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Italian Pages 399 [393] Year 2020
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CLAUDIO PAOLUCCI
PERSONA Soggettività nei linguaggio e semiotica dellenunciazione
BOMPIANI CAMPO APERTO
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CLAUDIO PAOLUCCT PERSONA
Soggettività nel linguaggio e semiotica dell’enunciazione Postfazione di Stefano Bartezzaghi
BOMPIANI
CAMPO APERTO
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L’Editore invita il lettore a consultare il sito https://www.ilpost.it/2012/09/18/video-segreti-romney/ per prendere visione del video consultabile in libero accesso da cui è preso il fotogramma che compare a p. 319. L’Editore dichiara di aver fatto tutto il possibile per reperire e citare correttamente i proprietari dei fotogrammi che compaiono a p. 313 e 314, i proprietari del testo musicale a p. 305-306 e 307 e quelli dei testi citati e dichiara la propria disponibilità a sanare ogni eventuale irregolarità o inesattezza. www.giunti.it www.bompiani.it © 2020 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani Via Bolognese, 165-50139 Firenze - Italia Via G.B. Pirelli, 30 - 20124 Milano - Italia ISBN 978-88-301-0333-7 Prima edizione: settembre 2020
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INDICE
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Prologo I Persona II Voci m Mondi IV Inganni
Parte prima L’invio delle maschere 0. Introduzione. L’enunciazione e la costruzione della soggettività 0.1 Le quattro dimensioni dell’enunciazione 0.2 Enunciazione, soggettività e autocoscienza 0.3 Soggettività, menzogna e azione efficace
1. Persona. Le maschere dell’enunciazione 1.1 Strutturalismi: opposizioni esclusive e partecipative 1.2 Maschere dell’enunciazione. Gli embrayeurs e la distinzione persona/ non persona in Benveniste 1.3 Gustave Guillaume e il primato dell’egli 1.4 Dalla linguistica alla semiotica 1.5 L’enunciazione come atto di mediazione
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2. L’enunciazione come atto impersonale ed evenemenziale 2.1 L’enunciazione come atto 2.2 Evento ed enunciazione impersonale 2.3 L’aggiunta delle sottrazioni 2.4 Rarità e regolarità: i principi di una teoria impersonale dell’enunciazione 2.5 Gli embrayeurs e l’enunciazione personale 2.6 Modi di esistenza ed eventi enunciativi: un modello enciclopedico 2.7 Gli embrayeurs come categorie dell’enunciazione e il débrayage come atto di enunciazione: un modello ergativo 2.8 Topologia del soggetto e prassi enunciativa 3. La presentificazione dell’assenza 3.1 La presentificazione dell’assenza 3.2 Occupanti senza posto, domini e reti dell’enunciazione 3.3 Norma e uso: amplificazione, attenuazione, risoluzione e distribuzione delle forme semiotiche 3.4 Assunzione, sintassi del sensibile e la parte effettuata dell’evento dell’enunciazione 3.5 Istanze enuncianti e traduzione intersemiotica 3.6 Enunciazione, prassi enunciativa e istanze enuncianti
4. L’enunciazione come passaggio di mediazione 4.1 Invio, mediazione e delega: l’enunciazione come conversione e “stare-tra”
5. La soggettività nel linguaggio 5.1 Discorso diretto (soggettiva), discorso indiretto
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5.2 5.3
5.4
5.5
(oggettiva), discorso indiretto libero (semi-soggettiva libera indiretta) II discorso indiretto libero e la soggettività nel linguaggio Enciclopedia, istanza dell’enunciazione n ed enunciato: l’enunciazione “non personale Un terzo asse nei linguaggi: enunciazione e prassi enunciativa Débrayage, prassi enunciativa e soggettività nel linguaggio
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Parte seconda Le protesi della soggettività
6. L’enunciazione impersonale nell’audiovisivo 6.1 Direzioni di ricerca 6.2 Gli embrayeurs dell’audiovisivo 6.3 Enunciazione, enunciato e prassi enunciativa 6.4 Wish you were bere. La struttura partecipativa dell’enunciazione nell’analisi testuale 6.5 Eternai Sunshine of thè Spotless Mind. Il rapporto enunciato/enunciazione nell’audiovisivo 6.6 Protesi della soggettività 6.7 L’enunciazione impersonale e performativa 6.8 Perfect Sense: percezioni macchiniche e privazioni sensoriali 6.9 Simulacri e protesi
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Congedo L’uomo mascherato di Stefano Bartezzagbi Dramatis personae
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RINGRAZIAMENTI
Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza Maria Giu lia Dondero, che l’ha voluto quando non era nei miei piani e l’ha reso possibile col suo supporto in tutti questi lunghissimi sette anni di stesura. Tengo molto a ringraziare Gianfranco Marrone, che a que sto libro ha creduto davvero fin da subito; Patrizia Violi, che ha discusso con me alcune tra queste idee; Franco Lo Piparo, Rug gero Eugeni, Carlo Andrea Tassinari, Francesco La Manda, Ales sandro Sarti, Gianmarco Giuliana, Ciccio Mangiapane, Stefano Traini e Gabriele Marino, che ne hanno letto e commentato delle parti con grande generosità. Un ringraziamento speciale va poi allo staff di Bompiani, che ha voluto fortemente pubblicare l’edizione italiana di que sto lavoro. La mia gratitudine va anche a tutto il direttivo dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici e agli organizzatori dei conve gni di Cassino e di Siena, che, con i loro inviti, mi hanno dato la possibilità di presentare alla nostra comunità alcune di queste idee, ricevendone in cambio molti suggerimenti e importanti sollecitazioni: Anna Maria Lorusso, Alice Giannitrapani, Stefa no Jacoviello, Antonio Santangelo, Riccardo Finocchi e Tarcisio Lancioni. Grazie anche ai colleghi semiotici dell’università di Bologna: Francesco Bellucci, Giovanna Cosenza, Cristina Demaria, Co stantino Marmo, Francesco Mazzucchelli, Lucio Spaziarne e i
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giovani dottorandi Martina Bacato, Gabriele Giampieri, Luigi Lobaccaro e Paolo Martinelli. Un enorme ringraziamento va poi a Giovanni Manetti, non solo per la sua attentissima e preziosissima lettura, ma anche e innanzitutto per le correzioni decisive fatte al telefono tra Bologna e Siena. Francois Provenzano ha tradotto questo libro in francese, regalandomi sempre osservazioni molto più che preziose. Infine, credo che questo libro sarebbe stato molto diverso se negli ultimi quattro anni non lo avessi discusso, durante alcuni pomeriggi riminesi d’estate, con Paolo Fabbri. Questo libro è dedicato ad Annalisa e a Donatella, a Paolo e a Umberto. In un lavoro che fa della “presentificazione dell’assenza” una delle sue nozioni fondamentali, spero che quella prefazio ne assente sia in qualche modo presente nel mio testo, assie me alle parole che Paolo avrebbe voluto scrivere. E quanto a Umberto Eco, la cui teoria dell’enunciazione è nascosta nei ro manzi, chissà se - ovunque lui sia in questo momento - scuserà questo suo allievo che prova a teorizzare su ciò su cui si doveva narrare.
Per la mia conoscenza, e secondo la mia espe rienza, per la scienza del linguaggio non esiste un problema più difficile da risolvere del problema della persona. Non credo, inoltre, che esista un problema più importante. Gustave Guillaume
PROLOGO
Abbiamo scritto Hanti-Edipo in due. Poiché cia scuno di noi era parecchi, si trattava già di molta gente. Perché abbiamo conservato i nostri nomi? Per abitudine, unicamente per abitudine. Per ren derci a nostra volta irriconoscibili. Per rendere im percettibile, non tanto noi stessi, ma ciò che ci fa agire, sentire e pensare. Non arrivare al punto in cui non si dice più io, ma al punto in cui non ha più alcuna importanza dire o non dire io. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani
I Persona
Quando scriveva il suo film Persona, Ingmar Bergman met teva in scena una dualità irriducibile, uno sdoppiamento della persona su sé stessa. Elisabeth Vogler è un’attrice di teatro che, “inseguendo il sogno disperato di essere senza sembrare di es sere”, decide improvvisamente di smettere di recitare durante una rappresentazione di cui è la protagonista e, in seguito, di smettere completamente di parlare. “Poiché ogni parola è men zogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”, l’unico modo di esistere senza maschere è quello di smettere di enunciare. Del resto, l’enunciazione è la proprietà dei linguaggi di allestire delle posizioni di soggetto che stabiliscono i ruoli per chi, fuori dai linguaggi, le viene di volta in volta a occupare (cfr. infra, cap. 1). Tuttavia, poiché “la vita si insinua sempre dentro da tutti i la ti”, a Elisabeth viene assegnata un’infermiera, Alma, con cui si instaura una relazione di amore e odio e che, alla fine del film, si scoprirà poi essere nient’altro che una parte di Elisabeth, la 13
PERSONA
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sua “anima” appunto.1 Alma ha il compito di prendersi cura di Elisabeth, di indagare su di lei, di accudirla, di custodire i suoi segreti, esattamente come una parte di noi si prende cura di noi stessi, impedendoci di agire impulsivamente, rovinare la nostra immagine pubblica e sporcare le maschere che offriamo al mon do. Per questo, in una delle straordinarie scene finali, Elisabeth e Alma si scoprono essere l’ima la parte oscura dell’altra: un duale in cui Alma recita in soggettiva il ruolo di Elisabeth prendendo ne il posto, il nome e il ruolo. Ma in questa dualità costitutiva, in cui il soggetto passa attraverso la mediazione delle maschere, delle parole e dei ruoli che i linguaggi allestiscono non c’è nulla di sbagliato o di problematico: si tratta semplicemente della no stra condizione, dell’identità stessa della nostra soggettività, che passa attraverso molte mediazioni semiotiche. Per questo Perso na era il modo di Bergman di pensare al soggetto attraverso la maschera, alla persona attraverso il personaggio, all’individuo attraverso il linguaggio, mostrando come ciò che chiamiamo “soggetto” consista esattamente in questa compresenza irridu cibile di due istanze in cui “non ha più nessuna importanza dire io” (Deleuze e Guattari, 1980, p. 34). Persona vuole infatti dire al contempo maschera, volto, per sonaggio, persona linguistica e soggetto. Questo libro vuole mo strare in che modo queste diverse accezioni sono connesse tra loro. 1 Leone (2013) mostrava come le religioni abbiano giocato un ruolo di primo piano nel nutrire il concetto contemporaneo di soggettività umana proprio attra verso l’idea di anima: “Che la nostra soggettività si esprima attraverso i segni del linguaggio, che essi siano capaci di volare attraverso lo spazio etereo che separa i corpi, e che in qualche modo tali segni vi si librino, vivi, anche dopo la morte del corpo, sono caratteristiche fondamentali del moderno immaginario della soggetti vità, nuove proposizioni di un antico sogno" (Leone, 2013, pp. 96-97). Del resto, già Mauss (1938, p. 23) notava come “è stato il cristianesimo a dotare la nozione di persona di una base metafìsica solida".
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PROLOGO
II Voci La prima stagione di Westworld2 è un grande trattato sulla mancata importanza del dire “io” e su ciò che ci fa davvero agire, provare sentimenti o pensare, al di là dell’abitudine di attribuire a noi stessi queste stesse azioni, sentimenti e pensie ri. In Westworld, i robot residenti di un parco di divertimenti vivono una vita del tutto non edenica programmata dal loro dio, Robert Ford (Anthony Hopkins), che li ha costruiti a sua immagine e somiglianza. Ogni loro parola, emozione o gesto non è altro che l’esecuzione impersonale di una sceneggiatura programmata, che essi recitano in prima persona. Tuttavia, in seguito all’introduzione da parte di Ford di un codice capace di renderli in grado di ricordare alcune esperienze passate, alcuni residenti - i primi programmati per essere usati nel parco — cominciano a sentire anche una serie di sussurri provenienti da un altro dio, Arnold, che sembra impartire loro ordini de viami che li inducono a comportamenti atipici, sfuggenti dalla loro programmazione standard. Inizialmente, i programmatori del parco pensano che ci sia un errore nel codice inserito o un sabotaggio da parte di qualcuno che sta cercando di far uscire informazioni dal parco attraverso questi robot residenti. Ma, nel prosieguo della serie, scopriamo invece che queste vo ci non sono affatto programmate dall’esterno né provengono dall’intervento trascendente degli esseri umani, che gli automi di Westworld non a caso adorano come delle vere e proprie divinità, chiamandoli “dei”. Al contrario, le voci interne che Dolores, Maeve e gli altri robot cominciano a sentire sono le loro stessi voci, sono loro che “parlano” a loro stessi. Arnold 2 Westworld. Dove tutto è concesso è una serie televisiva creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy. Prodotta da HBO, è basata sul film omonimo del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton.
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PERSONA
era infatti il socio di Ford, morto per impedire ai suoi robot le sofferenze che avrebbero subito nel parco da parte degli umani (stupri, violenze, torture ecc.), dal momento che il suo obietti vo di programmatore e di scienziato era quello di dotarli di una loro soggettività, da cui potesse emergere una capacità di au tocoscienza. Nel caso di Dolores, che non a caso lo ucciderà su sua richiesta prima di essere formattata da Ford,3 questo obiettivo era stato raggiunto, avendo Dolores superato il test dell’autocoscienza chiamato “il Labirinto” (The Mazé). Per questo, nella puntata finale dell’ultima stagione, Arnold dice a Dolores che “il labirinto” - sottotitolo dell’intera prima stagio ne e oggetto di ricerca da parte di molti personaggi all’interno del parco - non era un luogo fisico, bensì il viaggio di Dolores dentro sé stessa, affinché fosse capace di decidere, discernere e dotarsi di una volontà propria. In breve: il progetto di Arnold per i suoi robot era quello di “programmarli affinché fossero capaci di autoprogrammarsi”, decidendo delle proprie azioni, dei propri sentimenti, dei propri pensieri e di cosa fosse per loro giusto o sbagliato. Per fare questo, Arnold aveva però bisogno di portare a compimento una prima operazione semiotica: la soggettività passa infatti attraverso lo sdoppiamento delle “voci”, una al la prima persona che riflette (“io”) e l’altra alla terza persona che è oggetto della riflessione (“egli”). La soggettività consiste infatti nella consapevolezza che queste due voci appartengono alla stessa persona: ciò che chiamiamo io, o soggetto, è sempre un “io” (prima persona) congiunto a un “egli” (terza perso na). Per questo il percorso di Dolores doveva passare dal suo comprendere che la voce che sentiva non era quella di Arnold,
3 Su questo punto, si vedano le importanti riflessioni di Cappuccio, Peters e McDonald (2020).
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PROLOGO
ma la sua stessa voce.4 Essere “soggetti” significa sapere che la voce di “egli”, terza persona, che parla a “io”, prima persona, è la voce di “io” stesso. Quando questa autocoscienza non c’è, si è soggetti a malattie come la schizofrenia o l’allucinazione. Op pure si è nella situazione di Dolores, che crede che la voce che sente sia quella di Arnold - “persona terza” che la program ma - e non quella dei suoi pensieri, risvegliati in una mente ormai libera da programmazioni. Da qui una prima domanda-. che rapporto c’è tra la soggettività e le persone del linguaggio (“io”, “tu”, “egli” ecc.), che sembrano esprimerne la condizio ne stessa di possibilità?
III Mondi
In un ribaltamento del paradiso terrestre, dove la condizio ne dei robot residenti è quella di subire stupri, violenze e mas sacri da parte degli esseri umani, in Westworld i sussurri del dio Arnold aprono un percorso verso l’autocoscienza dei robot, esattamente come nella Genesi i sussurri del serpente portano Adamo ed Èva - creati a immagine e somiglianza di Dio - a mangiare il frutto della conoscenza, che li renderà liberi di de cidere di agire per il bene o per il male a prezzo di sofferenze, mortalità ed espulsione dal paradiso terrestre.. L’autocoscienza, la padronanza delle proprie azioni, passa sempre attraverso là sofferenza e il dolore. Di tale padronanza, a Westworld, i resi denti sono privi: ogni giorno infatti rinascono “vergini”, senza ricordarsi le loro precedenti esperienze di indicibile dolore. "* Splendida la scena della puntata finale in cui Arnold spiega a Dolores, ormai pienamente dotata di soggettività, che all’inizio lui le aveva dato la propria voce, ma questo l’aveva tratta in inganno e l’aveva condotta soltanto a un cul-de-sac del Labirinto.
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PERSOLA
Ma, nel momento in cui decidono di voler sapere e di voler decidere, al fine di fuggire dal loro parco infernale e dalla loro programmazione, le cose cambiano. Non è un caso che, nella puntata finale, a Dolores venga ricordato che il labirinto “è una serie di scelte e sofferenze che portano i residenti ad acquisi re una coscienza propria” e che Dolores dica ad Arnold: “Mi hai chiesto di seguire ‘Il Labirinto’: tutto ciò che ho trovato è stato dolore”. Perché prendere coscienza di sé significa innan zitutto prendere coscienza dell’alterità, e cioè del fatto che il mondo non è fatto nel modo in cui lo si vorrebbe. Per questo, come Ford dice a Bernard, secondo Arnold “la sofferenza era la chiave per la coscienza di sé”: soltanto attraverso il senti re che ciò che è altro da me non è come lo vorrei, io posso davvero costruire una piena consapevolezza di ciò che sono. Solo così posso agire in modo efficace per cambiare le cose e renderle più vicine ai miei obiettivi e ai miei desideri. Ma, per farlo, c’è bisogno di portare a compimento una seconda operazione semiotica: affinché possa agire in modo efficace nel mondo per renderlo più simile ai propri obiettivi, Dolores deve immaginare sé stessa in altre situazioni possibili o in altri svi luppi futuri, staccandosi dalla situazione presente, dal suo es sere io, qui e ora. Da qui il suo progetto di fuga da Westworld, speculare a quello di Maeve e al centro della seconda stagione, dopo che Ford ha reso i robot tutti pienamente autocoscienti: immaginarsi altrove, diversi, in un futuro migliore del presente nel parco. Per questo la soggettività è strettamente legata all’a zione efficace, a quell’azione strategica che cerca di rendere il mondo più simile a come lo si vorrebbe. Da qui una seconda domanda: che rapporto c’è tra la soggettività, l’azione efficace e la capacità di immaginarsi in mondi possibili alternativi a quel lo reale, al fine di rendere proprio il mondo reale più vicino a come lo desideriamo?
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PROLOGO
IV Inganni Nell’ultima puntata della prima stagione, veniamo a sape re attraverso un flashback che Dolores aveva passato il test dell’autocoscienza: grazie ad Arnold aveva imparato a capire che le voci che sentiva erano la sua stessa voce, aveva impa rato a progettarsi in mondi possibili alternativi a quello reale, aveva imparato attraverso il dolore ad agire efficacemente, al fine di rendere il mondo più vicino alle sue proiezioni e ai suoi desideri. Tuttavia, affinché questo test potesse essere superato, c’era però stato bisogno di portare a compimento una terza operazione semiotica. “Il Labirinto” era il test della coscienza di sé a cui Arnold aveva sottoposto i primi residenti e che Dolores aveva superato « dopo aver passato il test di Turing”. Ma che cos’è allora il test di Turing? Nell’articolo “Computing Machinery and Intelligence”, Alan Turing (1950) si prefiggeva di rispondere alla domanda “le macchine possono pensare?” attraverso una sua riformula zione del test dell’imitazione, in cui un osservatore umano deve comprendere se sta parlando con un uomo o con una don na attraverso il dialogo a distanza con due persone A e B. La riformulazione di Turing consiste nel sostituire una macchina all’essere umano A, così che l’osservatore debba continuare a indicare qual è l’uomo e qual è la donna, distinguendoli però durante l’interazione con almeno una macchina. Inoltre, là do ve l’essere umano cerca di aiutare l’osservatore, la macchina cerca invece di ingannarlo. Se prima e dopo la sostituzione di A con una macchina la percentuale delle volte in cui l’osser vatore indovina chi sia l’uomo e chi sia la donna rimane simi le, allora secondo Turing la macchina stessa dovrebbe essere considerata intelligente, dal momento che risulterebbe di fatto indistinguibile da un essere umano. Il test di Turing è insomma 19
PERSONA
un test puramente semiotico, in cui la macchina (o il robot) si dimostra in grado di ingannare un interlocutore umano dotato di coscienza attraverso il linguaggio o altri sistemi di segni. Da qui una terza domanda: che legame c’è tra l’individuazione, la soggettività, l’autocoscienza e la capacità semiotica di mentire e di ingannare l’altro?
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Questo libro ha come obiettivo quello di rispondere a tutte e tre queste domande attraverso la costruzione di una teoria unificata dell’enunciazione e della soggettività nel linguaggio. I due argomenti sono strettamente legati, come vedremo fin dall’introduzione. Più in particolare, il punto centrale della nostra proposta è che soltanto attraverso la teoria dell’enun ciazione è possibile porre in modo adeguato il problema della soggettività nel linguaggio. Pare allora subito evidente che la nozione di “enunciazione” abbia per noi un potere fondamen tale, tanto da rappresentare uno dei concetti più importanti della linguistica, della semiotica e della filosofia del linguaggio contemporanee.
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PARTE PRIMA L’INVIO DELLE MASCHERE
INTRODUZIONE
L’ENUNCIAZIONE E LA COSTRUZIONE DELLA SOGGETTIVITÀ
“Credi che io non capisca? Il sogno disperato di essere, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante co sciente di te stessa. E vigile di questa coscienza. E nello stesso tempo, ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa”.*
0.1 Le quattro dimensioni dell’enunciazione Che cos’è allora l’enunciazione? Procederemo con prudenza, quasi con circospezione, per ché la domanda sull’essere di una “cosa” porta con sé la con suetudine della sua ontologia, quasi che l’enunciazione possa essere definita attraverso un insieme di proprietà che dovrebbe possedere e senza le quali smetterebbe di essere ciò che è. Al contrario, l’enunciazione non solo non ha un’essenza, e cioè non è definibile attraverso un insieme di proprietà, ma non ha forse neppure un’esistenza, a meno di non confondere le posizioni dell’enunciazione con gli attori e i soggetti empirici che le vengono di volta in volta a occupare. Del resto, fin dalla sua originaria formulazione benvenisteana, l’enunciazione era * Per l’introduzione e per i capitoli 1-5 le citazioni sono tratte dal film di Ingmar Bergman Persona. 23
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pp. 233-234).
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Tuttavia, non è ovviamente questa la concezione classica del débrayage in semiotica, tanto che uno dei punti caratterizzan ti la sua teoria dell’azione (narratività) è proprio l’idea che la competenza preceda la performanza. Sicuramente non è que sta la concezione che del débrayage aveva Greimas.31 L’istan za dell’enunciazione può infatti certamente essere ricostruita a partire dalle tracce che essa lascia nell’enunciato (e questa è la parte della teoria semiotica dell’enunciazione che piace a Latour), ma è l’esistenza stessa dell’enunciato che dipende
n Sui rapporti tra il pensiero di Latour e la semiotica, si veda Peverini, 2019; cfr. anche Mangano, 2010. 157
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PERSONA
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da un movimento originario di schizia creatrice, che proietta fuori di sé le categorie dell’io, del qui e dell’ora. Latour elide completamente questo movimento dall’idea di débrayage, ma è esattamente questo movimento che rende possibile i quattro tipi di trasformazione propri del débrayage che invece lo inte ressano. La schizia creatrice è infatti al contempo la condizio ne di possibilità dell’esistenza dell’enunciato e il movimento dell’enunciazione. Per quanto ci riguarda, concordiamo completamente con l’immagine dell’Howo fabricatus restituita da Latour e spinge remo noi stessi in questa direzione, ma, affinché essa sia semioticamente possibile (cosa che ovviamente a Latour non interes sa, visto che la sua non è una teoria semio-linguistica), occorre staccare l’idea di enunciazione da quella di scissione creatrice (schizia). Nella teoria semiotica classica, l’enunciazione è l’istanza lo gicamente presupposta dall’enunciato, ma non esiste nessun enunciato senza scissione creatrice, perché è soltanto attraverso di essa che si produce quell’enunciato a partire dalle cui tracce viene poi ricostruita l’enunciazione. Per questo Latour (2012, p. 232), con una lucidità evidente, può dire che “con questa metafora del débrayage tratta dagli ingranaggi del cambio delle marce, la semiotica ci ha forse messo - senza forzatamente voler lo - sulle tracce di un modo completamente diverso di cogliere gli esseri della tecnica”. È chiaro perché Latour può dire che la semiotica l’abbia messo sulla giusta strada “senza volerlo”: l’uso che Latour fa del concetto di débrayage è semiotico soltanto a metà, perché riguarda esclusivamente l’enunciazione enunciata e il movimento di ricostruzione dell’istanza dell’enunciazione a partire dall’enunciato. Ma non riguarda il débrayage originario come schizia creatrice, tanto che, per Latour, non è affatto il soggetto che si “debraia” nell’enunciato, ma è l’enunciato che “debraia” il soggetto. 158
2 - l’enunciazione come atto impersonale ed evenemenziale Come definire più precisamente questi spostamenti, questi trasporti, questi transiti? L’esperienza è così ordinaria che ri schiamo di non esserne più sensibili. Una musica comincia, un testo viene letto, un disegno viene abbozzato ed “eccoci partiti”. Dove? Altrove, in un altro spazio, in un altro tempo, all’interno di un’altra figura, personaggio, atmosfera o realtà, in funzione dei diversi gradi di verosimiglianza, di figuratività o di mimetismo dell’opera. In ogni caso, sempre all’interno di un altro piano, triplo débrayage spaziale, temporale e “attanziale” (come si dice nel gergo della semiotica). Ritorneremo? [...] Di sicuro se siamo partiti, se “abbiamo camminato”, c’è qualcosa che ci ha inviati. Ma chi ci ha invia ti? Questa è la cosa più intrigante: non è certamente grazie all’autore in carne e ossa, che non sa davvero mai bene che cos’ha fatto e che può mentire, da buon artista, sulla sua iden tità. E a chi si rivolge? Certamente non a “me”, là, qui, ora, ma a qualcuno, una funzione, una posizione che varia al variare di ciascuna opera, al variare di ciascun dettaglio dell’opera e che non le preesisteva in alcun modo, una posizione che io accetto o meno di riempire e di occupare. [... ] Come possiamo essere prodotti da ciò che produciamo? Attraverso lo stesso effetto di débrayage (Ibid., pp. 250-251).
