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Italian Pages 197 [202] Year 2016
MIMESIS / CINEMA n. xx
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Raffaele De Berti, Università degli Studi di Milano Massimo Donà, Università Vita-Salute San Raffaele Roy Menarini, Alma Mater Studiorum Università di Bologna Pietro Montani, Università “La Sapienza” di Roma Elena Mosconi, Università degli Studi di Pavia Pierre Sorlin, Università Paris-Sorbonne Franco Prono, Università degli studi di Torino
PAUL SCHRADER IL CINEMA DELLA TRASCENDENZA a cura di Alberto Castellano
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Cinema, n. Issn: 2420-9570 Isbn: © 2016 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935
INDICE
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di Alberto Castellano I di Vito Attolini
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PREFAZIONE
Paul Schrader ha occupato una posizione di rilievo nel movimento che fu definito New Hollywood o American New Wave, una fase di profondo rinnovamento del cinema americano che si può datare tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi anni Ottanta e che vide coinvolti cineasti del calibro di Martin Scorsese, Brian De Palma, Robert Altman, Steven Spielberg, George Lucas, Francis Ford Coppola, per non citarne che alcuni. Schrader vi apporta, prima come sceneggiatore e poi come regista, il rigore di uno stile educato sul cinema classico soprattutto europeo e al tempo stesso, in apparente contraddizione, il gusto della rivisitazione, talvolta felicemente sperimentale, dei generi, dall’horror al noir al mélo. Soprattutto egli innesta nel corpo del cinema americano storie forti e ruvide, personaggi intrappolati in vicende fatali, sospesi tra colpa e redenzione, in una visione che assume spesso una coloritura mitologica, melvilliana, e perfino teologica. La sua carriera prosegue poi nel costante, strenuo combattimento con le regole e le costrizioni di Hollywood, tra alti e bassi, sempre però sostenuta da una lucida consapevolezza delle proprie scelte. Cresciuto in una famiglia di fede calvinista e di rigida osservanza, Paul, fatto staordinario, entra per la prima volta in una sala cinematografica all’età di diciassette anni. L’assenza di un immaginario filmico legato all’infanzia e all’adolescenza spiega, secondo lo stesso Schrader, il suo approccio al cinema, che è di natura essenzialmente intellettuale e che lo spinge a diventare un critico e un teorico prima di passare alla sceneggiatura e poi alla regia. Quale sia la natura di quest’approccio ce lo racconta egli stesso in un saggio apparso sulla rivista americana Film Comment nel 2006 dall’ironico titolo Canon Fodder, dove si chiede se esistano e quali possano essere i criteri per definire i capolavori del cinema, se sia possibile cioè elaborare per il cinema un canone sul modello
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Paul Schrader. Il cinema della trascendenza
di quello costruito per la letteratura da Harold Bloom con il suo The Western Canon. Schrader parte dal saggio del 1969 Trash, Art and the Movies di Pauline Kael, celeberrima titolare della rubrica di cinema del New Yorker (e sua antica mentore ai tempi dell’iscrizione all’UCLA Film School di Los Angeles), polemizzando con la sua tesi secondo la quale il cinema è un arte minore, volgare, tipicamente trash, che perde vigore e sostanza se viene infiocchettata con bellurie artistiche. Per Schrader al contrario i film vanno rubricati nella categoria dell’arte e in rare occasione anche dell’arte di alto livello. Più precisamente, il cinema non è tanto una nuova forma d’arte quanto una riformulazione di forme già esistenti, una forma d’arte per così dire “transizionale”, per di più in perpetuo mutamento, alla quale è possibile quindi applicare criteri di valutazione estetica utilizzati per le altre forme d’arte. Schrader ne definisce sette. Bellezza, innanzitutto, intesa in un’accezione espansa, oltre la tradizionale normatività. Poi, Singolarità o Straordinarietà (“strangeness”), una nozione più ricca connotativamente di ciò che definiamo con il termine di “originalità”. Unità di forma e contenuto, il più classico e “antico” dei criteri estetici. Tradizione, nel senso che nessuna opera d’arte può essere valutata astraendo dal percorso storico in cui è inserita. Ripetibilità, il fatto cioè che un’opera possa essere apprezzata ripetutamente nel tempo da diverse generazioni. Impegno dello spettatore, nel senso che la vera opera d’arte stimola un atteggiamento attivo nel fruitore, un feedback creativo. Infine, Moralità, vale a dire che un’opera d’arte non può non suscitare nell’animo del fruitore una risonanza morale, nel bene o nel male. A partire da questi criteri, davvero canonici, Schrader stila una lista di sessanta film divisa in tre segmenti di venti: oro, argento e bronzo. Al primo posto figura La règle du jeu di Jean Renoir, al secondo posto Tokyo monogatari di Yasujiro Ozu, al terzo posto City Lights di Charles Chaplin. Tra i primi venti, la sezione “oro”, figurano sette film prodotti negli Stati Uniti, ma tre di essi sono firmati da registi immigrati, cioè nati in Europa. Tutti gli altri, a parte Ozu, sono film europei, tre dei quali italiani. Si possono condividere o meno tali scelte, ma esse definiscono in ogni caso un approccio “alto” al cinema in un’epoca in cui prevale il trash; un approccio in definitiva poco americano, sebbene i film da lui rea-
S. Piscicelli - Prefazione
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lizzati siano profondamente ancorati nella cultura e nell’immaginario degli Stati Uniti. Per Schrader, il cinema è la forma d’arte regina del Ventesimo secolo, quella che domina sulle altre ma che con esso finisce (da qui, appunto, l’opportunità di stabilire un canone). Come si trasformerà, come si sta già trasformando, nel corso di questo Ventunesimo secolo, non è dato sapere. Una sola cosa è certa, il cinema del futuro, se ancora avrà questo nome, sarà qualcosa di completamente diverso da ciò che abbiamo conosciuto finora e la sua trasformazione sarà interamente determinata dall’evoluzione della tecnologia. In un articolo del 2009 uscito sul Guardian, Schrader lamentava la proliferazione dei plot nei vecchi e nuovi media. Secondo un calcolo ipotetico un normale consumatore dell’età di 30 anni, oggi, ha visto qualcosa come 35.000 ore di storie audiovisive, di numerosi generi su diversi media; il suo bisnonno, alla stessa età, appena 2500. “We are swimming in storylines”, letteralmente nuotiamo nelle trame, cosa che comporta una sorta di “esaurimento della narrativa”. Lo stesso si può dire, aggiungerei, dell’invadenza delle immagini, dei miliardi di immagini fisse o in movimento, più o meno artefatte o manipolate, da cui siamo bombardati. Un’abbondanza che alla resa dei conti si traduce in una forma di cecità. E non è forse un caso che alla fine del più recente film di Schrader, The Dying of the Light (titolo assai allusivo di un film ripudiato perché manomesso dai produttori), il protagonista cava un occhio al cadavere del suo nemico, come a significare che occorre forse rendersi ciechi per recuperare nuovamente la possibilità di una visione. In un cinema futuro che non sappiamo ancora nominare.
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IL TRASCENDENTE NEL CINEMA DI SCHRADER: DALLA TEORIA ALLA PRATICA
Se si escludono i critici d’assalto dei Cahiers du cinéma, futuri autori della Nouvelle Vague, Paul Schrader può vantare il primato – condiviso solo con Terrence Malick – di aver gettato le basi teoriche del suo fare cinema prima di mettersi dietro la macchina da presa. Mentre però Truffaut, Godard, Chabrol, Rohmer, Rivette dalle pagine dell’agguerrita rivista rivendicavano più che altro un estremismo cinefilo e ipotecavano con opzioni rivoluzionarie – nella riconsiderazione del cinema del passato e soprattutto di quello americano di genere – l’ossatura teorica di un “movimento” cementato proprio dalla diversità di stile e di approccio che quasi annunciava il prossimo ‘fare cinema’, Schrader e Malick hanno scritto una giovanile, coraggiosa, solitaria ‘dichiarazione d’intenti’, un atteggiamento culturale che non faceva necessariamente presagire una carriera da regista. Eppure i due autori quasi contemporanei irrompevano nel mondo culturale americano con due saggi atipici e stravaganti che in qualche modo tracciavano un nuovo confine dell’esegesi cinematografica con uno spessore intellettuale solitamente estraneo non solo agli autori americani. Se l’autore di Tuta Blu però restava su un terreno filmico sia pure sollevando l’insolita questione dello stile trascendentale (il saggio Trascendental Style in Film, rielaborazione della sua tesi di dottorato, pubblicato nel 1972 in America ed edito in Italia da Donzelli nel 2002 con il titolo Il trascendente nel cinema – Ozu, Bresson, Dreyer), l’autore di La sottile linea rossa, laureato in filosofia ad Harvard, nel 1969 tradusse (per la prima volta in America) e curò l’introduzione addirittura di Vom Wesen des Grundes (1929), un testo-chiave del grande filosofo Martin Heidegger col titolo The Essence of Reason, apparentemente quanto di più lontano dalle storie e dall’ambientazione semiwestern dei suoi primi due film La rabbia giovane (1973) e I giorni del cielo (1978) apparentemente molto americani.
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Paul Schrader. Il cinema della trascendenza
Non solo, ma da allora Malick è diventato uno dei maggiori studiosi e traduttori americani del filosofo tedesco. Per il resto alcuni dei grandi autori/registi che hanno fatto la storia del cinema e al tempo stesso sono diventati punti di riferimento imprescindibili come teorici/pensatori di cinema, hanno messo in forma teorica – chi in maniera sistematica, chi diffondendo il proprio pensiero attraverso interventi sporadici e occasionali o interviste in alcuni casi lunghe e diventate libri – il proprio pensiero contemporaneamente o successivamente alla pratica del set. Jean Epstein, Lev Kulešov, e soprattutto i tre grandi della “scuola sovietica” (Ejzenštejn, Vertov, Pudovkin) hanno elaborato teoricamente le loro idee più o meno in tempo reale rispetto al lavoro sul set, hanno scritto saggi e volumi fondamentali mentre giravano, hanno irrobustito i film che facevano con la teoria e al tempo stesso esemplificavano con le loro opere le (possibili) astrazioni teoriche, insomma hanno imposto un rapporto sincronico tra teoria e pratica del cinema. Zavattini ha sistematizzato soprattutto negli anni ‘50 e ‘60 le teorie neorealistiche, quindi dopo l’exploit del suo sodalizio con De Sica e Pasolini solo dopo Accattone e Il Vangelo secondo Matteo, ha rivoluzionato le teorie semiologiche sul cinema con le sue “eretiche” intuizioni a partire da Il cinema di poesia (1965). Tutto questo esalta ulteriormente il particolare percorso teorico-pratico di Schrader anche perché nello già sparuto gruppo di registi americani provenienti dalla critica – si tratta di una prassi più europea e soprattuttop francese che, a parte i critici dei Cahiers e Tavernier, vede anche in Italia fare l’apprendistato con la critica il giovanissimo Antonioni della fine degli anni ‘30, l’Antonio Pietrangeli degli anni ‘40 e il Piscicelli cinephile dei primi ‘70 – del quale fa parte con Malick e Bogdanovich (poi ci sono grandi autori intellettuali come Scorsese che hanno scritto e parlato del cinema degli altri successivamente nelle forme più diverse di interviste, presentazioni, saggi ecc..), lui ha creato un precedente in quanto a interazione tra il pensare e il fare cinema. Nella sua ottima e illuminante prefazione Perceval, Usa del libro di Schrader che approfondisce e analizza i concetti del trascendente nel cinema e dello stile trascendentale, Gabriele Pedullà scrive: “Il vero paradosso, però, è che Schrader non ha mai messo in pratica il proprio “manifesto”: il suo cinema deve pochissimo stilisticamente alla lezione di Ozu e
A. Castellano - Il trascendente nel cinema di Schrader
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di Bresson. I grandi temi di Trascendental Style in Film sono tutti presenti nei suoi film […], ma non l’aspetto al quale lui dà più importanza – appunto lo stile -, che non potrebbe essere più diverso e che, anche nei momenti di maggiore esuberanza, non ha niente di incompatibile con la tradizione propriamente hollywoodiana”1. Questo in parte è vero, o meglio è vero se si considera in maniera troppo pedissequa l’applicazione delle intuizioni teoriche dell’autore alla realizzazione dei film, alla pratica del cinema. In realtà - a parte i temi evidenti della “trascendenza” presenti in Hard Core, American Gigolò, Mishima, Affliction, Touch e le tracce dello stile trascendentale in Taxi Driver, sottolineati da Pedullà – tutto il cinema di Schrader è attraversato dalle riflessioni teoriche ed estetiche del suo saggio e qua e là è impregnato (magari con risultati alterni) di una metabolizzazione concettuale di certi modelli stilistici. È chiaro che il giovane sceneggiatore del film di Scorsese al suo terzo film da regista (American Gigolò) mette subito a frutto con entusiasmo le sue opzioni culturali e le sue passioni intellettuali, citando nel primo le atmosfere esistenzialistiche di Sartre e Camus (lui stesso ha dichiarato che prima di scrivere la sceneggiatura aveva riletto La nausea e Lo straniero) e rifacendo con il secondo, soprattutto nel finale, Diario di un ladro di Bresson. Ma poi con più maturità e distacco ha via via iniettato nei suoi film, nei suoi personaggi, nelle sue storie le sue elaborazioni concettuali del “trascendente nel cinema” e in particolare dei tre grandi autori di riferimento, Ozu, Bresson e Dreyer, sviscerati ed elevati a paradigmi della costruzione di uno stile. Poco poteva fare naturalmente in questa direzione per alcuni film di genere dichiaratamente di committenza abbastanza bloccati dallo stereotipo, protetti dall’obiettivo commerciale. Del resto non ci può essere spiegazione migliore dell’essenza dello stile trascendentale della sua stessa introduzione nella quale approfondendo i concetti di “sacro”, “religioso”, “spiritualità”, il regista scrive: “Lo studio dello stile trascendentale rivela “una forma universale di rappresentazione”. Le differenze tra i film di Ozu, Bresson e Dreyer sono perciò di tipo culturale e personale, mentre 1
P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli Editore, Roma 2002, p. XXVII.
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Paul Schrader. Il cinema della trascendenza
le loro affinità sono di tipo stilistico e costituiscono un modo comune di esprimere il trascendente nel cinema”2. “Lo stile trascendentale stilizza la realtà eliminando (o quasi) gli elementi ai quali viene principalmente delegata la rappresentazione dell’esperienza umana e spogliando le interpretazioni convenzionali della realtà del loro valore e della loro forza. È come la messa: trasforma l’esperienza in un rituale che può essere ripetutamente trasceso”3. E ancora “Lo stile trascendentale incarna l’arte trascendentale in una cultura post-rinascimentale. Questo termine non è solitamente usato nella storia dell’arte e io lo adopero per definire quei tentativi degli artisti contemporanei di recuperare le caratteristiche sacre dell’arte in una cultura che ha subito il processo di secolarizzazione e di laicizzazione della Grecia e del Rinascimento”4. E allora il cinema dei tre autori scelti da Schrader quasi come una “guida estetica e morale” nel suo percorso teorico entra (con le naturali differenze iconografiche e culturali) nel suo cinema non per citare/imitare/assorbire scolasticamente lo stile trascendentale dei Maestri ma per prosciugare storia e personaggi, eliminare gli eccessi, controllare le convenzioni, evitare gli stereotipi, dare forma insomma a una vocazione preesistente per la trascendenza (e questo rende particolare, e forse unico, il suo rapporto tra teoria e pratica). Sia che si tratti dello stile Zen di Ozu per raccontare il quotidiano di una civiltà orientale, dell’“ascetismo giansenista” di Bresson che ha rivoluzionato il rapporto forma-contenuto o dell’“ambiguo” perseguimento di Dreyer dello stile trascendentale facendolo interagire con il kammerspiel e con l’espressionismo. È il percorso di un intellettuale inquieto e (auto)emarginato che voleva raccontare il senso di colpa, l’autodistruzione, la catarsi, la redenzione e questo sicuramente non favorì un’integrazione immediata nella New Hollywood nella quale cominciavano a brillare De Palma, Altman, Spielberg, Lucas, Coppola e Scorsese. Schrader è stato definito giustamente da alcuni “L’ultimo moralista del cinema americano”. Definizione condivisibile anche se è una prerogativa che appartiene anche a Clint Eastwood, che con il capolavoro Gran Torino ha consegnato alla storia del cinema il suo definitivo 2 3 4
P. Schrader, op. cit., p. 9. P. Schrader, op. cit., p. 11. P. Schrader, op cit., p. 12.
A. Castellano - Il trascendente nel cinema di Schrader
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“testamento morale”. È un moralismo che naturalmente va inteso come tensione morale, sguardo morale, approccio morale, guida morale, che nei due autori assume forme, contenuti e prospettive diverse. Azzardiamo una proporzione: Schrader sta a Eastwood come Kant sta a Nietzsche. Se il libro di Schrader risulta fondamentale per comprendere a fondo il suo cinema, rileggere da un’altra angolazione alcuni suoi film, entrare meglio nelle pieghe di certe storie e personaggi dove il trascendente è più diluito, sfumato o mimetizzato, i saggi che compongono questo volume possono risultare altrettanto importanti per ricomporre i tasselli della produzione dell’autore in un unico percorso artistico complesso e non-riconciliato affrancandolo (forse) definitivamente dagli equivoci e dai preconcetti che ancora sopravvivono. I contributi critici di studiosi di generazioni, formazioni e metodologie diverse con analisi spesso sofisticate e punti di vista originali (psicanalitico, semiotico, strutturalista, teologico, esoterico) aprono l’universo del regista ad audaci e stimolanti chiavi di lettura ed esplorano zone anche oscure ed enigmatiche del suo complesso rapporto con il cinema e con la realtà. Ma quasi tutti gli scritti hanno in comune una riflessione o comunque un’intuizione interpretativa sull’uso/presenza del corpo nell’opera di Schrader. I corpi soprattutto maschili hanno in realtà una valenza significante, comunicano pulsioni sotterranee, nascondono conflitti inespressi, trascinano tensioni, ribellioni e in qualche caso violenze represse, sono l’involucro, di volta in volta seducente, respingente o anonimo, di un’interiorità complessa. Insomma i corpi dei protagonisti dei film di Schrader sembrano la tangibilità dell’incorporeo, la materializzazione del trascendente. Ed è suggestivo rintracciare in quest’aspetto le possibili immaginarie influenze o implicazioni culturali, individuare le valenze simboliche, filosofiche, antropologiche, sociologiche, psicologiche, cristologiche suggerite da grandi pensatori e intellettuali. Adottiamo per tutti come “nume tutelare” proprio Jean-Paul Sartre, autore molto amato da Schrader, che sulla trascendenza e sul trascendentale ha scritto il suo primo fondamentale saggio giovanile La trascendenza dell’Ego, iniziato durante un soggiorno di studi a Berlino, dove l’autore s’immerge nella lettura delle idee fenomenologiche di Husserl, e pubblicato nel 1937. Partendo da un attacco alla nozione di Io e a tutta la mitologia dell’“interiorità”, il filoso-
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Paul Schrader. Il cinema della trascendenza
fo dell’esistenzialismo si propone di liberare la coscienza dall’ego trascendentale, approdando a una propria fenomenologia (a tratti non del tutto compatibile con quella husserliana) che introduce la problematica nozione di un campo trascendentale impersonale. Per il Baudrillard de Il sogno della merce, nel profluvio di immagini che riveste la realtà nella società post-moderna, il corpo è il solo oggetto sul quale valga la pena di concentrarsi, non come fonte di piacere o di sesso, ma come oggetto di cui farsi carico con infinita sollecitudine, nell’ossessione della défaillance e della prestazione negativa. Il corpo è vezzeggiato nella perversa certezza della sua inutilità, nella totale certezza della sua non resurrezione. Infatti il corpo che si pone il problema della propria esistenza è per metà già morto: il suo culto attuale, tra lo yoga e l’estasi, è dunque una preoccupazione funebre. Nell’ambito di una riflessione sul potere nel mondo contemporaneo e del suo rapporto con il corpo, per Foucault il biopotere, diversamente dalla sovranità tradizionale, basata sull’idea di contratto, investe direttamente la vita agendo sia sul corpo individuale sia sul corpo della specie, sostituendo alla legge la norma e al diritto la normalizzazione. Per Žižek invece la “rivoluzione” biogenetica risiede anche nelle nuove potenzialità distruttive che l’uomo acquisisce, accanto alle conseguenze “tradizionali” della produzione industriale (come l’inquinamento da radiazioni, l’uso sconsiderato di combustibili fossili o la deforestazione). Ma in più, la biogenetica, intimamente connessa al biopotere cambia il nostro stesso rapporto con il corpo e con la conoscenza. Microprotesi non più percepite come tali, impianti cellulari, strumenti tecnologici integrabili nel corpo umano per potenziarne alcune facoltà daranno esplicitazione al “motivo derridiano di come la nostra umanità sia già da sempre integrata da protesi artificiali”. Il grande poeta francese Paul Valéry scrive: “Tu dimentichi, ma il tuo corpo dimora. Non hai sentito niente, ma il tuo corpo è cambiato. Parli, ma il tuo corpo farà. Tu vedi, non lui. Tu cammini, mentre lui si trascina. Tu degusti, e lui digerisce. Sorridi, e lui si piega. Tu dormi, lui dorme. Non ha saputo che stavi cambiando idea. Non hai saputo che stava cambiando forze, nel profondo”. David Le Breton che si sta dedicando da diversi anni allo studio della corporeità dal punto di vista dell’antropologia culturale in
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Antropologia del corpo e modernità sostiene che le varie immagini della corporeità (individualista, meccanicistica, quella del narcisismo moderno) sono accomunate da una concezione di fondo, ovvero dal dualismo che contrappone in molteplici modi il soggetto al suo corpo e rincorre un’utopistica liberazione dal corpo o almeno una sua completa subordinazione alla volontà. Per il Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus, che prima di Lacan aveva lucidamente intravisto gli effetti del linguaggio sul corpo umano, il linguaggio si fa luogo del filosofare. Ma il linguaggio non può che esprimersi attraverso un significante. Se il significante è il corpo del linguaggio, il mio microcosmo è il mio corpo; esattamente come il macrocosmo è il corpo del mondo. Mostrandomi i limiti del suo corpo, il linguaggio mi mostra i limiti del mio corpo e inavvertitamente mi richiama i limiti del corpo del mondo. È proprio nella corporeità del linguaggio che il mio corpo si disvela e freme. Per Deleuze è il corpo, come figura del desiderio, che esprime una sua variabilità (provvisorietà/revocabilità) di fondo che è dovuta agli affetti di cui è capace, nella passione e nell’azione. E gli affetti sono appunto modi di divenire, che a volte diminuiscono la potenza e altre rendono più forti. Ma come si può conoscere meglio un corpo, acquisire consapevolezza delle potenze della mente, al di là delle condizioni date della coscienza? La risposta non può che essere “pratica”, non può che indicare nella sperimentazione, certo “prudente”, sicuramente accorta, la via più soddisfacente per tentare di liberarsi da quei poteri stabiliti che hanno tutto l’interesse a comunicarci degli affetti tristi, a non mollarci “finché non ci avranno comunicato la loro nevrosi e la loro angoscia”. Umberto Galimberti nel suo libro Il corpo propone una psicologia che, togliendo la scissione anima/corpo su cui si fonda, cominci a pensarsi contro se stessa. Dalla ‘follia del corpo’ di Platone alla ‘maledizione della carne’ nella religione biblica, dalla ‘lacerazione’ cartesiana della sua unità alla sua ‘anatomia’ ad opera della scienza, il corpo vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a ‘forza-lavoro’ nell’economia dove più evidente è l’accumulo del valore nel segno dell’equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del corpo sul registro dell’ambivalenza. Da centro di irradiazione simbolica nelle comunità primitive, il corpo è diventato in Occidente il negativo di ogni “valore”, che il sapere, con la fedele complicità del potere, è andato accumulando.
Sono intuizioni geniali, riflessioni sofisticate, analisi profonde che possono riverberarsi di volta in volta (magari intrecciandosi tra loro) sui corpi di Richard Pryor, Harvey Keitel eYaphet Kotto, George C. Scott e Peter Boyle, Richard Gere e Lauren Hutton, Nastassja Kinski e Malcolm McDowell, Ken Ogata, Gena Rowlands e Michael J. Fox, Natasha Richardson, Christopher Walken e Rupert Everett , Willem Dafoe e Susan Sarandon, Dennis Hopper e Penelope Ann Miller, LL Cool J e Gina Gershon, James Coburn e Nick Nolte, Ray Liotta e Joseph Fiennes, Maria Bello e Bruce Solomon, Stellan Skarsgård e Clara Bellar, Willem Dafoe, Woody Harrelson e Kristin Scott Thomas, Jeff Goldblum, Lindsay Lohan, James Deen e Nolan Gerard Funk, Nicolas Cage. L’inevitabile forzatura del (con)testo schraderiano è però finalizzata a una semantizzazione dei corpi che incarnano un’immanenza della trascendenza. Sono le più diverse espressioni corporee di una condizione esistenziale, quasi le proiezioni liberatorie di un corpo unico: quello del cinema di Schrader e quello del diciottenne Paul che da quando gli fu concesso dai genitori di andare al cinema, non ha smesso di attraversare con ascetismo interiore in lungo e in largo generi, personaggi e ambienti per poi destrutturarli e decongestionarli spinto da un desiderio di riscatto da una ferrea educazione calvinista, come un austero personaggio bressoniano appunto che viene catapultato in un trasgressivo mondo tarantiniano.
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IL TRASCENDENTE E L’IMMANENTE NEL CINEMA DI PAUL SCHRADER
Nell’introduzione al suo noto saggio su Il trascendente nel cinema (Donzelli, 2002) Paul Schrader avverte che il motivo religioso non è necessariamente il contrassegno dello stile oggetto della sua analisi, in quanto “costituisce una via (un tao, nel senso più ampio del termine) di accostarsi al trascendente che varia di volta in volta, mentre le finalità e i metodi rimangono nella loro essenza gli stessi” (p. 3). Più che una “scrittura” per attingere una dimensione spiritualistica, dunque, si tratta di uno stile che ha per fine quello di oltrepassare le parvenze esteriori, di un “osservatorio” per guardare al di là del reale così come si manifesta nella sua concretezza. Un approccio conoscitivo che denuncia qualche concordanza – significativa per un autore che si è spesso voluto accostare alla “sensibilità” europea – con quanto aveva affermato Antonioni scrivendo che “noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà” (prefazione a “Sei film”, Einaudi 1964, p. XIV). In sostanza lo stile trascendente è il risultato dell’attitudine di cui sono dotati coloro che Nietzsche definiva gli Hinterwelter, uomini in grado cioè di capire delle cose ciò che queste “dicono” alla nostra intuizione più che ai nostri sensi. Lo studio sul trascendente nel cinema fu pubblicato nel 1972 ed è qualcosa di più di un saggio critico sull’opera di tre grandi maestri, Yasujiro Ozu, Robert Bresson, Carl T. Dreyer. Ciò autorizza a leggerlo anche come la formulazione dei principi della poetica cui l’autore intendeva attenersi nel suo lavoro di regista che di lì a poco avrebbe avuto inizio. Fra i punti di maggiore rilevanza del suo studio, ciò che è precisato circa la non necessaria corrispondenza dello stile trascenden-
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Paul Schrader. Il cinema della trascendenza
te alla tematica religiosa è di grande importanza per chiarire nella sua effettiva portata un motivo, quello della “caduta” e del “riscatto”, nel cui schema narrativo si suole racchiudere il vissuto dei protagonisti delle sue opere più indicative (Mishima, Lo spacciatore, Affliction, Autofocus). Questa griglia interpretativa costituisce il punto dominante della critica schraderiana, con una accentuazione spiritualistica da cui lo stesso interessato, come s’è visto, aveva preso le distanze. Si pensi peraltro alla sua sceneggiatura per il film di Scorsese L’ultima tentazione di Cristo e alla rappresentazione tutta “mondana” del sacro, alla secolarizzazione del principio religioso che vi si esprime e che tanto scandalizzò la critica cattolica. Sia pure nei limiti funzionali di uno script questo episodio getta una luce rivelatrice sull’opera complessiva di Schrader. L’indagine critica finemente elaborata nel libro converge dunque nell’opera creativa di un regista, la cui affinità con le esperienze del cinema europeo è comprovata da un apprendistato artistico che ripropone un itinerario analogo a quello percorso più di un decennio prima dai critici dei Cahiers, futuri cineasti della nouvelle vague. Adottiamo perciò le analisi schraderiane sui tre cineasti come un referente utile anche alla comprensione dei suoi film. I cui personaggi sarebbero dominati pertanto da ciò che l’autore rileva in quelli dei film di Bresson, protagonisti “di un’esperienza di qualcosa di più profondo di loro stessi e dell’ambiente che li circonda”, esempi di quella “enfatizzazione della quotidianità” che dilata il senso dell’agire, facendogli attingere la dimensione appunto del trascendente. Ne risultano figure insolite nel panorama della cinematografia americana, in una certa sintonia con i rivolgimenti attuati dal “cinema moderno” della soggettività. Al di là, dunque, dei contenuti, il discorso del regista, in termini critici e poi creativi, tende ad “assolutizzare il mistero dell’esistenza e rifugge da tutte le interpretazioni tradizionali della realtà, il realismo, il naturalismo, lo psicologismo, il romanticismo, l’espressionismo, l’impressionismo e, soprattutto, il razionalismo” (pp. 4-10): “ismi” che infatti sono estranei alla filmografia schraderiana, in debito piuttosto con la tradizione della cinematografia americana ben più di quanto i suoi interessi, l’immagine proposta dalla critica e la sua presenza “anomala” nel contesto culturale che gli appartiene lascerebbero supporre. In questa posizione bifronte si definisce il suo cinema, caratterizzato appunto dall’oscillazione fra stimoli suggeriti da una
V. Attolini - Il trascendente e l’immanente nel cinema di Paul Schrader
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tensione verso il trascendente e forza inerziale della tradizione cinematografica entro cui si è trovato ad operare. Se questa contraddizione ridimensiona le letture della sua opera nella direzione più volte ribadita dalla vulgata critica, legittima invece l’interesse che essa altrimenti suscita, determinato dal dualismo irrisolto – trascendenza/immanenza – organico alla sua visione delle cose. La sua aspirazione verso la purezza assoluta dello stile trascendentale infatti deve fare i conti con altre incidenze: “molti registi si sono serviti dello stile trascendentale, ma soltanto pochi hanno avuto il rigore, la costanza di utilizzarlo in modo esclusivo, con una dedizione assoluta” (p. 9). Più frequenti, sottolinea Schrader, sono le contaminazioni, se è vero che “uno degli aspetti che complicano il dibattito sullo stile trascendentale è che i suoi tratti si intrecciano e si mescolano con quelli di ogni altro possibile stile” (p. 10). Una forma di “cedimento” alle ragioni di altri stili, di compromesso dunque, è ciò che infatti caratterizza il cinema schraderiano, frutto di innesti e incroci talvolta non dominati con persuasivi risultati (si pensi a quell’esempio di metacinema che è il suo recente The Canyons, il cui tema conduttore ricorda quello del precedente Autofocus). Peraltro l’impegno progettuale di Schrader verso una scrittura del trascendente deve confrontarsi con una “immaginazione” cinematografica, sulla natura della quale si confessò con insolita spregiudicatezza e spirito di autocritica: “Vedo la regia come un’estensione del ruolo del narratore che, a sua volta, è l’estensione della esplorazione tematica. Così il lavoro che farei come regista sarebbe solo a questo livello: come pensatore e come drammaturgo. Qualsiasi film io dirigessi non lo farei con lo stato d’animo di un pittore” (intervista di Richard Thompson in Film Comment, marzo-aprile 1976, citata in Hollywood Settanta di Callisto Cosulich, Vallecchi 1978, p. 159). Parole nelle quali sconcerta un po’ il valore subordinato attribuito a quel momento risolutivo della scrittura cinematografica (la regia) che si realizza invece sul set, la sottovalutazione del valore formale del testo creativo nonché del decisivo effetto esercitato dalle strutture filmiche sui “significati”: non si sente spesso ripetere che lo Schrader regista è inferiore allo Schrader sceneggiatore? La sua filmografia è in effetti l’esemplificazione di una parziale “incostanza” nel perseguire un obiettivo (lo stile trascendente) che
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solo in ultima istanza si rivela come ratio complessiva del testo filmico, a questo talvolta sovrapposto: da rintracciare in un lavoro creativo alla cui evoluzione concorrono, fino a confondervisi, elementi appartenenti ai codici dei modelli narrativi riconducibili ai generi classici, quelli relativi ai film di denuncia (Blue Collar), al biopic (Mishima, Patty-La vera storia di Patty Hearst), al melodramma (Affliction), al gotico-horror (Cortesie per gli ospiti, Il bacio della pantera): film nei quali in definitiva la trascendenza si rivela come un’aspirazione, un atteggiamento mentale maturato nella consapevolezza della problematicità del suo assunto. Di qui il peso sul suo cinema della tradizione dei generi, che finisce spesso per accamparsi come sua ragione espressiva. Beninteso, non si tratta di un limite negativo ma della definizione dell’ambito in cui si muovono i film di Paul Schrader, la cui comprensione potrebbe essere deviata da letture interpretative che il testo (filmico) non legittima: si pensi ad un personaggio eponimo dell’opera del regista, il protagonista di American Gigolò sull’esito della cui storia furono giustamente avanzate a suo tempo ragionevoli dubbi anche da parte degli estimatori del film. Più congrue agli obiettivi della poetica schraderiana si muovono altre opere. Significativi riflessi di una lacerazione interiore, drammaticamente irresolubile (in cui pare riflettersi il dilemma centrale del cinema di Schrader), riscontriamo infatti, ma ad un più corretto livello di elaborazione, nei suoi risultati migliori: illuminante in tal senso l’ossessione nichilista dello scrittore Mishima dell’omonimo film caratterizzato da fredda lucentezza, un’eccentrica ricostruzione biografica – in quattro parti come esplicitamente è chiarito in esergo – il cui tema conduttore è anche la strada non a caso percorsa dal regista nel tentativo implicito di adeguare quello del suo film allo stile trascendente che caratterizza l’opera del giapponese Ozu da lui analizzata nel suo saggio. Il personaggio Mishima è un insieme di slanci passionali e razionalità, di vitalismo superomostico e rigore, di sentimentalismo e spirito critico. Un coacervo di spinte convergenti nel culto laico, tutto mondano, che ispira un cammino esistenziale di cui Schrader assembla i tasselli determinanti, inserendoli in una condotta di vita che si svolge sotto il segno di una “religione” estetizzante del bello, in cui si confondono aspirazioni metafisiche e pulsioni sessuali, come reso esplicito nella sequenza in cui il giovanissimo, futuro scrittore resta colpito
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dall’immagine del San Sebastiano di Guido Reni: un brano che è l’aurorale manifestazione di una liturgia secolare, come potremmo definire quella che il comportamento di Mishima più tardi esprimerà e sublimerà in atteggiamenti che adombrano il futuro, spettacolare suicidio, culmine di una vita che nella morte aveva ravvisato la sua meta trionfale. Un motivo di stampo squisitamente tardo-romantico e decadente, tipico della cultura occidentale, che, come giustamente fu sottolineato, fece di lui il D’Annunzio nipponico. Nella messinscena di Mishima l’alternarsi di passato e presente, il trapassare dal bianco e nero al colore non meno che il transitare della messinscena dal realismo alla stilizzazione figurativa esprimono, nella loro febbrile ricerca di un ubi consistam formale, il proposito di raggiungere l’obiettivo di un “altrove” espressivo attraverso una scrittura di premeditata disarmonia stilistica. Questa diventa il tramite a sua volta della rappresentazione di una condizione esistenziale disorganica compromessa da un atteggiamento “perverso”, da un’esperienza dissipata nell’egolatria. Schrader approda alla definizione dell’insolubile problematicità del personaggio mediante la descrizione della solennità conferita ad ogni aspetto del quotidiano, esempio persuasivo dell’enfatizzazione della quotidianità bressoniana prima ricordata. Le deviazioni verso i canoni dei generi classici cui accennava lo stesso Schrader e che fanno del suo cinema un esempio di singolare contaminazione di stili, frequente nel cinema americano degli anni Settanta, sono prefigurate infatti fin dalla sua opera prima, quel Blue Collar che la trama e l’intreccio della materia farebbero ritenere un classico esempio di film di impegno civile, politico in senso lato – un capitolo che caratterizza buona parte della Nuova Hollywood della decade settanta. Nella storia che vi è narrata sono in gioco il potere corruttore delle istituzioni sindacali e il gesto ribelle quanto disperato di tre operai di una fabbrica di automobili di Detroit. Nel film non è tanto rilevante l’impostazione sociologica che pure vi è implicita, quanto l’accentuazione di tipo etico che risulta emergere e proporsi come tema dominante, secondo quanto fu sottolineato a suo tempo da Serge Toubiana (in «Cahiers du Cinéma», n. 294), con parole che possono ritenersi anticipatrici della lettura critica cui sono stati sottoposti molti film schraderiani, la bussola privilegiata per orientarsi nel suo cinema: “Bisogna a mio avviso non insistere troppo sul messaggio politico di Blue Collar per non cor-
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rere il rischio di non vedere la vera problematica di Schrader, che è piuttosto morale e filosofica che politica. La durezza del clima che egli dipinge nelle sue sceneggiature […] dà al suo cinema quella freddezza che una lettura politica tenderebbe a mascherare, per il fatto che ogni lettura politica implica un certo ottimismo…”. La “durezza del clima” di cui parlava Toubiana è verosimilmente eredità dell’educazione calvinista del regista, i cui segnali si manifestarono, prima ancora che desse inizio alla sua opera dietro la macchina da presa, nel suo lavoro come sceneggiatore, fra gli eminenti del nuovo cinema americano degli anni sessanta-settanta. Qui Schrader fa le prove generali del suo lavoro registico, realizzato nel corso di una delle stagioni più fervide della nuova Hollywood, mediante la collaborazione con alcuni fra i suoi autori di punta: basti per tutti Scorsese – per il quale scrisse Taxi driver e Toro scatenato (ma, sia detto a latere, come per tutti i rapporti sceneggiatura-film sarebbe opportuno esaminare passo passo le modifiche, eventuali, subite dallo script nel corso della realizzazione del film sul set: una particolare versione di critica delle varianti, cioè, ancora poco praticata negli studi sul cinema). Una concordanza di formazione – l’uno di formazione cattolica, l’altro di educazione calvinista – doveva rendere naturale un incontro dai risultati così ragguardevoli, come peraltro molti altri analoghi, sempre in veste di sceneggiatore, con registi di diversa collocazione, ai quali Schrader, all’incirca nello stesso periodo, ha fornito sceneggiature non meno importanti: basti per tutti quella per Mosquito Coast di Peter Weir, la più acuta rappresentazione delle illusioni (e delle trappole) della controcultura maturata nei decenni sessanta-settanta intrecciate ad una problematica squisitamente moral-familiare, su cui Schrader ritornerà dopo nei propri film (Affliction). In effetti, parlando della sceneggiatura, Peter Weir accennò ad uno dei temi centrali del cinema schraderiano, dominato da “personaggi ossessivi, autodistruttivi, con una visione falsata della vita: hanno tutto per essere geni, ma manca loro qualcosa di essenziale (Peter Weir, a cura di Mario Sesti e Stefanella Ughi, Dino Audino ed. s.d.). Un profilo critico riassuntivo che condensa in poche parole uno dei temi centrali dell’opera di Schrader come regista (che all’epoca di questa dichiarazione aveva al suo attivo film come Hardcore e American Gigolò). Se Mishima delinea alcuni aspetti della visione (dello stile) trascendente del regista, tracce
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di questo atteggiamento si ravvisano anche in alcuni altri film, i personaggi dei quali sono protagonisti di vicende tormentate in cui si racchiude il senso di una parabola esistenziale vissuta con strenuo disincanto. Schrader la rappresenta nel momento di più acuta tensione tracciandone il percorso involutivo con lucida capacità di analisi ma senza complice partecipazione, senza quell’attitudine umana ad intendere, in sofferta condiscendenza, le molte istanze di una pena che si risolve non di rado in impotente rivolta nichilista. Esito di una visione delle cose ispirata, come si suol dire, dal suo moralismo calvinista, severo verso chi si rende colpevole di una “caduta”. I personaggi dei suoi film più significativi – ma tracce analoghe si riscontrano anche in quelli minori – si muovono idealmente lungo un uguale itinerario, imboccando una strada che è spesso senza ritorno. Schrader ne osserva il comportamento con un’impassibilità che rimanda appunto alla sua formazione e nel contempo denuncia il proposito di esorcizzarne le tentazioni “spettacolari”. Si pensi ad esempio a un film non compiutamente realizzato come Adam Resurrected, ennesima rievocazione della Shoah da un’angolazione decisamente nuova, caratterizzata da una accentuata dissonanza narrativa e dalla freddezza di uno stile che non teme di spingersi fino all’oscurità. Il mondo di ieri si tinge dei toni neutri del bianco e nero in contrasto con i tenui colori che, nell’alternarsi di passato e presente, “ravvivano” le diverse parti del film, come in particolare quella che si svolge nell’ospedale psichiatrico, laddove Adam ritorna come per verificare paradossalmente l’esito di una regressione e di una degradazione cui tuttavia Schrader concede – rilevandone l’eccezionalità dell’esperienza – un riscatto, indagando nelle incrinature e nelle profonde scissure che delineano l’incerta maschera di un’identità. Sotto un altro aspetto questo film è un discorso estremo, fondato su una metafora decisamente letteraria, congeniale alla immaginazione creativa del regista: la discesa dell’uomo verso una condizione subumana che, pesando tragicamente sul suo destino, trova la sua espressione in quello “spazio” mentale che è la vera “scena” del film. Le immagini nitide e asettiche che scandiscono il suo “paesaggio” interiore, l’esemplarità quasi astratta che ne costituisce la cifra espressiva riportano Adam Resurrected nell’ambito che propriamente gli compete, rischiarato da quel senso di fiduciosa apertura verso il futuro che è la vera strada da percorrere per superare gli oscuri traumi
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interiori. La vicenda esistenziale delineata si riassume perciò, nelle sue linee essenziali, nella dialettica cara a Schrader, funzionale al suo “moralismo”. L’acquisizione di tale dimensione è spesso conseguenza di eventi traumatici, legati al meccanismo narrativo dei generi – un delitto del quale è accusato il protagonista di American Gigolò, la morte violenta della donna amata impegnata in una difficile opera di “recupero” in Lo spacciatore o quella descritta in The Canyons con la “caduta” irreversibile del protagonista. Si pensi, per quest’ultimo film, all’atmosfera che pervade con la sua luce fredda e iperrealistica gli eleganti interni, scena privilegiata di una sofisticata dannazione espressa dalla ronde multipla guidata da Christian, produttore di film porno, cui fa riscontro in veste di “antagonista”, Tara (nome mitico del cinema d’antan, quello di cui si stende ancora una volta l’atto di morte) e tutta risolta nella imprevedibile svolta finale. L’impostazione del film in chiave sociologica, suggerita dalle prime inquadrature, subisce invece una sterzata in senso drammatico, che riconduce la vicenda negli ambiti più congeniali a Schrader (si ricordi quanto riferito prima a proposito di Blue Collar e in particolare si pensi al precedente Hardcore, fra i più vicini a The Canyons) nei termini dell’impietoso resoconto di quella atonia morale che pervade l’universo postmoderno in cui il regista colloca il palcoscenico della storia e che ne costituisce la cifra espressiva. Un’atonia che, talvolta condivisa anche dall’autore, offusca lo sguardo prospettico che definisce il senso di un’esperienza: si pensi a quella vissuta da Patricia Hearst nel biopic dedicatole, nel quale la paradossale avventura della protagonista si conclude col rientro nell’ordine, riferito con la neutra efficacia di un resoconto, sotto la cui scrittura si intravede l’analisi di una sconfitta, non lontana da quella che l’autore, in veste di sceneggiatore, aveva narrato nello script di Mosquito Coast. Alla organica “duplicità” – espressiva e contenutistica – del cinema schraderiano appartiene Cortesie per gli ospiti, che deriva da un romanzo di Ian McEwan e dalla sceneggiatura di Harold Pinter e si risolve nelle palpabili quanto sinistre atmosfere che irretiscono i due protagonisti con la loro sfuggente complicità nel gioco torbido e perverso che ha per scena una fastosa abitazione veneziana. Schrader descrive con ostentata “imparzialità” il tragico sviluppo della storia mediante avvolgenti movimenti che sembrano voler captare le parvenze sfuggenti all’occhio della macchina da presa:
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quasi una variazione in chiave gotica dello stile trascendente da lui analizzato. Il percorso ideale di Cortesie per gli ospiti culmina nella passeggiata notturna per una Venezia disabitata, senz’ombra di presenze umane, ma colma di inspiegabili presagi. Fra sottili riverberi notturni e luminosità orientaleggianti si snoda una strana storia di fascinazione e morte, che ripropone la sorprendente ispirazione goticheggiante, già emersa nel precedente remake del Bacio della pantera, di un autore che con questo film prosegue lungo un percorso creativo punteggiato da ibridazioni. Questa pratica stilistica trova l’espressione più indicativa delle ambizioni e dei limiti del cinema schraderiano nel film che è comunemente apprezzato fra i suoi migliori, Affliction. La storia del poliziotto Wade, della sua sofferta e dolorosa educazione sentimentale maturata nel disamore di tutti i rapporti familiari, del suo rigorismo morale che lo spinge a crearsi ragioni di conflitto con l’ambiente teatro del suo agire (quest’ultimo nel suo aspetto esteriore simboleggiato dall’opalescente candore del paesaggio di neve, allusivo della confusione e del gelo interiore di tutti i personaggi principali) sono al centro di una tragedia familiare dalle molte costellazioni: una tragedia le cui lontane origini convergono negli improvvisi flashback, che, lungi dal rischiarare le nebbie del passato, lo confondono sempre più, fino ad un esito drammaticissimo. È nella terribile sequenza conclusiva che Schrader sembra voler condensare il senso di quella trascendenza dello stile (e della visione delle cose), filo rosso che, come obiettivo finale, congiunge in unità le pur variegate ambizioni del suo cinema. La situazione ricalca l’esemplarità estrema di un conflitto ancestrale – contrasto padre-figlio con l’inestricabile viluppo di opposti sentimenti – le cui ragioni il film descrive in dispersi frammenti, che si ricongiungono infine per esplodere nel gesto estremo, esito “naturale” di in dramma irreversibile. Un gesto che deliberatamente riecheggia, ambiziosissimo progetto, i momenti alti della tragedia classica, pure se a questa i tasselli di una storia che si dirama in più direzioni – principalmente quella che riguarda il cosiddetto “incidente di caccia”, episodio non secondario del film – non offrono persuasive ragioni. Di qui quell’enfatizzazione del quotidiano – definizione da intendere ora, appunto in senso letterale, e pertanto restrittivo – che ne costituisce il limite, comprovato dal narratage finale, una convenzionale esortazione a salvare i figli e
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le donne dalla violenza dei padri e degli uomini, ma soprattutto a insegnare a questi ultimi a rifuggirla. La dannazione di Wade deve infatti confrontarsi e districarsi fra i confini segnati dai topoi del mélo familiare, seguendo una traiettoria comune alla filmografia di Schrader, più composita, come s’è affermato, di quanto il tentativo critico di definirla nell’univocità di un motivo generale comporti e che in Affliction denuncia una certa disparità fra risultati e ambizioni di un’opera che per la sua complessità e per l’impegno dispiegato è fra le significative del cinema americano degli scorsi decenni.
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IL VIAGGIO DEL PADRE. CIVILIZZAZIONE E PORNOGRAFIA HARDCORE, AUTOFOCUS E THE CANYONS
ad Angela, l’educazione sentimentale
1. Produzione e consumo del porno Un livello metafilmico unisce la grande ‘trilogia’ pornografica di Paul Schrader: il destino del sistema produttivo cinematografico e la relativa evoluzione dei modelli di consumo della pornografia. Da Hardcore (1979) a Autofocus (2002) fino a The Canyons (2013) la produzione del porno è sempre pensata rispetto alle rivoluzioni tecnologiche delle forme comunicative che hanno segnato il cinema. Per questo motivo la pellicola del 1979 è ancora ambientata sui set a luci rosse, risale a quando la nascente industria del porno era legata a un sistema produttivo prevalentemente cinematografico; dal suo canto, quella del 2002 è ambientata in un interno domestico, quello in cui inizia a installarsi l’home video degli anni ’60 del ‘900, sotto la cui pressione il cinema perderà la sua egemonia espressiva; infine, l’ambientazione di quella del 2013 risente fortemente della virtualità della rete, oramai piattaforma unica in cui sono confluiti tanto il cinema quanto la tv. Ciascuno degli episodi della ‘trilogia’ fa riferimento, quindi, a una precisa era produttiva del cinema: analogica (Hardcore), televisiva (Autofocus) e digitale (The Canyons). Si fa sempre più a meno delle attrezzature pesanti e dei set, che si dissolvono progressivamente prima nella leggerezza di un salotto qualunque in cui basta piazzare una macchina da presa fissa per registrare le performances sessuali e farsi da sé il proprio film pornografico amatoriale, e poi, definitivamente, nel ‘click’ della connessione a social network ‘hard’ che fanno apparire dal nulla nella camera da letto gli oggetti dei propri godimenti.
