Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin
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Discipline filosofiche

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Luigi Azzariti-Fumaroli Passaggio al vuoto Saggio su Walter Benjamin

Quodlibet

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Prima edizione: ottobre 2015 © 2015 Quodlibet srl per questa edizione Via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (tn) isbn 978-88-7462-770-7

Discipline filosofiche Collana diretta da Stefano Besoli Comitato scientifico: Pedro Manuel dos Santos Alves (Universidade de Lisboa), Vincenzo Costa (Università degli Studi del Molise), Fabrizio Desideri (Università di Firenze), Massimo Ferrari (Università di Torino), Elio Franzini (Università degli Studi di Milano), Douglas Hofstadter (Indiana University), Luca Illetterati (Università di Padova), Roberta Lanfredini (Università di Firenze), Eugenio Mazzarella (Università Federico II di Napoli), Luigi Perissinotto (Università Ca’ Foscari di Venezia), Dominique Pradelle (Université Paris-Sorbonne), Frédéric Worms (École normale supérieure – ENS, Paris) I volumi pubblicati nella collana sono stati sottoposti a procedura di peer-review

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Indice



“Nessuno gli somiglia meno che lui stesso”: fisiognomica di Walter Benjamin 7 1. Di carne e di nulla

30 2. C’è modo e modo di sparire 45 3. Tal ch’in Lui stesso infine l’eternità lo muta

Come il tempo muore 51 1. Il frinire delle citazioni 64 2. In passato il futuro era migliore 79 3. Epistrofe della catastrofe

Accarezzare il messianismo 91 1. «Das eschatologische Bureau ist meist geschlossen» 112

2. Kafkeria

124 3. Nel giorno del giudizio

Kein Ort. Nirgends 133 1. Anamorfosi temporali 151 2. Teleologia senza scopo finale 159 3. Exposition du vide 163 Bibliografia

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“Nessuno gli somiglia meno che lui stesso”: fisiognomica di Walter Benjamin

1. Di carne e di nulla Quando ci si pone alla lettura di un autore sorge non di rado il desiderio di conoscere la sua fisionomia: «è come se il nostro tempo, in cui niente è privo della relativa immagine, si sentisse a disagio di fronte a qualcosa la cui responsabilità non possa essere attribuita ad un volto»1; per certi versi sembrerebbe perfino che i lineamenti di chi scrive debbano fare parte della sua creazione. Come è stato autorevolmente suggerito pure da Susan Sontag2, questa convinzione parrebbe trovare specifica conferma allorché, nell’attendere allo studio dell’opera di Walter Benjamin, si maturerebbe ad ogni pagina sempre più netta l’impressione che fra i contenuti di questa ed i tratti del suo autore vi sia una segreta specularità. Nei saggi benjaminiani si troverebbe riflesso non soltanto il temperamento del loro artefice, ma in qualche misura la sua stessa fisionomia. Da questo punto di vista non si tratterebbe di riconoscere come il pensatore berlinese proiettasse 1 J. Marías, Vidas escritas, Alfaguara, Madrid 1992; tr. it. di G. Felici, Vite scritte, Einaudi, Torino 2004, p. 191. 2 S. Sontag, Under the Sign of Saturn, Farrar-Straus-Giroux, New-York 1980; tr. it. di S. Bertola, Sotto il segno di Saturno, Einaudi, Torino 1982, pp. 90-91. Del medesimo avviso è anche G. Carchia, che in esordio al suo studio Nome e immagine. Saggio su Walter Benjamin, Bulzoni, Roma 2000, p. 13, ebbe a scrivere: «Un’illuminante prospettiva sembra spalancarsi su [Walter Benjamin], se tentiamo di figurarcene i tratti fisiognomici […]. È un punto d’attacco non illecito nella misura in cui esso pare prolungare la linea di uno dei suoi più antichi e più caratteristici motivi di pensiero», quello proprio di un’ermeneutica applicata ai segni del destino, quali possono diventare, con i tratti fisici, tutti i fenomeni della vita esterna.

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se stesso e la propria indole sulla più parte dei temi toccati dai suoi lavori, bensì di verificare in quale misura egli vi proiettasse la sua corporeità. Questa, secondo quanto è stato tramandato da più parti3, sembrava invero quasi evanescente. D’altra parte, gli stessi scatti fotografici che ritraggono Benjamin rivelerebbero, nella prospettiva quasi sempre di profilo in cui egli si lascia cogliere, un certo distacco dall’osservatore, una sorta di impersonalità, un’impossibile imposizione del proprio essere4. Nelle fotografie che ne fermano l’immagine, Benjamin pare assumere l’atteggiamento caratteristico del melanconico, con il capo chino, lo sguardo assorto, la mano appoggiata alla tempia. Ciò appare tanto più vero nelle fotografie di Gisèle Freund risalenti al 1938, nelle quali egli si pone di fronte all’obiettivo, conformandosi ad una «rappresentazione di tipo düreriano»5, che ritorna 3 Nel commemorarlo, T.W. Adorno, Erinnerungen (1964), in Id., Über Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1970, pp. 67-74, ebbe a sostenere che Benjamin non era né ascetico né magro, ma aveva nondimeno «un qualcosa di incorporeo [ein Moment der Unkörperlichkeit], […] di interamente impregnat[o] di spiritualità» (Ivi, pp. 71-72). Allo stesso modo, la psicologa Ch. Wolff, nel comporre il ritratto dell’autore tedesco, sottolineò che «l’intero suo corpo appariva privo di sostanza fisica, come se egli se ne fosse liberato» (Ea., On the Way of Myself. Communication to a Friend, Methuen & Co., London 1969, p. 195). Ma del medesimo avviso, secondo quanto riporta G. Scholem in Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1975; tr. it. di E. Castellani, C.A. Bonadies, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi, Milano 2008, p. 154, erano diverse altre donne che avevano conosciuto Benjamin di persona. Ciò nondimeno sulla complessione fisica di Benjamin i giudizi sono discordanti, come può trarsi dal volumetto, non privo di ironia, di H. Salzinger, Swinging Benjamin, Fischer, Frankfurt a. M. 1973, in part. pp. 18-19, che non manca, accanto alle testimonianze di Adorno e della Wolff, di menzionare quella di J. Selz per il quale «Benjamin era corpulento […] e faceva una certa fatica a camminare» (Id., Walter Benjamin à Ibiza [1954], in Id., Le dire et le faire ou le chemins de la création, Mercure de France, Paris 1964; tr. it. di G. Backhaus, Un incontro con Walter Benjamin, in W. Benjamin, Sull’hascisch, Einaudi, Torino 2010, pp. 147-159: 148). Ma al riguardo cfr. pure l’ampia biografia di T. Rudel, Walter Benjamin: l’ange assassiné, Editions Mengès, Paris 2006; tr. it. di L. Canepa, Walter Benjamin. L’angelo assassinato, Excelsior 1881, Milano 2007, in part. p. 59. 4 Cfr. M. Schapiro, Word and Pictures. On the Literal and the Symbolic in the illustration of a text (1973), in Id., Words, Script and Pictures: Semiotic of Visual Language, George Braziller, New York 1996; tr. it. di G. Perini, Parole e immagini: letterale e simbolico nella illustrazione del testo, in M. Schapiro, Per una semiotica del linguaggio visivo, Meltemi, Roma 2002, pp. 120-191, in part. pp. 162-163. 5 D. Schöttker, Benjamins Bilderwelten, in Schrift, Bilder, Denken. Walter Benjamin und die Künste, hrsg. v. D. Schöttker, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2004, pp. 9-29: 28.

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“nessuno gli somiglia meno che lui stesso”

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altresì nella litografia Ritratto di Walter Benjamin (1973) di Valerio Adami. In quest’ultima opera, diversamente da quanto accade nella litografia Walter Benjamin (1966) di Ronald B. Kitaj, la tecnica figurativa prescelta, pur memore delle osservazioni consegnate a Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit6, non si propone soltanto di contraddire la diagnosi avanzata da Benjamin di una perdita di significato della mano nello svolgimento delle più importanti incombenze artistiche, ricorrendo nuovamente all’incisione su pietra7, ma di dare espressione ad una riflessione attenta alla teoria del ritratto elaborata dallo stesso autore tedesco. Con una consapevolezza di cui Jacques Derrida ha mostrato la profondità, Adami, non dimentico della propria posterità rispetto all’invenzione fotografica, sa che, per Benjamin, l’ultimo rifugio del valore cultuale è costituito dal volto dell’uomo: «il ritratto è al centro delle prime fotografie. Il valore cultuale del quadro trova il suo ultimo rifugio nel culto del ricordo dei cari lontani o defunti»; ma quando anche questa flebile traccia della presenza dell’uomo viene meno, s’impone per la prima volta la necessità di apporre una «didascalia [Beschriftung]» che conferisca significato all’immagine e ne guidi l’interpretazione8. Il nome “Benjamin” che campeggia al centro del disegno di Adami, sul bordo di una cornice vuota, indicherebbe dunque la presenza di un quadro il cui soggetto, d’accordo con quanto sostenuto nelle pagine del saggio sull’opera d’arte, è tuttavia assente dal luogo stesso del suo «monumento commemorativo»9. Ma 6 Cfr. W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (Erste Fassung, rectius Zweite Fassung, secondo la titolazione delle Gesammelte Schriften) (1936), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VII, t. 1, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1985, pp. 350-384: 351; tr. it. di E. Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (prima stesura), in Opere complete, vol. VI, Einaudi, Torino 2004, pp. 271-303: 272. 7 W. Grasskamp, Der Autor als Reproduktion, in Für Walter Benjamin. Dokumente, Essays und ein Entwurf, hrsg. v. I. u. K. Scheurmann, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1992, pp. 195-209: 196. 8 W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (Erste Fassung), cit., p. 361; tr. it. p. 281. 9 J. Derrida, La vérité en peinture, Flammarion, Paris 1978; tr. it. di G. e D. Pozzi, La verità in pittura, Newton Compton, Roma 2005, p. 171.

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se l’intenzione del disegno di Adami sembra in primo luogo volere rappresentare l’infinita tristezza che avrebbe caratterizzato il destino del pensatore berlinese, inducendolo infine a togliersi letteralmente di mezzo10, la vacuità che in quel ritratto appare assume in modo traslato valore d’emblema della negazione cui è sottoposta, nell’epoca moderna, la figura umana. Come rivelano le riflessioni dell’ultimo Benjamin, una volta constatata, sotto un profilo generale, l’«antinomia di apparenza e significato [Antinomie von Schein und Bedeutung]»11, e quindi riconosciuta la sussistenza di «un mondo fenomenico svalorizzato»12, il sapere umano deve mantenersi in una frammentarietà, che, pur inducendo ad affiancare di volta in volta un significato ad un’immagine e vice versa, non vigendo più alcuna mediazione naturale fra tali elementi, impedisce di confidare in un esito costruttivo di tale operazione sino al punto da coinvolgere lo stesso individuo umano, il quale, scoprendo bloccata la relazione intenzionale che lo lega chiasmaticamente al mondo, non 10 Significativamente nell’ultima lettera vergata da Benjamin il 25 settembre 1940, il giorno prima di morire, e riemersa dal lascito di Adorno solo nel 1981, si legge: «Dans une situation sans issue, je n’ai d’autre choix que d’en finir» (Id., Gesammelte Briefe, Bd. VI, Suhrkamp, Franfurt a. M. 2000, p. 483). L. Fittko, che di Benjamin fu compagna durante la traversata dei Pirenei conclusasi tragicamente a Portbou, ebbe ad osservare che il vero pericolo avvertito allora dallo scrittore fosse diverso da quello di tutti gli altri: «egli deve essersi ancora una volta imbattuto in quel “guastatutto” del suo omino gobbo personale e deve aver risolto una volta per tutte la faccenda a modo proprio» (Ea., Der alte Benjamin. Flucht über die Pyrenäen [1982], in Ea., Mein Weg über die Pyrenäen. Erinnerungen an 1940-1941, Hanser, München-Wien 1985; tr. it. di S. Reina, Il vecchio Benjamin, in La via dei Pirenei, manifestolibri, Roma 2000, pp. 131-146: 146). D’altro canto – ha osservato giustamente B. Moroncini – che Benjamin si sia ucciso su una frontiera è certo dovuto a circostanze empiriche; ma è pur vero che egli ha forse approfittato della situazione per morire su una soglia, in bilico, pur di non appartenere neppure alla propria morte: il suicidio a volte «è la strada per morire di una morte anonima, di una morte che, non riappropriabile, rispetti fino all’ultimo la spaccatura che attraversa il soggetto» (Id., Walter Benjamin e la moralità del moderno, Cronopio, Napoli 2009 [1ª ed.1984], p. 88). 11 W. Benjamin, Neue Thesen, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., pp. 1173-1175: 1174; tr. it. di G. Gurisatti, Nuove tesi, in W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Neri Pozza, Vicenza 2012, pp. 925-926: 926. 12 W. Benjamin, Ms 1820-1825 (1938), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., pp. 1150-1152: 1151; tr. it. di B. Chitussi, Piano dell’opera, in W. Benjamin, Charles Baudelaire, cit., pp. 57-59: 58.

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“nessuno gli somiglia meno che lui stesso”

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tarderebbe a riconoscersi «completamente scomparso [gänzlich verschwunden]»13. Tale “vaporizzazione” del soggetto potrebbe non senza ragione essere ricondotta allo strappo14 che il pensiero benjaminiano compie rispetto alla tradizione fenomenologica tanto rispetto allo schematismo trascendentale quanto rispetto al primato della coscienza pura. Fin dal saggio sull’origine del dramma barocco si afferma che il darsi della verità è indipendente da qualsiasi 13 W. Benjamin, Ms 1826 (1938), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., p. 1159; tr. it. di G. Gurisatti, L’emergere dell’io, in W. Benjamin, Charles Baudelaire, cit., p. 568. 14 Quanto consapevolmente ciò avvenga è invero difficile dire. Di Husserl infatti – rammentava Adorno nell’Einleitung zu Benjamins “Schriften” (1955), in Id., Über Walter Benjamin, cit.; tr. it. di E. De Angelis, Introduzione agli “Scritti” di Benjamin, in T.W. Adorno, Note per la letteratura 1961-1968, Einaudi, Torino 1979, pp. 243257: 248 – Benjamin «soleva dire che non lo capiva». Ciò nondimeno dell’iniziatore della scuola fenomenologica Benjamin fu cognito assai precocemente. Già nel luglio 1913 egli menziona in una lettera all’amico F. Sachs il saggio husserliano del 1911, Philosophie als strenge Wissenschaft, e parimenti avverrà nel 1917 in una corrispondenza con G. Scholem (Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. I, cit., 1995, rispettivamente pp. 406-411: 410 e pp. 141-144: 144). In un curriculum risalente 1928 può altresì leggersi: «[…] nei miei studi mi sono occupato di Platone e di Kant, e di conseguenza della filosofia di Husserl e della Scuola di Marburgo» (Id., Lebenslauf [III], in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 217-219: 218; tr. it. di G. Gurisatti, Curriculum [III], in Opere complete, vol. III, Einaudi, Torino 2010, pp. 37-38: 37). È però il testo Juden in der deutschen Kultur (1929), apparso inizialmente nella Encyclopaedia Judaica, ora in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 2, pp. 807-813: 810; tr. it. di G. Carchia, Gli ebrei nella cultura tedesca, in Opere complete, vol. III, cit., pp. 423-434: 427, il luogo in cui Benjamin tratteggia con maggiore analiticità gli aspetti, dal suo punto di vista più salienti, della riflessione di Husserl, ritenuta volta alla fondazione di una nuova tradizione di pensiero, contrapposta a quella idealistica. Vi si legge: «Il capolavoro di Husserl, le Idee per una fenomenologia pura e per una fenomenologia fenomenologica del 1913, si pone il compito di esporre il processo logico che conduce il ricercatore dalle datità empiriche a quelle “pure”. Queste ultime vanno trovate tanto nelle impressioni sensoriali quanto nelle valutazioni di natura etica o estetica». Su questo e sull’influenza che la Scuola fenomenologica di Marburgo ebbe su Benjamin si veda comunque G. Scaramuzza, Due lettere di Walter Benjamin a Alexander Pfänder, in «Rivista di storia della filosofia», 49, 1994, pp. 367-373; Id., Presentazione, in M. Geiger, Lo spettatore dilettante, Aesthetica, Palermo 1988, pp. 5-28, in part. pp. 16-21, nonché U. Steiner, Walter Benjamins Husserl-Lektüre im Kontext, in «Internationales Jahrbuch für Hermeneutik», 9, 2010, pp. 189-258; Id., “Zu den Sachen selbst…”. Phänomenologie und Anthropologie bei Walter Benjamin, in Walter Benjamins anthropologisches Denken, hrsg. v. C. Duttlinger, B. Morgan, A. Phelan, Rombach, Freiburg i. Br. 2012, pp. 59-93.

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«relazione intenzionale»15. Sotto questo riguardo, la posizione epistemologica assunta dal filosofo berlinese sembrerebbe caratterizzarsi per un deciso rifiuto d’ogni accezione trascendentale si voglia conferire alla nozione di verità attraverso una «costituzione [Verfassung] a priori», in quanto «sistema delle strutture formali», che, «indifferenti a qualsiasi particolarità materiale dei significati», disegnano i confini entro i quali agisce la soggettività nell’atto di intenzionare al di là dei propri contenuti psichici16. Ma è pur vero che i rilievi benjaminiani non paiono concernere soltanto i contenuti delle Logiche Untersuchungen, dove principalmente si pongono in questione i modi in cui gli oggetti ideali possono manifestarsi alla soggettività, bensì pure la riduzione fenomenologica come radicale fenomenizzazione entro un contesto intenzionale17. È dunque corretto sostenere che Benjamin condivide con la fenomenologia husserliana l’atteggiamento descrittivo verso i fenomeni e la distinzione fra “fenomeni impuri” ed essenze; ma deve al contempo osservarsi la decisiva differenza che caratterizza la sua posizione rispetto alla riduzione nell’analisi delle essenze proposta da Husserl18. Per questi la riduzione fenomenologica avrebbe dovuto costituire la strada metodica per accedere all’ambito dell’esperienza trascendentale, sì da rendere evidenti le operazioni soggettive dalle quali sorgerebbe ogni sapere. In ultima analisi, l’epoché si sarebbe dovuta definire, per il filosofo moravo, come apertura alla «costituzione 15 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 1, cit., pp. 207-430: 216; tr. it. di G. Cunico, Il dramma barocco tedesco, in Opere complete, vol. II, Einaudi, Torino 2001, pp. 69-268: 76. Poco oltre, più recisamente ancora, si afferma: «La verità è la morte dell’intenzione» (Ivi, p. 216; tr. it. p. 77). 16 Cfr. E. Husserl, Logiche Untersuchungen. Zweiter Band, Erster Teil: Untersuchungen zur Phänomenologie und Teorie der Erkenntnis (1901), in Id., Husserliana, Bd. XIX, t. 1, Nijhoff, Den Haag 1984, p. 329; tr. it. di G. Piana, Ricerche logiche, il Saggiatore, Milano 1988, p. 111. 17 Cfr. E. Husserl, Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie: Vorlesungen 1906/07, in Id., Husserliana, Bd. XXIV, Nijhoff, Den Haag 1984, p. 211; Id., Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen (1907), in Id., Husserliana, Bd. II, Martinus Nijhoff, Den Haag 1973, pp. 41-63; tr. it. di A. Vasa, L’idea di fenomenologia, il Saggiatore, Milano 1981, pp. 76-94. 18 L. Wiesenthal, Zur Wissenschaftstheorie Walter Benjamins, Athenäum, Frankfurt a. M. 1973, p. 18.

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intenzionale»19, una “costituzione” che il pensiero benjaminiano sarebbe incline a lacerare. Ciò anzitutto si verificherebbe attraverso il decisivo appellarsi all’a priori materiale o contingente, all’essere linguistico delle idee, alla loro datità che non può disincarnarsi dal suo essere segno: in una parola, affermando la centralità – di schietta matrice ebraica20 – del Nome come del luogo in cui l’idea non conosce differenza dal segno: puro simbolo, nel quale si raccoglie l’originario rapporto fra l’in sé di Cosa ed Idea21. Solo così infatti l’idea può dirsi sottratta ad ogni fenomenalità: essa è separata dal mondo delle cose e contemporaneamente essa si dà come le cose stesse, pur non condividendone la caducità. «Al Nome – ha scritto Massimo Cacciari – l’idea si rappresenta immediatamente. Ma in questa apparente perfetta sintesi non si ribadisce che […] la radicale assenza di sintesi. L’idea è al di fuori di qualsiasi contesto intenzionale discorsivo»22. 19 Cfr. E. Husserl, Idee zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch. Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie (1913), in Id., Husserliana, Bd. III, t. 1, Nijhoff, Den Haag 1976, pp. 108-119; tr. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo. Introduzione generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino 2002, pp. 142-154. Per una più puntuale disamina sull’argomento si rimanda a E. Franzini, La riduzione fenomenologica, in V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002, pp. 115-136. 20 G. Scholem ricorda in Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, cit., p. 197, come Benjamin avesse espresso al critico M. Rychner e a T. Adorno l’opinione secondo cui solo chi conosceva la cabbala sarebbe stato in grado di capire la introduzione al libro sul dramma barocco. Ma sulla questione del Nome nel pensiero ebraico mette conto menzionare almeno il fondamentale studio dello stesso G. Scholem, Der Name Gottes und die Sprachtheorie der Kabbala, in Id., Judaica 3, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1973; tr. it. di A. Fabris, Il Nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio, in G. Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio, Adelphi, Milano 1998, pp. 9-90, il quale pur essendo stato pubblicato nel 1970 – secondo l’opinione dei curatori delle Gesammelte Schriften di Benjamin, R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser – risalirebbe agli anni in cui Scholem e Benjamin erano usi fare insieme filosofia (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., p. 886). Ma su ciò, cfr. M. Idel, Abraham Aboulafia, Scholem et Benjamin, in Cahier Walter Benjamin, éd. par P. Lavelle, L’Herne, Paris 2013, pp. 326-334. 21 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 216; tr. it. p. 77. 22 M. Cacciari, Di alcuni motivi in Walter Benjamin (1975), in Critica e storia. Materiali su Benjamin, a c. di F. Rella, Cluva, Venezia 1980, pp. 41-71: 51. Ma cfr. pure D. Messina, Parola e segno: teoria dell’allegoria e critica del linguaggio in Walter Benjamin, in Giochi per melanconici, a c. di A. Pinotti, Mimesis, Milano 2003, pp. 233-248, in part. p. 242.

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Nel Nome si preserverebbe un puro contenuto simbolico, nel suo costituirsi non già in «una relazione fra apparenza [Erscheinung] ed essenza [Wesen]», bensì in una identità di sensibile e sovrasensibile capace di pervenire ad un’assoluta «autotrasparenza [Selbstverständigung]»23. Se in Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen il Nome segna la linea di confine fra la comunicazione umana e la Rivelazione, essendo insieme il medium per mezzo del quale l’essenza delle cose si dà nella lingua e l’ectipo della differenza fra una lingua che conosce ed una che crea24, nella dissertazione sul dramma barocco tali caratteri del Nome trascorrono da un piano teologico ad un piano euristico, onde armonizzarsi alle esigenze della contemplazione filosofica25. Il pensiero speculativo, pur formulandosi in termini linguistici, sarebbe in tal modo sottratto al circolo fra intenzionalità e significato, in ragione del raccogliersi nel Nome di un nucleo asemantico e sovrastorico in relazione al quale ogni comunicazione, ogni senso e ogni intenzione sarebbero destinati ad estinguersi26. La predilezione che qui viene manifestata per una 23 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., rispettivamente pp. 336 e 217; tr. it. pp. 196 e 77. «Il nome – ha osservato puntualmente H. Schweppenhäuser – è quell’espressione in cui l’esistenza e l’essenza si fondano in unità spirituale» (Id., Nome/Logos/Espressione. Elementi della teoria benjaminiana della lingua, in Walter Benjamin. Tempo storia linguaggio, a c. di L. Belloi e L. Lotti, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 51-64: 52). Ma si veda altresì F. Desideri, De nomine. A proposito di un frammento benjaminiano (1992), in Id., La porta della giustizia, Pendragon, Bologna 1995, pp. 83-100. 24 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1916), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 140-157: 149; tr. it. di R. Solmi, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Opere complete, vol. I, Einaudi, Torino 2008, pp. 281-295: 288-289. Per un accurato esame della teoria linguistica di Benjamin devono leggersi almeno W. Menninghaus, Walter Benjamins Theorie der Sprachmagie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1980 e H. Kaulen, Rettung und Destruktion. Untersuchungen zur Hermeneutik Walter Benjamins, Niemeyer, Tübingen 1987. 25 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 217; tr. it. p. 78. 26 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers (1921), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, pp. 9-21: 19; tr. it. di R. Solmi, Il compito del traduttore, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 500-511: 509. Al riguardo si vedano i rilievi di V. Vitiello, Über Benjamin: Sprache und Übersetzung, in Übersetzung, Sprache und Interpretation, hrsg. v. W. Büttemeyer u. H.J. Sandkühler, Peter Lang, Frankfurt a. M. 2000, pp. 169-187.

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meditazione adatta a quanto Benjamin indica come «rappresentazione [Darstellung]»27 implicherebbe pertanto il rifiuto di ogni «anticipazione sistematica» cui si volesse conformare l’esercizio del pensiero, in favore di un riflettere che ha i tratti propri non soltanto, come è stato affermato, di una «teologia negativa», a motivo del suo essere consapevole che qualsiasi “discorso di rivelazione” gli è precluso, non potendo esso più attingere, in questo tempo, ad alcuna intatta nobiltà denominativa28, ma anche, e soprattutto, di una tanto inesausta quanto inane archeologia del senso dell’esistenza. Negli scritti del primo Benjamin, l’interrogativo che chiede cosa ne sia del nominare nella temperie storica che vede il discorso dominato dal verbo e dalla forma giudicante, postula che il Nome sia il concetto-limite nel quale si attua la corrispondenza29, pensabile ma inattuabile, del significare con l’idea nel suo completo dispiegarsi. Come si legge in un frammento risalente al 1916-1917: «è in forza del Nome che le parole possiedono un’intenzione nei confronti dell’oggetto»30, laddove la parola – diversamente dal segno, mero denotato – è il significante che “intende” l’oggetto, restandogli estraneo31. Il Nome dice la cosa, mentre la parola ambisce a dirla: in questo iato – secondo Benjamin – si misura la differenza della parola dalla 27 Per una più distesa disamina su questa nozione nell’opera di Benjamin si rimanda a D. Thierkopf, Nähe und Ferne. Kommentare zu Benjamins Denkverfahren, in «Text + Kritik», 31-32, 1971, pp. 3-18. 28 R. Tiedemann, Studien zur Philosophie Walter Benjamins, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1973, p. 57. 29 Cfr. M. Pezzella, L’immagine dialettica. Saggio su Benjamin, ETS, Pisa 1982, in part. pp. 80-81. 30 W. Benjamin, Zur Sprachphilosophie und Erkenntniskritik, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., p. 14 (fr. 4); tr. it. di G. Schiavoni, fr. 4, in Opere complete, vol. VIII, Einaudi, Torino 2014, pp. 10-11. Ad A. Pinotti, Presentazione di Walter Benjamin, Sulla filosofia del linguaggio e la critica della conoscenza. Frammenti del periodo 1916-1917, in «Pratica filosofica», 10, 1996, pp. 7-13, unitamente all’introduzione di T. Tagliacozzo, Filosofia del linguaggio e critica della conoscenza nei frammenti giovanili di Walter Benjamin, a W. Benjamin, Conoscenza e linguaggio. Frammenti II, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 17-103, in part. pp. 65-80, si fa rinvio per un inquadramento generale di questi frammenti nel corpus degli scritti benjaminiani. 31 Cfr. W. Benjamin, Zur Sprachphilosophie und Erkenntniskritik, p. 20 (fr. 9); tr. it. p. 28.

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cosa, il suo essere puro segno convenzionale (significante) che sta per la cosa (significato). Sotto questo riguardo è lecito affermare che il Nome «traduce»32 in suono l’espressione propria della cosa, arricchendola di senso. Conferito del potere di costituire una «magica comunità [magischer Gemeinschaft]»33 con le cose, il Nome svolge una funzione rappresentativa del tutto peculiare: esso non è copia superficiale né elemento semiotico formalizzato, ma medium mimetico espressivo delle cose. Sin dalla denominazione adamitica – sostiene Benjamin – quanto nell’o[noma si trova espresso dipende dal modo in cui l’«essere spirituale» di ogni cosa si comunica34. Solo in ragione del fatto che le cose si comunicano all’uomo è quindi possibile per lui nominarle. Ma accanto a questa funzione il Nome sembra altresì svolgerne altra di carattere creativo. Se la parola di Dio crea la cosa, quella umana, in virtù del Nome, in quanto essenza più intima della lingua pura che permea di sé la natura, parrebbe infatti compiere l’opera divina. Ne seguirebbe che esso è ciò in cui ricettivamente si manifesta l’intero creato, nel suo essere «traversat[o] da una lingua muta […], residuo del verbo creatore di Dio»35 e insieme ciò per mezzo di cui la creazione divina acquista significato36. In tal senso, «se non può essere creata dall’uomo, la cosa può però esserne conosciuta-interpretata, “portata alla luce e rivelata”, cioè ritratta […], subendo in ciò un arricchimento d’essere onto-teologico»37. Quest’esito delle giovanili riflessioni benjaminiane attorno al tema della lingua trova ulteriore elaborazione in una seriore analisi dedicata allo stato della ricerca in campo socio-linguistico, dove a cospetto d’un privilegio accordato dalla maggior parte 32 Cfr. W. Menninghaus, Walter Benjamins Theorie der Sprachmagie, cit., p. 36 e H. Kaulen, Rettung und Destruktion. Untersuchungen zur Hermeneutik Walter Benjamins, cit., pp. 9-90. 33 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 151; tr. it. p. 290 (tr. modificata). 34 Cfr. Ivi, p. 143; tr. it. p. 283. 35 Ivi, p. 157; tr. it. p. 295. 36 Ivi, p. 144; tr. it. p. 285: «La creazione di Dio si completa [sich vollendet] quando le cose ricevono il loro nome dall’uomo». 37 G. Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione, Quodlibet, Macerata 2006, p. 322; ma, più specificamente, cfr. Id., Walter Benjamin fisionomo del linguaggio, in «Materiali di estetica», 1, 1999, pp. 49-81

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degli studiosi – da Buhler a Lévy-Bruhl, da Wygotski a Paget, per non dire degli esponenti della scuola neokantiana38 – al livello semantico della lingua, si tende a contrapporre la necessità di prendere in considerazione l’aspetto espressivo del linguaggio, sino al punto di giungere a toccare «la soglia di una fisiognomica del linguaggio [Sprachphysiognomik], che va molto oltre i primitivi tentativi della teoria onomatopeica»39. Si perviene infatti a lambire un ambito nel quale il Nome, come Laut-Bild, come “ritratto sonoro”, si confonde con l’espressione corporea in modo tale che l’elemento fonetico finisce con essere il veicolo d’una comunicazione il cui sostrato è costituito da un gesto espressivo. Il «puro principio formale linguistico»40 rappresentato dal suono non sarebbe pertanto altro che una trasposizione acustica – sostiene Benjamin, citando Frédéric Lefèvre – «di antichi, spontanei movimenti espressivi di carattere mimico»41. È propriamente questo, colto retrospettivamente, il punto in cui – come Benjamin stesso ammette42 – comincia la teoria del 38 Con efficace sintesi E. Greblo ha osservato che il distacco da Kant e dal neokantismo avviene in ragione del fatto che Benjamin, in particolar modo nel saggio Über das Programm der kommenden Philosophie (1918), «si oppone alla parte che nel concetto kantiano di esperienza è svolta dall’idea, per quanto sublimata, di un Io individuale psicosomatico», volendo scorgere nella concretezza e nella materialità dell’esistente la dimensione intrascendibile del sapere (Id., L’ascesi della teoria. Walter Benjamin dal neokantismo alla filosofia concreta, in «aut-aut», 202-203, 1984, pp. 113-125: 119). Sulla presenza dell’insegnamento neokantiano nel pensiero di Benjamin si veda ora l’analitico studio di T. Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin, Quodlibet, Macerata 2003, che rilegge ed amplia gli approdi cui erano pervenute le ricerche raccolte nel volume Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, a c. di S. Besoli e L. Guidetti, Vallecchi, Firenze 1997, e segnatamente quelle di B. Maj, Logica dell’origine e idee pure tra Benjamin e Cohen, pp. 339-360 e P. Fiorato, L’ideale del problema. Sopravvivenza e metamorfosi di un tema neokantiano nella filosofia del giovane Benjamin, pp. 361-386. 39 W. Benjamin, Probleme der Sprachsoziologie (1935), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, cit., pp. 452-480: 478; tr. it. di A. Marietti Solmi, Problemi di sociologia del linguaggio, in Opere complete, vol. VI, Einaudi, Torino 2004, pp. 197-222: 220. 40 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 147; tr. it. p. 287. 41 W. Benjamin, Probleme der Sprachsoziologie, cit., p. 477; tr. it. p. 219. Benjamin cita da F. Lefèvre, Marcel Jousse, une nouvelle psychologie du langage, in «Les cahiers d’Occident», I, 10, 1927, pp. 11-116: 77. 42 Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. V, cit., 1999, pp. 236-238: 237 (lettera a W. Kraft del 30 gennaio 1936).

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linguaggio fondata sulla nozione di “somiglianza immateriale”, nella quale si riassume l’originario rapporto dell’uomo con il mondo ed al contempo si manifesta la «più intima essenza» umana43. Se la lingua è «lo stadio supremo del comportamento mimetico e il più perfetto archivio di similitudini immateriali: un mezzo in cui emigrarono senza residui le più antiche forze di produzione e ricezione mimetica»44, il sapere che di essa è possibile avere è conforme ad una «fisiognomica» tesa a soffermarsi sulle somiglianze che a cospetto di una cosa l’uomo ritrova in se stesso, ovvero accoglie in sé attraverso quella medesima cosa45. Come ha rilevato Hermann Schweppenhäuser, dal momento che l’oggettivo ed il soggettivo si presentano in Benjamin come consustanziali ed intrinsecamente correlati, la sua riflessione assume i connotati di «una dottrina delle tracce degli effetti reali che il non-io lascia nell’io»46. Ciò, tuttavia, solo ad un primo sguardo può risolversi nella constatazione della passione micrologica coltivata da Benjamin, e fondata sulla convinzione che il mondo mostra a colui che gli si rivolge direttamente una figura, che, per rivelare la propria essenza, dev’essere ridotta in minutissimi 43 W. Benjamin, Probleme der Sprachsoziologie, cit., p. 480; tr. it. p. 222. Cfr. pure Id., Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., pp. 141-142; tr. it. pp. 281-283. G. Gurisatti, Dizionario fisiognomico, cit., p. 323, ha giustamente osservato che questi assunti benjaminiani sembrano ricordare quanto sostenuto da H.-G. Gadamer circa l’aspetto universale dell’ermeneutica: essere la lingua «un mezzo in cui io e mondo si congiungono, o meglio si presentano nella loro originaria congenericità» (Id., Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1972; tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2004, p. 541). 44 W. Benjamin, Über das mimetische Vermögen (1933), W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 210-213: 213; tr. it. di R. Solmi, Sulla facoltà mimetica, in Opere complete, vol. V, Einaudi, Torino 2003, pp. 522-524: 524. Ma si veda altresì la coeva Lehre vom Änlichen, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, pp. 204-210; tr. it. di F. Boarini, Dottrina della similitudine, in Opere complete, vol. V, cit., pp. 438-443. 45 W. Benjamin, Ms 926 (1933-1935), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., p. 956; tr. it. di F. Boarini, Appendici a Dottrina della similitudine, in Opere complete, vol. V, cit., pp. 444-449: 444-445. «La somiglianza – ha scritto B. Moroncini – è un certo modo di ritagliare il proprio corpo secondo delle linee che nel loro svolgersi assomigliano alla silhouette dell’oggetto» (Id., Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., p. 225). 46 H. Schweppenhäuser, Physiognomik eines Physiognomikers, in Zur Aktualität Walter Benjamins, hrsg. v. S. Unseld, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972, pp. 139-171: 154.

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frammenti47. Il pensatore berlinese nell’affermare l’esigenza di studiare «i rapporti causali che si sono sedimentati nel carattere fisiognomico della lingua»48 parrebbe infatti soprattutto rivolto a recuperare quella lingua naturale che è stata degradata e tradita dalla moderna società borghese49. Lo testimonia l’attenzione che in uno dei suoi ultimi scritti egli riserva al rivoluzionario baltico Carl Gustav Jochmann, ravvisando specialmente nel suo scritto Die Rückschritte der Poesie (1828) l’esemplificazione della contrapposizione fra poesia e prosa, ossia fra l’originario patrimonio linguistico e l’aspetto puramente “enunciativo” che segna tanto la fine di ogni ideale della parola pro domo et mundo quanto la fissazione del momento comunicativo della lingua nella “frase”50. Nella sua evidente derivazione vichiana, la teoria jochmanniana della poesia consente, agli occhi di Benjamin, di tornare a quel linguaggio iconografico intessuto di geroglifici sonori, proprio della prima età del mondo51, e nel cui ambito la 47 Cfr. S. Kracauer, Zu den Schriften Walter Benjamins (1928), in Id., Das Ornament der Masse, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1964; tr. it. di M.G. Amirante Pappalardo, Sugli scritti di Walter Benjamin, in La massa come ornamento, Filema, Napoli 1982, pp. 129-134: 130. Sulle affinità fra S. Kracauer e W. Benjamin, accomunati dal medesimo interesse per i misteri della superficie, si veda R. Bodei, L’esperienza e le forme. La Parigi di Walter Benjamin e di Siegfried Kracauer (1983), in Caleidoscopio benjaminiano, a c. di E. Rutigliano e G. Schiavoni, Istituto italiano di studi germanici, Roma 1987, pp. 355-374. Più in generale, sulla filologia benjaminiana come fisiognomica sotto la cui lente il mondo appare come un libro di figure da leggere e giudicare o interrogare, e la memoria un raccoglimento lacerato di visioni imperfette entro un pluralità di scorci, si vedano, oltre che le considerazioni esposte nel successivo capitolo, E. Raimondi, Benjamin, Riegl e la filologia (1984), in Id., Le pietre del sogno, il Mulino, Bologna 1985, pp. 159-197; nonché G. Benvenuti, La cenere lieve del vissuto. Il concetto di critica in Walter Benjamin, Bulzoni, Roma 1994, in part. il III capitolo, pp. 69-101. 48 W. Benjamin, Ms 930 (1933), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., p. 957; tr. it. di Boarini, Appendici a Dottrina della similitudine, cit., p. 445. 49 Cfr. W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 144; tr. it. p. 284. 50 W. Benjamin, “Die Rückschritte der Poesie” von Carl Gustav Jochmann (1939), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 2, pp. 572-598; tr. it. di G. Schiavoni, “I regressi della poesia” di Carl Gustav Jochmann, in Opere complete, vol. VII, Einaudi, Torino 2006, pp. 440-451. In generale sulla contrapposizione “poesia”/ concezione borghese della lingua nell’opera benjaminiana: G. Carchia, Nome e immagine, cit., in part. pp. 75-83. 51 W. Benjamin, “Die Rückschritte der Poesie” von Carl Gustav Jochmann, cit., p. 584; tr. it. p. 450. Per una più distesa analisi della interpretazione proposta da

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somiglianza immateriale della lingua si rivela come un respiro vitale che unisce il corpo alle cose e anima entrambi52. È questo medesimo afflato a pervadere le «pagine acquarellate» – come le ebbe a definire Hermann Hesse53 – di Berliner Kindheit um neunzehnhundert, ed in particolare quelle, risalenti al 1933, del capitolo intitolato Loggien, dove, secondo quanto Benjamin stesso riferisce, è contenuto il suo «ritratto più fedele e preciso [das genaueste Porträt]»54. A ben vedere, Benjamin di Jochmann si fa rimando a O.-K. Werckmeister, Walter Benjamin’s Angel of History, or the Transfiguration of the Revolutionary into the Historian, in «Critical Inquiry», 22, 1996, pp. 239-267, in part. pp. 256-257; nonché a W. Kraft, Karl Gustav Jochmann und sein Kreis. Zur deutschen Geistesgeschichte zwischen Aufklärung und Vormärz, Beck, München 1972, in part. pp. 174-175. 52 Come assai opportunamente ha osservato V. Vitiello, i geroglifici di cui parla Vico nell’edizione del 1744 della Scienza nuova, ora in G.B. Vico, La scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, Bompiani, Milano 2012, p. 875 (Degnità LVII), sono le voci-gesto che si coappartengono come aspetti di un medesimo fenomeno avente il proprio fondamento nel “movimento del corpo”, «ove è chiaro che il genitivo non è soggettivo, ma oggettivo. È, infatti, dal “movimento” che derivano e il corpo e il mondo, in quanto il gesticolare, il morpházein – in cui si attua il “movimento” – dà figura al corpo e al mondo, al mondo e al corpo, in-scrivendo il corpo nel mondo nell’atto in cui circo-scrive lo spazio del mondo» (V. Vitiello, Vico nel suo tempo. Saggio introduttivo, in G.B. Vico, La scienza nuova, cit., pp. IX-CLXXII: CLII). Sulla ricezione di Vico da parte di Benjamin deve vedersi J. Mali, Retrospective Prophets: Vico, Benjamin, and Other German Mythologists, in «Clio», 26, 1997, pp. 427-448. 53 H. Hesse, Welche Bücher begleitet Sie, in «Weltwoche», 20 luglio 1951 cit. in G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino 2001, p. 4, n. 2. 54 Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. IV, cit., 1998, pp. 266-269: 267; tr. it. di A.M. Marietti, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, Einaudi, Torino 1987, pp. 81-84: 82 (lettera a G. Scholem del 31 luglio 1933). Loggien fu inizialmente pubblicato sulla «Vossische Zeitung» del 1 agosto 1933. Su questo significativo capitolo della Berliner Kindheit (1932-1938), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, cit., 294-296; tr. it. di E. Ganni, Logge, in Opere complete, vol. V, cit., pp. 408-410, le interpretazioni sono state diverse. A. Lemke, Gedächtnisräume des Selbst: Walter Benjamin “Berliner Kindheit um neunzehnhundert”, Königshausen & Neumann, Würzburg 2005, pp. 97-98, ha inteso vedere nella loggia la soglia che non soltanto separa l’interno della casa dall’esterno, ma che metaforicamente segna altresì il punto d’intersezione fra il passato ed il presente. Entro una prospettiva psicanalitica si colloca la lettura proposta da M. Muthesius, Mythos, Sprache, Erinnerung: Untersuchungen zu Walter Benjamins “Berliner Kindheit um neunzehnhundert”, Stromfeld Roter Stern, Basel 1996, p. 33-34, che intrepreta “Logge” come una soglia spaziale e temporale, che «indica simbolicamente una contemporaneità di dentro e fuori, di privatezza ed esteriorità ed allo stesso modo il passaggio di presente e passato». Se-

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però, tale asserita precisione chiede d’essere delucidata, dal momento che in questo luogo dell’opera benjaminiana non si scopre, in realtà, alcun effettivo ritratto dello scrittore berlinese. Ciò, invero, non parrebbe contraddire la morfologia del ritratto ed i paradossi che la informano. Che al ritratto sia associata una regola di somiglianza è infatti principio dotato di valenze estetiche essenzialmente negative. Come è stato osservato, «il ritratto deve essere somigliante, in modo tale da non essere riconosciuto come somigliante»55. La somiglianza che il ritratto mostrerebbe a cospetto dell’originale sarebbe, in questa prospettiva, di natura del tutto diversa da quella che comunemente ci si attenderebbe, la qual cosa comporterebbe un ulteriore paradosso, quello insito nel riuscire a percepire «la somiglianza del rappresentato con se stesso, senza conoscerne l’aspetto originario»56. Nel ritratto, quindi, non risiederebbe alcuna somiglianza materiale, ma, all’opposto, si potrebbe sostenere che in esso l’originale è sciolto ed astratto dagli elementi casuali e privati, per essere visto solo «nell’essenza del suo modo di manifestarsi»57. Ma a ben vedere a quanto Benjacondo U. Beiküfner, Blick, Figuration und Gestalt. Elemente einer aisthesis materialis im Werk von Walter Benjamin, Siegfried Kracauer und Rudolf Arnheim, Aisthesis, Bielefeld 2003, p. 36: «Benjamin definisce in “Logge” lo sguardo infantile come medium di un punto percettivo-teoretico, che è da fissare nella storia culturale ed individuale prima della differenza gerarchica fra uomo e cosa in soggetto ed oggetto». Per A. Stüssie, Erinnerung an die Zukunft: Walter Benjamins “Berliner Kindheit um neunzenhnhundert”, Vandehoeck & Ruprecht, Göttingen 1977, pp. 130-131, la loggia rappresenterebbe, coerentemente con la tesi complessiva del suo studio, l’ambito nel quale il bambino si rivela essere la personificazione del ricordo, l’origine di quest’ultimo, come processo di rappresentazione in virtù del quale la forma ed il contenuto dell’infanzia si delineerebbero mimeticamente. 55 W. Waetzold, Die Kunst des Porträts, Hirt, Leipzig 1908, p. 90. Ma al riguardo cfr. pure J.-L. Nancy, L’Autre Portrait, Galilée, Paris 2013; tr. it. di M. Villani, L’altro ritratto, Castelvecchi, Roma 2014, p. 23, secondo il quale «con il ritratto – con i suoi modi, le sue maniere, le sue eclissi e rovine – è in gioco la sorte della figura in generale […]. Nel ritratto si ritraccia, si ritira, molto sensibilmente sotto i nostri occhi, la possibilità per noi di essere presenti». 56 G. Boehm, Bildnis und Individuum. Über den Ursprung der Porträtmalerei in der italienischen Renaissance, Prestel, München 1985, p. 28. 57 H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 184. Ma già G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik (1835-1838), III Bde., hrsg. v. E. Moldenhauer u. K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a. M., Bd. III, p. 105; ed it. a c. di F. Valagussa, Estetica, Bompiani, Milano 2011, p. 2095, aveva affermato che «Il ritratto non soltanto

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min, in Loggien, propone come suo ritratto non sarebbe attribuibile una funzione rappresentativo-espositiva, rilevabile in un’“intuizione” (Anschauung), in quanto visione intellettiva e intellezione visiva insieme, capace di cogliere l’essenza invisibile nel visibile. Affinché il proprio ritratto possa essere delucidato, non ci si dovrà avvalere di alcuna «comprensione fisiognomica delle opere d’arte»58, ma – puntualizza Benjamin stesso in un appunto del 1934 intitolato Materialien zu einem Selbstporträt – si dovrà badare alla sua vocazione all’«occultamento [Verhüllung]», al suo desiderio di non essere riconosciuto da nessuno, ovvero di essere scambiato per qualcun altro59. La stessa scelta lessicale compiuta da Benjamin per definire il proprio “Selbst-porträt” concorrebbe a confermare questa osservazione: il francesismo “Porträt” ch’egli adopera in luogo del germanico “Bildnis” suggerisce che il suo “Io” deve restare sempre una parola straniera, qualcosa che soltanto approssimativamente può manifestarsi entro l’ordine della scrittura, quasi che la sua persona, nella sua propria autenticità, possa essere tematizzata unicamente in una perifrasi o in maniera nascosta. Espressa in altro idioma rispetto a quello materno la sua identità è come se fosse dotata di un “alibi”60. Il che vuol dire che egli è sia, può, bensì, anzi, deve lusingare, dal momento che omette tutto ciò che appartiene alla mera accidentalità della natura e accoglie soltanto quel che offre un contributo al fine di caratterizzare l’individuo nella propria più intima e più propria essenza». Su tutto ciò si veda comunque G. Gurisatti, Dizionario fisiognomico, cit., in part. il cap. IX, pp. 235-254. 58 Cfr. W. Benjamin, Lebenslauf (III), cit., p. 219; tr. it. p. 38. Altrove tale tipo di comprensione è ritenuta analoga a quella che penetri «in una monade che, come si sa, non ha finestre, ma reca in sé la miniatura del tutto» (Id., Oskar Walzer, “Das Wortkunstwerk. Mittel seiner Erforschung” [1926], in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, pp. 50-51: 51; tr. it. di G. Carchia, Oskar Walzel, “L’opera dell’arte della parola”, in Opere complete, vol. II, cit., pp. 475-476: 476). 59 W. Benjamin, Materialien zu einem Selbstporträt (1934), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., p. 532; tr. it. di G. Quadrio Curzio, Materiali per un autoritratto, in Opere complete, vol. VI, cit., p. 194; ma cfr. pure la lettera del 12 agosto 1933 a Gretel Adorno, in Id., Gesammelte Briefe, Bd. IV, cit., pp. 274-278: 276, dove si fa cenno alla «necessità dell’occultamento», onde evitare di cadere nella tentazione di togliersi la vita. 60 In una lettera a G. Scholem datata 20 gennaio 1930, Benjamin aveva confessato: «penserai, caro Gerhard, senz’altro che sono pazzo; ma provo una difficoltà talmente immensa a uscire dal mio silenzio e a scriverti sui miei progetti che forse non riuscirei mai a farlo senza ricorrere a questa sorta di alibi che è per me il francese»

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“nessuno gli somiglia meno che lui stesso”

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letteralmente, “altrove”, sia che, in lui, l’ambito del cosiddetto “proprio” (“Eigenen”) è sempre già fuori di sé61. La questione pare riflettere alcuni dei motivi presenti nelle tesi sul problema dell’identità cui Benjamin aveva atteso intorno alla metà degli anni Dieci e nel cui ambito egli aveva dichiarato che la locuzione “io stesso”, pur esprimendo l’identità dell’Io, rappresenta soltanto un analogon nella sfera della persona: lo “stesso” infatti sarebbe soltanto «l’ombra interna dell’Io»62. Tuttavia l’ambito al quale introduce Benjamin tracciando il Denkbild del proprio ritratto precederebbe qualsiasi dimensione logicolinguistica. Non soltanto perché, in senso generale, l’immagine di pensiero, nel pensatore berlinese, raccoglie in sé esclusivamente il significato d’una riflessione rivolta ad un elemento percettivo ed individuale nelle cui pieghe si elide la distanza fra l’oggetto e il soggetto determinando uno “choc” del continuum visivo e linguistico63, ma perché in Loggien non vi è alcuna “espressione” (Ausdruck), prima ancora che sprachlich, corporea64. Nell’insinuarsi con lo sguardo nei cortili dominati dalle loro buie logge, tutto pare tramutarsi in una serie ininterrotta di «cenni (Winke)» che allude con sempre maggiore intensità alla (Id., Gesammelte Briefe, Bd. III, cit., 1997, pp. 501-502: 501; tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, Einaudi, Torino 1978, pp. 177-179: 177). 61 Cfr. C.L. Hart Nibbrig, An der Stelle, statt eines Vorworts, in Übersetzen: Walter Benjamin, hrsg. v. C.L. Hart Nibbrig, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2001, pp. 7-16: 10. A giusta ragione D. Giuriato ha osservato che: «l’alibi linguistico e l’incognito autobiografico sono propriamente le cifre sotto le quali vanno lette le autotraduzioni e con esse l’intero progetto dei ricordi di infanzia benjaminiani, in quanto particolare forma di ri-scrittura» (Id., Der Schmetterling. Walter Benjamin als Übersetzer seiner selbst, in «Prospero», XII, 2005, pp. 95-121: 112). 62 W. Benjamin, Thesen über das Identitätsproblem (1916), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 27-29: 28; tr. it. di G. Schiavoni, Tesi sul problema dell’identità, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 23-25: 24. 63 Cfr. F. Desideri, M. Baldi, Benjamin, Carocci, Roma 2010, p. 101; nonché T.W. Adorno, Benjamins “Einbanhstraße” (1955), in Id., Über Walter Benjamin, cit., pp. 52-58, in part. pp. 52-53; più in generale: A. Hillach, Dialektisches Bild, in Benjamins Begriffe, II Bde., hrsg. v. M. Opitz, E. Wizisla, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2001, Bd. I, pp. 186-229. 64 Secondo H. Schweppenhäuser, Physiognomik eines Physiognomikers, cit., p. 159, “Loggien” presenta «un ritratto nel quale non c’è alcuna immagine riflessa di colui che è ritratto. Vi sono i suoi gesti, ma non secondo l’espressione del corpo».

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trasfigurazione dell’autore in una dimensione acorporea, perché compresa in un tempo ed in uno spazio raccolti in un reciproco legame entro il quale l’antagonismo fra corpo e linguaggio rivela pienamente la sua fecondità. Per Benjamin, infatti, «il linguaggio ha un corpo [Leib] e il corpo ha un linguaggio»; tuttavia, l’esperienza che può aversi del mondo, così come di noi stessi «si basa su ciò che nel corpo non è linguaggio e su ciò che nel linguaggio non è corpo»65. Ne seguirebbe che il “ritratto” di cui Benjamin fa menzione andrebbe collocato all’interno di un orizzonte che è, in pari misura, «senza fisionomia [ohne Physiognomie]» e «privo di espressione [ausdrucklos]»66. Diversamente da quanto sostenuto da Henri Bergson, per il quale la relazione fra linguaggio e corpo contribuisce a dilatare quest’ultimo fino a comprendere tutto ciò che si percepisce, rivelando l’esistenza d’un corpo interiore, invariabile e sempre presente, grazie al quale possiamo agire all’esterno67, le considerazioni benjaminiane sul linguaggio ed il corpo sarebbero, in questa prospettiva, assimilabili ad una forma di melancholia anaesthetica68. 65 W. Benjamin, Anja und Georg Mendelssohn, Der Mensch in der Handschrift (1928), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, cit., pp. 135-139: 138; tr. it. di G. Carchia, Anja e Georg Mendelsohn, L’uomo nella scrittura, in Opere complete, vol. III, cit., pp. 115-118: 117. Nel Ms 931 (1933), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, cit., p. 958; tr. it. di F. Boarini, Appendici a Dottrina della similitudine, cit., p. 446-447, si puntualizza che la polarità dei centri della facoltà mimetica, quale processo d’interscambio fra uomo e mondo, è interna all’uomo: essa propriamente si sposterebbe «dall’occhio alle labbra deviando poi su tutto il corpo [Leib]». Come ha osservato G. Richter «Benjamin lega linguaggio e corpo in una maniera sorprendente: egli suggerisce che la nostra esperienza del mondo non può aver luogo eccezion fatta per (a) ciò che nel corpo ha un linguaggio, ma si rifiuta d’essere rappresentato; e per (b) ciò che rimane senza un corpo e senza espressione in un linguaggio corporeo» (Id., Walter Benjamin and the Corpus of Autobiography, Wayne State University Press, Detroit 2000, pp. 71-72). 66 W. Benjamin, Anja und Georg Mendelssohn, Der Mensch in der Handschrift, cit., p. 137; tr. it. p. 116. 67 Cfr. H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion (1932), in Id., Œuvres, Puf, Paris 1959; tr. it. di M. Vinciguerra, Le due fonti della morale e della religione, SE, Milano 2006, pp. 197-198. 68 Il termine è stato coniato dallo psichiatra O. Schäfer in un saggio intitolato Bemerkungen zur psychiatrischen Formenlehre, in «Allgemeine Zeitschrift für Psychiatrie», 36, 1880, pp. 214-278: 242, per definire la patologia da cui erano affetti quei pazienti che lamentavano un dolore, ma si rifiutavano di porlo in relazione con una qualsiasi parte d’un corpo percepito: «lo collegavano esplicitamente ad un vuo-

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“nessuno gli somiglia meno che lui stesso”

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Se sotto un profilo linguistico, la categoria dell’Ausdruckslose69, modellata su quanto si legge nelle Anmerkungen zum Ödipus (1804) di Hölderlin circa il ruolo svolto, nell’ambito della tragedia sofoclea, dalla «cesura», «pura parola [das reine Wort]» capace di fare apparire non già qualcosa al di là delle immagini e del verso, ma «la rappresentazione stessa»70, dovrebbe – per Benjamin – anzittto interrompere l’anelito alla totalità proprio della parola poetica e della forma artistica, al fine di far apparire una parola cui non inerisce più alcun significato esterno, «una parola che non vuole più dire e comunicare nulla, ma è in se stessa e immediatamente la comunicazione»71; è altresì vero che questa medesima categoria ingloba al proprio interno pure la nozione di “corpo”. Quest’ultimo non sarebbe soltanto intrinsecamente legato alla “pura parola”72, ma condividerebbe con to». Analoghi sintomi ebbe a descrivere J. Cotard in Du délire de négations, in «Archives de Neurologie», 11-12, 1882; tr. it. di R.M. Salerno, Il delirio di negazione, in Melanconia e delirio. Un dibattito nella psicopatologia francese di fine Ottocento, Marietti, Genova-Milano 2005, pp. 9-38, in part. p. 10. Come osservò J. Lacan, Le séminaire. Livre II (1954-1955), Seuil, Paris 1978; tr. it. di A. Di Ciaccia, Il seminario. Libro II, Einaudi, Torino 2006, p. 274, si tratta di persone che si sono identificate «con un’immagine cui manca ogni apertura […]. Nella misura in cui si opera l’identificazione dell’essere con l’immagine pura e semplice, non c’è posto neppure per il cambiamento, cioè per la morte». Ma al riguardo si vedano M. Sierra, Depersonalization: A New Look at a Neglected Syndrome, Cambridge University Press, Cambridge 2009, in part. pp. 7-20; J. Starobinski, L’immortalité mélancolique (1982), in Id., L’Encre de la mélancolie, Seuil, Paris 2012; tr. it. di M. Marchetti, Dei “negatori” e dei “perseguitati”, in L’inchiostro della malinconia, Einaudi, Torino 2014, pp. 439-459, in part. pp. 439-445. 69 L’aggettivo sostantivato das Ausdruckslose deriva da ausdruckslos, la cui prima attestazione si ha nel saggio di F. Schiller, Über Anmuth und Würde (1793), dove qualifica l’immagine d’un volto “vuoto e privo di espressione”; tuttavia in Benjamin ciò che è privo di espressione non significa né una soggettiva mancanza d’espressione, né un contrappeso allo stile espressivo. Cfr. W. Menninghaus, Das Ausdruckslose: Benjamins Metamorphosen der Bilderlosigkeit, in Für Walter Benjamin, cit., pp. 170-182: 170. 70 W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften (1922), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 1, cit., pp. 125-201: 181-182; tr. it. di R. Solmi, Le affinità elettive di Goethe, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 523-589: 572. 71 G. Agamben, Das Ausdruckslose. Interpretazione di una categoria benjaminiana, in «Il piccolo Hans», 38, 1983, pp. 102-108: 107. Ma cfr. pure B. Menke, Sprachfiguren. Name, Allegorie, Bild nach Benjamin, Fink, München 1991, pp. 432-433. 72 Significativamente, nel fr. 45 risalente al 1918 ora in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 64-66: 66; tr. it. di F. Boarini, Psicolologia, in Ope-

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essa una forma di radicale indisponibilità, risultando il corpo auto-percettivamente inattingibile: È particolarmente significativo che il nostro proprio corpo [Leib] ci sia per molti versi inaccessibile: non riusciamo a vedere il nostro volto, la nostra schiena, neppure tutta la nostra testa, ovvero la parte più nobile del nostro corpo, non riusciamo a stare in equilibrio sulle nostre mani, non riusciamo ad abbracciarci e altre cose ancora73.

