Parole Di Montagna: Il Lessico Geografico Nelle Alpi Cozie [Bilingual ed.] 9782503585222, 2503585221


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Italian Pages 323 [340] Year 2019

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Parole Di Montagna: Il Lessico Geografico Nelle Alpi Cozie [Bilingual ed.]
 9782503585222, 2503585221

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PAROLE DI MONTAGNA IL LESSICO GEOGRAFICO NELLE ALPI COZIE

Publications de l’Association Internationale d’Études Occitanes XIi

Directeur de Collection Rosa María Medina Granda

PAROLE DI MONTAGNA IL LESSICO GEOGRAFICO NELLE ALPI COZIE

ALINE PONS

H F

Copertina: foto di Aline Pons Ceillac, Hautes-Alpes, luglio 2015. © 2019 Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher. D/2019/0095/238 ISBN 978-2-503-58522-2 ISSN 1782-1770 e-ISBN 978-2-503-58839-1 e-ISSN 2565-9952 DOI 10.1484/M.PAIEO-EB.5.119492 Printed in the EU on acid-free paper.

INDICE Presentazione

di Matteo Rivoira

Premessa Capitolo I

xi 1

Le Alpi Cozie

5

I.1. Cenni di storia dell’area I.2. Da Salbertrand ad Argentera I.3. L’area linguistica I.3.1. Profilo sociolinguistico I.3.2. Profilo linguistico

8 15 20 20 22

Capitolo II

27

Studi e materiali

II.1. Studi semasiologici nella geografia linguistica II.1.1. Il primo studio sulle aree semantiche II.1.2. Le carte semasiologiche negli atlanti linguistici della Romània II.1.2.1. Atlas Linguistique et ethnographique de la Gascogne II.1.2.2. Noul Atlas Lingvuistic român pe regiuni – Oltenia II.1.2.3. Atlas linguistique et ethnographique de l’Alsace II.1.2.4. Atlas Linguistique et ethnographique de Provence II.1.2.5. Atlas Lingüístico Galego II.1.2.6. Atles Lingüístic del domini català II.1.3. Esperienze italiane di ricerca semasiologica II.1.3.1. Atlante Lessicale Toscano II.1.3.2. Atlante Linguistico della Sicilia II.1.3.3. Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale II.1.4 Studi di semantica dialettale II.2. Materiali di lavoro II.2.1. I dizionari II.2.2. La grafia

27 29 30 32 32 33 33 34 34 34 35 35

Capitolo III

47

La ricerca

III.1. Scelte di metodo III.2. L’elemento umano III.2.1. La raccoglitrice III.2.2. Informatrici e informatori III.3. L’indagine

36 37 39 39 43

47 48 48 49 53

III.3.1. Individuazione dei tipi lessicali III.3.2. Primo ciclo di interviste III.3.3. Costruzione del questionario II III.3.4. Secondo ciclo di interviste III.3.5. Organizzazione dei materiali nel Lessico III.3.6. Analisi semantica dei lessemi Capitolo IV

Analisi semantica del lessico geografico

53 53 54 55 55 56 59

IV.1. L’analisi IV.1.1. Che cosa si intende per campo semantico IV.1.2. Che cosa si intende per tratto distintivo IV.1.3. Che cosa si intende per tassonomia IV.1.4. Polisemia e variazione diatopica del significato IV.1.5. Fonti lessicografiche IV.2. Le parole relative alla pedologia IV.2.1. Le pietre IV.2.2. Le pietraie IV.2.3. Le frane IV.2.4. La roccia compatta IV.2.5. Il fango IV.3. Le parole relative alla Morfologia del rilievo IV.3.1. I ripari IV.3.2. Le spaccature IV.3.3. Le depressioni del terreno IV.3.4. Il piano IV.3.5. Il pendio IV.3.6. Il solco vallivo IV.3.7. Il rilievo isolato IV.3.8. Le creste IV.3.9. Tracce e sentieri IV.4. Le parole relative alle acque IV.4.1. Le acque correnti IV.4.2. Le acque ferme

59 60 61 62 62 63 66 66 70 78 82 87 99 99 105 109 115 121 128 141 147 153 162 162 181

Capitolo V

Considerazioni conclusive

201

V.1. Considerazioni sul metodo V.2. Considerazioni sulla variazione semantica nello spazio V.3. Considerazioni sull’analisi semantica

201 204 213

Allegati

217

Questionario I Questionario II

217 221

Appendice

Lessico

239

Impostazione del lessico Struttura delle voci Lemma Significato Materiale informativo Forme correlate Toponimi Geosinonimi Lessico Indice dei traducenti

239 241 241 242 243 243 243 244 245 306

Bibliografia

309

Atlanti linguistici Dizionari e grammatiche Studi citati

309 311 314

A Ines Grill, in memoria

Guardando la catena delle Alpi Cozie da Saluzzo, con mia nonna io: «Grammamà, beuicà lou Monviso!» mia nonna: «al ê sfachà, â së lèvo sû lh’aoutri».

RINGRAZIAMENTI Questo volume contiene una rielaborazione della mia tesi di dottorato, discussa presso l’Università degli Studi di Torino il 22 maggio 2017 (commissione giudicatrice composta da Francesco Avolio, Neri Binazzi e Roberto Sottile). Il lavoro di ricerca che si presenta di seguito non sarebbe stato possibile senza la pazienza, l’interesse e l’aiuto delle informatrici e degli informatori che mi hanno accolta nelle loro case e che hanno accettato di spiegarmi il significato delle loro “parole di montagna”. Il mio grazie più sentito va dunque a Irma Albertini, Clelia Baccon, Mirella Baccon, Anna Balma, Franco Baudino, Angelo Bianco, Clementina Bruna Rosso, Silvio Costabel, Adolfo Charbonnier, Laurina Deyme, Paola Gaidou, Antonio Garnero, Renzo Guiot, Rosa Jannon, Irma Lantelme, Ettore Long, Marcella Lorenzati, Oreste Lorenzati, Lucia Marcellin, Italo Melli, Jeannot Missimili, Nicoletta Negrin, Eudilia Rei, Giovanni Antonio Richard, Pierina Richard, Pierino Rolando, Davide Roux, Mariarosa Roux, Roberto Roux, Ada Sappé, Renato Sappé, Claudio Tron, Edda Tron. Il contatto con molte di queste persone è stato reso possibile dalla rete degli Sportelli Linguistici per l’Occitano del Piemonte e dall’aiuto di amici e conoscenti; in particolare, vorrei ringraziare Tatiana Barolin, Ines Cavalcanti, Enrica Charbonnier, Ivana Costabel, Tiziana Gallian, Stefano Martini, Davide Ollearo, Mirella Rebuffo, Renato Sibille. Per scrivere la tesi di dottorato, ho potuto contare sulla guida rigorosa e intelligente di Sabina Canobbio e sulla lettura attenta e curiosa di Tullio Telmon: a loro va il mio più sincero ringraziamento. Un ringraziamento doveroso e sentito va anche a Matteo Rivoira, che con il suo spirito critico e la sua passione per la ricerca ha saputo indirizzarmi e motivarmi, a Monica Cini, per i preziosi consigli sull’impostazione del Lessico, a Riccardo Regis, per la scrupolosa lettura di alcuni passaggi e a Federica Cusan, per i consigli sui questionari. Se gli anni di dottorato sono stati per me un’occasione di crescita umana e scientifica, devo ringraziare anche e soprattutto i miei colleghi, con i quali non sono mancate le occasioni di confronto, consiglio e conforto. In particolare, le chiacchierate con Silvia Giordano sono state uno spazio indispensabile per maturare le diverse scelte che hanno definito il mio percorso di ricerca; più recentemente, Sara Racca mi ha fornito un aiuto indispensabile per la creazione delle carte. Da ultimo voglio ringraziare i miei genitori Daria e William, mia sorella Esther e il mio compagno Eugenio, che, sostenendomi in tutto il resto, mi hanno sostenuta anche in questo lavoro.

PRESENTAZIONE di Matteo Rivoira

La ricerca dialettologica che si articola nella prospettiva geolinguistica muove le sue osservazioni partendo principalmente dai dati contenuti negli atlanti linguistici, raccolte ordinate di carte che permettono di apprezzare la variazione (o, viceversa, l’unità) dei significanti in uso nei diversi punti di inchiesta per tradurre un determinato concetto, secondo un modello che gli studiosi hanno chiamato “onomasiologico”. Tali sono, per esempio, le carte linguistiche elaborate dagli atlanti linguistici tradizionali (come l’Atlas Linguistique de la France, l’Atlante Italo-Svizzero o l’Atlante Linguistico Italiano), ma anche prevalentemente quelle costruite dalle imprese più moderne che hanno in parte rinnovato l’apparato teorico-metodologico di base (come l’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale, per rimanere all’ambito geografico e linguistico che qui ci interessa). La variazione linguistica nello spazio, interpretata alla luce dei dati storicogeografici, geopolitici ecc., permette al geolinguista di formulare ipotesi circa le dinamiche di innovazione di determinati fatti linguistici che dai centri principali si sono diffuse sino a raggiungere (o meno) le più remote località. La fotografia della situazione linguistica relativa al periodo delle inchieste fissa dunque un momento di una complessa dinamica e la disposizione dei dati, opportunamente contestualizzati in un più articolato quadro storico-culturale, lascia intravvedere sia le evoluzioni in atto, sia quelle la cui spinta propulsiva si è ormai esaurita. Gli atlanti linguistici, tuttavia, come già avvertirono i grandi maestri quali Karl Jaberg, Jakob Jud e Benvenuto Terracini, servono agli studiosi soprattutto per porre le domande corrette più che per trovare le risposte definitive (posto che ne esistano di tali). In qualche misura la carta linguistica non può che presentare uno schizzo generale di orientamento, giacché moltissime sono le informazioni che essa da sola non è in grado di dare. I principi secondo i quali gli atlanti linguistici romanzi sono stati concepiti e i metodi su cui si fonda la loro realizzazione si inscrivono, ad esempio, in un orizzonte in cui l’obiettivo centrale è la ricostruzione dell’evoluzione storica, considerata soprattutto dal punto di vista della fonetica e del lessico. Le forme dialettali sono dunque raccolte sulla base di ipotesi ben precise: da un lato termini riconducibili a un medesimo tipo lessicale (in genere latino) che ci daranno informazioni sull’evoluzione dei singoli suoni, dall’altro termini che variano molto informandoci su correnti culturali di altra natura. Alla base di tutto, oltre alla scelta delle località da investigare, vi è ovviamente il questionario, che diventa lo strumento principale per indagare le diverse parlate

PRESENTAZIONE fornendo una guida a chi conduce le indagini e una struttura per organizzare i materiali raccolti. Al contempo proprio nell’ambito della ricerca geolinguistica è maturata un’attenzione per gli aspetti etnografici di cui il lessico è espressione. Per comprendere le diverse terminologie si sono documentate così anche le “cose”. Per non fare che un banale esempio: l’opposizione e la diffusione dei tipi lessicali aratro, sloira e voltino, tutti documentati in Piemonte – insieme ad altri ancora – per indicare l’aratro, si comprenderà considerando la diffusione del tipo di aratro arcaico (chiamato appunto araire, arau, ecc.), delle tradizionali sloire padane occidentali, un tipo di aratro pesante dotato di una stegola particolarmente lunga, e quella dei più recenti voltini, con il vomere ribaltabile. Difficilmente, tuttavia, riusciremo a inquadrare i materiali in una prospettiva compiutamente etnolinguistica, essendo questi in larga misura ormai decontestualizzati. Il questionario, in questo senso, e più generalmente ogni tipo di indagine linguistica che si fondi sulla raccolta di dati mediante schemi rigidamente prefissati, non può che restituire un’immagine assai sbiadita, se non distorta, di quelle che sono le complesse strutture linguistiche soggiacenti alla visione del mondo veicolate dai dialetti. Le domande che il raccoglitore pone andranno quindi più correttamente considerate come ipotesi di lavoro, oltretutto fondate su una strutturazione del lessico, e quindi dei concetti che esso deve esprimere, elaborata in un’altra lingua, sicuramente presente nel repertorio linguistico comunitario ma in una posizione complementare rispetto alle varietà indagate. Con ciò siamo ben lungi dal negare la possibilità di trarre dai materiali raccolti con i metodi tradizionali notizie per arricchire il quadro a prima vista “piatto” offerto da una carta linguistica. Innanzitutto, le risposte sono corredate da note che permettono una seppur minima contestualizzazione del dato (e, almeno negli esempi migliori, sappiamo molto su come sono state poste le domande e in quale ordine) e poi la carta non esaurisce in sé stessa le possibilità di lettura. In altre parole, confrontando diverse carte relative a un medesimo ambito, potremo ricavare notizie sulle possibili strutturazioni dei significati e, quindi, desumere informazioni sui modelli di concettualizzazione della realtà di una determinata comunità linguistica, per quanto in realtà rappresentata (in una certa misura “arbitrariamente”) dall’informatore – o gli informatori – intervistati. Inoltre, ribaltando la prospettiva onomasiologica, si può osservare la variazione non più dei significanti, ma dei significati, secondo un approccio che è stato definito “semasiologico”. Studiare come cambia il significato di un singolo termine e come varia l’insieme delle sue accezioni ci permette di considerare da un altro punto di vista la storia della cultura dei territori che indaghiamo. I limiti del questionario come strumento di indagine, benché già presenti ai raccoglitori delle grandi imprese geolinguistiche del primo Novecento, sono stati superati da un lato mediante un’applicazione che ricorreva a svariati stratagemmi per xii

PAROLE DI MONTAGNA tentare di non “imporre” il modello linguistico (e concettuale) della lingua di cultura di riferimento: Ugo Pellis, raccoglitore infaticabile dell’Atlante Linguistico Italiano, oltre a usare immagini, ricorse anche a gesti o oggetti e sappiamo che in Sardegna arrivò sino a imparare una varietà sui generis di campidanese per rendere più efficace la comunicazione con gli isolani. Gli sviluppi successivi della geolinguistica, maturati nei cantieri degli atlanti regionali, hanno potuto superare molti dei limiti metodologici ricorrendo da un lato a raccoglitori che conoscessero a fondo le diverse realtà linguistiche che andavano indagando e che dunque erano in grado di farsi carico essi stessi di quel lavoro di “traduzione” che le inchieste tradizionali lasciano ricadere in larga misura sull’informatore, dall’altro rinunciando a raccogliere le aride risposte a un questionario a favore di una valorizzazione dell’intero contesto comunicativo all’interno del quale avviene la “costruzione” del dato linguistico, che viene così già trasmesso in maniera contestualizzata. Questa lunga premessa per collocare con maggior precisione le Parole di montagna di Aline Pons in un quadro più generale ed evidenziare quelli che mi paiono essere le principali novità dell’opera e i principali pregi. La sua ricerca e la successiva elaborazione, infatti, prendono spunto proprio dalle domande che i materiali raccolti da un atlante linguistico (nello specifico si tratta dell’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale - ALEPO) pongono a chi li voglia studiare. Il campo indagato è quello dei termini geografici relativi alla montagna, ambito nel quale l’ALEPO può vantare un approccio assai articolato e particolarmente pertinente, giacché il suo territorio d’indagine è appunto montano e il questionario adottato come base per le ricerche è quello elaborato da Gaston Tuaillon per indagare espressamente i contesti alpini. Ciò che i dati dell’ALEPO mostrano (e a maglie più larghe propongono anche gli atlanti nazionali che hanno indagato l’area) è, da un lato, la parzialità della corrispondenza tra i sistemi classificatori dello spazio propri dell’italiano o del francese rispetto a quelli in uso localmente, dall’altro, una variazione che non si declina soltanto sul versante dei significanti, ma che è osservabile anche sul piano dei significati. In altri termini, per nominare i diversi accidenti (rilievi, pendii, avvallamenti, acque correnti e stagnanti) troviamo spesso, nei diversi punti di inchiesta, forme riconducibili a un medesimo tipo lessicale il cui significato può però variare, così come può variare la sua “estensione semantica”, ovvero l’insieme di accezioni e usi che ne definiscono il pienamente il significato. Questa ricchezza e questa complessità sono state intercettate dalla sensibilità “montanara” dell’Autrice che ha voluto approfondire l’ambito lessicale prescelto con un’indagine di impostazione schiettamente etnolinguistica, volta a descrivere e comprendere i modelli di organizzazione dello spazio di alcune comunità alpine delle Alpi Cozie di parlata occitana, tenendo insieme la profondità di indagine, che in genere è dato riscontrare negli studi monografici dedicati a una sola località, con lo sguardo aperto su un territorio sufficientemente vasto da permettere di apprezzare la variazione xiii

PRESENTAZIONE diatopica e, attraverso questa, formulare ipotesi interpretative relative alla sua strutturazione dal punto di vista linguistico. Nel farlo Pons ha potuto attingere tanto alla sua eccellente conoscenza del contesto geografico, culturale e linguistico, essendo lei stessa patoisante (elemento che ha saputo valorizzare in modo originale), quanto all’esperienza di ricerca maturata nel suo percorso di formazione, dapprima nell’ambito della toponimia di tradizione orale (ha svolto approfondite ricerche nel quadro del progetto dell’Atlante Toponomastico del Piemonte Montano), e poi presso l’ALEPO, di cui è redattrice. La toponimia orale (e montana) offre infatti interessanti spunti per maturare una riflessione in merito alle forme della concettualizzazione dello spazio elaborate e sedimentate nel tempo presso le comunità indagate e, contemporaneamente, lo studio delle denominazioni di luogo, in prospettiva dialettologica, si pone in nuce come studio semasiologico ed etnolinguistico in senso proprio, non solo perché il materiale raccolto è selezionato non in base a un questionario, bensì puntando all’esaustività, ma anche perché i raccoglitori e le raccoglitrici impegnati nella ricerca sono essi stessi membri della comunità, com’era il caso appunto di Aline Pons che ha indagato il repertorio toponimico del paese dove è cresciuta. D’altro canto i principi ispiratori dell’ALEPO e i suoi metodi di indagine e valorizzazione dei materiali discendono in larga parte per via diretta dagli insegnamenti di Benvenuto Terracini, per il quale il parlante, con il suo atteggiamento nei confronti della lingua, costituiva una delle chiavi di volta per comprendere la realtà linguistica indagata. Parole di montagna è però, in primo luogo, frutto di una solida ricerca sul campo, impostata sin dall’inizio con consapevolezza teorica e profonda sensibilità umana, in modo da valorizzare appieno le competenze della raccoglitrice e, quindi, ricavare il maggior numero di dati pertinenti dagli informatori e informatrici coinvolti, sollecitati in una prospettiva collaborativa a condividere il proprio sapere e le proprie opinioni sulla materia. La possibilità di ricorrere a una lingua condivisa ha permesso di indagare le strutture semantiche dei termini geografici senza la mediazione della lingua di cultura (italiano e, in un caso, francese) che è la principale antagonista delle varietà locali. Si tratta evidentemente di una grande facilitazione che tuttavia non è esente da problematiche: innanzitutto le varietà in gioco erano diverse – ma la differenza ha giocato un importante ruolo in una prospettiva contrastiva – e, soprattutto, non si può pensare, se non per un postulato di ricerca consapevolmente artificioso, che le strutture categoriali lessicalizzate debbano obbligatoriamente non includere anche quelle acquisite tramite la lingua italiana. Pons gestisce con grande consapevolezza (e onestà intellettuale) questi limiti di cui è perfettamente consapevole e ci propone uno studio approfondito e ricco che indaga con i mezzi adeguati la semantica di uno specifico ambito lessicale, individuando nella scomposizione in tratti di matrice strutturalista lo strumento di analisi più efficace per analizzare nel dettaglio i fatti di lingua senza disperdersi nell’atomizzazione che rischia la ricerca dialettologica quando si rivela eccessivamente votata all’esaltazione della variazione.

xiv

PAROLE DI MONTAGNA Innestata sul tronco tutt’altro che rinsecchito della geolinguistica, la ricerca di Pons segue pienamente l’insegnamento dei due maestri svizzeri Jaberg e Jud che nel volume introduttivo dell’Atlante linguistico Italo-Svizzero ribadivano come la lingua sia «cresciuta sul saldo terreno della realtà concreta» e dunque «alla realtà concreta dovrà sempre ritornare chi voglia rinnovare il suo atteggiamento conoscitivo». Le carte semasiologiche (e il lemmario in appendice) ci offrono un quadro che Pons riesce a sintetizzare in modo molto efficace, restituendoci un’organizzazione dello spazio linguistico dell’area occitana cisalpina (almeno della porzione indagata) per certi versi inedito, che collima solo in parte con le classificazioni di stampo “neogrammaticale”, ribadendo solidarietà culturali, come quella che fa capo alle Valli Valdesi. Lo studio si pone in questo senso come modello per ulteriori sviluppi che potrebbero interessare altri ambiti etnolinguisticamente rilevanti, contribuendo a definire con sempre maggior esattezza derive e convergenze linguistiche, alla luce delle complesse dinamiche del contatto linguistico che interessano quest’area.

xv

PREMESSA La motivazione profonda che ha fatto nascere questa ricerca è probabilmente da ricondurre al mio amore per la montagna, che ho vissuto per la maggior parte dei miei trent’anni e che ho percorso in tutte le stagioni, da sola o in compagnia, dacché sono stata capace di camminare. Quando, alla conclusione del mio corso di studi triennale (in Comunicazione Interculturale) mi sono recata dal Prof. Telmon per chiedergli di poter discutere una tesi in dialettologia, avevo timidamente proposto di occuparmi dei nomi delle montagne. Il Professore, saggiamente, mi aveva indirizzata verso una più modesta tesi di toponomastica su un vallone del mio comune, scherzando sul fatto che avrei potuto affrontare il tema più ampio nelle tesi successive. Senza che me lo proponessi razionalmente, ho finito per fare esattamente quello che suggeriva allora il Professore. Per la tesi specialistica (in Scienze Linguistiche) ho lavorato sulla toponomastica del comune di Villar Perosa, studiando la distribuzione delle competenze toponimiche fra i diversi informatori e, di conseguenza, il grado di condivisione dei diversi toponimi all’interno della comunità. E finalmente, nella tesi dottorale, sono arrivata a occuparmi delle “parole di montagna”. Il taglio con cui affrontare l’argomento mi è stato suggerito dal lavoro nel cantiere dell’ALEPO – l’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale1: sin dall’ascolto delle prime interviste relative al modulo V/I Lo spazio, mi ha colpita la mancata simmetria fra i concetti indagati dal questionario (espressi nella lingua nazionale) e i concetti legati alle risposte dialettali, sui quali gli etnotesti2 gettavano qualche luce. Il tema del significato del lessico geografico mi aveva interrogata già durante le mie ricerche precedenti: per fare un solo esempio, mi ero stupita quando la redazione dell’ATPM – Atlante Toponomastico del Piemonte Montano3, mi aveva chiesto di verificare il significato del termine coumba, che nella mia prima tesi avevo tradotto acriticamente (come spesso si fa quando si traduce dalla propria varietà dialettale alla propria lingua nazionale) come “ruscello”, ma che – scoprii allora, nel resto delle Alpi Occidentali significa principalmente “vallone”. In ambito toponomastico, la riflessione si articolava soprattutto nella direzione della trasparenza (e della cristallizzazione) dei toponimi, ma a livello lessicale sarebbe stato interessante mappare la variazione diatopica dei significati: è quello che mi sono proposta di fare quando ho iniziato il lavoro di ricerca per la tesi di dottorato alla 1 2 3

In corso di redazione presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino, l’ALEPO è giunto all’edizione dei materiali relativi al V volume, dedicato allo spazio e al tempo. Per una storia del progetto, si può far riferimento a Canobbio/Telmon (2003). Ovvero tutti quei «testi orali che rappresentano un’espressione autonoma della cultura di una comunità linguistica ricordi personali, testimonianze di usi, tradizioni, credenze, descrizione di oggetti e del loro funzionamento, ma anche indovinelli, filastrocche, leggende e storie» (Canobbio 2004a: 306). In corso di redazione presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino, l’ATPM ha pubblicato oltre cinquanta monografie dedicate alla toponomastica di altrettanti comuni del Piemonte montano; per una storia del progetto, concepito negli anni ’70 da Arturo Genre, e per un’esposizione della metodologia e delle finalità, si può far riferimento a Genre/Jalla (1990).

PREMESSA base di questo volume. Man mano che mettevo insieme i materiali, mi rendevo conto che i singoli significati non erano analizzabili uno per uno, ma che si organizzavano in un mosaico in cui le singole tessere contribuivano, per giustapposizione, a comporre il disegno generale. Il paesaggio alpino sembrava presentarsi come un continuum, che veniva segmentato dalle diverse parole che lo definivano. Naturalmente, si tratta di una visione semplicistica (che non tiene conto, per esempio, della sovrapposizione dei significati), ma a mio avviso efficace per spiegare perché, fin dalle prime ricerche di campo, ho cominciato a indagare non soltanto i diversi significati con cui uno stesso termine geografico poteva essere usato, ma anche la categorizzazione dello spazio che emergeva dall’insieme dei dati raccolti. Il lavoro che qui si presenta è principalmente il risultato di un esperimento di ricerca di campo sulla semantica dialettale; ciò non di meno, l’analisi dei dati in chiave strutturale dimostra come i concetti di “campo semantico” e di “tratto distintivo” mantengano una validità empirica, almeno nello studio di un settore del lessico specifico e legato a referenti concreti. Il volume è organizzato cinque capitoli, di ampiezza assai diseguale, seguiti da due allegati e da un piccolo dizionario di area che restituisce i dati raccolti durante l’inchiesta. Il capitolo I, intitolato “Le Alpi Cozie”, è dedicato all’area d’indagine, e tratteggia brevemente la storia delle vallate alpine comprese fra il colle della Maddalena e il colle del Moncenisio, dalle più antiche tracce della presenza umana fino al recente fenomeno dello spopolamento, ricordando per sommi capi le diverse popolazioni che si sono insediate sul territorio, e il suo gravitare attorno a diversi centri di influenza, per lo più disposti nelle pianure prospicenti. A questi cenni storici seguono alcune informazioni sulle singole località, con una particolare attenzione alle vie di comunicazione che le uniscono fra loro e con i centri maggiori: in questa sezione, si riportano anche alcune informazioni raccolte direttamente, per l’aver percorso a piedi l’intero territorio, sul tempo necessario per passare da un punto d’inchiesta all’altro senza ricorrere ai mezzi motorizzati (la cui introduzione, in territorio alpino, è piuttosto recente). Il capitolo si chiude con la descrizione linguistica dell’area in generale e delle località nelle quali si è svolta l’indagine in particolare: dapprima si riportano le più aggiornate informazioni sulla situazione sociolinguistica dell’occitano cisalpino, quindi si accenna alle suddivisioni interne all’area, individuate sulla base di tratti linguistici. Il capitolo II, intitolato “Studi e materiali”, si apre con l’illustrazione degli esperimenti di compilazione di carte semasiologiche all’interno dei cantieri atlantistici della Romània, soffermandosi quindi sulle motivazioni e sulla metodologia che hanno guidato le ricerche sul significato dei termini dialettali in alcuni atlanti regionali italiani; chiude questa sezione un breve paragrafo nel quale si richiamano alcune esperienze di studi di semantica dialettale. Due sezioni sono quindi dedicate rispettivamente all’illustrazione delle opere lessicografiche cui si è fatto ricorso nell’analisi dei dati e alla definizione della grafia adeperata per la trascrizione dei brani dialettali. Il capitolo III, intitolato “La ricerca”, si apre motivando le scelte metodologiche effettuate nel presente lavoro, per poi passare alla descrizione dettagliata delle diverse 2

PAROLE DI MONTAGNA fasi dello studio. In particolare, si esplicita la metodologia d’inchiesta usata in due cicli successivi in interviste, svolte in dieci località (nove in Italia e una in Francia) scelte nella catena delle Alpi Cozie, con diversi informatori per ogni punto d’inchiesta, e la costruzione di un database per organizzare i materiali raccolti nelle oltre 40 ore di registrazione. I questionari utilizzati sono riportati in allegato. Il capitolo IV, intitolato “Analisi semantica del lessico geografico” costituisce il corpo centrale del lavoro, ed è dedicato all’analisi del significato delle parole studiate. Articolato in tre sezioni, dedicate rispettivamente alle parole relative alla pedologia, alla morfologia del rilievo e alle acque, questo capitolo è organizzato per campi semantici, all’interno dei quali viene fornita una descrizione della variazione semantica dei singoli lessemi, con l’obiettivo di arrivare a definire una sorta di tassonomia popolare delle diverse porzioni in cui è concettualizzato lo spazio alpino. In questo capitolo vengono raccolti e discussi non soltanto i materiali elicitati nei due cicli di interviste, ma anche quelli disponibili nei diciotto dizionari pubblicati per l’area cisalpina di parlata occitana, opportunamente confrontati con alcuni dati sulle varietà limitrofe (piemontesi, francoprovenzali e occitane). Il capitolo V è dedicato alle considerazioni conclusive: si tratteggia dapprima un bilancio sulla produttività della metodologia d’inchiesta adottata, quindi si individuano le affinità, in termini di aree semantiche, fra le diverse località indagate (attraverso la comparazione dei significati dei lemmi raccolti nel Lessico) e infine si prospettano eventuali sviluppi, nel quadro di un’analisi dei dati semantici. Chiude il volume un’appendice dedicata al “Lessico”, che presenta tutti i materiali raccolti nella seconda fase d’inchiesta (cfr. § III.3.4.), disposti in ordine alfabetico e strutturati come in un dizionario di area: per ogni lemma, vengono infatti riportate le diverse forme in cui è attestato nelle località indagate, le diverse accezioni che può assumere localmente e una serie di note e di etnotesti che forniscono esempi di contestualizzazione, informazioni aggiuntive sul suo significato o materiali etnografici. In chiusura di ogni voce, sono raccolte eventuali forme correlate, i toponimi costruiti con il lessotipo a lemma e l’elenco completo dei geosininimi, ovvero dei lemmi che condividono almeno un’accezione con la parola. Il Lessico vero e proprio è preceduto da un paragrafo che ne illustra la strutturazione, ed è seguito dall’indice dei traducenti, che collega ad ogni traducente italiano tutte le parole che, almeno in una località o almeno per un’accezione, ne condividono il significato. L’appendice costituisce in qualche misura un nucleo a sé stante, volto a organizzare e a illustrare i materiali raccolti nella seconda fase dell’inchiesta di campo, anche nella prospettiva di una loro restituzione, a un tempo sintetica e completa, alle comunità di parlanti senza le quali la ricerca sarebbe stata impossibile.