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Questo livello metafilmico con cui Schrader pensa il destino produttivo del cinema è legato alle trasformazioni che esso inevitabilmente produce sui luoghi e i modelli di consumo del porno: in sala, a casa, nel web. Da Schiava d’amore (il filmetto in 8 mm in cui recita Kristen Van Dorn, la tragica protagonista di Hardcore), ai primi VHS di Bob Crane e John Carpenter (Autofocus) fino ai siti di scambi di coppia assiduamente frequentati da Christian (The Canyons), i tempi di consumo dei film a luci rosse si velocizzano sempre di più emancipandosi da quelli ‘molari’ e rigidi della sala del cinema per assumere quelli ‘molecolari’ e aperti del salotto di casa col videoregistratore e quello ancora più connettivo col web, su cui lo spettatore può intervenire quando vuole. Il livello metafilmico attraverso cui Schrader tiene assieme produzione e consumo di porno riflette, in realtà, su di un unico fenomeno culturale: la smaterializzazione. Di cosa? Del processo produttivo, da un lato: da un sistema analogico fatto di studios, pellicole e set fino ad uno sempre più digitale caratterizzato da un sistema di approvvigionamento dei finanziamenti on-line con metodo crowdfunding (tramite il sito Kickstarter) e di distribuzione su piattaforme digitali (iTunes) – su questi punti Schrader spende più di un elogio in quasi tutte le interviste rilasciate dopo l’uscita di The Canyons. Dei modelli di consumo, dall’altro: dalle sale a luce rosse in cui ci si recava negli anni ’70 del ‘900 (si pensi ai lunghi pellegrinaggi di Jake Van Dorn a Los Angeles, San Diego e San Francisco in Hardcore) alla telefonia mobile (si pensi all’Iphone di Christian in The Canyons a cui basta collegarsi in rete per organizzare orge). Si smaterializza il processo produttivo e con esso i suoi modelli di consumo. Da questo punto di vista, le meravigliose fotografie di un cinema multisala abbandonato agli effetti erosivi del tempo con cui si apre The Canyons, rappresentano simbolicamente l’addio di Schrader alla vecchia macchina produttiva filmica. Eppure, a dispetto di questa lucida e fredda riflessione che nulla concede alla nostalgia dei tempi andati, ciò che non si smaterializza in Schrader è l’ossessione per la pornografia1 . A fronte di questa 1
Non considero qui il bellissimo American Gigolò, del 1980, perché più segnato dal tema della prostituzione del corpo e del suo erotismo, piuttosto
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invarianza, che contrassegna da più di trent’anni la sua opera, mi sembra di poter sostenere che la funzione del porno nel cinema schraderiano vada molto al di là della sola dimensione filmica e rappresenti una vera e propria costante culturale connessa al processo di civilizzazione della società occidentale. Questa, stando a quanto stabilito da Norbert Elias, si può riassumere sinteticamente nella formula dello “spostamento verso un maggiore controllo degli affetti e di una maggior distanziazione da sé”2, cioè nella creazione di un comportamento (cosa avvenuta tra l’Umanesimo e l’Illuminismo) capace di controllare, attraverso un duro esercizio autocostrittivo, le varie manifestazioni della pulsionalità, dall’appetito alimentare a quello sessuale. Sofisticato aristocratico di corte o colto scienziato umanista, in ogni caso ciò a cui mette mano il processo di civilizzazione è la nascita dell’uomo razionale moderno. Dal momento che il porno di Schrader non fa altro che farsi carico del punto in cui questo tipo di condotta temperata entra in crisi per abbandonarsi alla dissipazione più selvaggia (il caso di Bob Crane di Autofocus a tale riguardo è esemplare) mi sembra che, più che al solo destino del cinema e dei modelli di consumo, esso si rivolga sostanzialmente a precisi problemi posti dalla civilizzazione. È per questo motivo che la ‘trilogia’ del porno non è solo un ciclo sulla pornografia, ma sul rapporto più generale tra contenimento e dissipazione sessuale. Detta altrimenti, è una ‘trilogia’ critica sul destino della sessualità occidentale, e il porno, col suo sistema evolutivo di produzione e consumo, rimane la forma più radicale di riflessione sull’argomento. 2. Prima negazione: dalla continenza all’orgia In realtà, l’operazione critica di Schrader è composta da un doppio movimento negativo. La prima negazione agisce nei confronti della rimozione sessuale operata dal processo di civilizzazione per creare il modello comportamentale di continenza e controllo. In
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che – come qui invece voglio rendere pertinente alla mia indagine – dagli strumenti di grafia espressiva del porno. N. Elias, La civiltà delle buone maniere. La trasformazione dei costumi nel mondo aristocratico occidentale, il Mulino, Bologna 1998, p. 86.
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questo senso, il significato del porno schraderiano lavora nella direzione del ritorno del rimosso e il titolo di questo saggio avrebbe dovuto essere Le buone maniere a letto. A tale riguardo, vediamo che atteggiamento prescriveva la precettistica della civiltà occidentale: Sia quando ti spogli sia quando ti alzi, non dimenticare il pudore e bada che non siano esposte agli occhi altrui quelle parti che il costume e la natura vogliono veder coperte. Se dividi il letto con un compagno, rimani a giacere tranquillo, e non mettere a nudo te stesso rigirandoti, né arrecare molestia al tuo compagno tirando le coperte (Erasmo da Rotterdam, De civilitate morum puerilium, 1530, cap. XII). […] se accanto a te è disteso qualcuno mantieni fermo tutto il tuo corpo lungo disteso, e bada, quanto a lui, di non disturbarlo in alcun modo perché ti agiti o ti giri bruscamente, e che non ti si scoprano le membra quando ti muovi oppure ti rigiri […] (Pierre Broë, Des bonnes moeurs et honnestes contenances, 1555). Non bisogna… spogliarsi né mettersi a dormire davanti ad altri; e soprattutto non bisogna mettersi a dormire davanti a persone dell’altro sesso, a meno di non essere sposati. Ancor meno è permesso a persone di sesso diverso di dormire nello stesso letto […] Quando, per una necessità imprescindibile, in viaggio si è costretti a dormire con qualcuno del nostro sesso, non è affatto buona educazione avvicinarglisi al punto non soltanto di dargli disturbo ma perfino sfiorarlo; e lo è ancor meno mettere le proprie gambe tra quelle della persona con la quale si è a letto… (La Salle, Les règles de la bienséance et de la civilité chrétienne, 1729). È un abuso singolare quello di far dormire in una stessa stanza persone di sesso diverso; e se la necessità obbliga a tanto, bisogna fare in modo che i letti siano separati e che il pudore non abbia a soffrire da questa situazione. Soltanto una grande povertà può scusare questa abitudine…
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Quando ci si trova costretti a dormire insieme ad una persona del nostro sesso, cosa che raramente accade, bisogna mantenere un contegno modesto, severo e vigile. Quando ci si sveglia, avendo avuto tempo sufficiente per riposarsi, bisogna uscire dal letto con tutta la dovuta modestia, e non soffermarvisi mai a conversare o a indulgere ad altre faccende… poi che nulla testimonia maggiormente la pigrizia e la leggerezza; il letto è destinato al riposo del corpo e non ad altre faccende. (La Salle, Les règles de la bienséance et de la civilité chrétienne, edizione del 1774)3.
Appare evidente che il processo di civilizzazione modellizza il letto come uno spazio dedicato esclusivamente al riposo, e impone ai corpi rigide posture, soprattutto morali, quando si trovano a doverlo co-abitare. Nel suo primo movimento critico, il porno di Schrader rappresenta la negazione di questa continenza perché pagata al caro prezzo della rimozione della sessualità, come se fosse davvero auspicabile a due corpi vicini nello stesso letto rimanere distanti e freddi, privi di riso, gioco, linguaggio e desiderio. La negazione di questa condotta estremamente severa praticata in primo luogo sul corpo e la sua pulsionalità, produce come effetto una sorta di ritorno di ciò che essa ha rimosso. Il problema è che a causa della forza coercitiva della rimozione, il rimosso, una volta ritornato, si presenta come un qualcosa di parossistico, come se fosse l’immagine riflessa al contrario di ciò su cui il comportamento controllato si è costruito. Detta altrimenti, se il processo di civilizzazione impone a letti e corpi ordine e separazione, la negazione di tutto ciò con il relativo ritorno del rimosso che essa comporta, non può essere che disordine e promiscuità, in breve, l’orgia. Non a caso, in Hardcore, il primo film di Kristen è un rapporto con due uomini; in Autofocus, il filmetto VHS amatoriale che fa capire a Crane l’omosessualità di Carpenter è un’ammucchiata a quattro; infine, in The Canyons, è durante uno scambio di coppie che Christian perde la funzione di regista degli accoppiamenti e si ritrova a recitare un ruolo omo-
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Questi materiali storici sono tratti da N. Elias, op. cit., pp. 309-310.
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sessuale impostogli da Tara e dall’altra ospite della serata con il proprio compagno. Allora, Le buone maniere a letto, titolo che avrei voluto dare a questo saggio, sarebbero le grandi architetture che comandano le orge, l’abisso che accompagna e costeggia ogni letto coercitivamente voluto come ordinato e disciplinato, il lato oscuro di quel capitolo della nostra cultura che il processo di civilizzazione ha chiamato, giustamente, Del modo di comportarsi in camera da letto4. Certo, una lettura ‘autoriale’ (che spesso rischia di cadere nello psicologismo biografico) potrebbe ridurre questa visione del porno a una risposta data da Schrader alla dura educazione religiosa avuta dai suoi genitori (Hardcore è ambientato a Grand Rapids, paese natale del regista). In realtà, Schrader è collocato in un’oggettività che lo trascende, semplicemente perché i temi in cui si ritrova a lavorare, lo precedono e gli seguiranno, sono stati preparati dal grande e impersonale movimento della storia e della cultura occidentali. Non solo. È la stessa storia del cinema, di quello porno in questo caso, a trascenderlo e a costringerlo, come sua umile tuta blu, a trattare il sistema cinematografico come grande macchina produttiva di rappresentazioni simboliche collettive, come luogo di creazione di miti e simboli. 3. Seconda negazione: dall’orgia alla riparazione della funzione ordinativa paterna E con questo vengo al secondo movimento negativo e al perché, infine, ho deciso di dare come titolo a questo saggio Il viaggio del padre. Se non ci fosse stata questa seconda negazione, non credo che Schrader sarebbe arrivato a fare della sua ‘trilogia’ porno una critica della pornografia, cioè di quella forma della sessualità che vede definitivamente orientarsi il rapporto tra continenza e dissipazione solo a favore di quest’ultima. Molto probabilmente, ci saremmo accontentati di grandi film pornografici il cui senso complessivo sarebbe stato quello datogli dalla prima negazione, cioè di fungere da contraltare dissipativo e liberatorio di una cultura che ha represso lungamente la sessualità 4
Ivi, p. 308.
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imponendole ordine e separazione, ed io, di conseguenza, mi sarei rassegnato a dare come titolo a questo lavoro quello de Le buone maniere a letto. Il fatto è che nel momento stesso in cui Schrader fa emergere, con la prima negazione, il rimosso nella forma per eccellenza dissipativa dell’orgia, inizia a criticarla e a cercare il modo per negarla, per dissipare la dissipazione. Da qui ha inizio il viaggio del padre: Jack Van Dorn prende l’aereo e va a Los Angeles per cercare e riportare a casa sua figlia, da poco diventata attrice porno, interprete di Schiava d’amore. Al di là delle sue determinazioni concrete, cioè il fatto di essere un imprenditore di successo, un rigido religioso, un uomo molto legato ai suoi famigliari (incarnazione perfetta della micidiale terna: lavoro fede famiglia), il personaggio di Jack e il suo viaggio vanno presi in termini mitico-simbolici: è un padre che cerca di riparare la sua funzione di portatore di ordine perché solo così potrà porre fine alla dissipazione della figlia. Infatti, è dalla lesione di tale funzione che nasce il bisogno di Kristen di fuggire nella pornografia che, in fondo, altro non è che il desiderio di sentirsi voluta bene dagli uomini, quel desiderio che le è stato originariamente negato dal padre a causa, sì, delle sue determinazioni concrete, quelle che hanno fatto di lui un uomo tutto fede e lavoro, e della figlia, una volta che Jack è stato lasciato dalla moglie, un essere da reprimere. Lo veniamo a sapere nella sequenza ‘magica’ con cui si chiude Hardcore: la riparazione della sua funzione ordinativa Jack la ottiene nel momento in cui ascolta davvero la figlia per la prima volta nella sua vita, l’accetta nella sua diversità, capisce quanto egli sia parte in causa del terribile destino di lei e, rispettando la sua scelta, si prepara a lasciarla nel locale dove l’ha trovata. Kristen, però, inaspettatamente, revocherà tutto. Il ritorno finale a casa, che evoca quello altrettanto meraviglioso di un’altra ragazza ‘impura’, la Debbie di The Searchers (Sentieri selvaggi, di John Ford, 1956)5, la negazione della dissipazione orgiastico-pornografica, è stata ottenuta riparando la funzione ordinativa paterna.
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Sulla fondatezza di questo parallelo mi conforta il sostegno di Gino Frezza.
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4. Padri scissi e figli perversi Credo che questa opera di riparazione sia il gesto connotativo di Jack e sia anche l’elemento per capire la pornomania degli altri due protagonisti maschili della trilogia: Crane di Autofocus e Christian di The Canyons. La ‘trilogia’ fa blocco e, proprio come i cicli mitici, deve essere analizzata nel suo insieme. La riparazione finisce con Hardcore. Non sembra che Schrader sia più interessato, dopo Jack, a manutenere la funzione ordinativa paterna riparata con tanta fatica e sofferenza nel grande film del 1979. Va da sé che, se la lesione riparata non viene regolarmente manutenuta, non solo torna ad aprirsi, ma finisce col crepare definitivamente l’intera funzione paterna. Se dalla lesione originale di Jack fuoriusciva la dissipazione della figlia, da quella stessa lesione, una volta abbandonata la manutenzione della riparazione, escono le pornomanie di Crane e di Christian attraverso una logica molto coerente. È come se dopo Hardcore la figura di Jack, il padre ‘riparato’, prima crepasse nel personaggio del padre scisso incarnato da Crane e poi scomparisse del tutto con Christian. Il modo in cui il protagonista di Autofocus gestisce la sua pornomania nel corso del primo matrimonio con Anne è esemplare al riguardo. Da padre scisso rimuove nel garage tutto il suo lato oscuro, ciò che testimonia la sua perversione e dissipatezza (fotografie e calendari porno, all’inizio), mentre costruisce un’immagine di sé ordinata e continente nel resto dello spazio domestico. Tale scissione ci indica l’impossibilità per questo padre di tenere assieme i due lati della sua sessualità. Mentre nel corso del suo viaggio Jack, da rigido moralista continente, arriva addirittura a fingersi produttore di film porno per cercare Kristen, quindi, sente di dover andare alla ricerca di un modo estremo e paradossale per esplorare, conoscere e dialogare con quel mondo dissipativo in cui è entrata la figlia, mondo che da quel momento è diventato una parte di sé, Crane fa di tutto per non fare comunicare le sfere della continenza e della dissipatezza. E, a questa incomunicabilità intrapersonale, fa corrispondere la mancanza di comunicazione interpersonale con i figli che diventano o semplici ‘arredi’ domestici da riprendere con uno dei prototipi di videocamera anni ‘60 del ‘900, oppure, quasi alla fine del film, individui con cui si scambia chiacchiere di circostanza (si pensi al dialogo tra ‘sordi’ con l’oramai adolescente
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Bobby, avuto con Anne). Sebbene scissa, e per questo completamente incapace di esercitare alcuna funzione di controllo ordinativo sulla propria dissipatezza, la figura paterna di Jack continua a sopravvivere in Crane. La morte definitiva di questo padre, e di conseguenza della sua funzione di portatore di ordine sul caos della pulsionalità sessuale, si ha con Christian. Privo di figli perché a sua volta figlio ‘eterno’ di un padre assente, che viene solo nominato come erogatore del suo fondo fiduciario (in particolare nel corso della seduta con l’analista interpretato da Gus Van Sant), Christian vive senza limiti la sua pornomania, che fa a meno di pellicola e di VHS, e a cui basta, per realizzarsi, la connessione in rete. Senza più un padre ‘riparato’ come Jack, o addirittura scisso come Crane, a Christian non rimane altro ruolo di quello del figlio perverso. 5. Il ruolo delle classi dirigenti La lezione politica che si può ricavare dalla ‘trilogia’ pornografica di Schrader ha a che fare con il ruolo svolto in essa dalle classi dirigenti. L’esito di questa lezione è diametralmente opposto a quello a cui giungeva, ad esempio, Joseph Losey in The Servant (Il servo, 1963). Qui, la squallida immagine dell’orgia con cui si chiude il film, ammucchiata generazionale che sancisce definitivamente l’impossibilità di distinguere il servo dal padrone, quindi la forma più primitiva dell’ordine, diventa emblema della decadenza della classe dirigente britannica (non dimentichiamo che il protagonista, Tony, è un ricco aristocratico). Lezione morale, questa di Losey, che non riesce a farsi lezione politica come in Schrader. A questo livello, le determinazioni concrete di Jack van Dorn (George C. Scott) tornano a pesare, ma positivamente. Il suo viaggio è quello di un ricco imprenditore che sa ancora ciò che è bene per sua figlia (la fine della dissipatezza), quindi, in termini simbolici, per le future generazioni. Il destino di questa consapevolezza, nella ‘trilogia’ di Schrader, è identico a quello della funzione ordinativa: né Crane né tanto meno Christian arriveranno a porsi il problema di ciò che c’è oltre la loro dissipatezza. In Autofocus e in The Canyons non c’è il sen-
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timento del futuro perché i loro protagonisti si chiamano sempre fuori dal giocare un ruolo attivo come classe dirigente: si limitano, nel presente, a godere della loro perversione come godono dei privilegi della loro rendita, di ruolo nel caso di Crane (si pensi a tutte le scopate che si fa solo perché identificato in ‘Hogan’ protagonista dell’omonima serie di successo degli anni ’60 del ‘900), di posizione in quello di Christian (si pensi al fondo fiduciario paterno). In questo senso, ma solo in questo, questi due personaggi potrebbero tranquillamente comparire come figuranti nella corte di The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese. Il viaggio del padre, allora, è un percorso di formazione simbolica per giungere alla riparazione della funzione ordinativa, ma lo è in quanto ha a cuore il futuro del mondo. Grande politica di un cinema classico.
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PAUL SCHRADER UN CINEASTA AMERICANO ATIPICO TRA INDIPENDENZA E INFLUENZE EUROPEE
Nel 1972 Paul Schrader si laureò alla Film School della University of California of Los Angeles con una tesi dal titolo The trascendental style in film: Ozu, Bresson, Dreyer nella quale analizzava il rapporto che lo stile di questi tre grandi cineasti ha avuto con la trascendenza ed in particolare con un approccio al cinema che non sia meno che intellettuale o formale e quindi volto a catturare l’essenza del trascendente. Quel lavoro universitario è oggi diventato un volume centrale nella speculazione che vede al centro dell’interesse il manifestarsi di ogni fenomenologia dell’invisibile, non necessariamente del sacro e quindi della trascendenza dentro al cinema dei tre autori. Il testo è già un’anticipazione della poetica di Paul Schrader regista e scrittore di cinema e ne denuncia la natura tutt’altro che conforme ad un comune sentire americano, quanto piuttosto segnata, profondamente, da una filosofia di marcata matrice europea. L’approccio teorico di Schrader vede nel cinema di quei tre autori il manifestarsi di quello che il teologo protestante francese André Dumas definiva come il mostrare l’invisibile attraverso le variazioni del visibile. La conclusione è perfettamente calzante all’idea che Schrader mette in gioco attraverso lo studio di questi tre grandi registi. Il suo interesse infatti non è quello del contenuto, quanto piuttosto del metodo e della ricerca che conduca a mostrare l’invisibile, il non percepibile. Il suo scopo è creare una vera e propria fenomenologia dello stile trascendentale come egli stesso la chiama. Si tratta di rintracciare, grazie all’analisi filmica, quella forma cinematografica universale che esprime il trascendente (P. Schrader, Il trascendente nel cinema, Roma, p. 8). Per questa ragione il compito di questo lavoro è essenzialmente affidato alla critica.
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Da questo assai superficiale esame dell’approccio di Schrader al cinema, dal quale deriva uno sguardo del tutto anomalo rispetto alla sua contemporaneità americana, si profila la figura del regista americano che mette in campo le proprie doti di teorico e di studioso del cinema con taglio originale e, soprattutto, profondo. Questa propensione teorica lo conduce a prediligere quel cinema che si manifesta come mistico nei suoi profondi assunti e ascetico nella sua concezione più formale. Sarebbe stato strano che questa sua spinta concezione teorica non si riversasse nel suo lavoro di cineasta, in quello scritto e in quello realizzato come regista. Forse lo sforzo maggiore in questo senso lo si ritrova nel controverso Mishima a life in four chapters, (film pieno di cose bellissime e tutta via non bello, come osserva F. La Polla in «Cineforum» n. 257). Mishima è un film nel quale la fusione di elementi propri dell’amata cultura giapponese con le forme di un cinema rigorosamente aderente ad una compostezza che il personaggio richiedeva, conduce ad un risultato in cui la bellezza formale sopravanza il senso complessivo dell’operazione. Tuttavia proprio per questa ricerca che si vede nitida nella composizione delle immagini - si pensi alla complessiva rarefazione del film che sembra smaterializzare la narrazione ricercando negli elementi concettuali i temi per una ricostruzione del personaggio – è visibile lo sforzo per la messa in scena di una ascesi del protagonista, in una specie di progressiva purificazione. Segnali precisi di uno Schrader che dopo le prime prove, legate più alla riproduzione di temi propri dei generi ai quali i film appartengono (American gigolò e Cat people) muove i primi passi per una emancipazione della sua forma cinematografica e per una ricerca che guardi agli insegnamenti ricevuti dai suoi tre maestri. Questo percorso di purificazione dello stile ci spiega anche il suo naturale legame con il primo Scorsese portatore di valori altrettanto profondamente religiosi, la colpa, la redenzione, il peccato, secondo gli insegnamenti cattolici differenti, ma nei quali si ritrovano le stesse radici culturali. L’ancestrale senso di colpa, per peccati o trasgressioni mai commessi, appartiene naturalmente ad entrambi gli autori. Da questo punto di vista sia il primo Scorsese, sia il primo Schrader sembra abbiano più di alcuni punti in comune e sicuramente una condivisione dell’appartenenza alla vita nel segno dell’espiazione. Un tema che caratterizza fortemente le prime
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prove di Martin Scorsese, ma che ciclicamente sarebbe ritornato nella sua cinematografia successiva seppure non con quella stessa forza primitiva. Questi argomenti appartengono costantemente, quali temi portanti, al lavoro di Schrader. I suoi personaggi hanno in comune il male del castigo autoinflitto o venuto da lontano, la colpa ancestrale o il peccato dell’immanenza. In questa opposizione tra immanenza del reale e aspirazione alla trascendenza come atto di purificazione, sta la ricerca dello scrittore. Una ricerca che appare sicuramente originale all’interno del panorama americano e perfino lontano, con le sue forti connotazioni, da ogni cultura europea, se escludiamo quelle a più stretta osservanza protestante per le quali però bisogna guardare al cinema di un passato che si fa sempre più remoto, ma al quale Schrader pare dovere necessariamente appartenere. Il suo cinema, come i suoi personaggi, nella modernità della loro esistenza, restano viziati da una ostentata ricerca di perfezione morale; sono intransigenti ed esigenti ma destinati, sin dal loro apparire, alla sconfitta. Questi i presupposti sui quali si fonda l’atipicità di Paul Schrader e nelle quali si riconoscono le sue ascendenze frutto di una meditazione decisamente razionale, che riversa in quei film dalle storie così claustrofobiche da imprigionare i suoi personaggi per i quali non può suggerirsi alcuna via d’uscita. La cultura religiosa, di un calvinismo rigoroso e intransigente, sembra quindi avere condizionato le scelte artistiche dello scrittore e regista che si rivelarono immediatamente parallele alla scoperta del cinema. Il suo scritto, così profondo e che da solo restituisce lo spessore del personaggio e della sua statura di studioso, indica chiaramente le sue preferenze che si sono orientate sin da giovane verso un cinema che avesse come primaria intenzione quella di una speculazione filosofica con al centro la materia religiosa. In questa sua propensione alla ricerca di una perfezione tra imperfezione dell’umanità e ricerca di una metafisica che abbia a che fare con la trascendenza, si focalizzano anche molte delle sue opere sia di scrittura, sia cinematografiche. Pur nella apparente diversità, sia Taxi driver, scritto per Scorsese nel 1976, sia Mishima appartengono a questa categoria. L’uno che stringe l’occhio sullo smarrimento di un personaggio assai fragile nel grande labirinto di una città. Un film che è riuscito a dare corpo – quelli di De Niro
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e di Keitel, per non parlare di quello diafano della giovanissima Jodie Foster – ad una discesa in un girone infernale materializzato in un’oscurità metropolitana sempre minacciosa. Era quello il cuore di un cinema profondamente controverso, che esprimeva il travaglio di una colpa senza causa, di una impossibile redenzione pur nel percorso cristologico e purificatore che si consuma nel sangue. Le due anime dei suoi autori, ricche di religiosa spiritualità, hanno guardato al male radicato e non estirpabile di un mondo altrettanto intimamente ostile. La composita metropoli di New York così distante dal mito felice di Allen, diventa il luogo ideale in cui sperimentare questa impossibile ascesi di purificazione, sia per Scorsese che portava in dote la sua religione cattolica, sia per Schrader che era segregato nella la sua rigida pratica calvinista, nella sua concretezza “capitalistica”. Non è forse un caso che Schrader nel suo primo film da regista, Hardcore (1979), storia di un padre, Jake (George Scott), che parte alla ricerca di sua figlia sparita dalla piccola comunità rigidamente osservante verso i luoghi della perdizione, sembra mettere in scena la sua stessa esistenza giovanile quando osserva con il distacco di un sordo rimpianto la profonda e protettiva provincia del Michigan. Hardcore si trasforma in un film profondamente vicino a Taxi driver, ma se quello è la discesa personale in un ade molto concreto e materiale, l’altro ci trasporta verso la California, terra, per antonomasia di fornicazione e peccato (i Red Hot Chili Peppers ci scrissero Californication). È la ricerca di un equilibrio tra pulsioni di una sensualità in agguato e un suo profondissimo rifiuto. Ne sia conferma il remake tutto a proprio uso di Il bacio della pantera (1982), opportunamente intitolato Cat People, astraendone quindi una condizione collettiva contro una visione ristretta al particolare del film di Tourneur. Nelle mani di Schrader il film diventa non più un horror d’ambiente quanto piuttosto una riflessione più ampia e inquietante, un percorso che se non fosse blasfemo dirlo avrebbe a che fare con una sorta di cristologia atea che pervade la storia. Un film in cui la colpa risale ad un antico e irredimibile peccato, figlio di un tabù universale che non può trovare espiazione. È l’animo calvinista di Schrader che cerca redenzione. Il suo sguardo è quindi, nel panorama variegato del cinema americano, quello più profondamente segnato da una ricerca religiosa
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che traduce la colpa dell’essere, inconsapevolmente macchiato da un delitto originario, in irrisolvibile espiazione. Colpa, delitto, redenzione, percorsi di una ricerca di superamento di una realtà immanente per opporre una auspicata trascendenza che redima dalla colpa e dalla condizione umana connaturata al concetto di errore. Paul Schrader in questa speculazione sembra prendere le distanze dall’ambiente hollywoodiano che si costruisce proprio su concetti del tutto antitetici, opposti e distanti. Il suo cinema si fa cinema morale, ricomposto dagli insegnamenti teologici di principi religiosi con i quali deve fare i conti poiché pilastri della sua formazione. Ecco quindi la sua anomalia, la sua diversità nel panorama dei cineasti americani che si dibatte in una percepibile opposizione tra buono e cattivo, tra responsabilità e libertà, ma soprattutto tra colpa e redenzione, concetti elaborati nel suo lavoro complessivo che si confondono nel chiaroscuro dei sensi e nella sensualità delle vicende. Su questi pilastri concepisce il suo cinema trascendente, sotterraneo e silenzioso attraversato da altrettanto silenziose paure e occulte colpe. Un riferimento, culturale, quello di Schrader, eminentemente occidentale, ma ancora una volta dentro quelle antiche radici culturali che si sono sviluppate nell’intreccio tra la storia civile e religiosa del nord Europa. In fondo il suo cinema, come si diceva, così distante dalla spettacolarità hollywoodiana, assume quali capisaldi narrativi personaggi intimamente colpevoli, tutti destinati ad una autodistruzione incondizionata, passaggio obbligato verso una auspicata redenzione. È forse Affliction (1997) il film che meglio esprime l’impietoso dibattersi del personaggio tra antiche colpe, ferite dell’anima a causa di un’infanzia infelice e un bisogno disperato di essere accettato dentro la comunità. Quella di Wade, il protagonista, è una sindrome afasica, quella di un bravo cittadino incapace di dimostrare la sua dedizione. La sua maledizione è quella di sbagliare ogni comportamento e portarsi dietro l’odio inveterato per un padre mai accettato, così opposto e così paurosamente simile a lui. Wade è sicuramente il personaggio più completo e complesso della galleria schraderiana ed ha una somiglianza accentuata con il Jack La Motta di Toro scatenato. Due personaggi che si muovono allo stesso modo provando a farsi accettare dal loro mondo, ma il loro movimento è simile a quello del proverbiale elefante che si muove tra i cristalli. È il
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peso delle colpe, è il peso di una impossibile redenzione. Wade è un personaggio segnato da un destino di solitudine, condannato ad un tormento eterno dentro le fiamme nelle quali consuma il corpo dell’odiato padre. Perché è anche quella la maledizione dei personaggi di Schrader, l’opprimente peso delle comunità. Il piccolo centro urbano come moltiplicatore di condizionamenti, di un oppressivo legame che non protegge ma destabilizza. In Hardcore e Affliction questa condizione diventa evidente e insanabile e non è dissimile da quella che lamentava, con toni altrettanto accesi il giovane Joyce quando detestava la sua Dublino e l’Irlanda colpevoli di gettare addosso all’uomo le reti di una religiosità incombente che imprigionando la coscienza ne impedisce il suo realizzarsi. Così Wade è letteralmente oppresso da una collettività che vede in lui il poliziotto garante di una legge che egli stesso non sa e forse non vuole rispettare. Affascinato dalla colpa, come ad esempio in tutta la vicenda della morte di Towmbley che egli attribuisce all’incolpevole Hewitt. È qui l’errore nella percezione del reale, quel peccato dell’immanenza, di cui si diceva. L’errore è in Wade, ma egli stesso sembra proiettare sugli altri quelle che sente come colpe proprie. Il calvario di Wade è esplicito, tanto da rendere impossibile ogni deviazione da un percorso già segnato, immodificabile e per questo tanto somigliante ad una religiosa via crucis. La ricerca di una possibile salvezza si consuma dentro un microcosmo che sembra saturo di violenza cupa e sotterranea, inesplosa. È la tensione dei suoi film, ma anche della sua scrittura che da Toro scatenato a Yakuza ha dato nuova linfa e nuove immagini e storie ad una Hollywood, che uscita da un classicismo che cominciava a rivelarsi stanco, si affacciava alla fine del millennio dentro le contraddizioni di un’epoca ribollente di tensioni sociali e politiche. Il suo cinema, le sue scritture per il cinema, hanno contribuito a spostare l’asse di interpretazione della realtà e il cinema stesso ha scoperto una sua indipendenza che resta in primo luogo scoperta ontologica e quindi consapevolezza del suo potenziale. In questo clima la ricerca di una inarrivabile perfezione diviene per Schrader dimostrazione dell’imperfezione. I suoi personaggi risultano imperfetti pur nella tensione alla completezza, ma intrappolati negli incroci sbagliati di un destino già segnato. Era del tutto naturale che Schrader unisse le forze ancora una volta con Scorsese per scrivere e girare un film sulla figura di Cri-
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sto che raccoglie in se l’imperfezione umana, la tensione al divino, quindi al perfetto, e l’immodificabilità del suo destino. A questo si aggiunga che è ovviamente il personaggio che meglio traduce (o dovrebbe tradurre) il senso (in)finito della trascendenza. L’ultima tentazione di Cristo (1988), tratto dal libro di Nikos Kazantzakis, è il film che nella sua profondissima umanità traccia le traiettorie di una divinità rifiutata e in questo il cinema di Scorsese si fa eterodosso, pur nella matrice unilateralmente cattolica degli insegnamenti ricevuti, la scrittura di Schrader coglie l’occasione per interrogarsi ancora una volta sulla trascendenza umana, sulla possibilità di questo divenire. Ma l’umanità di Cristo sembra negare ogni aspirazione alla perfezione, ogni spiraglio di speranza ed in questa ottica è forse il film più chiuso nel suo senso e meno disponibile ad una possibile interpretazione. È così che il cinema di Schrader cerca la via di una felicità espressiva in questa ricerca che continua nel tentativo, non sempre riuscito, di trovare un percorso che spieghi l’umano. È in questa chiave che va letto il raggelato The Canyons (2013) che nell’estetica fredda del videoclip denaturalizza ogni elemento e congela ogni emozione. Il suo è un cinema che sembra avere ormai superato ogni emozione, ma anche ogni natura originaria e nelle sue parole, in conferenza stampa a Venezia alla presentazione del film, c’è il senso di questa disillusione: “Questo film è fatto per uscire dalle sale, per il post-cinema. Lo abbiamo concepito per il video perché il cinema sta cambiando e le sale chiuderanno presto”. Un cinema che si caratterizza ancora e di nuovo e sotto altra luce come imperfetto, inguaribilmente imperfetto sembrerebbe, tanto da riversare la sua essenza dentro le forme non più dipendenti da una struttura narrativa – che in questo caso è tratta da Bret Easton Ellis lo scrittore forse più disincantato e lancinante che abbia guardato alla psicopatologia di un esibito perbenismo – quanto da un’estetica fredda dell’immagine ai limiti della sopportabilità. Un percorso quasi inverso il suo, che lo conduce sulle strade di un cinema che ritorna non solo ad una indipendenza del pensiero, ma anche ad una indipendenza produttiva, al di fuori dei grandi circuiti, che sicuramente gli concede una più ampia libertà espressiva. La disillusione fa abbandonare le strade della ricerca della perfezione e della trascendenza e un nichilismo tutto terreno si appropria delle sue immagini che volutamente diventano pietra di scarto di una
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estetica televisiva, chiuse in un postmodernismo che così diventa perfino asfissiante. Sembra la chiusura di un’epoca e il tramonto di una speranza.
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SCHRADER E GLI SCRITTORI: RISCRIVERE LA GRANDE LETTERATURA
La storia del cinema è fatta da registi che inventano cinema, Méliès, Griffith, Gian Vittorio Baldi, Augusto Tretti, per fare qualche nome, e da altri che interpretano una sceneggiatura già preparata meticolosamente dagli studios e la raccontano più o meno genialmente, più o meno piegandosi a essa o sfidandola. Uno di questi è un regista come Paul Schrader, proprio per la sua “fissazione” o “ideologia” legata alla trascendenza dell’opera filmica partendo dal testo che affronta. In una lunga intervista con Dante Spinotti, è stato proprio il grande direttore della fotografia friulano, che con Schrader aveva lavorato in The Comfort of Strangers a chiarirmi il lavoro di lettura e scrittura che il regista adottava, il suo confrontarsi, anche attraverso un’altra scrittura con l’autore letterario, quasi un bisogno più fisico che intellettuale, quasi un omaggio a chi è all’origine del racconto: lo scrittore. Ci sono quattro film che ci sembrano i più esemplificativi del metodo di approccio di Schrader all’autore letterario: Mishima: A Life in Four Chapters (1985) tratto da Mishima stesso, filtrato da Chieko e Leonard Schrader, The Comfort of Strangers (1990) da Ian McEwan, Affliction (1997) tratto da Russell Banks, The Canyons (2013) scritto da Bret Easton Ellis. Naturalmente abbiamo tenuto presente anche altri incontri letterari di Schrader: Cat People (1982) da DeWitt Bodeen, Patty Hearst (1988) dal libro di Patricia Hearst e Alvin Moscow, Touch (1997) da Elmore Leonard (1925–2013), Auto Focus (2002) da Robert Graysmith, e Adam Resurrected (2008) da Yoram Kaniuk (1930–2013). Titoli che esprimono una precisa tendenza dell’autore, quella stessa che lega i musicisti ai loro librettisti, un bisogno assoluto della parola per evocare là la musica, qui l’immagine. Non meno importante è la vicinanza o l’originalità rispetto al testo scritto, che segna il cammino autoriale di Paul Schrader e la sua “lettura” dell’autore stesso. Lettura che lo porta a diversificare, ad
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esempio, il rapporto che stabilisce con Affliction o con The Comfort of Strangers. Ma alla base c’è nel regista una lettura scolastica dei testi che va a esaminare. Schrader non è un Ford o un Hithcock o un Sokurov, nonostante tutto, pur avendo una sua grammatica non riesce a impregnare il suo testo cinematografico di se stesso. È troppo preso dal testo che diventa più di un riferimento, c’è in lui il piacere fisico di mettersi al servizio del testo, senza la sfacciataggine di un arlecchino, con la seriosità di un pantalone che difende e celebra il tesoro trovato. Il rovescio della medaglia di questa prassi è il suo impegno come sceneggiatore firmando i copioni di film come Taxi Driver (1976), The yakuza (Yakuza, 1975), Raging bull (Toro Scatenato, 1980) e The last temptation of Christ (L’ultima tentazione di Cristo, 1988) e Bringing out the dead (Al di là della vita 1999). Proprio la collaborazione con Martin Scorsese diventa importante per il suo comporre cinema, soprattutto nel senso di colorare l’immagine e sapere cosa vuol dire “scrivere” diventa per lui il rispetto dei colleghi sceneggiatori. Un esempio è il coinvolgimento di Harold Pinter che detterà i tempi di The Comfort of Strangers. Punto focale di questo suo cammino è Mishima: A Life in Four Chapters, proprio per la potenza e la statura dello scrittore giapponese Yukio Mishima (1925-1970). Il film georgiano Patardzlebi (Spose) della regista Tinatin Kajrishvili presentato alla 64° Berlinale, che ha come punto focale drammaturgico proprio Mishima e il suo libro Yūkoku (Patriottismo), esprime come meglio non si potrebbe la fascinazione che l’esteta nipponico esercita su chi lo legge (succede infatti che la donna, che ha da poco sposato l’ uomo che le ha dato due figli e che si trova in carcere con una lunga condanna, si vede proporre da questo il suicidio per entrambi e per convincerla le chiede di leggere il libro di Mishima che lo ha ispirato). E Paul Schrader non sfugge a questa anzi la celebra in quattro capitoli, che diventano stazioni, in un gioco sacrale, di una via crucis laica, che avrebbe interessato Pier Paolo Pasolini. I quattro capitoli-stazioni sono in ordine Bellezza, Arte, Azione, Armonia tra penna e spada. La Bellezza è ispirata al romanzo Kinkakuji (1956) (in Italia arriverà sei anni dopo con il titolo Il padiglione d’oro), che parla di un giovane storpio che arriva a incendiare un antico tempio per lui troppo bello, l’Arte è tratto da un capitolo del romanzo La casa di Kyōko sulla bellezza e la deturpazione, con l’Azione, ispirato da Honba, uno scritto che impegnò Mishima tra
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il 1967 e il 1968 (in italiano venne presentato come Cavalli in fuga), afferma il suo credo nazionalista e la devozione a questo fino al suicidio rituale, l’Armonia tra Penna e Spada, mette in scena il suicidio il 25 novembre 1970 dello scrittore che ha provato a coniugare la vita con l’arte, scegliendo infine l’unico gesto vincente. Schrader è stato aiutato non solo dal corpo delle scritture dell’autore, ma anche dal lavoro di suo fratello Leonard Schrader (1943-2006) e della moglie di lui Chieko Schrader (1977-2006), fondamentale per misurarsi con la profondità della lingua dello scrittore. Leonard, sceneggiatore e regista anche lui, era noto per la sua capacità di scrivere in giapponese ed era intriso della cultura del paese del sol levante. Cinque anni dopo per The Comfort of Strangers, Schrader ricorre al secondo romanzo uscito nel 1981 di Ian McEwan filtrato da Harold Pinter. Non è certamente uno dei migliori romanzi dello scrittore inglese, che aveva esordito nel 1978 con il durissimo The cement garden, portato superbamente sullo schermo da Andrew Birkin nel 1993. Cortesie per gli ospiti, come si intitola nel 1983 l’edizione italiana, non ha lo stesso spessore narrativo, McEwan non è più nella sua Inghilterra, Venezia non è un non-luogo, il gioco resta fine a se stesso e Schrader resta vittima di un equivoco alimentato dalla presenza di Pinter, che infierisce su una storia borghese con l’idea di rendere Venezia claustrofobica. Ma è Venezia stessa che diventa una claustrofobica fine del mondo, un cul de sac in cui il regista cade cercando inutilmente di risolvere esteticamente il film. Nel 1997 Schraeder incontra Russell Banks e il suo Affliction pubblicato nel 1990. È un incontro felice, il regista entra nelle corde dello scrittore e dimostra di saperle suonare, l’autore non è un divo, ama la poesia e i racconti brevi, dove i personaggi non sono eroi ma colorano la loro vita di indecisione, confusione, dubbi e delusione Il protagonista è un giovane gay che va al funerale del suo compagno trovandosi nel profondo della campagna statunitense alle prese con una famiglia di violenti maniaci. Lasciati i potenti e sgargianti colori, qui il regista sceglie il grigio, non ci sono quinte da costruire, la natura prende il posto del teatro di posa, non ci sono personaggi da costruire, camminano da soli, e finalmente Paul Schrader fa cantare il cinema seguendo la poesia di Banks. Lui non ne è convinto visto che in un’intervista ha dichiarato a proposito di questo film: “Con tutto quel bianco, quel freddo, quelle emozioni trattenute, ti pari meglio il culo con il
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pubblico del cinema d’essai”! Da Banks, classe 1940, evidentemente non amato essendo autore classico e pulito, dopo aver girato Forever mine (Le due verità, 1999) Auto focus (2002-2003), Dominion: prequel to the Exorcist (2005), The walker (2007) e Adam resurrected (2008) da Y. Kaniuk, nel 2013 il regista passa al cinquantenne Bret Easton Ellis, noto per American psycho, per adattare il suo The Canyons. La morte del fratello Leonard si fa sentire in fase di scrittura come la produzione del film. Schrader, alle prese con una sceneggiatura originale di Ellis, scrittore che ama le situazioni forti, su un noto attore porno James Deen, e un’attrice che cerca di uscire dall’impasse di essere stata trovata ubriaca e drogata più volte come Lindsay Lohan, riesce solo a confezionare un pallido porno soft che cerca di apparire intellettuale affiancando a una storia superficiale e scontata le immagini di tante sale cinematografiche vuote e abbandonate. Uno Schrader irriconoscibile, a disagio con una storia con un gruppo di giovani rampanti, uno psicopatico figlio di un magnate (Deen) che costringe la sua ragazza (Tara, Lohan), che in realtà è innamorata di Ryan e lo ha accettato come amante per soldi, a fare l’amore con i più svariati gruppi di persone, ma non la perdona se lo fa con Ryan. Questi ha un rapporto con una ragazza che gli vuole veramente bene ed è l’attiva segretaria del giovane ricco, per questo gli ha trovato una parte in un film. La ragazza è l’unica figura che mantiene una dignità, Ryan per diventare attore è disposto sessualmente a tutto, lui come Tara sogna una vita diversa. Tutto in una Los Angeles che sputa ricchezza e una perversione troppo finta per un film che doveva sudare sangue e sperma per essere almeno credibile.
