quelli che frequentavano il Catanoso. Diceva il primo: l’ho visto alle 20 della sera del delitto, davanti al bar “Cigno Verde”. Basso, invece, giurava di averci parlato a mezzanotte sempre dal Catanoso, durante una bicchierata… Fu interrogato a lungo e ne uscì stravolto: dopo ore e ore di interrogatorio si era contraddetto e così la sua testimonianza era stata invalidata. Come se fosse facile. E voi, vi ricordate cos’avete fatto esattamente quarantasei giorni fa, alle 23? “E comunque, qui successe qualcosa di incredibile Fabio: Ghiani negò i testimoni! Lo disse senza dubbi, io quella sera non

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li ho visti. Il ragazzo accusato d’omicidio, con la Polizia che ormai non aveva più dubbi su di lui, con una serie di elementi che sembrerebbero non dargli scampo, negava. Lui, con l’acqua alla gola, rifiutava il salvagente: ed ecco che Brocheri e Basso si ritrassero, nell’unico modo possibile per non rischiare un’ accusa per falsa testimonianza, parlarono di dubbi, di non ricordo, di insicurezze. E tranquillamente se ne ritornarono alla loro casa di Milano…. Non pensi che questa parte della nostra storia ha dell’incredibile? Le ipotesi che possiamo fare sono due: la prima è che Ghiani, ragazzo tutto sommato semplice, fosse forte della sua innocenza e avesse capito che l’unica strada era quella della sincerità a tutti i costi. Ma la seconda ipotesi ci prospetta un Ghiani più scaltro che, conoscendo i due amici, aveva capito, intuito, che non avrebbero retto il confronto con la Polizia e quindi aveva giocato di anticipo, smentendoli lui stesso per, secondo le sue intenzioni, acquistare un minimo di credibilità. Interessante, vero?” Ghiani, soprattutto, negava con disperazione di essere stato a Roma il 7 settembre. Quando mai! C’era stato per l’ultima volta il 4 agosto, in ferie, ospite a casa di un suo amico austriaco, Goffredo Lang, 49 anni, vice direttore dell’Istituto di Cultura Austriaco di Roma, conosciuto nel 1953 sulla spiaggia di Anzio. Nell’agosto precedente, infatti, l’austriaco gli aveva chiesto di accompagnarlo a Stoccarda per ritirare la sua Mercedes, dopo di che si erano recati a Salisburgo, dove rimasero fino a fine agosto. Ghiani fu, in quel mese di agosto, totalmente ospite di Lang. E Inzolia? Certo, lo conosceva, nel 1947-48 erano assieme come operai alla C. G. E., dove Raoul aveva lavorato per circa dieci anni, e, da quando l’amico aveva il negozio in Piazza Napoli 21, andava spesso ad aiutarlo. E Fenaroli? Negava di conoscerlo? Macchè, lo conosceva. Fenaroli ci andava quasi ogni sera, al negozio, e di solito offriva l’aperitivo in un vicino bar. Il geometra, dice Raoul, lo chiamava a volte per nome ed a volte per cognome. Le macchine dei microfilm. Anche questi aggeggi infernali della modernità entrarono nel caso Fenaroli, anche loro. Raoul sosteneva di averle riparate, quella mattina, nelle due banche. I periti chiamati dal giudice, invece, misero nero su bianco che non

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erano state riparate. Qual’era la verità? L’avvocato Madìa, che assunse la difesa dell’elettrotenico, disse che, se si osservavano i microfilm della Banca Popolare dell’11 settembre 1958, si notava, in quello microfilmato prima delle 9, una striscia nera; ma in quello prodotto tra le 9 e le 10.30 la striscia scompariva, segno che una riparazione era davvero intervenuta. Armando ha pure questa perizia sottomano: “In realtà la questione è complicata, i periti concludono che nel periodo dall’1 al 15 settembre 1958 non si riscontrano miglioramenti nel processo di riproduzione dei microfilm. Inoltre, dicono che durante sempre questo periodo, ‘non sono state effettuate riparazioni che possano porsi in relazione al contenuto del rapporto meccanico n° 8522 della Vembi’. Quindi? L’intervento è stato fatto? Diciamo che potrebbe essere stato comunque fatto un intervento che non ha lasciato tracce, un intervento poco incisivo, quindi questa perizia non ci aiuta molto”. Ghiani. Uno dei tanti ragazzi che vivevano la Milano della fine degli anni Cinquanta. Una città molto diversa da oggi: altri valori, altri obiettivi, che oggi appaiono fragili, vecchi, polverosi. Tutto, in questa storia, ha il sapore di un passato più ingenuo del nostro presente. E Raoul non faceva eccezione. Prendete la sua famiglia. Tutta la settimana faceva l’operaio alla Vembi. Sabato, finito di lavorare, lo sappiamo, si occupava di dare una mano con le schedine del Totocalcio al bar del Catanoso, in via Coni Zugna. Un fratello, Luciano, rappresentante di pizzi francesi; una sorella, Lia, impiegata. Nel 1956 il padre, Carletto, tranviere, se n’era andato di casa. Non capiva più i figli ed i figli non capivano più lui, col suo culto del posto fisso, con tutta la vita orientata ad un destino immutabile. Il fatto era che la Milano dei figli non era più quella del padre. Avevano ambizioni, Raoul, Luciano e la Lia, altro che: non volevano restare tutta la vita a lavorare per quattro soldi. Se la città di Carletto Ghiani era stata quella in cui si tirava la cinghia per arrivare a fine mese, quella di Raoul, di Luciano, di Lia era quella del dopoguerra, del traguardo di una vita più ricca, dove riuscivi a toglierti lo sfizio di un po’ di sogni che, per generazioni, erano restati nel cassetto. Raoul, Luciano, Lia – e Clotilde – vivevano in periferia, insomma, ma desideravano il centro. Desideravano il benessere.

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Ma il centro e il benessere bisognava sudarseli, conquistarli. Così, rinunciavano al vino, al contorno, alla frutta, ma non al cinema, non alla gita in montagna. Non risparmiavano per mettere da parte per la vecchiaia: risparmiavano per spendere. “C’è qualcosa di patetico, nel vecchio tranviere che dice di no a questo regime e si ritrae a vivere in disparte”.12 Il padre se n’era andato, gli altri ammonticchiavano i loro risparmi al centro del tavolo della cucina e andavano avanti. La casa era piccola, Raoul dormiva sul divano, ma nel più vicino garage c’era la 600 comprata a rate. Serviva per il lavoro di Luciano, ma anche per le piccole gite di tutta la famiglia. Raoul se l’era prenotata per il martedì ed il venerdì: i giorni in cui, nelle balere, si balla il liscio, il valzer, il tango, i lenti. E a Raoul piaceva ballare. Ma sarà proprio questa fame di vita, questo desiderio di migliorarsi, che verrà ritorto contro Ghiani: anzi, diventerà il movente stesso del delitto di via Monaci. Il movente del killer. I soldi. Raoul non aveva mai avuto testa per studiare, ma una cosa che gli era sempre piaciuta c’era ed era la meccanica. Questi erano i suoi studi e da qui era partito alla conquista di Milano. Diventava elettrotecnico. Il servizio militare lo aveva fatto in aeronautica, come elettrotecnico di bordo. Sembrava un segno del destino: Raoul viaggiava, volava via, conoscendo amici, creando contatti. Era uno dinamico, si dava da fare. Tornato a Milano, entrò a lavorare in fabbrica; e qui conobbe l’Inzolia. Nel 1956 lesse un annuncio: la Vembi cercava “giovani volenterosi”. La ditta si occupava di microfilm, lui non ne sapeva un bel nulla, si presentò lo stesso: gli chiesero se parlava francese. Preso alla sprovvista, non buttò via il momento. Certo che sì, rispose, eccome. Era un bluff, ma aveva fatto centro: lo spedirono per due mesi a Parigi, corso d’aggiornamento. Si licenziò dalla fabbrica. Quando tornò aveva la sua stanza in Vembi e poteva andarsene per tutta la città ad aggiustare, a riparare le macchine, ad entrare nei sancta sanctorum delle banche. La ditta era contenta d’un tipo come lui, con le mani d’oro e che si presentava bene. Stipendio, cinquantamila lire. Non sarà stata una cifra enorme, ma intanto era più di prima e, intanto, era solo l’inizio. 12

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«L’Europeo» numero 52 del 1958.

Così, ora Ghiani aveva un lavoro che gli piaceva e prometteva bene. Poi, c’erano le donne. Alle donne Raoul piaceva e loro piacevano a lui. Mentre Luciano era fidanzato, il fratello se la godeva, al punto che, quando dovrà sputare un alibi, non riuscirà a ricordarsi se la sera del 10 era con Tina o con la Dina… E poi c’era lo svago del bar e quello del ballo. Nella nostra storia il primo ha molta importanza. Raoul ci passava un sacco del suo tempo libero. Questo luogo così innocuo diventava invece decisivo. Quello del Catanoso era un posto spartano: niente flipper, niente televisore, niente jukebox. Tutto quello che ormai rappresentava l’arredo di ogni bar, beh, lì non c’era. Diavolerie! Nel locale di Giovanni Catanoso si andava al sodo. Ci andavano un grossista di corso Matteotti, un orefice di via della Spiga, un professore in pensione, un ex brigadiere dei Carabinieri; e poi impiegati, studenti, un artista, piccoli industriali, commercianti. Con loro Raoul si giocava il caffè al biliardo: a chi perdeva, gli toccava offrire. Si giocavano il caffè: l’aperitivo costava troppo. Perché questo è stato il mondo di Raoul Ghiani, fino al 26 novembre 1958. Un mondo in cui le ore del ragazzo “corrono senza requie: le ore dell’officina, le ore per il negozio dell’Inzolia, le ore per gli amici del caffè, le ore del Totocalcio e quelle del cinema e della piccola mondanità con le ragazze nei giorni di ballo liscio. È in questo quadrante febbrile che l’elettrotecnico perde alcune ore indispensabili, oggi, a liberarlo dal sospetto. I suoi passi si perdono in un’ora cruciale del 10 settembre 1958: alle 18.32, quando l’orologio di controllo della ditta Vembi scatta sul suo cartellino di lavoro, al momento dell’uscita”13. Un’ora dopo, dalla Malpensa, sotto la pioggia, partiva l’assassino. Ai primi di dicembre Fenaroli e Ghiani erano stati portati tutti e due a Roma, a Regina Coeli; al settimo braccio, a 100 metri l’uno dall’altro. Ora i tre protagonisti della vicenda erano tutti nello stesso carcere, visto che Sacchi era ancora dentro. Un altro treno entrava così in questa storia, il direttissimo 37 che, alle 10 di mattina del 3 dicembre 1958, frenando sui binari di Termini trovava una folla di giornalisti ad attenderlo. Quello che tutti aspettavano 13

«L’Europeo», op. cit.

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era il sicario, Ghiani. Se tutti avevano già visto, fotografato e intervistato Fenaroli, adesso l’attesa era tutta per l’assassino. Ma ci restarono male: nessun assassino scese dal treno. A restarci male fu anche Luigi Martirano, che era andato in stazione per vedere in faccia il sicario della sorella. È che la Polizia, furbamente, per evitare casini aveva fatto scendere Ghiani e la scorta a Orte. I giornalisti, che scemi non erano, si erano messi in agguato sia a Roma che a Orte... Era la penultima vettura del convoglio, quella col numero 50211, a portare Ghiani. Appena sceso, Raoul, che aveva dormito tutto il viaggio, venne caricato su un’Alfa Romeo della Polizia, che sgommò via. Mario Cervi racconterà così quei momenti: “Raoul Ghiani torreggiava, con la sua statura gigantesca, sul gruppetto che lo attorniava (…) coloro che assistevano al suo passaggio furono impressionati dalle sue mani enormi, innestate su polsi erculei. I polsi di un atleta e le mani di un uomo che non avrebbe certo dovuto faticare, per vincere la fragile resistenza di una donna esile come Maria Martirano”14. A che serviva il processo? L’accusa era già scritta, la condanna decisa. La robustezza fisica di Ghiani si trasformava in un elemento di prova: aveva il phisique du role dell’assassino, c’era poco da dire, allo stesso modo in cui Fenaroli, capzioso e obliquo, aveva quello del mandante, di quello che pensa un piano. Come siamo diversi: se Cervi fu subito colpito dalla potenza fisica di Ghiani, l’avvocato Madìa lo sarà dalla sua deferenza: la prima volta che vide Ghiani, a Regina Coeli, questo si alzò sull’attenti e fece un piccolo inchino. E poi gli dette la mano. Non era solo Cervi a non avere dubbi, però. La versione ufficiale era sicura di sé. Al punto da aver arrestato Ghiani senza aver verificato, prima, tutta una serie di cose. Cose che scopriremo man mano. C’è una dichiarazione del commissario Scirè – che lavorava fianco a fianco con Macera – che è illuminante. Sentite qui, è del giorno dopo l’arresto: “Per noi i movimenti di Raoul Ghiani nel tardo pomeriggio di mercoledì 10 settembre sono già scontati: il cartellino di uscita dalla ditta reca il timbro delle 18.32. Un aereo è partito per Roma dalla Malpensa alle 14

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«Il Corriere della Sera», 2 dicembre 1958.

19.35…”15. Ma che su quell’aereo fosse salito l’elettrotecnico, però, era ancora tutto da dimostrare, da verificare! L’accusa si basava sulla possibilità di poter prendere quell’aereo, ma dopo due mesi, con tutto il tempo di poter eventualmente depistare od occultare prove della colpevolezza… l’unico motivo per arrestare Ghiani, senza quanto meno aver controllato l’unico elemento riscontrabile, era allora sicuramente una: forzare la mano. Sperando che quel ragazzotto confessasse subito il delitto. Una delle altre cose che colpiscono, poi, è che nessuno avesse confrontato Ghiani con la Trentini, prima dell’arresto. La guardarobiera aveva visto i giornali con la notizia, aveva visto la foto di Ghiani. Ed aveva subito telefonato a Macera: “Ci siamo, è lui, lo riconosco!”. Solo quando Ghiani era stato riportato a Roma era stato fatto il confronto, ma è chiaro che, dopo una telefonata del genere, il suo esito era puramente formale. La teste numero uno era sicura. E Raoul era sempre più incastrato. E poi: in quei giorni di fine novembre, nessuno aveva verificato ancora se avrebbe fatto in tempo o no a raggiungere Malpensa per le 19.35, dopo essere uscito dalla Vembi: lo controlleranno solo molti mesi dopo. Così come, al momento dell’arresto, gli accertamenti sull’identità dei viaggiatori del volo AZ412 non erano stati ancora completati. Io e Armando ci guardiamo in faccia. Siamo basiti. Un arresto eseguito quasi senza nessun riscontro! È tempo, allora, di capire in che modo gli inquirenti ricostruivano il delitto. Secondo loro, un primo tentativo di uccidere la Martirano era già stato compiuto il 7 settembre (ricordate? La prova generale del delitto). Nei giorni precedenti, Fenaroli avrebbe consegnato una copia delle chiavi di casa a Ghiani che, probabilmente in treno, sarebbe giunto quella domenica sera a Roma. Verso le 23 avrebbe cercato di entrare in via Monaci: la Martirano, lo sappiamo, avrebbe dovuto essere a Termini con Luigi e Giovanni, ma poi alla fine era restata a casa. Ma questo Ghiani non poteva saperlo, visto che i cellulari non erano stati ancora inventati. Il piano era che avrebbe dovuto aspettarla dentro casa per poi ucciderla ma, come sappiamo già, non era 15

Da «Il Corriere della Sera» del 28 novembre 1958.

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riuscito ad entrare ed era dovuto tornare precipitosamente a Milano in treno. Arrivati con due treni diversi, sicario e mandante si erano trovati alla Stazione, per pianificare il da farsi. Fenaroli, impaziente di sbarazzarsi della moglie, aveva pensato di riprovare a farla fuori addirittura il giorno stesso, l’8 settembre, lunedì. Ecco perché quella prenotazione a nome “Rossi”. Ma nel frattempo (Fenaroli ancora non lo sapeva) era intervenuto il fabbro Natale Buttinelli, le serrature stavano per essere cambiate e così il “piano della chiave” era andato a farsi benedire. Fenaroli tornò comunque a Roma, la sera dell’8: non avendo potuto disdire l’appuntamento con Ghiani, raggiunsero comunque insieme Malpensa. Stabilendo un nuovo piano per la sera del giorno dopo, martedì 9, quando Fenaroli sarebbe stato sul treno-notte in direzione di Milano. Ma alle 17.45 di martedì Fenaroli aveva detto a Sacchi di annullare anche questo nuovo biglietto a nome “Rossi”. Il geometra aveva evidentemente cambiato idea, piano annullato. E arriviamo al giorno del delitto. Il 10 settembre, Fenaroli alle 17 chiese di nuovo a Sacchi un biglietto a nome Rossi, per il giorno stesso. È quello che verrà utilizzato dal misterioso passeggero del volo AZ412. Quella sera Ghiani aveva timbrato il cartellino alla Vembi alle 18.32: era un fatto. Indossava già l’abito blu, secondo l’accusa. Alle 18.40, nella vicina Porta Ticinese, avrebbe avuto appuntamento con Fenaroli. Salito sulla sua Alfetta bianca, era iniziata una folle corsa verso l’aeroporto di Malpensa, distante cinquanta chilometri, col solo scopo di far salire il sicario sul volo AZ412, in partenza alle 19.35. Correndo come un pazzo, il geometra avrebbe scodellato Ghiani sul piazzale dell’aeroporto, sotto un cielo gonfio di pioggia. Così, con un leggero ritardo, l’aereo era decollato, per atterrare a Roma Ciampino alle 21. Qui Ghiani si sarebbe portato col pullman in centro e da Termini avrebbe raggiunto via Monaci. Prima di farlo avrebbe telefonato, secondo i piani, alla Martirano, che ovviamente gli aveva risposto di non conoscerlo, di non sapere nulla di documenti e di consegne. Fenaroli, come d’accordo, aveva successivamente chiamato alle 23.24 la moglie e l’aveva tranquillizzata con quella telefonata-grimaldello che era servita a farle aprire con fiducia al killer. A quel punto la donna l’aveva atteso affacciata

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alla finestra, Ghiani si era manifestato, la Trentini e “Grissino” l’avevano notato, lei era scesa, lui avrebbe detto “ma come, non ha i documenti che deve darmi?”; la Martirano sarebbe caduta dalle nuvole, rispondendo che suo marito le aveva detto di ricevere carte, non di darne. A quel punto sarebbero saliti su insieme, per telefonare a Milano. La trappola s’era completata. Una volta in casa, le possenti mani di Ghiani avrebbero strangolato la donna. Quindi, Raoul sarebbe ripartito nella notte con il treno dell’una di notte da Termini, il che spiegherebbe il suo arrivo in ritardo in ditta. Era una ricostruzione, però, che ricostruiva poco e male. Ad esempio: che il biglietto a nome “Rossi” dell’8 fosse per il sicario era tutto da dimostrare. Sacchi diceva che l’aveva comprato verso le 12,30, ma proprio alle 12.09, Fenaroli aveva chiamato l’ufficio di Roma e avvisato che lo andassero a prendere, quella sera, perché sarebbe tornato a casa. Cosa che poi effettivamente fece. Poiché a quell’ora sapeva già quello che era successo la notte prima in via Monaci, come pretendeva di far entrare il sicario? Ancora col trucco delle chiavi, miseramente fallito poche ore prima? Come, se lui stesso sarebbe stato in casa? A questo punto era evidente che Rossi, chiunque fosse, non c’entrava niente col progetto assassino. A maggior ragione non si capiva a che servisse ri-prenotare, sempre a nome Rossi, il 9, se il delitto era stato riprogrammato per il 10. Infine, anche quella conversazione al portone non tornava: innanzitutto perché Maria Martirano, in quel modo, non sarebbe scesa nemmeno se fosse stata la sorella. E poi perché tra la signora in pantofole e l’uomo in blu, a logica, doveva esserci stato almeno un minuto di imbarazzato dialogo, visto che si era appena materializzata una fastidiosa incomprensione. Ma la Trentini e Sica avevano detto – e diranno sempre – che si erano giusto salutati e poi erano subito andati via. E poi c’era il fattore tempo. Dopo gli arresti l’Italia, nei bar, non faceva altro che discutere di orari e aerei. “La questione è questa: è praticamente impossibile recarsi da Milano a Roma nel volgere di una notte, uccidere una donna e ritornare nella capitale lombarda in tempo per ri-

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prendere il proprio posto di lavoro?”16 . Un quotidiano romano fece di più che porsi la domanda. Fece la prova. Per vedere se i tempi c’erano. Un giornalista si mise a rifare lo stesso percorso. Scriverà che da Via Col di Lana (sede della Vembi), partendo alle 18.32, era arrivato effettivamente alle 19.25 a Malpensa; alle 21.05 era sbarcato a Ciampino, alle 21.55 aveva raggiunto il terminal Alitalia di via Giolitti, quindi era arrivato a via Monaci in anticipo. Uscendone alle 23.50, aveva avuto mezz’ora buona di tempo per arrivare al direttissimo delle 00.20, trasbordare a Bologna, ed essere alle 8.52 a Milano. Ma il giornalista scrisse anche un’altra cosa: che il minimo intoppo sulla strada per Malpensa avrebbe reso impossibile tutto e che lui, in aeroporto, c’era arrivato al millimetro. Per capirci qualcosa di più, ecco qui una tabella che riassume tutti i treni in partenza da Roma in quei due giorni di settembre del 195817. È quella cui faremo riferimento ogni volta che parleremo dei viaggi Roma-Milano. STAZIONE

NUMERO

PARTENZA

ARRIVO

PARTENZA

ARRIVO

ORARIO

DI

DEL

DA ROMA

A

DA

A

ARRIVO

PARTENZA

TRENO

BOLOGNA

BOLOGNA

MILANO

REALE MILANO 11.9.1958

Termini

18

23.35

Termini

46+118

00.20

Termini

46+450

Termini

Tiburtina

-

08.15

In orario

05.43

05.55

08.52

In orario

00.20

05.43

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36

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11.36 (ritardo)

Freccia

02.30

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12.02 (ritardo)

del Sud

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Armando però continua a scuotere la testa: non gli torna proprio la scelta della domenica come primo tentativo di far fuori la «Il Corriere della Sera», 27 novembre 1958. Tutti gli orari – sia quelli ufficiali che quelli reali d’arrivo - sono tratti dai dati delle Ferrovie dello Stato del 1958 e delle indagini della Squadra Mobile di Roma. 16 17

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moglie. “Lo vedremo meglio dopo, ma sembra impossibile. Ma scusa, Fenaroli che sbandierava ai quattro venti il suo desiderio di far fuori la moglie, come poi vedremo, che al suo ragioniere ripeteva senza problema le sue intenzioni da mesi... ma perché proprio quel giorno, no? Lui non aveva problemi di alibi in nessun giorno della settimana: mi spiego meglio, non è che si trovava a Milano esclusivamente nei giorni lavorativi, gli capitava di andarci anche durante il fine settimana. Gli bastava, quindi, pianificare l’omicidio anche una domenica sera, comunque mentre lui era a Milano, no? Ma continua Fabio, non voglio interromperti...” Sacchi aveva cantato, altro che. Meglio d’un tenore alla Scala. Ma non aveva detto tutto a novembre, no. La sua fu una confessione a rate: parte a novembre, parte nella prima metà di gennaio. Nella quale verbalizzò la successione logica dei fatti, ma parlò anche del movente. Rimesso in fila, il suo racconto cominciava quando, nei giorni caldi del fallimento, cioè nel maggio precedente, Fenaroli voleva uccidersi, simulando un incidente d’auto. E questo era il primo elemento nuovo. In questo modo, secondo Sacchi, avrebbe fatto incassare i milioni dell’assicurazione sulla sua vita ai propri collaboratori, che con quei soldi avrebbero ripianato tutti i debiti della società. Poi, però, quando le cose avevano cominciato a mettersi meglio, aveva cambiato idea, aveva parlato piuttosto di uccidere la moglie. E come voleva farlo? Ideona, avrebbe combinato un finto incidente sulla Fettuccia di Terracina, la statale che porta a Caserta. Sia Sacchi che Valsecchi, che lui stesso, si sarebbero gettati fuori dall’auto in tempo, mentre la Martirano sarebbe affogata. Era ovviamente il piano più cretino del mondo e Sacchi affermava di averlo dissuaso bruscamente. Ma ormai il suo capo era entrato in fissa, così a fine maggio aveva chiesto a Sacchi cos’era meglio: mi ammazzo io o ammazzo mia moglie? Sacchi, ancora una volta, gli aveva detto di smetterla. Poi, ai primi di giugno, Fenaroli aveva avuto una nuova idea geniale: aveva detto che sarebbe andato in aereo a strangolare Maria, mentre Sacchi avrebbe dormito nel suo letto, a Milano, per renderlo disfatto e dargli un alibi. Addirittura si era fatto accompagnare a comprare il biglietto aereo nell’agenzia Alitalia; ed era stato solo a Malpensa che il ragioniere aveva visto effetti-

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vamente che il biglietto era stato preso davvero a nome suo... La polizia accerterà poi che all’agenzia, risultava davvero un biglietto “Sacchi” e che, come recapito telefonico, era stato dato quello dell’ufficio di via Gesù. In questo modo il geometra non voleva far vedere che era lui a viaggiare. Ma, il giorno dopo, racconterà a Sacchi che, una volta entrato in casa, non aveva avuto il coraggio di compiere il delitto. Siamo a luglio: stavolta Fenaroli aveva chiesto al ragioniere di andare insieme a Roma, poi Sacchi avrebbe stordito la moglie con “un colpo alla testa ed il Fenaroli avrebbe compiuto il resto”18, lui l’avrebbe uccisa e prelevato i gioielli, per simulare. E Sacchi rifiutò ancora. “Mia moglie è assicurata per 150 milioni. È malata. È stanca della vita. Le si accorcerebbero le sofferenze. Sarebbe un modo per aiutarla a morire: basterebbe un’iniezione sbagliata”: è con queste parole che entrava in scena, a dicembre del 1958, un nuovo personaggio di questa storia sconcertante.

Carlo Savi

Si chiamava Carlo Savi, era ginecologo, lavorava come “aiuto” all’ospedale Maggiore di Milano. In realtà, Savi non è che morisse dalla voglia di fare il testimone. Era stato Sacchi a metterlo in mezzo. Aveva cominciato a raccontare il ruolo che il me18

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Verbale di interrogatorio di Sacchi del 3 gennaio 1959.

dico avrebbe avuto in questa storia, costringendolo così a testimoniare; cosa che Savi, da quando era successo il delitto, s’era guardato bene dal fare. E quelle che avete letto sono le parole con cui, dirà poi il medico, Fenaroli gli avrebbe chiesto una mano. Parole dette così, una sera, in una trattoria toscana nei pressi della Martesana, ad un tavolo d’angolo, là, sotto il pergolato. C’è un fatto: che a differenza di Sacchi, il cui profilo era tutto luci e ombre, Savi non aveva proprio nessun motivo per mentire. Non c’era nessuna parte in buio nella sua figura, nessuna ambiguità, nessuna complicità. Quindi, giustamente, venne preso molto ma molto sul serio. Anche perché confermò le affermazioni del ragioniere. E che disse? Disse che lui e il geometra si conoscevano dal 1946. Che aveva avuto in cura la Martirano. Spesso si trovavano a pranzo tutti e tre: Fenaroli, Savi e l’immancabile Sacchi. Il Fenaroli di qualche mese prima, poi, se lo ricordava bene, Savi: fumava tantissimo e mangiava pochissimo; gli sembrava un esaltato. Era stato proprio durante uno di questi pranzi alla trattoria “Le assi”, nell’ultima estate di Maria Martirano, che Fenaroli aveva proposto al medico di aiutarlo a fare fuori la moglie: gli aveva raccontato che la vita con sua moglie era diventata un incubo e che voleva sbarazzarsene. Sentiamo come il medico mise a verbale l’episodio: “Se ben ricordo in quella occasione o in un’altra successiva il Fenaroli mi precisò le modalità in cui si doveva compiere il crimine: lui ed io avremmo dovuto recarci a Roma insieme; Fenaroli, col pretesto che io fossi di passaggio a Roma e non avevo trovato alloggio disponibile e dovevo di conseguenza essere ospitato in casa, mi avrebbe fatto entrare in casa. Durante la notte, col pretesto che la signora era molto nervosa, avrei dovuto farle una iniezione endovena di un narcotico. Ricordo che mi suggerì lui stesso il Pentotal. Quando il narcotico avesse raggiunto il suo effetto, la signora sarebbe stata gettata in terra, anzi sarebbe stata fatta cadere in modo che si fosse causata un ematoma. L’ematoma, secondo il Fenaroli, avrebbe dovuto causare la morte della moglie”. Savi pensò subito che Fenaroli scherzasse e finse di concordare con lui i dettagli del piano, prendendolo in giro, divertito. “Fu allora che dissi la famosa frase ‘Giuanin l’è diventà mat!’ (“Giovannino è diventato matto!”, Nda). Lo dissi perché faceva discorsi a piede libero, un po’ in libertà, da matto, a voce alta:

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non curandosi che ci fosse gente intorno”, spiegherà Savi anni dopo. Ma, quando Fenaroli gli disse di aver comprato davvero i due biglietti aerei per Roma (sotto il falso nome di Galimberti) e gli offrì l’incasso di una polizza di 15 milioni di lire, allora capì che Giovannino non scherzava e fece marcia indietro, stizzito. “Brava bestia! Se tu prendi un cadavere e lo metti nell’acqua, anche l’inserviente della camera mortuaria capisce che non è annegata, perché non avrà respirato acqua!”, così gli aveva detto. A quel punto Fenaroli aveva capito d’aver sbagliato persona e aveva ripreso le ricerche del suo killer, allo stesso modo in cui, scartato un fornitore troppo caro, se ne sceglie un altro. Ma Giovannino tornò sull’argomento in un incontro successivo in cui: “Mi chiese, con aria di indifferenza, se per caso conoscessi qualcuno cui affidare l’incarico del delitto. Io, lasciando cadere la domanda, lo invitai a desistere una volta per tutte da simili discorsi. In quell’occasione egli aggiunse che, dato che eravamo tutti degli inetti e dei fifoni, avrebbe agito da solo (…) si rivolgeva sia a me che al Sacchi (…) mi disse, in un’altra occasione, che sarebbe stato anche più facile simulare una rapina, portando via i gioielli della moglie”. È un fatto importante, questo di Savi. Ci dice alcune cose fondamentali. La prima è che, allora, il geometra voleva davvero ammazzare la moglie: e quindi c’è una conferma esterna alle deposizioni di Sacchi. La seconda è che troviamo anche una conferma alle deposizioni di Papeschi, il liquidatore della Fenarolimpresa. Perché l’atteggiamento che lui e il ginecologo notavano era lo stesso: quell’incredibile noncuranza nel parlare a voce alta di omicidio non nasceva altro che dalla stessa, assoluta sicurezza che aveva visto il liquidatore negli occhi e nelle parole di Fenaroli. Sì, il geometra era uno sicurissimo di sé, e non lo smuoveva nulla. Assomiglia a un pilota uscito di strada, che a 200 all’ora sta fracassandosi contro un muro e, ormai ad un metro, è matematicamente certo di poter evitare la morte. Era così sicuro di sé da aver drammaticamente perso il contatto con la realtà. Così, macinava piani folli, senza senso. Savi glielo faceva notare? Fa nulla. Lasciava per strada testimoni che sapevano tutto (appunto: il ginecologo e il ragioniere)? Fa nulla. I possibili complici si rifiutavano (ancora Savi e Sacchi)? Macchè. Fa nulla. L’appalto della morte di Maria Martirano è l’unico che Fe-

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naroli completerà davvero, ma lasciando per strada una enorme quantità di errori. I giorni passavano; e Fenaroli continuava a tenere incredibilmente al corrente Sacchi di ogni cosa. Quando mancavano ormai una decina di giorni all’omicidio, il ragioniere lo vide salire in auto con Inzolia: a quel punto, supponendo qualche azione avventata del suo principale, come riferirà al Pubblico Ministero, lo seguì fino a quando, a poche centinaia di metri, all’incrocio tra viale Manzoni e via della Spiga, i due fecero salire in auto Raoul Ghiani. Passò ancora qualche giorno e a fine agosto Fenaroli disse a Sacchi che aveva risolto tutto: ci avrebbe pensato Raoul. Di più: gli spiegò anche come avrebbe dovuto essere il piano della prova generale del delitto. Passarono i giorni. Una mattina, poco prima dell’omicidio, raccontò Sacchi che, mentre si trovava ad attendere l’ascensore per salire negli uffici di via Gesù, aveva visto uscire Inzolia ed un altro individuo che, successivamente, scoprirà essere Ghiani. Siamo alla mattina dell’8: Fenaroli era arrivato in ritardo in ufficio, dicendo a Sacchi che aveva dovuto incontrarsi con Raoul. Poi c’era stata la telefonata; e il delitto. Ormai il ragioniere aveva quasi completato la sua confessione, che qui stiamo riassumendo, ma che si sviluppò attraverso molti interrogatori. Una mattina – conclude Sacchi – verso la metà di ottobre, infine, Fenaroli gli aveva raccontato per filo e per segno come si erano svolti i fatti. Una vera e propria confessione. E questa era la storia. In base a queste dichiarazioni di Egidio Sacchi erano stati arrestati Fenaroli e Ghiani. La versione della polizia era, nei fatti, la versione di Egidio Sacchi. C’è un punto che colpisce, nelle affermazioni di Sacchi. Ve ne siete accorti anche voi? Per noi è questo: che più Fenaroli ne parla a Sacchi, più questi dice di essersi rifiutato con forza. Nonostante ciò, il geometra, sapendo di avere di fronte un nemico, non un complice, gli avrebbe continuato a raccontare tutti i dettagli del delitto e della prova generale… possibile? Per non parlare della confessione del delitto. Fenaroli avrebbe confidato tutto al suo ragioniere, in una mattina di ottobre, passeggiando, parlando come ad un amico, così. Possibile? Armando ha la faccia di uno che non ci crede.

