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Italian Pages 173 [88] Year 1982
MARIO PEZZELLA
L'IMMAGINE DIALETTICA Saggio su Benjamin
Cui lana Llorerta da R~mo !:lode1 e D •J tnentco Corrad·,11
PREMESSA
Desidero ringraziare Giorgio Agamben e Remo Bodei per l'attenzione prestata a questo lavoro, di cui, naturalmente, porto da solo la responsabilità.
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I.
i· Per ridurre al massimo l'apparato delle note, le opere di Benjamin più frequentemente citate sono designate con le seguenti sigle:
G.S. A.N. A.R. O.d.b.
= GesammelteSchriften, Frankfurt 1980.
= Angelus Novus, Torino 1962. = Avanguardia e rivoluzione, Torino 1973. = n dramma barocco tedesco, Torino 1971.
Le tre figure che danno il titolo ai saggi raccolti in questo lavoro indicano le scansioni fondamentali del pensiero di Beztjamin. Insieme, delineano una fenomenologia della crisi che investe il concetto tradizionale di esperienza e la possi-· bilità di rappresentarla in un decorso sistematico del pensiero. Ciò non vuol dire che esse manchino di connessioni e relazioni reciproche: il termine benjaminiano di «costellazione» rinvia alla natura specifica del loro porsi in rapporto. Ogni figura si rivolge al centro comune della riflessione - la lacerazione delle categorie metafisiche della rappresentazione - riflettendolo nel suo determinato campo di visibilità: il «demone», nell'ambiguità del suo comportamento etico; il «malinconico», nel suo sapere riflessivo procedente all'infinito; l'Angelus, nella sua speranza messianica. A ognuna si accompagna un linguaggio determinato che· ne esprime la «tipicità»: il discorso privo di fondamento della «chiacchiera»; la negatività della f9rma allegorica; la «nuova lingua» annunciata nei provvisori caratteri dell'immagine dialettica. Certo, solo in modo astratto questi momenti sono assolutamente separabili: essi si intrecciano e coesistono nella scrittura degli autori considerati da Benjamin. D'altra parte alcuni temi importanti ricompaiono con prospettiva mutata a diversi livelli della sua riflessione. Così; l'esperienza massificata della grande città esibisce in primo luogo la disgregazione demonica del soggetto; ma è anche l'oggetto della sua «malinconica» autocoscienza; ed è infine l'ambito storico su cui vorrebbe intervenire la prassi rivoluzionaria dell'Angelus. Un discorso analogo potrebbe valère per il concetto e la funzione dell' «immaginario» e il suo rapporto alla conoscenza concettuale. L'immagine è da 7
prima oggetto del desiderio narcisistico, ma anche il nucleo della disincantata contemplazione allegorica, ed è infine investita da una considerazione dialettica che vorrebbe sottrarla alla costituzione metafisica del soggetto. Ogni figura è dunque - in un senso molto benjaminiano una monade, che pur differenziandosi dalle altre ne anticipa o ne riassume a suo modo il significato. Ho cercato di mostrare questa rete di rapporti e insieme di conservare la specificità di ogni configurazione. Il fatto che la figura dell'Angelus sia posta alla fine, quasi a risolvere ogni precedente antinomia, richiede qualche chiarimento. Cosa può mai legare il desiderio demonico alla fascinazione feticistica della merce, descritta nell'ultimo saggio? Fin da ora va detto che la figura dell'Angelus non abolisce e non nullifica le precedenti: essa porta in primo piano la loro appartenenza a un'emergenza storica determinata e su questa base cerca di contrapporre la sua «decisione» 'politica alla fissità mitica in cui quelle tendono a cristallizzarsi. Cosi l' «irrealtà» dell'esperienza demonica è infine posta in rapporto con una struttura determinata del«l'immaginario collettivo», dominata dalla «fantasmagoria» della merce. Ma quel primo momento non è obliato o ridotto all'inessenziale: esso è condotto oltre se stesso da un'intensificazione della sua problematica originale. Solo la radicalizzazione e l'attraversamento della sua interna negatività rende pensabile la svolta verso l'altro estremo