Altrove si sostiene, approfondendo questa linea di pensiero, che del corpo noi si ha una Gestaltwahrnehmung unicamente nella misura in cui esso assume i caratteri di un corpo simbolico, il quale non è «sostrato», ma «funzione» del nostro essere74. Da questo punto di vista – puntualizza Benjamin – è preferibile far riferimento, nel riferirsi al corpo, non alla sua complessione fisica, ma all’unione costituita da «Geist und Leib»75, che, a propria re complete, vol. VIII, cit., pp. 61-62: 62, Benjamin, nel sostenere che il nostro sé si concreta grazie alla natura semiotica del nostro corpo, afferma che «il rapporto della forma umana [Menschengestalt] con il linguaggio» è attraversato da qualcosa di «inintellegibile». Secondo R. Nägele, Echoes of Translation. Reading between Texts, John Hopkins University Press, Baltimore 1991, p. 7, ciò mostrerebbe come il pensatore berlinese non condivida gli approdi della filosofia dell’auto-coscienza e dell’auto-riflessione, privileggiando una prospettiva nella quale il corpo è permeato di linguaggio, o forse meglio costituito e disarticolato da esso. 73 W. Benjamin, Wahrnehmung und Leib (1920-1921), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., p. 67; tr. it. di F. Boarini, Percezione e corpo senziente, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 63-64: 63. 74 W. Benjamin, Schemata zum psychophysischen Problem (1922-1923), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 78-87: 79; tr. it. di F. Boarini, Schemi sul problema psicofisico, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 74-84: 76. 75 W. Benjamin, Über das Grauen I (1920-1922), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 75-77, in part. p. 76; tr. it. di F. Boarini, Sul terrore I, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 71-73, in part. p. 72. Ma al riguardo si vedano le chiose di E. Friedlander, Walter Benjamin. A Philosophical Portrait, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 2012, pp. 74-84; nonché, per una disamina sulla distinzione, invero assai presto abbandonata, fra Leib e Körper nell’opera di Benjamin, le pagine di S. Weigel, Passagen und Spuren des Leib-und Bildraums in Benjamins Schriften, in Leib-und Bildraum. Lektüren nach Benjamin, hrsg. v. S. Weigel, Böhlau, Köln-Weimar 1992, pp. 49-64, in part. pp. 57 sgg. Allo stesso modo in cui, quando parla di Leib, Husserl – come ha mostrato efficacemente J. Derrida in più occasioni (Cfr. Id., La voix et le phénomène, Puf, Paris 1967; tr. it. di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 1984, p. 122; Id., Introduction à E. Husserl, L’Origine de la géometrie, Puf, Paris, 1962; tr. it. di C. Di Martino, Introduzione a “L’origine della geometria” di Husserl, Jaca Book, Milano 1987, pp. 152-153), – vi implica la

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volta, presenta una stretta analogia con il concetto di simbolo76, analogia che si mostra ulteriormente evidente se si considera l’impossibilità per entrambi di trovare espressione se non attraverso la propria frantumazione. Al modo stesso in cui il significato proprio del simbolo esprime, in un momentaneo spazio di tempo, il mondanizzarsi del principio originario conformemente alla legge che governa il gioco di morte e di lutto cui partecipa ogni vivente77, vita, ma anche assai spesso lo spirito, Benjamin parrebbe affermare la necessità di pensare una geistige Leiblichkeit, ancorché egli non manchi di sostenere che Leib e Körper sono «identici, diversi solo in quanto definizioni, non in quanto oggetti» (Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., p. 78; tr. it. p. 74): il Körper è la forma conclusa del Leib e la sua limitatezza, laddove la Geistleiblichkeit è l’apparizione d’una forma nel «Nu», ossia – secondo quanto sostiene E. Bloch in Zwischenwelten in der Philosophiegeschichte (1950-1956), in Id., Gesamtausgabe, Bd. XII, Suhrkamp, Frankfurt a M. 1977, p. 160 – in un «“ora”, ma un “ora” brevissimo, un “adesso” quindi, il Nunc-stans, l’ora-stante, cioè il momento in cui tutto si adempie e che nello stesso tempo è ciò che porta al compimento. […]. Il Nu è il frammento impercettibilmente piccolo di un secondo ed in esso è l’intera eternità». Il Leib, nell’accezione benjaminiana, descriverebbe dunque un elemento che esclude ogni incarnazione, vale a dire ogni assunzione del logos quale effettiva presenza e senso del corpo fisico, così come ogni scambio fra carne del mondo e carne del corpo, iscrivendosi esso entro un’effimera caducità, nella quale il «Sé [Selbst] viene salvato in quanto scompare» dal tempo e dallo spazio «attraverso il rimpicciolimento» (W. Benjamin, Kierkegaard. Das Ende des philosophischen Idealismus [1933], in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, cit., pp. 380-383: 382; tr. it. di A. Marietti Solmi, Kierkegaard. La fine dell’idealismo filosofico, in Opere complete, vol. V, cit., pp. 473-475: 475). 76 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 342; tr. it. p. 202 (tr. modificata): «La misura temporale dell’esperienza simbolica è il mistico Nu, in cui il simbolo accoglie il senso nel suo interno […]»; parimenti «la corporeità spirituale è in qualche modo la categotria del suo “Nu”» (Id., Schemata zum psychophysischen Problem, cit., p. 78; tr. it. p. 75, tr. modificata). Il legame fra simbolo e corpo riceve ulteriore conferma da quanto si trae dal fr. 101 del 1920-1921, nel quale schematicamente si precisa: «Leib: forma (ideale della bellezza)» (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., p. 129; tr. it. di G. Schiavoni, Bellezza, in Opere complete, vol. VIII, cit., p. 125). Il corpo ed il bello risulterebbero quindi essere costituiti reciprocamente come forma e segnatamente come forma simbolica nella quale è racchiusa l’auto-trasparenza dell’idea (Cfr. B. Menke, Sprachfiguren, cit., pp. 260-261 e n. 53). 77 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 342; tr. it. p. 202: «[…] nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità, si manifesta fugacemente il volto trasfigurato della natura […]». Assai giustamente G. Scholem ebbe a rilevare, sulla scorta di quanto affermato in questi luoghi dell’opera di Benjamin, che per questi Dio costituiva «il centro irraggiungibile di una dottrina del simbolo che lo sottraeva a ogni carattere oggettivo, ma insieme anche simbolico» (Id., Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, cit., p. 97). Il simbolo nell’accezione messa a tema

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il Leib rappresenta, nell’ambito della storia naturale, tale annientamento. In alcuni frammenti dei primi anni Venti l’accezione del Leib come «carne in via di putrefazione»78 si coniuga con l’impossibilità di percepire i contorni fisici del proprio Sé, della propria “sostanza corporea” (Körper), nella sua esatta e compiuta interezza79, la quale deve necessariamente scomporsi in tanti minutissimi frammenti, non potendo il «corpo [Körper] umano fare eccezione al decreto che ordina di smembrare l’organico, per ritrovare nelle sue schegge [Scherben] il vero significato»80. Se tuttavia il corpo umano non può che essere sottoposto ad un processo di allegorizzazione, intendendosi, questo, come processo di «estraneazione da Benjamin non dovrebbe assimilarsi immediatamente al “divino”, all’“ordine celeste”, come pure è stato suggerito (Cfr. ad es. G. Gilloch, Walter Benjamin. Critical Constellations, Polity Press, Cambridge 2002; tr. it. di S. Manfredi, Walter Benjamin, il Mulino 2008, p. 117; G. Boffi, Allegoria e simbolo in Walter Benjamin, in Simbolo e conoscenza, a c. di V. Melchiorre, Vita & Pensiero, Milano 1988, pp. 332-363, in part. pp. 343 e 356), ma, prestando attenzione al fatto che nell’Habilitationschrift la maggior cura dell’autore è rivolta, in relazione alla questione del simbolo, a svolgere una disamina del modo in cui tale nozione è stata esaminata dall’estetica romantica ed in particolare da Goethe (al riguardo: B.A. Sörensen, Symbol und Symbolismus in den ästhetischen Theorien des 18. Jahrhunderts und der deutschen Romantik, Munksgaard, Kopenhagen 1963 e D. Starr, Über Den Begriff Des Symbols in Der Deutschen Klassik und Romantik, Hutzler, Reutlingen 1964), si dovrà riconoscere l’intenzione di concepire il simbolo come una realtà riposante in se stessa, e non già come sintesi della totalità; e ciò in accordo con quanto posto in rilievo da Görres, da Creuzer e soprattutto da Bachofen, il cui “simbolismo funerario” (per cui si veda G. Moretti, Creuzer, Bachofen, Baumler. Tre stazioni del pensiero mitico, in Dal Simbolo al Mito, a c. di G. Moretti, Spirali, Milano 1983, pp. 11-75) fungerà da modello, nella dissertazione sul dramma barocco, per concepire il simbolo come l’Umwelt naturale visto sotto il segno della storia (Cfr. M. Sagnol, Tragique et tristesse. Walter Benjamin, archéologue de la modernité, Cerf, Paris 2003, p. 216). 78 Cfr. B. Lindner, Benjamins Aurakonzeption: Anthropologie und Technik, Bild und Text, in Walter Benjamin 1892-1940 zum 100. Geburtstag, hrsg. v. U. Steiner, Peter Lang, Bern 1992, pp. 217-248: 245, n. 2. Ma testualmente W. Benjamin scrive: «la natura corporea [die leibliche Natur] avanza verso il proprio disfacimento [Auflösung]» (Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., p. 80; tr. it. p. 77, tr. modificata). 79 W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., p. 79; tr. it. p. 76: «La percezione della vista mostra il Körper, seppure non illimitato, comunque caratterizzato da un limite e da una forma non ben precisati». W. Menninghaus, commentando questi assunti, ha rilevato come per Benjamin debba sostenersi che il Körper sia, sotto un profilo filosofico, per quanto attiene all’autopercezione, mostruoso: esso, infatti, defigura ogni posibile immagine di se stesso come figura intera (Id., Das Ausdruckslose: Benjamins Metamorphosen der Bilderlosigkeit, cit., p. 179). 80 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 391; tr. it. p. 251.

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[Entfremdung]», «reificazione [Verdinglichung]» e «frammentazione [Zerstückelung]»81, che ha quale suo punto di approdo il compenetrarsi con la morte, ciò implica necessariamente che il “corpo fisico” (Körper), alla stessa stregua del “corpo proprio” (Leib), è votato alla dissoluzione82. In quest’ottica, i caratteri della melancholia anaesthetica cui in precedenza si accennava non si risolverebbero unicamente nella messa in relazione delle modalità dell’immagine allegorica con l’elemento soggettivo, e quindi nello sprofondare di quest’ultimo «nell’abisso aperto fra essere figurato e significare», così da rispecchiare lo status disgregationis d’una ontologia classica della soggettività83. Le allegorie, quali immagini ridotte a segno, asservite agli «eccentrici intrecci del significato» conferito dall’umano desiderio di sapere e di giudicare, non rivelerebbero soltanto il vuoto moltiplicarsi delle possibilità significanti84, ma il modo in cui il corpo – simultanamente Leib e Körper – del soggetto si cadaverizza. Dunque, come la frattura apertasi nel massiccio del significato fra ideografia significante ed ebbrezza del suono nominale impone allo sguardo di immegersi con rinnovato impegno nelle profondità del linguaggio85, così la riflessione benjaminiana 81 Cfr. H. Holz, Prismatisches Denken (1956), in Über Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1968, pp. 62-110: 83. 82 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., pp. 391-392; tr. it. pp. 251-252: «L’allegorizzazione della physis può compiersi in modo energico soltanto sul cadavere. […]. Considerata dal punto di vista della morte, la vita è produzione del cadavere. Non solo nella perdita di parti del corpo, non solo nei mutamenti del corpo che invecchia, ma in tutti i processi di secrezione e di purificazione vi è qualcosa di cadaverico che si stacca, pezzo per pezzo, dal corpo. […] C’è un memento mori che veglia nella physis […]». 83 Cfr. Ivi, p. 342; tr. it. p. 202. La costruzione benjaminiana dell’allegorico – ha scritto F. Masini – raccoglie «i frutti di una storia della soggettività pervenuta attraverso i suoi stessi autoinganni, le deformazioni “oggettive” della sua negatività, delle sue annientanti metamorfosi, alla crisi radicale, cioè alla propria autodissoluzione» (Id., Brecht e Benjamin, De Donato, Bari 1977, p. 117). 84 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., pp. 379-378; tr. it. pp. 237-238, nonché pp. 406-407; tr. it. pp. 266-267. 85 Verso tale ambito si è rivolta la maggior parte degli studi benjaminiani nel nostro Paese, specialmente a partire dagli anni Ottanta. A questo proposito si veda l’excursus storico-critico proposto da G. De Michele, Tiri mancini. Walter Benjamin e la critica italiana, Mimesis, Milano 2000, in part. pp. 159-178.

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parrebbe al tempo stesso e con rinnovata fecondità condurre a rilevare le implicazioni d’una Erfarungsarmut quale sparizione della nostra corporeità. 2. C’è modo e modo di sparire Fissando una regola che travalica la dimensione del precetto grammaticale o belletteristico, Benjamin si professa fautore, anche in contesti dichiaratamente autobiografici, di una «piccola regola»: «mai usare la parola “io”»86; il che del resto si accorda con l’assoluto riserbo ch’egli ha voluto mantenere non soltanto su di sé, bensì anche sulla sua famiglia, i suoi genitori, i suoi fratelli. Tanto più a proprio agio quanto più celato dietro il proprio lavoro esegetico87, egli è pronto a confessare la profonda influenza che il potere delle parole esercita su di lui, nell’atto di far scorgere somiglianze inattese dietro deformazioni ottiche ed acustiche di singoli lessemi che lungi dal semplice sviare, fanno accedere alle profondità più riposte della realtà; ma mai alla sua propria immagine88. È questa infatti sempre un 86 W. Benjamin, Berliner Chronik (1932), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 465-519: 475; tr. it. di E. Boccagni, Cronaca berlinese, in Opere complete, vol. V, cit., pp. 245-295: 255. 87 Come ricorda H. Mayer, Der Zeitgenosse Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt. a. M. 1992; tr. it. di E. Ganni, Walter Benjamin. Congetture su un contemporaneo, Garzanti, Milano 1993, p. 32: «A Benjamin piacevano gli pseudonimi e le mistificazioni. Un romanzo di Goethe o un quadro di Paul Klee si prestano in maniera ottimale ad un tentativo di auto-scandaglio». 88 Si veda il capitolo Die Mummerehlen (1933) all’interno di Berliner Kindheit um neunzenhnhundert, in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, cit., pp. 260-261; tr. it. di E. Ganni, La Comarehlen, in Opere complete, vol. V, cit., pp. 358360, nel quale – con accenti che non possono non far pensare al Michel Leiris de La Règle du jeu (1948-1976) – si ricorda di come il fraintendere da fanciullo alcune parole (es.: Mummerehlen da Muhme – “comare”, ovvero “vecchia”, “zia” – unita al nome proprio Rehlen; Kopf-ver-stich da Kupferstiche – “incisioni su rame” che diviene “testa [Kopf] sparita [da verstecken: nascondere]”) rese al futuro scrittore l’accesso alla realtà meno agevole ma più profondo. Nelle parole parve invero al giovane Benjamin di poter trovare un modo per deformarsi, onde prendere piede nel mondo: erano, le parole, simili a nuvole che assumevano via via, secondo i capricci del caso, le forme più varie: ora erano mobili, ora case, ora perfino vestiti. Mai, però, esse assumevano l’immagine di lui stesso: «e per questo – confessa – ero così perplesso quando da me si pretendeva che assomigliassi a me stesso [und darum wurde ich

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“riflesso anamorfico”89 anche quando non sembrerebbero potersi ammettere equivoci, come nel caso in cui si tratti d’una fotografia. Accade così che descrivendo in Berliner Kindheit il proprio ritratto fotografico giovanile, Benjamin in realtà ricalchi pedissequamente le pagine in cui due anni prima aveva parlato di quello di Kafka90. La specularità fra i due luoghi lascia sì trasparire la vicinanza che Benjamin sentì sempre per lo scrittore praghese, nato anch’egli in un ambiente borghese e che aveva nella scrittura trovato l’unica risorsa per resistere alle avversità dell’esistenza91; ma, più sottilmente, il rivolgersi a Kafka per cercare un modello per il proprio ritratto parrebbe attestare ancora una volta la vocazione benjaminiana alla pura perdita di sé. La malattia dell’identità che ha angustiato Kafka lungo l’intero corso della sua esistenza si sarebbe conclamata – si legge in Franz Kafka: Beim Bau der chinesischen Mauer – in un compulsivo lambiccarsi il cervello nel tentativo di indovinare quale fosse il suo aspetto esteriore, senza mai rendersi conto che esistono gli specchi92. Per Benjamin, non si tratta, però, di rilevare come l’immagine speculare sia ritenuta dallo scrittore praghese immeritevole di qualsiasi prerogativa d’evidenza, rappresentando essa il limite invalicabile del dominio interpretativo della fisiognoso ratlos, wenn man Ähnlichkeit mit mir selbst von mir verlangte]». In fondo – aveva già ammesso in Einbahnstraße (1926), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, pp. 83-148: 113; tr. it. di B. Cetti Marinoni, Strada a senso unico, in Opere complete, vol. II, cit., pp. 409-463: 433 – «essere felici vuol dire potersi accorgere di se stessi senza spavento». 89 Cfr. M. Mazzocut-Mis, Allegoria e anamorfosi, in Giochi per melanconici, cit., pp. 249-259. 90 Si leggano i passi che compaiono rispettivamente in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, cit., pp. 260-261; tr. it. pp. 358-359 e in Id., Kleine Geschichte der Photographie, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 368-385: 375; tr. it. P. Teruzzi, Breve storia della fotografia, in Opere complete, vol. IV, Einaudi, Torino 2002, pp. 476-491: 483. Ma la medesima pagina ritorna, pressoché invariata, nel grande saggio su Kafka del 1934: Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, in Id., Gesammelte Schriften, Bd., II, t. 2, pp. 409-438: 416; tr. it. di R. Solmi, Franz Kafka. Nel decennale della morte, in Opere complete, vol. VI, cit., pp. 128-152: 134. 91 Cfr. B. Witte, Walter Benjamin. Einführung in Leben und Werk, Rowohlt, Hamburg 1985; tr. it. di P. Dal Santo, Walter Benjamin, Lucarini, Roma 1991, p. 14. 92 W. Benjamin, Franz Kafka: Beim Bau der chinesischen Mauer (1931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 2, cit., 1980; tr. it. di P. Teruzzi, Franz Kafka: Durante la costruzione della muraglia cinese, in Opere complete, vol. IV, cit., pp. 449-455: 450.

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mica93. Si tratta piuttosto di riconoscere in Kafka l’autore che più d’ogni altro avrebbe reso evidente come il corpo – «il nostro proprio corpo [der eigene Körper]» – sia «la cosa più estranea e dimenticata»94, portando così all’estreme conseguenze quel processo, già avviato in età barocca, di presa di distanza dal mondo esterno che culmina nell’«estraniazione [Entfremdung] dal proprio stesso corpo», in una vera e propria «depersonalizzazione [Depersonalisation]»95. Invero, la «disperazione» per il proprio corpo avvertita da Kafka96, introdurrebbe, se riguardata dalla prospettiva benjaminiana, entro un più ampio e generale ambito di riflessione, contraddistinto dall’esigenza di portare l’interrogazione sulla linea di frontiera fra essere e avere presso la quale il nostro corpo parrebbe risiedere97, o, per meglio dire, sull’ambiguità di cui parteciperebbe il nostro corpo fra l’impossibilità di essere ciò che si è e la irrefutabilità della nostra presenza a noi stessi. Kafka, in tal senso, indicherebbe, attraverso l’insistito richiamo ad 93 Cfr. D. Stimilli, Fisionomia di Kafka, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 57, ove si richiama altresì il passo – che si assume essere noto a Kafka – dei Parerga und Paralipomena (1851) di A. Schopenhauer, in Id., Samtliche Werke in sechs Bänden, Bd. V, Reclam, Leipzig 1895; tr. it. di G. Colli, Parerga e Paralipomena, Adelphi, Milano 1998, pp. 802-803, nel quale si afferma che a dispetto di tanti specchi non si sa realmente quale sia il nostro aspetto: si tratta di una difficoltà che si oppone al “conosci te stesso” e che dipende anzitutto dal fatto che nello specchio ci vediamo sempre soltanto con lo sguardo immobile rivolto direttamente a noi stessi; con ciò impedendo l’espressivo gioco degli occhi, tratto distintivo dello sguardo. 94 W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 431; tr. it. p. 146; ma cfr. pure Id., Franz Kafka: Beim Bau der chinesischen Mauer, cit., p. 680; tr. it. pp. 452-453. 95 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 319; tr. it. p. 179. 96 Cfr. F. Kafka, Tagebücher (1910-1923), Schocken, New York 1949; tr. it. di E. Pocar, Diari, in Id., Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1972, p. 119. Come, in pagine ormai classiche, ebbe ad osservare L. Mittner, Kafka è come uno spettro, «“senza peso, senza ossa”»: come Klee o Giacometti egli è «geometra o addirittura ingegnere, più che delle cose, del proprio corpo dematerializzato, inesistente» (Id., Storia della letteratura tedesca, vol. III, t. 2, Einaudi, Torino 1971, p. 1164). 97 In questa dicotomia si muove, negli stessi anni, il pensiero esistenzialista francese, di cui può dirsi epitome il saggio di G. Marcel, Être et Avoir, Éd. Montaigne, Paris 1935, puntualmente recensito da M. Merleau-Ponty, Être et Avoir, in «La Vie intellectuelle», XLV, 1936, ora in Id., Parcours 1935-1951, Verdier, Paris 1997, pp. 35-44. Ma su questo si fa rimando a “Essere e avere” di Marcel e il dibattito su esistenza ed essere nell’esistenzialismo, a c. di F. Riva, Paravia, Torino 1990, in part. pp. 24-27.

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una corporeità deforme se non irriconoscibile, un nuovo stato d’esistenza98. Come a confermare le scoperte della psichiatria moderna circa le persone che sentono con molta convinzione di non esistere99, i personaggi kafkiani parrebbero non percepire di percepire e nemmeno di essere, pur essendo consegnati a se stessi, senza scampo – quasi con vergogna100. Essi sono là, e non c’è più nulla da fare, nulla da aggiungere: la loro «è l’esperienza stessa dell’essere puro»101. La riflessione che in questo medesimo torno d’anni Emmanuel Lévinas ebbe a svolgere circa l’“essere avvitato” (être rivé) dell’io al proprio corpo, realizzando una messa in parentesi della coscienza intenzionale, sembrerebbe introdurre ad un ambito continguo a quello dischiuso da Benjamin nel suo confronto con il problema psicofisico102. A tale riguardo, in Quelques 98 Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., pp. 431-432; tr. it. p. 147; nella lettera a Scholem del 12 giugno 1938 Benjamin sostiene significativamente che «Kafka vive in un mondo complementare» (Id., Gesammelte Briefe, Bd. VI, cit., pp. 105-114: 112; tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 341-348: 346). 99 Si veda su ciò D. Heller-Roazen, The Inner Touch. Archaeology of a Sensation, Zone Book, New York 2007; tr. it. di G. Lucchesini, Il tatto interno. Archeologia di una sensazione, Quodlibet, Macerata 2013, in part. pp. 227-243. 100 «La vergogna […] è il più forte gesto di Kafka», scrive Benjamin in Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 428; tr. it. p. 144. Al riguardo restano comunque fondamentali le pagine di M. Blanchot, De Kafka à Kafka, Gallimard, Paris 1981; tr. it. di R. Ferrara, Da Kafka a Kafka, Feltrinelli, Milano 1983, in part. pp. 54-57. 101 E. Lévinas, De l’évasion (1935), Fata Morgana, Montpellier 1982; tr. it. di D. Ceccon, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008, p. 36. 102 Mette conto ricordare che – come si trae dall’epistolario benjaminiano (cfr. Gesammelte Briefe, Bd. II, cit., 1996, pp. 126-132: 128, lettera a G. Scholem del gennaio 1921) – le riflessioni su questo tema, raccolte principalmente nei frammenti dei primi anni Venti di cui si è fatta ripetutamente menzione in precedenza, ed in particolare nello Schemata zum psychophysischen Problem, furono ispirate in misura significativa dalla lettura del saggio di E. Unger, Politik und Metaphysik (1921), Königshausen & Neumann, Würzburg 1989; tr. it. di P. Primi, Politica e metafisica, Cronopio, Napoli 2009, teso a dare espressione ad una metafisica, quale scienza trascendentale impegnata «in una chiarificazione reciproca e una penetrazione sperimentale dell’esperienza corporea e della coscienza teoretica» (Ivi, p. 50). Per una più distesa disamina al riguardo: M. Rumpf, Pathos und Parole. Walter Benjamin und Erich Unger, in «DVjs», 71, 1997, pp. 647-667; M. Voigts, Walter Benjamin und Erich Unger. Eine jüdische Konstellation, in Global Benjamin, 3 Bde., hrsg. v. K. Garber, L. Rehm, Fink, München 1999, Bd. 2, pp. 839-855.

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réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme, il filosofo lituano afferma che il sentimento d’identità tra il nostro corpo, inteso quale mero corpo fisico, e noi stessi precederebbe la dualità fra res cogitans e res extensa che nella storia del pensiero occidentale ha contraddistinto ogni rivendicazione di libertà dello spirito contro l’incatenamento al corpo e che è stata prodromica allo sviluppo d’un radicale scetticismo, pronto a negare valore a qualsiasi verità103. Ciò ha determinato l’emergere di un «male elementare» che ha reso il corpo biologico non più un destino, bensì un «oggetto della vita spirituale»104, come mostra il ferale affermarsi di ideologie – a cominciare da quella nazista105 – fondate sull’assoggettamento dell’uomo alle proprie condizioni fisiche e materiali. Incatenato ad un corpo sorto dalla commistione delle astratte fisionomie del “corpo proprio” dell’“io posso” con un vaniloquente razzismo, l’uomo si vede escluso dalla possibilità di contemplare il mondo esterno, il quale diventa sempre più opaco e straniante106. Altrove Lévinas spiega tale condizio103 E. Lévinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme (1934), in Id., Les imprévus de l’histoire, Fata Morgana, Montpellier 1994; tr. it. di A. Cavalletti, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, p. 30 (tr. modificata). 104 Ivi, pp. 31-33 passim. 105 Cfr. Ivi, p. 32. Come rileva G. Agamben, in queste pagine Heidegger non compare mai. Tuttavia, nella Prefatory Note (1990) aggiunta dallo stesso Lévinas in occasione della traduzione inglese di Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme non si lascia adito a dubbi circa lo stretto legame che unirebbe la politica nazista alla speculazione filosofica occidentale e segnatamente all’ontologia heideggeriana. Ma se l’esperienza della fatticità da quest’ultima messa a tema fornirebbe al nazismo il proprio presupposto teorico, occorrebbe comunque precisare che il filosofo di Meßkirch ha elaborato categorie concettuali tese a rendere la fatticità non già un fatto, ma piuttosto una “molteplice maniera di essere”, mentre il nazismo ha finito con il relegare la vita fattizia in una determinazione raziale (Id., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, pp. 169-170). Su come, più in generale, il saggio sull’hitlerismo costituisca, nel corpus degli scritti levinasiani, una lettura del dramma della civiltà e del pensiero occidentale nel suo complesso è efficacemente mostrato da F.P. Ciglia, Ermeneutica dell’Occidente. A proposito di un saggio giovanile di E. Levinas, in «Humanitas», 4, 1998, pp. 633-651, nonché da M. Abensour, Le Mal élémental, in E. Lévinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme, Payot & Rivages, Paris 1997; tr. it. di S. Chiodi, Il Male elementale, in E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit., pp. 37-87. 106 Si veda su ciò l’ampio studio di J.L. Lannoy, Question d’humeurs: Lévinas et la mélancolie, in Lévinas en contrastes, éd. par M. Dupuis, De Boeck, Louvain 1994, pp. 21-50, in part. pp. 45-48.

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ne di «assenza di qualunque sé»107 richiamandosi alla nozione heideggeriana di Geworfenheit, nella quale si compendierebbe il “fatto d’essere gettato dentro” l’esistenza da parte dell’esistente, e che, a sua volta, condurrebbe all’idea di un esistere che si fa senza di noi: ad un mero “c’è” (y’a)108. È, questa, l’esperienza di una bruciante disperazione di essere rimessi all’essere in modo incondizionato, prescindendo da qualsiasi rappresentazione, quale gesto capace di fondare tutta la vita psicologica ed al contempo di assicurare il contatto con il reale109. A mano a mano che l’apertura al mondo si contrae e l’unità indissolubile fra l’esistente e l’atto del suo esistere si è pienamente realizzata, consegnando l’uomo ad una inevitabile solitudine, si avverte con crescente intensità il diffondersi d’una sofferenza nella quale ci troviamo «costretti all’essere»110. Fra i lancinanti accessi del dolore la volontà della coscienza è svigorita: qui – scrive Lévinas – «“prendere coscienza” non è più, parlando propriamente, prendere; non è più fare atto di coscienza, ma […] subire» un «patire puro» che pertiene soltanto alla corporeità con cui la coscienza ha ormai una distanza minimale111. In tal senso non 107 E. Lévinas, Le Temps et l’Autre, Fata Morgana, Montpellier 1979; tr. it. di F.P. Ciglia, Il tempo e l’altro, il melangolo, Genova 2001, p. 23. 108 Cfr. Ivi, p. 21. In Signature (1983), in E. Lévinas, Difficile liberté, Albin Michel, Paris 1983; tr. it. parz. di G. Penati, Signature, in Difficile libertà, La Scuola, Brescia 2000, pp. 51-58: 53-54, si legge al riguardo: «Un’analisi che finge lo sparire d’ogni esistente – ed anche del cogito che lo pensa – è invasa dal ronzio caotico di un esistere anonimo, che è un’esistenza senza esistente e che nessuna negazione riesce a sovrastare. C’è (il y’a) – impersonalmente come “piove” o come “annotta”». 109 In E. Lévinas, Lévy-Bruhl et la philosophie contemporaine (1957), in Id., Entre nous, Grasset, Paris 1991; tr. it. di E. Baccarini, Lévy-Bruhl e la filosofia contemporanea, in Tra noi, Jaca Book, Milano 1998, pp. 69-83, si puntualizza che «la distruzione della sostanza (o, più esattamente, della “sostantività” degli esseri) – correlativa alla dissoluzione della rappresentazione – ha segnato, nella filosofia moderna, la fine di una certa nozione di esteriorità; di quella esteriorità già tutta vicina al soggetto […]» (Ivi, p. 78). Ma si leggano pure le pagine di De l’existence è l’existant (1947), Vrin, Paris 1984; tr. it. di F. Sossi, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986, in part. pp. 50-57. 110 Cfr. E. Lévinas, Totalité et infini, Martinus Nijhoff, Le Haye 1961; tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977, pp. 243-244. 111 E. Lévinas, La souffrance inutile (1982), in Id., Entre nous, cit.; tr. it. di E. Baccarini, La sofferenza inutile, in Tra noi, cit., pp.123-135: 124; ma cfr. pure Id., Autrement qu’être ou au-delà de l’essence. Martinus Nijhoff, Le Haye 1978; tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book,

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solo non vi è più nulla di esterno all’io, ovvero che mantenga con esso un rapporto di correlazione, ma l’io stesso è a sua volta «depersonalizzato [dépersonnalisé]»112. Tale termine tuttavia sembra voler non solo indicare, secondo l’accezione che ad esso è propria nell’ambito della psicopatologia, la dissoluzione del sé, in quanto nucleo di vita e di senso113, ma pure attestare che, nel momento in cui l’esistenza ha i tratti d’un campo di forze che permane come un universale semplicemente sussistente, l’aderenza del nostro Io al corpo non può che avere i caratteri d’un anonimato essenziale, ultimo stadio prima che la nuda esistenza corporea scompaia del tutto. Tale spazio liminare è propriamente quello abitato dal personaggio di Odradek tratteggiato da Kafka. Nel corpo vagamente antropomorfo di questa specie di rocchetto da refe si incarnerebbe – come non sfuggì a Benjamin114 – l’arretramento ormai definitivo del discrimine fra l’uomo e le cose. Diversamente dal Cacciatore Gracco del racconto eponimo, il quale parrebbe esprimere l’ambiguità del negativo in quanto legata all’ambiguità della morte115, Odradek racchiuderebbe nell’anonimato della proMilano 1983, in part. pp. 68-71. Come opportunamente sottolinea M. Blanchot in L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980; tr. it. di F. Sossi, La scrittura del disastro, SE, Milano 1990, p. 29, Lévinas continuamente stringe insieme in un unico plesso semantico passività, passione, passato, pas (insieme negazione e traccia o movimento del cammino). Si vedano comunque al riguardo le considerazioni assai puntuali espresse da M. Vergani, Lévinas fenomenologo. Umano senza condizioni, Morcelliana, Brescia 2011, in part. pp. 112-117. 112 In E. Lévinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 61, si legge: «Si tratta di una depersonalizzazione che è proprio l’opposto della incoscienza; che dipende dall’assenza di padrone; dall’essere che non è l’essere di nessuno» (tr. modificata). 113 Y. Murakami, Lévinas phénoménologue, Millon, Grenoble 2002, p. 118. 114 Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 431; tr. it. p. 147. Come noto, il personaggio di Odradek è descritto nel breve racconto del 1917 Die Sorge des Hausvaters, in F. Kafka, Erzählungen und kleine Prosa, Schoken, Berlin 1935; tr. it. di E. Pocar, Il cruccio del padre di famiglia, in F. Kafka, Racconti, Mondadori, Milano 1970, pp. 252-253. 115 La critica (J.M.S. Pasley, Two Kafka Enigmas, in «Modern Language Review», LIX, 1964, pp. 73-81, in part. pp. 76-78; K. Wagenbach, Kafka, Rowohlt, Hamburg 1964; tr. it. di E. Pocar, Kafka, il Saggiatore, Milano 1968, p. 119) ha invero ritenuto di poter identificare metonimicamente il protagonista de Il cruccio del padre di famiglia con il travaglio sorto nell’animo di Kafka nell’estate del 1917 per le difficoltà dovute alla stesura del coevo Jäger Gracchus, ma la proposta, pur suggestiva, appare alquanto artificiosa.

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pria amorfa fisionomia il modo in cui la soggettività si estrinseca, diventando un residuo cieco del mondo; ovvero, più esattamente, esso rappresenterebbe l’estremo limite e insieme «la riconciliazione dell’organico e dell’inorganico»116; e ciò perché in questo personaggio, pur dotato d’una complessione fisica schiettamente antropomorfa, si stenta nondimeno a ravvisare i tratti propri di un essere umano. Esso – ha scritto Slavoj Žižek – appare essere al di là del ciclo delle generazioni e della differenza sessuale, al di là del tempo, al di là d’ogni scopo: Odradek è «l’inumano-umano» senza alcun corpo, «la mitica sostanza vitale presoggetiva», ovvero «ciò che resta della Sostanza Vitale sfuggita alla colonizzazione simbolica»117. Da tale medesima sottrazione a qualsiasi architettura teorica dovrebbe del resto, seguendo le indicazioni consegnate da Benjamin al saggio sulle Wahlverwandtschaften goethiane118, essere contraddistinta la nudità umana come tale. Diversamente da quanto accade nell’arte e nelle manifestazioni della natura, la cui essenza si rivela soltanto in un infinito inapparire, nel nudo corpo dell’uomo è raggiunto un essere al di là d’ogni indisvelabilità: pura e possente «apparenza in cui si manifesta 116 Così si esprime T.W. Adorno nella lettera a Benjamin del 17 dicembre 1934, ora in T.W. Adorno, W. Benjamim, Briefwechsel 1928-1940, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1994, pp. 89-96: 93. Ma cfr. pure T.W. Adorno, Aufzeichnungen zu Kafka (1942-1953), in Id., Prismen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1955; tr. it. di E. Filippini, Appunti su Kafka, in Prismi, Einaudi, Torino 1972, pp. 249-282: 270-271, nonché Id., Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1951; tr. it. di R. Solmi, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, Torino 1994, dove, in particolare, si afferma: «Il residuato del mondo fenomenico diventa, per la coscienza malata, il mundus intelligibilis. Potrebbe essere quasi, quella coscienza, la verità speculativa, così come lo Odradek di Kafka potrebbe essere quasi un angelo; e invece, nella positività che lo contraddistingue, e che esclude e lascia da parte il medio del pensiero, essa non è che la follia barbarica, la soggettività alienata a se stessa e che perciò si disconosce nell’oggetto» (Ivi, p. 294). Per una più distesa analisi del rapporto fra Adorno e Benjamin rispetto all’autore praghese si fa rimando al lucido contributo di A. Valentini, Tra Benjamin e Adorno: il valore testimoniale del realismo di Kafka, in «Aisthesis», 2, 2010, pp. 141-151; nonché, con specifico riguardo alla figura di Odradek, a S.W. Wasserstrom, Adorno’s Kabbalah. Some Preliminary Observation, in Polemical Encounters: Esoteric Discourse and its Others,  ed. by O. Hammer and K. von Stuckrad, Leiden, Brill 2007, pp. 55-79, in part. pp. 70-72. 117 S. Žižek, Odradek as a Political Category, in «Lacanian Ink», 24-25, 2005; tr. it. di M. Agostini, Diritti umani per Odradek?, nottetempo, Roma 2005, pp. 22 e 30. 118 Cfr. W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 195; tr. it. p. 584.

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il Nulla»119. Invero, l’apparenza cui in questo luogo Benjamin allude, e che costituì un’«esperienza fondamentale [Grunderlebnis]» della sua intera esistenza120, non coincide con un “schöne Schein” in quanto tale, bensì, piuttosto, con una manifestazione di senso mai fino in fondo esplicitata ed esplicitabile. In tal modo Benjamin, recuperando, tanto apertamente quanto ellitticamente, la dottrina kantiana del giudizio riflettente, parrebbe voler emancipare l’Erscheinen da qualsiasi realtà effettiva121, ma senza per questo voler ricadere in una gnoseologia fondata sull’«idea, ancorché sublimata, di un Io individuale psicosomatico [leibgeistigen], che riceve le sensazioni per mezzo dei sensi e si forma le sue rappresentazioni sulla base di esse»122. Secondo quanto già osservò Ernst Bloch a margine di Einbahnstraße, nel pensiero benjaminiano dovrebbe infatti constatarsi la presenza di un io perennemente cangiante: di un io sempre nuovo che di volta in volta si cancella, sebbene, da un punto di vista oggettivo, nessun io appaia e le cose sembrino restare sole tra di loro123. Parrebbe 119 W. Benjamin, Über Schein (1922), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., pp. 831-833: 831; tr. it. di A. Moscati, Sull’“apparenza”, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 595-597: 596. «L’apparenza – ha scritto G. Agamben a commento di queste pagine – viene essa stessa all’apparenza e si mostra, in questo modo, infinitamente inapparente» (Id., Nudità, nottetempo, Roma 2009, p. 122). 120 Cfr. W. Benjamin, Tagebuch Mai-Juni 1931, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 422-441:436; tr. it. di U. Gandini, Diario maggio-giugno 1931, in Opere complete, vol. IV, cit., pp. 429-448: 442. 121 «La dottrina di Kant […] non rende visibile l’idea, ma il suo segreto» (W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 195; tr. it. p. 584). Sul modo in cui il giudizio riflettente kantiano restituisce il fenomeno alla sua peculiare energeia, così da consentire la libera contemplazione dell’apparenza, si veda specialmente quanto osserva G. Carchia, Elogio dell’apparenza (1983), in Id., Kant e la verità dell’apparenza, Ananke, Torino 2006, pp. 79-89. 122 W. Benjamin, Über das Programm der kommenden Philosophie (1918), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 157-171: 161; tr. it. di A. Marietti Solmi, Sul programma della filosofia futura, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 329-341: 333. Su questo rilevante scritto giovanile, si vedano: P. Fenves, “Über das Programm der kommenden Philosophie”, in Benjamins Handbuch. Leben – Werk –Wirkung, hrsg. v. B. Lindner, Metzler, Stuttgart 2006, pp. 134-150; T. Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin, cit., pp. 333-338; G. Carchia, Nome e immagine, cit., pp. 20-26; R. Tiedemann, Studien zur Philosophie Walter Benjamins, cit., pp. 12-35. 123 E. Bloch, Revueform in der Philosophie (1928), in Id., Erbschaft dieser Zeit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1962; tr. it. di L. Boella, La forma della rivista in filosofia, in Eredità del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 1992, pp. 308-311. Non

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in tal modo configurarsi una gnoseologia che prende definitivo congedo da una forma di «intuizione intellettuale [intellektuelle Anschauung]»124 entro la quale si esplica quella distinzione fra soggetto ed oggetto su cui si fonda l’intera storia della metafisica occidentale125, a favore di una «intenzionalità oggettiva», avente, quale proprio oggetto, un «oggetto immaginario», che è tale non soltanto perché – secondo quanto Benjamin argomenta nella Erkenntniskritische Vorrede alla dissertazione sul dramma barocco – la verità e la conoscenza non si incontrano mai, sicché nel punto ipotetico in cui la conoscenza intenzionale incrocia la verità, quale «essere inintenzionale formato di idee», non può che comporsi una fata morgana126, ma pure perché in esso si realizza quel reciproco compenetrarsi del soggetto con l’oggetto che può essere restituto soltanto da un’immagine che esaurisce l’oggetto, perché anche il soggetto è esausto127: Avevo appena cominciato a seguire gli uccelli d’oriente, a osservare come essi, dirigendosi con un paio di cupi taglienti colpi d’ala verso un ultimo bagliore, si perdevano lontano e poi riapparivano, che già più non riuscivo a seguire la loro traiettoria. Così forte fu l’impressione che mi parve d’essere io stesso a tornare da lontano verso di me, cupo di dolore, come un muto stormo d’uccelli. A sinistra tutto era ancora da scoprire, e il mio destino era legato a ogni segno; a destra tutto s’era già da tempo consumato e non restava che una traccia muta. A lungo durò questo contrappunto, sì che io stesso non fui più che la linea di confine diversamente si espresse T.W. Adorno, per il quale in Benjamin «il soggettivo in generale viene concepito soltanto come manifestazione d’un oggettivo» (Id., Benjamins “Einbahnstraße”, cit., p. 52). 124 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 215; tr. it. p. 76 (tr. modificata). 125 W. Benjamin, Über das Programm der kommenden Philosophie, cit., p. 163; tr. it. p. 334. Parimenti vent’anni più tardi M. Heidegger sosterrà che il tratto fondamentale del mondo moderno risiede nel «gioco reciproco necessario di soggettivismo ed oggettivismo» (Id., Die Zeit des Weltbildes [1938], in Id., Gesamtausgabe, Bd. 5, Klostermann, Frankfurt a. M. 1994; tr. it. di P. Chiodi, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Scandicci 1997, pp. 71-101: 85). 126 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 216; tr. it. p. 76; Id., Schemata zur Habilitationschrift (1920-1921), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, pp. 21-23: 22; tr. it. di G. Schiavoni, Schemi per la tesi di abilitazione alla libera docenza, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 17-18: 18. 127 Per la polisemia di questo termine, cfr. G. Deleuze, L’épuisé, Minuit, Paris 1992; tr. it. di G. Bompiani, L’esausto, Cronopio, Napoli 2010.

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sopra alla quale gli ineffabili messaggeri si alternavano neri e bianchi nei cieli128.

Come si trae da questo passo, i propositi che erano stati enunciati nel giovanile “programma d’una filosofia futura”, e volti a tratteggiare i contorni di una coscienza trascendentale pura, diversa da ogni coscienza empirica, tanto che lo stesso termine “coscienza” si rivelerebbe, invero, inadeguato129, si tradurrebbero progressivamente in una deontologizzazione del soggetto. Ciò, tuttavia, non porterebbe alla condivisione, da parte del pensiero benjaminiano, degli esiti propri d’una «fenomenologia asoggettiva»130, ovvero 128 W. Benjamin, Nordische See (1930), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, pp. 383-387: 386; tr. it. di M. Bertolini, Mare nordico, in Opere complete, vol. IV, cit., pp. 216-220: 219. Autorevolmente P. Szondi ha sostenuto che in questo brano «tutte le cose rivolgono alla malinconia il loro lato oscuro. La tensione fra nome e realtà viene dolorosamente esperita solo come la distanza che separa l’uomo dalle cose e in questo dolore fa breccia l’esperienza vissuta, che Benjamin registra senza indugiare nell’analisi. Il chiaroscuro del cielo lacera la realtà e revoca l’identità, che sola rende possibile dare nome alle cose» (Id., Nachwort, in W. Benjamin, Städtebilder, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1963; tr. it. di M. Bertolini, Postfazione, in W. Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino 2007, pp. 125-144: 139). Mette conto comunque ricordare la diversa lettura proposta da H. Weinrich che ha ritenuto di poter interpretare l’episodio qui descritto collocandolo in un campo di forze storiche, caratterizzato da un’ideologia politica basata sull’antinomia di matrice schmittiana amico-nemico e da una funzione dell’intellettuale sempre più sofferta e incerta di sé (Id., Streit um Metaphern, in Id., Sprache in Texten, Klett, Stuttgart 1976; tr. it. L. Ritter Santini, Dispute sulla metafora, in H. Weinrich, Metafora e menzogna, il Mulino, Bologna 1976, pp. 115-132). 129 Cfr. W. Benjamin, Über das Programm der kommenden Philosophie, cit., p. 163; tr. it. pp. 333-334. 130 Con tale definizione s’intende – secondo quanto ha scritto J. Patočka – una fenomenologia che «evita la puntualità dell’ego, che nel trascendentalismo kantiano fa da pietra angolare per le sintesi della coscienza ma mette anche il sigillo alla chiusura soggettiva nella “mera” fenomenalità. Anche la fenomenologia husserliana evita questa puntualità nel senso che […] cerca di riportare l’apparire alle effettuazioni della soggettività nel suo flusso. Ma nonostante ciò è caduta nel soggettivismo. La concezione dell’ego come indice personale del sum permette di andare oltre, verso l’essere il cui aspetto ontologico interno è l’“ogni volta mio”» (Id., Der Subjektivismus der Husserlschen und die Möglichkeit einer “asubjektiven” Phänomenologie, in Philosophische Perspektiven, ein Jahrbuch, Bd. 2, hrsg. v. R. Berlingen, E. Fink, Klostermann, Frankfurt a. M. 1970; tr. it. di G. Di Salvatore, Il soggettivismo della fenomenologia husserliana e la possibilità di una fenomenologia “asoggettiva”, in J. Patočka, Che cos’è la fenomenologia?, Edizioni Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2009, pp. 261-283: 281). Così inteso, il sum indica una cosa che può apparire solo in rapporto e in connessione con comportamenti relativi alle cose: «esso appare sempre

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di una fenomenologia della carne che, derivata da un’«analitica dell’incarnazione», richiesta ed insieme interdetta dalla necessità, già presente in Husserl, di considerare la scissione dell’io e la predonazione dell’alter-ego131, ha inteso mostrare una radicalità della soggettività trascendentale presente in uno «strato-preteoretico», il quale non soltanto pre-comprenderebbe soggetto ed oggetto in un vincolo irrefutabile, ma soprattutto fonderebbe tale vincolo su una opacità originaria, intrinsecamente legata al corpo, nella sua irriducibilità a qualsiasi forma di idealizzazione132. La riflessione benjaminiana infatti parrebbe piuttosto mirare a definire un soggetto impercettibile, e, come tale, non suscettibile di alcun contraddittorio riflettersi fra lo spazio del mondo e lo sfondo del proprio darsi133: «la impercettibilità è condizione della perfezione; essa soltanto esclude la percezione di ciò che fa difetto in ogni tempo; allo stesso modo in cui potrebbe essere disposto anche per la “realtà” del tempo»134. come io corporeo, agli stimoli del quale il corpo che appare è capace di obbedire, nel senso che il corpo in quanto egologico risponde a un richiamo fenomenale» (Id., Der Subjektivismus der Husserlschen und die Forderung einer asubjektiven Phänomenologie, in «Studia minora facultatis philosophicae Universitatis Brunensis», 14-15, 1971; tr. it. di G. Di Salvatore, Il soggettivismo della fenomenologia husserliana e l’esigenza di una fenomenologia asoggettiva, in J. Patočka, Che cos’è la fenomenologia?, cit., pp. 285-311: 308). In generale sul filosofo cecoslovacco si veda ora R. Barbaras, L’ouverture du monde: lecture de Jan Patočka, Éd. de la Transparence, Chatou 2011. Per un confronto con l’esperienza di pensiero merleau-pontiana anche con riguardo ai temi qui affrontati: E. Şan, La trascendance comme problème phénoménologique, Mimesis France, Paris 2012, in part. pp. 119-142. 131 Su ciò insiste specialmente D. Franck in Chair et corps. Sur la phénomenologie de Husserl, Minuit, Paris 1981, commentando in particolare le Cartesianische Meditationen (1931); ma, rispetto alla scissione dell’io, andrebbero rilette pure le lezioni del semestre invernale 1923-1924: Erste Philosophie Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in Id., Husserliana, Bd. VIII, Martinus Nijhoff, Den Haag 1959, in part. pp. 87-92. 132 Cfr. M. Merleau-Ponty, Le Philosophe et son ombre (1959), in Id., Signes, Gallimard, Paris 1960; tr. it. di G. Alfieri, Il filosofo e la sua ombra, in Segni, cit., pp. 211-238, in part. pp. 216-217 e 226. Per una più distesa analisi di quanto qui viene messo a tema, si veda E. Lisciani-Petrini, La passione del mondo, ESI, Napoli 2002, in part. pp. 80-94. 133 Contrariamente a quanto sostenuto da B. Flynn, Merleau-Ponty and Benjamin. Language/Loss/Restoration, in «Études Phénoménologiques», 31-32, 2000, pp. 67-81. 134 H. Blumenberg, Matthäuspassion, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1988; tr. it. di C. Gentili, Passione secondo Matteo, il Mulino, Bologna 1992, p. 268.