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SPORCHI DELLA LORO PUREZZA. DETECTIVE, MAGHI, SANTI LAICI, PASSIONARI ED ESORCISTI NEL CINEMA DI PAUL SCHRADER Lo scarto che si può riconoscere tra lo Schrader che si esprime nella sua forma più piena, tetragona, rigorosa, e lo Schrader che si apre poi a una sperimentazione che, prima ancora che espressiva, è essenzialmente di genere, narrativa, costruttiva dei suoi film, sta tutto in un pugno di film che ha realizzato tra la metà degli anni ‘90 e la metà del 2000. O forse sarebbe meglio dire che quello scarto sostanzialmente non sussiste, nel senso che poi questi sono anni in cui, successivamente alla definizione quasi sistemica del suo cinema offerta con Lo spacciatore (Light Sleeper, 1992) e prima di rifondarlo ab origine con The Walker (2007), Paul Schrader si concede ad un rapporto con l’industria cinematografica ad un tempo libero e quasi giocoso, pieno di sperimentazioni di genere, di derive illusorie, di scherzi che dicono tutta la loro serietà rispetto all’evidenza degli elementi di una poetica che comunque questo autore non mette mai a tacere. Sono un paio di lustri in cui, se il regista si produce in un capolavoro vero come Affliction (1997), si concede soprattutto a una serie di tentativi fuori schema, generati al di fuori da quel sistema hollywoodiano in cui, sino agli anni ‘80, la sua poetica di sceneggiatore e regista è maturata. È una stagione che si apre con l’imprevedibile mélange surreale acceso nel televisivo Witch Hunt (1994), gioco immaginario di magia e caccia alle vere streghe ambientato in una America anni ‘50 sospesa tra Oz e l’hard boiled; procede con la commedia laico-cristologica di ispirazione leonardiana (nel senso di Elmore) Touch (1997); si infiamma nella passione ossessiva di un mélo fuori misura come Le due verità (Forever Mine, 1999); si insinua nel rapporto intimo e privato tra cinema e star nel biopic su Bob Crane Auto Focus (2002); e infine incorre nella tentazione di sistema offertagli dalla saga dell’Esorcista, girando non senza l’ostracismo della produzione Dominion: Prequel to the
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Exorcist (2005). Tutti film in cui, la disparità dei registri stilistici pare corrispondere a una sorta di gioiosità del filmare che sembra quasi voler cercare il piacere fisico del tentativo, la sensazione vertiginosa del mettersi alla prova, solo per poter rigorosamente confermare la tensione poetica del suo cinema. Che è pur sempre questione di figure che scoprono i confini strettissimi della loro presunta libertà, cadendo dalla vertigine di una grandezza illusoria e ritrovandosi potenti solo del loro destino già determinato. La loro purezza, ai limiti dell’ingenuità, nasce sporca del contatto con una predestinazione che nega l’arbitrio di un esistere per sé e da sé. Scendendo nel dettaglio di queste opere, scopriamo infatti che, per esempio, l’intrusione hollywoodiana del fantasy grottesco offerta da Witch Hunt è una sorta di esercizio di logica cangiante, disfunzionale, che ha le stimmate dell’inversione di senso dell’intero campionario poetico schraderiano, ma allo stesso tempo ne conferma ogni elemento. Intendiamoci, questo tv movie, realizzato in pieni anni ‘90 per la HBO, è una sorta di scherzo d’autore che, sulla scorta di un personaggio creato dal producer televisivo Joseph Dougherty per un precedente film televisivo (Cast a Deadly Spell, diretto nel 1991 da Martin Campbell, dove Fred Ward vestiva i panni del detective H. Philip Lovecraft al posto di Dennis Hopper), performa in una chiave fantastica ad un tempo intrigante e spiazzante, un agglomerato di iconografia hard boiled, sagomature noir e incongrue pulsioni lovecraftiane. Si tratta insomma di un esercizio di pura fantasia cinematografica e letteraria, in cui l’ambientazione anni ‘50 si applica a una imagerie marcatamente analogica (che fa quasi il paio con le posticce iene digitali del più tardo Dominion...) e dove lo slittamento di senso tra l’ombra storica del maccartismo e la sua grottesca torsione magica produce nel cuore di Hollywood una caccia alle streghe che è letterale. È evidente che Schrader cavalca gioiosamente il salto logico che gli propone l’universo creato da Dougherty, affidandosi alla maschera stranita di Dennis Hopper, che imbriglia il classico cinismo da private eye di Lovecraft in un dissidio esistenziale che lo rende estraneo all’intero universo in cui si muove, e dunque perfettamente schraderiano nel suo essere un antieroe in perenne controbattuta rispetto sia al chiaro sia allo scuro del mondo da cui è generato. Il detective Lovecraft, infatti, non sta al
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gioco reazionario del senatore Crockett (Eric Bogosian) e alla sua crociata contro la magia, diventata di moda a Hollywood e in tutta l’America. Ma, allo stesso tempo, non accetta di utilizzare quella stessa magia che ormai è la chiave di volta del successo di tutti, tenendosi ancorato a una disillusa purezza, che è una marca morale del suo carattere, lo status identitario di una estraneità distaccata da quel mondo in cui si muove. In questo senso, il film è una sorta di performance surreale, in cui Schrader applica categorie etiche e morali a una rappresentazione della realtà che rasenta quasi la pantomima, tanto i personaggi sono estraniati ironicamente e forzati a stare in una logica delle azioni e dei gesti in cui il simbolo assume il valore letterale che gli appartiene, senza rimandare al suo significato recondito: le streghe sono streghe, la magia è magia, non c’è rimando metaforico al suo corrispettivo semantico storicistico offerto dal maccartismo. Ed è proprio in questo appiattimento di senso che Schrader sembra trovare il gusto di una messa in scena che non sfugge a se stessa, non assume valore alternativo. Il mimetismo del news reel su cui si accende il film è allora un vero e proprio tuffo logico in un universo che si apre ingenuamente al suo controcampo reale, lasciando la flagranza dell’incipit nuda di fronte allo spiazzamento di senso, esattamente come nudo di fronte alle categorie di genere attivate (l’horror, il fantasy, il noir) resta l’intero film: impassibile e intangibile rispetto alle sagomature di mondi e personaggi categorizzati nell’immaginario, divertito nel vestirne i panni e nell’attivarne i gesti, ma anche indifferente alla torsione della loro sostanza. Insomma, è come se Schrader abbia adottato lo sguardo stranito e la modalità analitica letterale che era appartenuta al Travis Bickle di Taxi Driver, il medesimo mimetismo sordo a ogni sfumatura di senso, che garantisce l’inconfondibile purezza di ogni figura schraderiana: immancabilmente compromessa con ciò che potrebbe sporcarla, ma che non la sporca solo in ragione di un semplice atto della coscienza, frutto allo stesso tempo dell’indole e della determinazione. Non è dunque incongruo che a un film sulla magia, ironicamente disincantata tra una sua applicazione pratica alla realtà e la sua indole ideale e immaginifica, faccia seguito nella filmografia
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di Paul Schrader un’opera come Touch, che, sulla scorta dell’omonimo romanzo di Elmore Leonard, disincanta invece quella che per un credente è l’attitudine performativa basica dell’atto di fede, ovvero l’atto miracoloso. Come dire, una magia praticata in chiave religiosa, messa in scena da Schrader in un mondo ancora una volta sospeso sulla finzione edonistica dell’esistenza, tra opposte irrealtà (le chiese e le congreghe religiose, il sistema mediatico informativo) che si contendono il controllo di quella scena su cui tutti si muovono con pari incoscienza o indifferenza. Applicandosi a un testo insolito di Elmore Leonard, Paul Schrader insiste anche qui su una regia maliziosa e intrigante, mimetica rispetto alla grossolanità dell’universo che rappresenta, adoperandosi in una commedia che batte un ritmo veloce e insiste soprattutto su personaggi che vestono le loro funzioni per evidenziarle, su scene disegnate nelle geometrie cromatiche. Invertendo il processo di Witch Hunt, dove il detective Lovecraft, col suo rifiuto della magia, era l’elemento di disturbo dell’afflato ideale collettivo, in Touch il protagonista – il giovane religioso Juvenal (Skeet Ulrich) – incarna nella sua figura l’intera verità di un confronto autentico col mistero della fede, evidenziata nel potere taumaturgico del suo tocco e visualizzata in quelle stimmate che segnano il suo corpo come una performance cristologica reiterata nel presente. Si avrebbe torto, però, ad attendersi dal calvinista Schrader un chiaroscuro più marcato, perché il film è un beffardo gioco di punti di vista sul valore della fede, in cui la verità di Juvenal, la sua risonanza cristologica, tanto si incarna nel laicismo della sua presenza scenica, quanto si inarca nella sincerità del suo spirito e nella realtà miracolistica della sua azione. Che non viene mai negata nella sua verità fattuale e, allo stesso tempo, non viene mai ancorata a una funzione divina. Perfettamente laico, concretamente umano e pienamente spirituale, Juvenal, nella sua leggerezza, è l’ennesimo eroe schraderiano la cui purezza travalica la sua stessa compromissione sia con la luce che con l’ombra in cui si muove. Questo ingenuo e determinato portatore di salvezza resta sospeso tra le ragioni e gli interessi contrapposti di chi vorrebbe far fruttare il suo dono (un ex reverendo in cerca di soldi, un chierico cattolico reazionario, i soliti giornalisti sciacalli), l’amore sincero che gli viene offerto da Lynn (Bridget Fonda) e il suo umanissimo istinto a dare corso al
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dono salvifico di cui è dotato. La commedia si incardina su questa tripartizione dinamica del protagonista e Schrader la gioca sino in fondo come un elemento di relazione tra la colpa e l’innocenza, lasciando che tutto si risolva infine in una fuga liberatoria verso il nulla. Sicché non stupisce affatto che, dopo questa trasfigurazione cristologica conclusa non a caso in una sorta di assunzione nel segno terreno dell’amore, il passo successivo sia un dramma come Affliction, che incide la carne del padre e del figlio in un groviglio di identità inscritte nella violenza della propria volontà, nel delirio di un dolore assunto come stato fondativo dell’esistenza e come principio di una libertà intrinseca. L’assolutezza come ossessione, la purezza come condanna, il donarsi come dannazione: innescando il gesto pieno del melodramma, nel successivo Le due verità, Paul Schrader si spinge poi in una love story senza scampo, perseguita con maniacale assiduità da un uomo che, schraderianamente, si lascia scegliere dal proprio destino e agisce con determinazione per spingerlo sino in fondo. Doppio corpo fantasmatico, vero e proprio uomo che visse due volte, Alan Riply (Joseph Fiennes) si annulla letteralmente nella passione che proietta su Ella (Gretchen Mol) e insiste sino allo stremo nel nutrirla nel segno di una assolutezza che non conosce ragioni perché spiega tutto in se stessa. Il suo è un amore “puro come una singola nota”, per usare le sue stesse parole, trattenuto in una intima compiutezza che non ammette il rifiuto della donna, il suo voler rinunciare a quel sentimento in onore di un matrimonio che la unisce a Mark (Ray Liotta), un uomo volgare e violento, che pure a suo modo la ama. Dando evidenza narrativa al principio fondativo stesso del suo cinema, Schrader pone il protagonista in una storia (d’amore) che lui stesso determina, cerca, scrive, ma dalla quale e destinato ad essere prima rifiutato, poi risucchiato, dunque annullato e infine santificato: il percorso è evidente nella sua delirante assuefazione alla negazione della felicità, un reiterato inseguirsi di possibilità annullate, di rifiuti, separazioni e ritrovamenti, morti e rinascite... Alan viene annientato e ricreato in un calvario che è tanto determinato dalla vendetta di Mark, quanto autoinflitto dalla sua stessa passione per Ellen, la quale a sua volta resta quasi un principio ideale che determina e subisce tanto amore e tanto dolore. L’im-
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plosione tra libero arbitrio e predestinazione è del resto il criterio schraderiano stesso di un confronto a tu per tu con la condizione umana, scritta sulla cicatrice che deturpa il volto di Alan come fossero le stimmate di una cristologia di rimando dal Juvenal di Touch... Il suo nascere al film mentre è nell’alto dei cieli, in volo, la tensione simbolica sin troppo smaccata di quel rosario donatogli da Ella come pegno d’amore e simbolo di penitenza, la sua morte e resurrezione sono la traccia di un percorso che spinge il film in una dimensione fortemente simbolica. Il potere traslucido della narrazione, la sua trasversalità semantica che lo porta a sembrare quasi un tracciato depalmiano, l’esaltazione delle formule di genere, fanno di Le due verità un’opera quasi astratta, che accede all’universo poetico di Schrader attraverso una divaricazione dei suoi estremi costitutivi. Che non sono di certo il bene e il male, ma piuttosto l’assolutezza ideale e morale dell’autodeterminazione e la prosaica realtà della predestinazione. E infatti è evidente che l’intero dramma si costruisce attorno all’ossessiva volontà di Alan di sottrarre Ella a quel matrimonio cui si è consacrata, ovvero a quella vita alla quale si è condannata, a quel mondo in cui ha deciso di vivere suo malgrado e malgrado l’occasione offertagli, gratuitamente ma dolorosamente, dall’amore: “Vuoi tornare a casa sua, vivere nel suo mondo?” le chiede Alan. E tutto il film è un implacabile percorso di attrazione fuori dalla realtà esercitata su Ella da un uomo che – nel segno più volte, ossessivamente, proclamato di una “purezza” pienamente ideale – altro non è che un’ombra, uno spettro che insiste nel dire che la realtà si può creare, riscrivere, reinventare e rivivere. E infatti il destino nel quale è scritto l’intero film sta proprio in questo continuo rivivere ogni elemento nel segno di un amore al quale tutto va sacrificato (“give all to love” si legge, sin troppo didascalicamente, sulla parete della camera d’albergo del protagonista...); in questo restituire ogni cosa alla purezza ideale di un gesto di determinazione che crea un mondo. Un destino espresso perfettamente nel magnifico finale, che, sul corpo dell’agonizzante Alan Ripley, attiva il vero e proprio replay della storia d’amore con Ellen: come riavvolgendo il nastro di un racconto che è l’unica verità, il solo vero atto di determinazione, cui tutto e tutti, in questo dramma, sono stati soggetti.
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Corrisponde esattamente a una tensione puramente ideale verso l’assoluto anche l’esercizio horror messo in atto qualche anno più avanti da Paul Schrader sull’Esorcista. Si tratta di un’operazione controversa produttivamente e criticamente, nella quale il regista si ritrova coinvolto dopo l’abbandono per motivi di salute di John Frankenheimer e dalla quale sarà a sua volta allontanato, a riprese quasi ultimate, per essere sostituito da Renny Harlin, che rigirerà il tutto e consegnerà alle sale L’esorcista – La genesi. Solo dopo la release non entusiasmante del film di Harlin, la produzione consentì a Paul Schrader di completare le sue riprese e lavorare all’edizione di quello che sarà Dominion: Prequel to the Exorcist. Anche se in realtà si tratta più di uno spin-off che di un prequel vero e proprio. Un’opera certamente imperfetta, segnata dalle vicissitudini produttive almeno quanto nettamente inscritta, per elaborazione dei personaggi e per tematiche, nella poetica schraderiana. Il personaggio di padre Merrin, colto agli inizi della sua carriera, offre il risvolto del dubbio alla forza della fede e si pone come un’anima profondamente segnata dalla scelta di allontanarsi dal cammino prescelto. Testimone, durante la guerra, del male che alberga nell’uomo, come sacerdote Merrin (Stellan Skarsgård) disconosce la sua fede in Dio e si ritrova fatalmente opposto a quel male che, ai suoi occhi, governa il mondo. Schrader costruisce attorno a lui una realtà in cui la rivelazione del male è consustanziale alla ricerca del bene, come ampolle opposte della stessa clessidra in cui il tempo della Storia si rivela. In questo senso, il tema stesso dell’esorcismo si configura per Schrader come un atto assoluto, l’opposizione di una volontà a un’altra volontà, il conflitto tra due visioni della realtà che tendono a definire il mondo nel principio su cui si fondano, Bene contro Male, salvo poi contemplarsi nel medesimo destino di un Uomo che è libero solo di dannarsi. È un Dio che regala la colpa, quello in cui si riflette, sconfitto, Merrin e gli scavi che conduce portano alla luce la chiesa che contiene un Maligno che, infine trionfante, descrive se stesso come la perfezione, rimandando in senso inverso a quella purezza cieca e assoluta che è la chiave di volta di tanti personaggi schraderiani, dal Travis Bickle di Taxi Driver al Julian di American Gigolo, da Mishima al Bob Crane di Auto Focus e all’Alan Riply di Le due verità... Come fosse Juvenal di Touch, il padre Merrin di Dominion si pone di fronte all’evento che determina con
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la pretesa neutralità di chi cerca una estraneità a se stesso come unica, illusoria, strada verso la propria libertà. Come tutti i personaggi schraderiani, anche Merrin è uno strumento nelle mani di un destino che lo lascia illuso in una libertà che non gli appartiene: in realtà l’unica determinazione di cui, con la sua rinuncia a Dio, è portatore è la liberazione del Male nel mondo, che transita attraverso gli scavi e si incarna nel suo atto di carità nei confronti dello storpio Cheche. La miracolosa guarigione del reietto, opera del Male, riflette dunque l’inversione di segno che in questo film domina su tutto. Ciò che resta fondamentale è la consapevolezza, prettamente schraderiana, che a fronte dell’opera dell’uomo c’è la lotta tra la sua predestinazione e l’autodeterminazione: e in Dominion il Male assume in sé la medesima arroganza di un Dio la cui perfezione toglie realtà all’uomo, lo schiaccia nella sua inane purezza, nella sua piccola ingenuità. “I am perfection” dichiara Satana nella sua ostensione e Schrader consegna a questa arrogante assolutezza il sussurro finale del suo film, in coda ai titoli di coda...
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CALL ME. FANTASMI E DESIDERIO NEL DISCORSO AMOROSO DEL CINEMA DI PAUL SCHRADER
Don’t you know my name Well, you been so long David Bowie, Cat People (Putting Out Fire)
Per sempre mia Un giovane bagnino di un lussuoso hotel della Florida, sta parlando con un collega, che ha l’aria di dirgli per l’ennesima volta che l’unica cosa che conti è il potere dei soldi, quando, arrivati in spiaggia, vede per la prima volta una giovane spuntare, come Venere, dalle onde e, folgorato dal desiderio di quell’irresistibile richiamo, se ne innamora immediatamente. È, questa, la scena del primo incontro tra Alan Ripley ed Ella Brice, moglie di un ambiguo imprenditore, nel film scritto e diretto da Paul Schrader Le due verità (Forever Mine, 1999), ma è, soprattutto, la sintesi perfetta del dispositivo che il regista e sceneggiatore americano mette in atto sull’universo muliebre, oggetto di uno sguardo sempre diviso tra lo spavento del desiderio e, in funzione di una ierofania, la trascendenza della venerazione. In un film sulla natura eminentemente fittizia del topos dell’amore eterno, programmaticamente sospeso tra noir e mélo, la soggettiva di Alan ci mostra la donna in un espediente tecnico eloquente qual è il ralenti, che imbriglia la verosimiglianza dell’élan vital nella ricostruzione estetica del tempo e dello spazio del cinema, chiarendo subito la natura sostanzialmente artificiale di quello sguardo, puntato sull’inesorabile altrove del cinema, che simbolicamente coincide con la donna desiderata. Ella, in questo senso, è, metatestualmente, l’oggetto innanzitutto della funzione scopica
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dell’ontologica distanza del cinema. Infatti, se etimologicamente il desiderio indica la distanza, lo iato incolmabile, tra lo sguardo di chi brama e l’abisso irraggiungibile delle stelle, la distanza del cinema, determinata dalla sua inevitabile tele-visione, è il luogo perfetto perché si accolga tale abisso. Il cinema è così, come Schrader comprende benissimo, inesorabilmente, sempre il racconto di un’assenza, il fantasma1 di questo desiderio. È Roland Barthes ad avere evidenziato come l’incontro con la persona amata sia sempre una sorta di seduta spiritica: “Nell’incontro – scrive lo studioso francese – io mi meraviglio per aver trovato qualcuno che, con pennellate consecutive e ogni volta precise, porta a termine senza cedimenti il quadro del mio fantasma”2. È in quest’accezione che, nel cinema di Schrader, prima che corpo del desiderio, la donna è immarcescibilmente oggetto di una mediazione (spettro di un medium, media vox tra strumento mediatico – come nell’ancor più esplicito voyeurismo di Auto Focus – e l’intermediazione con l’ultraterreno), che, nella sua eterea, intrinseca qualità, permette all’uomo di esserci (e, qui, non è proprio Alan – Alan, alien, alter, nome in cui c’è un’assonanza con l’alterità alienata –, a letto con Ella che, a un certo punto chiederà, in qualche modo, che sia lei a sancirne la sua legittima esistenza, quando le dirà: “Non sono un fantasma”?). Tornando alle prime scene di Le due verità, è interessante notare come, subito dopo l’apparizione di Ella (il cui nome non a caso è, in Italiano, la terza persona del pronome femminile, elemento di scoperta matrice dantesca – già esplicitamente presente in Obsession – Complesso di colpa e Il bacio della pantera, e che tornerà con Lo spacciatore – per ricordarci della funzione eminentemente simbolica che i personaggi femminili di Schrader assumono), Alan si avvicini alla fila di capanne in spiaggia e, mentre la donna guadagna la battigia, il ragazzo raccoglie una fotografia dalla sabbia. È una polaroid di Ella, caduta lì dalla capanna vicina, all’ombra della quale dorme il marito: un’istantanea, che Alan tiene subito per sé e 1
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Sulla fantasmaticità del cinema di Schrader, interpretato come spazio liminale tra visibile e invisibile, tra trascendenza e immanenza, cfr. A. Canadè, Paul Schrader, Tecniche di sceneggiatura e pratiche di regia nella New Hollywood, Le Mani edizioni, Recco, 2004, in particolare pp. 9-46. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 2014, p. 110.
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che inizia immediatamente a venerare come un simulacro3. Famigliare e aliena (perfetta sospensione tra Heimlich e Unheimliche), con la rapida scoperta che la donna è sposata, Ella ci dice subito anche di una sorta di sua giuridica alienità. E questo, forse, scopre anche in che modo il corpo del desiderio nel cinema di Paul Schrader sia inevitabilmente corpo del rimpianto, dove l’azione è irrimediabilmente impossibile, perché tutto è già stato. Si capisce, allora, perché qui il desiderio sia un processo asincrono, che solo il flashback (o il fallimentare tentativo di rivivere hitchcockianamente, nel presente, il passato o l’ipotesi della vendetta) è in grado di scorgere. Il corpo desiderato è, quindi, un corpo annunciato e costruito dalla mediazione del dispositivo mitopoietico della riproduzione del medium cine-fotografico (e, su un versante speculare, dalla simbologia iconografica della fede: il pegno dell’amore tra Alan e Ella è un rosario, perché in Schrader la coincidenza tra Chiesa e cinema è una perversa costante). È, questa, una circostanza dove sembra riapparire il fantasma del discorso di Barthes quando, equiparando lo sguardo creativo dell’innamorato all’azione dell’ipnotista, egli scriveva: “Il corpo che sta per essere amato viene in anticipo delineato, manipolato dall’obbiettivo, sottoposto a una specie di zoomata che lo ravvicina, lo ingrandisce e consente al soggetto di scrutarlo dappresso: non è per caso l’oggetto scintillante che un’abile mano fa luccicare davanti ai miei occhi per ipnotizzarmi, per catturarmi?”4. Ma se è così, il dispositivo cinematografico e le sue ombre riprodotte acquisterebbero una vicinanza esplicita all’ipnosi. In tal senso, un importante prototipo è ne Il bacio della pantera, scritto da DeWitt Bodeen e diretto Jacques Tourneur nel 1942. “Film fantasma”5 dell’intera filmografia di Schrader, di cui, non a caso, 3
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La consuetudine di Schrader con le questioni estetiche e teologiche della natura mistica del simulacro, che nel ritratto si spinge fino ai crismi dell’Imago dei, ossia l’abitudine a ragionare sul rapporto ontologico tra l’immagine e la vera natura dell’ente, è antica e ben nota e segna, sin dai suoi esordi come studioso di cinema, il campo ermeneutico, in cui anche il suo lavoro creativo di fatto si muove. Su tale questione, cfr. P. Schrader, Il trascendente nel cinema, Donzelli, Roma, 2010, in particolare pp. 84-93. R. Barthes, op. cit., p. 112. Ci riferiamo alla definizione fornitaci da Roy Menarini in Gli spettri della modernità, in «Segno cinema», n. 121, 2003, p. 23.
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girerà un torbido e scopertamente incestuoso remake nel 1982, ha nella scena della seduta ipnotica di Irena, un’eloquente sovrapposizione tra la nudità dell’inconscio e la capacità introspettiva del cinema: qui Irena, guidata da uno psichiatra-regista, è calata in uno spazio buio, con tende tirate, ombre e luci come vere e proprie proiezioni che, più che nello studio di un medico, sembrano trasportarci proprio in una sala cinematografica. Se non fosse sufficientemente chiaro, in Schrader, è proprio la funzione escatologica della donna, di diretta derivazione stilnovistica, a dare la salvezza attraverso l’atto stesso del vedere come accade alla sua Irena che, nel remake, contrae espliciti debiti con la Beatrice dantesca della Vita nuova6. I rimandi che nel cinema di Schrader il “discorso amoroso” di volta in volta presenta – con il costante richiamo alla funzione salvifica dell’innamoramento, così come appare nel Pickpocket di Robert Bresson, vero e proprio modello del cinema di Schrader –, sono stati ampiamente studiati anche in Italia, e allo stesso modo, dell’autore, sono stati abbondantemente analizzati i titoli più esplicitamente legati al tema dell’eros7. È per questa ragione, oltre che per i limiti di spazio, che nel presente lavoro non saranno approfonditi diversi film, per altro fondamentali su tali questioni, tra cui: Taxi Driver, Toro scatenato, American Gigolò, L’ultima tentazione di Cristo. Ma pur con questi confini, anche qui, non si può non notare come le dinamiche della seduzione, nel cinema di Schrader, passino almeno per tre differenti registri, che ne delineano la chiara parabola: a) idealizzazione della donna di matrice stilnovistica, che si tramuta poi nel corpo esiziale della femme fatale8; b) il passaggio esplicito del corpo del desiderio erotico al corpo-merce della pornografia9; c) l’approdo, dopo una dispera6 7 8
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Cfr. G. Kouvaros, Paul Schrader, University of Illinois Press, Champaign, 2008, pp. 50-51. Fondamentale, in entrambi i sensi, Canadè, op. cit.. Figure muliebri oscillanti tra queste due polarità sono di certo in: Taxi Driver (1976), American Gigolò (1980), Il bacio della pantera (1982), L’ultima tentazione di Cristo (1988), Lo spacciatore (1992), Touch (1997), Le due verità (1999), Al di là della vita (1999), The Canyons (2013). Palese mercimonio del corpo o una più latente reificazione del desiderio sono in: Hardcore (1979), Il bacio della pantera, Mishima (1985), La luce del giorno (1987), Patty - La vera storia di Patty Hearst (1988), L’ultima tentazione di Cristo, Cortesie per gli ospiti (1990), Touch, Auto Focus (2002),
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ta tenzone contro il fardello dell’autorità dei padri, a un desiderio omosessuale10, represso e liberato. Percorso impervio? Probabilmente sì e a questo punto, parafrasando il finale di Pickpocket, dovremmo chiederci che cammino tortuoso sia mai toccato in sorte a Schrader per arrivare a questa sofferta metamorfosi. Melencolia Dalla figura angelicata delle Madonne del dolce stil novo al corpo mortifero della femme fatale; dall’alienazione della merce fino alla liberazione identitaria omosessuale: sarebbero, allora, queste le coordinate ermeneutiche, in cui inquadrare lo sviluppo, frammentario ma non meno preciso, del discorso amoroso del cinema schraderiano? Intanto, è un dato acquisito che la poetica di Schrader abbia radici nella nevrosi di un ambiente familiare di strettissima osservanza protestante e dal rapporto conflittuale di natura scopertamente edipica col padre. Una cultura straordinariamente aperta e variegata, con una formazione protestante, che procura a Schrader tanto una familiarità con i cavilli teologici della patristica, quanto una consuetudine con le contraddizioni esistenziali (oscillanti tra l’aspirazione alla Grazia e i richiami nevrotici all’immanenza del peccato); solidi studi di estetica, che gli permettono sin da subito di affrontare ora l’impervia esegesi del trascendente nel cinema, ora una lunga e sicura pratica con le istanze dell’industria dell’intrattenimento, ci
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Dominion: Prequel to the Exorcist (2005), Adam Resurrected (2008), The Canyons, Il nemico invisibile (2014). Una patente o larvata omosessualità, così come una sorta di necessità – come dice Carter Page III, protagonista di The Walker – di “inventarsi un proprio sesso” sono in: American Gigolò, Toro scatenato (1980), Mishima, Le due verità, Auto Focus, Dominion: Prequel to the Exorcist, The Walker (2007), Adam Resurrected, The Canyons; lo schiacciante peso dei padri (e delle madri) – una della matrici nevrotiche di tutto il cinema di Schrader – è tema fin troppo evidente in: Hardcore (1979), Mosquito Coast (1986), La luce del giorno (dove la protagonista è una sorta di Eva, che, attraverso il conflitto materno, muove contro l’autorità edenica), City Hall (1996), Affliction (1997), The Walker, The Canyons.
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suggeriscono intanto che tale ipotesi, per quanto ancora aperta, sia interpretazione fruttuosa su uno dei temi fondamentali del suo cinema, ossia le fantasmatiche forme del desiderio, forme che hanno, nell’epos cinematografico del nostro autore, una struttura paradigmatica privilegiata nel noir. È proprio Schrader, com’è noto, nel celebre lavoro Note on Film Noir11, ad analizzare la struttura narrativa cinematografica, che con ogni probabilità ha meglio rappresentato la linea d’ombra che ha attraversato gli Stati Uniti dalla sua fulgida centralità politica e militare, acquisita durante la seconda guerra mondiale, fino al cupo scenario internazionale, di cui sarà protagonista verso la fine degli anni Cinquanta, quando, in piena guerra fredda, e dopo il violento (e autodistruttivo) repulisti del maccartismo, la politica americana disegnerà le quinte tenebrose del nuovo scacchiere geopolitico mondiale. Il breve saggio, infatti, non a caso si concentra in quest’arco di tempo: dall’adattamento di John Huston del Falcone maltese (The Maltese Falcon, 1941) all’Infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) di Orson Welles. Schrader rintraccia i debiti formali del genere nell’Espressionismo tedesco e il pretesto sociologico nella disillusione generale che investì l’America tra il crollo di Wall Street e lo scoppio del confitto mondiale, ma trascura, tra i caratteri paradigmatici della narrazione del noir, la presenza ambigua di una virago, figura oscillante tra pensiero erotico e pulsioni esiziali, di cui la femme fatale è, nella narrazione della cultura di massa, una delle più eloquenti espressioni. Un lapsus? È anche grazie all’importante lavoro interpretativo di Christine Buci-Glucksmann che oggi possiamo asserire che la femme fatale rappresenti l’incarnazione più chiara delle angosce maschili, che psicanaliticamente scoprono la paura della castrazione, di un’inacessibilità al corpo inflittagli dal contesto di alienazione esistenziale causato dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione tra XIX e XX secolo, le quinte, cioè, su cui si disegneranno le linee sghem11
Pubblicato per la prima volta in “Filmex” nel 1971 in occasione del festival The Film Noir, rassegna presente nella prima edizione dell’International Film Exposition di Los Angeles, e ristampato nel numero primaverile di “Film Comment” nel 1972, il saggio è ora consultabile in B. Keith Grant (a cura di), Film Genre Reader IV, University of Texas Press, Austin, 2012, pp. 265-278.
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be ed espressioniste prima dell’hard-boiled e poi del nuovo cinema thriller americano dagli anni Trenta in poi, e, in tal senso, non fatichiamo a immaginare come sia proprio l’ambiguità semantica della femme fatale, oscillante tra pulsioni erotiche e mortifere, la più potente metonimia del più ambiguo dei generi, ossia il noir. Una fondamentale disamina teorica delle questioni cui qui si fa cenno, in particolar modo rispetto al noir come segno di una crisi della visione (cioè la messa in discussione dei rapporti storici e fallocentrici tra visibile e invisibile), è nel lavoro di Mary Ann Doan12. È stato proprio Freud a dire, parafrasando la nota frase di Napoleone, che il “destino è nell’anatomia”, ed è così che nello studio di Doan si legge: “Il fatto che la femme fatale nel film noir sia caratterizzata come inconoscibile (ed è questo il più esplicito riferimento alla sua capacità di attrazione) è stato più volte rilevato. L’inconoscibilità è coerente con un più ampio posizionamento socioculturale della donna come interlocutrice privilegiata con il pre-edipico o il pre-simbolico. La sessualità femminile si estende su tutto il corpo, e assume significato da tutte le sue parti. Ed è la stessa non localizzabilità di questa sessualità, che la definisce come un vero e proprio ‘altro’ per l’uomo, il cui sesso è in un preciso luogo, cosa che gli conferisce una forte padronanza e un forte controllo di sé. In tal senso, la donna, in una logica fallocentrica, diventa l’altro lato della conoscenza. E in lei, allora, risiede un problema epistemologico. (...) Ciò che è particolarmente interessante per un’analisi femminista del noir è il modo in cui la questione della conoscenza, e la possibilità o l’impossibilità che essa avvenga, sia collegata a questioni inerenti alla visibilità e alla femminilità. La donna confonde la relazione tra visibile e conoscibile nello stesso momento in cui ella è chiamata in gioco come oggetto dello sguardo”13. Abbiamo già osservato come l’universo femminile nel cinema di Schrader sia sostanzialmente un luogo narrativo costruito dalla funzione scopica dell’uomo, ombre del desiderio, le donne di Schrader sono, di fatto, fantasmi, proiezioni di un desiderio impossibile e annunci di un insostenibile disequilibrio e tenebrosa 12 13
Cfr. M. Ann Doan, Femmes Fatales. Feminism, Film Theory, Psychoanalysis, Routledge, New York, 1991. Ivi, pp. 102-103, trad. a cura dell’autore.
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condizione d’infelicità. Ma, tale condizione, ha un nome preciso: malinconia. In tal senso, se assumiamo come misura di questa suggestione l’analisi della malinconia medievale e dell’amor cortese così come esaminati in un fondamentale saggio di Giorgio Agamben14, potremmo definire l’eroe schraderiano (si pensi al Travis di Taxi Driver, vera incarnazione di tale archetipo) come uno dei più recenti e chiari esponenti di un’antica tradizione di accidiosi, che dalla posa accigliata della Melencolia I di Dürer15, passa per la sofferta sagoma dandistica pennellata da Baudelaire, si incarna nel mito decadente dell’inanità esistenziale à la Huysman e, nel nevrotico Novecento, trova nell’inetto letterario i suoi più potenti esponenti, così come nel perdente della tradizione del noir, la sua ultima e più popolare incarnazione. È questo, a nostro avviso, il côté dell’eroe schraderiano, un personaggio irrimediabilmente scisso tra rimandi spirituali e ragioni del desiderio, ma soprattutto abitato da una sostanziale impotenza impostagli dal convulso e incontrollabile discorso dei suoi fantasmi interiori. E poi, non è forse vero che la: “scoperta, familiare alla mistica di ogni paese, di una possibile polarità positiva implicita nella frequentazione dei fantasmi fu (…) un evento di grande importanza nella cultura occidentale”16? Nel cinema di Schrader, i cui personaggi sono sempre in bilico tra libido narcisistica e libido oggettuale, alla fine si professa sempre una sorta di virtualità dei sentimenti, che porta diritto a un piano tragico, fino a quello patologico di una vera e propria impotenza sessuale: in Yakuza l’automutilazione del dito coincide con la definitiva rinuncia di Harry a Eiko Tanaka, la donna amata; la protesi del braccio di Rane in Rolling Thunder ha un’esplicita valenza di sostituzione del fallo; l’amore non consumato per il sosia 14 15
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G. Agamben, Stanze, Einaudi, Torino, 2011, che si prefigge di sancire la distanza abissale tra il locus dell’amor cortese e lo spazio del corpo, tra cui si insinua la malinconica presenza del fantasma del desiderio. Il tal senso, è interessante notare come John Le Tour, il protagonista di Lo spacciatore, forse il più autocosciente tra gli eroi malinconici di Schrader, tenga un diario, così come l’Antoine Roquentin de La nausea di Jean-Paul Sartre, romanzo che, com’è noto, l’autore, ispirato dal capolavoro di Dürer, intendeva chiamare proprio Melancholia. Ivi, p. 8.
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è la distanza simbolica dell’attrazione incestuosa in Obsession Complesso di colpa; e ne Il bacio della pantera la donna diventa, poi, esplicitamente figura ferina (e felina), ombra bestiale e inquietante dell’altrove. La “caduta dalla Grazia” in Hardcore, Lo spacciatore (perfino didascalica con il suicidio di Marianne, che si lancia nel vuoto dalle Grace towers) e Auto Focus, tutti basati sul dramma della visione, esplicita la similitudine tra linguaggio della pornografia, il cinema e l’oscenità del dolore della condizione umana, mentre American Gigolò, sin dalla canzone iniziale –The Love I Saw In You Was Just A Miracle, pezzo del 1967 di Smokey Robinson & The Miracles – sembra voler riprendere la grammatica dell’amor cortese come un’ipotesi di salvazione: l’amore è un miracolo capace di ogni cosa e la donna è uno strumento provvidenziale e richiamo teologico (e, infatti, proprio Call Me, via Moroder, cantavano lì i Blondie). Ma l’illusione dura poco e nel cinema di Schrader il passaggio dall’amor cortese, eterno e irripetibile, all’amore reificato nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è vicino, come sancirà definitivamente l’occasione della tragica vicenda di Bob Crane raccontata in Auto Focus. È da quel momento che il richiamo stilnovistico della voce di donna si trasformerà definitivamente, dai chimerici corpi di Betsy e di Iris di Taxi Driver, attraverso i fuggevoli incanti delle sirene del dongiovannismo di American Gigolò, il corpo tragico e assoluto di Ella in Le due verità, e non prima di quella specie di coming out, qual è Dominion: Prequel to the Exorcist17, grazie a quella sorta di 17
Se nell’Esorcista di Friedkin lo scontro tra Satana e il sacerdote aveva come campo di battaglia il corpo profanato di una vergine, qui la battaglia è esplicitamente omoerotica e non è un caso che la sceneggiatura normalizzatrice di Alexi Hawley per L’esorcista - La genesi diretto da Renny Harlin nel 2004, ripristini il fenomeno della possessione demoniaca nel corpo muliebre. Inoltre, anche in Dominion: Prequel to the Exorcist, la prima, esplicita manifestazione di possessione non è registrata da Lankester Merrin, ma da padre Francis, che il diavolo (che gli si rivolge dicendo di conoscere la “sua colpa”), condanna a un supplizio che non lascia dubbi: il giovane pastore sarà legato e a torso nudo trafitto da frecce, nella chiara iconografia del San Sebastiano, con cui si fa evidente che la “colpa”, scoperta e imputatagli dal diavolo, non è altro che l’omosessualità. Intanto, la testa di Cheche, il ragazzo storpio preda del Malvagio, quando la possessione gli trasformerà completamente i tratti somatici,
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sottile rivisitazione del Petronio tacitiano del protagonista di The Walker (dove, non a caso, una specie di gigolò sarà ucciso e, tra le diverse ferite infertegli, ce ne sarà una ai genitali, sorta di evirazione simbolica), nell’esplicita incarnazione di un’emersa (quanto non addirittura liberata) omosessualità. 18 Scritto e diretto da Schrader The Walker (2007) forma con Taxi Driver, American Gigolò e Lo spacciatore la quadrilogia sui cosiddetti “lavoratori notturni”, ma rispetto agli altri titoli è un progetto ancor più concettuale. The Walker è un thriller freddo, con un solo momento di vera azione (l’inseguimento a piedi), ed è il film che regola definitivamente i conti dell’autore con l’eredità, i debiti culturali e le costrizioni etogenetiche dei padri. Carter Page III è un “walker”, un accompagnatore di signore altolocate, com’è definito con disprezzo, in realtà, è un sofisticato elegantiae arbiter, un arredatore, apertamente gay, figlio di un vecchio e spietato conservatore, che l’aveva in patente spregio, che, dietro le pose da edonistico flâneur, nasconde un gusto per il paradosso che scopre una profonda consapevolezza di che cosa è morale e che cosa no. Ma soprattutto è un uomo tormentato dalla memoria del padre, di cui, diverso in tutto, ancora cerca a distanza di anni dalla sua scomparsa una tenera e patetica approvazione. L’unico rapporto basato sull’amore e sulla trasparenza, in questa storia, è quello che Carter intreccia con un artista arabo, Emek Yoglu, impegnato in un lavoro, che il giovane ambisce a esporre in
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assumerà praticamente la forma di un grosso… glande! E se non fosse sufficiente la centralità fallica, il Lucifero ritratto sulla parete della chiesa ha, al posto del sesso, un volto (Merril precedentemente sogna un volto bendato: riferimento alla necessità inconscia di svelare la propria identità omosessualità?). Infine, quando Satana si rivolgerà a Merril nel finale, sospeso in volo, alzerà le gambe fino a incrociarle, assumendo una postura, che ne scoprirà il bassoventre che, di fatto, offre allo sguardo concupiscente del sacerdote. Barthes, che postula una sorta di naturale disposizione “ad accogliere” da parte del soggetto amoroso, in fin dei conti, ipotizza che “l’innamorato (...) è sempre implicitamente femminizzato”, suggerendoci che, sempre, egli sia “in un certo senso vuoto, disponibile, inconsapevolmente offerto al ratto che sta per sorprenderlo”, R. Barthes, Frammenti, cit., p. 162, 163.
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una galleria, sui corpi dei prigionieri torturati nel campo di prigionia americano di Guantánamo19. In una conversazione con Lynn, la donna che lo metterà nei guai, Carter racconta una leggenda di famiglia: il nonno, da giovane, si era perdutamente innamorato di una ragazza, che aveva visto soltanto in foto. Dopo un lungo corteggiamento, fatto di silenzi e rapporti epistolari (la ragazza abitava lontano), l’uomo, che nel frattempo scopre che lei corrisponde il suo amore, un bel giorno decide di conoscerla di persona e va da lei. Ma non appena tornato dal viaggio, sposa un’altra. Perplessa Lynn, chiede a Carter di sapere che cosa, in quell’ellissi del racconto, fosse davvero accaduto al nonno per convincerlo repentinamente di desistere da quel rapporto e legarsi a un’altra donna, e Carter, giurando che avrebbe dato via un braccio (torna la mutilazione…) pur di saperlo, dice di non poter aggiungere nulla di più. Ma nulla di più c’è da aggiungere, perché, a ben vedere, la storia è tutta lì, proprio in quel buco narrativo, ossia nel fantasma della storia. Perché quello che la storia ci dice è che tra l’idealità della rappresentazione amorosa e il corpo vero non c’è mai, a favore della virtualità del desiderio, partita. È quello del simulacro (la riproduzione fotografica), l’unico corpo possibile del desiderio, unica prossimità possibile col corpo alienato (come nella polaroid di Ella di Le due verità). Anche in The Canyons (2013) diretto da Schrader su una sceneggiatura di Bret Easton Ellis, schraderiana al punto da sembrare un calco, il problema fondamentale è quello della rappresentazione, del rapporto, cioè, tra simulacro e corpo, ma anche dell’“l’invenzione” (o scoperta?) della propria sessualità fuori dal controllo del potere e della tradizione dei padri. In tal senso, prima del finale, nella scena della seduta psicanalitica, in cui il discorso di Christian (come Kristen in Hardcore, ancora una volta, nomen omen: il cristiano) sfiora l’insight della sua latente e repressa omosessualità, su cui ancora una volta si blocca, in coincidenza dell’eloquente cambio di fuoco, che passa dal protagonista allo sfondo, mostrandoci alla parete lontana un antico 19
Il film, straordinariamente politico e controcorrente, fu scritto a ridosso del dramma dell’11 settembre 2001, e a un’analisi più attenta, scopre un “film fantasma” insospettabile e rivelatore: il Nashville di Altman.
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ritratto di un uomo distinto e severo, simbolo perfetto dell’autorità castrante dei padri. Ombre inquietanti anche loro, come molte delle presenze femminili del cinema di Schrader, sono, questi, tutti segni avvilenti di un’eco edipica irrisolvibile e di un’inalienabile distanza malinconica, in una parola: fantasmi. E i fantasmi, alla fine, sono per definizione proiezione di un altrove; ombre del già finito, o sottile ipotesi del desiderio di ciò che forse non esiste affatto, i fantasmi non possono morire. Ed è per questo che, nelle pieghe ombrose di un’inestirpabile malinconia, sono il grembo perfetto per accogliere i deliri e i deliqui di un infinito discorso amoroso.
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GLI ARCANI DELLO SPAZIO E IL VUOTO DEL POTERE. SU PAUL SCHRADER
1 Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo/Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo/ Un momento nel tempo ma non come un momento di tempo,/Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato. /Quindi sembrò come se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce, nella luce del Verbo. / Attraverso la Passione e il Sacrificio salvati a dispetto del loro essere negativo; /Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima/Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce./Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via. (T.S. Eliot)
C’è sempre nel cinema di Schrader una specie di vertigine, di sporgersi sul vuoto delle immagini. Quanto più i suoi film si addensano intorno al “pieno” di un tragitto scritturale, di una struttura geometrica e solida della sceneggiatura, della creazione autosufficente di un impianto tragico, di una insistenza del mito come tracciato narrativo calato nello spazio profano del moderno, di un mondo senza più dèi, dove però le rovine della colpa e dell’innocenza vengono isolate nella loro antinomia, in una ambiguità che si sospende tra ontologia e mitologia, tra pensiero e immaginazione, tanto più si apre un abisso, un punto oscuro, l’insistere di una invisibilità, di un trascendentale che cerca una figurazione paradossale, l’arcano di uno spazio dove possa coniugarsi con il visibile, conservando come resto l’infigurabile, l’interdetto
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ad essere visto, la proibizione teologica del costruire immagini, la connessione intrinseca della colpa connessa allo sguardo ( ciò che lo accomuna a Scorsese e che fa assonanza nei film scritti per lui), al vedere oltre, alla inerenza di una sacralità irriducibile e inviolabile eppure connessa all’immaginare, al dare luogo all’immagine che sempre si “autotrascende”, sposta il fuoco nel punto oscuro, nel suo autofocus. In questo senso il cinema di Schrader agisce sempre una teoria, ma nel senso dell’orizzonte visivo, del theaomai, e di ciò che in tale lessico resiste di uno spazio teatrale, come spazio pubblico, politico, di rappresentazione proprio di un vedere di più, di una “hubris” che sfida gli dèi nel voler sapere/vedere ( come nella pulsione edipica). E all’impossibilità del tragico nell’orizzonte moderno, al vuoto di potere, al “posto vuoto” del divino, allo svuotamento della funzione di “pastore” o di “corifeo”, alla distorsione del discorso tragico, al frantumarsi vorticoso della narrazione mitica, a ciò che di “abissale” si apre in questo irrompere della immanenza, dell’accadere, della contingenza nello spazio arcano del trascendente, risponde quella strana “macchina” del cinema, che esteriorizza il tempo, che incarna i corpi nella paradossale fantasmaticità dello spazio bianco di uno schermo, che rende presente e attiva proprio la “sparizione”, l’assenza, l’allontanarsi della “carne” delle immagini nella loro sembianza, nella loro parvenza, nella loro “veste di luce”. E il cinema assume per Schrader questa paradossale posizione, questa topologia che mentre cerca di dare un luogo al desiderio lo barra , lo avvolge, lo avviluppa in una serie di interdizioni che marcano sia i corpi ( con ferite sacrificali, con stigmate, oppure con vesti, con sudari, con spoglie ). E soltanto il cinema, per Schrader, pare possa assimilarsi a “un punto originario […] in cui mito e storia, quasi fossero sulla punta di un ascia-crinale del discernimento e della veglia- non cessassero di separarsi secondo la dialettica dell’Ursprung” (De Vito, 2015, p. 102), cioè di una matrice di immagini, di un luogo seminale di esse che, nell’accoglierle alla visibilità, deve necessariamente essere vuoto. In ciò i film di Schrader sono simili al combat spirituel dei mistici, in cui, attraverso la contemplazione del vuoto che si apre nelle rovine dello spazio profano, si possa attingere a una “appercezione visionaria”. Non è un caso se l’educazione rigidamente calvinista di Schrader gli abbia interdetto da bambino la visione di film, e non è un caso se si sia laureato con una tesi su
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Il trascendente nel cinema, dove si convocavano appunto gli abissi immaginali, gli spazi vuoti e vertiginosi, le “porte regali” dell’icona in cineasti come Bresson, Ozu e Dreyer (cfr. Schrader, 2010) E fin da lì si poneva questa domanda: come coniugare immanenza e trascendenza, essenza e apparenza? Una questione, filosofica ed estetica, che ha radici lontane (dalla mistica Plotiniana a San Paolo) ma che riguarda anche molto direttamente il cinema, cioè: come può quest’arte materialista, profana – figlia del capitalismo e della tecnologia –, il cui specifico, come aveva scritto Bazin, è la riproduzione mimetica del mondo fisico, rappresentare il Sacro, l’invisibile, o per usare un’espressione di Rudolf Otto “il Completamente Altro”? Come può il cinema raggiungere lo spirituale attraverso il materiale, attraverso quei corpi con cui ha necessariamente a che fare? (cfr. Canadè e Roberti, 2012 e 2013). L’abissalità e l’inattingibilità dell’Altro è esplicitamente richiamata dalla rivendicazione di stile da parte di Schrader. Per lui lo “stile trascendentale” è appunto un movimento paradossale che attinge la forma attraverso il suo dissolvimento, e cerca uno spazio simile alla “Kora” platonica, quel luogo cioè dove il rappresentabile si dà tramite l’irrappresentabile, tramite “i regni sciolti da forme” (come chiama Mefistofele nel Faust goethiano il Regno abissale delle Madri), dove si dà una materia che viene esperita “in assenza di sensazione”, dove si incarna una speciale materialità della forma in uno “spazio arcano” che apre un vuoto “di immagini” proprio per far sì che si librino, si protendano le immagini, in un movimento che dribbla il principio di non-contraddizione , come per l’inconscio freudiano, e in cui e per cui “le immagini nascono, svaniscono e si rigenerano incessantemente e sempre di nuovo dileguano” (De Vito, 2015, p. 105). Tutto ciò inerisce al dispositivo filmico. Ed è un paradosso di incarnazione/disincarnazione, un lento processo (che si sviluppa, come teorizza Schrader, in tre fasi: quotidianità, scissione, stasi) di rarefazione, stilizzazione, riconfigurazione, di tutti quegli elementi basilari del cinema “mimetico” (intreccio, recitazione, fotografia, musica) che coinvolgono emotivamente lo spettatore. Un passaggio possiamo dire, utilizzando due termini di Worringer che Schrader utilizza parlando del cinema di Dreyer, dall’empatia verso l’astrazione, processo di incarnazione e “disincarnazione”.