della rifless'ione . È evidente che un simile procedimento di pensiero richiede all'interprete un'attenzione, per così dire, «circolare». Solo una visione d'insieme del «mosaico» - per usare i termini stessi di Benjamin - rende possibile la comprensione dei suoi «frammenti di pensiero». Qualche considerazione richiede la fama postuma che ora accompagna il nome di Benjamin, benché egli possa apparire, per ragioni diverse che in passato, un «inattu~l~». I contenuti positivi con cui cercò di rispondere alla cns1 politica e spirituale del suo tempo sono oggi, quanto ~eno, oggetto di discussione. L'«idea di «rivolu~ione co~u~sta» è sottoposta e incessanti e talora angosciose revis1oru. Le forme artistiche d'avanguardia a cui Beajamin affidava il compito di creare una nuova imrnaginazion(: politica - il
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surrealismo il teatro epico brechtiano, la tecnica cinematografica al s~rvizio del collettivo - conoscono un declino forse irreversibile. ·· Restano certo le domande che motivano quelle proposte: è possibile l'arresto rivoluzionario della temporalità negativa che si perpetua nella tradizione storica d?mina~te_? Come giungere a una positiva definizione della d1scontmu1tà dell'esperienza, di contro alla celebrazione socialdemocratica dello «sviluppo» progressivo? Quali relazionj e produzioni immaginarie presentificano per noi la realizzazione della felicità e si pongono all'altezza della conflittualità determinata del presente? · In queste domande è implicita un'intenzione che forse rion ha ancora perduto di attualità. Per Benjamin ogni co:) scienza di «crisi» non è disgiungibile della tensione messia-: nica a sospenderne il corso. Che questo messianismo non sia riconducibile a categorie teologiche tradizionali, è quanto ho cercato di mostrare. Proprio per questo non possono essere trascurati i rapporti di Beajamin con la tradizione mistica dell'ebraismo. L'alternativa tra interpretazione «teologica» e «politica» del suo pensiero sembra ormai superata. Quel che importa è cercare di comprendere l'originale intersezione di questo messianismo col «più moderno» della politica. L'accanimento nichilistico contro la tradizione· è giustificato da Beajamin, ma non è il suo metodo proprio: che vorrebbe piuttosto compierne una lettura «a. contrappelo», come dice nelle Tesi. E cioè prendere coscienz~ .della sua pluralità, del suo essere discontinuo e conflittuale verso cui occorre rivolgere un'attenzione selettiva. Se n~n è possibile una lettura «tradizionale» di Bertjam~n,_ ~me quella proposta da ·scholem, mi sembra ~nche diff~c~e considerare il suo pensiero come una «teona della cns1», che immediatamente farebbe passare per liberatorio il disgregarsi della metafisica del soggetto. Se è vero che mai egli fornisce utopie «sub specie aeterni», ogni tempo ha per lui la sua specifica e determinabile chance rivoluzionaria che è compito di ogni generazione giungere a cogliere neÌla sua irripetibilità. Cristallizzare le risposte specifiche di Benjamin al suo tempo di emergenza, condurrebbe a un'inutile scolastica: tanto più urgente è conservare e com-
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prendere la sua intenzione profonda. Una teleologia, che non è il termine remoto di uno sviluppo, ma l'occasione irrìpetibile di felicità che ogni attimo potrebbe rivelarci; è un tratto fondamentale del suo pensiero. Se un compito esso ancora sembra proporre, non è certo l'amministrazione pragmatica e rassegnata dell'esistente: ma di individuare nella sua forma e conflittualità determinata la chance che, per noi, si pone nel nostro presente. Infine, qualche chiarimento terminologico. Il concetto di«demonico», così come è utilizzato in questi saggi, si riferisce al significato che esso assume dall'epoca romantica in poi. Non era mia intenzione ricostruirne intera la storia che conosce interpretazioni diverse e anche opposte a quella qui considerata. In questo contesto, demonica è la scissione della