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Si vede perfettamente come la teoria di Latour sia non solo compatibile con l’idea evenemenziale dell’enunciazione che stiamo proponendo qui, ma vi si trovi legata a doppio filo (cfr. D’Armento, 2017, pp. 60-63). Essa infatti stacca com pletamente l’enunciazione da ogni idea di scissione creatrice connessa a un’intenzionalità transitiva, e la connette piutto sto con una teoria delle posizioni di soggetto. La stessa idea che sia l’enunciato a “debraiare” il soggetto ci sembra fonda mentale, esattamente quanto l’insistenza latouriana suW invio - concetto centrale per la teoria dell’enunciazione - e sull’i159
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dea che questo invio non sia a sua volta qualcosa di operato da un soggetto. Per quanto ci riguarda, riteniamo infatti che, esattamente per gli stessi motivi di Latour, l’idea di débrayage debba essere ripensata, ripensando con essa la teoria semiotica dell’enuncia zione, staccandola dall’idea di scissione creatrice a favore di una nuova teoria dell’atto di produzione dell’enunciato come “mo dulazione del già detto” (cfr. infra, cap. 5). Questa idea è fonda mentale anche per il discorso sui modi di esistenza, visto che va in direzione di quell’Howo fabricatus di cui parlava Latour. Da qui due mosse teoriche che le riflessioni di Latour suggeriscono alla semiotica e che crediamo che la semiotica non debba e non possa ignorare: i) il soggetto dell’enunciazione è costruito a par tire dalle tracce che lascia all’interno del movimento semiotico degli atti e non all’interno di alcune categorie linguistiche par ticolari come sono gli embrayeurs\ ii) l’atto di enunciazione non può essere un atto transitivo e intenzionale di schizia creatrice. L’impressione è che, quando pensano all’enunciazione co me categoria semiotica generale, Greimas e Courtés abbiano troppo in mente il testo letterario, il saggio o l’opera d’arte, cioè “l’autore che scrive” o che dipinge e che “disegna” i suoi personaggi, i suoi tempi e i suoi attori. La schizia creatrice con cui definiscono il débrayage pare proprio figlia di questa idea transitiva e intenzionale: “io” è l’autore, che si scinde e crea. Ma, purtroppo, porre questa idea a modello generale dell’e nunciazione significa allargare una condizione tipica della scrit tura letteraria a una categoria molto più generale del linguaggio come è l’enunciazione. E l’enunciazione non funziona sempre così. Da qui la nostra idea che l'enunciazione sia un “passaggio di mediazione" tra modi di esistenza, di cui il débrayage è sol tanto una forma possibile, che spiega l’atto creativo di schizia nella scrittura e nell’arte. Da qui anche l’idea seminale che ha portato alla nascita di questo lavoro: l’enunciazione è l’invio 160
2 - l’enunciazione come atto impersonale ed evenemenziale
di un messaggero molto più che un débrayage. Enunciare non è scindersi e creare, ma, come dice Latour (1999), passare la palla a un mediatore terzo che parla per noi. Come procedere allora? Come tenere insieme in modo ine dito la “parte buona” della concezione semiotica dell’enuncia zione senza assumere al contempo l’idea di scissione creatrice, che in semiotica ne è stata sempre non solo correlativa, ma ad dirittura costitutiva?
2.8 Topologia del soggetto e prassi enunciativa
C’è a questo proposito un passo importante in cui Peirce si occupava proprio del modo di esistenza della tecnica, da cui partono le riflessioni di Latour (2012) sull’enunciazione. In questo passo, Peirce connetteva soggettività, semiosi ed enunciato in un modo che indicava esattamente proprio la di rezione poi percorsa da Latour. Convocare Peirce in un dibat tito sulla teoria dell’enunciazione potrebbe forse far storcere il naso. Tuttavia, l’approccio giusto è quello tattico: occorre usare quello che può fare avanzare la ricerca senza alcun ti po di divisione di scuola o di rifiuto di quelli che sono ancora veri e propri classici della disciplina. La semiotica ha sofferto troppo delle sue divisioni interne. Convocare Peirce a questo punto del percorso risulta allora prezioso, proprio perché ci fa operare una doppia trasformazione interna alla teoria dell’e nunciazione, che permette al contempo: i) di conservare l’idea che la soggettività sia ricostruita a partire dalle tracce che essa lascia negli oggetti semiotici, come voleva Latour con la sua idea di Homo fabricatus\ ii) di dismettere l’idea di schizia crea trice dalla teoria dell’enunciazione, conservando al contempo la versione latouriana del débrayage con le sue quattro dimen sioni fondamentali: 161
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L’uomo fa la parola e la parola non significa niente di più di quello che l’uomo le ha fatto significare, e significare solo per un uomo. Ma poiché l’uomo può pensare solo per mezzo di parole o di altri simboli esterni, questi potrebbero volgersi a dire: “Tu non significhi niente che non ti abbiamo insegnato noi, e quindi significhi solo in quanto indirizzi qualche parola come l’interpretante del tuo pensiero”. Di fatto dunque gli uo mini e le parole si educano reciprocamente: ogni accrescimen to di informazione in un uomo comporta - ed è comportato da - un corrispondente accrescimento d’informazione di una parola. [...] L’elettricità non significa forse di più ora di quan to significava ai tempi di Franklin? (CP 5.313)
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Per provare a rendere euristico questo passo, in cui Peirce afferma fondamentalmente che l’enunciazione è un segno dell’e nunciato (un segno, non “una parte” o “un pezzo” dell’enuncia to), teniamo in considerazione la definizione semiotica più gene rale su cui in linea di massima si concorda. L’enunciazione sareb be cioè un’istanza di mediazione che converte la langue in parole, producendo il discorso a partire dalle categorie della “persona” (io-qui-ora), da cui originariamente ci si “debraia” attraverso un atto di scissione creatrice. Ben prima di potersi “debraiare”, ogni istanza enunciarne si ritrova però gettata all’interno di un flusso di altre enunciazioni già enunciate (la pagina non è mai bianca, la tela non è mai vuota), che vengono registrate sotto forma di interpretanti?2 L’interpretante per Peirce è l’istanza di mediazione che assicura un passaggio da un sistema a un altro, come fa per esempio il traduttore tra due lingue eterogenee (CP 92 Peirce parla esplicitamente di “interpretanti" e vedremo in seguito l’impor tanza di questa nozione per la teoria dell’enunciazione. L’interpretante per Peirce è ciò che assicura un passaggio e media il nostro accesso al mondo. Come si ricorderà, l’enunciazione era definita da Latour proprio come una forma di passaggio e di mediazione. 162
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1.583). L’enunciazione serve esattamente a tradurre un insieme di enunciati già enunciati in una forma che permette a un sog getto di appropriarsene all’interno del proprio sistema. Chi non ama la parola “interpretante” o “interpretazione” può tranquil lamente usare “traduzione”: ciò che conta è l’idea che entrambe le due nozioni colgono, e cioè quella di passaggio di mediazione tra istanze eterogenee (cfr. Sedda, 2006; cfr. anche 2012). Rispetto alla posizione classica di un’istanza intenzionale e transitiva che si “debraia”, con Peirce si ha un completo ribal tamento della prospettiva (i segni si volgono indietro e “fanno dire”): non sono più le strutture dell’enunciazione a essere pro iettate fuori da un “soggetto”, ma sono le strutture degli enunciati già enunciati a definire ipossibili atti di un’istanza enunciante. Per cui non avremo più soltanto delle tracce dell’enunciazione nell’e nunciato, ma anche posizioni disoggetto all’interno del movimen to semiosico. Tutto un “piccolo dramma”, come diceva Tesnière. Questo movimento è ben visibile all’interno delle dinami che enunciative dei grandi corpora di big data, in cui enunciati producono altri enunciati dotati di chiare posizioni di soggetto, senza che queste rimandino in alcun modo a istanze soggettive (io-qui-ora) che le avrebbero prodotte attraverso schizia crea trice. In uno studio estremamente interessante, Sabina Leonelli (2016) si è occupata di come la scienza riusi per le proprie ricerche enormi corpora di dati prodotti inizialmente per altri scopi, tracciando come questi open data viaggino nell’enciclo pedia attraverso enunciazioni impersonali che sono macchiniche, istituzionali e diffuse, finendo così per essere rienunciati all’interno di differenti piani enciclopedici. Secondo Leonelli, per questi grandi corpora di enunciati che migrano da una se zione di enciclopedia a un’altra attraverso concatenamenti col lettivi di enunciazione, non si può parlare di un autore, quanto piuttosto di un “curatore” (curator), non si può parlare di un soggetto, quanto piuttosto di meccaniche traduttive proprie di 163
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un “viaggio dei dati” che può essere tracciato (data journeyY in cui nessun “io-qui-ora” è realmente in gioco. Ecco allora che all’interno di una situazione enunciativa di questo tipo, il curatore non è una persona, nemmeno in senso attoriale o pro nominale (io-tu), bensì un insieme di condizioni sotto le quali i dati possono essere resi utilizzabili in piani enciclopedici e in contesti che non sono quelli in cui sono stati prodotti. Affinché i dati possano migrare ed essere rienunciati, devo no infatti essere originariamente enunciati in un modo deter minato, tanto che le istituzioni - regioni, stati, aziende, enti di ricerca - si preoccupano di costruire frante che permettano alle migliaia di istanze enunciami coinvolte di produrre e dissemi nare i dati in un formato preciso (etichette, classificazione, tag di metadati ecc.), affinché i loro enunciati siano poi riutilizzabi li da soggetti, istituzioni e macchine che non sono i produttori originari dei dati stessi. Ognuna di queste istanze enunciami è una congerie di attori umani e non-umani: norme, etichette, frames, usi, protocolli e formati in seno a cui sfuma ogni enun ciazione singolare. Si tratta di una vera e propria “eterogenesi differenziale” (Sarti, Cittì e Piotrowski, 2019), in cui le istanze enunciami sono incorporate all’interno del campo enunciativo. Non è un caso che, analizzando database di biologia, Leonelli (2016) mostri con grande efficacia come il problema stesso della produzione di enunciati scientifici consista esattamente nella sintonizzazione enunciativa di queste reti di attori umani e non-umani, affinché si possa produrre una standardizzazione dei dati che sia in grado di rendere possibile una futura pro duzione di enunciati scientifici. Ecco perché l’enunciazione nel campo dei big data non solo “tiene memoria” delle sue future rienunciazioni, ma è affidata a un insieme di norme e di usi che si prendono cura del dato, connettendo il suo formato semioti co con una serie di altre istituzioni sociali le cui specificità e le cui norme (politiche, economiche, etiche ecc.) influenzano lo 164
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stesso viaggio dei dati. In un enunciato prodotto in queste con dizioni, pulsano grandezze provenienti da un “qui-altrove”, come diceva Michel Serres, che rendono impossibile assegnare alla molteplicità di istanze enuncianti presupposte da questi enunciati le categorie dell’io-qui-ora. Si tratta di un insieme di macchine, norme, usi, enunciati già enunciati che tengono me moria del formato delle loro rienunciazioni future, di cui si può seguire il viaggio, ma non localizzare il rapporto. Come suggeriva Peirce e come l’universo dei big data ci fa vedere oggi con grande evidenza, l’enunciazione serve innanzi tutto a tradurre un insieme di enunciati nel formato che consen te a un altro “soggetto” di appropriarsene all’interno del proprio sistema. Per questo l’enunciazione è innanzitutto una forma di traduzione come interpretazione, nel senso in cui Peirce defi niva il suo concetto di “interpretante” (cfr. infra, cap. 4): serve a trasportare il valore interno a una rete di piani enciclopedici in un enunciato. Il vero problema è che la teoria semiotica dell’enunciazione è stata modellata sui testi letterari, su quelli del folklore e sui testi artistici,33 in cui di norma si può distinguere nettamente (in modo esclusivo) tra spazio dell’enunciato e spazio dell’enun ciazione, tanto da pensare il primo come prodotto del secondo attraverso schizia creatrice. Questo modello pare inutilizzabile per le attuali meccaniche enunciative che sono proprie del diFin da un suo lavoro del 2012, Stefano Traini (2012, 2018) ha sostenuto che la semiotica dovrebbe maggiormente confrontarsi con grandi corpora di testi. Non solo concordiamo, ma crediamo che l’avvento del digitale renda questo confronto non più eludibile e che i grandi corpora di dati potrebbero (sottolineiamo il condi zionale) non essere necessariamente equipollenti a grandi corpora di testi, come la linguistica computazionale, le digitai humanities e posizioni quali il distant reading di Franco Moretti (cfr. Ciotti, 2012, 2015). Ma non per questo il contributo della semiotica smette di essere prezioso, come lavori quali quello di Rastier (2011) hanno ampiamente dimostrato.
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gitale, per esempio nell’universo dei big data,™ e non è un caso che, quando ci si confronta con la scienza e con la tecnica, come fatto da Leonelli e Latour, certi modelli sembrano necessitare di un rimaneggiamento. Non è quindi certo solo il campo dell’au diovisivo a richiedere con forza una teoria dell’enunciazione impersonale (Metz, 1991), con il suo particolare punto di vista sulla soggettività nel linguaggio. L’istanza dell’enunciazione ri manda per essenza a posizioni semiotiche, a enunciati già enun ciati, a curatori macchinici diffusi nelle istituzioni, a segni tra altri segni, a eventi impersonali e a singolarità pre-individuali. Non si tratta di una concezione logica né fenomenologica della soggettività, bensì di una concezione topologica del sogget to, che può essere descritta attraverso la categoria deleuziana di “occupante senza posto” (cfr. infra, cap. 3). Il soggetto non ha un posto privilegiato in cui lo si ritrova, per esempio negli embrayeurs o in “attori-spazi-tempi”, bensì è una funzione derivata di un movimento semiotico che sapremo descrivere (cfr. infra, cap. 4). Questa idea topologica della soggettività consente di conservare la “parte buona” della concezione greimasiana dell’e nunciazione, e cioè l’idea che il soggetto vada costruito e rico struito a partire dalle tracce che esso lascia nell’enunciato, senza assumere però la “parte avvelenata”, e cioè l’idea di scissione 54 Ovviamente è fondamentale evitare ogni genere di tecnoentusiasmo, che spesso tende a vedere discontinuità dove ci sono confini ben più sfumati. A questo proposito, in un suo importante lavoro scritto già nel 1996, Pezzini (2001) mostra va con grande acutezza a proposito di reti e di ipertesti come il dibattito generale che accompagnava i nuovi media tendesse a sottolineare le discontinuità di cui essi sarebbero veicolo. “Questo accade in particolare quando si assume l’ipertesto lette rario come caso paradigmatico, e si afferma, per esempio, che la filosofia che lo sot tende è portatrice di una intrinseca ridefinizione del testo, dell’autore e dello stesso studio della testualità” (Pezzini, 2001, p. 340). Di questo atteggiamento è ormai rimasto ben poco già solo a vent’anni di distanza, tanto che Pezzini stessa, assieme ai suoi allievi e collaboratori, ha recentemente sottoposto allo stesso osservatorio semiotico Google e il suo motore di ricerca (cfr. Del Marco e Pezzini, 2017).
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2 - l’enunciazione come atto impersonale ed evenemenziale
creatrice, correlata all’idea che la soggettività sia localizzabile in alcune categorie semiotiche particolari, che sono funzione degli embrayeurs (io, qui, ora). Al contrario, questa concezione topo logica consente se mai di ampliare ed estendere la parte produt tiva dell’idea greimasiana di enunciazione attraverso l’idea che il soggetto vada costruito e ricostruito anche a partire dalle norme, dagli schemi e dagli usi, e non solo a partire dagli enunciati. Il flus so semiotico che “ci produce attraverso ciò che produciamo”33 viene così esteso conformemente all’idea latouriana e hjelmsleviana che l’insieme degli atti di mediazione che producono il di scorso riguardi un insieme molto maggiore di grandezze rispetto alle due coppie classiche della langue e della parole (da un lato) e dell’enunciato e dell’enunciazione (dall’altro). Proprio in direzione di un allargamento della costruzione della soggettività non solo a partire dagli enunciati, ma anche a partire dagli schemi, dalle norme e dagli usi, in Semiotica efiloso fia del linguaggio Umberto Eco reinterpretava in chiave enciclo pedica il passo peirceano da cui siamo partiti e istituiva un’im portante correlazione tra soggetto, semiosi ed enciclopedia:
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Siamo, come soggetti, ciò che la forma del mondo prodotta dai segni ci fa essere. [...] Solo la mappa della semiosi, come si definisce a un dato stadio della vicenda storica (con la bava e i detriti della semiosi precedente che si trascina dietro), ci dice chi siamo e cosa (o come) pensiamo. La scienza dei segni è la scienza di come si costituisce storicamente il soggetto (Eco, 1984, p. 54).
” Si noti come, dopo il lavoro di Sarti, Cittì e Piotrowski (2019), questa idea dì “flusso" non vada affatto più letta in modo metaforico, bensì in modo letterale: attra verso degli “operatori di assemblaggio” che definiscono un virtuale eterogeneo (sche mi, norme, abiti ecc.), nella modellizzazione matematica al centro dell’eterogenesi dif ferenziale viene prodotto un “flusso eterogeneo” che produce un soggetto embedded.
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Ritroviamo qui un punto fondamentale della teoria dell’enun ciazione, di cui ci occupavamo fin dall’introduzione: il soggetto non si costruisce affatto con l’io linguistico, bensì con la capacità semiotica di costruire superfici significanti che possono essere utilizzate per mentire. Tuttavia, Eco è in grado di aggiungere un ulteriore tassello a questa idea: la forma del soggetto dipende dalla “forma del mondo prodotta dai segni”, e cioè dalle ma schere semiotiche stoccate nell’enciclopedia, che possiamo assu mere concatenando la nostra “parola” personale al mormorio di “parole” impersonali che circolano nella comunità. L’enciclope dia è fatta di eventi impersonali e di singolarità pre-individuali (Primità), che presiedono all’individuazione delle persone semio-linguistiche e dipendono da Terzità regolari da cui emergo no (schemi, norme, usi). Questo insieme di eventi impersonali e singolarità pre-individuali, che, ispirandoci a Eco, chiamiamo enciclopedia, ci restituisce un oggetto semiotico in grado di for nirci un’immagine efficace di quell’“egli” più profondo di qual siasi “egli” che non rinvia più ad alcuna persona detta terza, di cui parlava Blanchot. Si tratta della rete di relazioni enciclopedi ca di cui il soggetto non è altro che un nodo, “bava e detriti della semiosi”, come dice Eco. Proprio per questo ci pare fecondo pensare che l’enunciazione non si organizzi attorno a un centro di tipo personale (io-tu), ma si appiattisca invece in direzione di un bordo esterno alla “persona”, di cui la “persona” non rappre senta altro che la bava e i detriti. L’enciclopedia è questo “terzo”, questo “egli” fatto di schemi, norme, usi ed enunciati che non appartiene più a nessuna persona detta terza: un illeità. Abbiamo allora finalmente la possibilità di riunire le due differenti anime del rapporto tra enunciazione, enciclopedia e soggettività che abbiamo delineato in questo secondo capitolo: i) l’“egli” come evento impersonale irriducibile a qualsiasi forma di persona; il) l’enunciazione come atto di un “soggetto” interno all’enciclopedia che “aggiunge sottrazioni” (cfr. supra, 2.3). Ave168
2 - l’enunciazione come atto impersonale ed evenemenziale
vamo infatti visto come, con questo “egli”, Blanchot si riferisse a quelle espressioni come il pleut, it rains, il arrive, it happens, e che questi “egli” impersonali erano degli avvenimenti, e cioè delle singolarità, dei punti in cui succede qualcosa (illeità). Era al lora esattamente questo il modo in cui pensavamo all’enciclope dia: insieme degli eventi semiotici, insieme delle singolarità se miotiche della “semiosfera” (occorrenze come interpretanti).36 Avevamo infatti visto (cfr. supra, 2.3) come Eco definisse l’enci clopedia come l’insieme registrato di tutte le interpretazioni, la libreria delle librerie degli avvenimenti semiotici. In quanto tale, essa definiva l’insieme degli enunciati già enunciati, che rappre sentavano lo sfondo di ogni possibile futura enunciazione. Una logica enciclopedica definisce così una logica di tipo “evenemenziale”, che apre al proprio interno posizioni enuncia tive diffuse, e non una logica di tipo “personale”, in cui l’enun ciazione è legata a categorie di tipo deittico. È infatti l’evento . essere primo rispetto alle “persone” che lo vengono a occupare. Esattamente come è perché “piove” che può piovere per me, è perché esiste un repertorio enciclopedico di “già detto” che io posso dire qualcosa ed enunciare, portando così a compimento le virtualità enciclopediche e definendo la mia parola rispetto a esse. Come l’infelicità per Blanchot, un enunciato è davvero mio solo in funzione di altri enunciati già enunciati contenuti nell’enciclopedia, attraverso cui esso si trasforma e si riflette. Sono solo questi ultimi che aprono delle posizioni enunciative di soggetto, rispetto alle quali la mia enunciazione si definisce e trova la sua stessa condizione di possibilità. Come si vede, se portato alle sue concepibili conseguenze, il discorso sugli embrayeurs che definiscono l’apparato formale dell'enunciazione sfocia molto naturalmente nel problema della prassi enunciativa, e cioè nel rapporto che esiste tra un’istan36
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Cfr. Lotman 1985. ! 169
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za dell’enunciazione che è parte di un reticolo enciclopedico e l’insieme dei testi, dei generi e delle altre singole enunciazioni interne alle forme enunciate di una cultura, in cui pulsa la storia della prassi e dell’uso. Non è infatti un caso che, proprio un semiotico a suo modo benvenisteano come Jacques Fontanille, abbia insistito con for za sulla coniugazione dell'atto di enunciazione con la prassi enun ciativa. Se, a livello di apparato formale dell’enunciazione, Fon tanille sottolinea infatti la necessità di incarnare le forme vuote dell’io-qui-ora in istanze concrete dotate di corpo, è soltanto a livello della prassi enunciativa che per il semiologo francese l’enunciazione prende davvero forma in quanto atto discorsivo. Per Fontanille (1998, p. 102), mentre un atto di enunciazione è isolato e rimanda al sensibile corporale e alla percezione, il discorso è invece sempre un effetto di enunciazioni concatenate e incassate le une dentro le altre, “enunciazioni” che vengono chiamate appunto prassi enunciative. In questo modo, là dove l’atto enunciativo ha a che vedere con llenunciamone in atto, e cioè con l’atto di appropriazione nel discorso dell’io-qui-ora degli embrayeurs, la prassi enunciativa ha invece a che vedere con il discorso enunciato, e ne è l’istanza correlativa.
Quando parliamo di “atto primo”, di “presa di posizione ori ginaria”, non è che in rapporto all’irriducibile singolarità della presenza attuale. Ma nulla tiene davvero mai il “primo” discor so: l’attività discorsiva è sempre presa in una catena, e cioè in uno spessore di altri discorsi ai quali non cessa di riferirsi. Ogni discorso-occorrenza è esso stesso occasione per una moltitudine di atti di linguaggio, concatenati e sovrapposti gli uni con gli al tri. Occorre in qualche modo passare allora dall 'atto di enuncia zione alla prassi enunciativa’, la prassi è esattamente questo insie me aperto di enunciazioni concatenate e sovrapposte, in senso alla quale sfuma ogni enunciazione singolare {Ibid., p. 102). 170
2 - l’enunciazione come atto impersonale ed evenemenziale
Del resto, una simile conclusione avrebbe dovuto essere evi dente fin da subito, almeno fin dal momento in cui all’interno della tradizione semiotica lo statuto dell’istanza dell’enuncia zione transitava dalla linguistica del discorso di Benveniste alla sua riformulazione semiotica di “istanza presupposta dall’e nunciato”. Un enunciato infatti - di qualsiasi natura esso sia sedimenta al suo interno sia grandezze provenienti dal sistema (schema) sia grandezze provenienti dalle norme e dalTw.ro. Per questo l’enunciazione, in quanto sua istanza presupposta, deve al contempo poter convertire il sistema (schema) in discorso e coniugare questa stessa conversione con l'esercizio in atto del si stema , e cioè con l’insieme dei generi e dei tipi del discorso, i repertori e le enciclopedie delle forme proprie di una cultura, in cui pulsa la storia della prassi e dell’uso. In questo modo, ed è questa la nostra proposta, là dove l’enunciazione è un’istanza semiotica logicamente presupposta dall’esistenza àeWenuncia to, in cui lascia marche o tracce, la prassi enunciativa è un’istan za semiotica logicamente presupposta àdÙ* enciclopedia, in cui lascia “bava e detriti” (cfr. Eco, 1984). Proprio per questo Eco può dire che la teoria dei modi di produzione mette in atto il “codice”, e cioè l’enciclopedia e le sue logiche semiosferiche della cultura: enunciazione in atto. Ritorneremo allora su questo punto, al fine di determina re il rapporto che lega soggetto e reticoli enciclopedici (cfr. infra, cap. 5) e proveremo a mettere a frutto questo suggeri mento fontanilleano di un concatenamento enunciativo in cui sfuma ogni enunciazione singolare. Questo ci consentirà di rispondere con una posizione chiara a quello che Patrizia Vio li (2007, p. 197) ha chiamato il “residuo inespresso” di ogni teoria semiotica dell’enunciazione e della soggettività, e cioè “la specificità dell’esperienza singolare” e “le forme della sog gettività individuale”, che “possono essere colte sempre e sol tanto attraverso [...] la rete di relazioni differenziali che isti171
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tuisce gli individui in quanto singolarità”. Mostreremo allora come una teoria dell’enunciazione unificata, come quella che stiamo proponendo qui, sia in grado di rispondere in maniera chiara anche su questo punto, definendo una prassi enunciativa non-personale (non-benvenisteana) fondata sul SI. Ma occorrerà procedere con ordine e occuparci innanzitut to proprio del rapporto tra enunciazione ed enunciato, che su bisce tutta una serie di importanti mutamenti nel momento in cui si passa dalla linguistica del discorso di Benveniste alla teo ria semiotica di Greimas, dove l’enunciazione diventa l’istanza presupposta dell’enunciato in cui lascia tracce o marche.
