Persecutori e vittime. Strategie di violenza 8807103087, 9788807103087

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Persecutori e vittime. Strategie di violenza
 8807103087, 9788807103087

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La serie "Psiche" si propone di descrivere i profondi cambiamenti in at­ to in psicologia e psichiatria: dagli aspetti clinici e teorici (il dibattito in campo psicoterapeutico, dalla psicoanalisi alle più recenti acquisizioni di matrice cognitivistica, relazionale e comportamentale) a quelli in gra­ do di offrire una possibile interpretazione delle trasformazioni che han­ no riguardato la struttura sociale e la famiglia e che hanno portato al­ l'emergere di nuove tendenze di comportamenti individuali e collettivi.

Françoise Sironi Persecutori e vittime Strategie di violenza

Traduzione di Elena Dal Pra

Feltrinelli

Titolo dell'opera originale BOURREAUX ET VICTIMES PSYCHOLOGIE DE LA TORTURE © Éditions Odile Jacob, 1999

Traduzione dal francese di ELENA DAL PRA © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in "Campi del sapere" maggio 2001 ISBN 88-07-10308-7

a

Olivier

"Rimarrà spezzato dentro, perché noi sap­ piamo agire senza lasciare tracce. Se so­ pravvive, non dimenticherà mai il prezzo del­ la sua audacia." Un torturatore, in TITO DE ALENCAR, Alors les pierres crieront "Se parli, ricominciamo." Un torturatore, nella testimonianza di un paziente

Introduzione

La tortura ruba la voce. Imprigiona nello stesso silenzio vit­ time e carnefici, e con loro quelli che la autorizzano, la incorag­ giano, la pianificano, con l'obiettivo evidente di tenere nascoste le proprie manovre. La tortura è una di quelle "storie maledette" che hanno a che vedere con la parte oscura, con la faccia di soli­ to nascosta del genere umano. La tortura disturba, mette a disa­ gio. Studiare la tortura, il suo utilizzo in una determinata società, i suoi meccanismi ed effetti, e curare le sue vittime comporta dei rischi. "Io non sono più lo stesso di prima," dice chi è stato tor­ turato, e così anche il terapeuta che si è misurato con uno dei fe­ nomeni estremi della psicologia umana. "Ventidue anni dopo quei fatti, mi sento di affermare, sulla base di un'esperienza che non ha comunque compreso tutto il possibile, che la tortura è l'evento più terribile che una persona possa portarsi dentro," scrive Jean Améry. 1 Ciononostante, in que­ sto libro io mi oppongo strenuamente alla possibilità che la tor­ tura e le vittime della tortura siano oggetto di un discorso che su­ scita le emozioni del lettore, e questo perché le emozioni appar­ tengono anche alla tortura, dal momento che attraverso la scrit­ tura o una sottile strutturazione della presentazione dei casi cli­ nici e della descrizione dei fatti è possibile assoggettare il lettore alle sue emozioni. 'Temozione provocata dalla rappresentazio­ ne dell'inumano è sufficiente per assicurarne la trasmissione nel­ la memoria?" chiede Lione! Richard2; "Brecht, che da questo ha tratto una delle leggi del suo teatro epico, lo ha detto e lo ripete: bisogna diffidare dell'emozione, poiché è proprio l'emozione a rendere l'individuo manipolabile. Non può essere rifiutata com1 J. Améry, Par-delà le crime et le chiìtiment. Essai pour surmonter /'insur­ montable, Actes Sud, Arles 1 995, p. 52. 2 L. Richard, L'artiste et la mémoire, in "Libération", 1 6 aprile 1 998.

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pletamente, ma bisogna tenere a mente che essa rappresenta so­ lamente uno dei canali d'accesso all'attività fondamentale, ossia alla riflessione."3 La tortura costringe sicuramente a uno sforzo di comprensione, costringe a pensare. In questo libro, desidero mostrare al lettore il percorso di un terapeuta che si trova a dover rispondere a questa domanda: co­ me si può curare chi è stato vittima di torture? Il trauma legato alla tortura è particolare e risulta "atipico" quando si tenta di inserirlo nelle categorie nosografiche abitua­ li. La mia esperienza clinica mi ha portato a capire che, per que­ sto motivo, il trattamento delle vittime di torture richiede un ap­ proccio specifico. In medicina, psicologia o psicoanalisi esisto­ no pochissimi lavori che si occupano della questione,4 e anch'io, durante i miei studi universitari , non avevo ricevuto alcuna for­ mazione relativamente alla comprensione e all'approccio psico­ terapeutico ai traumi intenzionali e alle vittime di torture. Per curare queste persone è necessario prendere in conside­ razione i processi in atto in ogni modificazione deliberata dell'i­ dentità, cosa che certamente è prodotta dalla tortura. In un pri­ mo tempo ho dunque studiato e analizzato i metodi di tortura utilizzati, e i meccanismi che li sottendono; ho dovuto quindi oc­ cuparmi anche delle conseguenze legate all'impiego di questi me­ todi. La psicopatologia della tortura è l'illustrazione perfetta de­ gli effetti di un trauma intenzionale, deliberatamente indotto dal­ l'uomo. L'intenzionalità del torturatore è al centro del processo psicopatologico, e questa constatazione clinica mi ha condotto di conseguenza a interessarmi ai torturatori; torturatore non si nasce, lo si diventa, per iniziazione. Non è una questione di na­ tura, ma di "fabbricazione", ed è tramite tecniche traumatiche identiche che si procede all'iniziazione di un torturatore e alla tortura di un uomo. Se l'intenzionalità del primo è, per le vittime, al centro stesso della psicopatologia legata alla tortura, come è possibile aiutarle con una psicoterapia? La tortura è una situazione di influenza, ma anche la psicoterapia lo è, come indica prudentemente la psi­ coanalisi con i termini transfert e controtransfert. Il trattamento del trauma provocato dalla tortura fa emergere proprio le falle della teoria di Freud: il congegno tecnico da lui immaginato spin­ geva infatti il paziente a considerarsi unico responsabile del pro­ prio destino. L'isolamento deliberato dei pazienti dall'universo di 3/hid.

4 Un'eccezione è rappresentata da M. e M. Vignar, Exil et torture, Denoel, Pa­

ris 1 989, e da J. Puget e altri, Violence d'État et psychanalyse, Dunod, Paris 1989; tr. it. Violenza di stato e psicoanalisi, G nocchi, Napoli 1 994. Per una rassegna e un'analisi dei testi sulla tortura pubblicati in Francia e nel resto del mondo si ve­ da l'Appendice. 12

riferimento in cui è apparso il disordine è auspicato da tutto il pensiero psicologico e psicopatologico; ne è addirittura uno dei presupposti impliciti. Esistono, nella psicologia clinica, situazio­ ni che rappresentano veri e propri paradigmi, e la tortura è una di queste, perché rimette in discussione le nostre concezioni teo­ riche e tecniche, in una situazione clinica nella quale l'intenzione di nuocere è inequivocabilmente riconoscibile. Il disordine non è più attribuibile alla "natura" del paziente, ma è la conseguenza di atti deliberati: un'azione ha prodotto un effetto palese che non può essere ricondotto a un conflitto indivi­ Juale e intrapsichico. Quando si ha a che fare con un'intenziona­ lità di questo tipo non si può più trattare con il solo paziente, ma è necessario considerare gli effetti dell'influenza e individuare la teoria del torturatore, che ha informato il modo di vedere il tor­ turato. Attraverso il paziente, il terapeuta è dunque costretto ad agire su una terza persona invisibile: il torturatore interiorizzato. L'esperienza clinica con le vittime di tortura mi ha di conse­ guenza spinta a cercare un altro referente teorico che compren­ desse un pensiero sull'influenza: l'ho trovato nel corpus teorico e metodologico elaborato dall'etnopsichiatria, che permette di comprendere la natura di un trauma del genere e di mettere in atto una terapia efficace per il trattamento di pazienti che sono stati torturati. "L'analisi dei limiti e delle categorie su cui sono fondati posso­ no dare maggiori risultati scientifici di quelli che si hanno attra­ verso l'esplorazione di un campo perfettamente definito."5 Il mio libro vuole illustrare questa affermazione di Tobie Nathan, ed è il frutto dell'attività clinica svolta all'AVRE6 e poi al centro Primo Le­ vi7 a Parigi, e che prosegue ora al centro Georges Devereux.8

F. S.

5 T. Nathan, La folie cles autres. Traité d'ethnopsychiatrie clinique, Dunod, Pa­ ris 1 986, p. l; tr. it. La follia degli altri, Ponte alle Grazie, Firenze 1 990, p. 5 1 . 6 AVRE (Association pour !es victimes de l a répression en exil): 1 25, rue d'A­ vron, 75020 Paris. 7 Centre et Association Primo-Levi: l 07, avenue Parrnentier, 7501 1 Paris; cen­ tro di cura per le vittime di tortura e di violenze politiche. 8 Ccntre Georges-Devereux (Centro universitario di aiuto psicologico), Uni­ versité Paris-vm, 2 rue de la Liberté, 93526 Saint-Denis. 13

1. Torturare: per costringere a parlare o per ridurre al silenzio?

In che modo si parla della tortura, e chi parla della tortura nel­ la sua concretezza? Non sono domande prive di importanza, dal momento che si sa quanto sia spessa la coltre di silenzio che awol­ ge la tortura, un silenzio che riguarda sia chi la pratica sia chi l'ha subita. La principale fonte di informazioni sulla tortura è rappre­ sentata dalle parole, dalle testimonianze delle vittime, che talvolta prendono la forma di opere autobiografiche1 o vengono riportate da persone a loro vicine.2 Queste storie vengono inoltre raccolte dal­ le associazioni di lotta contro la tortura,3 e in Francia dall'oFPRA,4 ufficio dal quale dipende l'assegnazione dello status di rifugiato in territorio francese. Ma a prescindere dal tipo di interlocutore che le raccoglie, è evidente in esse una grandissima somiglianza, nna c� stante corrispondenza sia nella natura e nella forma del racconto, sia nei processi che esso descrive. Ecco qualche esempio. Murat è turco. Arrestato perché sospettato dalle autorità mi­ litari del paese di appartenere a un gruppo politico clandestino in Turchia, è stato condannato a cinque anni di prigione. Lo han­ no torturato a più riprese sia prima sia durante la detenzione. 1

Citiamo, tra gli altri, R. Antelme, L'Espèce humaine, Gallimard, Paris 1957;

tr. it. La specie umana, Einaudi, Torino 1 997; H. Alleg, La Question, Minuit, Pa­ ris 1 96 1 ; tr. it. La tortura, Einaudi, Torino 1 958; M. Benasayag, Malgré tout: con­

tes à voix basse des prisons argentines, in "Cahiers libres", 360, Maspero, Paris 1 980; P. Levi, Se questo è un uomo, in Opere, Einaudi, Torino 1 987, vol. l; e J. Améry, Par-delà le crime et le chdtiment, cit. 2 Si veda in particolare M. Duras, La Douleur, POL, Paris 1 985; tr. it./l dolo­ re, Feltrinelli, Milano 1 995; O. Fallaci, Un uomo, Rizzoli, Milano 1 979. 3 Per esempio Amnesty Intemational o !'ACAT (Association des chrétiens pour l'abolition de la torture). 4 Ufficio francese per i rifugiati e gli apolidi.