soggettività tra intelletto astratto e una physis definita come puro oggetto di dominio. Demonico è inoltre l'immaginario desiderio che non si rivolge a nessun oggetto reale ma verso le figure speculari e narcisistiche del soggetto. Un confronto col concetto di immaginario proposto da J. Lacan è ovviamente possibile, ma non era nelle mié int~nzioni. Qu11nto alla scissione tra spirito e sessualità .che è oggetto del primo saggio, il suo demonismo si riferisce a una tradizione di pensiero determinata. Non è qui il luogo di indicare tutti i riferimenti possibili, da Novalis, a Schelling, a Hoffmann, a Kleist : ma voglio almeno ricordare le riflessioni di Kierkegaard nella prima parte di Enten-Eller, ove Don Giovanni e Faust sono emblemi rispettivamente del demonismo erotico e di quello esclusivamente spirituale, in una prospettiva diversa da quella di Benjamin. Quanto al tema dell'«amore per l'immagine», esso è quasi un luogo comune della letteratura romantica tedesca: l'originalità di Benjamin è di averlo proposto nel contesto massificato della grande città. Il termine «moderno», si riferisce rigorosamente al suo significato nel saggio di Benjamin su Baudelaire, e nei frammenti conosciuti dei Passagen. Esso indica cioè lo sti:ato recente dell'esperienza che si apre alla fine del XIX secolo, con la vita di massa ·delle grandi metropoli, la nascita d.ella riproducibilità tecnica in ambito artistico, e la diffusione totalizzante della forma di merce. · 10
1. IL DEMONE
1.11 saggio su Kraus. Spirito soggettivo ed Eros In nessuno, più che in Kraus, BeJ1jamin ha riconosciuto i termini estremi della sua stessa tensione, mai come in questo caso pensiero, vita, ossessioni del critico minacciano di riverberare sull'autore, offuscandolo. Che questo limite non sia passato, che la distanza non ceda, sia pure per poco, all'identificazione, è il segreto di queste pagine. Tanto più rigorosamente si profilano in esse le costellazioni storiche ostili a cui Benjamin temette di soccombere, le tentazioni dissolutive a cui il suo linguaggio si sforza di tracciare confini. Il saggio su Kraus interroga le condizioni di possibilità dell'esperienza in un momento in cui la sua idèntità tradizionale sembra condannata alla frantumazione. Questa intenzione non ha nulla della positività dell'utopia, e rifugge da ogni progresso teleologico . Essa si limita ad indicare i termini drastici di una crisi, e i segni ancora precari di una decisione che potrebbe interromperla. Segnali di emergenza in cui si profilano i tratti di un'esperienia incompatibile con quella attuale, e che tuttavia si sanno e si vogliono provenienti dal luogo che vorrebbero abbandonare. Si vogliono: perché non balzano d'un tratto oltre il tempo, ma si pongono solo nel conflitto determinato con l'esperienzaimpoverita del moderno. La figura della speranza, nel caso di Benjamin, si rappresenta più in chi agisce tempestivamente, che nel gesto aristocratico dell'inattuale. Che questa figura agisca e abiti ancora nella costellazione storica da cui vorrebbe allontanarsi : questa doppia appartenenza, o se si vuole questa ~ 60 • In questo tragico dislocamento, che lo spirito deve imporsi in se stesso, si presenta, alle soglie della modernità, l'unica relazione possibile tra linguaggio e cosmo. Questa è la difficoltà estrema del «compito del traduttor~»- Esso non può che svolgersi all'interno di una storicità, in cui il darsi spontaneo del Nome è inattingibile, e solo. faticosamente «rappresentabile». La teodicea del Nome, nei saggi giovanili è la premessa di una domanda: cosa ne è, del nominare, all'interno della nostra temporalità, nel discorso dominato dal verbo e dalla forma giudicante. Il linguaggio profano che designa la physis per impossessarsene, non può che negarla, e costruirsi con la più funzionale «economicità». L'unico Nome di Satana appariva al malinconico barocco l'emblema stesso del pensiero della negazione, e nei miasmi che l'accompagnano inizia60. Hllldcrlin, Sul tragico, cii., p. 60.