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Antecedente di qualsiasi forma di «retenu du corps», l’impercettibilità cui qui si allude non corrisponde ad alcuna «esistenza minimale», ad alcuna vaghezza e indecisione riguardante il corpo135. Tanto meno se con ciò si vuole intendere il coinvolgimento del corpo entro un gioco di riflessi e di rinvii fra sé e le cose che lo circondano ed avente, quale suo esito, una sorta di scarnificazione che renderebbe la carne, originariamente propria e origine del “corpo proprio” (Leib), impropria ed origine dell’improprio136. Più radicalmente, l’impercettibilità cui Benjamin parrebbe consegnare il soggetto coinciderebbe con una «extraterriorialità»137 che dissolve il soggetto della tradizione filosofica, quale sinolo di Leib e Körper138, conducendolo ad individuarsi per indeterminazione139. Se da un generale 135 Cfr. R. Barthes, Le Neutre. Cours au Collège de France (1977-1978), SeuilImec, Paris 2002, pp. 110 e 120. 136 Si veda al riguardo quanto scrive M. Merleau-Ponty in Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964; tr. it. di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2003, in particolare nella “Nota di lavoro” del 16 novembre 1960, pp. 274-275, e rispetto ai cui approdi R. Esposito ha opportunamente rilevato come ne discenda non soltanto una esteriorizzazione del corpo, ma pure l’aprirsi in questo d’una fenditura che ne impedisce l’assoluta immanenza (Id., Immunitas, Einaudi, Torino 2002, p. 144). Che ciò, però, vada esente da ambiguità non sembrerebbe invero potersi affermare, come suggerisce l’interpretazione “irritata” e “delusa” di J. Derrida, Le toucher, Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2000; tr. it. di A. Calzolari, Toccare, JeanLuc Nancy, Marietti, Genova-Milano 2007, in part. pp. 233-271, il quale fa non a torto osservare come in Merleau-Ponty si riscontrerebbe, in modo vistosamente ed insuperabilmente contraddittorio, da un lato un’«istanza sulla deiscenza, la fissione, la interruzione, la incompiutezza e l’apertura del corpo visibile, lo iato, l’eclissi, la inaccessibilità […] di questa pura riflessività sensibile che resta sempre imminente» e dall’altro il mantenimento del contatto con sé, dell’indivisione e «una specularità che, attraverso la “fissione”, non produce altro che una “più profonda aderenza a Sé”», con la conseguenza che in ultima analisi lo “schema corporeo” merleau-pontiano sarebbe altrettanto unificante e sintetico d’uno schema kantiano (Ivi, pp. 267 e 270). Quanto ad una collocazione genealogica degli assunti di Merleau-Ponty entro la tradizione fenomenologica nel suo complesso si fa rimando a D. Frank, Chair et corps, cit., pp. 90-102. 137 Cfr. T.W. Adorno, Charakteristik Walter Benjamins (1950), in Id., Prismen, cit.; tr. it. di E. De Angelis, Profilo di Walter Benjamin, in Prismi, cit., pp. 233-247: 246. 138 Sul tema si veda D. Leder, The Absent Body, University of Chicago Press, Chicago 1990, in part. pp. 1-8. 139 G. Agamben ricorda, sul margine del testo di Benjamin, In der Sonne (1932), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, pp. 417-429; tr. it. di G. Schiavoni, Sotto il sole, in Opere complete, vol. V, cit., pp. 327-330, che l’essere che è giunto alla sua

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punto di vista gnoseologico, l’intenzione di Benjamin non è di ripristinare la comprensione del mondo, restituendolo ad un soggetto precategoriale, bensì di procedere oltre la scienza e la ragione classica140, verso quella regione che, per Adorno, si sarebbe dovuta identificare con l’«aconcettuale»141, ciò nondimeno tale oltrepassamento, a differenza di quanto opinato dallo stesso Adorno d’accordo con Lukács, non può unicamente risolversi in una rivalutazione di ciò di cui la tradizione ha inteso sbarazzarsi come irrilevante e caduco, come esistenza inerte che solo attraverso l’allegoria, quale perturbamento che dissolve l’atteggiamento antropomorfizzante verso il mondo, può trovare espressione142. Ove si seguisse tale ultima interprefine riceve una possibilità supplementare, «che un filosofo del trecento [Franciscus de Marchia] chiama actus confusionis, atto confusivo, in quanto in esso la forma o natura specifica non si conserva, ma si confonde e si scioglie senza residui in una nuova nascita» (Id., La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, pp. 38-39). 140 Contrariamente all’interpretazione avanzata in particolare da G. Agamben in Infanzia e storia, Einaudi, Torino 2001 (1ª ed. 1978), per il quale la povertà d’esperienza posta al centro delle riflessioni benjaminiane a partire dagli anni Trenta avrebbe dovuto intendersi, sulla scia di Heidegger, come il risultato estremo della razionalità cartesiana, nel suo spingersi a tornare ad un’esperienza pre-linguistica, F. Rella richiama l’attenzione su come il pensatore berlinese si misuri con l’esigenza, espressa nel medesimo torno di anni da Einstein e Klee, di confrontarsi con conflitti irriducibili al vissuto. L’aver ceduto – secondo quanto si legge in Erfahrung und Armut (1933), in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, pp. 213-219: 219; tr. it. di F. Desideri, Esperienza e povertà, in Opere complete, vol. V, cit., pp. 539-544: 543 – uno dopo l’altro i pezzi dell’eredità umana a causa prima della Grande Guerra e poi della crisi economica ha fatto sì che la “ragione abituale” e la temporalità omogenea e lineare che la sottende fossero spezzate definitivamente, e si facesse luogo ad un altro tempo, al tempo in cui la propria esistenza si articola con un’altra esperienza incomunicabile, che impone alla ragione uno sforzo supplementare, una ragione più potente (F. Rella, Il silenzio e le parole, Feltrinelli, Milano 1984, p. 27; ma cfr. pure Id., Critica e storia, in Critica e storia. Materiali su Benjamin, cit., pp. 9-29, in part. pp. 22-23). 141 Cfr. T.W. Adorno, Profilo di Walter Benjamin, cit., p. 247. 142 Debbono al riguardo vedersi tanto le pagine del saggio adorniano Die Idee der Naturgeschichte (1932), in Id. Gesammelte Schriften, Bd. I, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1973; tr. it. di M. Farina, L’idea della storia naturale, in T.W. Adorno, L’attualità della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2009, pp. 59-80, in part. pp. 72-74, quanto quelle del secondo capitolo della terza parte della Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1966; tr. it. di C.A. Donolo, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, pp. 269-325, sensibili, in particolare queste ultime, alla lezione di G. Lukács, consegnata a Zur Gegenwartsbedeutung des kritischen Realismus, Claassen, Hamburg 1958; tr. it. di R. Solmi, Il significato attuale del realismo critico, Einaudi, Torino 1957, in part. pp. 44-48, dove si sostiene che in Benjamin: «l’allegoria è quel-

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tazione l’impercettibilità che si è voluta indicare come cifra del soggetto “fisiognomicamente osservato”143 entro l’ambito di riflessione dischiuso da Benjamin non potrebbe prescindere da un «contenuto universale di umanità»144, che, invece, parrebbe doversi porre in questione non soltanto perché il rispecchiamento estetico che implicitamente conterrebbe tale contenuto di umanità è da Benjamin fortemente avversato, in quanto inseparabile dalla ideologia d’una società divisa in classi e da una temporalità omogenea e vuota145, ma soprattutto perché ciò la categoria estetica in cui possono affermarsi artisticamente concezioni del mondo che costituiscono una scissione di esso, in seguito alla trascendenza della sua essenza e fondamento ultimo, in seguito all’abisso fra l’uomo e la realtà». Sui legami fra la riflessione adorniana e quella benjaminiana nei primi anni Trenta con riguardo pure al ruolo rivestito da Lukács deve leggersi almeno R. Wolin, Walter Benjamin. An Aesthetic of Redemption, Columbia University Press, New York 1982, pp. 165-173. 143 In W. Benjamin, Das dämonische Berlin (1930), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VII, t. 1, cit., pp. 86-92: 89; tr. it. di G. Schiavoni, Berlino città demoniaca, in Opere complete, vol. IV, cit., pp. 39-44: 41 (tr. modificata), significativamente si legge: «Gl’individui capaci di diagnosticare il carattere o la professione o persino il destino di altre persone in base alla faccia o all’andatura, oppure semplicemente dalle mani o dalla forma della testa vengono detti fisiognomi […]. “Osservatore” [Anseher] è il mondo più corretto, quindi, per tradurre la parola “fisiognomo”». 144 G. Lukács, Ästhetik. Die Eigenart des Ästhetischen, Luctherhand, Neuwied a. Rhein-Berlin-Spandau 1963-1972; tr. it. di F. Codino, Estetica, 2 voll., Einaudi, Torino 1975, vol. 2, p. 824. A tale impostazione resta altresì legata la prima ricezione che di Benjamin si è avuta in Italia, come dimostra l’introduzione di R. Solmi all’antologia di scritti benjaminiani Angelus Novus, Einaudi, Torino 1965 (2ª ed. 1995), pp. VII-XLIII, nella quale si ebbe a sostenere che soltanto l’impostazione umanistica di Lukács avrebbe permesso da un lato d’intendere gli sviluppi complessivi dell’evoluzione della tradizionali forme di vita e di cultura «in una prospettiva veramente storica» e dall’altro di aprirsi all’avvenire come realtà concretamente possibile, sicché, a ben vedere, il pensiero benjaminiano avrebbe dovuto assumersi non come esempio, ma come mero documento (Ivi, p. XLII). 145 Cfr. esemplificativamente W. Benjamin, Ms 1098v (1939-1940?), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, p. 1231; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, pp. 73-103: 100-101. Incisivamente U. Hortian ha affermato che quando Benjamin «legge l’utopia politica marxiana di una società senza classi come la forma secolarizzata della idea religiosa del Regno messianico, intende porre in luce la loro comune struttura di totale rottura con la storia finora considerata» (Id., Zeit und Geschichte bei Franz Rosenzweig und Walter Benjamin, in Der Philosoph Franz Rosenzweig [1886-1929], hrsg. v. W. Schmied-Kowarzik, 2 Bde., Alber, Freiburg-München 1988, Bd. 2, pp. 815-827: 825).

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implicherebbe il riprecipitare entro una Frage der Darstellung declinata nelle forme in cui tende solitamente a porla una “civiltà della visione”146. 3. Tal ch’in Lui stesso infine l’eternità lo muta Il rilievo da ultimo espresso chiama direttamente in causa l’interrogativo – nel quale, per il Benjamin del 1919, si compendia il significato peculiare allo studio fisiognomico – che chiede in quale modo possa cogliersi il «destino» del soggetto, quale «costituzione naturale del vivente», quale «apparenza non ancora del tutto dissolta, a cui l’uomo è così sottratto che non ha mai potuto risolversi interamente in essa», ma dove «ha potuto restare invisibile solo nella sua parte migliore»147. Animato dall’intenzione di divisare la fisionomia del suo stesso destino Benjamin attese, nel 1933, in un tempo assai travagliato sia storicamente che personalmente, ad una verifica, ancorché indiretta, dell’ambito di analisi circoscritto circa quindici anni prima, offrendo in tal modo una spiegazione lucida ed equilibrata «degli stimoli vitali che si agitavano in lui»148. Senza voler tornare a sciogliere l’anagramma che – secondo Scholem – celerebbe il titolo, Agesilaus Santander, sotto cui è 146 Al riguardo restano imprescindibili i rilievi di M. Cacciari, L’angelo necessario, Adelphi, Milano 1986, in part. pp. 71-90. 147 W. Benjamin, Schicksal und Charakter (1919), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, pp. 171-179: 175; tr. it. di R. Solmi, Destino e carattere, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 452-458: 455. T.W. Adorno, nell’Introduzione agli “Scritti” di Benjamin, cit., p. 253, ha ricordato che Benjamin tenne questo saggio sempre in gran conto «e lo considerò una specie di modello teoretico di ciò che aveva in mente». 148 G. Scholem, Walter Benjamin und sein Engel, in Zur Aktualität Walter Benjamins, cit.; tr. it. di M.T. Mandalari, Walter Benjamin e il suo angelo, in G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 1978, pp. 11-68: 36. Ma sullo sfondo biografico che accompagna la stesura di queste pagine da parte di Benjamin, si veda ora anche la puntuale ricostruzione di W. van Gerwen, Walter Benjamin auf Ibiza. Biographische Hintergründe zu “Agesilaus Santander”, in Global Benjamin, cit., Bd. 2, pp. 969-981. Mette comunque conto ricordare che per W. Fuld il “nome segreto” di cui Benjamin fa menzione sarebbe da ricondurre ai nomi effettivamente impostigli dai genitori alla nascita: Walter Benedix Schönflies Benjamin (Id., Agesilaus Santander oder Benedix Schönflies. Die geheimen Namen Walter Benjamins, in «Neue Rundschau», 89, 1978, pp. 353-362).

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passaggio al vuoto. saggio su walter benjamin

posto questo schizzo autobiografico depositato in due stesure pressoché coeve149, quanto qui preme considerare è l’angelo nel quale Benjamin si trasfigura e che imprime alle sue riflessioni un significativo slancio dialettico. Quest’ultimo, tuttavia, non si accorda con l’immagine catastrofica d’una storia collettiva in cui il progresso si è trasformato in un cumulo di rovine, come si legge nelle Thesen150, ma tende, invece, a designare una istanza di disappropriazione personale: l’angelo infatti non rappresenta alcun «arricchimento»; all’opposto, esso rende agli occhi di Benjamin cose e persone tanto impossedibili quanto invisibili151. Ma soprattutto l’angelo sottrae a colui che lo evoca tanto il Nome quanto il dono di apparire con «sembianza umana»152. Da que149 Per G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit., p. 38, “Agesilaus Santander” corrisponderebbe al nome segreto di Benjamin – “der angelus Satanas” – «che serra le energie vitali in un modo strettissimo e che deve venir protetto dai profani», come si esprime Benjamin stesso: Agesilaus Santander (1933), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, 520-523: 522; tr. it. di M.T. Mandalari, Agesilaus Santander, in Opere complete, Bd. V, cit., pp. 500-503: 502. Come correttamente rileva G. Agamben, «quest’ipotesi ingegnosa, proveniente da uno studioso che ha un’incomparabile esperienza della tradizione cabalistica, non può essere, in sé, né impugnata né sottoscritta. Ogni congettura ermeneutica di questo tipo ha, innanzitutto, carattere divinatorio e, come tale, non può essere in sé verificata» (Id., Walter Benjamin e il demonico. Felicità e redenzione storica nel pensiero di Benjamin [1982], in Id., La potenza del pensiero, cit., pp. 205-235: 206-207) Ma sul punto si veda pure B. Moroncini, Il nome segreto, in Id., L’autobiografia della vita malata, Moretti & Vitali, Bergamo 2008, pp. 99-121, in part. p. 113 e n. 133. 150 Cfr. W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte (1940), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 2, pp. 693-704: 697-698; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Sul concetto di storia, in Opere complete, vol. VII, cit., pp. 483-493: 487 (Tesi IX). Come ha affermato S. Mosès, qui l’Angelo funge da incarnazione allegorica dell’altra faccia del presente che sempre si ri-produce (cfr. Id., L’Ange de l’Histoire, Seuil, Paris 1992; tr. it. di M. Bertaggia, La storia e il suo angelo, Anabasi, Milano 1993, p. 190). 151 W. Benjamin, Agesilaus Santander, cit., p. 523; tr. it. p. 503: «Nelle cose che non ho più, egli alberga. Le rende trasparenti, e dietro ciascuna di esse mi appare la persona cui sono dedicate». 152 Cfr. Ivi, pp. 520 e 522; tr. it. pp. 500 e 502. Come ha assai efficacemente affermato M. de Certeau, Le parler angélique. Figures pour une poétique de la langue, in La linguistique fantastique, éd. par S. Auroux, Clims & Denoël, Paris 1985, pp. 114-136: «Ciò che si ritira con l’angelo è l’identità rivendicata, il sostituto onomastico della perdita» (Ivi, p. 136). Dal canto suo G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit., p. 66, n. 11, sostiene che Benjamin cammina qui sulle orme del patriarca Giacobbe: come questi – secondo quanto si narra in Gen., 32, 23-33 – lottando con l’angelo sino all’alba muta il proprio nome in Israele, così Benjamin muta il proprio nome segreto di Agesilaus Santander in Angelus Satanas; ed al modo stesso in cui

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“nessuno gli somiglia meno che lui stesso”

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sto punto di vista interpretare il “destino” dell’autore berlinese, di cui l’angelo parrebbe essere figura, implicherebbe il doverlo riconoscere come coincidente con la steresi della «relazione» che, attraverso il Nome, secondo quanto in precedenza osservato, lega la «Menschengestalt al linguaggio»153; ma più ancora comporterebbe la necessità di assumere «la nuda vita in lui»154 non nel suo carattere generale di rappresentazione oggettiva, bensì come «realtà» impercettibile155. L’accezione con cui la nozione di “realtà” è qui introdotta è per certi versi affine a quanto Kant pone sotto la definizione di «cosalità [Sachheit]» (o «materia trascendentale»), a sua volta corrispondente alla sensazione in sé, in quanto rappresentazione oggettiva, estranea, come tale, tanto all’intuizione dello spazio quanto a quella del tempo, e dunque, in ultima analisi, estranea ad ogni schema in virtù del quale i concetti assumono un’“immagine”, ossia divengono orizzonti di visibilità presso cui si determinano secondo forme generali156. Se infatti le sensazioni, ove si ponga la necessità d’una loro connessione, non possono prescindere dalle forme pure dello spazio e del tempo, è però vero che esse, considerate nella loro singolarità, a cospetto dell’angelo incontrato da Giacobbe gli nega la possibilità di conoscere il suo nome, così l’angelo di Benjamin non vuole rivelarsi nella propria identità. Ma al riguardo si veda pure quanto sostiene G. Schiavoni, per il quale la lotta con l’angelo di Giacobbe si rifletterebbe sulla pagina benjaminiana nel senso che essa raffigurerebbe l’irrisolta drammaticità che l’artista vive non potendo egli far parte della sfera sorvegliata ed incarnata dall’angelo (Id., Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura, Sellerio, Palermo 1980, p. 62). 153 Cfr. W. Benjamin, Psychologie (1918), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 64-66: 66 (fr. 45); tr. it. di F. Boarini, Psicologia, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 61-62: 62 (tr. modificata). 154 W. Benjamin, Schicksal und Charakter, cit., p. 175; tr. it. p. 455. 155 M. Cacciari ha correttamente affermato: «L’Angelo Nuovo è la realtà inafferrabile di cui vive l’esserci individuo» (Id., L’angelo necessario, cit., p. 55). 156 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (2ª ed. 1787), in Ausgabe der Preußischen Akademie der Wissenschaften, Bd. III, Berlin 1902, pp. 137 e 151-158; tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 2000, pp. 139 e 152-158. Ma su ciò deve vedersi specialmente M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik (1919), in Id., Gesamtausgabe, Bd. 3, Klostermann, Frankfurt. a. M. 1991; tr. it. di M.E. Reina, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari-Roma 2000, pp. 83-101; nonché Id., Logik. Die Frage nach der Wahrheit (1925-1926), in Id., Gesamtausgabe, Bd. 21, cit., 1976; tr. it. di U.M. Ugazio, Logica. Il problema della verità, Mursia, Milano 1986, pp. 236-262.

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passaggio al vuoto. saggio su walter benjamin

le anticipazioni della percezione157 rappresentano solo qualche cosa, un concetto che contiene in sé un essere la cui conoscenza non appartiene alle prerogative dell’esperienza trascendentale, ma alla pura coscienza empirica – alla vita nella sua individualità specifica, sottratta alla presa del tempo e dello spazio, ovvero della visibilità158. Ma altresì sottratta, in Benjamin in modo invero ancor più deciso di quanto avvenga in Kant159, a qualsiasi istanza biologista. Ove infatti si conferisse ogni primato all’«esistenza [Dasein] come tale»160, si fraintenderebbe del tutto il significato della nozione di «nuda vita», quale elemento che chiede d’essere pensato all’interno d’una ermeneusi di tipo fisiognomico. Sebbene questa si proponga d’indagare il destino «di ciò che vive»161, non si deve confondere il riferimento alla «bloßes Leben» con un richiamo ad uno stato, ovvero ad una proprietà dell’uomo come tale e neppure «con l’unicità della sua figura corporea [mit der Einzigkeit seiner leiblichen Person]»162 nel suo tra-passare storico. Anzi, proprio in ragione della sua indeterminabilità ed indefinitezza corporea, la «nuda vita» deve assumersi al di fuori d’ogni determinazione storica. Meglio, la «nuda vita», non 157 Secondo quanto si legge in I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1ª ed. 1781), in Ausgabe der Preußischen Akademie der Wissenschaften, Bd. IV, Berlin 1910, p. 115; tr. it. p. 152, n. 1, «Il principio che anticipa tutte le percezioni come tali, suona così: In tutti i fenomeni la sensazione e il reale, che le corrisponde nell’oggetto (realitas phaenomenon), hanno una quantità intensiva, cioè un grado». Le Anticipzioni della ragione rappresenterebbero, in altre parole, il gruppo di principî dell’intelletto puro mediante i quali è possibile conoscere e stabilire “a priori” ciò che appartiene alla conoscenza sensibile, segmentando il continuum del reale. 158 V. Vitiello, Ethos ed Eros in Hegel e Kant, ESI, Napoli 1984, pp. 44-45. 159 Cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Bari 2010, in part. pp. 40-47, il quale sostiene come la vita in Kant deve «comunque insediarsi da qualche parte, deve attestarsi ed incarnarsi nel mondo dei fenomeni, pena il suo dileguare immediato nella sfera del mero non-essere». 160 K. Hiller, Anti-Kain. Ein Nachwort, in «Das Ziel», 3, 1919, p. 25, cit. in W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt (1921), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, pp. 179-203: 201; tr. it. di R. Solmi, Per la critica della violenza, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 467-488: 486. Secondo quanto osserva J. Derrida, la ostilità alle tesi espresse da Hiller, e dunque ad un certo biologismo, mostra come in Benjamin la vita acquista valore se considerata in sé, al di là di sé (Id., Force de loi, Galilée, Paris 1994; tr. it. di A. Di Natale, Forza di legge, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 129). 161 W. Benjamin, Schicksal und Charakter, cit., p. 175; tr. it. p. 455. 162 W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 201; tr. it. p. 487 (tr. modificata).

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“nessuno gli somiglia meno che lui stesso”

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identificandosi con il corpo, quale funzione dell’esistenza storica non soltanto del singolo individuo, ma dell’intero consorzio umano163, chiede d’essere riconosciuta come eccedente la misura stessa del tempo164. Il che, d’altronde, non implica consegnare la «nuda vita» ad una dogmatica volta ad affermarne la sacertà, quale dimensione separata da quanto è vivo165. Si tratta, piuttosto, di riuscire a intendere ciò che rimane della vita – la sua «cenere lieve»166 – dopo che ogni elemento fisico, ogni visibilità, ogni storicità è trapassata nella sua totalità non soltanto spaziale, ma pure temporale: il significato, quando ogni elemento vitale ha rivelato la sua eterna ed assoluta caducità, di ciò che resta 163 W. Benjamin, Schemata zum psychophysischen Problem, cit., p. 80; tr. it. p. 77 (tr. modificata): «L’uomo appartiene con il suo corpo proprio [Leib] e con il suo corpo fisico [Körper] al consorzio universale. Con entrambi, tuttavia, in modo affatto diverso: con il corpo proprio appartiene all’umanità, con il corpo fisico a Dio. I limiti di entrambi sono imprecisati di fronte alla natura, l’avanzare dell’uno o dell’altro determina il divenire del mondo a partire da profondità abissali. Il corpo proprio, la funzione della presenza storica nell’uomo, diventa la vita dell’umanità. La “individualità” come principio del corpo proprio sta in una posizione più elevata di quella delle singole individualità corporee. L’umanità, intesa come individualità, è il compimento ed al contempo il decadimento della vita corporea. Caduta: perché con lei quella vita storica, la cui funzione è il corpo proprio, giunge alla sua fine». 164 In modo più attenuato, studiando la nozione di “nuda vita” quale sinonimo di oggetto, di vittima, della violenza giuridica, M. Palma afferma che essa può intendersi come «grado zero della storicità» (Id., Benjamin e Niobe. Genealogia della “nuda vita”, Editoriale Scientifica, Napoli 2008, p. 97). 165 Cfr. W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 176; tr. it. p. 487. Come, attenendosi ad una lettura interna di questo saggio e riconducendolo ad una economia di pensiero di ispirazione biopolitica, ha puntualizzato G. Agamben, sospetto è, per Benjamin, il rapporto che stringe insieme “nuda vita” e potere sovrano e che sarebbe suggellato dal principio del carattere sacro della vita che il nostro tempo riferisce alla vita umana e, perfino, alla vita animale in generale, «quasi che una complicità segreta corresse tra la sacertà della vita e il potere del diritto» (Id., Homo sacer, cit., p. 75). In altri termini, Benjamin si farebbe promotore di una rielaborazione dell’abusato concetto di diritto alla vita, assegnandogli una sfumatura quasi hegeliana di «diritto alla vita effettiva» capace di tutelare il Prius d’ogni proprietà umana: l’essere uomo (Cfr. G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts [1821], Ullstein, Frankfurt a. M., 1972; tr. di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari-Roma 2000, p. 110 [§127]). Ma a tale ultimo riguardo si veda M. Palma, Benjamin e Niobe, cit., p. 93 e n. 31. 166 W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 126; tr. it. p. 524. «La cenere – ha scritto in modo mirabile J. Derrida – è ciò che serba per non più nemmeno serbare, mentre il resto è affidato alla dissipazione» (Id., Feu la cendre, Des Femmes, Paris 1987; tr. it. di S. Agosti, Ciò che resta del fuoco, SE, Milano 2000, p. 17).

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passaggio al vuoto. saggio su walter benjamin

vivo al di là di tutto ciò che è. In questa prospettiva la “nuda vita” riassumerebbe in sé i caratteri propri della vita infinita, di quella vita che non ammette l’esperienza della propria distruzione, della propria fine167. Una vita senza origo, senza vestigia, senza spoglie che la possano rendere presente; una vita che c’è, ma che essendo, non è nulla: pura sfumatura inafferrabile che abita «con i morti come con i non nati»168.

167 I Greci – ricorda K. Kerény in Dionysos. Urbild des unzerstörbaren Lebens, Langen-Müller, Münche-Wien 1976; tr. it. di L. Del Corno, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992, pp. 17-21 – avevano pensato tale esperienza della vita ponendola sotto il termine “zoé”, nel quale trova espressione la vita che, in quanto scevra di connotati qualitativi, è definibile solo in forma denegativa: pura vita che non è non vita. 168 Cfr. P. Klee, Diesseitig bin ich gar nicht faßbar (1920), in Id., Gedichte, Arche, Zürich 1960; tr. it. di U. Bavaj e G. Manacorda, Nell’aldiqua sono inafferrabile, in Poesie, SE, Milano 2000, p. 17. G. Scholem ricorda che H. Arendt, recatasi a Portbou alcuni mesi dopo il settembre 1940, aveva a lungo cercato la tomba di Benjamin, ma non era stato possibile trovarla: «in nessun posto c’era scritto il suo nome» (Id., Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, cit., p. 349). Sulle circostanze della morte e della sepoltura di Benjamin si veda comunque il materiale storico-documentario ora raccolto in Fine terra. Benjamin a Portbou, a c. di C. Saletti, Ombre Corte, Verona 2010.

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Come il tempo muore

1. Il frinire delle citazioni Il metodo fisiognomico è stato precocemente adottato dalla critica per definire i caratteri della riflessione benjaminiana, del suo stile, in quanto gesto che organizza lo spazio del discorso. Già alla fine degli anni Venti Siegfried Kracauer ha sottolineato la «singolare abilità divinatoria» dell’autore berlinese, capace di penetrare fin nell’origine più riposta del «mondo delle essenze» e tesa ad una assidua e sollecita ricerca del passato. Nelle opere e nelle situazioni prive di vita e sottratte a qualsiasi riferimento all’immediato presente, Benjamin lascerebbe trasparire la loro forma più autentica, sicché il suo metodo implicherebbe una del tutto peculiare cura, quasi un rabdomantico anelito, per ciò che ha raggiunto lo «stadio della dissoluzione»1. La fisiognomica, soprattutto allorché declinata nei modi di una «filologia visionaria», si presenterebbe, in questa prospettiva, come via d’accesso ad una realtà circostante disposta a lasciarsi interpretare, a patto di osservare le cose come se fossero codici cifrati da leggersi in senso micrologico2; ovvero, secondo la felice intuizione di Furio Jesi, in senso ermetico, dove tale aggettivo indica un modo di prendere posizione rispetto ad un oggetto così da farne risaltare la sua conformazione nel passato e insieme quella che esso ha assunto nel presente3, prestando attenzione al grado di distorsione prodottosi fra le due. 1

S. Kracauer, La massa come ornamento, cit., pp. 130-132 passim. Cfr. E. Bloch, Erinnerungen an Walter Benjamin (1966), in Über Walter Benjamin, cit., pp. 16-23: 18. 3 F. Jesi, Ermetismo di Benjamin (1973), in «Cultura tedesca», 12, 1999, pp. 145-146. 2

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passaggio al vuoto. saggio su walter benjamin

D’accordo con ciò, l’esegesi non dovrebbe presentare gli oggetti sui quali si appunta nel contesto del loro tempo, ma – scrive Benjamin – dovrebbe «presentare, nel tempo in cui essi sorsero, il tempo che li conosce, e cioè il nostro»4. Il che implica che il lavoro critico debba esprimersi in un genere ove risalti l’attualità dell’anacronismo, non già distinguendo l’eterno dal caduco, ma, all’opposto, rendendo eterno quest’ultimo. La preferenza di Benjamin per il saggio ne costituirebbe significativa conferma. Nella scrittura saggistica ch’egli adotta si compendierebbe la costituzione attiva delle idee storiche, quale è riflessa in una «costruzione che non vorrebbe ricopiare la cosa, bensì ripristinarla ricomponendola in base ai suoi concettuali membra disiecta»5. Tuttavia, se si accorda al saggio come forma la possibilità di contemplare ciò che è storico, non si deve supporre – come correttamente avverte Adorno – ch’esso crei una struttura chiusa nella propria totalità, ma riconoscere in esso un «campo di forza [Kraftfeld]», una «configurazione» di elementi in movimento6. Se così non fosse, non solo il saggio rinnegherebbe la propria ostilità verso qualsiasi concettualizzazione metatemporale, ma esso verrebbe anzitutto meno alla propria funzione di «versione interlineare» del suo oggetto7, la quale appare decisiva per 4 W. Benjamin, si osserva in Literaturgeschichte und Literaturwissenschaft (1931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, cit., pp. 283-290: 290; tr. it. di A. Marietti Solmi, Storia della letteratura e scienza della letteratura, in Opere complete, vol. IV, cit., pp. 396-401: 401 (tr. modificata). 5 T.W. Adorno, Der Essay als Form (1954-1958), in Id., Noten zur Literatur, Bd. I, Frankfurt a. M. 1958; tr. it. di E. De Angelis, Il saggio come forma, in Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, pp. 5-30: 27. 6 Ivi, p. 18; ma cfr. pure Id., Profilo di Walter Benjamin, cit., pp. 236-237. Più in generale sulla pratica saggistica benjaminiana cfr. E. Fabietti, “Der gute Schrifteller”. Forme della scrittura in Walter Benjamin, in La saggistica degli scrittori, a c. di A. Dolfi, Bulzoni, Roma 2012, pp. 61-71; L. Rampello, Sperimentando la distanza. Viaggio nella scrittura di Walter Benjamin, in «Studi di estetica», 10, 1982, pp. 169-179; nonché G. Schiavoni, Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura, cit., pp. 30-36. 7 Cfr. W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, cit., p. 21; tr. it. p. 511. Come scrive F. Jesi, richiamando esemplificativamente l’attenzione sul modo in cui i versi iniziali della poesia di H. Heine, Das Loreleylied (1823) in Id., Historisch-kritische Gesamtausgabe der Werke, Bd. I, t. 2, Hoffmann und Campe, Hamburg 1975, pp. 206-208: 206 («Ich weiß nicht, was soll es bedeuten/Daß ich so traurig bin») vengono trasposti da Benjamin in Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 155; tr. it. p. 294 («Das Traurige fühlt sich so durch und durch erkannt vom Un-

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come il tempo muore

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comprendere come, a sua volta, il passato riesca ad essere versione interlineare del presente. Lo dimostra l’esigenza propria del saggismo benjaminiano di esprimersi attraverso una scrittura capace di sviluppare al massimo grado l’arte della citazione8. Questa infatti testimonia in favore non soltanto di un radicale antisoggettivismo di matrice surrealista9, quanto di un tentativo di porre in relazione il patrimonio della tradizione con coloro che lo ricevono. In tal senso l’uso benjaminiano della citazione non deve indurre a ritenere ch’esso sia prossimo ad un puro ornamento, secondo quanto professato dalle scuole di retorica a partire dal XVII secolo, ovvero ad un modo di qualificare l’autore, di conferirgli la capacità in senso giuridico di parlare e di scrivere, segnando la sua presenza nel discorso10. Se, come ha efficacemente fatto osservare Michel Foucault, a partire dall’età moderna, l’ordine del discorso si fonda sulla figura dell’autore, inteso come colui che dà al linguaggio, attraverso il testo, unità e coerenza11, quanto Benjamin si propone di realizzare, specialmente nel Passagenwerk, è un libro scritto a mo’ di catalogo12. erkennbaren»), in quest’ultimo «il saggio diviene non pretesto, ma spazio privilegiato entro il quale il testo per eccellenza, canonico, classico, appartenente al passato, si fa versione interlineare di un testo sacro che è il testo del saggio» (F. Jesi, Il testo come versione interlineare del commento [1980], in Walter Benjamin. Testi e commenti, a c. di G. Bonola, Quodlibet, Macerata 2013, pp. 61-63: 62). 8 W. Benjamin, Das Passagenwerk (1927-1940), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. V, t. 1 u. 2, cit., p. 572; tr. it. di M. De Carolis e altri, I “passages” di Parigi, 2 voll., Einaudi, Torino 2002, vol. 1, p. 512 (N 1,10); ma cfr. pure Ivi, pp. 574 e 575; tr. it. p. 514 (N 1a,8) e p. 515 (N, 2,6). Come ha osservato H. Arendt, la raccolta delle citazioni non era, in Benjamin, giammai «un accumulo di estratti intesi a facilitare la stesura del saggio, bensì rappresentava la parte più importante del lavoro, rispetto a cui la stesura vera e propria veniva a trovarsi in secondo piano» (Ea., Walter Benjamin 1892-1940, in Ea., Men in Dark Times, Harcourt, Brace & World, New York 1968; tr. it. di M. De Franceschi, Walter Benjamin, SE, Milano 2004, p. 74). 9 Cfr. T.W. Adorno, Profilo di Walter Benjamin, cit., p. 245. 10 Si veda su ciò l’analitica ricostruzione di A. Compagnon, La seconde main ou le travail de la citation, Seuil, Paris 1979, in part. pp. 306-322. 11 M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; tr. it. di A Fontana, L’ordine del discorso, in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità. Interventi 19691984, Einaudi, Torino 2001, pp. 11-41: 20. 12 Cfr. W. Benjamin, Einbahnstraße, cit., p. 105; tr. it. p. 425. Con formula suggestiva, S. Buck Morris ha definito il lavoro sui passages un «testo senza esistenza» (Ea., The Dialectics of Seeing: Walter Benjamin and The Arcades Project, MIT Press, Cambridge (Mass.)-London 1989, p. 6)

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Come risulta evidente anche ad una loro lettura superficiale, il tessuto citazionale che innerva le pagine di quest’opera crea un singolare patchwork nel quale l’insieme delle citazioni scompagina qualsiasi tentativo di creare un ordine tanto gerarchico quanto cronologico fra i diversi autori, ma per ciò stesso esso fa sì che una intera concrezione storica possa prendere forma13. Fissandosi in un testo privo di differenze fra argomentazioni tematiche e digressioni e nel quale non stenta ad echeggiare la ripetizione dei luoghi e delle figure, il dettato benjaminiano mira esplicitamente a rinnovare la struttura del trattato, lasciando che essa riveli, una volta che si sia penetrati al suo interno, una superficie non pittorescamente animata, bensì coperta, alla stregua d’una architettura araba, da una rete di motivi che si snodano ininterrotti14. Al tempo stesso, secondo quanto si afferma nella Erkenntniskritische Vorrede allo studio sul dramma barocco, il trattato deve fondarsi metodologicamente sulla rappresentazione, pur restando refrattario a qualsiasi principio dottrinale, tanto che la stessa citazione dell’auctoritas non sarà impiegata a fini dimostrativi, ma come una sorta di refrain che riprende sempre da capo, pur nel continuo variare del suo manifestarsi15. D’altra parte, la capricciosa varietà dei frammenti che la riflessione filo13 Come nota C. Perret in pagine pregevoli sul ruolo della citazione in Benjamin, questa «confonde i generi, le opere, i toni, a detrimento d’ogni coerenza referenziale» (Ea., Walter Benjamin sans destin, La Lettre volée, Bruxelles 2007, in part. pp. 157209: 163). Con maggiore incisività ancora P. Missac ha sostenuto che, attraverso la citazione, Benjamin realizza un procedimento che non è molto conforme ad «una rigorosa morale filologica. Più che utilizzarla, egli manipola la citazione, facendone lo strumento d’un gioco di pensiero piuttosto eccitante, ma molto illusorio» (Id., Passage de Walter Benjamin, Seuil, Paris 1987, p. 71). Al riguardo si veda altresì M. Voigts, Zitat, in Benjamins Begriffe, cit., Bd. II, pp. 826-850, in part. pp. 828-830; D. Oehler, Science et poésie de la citation dans le Passagen-Werk, in Walter Benjamin et Paris, éd. par H. Wismann, Cerf, Paris 1986, pp. 839-847; nonché C. Cappelletto, Attualizzazione dell’origine nel Dramma barocco tedesco: la citazione, in Giochi per melanconici, cit., pp. 281-290. 14 W. Benjamin, Einbahnstraße, cit., p. 111; tr. it. p. 431. 15 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 208; tr. it. p. 70. Non a torto il primo traduttore italiano della Ursprung, E. Filippini, osservò come fosse abbastanza noioso e sterile affaticarsi nell’esegesi accademica intorno all’opera di Benjamin, essendo essa dispersiva ed affatto incapace di suggerire tesi generali (Id., La mutilazione della gioventù [Dibattito su Benjamin], in «Notiziario Einaudi», luglio 1982, p. 17).

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sofica parrebbe generare nel suo dispiegarsi, non dovrà porsi in immediato rapporto con l’insieme e neppure essere considerata, in analogia alla concezione romantica16, quale espressione d’una perfezione in sé compiuta; piuttosto essa rifletterà un percorso di pensiero privo di ogni linearità, così come di ogni contatto con l’estensione temporale propria dell’Erklärung. Sotto questo riguardo la citazione acquista un rango privilegiato. Essa infatti strappa il pensiero fattosi parola dal suo contesto, ma proprio per questo lo riconduce alla sua «Ursprung»17. Nozione, questa, che in Benjamin assume un’accezione carica di risonanze, non significando essa soltanto “genesi”, “sorgente”, “origine”, ma pure il “salto” [Sprung] originario che si compie fra i tempi18. Dunque, in ogni citazione, nel suo emergere dal corpus delle opere di un autore, si compendierebbe la possibilità di «far saltar fuori una certa epoca dal corso omogeneo della storia»19. Più propriamente, l’insistito ricorso alla citazione, se da un punto di vista formale realizza l’ideale di una speculazione che, dismesso ogni esoterismo, voglia unicamente cercare il proprio decisivo impulso nella costruzione20, è altresì vero che sotto un profilo 16 Per una prima analisi del rapporto di Benjamin con la critica romantica si fa rimando a C. Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco, Mimesis, Milano 2009; ai contributi raccolti in Walter Benjamin tra critica romantica e critica del Romanticismo, a c. di B. Maj e D. Messina, Aletheia, Firenze 2000; nonché a A. Honold, Der Leser Walter Benjamin. Bruchstücke einer deutschen Literaturgeschichte, Vorwerk 8, Berlin 2000, in part. pp. 27-34. 17 W. Benjamin, Karl Kraus (1931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 334-367: 363; tr. it. di A. Marietti Solmi, Karl Kraus, in Opere complete, vol. IV, cit., pp. 329-358: 354. 18 Cfr. G. Steiner, Introduction, in W. Benjamin, The Origin of German Tragic Drama, Verso, London-New York 1994; tr. it. di C. Cappelletto, Introduzione all’Origine del dramma barocco di Benjamin, in «Quaderni di Materiali di Estetica», 6, 2008, pp. 246-265: 256. 19 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 703; tr. it. p. 492. 20 Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. VI, cit., pp. 181-191: 184; tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 368-376: 371 (lettera a T.W. Adorno del 9 dicembre 1938). Ulteriore conferma di ciò si avrebbe leggendo la XVII Tesi di Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 702-703; tr. it. p. 492, dove il “frammentarismo costruttivo” promosso da Benjamin conoscerebbe la sua massima attestazione. Anzi, da questo luogo si trarrebbero indicazioni utili per procedere alla ricezione dell’intera opera benjaminiana: contro lo storicismo che si fonda su un principio addittivo dovrebbe porsi un principio costruttivo che informerebbe tutti

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eminentemente teoretico esso acquista significato realizzando la relazione dialettica nella quale il passato viene a convergere con il presente21. Con un’immagine dello stesso Benjamin, si potrebbe affermare che le citazioni sono stelle che «non brillano nel giorno della storia, vi agiscono soltanto in modo invisibile»22: esse danno vita ad una costellazione in cui passato e presente si polarizzano a distanza nell’attimo caduco ed eterno23. Se leggendo il finale del quarto canto dell’Inferno ci si imbatterebbe – secondo Osip Mandel’štam24 – in un’orgia di citazioni garrule come una cicala, che ben testimonierebbero della tastiera rammemorativa di Dante, del pari, nel lavoro sui passages, le citazioni avrebbero il valore di residui mnemonici. Tuttavia, mentre nel poeta fiorentino le voci, specialmente della civiltà classica, risuonano frullando via dall’orizzonte che le ha generate, ma ogni volta esse si ritirano in un termine cronologico rigorosamente stabilito e nel quadro di un’unica rappresentazione25, in Benjamin la citazione tende non soltanto a lacerare il misto inestricabile di temporalità e causalità peculiare ad ogni scrittura26, ma pure a creare una «dialektische Feerie» fra passato e gli scritti dell’autore berlinese. Questi, infatti, rifiuterebbero l’irrigidimento di una sistemazione di tipo cronologico, prestandosi piuttosto a venire interpretati in modo storicamente contingente (Cfr. D. Schöttker, Konstruktiver Fragmentarismus. Form und Rezeption der Schriften Walter Benjamin, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1999, in part. pp. 285 sgg.). 21 W. Benjamin, Ms 474 (ca. 1939-1940), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., pp. 1229-1252: 1242; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 87. 22 W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. II, cit., pp. 390-394: 393; tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 70-73: 72 (lettera a F.C. Rang del 9 dicembre 1923) (tr. modificata). 23 Per una disamina sul concetto di “costellazione” e sulla sua ricorrenza nell’opera benjaminiana, deve vedersi G. Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010, in part. pp. 18-30. 24 O. Mandel’štam, Razgovor o Dante (1933), Sovetskij pisatel’, Moskva 1987; tr. it. di R. Faccani, R. Giaquinta, Conversazione su Dante, il melangolo, Genova 1994, pp. 52-53. Per un puntuale inquadramento di queste pagine si veda C. Tenuta, Dante in Crimea. Osip Mandel’štam e la “Divina Commedia”: poesia ed esilio in una lettura novecentesca, in «Intersezioni», 2, 2009, pp. 179-196. 25 O. Mandel’štam, Conversazione su Dante, cit., p. 53. 26 Cfr. R. Barthes, Variation sur l’écriture (1971-1972), in Id., Œuvre complètes, t. II, Seuil, Paris 1994; tr. it. di C. Ossola, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1999, pp. 5-72: 34.

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presente, una loro compenetrazione che genera un urto in forza del quale il tempo si arresta, trattenendo in sé l’intero divenire27. Sotto questo riguardo sarebbe lecito intendere il citazionismo benjaminiano come un modo per tesaurizzare una serie di tracce mnestiche, con lo scopo di emancipare tanto l’opera quanto i suoi lettori dalle «esperienze contingenti [Erlebnissen]»28, al fine di mostrare come fra passato e presente sussista un rapporto di tipo ermeneutico. Il che implica non soltanto che il presente in senso storico sia già da sempre significato nel passato, al punto che questo può dirsi una sorta di presente contratto29, ma pure che il passato non si dà che nella attualità che ad esso si volge30. Dunque, la pratica intertestuale di cui la citazione è emblema31 realizzerebbe il palinsesto della configurazione di un presente e d’un passato fra loro adiacenti, mostrandone la superficie su cui 27 Si legge significativamente nella III Tesi di Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 694; tr. it. p. 484: «Ognuno degli attimi vissuti [del passato] diventa una “citation à l’ordre du jour”». Come ha osservato G. Bonola, l’espressione francese che qui Benjamin utilizza rimanda alla convenzione che nell’esercito vuole che “all’ordine del giorno” si ricordino gli atti di eroismo avvenuti sul campo di battaglia. «Pertanto citare l’ordine del giorno vuol dire esaltare ciò che viene citato, proporlo come esempio, premiarlo pubblicamente, additarlo alla imitazione. Ma se questo deve accadere per ognuno degli atti vissuti dall’umanità, siamo di nuovo di fronte a qualche cosa di incommensurabile: l’idea limite, cioè, dell’esistenza di un momento in cui non solo tutto il passato è citabile, ma tutto il passato è diventato esemplare» (Id., “La porta di ogni istante”. Commento alle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, in Walter Benjamin. Testi e commenti, cit., pp. 69-102: 72). 28 W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire (1939), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 2, cit., pp. 605-653: 615; tr. it. di R. Solmi, Su alcuni motivi in Baudelaire, in Opere complete, vol. VII, cit., pp. 378-415: 384-385. 29 Cfr. H. Pfotenhauer, “Eine Puppe in türkischer Tracht”. Zur Verbindung von historischem Materialismus und Theologie beim späten Benjamin, in Materialien zu Benjamin Thesen “Über den Begriff der Geschichte”, hrsg. v. P. Bulthaup, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1975, pp. 254-291: «Nulla giustifica il comportamento disimpegnato che, a cospetto del passato, dimentica il compito che resta da realizzare. Soltanto in un ricordo che riguardi il presente, che per così dire vi faccia appello, quel passato diviene significativo» (Ivi, pp. 258-259). 30 E. Guglielminetti, Walter Benjamin, tempo, ripetizione, equivocità, Mursia, Milano 1990, p. 155. 31 G. Genette, Palimpsestes. La Littérature au second degré, Seuil, Paris 1982; tr. it. di R. Novità, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997, p. 4, ritiene la citazione «la forma più esplicita e letterale» di «intertestualità», intesa «come una relazione di compresenza fra due o più testi», vale a dire «come la presenza effettiva di un testo in un altro».

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essa si organizza32. Da questo punto di vista, se ogni pratica scritturale tende di per sé a tracciare traiettorie che disegnano parole, frasi, un sistema intero, attraverso una pratica itinerante, progressiva, regolata che il lettore è chiamato a percorrere con l’inquietudine trasognata del flâneur33, il rinnovamento compiuto da Benjamin di questa figura sottende non da ultimo una pratica degli spazi, non solo metropolitani ma anche testuali, pronta ad incamerare i tempi che in essi s’intrecciano34. Già del resto la versificazione di Baudelaire, nella quale la compenetrazione del moderno e dell’antico opera, per Benjamin, al più alto grado35, 32 Nella introduzione alla edizione inglese del Passagenwerk si legge a questo proposito: «Citazioni e commentario potrebbero essere percepiti come intersezioni di centinaia di diverse prospettive capaci di creare vibrazioni nell’incrociarsi delle epoche della storia recente, così da realizzare “la rottura della teleologia naturale”» (H. Eiland, K. McLaughlin, Translator’s Foreword, in W. Benjamin, The Arcades Project, Harvard University Press, Cambridge [Mass.], 1999, pp. ix-xvi: xi). 33 Su ciò devono vedersi le considerazioni di M. de Certeau, L’invention du quotidien. I Arts de faire, Gallimard, Paris 1990; tr. it. di M. Baccianini, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001, in part. i capitoli X e XII, pp. 195-219 e 233-248. 34 «Incamerare tempo, come una batteria incamera energia: il flâneur»: W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 164; tr. it. p. 116 (D 3, 4). Per una puntuale messa a tema della figura del flâneur nella riflessione benjaminiana – consegnata per lo più al Konvolut “M” del Das Passagenwerk, cit., pp. 524-569; tr. it. pp. 465-509 – si rimanda a F. Cappa, Modernità e attualità del flâneur, in W. Benjamin, Proust e Baudelaire. Due figure della modernità, a c. di F. Cappa e M. Negri, Cortina, Milano 2014, pp. 189-207; R. Robin, L’écriture flâneuse, in Capitales de la modernité. Walter Benjamin et la ville, ed. par P. Simay, Éd. de l’èclat, Paris 2005, pp. 37-64; J. Rignall, Benjamin’s flâneur and the Problem of Realism, in The Problem of Modernity. Adorno and Benjamin, ed. by A. Benjamin, Routledge, London-New York 1989, pp. 112-121; F. Remotti, Walter Benjamin in una prospettiva antropologica: uno sguardo a ritroso sulla modernità, in Walter Benjamin. Sogno e industria, a c. di E. Guglielminetti, U. Perrone, F. Traniello, Celid, Torino 1996, pp. 123-154, in part. pp. 127-134; e a G. Schiavoni, Benjamin l’errabondo (1983), in Caleidoscopio benjaminiano, cit., pp. 221-231; nonché, più in generale, a A. Castoldi, Il flâneur. Viaggio al cuore della Modernità, Bruno Mondadori, Milano 2013. 35 Cfr. W. Benjamin, Das Paris des Second Empire bei Baudelaire (1938), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 2, cit., pp. 511-604: 585; tr. it. di E. Ganni, La Parigi del Secondo Impero in Baudelaire, in Opere complete, vol. VII, cit., pp. 101178: 162. Su tale aspetto della ricezione benjaminiana di Baudelaire, in prospettiva critica, insiste H.R. Jauss, Literaturgeschichte als Provokation, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1970; tr. it. di P. Cresto-Dina, Storia della letteratura come provocazione, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 81-89, per il quale l’autore berlinese, «contro le

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sarebbe paragonabile alla pianta di una metropoli36, in cui ci si può muovere con curiosità appassionata, quasi ingorda, e dove può in ogni momento scatenarsi lo choc nel quale si consuma la catastrofe che svela una dimensione che cade fuori dal continuum temporale. In questa prospettiva i versi di À une passante (1860) riportati nel corpo del saggio Über einige Motive bei Baudelaire37 hanno la funzione non solo di esemplificare il modo in cui, nel rutilante fluire della folla cittadina, il tempo si condensa in un “adesso” che guizza via in un bagliore che subito si spegne, ma pure di rendere viva, attraverso la loro citazione, l’esperienza di una istantaneità perpetua di cui soltanto la scrittura continuamente ricominciata e confermata nel gesto critico parrebbe riuscire ad essere simulacro38. Sarebbe dunque errato ritenere che la citazione svolga un compito prossimo a quello conferitogli dalla storiografia: un accreditamento del discorso attraverso il riferimento ad una serie di elementi d’archivio disposti secondo un principio di ricomposizione testuale volto a rappresentare il passato «wie es denn eigentlich gewesen ist»39; all’opposto essa rivestirebbe la intenzioni di Baudelaire», farebbe invero «della relazione funzionale di modernité e antiquité una opposizione contenutisticamente determinata» (Ivi, p. 83). Quanto poco, tuttavia, ciò corrisponda alle intenzioni di Benjamin, come può evincersi da una lettura complessiva dei suoi scritti sul poeta de Les fleurs du Mal, è posto in rilievo da P. Cresto-Dina, Ermeneutica delle spoglie epocali, in H.R. Jauss, Storia della letteratura come provocazione, cit., pp. 7-30, in part, pp. 20-25. 36 W. Benjamin, Das Paris des Second Empire bei Baudelaire, cit., p. 601; tr. it. p. 175. 37 W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire, cit., p. 622; tr. it. pp. 390-391. 38 Assai giustamente R. Barthes ha al riguardo affermato: «Ho come l’idea che adesso si potrebbe benissimo concepire un’epoca in cui si scriverebbero incessantemente le opere del passato, “incessantemente”, nel senso di “perpetuamente”: intendo dire che in fondo ci sarebbe un’attività di commento proliferante, germogliante, ricorrente, che sarebbe la vera attività di scrittura del nostro tempo» (Id., Entretien [1971], in Id., Œuvre complètes, t. II, cit.; tr. it. di L. Lonzi, Intervista, in R. Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1986, pp. 124-145: 144). 39 Cfr. W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 695; tr. it. p. 485, che cita l’espressione usata da L. Ranke nella prima introduzione alla Geschichte der romanischen und germanischen Völker von 1494 bis 1535 (1824), in Id., Sämmtliche Werke, Bd. XXIII-XXIV, Leipzig 1874, p. VII. Sulla funzione della citazione in ambito storiografico si fa rinvio alle importanti osservazioni di M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; tr. it. di A. Jeronimidis, La scrittura della storia, Jaca Book, Milano 2006, in part. pp. 111-112.

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funzione di strappare dal contesto, di distruggere, di purificare il passato dalla dipendenza dalla tradizione40. La raccolta di citazioni non avrebbe uno scopo conservativo, teso a rendere le cose tramandabili, bensì quello di redimere il passato dall’ordine cronologico-sistematico, facendo in modo che il presente non si limiti a rioccupare il passato trasformandolo. Laddove Hans Blumenberg, nel concetto di Umbesetzung, ha voluto compendiare la indeducibilità del presente dal passato, ritenendo la sua radice solo ed unicamente in se stesso41, la riflessione benjaminiana ambirebbe piuttosto ad enucleare il modo in cui il presente possa riconoscersi «inteso [gemeint]» nel passato42. Lo dimostrerebbe esemplarmente l’affinità che correrebbe fra il citazionismo ed il collezionismo43, a motivo del fatto che l’ingegno del primo si rifletterebbe ed esalterebbe nella capacità del secondo di interrogare il passato, attenendosi all’eternità della sua transitorietà44. 40 W. Benjamin, Karl Kraus, cit., p. 363; tr. it. p. 354. In generale, sulle nozioni di “purificazione”, di “interruzione” e di “distruzione” nel pensiero benjaminiano: W. Menninghaus, Walter Benjamin: il discorso sulla distruzione, in L’Angelo malinconico. Walter Benjamin e il moderno, cit., pp. 227-242. 41 Cfr. H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1966; tr. it. di C. Marelli, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, pp. 502 sgg. A porre sotto il segno dell’analogia questo luogo dell’opera di Blumenberg con le riflessioni consegnate da Benjamin specialmente nelle tesi Über den Begriff der Geschichte è V. Vitiello, Messianesimo e Nichilismo. Walter Benjamin e il tramonto della teologia politica, in Le forme della storia. Scritti in onore di Biagio de Giovanni, a c. di M. Montanari, F. Papa, G. Vacca, Bibliopolis, Napoli 2011, pp. 341-353: 347-348. 42 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 695; tr. it. p. 485 (tr. modificata). Come ben puntualizza H. Schweppenhäuser: «Nulla appare più certo della conoscenza che si abbandona all’evento storico: concluso, divenuto immobile, colto da rigor mortis, con il quale il passato colpisce ogni cosa che si muoveva in un adesso [Jetzt], così esso si presenta allo sguardo conoscente come il cadavere sul tavolo dell’anatomista. Ma nulla è più inconcluso dell’evento storico e ciò vogliono dire le riflessioni di Benjamin su di esso. In questo consiste lo sforzo storico. Si devono impiegare tutte le forze per contrapporsi agli schemi oggettivi e soggettivi, secondo i quali il passato si cristallizza, alla stregua di un preparato malriuscito; dal passato deve nascere la vita – una caratteristica nonperduta-perduta attualità dello storico –, che manca il rituale della attualizzazione storica» (Id., Praesentia praeteritorum, in Materialien zu Benjamins Thesen “Über den Begriff der Geschichte”, cit., pp. 7-22: 7). 43 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 277; tr. it. p. 220 (H 3a, 5): «Lo zibaldone [das Quodlibet] ha qualcosa dell’ingegno del collezionista e del flâneur». 44 Cfr. W. Benjamin, Ms 485 (ca. 1939-1940), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., pp. 1245-1246: 1246; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 93.

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Il collezionare, le cui implicazioni teoriche non possono, in Benjamin, andare disgiunte da una verifica e da una realizzazione pratica, imprimendosi esse – è stato affermato – sin nella sua «apparenza fisiognomica»45, è passione che rifiuta l’ordine sistematico che la tradizione impone al corso delle cose; esso, all’opposto, rasenta il caos46. Come si trae dalla recensione al volume di Max Kommerell, Der Dichter als Führer in der deutschen Klassik, il collezionista, contrariamente agli spiriti sistematici, per i quali il passato ed il presente «sono sempre separati fra loro nel modo più radicale», ritiene questi due momenti come pressoché inscindibili47. In lui è viva la consapevolezza che non si possa lasciare negletto il presente, poiché solo cogliendo la sua importanza, è possibile interrogare il passato, accedendo ad una dimensione di questo che non trova, tuttavia, riscontro su un effettivo piano evenemenziale. Sotto questo riguardo l’opera del collezionista, simile in ciò a quella del materialista, si proporrebbe di richiamare il passato remoto in un particolare movimento dialettico, per il quale ogni “adesso” [Jetzt] rivelerebbe corrispondenze estranee al continuum storico: il passato non sarebbe più rappresentato – secondo i dettami dello storicismo – in una immagine eterna, ma d’esso si avrebbe un’esperienza capace di rivelarlo nella sua quintessenza inimitabile48, una quintessenza alla quale il presente introdurrebbe, ma senza poter stabilire con essa alcun tipo di legame intenzionale. In tal senso il nuovo ordine storico che la collezione creerebbe sarebbe identificabile con una sorta di «protofenomeno della storia [Urphänomen der Geschichte]»49. Tale 45

T.W. Adorno, Erinnerungen, cit., p. 71. Cfr. H. Arendt, Walter Benjamin, cit., p. 70. 47 W. Benjamin, Wieder ein Meisterwerk (1930), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, cit., pp. 252-259: 257; tr. it. di A. Marietti Solmi, Contro un capolavoro, in Opere complete, vol. IV, cit., pp. 221-233: 226. Su Kommerell in generale deve vedersi G. Agamben, Kommerell, o del gesto (1991), in Id., La potenza del pensiero, cit., pp. 237-249. 48 W. Benjamin, Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 2, pp. 465-505: 468; tr. it. di E. Filippini, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in Opere complete, vol. VI, cit., pp. 466-502: 469. 49 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 592; tr. it. p. 532 (N 9a, 4); ma cfr. pure Ivi, p. 271; tr. it. p. 214 (H 1a, 2). 46

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ultima nozione, di derivazione goethiana50, racchiuderebbe in sé un principio intuitivo in forza del quale è possibile articolare il passato, riconoscendovi «ciò che viene a coincidere nella costellazione d’un unico e identico attimo» nel quale il passato stesso si contrae, entrando a far parte d’un ricordo involontario51. Questo, propriamente, si dischiuderebbe nel momento in cui la storia procede alla cancellazione del passato. La storia temporalizzata del moderno ambirebbe ad impadronirsi del fulmineo balenare del passato nel sempre nuovo di un continuum in perenne divenire, contrapponendosi ad una temporalià puramente estetica52, nella quale le immagini gemmano solo nel ricordo. Se ciò si mostra evidente in quelle immagini che ci ricordano di noi stessi da qualche parte in un lontanissimo passato forse mai realmente vissuto53, è l’ambito distinto dalla collezione quello nel quale l’economia della memoria involontaria si dispiega nel modo più compiuto. Esplicito è al riguardo lo stesso dettato dello studio sui passages, là dove la «memoria materiale» del collezionista è paragonata alla proustiana mémoire involontaire54. Come «un amatore d’arte a cui si mostri l’anta d’un retablo ricorda in quale chiesa, in quali musei, in quale collezione privata sono disperse le altre, 50 Nel poeta di Weimar il “fenomeno originario” (Urphänomen) significava il divenire esperibile di qualcosa di originario dietro ed al di sopra del quale null’altro doveva essere presupposto: cfr. J.W. Goethe, Zur Farbenlehre. Didaktischer Teil (1810), in Id., Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, Bd. 16, Artemis, Zürich 1949, pp. 7-244: 68; tr. it. parz. di M. Montinari, Teoria della natura, Boringhieri, Torino 1958, p. 55. 51 W. Benjamin, Ms 491 (1939-1940?), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, p. 1233; tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., pp. 95-96. 52 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 217; tr. it. p. 77: «[…] la filosofia non può pretendere di parlare in tono rivelativo, ciò può avvenire solo attraverso una rammemorazione che risalga anzitutto a una percezione originaria. Forse l’anamnesi platonica non è lontana da questo rammemorare. Soltanto che qui non si tratta di richiamare delle immagini all’intuizione». Una puntualizzazione preziosa al riguardo è offerta da G. Carchia, Tempo estetico e tempo storico in Walter Benjamin, in Walter Benjamin. Tempo storia linguaggio, cit., pp. 183-190. 53 W. Benjamin, Aus einer kleinen Rede über Proust, an meinen vierzigsten Geburtstag gehalten (1932), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., pp. 1064-1065: 1064; tr. it. di G. Carchia, Da un piccolo discorso su Proust tenuto in occasione del mio quarantesimo compleanno, in Opere complete, vol. III, cit., pp. 314-315: 314. 54 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 280; tr. it. p. 223 (H 5,1).