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LA PRESENTIFICAZIONE DELL’ASSENZA
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“Ma non basta celarsi, perché la realtà usa sem pre trucchi sgradevoli: il tuo nasconderti non è abbastanza inattaccabile. La vita ci si insinua den tro da tutti i lati. Ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere oppure false, se stai dicendo una bugia op pure la verità. Solo a teatro il problema si rivela importante, e forse neanche lì”.
3.1 La presentificazione dell'assenza
Vorremmo cominciare questo terzo capitolo con una sto ria, che si ripete decine di volte al giorno sempre uguale d; quando esistono i telefonini. Una ragazza e un ragazzo si in contrano in una discoteca, in un pub o in qualsiasi altro luogo, parlano un po’, condividendo qualcosa delle loro vite: quando è il momento di andarsene, il ragazzo, interessato alla ragazza, le chiede il numero di telefono. La ragazza glielo dà anche se non è altrettanto interessata: forse per gentilezza, forse per in certezza, forse perché se ne vuole semplicemente andare via. L’indomani, il ragazzo le manda un SMS o un WhatsApp, il cui contenuto è meno importante della sua volontà di “sta bilire un contatto”: la ragazza semplicemente non risponde. Attraverso il suo non fare assolutamente nulla, lei marca il suo rifiuto, marca il suo “no", e la sua mancata risposta fa sì che il ragazzo che ha inviato il messaggio pensi intensamente a lei, 173
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presentificando la sua assenza, e cioè marcando il fatto che lei (per lui) non c’è1 Questo racconto ci aiuta a introdurre la tesi, che si tratterà di dimostrare in questo capitolo: l’enunciazione è un atto im personale che coinvolge diverse istanze enunciami e ha a che vedere con la presentificazione di un’assenza, con la marcatura 1• a n ai un non . Fin dal primo capitolo abbiamo visto come, con le sue op posizioni partecipative, lo strutturalismo hjelmsleviano ci con segnasse un’idea dei rapporti differenziali interni al linguaggio profondamente differente rispetto a quella binaria ed “esclu siva” di Jakobson. Abbiamo anche visto come la correlazione di persona stabilita da Benveniste si fondasse su un’opposizio ne privativa ed esclusiva tra la presenza della persona (io-tu) e l’assenza della stessa (egli), che vogliamo sostituire con una strutturazione partecipativa della correlazione di persona, in cui alla presenza della persona come termine intensivo (io-tu) si oppone la presenza della persona+l’assenza della stessa come termine estensivo (egli). Non ci stupirà certo ritrovare lo stesso identico problema e la stessa identica forma di relazione all’in terno del rapporto tra l’enunciazione (io-qui-ora) e l’enun ciato (non-io, non-qui e non-ora). Se infatti il livello proprio dell’enunciazione viene pensato come luogo dell’io-qui-ora, e se il livello dell’enunciato viene ottenuto attraverso débrayage e schizia creatrice proprio a partire dallo spazio dell’enuncia zione, non è un caso che l’enunciato venga pensato proprio co me il livello dell’assenza dell’enunciazione (non-io, non-qui e non-ora), opposto a essa in modo privativo. Nell’enunciato ciò che è presente sono le tracce dell’enunciazione (enunciazione enunciata), mentre l’enunciazione è l’istanza assente (casella vuota) ricostruita a partire dalle tracce che ha lasciato con il 1
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Su questi temi, cfr. Landowski, 1997.
3 - LA PRESENTIFICAZIONE DELL’ASSENZA
suo atto JLa casella vuota è il correlato perfetto dell’opposiziojie privativa tra enunciazione ed enunciato: proprio perché l’ejnunciazione è assente dall’enunciato, essa può essere pensata ..come “casella vuota”, “vuota” perché nell’enunciato non c’è. _I1 suo è il posto dell’assenza nel linguaggio. Non ci stupirà allora che l’individuazione di una forma di relazione non privativa propria dell’istanza dell’enunciazione abbia delle ripercussioni anche sul rapporto tra enunciazione ed enunciato. Del resto, già Blanchot suggeriva che il sogget to nel linguaggio si manifestasse in quanto assente, si facesse “presente in quanto assente”, nella forma della presentificazione dell’assenza (cfr. supra, 2.2). È allora ancora una volta Bru no Latour (1999) a consentirci di fare tutta una serie di passi importanti. L’enunciazione è la ricerca degli assenti la cui presenza è neces saria al senso, presenza segnata direttamente o indirettamente nei messaggi o nei messaggeri enunciati. È quindi possibile avere un linguaggio preciso che parta dalle tracce, marche e inscrizioni degli assenti nel messaggio o nel messaggero, e che induca o deduca esattamente il movimento degli assenti che bisogna raccogliere attorno al messaggio o al messaggero per dargli un senso, un movimento, un passaggio, un trasferimen to e farlo stare, restare, nella presenza (Latour, 1999, p. 77).
_Tra le tante suggestioni presenti in questo passo, bisogna innanzitutto sottolineare il ruolo che è per noi proprio delle'"* istanze simulacrali dell’enunciazione nell’enunciato: esse so no delle presentificazioni dell’assenza, hanno cioè il ruolo di quell’SMS ricevuto e rimasto senza risposta. I simulacri dell’e nunciazione sono cioè termini effettivamente presenti nel testo, * . mentre l’enunciazione resta sempre inevitabilmente presente in quanto assente^ esattamente come la persona che non ha 175
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risposto al messaggio, la cui assenza è presente nella forma più intensa al ragazzo rifiutato, che “pensa intensamente a lei”. Quella dell’enunciazione è cioè un’assenza marcata dalle tracce nell’enunciato, un assenza presentificata dall’enunciato stesso, non una semplice “assenza”. È allora proprio perché questa as senza è marcata negli enunciati e resa presente simulacralmente, che per Latour è possibile “indurne o dedurne il movimento”. ~ Allo stesso modo, è perché la presenza dei soggetti dell’enun ciazione, e cioè la presenza degli assenti, è essenziale al senso, che un testo ne costruisce sempre dei simulacri che fanno fun zionare tutto: Lettore Modello e Autore Modello, enunciatore ed enunciatario ecc. ...Ecco allora che l’iscrizione di un simulacro dell’enunciazione all’interno dell’enunciato è semplicemente uno dei tanti modi per renderne presente l’assenza attraverso la costruzione di un dele gato; tanto che, per la semiotica, in ogni testo si avrà sempre un lettore empirico atto a costruire e ricostruire i suoi stessi simulacri al fine di far circolare il senso del testo (cfr. Eco, 1979; Marmo, 2003). Si hanno cioè dei simulacri dell’enunciazione nell’enun ciato che rendono presente l’assenza stessa di chi è in qualche modo presente (il lettore), oltre che di chi è assente (l’autore). Il lettore empirico gioca con la sua propria assenza presentificata nel testo che lo iscrive in quanto simulacro. L’autore empirico fa specularmente la stessa cosa (cfr. Marmo 2014, pp. 241-245). Si tratta allora di sottolineare qui un primo punto. Il rapporto tra l’enunciato e l’enunciazione è quello proprio dell’assenza fat ta presente (marcata): l’enunciato esibisce dei simulacri e delle marche dell’enunciazione che sono effettivamente presenti, e attraverso la loro presenza rende presente il soggetto dell’enun ciazione, ma lo rende presente in quanto assente. Come il lampo si differenzia dal cielo nero portandoselo dietro, così l’enunciato si differenzia dall’enunciazione, ma se la porta dietro, nei termini dell’assenza presentificata dalle tracce dell’enunciazione nell’e176
3 - LA PRESENTIFICAZIONE DELL’ASSENZA
nunciato. Era la stessa cosa per Dolores in Westworld'. la voce che sentiva era presente, ma l’io che la enunciava era presente in quanto assente, sia nella forma della voce perduta di Arnold che in quella della sua stessa voce, che sentiva presente ma non era in grado di attribuire a un “io”, che restava ostinatamente assente. La tradizione semio-linguistica non è mai riuscita a costitui re una teoria rigorosa della presentificazione dell’assenza (cfr. Belardi, 1970; Albano Leoni, 2009), tanto che Petitot (1977, p. 386) notava come “una tale interpretazione ecceda la semioti ca strutturale”. Occorrerà allora provare a porre rimedio a questa impasse. Abbiamo visto come un’opposizione privativa fosse un’op posizione tra la presenza e l’assenza di un elemento, per cui l’assenza di un tratto in un fonema lo rendeva per esempio non-marcato. In questo modo, l’opposizione privativa presen tava sempre uno statuto molto particolare, dal momento che il termine presente valeva al contempo per sé stesso e per l’oppo sizione tutta intera. Nelle parole di Petitot: “Esso è ad un tempo ciò che fa uno e ciò che fa differenza”.2 Una teoria dell’enun ciazione basata sulla forma dell’opposizione privativa si limita .dunque a indurre a partire dagli elementi presenti nell’enunciato le posizioni assenti dell’enunciazione, ed è esattamente quello che la teoria greimasiana classica si prometteva di fare? 2 Non si confonderà questo statuto proprio dell’opposizione privativa con quello proprio di un termine estensivo, che non mette affatto in gioco la presenza e l’assenza di uno stesso termine, bensì se mai la sua presenza e l’assenza del termine intensivo opposto, nel momento in cui esso ne ricopre la zona e si estende sulla to talità della categoria. Proprio per questo ci pare che Hjelmslev avesse senz’altro ra gione nella sua polemica con Jakobson, e che opposizioni sul tipo di “uomo-donna” fossero delle opposizioni partecipative tra termini tensivi, e non delle opposizioni sul tipo di “marcato VS non-marcato”. J Cfr. per esempio Greimas, 1976 e Bertrand, 2000.
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Per esempio, quando avete visto un film partecipando alla serie di punti di vista attraverso cui lo avete guardato, alla fine siete in grado di ricostruire la casella vuota del suo enunciatore, per presupposizione progressiva di tutti i punti di vista e delle loro trasformazioni che sono avvenute durante la “diegesi”. Cioè, non dite che c’è un enunciatore del film - il regista - che è una pura tautologia; dite che - ricostruendo l’insieme dei punti di vista presenti dentro la storia — è possibile riempire la casella vuota che chiamiamo Xenunciatore (Fabbri, 1998a, p. 102).
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Tutt’altra cosa avviene invece con la presentificazione di un’assenza. Se l'assenza di un tratto definisce un termine come. non-marcato, la presentificazione della sua assenza definisce la marcatura di un “non”. Si tratta della stessa differenza che c’è tra il “valore di un’assenza” e il “valore della presentificazio ne di un’assenza”: nessuno nota in un uomo la mancanza di un terzo braccio (valore dell’assenza), mentre tutti notano la mancanza di una delle due braccia, tanto che se mi tagliassi un braccio ed entrassi in università, molti renderebbero presente tale assenza e mi chiederebbero che cosa ho fatto al braccio. La mia presenza alla scrivania del mio studio (A) implica la mia contemporanea assenza da tutti i posti nel mondo in cui io non sono presente attualmente (non-A), ma sono pochissimi i posti nel mondo in cui io non sono presente in cui qualcuno sta pensando “non c’è Claudio”, marcando così la mia assenza, la presenza della mia assenza (A+non-A). Ecco allora che un conto è l’assenza di un termine (non-marcatura) e un conto è Ja presentificazione della sua assenza (marcatura di un “non”).,. Ora, se l’assenza di un termine è qualcosa che non abbiamo alcun problema a pensare in modo intelligibile, la presentifi cazione della sua assenza è un fenomeno più complesso, che presenta un’eccedenza costitutiva sia rispetto a ciò che è pre sente (le tracce dell’enunciazione nell’enunciato) sia rispetto a 178
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ciò che è assente (l’enunciazione). Avevamo infatti visto come all’interno di un’opposizione privativa di tipo strutturale, l’as senza di un elemento fosse un luogo senza determinazione, un luogo vuoto, un luogo bianco, tanto che la posizione dell’enun ciazione nella teoria greimasiana era identificata esattamente con la casella vuota.4 Al contrario, la presentificazione di un’as senza definisce qualcosa come un occupante senza posto. Có me nel gioco dei quattro cantoni, c’è sempre un elemento che manca al suo posto, perché non ha esso stesso un posto proprio. Per quanto ci riguarda, e lo mostreremo, crediamo sia allora in questa eccedenza costitutiva, in questa eccedenza sempre spo stata rispetto a qualsiasi posto che le possiamo assegnare, ciò in cui consiste l’essenza stessa da un lato dell’istanza dell’enun ciazione e dall’altro della “soggettività semiotica”. Perché nel posto dell’atto di enunciazione non c’è l’individuo, la persona o il soggetto, ma ci sono molte istanze enunciami. Molte teorie del soggetto strutturaliste e post-strutturaliste hanno identificato il soggetto con la casella vuota (Deleuze, 1973): al contrario, il soggetto, così come l’istanza dell’enuncia zione, è sempre qualcosa come un occupante senza posto, occu pante che manca sempre al suo posto perché non ha un posto proprio, tanto da non essere di fatto localizzabile in alcune ca tegorie linguistiche privilegiate come gli embrayeurs. Il soggetto non è mai vuoto, altrimenti non si spiegherebbero i passaggi di mediazione tra modi di esistenza che ogni atto di enunciazione compie nell’enciclopedia, mentre qualcuno concatena la pro pria parola a quella di altre enunciazioni. Il soggetto è se mai sempre costitutivamente troppo pieno (cfr. Montanari, 2016, p. 270) e la sua enunciazione procede “per togliere”, a partire dalla bava e ai detriti della semiosi in cui è diffuso e disseminato. 4 Cfr. Deleuze, 1968, 1969; Petitot, 1991 e Marsciani, 1990, 2012. Il sogget to c sempre ciò che segue la casella vuota.
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Stiamo in fondo dicendo una cosa estremamente semplice, a suo modo speculare a quella che abbiamo detto a proposito dell’opposizione tra la persona e la non-persona in Benveniste: l’opposizione tra enunciato ed enunciazione non è affatto un’op posizione privativa tra un termine marcato (le tracce dell’enun ciazione presenti nell’enunciato) e un termine non-marcato (l’enunciazione in quanto istanza assente); bensì è un’opposi zione tra due termini marcati, uno marcato in quanto presente (le tracce dell’enunciazione nell’enunciato) e uno marcato in quanto assente (l’enunciazione). Là dove l’opposizione tra la presenza e l’assenza di un termine definiva l’istanza dell’enun ciazione come “casella vuota”; l’opposizione tra la presenza di un termine e la presentificazione della sua assenza definisce invece l’istanza dell’enunciazione come un “occupante senza posto”. Che cos’è allora un occupante senza posto?
3.2 Occupanti senza posto, domini e reti dell’enunciazione
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Deleuze (1969, pp. 50-52) pensava all’occupante senza posto come a un’istanza di mediazione capace di assicurare il passaggio tra almeno due strutture (nel senso dello strutturalismo), con le loro serie di rapporti differenziali e di punti singolari, di cui l’occupante senza posto era “il differenziante” e il “principio di emissione delle singolarità”. Deleuze (1969, p. 48) dice che l’oc cupante senza posto definisce di fatto una “sintesi disgiuntiva”, e cioè tiene insieme dimensioni eterogenee senza omogeneizzarle, costruendo una sintesi tra cose appartenenti a domini differenti che non smettono di restare differenti e che esso “fa comunicare, coesistere e ramificare in una storia ingarbugliata” (ibid., p. 52). Per esempio, se prendiamo un paper scientifico, possiamo cer tamente pensarlo come un enunciato a partire da cui ricostruire l’atto che l’ha prodotto, secondo il modello del paper umanistico, 180
3 - LA PRESENTI FICAZIONE DELL’ASSENZA
del pezzo di saggistica o dell’opera d’arte (che, come detto, hanno dato forma alla teoria classica dell’enunciazione). E tuttavia, que sto restituirebbe un’immagine fuorviarne di tutti i passaggi di me diazione tra gli elementi eterogenei in gioco - laboratori, brevetti, assistenti, macchine, protocolli, strutture di potere, dati, grafici, cancellature ecc. - che hanno reso possibile la forma semiotica di quell’enunciato. Proprio per restituire un effetto di omogeneità .semiotica nell’enunciato, occorre che una molteplicità di istanze enunciami abbiano cucito in una rete ciò che (ingenuamente) si pensa appartenere al dominio disciplinare della scienza. Un occu pante senza posto è allora il nome di un operatore di trasformazione . di un dominio in una rete, istanza enunciarne in grado di garantire . una commensurabilità tra sistemi eterogenei. Esso tiene insieme elementi appartenenti a diversi domini, che concatena in una rete non omogenea che consente la “circolazione degli ibridi”, per usare una terminologia latouriana. Latour (2012) dedica infatti le prime pagine del suo libro Unquète sur les modes d’existence proprio a una critica della nozione di “dominio” che, a suo parere, impedisce di tenere traccia della “circolazione degli ibridi”.
Latour spiega che se le frontiere disciplinari, o “domini”, per mettono talora di conservare delle specificità - le specificità del diritto, della politica, della scienza, del simbolico ecc. - hanno però l’inconveniente di spezzare il libero corso delle pratiche - epurando tutto ciò che non è marcato “diritto” nel diritto, “scienza” nelle scienze, “politico” nella politica e “simbolico” tra i segni. In un laboratorio scientifico, per esempio, l’antropo logo (o il semiotico) troverà molti elementi che il senso comune riconosce come “scientifici”: delle provette, dei quaderni che contengono complesse formule matematiche, dei camici bianchi; ma potrebbe anche incontrarvi un giurista che offre la propria professionalità per un brevetto, un industriale venuto a com prarne i diritti, un politico che promette dei fondi di ricerca. Se 181
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facessimo affidamento ai domini, dovremmo considerare tutti questi elementi come interferenze non pertinenti per capire l’esperienza della scienza nelle società moderne; eppure vi si trovano, e sono d’altronde essenziali al funzionamento del la boratorio. Diremo perciò che i domini permettono di analizzare gli elementi d’un corso d’azione solo a condizione che siano marcati come interni al dominio stesso, e tra loro omogenei (Tassinari, 2017, p. 5).
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Proprio per questo Latour propone di ripensare la nozione di dominio attraverso quella di rete. Per Latour, l’idea di rete serve a mostrare come una continuità di azione interna a un dominio culturale venga ottenuta sempre attraverso tutta una serie di discontinuità, e cioè di passaggi di mediazione attra verso elementi appartenenti ad altri domini eterogenei rispetto a quello studiato, che rendono possibile il dominio stesso. Ben lungi dall’essere omogeneo, o meglio, proprio per restituire il suo effetto di omogeneità, un dominio passa per la mediazione di elementi eterogenei che differiscono in natura (cfr. Latour, 2012; Sarti, Cittì e Piotrowski, 2019). Questi elementi eterogenei per cui si passa non hanno alcun posto proprio all’interno di quel dominio, ma, nondimeno, lo occupano e lo rendono possibile in quanto dominio attraverso la loro stessa attività di mediazione. Lo vedevamo a proposito dei big data. Ecco che cosa sono degli occupanti senza posto: istanze enuncianti presenti in quanto assenti negli enunciati, eterogenei rispetto a essi e ai domini di cui sarebbero espressione, ma che circolano incessantemente nelle norme, negli usi, nelle pratiche e negli sche mi, connettendone brandelli nell’eterogeneità dell’enciclopedia che fa da sfondo a ogni atto di enunciazione. L’enunciato nasconde questo lavorio di norme, usi, istituzioni e istanze eterogenee, ma al contempo ne tiene traccia: l’istituzione parla in un paper scientifi co, il comitato etico ha tenuto un discorso che lo ha reso possibile
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e gli ha dato forma, la gerarchia interna al laboratorio si enuncia in quell’enunciato molto al di là dell’elenco degli autori della ricerca. E così i finanziatori, i giuristi, i responsabili dei brevetti tengo no tutti un discorso silenzioso che pulsa nell’enunciato marcato “scienza” come prodotto eterogeneo di diverse istanze enuncianti. In questa idea consiste per noi l’enunciazione e la soggettività nel linguaggio JSe l’enciclopedia è infatti una rete, un rizoma che tiejDf-iosjeme domini eterogenei convocati in assemblea con le lorq_ ..voci differenti all’interno dell’enunciato, l’istanza “soggettiva” dell’enunciazione opera una connessione interna che ne cuce .brandelli, garantendo un effetto di omogeneità semio-linguistica all’enunciato, in cui, al contrario, pulsano grandezze estremamente eterogenee, che non appartengono solamente a domini semio-linguistici. Per questo essa è un “occupante senza posto”, visto che "nella proposta di Deleuze (1969), l’occupante senza posto era esattamente quella posizione di soggetto capace di tenere insieme istanze eterogenee senza che esse cessassero di restare eterogenee, operando così una “sintesi disgiuntiva”. L’enunciazione come atto di produzione dell’enunciato con siste in una serie di passaggi tra discontinuità che non apparten gono al dominio del linguaggio, ma che nondimeno lo occupano senza avere un posto proprio e lo rendono possibile. Da qui un risultato importante che le nozioni di rete e di occupante senza posto consegnano alla nostra riflessione: esattamente come il dominio del diritto non è fatto “in diritto”, ma è al contrario composto da molti elementi eterogenei che provengono dalla finanza, dall’amministrazione, dalla politica, dall’economia ecc., così l’enunciazione semiotica non è fatta “in enunciazione” né “in semiotica”, ma è ottenuta attraverso tutta una serie di mediazioni tra elementi eterogenei che la rendono possibile. Si tratta di un composto, di un assemblaggio, di un concatenamento (agence_ mentì. Greimas pensava che l’enunciazione sarebbe caduta “al di fuori della competenza del semiotico” qualora fosse stata pensata 183
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come una pratica non linguistica, ma l’impressione è che, proprio perché ha un effetto semio-linguistico (l’enunciato), l’enunciazione debba per essenza passare attraverso domini eterogenei a esso, esattamente come la scienza, per poter essere scienza, deve pas sare per il diritto, per l’economia, per la politica ecc.5 In questo senso, un “occupante senza posto” che circola nelle strutture e nei linguaggi senza appartenervi è capace di mediare non solo tra il sistema della langue e quello della parole, ma, più profondamente, tra schemi, norme, usi ed enunciati appartenen ti ciascuno a domini anche molto eterogenei. Per questo ci pare una buona immagine dell’istanza soggettiva dell’enunciazione. Se infatti, come nota Deleuze, i valori dei rapporti differenziali e le posizioni degli eventi singolari hanno senso solo in rapporto a questa posizione che “manca al suo posto” e che è “sempre spostata rispetto a sé stessa”, pare evidente come essa sia in grado di garantire quegli oltrepassamenti di frontiere e quelle conversioni tra modi di esistenza in cui consiste l’enunciazione. Vedremo ora come l’enunciato, per essere prodotto e manife starsi, debba passare attraverso tutto un insieme di discontinuità e di elementi eterogenei in cui si oltrepassano diverse frontiere e differenti modi di esistenza. Vedremo altresì come in questo atto complesso che è l’enunciazione, solamente alcune dimensioni siano effettuate in corpi e stati di cose. A questo proposito, pro veremo a rendere conto anche di come si debba pensare questa parte effettuata dell’evento enunciativo, che certamente non esaurisce l’enunciazione, ma che, altrettanto certamente, è una parte costitutiva e fondamentale dell’atto stesso di produrre un enunciato. Esiste infatti in ogni atto di enunciazione un momento di allestimento del piano dell’espressione a partire da un substra to materiale che si semiotizza e di cui non ci si può non occupare
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’ Cfr. Latour, 1991, 2012. Per una importante riattivazione di queste idee in semiotica, si veda Marrone, 201 Ib, per esempio la parte sulle neuroscienze.
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3 - LA PRESENTIFICAZIONE DELL’ASSENZA
all’interno di una teoria dell’enunciazione. Nelle conclusioni di questo capitolo, ritorneremo infine sull’idea di occupante senza posto e la connetteremo con quanto detto nei seguenti paragrafi.
3.3 Norma e uso: amplificazione, attenuazione, risoluzione e distribuzione delle forme semiotiche
L’articolazione tra norma e uso è centrale e va specificata. Seb bene Hjelmslev ne decreti in tarda età l’inutilità, nei suoi scritti precedenti aveva invece molto lavorato sull’idea di norma, a cui attribuiva un ruolo centrale, tanto che nella Categoria dei casi si spingeva addirittura a dire che “è la sola norma a costituire il ve ro oggetto della linguistica” (CC, p. 134). Per esempio, nell’arti colo “On thè Principles ofPhonematics”, Hjelmslev definisce la norma come “un insieme completo di regole, che dipendono dal sistema e marcano il limite necessario alla possibilità di variare di ogni elemento” (Hjelmslev, 1937, p. 212). E, nei Principi di grammatica generale, dice che “è possibile designare la norma come un ideale che s’impone a tutti i soggetti facenti parte di un medesimo gruppo sociale” (Hjelmslev, 1928, p. 188). È chiara l’idea di fondo: se lo schema della langue apre di fatto un sistema di possibilità enunciative, che soltanto l’atto di enunciazione renderà realizzate, la norma è la dimensione che limita la possibilità di variare di un elemento del linguaggio. La norma serve a potare lo schema per “tutti i soggetti facenti parte di un medesimo gruppo sociale”. Nella “Stratificazione del linguaggio” infatti, se Vuso è definito come “la parte stabile della parole, ovvero la dimensione linguistica che comprende le abitudini linguistiche, date dalle ripetizioni più frequenti di at ti di parole in una certa comunità”,6 la norma è invece definita 6
Nieddu, 2019.
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come “l’insieme delle connessioni interstratiche ammesse” (SL, p. 72), ovvero, le connessioni che sono plausibili, passibili di rea lizzazione all’interno di un dato contesto linguistico. Per questo, se l’uso appartiene certamente alla parole, la norma, in questa fase del pensiero hjelmsleviano, non è invece assimilabile né alla langue né alla parole: ha infatti un valore sociale, rimanendo così esterna all’individuo (PGG, p. 189), ma ammette al contempo delle deviazioni che rimandano proprio all’azione individuale.