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“Sacchi, nei vari interrogatori che si susseguono, ci racconta di un Fenaroli che lo spinge, lo forza, cerca d’invischiarlo in tutti i modi nell’omicidio della moglie. E lo fa sempre, da come ci racconta, nel suo ufficio, cogliendo i pochi momenti di pausa tra una pratica e l’altra. Con noncuranza, come se gli parlasse di compiere un normale atto lavorativo. E poi, invece, Sacchi, racconta di un Fenaroli diverso, melanconico, che di colpo deve confessargli la realtà. Non ci siamo Fabio, o Fenaroli è soggetto ad una sindrome bipolare o Sacchi ci racconta ogni volta una sua verità, differente”. Ci sarebbe anche da chiedersi perché per Fenaroli era così indispensabile spifferare tutto, continuamente, proprio a Sacchi, cioè a chi poteva accusarlo. Ma queste sono considerazioni che facciamo noi, dopo, a cose fatte. Dobbiamo vedere la faccenda come avrebbe potuto vederla il geometra all’epoca, per capire. Qui, infatti, una spiegazione può essere trovata. Sta nella sua eccessiva sicurezza e nella incrollabile fiducia di poter dominare gli avvenimenti, di uscirne sempre. Sta nella pavidità di Sacchi, nel suo servilismo. Sta nella sua dimensione morale, da cui Fenaroli si sentiva compreso. Perché sentiva di stare parlando ad uno come lui, dello stesso livello morale, disposto agli stessi illeciti. Qualunque cosa gli abbia detto, era sicuro che non ne sarebbe nato un pericolo. Mai convinzione fu più sbagliata. Ma, fin qui, era la parola del ragioniere contro quella del geometra. Per dimostrare di aver detto la verità, Sacchi offrì degli elementi verificabili e raccontò tutto il balletto degli acquisti dei biglietti aerei per il delitto, fatto da Fenaroli tra l’8 e il 10 settembre; e che vi abbiamo raccontato. “Quanto ritieni pesante la prova del biglietto ‘Rossi?’” Armando mi guarda: “La ritengo una prova importante, ma non per il biglietto comprato e non utilizzato, né per tutta la sequenza che abbiamo illustrato. Per il motivo che, della lista di passeggeri del famoso volo del 10 settembre, gli investigatori riuscirono ad identificare tutti… tranne il fantomatico passeggero Rossi. Un nome comune, associato ad un passeggero fantasma. Allora i voli non erano all’ordine del giorno, il loro costo era proibitivo per molti. Quel volo costava quasi 13.000 lire. A parte qualche industriale facoltoso, possiamo supporre che alcuni passeggeri dell’aereo stessero facendo il loro primo volo, che allora

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era qualcosa di unico e speciale. Vuoi che non si ricordassero chi sedeva loro a fianco o davanti?”. La Mobile si fece dare, a novembre, dall’Alitalia l’elenco dei passeggeri (il “manifesto di volo”) in partenza da Milano sul volo AZ412 e cominciò a spulciarlo, riga per riga. Alla fine del foglio c’era un Rossi. Seguivano due indicazioni: la prima diceva che era salito senza bagaglio e la seconda era ticket mps. Voleva dire che il signor Rossi, il biglietto, l’aveva fatto direttamente a Malpensa. Rintracciarono tutti, tutti. Il personale di volo, i passeggeri. Irina Vitali, una delle hostess, disse di non ricordarsi di Raoul, né di poterlo riconoscere. Era passato troppo tempo! Né ricordava se qualcuno fosse arrivato all’ultimo, cosa che peraltro, ieri come oggi, era abbastanza frequente. L’altra hostess era la Pelacani, di Roma. E nemmeno lei ricordava questo Rossi o la faccia di Raoul. Il 3 febbraio 1959 vennero completati gli accertamenti sui passeggeri del volo, 24: trovarono tutti tranne Rossi, non meglio identificato. “Esatto, l’unica testimone oculare era la signora Elsa Calò e sai cosa disse? ‘Ho notato un uomo in piedi nella mia corsia, che si asciugava il sudore come se soffrisse di mal d’aria (ricordiamoci che Ghiani aveva fatto il servizio militare nell’aeronautica, compiendo moltissimi voli… Nda). I connotati e la foggia del vestire non erano dissimili da quelli del Ghiani’ (in che senso ‘la foggia del vestire’? Nda.)”. Elsa Calò si ricordava – lei sola – di questo giovane, alto, vestito di blu; era arrivato all’ultimo e le hostess gli avevano detto di sbrigarsi: “Forza, signor Rossi!”. Lo aveva notato e se ne ricordava perché il ragazzo era rimasto per un po’ nel corridoio, asciugandosi la fronte e dandole come una sensazione di malessere; s’era sentita a disagio. Ecco perché se ne ricordava. “E, dopo qualche tempo, la Calò ricollegherà la figura di quell’uomo ad una fotografia di Ghiani, vista occasionalmente sul giornale, formulando l’ipotesi che si trattasse della stessa persona. Ti rendi conto Fabio, ipotesi: ma non finisce qui. Quando gli presentarono davanti Ghiani non si sentì di esprimere un giudizio sulla sua presenza nell’aereo. Anzi: ‘Affermo categoricamente di essermi trovata di fronte a lui, inteso come persona fisica, da qualche parte’. Da qualche parte? Nulla, i testimoni sull’aereo non ci portano a nulla, sai cosa

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penso realmente? Che il famoso ‘signor Rossi’ era uno abituato a passare inosservato, sapeva come farlo: occhi bassi, andamento lento ed anonimo, voce ovattata, abbigliamento con colori tenui, non particolarmente nuovo, possibilmente con un giornale in mano che utilizzava nei momenti di sosta quando, non avendo scelta, si trovava con altri passeggeri. Insomma, un professionista”. La Calò rimase l’unica ad aver visto Ghiani, in quella sera di pioggia. A gennaio Franz Sarno, uno degli avvocati di Raoul, rintracciò un altro dei passeggeri, il commerciante britannico Mayer Mahalla, a Milano: “Io dovevo recarmi a Tel Aviv per raggiungere mia madre in occasione della festa nazionale ebraica – disse all’avvocato e poi ai giornalisti – e sono certo che fra i viaggiatori non salì nessuno che si possa accostare fisicamente a Ghiani, nè alcuno vestito di blu. Sono altrettanto certo che nessuno giunse all’ultimo momento, come ho visto scritto da qualche parte. La mia certezza deriva dal fatto che sto sempre attento a ciò che accade al momento della partenza, perchè mi pare che si perda sempre troppo tempo e sono quindi impaziente. Inoltre ho buona memoria e un tipo alto, con le caratteristiche fisiche del Ghiani, non mi sarebbe sfuggito. Solo dopo il nostro ritorno Milano e solo dopo che Ghiani fu arrestato, con mio fratello parlammo del viaggio compiuto quella sera”19. Era la testimonianza di una persona razionale, attenta alle cose concrete, contro quella emotiva della Calò. Ma aveva il difetto di scagionare Ghiani; non sarebbe mai stata presa in considerazione dalla Polizia. “Per non parlare, Armando, dell’assurdità di prenotare un biglietto al sicario per il lunedì sera, quando Fenaroli stesso sarebbe stato in casa… no?”. “Non solo. Anche la prenotazione del 10, quella del giorno del delitto, non convince. All’Alitalia quel biglietto a nome ‘Rossi’risulta prenotato verso le 17. Possibile che, in una giornata così importante, il mandante dell’omicidio si ricordi solo a quell’ora, a due ore e mezza dal decollo dell’aereo, di prendere il biglietto al sicario? Ma che senso ha?”. Sacchi, però, come sappiamo, parlò anche (anzi, soprattutto) della telefonata: “Ah! Ti ha già telefonato?!... È in viaggio per 19

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«L’Unità», 13 gennaio 1959.

la sua ditta… Doveva venire nelle ore di ufficio, ma si è fermato a Bologna, si vede che tra un treno e l’altro avrà fatto tardi… ti porterà dei documenti riservati dell’Icrea e della Fenarolimpresa…c’è in vista la Finanza… stai tranquilla, è il cugino del Traversi. Se non vuoi scendere, buttagli le chiavi”20. Così avrebbe detto Fenaroli alla Martirano. Per poi dare un nome a questo misterioso “cugino del Traversi”: Raoul. Anche qui casca l’asino. Dichiarò infatti, Sacchi, che lui non avrebbe saputo identificarlo questo Raoul, che non lo conosceva bene. Allora lo descrisse: 30 anni, 175-180, capelli scuri, spalle larghe, in grande confidenza con gli Inzolia, lo aveva visto alla “Lux Maison” qualche volta. Dimenticava, forse, il ragioniere, di conoscere da ben più tempo Raoul Ghiani: come dimostrava questa foto, scattata il giorno del matrimonio di Carlo Inzolia.

Il matrimonio di Inzolia: alla sua sinistra Sacchi ed alla sua destra Fenaroli 20 Dal confronto Fenaroli-Sacchi del 15 dicembre 1958, di fronte al Giudice Istruttore e al Pubblico Ministero.

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Perché Sacchi mentiva in modo così evidente? Egidio Sacchi. Testimone o imputato? Collaboratore di giustizia o complice di Fenaroli? Tutto, in questa storia, ruota intorno a lui ed alle sue dichiarazioni. Il ragioniere è il pentito di questa storia, per la Polizia; un traditore per Fenaroli, che non capisce perché gli si rivolti contro. Quasi uno sconosciuto per Raoul Ghiani. Un verme per Carlo Inzolia. Egidio Sacchi: testimone o imputato? Siamo di fronte ad un uomo che dalla primavera all’estate del 1958, per mesi, s’è sentito ripetere in tutte le solfe, dal geometra, che voleva fare fuori la moglie. S’è sentito chiedere e richiedere consigli; s’è sentito proporre di far parte del piano, più e più volte. Non basta: dopo mesi e mesi di tutto questo, ha assistito alla famosa telefonata, ne ha capito il tenore. Perché allora non ha chiamato Roma quella sera, perché non ha detto alla Martirano di non aprire la porta? È solo un pavido, Sacchi, oppure non è successo nulla di tutto questo, ha inventato ogni accusa? Egidio Sacchi: per noi, se la sua storia è vera, resta quello che per mesi ha vissuto accanto ai progetti omicidi di Fenaroli, senza mai dire una parola alla moglie, senza salvarle la vita, nemmeno nell’ora più alta di questa tragedia. Il ragioniere è davvero la chiave di volta di tutto. Da otto anni era l’ombra di Fenaroli e dei suoi affari, di cui sapeva tutto. Aveva condiviso i viaggi in auto, i libri contabili, i progetti. Aveva scontato cambiali, comprato biglietti nelle agenzie di viaggio, parcheggiato la macchina e preso le sigarette. Era residente a Milano, ma aveva un’altra casa a Roma, in via Tigrè 77, nel Quartiere Africano, dalle parti della Nomentana. Di lui scriverà poche righe folgoranti Indro Montanelli: “Sacchi è un uomo cui manca il coraggio di essere un criminale, ma è uno di quei galantuomini timorati e pavidi che dai criminali sono irresistibilmente attratti, perché vedono in loro tutto ciò che essi non sono”. Il riassunto di una vita. Ma il caso Fenaroli non era ancora finito qui. Prima della fine dell’anno c’era spazio ancora per un nuovo colpo di scena. Il 20 dicembre, alle 23, entrava in scena un altro personaggio. In realtà lo conosciamo già, è Carlo Inzolia, 27 anni. Lo arrestarono. Sac-

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chi, chissà perché solo dopo diverse settimane di carcere, aveva tirato dentro anche lui. Il fratello di Amalia, nonché zio della piccola Donatella, era accusato di essere stato il tramite tra Fenaroli e Ghiani. Inzolia confermò che Ghiani e Fenaroli si conoscevano da un paio d’anni e che Raoul voleva fornire all’altro macchine da microfilm per la sua società. Di più non sapeva. E non capiva cosa stesse facendo lui, in carcere. C’era comunque un problema per i giudici, un grosso problema: che Sacchi era stato arrestato per falsa testimonianza. E se restava l’accusa, come poteva passare dall’altra parte, diventare testimone dell’accusa? Bisognava prima proscioglierlo da quell’imputazione che era servita a farlo crollare, ovvio. Questo è un passaggio fondamentale del caso Fenaroli. Da possibile complice di Fenaroli – con quell’accusa, quell’arresto – era necessario far diventare Sacchi un testimone, altrimenti tutta l’impalcatura sarebbe venuta giù con un soffio. Perché, per poter testimoniare in Assise, Sacchi adesso non serviva più come imputato, ma come teste. La faccenda prestava il fianco alle critiche: era difficile vedere Sacchi come teste e non come imputato, dopo la morte della Martirano. Ma tant’era. Così, i giudici decisero di prosciogliere il ragioniere dall’accusa di falsa testimonianza e, il giorno dopo l’arresto di Inzolia, il 21 dicembre 1958, dopo un mesetto passato a Regina Coeli, lui potè uscire e ritrovare la moglie Giuseppina ed il figlio Giuseppe. E tornarsene a casa. Il giorno dopo l’arresto di Inzolia: non poteva essere un caso. Lo misero fuori solo quando ebbe fatto tutti i nomi. Mancava, però, il collegamento tra mandante e sicario. Quando anche questa casellina fu riempita – a torto o a ragione – col nome di Inzolia, Sacchi uscì dal portone di Regina Coeli, col suo sguardo obliquo ed un sorriso in faccia. Ma che ruolo aveva avuto Inzolia, in tutto questo? Di cosa era accusato? Inzolia, dicevano i giudici, aveva accettato di fare l’intermediario perché il negozio andava male e aveva bisogno anche lui dei soldi dell’assicurazione. La sua presenza faceva quadrare molte cosette: perché Fenaroli non conosceva abbastanza bene Raoul, l’aveva visto solo qualche volta, in fondo. D’altronde, come aveva fatto il geometra a tenere sempre al corrente l’elettrotecnico? Per dimostrare che i due si fossero parlati bisognava appunto introdurre Inzolia come tramite: l’uo-

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mo giusto nel posto sbagliato. Quello che stupiva era che Sacchi l’avesse nominato in questa veste soltanto il 17 dicembre 1958, in un interrogatorio che si era protratto fino a notte fonda. Ecco: cosa aveva detto Sacchi? Si era ricordato che il 9 settembre, per telefono, da Roma, Fenaroli gli aveva detto di avvertire Inzolia di andare la mattina successiva da lui con “l’amico”… cioè con Ghiani! La Manzi e Traversi, l’altro impiegato, confermeranno la visita di Carletto Inzolia, ma negheranno che con lui ci fosse stato qualcun altro. Ma adesso ammettiamo per un attimo che quell’incontro a tre ci fosse stato davvero e che fosse avvenuto per concertare gli ultimi dettagli: a maggior ragione, non si capisce come mai, tre ore dopo, Fenaroli non avesse ancora chiesto a Sacchi di prendergli un biglietto aereo per Rossi… cosa che avverrà – sicuramente – addirittura alle 17! Eppure era il biglietto più importante del mondo, era quello per l’assassino… Ma la lettura più allucinante è quella dell’ordinanza di rinvio a giudizio di Carlo Inzolia. Il fatto è che Inzolia era, per gli investigatori, la persona giusta in quella fase delle indagini. Se ci pensiamo bene, Fenaroli aveva frequentazioni borghesi: basti pensare che aveva cercato di convincere un medico a fargli da sicario… ovvio che, per la Squadra Mobile, Inzolia era l’anello debole della catena e fu lì che andarono a battere. E presero informazioni, eccome se le presero. Leggiamo il verbale di “accertamenti praticati a Milano sul conto di INZOLIA Carlo, GHIANI Raoul, SAVI Carlo e FENAROLI Giovanni”, del 10 febbraio 1959. Ecco, qui parlano di Inzolia: “… riferivano che il rendimento e l’attaccamento al lavoro di quest’ultimo, durante il tempo in cui era stato alle loro dipendenze (parliamo della C.G.E. Nda), aveva sempre lasciato a desiderare; tant’è che il licenziamento apparentemente era stato motivato da quattro giorni di assenze ingiustificate, ma in effetti si trattava di eliminare un elemento indesiderabile. Cessato il rapporto di lavoro con la C.G.E., l’Inzolia si dedicava al negozio di elettrodomestici, sito in Milano, Piazza Napoli 21, che gestiva unitamente alla propria sorella Amalia. Anche in tale attività, però, il suo rendimento era negativo, tanto che, dopo la morte della sorella (dicembre 1957), si avevano le prime lamentele dei creditori per i mancati pagamenti.

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(…) Carlo Inzolia era solito ricorrere ad aiuti finanziari, vero è che non disdegnava di sollecitarli ed ottenerli dalla propria sorella Amalia (…)”. Insomma, uno con poca voglia di lavorare, che scroccava prestiti, che si faceva prestare la macchina da Fenaroli per poi vantarsene. Non era un bel quadro. Domanda: ma erano comunque motivazioni valide per imbucarsi in un omicidio premeditato? E dov’erano le prove? C’è voluto un po’, ma la voce che sentiamo all’altro capo del telefono è quella di Donatella Coppetti. La bambina di ieri è la donna di oggi. Amalia era sua madre, Carlo Inzolia era per lei lo “zio Carlo”. Ci ha messo tanti anni per fare pace con i suoi ricordi, con quegli anni lontani in cui la sua vita fu stravolta. Cosa si ricorda di allora? “Poco. Fenaroli l’ho visto due-tre volte, dopo la morte di mamma. Prima, mai; non sapevo ne fosse l’amante, né lei mi diceva mai nulla. D’altronde vivevo già con mia nonna, da prima che lei morisse”. Le chiediamo della notte degli arresti, di quella notte del novembre 1958. “Quando arrivai in Questura non sapevo cosa volessero quei signori da me. I miei parenti mi dissero di rispondere alle loro domande e così feci. Mi chiesero chi erano gli amici dello zio Carlo e dove abitavano, ma non sapevo perché me lo stessero chiedendo. Poi, quando lo zio fu arrestato, i miei parenti mi fecero sparire da Milano, senza dirmi perché. Solo tre-quattro mesi dopo lessi per caso, su un giornale, quello che era successo e cominciai a capire. I miei figli non sanno nulla dello zio Carlo, non gliel’ho mai detto, non conoscono questa storia”. Non ricorda nient’altro di Fenaroli? “Ricordo che, dopo la morte della mamma, dissi che volevo andare a Roma, vedere Roma e la prima volta che ci andai fu proprio Sacchi ad ospitarmi a casa sua. Aveva un bambino molto piccolo, ricordo. Arrivò anche Fenaroli e fu allora che mi disse che aveva avuto molto affetto per la mia mamma, ma io ero troppo piccola per capire cosa volesse dire davvero”. Non deve essere stato facile per lei, dopo il coinvolgimento dello zio nel delitto… “Non lo è stato per molto tempo, mi creda. Ho impiegato anni

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per farci i conti. Anche perchè ognuno dei miei parenti mi dava una versione diversa di come erano andate le cose. Solo da adulta li ho messi tutti insieme e ho preteso una spiegazione”. E di Ghiani, che ricorda di lui? “Ghiani l’ho visto una decina di volte, in negozio. Era molto disponibile, giocherellone, non mi diceva mai ‘ho da fare’. Giocava con me. Ricordo che lo zio Carlo, anche dopo essere uscito, ha sempre preferito non parlare di quella storia e, quando lo ha fatto, diceva che Raoul per lui era innocente, non era capace di fare del male”. No, non è stata una passeggiata per nessuno. Tanto che oggi Donatella non ricorda più di esserci stata anche lei, la sera del 10 settembre 1958, a cena con Fenaroli, lo zio Carlo e gli altri, mentre a Roma avveniva il delitto. Fu una storia che cambiò davvero la sua vita. “Il negozio fallì e sa perché? Sia perché dopo l’arresto dello zio non c’era nessuno per occuparsene, sia perché la gente non voleva più entrarci”. Per tutti, era il negozio di quelli del delitto. Subito dopo l’arrivo a Roma di Fenaroli e Ghiani, «L’Unità» si fece carico di dare voce a tutti i dubbi di un’inchiesta. Su Sacchi: “Il ragioniere può aver celato, come aveva fatto in precedenza, delle responsabilità di cui è a conoscenza. Comunque, le sue rivelazioni sulla persona di Ghiani sono state relativamente generiche”. Sui ritardi al lavoro di Ghiani: “Possono assumere valore determinante solo nella presunzione della colpevolezza. Da soli non rappresentano certo una prova d’accusa”. Sui suoi alibi: “Anche un innocente può trovare insormontabili difficoltà a ricordare e documentare le sue azioni, in una sera trascorsa da oltre due mesi”. Sul riconoscimento della Trentini: “I connotati sono per forza sommari. Alla descrizione di un individuo normale, solo intravisto, possono corrispondere numerose persone simili. Migliaia di persone, forse milioni, posseggono un abito di tale colore”. E ancora: “È difficile accettare che si possa riconoscere in fotografia una persona vista due mesi prima, per qualche minuto. La certezza di tale riconoscimento non esiste”. Conclusione: “I magistrati hanno dimostrato finora che Ghiani può essere l’assassino. Devono documentare che è l’assassino”21. 21

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«L’Unità», 4 dicembre 1958.

Ma la verità è che, quando le rotative de «L’Unità» stampavano queste righe, il caso Fenaroli era già chiuso. Al Questore di Roma, la sera del 26 novembre, era infatti arrivato questo telegramma dal Ministro dell’Interno: «Desidero esprimere a lei ed a tutti i componenti della Squadra Mobile nonché a quanti altri abbiano collaborato mio compiacimento per l’esito positivo delle indagini sul delitto Martirano, con l’avvenuto arresto dei responsabili. Consapevole delle complesse difficoltà incontrate anche per giustificata ansietà opinione pubblica ritengo mio dovere dare atto efficienza e costanza capacità nostra Polizia sempre più al servizio sicurezza cittadini nella quotidiana intelligente lotta contro ogni manifestazione di delinquenza. Cordialmente Tambroni». Avete capito? “L’avvenuto arresto dei responsabili”. Dopo un telegramma del genere, chi si sarebbe azzardato a dire che c’erano dei dubbi, delle cose che non tornavano, delle forzature nel caso Fenaroli? Nessuno. E così fu. “Ci risiamo” sbotta Armando “mi sembra di rivivere il momento dell’arresto di Gino Girolimoni. Sentite congratulazioni da parte dei vertici, telegrammi e promesse di promozioni. No, sicuramente non aiutano nelle indagini, quanto meno mettono una patina velata davanti agli occhi degli investigatori, una patina che non permette di vedere altre strade, di vedere tutte le ipotesi possibili”. Intanto, Ghiani e Inzolia negavano tutto. Certo che conoscevano Fenaroli, ma non avevano fatto parte di nessun piano per uccidere la Martirano! Erano dei lavoratori, non gente avida, pronta a tutto per uccidere. Negavano. Solo che Ghiani non riusciva a ricostruire due alibi decenti per il 7 e il 10 settembre; e si ostinava a raccontare la storia delle manopole e delle riparazioni nelle banche. Per tutto il resto, cadeva dalle nuvole; come Carlo Inzolia, d’altronde. Giovanni Fenaroli, invece, ci metteva del suo. L’atteggiamento del geometra, di fronte alle accuse da ergastolo che gli venivano mosse, continuava ad essere davvero sconcertante. Sia per le risposte che non dava, sia per quelle che dava. Come se l’accusa non riguardasse lui o come se, in fondo, si trattasse solo di fare una partita a scacchi. Era di una sicurezza e di una calma incrollabili. Ad esempio, affermava e ripeteva che sì, aveva incontrato

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spesso Raoul, ma di non averne mai saputo il cognome. Minimizzava i suoi rapporti con lui. Spiegava che il balletto dei biglietti prenotati per il 9 e il 10 settembre era necessario al recupero di alcuni documenti del fallimento, che aveva dimenticato a Roma22. In seguito aveva disdetto quella prenotazione, ma per il semplice fatto di essersi accorto che quelle carte non gli servivano più. Allo stesso tempo, però, diceva che si servivano per spedire rapidamente dei documenti tra Milano e Roma dei conduttori dei vagoni letto, che prendevano 1.000 lire per questo servizio. E quindi, a che gli serviva fare sopra e sotto con Roma? Negava di aver mai fatto prenotare nulla a nome Rossi. Ma come diavolo faceva a restare sempre così calmo? Forse il segreto di Giovanni Fenaroli stava tutto nel suo sconcertante ottimismo, che lo aveva seguito per tutta la vita. Ricordate le parole del curatore fallimentare Papeschi? Fenaroli non era uno che stava con i piedi per terra, era uno che della realtà non sapeva che farsene. Viveva in un mondo d’ottimismo senza limiti, che non poteva essere scalfito né dalla rovina economica né da un’accusa di omicidio volontario. Pensava sempre e comunque che se la sarebbe cavata. E lo pensava anche mentre era a Regina Coeli, senza rendersi conto che, ormai, non aveva più vie d’uscita. È solo così che possiamo spiegare le improvvise dichiarazioni di Fenaroli al giudice del 18 giugno 1959. Erano passati ormai molti mesi dall’inizio della vicenda. L’istruttoria però non era chiusa, nonostante tutti i quotidiani si chiedessero cosa diavolo mancava per concluderla. Cosa aveva raccontato, di colpo, il geometra? Sentite qua: aveva confermato che la sera del 7 settembre – la prova generale del delitto – lui, Ghiani, sì, l’aveva incontrato. Ma come? La sera del 7? Ma allora…! Sì, entrando nell’atrio della stazione Termini, era andato all’edicola e si era sentito chiamare: “buonasera, signor Giovanni!” Era Ghiani. Aveva perso quello delle 23.15 e gli chiedeva aiuto perché doveva tornare a Milano, così Fenaroli gli suggerì 22 Un paio di cartelle di documenti relativi al fallimento della Fenarolimpresa furono effettivamente visti da Tomassini, uno dei dipendenti della sede romana, sulla scrivania dell’ingegnere, in via Ravenna, la mattina dell’8 settembre.

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di salire sul suo, quello delle 23.35, dove poteva stare nella sua cabina. Ci avrebbe pensato lui a trovargli posto, avrebbe parlato lui col conduttore del wagon-lit, Rodolfo Gori. Ma questi, però, gli trovò posto in un’altra cabina. Il geometra viaggiò così nella numero 16 e Ghiani nella numero 20; e si rividero solo la mattina dopo, in corridoio. In realtà, Fenaroli non aveva ammesso tutto questo spontaneamente. Gliel’avevano contestato e lui aveva finito con l’ammetterlo. Però l’aveva ammesso; e sembrava un’ammissione suicida. La Polizia, in realtà, aveva giocato sul sicuro. Sapeva già che il conduttore del treno del 7 settembre, Rodolfo Gori, aveva confermato quella circostanza. Anzi, avevano in mano molto di più. Avevano già trovato quello che passerà alla storia come il “foglio verde”23, cioè quel documento che identificava tutti i passeggeri che dormivano nelle cuccette del treno delle 23.35. C’era Fenaroli, certo. Ma c’era anche Ghiani. Identificato con la sua patente. Una prova schiacciante.

Il “foglio verde” del viaggio in treno, con il nome di Ghiani 23

Dio solo sa perché prese questo nome. Il foglio, in realtà, era bianco…

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Era incontestabile che Raoul fosse stato a Roma, quella sera. Ovviamente la Polizia e il giudici cercarono altre conferme; in Valsecchi, in Luigi Martirano. Ma il primo aveva aspettato fuori, in auto, e non sapeva nulla; il secondo, invece, ebbe un soprassalto e ricordò. Il 20 maggio 1959 ricordò di aver accompagnato il cognato fino al treno ‒ il giorno prima dell’omicidio ‒ e di aver visto Fenaroli lamentarsi col conduttore Gori, perché la domenica precedente non aveva potuto “far viaggiare con lui il suo ragioniere”. Ghiani negava, disperatamente. Diceva che la patente gliel’avevano rubata, che non poteva essere la sua, che lui, l’ultima volta, a Roma, c’era stato in agosto. “Armando, scusa, ma se c’era appena stata la prova generale, perché il mandante e il sicario avrebbero dovuto farsi vedere insieme? Secondo me perché non è successo ancora nulla, l’agguato non s’è realizzato, e non c’è motivo di prendere delle precauzioni particolari per il viaggio di ritorno... Che ne pensi? E cosa prova il foglio verde, rispetto al delitto?” “Penso che in realtà non è che non hanno usato le dovute precauzioni perché ancora non avevano fatto nulla, anzi, qui si è proprio esagerato, si è esagerato in maniera teatrale. Fenaroli non si defila, va deciso da Gori a reclamare, a far notare ancora di più, se possibile, il passeggero Ghiani. Tra l’altro, il geometra era un cliente abituale di quel treno, non poteva non sapere che, facendolo viaggiare con sè, avrebbe lasciato una traccia documentale della presenza di Ghiani: e cioè proprio il “foglio verde”. Dopo un fatto del genere, Ghiani come sicario era inutilizzabile. La cosa non mi è chiara, tutto fa pensare che Raoul sia stato vittima di una messa in scena. Fenaroli vuole fortemente metterlo in mezzo, sta preparando una vittima sacrificale per quello che succederà di li a poco? Sapeva che sarebbe stato alla stazione in quel momento, che aveva in programma un viaggio a Roma? Oppure fa tutto quel casino per far risaltare il suo potere, la sua figura di benefattore, di uomo coi soldi? Ripensiamoci un attimo, Fenaroli esce di casa, si avvia alla stazione e il misterioso individuo cerca di aprire la porta. Ma se ci fosse riuscito? Se fosse entrato in quell’appartamento e avesse sorpreso la moglie? Insomma, se fosse stato Ghiani, quanto tempo avrebbe impiegato per raggiungere la stazione? Ce l’avrebbe fatta a fare tutto in un quarto d’ora, in tempo per incontrare Fenaroli?

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A proposito, ma hai visto bene il famoso foglio verde, guarda la riga proprio sopra Ghiani, anche questo passeggero fa di cognome Rossi… sembra una congiura”. In effetti, Armando ha ragione. Voglio dire: Fenaroli si era preoccupato costantemente di procurare un alibi al sicario (organizzandogli il viaggio in modo da farlo essere al lavoro il giorno dopo), un nome di copertura (Rossi, il cugino del Traversi)… ma allora, perché farsi notare così? E poi, Sacchi diceva che Fenaroli era arrivato in ritardo in ufficio, la mattina dell’8, proprio perché si era fermato alla Stazione Centrale a parlare con Ghiani. “Anche questo sembra curioso, no? – fa Armando – arrivare alla stazione alle 8.15 e fermarsi a parlare per pianificare le nuove mosse. Come se non avessero avuto tempo durante il viaggio…”. Gori, comunque, non era stato in grado di identificare Ghiani, ma non cambiava nulla. I giudici sventolarono trionfanti il “foglio verde” ai cronisti, in spregio al segreto istruttorio: e per forza, era un modo per lavorarsi l’opinione pubblica! Le notizie trapelavano quando faceva comodo. Fenaroli reagì dicendo una frase sibillina: “Il fatto di aver Ghiani viaggiato con me non mi danneggia, anzi mi avvantaggia”. E che voleva dire? Forse questo: che lui, appoggiandosi alla posizione di Ghiani, contava di trarne vantaggio. Il geometra, probabilmente, pensava che l’innocenza di Raoul sarebbe prima o poi emersa; e che questo avrebbe finito con lo scagionare anche lui. Ai primi di dicembre «L’Unità» scriveva: “Sembra che si profili sugli incriminati solo l’ombra allarmante di un processo indiziario. (…) Finchè le gravissime imputazioni non saranno rigorosamente documentate appaiono legittime tutte le perplessità che circolano dovunque. (…) L’onorevole avvocato Tambroni inviò il 26 novembre scorso un messaggio agli investigatori (…). La precipitazione con cui il ministro ha deciso per suo conto la colpevolezza rappresenta, finora, l’unica prova contro Fenaroli e Ghiani”24.

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«L’Unità», 5 dicembre 1958.

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Capitolo 6

L’uomo dalla memoria di ferro, un’auto che corre sulla statale e una scatola piena di polveri

“Fenaroli: il più intricato giallo dell’anno” («Il Tempo», del 9 dicembre 1958) Mese dopo mese, la morte di Maria Martirano continuava a diventare un romanzo a puntate che sembrava non avere fine. Nuovi personaggi entravano tra i fogli dell’istruttoria mentre altri, già noti, facevano nuove dichiarazioni, in un crescendo che lasciava senza fiato. Era come se ogni settimana si aggiungessero altre pagine al libro che l’Italia stava leggendo, ogni mattina. Nelle edicole, nei bar, incontrandosi per il Natale del 1958 o negli androni dei palazzi, l’argomento era quello.

Renzo Ferraresi

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Il 2 dicembre 1958 toccò a Renzo Ferraresi entrare nel caso Fenaroli. Ferraresi faceva l’assistente tecnico al reparto nylon della Rhodiatoce di Pallanza; aveva 37 anni, era sposato ed aveva i baffetti alla Gable. Sui quotidiani veniva descritto come uno che non si occupava di politica, serio, riservato e attaccato al lavoro,“persona di ineccepibile moralità e condotta, le cui facoltà mnemoniche sono assolutamente eccezionali”25. Sono parole che sui giornali non vengono mai messe a caso. Un motivo c’era: serviva a presentare il nuovo testimone come uno che non era un fazioso, che stava lontano da liti e discussioni… insomma, uno di cui ci si poteva fidare. Un tipo eccezionale, ineccepibile. Premessa fondamentale, per quello che stava per dire e che avrebbe detto. Perché anche Ferraresi aveva visto la foto di Ghiani sul giornale e s’era detto: ma io questo qui l’ho già visto! E si ricordava bene dove e quando! Era stato nella notte tra il 10 e l’11 settembre 1958, sulla “Freccia del Sud” che era transitata da Roma Tiburtina verso le 3, con forte ritardo (avrebbe dovuto esserci alle 2.20: altro che “Freccia”…). Il nuovo teste era strasicuro che nel suo stesso scompartimento avesse viaggiato Ghiani. Ferraresi, in effetti, sembrava avere davvero una memoria di ferro. Descrisse Raoul: giacca blu ad un petto e tre bottoni, camicia bianca. Ricordava anche il tipo di vestito: di stoffa leggera, estiva. Era sbarbato di fresco, aveva scarpe nere. Di più: si ricordava benissimo che il ragazzo, seduto davanti a lui – l’aveva visto bene, dunque – aveva dormito fino a Firenze. Quando s’era svegliato, aveva parlato di televisori, aveva detto che i migliori erano quelli americani, che faceva l’elettrotecnico e viveva a Milano. Era lui, Ghiani, non aveva dubbi! Tanto che, chiamato dalla magistratura a Roma, aveva riconosciuto l’elettrotecnico nel corso di un confronto. Ora, non c’era dubbio che Ferraresi fosse stato davvero su quel treno. Ricordava infatti (ed era vero) che quella notte il treno aveva appunto accumulato ulteriore ritardo a Roma, per l’aggiunta di una carrozza: tanto da essere ripartito solo alle 3.20. E la sua testimonianza spiegava perché Ghiani si era presentato in Vembi solo alle 14.04. Infatti, prima dell’entrata in scena dell’uomo della Rhodiatoce, si pensava che il sicario avesse preso il treno delle 25

«Il Corriere della Sera», 11 dicembre 1958.