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e può quindi ricostruire nella propria testa la predella, l’intero altare», così, per il Narratore della Recherche, un semplice oggetto materiale, trasfigurato nello specchio della memoria involontaria, rivelava come «la vita non avesse smesso di tessergli intorno fili diversi che finivano col rivestirlo del bel velluto inimitabile degli anni»55. Un’analogia, quella fra collezionismo ed il sorgere inatteso delle reminiscenze, che torna a presentarsi anche in quei luoghi in cui la scrittura benjaminiana si colora di tinte autobiografiche, come accade in Ich packe meine Bibliothek aus, dove il riordinare i libri raccolti con la passione e la costanza del bibliofilo diventa occasione d’un incontrollabile riaffiorare di ricordi: ricordi delle città in cui si sono compiute le proprie scoperte, d’un intanfito deposito di libri, delle stanze che hanno ospitato la propria biblioteca56. E tuttavia la funzione che la collezione svolge nella riflessione di Benjamin non sembra potersi interamente risolvere nella poetica proustiana. Pur dovendosi riconoscere che questa non tende a descrivere, attraverso il ricordo, una vita vissuta, poiché in essa la parte principale non è svolta dal vissuto, ma dal lavoro del ricordo, si deve infatti constatare come Proust dischiuda non già l’orizzonte d’un tempo estraneo al tempo, ma «il corso del tempo nella sua forma più reale» sulla quale il ricordo può e deve agire nei modi d’un «rendere presente [Vergegenwärtigung]» che salvi dal potere del tempo stesso57. Nondimeno il tentativo promosso dalla Recherche di frangere – lasciandosi sorprendere da rievo55 M. Proust, À la recherche du temps perdu. Le temps retrouvé (1927), vol. IV, Gallimard, Paris 1989, p. 551; tr. it. di G. Raboni, Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato, vol. IV, Mondadori, Milano 1993, pp. 670-671. 56 W. Benjamin, Ich packe meine Bibliothek aus (1931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, p. 388-396: 396; tr. it. di P. Teruzzi, Tolgo la mia biblioteca dalle casse, in Opere complete, vol. IV, Einaudi, Torino 2002, pp. 456-463: 463. 57 W. Benjamin, Zum Bilde Prousts (1929), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 310-324: 311-320; tr. it. di A. Marietti Solmi, Per un ritratto di Proust, in Opere complete, vol. III, cit., pp. 285-297: 285 e 294. Altrove, in un appunto della fine degli anni Trenta, si legge ancor più significativamente: «la volontà restaurativa di Proust rimane irretita nel terrore dell’esistenza terrena» (Id., Ms 1057r, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., p. 1182). Per una più articolata disamina della lettura di Proust proposta da Benjamin si vedano, in particolare, i lavori di M. Piazza, Redimere Proust. Walter Benjamin e il suo segnavia, Le Cáriti, Firenze 2009; R. Kahn, Images, passages: Marcel Proust et Walter Benjamin, Éditions Kimé, Paris 1998, e U. Link-Heer, Benjamin liest Proust, Marcel Proust Gesellschaft, Köln 1997.

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cazioni improvvise – i limiti del tempo, senza per questo cessare d’essere immersi nel suo fluire, non si convertirebbe in Benjamin, come pure è stato sostenuto58, nel conferimento al ricordo d’una funzione gnoseologica volta alla comprensione del presente, ed entro la quale il passato si aprirebbe al futuro. Il pensatore berlinese indicherebbe piuttosto la necessità che chi tenti d’avvicinarsi al proprio passato si comporti come un uomo intento ad un “esercizio archeologico” per mezzo del quale ciò che è stato si riveli capace di mostrare quanto di veramente prezioso esso contiene: quelle «immagini» che, nate dalla disgregazione d’ogni precedente contesto, acquistano il proprio significato al di fuori di qualsiasi effettiva identificazione con gli eventi della storia59. 2. In passato il futuro era migliore Benjamin, stando alle indicazioni contenute nel Passagenwerk, ritiene sia necessario prendere coscienza, onde distaccarsene, del fatto che il passato sia, a partire dall’età moderna, «come conseguenza e come condizione della tecnica», sempre più prossimo ad un sogno su cui nessuna tradizione può avere presa60. L’addentrarsi «là dove il secolo XIX è esposto come una forma originaria 58 P. Szondi, Hoffnung im Vergangenen. Über Walter Benjamin (1961), in Id., Satz und Gegensatz. Sechs Essay, Insel, Frankfurt a. M. 1964; tr. it. di R. Gilodi, Speranza nel passato, in W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino 2001, pp. 121-142: 132. 59 Cfr. W. Benjamin, Berliner Chronik, cit., p. 486; tr. it. p. 265; nonché Id., Ausgraben und Erinnern (1932), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, cit., pp. 400401; tr. it. di G. Schiavoni, Scavare e ricordare, in Opere complete, vol. V, cit., p. 112. Come ha osservato H. Mayer, la lontananza in Benjamin si rivela «non nel procedere bensì nel tornare indietro e nello sguardo retrospettivo» (Id., Walter Benjamin. Congetture su un contemporaneo, cit., p. 72). 60 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 576; tr. it. p. 516 (N 2a, 2). Ha scritto B. Witte che nel Passagenwerk Benjamin «ha depositato la propria strumentazione metodologica nella “teoria dei sogni storici della collettività”, dove egli tenta di superare la teoria freudiana dei “sogni naturali”. Per lui tutte le espressioni culturali, tutte le forme di organizzazione, sia quelle sociali che quelle economiche, non sono che immagini di sogno, fantasmagorie, perché l’antico ed il nuovo paiono sempre fondersi in esse senza distinzione» (Id., Paris-Berlin-Paris. Des corrélations entre l’expérience individuelle, littéraire et sociale dans les dernières œuvre de Benjamin, in Walter Benjamin et Paris, cit., pp. 49-62: 55)

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della storia originaria»61, mostrerebbe che il passato non passa e il futuro non giunge, mentre il presente appare come un’ibrida commistione di sogno e di veglia62. La percezione del tempo a partire dal secolo XIX si scinderebbe da un lato in un puro scorrere e dall’altro in un continuo ritorno dell’uguale, che fungerebbe da «forma di ipercompensazione»63 rispetto al dissolvimento centrifugo dell’esperienza. L’eterno ritorno sarebbe lo stigma dell’epoca moderna. In base ad esso «la tradizione acquista il carattere d’una fantasmagoria in cui la storia originaria entra in scena con la più moderna delle acconciature»64. In tal senso la modernità, che pure – come testimonia l’avvicendarsi delle mode – si configura come «l’eternamente attuale [das Ewig-Heutige]»65, vede al proprio interno due tendenze reciprocamente contraddittorie: quella della ripetizione e quella dell’eternità66. Ciò nondimeno – puntualizza Benjamin – il recupero che il secolo XIX realizza, in particolare con Nietzsche e con Blanqui, del pensiero dell’eterno ritorno non si coglie nel suo autentico significato, ove si manchi di ravvisare in esso l’essenza dell’accadere mitico67. In questo la distinzione 61

W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 579; tr. it, p. 519 (N 3a, 2). Secondo quanto osservato da M. Makropoulos, per Benjamin la modernità europea sarebbe contraddistinta da una progressiva deontologizzazione e da una evidente perdita delle basi sostanziali della realtà (Id., Modernität als ontologischer Ausnahmezustand. Walter Benjamins Theorie der Moderne, Fink, München 1989, p. 147). 63 R. Bodei, I confini del sogno. Fantasie e immagini oniriche in Benjamin, in Walter Benjamin. Sogno e industria, cit., pp. 177-191: 181; ma al riguardo si veda pure Id., Walter Benjamin: modernità, accelerazione del tempo e “déjà vu”, in L’Angelo malinconico. Walter Benjamin e il moderno, a c. di M. Ponzi, Lithos, Roma 2001, pp. 107-119. 64 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 174; tr. it. p. 125 (D 8a, 2). 65 Ivi, p. 674; tr. it. p. 607 (S 1, 3). 66 Cfr. Ivi, p. 175; tr. it. p. 125-126 (D 9, 2). Per Benjamin, il succedersi continuo delle novità troverebbe la propria manifestazione massima nella poetica di Baudelaire; laddove il sempreuguale sarebbe ciò su cui insiste in particolare la riflessione di Nietzsche: cfr. Id., Zentralpark (1938), in GS, Bd. I, t. 2, cit., pp. 655-690: 673; tr. it. di R. Solmi e E. Ganni, Parco centrale, in Opere complete, vol. VII, Einaudi, Torino 2006, pp. 179-209: 193. 67 Sul punto deve vedersi W. Menninghaus, Walter Benjamin’s Theory of Myth, in On Walter Benjamin, ed. by G. Smith, MIT Press, Cambridge (Mass.)-London 1988, pp. 292-325, in part. pp. 318-322, per il quale il tempo ciclico del mito coincide in Benjamin essenzialmente con la ineluttabilità del destino. Propriamente il tem62

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fra i tempi viene meno, dal momento che tanto la fede nel progresso quanto l’idea dell’eterno ritorno gli sono reciprocamente complementari. Il «continuum ciclico» del mito «ignora l’irreversibilità del consumo, ma altresì la dimensione del salto-fuori dal continuum, l’eccesso ek-tropico»68. Se la compenetrazione di unicità e di ripetizione costituisce l’«experimentum crucis» per ottenere un’immagine della storia “destoricizzata”69, è pur vero ch’essa appare per ciò stesso «stregata»70. «Il ritenere che il volto del mondo non muta mai proprio in ciò che costituisce il nuovo, che il nuovo, anzi, resta sotto ogni riguardo sempre lo stesso»71, in tanto sottenderebbe un principio mitico in quanto negherebbe all’esistenza la possibilità di uscire dal tempo auratico che esclude da sé la morte72. La «répétition du mythe», quale forma fondamentale della coscienza storica originaria del XIX secolo, non implica un’accezione del mito prossima a quella indicata dalla «profezia scientifica» di Bachofen, e per la quale esso coincide con un ordine in cui la morte si confonde con la vita in un movimento dialettico po mitico cui allude Benjamin – afferma, a sua volta, H. Schweppenhäuser – sarebbe da considerare come tempo “secolarizzato in spazio”, come continuità ininterotta, priva di coscienza di sé così come d’ogni possibile redenzione: mero inferno (Id., Aspetti infernali del moderno, in L’Angelo malinconico. Walter Benjamin e il moderno, cit., pp. 17-29: 22). Ma al riguardo cfr. pure F. Desideri, Teologia dell’inferno. Walter Benjamin e il feticismo moderno, in Figure del feticismo, a c. di S. Mistura, Einaudi, Torino 2001, pp. 175-196, in part. pp. 175-181. 68 M. Cacciari, Necessità dell’Angelo, in «aut-aut», 189-190, 1982, pp. 203214: 212. 69 F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 151. Ma su ciò cfr. pure P. Krumme, Zur Konzeption der dialektischen Bilder, in «Text + Kritik», 31-32, 1971, pp. 72-80, in part. p. 75. 70 W. Benjamin, Ts 892 f (1938), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., pp. 1153-1154: 1153. 71 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 676; tr. it. p. 609 (S 1,5). 72 Cfr. Ivi, p. 115M; tr. it. 70-71 (B 2,4). Sulla insorgenza dell’archistoria e quindi della “coscienza mitica” all’apice della modernità, e di cui si avrebbe testimonianza, secondo Benjamin, in Nietzsche e, soprattutto, in Blanqui, in ragione del pensiero dell’eterno ritorno, si sofferma F. Desideri, Nota Blanqui: eternità, eterno ritorno (1983), in Id., La porta della giustizia, cit., pp. 119-135, in part. p. 128. Più in generale sulla presenza dell’autore de L’éternité par les astres (1872) nell’opera benjaminiana, cfr. F. Rella, Benjamin e Blanqui, in Critica e storia. Materiali su Benjamin, cit., pp. 181-200; A. Münster, Progrès et catastrophe, Walter Benjamin et l’Histoire, Kimé, Paris 1996, in part. pp. 92-101.

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– riconosciuto e condiviso dallo stesso Benjamin – in forza del quale ciò che è storico ricade nel dominio della natura e viceversa; all’opposto essa rappresenta il mito alla stregua di «un sogno le cui fasi non sono che riflessi nostalgici d’anime e di forme sparite da lungo tempo»73. L’identificazione, compiuta dalla destra della “Bachofen-Renaissance”, della dimensione del mito con l’annuncio di una “redenzione” che si sarebbe attuata grazie alla capacità del mito stesso di essere «un precedente per i modi del reale in generale»74, costituirebbe il presupposto teorico del recupero dell’universo mitico che si registrerebbe al culmine della modernità75, e di cui la festa rappresenterebbe la manifestazione più eclatante. La festa, infatti, continuerebbe ad essere anche in epoca moderna – secondo quanto osservato da Roger Caillois nelle sue ricerche ed in particolare nel saggio, noto a Benjamin, Théorie de la fête – «un’apertura sul Grande Tempo, il momento in cui gli uomini abbandonano il divenire per accedere a quel serbatoio di forze onnipotenti e sempre nuove rappresentato dall’età primigenia»76. Più esattamente, la funzio73 W. Benjamin, Johann Jakob Bachofen (1935), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 219-233: 229; tr. di E. Villari, Johann Jakob Bachofen, in Opere complete, vol. VI, cit., pp. 223-236: 232. 74 Cfr. M. Eliade, Traité d’histoire des religions, Payot, Paris 1949; tr. it. di V. Vacca, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1972, p. 431. Per un’accurata analisi della posizione assunta da Benjamin verso la destra della “BachofenRenaissance”: F. Jesi, Mito (1973), Aragno, Torino 2008, pp. 97-105; Id., Bachofen (1973), Bollati Boringhieri, Torino 2005, in part. pp. 38-49; nonché, più in generale sul saggio del 1935, G. Plumpe, Die Entdeckung der Vorwelt. Erläuterungen zu Benjamins Bachofenlektüre, in «Text + Kritik», 31-32, 1971, pp. 19-27; G. Schiavoni, Benjamin – Bachofen: Cur Hic?, in Global Benjamin, cit., Bd. 2, pp. 1045-1056. 75 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 576; tr. it. p. 516 (N 2a,1): «Solo l’osservatore superficiale può negare che tra mondo della tecnica e l’arcaico universo simbolico della mitologia giochino delle corrispondenze». Non a torto, M. Ponzi, Walter Benjamin e il Moderno, Bulzoni, Roma 1993, p. 187, ha sostenuto che: «Il mitico in Benjamin è un processo di comunicazione, è il modo di trasmettere in maniera vivida e pregnante un’interpretazione catastrofica del moderno». 76 R. Caillois, Théorie de la fête (1939), in Le Collège de Sociologie (1937-1939), éd. par D. Hollier, Gallimard, Paris 1979; tr. it. di M. Galletti, Teoria della festa, in Il Collegio di Sociologia, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 363-393: 374. Benjamin parla della pubblicazione di questo testo sulla “NRF”, dopo avere assistito alla sua presentazione presso il Collège de Sociologie, in una lettera a Gretel Adorno del 17 gennaio 1940: cfr. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. VI, cit., pp. 382-386: 384; tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 392-396: 394.

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ne di riattualizzazione dell’Urzeit che la festa svolgeva presso le civiltà primitive troverebbe conferma nel cuore del moderno in ragione del protratto tentativo in essa espresso di tra-passare dal tempo storico al tempo mitico, quale età «di luce, di pacifica gioia, di vita facile e felice»77, in modo da convertire «la catastrofe in quanto continuum della storia»78 in un’arcaica ed intangibile “verità atemporale”, sull’astratta superficie della quale non può aprirsi nessuna di quelle «sottili fenditure [kleinen Sprüngen]» 79 dalle quali tralucono le immagini dialettiche. Appare in tal senso necessario, nella prospettiva benjaminiana, un «deciso distacco» da qualsiasi primordiale tempo extratemporale. In caso contrario non soltanto non sarebbe possibile articolare quella dispositio dialectica che appare indispensabile per portare in una situazione critica il presente, ossia per renderlo un campo di forze in cui si svolge il confronto fra la preistoria e la post-storia sempre di nuovo e mai nello stesso modo80, ma soprattutto perché se si escludesse qualsiasi indice storico, le immagini attraverso le quali la memoria si esplica sarebbero del tutto simili alle “essenze” della fenomenologia. Se la memoria «non è uno strumento d’esplorazione del passato, bensì ne è lo scenario [Schauplatz]» entro cui le immagini si trovano avulse da tutti i loro precedenti contesti, «come frammenti o busti nelle gallerie dei collezionisti»81, ciò non vorrà significare che tali immagini vadano assimilate alle categorie proprie delle «scienze dello spirito»82. Esse piuttosto dovranno essere mantenute in L’assidua, critica presenza di Benjamin presso il Collège de Sociologie è ricordata da P. Klossowski in Entre Marx et Fourier (1969), in Le Collège de Sociologie (19371939), cit.; tr. it. di M. Galletti, Entre Marx et Fourier, in Il Collegio di Sociologia, cit., pp. 503-504, nonché in Id., Lettre sur Walter Benjamin, in «Mercure de France», 315, 1952; tr. it. di R. Prezzo, Lettera su Walter Benjamin, in «aut-aut», 189190, 1982, pp. 8-9. 77 R. Caillois, Teoria della festa, cit., p. 372. 78 W. Benjamin, Ms 481 (1940), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III. t. 3, p. 1244; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 89. 79 W. Benjamin, Zentralpark, cit., p. 683; tr. it. p. 202 (tr. modificata). 80 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 587-588; tr. it. p. 527 (N 7a, 1); Ivi, p. 588; tr. it. p. 528 (N 7a, 5). L’espressione “dispositio dialectica” è conio di P. Missac, Dispositio dialectico-benjaminiana, in Walter Benjamin et Paris, cit., pp. 689-706. 81 W. Benjamin, Berliner Chronik, cit., p. 486; tr. it. p. 265. 82 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 577-578; tr. it. p. 517-518 (N 3,1).

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equilibrio, facendole “insistere” (einstehen) nel tempo83 sino al punto di arrestarsi sulla sua soglia, spazio vuoto, privo di confini84. Più propriamente, affinché tali immagini possano pervenire ad un punto d’equilibrio presso cui il tempo si troverebbe in stato d’arresto, raccogliendo in se stesso tanto il passato quanto il futuro in un “adesso” presente, è necessario ch’esse siano conservate e distrutte insieme, dal momento che solo così sarà possibile tenere ferma la eternità degli accadimenenti storici, rispettando contemporaneamente la loro caducità85. Diversamente da quanto sostenuto da Ernst Bloch per il quale nell’istante è possibile si verifichi lo scontro di «praesentiae di tipo non trascendente»86, nel cui apparire o, meglio, pre-apparire è indicato il salvacondotto che può riuscire a far superare l’oscurità che deriva da un eccesso di prossimità al nostro presente, a patto che questo sia sempre trans-significato nell’“ultimo presente” che continuamente lo eccede, per Benjamin il pensare la sospensione del tempo, nella quale l’istante sosta in equilibrio, presuppone che ogni attimo non sia in virtù e in vista dell’orizzonte del tempo, ma coincida con questo, in quanto Geschichtsstand nel quale è già da sempre situata l’esistenza. Tale stato della storia è prossimo – per ammissione dello stesso Benjamin87 – allo Standrecht di cui scrive Kafka negli aforismi di Zürau, per essere esso eternamente presente e insieme continuamente infranto88. 83 Si veda al riguardo l’inizio della XVI Tesi in Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 702; tr. it. p. 491. 84 «Lo stato di arresto del tempo coincide con la distruttiva espropriazione [Enteignung] dello spazio» (I. Wohlfahrt, Der “Destruktive Charakter”. Benjamin zwischen den Fronten, in “Links hatte noch alles sich zu enträtseln…”. Walter Benjamin im Kontext, hrsg. v. B. Lindner, Syndikat, Frankfurt a. M. 1978, pp. 65-99: 82). 85 «Il presente che “sta immobile nel tempo” – nell’istante – è un precipitare trattenuto» (F. Desideri, Ad vocem “Jetztzeit” [1981], in Id., La porta della giustizia, cit., pp. 153-165: 163). 86 E. Bloch, Experimentum mundi (1975), in Id., Gesamtausgabe, Bd. XV, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1977; tr. it. di G. Cunico, Experimentum mundi, Queriniana, Brescia 1980, p. 133. Su ciò sia concesso rinviare a quanto si è scritto in Nota a “Ricordi di Walter Benjamin” di Ernst Bloch, in «aut-aut», 354, 2012, pp. 205-211. 87 W. Benjamin, Ms 483 (ca. 1939-1940), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, p. 1245; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 91. 88 Si fa riferimento, in particolare, all’aforisma 40 contenuto nelle Betrachtungen über Sünde, Leid, Hoffnung und den wahren Weg (1917-1918), in F. Kafka, Hoch-

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Il «tentare di cogliere l’attualità come rovescio dell’eterno nella storia»89 implicherebbe pensare l’istante non già quale «improvviso frattanto», quale puro nunc instantis che arresta, che ritaglia il continuum del tempo storico, in funzione del suo rinnovamento90, bensì come un nunc stans che non svanisce, ma “che sta” già da sempre e continuamente nel tempo, in quanto suo simbolo colto nel suo movimento kenotico. Non si tratta dunque di cercare «l’attimo [Augenblick] [che] nel momento stesso in cui è appena svanito deve già cominciare di nuovo»91, così da evitare qualsiasi «spina apocalittica»92. Affinché la Jetztzeit benjazeitsvorbereitungen auf dem Lande, Fischer, Frankfurt a. M. 1953; tr. it. di R. Calasso, Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano 2004, p. 55: «Soltanto il nostro concetto del tempo ci fa chiamare così il Giudizio Finale. Di fatto, è un giudizio sommario [Standrecht]». B. Allemann, Kafka et l’histoire, in AA.VV., L’endurance de la pensée, Plon, Paris 1968, pp. 75-90: 90 n. 1, ha sottilmente osservato che «il termine Standrecht esprime l’idea dì una legislazione rigorosa: la legge marziale applicata in stato d’assedio. Ne segue che Kafka oppone alla concezione corrente d’un giudizio ultimo, la sua concezione d’un giudizio immediato, senza indugio, implacabile. L’idea di stato – Stand – ch’egli afferma è ripresa letteralmente dalla parola composta Geschichtsstand, stato della storia», nel quale l’esistenza umana è perpetuamente in corso e nondimeno il continuum del tempo lineare si spezza, senza mostrare nulla al di là di sé. 89 W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. III, cit., 1997, pp. 331-332: 331; tr. it. tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 160-161: 160 (lettera a H. von Hofmannsthal dell’8 febbraio 1928). 90 Tale è l’interpretazione avanzata e da M. Cacciari, L’angelo necessario, cit., pp. 88-89 e da V. Vitiello, L’ethos della topologia, Le Lettere, Firenze 2013, p. 72. 91 F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung (1921), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, Martinus Nijhoff, The Hague, 1976, p. 322; tr. it. di G. Bonola, La stella della redenzione, Vita & Pensiero, Milano 2005, p. 298. 92 Cfr. G. Scholem, Zur Neuauflage des “Sterns der Erlösung” (1931), in Id., Judaica 1, Suhrkamp, Frankfurt a. M 1963; tr. it. di R. Donatoni, Sulla edizione del 1930 della “Stella della redenzione” di Rosenzweig, in Id., L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica, Adelphi, Milano 2008, pp. 311-315: 314. A giusta ragione F. Desideri, Catastrofe e redenzione. Benjamin tra Heidegger e Rosenzweig (1983), in Id., La porta della giustizia, cit., pp. 167-184: 182, sostiene che la critica di Scholem è «interamente implicata nelle Tesi benjaminiane». D’altra parte mette conto ricordare – d’accordo con lo stesso Scholem, Walter Benjamin (1965), in Über Walter Benjamin, cit.; tr. it. di M.T. Mandalari, Walter Benjamin, in G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit., pp. 71-110: 101 – che Benjamin fu «lettore appassionato» di Der Stern der Erlösung, ed invero il suo pensiero rivelerebbe non poche affinità con quest’opera: cfr. S. Mosès, Walter Benjamin et Franz Rosenzweig, in La pensée de Franz Rosenzweig, éd. par A. Münster, Puf, Paris 1994, pp. 43-67; A. Moscati, Nota su Rosenzweig e Benjamin, in «aut-aut», 189-190, 1982, pp. 103-113; J.-F. Courtine, Temporalità e storicità. Schelling-Rosenzweig-Benjamin, in Filosofia del Tempo, a c. di

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miniana possa essere concepita come la forma in cavo entro la quale «l’eternità non appare come tale, ma spezzata attraverso l’elemento più caduco»93, occorre ch’essa sia compresa non già come “memoria del simbolo” nell’irrigidito paesaggio originario della storia, bensì come svuotamento del simbolo stesso. In tal senso, allorché Benjamin sostiene che l’«attimo mistico [Nu]» è «la misura temporale dell’esperienza simbolica», destinata a diventare l’«“ora” attuale [aktuelle “Jetzt”]» 94, egli parrebbe più che presupporre la deformazione allegorica cui, in generale, è soggetto, sin dall’età barocca, l’elemento simbolico nella sua temporalità95, voler mostrare che quest’ultimo può darsi soltanto nella sua kénosi. Non si tratterebbe quindi di pensare la Jetztzeit come un frammento del tempo, quanto di comprendere come in essa «i differenti elementi del tempo si trovino raccolti, condensati, soppressi»96. D’altra parte, mentre, percorrendone la parabola dall’età barocca all’Ottocento, l’allegoria del tempo tende a ridursi ad istante quantificato, esaurendo così qualsiasi significato che non sia riconducibile all’assoluto della merce97, L. Ruggiu, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 162-182. Più in generale, cfr. A. Cirillo, Franz Rosenzweig. Pensare il tempo, Le Lettere, Firenze 2012, in part. pp. 63-102. 93 T.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 325. 94 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 342; tr. it. p. 202 e Ivi, p. 358; tr. it. p. 218. Come ha osservato F. Desideri, «divenuto Jetzt, il Nu, non è più il Begriff della Ewigkeit, dell’eternità. La distorsione del simbolico, la deformazione della sua “sostanza” in figura allegorica, ha allentato e incrinato (fino a sciogliere) il rapporto fra nûn e aión», attestato nel lessico neotestamentario nell’espressione o nûn aión. La Jetztzeit sarebbe propriamente traduzione di tale processo di secolarizzazione del Nu in Jetzt (Id., Ad vocem “Jetztzeit”, cit., pp. 158-159). 95 Cfr. H. Steinhagen, Zu Walter Benjamins Begriff der Allegorie, in Formen und Funktionen der Allegorie, hrsg. v. W. Haug, Metzler, Stuttgart 1979, pp. 666-685: 671-672. 96 M.-C. Dufour-El Maleh, La nuit sauvée. Walter Benjamin et la pensée de l’Histoire, Ousia, Bruxelles 1993, p. 46. 97 Cfr. W. Benjamin, Zentralpark, cit., pp. 683-684; tr. it. p. 203, nonché la lettera a M. Horkheimer del 16 aprile 1938, in W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. VI, cit., pp. 64-69: 66; tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 337-341: 339. Per C. Imbert, «Zentralpark riprende in radice la questione che l’analisi del dramma barocco aveva posto più che risolutamente: l’enigma d’una allegoria religiosa banalizzata, universale, monotona, di cui la pianta espressionista, esistenziale, dolorista non è che la degenerazione, la memoria impotente». Insomma, come in modo emblematico dimostrerebbe la poetica baudelairiana, con il XIX secolo l’allegoria perderebbe il suo significato metafisico (Id., Le présent et l’histoire, in Walter Benjamin et Paris, cit., pp.

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la Jetztzeit si conferma, per Benjamin, una «monade» satura di tempo, «come seme prezioso ma privo di sapore»98. Nel saggio sul dramma barocco la nozione di “monade”, associata a quella di idea, tendeva ad esprimere un armonioso «rapporto sonoro [tönende Verhältnis]»99. Come già in Leibniz – cui significativamente Benjamin si richiama100 –, la relazione musicale che le monadi compongono fra loro accordandosi alla perfezione, pur cantando ciascuna la propria partitura senza conoscere quella dell’altra101, si riflette in modo decisivo sul piano temporale. Infatti se da un lato la concertazione delle monadi è «la corrispondenza in virtù della quale non vi è accordo maggiore e perfetto in una monade senza che vi sia accordo minore o dissonante in un’altra, e viceversa», sicché tutte le combinazioni sono possibili, e se dall’altro tale concertazione rappresenta «la ragione applicata alle relazioni spazio temporali che derivano dalle monadi», sarà possibile affermare che la concertazione racchiude una causalità spazio-temporale ideale che, ancora vettorializzabile in Leibniz102, in Benjamin risulta paragonabile alle energie sprigionate in ogni direzione, analogamente a quan743-792: 775-776). Un efficace excursus sulla ricorrenza della nozione di allegoria e sulle sue diverse tematizzazioni nell’opera benjaminiana è offerto da B. Lindner, Allegorie, in Benjamins Begriffe, cit., Bd. I, pp. 50-94; nonché da B. Cowan, Walter Benjamin’s Theory of Allegory, in «New German Critique», 22, 1981, pp. 109-122. 98 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 703; tr. it. p. 492; ma l’immagine della monade ricorreva già nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 228; tr. it. pp. 87-88. 99 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 218; tr. it. p. 78 (tr. modificata). 100 Oltre che nella Vorrede al saggio sul dramma barocco, il nome di Leibniz ricorre nell’epistolario benjaminiano e segnatamente nella già menzionata lettera a F.C. Rang del 9 dicembre 1923, in W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. II, cit., p. 393; tr. it. p. 73, dove il concetto di monade è detto «rappresentare la sintesi di una teoria delle idee». Ma sul punto cfr. P.L. Schwebel, Intensive Infinity: Walter Benjamin’s Reception of Leibniz and its Sources, in «MLN», 3, 2012, pp. 589-610; nonché J. Urbich, Darstellung bei Walter Benjamin. Die “Erkenntniskritische Vorrede” im Kontext ästhetischer Darstellungstheorien der Moderne, Walter de Gruyter, Berlin-Boston 2012, pp. 294-308. 101 Cfr. G.W. Leibniz, Lettres à Arnaud (1686-1687), Puf, Paris 1952, p. 67; tr. it. di V. Mathieu, Corrispondenza con Arnauld, in G.W. Leibniz, Saggi filosofici e lettere, Laterza, Bari 1963, pp. 145-215: 184 (lettera dell’aprile 1687). 102 G. Deleuze, Le pli. Leibniz et le Baroque, Minuit, Paris 1988; tr. it. di D. Tarizzo, La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 2004, p. 222.

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to accade in «una fissione atomica»103. Tale «carica esplosiva [Sprengstoff]»104 intrinseca alla struttura monadologica della Jetztzeit fa sì che essa sia «sbalzata fuori dal continuum del corso storico»105. Da questo punto di vista, e secondo quanto si trae da alcuni appunti del Passagenwerk, la nozione di “monade” dovrebbe essere assimilata a quella di “immagine dialettica”106. D’altra parte, se è grazie alla struttura monadologica che “la pre- e la post-storia” possono fra loro concentrarsi in una “costellazione satura di tensioni”, è pur vero che il loro confronto può avvenire solo attraverso un’esposizione dialettica che ne catturi l’immagine107. L’“immagine monadica” infirmerebbe il meccanismo dell’associazione temporale elaborata consapevolmente attraverso un tempo omogeneo, poiché in essa, alla stregua di quanto accade in uno scatto fotografico108, brillerebbe quella scintilla «magari minima di caso, di hic et nunc», nella quale si è impresso il reale, e che cela al proprio interno il luogo invisibile, «l’attimo lontano», nel quale è annidato il futuro del passato. È, questo, il controtempo in cui andrebbe compreso l’elemento simbolico racchiuso nella struttura monadica della Jetztzeit. Il simbolo temporale, secondo una prospettiva che parrebbe restare inalterata dalle pagine giovanili di Trauerspiel und Tragödie al Theologische-politisches Fragment109, costituisce per 103

W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 578; tr. it. p. 518 (N 3, 4). Ivi, p. 495; tr. it. p. 437 (K 2, 3). 105 Ivi, p. 594; tr. it. p. 533 (N 10, 3). 106 Nella nota che conclude il frammento N 11, 4 (Ivi, p. 596; tr. it. p. 535), in cui si afferma che «dove si compie un processo dialettico, abbiamo a che fare con una monade», il rimando, per quanto concerne la nozione di “monade”, al precedente frammento N 10a, 3 (Ivi, p. 595; tr. it. p. 534), nel quale si delucida la funzione della “immagine dialettica”, porta a considerare, a questa altezza del pensiero di Benjamin, i due termini come sinonimi, laddove, nella fase finale della elaborazione di Über den Begriff der Geschichte, si registrerà la preferenza per il termine “monade” in luogo di quello di “immagine dialettica”. Si veda comunque al riguardo quanto osserva G. Bonola sub lemma “Monade” in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 187-189. 107 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 587-588; tr. it. p. 527 (N 7 a, 1). 108 W. Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie (1931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, pp. 368-385: 371; tr. it. di P. Teruzzi, Breve storia della fotografia, in Opere complete, vol. IV, cit., pp. 476-491: 479. Ma cfr. D. Gentili, Il tempo della storia. Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin, Guida, Napoli 2002, pp. 216-219. 109 Invero la datazione del Theologische-politisches Fragment è alquanto incerta. Adorno lo colloca nel «periodo tardo» (Id., Profilo di Walter Benjamin, cit., p. 247); 104

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Benjamin una forma del tutto estranea a qualsiasi accadere empirico, in quanto esso «è infinito in ogni direzione e incompiuto in ogni momento»110. Ma se il simbolo temporale non trova alcuna corrispondenza sul piano di un accadere determinato in modo fattuale, ciò nondimeno sarebbe errato connotarlo in termini puramente “auratici”111. Piuttosto, nell’affermare che la storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito da una processione omogenea di tipo meccanico-causale, «ma da quello riempito della Jetztzeit [sondern die von Jetztzeit erfüllte]»112, Benjamin mostrerebbe di concepire il simbolo temporale come una forma colmata non già da un evento «che abbia un rapporto necessario con la situazione cronologica determinata in cui accade»113, bensì dall’esaursi di ogni possibile accadere114. Il controtempo di cui – come osservato – la Jetztzeit sarebbe mentre G. Scholem sostiene, in Storia di un’amicizia, cit., p. 149, sia stato scritto attorno al 1920. I curatori delle Gesammelte Schriften, R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, pur accreditando maggiormente la datazione proposta da Scholem, ammettono che l’aspetto esteriore del manoscritto non permette di dedurre un periodo di stesura preciso, ed al contempo osservano come resti comunque indubbio che Benjamin ritenesse le tesi qui esposte – lette ad Adorno, secondo la sua espressa testimonianza, a cavaliere fra il 1937 e il 1938 a Sanremo – insuperate nel suo pensiero, e dunque caratterizzate a quel tempo da una attualità ancora sostanziale (Ii., Anmerkungen der Herausgeber, in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, pp. 946-949). 110 W. Benjamin, Trauerspiel und Tragödie (1916), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, pp. 133-137: 134; tr. it. di A. Marietti Solmi, Trauerspiel e Tragedia, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 273-276: 274; cfr. altresì W. Benjamin, Theologische-politisches Fragment, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 203204: 204; tr. it. di G. Agamben, Frammento teologico-politico, in Opere complete, vol. I, pp. 512-513: 512. 111 Come invece suggerisce G. Carchia, Nome e immagine, cit., p. 99. 112 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 701; tr. it. p. 490. 113 W. Benjamin, Trauerspiel und Tragödie, cit., p. 134; tr. it. p. 274. 114 B. Moroncini, attraverso un efficace e convincente confronto del pensiero di Deleuze con quello di Benjamin, ha sostenuto come l’“immagine dialettica” da quest’ultimo messa a tema sia equiparabile all’“esaurimento del possibile”, da intendersi, secondo quanto si legge in L’épuisé (1992) di Deleuze, come combinatoria che include la disgiunzione esclusiva, sicché tutto si divide, ma in se stesso, e l’insieme del possibile si confonde col Niente di cui ogni cosa è una modificazione – e ciò che resta è soltanto l’immagine. A fronte di ciò, in Benjamin si troverebbe espresso il paradosso per il quale allorché il fatto storico giunga a farsi immagine, e quindi pervenga al luogo dell’esaustione del possibile, proprio allora l’indice storico che pertiene agli eventi si mostra e giunge al concetto (Id., Il lavoro del lutto. Materialismo, Politica e rivoluzione in Walter Benjamin, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 41-46 passim).

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espressione coinciderebbe pertanto non già con una hJsuciva che tronca il corso del tempo115, bensì con ciò che lo consuma. L’accadere della Jetztzeit trapasserebbe immediatamente nell’inappariscente. Esso avrebbe luogo nella sua dissipazione, nella sua fine, lasciandosi perciò fissare soltanto in una retrospezione capace di divinare il destino del tempo, quale traluce nella vita degli oggetti, liberati dal dogma della utilità. Se infatti si tiene fermo il fatto che la percezione è «una funzione del tempo», guardare gli oggetti «in stato di perenne fluttuazione», quale si manifesta allorché essi siano sottratti al loro valore d’uso, significherebbe per ciò stesso vedere la dialettica interna del tempo116. Più propriamente, significherebbe riuscire a comprendere la fisionomia del tempo impressa sulle cose. Se queste vengono colte come prive o diminuite di funzionalità, se si lascia che l’ambito degli oggetti sia sede di un ritorno del represso antifunzionale, si accede ad una dimensione metastorica nella quale – è stato affermato – «il tempo consuma le cose e le distrugge, vi produce guasti e le riduce inservibili, le porta fuori moda e le fa abbandonare; il tempo rende le cose care all’abitudine e comode al maneggiamento, presta loro tenerezza come ricordi e autorità come modelli, vi imprime il pregio della rarità e il prestigio dell’antichità», secondo equilibri instabili ed imprevedibili anche di ordine quantitativo117. In tale prospettiva, quanto si legge in più luoghi dell’opera benjaminiana circa la capacità propria dei collezionisti, in quanto custodi d’un rapporto con gli oggetti 115 Per cui deve vedersi il magistrale saggio di C. Ossola, Sospensione del tempo, in Il simbolismo del tempo, a c. di E. Castelli, Istituto di studi filosofici, Roma 1973, pp. 35-57. 116 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 272; tr. it. p. 215 (H 1a, 5), dove viene in particolare richiamato quanto espresso al riguardo da H. Bergson nell’ultima parte di Matière et mémoire (1896), in Id., Œuvres, cit., tr. it. di A. Pessina, Materia e memoria, Laterza, Bari 1996, pp. 151-187, in part. pp. 176-177. Cfr. su ciò in particolare H. Weidmann, Flanerie, Sammlung, Spiel. Die Erinnerung des 19. Jahrhunderts bei Walter Benjamin, Fink, München 1992, in part. pp. 99-100. Ma per un più generale confrontro fra Benjamin e Bergson, si fa rimando a A. Münster, “Eingedenken” – “mémoire pure” und “mémoire involontaire”. Walter Benjamin im philosophisch-literarischen Spannungsfeld zwischen Henri Bergson und Marcel Proust, in Global Benjamin, cit., Bd. 2, pp. 1135-1146. 117 F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, Torino 1993, p. 15.

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estraneo a qualsiasi forma d’utilità, d’essere «fisiognomici dell’universo delle cose»118, li rivela capaci non soltanto – come in precedenza osservato – di distruggere il tempo omogeneo proprio delle cronolatrie dominanti l’epoca moderna, e di introdurre ad una temporalità nella quale si riassume «in un’immane abbreviazione [ungeheueren Abbreviatur] la storia dell’intera umanità»119, ma anche di decifrare, attraverso le cose, i caratteri di tale temporalità, seguendone la destinazione sino all’ultimo spasmo delle sue contrazioni. Il collezionismo, così come da Benjamin tematizzato, esplicandosi nel conferimento agli oggetti fuori moda, frammentari, inutilizzabili, quasi incomprensibili della funzione di inficiare ogni tentativo d’identificazione con un evento del passato storicamente inteso, proprio in virtù della loro marginalità rispetto al groviglio dei dati di fatto, consente per ciò stesso di testimoniare della consunzione del tempo. Nei francobolli, nelle cartoline postali, nei libri per l’infanzia come nei vecchi giocattoli, Benjamin individua «un reagente di estraneazione rispetto al presente»120 in grado di dischiudere un nuovo ordine del tempo che si manifesta nella misura in cui svanisce. «Per il collezionista – si afferma significativamente in uno scritto del 1930 – in ciascuno dei suoi oggetti è presente il mondo stesso. E lo è in modo ordinato. Ordinato però secondo un contesto sorprendente, incomprensibile al profano»121, perché connotato da una temporalità determinata da un momento distruttivo che la garantisce e distingue rispetto all’ambito della continuità storica ed al suo elemento epico122. A motivo di ciò appare lecito sostenere che dietro il gesto collezionistico stia un’intenzione ermeneutica che mira a 118 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 274; tr. it. p. 217 (H 2, 7; H 2a, 1); Id., Lob der Puppe (1930), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, pp. 213-218: 217; tr. it. di G. Schiavoni, Elogio della bambola, in Opere complete, vol. III, cit., pp. 7-12: 11; W. Benjamin, Ich packe meine Bibliothek aus, cit., p. 389; tr. it. p. 457. 119 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 703; tr. it. p. 492. 120 G. Celati, Il bazar archeologico (1974), in Id., Finzioni occidentali, Einaudi, Torino 2001, pp. 197-227: 200. A queste pagine si rimanda altresì per un confronto delle considerazioni espresse da Benjamin sul collezionismo con la poetica surrealista. 121 W. Benjamin, Lob der Puppe, cit., pp. 216-217; tr. it. p. 10. 122 Cfr. W. Benjamin, Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker, cit., pp. 468 e 478; tr. it. pp. 468 e 477.

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cogliere la superficie più esteriore delle cose, la loro più pura «Sinnlichkeit»123, non per svelare l’essenza della cosa, quanto per lasciarne conoscere l’assenza che segue il progressivo disfarsi e rovinare del tempo in essa rappreso. Il «mikrokosmisches Interieur» nel quale il collezionista benjaminiano raduna le proprie reliquie più ancora che alle teche colme di preziose rarità descritte da Gottfried Keller124, appare simile alla mitica città di Perla di cui narra Kubin in Die andere Seite, e nella quale ciò che la civiltà europea ebbe a creare fino alla metà del XIX si trova radunato, ricreando esattamente la realtà quale era prima, se non fosse che tutto è immerso in una desolante putrefazione125. Le stesse vicissitudini attraversate dalla biblioteca di Benjamin segnano del resto le tappe di una progressiva, mesta disgregazione126, nella quale non si stenta a ravvisare il disfacimento che 123 Cfr. W. Benjamin, Paul Scheerbart: Lésabéndio (1919), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 2, cit., pp. 618-620: 618; tr. it. di A. Marietti Solmi, Paul Scheerbart: Lésabéndio, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 462-463: 462. 124 Cfr. W. Schlüter, Walter Benjamin. Der Sammler & das geschlossene Kästchen, Jürgen Häuser Verlag, Darmstadt 1993, pp. 31-35, che segnatamente ricorda le pagine kelleriane di Die drei gerechten Kammacher (1856), in G. Keller, Drei Erzählungen, Reclam, Leipzig 1940; tr. it. di L. Mazzucchetti, I tre pettinai amici della giustizia, in G. Keller, Racconti, 2 voll., Hoepli, Milano 1947, vol. 1, pp. 173209, in part. pp. 182-183. 125 A. Kubin, Die Andere Seite (1908), Deutscher Taschenbuch Verlag, München,1962; tr. it. di L. Secci, L’altra parte, Adelphi, Milano 1965. La più felice illustrazione di questo romanzo è offerta dallo stesso autore in Dämmerungswelten (1933), in Id., Aus meiner Werkstatt, Nymphenburger Verlag, München 1973; tr. it. di M. Ulbar, Mondi al crepuscolo, in A. Kubin, Disegnatore di sogni, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 74-80. Benjamin aveva nella sua biblioteca copia del romanzo kubiniano, che lesse probabilmente intorno al 1917 (Cfr. D. Schöttker, In Walter Benjamins Bibliothek: gelesene, zitierte, rezensierte Bücher und Zeitschriften in der Edition, in der sie Benjamin kannte und nutzte: Dokumentation einer verlorenen Bibliothek, Bd. I, Antiquariat Herbert Blank, Stuttgart, 2006, p. 163), attribuendogli «grande valore» (G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, cit., p. 81). 126 Come ricorda P. Missac, Passage de Walter Benjamin, cit., p. 56, le ragioni di ciò sono da ricercare nelle contingenze storiche e nelle distrette economiche sofferte dall’autore berlinese, come si evince dal suo epistolario: cfr., ad esempio, le lettere a G. Scholem del 19 febbraio 1925 e del 25 aprile 1930, ora in W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. III, cit., pp. 13-18: 18 e pp. 520-522: 521; tr. it. parz. A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 184-185: 184. Ma, oltre alla sua biblioteca personale, ad essere distrutta fu pure la sua collezione di libri per bambini, ricordata con commozione da A. Monnier, Un portrait de Walter Benjamin, in «Les lettres nouvelles», 11, 1954, pp. 11-13: 13, sebbene, per una piccola parte, essa si sia in-

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gradualmente pare dover colpire «il mondo remoto»127 che ogni collezione rappresenta, e nel quale il tempo si fa immagine, precedendo, producendo, scatenando la fine. Si scorge in ciò la distanza che separa il collezionista dall’allegorista128. Laddove questo cala gli oggetti in una configurazione del tutto nuova, secondando unicamente il proprio arbitrio129, il collezionista si volge verso gli oggetti quasi con compassione: «toccarli non significa per lui violentarli, bensì sfiorarli amorevolmente»130, così che essi possano rivelarsi e subito disgregarsi, lasciando che a restare sia «l’autentico: la cenere»131. Tale è la traccia ancora distinguibile negli oggetti lasciata dalla Jetztzeit quando essa già manca al proprio tempo, ma prima che tutto si dissolva e si possa definitivamente cogliere il significato del collezionare132, così come della negative Ontologie der Zeit che attraverso di esso traspare. vero conservata e sia oggi custodita presso l’Institut für Jugendbuchforschung della Università di Francoforte: cfr. Katalog der Kinderbuchsammlung Walter Benjamin, Ausstellung des Instituts für Jugendbuchforschung und der Stadt- und Universitätsbibliothek Frankfurt a.M., Frankfurt a. M. 1987, pp. 35-57. Al riguardo si veda comunque G. Schiavoni, Avanzi di un mondo di sogno. Walter Benjamin e l’enciclopedia magica dell’infanzia, in W. Benjamin, Orbis Pictus, Emme Edizioni, Milano 1981, pp. 7-33, in part. pp. 17-25. 127 W. Benjamin, Paris, die Hauptstadt des XIX. Jahrhunderts (1935), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. V, t. 1, cit., pp. 45-59: 53; tr. it. di R. Solmi, Parigi, la capitale del XIX secolo, in I “passages” di Parigi, cit., pp. 5-18: 12. 128 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 279; tr. it. p. 222 (H 4a, 1). 129 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 359; tr. it. p. 219: «Se l’oggetto diventa allegorico […] il suo significato sarà quello che l’allegorista gli assegna. Egli l’inserisce e lo cala profondamente nell’oggetto: e la situazione non è psicologica ma ontologica». 130 M. Pensky, Melancholy Dialectics. Walter Benjamin and the Play of Mourning, University of Massachussetts Press, Amherst 2001, p. 243. Ma si veda pure M.P. Steinberg, The Collector as Allegorist: Good, Gods, and the Objects of History, in Walter Benjamin and the Demands of History, ed. by M.P. Steinberg, Cornell University Press, Ithaca-London 1996, pp. 88-118: 115, che sottolinea come il collezionista sia sì un allegorista, ma i suoi modelli di significato siano capricciosi, sparsi: «egli non è un tassonomista». 131 W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. I, Suhrkamp, Frankurt a. M. 1995, pp. 348-351: 349; tr. it. di M. Marietti, G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., p. 25-27: 26 (lettera a H. Belmore della fine del 1916). 132 Cfr. W. Benjamin, Ich packe meine Bibliothek aus, cit., p. 395; tr. it. 463 (tr. modificata): «Solo con il suo scomparire il collezionista viene compreso».

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3. Epistrofe della catastrofe Secondo quanto si legge nel Passegenwerk, se la collezione insegue un ideale di completezza, riunendo le cose in virtù della loro reciproca affinità, ovvero della loro successione nel tempo, sicché essa parrebbe riprodurre, anche in ragione della sua intrinseca incompiutezza, un principio accumulativo conforme ad una continuità storica di tipo progressivo, è pur vero ch’essa non è affatto un mero inventario133. Essa tende ad assumere ciascun oggetto che in essa è raccolto e custodito nella sua propria singolarità, immettendolo in un «cerchio magico», che oltre a lacerare il valore d’uso di quell’oggetto, lo cristallizza, arrestandone il corso storico, in una memoria reificata134, che capovolgerebbe il “capovolgimento” – etimologicamente e secondo la terminologia prescelta da Benjamin –, la “catastrofe”, sulla quale si fonderebbe non soltanto il concetto di progresso, ma, più in generale, l’intera esistenza umana135. Catastrofica appare infatti agli occhi di Benjamin l’assoluta provvisorietà delle forme del moderno, le quali, inghiottite dall’accelerazione dello sviluppo tecnico-scientifico, sono coinvolte in un processo di rinnovamento che subito fa luogo ad uno sbricio133 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 279-280; tr. it. p. 222 (H 4a, 1). Secondo quanto ha osservato B. Moroncini, «l’insieme costituito da tutti gli elementi della collezione è un insieme infinito e inconsistente». Tuttavia il collezionare è pure «un uso che deve rendere giustizia agli oggetti, disponendoli secondo un ordine mentale o spaziale» che costituisce l’orizzonte di senso a partire dal quale essi per la prima volta ricevono il loro vero valore (Id., Il lavoro del lutto, cit., p. 160). 134 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 592; tr. it. p. 532 (N 9a, 4). 135 Si legge in W. Benjamin Zentralpark, cit., p. 683; tr. it. p. 202: «Fondare il concetto di progresso nella idea di catastrofe. Che tutto “vada avanti” come prima è la catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato. Il pensiero di Strindberg: l’inferno non è qualcosa che ci attenda – ma la nostra vita qui». Come ha rilevato K. Pomian, l’idea del tempo ciclica e quella lineare si sono alternate lungo i secoli fino XIX secolo, quando politica, filosofia e scienza dichiarano finalmente la vittoria della cronosofia lineare e cumulativa. In tale quadro il problema posto dalla catastrofe si iscriverebbe in quello dei rapporti di causa/effetto e, più precisamene, dei rapporti fra cause le cui azioni variano in maniera continua ed effetti discontinui (Id., Voce “Catastrofe” e Voce “Ciclo”, in Enciclopedia Einaudi, vol. II, Einaudi, Torino 1977, pp. 789-803 e pp. 1141-1199). Per un’attenta analisi della nozione epistemologica di catastrofe si fa rimando a U. Curi, Katastrophe. Sulle forme del mutamento scientifico, Arsenale, Venezia 1982, in part. pp. 9-33.