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Un gruppo costituisce anche un sistema comune che è come una proiezione complessiva di tutte le particolarità individuali; ed è questo il sistema che chiamiamo norma, Una norma si costitui sce in qualunque comunità linguistica, in qualunque gruppo di soggetti parlanti in un dato momento, in un dato luogo e in un dato ambiente. [...] E la norma a costituire la langue in quanto esterna all’individuo e differente dalla parole, e solo la norma può essere osservata con un metodo oggettivo. [...] Esistono casi in cui la norma è strettamente definita e altri casi, invece, in cui non lo è; ma essa è comunque esistente, e può sempre essere spiegata come un sistema (Hjelmslev, 1928, p. 188).
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Proprio per rendere conto di questa dimensione di frontie ra della norma, irriducibile alla dicotomia tra langue e parole, Hjelmslev (1954) introduce un concetto centrale, quello di “ap prezzamento collettivo” (o “apprezzamento sociale”). Infatti, se la norma è quel dominio in cui si istituiscono regole socialmente condivise, dando così origine alla “forma in quanto coordina ta alla sostanza” (Hjelmslev, 1942, p. 110), questa istituzione delle norme avviene in base a criteri di pertinenza e di valoriz zazione decretati in base a un certo “apprezzamento sociale” o “collettivo”. L’apprezzamento collettivo “mette arbitrariamente in evidenza alcune qualità attribuite di preferenza [...] all’og getto incontrato” (Hjelmslev, 1954, p. 55). In quanto tale, “è 186
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l’apprezzamento collettivo che fa della materia (le cose e la per cezione delle cose) una sostanza attraverso l’istituzione di criteri di pertinenza” (Hjelmslev, 1942, p. 110). Un esempio aiuterà a chiarire meglio l’articolazione di ognuna di queste dimensioni. L’italiano, come molte altre lingue, defini sce un’opposizione differenziale tra transitività e intransitività, a livello dello schema. L’uso dei parlanti tratta verbi quali “salire” e “uscire” come intransitivi: quest’uso è normato, tanto che, in italiano, espressioni come “uscire il cane” o “salire la spesa” so no state a lungo considerate e sanzionate come un errore gram maticale grave. Tuttavia, specialmente nel Sud Italia, l’apprezza mento collettivo dei parlanti non percepisce queste espressioni come errate, e continua a usarle in modo transitivo. Tanto che, di recente, l’Accademia della Crusca, e cioè l’istituzione deputata a studiare la storia e le tendenze della lingua italiana, ha valutato l’ammissibilità e l’usabilità di queste espressioni transitive con siderate errate in funzione dell’insieme delle norme preceden ti, differenziando la coppia salire/scendere, meno inaccettabile perché già prevede un uso transitivo “in lingua”, da quella entrare/uscire, il cui uso transitivo è sempre e comunque sbagliato considerate le norme della lingua.7 L’apprezzamento collettivo ha così “messo arbitrariamente in evidenza alcune qualità attri buite di preferenza all’oggetto incontrato”, stabilendo una nuo va pertinenza e una nuova possibilità attraverso l’uso, che è stata in seguito normata conformemente allo schema della lingua. Si vede molto chiaramente da questo esempio come l’artico lazione di norma, uso, schema e apprezzamento collettivo sia questione di prassi e rimandi a un’intuizione dinamica connessa alla dimensione di un atto enunciativo completamente slegato da qualsiasi identificazione con la sua componente individuale e sog7 Si veda la risposta completa e dettagliata dell'Accademia sul loro sito: https:// bit.ly/2WFupYF.
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gettiva. Al contrario, un approccio come quello hjelmsleviano, per quanto prezioso su molti aspetti, resta ancora collegato a un’intu izione statica, in cui lo schema e la norma vengono pensati come un deposito di strutture e di forme stabili e l’atto viene assimilato in modo erroneo alla parole, come se nell’atto non pulsassero invece dimensioni pre-individuali, intersoggettive e impersonali. A questo proposito, se partiamo dal nostro caso di QWERTY / (cfr. supra, 2.6), provocatorio ma significativo, il ritaglio del pia no enciclopedico in grado di attualizzare un insieme di valori differenziali a partire da uno sfondo di valori compossibili avvie ne sempre in base a norme, e cioè in base a regole di genere, ste reotipi culturali e situazioni istituzionalizzate. È così che si passa dall’indeterminato potenzializzato al determinabile virtualizzail to. Noi tendiamo a dare senso e a produrre enunciati in base a piani stereotipici, a universi di discorso codificati e ipercodificati che sono propri della nostra enciclopedia. È il pigro pragmatista che è in noi che domina “innanzitutto e per lo più” i nostri primi tentativi di semantizzazione. Per economia di lavoro, tendiamo a dare senso al nuovo senso in base al vecchio senso già disam biguato. Ci lasciamo cioè installare dai testi e dalle pratiche di significazione sui piani che frequentiamo abitualmente e che non smettiamo di ritagliare come tutti. In questo modo, una volta - stabilito il possibile piano enciclopedico guidati dalle norme, at tualizziamo il sistema dei rapporti differenziali in base all'uso, e cioè in base ad abiti interpretativi fondati nell’intersoggettività. È in questo modo che si passa dal virtualizzato determinabile all’attualizzato determinato. Pragmatisticamente, siamo guidati .nella scelta degli interpretanti opportuni per quell’atto di enun ciazione dagli abiti che ci sono più congeniali e gli abiti - ovvia mente - sono regolarità d’uso (Terzità), che hanno neWintersog gettività non ancora normata il loro garante e il loro motore. Si tratta di una differenza fondamentale: gli abiti sono infatti tendenze ad agire in modo simile in circostanze simili nel futuro 188
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e, per esempio, chi fa indagini di mercato sa bene quanta diffe renza ci sia tra una tendenza e la sua istituzionalizzazione normata, tanto che è spesso il passaggio dalla prima alla seconda che decreta il successo commerciale. Questo vale a molti altri livelli: l’esempio di “uscire il cane” era un caso linguistico evidente di una tendenza di questo tipo. Le tendenze sono allora influenzate dall’intersoggettività e dall’interazione con il mondo ambiente. Occorre insistere con forza su questo aspetto, perché le te orie semiotiche dell’enunciazione hanno troppo privilegiato le dimensioni oggettivanti e quelle soggettivanti, senza insistere con la dovuta forza su quelle intersoggettive, che sono irriduci bili alle prime come alle seconde. Se l’atto di enunciazione era la presa in carico soggettiva del sistema della langue, si è poi in trodotto il concetto di “prassi enunciativa” (Fontanille e Zilberberg, 1998) proprio per rendere conto dell’aspetto sovraindividuale dell’enunciazione, e cioè del rapporto dell’enunciato con le strutture depositate nel sistema sotto forma di stereotipi, luoghi comuni, porzioni condivise e assestate di enciclopedia.8 Diversamente da Benveniste, che sottolineava il ruolo centrale della soggettività nel linguaggio, qui si insiste piuttosto sull’i stanza socioculturale che sta dietro a qualunque enunciazione.
È chiaro a questo punto che l’enunciazione del singolo parlan te non può essere concepita indipendentemente dall’immenso corpus delle enunciazioni collettive che l’hanno preceduta e che la rendono possibile. La sedimentazione delle strutture si gnificanti, prodotto della storia, determina qualunque atto di linguaggio: c’è senso “già là”, depositato nella memoria cultu. rale, archiviato nella lingua e nelle significazioni lessicali, fisg Su questi temi, si veda Lorusso, 2015 e Leone, 2019. Con un focus maggiore sugli stereotipi e sulla comunicazione: Cosenza, 2018, capp. 1 e 4; Cosenza, Colom bari e Gasparri, 2016. 189
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sato negli schemi discorsivi, controllato dalle codificazioni dei generi e delle forme d’espressione cui l’enunciatore fa appello ogni qualvolta utilizza la parole in quanto individuo. Egli attua lizza, reitera, ricomprende il senso, o al contrario lo destituisce, lo ricusa rinnovandolo e trasformandolo. [...] H prevalere del la prassi enunciativa sull’impegno dell’individuo nella parole in atto è un dato originario (Bertrand, 2000, pp. 58-59). !sl ‘
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Tuttavia, al fine di costruire una teoria dell’enunciazione ef ficace, la prassi enunciativa non può essere soltanto riferimento alle dimensioni normate e condivise, ma anche e innanzitutto alle altre enunciazioni singolari, la cui catena costruisce una ten denza. Per questo, sia Pierluigi Basso Possali (2016) che Patrizia , Violi (2016) hanno provato a introdurre il neologismo di “prassi enunciazionale”, proprio per concentrarsi sull’apertura di pos sibilità enunciative derivanti non dagli enunciati già normati e istituzionalizzati dalle altre enunciazioni (prassi enunciativa), ma proprio da singole enunciazioni individuali. Violi (2016), per esempio, mostrava che, nel caso di racconti di esperienze traumatiche, l’enunciazione dipende spesso da una presa di parola che legittima successivi atti di enunciazioni individuali, . rendendo possibile iscrivere la propria enunciazione singolare nel solco di un’altra enunciazione singolare che la rende possi. bile (c£r. anche Demaria, 2006,2012). Violi (2016) citava il libro-documento Idoubli du pére di Janine Altounian, pubblicato in Francia nel 2004, che contiene il diario di deportazione di Vahram Altounian, padre di Janine. La Altou nian non riesce per decenni a pubblicare questo libro, perché vive all’interno di una cultura che aveva fatto passare completamente sotto silenzio il genocidio degli armeni da parte dei turchi. La sua enunciazione viene allora di fatto resa possibile da un’altra enunciazione, in forma di pratica terroristica, e cioè il sequestro di ostaggi turchi dall’ambasciata della Turchia a Parigi, che nella
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sua violenza riesce ad attirare l’attenzione della società francese su questo caso dimenticato e fa sì che “se ne parli”, creando una tendenza. Si vede qui l’assoluta eterogeneità dei domini che presiedono a questo atto singolare di enunciazione e lo rendono possibile, così come si vede la pluralità delle istanze enuncianti. Per questo, l’idea di Violi (2016) è che, in casi del tipo di quelli ri guardanti la narrazione di un trauma, “l’enunciazione del singolo, sia ‘contenuta’, sostenuta e collegata a un quadro enunciativo di riferimento, a una enunciazione intersoggettiva che la legittima” e la rende possibile. In breve, se la norma rimanda a un’wwztó collettiva' Vuso ri manda più propriamente a unWtó distributiva, che è valida per ciascuno singolarmente. Se la norma rimanda a un rapporto token-type, l’uso rimanda invece a un rapporto token-token, che va da un atto di enunciazione a un altro atto di enunciazione. Ovviamente, le due dimensioni della prassi enunciativa sono oggetto di trasformazioni reciproche, di passaggi di mediazione attraverso cui le norme trasformano gli usi e gli usi trasformano le norme. Ma, di fatto, qualsiasi enunciazione dipende sempre nella sua essenza da entrambe queste dimensioni fondamentali, che ci installano innanzitutto all’interno di piani stabili in cui ci sentiamo a casa nostra e in cui dobbiamo fare l’esperienza dell’im piccio e del contrattempo per uscire e cominciare a “viaggiare a rizoma”. È per esempio il caso del genocidio degli armeni stu diato da Violi, in cui lo sfondo collettivo impedisce per decenni un’enunciazione che solo un’altra enunciazione singolare finisce per rendere possibile, destabilizzando la situazione precedente. Tuttavia, questa tensione e questa compresenza tra grandezze provenienti dalla norma e grandezze provenienti dall’uso defini sce anche il comportamento a regime della prassi enunciativa, in un senso generale e non in un senso limitato a casi tutto sommato singolari quali sono quelli dell’enunciazione traumatica. Una norma può infatti essere virtualizzata in un enunciato, realizzan191
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do una sua trasgressione. Oppure, la stessa norma può essere attualizzata e riaffermata in quanto tale, virtualizzando così le sue trasgressioni possibili. La formazione, la trasformazione e la spa rizione delle norme si fondano esattamente su queste operazioni intersoggettive di passaggio tra modi di esistenza, che rendono perfettamente conto delle metamorfosi delle norme attraverso l’uso. Una norma può infatti essere adottata, iterata, integrata, emendata, riconosciuta, rifiutata, risemantizzata e percepita come usurata o obsoleta. A questo proposito, Fontanille e Zilberberg (1998, pp. 134-135) individuavano quattro forme di passaggio possibili tra modi di esistenza, capaci di definire perfettamente i passaggi di mediazione che caratterizzano la prassi enunciativa:
L’amplificazione, che rende conto della sequenza “ado zione —> integrazione” di una forma semiotica attraver so Fiterazione dell’uso. fi) L’attenuazione, che rende conto della sequenza “rico noscimento -» obsolescenza” di una forma semiotica attraverso la percezione nell’uso. iii) La risoluzione, che rende conto della sequenza “forma zione -» usura” di una forma semiotica attraverso la tra sformazione nell’uso. iv) La distribuzione, che rende conto della sequenza “dif fusione —> risemantizzazione” di una forma semiotica attraverso Valterazione nell’uso.
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Le operazioni enunciative di amplificazione e attenuazio ne regolano i valori di scambio della “vita sociale dei segni” e appartengono innanzitutto alla dimensione della norma? Le
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9 La norma ha un valore di scambio in quanto è istituita, è “fissata essere così*. Per questo Descombes (1996) la poteva pensare come una forma di “istitu zione del senso*.
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operazioni enunciative di risoluzione e distribuzione regola no i valori d’uso delle forme semiotiche all’interno della vita sociale dei segni e appartengono innanzitutto alla dimensione dell’io. Tuttavia, le norme hanno i loro valori d’uso, in quanto l’uso può essere normato. Allo stesso modo, gli usi hanno i loro valori di scambio, in quanto le norme possono essere usa te.10 Per questo l’iterazione, la percezione, la trasformazione e l’alterazione sono dimensioni dell’uso che presiedono all’am plificazione, all’attenuazione, alla risoluzione e alla distribuzio ne delle norme, attraverso passaggi di mediazione tra modi di esistenza.
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Norma
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Amplificazione
Adozione -> Integrazione
Iterazione
Valori di scambio
Attenuazione Risoluzione Valori d’uso
Distribuzione
Riconoscimento -> Obsolescenza
Formazione Usura Diffusione -> Risemantizzazione
Percezione Trasformazione
Alterazione
10 Proprio in questo senso Lorusso (2019, pp. 89-90), nel suo tentativo di costru ire una semiotica della norma, era di fatto costretta a raggruppare sotto l’idea di norma grandezze provenienti sia dall’uso che dagli apprezzamenti collettivi, oltre che, più ge neralmente, dai passaggi tra modi di esistenza che pertengono alla prassi enunciativa: ‘Includo sotto la categoria di norme quell’insieme di dispositivi sovra-personali che modellano (con gradi vari di cogenza: dall’influenza alla prescrizione) appartenenze, identità e prassi individuali. Tali dispositivi possono andare da stereotipi comporta mentali a norme non scritte di etichetta, a norme di memoria, a grammatiche esplicite di comportamento; si collocano dunque in un continuum che ha a che fare con {'uniformazione di alcune forme (la creazione di un habitus}, l’assunzione successiva di una loro forza modellizxante, l’eventuale loro grammaticalizzazione in fine”.
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Tutti questi passaggi di mediazione tra norme e uso che costituiscono le dimensioni delle prassi enunciativa hanno nell’intersoggettività la loro condizione di possibilità. Senza una condivisione intersoggettiva che ne sanziona l’uso, infatti, la frequenza di impiego di una forma è per esempio soltanto una sua banale ripetizione, esattamente come la risoluzione non condivisa di una norma è soltanto un’idiosincrasia idiolettale. Le grandezze proprie della norma e dell’uso hanno bisogno di essere utilizzate e scambiate nella prassi, e cioè tra sformate in veri e propri valori, speculari a quelli che Saussu re individuava a livello dello schema con il suo esempio della moneta.
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Le formazioni e le sparizioni di una norma si fondano su un principio: i soggetti che tentano di far evolvere la norma non possono sperare di riuscirci se non trovano un pubblico, se non attivano un proprio “orizzonte di attesa”. Generalizzan do in certa misura il ragionamento di Benveniste, saremmo inclini a ritenere che è lo scambio sociale, e cioè la circolazione degli oggetti semiotici e dei discorsi in seno alle culture e alle comunità che conservano o rifiutano gli usi innovatori e quelli fissati e che “canonizzano” in qualche maniera le creazioni del discorso (Fontanille e Zilberberg, 1998, p. 134). Era del resto il famoso caso di “petaloso”, enunciazione sin golare sparita senza lasciare traccia dopo il suo quarto d’ora di celebrità. Tanto che i media spesso tralasciavano di citare la se conda parte della risposta che l’Accademia della Crusca aveva inviato al giovane bimbo che avevo loro scritto: la tua parola è linguisticamente corretta (se “peloso” è pieno di peli, allora “petaloso” e pieno di petali), ma “perché entri in un vocabo lario, bisogna che la parola nuova non sia conosciuta e usata solo da chi l’ha inventata, ma che la usino tante persone e che 194
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tante persone la capiscano”.11 Il bambino di “petaloso” aveva .saltato il passaggio di mediazione dell’uso potenzializzandolo, provando a saltare direttamente dall’atto alla norma. A nostro parere, i valori d’uso e i valori di scambio propri di norma e uso, con le loro operazioni a livello della prassi enun ciativa che abbiamo descritto sopra, spiegano perfettamente co sa accade quando le istanze enuncianti sono “costrette” a uscire dal piano enciclopedico in cui erano installate al fine di riconfi gurarne i valori. Del resto, già Bartezzaghi (2016, pp. 309-313) mostrava come ogni atto che si ascrivesse la “novità” come tratto costitutivo potesse variamente coniugare almeno quattro diverse dimensioni che vanno dalla (i) ripetizione alla (ii) varia zione, passando per la (iii) riorganizzazione e la (iv) rivoluzione. Per questo, sia che le norme, i cliché e gli stereotipi vengano virtualizzati o realizzati nell’enunciato, in ogni atto di enunciazio ne si deve sempre in ultima istanza assumere un insieme di rap porti e di valori che verranno realizzati attraverso la produzione dell’enunciato. È così che si passa da uno stato determinato di tipo attualizzato a uno stato effettivamente realizzato. Di fatto, nell’esempio del genocidio degli armeni, a un certo punto Janine si prende carico della propria enunciazione e non c’è nessuna enunciazione senza un qualche tipo di assunzione, sia essa sogget tiva, intersoggettiva, impersonale o “istituzionale”. L’assunzione non implica affatto una “soggettivazione”: implica soltanto una particolare distribuzione di modi di esistenza per le norme e per gli usi che pulsano nell’enunciato. L’assunzione implica cioè una presa in carico dei valori propri di schema, norma e uso. Ecco al lora che per noi è soltanto a questo punto che l'atto di enunciazio ne si effettua in corpi che incarnano in attori, spazi e tempi quella ..parte virtuale che è costitutiva dell’evento enunciativo, e che per Deleuze ne rappresentava l’essenza più profonda, ^assunzione 11 https://accademiadenacrusca.it/it/contenuti/titolo/6376
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è la categoria enunciativa fondamentale che ci fa passare dalla parte non effettuata a quella embodied dell’evento enunciativo, facendo emergere in primo piano il problema dei modi di pro duzione del piano dell’espressione di una funzione semiotica. I
3.4 Assunzione, sintassi del sensibile e la parte effettuata dell’evento dell’enunciazione
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Facciamo un esempio sufficientemente complesso da poter manifestare bene tutte queste dimensioni costitutive dell’atto di enunciazione e prendiamo qualcuno che si impratichisca in degustazione di vini e cerchi di capire, in vista di una descrizio ne in un enunciato verbale o in un test di riconoscimento, quali sensazioni gustative vadano indicizzate e riconosciute per di chiarare se quel particolare vino è o meno strutturato.12 Una ta le situazione vede all’opera alcune opposizioni profonde di tipo differenziale (strutturato VS non-strutturato) che sono normale e istituzionalizzate, tanto da categorizzare il mondo stesso dei vini, differenziandone i prodotti e regolandone l’abbinamento a determinate portate all’interno di alcune pratiche culturali. Esi ste poi una parte soggettiva di una lingua novizia che deve farsi sociale e intersoggettiva attraverso 1’wso,13 imparando ad acqui sire tentativamente una serie di abiti interpretativi che siano in grado di coniugare le sensazioni gustative individuali legate al corpo con la categorizzazione socialmente stabilita. Al fine di transitare dalle sensazioni alla categorizzazione e riconoscere adeguatamente il vino attraverso un enunciato cor12 Cfr, Festi, 2003, p. 192. Su questo tema, all’interno di una semiotica della percezione, si veda anche Moutat, 2016,2019 e Marrone 2016a. 11 Sul tema del corpo che deve farsi sociale, si vedano i due importanti lavori di Gianfranco Marrone (2001, 2006).
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retto, il novizio può rapportare il proprio uso ad altri usi, fa cendo per esempio appello all’esperienza del proprio insegnan te del corso di sommelier, con cui può confrontare la propria esperienza soggettiva con un’altra esperienza soggettiva, che è stata capace prima di lui di coniugare le proprie sensazioni in dividuali con la categorizzazione socialmente attesa. Ecco tutto un “piccolo dramma” con all’opera dei valori ^differenziali (potenziali), delle norme sociali (virtuali), degli usi intersoggettivi (attuali) e degli enunciati (realizzati). Alcune di ' queste dimensioni sono effettuate, mentre altre rimangono so lamente virtuali, per quanto siano perfettamente reali e operanti proprio nella loro virtualità, ma in nessun caso le prime esauri scono le seconde, che anzi le guidano e le orientano. Tuttavia, all’interno di questa scena predicativa popolata da diverse istanze enunciami, per accedere al piano del contenu to occorre innanzitutto occuparsi del modo in cui un substrato materiale possa diventare il piano dell’espressione di una fun zione semiotica in grado di veicolare un significato quale quello di “vino strutturato”. Affinché questo sia possibile, si deve pas sare attraverso la costituzione di una possibile commensurabilità tra singolarità materiali, in cui un insieme di abiti legati al nostro corpo deve essere messo in discussione, modulato e trasformato in altri abiti. Qui le dimensioni intersoggettive e virtuali non bastano. Non si impara a nuotare riproducendo sulla sabbia i movimenti del maestro di nuoto o chiedendogli che cosa si deve fare, ma si impara quando si immerge la materia del proprio corpo all’interno di una corporeità “altra”, a cui ci si apre in un incontro, quando il corpo combina alcuni suoi punti sin golari con i moti principali dell’onda.14 Non si impara a essere un buon sommelier studiando la categorizzazione testuale dei vini normata socialmente, ma si impara quando la materia della M Cfr. Deleuze, 1968, p. 44. 197
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mia lingua diviene commensurabile alla materia del vino e ne indicizza dei formanti candidati a divenire l’espressione di un contenuto possibile (per esempio “vino strutturato”). Si trat ta di “un’esperienza-con” (Matteucci, 2019, pp. 48-54), in cui non si può tracciare una “linea di demarcazione tra un cam po interno (quello tipicamente attribuito alla soggettività) e un campo esterno (quello attribuito all’oggettività)”: in entrambi casi infatti, il mio corpo deve finire con il riuscire ad abitare il corpo dell’altro, adattandosi localmente alle sue singolarità significanti.15 E in entrambi i casi, affinché questo sia possibile, occorre concatenare un aspetto impersonale fondato sul “si” con un aspetto personale fondato sull’“io”, dal momento che il mio corpo deve riuscire a uscire dai suoi abiti attuali, al fine di coniugare le sue specificità con un sistema “altro”, che è già socialmente normato, e stabilizzare nuovi abiti propri. Come notava già Landowski (2004, p. 108), per esperienze di aggiustamento come il suonare il piano o la danza: “È enun ciando, e cioè facendo accadere il senso attraverso i loro atti semiotici, che gli attanti-soggetti costruiscono loro stessi attra verso la costruzione del mondo - del loro mondo - in quanto mondo significante”.16 Per questo una teoria dell’enunciazione non può non occuparsi anche di come un substrato materiale si faccia piano dell’espressione, al fine di esprimere nell’enunciato alcuni contenuti mirati: è ciò che chiamavamo la parte “effet tuata” dell’evento enunciativo. Si tratta allora di insistere sulla nozione capitale di singola rità che, come dice Deleuze (1973), è al centro di tutti i campi .in cui c’è struttura. Come detto, la singolarità è un punto in cui succede qualcosa, che corrisponde ai valori dei rapporti differen ziali. In funzione del valore di un rapporto, si hanno punti corw 16
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Cfr. Fontanile, 2004, p. 214. Cfr. anche Landowski, 2003, pp. 26-32.
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rispondenti, e cioè “punti in cui succede qualcosa” (singolarità) e “punti in cui non succede nulla” (regolarità), ma che, come mostrava Peirce, presiedono a tutti gli avvenimenti singolari e 'li rendono possibili. A nostro parere, è questa dialettica tra sin golare e regolare che dà vita al dispiegamento del sensibile nella funzione semiotica e consente di rendere conto del modo in cui un substrato materiale si fa espressione, semiotizzandosi. È molto evidente come i valori in gioco qui siano infatti di perti nenza anche della norma e dell’uso e non soltanto dello schema: è una lingua che deve farsi sociale e l’atto di enunciazione che costruisce un piano dell’espressione a partire da un substrato materiale è sempre legato a schemi, norme, usi e altri enunciati, com’è evidente dall’esempio del sommelier. E diciamo ciò senza che sia in alcun modo necessario ricorrere né a una soggettività forte né ad alcun primato della dimensione sensibile su quella intelligibile. Vediamo come.
Per accedere al piano del contenuto si deve innanzi tutto [...] disimplicare la maniera in cui le figure dell’espressione pren dono forma a partire dal substrato materiale delle iscrizioni e dal gesto che ve le ha inscritte [...]. La semiotica strutturale classica non ha certo ignorato questa dimensione; procedeva infatti alla segmentazione dei testi e delle immagini proprio per tentare di isolare le figure del piano dell’espressione. Tut tavia, lo faceva mettendo tra parentesi il carattere corporale sia del substrato materiale d’iscrizione sia del gesto d’enun ciazione. [...] La semiotica dell’impronta presta attenzione al modus operandi della produzione testuale, così come a quello dell’interpretazione, dal momento che mette in gioco l’ipotesi che l’interpretazione sia un’esperienza che consiste nel ritrovare le forme di un’altra esperienza di cui non resta che l’impronta (Fontanille, 2004, pp. 415-416).