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00.20 da Termini. Invece adesso si scopriva che aveva preso la “Freccia del Sud”, arrivata a Milano alle 11.09. Certo, rimaneva una domanda: se ci poteva stare che Raoul avesse mancato il treno in partenza da Termini alle 00.20, non si capiva perché avrebbe dovuto fallire l’appuntamento con quello successivo, dell’1, sempre da Termini, solo per andare alla stazione più vicina (Tiburtina è più vicina a via Monaci) a prendere quello delle 3, col solo e sicuro risultato di arrivare a Milano con un fortissimo e sospetto ritardo. Una domanda che nessuno si fece. Ma era poi davvero Raoul, quello visto da Ferraresi? La domanda non è solo nostra. Un primo dubbio, forte, è questo: come si fa a ricordare esattamente così tante cose di una persona incontrata 80 giorni prima? E voi, riuscireste a fare altrettanto? E com’è possibile che Ghiani apparisse fresco e riposato a Ferraresi, dopo tutto lo sbattimento delle ultime ore, tra Milano e Roma, tra aerei presi all’ultimo respiro, il primo omicidio della sua vita, la fuga e la paura? Un secondo dubbio viene dal fatto che era solo Ferraresi a ricordarsi di Ghiani. C’erano otto posti, in quello scompartimento della “Freccia del Sud”. C’era un collega di “Mister Memoria di Ferro”, Enrico Lasso, che si sedette al posto di Ferraresi a Bologna, quando questi gli cedette il sedile: fino ad allora era stato in piedi in corridoio. Lasso avrebbe dovuto avere Ghiani di fronte fino a Milano; in realtà crollò dal sonno, ma comunque ricordava, piuttosto, una donna con due bambini ed un uomo di 50 anni, che parlava di sartoria, ma non Ghiani. Una delle cose più strane era che Ferraresi si ricordava qualsiasi cosa, ma non aveva detto che con lui, quella notte, c’era anche l’amico Lasso. La donna, in compenso, fu introvabile. L’uomo cinquantenne, idem. Nello stesso scompartimento, poi, c’era anche Tullio Giovannoni. Anche lui si ricordava di Ferraresi, ma non di Ghiani. Molti anni più tardi, riparlando di quando andò a deporre, disse: “Mi resi conto che veniva costruito molto”. La sua impressione, insomma, era che né la Polizia né i giudici stessero molto ai fatti, ma che li interpretassero soprattutto. Che cercassero, insomma, di incastrarli nel modo migliore per far tornare i conti. E così, Ghiani diventava, ogni giorno di più, “un giovane dai deboli freni inibitori”26. 26

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«Il Corriere della Sera», 11 dicembre 1958.

In tutto questo, restava un mistero la scarsa capacità di Raoul di difendersi, di gridare la sua innocenza, di dibattersi. Sembrava subire tutto quello che gli stava succedendo: il riconoscimento della Trentini, quell’ è lui, è lui!, i nuovi testimoni che gli piovevano addosso e diventavano altrettanti chiodi che gli fissavano il coperchio alla bara. “Venerdì scorso Reana Trentini additò il giovanotto e disse ‘sì, è quello’. Il Ghiani parve non ascoltarla neppure. Oggi un uomo l’ha guardato ed ha dichiarato: ‘è proprio lui’. Il Ghiani non si è mosso. (…) Non ha neppure abbozzato una protesta. Sa che i testimoni hanno ragione? O non è colpevole e, stordito dagli ultimi avvenimenti, non riesce a raccapezzarsi?”27. Era un enigma per l’opinione pubblica, Raoul. “Il sicario di Giovanni Fenaroli continua disperatamente a negare” titolava «L’Unità», il 30 novembre. Era tutto quello che usciva di bocca a Ghiani. Un’idea di cosa ci fosse nell’animo del ragazzo di via Tarquinio Prisco ce la dà questa lettera, che scrisse dal carcere alla sua famiglia, il 16 marzo 1959. La riproduciamo qui, per la prima volta. «Miei cari, appena il dottor Scirè fece cenno ai due agenti che si avvicinarono con le manette, nella mia mente, intanto, una ridda di pensieri si stava accavallando: arrestarmi? A me? Come mai? Che cosa ho fatto? Fra tutto questo subbuglio l’unica cosa che riuscii a dire fu: ma perché? Al che il dottore mi rispose di non preoccuparmi… viene accesa la lampadina della plafoniera della macchina e, alla luce insufficiente, riesco a leggere qualche cosa che mi agghiaccia il sangue. Dico all’agente che avevo di fianco che ci doveva essere un errore, che non poteva essere, ma egli mi rispose che non erano cose che gli interessavano…Varcai, per la prima volta, il portone di un carcere. In vita mia non avevo mai provato ad immaginare un carcere vero e proprio; qualche film o qualche libro non erano riusciti a darmene una precisa sensazione. Lo squallore e la brutta impressione che mi fece il trovarmi rinchiuso fra quattro mura non si può descrivere, avevo dentro di me come vuota e squallida la cella, vuoto il corpo, vuoto il cervello, vuoto lo spirito. Fortunatamente la grande stanchezza fece tutto. Mi sdraiai sulla brandina e mi addormentai». Questo era Ghiani. Un uomo colto di sorpresa e impaurito. Un uomo – come dirà il suo avvocato, Nicola Madìa – “che aveva 27

«L’Unità», 9 dicembre 1958.

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tentato di uscire dal dramma e diventarne spettatore; cercando di fuggire da se stesso, cullandosi in una speranza ebbra d’incoscienza. E aveva finito per non reagire, fino a rimanere incerto e smarrito, dinanzi alle più gravi accuse”. E poi, vennero i giorni delle prove cronometrate. Quelli in cui si cercò di capire se davvero la folle corsa verso Malpensa era stata possibile. In realtà, quei giorni arrivarono incredibilmente tardi e c’è da chiedersi perché. Le prove furono effettuate infatti solo tra l’11 ed il 15 giugno del 1959 – con varie situazioni di luce, traffico, e carico a bordo – quando ormai non c’era giornale che si chiedesse cosa diamine stavano aspettando i magistrati per chiudere l’istruttoria. L’unica spiegazione che troviamo io e Armando sta nella estrema sicurezza degli investigatori. Erano così certi della colpevolezza dei tre che, praticamente, fecero la perizia automobilistica con la massima calma, a cose fatte... E amen. Il punto di partenza era avere dati certi sul volo AZ412. L’Alitalia disse che da Malpensa l’aereo era decollato esattamente alle 19.46, ma quello che andava accertato era a che ora fossero stati chiusi i portelloni. Il pilota, l’unico a poterlo dire, ricordava un dieci minuti prima, il tempo necessario per posizionarsi sulla pista e attendere l’ok della torre di controllo; non poteva essere più preciso. Chiunque fosse il signor Rossi, il suo orario limite per salire sull’aereo era stato dunque le 19.36, più o meno. Il “manifesto di volo”, cioè l’elenco dei passeggeri in partenza, era stato invece chiuso all’orario regolamentare delle 19.30, cioè 5 minuti prima dell’orario ufficiale di partenza; e c’era scritto anche il nome del misterioso Rossi. Quindi Ghiani doveva essere arrivato entro le 19.30 a Malpensa. Per forza. Anche perché, se fosse arrivato dopo quell’ora, sarebbe stato aggiunto, certo; ma questo avrebbe significato riaprire e richiudere il “manifesto di volo”, lasciando la traccia scritta di una annotazione a margine: il che non era. C’era dunque un dato sicuro: Rossi era entrato nell’aerostazione di Malpensa, sotto la pioggia, al massimo alle 19.30. Ma questo dato non fu tenuto in considerazione. Gli investigatori pensarono che Rossi potesse essere arrivato dopo e che gli impiegati dell’Alitalia non l’avessero annotato, come invece il regolamento imponeva loro. E che l’orario massimo da tenere in considerazione doveva essere invece quello delle 19.36. E poi c’era l’orario in cui Fenaroli era schizzato via dal suo ufficio.

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Ecco, che il geometra fosse uscito alle 18.45, invece, non era certo; lo diceva Sacchi. Ma solo lui. Fenaroli si ricordava le 19 e d’altronde anche Angela Manzi, la segretaria della Fenarolimpresa, e Traversi, lo confermavano. Era per questo che, successivamente, Sacchi aveva precisato che, durante la famosa confessione, il geometra gli aveva detto di averci messo 25 minuti? Sembrava troppo preciso, troppo a pennello, questo dettaglio… fatto apposta per far tornare i tempi. C’era un solo modo per saperlo: fare la prova cronometrata, appunto. Venne nominato perito il Maggiore della Polizia Stradale di Roma Lamberto Vinale. Con lui, alla guida, si alternarono due esperti piloti della Stradale, con riflessi ovviamente diversi dal più anziano Fenaroli. Nel frattempo, però, l’auto del geometra (una Giulietta T.I. targata MI 396875, immatricolata di seconda mano il 29 luglio 1958, che aveva fatto in tutto 3.500 km) era stata venduta all’asta il 2 marzo 1959: Fenaroli non aveva finito di pagarla... E così se ne usò un’altra, molto simile. Il percorso partiva da via Gesù 17, passava per Porta Ticinese (luogo del supposto appuntamento tra Fenaroli e Ghiani), quindi procedeva verso Malpensa. Fu un momento pazzesco, perché l’Alfetta venne seguita dalle auto dei giornalisti, poi da quelle degli avvocati. Le prove diventarono un corteo… e, durante una di loro, la Polizia riuscì a seminare tutti. Solo che Armando non mi sta nemmeno a sentire. Ma che cos’è quel foglio? Gli chiedo. “È la perizia, leggi quà. ‘Tutte le prove sono state effettuate osservando in linea generale le norme di comportamento prescritte dal codice della strada. Ai passaggi ai caselli dell’autostrada sono stati acquistati biglietti di accesso o è stata mostrata la tessera di libero percorso, impiegando però un tempo pari a quello occorrente per l’acquisto e la riconsegna dei biglietti stessi. La condotta di guida è stata uniformata a quella di un guidatore esperto (…) che al momento del presunto viaggio aveva particolare premura di raggiungere in breve tempo l’aeroporto di Malpensa. Ciò ha comportato lo sviluppo di velocità sostenute, ma mai ai limiti delle possibilità effettive dell’autovettura impiegata, tanto è vero che la vettura dei periti è stata agevolmente seguita in quattro prove su cinque dalle autovetture degli avvocati di parte. (I tempi rispetto a Malpensa: 47’30”, 38’30”,51’07”,40’40”) ’”.

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Lo vedo pensieroso, Armando: c’è qualcosa che non gli torna. Proseguo. Naturalmente, la difesa battè molto su quella perizia in cui furono tutti seminati, al punto che a un semaforo l’Alfetta bruciò tutti, passando col giallo; e una 1400 che impegnava l’incrocio in quel momento fu evitata per un millimetro! Quando l’Alfetta degli agenti inchiodò davanti a Malpensa, quel giorno, aveva toccato una velocità massima di 145 km/h. Era possibile? Davvero Fenaroli aveva corso così? Le possibilità di portare il sicario in aeroporto furono decise dalla media dei tempi. Era di 44 minuti, disse trionfante la Polizia: visto? Si può fare! Il geometra è uscito alle 18.45, alle 19.29 Ghiani era in aeroporto! Ma una media è solo una media. E poi, non bisognava calcolare solo il tempo del percorso. Ci volevano anche: 1- il tempo necessario al geometra per scendere dall’ufficio e prendere l’auto in garage, che si trovava sotto il palazzo; 2- il tempo occorrente a Ghiani per andare dalla rotonda esterna dell’aeroporto fino ai banchi dell’Alitalia, entrare (distanza: 200 metri), fare il biglietto, raggiungere l’aereo sul piazzale (distanza: altri 200 metri) e salire la scaletta che portava all’omicidio. Questi due tempi non erano stati minimamente calcolati. Non servivano, non vennero presi. Forse fu un eccesso di sicurezza, ma il test era chiaramente incompleto. Se Fenaroli, invece, era uscito davvero alle 19, come dicevano i testimoni, già solo prendendo per buona la media di 44 minuti saremmo oltre il tempo limite delle 19.36, ora stimata di chiusura del portellone; senza contare che mancherebbero comunque i tempi 1 e 2... Se invece il geometra era uscito alle 18.45, come diceva Sacchi, questi due tempi mancanti, sommati, dovevano essere stati necessariamente di 7 minuti totali al massimo, per riuscire a far chiudere il portellone dell’aereo alle 19.36 dietro le spalle di Ghiani. Non c’era altra possibilità. Che ne dite? Ci stava? Qui la difesa di Fenaroli e quella di Ghiani si scatenarono. Perché non solo mancavano quei due tempi, ma la sera del 10 settembre, urlarono, c’era un nubifragio su Milano (gli stessi passeggeri del volo AZ412 se ne ricordavano bene, anche se di certo il bollettino ufficiale meteo riportava: cielo completamente coperto, poche gocce per breve formazione temporalesca, nuvoloso ma niente pioggia su Malpensa); perché, intorno alla zona di Porta Ticinese, c’erano due cantieri stradali, uno a Piaz-

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za Papiniano ed uno a Piazza Buonarroti, mentre viale Monterosa era chiuso per i lavori della metro (cantieri sicuramente poco influenti per il nostro tragitto, ma che di certo aiutavano ad aumentare il traffico in generale); perché, nella zona di San Siro, stava affluendo una folla di 50.000 persone per l’amichevole Inter-Juventus (1-3, per la cronaca…) e loro dovettero passarci vicino. Le accuse alla Polizia furono feroci: si disse che avevano sventolato i fazzoletti bianchi, suonato il clacson a tutto spiano, si disse che ai caselli l’Alfetta era passata mostrando la tessera, omettendo quindi il tempo per pagare: tutte cose che Fenaroli non avrebbe potuto fare. Vedo che Armando scuote la testa. “In realtà, Fabio, su quest’ultimo punto abbiamo certezze. Tanti anni dopo, possiamo mettere ordine. Possiamo dire che, nelle quattro prove, venne effettuato il pagamento soltanto nelle prime tre, mentre nella quarta – che fu una delle due che rientrarono nei tempi – si fece uso della paletta. Quindi fu solo una delle prove che rientrarono nei tempi ad essere svolta correttamente. Tra l’altro, a seguito della contestazione effettuata dalla difesa, vennero sommati, alla prova ‘con paletta’ in modo del tutto forfettario, due minuti per quando venne preso il biglietto a Lainate e trenta secondi per quando veniva riconsegnato a Gallarate. Non era importante, però, sapere solo se Fenaroli poteva fare in tempo a portare Ghiani a Malpensa: in realtà dalla prova si voleva sapere anche se poi il geometra poteva fare in tempo, dall’aeroporto, ad essere a Piazza Napoli – dove aveva appuntamento con gli altri, ricordi? – alle 20 circa. Beh, un altro particolare curioso è che solamente in una delle prove venne effettuato il pagamento sia all’andata che al ritorno, pensa proprio quella il cui tempo, all’andata, risultò il più basso con 38’ e 30”. Ma guarda lo scontrino autostradale: il biglietto dell’andata venne preso dopo le ore 20 di una anonima giornata senza pioggia nè partite. Ti sembra equa, come prova?”. “Diamine, Armando, hai proprio ragione: e poi, se consideriamo tutte le prove, la media finale di 44 minuti era solo una media. Fenaroli, all’atto pratico, poteva aver impiegato di più o di meno. E se avesse impiegato invece uno degli altri tempi? Che so, 47 minuti? O 51? Niente delitto! Insomma, scegliendo di lavorare sul risultato medio si risolveva tutto; ma se invece si

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guardavano i tempi uno per uno, c’erano dei dubbi grossi così sulla reale possibilità di farcela…”. L’unico vero punto fermo della prova cronometrata, alla fine, sapete quale fu? Accrescere il partito degli innocentisti da una parte; e dall’altra stimolare la curiosità dei milanesi, che si misero a rifare il percorso a tutte le ore e a tutte le velocità per battere il tempo della Polizia. Risultato: il record assoluto degli incidenti sulla strada per Malpensa per l’anno 1959. Ma Armando ha avuto un’idea: rifaremo anche noi quel percorso, cronometro alla mano, strada per strada, semaforo per semaforo... Ed eccoci a Milano, per proseguire le indagini sul caso Fenaroli. È una notte invernale, di un dicembre che minaccia neve. Speriamo che non cada proprio adesso: sennò, addio test. Un caffè a Porta Ticinese è il modo giusto per cominciare il nostro esperimento. Ne avremo bisogno. Risaliamo in auto, il freddo è davvero intenso e il fiato resta fermo nell’aria di Milano. L’abitacolo è pieno di cartine. Ho in mano un cronometro. Passiamo davanti al numero 12 di via Col di Lana, lentamente, sull’Alfa Romeo 147 di Armando: per questa trasferta abbiamo dovuto rinunciare alla Vespa. È un sabato notte: lo abbiamo scelto apposta per trovare meno traffico, per ricreare in parte le condizioni di allora. Ho in mano la perizia fatta dal Tenente Colonnello di P.S. Arista e dal Maggiore di P.S. Vinale, quando usarono un’auto simile a quella di Fenaroli, un’ Alfa Romeo del tipo “Giulietta Turismo Internazionale”. Rivediamo il bollettino meteo del 10 settembre 1958: su Milano cielo coperto, accompagnato da breve formazione temporalesca e poche gocce, che in realtà però alle ore 19 si erano manifestate in un forte temporale. Magari nel 1958 era ininfluente, al giorno d’oggi, invece, poche gocce bastano per congestionare una città… Stiamo per partire: ma l’abitacolo è pieno di carte e dobbiamo mettere ordine. Mi limito a tenere davanti la cartina di oggi ed una del 1958. Siamo di nuovo a Porta Ticinese dove, secondo la ricostruzione effettuata dalla magistratura, Fenaroli fece salire Ghiani appena uscito dalla Vembi. Ci guardiamo un attimo e partiamo. L’orologio segna le tre di notte.

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Cerchiamo di immaginare come dovevano essere i due vecchi caselli accanto la Porta: sicuramente senza le stupide scritte fatte con lo spray rosso, che adesso li ricoprono ad altezza d’uomo. Quel palazzo là non c’era; quegli altri due invece sì, di sicuro. Dove avrà aspettato Ghiani? Davanti all’edificio basso del Mercato Comunale? E con una certa meraviglia vediamo che non ci sono molti semafori: arriviamo infatti fino a via Papiniano per trovare il primo. All’epoca ce n’erano molti. Sui viali, però, si poteva correre forte. Che avrà pensato Ghiani? Mentre l’Alfetta andava a 100 all’ora, dopo aver corso di fianco al Naviglio, non poteva non essersi accorto che all’incrocio con via Modestino stava passando vicinissimo al Bar del Catanoso. Per un attimo, avrà preferito essere lì a farsi un biliardo? Avrà avuto l’impulso di dire: “Lasci perdere, ingegnere, non fa per me. Si fermi, scendo qui”? E quando l’auto, un chilometro dopo, ha sfilato velocemente di fianco al muro di cinta di San Vittore, come ha potuto non pensare ai rischi dell’impresa, al fallimento del tentativo svolto solo tre giorni prima, alla prospettiva terribile di superare quel muro, quel cancello, di rivedere sua madre da dietro un vetro? Come ha fatto a rimanere calmo, mentre Fenaroli lo portava ad un appuntamento con la morte? Ma siamo nel 2013: quel garage a silos non c’era, la concessionaria Suzuki nemmeno, così come non c’erano quel ristorante greco e quel negozio di giochi per la Playstation. L’andatura è forte, ma nelle regole del codice della strada. Ad un certo punto Armando mi fa: “Ma lo sai che allora non c’erano i limiti di velocità”? Verranno istituiti col nuovo Codice della Strada, che prenderà vita l’anno successivo, in cui verrà sancito il limite dei 50 chilometri orari nei centri abitati. Pensa!”. Proseguiamo, ecco viale Alcide De Gasperi: guarda quel viadotto, sicuramente non esisteva all’epoca! Sulle carte di allora non è segnato... Ecco che la strada si biforca, Armando supera un camion, il cartello per Malpensa ci fa prendere la corsia di sinistra. Proseguiamo. Usciamo da Milano, prendiamo la A8, che diventa a quattro corsie: no, pure questa non esisteva… Con questa strada si arriva all’aeroporto dopo 50 chilometri ed 800 metri dalla partenza: invece dei 62 chilometri ed ottocen-

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to metri che dovevano essere compiuti seguendo il percorso di allora. Eccoci a Malpensa: ma anche l’arrivo è diverso da allora. Siamo andati veloci, ma senza esagerare: l’Alfa Romeo frena sul piazzale, nel silenzio della notte. Scendiamo dall’auto. “Sai cosa penso, Fabio? Che tutto questo è assurdo. Stiamo parlando della ricostruzione effettuata dalla Polizia, con quattro prove cronometriche. Utilizzano i segnali d’allarme, non compiono gli ultimi 200 metri dalla rotonda esterna al banco dell’Alitalia, non pensano al fatto che l’aereo chiude, secondo le dichiarazioni dello stesso pilota, il portellone alle 19.36. Sai cosa penso? Che tutto questo è veramente assurdo. Ma ce lo vedi Fenaroli, per quanto stiamo pian piano conoscendo le sue stranezze e la sua imprevedibilità, ad organizzare l’omicidio della moglie effettuando un primo tentativo senza aver preventivamente comprato il biglietto del treno all’omicida (anzi, dovrà garantire per lui col capotreno, per farcelo salire…); e poi ad organizzare per il giorno dell’omicidio il viaggio del suo sicario, sperando che poca gente vada a vedere la partita, che non vi sia troppo traffico alle 19, che non ci siano lavori in corso e, nonostante avesse comunque dalla sua parte la fortuna di non trovare imprevisti di sorta, senza comunque la sicurezza che Ghiani potesse riuscire a prendere quell’aereo?”. L’aria della notte è fredda, più di quando siamo saliti in auto; e noi rimaniamo immobili di fronte alle Partenze di Malpensa. Tutto è silenzio, intorno. Dopo le parole di Armando ci rendiamo conto entrambi di quanto sia stato stritolante il meccanismo che ha condotto all’arresto di Raoul Ghiani. Una incredibile concatenazione di coincidenze e false accuse, vuoti di memoria e ricordi costruiti. Potrebbe capitare a chiunque. Anche oggi. A chiunque di noi. Poche settimane dopo, ad inizio di luglio 1959, l’istanza di fallimento della “Lux Maison” venne accolta. Con Carlo Inzolia ancora dentro, le donne della famiglia non erano più riuscite a mandare avanti il negozio. Ci avevano provato, ma l’attività era ferma da mesi e dentro c’era polvere sul bancone. Intanto, in via Monaci, al portone del 21 c’era un cartello “Vendesi”. Era l’appartamento del delitto.

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Ma la vera e definitiva pietra tombale sul caso di via Monaci arrivò addirittura l’11 maggio del 1960. Era passato un anno e mezzo dalla notte del delitto. “Continuo a sentir dire che fu un processo indiziario, quello – affermerà più volte, negli anni successivi, Macera – ma non è affatto vero. Quei due lasciarono una montagna di prove. Non è stato nemmeno un caso difficile da risolvere”. E sicuramente, dicendolo, Macera pensava anche a quello che vi stiamo per raccontare… Quel giorno di maggio, nella stanza dove lavorava Ghiani (e non solo lui) alla Vembi, in via Col di Lana, c’era un operaio. Si chiamava Aldo Dusi. Era da solo, in quel momento fatale del caso Fenaroli. Dusi era un collega di Raoul. Aveva 33 anni e dopo l’arresto di Ghiani aveva svolto lui, con Giorgio Fiorani, lo sviluppo delle pellicole da microfilm. Quello che stava per accadere aveva dell’incredibile e ve lo raccontiamo con le stesse parole con cui fu consegnato alla storia, nella deposizione che rese il giorno dopo. “Nella camera di sviluppo della Vembi vi sono numerose scatole che contengono dosi di fissaggio e di sviluppo per pellicole. Tra queste vi è una scatola di latta contenente alcune bustine di polvere, che vengono usate per la composizione degli acidi utilizzati per lo sviluppo dei microfilm. Trattasi di polveri marca ‘Ilford’ che, a quanto mi consta, erano inusate da vari anni ed inutilizzabili al momento attuale, dato che il materiale usato comunemente è di altra marca. Avendo letto, ieri pomeriggio, in un libro di istruzioni riguardanti la mia attività, che vi era la possibilità di accrescere la durata degli acidi stessi con degli additivi, mi sono recato per curiosità ad aprire la scatola descritta, per esaminare se oltre alle polveri degli acidi contenesse qualche additivo. Trovai detta scatola chiusa con un nastro di plastica, così come sono comunemente chiuse tutte le scatole contenenti polveri analoghe. Apertala, vi ho trovato una sola bustina contenente della polvere. Sotto detta busta vi era un sacchetto stracciato e svuotato del contenuto. Sotto tale sacchetto vi era uno straccio: sollevando detto straccio, esso si è aperto e ne sono usciti degli oggetti preziosi. (…) Riposi tutto nella scatola che ricollocai nello stesso luogo dove l’avevo prelevata. Ebbi l’immediato sospetto che si trattasse dei gioielli sottratti a Maria Martirano. Mi recai subito a casa donde telefonai al direttore rag. Lucano, nella clinica dove questi è degente”.

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Il banco da lavoro alla Vembi, la freccia indica il barattolo dove vennero rinvenuti i gioielli

Dusi corse a Roma il giorno dopo il ritrovamento: era il 12 maggio del 1960. E raccontò tutto al Giudice Istruttore Modigliani. A Raoul crollò il mondo addosso: “Due giorni prima era venuto mio fratello a colloquio e mi aveva detto: Raoul, tra un paio di giorni al massimo esci. Non prendere impegni con nessuno a Milano, perché devi stare con noi”. E invece, successe quel che successe. Saltò fuori quella scatola. E cambiò tutto. Ancora una volta. Solo che tutta la faccenda era strana, molto molto strana. Lo era nel 1960, lo è oggi. Perchè quella stanza, alla Vembi, era già stata perquisita due volte: senza trovare nulla. E non era un posto segreto o ingombro di scatoloni, affastellato di carte, bidoni, attrezzi, macchinari. Era un ambiente a disposizione di più operai, nel quale la famosa scatola fu trovata bene in vista, sotto il piano di lavoro usato da Raoul. Si vedeva subito. E, dei colleghi di Raoul, solo Fiorani disse che la scatola c’era sempre stata. Gli altri: mai vista prima. E poi, colpiva tutta la procedura: Dusi aveva parlato della sca-

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tola al direttore della Vembi, Lucano. Questi aveva chiamato la Questura di Roma; poi Dusi s’era imbarcato in un viaggio per Roma e solo dopo i giudici Felicetti e Modigliani erano partiti per Milano! E, nel frattempo, la scatola era rimasta al suo posto, alla Vembi… Infine, era stranissimo che, tra tutti i posti dove Raoul avrebbe potuto nascondere i gioielli, avesse scelto il più banale: il posto di lavoro. Ma è mai possibile? E va bene, ammettiamo pure che le cose siano andate davvero così. Si sa, a volte la gente usa le logiche più strane e i criminali non fanno eccezione. Ma Armando ha studiato bene quella scatola e le perizie su quella scatola. Sa che c’è qualcosa di assurdo, nel ritrovamento. “Veramente, Fabio, il mistero della Vembi inizia qualche tempo prima: Dusi testimonia, infatti, che nel 1959, non ricorda il giorno preciso, ricevette una strana visita di Luciano, il fratello di Raoul, insieme all’avvocato Sarno. Gli chiedono di poter vedere il banco di lavoro di Ghiani. Motivano la loro richiesta così: ‘…parlavano con Fiorani della perizia sui microfilms e sui rapporti meccanici che avevano formato le indagini giudiziarie. Ad un certo punto Luciano Ghiani mi disse che aveva appreso dal fratello Raoul che, nel cassetto del tavolo esistente nel laboratorio di sviluppo, o sotto il piano del tavolo stesso, doveva trovarsi un pezzo di negativo dal contenuto pornografico. Chiese se il Fiorani o io lo avessimo rinvenuto ed alla nostra risposta negativa entrò nel laboratorio stesso seguito da me e dal Fiorani, si portò vicino a detto tavolo e si chinò per osservare se sotto il tavolo vi fosse una pellicola. Quindi si rialzò e disse che cercava il nastro di negativo, perché temeva che l’eventuale rinvenimento di esso potesse danneggiare suo fratello. Il Ghiani uscì dal laboratorio e poco dopo i due andarono via’. Ma ti rendi conto? Il fratello di Ghiani controlla di persona se c’è un negativo! Quindi, non solo ci furono due perquisizioni, ma anche un altro controllo, che ovviamente è stato più minuzioso, visto che Luciano ricercava qualcosa di piccolo, come un negativo fotografico; e che è stato fatto dal fratello di Raoul, che aveva tutto l’interesse a farlo benissimo. Comunque, passano pochi giorni e la Polizia Scientifica di Roma, allora facente parte dell’Istituto Superiore di Polizia, si porta nei locali della ditta Vembi. Con loro, oltre a personale

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della Squadra Mobile di Roma, vi sono i magistrati Modigliani e Felicetti; ed ovviamente Aldo Dusi. Vediamo dove viene rinvenuto il barattolo: ‘Il camerino per sviluppo microfilms, piccolo, rettangolare, è delle dimensioni esterne di m. 2,95 x 6 circa. Esso presenta due ingressi…”, oltre un armadio metallico, protetto da due imposte, con sette ripiani dove si rinvengono numerose scatole di tutti i tipi ed altra attrezzatura, vi è anche il bancone di lavoro: ‘...in legno ed ha nella parte centrale un cassetto privo di sistema di chiusura (dove si rinvengono opuscoli, pezzi di filo elettrico, accessori elettrici vari ecc. Nda). Sottostante il piano del banco si nota altro ripiano, di dimensioni più piccole. Entrambi i ripiani sono rivestiti di lamiera’. Ora, sul ripiano superiore troviamo pochi oggetti ed un telefono, ma cosa è presente nel ripiano sottostante? ‘Due fornelli elettrici completi di filo, quattro barattoli cilindrici in lamiera completi di coperchio, marca Kodak, due barattoli di lamiera privi di coperchio, vuoti e rovesciati, una scatola di lamiera a forma di parallelepipedo (quella dei gioielli Nda), munita di coperchio, altri due barattoli cilindrici con coperchio (…)’. Vediamo come il Commissario della Polizia Scientifica, Rocco Paceri, ci descrive la scena: ‘A questo punto, a richiesta e alla presenza dei predetti Magistrati, si è proceduto alla rimozione della scatola di forma parallelepipeda (…). Tale scatola misura esternamente cm. 16,3 di altezza e cm. 10 di lato circa e pesa kg. 1,245 (…). Si è proceduto quindi all’esame esterno della scatola, riscontrando, sulla faccia destra e su un angolo del coperchio, due frammenti di impronte papillari per sovrapposizione di sostanza chiara, che abbiamo fotografato a grandezza naturale. Indi abbiamo cosparso con polvere di alluminio le superfici esterne della scatola, allo scopo di mettere in evidenza eventuali impronte di linee papillari latenti, ma tale operazione ha dato esito negativo’. E prosegue: dopo averla svuotata dei gioielli, ‘si è proceduto a cospargere con polvere di alluminio tutte le superfici levigate degli oggetti sopradescritti (…), mettendo così in evidenza un frammento di impronta che abbiamo asportato con adesivo nero dalla faccia interna del coperchio del portasigarette. Per esaltare eventuali impronte papillari latenti, si è proceduto a sottoporre all’azione dei vapori di iodio i fogli di carta ovattata e vergatina, ma tale operazione ha dato esito negativo’.

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Dire che sono perplesso è dire poco. “Armando, ma come è possibile, quella scatola è stata toccata da Ghiani secondo l’accusa, oltre che ovviamente da Dusi: gli incartamenti in cui erano custoditi i gioielli non avevano un’impronta e va bene, ma la scatola? Ma che diavolo è successo? Chi ha messo i gioielli dentro ha usato dei guanti?”. “Non necessariamente, anzi è altamente probabile che non siano stati utilizzati guanti: sulla scatola c’erano due frammenti d’impronta, ricordi? Ma leggiamo bene: non sono stati lasciati dalla normale sudorazione, ma per sovrapposizione quindi, in parole povere, qualcuno ha toccato la scatola con le mani sporche, magari di grasso. Non sono frammenti utili, probabilmente saranno stati lasciati da Dusi. Leggiamo anche che per gli incartamenti sono stati utilizzati i vapori di iodio: ottima tecnica quando, come nel caso in questione, le superfici sono porose. Ma può essere utilizzata solamente quando le impronte sono fresche, altrimenti, una volta ‘ossidate’, diciamo dopo qualche giorno, non è più utile. Oggi avremmo utilizzato la Ninidrina, un composto chimico specifico, che sicuramente sarebbe stato più efficace”. “Sì, va bene: ma sulla scatola non solo non c’erano le impronte di Dusi, ma nemmeno quelle di Ghiani! Diamine, Dusi prende il barattolo, lo maneggia, tocca il coperchio, lo tiene fermo mentre estrae polveri e sacchetti, lo richiude, lo rimette a posto... e non lascia un’impronta?” “Nessun mistero nel mistero, le impronte vennero trovate, addirittura tre. Due all’esterno, che vennero fotografate; ed una all’interno che venne asportata con un apposito adesivo. È che non erano utili. Cioè erano così piccoli, questi frammenti, che non avevano sufficienti punti per poterli comparare con quelle di Dusi stesso o di Ghiani… o di chissà chi altro. Ricordiamoci pure che la famosa scatola si trovava in un ambiente lavorativo industriale, sporco e decisamente grasso. Questo è importantissimo, ma nessuno ci aveva pensato. In queste circostanze il grasso dell’essudato umano, che costituisce l’impronta (e che comunque è soggetto ovviamente ad una sua evaporizzazione nel tempo) viene inglobato nel grasso e nelle altre sostanze di lavorazione che permeano l’ambiente. Hai capito, adesso?” “Ah, adesso ho capito!”