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lamento che, a sua volta, fa luogo ad un’ulteriore novità136. È dunque a tale carattere decadente e demoniaco insieme che si contrappone quel «carattere distruttivo», in quanto puro «spazio vuoto»137, che coincide con la passione del collezionista138. Questa, in tale prospettiva, non solo si mostra tesa a combinare alla fedeltà all’oggetto, nella sua fragile singolarità, «la protesta caparbia e sovversiva contro ciò che è tipico e classificabile»139, ma, più in generale, sembra definirsi come ciò che sovverte il corso delle «perenni catastrofi»140 che caratterizzano l’universo moderno. D’altra parte, se i tratti di questo sono paragonabili all’eternità dell’inferno, dal momento che in esso ciò che è “più nuovo” continuamente si contraddice, rimanendo sempre lo stesso141, se quindi l’età moderna si rinnova nella negazione – suggello mefistofelico142 –, ed anzi, solo e unicamente con la negazione il suo accadere storico «trova posto nella scena»143, 136 Cfr. M.T. Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia, Quodlibet, Macerata 2008, in part. pp. 147-174; nonché O. Ombrosi, Il crepuscolo della ragione. Benjamin, Adorno, Horkheimer e Levinas di fronte alla Catastrofe, Giuntina, Firenze 2014, in part. pp. 58-68. Più in generale, S. Natoli, Progresso e catastrofe. Dinamiche della modernità, Marinotti, Milano 1999, in part. il V capitolo, pp. 195-250. 137 W. Benjamin, Notizen über den “destruktive Charakter” (1931), in Id, Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, cit., pp. 999-1001: 1000; tr. it. di U. Gandini, Appunti sul “carattere distruttivo”, in Opere complete, vol. IV, cit., pp. 523-525: 524. 138 Cfr. W. Benjamin, Lob der Puppe, cit., pp. 216; tr. it. p. 10. Come ha opportunamente rilevato C. Perret, il rapporto, che di primo acchito appare paradossale, fra distruzione e collezione esplicita interamente l’ambivalenza, il legame consustanziale che la vita e la morte intrattengono nel pensiero benjaminiano (Ea., Walter Benjamin sans destin, cit., p. 200). Ma al riguardo si veda pure M.T. Costa, Per un’etica della distruzione. Note a partire da un frammento benjaminiano, in Le vie della distruzione. A partire da Il carattere distruttivo di Walter Benjamin, a c. del Seminario di studi benjaminiani, Quodlibet, Macerata 2010, pp. 35-54, in part. pp. 42-43. 139 W. Benjamin, Lob der Puppe, cit., p. 216; tr. it. p. 10. 140 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 168; tr. it. p. 120 (D 5, 7). 141 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 1010-1011; tr. it. p. 919 (Gº, 17). 142 J.W. Goethe, Faust, der Tragödie erster Teil (1808), in Id., Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, Bd. 5, Artemis, Zürich 1949; tr. it. di F. Fortini, Faust, Mondadori, Milano 1970, p. 103, v. 1338: «Sono lo spirito che sempre dice no [Ich bin der Geist, der stets verneint!]». 143 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 355; tr. it. p. 215. Al riguardo devono vedersi i puntuali rilievi di K. Garber, La teoria benjaminiana dell’origine del moderno, in L’Angelo malinconico. Walter Benjamin e il moderno, cit., pp. 121-141, in part. pp. 132 sgg., per il quale l’età barocca, nell’ottica benjami-

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allora si dovrà ammettere che il concetto di catastrofe sotto cui il moderno si presenta rovescia sempre ancora una negazione che non ha alcun legame con il positivo. Il paradosso che ne discende, e per il quale un “rovescimento”, una “rivoluzione” avrebbero quale loro antecedente una negazione144, infirma la possibilità che abbia luogo quella «apocatastasi storica [historischen Apokatastasis]» che potrebbe compiersi solo là dove la negazione tornasse ad essere sfondo «per i tratti del positivo». «Per questo è di decisiva importanza – si afferma nel Passagenwerk – riapplicare alla parte negativa […] una separazione [Teilung], di modo che, con uno spostamento dell’angolo visuale, riemerga in essa un lato positivo»145. In tal senso Benjamin, allorché recepisce l’idea di castrofe, tende a capovolgerla, sottraendola all’orizzonte del moderno. Tale “epistrofe” non implica, tuttavia, una pura inversione della marcia attraverso il tempo omogeneo e vuoto del progresso, volta a produrre un «balzo di tigre nel passato»146. Se la strategia teorica messa a punto da Benjamin si risolvesse nel voler far leva sul passato per irrompere nel presente, onde interromperne il corso, alla stessa stregua di quanto accaduto durante la Rivoluzione francese, per la quale «l’antica Roma era un passato carico di adesso [Jetztzeit]», che poteva essere estratto a forza dal continuum della storia147, essa si limiterebbe a far sì che un passato remoto sia richiamato in un particolare movimento circolare, ancorché improvviso e casuale148. Il che imporrebbe di pensare niana, si configura come origine del moderno, perché essa promuove la distruzione d’ogni immagine di conciliazione ed al contempo diffonde l’incubo d’una storia incessantemente riprodotta. 144 Cfr. R. Schürmann, Broken Hegemonies (1996), Indiana University Press, Bloomington 2008, p. 679, n. 94. 145 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 573; tr. it. p. 513 (N 1a, 3) (tr. modificata). 146 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 701; tr. it. p. 491. 147 Ivi, p. 701; tr. it. p. 490. Ma si veda pure la successiva XV Tesi (Ivi, pp. 701702; tr. it. p. 491), nella quale si ricorda, sulla scorta di quanto riportato da A.-M. Barthélemy e J. Mery ne L’insurrection (1830) (cfr. Id., Das Passagenwerk, cit., p. 895; tr. it. p. 809), di come i disordini rivoluzionari che portarono alla abdicazione di Carlo X sfociarono, fra l’altro, nella manomissione degli orologi, per arrestare simbolicamente il tempo ed inaugurare un nuovo calendario. 148 Cfr. E. Bloch, Erinnerungen an Walter Benjamin, cit., p. 20.

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la Jetztzeit pur sempre entro un orizzonte di rinnovamento ciclico, che perpetuerebbe, sebbene in una dimensione temporale contratta, nella quale il passato ed il futuro appaiono riuniti nel solo presente, la totalità della storia149. All’opposto, il richiamo alla Jetztzeit – d’accordo con quanto in precedenza osservato – va accolto ravvisandovi ciò che in tanto converte il continuum storico, quale senso della catastrofe, in quanto, nel suo darsi, esso stabilisce una prospettiva in cui il tempo si frattura e deforma prima di venire a mancare, lasciando essere soltanto «uno spazio fluttuante e immaginale, in cui tutte le frontiere fra il soggettivo e l’oggettivo, l’interno e l’esterno, il reale e l’irreale […] vacillano, schiudendosi al fantasmatico, all’invisibile, ad un punto di vista non umano»150. Ciò è quanto si trae dalla fenomenologia che lo stesso Benjamin traccia, soffermandosi sul modo in cui, nel corrispondere all’intelligenza degli oggetti, i collezionisti adempiono il proprio destino, sparendo nel regno dei ricordi151. I ricordi come gli oggetti non vanno qui intesi alla stregua di un principio di connessione unitaria fra fatti dispersi nelle diverse stagioni dell’esistenza152. Nei ricordi nei quali svanisce il collezionista si compie piuttosto una retrospezione con la quale non si tende più 149 In questa luce, non a caso, potrebbe essere pensabile una prossimità fra il pensiero benjaminiano e quello nietzscheano: cfr. G. Franck, Walter Benjamin e i paradossi di Zarathustra, in Critica e storia, cit., pp. 117-136, in part. pp. 134-135; e, più in generale, M. Ponzi, Organizzare il pessimismo. Walter Benjamin e Nietzsche, Lithos, Roma 2007. 150 C. Buci-Glucksmann, La raison baroque, Galilée, Paris 1984; tr. it. di C. Gazzelli, La ragione barocca. Da Baudelaire a Benjamin, Costa & Nolan, Genova 1992, pp. 35-36. 151 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 1036; tr. it. p. 949 (Qº, 7). Ma si vedano pure le righe finali del manoscritto di Ich packe meine Bibliothek aus, biffate dall’autore, ma, per un errore della redazione della «Literarische Welt», ove il testo comparve inizialmente, non espunte (cfr. Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 2, cit., p. 998). 152 Cfr. W. Benjamin, Der Erzähler. Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows (1936), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 2, pp. 438-465: 453-454; tr. it. di R. Solmi, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, in Opere complete, vol. VI, pp. 320-342: 333. Per un commento alle considerazioni svolte da Benjamin in questo saggio si vedano L. Rampello, Walter Benjamin. La traccia e l’oblio, in Studi in onore di Luciano Anceschi, a c. di L. Rossi ed E. Solari, Mucchi, Modena 1982, pp. 289-296; J.-M. Gagnebin, Histoire et narration chez Walter Benjamin, l’Harmattan, Paris 1994, in part. pp. 87-112.

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ad illudere alcun presente, essendo il passato ormai per sempre perduto. In tal senso i libri e i giocattoli per l’infanzia raccolti da Benjamin, e con essi i ricordi di cui sono impregnati, rappresentano il desiderio non già di ricreare la dolce e materna infanzia protetta da una calda signorilità borghese153, bensì di volgersi al perdere stesso, al passare in quanto passare, all’irreversibile; di volgersi verso ciò che ininterrottamente si perde nella durata. Ogni oggetto collezionato recherebbe in sé la traccia, visibile nella dissoluzione della luce che le cose effondono e nella disgregazione che corrode la loro materia sino a consumarla, lasciata dal tempo nel suo decomporsi154. Nella collezione, dunque, si percepirebbe il tempo che muore155. In essa, più propriamente, e come Benjamin testimonia parlando dell’alfabetario della sua collezione di libri per bambini, si avvertirebbe «l’impossibilità di recuperare del tutto quanto si è dimenticato»: l’irrevocabilità che inverte, raffrena, e quindi arresta il senso della successione del tempo156. 153 Cfr. T. Perlini, Infanzia e felicità in Adorno, in «Comunità», 161, 1970, pp. 60-96, in part. pp. 66-68. 154 Come, sulla scorta della riflessione benjaminiana, ebbe a rilevare Adorno, osservare come il mondo si dissesti, si estranei, per quindi venire del tutto meno, è il compito che il pensiero può adempiere semplicemente ponendosi in contatto con gli oggetti (Id., Minima moralia, cit., p. 304). 155 Ad ulteriore conforto della tesi che ritiene l’arte indispensabile ai fini della epistemologia benjaminiana (cfr. S. Weigel, Walter Benjamin. Die Kreatur, das Heilige, die Bilder, Fischer, Frankfurt a. M. 2008; tr. it. di M.T. Costa, Walter Benjamin. La creatura, il sacro, le immagini, Quodlibet, Macerata 2014, in part. pp. 229-255), mette conto ricordare che in un testo del 1928, Jahrmarkt des Essens. Epilog zur Berliner Ernährungsausstellung, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, pp. 527-532: 531; tr. it. di G. Carchia, Fiera del cibo. Epilogo alla Mostra berlinese dell’Alimentazione, in Opere complete, vol. III, pp. 119-123: 123, Benjamin menziona l’acquaforte di W. Hogarth Tailpiece or The Bathos or manner of Sinking (1764). In essa – come osserva H. Sedlmayr – si ritrovano raffigurate, in forma d’allegoria, le imprese del tempo: il suo demolire, fracassare, distruggere, logorare, far finire tutto in un’universale rovina. Dai re ai lustrascarpe, tutti “finiscono”, come finiscono gli arnesi del loro mestiere. «Ma anche la falce di Crono è rotta; rotto è l’astuccio della clessidra, e la sabbia si è sparsa; la pipa si sta spezzando nella sua mano sinistra. Il Tempo stesso muore, finisce» (Id., La morte del tempo, in Il simbolismo del tempo, cit., pp. 25-33: 28). Sul significato del Bathos hogarthiano si veda, in generale, F. Desideri, Quartetto per la fine del tempo, Marietti, Genova 1991, in part. pp. 75-125. 156 W. Benjamin, Der Lesekasten (1933), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, cit., p. 267; tr. it. di E. Ganni, L’alfabetario, in Opere complete, vol. V, cit., pp.

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Di ciò d’altronde sarebbe significativo epifenomeno la melanconia che soffusamente traspare dalle pagine benjaminiane. Nato sotto il segno di Saturno157, Benjamin non solo ha indagato la nozione di melanconia con particolare acribia158, ma ha altresì esposto la sua stessa opera al Soleil noir de la Mélancolie. Come si evince dalle analisi condotte nello studio sul dramma barocco, la melanconia permetterebbe di guardare con assoluto disincanto la caducità delle cose. L’influsso saturnino che, secondo la tradizione, domina il temperamento melanconico, lo renderebbe infatti capace di immergersi «nella vita delle cose creaturali [ins Leben der kreatürlichen Dinge]» nella loro corsa implacabile verso la morte159. Contrariamente alla «Katastrophe in Permanenz» cui corrisponderebbe lo spleen baudelairiano160, nel quale il tempo si ammette solo come vie antérieure che la forza del ricordo può sì evocare, ma in modo sempre imperfetto, e senza poter resistere, se non momentaneamente, alla sua oggettivazione storica161, la melancolia che ispira la scrittura benjaminiana si 386-387: 386. La nozione di “irrevocabilità” è qui assunta nell’accezione conferitagli da V. Jankélevitch in L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1974, in part. pp. 275-287, il quale vi ravvisa, in latente analogia col dettato benjaminiano, il significato peculiare ad un «instante privilegiato» conferito del compito di contrastare l’orientamento e l’intenzione generale del divenire, la forma complessiva, altrimenti irreversibile, della continuità. 157 W. Benjamin, Agesilaus Santander, cit., p. 521; tr. it. p. 500. 158 Cfr. M. Pensky, Melancholy Dialectics, cit.; G. Cuozzo, L’angelo della melancholia, Mimesis, Milano-Udine 2009, in part. pp. 95-136. Più in generale: F. Jameson, Walter Benjamin or nostalgia, in Id., Marxism and Form, Princeton University Press, Princeton 1971; tr. it. R. Piovesan e M. Zorino, Walter Benjamin o della nostalgia, in Id., Marxismo e Forma, Liguori, Napoli 1975, pp. 75-100. 159 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 330; tr. it. p. 189. Nell’elaborare i tratti del temperamento melanconico, Benjamin è esplicitamente debitore degli studi di A. Warburg e di quelli di E. Klibansky, E. Panofsky e F. Saxl: cfr. A. Barale, La malinconia dell’immagine. Rappresentazione e significato in Walter Benjamin e Aby Warburg, Firenze University Press, Firenze 2009; M. Bertozzi, Il detective melanconico. Walter Benjamin e le metamorfosi di Saturno, in Id., Il detective melanconico e altri saggi filosofici, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 84-94. 160 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 437; tr. it. p. 379 (J 66a, 4). 161 Cfr. W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire, cit., p. 641-643; tr. it. pp. 405-407. Come incisivamente scrive G. Macchia, «Baudelaire risolve la po-

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rifiuta d’essere l’ingranaggio garantito nel suo movimento dai contrappesi della coscienza del tempo che scorre vuoto e del taedium vitae162. D’altra parte, il temperamento melanconico diviene per Benjamin rilevante non già in quanto assimilabile alla pura acedia, alla pigrizia di cuore, bensì perché in esso si riconosce l’emblema della ricerca instancabile e rimuginante che scava nello stato creaturale163. Questo non deve, a sua volta, venire assunto, come parrebbe invece accadere in Kraus, come uno spazio astratto, sottratto sì alla storia, ma unicamente perché esso è stato popolato da esseri che si reclutano soltanto fra coloro cui si è data una vita immaginaria164. Se mai, sotto un profilo soggettivo, lo stato creaturale è una condizione che implica una presa di distanza da sé. Come ha osservato Paul Celan, percorrendo una genealogia che movendo da Büchner giunge sino a Kafka e a Benjamin, «forse qui con l’io – con questo io affrancatosi qui e in tale modo – forse qui si libera ancora qualcos’altro»: qualcosa di «aperto e libero», perché privo di qualsiasi determinazione storicoontologica165. Tale del resto si mostra, entro lo spettro d’una considerazone d’ordine più generale, l’ambito nel quale etica della malinconia in una poetica dell’imperfetto; in quanto malinconia è senso dell’imperfetto» (Id., Baudelaire, Rizzoli, Milano 1975, p. 135). 162 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 444; tr. it. p. 385 (J 69, 5). 163 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., pp. 329-330; tr. it. pp. 189-190. 164 Scrive in modo tanto reciso quanto severo Benjamin che in Kraus «la testimonianza [Zeugnins] può essere determinante solo per coloro per cui non potrà mai diventare concepimento [Zeugung]» (Id., Karl Kraus, cit., p. 341; tr. it. p. 335). Sotto questo riguardo sembra difficile poter condividere la posizione di chi (B. Hanssen, Walter Benjamin’s Other History. Of Stones, Animals, Human Beings, and Angels, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1998, in part. la IIª parte, pp. 103-162) intenderebbe la nozione di “creatura” (Kreatur) impiegata da Benjamin in modo ampio, e dunque senza alcun vincolo di pertinenza al genere umano. 165 P. Celan, Der Meridian (1960), in Id., Gesammelte Werke, Bd. III, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1983; tr. it. di G. Bevilacqua, Il meridiano, in P. Celan, La verità della poesia, Einaudi, Torino 1993, pp. 3-22: 13 e 18. Come si sostiene nel profilo che E. Lévinas vi dedicò in Noms propres, Fata Morgana, Montpellier 1976; tr. it. di F.P. Ciglia, Nomi propri, Marietti, Genova 1984, pp. 47-54, il poeta di Czernowitz fa qui segno ad una dimensione utopica, da intendersi non già nella forma d’una pura idealità, ma in quella d’una modalità che si collocherebbe al di là dei limiti fra essere e non-essere, in un campo di significazione previo rispetto ad ogni ontologia.

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l’elemento creaturale restituito dalla contemplazione melanconica si collocherebbe, e che nella Ursprung des deutschen Trauerspiels viene definito, non senza enigmaticità, come quello distinto non dall’antitesi fra storia e natura, ma dalla «secolarizzazione senza residui dell’elemento storico»166. Capovolgendo l’accezione canonica del concetto di “secolarizzazione”, Benjamin intende rappresentare la necessità di pensare lo stato creaturale entro un tempo senza storia, nel quale viene meno l’esistenza umana che, nella sua immanenza, si distingue – secondo quanto si è osservato nel precedente capitolo – dalla «nuda vita»167. «La restaurazione di una atemporalità [Zeitlosigkeit] paradisiaca», e dunque il ripristino di una creaturalità «meno lontana dalla innocenza dello stato originario» perseguiti dalla poetica barocca attraverso il tentativo di dare vita ad «una nuova creazione che ripercorra a ritroso il cammino della storia»168, non parrebbero, tuttavia, soddisfare l’esigenza di volgere lo sguardo della contemplazione melanconica sino al punto non solo di placare il divenire storico, ma l’intero corso del tempo come tale. Ciò, del resto, appare iscritto nella stessa dimensione ontologica della melancolia. Questa infatti, ove considerata secondo categorie fenomenologiche, implicherebbe un disturbo nella coscienza intenzionale del tempo, per il quale, nella retentio si infiltrerebbero momenti protentivi, e nella protentio si infiltrerebbero, invece, momenti ritentivi, con la conseguenza che ne sarebbe compromessa anche la costruzione dell’intero “tema presente” (Worüber) della presentatio. Il che, in ultima analisi, determinerebbe una perdita della possibilità della continuità dell’esperienza della realtà temporale169. 166

W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 271; tr. it. p. 131. Cfr. ivi, p. 270; tr. it. p. 131; Id., Zur Kritik der Gewalt, cit., pp. 201-202; tr. it. pp. 486-487. Ma, più in generale, sul rapporto di Benjamin con la secolarizzazione si veda S. Weigel, Walter Benjamin. La creatura, il sacro, le immagini, cit., in part. pp. 27-51. 168 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., pp. 253 e 271; tr. it. pp. 113-114 e p. 131 passim. 169 Cfr. L. Binswanger, Melancholie und Manie. Phänomenologische Studien, Neske, Pfulligen 1960; tr. it. di M. Marzotto, Melanconia e mania. Studi fenomenologici, Boringhieri, Torino 1977, pp. 33-35 e 47-49; M. Theunisse, Melancholisches 167

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In questa prospettiva, l’ispirazione melanconica che caratterizza l’opera benjaminiana si rivela “segno caratteriologico” non determinabile soltanto stilisticamente. «Il ritmo saturnino [das saturnische Tempo]»170 della riflessione benjaminiana sortirebbe dal bisogno di rendere le diverse “costellazioni” concettuali – nelle quali il passato e il presente si sovrappongono reciprocamente fino a coincidere, mentre il futuro trasforma l’evocazione di ciò che non è in una promessa irrealizzabile – specchio di una sospensione della tridimensionalità della sequenza temporale, che a sua volta si rifletterebbe nella scrittura citazionale dei saggi benjaminiani171. La pratica della citazione risponderebbe infatti in massima misura alla necessità di descrivere l’«accadere» nel suo dissolversi, quale «inchiostro simpatico»172, sottintendendo essa – lo si è notato – uno strappo da ogni contesto spazio-temporale, e dunque non implicando alcuna ciclicità mitica, né linearità progressiva. La citazione esplicherebbe a livello testuale, là dove si rivela la parte emergente del pensiero, il senso della dissoluzione del tempo. Non si tratta pertanto solo di constatare come nella citazione, per Benjamin, non si compia alcuna restituzione del passato né si realizzi alcuna specifica commemorazione173. Piuttosto si tratta di cogliere nella citazione, nella sua forza melanconica capace di fare convergere, nel medium della scrittura, tanto l’origine della oggettività temporale quanto la sua distruzione174, una possibile emancipazione dalla catastrofe rappresentata dalla catena ininterrotta degli avvenimenti175; un’emancipazione – Leiden unter der Herrschaft der Zeit, in Id., Negative Theologie der Zeit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1991, pp. 218-281, in part. pp. 225-227. 170 W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. V, cit., pp. 88-91: 88; tr. it. di di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 284-287: 285 (lettera a W. Kraft del 25 maggio 1935). 171 Come scrive S. Sontag, Sotto il segno di Saturno, p. 106, «l’intensità, l’attenzione totale del malinconico ponevano dei limiti naturali allo sviluppo delle idee di Benjamin. I suoi saggi più lunghi danno l’impressione di finire appena in tempo, subito prima dell’autodistruzione». 172 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 595; tr. it. p. 534 (N 11, 3). 173 Cfr. G. Scaramuzza, Citazione come oblio, in «Leitmotiv», 2, 2002, pp. 11-23. 174 Cfr. W. Benjamin, Karl Kraus, cit., p. 365; tr, it. p. 356. 175 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 459; tr. it. p. 401 (76a, 4) (tr. modificata): «L’interesse […] per ciò che è stato è in parte sempre un interesse per la sua

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una redenzione – analoga a quella che, nell’ambito delle cose, la rovina consente di scorgere, non più quale insigne materia della creazione barocca176, bensì come ciò che lascia vedere senza mostrare niente del tutto, «“per” non mostrare niente del tutto, ossia al tempo stesso perché la rovina non mostra niente del tutto e in vista di non mostrare niente del tutto»177. La Parigi che ci viene restituita dalle pagine del Passagenwerk ha non a caso la fisionomia d’una «Babilonia moderna»178, fragile e pronta in ogni istante a sgretolarsi, così da rivelare scorci inquietanti, nei quali gli edifici appaiono sventrati, con i loro pavimenti sospesi nel vuoto, le loro carte da parati che segnano ancora la forma delle stanze, le loro scale che non conducono più a nulla179. Come ne Le Dernier homme di Grainville180, le qualità di esser trascorso, finito, completamente morto. Esserne certi, in generale e riguardo all’intero fenomeno, costituisce il presupposto indispensabile per ogni citazione (ripresa [Belebung]) di singole parti di questo fenomeno». Ma cfr. pure Id., Ms 491 (1939-1940), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., p. 1233; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 95: «La storia ha a che fare con connessioni e catene causali elaborate a proprio piacimento. Ma in questo essa dà un’idea della citabilità, in linea di principio, del suo oggetto; questo deve presentarsi, nella sua versione più elevata, come un attimo dell’umanità. In esso il tempo deve essere arrestato». 176 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 354; tr. it. p. 213. Per cui vedi B. Moroncini, Allegoria e rovina. Mondanizzazione e redenzione nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels (1981), in Id., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Filema, Napoli 2000, pp. 143-162. 177 J. Derrida, Mémoires d’aveugle. L’autoportrait et autres ruines, Éditions de la réunion des Musées nationaux, Paris 1990; tr. it. di A. Cariolato e F. Ferrari, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Abscondita, Milano 2003, p. 92. 178 L’espressione figura nel saggio di R. Caillois, Paris, mythe moderne (1937), in Id., Le Mythe et l’homme, Gallimard, Paris 1938; tr. it. di A. Salsano, Parigi, mito moderno, in Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 89-101: 92, menzionato pure da W. Benjamin in Das Passagenwerk, cit., p. 203; tr. it. p. 152 (E 10, 3). 179 Cfr. W. Benjamin in Das Passagenwerk, cit., p. 150; tr. it. p. 102 (C 7, 1), dove si cita da T. Gautier, Mosaïque de ruines, in A. Dumas, T. Gautier et alii, Paris et le Parisiens au XIXème siècle, Morizot, Paris 1856, pp. 38-43: 39. 180 J.-B. Cousin de Grainville, Le Dernier homme (1811), Payot, Paris 2010, p. 153: «Parigi non è più: la Senna non scorre più fra le sue mura; i suoi giardini, i suoi templi, il suo Louvre sono scomparsi. D’un così gran numero di edifici che la ricoprivano, non resta neppure una modesta capanna, ove un essere vivente possa riposare». Per una distesa analisi di questo poema sulla “morte del mondo”, si veda l’ampia postfazione di A. Kupiec, L’enigme de Le Dernier homme, in J.-B. Cousin

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rovine su cui lo sguardo benjaminiano, vinto da una tristezza mortale, si posa e si fa parola, appaiono le tracce estreme del tempo – di un’escatologia che riduce in pezzi la teleologia181.

de Grainville, Le Dernier homme, cit., pp. 207-293, in part. pp. 247-269. Più in generale, sulla “sinfonia di distruzione” che si effondeva inarrestabile nella Parigi del secolo XIX: G. Macchia, Le rovine di Parigi, Mondadori, Milano 1985, in part. pp. 371-414. 181 Cfr. J. Derrida, The Deconstruction of Actuality. An Interview with Jacques Derrida, in «Radical Philosophy», 68, 1994, pp. 28-41: 32.

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Accarezzare il messianismo

1. «Das eschatologische Bureau ist meist geschlossen» In una poesia composta da Gershom Scholem ed ispirata ad Einbahnstrasse, si legge: «Nei tempi antichi tutte le vie portavano / a Dio ed al suo Nome in qualche modo. / Noi non siamo pii. Rimaniano nel profano / e dove “Dio” una volta stava, sta melancolia»1. La temperie di cui testimoniano questi versi riflette una situazione su cui sia il giovane studioso di mistica ebraica sia Benjamin si erano, in particolare a cavaliere fra la fine degli anni Dieci e la fine degli anni Venti, a lungo interrogati. Sebbene l’indirizzo delle loro riflessioni non fosse sempre convergente, comune era l’attenzione per una «metafisica del linguaggio»2 che avrebbe dovuto rendere esplicito quel nesso fra elemento linguistico e redenzione, che, come si desume da una lettera del dicembre 1926 di Scholem a Rosenzweig, sarebbe stato offuscato dalla secolarizzazione dell’ebraico e dalla conseguente riduzione della “lingua santa” – lašon hakodeš – a strumento di comunicazione quotidiana3. Tale profanazione sarebbe del resto iscritta nella 1 G. Scholem, Mit einem Exemplar Walter Benjamins “Einbahnstrasse” (1933), in Archivio Gershom Scholem, Arc. 4° 1599/277.III, Poems and limericks, n. 27; tr. it. di I. Kajon, Con un esemplare di “Strada a senso unico” di Walter Benjamin, in G. Scholem, Il sogno e la violenza. Poesie, a c. di I. Kajon, Giuntina, Firenze 2013, p. 71. 2 Cfr. W. Benjamin, Briefe, Bd. II, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1978, pp. 525529: 526; tr. it. di di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 194197: 195 (lettera di G. Scholem del 30 marzo 1931). 3 G. Scholem, Bekenntnis über unsere Sprache. An Franz Rosenzweig (1926), Ms. Leo Baeck Ins., New York, Rosenzweig Papers AR 3002/B II 35, ora, quale appendice, in M. Brocke, Franz Rosenzweig und Gerhard Gershom Scholem, in Juden in der Weimarer Republik, hrsg. v. W. Graub u. J.H. Schoeps, Burg Verlag, Stuttgart-Bonn 1986, pp. 127-152: 148-150. Per un disteso commento a questa lettera,

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stessa tradizione ebraica, presso la quale, a partire dall’erezione della torre di Babele, il nome “proprio” umano si sarebbe costantemente arrischiato, cadendo nell’idolatria, a sostituire il Nome divino4. Sotto questo riguardo il misticismo linguistico incarnato, per Scholem, da Benjamin si sarebbe dovuto ricondurre al rifiuto della ratio linguistica, in favore del tentativo di portare ad espressione qualcosa di non-comunicabile, di sempre latamente inespresso, senza timore di cedere al paradosso su cui si fonda ogni teoria del simbolo5. Per Benjamin, come già accennato all’inizio di questo studio, il simbolo rappresenta infatti la inconvertibilità dell’«infinità limitata ed analitica» della lingua umana nella «infinità assoluta illimitata e creatrice» del verbo divino6. Più in generale, secondo quanto si evince da un frammento risalente al 1916-19177, il simbolo non sarebbe equiparabile né alla parola, quale significante dell’oggetto, né all’immediato essere del linguaggio. Il momento percettivo proprio del segno così come il momento immediatamente conoscitivo del nome troverebbero nel simbolo lo snodo che consente l’esplicarsi dei diversi nessi entro una totalità. Il simbolo propriamente non significa nulla: il suo oggetto è «legato alla sfera dell’immaginazione»; esso è soltanto «l’unità dei segni e della intenzione che conduce a compimento il proprio oggetto»8. Se – argomenta esemplificativamente Benjamin – si chiama simbolo la totalità, a cospetto della croce di Cristo e di una croce qualsiasi, si dovrebbe affermare che entrambe si identificano oltre a S. Mosès, La storia e il suo angelo, cit., pp. 261-282, si veda J. Derrida, Les yeux de la langue (1986-1987), in Cahier Jacques Derrida, éd. par M.-L. Mallet et G. Michaud, L’Herne, Paris 2004, pp. 473-493; tr. it. di L. Azzariti-Fumaroli, Gli occhi della lingua, Mimesis, Milano-Udine 2011. 4 Come rileva D. Di Cesare, «il nome, in ebraico shem, è la forma estrema dell’idolatria, è l’idolatria come tale, ed è il nome il coronamento di Babele» (Ea., Grammatica dei tempi messianici, Giuntina, Firenze 2010, pp. 21-22). 5 G. Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio, cit., p. 13. 6 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 149; tr. it. p. 289. 7 «I simboli non sono segni veri e propri, né ha senso considerarli come segni di nomi, essi sono invece degli annessi ai nomi, nomi di second’ordine, essi cioè non esistono nel linguaggio articolato, in cui rientrano i nomi di prim’ordine» (W. Benjamin, fr. 3 [1916-1917], in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 11-14: 11-12; tr. it. di G. Schiavoni, fr. 3, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 7-10: 8). 8 W. Benjamin, Schemata zur Habilitationsschrift, cit., pp. 21-22; tr. it. p. 17.

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«nel modo del significato»9; ciò nondimeno non pare possibile enunciare, al di fuori di tale identità, nulla riguardo alla totalità come tale, la quale rimane inattingibile da parte del giudizio predicativo. Sotto questo riguardo, la simbolica elaborata da Benjamin non è riconducibile all’unione fra designazione e significato, dal momento che l’«unità oggettivamente intenzionale» propria del simbolo si mostra soltanto di tipo relazionale. La «terminologia corretta» si scandirà quindi nel modo seguente: «1) Simbolo: la croce di Cristo; 2) il simboleggiante: una croce; 3) il simbolizzato: un oggetto immaginario», secondo una dinamica che a sua volta procede dal simbolo alla percezione e da questa alla conoscenza10. In un frammento del 1917-1918 era stato del resto già chiarito che ciò che compone il sistema simbolico della conoscenza non dovesse ricadere in un ambito di verità di tipo ontologico, nel quale, per ricercare l’essenza, si annulla qualsiasi carattere peculiare al singolo oggetto e contemporaneamente si compie una riduzione della verità a momento relazionale per la coscienza e, sotto un profilo linguistico, a significato. All’opposto, «tutte le conoscenze, in virtù del loro contenuto simbolico latente, devono essere portatrici di una imponente intenzione simbolica […]. Compito dell’ontologia è caricare le conoscenze di un’intenzione simbolica tale che esse si perdono nella verità o nella dottrina, si dissolvono in esse, senza però fondarle, poiché ciò su cui esse si fondano è la rivelazione [Offenbarung], la lingua»11. Che la nozione di verità non sia oggetto di conoscenza e neppure oggetto di intuizione implica ch’essa venga pensata non già in una logica d’oggettività, alla quale è del tutto estranea, quanto in un ordine di esposizione simbolico-sistematica basato sull’«eterotesi»12 delle conoscenze, quale emblematicamente 9

Ivi, p. 22; tr. it. p. 18. Ivi, p. 22; tr. it. p. 18. 11 W. Benjamin, Zur verlornen Abschluss der Notiz über di Symbolik in der Erkenntnis (1917-1918), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 38-39: 39; tr. it. di G. Schiavoni, Sulla conclusione smarrita degli appunti relativi al simbolismo nella conoscenza, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 34-35: 35 (tr. modificata); ma analogamente cfr. Id., Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 216; tr. it. p. 77. 12 G. Maragliano, Simbolo e sistema. La verità dell’estetico nel primo Benjamin, in Tra simbolismo e avanguardie. Studi dedicati a Ferruccio Masini, a c. di C. 10

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si scopre esaminando come lo stessa relazione di identità non sia invertibile, al punto che per essa non vale nessuna delle tre categorie di relazione – sostanza, causalità, azione reciproca – disposte secondo il nesso di tesi, antitesi e sintesi. Piuttosto, la massima importanza dovrà essere riconosciuta ad una «certa non-sintesi di due concetti in un altro, poiché oltre alla sintesi è ancora possibile un’altra relazione fra la tesi e l’antitesi»13. Ciò su cui il dettato benjaminiano richiama l’attenzione non è dunque paragonabile né alla relazione instaurata dalla mediazione riflessiva e neppure a quella instaurata dalla mediazione predicativa, bensì ad una relazione non sintetica, la quale, ove se ne voglia mantenere il significato nella sua pienezza, non è da riferire «dapprincipio esclusivamente all’uomo»14. Infatti tale significato – secondo quanto lo stesso argomentare benjaminiano suggerisce – dovrebbe porsi in rapporto con il primato di una lingua posta al di là dell’anfibolia dell’essere e dell’ente, alla stregua di un trascendentale senza soggetto e senza determinazioni tetiche. Concepire la verità in una relazione non sintetica implicherebbe quindi intendere l’elemento linguistico come un tutto sovrastorico nel quale, in un’inaggirabile latenza, si esprime quella «pura lingua [reine Sprache]»15, nella quale, nei modi di una citazione assoluta, si rispecchia «la lingua angelica in cui tutte le parole, snidate dal contesto idillico del senso, sono diventate motti nel libro della creazione»16. La pura lingua, presentita – secondo Benjamin – come sempre promessa e sempre negata dal filosofo non meno che dal traduttore17, si adempirebbe solo Graziadei, A. Prete, F. Rosso Chiodo, V. Vivarelli, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 275-293: 283; ma si veda pure, più in generale, G. Carchia, Elogio dell’apparenza, cit., p. 86. 13 W. Benjamin, Über das Programm der kommenden Philosophie, cit., p. 166; tr. it. p. 336; Id., W. Benjamin, Thesen über das Identitätsproblem, cit., p. 28; tr. it. p. 31. 14 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, cit., p. 10; tr. it. p. 501 (tr. modificata). 15 Ivi, p. 13; tr. it. p. 504. 16 W, Benjamin, Karl Kraus, cit., p. 363; tr. it. p. 354. 17 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, cit., pp. 14-15; tr. it. p. 505: «[Nella traduzione] l’originale trapassa, per così dire, in una zona superiore e più pura della lingua, in cui a lungo andare non può vivere […], ma a cui tuttavia per lo meno accenna, in modo straordinariamente penetrante, come al regno predestinato

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al compiersi della fine messianica delle lingue storiche e della conseguente redenzione dal «peccato originale dello spirito linguistico» che ha opacizzato la perfetta trasparenza della lingua adamitica, rendendola semplice strumento comunicativo18. Si legge al riguardo in uno dei manoscritti coevi alla stesura delle tesi Über den Begriff der Geschichte: Il mondo messianico è il mondo dell’attualità universale ed integrale. Solo in esso si dà una storia universale. Ciò che oggi si designa con questo nome può essere sempre solo una sorta di esperanto. Alla storia universale non può corrispondere nulla, finché non sia ricomposta la confusione derivante dalla torre di Babele. Essa presuppone la lingua in cui si possa tradurre integralmente ogni testo di una lingua morta o vivente. O meglio, essa è questa lingua19.

Ne emerge una precisa coincidenza della “pura lingua” con la prospettiva messianica che esprime la convinzione, presente in Benjamin fin dai suoi primi scritti, per la quale la storia è nata

e negato della conciliazione e dell’adempimento delle lingue». Come ha osservato J. Derrida sul margine di questo passo benjaminiano, tale regno non viene invero mai raggiunto, toccato o calpestato dalla traduzione. «Vi è dell’intoccabile e in questo senso la riconciliazione è soltanto promessa. Ma una promessa non è nulla, non è solamente indicata da ciò che manca per realizzarsi. In quanto promessa, la traduzione è già un avvenimento […] raro e considerevole» (Id., Des tours de Babel (1980), in Id., Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1987; tr. it. di S. Rosso, Des tours de Babel, in «aut-aut», 189-190, 1982, pp. 67-97: 86). Per un confronto sul problema della traduzione in Benjamin e Derrida, si veda comunque D. Saraniti, Messianismo e traduzione, Casini, Roma 2009. 18 Cfr. W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 153; tr. it. p. 292. Per esemplificare la sua nozione di “pura lingua” in una scheda destinata al saggio Der Erzähler, Benjamin trascrive significativamente il seguente passo, tratto dal tomo XVI dell’Encyclopédie française, Larousse, Paris 1935, e segnatamente dal contributo di J.-R. Bloch, Langage d’utilité, langage poétique, pp. 16, 50 8-16, 50 16: 15: «La prose telle que nous l’entendons est l’affleurement d’un poème intérieur […], sa traduction en des signes offerts à la compréhension, signes non ouvertement hérmetiques, non détournés de l’ordre et du rangement habituel» (W. Benjamin, Kritiken und Rezensionen, in Id., Kritische Gesamtausgabe, Bd. 13, t. 1, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2011, pp. 890-891: 891). 19 W. Benjamin, Ms 441 (1938-1940?), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., p. 1239; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 73; ma analogamente si esprimono sia il Ms 470 (1938-1940?), ivi, p. 1238; tr. it. pp. 83-84: 84, sia il Ms 490 (1938-1940?), ivi, pp. 1234-1235: 1235; tr. it. pp. 94-95: 95.

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ed è destinata a compiersi insieme con il linguaggio umano20. Ciò nondimeno, la conciliazione sempre possibile delle lingue, la quale, a sua volta, corrisponde all’evenienza che ogni attimo possa essere quello del giudizio finale, fa sì che l’orizzonte dell’adempimento linguistico-messianico resti perennemente instabile e «provvisorio»21. Tale ultima considerazione troverebbe conferma in quanto successivamente sostenuto da Scholem circa la condizione di perenne differimento, di dilazione, di profonda debolezza del transitorio che mai giunge alla fine, nella quale si troverebbe a vivere un’esistenza votata al messianismo22. Del resto la stessa letteratura rabbinica, la quale, al pari dell’intera tradizione ebraica, in Benjamin – è stato osservato – non assume mai l’aspetto d’una idea razionalizzante, strutturante, ma permane sempre quale «substrato irriflesso, naturale, ovvio»23, tende a spiegare 20 W. Benjamin, Die Bedeutung der Sprache in Trauerspiel und Tragödie (1916), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, pp. 137-140: 139; tr. it. di A. Marietti Solmi, Il significato del linguaggio nel Trauerspiel e nella tragedia, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 277-280: 279. Ma su ciò cfr. specialmente G. Agamben, Lingua e storia. Categorie linguistiche e categorie storiche nel pensiero di Benjamin (1983), in Id., La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 37-55; nonché I. Wohlfarth, On the Messianic Structure of Walter Benjamin’s Last Reflections, in «Glyph», 3. 1978, pp. 148-212, in part. pp. 176-178. 21 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, cit., p. 14; tr. it. p. 505. Come ha osservato I. Wohlfarth, tale provvisorietà può dirsi connotare l’intero atteggiamento di Benjamin a cospetto dell’alternativa fra teologia e materialismo: il luogo in cui egli cerca di resistere è infatti qualificabile come una sorta di «terra di nessuno messianica, un punto archimedico», donde oppone una strenua resistenza alla spinta di dover decidere in un senso o nell’altro (Id., La tensione ebraico-tedesca in Walter Benjamin, in Tradizione ebraica e cultura di lingua tedesca, a c. di M. Ponzi, Lithos, Roma 1995, pp. 177-213: 180). 22 G. Scholem, Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum (1959), in Id., Über einige Grundbegriffe des Judentums, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1976; tr. it. di M. Bertaggia, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1995, pp. 107-147: 147. 23 Cfr. G. Bonola, Ebraismo della gioventù. Temi ebraici intorno al giovane Benjamin (1912-1915), in Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, a c. di B. Bocchini Camaiani e A. Scattigno, Quodlibet, Macerata 1998, pp. 47-67: 61, che ha soprattutto a riferimento le quattro lettere di Benjamin a L. Strauss, scritte nell’ultimo quarto del 1912, ora in Id., Gesammelte Briefe, Bd. I, cit., pp. 61-65; 69-73; 74-79 e 81-85; ma al riguardo si veda pure G. Smith, “Das Jüdische versteht sich selbst”. Walter Benjamins frühe Auseinandersetzung mit dem Judentum, in «DVjs», 65, 1991, pp. 318-334, e T. Tagliacozzo, Benjamin e il sionismo. Note su un carteggio su ebraismo

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l’espressione “i giorni del Messia” come un tempo sospeso fra la storia ed il mondo a venire24. Tuttavia la transitorietà alla quale qui si allude conosce, nella riflessione benjaminiana, una risemantizzazione del tutto originale ed in virtù della quale essa parrebbe pertenere in eguale misura tanto all’orizzonte storico quanto a quello messianico. Se infatti il paradosso fondamentale del regno messianico vuole che un altro mondo ed un altro tempo si presentino in questo mondo ed in questo tempo, tale coesistenza non dovrebbe ricondursi, per l’autore berlinese, ad una logica duale, ma riconoscersi garantita da una «incompibilità [Unvollziehbarkeit]»25 della quale partecipano entrambe le dimensioni. Tale “incompibilità”, sebbene non possa essere compresa senza porre in luce la peculiare simmetria che connoterebbe il rapporto fra escatologia e origine26, parrebbe anzitutto concernere l’indistinzione che impedisce di guardare in ogni momento l’orizzonte messianico come esaustivo di quello storico. Non si tratterebbe da questo punto di vista di riconoscere come la concezione cabalistica, che intende la restaurazione redentiva capace di dare espressione alla creazione «per la prima volta»27, e sionismo (1912-1913), in Teologia e Politica. Walter Benjamin e un paradigma del moderno, a c. di M. Ponzi e B. Witte, Aragno, Torino 2006, pp. 227-257; nonché, più in generale, I. Wohlfarth, On some Jewish Motifs in Benjamin, in The Problem of Modernity. Adorno and Benjamin, cit., pp. 157-215. 24 Cfr. in part. J. Klausner, The Messianic Idea in Israel, George Allen & Unwin, London 1956, pp. 339-348; nonché G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, cit., p. 141; S. Mowinckel, He that cometh, Abingdon Press, Nashville-New York 1954, p. 277. Più in generale, si veda lo studio storico-documentario di N.P. Levinson, Der Messias, Kreuz Verlag, Stuttgart 1994; tr. it. di G.L. Prato, Il Messia nel pensiero ebraico, Città Nuova, Roma 1997. 25 Cfr. W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1980, pp. 157-159: 157; tr. it. di A. Marietti Solmi, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, Einaudi, Torino 1987, pp. 146-147: 146 (lettera di G. Scholem del 17 luglio 1934). 26 Secondo quanto si legge nella prima stesura della Vorrede allo studio sul Trauerspiel: «Ogni elemento originario appare soltanto come un essere determinato: tutto ciò che è originario è incompleta restaurazione della rivelazione. […]. E cioè quanto è originario si dischiude per antonomasia solo ed esclusivamente nella doppia visione che da un lato si comprende come restaurazione della rivelazione e dall’altro come rivelazione necessariamente non conclusa» (W. Benjamin, Einleitung (1924), in Id. Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, pp. 925-948: 935). Ma su ciò si tornerà nel prossimo capitolo. 27 G. Scholem, Zur Kabbala und ihrer Symbolik, Rhein-Verlah, Zürich 1960; tr. it. di A. Solmi, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 2001, p. 148.

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si rinnovi nel discorso benjaminiano, riconoscendo anch’esso nella restaurazione dell’origine l’attestazione del suo non essere affatto28, bensì di osservare come fra l’ordine messianico e quello storico-mondano vi sia un reciproco scarto. L’incompibilità dell’ordine storico-profano, sostenuta nel Theologisch-politisches Fragment, parrebbe dunque infirmare la possibilità che la stessa redenzione messianica possa aver luogo29. Ciò, tuttavia, non significa cogliere in Benjamin un “messianismo estetico” la cui teologia non ametterebbe più alcuna “soteriologia”, così da restare esso stesso succube dell’eterno tramontare profano30, quanto di cogliere ciò che impedisce al regno messianico di interrompere il corso storico degli eventi e quindi di assolvere il compito di chiudere l’inconcluso. 28 In tale prospettiva, la citazione da Kraus, «Ursprung ist das Ziel» (Id., Der sterbende Mensch [1919], in Id., Worte in Versen, Kösel-Verlag, München 1959, p. 59), posta in esergo alla XIV delle Tesi Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 701; tr. it. p. 490. andrebbe letta come un’assoluta presa di distanza dalla convenzione storiografica rappresentata dal voler ricomprendere ogni evento storico entro un inizio ed una fine. Come ha osservato R. Konersmann, Erstarrte Unruhe. Walter Benjamins Begriff der Geschichte, Fischer, Frankfurt a. M. 1991, p. 152, il motto krausiano nell’economia di pensiero di Benjamin vuol dire che «l’inizio non è finito […] e quindi senza dubbio esso non è non più; esso è piuttosto non ancora». Ma se l’origine e la meta coincidono, allora il tempo, almeno secondo la sua rappresentazione meccanico-progressiva, «svanisce», o, meglio, esso in nessun momento si trova in una fase intermedia: «ogni attimo vale come assoluto, ogni attimo è un ritorno dell’origine»; ma su ciò vedi pure F. Desideri, La traccia del pensiero: oltre la scrittura (1995), in Id., La porta della giustizia, cit., pp. 7-30, in part. pp. 19-22. 29 Cfr. W. Benjamin, Theologische-politisches Fragment, cit., p. 203; tr. it. p. 512: «[…] nulla di storico può volersi da se stesso riferire al messianico. […] il regno di Dio non è il Telos della Dynamis storica; esso non può essere posto come scopo [Ziel]. Da un punto di vista storico, esso non è scopo [Ziel], ma termine [Ende]». Parafrasando questo passo, D. Gentili ha affermato che se il profano non è una categoria del regno di Dio, ma un continuo e mai definitivo “approssimarsi” all’autentico compimento, allora «lo scarto costitutivo tra storia e regno, fra presente storico e presente finalmente autentico, è il marchio dell’assenza del divino». Ne seguirebbe la possibilità di pensare gli assunti del Theologische-politisches Fragment come «il tentativo più radicale di concepire un messianesimo storico» (Id., Messianesimo storico: Walter Benjamin tra Emmanuel Lévinas ed Ernst Bloch, in «Links», II, 2002, pp. 73-90: 84-85 passim). 30 Tale l’interpretazione avanzata da K. Anglet, Zur antinomischen Konstruktion des Messianischen in Walter Benjamins Theologische-politisches Fragment, in Kritische Theorie und Religion, hrsg. v. M. Lutz-Bachmann, Echter, Würzburg 1997, pp. 57-68; Id., Messianität und Geschichte. Walter Benjamins Konstruktion der historischen Dialektik und deren Aufhebung ins Eschatologische durch Erik Peterson, Akademie Verlag, Berlin 1995, in part. pp. 59-63.

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Sebbene l’inconclusività alla quale Benjamin ancora nel saggio su Fuchs aveva fatto richiamo31 sembrasse inevitabilmente rimandare ad una dimensione schiettamente «idealistica», se non del tutto «teologica», dal momento che – ebbe ad osservare Max Horkheimer –, ove essa si fosse voluta prendere seriamente in considerazione, si sarebbe dovuto credere al «giorno del giudizio»32, quale ricapitolazione necessaria per sottrarre la «Unabgeschlossenheit» a qualsiasi equiparazione con l’infinito ed omogeneo procedere unilineare, è pur vero che non appare condivisibile il voler interpretare, seguendo questa via, il messianismo benjaminiano secondo il canone paolino della “anakephalaíosis”, quale ricapitolazione finale dei tempi. Ancorché quanto, ad esempio, si afferma nella XVIII tesi (la XIX secondo la numerazione dell’Handexemplar) di Über den Begriff der Geschichte – «il tempo-adesso [Jetztzeit], che, come modello del tempo messianico, riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità, coincide con la massima precisione con la figura che la storia dell’umanità fa nell’universo»33 – sembri riprendere quanto si legge in Gal. 4, 4 e, soprattutto, in Ef. 1, 10, sul modo in cui, nella pienezza del tempo, «tutte le cose si riconducono al messia»34, ciò nondimeno è opportuno esaminare con cautela la prossimità che il paradigma di tempo messianico messo a tema da Benjamin parrebbe mostrare con quello paolino, e tanto più ove quest’ultimo venga interpretato in termini puramente apocalittici. L’ipotesi d’un parallelismo fra le due esperienze di pensiero nel segno d’una spiegazione, d’ispirazione hegeliana, della “storia della salvezza”, compiuta attraverso l’assimilazione del compimento del tempo messianico al pleroma dei tempi, esiterebbe, 31 W. Benjamin, Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker, cit., p. 477; tr. it. p. 476: «l’opera del passato non è […] un’opera conchiusa». 32 M. Horkheimer, Briefwechsel 1937-1940, in Id., Gesammelte Schriften, Bd.16, Fischer, Frankfurt a. M. 1995, pp. 81-88: 83; tr. it. parz. di G. Bonola e M. Ranchetti, Max Horkheimer a Walter Benjamin 16.3.1937, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 261 (tr. modificata). 33 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 703; tr. it. p. 492 (tr. modificata). 34 Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 128-135.

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infatti, nell’elisione dell’orizzonte storico umano, in favore d’una concezione di tipo teocentrico35. A questo riguardo, rileggendo esemplificativamente l’interpretazione schiettamente apocalittica di Paolo offerta da Buber, e per la quale nell’apostolo delle genti il processo storico lascerebbe del tutto negletto il piano umano, onde perseguire «fini superiori»36, Jacob Taubes ha giustamente affermato che «la realizzazione della storia attesa dall’apocalittica non ha più alcun carattere storico», dal momento ch’essa non ha il modo d’essere della necessità propria d’una «neutrale legge di natura»37. Al contrario, se si volesse continuare ad intendere in senso paolino il theologumenon posto da Benjamin circa la maniera in cui la redenzione messianica si presenta, occorrerebbe prendere in esame come essa «viene disseminat[a] all’interno della storia e nelle generazioni»38, ravvisando, a sua volta, nella figura di Paolo lo snodo in cui la speranza per il regno fa luogo ad un’escatologia mistica nella quale «“questo” mondo e “quel” mondo», «la condizione ancora naturale del mondo e quella già sovrannaturale» si intrecciano nel kairós, nel quale l’eternità irrompe nel tempo storico39. La teologia della storia di Paolo non 35 Come scrive V. Vitiello, Walter Benjamin e il linguaggio della modernità, in L’Angelo malinconico. Benjamin e il moderno, cit., pp. 143-160: «Se Hegel redime il tempo naturale elevandolo a storia, conciliandolo con l’eterno e il divino, Benjamin salva il tempo storico mantenendolo nella sua naturale bassura. Eppure i due itinerari si incontrano in un punto […]: quello della rivelazione» (Ivi, p. 159). 36 Cfr. M. Buber, Zwei Glaubensweisen (1950), in Id., Werke, Bd. I, Kösel VerlagVerlag Lambert Schneider, München-Heidelberg 1962; tr. it. di S. Sorrentino, Due tipi di fede, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, in part. il cap. VIII, pp. 123-132. 37 J. Taubes, Martin Buber und die Geschichtsphilosophie (1963), in Id., Vom Kult zur Kultur. Bausteine zu einer Kritik der historischen Vernunft. Gesammelte Aufsätze zur Religions- und Geistesgeschichte, Fink, München 1996; tr. it. di E. Stimilli, Martin Buber e la filosofia della storia, in J. Taubes, Messianismo e cultura, Garzanti, Milano 2001, pp. 123-143: 128 e 135. Per un più generale confronto fra Taubes e Buber sia consentito rimandare a quanto scritto in Fra rivelazione dialogica ed escatologia: riflessioni su Martin Buber e Jakob Taubes, in «Fenomenologia e Società», 2, 2006, pp. 56-71. 38 J. Taubes, Walter Benjamins “Geschictsphilosophische Thesen” (1984-1985), in Id., Der Preis des Messianismus, Königshausen & Neumann, Würzburg 2006; tr. it. di E. Stimilli, Le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, in Il prezzo del messianesimo, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 75-104: 80. 39 J. Taubes, Abendländische Eschatologie (1947), Matthes & Seit, München 1991; tr. it. di G. Valent, Escatologia occidentale, Garzanti, Milano 1997. Il termine kairós – secondo É. Benveniste – sarebbe etimologicamente da ricondurre al verbo

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si limiterebbe a replicare i tratti tipici degli scritti apocalittici di stampo giudaico40, mostrando inequivocabilmente come «Israele spezzi la sfera vitale dell’eterno ritorno dell’uguale» di matrice greca e dia così avvio al mondo come tempo esodale, senza inizio né fine41, ma aprirebbe ad un tempo nuovo, nel quale l’eschaton viene incontro alla storia e la trasforma redimendola. Dunque, il kairós di cui parla Paolo si fletterebbe sulla storia, ma non vi sarebbe subordinato, testimoniando in favore dell’insuperabile irriducibilità dello spirituale al temporale42. In quest’ottica le Tesi esposte in Über den Begriff der Geschichte e segnatamente la prima dalla quale le altre sarebbero concettualmente dipendenti, andrebbero interpretate, secondo Taubes, riconoscendo che l’esigenza espressa da Benjamin di «“prendere a servizio la teologia” avviene in termini secolari»43. Più esattamente, il richiamo qui compiuto alla “teologia” dovrebbe intendersi come un’allusione al Messia, di cui si legge nell’esordio del Theologische-politisches Fragment, ma senza per questo compierne un’identificazione con una figura conciliativa. «Solo il Messia in persona compie ogni accadere storico e precisamente nel senso che egli soltanto redime, compie e crea la relazione fra questo e il messianico stesso»44. Egli parrebbe potersi cogliere non già attraverso una kérannymi, “mescolare”, “temperare”, sicché esso, lungi dal significare “momento istantaneo” o “occasione”, designerebbe piuttosto – alla stregua del latino “tempus” – una figura che rinvia alla “qualità dell’accordo” e della mescolanza opportuna di elementi diversi (Id., Latin tempus in AA.VV., Mélange de philologie, de litérature et d’histoire anciennes offert à Alfred Ernout, Klinksieck, Paris 1940, pp. 11-16). Ma su ciò si veda altresì G. Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari 1992, in part. pp. 97-106. 40 Cfr. M. Buber, Prophetie und Apokalyptik (1954), in Id., Werke, Bd. II, cit., 1964; tr. it. a cura di G. Morra, Profezia e apocalittica, in M. Buber, Profezia e politica, Città Nuova, Roma 1996, pp. 111-128: 113. 41 J. Taubes, Escatologia occidentale, p. 37. Come con una formulazione efficace ha osservato T. Boman, Das hebräische Denken im Vergleich mit dem griechischen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1977, p. 129, per il pensiero ebraico «il futuro sta davanti a noi, ma viene dopo di noi». 42 Cfr. V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002, pp. 171-188; Id., L’ethos della topologia, cit., pp. 65-66. 43 J. Taubes, cit., p. 81. Il riferimento è a W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 693; tr. it. p. 483. 44 Cfr. W. Benjamin, Theologische-politisches Fragment, cit., p. 203; tr. it. p. 512 (tr. modificata). Taubes commenta: «È una frase molto difficile. Una cosa anzitutto è chiara: esiste un Messia. Niente chiacchiere – “il messianico”, “il politico” –, niente

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tematizzazione teologica, ma misurando il modo in cui l’immanenza si redime. Il che tuttavia non implica il dover pensare che, in Benjamin, la redenzione equivarrebbe ad un momento finale della storia; piuttosto – precisa Taubes – essa andrebbe compresa nel suo poter essere possibile in ogni momento: il giorno del giudizio viene introdotto nel tempo, rendendo possibile, in tal modo, la sua interruzione. Benjamin suggerirebbe così «l’idea della fine nel tempo stesso», ovvero di un’apocalittica che accade nel presente45. Ciò, d’altronde, si rivelerebbe con tutta evidenza nell’anticipazione che, dello stato di redenzione, compiono il narratore e lo storico, come s’evince dalla terza Tesi sul concetto di storia46, là dove, nella compresenza da loro esperita per mezzo della citazione, sorta di replica della mente divina, del passato, del presente e del futuro, s’individua, per Taubes, l’attualità di una fine, nella quale la storia nella sua interezza si condensa47. Tuttavia solo nella sua imprevedibile effettività la redenzione messianica si rivelerebbe quale «caso estremo» non solo rispetto all’ambito storico oggettivamente considerato, ma alla più generale dimensione profana. La contrazione dei tempi da essa determinata condizionerebbe, infatti, la morphé stessa del mondo. Da questo punto di vista la lezione paolina consegnata a 1 Cor. 7, neutralizzazioni, ma il Messia» (Id., Die Politische Theologie des Paulus [1987], Fink, München 1993; tr. it. di P. Dal Santo, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 1997, p. 134). 45 J. Taubes, Le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, cit., p. 83. Poco oltre assertivamente si afferma: «Benjamin non sostiene alcun futurologismo messianico; il suo è, piuttosto, un attualismo messianico». Analogamente si esprime S. Mosès, La storia e il suo angelo, cit., p. 197, quando sostiene che il messianismo, nell’autore tedesco, non è più concepito come «l’attesa d’una apoteosi che si produrrebbe al termine d’un tempo lineare e continuo, bensì come la possibilità, offerta a ogni momento del tempo, dell’evento del nuovo». Ma su ciò cfr. pure P. Osborne, The Politics of Time. Modernity and Avant-Gard, Verso, London 1995, in part. pp. 144-150. 46 Cfr. W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 694; tr. it. p. 484: «Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere tra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso […]. Solo ad una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti». 47 Cfr. J. Taubes, Le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, cit., pp. 84-85.