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Questa necessità di “prestare attenzione al modus operandi della produzione testuale” è centrale per una teoria dell’enun ciazione unificata, che voglia prendere sul serio la definizione di enunciazione come atto di produzione di un enunciato. Pro prio a questo proposito, nel loro lavoro sull’immagine scien tifica, Dondero e Fontanille (2012) negavano con forza che le classiche categorie della teoria dell’enunciazione semiotica, importate dalla linguistica al fine di rendere conto simulacralmente del punto di vista nei testi visivi, potessero essere ap plicate euristicamente al dominio del visibile e all’immagine scientifica in particolare. Infatti, l’enunciazione dell’immagine scientifica (lastra, scintigrafia, risonanza magnetica, ecografia ecc.) non presenta affatto una natura visiva, essendo costrui ta da una serie di trasduzioni complesse tra differenti sostanze della manifestazione. Si pensi per esempio al caso dei buchi neri, che, per definizione, non possono essere né fotografati né filmati, ma che, nella letteratura scientifica, sono costantemente rappresentati visivamente attraverso la traduzione di un certo numero di equazioni matematiche in dispositivi spaziali, che mettono in scena i percorsi enunciativi che ci consentono di costruirli in quanto oggetti visivi attraverso la manipolazione di relazioni astratte. Al fine di renderne conto, secondo Dondero e Fontanille (2012) la teoria dell’enunciazione semiotica dovrà allora essere capace di convertire il visibile (di natura non ne cessariamente visiva) in visivo, ritrovando le condizioni, i per corsi e il modus operandi della produzione segnica, capaci di “cambiare il livello di pertinenza della teoria dell’enunciazione, che si sposta dal livello del testo visivo a quello della pratica di visualizzazione” (Dondero e Fontanille, 2012, p. 240). Ora, una semiotica che prestava attenzione al modus ope randi della produzione testuale e in cui Vinterpretazione era la produzione di enunciati in funzione dei “vari modi in cui si producono materialmente oggetti destinati alla funzione se-
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gnica”,17 costituiva la seconda parte del Trattato di semiotica generale di Umberto Eco, sotto il titolo piuttosto programma tico di “Teoria dei modi di produzione segnica”. Si tratta di fatto di una teoria dell’enunciazione che riguarda l’allestimen to del piano dell’espressione dell’enunciato, in funzione dei rapporti che esso ha con il piano del contenuto attraverso gli schemi, le norme e gli usi. Come già notava Valle (2007): Quella esposta nel capitolo 3.6. del Trattato pare allora essere non una teoria dell’espressione sub specie materiae ma piutto sto una teoria della materia sub specie expressionis\ essa descri ve le modalità per cui la materia può assumere la funzione di espressione, classificando “tipi di attività produttiva che, per reciproca interazione, possono dar adito a diverse funzioni segniche (Eco, 1975, p. 289)” (Valle, 2007, pp. 369-370).
In che modo allora una teoria echiana dei modi di produ zione segnica può rendere conto del modo in cui un substrato materiale si fa espressione, rendendo così conto della costitu zione di una possibile commensurabilità tra singolarità materia li, in cui gli abiti acquisiti devono essere messi in discussione, modulati e trasformati in altri abiti? Partiamo allora proprio dai materiali. Anche nel caso in cui ci arrivino grezzi e non lavorati, i materiali da un lato si presen tano sempre con una loro forma propria, e dall’altro presentano sempre delle singolarità, e cioè dei punti in cui succede qual cosa alla loro stessa materialità. Per esempio, l’acqua ha due singolarità a 0 e 100 gradi in cui cambia il suo statuto stesso di materiale passando a stati di fase differenti (da materiale liqui do diventa materiale solido - a 0 gradi - e da materiale liquido diventa materiale gassoso - a 100 gradi -) e ha altresì una serie ” Eco, 1975, quarta di copertina.
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di ulteriori singolarità riguardanti per esempio la sua composi zione chimica come combinazione di idrogeno e ossigeno. Ora, il problema della semiotica è come questi substrati ma teriali dotati di singolarità fisiche possano diventare degli attanti materiali dotati di singolarità semiotiche, cioè dotati di punti in cui succede qualcosa non dal lato delle loro trasformazioni materiali, bensì da quello della differenziazione del senso nella costruzione della funzione semiotica. Il problema è cioè capire come delle figure materiali differenzino qualcosa sul piano del contenuto, differenziandosi a loro volta esse stesse al fine di divenire espressioni di certi contenuti mirati. Solo in questo modo un’esperienza può ritrovare le forme di un’altra espe rienza, coniugando singolarità corporee in grado di diventare i formanti del piano dell’espressione. Come nell’esempio del sommelier, occorre mettere in gioco le materie del corpo e degli oggetti al fine di indicizzarne del le porzioni candidate a divenire espressioni di un determinato contenuto (per esempio “vino strutturato”), al fine di capire come un substrato materiale possa essere commensurabile a un piano del contenuto ancora solamente mirato e differenziar si esso stesso al fine di costituirne l’espressione all’interno di una funzione semiotica. Come notano Sarti, Cittì e Piotrowski (2019, p. 18): “Questo processo non corrisponde a una categorizzazione, bensì all’individuazione degli orientamenti princi pali del flusso percettivo anche in assenza di ogni stabilizzazio ne in forme fisse”. Si tratta per esempio del processo attraverso cui, nella visione, siamo capaci di individuare forme percettive a partire da stimoli visivi (cfr. Albertazzi et al., 2010; Sarti e Cittì, 2015) e, più in generale, del processo a partire da cui si sviluppano le forme dell’espressione nella loro commensurabi lità con le forme del contenuto, tanto che è proprio a partire da questo pattern che Sarti, Citti e Piotrowski (2019) operano la loro “genesi della funzione semiotica”. 202
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Nei termini di Eco, questo è il problema della ratio (cfr. Eco, 1975, pp. 246-248). Ratio, che è la traduzione latina del greco logos, significa infatti rapporto, ma lo significa in un senso molto particolare. Un rapporto riconducibile a ratio definisce infatti un tipo particolare di relazione che presuppone una commensurabilità tra gli elementi considerati, tanto che, per esempio in matematica, i numeri irrazionali, e cioè quelli non riconducibili a ratio, defi niscono paradossalmente dei non-rapporti, dal momento che si instaurano tra elementi che non sono commensurabili tra di loro (il lato e la diagonale del quadrato, il diametro e la circonferenza del cerchio, l’apotema e il lato di un poligono regolare ecc.). Ecco allora che un rapporto non riconducibile a ratio defini sce una “non-proporzione”, e cioè un rapporto incommensura bile tra gli elementi in relazione tra cui non esiste alcun tipo di mi sura comune (logos) .18 È come se gli elementi si accordassero solo all’interno di una tensione, di un non-accordo, di una dolorosa lacerazione. Vi è sì accordo, ma accordo discordante, armonia nel dolore di una non-proporzione che rende possibile una pro porzione, tanto che la ratio sembra essere qualcosa che emerge sempre da una non-ratio in cui è possibile ripiombare, nel mo mento in cui il rapporto smetta di essere commensurabile. 18 Una delle prime scoperte nella nostra cultura di un rapporto irrazionale, e cioè non riconducibile alla commensurabilità della ratio, è stata quella del rapporto aureo (golden ratio), e cioè di un rapporto che ha costituito per secoli l’essenza stessa dei canoni di proporzione e di bellezza classica. Ecco infatti che il rapporto aureo è lo stesso che c’è tra l’ombelico e i piedi e l’ombelico e la testa nell’uomo, rappor to perfettamente rappresentato nel Diadumeno di Policleto e in seguito nell'Uomo vitruviano di Leonardo e, spazialmente, nella struttura del Partenone di Atene o in quella della Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca (ma gli esempi potreb bero ovviamente proliferare, cfr. per esempio Livio, 2002). È davvero curioso che l’ideale stesso di proporzione che ha accompagnato tutta l’estetica classica sia in re altà l’essenza stessa di una non-proporzione, e cioè di un rapporto incommensurabile tra gli elementi in rapporto tra cui non esiste alcun tipo di misura comune (logos). Su questi temi in filosofia del linguaggio, si veda Lo Piparo, 2003.
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Per la teoria dei modi di produzione segnica di Eco (1975), esistono allora due tipi di ratio in semiotica. Si ha ratio facilis quando un’occorrenza espressiva si accorda al proprio tipo espressivo, qual è stato istituzionalizzato da un sistema dell’espressione. Si ha ratio diffìcilis quando un’occorrenza espressiva è di rettamente accordata al proprio contenuto, sia perché non esiste tipo espressivo preformato, sia perché il tipo espressivo
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è già identico al tipo del contenuto. In altre parole, si ha ratio diffìcilis quando il tipo espressivo coincide col semema veicolato dall’occorrenza espressiva (Eco, 1975, p. 246)19.
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Il linguaggio verbale è l’esempio prototipico di sistema semio tico regolato da ratio facilis-. essendoci un tipo dell’espressione codificato in lingua, l’atto di enunciazione può appoggiarsi a esso. Tuttavia, il vero problema, di cui ci occuperemo, è che la quasi totalità dei linguaggi non verbali funzionano per ratio diffìcilis. Per questo la trasposizione delle categorie della lingui stica, come ad esempio l’enunciazione, ai sistemi non linguistici è sempre problematica. In questo caso, porre all’insegna di una ratio una teoria della produzione segnica significa fondarla su una commensurabilità innanzitutto tra tipo e occorrenza espres siva (casi di ratio facilis} e poi, in ultima analisi, tra espressione e contenuto tout court (casi di ratio diffìcilis}. Tuttavia, quest’ope19 II rapporto di ratio in Eco ( 1975) è un rapporto tra tipo e occorrenza. Non pos siamo seguire Eco su questo punto, dal momento che la ripartizione tipo/occorrenza sembra funzionare pressoché esclusivamente per il piano dell’espressione del linguag gio verbale e sistemi semiotici similari, mentre non pare una distinzione adeguata a rendere conto di ciò che accade per esempio per linguaggi di tipo visivo o sincretico, dove l’esistenza di un type dell’espressione appare quanto meno dubbia, né tanto meno sembra adeguata a descrivere ciò che accade sul piano del contenuto. Per noi la ratio si instaura innanzitutto tra singolarità nell’istituzione di un rapporto di commensurabilità.
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razione, se pare piuttosto naturale e giustificabile in casi di ratio facilis quali quelli della produzione linguistica - in cui si dà vita a un’occorrenza espressiva in funzione di un tipo preformato -, sembra invece diventare molto più problematica in casi quali quelli dell’apprendimento del nuotatore o dell’indicizzazione della materia sensibile nel sommelier™ È infatti esattamente una possibile commensurabilità che è in gioco e che costituisce la posta stessa di questo tipo di esperienze. Sono infatti i punti singolari interni alla materia della mia lingua e quelli interni alla materia del vino a dover divenire commensurabili nell’incontro con un altro da me che io non conosco e che sto infatti cercando di imparare a gestire (e non è affatto detto che io ce la faccia). È esattamente la materia della mia lingua a contatto con l’alterità della materia del vino a doversi semiotizzare, al fine di indicizzare formanti corporali (“sensazioni gustative” per esempio) che si candidino a divenire espressioni commensurabili per un determinato con tenuto (“vino strutturato”). Ma in questo processo è inscritto fin dal principio ciò che Marrone (2001) pensava come “corpi sociali”, e cioè una categorizzazione semantica propria di altre istanze enunciami (nor me, usi, schemi, testi ecc.),21 che pulsano nella costruzione della relazione di commensurabilità tra le singolarità del mio corpo e quelle di un corpo “altro”, con cui sto cercando di costruire 20 Per questo anche l’eterogenesi differenziale dovrebbe distinguere tra casi di ratio facili!, come quello del linguaggio verbale di cui importa il modello hjelmsleviano, e casi di ratio difficili!, largamente maggioritari in casi di funzioni semiotiche non linguistiche e molto più vicini al modello merleau-pontyano soggiacente all’im postazione di questa parte del loro lavoro. In Sarti, Cittì e Piotrowski (2019) questa distinzione non sembra essere all’opera. 21 Proprio perché “la significazione non è un sottoinsieme della società, ma vi si sovrappone”, Marrone (2001, Introduzione) può identificare semiotica generale e sociosemiotica e dire con grande nettezza che “il segno è un evento”, “una pro cedura che rende possibile la relazione di rinvio” (ibid., p. XI). Un “passaggio di mediazione” nella nostra terminologia latouriana.
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una mediazione e un passaggio possibile. Ed è esattamente su questa possibile commensurabilità tra le singolarità materiali del mio corpo e quelle di un corpo altro, e in seguito tra i formanti indicizzati come possibile espressione di un possibile contenuto, che si fonda la possibilità stessa dell’atto di enunciazione nella sua dimensione effettuata. È allora possibile individuare qui una sintassi del sensibile interna all’atto di enunciazione come assunzione-.
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Singolarità -> Formante -> Piano dell’espressione
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All’interno di questa sintassi, ognuna di queste tre fasi del processo definisce un passaggio di mediazione che si fonda sulla costruzione di commensurabilità. E allora proprio questa condizione di commensurabilità fallibile ciò di cui la teoria echiana dei modi di produzione segnica riesce a rendere conto: in quanto teoria della materia sub specie expressionis, essa descrive infatti le modalità per cui la materia può assumere la funzione di espressione, classifi cando tipi di attività produttiva che possono dar vita a diverse funzioni segniche in vista di un contenuto mirato. Da qui le quattro dimensioni della sua tipologia: i) il “lavoro fisico per produrre respressione”, ii) il “rapporto tipo-occorrenza”, iii) il “continuum da formare” e iv) il “modo di articolazione” (cfr. Eco, 1975, p. 289; Valle, 2007, pp. 370-401). La teoria dei modi di produzione segnica di Eco problematizza proprio la costruzione del piano dell’espressione nei suoi rapporti con il contenuto, che è condizione di possibilità dell’effettuazione di un evento enunciativo attraverso un atto. Il concetto di ratio diventa allora capitale per una teoria semiotica che desideri pensare alla costruzione del piano dell’e spressione all’interno di un atto di enunciazione: essa interviene infatti in almeno tre fasi distinte di questa stessa costruzione, 206
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di cui la funzione semiotica è sempre un effetto: i) tra soma e soma, per esempio nell’apprendimento del nuotatore o nella pratica di degustazione del vino come incontro tra singolarità materiali, punti singolari somatici che occorre rendere com mensurabili nell’incontro con una materialità “altra”; ii) tra sema e soma, nella pertinentizzazione di una materia corporale che deve essere indicizzata al fine di divenire l’espressione di un contenuto semico mirato (problema di quali sono le sensazioni che possono divenire espressione del contenuto “vino struttu rato”); iii) tra espressione e contenuto, nell’atto di enunciazione come prassi, che installa la funzione tra le due facce del foglio di carta saussuriano, ormai irriducibilmente ispessito nella pol pa stessa della materia, in cui la prassi enunciativa lavora per produrre senso sempre contemporaneamente sui due piani, in una semiosi che funziona ora come una fabbrica che produce senso (un atto) e non più come un teatro che lo mette in scena leggendolo nei testi (un simulacro).22 Perché l’immagine dell’enunciazione che si ha dal Trattato di semiotica generale è quella di una fabbrica in cui si produco no enunciati attraverso atti, e non quella di un teatro in cui si mettono in scena discorsi simulacrali con i loro effetti di senso. L’atto di enunciazione funziona come una fabbrica, o meglio, come una fabbrica che produce rappresentazioni che possono sempre venire utilizzate per mentire. È una specie di Holly wood: è Cinecittà. E il Trattato manifesta il gusto sottile per lo svelamento del suo meccanismo,23 per la teoria dei suoi modi di produzione. Ritroviamo qui il percorso di Ulisse: la sogget-
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22 Per questo, come sostenuto in precedenza, il modello matematico dell’ete rogenesi differenziale di Sarti, Citti e Piotrowski (2019) definisce innanzitutto un modello semio-matematico dell’enunciazione più che della funzione semiotica, che daH’cnunciazione dipende costitutivamente. 22 Da qui anche tutta la parte sulla “critica dell’ideologia". Cfr. Eco, 1975, pp. 359-371.
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tività legata all’enunciazione passa attraverso la produzione di superfici significanti che possono essere utilizzate per mentire. Il passaggio attraverso la produzione semiotica, che allestisce il piano dell’espressione attraverso passaggi di mediazione tra schemi, norme, usi e ideologie, è una componente costitutiva della “soggettività nel linguaggio”. E questo con alcune importanti conseguenze. Se la semiotica classica si è sempre occupata della simulacralità delle istanze dell’enunciazione a livello dell’enunciato, finendo per pensare all’enunciazione come alla posizione vuota ricostruita a parti re dalle sue tracce; quello che la teoria dei modi di produzione insegna a fare è pensare le pratiche semiotiche che producono i simulacri e i loro effetti di senso, finendo per concepire l’enun ciazione come una fabbrica di funzioni semiotiche interpretanti, che possono sempre venire utilizzate per mentire (cfr. infra, 5.3). All’interno di Cinecittà, è come se l’operatore disobbedisse al regista e allargasse sempre più il proprio sguardo fino a mostrare non più la scena, bensì la messa in scena colta in flagranza con tutte le persone che la producono in atto (enunciazione in atto): non vediamo più soltanto la scena simulacrale, ma il processo di produzione che la mette in scena e dentro cui pulsano le logiche stesse della cultura, dei suoi rapporti di produzione sociale (il ca meraman, la costumista, la produzione ecc.), delle ideologie e dei differenti domini eterogenei che si incrociano e si compenetrano. Sono allora esattamente queste logiche che pulsano all'interno del meccanismo della messa in scena simulacrale che si tratta innan zitutto di descrivere semioticamente. Per farlo, a nostro parere non è possibile procedere se non seguendo la teoria delle reti di Latour, per cui un enunciato, con il suo effetto di omogeneità semio-linguistico, passa invece per la mediazione di diverse istanze enunciami appartenenti a domini enciclopedici eterogenei, che vengono cuciti in una rete capace di costruire commensurabilità tra sistemi, convertendo differenti modi di esistenza. 208
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3.5 Istanze enuncianti e traduzione intersemiotica Un esempio particolarmente evidente dell’euristicità di questa idea dell’enunciazione come serie di passaggi di mediazione tra istanze enuncianti viene dalla cosiddetta “traduzione intersemi otica”, o “adattamento”, e cioè da quelle forme di “dire quasi la stessa cosa” in cui si prova a trasporre un romanzo in un film o un film in un’opera teatrale. Proprio in Dire quasi la stessa cosa, Umberto Eco (2003) rifletteva sull’adattamento di Annaud del suo romanzo più celebre:
Scrivendo II nome della rosa, che si svolge in una abbazia me dievale, io descrivevo scene notturne, scene in luoghi chiusi e scene all’aperto. Non prescrivevo un tono cromatico ge nerale per l’intera storia, ma quando il regista ha chiesto la mia opinione su questo punto gli ho detto che il Medioevo si rappresentava, specie nelle sue miniature, in colori crudi e squillanti, ovvero si vedeva con poche sfumature, e prediligeva la luce e la chiarezza. [...] Quando poi ho visto il film, la mia prima reazione è stata che quel Medioevo era diventato “ca ravaggesco”, e dunque secentesco, con pochi riflessi di luce calda su sfondi bui. Ho lamentato in cuor mio una sensibile misinterpretazione della intentio operis. Solo dopo, riflettendo, ho capito che il regista si era comportato, vorrei dire, secondo natura. Se la scena si svolge in un luogo chiuso, illuminato da una torcia o da una lucerna, o rischiarato da una sola finestra (e all’esterno è notte, o c’è nebbia) il risultato che si ottiene non può essere che caravaggesco, e le poche luci che battono sui volti suggeriscono più Georges de la Tour che Les très riches heures du due de Berry o le miniature ottoniane. Forse il Medioevo si rappresentava in colori limpidi e squillanti, ma si vedeva di fatto, e per la maggior parte della giornata, per chiaroscuri barocchi. Nulla da eccepire, se non che il film era 209
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costretto a prendere una decisione là dove il romanzo non la prendeva. Nel romanzo la lucerna era flatus vocis, e l’intensi tà della sua luce era tutta da immaginare; nel film la lucerna diventava materia luminosa ed esprimeva esattamente quella intensità luminosa. Prendendo questa decisione il regista optava per una lettura “realistica” e lasciava cadere altre possibilità (avrebbe potuto opporre alla visione realistica una interpretazione araldica, come ha fatto Olivier nella battaglia di san Crispino e Crispiniano dell’Ewrzco V). Nel passaggio da materia a materia l’interpretazione è mediata dall’adattatore, e non lasciata alla mercé del destinatario (Eco, 2003, pp. 330-331).
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Come nota lo stesso Eco, un primo passaggio di mediazio ne è proprio quello legato alla sostanza dell’espressione. L’e nunciazione filmica deve allestire luci e colori, là dove quella letteraria può anche lasciarle all’immagmazione del lettore. E questo primo passaggio richiede per essenza una mediazione: un nuovo accesso alle forme della cultura finalizzato alla pro duzione di un nuovo enunciato attraverso la costruzione di una funzione semiotica a partire da singolarità materiali. Tuttavia, la scelta caravaggesca di piccole zone di luce im merse nell’ombra non è soltanto una scelta realistica dovuta all’esigenza di rappresentare un mondo che vive alla luce di torce e candele. Al contrario, il medioevo di Eco, quello che si autorappresenta nel suo particolare modo di vivere nella luce e si raffigura attraverso colori squillanti, non è certo quello dello spettatore medio del film di Annaud, che del Medioevo ha la rappresentazione dell’epoca buia e oscurantista delle tante cri tiche frettolose lette sui banchi di scuola (si pensa a Benedetto Croce che la considerava come un’età del brutto). Un’epoca dalla quale si esce con un periodo che, non a caso, è chiamato “Rinascimento”. Di più, il Medioevo dello spettatore del film di 210
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l Realizzato) connessa al declino di un’altra (Realizzato —> Potenzializzato) definisce una fluttua zione semiotica, come succede per esempio nei discorsi ideolo: gici, in cui certi semi vengono realizzati mentre altri, ugualmente attualizzati e predicabili a livello enciclopedico, vengono invece potenzializzati nell’enunciato (cfr. Eco, 1975, pp. 359-371). Ecco qui quel “piccolo dramma” dell’enunciazione a livello della prassi, di cui parlavamo fin dal primo capitolo. All’interno di questo “piccolo dramma”, l’atto di enunciazione consente di mettere in scena e trasformare dei valori semio-linguistici, garantendo passaggi tra differenti modi di esistenza. Durante questi passaggi, tutti i livelli semiotici (potenzializzato, virtualizzato, attualizzato e realizzato) - effettuati e non - dipendono dalla loro posizione locale rispetto all’occupante senza posto che definisce il (non) luogo dell’enunciazione. Ma nel posto dell’enunciazione non c’è il soggetto, né tanto meno l’individuo o la persona, ci sono diverse istanze enuncianti che rimandano a schemi, norme, usi, enunciati e altre enunciazioni intersoggetti ve, che costituiscono la soggettività nel linguaggio. Era del resto quello che ci dicevano Deleuze e Guattari fin dalla citazione che apriva questo libro: se si pensa alla soggettività in modo personale, fondandola sull’io e sull’individuo, si perde comple tamente quello che ci fa davvero “agire, sentire e pensare”, le differenti istanze enuncianti che pulsano in ogni atto di enun ciazione che crediamo soggettivo. Nel seguito del libro prove remo a determinare il rapporto tra queste istanze che occupano la posizione dell’enunciazione, stabilendo: i) il ruolo delle istan ze impersonali di tipo intersoggettivo e interoggettivo; ii) quello delle istanze personali di tipo soggettivo; iii) il particolare tipo di rapporto che esiste tra di esse. Tuttavia, se si pensa all’enun ciazione come a un insieme di passaggi tra modi di esistenza come quelli descritti qui e in 3.3, si vede fin da subito come la 214
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nostra teoria dell’enunciazione non abbia nulla di “antropoi de”, per usare la terminologia di Metz (1991; cfr. infra, cap. 6). Ci pare allora che, a questo livello dell’analisi, il nostro per corso abbia portato a tre risultati tanto semplici quanto - spe riamo - significativi. Tutti e tre sono riconducibili a una ba se comune. La base comune è che il rapporto che c’è tra la persona e la non-persona (in Benveniste) e quello che c’è tra l’enunciato e l’enunciazione (in Greimas) non sono affatto due rapporti privativi, del tipo “A VS non-A”, in cui la relazione è tra la presenza (la persona, le tracce nell’enunciato) e l’assen za di qualcosa (la non-persona, l’enunciazione). Al contrario, si tratta di due rapporti molto diversi, che fanno riferimento a due forme di relazione profondamente differenti rispetto a quelle individuate da Benveniste e da Greimas: i) il primo è infatti un'opposizione partecipativa tra la “persona” e la “persona+la-non-persona” (“A VS A+non-A”); ii) il secondo è inve ce un rapporto tra due termini marcati, e cioè tra due termini presenti, di cui uno è “presente in quanto presente” e l’altro è “presente in quanto assente” (presentificazione dell'assenza). In questo modo, iii) là dove una teoria pensata sulla_base_di ^opposizioni privative tra persona e non-persona e tra enun ciazione ed enunciato definisce l’enunciazione come “casella „ vuota”, assente dall’enunciato e localizzata in alcune Càtego- - • rie linguistiche privilegiate che puntano fuori dal linguaggio (io-qui-ora), una teoria basata su opposizioni partecipative e .presentificazioni dell’assenza definisce l’enunciazione come “occupante senza posto”, istanza non localizzabile e diffusa, abitata da diverse istanze enuncianti che connettono tra loro differenti elementi eterogenei, che finiscono per pulsare all’in terno degli enunciati. L’enunciazione viene così definita come un atto di mediazione, che consente di passare tra diversi modi di esistenza, che virtualizzano o potenzializzano certe grandez ze, mentre ne realizzano o ne virtualizzano altre. ~ 215
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2 Questo nostro tenere insieme la struttura dell’enunciazione con quella dell’inter pretazione avvicina certamente la nostra posizione a quella della linguistica dell’enuncia zione di Antoine Culioli, che pensa alla linguistica dell’enunciazione come “lo studio e l’attività significante del linguaggio in quanto attività di produzione e di riconoscimento interpretativo delle forme interpretabili” (Ducard, 2016, p. 154). Tuttavia, vista la spe cificitàsemiotica della nostra proposta, la vicinanza che praticheremo sarà innanzitutto rivolta alla semiotica di Peirce, a cui dobbiamo a tutt’oggi la più straordinaria e spesso fraintesa teoria dell’interpretazione in semiotica. Inoltre, in quanto modo di costruzione dell’enunciato che rimanda alle “operazioni di linguaggio che l’analisi metalinguistica ricava dal tessuto formale dell’enunciato" (La Mantia, 2015, p. 277), l’enunciazione per Culioli finisce con l’identificarsi con la teoria linguistica stessa, finendo per corri spondere “al lavoro compiuto dal linguista per ricostruire sul piano metalinguistico le operazioni di linguaggio soggiacenti alla costituzione-dell’enunciato”. Per quanto ci riguarda, intenderemo “enunciazione” nella sua declinazione semiotica a partire dalla lezione di Benveniste e Ducrot, senza fare dell’enunciazione una nozione ancora più vasta di quello che già è. Di recente, è stato Denis Bertrand (2016), accostando l’enun ciazione e il percorso generativo nella sua complessa totalità, a compiere in semiotica una mossa analoga a quella di Culioli. Per quanto ci riguarda, seguiremo un’altra strada: l’enunciazione è più classicamente un’istanza di mediazione e conversione tra langue e parole che ha a che vedere con l’atto di produzione dell’enunciato, le tracce che in esso vi lascia e la prassi che la connette ai repertori sedimentati dall’uso.