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2 Gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri dèi/Dicono, ma per nessun dio; e questo non era mai accaduto prima/ Che gli uomini negassero gli dèi e adorassero gli dèi, professando innanzitutto la Ragione/E poi il Denaro, il Potere, e ciò che chiamano Vita,o Razza, o Dialettica. / La Chiesa ripudiata, la torre abbattuta, le campane capovolte, cosa possiamo fare / Se non restare con le mani vuote e le palme aperte rivolte verso l’alto/In un’età che avanza all’indietro progressivamente?... Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre sopra la faccia dell’abisso. /È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa? /Quando la Chiesa non è più considerata, e neanche contrastata e gli uomini hanno dimenticato/ Tutti gli dèi, salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere (T.S. Eliot)
Nei film di Schrader questo processo di progressiva “spoliazione” dello spazio, di “scavo” dentro le immagini come parvenza, come spoglia, come schermatura e barratura, si conduce in un movimento “persecutorio”, di impossibile fuga/ricerca oppure in un movimento vorticante di embricazione degli spazi e delle sembianze con ciò che li “complica”, che li avviluppa, li assorbe nelle immagini riprodotte, li replica nel set “fotografico”. Dal finale di Hardcore dove i “set” rovinano uno alla volta su se stessi , precipitando le schermature e le parvenze in un “vuoto” percorso dall’avanzare a perdifiato di Jake, agli interni “hi-tech”, alle ossessioni dell”habitus” e dei corpi/schermo in American Gigolo, dai letti, lenzuola, tende, mura che forcludono la visione e creano un labirintico e avviluppante sviamento erotico dei palazzi veneziani di Cortesie per gli ospiti, ai corpi assimilati a spoglie che vengono come tracimati, sacrificati, feriti, impediti dagli spazi che li racchiudono (che siano un Padiglione d’oro oppure il letto degli amanti visto come un ricettacolo alchemico di “soluzione del cadavere”, di palingenesi della bellezza in empatia con il proprio stesso putrefarsi e deturparsi ) in Mishima, dalle gabbie degli zoo, le stanze del motel, le camere anatomiche, le case abbandonate, le ramificazioni degli alberi tra giungla e deserto di Cat People, alle distese innevate e stranamente claustrofobiche, percorse da cacce interne ed esterne, del New Hampshire (ricostruito in Quebec) di Affliction, ai deserti africani popolati da demoni e agli avamposti sperduti, ai muri scrostati e
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alle icone inquietanti, o alle memorie dei Lager, alle metamorfosi animali, alle “possessioni” dei corpi abitati dall’ Estraneo, da cui si sprigiona una ‘assimilazione’ dello spazio al corpo, in Dominion: Prequel to the Exorcist e in Adam Resurrected , fino ai cinema abbandonati e in rovina, ai non-luoghi suburbani, alle stanze da letto della villa a picco sul mare ( come quella malapartiana della Capri di Le Mépris di Godard) in The Canyons. È strano come l’arcano di tali spazi siano assimilati in Schrader a un nesso maledizione/redenzione che passa per una persecuzione connessa alla luce ( che diventa un crisma, un segno sacrificale inciso direttamente sul corpo che in tal modo si apre alla visione e alla sua imperscrutabilità mistica in un film come Touch ), al suo abbagliare come al suo spegnersi ( l’uso del ‘bagliore’ accecante nella fotografia di John Bailey in Cat People è indicativa in tal senso), così come il ritorno di tale paradigma visibile/invisibile connesso alla luce nei titoli (e nel conseguente diramarsi di tale stigmata, di tale touch luminoso nel figurarne gli spazi filmici) di film come Light of Day, Light Sleeper, fino al ‘ripudiato’ film più recente Dying of the Light che letteralizza il “disincarnarsi” della luce proprio in un movimento di “caccia” all’invisibile, al corpo occultato, al nemico oscuro, che (come avviene in chiave di commedia in un film misconosciuto come Witch Hunt ) assume le movenze rituali di una caccia stregonesca, di una caccia magica, della messa in moto di una tracimazione e metamorfosi dei corpi che trascorrono nell’incessante bilico di “trasfigurazione” spirituale e di “trasmigrazione” animale. Il corpo sospeso tra visibile e invisibile, tra morte e resurrezione, tra bestiale e divino, tra sessualità e ascesi, tra desiderio e suo interdetto è, in quanto corpo trascendentale e insieme ombra, fantasma luminoso, parvenza, continuamente sottoposto a una presa filmica che lo destina alla sua occultazione, a una pulsione a guardarlo/possederlo attraverso la macchina da presa e sua fuga attraverso una “ferita dello schermo” un punto di dissipazione, di perdita, di manque che ne disegna la deriva. 3 Prima il cosmo è descritto come “Deserto e vuoto. E tenebre erano sopra la faccia dell’abisso”. “Deserto e vuoto”, “tenebre” coinci-
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dono con l’assenza di significato. Sarà infatti l’uomo a popolare il deserto e il vuoto: in lui la natura stessa parte per l’avventura inesauribile della ricerca del significato. Venne l’uomo e si scatenò subito il tentativo ininterrotto per immaginare, definire, realizzare teoricamente, praticamente ed esteticamente il nesso che corre tra il momento vissuto, passeggero ed effimero, ed il senso eterno, ultimo di esso. Qual è il significato dell’attimo contingente in relazione al tutto? L’uomo in tutti i tempi, anche quando dichiarava l’opposto, ha affrontato e vissuto questo impegno interpretativo. La ricerca di questo nesso tra l’istante e il tutto, l’eterno - è un fenomeno inevitabile per l’umana ragione, perché l’uomo da sempre, e più profondamente di quanto non abbia avvertito gli altri suoi bisogni, ha vissuto l’urgenza di interrogarsi e di non lasciare inevasa la risposta sul fine ultimo del suo camminare. (Don Luigi Giussani) Lo sguardo della camera schraderiana attua una anatomia, uno scavo continuo nell’esistenza, nell’esserci spaziale, di una filogenesi biopolitica, di una insorgenza della ‘nuda vita’, del divenire animale, della “residualità” della carne e dell’incarnazione che si rivela come spoglia rispetto al processo di trasfigurazione e disincarnazione, di fantasmizzazione delle pulsioni desideranti. È durante un’ autopsia che Oliver trova, all’interno del cadavere della pantera, il corpo umano di Paul, è a una “ferita” apparentemente mortale che il corpo/volto di Alan, sfigurato e sventrato nella sua “iconicità”, sopravvive e “risorge”, e assume una “falsa veste”, un’altra plasticità resurrezionale, un altro volto chirurgicamente mutato, in Forever Mine, ed è verso una redenzione, una resurrezione della carne, che lo spacciatore si dirige nell’accedere a un destino pre-figurato dalla veggente, nel sottoporsi a una deriva-caccia in cui il suo stesso corpo possa, nella “crocefissione” tra luce e buio, subire una palingenesi, che coincide nell’aprirsi un varco, perseguire una via di uscita in cui la luce interiore possa sprigionarsi in una allucinazione redentiva. In un film come The Walker è un “occultamento di cadavere” che mette in moto gli intrighi del “vuoto” connessi al potere, a un potere senza più volto, che svia e defigura, che avviluppa in una trappola dello sguardo, in un labirinto di false piste, in un vorticare a vuoto intorno alla vittima predestinata, che è il corpo di Carter Page III
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(corpo “genealogico” destinato al sacrificio dal “nome del padre”, al nesso colpa-redenzione dal suo stesso “perturbare” l’ordine del potere politico e familiare) già di per sé obliquo e ambiguo, dimidiato tra mascolinità e femminilità, “trafitto” dai flash del fidanzato fotografo, esposto e insieme dissimulato nell’essere un “escort gay” (è curioso che le dolci e perfide signore cui fa da accompagnatore lo chiamino Carl, come il Carlo 1 e il Carlo 2 del pasoliniano Petrolio egualmente “ferito” al basso ventre nel momento in cui al posto del pene gli si apre una vagina e diventa donna e in tale “spoglia” percorre le vie vuote del potere occulto e vuoto del postcapitalismo, le tracce dell’alta borghesia politico-intellettuale, offrendosi a un mistero della trasformazione dei corpi, che è una transustanziazione iniziatica, disegno che nel film di Schrader trova una corrispondenza curiosa), corpo “alla deriva” nel suo “camminare”, nel suo “accompagnare” obliquamente, nel suo dissimulare i desideri delle donne che è costretto a mettere in scena, a condurre su scene teatrali, come i palcoscenici d’opera che espongono le potenze del falso e della menzogna, a ripercorrere ritualmente “scene del crimine” e, con un lapsus/passo falso addossarsi la colpa di “scoprire” ( ma anche di occultare di nuovo) la putrescenza del cadavere della società politica di Washington D.C. .Una tale obliquità, un tale disegno avviluppante e vorticoso, una tale deriva della parola, del “motto di spirito”, del corpo/inconscio che parla, vengono, fin dalla prima sequenza, adottatati da Schrader. La lunga partita a carte intorno a un tavolo da gioco (che è come uno spazio-ara sacrificale e insieme un luogo deputato, una scena teatrale, cui come in un falso cerchio ritorna alla fine, ormai “disfatto” nelle sue “spoglie”, Carl, trovandolo desolantemente vuoto ) è anche un lungo dialogo che sembra uscito da una pièce di Oscar Wilde, o ancor di più dai drammi moderni di T.S. Eliot che collocano, proprio come in The Walker, su una scena neoclassica e barocca, e insieme in interni borghesi permeati dal sesso e dalla politica, le sopravvivenze del mito classico (poste sotto la luce trasfigurante del mito cristiano), come in Il grande statista o in The Cocktail Party di Eliot (laddove rispettivamente si colgono gli echi di Edipo a Colono o delle Eumenidi ), ma soprattutto è anche un lungo piano-sequenza spiralico che avviluppa, come in un vortice da tela di ragno, il corpo obliquo e ambiguo del walker nelle tramature, nelle “bave spaziali” dei desideri barrati del femminile, della Donna-Non-Tutta (direbbe
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Lacan), laddove si apre il “buco” abissale del reale, che darà luogo, nel suo vuoto, al vorticare incessante tra immaginario e simbolico, barrandone il significante fallico. In The walker, (come in Advise & Consent , Tempesta su Washington, 1962, di Otto Preminger, dove l’interdetto del desiderio e l’occultazione, la minaccia di rivelare l’omosessualità del potente di turno, e dunque lo stanziare obliquo del potere sul suo stesso vuoto, decostruiscono l’immagine stessa che di quel potere l’occhio della macchina da presa, il cinema come “macchina della verità” può fornire e figurare) il potere dissimula il suo vuoto nel ripercuotersi delle sue “potenze del falso”, nello stato “panottico” e “panacustico” di una “società degli uomini” che è posta sotto il dominio cavo dello spiare e dell’ascoltare, del “cambiare le carte in tavola” e del misconoscimento, entro cui il “cerchio magico” dell’accolita di donne (presieduta da una stregonesca Lauren Bacall) fa da cassa di risonanza e da “spazio scenico” (sembra di intravedere nel destino di Carl/Carter III quello di Penteo che, travestito da donna, ausculta e spia il “tiaso” delle Baccanti) attraverso il corpo auscultante e vedente, e camminante, di Carl, il quale non a caso sussurra mellifluo: “Tutto prima o poi passa da queste orecchie. Questo è il centro della merda mie care”. Il corpo/ sembianza di Carl/Carter III sembra prolungare e disfare quello di American Gigolo e progressivamente decostruirsi nello spazio arcano della sua Casa/Atelier, per cui è solo tramite una spoglia/ cadavere che il suo dissimularsi si può destinare a una paradossale redenzione etica. La terra desolata di Eliot e i suoi uomini vuoti (“Questa è la terra morta/ Questa è la terra dei cactus/ Qui le immagini di pietra/ Sorgono, e qui ricevono/ La supplica della mano di un morto/ Sotto lo scintillìo di una stella che si va spegnendo”) emergono in The Canyons con la medesima e inquietante possessione di un sogno doppio riemerso dalla luce abbacinante del deserto o dalla luccicanza che fa aprire/chiudere gli occhi degli esorcismi e delle maledizioni, ad alto tasso etico e ad alto tenore misterico, dello Schrader di Dominion: Prequel to the Exorcist o di Adam Resurrected o di Cat People, ma anche dei cerimoniali kubrickiani o delle frenesie friedkiniane. Ma è soprattutto la teoria intesa come itinerario della visione e come incidentalità del cinema del Godard di Le Mépris che, sotto una luce disperata e distorta e lucidamente morale, qui ritorna nel segno, inscritto all’inizio e alla
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fine, del vuoto e della rovina, e dell’endiadi splendore e miseria, del cinema, delle sue sale vuote, delle sue pellicole a brandelli, delle sue cabine sventrate, del suo sacro (holy) motore (motor ) a vuoto, a folle: invenzione senza futuro (come è scritto nella saletta di proiezione di Godard in cui siede Fritz Lang). O il cui avvenire è l’atto del rovinare, del precipitare, dello sbriciolarsi, del pietrificarsi-disciogliersi in questa linea di fuga, proprio come in un canyon. Il ritratto di Eliot su cui va a fuoco, in modo misterioso e lancinante, un occhio imprescrutabile che circola in modo oscuro e incessante nel film, alla chiusura “ermetica” della scena nella stanza dello psicanalista (un Gus Van Sant cui viene riverberato il suo già ritornante (American) Psycho) è come una “cifra nel tappeto”, il geroglifico nascosto che sospinge, e insegue , sotto uno sguardo mobile-immobile, questi uomini vuoti, che Ellis suscita e Schrader re-suscita. Fantasmi del desiderio che circola come una “moneta morente”, economia degli sguardi e dei corpi riprodotti, destinati a non poter morire e a una resurrezione senza effetto, un risorgere come spoglie senza aver tracimato il proprio resto nella terra inaridita. La villa bianca, algida e insieme petrosa riecheggia quella di Malaparte a Capri filmata da Godard appunto nel Disprezzo, ma è tutto il percorso spaziale filmato e rifilmato, fotografato e rifotografato, che è messo in stato di controllo totale dalle piccole macchine desideranti che sterilizzano il sesso e lo rendono ubiquo e sordamente autonullificante. È una teoria dei doppi, una ripercussione continua del controllo reciproco e del dispositivo svuotato di un similcinema la cui produzione in sé è improduttiva e che, con una mossa geniale, Schrader disloca, ponendo fuori l’occhio che è impossibile scrutare e immettere nel mercato dei corpi, occhio trascendentale al quale conferisce una estrema elegìa, nel gesto trascendente di porre in un’ invisibile retroimmagine lo splendore inconsumabile dell’icona, di un volto nascosto, di una kenosis che, nel deserto delle tentazioni, si rende abbacinante, ed è proprio un tale abbagliante svuotamento che si fa necessariamente presente, si rende carne nel suo nome, e si sostanzia nella pienezza di una icona del sogno.
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Bibliografia P. Schrader, Il trascendente nel cinema, Donzelli, Roma 2002. A. Canadè, B. Roberti (a cura di), Per esprimere il sacro ci vuole un anticinema, conversazione con Paul Schrader, in Fata Morgana n°10 /Sacro, Pellegrini, Cosenza 2012, (poi in AA. VV., Conversazioni sul cinema, Pellegrini, Cosenza 2013). E. De Vito, L’immagine occidentale, Quodlibet, Macerata 2015.
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UNO YAKUZA CALVINISTA. SU PAUL SCHRADER SCENEGGIATORE
È abbastanza semplice e, insieme, piuttosto difficile scrivere e discorrere dell’attività di Paul Schrader come sceneggiatore. Per varie ragioni. È semplice in modo quasi scontato perché Schrader risulta essere sceneggiatore di film diretti da altri quasi solo all’inizio della sua carriera, nei primissimi anni Settanta del XX secolo. Da questa angolazione, considerando che, a partire da Blue Collar (1978, Tuta Blu), lo stesso Schrader passa dalla posizione di sceneggiatore a quella di regista (e dei film da lui diretti fino a oggi non sempre, ma spesso, scrive le sceneggiature), e inoltre che egli torna nel ruolo di soggettista e sceneggiatore, nell’arco di un quarantennio (19742014), soltanto per Martin Scorsese (3 film), Peter Weir (1 film), Harold Becker (1 film), il numero di film a lui attribuiti nella sola funzione di sceneggiatore risulta davvero minimo. Questo dato, quindi, tende a far muovere l’analisi verso una constatazione quasi lineare: ossia le sceneggiature di Schrader prima che egli passi alla regia sono il banco di prova del futuro autore, la formazione necessaria che il regista paga per maturare la sua personale linea di creazione e di ricerca. Ma le cose non stanno propriamente così, anche se le apparenze paiono convincerci di ciò. Intanto, le sole tre sceneggiature scritte prima di passare alla regia sono quelle di film che hanno segnato l’immaginario filmico degli anni Settanta: Yakuza (1974, scritto assieme a Robert Towne, diretto da Sidney Pollack), Taxi Driver (1976, di Martin Scorsese), Obsession (1976, Complesso di colpa, diretto da Brian De Palma con il quale Schrader condivide la sceneggiatura). È a questo punto che le cose, per chi deve indagare l’attività di sceneggiatore di Schrader, si fanno piuttosto difficili e complesse.
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Non sfugge infatti, a chiunque solo conosca anche superficialmente la storia del cinema americano degli anni Settanta, che gli autori e i film ai quali il nostro autore fornisce il suo contributo costituiscono un tassello non sminuibile di quel decisivo rilancio che il sistema del cinema statunitense ha dimostrato, in quel decennio, di saper operare, riscrivendo daccapo le proprie coordinate creative e proponendo nuove immagini capaci di colpire la sensibilità e le sostanze emozionali del pubblico nazionale e sovranazionale. È il periodo del new american cinema, al quale Schrader dà una essenzialità di segno e una capacità di scavo psicologico inusuali. Lo scenario si fa ancora più difficile appena solo si tenti di inquadrare il senso interno alle scritture narrative offerte da Schrader ai suoi autori d’allora. Yakuza, Taxi Driver e Obsession sono film molto diversi l’uno dall’altro, per la forte personalità con la quale ciascuno dei registi (Pollack, Scorsese, De Palma) interpreta, sia visivamente che narrativamente, le tre storie schraderiane, secondo forme chiaramente riconducibili alla propria idea di cinema: mentre Yakuza si muove su una linea apparentemente classica del gangster movie trapiantato nello scenario giapponese di Tokyo e Kyoto, con una ombratura di rossi e scuri metropolitani, Taxi Driver segue l’evoluzione quasi paranoica del protagonista, il taxista Travis Bickle, nelle sue peregrinazioni notturne in una New York uggiosamente allucinata; da parte sua, Obsession – la cui storia si svolge, a distanza di venti anni, fra New Orleans e Firenze – ha l’andamento di un incubo che si svela dapprima miracolo e poi doppio incubo, specialmente nel modo del protagonista (un indimenticato, attonito, Cliff Robertson) di vivere e rivivere la perdita mortale della moglie e della figlia, subito dopo averla rivista nelle fattezze di una sosia (che infine scopre essere la sua vera figlia) in un intreccio chiaramente noir, soggettivamente calcato dall’occhio hitchcockianamente clinico di De Palma. Tre film reciprocamente incomparabili, dunque, se non per l’appartenenza coeva a quella stagione di rifioritura del film americano consistente nel saper proporre una estetica della violenza, ossia una nuova, diversa, qualità e cifra del cinema stesso di leggere la propria epoca, di segnarne i conflitti, le angosce, le inquietudini che sgranano il mondo del capitalismo occidentale e ne svelano i lati oscuri. E dunque, come si può rifare un percorso teso a individuare il contributo fornito da Schrader sceneggiatore in quel decennio? Ci
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si può muovere secondo un primo dato, collaterale a uno dei tre film da lui sceneggiati nei primi anni Settanta, dato che tuttavia risulta estremamente significativo. Schrader firma la sceneggiatura di Yakuza assieme a Robert Towne. Questo secondo nome fa accendere una lampadina a chi conosce il ruolo svolto da questo sceneggiatore per il rinnovamento del cinema statunitense nel decennio dei Settanta. Si tratta di una figura d’eccezione, attiva dalla prima metà dei Sessanta, e alla quale, nei Settanta, fanno riferimento autori come Arthur Penn, Richard Fleischer, Hal Ashby, John Huston, Francis Coppola. Si tratta di, nientemeno che, dello sceneggiatore di Chinatown (1974) – film che esce nel medesimo anno di Yakuza – e, non accreditato, di vari film cruciali per la “nuova onda” del cinema statunitense, fra cui spicca The Godfather (1973, di Francis Ford Coppola), al quale Towne collabora, seppure non accreditato, chiamato appositamente dal regista per risolvere vari snodi narrativi. La presenza di Towne nella filmografia di Schrader sceneggiatore è illuminante in quanto trascina con sé l’esigenza immediata di collocare il nostro, allora giovane, cineasta in un contesto e in un quadro che definisca quella esperienza generazionale che ha così fortemente segnato la storia del cinema americano. E, quindi, assieme a Towne e Schrader stesso, subito dopo (in senso non cronologico, ma di completamento del quadro, appunto) non si può non richiamare il ruolo e la presenza di John Milius (non a caso, executive producer del secondo film diretto da Schrader, Hardcore). Towne, Schrader, Milius. Tre scrittori di cinema che sanno orientare, in senso forte, seppure con sensibilità molto diverse l’una dall’altra, l’emergere di una diversa visione della contemporaneità nel decennio che vede il cinema americano fare definitivamente i conti con i miti fondativi (frontiera, libertà, melting pot ecc.), con la violenza emergente dall’acuirsi delle disuguaglianze e dalle sopraffazioni del potere politico e militare, con le differenze che si stagliano fra giovani e adulti ossia fra coloro che hanno vissuto la Seconda Guerra e quella di Corea, e coloro che stanno vivendo l’amara sconfitta del Vietnam. I legami fra le opere individuali di ciascuno dei tre, e gli elementi comuni che li apparentano in un quadro storico-filmografico, sono davvero notevoli. Molti dei film da essi sceneggiati, per esempio, “lavorano” similari sostanze mito-narrative e operano un ana-
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logo scavo teso o a ribaltare valori socio-individuali, ormai trapassati, o a rintracciare nuovi fondamenti identificativi dello spirito nordamericano. Si va dal tema tipicamente americano dell’amicizia, specialmente quella virile (da Yakuza a Blue Collar, 1978, per Schrader; da The Last Detail, 1973 a Missouri, 1976, e, poi, da regista in Tequila Connection, 1988, per Towne; da The Wind and The Lion, 1975, a Big Wednesday, 1978, per Milius), al tema dell’obbligo morale individuale davanti alla corruzione oggettiva e soggettiva e alla violenza, quindi la lotta per difendere la dignità personale o per conquistare una autonomia senza condizionamenti nella natura e nella società (da Yakuza a Hardcore, 1979, da Taxi Driver a American Gigolo, 1980, per Schrader; da The Last Detail a The New Centurions, 1972, a Chinatown, per Towne; da Jeremiah Johnson a The Life and Times of Judge Roy Bean, entrambi del 1972, per Milius), al disincanto e, assieme, alla ricerca di fili interiori capaci di sostenere l’individuo, solitario, o viceversa connesso a vincoli sociali, davanti al cadere di ogni fede o ideologia “positiva” (e per questo, quasi tutti i film della “triade” Schrader-Towne-Milius sono decisivi nell’apportare vari elementi dello sguardo nuovo mosso dalla generazione dei Settanta, tesa a rintracciare un cinema all’altezza del desiderio sociale contemporaneo di riconoscersi in nuove immagini dalla valenza collettiva). In tale quadro d’epoca, e nel dialogo costante, seppure silenzioso e non pretenzioso, tessuto con l’opera dei suoi colleghi scrittori (di lì a poco dopo la metà dei Settanta – primo fra essi, John Milius – pronti a passare alla regia e a farsi responsabili di diversi capolavori), il cinema scritto da Schrader si fa portatore di una tempra morale quasi esclusiva, per il livello esemplare degli “obblighi” che i suoi protagonisti assumono davanti a se stessi e alla società. Scandagliare se stessi Molto è stato scritto sulla formazione critica di Paul Schrader e sull’importanza del suo bellissimo studio critico dedicato allo “stile trascendentale” nel cinema (Schrader 1972). Non c’è dubbio che l’opera filmica di Schrader trasporta con sé diverse sollecitazioni provenienti dai suoi interessi critici, ma sarebbe sbagliato pensare che vi sia una linea di continuità, certa e fondata, fra il quadro dei
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suoi saggi di cinema e le scelte operate nel ruolo di sceneggiatore e di cineasta. Quando opera nella struttura produttiva, Schrader non può eliminare la differenza fra l’agire e il pensare, fra scegliere e dare una forma alle immagini, e invece pensarle in astratto o come risultato di una indagine mossa a posteriori sull’opera di altri cineasti; le sue idee sul cinema, maturate nella fase in cui ha esercitato la critica, restano sullo sfondo, fornendogli una sorta di bussola generale, uno spleen che marca – in modo anche riconoscibile – talune sue scelte espressive, ma senza che ciò costituisca una forma chiaramente riconducibile agli interessi che precedono la sua attività creativa. Il suo cinema, infatti, più che essere un tentativo di “stile trascendentale” (nelle parole di Schrader, tale stile “sebbene tenti, come qualsiasi forma di arte trascendentale, di comunicare l’ineffabile e l’invisibile, non ha di per sé nulla di ineffabile né di invisibile […] lo stile trascendentale cerca di assolutizzare il mistero dell’esistenza…” - Schrader 1972, p. 3 e p. 10) è piuttosto inquadrabile nel campo di una tensione etico-morale che i personaggi assumono per se stessi. Davanti all’esperienza che ne travolge l’esistenza modificandola in profondità, essi devono guardare nel fondo della propria anima e scoprire le ragioni di una identità-essere misurata con le responsabilità verso gli altri e verso se stessi, in maniera né ideologica, né formale o convenzionale, né come alibi. Le scelte che essi sentono di dover compiere non hanno altro obbiettivo che quello di scoprire e scovare verità – spesso inizialmente inconfessabili – in grado di togliere il velo insopportabile delle apparenze al reale, misurandosi con lo sforzo, principalmente interiore se non spiccatamente intimo, di giungere al punto estremo. È un percorso destabilizzante per l’identità che si presenta a inizio delle storie scritte da Schrader, ma altresì tale da richiedere una revisione radicale delle convinzioni di vita e di prospettiva etica che coinvolge le varie traiettorie dei suoi personaggi. Per esempio, nell’obbligazione che l’individuo ha col proprio impegno a essere fino in fondo se stesso e a difendere la sua visione del mondo (in Yakuza, il personaggio di Tanaka Ken, che alla fine spinge Harry Kilmer/Robert Mitchum a scegliere la stessa modalità di scusa-espiazione tagliandosi un dito); oppure nel rispetto di una irriducibile volontà di tenere il punto, di conti-
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nuare a cercare, da parte di un irriducibile e convinto calvinista, ciò che pare svanito agli altri pur dovendo constatare che, nel mondo senza fede sopravvenuto nella metropoli americana dove impera il commercio del film porno, egli non è nulla e nessuno (in Hardcore, il protagonista Jake Van Dorn/George C.Scott); o ancora di protestare fino all’ultimo la propria innocenza, in una situazione in cui frana ogni possibile speranza e l’intima verità racchiusa in io paradossalmente pudico (il personaggio è infatti un gigolò) pare annullata dalle sembianze dei fatti (Julian/Richard Gere di American Gigolò). Schrader imposta la struttura profonda delle sue narrazioni immergendo tutti i personaggi dei suoi film degli anni Settanta nelle situazioni-limite in cui essi sono costretti a rivedere integralmente (e a riconsiderare alla radice) le proprie scelte di vita. Vediamo in breve le sintesi che riassumono i percorsi di trasformazione di alcuni personaggi, ossia i cambiamenti che maturano dallo scandaglio profondo delle loro originarie condizioni. In Hardcore, un calvinista borghese (Jack/George Scott) messo di fronte alla scomparsa di una figlia, qualche tempo dopo rivista nelle immagini di film porno clandestini, intraprende quasi un “viaggio all’inferno” al termine del quale le sue scelte di vita, le convinzioni religiose e le idee sulla famiglia, sul sesso e sul rapporto fra fede e corporeità (dopo i confronti avuti con un detective privato – Peter Boyle –, con Niki, una giovane prostituta, e infine con la figlia ritrovata), vengono completamente rimesse in sesto. Nella prima parte di Yakuza, Harry, un ex militare tornato in Giappone per aiutare un amico in difficoltà rivede a distanza di venti anni la donna giapponese da lui forzatamente lasciata nel passato e, nel corso di questo viaggio di ritorno, scopre che l’amico gli ha mentito; involontariamente, Harry provoca una ritorsione nel corso della quale muore la giovane figlia della donna giapponese; questo ex militare americano dal comportamento monolitico (un Robert Mitchum perfettamente nella parte) scopre una profonda affinità con Tanaka, il giapponese che egli ha sempre ritenuto fratello della donna di cui era innamorato, e che invece ne è il marito. Così, nel saldare i conti con l’amico traditore e con i responsabili della morte della giovane ragazza, Henry condivide con Tanaka una partita mortale alla fine della quale resta un’amicizia senza condizioni.
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In Obsession, un imprenditore di New Orleans, Michael Courtland (Cliff Robertson), al quale la vita pare inizialmente aver destinato ogni felicità (una moglie e una figlia amate sopra tutto, e un evidente ricchezza dovuta al successo imprenditoriale) è colpito dalla doppia sciagura di un rapimento nel corso della quale la moglie e la figlia muoiono tragicamente; venti anni dopo, la ferita si riapre quando Michael rifà daccapo il percorso che gli aveva fatto conoscere la moglie a Firenze, nella Chiesa di San Miniato al Monte; qui vive l’acuta e lancinante sorpresa di rivederla intatta, di nuovo viva, nelle fattezze di una giovane restauratrice. Ma questa “donna che vive due volte”, da lui ancora una volta corteggiata, sposata e condotta a New Orleans, lo rificca in una coazione a ripetere lo stesso dramma di venti anni prima. Michael è quasi stordito dalle coincidenze, sembra perdere ogni cognizione della realtà, e dentro la struttura, a incubo persecutorio, di un triplo tranello, alla fine scopre una verità insospettabile che ne smina ogni aggressività, ogni tentazione di vendetta. In Taxi Driver, un tassista di New York (Travis/Robert De Niro) è chiaramente un personaggio di soglia, sorta di campione di gesta fuori di ogni regola: prima di tutto, psico-comportamentale, ma anche nella deformazione a tratti malinconica, a tratti paranoica, o ossessivamente nevrotica (sono questi i segni di come lo script di Schrader viene rilanciato e fortemente individualizzato dalla regia di Scorsese), con cui egli cerca di contrastare il degrado quotidiano della sua vita, infine riuscendo non solo a salvare una giovane prostituta, ma anche a vincere se stesso. Traiettorie di vita, dunque, sottomesse a processi che smontano ogni certezza precostituita, ogni apparenza visiva del reale, mostrando che nel reale vi sono appunto obbligazioni, dimensioni ideali, volontà puntigliose – anche testarde come quelle di Harry in Yakuza o di Jack in Hardcore o come quella ossessiva di Travis in Taxi Driver –, ma altresì capacità di ascolto, osservazione e riflessione silenziosa, solidarietà non previste. Tutto ciò irreversibilmente modifica la scena iniziale, il percorso apparentemente targato e definito dell’esistenza, dirottando verso esiti che, se non sempre risultano salvifici, almeno senz’altro si rivelano catartici. Se c’è quindi un filo possibile del collegamento fra gli interessi critici e le scelte creative di Paul Schrader, fra la sua concezione teorica di “stile trascendentale” e le forme narrative delineate nelle
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sue sceneggiature, esso forse consiste nella serie di dinamiche con cui i personaggi dei suoi film vengono sottoposti a un disvelamento interiore che discute in profondità gli assetti – anche visuali – con cui il reale si mostra in precedenza. Si tratta di una operazione di verità – non assoluta, non ideologica, non assunta una volta per tutte, bensì calata nelle definite circostanze vissute dai personaggi – conquistata duramente nel corso di esperienze drammatiche grazie a cui l’apparenza del reale può essere radicalmente rovesciata di segno. È quanto accade nei finali di quasi tutti i film scritti da Schrader negli anni Settanta, ed è quanto configura il significato di un lavoro teso a innovare profondamente la coscienza della cultura pubblica americana in un decennio di decisive trasformazioni del sistema filmico statunitense. Riferimenti bibliografici P. Schrader, Trascendental Style in Film, 1972 (tr. it. Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli, Roma 2002).
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IL RIFIUTO DEL SODALIZIO ARTISTICO. LA MUSICA NEL CINEMA DI SCHRADER
Nell’ultimo ventennio, finalmente, la critica ha prestato notevole attenzione agli aspetti tecnici del cinema, soprattutto alla colonna sonora, dapprima relegata a elemento non degno di vivaci o dotte dissertazioni. Oggi i compositori sono considerati delle superstar (Williams, Zimmer, Elfman, Silvestri, Horner, Newton Howard, Desplat, il nostro sempreverde Morricone, tanto per citarne alcuni) e il loro apporto può spesso parzialmente salvare un film dalla totale disfatta. Basti pensare in tal senso a quante mediocri pellicole possiedono, invece, una colonna sonora eccellente. Nel tracciare una storia del legame cinema/musica è inevitabile porre l’attenzione sui sodalizi artistici tra regista e musicista. Rapporti che innescano non solo un interscambio artistico, ma anche un raddoppio dello stile, sia dell’uno sia dell’altro, fino a diventare un corpo unico e imprescindibile. A questo punto è obbligatorio pensare, tanto per citare una manciata di esempi, a Federico Fellini/Nino Rota, Sergio Leone/Ennio Morricone, Georges Delerue/Francois Truffaut, Steven Spielberg/John Williams, Brian De Palma/Pino Donaggio e, più recentemente, Tim Burton/ Danny Elfman. Ma la storia riporta anche rare collaborazioni in cui i contrasti tra regista e compositore hanno generato immortali capolavori cinemusicali. E qui pensiamo ad Alfred Hitchcock e Bernard Herrmann. Poi ci sono quei registi come Kubrick, Scorsese, Tarantino che hanno insegnato (e insegnano ancora) come sia possibile attingere a fonti musicali eterogenee preesistenti prima per manipolarle e poi piegarle alle proprie esigenze. Tale introduzione è stata necessaria per focalizzare su un regista che non appartiene ad alcuno degli esempi citati. Paul Schrader con i suoi musicisti non ha mai stretto legami duraturi o proficui
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e, laddove vi sia stata l’eccezione, i risultati non hanno mai posto le basi per trattazioni approfondite. A differenza del suo amico Scorsese (capace di congegnare intere sequenze intorno a un brano), l’interesse di Schrader è sempre stato più proteso verso il rigore dell’immagine. Del resto i suoi riferimenti sono Bresson, Dreyer, Ozu, Maestri assoluti del silenzio. Eppure dalle sue sceneggiature di Raging Bull (Toro scatenato, 1980) e Bringing Out the Dead (Al di là della vita, 1999) sono derivati straordinari esempi di quanto la musica possa supportare e scandire con intensità il flusso temporale, nonché quello interiore dell’anima. Per non dire di The Last Temptation of Christ (L’ultima tentazione di Cristo, 1988), capolavoro di Peter Gabriel, nonché opera/tesi monumentale fondata sulla coesione tra suoni primordiali e la modernità dell’elettronica. E allora quali e quanti meriti avrebbe la musica nel cinema di Schrader? Sarebbe difficile dare una risposta categorica, di sicuro però una “specificità” sta proprio nel fatto che il regista ha pochissimo impiegato compositori specializzati in musica da film (gli unici, trascurabili, casi sono Angelo Badalamenti, Thomas Newman e Gabriel Yared). Le sue scelte sono state orientate, per la maggior parte, verso artisti della scena rock (Jack Nitzsche, Bruce Springsteen, Dave Grohl, Michael Brook), indie (Michael Been, Brendan Canning), contemporanea/sperimentale (Philip Glass, Scott Johnson) e disco/pop (Giorgio Moroder, Anne Dudley). Sebbene i risultati siano stati altalenanti, è il frammentato, paradossale, eccentrico, quadro generale – specchio di un rifiuto verso forme musicali consuete – a suscitare un notevole interesse. È come un mosaico i cui tasselli, pur allocati correttamente, non riescono a definire un’immagine comprensibile o, perlomeno, compatibile con quella di un’artista che considera la musica come parte imprescindibile di un film. L’esordio sembra già promettere bene, infatti Blue Collar (Tuta blu, 1980) vanta una formidabile sequenza di apertura che in sette minuti introduce e sintetizza il plot: una catena di montaggio, gli operai e Hard workin’ man, un blues graffiato dalla voce di Captain Bee eart e dalla chitarra di Ry Cooder. La canzone (scritta da Jack Nitzsche e Paul Schrader, ma chiaramente ispirata, ai limiti del plagio, alla celeberrima I’m the man di Bo Diddley) segue i movimenti della cinepresa all’interno della fabbrica, fermandosi ogni
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tanto con uno stop frame per consentire allo spettatore di soffermarsi sul ritmico frastuono dei macchinari e sugli uomini che li utilizzano. E in quei pochi secondi di sospensione ci si chiede chi sia l’uomo e chi la macchina. Probabilmente a quella sequenza ci avrà pensato anni dopo John Carpenter per il prologo di Christine (altra fabbrica, altra, diversa, simbiosi tra uomo e auto), soprattutto per aver inserito Bad to the Bone di George Thorogood, anch’esso esplicitamente ispirato al successo di Diddley. La collaborazione tra Schrader e Jack Nitzsche (produttore, arrangiatore, compositore e figura chiave di tanto rock degli anni Sessanta e Settanta) proseguirà con Hardcore (Id., 1979), in cui il musicista sperimenta quelle sonorità elettroniche che diventeranno il suo marchio distintivo per altri film a venire come Starman (Id., 1984) e Revenge (Id., 1990). Rigetto della melodia, note ossessive in ripetizione, chitarre distorte e improvvise deflagrazioni blues sottolineano con convinzione lo smarrimento del protagonista e lo squallore del mondo nel quale è precipitato suo malgrado. Un mondo totalmente diverso da quello della rigida e bacchettona comunità calvinista che Schrader mostra, con ambigua ironia, nei titoli di testa attraverso la rassicurante voce della country singer Susan Raye (fervente cristiana) e immagini di famiglie alle prese con i preparativi natalizi. È innegabile che in questa prima fase di carriera Schrader esibisca una particolare maestria nel proiettare lo spettatore nella storia sin dai primi minuti, coadiuvato dal supporto musicale. American Gigolo (Id., 1980) conferma il trend grazie a Giorgio Moroder, genio della disco music e del synth pop, che dona al film una canzone (eseguita dai Blondie, dopo il rifiuto dei Fleetwood Mac) che resterà ai vertici delle classifiche per diverso tempo. Del resto il produttore del film, Jerry Bruckheimer, è stato indiscusso artefice negli anni Ottanta del rilancio delle canzoni pop nel cinema grazie a blockbuster come Flashdance (Id., 1983), Beverly Hills Cop (Id., 1984), Top Gun (Id., 1986). Call me, durante i titoli, esalta e determina l’ambiente con i dettagli della Mercedes guidata dal protagonista, le freeways, i paesaggi di Los Angeles, i negozi grandi firme. Ma ancora più riuscita è la scena in cui Richard Gere sceglie gli abiti da indossare, allineandoli e abbinandoli per colore, al ritmo di The love I saw in you was just a mirage di Smokey Robinson. Da menzionare anche il suadente love theme (sulla “geometrica” scena d’amore) e il particolare arrangiamento
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di Moroder del Concerto per clarinetto K622 di Mozart che suggella il finale, amplificandone il senso di redenzione. La collaborazione tra Schrader e Moroder (considerato dal regista un “meticoloso professionista che ogni 45 minuti spediva, tramite un fattorino, le cassette con i demo”) si rinnova con Cat People (Il bacio della pantera, 1982), il cui score – sempre a base di synth – si dispiega per la maggior parte su due temi portanti. La dimensione fantastica dei titoli e del prologo (la sabbia, i teschi, il deserto, l’albero dei rituali, il colore rosso/salmone) è sostenuta da tastiere, percussioni tribali e dai vocalizzi di David Bowie, quest’ultimo co/autore e performer del brano principale. Poi c’è il delicato tema di Irena, che evidenzia il lato malinconico ed enigmatico della protagonista, soprattutto nella riuscita sequenza in cui lei passeggia straniata per una New Orleans deserta. Ci sarebbe poi da menzionare la magnifica sequenza onirica, accompagnata da una suadente variazione del main theme, in cui la Kinski dal gate di un aeroporto attraversa una porta che la conduce nella misteriosa dimensione/terra dalla quale proviene. La magnifica canzone Putting out fire, viene sciaguratamente relegata ai titoli di coda, ma ci penserà Tarantino (indignato dello “spreco” fatto da Schrader) nel suo Inglorious Basterds (Bastardi senza gloria, 2009) a rivalorizzarla, costruendoci sopra una sequenza tra le più belle del film. Nel successivo Mishima: A Life in Four Chapters (Mishima, 1985) la musica di Philip Glass (reduce dalla formidabile esperienza audiovisiva di Kooyanisqatsi del 1982) si combina alla perfezione con la struttura narrativa intermittente, con la fotografia, il décor, i volti. Accompagnato dal Kronos Quartet, il grande compositore americano stempera in parte le figure cicliche, preferendo uno score compatto e nitido che concede poco alle sonorità tipiche giapponesi. L’enfasi del tema principale (per tastiera, timpani, archi e chimes, ma anche virato in una insolita versione surf rock alla Shadows) si alterna con altri temi più dolorosi, caratterizzati dagli archi, o incalzanti, rinforzati da un drumming militare. Mishima vive delle sue immagini quanto della sua musica ed è impensabile una scissione tra i due elementi. Light of Day (La luce del giorno, 1987) è un film sui legami familiari, ma è pure un excursus sulle band rock all’interno di uno scenario “operaio” simile a quello di Blue Collar. Tralasciando il
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marginale apporto del futuro premio Oscar Thomas Newman, vale la pena ricordare il film per un aneddoto riguardante Schrader e Bruce Springsteen. La vigorosa canzone dei titoli di coda, Light of Day (eseguita da Joan Jett e Michael J. Fox), è un regalo che il rocker ha fatto al regista per scusarsi di uno “scippo” commesso alla fine degli anni Settanta. Infatti, Born in the U.S.A. era un copione che Schrader aveva scritto pensando a Springsteen come interprete del brano principale, ma al Boss piacque talmente il titolo che decise di utilizzarlo per il suo leggendario album del 1984. Patty Hearst (Patty - La vera storia di Patty Hearst, 1988) presenta invece un formidabile score, ad opera del chitarrista/compositore Scott Johnson (seguace di Steve Reich), ma sottoutilizzato poiché molti dei brani saranno tagliati via dal film. Audace, multiforme, ricca di suggestioni (rock, jazz, etnica, camera), la musica sfoggia percussioni martellanti, synth, tastiere, archi e chitarre elettriche tirate all’estremo e, addirittura, l’impiego della speech-melody con la voce della protagonista che recita meccanicamente delle frasi rivolte ai genitori. L’apice della sperimentazione di Patty Hearst segna, purtroppo, il punto di non ritorno per Schrader verso un appiattimento che verrà poche volte sfatato, nonostante la sua costante ricerca di musicisti “alternativi”. The Comfort of Strangers (Cortesie per gli ospiti, 1990) segna la prima collaborazione tra il regista e Angelo Badalamenti, lungi dall’essere fertile e appassionante come quella tra il compositore italoamericano e David Lynch. La musica, dai lontani echi tardo romantici contaminati da sonorità mediorientali, si limita ad assecondare con accuratezza l’ambigua atmosfera e le tante ombre delle location veneziane. I due lavoreranno insieme anche per il trascurabile tv movie Witch Hunt (Id., 1994) e Forever Mine (Le due verità, 1999), il cui pregio è ricercabile in quei temi struggenti (per archi e pianoforte) che omaggiano il melodramma classico americano, Auto Focus (Id., 2002) contiene dei piacevoli, lineari pezzi “big band jazz” anni Cinquanta, diligentemente incastrati nel clima dell’epoca. La travagliata lavorazione di Dominion: Prequel to the Exorcist (Id., 2005) condizionò anche la colonna sonora, al punto che buona parte della partitura di Trevor Rabin (l’ex portentoso chitarrista dei Yes anni Ottanta) composto per la versione di Renny Harlin fu remixato e riadattato al film di Schrader. Badalamenti pensò a fornire dieci minuti di temi senza remunerazione, mentre al gruppo metal Dog Fashion Disco (pro-
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posto dal figlio del regista) toccarono alcuni effetti sonori della parte finale e la canzone dei titoli di coda. Con il capolavoro Light Sleeper (Lo spacciatore, 1992) troviamo un regista nuovamente ispirato che utilizza stavolta la musica come supporto aggiuntivo alla narrazione, un diario interiore sonoro, una seconda voce che dialoga con lo spettatore rivelando i lati più poetici e profondi del protagonista. Da un lato i suoni che partecipano alla solitudine di un’anima persa nelle tenebre della metropoli, dall’altro “schiarite” volte ad accentuare un percorso di espiazione e di salvezza. I pezzi – sia strumentali che cantati – composti ed eseguiti da Michael Been (fondatore negli anni Ottanta dei Call e subentrato a Bob Dylan che aveva concesso a Schrader brani completamente inadeguati) sono scarni, intensi, notturni, malinconici, drammatici e sofferenti nel momento in cui l’artista ricerca una tensione vocale simile a quella del grande Scott Walker. Affliction (Id., 1997) è invece firmata dal canadese Michael Brook, chitarrista sperimentale che vanta collaborazioni con Brian Eno, Daniel Lanois, Harold Budd, David Sylvian, U2, Nusrat Fateh Ali Khan, nonché inventore della infinite guitar, un congegno elettronico (spesso utilizzato da The Edge degli U2) che consente un sustain pressoché infinito della nota. Differentemente dalle sue opere soliste, la musica scritta per Affliction è algida come la neve che cade durante il film. Cupa, racchiusa in una essenzialità dove la chitarra e i synths creano strutture sonore inquietanti e ossessive quanto il passato dello sceriffo protagonista. Schrader dimostra piena cognizione della materia controllando e attribuendo alla musica una funzione ambient: discreta, atmosferica ma “incombente”. Touch (Id., 1997) segna invece un’anomala incursione nella commedia, dove il caleidoscopico e gradevole pastiche di generi composto da Dave Grohl (ex batterista dei Nirvana e fondatore dei Foo Fighters) viene sopraffatto dagli eccessi satirici della storia. I film degli ultimi otto anni segnano un’allarmante battuta di arresto. The Walker (Id., 2007) non denota alcun guizzo, nonostante la presenza della solitamente intrigante Anne Dudley (ex Art Of Noise); Adam Resurrected (Id., 2008) è un film con pochissimi interventi musicali (a cura del premio Oscar Gabriel Yared), rimarcati da un dolente violino che rievoca l’esecuzione di moglie e figlia del protagonista nella camera a gas di un campo di sterminio. The Canyons (Id., 2013), è un altro film dove la musica, per la maggior
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parte elettronica, composta da Brendan Canning (membro dell’acclamata band Broken Social Scene) è ridotta all’osso, lasciando alla memoria soltanto i bellissimi titoli di testa che mostrano – accompagnati dalle funeree note del synth – le immagini spettrali di alcuni cinema abbandonati di Los Angeles. Immagini che deviano il pensiero del cinefilo sullo stagnante status attuale del cinema di Schrader.
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ADAM RESURRECTED O DELLA TRASFORMAZIONE
Non c’è arte senza trasformazione. Robert Bresson
Campo di concentramento di Stellring, 1944. Il convoglio arriva all’interno del campo. Le SS tirano fuori gli ebrei stipati nei carrimerci. Un ufficiale nazista punta il dito verso uno di questi: “Tu… Adam Stein, l’uomo più divertente della Germania trasferito a Stellring”. È il Kommandant Klein, che anni prima Adam aveva conosciuto durante uno spettacolo del suo “Adam Zirkus”. “Dovevate vederlo al circo a Berlino… sapeva fare il verso di tutti gli animali. È un grande clown. Avanti Adam, fai un numero… facci ridere”. Adam inizia a muoversi in maniera buffa ma Klein lo ferma subito: “No no… ora fai il cane per il nostro Rex”. Adam è ora a quattro zampe davanti al cane di Klein. Un’inquadratura dall’alto ce li mostra l’uno di fronte all’altro, l’uno che imita i movimenti dell’altro. “Ti sei fatto un amico Adam… Sergente, porti Herr Stein nel recinto di Rex”. Adam fa per mettersi in piedi ma Klein gli ordina di seguire il soldato a quattro zampe. La trasformazione è compiuta: sarà il cane lupo di Klein, con il compito di “alleviare e intrattenere” Herr Kommandant. Tel Aviv, 1961. Adam trascina David al guinzaglio. Lo conduce verso la recinzione della clinica per i sopravvissuti ai campi nazisti dove sono ospiti intimandogli di aggrapparsi alla rete e alzarsi in piedi. David si rifiuta. Adam si slaccia la cintura dei pantaloni per utilizzarla a mo’ di frusta, come un domatore al circo. “Sei mai stato al circo? Orsi, cavalli, leoni… tutte le creature di questa maledetta terra possono stare in posizione eretta. Tu non sei un cane, non sei un ragazzo”. Le mani di David sono aggrappate alla recinzione,
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il suo corpo scricchiola. Ogni muscolo è teso. “Così tesoro… fallo. Alzati!”. Il busto si erge sempre più, guadagnando faticosamente la posizione eretta. “Guarda… guarda… guarda”, sibila David. Il cane, che una volta era un bambino, sta per diventare uomo e Adam, l’uomo che una volta era un cane, lo guarda attonito. Improvvisamente però Adam si lancia su David scaraventandolo a terra e ringhiandogli contro. Adam viene allontanato dagli inservienti e l’infermiera Gina Grey, che ha assistito alla scena, dice a David: “Tranquillo ce l’hai fatta. Sei un uomo, il nostro uomo”. Si tratta di due sequenze di “trasformazione”, collocate in due momenti di svolta di Adam Resurrected (2008). Se l’animalizzazione di Adam risponde a quella logica di annientamento della vita umana progettata ed eseguita dal nazismo, l’umanizzazione di David è invece il tentativo di riconquista di questa umanità, anche per lo stesso Adam, che nel bambino naturalmente ritrova la propria storia. Queste due sequenze fanno del film di Schrader un esempio importante del rapporto tra umano e animale (del divenire-animale e del divenire-umano) e del suo legame con il sacro. In altre occasioni abbiamo già sottolineato come l’intera opera schraderiana, quella teorica (il volume Il trascendente nel cinema), quella da sceneggiatore (soprattutto in collaborazione con Scorsese) e quella registica, sia animata da una tensione al sacro che passa attraverso il corpo (dimensione materiale con cui il cinema non può fare a meno di entrare in rapporto) e in particolare attraverso il sacrificio del corpo stesso1. E già in un altro film come il remake di Il bacio della pantera (1982), Schrader aveva riflettuto sulla contaminazione tra umano e animale e posto l’attenzione proprio sulla trasformazione “a vista” del personaggio della Kinski, rendendo visibile, e tangibile, ciò che nell’originale di Tourneur era solo accennato. Ora in Adam Resurrected questo rapporto raggiunge un valore di esemplarità dato anche dal carattere di summa di tutto il suo cinema che il film sembra presentare2. Quasi a voler chiudere 1
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Cfr. A. Canadè, Paul Schrader. Tecniche di sceneggiatura e pratiche di regia nella New Hollywood, Le Mani, Recco (Ge) 2004, in particolare pp. 9-46; “Per esprimere il sacro ci vuole un anti-cinema”. Conversazione con Paul Schrader, a cura di A. Canadè, B. Roberti, in «Fata Morgana», n. 10 (2010), pp. 7-13. Giustamente Giona A. Nazzaro ha parlato del film come “l’ipertesto stesso
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con tipologie di personaggi, tematiche e modelli drammaturgici (in primo luogo la riproposizione di un modello tragico, sacrificale, scandito per tappe, di isolamento, separazione, persecuzione, morte o riscatto finale), che hanno ossessionato i suoi film precedenti (le regie quanto le sceneggiature) e che qui sono raddoppiati (la tematica del doppio, anche nella declinazione della finzione, come vedremo, è centrale in tutto il film): due sono infatti i percorsi (redentivi) raccontati, quello di Adam e quello di David. Questa idea della trasformazione chiama anche direttamente in causa lo Schrader teorico e in particolare la sua definizione di stile trascendentale. L’idea cioè che il cinema sia in grado di rappresentare il sacro, di far accedere a rappresentazione l’irrappresentabile, e che questo si possa realizzare attraverso un lento processo, organizzato in tre fasi (quotidianità, scissione, stasi), di rarefazione e stilizzazione di tutti quegli elementi basilari del cinema “mimetico” (intreccio, recitazione, fotografia, musica) che coinvolgono emotivamente lo spettatore; attraverso un uso austero della macchina da presa, una recitazione scarna ed essenziale e un montaggio ridotto all’essenziale. Secondo Schrader, questo stile trova piena realizzazione nel cinema di Ozu e Bresson e in parte in quello di Dreyer (i tre autori attorno cui fa ruotare il discorso). E proprio nella parte del volume dedicata al regista francese, Schrader riprende il termine “trasformazione” utilizzato dallo stesso Bresson (in una delle prime pagine del suo Note sul cinematografo scriveva: “Non c’è arte senza trasformazione”3) per designare quel momento, all’interno della fase della scissione, al quale giunge lo spettatore dopo che “l’evento decisivo” lo costringe a un confronto con il “Completamente Altro”; un “miracolo”, che va accettato o respinto. Uno degli esempi bressoniani più evidenti in questo senso, ripreso anche dallo stesso Schrader in alcuni suoi film, è il finale di Pickpocket (1959), la scoperta cioè dell’amore da parte di Michel nei confronti di Jeanne: “Quale strano cammino ho dovuto percorrere per giungere sino a te!”. La trasformazione “può trasportarci in una regione che non è più semplicemente terrena, bensì univer-
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del cinema schraderiano”, La luce del giorno. Paul Schrader Resurrected (again), in La luce della scrittura. Paul Schrader critico, sceneggiatore, regista, a cura di R. Menarini, Transmedia, Gorizia 2009, p. 26. R. Bresson, Note sul cinematografo, tr. it., Marsilio, Venezia 1986, p. 18.