3

Capitolo I

LE ALPI COZIE Se è dato rilevare variazioni a livello fonetico anche all’interno del singolo punto d’inchiesta, per rilevare mutamenti semantici strutturali nelle parlate (che non si risolvano quindi nelle normali oscillazioni idiolettali) è necessario indagare un’area che sia al contempo abbastanza ampia da presentare un elevato grado di variazione semantica e abbastanza unitaria, dal punto di vista linguistico, da permettere di lavorare in una dimensione intralinguistica e non interlinguistica1. Inoltre, nel campo semantico del lessico geografico, può essere utile indagare un’area paesisticamente omogenea. carta I. Le Alpi Cozie [immagine di Luca Bergamasco (Opera propria), CC BY 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/3.0), attraverso Wikimedia Commons]

1

Sembra infatti consigliabile seguire l’osservazione di Hilty al lavoro di analisi semantica di Jaberg, forse il primo a occuparsi compiutamente di aree semantiche (cfr. § II.1.1): Hilty sostiene che «parce que l’analyse sématique doit être faite à l’intérieur d’un système cohérent, il faudrait choisir sur les cartes un assez petit nombre de points appartenant au même système linguistique» (2015: 93).

CAPITOLO I

In tal senso si è ritenuto di far muovere l’indagine all’interno della catena delle Alpi Cozie, poiché si tratta di un territorio caratterizzato da un ambiente montano piuttosto omogeneo, in cui sono vitali diverse varietà di occitano alpino2. La catena è delimitata a nord dalla Dora Riparia (e dal torrente Cenischia, che si origina dal lago del Moncenisio) e dall’Arc, a ovest dalla Durance e a sud dall’Ubaye (che confluisce nella Durance nel lago di Serre Ponçon) e dalla Stura di Demonte, che nascono dai due lati del colle della Maddalena. A est, le Alpi Cozie si spingono fino alla pianura piemontese. All’interno del territorio individuato, si sono selezionate dieci località linguisticamente appartenenti al diasistema occitano alpino3, poste nell’area più interna della catena, in prossimità del crinale principale (dove passa il confine di Stato), a quote superiori ai mille metri d’altitudine. La scelta di selezionare località poste alla testata delle valli rispondeva all’esigenza di avere degli informatori che conoscessero, per averlo vissuto, il paesaggio alpino d’alta quota (che si incontra oltre il limite della vegetazione arborea) e di indagare parlate che non fossero in diretto contatto con i dialetti pedemontani4, dunque meno esposte ai fenomeni di contatto. Fra i comuni rispondenti alle caratteristiche elencate, si è cercato di privilegiare quelle località per le quali si disponesse già di una monografia dell’Atlante Toponomastico del Piemonte Montano – ATPM5: è infatti molto utile, in uno studio sul lessico geografico, poter attingere al corpus toponimico della comunità, così da confrontare le definizioni lessicali raccolte con le descrizioni dei luoghi che presentano nel toponimo i diversi lessemi indagati.

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È bene segnalare sin d’ora che l’area, cui ci si riferisce per comodità con l’appellativo geografico, non corrisponde perfettamente a un’area linguistica: le propaggini settentrionali delle Alpi Cozie sono infatti caratterizzate da parlate di tipo francoprovenzale, mentre le zone a diretto contatto con la pianura piemontese vedono la presenza di dialetti pedemontani. Di converso, le Alpi Marittime presentano ampie zone di parlata occitana. La questione della definizione complessiva delle parlate occitane alpine rispetto da un lato, ai diversi gruppi linguistici dell’occitano, dall’altro alle varietà delle singole località non è ancora stata affrontata compiutamente, né è questa la sede per farlo; tuttavia vale la pena specificare che il termine diasistema, introdotto da Weinreich (1954), viene qui usato nella sua accezione più comune, come sistema linguistico di livello superiore, che riunisce due o più sistemi omogenei tra i quali ci siano somiglianze parziali: «alla base del procedimento diasistematico vi è la considerazione degli elementi parzialmente differenziati come varianti combinatorie, nelle quali però il fattore che provoca la variazione non è già il contesto ma lo spazio geografico» (Telmon 2004a: 233). Con questo termine ci si riferisce dunque, a seconda dell’aggettivo che lo segue, all’insieme delle parlate occitane (cis)alpine (diasistema occitano alpino (orientale)) oppure all’insieme delle parlate occitane tout-court (diasistema occitano). Per riferirsi alle parlate dei singoli punti, si farà ricorso di preferenza ai termini “parlata” o “varietà”: per le ragioni esposte sopra, si preferisce evitare di usare in modo acritico i termini “sistema” o “microsistema” (per una riflessione sul tema, si veda Telmon 1974). Sebbene non si sia svolto un approfondimento specifico in materia, l’impressione è che la maggioranza degli informatori coinvolti conosca una varietà di piemontese illustre, che influenza le parlate alpine «a distanza» e non una varietà pedemontana rurale che agisca un contatto diretto, analogamente a quanto descritto da Grassi per le alte valli del Cuneese a metà del secolo scorso (Grassi 1958: 16-17). Relativamente alle località selezionate per la presente ricerca, l’ATPM ha pubblicato i volumi di Salbertrand (ATPM 20), Massello (ATPM 38), Pramollo (ATPM 25) e Ostana (ATPM 13); possono inoltre contare su ricerche toponomastiche avviate, sebbene non sempre nel quadro dell’Atlante Toponomastico del Piemonte Montano, i comuni di Pragelato (in particolare per quanto riguarda la val Troncea), di Bobbio Pellice (cfr. Rivoira 2006/2007), di Elva (dove il Comune ha predisposto una serie di pannelli che riportano i nomi dei luoghi sulle fotografie del vallone) e di Argentera. Non sono invece a conoscenza di studi toponomastici per quanto riguarda il comune di Ceillac.

LE ALPI COZIE Si noti inoltre che alcune delle località selezionate sono già state punto d’inchiesta per i diversi atlanti linguistici che hanno svolto ricerche nell’area, sebbene prevalentemente seguendo un’impostazione onomasiologica: la parlata di Pragelato è studiata dall’ALI – Atlante Linguistico Italiano, quelle di Pramollo e Ostana sono state indagate dall’AIS – Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz e dall’ALEPO, Bobbio Pellice è punto d’inchiesta dell’ALF – Atlas Linguistique de la France, Bellino dall’ALEPO, Ceillac dell’ALP – Atlas Linguistique et Ethnographique de la Provence e Argentera dall’ALI. Mancano invece riscontri in imprese atlantistiche per le parlate dei comuni di Salbertrand, Massello ed Elva.

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CAPITOLO I

I.1. Cenni di storia dell’area La maggior parte delle informazioni presentate in questo paragrafo è tratta dalla recente Storia del Piemonte di Alessandro Barbero (2008): laddove si è fatto riferimento ad altre opere storiche di carattere generale la fonte viene esplicitata. In Piemonte la rivoluzione neolitica, con lo sviluppo di agricoltura e allevamento, è databile al 5.000 a.C.; a quest’epoca risalgono anche le prime attestazioni di scambi e influssi culturali attraverso le vallate alpine e appenniniche. I graffiti rupestri più antichi ritrovati nell’area, risalenti forse al Mesolitico, sono stati rinvenuti a Massello (nei pressi della Cascata del Pis), mentre le prime testimonianze di ripari d’alta quota destinati all’alpicoltura sono state rinvenute a Roure (Balm’ Chanto)6, in Val Chisone. Nell’Età del Bronzo, l’area che ci interessa era abitata da due diverse popolazioni, i liguri nell’area meridionale e i celti nell’area settentrionale: per la prima volta, nei secoli a cavallo del 1.000 a.C., il corso del Po si afferma come confine etnico e linguistico: una barriera che continuerà a fratturare l’attuale Piemonte fin dopo la conquista romana; le popolazioni celtiche montanare, abituate a condividere uno stesso ecosistema con quelle che colonizzavano l’altro versante del massiccio alpino, erano soggette all’influenza del mondo d’Oltralpe piuttosto che della Penisola, da cui le separavano il Po e una bassa pianura ancora soggetta a un esteso impaludamento. I contatti proseguono lungo tutto l’arco della protostoria, come sembra indicare il ritrovamento (databile al IV secolo a.C.), lungo i valichi alpini, delle dracme greche battute a Marsiglia. Alla stessa epoca risalgono le invasioni galliche, le quali, sul piano delle identità etniche che si coagulano intorno alla cultura materiale e all’organizzazione politica, inserendosi in un processo di etnogenesi già in corso, si direbbe che abbiano accentuato il contrasto fra le popolazioni celtiche stanziate a nord del Po e quelle liguri insediate a sud del fiume. Anche la conquista romana viene attuata con modalità e tempi diversi dai due lati del Po: se i liguri, che oppongono una resistenza ostinata7, vengono duramente schiacciati nella prima metà del II sec. a.C., la conquista dei due versanti delle Alpi Cozie a nord del Po avverrà solo due secoli più tardi, in epoca augustea8, in alcuni casi ricorrendo a una politica di alleanza e integrazione delle élites locali9. Solo in età neroniana la zona sarà riorganizzata nella provincia delle Alpes Cottiae10: la lunga separazione dell’area alpina dall’area pianigiana è testimoniata dalle stazioni di riscossione dei pedaggi della Quadragesima Galliarum, la dogana istituita da Augusto, che sono scaglionate all’imbocco delle valli alpine: Borgo San Dalmazzo, Caraglio, Dronero, Piasco, Avigliana; qui finiva l’Italia e cominciava la Gallia. 6 7 8 9 10

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La datazione al radiocarbonio C14 fa risalire questi reperti all’Eneolitico. L’area che ci interessa era occupata dai Liguri Bagienni, che invero si allearono precocemente coi romani, tanto che reparti ausiliari reclutati qui sono segnalati alla battaglia di Canne. I nomi delle quarantacinque tribù sconfitte da Augusto fra il 16 e il 7 a.C. sono giunti fino a noi grazie al Tropeaum Alpium de La Turbie, un importante monumento celebrativo della potenza di Roma rinvenuto fra Nizza e Montecarlo (Merlin/Panero/Rosso 2013: 11). Nel 14 d.C. si stabilì che Marco Giulio Cozio, re delle tribù galliche stanziate sui due versanti del massiccio alpino (e residente a Susa), avrebbe governato per conto di Roma, con la qualifica di praefectus Augusti. I territori della provincia romana non corrispondono esattamente alle attuali Alpi Cozie: «[c]ol nome di Alpes Cottiae i Romani designarono il tratto della catena alpina dal Monviso (Mons Vesulus) al Moncenisio» (Baroccelli 1929); in particolare, la provincia delle Alpi Cozie comprendeva i centri di Susa e di Embrun (Merlin/Panero/Rosso 2013: 13).

LE ALPI COZIE A partire dal III secolo le frequenti incursioni barbariche, a cui spesso facevano seguito carestie ed epidemie, hanno contribuito all’aggravarsi della crisi economica che è stata alla base prima della riorganizzazione e poi del progressivo crollo dell’Impero Romano. Nel V secolo le Alpi Occidentali sono spesso attraversate dagli eserciti, e sebbene i valichi siano presidiati da gruppi di goti, le incursioni dei franchi in Piemonte saranno così pesanti da indurre il vescovo di Torino (il cui potere ecclesiastico si estendeva sui due versanti delle Alpi Cozie) a riconoscere l’autorità dei re franchi; è come se, nell’estrema debolezza dei poteri che si contendevano l’Italia, almeno il Piemonte occidentale finisse per gravitare sempre più su quella Gallia di cui il massiccio alpino, in età romana, era stato considerato parte integrante. Durante il regno di Carlo Magno (768-814), i franchi occuperanno anche il Piemonte, organizzando i territori ai piedi delle Alpi in due comitati: quello di Auriate (dalla Stura di Demonte al Po) e quello di Torino (dal Po all’Orco). La nuova organizzazione amministrativa vede l’affermarsi di centri di potere laici ed ecclesiastici che governano su corti più o meno ampie: per citare un celebre esempio, l’alta Valle di Susa è sotto il controllo dell’Abbazia di Novalesa. I valichi alpini, che sono attraversati dalle scorrerie degli ungari, dal 921 al 972 sono di fatto controllati dai Saraceni, che taglieggiavano i viaggiatori fino a rendere quasi impossibili i traffici: diversamente da quella ungara, la minaccia saracena è rimasta ben viva nel folclore piemontese, che anzi l’ha esagerata. Il X secolo per il Piemonte è un periodo di concorrenza violenta fra re, marchesi, vescovi e vassalli per la spartizione del potere, unita alle incursioni devastanti dei pagani, ma è anche un periodo in cui la campagna comincia a diventare più prospera e la popolazione contadina cresce lentamente. Fra i molti personaggi che governarono porzioni del territorio piemontese nei decenni a cavallo dell’anno Mille, occorre ricordare la contessa Adelaide, figlia di Olderico Manfredi, che governò per oltre cinquant’anni un territorio esteso dalle Alpi Cozie fino oltre Torino, e che sposò in terze nozze Oddone, figlio del conte Umberto, il quale poteva contare su ampi possedimenti transalpini della Contea di Savoia: alla morte di Adelaide (nel 1091), i suoi discendenti ereditarono, insieme a quanto rimaneva dei territori piemontesi, ampi territori oltralpe, e si trovarono a controllare la via Francigena, uno dei principali collegamenti stradali fra l’Italia e l’Europa. Intanto la porzione meridionale della catena delle Alpi Cozie11 era controllata da quelli che, a partire dalla metà del XII sec., sarebbero diventati i Marchesi di Saluzzo. Il territorio che ci interessa rimase per diversi secoli sotto il controllo dei Savoia12 (a nord e a sud13) e dei Marchesi di Saluzzo (le valli centrali): questi ultimi erano stati costretti a giurare ora al conte di Savoia, ora al Delfino di Vienne, ora al Re di Francia per poter sopravvivere grazie ai legami con l’una o con l’altra delle potenze confinanti (ivi, 177). Inoltre il Delfino di Vienne possiede le tre federazioni di comunità, o escartons,

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Il marchesato di Saluzzo si estendeva dallo spartiacque alpino delle valli Stura, Grana, Maira, Varaita e Po fino a Carmagnola e alle Langhe (ivi, 128). Tale controllo era diretto per alcuni territori, in condominio con i principi d’Acaia per altri (in particolare per l’area Pinerolese), fino all’estinzione del ramo Savoia-Acaia nel 1418. Nel XIV sec. i Savoia estendono il loro dominio anche nel sud del Piemonte, ottenendo la dedizione di Cuneo (1382) e di Nizza (1388), e garantendosi il controllo della preziosa via del sale.

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CAPITOLO I dell’alta Valle Varaita14 (Casteldelfino), dell’alta Val Chisone (Pragelato) e dell’alta Valle di Susa (Oulx e Bardonecchia) che insieme alle comunità del Briançonnais e del Queyras formavano un baliaggio unitario a cavallo delle Alpi, soggetto alla giurisdizione di Grenoble. Storie di relativa autonomia sono invero piuttosto frequenti nell’arco alpino: in particolare, per il territorio che ci interessa, occorre citare anche la situazione della Valle Maira, che ha goduto di privilegi e immunità, fino al XVII sec., prima sotto i marchesi di Busca, quindi (dal 1254) sotto i Marchesi di Saluzzo (Grassi 1958: 95). Per quanto riguarda la vita religiosa, risalgono al VI secolo le prime testimonianze dell’introduzione del culto cristiano nell’area che ci interessa: in particolare, le zone rurali prealpine dovevano essere organizzate in pievi, come quella di San Lorenzo (nell’odierna Caraglio) o quella di San Dalmazzo (a Pedona, oggi Borgo San Dalmazzo). All’inizio del duecento compaiono le prime testimonianze della presenza di movimenti ereticali in area alpina, dove le indagini degli inquisitori rivelano un tessuto vivacissimo di predicatori clandestini che passano di valle in valle, di alpeggio in alpeggio, riunendo seguaci, che forniranno, soprattutto nelle valli settentrionali delle Alpi Cozie, terreno fertile al diffondersi della Riforma protestante in Piemonte: si fa tradizionalmente risalire l’adesione dei valdesi alla Riforma al Sinodo di Chanforan del 1532 (Tourn 1999: 92 e segg.). Dall’inizio dell’età moderna, e fino alla pace di Utrecht del 1713, il Piemonte è teatro di conflitti che vanno al di là delle ambizioni egemoniche dei diversi signori locali, ma che lo vedono coinvolto nello scontro fra la Francia e l’impero spagnolo. Infatti per il re di Francia, i passi delle Alpi occidentali rappresentano la necessaria via di transito per invadere l’Italia, perciò ha bisogno di garantirsi la fedeltà dei principi che controllano quei passi, il Duca di Savoia e il marchese di Saluzzo. Il Cinque e il Seicento sono secoli in cui si alternano conflitti a periodi di pace armata: i principi piemontesi non sono in grado di impedire agli eserciti stranieri di attraversare la regione a loro piacimento. Le conseguenze locali delle politiche di alleanza saranno la scomparsa (nel 1548) del Marchesato di Saluzzo, i cui territori entreranno a far parte, dopo un periodo sotto il regno di Francia, del ducato di Savoia, che sarà poi elevato a Regno di Sardegna (nel 1720). Per l’area che ci interessa, è importante ricordare i lunghi periodi di dominazione francese dei territori sabaudi a ridosso delle Alpi, che per quanto riguarda la Val Chisone sono stati particolarmente duraturi (Pinerolo rimane sotto la Francia dal 1536 al 1574 e ancora dal 1631 al 1696). Inoltre la Val Chisone, insieme alle altre Valli Valdesi (Germanasca e Pellice) e alla Valle Po è stata teatro della sanguinosa repressione dei valdesi, che attorno alla metà del XVI sec. avevano aderito alla Riforma protestante: la logica della politica fa sì che le comunità riformate, pur appartenenti a un’unica Chiesa, conoscano vicende molto diverse. I valdesi della Val Pragelato, sudditi francesi, partecipano attivamente alle guerre di religione, nelle valli di Perosa e Luserna regna una pace sospettosa mentre nel marchesato di Saluzzo, annesso al ducato nel 1588, i valdesi non sono coperti dall’accordo di Cavour e il governo li perseguita attivamente, finendo per sopraffarli. La pace del 1713 vedrà i francesi abbandonare l’intero Piemonte e, dopo molti secoli, sancirà anche l’annessione ai possedimenti sabaudi degli escartons dell’alta Val 14

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Se la dipendenza delle altre valli degli escartons dalla Francia ha radici piuttosto antiche, la Valle Varaita è stata a lungo contesa fra i Delfini e i Marchesi di Saluzzo.

LE ALPI COZIE Varaita, della Val Pragelato e dell’alta Valle di Susa. La pace, che porterà con sé sviluppo e ripresa demografica, durerà fino al volgere del secolo, quando in Piemonte arriverà l’eco della Rivoluzione Francese, che favorirà il dilagare di rivolte contro i privilegi feudali anche in area alpina. Dalla fine del Settecento e per tutta l’epoca napoleonica, la regione rimarrà sotto il controllo francese, attraversando un periodo di importanti riforme nell’ordinamento statale. Da metà Ottocento la regione sarà protagonista della storia nazionale, con il Risorgimento e con l’Unità d’Italia: in particolare occorre ricordare che, con il Trattato di Torino del 1860, la Savoia e Nizza verranno cedute alla Francia, come contropartita per l’appoggio offerto all’allora Regno di Sardegna nella politica di unificazione italiana. Per l’area che ci interessa, è importante citare anche le lettere patenti di Carlo Alberto del 1848, perché contenevano la concessione dei diritti civili ai valdesi, ormai insediati soprattutto in Val Pellice, nella bassa Val Chisone e in Val Germanasca. Inoltre l’ultimo quarto del XIX sec. e l’inizio del XX segnarono l’inizio, nelle valli settentrionali delle Alpi Cozie, dell’industrializzazione intensiva, che ha visto la nascita dei cotonifici in Valle Susa (1906) e in Val Chisone (1862). Nel Novecento, le valli torneranno ad essere pesantemente coinvolte nelle vicende belliche, offrendo un altissimo tributo in vite umane sia alla grande guerra sia alla guerra di liberazione. Inoltre il XX secolo vede il progressivo spopolamento delle (alte) vallate alpine, dettato da ragioni economiche e sociali. Per provare a quantificare l’entità di tale spopolamento, si vedano di seguito (tabella I e grafico I) i dati demografici (rispettivamente tratti dal sito www.istat.it per l’Italia e www.insee.it per la Francia) dei comuni d’inchiesta, negli anni 1861, 1901, 1951, 1991, 2011 (per i comuni italiani). tabella I: evoluzione demografica dei comuni indagati COMUNE 1861 1901 Salbertrand 1.398 1.172 Pragelato 1.953 1.785 Massello 813 577 Pramollo 1.532 1.472 Bobbio Pellice 1.675 1.500 Ostana 1.058 1.086 Ceillac Bellino 957 922 Elva 1.276 1.264 Argentera 1.158 912

1951 1991 2011 707 441 579 917 454 724 308 88 58 847 285 242 1.108 608 566 546 119 81 1962: 202 | 1982: 292 | 2012: 298 622 234 135 556 154 94 289 97 79

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CAPITOLO I grafico I: andamento demografico nei comuni italiani 1861-2011 2.500

2.000

1.500

1.000

500

0

1861

1901

1951

1991

2011

I dati demografici denunciano un generale spopolamento, che ha avuto importati ripercussioni anche a livello paesistico15; nell’area più propriamente alpina si registra un discreto aumento della superficie incolta, un incremento sensibile della superficie boschiva, oltre a una progressiva trasformazione dei seminativi in terreni a coltura foraggera; va inoltre rilevato il fenomeno della sottrazione dei terreni migliori dal punto di vista agrario, per uso edilizio residenziale (cfr. Bronzati 1998/99: 40). Pur evidenziando la tendenza generale, è però possibile individuare alcune località che, ancorché nel contesto di una riduzione degli abitanti, mantengono una popolazione sufficiente a garantire il tessuto comunitario, a fronte di altre in cui questo sembra gravemente compromesso. Sono tre i comuni, fra quelli oggetto d’inchiesta, la cui popolazione, negli anni dieci del nuovo millennio, supera ancora le cinquecento unità: Salbertrand, Pragelato e Bobbio Pellice. Si tratta di tre situazioni piuttosto diverse: Salbertrand è avvantaggiato dalla presenza di importanti collegamenti con il capoluogo 15

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Il fenomeno dello spopolamento in Valle Stura è illustrato da Bätzing (1988) che, attraverso questo caso studio, arriva ad affermare linee di tendenza generali: «nelle regioni alpine in cui non sono presenti situazioni di ripresa locale […] il tracollo della struttura economica tradizionale trascina gradualmente con sé l’intero complesso di economia, società e cultura. […] L’inizio del “miracolo economico” europeo del dopoguerra, con la sua forza di attrazione sulle persone in cerca di occupazione, rappresenta un salasso particolarmente grave, e dal 1965, con la nuova e più rapida trasformazione che investe l’agricoltura, si preannuncia la fine imminente: in queste regioni alpine l’agricoltura diventa gradualmente un’attività residuale, di cui una famiglia non può più vivere» (Bätzing 2005 [1991]): 303304).

LE ALPI COZIE piemontese e con l’oltralpe che attraversano il suo territorio (cfr. oltre, § I.2); Pragelato garantisce un buon numero di posti di lavoro, sebbene per lo più a carattere stagionale, grazie allo sviluppo degli sport invernali, incentivato anche dalla vicinanza con il comune di Sestrière; a Bobbio Pellice, invece, permane piuttosto florida l’attività agricola e di allevamento, anche grazie alla conformazione della valle. Una situazione intermedia, con un numero di abitanti compresi fra le trecento e le cento unità, è rappresentata dai comuni di Pramollo, Ceillac e Bellino; anche in questo caso, le situazioni locali sono piuttosto diverse. Gli abitanti del comune di Pramollo potevano contare, almeno fino ad anni molto recenti, sulla vicinanza delle grandi fabbriche sorte nella bassa Val Chisone nel corso del Novecento; Ceillac e Bellino, oltre ad essere delle località sciistiche (sebbene la prima disponga di impianti di risalita decisamente più importanti della seconda), presentano un territorio ancora piuttosto sfruttato dal punto di vista agricolo. Le località di Massello, Ostana, Elva e Argentera ormai contano meno di cento residenti, molti dei quali (a seconda dell’età, per ragioni lavorative o climatiche) abitano nei comuni soltanto i mesi estivi. A livello paesistico, se si esclude il comune di Argentera, che ha conosciuto un importante sviluppo edilizio nella seconda metà del Novecento (nella frazione di Bersezio), si tratta di comuni in cui l’architettura rurale è stata conservata senza pesanti travolgimenti, e che anzi sono stati oggetto di recenti restauri nell’ottica del recupero e della valorizzazione dei villaggi alpini (specialmente Ostana e Massello, cfr. Bertolino 2014a e 2014b). Queste ultime località presentano un’attività agricola di carattere residuale, per lo più orientata all’autoconsumo: soltanto il comune di Elva può contare su aziende agricole di un certo interesse commerciale.

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CAPITOLO I carta II. Le località d’inchiesta

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LE ALPI COZIE

I.2. Da Salbertrand ad Argentera La maggior parte delle località selezionate si trova sul versante italiano delle Alpi Cozie: appartiene amministrativamente alla Francia solo il comune di Ceillac, scelto più come punto di controllo che non inserito organicamente fra le località d’inchiesta. Nella tabella II si dà conto di alcune informazioni di base su ogni località: la valle in cui è inserita, l’altitudine del Municipio, la Provincia e la disposizione rispetto al solco vallivo principale. Segue la descrizione della posizione dei comuni, con particolare attenzione alle vie di comunicazione che li uniscono fra loro e ai centri maggiori: come si espliciterà oltre (cfr. § III.2.1), molte delle informazioni che riguardano i sentieri di collegamento fra le diverse località sono state raccolte direttamente “sul terreno”; ho infatti ritenuto utile, per avere una miglior conoscenza dell’ambiente alpino in cui si è sviluppato il lessico geografico che interessa il presente lavoro, percorrere a piedi l’intera area d’inchiesta, come accennato in apertura. tabella II. Le località d’inchiesta LOCALITÀ

VALLE

Salbertrand Pragelato

Val di Susa Val Chisone Val Germanasca bassa Val Chisone

Massello Pramollo Bobbio Pellice Ostana Ceillac Bellino Elva Argentera

ALTITUDINE

(MUNICIPIO) 1.032 1.524

PROVINCIA16

DISPOSIZIONE

Torino Torino

fondovalle fondovalle

1.188

Torino

vallone laterale

1.071

Torino

vallone laterale

Val Pellice

73217

Torino

fondovalle

Valle Po Vallée du Guil Val Varaita Val Maira Valle Stura

1.250 1.640 1.572 1.637 1.684

Cuneo Hautes-Alpes Cuneo Cuneo Cuneo

versante solatìo vallone laterale vallone laterale vallone laterale fondovalle

Salbertrand L’abitato di Salbertrand si sviluppa sul fondovalle e lungo il versante solatìo dell’alta Valle di Susa, a monte di Exilles e a valle di Oulx; pur non essendovi collegato direttamente con strade carrozzabili, il comune confina anche con Pragelato e con Bardonecchia. Arrivando da Torino (che dista circa 80 km) o da Susa (a 20 km) si incontrano gli abitati di Deveys, il centro cittadino, quindi Oulme, San Romano, Rival; a monte di Salbertrand, lungo il versante sorgono le borgate di Fenils, Eclause e Mocellier. Posto lungo la strada statale SS24 del colle del Monginevro, il comune è attualmente attraversato anche dall’autostrada e dalla linea ferroviaria che collegano 16 17

L’etichetta generica di “Provincia” si riferisce sia alla Provincia di Cuneo sia alla Città Metropolitana di Torino (istituzione che, dal 1 gennaio 2015, si è sostituita alla Provincia di Torino). Per quanto riguarda il territorio francese, si fa riferimento al Département des Hautes-Alpes. Sebbene il municipio del comune di Bobbio Pellice sia costruito a un’altitudine inferiore di 1.000 metri, il territorio comunale si sviluppa fra 690 e i 3.171 m. slm.