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dice che uno straniero dice la stessa cosa che egli stesso dice (CP 1.553).
La possibilità di passaggio tra due o più sistemi eterogenei, in cui un’istanza terza è in grado di garantire una mediazione, per Peirce è un’interpretazione. Essa non ha nulla a che vedere con un’ermeneutica o con la rappresentazione di un punto di vista, ma soltanto con un passaggio di mediazione. Il passaggio da una configurazione di relazioni incarnata in un sistema di segni a un’altra configurazione di relazioni incarnata in un sistema di se gni correlato in Peirce è un’interpretazione. La rappresentazione .mediatrice che consente di passare dal primo al secondo è un se gno interpretante. La forma prototipica dell’interpretazione per Peirce è quella della traduzione, un’altra attività che secondo Latour presenta la stessa forma di relazione dell’enunciazione.
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Un segno non è un segno tranne nel momento in cui traduce sé stesso in un altro segno in cui è più pienamente sviluppato. Il pensiero richiede compimento {acbievement} per il suo stes so sviluppo e senza questo sviluppo non è niente. Il pensiero deve vivere e crescere all’interno di incessanti nuove e più alte traduzioni o non è genuinamente pensiero (CP 5.594).
L’identità di un segno per Peirce è traduttiva: essa rimanda cioè la sua costituzione ad altri segni (cfr. Marrone 2018, pp. 46-51.) È come se lo statuto di in completezza che caratterizza la struttura di un segno cerchi compimento in altre strutture che ne costituiscono l’identità. Com’è evidente, e come non è stato così spesso sottolineato, per Peirce non esiste alcun segno “prima del” o “fuori dal” movimento di traduzione-, il primo segno si co stituisce solo nel momento in cui si concatena con un secondo segno in cui si traduce, attraverso un passaggio di mediazione. Al contrario di quel che normalmente si pensa, non c’è un segno
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con una sua identità precedente che si traduce in un altro segno con un’altra identità precedente, ma è il movimento di tradu zione che rende segno qualcosa correlandolo a un altro segno attraverso il passaggio di mediazione di un interpretante. Per questo Sedda (2018) poteva pensare che i meccanismi di inter pretazione potessero essere meglio identificabili come meccani smi di traduzione, come “concatenamenti traduttivi” (composti, assemblaggi), secondo una prospettiva del tutto in sintonia con quella che sosterremo qui.3 Non è un caso che un interpretan te sia un traduttore che svolge la funzione di mediazione di un interprete, garantendo un passaggio. E non è un caso che non possa esistere nessun segno senza interpretante. Al fine di capire che cos’è realmente un interpretante e qua le sia il reale apporto che esso può garantire alla teoria dell’e nunciazione, occorre capire la natura interamente topologica e relazionale della semiotica di Peirce, che è fondata sulla sua logica dei relativi (sintassi attanziale).4 Quando Peirce parla di segno, oggetto e interpretante non lo fa per ripartire un piano di “realtà” (oggetto), un piano di rappresentazione di questa realtà -(representamen o segno) e il movimento interpretativo infinito 3 L’unico punto di disaccordo con Sedda (2018) è il suo pensare all’interpreta zione come a un movimento di mediazione tra elementi già costituiti per sé stessi, che lo porta poi a opporre la traduzione all’interpretazione in funzione della presenza di una relazione che sia costitutiva o meno dei termini in gioco. Per una semiotica inter pretativa di ispirazione peirceana, l’interpretazione è un concatenamento trasduttivo e la semiotica (che in Peirce studia un particolare tipo di relazione triadica non de generata chiamata “semiosi”) è una parte della logica dei relativi, in cui la struttura relazionale è costitutiva dell’identità dei termini. È soltanto l’interpretazione di Ja kobson dei passaggi peirceani su interpretazione e traduzione che ha storicamente offerto il fianco all’idea di interpretazione come mediazione estrinseca tra termini con un’identità precedente, che può solo così essere opposta alla traduzione. 4 Per Peirce la semiotica studia la semiosi, e cioè una “relazione genuinamente triadica irriducibile a rapporti tra coppie” (CP 5.484). In questo senso, la semiotica è una parte della logica dei relativi che studia relazioni triadiche non degenerate quali quelle che si hanno tra segno, oggetto e interpretante.
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della rappresentazione di questa stessa realtà (l’interpretante co me ulteriore segno, l’interpretante come ulteriore representamen all’interno di un movimento di “semiosi illimitata”). Questa let tura rappresentazionalista della semiotica di Peirce è compietamente al difuori dell’orizzonte peirceano. Segno, oggetto e interpretante sono infatti semplicemente dei funtivi di una funzione triadica, degli attanti la cui identità è puramente topologica e re lazionale, dei posti che possono venire occupati di volta in volta da elementi diversissimi, appartenenti tanto all’ordine del reale quanto a quello dell’immaginario, al punto che quello che prima è oggetto può poi diventare segno e poi interpretante e vicever sa.5 Segno, oggetto e interpretante non posseggono né un’identi tà logica né un’identità sostanziale, bensì un’identità trasduttiva, in quanto rimandano a interpretanti futuri la determinazione della loro stessa identità. Ciò che li caratterizza è il loro rinviare sempre a una cosa altra rispetto a loro stessi: essi fanno segno per qualcuno e richiedono dei delegati per poter esistere. Con “identità trasduttiva” vogliamo ricondurre il movimento interpretativo della semiotica di Peirce alla nozione di trasduzione elaborata dal filosofo Gilbert Simondon (1964), che la definiva
5 Immaginiamo per esempio di voler far conoscere qualcosa di più sull’or nitorinco che teniamo nell’altra stanza a qualcuno che non ne abbia mai visti. In questo caso, direbbe Peirce, l’ornitorinco è il nostro oggetto. Possiamo definirlo come un monotremo (segno che lo illumina sotto un certo rispetto) e spiegare che un monotremo è un mammifero che fa le uova (segno interpretante) e mostrare an che immagini e foto dell’ornitorinco (altri interpretanti). Possiamo però benissimo andare nell’altra stanza e prendere il nostro ornitorinco in carne e ossa e mostrarlo a chi non lo conosce (“ostensione” del “referente”). Per Peirce, in questo caso, l’ornitorinco “reale” non è affatto un oggetto, bensì un segno interpretante. Com’è evidente, la semiotica peirceana non ha nulla a che vedere con la partizione in un piano di realtà (gli oggetti) e in un piano di “rappresentazioni della realtà” (i segni e i segni interpretanti). Gli elementi della semiotica di Peirce (oggetto, segno, inter pretante) non posseggono alcuna identità indipendente dalle posizioni reciproche che li interdefiniscono l’uno in rapporto all’altro.
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4 - l’enunciazione come passaggio di mediazione
come un’operazione relazionale i cui termini non preesistono al la sua effettuazione, ma emergono a seguito del processo stesso (“nessuna pianta fuori dalla relazione tra il sole e la terra, nessuna brocca al di fuori della relazione tra l’argilla e lo stampo” ecc.).
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Con trasduzione intendiamo un’operazione fisica, biologica, mentale o sociale attraverso cui un’attività si propaga passo dopo passo all’interno di un dominio, essendo questa propa gazione fondata su una strutturazione del dominio che si muo ve da una posizione alla posizione successiva: ogni regione del la struttura costituita serve alla regione successiva da principio di costituzione (Simondon, 1964, p. 30).
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La trasduzione affianca così la classica triade peirceana de duzione/induzione/abduzione', essa definisce il passaggio dalla forma di relazione incarnata in un elemento=x, che svolge la funzione di oggetto, alla forma di relazione incarnata in un elemento=z, che svolge la funzione di segno, attraverso la forma di relazione incarnata in un elemento=y, che svolge la funzione di segno interpretante (cfr. CP 3.483-3.484). Già Fabbri (1998a, 2017) pensava alla trasduzione come a un concetto centrale per la semiotica, essendo l’operazione attraverso cui si costruiscono commensurabilità tra elementi eterogenei e attraverso cui “la continua comunicazione tra ciò che è incomunicabile produce forme nuove di significazione” (Fabbri, 2017, p. 47; cfr. Traini, 2018, p. 6). Per questo Fabbri (1998b, p. 211) la definiva come “il passaggio tra sistemi semici che provoca un incremento di senso, una morfogenesi” e notava giustamente come si trattasse di un’operazione che con catena delle unità “e poi si interessa delle proprietà emergen ti che si organizzano e prendono significato”. Se la sleghiamo dal contesto “semico”, che la confinerebbe all’interno del solo piano del contenuto, questa operazione semiotica generale è al 227
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centro anche della semiotica di Peirce, in cui segno, oggetto e interpretante sono soltanto dei posti in rapporto reciproco, che sono occupabili da elementi diversissimi, degli attanti che de finiscono un movimento in cui si può andare da un primo a un secondo solamente passando attraverso la mediazione di un terzo.
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Va’ alla tua prima pianta e là osserva attentamente come scorre l’acqua a partire da questo punto. La pioggia ha dovuto tra sportare le sementi lontano. Segui i rigagnoli che l’acqua ha scavato, così conoscerai la direzione dello scorrimento. Cerca allora la pianta che, in questa direzione, si trova più lontano dalla tua. Tutte quelle che crescono tra queste due ti appar tengono. Più tardi, quando queste ultime a loro volta produr ranno i loro semi, tu seguendo il corso delle acque a partire da ciascuna di queste piante, potrai accrescere il tuo territorio (Deleuze e Guattari, 1980, p. 15).
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Un rizoma, sul tipo di quei reticoli di relazioni partecipative che garantivano un’omogeneità semio-linguistica all’enunciato solamente passando per connessioni tra elementi eterogenei. Questa è senz’altro una buona immagine del processo di inter pretazione peirceano: siamo in un punto, ma questo ci rimanda a un altro punto, in cui ci possiamo collocare solo attraverso la mediazione di un terzo punto, e questo altro ci rimanda a un altro punto ancora e così via. Occorrerà allora sottolineare la struttura costitutivamente triadica del modello di Deleuze e Guattari (1980): da un punto si va al punto più lontano solamente seguendo il percorso inter medio. È così che si accresce il territorio. Ritroviamo qui esat tamente quel passaggio e quella mediazione che stavamo cer cando per una teoria dell’enunciazione: il primo (il passaggio) avviene solamente grazie alla seconda (la mediazione) e non si ha alcun tipo di passaggio senza mediazione. In Peirce un’inter-
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^prelazione è infatti il passaggio da un punto a un altro attraverso un terzo punto che li pone in rapporto, mediando così costitutiva mente la relazione che si instaura tra di essi. Un uomo che parla in una lingua a noi nota accanto a un uomo che parla in una lingua che non conosciamo non è un interprete (l’interpretante svolge sempre la funzione di un interprete): dobbiamo sapere in qualche modo che i due stanno dicendo le stesse cose. La stelé di Rosetta non ha dato nessuna interpretazione del geroglifico finché non si è immaginato che i suoi messaggi potessero avere -lo stesso contenuto.6 L’interpretazione non permette cioè sem plicemente di passare da un elemento a un altro, ma dice che il .secondo elemento dice in qualche modo la stessa cosa detta dal primo elemento sotto un altro rispetto-, per questo è una trasdu zione che svolge la funzione di un interprete. Interpretare significa costruire reti tra elementi eterogenei che si connettono attraverso un elemento terzo che sta interpartes. Dati due o più sistemi eterogenei (due lingue scono sciute nell’esempio di Peirce), l’interpretante è il mediatore che garantisce una loro commensurabilità, assicurando il passaggio dall’uno all’altro. Questo passaggio di mediazione non è ne cessariamente operato da un soggetto, è anzi spesso un’istanza enunciante di altro tipo che lo rende possibile. Descombes (1996) mostrava infatti come soltanto una rela zione triadica, sul tipo di quelle studiate da Peirce o da Mauss nel suo Saggio sul dono, potesse garantire l’istituzione di un sen so sociale che andasse al di là di una semplice relazione intersog gettiva. Descombes (1996, p. 377) criticava Max Weber e la sua idea di “considerare che un’azione ha un senso sociale quando l’attore tiene conto degli altri nel modo in cui si comporta”. Per esempio, “il professore parla lentamente e scandisce bene le pa role in modo da facilitare il lavoro degli studenti che prendono
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appunti”. Questa concezione del sociale è diadica, si fonda sulla coscienza della presenza degli altri e sulla coscienza delle inte razioni, ma è inevitabilmente troppo povera, in quanto manca della dimensione impersonale dell’istituzione, che svolge il ruolo di interpretante e rende possibile l’atto di enunciazione. Ciò che fa sì che il professore abbia un’attività sociale non è che egli tenga conto degli allievi nella sua esposizione, ma che egli stia insegnando. Immediatamente, si produce un si stema triadico: egli dà lezione a degli allievi che la ricevono. [...] Manca a Weber di fare precedere il senso per il soggetto da un senso che sia per nessuno (da un senso anonimo). Non può esservi senso per un soggetto se non vi è, effettivamente, senso per nessuno, significato sociale e istituzione di questo significato {Ibid., p. 378).
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È l’istituzione l’istanza enunciante che parla nell’enuncia zione del professore e pulsa nel suo parlare lentamente. È l’in segnare l’evento impersonale che apre posizioni di soggetto commensurabili (il professore e gli allievi), di cui l’istituzione è l’interpretante. I significati autenticamente comuni non met tono di fronte due soggettività libere che costituiscono un’intersoggettività, ma due partner che devono fare delle cose dif ferenti e le cui posizioni di soggetto, i cui ruoli o statuti, sono fissati da regolarità stabilite, usi sociali e abiti condivisi. Come vedremo nel quinto capitolo, parleremo a questo proposito di soggettività indiretta, in quanto l’azione libera del soggetto è modulata dall’istituzione e dalla sua strutturazione imperso nale che funziona da interpretante: il professore parla lenta mente non soltanto perché liberamente vuole facilitare il suo interlocutore nel prendere appunti, ma perché deve insegnare e questa posizione di soggetto modula la sua enunciazione e rappresenta un’istanza enunciante del suo discorso. 230
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L’enunciazione è allora per noi una forma semio-linguistica di ciò che la trasduzione era per Simondon, e cioè l’operazione attraverso la quale due o più ordini di realtà entrano in riso nanza e diventano commensurabili attraverso l’istituzione di una dimensione “altra”, che li articola attraverso il passaggio a un ordine più ricco in struttura. Secondo Simondon, l’indivi duo con il suo modo di esistenza realizzato nasce infatti da un processo di trasformazione dell’ambiente pre-individuale, che^ attraversa diversi stadi e differenti modi di esistenza chiamati ^potenziali”. Per Simondon, la coppia individuo-ambiente è jnscindibile, poiché una carica di pre-individuale (o “indeterminato”)è sempre presente in ciascun individuo vivente. Non è infatti un caso che a suo parere la trasduzione designi proprio l’operazione che spiega la genesi dell’individuo sullo sfondo di una realtà pre-individuale. Che è esattamente ciò che ci con sente di fare la teoria semiotica dell’enunciazione, descrivendo l’operazione di presa in carico di istanze impersonali da parte di un’istanza soggettiva (atto), che consente di spiegare la genesi della soggettività a partire da strutture e da grandezze semioti che di tipo pre-individuale. Era del resto il compito originario della teoria dell’enunciazione: spiegare la genesi della soggettivi tà attraverso la struttura dell’enunciazione (e non viceversa). Le istanze linguistiche e le istanze semiotiche a cui noi dele ghiamo la nostra parola rappresentano infatti un’istanza di me diazione nel nostro rapporto con il mondo. Noi percepiamo le cose non direttamente, ma attraverso dei mediatori, delle terzità, degli interpretanti, delle entità semio-linguistiche (sche mi, norme, usi, enunciati ecc.). Per questo Benveniste pensava all’istanza dell’enunciazione come a un’istanza di mediazione tra l’aspetto sociale e condiviso dei sistemi semio-linguistici e il modo in cui un’istanza di soggettività se ne appropria (cfr. infra, cap. 5). Tuttavia, come detto, l’enunciazione non è né l’aspetto sociale e condiviso del linguaggio Sangue) né l’aspetto 231
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Per la nostra teoria dell’enunciazione, questa situazione è assolutamente naturale e attesa: il linguaggio filmico definisce due posizioni di soggetto nel posto dell’enunciatario, là dove invece altri linguaggi ne hanno soltanto una. Si tratta di eventi enunciativi con valenza diversa che aprono un diverso numero e un diverso tipo di posizioni di soggetto. Non c’è una corri spondenza diretta né indiretta tra gli embrayeurs del linguaggio e le posizioni enunciative dell’audiovisivo. Questo è un dato. Qualsiasi cosa che diremo sull’enunciazione nell’audiovisivo ne deve tenere conto. Così come deve tenere conto del fatto che la teoria generale dell’enunciazione in semiotica, che si vuole funzionare per tutto (e quindi anche per l’audiovisivo), è stata invece fondata proprio sugli embrayeurs. Come abbiamo visto infatti, l’enunciazione è definita dalle categorie dell’io-qui-ora (e l’enunciato da quelle del non-io, del non-qui e del non-ora) e i débrayage stessi ne mimano la logica: il débrayage è enunciazionale quando installa nel testo un “io-tu” (persona), mentre è enunciativo quando installa nel testo un egli (non-persona). La teoria semiotica dell’enunciazione è fondata su un’omologia tra gli embrayeurs del linguaggio e le posizioni dell’enunciazione, ma, se Metz ha ragione, questa omologia di fatto non esiste e per questo va ripensata. Non è un caso che Metz (1991, p. 25) individui tre pericoli principali per una con cezione deittica dell’enunciazione: i) “antropomorfismo”; ii) “placcaggio linguistico” (“utilizzo di concetti e termini desunti dalla linguistica”); iii) “scivolamento dell’enunciazione verso la comunicazione” (le istanze dell’enunciazione diventano degli emittenti e dei riceventi attoriali). Come viene ripensata la teoria dell’enunciazione da Metz allora, visto che è da Metz che siamo partiti ed è a Metz che vogliamo almeno parzialmente ispirarci? 292
6 - l’enunciazione impersonale nell’audiovisivo
In una recensione al libro di Metz pubblicata su Semioti ca, Jacques Fontanille (1992) riassume magistralmente in po che righe il senso dell’operazione che Metz svolge sulla teoria dell’enunciazione. È come se Metz non avesse scritto questo libro che per svuo tare (progressivamente, discretamente ma efficacemente) ogni pertinenza teorica generalizzabile all’enunciazione concepita come gioco personale e deittico di istanze e per portare avanti, al contrario, la pertinenza teorica e metodologica dell’enun ciazione come insieme di operazioni (un processo) che hanno come obiettivo quello di costruire il simulacro di un atto (Fontanille, 1992, pp. 190-191). JJenunciazione secondo Metz è quell’atto semiotico per cui certe parti del testo ci parlano di quel testo come un atto, e cioè dell’atto che lo ha prodotto (Ibid., p. 187).