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sale, direi addirittura divina”4. La trasformazione si presenterebbe quindi come il luogo di manifestazione del sacro. Un ulteriore importante riferimento per indagare questa dimensione del sacro in rapporto alla relazione umano-animale lo troviamo in Homo sacer di Agamben, e in particolare nel paragrafo intitolato Il bando e il lupo. Qui Agamben presenta la figura dell’uomo bestia (uomo lupo o bandito) presente nella storia sociale occidentale sia nella tradizione colta sia nella tradizione popolare. Come ricorda Agamben, lo studioso tedesco Rudolf von Jhering è stato il primo a collegare la figura dell’homo sacer, vale a dire, dell’individuo che, intoccabile, ricopre una posizione liminale nel consesso umano e nei cui confronti gli uomini nutrono sia timore sia venerazione, a quella del “wargus, l’uomo-lupo, e al friedlos, il ‘senza pace’ dell’antico diritto germanico”5, colui che poteva essere ucciso da chiunque senza per questo commettere omicidio. Questa figura è quindi caratterizzata dall’essere un ibrido tra umano e ferino: “La vita del bandito – come quella dell’uomo sacro […] è una soglia di indifferenza e di passaggio fra l’animale e l’uomo, la physis e il nómos, l’esclusione e l’inclusione: loup garou, lupo mannaro, appunto, né uomo né belva, che abita paradossalmente in entrambi i mondi senza appartenere a nessuno”5. E questa indistinzione tra uomo e animale, questa progressiva animalizzazione dell’uomo e ominizzazione dell’animale è possibile in quello che Agamben definisce “stato di eccezione” e di cui il campo di concentramento è il caso più esemplare. Quello spazio in cui gli uomini sono privati di ogni statuto politico e ridotti a “nuda vita […]. Il campo è il più assoluto spazio biopolitico che sia mai stato realizzato, in cui il potere non ha di fronte a sé che la pura vita senz’alcuna mediazione”6. Ora, è proprio questa idea di trasformazione come soglia di indistinzione tra umano e animale che il film mette in campo. La trasformazione individua un processo aperto, in divenire, che passa, come sempre in Schrader, attraverso una messa in immagine del corpo, in questo caso come sistema appunto (idribo) di umano e animale: è un trapassare i confini dell’umanità e dell’animalità per 4 5 6
Bresson citato in P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, tr. it., Donzelli, Roma 2002, p. 72. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 117. Ivi, p. 191.
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sperimentare una nuova forma di vita; né cane né uomo ma entrambe le cose. È il caso dei due protagonisti: è il corpo “sacro” di Adam che sanguina, muore e risorge (dagli altri ospiti della clinica è percepito come una sorta di Messia venuto a liberarli) ma è anche il suo corpo umano che non riesce a dimenticare il passato animale 7 , che riaffiora nel momento in cui incontra il corpo canino di David. Ed è un corpo quello di Adam anche privato di uno sguardo. Ci riferiamo in particolare a una sequenza del film, collocata nei suoi primi minuti, il momento in cui Adam viene riportato in clinica e abbandona la pensione di Ruth. Per riprendere l’allontanamento di Adam, Schrader ricorre all’utilizzo di una forma particolare di soggettiva, già utilizzata altre volte e da lui stesso definita come il punto di vista cieco: il punto di vista degli occhi che stanno dietro la nuca. Si tratta di una soggettiva in cui lo sguardo non appartiene al proprio soggetto, in cui si mostra ciò che il personaggio ha visto senza che effettivamente ne abbia avuto un contatto visivo. Questa soggettiva conferisce al personaggio una qualità spettrale e disarticola appunto il rapporto tra corpo e sguardo rendendolo anche in questo caso liquido, in divenire. La contaminazione di umano e animale è rapportata dallo stesso Adam alla condizione degli ebrei nei campi. È così che si esprime in riferimento a David: “Il cane che non è un cane. Il ragazzo che non è un ragazzo. Avevano i visi esattamente così laggiù nei campi. Guance scavate, petti tubercolotici e dentro le cavità scure quegli occhi malati di paura ma vivi”. È proprio la vita nel suo divenire che sembra essere in gioco nel film. La vita nonostante tutto e la finzione come atto di resistenza che permette di continuare a vivere e che diventa il mezzo per mettere a nudo e smascherare le certezze di senso che derivano da ogni fondamentalismo ideologico. “Siamo tutti attori di una pièce che sia il drammaturgo sia il regista hanno abbandonato da tempo”, dice il clown-illusionista-imitatore di animali Adam Stein durante una sua conferenza sulla storia del teatro all’interno della clinica. E ancora: “La bugia necessaria che è servita a tutti noi per sopravvivere”. È infatti una performance attoriale, forse la migliore di tutta una carriera, che 7
Così come il corpo stesso dell’attore protagonista, Jeff Goldblum, porta con sé il passato di un’altra trasformazione e ibridazione, quella della Mosca (1986) cronenberghiana.
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permette ad Adam di restare in vita e che però nello stesso tempo costituisce il suo più profondo senso di colpa: l’aver intrattenuto Klein, recitando la parte del cane fedele e suonando il violino mentre gli altri ebrei, inclusa la moglie e la figlia minore, venivano portati ai forni crematori. A questa performance segue anche una ricompensa, che è proprio la vita: “Una vita per una vita”, secondo le parole di Klein. C’è un altro momento in questo film, costruito su una serie continua di raddoppiamenti e rispecchiamenti (dagli specchi che riflettono l’immagine di Adam ai due percorsi redentivi, dalle due “morti e resurrezioni” di Adam alle due inquadrature in plongée che riprendono prima Adam e il cane Rex poi Adam e David alle due parti in cui il film sembra essere diviso), da questo punto di vista esemplare, in cui emerge ancora la finzione: è la festa di Purim, quando Klein costringe Adam a vestire e truccare Rex da “perfetto” deportato, con la divisa a righe e l’aria triste. Un’ennesima variazione dello scambio reciproco tra umano e animale e della perdita di differenza tra i due universi. Ancora Agamben: “La fine messianica della storia […] [definisce] una soglia critica, in cui la differenza fra l’animale e l’umano, così decisiva per la nostra cultura, minaccia di cancellarsi. […] Forse anche i campi di concentramento e di sterminio sono un esperimento di questo genere, un tentativo estremo e mostruoso di decidere fra l’umano e l’inumano, che ha finito col coinvolgere nella sua rovina la possibilità stessa della distinzione”8. E questa idea della trasformazione, non come inevitabile e chiaro punto di arrivo di un percorso ma ancora come sistema aperto e fluido coinvolge la struttura stessa del film. Adam Resurrected è distante da quel modello classico di racconto qual è il “viaggio dell’eroe”, in cui la trasformazione è pensata come percorso progressivo di attualizzazione di capacità d’azione (di conoscenze, esperienze) potenzialmente già insite nell’eroe stesso. La “resurrezione” finale di Adam è sì compiuta, il senso di colpa forse superato ma l’anima resta inquieta, come confermano le sue ultime parole: “Quanto a me sono diventato un uomo qualunque. […] Non porto più un Klein dentro. […] La sanità mentale è piacevole e calma ma non c’è grandiosità né vera gioia né dolore terribile che dilania il cuore”. Adam Stein diventa allora il simbolo stesso del cinema schraderia8
G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, cit., pp. 28-29.
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no, in eterno contrasto e tensione, mai pacificato, che continua a nutrirsi di contraddizioni, a muoversi tra poli opposti: tra corpo e sangue da una parte e spirito dall’altra 9; tra empatia e astrazione 10. Adam Resurrected è un film difficilmente collocabile all’interno del sistema dei generi cinematografici e dei suoi codici e anomalo rispetto alla produzione cinematografica hollywoodiana; con essa Schrader continua a confrontarsi e a prenderne sempre più le distanze. Lontano dalla “chiusura” del cinema americano mainstream, quello di Schrader è sempre più un cinema che pratica l’aperto, in cui la chiusura è continuamente rimandata: un work in progress, mai finito, incompiuto. E le vicissitudini produttive legate prima a Dominion: Prequel to the Exorcist (2005) e ora all’ultimo Dying of the Light (2014), entrambi rimontati dalla produzione a insaputa dell’autore, ne sono la paradossale dimostrazione. Un cinema che abbandona i confini certi, definiti di Hollywood per dissolverli nel divenire incompiuto della vita.
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Troviamo questa contraddizione nell’origine stessa del nome Adam: la parola ebraica adam, “uomo”, presenta la stessa radice di adamà, “terra”; Adam quindi come l’uomo terreno ma anche come modello ancestrale, metafisico. Pensiamo alla scenografia Bauhaus della clinica e alla sua dominanza cromatica bianca.
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AFFLICTION. TRA NOIR ESISTENZIALE, MELODRAMMA FAMILIARE E TRAGEDIA GRECA
Alla base di Affliction c’è sicuramente l’infatuazione per un certo tipo di cinema, ovvero quello fondato sulla tragedia greca, visto il tema del parricidio, che qui può ricordare quelli orchestrati da Crono verso Urano. Gli infiniti riferimenti letterari a cui ci ha abituato il corpus schraderiano, vanno ben oltre l’ esercizio di stile, da ex-critico passato dietro la mdp come un Olivier Assayas qualsiasi. Schrader innanzitutto concettualizza qui ancora di più la sua messinscena come veicolo di un cinema, più pensato, più metafisico. Il regista sceglie di avvicinarsi al noir (l’indagine di Wade su un omicidio apparentemente accidentale), muovendosi nel perimetro di una fonte letteraria, con cui abbiamo dimestichezza dai tempi di un film assai premiato come The Sweet Hereafter (Il dolce domani, 1997) di Atom Egoyan. Ecco, allora le sequenze reiterate per trasmetterci il concetto della non esistenza della realtà o di un’unica verità (l’inferno familiare ) e ancora la sovrapposizione dei piani temporali fra passato e presente. Il regista grazie anche ai giganteschi Nick Nolte (anche produttore esecutivo) e James Coburn è qui al meglio. Come cornice di concetti così laceranti occorre creare un cromatismo bianco e asettico dato dagli esterni innevati e gelidi. Non esiste spazio, margine fra il filmato e ciò che viene percepito. Pare che la cinecamera non aggiunga nulla rispetto a quello che si trova di fronte ma proprio per questo crea un’atmosfera unica. Chi come il sottoscritto ha visto il film per la prima volta nel 1998, adattato ricordiamolo per il cinema dal romanzo Tormenta di Russell Banks e presentato nel concorso della Mostra del cinema di Venezia, ricorda che la critica ai tempi ha pensato subito ad un certo classicismo della messinscena, ma Schrader e il direttore della fotografia Paul Sarossy non manipolano film ma soltanto un pezzo d’America che è realmente così, che potrebbe trasparire anche dall’utilizzo di istantanee, come quelle che com-
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pongono i titoli di testa. Entrambi si immergono nelle atmosfere del romanzo di Banks, operando un raffreddamento della messinscena , concedendosi pochi movimenti della mdp, un’illuminazione essenziale e minimalista anche sul luogo del delitto della caccia nel bosco, mostrato dai flashback in bianco e nero. Così si finisce per associare un impianto drammaturgico all’immagine del nostro perdente, introducendolo come elemento di straniazione. L’incipit è raggelante: Nolte fa il sevizio di vigile per una scolaresca, in una posa come se fosse crocefisso, una cristologia in cui lo spettatore è calato in un noir congelato, dove i metodi d’investigazione si riducono in un accumulo di eventi passati e presenti, fino a giungere all’astrattismo tipiacemente schraderiano e all’intensità dolente di una generazione condannata alla rivolta contro il dispotismo patriarcale. Come se, nel preoccuparsi di rimanere fedele al testo, il regista fosse finito per incappare nelle maglie restrittive di una scrittura per immagini aneddotica, per l’esibizionismo fattuale delle situazioni raccontate (le vicissitudini di padre e figlio affogate nell’alcol e nella solitudine). Questa re-interpretazione riflette l’intenzione di trasformare il film in una parabola in cui la tragedia coesiste con la coazione a ripetere del quotidiano del poliziotto, mentre la reinterpretazione di un genere consolidato come il noir si relaziona con l’originale e tenace volontà di esplorare una provincia profondamente “nera” prima ancora che bianca e nevosa. Tutto diventa merce di scambio. Ora, facendo lo sforzo-non da poco-di liberarci dal modello letterario di partenza al fine di porci con approccio vergine alla materia filmica di Affliction, ci potremmo anche trovare concordi nell’affermare che questo film sia un potente esempio di remake “intellettualizzato” di Taxi Driver, una delle sceneggiature più celebrate di Schrader, come è noto.Di cui recupera la cadenza episodica di un viaggio a tappe dell’individuo verso gli inferi, che da solo basta a mettere in scena qualsiasi tentativo di erranza emozionale. Come sempre accade nei suoi film, Schrader ricorre ad un montaggio piano senza virtuosismi pleonastici in cui prevalgono i piani sequenza e così in una stessa inquadratura vari personaggi si muovono e agiscono, un carattere “mediato” delle immagini, in cui il regista/sceneggiatore avvia l’enunciazione filmica attraverso il volto dei corpi attoriali, mediante la cosiddetta “immagine propria” servita dai piani ravvicinati e dal campo e controcampo
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(v. il funerale della madre a casa). Inoltre la stessa voce narrante di Rolfe che nel prologo preannuncia la scomparsa di Wade, assume il compito di esplicitare il destino del poliziotto, insieme ai sentimenti di questo personaggio, corredata in certe sequenze da flashback e immagini soggettive sull’infanzia violata dei familiari dalle violenze di Glen. In questa diegesi Schrader intreccia due storie: da una parte una poliziesca, quella dell’indagine di Wade, dall’altra una drammatica, quella del rapporto travagliato fra l’agente e il padre Glen, sullo sfondo il suo imminente divorzio con l’ex-moglie Lilian. In questa ripartizione narrativa e drammaturgica abbiamo un microcosmo, che sembra privo di vie di fuga e di luce .Rispetto ai drammi polizieschi della Hollywood classica, Affliction segue alcuni precetti di base come quello dei fantasmi della memoria e innesta improvvisamente nella narrazione filmica momenti di altissima emotività come la scoperta da parte di Wade e Margie della madre morta nel suo letto per la trascuratezza del padre, anche per colpa di una stufa difettosa, che l’anziano genitore è troppo ubriaco per far riparare. La pellicola rappresenta la dispersione del nucleo familiare: il gioco del controllo perverso di Glen su Wade raggiunge il picco massimo quando al funerale della madre, il padre mette le mani addosso a Margie, dopo aver insultato i parenti in preda all’ebbrezza e verso l’epilogo in cui provoca con il suo crudele sarcasmo la fine della relazione fra il figlio e la compagna. Per Nick Nolte questo è un saggio attoriale di puro autoreferenzialismo, visto che in Rich Man, Poor Man (1976), la miniserie televisiva che ne rivelò il talento, aveva un rapporto conflittuale e manesco con il padre. Sono le tappe progressive di una deriva, di una caduta rovinosa e come di consueto in Schrader, il lavoro di scrittura è solido, meticoloso, rifinito come un arazzo ben tessuto. Pertanto è difficile poter categorizzare Affliction, vero è proprio ibrido fra noir e dramma familiare, come è nella poetica del suo autore. Una via crucis realistica che in certi momenti ricorda la discesa agli inferi come altri losers di Schrader, come Travis Bickle di Taxi Driver, Bob Crane di Autofocus e Julian Kay, il marchettaro edonista di American Gigolò. La preparazione di questo meccanismo è già presente prima nel blocco centrale, quando i flashback vengono ricostruiti con una grana in pellicola simile a quella del Super 8 (le aggressioni di Glen contro moglie e figli) e del bianco e nero (l’incidente di caccia).
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In questo Schrader si conferma, se mai ce ne fosse il bisogno, un cineasta di razza, operando un tentativo cinematografico eccellente, con una forza drammaturgica capace di declinare il rapporto padre/figlio in varie modalità, tramite una soggettivizzazione dell’emozione, che è pronta a deflagrare nell’epilogo contro Glen Whitehouse in un vero e proprio thriller dell’anima. Solo che oltre a questa robusta e drammaturgicamente densa parte centrale, Affliction ha bisogno di un altro, di un “resto” drammaturgico che possa farci uscire dal blocco narrativo. Ecco allora Affliction torna ad essere un film convenzionale sulla disgregazione familiare, con un modello visto più volte nel cinema americano fin dai Settanta , impossessandosi degli intenti di scrittura. Una mutazione questa della personalità del protagonista, che roso da tutti i torti che ha subito nel corso della sua esistenza, perché come dice Rolfe prima di ritrovare l’assassino del sindacalista, deve risolvere i piccoli problemi, a voler sancire legami parentali (la bambina) e sentimentali (Margie) che si riveleranno labili di fronte alla volontà ferrea dell’arrogante padre. Quando Glen colpirà il figlio con una bottiglia di fronte ad una sua ribellione, il gesto non fa che ridisegnare il percorso esistenziale del protagonista, assecondando traiettorie multiple come gli scatti nervosi davanti alla figlia e al ristoratore e tragiche (lo scivolamento nell’alcolismo come Glen in una perversa simbiosi con il padre). Schrader sa bene che le peculiarità di funzionamento del cinema narrativo classico trovano in precise regole di scrittura e rappresentazione un supporto alla dinamica identificatoria: traumi infantili, piccoli e grandi soprusi tollerati nel quotidiano provocano l’autodistruzione individuale. Quali sono queste regole? Per rispondere potremmo inserirci sulla scia del solito Andrè Bazin, adottando la soggettivazione emozionale, la chiarezza e la drammatizzazione, che sono i nodi del racconto filmico. Principi che guidano ogni cut del montaggio, che deve porsi come indistinguibile grazie ad una strategia convenzionale di raccordi che aiutano a mascherare i tagli ed attenuarli: raccordo di sguardo, raccordo sull’asse, raccordo sul movimento, con l’azione che comincia in un’inquadratura per concludersi nella successiva, mantenendo continuità d’azione e raccordo di posizione. Tutto questo lo troviamo nella sequenza della scoperta del cadavere della madre nella casa di famiglia. È il trionfo del decoupage classico, lo spazio è a
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360° con lo spettatore capace di avere una prospettiva omogenea. Senza contare la presenza del raccordo di direzione, in cui tutti i personaggi per motivi vari convergono verso la casa dell’orco Glen. Queste strategie espressive sono frutto, come sempre, di una logica autoriale da parte di Schrader. Si tratta di un cinema spregiudicato tematicamente più che sul piano tecnico-stilistico. Il flashback anche è molteplice: retrospezione attivata che proviene da un tempo determinato (l’infanzia di Wade e Rolfe) .Doppia narrazione che se da un lato è quella relativa alla storia, cioè la storia del clan Whitehouse, riesce anche a tematizzare e drammatizzare nel testo filmico l’essenza stessa di questa comunità di individui lacerati. Il secondo percorso è quello più introspettivo e insieme fiabesco: quello di un uomo che deve confrontarsi con l’ingombrante genitore/orco:è un epifania di morte,traumi, ricordi e proiezioni. La prassi di un narratore solo apparentemente onnisciente, che non possiede il controllo passionale della sua fabula. Attraverso lo sguardo di Schrader Affliction è ancora una volta un film che tematizza la vita di un individuo con modalità rappresentative, che cercano di fondere lo sguardo neorealista con la sensibilità spettacolare, tipica della parabola biblica ed esistenziale. Se è vero che nel mito greco le Erinni perseguitano i parricidi per l’eternità, il fuoco acceso da Wade nella rimessa in prossimità dell’epilogo mentre beve ripetutamente come Glen, non provvede solo a riscaldare l’ambiente ma forse può purificarlo definitivamente dalle brutture di un mondo adulto e insensato.
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PLANT MY ASS, MAN!*
Per fare un buon film bisogna mettere insieme le trame di tre differenti film e farne uno (Don Siegel)
1977. Tre fottuti operai massa. Due neri e un bianco. Il “polacco” Jerry, il mulatto Zeke e il nero Smokey, i primi due sposati, l’altro single... Assemblatori, saldatori, verniciatori, tuttofare flessibili… Il primo è Harvey Keitel, il secondo Richard Pryor e il terzo Yaphet Kotto. Sono giovani, sfruttati, indocili e squattrinati. Angariati dai capetti e trattati paternalisticamente dai delegati sindacali della Checker Cab Company di Kalamazoo, Michigan, fabbrica di automobili specializzata in taxi, non lontanissima da Detroit. Dopo infuocate discussioni con i rappresentanti sindacali sugli stipetti rotti da sei mesi e sulla macchina del caffè mangia-dime e ruba-quarter (altro che su aumenti salariali o tutele sociali) e al termine di un coca party, di una notte di baldoria clandestina, isterica ed extraconiugale, svaligiano più o meno goffamente, proprio la cassa della loro Union, il fantomatico Local 291 dell’ AAW (American Auto Workers). “Bisogna dargli una lezione al sindacato, ci tratta peggio dei padroni”. Trafugano 600 dollari e un registro dei conti estremamente scottante. I soldi del bottino non bastano neanche a pagare buffi, tasse arretrate e la scuola o il dentista ai figli. Zeke deve all’Internal Revenue Service $2000 di arretrati; Jerry se non paga l’apparecchio ortodontico della figlia Debbie vedrà presto la bocca della bambi*
“Fabbrica sto cazzo, uomo!”. Lo urla Zeke (Richard Pryor), operaio massa, al sindacalista che vorrebbe gli interessi generali a quelli di classe , continuando “non è un impianto, è una piantagione di schiavi!”
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na deformata dai fili di ferro; e Smokey, che già si è fatto tre anni in carcere per aver picchiato un poliziotto, è minacciato di morte da un losco figuro per un prestito mai restituito. Quando il trio scopre però, nel librone, che si fa usura supersonica con le loro quote di iscritti, ricatta i capi dell’AAW, intenti nel frattempo a truffare anche l’assicurazione: “siamo stati derubati di 10 mila… anzi di ben 20.600 dollari!”, dichiarano candidamente il falso in tv. La gang improvvisata a questo punto sa troppe cose. Preferisce non fidarsi sulle prime di chi, come un biondino odioso dell’Fbi, travestito da professorino leftist dei quartieri alti, sta indagando da mesi sul rapporto tra criminalità organizzata e sindacato. E fa di testa sua. Alza la posta. Il gioco si fa duro. I nervi saltano. I tre si dividono. Se ne dicono di tutti i colori. Jerry, il bianco, vorrebbe cedere e svelare la corruzione, Smokey, il nero, è per alzare la posta del ricatto, ma una “strano” incidente sul lavoro lo toglie di mezzo. Zeke, il più ambizioso, tradisce e si fa cooptare dal potente presidente del sindacato, Eddie “Knuckles” Johnson. O meglio anche lui entra nel club “Ecco le cose come vanno, da che mondo è mondo”. Quando Jerry arriva per smascherare la mafia sindacale Zeke gli aizza contro tutti gli operai. Blue Collar (Tuta blu) viene girato in una vera fabbrica, che oggi è chiusa. Scodellava, allora, 25 taxi gialli al giorno, per il comune di New York City. Non 50-60 automobili nuove all’ora, come negli stabilimenti (tabù per la troupe di Schrader) dei “big Four”, le quattro supermajor automobilistiche. “Roger” non voleva ficcanaso. Non voleva che intralciasse la produzione. Aveva tutto da perdere e niente da guadagnare da quel film. La Universal credeva che un finale ‘lacerato’ come quello, con Zeke e Jerry sul punto di uccidersi l’un l’altro, al culmine di un reciproco odio personale e razziale, avrebbe scatenato rivolte nelle sale e risse tra bianchi e neri. E pretendeva un altro finale, un happy end con gli amici che si ritrovano. Schrader disse che non gli sembrava il caso ma che lo avrebbe girato soltanto se le sale fossero davvero esplose. Non successe. A Jim Brown, la prima star nera degli action movies e della blaxploitation il film piacque molto. Ma i critici african-american storsero il naso, persino rispetto alla performance di Pryor, inferiore anche a quella di Which way is Up? Almeno secondo Donald Bo-
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gle che, in Blacks in American Films and Television – An Illustrated Encyclopedia, in polemica con Vincent Canby, del The New York Times, invece entusiasta, pur apprezzando il lavoro di Yaphet Kotto e la stessa drammatica intensità metropolitana che possedeva la sceneggiatura di Taxi driver e Hardcore, è infastidito dalla confusa amicizia interraziale di cui non si chiarisce né il motivo (sfugge a Bogle il concetto di solidarietà di classe?) né perché a un tratto si rompa. E stronca un film “monotono” che deve tutto il suo acume a Theodor Dreiser, senza averne la profondità di tocco nell’articolare lo scontro, riassumiamo noi, tra destino e “soggettività desiderante”. “Come apice della manualistica pseudo marxista” però, conclude sarcasticamente Bogle, il film può essere anche apprezzato. E a proposito di pseudo marxismo Bogle, che lavora per la Pbs e insegna alla Rutgers University, fa capire cosa l’abbia davvero infastidito. La personalità di questi protagonisti, più che i modi di produzione che li massacrano a morte: “Il film non suggerisce mai un’alternativa”. Italo Calvino commenterebbe: Certo, manca alla cultura americana l’antitesi. Il progetto rivoluzionario. La messa in discussione del capitalismo. Ma no. Non è questo. Per Bogle i tre amici non sono reaganiani abbastanza da pensare semplicemente di dover lasciare quel lavoro di fabbrica, e andarsene e cercare un altro. Semplice no? La prova di questa interpretazione è nel più denso volume teorico di Donald Bogle, Tom, Coons, Mulattoes, Mammies & Bucks (1989) quando scrive che Richard Pryor pur essendo abbastanza bravo non riesce ad esprimere in quegli anni tutto il suo esuberante spirito selvaggio. “Viene addomesticato e trasformato in un accettabile signore della middle class i cui desideri e ambizioni sono semplicemente quelli di vivere decentemente”. Avevamo sempre sospettato che la middle class americana, bianca o nera, così come viene descritta nei saggi dell’epoca Iran-Contras, pur di vivere decentemente raggirasse l’Irs, effettuasse rapine con scasso, tramasse ricatti, tradisse gli amici e ovviamente andasse a prostitute e presumibilmente trafficasse in cocaina. Ma non è questo che racconta Blue Collar. Io credo che il pubblico rimase sconvolto dalla descrizione inedita, cupa e senza fronzoli artistici, della frustrazione e della claustrofobica situazione esistenziale dell’operaio massa. Per quanto la Checker fosse una piccola fabbrica in confronto ai colossi di Detroit, anche lì si produceva, a ciclo completo e conti-
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nuo, soprattutto alienazione solo che a ritmi industriali più morbidi. Nocività. Salari bassi. Fatica disumana. Versione Light. I proprietari della Checker furono però ben felici di concederla come set per un film new Hollywood. Si stava preparando un rognoso sciopero e confondere le cose promettendo ai lavoratori di comparire come comparse in un film vero ed elegante poteva calmare le acque. Oltretutto anche il sindacato era d’accordo, c’era l’Alf-Cio, non la Uaw a far vertenze. Poi i boss erano cinefili, avevano appena visto e apprezzato Richard Pryor in Silver Streak. Nella piccola fabbrica lo sfruttamento è identico. Anche lì c’era da sbarazzarsi al più presto delle proprie catene (di montaggio). Ma è la reazione alle mosse padronali differente nelle piccole fabbriche. Sei molto più ricattabile perché manca la moltitudine barbara e pagana del mega impianto da migliaia di operai capace, in un nonnulla, di bloccare linee, motori e scocche e scalare il cielo. Quegli operai non specializzati che i più pacifici (per ora) robot oggi hanno cancellato e sostituito. In Tempi moderni Charlot, sconvolto dai gesti ripetitivi di catena, continua a stringere bulloni nell’aria, durante le pause, e si presterebbe a mangiare dentro un rudimentale robot pur di risparmiare sui tempi… Il metalmeccanico dell’auto è irriconoscibile, di aspetto, quando va in pensione a tasche vuote. E non avrà molto tempo residuo per godersela. Figurarsi come è dentro. Rende mostri, a lungo andare, la factory, questo inferno di clausura moderno. L’amico azzanna nel collo il vicino. I compagni tradiscono, alla prima occasione. Se la macchina che distribuisce Coke non funziona da un anno e ti ruba i soldi a un certo punto prendi la chiave inglese 230 meni botte da orbi e ti becchi due settimane di sospensione, se va bene. E nessuno indice uno sciopero selvaggio in solidarietà. Quando a forza di sconfitte la solidarietà operaia si trasforma in diffidenza generalizzata le cose infatti peggioreranno. L’amico diventa nemico del vicino di linea. Che sarà comunque allontanato sempre di più, negli spazi di lavoro, per evitare complicità. Sta finendo il decennio magico 1964-1974. Stanno cambiando i sentimenti dominanti. Paura, opportunismo, cinismo, scriverà il filosofo Paolo Virno, dilagano ovunque. È come un virus, l’alienazione. Si propaga dalla catena di montaggio, sempre più robotizzata, al tempo libero, dai consumi familiari alle “valigia dei desi-
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deri” individuali, dalla trappola del credito e dei mutui ai rapporti tra i sessi. La catena (da spezzare) costringe comunque a farla finita con quella vita abietta. In un modo o in un altro. Alcool, altre droghe più toste, alzare il livello della lotta fino al suicidio armato, follia, autolicenziamento, illegalità, prigione, fuga, cambio di lavoro… Ci vogliono tre anni di paga per comprare un televisore a colori col salario operaio? Allora, come ammette sarcasticamente Zeke, compiaciuto della sua degradazione: “se anche i programmi sono pietosi e quei negracci degli Jefferson e di mister Harold “Harry” Bentley sono costretti per vivere a dire inaudite scemenze una dopo l’altra, come posso rinunciare a sorbirmi tutti gli episodi, a vedere ogni secondo di tutti i programmi più trash che elargiscono?” Dovrà pure ammortizzare i costi. Zeke è malato di consumi. Come dargli torto? Il sogno segreto e colpevole di Jerry, Smokey e Zeke quale può essere se non avere tutto e subito e intanto fare le scarpe a chi è sopra di loro e prendere il posto di Clarence A.K. Hill (A.K sta per “ass kisser”, baciaculi, l’attore è Lane Smith), il loro ignobile rappresentante sindacale o meglio ancora di Eddie Johnson, il capo supremo del Local 291 (il mitico faccione deformato di Harry Bellaver), che non fa niente tutto il giorno e naviga nell’oro?: “Ecco cosa voglio. Andare a Palm Springs col mio jet privato, giocare a golf con Nixon e Jerry Ford e, proprio come Eddie “Knuckles” Johnson, caracollarmi con la mano sul cazzo”. Dove quello strano nomignolo maialesco, “Knuckles”, ricorda anche un ex idolo locale dei Detroit Tigers, Edward Victor Cicoette, grande giocatore di baseball del primo Novecento, coinvolto in un celebre scandalo di partite vendute e dai modi di fare non proprio raffinati. Giocavano a Kalamazoo, i Detroit Tigers… La macchina da presa ci ha scaraventato subito, effetto roller coaster, fin dai sincopati tre minuti di titoli di testa, e brutalmente, tra le scocche geometriche e i capetti acidi e mal zompettanti che controllano corpi e aumentano ritmi. Capitiamo nel bel mezzo di un prototipo new Hollywood tardi anni settanta. Conta il frammento. Il tono. Lo slang. Lo stile. L’ambiente. Più del disegno pieno. I nervi sottopelle, più dei muscoli esibiti. Basta osservare i duetti domestici e claustrofobici tra Jerry e la moglie Arlene (che è l’attrice Lucy Saroyan, una amica di Marlon Brando). Un thriller
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noir, e rock, immerso in una macchina sonora ripetitiva e monotona che riprende una blues song di Bo Didgley, elaborazione di uno standard di Muddy Waters. Un dramma macho e operaio, quasi senza azione e donne e violenza, se non interiore. Ferocia di fabbrica. Riunioni sindacali a faccia dura. Pause e svago in birreria, al Litte’s Joe bar, tre flipper e un biliardo. Litigate con chi ascolta sound sudista hillbilly. Il razzismo è anche tra i bianchi. Interni domestici, con mogli e figli isterizzati. Il bowling. Molti dialoghi dettati dalla frustrazione più nera. Non troppi esterni nelle squallide periferie di Detroit che oggi è impensabile siano ancora più derelitte di così. Via la pulizia formale, i campi contro campi dei telefilm. Bandito l’ordine del racconto, perché si vuol mettere caos nell’ordine sottolineando la ripetizione di gesti e nevrosi. Sintassi e grammatica sono scolorite, eroi e contro-eroi mescolati, alla fine non ci saranno né gli uni né gli altri, tonalità cromatiche tutte unte e sporcate, tanto poi ci sono Jack Nitzsche e Ry Cooder, Ike & Tina Turner, Howlin Wolf e Byron Berline a tenere insieme la musica. Il film sembra violentissimo. Vedi cose che non ci sono. Ma resta indelebile l’agonia di Smokey, anche perché chi uccide è la vernice. “Ma io in tutta la mia carriera ho lasciato sulla pellicola un numero di morti che equivale a quelli uccisi in una sola mezzora di film da Walter Hill”. Infatti, alla fine, tutto torna. Non restano, dopo Blue Collar, zone d’ombre sulla questione operaia. E non crediate che Jerry faccia alla fine una figura migliore di Zeke. Chiedere aiuto all’Fbi che ha nel suo curriculum le minacce, il ferimento, il pestaggio o l’assassinio dei militanti più fastidiosi d’America da almeno un secolo, è ripugnante quanto assecondare i mafiosi infiltrati nelle organizzazioni operaie e generalmente ben tollerati da Edgar J. Hoover. C’è tutto sulla frustrazione operaia e sulla sua pulsione suicida. Ma, per la verità, Paul Schrader alcune scene significative le cancella nel montaggio finale. Quando arrivano gli arabi (pieni di petrodollari) per esempio e Harvey Keitel improvvisa un rap antimusulmano politicamente molto scorretto. O quando un’intera squadra dopo aver pisciato dentro una automobile montata, la rismonta completamente. Il sabotaggio è all’ordine del giorno, si capisce. Ma quelle sequenze, la profezia hip-hop e la coreografia luddistico- morale, non funzionavano formalmente: “amavo molto l’idea, ma le scene erano mediocri, erano proprio venute
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male”. Altre sequenze sono state tagliate perché troppo lunghe o non riuscite per squilibrate nella recitazione. Qualcuna è stata invece aggiunta. Richard Pryor, molto conflittuale durante tutte le riprese, pretende di dare al suo personaggio un’altra chance, dopo la sequenza del cavalcavia con Knuckles Johnson nella quale Zeke fa una figuraccia. Schrader lo accontenta. Scrive una scena in più di getto, prima di ripartire da Detroit. Il sindacato indice una riunione e chiede volontari per distribuire volantini. Fioccano pernacchie. “È il mio giorno libero. Non se ne parla. Mi sono rotto un dito che da due settimane non si cicatrizza per colpa dell’armadietto rotto che da sei mesi pretendo che mi aggiustino!”. Sui muri della sede fotografie di John Kennedy e Martin Luther King. E l’istantanea storica del Fisher Body N.1 Plant, cuore della vittoria contro la General Motors a Flint, nel 1937, quando la guardia nazionale per la prima volta nella storia minacciò di sparare sui padroni invece che contro i soliti scioperanti. Ovvio che si allude al battesimo del fuoco del sindacato dei metalmeccanici dell’UAW (United Automobile Workers), che per problemi di opportunità è stato qui modificato in AAW… per trasformarlo in un sindacato corrotto qualunque, come ai tempi di Fronte del porto. Schrader ha ricordato di avere fatto molte ricerche prima di scrivere il copione. Ha intervistato operai e sindacalisti, letto libri e visionato film e documentari. Per questo confessa di aver utilizzato anche un numero di Cineaste dedicato ai “Film on Work and Workers”. In particolare ricorda di aver studiato Blue Collar Trap, un documentario della Nbc del 1972 sugli operai della catena di montaggio e il pamphlet militante Finally Got the News (1970) diretto da Stuart Bird, Peter Gessner, René Lichtman e John Louis jr. sulla nascita a Detroit di una organizzazione rivoluzionaria unitaria, la Lega degli operai neri della Dodge, della Ford, della Gm e della Chrysler, tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70, quando l’85% dei lavoratori di quegli stabilimenti si accorsero di essere african-american, di essere addetti ai lavori più faticosi, pericolosi e dequalificati, e di non contare niente sia nei piani alti che bassi del sindacato che nella struttura di direzione. Erano nere le squadre integrate che invece di produrre 50 auto a ora, ne dovevano sfornare 66. Questo era il momento del Black Workers Power. Fu la Lega a contestare duramente i vertici razzisti dell’Uaw, collu-
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si coi padroni e a chiamarlo ironicamente You Ain’t White (Uaw, appunto), “non è bianco”, come ci racconta nel film Ron March, un leader delle lotte alla Dodge. Schrader naturalmente ci tiene a ribadire di non aver usato nulla, in modo diretto, di tutte quelle ricerche. “In un film qualcosa che puzza di ricerca a tavolino si annusa facilmente. A parte la scena della “stanza verde” dove ti accorgi che spesso i piccoli negoziati sindacali si svolgono proprio mentre si lavora, si interrompe e poi si riprende”. Indirettamente però si cita e si rilegge tutto. Se il sindacato è corrotto e non difende gli iscritti, mentre il responsabile della Local 291 AAW Clarence Hill si gode la villa di Woodland Hills, nei quartieri alti. Se divide i lavoratori neri da quelli bianchi, i giovani dai vecchi, le donne dagli uomini, gli impiegati dagli operai, i disoccupati dagli occupati e bada solo al proprio benessere burocratico e ai profitti dei padroni, pardon degli imprenditori, la pazienza di “chi lavora duramente” finisce. “Prendi un martello da almeno due tonnellate e…” cantava Captain Beetheart. Le classi operaie nazionali non sono riuscite a sollevarlo del tutto, 50 anni fa, quel martello. Chi l’ha sollevato più pericolosamente sono stati proprio gli operai americani dalla fine dell’800 ad oggi. Ma i proletari della globalizzazione ce la faranno domani? La frase di Zeke sui padroni che dividono per vincere la sentiamo fuori campo ripetuta alla fine del film, come un invito messianico alla lotta continua. Certo. Della sconfitta di allora parla, soprattutto, e ne fa uno spettacolo originale, questo film non a tesi. Blue Collar, folgorante opera prima, doveva essere completato in tre settimane di maggio 77 che divennero però cinque per complicazioni di set istigate dal neofita regista Paul Schrader, 31 anni. Le tre ore del primo montaggio vennero ridotte a 114 minuti da Tom Rolf. Uscì nelle sale nel 1978, con un buon successo critico e di pubblico. Un film sui colletti blu che, pur nel suo nichilismo drastico, non è affatto anti-operaio né contro le Union, purché facciano il loro mestiere e difendano i senza potere, secondo la lezione dei primi sindacalisti antirazzisti e antisessisti della storia nordamericana, gli IWW (Industrial Workers of the World) all’inizio del secolo scorso. La claustrofobia è sempre stata al centro delle preoccupazioni estetiche ma anche esistenziali di Schrader, che per anni non prese mai un ascensore. Ma qui c’è qualcosa di ancor più autobiografico.
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L’odio per i destini segnati (calvinismo), per il ghetto da cui non poter evadere (Il quartiere povero di Grand Rapids), per la prigione della disciplina di fabbrica, di Partito, di Chiesa. Per il collare che ti stringe, per quel blue che equivale a tristezza, depressione, a umore nero, a cosa oscena, sporca, sconcia. Anche se la canzone non si sente e i nostri tre eroi non riusciranno a farcela, l’atmosfera è quella raccontata dagli Animals di Eric Burdon nella famosa canzone del 1964 “We Have Gotta Get Out of This Place”. Dobbiamo andarcene. In questo senso si può considerare Blue Collar anche come la confluenza di tre film italiani che ebbero una certa influenza tra gli intellettuali della new Hollywood: I compagni, e la sconfitta operaia; I soliti ignoti o la beffa dell’imprevisto surreale e C’eravamo tanto amati, il conflitto tra amici. E prima ancora dell’Easy rider italiano, Il sorpasso. Ovvero l’esodo, mettere in epoché il presente. Il copione di Blue Collar come si legge nei titoli di testa si basa su un’idea di Sydney A. Glass, lo scrittore african-american della trascrizione tv di Radici, che aveva chiesto a Schrader di aiutarlo a portare al cinema la storia del nonno, operaio nero di Detroit che si era suicidato. E quando Schrader annunciò di girare Blue Collar fu accusato di plagio da Glass, ma in realtà – e il sindacato degli sceneggiatori gli dette ragione anche perché Glass non aveva mai depositato il soggetto – il suo film capovolgeva l’idea iniziale: l’autodistruzione diventa metafora di chi si mette a combattere proprio l’organismo che dovrebbe liberarlo. In questo senso il film sembra assumere il tono dell’estrema predicazione di un profeta. Fateci caso. Oltretutto nella sede del sindacato troneggia una scritta davvero inquietante. Beware of the Judgement Attenzione al giudizio finale. E il tono generale del film è un accorato, quasi religioso prender la parola in difesa di un’intera generazione di “incatenati al montaggio” e alla verniciature di automobili che ha urlato all’unisono nel mondo, a proposito di ideologia del lavoro e fedeltà alla fabbrica: “Plant my ass, man! The plant just short for plantation!”. Fabbrica sto cazzo, uomo. Piantagione piuttosto. Non è un impianto, questo, è una piantagione da schiavi!”. È ciò che il più arrabbiato dei protagonisti del film, Zeke, col sangue agli occhi, rimprovera al bonzo sindacale di turno, ma potrebbe aggredire nello stesso
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modo identiche facce di bronzo, rappresentanti dell’azienda o funzionari ministeriali. Oggi più di prima, visto il commercio di manodopera globale per abbassare al massimo i costi di produzione e aizzare al razzismo. Uno slogan molto indicativo della Lega degli operai neri di Detroit era, all’epoca: “Non sono contrario a lavorare, ma sono contrario a morire di lavoro”. Già. “Volevo scrivere un film – ha dichiarato Schrader ai critici della sinistra radicale Dan Georgakas e Lenny Rubenstein che lo paragonavano a Haskell Wexler - su un gruppo di ragazzi che attaccano proprio chi dovrebbe aiutarli. Un gesto di meraviglioso autolesionismo”. Nella loro testa di molti altri giovani del tempo, non solo americani, governo, sindacato e azienda sono la stessa cosa, cambia solo il logo. Rubano i loro soldi in tasse, assicurazioni e quote, senza restituirli mai in assistenza, aiuto, servizi. “Scrivendo il copione mi sono accorto che stavo così arrivando involontariamente a una conclusione marxista. Ma era il solo modo logico di finire il film, non lo avevo previsto. Era l’esplorazione profonda dei miei personaggi e delle loro intenzioni e pulsioni che mi ha condotto a quella sequenza naturale di atti, non un dogma o un preconcetto politico. Perché come artista devi abbandonarti al personaggio e lasciare che sia lui a darti forza drammatica. E tanto meglio se dalla sua personalità scaturisce una sensibilità critica”. Qual è la conclusione marxista del film? Le grandi compagnie funzionano se creano divisioni e tensione nella forza lavoro. Diventa così molto più facile il controllo dell’azienda, far cambiare mansioni, assumere, licenziale, diversificare e abbassare i salari, peggiorare condizioni di lavoro… Ognuno, a quel punto, cercherà di essere più furbo del compagno di linea. E il miglior modo per creare tensione sul lavoro è scatenare il razzismo. Magari utilizzando proprio il sindacato. Basta spingere il bottone “razza”, riesumare l’oltraggioso nigger, o chink (per gli asiatici) o wop (per gli italiani) o flip (per i filippini) o wigger (per gli irlandesi) o kike (per gli ebrei askhenazi) e così via, e si comincerà a lottare l’uno contro l’altro. L’integrazione in una situazione di lavoro salariato è impossibile. Troppe tensioni provocate distruggono l’armonia tra bianchi e neri, gialli e ispanici, cristiani e islamici, cattolici e calvinisti… La solidarietà è un valore fragile. Più facile da trovare in Polonia o nel Sudafrica apartheid. Ed è proprio indispensabile da ricostruire, oggi, nelle società transculturali.