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va il cristiano-barocco regno del significare. 7. n compito del traduttore nella modernità
L'estrema e luttuosa sapienza del malinconico parte dalla constatazione che la pronuncia del nome è divenuta impossibile, e con essa la percezione del sacro che l'accompagnava. Se egli è consapevole del negativo che appartiene a ogni lingua storica, ciò non è certo sufficiente a fondare una nuova positività. Come «moderno» egli è immerso nello spazio della temporalità e della parola giudicante, ed è su questo terreno che si propone il «compito del traduttore», non su quello ideale della condizione edenica. Un simile traduttore potrebbe essere Kraus, che mentre compita incessantemente il linguaggio della chiacchiera, tuttavia lo critica, lo disloca, lo apre oltre se stesso. Ma, ancora una volta, H6lderlin è forse la figura emblematica delle intenzioni di Benjamin. «Le traduzioni di Sofocle furono le ultime opere di Holderlin. In esse il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in ·profondità senza fondo» 61 . Una tale tensione linguistica porta una lingua storica, qui il tedesco, al limite in cui essa, come dicevano i surrealisti, non sa più dove infilare «il gettone senso». Se il negativo procedere, la «chiacchiera» del discorso utilitario, è costretta al silenzio, e non può più riposare nei significati acquisiti dell'abitudine, il linguaggio può ridiventare traccia di ciò che altrimenti gli resterebbe indicibile: l'idea del Nome, e il diverso rapporto tra spirito e physis che essa promette. Nessun ritorno all'indietro, nessun recupero dell'origine è immediatamente possibile: quella corrispondenza ideale è ora più che altro la speranza, il non-ancora-6tato dello spirito linguistico che ne preseritifica l'immagine solo indirettamente e con fatica, nell'abisso che l'autore-produttore scava sotto la chiacchiera. È in questo spazio svuotato dalla critica che il non detto, ciò che resta l'inespresso nelle lingue storiche, pone il problema della rappresentabilità, e delle inusuali operazioni linguistiche che la consentono. Il traduttore Holderlin opera certo entro lo spazio moderno della malinconia: ma sotterraneamente lavora per riassumer61. A.N., p. 49.
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ne l'estrema distruttività e pronunciare contro di esso un ultimo giudizio. La sua fine sembra essere il nulla, la sua verità solo l'indicibile di fronte a cui si arresta. Ma ciò non vuol dire che l'esito di questa parola sia un effettivo silenzio, o il mutismo della follia. I versi di Holderlin ci appaiono talvolta come traduzioni imperfette da un linguaggio ancora inesistente. L'arresto di fronte a ciò che resta indicibile rompe certo il discorso in una serie frammentaria , ma non priva di significato: ogni suo elemento rinvia, come un tormentato allegorema, a una patria ancora cercata di cui si sforza di rintracciare i contorni. Essi sono simili agli incerti disegni dell'esploratore di una zona ignota. Mappe e traduzioni in tal senso sono anche molte delle immagini dialettiche di Benjamin. L'essere del malinconico moderno si tende come un 'arcata che poggia sui due estremi di una duplice appartenenza. Da un lato la sua vita trascorre nella t emporalità del moderno, e nella negatività del linguaggio soggettivo. Egli non può che sapersi partecipe e coinvolto, anche solo passivamente, nel violento intricarsi dello spirito di potenza e nelle sue conseguenze sul corso del mondo. D'altra parte, egli intuisce frammenti già p-resenti, comunque presenti, di uno spazio edenico dove il cosmo e l'uomo si porrebbero in corrispondenza esi direbbero in un diverso linguaggio: dove la pienezza della vita messianica, l'ebbrezza dell'eterno divenire, realizzerebbe la sua integralità, e la durata reale del suo tempo. Per Benjamin, almeno in questo d'aecordo col suo amico Bloch, la speranza non ha l'infondatezza dell'utopia astratta. Essa si riferisce a una potenzialità latente dell'esperienza, già presente e visibile nei frammenti in cui si scompone il soggetto della modernità. La forma asistematica, frammentaria, è la più adatta ad esprimerla, non per un capriccio stilistico , ma perché più rispondente alle modalità reali in cui si mostra. Solo che le immagini della vita messianica sono intricate nella vita moderna della metropoli, nel linguaggio che la esprime, e nella sua negatività. Perciò esse sono dette «dialettiche»: perché se si costituiscono come tracce di un 'esperienza che sospenderebbe il corso della volontà di potenza, esse si mostrano solo all'interno del suo tempo, solo nel conflitto determinato con