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"È stato terribile ... veramente terribile," dice freddamente, con un atteggiamento distaccato. Guarda fisso nel vuoto e tace. Taccio anch'io. Scorrono delle immagini. Dopo un po', con la col­ laborazione di Sibel, l'interprete, gli chiedo a mezza voce: "Che cosa c'è nella sua mente, adesso?". "Adesso?" "Sì, in questo momento." "Ci sono ... immagini, come in un film ... passano delle immagini... e... non riesco a dire niente." Ancora una volta, tra noi cala un silenzio di piombo. Lui fis­ sa un punto sul pavimento, imperturbabile ... Il film continua a scorrere, nella sua testa, nella mia, e in quella di Sibel. Ma biso­ gna continuare, cominciare a farlo uscire di là. "Là" sono gli an­ ni di isolamento in cui Murat ha vissuto, prima di decidersi. se­ guendo l'esempio di altre persone che si sono già rivolte al cen­ tro, a presentarsi, perché qualcuno si occupi di "quello", della tor­ tura. Dopo qualche minuto, gli suggerisco: "Murat ... Cerchi di associare delle parole alle immagini che tornano, di dirci quello che vede, in questo momento". Annuisce, gli occhi sempre fissi a terra. Murat apre la bocca, sta per parlare. Vedo che si sforza di articolare delle parole: muo­ ve le labbra, ma non riesce a emettere nessun suono. Scuote vio­ lentemente la testa. Un silenzio profondo ci inghiotte progressi­ vamente. Penso "Murat, non mollare!", come sempre quando le prime parole non riescono a uscire. D'un tratto, Murat scoppia a ridere. Ed è ridendo che ci racconta questo: "Mi vedo nella cella, e sento queste grida . .. la cella era tal­ mente piccola che avevamo spazio solo per accovacciarci. Era­ vamo in dodici, in quel loculo. Ci torturavano continuamente . . . Giorno e notte, per quindici giorni. Sentivo le grida e le urla de­ gli altri, mentre noi, nella cella, aspettavamo il nostro turno. Ma non sapevamo mai quando sarebbe arrivato". Di nuovo, le risate di Murat riempiono la stanza. Prima di tradurre le parole ripor­ tate qui di seguito, Sibel si volta verso di me e commenta: "Guar­ da, ride. Ma, Françoise, quello che dice non ha assolutamente nulla di divertente, te l'assicuro". "Lo so bene." Si bel continua a tradurre: "La cosa più tremenda, ancora peg­ gio della tortura, era l'attesa. E il momento migliore era il ritor­ no nella cella. Qualche volta, dopo averci torturato per ore, ci ri­ portavano nella cella e ci lasciavano lì. Dieci minuti dopo torna­ vano . . . ed era di nuovo il nostro turno... Non potevamo fare nes­ suna previsione, perché non sapevamo mai quando sarebbero tornati e chi di noi sarebbe stato torturato". Rabbrividisco. Mura t continua. Lo hanno picchiato a sangue, varie volte. Lo hanno torturato con l'elettricità, collocando gli 16

el ettrodi in punti precisi del suo corpo: sulla punta delle dita, sul­ le piante dei piedi, sui capezzoli e sul glande. Murat prosegue: "Il peggio è stato alla fine, quando sono venuti a prendermi per portarmi in prigione. Erano quelli che mi avevano torturato, gli stessi!. Erano irriconoscibili Erano genti�i. Erano c sì pre­ . : murosi, si preoccupavano addinttura della mia salute. MI hanno offerto sigarette, da mangiare, da bere. In cella, il cibo e l'acqua erano salatissimi, apposta per aumentare il nostro malessere. Lì tutto era buono. Mi davano amichevoli pacche sulle spalle e mi parlava.n ? c.ome se fossero stati. dei f!at�lli magg�ori. Mi davano consigl i: MI raccomando, non ncommc1are. Lascia perdere quel­ la roba, non hai visto quante ne hai prese?"'. In un centro di cure per vittime di torture gli appuntamenti si succedono uno dopo l'altro, senza tregua. Non c'è tempo di ti­ rare il fiato, di tornare in un altro mondo. È la realtà bruta, allo stato puro: ecco uno stralcio di un altro racconto simile, quello di Fehmi. Anche Fehmi è turco. Ha trentacinque anni, ed è membro di un partito politico clandestino in Turchia. È stato condannato a sette anni di carcere per "attentato alla sicurezza dello stato". "Mi hanno lasciato parecchi giorni senza torturarmi. Ma ve­ devo i compagni che erano stati torturati tornare in cella . . . Co­ me il mio migliore amico, Atnan." Atnan è morto tra le sue braccia dopo un'agonia di una setti­ mana. Entrambi sapevano che non ce l'avrebbe fatta, e giorno e notte Fehmi vegliava su di lui. Atnan era un "pezzo grosso", il re­ sponsabile del gruppo politico; aveva una forte personalità, un autentico capo carismatico. Era rispettato e amato da tutti i suoi compagni di lotta, e il coraggio che aveva dimostrato in situa­ zioni di estrema difficoltà aveva aiutato più di qualcuno a non la­ sciarsi morire nei momenti più bui. Ora giaceva lì, morto, tra le braccia di Fehmi. "Ho visto delle cose . . . delle cose . . . C'era anche quella bam­ bina." Si ferma, sospira profondamente, accende l'ennesima siga­ retta, beve un sorso di caffè e comincia a raccontare. "Era piccola. Non doveva avere neanche otto anni. Era den­ tro con la madre." Fehmi descrive il posto, per spiegarci come riu scisse a sentire tutto. "Era come una grande palestra. Erano chiusi nel sotterraneo. 5 C'erano degli spogliatoi dove cambiarsi prima di entrare in palestra che erano stati trasformati in celle. 5

Per p arlare di sé e degli altri detenuti, Fehmi usa la terza persona.

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Sopra c'era un solaio in legno, ed era là sopra che torturavano. Attraverso il pavimento si sentiva tutto, per tutto il giorno, ma non si vedeva niente. La bambina ha gridato per tre giorni e tre notti. Sicuramente l'hanno costretta ad assistere alle torture del­ la madre." Un violento, incontenibile accesso di tosse interrompe il suo discorso; tra un colpo di tosse e l'altro dice: "Scusate, ho un po' di raucedine". Poi riprende: "La bambina, era una cosa veramente disumana. Che si tor­ turino degli adulti, passi, ma che una bambina si ritrovi là den­ tro, no, è troppo". La tortura per lui è cominciata dopo. "Mi hanno fatto di tutto, veramente di tutto. :Lelettricità, l'im­ piccagione . . . tutto." Ricorda che aveva costantemente farne. "La cosa peggiore era il getto d'acqua, in gennaio e in feb­ braio. Mi avevano bendato gli occhi. Non sentivo arrivare l'ac­ qua, e improvvisamente dei getti potentissimi mi sferzavano tut­ to il corpo." In preda ai brividi, tentava di evitare il dolore, ma era impos­ sibile. Per Fehrni, quello era peggio della morte, e del resto molte persone sono state uccise così. Alla fine di un supplizio intermi­ nabile, i suoi carnefici lo portavano fuori, al freddo, perché i ve­ stiti gelidi gli si asciugassero sulla pelle e lo stringessero gradual­ mente, sempre più forte, fino al soffocamento. In quel momento, ricorda, sperava di morire come si spera in una liberazione. Gli chiedo se i suoi aguzzini gli parlavano, mentre lo tortu­ ravano, e se ricordava cosa dicevano. Lui rivede le persone, quel­ le che lo investivano con il getto d'acqua e altre. Ricorda anche il brusio dei carnefici presenti nella carnera della tortura: "Mi in­ terrogavano . . . Ma soprattutto, soprattutto mi accusavano e mi insultavano" . Non riesce ancora a ripetere le loro parole, le loro minacce: quella frase, "Se parli, torneremo", era ancora troppo presente nella sua mente. Che siano raccolti durante sedute di psicoterapia o contenu­ ti in uno scritto autobiografico, questi racconti sono sempre del­ la stessa natura: costringono a penetrare in delle zone grigie, in cui non siamo abituati ad avventurarci. In un articolo intitolato Face aux tortionnaires, Abraham Se­ farty parla così delle torture da lui subite: "Quando si è stati vit­ time della tortura così a lungo e così intensamente che essa è pe­ netrata nel nostro corpo e nel nostro essere, parlarne è come estir­ pare del vomito nascosto nel fondo del proprio corpo. Finché man­ tiene il suo potere, ossia per anni, è impossibile anche soltanto guardarla in faccia. Bisogna, al contrario, fare tutto il possibile 18