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È questa l’invettiva che Schrader ci trasmette, come arringando alla folla dall’alto di un edificio. Nelle prime scene di Blue Collar si entra in fabbrica proprio planando dall’alto. Ma il regista non ha l’energia della rivoluzionaria che al porto di Odessa, issata sulla prua, spinge allo scontro i marinai insorti in La Corazzata Potemkin. Perché lì siamo nel “prima della rivoluzione”. E, come Schrader ricorda in una celebre intervista alla rivista Cineaste: “Non sono partito con l’idea di realizzare un film di sinistra. Non immaginavo neppure di finire con l’affrontare un nodo politico forte. Volevo solo fare dell’entertainment”. Non ha un dogma da dimostrare, Schrader. Segue i suoi personaggi e sono loro a condurlo, perfino involontariamente, alle conclusioni marxiane. Piuttosto il regista (unico vero eroe fuori campo del film) interviene, ostentando solennità, come Harry Dean Stanton in L’Ultima tentazione di Cristo, portando la buona novella e ricevendone in cambio pietre. “Si è combattuta una gloriosa battaglia contro questo modo di produzione”, si potrebbe dire per parafrasare l’ultima lettera a Timoteo scritta da San Paolo, poco prima del martirio. “E abbiamo perso”. San Paolo amatissimo da Paul Schrader fu il punto di riferimento religioso nella sua adolescente calvinista. Anche oggi, diventato grande, ricco e famoso, credo si ritenga più “paulista” che “cristiano”. Senza Platone niente Socrate ma senza San Paolo – ha detto Paul – niente Cristo. E come se Paul Schrader percepisse nell’ascesa e caduta dell’operaio massa, come una vertebra spezzata nel tempo, come il luogo di una frattura e ce l’additi come crocevia di un appuntamento e di un incontro tra i tempi e le generazioni. È il tempo di ora ma anche il tempo di una profezia o di una prefigurazione del presente. I fratelli James (non a caso citati), i Mandingo, i Molly Maguires, i wobblies, i fratelli di Soledad, Fred Hampton, Malcolm X, Martin Luther King, i Kennedy, i ragazzi di Kent University, i proletari del Vietnam e della Corea… sono leggibili forse solo in quel determinato momento della loro storia. Non è ancora San Paolo? La contemporaneità per eccellenza è il tempo messianico, l’essere contemporanei del Messia. Il tempo di ora è il tempo di allora. Come ricorda Giorgio Agamben in “Che cos’è il contemporaneo?”. Ho nyn kairs. Il tempo-di-ora. L’uomo più pericoloso del mondo è chi ha lavorato tutta la vita per niente (slogan pubblicitario di Blue Collar)
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Grida, rabbia, violenza, rancori, nevrosi, impotenza, turbolenze, tradimenti, sedie che volano in questo viaggio al termine della notte della workers class statunitense. Si chiudeva proprio allora un formidabile ciclo di scioperi, gatti selvaggi, salti della scocca, insubordinazione continua, parole d’ordine antisistema e organizzazione dal basso che dal maggio 1968 al 1975 avevano messo alle corde, nel cuore dell’industria automobilistica Usa, a Detroit e dintorni, gli impianti della Dodge, Chrysler, Ford e General Motors. A proposito di dintorni. Paul Schrader, background operaio, viene da Grand Rapids, Michigan, cittadina industriale, metà cattolica - polacca metà olandese protestante, comunità drasticamente divise e conflittuali, che produceva per i colossi di Detroit varie componenti d’auto come tergicristalli, tessuti per sedili e posaceneri. E lui, calvinista, viveva nella parte povera e cattolica della città. Ma quel movimento che chiedeva l’impossibile, aumenti salariali uguali per tutti, il salario sganciato dalla produttività, in sostanza chiedeva al capitalismo di estinguersi, fu sconfitto. Il sindacato corrotto, la robotica e le delocalizzazioni completarono l’opera di provocatori e polizia e annichilirono il territorio irreversibilmente. Unica vittoria registrata fa la fine dell’aggressione in Vietnam, richiesta sostenuta poderosamente dalle tute blu di Detroit e non solo dagli studenti e dalla middle class più consapevole. In realtà proprio da Detroit è nato, e Schrader lo registra bene, quel movimento di riforma del sindacato, l’United National Caucus, che ha spazzato via molti mafiosi e burocrati dai sindacati e ha costruito un’America meno arcaica nel rapporto capitale/lavoro e pronta per la presidenza Obama. E in questo film c’è già tutta la capacità di analisi, di critica e di partecipazione a un brandello non indifferente di storia americana (la crisi del sindacato) che diventa nelle mani di Schrader dramma incalzante fatto di immagini libere, profonde, emozionalmente ribollenti e caustiche. Il sogno americano. Se sei ricco puoi compralo. Se no devi lottare per ottenerlo (slogan pubblicitario di Blue Collar) La lotta dura senza paura contro la schiavitù del lavoro salariale non ha impedito nel corso dei decenni passati, oltre allo sviluppo economico e alla crescita – è lo scontro non l’elemosina il lievito del mercato – di imporre, in certe fasi della storia, tematiche ope-
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riste sul grande schermo. Non solo piagnistei sullo sfruttamento di donne e minori scheletriti agli albori del XX secolo o uno sguardo compassionevole e paternalista sui reietti della società che verranno eternamente schiacciati dalle leggi naturali del mondo (anche se eternamente aiutati a rimanere tali). Vedere la forza lavoro, il proletariato indifeso, tramutarsi in classe operaia organizzata, feroce come King Kong, che vuole tutto e subito, e con ogni mezzo necessario, portatrice di una scienza altra, anche nel tumulto e nel combattimento, rispetto a quella borghese o del real-socialismo, e capace di gestire diversamente il mondo, è grande spettacolo. Eccitante metamorfosi. Equivale – per raccontarla ai cinefili – alla trasformazione del timido scienziato Jerry nel Buddy Love rubacuori e “barbaro” di The Nutty professor o del corpo inerte e mal cucito nella creatura umana/disumana del dottor Frankenstein. Bibliografia - K. Jackson, Schrader on Schrader (revised edition), Faber and Faber, London 2004. - D. Georgakas, L. Rubenstein, The Cineaste Interviews on the art and politics of cinema, Lake View Press, Chicago 1983. - J. Haskins, Richard Pryor A Man and His Madness, Beaufort Books. Inc., New York Toronto 1984. - T. Zaniello, Working Stiffs Union Maids, Reds and Riff Raff - An Expanded Guide to Films about Labour, Ilr Press Cornell University, Ithaca and London 2003. - D. Bogle, Toms, Coons, Mulattoes, Mammies & Bucks: An Interpretive History of Blacks in American Films (New Expanded Edition), The Continuum Publishing Company, New York 1989. - D. Bogle, Blacks in American Films and Television: An Illustrated Encyclopedia, Fireside Books; Simon and Schuster; First Fireside Edition, New York 1989. - G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Venezia 2008. - M. Glaberman, Classe operaia, Imperialismo e Rivoluzione negli Usa, Musolini Editore, Torino 1976.
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CAT PEOPLE IL BACIO DELLA PANTERA. GLI ARTIGLI DEL DESIDERIO, LE OSCURE SFUMATURE DEL DESIDERIO, LE SINUOSE TRAIETTORIE DEL DESIDERIO Even as fog continues to lie in the valleys, so does ancient sin cling to the low places, the depressions in the world consciousness1
Stratificazioni visive che oscillano tra l’onirico e l’atavico, attingendo ad un mondo ancestrale e leggendario. L’occhio è immerso in schermi inondati da pennellate piene, saturazioni di colori che variano dalla pienezza di crepuscolari rossi polverosi ad algidi blu notturni. Sovrapposizioni tonali, sfumature espressioniste che si incontrano, immergendosi in un abisso lisergico, tra il potere della trasfigurazione e l’anarchia della visione, come nelle marine impastate di colore in Mare blu e nuvole rosse, o nei paesaggi visionari in Sera d’autunno (1924), di Emil Hansen “Nolde”. Immagini pittoriche, caratterizzate da una forte carica evocativa, avvolgono lo sguardo, che si ritrova immerso in una composizione scenica strabordante e opulenta, l’illusorio avvolto dalla luce e da colori materici, ponendo l’accento, da subito, sul carattere pienamente eighties dell’opera, con quella cornice estetica che tende al barocchismo smisurato. La scena che apre Il bacio della pantera, di Paul Schrader, si svela emergendo dalla polvere rossa di un deserto che regala i resti, forse umani, di un passato lontano, metafore e simbolismi si rincorrono, in ellissi continue, nella tragedia del continuo contrapporsi del bene e del male, tematica ricorrente nel cinema del regista; sacrificio del logos e della verbosità a favore di un tripudio di ierofanie, 1
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in cui la narrazione filmica è pregna di sacralità e le immagini si elevano alla poetica trascendentale schraderiana. Il prologo si affida ad immagini oniriche, in una sintassi visiva iperrealista, sulla note ipnotiche di Giorgio Moroder; appare solido L’albero, metonimia (iperbole) visiva dell’Albero della conoscenza, del Bene e del Male, da cui lui l’uomo, colmo di hyubris, colse il frutto vietato, segnando il suo esilio dall’Eden ed il suo destino inevitabile mortale. Un albero magmatico e incandescente si staglia contro un cielo infuocato e tinto di rubino, come L’albero rosso (1909) di Piet Mondrian o La Quercia (1906) di Edvard Munch, protende le sue braccia nodose al cielo. Un monolite forgiato dalla natura, una figura iconica che, in un campo largo e profondo riempie lo schermo. Come il kubrickiano monolito nero che si materializza in 2001: Odissea nello spazio, così l’arte perfetta scolpita dal tempo e dalla madre Terra si palesa direttamente agli occhi dello spettatore come una materializzazione del divino, che mette in comunicazione il cielo, verso cui i rami si lanciano, e la terra, con le sue radici che scavano in profondità; l’apollineo dialoga con il dionisiaco attraverso un logos che si fa materico, arriva all’uomo e alla sua natura più ferina. Una comunicazione non verbale, né verbosa, ma nella sua accezione semantica ed etimologica più pura (αἴσθησις/ αἰσθάνομαι), una percezione sensoriale espressa e percepita attraverso l’immagine. Lo schermo sanguina, l’albero arde, pur privo di fiamme ma, avvolto in quell’intenso cremisi, sembra accendersi di vampe, eletto ad ara sacra in cui il sacrificio deve compiersi. Le fiamme ardono tra le note di Cat People (Putting Out Fire), accompagnando il dipanarsi della materia filmica dalla plasticità vinilica, tipica degli anni ’80, sia per atmosfere che per sfumature; nei timbri baritonali della voce di Bowie, che ritornano a palesarsi sui titoli di coda, l’occhio è catapultato in un videoclip che cattura e riassume l’essenza di quegli anni. In un deserto arido e arso dal sole, popolato da una civiltà antica, dal rosso si scivola nelle tenebre avvolte dalle sfumature livide e gelide della notte, le ombre invadono lo schermo ottenebrando la ragione degli uomini, il giorno muore in un crepuscolo infuocato. La vittima sacrificale, vergine casta, è offerta come amante alla fiera; femmineo e ferino in un unicum in un rito di purificazione, una
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catarsi orgiastica che si apre al dionisiaco, alle radici dell’oscuro latente che dimora l’umano. Il femmineo, secondo la leggenda che viene narrata allo spettatore, è il dono offerto durante la cerimonia, celebrata ai piedi dell’albero, il dionisiaco per eccellenza, baccante e menade, il lato oscuro, la luna, con “la consapevolezza della natura mostruosa, della distruttività dell’essere, una volta che questo si riveli nella sua ferina autenticità dionisiaca, nell’originaria barbarie, che in Grecia la divinità di Apollo ha cercato di contenere con il suo costante richiamo alla misura, al senso del limite”.2 Dal buio della caverna si passa agli scuri e profondi occhi della pantera, e poi agli occhi, ancora più felini, di Irena (Nastassja Kinski), innocenza ed erotismo sintetizzati in un volto, con un close-up intenso che segna il salto temporale tra due epoche e due realtà lontane, uno sguardo rivolto all’obiettivo, direttamente allo spettatore, in uno spazio di tempo sospeso. Irena Gallier si ricongiunge con suo fratello Paul (Malcolm McDowell), pastore protestante, a New Orleans, città esoterica, la voodoo queen per eccellenza, coacervo di razze, riti magici e stregonerie, dove la notte scorre tra sabba, magia nera e derive mistiche. Atmosfere cupe e decadenti, architetture fatiscenti e decori echeggianti l’art nouveau adornano i palazzi della città e del quartiere francese, spazi aperti e lussureggianti caratterizzano invece lo zoo, tra le prime mete di Irena. I due, orfani dei genitori, si ritrovano dopo diversi anni, ed il loro rapporto trasuda da subito un che di morboso, occhi che si cercano e corpi che si sfiorano, nel racconto di un’infanzia trascorsa tra sogni, filastrocche e giochi circensi. Paul è ambiguo, scompare per giorni, spiazzando la sorella che, ignara, lo cerca per la città, una ricerca vana che la condurrà invece a stringere amicizia con Oliver (John Heard), zoologo presso lo zoo di New Orleans. Irene è attratta da subito dal ragazzo; gentile con gli uomini e gli animali, ha una dolcezza d’animo che lo rende così lontano, quasi all’opposto della ferinità dei due fratelli, studia Dante Alighieri, recitando le rime della Vita Nova, “Io veggio li oc-
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G. Bonelli, Nietzsche e le Baccanti di Euripide, “L’Antiquité Classique”, 1991, pp. 62-88.
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chi vostri c’hanno pianto, e veggiovi tornar sì sfigurate, che ’l cor mi triema di vederne tanto”3. Irena sembra aver trovato una nuova vita, nuovi amici e forse un amore, ma il suo istinto animale vibra forte ed è parte inscindibile della sua physis, irrompendo all’improvviso, inaspettatamente e prepotentemente. La donna si muove con scatti felini, movenze agili e sicure, per sua stessa ammissione trova più semplice comunicare con gli animali che con le persone, soprattutto con gli uomini, da cui istintivamente si è sempre tenuta lontana, preservando la sua integrità sessuale. Una materia oscura avvolge i due fratelli, un mistero fitto che si dipana con la cattura di una pantera nera, dopo l’omicidio di una prostituta, da parte del personale dello zoo. La sparizione di Paul e la fuga della pantera sembrano eventi che si sovrappongono e si spiegano vicendevolmente, soprattutto quando l’uomo, in sembianze umane, torna dalla sorella per parlarle. L’immagine di un altro mondo si palesa, ciò che era nascosto diventa visibile, il mistero prende forma, in una forma aberrante e sconvolgente, inaspettata, spaventosa. Si respira odore di morte, di corpi decomposti e fatti a brandelli, un’umanità che fagocita i propri figli, cinica e irrispettosa. Il singolo, famelico, ha la meglio sulla collettività, uccide per preservare sé stesso. Paul sbrana le sue vittime dopo l’amplesso, ma è la sua natura; sesso ed istinto animale uniti ed amplificati, fino al raggiungimento di una mutazione fisica, una metamorfosi che amplifica la bestialità dell’uomo, la sollecita, la fa emergere donando all’uomo una corporalità nuova. Il corpo umano muta la sua materia, si fa bestia, in una catarsi sacra, tornando alla forma ancestrale narrata dalla leggenda, quel felino adorato e idolatrato. L’obiettivo di Schrader nasconde allo sguardo la mutazione dell’uomo e l’estasi dell’amplesso dietro dissolvenze e cuts che spostano l’attenzione dello spettatore, volendo, forse, preservare il momento più intimo dell’uomo/creatura e, pur indugiando sulla nudità dei corpi, tutela il rapporto ieratico uomo/animale nel corso della sua metamorfosi. Una favola dai contorni astratti, nera e morbosa, “Salvami, solo tu puoi fermare questo massacro, devi fare l’amore con me anche se siamo fratello e sorella, potremmo vivere come compagni come 3
Dante Alighieri, Vita Nuova, XXII 9-10.
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hanno fatto i nostri genitori anche loro erano fratello e sorella”. Paul avverte la forte attrazione fisica che la sorella prova nei confronti di Oliver, percepisce la rivalità dell’uomo, si rivolge alla ragazza con parole dirette e schiette, spinto dalla necessità di avere un amplesso con Irena, l’unica che gli consente di fare l’amore senza trasformarsi in bestia, l’unica che può salvarlo; soltanto tramite il legame incestuoso i due possono conoscere il vero amore. Tra i tre protagonisti Paul-Irena-Oliver, si ripropone il tema della relazione triangolare, ricorrente nel cinema di Schrader, anche nella sua ultima opera, The Canyons, con il triangolo Tara-ChristianRyan. L’incesto libera i due fratelli dall’orribile metamorfosi; solo facendo l’amore insieme possono riuscire a contenere la loro natura mostruosa, ma Irena fugge alle regole di questo maleficio, si sente un essere diverso nella sua diversità. Paul trova riparo nella morte, ucciso ma libero da sé stesso, finalmente si spoglia della sua natura ferina; nella messa in scena filmica, sul tavolo dell’obitorio, dal ventre della pantera viene partorito, in una nuvola di fumo nero, il corpo dell’uomo, in una rinascita attraverso la morte, un iter doloroso ma necessario. Presa coscienza della sua natura felina, dapprima Irena la respinge sino a ripudiarla, ma la sua vera essenza non tarderà a palesarsi, la voglia di unirsi a Oliver è forte, lo desidera, l’unico freno della ragazza è la trasmutazione animale. L’accettazione della propria natura avviene dopo che Olivier chiede alla donna di fare l’amore, la donna rifiuta, ma nel corso della notte libera il suo corpo dai vestiti, e dalla paura, nuda nella prateria corre e caccia le sue vittime, piccoli animali che popolano la zona; in una mise-en-scène caratterizzata da colori freddi, usando filtri dai blu intensi, un’unica luce sul finale della scena rivela Irena ai piedi del letto di Olivier, nuda e con la bocca inondata dal sangue animale. La ragazza ambisce ad unirsi alla sua razza, vuole assecondare la sua natura, allontanarsi dagli umani per ricongiungersi alla sua specie, implora l’amante di ucciderla, ma davanti al suo diniego gli chiede di liberarla dal suo corpo umano e completare così la mutazione felina, attraverso l’amplesso. Assicurata al letto, caviglie e polsi costretti in corde, totalmente immobilizzata, Olivier e Irena fanno l’amore. Come la ragazza sacrificata alla bestia, nella
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scena iniziale del film, che si unisce alla pantera legata all’albero, così Irena, legata ad un letto si unirà ad un uomo per trasformarsi in felino, in una sorta di chiasmo narrativo che rende circolare la materia filmica. Nelle scene finali tornano le pennellate oniriche e surreali, si torna al rosso iniziale, quello che introduceva lo spettatore al mondo atavico, alla leggenda e in una dissolvenza tra polveri cremisi, un commento extradiegetico accompagna lo spettatore verso la fine del film: Ci fu un tempo in cui i nostri avi sacrificavano i loro figli alle pantere, le loro anime crescevano all’interno delle pantere, finché le pantere non divennero umane, eravamo Dei allora, siamo una razza incestuosa, possiamo unirci solo con i nostri familiari, o ci trasformiamo, prima di tornare umani dobbiamo uccidere.
Si ripropone così la struttura circolare, o ellittica, dell’opera; dalla realtà, alla leggenda, fino a tornare nuovamente alla realtà, così anche la metamorfosi è continua, da natura umana a fiera, volendo conciliare i diversi aspetti, quasi agli antipodi, insiti nella physis dell’uomo, ma anche nella stessa struttura sociale, conciliando il proprio intimo, anarchico e selvaggio, con le regole del vivere in comunità. Schrader è un ottimo fabbricante di dispositivi narrativi, come un sublime cesellatore caratterizza i personaggi della narrazione filmica secondo quelli che sono i topoi più ricorrenti della sua cinematografia, le personalità dei personaggi sono multisfaccettate, ben strutturate ed il regista gioca con lo sdoppiamento delle personalità. Irena è pudica, ingenua ma fortemente erotica, esercita un forte ascendente sugli uomini ma anche sugli animali, con cui riesce a comunicare con estrema facilità, capacità comune al fratello Paul, uomo, bestia, killer e pastore protestante. L’uomo che dovrebbe guidare le anime dei fedeli perde la sua stessa anima in una vita smodata, chiuso in ospedali psichiatrici, amplessi consumati con prostitute, lasciandosi alle spalle una scia di sangue, impossibilitato, a causa della sua natura, ad amare. Olivier, da parte sua, dietro un’apparenza posata e razionale, ha una personalità complessa, è più vicino agli animali che agli uomini, subisce il fascino di Irena, annullandosi quasi totalmente.
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La molteplicità delle personalità è portata sulla scena, in modo metaforico, dalla presenza di numerosi specchi; in diverse scene è possibile trovare i protagonisti intenti a scrutare i propri riflessi, interrogandosi sulla loro natura o forse alla ricerca del loro Io più profondo e sconosciuto. L’utilizzo dello specchio, soprattutto da parte dei due fratelli, avviene in concomitanza del ritorno alla forma umana, così Paul, stremato e steso sul pavimento, è racchiuso in un frame, inquadrato dal basso, un corpo glabro e lunghe gambe affusolate che ingannano lo sguardo dello spettatore lasciandolo perplesso sulla sua identità; solo successivamente, quando la mdp si sofferma sul volto, l’immagine si svela mostrando Paul e non Irena, quasi a volerli racchiudere in un unicum; i due fratelli come due facce delle stessa medaglia, in cui convivono, allo stesso tempo, apollineo e dionisiaco. I corpi scolpiti da Schrader non sono mai statici, sono in continuo mutamento, forme in divenire, in bilico tra l’essere e la bestialità, mai uguali, sempre diversi, “A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l’estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi, ispirate il mio disegno, così che il canto dalle origini del mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni”. 4 Una metamorfosi baconiana che trasmuta i volti in un eterno grido, una lacerazione dell’anima, che si riflette nelle espressioni e nei corpi deformati, una dannazione eterna causata dall’impossibilità di amare, se non il riflesso di sé stesso. Una prigione dalla quale è impossibile uscire, come la pantera reclusa in una gabbia, dietro le sbarre, offerta in pasto agli sguardi dei passanti in uno zoo, così Irena non può cambiare la sua natura, in prigione a sua volta, bloccata, reclusa, in un corpo in continuo mutamento, costretta ad uccidere nel momento in cui dovesse innamorarsi di un umano; l’istinto represso e mortificato da una corporalità deformata, come il ka iano Gregorio Samsa: Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato, nel suo letto, in un insetto mostruoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza, e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra. Una 4
Ovidio, Le metamorfosi, Libro Primo.
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quantità di gambe, compassionevolmente sottili in confronto alla sua mole, gli si agitava dinanzi agli occhi.5
Paul Schrader, con Il bacio della pantera, si confronta con il cinema horror, un territorio nuovo ed inesplorato nella sua cinematografia, proponendo il remake di un classico della RKO, realizzato nel 1942 dalla coppia Val Lewton - Jacques Tourneur. Icona cinematografica partorita dall’estro artistico a low budget dalla RKO, da Jacques Tourneur e prima produzione sotto la guida di Val Lewton, il mito della donna-felino è allo stesso tempo metafora di un erotismo perturbante e della diversità, un horror che gioca con la mente dello spettatore, lontano da stilemi gore e splatter, si affida alla suspence e al mistero, un’opera che scivola tra le luci e le ombre di un sublime bianco e nero, in cui la costruzione della paura è affidata all’immaginazione e mai ostentata, muovendosi agilmente tra le curve sinuose della Simone. Sulla scia del successo de Il bacio della pantera, nel 1944 fa seguito Il giardino delle streghe (The Curse of the Cat People), diretto da Gunther von Fritsch e Robert Wise e prodotto sempre dalla RKO, sequel ideale del film del 1942, una favola nera, delicata e raffinata, in cui ritroviamo ancora Simon Simone nelle vesti di una Irena meno felina e più materna, opera lontana dalle atmosfere dark ed inquietanti del film precedente. Schrader omaggia l’originale di Tourneur soffermandosi e riproducendo, quasi fedelmente, alcune inquadrature e la composizione scenica, come, ad esempio, l’Alice schraderiana (Annette O’Toole) nella piscina è ripresa con la stessa angolazione della sua ava tourneuriana (Jane Randolph), ma anche la scena di Irena/Kinski nello zoo, intenta a ritrarre la pantera rinchiusa nella gabbia, offre allo sguardo dello spettatore un inevitabile parallelismo con la Irena interpretata dalla giovanissima Simone Simon. Il regista, che qui si avvale dello scenografo Ferdinando Scarfiotti, collaboratore abituale di Bernardo Bertolucci, alle atmosfere orrorifiche preferisce nettamente il melodramma e la morbosità erotica, di cui ogni fotogramma è pregno, si allontana dal canovaccio tessuto dall’originale tourneuriano, che giocava sull’ottima costruzione della suspense e le suggestioni del bianco e nero, scegliendo 5
F. Ka a, La metamorfosi, Adelphi, Milano 1981.
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invece un altro piano su cui muoversi, più torbido ed esplicito. Da subito la natura mostruosa di Irena e della sua specie viene portata in scena, sia dall’antefatto che apre il film, ma anche nella stessa caratterizzazione fisica del personaggio; la donna ha movenze feline, è un corpo estraneo rispetto ai corpi che la circondano, ancor prima della sua metamorfosi. Se in Tourneur “vorremmo quasi che le immagini si fermassero, per ritardare il più possibile una verità che rifiutiamo, che vogliamo rimossa, di fronte al film di Schrader ci troviamo a divorare avidamente le immagini, a desiderare la loro accettazione verso il punto culminante, lo “svelamento” del Mostro. Per scoprire, alla fine, che il Mostro non è Irena, né la pantera, ma Irena in quanto pantera potenziale, cioè l’animale che è dentro di lei, che si cela sotto la sua pelle pronto ad esplodere.6
Le due attrici nelle vesti di Irena interpretano il femmineo erotico con timbriche totalmente differenti. Simone Simon esprime un erotismo elegante incarnando lo stereotipo della femme fatale, avvolto di sensualità e mistero, tra le ombre del visibile e di ciò che si cela nell’oscurità, una donna estremamente femminile quanto tormentata, consapevole del proprio fascino. La Kinski, labbra umide e socchiuse, ed un corpo agile e adolescenziale, regala al personaggio l’ambiguità di una bellezza androgina, accentuata dal taglio dei capelli, che rende Irena simile, e a tratti confondibile, al fratello. La Irena schraderiana è una donna fragile, ma che non ha paura di parlare della propria verginità; la sua personalità cresce, assumendo sfaccettature sempre più torbide e conturbanti durante l’iter filmico, fino a raggiungere l’apice di una morbosa carnalità, levandosi dal corpo del suo amante con gli occhi socchiusi e con rivoli di sangue che colano dalle labbra, o nel momento in cui, illuminata dal blu di una luce lunare, si mostra totalmente nuda ad Olivier, implorandolo di liberarla dalla sua forma umana per tornare ad essere fiera dopo l’amplesso. La donna-pantera è bestia erotica, pur essendo bestia che rifugge dal contatto carnale (nel film del 1942) e che viola i tabù ancestrali (l’in6
F. D’Angelo, “Cat People: come perdere il bus”, «Cinema & Cinema», n. 34, gennaio-marzo 1983, pp. 45-48.
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cestuosa relazione nel film del 1982). Nell’un caso come nell’altro sono sovvertiti alcuni capisaldi decisivi della morale e dell’organizzazione sociale: i rapporti tra i sessi e la famiglia.7
Sesso, mutazione e morte, logoi che conversano tra loro, come qualche anno prima li aveva messi in relazione David Cronenberg, nella sua ideale prima trilogia della carne, e soprattutto in Il demone sotto la pelle; allo stesso modo Schrader, nel remake de Il bacio della pantera, indaga la mutazione del corpo, la diversità e la malattia, con una poetica intrisa di erotismo e sensualità, dettando le direttive dell’evoluzione del mito della donna-pantera. Paul Schrader nel 1982 incatena lo sguardo sublimandolo con le fascinazioni anni ’80 e le atmosfere mistiche di una New Orleans magica e misteriosa, portando in scena un mondo onirico tra sogno e delirio, sensualità e paura, vicino alle suggestioni pittoriche di Johann Heinrich Füssli ed ai suoi incubi notturni. Un erotismo che scorre palpitante lungo tutto lo svolgersi del film, una donna, sensuale, un misto di innocenza e lascivia, ma che intenerisce per l’impossibilità di amare; in cuor suo la bestia ha la consapevolezza di dover uccidere la persona che ama e che il suo amore sarà sempre ed inevitabilmente legato alla morte. “Ogni volta che succede tu dici a te stessa che è amore, ma non lo è, è morte”. “But black sin hath betrayed to endless night. My world, both parts, and both parts must to die” (Dal nero peccato divise le due parti, in una notte senza fine. L’una e l’altra troveranno la debita morte) (Holy Sonnets,V. John Donne). Il bacio della pantera (Cat People), Jacques Tourneur, 1942
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F. Giovannini, Mostri: protagonisti dell’immaginario del Novecento, da Frankenstein a Godzilla, da Dracula ai cyborg, Castelvecchi editore, Roma 1999, p. 64.
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ZONE DI PROTEZIONE. LACERTI D’AUTORE: DYING OF THE LIGHT IL NEMICO INVISIBILE Bisogna premettere una cosa: questo è un lacerto di film, ciò che rimane di un affresco malamente staccato dal muro, sembra, da parte di produttori e distributori spietati che nel procedimento gli hanno inferto ferite gravissime, tanto da spingere l’autore – e l’interprete principale Nicolas Cage – a disconoscerne in toto la paternità. Ciò detto, e non è poco, proviamo a rintracciare nei lacerti rimasti qualche labile traccia della mano dell’autore, se esiste. Un autore che ha conosciuto sicuramente tempi assai migliori, a cavallo degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Cresciuto in una famiglia di rigida fede calvinista, Paul Schrader infatti è stato un autore eterodosso, fortemente originale, a partire dall’ammirazione per Robert Bresson e il cinema trascendente, cui dedicò un libro. I suoi sono film noir incentrati su parabole morali; i suoi personaggi tipici viaggiano dalla corruzione alla purezza, o viceversa. Non solo: nei casi migliori, Schrader sembra in grado di riflettere su una delle caratteristiche del postmoderno: il ruolo dello spettatore, il guardarsi allo specchio, il narcisismo come antidoto alla perdita del Sé nella società contemporanea liquida e sfuggente. In uno dei suoi film più misconosciuti, Patty Hearst (1988), la vicenda della ereditiera diventata terrorista serve come parabola per questa figura di “osservatore/guardone”, una figura di sfrenato narcisismo la cui identità e soggettività vanno in pezzi e poi si ristabiliscono quando la donna viene rapita. Da fantasia dei media, Patty diventa il tipico soggetto postmoderno, temuto e affascinante perché nessuno vuole accettare che il suo stato mentale, così fragile, diventi rapidamente così diverso, trasformandola in una persona totalmente differente. Nel discorso finale, quasi un monologo, che lei rivolge al padre ricco e celebre editore, tuttavia, Patty guarda direttamente verso la macchina da presa, sfoggia autoritarismo e annuncia che ha scelto un nuovo avvocato (“Non è ricco o famoso,
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ma è il mio!”). Poi, mostra di considerare i media come un veicolo di opportunità, non un fattore di persecuzione: “Cambieremo il clima, cambieremo la testa delle persone intorno a me…La stampa è uno strumento, lo dobbiamo usare. La gente fantasticava su di me, pensava di conoscermi. Quando sono emersa nella realtà come sono davvero, ho creato sconcerto. Ma io sono qui ed è meglio che gli altri imparino a conoscermi!”. La Patty Hearst di Schrader diventa così l’audience della sua stessa immagine, e in questa capacità è determinata a reinventarsi socialmente. Diventa, forse, il paradigma della potenzialità dello spettatore contemporaneo di trasformare la perdita di soggettività e dell’immagine centrata di se stesso in continue invenzioni e interventi all’interno delle istituzioni sociali contemporanee. Per il personaggio della Hearst e per lo spettatore contemporaneo, vale la tesi generale sulla pratica culturale postmoderna: le pratiche culturali coinvolgono sempre la mobilizzazione di determinati mezzi e relazioni di rappresentazione. Non c’è significato al di fuori di questo quadro, ma non si tratta di un fatto monolitico. Le istituzioni che lo compongono offrono multipli punti di entrata e spazi di contestazione, e non soltanto ai margini. Inventare diverse logiche storiche all’interno di questo spazio non garantisce nulla, naturalmente. È per questo che gli spettatori e i loro legami con l’immagine sono così pericolosi nella contemporanea cultura filmica ed è per questo che vi è tanta ansia personale e sociale collegata alla cultura postmoderna. Infine: queste condizioni richiedono che noi decidiamo per conto nostro come e cosa inventeremo nelle nostre vite, in mezzo a quali immagini sceglieremo di vivere, e come queste immagini avranno impatto sulle nostre vite, per qualsiasi lunghezza di tempo decidiamo. La natura del tutto transitoria di queste invenzioni, tuttavia, impone una qualche “zona di protezione” in cui possa conservarsi un certo principio di realtà politica, ponendo uno stop arbitrario alla totale causalità. Questa premessa ci serve per collegare il vecchio al nuovo Schrader, in particolare il personaggio di Patty Hearst a quello del protagonista di Dying of the Light (Il nemico invisibile) (2014), l’ultimo, disconosciuto film del regista di Grand Rapids. Nell’ottica del salvataggio dei lacerti, ecco dunque che l’agente Cia Evan Lake può anche apparirci come l’ultimo, ammaccato, erede dei personaggi schraderiani centrati sulla logica del guardare e dell’apparire
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(si pensi, anche, ai protagonisti di Lo spacciatore, 1991, e di Affliction, 1997). Il problema di Evan è, naturalmente, come negli altri casi quello della propria identità, da salvaguardare per il mondo intorno a lui che è tanto cambiato ma che continua a guardarlo e a esserne guardato. Il film si apre con la sequenza della tortura cui Evan è sottoposto da un miliziano afgano: vogliono estorcergli delle informazioni, e lui ostinatamente continua a dire che il suo nome è Charles Buchowski. Improvviso flashforward, ventidue anni più tardi, al Centro di addestramento della Cia in Virginia. Ritroviamo Evan, invecchiato e non proprio in grande forma, mentre sta tenendo una conferenza alle reclute in cui parla malissimo della Cia e lamenta la mancanza di valori della società odierna. Questa sequenza di vecchio leone ferito ricorda quella citata di Patty Hearst in cui la ragazza cerca, recitando per uno spettatore invisibile, di costruirsi una nuova identità rispetto a quella che le è stata cucita addosso dallo spettatore, che parta proprio dall’uso altrettanto spregiudicato dei media. Evan ha un orecchio fatto a pezzi dai suoi torturatori afgani, da anni è confinato a una scrivania e sottratto all’azione cui pensa di essere destinato, e soprattutto, impariamo, soffre di demenza frontotemporale, una specie di Alszheimer che gli causa sbalzi d’umore, depressione, buchi di memoria. Sta perdendo se stesso in modo inesorabile. Il suo unico scopo di vita rimane quello di vendicarsi della sua antica Nemesi, il terrorista Muhammad Banir, colui che lo torturò tanti anni prima e che ora vive, sotto falso nome e numerose protezioni, a Mombasa in Kenya. Particolare non irrilevante: anche Banir sta scomparendo lentamente, sotto gli effetti di un’altra malattia irreversibile se non curata con particolari farmaci, la talassemia, una potente forma di anemia. Abbiamo dunque questi due uomini, il protagonista e il suo Doppio malvagio, che si fronteggiano nel crepuscolo (dying of the light) delle loro esistenze. L’uno esiste solo in funzione dell’altro. Evan, ormai fuori controllo per la malattia, viene cacciato dalla Cia e persegue la sua vendetta da isolato, aiutato solo da un giovane collega che gli vuole bene e che è il suo Doppio buono. Evan è certamente un personaggio che appartiene al passato, a quel passato mitico di un’America “ancora non schiava della politica”. Evan accusa il direttore della Cia di “mettere la testa su per il culo di Obama”. Si duole per la propria sorte: “Così vengono trattati quelli che danno la vita per il Paese!”. Insomma,
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a tratti Evan ci viene proposto come un cavaliere antico, uno fuori dai giochi sporchi: un eroe della vendetta, un eroe western (del resto, Schrader ha scritto o diretto e scritto film come Taxi Driver (1976) o Hardcore (1978), che sono altrettante translitterazioni del capolavoro fordiano Sentieri selvaggi (1956) – l’eroe deve salvare una donna muovendosi in un territorio alieno. Il film si muove tra Afghanistan, Stati Uniti, Romania e Kenya, con salti non sempre plausibili (si avverte l’intervento delle forbici dei produttori e dei distributori). Affiora l’ammirazione del tutto schraderiana e calvinista per chi prova una fede autentica: Evan ammira in qualche modo l’arcinemico Banir perché è un “vero credente, e quindi un duro a morire”. A sua volta, Evan appare egli stesso un credente: ha fede nei valori, nella giustizia, nell’onestà. Il paradosso è che questo laudator temporis acti sta inesorabilmente cambiando giorno dopo giorno: i buchi di memoria sono sempre più frequenti. La sua identità diventa sempre più liquida, in trasformazione. Una bella parabola dei tempi postmoderni, anche più estrema di quella della ereditiera rapita trasformatasi in terrorista. Evan è ansioso, insicuro, soffre di “sindrome del tramonto”. Il cambio di identità è certificato anche da un passaporto fasullo, che serve per entrare in Kenya e scovare Banir, che a sua volta si fa chiamare Al-Hariri ed è ossessionato dal tema del tradimento. Insomma, nessuno è quel che sembra o dice di essere, nel film. Per avvicinare di persona Banir, Evan si trucca completamente, recita nella parte del medico che fornisce al terrorista le medicine necessarie a restare in vita. Il finale da film d’azione non è esattamente un pezzo di cinema da ricordare, va detto. Salviamo però il lungo colloquio tra i due arcinemici, un confronto atteso che ricostruisce “in abisso” la sequenza dell’incipit, al punto che Evan finisce per ritrovarsi, nuovamente, nella parte della vittima alla mercé del suo aguzzino. Evan se ne andrebbe anche, lasciando la sua vendetta irrisolta. Ma una volta fuori, il suo giovane collega viene colpito (si scoprirà poi che è solo ferito) in un’imboscata nel parco pubblico di Mombasa. Allora (è un finale imposto dai produttori?) Evan ci ripensa e come in ogni action movie conformista che si rispetti torna sui propri passi e uccide Banir, cavando addirittura un occhio al cadavere. Questa mutilazione (forse anch’essa imposta per dare un brivido alla storia) suona però stranamente congrua alle riflessioni che facevamo all’inizio di questo saggio. La capacità di vedere è infatti diventa-
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ta centrale nella nostra epoca di alluvione di immagini. Il gesto atroce di strappare un occhio nasconde, forse, il tentativo un po’ ingenuo di sottrarsi a questa inondazione, la volontà di non voler più vedere o essere visto. La ribellione, nella forma più estrema, al destino della postmodernità, che ci vuole tutti ben visibili. E non è un caso che, nella sequenza che chiude il film, ambientata in un cimitero, Evan ci appaia un’ultima volta come pura essenza privata di materialità: non lo vediamo, sentiamo però la sua voce provenire dalla sua tomba inquadrata in primo piano. Evan pronuncia, di nuovo, il suo sermone in difesa dei vecchi tempi e dei vecchi valori. Sottratto per sempre alla visione, sua e degli altri, l’eroe ha finalmente trovato, forse, la sua “zona di protezione”. Il film è un lacerto, ma i frammenti rimasti ci dicono ancora di un fantasma d’autore, senile ma coerente col se stesso di ieri.
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LA MUSICA È L’UNICA COSA CHE CONTA. LIGHT OF DAY LA LUCE DEL GIORNO
Cleveland, Ohio, la heartland industriale del Midwest americano degli anni Ottanta: con la sua working class intrappolata nelle maglie della Reaganomics, tra liberalizzazioni selvagge e licenziamenti facili. Cleveland, piccolo regno periferico dei generi musicali di quel periodo: synthpop, industrial, post-punk, heavy metal. Da qui Arthur Freed lanciò, nei primi anni Cinquanta, il rhythm & blues e il rock ‘n’ roll. Città delle new wave, che poi, però, si sviluppano altrove. “The city of almost”, come la chiamano, ironicamente, i suoi stessi abitanti. Insomma, industria e musica da bar, dove i fumi delle ciminiere si confondono con quelli dell’alcool. Martelli e chitarre elettriche. Stesso beat (in battere, mai in levare)! In questo buco nero, capace di risucchiare e disintegrare qualsiasi sogno americano, Paul Schrader scelse di ambientare la storia di un rock movie “operaista”, proprio all’incedere del nuovo decennio: quello segnato dall’ascesa di Ronald Reagan alla Casa Bianca e la caduta del Muro (e delle ideologie). La genesi di Light of Day (La luce del giorno) lo copre quasi interamente, lo attraversa graffiandolo. Già, perché il film uscì nelle sale nel 1987, ma Schrader aveva cominciato a lavorare alla sceneggiatura fin dal 1980, subito dopo il successo del suo American Gigolo (American Gigolò). Lui e il suo assistente Grafton J. Nunes (oggi presidente del Cleveland Institute of Art), seguendo il consiglio di alcuni amici dell’ambiente musicale (tra cui Bruce Springsteen, che in questa storia avrà un ruolo tutt’altro che marginale) si recano a Cleveland per i sopralluoghi. Vi trascorrono due settimane, alla ricerca delle location appropriate e soprattutto del sound giusto. Quello che il regista ha in mente è un piccolo film rock puntellato dal rigore blue collar dei suoi esordi. Come dire: back to basics!
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Nunes lo porta in un locale situato ai margini della città. Ci suona spesso un gruppo che si fa chiamare Generators, una delle band più popolari della zona. A Cleveland i musicisti non sognano di diventare famosi; nella migliore delle ipotesi aspirano a essere “quasi famosi”. La cantante del gruppo canta un verso che Schrader trascrive subito su un pezzetto di carta: “I can’t help it, I was born in the U.S.A.” (Non posso farci niente. Sono nata negli Stati Uniti d’America). I due non hanno ancora trovato il suono adeguato alla storia, ma almeno hanno un nome da dare alla sceneggiatura: Born in the U.S.A.. Certo, in quel momento non avrebbero mai potuto immaginare di aver tirato fuori uno dei titoli destinati a diventare tra i più famosi della storia della musica rock. Non avrebbero neppure potuto pensare che quel verso glielo avrebbe “rubato” proprio Bruce Springsteen: proprio colui che li aveva mandati a esplorare la terra dove i sogni si consumano alla velocità di un 45 giri. Qualche mese dopo, quella sceneggiatura è pronta: due “fratelli rivali” uniti dalla medesima passione per il rock ‘n’ roll, attaccati allo stesso cordone ombelicale, grosso e spesso come i cavi elettrici che li legano agli amplificatori della loro band di provincia. La Paramount, che avrebbe dovuto produrre il lungometraggio, vorrebbe proprio Springsteen a interpretare il ruolo di uno dei due fratelli, accanto a Richard Gere. Schrader, meno ambizioso, si accontenterebbe di una canzone scritta dal Boss appositamente per il film. Lo script finisce sul tavolo del cantante del New Jersey, che in quel periodo sta provando delle canzoni del suo prossimo disco, Nebraska. In particolare ce n’è una che non riesce a schiudersi. Parla del Vietnam, e dei reduci della guerra. Non ha ancora un titolo definitivo. Bruce non ha alcuna intenzione di cominciare la carriera di attore, e nemmeno di scrivere la canzone per il film di Schrader. Guarda il copione senza nemmeno leggerlo attentamente, e trova il titolo (e l’ispirazione) definitiva per il suo pezzo sulla guerra del Vietnam: “Nato in una città di morti. Il primo calcio l’ho preso quando ho messo i piedi a terra. Finisci come un cane che è stato pestato troppo. Passi metà della tua vita a nasconderti. Nato negli Stati Uniti d’America”. La canzone, però, è troppo potente per finire in un album certamente dotato di un’anima politica, ma a cui il musicista aveva deciso di donare un corpo intimamente acustico. Quel brano è destinato a diventare un inno full band sparato a tutto volume sulla faccia
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di un’America che ha tutta l’intenzione di regolare i conti con i disfattisti, di dimenticare il passato, e di inaugurare un nuovo ordine mondiale. E così, il film di Schrader e la canzone di Springsteen devono attendere ancora qualche anno per vedere la luce del giorno. Born in the U.S.A. sarà ripescata quattro anni dopo e darà il titolo a un intero album, sulla cui copertina Springsteen non mancherà di annotare un sentito ringraziamento all’amico Paul Schrader; il film, invece, finirà nel limbo di Hollywood per molto tempo e senza nemmeno più un titolo. La Paramount, senza le due star (anche Richard Gere declina l’invito e preferisce impegnarsi in Ufficiale e gentiluomo), non vuole proprio saperne di produrre un film su una band di sfigati di Cleveland. Schrader, allora, gira Cat People (Il bacio della pantera, 1982) e se ne va in Giappone per Mishima: A Life in Four Chapters (Mishima - Una vita in quattro capitoli, 1985). La sceneggiatura cambia fisionomia: i due fratelli diventano un fratello e una sorella. A interpretarli saranno Michael J. Fox e Joan Jett. Ma non dovranno solo recitarlo, quel film dovranno davvero suonarlo e cantarlo fino all’ultima nota. Formano una vera band, i Barbusters: provano per due mesi, si esibiscono in veri concerti, con pubblico autentico. Le canzoni sono registrate su un 24 piste installato su un truck parcheggiato fuori dai locali dove si esibisce il gruppo. Schrader non scherza, vuole musica vera! Michael J. Fox non è un musicista professionista come Joan Jett, ma se la cava, e scrive anche una canzone per il film. Ma manca ancora qualcosa... Due anni dopo l’eclatante successo di Born in the U.S.A., Bruce si decide finalmente a ricambiare il favore, e scrive per Schrader Light of Day, un brano ruvido, semplice, diretto. Parla di due giovani della working class, uno lavora in un cantiere ed è stato appena licenziato. Ma c’è il rock ‘n’ roll a tenerli in vita; sempre insieme alla ricerca della luce del giorno, che a volte si può trovare proprio dietro l’angolo. Sarà questa canzone a dare il titolo al film. Il brano di Springsteen coglie nel segno, dipinge, con pochi versi e con note senza fronzoli, lo spirito della storia ideata da Schrader. Desideri che esplodono e si consumano tra i cancelli di una fabbrica o di un cantiere e il palcoscenico di un locale. Del resto, sulla sua capacità di produrre “scrittura cinematografica” ci sono pochi dubbi. Lui stesso ha ammesso: “Se ho un segreto riguardo alla composizione
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di una canzone, forse è che quando la scrivo lo faccio perché sia un film - non per farne un film, ma perché lo sia”.1 Joe (Michael J. Fox) e Patti (Joan Jett) sono fratello e sorella. Lui fa il metalmeccanico, lei è una ragazza madre che non accetta compromessi, e non ha mai voluto rivelare a nessuno il nome del padre. Insieme formano una rock ‘n’ roll band - i Barbusters, appunto -, con la speranza di scappare per sempre da Cleveland. Patti sembra una “poco di buono”, dedita al furto e combina guai. Joe è il lato positivo della band: “Sai fratellino – gli dice lei – sei troppo buono. Dovresti formare una band e chiamarla Gli Angeli Custodi”. Patti è stanca della famiglia, della casa, della madre così integralmente religiosa. L’unica cosa che sente davvero sua è il bambino. Il fratello sembra invece condividere i valori della famiglia, e si prende cura amorevolmente del figlio di sua sorella come se ne fosse il padre. C’è qualcosa di vagamente incestuoso tra i due. Certo è che entrambi credono nel potere salvifico del rock ‘n’ roll: “la musica è l’unica cosa che conta”, ripete Patti. E il rock sarà effettivamente l’unico pretesto che li terrà uniti anche dopo la morte della madre, quando tutto sembrerebbe finito e invece è solo il momento di cominciare a cercare la luce del giorno dietro l’angolo. C’è ancora tempo perché i Barbusters suonino e cantino insieme sulle note di Springsteen: “Well I’m a little down under, but I’m feeling O.k. I got a little lost along the way. Just around the corner to the light of day” (Beh, mi sento un po’ giù, ma va tutto bene. Proprio dietro l’angolo, verso la luce del giorno). Forse era proprio questo il modo migliore per fare un rock movie alla fine degli anni Ottanta: quando tutto sembrava perduto, ma la musica rimaneva una possibilità. Del resto, lo stesso regista ha dichiarato: “Il miglior modo di fare un film sul rock ‘n’ roll, è fare un film sulla famiglia, sul crescere insieme e sulla musica che diviene parte di tutto questo”. Il suo obiettivo estetico e morale, infatti, sfugge alla formula del genere rock movie: questo è un convincente film blue collar sulla vita, e sulla musica che ne è parte essenziale. Un film “dal vivo” contro la divisione, l’egoismo, l’edonismo. Consapevolmente anti-reaganiano. Un’opera non ri1
Per un’analisi più approfondita dei rapporti tra Bruce Springsteen e il cinema cfr. D. Del Pozzo, V. Esposito (a cura di) Il cinema secondo Springsteen, in «Quaderni di Cinemasud», Mephite, 2012.
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petibile, con una superficie che nasconde molto di più al di sotto. Un film di Paul Schrader! La luce del giorno è anche una storia che, inevitabilmente, prende una piega diversa da quella che avrebbe avuto se fosse stato realizzato nel 1980. Il film che conosciamo è anche intriso di una nostalgia non prevista nella fase di sceneggiatura iniziata sette anni prima. Quello che si vede, infatti, è un piccolo mondo in via di estinzione: il Great Lake Club Circuit dell’Ohio con la sua cultura dei bar musicali, delle piccole band ostinatamente autentiche, ma anche votate al rapido oblio. Un piccolo mondo che stava ormai sparendo nella seconda metà degli anni Ottanta, quando “l’ascesa della promozione televisiva diviene il sintomo (e la causa parziale) di una profonda trasformazione nell’organizzazione dell’intrattenimento”2. Nel 1987, la scena musicale intorno a Cleveland era ormai diversa rispetto agli inizi del decennio: confusa, spaesata, in fuga (se Schrader lo avesse realizzato sette anni prima, per esempio, non avremmo visto Trent Reznor esibirsi con i suoi Problems, nello stesso locale dei Barbusters; o, forse, il suo gruppo si sarebbe chiamato Sins!). Così come profondamente diversa era diventata la situazione economica degli States. La Reaganomics aveva ormai mutato definitivamente i rapporti tra capitale e capitale umano. Nei locali di Light of Day non ci sono gli hard bodies (corpi duri) di cui parla Susan Jeffords nel suo interessante saggio Hard Bodies: Hollywood Masculinity in the Reagan Era, cioè quei nuovi corpi americani che, nell’immaginario dell’età di Reagan, “vengono a rappresentare non solo un tipo di carattere nazionale – eroico, aggressivo e determinato – ma la nazione stessa”3. C’è, invece, la fine della mitologia del rock, ci sono ragazzi e ragazze innamorati di un’idea che non esiste più: “Io cerco di vivere la mia vita secondo un’idea”, dice Patti, ma la sua sembra piuttosto una chimera. Esiste solo il rock ‘n’ roll, anche se i suoi ideali sono stati resi obsoleti dalla tecnologia e dal capitale. E, del resto, anche il personaggio di Joe è 2 3
S. Frith, Il rock è finito. Miti giovanili e seduzioni commerciali nella musica pop, E.D.T. Edizioni, Torino 1990 p. 239. S. Jeffords, Hard Bodies: Hollywood Masculinity in the Reagan Era, Rutgers University Press, New Brunswick, NJ 1994, p. 25.
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agli antipodi dell’hard body. Michael J. Fox è, di fatto, uno small body (corpo piccolo) che appare, nel gioco della rappresentazione, come figlio, fratello, padre (non naturale), ma la sua mascolinità sembra sottoposta a continue sfide. Lui, sua sorella Patti, e tutti i musicisti della “city of almost”, sono uomini in fuga dal presente, determinati a portare a termine un compito apparentemente minuto, in realtà arduo: salvare il rock ‘n’ roll da se stesso, da ciò che sta diventando. Perché la musica è l’unica cosa che conta.