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CAPITOLO I Torino con Modane. Quest’ultima si può raggiungere da Salbertrand in poco più di mezz’ora, grazie al tunnel del Frejus (nei mesi estivi, la località savoiarda è collegata alla Valle di Susa anche dal Colle del Moncenisio, 2.083 m). Attraverso il Colle del Monginevro (1.854 m) o attraverso il Colle della Scala (1.750 m) è invece possibile raggiungere Briançon in circa 35 km. La via più diretta per raggiungere la Francia a piedi passa invece per il vallone di Galambra (nel territorio di Exilles), che culmina con il Col d’Ambin (2.897 m), dal quale è possibile raggiungere il comune di Bramans, in Savoia. Da Salbertrand si può raggiungere Pragelato risalendo la valle fino a Cesana, per poi imboccare i ripidi tornanti che portano ai 2.035 m del colle del Sestrière, dal quale si scende rapidamente sulla borgata Duc di Pragelato. I due comuni distano circa 7 ore di marcia: il percorso più diretto è quello che risale il versante a bacìo della Valle di Susa attraversando il Gran Bosco di Salbertrand per raggiungere il Colle Blegier (2.381 m), dal quale si scende fra gli ampi pascoli che si estendono a monte della frazione Allevé di Pragelato. Pragelato Pragelato è l’ultimo comune della Val Chisone prima del colle di Sestrière, da cui dista circa 10 km; a valle, confina con Usseaux; pur non avendo altri collegamenti stradali diretti, il territorio del comune tocca anche Fenestrelle, Massello, Salza di Pinerolo, Prali, Sauze di Cesana, Sauze d’Oulx, Salbertrand e Exilles. Gli abitati principali (le borgate di Souchères Basses e della Ruà) occupano il fondovalle, e si sviluppano lungo la strada statale SS23 del colle del Sestrière; numerose borgate sono state costruite lungo il versante solatìo della valle (per citarne alcune, Grand Puy, Allevé, Villardamont), mentre altre, per lo più abbandonate, occupavano la Val Troncea (Laval, Troncea e Pattemouche, dove è stato recentemente costruito il villaggio Olimpico in occasione dei giochi olimpici di “Torino 2006”). Il comune è collegato a Pinerolo (che dista 45 km) dalla statale SS23; da qui è possibile raggiungere Torino (distante 85 km) con l’autostrada. Svalicando il colle del Sestrière e il colle del Monginevro si può raggiungere Briançon percorrendo circa 40 km. Da Pragelato si può arrivare a Massello con una marcia di circa 8 ore, risalendo la Val Troncea fino a Laval, per poi inerpicarsi fino al Colle del Pis (2.614 m), dal quale si scende, dopo aver aggirato la parete su cui si forma l’omonima cascata, sulla borgata di Balziglia. Massello Il comune di Massello occupa un vallone laterale della Val Germanasca; le borgate sono state per lo più costruite sul versante solatìo, con l’eccezione delle frazioni Centrale, Mulino e Balziglia, che occupano il fondo del vallone. Il comune è collegato con Perrero (che dista circa 8 km) tramite la strada provinciale SP170; da qui è possibile raggiungere Pinerolo (a circa 33 km) e poi Torino (a circa 85 km). Inoltre, Massello confina con Roure, Fenestrelle, Pragelato e Salza di Pinerolo. Il comune non dispone di collegamenti diretti con la Francia, né tramite carrozzabili (occorre scendere a Perosa Argentina per poi risalire in direzione di Pragelato) né tramite sentieri (occorre raggiungere, superando due collette, il vallone di Prali, per poi oltrepassare a piedi i 2.656 m del colle d’Abriès, che porta nel Queyras). Da Massello è possibile raggiungere a piedi Bobbio Pellice, con una marcia di 10 ore (passando da Prali); si attraversano i valloni di Salza e di Rodoretto, quindi da Prali 16

LE ALPI COZIE si sale al Colle Giulian (2.451 m), dal quale si raggiunge, con una discesa piuttosto diretta, la borgata di Sibaud, a Bobbio Pellice. Per arrivare a Pramollo da Massello è invece necessario raggiungere il fondovalle, all’altezza dell’abitato di Chiotti, quindi risalire il vallone di Riclaretto, che si apre nel versante a bacìo della Val Germanasca. Dalla borgata di Combagarino si può imboccare una strada sterrata che porta al Colle di Laz Arâ (1.600 m), da cui si può scendere sulle borgate alte di Pramollo. Pramollo Il comune di Pramollo occupa un ampio vallone che si apre alla destra orografica del Chisone, all’altezza dell’abitato di San Germano, unico paese con cui è collegato attraverso una carrozzabile aperta tutto l’anno. Pramollo confina con Inverso Pinasca, Pomaretto, Perrero e Angrogna. Il fondovalle è occupato dalla borgata Rue, mentre la maggior parte dell’abitato si dispiega sui due versanti; Ruata, la frazione principale, dove ha sede il Tempio Valdese, si trova nella parte alta del versante solatìo. Pramollo è collegato a San Germano dalla strada provinciale SP168; da qui è possibile raggiungere Pinerolo (che dista circa 10 km) e Torino (distante circa 60 km). Il comune non è direttamente collegato con l’oltralpe, che si raggiunge prevalentemente tramite il colle del Sestrière, in automobile, o attraversando a piedi il colle d’Abriès (cfr. § Massello), da Prali. Il vallone di Pramollo comunica, tramite il colle della Vaccera (1.461 m), con il vallone di Angrogna, che si apre alla sinistra orografica del Pellice, all’altezza dell’abitato di Torre Pellice. Per raggiungere Bobbio Pellice da Angrogna, il sentiero più diretto è forse quello che risale il vallone da Pra del Torno fino all’Alpe della Sella Vecchia, dalla quale si raggiunge il colle Chiot del Cavallo (2.301 m), da cui si svalica sull’Alpe Caugis, da dove una carrareccia scende lungo il vallone del Subiasco fino a Bobbio Pellice. Bobbio Pellice Il comune di Bobbio Pellice comprende l’intera testata della Val Pellice, a monte di Villar Pellice; l’abitato principale occupa l’ampio fondovalle e le molte borgate si dispiegano lungo pendii circostanti, esposte per lo più a solatìo, sebbene non manchino alcuni insediamenti alle pendici del versante a bacìo, che si apre con l’ampia Comba dei Carbonieri. Bobbio Pellice è collegato, tramite la strada provinciale SP161, a Pinerolo (che dista circa 25 km) e quindi a Torino (distante circa 75 km). Dal comune è inoltre possibile raggiungere Saluzzo, sito a una quarantina di chilometri, passando da Cavour (distante circa 20 km). Pur non essendovi collegato direttamente a mezzo di strade carrozzabili, Bobbio Pellice confina con Prali, Abriès (FR), Ristolas (FR) e Crissolo: il collegamento diretto con la Francia è possibile grazie ad alcuni sentieri: attraversando il Colle dell’Urina (2.525 m) è possibile raggiungere la Valpréveyre e le Roux, frazione di Abriès; attraversando il Colle della Croce (2.299 m) è possibile raggiungere La Monta, borgata di Ristolas. Da Bobbio Pellice è possibile raggiungere Ostana in circa 8 ore, risalendo il vallone dei Carbonieri, per poi inerpicarsi lungo il sentiero che conduce al Colle della Gianna (2.525 m); dal colle si discende su Pian della Regina, località del comune di Crissolo, quindi si fiancheggia il fiume Po fino alla frazione di Serre Uberto, da dove ci si riporta sul versante solatìo della valle, per raggiungere borgata Ciampagna di Ostana.

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CAPITOLO I Ostana Il comune di Ostana occupa, con le sue numerose borgate, il versante solatìo della Valle Po; vi si giunge tramite la strada provinciale SP26, che collega il comune con la bassa valle (Paesana dista circa 15 km) e con Saluzzo (distante circa 37 km), da cui si raggiunge Cuneo (a 70 km). Da Paesana, tramite l’omonima colletta, è possibile raggiungere Pinerolo (che dista circa 43 km) e Torino (distante circa 90 km). Ostana è collegata con strade carrozzabili a Crissolo, Oncino e Paesana; inoltre confina con Barge e Bagnolo. Il comune non dispone di collegamenti diretti con l’Oltralpe, che è però raggiungibile a piedi dal comune di Crissolo, passando per il Colle delle Traversette (2.950 m) o attraversando il Buco di Viso18, che permettono di raggiungere il comune di Ristolas. Da Ostana è possibile raggiungere Bellino (in un paio di tappe) scendendo a fondovalle per poi risalire il vallone di Oncino, che si apre alla destra orografica del Po. Da Oncino, si aggira il massiccio del Monviso raggiungendo il colle Gallarino (2.751 m) e attraversando il passo San Chiaffredo (2.763 m), dal quale si imbocca il vallone che scende a Castello, frazione di Pontechianale. Da quest’ultimo paese, è possibile raggiungere il vallone di Bellino tramite il colle della Battagliola (2.248 m). Ceillac Il comune di Ceillac, sito nel dipartimento delle Hautes-Alpes, occupa un vallone laterale che si apre alla sinistra orografica del Guil, il principale torrente del Queyras, che a Guillestre confluisce nella Durance. Le borgate principali sono disposte negli ampi pianori di fondovalle e sono per lo più esposte a sud. Dall’abitato maggiore si aprono due rami del vallone, l’uno che ospita le borgate di Riaille e di Mélézet, l’altro che culmina con le case delle Chalmettes. Collegato, tramite le strade dipartimentali D260 e D60 con Guillestre (da cui dista circa 13 km), il comune si trova a circa 50 km da Briançon e a circa 40 km da Embrun, da dove è possibile raggiungere Gap (distante circa 70 km). Ceillac confina inoltre, sebbene non vi sia collegato tramite strade carrozzabili, con i comuni di Saint-Veran, Molines-en-Queyras, Vars e Saint-Paul-Sur-Ubaye, nel Dipartimento delle Alpes-de-Haute-Provence. Pur non potendo disporre di collegamenti diretti con l’Italia, da Ceillac è possibile raggiungere Pontechianale (distante circa 60 km) tramite il Colle dell’Agnello, nei mesi estivi. Nei mesi invernali, il collegamento con l’Italia è possibile solo attraverso il Colle del Monginevro (a 60 km) o il Colle della Maddalena (a 62 km). Da Ceillac è possibile raggiungere il comune di Bellino salendo al col Girardin (2.768 m), dal quale si scende nell’alta Valle dell’Ubaye (presso il rifugio Maljasset), per poi risalire al Colle Autaret (2.875 m), da cui si scende sulla frazione di Sant’Anna di Bellino. Bellino Il comune di Bellino occupa, con le sue numerose borgate, un vallone laterale della Val Varaita. Gli abitati principali (fra i quali si possono citare Chiesa, Fontanile, Pleyne, Celle) sono disposti lungo il fondovalle, sulle due sponde del torrente. Bellino è collegato a Casteldelfino (distante circa 4 km) tramite la strada provinciale SP105; da qui è possibile 18

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Noto per essere il più antico traforo alpino, il “Buco di Viso” è una galleria di oltre 70 metri scavata nella roccia a valle del Colle delle Traversette, che dal 1.480 collega l’alta Valle del Po con la Francia.

LE ALPI COZIE raggiungere Saluzzo (a circa 50 km), Cuneo (a circa 65 km) o il Colle dell’Agnello (2.744 m) che garantisce, nei mesi estivi19, il collegamento con Saint-Veran (FR) e con Guillestre (distante circa 67 km). Inoltre, pur non disponendo di collegamenti diretti per via carrozzabile, il comune confina con Pontechianale, Saint-Paul-sur-Ubaye, Elva, Prazzo e Acceglio. Da Bellino ci sono diverse possibilità per raggiungere Elva a piedi (in circa 5 ore), ma la strada più diretta è quella che, da Borgata Chiesa, sale al Colle della Bicocca (2.285 m), da cui si può scendere, attraversando gli ampi pascoli che caratterizzano la parte alta del vallone di Elva, sulle borgate Goria o Martini. Elva Il comune di Elva occupa un ampio vallone, di accesso piuttosto difficile, posto alla sinistra orografica del torrente Maira. Elva è raggiungibile tramite la strada provinciale detta “del vallone”, la SP104, che perviene al fondovalle a Prazzo, nei pressi del Ponte Marmora (a circa 10 km); da qui è possibile arrivare a Dronero (a circa 36 km) e quindi a Cuneo (a circa 55 km). Il comune è inoltre collegato a Sampeyre tramite l’omonimo colle (2.284 m), non transitabile nei mesi invernali, e a Stroppo, tramite la strada provinciale SP335. Quest’ultima, sebbene sia piuttosto stretta e accidentata, nei mesi invernali rappresenta l’unica strada alternativa al vallone per raggiungere Elva. Il comune confina inoltre, sebbene non vi sia collegato da strade carrozzabili, con Casteldelfino e con Bellino. Non disponendo di collegamenti diretti, per raggiungere la Francia in automobile da Elva è necessario raggiungere il colle dell’Agnello (a 55 km, nei soli mesi estivi) o il colle della Maddalena (a circa 100 km); a piedi, si possono invece sfruttare i colli che si aprono sull’Ubaye da Acceglio. Per raggiungere Argentera da Elva a piedi è in ogni caso necessario scendere a fondovalle per risalire sul versante a bacìo della Valle Maira; gli itinerari, che sono comunque lunghi da percorrere in giornata, sono diversi. Una possibilità è quella di risalire il vallone di Canosio fino al colle del Preit (2.083 m), quindi di attraversare la porzione occidentale dell’altopiano della Gardetta per raggiungere il Passo di Rocca Brancia (2.620 m). Dal Passo, mantenendosi in quota, si raggiunge la Bassa di Terra Rossa (2.426 m), da dove è possibile scendere su Bersezio, frazione principale di Argentera. Argentera Il comune di Argentera, composto da diverse frazioni (fra le quali è importate citare Bersezio, un tempo comune autonomo, Ferrere e Argentera, che dà il nome al paese), è situato all’estremità della Valle Stura, a monte dell’abitato di Pietraporzio, e comprende nel suo territorio il Colle della Maddalena (1.996 m), o Col de Larche, dal nome del primo paese che si incontra sul versante francese: attraverso il Colle, è possibile raggiungere Barcellonette (a 40 km), Embrun (distante circa 70 km) e Gap (a circa 100 km). Argentera è collegata tramite la strada statale SS21 a Demonte (distante circa 35 km) e quindi a Cuneo (a circa 60 km). Inoltre il comune confina, sebbene non disponga di collegamenti diretti per via carrozzabile, con Canosio e Acceglio in val Maira e con Larche e Saint Etienne de Tinée in Francia. 19

Durante i mesi invernali, l’oltralpe si può raggiungere, specularmente a quanto descritto per Ceillac, attraverso il colle del Monginevro (distante 160 km) o attraverso il colle della Maddalena (distante 130 km).

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CAPITOLO I

I.3. L’area linguistica Come accennato in apertura del capitolo, l’area d’inchiesta è stata scelta seguendo il duplice criterio della (relativa) uniformità paesistica e della confrontabilità dei dati all’interno di uno stesso diasistema linguistico. Le parlate delle dieci località individuate si possono infatti classificare linguisticamente come appartenenti all’occitano alpino (Sumien 2009 e relativa bibliografia), sebbene, come si sarà intuito già scorrendo le vicende storiche che le hanno interessate e la loro diversa disposizione territoriale, sia possibile individuare al loro interno delle differenze sia a livello sociolinguistico (con diversi repertori) sia a livello di linguistica interna (con diversi gruppi di varietà). I.3.1. PROFILO SOCIOLINGUISTICO La prima importante distinzione che bisogna tenere in considerazione da un punto di vista sociolinguistico è quella conseguente alla disposizione dell’area d’inchiesta a cavallo fra due Stati, sebbene l’indagine sia nettamente sbilanciata verso le località cisalpine sia per quanto riguarda l’inchiesta di campo (che ha coinvolto una sola località sita in territorio francese) sia per quanto riguarda il confronto con le fonti lessicografiche (cfr. § II.2.1). La diversa appartenenza nazionale delle parlate dei due versanti delle Alpi Cozie si riflette soprattutto in un rapporto con diverse lingue tetto20: rimandando alla bibliografia citata per ripercorrere l’evoluzione del concetto, di seguito si farà riferimento alla distinzione introdotta da Berruto (2001) e ripresa, con un’ulteriore articolazione, da Regis (2014), fra tetto linguistico, tetto sociale e tetto culturale. Il tetto linguistico di un dialetto è offerto da una lingua standard con questo strettamente imparentata dal punto di vista linguistico: in tal senso, le varietà di occitano parlate nei due versanti delle Alpi (così come tutte le varietà di occitano), condividono uno stesso tetto linguistico, che Regis (in stampa) fa corrispondere al francese (se, secondo l’ipotesi più accreditata, si fa rientrare l’occitano nel novero delle parlate galloromanze) o al catalano (se, come ritengono alcuni studiosi, si considera l’occitano appartenente a una famiglia linguistica occitano-catalana, cfr. Sumien 2012). Il tetto sociale di un dialetto (corrispondente a quello che Berruto 2001 definisce “tetto socio-culturale”) è rappresentato dalla lingua standard in uso nelle istituzioni scolastiche e, in generale, nei centri di potere: in questo caso, le varietà cisalpine avranno una lingua tetto diversa da quella delle varietà transalpine, che corrisponderà nei due casi alla lingua ufficiale dello Stato. Un ultimo livello di copertura che bisogna tenere in considerazione è quello rappresentato dal tetto culturale, corrispondente secondo Regis a quella che Dal Negro/Iannàccaro chiamano Wunschsprache, ovvero a una lingua legata «a visioni o apparentamenti etnici di particolare seduzione per la comunità» (2003: 437). Anche in questo caso Regis ipotizza la presenza, per l’area cisalpina, della lingua tetto-culturale francese (che invece non si attiverebbe per l’occitano transalpino, per necessità di distanziazione dalla lingua tetto-sociale): la tensione delle varietà d’occitano parlate in 20

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Il concetto di “lingua tetto” è stato indotto da Heinz Kloss (1978 [1952]); per una discussione (e un’ulteriore strutturazione) della categoria e una sua applicazione alla realtà sociolinguistica italiana, piemontese e occitana, si veda Berruto (2001), Regis (2014), Regis/Rivoira (2016) e soprattutto Regis (in stampa).

LE ALPI COZIE Italia verso il francese, lingua considerata ‘desiderabile’ sia per ragioni di ordine turistico/economico sia per ragioni di affinità con l’altro versante del massiccio alpino, ha in alcune delle località studiate delle ragioni d’esistere specifiche, di repertorio (cfr. oltre). Di seguito, si riporta lo schema proposto da Regis (in stampa), che completa il quadro con le ipotesi dello studioso circa le coperture delle varietà occitane parlate in Spagna (e più precisamente nella catalana Val D’Aran). tabella III. Schema proposto da Regis (in stampa) sulle coperture delle diverse varietà d’occitano. Area occitanofona Area occitanofona Area occitanofona italiana francese catalana francese TETTO francese (catalano) francese (catalano) LINGUISTICO (catalano) TETTO SOCIALE italiano francese spagnolo/catalano francese/catalano TETTO catalano (?) catalano (?) CULTURALE (?) Evidenziate le differenze di “copertura” fra le varietà dei due versanti delle Alpi Cozie, è necessario tratteggiare velocemente i repertori linguistici dell’area, per completarne il quadro sociolinguistico. Anche in questo caso, la proposta più aggiornata21 è formulata da Riccardo Regis (in stampa e 2016), che delinea il repertorio delle valli italiane di parlata occitana con il seguente schema: schema I. Schema repertoriale per l’area occitanofona del Piemonte proposto da Regis (in stampa) italiano [francese] H h l h piemontese L l occitano Per interpretare lo schema, è utile riprenderne la descrizione offerta dallo stesso autore: La linea tratteggiata allude ad una certa porosità nella delimitazione tra i codici del repertorio. Più precisamente, avrà luogo un’ampia sovrapposizione di usi tra i livelli alto (h) e basso (l) del polo “low”, contraddistinto da L, in entrambe le direzioni (dall’occitano al piemontese e dal piemontese all’occitano), mentre sarà asimmetrico il rapporto tra i codici in L e i codici in H: se i primi non potranno salire a H (linea continua che, provenendo dal basso, separa L e H), risulterà del tutto normale che i secondi, e specialmente l’italiano (il francese è posto tra parentesi quadre, data la sua scarsa rilevanza nell’uso e la sua limitazione ad un’arèola specifica), conquistino domini 21

Fra le proposte precedenti, è opportuno citare almeno quella formulata da Telmon (1994), che traccia due tipi repertoriali diversi per l’area occitana: l’uno vòlto a descrivere il repertorio delle località in cui si parla anche francese, che vedrebbe al polo alto l’italiano, al polo basso il piemontese e, in una situazione di medietà, il francese e l’occitano (in Telmon 2009, il francese è invece rappresentato al polo alto, seppur fra parentesi); l’altro, dedicato alle vallate in cui non è parlato il francese, vedrebbe soltanto due poli, occupati rispettivamente dall’italiano (polo alto) e dal piemontese e dall’occitano (polo basso). Berruto (2009) propone invece un sistema a due gradini per entrambe le subaree, con l’italiano (e, in subordine, il francese) al polo alto e l’occitano (e, in subordine, il piemontese) al polo basso. Per la discussione di queste e altre descrizioni del repertorio linguistico dell’area cisalpina di parlata occitana, si veda Regis/Rivoira (2014).

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CAPITOLO I in L (linea tratteggiata che, procedendo dall’alto, segna il confine fra H e L). Conserva un carattere di medietas il piemontese, che, pur restandone chiara l’appartenenza al gradino L, continuerà ad essere h nei confronti dell’occitano. Qualora dal repertorio reale passassimo al repertorio desiderato, noteremmo che l’occitano non è immobile, ma può perlomeno aspirare ad occupare il gradino alto del polo basso della situazione dilalica testé descritta.

Per quanto riguarda le località indagate, è possibile aggiungere un paio di specificazioni allo schema: in base alle biografie (socio)linguistiche degli informatori (cfr. tabella I, § III.2.2), il francese risulta presente in modo tutt’altro che episodico non solo nel repertorio delle Valli Valdesi22 (quindi nelle località di Massello, Pramollo e Bobbio Pellice), dove è stato per alcuni secoli lingua di culto della minoranza protestante, ma anche in alta Valle di Susa (a Salbertrand) e nei territori che un tempo appartenevano agli Escartons (Pragelato e Bellino). Sempre da queste biografie è possibile evincere come i due codici che condividono il gradino L dello schema di Regis, il piemontese e l’occitano, siano in realtà piuttosto nettamente ripartiti negli usi degli informatori: mentre il piemontese è usato nei contesti tipicamente out-group, l’occitano risulta essere per quasi tutti (anche in conseguenza dei criteri di selezione degli informatori, cfr. sempre § III.2.2) la lingua materna, parlata soprattutto nei contesti in-group. Questa specificazione, valida per gli informatori della presente inchiesta, non solo non inficia, ma piuttosto sostiene la scelta di Regis di posizionare il piemontese su un gradino più alto rispetto alla lingua locale che, al contrario del dialetto regionale, non sembra essere appresa in contesti diversi da quello familiare; se una convergenza sembra esserci, a livello di domini d’uso, fra i due codici del livello basso, questa sembra avvenire a tutto vantaggio dell’italiano (cfr. Giordano/Pons 2014b). Tale schema non vale evidentemente per la località di Ceillac, dove presumibilmente si avrà una situazione di forte dilalìa (Berruto 1987b) a favore del francese. In chiusura di questa breve rassegna sulla situazione sociolinguistica dell’area, occorre precisare che, in seguito alla promulgazione della legge nazionale 15 dicembre 1999 n. 482, «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», tutti i comuni italiani indagati hanno deliberato l’appartenenza alla minoranza linguistica occitana; inoltre i comuni di Salbertrand, Pragelato, Massello, Pramollo e Bobbio Pellice hanno deliberato l’appartenenza alla minoranza linguistica francese. I.3.2. PROFILO LINGUISTICO Per quanto riguarda il piano più strettamente linguistico, è necessario premettere che l’area d’indagine, pur raggruppando parlate affini, è da considerarsi come la giustapposizione di diverse aree marginali e non come un’area dotata di una sua autonomia o di una qualche capacità d’innovazione: i centri d’irradiazione che la influenzano saranno da ricercarsi nelle cittadine e nelle città poste all’imbocco delle valli e nelle pianure prospicenti. Ciò non di meno, i frequenti contatti trasversali fra le diverse valli (cfr. Grassi 1958) e le differenti influenze esterne cui ciascuna di queste è soggetta hanno determinato il prodursi di sottogruppi di varietà, per i quali manca tutt’ora una descrizione organica.

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22

Per un’analisi delle ragioni storiche soggiacenti alla presenza della lingua francese nel repertorio delle Valli Valdesi, si veda Rivoira (2015).

LE ALPI COZIE Alcuni dei tratti che distinguono l’occitano cisalpino dal piemontese e dalle altre varietà occitane (e, segnatamente, da quelle provenzali) sono ora riassunti in Rivoira (2016), mentre per un compendio delle diverse proposte di classificazione delle varietà occitane si può far riferimento a Sumien (2009) e alla bibliografia da esso citata. Sempre in Rivoira (2016) si trova una rassegna delle diverse proposte di classificazione interna del gruppo di varietà occitane cisalpine, che riprende le considerazioni di Ronjat (1931-1940), Martel (1983), Telmon (1992a) e Regis (2010). Di seguito si è tentato di inserire le località d’inchiesta site in Italia nei diversi sottogruppi. tabella IV. I sottogruppi dell’occitano alpino delle Alpi Cozie23 RONJAT MARTEL TELMON LOCALITÀ (1930-41) (1983) (1992a)24 Salbertrand brianzonese Gruppo 1 (Alta Valle della Dora brianzonese Riparia e alta Pragelato pragelatese Valle del Chisone) Massello varietà Gruppo 2 valdese (Bassa Valle (settentrionale) intermedie Pramollo del Chisone, varietà Val Bobbio valdese propriamente Germanasca Pellice (meridionale) appartenenti e Val Pellice) all’occitan Ostana inaupenc Gruppo 4 Bellino varietà (alta Val meridionali Varaita e Elva Valle Stura?) Argentera Alta Stura

REGIS (2010)

settentrionale

centrale

Dalla tabella IV, che esclude il punto di Ceillac, risulta evidente come vi sia disaccordo (per lo più imputabile alla lacunosità dei dati a disposizione dei diversi studiosi) sull’appartenenza delle parlate ai diversi sottogruppi: per quanto interessa le località indagate, si può tuttavia notare come vi siano un paio di coppie di varietà che vengono classificate nello stesso gruppo da tutti gli studiosi. Naturalmente, si tratta di località fra loro limitrofe, o comunque accomunate (nel caso dei comuni delle Valli Valdesi) da un retroterra comune a livello storico/culturale: 23

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Massello e Pramollo Per completezza di esposizione, si tenga presente che l’area di parlata occitana appartenente alle Alpi Marittime viene generalmente classificata a parte: in particolare Telmon/Ferrier (2007) individuano un sottogruppo composto dalle parlate delle valli Vermenagna e Gesso, che Regis (2010) definirà come “meridionale”. Lo studioso ha proposto, in Telmon/Ferrier (2007: 12), una nuova suddivisione, che vede le località che ci interessano divise in due gruppi (gli stessi che proporrà Regis 2010), che riuniscono rispettivamente alta Val Susa, Val Chisone e Valli Valdesi e Val Po, Val Varaita, Val Maira, Val Grana e Valle Stura.