menticare quelle ore immonde, per ritrovare una forma

r di �eroana dopo mesi e mesi di avvilimento fisico, perché il cuore

non sobbalzi a ogni suono che ricorda quella voce bassa che mi sussurrava all'orecchio, mentre giacevo nel torpore più profon­ do: Nuh ud (alzati), e sapevo che era per la tortura".6 La dichiarazione contro la tortura firmata dalle Nazioni Uni­ te nel dicembre 1 975 dà questa definizione: "Per tortura si in­ tende ogni atto mediante il quale siano inflitti intenzionalmente a una persona dolore o sofferenza gravi, sia fisici sia mentali, al­ lo scopo di ottenere da essa o da un'altra persona informazioni 0 una confessione, di punirla per un atto che essa o un'altra per­ sona ha commesso o è sospettata di aver commesso, per intimi­ dirla o sottoporla a coercizione o intimidire o sottoporre a coer­ cizione un'altra persona". Se tale definizione esprime chiaramente l'idea dell'intenzio­ nalità delle sofferenze procurate, essa è comunque restrittiva e richiede alcune precisazioni. Questo testo, adottato dalla grande maggioranza degli stati membri dell'Onu, non evidenzia infatti le sofferenze croniche che la tortura genera, ossia proprio quel­ le di cui noi constatiamo l'esistenza nella nostra attività clinica. La definizione adottata dall'assemblea delle Nazioni Unite non sembra considerare una forma di tortura il clima di terrore quo­ tidiano in cui un'intera popolazione è costretta a vivere costan­ temente. Inoltre, essa prende in considerazione solamente la tor­ tura di stato e, anche se quest'ultima è la più frequente, rimane tuttavia vero che vi sono gruppi di opposizione armati che ricor­ rono abitualmente alla tortura, ai massacri collettivi e agli stu­ pri; essa non appartiene dunque solamente ad alcuni stati, ma viene largamente utilizzata anche da gruppi slegati dallo stato. Nonostante questa dichiarazione contro la tortura sia stata ratificata dalla maggioranza degli stati membri delle Nazioni Uni­ te, il suo impatto reale resta comunque ancora tutto da dimo­ strare. Della commissione per i diritti umani dell'Onu, composta da rappresentanti di cinquantatré paesi eletti dall'assemblea ge­ nerale, fanno parte stati che i "diritti umani" li violano a ogni piè sospinto/ benché in teoria dovrebbero verificare l'applicazione delle convenzioni internazionali e proporre nuovi strumenti di controllo all'assemblea generale.8 Del resto, nei paesi in cui si fa 6 A. Sefarty, Face aux torlionnaires, in "Les Temps modemes", aprile 1 986. 7 Secondo la definizione che ne è stata data dalle Nazioni Unite. Nel suo di­ scorso all'Gnu, Fide! Castro criticò l'utilizzo "a geometria variabile" di questo con­ cetto; secondo lui tra i diritti umani dovrebbe rientrare quello di non essere af­ famati e soffocati dalle grandi potenze, con riferimento diretto all'embargo ame­ ricano ai danni dì Cuba. 8 In proposito si veda il capitolo "La torture, peste du xx• siècle" nel libro di A. Jacques L'lnterdit ou la torture en procès, Cerf, Paris 1 994. 19

ricorso alla tortura, coloro che la praticano hanno spesso cura di non lasciare tracce, e questo è appunto il caso di molte nazioni che hanno sottoscritto la dichiarazione. La tortura, nella sua forma moderna, costituisce un fenome­ no mondiale. In alcuni paesi essa viene utilizzata in maniera si­ stematica, come in Turchia, nello Sri Lanka o nel Kashmir in­ diano,9 per esempio. In altri essa è "tollerata", o addirittura in­ dotta dal potere; in questi casi sono gruppi paramilitari, talvolta direttamente manovrati dallo stato, a incaricarsi di applicarla e di liquidare gli oppositori del regime. 10 Marcello Vignar definisce la tortura come "ogni comporta­ mento intenzionale, qualunque siano i metodi utilizzati, che ha il fine di distruggere il credo e le convinzioni della vittima per privarla della struttura di identità che la definisce come perso­ na", 1 1 e considera gli autori emissari di un potere violento, uti­ lizzati per ottenere la sottomissione totale e la paralisi dei go­ vernati. La tortura è dunque lo strumento attraverso il quale si tenta di "devitalizzare", "disattivare" coloro che sono ritenuti un pericolo per l'ordine costituito. La tortura moderna è spesso pre­ sente in società culturalmente regredite, o che subiscono un ra­ pido processo di impoverimento culturale. Essa compare inoltre nella sua forma attuale quando i codici che strutturano gli scam­ bi e gli incontri tra diversi gruppi umani scompaiono, cedendo il posto a un modello unico di scambio tra i gruppi; le regole che governano i rapporti tra i diversi gruppi che costituiscono una società vengono meno a causa dell'instaurazione, a volte bruta­ le, a volte progressiva, di un modello unico di società. "Il gesto del carnefice," scrive Miche! de Certeau, 12 "marchia nella carne quell'ordine che vuole ottenere l'assenso attraverso la sottomis­ sione. Attraverso la paura e la delazione, il potere cerca di otte­ nere una professione fondamentale, che lo accrediti come nor­ mativa e legittimo. " La tortura è lo strumento attraverso cui i tor­ turatori instaurano un ordine binario: "eliminare lo sporco per­ ché il pulito possa continuare a funzionare". 13 Essa costringe le sue vittime a un funzionamento dicotomico, a una scissione to­ tale tra la cultura interiorizzata e la cultura imposta. Questa di9

Sul ricorso alla tortura e sulla repressione politica nei vari paesi, si vedano

i rapporti annuali pubblicati da Amnesty International.

1° Fu quanto accadde per esempio in Brasile durante la dittatura, con gli squadroni della morte. 11 Marcello Vignar, psichiatra latinoamericano, ha vissuto per molti anni in esilio a Parigi durante la dittatura, nel suo paese, del generale Stroessner. Ci­ tato da A. Jacques, «La torture, peste du xx• siècle», in L'lnterdit ou la torture e n procès, cit. 12 M. de Certeau, Le corps torturé, parole torturée, in Cahier pour un temps, Éditions du Centre Georges-Pompidou, Paris 1 987. 13/bid.

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cot omia è destinata a regolare il funzionamento degli individui

e dei gruppi che sono sottomessi a tale processo. In Saggi di et110psichiatria generale Georges Devereux enuclea la nozione di di­ sordine tipo, che designa le patologie psicologiche proprie del ti­ po di societ� che le pr�duce. 14 Sette a�ni do po, in Sex':'a!ité idéo­ , /ogique et nevrose, Tobte Nathan anahzzera m dettaglio 1 mecca­ sottesi a questi disordini.15 I disordini tipo sono caratte­ i nism rizzati dal fatto che la loro logica e la loro struttura sono diret­ tamente legate alla logica e alla struttura dell'organizzazione so­ ciale nella quale compaiono. Nei processi violenti di destruttu­ razione culturale, sono possibili solo due "scelte": conservare il sentimento di continuità della propria esistenza duplicandosi, oppure rinunciare alla propria identità. Durante la trasmissione radiofonica "Passerelle" dedicata al Cile, andata in onda su Fran­ ce-Culture, l'avvocato cileno Roberto Gareton descriveva l'arti­ colazione tra il singolare e il collettivo attraverso gli effetti sulla vita individuale del regime dittatoriale: "La libertà si assottiglia di giorno in giorno in Cile, paradossalmente proprio quando i mi­ litari uccidono molto meno di prima. Adesso, ognuno è diventa­ to l'aguzzino di se stesso. Ogni giornalista si autocensura da sé. Ci sono pochissime denunce, perché la paura è ormai interioriz­ zata. Assistiamo a un vero sdoppiamento dell'identità di un po­ polo. Non si sa più che cosa sia il Cile. L'effetto della dittatura ci fa dire: il Cile è questa cosa, e questa cosa non ha più nulla a che fare con me".16

Il totalitarismo, come modalità di pensiero, agisce tanto sul singolo che sulla società, privandoli deliberatamente della mol­ teplicità di reti che li costituiscono. La logica totalitaria si insi­ nua a poco a poco nella soggettività attraverso la modificazione dei codici di accesso alla comprensione della realtà. Imposta dal di fuori, questa modifica non si discute, viene messa in pratica. In un sistema del genere, i militari, i poliziotti e gli emissari del­ lo stato diventano gli attori (e non solamente gli esecutori) che procedono all'instaurazione di una norma stabilita. Incaricati di provvedere alla sicurezza interna del paese, diventano anche i creatori della "sicurezza interna" degli individui. In un tale si­ stema, poliziotti e militari sono i difensori di un codice ossessi­ va totale, in cui l'ottenimento di confessioni e informazioni con­ tribuisce alla costruzione dell'edificio totalitario; il loro obietti14

G. Devereux, Essai d'ethnopsychiatrie générale, Gallimard, Paris 1970; tr.

i t. Saggi di etnopsichiatria generale, Armando, Roma 1 978; sul concetto di disor­ dille tipo, si veda il capitolo primo: "Normale e anormale".

15 T. Nathan, Sexualité idéologique et névrose, La Pensée sauvage, Grenoble 1977, p. 49. 16 In onda il 26 marzo 1988 su France-Culture. 21

vo implicito è ridurre un'intera popolazione a un linguaggio uni­ co. Essi rappresentano l'incarnazione dei "valori buoni" e la tor­ tura diventa un modo per separare questi ultimi da quelli "catti­ vi". Chi non si uniforma ai primi è fuori dal sistema. Così dunque, contrariamente all'idea che ci si fa della tortura, non è per far parlare che si tortura, ma per far tacere. La tortura riduce al silenzio, nasconde. "Nell'immensa solitudine della lotta del torturato con il suo carnefice," scrivono Marcello Vignar, Ma­ ren Vignar e Leopoldo Bleger, "la posta in gioco non è solamente la confessione. Perché rivelare il segreto, confessare, significa pie­ garsi alla volontà onnipotente del torturatore, e quindi soffrire l'a­ troce trasparenza della depersonalizzazione. n segreto e l'opacità del proprio intimo fondano l'identità. La loro perdita - la traspa­ renza del pensiero - equivale a precipitare nella follia."17 La perdita del segreto ha un ruolo centrale nella tortura. At­ traverso di essa, il torturatore cerca di annientare il suo prigionie­ ro, di isolarlo dal suo gruppo. "Parlare", "dare", "sedersi al tavolo" sono atti che si pagano spesso con la pazzia o con un pericoloso vacillamento della ragione. Rimangono allora a lungo prigionieri dei loro nemici. Il segreto sta in una modalità di costruzione dei gruppi che traccia una linea di demarcazione; il segreto chiude il mondo dei torturatori, come quello delle vittime, nello stesso si­ lenzio. Né gli uni né gli altri parlano di questo mondo a parte: es­ so costituisce la linea di demarcazione tra loro e il resto degli es­ seri umani, quelli che non hanno conosciuto la tortura. Secondo Robert Antelme, la tortura tocca il sentimento di ap­ partenenza alla specie umana: "Dire che allora ci si sentiva mes­ si in discussione come esseri umani, come membri della specie, può apparire come una sensazione retrospettiva, una spiegazio­ ne a posteriori. È questa sensazione, tuttavia, quella che più im­ mediatamente e costantemente era percepita e vissuta, ed era del resto questo, esattamente questo, che gli altri volevano". 1 H La vit­ tima viene sempre pensata dal torturatore come un elemento non umano, ein Stuck, un pezzo, per riprendere la terminologia na­ zista. Questo è anche il pensiero di M. Hemeury, che partecipò alla Resistenza francese, e che durante la trasmissione televisiva condotta da Jean-Marie Cavada nel giugno 1 993 sul "dovere del­ la memoria" dichiarò: "Quando si è stati torturati, sulla terra non ci si sente più a casa propria".

17 Si veda M. e M. Vignar, op.cit., p. 165. 18 R. Antelme, op. cit. , p. 1 1 .

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z. I metodi

I metodi di tortura che stiamo per descrivere non sono tutti quelli possibili . Si tratta di descrizioni fornite dai pazienti che ho seguito per una psicoterapia. Questi metodi possono essere sud­ divisi come segue.