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MISHIMA: LA VITA DI UN SAMURAI IN QUATTRO CAPITOLI
“Voglio morire per qualcosa di onorabile, per una (nobile) causa. Ma è l’era sbagliata”. Queste le parole che lo scrittore Hiraoka Kimitake, in arte Yukio Mishima, rilasciava in un’intervista registrata quattro anni prima di commettere pubblicamente seppuku il 25 novembre 1970. L’era sbagliata è quella in cui ha sempre sentito di vivere Mishima, una personale era, la sua, fuori asse rispetto a quella su cui marciava il Giappone post bellico prendendo le distanze dalla sua gloriosa tradizione samurai, valicando i confini occidentali fino a quasi liquefarli in una pozza d’acqua ormai incapace di rispecchiare quelle sue antiche e onorevoli immagini di antenati. L’era registicamente fuori sincronia e fuori, se ci facciamo passare il termine, “sincromia” è poi quella in cui Paul Schrader fa coesistere, alternando il colore al bianco e nero, i diversi riflessi di Mishima bambino, adolescente, scrittore, cultore del corpo, militare nazionalista. Tasselli del suo personale ritratto formalista dello scrittore giapponese affiancati da un montaggio che al ritmo di una vorticosa colonna sonora ne mischia come pagine al vento i ricordi, la messa in scena dei suoi romanzi e gli ultimi momenti della sua vita. Un’esistenza la sua, come anticipatoci nei titoli di testa, che Schrader ha scelto di raccontare suddividendola in quattro capitoli, come un romanzo, come un saggio, perché l’unità tra artista e opera d’arte, l’identificazione, o annullamento, è uno dei fini da perseguire e perché, come dirà lo stesso regista: il suo romanzo migliore fu la sua vita e la sua migliore performance fu il suo ultimo giorno. Mishima. Una vita in quatto capitoli è un biopic che per evidente scelta del regista disvela la sua finzione, la sua ricostruzione,
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scegliendo una non semplice e lineare struttura narrativa che ne esplicita gli artifici e le citazioni. La narrazione filmica comincia con l’ultimo risveglio del protagonista nel giorno in cui egli si darà la morte per seppuku. Passando attraverso episodi della sua vita e dei suoi romanzi, arriviamo assieme a lui e ai suoi associati al quartier generale da cui terrà un discorso sulla perduta gloria del Giappone. Schrader ricorre a un raccordo di flashback e contrappunti tematici, scissi cromaticamente secondo il doppio binario bianco e nero per i ricordi e colori per le scene che seguono il protagonista nel suo ultimo giorno di vita, nonché per quelle tratte dai romanzi. Colori reali per le prime, marcati e artificiali, come lo sono i set minimalisti, per le seconde. Una contaminazione di colori e una colonna sonora, quella di Glass, a cui Coppola, qui in veste di produttore, aveva già fatto ricorso nel 19821 e nel 19832. Mishima viveva del bisogno di trasformare la realtà, Schrader costruisce il suo film presentandone una trasformata nelle scenografie, nei colori, nelle scelte di montaggio e nel linguaggio filmico adottato, elementi che avvicinano e stimolano il conoscitore di Mishima ma che allontanano il profano, che si trova spettatore di un film non semplice nella sua fruizione e comprensione. Passato, presente, il non tempo della scrittura e quello della narrazione filmica, ogni elemento s’interseca con l’altro formando una fitta, forse troppo, rete di riferimenti volti a presentare allo spettatore l’uomo e l’artista Mishima ma, sopra ogni cosa, l’arte con cui egli arriva a identificarsi e i principi per cui si è battuto, riassunti nel suo ultimo gesto cerimoniale e suicida in cui squarcia il proprio ventre, sede dell’anima mostrata così nella sua purezza. Quattro capitoli, quattro principi appunto: bellezza, arte, azione e armonia tra penna e spada (antico, quest’ultimo, principio samurai). Schrader, quadripartendo la vita di Mishima, ne fa proprio un’opera d’arte secondo un’estetica che si allontana da quella occidentale per avvicinarsi a quella orientale, anche grazie
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Koyaanisqatsi, di Godfrey Reggio 1982. Rumble Fish (Rusty il selvaggio), di Francis Ford Coppola 1983.
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all’adattamento ad opera di Chieko Schrader, moglie giapponese di Leonard, fratello del regista e qui suo co sceneggiatore. Tre romanzi (Il Padiglione d’oro, La casa di Kyoko e Cavalli in fuga) messi in scena e inseriti nella diegesi filmica, attraverso i quali mostrare e spiegare lo scrittore, facendolo da essi accompagnare, come da un fiume a estuario che ne segue il tragitto percorso da casa fino al quartier generale e in attesa di sfociare con esso in un finale comune, nei confronti del quale Schrader non prende posizione. È inoltre Mishima stesso a essere tripartito in voce narrante (unico momento doppiato), protagonista del presente filmico e dei ricordi rievocati. Personaggi, questi ultimi due, separati cronologicamente ma che si troveranno talvolta a coesistere nelle inquadrature, come esemplificato già a pochi minuti dall’inizio del film in una scena dalla geometria perfetta in cui Mishima rimbalza tre volte sullo stesso schermo. Noi lo seguiamo, infatti, mentre abbandona la propria dimora e al contempo lo sentiamo innalzarsi come voice-over pronta a presentare implicitamente il Mishima bambino che dietro a una finestra, in bianco e nero, osserva se stesso adulto e a colori allontanarsi dalla casa. Scivoliamo così nel ricordo e, successivamente, dal ricordo scivoleremo dentro la rappresentazione di un suo romanzo, Il Padiglione d’Oro, e così dentro il primo principio: la bellezza. Per non perdersi nella ramificata struttura narrativa edificata col montaggio di Michael Chandler, bisogna aggrapparsi a questo fil rouge tematico e seguirlo attraverso i tre tempi messi in scena. Quello presente dell’azione, quello che con esso s’interseca in cui Mishima bambino, e in bianco e nero, scopre il teatro Kabuki, con la sua androginia e la sua finzione, e la bellezza del corpo umano unita alle prime pulsioni autoerotiche guardando Il martirio di San Sebastiano dipinto da Guido Reni. Quello, infine, riprodotto con set minimalisti nella messa in scena di alcuni episodi de Il Padiglione d’oro, edificio emblema del bello che affascina e che respinge, che si frappone tra il protagonista del romanzo, il novizio Mizoguchi, e la sua naturale tendenza alla vita e all’altro sesso. Un tema, la bellezza, tripartito anch’esso e che rimbalza dallo specchio della camera da letto dello scrittore, alle pennellate di Reni che scolpiscono il tonico corpo del martire e ancora alla cartapesta che riproduce il tempio zen in ogni sua dorata perfezione.
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Come l’Opera scrittoria ha il sopravvento sull’uomo Mishima, così l’Opera filmica sembra quasi avere il sopravvento sui suoi sceneggiatori, la tecnica sui dialoghi, il personaggio sull’attore. Per il protagonista, del resto, le parole stesse hanno priorità sul corpo, anche se non sono più sufficienti a esprimere emozioni (Mishima girerà infatti il film Yukoku senza dialoghi). Parimenti, nell’ottica del regista vita e arte si mischiano fino quasi a confondersi e sarà attraverso il conferimento del colore che Schrader eleverà l’opera (e quindi le parole) rispetto ai ricordi (e quindi vita e quindi corpo) appiattiti invece sul bianco e nero. La bellezza è per pochi, è una responsabilità che deve rifuggire il disfacimento del corpo (principio ben lontano da quello tradizionale di wabi-sabi che apprezzava invece l’imperfezione e la transitorietà), la bruttezza, la menomazione. Questo il trait d’union, tematico e formale, della bellezza che unisce sullo schermo l’infanzia di Mishima quando ancora aveva episodi di balbuzie e il novizio Mizoguchi, protagonista de Il Padiglione d’oro affetto da balbuzie congenita e che fa del problema del bello il fulcro della propria vita. Il Padiglione è emblema di bellezza e perfezione, si può toccare con mano, quindi la bellezza è tangibile ma è anche ineguagliabile ed è una barriera che si frappone fra lui e la sua tendenza alla vita, ai rapporti con gli uomini in generale e con le donne in particolare. Una barriera che in una scena in particolare irrompe registicamente con un veloce movimento di camera che anima così il Padiglione di cartapesta, portandolo a frapporsi tra la mano di Mizoguchi e il seno della ragazza che a lui si stava offrendo tra i bambù, tra lui e la vita in un circolo costringente scindibile solo attraverso l’azione. Il nemico di Mizoguchi, che si avverte imperfetto e quindi brutto, è la bellezza e quindi il Padiglione, ma il novizio scorge qualcosa che lo pone sullo stesso piano del reliquario: entrambi sono infatti accomunati dalla stessa caducità, dalla stessa possibilità di essere distrutti da un concerto di fiamme a cui avrebbe dato sul finale l‘attacco lo stesso Mizoguchi, la cui mano con un unico gesto, come per il più tradizionale dei mandala, distruggerà se stesso e quel tempio che come uno specchio deforme gli rimandava indietro il riflesso incendiario della sua bruttezza. Una bellezza, quella del Padiglione, che assurgeva la propria essenza dal nulla. Un vuoto che come da tradizione giapponese
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unifica, in un’auspicabile identificazione monista, mente e corpo, linguaggio e parole, vita e arte e, per Mishima: etica ed estetica, in un ritorno all’idealismo platonico. Creare bella arte e diventare belli noi stessi sono azioni che si equivalgono e poiché, sostiene Mishima, per un uomo (inteso nella sua mascolinità) voler diventare bello corrisponde a un desiderio di morte, creare un capolavoro risponde al medesimo mortifero anelito. Eiko Ishioka stilizza in scenografie pensate per una pièce teatrale le scene tratte dai romanzi, in generale, e da Il Padiglione d’oro in particolare. Le scene che hanno per monumentale protagonista il tempio zen sono accese dall’oro della sua costruzione e dal rosso delle foglie che ne pavimentano la superficie. Un tempio in cartapesta e dalle dimensioni prospettiche, miniatura eppure sovrastante, presenza sullo sfondo eppure centrale, immobile eppure in movimento nelle carrellate di Schrader che lo richiamano in prima fila. Finzione esibita, come per volontà del regista che si trova davanti a un genere cinematografico, quello biografico, che per certi versi mal sopporta. Sbattuta quasi in faccia allo spettatore, antinaturalistica, minimalista, accesa: la bellezza del Padiglione è lì, sul set, miniatura del bello da distruggere prima di arrivare al secondo capitolo in cui il bello diventa qualcosa da perseguire, da imitare, poiché se fuggevole è la bellezza, più durevole è la sua imitazione. Nel secondo capitolo, Mishima è in automobile con i suoi seguaci, in direzione del quartiere generale. La visione di un suo manifesto in libreria offrirà uno scivolo lungo il quale ritornare alla bipartizione ricordo/ripresa di un romanzo ma suggellerà anche uno dei propositi di Mishima: essere al contempo l’osservatore e l‘osservato. Una realizzazione, questa, a cui lo sta consacrando Schrader con la sua operazione filmica, concretizzandone anche il desiderio di raggiungere l’Occidente, anche dopo il Premio Nobel mancato in favore di Kawabata. Confessioni di una maschera, questo il romanzo che riporta i colori sullo schermo e che ci introduce a un Mishima che getta la propria, facendo del suo corpo un tempio consacrato alla bellezza e all’integrità fisica e della propria narcisistica omosessualità, prima latente, un mezzo per il ricongiungimento di etica ed estetica, di vita e di morte.
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“Creare un bellissimo capolavoro e diventare bellissimi noi stessi” sono due azioni che si equivalgono e l’uomo “dovrebbe suicidarsi all’apice della bellezza”, fuggendo il disfacimento del corpo. Il degrado fisico: questo è quello che l’omosessuale, dice Mishima, teme maggiormente, il riflesso che non vorrebbe mai vedere sulla superficie di uno specchio, elemento simbolico ma anche scenico protagonista di questo secondo capitolo dietro la cui maschera del titolo si celano l’omosessualità, il narcisismo e il desiderio di morte dello scrittore. Il protagonista romanzesco è infatti un giovane e narcisista attore, Osanu, cultore del proprio corpo e annoiato dal gentil sesso, che intreccia una relazione masochista con la donna, più grande di lui, con cui la madre ha contratto un grosso debito, vendendosi a lei come merce di scambio. Sarà in questa sua reificazione e nelle ferite della carne che il ragazzo sentirà per la prima volta di esistere e si divincolerà da quel bisogno di uno specchio che sentiva confermargli la propria esistenza. Sulla sua superficie rimirava quelle ferite dell’arte che faranno da tema al book fotografico Barakei in cui Mishima si farà immortalare mentre, per esempio, presta il suo corpo all’emulazione del martirio di San Sebastiano che spesso è stato considerato simbolo di omosessualità e sadismo. Come del resto scrisse Rainer Maria Rilke, il bello è solo l’inizio del tremendo.3 Uno specchio che servirà concretamente a Schrader per riprodurre il narcisismo androgino del protagonista e la sua latente omosessualità, quando, in una delle scene iniziali, la ragazza con cui il protagonista condivide il letto sovrappone proprio attraverso uno specchietto il proprio corpo a quello di lui. Si viene così a creare una sorta d’ibridazione che concretizza filmicamente la vera natura del ragazzo, in un rimando a quelle che sono le note biografiche lambenti l’omosessualità che valsero le opposizioni della vedova Mishima alla realizzazione della pellicola. Un gioco di specchi e di narcisistico voyeurismo qui allestito tra scenografie come sempre essenziali e teatrali nella loro artificialità (colorati paraventi che delimitano uno spazio buio tra cui si cala dall’alto la cinepresa), anche quando sul finale Schrader e i 3
R. M. Rilke, Elegie duinesi, Prima Elegia, Feltrinelli, Milano 2006, p. 3.
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protagonisti del romanzo allestiscono un set del suicidio su cui il ragazzo reciterà la sua ultima “parte”. Del resto, la voce fuori campo di Mishima puntualizza: “la mia vita è come quella di un attore, porto una maschera… […] Credevo […] che […] il pubblico non avrebbe mai visto l’attore senza trucco”, che ci mostra invece Schrader. Sarà con il terzo capitolo, quello dedicato all’azione, che arriveremo all’essenza della bellezza maschile: il kendo. Esso non richiede parole ma impone di essere pronti a sacrificarsi per le proprie idee, a innalzare il dovere al di sopra del singolo individuo, omaggiando il sole, il Sol Levante, facendo risorgere in chi lo pratica lo spirito samurai e, nel momento in cui la spada di bambù, con tutta la sua forza e la sua purezza, viene sguainata, l’essenza stessa della bellezza maschile. L’azione si basa qui sul principio d’identità tra l’individuo e la propria arma, prolungamento e trasformazione del pensiero in azione (il quale in essa perdura e agisce secondo quella che Mishima definisce la psicologia dell’azione4), dei presupposti tematici in esegesi filmica concreta. Mishima e i suoi hanno raggiunto il quartier generale, Schrader è pronto per l’ultimo romanzo, anticipato da uno scalpitio extra diegetico di zoccoli che si fa metonimia sonora del romanzo di riferimento: Cavalli in fuga, in cui Mishima veste l’ultima maschera, quella del protagonista Isao. Quest’ultimo è un giovane cadetto studioso del kendo che assieme a un gruppo di altri coetanei vive nel culto dell’imperatore e nell’abominio nei confronti dell’occidentalizzazione che ha deflagrato il Giappone e la sua tradizione. Formato una sorta di esercito personale e segreto votato all’abbattimento del capitalismo, quando il progetto di uccisione di alcuni politici e industriali verrà scoperto e i componenti arrestati, Isao riuscirà a scappare, a togliere la vita a uno di loro e a commettere seppuku. Se la poetica di Mishima identifica il bello e il bene, quale bene maggiore c’è se non quello dello stato imperiale giapponese, del superamento delle imposizioni post belliche con la restaurazione della via del samurai che termina il suo cammino con la morte “per
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Y. Mishima, La via del Samurai, Bompiani, Milano 19831.
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una nobile causa” di cui il Giappone si è dimenticato e che in una democrazia non ha senso di esistere? Cavalli in fuga esprime il principio fondamentale della vita e della parabola artistica dello scrittore: il congiungimento di letteratura e arti marziali, l’immolarsi per la nobile causa del Giappone attraverso l’azione, quella che colpisce i traditori della patria, quella che colpisce se stessi al ventre. Nella messa in scena si avverte una sorta di apertura quasi onirica, surreale, quando Isao convoca i suoi compagni per informarli che il loro piano sta per essere scoperto. A patire da questa scena, Schrader ed Eiko Ishioka raggiungono l’apice della rappresentazione e messa in scena non tanto della storia in sé quanto dei temi e delle emozioni che da questa vengono sprigionati, con misurate esplosioni di equilibrata perfezione estetica. I cadetti sono simmetricamente radunati al cospetto di Isao, fermo di fronte a loro, disposti su due file che lo affiancano, formando una grande “v”, “pronti a morire e purgare il Giappone dal capitalismo e restituire il potere alla sua maestà imperiale”. Di fronte a tutti, di fronte alla macchina da presa, un torii decaduto con le sue linee rettangolari inquadra la scena e lo fa con l’inclinatura che è quella fisica della porta abbattuta al suolo ma è anche quella del Giappone piegato agli e dagli americani. Una scena dalla perfezione stilistica ed estetica che riassume la pellicola, la poetica, che ci porta dal punto di vista del Giappone, quello che sta decadendo, come il torii inclinato, abbattuto, sprofondato nel terreno, quel torii che simboleggia la porta di accesso a quel luogo sacro che è quello in cui si stanno riunendo gli ultimi samurai di Isao, quel torii che il mito racconta essere riuscito a riportare la dea del sole Amaterasu a splendere sulla terra e a illuminarla5, quel sole che fa da simbolo ai samurai stessi e che ritornerà prepotentemente su finale della pellicola, come un cerchio infuocato. Il cielo della scena riporta al già citato Koyanisquatsi, irreale come lo è l’immenso e immoto spazio bianco in cui si trovano gli uomini, muta il suo colore da blu a rosso quando i cadetti formulano il loro voto di morte (e quando s’innesterà ricordo di Mishima 5
Kojiki, a cura di P. Villani, Marsilio Editori, Venezia 2006, pp. 48-49.
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che formula il medesimo giuramento, in cui il rosso del cielo sopra Isao verrà ripreso dalle parole “firmiamo col sangue” che pronuncerà Mishima). Ma c’è anche un’altra scena, più essenziale nel suo allestimento, in cui gli artifici scenografici diventano di straordinaria efficacia e si ricollegano al disfacimento (o nuova creazione?) verso cui Isao e Mishima stanno andando incontro: quando, una volta riunitisi tutti i cadetti per decidere il giorno dell’attentato, questi vengono scoperti e arrestati. In quel momento, le pareti, segmentate in deboli porte, cadono come se fossero tante carte le une appoggiate alle altre, abbattute dal picchiettare delle nocche a una di esse, volatilizzate assieme al piano di Isao, assieme alla scissione tra parola e azione. Come risponde Isao a un ufficiale prima di fuggire, la purezza assoluta è possibile se “si trasforma la vita in un verso di poesia scritto con il sangue”, quello che con il proprio seppuku si appresta a scrivere Isao e che Schrader raccorda a quello inscenato, torniamo al bianco e nero, da Mishima mentre interpreta e gira la scena finale di Yukoku. L’esercito di Isao è l’esercito spirituale di Mishima, quell’Associazione degli scudi da lui fondata il 5 ottobre del 1968 e finanziata con il provento dei suoi diritti di autore, al servizio della restaurazione del Codice Samurai in risposta al trattato di San Francisco del 1951 he vietava al Giappone di avere un esercito privato. Sul finale, al quartier generale Mishima, cinto dalla bandana samurai, recita un discorso davanti all‘esercito adunato sotto una finestra e alla presenza della stampa. Riprese dal basso, dalla parte dell’esercito, si alternano a riprese dall’alto, come spettatori ci alterniamo nel ruolo di pubblico e di occhio del regista, seguendo una macchina da presa che talvolta sembra traballare sulla spalla di un cameramen della stampa che si fa spazio tra la folla. Sopra a ogni cosa, quando il discorso di Mishima sembra essere più per le nostre orecchie che per quelle dei presenti che lo contestano, si eleva la voce fuori campo del protagonista. È a questo punto che si eleva anche da Mishima stesso, il raccontato s’innalza su tutto e su tutti per portarci a fianco allo scrittore nella cabina di un aereo, nell’alta atmosfera, “dove non c’è ossigeno” e dove “regna la morte”, dove “per sopravvivere, l’uomo, come lo scrittore, deve mettersi una maschera”. Dove “l’angusto
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Paul Schrader. Il cinema della trascendenza
abitacolo nello spazio immenso” sono come “ il corpo e lo spirito dello stesso essere”, “non più corpo o spirito, penna o spada” (e la soggettiva di Mishima che al suono di queste parole ci dà Schrader ne incarna la realizzata unità), “maschio o femmina” e allora arriva il momento sognato e rincorso, quello in cui tutte le polarità sono risolte, in cui il cerchio si chiude, come un “anello più grande della morte che avvolge a spirale la terra”. Culmina la sua vita e culminano anche i suoi romanzi e il loro messaggio, racconti che Schrader ha lasciato in sospeso fino a questo momento, in cui il seppuku di Mishima fa da raccordo formale a quello commesso dai suoi personaggi, riuniti nel loro gesto finale. Il sole si alza su Isao, come se fosse fuoriuscito dalla bandana che cinge la fronte di Mishima, bruciante disco che esplode come la colonna sonora e che si era elevato dinnanzi a lui nella soggettiva dall’abitacolo dell’aereo, sole che il torii aveva attirato nel mondo, sole che doveva tornare a splendere sul Giappone.
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PATTY HEARST: SCENE DI UN SEQUESTRO E DI UN’EMANCIPAZIONE
“Hearst è il mio e il tuo nome. È un nome che ci ha dato molto”. Ne è profondamente convinto Randolph Apperson Hearst mentre sta seduto di fronte alla figlia Patricia Campbell nel parlatorio del carcere dove la giovane donna dovrà scontare una pena durissima. Per il ricco uomo d’affari, Hearst è sinonimo di certezza, per la ragazza non più. Per lei è stata l’infanzia e l’adolescenza privilegiata poi improvvisamente trasformatasi in un incubo, un baratro dal quale sta riemergendo, con la consapevolezza che nulla sarà più come prima. Le battute finali di Patty Hearst (Patty - La vera storia di Patty Hearst) sono illuminanti e giungono al culmine di un doppio percorso narrativo e formale, ossia il racconto della storia di Patricia e la sua messa in scena, che riserva una duplice sorpresa. Paul Schrader struttura questo lavoro come fosse un documentario fin dalla scelta iniziale di trarre il soggetto da Every Secret Thingh, il libro autobiografico scritto dalla stessa Patty Hearst assieme ad Alvin Moscow. È la voce fuori campo della protagonista ad aprire il film, mentre Natasha Richardson che la interpreta magnificamente cammina nel campus di Berkeley. Siamo in California. “Sapevo che cosa fosse giusto o sbagliato per me… Sono cresciuta in un ambiente protetto, estremamente sicura di me stessa. Sapevo, o almeno credevo di sapere, chi fossi”. A far vacillare le certezze della 19enne Patty, la terza delle cinque figlie del presidente del San Francisco Examiner, è quanto accade la sera del 4 febbraio del 1974. Una donna bussa alla porta della sua casa. Ha avuto un incidente stradale, dice, ha bisogno di aiuto. Il fidanzato di Patty la fa entrare. E con lei entrano due uomini armati, un mondo impensabile visto semmai solo in televisione fa irruzione nella vita di Patricia.
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Paul Schrader. Il cinema della trascendenza
Il commando immobilizza il ragazzo, lega Patty, la carica nel bagagliaio di un’auto e si allontana facendo perdere le tracce. La rivendicazione arriva tre giorni dopo, la firma l’Esercito di Liberazione Simbionese, una formazione terroristica di estrema sinistra sorta da poco più di un anno sotto la guida dell’afroamericano Donald DeFreeze che adotta il nome di battaglia Field Marshal Cinque in onore del capo della ribellione di schiavi avvenuta nel 1839 sulla nave spagnola Amistad. Patricia, bendata, con le mani legate dietro la schiena, viene tenuta rannicchiata sul fondo di un armadio. Perde la libertà, l’intimità, in tutto e per tutto dipende da sconosciuti armati che hanno potere di vita e di morte su di lei. La paura diventa terrore. Schrader rappresenta l’incubo sistemando la macchina da presa in basso ogni qualvolta i sequestratori si presentano dinanzi alla ragazza: lei non può vederli, ma è il suo punto di vista - quello che vede lo spettatore - con i terroristi che appaiono in controluce come sagome indistinte, estranei, uomini neri. La porta che da accesso allo spazio della prigionia viene aperta e richiusa, sbattuta come un ciak tra una scena e l’altra, tra un’invocazione a fil di voce (“Mamma… papà…”), una domanda angosciante (“Chi siete? Cosa mi state facendo?”), una considerazione riluttante (“Mi mancano le forze”), un’ammissione sconcertante (“Sono il vostro polletto addomesticato. Il ricettacolo del vostro sperma. Bella stretta. Cosa possiamo farle ora? Nessuna idea? Oh sì. Sì, io ne ho una. Facciamole, facciamole…”). Oltre il bugigattolo ci sono le stanze-rifugio che Schrader utilizza per rappresentare i terroristi, per metterli dichiaratamente in scena quasi stesse allestendo una pièce: la stanza nera forata da fasci di luce in cui il generale Cin(que) tiene il suo discorso politico; quella dove reti metalliche alle pareti pendono su lamiere ondulate come in un accampamento militare in cui sono radunati i combattenti per ascoltare una dichiarazione del padre di Patricia trasmessa dalla tv, unico punto luminoso dell’ambiente; il bagno del motel in cui si rintana strisciando sul pavimento Patricia sistemandosi in un anfratto tra il water e la vasca mentre in tv trasmettono in diretta l’attacco della polizia al covo dei simbionesi. Gli interni sono fondamentali in questo film e Schrader ne disegna un’evoluzione via via che Patricia procede nel suo percorso fino ad avere camere con finestre, stanze da cui si riesce persino a intravedere l’esterno, o quella in cui Patricia è quasi avvolta da tre
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finestroni mentre seduta su un poggetto in legno fuma, o ancora le celle del carcere attraversate da fasci di luce che immergono di verdognolo la giovane Hearst. Il luogo che emblematicamente segna però la svolta formale e visiva è la stanza del procuratore distrettuale durante il confronto con il legale di Patricia: l’inquadratura dall’alto mostra luci da lampade a muro a disegnare sagome umane, quasi convitati di pietra di una giustizia che risulterà essere assente. Lo sguardo è possibile soltanto grazie a un disvelamento registico: l’assenza del soffitto è una mancanza scenografica dichiarata per evidenziare che non si tratta di un documentario, ma della realizzazione di una messa in scena. È questa la prima sorpresa che Schrader riserva al suo pubblico. D’altronde quella lanciata e vinta dal cineasta del Michigan è una sfida delicata, come lui stesso ha avuto modo di spiegare: “Patty Hearst nessuno voleva farlo perché i primi quarantacinque minuti sono ambientati in un armadio. La ragazza ha una benda sugli occhi e sta nell’armadio per quarantacinque minuti. Leggendo lo script mi resi conto che proprio perché non vedeva niente, in realtà poteva vedere tutto, perché il mondo è soltanto ciò che lei immagina che sia. Dunque per quei primi quarantacinque minuti avevo la libertà di immaginarmi il mondo così come se lo sarebbe potuto immaginare lei. E infatti questa è la parte migliore del film. Appena esce dall’armadio e le tolgono la benda dagli occhi, il film comincia ad assomigliare a un tv movie”1. Il senso di claustrofobia, il senso di colpa (persino di una innocente), la passività, la manipolazione sono i tratti su cui viene psicologicamente costruito il film. Ossessioni che Schrader conosce profondamente e coltiva con continuità nel suo cinema, senza mai rinunciare alle ambiguità, anche quelle da rappresentare nelle sfumature più sottili. Se Patricia Hearst sia rimasta vittima della sindrome di Stoccolma o meno per Schrader resta un nodo volutamente irrisolto. Per Dalila Liguoro, psicologa, quello di Patty Hearst è un caso anomalo. “È mia opinione che questo famoso caso sia in realtà spurio: da un lato Patty Hearst ha caratteristiche che ben si sposano con la sindrome di Stoccolma (ha dimostrato la sua attrazio1
AA.VV., Un uomo sotto l’arco. Conversazione con Paul Schrader, in «Filmcritica» n. 515, 2001
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ne per “i più forti” e il suo bisogno di protezione sposando successivamente la sua guardia del corpo), ma d’altro canto è molto probabile che ella avesse trovato molto eccitante la vita degli SLA (Symbionese Liberation Army).Dopo tutto stiamo parlando di una allora adolescente ereditiera e non ci sarebbe da meravigliarsi che la vita trasgressiva degli SLA sia sembrata ai suoi occhi piena di stuzzicanti emozioni. Nel contempo è difficile pensare che vi sia stata una vera e propria sindrome di Stoccolma visto che a differenza dei casi classici, Patty non prese le difese dei suoi sequestratori, ma pensò a proteggere se stessa accusandoli, senza pensarci due volte, di averle somministrato forzatamente l’LSD e manipolata mentalmente con la coercizione”2. Ciò che invece interessa maggiormente Schrader è il percorso che è costretta a compiere Patricia, da donna sequestrata a cui è stata privata ogni libertà a persona che si percepisce ancora viva (“Non sono morta, non posso essere trattata come se fossi morta”), da individuo senza identità a elemento di un gruppo capace di restituire un nuovo nome e un’altra vita. Patricia diventa Tania, può riaprire gli occhi, togliersi la benda che le preclude la vista (“Siete tutti così attraenti”) ed essere “finalmente” una rivoluzionaria. Tra proclami, rapine e sparatorie l’immagine pubblica di Tania cancella quella di Patricia, la vittima non c’è più, ora è una carnefice. Il 18 settembre 1975 Patricia viene arrestata dall’Fbi dopo 19 mesi di ricerche, insieme alla sua compagna dell’Esercito di Liberazione Simbionese, Wendy Yoshimura. Il suo “rapimento” è durato 591 giorni. La Hearst viene condannata a 35 anni di carcere (25 per una rapina, 10 per l’uso di armi da fuoco), pena ridotta poi a 7 anni. “La mia unica colpa”, dichiarerà Natasha Richardson/Patricia Hearst, “è quella di essere sopravvissuta”. Bella e sopravvissuta, sono le colpe che le attribuisce la società perbenista statunitense che dell’immagine della giovane ereditiera, spavalda e armi in pugno, fa un emblema da bandire, osteggiare e annientare con la punizione. Per Schrader, quelle colpe segnano invece il tempo della consapevolezza, dell’emancipazione, il momento in cui Patricia si riappropria della sua vita e contemporaneamente si rende autonoma dalla famiglia (“Scusa il mio 2
Gli orrori della Sindrome di Stoccolma, in «Goleminformazione», 2 novembre 2012.
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linguaggio, papà vaffanculo!”), l’ingombrante clan dei padri e dei nonni, quello che il cineasta mostra durante i titoli di testa in una sequenza di fotografie in bianco e nero in cui riecheggia la leggendaria tenuta wellesiana di Xanadu, quella di William Randolph. Sì, proprio quel William Randolph Hearst, magnate dell’editoria alla cui vita liberamente si ispirò Orson Welles per Citizen Kane, capolavoro a cui Paul Schrader, con numerose citazioni, rende dichiaratamente omaggio.
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MENTRE TU DORMI, C’E’ QUALCUNO CHE LAVORA PER TE
Un lungo percorso fa da incipit a Light Sleeper: la camera inquadra la strada di notte mentre scorrono i titoli di testa e la canzone di Michael Been si spalma sul pavé, suggerisce uno stato onirico, un solitario cammino che esclude cose e persone alla velocità di un’auto che attraversa la città. Che si tratti di una metropoli lo capiamo dai mucchi di immondizia che costeggiano la strada quando la camera si alza infine a inquadrare il totale. Ma quel lungo inizio rappresenta l’oscuro percorso del protagonista, il viaggio della mente che forse torna dal passato più che raggiungere il suo futuro. O è semplicemente il simbolo del “trip” che coinvolge i protagonisti. È infatti immediata sia la veloce transazione della roba con l’acquirente nel negozio aperto 24 ore che la dimensione della confessione, espressa dalla voce fuori campo dello spacciatore che, fatto decisamente anomalo e spiazzante, tiene un diario. Johnny Le Tour percorre la metropoli in una lussuosa auto distribuendo la droga a una scelta clientela, mentre Robert prepara le dosi. I due lavorano per conto di Ann, (Susan Sarandon, ancora carica dell’energia di Thelma e Louise che ha appena interpretato) che da buona imprenditrice sta già cercando di spostare il suo business nel settore della cosmesi. Le Tour soffre d’insonnia (da cui il titolo “Uno che ha il sonno leggero”) e nelle parole del diario che scrive cerca una ragione di vita. Incontra per caso Marianne (Dana Delany che sarà poi Louise Lane nella serie tb Batman), la ragazza con cui aveva avuto una relazione importante, ormai uscita dal giro della droga, dice lei. Ma dopo essersi riavvicinati lei fugge e lui scopre che non è vero. Quando viene trovata morta, Le Tour sospetta che a procurarle la dose sia stato uno degli importanti clienti di Ann e decide di fare giustizia da solo. Ma il poliziotto che lo segue a vista lo incastra e il film si chiude con una emblematica (di risolutiva redenzione?) scena di Ann che lo va a trovare in prigione.
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Il titolo scelto dai distributori italiani, Lo spacciatore, indica senza mezzi termini allo spettatore la professione del protagonista che nel titolo originale è una complessa allusione. Sintetizza anche, con il genio immediato che caratterizza i nostri titolisti, il fatto che siamo nel terzo capitolo della trilogia di Paul Schrader. Gli altri due titoli dei film sono rimasti sorprendentemente identici, forse per la loro immediata chiarezza: dopo Taxi Driver il primo e American Gigolò il secondo, il terzo lavoratore notturno doveva essere anche lui indicato precisamente e non con la vaghissima indicazione di un insonne tormentato. Anche se “Nessuno sarebbe mai andato a vedere un film intitolato Drug Dealer” sosteneva Schrader. E non si tratta solo di analogie legate al lavoro fra i tre film. Gli altri elementi che ricorrono nell’intreccio dei tre film sono una donna spinta all’autodistruzione da salvare e un finale violento. Il protagonista Le Tour, Willem Dafoe, attore dal volto espressivo che suggerisce lati oscuri, una tecnica messa a punto in gioventù anche nel teatro sperimentale, The Wooster Group di cui è uno dei fondatori, è stato già grande in Platoon, Last Temptation of Christ (e il nome di Schader ritorna, sceneggiatore del film di Scorsese). Diventato quindi, non solo grazie ai suoi lineamenti scolpiti, miracoloso Pasolini di Abel Ferrara, ma già personaggio segnato, predicatore e profeta. Qui porta il nome, più simile a uno pseudonimo, di John Le Tour (“si fa chiamare Le Tour” dirà un poliziotto): dopo Robert De Niro il ribelle furioso e l’introverso Richard Gere, lavoratori notturni e marginali, fuori dalle regole e in pericoloso e inevitabile contatto con il crimine, incarna una spettacolare maschera di consapevolezza e un inedito distacco dalla sua professione. Aderiscono i primi due per necessità e trasporto al lavoro notturno, chi per conclamata insonnia, chi per splendore fisico richiesto dal mercato. Senza la loro naivité, Le Tour suo malgrado si direbbe, lucido e distante dal consumo (ne è uscito da quattro anni), è osservatore non distaccato del mondo che frequenta da una parte pronto alla transazione, dall’altra a intervenire se qualcuno esagera nel consumo. Anche lo stile del racconto raggiunge un certo tono di distacco: pura azione e violenza compie il driver, puro erotismo combinato su richiesta il gigolo, mentre per il dealer si tratta del “racconto” dello spacciatore, della sua meditazione quasi da predicatore. Del resto il padre del regista,
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acceso calvinista, avrebbe voluto che ministro di culto diventasse Paul, così come sarebbe voluto diventare lui stesso se non fosse arrivata la Grande depressione. Nel fare poi frequentare ai figli Paul e Less il Calvin College, riuscì a intessere con loro un rapporto più che conflittuale, tanto che Less rifiutò perfino di andare al suo funerale, mentre Paul placò il suo rancore cresciuto negli anni solo grazie alle cinque sedute a settimana dallo psicanalista pagate con i guadagni di Yakuza. “Mi sono salvato la vita con quei cinque giorni a settimana” racconta. Di quella nevrosi restano tracce visive anche nel film, come la claustrofobia messa in scena nel chiuso di un ascensore ormai preso senza troppi patemi. A ricordarlo basta l’allusione dello sguardo che fissa il piano numero venti. Ma soprattutto si tratta di aver interiorizzato il cinema come qualcosa di peccaminoso (“mio padre non andava al cinema” e aveva vietato ai figli di andarci fino ai diciotto anni) dopo di che sia lui che il fratello Less scelsero il cinema come professione. Quella trasgressione per guadagnarsi la vita quindi, diventa il soggetto portante dei suoi primi film, in questo caso lo spacciatore di immagini. È un saggio procuratore di chimica che interviene perfino quando si rischia di andare fuori di testa, rassegnato a vendere dosi per conto terzi, proprio come un mediatore bancario venderebbe titoli spazzatura. Le Tour tiene un diario e quando si comincia a scrivere un diario non sempre si può smettere. La scrittura in Light Sleeper viene prima dell’azione e del crimine, concentrata nel volto di Willem Dafoe come se stesse raccontando a se stesso le straordinarie coincidenze della vita che è più divertente scrivere che vivere. E poi durano più a lungo, nel disteso ritmo del film, perfino quando si tratta delle scene più concitate. Prima di vedere il film di Schrader, un altro Dealer (2005), quello del giovane regista ungherese Benedek Fliegauf era entrato nel nostro immaginario. Anche qui lo spacciatore mantiene un distacco professionale con i suoi clienti, attraversando Budapest in bicicletta, componendo un panorama spietato della società con estremo distacco onirico e un finale quasi fantascientifico, accompagnato da una musica che anche in questo film gioca un ruolo vibrante (i Raptor’s Kollektiva, citato perché si tratta di un duo formato dallo stesso regista con Zoltan Tamasi). Così come è da sottolineare ancora la canzone di apertura di Light Sleeper cantata Michael Been,
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leader di una rock band degli anni ’70: Word on fire versione rock dell’album The Heaven and Back dei Call (utilizzato nella sua campagna elettorale da Al Gore). Colpisce il ruolo al tempo stesso distaccato e partecipe come da testimone di un’epoca, la Budapest del dealer con qualche personaggio da proteggere, la Manhattan di John Le Tour folgorato dall’incontro con la sua ex. Lei, Marianne, lo vede come un inferno in cui potrebbe precipitare. Più della trama lo spettatore segue il soliloquio del protagonista e le ambientazioni in cui si muove, eccentriche rispetto ai film di genere. È il terzo capitolo dell’oscura poesia della metropoli con ansia di redenzione. Le parole svolgono il ruolo di contrario esatto di azione: pile di libri si elevano in ogni ambientazione, lo stesso Le Tour che scrive un diario e la voce fuori campo scandisce i suoi pensieri, le parole sono il fulcro delle sue sedute psicanalitiche, alla veggente chiede sentenze definitive (“vedo un’aura di morte sulla tua testa”) e così anche tutti i personaggi sentono il bisogno di elaborare concetti. “Una storia alla scoperta dello spirito” è stata l’inconsueta frase di lancio del film prodotto da Carolco, la stessa casa di The Doors, Teminator, Rambo III, Showgirl, Basic Instinct. Dopo di che Schrader divenne autore “indipendente”. Il film produce un’alternanza di azione e inquadrature fisse impostate come quadri, non solo gli affreschi al ristorante o le testiere dei letti, ma anche i drappi in uso nei dipinti con figura e le ambientazioni. E quel nome di Le Tour evoca forse un Maurice Quentin de La Tour, il ritrattista francese di celebri personaggi del ’700 come Madame de Pompadour ma forse più precisamente la Madame Révcamier di François Gerard che Susan Sarandon evoca sulla sua chaise longue con panneggio arancio alle spalle. Oltre alla sottile triangolazione composta da Le Tour, dama e cavalier servente con ruolo defilato, Light Sleeper evoca anche il salotto galante con i suoi intrighi sia dal punto di vista visivo che di scrittura: è evidente che sui rapporti intrattenuti dai tre personaggi, la padrona e i due sottoposti, in quel salotto è costruita una liaison indistruttibile. “È stato Ferdinando Scarfiotti, diceva Schrader, il direttore della fotografia di American Gigolo, a farmi pensare a un film in termini visivi e non letterari. Con American Gigolo ho cominciato a pen-
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sare a un film come a un quadro”. E si può ben dire che lo ha preso sul serio. Nella classifica che stila degli undici migliori film del 1990 lo stesso Paul Schrader mette il suo Light Sleeper al 10 posto (ma saranno in ordine di preferenza?) 1) Flower of Shanghai di Hou Hsiao Hsien, 2) Madre e figlio di Sokourov, 3) Good Fellas di Scorsese...
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UNA LUMINOSA FREDDEZZA: THE CANYONS
Christian (James Deen) è un giovane produttore cinematografico che vive nel lusso grazie al denaro del padre, che in cambio gli impone di sottoporsi regolarmente a delle sedute di psicoanalisi. Abita in una splendida villa sulle colline di Los Angeles con la seducente Tara (Linsay Lohan), aspirante attrice e modella dal fascino consumato che non nasconde di essere attaccata tanto a Christian quanto al suo cospicuo conto bancario. La ragazza asseconda di buon grado le pretese del suo compagno, che ama filmare i loro incontri amorosi nei quali regolarmente coinvolge degli sconosciuti adescati su internet. L’equilibrio della coppia inizia a vacillare con l’arrivo di Ryan (Nolan Gerard Funk), che in passato aveva avuto una relazione con Tara e ora è il fidanzato di Gina (Amanda Brooks), l’affidabile e diligente assistente di Christian. Ryan, aspirante attore, viene ingaggiato per recitare in un film prodotto proprio da Christian, e quindi inaspettatamente ritrova Tara; entrambi capiscono presto che la loro passione è ancora viva. Quando Christian comincia ad avere dei sospetti, inizia a perdere il controllo e non riesce più a tenere a bada le sue manie di potere, trascinando tutti mano a mano in un vortice di violenza e follia. Paul Schrader – con alle spalle la regia di quasi venti film – torna su tematiche più volte indagate in passato (eros, violenza, pornografia) e costruisce un thriller dalle atmosfere tese e sature di inquietudine in cui muove i suoi personaggi come pedine di una terrificante partita a scacchi in un’escalation di angoscia e paranoia, brutalità e ferocia. Alla sua visione nichilista nella quale la sessualità è spesso associata a una dimensione negativa – e dove si mescolano cinismo, morbosità, ossessione e psicosi – si sovrappone quella affine e forse ancora più cupa del noto scrittore americano Brett Easton Ellis, conosciuto soprattutto per il sanguinario romanzo American Psycho, da cui è stato tratto il film omonimo di
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Paul Schrader. Il cinema della trascendenza
Mary Harron. Ciò che ne viene fuori è una radiografia lucida, nitida e spietata di una certa dimensione del nostro presente, messa in scena con uno sguardo raffreddato e glaciale a partire da due elementi che si intrecciano e si congiungono: da una parte l’eros in sé, visto come luogo in cui si riversano e si palesano tutta la vacuità e le aberrazioni morali degli individui; dall’altra l’immagine di questo eros, in un percorso che sovrappone la pornografia al cinema tout-court, e fa della decadenza del cinema stesso (di cui le immagini che aprono il film sono una chiara metafora) specchio della deriva della società contemporanea in senso lato, che è a conti fatti, anzitutto, una società dell’immagine. Il prologo di The Canyons mostra, nello specifico, delle fascinose inquadrature di edifici abbandonati e fatiscenti, sale cinematografiche in disuso che evocano un senso di desolazione e abbandono; si tratta di immagini quasi giustapposte al film, che non hanno alcuna valenza narrativa ma sono cariche di significati simbolici e sature di un amaro lirismo. Alla morte del cinema come luogo si sovrappone dunque la morte del cinema come pellicola e la sua rinascita nella forma più duttile e liquida del digitale; e digitale, come il web, è anche la tecnologia che permette a Christian di nutrire e amplificare le sue ossessioni erotiche, confondendo il sesso con la sua immagine, cioè l’oggetto con l’immagine dell’oggetto, in un cortocircuito percettivo e mentale che riguarda da vicino, su molti fronti, il sentire contemporaneo. L’immagine digitale diventa dunque il punto di partenza per un discorso che riguarda l’ipertrofia visiva, l’ossessione del controllo (che tormenta soprattutto il personaggio di Christian) e il voyerismo. “Nessuno ha più una vita privata”, dirà Christian a Tara che, diversamente da lui, non ama rendere noti i particolari della propria vita sessuale. Tutto dunque può essere spettacolarizzato, e Hollywood (e quindi di nuovo, per traslato, il cinema) si fa esempio, tutto negativo, di quanto il mondo dello spettacolo possa essere effimero e dominato dal materialismo più gretto, popolato da inguaribili narcisisti oppressi dal proprio ego (Christian), o da individui pronti a vedersi per un po’ di ricchezza (Tara) e successo (Ryan). I personaggi portatori di valori diversi (Gina e Cynthia, l’amante di Christian) finiranno non a caso per essere in qualche modo emarginati o schiacciati sul piano personale o su quello professionale.