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Il barattolo in cui vennero rinvenuti i gioielli

“Aspetta, c’è un’altra cosa che non mi torna. Prendi i gioielli, adesso. Anzi, l’orologio della Martirano. Per Fenaroli quell’orologio non era quello rubato la notte del delitto. Non riconosce l’orologio, con bracciale lucido e sabbiato, della Longines, comprato a Nizza molti anni prima. Quello rinvenuto alla Vembi, infatti, non riporta incisa la data del 12-9-1943, ricorrenza del ‘S.S. nome di Maria’, che Fenaroli dichiara di aver fatto incidere sotto la cassa a ricordo della data del suo rientro in Italia dopo l’armistizio, coincidente con l’onomastico della moglie”. “D’accordo, che manchi la data incisa sul fondo è certo, ma c’era in precedenza? C’è mai stata?” “Beh, le dichiarazioni sembrerebbero tutte concordare su questo. Per esempio, c’è quella del fratello Giuseppe: ‘…Quindici/venti giorni dopo, mio fratello portò gli oggetti di cui aveva parlato. Mi diede l’anello con le mie sigle ed ebbi modo, in quella occasione, di vedere gli altri oggetti d’oro, tra i quali un orologio che successivamente ebbi occasione di vedere sempre al polso di mia cognata. Ricordo che, quando mi mostrò gli oggetti, io notai sul retro dell’orologio incisa una data. Mi pare che egli

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abbia detto che coincideva col suo rientro in Italia, che a sua volta coincideva con S. Maria’...’’ “Certo, Giovanni cercava di dimostrare che Ghiani non era l’autore dell’omicidio e, se non lo era, di conseguenza lui nemmeno ne era il mandante. Nel secondo caso, qualcuno, prima di nascondere i preziosi nel barattolo alla Vembi, avrebbe sostituito il fondo dell’orologio o, ipotesi più fantasiosa, qualcuno era riuscito a trovare un orologio simile e lo aveva sostituito all’originale, lasciandolo poi insieme agli altri gioielli…”. Armando si interrompe e scuote la testa. “Ma ti sembra logico? Ma ti sembra possibile? Quella scritta c’era! Oltre Giovanni, non la vede solo il fratello Giuseppe, ma anche un impiegato di Fenaroli dell’epoca, Pasquale Malcotti”. Quello che stiamo pensando tutti e due è che quei gioielli siano stati messi nella scatola, dal vero killer, dopo l’arresto di Ghiani e soprattutto dopo le due perquisizioni della magistratura e le ricerche di Luciano. In attesa che qualcuno li trovasse per caso, cosa che, prima o poi, sarebbe avvenuta. E che avvenne. La differenza tra il Longines rubato e quello ritrovato è palese: uno è un orologio simile, l’altro è quell’orologio. La porta d’ingresso dello stabilimento d’altronde aveva una chiave normalissima ed una serranda, ma c’era anche un secondo ingresso senza serranda; e il custode della Vembi, Giacomo Boccarusso, in un’intervista, confermò che naturalmente qualche volta si assentava per andare al cinema o al caffè… Normalmente, per entrare alla Vembi in ore d’ufficio, bisognava passare proprio da lui, dal suo gabbiotto: ma uno dei fornitori della ditta, Mario Russo Vebber, dichiarò che diverse volte, nel corso degli anni, gli era successo di arrivare al portone e che il custode non ci fosse. Cercando il direttore, si era mosso indisturbato per i locali della ditta, laboratorio di sviluppo incluso, senza che nessuno lo fermasse... Insomma, con un po’ di fortuna non era impossibile mettere i gioielli nella ditta. D’altronde, persino Boccarusso dichiarerà di non aver mai visto quella scatola, là sotto… E come noi, che ci fosse una manovra sporca, lo pensò qualcun altro: Vincenzo Barbaro. Ma procediamo dall’inizio e vediamo chi è il nuovo protagonista della nostra storia. Barbaro era chiamato il “re delle evasioni”, visto che per ben cinque volte era riuscito ad evadere dalle patrie galere. Entra nel

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caso Fenaroli quando si trova detenuto a Regina Coeli, dove arriva proprio il giorno di Natale del 1958, durante la visita del nuovo Papa, Giovanni XXIII, che era stato eletto il 28 ottobre di quello stesso anno. Barbaro racconta: “Dopo essere stato rinchiuso in una delle celle su descritte, si appressò allo sportellino della massiccia porta lo ‘scopino’, che altri non era che un vecchio pregiudicato sui cinquanta anni, a nome Pera Garibaldi e che già conoscevo”. In quei giorni, per preparare la visita del Santo Padre, parte dei detenuti che stavano nelle celle dei bracci che davano sulla “1° rotonda” – dove il pontefice avrebbe celebrato la messa – vennero trasferiti al braccio 7, che non sarebbe stato visitato, per non far vedere l’affollamento che c’era. Lo stesso Barbaro era stato appoggiato, appena arrivato, nelle celle di punizione ma, continua, “ad un certo punto, il Pera, fattosi circospetto e con fare misterioso, mi disse che deteneva un pacchetto di biglietti scritti da Fenaroli con l’incarico dello stesso di farli recapitare a Raoul Ghiani. Il Garibaldi ardeva dal desiderio di conoscere il contenuto di detti biglietti e, poiché era completamente analfabeta, mi pregò se volevo usargli la cortesia di leggerglieli”. Inizia così una storia complicata fatta di biglietti e memoriali. Barbaro, – evasore, truffatore, falsario – cercherà di trarre in tutti i modi profitto dai bigliettini che arrivarono nella sua cella. L’idea iniziale fu di ricattare Fenaroli, anche dandogli la notizia dell’arresto di Inzolia, avvenuto pochi giorni prima, e offrendosi di fornire un alibi a Ghiani; poi disse a Pera che, invece, avrebbe venduto i bigliettini ai giornali, facendogli guadagnare molto denaro. Ma, alla fine, consegnò alla magistratura quelli ed altri biglietti che gli aveva recapitato Fenaroli. Leggiamo allora il biglietto indirizzato da Fenaroli ad Inzolia: «Ricordare. L’ultima volta che ho visto R. è stato quella sera che siamo andati a pranzo tutti assieme (fine luglio-primi agosto). È venuto in ufficio una sola volta con te nel mese di luglio e senza alcuna ragione speciale se non quella di accompagnarti. Quella sera che partisti per Cortina ho dimenticato in macchina una busta arancione con dei documenti che tu hai consegnato… qualche tempo dopo. La sera di lunedì mi hai accompagnato alla Malpensa con la Giulietta; eri solo tu. La sera di mercoledì arrivai in negozio verso le ore 20 e poi andammo da Berti. CORAGGIO!»

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Fenaroli non negava di aver scritto questo ed alcuni altri biglietti, ma si giustificherà con il fatto di voler “chiarire” meglio la memoria dei suoi amici che, pressati dalla Polizia, sarebbero sicuramente caduti in contraddizione. Ecco allora che i giudici gli presentarono un altro biglietto. Questo, invece, aveva un tenore diverso, era indirizzato a Ghiani e lo poteva inchiodare: «Del viaggio Bologna-Milano non ne so assolutamente niente! È sicuramente qualche saltafosso! Io ho già dichiarato che da tempo non ti vedevo. Ciò anche perché sapevo che eri stato in ferie. Ho negato che tu sia venuto in ufficio da me la mattina di quel mercoledì. Cerca di resistere; comunque ricordati che io non c’entro perché se vengo incriminato non incasserò quanto sai. A proposito! Tu di assicurazioni non ne sai niente; io non avevo nemmeno ragione di parlartene!». Ma – nega Fenaroli – quello, no! Non l’ha scritto lui! Questi biglietti saranno una prova a carico del geometra, avvalorata da una perizia del funzionario della Polizia Scientifica Calogero Marocco che però, ad onor del vero, sarà smentito proprio dal grande Girolamo Moretti, perito di parte della difesa di Fenaroli. Insomma, non ci fu mai certezza che i biglietti più “accusatori” di Fenaroli siano stati proprio scritti da lui. Anche se, va detto, di accusatorio quei biglietti avevano ben poco. Nell’ipotesi che Ghiani fosse innocente, infatti, potevano essere letti molto tranquillamente come dei tentativi di rinfrescargli la memoria, proprio temendo un cedimento dell’elettrotecnico, che confessasse cioè anche quello che non era vero, pur di tirarsi fuori dai guai. Ma i colpi di scena prodotti da Vincenzo Barbaro non finiscono qui. Alla fine del 1959 fece una clamorosa rivelazione: conosco l’omicida! Scrisse di nuovo ai magistrati inquirenti, dicendo loro che il vero colpevole era un detenuto, tale Claudio B., che era stato suo compagno di cella, che gli aveva rivelato di aver compiuto l’omicidio. Nella denuncia raccontava – attenzione! – di aver convinto “Claudio B.” a nascondere i gioielli alla Vembi. Nel marzo 1960, prima del ritrovamento dei gioielli da parte di Dusi, Barbaro disse dunque agli inquirenti che i gioielli erano alla Vembi! Coincidenza? “Armando, i giudici non crederanno a questa seconda parte delle confessioni di Barbaro e, nonostante le richieste della dife-

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sa, non acquisiranno il ‘dossier Barbaro’, come venne chiamato dalla stampa”. “No, non ci crederanno, come non crederanno ad una serie di lettere che Barbaro stesso scrive a ‘Claudio B.’, ma che farà ritrovare prima di spedirle. Non gli credono, lo considerano un mitomane, un truffatore e sicuramente possiamo capirli. D’altronde, leggi questa lettera che scrive a Calogero Marrocco, Capo della Scuola Superiore di Polizia Scientifica: ‘Caro fratello, mi permetto scherzosamente chiamarlo caro fratello perché vivo è in me il ricordo di quando, entrambi, ci autonominammo – marchesi –Giorgio e Vladimiro Guglielmi delle Rocchette (fratelli) e partimmo alla ricerca di quel… principe napoletano. Bei tempi! Dico bei tempi, perché eravamo giovani tutti e due – io buontempone. Mentre adesso, ineluttabilmente ci avviciniamo al declino della vita. Io penso che malgrado tutte le fesserie che ho commesso nella mia vita lei non potrà giudicarmi addirittura uno stupido. Quindi è necessario che venga al più presto a trovarmi per porre riparo ad un fatto che ritengo molto importante. Mi riferisco alle perizie redatte sui famosi biglietti di Fenaroli. Lei ha commesso un errore madornale che va riparato, se vuole evitare un clamoroso colpo di scena al processo Fenaroli, e che riparrinu e soprattutto altre persone n fannu passari pi sceccu (fanno passare per asino n.d.a.) per non aggiungere di più. Venga a trovarmi e quando avrà parlato con me riconoscerà la fondatezza di quanto le dirò. Cari saluti’”. Ma, Barbaro o non Barbaro, Ghiani era incastrato, Fenaroli anche. E noi è già da un po’ che ci siamo resi conto di conoscerlo davvero poco, il geometra. Può sembrare strana la spiaggia di Gaeta per incontrare Marisa Aloia, ma il nostro appuntamento, invece, è proprio qui. Qualche mese fa le abbiamo fornito i saggi delle grafie di Giovanni Fenaroli e di Maria Martirano e vogliamo sapere cosa ne ha tirato fuori. Come sempre, Marisa non conosce il caso, quindi per lei è come indovinare cosa c’è dentro una busta chiusa. Anche se non si tratta di magia, ma di usare gli strumenti della grafologia. Camminiamo sulla spiaggia, è una mattina fredda ma non troppo e, mentre lasciamo le nostre impronte sulla sabbia, il cane di Marisa corre, inseguendo un punto lontano. “Allora,cos’hai trovato?”

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“Sentite, non ditemi che questi due stavano insieme, vero? Lo spero proprio”. “Per ora non ti diciamo nulla. Dicci tu, piuttosto”. “D’accordo, però sono curiosa. Allora, guarda questa lettera, scritta ad una che si chiama Maria e che immagino fosse la moglie”. “A-ha…cosa ti dice?” “Mi dice che lui si bastava da solo, di sicuro non era uno che prendeva ordini. Anzi, voleva essere indipendente e per farlo cercava soluzioni ingegnose. Era un testardo, uno che non lasciava nulla agli altri, nulla di quello che poteva essere suo. Sapete, quest’uomo deve aver avuto un pensiero che gli ha condizionato la vita, un tarlo, non so quale ma l’ha avuto. Ecco, aveva una buona capacità di interpretare la realtà, ma tutto dipendeva da quel tarlo. Se leggeva la realtà attraverso di lui, attraverso la sua fissazione, finiva con lo stravolgerla. Ecco, vedete come faceva la ‘V’? Sembra una radice quadrata. E’ uno dei segni da cui si vede questo aspetto”. “Sì…è davvero molto particolare” fa Armando. “Di più: aveva una grossa difficoltà a comunicare il suo pensiero, nel dialogo. Invece nell’emotivo oscillava tra rigidità e – se mi passate il termine – ‘svaccamento’. Poteva andare in depressione, era il tipo cui poteva succedere. E infatti, questa oscillazione interna causa dei segni grafici completamente diversi! Adesso invece guardate quest’altra lettera, in cui scrive ad un Presidente che non so chi sia (Marisa sta osservando una lettera di Fenaroli al Presidente del Tribunale di Roma, scritta dopo il suo arresto, Nda). Qui cambia tutto, la grafia esprime una richiesta d’aiuto, ma soprattutto quello che si vede è che il rapporto col femminile è troncato. Anzi, è come se non ce ne dovesse essere più uno. È come se gli si fossero induriti i sentimenti, come se gli fosse indurito il cuore”. Incredibile. Io e Armando ci scambiamo uno sguardo, senza dire nulla. “Però dura poco, perché già in questi bigliettini qui (cioè proprio quelli di Barbaro, Nda) la richiesta d’aiuto non c’è più. Tornando a noi, una cosa che colpisce molto di Fenaroli è la firma”. “È vero, l’avevamo notato anche noi”. “È particolare, con la ‘G’ che ingloba tutto. È il segno del suo tarlo, del suo pensiero fisso. Vediamo Maria, adesso?” “D’accordo, dicci di lei”.

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“Era completamente diversa da Giovanni, all’apparenza. E invece avevano molte caratteristiche in comune. Ad esempio, era una di umore altalenante, anche se mai quanto lui. Ed era stressante alla grande. Però dipendeva da lui, anche dal punto di vista materiale, perché l’aspetto materiale era abbastanza importante per lei. Anzi, più che fidarsi di lui, direi che ne era proprio dipendente. Ed era una logorroica: anche quando l’altro non stava più a sentire, lei continuava a parlare, comunque. Avete presente il tipo? Però… poteva litigarci con Giovanni, anche di brutto, ma sempre fino ad un certo punto, per non perderlo. Ma insomma, si può sapere che gli è successo a questi due?”. Le raccontiamo tutta la faccenda, dal principio. Marisa smette di camminare e ci ascolta, poi scuote la testa e sorride: “Non ci posso credere!”. “Che vuoi dire?” “È che tutto torna. Prendete la storia della prostituzione: ci sta. Deve essersi venduta per non perdere i privilegi, per recuperare un certo status materiale; e per continuare a fare sì che gli altri dipendessero da lei”. “In fondo, è sempre la prostituta che comanda, non il cliente…” facciamo noi. “Sì, e poi lei voleva sempre apparire più di quello che era. Della serie: lei non sa chi sono io. Ma, a questo punto, capisco anche qual’era il tarlo di Fenaroli”. “E cioè?” “Credersi grande, questa era la sua fissazione. Vedersi come imprenditore di successo. Solo che la sua affermazione era su un piano astratto, non nella realtà. Ecco quello che gli ha condizionato la vita!”. “Pensi che possa essere stato lui?” “Non so. Lui aveva un rapporto di amore-odio con lei. Maria era il suo punto di riferimento, che funzionava a distanza. Solo che mentre con l’amante faceva il grande, la moglie non glielo faceva certo fare. Con lei non era possibile. Così, stava a distanza da lei, ma sapeva che se avesse avuto bisogno non sarebbe certo andato dall’amante a mostrarsi fragile, per non perdere il suo ruolo. Sarebbe andato dalla moglie, che era il suo specchio. E quindi no, non mi torna che sia stato lui. Certo, faceva lo spavaldo, si atteggiava: i discorsi con Savi ci stanno. Ma non credo li avrebbe messi in pratica: faceva il farfallone, ma poi era uno di quelli che

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tornava a casa. Non gli conveniva ucciderla, avrebbe perso il suo centro” conclude Marisa, mentre il cane corre verso di noi. Marisa Aloia non finisce mai di stupirci: sembra così strano che si possa desumere il carattere, le stranezze, anche le patologie di una persona, da poche righe scritte. Ci sembra così strano che c’è rimasto il dubbio, per assurdo, che conoscesse di persona il nostro geometra. Mentre torniamo in auto verso Roma, Armando mi guarda e capisco che parlerà di indagini grafiche… “Iniziamo col dire che un conto era la comparazione grafica, come abbiamo visto con la firma, che serve per determinare se due scritture sono vergate dallo stesso individuo; ed un altro un’ indagine grafologica come quella che abbiamo visto adesso. In genere le scuole di grafologia sono divise in tre grandi indirizzi: la scuola francese, quella italiana e quella tedesca. In particolare, quella italiana è ricollegabile ad una persona veramente eccezionale, Girolamo Moretti, un frate francescano nato alla fine dell’ Ottocento e che, pensa, morirà proprio durante lo svolgimento del processo d’appello del nostro caso. Per quanto fosse abile ad analizzare la scrittura, mediante un suo metodo che ancor’oggi fa scuola, veniva additato come uno stregone fornito di doti paranormali. È affascinante vedere la cronaca dell’epoca… quando, in un congresso internazionale, gli presentarono delle scritture da analizzare lui, dopo un fugace sguardo, le caratterizzò una ad una, con la dialettica dell’epoca: ‘l’autore di questo scritto è un mattoide. È mezzo sciancato e porta il bastone. Ha i capelli neri e la fronte alta. Quest’altro scritto è di una donna. Avrà una quarantina d’anni, alta, castana, naso da civetta. Molto intelligente ma permalosa e facile all’ira’. Nella Casa dei Frati Conventuali di San Francesco alle Scale ad Ancona aiutava la polizia delle città vicine: ‘Attraverso le perizie calligrafiche del religioso francescano è stato possibile identificare e denunciare i responsabili di delitti anche gravi’; così ne parlerà Carmine De Rosa, comandante la Tenenza dei Carabinieri di Fano, proprio a dicembre del 1958”. Abbiamo quindi un frate indagatore: probabilmente Umberto Eco prese spunto anche da lui per il suo Guglielmo da Baskerville. Purtroppo però non riuscì a dare un contributo in uno dei casi più intricati dello scorso secolo: quello di Diabolich”.

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“Mi ricordo bene il caso: è successo nello stesso anno dell’omicidio Martirano ed è veramente curioso…” “Curioso è dir poco. Tutto comincia alle 11 di un lunedì mattina, di fine febbraio, con una telefonata misteriosa a «La Stampa»: ‘È avvenuto un delitto, sulla via di Po. L’assassino sono io e ora scappo’. Il giorno dopo, il 25 febbraio 1958, in uno dei quartieri periferici della Torino industriale, Vanchiglietta, viene rinvenuto, in via Fontanesi 20, nel retro di una bottega da ciabattino, il corpo senza vita di Mario Giliberti, un ventisettenne di Lucera, in provincia di Foggia. Un immigrato – un ‘Napoli’, un ‘terun’, come si diceva allora – che, ovviamente, era stato assunto da poco alla Fiat. Vennero riscontrate numerose ferite da taglio e nessuna ferita da difesa. Ma la cosa che più lasciò di sasso gli investigatori era un foglietto appeso al pomello di una dispensa, con sopra scritto: ‘Riuscirete a trovare l’assino?’ (proprio così, “assino”). Inoltre dei buoni fruttiferi, per un valore di 200.000 lire, se ne stavano strappati a terra. Poi, vennero trovate alcune fotografie, che ritraevano la vittima con un individuo il cui volto era stato ritagliato. Altri tempi: pensa, Fabio, che l’assassino dopo aver ucciso Giliberti si lavò le mani in un catino e se le asciugò in un asciugamano. Era un mondo criminale in cui non esisteva l’analisi del DNA… Come per il caso Martirano, il calcolo del tempo di morte fu un altro dramma. Il medico legale all’inizio lo stimò in circa 72 ore, ma Giliberti risultava assente dal suo posto di lavoro dal 15 febbraio e gli amici lo avevano visto per l’ultima volta la sera del 14, al bar. Dunque era morto la notte di San Valentino. Fu diversa la stima della morte effettuata a seguito dell’autopsia: il medico confermò la data del 15 febbraio, invece… Ma il giorno 26 – lo stesso del ritrovamento del cadavere – successe qualcosa di ancora i più curioso: al giornale «La Stampa» e alla Questura giunse una lettera anonima, scritta con la carta carbone: «Sono venuto da lontano per via Per compiere il mio delitto, da non confondersi con uno qualsiasi. Ho studiato la cosa perfetta in modo da non lasciare traccia neanche di un ago. Con il delitto è cessato insieme l’odio per lui. Questa sera parto ore 20. Un tempo io e la vittima eravamo molto amici e portavamo la

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divisa insieme. Poi lui mi tradì come fosse un cane. Oggi stava bene e così che la mia vendetta lo ha raggiunto. Spero che scoprirete il suo cadavere prima che diventi marcio. Leggendo con attenzione la lettera troverete con precisione dove è stato compiuto IL MIO DELITTO PERFETTO. Diabolich» In calce alla lettera era poi scritto: «Un foglio identico a questo è stato spedito alla questura. Dato che parto mi piace informare. Il giornale legga la lettera e scoprirà il luogo con precisione. CACCIA AL CADAVERE»”. La strada è ancora lunga e sento che Armando è tutto preso dal piacere di raccontarmi questa storia. “Subito si risolse il rebus: se prendiamo le ultime sillabe delle prime 6 righe si avrà via Fontanesi 20. L’assassino, insomma, voleva proprio essere sicuro che il suo delitto fosse scoperto… Gli investigatori pensarono all’inizio a un movente passionale e focalizzarono l’attenzione su una ex fidanzata, pensando a una delusione d’amore, ma pochi giorni dopo ci fu una svolta nelle indagini. Innanzitutto, le prime informazioni dicevano che la vittima fosse omosessuale – un ‘cupiu’, come si dice a Torino – e quindi si pensò che il delitto avesse a che fare con questo. Nel suo portafoglio si trovò la fotografia di un ragazzo, con dedica a Giliberti. Chi era questo misterioso ragazzo? La Polizia, pochi giorni dopo, partì alla volta di Bergamo e gli dette un nome. Era un ex commilitone della vittima, Aldo Cugini. Gli investigatori non ebbero dubbi: d’altronde, anche nella lettera c’era scritto che la vittima e il suo carnefice avevano fatto il militare insieme. Cugini venne arrestato, anche se non era possibile provare che questo ragazzo minuto e timido fosse andato, nella serata di San Valentino, a Torino. Né che fosse gay. Si parlò molto di una foto che ritraeva Giliberti, Cugini e un altro commilitone. Trovarono anche un altro militare che si ricordò vagamente delle ‘tre monachelle’, come secondo lui venivano chiamati, ma nulla di più. Il terzo amico non venne mai identificato. La prova calligrafica per cui, come abbiamo detto, venne an-

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che chiamato a gran voce Moretti, non diede i risultati sperati. La scrittura sul biglietto lasciato dall’assassino e quella nella dedica dietro la fotografia erano simili, certo, ma non era possibile dare una certezza assoluta di identità. Intanto gli investigatori scoprirono che, qualche tempo prima, Giliberti era andato a trovare Cugini a Bergamo e qui, disse quest’ultimo, Giliberti lo avrebbe molestato, facendogli offerte sessuali, al punto da costringerlo a scacciarlo. La Polizia si tranquillizzò, era questione ormai di poche ore: Cugini parlerà sicuramente, sì certo, è un colpevole scomodo, famiglia altolocata, forse parenti addirittura di Giovanni XXIII, ma è stato sicuramente lui. E poi, quel barattolo di vaselina trovato sulla scena del crimine, certo poteva servire ad ammorbidire il cuoio (era il locale di un calzolaio, in fondo), ma poteva avvalorare anche la pista passionale... E, pochi giorni dopo, invece della confessione tanto attesa, arrivò un nuovo biglietto: «Il mio delitto non è un gioco da ripetersi». E cosa dissero i periti grafici? Sì, la scrittura è dell’omicida, senza ombra di dubbio. Questo, dissero. Diabolich era ancora libero! A questo punto, come di solito accade, iniziarono ad arrivare una serie di lettere di mitomani ed emulatori… Giunse alla redazione de «La Stampa» una nuova lettera: «se desiderate sapere verità attendo istruzioni a vostro mezzo per leale presa contatto. Se consegnate ad Aldo messaggio allegato forse egli potrà in parte rammentare e scolparsi sufficientemente. Scusate pessima calligrafia saprei scrivere meglio», ma poi concludeva, sopra la firma, con un altro rompicapo: «etturoomlisedispriseegalunsasenemteiolec». Ma era proprio lui? Diabolich, quindi, attendeva istruzioni dai giornali, ma Fabio, guarda cosa gli rispondeva il giornalista su «La Nuova Stampa»: ‘Diabolich attende istruzioni per prendere contatto con noi. Ma è ovvio che non da noi devono venire delle proposte: lui stesso deve dire come intende manifestare la verità’. E fin qui tutto lineare, ma poi: ‘Una prova della sua autenticità potrebbe essere quella di scrivere con la stessa carta, la stessa busta e la stessa calligrafia che usò il Diabolich sicuramente vero’. E la mattina del 16 marzo arrivò finalmente una lettera che lasciò di sasso gli investigatori. Sopra la busta era riportato un indirizzo presente solamente nella prima lettera, quella del 25

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febbraio, quando ancora dovevano scoprire il colpevole, ma, ancora più incredibile, nella busta c’era un pezzettino di carta carbone utilizzato per redigere la prima lettera! La somiglianza di una scrittura, delle foto strappate… non erano grandi elementi di prova e poi quella lettera arrivata il 16 marzo, quando Cugini era ormai in carcere… Passarono molti altri mesi, addirittura si pensò che Cugini avesse scritto quella seconda lettera dal carcere: ma, alla fine, il 14 luglio 1958, venne scarcerato. Dovranno passare altri due anni per giungere ad una assoluzione piena per ‘non aver commesso il fatto’. L’omicida di via Fontanesi non venne mai scoperto, anche se, a differenza di altri assassini, il suo nome rimarrà per sempre vivo nella storia italiana: infatti, le sorelle Giussani chiamarono così il loro eroe oscuro: l’inafferrabile Diabolik”.

La copertina della rivista «Tempo» del 23 dicembre 1958

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Capitolo 7

Un processo che fece epoca

“Fenaroli, Raoul Ghiani e Inzolia conosceranno oggi la loro sorte” («L’Unità», 10 giugno 1961) Tutta l’Italia aspettava quel processo. Fu solo per questo che si videro, alle Assise di Roma, delle scene mai viste prima? No, non fu solo per questo: da Aosta a Pantelleria, era la partecipazione di ogni italiano ad essere spasmodica. “Ricordo che mia nonna non ci vedeva bene – ci dice Ottaviano Del Turco – eravamo in paese e chiedeva a me, che ero piccolo, di leggerle il giornale. Voleva sapere le novità sul caso Fenaroli”. Certo, c’entrava il fatto che c’era un solo canale televisivo ed i giornali la facevano da padrone. Certo, c’entrava il fatto che era la prima volta in Italia che apparivano, tutti insieme, un killer, un mandante e un pentito. Ma non bastava ancora. Perché c’era, soprattutto, quell’aria da cinema che il caso Fenaroli evocava. Quella storia possedeva un intreccio che nessun romanziere avrebbe saputo inventare, dei personaggi tutti caratterizzati; e ognuno originale per qualche motivo. Il delitto di via Monaci era figlio dello scatto di modernizzazione del Paese, aveva ingredienti nuovi. Era meglio di un giallo e lasciava pieni di domande, che bastavano fino al prossimo colpo di scena. Nei bar ci si incontrava e si scommetteva sull’innocenza o sulla colpevolezza di Ghiani, su quella di Fenaroli, ci si incaponiva sul ruolo di Inzolia. Si diceva tutto ed il contrario di tutto, perchè ognuno aveva la sua teoria, il suo colpevole e – ovviamente – la sua soluzione, che indiscutibilmente era la migliore, l’unica che spiegava tutto (o niente). Il processo, poi, ci mise del suo, con quegli avvocati strepitosi che ne furono protagonisti a tutti gli effetti, con la battaglia fra accusa e difesa. Una battaglia a colpi di granate e carri armati. Erano in gioco le vite di tre uomini. Una cosa era chiara. Sul dibattimento gravava l’enorme peso

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di dover mettere la parola “fine” a una storia iniziata nel 1958 e che il mattino del 6 febbraio 1961, alla prima udienza, non era ancora conclusa per nessuno. Erano ancora tutti lì, ad aspettare di sapere come sarebbe andata a finire. Ci sarebbero volute 75 udienze per saperlo. C’era Raoul Ghiani, sul banco degli imputati. Apparve così a quelli di «Oggi»: “Quando il presidente fa il suo nome, scatta in piedi con l’aria impaurita di chi teme di essere rimproverato perché si è distratto. La sua espressione costante è quella di chi inutilmente si sforza di capire qualcosa di ciò che sta succedendo intorno a sé. Cerca di stare attento, come il ripetente costretto contro la sua volontà a frequentare la scuola; ma è chiaro che il suo pensiero è lontano, forse sta riflettendo se l’Inter vincerà il campionato (…) è un ingenuo, dicono i suoi difensori. Crede ciecamente nell’infallibilità della giustizia e, se questo è vero, bisogna ammettere che la patente d’ingenuità se la merita”. È impietoso, questo ritratto. Ma, come dirà lui stesso anni dopo, “io il primo processo non l’ho fatto”; e si riferiva a quanto era riuscito a difendersi, all’energia che non ci aveva messo. Alfonso Gatto, che seguiva il processo per il «Giornale del mattino» di Firenze, osservava la stessa cosa: che se Ghiani aveva commesso il delitto allora non aveva compreso “l’irrisorio margine di sicurezza che esso gli dava, sulla traccia di un contratto assicurativo chiaro come una via d’accusa; o il rischio che poteva venirgli da uomini insicuri e depressi, quali il Sacchi e l’Inzolia, e ambigui come il mandante. (…) A cose fatte, a premio ottenuto, Fenaroli avrebbe potuto non riconoscerglielo, rendersi irreperibile (…) Perciò di solito il compenso per i delitti ordinati viene pagato in anticipo, per intero. È l’esecutore – l’uomo che rischia di più e può persino non tornare dalla sua impresa – a dettar legge”. Poi c’era Fenaroli. Il geometra, che in istruttoria era apparso calmissimo, dominatore di ogni situazione, al processo piangeva a volte nel suo fazzoletto bianco, talvolta apparendo invece sarcastico; comunque più lucido, meno megalomane, più emotivo. Detterà le sue deposizioni con calma, al cancelliere, come le si detta ad un dipendente, ad un segretario, esponendo il suo caso come se non fosse il suo, come un argomento da comprendere, spiegare, risolvere razionalmente. Senza passione. C’era Carlo Inzolia, che non lo faceva vedere ma detestava cordialmente chiunque portasse la toga da giudice.