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essa, e intervenendo su forme di linguaggio e di esistenza specifiche dell'epoca. L'illuminazione è detta profana perché si muove tra i due estremi di questa duplice appartenenza. Essa non postula alcuna epoché, alcuna ekstasis dal suo tempo determinato, a cui talvolta indulgono le grandi filosofie contemporanee di Heidegger e di Husserl. «Essa chiede la paradossale redenzione dal tempo, nel tempo del nichilismo» 62 , come dice un interprete italiano di Benjamin. Nella storia del moderno, in cui si trova gettato, il malinconico strappa attraverso la critica e il carattere distruttore della sua opera, spazi di rappresentazione a ciò che non è in essa. Tra questi due estremi ·cerca scampo, un territorio salvato dalla follia. «Debole», dice Beniamin è la forza messianica che ci è toccata in sorte. Le immagini in cui si cristallizza il suo lavoro sono «dialettiche», come quelle dell'ultimo H6lderlin. Esse convergono verso il fuoco della risoluzione messianica, ma il loro materiale, la loro occasione, non può che provenire dalla storicità del moderno. Il loro centro resta indicibile per il linguaggio categoriale della metafisica, se non come mancanza, vuoto che esso non riesce in alcun modo a colmare. Lo spazio dell'immagine dialettica si apre nella dissolvenza dei fondamenti da cui è investito il soggetto della metafisica. In eccesso sul linguaggio del negativo, benché minacciata dal suo ordine discorsivo, essa conquista la sua effimera lucente intensità, e solo in questo conflitto «rappresenta». la possibilità di un diverso rapporto tra Io spirito e la physis. Immagini dialettiche emergono dall'abisso in cui il senso sprofonda, nelle traduzioni di Holderlin, e dalla rovina della «chiacchiera» discorsiva, che continuamente vorrebbe riprendersi oltre. Giungere a questi limiti del comunicabile, attraversando lo spirito linguistico, il Lògos storico della potenza, senza illudersi sul ritorno a un'innocente immediatezJ:a: in questa intenzione è il teso rigore di Benjamin, ciò che lo allontana da ogni nostalgia del primordiale, in cui si conclude la riflessione di un Klages. L'Eden rimpianto dai «critici della cultura» è un surrogato mitico della liberazione: quella autentica chiede il duro vaglio critico del 62. M. Cacciari, Dallo Steinhof, Milano 1980, p. 189.
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passato e della storia, si pone alla soglia del suo estremo sviluppo, nel presente in cui abitiamo. Perciò Benjamin si attende la salvezza dall'uso modificato della téchne, e non come George da una rinascita misterica del sacro. Solo chi, come Kafka, tradisce la tradizione e ricerca le tracce di una nuova esperienza nei caratteri determinati del presente, accede a un rapporto autentico col passato e attualizza le speranze che ci ha lasciato in eredità. Certo, nessuna «Scrittura» garantisce questa ricerca. I «sacerdoti» che codificano in Legge la forma astratta del già-stato, assimilano il passato all'inerzia ripetitiva del mito. Perché il mito non è •solo la condizione che precede il costituirsi del soggetto: ma in esso precipitano anche le forme invecchiate del suo spirito. Attraversate al loro apparire da una forza messianica, esse si conservano poi nella loro astrattezza giuridica, divengono accettabili per il loro stesso svuotamento. Solo l'intenzione che si colloca all'altezza dello «stato d'emergenza» presente può accedere a una diversa memoria, strappare le figure spirituali del passato alla «tradizione culturale»: «passare a contrappelo la storia» 63 significa rivivificare in essa ogni momento e ogni forma in cui vibrò la speranza del suo arresto messianico. «Il pericolo Sòvrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla»64 • La memoria e i suoi oggetti si iscrivono nello stesso conflitto di forze che determina il presente, e il cui esito ne determina la qualità. L'oscurità, in cui termina la vita di Benjamin, non si deve solo al dilagare del nazismo, e alla delusione per il patto Ribbentropp-Molotov ma è anche il prezzo del suo sforzo più assiduo: «tradurre» incessantemente il linguaggio moderno della soggettività, scoprire in esso le tracce di un'esperienza che più non gli appartiene. Se e~ è il teorico del «carattere distruttivo>>, si deve anche riconoscere la tensione positiva del suo pensiero, il bisogno essenziale di felicità che 63. A.N., p. 76. 64. lvi, p. 74.