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D’altro canto, quello di Schrader sui suoi protagonisti non è un giudizio rigido che viene dato a priori, ma una constatazione inevitabile messa in atto a posteriori. Christian è sì un pericoloso psicopatico paranoico, prepotente e violento, ma è, prima ancora, un uomo tenuto in scacco, reso insicuro e umiliato dalla figura paterna; il peccato originale di Tara sta poi nel barattare la propria integrità morale per un po’ di lusso in un mondo che tuttavia non sembra aspettarsi altro da lei, mentre Ryan, seppure animato da buone intenzioni e ancora capace di amare in maniera appassionata, finirà per accettare dei compromessi degradanti per far decollare la sua carriera di attore. Nessuno insomma riesce a conservare la propria innocenza, e viene da chiedersi fino a che punto su questo pesino le regole troppo ingiuste di un universo già di per sé deviato o quanto invece i fautori di queste regole siano in fondo gli stessi individui che in ultimo le subiscono. Il regista riesce insomma, attraverso la descrizione stilizzata ma insieme credibile di questi personaggi, a mettere in scena un perfetto microcosmo traboccante di angosce e sospetti che si fa allegoria di un mondo malato, in cui tutti vicendevolmente si spiano ma nessuno si desidera, in cui la morte della spontaneità nell’atto sessuale è appunto metafora della morte del desiderio, e gli unici sentimenti autentici sono troppo spesso rovinosi e distruttivi (come l’amore tra Ryan e Tara, sincero ma in ultimo causa diretta del catastrofico effetto domino che si viene a creare). Anche dal punto di vista figurativo e scenografico Schrader costruisce un mondo freddo e inerte (dominano il minimalismo, le superfici riflettenti e trasparenti), specchio fedele dell’interiorità raggelata dei personaggi. Del resto, l’ossessione della visione e del controllo passa proprio attraverso l’estetica che domina la quotidianità dei protagonisti (l’architettura della stessa villa di Christian appunto, con le grandi vetrate e l’open space che funge da camera da letto), oltre che – come già detto – attraverso l’uso e l’abuso di tutta una serie di comuni dispositivi tecnologici. Se dunque i personaggi di Schrader sono già esempi perfetti di quel cortocircuito del sentire che sovrappone l’eros all’immagine dell’eros, ecco allora che la ragione ultima dell’atto sessuale non è l’atto in sé ma la possibilità di filmare questo atto (come fa appunto Christian, personaggio interpretato peraltro da un noto attore di film pornografici) per renderlo immagine, o la volontà di somigliare a quell’immagine
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dell’eros che la società ha insinuato nel nostro immaginario collettivo, radicandola nella nostra mente attraverso un assillo mediatico fatto di messaggi soprattutto visivi non sempre così subliminali. Di conseguenza, ogni cosa qui è falsa, programmata, spettacolarizzata: siamo in un mondo di plastica, o meglio in un mondo di pixel, dove la carne (il desiderio vero, tormentoso) quasi non esiste più. E se è proprio la fisicità della Lohan a catalizzare, dalla prima all’ultima scena, l’attenzione dello spettatore, è proprio perché essa rappresenta l’unico residuo di carnalità in una dimensione glaciale e incorporea, in quanto fisicità imperfetta, quasi usurata, già segnata dal logorio che il tempo impone alla materia in una dimensione in cui tutto il resto (volti, corpi, oggetti, luoghi) sembra invece levigato e trasparente e perciò inautentico. Quello descritto in The Canyons è in sintesi un mondo tanto asettico e brillante in superficie quanto marcescente e putrido all’interno. Non è difficile, come già suggerito, rintracciare all’interno del film un discorso iniziato molto tempo prima e che ritorna più volte nella filmografia del regista, quello cioè che unisce e associa nella stessa attenta disamina tanto la società (anzitutto quella dello spettacolo) quanto l’eros visto nei suoi risvolti più conturbanti e morbosi, a tratti quasi patologici. Imprescindibile quindi il riferimento ad Autofocus (2002), in cui già l’ossessione scopica inquinava la sessualità perversa dei protagonisti. Ambientato negli anni Sessanta, il film racconta la deriva e la caduta del noto attore televisivo Bob Crane che – complice l’amico John Carpenter, esperto di tecnologia video – diventa un vero e proprio sessuomane, schiavo di pulsioni che non riesce più a gestire. Anzitutto, ogni performance erotica è qui puntualmente filmata per essere poi rivista e quindi resa immagine e in questo modo duplicata. Se dunque le radici di The Canyons sono in parte proprio in Autofocus, notiamo come il passaggio dall’analogico al digitale (che amplifica, ingigantisce ed esaspera quell’ipertrofia che è insieme erotica e visiva, e quindi diviene in ultimo pornografica) si fa emblema di tutta una serie di mutamenti che sono insieme comunicativi, estetici, etici e infine sociali. Se il mondo dello spettacolo dell’epoca analogica può respingere e disdegnare Bob Crane proprio in quanto “deviato”, la Hollywood tutta digitalizzata di The Canyons non solo non rifiuta Christian e Tara, ma con loro – nell’ottica di Schrader – in parte si incarna e si identifica. Portando all’estremo questo assunto, po-
A. Pagliara - Una luminosa freddezza: The Canyons
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tremmo dire che la “devianza” che in Autofocus era tale in quanto fuori dalle regole, qui è la regola. Ovvio che il giudizio del regista va considerato su un piano metaforico e concettuale prima che concreto, e che può riguardare a limite una parte del cinema e non la sua interezza; tuttavia, la pregnanza e la coerenza del suo discorso sono inconfutabili. Se tracciamo una parabola che va da Autofocus a The Canyons (tralasciando qui altri titoli di Schrader che toccano i medesimi temi ma che verranno approfonditi più avanti) notiamo che si tratta di un percorso completamente in discesa. In The Canyons non c’è più alcun orizzonte di salvezza; il film non descrive tanto un mondo in decadenza, quanto un mondo già “caduto”, perduto, come mostrano le immagini di apertura, una sorta di epitaffio lugubre quanto malinconico posto, paradossalmente, proprio al principio della vicenda, come un monito funereo o un avvertimento inquietante. Schrader si muove insomma dentro e fuori lo schermo mettendo in piedi una sorta di gioco di specchi (pensiamo alla carriera di attore pornografico di Deen quanto al fatto che la Lohan è nota a Hollywood soprattutto per i suoi eccessi e i suoi problemi con la giustizia) all’interno di una complessa riflessione metacinematografica. Del thriller/noir mantiene la struttura e le atmosfere – complice una colonna sonora densa e insieme fredda, di forte impatto – ma in ultimo si serve degli schemi del genere anzitutto per trascenderli, sfruttandone i meccanismi ben oleati per portare la sua analisi su un piano che diventa anche sociologico ed etico. Forse uno dei migliori film del regista americano, sebbene non particolarmente apprezzato dalla critica, The Canyons rappresenta la summa di certe costanti tematiche di Schrader, e risulta peraltro più curato nella forma e più equilibrato nell’insieme rispetto a molti suoi precedenti film. L’assunto amaro di fondo prende forma attraverso una visione delle cose lucidamente disillusa, tristemente nitida; il risultato è un film che brilla di una luce fredda, anzi si potrebbe dire, con un ossimoro, di una luce nera, morta, simbolo di quella dimensione (morale ed emotiva, psicologica e sociale) così distintamente e precisamente fotografata dal regista in tutta la sua portata nichilistica.
BIOGRAFIA
Paul Schrader nasce a Grand Rapids, nel Michigan, il 22 luglio 1946, in una famiglia di stretta osservanza calvinista. Viene, quindi, educato in maniera molto rigida nel seminario della Chiesa Cristiana Riformata, una setta religiosa che vieta un genere di spettacolo come il cinema. Vede il suo primo film solo dopo essere andato via di casa all’età di 18 anni dopo gli studi al Calvin College della sua città. Gli capita di vedere al cinema Le folli notti del dottor Jerryll (1963) di Jerry Lewis e lo trova detestabile. Ciononostante il giovane Paul si appassiona al cinema. In quegli anni assiste ad un numero spropositato di proiezioni e segue dei corsi estivi di cinema alla Columbia University di New York. Nel 1968 si iscrive alla Film School dell’Università della California di Los Angeles (UCLA) e si appassiona al lavoro dei registi inclini alla speculazione filosofica e teologica, in particolare Robert Bresson, Yasujiro Ozu e Carl Theodor Dreyer, autori che lo hanno molto influenzato, cui dedicherà la sua tesi di laurea, poi pubblicata con il titolo di Il trascendente nel cinema: Ozu, Bresson, Dreyer nel 1972. Il suo approccio alla settima arte è molto più intellettuale che emozionale. Ad apprezzare il suo acume interpretativo è la celebre critica cinematografica Pauline Kael, che lo aiuta a pubblicare le sue recensioni su diversi periodici, come il quotidiano “Los Angeles Free Press” e la rivista “Cinema” di Beverly Hills. , di cui diventa direttore e collabora anche con altre riviste come “Film Quarterly” e “Film Comment”. Nel frattempo si specializza all’ American Film Institute e inizia a scrivere sceneggiature. La prima, realizzata in collaborazione con il fratello Leonard, è quella di Yakuza (1975), un film ambientato nel mondo della malavita giapponese. Anche se il film fa fiasco al botteghino, il suo nome comincia a circolare tra i giovani registi della New Hollywood. In quel periodo cominciavano ad affermarsi cineasti come Brian De Palma, Robert Altman, Steven Spielberg, George Lucas, Francis
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Ford Coppola e quel Martin Scorsese con cui lo Schrader sceneggiatore troverà la consacrazione scrivendo quattro film. L’anno successivo 1976 è di nuovo al lavoro per realizzare la sceneggiatura di Obsession (Complesso di colpa) per Brian De Palma e nonostante un periodo di depressione dovuto alla solitudine e all’alcolismo, riesce a firmare la sceneggiatura di Taxi Driver (1976) diretto da Scorsese per il quale scriverà anche Toro scatenato (1980), L’ultima tentazione di Cristo (1988) e Al di là della vita (1999). Altro grande successo di cui scrive la prima stesura, non accreditata, è Incontri ravvicinati del terzo tipo diretto da Spielberg nel 1977. Nel 1977 debutta alla regia con Blue Collar di cui firma anche il soggetto e la sceneggiatura in collaborazione con il fratello Leonard. Nel 1978 dirige Hardcore e cura la sceneggiatura di Old Boyfriends di Joan Tewkesbury. Nel 1980 dirige il suo film più conosciuto American Gigolo, che riscuote un grande successo al botteghino ed impone Richard Gere come nuovo sex-symbol del cinema americano. In questo thriller sofisticato i temi del senso di colpa e del peccato, sempre presenti nei precedenti lavori di Schrader, diventano il nucleo della storia. Poi dirige Il bacio della pantera (1982), un remake del film di Jacques Tourneur del 1942. Nel 1983 sposa l’attrice Mary Beth Hurt da cui avrà il figlio Sam. Due anni dopo gira il suo film più personale Mishima una vita di quattro capitoli (1985) intenso ritratto dello scrittore giapponese che vince a Cannes un meritatissimo premio per il miglior contributo artistico. Nel 1991 realizza Lo spacciatore, forse uno dei suoi film migliori, con un Williem Defoe pienamente calato nella parte del malvivente invecchiato ed impaurito. Torna poi nel 1997 con Affliction acclamato dalla critica cinematografica seguito poi dal discreto successo ottenuto con Auto Focus (2002). Nel 2004 è chiamato a dirigere il prequel de L’esorcista di William Friedkin (intitolato Dominion: Prequel to the Exorcist) ma, a riprese terminate, i dirigenti della casa di produzione rifiutano il film, ritenendolo poco commerciale. Il film viene affidato a Renny Harlin, che lo rigira interamente, mentre la versione di Schrader viene proiettata solo in alcuni festival prima di essere ditribuita in DVD. Nel 2007 è presidente di giuria al Festival di Berlino ed esce nelle sale con il film The Walker, seguito l’anno successivo da Adam Resurrected (2008) tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore Yoram Kaniuk. Poi arrivano The Canyons (2013), Dying of the light (Il nemico invisibile) (2014) e Dog Eat Dog (2016).
FILMOGRAFIA
Regie 1977 BLUE COLLAR (TUTA BLU) Regia: Paul Schrader; soggetto: basato su un testo di Sydney A. Glass; sceneggiatura: Paul Schrader, Leonard Schrader; fotografia (colore): Bobby Byrne; montaggio: Tom Rolf; musica: Jack Nitzsche, Ry Cooder; scenografia: Lawrence G. Paull; interpreti: Richard Pryor (Zeke Brown), Harvey Keitel (Jerry Bartowski), Yaphet Kotto (Smokey), Ed Begley Jr (Bobby Joe), Harry Bellaver (Eddie Johnson), George Memmoli (Jenkins), Lucy Saroyan (Arlene Bartowski), Lane Smith (Clarence Hill), Cliff De Young (John Burrows), Borah Silver (Dogshit Miller), Chip Fields (Caroline Brown), Harry Northup (Hank); produzione: TAT Communications per Universal (Robin French, Don Guest, David Nicols) — U.S.A.; durata: 114’. Tre amici (i neri Zeke e Smokey e il bianco Jerry), operai in una fabbrica di automobili a Detroit, rubano 600 dollari dalla cassa del sindacato operaio. Restano sbigottiti quando il presidente del sindacato annuncia che la somma rubata è superiore a 10.000 dollari. I tre hanno inoltre rubato un’agenda contenente le prove della provenienza sospetta dei soldi. Jerry sostiene di rendere pubblica la corruzione, ma Smokey propone il ricatto. I loro piani vengono però scoperti. Smokey è “accidentalmente” ucciso; l’ambizioso Zeke è messo a tacere con un lavoro come rappresentante sindacale. Sempre più spaventato, Jerry chiede aiuto all’agente dell’FBI, Burrows. Quando Jerry, insieme con l’agente, arriva in fabbrica per prendere i suoi attrezzi, è respinto dagli altri operai e aggredito da Zeke.
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1978 HARDCORE (HARDCORE) Regia: Paul Schrader; sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia (colore): Michael Chapman; montaggio: Tom Rolf; musica: Jack Nitzsche; scenografia: Ed O’Donovan; interpreti: George C. Scott (Jake VanDorn), Peter Boy-le (Andy Mast), Season Hubley (Niki), Dick Sargent (Wes De Jong), Leonard Gaines (Ramada), David Nichols (Kurt), Gary Rand Graham (Tod), Larry Block (detective Burrows), Marc Alaimo (Ratan), Leslie Ackerman (Felice), Charlotte McGinnis (Beatrice), Ilah Davis (Kristen VanDorn), Paul Marin (Joe VanDorn); produzione: A-Team per Columbia (John Milius, Buzz Feitshans) - U.S.A.; distribuzione italiana: Ceiad-Columbia; durata: 108’. Jake Van Dorn è un imprenditore benestante, proprietario di una fabbrica di mobili di Grand Rapids (Michigan). Vive da solo con la figlia adolescente Kristen che, partita per un convegno religioso in California, scompare misteriosamente. Van Dorn chiama un investigatore privato di Los Angeles per ritrovarla e dopo poco tempo scopre un film pornografico in 8 mm di cui Kristen è protagonista. Per far luce sulla vicenda, Jake decide di esplorare il mondo squallido e pericoloso dell’industria hardcore americana partendo per la California: spacciandosi per un produttore di film porno e tenendo delle audizioni, riesce a rintracciare l’attore protagonista con Kristen della pellicola e da lui arriva alla prostituta Niki che decide di aiutarlo nelle ricerche. La pista delle indagini li porta prima a San Diego poi a San Francisco dove finalmente Jake ritrova la figlia in compagnia di un attore sadomasochista di film snuff. 1980 AMERICAN GIGOLO (AMERICAN GIGOLO) Regia: Paul Schrader; sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia (colore): John Bailey; montaggio: Richard Halsey; musica: Giorgio Moroder; scenografia: Ed Richardson; consulente visivo: Ferdinando Scarfiotti; interpreti: Richard Gere (Julian Kay), Lauren Hutton (Michelle Stratton), Hector Elizondo (detective Sunday), Nina van Pallandt (Anne), Bill Duke (Leon Jaimes), Brian Davies (Charles Stratton), K. Callan (Lisa Williams), Tom Stewart (Mr Ryman), Patti Carr (Judy Ryman), David Cryer (tenente Curtis), Carole Cook (Mrs Dobrun), Carol Bruce (Mrs Lucille Sloan); produzione:
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Pierre Associates per Paramount (Freddie Fields, Jerry Bruckheimer) - U.S.A.; distribuzione italiana: CIC; durata: 117’. Julian Kay è il più noto gigolo di Los Angeles, un uomo dai gusti raffinati che ha trasformato in business la sua conoscenza delle lingue straniere e la capacità di soddisfare sessualmente ogni donna. Le sue abilità con le signore più mature gli permettono di lavorare in autonomia, prendendo incarichi sia da Anne, una piacente donna svedese di mezza età, che da Leon, un pappone nel giro dei gay club notturni. Quest’ultimo gli fornisce una sera un lavoro con la moglie di un finanziere di Palm Beach che gli chiede di poter assistere al rapporto, durante il quale vuole che Julian pratichi violenza sulla donna. Quando, pochi giorni dopo, la stessa donna viene trovata assassinata, i primi sospetti cominciano a muoversi proprio attorno a Julian. 1982 CAT PEOPLE (IL BACIO DELLA PANTERA) Regia: Paul Schrader; soggetto: tratto dalla sceneggiatura di DeWitt Bodeen per il film Cat People (1943); sceneggiatura: Alan Ormsby; fotografia (colore): John Bailey (New Orleans), Paul Vom Brack; montaggio: Bud Smith, Jacqueline Cambas, Ned Humphreys, Jere Huggins; musica: Giorgio Moroder; consulente visivo: Ferdinando Scarfiotti; interpreti: Nastassja Kinski (Irena Gallier), Malcom McDowell (Paul Gallier), John Heard (Oliver Yates), Annette O’Toole (Alice Perrin), Ruby Dee (Female), Ed Begley Jr (Joe Creigh), Scott Paulin (Bill Searle), Frankie Faison (detective Brandt), Ron Diamond (detective Ron Diamond), Lynn Lowry (Ruthie), John Larroquette (Bronte Judson), Tessa Richarde (Billie), Patricia Perkins (tassista), Berry Berenson (Sandra), Fausto Barajas (Otis); produzione: RKO/Universal (Jerry Bruckheimer, Charles Fries) — U.S.A.; distribuzione italiana: CIC; durata: 118’. Irena Gallier va ad abitare a New Orleans, presso il fratello maggiore Paul, ministro di culto, dal quale è stata separata in tenera età dopo la morte dei genitori. Il suo arrivo coincide con la cattura da parte dello zoologo Oliver Yates di una pantera - inspiegabilmente libera per la città - che ha massacrato una prostituta in un motel. L’insolito fatto di sangue, insieme all’enigmatico comportamento del fratello, spesso assente da casa nelle ore notturne, turbano
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profondamente la sensibile Irina. Straniera in una città che non conosce e priva di amicizie, la ragazza stringe una relazione con Oliver, incontrato casualmente allo zoo, senza immaginare che questo rapporto segnerà tragicamente il suo destino. Come Paul infatti finalmente le rivela, entrambi i fratelli discendono da una antica stirpe di mutanti - ibridi tra uomini e felini - condannati a trasformarsi in belve feroci nel momento in cui si abbandonano al rapporto sessuale. 1985 MISHIMA: A LIFE IN FOUR CHAPTERS (MISHIMA) Regia: Paul Schrader; sceneggiatura: Paul Schrader, Leonard Schrader, Chieko Schrader. Episodi basati sui romanzi, Il padiglione d’oro, La casa di Kyoko, Cavalli in fuga di Yukio Mishima; fotografia (b/n-colore): John Bailey; montaggio: Michael Chandler, Tomoyo Oshima; musica: Philip Glass; scenografia: Eiko Ishioka; voce narrante: Roy Scheider; interpreti: Ken Ogata (Yukio Mishima), Masayuki Shionoya (Morita), Junkichi Orimoto (generale Mashita), Naoko Otani (madre), Go Rijo (Mishima, 18-19 anni), Masato Aizawa (Mishima, 9-14 anni), Yuki Nagahara (Mishima, 5 anni), Yasosuke Bando (Mizoguchi), Hisako Manda (Mariko), Kenji Sawada (Osamu); produzione: Zoetrope/Lucasfilm/Filmlink International - U.S.A.; distribuzione italiana: PIC-Warner Bros; durata: 120’. Il film sintetizza i quattro momenti fondamentali della esistenza di Yukio Mishima: Bellezza - Ispirato al romanzo Il padiglione d’oro. Il protagonista assoluto è il tempio dorato che affascina ed inibisce ad un tempo il suo novizio al punto di renderlo incapace dell’atto d’amore e di parlare correntemente. Arte - Da una delle storie che compongono il romanzo La casa di Kyōko. Osamu, il giovane attore narcisista, ossessionato dal proprio corpo che detesta, mentre giace a letto con una donna disserta sulla bellezza corporea ideale. Azione - Dal romanzo Cavalli in fuga. Isao, un giovane cadetto, è pronto per il più sublime atto di catarsi: il suicidio della tradizione samuraica (seppuku).
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Armonia tra Penna e Spada - È il suicidio di Mishima, il culmine dei suoi romanzi rappresentati nelle prime tre parti. È l’estremo paradossale tentativo di unire Arte e Vita. È il 25 novembre 1970. 1987 LIGHT OF DAY (LA LUCE DEL GIORNO) Regia: Paul Schrader; sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia (colore): John Bailey; montaggio: Jacqueline Cambas, Jill Savitt; musica: Thomas Newman, Bruce Springsteen e altri; scenografia: Jeannine Caudia Oppewall; interpreti: Michael J. Fox (Joe Rasnick), Gena Rowlands (Jeanette Rasnick), Joan Jett (Patti Rasnick), Michael McKean (Bu Montgomery), Thomas G. Waites (Smittie), Cherry Joens (Cindy Montgomery), Michael Dolan (Gene Bodine), Paul J. Harkins (Billy Tettore), Billy Sullivan (Benji Rasnick), Jason Miller (Benjamin Rasnick); produzione: Taft Entertainment Pictures/Keith Barish Productions. In associazione con HBO (Doug Claybourne, Rob Cohen, Keith Barish, Alan Mark Poul) - U.S.A.; distribuzione italiana: Artisti Associati; durata: 107’. Cleveland, Ohio. Joe Rasnick e sua sorella Patti suonano in una band rock chiamata The Barbusters. Joe lavora in una fabbrica del posto, Patti ha un figlio illegittimo di quattro anni ed è ai ferri corti con la madre, una donna molto religiosa. Una sera Patti ruba delle attrezzature elettriche. Il giorno seguente, in fabbrica, Joe è avvicinato dal cognato della vittima che rivuole i soldi ed costretto a chiedere i soldi in prestito alla madre. Dopo esser stato licenziato, Joe porta il gruppo in tournée nel Midwest. Il tour però finisce quando Joe scopre che Patti ha rubato in un negozio servendosi del figlio. I Barbusters si sciolgono e Patti si unisce ad un gruppo heavy-metal. Intanto la madre dei due fratelli si ammala di cancro. Patti ritorna e si rappacifica con lei. Ai funerali la ragazza non si fa vedere. Si incontra però col fratello e insieme decidono di rimettere insieme i Barbusters. 1988 PATTY HEARST (PATTY-LA VERA STORIA DI PATRICIA HEARST) Regia: Paul Schrader; soggetto: dal libro Every Secret Thing di Patricia Campbell Hearst e Alvin Moscow; sceneggiatura: Nicholas Kazan; fotografia (colore): Bojan Bazelli; montaggio: Michael R. Miller; musica: Scott Johnson; scenografia: Jane Musky;
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interpreti: Natasha Richardson (Patty Campbell Hearst), William Forsythe (Teko), Ving Rhames (Cinque), Frances Fisher (Yolanda), Jodi Long (Wendy Yoshimura), Olivia Barash (Fahizah), Dana Delany (Gelina), Marek Johnson (Zoya), Kitty Swink (Gabi), Peter Kowanko (Cujo), Tom O’Rourke (Jim Browning), Scott Kraft (Steven Weed), Jeff Imada (vicino), Ermal Wlliamson (Randolph A. Hearst), Elaine Revard (Catherine Hearst); produzione: Atlantic Entertainment/Zenith (Thomas Coleman, Michael Rosenblatt, Marvin Worth, James Baubaker, Linda Reisman) - U.S.A.; distribuzione italiana: Columbia; durata: 108’. A Berkeley il 4 febbraio 1974, Patricia, la figlia maggiore del ricchissimo e potente W. Randolph Hearst, magnate della stampa americana, viene rapita ad opera del Libero Esercito Simbionese formato da un gruppo di fanatici rivoluzionari, che hanno l’obiettivo non solo di ricavarne la liberazione di certi compagni, ma anche di catturare l’adesione alla lotta da parte di molti (bianchi o neri che siano). Patricia alla fine cede ai rapitori ed invia un messaggio ai suoi familiari: ha scelto la libertà della lotta e condivide gli ideali e i metodi dei suoi rapitori. La donna partecipa a furti d’auto ed a rapine in banca e dopo un periodo di clandestinità viene processata per l’ultima rapina in banca, cui ha partecipato mitra alla mano. Condannata a sette anni di carcere, ne sconta solo un anno a seguito del perdono del Presidente americano Carter. Tornata alla vita comune, Patricia si sposa con la sua guardia del corpo e diviene madre di due bambine. 1990 THE COMFORT OF STRANGERS (CORTESIE PER GLI OSPITI) Regia : Paul Schrader; soggetto: dal romanzo omonimo di Ian McEwan; sceneggiatura: Harold Pinter; fotografia (colore): Dante Spinotti; montaggio: Bill Pankow; musica: Angelo Badalamenti; scenografia: Gianni Quaranta; interpreti e personaggi: Christopher Walken (Robert), Natasha Richardson (Mary), Rupert Everett (Colin), Helen Mirren (Caroline); produzione: Erre Productions (Angelo Rizzoli, Mario Cotone, Linda Reisman, John Thompson) - Gb/ Italia; distribuzione italiana: DARC; durata: 104’. Colin e Mary, una coppia inglese, sono in vacanza a Venezia, dopo esserci stati due anni prima, per decidere il futuro della loro
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relazione. Una notte, mentre cercano un ristorante ancora aperto, si perdono tra le calli della città, incontrano Robert, un uomo elegante e misterioso che li invita a seguirlo in un bar. Tra un bicchiere di vino e l’altro Robert racconta alcune storie della sua infanzia e di come ha conosciuto sua moglie Caroline. Una volta usciti dal bar Mary si sente male e disorientati i due inglesi passano la notte all’aperto, il mattino seguente incontrano Robert in piazza San Marco che li invita come ospiti nel suo splendido palazzo. Il giorno dopo si svegliano in una camera da letto nudi e senza ritrovare i propri vestiti... 1991 LIGHT SLEEPER (LO SPACCIATORE) Regia: Paul Schrader; soggetto e sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia (colore): Ed Lachman; montaggio: Kristina Boden; musica: Michael Been; scenografia: Richard Hornung; interpreti: Willem Dafoe (John LeTour), Susan Sarandon (Ann), Dana Delany (Marianne), David Clennon (Robert), Mary Beth Hurt (Teresa), Victor Garber (Tis), Jane Adams (Randi), Paul Jabara (Eddie), Robert Cicchin (Guidone); produzione: Grain of Sand Productions (Linda Reisman, G. MacBroWn, Mario Kassar) - U.S.A.; distribuzione italiana: Penta; durata: 103’. John LeTour, ex tossicodipendente, si guadagna da vivere facendo le consegne di droga a Manhattan in un giro di clienti di lusso. Il suo capo è Ann, cinica trafficante che afferma di voler chiudere con il lavoro sporco e sogna di dedicarsi al commercio dei cosmetici. Con lei collabora il fidato Robert, che prepara il materiale e le dosi. Nel corso delle sue notti insonni, John scrive un diario attraverso cui apprendiamo che, nonostante i guadagni, cerca una via d’uscita da una vita di cui non è soddisfatto e consulta spesso una veggente per scoprire quale sarà il suo destino. Per una coincidenza, Johnny rincontra Marianne, una ragazza con cui aveva avuto una relazione anni prima, che viene trovata morta e sembra sia coinvolto un cliente importante di Ann. Johnny decide allora che è giunto il momento di farsi giustizia e di trovare una via “di redenzione” a suo modo.
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1994 WITCH HUNT (WITCH HUNT - CACCIA ALLE STREGHE) Regia : Paul Schrader; sceneggiatura: Joseph Dougherty; fotografia (colore): Jean-Yves Escoffier; montaggio: Kristina Boden; musica: Angelo Badalamenti; scenografia: Curtis A. Schnell; interpreti: Dennis Hopper (detective H. Phillip Lovecraft), Penelope Ann Miller (Kim Hudson), Eric Bogosian (Larson Crockett), Sheryl Lee Ralph (Hypolita Kropotkin), Julian Sands (Finn Macha), Valerie Mahaffey (Trudy), Gregory Bell (Shakespeare); produzione: HBO (Betsy Beers, Joseph Dougherty, David Gale, Gale Anne Hurd, Michael R. Joyce) – U.S.A.; durata: 90’. Film realizzato per la tv via cavo. Hollywood anni cinquanta. La città del cinema è infestata dalle streghe: gruppi di negromanti evocano lo spirito di Shakespeare per sollevare il livello qualitativo delle sceneggiature e vivacizzare i film realizzati dagli Studios. Il detective privato H. Phillip Lovecraft viene assunto dalla divetta Kim per indagare sul marito, un produttore cinematografico e si ritrova implicato in un’assurda storia di magia nera e politica. Il produttore viene rimpicciolito e nel frat tempo il senatore McCarthy comincia la sua fanatica “caccia alle streghe” facendo perseguitare tutte le fattucchiere della California. Catturata la strega, Hypolita Kropotkin, amica di Lovecraft, il senatore la condanna al rogo, mentre una platea di bravi cittadini applaude sventolando bandierine USA. 1996 TOUCH (TOUCH) Regia : Paul Schrader; soggetto: dal romanzo omonimo di Elmore Leonard; sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia (colore): Ed Lachman; montaggio: Cara Silverman; musica: David Grohl; scenografia: Daniel Bradford; interpreti: Bridget Fonda (Lynn Faulkner), Christopher Walken (Bill Hill), Skeet Ulrich (Juvenal), Tom Arnold (August Murray), Debra Lusanne (Gina Gershon); produzione: Lila Cazès, Fida Attieh - U.S.A.; durata: 97’; inedito in Italia Juvenal abbandona l’abito talare, ma continua a praticare il cattolicesimo prestando assistenza agli alcolisti presso un centro cattolico di Los Angeles. Le sue straordinarie facoltà curative attraggono l’attenzione di una serie di persone che tentano di servirsi di lui. Interessato a Juvenal è August Murray, fondatore di un gruppo
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cattolico, che vuole utilizzare il giovane per promuovere un revival religioso in tutta la nazione. Oltre a Murray, c’è anche Bill Hill, un tempo predicatore evangelico, che vede in Juvenal la possibilità di trarre grossi guadagni e dà l’incarico a Lynn Faulkner di infiltrarsi nel Centro di Los Angeles, come finta alcolista, per tenere sotto controllo il giovane. Juvenal scopre presto la tresca, ma è attratto da Lynn. E la donna finisce con l’innamorarsi di lui. 1997 AFFLICTION (AFFLICTION) Regia : Paul Schrader; soggetto: dal romanzo omonimo di Russell Banks; sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia (colore): Paul Sarossy; montaggio: Jay Rabinowitz; musica: Michael Brook; scenografia: Anne Pritchard; interpreti: Nick Nolte (Wade Whitehouse), James Coburn (Glen Whitehouse), Sissy Spacek (Margie Fogg), Willem Dafoe (Rolfe Whitehouse), Mary Beth Hurt (Lillian), Jim True (Jack Hewitt); produzione: Linda Reisman per Reisman/Kingsgate Prod. per Largo Entertainment - U.S.A.; distribuzione italiana: Cecchi Gori; durata: 114’. Wade Whitehouse è lo sceriffo di un piccolo paese del New Hampshire, divorziato e impegnato nel tentativo di instaurare un rapporto con la figlia, la quale però sembra respingerlo. L’uomo ha alle spalle un passato tormentato, con un padre che era solito ubriacarsi e imporsi violentemente su di lui, sulla madre e sul fratello minore Rolfe. Un giorno di apparente calma, un vecchio sindacalista, Evan Twombley, perde la vita durante una battuta di caccia con Jack Hewitt, migliore amico di Wade. La cosa suscita scalpore tra chi viene a saperlo, ma il tutto viene subito liquidato come un incidente. Wade però non è convinto che sia andata così e sarà durante il funerale di sua madre che Rolfe gli metterà in testa l’idea che l’incidente di caccia possa essere in realtà un complotto ordito da alcune persone tra cui il suo datore di lavoro, Gordon LaRiviere e lo stesso Jack. Ma la tirannica figura paterna, il licenziamento in tronco dal lavoro e l’abbandono della sua nuova compagna Margie lasceranno in sospeso l’indagine, per costringerlo a compiere una tragica scelta. 1999 FOREVER MINE (LE DUE VERITÀ) Regia : Paul Schrader; soggetto e sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia (colore De Luxe): John Bailey; montaggio: Kristina Bo-
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den; musica: Angelo Badalamenti; scenografia: Paul D. Austerberry; interpreti: Joseph Fiennes (Manuel Esquema/Alan Riply), Gretchen Mol (Ella Brice), Ray Liotta (Mark Brice); produzione: J&M Entertainment Limited (Joseph Boccia, Kathleen Haase, Amy J. Kaufman, Damita Nikapota, Julia Palau, Matthew Payne) U.S.A.; durata: 115’. 1974, Alan Riply lavora come bagnino sulla spiaggia di un bellissimo albergo di Miami. Qui, incontra Ella, la giovane moglie di un ricco uomo d’affari e aspirante politico di mezza età di New York, Mark Brice. Alan, immediatamente innamorato della donna, comincia un’appassionata storia d’amore con lei. Divisa tra l’amore per Alan e il senso di colpa, la donna confessa la sua infedeltà al marito, che in preda alla gelosia, riesce a far arrestare il corteggiatore, poi lo fa evadere dalla prigione per ucciderlo. Scampato al tentato omicidio e rimasto sfigurato, Alan ritorna in Florida dove cambia radicalmente la sua vita e con l’aiuto della chirurgia plastica, si trasforma in Manuel Esquema, un potente ed educato uomo d’affari ispanico specializzato nell’attività bancaria. 1987. Esquema non ha mai dimenticato Ella, il suo unico amore. La rintraccia e quando le rivela la sua vera identità, la loro passione rinasce. Lei decide di lasciare il marito, ma Mark non è affatto pronto a cedere la moglie. 2002 AUTO FOCUS (AUTO FOCUS) Regia : Paul Schrader; soggetto: dal libro The Murder of Bob Crane di Robert Graysmith; sceneggiatura: Michael Gerbosi; fotografia (colore): Fred Murphy; montaggio: Kristina Boden; musica: Angelo Badalamenti (musica addizionale di Andrew Barrett); scenografia: James Chinlund; costumi: Julie Weiss; interpreti: Greg Kinnear (Bob Crane), Willem Dafoe (John Carpenter), Rita Wilson (Anne Crane), Maria Bello (Patricia Olsen), Ron Liebman (Lenny); produzione: Scott Alexander, Alicia Allain, Pat Dollard, Larry Karaszewski per Focus Puller Inc./Good Machine/Propaganda Films - U.S.A.; distribuzione: Columbia TriStar; durata: 115’. Los Angeles 1964. Bob Crane, popolare presentatore radiofonico, diventa protagonista dell’episodio pilota di una nuova serie televisiva, ambientata in un campo di concentramento tedesco: Hogan’s Heroes. Il primo episodio della serie ottiene subito un grande successo. Mentre Crane si gode questo felice momento professio-
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nale, sua moglie Anne scopre delle riviste pornografiche nascoste in garage e ne rimane profondamente ferita. Intanto sul set della serie, Crane incontra John Carpenter, rappresentante californiano della Sony che lo porta al Salome’s, un locale di spogliarello dove ha l’opportunità di suonare la batteria mentre le ragazze eseguono il proprio numero. Crane prende l’abitudine di esibirsi nei locali notturni e incomincia una frenetica e ossessiva attività sessuale, documentata con gli strumenti tecnologici d’avanguardia messi a disposizione da Carpenter. Quando anni dopo solo e invecchiato decide di ricominciare la carriera e di mettere fine al rapporto con Carpenter, qualcuno entra nella stanza d’albergo di Crane e gli spacca la testa con un cavalletto. È il 29 giugno del 1978. 2005 DOMINION: PREQUEL TO THE EXORCIST (DOMINION: PREQUEL TO THE EXORCIST) Regia: Paul Schrader; soggetto:William Wisher Jr., Caleb Carr; sceneggiatura: James G. Robinson; fotografia (colore): Vittorio Storaro; montaggio: Tim Silano; musica: Angelo Badalamenti, Dog Fashion Disco, Trevor Rabin; scenografia:John Graysmark; interpreti: Stellan Skarsgård (Padre Lankester Merrin), Gabriel Mann (Padre Francis), Clara Bellar (Rachel Lesno), Billy Crawford (Cheche), Ralph Brown (Sergente Maggiore), Israel Aduramo (Jomo); produzione: Guy McElwaine, Wayne Morris, David C. Robinson, James G. Robinson, Art Schaefer - U.S.A.; durata: 117’. Il primo incontro tra Satana e il giovane prete Lankester Merrin che ritrova la fede. Padre Lankester Merrin è in viaggio in Turkana, località della Kenya nell’Africa Orientale, intenzionato a ritrovare la fede perduta dopo le brutalità subite durante Seconda guerra mondiale in un campo di concentramento dei Paesi Bassi. In tale continente si unisce ad un gruppo di archeologi che hanno ritrovato un’antica chiesa sepolta da secoli. Aperta questa rovina viene però liberato il demonio vero e proprio, ovvero Lucifero. Merrin riceve segnalazioni di un dibattersi intorno a lui di elementi di Bene e Male: un giovane del villaggio, Cheche, che tutti respingono perché ritenuto “maledetto”, vittima di una maledizione, viene soccorso da Merrin, padre Francis e la dott.ssa Rachel Lesno. Quest’ultima si offre addirittura di operarlo per correggerne le
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deformità di una gamba. Non sanno che in realtà, Cheche è posseduto dal Maligno. Padre Merrin sarà l’unico a comprendere che in fondo la vera battaglia è all’interno di sé, nella propria mente divisa e raggirata e affronterà il Diavolo e le sue menzogne, tornando ancora una volta nel passato a quell’evento tragico che lo ha condotto a perdere sé stesso e la fede. 2007 THE WALKER Regia: Paul Schrader; soggetto e sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia (colore): Chris Seager; montaggio: Julian Rodd; musica: Anne Dudley; scenografia: James Merifield; interpreti: Woody Harrelson ( Carter Page III), Kristin Scott Thomas (Lynn Lockner) Lauren Bacall (Natalie Van Miter), Ned Beatty (Jack Delorean), Moritz Bleibtreu (Emek Yoglu), Mary Beth Hurt (Chrissie Morgan), Lily Tomlin (Abigail Delorean), Willem Dafoe (Senator Larry Lockner), William Hope (Mungo Tenant); produzione: Deepak Nayar – Gb/U.S.A.; durata: 107’. Carter Page III, oltre al nome aristocratico, svolge un lavoro tutt’altro che usuale. Accompagna all’opera le ricche e annoiate signore dell’alta borghesia di Washington, mentre di notte gira nei circoli omosessuali dove risulta essere un cliente abituale. La sua routine prevede la settimanale partita a Canasta, dove tiene compagnia a un gruppo di mature signore in cerca di forti emozioni. Quando una di loro, Lynn, sposata a un senatore liberale, scopre che il suo amante è stato ucciso, chiederà immediatamente aiuto al suo non più giovane e aitante accompagnatore. Il gesto di amicizia di Carter, che rivendica il ritrovamento del corpo, alimenta una serie di guai che metterà a soqquadro la sua esistenza, fino a essere sospettato egli stesso dell’omicidio. 2008 ADAM RESURRECTED (ADAM RESURRECTED) Regia:Paul Schrader; soggetto: dal romanzo Adamo risorto di Yoram Kaniuk; sceneggiatura: Noah Stollman; fotografia: Sebastian Edschmid; montaggio: Sandy Saffeels; musica: Gabriel Yared; scenografia: Alexander Manasse; costumi:Inbal Shuki; interpreti: Jeff Goldblum (Adam Stein), Willem Dafoe ( Commandant Klein), Derek Jacobi (Dr. Nathan Gross), Ayelet Zurer (Gina Grigio), Hana Laszlo (Rachel Shwester ), Joachim Król (Abe Wolfowitz), Jenya
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Dodina (Gretchen Stein); produzione: 3l filmproduktion, bleiberg entertainment, july august productions - Germania/Israele/ U.S.A.; distribuzione: One movie; durata: 106’. Adam Stein è degente, in Israele, presso la clinica psichiatrica Seizling per il trattamento dei sopravvissuti all’Olocausto. È un paziente particolare, con una certa influenza sugli altri ricoverati, soprattutto perché sembra in grado di leggere nel pensiero. A Berlino, prima della Seconda guerra mondiale, Adam era stato un acclamato entertainer, proprietario di circo, illusionista e musicista, amato dalle folle come dai gerarchi nazisti. Fino a ritrovarsi, un giorno, in quanto ebreo, deportato in un lager, a tu per tu con il comandante del campo, il sadico Klein. Per resistere al lager, era diventato il “cagnolino” di Klein. Così facendo, però, Adam non era riuscito a salvare dalle camere a gas la sua famiglia, cioè l’amata moglie e l’adorata figlia. Quando, allora, nella clinica Seizling, scopre una cella segreta in cui è rinchiuso un ragazzo che si comporta come un cane, il dolore esistenziale di Adam ritorna a farsi lancinante. 2013 THE CANYONS (THE CANYONS) Regia: Paul Schrader; soggetto: Bret Easton Ellis; sceneggiatura: Bret Easton Ellis; fotografia (colore): John DeFazio; montaggio: Tim Silano; musica: Brendan Canning ; scenografia: Stephanie J. Gordon; costumi: Keely Crum; interpreti: Lindsay Lohan (Tara), James Deen (Christian), Nolan Gerard Funk (Ryan), Amanda Brooks (Gina), Tenille Houston (Cynthia), Gus Van Sant (Dott. Campbell); produzione: Canyons, Prettybird, Sodium Fox – U.S.A.; distribuzione italiana: Adler Entertainment; durata: 99’. La storia di cinque ventenni alla ricerca di potere, gloria ed amore ad Hollywood. Christian è un ricco produttore cinematografico, mantenuto dal padre con un fondo fiduciario in cambio di una seduta alla settimana dall’analista, un edonista manipolatore che gioca con il potere approfittando dei suoi privilegi. Da un anno fa coppia fissa con un’aspirante attrice, Tara, con la quale vive una storia all’insegna del sesso e della trasgressione più estrema. Tutto precipita all’indomani della comparsa di Ryan, compagno dell’assistente di Christian, Gina ed ex di Tara, scelto come protagonista
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del film horror che Christian intende produrre. Non sa che Tara condivide un passato con Ryan che forse non si è mai chiuso. Questo incontro scatenerà una spirale di violenza, ricatti e vendette e sconvolgerà per sempre le vite dei protagonisti. 2014 DYING OF THE LIGHT (IL NEMICO INVISIBILE) Regia: Paul Schrader; sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia (colore): Gabriel Kosuth; montaggio : Tim Silano; musica: Frederik Wiedmann; scenografia: Russell Barnes; costumi: Oana Paunescu; interpreti: Nicolas Cage (Evan Lake), Anton Yelchin (Milton Schultz), Alexander Karim (Muhammad Banir), Irène Jacob (Michelle Zuberain), Adetomiwa Edun (Mbui), Aymen Hamdouchi (Aasim), Robert G. Slade (James Clifton), Geff Francis (dott. Clayborne), Serban Celea (dott. Iulian Cornel); produzione: Over Under Media, TinRes Entertainment – U.S.A.; distribuzione italiana: Barter Entertainment; durata: 94’. Il veterano agente della CIA Evan Lake si ritrova, dopo anni di premiata partecipazione, messo tristemente da parte dal suo governo dopo una diagnosi di Demenza Frontotemporale. Lake è cosciente del fatto che la sua malattia lo porterà lentamente non solo ad una perdita della memoria, ma lo allontanerà da quello che l’uomo ha sempre considerato essere la sua vera famiglia: il lavoro. Dopo essere stato bruscamente allontanato dall’ufficio Lake, assieme al suo fidato compagno Milton Schultz, si mette sulle tracce di un criminale ricercato a livello internazionale per stragi e persecuzioni, lo jihadista Muhammad Banir creduto morto da più di vent’anni. In realtà si è rifugiato in Marocco ma soffre di una grave talassemia e attende lentamente la morte. Ribellandosi di fatto al vero volere della CIA, Lake si imbarcherà in una pericolosissima missione internazionale dove darà la caccia al suo nemico di sempre, cercando di compiere quella che potrebbe essere la sua ultima missione. Riuscirà a trovare Banir e a ucciderlo una volta per tutte? Inizialmente il progetto prevedeva la regia di Nicolas Winding Refn, rimasto poi nel progetto come produttore esecutivo, con protagonisti Harrison Ford e Channing Tatum. Dopo la diffusione di poster e trailer, il regista, il produttore esecutivo e i protagonisti hanno pubblicamente disconosciuto la ver-
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sione finale del film distribuito in quanto non conforme alle loro intenzioni a causa di un montaggio realizzato dai produttori senza il benestare né la supervisione di Schrader. 2016 DOG EAT DOG Regia:Paul Schrader; soggetto:dal romanzo omonimo di Edward Bunker; sceneggiatura:Paul Schrader, Matt Wilder; fotografia (colore):Alexander Dynan; scenografia:Grace Yun; costumi:Olga Mill; interpreti: Nicolas Cage (Troy Cameron), Willem Dafoe (Mad Dog), Paul Schrader (The Greek), Reynaldo Gallegos (Chepe), Omar J. Dorsey (Moon Man), Magi Avila (Nanny Carmen), Melissa Bolona (Lina), Christopher Matthew Cook (Diesel), produzione: Pure Dopamine - U.S.A. I tre amici Troy Cameron, Mad Dog MacCain e Diesel Carson, legati tra loro da un passato in riformatorio, dopo alcuni anni si ritrovano nuovamente coinvolti nel mondo del crimine organizzato, delle rapine e delle sparatorie nei sobborghi malfamati di Los Angeles. Troy, il più appartato, sogna una vita semplice, pulita ma non riesce a liberarsi del suo odio per il sistema. Diesel è sul libro paga della mafia, vive in periferia e ha una moglie assillante. La mina vagante del trio, Mad Dog, è posseduto da demoni che lo spingono da una situazione all’altra. Un altro colpo, un altro jackpot e saranno tutti soddisfatti. I tre ex-carcerati accettano per soldi di eseguire un rapimento, ma le cose vanno storte e si ritroveranno a fuggire per evitare di tornare di nuovo in carcere. Sceneggiature 1975 THE YAKUZA (YAKUZA), regia di Sydney Pollack; sceneggiatura di Paul Schrader, Leonard Schrader, Robert Towne. 1976 TAXI DRIVER (TAXI DRIVER), regia di Martin Scorsese;sceneggiatura di Paul Schrader. OBSESSION (COMPLESSO DI COLPA), regia di Brian De Palma; sceneggiatura di Paul Schrader. 1977 ROLLING THUNDER (ROLLING THUNDER), regia di John Flynn; sceneggiatura di Paul Schrader, Heywood Gould.
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CLOSE ENCOUNTERS OF THE THIRD KIND (INCONTRI RAVVICINATI DEL TERZO TIPO), regia di Steven Spielberg (Schrader è autore, non accreditato, della prima stesura della sceneggiatura). 1978 OLD BOYFRIENDS (OLD BOYFRIENDS. IL COMPAGNO DI SCUOLA), regia di Joan Tewkesbury; sceneggiatura di Paul Schrader, Leonard Schrader. 1980 RAGING BULL (TORO SCATENATO), regia di Martin Scorsese; sceneggiatura di Paul Schrader, Mardik Martin. 1986 THE MOSQUITO COAST (MOSQUITO COAST), regia di Peter Weir; sceneggiatura di Paul Schrader. 1988 THE LAST TEMPTATION OF CHRIST (L’ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO), regia di Martin Scorsese; sceneggiatura di Paul Schrader. 1995 CITY HALL (CITY HALL), regia di Harold Becker; sceneggiatura di Ken Lipper, Paul Schrader, Nicholas Pileggi, Bo Goldman. 1999 BRINGING OUT THE DEAD (AL DI LÀ DELLA VITA), regia di Martin Scorsese; sceneggiatura di Paul Schrader.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE*
Libri su Paul Schrader Canadè Alessandro, Paul Schrader. Tecniche di sceneggiatura e pratiche di regia nella New Hollywood, Le Mani, Recco (Ge) 2004. George Kouvaros, Paul Schrader (Contemporary Film Directors), University of Illinois Press, Champaign 2008. Menarini Roy (a cura di), La luce della scrittura. Paul Schrader critico, sceneggiatore, regista, Transmedia, Gorizia 2009. Schrader Paul, Schrader on Schrader Faber & Faber, Londra 2004. Scritti, sceneggiature di Paul Schrader Pickpocket, in «L.A. Free Press», 25 aprile, 2 maggio 1969. Easy Rider, in «L.A. Free Press», 25 luglio1969. Sam Peckinpah Going to Mexico, in «Cinema», n. 3 -1970. Trascendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer, University of California Press, Berkeley, Los Angeles – London 1972 (trad. it., Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli, Roma 2002). Notes on Film Noir, in «Film Comment», n.1-1972 (trad. it., Note sul film noir, Marina Fabbri e Elisa Resegotti (a cura di), I colori del nero, Ubulibri, Milano 1989).
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Questa bibliografia è stata compilata per la maggior parte sulla base di quella esaustiva dell’ottimo libro di Alessandro Canadè, Paul Schrader. Tecniche di sceneggiatura e pratiche di regia nella New Hollywood.
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Entretien avec Martin Scorsese, in «Cahiers du Cinéma», n. 334/335 - 1982. Taxi Driver (sceneggiatura), Faber & Faber, London/Boston 1990 (con un’intervista a M. Scorsese). Light Sleeper (sceneggiatura), Faber & Faber, London/Boston 1990 (con un’intervista a Schrader di Kevin Jackson). The History of an artist’s soul is a very sad history (Aleksandr Sokurov interviewed by Paul Schrader), in «Film Comment», n. 6 – 1997 (trad. parz., Sergio Fant, Paul Schrader intervista Aleksandr Sokurov. La storia dell’anima di un’artista è una storia molto triste, in «Sentieri Selvaggi », n. 4 - 1998). Paul Schrader Collected Screenplays: Taxi Driver, American Gigolo, Light Sleeper, Faber & Faber, London/Boston 2002. Canon Fodder: Paul Schrader’s Canon Criteria, in «Film Comment», n. 5 - 2006. Beyond the silver screen, in «The Guardian», 19 giugno 2009. American Gigolo, romanzo di Timothy Harris basato sulla sceneggiatura di Paul Schrader, Mondadori, Milano 1980. Saggi principali su Paul Schrader Censi Rinaldo, Paul Schrader: ovvero, fare chiarezza, in «Cineteca», n. 7-2000. Paul Schrader, in L. Gandini e R. Menarini (a cura di), Hollywood 2000. Panorama del cinema americano contemporaneo. Autori, Le Mani, Recco (GE) 2001. Coursodon Jean-Pierre e Tavernier Bertrand, Paul Schrader, in «50 ans de cinéma américain», Éditions Nathan, Paris 1991. Jousse Thierry e Saada Nicolas (a cura di), Notre génération (dichiarazioni di Martin Scorsese su Paul Schrader) in «Cahiers du Cinéma» n. 500 - 1996. Losilla Carlos e Hurtado José A., Paul Schrader. el tormento y el extasis, Filmoteca de la Generalitad Valenciana, Festival de cine de Gijon, Valencia 1995. Nazzaro Giona A., Apostasia e critica nel cinema di Paul Schrader, in «Close up», n. 5 -1999.
Bibliografia essenziale
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Finito di stampare nel mese di xxxx 2016 da Digital Team - Fano (PU)