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C’era Anna Martirano, ormai all’onore delle cronache, come fratelli e sorelle: apertamente sprezzante verso il cognato, diceva che l’avevano sospettato subito. Che sapeva di una polizza, sì, ma di 38 milioni (e mentiva). Che non c’erano dissapori né prestiti tra i Martirano (e anche qui mentiva). Che Fenaroli sapeva il passato della moglie e anzi, era stato proprio quando Giovanni aveva negato davanti a lei di conoscerlo, quel passato, che le erano sorti i primi sospetti. Diceva che marito e moglie litigavano spesso, che lui ammetteva di volersi separare, ma che lei gli rispondeva “Ti piacerebbe?! Sai che posso rovinarti in qualsiasi momento. Ho qualcosa che può disperderti come la polvere” (era un bluff: la Martirano esagerava, lo sappiamo, tanto che la stessa Franca non sa se dicesse, in questo caso, il vero o il falso). Gatto, che era un grande poeta e uno straordinario osservatore di anime, darà un ritratto preciso di Anna: “Una donna baldanzosa, avida ancora di vanità femminile, sicura della sua parte e dalla voce studiata a tutti gli effetti”. C’era, poi, tantissima gente, gente qualunque, che faceva la fila per vedere gli imputati, per poter dire di averli visti, per sfiorare l’omicidio, il male; attratti da qualcosa che non potevano spiegare, che si limitavano a chiamare curiosità e che non avrebbero mai ammesso essere il fascino del delitto, di ciò che non sarebbero mai stati in grado di fare, ma che pure volevano sapere che faccia avesse. Per scoprire che era esattamente la loro. E infine c’era la gente famosa, come Anna Magnani, Aroldo Tieri, Fosco Giachetti, gli attori celebri che venivano a osservare i tipi del processo, ad affinare la loro arte. Il Presidente: il palermitano Nicolò La Bua, classe 1909. Entrò e si sedette nel punto più alto dei banchi della Corte. Alle sue spalle due carabinieri in alta uniforme, coi pennacchi rossi e blu. Il Pubblico Ministero era Giuseppe Mauro, classe 1916, cosentino; il parterre di avvocati, quanto di meglio ci fosse in giro. Per Inzolia: Cesare e Adamo Degli Occhi, Ungaro e Marotta. Per Ghiani: Franz e Vladimiro Sarno, Nicola Madia, Edmondo Zappacosta. Per Fenaroli: Michele Strina, Francesco Carnelutti. Il processo vivrà momenti al calor bianco. Uno di questi fu l’attesissima udienza del 7 marzo 1961, quando si presentò il teste Egidio Sacchi. Fu un delirio annunciato. L’enigmatica figura del ragioniere attirò su di sé la curiosità di migliaia di per-

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sone, che si trasformò in ansia nel giro di qualche ora, quando fu chiaro a tutti che solo poche decine di loro sarebbero riusciti a entrare in aula. Fin dalle cinque del mattino la gente si era portata davanti al Palazzo di Giustizia, meglio noto come il Palazzaccio. Alle sei c’erano cinquanta persone, alle sette erano già diventati cinquecento, alle otto ormai duemila. Si accalcavano l’uno sull’altro, preparandosi a fiondarsi nel corridoio. Vennero preparati degli sbarramenti dai carabinieri, ma quando alle 8.10 gli uscieri aprirono le porte ci furono scene selvagge. Spintoni, urla, imprecazioni, grida! La folla premeva, ondeggiava, sbandava, accavalcandosi. Qualche donna si sentì male. Ogni posto in aula venne occupato, mentre centinaia di persone continuavano a premere per poter entrare. E aumentavano, là fuori, aumentavano ancora! Ad un quarto alle nove almeno tremila persone minacciavano di travolgere le transenne. Si sentì un rumore da un angolo della piazza. Erano arrivati i rinforzi: camionette di Polizia e Carabinieri. Prima che entrasse la Corte una vecchietta si portò in prima fila, gridando: “Ho ottanta anni! Fatemi vedere quei tre almeno una volta, prima di morire!” Durante l’udienza ci furono molte interruzioni. Tre-quattro donne svennero, altre si lanciarono in grida isteriche. Eccolo lì, Sacchi Egidio. La sua deposizione avvenne in un silenzio tesissimo, perché non c’era dubbio che le sue parole sarebbero pesate come una sentenza su Fenaroli e Ghiani. Lo sapeva lui, lo sapevano tutti. Lo sapeva la gente che era rimasta in piazza: perché era come se fosse già arrivato, il momento della sentenza. Sacchi ripercorse tutta la storia, dall’inizio. Parlò di quando Fenaroli pensava, nell’aprile-maggio 1958, al suicidio come mezzo per salvare l’azienda (affermazione che troverà riscontro nelle dichiarazioni dell’avvocato Basili, il legale del geometra: dirà che a maggio quest’ultimo gli aveva consegnato, in un plico, le sue disposizioni testamentarie); poi di quando, superato il periodo cruciale della Fenarolimpresa, aveva pensato di uccidere la moglie e intascare la polizza. Di quando voleva mandare fuori strada l’auto sulla fettuccia di Terracina, tra Roma e Caserta, lanciandosi fuori all’ultimo. Di quando Fenaroli era partito per Roma con un biglietto aereo a nome Sacchi come alibi, per raccontare, poi, che gli era mancato il coraggio di uccidere. Ricordò

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i tentativi di coinvolgere Savi; di come Fenaroli parlava di continuo di far fuori la moglie, che lui lo zittiva ma l’altro ci ritornava sopra, di nuovo, come un martello pneumatico, dopo qualche ora o giorno, cambiando continuamente i piani. E arriviamo alla sera del 10 settembre. Se, in quel momento, nell’aula delle Assise di Roma, fosse caduto per terra uno spillo, beh, si sarebbe sentito il rumore. Sacchi ricordò quella telefonata fatale. La prima confessione di Fenaroli risuonò ancora, in aula: “Dica pure che sono un delinquente!”. Ma se era andata così, perché, allora, Sacchi non aveva chiamato subito la Martirano per salvarle la vita? Perché non le aveva detto di non aprire la porta, di stare attenta? Perché aveva fatto la parte del segretario del delitto? Tutti gli avvocati lo martellarono. “Avevo solo dei sospetti”, rispose il ragioniere. Come, solo dei sospetti? Ma se aveva sentito quella telefonata e Fenaroli dire subito dopo “dica pure che sono un delinquente”?

Ghiani al processo

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La confessione vera, completa, del geometra, continuò Sacchi, era però arrivata dopo circa un mese dal delitto, quando gli aveva raccontato l’accaduto, nel breve tragitto tra l’ufficio di via Ravenna e la casa di via Monaci. Era lì che gli aveva detto tutto, anche che aveva dato qualche piccolo anticipo a Ghiani e che lo avrebbe ricompensato dopo l’incasso della polizza. Fenaroli gli aveva detto che il sicario ce l’aveva fatta, era riuscito a partire all’ultimo momento, quando stavano per chiudere il portellone. Appena in tempo! Il giorno dopo, i due furono messi a confronto. Il geometra sparò le sue bordate, ricordando il continuo bisogno di soldi del ragioniere per mantenere la sua amante, morta suicida nel 1957. Sembrava il bue che dice cornuto all’asino. Negò tutto, Fenaroli: “Solo io so quanto è bacato”, disse del suo ex collaboratore. Le posizioni rimanevano però immobili, come due bastioni di fortezza che si guardavano a distanza. Nessuno cedeva d’un millimetro. La verità del geometra contro quella del ragioniere. La tensione era forte. La posta in palio? Il tutto per tutto. Saltarono i nervi agli avvocati, volarono insulti: mascalzone! Guappo camorrista! Vergognatevi! Ti prendo a schiaffi! Per la rissa ci mancò poco. Altra deposizione fondamentale era, ovviamente, quella di Savi. Raccontò, il ginecologo, che incontrava spesso Fenaroli al ristorante, alle “Assi” o da “Berti”. Che nel giugno-luglio 1958 gli aveva proposto di venire a Roma, dormire a casa sua con un pretesto e di notte fare a Maria un’endovena di narcotico – il Pentotal – e poi l’avrebbero buttata per le scale o messa nella vasca da bagno, per simulare la morte accidentale. Che gli avrebbe dato 15 milioni della polizza della moglie. C’era anche Sacchi, presente a questi pranzi; e scuoteva la testa. Comunque non gli era sfuggito, al suo sguardo di medico, che Fenaroli mangiava poco. E come la mano gli tremasse quando portava il cibo alla bocca. Sembrava un soliloquio, quello del geometra. Concluse, Savi, che quando si erano rivisti, il 20 agosto, Fenaroli sembrava tranquillo, sereno, finalmente; e che giusto il 10 settembre, a pranzo, scherzava, era allegro, non era più esaurito come il mese prima. Anzi, gli aveva chiesto se conosceva qualche ragazzina per passarci la serata...

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Fenaroli si avvia a deporre

Venne, il 2 marzo 1961, anche il giorno di Reana Trentini, che per anni dovrà difendersi – e lo farà sempre con la consueta energia – dall’accusa di aver affossato Ghiani. Appariva decisissima; Ghiani la implorava di guardarlo bene prima di dire “è lui”. “Chiedo alla signorina di guardarmi in faccia, di essere ben sicura…”. Ma lei non si girò nemmeno: “sono certa, è lui”. Raoul crollò sulla panca col viso tra le mani. Partì la controffensiva dei Sarno, di Madìa: “Si dice che la teste ha descritto Ghiani da prima di averlo visto – tuonavano – ma non è vero: descrisse un uomo che poteva essere chiunque, alto 175-180 cm, con un abito blu, atletico. La teste dapprima descrisse lo sconosciuto col viso pieno, poi, vistane la foto e mai menzionandone il naso caratteristico (quello di Raoul era ed è a punta, Nda), lo riconobbe lo stesso! Lo sconosciuto aveva capelli lunghi lisci, tirati all’indietro, gonfi al centro. Ma Ghiani ha i capelli corti!”. Sarno le contestò d’aver detto che l’ “uomo in blu” aveva gli occhi azzurri, quando Ghiani non li aveva; lei confermò che quella volta aveva detto la prima cosa che le era venuta in mente. L’attacco era frontale, ma non ci fu modo di far cambiare idea alla Trentini: aveva riconosciuto quell’uomo in Ghiani e tanto le

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bastava. Non c’era verso di smuoverla: se ne stava lì, come un masso precipitato al centro della strada. Procedere verso l’assoluzione era impossibile, senza spostare quella enorme pietra. Il confronto tra Bernardo Ferraresi e Enrico Lasso, a fine marzo, era un altro momento molto atteso, ma lasciò ognuno sulle sue posizioni. Lasso, calvo, paonazzo, ammise di aver dormito, sfinito, da Bologna a Milano; si capì subito che quella notte era crollato, che non ricordava nulla, nulla aveva visto, se non qualche lampo di ciò che avveniva nello scompartimento del treno, tra un risveglio e l’altro. Era una deposizione meno forte di quella di Ferraresi. Ad ogni buon conto, fissò Ghiani e disse di non averlo mai visto prima. Ma era un testimone congestionato, apprensivo, inutile. Si presentarono altri due uomini del treno, Patruno e Giovannoni, due testi che molto tardi si erano ricordati di essere stati, anche loro, sulla “Freccia del Sud”. Non ricordavano Ghiani, ma al confronto di Ferraresi – così pignolo nella memoria – apparirono anche loro sbiaditi, tardivi, imprecisi. Servirono poco alla difesa. “Fabio, ma vogliamo parlare di Antonio La Spina che, detenuto nel carcere di Marassi, a Genova, per avere il suo momento di notorietà nazionale, dichiarò di essere il misterioso passeggero Rossi? Pensa, verrà addirittura portato al cospetto della Corte e lì ribadì di essere lui, pur non volendo rivelare i motivi che lo avrebbero spinto ad imbarcarsi con il nome ‘Rossi’. Il momento di notorietà gli fruttò un processo per direttissima ed una condanna a 2 anni per falsa testimonianza, confermata poi in Appello...”. Il 29 marzo la Corte ammetteva nuovi accertamenti: sui lavori alla macchina da microfilm del Banco Ambrosiano, sulla necessità di un sopralluogo in via Monaci, sulle prenotazioni all’agenzia Alitalia di via Albricci. Ma si metteva male lo stesso. Maria Del Tedesco, anche lei (ironia della sorte) guardarobiera, amica della signora Clotilde, madre di Raoul, testimoniava il 24 aprile di averlo incontrato sotto casa, in via Tarquinio Prisco, la sera del 10. E se lo aveva visto lei, non poteva averlo visto la Trentini. Se lo ricordava bene, perché andava a prendere l’amica per andare a vedere “La partita a scacchi” in un bar di piazza

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Filangieri. C’era stato un semplice scambio di saluti con Raoul, sul portone. E si chiedeva perché avesse ricevuto un telegramma della Questura di Roma in cui le si diceva di non venire a Roma a testimoniare, se non fosse stata chiamata… Il 26 aprile toccò invece a Celestina Dardi, detta Tina, la ragazza di Raoul in quei giorni di settembre del 1958. Aveva un abitino canarino chiaro e se ne uscì candidamente con un: “Come si fa a ricordare?”. Erano insieme, domenica sera? Non lo erano? Come si fa a ricordare? Aveva ragione, la Tina. Come si fa? Il giorno dopo, la signora Clotilde ci tenne a chiarire che il suo Raoul non prendeva una lira da Inzolia per l’aiuto in negozio. Che lo faceva per amicizia. Che non era avido di un bel nulla, anzi! Giovanni Catanoso affermò che, ogni santa domenica mattina, bisognava versare le schedine alla sede di zona, in Corso di Porta Vicentina: e che fu fatto da Raoul, come sempre, anche il 7 settembre, alle 10.30. Che lo vedeva tutte le sere e che se non l’avesse visto anche quella domenica, il giorno dopo gliene avrebbe chiesto il motivo. L’avvocato Madia aggiunse che c’erano amici del bar pronti a giurare che a mezzogiorno Raoul era con loro; affermazione centrale, visto che l’accusa ipotizzava che l’elettrotecnico, quel giorno, fosse partito per Roma col treno delle 13. La notte del 6 maggio la Corte si recò in via Monaci. Fu un sopralluogo scandito dai flash dei fotografi della Scientifica. Si bloccarono le strade. Si riaprì la porta della casa del delitto. Si riposizionarono i testi, la Trentini, la Maniccia, Sensoli, Sica detto “grissino”. Si cercò di capire. Ma il fantasma minuto di Maria Martirano restava là, nascosto in cucina. E non spiegò a chi aveva aperto la porta; non si fece vedere.

Ricostruzione della Corte d’Assise: la Trentini davanti al portone mentre l’agente di Polizia simula l’“uomo in blu”

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Gli assicuratori confermarono che quella clausola della polizza che prevedeva la morte violenta era stata idea loro: eh sì, Fenaroli era un gran cliente e quindi facevano di tutto per tenerselo. Confermarono anche un dato importante: il geometra non aveva mai chiesto il pagamento dell’assicurazione. Se aveva organizzato tutto per quello, per i soldi, perché non aveva compiuto il passo fondamentale, perché non li aveva chiesti? E invece niente: tanto che le Assicurazioni Generali non erano nemmeno entrate nel processo come parti civili. Nonostante però i colpi messi a segno, durante un’udienza l’avvocato Adamo Degli Occhi sbandierò davanti alla corte, platealmente, una copia di Topolino: cos’era successo? Stava protestando contro il fatto che gli elementi dell’accusa erano sempre tenuti in massima considerazione e quelli della difesa, no. Tanto valeva allora allegare agli atti del processo Topolino! Ma la battaglia era a tutto campo, con colpi di mortaio e cannoneggiamenti da entrambe le parti. Diceva il Pm Mauro: Ghiani quella notte, nell’androne del palazzo, dopo aver consegnato alla Martirano una busta di documenti Icrea, non si era mosso di lì, chiedendo alla donna quelli che doveva dare lei a lui, cogliendola di sorpresa. La Martirano aveva esitato, lui allora le aveva detto di chiamare il marito per sincerarsene: era così che era riuscito a salire di sopra. Ribatteva la difesa: tutto questo avrebbe comportato un minimo di imbarazzata conversazione. Invece la Trentini e Sica avevano sentito ben altro. Che, mentre l’uomo in blu si avvicinava, la Martirano già gli diceva “Prego si accomodi”; e che salirono subito di sopra. Tutt’un’altra situazione… Ancora. Per Mauro, se Ghiani aveva nascosto i gioielli alla Vembi era proprio perché non sapeva di essere sospettato. E non lo sapeva, vero; ma – ribattevano i difensori – da due mesi ormai la stampa martellava sull’esistenza d’un sicario. E solo un paio di giorni prima era stato arrestato Sacchi, e poi Fenaroli! Se era assurdo pensare che qualcuno li avesse messi lì, altrettanto assurdo era pensare che ce li avesse tenuti Ghiani! Nella stessa stanza della ditta entravano e uscivano Dusi, Fiorani, Pidi, Casaccio, Boccarusso, Colaiacomo: gli operai e il custode della Vembi. Strano anche – continuavano – che Fenaroli avesse confessato qualsiasi cosa a Sacchi, tranne dove si trovavano i gioielli… O piuttosto Sacchi non poteva riportare questo particolare perché l’accusa a Ghiani era falsa, inventata?

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Sono passati più di cinquant’anni da quel processo, ma ci sono ancora persone per cui sarà impossibile dimenticarlo. Una di queste è l’avvocato Titta Madia, figlio di Nicola, che difendeva Ghiani alle Assise di Roma. Lo abbiamo voluto incontrare perché ci sono cose che solo un testimone del tempo come lui può spiegarci. Ecco, avvocato, che idea s’era fatto suo padre, di Ghiani? “Mio padre ebbe sempre, fermissimo, il convincimento dell’innocenza di Ghiani. Era impressionato dalla sua personalità mite, incapace di difendersi da una accusa terribile, quasi annientato; e quindi non reagiva con proteste di innocenza clamorose, urlate, teatrali. D’altronde, la personalità di Ghiani – onesto impiegato elettrotecnico, privo di vizi o sregolatezze, metodico nella sua vita lavorativa e di relazione – lo convinceva che non poteva essere lui il sicario efferato di un delitto su commissione”. Suo padre fu tra quegli avvocati che seguì la famosa prova automobilistica, a Milano. Le ha raccontato qualcosa di quel giorno? “Posso dirle questo: mio padre, insieme all’Avvocato Sarno, ripetè più volte la prova automobilistica, che rivelò l’impossibilità di coprire il percorso fino alla Malpensa nei tempi ricostruiti dall’accusa. Naturalmente con auto normali ed autisti normali (come doveva essere Fenaroli). La ricostruzione delle sentenze, su questo punto, è stata molto forzata, per rendere compatibile l’elemento d’accusa con la ricostruzione del delitto”. E quando saltarono fuori i gioielli? Immaginiamo che colpo debba essere stato per la difesa…“Mio padre sospettava una manovra della Polizia e lo diceva chiaramente. Per vari motivi: la Polizia era dotata di poteri oggi impensabili e, in numerosissimi processi, emergevano abusi da parte delle forze dell’ordine per confermare le loro ipotesi investigative. Per il processo Ghiani, il capo della Polizia e il capo della Squadra Mobile avevano dato enorme pubblicità al successo della loro azione investigativa, con il supporto della classe politica dell’epoca, che intendeva inviare un messaggio alla comunità, di tranquillità dopo un delitto orribile, consumato all’interno di una abitazione privata. D’altronde, il ritrovamento dei gioielli fu una delle pagine più oscure del processo: inspiegabile, secondo la comune esperienza, anche in considerazione del fatto che l’armadietto di Ghiani fu perquisito nell’immediatezza del suo arresto, senza trovare nulla”.

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E vennero i giorni delle arringhe finali. Era ormai giugno, i giorni s’erano fatti assolati: ma dentro l’aula magna delle Assise di Roma si allungavano ombre nere sui tre imputati. Quando il Pm Mauro spiegò com’era stata strangolata Maria Martirano, Ghiani nascose istintivamente le mani. Mani grandi, mani da operaio. Quando Mauro chiese l’ergastolo Fenaroli era terreo, col respiro affannoso. Inzolia, pallido, si torceva le mani. Ghiani piangeva. Le arringhe finali degli avvocati furono e sono ancor oggi uno dei motivi per cui il processo Fenaroli è entrato nella storia. L’avv. Pacini, per le parti civili Martirano: “Guardate le mani di Ghiani, quelle mani enormi: non sono le mani di uno strangolatore?”. L’inizio di quella di Madia fu epocale.“Chi sei, Raoul Ghiani? Quante volte, gli ho chiesto, mi son chiesto, frugando nelle luci e nelle ombre del suo volto: chi sei, Raoul Ghiani? Sei tu lo strangolatore rapido tecnico puntuale professionale di via Monaci? Tu, il laborioso e mansueto ragazzo di via Coni Zugna? Sei tu lo strangolatore rapido tecnico puntuale professionale di via Monaci? Tu, il deferente e laborioso operaio della Vembi, il disciplinato e familiare giovanotto di via Tarquinio Prisco?”. Poi l’avvocato passò all’attacco. Osservò che per l’accusa Ghiani appariva, di volta in volta, scaltro quando faceva mettere all’impiegato di banca (alla Banca Popolare) la data e l’ora che voleva lui, ma anche idiota, quando decideva di nascondere i gioielli in laboratorio o di viaggiare in treno con Fenaroli la sera del 7… La voce di Madia tuonò nell’aula. “Da cosa emerge il desiderio di bella vita di Ghiani? Come poteva accettare senza batter ciglio l’incarico, senza un ripensamento, un’esitazione, come se avesse fatto il criminale da sempre, se facesse parte del suo respiro? Senza un anticipo, tranne un biglietto ferroviario di seconda classe? Con indosso un abito blu che continuerà a pagare a rate, per avventurarsi in una terrificante avventura il cui successo era subordinato alla riscossione da parte di Fenaroli di una polizza? Invece, per quattro giorni vive sul filo di una corda tesa: il 7 il delitto fallisce, l’8 è disdetto, il 9 rinviato, il 10 si fa e lui appare sempre gioviale tranquillo, tra banche, Vembi, biliardo, Sisal, amici, pranzo in famiglia…”. Poi concentrò l’attacco sul ragioniere. “Egidio Sacchi, eco di misteri, pipistrello dal volo basso e sghembo!”. Madia aveva ra-

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gioni da vendere. Sacchi era lo snodo di tutto il delitto Martirano: contraltare di tutti i discorsi ossessionanti di Fenaroli, muta presenza delle tre richieste a Savi di uccidere, acquirente consapevole del biglietto aereo, strumento delle disdette e delle prenotazioni successive, testimone della telefonata-grimaldello delle 23.27 e confessore di Fenaroli nel momento della verità. Perché Sacchi, che pure nella drammatica notte tra il 24 e il 25 novembre del 1958 aveva superato la ritrosia di accusare il proprio padrone, aveva invece fatto tanta fatica ad accusare subito Ghiani? Chi era per lui Raoul, quella notte, se non un conoscente cui non doveva né amicizia né fedeltà? Perché all’inizio aveva parlato di un “individuo che a quanto sembrava era amico dell’Inzolia”? Eppure lo conosceva, meglio di quanto dicesse! Erano stati con Fenaroli al matrimonio di Carletto Inzolia: c’era la classica foto di gruppo delle nozze a dimostrarlo. S’erano incontrati decine di volte, nel negozio di piazza Napoli. E allora perché di questo “Raoul”, sulle prime, ne aveva solo descritto i connotati, quando bastava ne dicesse il nome? Il nome lo sapeva, eccome! E anche il cognome! A rileggere oggi il verbale di quell’interrogatorio di novembre, Sacchi sembra proprio stare costruendo man mano la sua deposizione, la sua confessione. Come se dovesse dare un nome alla polizia, un nome che aveva capito che da lui ci si aspettava, un nome necessario per non rischiare un’accusa di complicità in omicidio. Come se prendesse tempo, per crearne uno. Tanto che aveva finito col farlo solo alla fine dell’interrogatorio, ore dopo, quando aveva detto finalmente la risposta di Fenaroli alla domanda su chi fosse il cugino del Traversi: “È Raoul”. E s’era fermato lì, descrivendolo per sommi capi, quasi come per non spingersi troppo in là, per non impegnarsi fino in fondo in una chiamata in correità da cui voleva tenersi pronto a recedere, se avesse visto la malaparata. La voce di Madia rimbombò tra le pareti di marmo dell’aula: “Egidio Sacchi, il ragioniere: o calunniatore o complice. Non testimone mosso da edificanti crisi di coscienza. ‘Uomo di scarsi principi morali – lo definisce il Giudice Istruttore – che si era adagiato a divenire strumento delle univoche imprese di Giovanni Fenaroli. I legami tra i due erano strettissimi, ma valicavano la semplice collaborazione per attingere gli orizzonti di una vera e propria omertà’. Egidio Sacchi, eco di misteri, pipistrello dal volo basso e sghembo!”.

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A sinistra il grande Carnelutti

L’ultima voce della difesa fu quella di Francesco Carnelutti, il decano, il grande penalista dai capelli bianchi che, per l’età, chiese il permesso di pronunciare seduto la sua arringa. Entrerà nella storia, quell’arringa, per l’elenco dei 33 dubbi che il grande avvocato sbattè in faccia alle coscienze dei giudici. La sua voce era fortissima e risuonava in tutta l’aula. 1. Il dubbio intorno al modo dell’uccisione, una o due persone? 2. Il dubbio intorno il carattere sessuale o patrimoniale del delitto (la vita segreta di Maria Martirano). 3. Il dubbio, posto il carattere patrimoniale del delitto, tra il movente di Gaetano Martirano e quello di Giovanni Fenaroli. 4. Il dubbio intorno al movente di Fenaroli o di Sacchi. 5. Il dubbio intorno alle capacità di Fenaroli non tanto di pensare quanto di attuare il progetto dell’omicidio. 6. Il dubbio intorno alla data e al carattere dei discorsi di Fenaroli con Savi. 7. Il dubbio intorno all’esistenza del movente attribuito a Fenaroli con riferimento alla data dell’omicidio.

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8. Il dubbio intorno all’inadeguazione tra il movente ed il presumibile risultato dell’omicidio. 9. Il dubbio derivante dalla mancata denuncia del sinistro alla compagnia assicuratrice. 10. Il dubbio determinato dal contrasto tra il contegno attribuito da Sacchi a Fenaroli e l’astuzia riconosciuta a Fenaroli dagli accusatori. 11. Il dubbio suscitato dalla inverosimiglianza di alcuni fatti narrati da Sacchi (progetti di suicidio; primi progetti di omicidio). 12. Il dubbio suscitato dalla impossibilità di altri fatti narrati da Sacchi (acquisto del biglietto dell’8 settembre per ordine di Fenaroli; spostamento del viaggio dall’8 settembre al 9 settembre; meraviglia di Fenaroli quando vide il biglietto la mattina del 10 settembre). 13. Il dubbio intorno alla verità del tentativo di ingresso in casa di Maria Martirano il 7 settembre. 14. Il dubbio suscitato dalla inverosimiglianza del viaggio di Ghiani in vagone letto, se realmente avesse tentato di entrare in casa di Maria Martirano la sera del 7 settembre. 15. Il dubbio suscitato dal contegno di Fenaroli la sera del 7, se realmente Ghiani doveva entrare dopo che Fenaroli si era recato alla stazione. 16. Il dubbio intorno al motivo della negazione di Ghiani circa la sua presenza a Roma il 7 settembre. 17. Il dubbio intorno alle possibilità della partenza di Ghiani da Milano per Roma la sera del 10 settembre. 18. Il dubbio intorno all’alibi di Ghiani (testimoni SommarivaDel Tedesco). 19. Il dubbio relativo al riconoscimento di Ghiani sul portone della casa di via Monaci (ha detto la verità Sensoli o la Trentini?). 20. Il dubbio concernente la presenza di Ghiani a Milano la mattina del giorno 11 prima dell’arrivo della Freccia del Sud. 21. Il dubbio intorno al riconoscimento di Ghiani sulla Freccia del Sud (ha detto la verità Ferraresi oppure Lasso, Giovannoni e Patruno?). 22. Il dubbio derivato dalla mancata ispezione di Ghiani da parte del teste Sensoli. 23. Il dubbio derivato dalla mancata ispezione di Ghiani da parte del teste Misani.

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24. Il dubbio derivato dalla mancata coincidenza tra le impronte digitali rilevate in cucina e nella camera degli armadi di casa Martirano e le impronte digitali di Ghiani. 25. Il dubbio suscitato dalla pretesa confessione di Fenaroli a Sacchi intorno all’aver la vittima, quando scese nell’atrio, in mano una macchina da scrivere, circostanza esclusa dalla Trentini. 26. Il dubbio intorno alla scrittura, da parte di Fenaroli, di tutti i biglietti sequestrati. 27. Il dubbio intorno al valore dei biglietti non apocrifi di Fenaroli. 28. Il dubbio relativo alla persona che ha nascosto i gioielli presso la Vembi. 29. Il dubbio suscitato dalla presenza tra i gioielli dell’orologio non appartenente alla vittima. 30. Il dubbio suscitato dalla mancanza dell’anello tra i gioielli medesimi. 31. Il dubbio derivante dalla cognizione che Barbaro aveva del nascondimento prima della scoperta dei gioielli medesimi. 32. Il dubbio intorno alla capacità a delinquere di Fenaroli. 33. Il dubbio intorno alla capacità a delinquere di Ghiani”.

E qui Carnelutti parlò al cuore della Giuria. Pronunciò: “Le ultime parole, prima che prendiamo congedo da voi, dopo avervi dato tutto quello che vi potevamo dare: fatica, passione, tormento, intelligenza, cuore. Le ultime parole prima che rimaniate soli: noi con la nostra angoscia, voi con la vostra responsabilità. Non ho mai tremato come adesso, non ho mai sentito come adesso la mia miseria, non mi sono mai sentito così povero, così debole, così fragile, così incapace di portare il peso che mi grava sulle spalle. Tutte le fatiche della mia vita, tutti gli sforzi, tutti gli studi, tutti i libri che ho scritto, tutte le cattedre che ho salito, sono niente: brucerei tutto, tutto, per potere con queste ultime parole colmare la misura che separa l’ergastolo dalla libertà, la morte dalla vita (…) Giudici, è scoccata l’ora sacra. L’ora della vostra solitudine. L’ora della vostra potenza. L’ora della vostra responsabilità. Voi avete in mano le chiavi della morte e della vita. Dipende da voi, che nelle anime di costoro e nelle anime di tutti quelli che li amano, del fratello di Fenaroli, della madre e del fratello di Ghiani, della madre e della moglie di Inzolia, regni oggi la gioia o la disperazione. Proprio per

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voi si deve ripetere er eritis sicut dii28; ma queste possono essere le parole di Dio o del demonio. Andate. Dio vi accompagni”. La Bua prima di ritirarsi con la Corte chiese agli imputati se avessero qualcosa da dire. Ghiani, che entrando in aula per la settantacinquesima volta pareva smarrito, allargò le braccia e farfugliò un “Signor Presidente…” per interromperlo subito; Fenaroli scuoteva la testa: “Nossignore”. Inzolia fece cenno di no. Erano le 10.45 di sabato 10 giugno 1961. Si sentì un pianto: la madre di Inzolia non ce l’aveva fatta a trattenersi. Era iniziata la lunga attesa. I giornali prevedevano la sentenza in giornata. Il tempo cominciò a passare. Poco prima delle 15 il Presidente ordinò il pranzo per la Corte. Filetto ai ferri, insalata, pane, acqua minerale, caffè, frutta. Arrivò tutto dal vicino ristorante “Sebastian”. Alle 16 nell’aula d’udienza già si respirava a fatica, per il fumo e la ressa. Fuori, la folla aumentava in modo impressionante. Alle 17 si calcolava che ci fossero già 5.000 persone, intorno al Palazzo di Giustizia. Il pomeriggio passò guardando l’orologio. Era quasi sera, ma che aspettavano ancora? Alle 20 si diffuse la voce che i Carabinieri avessero ricevuto l’ordine di ricondurre gli imputati da Regina Coeli, per la sentenza: ma era falso. La tensione cresceva. Continuava ad arrivare gente da tutta Roma. Lasciavano l’auto dove potevano, proseguivano a piedi. Fattorini, casalinghe, operai, autisti delle linee urbane che tra una fermata e l’altra venivano a dare un’occhiata. Più passavano le ore e più la piazza diventava nereggiante di folla. I grandi cortili del Palazzaccio. I corridoi. con gli enormi lampadari. Tutto era invaso. C’erano chioschi che vendevano panini e bibite, nel caldo di giugno. Discussioni ovunque, capannelli che facevano previsioni, gente che si salutava, altri che stavano seduti, stanchi. “Sembra una questione nazionale, sembra che non sia in gioco solo la vita di tre persone, ma il concetto stesso della giustizia”29. Nelle stesse ore, l’appartamento di via Monaci 21 era spento e si28 “E sarete come dei.” Dalla Bibbia: Genesi, 3,4-5. Il serpente dice ad Eva, per invogliarla a disobbedire a Dio: “No davvero, che non morirete. Dio però sa che in qualunque giorno ne mangerete, vi si apriranno gli occhi e sarete come dei, conoscendo il bene e il male.” 29

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«L’Unità», 11 giugno 1961.

lenzioso. Ora ospitava la redazione di una rivista d’arte e di notte non c’era più nessuno a ricordare i passi di Maria Martirano verso la sua ultima stanza. Alle 21,30 i giudici ordinarono la cena: panini, formaggio, acqua minerale e caffè. La grande attesa continuava. Alle 22 i cancelli principali, quelli dal lato di Piazza Cavour, furono chiusi. Era un segnale? Stava per accadere qualcosa? Ora si poteva accedere solo dal Lungotevere e vennero istituiti dei posti di blocco. Alle 24 il traffico era ormai paralizzato, tra la piazza e il fiume. C’era gente accampata in ogni corridoio. Chi camminava avanti e indietro, chi si sedeva per terra, chi mangiava il salame. Tutti fumavano, dappertutto. I corridoi, i grandi cortili interni erano un tappeto di cicche calpestate. Nelle ultime ore almeno una decina di donne e quattro-cinque uomini erano stati colti da malore, ma nessuno aveva voluto allontanarsi. Nessuno voleva andarsene: la sentenza poteva arrivare in qualsiasi momento. Da «Paese Sera»: “Abbiamo visto liti e risse, abbiamo visto la fauna impellicciata e ingioiellata che usciva dai teatri, spandendo l’aroma di costosi profumi che vincevano l’acre odore di fumo e sudore, stagnante nei corridoi. La gente è ammassata, come per vedere passare i bolidi della Mille Miglia. Il traffico ha raggiunto un’intensità mai vista neanche di giorno, la gente parcheggia dove può e si porta al Palazzaccio, nella speranza di assistere alla conclusione del processo. Una vana speranza: potevano solo vedere, da lontano, stando in punta di piedi e sbirciando oltre la vetrata del cortile, un altro corridoio e migliaia di teste ondeggiare, in un’attesa che diventava fatica e allucinazione”. “Quella notte – ricorda Titta Madia – i locali restarono tutti aperti. Io avevo quattordici anni, ma perfino a scuola si parlava del processo. E poi le camere di consiglio all’epoca duravano poche ore. La durata di quella del processo Fenaroli fu un fatto anch’esso eccezionale”. Tra chi usciva dai teatri e chi passava dopo il lavoro, ormai la folla costituiva un blocco unico, una morsa di migliaia e migliaia di persone che teneva immobile l’immenso corpo del Palazzaccio. Le luci delle finestre erano accese e da qualche parte i giurati stavano ancora discutendo, ora dopo ora, minuto dopo minuto. In via Ulpiano, vicino la piazza, c’era Lello Bersani che faceva un po’ di interviste volanti per la Rai. Gli innocentisti erano la maggioran-

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za. Una vecchietta, davanti al microfono, chiese ai giudici di mettersi una mano sulla coscienza per quel bravo giovane di Ghiani. Un’altra ragazza, 19 anni, capelli corvini e gonna da scandalo, dichiarò ai fotoreporter di essere lei la vera fidanzata di Raoul… si chiamava Marina Moni ed era innamoratissima di lui (anche se l’aveva visto solo in fotografia…). Tra l’1 e le 2 di notte gli imputati furono ricondotti al palazzo di giustizia. Ormai, intorno, dentro, c’erano qualcosa come 20.000 persone. Tutta la città aspettava. Dalla stanza in cui si trovavano guardati a vista, Fenaroli, Ghiani e Inzolia sentivano dentro l’angoscia e fuori un brusìo continuo che li avvolgeva; e colpi di clacson. Il geometra s’addormentò sulla sua sedia, Ghiani guardava fisso a terra. Inzolia non voleva sedersi e non sapeva stare in piedi. L’aria era tesissima, tutti guardavano verso l’aula: ma i giudici non uscivano. Le voci si rincorrevano senza controllo, diffondendosi ad un angolo di qualche corridoio e poi fuggendo via di bocca in bocca: stanno per uscire! No, arrivano tra dieci minuti! Buon segno, se discutono tanto è perché vedrai che li assolvono… L’orologio segnava le 3. L’orologio segnava le 4. Niente. Erano passate altre tre ore e nessuna delle 20.000 anime che occupavano ogni centimetro del Palazzo, della piazza, delle strade intorno si era mossa d’un fiato. Nessuno parlava più. Il peso della stanchezza, della paura, del giudizio avevano ammutolito ognuno. Fu solo alle 5 che trillò il campanello premuto dal Presidente nella camera di consiglio. Dieci minuti dopo, la Corte entrava, tutti si alzavano in piedi. La vita stava per finire o per iniziare. La Bua lesse la sentenza. La grande attesa, iniziata nel 1958, era finita. Ora. Fenaroli aveva un tic alla palpebra dell’occhio sinistro, Inzolia si tormentava le mani sudaticce, Ghiani deglutiva in continuazione. Si sentivano osservati dal mondo. Nell’Aula Magna del Palazzo di Giustiza faceva un caldo soffocante. Tutti guardarono La Bua. Fenaroli Giovanni, ergastolo.