23

CAPITOLO I -

Bellino e Elva

A titolo di esempio, riporto di seguito, nella tabella V, le realizzazioni per alcuni tratti25 (fra quelli per i quali si disponeva di materiale a sufficienza nel Lessico), che contribuiscono a evidenziare come sia possibile individuare alcune aree coerenti per diversi fenomeni fonetici. tabella V. Alcuni esempi26 di distribuzione di tratti fonetici LOCALITÀ

PALATALIZZAZIONE NESSI CL, PL, GL

EVOLUZIONE DEL NESSO CT

PROSTESI VOCALICA E CADUTA DI S- NEI NESSI SK-

Salbertrand Pragelato Massello Pramollo Bobbio Pellice Ostana Ceillac Bellino Elva Argentera

[klot], [plaŋ] [klot], [plɔŋ] [klot], [plaŋ] [klot], [plaŋ]

fài27 [fai̯t] [fai̯t] [fai̯t]

[iklaˈpeu̯r] [iklaˈpeu̯r] [ei̯klaˈpøi̯ro] [ei̯klaˈpøi̯ro]

[ˈbalma] [ˈbalmə] [ˈbalmo] [ˈbalmo]

[kjot], [pjaŋ]

[faʧ]

[skjaˈpɛu̯ra]

[ˈbarma]

[kjot], [pjoŋ] [klot], [plat], [ɡlas] [kjot], [pjoŋ] [kjot], [pjaŋ] [klwot], [plaŋ]

faʧ28 [esˈklyzes] [skjaˈtou̯ro] [skjaˈteu̯res]

[ˈbarmo] [ˈbalmo] [ˈbalmo] [ˈbarmo] [ˈbalma]

[faʧ] [faʧ] [faʧ]

ROTACISMO DI L DAVANTI A NASALE

Avendo inserito nel Lessico, almeno fra i lemmi, soltanto sostantivi, può essere utile analizzare brevemente il variare delle desinenze di genere e numero, in particolar modo per quanto riguarda il femminile: i sostantivi maschili corrispondono per lo più alla radice lessicale e, analogamente a quanto avviene in piemontese, non si hanno desinenze che marchino il genere maschile (cfr. Bronzat 1977-1978, Martel 1983): nei casi in cui anche il femminile manchi di marche morfologiche, è l’articolo a determinare il genere dei sostantivi (nonché il loro numero, nel caso dei maschili e dei femminili invariabili).

25 26

27 28

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Per uno studio più puntuale di questi e di altri fenomeni, oltre che alla bibliografia citata nel paragrafo, rimando a Quaglia (2004) e a Bronzat (2005). Di seguito fornisco la traslitterazione ortografica e una traduzione sintetica delle parole scelte come esempio, rimandando al Lessico per una completa descrizione del loro significato: clot, plan “ripiano”, glas “ghiaccio”, fait “fatto”, eiclapeuiro “spaccatura”, escluzes “chiuse”, squiatoouro “piccola ferita cutanea”, balmo “riparo sotto la roccia”. Laddove possibile, le lacune vengono integrate ricorrendo ai dizionari disponibili per alcune località (cfr. § II.2.1.); la forma di Salbertrand è tratta da Baccon Bouvet (2009 [1987]: 125). Cfr. nota precedente: la forma di Ostana è tratta da Zörner (2008: 149).

LE ALPI COZIE tabella VI. Esempi di morfologia nominale29 MASC. LOCALITÀ SING. 1 Salbertrand [brik] 2 Pragelato [brik] 3 Massello [brik] 4 Pramollo [brik] 5 Bobbio Pellice [brik] 6 Ostana [brik] 7 Ceillac [brik] 8 Bellino [brik] 9 Elva [brik] 10 Argentera [bjal]

MASC. PLUR.

FEMM. SING.

FEMM. PLUR

[ˈbrikːi] [briks]

[ˈai̯ɡa] [ˈai̯ɡə] [ˈai̯ɡo] [ˈai̯ɡo] [ˈai̯ɡa] [ˈai̯ɡo] [ˈai̯ɡo] [ˈai̯ɡo] [ˈai̯ɡo] [ˈai̯ɡa]

[kraˈsiʎa] [ɡraˈvjəra] [ˈkraːsa] [ˈbara] [kyˈnətːe] [ɡraˈviʎːe] [kyˈnetes] [bariˈkades] [baˈʧases] [piˈsajas]

[briks] [bjals]

Dagli esempi riportati, si può dedurre uno schema di questo tipo: schema II. La morfologia nominale nelle località indagate30 MASCHILE SINGOLARE

non marcato (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10)

PLURALE

- non marcato (3, 4, 5, 6, 8, 9, 10) - marcato (1, 2, 7, 10)

FEMMINILE

-a (1, 5, 10) -ə (2) -o (3, 4, 6, 7, 8, 9) -a (1, 2, 3, 4) -e (5, 6) -es (7, 8, 9) -as (10)

I dati raccolti nel Lessico, pur fornendo un’utile base di partenza per la descrizione della morfologia nominale del diasistema, non fanno emergere la complessità delle singole parlate, per le quali sarà opportuno fare ricorso alle grammatiche disponibili per le località indagate31. Se il maschile singolare non presenta di norma desinenze dedicate, il maschile plurale viene segnalato morfologicamente in tre località riconducibili al gruppo Brianzonese (Salbertrand, Pragelato e Ceillac32), con differenti soluzioni, e ad Argentera. Per quanto riguarda Salbertrand, Baccon Bouvet (2003: 15) presenta diverse rese del maschile plurale, che in alcuni casi non risulta essere marcato. Riassumendo l’ampia

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Siccome gli esempi sono tratti dalle inchieste, non è stato possibile disporre, per la serie femminile plurale, di uno stesso lessotipo flesso in tutte le località; le parole scelte, per le quali fornisco di seguito la traslitterazione ortografica e una traduzione sintetica, appartengono comunque alla stessa classe: crasillha “detriti”, gravìëra “greto”, crâsa “detriti”, bara “appezzamenti allungati”, cunëtte “cunette”, gravillhe “detriti”, baricàdes “pareti”, bachàses “pozzanghere”, pisàias “cascatelle”. Per il maschile si citano i temini bric “altura” e biâl “canale”, per il femminile singolare aigo “acqua”. Le cifre fra parentesi fanno riferimento alla numerazione delle località nella tabella precedente. Per Salbertrand, Baccon Bouvet (2003), per Pragelato, Blanc et alii (a cura di 2003), per Massello e Pramollo, Genre (2003), per Bobbio Pellice, Rivoira (a cura di 2007), per Ostana, Zörner (2008), per Elva, Dao (1983). Quest’ultima, sebbene sia posta geograficamente più a sud delle altre, sembra infatti essere orientata sulla cittadina delle Alte Alpi.

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CAPITOLO I casistica presentata dall’autrice, sembra sostanzialmente che il plurale maschile possa essere reso: -

in modo sigmatico (es. embiȓi, embiȓìs “ombelico, ombelichi”, plat, plas, “piatto, piatti”); con la desinenza -i (es. maclë, macli, “maschio, maschi”, vorz, vorzi, “salice, salici”, sap, sappi “abete, abeti”).

Sono attestate altre rese possibili per il maschile plurale: per citare solo qualche esempio chavà, chavòu, “cavallo, cavalli”, trupè, trupiòu, “gregge, greggi” (cfr. oltre e nota 33), velh, vör “vecchio, vecchi”. Una situazione simile sembra potersi riscontrare a Pragelato, dove il plurale maschile, quando è marcato, si realizza in modo sigmatico (es. amic, amics, “amico, amici”) o con la desinenza -i (es. frairë, frairi, “fratello, fratelli”); Blanc et alii (2003: 20 e segg.) citano inoltre il caso dei nomi terminanti in -él, èl, che risolvono in -aou33 (es. uzèl, uzaou, “uccello, uccelli”), oltre ad una serie di plurali irregolari (es. pra, prô, “prato, prati”, vèlh, vèi, “vecchio, vecchi”). I sostantivi femminili hanno diverse terminazioni, ma la principale (quella che marca il femminile nei nomi che presentano entrambi i generi) è in genere -o, coerentemente a quanto avviene in buona parte dell’area occitana transalpina. Conservano la desinenza etimologica -a (o la recuperano sulla spinta del piemontese) le località di Salbertrand34, Bobbio Pellice e Argentera. Nella località di Pragelato la desinenza del femminile singolare ha subito un processo di centralizzazione, volgendo in [-ə]. Il plurale dei sostantivi femminili non invariabili (in genere quelli che presentano la marca del femminile anche al singolare) è reso in modo sigmatico nelle località meridionali (Argentera, Elva, Bellino, Ceillac), mentre nelle località settentrionali sono attestate le desinenze -a (Salbertrand35, Pragelato36, Massello, Pramollo) e -e (Bobbio Pellice e Ostana37). Sarà interessante tenere presenti queste affinità, definite sulla base di tratti fonetici e morfosintattici, nell’analisi semantica del lessico delle Alpi Cozie: è infatti da verificare se le aree semantiche corrispondano alle altre aree linguistiche.

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Questo passaggio, analogo a quello del francese standard (cheval, chevaux, “cavallo, cavalli”), si ritrova anche a Salbertrand, con qualche variazione a livello di evoluzione fonetica. Baccon Bouvet (2009 [1987]: 82) segnala che in finale di parola o prima di un suono nasale, la [a] viene pronunciata come “semimuta”; tale fenomeno nei materiali del Lessico non viene rilevato: come si dirà più diffusamente nel capitolo successivo, la modalità di raccolta dei dati (che prevedevano che l’interazione avvenisse interamente in dialetto, con la raccoglitrice che si esprimeva nella sua varietà) non sono probabilmente le più indicate per ottenere informazioni fonetiche fini (altro era lo scopo): è dunque necessario integrare i dati raccolti nella presente ricerca con i materiali disponibili negli studi lessicografici e grammaticali prodotti sull’area (cfr. § II.2.1). In alcuni casi eccezionali, anche il plurale femminile può essere reso con la desinenza -i: es. mäȓ, mäȓi, “madre, madri” (Baccon Bouvet 2009 [1987]: 92). Come a Salbertrand, in alcuni casi eccezionali il plurale femminile esce in -i (es. sôrë, sôri, “sorella, sorelle”); sono inoltre attestati casi in cui sostantivi che al singolare non escono in -ë marchino il plurale (es. furmì, furmìa, “formica, formiche”), cfr. Blanc et alii (2003: 20). I sostantivi femminili, qui come altrove, si distinguono in tre gruppi: il primo, più numeroso, è caratterizzato dalla terminazione in -o al singolare e in -e al plurale (es. fˈəmno, fˈəmne, “donna, donne”); il secondo non presenta marche flessionali (es. mizˈuŋ, mizˈuŋ, “casa, case”); il terzo vede la terminazione in -a tonica sia al singolare sia al plurale (es. cuɲˈa, cuɲˈa, “cognata, cognate”) (Zörner 2008: 71).

Capitolo II

STUDI E MATERIALI II.1. Studi semasiologici nella geografia linguistica Il termine semasiologie è stato coniato dal filologo tedesco Cristian Karl Reisig fra il 1822 e il 1824, con un significato originario paragonabile a quello che attualmente si fa corrispondere a “semantica”1. Il termine ha avuto un certo seguito in Germania e in Inghilterra, soprattutto fra i seguaci di Reisig; il Nuovo De Mauro data la prima attestazione del termine italiano al 1887-91, all’epoca in cui semasiologia indicava ancora genericamente lo studio del significato: sarà infatti soltanto dopo la pubblicazione, nel 1897, dell’Essai de sémantique di Michel Bréal che il termine semasiologia subirà un progressivo declino e verrà gradualmente sostituito dal termine semantica (attestato in italiano già dal 1898). Sebbene alcuni dizionari la considerino ancora un sinonimo antiquato di “semantica”, la parola semasiologia, privata del suo significato originario, si è gradualmente specializzata: nell’uso scientifico odierno si suole intendere con semasiologia uno speciale procedimento di indagine semantica, in cui a partire da una denominazione, cioè da un significante, si passa ad analizzare i suoi designata e, attraverso di loro, si giunge ad investigare le descrizioni delle nozioni o dei concetti che, attraverso diverse aree o in tempi diversi, rispondono o hanno risposto a tale significante (Telmon 2004b: 682).

Con questo nuovo significato, il termine semasiologia si pone dunque in un rapporto di opposizione e complementarietà2 rispetto al termine onomasiologia, che indica lo studio dei diversi significanti che corrispondono, nel tempo e/o nello spazio, a uno stesso significato. In geografia linguistica, la ricerca semasiologica si realizza dunque studiando i diversi significati che, in una data area, corrispondono a uno stesso significante o, più comunemente, a uno stesso tipo lessicale. Per definire meglio il campo d’indagine della ricerca che viene presentata, può essere utile riprendere lo schema in cui Coseriu (1971 [1964]: 250-51) individua, sviluppando le teorie di Weisgerber (1926) e (1927), i diversi punti di vista a partire dai quali può articolarsi lo studio del lessico:

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«In Reising’s [sic.] view, semasiology indicated the meaning of the word form» (Kwiatek 2013: 3). Per una riflessione sui rapporti fra i due approcci, si veda Baldinger (1964) e la relativa bibliografia.

CAPITOLO II schema I. Schema elaborato da Coseriu (1971 [1964]) per delimitare i punti di vista delle diverse discipline lessicologiche a piano dell’espressione3 ↓c piano del contenuto

↑d b

a) ponendosi dal punto di vista dell’espressione, è possibile studiare i rapporti fra i significanti, attraverso la disciplina che Coseriu definisce “lessicologia dell’espressione”; b) ponendosi dal punto di vista del contenuto, è possibile studiare i rapporti fra i significati, attraverso la “lessicologia del contenuto”; c) è possibile studiare i rapporti fra i due piani partendo dall’espressione, attraverso una disciplina «che spesso viene identificata con la ‘semantica’ tout court, e che si potrebbe forse chiamare semasiologia» (Coseriu 1971 [1964]: 251); d) è infine possibile studiare i rapporti fra i due piani partendo dal contenuto, adottando il punto di vista dell’onomasiologia. La ricerca che viene presentata di seguito si colloca al punto c) dello schema citato: a partire da alcuni significanti4 dialettali vengono indagati i differenti significati cui questi corrispondono nelle diverse località d’inchiesta. Un’ulteriore precisazione del campo di indagine può essere operata ricorrendo alla terminologia introdotta da Coseriu (1973) per la variazione (socio)linguistica5: l’interesse principale della ricerca sta nello studio della variazione diatopica del significato. Sebbene nella pratica una rigida separazione fra le dimensioni di variazione sia difficile da stabilire, non si analizzerà in modo sistematico la variazione del significato in diacronia; inoltre, i dati raccolti non permettono di studiare la variazione del significato in diastratia o in diafasia (sebbene non manchino alcuni cenni all’uso gergale di certi termini). L’analisi dei dati, raccolti con una metodologia fondata negli studi di geolinguistica, permetterà tuttavia di avviare una riflessione strutturale sul piano del contenuto, che si collocherà dunque anche al punto b) dello schema di Coseriu: i diversi significati verranno infatti studiati sia nella loro strutturazione interna (con uno o più sensi) sia nei loro rapporti all’interno dei diversi campi semantici. Per quanto riguarda l’ambito di studi della semasiologia, le prime ricerche si sono concentrate sulla variazione diacronica del significato, e in particolare sulle ragioni dei 3

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Coseriu preferisce far riferimento, soprattutto quando non si tratti di unità linguistiche bensì di piani del linguaggio, ai termini di Hjelmslev (espressione e contenuto) in luogo dei più noti termini Saussureani (significante e significato); per una ripresa delle continuità e delle differenze fra le due terminologie, si veda Maddalon (1990: 118 e segg.). Trattandosi di uno studio areale, è in realtà più corretto parlare di tipi lessicali, in quanto la forma fonetica dei significanti attestati nelle diverse località può variare anche sensibilmente: qui si fa ricorso al termine saussureano per mantenere la corrispondenza con lo schema di Coseriu. Una seria analisi sull’applicabilità teorica dei principi della sociolinguistica variazionale allo studio del lessico (e, in particolare, del significato dei lessemi) esula dal presente lavoro. Un inquadramento dei problemi che comporterebbe il passaggio di categorie da un ambito all’altro è disponibile in Cerruti (2011).

STUDI E MATERIALI mutamenti semantici (Meillet 1904-1905); inoltre, si sono analizzate per lo più parole isolate, o designata specifici (si vedano ad esempio, rispettivamente, Jud 1925 o Bertoldi 1923). Il primo studioso a concettualizzare compiutamente la possibilità di studiare, attraverso le carte di un atlante linguistico, la variazione diatopica del significato (quella che Alinei chiama geosemantica6) è Karl Jaberg, nel suo saggio sulle Aires sémantiques (Jaberg 1936). II.1.1. IL PRIMO STUDIO SULLE AREE SEMANTICHE Karl Jaberg, nel dicembre del 1933, tenne tre lezioni magistrali al Collège de France: la prima s’intitolava «Les Atlas Linguistiques et les conceptions fondamentales sur lesquelles ils reposent»; la seconda, che è quella che ci interessa, «Aires sémantiques»; la terza «Aires morphologiques»; queste lezioni sono state raccolte nel volume Aspects géographiques du langage. Nella seconda conferenza, Jaberg propone di studiare “i fatti di geografia lessicologica” partendo dalle parole piuttosto che dalle idee, attraverso la costruzione di carte che, a partire dai dati presentati sulle tradizionali carte onomasiologiche, raggruppino tutti i significati che una stessa parola può assumere: Les cartes sémantiques, avons-nous dit, résultent de la combinaisons de plusieurs cartes onomasiologiques telles qu’elles sont publiées par les atlas linguistiques (Jaberg 1936: 44).

Nell’applicare questo metodo per alcuni tipi lessicali attestati dall’ALF e dall’AIS, Jaberg si concentra in particolare sulla polisemia7, e sulle condizioni per cui questa viene tollerata o evitata. Fra le tendenze individuate da Jaberg, è particolarmente interessante in questo contesto quella per la quale «des idées cordonnées dans le même domaine de l’activité humaine se gênent […] des idées appartenant à deux domaines différents coexistent plus facilement» (ivi, 64): pur occupandosi di parole isolate, lo studioso coglie il legame fra la struttura interna dei diversi significati e la struttura del campo semantico in cui questi sono inseriti.

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«Termine che designa qualunque tipo di ricerca areale che si applica al significato» (Alinei 2009: 906). La questione della distinzione fra omonimia e polisemia nel lavoro di Jaberg è sollevata da più parti, sebbene in termini diversi: Berretta (1974) sostiene che «l’unica fondata obiezione che può venir mossa a Jaberg alla luce dei più recenti sviluppi degli studi di semantica, è la non liceità di restringere lo studio ai soli derivati di uno o più tipi lessicali, e non genericamente agli omofoni; infatti dal punto di vista sincronico, del funzionamento della lingua, non sembra avere importanza se due o più parole uguali ma con significati diversi abbiano una medesima origine o meno»; Hilty (2015) lamenta invece di non aver trovato, nel saggio di Jaberg, la distinzione fra polisemia e omonimia, sostenendo che alcuni dei casi di polisemia citati siano in realtà di casi di omonimia (quando i diversi significati appartengono a sfere diverse dell’attività umana), mentre la polisemia si realizzerebbe soltanto nel caso di un «rapport senti entre deux idées […] que ce rapport soit celui du particulier au général […], du concret à l’abstrait, du propre au figuré» (Jaberg 1936: 64). Queste diverse posizioni discendono da due diverse concezioni del confine fra omonimia e polisemia (cfr. a proposito Widɬak 1998); nel presente lavoro, si intenderà con omonimia il caso di due significanti uguali formalmente ma diversi per etimo e per significato (quindi in caso di omonimi etimologici), mentre si intenderà con polisemia il caso in cui uno stesso significante sia legato a sensi diversi.

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CAPITOLO II Oltre ad avere il merito di aver formalizzato una nuova prospettiva di studio dei dati geolinguistici, il saggio di Jaberg è particolarmente importante8 perché tenta di definire una corrispondenza fra i dati semantici e la vitalità delle diverse parlate, arrivando per esempio ad affermare che «les parlers bien constitués réagissent plus facilment contre la polysémie que les parlers mélangés et en état de décomposition» (Jaberg 1936: 64). Inoltre, lo studio ci offre anche importanti intuizioni sulle implicazioni del contatto linguistico sulla strutturazione interna dei significati: Jaberg sostiene ad esempio che la lingua letteraria crei confusione nelle parlate dialettali, introducendo dei significati che queste non conoscono. II.1.2. LE CARTE SEMASIOLOGICHE NEGLI ATLANTI LINGUISTICI DELLA ROMÀNIA Non sono mancati, negli ultimi decenni, gli studi di impostazione semasiologica volti a indagare il mutamento areale del significato di singoli tipi lessicali, talvolta anche attraverso una presentazione cartografica dei dati9; tuttavia, la lezione di Jaberg ha dato i suoi frutti soprattutto nei cantieri di alcuni atlanti linguistici, che fra le varie carte interpretative proposte hanno inserito delle “carte semasiologiche”, ovvero delle rappresentazioni cartografiche della variazione semantica. Per l’area romanza europea, gli atlanti che hanno pubblicato carte “di significati” sono una minoranza; inoltre, in genere vengono pubblicate carte isolate, dedicate a singoli tipi lessicali che, per dirla con Bouvier e Martel (1975), hanno prima di tutto valore di esempio. La scarsa diffusione di questo tipo di carte è probabilmente da correlare alla necessaria priorità, per la compilazione di un atlante linguistico, degli studi onomasiologici: la metodologia proposta da Jaberg prevedrebbe infatti, utopisticamente, di disporre di tante carte onomasiologiche quante sono le accezioni di un tipo lessicale (1936: 57). Lo stesso Jaberg si rende conto del fatto che «[l]es atlas linguistiques ne donnent qu’un choix du trésor lexicologique d’une langue, ils permettent rarement de saisir l’aspect géographiques des problèmes sémantiques dans toute leur complexité». Per ovviare a questo inconveniente, in diverse imprese atlantistiche a carattere regionale si è tentato di indagare direttamente il significato di alcuni tipi lessicali dialettali, attraverso l’inserimento di domande semasiologiche nei questionari10. Fra le carte semasiologiche attualmente disponibili per l’area romanza (per una rassegna delle quali si veda oltre) è dunque possibile operare una distinzione fra carte “di I livello” e carte “di II livello” (Pons 2015a): -

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le carte semasiologiche “di I livello” sono carte compilate sulla base di dati raccolti con una specifica attenzione al significato, interrogando direttamente gli Sulla validità attuale degli studi sulle aree semantiche di Jaberg si veda, oltre ai già citati Berretta (1974) e Hilty (2015), anche Grassi (2015), in particolare pag. 52. A titolo d’esempio, cito due articoli di studiosi coinvolti nelle imprese atlantistiche torinesi: Ronco (1978) e Canobbio (1997a). Il fatto che questo tipo di domande sia stato inserito nei questionari di alcuni atlanti linguistici regionali (in genere successivi a quelli nazionali) non è imputabile soltanto a ragioni di avanzamento della ricerca: per indagare il significato di un tipo lessicale dialettale è infatti necessario concentrare lo studio nell’area in cui tale tipo è attestato.

STUDI E MATERIALI

-

informatori sui diversi sensi di uno o più termini dialettali, domandando dunque «che cosa significa bial?» e non «come si dice canale?/come si dice ruscello?»; le carte semasiologiche “di II livello” raccolgono invece dati elicitati con una serie di domande onomasiologiche, e riuniti a posteriori in base al ricorrere di uno stesso tipo lessicale.

Nella tabella I si raccolgono, per i volumi d’atlante che è stato possibile consultare, il numero e l’intestazione delle carte semasiologiche (in ordine di pubblicazione), specificando se si tratta di carte di I o di II livello, e fornendo qualche informazione sintetica sul tipo di resa cartografica della variazione del significato. tabella I. Le carte semasiologiche pubblicate dagli atlanti linguistici romanzi ATLANTE

ALG

NALR – Olt.

CARTE SEMASIOLOGICHE

Volume IV: 1149 VACIVA, 1195 AVIAMEN, 1303 gourde porrón, 1306 miche, 1370 ligna, 1398 camalhon, 1451 eskuerd, 1478 cadet, 1488 la jambe crue, 1503 milhàs, 1510 còca Volume I: 105 vintre, 117 pedestru, 82 grumaz Volume II: 165 copilă 181 muiere, 189 schelă, 243 căpătîi, 272 prînz, 323 plai, 324 cale, 329 vale, 335 căşită, 337 măgură, 339 curmătură, 340 şa, 348 dascăl Volume III: 432 ogor, 445 hambar, 512 codru, 513 crîng, 530 tufă Volume IV: 739 otinc, 744 cîrlan, 746 cîrlana, 750 vătui, 752 vătuie, 814 iernatic, 815 văratic, 816 tomnatic e 817 mutare

ALA

Volume I: 14 meiden, 186 steipern, 310 wunderlich Volume II: 8 boeuf-ochse, 215 hameçonangelhaken

ALP

Volume I: 146 bya̩u̯, 147 ri̩u̯, 147 vala e 149 valũⁿ

ALGa

Volume IV: 5 serán, 94 brétema, 97 orballo e 110 neve Volume VI: 1 monte, 2 montaña, 5 bouza, 61 braña, 63 bulleiro, 103 caravel, 141 pampillo, 177 fraga

ALDC

Volume II: 386 vianda

ALRR Sinteză

Volume I: 15 mă lau, 127 cruţ Volume II: 149 grumaz, 205 vintre, 259 pedestru

11

TIPO DI CARTE

I livello – cifre aggiunte sulla carta linguistica

I livello – note a margine non cartografate

I livello – carta simbolica (lettere) II livello – carta simbolica II livello – carta simbolica II livello – carta simbolica I livello – carta simbolica II livello11 - carte simboliche

L’ALRR Sinteză nasce dall’«elaborazione di dati già collazionati dai singoli atlanti linguistici regionali» (Cugno/Massobrio 2010b: 175), quindi le carte semasiologiche che presenta sono da considerarsi di II livello, anche se, almeno in alcuni casi, le domande che le hanno prodotte avrebbero potuto essere semasiologiche.

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CAPITOLO II II.1.2.1. Atlas Linguistique et ethnographique de la Gascogne Le carte propriamente semasiologiche dell’ALG sono concentrate nel IV volume, che contiene i materiali supplementari ai volumi precedenti, basati in larga parte sulla ripresa del questionario dell’ALF; anche nei primi volumi, grazie all’attenzione alle ‘cose’ dimostrata dall’ALG12, sono presenti alcune indicazioni semantiche: è tuttavia difficile discernere quando queste sono da imputarsi a un cambiamento diatopico dei referenti (è il caso ad esempio della carta 713 grappin, dove alcuni simboli segnalano che «en général, dans la bordure atlantique, les mots de la présente carte désignent une perche munie de crochets et non un véritable grappin attaché à une corde. V = mot général ‘crochet’») e quando a una polisemia del termine: les données sont trop dispersées pour que nous puissions prétendre à une représentation géographique continue des objet, techniques, croyances, pratiques, ecc.: on ne devra les considérer que comme des indications servant avant tout à éclairer les faits linguistiques (Seguy 1958: V).

Le domande del supplemento d’inchiesta lessicale, volte a precisare la conoscenza di campi semantici peculiari (per lo più appartenenti alla sfera rurale) sono in parte quesiti traduttivi (Q.D., question directe), ma per lo più si tratta di parafrasi volte a elicitare termini specifici (Q.I., question indirecte) e vengono esplicitate in testa alla carta. Le carte semasiologiche non presentano in esergo il testo della domanda, ma la dicitura «le continuateur de VACIVA a été recherché partout, et on a essayé d’en faire préciser les valeurs sémantiques»; «le continuateur de *AVIAMEN – collectif de AVIS – a été recherché partout. On s’est attaché à en faire préciser les acceptions». Queste carte integrano i valori semantici e quelli fonetici, rappresentando i primi con un sistema di cifre affiancate ai singoli punti, i secondi in modo sintetico, riportando le diverse aree fonetiche. Si noti come le intestazioni delle singole carte presentino talvolta il latino, talaltra il termine dialettale, eventualmente affiancato dalla traduzione in francese. II.1.2.2. Noul Atlas Lingvuistic român pe regiuni – Oltenia Gli atlanti linguistici romeni hanno dimostrato una particolare attenzione per gli studi semasiologici; in particolare, richiamo qui l’esperienza del NALR – Olt., primo degli atlanti regionali a vedere la pubblicazione, dove «l’analisi lessicale si estende anche all’aspetto semasiologico» (Cugno/Massobrio 2010b: 176): i diversi significati dei termini dialettali sono raccolti in nota a margine delle carte linguistiche. Questi dati sono stati raccolti con domande semasiologiche13: le questionnaire contient aussi des questions, peu nombreuses, auxquelles on obtient la réponse à l’aide d’une question directe ainsi formulée: “connaissez-vous le mot …? Quel sens a ce mot?” Nous avons eu recours à la question directe14 seulement

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Cfr. Seguy (1973), in particolare pp. 73-75. Per portare alcuni esempi: «[întrebare directă]. La ce (mai) spuneţi otinc» «[întrebare directă]. Ziceţi iernatic? La ce spuneţi?». Tali domande dirette erano già presenti nel questionario dell’ALR – Atlasu lingvistic român, in alcuni casi relativamente alle stesse parole, ad esempio vintre, codru, arina (cfr. Cugno/Massobrio 2010b: 77).

STUDI E MATERIALI pour préciser le sens d’un mot ou la persistance, dans le parler, d’un terme archaïque (Teaha/Ionică/Rusu 1967: 7).