Il dolore È un elemento onnipresente nella tortura: pestaggi, colpi si­ multanei sulle orecchie (il cosiddetto "telefono"), scosse elettri­ che alle parti più sensibili del corpo, colpi sulla pianta dei piedi (tortura chiamata "falaka" o "palmatoria"), unghie strappate o sollevate con aghi, estrazione di denti sani, squartamento, bru­ ciature di sigarette . . . Le

privazioni

Privare del cibo, dell'acqua e delle cure è parte integrante del sistema coercitivo, come, all'opposto, costringere a ingeri­ re liquidi o solidi non adatti a essere assunti come alimenti (vo­ mito, urina, feci, liquidi sporchissimi). Tra i molti supplizi per privazione è compreso il soffocamento: si chiude la testa del torturato in UJ;I sacco di plastica, oppure lo si sottopone alla pe­ na della "vasca" (la testa viene immersa fino al soffocamento in una vasca piena di vomito, urina o escrementi). Anche la pri­ vazione della mobilità è frequente (si costringe la vittima a re­ stare in piedi a lungo, per più di una giornata, senza muover­ si), così come i mezzi di contenzione dolorosi (lacci o catene serrati, avvolgimento del corpo in un lenzuolo bagnato che, asciugandosi, si restringe progressivamente). La sofferenza psi23

chica legata all'isolamento totale (che può durare giorni, setti­ mane, anche mesi) è talvolta deliberatamente accentuata da una benda sugli occhi, che rapidamente getta chi la porta in uno sta­ to di confusione, provocandogli allucinazioni e la perdita dei ri­ ferimenti spazio-temporali. "Generalmente l'isolamento arriva dopo una fase di tortura fisica," spiega Eva Forrest. 1 "Uno non crede ai suoi occhi . . . Ero quasi felice . . . Poi arriva la dispera­ zione, lo sfinimento, e la sensazione di vuoto, in cui non si rie­ sce a prevedere quello che può accadere. Ci si strugge dal.desi­ derio di parlare. Il passato mette in crisi; ritorna, ossessivo. Il presente è inaccettabile. A poco a poco cedi a chi ti interroga, che diventa una persona buona, benevola, quasi un amico. Si subisce una trasformazione inimmaginabile. I militari sanno bene che dopo una settimana di isolamento si desidera arden­ temente parlare, persino se parlare significa essere interrogati, e se ne servono come punizione: 'Non tornerò più da te!' aveva detto un carceriere a una detenuta; rimase due mesi senza ve­ derla. Dopo una cosa del genere, i prigionieri arrivano a firma­ re tutto quello che vogliono i militari."

Il terrore Il prigioniero viene terrorizzato in vari modi, in particolare con simulazioni di esecuzioni; lo si conduce sul luogo della fuci­ lazione, e gli si spara ... ma a salve. Le minacce di morte e i ten­ tativi di assassinio sono frequentemente utilizzati per instillare una paura sistematica. Queste intimidazioni riguardano non so­ lo le persone direttamente prese di mira dalla repressione, ma anche quelle a loro vicine, che vengono minacciate e, in molti ca­ si, giustiziate al posto del ricercato. Il terrore è spesso utilizzato insieme alla rabbia impotente, provocata costringendo la vittima ad assistere all'agonia pro­ lungata dei compagni detenuti. Il fatto di essere obbligati a pre­ senziare alla tortura di altri prigionieri prima di essere a loro volta torturati, inoltre, induce alcuni a sperare che il loro tur­ no arrivi il prima possibile; giungono a desiderare che "succe­ da presto, e che non se ne parli più".2 Ovviamente, se l'attesa del supplizio è insostenibile, l'inizio delle sedute di tortura di­ venta una "liberazione" .

1 Dalla testimonianza d i Eva Forrest d i fronte alla commissione medica di Amnesty Intemational, sezione francese. 2 Dalla testimonianza di un paziente.

24

La

violazione dei tabù culturali e la disumanizzazione

L'universo della tortura è costruito su un paradosso, in cui )'i mprevedibilità più totale coesiste con un codice ossessivo, ri­ goroso, netto e pensato nei minimi dettagli. Questo codice si ap­ plica al materiale distruttivo rappresentato dai gesti e dalle pa­ role dei torturatori. Quando si è stati costretti, nel contesto par­ ti colare della tortura, a mangiare escrementi, a bere urina, ad as­ sistere allo stupro del proprio padre, della propria figlia, della propria madre, a essere sodomizzati da un cane, qualche volta dive nta preferibile pensarsi come un essere effettivamente non umano. Il fatto di dover saltare come un rospo, rannicchiarsi co­ me un coniglio, abbaiare come un cane non rappresenta altro che il superamento dei confini della specie. Anche la sessualità co­ stituisce uno di questi punti di passaggio; la continua trasgres­ sione dei tabù sessuali spinge nel mondo della notte. La disu­ manizzazione viene attuata a forza di battute pesanti e volgari sulle dimensioni di un pene o sulla forma dei testicoli, e passa at­ traverso manipolazioni sessuali sempre accompagnate da scher­ zi osceni. In questo universo chiuso, stuprare è come respirare: "In ogni caso, sei solo un pezzo di carne".3 Talvolta vengono at­ tuate in maniera intenzionale e deliberatamente messe in scena rappresentazioni incestuose, come sentiamo raccontare da Jean. A ventun anni, Jean è stato arrestato per ordine del nuovo dit­ tatore che governa il suo paese. Il padre, che apparteneva a un'et­ nia rivale di quella dell'attuale presidente, era un esponente del vecchio regime. Per otto giorni, Jean è rimasto rinchiuso in una cella minuscola insieme alla madre, legata nuda davanti ai suoi occhi. "È stato quello a farmi ammalare," ripeterà continuamente durante il nostro colloquio. Da quando è arrivato in Francia non ha più avuto notizie della sua famiglia; sa però che la madre è ancora viva. Piange continuamente e si sente incapace di fare qualunque cosa. Dice di aver perso tutte le sue qualità, tutto quel­ lo che un tempo lo caratterizzava come individuo. "Prima riflet­ tevo sempre, mi piaceva molto. Adesso, non ho più pensieri." Si sente depresso, senza forze, tutto lo disgusta. Ha mal di pancia e "sente dei rumori". "Ho male dappertutto. Io . . . insomma, sono fuori di me." Le persone che sono state torturate parlano spesso della tra­ sgressione realizzata attraverso la violazione dei tabù culturali. Quando non la descrivono subito, è compito del terapeuta farla venire alla luce. 3 Frase di un torturatore riferita da un paziente. 25

Il disturbo dei riferimenti sensoriali Quanto alle condizioni di prigionia, dal punto di vista psicolo­

gico la privazione sensoriale, parziale o totale, ha effetti ancora

peggiori dell'isolamento. Il detenuto è sottoposto a diverse forme di riduzione degli stimoli sensoriali che provengono dall'ambien­ te. Questo metodo di tortura psicologica viene comunemente chia­ mato "tortura bianca", perché non lascia alcuna traccia fisica. La privazione sensoriale provoca disturbi della memoria, dif­ ficoltà di concentrazione e di orientamento nel tempo, e in alcu­ ni casi genera reazioni psicotiche. Prima di essere "suicidato", Andreas Baader è vissuto giorno e notte in una luce intensa che illuminava la sua cella in maniera perfettamente uniforme; la stan­ za era stata totalmente insonorizzata, in maniera tale che gli era impossibile persino udire i rumori che lui stesso provocava. In condizioni simili, nel giro di breve tempo la persona comincia ad avere delle allucinazioni sensoriali. Il disorientamento tempora­ le è causato anche dalla deliberata alterazione dell'orologio bio­ logico: per esempio, i pasti vengono serviti con appena due ore di intervallo, facendo credere al prigioniero che tra le due as­ sunzioni di cibo sia trascorso molto più tempo. Quando la privazione sensoriale parziale o totale si protrae per giorni o settimane, si crea un vero e proprio disturbo dei co­ dici di accesso alla realtà. "Cercavo di convincermi che tutto que­ sto non dovesse avere effetto su di me," testimonia una pazien­ te, "perché sapevo da dove nasceva e che non dovevo !asciarmi impressionare dai simboli. Vieni lasciata sola, proprio per obbli­ garti a pensare, ma è impossibile riflettere normalmente, perché loro minano proprio la tua capacità di pensare."4 Nelle segrete latinoamericane all'epoca delle dittature era estremamente fre­ quente l'incappucciamento, che talvolta si protraeva per parec­ chi mesi. Ecco un'altra testimonianza citata da Sylvia Amati, psi­ coterapeuta che ha seguito molti sudamericani rifugiati in Sviz­ zera: "Il cappuccio cancella il volto. Fino al 1972 lo portavano i torturatori, per non essere riconosciuti, ma successivamente co­ minciarono a metterlo ai prigionieri. Con il cappuccio non puoi fuggire, né vedere il tuo aggressore, né difenderti, né rispondere ai colpi. Devi camminare e ovviamente finisci per sbattere con­ tro le pareti. Con il cappuccio ti tolgono il volto, cancellano la tua identità. È come essere completamente denudati". Talvolta si ricorre al disturbo del sensorio durante i trasferi­ menti da una prigione all'altra: gli occhi sono sempre bendati, e 4 Testimonianza di un paziente riportata dalla sua psicoterapeuta Sylvia Ama­ ti; si veda Quelques réflexions sur la torture. Pour introduire une discussion psy­ chanalytique, conferenza tenuta al centro F. de-Saussure, Genève, febbraio 1975, non pubblicata.

26

spes so durante il tragitto i prigionieri vengono picchiati a san­

gue, per togliere loro ogni possibilità di individuare dei punti di

riferimento topografici.