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29-32, ove la la vita messianica viene compendiata nella formula “come [se] non” (wj~ mhv), si è voluta epesegetica del tra-passo della forma del mondo48. Nondimeno, sebbene tanto per Paolo quanto per Benjamin l’evento messianico non neghi il mondo, per il pensatore berlinese è altresì vero che il profano gode di un’assoluta autonomia posta sotto il segno d’una incoercibile caducità49. Secondo quanto espressamente si legge nel Theologische-politisches Fragment: «Il Profano non è una categoria del Regno […]. Alla restitutio in integrum spirituale, che conduce all’immortalità, ne corrisponde una mondana, che porta all’eternità di un tramonto»50. Ne seguirebbe – suggerisce Taubes – la possibilità di guardare a Benjamin alla stregua d’un moderno marcionita, se non di un vero e proprio gnostico51. Un’ipotesi, questa, tanto eru48 Secondo E. Stimilli, Jacob Taubes, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 241-244, l’attenzione che J. Taubes ha riservato al “come se non” di Paolo nel corso del suo seminario del 1987, ponendolo a confronto con la nozione di “nichilismo” di cui parla il benjaminiano Theologische-politisches Fragment, a motivo del fatto che ambo i concetti attesterebbero come, con la venuta del Messia, abbia luogo una sorta di indistinzione in cui tutto ciò che è deve essere come se non fosse se stesso (cfr. Id., La teologia politica di San Paolo, cit., p. 137), sarebbe influenzata dalla lettura delle lezioni heideggeriane sulla fenomenologia della religione. In particolare, echeggerebbero qui gli assunti espressi da Heidegger in riferimento all’esistenza messianica profilata da Paolo, la quale acquisterebbe senso non a partire dal contenuto da cui muove, ma dal modo stesso in cui essa esiste: «Il genevsqai è un mevnein. Per quanto radicale sia la trasformazione, qualcosa rimane. Come va inteso tale rimanere? […] [I] riferimenti al mondo-ambiente non ricevono il loro senso dalla significatività del contenuto cui mirano, bensì, al contrario, è in base all’attuazione originaria che si determinano il riferimento ed il senso della significatività vissuta. In termini schematici: qualcosa rimane invariato, eppure viene radicalmente trasformato» (M. Heidegger, Phänomenologie des religiösen Lebens [1919-1921], in Id., Gesamtausgabe, Bd. 60, Klostermann, Frankfurt a. M. 1995, p. 118; tr. it. di G. Gurisatti, Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003, p. 163). Dunque, il “come se” paolino non equivarrebbe ad un’indifferenza o ad un contemptus mundi, quanto ad una adesione radicale alla propria vita fattizia. Di qui la vicinanza «stupefacente» di Paolo a Benjamin, all’insegna – osserva Taubes – di un condiviso sentire la creaturalità dell’uomo come fugace e vana adesione alla significatività della vita reale effettivamente esistente (Id., Id., La teologia politica di San Paolo, cit., p. 138). 49 J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., p. 140. 50 W. Benjamin, Theologische-politisches Fragment, cit., p. 204; tr. it. p. 512. 51 J. Taubes, Walter Benjamin – ein moderner Marcionit? Scholems Benjamin-Interpretation religionsgeschichtlich überprüft (1986), in Id., Der Preis des Messianismus, cit.; tr. it. di E. Stimilli, Walter Benjamin – un marcionita moderno? Scholem

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dita quanto facilmente confutabile a motivo del carattere indiretto che la ispira. L’esegesi taubesiana, che pur svetta nella Benjamin-Forschung per l’attenzione profusa alla ricerca degli aspetti (cripto)teologici, una volta assunte la dimensione profana e quella messianica nei modi d’una relazione divergente, si muterebbe, infatti, da argomentata e filologicamente sorvegliata in apodittica, preferendo negare al proprio discorso, pur di confutare la logica messianica divisata da Scholem, suo persistente obiettivo polemico52, ogni coerenza storica. In tal senso il richiamo all’eresia marcionita, lungi dal chiarire il punto archimedico fra theologoumenon messianico e riflessione storico-filosofica al quale il pensiero benjaminiano introduce, appare un azzardo, quando non una compiaciuta semplificazione, in termini di Ideengeschichte53. D’altra parte, apparentare Benjamin a Marcione, individuandovi un comune sentimento di estraneità a “questa terra”, il quale, a sua volta, si tradurebbe in una volontà non solo di evadare da essa, ma di «rompere l’incantesimo del demiurgo che riproduce continuamente questo mondo» fragile e miserando54, allo scopo di sconfessare la convinzione che «la redenzione si compie sulla scena della storia»55, non solo si presta ad essere frainteso, al punto da indurre a negare contre la lettre la presenza, in Benjamin, di un ebraismo «per esperienza esterna ed interiore»56, ma può indurre anche a preterire l’indicazione interprete di Benjamin: un esame alla luce della storia delle religioni, in Il prezzo del messianesimo, cit., pp. 57-71. Sulle continuità fra eresia marcionita e Gnosi, cfr. G. Filoramo, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Laterza, Bari-Roma 1987, pp. 251-257. 52 Cfr. E. Stimilli, Jacob Taubes, cit., in part. pp. 213-265; nonché Ea., Il messianesimo come problema politico, postfazione a J. Taubes, Il prezzo del mesianesimo, cit., pp. 153-202. 53 M. Pozzi, Walter Benjamin e il moderno, cit., pp. 161-162. 54 J. Taubes, Walter Benjamin – un marcionita moderno?, cit., p. 59. 55 G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 107. Ma cfr. su ciò i rilievi critici espressi da J. Taubes soprattutto nel saggio Scholem’s Theses on Messianism Reconsidered (1982), in Id., Der Preis des Messianismus, cit.; tr. it. di E. Stimilli, Una revisione critica delle tesi di Scholem sul messianismo, in Il prezzo del messianismo, cit., pp. 45-56. 56 W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. I, cit., pp. 69-73: 71 (lettera a L. Strauss del 10 ottobre 1912). Non per questo, però, la critica della interpretazione in senso marcionita avanzata da Taubes deve condurre verso l’identificazione di Benjamin con «un messianista del tutto interno alla tradizione ebraica», come invece voluto

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sulla necessità di pensare come «l’immanenza porti al di là di sé»57, che sembra invero essere il precipitato di maggior rilievo della lettura di Benjamin proposta da Taubes. Il Theologische-politisches Fragment mostra infatti che il “double-bind” fra dimensione messianica e dimensione storica non possa essere risolto esclusivamente in un’affermazione del mondo, della natura e dei bisogni dell’uomo rispetto alla quale anche la redenzione appare assorbita da un’eterna e totale caducità58, ma suggerisce piuttosto una messa in questione delle stesse nozioni di immanenza e di trascendenza. In tal senso il “doppio vincolo” fra i due ordini – quello messianico e quello profano – non deve essere compreso nella forma di una dialettica di stampo idealistico che intenda mediare fra Dio e il mondo, e neppure in quella di una dialettica materialistica che conduca Dio nel mondo, divinizzando la storia umana59, ma esso deve essere inteso nella sua irrisolvibilità ed irrisoluzione, e quindi come ciò che non dà luogo né all’analisi né alla sintesi, ovvero come ciò che provoca entrambe all’infinito, onde resistervi60. Sotto questo riguardo non sembra essere possibile neppure interrogarsi sulla «proiezione del giudizio universale nel corso del tempo», poiché – argomenta Benjamin nella corrispondenza con Scholem – ogni risposta implicherebbe la riproposizione di un confronto fra mondo profano e dimensione teologica in cui vige ancora da G. Guerra, Le forme della comunità: Benjamin e san Paolo, in «Fenomenologia e Società», 2, 2000, pp. 72-97: 85; ma cfr. altresì Id., Tipologie messianiche da S. Paolo a Benjamin, in L’Angelo malinconico. Walter Benjamin e il moderno, cit., pp. 213-226. 57 J. Taubes, Le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, cit., p. 79. 58 Cfr. T. Tagliacozzo, Jacob Taubes interprete della teologia politica di Benjamin, in «Paradigmi», 56, 2001, pp. 283-311; Ea., Messianismo e teologia politica in Walter Benjamin, in Il messianismo ebraico, a c. di I. Bahbout, D. Gentili, T. Tagliacozzo, Giuntina, Firenze 2009, pp. 93-105. 59 I. Wohlfarth, “Immer radikal, niemals konsequent…”. Zur theologisch-politische Standortsbestimmung Walter Benjamin (1982), in Antike und Moderne. Zu Walter Benjamins “Passagen”, hrsg. v. N. Bolz u. R. Faber, Könighausen & Neumann, Würzburg 1986; tr. it. di B. Kleiner, “Sempre radicale, coerente mai…”. Rilettura del “Frammento teologico-politico”, in Caleidoscopio benjaminiano, cit., pp. 265-287: 267. 60 Cfr. J. Derrida, Résistances (1992), in Id., Résistances – de la psychanalyse, Galilée, Paris 1996, pp. 11-53: 40.

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il senso della rivelazione61. Al contrario, a doversi riconoscere come centrale sarebbe il concetto di “redenzione”, nel quale si riassume lo «spostamento [Verschiebung]»62, in quanto distanza incolmabile fra dimensione messianica e Weltzustand, una distanza misurabile sì spazialmente, ma soprattutto temporalmente, in ragione del fatto che il modello del tempo messianico, così come rappresentato dalla Jetztzeit, si installerebbe agli antipodi del tempo storico-progressivo, idealmente «infinito in ogni direzione e incompiuto in ogni attimo (Augenblick)»63. La progressione lineare del tempo omogeneo e vuoto della storia si contrapporrebbe all’essere già da sempre “riempito”, prerogativa del tempo messianico64, non in quanto compimento intrastorico, bensì in quanto sussistere in perenne immobilità, quale chōra che non si dà a vedere, concepire, determinare attraverso alcuno schema, neppure quelli del “ricevere” o del “dare”65. Il tempo messianico, in questa prospettiva, non si porrebbe in rapporto con l’idea del progresso storico nei modi «di una conservazione e di una restaurazione»66. Il continuum della storia – secondo 61 W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., pp. 159-162: 160; tr. it. pp. 148150: 148-149 (lettera di W. Benjamin del 20 luglio 1934). Come ha giustamente rilevato S. Mosès, «la tesi per cui la Rivelazione “vige” anche quando “appare priva di significato”, e che si può – dunque – erigerla a categoria interpretativa, distingue nettamente la posizione di Scholem da quella di Benjamin» (Id., La storia e il suo angelo, cit., p. 245). 62 W. Benjamin, Ms 215 (1931?), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., pp. 1200-1201: 1201. 63 W. Benjamin, Trauerspiel und Tragödie, cit., p. 134; tr. it. p. 274. L’Augenblick sarebbe, in Benjamin, «il punto limite del decrescimento lineare della serie temporale, il luogo temporale in cui “la dynamis dell’accadere si coagula nella stasis e il tempo si coagula nel differenziale”. […] All’opposto, la costruzione di un presente come Jetztzeit comporta una concezione del tempo che si fonda sulla irriducibilità dell’Augenblick ad ogni tempo-misura» (G. De Michele, L’impercettibile tremolio della felicità. Tempo e dialettica in stato d’arresto, in «Fenomenologia e Società», 2, 2000, pp. 58-71: 63). 64 Cfr. W. Benjamin, Trauerspiel und Tragödie, cit., p. 134; tr. it. p. 274. 65 Come, sul margine del Timeo (52 a-b), dove chōra trova la sua prima attestazione, scrive J. Derrida, Khôra (1987), Galilée, Paris 1993; tr. it. di F. Garritano, Chōra, in J. Derrida, Il segreto del nome, Jaca Book, Milano 1997, pp. 41-86: 55: «C’è chōra, ma chōra non esiste». 66 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 600; tr. it. p. 539 (N 13a, 3) (tr. modificata), dove si riporta un passo di H. Lotze tratto da Mikrokosmus. Ideen zur Naturgeschichte und Geschichte der Menschheit. Versuch einer Antropologie, Bd.

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quanto Benjamin ha argomentato fin dai suoi primi scritti – non tenderebbe a raccogliersi «in un punto focale [Brennpunkt]», nel quale possa rendersi visibile lo stato immanente della perfezione67, poiché la struttura metafisica dell’orizzonte temporale rappresentata dal regno messianico non potrebbe rendersi conoscibile nella sfera propriamente fenomenico-empirica se non in modo frammentato ed inautentico. In tal senso la Erkenntnistheorie alla quale Benjamin attende nei primi anni Venti testimonia soltanto della possibilità d’una riduzione in «symbolischen Begriffen» dei singoli fenomeni nella loro immanenza, e del loro conseguente ingresso nella dimensione dell’«ora della conoscibilità [Jetzt der Erkennbarkeit]», nella quale ogni accadere come ogni opera rivelano il proprio indice storico, il proprio iscriversi e rendersi leggibili in un «tempo logico», quale forma pura III, Hirzel, Leipzig 1864, p. 52; tr. it. di L. Marino, Microcosmo. Idee sulla storia naturale e sulla storia dell’umanità. Saggio di antropologia, UTET, Torino 1988, p. 628. Come osserva T. Rentsche, in Benjamin non viene approntato un piano di unio mystica che sia di fatto disponibile: «la presentificazione della redenzione resta paradossale» (Id., La dialettica della trascendenza in Benjamin: un’alternativa alla sostituzione dell’assoluto nella riflessione e nella prassi del moderno, in Teologia e politica, cit., pp. 135-151: 150). Di diverso avviso G. Cunico, Messianismo, religione e ateismo nella filosofia del Novecento, Milella, Lecce 2001, p. 171, n. 51, il quale, sulla scorta di quanto sostenuto pure da A. Pangritz, Vom Kleinerund Unsichtbarwerden der Theologie, Theologischer Verlag, Tübingen 1996, in part. pp. 179-188, ritiene possibile far coincidere il tempo messianico divisato da Benjamin, nonché con l’anakephalaíosis paolina, con la dottrina cabalistica del Tiqqùn, la quale prevede che con il compiersi della redenzione sia ristabilito il tutto originario (cfr. G. Scholem, Die jüdische Mystik in ihren Hauptströmungen (1957), Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1988; tr. it. di G. Russo, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993, pp. 277-288). A sua volta, F. Desideri scrive del «filo tenacissimo» che legherebbe la comprensione messianica del tempo presente in Benjamin con l’idea origeniana dell’apocatastasi, quale definitiva salvazione di tutte le anime (Id., Il Messia di Benjamin, in «Humanitas», 60, 2005, pp. 278-302: 300), sebbene nel saggio su Leskov, là dove Benjamin fa espresso richiamo alla nozione di “apocatastasi” elaborata da Origene (Id., Der Erzähler. Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows, cit., pp. 458-459; tr. it. p. 337), ciò avvenga – tiene egli stesso a precisare – come «spiegazione immanente del mondo delle idee» dello scrittore russo, non già come sua diretta e personale presa di parola sull’argomento (Id., Gesammelte Briefe, Bd. V, cit., pp. 584-586: 585 [lettera a K. Thieme del 10 ottobre 1937]). 67 W. Benjamin, Das Leben der Studenten (1915), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 75-87: 75; tr. it. di A. Marietti Solmi, La vita degli studenti, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 250-261: 250.

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categoriale priva di qualsiasi nesso con lo stato messianico del «mondo compiuto»68. Al modo in cui la cifra simbolica della lingua umana risiederebbe nella sua inconvertibilità nel verbo divino, la simbolizzazione cui sarebbero sottoposti i fenomeni storici mostrerebbe l’inconvertibilità di essi nel tempo messianico. Più esattamente, il generale compito della conoscenza speculativa di riscattare i fenomeni dalla loro condizione empirica attraverso l’astrazione, ossia attraverso una concettualizzazione linguistica di tipo sistematicosimbolica69, in ambito storico si attuerebbe nel rivelare la simultaneità cristallina di passato, presente e futuro ad essi intrinseca e nella quale sarebbero «disseminate e incluse schegge del tempo messianico»70. Lo storico dovrebbe quindi riuscire a comprendere la correlazione fra le diverse dimensioni temporali nelle quali la storia si articola, non già – si precisa nel Passegenwerk – in termini dialettici, ma prestando attenzione al «tempo reale […] nella sua forma più piccola», sia sotto un profilo quantitativo che qualitativo71. Cessando di lasciarsi scorrere fra le mani, come le conterie d’un rosario, la successione delle circostanze, la simbolizzazione compiuta dallo storico dovrebbe riuscire a individuare un’immagine rapida, nella quale si rifletta il significato del “tempo-adesso” (Jetztzeit) in cui si rapprende il «differenziale temporale [Zeitdifferential]» fra le diverse epoche. Il “tempo-adesso” sarebbe, in questo senso, un qualcosa di puntiforme presso cui la storia dell’intera umanità si arresterebbe, condensandosi in esso; 68 W. Benjamin, Erkenntnistheorie (1920-1921), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 45-46: 46; tr. it. di G. Schiavoni, Teoria della conoscenza, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 41-42: 42 (tr. modificata). 69 W. Benjamin, Über die Wahrnehmung (1917), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 33-38: 37; tr. it. di G. Schiavoni, Sulla percezione, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 30-34: 34. 70 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 704; tr. it. p. 493. Ma sul rapporto fra concetto di storia e teoria della conoscenza in Benjamin si veda T. Tagliacozzo, Conoscenza e temporalità messianica in Benjamin, in «B@belonline/ print», 4, 2008, pp. 139-150; nonché B. Maj, La teoria della storia di Walter Benjamin. Passagen-Werk. Appunti e materiali. Sezione N: Teoria della conoscenza, teoria del progresso, in «Discipline filosofiche», IX, 1999, pp. 177-212. 71 W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 1037-1038: 1038; tr. it. p. 951 (Q°, 21). Su ciò vedi H. Hohenegger, Walter Benjamin: immagini dialettiche e schematismo storico, in Ripensare le immagini, a c. di G. Di Giacomo, Mimesis, MilanoUdine 2009, pp. 39-57, in part, pp. 47-48.

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ma tale sua prerogativa di contrarre in sé l’estensione temporale sarebbe a sua volta insita nel suo configurare il «modello» del tempo messianico72. La Jetztzeit, potrebbe dunque sostenersi, è simbolo del tempo messianico, adempiendo essa alla funzione di mediare al proprio interno fra la frammentazione che lo stesso tempo messianico conosce in ogni presente della storia e la sua funzione sistematica73; ma del pari essa rappresenta, rispetto al tempo della catastrofe, al tempo progressivo della storia – come si è mostrato nel precedente capitolo – lo svuotamento del simbolo stesso. Nel carattere simbolico della Jetztzeit si manifesterebbe pertanto non già il compiersi del tempo storico nel tempo messianico, bensì il loro coesistere nei modi di un reciproca neutralizzazione che li lascia apparentemente inalterati proprio mentre ne compie un’estenuazione. Benjamin pare alludervi nella II Tesi Über den Begriff der Geschichte, allorché nomina «eine schwache messianische Kraft», «una debole forza messianica»74. La formula, forse una citazione di Paolo (2 Cor. 12, 9-10) mediata dalla traduzione di Lutero75, non sarebbe premessa di una denegazione, sorta di prodromo ad un annullamento, ad una «messianicità senza messianismo»76. Da questo punto di 72 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 703; tr. it. p. 492. Come puntualiza G. Bonola sub lemma “Adesso” in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 141-144: «Il rapporto dell’adesso con il “tempo messianico” non è semplicemente quello di un contenitore che ne conservi e ne veicoli, frammiste ad altro, delle “schegge”, ma anche quello di un involucro che porta su di sé l’impronta del suo contenuto» (Ivi, p. 142). 73 Cfr. W. Benjamin, Erkenntnistheorie, cit., p. 45; tr. it. p. 164, dove si precisa in termini generali che la funzione di «medium neutro» svolta dal simbolo si esplica fra l’essere vero di un fenomeno che frammentandosi esibisce un’idea e la verità, in quanto «funzione dell’esser-vero di tutti i restanti stati di cose», in quanto «funzione del sistema». 74 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 694; tr. it. p. 483. 75 Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta, cit., pp. 129-130. 76 Il primo a riconoscerlo è stato lo stesso J. Derrida, che, se in Spectres de Marx, Galilée, Paris 1993; tr. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 226, n. 3, era sembrato suggerire attraverso l’espressione «messianico senza messianismo» un’apposizione, se non una possibile traduzione della formula benjaminiana, in un testo seriore, Marx & Sons, in Ghostly Demarcations, ed by M. Sprinker, Verso, London 1999; tr. it. di M. Guidi, Marx & Sons, in AA.VV., Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 239-295: 281, ha affermato che sua intenzione era suggerire «soltanto l’asintoto di una convergenza

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vista il legame che, in seno alla Jetztzeit, si realizza fra storia e messianismo, quale concetto limite della teologia, induce ad osservare come, nel pensiero benjaminiano, quest’ultima non adempie la sua funzione nei confronti della storia semplicemente sparendo; all’opposto, è necessario riconoscere come la storia sia da pensare né con né senza la teologia77. Questo, del resto, è quanto esprimerebbe l’economia stessa della Jetztzeit, nel racchiudere al proprio interno una discontinuità continua (o continuità discontinua) fra temporalità messianica e temporalità storica. Se fin dalla sua tesi di dottorato Benjamin ha sostenuto che «l’infinità temporale […] qualitativa», quale «conseguenza del messianismo romantico», dovesse contrapporsi alla «progressione infinita», alla «vuota infinità del tempo» storico78, nel possibile» tra la sua idea di messianicità e quella benjaminiana. Ma per un puntuale confronto fra Benjamin e Derrida attorno alla concezione del messianico si veda O. Ware, Dialectic of the Past/Disjuncture of the Future: Derrida and Benjamin on the Concept of Messianism, in «Journal for Cultural and Religious Theory», 5, 2004, pp. 99-114. 77 Cfr. W. Benjamin, Das Passagenwerk, cit., p. 589; tr. it. p. 528 (N, 8, 1), dove indirettamente si fornisce risposta alla più sopra ricordata lettera di Horkheimer del 16 marzo 1937; ma si legga pure ciò che Benjamin afferma nel frammento catalogato come N 7a, 7 (Ivi, p. 588; tr. it. p. 528): «Il mio pensiero si rapporta alla teologia come la carta assorbente all’inchiostro. Ne è del tutto imbevuto. Se andasse, però, come vuole la carta assorbente, di ciò che vien scritto non rimarrebbe nulla». In tal senso sembra condivisibile quanto sostiene J. Habermas circa il fatto che «il teologo che era in Benjamin non poteva accettare che il materialismo storico prendesse a servizio la teoria messianica dell’esperienza» (Id., Bewußtmachende oder rettende Kritik. Die Aktualität Walter Benjamins [1972], in Id., Philosophisch-politische Profile, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1981; tr. it. di L. Ceppa, Walter Benjamin. Critica che rende coscienti oppure critica salvifica?, in Profili politico-filosofici, Guerini, Milano 2000, pp. 199237: 226). Ma al riguardo si veda pure F. Desideri, Del teologico nelle Tesi sul concetto di storia (1987), in Id., La porta della giustizia, cit., pp. 139-152. 78 W. Benjamin, Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik (1919), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 1, pp. 7-122: 91-92; tr. it di C. Colaiacomo, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, in Opere complete, vol. I, pp. 353-451: 424-425. A richiamare l’attenzione per la prima volta su questa pagina giovanile di Benjamin, ed a porne in evidenza l’affinità con le Tesi Über den Begriff der Geschichte, è stato M. Löwy nel suo lucido studio Walter Benjamin: Avertissement d’incendie. Une lecture des thèses “Sur le concept d’histoire”, Puf, Paris 2001; tr. it. di M. Pezzella, Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 15; ma al riguardo di veda pure J.-O. Bégot, Au rendez-vous de l’histoire. Sur le messianisme critique de Benjamin, in Une histoire de l’avenir. Messianité et Révolution, éd. par J. Benoist, F. Merlini, Vrin, Paris 2004, pp. 65-84, in part. pp. 68-75.

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concetto di Jetztzeit, introdotto per la prima volta nella XIV Tesi Über den Begriff der Geschichte, egli parrebbe voler dare rappresentazione a tale contrapposizione. Il che, a sua volta, non significa per Benjamin – lo si è già rilevato – promuovere un gesto intenzionale, bensì cercare di fare spazio al nome-simbolo79, nel quale l’idea del senso contrario dei tempi giunge alla propria auto-trasparenza. «Il tempo w hahipuk è il tempo messianico», aveva appuntato Scholem nella ottantatreesima delle 95 Thesen über Judentum und Zionismus, concepite per il ventiseiesimo compleanno di Benjamin80, facendo riferimento ad uno speciale uso della congiunzione ebraica “waw” che trasforma la qualità dell’azione indicata dalla forma verbale con riflessi anche sotto il profilo delle diastasi temporali consuete, che risulterebbero del tutto invertite81. Ed invero tale concezione del tempo messianico Benjamin parrebbe implicitamente presupporre, allorché, nei materiali preparatori delle Tesi sul concetto di storia, sostiene che da un lato esso svela la dimensione di catastrofe propria d’ogni presente e dall’altro ch’esso «spezza [bricht] la storia» nel suo sviluppo82, finendo con il coincidere con una «immobilità esitante»83. Il tempo messianico, dunque, tenderebbe a compiere, in forza della sua eterogeneità qualitativa, una inversione del continuum 79 Cfr. W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 214; tr. it. p. 75. Come scrive M. Cacciari, «la filosofia è per Benjamin essenzialmente l’ininterrotta lotta per il ripristino del simbolico […], poiché solo nel nome-simbolo l’idea si dà» (Id, L’angelo necessario, cit., p. 82). 80 G. Scholem, 95 Thesen über Judentum und Zionismus (1918), in Gershom Scholem zwischen die Disziplinen, hrsg. v. P. Schäfer u. G. Smith, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1995, pp. 287-295: 295; tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, 95 tesi su ebraismo e sionismo, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 295-303: 302. 81 Cfr. P. Magnanini, P.P. Nava, Grammatica della lingua ebraica, ESD, Bologna 2008, pp. 78-79. 82 W. Benjamin, Ms 477 (1939-1940?), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., p. 1243; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 88 (tr. modificata). 83 Cfr. W. Benjamin, Ms 1095 (1939-1940?), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., p. 1229; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 98, dove si cita una pagina di H. Focillon, tratta da Vie de formes, Paris, Leroux, 1934, p. 18; tr. it. di S. Bettini, La vita delle forme, Einaudi, Torino 1987, p. 21.

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omogeneo e vuoto della storia fino al punto da determinare la deformazione tanto sua quanto della stessa struttura simbolica della Jetztzeit, la quale, in ragione di ciò, si troverebbe ad essere attingibile soltanto nel suo irreversibile svuotamento. 2. Kafkeria Tale, esemplarmente, è lo sfondo che il «segreto teologico»84 racchiuso nella poetica di Kafka parrebbe celare. Questa infatti ospiterebbe al proprio interno i contenuti della teologia nel suo frangente più estremo, là dove essa si mostra come pienamente manifesta85, ossia là dove l’elemento messianico, considerato nei suoi aspetti spazio-temporali, si lascia cogliere in opposizione immediata e diretta rispetto al processo storico. Quanto da Benjamin era stato elaborato sin dalle sue prime riflessioni sulla relazione intercorrente fra la «storia del mondo» e la «storia di Dio»86, troverebbe nell’opera di Kafka l’«elemento fatale» in cui l’indicibile giunge ad espressione87. Qui, in particolare, il contrasto fra le due dimensioni storiche si esaspererebbe in modo tale che l’unidirezionalità dell’accadere della storia universale, ogni singolo momento in cui essa si scandisce, non sfuggirebbe alla «deformazione [Entstellung]», tanto che ogni immagine di Kafka risulterebbe non già il riflesso d’una determinata data della storia, bensì il suo proprio «contro-senso [Gegensinn]»88. Questo, tuttavia, non indica una 84 W. Benjamin, Kavaliersmoral (1929), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, cit., pp. 466-468: 467; tr. it. di G. Carchia, Morale cavalleresca, in Opere complete, vol. III, cit., pp. 421-422: 421-422. 85 Ciò è quanto specialmente traspare dalla lettura che dello scrittore praghese ebbe a svolgere Willy Haas in Gestalten der Zeit, Kiepenheuer Verlag, Berlin 1930, in part. pp. 172-199, da Benjamin pienamente condivisa ed in seguito fatta propria, come si trae dalla recensione ad Haas dedicata e posta sotto il titolo Theologische Kritik (1931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, pp. 275-278; tr. it. di G. Quadrio Curzio, Critica teologica, in Opere complete, vol. IV, pp. 381-384. 86 Cfr. W. Benjamin, fr. 65 (1916-1921?), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 91-93; tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Frammenti giovanili sulla storia, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 276-287: 276-278. 87 G. Lukács, Die Seele und die Formen, Egon Fleischel & Co., Berlin, 1911; tr. it. di S. Bologna, L’anima e le forme, SE, Milano 2002, p. 24. 88 W. Benjamin, Franz Kafka: Beim Bau der chinesischen Mauer, cit., p. 678; tr. it. p. 451 (tr. modificata).

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mera infinitezza atemporale. Come Benjamin osserva all’inizio del suo saggio del 1934, «Kafka pensa per età del mondo [Weltalter]», non «per epoche [Zeitalter]»89. Contrariamente a quanto accada in Schelling, ove i due ambiti storici sono consonanti nell’aijwnv eternamente originario90, nella riflessione benjaminiana essi si mostrano del tutto antitetici91. Le “età del mondo” alle quali parrebbe alludere l’opera di Kafka sarebbero da intendere senza alcun rapporto con ciò che è disposto come una successione cronologica: esse dovrebbero comprendersi come fra loro reciprocamente contemporanee, o, meglio, come fra loro sovrapposte, confuse, così da rivelare la preistoria che è presente nella storia92. Non a caso – nota Benjamin – i personaggi kafkiani sembrano nutrire un sentimento di paura verso ciò che è remoto ed insieme verso ciò che è prossimo. Anche per questa ragione tutto in loro, come nel mondo che li circonda, sembra sempre rinviare ad una condizione di deformazione esistenziale che inevitabilmente si traduce in una disperazione inconsolabile93. Al riguardo Benjamin ricorderà con empatia che, per Kafka, «è data una quantità infinita di speranza, solo non per noi»94. 89 W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 410; tr. it. p. 129 (tr. modificata). 90 Cfr. F.W.J. Schelling, Einleitung in die Philosophie (1830), in Id., Schellingiana, Bd. 1, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1989, p. 137. 91 T.W. Adorno nella lettera del 17 dicembre 1934, ora in T.W. Adorno, W. Benjamim, Briefwechsel 1928-1940, cit., p. 92, osserva, condividendo sul punto gli assunti di Benjamin, che il concetto di epoca è da considerare soltanto come «estrapolazione del presente fossilizzato». Per un excursus sullo scambio epistolare con Adorno attorno all’opera di Kafka, si fa rimando a Walter Benjamin lettore di Kafka, a c. di G. Scaramuzza, Unicopli, Milano 1994, in part. pp. 78-88. 92 B. Müller, “Denn es ist noch nichts Geschehen”. Walter Benjamins Kafka-Deutung, Böhlau, Köln-Weimar-Wien 1996, p. 14; H.H. Hiebel, Die Zeichen des Gesetzes. Recht und Macht bei Franz Kafka, Fink, München 1983, p. 138. 93 W. Benjamin, Ms 214 (1931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, pp. 1198-1199: 1199; tr. it. di E. Leonzio, Paralipomena 79, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 365-366: 366: «Negli eroi di Kafka si assiste con chiarezza a un fenomeno che si potrebbe definire la rovina del tempo». 94 W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., pp. 266-273: 272; tr. it. pp. 250257: 256 (lettera a G. Scholem del 12 giugno 1938). Ma cfr. pure W. Benjamin, Franz Kafka: Beim Bau der chinesischen Mauer, cit., p. 681; tr. it. p. 453; nonché W. Benjamin, Tagebuch Mai-Juni 1931, cit., p. 433; tr. it. pp. 440-441. Sul processo di identificazione, quale cifra del confronto di Benjamin con lo scrittore di Praga, ha insistito H. Mayer, Walter Benjamin und Franz Kafka. Bericht über eine Konstellation,

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Ciò nonostante, la poetica kafkiana non andrebbe, nella prospettiva benjaminiana, posta nella categoria dell’“ateismo religioso”, e non soltanto perché ciò vorrebbe dire ricadere in un’interpretazione dell’autore ceco ripetitiva di un «cliché teologico», ancorché “invertito”95. La esclusione da parte di Kafka d’ogni speranza, mentre, secondo Lukács, si presta ad essere interpretata come sintomo di una concezione che vede l’allontanamento del divino dal mondo degli uomini non come una liberazione, ma «come l’abbandono del mondo da parte di Dio, come il trionfo della desolazione della vita»96, per Benjamin rivelerebbe le conseguenze di un accadere dell’evento messianico che, arrestando la catastrofe del progresso storico, determina un’alterazione deformante, la quale coinvolge non soltanto il piano schiettamente storico, ma pure quello messianico. Nel pensiero benjaminiano può pertanto riconoscersi un nichilismo essenzialmente teologico, la cui misura non sarà, però, data unicamente in «Literatur und Kritik», 14, 1979; tr. it. di G. Schiavoni, Walter Benjamin e Franz Kafka. Storia di una costellazione, in Caleidoscopio benjaminiano, cit., pp. 233-264. 95 Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 425; tr. it. p. 142. Ancora più decisamente, nella corrispondenza con Scholem, si era affermata da parte di Benjamin la necessità, nell’ambito dell’esegesi di Kafka, di infergere «il colpo di grazia agli atroci battistrada della teologia protestante all’interno del’ebraismo» (W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., pp. 38-40: 39; tr. it. pp. 31-34: 33 [lettera a Scholem del 28 febbraio 1933]; ma al riguardo cfr. pure Id., Versuch eines Schemas zu Kafka [1931], in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, p. 1192). Che d’altronde rispetto all’interpretazione teologica di Kafka, allora sostenuta, oltre che da M. Brod, da G. Scholem, quella benjaminiana possa apparire una mera «“inverse” Theologie», è ipotesi cui danno adito tanto T.W. Adorno nella già menzionata lettera del 17 dicembre 1934, ora in T.W. Adorno, W. Benjamim, Briefwechsel 1928-1940, cit., p. 90, quanto, più di recente, S. Weigel, la quale segnatamente parla di «messianismo negativo o inverso» (Ea., Walter Benjamin. La creatura, il sacro, le immagini, cit., p. 151). Ma al riguardo si veda pure E. de Conciliis, La redenzione ineffettuale. Walter Benjamin e il messianismo moderno, La Città del Sole, Napoli 2001, secondo la quale la redenzione, in Benjamin, non tende a disancorare il tempo dalla storia, per porlo nell’eternità, ma «ad aggrapparsi alle scarne possibilità di rovesciamento dello scenario apocalittico, senza che tuttavia siano pensabili dei programmi finalizzati a tale scopo» (Ivi, p. 630). 96 G. Lukács, Il significato attuale del realismo critico, cit., pp. 48-49. Più in generale sull’ateismo religioso di Lukács si veda ora M. Cometa, Mistici senza Dio. Teoria letteraria ed esperienza religiosa nel novecento, Edizioni di passaggio, Palermo 2012, in part. il primo capitolo, pp. 45-139.

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dalla caducità propria delle schiere angeliche97, ma riguarderà lo stesso spazio ontologico da queste ultime dischiuso, quello del Messia98. Da questo punto di vista il carattere di «indecenza [Schamlosigkeit]»99 che, in Kafka, assumerebbe il discorso teologico deriverebbe dall’intrinseco legame che, nella sua opera, unisce quest’ultimo a ciò che di deforme è nel mondo. A tale proposito, nel saggio composto per commemorare il decimo anniversario della morte dello scrittore praghese, Benjamin ricorda la figura dell’“omino gobbo”, della quale aveva già fatto menzione nella redazione del 1933 di Berliner Kindheit100. Se qui il buchliges Männlein esprimeva le condizioni di una esistenza diventata letale, nelle pagine del saggio del 1934, egli si presenta come «l’inquilino della vita distorta»101 e, in quanto tale, come colui che consente il possibile esplicarsi della redenzione messianica, poiché – sostiene Benjamin – il suo venir meno coincide con il giorno in cui le deformazioni del nostro spazio 97 Cfr. I. Wohlfarth, Nihilismo contra Nihilismo. Sull’attualità della “politica mondiale” di Walter Benjamin, in Teologia e politica, cit., pp. 51-85: 70-71, il quale ricorda l’immagine – di cui si ha traccia sia in Maimonide, Moreh Nevukhim (Guida dei perplessi) (1190), II, 6, sia in J. Reuchlin De arte cabalistica (1517), III, 77 – evocata da Benjamin nella giovanile Ankündigung der Zeitschrift “Angelus Novus” (1922), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, pp. 241-246: 246; tr. it. di A. Moscati, Annuncio della rivista “Angelus Novus”, in Opere complete, vol. 1, cit., pp. 518-522: 522, come nel saggio del 1931 dedicato a Karl Kraus, cit., p. 367; tr. it. p. 358, secondo la quale gli angeli sono creati nuovi ad ogni istante in schiere innumerevoli, perché, dopo aver cantato il loro inno al Signore, cessano e svaniscono nel nulla. 98 Per una disamina sul rapporto fra messianianismo ed angelologia si veda il ricchissimo studio Angeli. Ebraismo, cristianesimo, islam, a c. di G. Agamben e E. Coccia, Neri Pozza, Vicenza 2009, in part. pp. 500-505. 99 Cfr. W. Benjamin, Ms 261 (1934), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., pp. 1210-1211: 1210; tr. it. di E. Leonzio, Paralipomena 87, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 373-376: 373. 100 W. Benjamin, Das buchliges Männlein (1933), in Berliner Kindheit um neunzenhnhundert, in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, cit., pp. 302-304; tr. it. di E. Ganni, L’omino gobbo, in Opere complete, vol. V, cit., pp. 405-407. La figura dell’omino gobbo, che veniva a Benjamin dalla lettura del volume di G. Scherer, Deutsches Kinderbuch, Scherer, Stuttgart 1863, 4ª ed., p. 155, è stata posta in stretto rapporto con la sua biografia specialmente da H. Arendt, Walter Benjamin, cit., pp. 18-20. 101 W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 432; tr. it. p. 147.

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come quelle del nostro tempo avranno trovato correzione102. Un’osservazione, questa, che non dovrebbe però intendersi come una promesse de bonheur di cui infine, sia pure posta sotto la categoria della possibilità, si potrebbe scorgere la realizzazione. Da Benjamin la felicità, pur affannosamente cercata, ed alla quale, beffardamente, allude il suo nome, è destinata a non essere mai incontrata, perché la riparazione della Entstellung dell’esistenza non può cambiare nulla, se non partecipare di un paradossale rovesciarsi in sé della medesima deformazione. Ma il messianismo che si configura in Kafka non troverebbe neppure una determinazione nella quale la redenzione è ricondotta ad un Deus absconditus103. Laddove Scholem interpreta la poetica kafkiana per mezzo di idee e concetti legati alla Kabbalah ebraica, ed al contempo come medium attraverso cui cogliere la profonda dialettica fra essere e nulla presente in ogni creatura, eco di quella contrazione in sé (tzimtzum) di Dio donde sarebbe sorta la creazione104, Benjamin sostiene che nel considerare l’o102 Cfr. Ivi, p. 433; tr. it. p. 149. A giusta ragione, I. Wohlfahrt ha definito l’omino gobbo il «luogotenente [Statthalter] del Messia» (Id., Märchen für Dialektiker. Walter Benjamin und sein “bucklicht Männlein”, in Walter Benjamin und die Kinder-literatur. Aspekte der Kinderkultur in den zwanziger Jahrhen, hrsg. v. K. Doderer, Juventa, Weinheim-München 1988, pp. 121-176: 151); ma al riguardo si veda pure P. Consigli, Ricomporre l’infranto. Walter Benjamin e il messianismo ebraico, in «Aut-Aut», 211-212, 1986, pp. 151-174, in part. pp.153-158, nonché S.R. Khatib, “Teleologie ohne Endzweck”. Walter Benjamins Ent-stellung des Messianischen, Tectum, Marburg 2013, pp. 467-478. 103 Come, invece, sostenuto, nella citata lettera del 17 luglio 1934, da G. Scholem, per il quale il mondo di Kafka esprime il significato di un mondo della rivelazione ricondotto al proprio nulla (W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., p. 157; tr. it. p. 146). Ma per una puntuale disamina del carteggio fra Benjamin e Scholem in riferimento all’opera di Kafka, cfr. R. Alter, Necessary Angels. Tradition and Modernity in Kafka, Benjamin and Scholem, Harvard University Press, Cambridge 1991, in part. il primo capitolo, pp. 3-23, nonché D. Cohen-Levinas, Révélation et Irrévélation. Walter Benjamin et Gershom Scholem devant Kafka, in Cahier Walter Benjamin, cit., pp. 314-325. 104 Fin dagli anni Trenta – ricorda Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, cit., p. 198 – egli era solito sostenere con i suoi allievi che per capire ai nostri giorni la Kabbalah sarebbe stato prima opportuno aver letto tutti i libri di Kafka. Sulla nozione di tzimtzum, in prima approssimazione: G. Scholem, Schöpfung aus Nichts und Selbstverschränkung Gottes (1956), in Id., Über einige Grundbegriffe des Judentums, cit.; tr. it. di M. Bertaggia, Creazione dal nulla e autolimitazione di Dio, in Concetti fondamentali dell’ebraismo, cit., pp. 41-73: 71. Ma al riguardo si fa rimando a I. Wohlfahrt, “Haarscharf an der Grenze zwischen Religion und Nihilismus”. Zum Mo-

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pera dello scrittore ceco andrebbe soprattutto colto il tentativo da essa promosso di cercare «a tastoni la redenzione nel rovescio [Kehrseite] di questo “nulla”»105, un “rovescio”, ma meglio sarebbe dire una «inversione [Umkehr]», che costituirebbe l’autentica «categoria messianica di Kafka»106 nella misura in cui essa segnerebbe sì il capovolgimento del movimento progressivo dell’esperienza storica, ma soprattutto in quanto in essa la stessa funzione redentiva assegnata dalla tradizione all’evento messianico sembra dissestarsi107. Per il Talmud – osserva Lévinas – il tempo messianico coincide con «il compimento simultaneo di tutte le promesse politiche e sociali», compimento che, tuttavia, non occupa il punto finale della storia, ma resta possibile «in ogni momento», quale evenienza nella quale l’infinito continuum storico si muta in eterno108. All’opposto, per Benjamin, a tale eternità, così come a quella cui idealmente corrisponde la concezione della storia fondata sulla continuità progressiva, non sarebbe estranea una intrinseca caducità. In tal senso, l’aforima kafkiano che vede il Messia arrivare solo «quando non sarà più necessario»109, parrebbe esprimere con bruciante concisione il senso della “debolezza”, della “fragilità”, ovvero della “impotenza” (Schwäche) della forza messianica di cui Benjamin fa menzione – come già ricordato – in Über den Begriff der Geschichte e ad alla quale sembra invero altresì alludere nello studio dedicato allo scrittore tiv des Zimzum bei Gershom Scholem, in Gershom Scholem zwischen die Disziplinen, cit., pp. 176-256. Più in generale sulle affinità dell’opera di Kafka con il misticismo ebraico deve vedersi K.E. Grözinger, Kafka und die Kabbala, Eichborn, Frankfurt a. M. 1992; tr. it. di P. Buscaglione e C. Candela, Kafka e la Cabbalà, Giuntina, Firenze 1993; nonché M. Cavarocchi, La certezza che toglie la speranza. Contributi per l’approfondimento ebraico in Kafka, Giuntina, Firenze 1988, in part. pp. 87-108. 105 W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., p. 160; tr. it. p. 149. 106 Ivi, p. 167; tr. it. p. 156. 107 Ivi, pp. 266-273: 272; tr. it. pp. 341-348: 347 (lettera a G. Scholem del 12 giugno 1938): «L’opera di Kafka è una malattia [Erkrankung] della tradizione». 108 E. Lévinas, Difficile liberté. Essai sur le judaïsme, Albin Michel, Paris 1976; tr. it. di S. Facioni, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, Jaca Book, Milano 2004, pp. 85 e 111; ma cfr. pure Id., Totalità e infinito, cit., pp. 291-295. 109 F. Kafka, Das dritte Oktavheft (1917-1918), in Id., Nachgelassene Schriften und Fragmente, Bd. II, Fischer, Frankfurt a. M. 1992; tr. it. di E. Franchetti, Terzo quaderno in ottavo, in F. Kafka, Aforismi e frammenti, Bur, Milano 2004, pp. 125157: 144.

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praghese, quando afferma che la venuta del Messia aggiusterà sì il mondo, ma «solo di pochissimo»110. Hans Blumenberg ha ritenuto di trarre da questo passo motivo per definire quello di Benjamin un «minimalismo messianico»111. Definizione suggestiva con la quale si vuole riassumere il trascorrere del pensiero benjaminiano da una prospettiva nella quale il discredito del mondo e la chiamata del Messia sembrano stare in un rapporto reciproco destinato a perpetuarsi senza fine112, ad altra, cui il pensatore berlinese sarebbe giunto per influenza di Scholem113 e di cui il saggio dedicato a Kafka sarebbe epitome, secondo la quale il mondo della creazione coinciderebbe, in una simultaneità pressoché impercettibile, con la condizione 110 W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 432; tr. it. p. 147. 111 Cfr. H. Blumenberg, Passione secondo Matteo, cit., pp. 264-268. 112 Cfr. W. Benjamin, Idee eines Mysteriums (1927), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, pp. 1153-1154; tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Idea di un mistero, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 256: «Esporre la storia come un processo in cui l’uomo, quale difensore della natura muta, sporge querela per la creazione e per la mancata venuta del messia promesso». Come è stato notato, è qui citata «l’osservazione laconica» di Schiller, consegnata alla poesia Resignation (1786), in Schillers Werke. Nationalausgabe, Bd. I, Böhlau, Weimar 1943, pp. 166169, ripresa da Hegel, «La storia universale è il giudizio universale [die Weltgeschichte ist das Weltgericht]», ma con una significativa inversione delle posizioni: laddove nel § 340 delle Grundlinen der Philosophie des Rechts lo spirito del mondo esercita il suo diritto sugli spiriti esistenti «nella storia universale in quanto giudizio universale», a quest’altezza della riflessione benjaminiana quest’ultimo è istruito dall’uomo stesso, nel suo volgere le spalle alla creazione (Cfr. W. van Reijen, H. van Doorn, Aufenthalte und passagen. Leben und Werk Walter Benjamins: eine Chronik, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2011, p. 147). Più in generale, su questo testo, cfr. D. Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida, Quodlibet, Macerata 2009, in part. pp. 164-175. Ma di «disgrazia della rivelazione», in quanto definitiva perdita di qualsiasi speranza di redenzione scrive altresì G. Rosen nel capitolo ch’ella dedica a Benjamin in Judaism and Modernity. Philosophical Essays, Blackwell, Oxford 1993; tr. it. di F. Chisalè e M. Loewy, Atene e Gerusalemme. Saggi su ebraismo e modernità, ECIG, Genova 1997, pp. 187-221: 196. 113 Cfr. W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., pp. 154-156: 154; tr. it. pp. 143-145: 143 (lettera di Scholem del luglio 1934?); nonché G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, cit., p. 123: «La redenzione ripristina le cose nel loro giusto luogo». Su ciò si fa comunque rimando a M. Löwy, Le messianisme hétérodoxe dans l’œuvre de Gershom Scholem, in Messianismes. Variations sur une figure juive, éd. par J.-C. Attias, P. Gisel et L. Kaennel, Labor et Fides, Genève 2000, pp. 131-145, in part. pp. 136-142.

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messianica. A ben vedere da parte di Blumberg si vorrebbero implicitamente assimilare le riflessioni benjaminiane al processo che, in seno allo gnosticismo, avrebbe visto «l’originaro pathos escatologico contro la stabilità del mondo» trasformarsi «in un nuovo interesse per lo stato del mondo», in una «tranquillizzazione sul mondo e nel mondo». Il compiersi della redenzione, ove avvenga «ad un livello sotterraneo», coinciderebbe infatti con un rinnovato interesse per «l’idea di cosmo». In tal senso, fra elemento profano ed elemento messianico vi sarebbe soltanto un piccolissimo margine, al punto da rendere possibile, sia pure astrattamente, un’equiparazione del messianismo benjaminiano ad una sorta di «cosmodicea»114. Invero – come lo stesso Blumberg non manca di ricordare – che l’evento messianico potesse coincidere con un ristabilimento pressoché totale di tutte le cose è convinzione che Benjamin manifesta già nel breve testo In der Sonne, composto ad Ibiza nel luglio 1932. Qui, in particolare, egli scrive: Esiste tra i chassidim a proposito del mondo che verrà un detto che dice: lì tutto verrà disposto come tra noi. Com’è la nostra stanza, così essa sarà anche nel mondo che verrà; dove il nostro bambino dorme ora, lì dormirà anche nel mondo che verrà. Quel che abbiamo addosso in questo mondo, lo porteremo anche nel mondo che verrà. Tutto sarà come qui – appena appena diverso115.

«Alles wird sein wie hier – nur ein klein wenig anders»: la chiusa sembra recare il timbro di una rassegnata constatazione di un destino inesorabile che il Gedankenstrich vorrebbe, ma invano, attenuare116. In questo passo non parrebbe aver luogo 114 Cfr. H. Blumenberg, La legittimazione dell’età moderna, cit., pp. 137, 146 e 149 passim. 115 W. Benjamin, In der Sonne, cit., p. 419; tr. it. p. 329. 116 Al riguardo valga la caustica affermazione di T.W. Adorno: «Il trattino serve soltanto a preparare scioccamente sorprese che appuno non sono più tali» (Id., Satzzeichen [1956], in Id., Noten zur Literatur, Bd. I, cit.; tr. it. di E. De Angelis, Interpunzione, in Note per la letteratura 1943-1961, cit., pp. 101-108: 103); ma sulla defunzionalizzazione espressiva del Gedankenstrich si era già espresso W. Kandinsky in Über die Formfrage (1912), in Id., Der Blaue Reiter (1912), Piper, München 1965; tr. it. di G. Gozzini Calzecchi Onesti, Il problema delle forme, in Il cavaliere azzurro, SE, Milano 1988, pp. 121-156, in part. pp. 138-139.

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alcuna apocatastasi e nemmeno un puro ristabilimento di un ancestrale ordine cosmico; a pervaderlo appare piuttosto una ineluttabilità senza appello e tesa a conclamare come la speranza messianica sia destinata ad essere delusa perché essa, pur compiendosi sul piano dell’immanenza storica, si rivela priva di effetto. Questo, d’altronde, è quanto è parso a Benjamin potersi ricavare dalle stesse determinazioni della rivelazione enucleate da Scholem nella sua Offener Brief a Hans J. Schoeps, in particolare se rilette alla luce della poetica kafkiana. Se infatti Scholem aveva argomentato contro la teologia dialettica di ispirazione barthiana assunta a paradigma da Schoeps in Jüdischer Glaube in dieser Zeit (1932), facendo osservare come l’«assoluta concretezza» della rivelazione non potesse, in verità, mai essere compiuta117, era nell’opera di Kafka che tale fallimento diventava «più che mai percettibile»118. Sotto tale riguardo, il «fallimento» dello scrittore ceco dovrebbe non solo intendersi biograficamente, quale esito di uno scacco finale del quale egli fu tanto precocemente consapevole da fargli sempre negare qualsiasi assenso all’esistenza119, ma essere compreso entro un ambito più generale, del quale la antinomia fra similitudine e simbolo – ci-

117 G. Scholem, Offener Brief an den Verfasser der Schrift “Jüdischer Glaube in dieser Zeit”, in «Bayerische Israelitische Gemeindezeitung», 16, 1932; tr. it. di M. Mottolese, Rivelazione e tradizione. Lettera contro H.J. Schoeps, in «Humanitas», 5, 1996, pp. 782-790: 788. 118 W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., pp. 171-173: 172; tr. it. pp. 159-161: 160 (lettera di W. Benjamin del 15 settembre 1934); ma cfr. altresì Ivi, pp. 38-40: 39; tr. it. pp. 31-34 (lettera di W. Benjamin del 28 febbraio 1933). 119 W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., pp. 266-273: 273; tr. it. pp. 250-257: 257 (lettera di W. Benjamin del 12 giugno 1938). Ma cfr. F. Kafka, Er. Aufzeichnungen aus dem Jahre 1920, in Id., Beschreibung eines Kampfes. Novellen, Skizzen, Aphorismen aus dem Nachlass, Schocken, New York 1946; tr. it. di E. Franchetti, “Lui”. Annotazioni del 1920, in F. Kafka, Aforismi e frammenti, cit., pp. 481-492: 486: «Molti anni fa stavo seduto, certamente piuttosto triste, sul pendio del Laurenziberg. Vagliavo i desideri che avevo riguardo alla vita. Il desiderio principale e più allettante risultò quello di raggiungere una visione della vita (e, cosa necessariamente connessa, di poterne convincere per iscritto anche gli altri) in cui la vita stessa conservasse il suo naturale e pesante salire e scendere, ma, nello stesso tempo, con pari evidenza, essa fosse riconoscibile come nulla, come un sogno, un fluttuare».

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fra, per Benjamin, della prosa di Kafka120 – rappresenterebbe il riverbero di maggiore significato. Al riguardo, appuntandosi sul frammento kafkiano intitolato Von den Gleichnissen, Benjamin ha modo di osservare che la contrapposizione fra simbolo e similitudine si risolve infine necessariamente a favore di quest’ultima, dal momento che nello scrittore praghese non può riscontrarsi alcuna funzione metaforica positiva121. «In rapporto a tutto ciò che è al di fuori del mondo sensibile il linguaggio può essere usato solo per accennare, mai invece per comparare, anche solo approssimativamente, poiché esso, corrispondendo al mondo sensibile, tratta solo del possesso e dei suoi rapporti» – aveva espressamente appuntato Kafka in uno degli aforismi di Zürau122, dando prova di come, per lui, la similitudine potesse al più costituire un rinvio allusivo ad una verità inaccessibile, giammai esercitare, nella comparazione, la funzione della metafora piena e significante; ed in tal senso l’imperativo di cui si legge in Von den Gleichnissen: «Va’ dall’altra parte» non avrebbe potuto che voler dire “sii tu stesso una metafora”, “vivi nella metafora”123. La interpretazione benjamiana, da questo punto di vista, appare del tutto letterale. Ma a tale, inusitata in Benjamin124, correttezza filologica è nondimeno sottesa l’esigenza di interpretare lo scrittore praghese movendo «dal centro del suo mondo di immagini»125. 120 W. Benjamin, Zur Kafka Revision (1934), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., pp. 1248-1256: 1255; tr. it. di E. Leonzio, Sulla revisione del “Kafka”, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 376-380: 380. 121 W. Benjamin, Ms 245 (1935), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, pp. 1260-1261: 1261; tr. it. di E. Leonzio, Paralipomena 90, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 382-383: 383. La breve prosa Von den Gleichnissen (1922-1923) fu pubblicata da M. Brod per la prima volta in F. Kafka, Beim Bau der chinesischen Mauer. Ungedruckte Erzählungen und Prosa aus dem Nachlaß, Gustav Kiepenheuer Verlag, Berlin 1931; tr. it. di E. Franchetti, Delle similitudini, in F. Kafka, Aforismi e frammenti, cit., pp. 400-401. 122 F. Kafka, Aforismi di Zürau, cit., p. 72. 123 Su tutto questo si vedano le preziose analisi di G. Baioni, Kafka. Letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino 1984, in part. il IV capitolo, pp. 79-113. 124 In modo alquanto reciso B. Müller, “Denn es ist noch nichts Geschehen”. Walter Benjamins Kafka-Deutung, cit., p. 199, sostiene che le interpretazioni benjaminiane siano la «parodia» d’una critica filologica. 125 W. Benjamin, Franz Kafka: Beim Bau der chinesischen Mauer, cit., p. 678; tr. it. p. 450.