Si noti come, nella breve frase citata, vengono efficacemente riassunti i due obiettivi principali, non sempre compresenti nelle intenzioni dei ricercatori, che motivano l’inserimento nel questionario di domande semasiologiche: l’uno è il precisare il significato di una parola, l’altro è quello di verificare la persistenza di un termine arcaico nella parlata (quello che sembra aver guidato le ricerche nei cantieri atlantistici italiani, cfr. oltre). II.1.2.3. Atlas linguistique et ethnographique de l’Alsace Nell’ALA le carte semasiologiche si presentano, in formato minore, affiancate a una delle carte onomasiologiche da cui sono tratte. Nel I volume queste sono numerate progressivamente insieme agli altri tipi di carte: a titolo d’esempio, sulla carta 14 meiden, sono riportate delle lettere corrispondenti ai significati di ‘fille en géneral’, ‘fille, grande fille’, ‘grande fille’: si noti che è prevista una categoria a parte per il significato che contiene le due accezioni, non vi è invece la giustapposizione dei due simboli. Le carte del I volume sembrano essere state compilate sulla base di domande semasiologiche, del tipo: «employez-vous le mot “wunderlich”? Comment le prononcezvous? Que signifie-t-il?»; «employez-vous l’expression “er muess sich stripperen”? Que signifie-t-elle?»; «employez-vous le mot “meiden”? Comment le prononcez-vous et qui désignez-vous ainsi?»; le carte del II volume, invece, sembrano essere il risultato della collazione di dati provenienti da diverse carte onomasiologiche: Il y a aussi quelques cartes syntetiques: il s’agit de la carte de variation du signifié et de la carte d’opposition, c’est-a-dire de cartes semantiques. On trouve ainsi par exemple, sur la planche 8: une carte synthétique avec les deux signifiés de ə̌t͓īə̨r, sur la planche 215: celle de ɑ̽ŋəl, sur la planche 308: la carte de l’opposition ‘groin’ – ‘museau’ (Bothorel-Witz/Philipp/Spindler 1984: s.p.).

II.1.2.4. Atlas Linguistique et ethnographique de la Provence L’ALP ha pubblicato alcune carte semasiologiche di II livello, che seguono immediatamente, nell’ordinamento dell’atlante, le carte onomasiologiche da cui sono tratte; sono carte particolarmente interessanti nel quadro del presente lavoro, perché (oltre a interessare anche il versante francese delle Alpi Cozie) sono dedicate a termini del paesaggio alpino; tale scelta è motivata dalla polisemia di questi termini: réalisées en très petit nombre, à l’aide de signes symboliques, les carte sémasiologiques, ou “cartes inverses”, ont été réservées à quelques signifiants ayant dans l’ensemble du domaine une grande polysémie. Comme dans l’A.L.G. IV ou l’A.L.A., ou encore l’Atlas Roumain de l’Oltenie, ces cartes, de nature syntétique ont avant tout une valeur d’exemple (Bouvier/Martel 1975: s.p.).

In questo atlante, a fianco alla carta simbolica sono riportati, per comodità (sebbene tutti i dati siano disponibili nelle carte onomasiologiche precedenti), tutti i casi

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CAPITOLO II in cui il lessotipo risulta suffissato: gli autori hanno infatti scelto di condensare in un’unica carta tutte le forme contenenti una stessa radice, anche quando queste siano compresenti (ma con diversi significati) nei singoli punti. II.1.2.5. Atlas Lingüístico Galego L’ALGa presenta una selezione di carte semasiologiche di II livello, che «recollen as diferentes acepcións dunha voz léxica» (Garcia/Santamarina 2003: 17): anche in questo caso, su ciascuna carta semasiologica sono specificate le carte onomasiologiche da cui sono stati tratti i dati, ed è previsto, accanto alla legenda che scioglie il significato dei diversi simboli che si possono trovare sulla carta, un apparato di note che approfondisce il valore semantico delle singole attestazioni. II.1.2.6. Atles Lingüístic del domini català L’ALDC, pur avendo pubblicato sinora una sola carta semasiologica, nell’introduzione al I volume specifica come questa sia frutto di un diverso tipo di domanda: en general, els enunciats del qüestionari estan pensats per a ser preguntats seguint una direcció onomasiològica; és a dir, van del significat al significant; per ex., es pregunta a l’informator “Con en dieu dels dos solcs que deixa a terra el pas d’un carro?” per tal d’obtenir els noms rodera, carrillada, ginya, ecc. Tanmateix, alguna pregunta va del significant al significat; per ex. es demana “què és la vianda?” per tal d’obtenir respostes com ‘carn’, ‘verdura’, ‘pastes de sopa’, ‘menjar que el pagès s’emporta al campo’, ecc. (Veny/Pons i Griera 2001: 8).

II.1.3. ESPERIENZE ITALIANE DI RICERCA SEMASIOLOGICA In Italia, a mia conoscenza, nessun atlante ha ancora pubblicato una sezione di carte semasiologiche, anche se alcune imprese atlantistiche a livello regionale hanno inserito nei loro questionari alcune domande sul significato dei termini. Sono sostanzialmente due le imprese atlantistiche che hanno fatto sistematico ricorso alle domande semasiologiche in sede d’inchiesta, pur non essendo giunte a una cartografazione organica dei risultati: l’Atlante Lessicale Toscano (ALT) e l’Atlante Linguistico della Sicilia (ALS). Inoltre sarà utile trattare brevemente del piccolo nucleo di domande sul significato che l’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale (ALEPO) ha inserito nella sezione del questionario relativa alla montagna. Per ciascun progetto si darà conto, sulla base della bibliografia disponibile, -

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degli obiettivi che hanno guidato la scelta di inserire nei questionari domande semasiologiche; delle modalità d’inchiesta con cui sono state poste; della restituzione dei risultati.

STUDI E MATERIALI II.1.3.1. Atlante Lessicale Toscano Nato nel 1973 su iniziativa di Gabriella Giacomelli, l’ALT è il primo, fra gli atlanti regionali italiani, a inserire in modo organico delle domande semasiologiche all’interno del proprio questionario. Obiettivo di tali domande, espresso nelle note sul questionario, è «verificare il significato di un termine dialettale» (Agostiniani 1978: 29). Un secondo obiettivo, che traspare da un articolo successivo, è inoltre il riscontro della presenza di un termine sul territorio, «il suo far parte della competenza attiva o passiva della fonte inquisita» (Nesi 1989: 373). Le domande consistono nella proposta di un termine dialettale, in una forma del tipo «Qual è il significato di pattona?». La lingua dell’inchiesta (presumibilmente l’italiano standard) è nel caso dell’ALT particolarmente vicina ai vernacoli studiati15: non si è dunque resa necessaria una riflessione specifica sulle implicazioni della traduzione da un codice all’altro (avviata invece con profitto dagli studiosi siciliani). L’attenzione al significato è viva in tutte le parti del questionario: si noti infatti che la semantica dell’item lessicale viene fornita «anche per le domande onomasiologiche, quando alla definizione del questionario si aggiungano notazioni dell’informatore sul significato del termine fornito» (Agostiniani/Montemagni/Poggi Salani 1989: 6). Le risposte, la cui resa cartografica non è disponibile sul sito http://serverdbt.ilc.cnr.it/altweb/, sono sintetizzate in coda a ciascuna delle schede che correlano località e domande, sotto la voce “descrizione”. Al campo “descrizione” possono seguire commenti del raccoglitore o annotazioni sulla frequenza con cui il termine viene usato (es. “vitale usato”, “recente”, “in disuso, sta gradatamente uscendo dall’uso”): questo risultato risponde all’“obiettivo secondario” che sembra aver guidato la composizione della parte semasiologica del questionario dell’ALT, ovvero indagare la competenza delle singole fonti rispetto ad alcuni termini dialettali. Dall’attenzione specifica che l’ALT rivolge allo studio del significato emergono delle constatazioni di carattere generale, assai utili per chi voglia intraprendere una ricerca semasiologica; per citarne uno: considerare correttamente la descrizione non come contenuto linguistico ma come caratterizzazione di un certo designatum costituisce un buon punto di partenza per evitare l’equivoco (più frequente di quanto si possa pensare) che consiste nell’interpretare come variazioni areali di significato quelle che sono soltanto delle difformità nella descrizione del designatum (Agostiniani 1978: 33).

II.1.3.2. Atlante Linguistico della Sicilia L’Atlante Linguistico della Sicilia, presentato nel 1985 da Giovanni Ruffino, è forse il progetto atlantistico che, in Italia, ha saputo meglio accogliere e interpretare gli stimoli che la sociolinguistica ha offerto alla geografia linguistica: la ricerca dell’ALS è 15

Tale vicinanza pone tuttavia problemi d’altra natura, come sottolinea Giacomelli: «il confronto del problema delle aree dialettali con il problema del rapporto dialetto-lingua […] è particolarmente complesso nella nostra regione che alla lingua ha fornito la parte essenziale del lessico, in cui quindi le coincidenze lessicali e semantiche poggiano su una base storica e non solo, come può accadere in altre regioni, tipologica» (1975: 118).

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CAPITOLO II “esplosa”16 in molte direzioni, spaziando da saggi di vocabolario-atlante che danno conto della ricchezza di singole realtà etnografiche alle inchieste della sezione sociovariazionale, che ambiscono a restituire un’immagine della variazione linguistica interna ai singoli punti, determinata da fattori sociali e generazionali. In questa ricchezza di prospettive, non poteva mancare un’attenzione specifica alla semasiologia, che si è realizzata con l’obiettivo iniziale di «valutare la resistenza del repertorio arcaico indagato» (Castiglione et alii 2006: 79). Le domande, come avvenuto per l’ALT, sono state poste in italiano, interrogando la fonte su un termine siciliano, in formulazioni del tipo «quale è il significato italiano di ggiummu?» (Castiglione/Di Pietra 2006: 354). La scelta dei termini dialettali è stata dettata, coerentemente con l’obiettivo iniziale delle domande, dall’ampia diffusione territoriale delle parole e dalla loro arcaicità. Alla prova del campo, l’équipe dell’ALS si è presto resa conto che, oltre a fornire informazioni sulle competenze dialettali (e traduttive17) dei parlanti, queste domande «hanno schiuso un vaso di Pandora che ha trascinato il significato in un turbinio di altre informazioni», ponendo «problemi di equivalenza linguistica e culturale sinora poco tenuti in considerazione» (Castiglione et alii 2006: 79). I dati ottenuti tramite queste domande sono stati organizzati in un apposito database, che prevede, per ogni domanda, una scheda di inserimento della risposta articolata in cinque campi: la reazione della fonte (risposta immediata, titubanza rispetto al significato, difficoltà traduttive), il significato (che può coincidere o meno con quello attestato nel Vocabolario Siciliano), la definizione (traduzione equivalente – al VS – o approssimativa, con eventuale aggiunta, sottrazione o sostituzione di tratti semantici), la modalità di risposta (perifrasi, esemplificazione/contestualizzazione, riproposizione) e il codice in cui questa viene fornita (italiano, italiano con elementi lessicali non standard, siciliano, misto). II.1.3.3. Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale Anche l’ALEPO ha inserito nel suo questionario, nella sezione relativa allo spazio alpino, alcune domande di carattere semantico, volte a chiarire i concetti di “pianura” (Q278), “montagna” (Q280), “alta montagna” (Q282), “costone” (Q288), “costa” (Q290), “collina” (Q292), “montanaro” (Q294), “sasso” (Q325). In questo caso le domande, più che essere strutturalmente inserite in un’indagine semasiologica, sembrano essere state aggiunte per raccogliere etnotesti relativi alla concettualizzazione locale dello spazio alpino. Le domande si presentavano nel questionario nella forma: “cosa si intende per pianura?”, e seguivano immediatamente una domanda onomasiologica volta a indagare 16

17

36

L’atlante linguistico della Sicilia ha prodotto ormai una cinquantina di volumi, distribuiti in cinque diverse collane: Materiali e ricerche dell’ALS (36 volumi dal 1995 al 2016), Piccola biblioteca dell’ALS (9 volumi dal 2000 al 2014), L’ALS per la scuola e il territorio (4 volumi dal 2010 al 2015), Archivio delle parlate siciliane (1 volume nel 2011), Lingue e culture in Sicilia. Piccola biblioteca per la scuola (1 volume nel 2015); per la questione dell’“esplosione del dato”, si può far riferimento a D’Agostino/Paternostro (2006). Il tema della traduzione nel cantiere dell’ALS è stato oggetto di approfondimento specifico, soprattutto grazie agli studi di Marina Castiglione; si vedano in tal senso almeno Castiglione (2003) e Amenta/Castiglione (2006). Per quanto riguarda il problema specifico della traduzione nel contesto di domande semasiologiche, Castiglione rileva come la disomogeneità nelle risposte «nasce dalla diversa capacità di passaggio intercodico degli informatori o dalla perdita di alcuni “semi” di significato che rendono la risposta più generica di quella prevista» (2004: 221).

STUDI E MATERIALI il termine dialettale con cui si designa il concetto (in questo caso, “pianura”); il richiamo al termine italiano, se in alcuni casi ha prodotto degli etnotesti che hanno specificato il significato dei termini dialettali offerti in risposta allo stimolo onomasiologico precedente, non permette la creazione di carte semasiologiche omogenee, in cui riferire tutti i significati a un medesimo significante. La scelta di partire da un termine italiano (o da quello che gli informatori hanno di volta in volta interpretato come il suo equivalente dialettale) è stata probabilmente dettata dall’assenza, negli anni in cui è stato costruito il questionario, di un vocabolario di area che potesse rappresentare, per il Piemonte occidentale, l’equivalente del vocabolario di Piccitto per la Sicilia. Le risposte a queste domande sono state trattate come etnotesti e poste a corredo della carta onomasiologica corrispondente. II.1.4. STUDI DI SEMANTICA DIALETTALE Non è stato facile individuare un modello per l’analisi semantica, che si è sviluppata forse più seguendo i contorni del materiale raccolto nelle inchieste che non sulla base di metodi d’analisi prestabiliti. Come afferma Gambarara (1999) nella sua premessa a Semantica. Teorie, tendenze e problemi contemporanei, è quasi un luogo comune per chi scrive di semantica aprire la propria esposizione denunciando preliminarmente che lo studio del significato è «ritenuto un ambito di ricerca particolarmente sfuggente, dai contorni incerti e mal definiti» (ivi, 11): è problematica la definizione stessa dell’oggetto di studio, e questo fattore contribuisce all’estrema frammentazione che si registra nel panorama delle ricerche semantiche. Una ricostruzione delle differenti tradizioni di studio del significato, formatesi nell’ambito di diverse discipline (filosofia, psicologia, semiotica, …) o nell’ambito di diverse correnti interne alla linguistica (strutturalismo, generativismo, linguistica cognitiva, …) già ardua in termini assoluti, non è affrontabile in questa sede. Mi limiterò dunque a specificare che gli strumenti adottati per descrivere i rapporti fra i diversi significati sono stati quelli della semantica strutturale; la teoria dei prototipi18, che potrebbe rivelarsi estremamente utile nell’indagine dei rapporti fra i diversi designata e i significati19, non rispondeva altrettanto bene alle esigenze della presente ricerca, che si concentra sul piano più strettamente linguistico. Riprendendo i termini di Berruto (2010: 12) ci si pone qui il problema dell’analisi interna del significato dei lessemi, prescindendo in larga parte da un’analisi delle condizioni e delle modalità del riferimento e degli intorni contestuali del loro impiego20. Anche concentrando l’attenzione sugli studi semantici di impostazione dialettologica, risulta peraltro difficile individuare una metodologia condivisa, o degli obiettivi comuni che abbiano guidato i diversi lavori. Infatti questi studi, generalmente, 18 19 20

Tale teoria è stata formulata e sviluppata da Eleanor Rosch (cfr. ad esempio Rosch 1975); per un’introduzione, si può far riferimento a Casadei (1999) e (2003, § 5). Sarebbe per esempio interessante individuare i diversi referenti cui si riferisce un termine (ad esempio, le diverse balme presenti sul territorio) e indagare presso i parlanti se ve ne siano di più o meno rappresentative della categoria. Detto altrimenti, «analisi componenziale e analisi prototipica operano su due piani diversi, benché interrelati, della formazione e struttura dei concetti questa, del sistema linguistico quella, e quindi è a rigore improprio opporre l’una all’altra come due metodologie alternative di rappresentazione del significato lessicale. Se mai, vanno integrate» (Berruto 1987a: 48).

37

CAPITOLO II non si fermano alla descrizione del significato dei lessemi indagati, ma mirano a ricostruire un sistema simbolico, a gettare una luce sulla peculiare visione del mondo che tale organizzazione di significati lascia trapelare. Non potendo riassumere e ordinare tutti gli studi di semantica dialettale condotti negli ultimi cinquant’anni, mi limito al tentativo di individuare alcuni filoni: -

21

22

23

38

il filone della semantica strutturale applicata alla geolinguistica21, che continua più o meno esplicitamente la riflessione proposta da Karl Jaberg (1936); il filone dello studio delle tassonomie popolari22, che si è sviluppato nell’ambito dell’etnolinguistica, grazie all’impulso, in Italia, degli scritti di Giorgio Raimondo Cardona (2006 [1976], 1985a, 1985b, 1990); il filone dello studio della motivazione23, che si è sviluppato a partire dagli studi di Mario Alinei (cfr. almeno 1980, 1984, 1997, 2009).

Penso ad esempio agli studi di Jean Claude Bouvier, che afferma che la «géographie linguistique, sans rien renier de ses principes et méthodes, a un rôle primordial à jouer dans la recherche sémantique moderne, et plus particulièrment dans la sémantique structurale» (Bouvier 1976: 364). È proprio nell’ambito della semantica strutturale (in particolare nel solco degli studi di Greimas, Heger e Pottier) che Bouvier inserisce non solo i suoi lavori sul paesaggio alpino (cui si attingerà ampiamente nell’analisi dei dati, Bouvier 1973, 1985) ma anche un interessante studio sulla miscrostruttura semiolessicale di “sera” e “notte”. Un altro bell’esempio di come dallo studio semasiologico si possa arrivare allo studio della strutturazione interna del significato ci è offerto da Monica Berretta (1973), che attraverso l’analisi storica e geolinguistica arriva a individuare, per i tipi lessicali anima e barba, il senso di base (o nucleo semico) dal quale discendono tutti gli altri, seppur con percorsi e articolazioni diverse. La ricerca dell’autrice è condotta secondo il metodo proposto da Jaberg, «la cui validità attuale ci sembra intatta, proprio in quanto fornisce lo spunto per studi di semantica saldamente ancorati alla viva materia linguistica» (Berretta 1973: 18). Diversi esempi di studi sulle etnotassonomie di animali e piante sono stati prodotti negli ultimi decenni presso le Università della Calabria (in parte confluiti in Vigolo/Maddalon/Zamboni 2003 e Mendecino/Prandera/Maddalon 2005,) e di Nizza (per i quali si veda soprattutto Mellet 1997, ma anche il recente Malfatto 2013): la maggior parte degli studi volti a indagare l’articolazione delle tassonomie popolari si muove all’interno dei “saperi naturalistici”, e segnatamente di zoonimia e fitonimia; un esempio in questo senso sono i lavori sull’ornitonimia, quali Dettori (1993) e Canobbio (1995b). Naturalmente non mancano studi sulle etnotassonomie che esplorino altri campi, approdando a risultati assai distanti nell’ambito della riflessione sui rapporti fra lingua e cultura (che paiono in alcuni casi relativi, in altri universali): basterà citare gli studi sul colore (cfr. ad esempio Berlin/Kay 1969), o quelli sulla parentela (cfr. ad esempio Cardona 1988 e Cuturi 1990). Il concetto di motivazione è stato «solo parzialmente elaborato in sede teorica da Saussure (che è stato forse il primo a utilizzarlo, ma come “motivazione relativa”, nell’ambito della teoria dell’arbitrarietà del segno) e da alcuni linguisti [in particolare Ullmann 1952 e 1962, ma anche Guiraud 1955, Gusmani 1985], è stato negli ultimi decenni riproposto da M. Alinei [1980; 1996; 1997], con una sostanziale rifondazione teoretica e sulla base di un’ampia sperimentazione con confronto multilingue» (Canobbio 2004b: 519). Riprendendo le parole con cui Alinei riassume la propria teoria (2009: 55 e segg.), «in qualunque lingua si contrappongono parole motivate, o trasparenti (come occhiali, lunettes e, in generale, la parte morfologicamente derivazionale e composta del lessico) e parole apparentemente immotivate o opache (arbre, albero, etc…), ma che, quando sono state generate, erano a loro volta motivate». Un importante collettore di studi sulla motivazione è stata la rivista Quaderni di Semantica, fondata dallo stesso Alinei; inoltre, è esplicitamente centrato sulla motivazione il lavoro etimologico svolto nei cantieri dell’Atlas Linguarum Europae – ALE e dell’Atlas Linguistique Roman – ALiR.

STUDI E MATERIALI

II.2 Materiali di lavoro L’analisi semantica che si svolge in questo volume (§ VI) è condotta facendo costante riferimento alle diverse opere lessicografiche disponibili per l’area: è dunque utile offrire alcune informazioni per presentare i diversi dizionari, in modo da dare un’idea più precisa del materiale di lavoro; i dati dialettali vengono trascritti in IPA e in una grafia ortografica nota come “concordata”: in coda al paragrafo se ne offre un’illustrazione. II.2.1 I DIZIONARI Gli ultimi cinquant’anni hanno visto la pubblicazione di almeno 18 opere di impianto lessicografico nelle valli italiane di parlata occitana; tuttavia, avverte Regis, [p]ochissimi sono i dizionari che presentano un retroterra teorico adeguato (cito BERNARD 1996 e PONS/GENRE 1997), assicurando in genere la sola traduzione da parola a parola; le sfumature di significato e la fraseologia sono molto raramente considerate. La copertura lessicografica, già notevole prima del 1999, ha subito un ulteriore incremento negli ultimi quindici anni, assecondando talvolta le larghe maglie del principio di autodeterminazione sotteso alla legge di tutela; non stupisce allora di trovare, tra i molti titoli ormai disponibili, il Dizionario occitano. Robilante-Roccavione (ARTUSIO et al. 2005) o il Piccolo dizionario della lingua occitana di Rittana (CESANA 2012), relativi a centri che rientrano sì nell’Occitania piemontese ex lege ma che conservano nel loro dialetto vestigia galloromanze molto attenuate, quando non inesistenti (Regis 2016: 36-37).

In questa rassegna, si è scelto di considerare tutti i dizionari che si autodefinivano “occitani”, dunque anche quelli sulla cui galloromanicità Regis solleva dei dubbi, con l’obiettivo di disporre della rete più fitta possibile di dati per il territorio indagato e le aree immediatamente limitrofe24. È bene premettere che l’intento di queste pagine è quello di dare conto della diversità (e della ricchezza) delle fonti cui si è fatto ricorso nell’analisi, non già di proporne una valutazione: i vocabolari dialettali amatoriali costituiscono sempre […] un aiuto preziosissimo per il lavoro del dialettologo, non c’è che felicitarsi del grande rigoglio che sta caratterizzando in questi anni la lessicografia dialettale (Telmon 2006: 42).

Rispetto alla tipologia (cfr. per esempio Cini 2001) che considera dizionari dialettali di I generazione i vocabolari compilati a beneficio dei dialettofoni, per istruirli nella lingua nazionale, dizionari dialettali di II generazione i vocabolari compilati per documentare una parlata minacciata e dizionari dialettali di III generazione i vocabolari che permettano, grazie all’informatizzazione, un’interrogazione modulabile del corpus di lemmi, tutte le opere analizzate si possono considerare appartenenti alla II generazione. È infatti superata, almeno per l’area che ci interessa, l’epoca in cui era necessario insegnare l’italiano ai dialettofoni, mentre manca ancora, per le parlate occitane cisalpine, un archivio lessicale informatizzato, che permetta una consultazione adattabile alle esigenze 24

Non si tiene tuttavia conto in modo metodico dei dizionari comparsi per l’area brigasca, sia perché non immediatamente confinante con le Alpi Cozie, sia perché gli studi più recenti la considerano ormai incontrovertibilmente appartenente al ligure alpino (cfr. ad esempio Forner 2010).

39

CAPITOLO II dell’utente. Un esperimento in tal senso è però stato portato avanti nell’area francoprovenzale limitrofa, con la messa online del vocabolario giaglionese (Aa Vv 2001, http://www.dizionariogiaglionese.it/). Di seguito, nella tabella II, si raccolgono alcuni dati su ogni dizionario. tabella II. Elementi per una classificazione dei dizionari occitani cisalpini Autore/i

anno

Pons

1973

Bruna Rosso Rabo Dao

Località val Germanasca

1980

Elva

1982 1986

Sampeyre Elva

Baccon Bouvet

1987

Salbertrand

Ghiberti Bernard

1992 1996

Entracque Bellino

Masset

1997

Rochemolles (Bardonecchia)

Pons/Genre

1997

val Germanasca

Conte

2002

Celle di Macra

Baret

2005

val Germanasca

Artusio et Alii

2005

Roccavione e Robilante

25

26

27

28

40

glottonimo dialetto valdese dialetto occitano patuà occitano patuà / occitano / parlata di Salbertrand entracquese occitano patois provenzale dialetto occitano lingua occitana patouà parlata occitanica provenzale alpina occitano

lemmi

grafia

gram.

pag.

OC

pers.



275

OC

pers.

no

177

OC/IT IT

pers. pers.

no no25

270 116

OC/IT

pers.



324 + 11626

IT OC27

pers. conc.

no no

OC/IT

pers.



OC/IT

conc.



478

IT

conc.



62

IT/OC

conc.

no

507

OC/IT

conc. e norm.

no

282

96 470 359 + 31928

Sebbene le due opere non siano edite insieme, lo stesso autore (con lo pseudonimo di Pey di Lizan) ha dato alle stampe, nel 1983, un volumetto (100 p.) intitolato come il vocabolario (“Occitano alpino”), che contiene alcuni cenni di storia e letteratura occitana, una “grammatica dell’occitano alpino” e la traduzione dell’evangelo di Marco nel dialetto di Elva. L’opera, nella ristampa del 2009, è articolata in due volumi: il primo contiene una prima parte dedicata alla storia del comune, alle attività tradizionali e ad aspetti peculiari della cultura del luogo, una seconda parte dedicata al dialetto del paese, che viene presentato attraverso la sua grammatica e una terza che contiene il vocabolario dall’italiano al patuà locale; il secondo volume contiene il “glossario occitano-italiano della parlata di Salbertrand”. L’opera presenta tuttavia, in chiusura, alcune “tavole di nomenclatura”, dedicate ad abbigliamento, alimentazione, bestiame, agricoltura/silvicoltura, casa, corpo umano e medicina, medicina, astronomia/clima/tempo, giochi e passatempi, mestieri, montagna, panificazione/lavorazione del latte, i tessili/lavorazione delle corde, utensili vari/stoviglie, religione; ciascuna di queste sfere semantiche è a sua volta articolata in campi semantici, espressi con l’esponente italiano, nel quale sono raccolti gli iponimi dialettali. L’opera è composta da due volumi di grande formato racchiusi in un cofanetto, l’uno dedicato alla grammatica (nel quale un’ampia descrizione della fonetica, della morfologia e della sintassi del dialetto di Rochemolles precedono alcune letture e una sezione dedicata alla “nomenclatura”) l’altro dedicato al dizionario vero e proprio.

STUDI E MATERIALI Autore/i

anno

Località

DOc

2008

Giordano

2010

Vernante

Aa Vv

2011

Limone Piemonte

Sappé

2012

Angrogna

Cesana

2012

Rittana

Breuza

2013

Villaretto (Roure)

glottonimo occitano alpino orientale vernantin occitano limones occitano parlate occitane lingua occitana

lemmi

grafia

gram.

pag.

IT/OC

norm.



352



172

no

3129

OC/IT OC/IT

conc. e norm. conc. e norm.

OC/IT

conc.