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emerge dal saggio su Proust. Se la pronuncia del nome, nel racconto biblico , animava le latenti forze della natura, le parole frammentarie del malinconico alludono alla possibilità di una mutazione fisiologica nel rapporto tra l'uomo e la sua ptopria physis, che interromperebbe la pura intenzione del dominio. Per essere espressa compiutamente, f ,sa richiederebbe nientemeno che una «nuova lingua», più alta di quella accessibile al «traduttore», degna solo di un Angelus Novus, un essere non più umano, non più identico con l'uomo soggetto della metafisica. Questa figura è accennata nel saggio su Kraus. Essa è mossa dall'«eros della lontananza», si volge all'altro da sé con un amore che non lo abolisce nell'identificazione, e ne moltiplica i significati dicibili, piuttosto che ridurli all'unica misura dell'appropriazione. Certo, la macchina fisiologica in cui si annuncia questa trasmutazione è la più delicata, come diceva, per se stesso, Nietzsche. Essa è in tensione tra due estremi : il nichilismo più distruttivo e l'attimo dionisiaco dell'ebbrezza sono i poli del suo incessante conflitto. La sua speranza è anche il suo rovente pericolo: perché il traduttore non può non essere anche un io, soggetto del giudizio e complice del suo demonismo. La storia che così lo ha costituito, è anche sua. In se stesso non può disconoscere la presenza di quella magia «estrinseca», che fissa i valori del bene e del male, e trasforma il vivente nel campo di guerra della volontà: «[ ... ] Il peccato originale è l'atto di nascita della parola umana, in cui il nome non vive più intatto, che è uscita fuori dalla lingua nominale, conoscente[ ... ] dalla propria magia immanente, per diventare espressamente magica, per così dire dall'esterno» 65 • Magia immanente è quella che innerva una corrispondenza dicibile dell'uomo e della physis : l'altra pone «dall'esterno» il soggetto contro la materia, e si sviluppa nelle tecniche del suo dominio. Tutte le immagini dialettiche e le figure estreme di Benjamin, il malinconico, il traduttore, gli studenti kafkiani, apprendono in se stessi questa duplicità, e muovono, come il cavalcatore della favola66, 65. lvi, p. 63. 66. lvi, p. 287.
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oltre di essa. «Rimane in ogni lingua e nelle sue creazioni, oltre il comunicabile un non comunicabile, qualcosa[ ... ] di simboleggiante o di simboleggiato» 67 • . L'Angelus Novus vorrebbe parlare questa lingua di puri simboli. La sua intenzione si ripete e dura nel suo essere effimero. «In questa pura lingua, che più nulla intende e più nulla esprime, ma come parola priva di espressione e creativa è l'inteso in tutte le lingue, ogni comunicazione, ogni significato e ogni intenzione pervengono ad una sfera in cui sono destinati a estinguersi» 68 •
8. n «Sagen» di Heidegger e la lingua dell'Angelus È utile a questo punto un confronto tra ·1a concezione del linguaggio di Benjamin, e quella proposta da Heidegger per il Dire (Sagen) degli ultimi poeti. Heidegger distingue il proprio concetto di lingua da ogni moderna riflessione su di essa, che la consideri solo come espressione: dove il segno è solo rappresentante, in luogo di un referente oggettivo, o di un contenuto ideale del soggetto. In questo linguaggio il soggetto darebbe mediatamente una rappresentazione di sé, sorgerebbe nella sua presenza a se stesso; ma restando interamente all'interno della sua struttura metafisica. La mediazione avviene infatti attraverso un designare in cui le «cose» entrano nell'ordine del suo discorso, e si sottopongono alla sua·pretesa all'identificazione. Se in generale è il «lavoro» del soggetto sulla cosalità che dialetticamente media la possibilità del suo giungere a se stesso, e consente lo sviluppo che attuerebbe la sua identità: un tale operari sugli oggetti è possibile solo in quanto essi divengono enti di discorso e fondamento dell'espressione. Una intenzione non dissimile si rivolge verso gli Erlebnisse interiori, che solo in quanto rappresentabili nel linguaggio entrano nell'ordine della memoria consapevole. Il momento denotativo del linguaggio suppone l'esser di fronte del soggetto e dell'oggetto condizionato dalla pretesa all'identificazione, dalla «cura» dell'impossessamento. Il «significato» che si costituisce in questa relazione, è già 67. lvi,p. 47 . 68. lvi, p. 48.
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fondato su un rapporto negativo, su una logica selettiva che intaglia nell'essere oggettivo la «materia» funzionale alla pianificazione del soggetto, e nega l'altro da sé confinandolo nell'inessenziale. In ciò che appare, questo linguaggio fa accedere alla dicibilità solo quel che si presta all'intenzione dell'operari dialettico. «Il linguaggio è l'espressione del discorso. La totalità delle parole attraverso cui il discorsso acquista un proprio essere «moderno», viene ad essere disponibile come un ente intramondano, come un utilizzabile. 11 linguaggio può essere frantumato in parole-cosa semplicemente presenti» 69 • Così il linguaggio non «salva» i fenomeni : ma li definisce, per negazione, all'interno di questa intenzione, e opera nella p_rospettiva esclusiva dell'utilizzabilità. Nel suo ambito, anche il dialogo tra gli umani è una successione di domande che un esaustivo riempimento di senso dovrebbe soddisfare. Chi parla, intef!