La

scelta impossibile

Martirio o confessione? In un clima di pestaggi, tremende sof­ ferenze e follia, spesso la vittima è, oltretutto, costretta a gestire un dilemma indotto dalla situazione di tortura: parlare per met­ tere fine allo strazio, oppure "sedersi al tavolo", fornire nomi e in formazioni con la certezza che questo comporterà poi una vi­ ta di eterni, continui rimorsi. Questo momento viene strategica­ mente previsto nella maggior parte delle organizzazioni com­ battenti e dei movimenti di opposizione: ogni combattente o ri­ belle all'ordine costituito memorizza una lista di nomi o infor­ mazioni che potrà fornire quando non ce la farà più, senza per questo mettere in pericolo l'organizzazione. La scelta impossibile viene talvolta usata come tecnica di tor­ tura. È quanto accade per esempio in Assam, stato dell'India del Nord in cui l'esercito indiano ha messo a punto un metodo par­ ticolare: il detenuto viene immobilizzato da una sbarra posta die­ tro le ginocchia, in modo da farlo restare un po' piegato; non può accovacciarsi completamente, né stare in posizione eretta; nel gi­ ro di poco tempo le gambe si indeboliscono, si piegano e non re­ sistono più alla trazione esercitata dal peso del corpo. È costret­ to a cadere di lato, ma alla sua destra e alla sua sinistra ci sono dei pannelli elettrici radianti: se cade, si brucerà; qualunque sarà la sua decisione, si farà male: la scelta è tra ustionarsi il fianco sinistro o quello destro. Quando il dolore raggiunge il culmine e il torturato "sceglie", diventa il carnefice di se stesso.5 La situazione più frequente che illustra la messa in atto di que­ sta tecnica della "scelta impossibile" è quella in cui il prigioniero è obbligato a uccidere un suo compagno per continuare a vivere. Sospettato di appartenere a un movimento di opposizione tamilico nello Sri Lanka, Raji ha passato diversi mesi in un cam­ po di detenzione, dove gli era stato assegnato un macabro in­ carico: doveva, ogni giorno, seppellire i moltissimi morti in una fossa comune, costantemente controllato da un sorvegliante. Un gio rno vede muoversi gli occhi di un cadavere: l'uomo, il cui corpo era stato trapassato da un colpo di baionetta, non era an­ cora spirato. Raji ha paura di fermare la pala, immagina già il sam;

5

Da un colloquio privato con Sudhir Hendique, membro del partito dell'As­ testimonianza raccolta nel marzo 1 991 a Bombay. 27

proiettile che gli avrebbe centrato immediatamente la nuca. Ma, in preda all'orrore, non può continuare a seppellirlo: l'uomo che sta coprendo di terra chiede con un filo di voce un bicchiere d'acqua. Per una frazione di secondo vacilla . . . "Si trattava di scegliere: io o noi due. Ho scelto me stesso, e l'ho sepolto vivo." Raji pensa confusamente che questo episodio lo abbia fatto di­ ventare un carnefice.

L'instaurazione di un codice ossessivo totale come sistema Di norma, il codice ossessivo totale creato durante la de­ tenzione sancisce la divisione del mondo tra "quelli in alto", i tortura tori, i "padroni" , il regime politico al potere, e "quelli in basso", quelli che oppongono resistenza e che devono essere as­ serviti o annientati psicologicamente. Chi è recluso in prigione o in un campo di detenzione deve rispettare scrupolosamente tutta una serie di regole letteralmente assurde, illogiche, insen­ sate per chiunque. Nelle galere dell'America latina all'epoca del­ le dittature, il regolamento interno era talmente cavilloso che era impossibile ricordarlo. Tutto era controllato, deciso, disci­ plinato, anche - e soprattutto - i dettagli più insignificanti e gli atti più privati. Ogni infrazione (reale o supposta) comportava una punizione per offesa al carceriere o al torturatore. Era proi­ bito per esempio cantare, fischiare, mostrare "eccessivo affet­ to"6 nei confronti di coniugi o figli durante le visite, guardare un prigioniero di un altro settore. Si sovrapponevano inoltre diversi codici. I pazienti latinoamericani che abbiamo seguito descrivono anche sanzioni che venivano inflitte improvvisa­ mente per un comportamento che fino al giorno prima era ac­ cettato. Bisognava chiedere il permesso per tutto, e il solo fat­ to di aver osato domandare qualcosa poteva generare una pu­ nizione. Gli scioperi della fame, di cui spesso i nostri pazienti parlano, rappresentavano l'ultima risorsa per ottenere un po' di requie. Queste forme di coercizione, di qualunque grado esse siano, finiscono sempre per produrre una ritualizzazione estrema degli atti quotidiani; anni dopo, essa si tradurrà nella persistenza di comportamenti ossessivi che risultano incomprensibili per un te­ rapeuta se non vengono messi in relazione con la tortura.

6 Sono le parole di un nostro paziente cileno. Capitava che i prigionieri per questa ragione arrivassero a rifiutare le visite. Se "crollavano", offrivano agli aguz­ zini il destro per mostrare la propria superiorità e ironizznre su questo cedimento per settimane.

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Le

situazioni di pe1Versione logica

I torturatori fabbricano un vissuto di impotenza e onnipo­ tenza attraverso meccanismi di perversione logica. Le situazioni di scelta impossibile come anche i messaggi paradossali sono ti­ pic i �ella �o�alità di comu ?icaz��ne di qu �sto universo altro. Tali sJtuazwm sono ora ben Identificate: ne e stato creato un re­ pertorio basato sulle testimonianze di pazienti sopravvissuti se­ guiti da terapeuti come Maren e Marcello Vignar7 e Sylvia Ama­ ti, s e sui dati forniti dai ricercatori di Amnesty International. In uno dei rapporti pubblicati da questi ultimi sulle conseguenze fi­ siche e psicologiche della tortura e della carcerazione,9 si legge del caso di un uomo, deliberatamente ridotto alla sete, a cui era stato fatto bere del latte contenente curaro. Un altro era stato co­ stretto a "scegliere" la tortura da infliggere ai suoi compagni, pe­ na la morte. Per restare in vita, talvolta era necessario nuocere ad altri o a se stessi. In altre situazioni, il prigioniero veniva co­ stretto ad agire in contrasto con i suoi valori, le sue idee, la sua etica e la sua cultura, in cambio della vita di un parente, di un compagno o propria. In un altro caso, ogni risposta o non rispo­ sta del prigioniero forniva un pretesto per continuare la tortura, che dunque non procede "naturalmente", secondo gli impulsi del­ la volontà dei torturatori, ma diventa oggetto di una decisione del detenuto, e, qualsiasi sia la "scelta", non è mai quella giusta. Non esiste una vera alternativa. La "bontà" occasionale degli aguzzini segue anch'essa una strategia di decostruzione dell'identità. Offrono sigarette alla vit­ tima, gli fanno delle promesse - per esempio che potrà vedere i figli -, lo ricompensano per una parziale sottomissione. Con un tale metodo, non cedere è quasi impossibile. Molto spesso gli in­ terrogatori procedono in un'alternanza di fasi con polarità logi­ che inverse. C'è il torturatore "buono" e quello "cattivo", c'è la tortura "sporca" e la tortura "pulita" o "bianca"; attraverso que­ st'ultima, dal nulla viene creata la follia. A tale scopo vengono somministrate sostanze psicotrope a prigionieri "sani" che di­ ventano pazzi, e che quindi vengono messi in contatto con i loro vecchi compagni di lotta. Ecco una testimonianza raccolta dai ri­ cercatori di Amnesty InternationaP0:

7 M. e M. Vìgnar, op. cit. • S. AmaLi in J. Puget e altri, op. cit. 9 Amnesty Intemational, Les Conséquences

physiques et psychologiques de l'e mprisormement et de la torture. Rapport de séance, convegno scandinavo sulla tortura, Lysebu (Osio), 5-7 ottobre, Doc. Amnesty, SE 77 563, 1973. 10 Amnesty International, Aspects psychiatriques de l'emprisonnement en Uru­ guay, Éditions francophones d'Amnesty lntemational, Paris 1 983. 29

"Nonostante questo costituisse una tortura supplementare che avrebbe contribuito alla nostra distruzione psicologica, la maggior parte di noi ha accettato di dividere la cella con un com­ pagno impazzito, per evitare di essere puniti con la reclusione in una cella di punizione . . . Vivere giorno e notte con un compagno che ha perso la ragione è molto difficile, se non sei psichiatra o infermiere. Non sai cosa fare. Perdi la capacità di controllo, di restare vigile, e cosl ti metti in pericolo facendo cose inutili o ri­ schiose. Diventi sempre più nervoso, la tua attenzione è polariz­ zata dalla paura che di notte, mentre dormi, il tuo compagno si suicidi. È molto duro assistere a una crisi di follia, vedere i tuoi amici vagare per i corridoi e sbraitare per ore . . . è molto difficile anche sentire i guardiani che li prendono in giro". La medicazione non terapeutica era una pratica comune in America latina all'epoca delle dittature e nei vecchi stati dell'Est. Ecco un'altra testimonianza raccolta dai ricercatori di Amnesty International, quella di un ex prigioniero politico uruguayano senza alcun disturbo mentale a cui sono stati somministrati dei farmaci psicotropi: "Camminavo da un angolo all'altro della cella. Dopo una mezz'ora, cominciai a sentire prurito in tutto il corpo, e un nodo alla gola. Avevo forti palpitazioni. La mia mandibola iniziò a irri­ gidirsi. Allora mi sedetti per terra. Non riuscivo più a pensare, l'u­ nica cosa che ero in grado di fare era aspettare che mi dessero un materasso per dormire. Il formicolio alle dita diventò sempre più forte e cominciai ad avvertire un dolore intenso alle articolazio­ ni, in particolare a quelle delle dita e dei gomiti. Il giorno dopo mi svegliai tutto intorpidito. Quella notte non mi avevano dato il ma­ terasso, e non riuscivo a ricordare con precisione cos'era succes­ so, ero completamente sfinito . . . quando mi riportarono in cella, mi accorsi che cominciavo a vedere tutto sfocato, sentivo di nuo­ vo forti dolori alle articolazioni di tutto il corpo e morivo di se­ te . . . non sapevo che fare. Mi sedevo ed ero tutto scombussolato. Mi alzavo in piedi e avevo dolori in tutto il corpo. Mi lacrimava­ no gli occhi. A un tratto, poi, mi sentii bruciare le piante dei pie­ di. Mi tolsi le scarpe e il contatto con le mattonelle fredde mi die­ de molto sollievo. Ma immediatamente dopo iniziarono a bru­ ciarmi le palme delle mani e le punte delle dita, come se fossi sta­ to ustionato con l'acido . . . per giorni e giorni mi sentii fisicamen­ te annientato. Non riuscivo neanche a pulirmi quando andavo in bagno, perché non potevo muovere le braccia all'indietro. Non ero in grado di concentrarmi sui gesti più automatici per più di qual­ che secondo. Quando pensavo a qualche cosa, altri pensieri si so­ vrapponevano. Avevo la bocca costantemente aperta, a causa del30

la paralisi alla mandibola, e qualche volta la lingua si rovesciava.