159

IT

conc.

no

63

IT

conc.

no

103

Per leggere i dati riportati nella tabella II, può essere utile richiamare alcuni criteri già enunciati da Grassi (1979: 702) per la valutazione dei dizionari dialettali. Una considerazione preliminare che è necessario esplicitare è che si tratta, nella maggior parte dei casi, di dizionari dedicati a una singola varietà (riportata nella terza colonna della tabella); le eccezioni sono due, assai diverse fra loro: il DOc e i dizionari della val Germanasca (Pons 1973, Pons/Genre 1997 e Baret 2006). Il primo presenta una varietà che vorrebbe proporsi come referenziale per l’area occitano alpina orientale (per gli orientamenti di tale varietà, si veda Regis in stampa), dunque non attestata interamente in nessuna realtà locale; i secondi tendono a presentare come panvalligiana la varietà di un singolo comune (Massello nei primi due casi, Pomaretto nel terzo), in virtù dell’estrema vicinanza fra le diverse parlate (cfr. Genre 1969). a) la concezione storico-geografica che l’autore ha del dialetto considerato Una spia importante di tale concezione sono i glottonimi30 che i diversi autori scelgono per definire la lingua oggetto del loro dizionario: basterà osservare la colonna dedicata nella tabella II per notare l’evoluzione, anche cronologica, dei termini con cui ci si riferisce alla propria parlata. A scelte che privilegiano il riferimento alla singola varietà (patuà, parlata di …, limones, vernantin), o ad un insieme ristretto di parlate (valdese) fanno da contrappunto, talvolta in giustapposizione, glottonimi che si riferiscono al diasistema nel quale le varietà si inseriscono, a livello regionale (provenzale, provenzale alpino, occitano alpino orientale) o sovranazionale (occitano). Queste scelte, oltre a riflettere diversi gradi di consapevolezza e diversi stadi degli studi linguistici (si veda ancora Regis 2015 per ripercorrere le vicende classificatorie di queste parlate presso la comunità scientifica), danno un’idea dell’orientamento “ideologico” delle diverse opere. In tal senso andrà letta anche la scelta della grafia usata: se in una prima fase si sono privilegiate grafie personali, dalla metà degli anni ’90 l’alternativa sembra ridursi alla scelta fra la grafia concordata (laddove si vogliano salvaguardare le particolarità locali) e la grafia 29

30

In questo unico caso, il numero di pagine si riferisce esclusivamente al “glossario del limonese”, contenuto nel volume “Morres de Vermenanha e Ges”: mentre negli altri casi i materiali che accompagnano il lavoro lessicografico vero e proprio sono accessori a questo, in questo caso il glossario pare essere subordinato alle testimonianze (bilingui) raccolte nel fascicolo (111 p.). Per un inquadramento delle vicende glottonimiche che hanno riguardato le parlate del Piemonte occidentale, si vedano Canobbio (1995) e Regis (2015).

41

CAPITOLO II normalizzata (laddove si voglia proporre una varietà di riferimento): si noti che quest’ultima è stata la scelta esclusiva soltanto per il DOc, mentre altri dizionari editi dall’associazione Chambra d’Oc hanno scelto di usare entrambe le convenzioni grafiche (per un approfondimento, cfr. § IV.1.1). b) le finalità che [l’autore] attribuisce al suo dizionario Se possiamo escludere, per ragioni storiche e sociolinguistiche, la finalità che ha guidato alcuni dei primi compilatori di dizionari dialettali (quella di insegnare l’italiano ai dialettofoni, cfr. Cini/Regis 2014), restano sul piatto le finalità che potremmo definire “di salvaguardia” e “didattica”. Non sempre è esplicitata, nell’introduzione alle diverse opere, la finalità d’elezione; tuttavia una spia in tal senso è data dalla lingua nella quale vengono organizzati i lemmi: possiamo infatti facilmente dedurre che un dizionario che propone solo lemmi in italiano si rivolge a parlanti italofoni, con l’obiettivo di far conoscere loro il dialetto locale, mentre un dizionario che parte dai lemmi in dialetto ha lo scopo principale di raccogliere e salvaguardare il lessico dialettale. Entrambe le finalità espongono ad alcuni rischi: quello di chi «si limita ad accogliere soltanto il lessico che ritiene più arcaico, trascurando così la realtà viva della parlata» (Telmon 1999: 9) e quello di chi propone «semplici e banalizzanti liste di corrispondenza tra il vocabolario della lingua colta di riferimento e un’immagine forzatamente deformata del proprio dialetto» (ibidem); detto altrimenti, se la definizione del lemma dialettale si fermasse alla semplice traduzione, si correrebbe il rischio di far apparire l’opera come una serie di corrispondenze univoche, ma soprattutto di considerare la funzione didattica e normativa lo scopo principale del vocabolario (Cini 1999: 21).

Pur con la necessaria cautela, dettata dalla consapevolezza che è comunque necessaria un’attenta valutazione delle singole opere nel loro complesso, è dunque possibile distinguere, grazie alla lingua in cui sono espressi i lemmi, fra i dizionari con l’obiettivo precipuo della salvaguardia (Pons, Bruna Rosso, Bernard, Masset) e quelli con un precipuo obiettivo didattico (Dao, Ghiberti, Conte, Cesana, Breuza). Si noti come, secondo questo criterio, l’obiettivo della salvaguardia e quello della divulgazione coesistano nella maggioranza dei casi, ovvero laddove i lemmi siano presentati sia in italiano sia in dialetto, sebbene una qualche rilevanza possa essere attribuita all’ordine con cui vengono presentate le due parti. Da ultimo, varrà la pena notare come non tutte le opere siano precedute da una sezione di “appunti grammaticali” che ne facilitano la fruizione e che aprono al lettore la possibilità di inserire le parole nel contesto frasale: in questo caso è presumibile che abbiano agito, oltre alle diverse finalità, anche le diverse competenze grammaticali degli autori. c) il tipo di lingua italiana utilizzato nei definitori Se una valutazione della varietà di italiano usata nei diversi dizionari è piuttosto complessa, è invece possibile distinguere fra le opere che si limitano a offrire un corrispondente alla parola dialettale e quelle che la definiscono compiutamente, come farebbe un dizionario monolingue. In tal senso, si noterà dalle tabelle sinottiche (che raccolgono tutte le definizioni di uno stesso lessotipo) proposte nel § IV come vi siano alcuni dizionari (penso soprattutto a Pons e a Bernard) che si presentano come veri e propri modelli per gli altri, soprattutto per quanto riguarda le definizioni italiane. 42

STUDI E MATERIALI d) il tipo […] di dizionario Tutti i dizionari della raccolta sono organizzati alfabeticamente31, sebbene in alcuni casi vengano presentate delle tavole sinottiche che raccolgono il lessico di un determinato campo semantico (Pons/Genre 1997 e Bernard 1996). Soltanto uno si presenta come “dizionario enciclopedico” (Bernard 1996). Ciò non di meno, i risultati cui pervengono i vari autori sono assai diversi, sia in termini di consapevolezza lessicografica, sia in termini di competenza e profondità etnografica. Un indizio in tal senso può venirci da un dato che parrebbe a tutta prima marginale: quello che riguarda il numero di pagine dei diversi volumi. Ci si accorgerà di come si siano considerate opere che non raggiungono le cento pagine accanto a tomi che sfiorano le cinquecento. Un dato importante da segnalare in tal senso è che, con l’eccezione di Breuza 2014 (che raccoglie l’insieme dei vocaboli usati Guido Ressent in una sua opera, e che, giuste le distinzioni operate da Grassi/Sobrero/Telmon 1997: 315 e ss., potrebbe pertanto essere considerato un glossario), nessun autore sceglie un campo semantico specifico da cui attingere i lemmi: la maggiore o la minore estensione dei volumi andrà dunque interpretata come una minore o una maggiore selezione di termini del lessico comune, e non come la scelta di compilare un dizionario tematico. II.2.2. LA GRAFIA Ritengo utile, prima di passare all’esposizione e all’analisi dei dati raccolti, fornire una breve illustrazione della grafia alfabetica adottata, assieme all’Alfabeto Fonetico Internazionale – IPA, per la restituzione dei materiali lessicali. Per l’occitano cisalpino, sono state proposte diverse soluzioni grafiche a partire dagli anni settanta del secolo scorso: si rimanda a Regis/Rivoira (2016), Allisio/Rivoira (2009), e a Salerno (s.d.), per un approfondimento sulle diverse impostazioni e motivazioni (spesso riconducibili a istanze di politica linguistica) alla base delle differenti opzioni ortografiche; di seguito ci si limita a giustificare la scelta, operata nel Lessico e nell’analisi semantica, di adoperare una grafia fonematica già codificata, in luogo di una grafia a base etimologica o di una grafia confezionata per questo scopo, a base italiana. La grafia adottata è la cosidetta “concordata”, o “grafia dell’Escolo dóu Po”, formalizzata fra la fine del 1970 e il 1972, e pubblicata nel 1973 ad opera di una commissione composta da rappresentanti delle parlate interessate e da docenti dell’Università di Torino. La proposta ortografica mirava a dotare le parlate occitane cisalpine di un sistema grafico a un tempo comune e in grado di notare le diverse varietà: I criteri seguiti dalla Commissione furono i seguenti: 1) costituzione di un sistema grafico di segni in grado di servire alla trascrizione di tutte le parlate provenzaleggianti delle Valli alpine del Piemonte, tale che ogni suono, in una data posizione, sia rappresentato da un solo segno (che può essere formato anche da più di una lettera: v. più avanti); 2) rinuncia, nella scelta dei segni, a qualsiasi criterio etimologico […];

31

Una riuscita eccezione, fra i dizionari francesi limitrofi, è quella di Langue et Memoire de la Tinée, nel quale «chaque champ lexical donne les mots classés dans un ordre logique qui suit, la plupart du temps, celui de l’Atlas Linguistique de Provence» (Domengue 2014: 18).

43

CAPITOLO II 3) adozione di una grafia di tipo fonematico piuttosto che fonetico, che tenga conto cioè dei suoni aventi carattere distintivo all’interno dei vari sistemi delle nostre Valli, ma non delle sfumature che caratterizzano le loro diverse realizzazioni foniche. […] 4) assunzione della grafia mistraliana come base di lavoro, con la riserva di modificarla e di arricchirla là dove essa sia insufficiente o inadeguata a rappresentare il maggior numero di fonemi presenti in quest’area; 5) rinuncia all’adozione di segni che non siano presenti fra i caratteri di una comune macchina da scrivere, questo per evidenti motivi pratici; 6) rinuncia alla creazione di qualsiasi tipo di “coinè” dialettale, nel rispetto e per la salvaguardia di tutte le varietà in uso, anche quando siano rappresentate da un numero minimo di parlanti (Genre 1980: 306).

La grafia concordata, sebbene sia stata oggetto di diverse critiche sin dalla sua presentazione (cfr. ancora Salerno, s.d.), negli anni si è andata progressivamente affermando, nell’area che ci interessa, come principale alternativa al sistema di scrittura “normalizzato” nelle scelte d’uso delle principali riviste in lingua occitana (cfr. Allisio/Rivoira 2009) e presso gli sportelli linguistici (cfr. Benedetto Mas/Pons 2017). Questa la ragione per la quale si è preferita la grafia concordata a un sistema di trascrizione su base italiana: l’adozione di un sistema già codificato, peraltro difficilmente superabile nell’aderenza alle varietà studiate, permette infatti una restituzione dei materiali dialettali presso gli informatori e le informatrici, che in molti casi non sono estranei alle iniziative di tutela linguistica (cfr. § III.2.2). La scelta di non adottare una grafia a base etimologica (per la quale si sarebbe potuto contare sulla proposta della Commissione Internazionale per la normalizzazione linguistica dell’Occitano Alpino, cfr. DOc), che invero avrebbe facilitato la scelta dei lessemi, risponde invece all’esigenza di dare conto delle varietà locali nella trascrizione degli etnotesti. Nella tabella III vengono riassunte le corrispondenze fra l’alfabeto fonetico internazionale e la grafia usata nel Lessico. tabella III. Corrispondenze fra l’IPA e la grafia dell’Escolo dóu Po/Concordata. DESCRIZIONE IPA CONCORDATA vocali vocale anteriore alta i i vocale anteriore alta arrotondata y u vocale anteriore medioalta e e vocale anteriore medioalta arrotondata ø eu vocale anteriore mediobassa arrotondata œ eu vocale anteriore mediobassa ɛ è vocale centrale ə ë vocale centrale bassa a a vocale posteriore media o o vocale posteriore alta u ou consonanti affricata alveolare sorda ʦ ts affricata alveolare sonora ʣ dz affricata postalveolare sorda ʧ ch

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STUDI E MATERIALI DESCRIZIONE affricata postalveolare sonora approssimante labio-velare sonora approssimante palatale approssimante retroflessa33 fricativa labiodentale sorda fricativa labiodentale sonora fricativa dentale sorda fricativa dentale sonora fricativa alveolare sorda fricativa alveolare sonora fricativa postalveolare sorda fricativa postalveolare sonora laterale alveolare laterale palatale nasale bilabiale nasale alveolare nasale palatale occlusiva bilabiale sorda occlusiva bilabiale sonora occlusiva alveolare sorda occlusiva alveolare sonora occlusiva velare sonora occlusiva velare sorda vibrante alveolare

32

33 34 35

IPA ʤ w j ɻ f v θ ð s z ʃ ʒ l ʎ m n34 ɲ p b t d ɡ k r35

CONCORDATA j, g32 ou i ř f v ç x s z sh zh l lh m n nh p b t d g, gu c, qu r

L’affricata postalveolare sonora e le occlusive velari (sorda e sonora) sono gli unici fonemi per i quali sia prevista una doppia resa grafica, condizionata dalla vocale seguente, per ovviare a possibili letture “all’italiana”: davanti a = /ɡ/, davanti a = /k/, davanti a = /ʤ/; davanti a = /ʤ/, davanti a = /k/, davanti a = /ɡ/. Ne determinare tale fonema ci si è rifatti alle scelte dell’ATPM (20: 33), che sottolinea come talvolta questo venga realizzato con una lieve vibrazione, o venga ridotto a suono embrionale. Nella varietà di Pramollo, la nasale intervocalica tende a cadere, provocando la nasalizzazione delle vocali contigue. Tale fenomeno, descritto da Genre (1992), è segnalato con il ricorso alle parentesi: [ˈlỹõ] = lu(n)o. Nella realizzazione delle vibranti si registra una notevole variazione (in particolare, sono frequenti i foni uvulari [ʀ] e [ʁ]), che non ha però valore fonematico: si è dunque scelto di notare la vibrante come alveolare, con l’eccezione del punto di Salbertand, in cui il suono viene realizzato regolarmente come approssimante.

45

Capitolo III

LA RICERCA

III.1. Scelte di metodo Alla luce delle esperienze considerate, si sono impostati alcuni criteri generali entro i quali far muovere la presente ricerca. Dapprima, si è optato per indagare direttamente il significato dei termini con domande di tipo semasiologico invece di lavorare su dati precedentemente raccolti con un questionario onomasiologico. Questi ultimi sarebbero stati invero facilmente reperibili, grazie alle inchieste svolte nell’area delle Alpi Cozie dall’ALP e, soprattutto, dall’ALEPO: pur avendo tenuto conto dei dati già disponibili per la compilazione del questionario I (cfr. oltre) si è scelto di condurre una nuova campagna d’inchiesta perché, fra gli obiettivi del presente lavoro, vi era anche quello di testare una metodologia d’indagine esplicitamente rivolta allo studio del significato dei lessemi dialettali. Proprio la disponibilità dei dati dell’ALEPO ha offerto la possibilità di porre le domande a partire dai termini dialettali per i quali si sia rilevata un’ampia diffusione areale e una notevole polisemia, evitando in questo caso il ricorso al termine italiano, che si è rivelato poco produttivo nelle inchieste dell’Atlante stesso (cfr. § II.1.3.3.). Quanto agli obiettivi soggiacenti all’inchiesta semasiologica, si è posto l’accento su quello che mira a definire compiutamente il significato di termini dialettali che abbiano dato prova di una certa polisemia, al fine di indagare la variazione diatopica del significato; tuttavia la scelta del campo semantico del lessico geografico risponde anche all’obiettivo di valutare la sopravvivenza nel lessico di termini arcaici, che in molti casi sono ricordati soprattutto per la loro persistenza nella toponomastica1. Rispetto alla restituzione dei dati raccolti con l’inchiesta di campo (della quale si parlerà più diffusamente nei paragrafi seguenti), si è optato per la compilazione di carte simboliche, che prescindono dal dato fonetico, il quale è comunque disponibile nel Lessico e nell’analisi dei dati. Su queste carte sono stati integrati, oltre ai dati raccolti con l’inchiesta di campo, tutti i dati disponibili nei dizionari dialettali dell’area. L’unica sostanziale innovazione metodologica del presente lavoro, rispetto a quelli considerati, è la lingua nella quale si è svolta l’indagine: facendo tesoro delle riflessioni svolte nel cantiere dell’ALS sulla difficoltà ulteriore che la traduzione impone a chi deve rispondere a un questionario semasiologico, si è optato per condurre le inchieste interamente in dialetto. Le premesse e i risvolti di questa scelta saranno discussi più approfonditamente nel prossimo paragrafo.

1

Non è un caso che la polisemia si produca in settori del lessico “in regressione”: già Jaberg sottolineava come le “deformazioni semantiche” avessero luogo soprattutto nel significato de «les mots rares, les mots vieillis, les mots étranges, les mots techniques, les mots savants» (1936: 70).

CAPITOLO III

III.2. L’elemento umano2 Il contesto dell’inchiesta di campo è, per definizione, artificiale: la presenza del raccoglitore altera la realtà linguistica in cui questo interviene; inoltre, è noto come i dati linguistici di produzione non possano essere considerati come “assoluti”, ma vadano sempre messi in relazione con il contesto sociale e culturale in cui sono prodotti, nonché con la storia personale delle fonti. In tal senso, è doveroso dar conto in via preliminare non soltanto dei dati biografici degli informatori e del contesto in cui si sono svolte le inchieste, ma anche di alcune caratteristiche della raccoglitrice: laddove non è possibile avere dei dati oggettivi, è comunque possibile conoscere gli estremi della soggettività con cui è stata condotta la ricerca, in modo da poterne relativizzare, e valorizzare, i risultati. Come scrive Blanchet a proposito del coinvolgimento del ricercatore, «[u]ne prise de conscience de l’ensemble du processus d’intersubjectivité est nécessaire à la fois pour en contrôler les dérives et pour en exploiter les richesses» (2000: 90). III.2.1. LA RACCOGLITRICE Nei Fondamenti di dialettologia, gli autori avvertono che la ricerca semasiologica è «del tutto inattuabile in assenza di buone competenze etnografiche» (Grassi/Sobrero/Telmon 1997: 285). Per quanto riguarda il campo semantico della morfologia alpina, la competenza necessaria si è rivelata essere quella geografica: spesso i parlanti portavano ad esempio località ben note (dal loro punto di vista) per spiegarmi il significato dei termini clot, bric, séo, ecc. Tale competenza, che in parte possedevo per essere cresciuta in una delle valli in cui si è sviluppata l’indagine e per la passione che nutro per le camminate in montagna, è stata rafforzata, come già detto, dall’aver percorso a piedi l’intero territorio (passando per tutti i comuni d’inchiesta, salvo Ceillac), nell’estate del 2015, in modo da avere un’esperienza diretta non solo delle strade carrozzabili, ma anche dei sentieri che uniscono le località in cui ho svolto le interviste: è solo dal secondo dopoguerra che i montanari hanno sostituito gli spostamenti a piedi con i mezzi motorizzati. Pur avendo svolto le mie indagini su un’area piuttosto vasta (la località più settentrionale dista circa 80 km in linea d’aria da quella più meridionale, ma ne servono almeno 130 per spostarsi con l’automobile da Salbertrand ad Argentera), non mi sono mai sentita una “raccoglitrice straniera”. La mia provenienza da una valle delle Alpi Cozie, la mia giovane età (rispetto a quella degli informatori) e l’intermediazione di persone riconosciute sul territorio per il loro lavoro di salvaguardia di lingua e cultura hanno facilitato l’accoglienza da parte delle persone che ho intervistato. Sin dai primi contatti, mi sono rivolta a informatori e informatrici usando la mia varietà di occitano. Questa scelta ha contribuito alla percezione, da parte degli informatori, di trovarsi di fronte a una persona con la quale si poteva parlare senza soggezione, anzi: la curiosità nei confronti della varietà dell’altro era reciproca, e durante l’intervista è capitato che i ruoli si invertissero, con informatori che mi hanno rivolto 2

48

Il titolo del paragrafo traduce l’analogo titolo, “l’element humain” proposto da Companys (1958: 103). Fin dagli albori della disciplina, la geografia linguistica ha fatto dell’inchiesta di campo non solo il mezzo, ma spesso anche il fine delle proprie ricerche (cfr. Grassi/Sobrero/Telmon 1997: 274); da questa impostazione è nato un fecondo filone di riflessione sulla metodologia d’inchiesta in generale e sull’elemento umano in particolare.

LA RICERCA domande sulla mia valle d’origine, sia per quanto riguarda gli aspetti socioeconomici sia per quanto riguarda gli aspetti linguistici. Fra i rischi che questa impostazione presenta, vorrei citare, per esservi incorsa spesso io stessa, la facilità con cui, fra varietà vicine, si attuano inconsapevolmente dei processi di mimesi: così come a me è capitato di usare lessotipi estranei alla mia parlata o di ripetere realizzazioni fonetiche che non userei parlando coi miei genitori, non escludo che anche gli informatori siano stati indotti ad avvicinare foneticamente il loro parlato al mio. Questo limite, che nel caso di un’inchiesta fonetica rischierebbe di compromettere i risultati della ricerca, ha a mio avviso un’incidenza trascurabile in un’inchiesta semasiologica. Ciò non di meno, è importante tenerne conto, specialmente nella lettura del Lessico, che riporta in grafia fonetica le realizzazioni locali di ciascun tipo lessicale. III.2.2. INFORMATRICI E INFORMATORI Nelle inchieste semasiologiche volte a raccogliere le definizioni di termini dialettali molta cura va posta nella scelta del profilo degli informatori: il rischio di incorrere in definizioni idiolettali o di mettere in difficoltà le persone con domande inusuali è infatti particolarmente alto. Se, messo a proprio agio, qualsiasi parlante bilingue è in grado di citare i nomi dialettali di oggetti di uso comune in risposta a uno stimolo nella lingua standard, non è scontato che ogni informatore sia in grado di fornire tutte le accezioni di un termine, né di individuare con sicurezza i tratti che lo distinguono da altri appartenenti allo stesso campo semantico. Questa difficoltà è stata uno degli elementi che ha fatto propendere per la conduzione delle inchieste in dialetto, in modo da non aggiungere allo sforzo metalinguistico dell’individuazione del significato l’ulteriore sforzo traduttivo. Pur con questa facilitazione, la difficoltà del questionario ha reso necessaria una cura particolare nella scelta delle fonti. I criteri che hanno guidato tale scelta, laddove è stato possibile, sono stati: -

la capacità di astrazione metalinguistica; l’ottima padronanza della varietà di lingua indagata; l’esperienza diretta del territorio montano (attività di pascolo, coltivazione, vita in montagna); la presenza di almeno un uomo e almeno una donna per ogni punto d’inchiesta3; l’interesse verso le ricerche di ambito linguistico/culturale.

Tali criteri si discostano, in alcuni punti anche sensibilmente, dalle tradizionali indicazioni che guidano la scelta degli informatori. In particolare l’ultimo criterio può indurre a cercare i propri informatori fra quegli “esperti locali” che sono stati spesso

3

Non è stato possibile, avendo previsto un’inchiesta su un territorio piuttosto ampio, disporre per ogni località di un campione che tenesse conto di altre variabili sociolinguistiche, forse più incisive, quali l’età e la scolarità; si è dunque scelto di sondare almeno l’eventuale disparità di competenze fra uomini e donne. In altri campi lessicali sembra invece consigliabile rivolgersi di preferenza all’uno dei due generi: basti pensare al lessico relativo ai “pani d’uso giornaliero” in Sardegna, per raccogliere informazioni sul quale Dettori afferma essere obbligatorio rivolgersi alle donne, siccome le tradizioni locali sulla panificazione risultano essere di esclusiva competenza femminile (1989/1990: 186).

49

CAPITOLO III stigmatizzati, per lo più a ragione, in quanto portatori di una visione “non autentica” della cultura e della lingua locale4. Con il passare dei decenni, è però sempre più difficile imbattersi in persone che non abbiano studiato, letto, ascoltato la radio o guardato la televisione, che non conoscano internet, che non si siano spostate dalla propria borgata o che non abbiano sposato qualcuno proveniente da un altro paese. In altre parole, l’impressione è che l’illusione di trovare una “fonte autentica” intesa in senso tradizionale, se mai ha avuto riscontri con la realtà, oggi sia definitivamente tramontata. Confrontando le biografie degli informatori del presente lavoro mi sono resa conto di come le storie di migrazione, istruzione, plurilinguismo, siano la norma: potremmo arrivare a dire che sono proprio queste le caratteristiche delle “fonti autentiche”. Questa nuova situazione, ai fini di un’inchiesta semasiologica, non è poi così problematica: l’“elasticità” di pensiero che spesso nasce dall’aver affrontato esperienze, lingue e situazioni diverse non solo non ostacola, ma favorisce lo sviluppo della capacità di riflettere sulla lingua. L’impressione è che oggi la scelta di rivolgersi agli “esperti locali” debba essere guidata dai criteri che dovrebbero indirizzare la scelta di ogni informatore: se si ammette che nessun informatore è ormai in grado di fornire una visione “immacolata” del suo dialetto e della sua cultura, si dovrà valutare il grado di onestà intellettuale e la capacità di (auto)critica di ogni fonte. Se lo stereotipo vuole che gli “esperti locali” testimonino la loro cultura piuttosto che quella della comunità, la realtà è che ci sono informatori che hanno la capacità e l’onestà per ammettere che le loro conoscenze non collimano perfettamente con quelle degli altri, così come ci sono persone che pretendono che la loro visione del mondo sia l’unica possibile. La sensibilità del ricercatore dovrà cercare di individuare eventuali personalismi indipendentemente dai curricula degli informatori, invece di precludersi a priori la possibilità di intervistare le persone che, non solo grazie alla loro esperienza ma anche in virtù dei loro studi e delle loro ricerche, sono portatrici di un importante bagaglio di conoscenze, che non sempre è dato trovare presso persone meno consapevoli della propria specificità culturale. Prima di passare all’elenco degli informatori, è doveroso rendere conto del modo in cui sono stati contattati: è evidente che, per la maggior parte delle località, non è stato possibile procedere attraverso una rete di contatti personali. In tal senso, la scelta degli informatori è stata determinata anche dalla disponibilità e dalle conoscenze di un buon numero di intermediari (per lo più gli incaricati degli Sportelli Linguistici per l’Occitano5) che mi hanno fornito i contatti delle persone che, secondo loro, meglio rispondevano ai criteri esposti sopra. Fatto salvo un paio di casi, la scelta si è rivelata felice: quasi tutti sono stati in grado di rispondere ai diversi questionari senza difficoltà, e tutti si sono dimostrati interessati al lavoro in corso. Di seguito si riassumono i principali dati degli informatori e delle informatrici: la tabella I dà conto del genere, dell’anno di nascita, della scolarità raggiunta, del repertorio linguistico e della fase dell’inchiesta (cfr. § III.3) a cui hanno partecipato. 4

5

50

Basti citare a proposito la raccomandazione di Grassi/Sobrero/Telmon (1997: 291): «[u]na sana diffidenza dovrà inoltre nutrirsi nei confronti dei cultori di storia, di tradizioni e di poesia locale: pur preziose in assoluto, e pur utili, in situazione di inchiesta dialettale, per farsi introdurre nella vita del paese (così come lo sono anche, nelle piccole comunità, il parroco, il sindaco o il messo comunale) tali figure tendono troppo spesso a identificare con la loro personale e ‘acculturata’ competenza la rappresentazione del mondo e della parlata dell’intera comunità». Per una descrizione delle attività e un censimento della loro distribuzione nel 2014, si può far riferimento a Benedetto Mas/Pons (2017).

LA RICERCA

tabella I. Dati sociolinguistici degli informatori e delle informatrici SIGLA

ANNO

LOCALITÀ

SCOLARITÀ

LINGUE6

I

II

x

x

Salbertrand CB

F

1930

Salbertrand

superiori

MB

F

1946

Salbertrand

superiori

ER

F

1948

Salbertrand

superiori

RJ

F

1933

Eclause

elementari

LD

F

1943

Exilles

medie

OC – PIEM - IT – FR OC – PIEM - IT – FR OC – PIEM - IT – FR OC – PIEM - IT – (FR) OC – PIEM - IT – (FR)

x x x x

Pragelato RG

M

1951

Grand Puy

superiori

OC – IT – FR PIEM

x

AB

F

1927

Soucheres Basses

I avviamento

OC – PIEM - IT – (FR)

x

IL

F

1942

Traverse

medie

LM

F

1948

Traverse

medie

ET

F

1945

Centrale

Massello superiori

FR- OC - IT

x x x

FR – OC - IT – PIEM OC – PIEM - IT – FR

x

CT

M

1941

Reynaud

PG

F

1939

Rouchas

RS

M

1928

Ruata

elementari

EL

M

1951

Pellenchi

medie

AS

F

1932

Micialetti

elementari

OC – IT - (PIEM)

x

elementari

OC – IT - (FR)(PIEM)

x

SC

M

1930

Micialetti

laurea

OC – PIEM - IT – (FR) OC – PIEM - IT – FR

x

VI elementare Pramollo

FR – OC - IT – PIEM OC - IT – PIEM – (FR)

x

x x

Bobbio Pellice 6

Le sigle sono ordinate in base al grado di competenza che l’informatore ha di ciascuna lingua: la prima sigla è quella della lingua con la quale la fonte ha imparato a parlare, le seguenti sono ordinate dalla meglio conosciuta a quella per la quale ha le competenze minori. Le sigle racchiuse fra parentesi indicano le lingue per le quali la fonte ha una competenza imperfetta; le sigle racchiuse fra una doppia serie di parentesi indicano le lingue per le quali la fonte ha una competenza sostanzialmente passiva. Le sigle indicano: OC = occitano (nella varietà locale); IT = italiano; PIEM = piemontese; FR = francese.