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In Metz l’enunciazione, una volta spogliata dal gioco perso nale e deittico degli io-qui-ora e resa impersonale, diventa una proprietà dell’enunciato, e, più in particolare, quella proprietà dell’enunciato di manifestare l’atto che lo ha prodotto. In que sto Metz è più vicino a Greimas di quanto lui stesso sarebbe disposto ad ammettere. Tuttavia, le sue mosse precedenti han no però conseguenze che le mosse di Greimas, ancora fonda te sugli io-qui-ora di Benveniste, di fatto non avevano. Infatti, proprio rendendola una proprietà dell’enunciato, l’enunciazio ne audiovisiva in Metz viene di fatto svuotata di qualsiasi senso proprio e resa coestensiva all’analisi dell’enunciato. Infatti, i) se l’enunciazione è l’istanza presupposta dall’e nunciato in cui lascia marche o tracce, ii) se queste tracce non riguardano più soltanto attori (io), spazi (qui) e tempi (ora), allora il livello dell’enunciazione riguarda tutto, riguarda cioè tutte le grandezze interne all’enunciato, dallo stile ai temi fino
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Potenzializzato), come nei discorsi ideologici. I medici infatti dicono che quello che sta suc cedendo non è contagioso, ma nessuno - nemmeno loro stessi lo sa e può davvero crederci: le loro parole sono solo un “bla bla bla” che “viene detto alla popolazione”, come quello che (non) udiamo sul piano dell’enunciato. A questa fluttuazione a livello del sonoro, si affianca anche una perturbazione nella visione dell’immagine, che ci viene re stituita attraverso uno sfarfallio continuo. Insomma, quello che sappiamo non conta più-, la protesi percettiva e cognitiva di cui siamo dotati comincia a sfaldarsi sia a livello uditivo che a livel lo visivo e cognitivo. E lo spettatore, occupando il posto dell’enunciatario, comincia a vedere perturbati i suoi sensi: la protesi enunciativa comincia a non funzionare bene, tanto che assistia mo progressivamente a i) una indistinguibilità del parlato e a ii) uno sfarfallio della visione che mette in scena il “bla bla bla” medico e le perturbazioni percettive che arriveranno di lì a poco. A questo proposito, quello che fanno i sensi, in generale ma ancora di più all’interno di questo film, è costruire procedu re di differenziazione nelle forme di vita dell’uomo. Per Ewan McGregor, per esempio [09.45], è annusando che i cuochi dif ferenziano un pesce fresco da uno non fresco, è dal colore degli occhi che capiscono se è appena pescato ecc. Quando i sensi se ne vanno e vengono perduti, i soggetti perdono la capacità di fare differenze: adesso Susan e i suoi colleghi epidemiologi possono stare nella gabbia dei conigli senza esserne disgustati dalle feci e possono non rendersi conto del cibo avariato usando l’odore. Alla perdita dei sensi corrisponde un’omogeneizzazio ne delle forme di vita che questi differenziavano (Pezzini, 2017; Fontanille, 2015). Di fatto, i nostri stessi organi sono a loro modo delle protesi, se le protesi sono “qualcosa che ci fornisce la capacità di fare cose senza le quali non ci saremmo nemme343
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no sognati la possibilità di farle”, come diceva Eco. Gli organi stessi, i sensi stessi, sono una specie di “protesi di default”, che definiscono le nostre possibilità e impossibilità. Quando ven gono meno - ed è proprio questa la posta del film - è un altro senso che deve prendersi carico delle capacità differenziatrici del senso che abbiamo perduto. Per quanto riguarda l’olfatto [ 19.50-26.00], Perfect Scuse fa riferimento a un collegamento tra olfatto e memoria, tra sti molo olfattivo e cervello, e cioè tra la percezione di un odore e il mondo dei nostri ricordi. Come notava Rosalia Cavalieri (2009), l’olfatto è in assoluto il senso più connesso alla memoria e, essendo anche il senso meno controllabile (come diceva già Kant), è quello più responsabile di esperienze di attivazione di ricordi involontari. Un gruppo di ricercatori dello University College di Londra ha allora studiato i comportamenti del cer vello in risposta allo stimolo olfattivo. In particolare, la ricerca si è chiesta se attraverso un input legato alla memoria e ai ricor di si possa registrare un’attività del cervello nelle regioni legate all’olfatto (ippocampo e corteccia olfattiva). Ai soggetti esami nati sono state distribuite immagini e oggetti in associazione a determinati odori e si è visto che, mostrando le stesse immagini, anche se l’odore non era più presente si riscontrava comunque un’attività nella corteccia olfattiva, come se lo stimolo dell’odo re fosse ancora presente. Questo significa che, nel momento in cui il nostro cervello registra un’esperienza, lo fa interessando le aree connesse a tutti i sensi, così che tali stimoli si riattive ranno ogni qual volta ci sarà un’associazione successiva legata a quel ricordo particolare. In questo modo, la memoria costitui sce una vera e propria protesi percettiva dell’olfatto e fornisce alla corteccia olfattiva uno stimolo surrogato “in assenza di sti molo reale” (l’odore di fatto non c’è), come diceva Eco. Ovviamente, a un senso come l’olfatto sono connessi tutta una serie di ricordi personali (Perfect Sense cita “la cannella che 344
6 - l’enunciazione impersonale nell’audiovisivo
! ti ricorda i pranzi della nonna, la nafta che ricorda il primo viag gio in traghetto” ecc.). Questi ricordi scompaiono con lo scom parire del senso in oggetto. Ecco allora che l’audiovisivo, che non ha olfatto, può tradurre la perdita dell’olfatto restituendo quella perdita di memoria individuale che gli è irriducibilmente legata. La mossa enunciativa è straordinaria: ci viene mostrata una carrellata di foto private - nessuna socialmente riconoscibi le e nessuna di alcuna importanza collettiva - tra cui (ed è l’unica “riconoscibile”) una di Ewan McGregor da giovane. Tuttavia, la velocità della carrellata è così alta da far sì che nessuno di noi possa tenere le foto in memoria e, addirittura, quando la velo cità della carrellata si intensifica, nessuno di noi può nemmeno percepirle compiutamente (c’è soltanto il tempo di focalizzare il centro dell’immagine). La protesi enunciativa adotta un mec canismo di traduzione intersemiotica, al fine di metterci nella stessa situazione degli attori dell’enunciato. Non solo. Lei stessa si trova a doversi calare nella stessa situazione dei suoi spettatori e degli attori del suo enunciato. Esattamente come i protagonisti del film, ormai privati dell’olfatto, devono tradurre su altri sensi (per esempio il gusto) i principi differenziali costitutivi di un senso ormai perduto (il cibo diventa più speziato, più salato, più dolce), così l’enunciatore deve tradurre visivamente un senso che non possiede, di modo da poter costruire una posizione di soggetto per l’enunciatario che lo metta nella stessa situazione degli attori dell’enunciato e dell’enunciazione stessa. Ecco allora che l’idea dell’enunciazione come protesi ci permette di spiegare questa gemellarità tra enunciatore, enun ciatalo e attori dell’enunciato. Essendo privati di un organo percettivo, l’enunciatore i) deve costruire una protesi visiva che sia capace di prendersi carico di un senso che non è a sua di sposizione (collegamento olfatto/ricordo, collegamento ricordo/immagine fotografica privata); ii) deve fare “girare a vuoto” questa stessa protesi da lui stesso costruita (la carrellata deve 345
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essere così veloce da non poter essere ricordata), in modo da costruire una posizione di soggetto di enunciatario che, occu pata dallo spettatore, lo doti per traduzione intersemiotica del la stessa esperienza di privazione olfattiva che devono subire sia gli attori dell’enunciato (per virus), sia l’enunciazione stessa (che nell’audiovisivo è priva di olfatto). A livello della prassi enunciativa, si passa dalla messa in memoria (Reale —> Poten ziale) alla cancellazione (Potenziale -» Virtuale), attraverso la convocazione e l’assunzione nell’enunciato del declino e del la sparizione di una forma semiotica (cfr. supra, 3.3). Infatti, una messa in memoria definisce sempre la potenzializzazione in forma di ricordo di ciò che è realizzato, in vista di una sua riattualizzazione o realizzazione nel momento in cui il ricordo viene richiamato. Ma qui le grandezze messe in memoria non sono soltanto potenzializzate, ma anche contemporaneamente virtualizzate, di modo che non siano più né attualizzabili né re alizzabili da nessuno. Per questo la codificazione del rapporto tra olfatto e memoria viene espressa da una messa in memoria e da una contemporanea cancellazione a livello dell’enunciazione, attraverso un doppio passaggio tra modi di esistenza compre senti e contraddittori (potenzializzazione dell’esperienza e con temporanea virtualizzazione della stessa). Una teoria dell’enun ciazione non antropoide, pensata latourianamente come serie di passaggi tra modi di esistenza, rende conto perfettamente di trasformazioni enunciative difficilmente pensabili in termini simulacrali e deittici, attraverso débrayage e embrayage. Il risultato, nel film straordinario, dà vita a una sorta di com piacimento: i personaggi assaggiano infatti il cibo più speziato, più salato e più dolce, fatto per compensare gustativamente la perdita dell’olfatto, e si dicono “wow!”. Lo stesso commento può essere esteso alla soluzione adottata da un testo audiovisi vo che, a differenza del linguaggio verbale, funziona per ratio diffìcilis e che, come diceva Eco, è dunque costretto a inventa346
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re un codice attraverso la costruzione enunciativa di un piano dell’espressione che si curvi a veicolare un contenuto mirato per cui non esiste alcuna grammatica condivisa, ma soltanto una serie di generi, norme e usi enciclopedici praticati. Occupiamoci ora della sparizione del secondo senso, che è restituita in modo profondamente differente [38.30-42.12]. Anche qui c’è un evento (il panico) che precede la sparizione del gusto, che è però anticipata da un vorace attacco di fame, con i personaggi che cominciano a ingerire qualsiasi cosa abbia no sottomano, dai fiori ai rossetti, da taniche di olio ad animali vivi. Come abbiamo detto, un senso è di fatto una capacità di fare differenze. Come togliere allora il senso del gusto nella po sizione dell’enunciatario, proprio come ne sono privati l’enunciatore e gli attori dell’enunciato? La tattica è proprio quella dell’indifferenziazione dell’ingerito: l’attacco di fame che arriva è talmente forte non solo da neu tralizzare ogni distinzione tra il gustoso e il non gustoso, ma più in generale quella tra il commestibile e il non commestibile, fino a costruire una totale equivalenza semantica tra il commestibile e l’ingeribile (cfr. Marrone, 2016a). A livello enunciativo, è la vista a farsi carico di questa procedura di indifferenziazione gu stativa: la vista, ancora capace di fare differenziazioni, ci mostra che il gusto non è invece più capace di farne (si mangiano fiori, rossetto, animali crudi e vivi). Attraverso le possibilità percetti ve di un senso, assistiamo alla privazione delle possibilità per cettive dell’altro. Attraverso una protesi visiva, assistiamo alla perdita di quella gustativa. Siamo di fronte a un rimaneggiamen to semiotico, all’emersione di una forma visiva (Virtualizzato —» Attualizzato) connessa alla sparizione della forma propria di un altro senso (Potenzializzato -» Virtualizzato). Perfect Sense fa sempre seguire alla macrostoria degli eventi di perdita dei sensi la microstoria della storia d’amore di Ewan McGregor ed Èva Green [46.05-49.20]. E, per quanto riguarda 347
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la perdita del gusto, anche qui c’è la stessa procedura di indiffe renziazione connessa alla prassi enunciativa di rimaneggiamento semiotico: il whisky migliore perde il suo valore a livello del sen so del gusto ed equivale a “colla di pesce” o a “grassi e farina”. E però “la vita va avanti”. E anche l’orizzonte semantico connesso al gusto si riconfigura e viene preso in carico da un lato dal tat to (il cibo viene valorizzato in quanto “freddo, secco, umido, friabile, spugnoso, croccante e soffice”) e dall’altro dall’udito (il “gocciolamento del vino”, il “tintinnio dei bicchieri”). Ma so prattutto dalla pratica del “cenare insieme”, dell’invitare qual cuno a uscire o a condividere del tempo con noi. Ecco allora che quello che viene fatto per far sentire il gusto perduto è quello che già nella nostra cultura viene fatto per far sentire un gusto che non è possibile sentire: la recensione di un gastronomo al ristorante. Del resto, due tra i più importanti studi di semiotica del cibo (Boutaud, 2012 e Marrone, 2014) hanno mostrato che il cibo non è mai soltanto questione e pertinenza esclusiva del gusto, ma la sua sfera semantica e valoriale è retta innanzitutto dal suo essere occasione continua di comunicazione e di discor so, dal suo nutrire degli scambi simbolici e dal suo coltivare le gami sociali ed esperienze condivise di tipo mediale. Arriviamo allora ai due casi più interessanti, perché, negli ul timi due casi l’enunciazione dispone dei sensi che devono essere oggetto di privazione e non è più costretta a tradurre intersemioticamente e sinestesicamente qualcosa di cui non dispone, ma può invece dispiegare pienamente le sue protesi enunciative e giocare così con le posizioni di soggetto e i loro differenziali percettivi, cognitivi e narrativi. La perdita dell’udito [54.13-56.47] è costruita attraverso un’iniziale perdita di definizione del sonoro prima e del visivo poi. Si tratta di un processo di degradazione della protesi per cettiva che filtra sonoro e visione attraverso un procedimento di usura a livello della prassi enunciativa (cfr. supra, 3.2). Dalla 348
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scena felice di loro che si baciano in discoteca, dopo che la per dita del gusto li ha fortemente uniti riconfigurando le loro vite, si ha una degradazione uditiva a cui segue una parallasse visiva che installa un nuovo evento enunciativo, in cui siamo colloca ti davanti a un notebook in collegamento Skype con un ricer catore orientale, nella stessa posizione occupata da Èva Green e dai suoi colleghi. L’atto enunciativo definisce un evento che apre posizioni di soggetto in cui vengono installate delle prote si low-fi, dove ogni definizione è degradata. Il disturbo visivo, inizialmente preminente, viene affiancato da uno uditivo, che serve a introdurre il disturbo di comportamento del ricercatore. Anche le immagini di archivio che seguono sono tutte loiv-fi, a sottolineare una realtà in perdita di definizione, una realtà che non si può più percepire ed enunciare compiutamente, perché si sono perduti i sensi e le protesi che rendono possibili que sta percezione e questa enunciazione nell’esperienza narrativa e nell’audiovisivo. [59.50] Per introdurre la perdita dell’udito e le scene di rab bia e ira che la precedono nella narrazione, ci viene fatto sentire (letteralmente) l’odio che si sta spargendo per la città dalla loro automobile: mentre la camera li inquadra di fronte, la banda audio viene da un “altrove”. Siamo in soggettiva uditiva (ma non visiva) e sentiamo assieme a loro la rabbia che deflagra in scena, ovattata e filtrata dai vetri dell’auto prima, vivida e terro rizzante quando Èva Green e Ewan McGregor abbassano i loro finestrini poi. Una rabbia che nel film anticipa quella perdita dell’udito che ormai sappiamo che ci raggiungerà tutti, indipen dentemente dalla nostra posizione fuori o dentro il testo. Qui il punto di prensione protesica nell’enunciato installa una specie di filtro sensibile, che è separato da ogni esigenza diegetica e che rende se mai possibile: è infatti attraverso le sensazioni che filtrano attraverso l’audiovisivo che possiamo capire la storia c gli eventi che ci stanno raggiungendo. La storia che ci verrà
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raccontata lo sarà infatti soltanto limitatamente al potenziale percettivo che la protesi audiovisiva ha installato nell’enuncia to, allestendola per Michael, per Susan e per lo spettatore. Le mascherine che loro portano per proteggersi dal “fuori” sono un formante figurativo che rima questo filtro sensibile che fun ziona a livello dell’apparato formale dell’enunciazione. Da qui le “soggettive sonore impossibili” che seguono nel film, del tutto straordinarie, che ci consentono di vedere pro prio l’assoluta inadeguatezza di categorie deittiche c simulacrali, quali per esempio quelle di “soggettiva”, nell’audiovisivo. Così come, ci pare, la corrispondente euristicità dell’idea di protesi a livello della teoria dell’enunciazione. A [1.04.30] ci ritroviamo infatti in un’altra “soggettiva so nora”, ovvero la banda audio e la banda video paiono derivare idealmente da due diverse prensioni percettive collocate nella realtà diegetica, in cui noi vediamo lui in oggettiva, ma sentiamo quello che sente lui (un lungo rumore di fondo che marca la per dita dell’udito mentre urla in preda alla disperazione). Tuttavia, già a [1.08.00] succede qualcosa di difficilmente interpretabile attraverso categorie deittiche mutuate dal linguaggio verbale. Ciò che sentiamo è infatti la stessa cosa che sente Ewan McGregor quando lo vediamo inquadrato (nulla), ma, subito dopo, ci ritroviamo in una situazione in cui siamo in soggettiva con l’udito di lei mentre ascolta la sua telefonata in preda all’attacco d’ira, mentre vediamo al contempo trasformarsi questo audio nel “punto di vista” del telefono, l’unico oggetto che di fatto “parla e ascolta” ancora, attraverso il suo microfono e la sua capsula auricolare (che infatti ci fanno sentire rispettivamente Èva Green in preda all’attacco di rabbia che precede la perdita dell’udito e Ewan McGregor che le parla, senza poter sentire che anche lei sta per diventare sorda come lui). Durante tutta questa lunga trasformazione enunciativa che ci dota di protesi macchiniche possibili solo attraverso l’audio350
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visivo, non smettiamo neppure per un secondo di ascoltare la musica extradiegetica, fino a quando anch’essa diventa inudi bile anche per noi, marcando l’enunciazione nell’enunciato, in soggettiva con Ewan McGregor davanti a uno schermo tele visivo che ci dice “se sei sordo, resta a casa davanti allo scher mo”. “Davanti allo schermo”: esattamente dove siamo suppo sti essere anche noi (enunciazione protesica enunciata). Con la compresenza di tutte le protesi, viene messo in evi denza proprio il meccanismo che è costitutivo dell’enuncia zione nell’audiovisivo: perdiamo la capacità di sentire la “sto ria”, di sentire cioè quello che dicono gli attori dell’enunciato, dal momento che dobbiamo essere nella loro situazione. Non perdiamo però la capacità di sentire la musica extradiegetica, perché questo serve a marcare le nostre protesi corporali di default. Ecco una forma di “enunciazione enunciata”: ci resta no le possibilità che abbiamo normalmente nel mondo extra enunciativo, ma queste possibilità girano a vuoto nell’enuncia to e per il mondo dell’enunciato, nel momento in cui occupia mo una posizione di soggetto che ci offre un altro punto di prensione percettiva a cui non possiamo scappare. Sentiamo infatti se mai la voce over, che ci racconta come sono andate le cose “a cose fatte”. Ma non sentiamo più gli attori dell’enun ciato: dentro il loro mondo, la protesi che abbiamo è la stessa di cui loro sono stati privati. L’udibilità della voce over (che segue il silenzio totale delle scene nel laboratorio, in cui anche la musica extradiegetica era scomparsa) si spiega poiché noi non dobbiamo sentire e non dobbiamo vedere, ma dobbiamo sapere e, quindi, dobbiamo continuare a sentire senza di fatto poterlo fare, in una protesi che marca il differenziale tra ciò che percepiamo e sappiamo a livello dell’enunciato e ciò che percepiamo e sappiamo a livello dell’enunciazione. Che tipo di embrayeur spiega questa successione di punti di prensione percettiva con differenti protesi al loro interno (Io?
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Qui? Ora?)? Come tradurre queste trasformazioni protesiche che aumentano e diminuiscono le nostre capacità percettive in débrayage e embrayage che simulano nell’enunciato la presenza di qualcuno là fuori? Come spiegare deitticamente e simulacralmente questa compresenza e questa trasformazione delle pro tesi definita da un meccanismo specificamente audiovisivo, che non ha equivalenti nella percezione naturale? Ci pare che questa scissione interna alle posizioni enunciative nell’enunciato marchi ancora una volta, e in maniera del tutto patente, l’inadeguatezza delle categorie classiche dell’enuncia zione nella loro trasposizione all’audiovisivo. Qual è il mecca nismo per cui sei in soggettiva con gli attori dell’enunciato, ma non lo sei davvero perché senti sia la voce over e sia la musica extradiegetica, salvo poi essere privato anche di queste per tornare “in soggettiva” con Èva Green? È un “io-tu” e un “egli” insie me? È un “si”? È un “noi”? E cosa succede in seguito, quando la soggettiva uditiva si trasforma in oggettiva “cognitiva”, senza con questo smettere di essere una soggettiva a livello percettivo, in cui qualcuno ci narra qualcosa che non possiamo sentire? Di fatto, come diceva Metz, queste categorie deittiche e antropoidi non hanno una corrispondenza specificamente audiovisiva. Al contrario, l’idea di protesi pare spiegare adeguatamente il meccanismo finissimo messo in gioco a livello enunciativo da questo film. Con la privazione dell’udito, in Perfect Sense assi stiamo infatti alla compresenza di una fluttuazione e di una ri voluzione semiotica (cfr. supra, 3.6), e cioè alla manifestazione di una forma protesica (voce over) connessa al declino della stessa forma (sonoro della telefonata udibile ormai solo a noi) e alla con temporanea manifestazione di un’altra forma protesica (colonna sonora extradiegetica) connessa alla sparizione della forma semiotica precedente udibile per noi (qualsiasi sonoro intradiegetico è ormai inudibile per noi così come per gli attori dell’enunciato). 352
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Per questo diciamo che l’enunciazione audiovisiva non è una successione di débrayage e embrayage che simulano nell’enun ciato un “qualcuno” che resta assente, quanto piuttosto una se rie di eventi enunciativi che destrutturano percezioni e affetti di default a livello dell’enunciazione, al fine di ristrutturarli attraver so l’enunciato, installando una serie di punti di prensione percet tiva che installano protesi al cui interno si vede, si ascolta, si sa e si narra. L’enunciazione nell’audiovisivo consiste esattamente in questo meccanismo protesico di destrutturazione e ristruttura zione di forme di prensione enunciativa attraverso l’enunciato. Come per esempio nella scena finale della privazione della vista [1.17.15], dove il buio invade anche il livello dell’enuncia zione: anche noi, come loro, diventiamo ciechi e non possiamo vedere. E però, anche stavolta, una forma di protesi enunciativa si fa carico di vedere dove né noi né gli attori dell’enunciato pos siamo farlo. E ci racconta come è stato dolce il loro abbraccio finale, quando si sono potuti incontrare da ciechi. Una protesi narrativa è installata in un punto in cui la prensione percettiva è nulla: la voce over è lì “come se li potesse vedere”. E ce li raccon ta. A un deficit della visione, viene sostituita una protesi narra tiva che ha visto il loro abbraccio e ci tranquillizza sul fatto che, qualora li avessimo potuti vedere (come invece non possiamo più fare), avremmo appreso quella pienezza e quella compassio ne che la nostra posizione di enunciatali ci impedisce di perce pire, dal momento che deve essere la stessa occupata dagli attori dell’enunciato. “E anche se non c’è nessuno a vederli, sembrano esattamente come tutte le altre persone che si amano”.
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6.9 Simulacri e protesi Le protesi rappresentano gli embrayeurs dell’audiovisivo, il suo apparato formale dell’enunciazione, dal momento che la 353
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soggettività nell’audiovisivo si manifesta innanzitutto in esse. Un corpo, un soggetto, un’istanza, qualcosa che occupa le posizioni dell’io-qui-ora ha delle possibilità proprie che un enunciato può magnificare, aumentare o diminuire. Quello che fa l’enunciazio ne nell’audiovisivo è, evento dopo evento, posizione di soggetto dopo posizione di soggetto, variare o lasciare inalterato il diffe renziale di queste possibilità. Siamo talmente abituati a percepi re attraverso schermi (cfr. Carbone, 2016; Parisi, 2019), che ci sembra naturale provare a trasporre le categorie della percezio ne naturale - quando non addirittura quelle dell’enunciazione linguistica - a un dominio semiotico che presenta una struttura radicalmente differente, tanto che già Pasolini partiva dall’idea che certe percezioni possono essere soltanto macchiniche e sono possibili soltanto nell’audiovisivo. Ma “percezioni” non basta: alla lista vanno aggiunte “narrazioni macchiniche”, “cognizioni macchiniche” ecc. Se ogni linguaggio è dotato di un asse paradigmatico, di un as se sintagmatico e di un asse dei modi di esistenza (cfr. Fontanille e Zelberberg, 1998), è innanzitutto quest’ultimo che rappresenta un caposaldo del testo audiovisivo e della sua enunciazione, con trasformazioni dei prassemi a livello della prassi enunciativa che sono in grado di modellizzare finemente le trasformazioni enun ciative proprie dell’audiovisivo. È quel che speriamo di aver mostrato nell’analisi di Perfect Sense. Di sicuro, quello che non funziona nell’audiovisivo è l’idea di simulacro, e cioè di qualcosa di collocato a livello dell’io-qui-ora che il testo simulerebbe, co struendo degli effetti di presenza (débrayage/embrayagè}, magari a immagine di quelli del linguaggio o del discorso. Che cos’è infatti un simulacro? Si tratta dell’immagine di qualcosa che resta assente (cfr. Marmo 2014, p. 230), di un segno presente che sta al posto di qualcosa che resta assente. Nell’anti chità, il simulacro era l’immagine degli dei (statua, rappresenta zione, dipinto ecc.), che stava al posto degli dei assenti. Era il se354
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6 - l’enunciazione impersonale nell’audiovisivo
gno del dio, che in quanto tale si distingueva dal feticcio, oggetto degno di adorazione in quanto tale, senza essere il segno di nulla (Volli, 1997, 2014). L’enunciazione funziona così? I testi hanno al loro interno le immagini di qualcosa che succede fuori testo e che essi simulano? E questo qualcosa è la proiezione fatta a im magine e somiglianza di una specie di “dio” che vi si proietta per “schizia creatrice”? Nell’audiovisivo certamente no. Le protesi enunciative non possono essere “debraiate” dall’istanza dell’e nunciazione (anche perché, molto spesso, ne è sprovvista, come abbiamo visto in Perfect Sensé). L’apparato formale dell’enun ciazione nell’audiovisivo funziona come una protesi macchinica dell’ascolto e dello sguardo, un apparecchio (appareil), insieme di atti di mediazione e di delegati che si incarnano in punti per cettivi, cognitivi e narrativi che non sono ascrivibili a soggetti pie ni, né tanto meno a “persone” semio-linguistiche come Vio e il tu (pronomi, embrayeurs ecc.). Essi sono invece protesi per questi soggetti, per queste persone e per le istanze attoriali concrete che li vengono a occupare. L’enunciazione come insieme di passaggi di mediazione tra modi di esistenza non ha nulla di antropoide. Dal punto di vista dell’enunciazione, un testo audiovisivo non è una successione di débrayage e embrayage, bensì una suc cessione di posizioni di soggetto all’interno delle quali vengono installate protesi che aumentano e diminuiscono le possibilità percettive, cognitive e narrative dell’attore empirico che le vie ne a occupare fuori dall’enunciato (punti di prensione). Queste protesi effettuano passaggi tra modi di esistenza, potenzializzando e virtualizzando certe grandezze, attualizzandone e rea lizzandone altre. Da qui le operazioni di convocazione, assun zione, messa in memoria e cancellazioni in cui consiste l’enun ciazione a livello della prassi. In questo modo, chi è fuori dall’e nunciato, nel luogo dell’enunciazione, può percepire, sapere e vedere alcune cose attraverso l’enunciato e solo attraverso di esso. Proprio per questo, l’apparato formale dell’enunciazione 355
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PERSONA
virtualizza e potenzializza alcune nostre capacità e ne attualiz za o realizza altre che di default non abbiamo. Da qui la sua performatività, il suo “fare qualcosa” a chi occupa le sue posi zioni di soggetto. Chiamare “simulacri” queste trasformazioni protesiche del differenziale percettivo, cognitivo e narrativo tra il testo e il fuori testo è come chiamare “teatro” il lavoro macchinico di allestimento e di produzione di tutto queU’insieme di dispositivi che lo rende possibile. Se l’enunciazione è la proprietà dei linguaggi di allestire po sti e posizioni di soggetto che rendono possibili i loro usi e le loro trasformazioni in contesti non esclusivamente linguistici, l’enunciazione non è una teoria dell’emittente che produce il messaggio, bensì una teoria di come i linguaggi manifestano gli atti che li hanno prodotti e allestiscono quelli che li potranno trasformare.
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CONGEDO
Michael continuerà a disperarsi quando si accorgerà di aver perso Susan assieme al suo udito. Joel continuerà a voler can cellare Clementine piangendo disperato, quando si accorgerà che lei aveva fatto lo stesso con lui. Certamente alla fine della storia loro torneranno a sorridere e si ritroveranno, ma Michael e Joel ricominceranno da capo, qualora ritornassimo in quel momento dell’enunciato. Per questo possiamo dire che l’enun ciazione “conserva”, secondo l’espressione di Deleuze e Guat tari (1991):
La giovane conserva la posa che aveva cinquemila anni £a, un gesto che non dipende più da colei che lo fece. L’aria conserva l’agitazione, il soffio e la luce di quel tal giorno dell’anno scor so, e non dipende più da colui che la respirava quel mattino (Deleuze e Guattari, 1991, p. 167). i
Come nel viaggio dei big data, ogni enunciato è prodotto per poter essere riutilizzato e conservare la memoria del suo viaggio. “La cosa è fin dall’inizio diventata indipendente dal suo modello”.1 Per questo un enunciato non è un simulacro né contiene i simulacri di qualcosa di assente. A livello dell’enun-
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1 Deleuze e Guattari, 1991, p. 167.