Mi iniettarono del Calmansial per quattro mesi. . . Il Calmansial provocava un disorientamento totale che durava circa quattro o cinque ore. Qualche volta mi capitava di essere lucido, totalmen­ te cosciente, per una ventina di minuti. Era sicuramente la peg­ gi ore delle torture . . . tutto questo succedeva nel 1 975 . . . ma anco­ ci sono dei momenti in cui mi sento improvvisamente co­ ra o ggi me allora, e sono totalmente incapace di concentrarmi, non sono .11 in grad o di leggere, non riesco più a dormire" Nei regimi totalitari, ogni divergenza rispetto all'ordine so­ cial e stabilito è considerata una devianza mentale, una malattia, che procede dalla natura del soggetto. Il ricovero psichiatrico for­ zato rientra nella categoria della tortura bianca. Nell'ex Unione Sovietica questa procedura è stata resa possibile dallo slittamento nosografico verso la sociodiagnosi. Gli psichiatri sovietici, for­ matisi in un paese in cui l'ideologia sostituiva il pensiero, giudi­ cavano patologico l'allontanamento dalla norma; nella loro no­ sografia psichiatrica, i sovietici avevano aggiunto la "schizofre­ nia torpida": questa malattia era descritta come un disturbo men­ tale grave all'origine del comportamento antisociale degli oppo­ sitori politici, caratterizzata da aggressività, demotivazione, de­ lirio interpretativo e "perdita del senso civico". 12 È facile capire come mai gli ex detenuti originari dell'Unione Sovietica siano an­ cora più diffidenti della generalità della popolazione verso la psi­ chiatria; spiano i segnali dell'intenzionalità del loro interlocuto­ re, cercano, al di là delle sue parole, di scoprire la sua teoria, il suo sguardo sull'altro. Secondo le testimonianze di persone che ho seguito in psi­ coterapia, l'orrore è spesso accompagnato da risa, umorismo, ironia e derisione. I.:umorismo scaturisce da uno slittamento del senso comune delle parole e delle cose, che in quel luogo parti­ colare assumono un significato diverso. Per esempio, in prigio­ ne venivano affibbiati a tutti dei soprannomi che scatenavano l'ilarità generale. I nomignoli dei prigionieri erano legati alle tor­ ture peggiori che avevano dovuto subire, come "l'impiccato", o "l'arrostito"; anche ai torturatori venivano attribuiti dei sopran1 1 Testimonianza dell' l l aprile 1 982, registrata alla commissione medica di Amnesty International, sezione francese. 12 Parleremo più avanti della partecipazione degli psicologi e dei medici al­ la tortura e alla formazione dei torturatori. Guardiamoci però dal puntare il di­ to contro quegli psichiatri e di fare poi del facile anticomunismo. Nell'epoca del­ la g lobalizzazione sono sempre più numerosi gli psicologi e gli psichiatri che con­ Si derano malati gli emarginati della nostra società. La psicoterapia è infatti sem­ pli c emente una rieducazione che vuole mettere in grado di reinserirsi nel siste­ ma la persona che non si conforma più al modello dominante.

31

nomi, come "Juliette" o "manina d'oro". "Qualche volta quando torturavano c'era un clima comico, e mentre li supplicavo di smettere ridevo," ci racconta un paziente. Marika Lindbom-Ja­ cobson, psicoterapeuta che lavora con le vittime della tortura in Svezia, cita a questo proposito il caso analogo di uno dei suoi pazienti: "Il mio corpo era completamente estenuato. Ridevo e i torturatori si mettevano a ridere anche loro, dicendo che po­ tevo sicuramente sopportare ancora. Era come se non fossi pre­ sente nel mio stesso corpo". 13 Le tecniche di tortura non sono affatto il prodotto dell'imma­ ginazione morbosa e sadica di torturatori reclutati per la loro cru­ deltà, ma sono, al contrario, deliberatamente stabilite. "Si ha la sensazione che mirino a una serie di punti sensibili ben noti e clas­ sificati. Tutto è pensato attentamente per scoprire l'aspetto più vulnerabile di ciascuno. Per esempio, una ragazza molto popola­ re nel gruppo per la sua bellezza e che durante gli interrogatori si era mostrata particolarmente forte fu fatta uscire di prigione e portata dai suoi genitori perché la vedessero umiliata, sfigurata, con i denti strappati."14 In questa testimonianza di Irma, riporta­ ta dalla psicoterapeuta Sylvia Amati, è chiaro l'utilizzo delibera­ to del terrore provocato dall'orrore ispirato. Attraverso l'annien­ tamento dei singoli si attaccano i valori collettivi di un gruppo. L'universo della tortura costituisce uno strano laboratorio di comportamenti umani in cui emergono fenomeni che possono essere individuati unicamente in circostanze di questo genere. Tali fenomeni, che sembrano quantomeno paradossali, non pos­ sono essere decodificati attraverso una lettura basata sugli affet­ ti. Essi seguono processi logici che hanno a che fare con il mi­ metismo, il contagio e la diffusione quasi automatica dei com­ portamenti. Questi processi, che si innescano all'insaputa dei pro­ tagonisti, sono visibili in contesti quali quello della tortura pro­ prio perché caratterizzati da una logica di tipo meccanico che ap­ partiene all'essere vivente. Simili metodi fanno emergere ciò che l'uomo ha di meccanico, spogliato di ogni complessità psicolo­ gica e affettiva. Qualunque sia il tipo di tecnica utilizzata (tortu­ re fisiche o psicologiche), si punta sempre alla stessa cosa, ossia ad "aprire la testa". . .15 senza richiuderla, disfare senza ricostrui­ re, separare senza riunire. È attraverso questo processo che si cerca di ridurre la persona allo stato di "umano universale". La 13 14

Da una lettera. Testimonianza riferita da Sylvia Amati durante la sua conferenza; si ve­

da Quelques réflexions sur la torture. Pour introduire une discussion psycha­ nalytique, ci t. 15 I.:espressione è di Lucien Hounkpatin. Si veda T. Nathan, L. Hounkpatin,

Oro lè. lA puissance de la parole . . . en psychanalyse et dans les systèmes thérapeu­ tiques yorubas, in "Revue française de psychanalyse", 3, 1 993. 32

una macchina che serve a fabbricare l'identit o rtu ra .è appunto ,u mversal e. 1 6 1 o c ,

Ridu rre la persona all'universale Quali sono i meccanismi che vengono attivati durante la tor­ e che hanno come scopo la riduzione all'universale? Intenzionali o meno, le marcature corporali o psicologiche provocate dalla tortura hanno una proprietà specifica: generare tras formazioni. Questo processo di trasformazione è, di solito, cu ltu ralmente organizzato, proprio perché le tecniche utilizzate son o di un'efficacia temi bile. Tuttavia, ciò che una cultura orga­ ni zza in una società attraverso rituali iniziatici ben determinati, , iene realizzato durante la tortura in maniera "selvaggia" ma de­ l i berata, con lo scopo di destrutturare. Ogni metodo di tortura è i n fatti una tecnica di marcatura che agisce come un fattore di trasformazione. Le marcature corporali sono, di solito, direttamente associa­ te all'alleanza, come avviene per esempio nel caso della circon­ c isione e di alcune scarificazioni rituali. Un taglio costruito cul­ turalmente porta a una nuova collocazione nel gruppo cultura­ le. Nella tortura, le marcature corporali sanciscono la rottura del­ l'alleanza con il gruppo (religioso, etnico, politico) al quale ap­ partiene, permanentemente o provvisoriamente, la vittima. 17 In seguito, eventi precisi possono riattualizzare questa rottura di al­ leanza sostituendosi alla marcatura traumatica avvenuta duran­ te la repressione politica: è il caso, per esempio, degli anniversa­ ri degli arresti, del periodo delle torture, del fermo, del processo, della liberazione, della partenza per l'esilio . . . Allo stesso modo, anche altri anniversari ricordano ulteriori rotture di alleanza con il gruppo di appartenenza, come quelli delle crisi personali ri­ s pet t o alla militanza, della cessazione dell'impegno politico o del pericoloso abbandono della vita di combattente. La tortura fisica agisce attraverso la messa in funzione di ope­ ra t ori di trasformazione in punti del corpo che sono precisamente punti di scambio. In maniera omotetica, questo si traduce a li­ �·el_lo psichico in una lesione delle "superfici di separazione" tra ' d tversi spazi psichici che vengono così attaccati, alterati dai metu ra

sa

16 Tutte le persone che hanno conosciuto la tortura si comportano alla stes­ m an iera, si sentono diversi, al di fuori dei codici del loro universo familiare,

lnd isc uti bilmente "separati" dagli altri, a qualsiasi cultura esse appartengano. 1 ' Si veda F. Sironi, Psychopathologie de la torture: Les victimes et leurs bour­ . Nature, fonction et singularité d'un traumatisme délibérément induit, tesi di r �ttorato in psicologia clinica e psicopatologia discussa nel 1 994, relatore pro e s sor T obie Nathan, Université Paris-vm.

J

aux.

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33

todi di tortura utilizzati per modificare le modalità del pensiero. Agendo attraverso le marcature corporali, si manipola la sostan­ za psichica, considerata come un oggetto. Spesso, inoltre, la ri­ dondanza tra la marchiatura fisica e la corrispondenza a livello dei processi di pensiero viene deliberatamente correlata. Mentre infieriscono sulla vittima, i carnefici pronunciano parole che po­ tremmo definire attive, "parole agenti", 18 che sicuramente po­ tenziano l'effetto distruttivo della tortura. All'interno di alcuni gruppi culturali, la tortura rafforza l'ap­ partenenza. È quanto accade, per esempio, quando le marchia­ ture corporali operate dal nemico rappresentano le stigmate del­ la persecuzione. Il sangue dei martiri ha allora proprio la fun­ zione di definire il gruppo, di restituirgli vitalità in un momento preciso della sua storia. Questo aspetto è senz'altro da esplorare e da tenere in considerazione nell'approccio terapeutico alle vit­ time di tortura e repressione politica. La

trasfonnazione

Le corrispondenze tra marcatura fisica e trasformazione psi­ chica sono riscontrabili, nella tortura, in maniera quasi speri­ mentale. Ciò che accade in quel contesto conferma quanto già mostrato da Tobie Nathan a proposito delle logiche di trasfor­ mazione presenti nelle terapie tradizionali.1 9 Durante la tortura, vengono attivati degli agenti di modificazione psichica come l'in­ versione (dentro/fuori, scorza e nocciolo, inversione orizzontale o a specchio ecc.), la prevalenza di un ordine binario, e la ridon­ danza. A questi meccanismi se ne aggiunge un quarto, la viola­ zione dei tabù culturali.