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Sin dalla conferenza radiofonica dedicata al racconto Beim Bau der chinesischen Mauer, Benjamin sottolinea come la poetica kafkiana esprima attraverso la metafora, la parabola, la leggenda, attraverso, cioè, una serie di «analogie»126, non soltanto un’assoluta astrazione volta a sollevare il particolare fino all’inconsistenza, ma soprattutto la necessità di poter unicamente alludere al Regno messianico127. Lo dimostrerebbe il fatto che le parabole kafkiane si pongono al di qua ed al di là, nonché di un’«interpretazione naturale», ossia biografico-psicologica, di un’interpretazione teologica128; ma, in misura più radicale, parrebbe suggerirlo – come accennato – l’essere il mondo di Kafka destinato a non poter fuoriuscire dalla similitudine: «l’essenza» in esso «diviene apparenza», non perché quest’ultima «ricopre» la prima, ma perché «la compromette»129. Come Benjamin stesso puntualizza, la similitudine è il segno stilistico di cui le parabole kafkiane sono la forma130. Esse infatti non hanno alcun rapporto diretto con la «dottrina»131, in quanto luogo teoretico avente, quale proprio fondamento, il nucleo asemantico del linguaggio della rivelazione, ma esprimono soltanto «il tentativo di rendere la incomprensibilità del mondo un nulla o la sua nullità 126 B. Allemann, Fragen an die judaistische Kafka-Deutung am Beispiel Benjamins, in Franz Kafka und das Judentum, hrsg. v. K.E. Grözinger, Athenäum, Frankfurt a. M. 1987, pp. 35-70: 48. 127 Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 420; tr. it. p. 137. Come assai puntualmente ha osservato G. Baioni, Kafka. Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1976, p. 22: «Se è vero che solo nella similitudine l’uomo coglie un riflesso debolissimo della verità che gli è negata, altrettanto vero è che essa rappresenta a priori la conferma dell’assoluto esilio dell’uomo dalla verità». 128 Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 425; tr. it. p. 142. 129 W. Benjamin, Ms 215 (1931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., pp. 1199-1201; tr. it. di E. Leonzio, Paralipomena 80, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 366-368: 367. 130 W. Benjamin, Ms 238 (1934), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., pp. 1253-1254; tr. it. di E. Leonzio, Paralipomena 88, in Opere complete, vol. VIII, pp. 378-379: 379; ma cfr. pure Ms 245 (1935), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., pp. 1259-1260: 1259; tr. it. di E. Leonzio, Paralipomena 90, cit., pp. 381382: 381. 131 Cfr. W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., p. 272; tr. it. p. 256; nonché W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages, cit., p. 420; tr. it. p. 137.

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comprensibile»132. Le parabole di Kafka, in tale prospettiva, rivelerebbero, con la massima efficacia possibile, l’impossibilità di riuscire a cogliere il Regno messianico nel suo pieno e compiuto dispiegarsi pure per quel discorso nel quale, secondo la tradizione sia ebraica che cristiana, lo iato fra esso e la parola dovrebbe annullarsi133. Nell’autore di Das Schloß, si ravviserebbe, quindi, sì un punto di incontro fra l’ordine profano e quello divino, come testimonierebbe il carattere parabolico della sua prosa, ma esso non sortirebbe in «una cooperazione fra Dio e uomo nella storia della salvezza»134, bensì nella dissipazione della possibilità di «ricomporre l’infranto [Zerschlagene zusammenfügen]»135, ossia di raccogliere non soltanto l’insieme delle macerie che il progresso storico ha lasciato dietro di sé, ma, più in generale, di riconnettere i frammenti della parola assoluta costituita dal nome di Dio, simbolo dell’intera creazione. In tal senso, se l’Angelus novus – come si evince dalla IX Tesi Über den Begriff der Geschichte – non è in grado di compiere quest’opera di riunificazione136, neppure, però, i novissima, le realtà escatologiche del Giudizio universale, ovvero del Regno messianico, lo sono. Lo dimostra il fatto che la irrilevanza che agli occhi dello scrittore praghese ha in sé la possibilità che il mondo messianico si compia, si converte in Benjamin in un più drammatico sentire. Laddove in Kafka la venuta del Messia riflette soltanto la circostanza che l’umanità è pronta ormai per tale accadere, sicché può affermarsi che «il Messia è sintomo della salvezza, non la sua causa»137, nel pensatore berlinese occorre constatare come 132 W. Benjamin, Ms 246 (1935), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 3, cit., pp. 1261-1262: 1261; tr. it. di E. Leonzio, Paralipomena 90, cit., pp. 383-384: 383. 133 Cfr. E. Jüngel, Paulus und Jesus. Eine Untersuchung zur Präzisierung der Frage nach der Ursprung der Christologie, Siebeck, Tübingen 1972; tr. it. di R. Bazzano, Paolo e Gesù. Alle origini della cristologia, Paideia, Brescia 1978, in part. pp. 166-171; ma pure G. Agamben, Parabola e Regno, in Id., Il fuoco del racconto, nottetempo, Roma 2014, pp. 25-37. 134 Cfr. G. Kaiser, Walter Benjamins “Geschichtsphilosophische Thesen”, in Materialien zu Benjamins Thesen “Über den Begriff der Geschichte”, cit., pp. 43-76: 74. 135 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 697; tr. it. p. 487 (tr. modificata). 136 Ivi, pp. 697-698; tr. it. p. 487. 137 B. Hawkins, Reluctant Theologians: Franz Kafka, Paul Celan, Edmond Jabès, Fordham University Press, New York 2003, p. 42.

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l’evento messianico, qualora si adempia, non si adempie. Non a caso, l’immagine del Messia che irrompe sulla scena della storia attraverso «la piccola porta» che può dischiudersi in ogni secondo, con la quale si concludono le Tesi138, parrebbe costituire il rovesciamento delle pagine di Kafka poste sotto il titolo Vor dem Gesetz139. Se qui la porta che si para innanzi all’«uomo di campagna», trasfigurazione d’un «Messia impedito»140, è destinata a chiudersi facendo in modo ch’egli non arrivi a destinazione141, nel passo benjamiano invece l’evenienza sempre attuale che la porta si apra e lasci entrare il Messia fa sì ch’egli non smetta mai d’arrivare: egli è qui, ma proprio per questo il suo accadere non è «una contingenza kairologica», «una sorta di interludio fra l’essere e il nulla, il “vuoto” e il “pieno”, la disperazione e la speranza»142, ma, al contrario, una possibilità sempre attuale143, e perciò sempre ineffettuale. 3. Nel giorno del giudizio Tale approdo sarebbe ulteriormente confermato dalla corrispondenza con Scholem. Mentre infatti questi intende la rivelazione, sebbene priva d’un contenuto specifico, valida almeno come principio regolativo144, Benjamin le nega anche tale 138

W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 704; tr. it. p. 493. F. Kafka, Vor dem Gesetz (1914), in Id., Sämtliche Erzählungen, Fischer, Frakfurt a. M. 1970; tr. it. di R. Paoli, Davanti alla legge, in F. Kafka, Racconti, cit., pp. 238-239. 140 Cfr. K. Weinberg, Kafkas Dichtungen. Die Travestien des Mythos, Franke, Bern-München 1963, p. 132. 141 Cfr. J. Derrida, Préjugés. Devant la loi, Minuit, Paris 1985; tr. it. di F. Vercillo, Pre-giudicati. Davanti alla legge, Abramo, Catanzaro 1996, p. 93. 142 G. Marramao, Sulla teologia politica “post-religiosa” di Walter Benjamin, in Teologia e Politica, cit., pp. 35-50: 48. 143 Come nel suo Tagebuch, alla data del 3 novembre 1917, ricorda G. Scholem: «Walter [Benjamin] ha detto una volta: il regno messianico è sempre qui [das messianische Reich ist immer da]» (Id., Über Metaphysik, Logik, und einige nicht dazu gehörende Gebiete phänomenologische Besinnung. Mir gewidment, 5-10-1917/3012-1917, in Id., Tagebücher nebst Aufsätze und Entwürfe bis 1923. 2. Halbband 1917-1923, Jüdischer Verlag, Frankfurt a. M. 2000, pp. 51-95: 70). 144 Si legge, al riguardo, nella lettera del 20 settembre 1934 di Scholem a Benjamin: «Chiedi che cosa intenda con l’espressione “il nulla della rivelazione”. Intendo 139

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carattere, ritenendola non soltanto incomprensibile, ma pure priva di alcuna vigenza. Alla Legge della vita divina, trasparente ed indefinita, che «comprende tutto indifferentemente»145, egli contrappone lo «stato di eccezione [Ausnahmezustand] effettivo»146. Questo termine viene a Benjamin dalla Politische Theologie (1922) di Carl Schmitt, e, segnatamente, dal passo nel quale si legge: «L’eccezione è più interessante del caso normale. Il caso normale non prova nulla. Non solo essa prova la regola, ma la regola vive solo dell’eccezione»147. Tuttavia, nella citazione uno stadio in cui essa appare vuota di significato, in cui afferma ancora se stessa, in cui vige, ma non significa» (W. Benjamin, G. Scholem, Briefwechsel, cit., pp. 173177: 175; tr. it. pp. 162-165: 163). Al riguardo si veda S. Mosés, “Das Thema des Gesetzes”. Zu Gerschom Scholems Kafka-Bild, in Franz Kafka und das Judentum, cit., pp. 13-34. 145 G. Scholem, Zehn unhistorische Sätze über Kabbala (1938), Rhein Verlag, Zürich, 1958; tr. it. di A. Fabris, Dieci tesi astoriche sulla Qabbalah, in G. Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio, cit., pp. 93-102: 96. 146 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 697; tr. it. p. 486. 147 C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1922; tr. it. di P. Schiera, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in C. Schmitt, Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna 1972, p. 41. Il testo era noto a Benjamin fin dalla dissertazione sul dramma tedesco (cfr. Id., Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 245, n. 14; tr. it. p. 105, n. 15), che, a sua volta, il giurista di Plettenberg ebbe a commentare in Hamlet oder Hekuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel, Eugen Diederichs Verlag, Düsseldorf-Köln 1956; tr. it. di S. Forti, Amleto o Ecuba. L’irrompere del tempo nel gioco del dramma, il Mulino 2012, pp. 109-116. S. Heil, “Gefährliche Beziehungen”. Walter Benjamin und Carl Schmitt, Metzler, StuttgartWeimar 1996, ha a giusta ragione puntualizzato che mentre «in Schmitt lo stato di eccezione viene estrapolato dalla sua collocazione corrente nel diritto costituzionale come diritto dello stato d’emergenza, per tematizzare esattamente quell’eccezione per la quale la costituzione non prevede più un regolamento, in Benjamin esso viene sostituito nella sua funzione di giustificazione per l’autorità sovrana non bisognosa di legittimità ed interpretato come espressione della storia in generale. La storia è la permanenza dello stato di eccezione, nel quale la catastrofe non è il caso estremo, ma il caso normale» (Ivi, p. 159). Più in generale su Benjamin e Schmitt cfr. B. Moroncini, Il lavoro del lutto, cit., pp. 99-118; S. Weigel, Il martire e il sovrano. Scene da un Trauerspiel moderno a partire da Walter Benjamin e Carl Schmitt, in Teologia e politica, cit., pp. 153-168; M. Palma, Benjamin oltre Schmitt. L’ottava tesi sul concetto di storia, in Nel tempo dell’adesso. Walter Benjamin tra storia, natura e artificio, a c. di G. Perretta, Mimesis, Milano 2002, pp. 103-115; H. Bredekamp, From Walter Benjamin to Carl Schmitt via Thomas Hobbes, in «Critical Inquiry», 25, 1999, pp. 247-266; S. Weber, Taking Exception to

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benjaminiana è introdotta una significativa alterazione, per la quale – è stato suggerito – parrebbe potersi istituire «un parallelo fra la venuta del Messia e il concetto-limite del potere statuale», come se l’evento messianico coincidesse con il momento in cui la legge si sospende da sé148. Il porre sul medesimo piano il Sovrano ed il Messia, riconoscendo entrambi capaci di assumere la decisione di superare e mettere in questione la legge come tale e dunque di rendere effettivo lo “stato di eccezione”, incontrerebbe però un ostacolo in quanto Benjamin stesso ha rilevato nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, là dove, prendendo in esame la figura del sovrano nel secolo XVII, si sostiene che se «il moderno concetto di sovranità porta al supremo potere esecutivo da parte del principe, quello barocco si sviluppa a partire da una discussione sullo stato d’eccezione, e attribuisce al principe il compito supremo di evitarlo [den auszuschließen]»149. Benjamin, dunque, escluderebbe la possibilità accordata al sovrano di decidere dello stato di eccezione, revocando così in dubbio la questione – posta invece da Schmitt come irrefutabile –, per la quale il detentore della pienezza del potere sarebbe soltanto chi fosse detentore della decisione sul verificarsi o meno dello stato d’eccezione150. Il soDecision. Walter Benjamin and Carl Schmitt, in «Diacritics», 22, 1992, pp. 5-18; M. Makropoulos, Modernität als ontologischer Ausnahmezustand, cit., pp. 34-41. 148 Cfr. G. Agamben, Il Messia e il sovrano. Il problema della legge in W. Benjamin (1998), in Id., La potenza del pensiero, cit., pp. 251-270: 254. Scrive altrove lo stesso Agamben: «Il Messia è la figura in cui le grandi religioni monoteistiche hanno cercato di venire a capo del problema della legge e la sua venuta significa […] il compimento e la consumazione integrale della legge» (Id., Homo sacer, cit., p. 65). Ma già C. Schmitt aveva sostenuto che «Il monarca nella dottrina dello Stato del XVII secolo [è] identificato con Dio ed occup[a] nello Stato la posizione esattamente analoga a quella spettante a Dio nel sistema cartesiano del mondo» (Id., Teologia politica, cit., p. 69). 149 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 245; tr. it. p. 105. Si veda sul punto B. Moroncini, Tragedia e politica nell’Ursprung des Deutschen Trauerspiels di Walter Benjamin, in  «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche», XCI, 1980, pp. 20-36. 150 Cfr. C. Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1921; tr. it. di B. Liverani, La dittatura: dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Laterza, Bari-Roma 1975, p. 29. Al riguardo si rinvia a D. Gentili, Topografie politiche, cit., pp. 135-147.

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vrano, in tale prospettiva, lungi dal rappresentare colui che «decide del caso non regolato dal diritto»151, incarnerebbe piuttosto quell’incomponibile divergere fra il potere e il suo esercizio152 originariamente condizionato dall’essere, la decisione sovrana, impossibilitata ad aver ragione dell’ordine creaturale, e dunque a «porre, in luogo dell’instabile divenire, la ferrea costituzione delle leggi di natura»153. Al tempo stesso e conseguentemente, all’utopia propria d’ogni gesto che ambisca a svincolare il fine dal diritto, finendo col conferire allo stato di eccezione «un significato analogo al miracolo per la teologia»154, Benjamin oppone una catastrofe senza redenzione, «che accumula ed esalta i frutti della terra prima di consegnarli alla morte»155. Da questo punto di vista il debito che Benjamin ha contratto – come egli stesso afferma156 – verso la nozione di sovranità elaborata da Schmitt, si risolverebbe in realtà in una sua profonda revisione, che, a sua volta, si accompagnerebbe – come osservato – ad una sostanziale ridefinizione dello “stato di eccezione” come «breccia nel tempo della norma»157. Tale ridefinizione, tuttavia, non determinerebbe soltanto il trascorrere della nozione di “stato di eccezione” da un’accezio151

C. Schmitt, La dittatura, cit., p. 204. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 250; tr. it. p. 110: «Il principe, che ha la facoltà di decidere sullo stato d’eccezione, mostra alla prima occasione che decidere gli è quasi impossibile». 153 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 253; tr. it. p. 113 (tr. modificata); ma cfr. altresì Ivi, p. 264; tr. it. p. 124: «Per quanto il sovrano troneggi sopra i sudditi e lo stato, il suo rango rientra nel mondo della creazione; egli è il signore delle creature, ma rimane creatura». 154 C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 61. 155 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 246; tr. it. p. 105. Si vedano al riguardo le incisive considerazioni di M. Cacciari, Intransitabili utopie, in H. von Hofmannsthal, La torre, Adelphi, Milano 1978, pp. 157-226, in part. pp. 199-200. 156 Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. III, cit., p. 558 (lettera a C. Schmitt del 9 dicembre 1930), dove, in particolare, si legge: «Lei noterà molto rapidamente quanto il libro [scilicet il saggio sul dramma barocco tedesco] le sia debitore nell’esposizione della dottrina della sovranità nel XVII secolo. Forse oltre a ciò potrei dire che dai suoi più tardi lavori, anzitutto da Diktatur, ho tratto una conferma del mio metodo di ricerca nella filosofia dell’arte dal suo nella filosofia dello stato». 157 R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013, p. 72. 152

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ne che lo vuole come caso in cui il diritto si sospende da sé ad altra in cui la sfera creaturale e l’ordine giuridico sono coinvolti in un medesimo annientamento158; ma essa comporterebbe altresì una risemantizzazione dell’evento messianico come tale. Quest’ultimo sarebbe infatti implicato nella stessa escatologia bianca alla quale è consegnato «tutto ciò in cui alita il minimo respiro mondano»159. Il paradigma teologico-politico schmittiano – potrebbe perciò sostenersi – ha nella riflessione di Benjamin un punto d’inflessione, in quanto la corrispondenza fra potere sovrano e trascendenza si realizzerebbe essenzialmente nel segno della loro comune debolezza160. Una debolezza che sembra altresì connotare la «virtù del potere [Tugend der Macht]» messianico: la «giustizia»161. La Gerechtigkeit indica, per Benjamin, una «deposizione [Entsetzung]» della “violenza”, dell’“autorità”, del “potere” – in una parola della Gewalt162 – del diritto. Il «baratro incolmabile», evidente pure nello slittamento semantico presente tanto in latino ed in greco, rispettivamente fra ius e fas e fra thémis e dìke, quanto in ebraico fra mishpat e zedek163, sot158 Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, in part. pp. 72-74; J.R. Martel, Divine Violence. Walter Benjamin and the Eschatology of Sovereignty, Routledge, New York 2012, in part. pp. 59-62. 159 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 246; tr. it. p. 105. 160 Ritiene invece M. Tomba, La “vera politica”. Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 241-242, che pensare, con Benjamin, lo stato d’eccezione implichi «una decisa mossa antischmittiana», poiché nel pensatore berlinese l’Ausnahmezustand non è, come nel giuscostituzionalista, solo distruzione della norma, sospensione dello stato di diritto, onde creare nuovo diritto, ma è ciò che interrompe in modo duraturo il continuum violento del diritto. 161 W. Benjamin, Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit (1916), in G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätze und Entwürfe bis 1923. 1. Halbband 1913-1917, Jüdischer Verlag, Frankfurt a. M. 1995, pp. 401-402: 402; tr. it. di G. Quadrio-Curzio, Appunti per un lavoro sulla categoria di giustizia, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 210-211: 211. 162 Come ha scritto F. Jesi, il termine Gewalt può essere tradotto «allineando l’una dopo l’altra le parole “violenza”, “autorità”, “potere”, come se le pronunciassimo d’un fiato» (Id., Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke [1976], Quodlibet, Macerata 2002, p. 29). 163 W. Benjamin, Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit, cit., p. 402; tr. it. p. 211. Per una puntualizzazione sulla distinzione terminologica qui compiuta da Benjamin, cfr. E. Jacobson, Metaphysics of the Profane. The Political Theology of Walter Benjamin and Gershom Scholem, Columbia University Press,

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tintende non soltanto l’essere la giustizia qualcosa di più del diritto in senso stretto, ma pure il suo contrario, ovvero la sua soppressione o sospensione. Più propriamente, la giustizia si contrapporrebbe al diritto, spezzando la filosofia della storia che governa l’«altalena dialettica tra le forme della violenza che pone e che conserva il diritto»164. Essa, tuttavia, non deve essere confusa con alcun originario principio mitico. La giustizia è una pura entità metafisica, rispetto alla quale il diritto si pone come elemento «imbastardito»165. Come tale, essa non si lascia riconoscere con certezza, restando estranea a qualsiasi determinazione diversa da quella di fungere da «conato [Streben] di fare del mondo il sommo bene»166. Una definizione, questa, che – ha osservato Scholem – coglie l’essenza dell’idea ebraica di giustizia come possibilità di rendere la terra sede della shechinah, della presenza divina nel mondo167. Tuttavia, se per lo studioso della Kabbalah la giustizia può essere praticata e decisa dagli zadikim, dai “giusti”, al fine di esercitare nei confronti del trascendente un’azione che ne favorisca la presenza nella realtà storica, per Benjamin essa non è una conoscenza decidibile168. Gli effetti della giustizia, a differenza di quelli del New York 2003, p. 172; e, più in generale, J. Assmann, Herrschaft und Heil. Politische Theologie in Altägypten, Israel und Europa, Hanser Verlag, München-Wien 2000; tr. it. di U. Gandini, Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in Israele e in Europa, Einaudi, Torino 2000, pp. 201-202. 164 W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 202; tr. it. p. 487. Analogamente, nel fr. 71 (1921), posto sotto il titolo Die Bedeutung der Zeit in der moralischen Welt, in Id., Gesammelte Schriften, Bd., VI, cit., pp. 97-98: 98; tr. it. di H. Riediger, Il significato del tempo nel mondo morale, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 93-94: 94, si afferma che «la collera divina risuona fragorosamente nel corso della storia per spazzarvi via» ogni cosa. 165 W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 203; tr. it. p. 488. Ma cfr. analogamente quanto G. Scholem appunta nel suo diario alla data del 9 novembre 1916: Id., Tagebücher nebst Aufsätze und Entwürfe bis 1923, I. Halbband 1913-1917, cit., p. 426: «Gerechtigkeit ist eine metaphysische Kategorie, Recht nicht». 166 W. Benjamin, Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit, cit., p. 401; tr. it. p. 210 (tr. modificata). 167 G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätze und Entwürfe bis 1923, I. Halbband 1913-1917, cit., p. 419. 168 Cfr. J. Derrida, Forza di legge, cit., p. 132. Ma sulle analogie e le differenze fra la riflessione benjaminiana e quella scholemiana attorno al tema della “giustizia”, devono vedersi G. Bonola, Antipolitica messianica. La giustizia di Dio come critica del diritto e del “politico” nel filosofare comune di G. Scholem e W. Benjamin

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diritto, sono del tutto estranei ad una Entscheidung determinante. «La giustizia – scrive Benjamin – può alla fin fine solo essere»169, quale pura manifestazione della potenza divina; ma per ciò stesso essa non può giammai esplicarsi pienamente nella realtà immanente. Nessuna effettiva «realizzazione [Verwirklichung]» della göttliche Gewalt è mai possibile – si afferma in un frammento scritto fra il 1919 e il 1920 –, la vera potenza divina non può infatti manifestarsi pienamente e compiutamente nel mondo terreno, poiché nel momento in cui cui essa vi «fa il proprio ingresso […], respira [atmet] distruzione»170. Alla giustizia divina – come Hebel per primo, secondo Benjamin, si avvide – manca ogni elemento escatologico: l’unica sua «pietra di paragone» è il theatrum mundi171. Essa, come si trae dalla stessa espressione tedesca che dice “il giudizio universale”: der Jüngste Tag, “il giorno più giovane”, non è riservata alla fine dei tempi, ad un tempo più futuro di quanto qualsiasi profezia possa annunciare, ma, all’opposto, non si distingue dagli altri giorni172. In un apologo talmudico tale peculiare attualità dell’accadere messianico, di cui la giustizia è, tradizionalmente173, segno distintivo, si lascia nitidamente comprendere. Il Messia è alle porte di Roma, quando qualcuno lo riconosce e lo interroga: “Quando verrai?”. La risposta è univoca: “Oggi”174. Quello stesso “oggi” che, in Benjamin, alimenta la «tensione verso il messianico», quale inevento interminabile che, compiendosi «troppo presto (1916-1920), in «Fenomenologia e Società», 2, 2000, pp. 3-36; nonché E. Jacobson, Metaphysics of the Profane, cit., in part. pp. 220-224. 169 W. Benjamin, Notizen zu einer Arbeit über die Kategorie der Gerechtigkeit, cit., p. 401; tr. it. p. 211 (tr. modificata). 170 W. Benjamin, fr. 73 (1919-1920), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 98-100; tr. it. di H. Riediger, fr. 73, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 95-96. 171 W. Benjamin, Hebel gegen einen neuen Bewunderer verteidigt (1929), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. III, cit., pp. 203-206: 205; tr. it. di G. Carchia, Hebel difeso contro un nuovo ammiratore, in Opere complete, vol. III, cit., pp. 358-361: 360. 172 Cfr. W. Benjamin, Ms 483 (ca. 1939-1940), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, p. 1245; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 91. 173 Cfr. Is., 11, 5 e 26, 10. 174 E. Lévinas, Difficile libertà, cit., p. 97.

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e perciò troppo lentamente»175, se da un lato destabilizza ogni intenzionalità, dall’altro impone di riconoscere e comprendere che il messianico può soltanto sfiorarci, come una tenue carezza che non sa cosa cerca176.

175 W. Benjamin, Zu einer Arbeit über die Schönheit farbiger Bilder in Kinderbücher (1918-1921), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 123-125: 124; tr. it. di G. Schiavoni, Per un lavoro sulla bellezza delle immagini a colori nei libri per l’infanzia, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 119-120: 120. 176 Come, con discrezione, ha affermato J. Derrida, Toccare, Jean-Luc Nancy, cit., p. 106, n. 26, forse «non soltanto la carezza tocca o confina con il messianico», ma essa è «la sola esperienza capace, possibile, significante per l’affioramento del messianico».

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1. Anamorfosi temporali Il tentativo di superare il paradigma gnoseologico fondato sul rapporto fra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto è perseguito da Benjamin fin dalla fine degli anni Dieci. Anzi, in Über das Programm der kommenden Philosophie gli elementi più significativi d’una «metafisica speculativa (ossia rudimentale)» sono individuati in un oltrepassamento non soltanto di una epistemologia fondata sul rapporto fra soggetto e oggetto, ma pure del «rapporto della conoscenza e dell’esperienza con la coscienza empirica»1. In tal senso si mostrerebbe lampante la prossimità di questi assunti con lo scetticismo sotteso alla teoria della riduzione fenomenologica2, se non fosse che, nella riflessione benjaminiana, alla sospensione dell’esistenza del mondo non pare far seguito alcuna riaffermazione del primato della mente incarnata. Dovrebbe infatti considerarsi che mentre per la fenomelogia la soggettività emersa dall’astensione dal giudizio sulla “realtà” del mondo non è affatto un principio astratto, ma ciò che concerne l’uomo, nella sua complessione, situato nel mondo3, in Benjamin essa si mostra, secondo quanto si è osservato 1 Cfr. W. Benjamin, Über das Programm der kommenden Philosophie, cit., p. 161; tr. it. p. 332. 2 F. Dastur, Husserl et le scepticisme, in «Alter», 11, 2003, pp. 13-22. 3 M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945; tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, pp. 22-23. Ma su ciò cfr. altresì S. Gallagher, D. Zahavi, The Phenomenological Mind, Routledge, London-New York 2008; tr. it. di P. Pedrini, La mente fenomenologica, Cortina, Milano 2009, pp. 37-43 e 216-223. Come acutamente ha notato H. Blumenberg, ciò che la fenomenologia ha il compito di osservare è il processo per il

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all’inizio di questo studio, del tutto “impercettibile”. Parimenti, non sembra nemmeno possibile approdare ad una «riduzione» avente, come principio cardine, l’unità di un potere, quale quello messianico, più alto rispetto a quello della coscienza e capace di portare a compimento l’accadere storico, esasperando «la tensione fra la non direzionalità del tempo e l’unidirezionalità della storia»4. Come in precedenza rilevato, l’evento messianico, per il pensatore berlinese, sarebbe connotato da un’intrinseca debolezza, che – si legge in un frammento del 1920 – scandirebbe «il buon ritmo dell’attesa» del Messia5, un ritmo che si accorda con un accadere che è sempre presente ed insieme incessantemente procrastinato nel suo avverarsi, come pure mostra il punto interrogativo posto dopo l’aggettivo “buono” (guten), segno evidente di una insoddisfazione verso l’attributo prescelto, ma soprattutto di un’incertezza rispetto all’evento annunciato come ultimo e divino6. Più in generale, la riduzione trascendentale come metodo che non realizza una mera astrazione della realtà del mondo7, bensì come ciò che permette la dischiusura del «campo» entro cui è possibile lo svolgersi di ogni esperienza, quale relazione, fondata su di una temporalità immanente alla coscienza, fra i diversi quale il soggetto da «egotista autarchico» si dispone a far diventare il suo mondo il mondo e a vedere straniato il suo tempo della vita nel tempo del mondo: «proprio in quanto assoluta, la soggettività assoluta non è sufficiente a se stessa; essa richiede con stringente evidenza un mondo che può procurarsi e portare all’oggettività solo attraverso la soggettività trascendentale» (Id., Lebenszeit und Weltzeit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986; tr. it. di B. Argenton, Tempo della vita e tempo del mondo, il Mulino, Bologna 1996, p. 339). 4 P. Fenves, The Messianic Reduction. Walter Benjamin and The Shape of Time, Stanford University Press, Stanford 2011, pp. 3-4. 5 W. Benjamin, Das Recht zur Gewaltanwendung (1920), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 104-108: 104; tr. it. di H. Riediger, Il diritto di ricorrere alla violenza, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 101-104: 101. 6 P. Bojanić, Violenza e messianismo, tr. it. di G. Petrarca, Mimesis, MilanoUdine 2014, p. 145. 7 Come, invece, sostenuto da M. Heidegger nelle lezioni marburghesi del semestre estivo del 1925: Id., Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, in Id., Gesamtausgabe, Bd. 29, Klostermann, Frankfurt a. M. 1975, pp. 136-157; tr. it. di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, il melangolo, Genova 1999, pp. 124-142. Ma per una più distesa analisi di queste pagine deve vedersi V. Vitiello, Alla radice dell’intenzionalità: Husserl e Heidegger, in Heidegger a Marburgo, a c. di E. Mazzarella, il melangolo, Genova 2006, pp. 127-154.

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vissuti (o atti intenzionali) e l’io vivente8, ove riletta alla luce del dettato benjaminiano, si disarticola non soltanto – come si è già puntualizzato – rispetto alla costituzione intenzionale cui essa apre, ma anche rispetto alla struttura temporale che la determina. In luogo di una temporalità ridotta a pura funzione di colui che vive interiormente, Benjamin afferma la necessità di pensare il tempo come una «forma» «infinita» ed «inadempiuta», conferendo ad essa un connotato non già “trascendentale” nel senso del soggetto, ma, pure rispetto a quest’ultimo, “trascendente”9. Come si legge in Trauerspiel und Tragödie, il tempo è una «forza determinante» che nessun accadere empirico può comprendere e tanto meno raccogliere in se stesso. Esso, essendo del tutto indeterminato empiricamente, costituisce per la storia un compimento ideale. Solo un’idea può compiere il tempo, poiché solo essa ne riesce a comprendere la forma; e tuttavia quest’idea non deve confondersi – avverte Benjamin – con quella d’un tempo individuale, ma piuttosto accostarsi all’idea di tempo che «domina nella Bibbia»10, e dunque ad un’accezione che – secondo il pensiero ebraico – non indica una vuota categoria formale, ma il contenuto del tempo come tale, compreso nella sua «differenziazione qualitativa»11. L’argomentazione benjaminiana allude soltanto a tale Wende der Zeit. In essa si profila il passaggio dal «mondo puro della plasticità temporale nella coscienza» ad un suo «ampliarsi sempre più illimitato ed infinito»12, la cui forma viene a coincidere con quell’informe che contraddice non solo la rappresentazione lineare del tempo, come irreversibile successione di eventi pun8 E. Husserl, Idee zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch, cit., p. 85; tr. it. p. 111. 9 F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, cit., p. 49. 10 W. Benjamin, Trauerspiel und Tragödie, cit., p. 134; tr. it. p. 274. 11 M. Löwy, Rédemption et utopie. Le judaïsme libertaire en Europe centrale, Puf, Paris 1988; tr. it. di D. Bidussa, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 213, che, a sua volta, qui cita da K. Mannheim, Ideology and Utopia, Hartcourt, Brace & Co., New York 1953; tr. it. di A. Santucci, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1999, p. 222. 12 W. Benjamin, Zwei Gedichte von Friedrich Hölderlin (1915), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, pp. 105-126: 120; tr. it. di A. Marietti Solmi, Due poesie di Friedrich Hölderlin, in Opere complete, vol. I, pp. 217-239: 232.

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tuali, ma pure il senso di qualsiasi tentativo di comprendere la percezione temporale interna all’io. Da questo punto di vista l’ambito temporale che Benjamin profila non può identificarsi con un «campo di battaglia», simile a quello che Kafka descrive nella raccolta Er: Ha due avversari: il primo, fin dall’origine, lo incalza alle spalle, il secondo gli impedisce la strada davanti a sé. Lui lotta con entrambi. A rigore, il primo lo sostiene nella lotta col secondo, poiché vuole spingerlo in avanti, e altrettanto lo sostiene il secondo nella lotta col primo, poiché lo ricaccia indietro. Ma così stanno le cose solo in teoria. Non ci sono infatti solo i due avversari, ma anche lui stesso; e chi conosce veramente le sue intenzioni? Ad ogni modo, il suo sogno sarebbe una volta, in un momento senza sorveglianza (certo per questo ci vuole una notte buia come ancora mai ce n’è stata), uscir fuori dalla linea di combattimento e, grazie alla sua esperienza nella lotta, essere innalzato a giudice dei suoi due avversari in lotta fra loro13.

Qui lo scrittore praghese – secondo Hannah Arendt14 – rappresenterebbe lo scontro del passato e del futuro, uno scontro che non sussisterebbe senza una soggettività che opponesse resistenza, poiché solo grazie alla presenza dell’uomo, che possiede un’origine ed una fine, e perciò in ogni istante sussiste in mezzo a loro, si ha quel quotidiano presente, «il più vano e sfuggente dei tempi», che non è altro che uno iato fra un passato che non è più e un futuro che s’avvicina e non c’è ancora. Più propriamente, solo nella riflessione l’io avrebbe contezza delle nozioni di passato e di futuro, dal momento che soltanto nell’atto di pensare egli si astrarebbe da ogni contenuto temporale concreto così come da ogni categoria spaziale. Affrancato dal moto che continuamente trasforma ogni essere in divenire, l’io penso si troverebbe in una lacuna temporale, in un nunc instans di durata sufficiente per dargli la possibilità di uscire dall’agone col tempo e di proporsi come «arbitro, spettatore e giudice fuori dal gioco della vita». 13

F. Kafka, “Lui”, cit., pp. 483-484. H. Arendt, The Life of Mind, Harcourt Brace, New York-London 1978; tr. it. di G. Zanetti, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987, pp. 296-307; Ea., Between Past and Future, Faber & Faber, London 1961; tr. it. di T. Gargiulo, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, pp. 29-37. 14

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Ma laddove tale prospettiva mira a circoscrivere il luogolimite funzionale alla speculazione filosofica nel quale si raccolgono i tempi assenti del non-più e del non-ancora, quanto Benjamin sollecita a pensare è sì un tempo che è «in equilibrio ed è giunto ad un arresto»15, ma, nella sua concezione, tale immobilità non solo non corrisponde ad alcuna meta della storia16, ma essa non può porsi nemmeno a servizio di un dogma speculativo: «dieser Stillstand ist Utopie»17. La radicalità di tale indirizzo è altresì ribadita dalla rivendicazione, espressa da Benjamin fin dai suoi primi scritti, che la filosofia sia sempre volta alla «validità atemporale della conoscenza» in unione con una esperienza fondata su una sfera di «neutralità totale rispetto ai concetti “oggetto” e “soggetto”», quale è quella propria della lingua18. Questa, infatti, non si fonda sulla relazione soggetto-oggetto, né il movimento dell’esperienza può fissarsi in una sua particolare figura; in essa traluce piuttosto la continuità dell’Erfahrung. Come esplicitamente afferma Benjamin: «non vi è evento o cosa nella natura animata o inanimata che non partecipi in qualche modo della lingua»19, poiché è solo in questa che si comunica l’essenza spirituale delle cose, in quanto immediatamente linguistica. Il sottinteso di tale Unmittelbarkeit è dato dal fatto che «la ragion sufficiente per conoscere qualcosa nella sua essenza è la cognibilitas, e questa è, a sua volta, il risvolto 15

W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 702; tr. it. p. 491. Come ha correttamente sostenuto J. Roberts, Walter Benjamin, Macmillan Press, London 1982; tr. it. di G. Mazzon, Walter Benjamin, il Mulino, Bologna 1987, p. 261: «La critica dei processi laici è accentrata [in Benjamin] sul concetto di natura e sul suo mezzo, il tempo. Il muoversi della natura nel tempo non ha […] alcuna destinazione. La fine del tempo non può mai corrispondere alla meta della storia». 17 W. Benjamin, Paris, die Hauptstadt des XIX. Jahrhunderts, cit., p. 55; tr. it. p. 14. 18 W. Benjamin, Über das Programm der kommenden Philosophie, cit., pp. 158 e 163; tr. it. pp. 329 e 334. Per J.-M. Palmier, Walter Benjamin. Le chiffonier, l’Ange et le Petit Bossu, Klincksieck, Paris 2006, p. 436, si evince da questo luogo in modo del tutto inequivoco come Benjamin «segni una rottura completa con le posizioni kantiane, neo-kantiane e fenomenologiche. Al primato del soggetto che non vede nel reale che l’oggetto della sua conoscenza, egli oppone il carattere irriducibile del fenomeno che definisce la verità come un essere senza intenzionalità, che non può ridursi ad una relazione logica o a un oggetto per una coscienza». 19 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., pp. 140-141; tr. it. p. 281. 16

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del suo parlare»20. L’essere causa realis della causa cognoscendi fa della lingua una comunicazione, da intendersi, però, come trapasso continuo del comprendere e del comunicare, sicché, in ultima analisi, ogni lingua non fa che comunicare unicamente se stessa. La negazione di qualsiasi carattere estrinseco alla lingua in sé implica – come Benjamin stesso ammette – il problema fondamentale della teoria linguistica: quel «paradosso profondo ed incomprensibile»21 su cui poggia l’identità comunicativa fra essenza spirituale ed essenza linguistica, e che sembra potersi spiegare solo quale effetto dell’infinità che contraddistingue l’ambito linguistico. La lingua esaurisce se stessa, «poiché essa non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo del non-comunicabile»22. A determinare i suoi confini non sono specifici contenuti verbali. La totalità intensiva del significare trascende ogni specifico uso linguistico, e con esso l’impotenza di ogni sforzo umano di appropriarsi dell’immediatezza che governa l’unità simbolica della pura lingua non ancora perduta nel significato conoscitivo23. Questo ha, quale sua forma, quella del “giudizio” (Urteil) presso cui la immediatezza della lingua «non riposa più beata in se stessa»: il giudizio è «quasi una parodia […] della parola espressamente immediata». Come spiegano alcuni frammenti del 1916-1917, vi è nella 20 H. Schweppenhäuser, Nome/Logos/Espressione. Elementi della teoria benjaminiana della lingua, cit., p. 53. 21 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 141; tr. it. p. 281. 22 Ivi, p. 156; tr. it. p. 295. In una lettera a M. Buber del 17 luglio 1916, Benjamin, in sorprendente sintonia col pensiero di Wittgenstein, ebbe a sostenere che «la purissima eliminazione dell’indicibile nel linguaggio è la forma che ci è data e per noi più naturale, per agire all’interno del linguaggio e in questo senso attraverso di esso» (Id., Gesammelte Briefe, Bd. I, cit., pp. 325-327: 326; tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 23-25: 24). Per un’analisi delle affinità fra Benjamin e Wittgenstein si veda D. Thomä, Benjamin, Wittgenstein. Schwierigkeiten beim Philosophieren gegen den Fortschritt, in Global Benjamin, cit., Bd. 2, pp. 1229-1250, nonché G. Schiavoni, Silenzio e parole a vanvera. Note sulla critica wittgensteiniana, in «Nuova corrente», 72-73, 1977, pp. 184-229, in part. pp. 192 sgg. Più in generale, sull’aporia per la quale «il linguaggio esprime il mondo, ma non può dire il rapporto che ha col mondo», deve vedersi l’importante saggio di E. Melandri, I generi letterari e la loro origine (1980), Quodlibet, Macerata 2014. 23 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 217; tr. it. p. 78; nonché ivi, p. 336; tr. it. p. 196.

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nozione di Urteil un riferimento indiretto all’oggetto, poiché esso vi si rapporta soltanto mediante il concetto, il quale, a propria volta, ha con gli oggetti non già un rapporto intenzionale, ma un rapporto di derivazione: esso «prelude agli enunciati su oggetti originari [Urgegenstände]» e questi enunciati sono quelli propri dei giudizi, i quali non hanno alcuna «univocità»24. Questo, del resto, appare il carattere di ogni lingua post-babelica. Alla molteplicità delle lingue storiche non è infatti accessibile alcuna Eindeutigkeit, se non in via astratta, nella totalità delle sue intenzioni: in quella pura lingua che rappresenta lo «stadio ultimo, definitivo e decisivo di ogni formazione linguistica»25, e che, come tale, occupa una dimensione del tutto sovrastorica. All’opposto, le singole lingue o, meglio, ciò che da esse è voluto dire – l’“inteso” (das Gemeinte) – si colloca in un continuo, cangiante divenire che tende verso il tempo dell’integrale attualità messianica26. Se si volesse tradurre secondo categorie grammaticali questa declinazione del tempo delle lingue storiche sarebbe tuttavia errato fare ricorso all’immagine d’una linea proiettata verso la loro fine messianica. Tale immagine, come ogni altra che volesse sviluppare al massimo grado «il panoramismo del tempo» peccherebbe infatti di eccessiva perfezione. Come acutamente ha notato Gustave Guillaume27, essa presenta un tempo già costruito nel 24 W. Benjamin, fr. 3 e fr. 4 (1916-1917), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 11-14 e 14-15 passim; tr. it. di G. Schiavoni, fr. 3 e fr. 4, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 112-115 e 116-117 passim. 25 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, cit., p. 14; tr. it. p. 505. 26 Ivi, p. 14; tr. it. p. 505. Come ha recentemente osservato V. Vitiello, «se nella prospettiva escatologica il continuo divenire delle lingue storiche ha come mèta ultima la rivelazione piena dell’essenza della lingua, ove ogni “inteso” si libererà della sua finitezza nell’universale “armonia” della lingua pura, dal punto di vista del tempo mondano, invece, l’infinità del meinen resta sempre vincolata alla finita determinatezza del Gemeinte» (Id., L’immagine infranta. Linguaggio e Mondo da Vico a Pollock, Bompiani, Milano 2014, p. 171). 27 Ci si riferisce in particolare al saggio di G. Guillaume, Temps et verbs. Théorie des aspects, des modes, et des temps, Champion, Paris 1929; tr. it. di A. Manco, Tempo e verbo. Teoria degli aspetti, dei modi e dei tempi, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, Napoli 2006, pp. 29-30. Per un primo inquadramento sull’opera di quest’eminente linguista, allievo di Antoine Meillet e collega di Émile Benveniste, deve vedersi A. Martone, Presentazione a G. Guillaume, Principi di linguistica teorica, Liguori, Napoli 2000, pp. XI-XX ; nonché, per i temi qui direttamente affrontati,

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pensiero, laddove l’analisi, se volesse essere coerente e rigorosa, dovrebbe richiedere che si veda il tempo mentre esso si costruisce nel pensiero. Da questo punto di vista, al fine di corrispondere in modo compiuto a quello che Benjamin definisce come «sacro sviluppo delle lingue [heilige Wachstum der Sprachen]»28, dovrebbe svolgersi una descrizione genetica dell’immagine-tempo, la quale abbia, come presupposto, il fatto che il pensiero impegnato in attività di linguaggio non può non richiedere un tempo reale, e dunque, ancorché molto breve, non infinitamente breve. Ne deriva la necessità di rendere la rappresentazione cronogenetica del tempo in forma non già lineare, bensì tridimensionale, in quanto contraddistinta da tre diversi istanti – iniziale, mediano e finale – nei quali si compie il trapassare da un’immagine che il pensiero è solo potenzialmente in grado di realizzare (tempo in posse) ad un’altra che presenta la formazione della cronogenesi nella mente (tempo in fieri), ad un’ultima corrispondente all’immagine-tempo definitivamente compiuta (tempo in esse). Il tutto, considerato nel suo insieme, esprime tre profili caratteristici della formazione dell’immagine-tempo nella sua funzione cronotetica29. Tuttavia, che la temporalità si produca nell’enunciazione e attraverso l’eunciazione implica necessariamente la sussistenza d’un tempo operativo occorrente alla mente per realizzare un’immagine-tempo30. In ogni contesto enunciativo occorre pertanto registrare una non contemporaneità fra la enunciazione e il suo presente enunciativo ed insieme, se è vero che ogni atto di parola è consustanziale alla nostra esistenza, fra l’enunciazione Id., Fra Guillaume e Benveniste. Considerazioni in margine al Presente non-temporale, in «Studi filosofici», 1996, pp. 245-266. 28 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, cit., p. 14; tr. it. p. 505. 29 G. Guillaume, Tempo e verbo, cit., p. 32. 30 Cfr. G. Guillaume, Thèmes de présent et système des temps français. Genèse corrélative du présent et des temps (1937), in Id., Langage et science du langage, Nizet, Paris 1964, pp. 59-72: «In ogni questione linguistica che ha da fare col tempo, è necessario distinguere fra il movimento del tempo nel pensiero, e il movimento del pensiero nel tempo. Il pensiero è il luogo di definizione del tempo, ma il tempo è il luogo di azione del pensiero» (Ivi, p. 60, n. 8). Ma su ciò si fa rimando alle osservazioni di J.-M. Barbéris, Instant du loquor, instant du dire, instance de discours: du temps au sujet, in «Cahiers de praxématique», 51, 2008, pp. 87-110, in part. pp. 88-94.

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ed il soggetto ad essa «coestensivo»31. Se è nel linguaggio e per suo mezzo che l’uomo si costituisce come soggetto32, è altresì vero che il tempo linguistico non coincide mai con il tempo fisico. L’atto elocutivo si inserisce in quest’ultimo, creando uno «spazio temporale»33 coincidente con l’istanza della enunciazione. Il presente, in rapporto al quale si definiscono il passato ed il futuro, non indicherebbe dunque un lasso di tempo oggettivo, ma un momento sempre nuovo entro cui di volta in volta si colloca il locutore 34. In quest’ottica l’unica possibilità di una «storicizzazione biografica», ovvero dell’instaurazione di un soggetto entro una storia, sarebbe offerta dal processo di attualizzazione della lingua nel discorso35. A ben vedere, che al di fuori dell’atto di enunciazione sia impossibile qualsiasi esperienza umana del tempo implica però non soltanto uno scarto del linguaggio e del pensiero che ne è azione rispetto al tempo fisico36, ma anche rispetto alla presenza a sé del soggetto, poiché questo, non preesistendo al linguaggio né filogeneticamente né ontogeneticamente37, condividerebbe in modo costitutivo analogo ritardo. 31 Cfr. É. Benveniste, L’appareil formel de l’enonciation (1970), in Id., Problèmes de linguistique générale II, Gallimard, Paris 1974; tr. it. di F. Aspesi, L’apparato formale dell’enunciazione, in Problemi di linguistica generale II, il Saggiatore, Milano 1985, pp. 96-106: 101. 32 Al riguardo sia concesso rimandare a L’oblio del linguaggio, Guerini, Milano 2007, in part. pp. 17-23. 33 A. Ono, La notion d’énonciation chez Émile Benveniste, Lambert-Lucas, Limoges 2007, p. 156. 34 É. Benveniste, De la subjectivité dans le language (1958), in Id., Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966; tr. it. di M.V. Giuliani, La soggettività del linguaggio, in Problemi di linguistica generale, il Saggiatore, Milano 1994, pp. 310-320: 315: «Il Dictionnaire général definisce il “presente” come “il tempo del verbo che esprime il tempo in cui si è”. Ma, attenzione, non abbiamo altro criterio né altra espressione per indicare “il tempo in cui si è”, se non prenderlo come “il tempo in cui si parla”. È questo il momento eternamente “presente”, sebbene non si riferisca mai agli stessi eventi di una cronologia “oggettiva”, poiché è determinato per ogni parlante da ognuna delle situazioni di discorso che vi si riferisce». 35 A. Bondì, L’enunciazione e le soggettività in Émile Benveniste, in «Le Forme e la Storia», 2, 2009, pp. 147-163: 151. 36 Cfr. É. Benveniste, Le langage et l’expérience humaine (1965), in Id., Problèmes de linguistique générale II, cit.; tr. it. di F. Aspesi, Il linguaggio e l’esperienza umana, in Problemi di linguistica generale II, cit., pp. 83-95, in part. pp. 89-90. 37 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., pp. 143; tr. it. p. 283: «L’uomo comunica la propria essenza spirituale nella sua lingua».

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Ne deriverebbe la impossibilità di una storicizzazione dell’uomo che non sia, se non «falsata», certamente «incompleta»38. D’accordo con il principio metodologico che vuole una dottrina esposta legittimamente soltanto nella forma dell’interpretazione, poiché in questa vengono in luce connessioni che sono atemporali, pur non mancando di rilevanza storica39, Benjamin sembra sviluppare il significato di tale incompletezza, mostrandone le cruciali conseguenze. L’impossibile coincidenza di pensiero del tempo e rappresentazione del tempo influisce infatti anche sul senso da attribuire all’esperienza come Erfahrung. Se il rapporto del soggetto a sé nel suo essere presente non può che scontare un ritardo, pure il rapporto della coscienza ad un passato che la costituisce senza appartenerle si pone, per il pensatore berlinese, sotto il segno di una incongruenza fra il passato e la sua possibilità di restaurarlo nel ricordo. Emblematico della crasi fra Erinnerung e passato è l’impasse cui va incontro – come esemplarmente mostrerebbe l’opera di Proust40 – ogni tentativo di rievocare, attraverso la memoria epica, il tempo preterito. Sorgendo dal corto circuito fra passato e coscienza d’essere presente, l’Erfahrung sembra determinarsi unicamente come choc a cospetto del quale ogni proposito della riflessione di contrapporvisi quale forza ordinatrice si risolve in una riduzione dell’esperienza a puro evento contingente, avente sì un’esatta collocazione temporale nella coscienza, ma «a spese della integrità del suo contenuto»41. 38 É. Benveniste, Remarques sur la fonction du langage dans la découverte freudienne (1956), in Id., Problèmes de linguistique générale, cit.; tr. it. di M.V. Giuliani, Note sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana, in Problemi di linguistica generale, cit., pp. 93-106: 96. 39 W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. II, cit., pp. 390-394: 393; tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 70-73: 72 (lettera a F.C. Rang del 9 dicembre 1923). C. Rosen correttamente ha puntualizzato come per Benjamin la filologia rappresentasse la illustrazione, elemento per elemento, del significato storico di un’opera; laddove la teoria poteva essere presentata solo indirettamente, a meno che non fosse già dottrina, e quindi non fosse già consacrata dalla tradizione ed avesse acquisito l’autorità della codificazione storica (Id., Benjamin e l’autonomia dell’opera d’arte, in «Comunità», 179, 1978, pp. 135-178: 174). 40 Cfr. W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire, cit., pp. 610-611; tr. it. pp. 380-381. 41 Ivi, p. 615; tr. it. p. 385.

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La sfasatura che il soggetto conosce rispetto non solo al presente, ma pure al passato si rifletterebbe del resto nella stessa critica portata da Benjamin alla Lebendsphilosophie. Questa, nell’interrogarsi sulla biografia, quale medium in una «connessione produttiva» fra quanto è stato vissuto e sperimentato e quanto, come vissuto, ha avuto una intensità così particolare nella vita d’un autore da acquistare un significato permanente pressoché indistinguibile dalla sua opera, tende a connotare ogni momento della vita al modo d’un concetto gnoseologico, ravvisando nell’Erlebnis non più qualcosa di instabile e provvisorio nel flusso della vita della coscienza, ma un principio unitario, un’unità significante conchiusa, garantita nella sua autenticità dal ricordo42. Per Benjamin, invece, occorre porre uno iato fra vita ed opera, e non perché il ricordo – come osservato – non ha alcun significato stabile in relazione al tempo che si propone di evocare, sicché ogni presupposto epistemologico di ispirazione (auto-)biografica non può che venire meno, o perché ogni analogia si voglia stabilire fra vita ed opera suona falsa nel suo tanto astratto quanto velleitario ricorso a quella “memoria monumentale” capace unicamente di restituire forme che sfumano nell’indistinto e «nell’ermafroditico»43, bensì perché l’opera reca sempre in sé, come tratto essenziale, lo stigma di una catastrofe della quale non si riesce mai ad avere ragione. Contrariamente alle letture che mirano a comprendere l’opera come indissolubilmente legata alla vita44, per Benjamin si dovreb42

Cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, cit., pp. 86-98. W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 162; tr. it. p. 554. 44 Si veda il saggio di W. Dilthey, Goethe und die dichterische Phantasie (1906), in Id., Das Erlebnis und die Dichtung, Teubner, Leipzig 1922; tr. it. di N. Accolti Gil Vitale, Goethe e la fantasia poetica, in Esperienza vissuta e poesia, il melangolo, Genova 1999, pp. 175-268, in part. pp. 179-181. Ma il riferimento principale dei rilievi critici di Benjamin, nel saggio sulle Wahlverwandtschaften, sì come nella Bemerkung del 1917, ora in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., pp. 826-828; tr. it. di A. Moscati, Nota su Gundolf: Goethe, in Opere complete, vol. I, cit., pp. 324-326, è la biografia di F. Gundolf, Goethe, Verlag Bondi, Berlin 1916; tr. it. di M. Attardo Magrini, Goethe, Istituto editoriale italiano, Milano 1945, nella quale – ricorda Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 89, n. 4 – si osserva un ulteriore sviluppo del concetto di Erlebnis attraverso «la distinzione fra Ur-Erlebnis (esperienza originaria) e Bildungserlebnisse (esperienze culturali)». Ma su questo cfr. J. Roberts, Walter Benjamin, cit., pp. 156-160. 43

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be riconoscere che le «occasioni poetiche» sono in realtà del tutto irrelate all’«esperienza vissuta [Erlebnis]», di cui non possono che essere l’esatto opposto45. L’opera pertanto rappresenterebbe la pratica attraverso la quale il soggetto tenta di sovvertire le forze dislocatrici che, con mitica cogenza, gli si impongono nella sua temporalità vivente. Ma tale pratica, che il gesto critico, proponendosi d’indagare la segreta intenzione dell’opera, conduce a compimento, si rivela del tutto inane a trovare la conciliazione del soggetto con la bestimmende Kraft temporale. La potenza critica – scrive Benjamin – riduce l’opera «al torso di un simbolo»46, potendo essa solo così corrispondere in maniera compiuta all’economia temporale che innerva l’opera stessa, nel suo scandirsi unicamente nell’«occasione [Gelegenheit]»47. Attraverso la combinazione di due elementi: «la glossa» e soprattutto «la citazione»48, in quanto strumento stilistico-teorico volto – lo si è mostrato – a descrivere ostensivamente la crono-logia interna dell’opera, l’esercizio critico cerca di porre in luce il perenne differimento da cui essa è connotata rispetto alla forma del tempo come tale. In tal senso il carattere micrologico proprio dell’ermeneutica benjaminiana risponde all’esigenza di riconoscere la «vita delle opere»49 come del tutto estranea a qualsiasi totalità assoluta50, ma non per questo scissa dall’esperienza personale dell’autore di cui l’opera 45 W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 166; tr. it. p. 558. Sul saggio goethiano del 1922 si veda l’articolata lettura proposta da B. Moroncini, Dialettica e rinuncia. Sulle Goethes Wahlverwandtschaften (1993), in Id., La lingua muta, cit., pp. 109-142; nonché F.A. Scrignoli, La vita oltre l’opera. I concetti della Kunstkritik di Walter Benjamin (1919-1925), Artemide, Roma 2014, del quale, in riferimento all’interpretazione di Benjamin della Lebensphilosophie, dovranno specialmente vedersi le pp. 141-158. 46 W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 181; tr. it. p. 571. 47 Ivi, p. 166; tr. it. p. 558. 48 Cfr. W. Benjamin, Programm del literarischen Kritik (1929-1930), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, pp. 161-167: 162; tr. it. di F. Boarini, Programma della critica letteraria, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 157-163: 158. 49 W. Benjamin, Kritik als Grundwissenschaft der Literaturgeschichte (19301931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, pp. 173-174: 174; tr. it. di F. Boarini, La critica come scienza fondamentale della storia letteraria, in Opere complete, vol. VIII, cit., p. 170. 50 A questo proposito un interprete avvertito come H. Kaulen, Rettung und Destruktion. Untersuchungen zur Hermeneutik Walter Benjamins, cit., pp. 175-177, ha definito l’esercizio critico praticato da Benjamin come una «negative Hermeneutik».