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Ghiani sviene

Ghiani Raoul, ergastolo. Inzolia Carlo, assolto per insufficienza di prove. Fenaroli si portò una mano alla bocca e rimase impassibile, Inzolia sulle prime non si rese conto, poi vide i suoi avvocati correre da lui e scoppiò a piangere; Ghiani era fermo, inebetito. Avvocati che si allontanavano imbestialiti, altri che si abbracciavano. La madre e la moglie di Inzolia, Giuseppina e Rosalia, gridavano di gioia, piangevano, si abbracciavano. Carletto Ghiani, il padre, che aveva voluto esserci, inveiva contro i giudici, trattenuto da Luciano. Nella piazza, nei corridoi, scoppiarono almeno una decina di risse tra innocentisti e colpevolisti. Ventimila persone si allontanarono, commentando la sentenza, in un pandemonio di insoddisfazione, di domande e risposte che si disperse sul lungotevere, nelle strade del quartiere Prati, allargandosi su ogni marciapiede di Roma. In quel momento, un giornalista si precipitò correndo come una freccia fuori dall’aula, scese una scalinata come un pazzo, mettendosi a gesticolare verso un altro uomo che stava davanti al bar, chiuso, del Tribunale. L’altro uomo tirò subito fuori un telefono, da non si sa dove, lo collegò non si sa come a qualcosa, creando una linea telefonica; e fece un numero. Il giornalista, col fiatone, prese la cornetta in mano. Un telefono stava squillando a Palazzo Wedekind, dove un altro giornalista si alzò dalla brandina su cui stava dormendo. Il giornalista col fiatone sentì la voce rispondere dall’altra parte, biascicando qualcosa. E gli disse la sentenza.

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Era l’alba di domenica 11 giugno 1961 e gli uccelli, nascosti negli alberi di piazza Cavour, stavano annunciando il nuovo giorno. Le fioraie di Piazza di Spagna iniziavano a colorare la scalinata. Poche ore dopo, «Il Tempo» sarebbe stato il primo quotidiano a dare la notizia, in edizione straordinaria. La vita di Giovanni Fenaroli e Raoul Ghiani era appena finita. Mentre le edicole venivano prese d’assalto, due ore più tardi, dopo essersi abbracciato in silenzio con Fenaroli e con Ghiani, il portone di Regina Coeli si apriva e restituiva alla vita Carlo Inzolia.“Sono innocenti anche gli altri”: fu la prima cosa che disse ai giornalisti alcune ore dopo, mentre riabbracciava la madre e la moglie, nella sua giacca a scacchi piccoli, bianchi e neri. Dopo due anni e mezzo in carcere, non sapeva cosa avrebbe fatto del proprio futuro. Perlomeno, sapeva di averne uno: “So lavorare, questo è tutto”. Intanto, i primi commenti si chiedevano che razza di decisione fosse stata quella della Corte. Come potevano dire che Fenaroli e Ghiani erano colpevoli senza che lo fosse anche Inzolia? “È una sentenza di compromesso”, scriverà «l’Unità», “perché due ergastoli e un’assoluzione?”. Suonava, insomma, come una mezza sconfessione di Sacchi. Come si spiegava, ora, la richiesta di Fenaroli al ragioniere di fargli trovare in stazione, la mattina del 10, Ghiani “con il suo amico”, se l’amico (cioè Inzolia) non c’entrava nulla? E se Inzolia non c’era, quella mattina, come fecero il geometra e l’elettrotecnico a mettersi d’accordo per ritentare il colpo? “E se a Milano incontrerà il ragionier Sacchi?” chiesero a Inzolia. Non era affatto una cattiva domanda, visto che abitavano a qualche strada l’uno dall’altro. Ma lui non rispose. Marcello Lambertini ci riceve nella sua casa al quartiere Trionfale. Ci accomodiamo all’aperto, nella sua terrazza, accarezzata dal vento di mezza sera. È un giornalista vecchio stampo, corretto nella gestione della notizia, testimone di un mondo in cui i rapporti interpersonali e la stima reciproca erano alla base del mestiere. Una correttezza che lo fece diventare direttore de «Il Tempo», nel 1991: caso unico e raro, scelto dalla stessa redazione e non dalla politica. “Il giornalista che uscì correndo dall’aula ero io – racconta, sorridendo – volevo dare la notizia prima di tutti e avevo visto che il bar interno aveva tre telefoni a gettoni,

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fuori dal locale. Ovviamente, il titolare quando chiudeva li smontava e li rimetteva dentro. Però rimanevano le prese… Arrivò il giorno della sentenza e piazza Cavour era totalmente piena di persone ad aspettare. Andando a seguire l’ultima udienza mi portai un usciere del giornale e un telefono… Era lui l’uomo che aspettava davanti al bar: e col corpo copriva le prese telefoniche. Fu così che ce la feci ad arrivare primo”. Lambertini si accende il primo sigaro della serata. Ci racconta della volta che incontrò Fenaroli. In quei giorni, dopo l’omicidio, ci si trovava, tra giornalisti, fuori dall’appartamento, aspettando una parola in più dal geometra, dal commissario Macera o da qualche altro attore di questo grande spettacolo. Il giovane Marcello, ancora aspirante giornalista, non ce la faceva più ad aspettare una notizia che non arrivava mai e quindi decise di provare qualcosa di diverso. “Una sera, alle 23 circa andai al bar ‘La Capannina’, al centro dei giardinetti di piazza Bologna e feci il numero della casa di via Monaci. Rispose Fenaroli e quando mi presentai venni investito dalle parole dell’ingegnere, come una furia. Allora provai il tutto per tutto e gli dissi: ‘sono un giornalista napoletano con moglie e figli, mi rilasci l’intervista!’. Fenaroli ammutolì e mi invitò a salire a casa. L’intervista mi fruttò 20.000 lire e un contratto con il giornale. La mia lunga carriera è partita da lì”. Certo che erano altri tempi. Ma davvero ci fu quell’accordo tacito tra la Polizia e voi cronisti? “Sì, la Polizia si poteva permettere di dirci: ‘sappiamo che è stato Fenaroli, però mi raccomando non lo pubblicate’. Erano tempi di fiducia reciproca”. E poi, arrivarono i giorni del processo. “Durante le udienze mi accorsi che Fenaroli aveva un atteggiamento scostante, sempre a reclamare per ogni intervento dei testimoni, mentre Ghiani invece era sempre ammutolito, con queste mani grosse che davano davvero l’ impressione di aver potuto strozzare chiunque. Andai da Madia e gli feci notare questo particolare. Nelle udienze successive vidi Ghiani cambiare atteggiamento: alla prima occasione utile si alzò e iniziò a reclamare, solo che appariva palesemente artefatto. La cosa che più colpiva di Carnelutti, invece, era la voce incredibile e potente, si sentiva fortissima”. Lei che opinione s’era fatto? Gli chiediamo, mentre il secondo sigaro regala le sue volute di fumo a questa sera romana.

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“Colpevoli, sia Fenaroli che Ghiani. Per pochi soldi quel ragazzo l’avrebbe fatto e lo fece. L’unica cosa che non tornava a noi giornalisti dell’epoca, era la storia dei gioielli. Alla fine si pensava che le possibilità erano due, o la perquisizione dei Carabinieri era stata troppo sommaria o erano stati messi successivamente, proprio dagli inquirenti”. Il processo d’Appello iniziò a Roma il 28 marzo 1963. Il Presidente era D’Amario, il Pm, adesso, era Giovanni De Matteo. Fenaroli aveva cambiato collegio ed era difeso da Franco De Cataldo e Giacomo Primo Augenti. I due protagonisti del giallo di via Monaci si rivedevano dopo quasi due anni, che il geometra aveva passato in una cella di Porto Azzurro, mentre Ghiani nell’ergastolo di Ventotene. Si ignorarono, ma salutarono affettuosamente Inzolia. Ancora in Appello l’attenzione della stampa restò fortissima, grandissimi gli articoli, titoli a tutta pagina. Non era bastato il processo di due anni prima per placare i dubbi e le discussioni, altrochè! Il processo Fenaroli continuava ad avere enorme spazio, con paginate di ricostruzioni e reportage; anche a maggio, quando scoppierà il caso Wanninger ed entrerà in scena – ironia della sorte – un altro “uomo in blu”: quello che aveva assassinato, con sette coltellate, su un pianerottolo di via Emilia, a Roma, Christa Wanninger30. Bastarono, però, pochi giorni per capire che il clima era cambiato. Il 5 aprile un ben più battagliero Ghiani si scagliò contro Fenaroli: “Dì la verità sul 7, devi dire la verità! Disgraziato!” E l’altro, sardonico: “È iniziata la commedia!”. I carabinieri fermarono Raoul: stava per mettere le mani addosso al geometra. L’episodio fece parlare molto. Ghiani, infatti, che avrebbe potuto comodamente dire che il 7 era venuto a Roma per incontrare Goffredo Lang, si rifiutava di farlo; diceva che, se fosse vero, lo avrebbe ammesso ed avrebbe evitato l’ergastolo. In realtà nemmeno Carnelutti gli aveva creduto, due anni prima: il motivo della sua presenza a Roma, quel giorno, non era altri che l’incontro con il suo amico. Chiacchiere, 30 Abbiamo ricostruito quest’altro delitto romano nel nostro “Morte a via Veneto”, Sovera, 2012.

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malignità: s’erano sprecate. In molti avevano insinuato che tra i due ci fosse una relazione omosessuale, visto che Lang lo era. Raoul stesso dichiarò che erano andati a Ostia e a Bracciano a fare il bagno, ma da amici; che c’era altra gente con loro e che non si era mai accorto che fosse omosessuale. Con le donne, dice, “stava sulle sue, si dava delle arie, faceva l’acchittato”. E allora perché gli era rimasta nel portafogli, al momento dell’arresto, una ricevuta della “Taverna Termini”? Era una trattoria di via Marsala, vicino la stazione, dove di certo era stato a mangiare. Già, ma quando? Ai primi di agosto, quando era stato a Roma? O ai primi di settembre, quando c’era andato magari per la prova generale del delitto? L’interrogatorio di Raoul fu drammatico. “Al primo processo ero andato tranquillo – disse tra i singhiozzi, “crisi emotiva” la chiameranno nel verbale – ero sicuro che la mia innocenza dovesse emergere, anzi scoppiare. Ero troppo tranquillo, credevo che la Corte potesse leggermi dentro nell’animo. Mi ero illuso, ma adesso sto torturando la mia povera testa di deficiente per illuminarmi, per riuscire a dire come andarono i fatti… sono tre anni che sto cercando di spaccarmela per tirarne fuori dei fatti. Sono stato un deficiente a venir qui e dire poche parole e pensare che fosse tutto chiaro”. E piangeva a dirotto. Anche quando riuscì a calmarsi, continuava a passarsi la mano tra i capelli, emozionatissimo, per nulla glaciale come sicario. Scosso da un violento tremito, abbassava e rialzava la testa. Gli portarono un bicchiere d’acqua, gli slacciarono la cravatta. Un avvocato chiese di sospendere l’udienza, il Presidente disse “Se proprio non se la sente, sospenderemo”. Lui, con voce tremante: “Ma io vorrei dire tutto, parlare di tutto, ma…”. Presidente: “Meglio di no, Ghiani, meglio che oggi lei non prosegua. Sospendiamo e riprendiamo venerdì mattina”. Un avvocato chiese di far uscire Ghiani dall’aula. Ma Raoul non si muoveva; piegò la testa e svenne. Un maresciallo dei Carabinieri lo fermò appena in tempo, prima di crollare dalla sedia. Cercarono un medico. La Corte era già uscita. Giornalisti e fotografi invasero il pretorio, la confusione era totale. Il Presidente sentì il casino, rientrò e ordinò di sgomberare l’aula. Mentre la gente veniva fatta sfollare una donna gridò: “Assolvetelo! È innocente!”. E molte altre uscirono con gli occhi rossi.

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“Non ho avuto la fortuna, io, di avere la ricca agenda del Sacchi, che ogni tanto lui andava a sfogliare…”. Gianni Rodari osserverà che la critica di Ghiani alla Corte era questa: credete a Sacchi perché ha l’agenda, e a me no. A quelli come me, per cui l’agenda in pelle è un lusso senza scopo, no. Una specie di critica di classe, insomma. Però coglieva nel segno. Sacchi era forse più credibile perché aveva saputo come presentarsi; grazie a questa costruzione aveva vinto in primo grado. Ghiani invece capiva – solo ora – che la sua ingenuità, la sua mancanza di memoria, piuttosto che premiarlo, piuttosto che farlo apparire candido, avevano invece finito con l’affossarlo. Contavano solo i fatti, non il buon cuore. E nel processo d’Appello i fatti furono gli stessi dell’Assise. Lo scontro fu di nuovo, punto per punto, sulle stesse cose. Per 73, lunghissime udienze. Ma c’era un elemento nuovo. L’avvocato Augenti disse che aveva un nome e cognome per il misterioso signor Rossi: Wolfango Rossi. Qualcuno (non si è mai capito chi: Fenaroli, riguardando in cella le carte? L’avvocato stesso?) aveva ritrovato una lettera in cui l’ingegner Wolfango Rossi chiedeva a Sacchi di prenotargli un posto aereo per la sera del 10 settembre, volo da Milano a Roma. Proprio quella sera e proprio quel volo. Rossi era titolare di una società romana che vendeva ascensori, la Fabar. Era lui il vero Rossi, quello che tutti avevano cercato? E perché mai questo Rossi, allora, non si era presentato a testimoniare? Ma perché era morto, una ventina di giorni dopo il delitto, il 2 ottobre 1958, in un incidente d’auto. Ecco perché. Comunque la lettera c’era, eccome se c’era. Era datata 7 settembre 1958. «Caro Ragioniere, le ragioni che mi hanno impedito di essere venerdì a Milano, mi costringono, anche domani, a non poter venire. Potrò arrivare martedì o mercoledì; non appena arrivato le telefonerò a casa in modo che ci si possa vedere nel pomeriggio, perché nella serata stessa di martedì o mercoledì (lo stesso giorno che arriverò) dovrò assolutamente ripartire per Roma. Le raccomando quindi la prenotazione dell’aereo, come restammo d’accordo». All’accusa, però, tutto questo non interessava: il passeggero misterioso l’avevano già cercato, anche tramite Interpol. Non

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l’avevano trovato, quindi stop. Anche perché la vedova Rossi dichiarò subito ai cronisti che non poteva certo esser suo marito, quello del volo AZ412. Il suo Wolfango non prendeva mai l’aereo, viaggiava solo in treno. La sentenza arrivò in una fine luglio soffocante. Era il 27 luglio 1963. Il giorno prima, alle 12.34, la Corte d’Appello di Roma s’era riunita in Camera di Consiglio. Si preparava un’altra lunga attesa. Poco prima, alla richiesta se avevano qualcosa da dichiarare, Ghiani aveva risposto: “Sono innocente, quella sera ero a Milano!”. Fenaroli s’era limitato a scuotere la testa. Inzolia era il più calmo di tutti: “Confermo la mia estraneità ai fatti”. Anche le arringhe finali degli avvocati avevano dimostrato tutta la drammaticità di quelle ore. Mentre il suo avvocato, Sarno, parlava, Ghiani, ad un certo punto, piangeva a dirotto. Poi, di botto, era svenuto. I carabinieri l’avevano trascinato fuori. Qualche minuto ed era toccato allo stesso Sarno piangere: “Assolvete questo povero operaio, non seppellite con una nuova condanna la sua giovinezza!”. E, di nuovo, l’attesa s’era fatta estenuante. Nell’aula c’erano decine di persone, mentre centinaia affollavano i corridoi, sedute per terra. Insalata, carne ai ferri, acqua minerale, un solo piatto di spaghetti: questo il pranzo, che arrivava poco dopo, per la Corte. Il cielo di Roma si rannuvolò, si scurì: una pioggia torrenziale allagò i monumentali cortili del Palazzaccio, tamburellò sul tetto, entrò dalle finestre aperte. Era iniziato il pomeriggio di un giorno lunghissimo, che nessuno sapeva quando sarebbe finito. Com’era diverso Ghiani, da quella mattina ad Orte! Allora torreggiava sulle due guardie, non fece una piega all’arrivo nella stazioncina. I polsi, uniti dalle manette, reggevano una sigaretta. Oggi, dopo due anni di brodaglie in carcere, dopo migliaia di pagine di istruttoria che gli avevano riempito il cervello, piangeva e sveniva. Fenaroli invece era rimasto controllatissimo, i baffetti curati, solo un po’ più asciutto. Nell’atrio del palazzo passeggiava Carlo Inzolia. Il Pm aveva chiesto 24 anni per lui, però era tranquillo, pensava di farcela. Ora lavorava alla Cimbali, carico e scarico. Le bambine le aveva mandate al mare, in quei giorni. Le ore passavano, l’attesa proseguiva senza un cenno di novi-

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tà. Nel pomeriggio scoppiò un secondo temporale. Tuoni e fulmini illuminarono il cielo di Roma. Venne la sera. Il Palazzaccio si rianimò, come se ci fosse stata una pausa, come se tutti quei curiosi fossero andati a far altro, per poi ripassare a vedere a che punto stavano. C’era afa e nemmeno un alito di vento sfogliava le palme di piazza Cavour. La pioggia era stata un sollievo temporaneo. Molte ore più tardi, ormai, tanta gente dormiva con la testa appoggiata alle balaustre di marmo dei corridoi. Altri stavano seduti dove trovavano. A Milano, Giuseppe Fenaroli, il fratello, già non ci credeva più: tanto che aveva prenotato l’aereo per il giorno dopo, convinto com’era che comunque sarebbe andato a trovare il fratello in carcere. Clotilde, la madre di Raoul, aveva lasciato Milano e non voleva vedere gente. Nessuno si illudeva di come sarebbe andata a finire, ma la speranza era sempre l’ultima a morire. A Rosalia, la moglie di Carlo Inzolia, tremava talmente la voce che non era riuscita nemmeno a parlare con i giornalisti. Alle quattro del mattino i quotidiani dovettero andare in stampa, c’era poco da fare: ma non avevano ancora un verdetto da raccontare. Perché la Corte era ancora lì, chiusa dentro. Le posizioni degli innocentisti e dei colpevolisti erano rimaste le stesse, intolleranti, di due anni prima. La gente era restata sanguigna, verace, sul delitto di via Monaci: si attaccavano l’uno con l’altro, continuando a difendere fino allo stremo le proprie posizioni. Le liti divampavano ad alta voce in quei corridoi, che altrimenti erano e sono silenziosi e felpati. Inzolia guardava l’orologio e camminava sempre più nervoso per le corsie. Sapeva bene, sapeva perfettamente (come tutti) che quella lunga attesa significava soltanto che stavano discutendo di lui. Col passare delle ore la sua iniziale tranquillità cominciava a lasciare il posto all’ansia e alla paura. Ogni sigaretta veniva accesa col mozzicone di quella appena finita. Perché ci mettevano tanto? Che stavano facendo? Intanto arrivava anche il pubblico elegante, di quelli che parcheggiavano la spider e andavano a vedere il processo, come se fosse uno spettacolo a teatro o alla tv… i giornalisti continuavano a ingoiare caffè freddo dai thermos, il tenente dei Carabinieri Varisco, che comandava il Nucleo Traduzioni, aveva i nervi a fior di pelle, c’era gente che dormiva sulle panchine di granito

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della piazza, con la giacca avvoltolata sotto la testa. Qualcuno russava – e forte. Inzolia era sempre più carico d’angoscia, di minuto in minuto, di ora in ora. Erano le 8.10 del mattino successivo quando la Corte rientrò in aula. Erano passate venti ore: D’Amario lesse con un filo di voce. In molti dovettero sporgersi per sentire. Fenaroli Giovanni, ergastolo. Ghiani Raoul, ergastolo. Inzolia Carlo, 13 anni. Fu un attimo, Ghiani si afflosciò svenuto, a bocca aperta, sulla sedia. I carabinieri lo sorreggevano. Il caos! Svenne anche la cognata di Raoul e qualche spettatore, provato dalla stanchezza. I fratelli Franz e Vladimiro Sarno, gli avvocati di Raoul, si appoggiarono l’un l’altro per non cadere. Un metro più in là c’era il dramma di Carlo Inzolia. Convinto che l’assoluzione sarebbe stata confermata, era stato completamente colto in controtempo: le mani gli tremavano. Braccato dai flash dei fotografi, dai giornalisti, dai curiosi, entrò in una sala del Palazzo per telefonare a casa e dare la terribile notizia. Ma i fotografi salirono anche sui tavoli, per inquadrarlo. E qui esplose: “Basta! Basta! Non ne posso più!”. Si lanciò a testa bassa contro i giornalisti. Lo trattennero due agenti. Qualche minuto più tardi lasciava la piazza in taxi, terreo. Sapeva bene che mancava il sigillo della Cassazione: e poi sarebbe stato il carcere. Fenaroli restava impassibile, come al solito, mentre i carabinieri lo riportavano a Regina Coeli. Marina Moni – quella che voleva essere la fidanzata di Raoul – si allontanava, squassata dal pianto, nel suo abitino a pois. Il ricorso per Cassazione fu monumentale, enorme. Furono giocate tutte le carte dell’intelligenza, dell’analisi, del dubbio, del cuore. Stavolta Fenaroli aveva nel suo collegio anche un principe del foro come Giuseppe Sotgiu e Ghiani un maestro come Alfredo De Marsico. Non cambiò nulla. Era l’estate del 1966. Giovanni Fenaroli morì per un tumore alla prostata il 6 settembre 1975, in carcere, dopo essersi risposato con la parrucchiera Adalgisa Cagliani.

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Carlo Inzolia ottenne la libertà condizionata il 7 settembre 1970. È ancora vivo. Egidio Sacchi sparì nel nulla, con moglie e figlio. I Martirano persero, nel maggio 1969, la causa civile per ottenere il pagamento dei 150 milioni di lire dell’assicurazione, che non finirono a nessuno. Raoul Ghiani ottenne la semilibertà nel 1981. Nel 1983 ricevette la grazia da Pertini. Uscì dopo 23 anni di carcere. Si stabilì a vivere a Firenze, si sposò. Disse: “Il mio passato è ridotto a zero, il mio futuro anche. Adesso vivo alla giornata, al mio futuro non ci penso. Cosa aspetto? Aspetto solo di migliorare la mia vita, quando voi non ci sarete. Quando voi avrete dimenticato me”. E di tutta questa storia, da allora, non ne ha più voluto sentir parlare.

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Capitolo 8

Un uomo di nome Rossi, un vecchio agente segreto e un senatore dell’Msi

Tutto finito? Macchè. Mentre Raoul Ghiani sprofondava nella tristezza, guardando il mare da dietro le sbarre di una cella sull’isola di Pianosa, sua madre si recava a trovarlo una volta all’anno. Il cuore e la pressione non le consentivano oltre. Partiva in treno da Milano, andava a Piombino, prendeva il traghetto per l’isola e, in mezzo al mare, faceva il trasbordo su un’altra imbarcazione dell’amministrazione penitenziaria. Restava a Pianosa quattro giorni, nell’unica locanda, “Il Castello”. E sperava che ogni viaggio fosse l’ultimo, che un qualche miracolo le restituisse il figlio: mentre Raoul ormai vedeva le sue giornate evaporare, una dopo l’altra, dentro il carcere. Rassegnato e apatico, non voleva più parlare di quella vecchia storia. Giovanni Fenaroli, invece, presentava, il 26 novembre 1971, un’istanza di revisione del processo alla Corte d’Appello di Roma. Non s’era mica arreso, il geometra. In un voluminoso pacco di carte chiedeva che si indagasse di nuovo, spiegando tutte le cose che non gli tornavano. Non tornavano, secondo lui, le date degli incontri a Milano con Ghiani e Inzolia per accordarsi, visto che in quei giorni Ghiani era con Lang; non tornava il movente, se l’assicurazione non era stata mai riscossa. Mi colpisce il fatto – non so cosa ne pensi tu, Armando – che, sfogliando le pagine del ricorso, Fenaroli non negava di aver parlato con Savi, ma negava le date, per dimostrare che non potevano essersi parlati quando diceva il medico… “È una strategia difensiva classica, che viene attuata quando ci si trova di fronte ad una testimonianza ‘inchiodante’; è un modo per screditare (magari a ragione) la testimonianza più decisiva – osserva Armando – è un procedimento a piccoli passi: la prima azione non è negare tutta la testimonianza nel suo complesso (magari gridando a gran voce “non è vero nulla”),

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ma analizzare con attenzione la deposizione e accertare l’attendibilità di ogni parola; successivamente si individua la lacuna (o la piccola frase contraddittoria) più significativa, che inevitabilmente è presente in verbali d’interrogatorio che trascrivono ore di deposizioni; terza fase, ci si dimentica del resto e ci si concentra esclusivamente sulla lacuna/contraddizione fino a quando il testimone ammette finalmente di aver fatto un errore; si conclude amplificando l’errore e perorando il principio che, se una persona dice una cosa non vera, allora è totalmente inattendibile su tutto quello che ha dichiarato. Vogliamo fare un esempio? Parliamo dell’omicidio Calabresi, avvenuto il 17 maggio 1972. Non voglio entrare, qui, nel merito di tutta la faccenda giudiziaria e dell’attendibilità dei testimoni, ma raccontare solamente un piccolo fatto di cui sono stato testimone. Nella rivisitazione del processo, richiesta dagli avvocati di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, ci fu una parte che riguardò due perizie tecniche: una era relativa alle comparazioni balistiche e l’altra ad un piccolo incidente che avvenne prima dell’omicidio. Specialmente su quest’ultimo aspetto si cercò di confutare la testimonianza del collaboratore di giustizia Marino, che aveva dichiarato di aver fatto parte del gruppo omicida che aveva sparato al Commissario. In particolare, Marino aveva affermato di aver guidato la Fiat 125 utilizzata per l’agguato e che Bompressi era seduto al suo fianco. Bene. Nella sua testimonianza, raccontò di aver atteso l’ora propizia per colpire Calabresi davanti a casa sua, nel parcheggio di largo Cherubini. Quando fu il momento di muoversi uscirono dal posto, con la loro Fiat 125: e furono colpiti da un signore, che era a bordo della sua Simca 1100. Ci fu un leggero urto, in cui lo spigolo della Simca toccò il passaruota anteriore destro della Fiat. Piccola intaccatura, appena visibile. Durante le fasi del primo processo, davanti alla Corte d’Assise, nel 1990, l’anziano guidatore della Simca 1100 indicò come luogo dell’ incidente non l’interno del parcheggio, come detto da Marino, ma un vicino incrocio distante poche decine di metri. Ecco che risultò importante, in fase dibattimentale, determinare il punto preciso dell’incidente, perché qualora fosse stato realmente in un punto diverso da dove lo aveva indicato Marino, allora la sua testimonianza sarebbe saltata. L’anziano signore, nei processi successivi, non era più vivo e si cercò una soluzione mediante un lavoro sulle

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autovetture, con simulazioni tridimensionali e prove pratiche. Nessuno metteva in dubbio l’incidente, ma il suo preciso luogo: se fosse avvenuto nel parcheggio, le due autovetture avrebbero dovuto urtare con un incidenza prossima ai 90 gradi, mentre se fosse avvenuto nell’incrocio, ad immissione, l’incidenza tra le due autovetture avrebbe avuto un angolo sensibilmente minore. In una autofficina di Mestre si riunì il fior fiore degli esperti italiani dell’infortunistica stradale, con due autovetture simili e le fotografie dell’epoca. Si passò una intera giornata a fare prove, ma purtroppo la perizia non poteva essere esaustiva, dato che l’urto tra le due autovetture era stato talmente leggero che a malapena, dalle fotografie dell’epoca, si vedeva la tacca sul passaruote della Fiat e un poco di vernice scrostata nel proteggi-faro sinistro della Simca… Questa ricostruzione ebbe una piccola parte nel processo di revisione intentato di fronte alla Corte d’Appello di Venezia, che però il 24 gennaio 2000 confermò le condanne”. Gli avvocati del geometra, ormai all’ergastolo da dodici anni, spingevano molto sulla malafede dei Martirano e sul “Diario del Dolore”, quel quaderno che Fenaroli aveva scritto, commuovendosi, nel primo periodo della sua vedovanza (sottotitolo: “Appunti in margine alla morte di Maria, che vorrebbero tranquillizzare uno spirito travagliato ed uno stato d’animo assolutamente depresso per la crudeltà del destino”): da quelle righe trasudava sofferenza e rimpianto. Ma si sa, la gente mente e lo fa in tutti i modi. Per tirare giù il macigno della sentenza di Cassazione ci voleva ben altro, bisognava attaccare sul fronte Rossi: e così fu. Il ricorso partì per Roma. Solo che il tempo passava. E, da Roma, nessuna risposta. Nel ’73 la signora Clotilde era morta da non molto: a Raoul restavano Luciano (che aveva due anni meno di lui) e Lia, la sorella, che viveva a Milano. A Pianosa Ghiani aveva la libertà di passeggiare per l’isola, allenava l’ “Indomita” (una delle squadre di calcio del penitenziario), faceva piccoli lavori di elettricista nel carcere e nelle poche abitazioni dell’isola. Si trovava nella sezione “Agrippa”. Nell’agosto 1973 il colpo di scena, quello che non s’aspettava nessuno. La Corte d’Assise d’Appello di Roma, sulla base dell’istanza di revisione di Fenaroli, decideva di fare nuove indagini:

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il giudice che aveva esaminato il ricorso, il consigliere Mario Marvasi, s’era infatti convinto che qualcosa, effettivamente, non quadrava. Dirà ad Antonio Padellaro 31: “Le modalità del ritrovamento dei gioielli alla Vembi erano certamente tali da suscitare più di una perplessità. C’erano state varie perquisizioni, dirette dal capo della Squadra mobile di Milano e da un Generale dei Carabinieri. Era stata fatta una verifica minuziosa di tutti i locali dell’azienda e con speciali apparecchiature erano state perfino sondate le pareti, alla ricerca di eventuali vani dove i gioielli della Martirano potevano essere stati nascosti. Non fu trovato nulla. Poi, ecco che un anno dopo spunta quel tale dipendente della Vembi, Dusi, che improvvisamente trova i gioielli nel barattolo e che invece di rivolgersi al commissariato più vicino si sobbarca un costoso viaggio in aereo Milano-Roma e ritorno”. Marvasi mise al lavoro il capitano Antonio Varisco – lo abbiamo già incontrato la notte del processo – ora comandante del Nucleo di Polizia Giudiziaria dei Carabinieri del Tribunale di Roma32 e trasmise i risultati della sua indagine alla Corte di Cassazione, per decidere se aprire o meno il processo. Il punto centrale di tutta la faccenda stava nel capire se era possibile identificare il misterioso Rossi in Wolfango Rossi. La difesa del geometra aveva prodotto una montagna di carte, piene di freccette, schemi riassuntivi, riferimenti, incroci di dati, tabelle, citazioni della sentenza d’Appello, spiegazioni sulle incongruenze e sulle contraddizioni, indicazioni sulle indagini da fare. Ma erano interpretazioni, riletture: per far riaprire un processo passato in giudicato occorreva una nuova prova. Anche se, tra quella montagna di carte, erano ribadite e dimostrate cose che erano assai importanti, come l’impossibilità di arrivare in tempo a Malpensa. Rossi, allora. Il primo problema era che la prenotazione per il 10 era a nome di un Luigi Rossi, mentre quello vero si chiamava Wolfango. Il secondo era che i suoi familiari avevano escluso subito che fosse lui, fin dall’Appello, perché non viaggiava mai Che riporta le dichiarazioni del giudice nel suo “Non aprite agli assassini”, Baldini e Castoldi, 1995. 32 Varisco, anni dopo, sarà assassinato dalle Brigate Rosse. Nel Palazzo di Giustizia di Roma, a Piazzale Clodio, un monumento lo ricorda. 31

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in aereo. Ma la difesa aveva deciso comunque di fare della lettera il proprio cavallo di Troia. Riepiloghiamo: l’ingegner Wolfango Rossi, amministratore unico della ditta Fabar (produttrice di ascensori e montacarichi, sede in via Saluzzo 31, Roma) aveva scritto a Sacchi il 7 settembre 1958, poche ore prima della prova generale del delitto, per chiedergli di prenotare un posto aereo per lui, per il 9 o il 10 successivi; cioè per il giorno in cui si sarebbero incontrati a Milano. Una cortesia, insomma. Rossi non aveva mai testimoniato, poiché aveva avuto la pessima idea di schiantarsi con l’auto. Così si sapeva, così abbiamo sempre letto anche noi: ma quando era successo? Ma siamo sicuri che fosse morto così? Il dato è molto controverso e non ci rimane che immergerci nelle nostre ricerche. Ma dove trovare il dato della morte di un “Rossi”, il cognome italiano più comune? Il problema c’è: perché alcuni libri riportano l’incidente stradale, dandolo per avvenuto nei pressi di Latina, mentre era a bordo con due collaboratori: l’auto aveva sbandato sull’asfalto bagnato, finendo contro un camion sulla corsia opposta. Altri lo collocano altrove. Anagrafe, archivi… L’idea viene ad entrambi: andremmo a sfogliare i giornali, i necrologi… Dopo ore e ore, quello che cerchiamo lo troviamo ne «Il Messaggero» del 4 ottobre 1958: “Il 2 ottobre 1958, per un incidente automobilistico, è venuto a mancare all’affetto dei sui cari il Gr. Uff. Ezio Wolfango Rossi. Ne danno il triste annuncio la moglie ed il figlio Adelio…”. Chiarito questo punto, torniamo alla lettera: è un espresso ed era indirizzato a casa di Sacchi, a Milano. Che fece Marvasi? Dispose una perizia calligrafico-merceologica sulla lettera di Rossi e scoprì che la firma era davvero autentica. Sì, Rossi aveva spedito quella lettera. E la carta della lettera era davvero del 1958. Così, riempì di dubbi 250 pagine di relazione, che vennero presentate in Cassazione nella primavera del 1975. C’era di nuovo speranza per Giovanni Fenaroli? Ma il 6 settembre dello stesso anno un tumore se lo portava via, a Milano. E il 20 ottobre 1975 la Cassazione negava la revisione alla vedova Fenaroli.