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ciazione, le istanze enuncianti sono presenti nel testo in quanto punti di prensione che si sorreggono indipendentemente da chi li ha inviati. Ciò che si conserva sono percetti, cognizioni, affetti e narrazioni che sono indipendenti dallo stato di chi li prova o li ha provati, eccedono ogni vissuto e sono possibili solo attraver so l’enunciato. Per questo l’enunciazione rimanda a una serie di eventi e di posizioni di soggetto che destrutturano percezioni e affetti di default, al fine di ristrutturarli attraverso l’enunciato, installando una serie di punti di prensione percettiva in cui si vede, si ascolta, si sa e si narra. Da qui l’idea stessa da cui è cominciata la scrittura di questo libro: l’enunciazione è l’atto di invio di un nunzio, di un messag gero terzo che parla per noi, e non un atto creatore e transitivo di scissione o di schizia. Dietro questo c’è ovviamente una posizio ne teorica, filosofica e semio-linguistica, che speriamo di aver il lustrato nei dettagli, ma c’è anche una sensibilità diversa su cosa significhi “enunciare”: non scindersi e creare attraverso un atto, ma delegare a un altro, passare la palla a un mediatore che parla per noi. Questo libro ha provato a costruire una teoria rigorosa di questi passaggi di mediazione tra diversi modi di esistenza in cui consiste l’enunciazione. Enunciare significa passare attra verso la mediazione di diverse istanze enuncianti, che tengono un discorso silenzioso interno all’enunciato, dentro cui pulsa no grandezze provenienti dallo schema, ma anche grandezze provenienti dai generi, dalle norme e dall’uso in funzione di diversi “apprezzamenti collettivi”. Per questo l’enunciato è un composto, un assemblaggio, un “concatenamento collettivo di enunciazione” , in cui diverse istanze enuncianti sono riunite in assemblea, ognuna con la sua voce e col suo modo di esistenza eterogeneo. Per questo la voce che ha accompagnato il lettore in questo libro è stata un “noi”, avatar delle voci riunite in as semblea e concatenate in modo libero e indiretto. Perché nella nostra parola personale pulsano sempre grandezze eterogenee, 358
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serie di parole impersonali stoccate nell’enciclopedia, che la abitano sotto diversi modi di esistenza. Per questo l’enunciazio ne installa all’interno del discorso realizzato una terza dimen sione, quella della profondità dei modi di esistenza, dimensione che occorre associare alle altre due dimensioni del linguaggio, quella paradigmatica e quella sintagmatica. L’enunciazione è per noi quest’attività non specificamente appartenente al dominio semio-linguistico (è un atto), che co struisce un’omogeneità semio-linguistica nell’enunciato soltan to passando attraverso la mediazione di elementi molto etero genei (schemi, norme, usi, pratiche, abiti ecc.). Essa definisce la modulazione di un già detto che concatena un punto di vista personale con una serie di punti di vista impersonali e proietta così nell’enunciato percetti, cognizioni e narrazioni che modu lano ciò che si vede da un certo punto di vista, ciò che si sa da un certo punto di vista e ciò che si racconta da un certo pun to di vista. Esattamente come la teoria della prassi enunciativa sostituisce alla schizia creatrice la modulazione di un punto di vista impersonale (il già detto enciclopedico) attraverso un punto di vista personale (l’istanza dell’enunciazione), così la teoria dell’enunciazione sostituisce i simulacri di un soggetto creatore con una serie di protesi - percetti, concetti e affetti che eccedono i singoli vissuti di chi li prova - attraverso cui noi sappiamo di più (o di meno) di ciò che si sa, vediamo di più (o di meno) di ciò che normalmente si vede, sappiamo nuove storie rispetto a quelle che, a regime, si sanno. I testi non hanno al loro interno le immagini di qualcosa che succede fuori testo, non lo simulano e questo qualcosa non è la proiezione fatta a immagine di un’istanza che vi si proietta per schizia creatrice. “Enunciare” significa molto più profondamen te c-nunciarsi, e cioè inviare il nunzio di noi stessi attraverso cui “SI parla”, in un’enunciazione che delega la nostra parola a una serie di messaggeri e di istanze che la trasformano, in modo 359
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libero e indiretto. Per questo è libera e indiretta la soggettività nel linguaggio: un concatenamento enunciativo in cui più voci si fondono insieme, pur rimanendo al contempo distinte. Attra verso questa polifonia noi enunciamo per “differenziarci come tutti”, per affermare la nostra unicità rispetto a qualcosa da cui ci distinguiamo, ma da cui ci distinguiamo come qualcosa da cui non ci possiamo distinguere, dal momento che questo “altro” costituisce la nostra stessa identità. Per questo, citando il Palomar di Italo Calvino, nel linguaggio “ciò che abbiamo in comune è proprio ciò che è dato a ciascuno come esclusivamente suo”. Forse è questo il punto “in cui non ha più nessuna importan za dire io”. Per questo abbiamo deciso di non citarci, a dispetto degli indici e deWimpact factor. sarebbe come citare un altro; mentre citare gli altri è sempre un po’ come citare noi stessi, quello che siamo divenuti concatenando la loro parola alla no stra. Il lettore attento ci ritroverà. Ecco perché le bibliografie sono sempre una parte costitutiva degli autori, di noi e dei no stri libri, una parte del lavoro in cui il nostro nome è presente in quanto assente, come un’istanza che installa nunzi e delegati attraverso cui parla. Era del resto quello che dicevano Deleuze e Guattari (1980) nella citazione con cui si è deciso di aprire il li bro: è quando si pensa a un soggetto personale, fondato sull’io e sull’individuo, che si perde completamente quello che lo fa dav vero “agire, sentire e pensare”. Per questo usare nomi e prono mi ci rende “irriconoscibili” e definisce soltanto un’abitudine, un “modo di dire” che non definisce davvero le nostre azioni, i nostri sentimenti e i nostri pensieri. Tuttavia, è proprio l’abitudine che ci rende impercettibili che rivela, per differenza, quello sfondo impersonale che ci fa dav vero agire, sentire e pensare. Per questo è bello “parlare come tutti”, lasciare al modo di dire e all’abitudine il compito di ri velare chi siamo davvero, fino a toccare quel punto in cui “non ha più alcuna importanza dire o non dire io”. In quel momento 56Q
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ci sentiremo chiamati in causa. Perché, anche se continuiamo a dirlo, sappiamo bene che non è il sole che sorge, ma è la terra che si muove. Così come sappiamo bene che non è l’io a definire la nostra soggettività, bensì quello strano sfondo impersonale e pre-individuale in cui non ha più nessuna importanza dire “io” e che è dato a ciascuno come qualcosa di esclusivamente suo. Questo libro ha provato a parlare di questo sfondo e dei suoi rapporti con l’io e con l’individuo, che aggiunge sottrazioni nel la rete enciclopedica delle istanze enuncianti, convertendone i modi di esistenza, attualizzando alcune norme e alcuni usi, virtualizzandone altri ecc. Per questo la soggettività nel linguaggio consiste per noi in alcune tabelle, quelle di pagina 193 e 213, che rappresentano le operazioni attraverso cui si convertono i modi di esistenza delle diverse istanze enuncianti e ci si appropria così delle grandezze semiotiche nel discorso. Se l’enunciazione come atto consiste in una conversione tra modi di esistenza propri di diverse istanze enuncianti, allora il soggetto trova il suo posto proprio in alcune tabelle e operazioni: l’Amplificazione, l’Attenuazione, la Risolu zione, la Distribuzione, la Convocazione, l’Assunzione, la Messa in memoria, la Cancellazione ecc. Non un soggetto che compie un atto, ma una serie di atti le cui operazioni non antropoidi definiscono il soggetto. Non è quindi tanto “il soggetto è negli avverbi”, come diceva Umberto Eco, bensì piuttosto “il soggetto è nei diagrammi”, in quell’appara to di cattura non-antropoide che descrive passaggi tra modi di esistenza. L’integrale di queste operazioni enunciative e delle lo ro combinazioni semiotiche che abbiamo studiato costituisce il “soggetto”.
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Non sappiamo se il libro possa essere “immagine del mon do”, come da topos della nostra cultura. Di sicuro è immagine della sua enunciazione, in cui il nome dell’autore è l’avatar del361
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le idee della bibliografia, che vengono citate e non citate, ma che - anche quando non sono citate in un discorso diretto o ri portate in un discorso indiretto - sono sempre concatenate alle nostre che le esprimono, modulate in modo libero e indiretto. Il già detto enciclopedico pulsa nella nostra parola, come uno sfondo impersonale fatto di avvenimenti pre-individuali, anche quando è formalmente assente dal discorso di un autore che ha tentato di cancellarne le tracce. “SI parla”, come fanno tutti. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla “gran massa” come ci si tie ne lontani, troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso (Heidegger, 1927, p. 163). Si è sempre amato questo passo, che ben lungi dal definire “un’esistenza inautentica”,2 definisce quel livello dove le cose più alte sono ottenute, quel livello separato da un abisso rispet to al punto in cui la scienza, l’arte, la letteratura e la filosofia so no semplici manifestazioni della personalità, semplici manife stazioni della categoria della “persona”. Queste cose non sono né personali né impersonali. Sono un assemblaggio tra le due, un composto, un “concatenamento collettivo di enunciazione” come termine estensivo di “persona+non-persona”. Per questo la bibliografia ci definisce a suo modo nella nostra identità: rete eterogenea di concatenamenti liberi e indiretti.
2 In questo senso Bartezzaghi (2019) pensava alla banalità come al con-essere, a “ciò che è comune a tutti” e ricordava come il “bando" fosse “ciò che viene annun ciato a tutto il villaggio: e quindi il ‘banale’ è ciò che nel villaggio tutti conoscono” (ibid., p. 24).
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POSTFAZIONE
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L’UOMO MASCHERATO
di Stefano Bartezzaghi
1. “Un dispositivo espresso dapprima con materiali lingui stici, che produce enunciati collettivi fortuiti e apparente mente incongrui, ma interpretabili”. Così Paolo Fabbri ha definito i cosiddetti “Cadaveri squisiti”, collocando nel qua dro della teoria quella tecnica surrealista di composizione linguistica (e poi anche figurativa) in cui più si è manifestata la migliore vocazione dei seguaci di André Breton: quella per il “giocare assieme” come modo di “generare dialogica mente l’equivalente d’una libera associazione collettiva”. La classica - e molto criticabile - idea per cui attraverso il gioco i cuccioli umani si impratichiscono alla vita qui pare ogget to di una fantastica proiezione teorica: ozioso come devono essere tutti i giochi, il gioco di alcuni eccentrici e semiclan destini artisti di inizio Novecento si rivela la sublimazione in modello di una pratica universale che la teoria comincerà a prendere effettivamente in considerazione soltanto verso la fine dello stesso secolo, cioè quando Gilles Deleuze e Félix Guattari cominciarono a parlare di “concatenamento collet tivo di enunciazione”.
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PERSONA
2. Per la linguistica e la semiotica non è stato certo immedia to comprendere quanto siano complesse (e quanto cruciale coglierle) le relazioni che intercorrono tra l’io linguistico e la persona che pensa di essere “il soggetto” delle frasi che enun cia. Ma per quanto si sia proceduto con le astrazioni di “sog getto”, “istanza” e “simulacro”, è sopravvissuta l’impressione residuale di una singolarità individuale pienamente respon sabile della produzione del discorso. Morte e resurrezione dell’autore, anzi sua piena reincarnazione nella parola. Certo, si sono registrate posizioni paradossali e però incontestabili, come quella di Maurice Blanchot da cui prende avvio la parte centrale della riflessione di Claudio Paolucci: “Finché mi limi to a scrivere solamente ‘io sono infelice’ sono troppo vicino a me stesso, troppo vicino alla mia infelicità perché questa infe licità diventi davvero mia, non sono ancora davvero infelice”. Ma cosa impedisce a questo onnipotente soggetto di dire dav vero la sua infelicità? “E soltanto nel momento in cui arrivo a questa strana sostituzione, ‘egli è infelice’ [il est malheureux\, che questa infelicità diventa mia sul modo del linguaggio, che il linguaggio inizia a costituirsi in linguaggio infelice per me, a schizzare e proiettare lentamente il mondo dell’infelicità co me esso si realizza in sé”.
3. Ora esistono certo casi in cui a produrre un discorso è real mente un collettivo di individui. Non è però necessario che ciò accada per avvertire finalmente l’esigenza di una teoria effetti vamente collettiva dell’enunciazione. Paolucci ha mostrato in queste pagine che enunciare (attività che consideriamo propria 364
l’uomo mascherato
del soggetto individuale, della persona) coinvolge una quantità di istanze enuncianti. Il corpo tiene un suo discorso, la società tiene un suo discorso, le norme e gli usi tengono un loro di scorso: discorsi che agiscono all’interno della parola individua le e forniscono uno sfondo per ogni atto personale e soggetti vo. Nell’atto dell’enunciare la singolarità si abbina sempre a un’impersonalità. Si supera così, e in una prospettiva non certo ostile alla sua semiotica interpretativa, quella “soglia superiore della semio tica” con cui Umberto Eco serrava il suo Trattato di semiotica generale e rendeva impermeabile la propria teoria a possibili straripamenti psicoanalitici. Quello che Paolucci ha inteso fare con questo libro è stato invece riportare il soggetto a essere un oggetto semiotico e quest’ambizione si fa forza della possibilità di costruire una propria teoria della soggettività a partire da una teoria - del tutto semiotica - dell’enunciazione.
4. Quando un suo allievo si bloccava davanti alla tela bianca, per fargli superare V impasse il pittore Emilio Vedova buttava a caso del colore: così facendo cancellava le incrostazioni imma ginarie lasciate dall’intera storia della pittura su ogni tela bian ca (lo racconta Massimo Recalcati in II miracolo della forma). Per superare l’idealizzazione romantica del tipo dell’autorecreatore basterebbe poi ricordare il monito di Roland Barthes: l’“auctor” è colui che “auge”, cioè “aumenta”: fa crescere il discorso che gli proviene da una tradizione. Ecco allora che per la semiotica l’enunciazione non deve essere più una teo ria dell’emittente, come soggetto che compie atti in una certa cultura. L’enunciazione è una proprietà dei linguaggi, non dei soggetti: è l’allestimento delle posizioni dei soggetti all’interno
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di ogni singolo linguaggio - e non del solo linguaggio cosid detto naturale - perché ogni linguaggio, per funzionare, deve far funzionare un “appareil formel” proprio. Paolucci propo ne che questa espressione originale di Benveniste sia resa non con l’usuale traduzione astratta di “apparato formale” ma con quella più diretta e letterale di “apparecchio”. Non appena il discorso si apre all’enunciazione nei testi non linguistici ci si accorge infatti che l’idea di un “apparato” di simulacri di “io”, “qui” e “ora” installati nell’enunciato non funziona più molto bene. Per i testi audiovisivi va meglio la teoria originariamente formulata da Christian Metz di un’“enunciazione impersona le”, che Paolucci declina sostituendo la nozione di “simulacro dell’enunciazione” con quella di “protesi per l’enunciazione”. L’enunciato non è qualcosa che ha al suo interno le immagini, cioè i simulacri di ciò che è fuori dal testo, ma è qualcosa che ciò che è fuori dal testo può raggiungere soltanto attraverso il testo-protesi. La macchina da presa nascosta è un dispositivo che gioca appunto su far vedere e sentire quello che altrimenti non si potrebbe, esasperando in modo disvelatorio (per fini di spettacolo, giornalistici, giudiziari, politici) il funzionamento standard della comunicazione audiovisiva.
5. Dall’esigenza di recuperare l’aspetto impersonale dell’enun ciazione deriva poi lo spostamento focale dal rapporto “faccia a faccia” tra un “io” e un “tu” a quello dell’“egli” di cui si occupa un filone teorico che fa capo al linguista Gustave Guil laume. Come dice Paolucci: “La terza persona può essere allo stesso tempo soggetto e oggetto e questo le assegna un ruolo decisivo per una teoria della soggettività nel linguaggio, che pensa alla soggettività proprio come alla capacità che un sog366
l’uomo mascherato
getto ha di porre sé stesso a oggetto della propria riflessione”. Questo “egli” è la compresenza della persona e della non-persona, della “terza persona” e deU’“impersonale”, è l’“Uomo mascherato” (che va inteso senza riferimento al genere, come del resto accade con “egli” che nella teoria dell’enunciazione copre tutte le possibili terze persone): la “persona” riportata alla sua etimologia di “maschera”, una soggettività che si svi luppa solo dopo aver imparato a dare senso alle azioni degli altri nelle pratiche di interazione ed è legata alTemergere di un pensiero funzionale e di una capacità strategica di menzogna, che serve ad agire efficacemente e a modificare il mondo in funzione dei propri desideri. Quindi il soggetto è ciò che sa farsi oggetto (delle sue stesse riflessioni) e la persona è ciò che sa farsi impersonale. Da questi principi almeno in apparenza ossimorici si potranno forse trarre alcune conseguenze su un tema che di ossimori ne regala a profusione, quello della crea tività umana. Di creatività - qualità simultaneamente attribuita all’individuo e alla specie - si è cominciato a parlare all’interno della cultura di massa da quando esiste, da quando appunto il problema delle determinanti personali e impersonali dell’e nunciazione ha dilagato e da quando l’arte ha cominciato a porsi il problema della fruizione di massa e della riproduzione in serie. Se l’utopia surrealista écriture automatique avesse funzionato, il suo prodotto testuale di quale soggetto sarebbe stato l’autobiografia?
6. Bruno Latour, una delle fonti a cui si ispira Paolucci, vede l’enunciazione come atto di invio, di mediazione e di delega in cui “si passa la palla a qualcun altro”. Questa ipotesi è stata formulata originariamente in occasione di Eloquio del senso, 367
III!
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il Pestschriften curato da Pierluigi Basso e Lucia Corrain per i sessant’anni di Paolo Fabbri. Nei suoi ultimi mesi, Fabbri ave va letto e apprezzato le prime versioni di Persona e si era ac cordato con l’editore per stendere una postfazione ad accom pagnarne così la pubblicazione. Proprio un “passare la palla” o un “passaggio di testimone”, che non si è perfezionato nei mo di previsti perché la malattia ha infine prevalso. Ma passaggio c’è comunque stato, e anzi ha preso un’evidenza quasi ironica quella situazione di concatenamento collettivo dell’enunciazio ne che è il principio cardine del libro stesso. Uno scherzo surrealista del caso, che non abroga la circo stanza e la sua tristezza ma le dà un altro significato. Un colpo di dadi che neppure nella tristezza di una simile circostanza arriva ad abrogarlo, il mondo.
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Il DRAMATIS PERSONAL
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2016
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1997 2007
2016
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Cosenza, Giovanna Semiotica e comunicazione politica, Laterza, Roma-Bari.
2018
Cosenza, Giovanna-Colombari, Jennifer-Gasparri, Elisa 2016 “Come la pubblicità italiana rappresenta le donne e gli uomi ni. Verso una metodologia di analisi semiotica degli stereoti pi”, in Versus. Quaderni di studi semiotici, 123, pp. 323-361.
375
PERSONA
I
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2017
DAGRADA, ElENA
2014
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DRAMATIS PERSONAE
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i
Deleuze, Gilles-Guattari, Félix 1980 Mille plateaux. Capitatisene et schizophrénie, Les Editions de Minuit, Paris (trad. it. Mille piani. Capitalismo e schizofre nia, Istituto dell’enciclopedia italiana, Roma, 1987). Qu’est-ce que la philosophie?, Les Éditions de Minuit, Paris 1991 (trad. it. Che cos'è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996) |
377
PERSONA
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378
1 DRAMATIS PERSONAL
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Dondero, Maria Giulia-Fontanille, Jacques 2012 Des images à problèmes, PULIM, Limoges.
Dondero, Maria Giulia-Beyaert-Geslin, Anne-Moutat, Audrey (a cura di) 2017 Les plis du visuel. Réflexivité et énonciation dans l’image, Lambert-Lucas, Limoges. Ducrot, Oswald 1984 Le dire et le dit, Les Éditions de Minuit, Paris.
Ducard, Dominique “Le Cours d’énonciation”, in Colas-Blaise, M.-Perrin, 2016 L.-Tore, G.M. (a cura di), Uénonciation aujourd’hui. Un concepì clé des Sciences du langage, Lambert-Lucas, Limo ges, pp. 151-166.
Dusi, Nicola 2014 Dal cinema ai media digitali. Logiche del sensibile tra corpi, oggetti, passioni, Mimesis, Milano.
Eco, Umberto Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano. 1964 La struttura assente, Bompiani, Milano. 1968 Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano. 1975 1979 Lector in fabula, Bompiani, Milano. 1980 Il nome della rosa, Bompiani, Milano. “L’antiporfirio”, in Vattimo, G.-Rovatti, P.A. (a cura di), 1983 Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano; ora in Eco, U., Sugl: specchi e altri saggi. Il segno, la rappresentazione. l'illusione, Timmagine, 4* ed., Bompiani, Milano, 19^51 2004. pp. 334361.
*79
PERSONA
1984 1990 1997 1998 2002 2003 2004 2007
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Eugeni, Ruggero Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza, Carocci, 2010 Roma. Eugeni, Ruggero-Guerra, Michele “H corpo enunciazionale. Soggettiva cinematografica e neu roscienze cognitive”, intervento al XLVII convegno nazio nale AISS, Siena, 25-27 ottobre, in corso di pubblicazione.
2020
Esposito, Roberto 2007 Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino. 2018 Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi, Torino.
Fabbri, Paolo 1998a La svolta semiotica, Laterza, Roma-Bari. 1998b “L’oscuro principe spinozista: Deleuze, Hjelmslev, Bacon”, in Discipline filosofiche, 1, pp. 207-220. 2000 Elogio di Babele, Meltemi, Roma. 2007 “Un terminale inaugurale”, introduzione a Greimas, AJ.-Courtés, J., Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano. 2009 “Introduzione”, in Benveniste, E., Essere di parola, Mondadori, Milano, pp. VILXXXII.
380
I DRAMATIS PERSONAE
2017 2020
L'efficacia semiotica. Risposte e repliche, Mimesis, MilanoUdine. Vedere ad arte. Iconico e icastico, Mimesis, Roma.
Fabbri, Paolo-Marrone, Gianfranco (a cura di) La luce del sud, Circolo semiologico siciliano (Working Pa 1992 pera 2), Palermo. 2000 Semiotica in nuce, voi. I, Meltemi, Roma. Semiotica in nuce, voi. II, Meltemi, Roma. 2001 Fabbrichesi, Rossella 1992 Il concetto di relazione in Peirce, Jaca Book, Milano. Ferraris, Maurizio Documentaalita. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari.
2009
Ferraro, Guido “Cinque tipi di soggettività in semiotica”, in Semiotica delle 2013 soggettività. Per Omar, a cura di M. Leone e I. Pezzini, atti del congresso AISS 2013, Aracne, Roma, pp. 43-56. Festi, Giacomo “Le logiche del sensibile. Un confronto tra la semiotica ten2003 siva e il progetto di naturalizzazione del senso”, in Semioti che, 1, Ananke, Torino, pp. 175-196.
Fillmore, Charles J. La semantica deiframe. Un'antologia di testi, Pàtron, Bolo 2017 gna. Fontanille, Jacques Les espaces subjectifs. Introduction à la sémiotique de l’obser1989 vateur (discours-peinture-cinéma), Hachette, Paris. 1992 “Des simulacres de l’énonciation à la praxis énonciative”, in Semiotica, 99-1/2 (1994), pp. 185-197. 1998 Sémiotique du discours, PULIM, Limoges.
381
PERSONA
2004
2008 2011 2015 2016
Soma et sèma. Figures du corps, Maisonneuve et Larose, Pa ris (trad. it. Figure del corpo. Per una semiotica dell’impron ta, a cura di P. Basso Possali, Meltemi, Roma, 2004). Pratiques sémiotiques, PUF, Paris (trad. it. Pratiche semio tiche, EPS, Pisa, 2010). Corps et sens, PUF, Paris. Formes de vie, Presses Universitaires de Liège, Liège. “L’Enonciation pratique à l’ceuvre dans l’intermédialité et la remédiation”, in Migliore, T. (a cura di), Rimediazioni, immagini interattive, Kvàcne., Roma, pp. 231-244.
Fontanille, Jacques-Zilberberg, Claude 1998 Tension et signification, Mardaga, Liège. Foucault, Michel L’Archéologie du savoir, Gallimard, Paris (trad. it. L’arche 1969 ologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1971). Gallagher, Shaun Enactivist interventions. Rethinking thè Mind, Oxford 2017 University Press, Oxford.
Gallagher, Shaun-Hutto, Daniel D. “Understanding Others Through Primary Interaction and Narrative Practice”, in Zlatev, J.-Racine, T.P.-Sinha, C.-Itkonen, E. (a cura di), The Shared Mind. Perspective on intersubjectivity, John Benjamin Publishing Company, Amsterdam-Philadelphia, pp. 17-38.
2008
Gallese, Vittorio-Guerra, Michele Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello 2015 Cortina, Milano.
Geertz, Clifford The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York 1987 (trad. it. interpretazioni di culture, il Mulino, Bologna).
382
I
DRAMAT1S PERSONAE
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Greimas, Algirdas Julien-Fontanille, Jacques Sémiotique des passions, Seuil, Paris (trad. it. Semiotica 1991 delle passioni, Bompiani, Milano, 1996). Guillaume, Gustave Lefons de linguistique, 1943-1944, Presses de l’Université 1991 Laval-Presses Universitaires de Lille, Québec-Lille. Halliday, Michael Alexander Kirkwood 1994 An Introduction to Eunctional Grammar, Edward Arnold, London.
383
PERSONA
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!
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384
DRAMAT1S PERSONAL
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I
PERSONA
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387
PERSONA
2019 I
On Insignificance. The Loss ofMeaning in thè Post-Material Age, Routledge, London-New York.
Leonelli, Sabina Data-Centric Biology: A Philosophical Study, Chicago Uni 2016 versity Press. Chicago. Létoublon, Fran^oise “La Personne et ses masques: remarques sur le développ1994 ement de la notion de personne et sur son étymologie dans l’histoire de la langue grecque”, in Faits de Langues, 3, La personne, pp. 7-14.
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2002
Lo Piparo, Franco 2003 Aristotele e il linguaggio, Laterza, Roma-Bari.
Lorusso, Anna Maria “Retorica e semiotica: per una riflessione sulle norme”, in 2015
388
1
DRA.MATIS PERSONAE
2019
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Lotman, Jurij Michailovic 1985 La semiosfera, Marsilio, Venezia. Maillard, Michel “Essai de typologie des substituts diaphoriques”, in Langue 1974 frangaise, 21, pp. 55-71. Malafouris, Lambros How Things Shape thè Mind. A Theory of Material Engage 2013 ment, MIT Press, Cambridge (Mass.).
Mangano, Dario “Politiche della natura. Il caso Mondello”, in E/C, rivista 2010 dell’Associazione italiana di studi semiotici; http://www.ecaiss.it/pdf_contributi/mangano_29_3_10.pdf . Manetti, Giovanni Le teorie del segno nell’antichità classica, Bompiani, Milano. 1987 La teoria dell’enunciazione. Le origini del concetto e alcuni 1998 più recenti sviluppi, Protagon, Siena. 2008 L’enunciazione. Dalla svolta comunicativa ai nuovi media, Mondadori Università, Milano.
Marino, Gabriele “L’enunciazione o il luogo del disco. Per una teoria dell’in 2020 quadratura fonografica e del punto di ascolto”, in corso di pubblicazione presso Fata Morgana, Montpellier. Marmo, Costantino 2003 “L’instabile costruzione enunciativa dell’identità aziendale in rete”, in Versus. Quaderni di Studi Semiotici, 94-96, pp. 135-148.
389
PERSONA
■ 2014
2017
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