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raccoglie l’assoluta Unzeitigkeit. Una “non-tempestività” rispetto alla quale il critico, a sua volta, tende a prendere posizione ed a riflettersi, facendo sì che una mise en abyme regoli un certo ordine di composizione del suo discorso. Tale sfasatura, che misura dal lato dell’interprete lo scarto temporale intrinseco all’opera, fa sì che «l’eternità delle opere non coincid[a] assolutamente con il loro durare restando vive», ma sia «un processo vivente nella interiorità»51 stessa dell’opera. Questa non deve museificarsi, escludendo che il critico abbia con essa «un rapporto vivo e diretto»52, bensì, all’opposto, deve sussistere nel medium delle sue interpretazioni. Non si tratta, tuttavia, di sviluppare molteplici dimensioni potenzialmente presenti nell’opera stessa. Occorre piuttosto considerare che il supplemento di tempo che contraddistingue l’opera rende il contenuto di verità in cui è impegnata la ricerca ermeneutica sempre più autonomo da ogni contenuto fattuale, sino al punto da escludere qualsiasi contemporaneità, in favore di una presa di distanza capace di rendere l’essenza dell’opera tanto più perspicua quanto più lo sguardo dell’interprete sia lontano nel tempo. Gli elementi contingenti – puntualizza al riguardo Benjamin – costituiscono la «condizione preliminare» dell’analisi di un’opera53; ciò che segue deve dimenticarli, onde cogliere l’«aura» che la circonda54. La nozione di “aura” alla quale qui si allude richiama un concetto al quale Benjamin, nel corso degli anni Trenta, fa più volte richiamo. Se nel saggio Kleine Geschichte der Photographie, l’aura è definita come «un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza per quanto possa essere vicina»55, nel successivo Über einige Motive bei Baudelaire, 51 W. Benjamin, E.T.A. Hoffmann und Oskar Panizza (1930), in Id. Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 2, pp. 641-448: 641-642; tr. it. di G. Schiavoni, E.T.A. Hoffmann e Oskar Panizza, in Opere complete, vol. IV, pp. 85-91: 85-86. 52 Cfr. T.W. Adorno, Valéry Proust Museum (1953), in Id., Prismen, cit.; tr. it. di A. Burger Cori, Valéry, Proust e il museo, in Prismi, cit., pp. 175-188: 175. 53 W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 125; tr. it. p. 523. 54 Cfr. W. Benjamin, Die Aufgabe der Kritikers (1931), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, pp. 171-172: 171; tr. it. di F. Boarini, Il compito del critico, in Opere complete, vol. VIII, cit., pp. 167-168: 167. 55 W. Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie, cit., p. 378; tr. it. p. 485. Ma analogo passo è riprodotto in tutte e tre le versioni di Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit: in quella manoscritta (Erste Fas-

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essa viene fatta coincidere con l’esperienza che conferisce ad una cosa la capacità di restituire lo sguardo che su di essa si è posato56. Un’accezione, questa, che un manoscritto intitolato programmaticamente Was ist aura? precisa assimilando l’esperienza dell’aura ad un «trasferimento [Übertragung]» di una reazione consistente in uno scambio di sguardi. L’esperienza dell’aura riposa sul trasferimento di una forma di reazione normale nella società al rapporto della natura con l’uomo. Chi è guardato o si crede guardato || leva lo sguardo || risponde con uno sguardo. Fare esperienza dell’aura di un fenomeno o di un essere significa accorgersi della sua capacità di || levare || rispondere con lo sguardo57.

Nella sua quasi criptica densità, il dettato benjaminiano connota qui il fenomeno dell’aura come uno scambio vicendevole fra due soggetti, che, a propria volta, rispetto all’oggetto della percezione, fa apparire quest’ultimo da una lontananza indeterminabile, che da un lato attrae lo sguardo che su di essa è rivolto

sung, secondo la titolazione delle Gesammelte Schriften), probabilmente risalente al settembre-ottobre 1935, ricostruita dai curatori delle Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 2, pp. 431-469: 440; nell’Erste Fassung (rectius Zweite Fassung dell’ed. tedesca) (1936), cit., p. 355; tr. it. p. 275; nella Zweite Fassung (rectius Dritte Fassung dell’ed. tedesca) (1939), in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 2, pp. 471-508: 479; tr. it. di E. Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (seconda stesura), in Opere complete, vol. VII, cit., pp. 300-331: 306. Sulla genesi di quest’opera e sulla sua vicenda editoriale, si veda M. Baldi, Nota al testo, in W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-1939), a c. di F. Desideri, Donzelli, Roma 2012, pp. XLVII-LX. 56 W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire, cit., p. 647; tr. it. p. 410. 57 W. Benjamin, Was ist aura?, manoscritto inedito, rinvenuto presso la Bibliothèque nationale di Parigi nel 1981 da G. Agamben (Cfr. G. Agamben, Un importante ritrovamento di manoscritti di W. Benjamin, in «aut-aut», 189-190, 1982, pp. 4-6) ed ora custodito presso il Walter Benjamin Archiv di Berlino con la segnatura WBA, III, 264. Una fotoriproduzione di questo manoscritto, di incerta datazione, ma al quale Benjamin sembrerebbe riferirsi in una lettera ad Alfred Cohn del 17 novembre 1937 (ora in Id., Gesammelte Briefe, Bd. V, pp. 605-607: 607), dove rivela di aver trovato «la a lungo cercata definizione materialistica dell’“Aura”», si rinviene in Walter Benjamins Archive. Bilder, Texte und Zeichen, hrsg. v. Walter Benjamin Archiv, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2006, p. 40. La traduzione di G. Agamben, Che cos’è l’aura?, in W. Benjamin, Charles Baudelaire, cit., pp. 25-26: 25 è stata condotta su una trascrizione allo stato indisponibile.

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e dall’altro lo priva di ogni intenzionalità58. Estranea a qualsiasi esoterismo59, l’aura, per Benjamin, dovrebbe intendersi come una «cornice di immagini sfumate» che rende lontano ciò che è vicino, dislocando spazio-temporalmente, in modo reciproco, il soggetto percipiente ed il perceptum60. Ne discende che qualora si trascorra in un ambito criticoermeneutico, la percezione da parte dell’interprete dell’aura che circonfonde il proprio oggetto di studio determina una «trasformazione [Umbildung]» che «mortifica»61 l’opera, ossia muta i dati storici che la caratterizzano e con essi qualsiasi elemento contingente, determinando un progressivo affievolimento d’ogni suo contenuto, in un apparire che si rende visibile solo attraverso il suo crepuscolo. Avvertire l’aura significa dunque ricavare 58 Cfr. C.-C. Härle, Nascita dello sguardo. A proposito del frammento benjaminiano Che cos’è l’aura?, in Walter Benjamin. Testi e commenti, cit., pp. 105-117: 113. 59 Cfr. W. Benjamin, Haschisch Anfang März 1930, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 587-591: 588; tr. it. di G. Backhaus, Haschisch ai primi di marzo del 1930, in W. Benjamin, Sull’haschisch, Einaudi, Torino 2010, pp. 87-92: 88. Mette conto comunque ricordare che per J. Fürnkäs, Aura, in Benjamins Begriffe, cit., Bd. I, pp. 95-146, in part. p. 104, come per W. Fuld, Die Aura. Zur Geschichte eines Begriffes bei Benjamin, in «Akzente», 26, 1979, pp. 352-370, in part. p. 359, le prime occorrenze nei testi benjaminiani (cfr., ad es., W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 192; tr. it. p. 581) del termine “aura” non possono non ricondursi all’influenza esercitata sul pensatore berlinese dalle opere di R. Steiner, A. Schuler e L. Klages. A tale ultimo riguardo si veda altresì B. Chitussi, Immagine e mito. Un carteggio tra Benjamin e Adorno, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 131-135; nonché M. Bratu Hansen, Benjamin’s Aura, in «Critical Inquiry», 2, 2008, pp. 336-375, in part. pp. 362-369. 60 W. Benjamin, Kurze Schatten (II) (1933), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV, t. 1, cit., pp. 425-428: 427; tr. it. di G. Schiavoni, Ombre corte (II), in Opere complete, vol. V, cit., pp. 433-436: 435. Il che, a ben vedere, andrebbe interpretato come un’estensione del valore cultuale che – secondo Benjamin – connota originariamente l’aura, in quanto «satura di contenuto storico» (Cfr. Bibliothèque nationale, Paris, fondo W. Benjamin, 3, 20, ora in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. VII, t. 2, p. 677; tr. it. di G. Quadrio Curzio, Sull’opera d’arte nell’epoca, in Opere complete, vol. VII, cit., p. 339), ossia quale orizzonte antropologico donde emergono le configurazioni storiche nel loro differenziarsi diacronico e sincronico. Ma al riguardo si veda F. Desideri, I Modern Times di Benjamin, in W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-1939), cit., pp. VII-XLV, in part. pp. XXXII-XL. 61 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 358; tr. it. p. 217-218.

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dalle impressioni più fugaci immagini ed estratti che si impara a conoscere quando i sogni sostituiscono il sonno e il “tutto è sparito” si mostra. In tal senso – osserva Benjamin – percepire l’aura di un’opera vuol dire poterla «dimenticare»62 nella sua materialità significante, onde “leggere fra le righe” (herauslesen), percependo le «configurazioni» alle quali danno luogo le «corrispondenze immateriali» che l’attraversano63 : quell’intreccio di voce figurata, icona sonora e «tonalità affettiva [Gefühlston]»64, che coincide – si legge in un manoscritto della fine degli anni Trenta – con una lingua «che non è mai stata scritta», ma che è «alla base del libro della vita»65. L’immagine del “Buch des Lebens” di cui si legge in questa pagina, fra le ultime di Benjamin, richiama alla mente la Besprechung, risalente al 1917, dedicata all’Idiot di Dostoevskij. In questa, così come – per Benjamin – in ogni capitale opera di letteratura, il carattere fondamentale della vicenda narrata sarebbe rappresentato da un episodio della vita del protagonista, il principe Myškyn66. Anzi, il romanzo dostoevskijano sembrerebbe propriamente fungere da libro della vita del suo protagonista, colta nel suo significato simbolico quale vita immortale. Nondimeno, la vita immortale non ha qui – precisa Benjamin – il 62

W. Benjamin, Die Aufgabe der Kritikers, cit., p. 171; tr. it. p. 167. Come ricorda G. Scholem, già fra il 1918 e il 1919, Benjamin pensava alla percezione come «ad una lettura delle configurazioni della superficie piana» (Id., Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, cit., p. 104). Ma su ciò si fa rimando a S. Bernofsky, Lesenlernen bei Walter Benjamin, in Übersetzen: Walter Benjamin, hrsg. v. C.L. Hart Nibbrig, cit., pp. 268-279. 64 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, cit., p. 17; tr. it. p. 508. 65 W. Benjamin, Ms. 470 (1938-1940 ?), cit., p. 1238; tr. it. p. 84. L’espressione «Leggere quello che non è mai stato scritto [Was nie geschrieben wurde, lesen]» è citazione da H. von Hofmannsthal, Der Tor und der Tod (1893), in Id., Gesammelte Werke: Gedichte und Dramen I, Fischer, Frankfurt a. M., pp. 279298: 298, che ricorre non solo nel menzionato manoscritto, ma pure alla fine del saggio del 1933 Über das mimetische Vermögen, cit., p. 213; tr. it. p. 524, e fra gli esergo della sezione M, dedicata al flâneur, del Passagenwerk, cit., p. 524; tr. it. p. 465. 66 W. Benjamin, “Der Idiot” von Dostoevskij (1917), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 237-241; tr. it. di A. Marietti Solmi, “L’Idiota” di Dostoevstij, in Opere complete, vol. 1, cit., pp. 305-308. La convizione benjaminiana che «le maggiori opere letterarie si dispieghino attraverso problemi personali» è testimoniata da Ch. Wolff, On the Way of Myself, cit., p. 196. 63

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significato che le è abitualmente attribuito, e secondo cui essa è destinata a perdurare oltre la naturale consunzione fisica. «Del principe Myškyn si può dire che la sua persona resta indietro [zurücktritt] rispetto alla sua vita, come il fiore rispetto al suo profumo o la stella rispetto al suo scintillio»67. La sua vita è insomma immortale, in quanto essa esige di restare indimenticabile quand’anche nessuno la ricordasse. L’“esigenza”– è stato giustamente rilevato – non indica una categoria logica. Essa rappresenta l’articolazione del pensiero e della realtà, o, meglio, la voce media che non coincide né con il quod est né con il quid est, bensì con il come, quale origine delle modificazioni68. In tal senso, nel commento all’Idiot, l’esigenza propria della vita indimenticabile si sostiene debba essere colta nel suo «sempre più mosso dispiegarsi nell’infinito, che tuttavia non si esaurisce»69, indicando così, quale sua più autentica dimensione, non già quella rappresa in uno schema determinato, quanto quella espressa da una configurazione mutevole, fluida. Del resto, tale “ritmo”70 si accorda con lo scandirsi della vita, nella sua immortale indimenticabilità, quale modo che le è proprio71, secondo una temporalità che – lo si è osservato – non può che conoscere, rispetto all’ora presente, uno scarto temporale. Ma esso parimenti si accorda con la «forma» dell’opera, la quale, ove non voglia che la vita cessi di fluttuare in essa cristallizzandosi, sembra doversi negare all’espressione72. La vita dovrebbe anzi apparire dal punto di vista dell’opera «come negativa [als negativ]»73, poiché qual67

W. Benjamin, “Der Idiot” von Dostoevskij, cit., p. 239; tr. it. p. 307. G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Verona 2014, p. 220. 69 W. Benjamin, “Der Idiot” von Dostoevskij, cit., p. 239; tr. it. p. 306 (tr. modificata). 70 Nell’accezione conferita al termine “ritmo” da É. Benveniste nel suo studio La notion de “rythme” dans son expression linguistique (1951), in Id., Problèmes de linguistique générale, cit.; tr. it di M.V. Giuliani, La nozione di “ritmo” nella sua espressione linguistica, in Problemi di linguistica generale, cit., pp. 390-399, e dunque come «la forma improvvisata, momentanea, modificabile» (Ivi, p. 396). 71 Come può trarsi già da I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 186; tr. it. p. 184, il “modo” «non è una sostanza né un fatto puntuale, ma una serie infinita di oscillazioni modali, attraverso le quali ogni volta la sostanza si costituisce e si esprime» (G. Agamben, L’uso dei corpi, cit., p. 223; dovrà comunque vedersi l’intero capitolo, Per un’ontologia modale, pp. 192-227). 72 Cfr. W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 181; tr. it. p. 571. 73 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 284; tr. it. p. 145. 68

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siasi sustruzione concettuale che intendesse esporla riportandola ad una evidenza rappresentativa la irrigidirebbe in un concetto. La vita, nella prospettiva indicata da Benjamin, sarebbe pertanto nozione destinata a non doversi mai incontrare in quell’astrazione che implica un concreto esser-dato. Ma affinché la vita resti estranea al rimando ad una ontologia materiale insito in ogni ontologia formale74, parrebbe quanto mai necessario ch’essa fosse evinta esclusivamente dall’immanenza stessa dell’opera nel suo sviluppo critico-ermeneutico. Il continuo esercizio interpretativo, tratto distintivo delle medesime Schriften benjaminiane, darebbe infatti luogo alla soppressione di ogni «aberrante totalità assoluta», portando a compimento l’opera per mezzo della sua riduzione ad un “pezzo”, ad un frammento75. Più propriamente, se – giusta una felice osservazione di Adorno – la peculiare prassi ermeneutica di Benjamin ha a modello la tradizione della interpretazione ebraica della Bibbia76, occorre riconoscere che, al pari di quest’ultima, essa non assume il tutto in modo sincronico e sintetico, ma, così come la Machloqet77, tutto destabilizza e pone in questione. Non a caso lo stesso genere – quello saggistico – prescelto da Benjamin per la sua opera – secondo quanto si è rilevato nel corso di questo studio – sfugge a qualsiasi rappresentazione strettamente sincronica, così come a qualsiasi unità finalmente raggiunta, disperdendosi in una folgorante esplosione. L’opera di Benjamin non sarebbe, dunque, una rovina, poiché essa non coincide con ciò che resta di una dissoluzione78, ma con ciò che si pone sotto il nome stesso di dissoluzione. È 74 Si veda al riguardo E. Lévinas, De Dieu que vient à l’idée, Vrin, Paris 1982; tr. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1983, p. 183, che a giusta ragione indica nella riflessione fenomenologica di Husserl l’ambito nel quale si intuisce con la maggiore perspicuità possibile come il categoriale implichi necessariamente una dato sensibile e che quindi «l’idea di verità come presa sulle cose abbia un senso non-metaforico». 75 W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 181; tr. it. p. 571. 76 T.W. Adorno, Introduzione agli “Scritti” di Benjamin, cit., p. 249; ma analogamente si esprime H. Arendt, Walter Benjamin, cit., p. 16. 77 Per cui si veda M.-A. Ouaknin, Le livre brûlé. Philosophie du Talmud, Lieu Commun, Paris 1993; tr. it. di E. Zevi, Il libro bruciato. Filosofia della tradizione ebraica, ECIG, Genova 2000, in part. pp. 209-214. 78 B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., p. 396; Id., Il lavoro del lutto, cit., pp. 135-136.

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infatti soltanto «nell’Auflösung che tutto ciò che umano diventa fenomeno»79 – si afferma nel saggio dedicato alle Wahlverwandtschaften – lasciando nondimeno da pensare il significato da attribuire alla parodossalità d’un fenomeno che sorge là dove si impone una Erlösung dall’apparenza: «possibilità dell’impossibile [Möglichkeit des Unöglichken]», per la quale il pensiero sembrerebbe chiamato a dover bandire ogni onirismo, senza tuttavia tradirlo80. Il mantenersi su questo crinale implica assegnare all’opera ed al suo stesso oggetto uno statuto ambiguo, per il quale essa è e non è ad un medesimo tempo. Ma tale duplicità, che primariamente si rivelerebbe dall’esame eidetico di ogni opera, a partire proprio da quella benjaminiana, così come dall’“analisi fisiognomica” dell’autore berlinese (nel senso soggettivo ed oggettivo del genitivo), appare invero costitutiva della stessa Ursprung che segna il limine fra il fenomeno e la sua ombra. 2. Teleologia senza scopo finale Come mostra la Vorrede alla dissertazione sul dramma barocco, l’origine non indica un prius da cui prendono a generarsi i fenomeni: «l’origine non emerge dalla pura entità di ciò che è oggettivo, ma concerne la pre- e la post-storia dell’oggettività»81. In Benjamin, come in Nietzsche, la nozione di Ursprung, non coicide con «“lo stesso” di un’immagine esattamente adeguata a sé»82, ma al contempo essa «non ha nulla in comune con la 79

W. Benjamin, Goethes Wahlverwandtschaften, cit., p. 131; tr. it. p. 528. T.W. Adorno, Profilo di Walter Benjamin, cit., p. 247, che qui ricorda specialmente i contenuti del saggio benjaminiano Traumkitsch (1926), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 2, cit., pp. 620-622; tr. it. di G. Carchia, Kitsch onirico, in Opere complete, vol. II, cit., pp. 378-380. Sulla scorta di questa pagina di Adorno, J. Derrida ha a sua volta rilevato che la riflessione benjaminiana invita a «risvegliarsi, coltivare la veglia e la vigilanza pur restando attenti al senso, fedeli agli insegnamenti e alla lucidità di un sogno, avendo cura di quel che il sogno ci dà da pensare» (Id., Fichus, Galilée, Paris 2002; tr. it. di G. Berto, Il sogno di Benjamin, Bompiani, Milano 2003, p. 17). 81 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 226; tr. it. p. 86 (tr. modificata). 82 M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire (1971), in Id., Dits et écrits, vol. 2, Gallimard, Paris 1994; tr. it. di A. Fontana, P. Pasquino e G. Procacci, 80

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genesi [Entstehung]»83, con la processione del finito dall’infinito. L’Urprung messa a tema da Benjamin non sembra infatti inquadrabile entro un paradigma emanazionistico al quale si potrebbe essere indotti a riportarla, se, a fronte della sua estraneità al piano dell’oggettività e insieme della sua configurazione ideale, si interpretasse tale carattere ancipite nei termini di una dialettica di matrice hegeliana e quindi neo-platonica84 capace di garantire l’autenticità di un elemento fattuale a condizione ch’esso rechi in sé lo stigma dell’originario. Una tale lettura implicherebbe un movimento di separazione dall’origine verso ciò che ad essa è esterno del tutto contrario alla duplice cadenza che, per l’autore berlinese, governa l’originario e in ragione della quale esso deve intendersi come «restaurazione [Restauration]», «ripristino [Wiederstellung]» e al contempo «come qualcosa di imperfetto [Unvollendetes] e di inconcluso [Unabgeschlossenes]»85. Proprio il tentativo di delucidare tale contromovimento ha suggerito di scorgere un’affinità fra la nozione di “origine” di cui si legge in Benjamin e quanto argomentato da Scholem sul rapporto fra En-Sof e Sefiroth nella Kabbalah86. La separazione fra l’En-Sof, radice e insieme struttura dell’intero universo, e le sue qualità mistiche, le Sefiroth, potrebbe paragonarsi al rapporNientzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità, cit., pp. 43-64: 45. 83 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 226; tr. it. p. 86. Come opportunamente rileva J.-M. Palmier ciò che separa la nozione di origine presente in Benjamin dall’idea di genesi o di genealogia in senso nietzscheano è «una inversione del tempo: l’origine non dovrà pensarsi come origine del divenire delle cose. È alla fine di questo divenire ch’essa diviene percepibile» (Id., Walter Benjamin, cit., p. 535). 84 L’ascendenza neoplatonica dell’ontologia della storia di Hegel è stata messa magistralmente in luce da H. Blumenberg, il quale, segnatamente, ha sostenuto che il filosofo di Stoccarda sia il primo della sua epoca ad osservare l’affinità fra il dramma neoplatonico dell’essere e «la logica dello spirito che penetra la filosofia e che giunge sino all’autocoscienza ed al suo concetto», sebbene la discesa dall’Uno delle ipostasi neoplatiche ed il loro ritorno ad esso non implicasse un incremento di coscienza, come invece poteva osservarsi dal punto di vista della storia, da parte di chi sarebbe altrimenti rimasto ad uno «stato di ingenuità atomica» (Id., Höhlenausgänge, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1989; tr. it. di M. Doni, Uscite dalla caverna, Medusa, Milano 2009, p. 440, ma si veda l’intero II cap. della VI parte, pp. 439-455). 85 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 226; tr. it. p. 86. 86 Cfr. F. Desideri, La traccia del pensiero: oltre la scrittura, cit., pp. 20-21.

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to fra l’anima ed il corpo, ma con la differenza che questi ultimi sono due elementi di natura eterogenea, mentre fra l’En-Sof e le Sefiroth sussisterebbe, ferma la loro differenza, un’unità organica87. Come a Scholem stesso non sfugge, tale unità pone però di fronte ad un interrogativo circa il rapporto fra l’En-Sof e la prima Sefirah. Se infatti fra quest’ultima e l’originario principio divino dell’En-Sof vi fosse uno iato, si ricadrebbe in un emazionismo di stampo neoplatonico88; se invece fra tali elementi si stabilisse una assoluta identità, si deteminerebbe una «svolta panteistica»89. Da qui il rilievo assunto, nella Kabbalah, dal “nulla” (‘ayin) con cui coinciderebbe la pienezza d’essere di Dio nell’atto originario della emanazione. Nondimeno, l’affermare che Dio ha fatto in modo che «il suo nulla divenisse il suo essere» determinerebbe la cancellazione dell’«esposizione dialettica del Tutto», rendendo «la creazione dal nulla soltanto una cifra dell’unità essenziale fra tutte le cose e Dio»90. Al fine di sottrarsi all’ipotesi panteistica nella quale cadrebbe la tradizione mistica ebraica91, parrebbe dunque necessario pensare l’elemento originario non come l’improvviso emergere della volontà primordiale, come il punto privo di dimensioni fra il nulla e l’essere donde sorge ogni cosa, bensì quale un atto perennemente irrisolto rispetto alla propria finalità: un’«Entelechia»92 (ejn tevlei e[cein) sempre incompiuta. Ecco perché, più che essere una “meta” (Ziel), secondo l’aforisma krausiano che campeggia 87

G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, cit., p. 225. Cfr. G. Scholem, Das Ringen zwischen dem biblischen Gott und dem Gott Plotins in der alten Kabbala (1964), in Id., Über einige Grundbegriffe des Judentums, cit.; tr. it. di M. Bertaggia, Il dio biblico e il dio di Plotino nella Cabbala antica, in Concetti fondamentali dell’ebraismo, cit., pp. 3-40. 89 G. Scholem, Dieci tesi astoriche sulla Qabbalah, cit., p. 98. 90 Ivi, p. 98. Il riferimento di Scholem è specialmente il trattato, risalente al 1220 ca., di Azriel di Gerona Derekh ha-Emunah ve-Derekh ha-Kefirah (Via della fede e via dell’eresia), pubblicato dallo stesso Scholem sulla base del Ms Halberstam 444, in Studies in Memory of Asher Gulak and Samuel Klein, ed. by S. Assaf, G. Scholem, The Hebrew University Press Association, Jerusalem, 1942, pp. 207-213, ch’egli commenta in Creazione dal nulla e autolimitazione di Dio, cit., pp. 63-65. 91 Cfr. G. Scholem, Id., Le grandi correnti della mistica ebraica, cit., pp. 231-232; ma soprattutto Id., Kabbalah, Keter Publishing House, Jerusalem 1974; tr. it. di R. Rambelli, La cabala, Edizioni Mediterranee, Roma 1982, pp. 148-155. 92 W. Benjamin, Erkenntniskritische Vorrede (1924), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., pp. 925-948: 946: «Ursprung also ist Entelechie». 88

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in esergo alla XIV Tesi, l’Ursprung alla quale Benjamin introduce sembra riassumere al proprio interno l’enigmatico significato d’una «Teleologie ohne Endzweck»93. È possibile che, nell’introdurre questa espressione, Benjamin avesse a riferimento la Kritik der Urteilskraft, e in particolare quel passo della Analytik des Schönen in cui Kant afferma che mentre «la finalità oggettiva può essere riconosciuta soltanto per mezzo del rapporto del molteplice con uno scopo determinato, cioè per mezzo di un concetto», il giudizio sul bello «ha a fondamento una finalità puramente formale, cioè una finalità senza scopo [Zweckmäßigkeit ohne Zweck]», del tutto indipendente dalla rappresentazione del bene94. Nondimeno, l’accezione con la quale la riflessione kantiana connota la nozione di “teleologia” si distingue nettamente da quella benjaminiana. L’affinità che parrebbe sussistere a livello lessicale viene infatti meno osservando come, in Kant, la teleologia rappresenti una «dottrina pura dei fini», il cui principio a priori contiene la relazione che lega le azioni umane (oggetto della ragion pratica) ed i fenomeni naturali (oggetto della capacità di giudizio) ad un bene superiore95; laddove in Benjamin tale ultimo riferimento manca e insieme con esso manca ogni fondamentale connessione umano-morale e naturale. Nella denegazione racchiusa nell’espressione “Teleologia senza scopo finale”, come indirettamente si evince dal dettato del saggio sul compito del traduttore, potrebbe ravvisarsi il significato di uno scopo in riferimento al quale tutte le singole funzionalità della vita agiscono, ma che non può essere cercato nella sfera stessa della vita, bensì in una sfera superiore, la quale può essere soltanto rappresentata «in forma embrionale o intensiva»96. Le manifestazioni finalistiche della vita, così come quelle inerenti 93 L’espressione si trova in W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. II, cit., pp. 107109: 109 (lettera a G. Scholem del 1 dicembre 1920). 94 I. Kant, Kritik der Urteilskraft (1790), in Ausgabe der Preußischen Akademie der Wissenschaften, Bd. V, Berlin, 1913, pp. 165-485: 226; tr. it. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, Critica del giudizio, Laterza, Bari-Roma 1997, pp. 120-121. 95 I. Kant, Über den Gebrauch teleologischer Principien in der Philosophie (1788), in Ausgabe der Preußischen Akademie der Wissenschaften, Bd. VIII, Berlin, 1923, pp. 157-184: 182; tr. it. di G. De Flaviis, Sull’impiego dei principi teleologici in filosofia, in I. Kant, Scritti sul criticismo, Laterza, Bari-Roma 1991, pp. 33-60: 58. 96 W. Benjamin, Die Aufgabe des Übersetzers, cit., p. 12; tr. it. p. 502.

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le singole lingue, parrebbero rimandare ad una unità superiore, coincidente con la possibilità del loro articolarsi, sebbene tale unità non debba essere intesa alla stregua di un’arché, di «un inizio e di un dominio»97, ma come una pura possibilità, affatto estranea, in quanto tale, ad ogni causalità. Per questa via – è stato osservato – si introdurrebbe un concetto di teleologia, col quale si rappresenterebbe l’orientamento o la polarizzazione della relazione interna fra i singoli modi d’una totalità non statica98.. Ma tale spiegazione, soffermandosi soltanto sulla maniera in cui la totalità originaria si dà a vedere, lascia negletto l’elemento denegativo che invece, per Benjamin, connota in maniera intrinseca la teleologia. Attraverso la denegazione che si realizza nell’affermare come l’aver fine sia senza fine – nell’affermare la fine senza fine – la teleologia parrebbe proiettarsi in un orizzonte di senso rispetto al quale non soltanto essa si trova a presentarsi come grammaticalmente decostruita, bensì pure in stato di arresto rispetto al suo proprio essere. Nella teleologia delineata da Benjamin la nozione di telos dovrebbe perciò intendersi come ciò che propriamente si realizza nell’entelechia, ma non quale perfetta realizzazione della potenza o quale “spinta propulsiva”99, ma come ciò nel cui ambito il divenire fenomenico «si ferma»100. L’equivalenza che, nella prima redazione della Erkenntniskritische Vorrede, è posta fra l’origine e l’Entelechia, e la seguente epesegesi di quest’ultima come sinomimo del bloccarsi del flusso 97 Cfr. M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der physis. Aristoteles, Physik B, 1 (1939), in Id., Wegmarken, in Gesamtausgabe, Bd. 9, Klostermann, Frankfurt a. M. 1976, pp. 309-371: 317; tr. it. di F. Volpi, Sull’essenza e sul concetto di physis. Aristotele, Fisica, B, 1, in Segnavia, Adelphi, Milano 1994, pp. 193-255: 201. 98 Cfr. S.R. Khatib, “Teleologie ohne Endzweck”, cit., p. 388. 99 Se la prima accezione – come noto – si trova in Artistotele (Met., IX, 8, 1050 a 23), la seconda si riscontra in Leibniz (Théod., I, § 87) e in Goethe (Cfr. J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe in den letzen Jahren seines Lebens [1836-1848], colloqui dell’11 marzo 1928 e del 1 settembre 1829), ma soprattutto in Husserl: cfr. J.G. Hart, Entelechy in Trascendental Phenomenology: A Sketch of the Foundations of Husserlian Metaphysics, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 66, 1992, pp. 189-212; nonché E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Laterza, Bari 1961, pp. 239-253. 100 W. Benjamin, Erkenntniskritische Vorrede, p. 946: «In der Entelechie stellt das Werden sich fest».

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dei fenomeni nel loro accadere, conducono a pensare la nozione di Ursprung come l’originario ritardo che connota ogni “facoltà di conoscenza” del fenomeno, quale relazione immediata fra soggetto e oggetto. La prossimità, espressamente dichiarata da Benjamin101, della nozione di origine elaborata nel libro sul dramma barocco con la metafisica goethiana nel suo ritenere la forma sensibile capace di «esibire già in sé e con sé un contenuto spirituale di conoscenza», una «legge atemporale nell’intuizione temporale», induce ad escludere un procedere da una conoscenza teoretica come «da ciò che è primo e immediato»102, in favore di un’altra origine, anteriore e possibile, e, come tale, affatto irriducibile alla primarietà dello zelo tetico. Ma laddove la fenomenologia per mezzo della “riduzione trascendentale” esprime la presa di coscienza da parte del pensiero del suo “ritardo” sull’originario, e con ciò la certezza del discorso filosofico di poter attendere al proprio scopo soltanto avanzando verso quell’origine che rispetto ad esso «indefinitamente si riserva»103, l’opera di Benjamin si propone di pervenire, non già attraverso una «piatta considerazione storica» e tanto meno in un «modo di vedere [Anschauungweise] soggettivo»104, bensì in una «ritmi101 Cfr. W. Benjamin, Nachträge zum Trauerspielbuch (?), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., pp. 953-955: 953-954; Id., Das Passagenwerk, cit., p. 577; tr. it. p. 517 (N 2 a, 4). I debiti di Benjamin verso Goethe sono qui esplicitamente mediati dalla lettura che dell’autore francofortese diede G. Simmel nell’importante studio Goethe, Klinkhardt & Biermann, Leipzig 1913; tr. it. di M. Gardini, Goethe, Quodlibet, Macerata 2012. Su ciò si veda J.-M. Gagnebin, Histoire et narration chez Walter Benjamin, cit., pp. 22-23. 102 G. Simmel, Goethe, cit., pp. 106-107. 103 J. Derrida, Introduzione a “L’origine della geometria” di Husserl, cit., pp. 214-215. 104 Sembra qui lecito ravvisare una palese presa di distanza dalla concezione husserliana dell’Anschauung come “concetto operativo”, e dunque quale implicito funzionale (Cfr. E. Fink, Le concepts opératoires dans la phénoménologie de Husserl, in AA.VV., Husserl, Cahier de Royaumont, Minuit, Paris 1959, pp. 214230), della fenomenologia. Per Husserl, l’Anschauug, la “visione intuitiva” coglie il «presentarsi [sich darstellen]» delle cose nel fenomeno, in quanto correlazione fra l’apparire e ciò che appare. In tal senso la fenomenologia – scrive Husserl – è studio dei fenomeni secondo un doppio significato: da una parte è scienza delle conoscenze come «atti di coscienza in cui si presentano queste o quelle oggettualità»; dall’altra «è scienza di queste oggettualità stesse in quanto in tali forme si presentano» (Id., Die Idee der Phänomenologie, cit., pp. 12-14; tr. it. pp. 53-55). Ma, per una analitica disamina della nozione fenomenologica di “Anschauung”, si

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ca obiettiva e teleologicamente determinata», al «riconoscimento [Wiedererkennung]» di ciò che è originario105. Come lo stesso dettato dell’Erkenntniskritische Vorrede precisa, la “ritmica” propria dell’origine si scandisce in un processo nel quale «l’unicità» e «la ripetizione» si condizionano reciprocamente, cadenzando «la storia filosofica in quanto scienza dell’origine» in senso perennemente contrario al suo progressivo trascorrere106. Preclusa, per conseguenza, qualsiasi forma di storicismo, così come ogni assimilazione ad una perpetua circolarità, definitivamente asservita dall’«eroismo» nietzscheano al tentativo di saldare insieme due principi antinomici onde suscitare «per incanto, dalla miseria del tempo, l’idea speculativa (o la fantasmagoria) della felicità»107, la possibile coesistenza dell’unicità e della ripetizione costitutiva dell’origine sembra potersi cogliere unicamente comprendendo la «consunzione [Aufzehrung]» del «divenire dei fenomeni nel loro essere»108. Ed invero di tale progressivo esaurirsi la riflessione di Walter Benjamin, la stenografia sensibile della sua opera e la sua stessa figura non paiono costituire l’idealizzazione, in quanto “toglimento-superamento” (Aufhebung) nella ineffettività spazio-temporale dell’eidos109, nella sua perennemente reiterabile normativeda specialmente H.-J. Pieper, “Anschauung” als operativer Begriff. Eine Untersuchung zur Grundlegung der transzendentalen Phänomenologie Edmund Husserls, Meiner, Hamburg 1993, in part. pp. 9-29 e pp. 133-135. Più in generale, «l’Anschauung in filosofia da un lato definisce l’esigenza di vedere non già l’elemento determinante delle cose, bensì le cose stesse nella loro interezza, e dall’altro essa vuole essere il modo e la maniera in cui le cose ci appaiono. Nell’Anschauung e attraverso di essa si fa esperienza del presente delle cose, che a loro volta si presentano immediatamente, ossia senza alcuna mediazione» (Historisches Wörterbuch der Philosophie, hrsg. v. J. Ritter, K. Grüder u. G. Gabriel, Bd. I, Schwabe Verlag, Basel 2010, p. 340). 105 Cfr. W. Benjamin, Erkenntniskritische Vorrede, cit, pp. 935-936. 106 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., pp. 226-227; tr. it. pp. 86-87. 107 Cfr. Id., Zentralpark, cit, p. 682-683; tr. it. p. 202. 108 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 228; tr. it. p. 87. 109 W. Benjamin, Eidos und Begriff (1916-1917), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. VI, cit., pp. 29-31: 30: «eidetisch ist es gerade kein tatsächliches»; tr. it. di G. Schiavoni, Eidos e concetto, in Opere complete, vol. VIII, pp. 25-28: 26: «è eidetico, propriamente, non qualcosa di effettivo» (tr. modificata). Questo breve testo è ispirato allo studio di P.F. Linke, Das Recht der Phänomenologie, in «Kant-Studien», 21, 1917, 163-221, il quale consentì a Benjamin – com’egli stesso scrisse – «una certa informazione sull’essenza della

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vità110, ma la concreta messa in opera. Il tentativo promosso da Benjamin di «decifrare, in una specie di fatica di Sisifo, il non intenzionale»111 sortisce nell’immediato riconoscimento dell’origine come annientamento. Quanto mai lontana dall’“originario” messo a tema da Heidegger quale modo in cui gli enti presenti vengono all’essere e allo stesso tempo quale risultato del loro sottrarsi all’assenza112, l’Ursprung benjaminiana si distingue parimenti da un’assenza di origine pura, sebbene il Trauerspiel ch’essa determina non equivalga al «dramma» che sorge dall’affermazione d’una dialettica che si oppone allo spirito del cominciamento in nome d’una dissimulazione perenne, d’un eracliteo divenire-immotivato113. Il “dramma” – come, per fenomenologia» (Id., Gesammelte Briefe, Bd. I, cit., pp. 379-383: 380 [lettera a G. Scholem del 6 settembre 1917]) 110 La nozione di “norma” è qui assunta in sintonia con quanto osservato da J. Derrida: «la norma è la conoscenza, l’intuizione adeguata al suo oggetto, l’evidenza non soltanto distinta, ma “chiara”: la presenza piena del senso ad una coscienza essa stessa presente a sé nella pienezza della sua vita, del suo presente vivente» (Id., La voce e il fenomeno, cit., p. 140). 111 T.W. Adorno, Introduzione agli “Scritti” di Benjamin, cit., p. 249. 112 Cfr. R. Schürmann, Heidegger on Being and Acting. From Principles to Anarchy, Bloomington, Indiana University Press 1986; tr. it. di G. Carchia, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, il Mulino, Bologna 1995, pp. 274-298. Per un più disteso confronto fra Heidegger e Benjamin con diretto riferimento al tema dell’origine si fa rimando a W. van Reijen, Der Schwarzwald und Paris: Heidegger und Benjamin, Fink, München, 1998, in part. pp. 94-107, che tuttavia si limita a mostrare come, per entrambe gli autori, «l’“inizio” (Anfang) e l’“origine” (Ursprung), come la “redenzione” (Erlösung) siano costantemente presenti e per questo destituiscano lo scorrere del tempo», senza con ciò compiere alcuna necessaria distinzione fra la nozione di “Anfang” e quella di “Ursprung” all’interno della stessa riflessione heideggeriana ed al contempo omettendo qualsiasi considerazione non soltanto della idiosincrasia personale di Benjamin verso l’autore di Sein und Zeit (Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. III, cit., pp. 521-522: 522; tr. it. di A. Marietti e G. Backhaus, Lettere 1913-1940, cit., pp. 184185: 185 [lettera a G. Scholem del 25 aprile 1930]), ma, sotto un profilo eminentemente teoretico, della antitecità dell’Ursprung benjaminiana, nella quale ogni divenire “resta immobile”, rispetto all’analoga nozione heideggeriana, nella quale si compendia il sorgere ed il declinare nel tempo di tutte le cose. Ma su tale ultimo aspetto si deve vedere F. Desideri, Catastrofe e redenzione. Benjamin tra Heidegger e Rosenzweig, cit., in part. pp. 179-180. 113 J. Derrida, Le théâtre de la cruauté et la clôture de la raprésentation (1966), in Id., L’écriture et la différence, Seuil 1967; tr. it. di G. Pozzi, Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, pp. 299-323: 320; ma cfr. pure Id., La différance (1968) in Id., Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972; tr. it. di M. Ioffrida, La «différance», in

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Benjamin, mostrano in modo esemplare Calderón e Hebbel – è la rappresentazione del destino, in quanto «entelechia» al cui centro è la morte114. Proprio per questo il Trauerspiel d’età barocca sarebbe paradigmatico di una più generale Denkbewegung115: di una vertiginosa allegoria che si dispone già da sempre in un «vuoto»116 che si lascia cogliere soltanto nel “controtempo” della Jetztzeit, nel suo balenare fra le fratture che si aprono sulla superficie di oggetti alla deriva, fra i frammenti di un’opera struggente e caleidoscopica – soprattutto, forse, in quella “nuda vita” che esile si ricorda a se stessa attraverso la forma del nulla. 3. Exposition du vide Sterile appare, da questo punto di vista, affermare un’affinità unicamente formale fra la Ursprung e la Jetztzeit117, senza Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, pp. 29-57. Mette conto nondimeno ricordare come J. Urbich, Darstellung bei Walter Benjamin, cit., pp. 267-272, abbia recentemente sostenuto che la rappresentazione dell’origine in Benjamin incontri nella riflessione di Foucault e di Derrida il suo conseguente sviluppo: «Il cardine metafisico-critico di Benjamin è certamente il salvare la verità e l’origine come concetti necessariamente da pensare, cosicché essi siano integrati nelle letture mediatrici della rappresentazione ed in tal modo diventino i punti di fuga di uno sforzo tanto concettuale quanto formale, le ultime formazioni fondanti tenute in vita nel continuo discorso ermeneutico». Proprio per questo la «base metodica» benjaminiana non si opporrebbe né all’idea foucaultiana – espressa in particolare nel paragrafo “Le recul et le retour de l’origine” de Les mots et le choses, Gallimard 1966; tr. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli 1967, pp. 354-361 – , e secondo la quale l’origine non dà più luogo alla storicità, essendo piuttosto la storicità a lasciar profilare la necessità d’una origine tale da esserle, ad un tempo, interna ed estranea, né alla grammatologia di Derrida, ove intesa come l’ultima «lettura» della risemantizzazione dell’origine compiuta da Foucault. 114 Cfr. W. Benjamin, “El mayor monstruo, los celos” von Calderón und “Herodes und Mariamne” von Hebbel (1923), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. II, t. 1, cit., pp. 246-276: 265 e 267; tr. it. di H. Riediger, “El mayor monstruo, los celos” di Calderón e “Herodes und Marianmne” di Hebbel, in Opere complete, vol. II, cit., pp. 5-32: 21 e 23. 115 Lo mostra ottimamente E. Guglielminetti, Walter Benjamin, tempo, ripetizione, equivocità, cit., pp. 66-116. 116 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 406; tr. it. p. 266. 117 Così S. Seitz, il quale ha osservato come fra la nozione di “Ursprung” e quella di “Jetztzeit” vi sarebbe una sostanziale prossimità poiché tanto l’una quanto l’altra non si integrererebbero entro una cronologia, ma si svilupperebbero in una prospet-

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invece considerare il nesso concettuale che le unisce. Se da un lato l’“origine” coincide con «la configurazione dell’idea» nella sua struttura monadologica e dall’altro la Jetztzeit rappresenta la forma monadologica nella quale il tempo conosce la propria estenuazione, più che un avvicendamento118, fra “Ursprung” e “Jetztzeit” sussisterebbe un legame chiasmatico. Le linee di fuga lungo le quali si sviluppa la riflessione benjaminiana si concentrerebbero infatti in un’origine nella quale il flusso dei fenomeni, cristallizzandosi nella «totalità monadica dell’essenza»119, si consegna a quell’istante vuoto in cui non si ha nulla se non la propria dissipazione. La necessità che il pensiero benjaminiano trovi la propria economia nella dissoluzione parrebbe d’altronde trovare ulteriore conferma nella identificazione di «tutto ciò che è originario» con l’«incompleta restaurazione della rivelazione»120, una identificazione che sembra doversi interpretare riconoscendo come l’origine sia incompiuta tanto quanto la stessa rivelazione; non già, tuttavia, intendendo l’“incompibilità” come espressione di un perenne differimento dell’evento messianico che si rifletterebbe sull’origine stessa, quale «rappresentante di dimenticate relazioni [Zusammenhänge] delle rivelazione»121, ma – secondo quanto si tiva sempre discontinua e cangiante (Id., Geschichte als bricolage: W.G. Sebald und die Poetik des Bastelns, Vandehoeck & Ruprecht, Göttingen 2011, p. 51). 118 Cfr. J. Habermas, Walter Benjamin. Critica che rende coscienti oppure critica salvifica?, cit., p. 210. 119 Cfr. W. Benjamin, Erkenntniskritische Vorrede, cit, pp. 946-948: «Il concetto d’origine, sebbene del tutto distinto dalla genesi, è una categoria storica (Idea). […]. Il flusso dei fenomeni si congela nell’idea e le mille onde in movimento confluiscono in una spessa superficie di ghiaccio che perdura. Ciò che è concettualizzato in tal modo, e cioè secondo la sua essenza, ha storia soltanto nel suo contenuto, non più come un accaduto che lo concerne. […]. Solo all’interno [dell’origine] v’è la storia e perciò non più in forma assoluta, bensì solo in quella forma che si riferisce all’essere essenziale, forma che consente di caratterizzarlo come la sua pre- e post-storia. Queste due, nondimeno, sono proprio l’essenziale. L’origine dunque non si distingue dal puro stato fattuale, ma essa concerne la pre- e la post-storia dell’essenziale, come esse si fissano nell’ambito dell’idea. […]. La pre- e post-storia non sono più effettivamente pragmatiche, ma sono da misurare come la storia naturale nello stato, nell’essenza che si è compiuta e che si è fermata. Nell’infinito approfondimento prospettico che l’intenzione filosofica scopre nell’essenza, si schiude la totalità della medesima essenza. […] L’essenza di questa totalità è monadologica». 120 Ivi, p. 935. 121 Ivi, p. 936.

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è argomentato nel precedente capitolo – come una possibilità già da sempre attuale, e per ciò invariabilmente unwirklich. Il carattere d’“interminabile inevento” con il quale si è inteso definire il modo in cui il motivo messianico si scandisce nella riflessione benjaminiana non permetterebbe alcun riscatto dalla dissoluzione. La funzione simbolica svolta dalla Jetztzeit ne sarebbe decisiva attestazione. Essa, infatti, come manifesta «il tremolio leggero, impercettibile»122 del messianico nel suo perdurante accadere sul piano storico, così, nel medesimo tempo, lo ascrive nel centro esinanito, svuotato d’ogni presenza e sottratto ad ogni raffigurazione dell’origine: «un puro vuoto» – «ein Vakuum» – che annienta dentro di sé, «con catastrofica violenza», ogni «alito di mondo»123. Invero, si potrebbe essere tentati dall’interpretare la vacuità nella quale esita tale reductio ad originem come il compimento del “platonismo” che più o meno scopertamente ispirerebbe l’epistemologia benjaminiana124. Già nell’ambito della stessa Accademia l’interrogativo attorno al principio originario che, per Platone, l’anima avrebbe dovuto porsi fino in fondo, ancorché a prezzo di «doglie» dolorose125, si era, con Damascio, trasfigurato nell’immagine di una perfetta kénosi di «ogni distinzione, quale è quella del conoscibile e del conoscente», in un puro «alone» nel quale ogni cosa «si lascia intendere come la più semplice e la più comprensiva»126, alla stregua di una pura po122 W. Benjamin, Ms 1095 (1939-1940?), in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I, t. 3, cit., p. 1229; tr. it. di G. Bonola, M. Ranchetti, Materiali preparatori delle tesi, cit., p. 98. 123 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 246; tr. it. pp. 105-106. 124 Su ciò si veda B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., pp. 310-316. In via generale occorre comunque notare che «se per Platone l’ambito sensibile non è giustificato che a partire dall’idea, per Benjamin quest’ultima è vuota senza gli elementi del mondo che la manifestano» (J.-M. Palmier, Walter Benjamin, cit., p. 388). 125 Cfr. Platone, Repubblica, 490 a-b; Id., Parmenide, 141 e 10 – 142 a 6; nonché Id., Lettera VII, 342 a 7 – 343 c 6. 126 Damascio, Traité des premiers pincipes (ajporivai kai; luvsei~ peri; tw`n prwvtwn ajrcw`n), vol. 1, De l’ineffable et de l’un, éd. par L.G. Westerink e J. Combès, Les Belles Lettres, Paris 1986, p. 11 (R I, 8). La lezione che qui si segue è tuttavia quella stabilita da M.-C. Galpérine nell’edizione di Damascius, Des premiers principes. Apories et résolutions, Verdier, Paris 1987, p. 158, che, a sua volta, segue il manoscritto Marcianus Graecus 246. Sul filosofo siriano si veda ora l’analitico studio di V.

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tenza del pensiero127. E tuttavia l’Ursprung alla quale si perviene “abbordando”128 la riflessione benjaminiana non indica ciò che, pur dismagando, lascia avvenire un sempre ancora possibile inizio, bensì un’assoluta steresi, la privazione d’ogni cosa, quel «lato della vita rivolto altrove da noi e non illuminato da noi»129 che si coglie soltanto se ci lasciamo avvolgere da una profonda, insopprimibile malinconia.

Napoli, jEpevkeina tou` eJnov~. Il principio totalmente ineffabile tra dialettica ed esegesi in Damascio, Officina di Studi Medievali, Palermo 2008. 127 Cfr. G. Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2002, p. 12. 128 Cfr. J. Derrida, Parages, Galilée, Paris 1986; tr. it. di S. Facioni, Paraggi, Jaca Book, Milano 2000, p. 154: «Abbordare è la strana lentezza di un movimento d’approccio, tra gesto e discorso, non ancora giunto al termine, non ancora teso verso il fine – la riva – non ancora accaduto. In quanto movimento (o passo), non c’è ancora contatto con il bordo, che rimane bordo fintanto che non lo si tocca, o fino a che la contiguità non cancelli totalmente il distinto o il distante». 129 R.M. Rilke, Briefe aus Muzot: 1921 bis 1926, Insel, Leipzig 1935, pp. 330338: 332; tr. it. di M. Doriguzzi e L. Traverso, Lettere da Muzot, Cederna, Milano 1947, pp. 320-327: 322 (lettera a W. von Hulewicz del 13 novembre 1925).

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Bibliografia

Opere di Walter Benjamin a. Opere in lingua tedesca Gesammelte Schriften, 7 Bde., hrsg. v. R. Tiedemann u. H. Schweppenhäuser, unter Mitwirkung v. T.W. Adorno e G. Scholem, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972-1989. Gesammelte Briefe, 6 Bde., hrsg. v. C. Gödde u. H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1995-2000. Kritiken und Rezensionen, in Kritische Gesamtausgabe, Bd. 13, hrsg. v. H. Kaulen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2011. Benjamin W., Scholem G., Briefwechsel, hrsg. v. G. Scholem, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1980. Adorno T.W., Benjamim W., Briefwechsel 1928-1940, hrsg. v. H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1994. b. Opere in lingua italiana Angelus Novus, a c. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1965 (2ª ed. 1995). Lettere 1913-1940, a c. di A. Marietti Solmi e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1978. Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, Einaudi, Torino 1987. Sul concetto di storia, a c. di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997.

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Volumi pubblicati



analisi filosofiche

Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 19832003 Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton Marty

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Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e scienze cognitive Antonio Rainone, Quale realismo, quale verità. Saggio su W. V. Quine Giovanni Tuzet, La pratica dei valori. Nodi fra conoscenza e azione



campi della psiche

Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza Stefania Napolitano, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi Luca Zendri, La fabbrica delle psicosi Stefania Napolitano, Clinica della differenza sessuale. Fantasma, sintomo, transfert



campi della psiche. filosofie dell’inconscio

Felice Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte



campi della psiche. lacaniana

Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psico-analitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould

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Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con Kierkegaard François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psico-analisi Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di Jacques-Alain Miller Chiara Mangiarotti (a cura di), Il mondo visto attraverso una fessura. A scuola con i bambini autistici Roberto Cavasola, L’isteria, la depressione e Lacan François Ansermet, Ariane Giacobino, Autismo. A ciascuno il suo genoma Éric Laurent, La battaglia dell’autismo. Dalla clinica alla politica

dietro lo specchio

Andrea Zucchinali, Jacques-André Boiffard. Storia di un occhio fotografico

discipline filosofiche

Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla “Metafisica della conoscenza” di Nicolai Hartmann Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi

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Girolamo De Michele, Felicità e storia Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il “nuovo neokantismo” di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong

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Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito Mariannina Failla, Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762 Caterina Zanfi, Bergson e la filosofia tedesca 1907-1932 Marco Tedeschini, Adolf Reinach. La fenomenologia, il realismo Luigi Azzariti-Fumaroli, Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin

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estetica e critica

Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’“amoroso regno” Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato

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Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e figurazione Dario Cecchi, La costituzione tecnica dell’umano Francesca Iannelli (a cura di), Vita dell’arte. Risonanze dell’estetica di Hegel

filosofia e politica

Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umana nel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine. Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea

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Mauro Farnesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (14001700) Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione

filosofia e psicoanalisi

Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi Felice Cimatti e Alberto Luchetti (a cura di), Corpo, linguaggio e psicoanalisi Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere. Estetica e psicoanalisi



il pensiero etico e religioso

Isabella Adinolfi, Giuseppe Goisis (a cura di), I volti moderni di Gesù. Arte Filosofia Storia lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica

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Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann

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Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica Susanna Spero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di Samuel Beckett Marcella Biasi, Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il paradigma Celan Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia Paola Laura Gorla, Sei diversioni nel Chisciotte Davide Colussi, Paolo Zublena (a cura di), Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione Barbara Ronchetti, Caleidoscopio russo. Studi di letteratura contemporanea Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja Paolo Amalfitano, L’armonia di Babele. Varietà dell’esperienza e polifonia delle forme nel romanzo inglese Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana

lettere. ultracontemporanea

Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese Matteo Majorano (a cura di), Il ritorno dei sentimenti Marinella Termite, Le sentiment végétal. Feuillages d’extrême contemporain Gianfranco Rubino, Dominique Viart (a cura di), Le roman français contemporain face à l’Histoire. Thèmes et formes Gianfranco Rubino (a cura di), Le sujet et l’Histoire dans le roman français contemporain. Écrivains en dialogue Elisa Bricco (a cura di), Le bal des arts. Le sujet et l’image : écrire avec l’art

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lingua, didattica, società

Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina

scienze del linguaggio

John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio

scienze della cultura

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei “Promessi Sposi” Maria Carolina Foi, La giurisdizione delle scene. I drammi politici di Schiller Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Lessico mitologico goethiano. Letteratura, cultura visuale, performance Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Critica/crisi. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Rappresentanza/rappresentazione. Una questione degli studi culturali

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teoria delle arti e cultura visuale

Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale Luca Pietro Nicoletti, Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore d’arte a Parigi Pietro Conte, In carne e cera. Estetica e fenomenologia dell’iperrealismo

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