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Nonostante le conclusioni di Marvasi e nonostante il lavoro del magistrato sia stato oggettivamente serio, ci sono troppe cose che, comunque, non ci convincono, di quella lettera. Queste: 1. che senso aveva spedirla per chiedere una prenotazione aerea per il 9 o forse per il 10 settembre? Non che non si potesse fare: all’epoca i biglietti si prenotavano e poi magari non si usavano. Ma, per disdire uno dei due, Rossi avrebbe dovuto comunque telefonare a Sacchi e allora ecco il secondo dubbio, che è poi la domanda delle domande… 2. che senso aveva mandare una richiesta del genere a Sacchi, (peraltro a casa sua, dove stava poco) per lettera? Non avevano il telefono tutti e due, specie visto che la richiesta di Rossi era urgente?

Armando si rigira la copia della lettera tra le mani e rimane molto dubbioso. Non abbiamo la perizia originale dell’accertamento, ma non sembra molto convinto… “Fabio, si capisce perché anche dopo delle risultanze come questa, non venne accolta la revisione del processo. Iniziamo con il dire che, senza togliere nulla alla bravura del perito, la firma del Rossi è poco più di uno scarabocchio a motivi lineari. Ecco, non riesco ad essere più tecnico vedendola, ma posso dire che è praticamente impossibile non riuscire a riprodurla! Credo, a questo punto, che tutta la perizia si sia basata, invece, sull’originalità della carta intestata. Su questo posso essere d’accordo e comunque oggi non possiamo verificarlo. Possiamo però dire che presentare dopo circa 17 anni una lettera, tenuta chissà dove e che ha passato indenne numerose perquisizioni, tutte finalizzate alla ricerca di documenti, è strano. Mi spiego meglio: molto spesso vengono effettuate delle perquisizioni finalizzate alla ricerca di armi, alcune volte di sostanze stupefacenti, ecc. Ma quando la ricerca, come nel nostro caso, è finalizzata alla documentazione cartacea, allora dobbiamo ricordare che in questo delitto si è esaminato e ricercato qualunque documento relativo alla situazione patrimoniale di Fenaroli. Beh, è impossibile che sia sfuggito un documento così importante, che è tra l’altro dei giorni dell’omicidio: chiunque dei poliziotti impegnati nelle ricerche se ne sarebbe accorto! Quindi? Marvasi deve aver supposto che questa lettera fos-

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se spuntata troppo misteriosamente, dopo che Rossi era ormai deceduto e potesse confutarla. Poteva Fenaroli aver scritto una lettera del genere, l’avrebbe potuta scrivere in carcere? Impossibile… ma se l’avesse scritta, invece, il fratello Giuseppe? Pensiamoci un attimo. Giuseppe vede il fratello sempre più provato dalla detenzione (infatti morirà pochi mesi dopo): allora cerca di fare di tutto per salvarlo, magari proprio su indicazione di Giovanni: crea una falsa prova. Procurarsi la carta non era difficile, la ditta era a Roma, si conoscevano i suoi impiegati, c’erano stati rapporti commerciali. Il soggetto scelto è quello giusto: una persona con il cognome più comune, che fa frequenti viaggi Roma-Milano. Ed ha rapporti d’affari con Sacchi… Forse, proprio il 5 settembre precedente Sacchi era volato a Roma con un biglietto a nome ‘Rossi’… c’è infatti qualcosa cui nessuno degli investigatori sembra aver fatto molto caso. Questo: che il misterioso ‘Rossi’ aveva prenotato e viaggiato, da Milano a Roma, sempre con quel volo delle 19.35, anche il 5 settembre. Ora, penso che siamo tutti d’accordo se dico che quel giorno non poteva essere l’assassino ad aver volato. Per un motivo molto semplice: il 5 settembre la Martirano era ancora in vacanza in Liguria. Quindi l’ha usato qualcun altro, ma chi? E qui viene il bello: Fenaroli dice che viaggiò proprio Sacchi, con quel biglietto. E Sacchi risponde di essere andato a Roma, il 5, certo, ma di aver preso il treno. Effettivamente, nella successiva nota spese del 14 settembre 1958, Sacchi mette tutto tranne il viaggio del 5. Perché, se fu un normale viaggio di lavoro? Perché quel costoso viaggio, che è stato pagato in contanti, non è tra le spese di cui chiede il rimborso? Si può dire che, se avesse preso il treno, quel viaggio non sarebbe figurato lo stesso tra i rimborsi, avendo lui l’abbonamento ferroviario. Certo. E quindi non c’è certezza che abbia volato Sacchi a nome Rossi, è un’ipotesi. Ma resta un fatto: di sicuro non poteva essere stato l’assassino, perché non aveva alcun senso. E se il Rossi del 5 non era l’assassino, perché dovremmo credere che il Rossi del 10 invece lo fosse? E se non era stato l’assassino, l’ipotesi Sacchi, per il 5, tiene. Ho capito cosa ti stai chiedendo. Perché Sacchi avrebbe dovuto usare un cognome posticcio? Probabilmente, per via degli affari alcune volte sul filo della legalità dell’ingegnere che, quin-

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di, preferiva non far sapere sempre che alcuni documenti dell’impresa si spostassero da Milano a Roma e viceversa. Solo che, come lo usavano loro, poteva usarlo chiunque, quel cognome. Il viaggiatore del 10 poteva essere chiunque… un signor Rossi, appunto. Torniamo però alla lettera di Wolfango. Adesso guarda bene qui, nel gruppo data troviamo una cosa anomala: la città è coperta con varie ‘X’. Vedi? Se la parola fosse stata scritta dal vero ingegner Rossi, che si trovava a Roma, che bisogno ci sarebbe stato di nascondere la città? Facciamo un’ipotesi, diciamo che la persona che ha falsificato la lettera prende e cancella, senza pensarci, la data. Si potrebbe pensare che chi la sta battendo a macchina non conosca bene tutta la vicenda, anche se vi è emotivamente invischiato. Deve giustificare il tragitto MilanoRoma: così gli è stato detto da Fenaroli e quindi quando legge ‘Roma’nel gruppo data pensa che sia errato, che la persona debba partire da Milano. Così, cancella la città pensando di fare una cosa corretta. Emotivamente invischiato: ma non perfetto conoscitore dei meccanismi. Ecco perché poteva essere suo fratello, non uno della Fenarolimpresa, che non avrebbe mai fatto quell’errore, no? Ma poi, se proprio vogliamo continuare, il Rossi reale aveva rapporti d’affari con Sacchi e questo è risaputo: sono documentati vari contatti telefonici tra i due. E ad un certo punto, secondo la difesa di Fenaroli, che fa l’ingegner Rossi? Decide, una domenica, di scrivere un espresso a Sacchi, dicendogli che verrà a Milano il martedì o mercoledì successivo e che poi (specifica) dovrà ritornare in giornata. Ma questo espresso, nel migliore dei casi, sarebbe partito il lunedì per giungere, ottimisticamente, il martedì. Quindi: pensi che sia una cosa logica?”. Giusto, Armando ha ragione: questa lettera non ci convince proprio. Poi, nel 1994, la svolta. Anche stavolta, entra in scena una lettera. Ma stavolta è un’altra storia. Viene da Pergine Valsugana, provincia di Trento. Dentro c’è scritto: “Le malefatte dei servizi cosiddetti segreti sono cominciate molto tempo fa. Se volete saperne di più posso riferire cose a mia conoscenza che, data la mia avanzata età, corro il rischio di portare con me nella tomba”. Chi la apre è Antonio Padellaro e

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in quel momento fa il vice-direttore de «L’Espresso». Se la rigira tra le mani, non sapendo se dare peso o no a quello che ha appena letto: anche perché quel foglio è vago, promette rivelazioni ma non si sa bene su cosa. Qualche mese dopo, Padellaro incontra l’autore della lettera. Si chiama Enrico De Grossi ed è un ex agente del Sifar, il servizio segreto militare italiano. E se ha qualcosa da dire, beh, è proprio sul caso Fenaroli. Quel qualcosa lo riportiamo con le stesse parole con cui De Grossi lo raccontò a Padellaro33: “Una mattina mi chiamarono dal posto telefonico pubblico di Pergine (allora non avevo l’apparecchio in casa): qualcuno chiedeva di me. Era una voce che non riuscii a individuare, anche se chi parlava dall’altro capo del filo, con cadenza meridionale, sosteneva di conoscermi. L’anonimo disse: ‘ma tu davvero gli vuoi dare addosso a De Lorenzo? Allora cerca di tirare fuori la questione Fenaroli. C’è lui dietro quella storia...’. L’informatore aggiunse molti altri particolari, che si riferivano a un delitto, quello di Maria Martirano, commesso dieci anni prima e per il quale il marito della vittima, Giovanni Fenaroli, presunto mandante, e Raoul Ghiani, presunto killer, erano stati condannati all’ergastolo. La voce riferì che, all’epoca dei fatti, Fenaroli era amico di un sottosegretario e che nell’ufficio di quest’uomo politico egli era entrato in possesso di un documento molto compromettente che, se reso pubblico, avrebbe costretto alle dimissioni l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Si trattava in sostanza, spiegò ancora l’anonimo, di una sorta di tabulato con il resoconto delle tangenti che l’Eni pagava a Gronchi, somme che venivano versate al destinatario attraverso l’Italcasse, una finanziaria legata a filo doppio alla Dc. Con quella bomba nelle mani, Fenaroli aveva organizzato un ricatto in grande stile ottenendo, in cambio del silenzio, la cifra, enorme per quei tempi, di 500 milioni. C’era stato poi, sempre secondo l’anonimo telefonista, un secondo tentativo di ricatto, da parte questa volta della moglie di Fenaroli, Maria Martirano. A questo punto, su impulso di De Lorenzo, a cui Gronchi si era rivolto, erano intervenuti due agenti del Sifar che avevano saldato il conto con la pericolosa signora. 33

Antonio Padellaro, op. cit.

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Strangolandola. Fine della comunicazione. Da quel momento non ho avuto pace. Ero stato messo a conoscenza di un terribile segreto, che se svelato avrebbe potuto sottrarre due innocenti al carcere a vita. Ma occorreva dimostrare che la traccia lasciatami dall’anonimo nemico di De Lorenzo, portava effettivamente alla soluzione del giallo. Ho indagato per anni alla ricerca di questa verità. Credo di averla raggiunta con un certo grado di certezza. Ma forse è una verità che ormai non serve più a nessuno”. Ve l’avevamo detto, questo è il giallo più straordinario del Ventesimo secolo. Ci credete o no, adesso? Ma, a questo punto, per capirci qualcosa di più dobbiamo fare un passo indietro e spiegare chi era questo De Lorenzo, di cui abbiamo appena sentito parlare, e soprattutto chi diamine fosse De Grossi. Enrico De Grossi, romano, classe 1913, laureato in Giurisprudenza, aveva combattuto con onore in Africa Orientale, aveva una medaglia di bronzo e una d’argento al valor militare, parlava due lingue (in anni in cui era un’eccezione) ed era entrato nel Sifar col grado di capitano nel 1950. Era stato addetto militare aeronautico a Budapest in quel delicatissimo 1956 in cui infuriava la rivolta contro l’Unione Sovietica. Era un ufficiale serio e stimato e si vedeva dalle classificazioni di segretezza cui aveva accesso; e dal fatto che aveva tenuto i rapporti fra il Sifar e lo Standing Group Nato di Parigi. Le sue note di servizio erano impeccabili. Lo stesso De Lorenzo scriveva che aveva svolto il suo compito “con sagacia e decisa iniziativa”. Ma, proprio a Budapest, la carriera di De Grossi aveva avuto uno stop grosso come una casa. Ai primi di agosto del 1958 era finito in una trappola, accerchiato da agenti del controspionaggio ungherese. Lo avevano interrogato fino alle tre del mattino, senza che lui si tradisse mai, né accettasse di passare dallo loro parte. Rilasciato, aveva capito che qualcuno dei suoi doveva averlo tradito. Siccome non aveva ceduto, si aspettava una medaglia, un encomio: e invece no. Gli ungheresi dissero agli italiani che lo avevano preso in quanto responsabile di un infamante traffico di orologi e preziosi (non sorridete: all’epoca, in Ungheria, non avevano gli occhi per piangere). Gli italiani avevano esitato, non lo avevano difeso, nel dubbio non gli avevano creduto. De

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Grossi capì che l’aria che tirava era pessima ed uscì dal Sifar, col grado di tenente colonnello, nel 1961. Andò in pensione, ma sempre continuando a chiedersi perché De Lorenzo – detto anche il “generale col monocolo” – capo del Servizio segreto militare all’epoca, appunto, ce l’avesse avuta con lui, scaricandolo così di colpo, peraltro a qualche anno dalla nomina a Generale. E continuò a chiederselo fino a quella telefonata, avvenuta nel 1968, appunto: dieci anni dopo via Monaci. Quel giorno, il caso Fenaroli trovò un nuovo protagonista. Ora, che il tenente colonnello a riposo Enrico De Grossi ce l’avesse con De Lorenzo era di un palese che di più non si poteva. Lo odiava cordialmente. Odiava il generale e il suo monocolo per averlo fatto fuori in nome delle voci di corridoio e degli equilibri politici internazionali, quando lui invece era all’apice della sua efficienza e della sua ambizione. Nel 1968 rimuginava già da dieci anni sulle malefatte del Sifar e del suo capo. Il desiderio di vendetta ce l’aveva tutto; e si sapeva in giro. Ecco perché quella telefonata era arrivata proprio a lui, si capisce. Tuttavia, non voleva entrare subito nell’affare di via Monaci, esitava: forse, avendo capito in che guaio si stava per cacciare. Attese fino al 1971, non oltre. Da quell’ anno la sua ossessione per i fatti di Budapest, tutto il rancore e la rabbia che ancora lo abitavano, beh, fecero giuriamento al servizio della sua nuova indagine: quella sui veri motivi della morte di Maria Martirano. Cominciò chiudendosi per tre mesi nella biblioteca comunale di Trento: a consultare i giornali e a prendere appunti. Dalla posizione del cadavere, dalla compostezza delle vesti, arrivò a desumere che gli aggressori erano stati due: uno l’aveva immobilizzata da dietro, tenendola per le braccia, mentre l’altro, davanti, le metteva una mano sulla bocca e una sul collo. Una tecnica da Servizi, insomma. Questo perchè non esisteva alcuna traccia di pressione nella parte posteriore del collo, dove doveva invece restare visibile il segno delle quattro dita. De Grossi andò avanti. Ricontrollò gli orari dei treni, spese soldi suoi, cercò le connessioni. Conclusa la sua inchiesta, andò da Sarno e Madìa a dire cosa aveva scoperto: e ci restò male. Gli avvocati di Ghiani non si en-

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tusiasmarono come lui si aspettava. Non vedevano prove tali da far riaprire il processo e, probabilmente, non volevano rischiare una querela dai signori che lui nominava come responsabili. Era ormai l’estate del 1972: l’ex agente del Sifar andò, allora, a Porto Azzurro, dove stava scontando l’ergastolo Giovanni Fenaroli. Anche perché proprio Giuseppe, il fratello, gli aveva detto che, qualche mese prima del delitto, in occasione dei funerali della madre, quando aveva chiesto a Giovanni come andavano gli affari, si era intromessa la Martirano: “Abbiamo per le mani un affare che se ci va bene siamo sistemati!”. Questo ricordo che era tornato a galla nella mente di Giuseppe Fenaroli era per lui la prova indiretta, che il geometra, nel luglio del 1958, aveva per le mani qualcosa di grosso, qualcosa che non aveva niente a che vedere col fallimento; qualcosa di cui la moglie era pienamente al corrente. La faccenda dei tabulati, appunto. Stop. Fermiamo il nastro nel momento in cui De Grossi è davanti al portone del penitenziario di Porto Azzurro. Introduciamo un nuovo personaggio di questo straordinario giallo. È Giorgio Pisanò. Ex ufficiale della leggendaria Decima Mas, tra i fondatori dell’Msi e del Secolo XX, senatore dal 1972 al 1992, giornalista, Pisanò, proprio nel 1968, aveva deciso di risuscitare «Candido», il settimanale di Giovannino Guareschi. E lo stava facendo con una serie di inchieste fatte come le sapeva fare: di fuoco e passione. A cavallo tra il 1968 ed il 1969, dunque, anche Giorgio Pisanò stava occupandosi del caso Fenaroli, con una lunga serie di articoli (che gli attireranno una querela di Sacchi…) nei quali, al posto dei tabulati di De Grossi, individuava nell’Italcasse il centro di tutta la storia. L’Italcasse: che nella faccenda dei tabulati abbiamo appena nominato come tramite. Ma questo istituto, se ricordate, l’avevamo già incontrato, a proposito del fallimento della Fenarolimpresa. Era stato, nel 1958, il maggior creditore della società del geometra. Quello per cui era fallito. Ricordate? Perché per Pisanò l’Italcasse era lo snodo della vicenda? Il senatore missino – così come De Grossi – non trovava nient’affatto casuale che, proprio la mattina dell’11 settembre 1958 si sarebbe dovuto avviare a chiusura il fallimento della Fenarolimpresa. Quella chiusura così favorevole a Fenaroli, con quel cedimento totale dell’Italcasse, ecco, erano elementi molto sospetti per lui.

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D’accordo: ma cos’era l’Italcasse? L’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane, sinteticamente chiamato Italcasse, era una banca costituita da altre banche, cioè dalle Casse di Risparmio, nel 1921. Doveva fare da Istituto Centrale della categoria e investire la liquidità in eccesso che si formava tra le Casse di Risparmio. Questo per la forma. Molti anni dopo, alla domanda “cos’era l’Italcasse?”, Pisanò, col suo stile vigoroso, avrebbe dato questa risposta: “L’Italcasse cercava aziende in fallimento. Chiedeva: quanto ti serve per non fallire? Cento milioni? Bene. Noi te li diamo. Ma tu ci firmi impegni per un miliardo. Poi, noi ti facciamo fallire, ma in modo che non ne esci con le ossa rotte; però, nel fallimento mettiamo dentro anche i 900 milioni che non ti abbiamo dato”. Era un gioco sporco, insomma: gonfiare un fallimento in modo da rientrare tra i creditori per una quota maggiore di quanto davvero si aveva diritto. Questa differenza rappresentava il guadagno dell’Italcasse e del sistema bancario che ci stava dietro. E della parte politica di riferimento dell’ente. E adesso, sfogliamo i vecchi numeri del «Candido» e vediamo come il battagliero Pisanò raccontava vita, morte e miracoli di questo ente: “Nel primo dopoguerra l’Istituto venne affidato dalla Democrazia Cristiana al dottor Costantino Tessarolo, il quale avallò una serie di operazioni in perdita in seguito a raccomandazioni politiche, o semplicemente per compiacere un certo ambiente romano. (…) Il governo cercò fino all’ultimo di impedire ogni rivelazione; nel giugno del 1958, la Polizia romana fu addirittura incaricata di effettuare una perquisizione nella casa del giornalista comunista di «Paese Sera» Felice Chilanti che, sul proprio giornale, stava pubblicando una dettagliata inchiesta sull’Italcasse. I motivi di tanto accanimento si compresero nel luglio successivo, in occasione del dibattito parlamentare sui bilanci finanziari; e i fatti venuti alla luce permisero di capire che la Dc si era ostinata a difendere la gestione Tessarolo per impedire che il bubbone più grosso fosse portato a conoscenza del pubblico. Il 30 luglio 1958, infatti, discutendosi a Montecitorio i bilanci finanziari, fu dimostrato che l’ltalcasse aveva prestato alla Dc, per le elezioni, l’ingente somma di 865 milioni di lire”. Nel luglio 1958 era Direttore Generale dell’Italcasse Giuseppe Arcaini, ex deputato Dc della prima ora, che era stato sottosegretario al Tesoro dal 1954 al 1957, in tre governi diversi: Fanfani, Scel-

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ba e Segni. Cioè, proprio nel periodo del prestito da 865 milioni al suo partito. Nel dibattito – anzi, nella bolgia – che seguì a Montecitorio, quando la storia del prestito venne a galla, Giulio Andreotti, che era ministro delle Finanze, di fronte agli attacchi concentrici del Pci e dell’Msi, non negò quello che era accaduto, ma rispose ad un deputato comunista con una frase curiosa: “Stia tranquillo, la Dc pagherà, pagherà!...”. Ovviamente la Dc non restituì mai nulla e Arcaini si guardò bene dal tutelare l’Istituto – il suo istituto – richiedendo indietro – al suo partito – quella somma enorme… Per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, infatti, Tessarolo prima e Arcaini poi avevano usato lo stesso sistema che utilizzava Mattei, in quegli anni, con l’Eni: dare soldi un po’ a tutti i partiti, così nessuno poteva protestare e niente sarebbe mai venuto fuori. Oddio, certo, il grosso era finito in bocca alla Dc; i comunisti ed i missini non avevano fatto parte del giro perché stavano all’opposizione e quindi potevano permettersi di attaccare l’Italcasse. È proprio con questo ente che Fenaroli si era legato. Il che non ci stupisce. Vediamo come. E vediamo che legame ha tutto ciò con la morte di Maria Martirano. All’epoca di Tessarolo, ricostruì Pisanò, e su sua richiesta, il geometra era diventato comproprietario e amministratore delegato dell’Icrea, una società costituita a sua volta per acquisire e risolvere la situazione di passività di un’altra società (è un po’ come le matrioske…), la Igcr, che chiameremo “società numero due”. In cambio, Italcasse finanziava la Fenarolimpresa e pompava dei soldi – 100 milioni, per la precisione – dentro la società numero due. Soldi che avrebbe ripreso col consueto sistema del fallimento, visto che la società numero due aveva promesso di ridargliene 420… l’Italcasse, poi, ci avrebbe guadagnato anche con l’Icrea, perché gli aveva prestato ben 200 milioni, che erano stati garantiti da Fenaroli. E Fenaroli, in cambio, si prendeva un bel finanziamento dall’Italcasse di 376 milioni e così aveva i soldi per cominciare i lavori in Turchia, quelli per costruire l’aeroporto. Ma, ai primi del 1957 l’Italcasse, tra un giochetto e l’altro, entrò in una crisi economica. Uscì Tessarolo, entrò Arcaini e divenne subito chiaro che bisognava rimettere mano a tutta la situazione, per evitare il crac. E così, il nostro geometra si vide tagliare i finanziamenti, sia alla Fenarolimpresa che all’Icrea ed alla “società numero due”.

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Quando l’Italcasse risolse la crisi e riprese a finanziare, Fenaroli capì – sostiene Pisanò – che tutto questo giro era servito, in realtà, ad alimentare un traffico di valuta tra la Turchia e l’Italia; e così, l’8 ottobre 1957, si dimise da ogni carica nell’Icrea. E fece sapere, il 14 febbraio 1958, ad Arcaini, che se gli avessero richiesto indietro i soldi prestati, avrebbe spifferato tutto ai giudici. Per tutta risposta l’Italcasse bloccò i finanziamenti alla Fenarolimpresa, i lavori di Savona e Como si fermarono, ed il geometra, senza liquidità per proseguire, si cautelò nei confronti di chi gli aveva commissionato i lavori (il Comune di Savona e le Poste per Como) chiedendo l’amministrazione controllata al Tribunale di Milano. E siamo a maggio del 1958. Ma il Tribunale non sapeva nulla degli affari tra Fenaroli e l’Italcasse e naturalmente il geometra si guardò bene dal dire chi fossero davvero i suoi soci in affari e che giochi sporchi ci fossero dietro, visto che ci poteva andare di mezzo. Il curatore fallimentare, Papeschi, guardò i bilanci e, cifre alla mano, chiese il fallimento. Era il 13 maggio. Tuttavia, il momento era favorevole a Fenaroli, perché lo scandalo Italcasse stava scoppiando proprio quell’estate; estate in cui Felice Chilanti, sulle colonne di «Paese Sera», raccontava per filo e per segno la situazione dell’ente di Arcaini. Non era, per l’ex sottosegretario, il momento di fare la guerra a Fenaroli, quanto di mettersi d’accordo. Il geometra aveva il coltello dalla parte del manico. Nel frattempo, Papeschi avviava le trattative con l’ente. Grazie alla contemporanea pressione di Fenaroli su Arcaini e soci – di cui il curatore era completamente all’oscuro – le cose si misero subito bene. Molto bene. Così, partito dalla scomodissima posizione di dover ridare, tra una cosa e l’altra, la bellezza di 692 milioni all’Italcasse, andò a finire che quest’ultimo si accontentò di prendersi la quota di Fenaroli nell’Icrea (8500 azioni, che valevano zero sul mercato) più undici milioni in contanti per le spese legali. Inoltre, l’accordo prevedeva che Fenaroli non avrebbe più dovuto restituire parte del debito che aveva ancora con l’ente di Arcaini per i lavori di Savona, pari a circa sessantanove milioni. Era l’accordo più vantaggioso del mondo; se non era un azzeramento totale della posizione debitoria, ci mancava poco. Il ricatto aveva funzionato. Il fallimento della Fenarolimpresa, senza

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la quota Italcasse, era molto più facile da gestire e lo capì perfettamente anche Papeschi. Il giorno fissato per mettere nero su bianco, tra le parti, tutto questo, era proprio l’11 settembre 1958. Stop. Mettiamo su rewind e torniamo indietro. Riavvolgiamo fino al 13 aprile 1958. A metà aprile la bagarre con l’Italcasse è ancora in piedi, Fenaroli sta per chiedere l’amministrazione controllata, è in guai grossi, non sa come andranno a finire le cose. Non sa come andrà a finire il ricatto ad Arcaini. Intanto, ha un altro problema da risolvere. Quello di cautelarsi contro Sacchi. Volete sapere perché? Perché negli anni, di raggiri, imbrogli, firme false, debiti e ammanchi, il ragioniere ha fatto una collezione. Avendo più volte fatto fronte ai “buffi” di Sacchi, Fenaroli ha un potere su di lui. E siccome già ha i guai suoi con la sua società e si va incontro ad un fallimento in cui i suoi bilanci verranno spulciati cifra per cifra, pensa di mettere le mani avanti. Così, fa firmare al ragioniere – che non è nemmeno lui uno stinco di santo – un bel foglio, in cui si assume tutta la responsabilità per quelle cosette di cui sopra. Sacchi non può rifiutarsi, perché altrimenti Fenaroli potrebbe denunciarlo. E firma. Questo è quello che ricostruisce Pisanò. Quello che è assurdo, però, è che questa lettera non sia mai stata prodotta da Fenaroli nei vari processi: vero? Mettete da parte questa domanda, cui daremo una risposta, e andiamo avanti. Dopo esser stato costretto a firmare la lettera, Sacchi tornò a essere pappa e ciccia col suo principale. Tant’è che, dopo il delitto, ne confermò ogni deposizione, al millimetro. “L’intesa tra i due giunse al punto – scrive Padellaro – che Fenaroli autorizzò il suo dipendente a dargli del tu e, con atto del dottor Spezzano, lo nominò anche suo procuratore con il compito, tra l’altro, di firmare assegni, cambiali e qualsiasi altro documento necessario alla sua attività”. Certo che appare sorprendente tanta fiducia in uno come Sacchi, a questo punto: ma una spiegazione c’era. È che ognuno sapeva dell’altro cose che era meglio non far emergere, ognuno ne conosceva le oscurità: per questo ci si poteva fidare, perché l’uno aveva in pugno qualcosa sull’altro. E viceversa. Un’unione torbida, non basata sulla professionalità: ma sulla possibilità di ricattarsi.

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Il rapporto lavorativo tra Fenaroli e Sacchi, d’altronde, andava ben oltre: uscivano insieme in orari inaspettati, magari con “due sartine”, passavano le serate nei locali. Ed il tutto sempre dandosi del “lei”! Ma Sacchi superò il limite. Emise assegni a vuoto sui conti di Fenaroli, nel periodo in cui lo interrogavano tutti i giorni in Questura, a Roma, e il ragioniere era praticamente solo al comando della Fenarolimpresa. E così, ecco che il 7 novembre 1958 Fenaroli gli scrisse: “Gli avvenimenti di questi giorni mi inducono a revocarti tutte le mansioni e incarichi di fiducia attualmente in essere”. Con il “preciso intendimento di rinunciare, entro il corrente anno, a ogni e qualsiasi tua collaborazione in quanto è mio programma mettere in liquidazione ogni mia attività”. Quando in Assise gli chiederanno perché, incredibilmente, non avesse mai denunciato Sacchi, dirà: “Non lo allontanai prima perché volevo tenerlo inchiodato alle sue responsabilità”. Alt! Ma queste sono due bombe! Bomba numero uno: Sacchi era stato licenziato. Numero due: Fenaroli voleva ritirarsi dagli affari34. La conseguenza immediata della prima bomba era che Fenaroli, evidentemente, non si fidava più del ragioniere. Di cui, ora, potevano essere messe in piazza tutte le porcherie. Certo che il geometra, per fare questo, doveva essere ben certo di non temere ritorsioni, se lo licenziava, no? Ecco, questo è strano. Non trovate? Se Sacchi fosse stato davvero testimone di una frase come “è Raoul”, di una confessione sul come si era svolto il delitto, di un conciliabolo con Inzolia e Ghiani, se avesse ricevuto davvero una proposta di omicidio, Fenaroli non lo avrebbe mai licenziato, sapendo che, prima o poi, poteva trasformarsi in un sicuro testimone a sfavore. Ovvio. A questo punto, lasciamo la parola a Giorgio Pisanò, che rimette in fila delle date. E lo fa decisamente bene. Riepiloghiamo La circostanza, oltre che dalla lettera, fu confermata anche dalle deposizioni dello stesso Sacchi, di Savi, di Papeschi, di Giuseppe Fenaroli. A tutti il geometra confidò di volersi ritirare dagli affari, dopo la chiusura del fallimento. Di voler tornare ad Airuno. 34

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• Il 7 novembre Fenaroli licenzia in tronco Sacchi e minaccia di denunciarne le malefatte35. • L’11 novembre i giudici chiedono all’Alitalia l’elenco dei viaggiatori del volo AZ412. • Il 24 novembre Sacchi confessa. • Il 26 novembre, assente Fenaroli che è stato appena arrestato, viene sottoscritto l’accordo tra Fenarolimpresa ed ltalcasse per il fallimento.

Non avete notato nulla? Un momento: ma se è stato Sacchi a nominare per primo il fatto che il sicario avesse preso l’aereo e lo ha fatto il 24-25 novembre, perché la Polizia richiese l’elenco passeggeri già l’11 novembre, vale a dire quasi due settimane prima? Ecco, questa era per Pisanò la prova che i fatti erano andati in un altro modo. Questo. Terrorizzato dal licenziamento e da possibili future denunce, sapendo di avere le mani sporche, Sacchi aveva capito che l’unico modo per uscirne era mettere nei guai Fenaroli per la morte della moglie. Era deciso a giocarsi il tutto per tutto. Doveva confessare di sapere la verità sul caso Martirano per neutralizzare Fenaroli. Doveva accusarlo di omicidio, per evitare di essere accusato di truffa, emissione di assegni a vuoto, appropriazione indebita e compagnia cantando. Aveva così preso un tot di elementi veri ed un tot di elementi falsi ed era andato dalla Polizia subito dopo il 7 novembre, affermando di non aver detto prima la verità e di volerla invece dire ora. E chiedendo, in cambio della sua piena confessione, di non essere coinvolto nel delitto. Infatti, poiché la sua versione era di aver assistito alla telefonata delle 23.24, non avendo avvisato la Martirano del pericolo e avendo retto il gioco di Fenaroli per un mese e mezzo, automaticamente sarebbe stato accusato di complicità nel delitto stesso. L’accordo era stato presto fatto. Bisognava far vedere – proseguiva Pisanò – innanzitutto che Sacchi aveva confessato solo perché costretto. A questo scopo fu accusato di falsa testimonianza – reato che prevedeva l’arresto – e così, per dare credibilità all’accusa e alla successiva già 35 Intercettazioni telefoniche di quei giorni indicarono che Sacchi nel 1958 era in difficoltà economiche.