51

CAPITOLO III

SIGLA

ANNO

LOCALITÀ

SCOLARITÀ

AC

M

1948

Perlà

medie

IM

M

1938

Podio

elementari

NN

F

1956

Bobbio Pellice

professionale

LINGUE6 OC – IT – PIEM – (FR) OC – IT – PIEM – (FR) OC – FR - IT – PIEM

I

II

x x x

Ostana OL

M

1943

Sant’Antonio

medie

ML

F

1941

Cugn

elementari

JM

M

1945

La Clapière

Ceillac professionale Bellino

GAR

M

1949

Chiesa

professionale

DR

M

1988

Chiesa

professionale

RR

M

1961

Chiesa

medie

PR

F

1965

Chiesa

medie

MR

F

1935

Fontanile

elementari

FB AG CBR

M M F

1948 1944 1933

Martini Goria Clari

PR AB

M M

1946 1944

Bersezio Argentera

IA

52

F

1939

Bersezio

Elva elementari elementari elementari Argentera avviamento professionale VI elementare

OC – IT – PIEM – (FR) OC – IT – PIEM – (FR)

x

x

x

x

OC – FR – (IT) OC – IT – PIEM – FR IT – OC - FR – (PIEM) OC – IT - PIEM – FR OC – IT – FR PIEM OC – IT – FR PIEM OC – IT – (PIEM)

x x x x x x x

OC – PIEM - IT

x x

OC – IT – (PIEM)

x OC – IT - PIEM

x

OC–IT–(FR)– (PIEM)

x

LA RICERCA

III.3. L’indagine L’indagine si è articolata in diverse fasi, che hanno visto la conduzione di due cicli di inchieste di campo, sebbene all’avvio del primo ciclo il secondo non fosse ancora stato definito. Come accennato nel paragrafo precedente, tutte le interviste si sono svolte in dialetto, e sono state registrate in digitale. In linea generale, il percorso di ricerca è stato il seguente: 1) individuazione dei tipi lessicali risultati polisemici nei materiali relativi allo spazio alpino raccolti dall’ALEPO; 2) primo ciclo di rilievi, con interviste strutturate a risposta libera7 volte a indagare il significato dei termini selezionati fra i materiali dell’ALEPO; 3) definizione, sulla base dei dati raccolti nel primo ciclo di interviste, dei diversi sensi in cui viene usato ogni lessotipo e loro organizzazione nel questionario II; 4) secondo ciclo di rilievi, con interviste strutturate a risposte prefissate, sulla presenza delle singole accezioni in ogni località; 5) organizzazione dei dati raccolti nel secondo ciclo di inchieste nel Lessico; 6) analisi semantica dei lessemi raccolti. III.3.1. INDIVIDUAZIONE DEI TIPI LESSICALI La prima fase della ricerca ha coinciso con l’individuazione, all’interno del corpus di dati raccolti dall’ALEPO, dei tipi lessicali relativi al lessico geografico diffusi nell’area delle Alpi Cozie con significati diversi in diatopia e/o caratterizzati da una notevole distanza semantica rispetto ai termini italiani che traducevano. Questa operazione è stata facilitata dall’esperienza maturata in seno alla redazione dell’ALEPO, durante i lavori per la pubblicazione del V volume dell’Atlante, dedicato allo Spazio e al Tempo: dunque non soltanto ho potuto disporre di tutti i materiali inediti, ma ho redatto io stessa le note introduttive alle carte da cui ho attinto i materiali per la tesi. I dati dell’ALEPO sono stati raccolti tramite un questionario (Telmon/Canobbio 1994) che traduce il Questionnaire pour enquêtes dialectales en pays alpin, di Gaston Tuaillon (Tuaillon 1972-73), particolarmente dettagliato nella sezione dedicata all’ambiente alpino. Nonostante l’informata impostazione del questionario, è piuttosto frequente rilevare, anche grazie alle note e agli etnotesti prodotti dagli informatori, come non vi sia sempre una corrispondenza perfetta fra il significato del termine italiano e il significato della risposta dialettale. III.3.2. PRIMO CICLO DI INTERVISTE Il primo ciclo di interviste è stato condotto a partire dal questionario I (cfr. Allegati), che proponeva una serie di domande8 a risposta libera. Tale questionario è stato costruito con domande semasiologiche “semplici”, volte a indagare il significato di termini che, nel modulo Terra e acqua del V volume dell’ALEPO, erano risultati 7 8

Questo tipo di intervista è nota anche come intervista direttiva o standardizzata; qui e di seguito, si riprende la terminologia adottata da Matranga (2002). Tali domande, presentate in italiano nell’Appendice, sono state tradotte nella varietà di occitano della val Germanasca durante le interviste.

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CAPITOLO III polisemici. Per ciascuna parola si domandava anzitutto se fosse in uso, e in quale forma, nella località indagata; quindi si chiedeva all’informatore di descriverne il significato e di fornire alcuni esempi di contestualizzazione frasale9. Le domande sono state organizzate in quattro sezioni (acque, esposizione, pedologia, morfologia del rilievo); all’interno di ogni sezione, i quesiti seguivano l’ordinamento alfabetico delle parole indagate. Tuttavia, già in questa fase, la dinamica d’inchiesta ha spesso fatto propendere per un’interrogazione contrastiva, che raggruppasse serie di parole appartenenti a uno stesso campo semantico, in modo da facilitare l’individuazione dei tratti distintivi fra significati più prossimi10. La varietà dialettale scelta per la conduzione delle interviste è stata quella della val Germanasca, della quale ho competenza attiva: la scelta di impostare l’indagine nei termini di un confronto fra la varietà della raccoglitrice e quella degli informatori si è rivelata produttiva ed efficace per la creazione di un’interazione paritaria. Inoltre in alcune occasioni gli informatori sono stati stimolati a definire il significato delle diverse parole non soltanto “in termini assoluti”, ma anche in rapporto al significato che queste hanno nella mia varietà. I materiali raccolti in questa prima fase sono stati trascritti su una semplice tabella creata in un foglio di calcolo, e vengono presentati nel capitolo IV, così da permettere al lettore di ripercorrere tutte le fasi d’inchiesta, valutando le scelte operate. III.3.3. COSTRUZIONE DEL QUESTIONARIO II Questa fase ha visto l’individuazione, sulla base dei dati raccolti nel primo ciclo di interviste, dei diversi sensi in cui viene usato ogni lessotipo e la loro organizzazione nel questionario II. Infatti i dati raccolti nella prima fase d’inchiesta si sono rivelati piuttosto disomogenei, e difficili da riunire su carte semasiologiche: ciascun informatore ha messo in evidenza soltanto gli aspetti del significato che riteneva più importanti, talvolta sovrapponendo la descrizione di luoghi che presentano il termine all’interno del toponimo alla definizione del termine stesso11. Si è perciò deciso di far seguire al primo ciclo di interviste un secondo ciclo, che impostasse l’inchiesta sulla base delle conoscenze acquisite durante la prima fase. Per la costruzione del questionario II, in primis si è operata una nuova selezione di voci, che ha escluso alcuni termini dal significato omogeneo nell’area, includendone invece di nuovi, che non erano stati rilevati nello spoglio dei materiali ALEPO. Si è così passati da un questionario basato su 79 termini divisi in quattro sezioni a un questionario basato su 53 termini organizzati in tre sezioni (le acque, la pedologia del terreno, la morfologia del rilievo), ciascuna delle quasi è a sua volta articolata in diverse sottosezioni (e.g. le acque correnti, le acque ferme), corrispondenti ad altrettanti campi semantici (cfr. § IV.1.1). 9 10

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Sembra infatti possibile ravvisare una tendenza degli informatori, come segnalato ad esempio per il Vocabolario del fiorentino contemporaneo, a restituire le coordinate semantiche delle voci attraverso l’esemplificazione (Binazzi 2006: 244 e segg). Sembra infatti più facile definire i significati procedendo per opposizioni immediate: già Coseriu, contestando le posizioni di quanti dubitavano dell’esistenza di strutture lessicali semplici e chiare, affermava che «la struttura del lessico può parere imprecisa (e persino inesistente), se si tenta di opporre ad esempio direttamente albero a virtù, o battaglia a numero […]; ma diventa più chiara se si confronta albero a pianta, fiore, erba, o battaglia a lotta, scontro, guerra, ecc.» (1971 [1964]: 237). Caratterizzando dunque un designatum specifico invece di fornire una reale descrizione, analogamente a quanto rilevato da Agostiniani per le inchieste dell’ALT (cfr. la citazione riportata al § II.1.3.1).

LA RICERCA In secundis, per ciascuno dei 53 termini selezionati nel questionario II (cfr. Allegato 2) sono stati riuniti in una scheda: -

il significato riportato dal dizionario Pons/Genre (1997), che per la sua eccellente strutturazione si è dimostrato essere un’ottima base di partenza per la costruzione delle definizioni; le realizzazioni fonetiche raccolte durante il primo ciclo di interviste per ciascun termine; altri termini inclusi nel questionario che, in base al primo ciclo di interviste, sembravano avere con la voce un rapporto di geosinonimia; altre forme emerse durante le inchieste, ma non incluse nel questionario, che sembravano avere un significato prossimo a quello del termine; l’elenco delle accezioni emerse dal primo ciclo di interviste, da sottoporre agli informatori in modo da ottenere delle risposte maggiormente comparabili.

III.3.4. SECONDO CICLO DI INTERVISTE Il secondo ciclo di interviste è stato condotto a partire dal questionario II (cfr. Allegato 2), che proponeva una serie di domande a risposta prefissata, volte a verificare la presenza delle singole accezioni in ogni località. Anche in questo caso, le risposte sono state registrate in digitale. In questa seconda fase sono stati intervistati almeno due informatori per località, fra i quali sono stati selezionati almeno un uomo e almeno una donna (in genere si trattava di fonti diverse da quelle intervistate nel primo ciclo, cfr. tabella I). La scelta di coinvolgere almeno due persone per ogni punto d’inchiesta rispondeva all’esigenza di individuare eventuali variazioni idiolettali, nei casi in cui non vi fosse concordanza fra le fonti sull’accettabilità delle singole accezioni. Anche questo questionario, pur nella sua impostazione direttiva, ha favorito l’emergere di nuove voci lessicali relative allo spazio alpino, che in precedenza non erano state rilevate. Queste, pur nella relativa povertà areale di dati (trattandosi di attestazioni spontanee, non è stato evidentemente possibile raccogliere tutte le forme e tutti i significati presenti nell’area), sono state inserite nel Lessico, distinguendole dalle altre mediante un asterisco, soprattutto per l’interesse dei loro rapporti (geo)sinonimici con i termini indagati dal questionario II. III.3.5. ORGANIZZAZIONE DEI MATERIALI NEL LESSICO Come si dirà più diffusamente nel Lessico (cfr. § Appendice), il materiale raccolto nel II ciclo di interviste è risultato irriducibile a una semplice serie di carte semasiologiche: oltre alla presenza o all’assenza delle diverse accezioni, sono infatti stati elicitati in questa fase numerosi etnotesti, il cui stralcio non sarebbe stato giustificabile con nessuna esigenza di sintesi. Si è dunque optato per la presentazione del materiale sotto forma di un lessico settoriale: a tale scopo, i dati raccolti in questa fase d’inchiesta sono stati integralmente trascritti su carta, e quindi inseriti in un database di Access12 creato con l’obiettivo di organizzare e illustrare tutto il materiale elicitato. 12

Per la realizzazione del database devo ringraziare Federico Fogo, dottore di ricerca in onomastica dell’Università degli Studi di Torino e collaboratore del CDE di Bellinzona.

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CAPITOLO III I dati, una volta organizzati, sono poi stati estratti in formato testuale, e vengono presentati in questo volume nell’Appendice, sotto forma di lessico ordinato alfabeticamente. III.3.6. ANALISI SEMANTICA DEI LESSEMI L’analisi semantica è stata svolta alla luce di tutti i dati raccolti (in entrambe le fasi d’inchiesta) e della bibliografia disponibile. L’ultima fase della ricerca ha comportato la collezione di tutti i materiali disponibili per ogni tipo lessicale, e la loro organizzazione in base a criteri semantici: se il lessico segue l’ordinamento alfabetico, l’analisi è allestita per campi semantici (cfr. § IV.1.1). Questa disposizione dei materiali ha permesso la ricostruzione delle tassonomie soggiacenti ai diversi ambiti dello spazio alpino, attraverso l’individuazione dei tratti distintivi (cfr. § IV.1.2) che separano i significati di lessemi appartenenti a uno stesso campo semantico. Inoltre, per i termini che presentavano una maggiore polisemia nei singoli punti o una sensibile variazione diatopica dei significati, si sono raccolte tutte le definizioni disponibili nei dizionari dialettali pubblicati per l’area cisalpina di parlata occitana e per le aree limitrofe. Per i termini più interessanti, dal punto di vista della variazione diatopica del significato, sono state predisposte delle carte semasiologiche. Queste rappresentano, oltre alle località d’inchiesta (raffigurate colorando l’area comunale), anche tutte le località per le quali si siano consultati dei dizionari (la cui area è puntinata). I punti d’inchiesta per i quali sono disponibili uno o più dizionari sono rappresentati sia colorando l’area comunale, sia ricoprendola di puntini (cfr. carta I). Mentre si è rinunciato a cartografare i materiali presenti nel DOc (che sostanzialmente riassumono quelli attestati dagli altri dizionari occitani cisalpini), le carte presentano spesso, per il loro valore di confronto, i significati riportati dal REP (convenzionalmente localizzato a Torino) e da Faure (convenzionalmente localizzato a Briançon). Si è scelto inoltre di forzare leggermente la localizzazione dei diversi dizionari della Val Germanasca, riportando i dati di Pons e di Pons/Genre in corrispondenza del comune di Massello o quelli di Baret in corrispondenza del comune di Pomaretto; i materiali raccolti in Domengue sono localizzati nei diversi paesi della Tinée nei quali ha svolto le indagini, tranne quando viente fatto un riferimento generico alla “Roya”: in questo caso i dati sono convenzionalmente collocati presso il comune di Breil-sur-Roya. Le diverse località sono identificate da una serie di numeri, dei quali si dà la corrispondenza nella carta I: questi sono affiancati da alcuni simboli corrispondenti alle diverse accezioni che può assumere il termine che intitola la carta; per la corretta lettura dei simboli, si rimanda alla legenda presente a lato di ogni carta.

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LA RICERCA carta I. Numerazione delle località

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Capitolo IV

ANALISI SEMANTICA DEL LESSICO GEOGRAFICO IV.1. L’analisi L’analisi del lessico raccolto durante le inchieste sarà condotta seguendo l’organizzazione per campi semantici delineata in occasione della composizione del questionario II. Il capitolo è dunque organizzato in tre macro-sezioni, dedicate alle parole relative alla pedologia, alla morfologia del rilievo e alle acque, ciascuna delle quali è articolata in campi semantici (cfr. § IV.1.1), nei quali vengono presentati non soltanto i lessemi inseriti nel questionario, ma anche quelli emersi durante le inchieste in modo episodico (e raccolti, insieme ai primi, nel Lessico, cfr. appendice). L’analisi non si propone di definire compiutamente il significato di ogni parola in ciascuna delle località indagate, ma di individuare, all’interno di ciascun campo semantico, i tratti (cfr. § IV.1.2) che distinguono i vari significati: in tal modo si auspica di poter delineare delle tassonomie (cfr. § IV.1.3) che restituiscano uno spaccato della visione della montagna da parte delle popolazioni locali. Inoltre, per le parole per cui si sia rilevata una spiccata polisemia nei singoli punti e/o una sensibile variazione del significato del tipo lessicale da una località all’altra (cfr. § IV.1.4), si proporrà una carta semasiologica che dia conto di entrambe le dimensioni di variazione, corredata da tutti i dati lessicografici disponibili per l’area delle Alpi Cozie e da una selezione di informazioni relative alle aree limitrofe (di parlata occitana, piemontese e francoprovenzale). La scelta di integrare i risultati dell’inchiesta con i materiali disponibili in opere lessicografiche e non, ad esempio, con quelli raccolti dalle imprese atlantistiche, è motivata dal fatto che, se per compilare un dizionario è necessario un certo grado di riflessione semantica, non sempre questa è stimolata dal questionario traduttivo che, necessariamente, sta alla base delle ricerche geolinguistiche. Prima di addentrarci nell’analisi, sarà utile esplicitare che cosa si intende, nel presente lavoro, con ‘campo semantico’, ‘tratto distintivo’ e ‘tassonomia’. In tal senso, si impone una riflessione preliminare: i lessemi studiati sono presentati in (una varietà di) occitano, mentre i sovraordinati (o gli iperonimi, cfr. § IV.1.1) e i tratti distintivi sono espressi in italiano. La traduzione, ineludibile per la diffusione di un lavoro di semantica dialettale, può essere un aiuto nel caso in cui il (dia)sistema dialettale non abbia lessicalizzato un sovraordinato che invece si trova lessicalizzato in italiano: è il caso di “pietraia”, che è iperonimo di clapìe, caso, crasillha e gravìëro (termini per i quali non ho registrato un sovraordinato dialettale); può invece essere d’ostacolo quando l’italiano abbia un corrispondente semantico dialettale: è il caso di “pietra”/péiro, iperonimi di clap, palét, saviér, tufou. Il problema può essere ovviato considerando il sovraordinato, o il tratto

CAPITOLO IV distintivo, come ‘unità concettuale’ invece che come lessema, ammettendo che fra l’italiano e le varietà di occitano studiate non vi sia una distanza strutturale tale da inficiare, con la traduzione, la possibilità di accedere alla rappresentazione del mondo che hanno i parlanti. IV.1.1. CHE COSA SI INTENDE PER CAMPO SEMANTICO I paragrafi che compongono le sezioni dedicate alla pedologia, alla morfologia del rilievo e alle acque raccolgono tutte le parole del Lessico raggruppate per sottoinsiemi lessicali, composti da parole i cui significati sono identificabili in base ai loro rapporti reciproci; in termini di semantica strutturale, ogni paragrafo raggruppa parole appartenenti ad uno stesso campo semantico1. Rimandando a Casadei (2011: 59 e seguenti) per ripercorrere la nascita e l’evoluzione del concetto, mi limito qui a riportarne e discuterne due definizioni: Un campo lessicale è un insieme di lessemi che “coprono” una data area concettuale delimitandosi a vicenda nel significato; come un mosaico, ciascun lessema contribuisce ad articolare e dare forma a quest’area, ricevendo il proprio significato dalla relazione semantica che lo unisce e lo differenzia dagli altri lessemi che pertengono allo stesso campo (Casadei 2011: 59).

La definizione di campo semantico nei termini di un mosaico risale ai lavori di Jost Trier2, che interpreta questi insiemi di parole come un’organizzazione che la lingua fornisce alla realtà esterna, segmentandola per opposizione in tasselli combacianti. Tale definizione, che ben collimerebbe con gli obiettivi della presente analisi, è però «semplicistica, perché va contro l’evidenza della sovrapposizione dei significati» (Berruto 1976a: 70). Una definizione più stringente e rigorosa, proposta dallo stesso Gaetano Berruto, è strettamente correlata con il concetto di iponimia: Potremmo chiamare campo semantico l’insieme formato dai co-iponimi diretti di uno stesso sovraordinato (Berruto 1976a: 71)3.

Questa definizione ha il pregio di essere operativamente molto funzionale: Berruto propone infatti una rigorosa definizione di iponimia: Si ha un rapporto di iponimia fra due lessemi X e Y quando la classe rappresentata da X è inclusa o contenuta in quella rappresentata da Y, nel senso che per tutti gli elementi n di cui si può dire “n è (un) X” si può anche dire “n è (un) Y”, ma non è vero il viceversa, non tutti gli Y sono anche X. Si dice allora che X è iponimo di Y, o, specularmente, che Y è iperonimo (o sovraordinato) di X (Berruto 2006: 136).

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La cui definizione è problematica: «la non chiarezza della nozione di ‘campo semantico’ è dimostrata anche dalla proliferazione terminologica riscontrabile nell’abbondante letteratura sull’argomento. Si è parlato di: campi lessicali, campi noetici, campi associativi, associazioni, campi morfosemantici, campi derivazionali, ecc.» (Berruto 1976a: 69). Trier, insieme a Ipsen, fa parte della corrente di ricerche semantiche che convergono nella semantica strutturale, che riprende da un lato le suggestioni saussureane, dall’altro le idee humboltiane; per quanto riguarda l’introduzione del concetto di campo semantico, si veda: Trier (1934). La definizione è ripresa nei lavori successivi dello studioso: si veda ad esempio Berruto 2006: 137.

ANALISI SEMANTICA Lo stesso Berruto mette in luce alcuni limiti della sua definizione di campo semantico, primo fra i quali il fatto che non sempre il sovraordinato è lessicalizzato in una parola (e talvolta, come nel caso di alcuni aggettivi astratti, non è nemmeno riassumibile in un sintagma). Le due definizioni riportate, lungi dall’esaurire il dibattito sulla definizione di ‘campo semantico’, sono entrambe utili ai fini del presente lavoro: nell’analisi che segue, in linea di principio, dovrebbe essere possibile adottare la definizione “stretta” di Berruto, avendo a che fare con lessemi che si riferiscono a una classe di referenti concreti. Tuttavia, è bene tenere presente, nella lettura del capitolo, anche la definizione di Casadei, che ha il pregio di mettere in evidenza le relazioni che legano le diverse parole di uno stesso campo semantico o, nei termini di Berruto, le relazioni fra i diversi coiponimi di uno stesso iperonimo, che sono appunto quelle che verranno analizzate di seguito. IV.1.2. CHE COSA SI INTENDE PER TRATTO DISTINTIVO In linguistica strutturale, ai diversi livelli di analisi, un tratto distintivo è una condizione necessaria e sufficiente per separare un elemento dall’altro, e si fonda sulla possibilità di individuare delle unità minime che compongono i fonemi, i morfemi e i lessemi. Se è relativamente facile individuare le unità minime dei fonemi (modi e luoghi dell’articolazione) e dei morfemi (i fonemi stessi), non è altrettanto intuitivo individuare le unità minime di cui è composto un lessema. Si assume qui la prospettiva della semantica composizionale, che definisce il significato (denotativo) di ogni lessema come formato da un fascio di tratti semantici. Seppur oggi poco frequentata4, questa prospettiva ha il pregio di essere particolarmente adatta alla descrizione delle relazioni fra i significati di diverse parole (che si riferiscono a referenti concreti) appartenenti a uno stesso campo lessicale. I tratti distintivi5 fra diversi lessemi sono dunque elementi minimi di significato (ad esempio /+/-ARTIFICIALE/) che contribuiscono ad articolare un numero elevato di significati e che vengono individuati6 confrontando i significati di parole diverse ma appartenenti allo stesso campo semantico. Oltre a rappresentare un utile strumento empirico per descrivere i significati, i tratti rivestono un’importanza linguistico-antropologica poiché appare possibile teorizzarli come una specie di ‘fondamenti culturali’ delle comunità sociali di cui è espressione il codice che li utilizza; la rete dei componenti semantici e quindi dell’intuizione del parlante nativo […] acquista, o può acquistare, il valore di 4 5

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Per una rivisitazione recente della corrente di studi, si veda Berruto (2010). Il dibattito sulla natura dei tratti semantici è ampio e complesso; mi limito a richiamare qui l’osservazione di Berruto, che nota come «la natura e il carattere dei tratti necessari possono/devono ovviamente cambiare di molto a seconda della natura semantica del campo indagato: aggettivi di colore, nomi di parentela, sostantivi astratti, tassonomie scientifiche e tassonomie popolari, aggettivi di valutazione, ecc. sono settori qualitativamente diversi del lessico, e non deve stupire che la scomposizione in tratti rifletta di volta in volta la particolarità qualitativa e di natura del settore semantico in questione» (1987a: 46). Sempre Berruto sottolinea che «i tratti devono essere formulati dal linguista stesso, in base alla sua competenza della lingua, a un’accurata analisi delle classi di contesti d’uso del lessema e all’applicazione ripetuta e sistematica di prove di commutazione con altri lessemi dello stesso sistema lessicale e di sistemi più ampi» (1987a: 44).

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CAPITOLO IV una griglia di categorie etnosociali o psicosociali immanenti al ai sistemi di interpretazione linguistica (e forse semiologica) della ‘realtà esterna cosiddetta’ (Berruto 1976b: 22).

IV.1.3. CHE COSA SI INTENDE PER TASSONOMIA Uno degli obiettivi della presente analisi è quello di arrivare a definire, per ogni campo semantico, la categorizzazione della realtà che traspare dal lessico usato delle comunità parlanti. L’interesse dello studio dialettale per la definizione di quelle che vengono spesso definite ‘tassonomie popolari’ è dimostrato dall’ampia bibliografia in materia (cfr. § II.1.4.); in particolare, sono frequenti gli studi, in questa prospettiva, sui campi semantici degli animali e delle piante. Questa scelta si spiega con la diffusione, nella classificazione delle specie botaniche e zoologiche, della tassonomia scientifica d’impianto linneano: la descrizione di una tassonomia popolare può essere così tracciata “per differenziazione” rispetto a una tassonomia conosciuta a livello globale. Nel caso del lessico geografico, la tassonomia scientifica è meno accessibile e più frammentaria: si spazia dalla geologia, per la classificazione dei suoli, alla geografia fisica, per la conformazione dei solchi vallivi, passando per la geografia umana, per il modellamento del paesaggio da parte dell’uomo. Si è scelto qui, pur fornendo alcuni elementi di descrizione dell’ambiente studiato, di strutturare le diverse tassonomie a partire dalle affermazioni dei parlanti, prescindendo dal confronto con la descrizione scientifica del paesaggio. IV.1.4. POLISEMIA E VARIAZIONE DIATOPICA DEL SIGNIFICATO In una ricerca volta a studiare il variare del significato in prospettiva diatopica, sarà importante tenere distinti due fenomeni che, nella pratica dell’analisi, rischiano di essere confusi: - la polisemia che un termine può presentare in una singola località, ovvero le diverse ‘accezioni’ che un significato può assumere; - la variazione del significato di uno stesso lessotipo (che si manifesta spesso in significanti differenti) nelle diverse località dell’area d’inchiesta. Con il termine generico ‘accezione’ si intende più propriamente il ‘senso’7, ovvero: il significato contestuale, vale a dire la specificazione e concretizzazione che il contenuto di un termine (che è un’entità astratta con valore generale, determinata all’interno del sistema linguistico: appartiene alla langue) assume ogni volta che viene effettivamente usato in una produzione linguistica in un certo contesto (Berruto/Cerruti 2011: 195).

In questi termini, ciascuna parola è suscettibile di assumere sensi diversi a seconda del contesto frasale in cui è inserita; vi sono però delle parole, definite polisemiche, i cui sensi possono essere particolarmente distanti. In questi casi, si arriva a parlare di 7

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In concetto entra nella linguistica moderna con la distinzione di Saussure fra signification (senso) e signifié (significato); per una rassegna delle diverse interpretazioni che sono state fatte di questa terminologia Saussureana, si veda la nota 231 di Tullio De Mauro a Saussure (1922 [1967, 2010]: 440).