L'inversione: la tortura è un invertitore. Dando alle sostanze interne un carattere di extraterritorialità e a quelle esterne uno status di intratemtorialità, essa rende ogni limite permeabile. Nel primo caso i torturatori marcano il corpo stesso con il meccani­ smo della confessione, ossia rendendo pubblica (facendo uscire fuori) una parola nascosta. Nel secondo caso si agisce attraver­ so l'inoculazione di sostanze estranee al corpo; qualcosa di ester18 Come descrivono Tobie Nathan e Lucien Hounkpatin in Oro /è. La puis­ sance de la parole . . , ci t. 19 T. Nathan, L'insupportable perfection de l'ceuf, in "Nouvelle Revue d'ethno­ psychiatrie, l 3 , 1 989. Si veda anche T. Nathan, La transmission des contenants forme/s. in D. Anzieu, L'Épiderme nomade et la peau psychique, Apsygée, Paris 1 990; tr. it. L'epidermide nomade e la pelle psichica, Raffaello Cortina, Milano 1 992. .

[Nell'edizione italiana non è contenuto il saggio di Nathan, anche se in teoria si tratterebbe di una traduzione integrale. (N.d. T.)]

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no viene a operare una modificazione interna. Attraverso un mec­ canismo di inversione, le sostanze che normalmente stanno fuo­ ri dal corpo vengono a forza introdotte o reintrodotte nel corpo: è il caso dell'ingestione di liquidi e solidi che normalmente ven­ gono evacuati (vomito, feci, urine). L'effetto delle scosse elettri­ che e delle bruciature di sigarette segue una logica simile. L'in­ versione confonde tutto ciò che fino ad allora era considerato "lo­ gico" , generando in questo modo una effrazione psicologica. Quando non vi è nulla che metta fine a questo meccanismo sem­ pre attivo, gli effetti dell'inversione rimangono attivi per molto tempo; essi sono perfettamente i ndividuabili nelle persone trau­ matizzate dalla tortura, con l'interiorizzazione del torturatore e l'assunzione dell'intenzionalità dei suoi atti.20 Le zone di scam­ bio sono allora irrimediabilmente deturpate dal marchio della sporcizia.21 Le forme soggiacenti a certi metodi di tortura sono simili a quelle che sottendono alcuni riti magici, nel senso che sostanze corporali appartenute alla persona presa di mira ven­ gono manipolate o staccate dal corpo (unghie, capelli ecc.). Allo stesso modo, anche l'ingestione di materiali che in origine pas­ sano dall'interno all'esterno del corpo (come il sangue o l'urina, per esempio) è un procedimento comune nelle terapie tradizio­ na!i22 e nei riti di iniziazione. 23 La prevalenza di un ordine binario: Maren e Marcello Vignar descrivono bene questo aspetto in Exil et torture,24 in particolare attraverso il caso di Pedro, un loro paziente: "Il mondo delle sue convinzioni, prima solido e ben definito, si trasformava in un'om­ bra sfocata, vaga, quasi inesistente, che si impregnava a poco a poco della sua sporcizia, della sua urina, dei suoi escrementi. Quelle idee e il suo disgusto si mescolavano gradatamente e la sola cosa che restava chiara era la presenza dell'ufficiale, la sua uniforme impeccabile, i suoi stivali lustri [ . . . ]. L'ordine del mon­ do trasmesso dall'ufficiale gli penetrava nella carne. Ciò che era immediato ed evidente (per Pedro) è che esistevano due tipi di uomini: c'erano quelli puliti, il cui riso mostrava che erano vivi, che manifestavano sicurezza nelle voci e nei gesti, e che in ogni azione quotidiana, come il bagno, il pasto o il riposo, avevano il 20 Parleremo più avanti dell'interiorizzazione del torturatore e della ricerca dell'intenzionalità del torturatore come percorso terapeutico. 2 1 Si veda M. Douglas, (tr. fr.) De la souillure. Essai sur les notions de pollu­ tion et de tabou, Maspero, Paris 1967. 2 2 Si veda T. Nathan, Le Sperme du diable: éléments d'ethno-psychothérapie, PUF, Paris 1988. 2 3 Si veda A. Van Gennep, Les Rites de passage ( 1909), Picard, Paris 198 1 ; tr. it. I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 24 Si veda M. e M . Vignar, op. cit.

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potere di dare o di togliere; poi c'erano quelli sporchi, che puz­ zavano, e strisciavano gemendo in quei porcili. I primi rappre­ sentavano il trionfo, i secondi l'abisso" .25 Sotto tortura, la visione del mondo si articola tra il pulito e lo sporco, tra il buono e il cattivo. La marcatura della carne ha una funzione attiva nell'instaurazione di questo ordine binario come modalità di percezione del mondo. La ridondanza: "Rimarrà spezzato dentro, perché noi sap­ piamo agire senza lasciare tracce. Se sopravvive, non dimenti­ cherà mai il prezzo della sua audacia" . 26 Tito de Alencar non poté mai dimenticare queste parole pronunciate dai suoi aguzzini men­ tre lo torturavano: continuarono a tormentarlo, e lui trovò il si­ lenzio solo nella morte. La ridondanza, ossia la corrispondenza esatta, parola per pa­ rola, tra marcatura fisica e psicologica, crea l'effrazione psichi­ ca. Quando i torturatori pronunciano frasi come "Tu non sarai mai più un uomo" mentre applicano della corrente elettrica al pene della vittima, inducono in quest'ultima una modificazione brutale e talvolta irreversibile della rappresentazione dell'ordine delle cose. Ciò che può essere un timore fantasmatico diventa una realtà: attraverso la ridondanza, il pensiero e il fantasma sono cortocircuitati e sovrapposti. Agisce solo l'intenzionalità dell'a­ guzzino, e questo frantuma tragicamente ogni sensazione di ave­ re un'identità propria. Nella vita comune, ogni atto che riporta la persona all'idea di avere una sua identità diventa allora ogget­ to di un attacco, di un tentativo di annientamento. Il pensiero dei torturatori ha invaso il suo spazio psichico: "Se te la cavi, dentro di te deve rimanere in vita solo la scimmia che è nell'uomo. Fa­ remo sparire in te tutto quello che fonda la tua singolarità" . La violazione dei tabù e dei divieti culturali: a volte la tortura costringe a violare i tabù culturali per provocare una rottura con gli universi di riferimento abituali. In Tibet, per esempio, alcuni monaci buddhisti vegetariani sono stati obbligati dalle autorità cinesi a uccidere, cuocere e consumare carne animale.27 La violazione di tabù culturali si realizza inoltre quando du­ rante la tortura viene deliberatamente utilizzato in maniera "pro­ fana" qualcosa che culturalmente appartiene a un rituale tera­ peutico o iniziatico. Nello Sri Lanka, per esempio, l'assunzione di urina o i suffumigi con il peperoncino sono stati impiegati co25

lvi, p. 43. J. - C. Rolland, Un homme torturé: Tzto de Alencar, in "Nouvelle Revue de psychanalyse", 33, 1 986. 27 Testimonianza di un monaco tibetano durante la trasmissione "Transit", in una puntata dedicata al Tibet andata in onda il l 5 ottobre 1 993. 26

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me metodi di tortura contro i tamil. Ma i suffumigi con il pepe­ roncino vengono effettuati durante i rituali di possessione per cacciare lo spirito dal corpo del malato, e sempre nello Sri Lanka l'assunzione di urina è molto diffusa nelle terapie tradizionali. Queste pratiche al di fuori del contesto abituale vengono esegui­ te come torture. La trasgressione di divieti e tabù culturali è realizzata anche attraverso l'attualizzazione di miti, come per esempio quello di Edipo. Jean, di cui abbiamo già parlato, e che ha passato otto giorni incatenato in una cella, costretto a guardare sua madre nu­ da accovacciata davanti a lui, è diventato cieco. Così dunque, che accada nel quadro dei rituali iniziatici o della tortura, la tra­ sgressione di tabù o di divieti culturali apre l'accesso a un mon­ do altro, che sta oltre il visibile.28 Come viene praticata nel mondo attuale, la tortura è una tec­ nica traumatica la cui funzione principale, al di là di strappare informazioni ed estorcere confessioni, è anche quella di azzera­ re culturalmente. Essa riduce la persona alla sua componente universale e la priva deliberatamente della sua singolarità e dei suoi legami. Attraverso il singolo che viene torturato si vuole col­ pire il gruppo di appartenenza: si attacca la "parte collettiva" del­ l'individuo, quella che lo unisce a un gruppo scelto come bersa­ glio dall'aggressore, scardinando l'articolazione tra l'individuale e il collettivo. Il gruppo di appartenenza scelto come bersaglio può essere di vario tipo: associazione culturale, partito politico, cellula rivoluzionaria, congregazione religiosa, setta, etnia, sot­ togruppo di un'etnia, genere sessuale, razza, ceto sociale . . . Ma se è vero che questi gruppi sono molto vari, essi possiedono tutta­ via una caratteristica comune: sono tutti gruppi minoritari in se­ no a uno stato e non aderiscono alle idee collettive condivise dal­ la maggioranza. La tortura viene praticata su larga scala quando le leggi repressive e discriminatorie di uno stato non sono suffi­ cienti a eliminare chi assume posizioni diverse. Essa è lo strumento più visibile, perché il più impressionan­ te, dei differenti aspetti che il deliberato appiattimento cultura­ le può assumere. È lo strumento del rifiuto, dell'annullamento di ogni specificità, culturale e individuale, e riduce l'essere umano al nucleo, alla sua componente più universale. In Se questo è un uomo Primo Levi descrive così questo processo e l'intenzionalità che era alla base della creazione del campo di Auschwitz: "Si rin­ chiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, con­ dizione, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferio­ re a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore 28 Torneremo su questo punto più

avanti.

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avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa sia acquisito nel comportamento dell'animale-uomo di fron­ te alla lotta per la vita".29 L'effetto di deculturazione della tortura emerge anche da quan­ to segue: qualunque sia l'origine culturale dei pazienti,30 il vissu­ to legato alla tortura e i disturbi da essa provocati si manifesta­ no in maniera simile. Una vittima della tortura turca o cilena as­ somiglia più a una vittima della tortura marocchina che a un com­ patriota turco o cileno che non è stato torturato o che non si è scontrato con la violenza politica. "[ . . ] in situazioni di stress [ . . . ]," scriveva Georges Devereux, "e sotto l'effetto delle tensioni, il 'vec­ chio Adamo' riappare più o meno nella sua primitiva nudità, spo­ glio dei sostegni e delle catene della cultura."31 La tortura mo­ derna fabbrica metodicamente gli oggetti che la scienza vorreb­ be avere a disposizione, ossia esseri umani spogliati di tutto ciò che li differenzia e che ostacola una descrizione dell'uomo come essere universale. "Quello che hanno fatto al mio corpo," mi spie­ ga un paziente, "non è nulla in confronto al resto. Per un perio­ do di tempo, anche lungo, hai male, molto male, ma la cosa peg­ giore è quello che resta . . . la certezza che volessero veramente aprirti la testa." Abbiamo visto come a tale scopo vengano im­ piegate tecniche ben precise. L'analisi di quello che, nella tortu­ ra, è all'origine delle modificazioni psichiche ci mostra chiara­ mente che il processo di tortura è una tecnica di inoculazione del­ l'intenzionalità di tutto un gruppo, tramite l'interfaccia costitui­ ta dai torturatori, in un altro gruppo, tramite un'altra interfac­ cia, ossia il torturato. L'utilizzazione di queste tecniche lascerà nelle vittime effetti visibili che ora descriveremo. .