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concordata confessione, fu messo a Regina Coeli. Fu scelta questa accusa, perché non era grave ed avrebbe consentito ai giudici di rimettere fuori il ragioniere senza violentare troppo il Codice Penale. Si trovò un pretesto cui aggrapparsi per accusarlo: e fu la famosa (e mai chiarita) faccenda del milione scomparso dalla casa di via Monaci. L’accordo era che Sacchi si sarebbe fatto un po’ di carcere, poi sarebbe uscito e successivamente sarebbe stato scagionato anche dalla falsa testimonianza, in modo da arrivare al processo bello pulito e in veste di testimone senza macchia e senza paura. Ed in effetti… a ben vedere, Sacchi venne liberato poco prima di Natale e l’accusa ritirata qualche tempo dopo. Però… un attimo. Ora che ci siamo fatti venire dei dubbi, torniamo dove ci eravamo interrotti. Vi abbiamo raccontato l’inchiesta di «Candido» sui rapporti tra Fenaroli e Italcasse. Tutto molto bello – una tangentopoli degli anni Cinquanta – e questo ci spiega anche perché il geometra fece un fallimento davvero conveniente. Bene, molto bene. Ma che c’entra col delitto, l’Italcasse? C’entra, perché si ricollega con la tesi De Grossi. Rimettiamo adesso insieme le due storie. Di cosa ha parlato De Grossi con Padellaro? Di un ricatto enorme, da 500 milioni di lire, intentato dal geometra a quel sottosegretario cui aveva rubato il tabulato delle tangenti che, tramite Italcasse, arrivavano al Presidente della Repubblica Gronchi. E di cosa ha scritto Pisanò sul «Candido»? Degli affari sporchi tra Fenaroli e l’Italcasse. Quindi, Fenaroli avrebbe intentato ben due ricatti. Uno all’Italcasse, in sede di fallimento. Uno al Presidente della Repubblica, sulla base dei tabulati. E quest’ultimo sarebbe stato il movente del delitto Martirano. L’Italcasse era danneggiata in entrambi i casi, ma nel secondo – quello di Gronchi – sarebbe stata una roba da far venire giù il mondo. E quindi, contro Fenaroli si sarebbero addensati molti nemici. Sullo sfondo, i movimenti impauriti e cinici di un Sacchi che, per cavarsi fuori dai guai, avrebbe venduto Fenaroli. Se, però l’inchiesta Pisanò dimostrava assai pragmaticamente i rapporti tra Fenarolimpresa e Italcasse; se disegnava efficacemente il livello morale di Egidio Sacchi e le vere ragioni della sua

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accusa a Fenaroli e Ghiani; possiamo invece credere alle affermazioni più gravi di tutte, quelle di De Grossi? Bisognava andarci a parlare. E bisognava anche rimettere in play dal momento in cui l’ex tenente colonnello era di fronte al portone del penitenziario. E stava per entrare. Ci avevamo parlato alcuni anni fa. E per raggiungerlo a Pergine Valsugana, in mezzo ai boschi del Trentino, il viaggio era stato maledettamente lungo; migliorato, all’arrivo, da uno splendido pranzo a base di fonduta, in una baita. Un’ora più tardi parcheggiavamo l’Alfa e il figlio ci faceva strada di fronte alla villetta dell’ex agente del Sifar, un po’ fuori dal paese. Enrico De Grossi indossava una vestaglia marrone e beige, quel giorno; tossiva spesso, una brutta tosse. L’ex tenente colonnello era lucidissimo, vispo, cortese; e sorseggiava il suo rituale Crodino con fetta di limone. Ci sedemmo al tavolo del soggiorno, con i ritratti degli avi alle pareti e la sua foto in divisa. Ci raccontò la storia della sua famiglia, la sua carriera militare. Schivammo l’offerta di altrettanto drink e iniziammo a parlare. Una pendola ci interrompeva inesorabilmente ogni quarto d’ora, mentre la moglie ogni tanto interveniva nel discorso, ricordando al marito come erano andati i fatti, quando la sua memoria si inceppava un pò. “Com’è cominciata questa storia, De Grossi?“ “È iniziata che sul tavolo di questo sottosegretario, che Fenaroli frequentava per motivi di lavoro, c’era una tabella che riportava tutti i versamenti fatti al presidente Gronchi dall’Italcasse. E lui, in un momento in cui l’altro s’era assentato, se la prese. Tanto è vero che Giuseppe Fenaroli mi raccontò che, trovandosi tutti nella villa di Airuno, qualche tempo prima, aveva chiesto al fratello come andavano le cose. E la Martirano aveva risposto: ‘abbiamo un affare per le mani che se ci va bene, risolviamo tutto’. Poi, quello che mi hanno detto è che la Martirano voleva fare il secondo colpo per conto suo. E lì la situazione è precipitata”. “Lei era nel Sifar, giusto?” “Ero nell’Ufficio R, ricerche, sezione S, cioè Situazione. Noi ci interessavamo soprattutto della dislocazione delle truppe oltrecortina e di altre cose. Ci sono stato fino al 1961, per dieci anni”.

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“Andiamo avanti”. “Guardi, quello che le posso dire è quello che emerge dell’iceberg. Poi c’è tutto quello che sta sotto e che non si può dire. Ho dovuto inventare la storia della cabina, perché non posso dire chi me l’ha riferito, perché se lo dico quella persona negherà pure di esistere!”. “Questo per quello che sta sotto, dell’iceberg. E sopra cosa c’è?” “Per esempio, c’è che quella sera, la sera del delitto, c’era una signora che dall’altra scala, mentre usciva, vide due uomini che stavano entrando, ma che, quando la sentirono arrivare si girarono e fecero finta di uscire, invece che di entrare”. “La signora Anellini, giusto?” “Sì, la signora Anellini”. “Proseguiamo”. “La 1100 scassata, quella che fu vista quella sera in via Monaci, era scassata apposta per fare finta di esserlo, ma era del Sifar: potrei dirle il nome dell’ ufficiale dei Carabinieri in borghese che la guidava. Un’altra cosa strana era l’assenza di impronte da pressione sulla nuca della Martirano. Segno che era stata usata una tecnica tipica dei Servizi: mano sulla bocca e mano sul collo, mentre un altro uomo la teneva ferma da dietro. Poi se ne andarono chiudendosi dietro la porta: cosa che noi sapevamo fare anche senza chiavi”. Un ricatto astronomico, in cui il marito spilla 500 milioni e la moglie rilancia per spillarne altri 500: questa, la tesi di De Grossi. “E lei, poi, andò a parlare con Fenaroli”. “Sì. Quando Fenaroli seppe cosa avevo scoperto, mi scrisse dicendomi – faceva lo spiritoso – dato che non posso venire io da lei, sarà lei a dover venire da me. Era trattato benissimo nel carcere, se voleva gli arrivava il pasto dal ristorante, si vedeva che aveva parecchi soldi. M’ha ascoltato e m’ha detto: ‘per carità, non si muova, non dica niente, altrimenti fanno fuori anche me!’. Temeva che potessero prendersela con lui. Mi fece vedere la lettera di Wolfango Rossi. Ce l’ha presente? Rossi ha avuto l’accortezza di morire qualche giorno dopo il delitto e anche questo sta nella parte sommersa dell’iceberg. So come si muore in un incidente d’auto… È la stessa tecnica che usavamo noi nei Servizi…”. “Parlò anche con Ghiani?”

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“Col fratello. Luciano Ghiani mi disse che sì, quel viaggio c’è stato. ‘Mio fratello ha preso davvero il vagone letto – mi disse – ma l’avvocato gli ha detto che, se l’avesse raccontato, sarebbe stato interpretato in chiave colpevolista’. E così lui ha negato sempre36. Ghiani era venuto per incontrare quel funzionario dell’ambasciata austriaca, così mi disse Luciano: funzionario che poi fece sapere che non avrebbe detto nulla. Ghiani non poteva sapere che qualche giorno dopo sarebbe stata uccisa la Martirano. E nemmeno la prova generale del delitto c’è mai stata”. Mi giro verso Armando: quindi quel viaggio in treno c’era stato! Ne eravamo certi. “Che idea s’è fatto della faccenda dei gioielli?” “Macera non penso proprio che fosse d’accordo con questa storia, io credo che a lui sia convenuto prendere per buone quelle prove. Che ci credesse o no, gli serviva per risolvere il caso. Alla Procura anche serviva risolvere il caso, perché non avevano risolto tutti quelli precedenti che c’erano stati a Roma: parlo di Pasqua Rotta, di Adanella Sist, ad esempio”. Ci ricordiamo bene quel pomeriggio invernale, io e Armando. Uscimmo mentre la sera scendeva sulle montagne. Il freddo era davvero intenso e ci aspettava un lungo viaggio verso Roma. Chiudemmo le portiere e una volta dentro accendemmo motore e riscaldamento in un secondo. “Che ne pensi?” chiesi ad Armando. “Sono molto perplesso, specie sulla faccenda della Anellini”. “E non solo su quella”. “Aspetta, che riapro il pc. Dov’è la deposizione di questa signora? Ah, eccola!”. Armando cercava. La guardammo, la riguardammo. Sarà stata mezza pagina: la teste parlava della posizione della Maniccia e di quella della Trentini. Ma soprattutto, la Anellini diceva che stava entrando: e non uscendo, come aveva appena detto De Grossi. “Ma qui i due uomini non ci sono! Non ne parla!” fece Armando sgranando gli occhi. “Aspetta, fa vedere. No, non ci sono… però sembra che durante il dibattimento se ne sia ricordata… Ma ti sembra logico? 36 Affermazione seccamente smentita da Titta Madia: “La confidenza di De Grossi è del tutto inventata e fuori da ogni logica”, ci dice.

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Durante l’interrogatorio più importante, in cui racconta, anche se sinteticamente, delle persone che intravide quella sera, non accenna ai due uomini, per poi ricordarsene durante il dibattimento!”. “A me non tornano nemmeno le cose che ha detto sulla morte della Martirano, sai?” fece Armando “senza tenere conto che la porta di casa era chiusa con lo scrocco, cioè solo accostata, senza nessuna mandata, non come ha appena detto lui”. Ripartimmo. Sapevamo già cosa avremmo fatto, una volta arrivati. All’altezza di Bologna, componemmo un numero di telefono. Dall’altra parte ci rispose Antonella Colonna Vilasi. Antonella è un’esperta di storia dei Servizi Segreti. Ha scritto vari libri sull’argomento ed insegna all’Università proprio questa affascinante materia. La incontrammo ai tavolini di Rosati, a Piazza del Popolo, molto contenti che l’inverno romano fosse diverso da quello che avevamo trovato al nord. A lei chiedemmo di spiegarci un po’ lo scenario evocato da De Grossi: il Sifar, Gronchi, un mondo lontano e vicino, che volevamo mettere più a fuoco. “D’accordo. Il Sifar era il Servizio Informazioni Forze Armate, cioè il servizio segreto militare dell’epoca; ed era già operativo dal 1949, quindi in piena guerra fredda. Non era il solo: nel contempo erano attivi anche i tre Sios, i servizi delle tre forze armate. Dal 1955 al 1962 fu guidato dal generale Giovanni De Lorenzo, noto per la schedatura di tanti uomini di sinistra; parliamo dello stesso uomo che preparò il Piano Solo37, tanto che la schedatura venne fatta proprio in preparazione del Piano. De Lorenzo aveva come ambito politico di riferimento la Dc e infatti il suo periodo alla guida del Servizio coincise col settennato di Gronchi alla Presidenza della Repubblica. Ed il Sifar era l’organo informativo per eccellenza in quel periodo, quello che tutelava la sicurezza della Nazione. Coordinava anche i Sios, all’atto pratico, quindi aveva un potere enorme. De Lorenzo era un uomo molto potente, ordinò la schedatura in massa degli italiani; è sta37 Il “Piano Solo” fu un progetto di colpo di stato. Prevedeva la presa di controllo sul Paese da parte dell’Arma dei Carabinieri e nell’estate del 1964 stava per essere messo in atto.

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to un personaggio poliedrico, complesso. Il Sifar che, nonostante fosse coperto da scandali, era a diretta dipendenza del Ministero della Difesa, sarà poi sciolto nel 1966”. “Quindi una struttura molto potente. Che anni erano quelli, per il Sifar?” “Il 1956 fu un anno di svolta per il Servizio, perchè fu ristrutturato, potenziato l’organico: ebbe strumenti di altissimo livello. Operava, in quel periodo, un fortissimo lavoro di schedatura, come vi dicevo prima. Nel 1958 alcuni settori della Dc si aprirono alla sinistra socialista; da qui in poi, quindi, De Lorenzo iniziò a schedare non solo quelli di sinistra, ma anche quelli di centro favorevoli al centro sinistra… Alla fine si conteranno 157.000 fascicoli. Ci fu una Commissione Parlamentare, la Biolchini, che indagò su tutto questo e che cassò 34.000 fascicoli, ritenuti illegali. E quindi la maggior parte delle schede sopravvissero. Ma la schedatura proseguì anche dopo De Lorenzo, fino al 1965. Insieme a intercettazioni, pedinamenti, controlli della posta... Questa fascicolazione incise anche sull’elezione del successore di Gronchi e cioè Segni. L’altro candidato infatti era Giovanni Leone, ma il Sifar informò i parlamentari delle abitudini della moglie di Leone e così... ”. “Certo che il Sifar di De Lorenzo aveva un potere enorme. Ma tu credi che possa essere rientrato nel caso Fenaroli? Insomma, che idea ti sei fatta di questa vicenda?”. Antonella prese un altro sorso di cappuccino e ci rispose. “Cosa penso? Penso che il tenente colonnello De Grossi ha rimuginato per tutta la vita su un evento lacerante per la sua psiche, qualcosa che non ha mai dimenticato, né rimosso. Forse Enrico De Grossi, benchè presumibilmente non un mitomane e con un ottimo stato di servizio, si è voluto in questo modo vendicare e sfogare l’odio che provava per il Generale De Lorenzo, che all’improvviso lo liquidò e lo allontanò senza motivazioni evidenti dal Sifar, incolpandolo del delitto…”. Certo, i dubbi sulla versione De Grossi erano tanti: anche se l’ex militare ci era parsa una persona molto seria, non un mitomane o un inventore. Forse, piuttosto, uno che aveva forzato una sequenza di avvenimenti per vedere ciò che aveva bisogno di vedere. “C’è una cosa che non sai” le dicemmo “i servizi segreti sono entrati davvero nel processo Fenaroli. Carnelutti e Segni erano

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titolari di cattedra a Roma, uno di procedura penale e uno di civile, nonché amici. Carnelutti si rivolse al collega per chiedergli una mano, perché era in grande difficoltà. Tramite Segni un ufficiale dei servizi fu messo a disposizione di Carnelutti per aiutarlo a trovare elementi a favore di Ghiani. Non li trovò”. “Un ufficiale dei Servizi, certo… ma non il Sifar” disse sorridendo Antonella. E concluse: “È verosimile lo scenario di De Grossi? Ho molti dubbi. In Italia, in genere, tutto quello che avviene e che non è spiegabile viene riportato ai servizi segreti. De Grossi è arrivato a smontare il movente del delitto: tangenti pagate dall’Eni a Gronchi. Ma non ha mai prodotto le prove delle sue affermazioni: e nella sua versione ci sono molte incongruenze, non trovate?”. Ma non era ancora finita. Sulla base del libro di Padellaro, Ghiani provò a chiedere la revisione del processo, a vedere riconosciuta la propria innocenza. E, proprio come in una staffetta di padre in figlio, fu Titta Madia a seguire quella istanza. Era l’ottobre del 1996. Ma la Corte d’Appello di Roma disse ancora di no. “Quanto fu indagata la tesi di Padellaro, avvocato Madia?” “Non fu proprio indagata: anche perché, ai tempi dell’istanza di revisione, una sentenza passata in giudicato era un muro invalicabile. Oggi non è più così, ci sono state delle innovazioni normative e giurisprudenziali che hanno reso meno difficile l’abbattimento di una sentenza definitiva. Credo tuttavia che Ghiani, che vive una vita tranquilla, con una moglie affettuosa, al solo sentir parlare del suo tragico passato entri in uno stato di agitazione che gli renderebbe insopportabile ritornare a parlare con avvocati, giudici, testimoni di accusa e testimoni di difesa… insomma della sventura che lo ha colpito in gioventù. E che ha preferito seppellire definitivamente. D’altronde, la vita successiva di Ghiani – conclude Madia – sia quella carceraria, caratterizzata da un comportamento modello, sia quella successiva alla sua liberazione, conferma, direi in modo indubitabile, che tra lui e il sicario di Via Monaci c’è una incompatibilità psicologica assoluta”.

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Capitolo 9

Secondo noi è andata così

Appoggiato a quel muretto sembra parlarci, raccontarci versi, ma in realtà probabilmente, da come lo conosciamo, starà imprecando in romanesco contro tutti i ragazzi che hanno scelto la sua piazza per la movida romana. Siamo seduti sui suoi scalini e ripercorriamo la nostra ricerca, è notte fonda: l’unico momento per trovare un pò di pace a Trastevere. Mezzanotte è passata da un pezzo. Ci alziamo, guardiamo alle nostre spalle per un ultimo saluto a Trilussa e iniziamo a camminare in silenzio per via di Santa Dorotea. “Ma ti sembra normale, Fabio, quello che è successo? – dice Armando, mentre si sentono solo i nostri passi sui sanpietrini – partiamo dal processo, dal grande Carnelutti. Lui aveva capito come erano andati i fatti e cercava di difendere il suo cliente, Fenaroli, nell’unico modo possibile, cercando di scagionare Ghiani. Unica tattica possibile, dimostrare che Ghiani fosse innocente. Pensa a quando snocciolò davanti alla Corte i trentatré dubbi. Più della metà riguardavano Ghiani. Pensa quanto in quel momento avrebbe voluto difendere proprio lui, Raoul”. Armando ha ragione, i punti sull’elettrotecnico sono molti, addirittura più di quelli che Carnelutti elencò come elementi diretti a favore del suo assistito. Alcuni elementi sembrano addirittura scagionare Ghiani ed accusare Fenaroli. Non era mai successo nella storia del Foro, e forse mai succederà, che un avvocato per scagionare il suo cliente cerchi in tutti i modi di far assolvere un chiamato in correo. “Era troppo più facile difendere Ghiani – riprende Armando – basti pensare che quell’aereo non avrebbe mai potuto prenderlo: e comunque, se pure c’era la possibilità remota di farcela, non era certo una possibilità pianificabile. Vuoi che tutti si affidino al caso?”.

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“Vogliamo parlare dei gioielli ritrovati dopo tutto quel tempo, dopo che avevano fatto ben due perquisizioni in quel locale? Che poi l’orologio ritrovato non aveva l’incisione che avrebbe dovuto avere…” “Perché, il riconoscimento sulla Freccia del Sud del superteste, smentito però da altri tre testimoni?”. “La verità è che su Ghiani non torna nulla. Il tipo di vita che faceva non prevedeva che aspirazioni di piccola felicità spicciola. Voleva avere una Seicento, passare le serate al bar del Catanoso, divertirsi con le ragazze. Questa era la vita di Ghiani. Ha ragione Madia, quando parlava dello ‘strangolatore tecnico puntuale professionale di via Monaci’. Lo scriveva proprio così, senza virgole. Quell’assassino non poteva essere il ragazzo di via Tarquinio Prisco”. “Che idea ti sei fatto dei gioielli?” “Pazzesco. Se partiamo dall’idea che Ghiani fosse innocente come un bambino, allora è chiaro che ce li ha messi qualcun altro. Possiamo pensare al vero assassino oppure alla Polizia stessa. Macera era un uomo al di sopra di ogni sospetto, come dirittura morale. Ma quell’inchiesta non la fece solo lui”. “No, sai che ti dico? È stato un gigantesco errore giudiziario. Condito da perizie chiarificatrici, come quella sui microfilm, ma che in realtà non chiarivano nulla, o fatte in modo dubbio, come quella automobilistica. Quel ragazzo avrebbe potuto dire e fare qualsiasi cosa, ma ormai s’erano convinti che era lui. E niente li avrebbe smossi da lì”. “E il telegramma di Tambroni? Chi se lo scorda, quello? Fu la pietra tombale, Armà: già viviamo in un Paese dove nessun giudice o poliziotto ammette i suoi errori, ma dopo una roba del genere per gli imputati era finita”. “Sono d’accordo. Ma di Inzolia? Vogliamo parlare di Inzolia? Sacchi lo incastra perché gli chiedono il nome dell’intermediario, senza il quale non si capisce come ricollegare due mondi che non si incontravano che raramente, come Fenaroli e Ghiani. E lui butta là un nome. Pensa a Sacchi nella sua cella di Regina Coeli, che cammina avanti e indietro, scegliendo l’uomo da dare in pasto ai leoni, quello da distruggere senza tanti complimenti, pur di salvare la pelle. Questo era Sacchi”. “E alla fine decide per Inzolia. I giudici e Macera ci cascano. Inzolia, poi, è descritto come uno sfaticato che campava di pre-

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stiti. Quindi, un amorale che faceva il paio con Ghiani, smanioso della bella vita”. Continuiamo a camminare. A sinistra superiamo il nostro barbiere, che si trova in una bottega abbastanza vecchia e tipica da non dover mettere la scritta “parrucchiere per uomini”; e poco dopo giriamo per via di Porta Settimiana. “Sacchi è la chiave di volta di tutto. Ma qui siamo arrivati anche a Fenaroli, Armà…”. “Assolutamente sì. Sacchi è lo snodo, perché è stato abile. Forse non sarebbe successo nulla, o le cose sarebbero andate diversamente, se non avesse continuato a fregare Fenaroli dopo la morte della moglie. Lui se ne accorge e lo licenzia. Quando lo arrestano ha già l’acqua alla gola perché il suo capo l’ha licenziato e può denunciarlo. Così, lo incastra per salvarsi. Ma deve preparare una versione dei fatti, inventarla bene. Solo così si spiega quel modo reticente di coinvolgere un Raoul di cui sapeva benissimo cognome, indirizzo e qualifica. Solo così si spiega l’averci messo quasi un mese a sputare fuori il nome di un Inzolia che non era una pedina così grossa da non poter essere sacrificata e fatta arrestare al primo interrogatorio, volendo”. “Certo, è indimostrabile che si sia messo d’accordo con la Polizia prima dell’arresto. Questo sì. La coincidenza però della richiesta dell’elenco passeggeri molto prima che il ragioniere parlasse è sospetta, ma può anche essere dovuta ad una decisione della Polizia, che comunque doveva verificare l’alibi di Fenaroli. Ma il punto non è questo. È che è stato abile, sai? Ha mischiato cose vere – come Savi, come le prenotazioni a nome Rossi – con cose false, come il ruolo di Ghiani e Inzolia. Che dici? Io penso che Fenaroli volesse davvero farla fuori, la moglie”. “Sì, lo penso anch’io. Non per i soldi o l’assicurazione, come si è sempre detto. La polizza fu solo un’occasione, che poi si guardò bene dall’utilizzare. È che proprio non ce la faceva più”. Imbocchiamo via della Lungara. “Sai che ti dico? – riprendo, dopo un attimo di silenzio – quello di via Monaci non fu mai il delitto di Ghiani, che non era così disperato da prendere un aereo al limite del tempo, fare una corsa folle in auto, uccidere una donna mai vista per un guadagno incerto… e ritornare indietro sfidando gli orari e gli sguardi. E non fu nemmeno il delitto di Inzolia, un uomo con la stoffa di chi si arrangiava, ma non dell’intermediario di un omicidio, un

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uomo che aveva già incontrato la fortuna: sua sorella e la sua capacità di avere l’amante ricco. Per un Inzolia, bastava. Gli aveva dato un negozio, che altro poteva volere? Fu il delitto di Fenaroli”. “Il geometra, per come la vedo io, aveva perso il proprio centro, la propria identità. In pochi mesi aveva perso Amalia e aveva la ditta fallita. Soprattutto il secondo motivo era tutto per lui. Ricordi cosa ha detto Marisa Aloia? Era ciò che lo rappresentava ed in cui si identificava. Senza il sentirsi importante a parlar di milioni e progetti assurdi – e anche senza il conforto di Amalia – s’era visto allo specchio per quello che era: un uomo di mezz’età, con una moglie insopportabile come unica ancora di salvataggio. Ed aveva sbroccato. Fenaroli voleva chiudere tutto: la ditta, il matrimonio, era stufo. Per prima cosa ha pensato al suicidio. Poi, superato il periodo cruciale della Fenarolimpresa, ha cambiato idea. Per lui l’omicidio della Martirano era una pratica burocratica da risolvere, per ricominciare da capo. Una volta risolto il problema della moglie avrebbe liquidato le sue attività e poi, chissà, si sarebbe ritirato in campagna, come diceva di voler fare: anche se uno come lui, fermo, non ci sapeva stare. Che ne pensi?”. “Guarda, sono d’accordo. L’assassinio era, per Giovanni Fenaroli, la fine della vecchia vita e l’inizio di una nuova. Il suo è stato il calcolo d’un uomo senza passione, legato alla forma, una partita di giro da chiudere in pareggio. Un dovere numerico, una soluzione necessaria, un’altra sfida impossibile partorita dalla sua mancanza di senso della realtà”. “Ah, e i Servizi? A me De Grossi non m’ha convinto. Troppo cervellotica e priva di prove, la sua tesi; per quanto gli intrallazzi con l’Italcasse (e i relativi ricatti) ci siano assolutamente stati. Pisanò aveva ragione. Ma non fino al punto di causare un delitto. Sai che ti dico? Non credo nemmeno alla prova generale del delitto”. “Sai che ti dico? Nemmeno io. Per me è nata dalla mostruosa paura che agitava la Martirano a ogni soffio di vento. Non credo che avesse alcun senso, per Fenaroli, come dicevi tu, cercare di far fuori la moglie mentre lui era a Roma. Tra l’altro, era un piano ridicolo. Se l’assassino fosse entrato con la copia delle chiavi di Fenaroli, la Polizia sarebbe risalita a lui in mezzo secondo…”. “Guarda come il caso – la paura della Martirano, che inventa

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una cosa che non c’è – la figura di Sacchi e il desiderio di vendetta di De Grossi abbiano stravolto la verità dei fatti. Era tutto più semplice, Fabio. Come sempre. Ti dirò di più. Per me il misterioso Rossi di quelle prenotazioni aeree non era nemmeno Wolfango. Anche questo elemento possiamo toglierlo dal delitto”. “Vediamo se ho capito cosa vuoi dire. Wolfango Rossi conosceva davvero Sacchi, ma non può aver preso né l’aereo del 5 settembre né quello del 10, perché non lo prendeva proprio e viaggiava solo in treno. Capita. Per cui, quel cognome così banale, Rossi, forse era, semplicemente, quello che Fenaroli e Sacchi usavano per i viaggi aerei di cui non volevano lasciar traccia. D’altronde, di cose contabili e amministrative quei due ne avevano da nascondere: e quindi qualche precauzione negli spostamenti ci stava. Secondo Fenaroli proprio Sacchi aveva viaggiato, usando quel cognome, il 5 settembre precedente… A questo sembra che nessuno abbia dato il giusto peso”. “Esatto! Tutti hanno creduto che il ragioniere, il 5 settembre, avesse usato un biglietto prenotato e non usato da Wolfango, ma non hanno pensato che poteva essere un biglietto autonomo, invece. E la lettera è un falso creato anni dopo, per aiutare la causa di Fenaroli, per il ricorso in Cassazione. Te l’ho spiegato, no? Sulla faccenda della lettera è stato Fenaroli a mischiare verità e menzogna, invece...”. “Una storia che è incredibile quanto un film. Ti ricordi ‘Il vedovo’ di Alberto Sordi? Uscì l’anno dopo, ma richiamava la nostra storia: parlava di un geometra, di un ascensorista (in un certo senso il nostro Rossi) e di una moglie da far fuori... e riusciva ad essere incredibile quanto la realtà”. Intanto siamo arrivati davanti al grande palazzo. Regina Coeli. È tardi, molto tardi, non ci siamo accorti di che ore sono. “Ma Fabio, ti ho mai raccontato di quando ci portarono mio nonno Umberto? Non aveva intenzione di prendere la tessera del partito fascista, durante il Ventennio; e quindi cercarono di convincerlo ‘con le buone’, sembrano così lontani quei tempi, no? Questo carcere è da sempre legato a filo doppio con Roma e la sua storia criminale, un filo indissolubile lo lega ai cittadini romani. Qui dentro ci sono stati i nostri protagonisti, da Girolimoni ai personaggi della Dolce Vita. Tutti qui, nei sui bracci a raggiera. E qui dentro finì l’elettrotecnico.

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Lo sai cosa dice uno stornello romano? ‘Dentro a Regina Coeli c’è ‘no scalino/Chi nun salisce quello non è romano’. E Ghiani salì quel gradino. Quel ragazzo milanese, gran lavoratore ed attaccato alla mamma, lo salì ingiustamente e, magra consolazione, divenne cittadino romano”. “Certo che ne è passato di tempo, però è vero, i luoghi della nostra storia sono ancora tutti lì. Non solo Regina Coeli. Ti ho mai detto che nell’appartamento del delitto c’è uno studio notarile? Invece al posto del negozio di Inzolia, la “Lux Maison”, c’è una banca. Sai cos’è rimasto al suo posto? Il Bar del Catanoso. Incredibile. È ancora lì, al 44 di via Coni Zugna”. “Incredibile sì, se pensi che nemmeno il penitenziario di Pianosa, quello dove andò Ghiani, esiste più. È abbandonato da anni. Fenaroli è morto nel 1975, De Grossi nel 2009, Macera nel 2010, Sacchi è svanito, un momento… e Raoul?”. Ci guardiamo negli occhi. È l’unica telefonata che, per rispetto, non abbiamo mai fatto. L’alba è passata da poco, quando componiamo il numero di una casa di Firenze. La prima cosa che sentiamo è il rumore di un televisore acceso. Poi una voce maschile, potente, che grida nell’apparecchio: “Pronto!”. È Raoul. Gli spieghiamo chi siamo, gli chiediamo se ha qualcosa da dire. La voce a telefono è garbata, ma ferma. “Guardi, io non ho dimenticato nulla di quello che è successo e se parlo poi sto male per mesi, quindi preferisco non dire niente. Purtroppo, non ho potuto dimenticare niente di quella storia. Se ne cominciamo a parlare divento un orso: e questo non sarebbe bello. Non trova?”. Ce l’aspettavamo, ci sta. Va bene così. Noi crediamo che l’assassino del delitto di via Monaci, quello di cui Fenaroli non ha mai fatto il nome, sia rimasto sconosciuto per tutti questi anni. Crediamo che possa essersi fatto, per altri motivi, un po’ di carcere a Regina Coeli, che si sia vantato col compagno di cella di sapere dove avrebbero ritrovato i gioielli, magari proprio perché ce li aveva messi lui. Che Barbaro abbia raccolto questa voce. Crediamo che abbia letto il giornale al bar,

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abbia seguito i processi e abbia sorriso, dentro di sé, pensando a come l’aveva scampata bella, grazie all’inaspettato aiuto del ragionier Egidio Sacchi. E che magari non era nemmeno di Milano: magari era proprio di Roma, senza immaginare per forza viaggi all’ultimo respiro e incredibili incroci di coincidenze ferroviarie. Chissà chi era. Sì: il 242703 di via Monaci 21 squilla a vuoto. Da 55 anni.

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INDICE

Capitolo 1 Sembrava un settembre qualsiasi

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Capitolo 2 Cercavamo di stancarlo

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Capitolo 3 Saltano fuori tre testimoni

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Capitolo 4 La quattordicesima polizza ed un fallimento da ridere

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Capitolo 5 Il geometra, il ragioniere, l’elettrotecnico e il commerciante

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Capitolo 6 L’uomo dalla memoria di ferro, un’auto che corre sulla statale e una scatola piena di polveri

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Capitolo 7 Un processo che fece epoca

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Capitolo 8 Un uomo di nome Rossi,un vecchio agente segreto ed un senatore dell’ Msi

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Capitolo 9 Secondo noi è andata così

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Bibliografia AA.VV, Giovanni Fenaroli da I Processi del secolo, Edizioni ER.GA., 1984 AA.VV. Roma in nera, Palombi Editore, 2006 Felice Borsato, Siena Monza chiama Doppia Vela 21, Ciarrapico Editore, 1976 Francesco Carnelutti, Contro Vento, Editore Morano, 1962 Cesare Fiumi, L’Italia in nera, Rizzoli, 2006 Alfonso Gatto, Il mistero di via Monaci Avagliano, 1996 Pier Mario Fasanotti, Valeria Gandus, Mambo italiano, Marco Tropea, 2000 Livio Jannattoni, Roma intima e sconosciuta, Newton Compton, 1996 Silvia Lo Giudice, Il caso Fenaroli, Ed. S.P.EDIT, 1986 Nicola Madia, In difesa di Raoul Ghiani, dalla rivista «L’Eloquenza», anno LI, Fasc. 3-4, Maggio-Agosto 1961 Antonio Padellaro, Non aprite agli assassini, Dalai Editore, 1995 Enzo Rava, Roma in cronaca nera, Manifestolibri, 2005 Fabio Sanvitale, Armando Palmegiani, Morte a via Veneto, Sovera Edizioni, 2012 Maurizio Ternavasio, Diabolich. L’assassino di via Fontanesi, La Stampa, 2006 Lello Vecchiarino, Diabolich. Il mistero di via Fontanesi, Edizioni del Rosone, 1997 Quotidiani e Periodici «Il Corriere della Sera», numeri da settembre a dicembre 1958; numeri del 15 maggio 1994, del 23 settembre 1994 e del 26 luglio 1998 «Il Giornale» del 21 settembre 2008 «Il Giornale d’Italia», numeri da marzo ad aprile 1960 «Il Messaggero», numeri dal settembre 1958 al dicembre 1958; e da maggio a giugno 1963 «Momento Sera», numeri del febbraio 1961 «Il Paese» (Paese Sera), numeri dal settembre a dicembre 1958; numeri di maggio 1963 «La Stampa», numeri dal settembre 1958 al dicembre 1958; numeri di maggio 1969 «L’Unità», numeri dal settembre 1958 al giugno 1961; numeri di luglio 1963

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«Crimen, rivista di Polizia Scientifica», anni 1959-1960 «Detective» del maggio 2007 «Delitti e misteri» del maggio 1996 «L’Europeo», numero 52 del 1958 «Gente», numeri di ottobre-novembre 1973 «Oggi» del 16 febbraio 1961; numeri dell’ottobre 1970 «Rotosei» del 21 giugno 1961 «Lo specchio» del 16 novembre 1958 «Tempo», numeri del 9 dicembre 1958, 23 dicembre 1958, 5 maggio 1959, 30 giugno 1959, 4 marzo 1961 Archivi Atti del Processo Fenaroli-Ghiani-Inzolia, Corte d’Assise di Roma. Emeroteca del Senato della Repubblica, Roma. Archivio Fotografico de «L’Unità». Rai Teche, Roma. Archivio Storico dell’ Istituto Luce, Roma. Biblioteca Provinciale, Pescara. Sitografia www.cronaca-nera.it www.ugomacera.it www.ratioiuris.it – “La storia dell’avvocatura”, lezione tenuta dall’avv. Titta Madia Wikipedia, voce “Omicidio Calabresi” Wikipedia, voce “Iccri” Wikipedia, voce “Giuseppe Arcaini” Videografia “Settimana Incom” del 1 febbraio 1961 “Giallo cronaca: il caso Fenaroli”, 1980 “I grandi processi” di Sandro Curzi, Rai, 1996 “Ve li ricordate? Raoul Ghiani”, Rai, 1991 “Pronto, Raffaella?”, intervista a Ugo Macera, Rai Degli stessi Autori nelle nostre Edizioni Un mostro chiamato Girolimoni. Una storia di serial killer di bambine e innocenti, 2011, pp.176, € 15,00 ISBN 88-6652-003-0 Morte a Via Veneto. Storie di assassini, tradimenti e Dolce Vita, 2012, pp. 224, € 15,00, ISBN 88-6652-063-4

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Finito di stampare nel mese di Novembre 2013 Tipolitografia A.SPADA - Ronciglione (VT)