29 Primo Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 88. 30 La maggior parte dei pazienti che ho trattato fino a ora provengono da Sri Lanka, Cambogia, Kurdistan turco, Turchia, Algeria, Tunisia, Marocco, Pakistan, Bosnia, Serbia, Romania, Argentina, Cile, Mauritania (Peuls), Guinea Bissau (Ba­ lantes e Mandjakes), Liberia (Maino), Ghana (Twi), Guinea-Conakry (Malinkés), Sierra Leone (Timinis). 31 G. Devereux, Ethnopsychanalyse complémentariste, Flammarion, Paris 1 972, p. 92; tr. it. Saggi di etnopsicoanalisi complementarista, Bompiani, Milano 1 975, p. 9 1 .

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3 . Clinica della distruzione

Nelle persone che hanno subìto torture, anche molti anni do­ po i fatti la sofferenza è sempre viva, intatta. Sta lì a ricordare che dentro di loro qualcosa è stato rotto, spezzato, e che il corso della vita si è interrotto. I pazienti traumatizzati deliberatamen­ te dall'uomo fanno emergere problematiche particolari e posso­ no gettare in una grande perplessità i terapeuti che operano in strutture ordinarie; questo prova la natura totalmente ibrida, ati­ pica, delle loro sofferenze, che non possono rientrare in nessuna delle categorie nosografiche abituali. Un giorno, al reparto di psichiatria in cui ho lavorato per mol­ ti annP arrivò una persona alquanto bizzarra, che chiamerò Lu­ minitza.2 Luminitza era originaria di un paese dell'Est e non parlava una parola di francese. Aveva quarantacinque anni, ma sembra­ va senza età e vagava tristemente lungo il corridoio, rasente i mu­ ri; la pelle diafana, si nascondeva in un vestito azzurro cielo, trop­ po grande per lei, e camminava senza fare nessun rumore. Sulle spalle le ricadeva una treccia sale e pepe; quando alzava lo sguar­ do, i suoi occhi erano azzurri: occhi che non guardavano nulla, solo il vuoto che lei si portava dentro. Luminitza non si lasciava vedere e non si faceva sentire: non parlava, sussurrava. Suo fratello, rifugiato politico in Francia da qualche anno, aveva chiesto che Luminitza venisse ricoverata in un ospedale psichiatrico perché era improvvisamente diventata aggressiva con la figlia e con le persone che la circondavano, in maniera total­ mente incomprensibile. Aveva preso a sassate i vicini che, esa­ sperati, avevano segnalato varie volte la cosa alla polizia. Il fradi Ville-Évrard, reparto del dottor A. Abraham. Nella sua lingua significa "piccola luce".

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tello di Luminitza non riusciva a capire che cosa le stesse succe­ dendo, non la riconosceva più, per lui era diventata un'estranea. Al suo arrivo in Francia l'aveva trovata strana, completamente cambiata. Quando parlava era per ripetergli instancabilmente che voleva lavorare la terra. Non faceva niente, non domandava niente. Il fratello aveva tentato più volte di portarla da uno spe­ cialista, ma senza risultato, perché Luminitza si opponeva con forza. Lui collegava questo rifiuto assoluto di rivolgersi a un me­ dico alle "cure psichiatriche" subite nel suo paese. Più volte ci chiese: "Ditemi . . . Dawero . . . Si può far diventare pazza una per­ sona? Guarirà? Che cose le ha fatto la Securitate?3 Che cosa le hanno fatto all'ospedale psichiatrico? . . . Vi supplico, tiratela fuo­ ri da questo incubo". Al suo arrivo in reparto, lei si rintanava nella sua stanza, o vagava con un sacchetto di plastica che riempiva di spazzatura di ogni genere e poi impacchettava con grande cura in pezzi di carta raccolti qua e là: bucce di mele, di banane, mozziconi di si­ garetta, foglie secche, cartacce . . . Alcuni di questi rifiuti li rega­ lava allo psichiatra responsabile di quell'ala. Luminitza coinvol­ se molto in fretta il personale del reparto. Ma ogni tentativo di ricostruire il tracciato della sua vita per dare un senso a quel fol­ le sgomento sembrava votato al fallimento. Secondo i terapeuti, Luminitza manifestava un indescrivibile terrore, a cui si accom­ pagnavano la diffidenza e il rifiuto della figlia, allora ventenne, per la psichiatria. Dal suo arrivo in Francia, ormai molti anni prima, Luminit­ za non era mai uscita di casa. Prima di lasciare il suo paese ave­ va inoltrato molte domande alle autorità competenti perché le fosse riconosciuto il diritto di raggiungere gli altri membri della sua famiglia. Era l'ultima di loro a lasciare il paese, dal momen­ to che il fratello e la madre si erano stabiliti in Francia già da lun­ go tempo. Per l'esilio anticipato dei suoi cari, Luminitza aveva pa­ gato un prezzo altissimo: la follia. Le persecuzioni, le intimida­ zioni, le umiliazioni e i continui fastidi erano cominciati allora, e si erano protratti per due anni, senza tregua. Un giorno, il ma­ rito di Luminitza era "sparito", ufficialmente investito da un'au­ to; questa, almeno, era stata la versione della polizia, ma lei non aveva mai più rivisto nemmeno il suo corpo. Viveva, giorno do­ po giorno, con questa domanda: è vivo o è morto? Non lo avreb­ be mai saputo. Un anno dopo, la Securitate l'aveva prelevata e in­ ternata con la forza in un ospedale psichiatrico, dove era rima­ sta "detenuta" per cinque settimane, e sottoposta a vari tratta­ menti, in particolare a elettrochoc non terapeutici e a ingestioni forzate di sostanze psicotrope in dosi massicce. 3

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Polizia politica.

Durante i colloqui all'ospedale psichiatrico, in Francia, Lu­ minitza restava seduta tra la figlia e la madre, le braccia abban­ donate lungo il corpo, completamente apatica. Di tanto in tanto, guardava, toccava, grattava e sfregava le pareti, o raccoglieva del­ la polvere sul pavimento. Diceva di fare le pulizie. Qualche vol­ ta, si gettava sulla maniglia della porta e cercava disperatamen­ te di fuggire. Anche la figlia manifestava durante i colloqui una paura mal dissimulata: traduceva abilmente le domande dei te­ rapeuti alla madre in modo che lei potesse rispondere semplice­ mente "sì" o "no". All'inizio non era il caso di lavorare con un in­ terprete estraneo alla famiglia, le due donne erano troppo diffi­ denti. Come ci si può fidare, parlare liberamente, quando tra gli esiliati si nascondono agenti dei Servizi segreti del proprio pae­ se che si fingono rifugiati politici in Francia? Alle labbra di Lu­ minitza salivano continuamente dei Leitmotiv che troncavano di netto ogni tentativo di individuare dei nessi: "Lavoro, lavoro, la­ voro," ripeteva in francese. Sua figlia, con le mani sui fianchi, o tenendosi l'enorme borsa mezza vuota stretta al petto, traduce­ va con tono aggressivo: "Dice che vuole lavorare. Nell'immondi­ zia. Non c'è altro. Deve uscire. Non c'è altro. Non ho niente da dire". Tirava il fiato, visibilmente spossata. Luminitza non smet­ teva di farsi il segno della croce, a cui aggiungeva due gesti: si toccava la fronte e la spalla destra. Qualche tempo dopo, un membro dell'équipe dei terapeuti chiese a Luminitza della sparizione di suo marito. Lei rispose, costernata, di non aver mai avuto un marito. Ogni volta che af­ frontavamo questo argomento o quello del ricovero psichiatrico nel suo paese di origine si metteva a salmodiare senza tregua in francese: "Lavoro, lavoro, lavoro". Per mangiare, Luminitza si nascondeva sotto il letto. Non so­ gnava e non aveva incubi. Rispondeva uniformemente a ogni sol­ lecitazione dell'équipe con le parole "malat, malat", "tabak, ta­ bak", o "raccolgo foglie e mozziconi. Voglio lavorare nell'im­ mondizia".4 Chiedemmo all'interprete5 se per caso volesse indi­ care "un fracco di botte".6 "Certo," rispose, "nella nostra lingua si dice tabatchik. " Ricordare è doloroso. Luminitza cominciò a soffrire di dolo­ ri diffusi in tutto il corpo, soprattutto alle articolazioni, di for­ tissimi mal di denti e di mal di testa insopportabili. Riusciva a ri­ portare alcuni awenimenti biografici, ma in maniera estrema4 Pmnuncia queste parole nella sua lingua.

5 Dopo un po' di tempo Luminitza accettò la presenza di un'interprete, scel­ ta insieme a lei. Non possiamo ripercorrere in questa sede tutto il suo iter tera­ peutico. 6 Gioco di parole intraducibile basato sull'espressione francese passage à ta­ bac, che vuoi dire per l'appunto "un fracco di botte". [N.d. T.]

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mente confusa. Ordinarli cronologicamente le era ancora im­ possibile. Adesso sapeva di essere in Francia, ma tra "qui" e "là" c'erano continue sovrapposizioni. Per lei, il fratello viveva anco­ ra là, e il suo alloggio in Francia era pagato da Dio: "Ha sempre pagato tutto, si è sempre occupato di tutto . . . Ogni tanto mi dà del sapone," aggiungeva. "Luminitza, ma allora perché mangia sempre sotto il letto? Adesso ci conosce, non deve più avere paura di noi," le disse Mo­ nique, un'infermiera del reparto. Erano passate tre settimane da quando Luminitza era stata ricoverata. "Sì, mangio la zuppa," rispose lei. Nella sua lingua, esiste un'omofonia tra "sotto il letto" e "zup­ pa", e, come spesso accade, lei rispose facendo riferimento al­ l'altro significato della parola, quello nascosto. "È finito l'inter­ rogatorio, posso andare adesso?" domandava tremando. Un gior­ no, a una domanda dello psichiatra lei improvvisamente non trat­ tenne più le urine. Sua figlia, che presto aveva cominciato a fi­ darsi, raccontò: "Non volevo parlarvene, quello che le hanno fat­ to subire è troppo umiliante". A B., Luminitza era uscita dall'ospedale psichiatrico comple­ tamente trasformata. Era molto agitat