ANALISI SEMANTICA significati diversi associati a uno stesso significante (caratterizzati, al contrario di quanto avviene nei casi di omonimia, da rapporti di parentela e/o di derivazione). Nella presente analisi, le diverse accezioni con cui una parola può essere usata in ciascuna località verranno considerate sensi, attualizzazioni di un unico significato (più o meno ampio); al contrario, si parlerà di significati diversi di uno stesso tipo lessicale quando in località diverse sia stato registrato un diverso insieme di sensi. Il rischio di confusione deriva dal fatto che entrambi i fenomeni sono stati rilevati attraverso un questionario che presentava, per ogni termine, l’elenco delle accezioni emerse durante il primo ciclo di inchieste: del termine X veniva chiesto se significasse a, b, c. Spesso nelle singole località il termine è passibile di assumere diverse accezioni: nella località 1, X= a, c; nella località 2, X = b, c. La somma delle varie accezioni è però diversa da luogo a luogo. In questo senso, il termine X sarà polisemico nelle località 1 e 2, e, in prospettiva diatopica, avrà due significati diversi (seppure con l’accezione c in comune) in 1 e 2. IV.1.5. FONTI LESSICOGRAFICHE Si elencano di seguito, raggruppati arealmente, i dizionari con cui si è operato un sistematico confronto per la redazione delle carte semasiologiche (per una descrizione delle diverse fonti, si rimanda a § II.2.1). In coda a questa rassegna, si riportano fonti che sono state consultate in modo più occasionale, per dirimere singole questioni. Occitano alpino DOc = Comission Internazionala per la Normalizacion Linguística de l’Occitan Alpin (2008), Nòrmas ortográficas, chausias morfològicas e vocabolari de l’Occitan Alpin Oriental Domenge, J.L., dir. (2014), Langue et mémoire de la Tinée8 Faure, A. (2009), Assai de diccionari francès- aupenc d’òc Alta Valle Susa Baccon Bouvet, C. (2009 [1987]), A l’umbra dū cluchī Masset, A. (1997), Dizionario del patois provenzale di Rochemolles Valle Chisone Breuza, R., a cura di (2013), Un’ cleò dë paròlla. Un recinto di parole Valle Germanasca Baret, G. (2005), Disiounari dâ patouà dë la Val San Martin. Dizionario della parlata occitanica provenzale alpina della Val Germanasca Pons, T.G. (1973), Dizionario del dialetto valdese della Val Germanasca Pons, T.G/Genre, A. (1997), Dizionario del dialetto occitano della Val Germanasca

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Il volume raccoglie terminologia relativa a diverse varietà della Tinée; le sigle che si riporteranno nelle definizioni tratte da Domenge fanno riferimento alle varie località d’inchiesta: BT (Basse Tinée), Cl (Clans), Il (Ilonse), Ma (Marie), Bo (La Bolline et la Roche), St-D (Saint-Dalmas-de-Valdeblore), Mo (Mollières), R (Roubion), St-S (Saint-Sauveur), I (Isola), St-E (Saint Etienne), Ro (Roya), St-D-S (SaintDalmas-le-Selvage).

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CAPITOLO IV Valle Pellice Sappé, J.L. (2012), Lou courousèt e la furmìa. Piccolo dizionario delle parlate occitane della Val d’Angrogna Valle Varaita Bernard, G. (1996), Lou saber. Dizionario enciclopedico dell’occitano di Blins Rabo, C. [C. di Crosa] (1982), Dizionario del patuà sampeyrese Valle Maira Bruna Rosso, P.A. (1980), Piccolo dizionario del dialetto occitano di Elva Dao, P. (1986), Occitano alpino. Vocabolario italiano-occitano Conte, B. (2002), Piccolo Dizionario della Lingua Occitana di Celle di Macra (Selles) Valle Maira Valle Stura Cesana, V. (2012), Piccolo dizionario della lingua occitana di Rittana Valle Gesso Ghiberti, M. (1992), Dizionario entracquese Valle Vermenagna Giordano, A. [Rino Jourdan] (2010), Lou vërnantin - lo vernantin. Il vernantese. Dizionario occitano di Vernante Artusio, L./Audisio, P./Giraudo, G./Macario, E. (2005), Disiounari Ousitan Roubilant – Roucavioun. Diccionari Occitan Robilant – Rocavion. Dizionario Occitano Robilante – Roccavione Aa Vv. (2011), Glossari del Limones. Occitan-italian Area italiana limitrofa (francoprovenzale, piemontese) Aa.Vv. (2011), Dizionario Giaglionese Cornagliotti, A., a cura di (2015), Repertorio Etimologico Piemontese9 Genta, D. [Toumazìna]/Santacroce, C. (2013), Scartablàri d’la modda d’ Séreus (Valàddeus eud Leuns) – Vocabolario del patois francoprovenzale di Ceres (Valli di Lanzo) Fonti relative ad aree affini linguisticamente o prossime territorialmente a cui si è fatto ricorso in modo occasionale Alibert, L. (1966), Dictionnaire occitan-français selon les parlers languedociens Chenal, A./Vauterin, R. (1984), Nouveau dictionnaire de patois valdotain. Dictionnaire françaispatois Grange, D. (2008), Lexique descriptif occitan - français du vivaro-alpin au nord du Velay et du Vivarais 9

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Il REP raccoglie le attestazioni dei dizionari piemontesi precedenti; le diverse definizioni vengono qui riportate con la sigla che ne indica l’origine, analogamente a quanto fa il Repertorio: B = Brovardi, Dissionari (fine del sec. XVIII); BR = Brero (2009); C = Capello (1814); DSA = Di Sant’Albino (1859); G = Gavuzzi (1891); GR = Gribaudo (1996); LEVI = Levi (1927); P = Pipino (1783); PO30 = Ponza (1830-1833); REPMAT = voci segnalate dai collaboratori non altrimenti attestate e rinvenute in fonti non lessicografiche; Z15 = Zalli (1815); Z30 = Zalli (1830).

ANALISI SEMANTICA Laux, Ch. (2001), Dictionnaire Occitan – Français Lebre, E./Martin, G./Moulin, B. (2004), Dictionnaire de base Français-Provençal Lo Congrès10 = dicod’Oc, Multidiccionnaire occitan, disponibile online [http://www.locongres.org/fr/applications/dicodoc-fr/dicodoc-recherche] Mistral, F. (1879-1886), Lou Trésor dóu Felibrige

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Il dicod’Oc è una piattaforma, curata da Lo Congrès Permanent de la Lenga Occitana, che riunisce quindici dizionari: otto dal francese all’occitano, cinque dall’occitano al francese e due dizionari storici dell’occitano. In particolare, nel presente lavoro si è fatto ricorso (quando non indicato diversamente) alla sezione dall’occitano al francese, che raccoglie i materiali di Laux (2001), Grange (2008), Guilhemjoan (a cura di 2005), Bèthvéder (s.d.) e Fettucciari/Martin/Pietri (2003).

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CAPITOLO IV

IV.2. Le parole relative alla pedologia Il massiccio delle Alpi Cozie presenta una geologia piuttosto uniforme: la maggior parte del territorio è costituita, analogamente al resto delle Alpi Occidentali, da gneiss, rocce verdi e calcescisti11; sul versante francese, le Alpi Cozie confinano con un’ampia zona calcarea, interrotta soltanto dal massiccio cristallino autoctono degli Ecrins (composto di rocce cristalline autoctone è anche il massiccio dell’Argentera, sito nelle Alpi Marittime, al confine meridionale delle Alpi Cozie). Questa sezione del capitolo IV si articola partendo dalle parole usate per indicare i diversi tipi di pietre, per poi occuparsi degli accumuli di materiale lapideo formati dal lavoro dell’uomo o dal lento disfacimento delle montagne; si passa quindi alla descrizione delle parole indicanti le frane (che spesso sono all’origine di macereti e ammassi di detriti). In chiusura di questo capitolo si analizzano i termini indicanti la roccia compatta e il fango. IV.2.1. LE PIETRE La ricchezza delle denominazioni che indicano ‘le pietre’, intese come singoli blocchi di minerali delle più varie dimensioni, forme e composizioni, emerge già dalle voci dell’ALEPO V-I- 39 (mi ha tirato) una pietra e V-I-40 sasso: ai lessotipi maggioritari12 (pietra e roc-) si affiancano, nella seconda voce, [dɛi̯r] (‘masso’, Campiglia Cervo) [blok] (‘masso’, Carema) [puˈrɛtːa] (‘sassolino’, Ribordone), [paˈlət] (‘pietra piatta’, Chialamberto), [ʤɛi̯ra, ʤai̯ra] (‘ghiaia’, Novalesa e Chianocco), [buˈʧuŋ] e [arˈkau̯s] (Val della Torre), [paˈras] e [ˈpeklo] (Giaglione), [ˈɡuŋɡu] (‘ciottolo’, Coazze), [ˈkapːu] e [kaˈʀjas] (Bardonecchia), [ˈlabju] (Chiomonte), [kei̯ˈrɛl], [ˈkodu] e [ˈlau̯za] (rispettivamente ‘pietra squadrata’, ‘masso’ e ‘lastra di pietra’, Bellino), [ɡrym] (Sampeyre e Monterosso Grana), [bisˈʧaːs] (‘masso’, Sampeyre), [naˈsuŋ] (‘ciottolo’, Piasco), [bau̯s] (Tenda, Chiusa Pesio), [ˈmoɹa] (Frabosa Soprana). Non potendo inserire nel questionario I (cfr. § III.3.2) tutti i tipi lessicali emersi dall’inchiesta dell’ALEPO, sono stati selezionati soltanto i termini jairo13, péiro e le diverse forme riconducibili alla radice roc-: roccho, roc, rouchas. Di seguito si elencano alcune definizioni particolarmente significative raccolte durante il primo ciclo di interviste (e dunque non inserite nel Lessico in appendice):

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Per uno sguardo d’insieme sull’arco alpino, si veda la figura 11 a pagina 45 di Bätzing (1991 [2005]); per un approfondimento sulle singole vallate italiane, si veda la carta geologica d’Italia, disponibile online sul sito dell’ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (http://www.isprambiente.gov.it/it). Si riportano qui le scelte di tipizzazione dell’Atlante, che in genere seleziona come tipo lessicale la forma coetimologica italiana o, in assenza di questa, francese (per un’illustrazione delle scelte che guidano la tipizzazione nell’ALEPO si veda Cerruti/Regis 2008). Soltanto in assenza di questi si ricorre alla formazione di un tipo lessicale dialettale. Le forme attestate nei singoli punti d’inchiesta vengono riportate in trascrizione IPA, uniformando le regole d’accentazione a quelle seguite nel Lessico. Coerentemente con le scelte operate nel Lessico (in appendice) si fa riferimento ai diversi lessotipi citando la forma attestata nel dizionario di Pons/Genre (1997).

ANALISI SEMANTICA jairo «sono pietre ricavate dalla rottura delle rocce»14 (Salb. CB-F-30); «sono delle pietre piccole piccole. Prima che le strade fossero asfaltate si metteva della [ˈʤai̯ro] per compattare meglio il terreno, in modo che le automobili non slittassero» (Mass. ET-F-45); «sono pietre piccole, come quelle che si usano per la massicciata delle strade, più piccole delle [kraˈsiʎːa]» (Pram. RS-M-28); «le pietre sbriciolate, o le pietruzze che si toglievano una volta dal fiume» (Bobb. ACM-48); «anche quando una pietraia è fatta di [ˈʤai̯ro] si chiama [kaˈsjero]» (Elva FB-M-48). péiro «[pau̯ˈsaː ˈyno ˈpei̯ro] vuol dire “andare in bagno”» (Mass. ET-F-45); «è più piccola di una roccia, in genere la dissotterri» (Bobb. AC-M-48). roccho «è molto più grande di una pietra» (Prag. IL-F-42); «[lu ruˈʧas] è una borgata costruita proprio sulla roccia. Il termine si può anche usare in senso spregiativo per riferirsi a una roccia mal fatta. Una [ˈpei̯ro] è più piccola, una [ˈrotːʃo] è più imponente» (Mass. ET-F-45); «è più grande della pietra, e di solito ha un nome, [ei̯ˌsiˈnuː] “qui da noi”: [la ˈrotːʃo d ʎ ei̯ɡriˈʧaʎ ... la ˈrotːʃo d mesˈʤworn ... la ˈrotːʃo diː drau̯ ... la ˈrotːʃo d ruˈbers ... la ˈrotːʃo d rẽˈĩe ʧit ... rubərˈʤysːo … ˈrotːʃo l aˈmur ... ˈrotːʃo d laː ˈfiʎːa ... la ˈrotːʃo dəl te]» (Pram. RS-M-28); «è anche la parete rocciosa» (Arg. PR-M-46).

Sulla base delle risposte ottenute, non si sono individuate per questi termini diverse accezioni: soltanto alcuni continuatori del latino popolare *ROCCA (REW 7357; FEW X: 435) sembrano poter indicare, oltre al ‘masso inamovibile’, anche la ‘parete rocciosa’. In particolare, l’accrescitivo/peggiorativo rouchas è stato scorporato dalla domanda sulla roccho, e inserito nel campo semantico della ‘roccia compatta’ (cfr. oltre, § IV.2.4). I termini rimanenti sono invece stati organizzati, nel questionario II (cfr. § III.3.3), in una serie di domande che si presentavano in modo diverso rispetto a quelle concernenti i tipi lessicali potenzialmente polisemici, volte a confermare la tassonomia emersa durante le prime interviste e a favorire l’emergere di materiale onomasiologico complementare; di seguito riporto la traccia usata durante le interviste per indagare il significato di queste parole: Se dovesse ordinare queste parole in base alla dimensione dei sassi che indicano, direbbe che la jairo è più piccola della péiro, che a sua volta è più piccola della roccho? Potrebbe indicarmi qui attorno una jairo, una péiro e una roccho? Oltre alla dimensione, ci sono altre differenze fra le tre parole? Come vengono chiamati i detriti di pietra? C’è differenza fra questi e la jairo? In alcuni luoghi (Ostana e Argentera) le pietre vengono chiamate grava: da lei si usa? Qual è la differenza fra queste e quelle di prima? Conosce altri nomi per indicare le pietre?

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Come descritto nel § III, le interviste si sono svolte interamente in occitano. Le citazioni in italiano sono da intendersi come traduzioni, la cui fedeltà è stata sacrificata sono nei casi in cui questo si sia reso necessario per assicurare la comprensione del testo.

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CAPITOLO IV Dalle risposte al questionario II (per cui cfr., come già indicato, l’appendice) emerge la conferma della pertinenza della dimensione nella scelta di indicare una ‘pietra’ con un termine piuttosto che con un altro. Una specificazione importante ci proviene dagli informatori di Massello e Pramollo: una roccho è tale se non è possibile spostarla a forza di braccia (→roccho); da parte loro, gli informatori di Pragelato, Elva e Argentera sostengono che il termine péiro possa indicare pietre di varie dimensioni, purché queste siano trasportabili (→péiro). In linea teorica, potremmo pertanto affermare che, per lo meno nelle località citate, il tratto distintivo fra péiro e roccho sia /+/-MOVIBILE/. Alcune attestazioni lessicografiche suggeriscono però una certa cautela: Bernard, s.v. peiro, scrive che «si definiscono “peires” sia i sassolini che i grandi massi erratici». Se péiro può indicare anche un masso inamovibile, è interessante notare come, di converso, il quesito ALEPO Q323 (Mi ha tirato) una pietra non abbia fatto emergere, per l’area occitana, forme del tipo roccho: analogamente a quanto succede in italiano, si può osservare «una pietra grande come una casa», ma non si può *«tirare una roccia». In altri termini, potremmo dire che péiro ha un’estensione maggiore di roccho, ovvero si riferisce a una classe più ampia di referenti (Lepschy 2006: 181), alcuni dei quali possono essere indicati sia con l’uno sia con l’altro termine (sebbene soltanto in qualche contesto). Di dimensioni segnatamente minori è invece la jairo, termine che indica, in tutte le località in cui è attestato, sia la singola pietruzza sia, come nome collettivo, la ‘ghiaia’ (→jairo). Da notare in questo caso l’assenza del termine a Ceillac15 e a Ostana, dove ricorre soltanto come toponimo; qui la ‘ghiaia’ è infatti indicata con il termine gravo, conosciuto con questo significato anche a Pragelato e a Elva16 (mentre ad Argentera sembra indicare la ‘pietraia’, cfr. oltre § IV.2.2). Questa parola ha probabilmente conosciuto una diffusione più ampia, di cui oggi permane traccia nelle frequenti attestazioni del tipo gravìëro (cfr. sempre § IV.2.2). A fronte di una sostanziale assenza di termini polisemici (sia nei singoli punti sia nell’area), il campo semantico delle ‘pietre’ presenta una notevole ricchezza a livello onomasiologico, che si traduce da un lato con il riscontro di articolate tassonomie in singoli punti, dall’altro con la presenza di geosinonimi. In particolare è interessante la ricchezza di denominazioni emerse a Bellino, che già trapelava dall’inchiesta dell’ALEPO (cfr. sopra): calimbre: ‘masso, pietra delle dimensioni di un’automobile’ (→calimbre) (cfr. Bernard 1996: 80, ‘grande pietra’) codou: ‘masso, grossa pietra’ (→codou) (cfr. Bernard 1996: 102, stessa definizione) mimbou: ‘masso che si riesce a muovere a fatica’ (→mimbou) (assente in Bernard 1996)

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Durante l’inchiesta di Ceillac la sezione del questionario relativa alle ‘pietre’ è stata affrontata superficialmente. Tuttavia, la mancata testimonianza di questo termine è più significativa di quanto non lo siano le precedenti, perché collima con l’assenza del termine sia nei dizionari raccolti ne Lo Congrès sia nei dati atlantistici collezionati dal Thesoc, e fa da contraltare alle sue numerose attestazioni piemontesi (si veda, ad esempio, REP: 758). Si noti che, in francese, il termine gravier indica una «roche détritique meuble, d’un diamètre compris entre 2 et 20 mm environ» (TLFi).

ANALISI SEMANTICA Mentre il termine coudou è ampiamente diffuso nell’area transalpina di parlata occitana17, per calimbre e mimbou non si trovano facili18 riscontri. Non è invece emersa durante l’inchiesta semasiologica, né è attestata da Bernard (1996), la forma [kei̯ˈrɛl], ‘pietra squadrata’, registrata dall’ALEPO. Di fronte a questa ricchezza di denominazioni, non sembra consigliabile stabilire un rigido schema di tratti distintivi; dalle confuse spiegazioni degli informatori, sembra piuttosto che, al giorno d’oggi, i diversi termini servano a dare una coloritura speciale al discorso, quasi come se la conoscenza di questa terminologia specifica si traducesse in una marca stilistica del parlare, volta a dimostrare una notevole competenza tecnica. In chiusura del paragrafo, può essere utile riportare alcune denominazioni emerse durante il secondo ciclo di inchieste in modo occasionale, ma probabilmente di ampia diffusione. La forma quiap indica a Bobbio Pellice una ‘piccola pietra piatta’, mentre a Massello la parola corrispondente, clap, è stata definita ‘trogolo’, scodella per gli animali (→clap). Il termine, alla base di clapìe (cfr. § IV.2.2), è ampiamente attestato in letteratura, con definizioni che vanno da «pierre; éclat de pierre; caillou; blocaille, sous-sol pierreux; têt; ardoise épaisse et mal taillée» del linguadociano (Alibert 1966: 224) a «coccio; vasellame; sfasciume» raccolti per il piemontese (REP: 396). Il termine palét, pur non essendo stato inserito nel questionario, è emerso spontaneamente in ben tre località (Massello, Pramollo e Ostana), sia per indicare una ‘pietra piatta in genere’, sia per riferirsi al ‘gioco detto dei palét’, che segue regole simili a quelle del gioco delle bocce, ma a essere lanciate sono appunto delle piccole pietre piatte. A proposito del gioco, Bernard (1996: 302) riporta che «si esegue con pietre piatte, cercando di tirarle il più vicino possibile al bersaglio, pur esso rappresentato da una pietra». La diffusione di questo termine in area occitana è forse sostenuta dal francese standard19, che conosce la forma palet come «pierre plate et ronde ou petit disque en bois ou en métal, que l’on doit lancer le plus près possible d’un but» (TLFi, s.v.). A Ceillac è stato raccolto il termine saviér, definito come ‘piccola pietra dura e abrasiva, della dimensione di una biglia’ (→saviér), probabilmente affine al linguadociano savel, «sablon, sable grossier, terre sablonneuse; sciste du grès bigarré et du grés rouge; roches qui se délitent» (Alibert 1966: 628), che trova un riscontro in territorio italiano nel savelìer, ‘pietraia di sfasciumi’ di Argentera (→savelìer). Da ultimo, ad Argentera si registra il termine tufou, definito come una ‘qualità di pietra grassa’, che si estraeva a Ferrere e veniva usata per delimitare le aiuole dei giardini (→tufou): un facile riscontro è offerto dall’italiano tufo, che indica propriamente una roccia di origine vulcanica, ma col quale ci si riferisce anche ad alcuni tipi di calcare 17 18

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Si vedano Lo Congrès e la carta 125 dell’ALP. Con questo aggettivo si intende segnalare come l’assenza di riscontri sia da intendersi relativamente alle fonti citate, e in particolare a quelle di più ampio respiro areale: non è infatti escluso, qui come nel prosieguo della trattazione, che mi siano sfuggiti dei riscontri in singole opere di carattere locale o in altre fonti, quali atlanti linguistici, repertori toponimici, ecc. Il REP (p. 1040) definisce palèt, ‘ciascuna delle piastrelle usate nell’omonimo gioco’, come un francesismo.

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CAPITOLO IV poroso, caratterizzati dall’essere leggeri e facilmente lavorabili. La Carta Geologica d’Italia (foglio 78, Argentera-Dronero) segnala nel vallone di Ferrere la presenza (esclusiva su quel versante dell’alta valle Stura) di «calcari a cellette, gessi, peliti ocracee, dolomie bituminose» che potrebbero essere all’origine dell’informazione. Il termine risulta attestato anche a Isola, lou tùfou, s.v. ‘le tuf’ (Domenge 2014: 46). Un tentativo di mettere ordine nel ricco campo semantico delle ‘pietre’ può essere quello di disporre i termini raccolti durante le inchieste in base alla dimensione dei referenti, pur sapendo che le denominazioni si situano lungo un continuum sul quale intervengono altri criteri (quali la forma e la composizione minerale) e soprattutto che le classi individuate non sono discrete ma ampiamente sovrapponibili. Per leggere lo schema proposto di seguito, che individua tre gruppi di termini accomunati per dimensione, è opportuno ricordare che, mentre le parole poste in alto sono attestate in quasi tutte le località (tranne che a Ceillac, cfr. nota 15), quelle poste nelle righe inferiori possono non essere diffuse in tutta l’area. L’unico caso di geosinonimia sembra riguardare i termini posti verso il polo /-GRANDE/ del continuum: se non possiamo far corrispondere perfettamente saviér (per il quale non è attestato il significato collettivo di ‘ghiaia’) a jairo, questo significato sembra invece valere per gravo a Ostana, dove jairo è stato registrato soltanto come toponimo (cfr. sopra). /- GRANDE/ jairo saviér gravo

péiro quiap palét tufou

/+ GRANDE/ roccho mimbou codou calimbre

IV.2.2. LE PIETRAIE L’articolazione del campo semantico delle ‘pietraie’, intese come accumuli di pietre delle più varie dimensioni e di diversa origine, emerge bene dalla voce ALEPO V-I-35 pietraia, particolarmente ricca, oltre che di tipi lessicali, anche di note ed etnotesti in cui gli informatori cercano di descrivere i referenti cui, di volta in volta, si riferiscono. Oltre alle forme riconducibili alle radici clap-, cas- e rouch-, che sono state prese in esame per lo studio semasiologico, è doveroso riportare le forme più localizzate [maˈzɛra] (Carema e Moncalieri, dove viene tradotta ‘muro a secco’), [pərˈlere] (Condove), [bjaˈziri] (Coazze) e [blaˈʒera] (Giaglione), [saˈblirəs] (Mattie, dove indica più propriamente la pietraia di detriti), [peˈrajo] (Aisone), [ɡaɾaˈveɹa] e [ɡraˈvina] (Tenda e Briga Alta) e [bau̯ˈsera] (Briga Alta). Nel questionario I sono stati inseriti i termini: biazélo/biazèro, câsìe/casìëro/caso, clapìe/clapièro, crasillha/crasa e gravìëro. In questo caso sono state accolte nella domanda diverse forme, in ragione del fatto che la variazione delle suffissazioni non si manifesta solo in diatopia: nella stessa località si possono rinvenire diverse forme suffissate riconducibili alla stessa radice, cui talvolta sembra corrispondere un significato leggermente diverso, almeno stando alle attestazioni lessicografiche. È il caso, ad esempio, di Pons/Genre (1997: 59), che s.v. casas, câsìe, s.m. e casìëro, s.f. riportano

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ANALISI SEMANTICA «ammasso di pietrame, di proporzioni piuttosto ampie»; a tale definizione segue quella di caso, «luogo coperto di sassi franati, meno ampio delle precedenti». In questo caso, alcune parole hanno dimostrato di avere una diffusione piuttosto localizzata, almeno per quanto riguarda il loro impiego nel lessico comune20. In particolare la forma biazélo/biazèro, inserita per l’interesse del tipo lessicale, sebbene l’ALEPO l’avesse registrata soltanto in area francoprovenzale, è stata riconosciuta esclusivamente a Bobbio Pellice21 (nella forma [bjaˈzis]), dove è descritta come segue: biazis «[il biazis è] dov’è [pənˈdy] (“scosceso”) e bisogna far attenzione a camminare perché si scivola sulle pietre, sono luoghi franosi. Talvolta le pietre sono miste a terra» (Bobb. AC-M-48).

Per questa ragione, si è scelto di stralciare la domanda relativa a questo termine nel questionario II. Si è invece mantenuta la domanda relativa a crasillha/crasa, che ha ottenuto riscontri piuttosto localizzati (Salbertrand, Massello e Pramollo), per stimolare la raccolta di termini che indicassero referenti analoghi a quelli definiti dal termine: crasillha/crasa «un terreno in cui ci sono molte pietre, grandi o piccole, di sfasciumi. Non si tratta di pietre molto grandi» (Mass. ET-F-45).

I termini clapìe, caso e gravìëro sono invece stati riconosciuti da (quasi22) tutti gli informatori durante il primo ciclo di inchieste; di seguito, si riportano alcune definizioni particolarmente interessanti emerse in questa prima fase: câsìe/casìëro/caso «il [kaˈsie] in genere è formato da pietre più grandi delle [kraˈsiʎːa] o dei [klaˈpie], che è anche più piccolo. Si tratta di una pietraia formatasi naturalmente» (Mass. ET-M45); «è la morena, in genere di origine glaciale. Ce n’è una grande a Sant’Anna, sulla quale si narra una leggenda: quando il Signore ha creato il mondo, l’ultimo paese che ha fatto è stato Bellino. Una volta terminato il suo compito, si è seduto [aˈmunt sys] (“su in alto”), si è fregato le mani e ha sbattuto i piedi l’uno contro l’altro, dicendosi che aveva fatto proprio un bel lavoro. A quel punto il diavolo è sbucato lì di lato, e l’ha sfidato: sarai anche stato bravo, ma scommetto che non sei capace di staccare un pezzo di montagna e tirarlo dall’altro lato! Allora il Signore lo ha fatto, e ancora oggi lassù c’è una grossa roccia di un colore diverso dalle altre. Il diavolo ha allora voluto fare la stessa cosa, ma il pezzo di roccia gettato da lui si è frantumato contro il versante, ed è nata la [ˈkaso]» (Bell. GAR-M-49).

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Per una rassegna della diffusione dei diversi termini nella toponomastica, si veda Rivoira (2006/2007). Nella seconda fase d’inchiesta, a Bellino, è stato raccolto il termine biazélo, che l’informatrice aveva sentito usare dai vecchi, «ma oggi non si sente più» (→biazis). Mentre i termini clapìe/clapièro sono stati riconosciuti dovunque, câsìe/casìëro/caso sono sconosciuti a tutti gli informatori di Pragelato, mentre a Pramollo l’informatore intervistato durante il primo ciclo di rilievi ha affermato di non aver mai sentito queste parole, che però sono state riconosciute dagli altri informatori. Il termine gravìëro non si usa a Ostana, Pramollo e Argentera, mentre a Salbertrand si ricorre al maschile gravî.

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CAPITOLO IV clapìe/clapièro «sono pietre tutte ammucchiate assieme, in alcuni casi erano fatti dall’uomo perché le pietre non dessero fastidio all’aratro quando si doveva lavorare la terra, ma in altri no» (Prag. IL-F-42); «di solito si trovano al bordo dei prati; si chiamano così anche i mucchi ordinati che si facevano nei pressi delle abitazioni, perché d’inverno si tagliavano le pietre» (Elva FB-M-48); «è dove si ammucchiano le pietre al lato dei prati. Sono fatti a mano dalle persone. Si chiamano così anche i muri dei terrazzamenti. La primavera qualcuno li aggiustava sempre. In montagna durano di più i [klaˈpier] fatti a secco che quelli di cemento, perché lasciano defluire l’acqua» (Arg. PR-M-46). gravìëro «sono terreni poveri, slavati, sabbiosi, vicino al torrente» (Salb. CB-F-30); «è dove l’alluvione ha portato via la terra lasciando solo dei sassi» (Mass. ET-F-45); «qui non ce ne sono, se ne trovano lungo il basso corso del Risagliardo, o lungo il Chisone. Ci sono sabbia e pietre, è dove bisognerebbe tenere pulito: una volta si faceva, ora non più e se ne vedono i risultati» (Pram. RS-M-28); «sono i prati che sono stati ricavati lungo il Pellice: oggi ci sono e domani chissà. Si poteva solo fienare, non erano adatti a essere coltivati» (Bobb. AC-M-48); «sono pietruzze lungo il greto del torrente, laddove gli argini si sono già parzialmente ricoperti di terra e ricomincia a esserci della vegetazione» (Arg. PR-M-46).

Se i termini câsìe/casìëro/caso sembrano indicare ovunque la (grande) pietraia di origine naturale (quando non sovrannaturale!), i termini clapìe/clapìero e gravìëro si sono rivelati, fin dal primo rilievo, polisemici in certi punti (l’informatore di Argentera sostiene che il [klaˈpier] può essere sia l’accumulo di pietre tolte dai campi sia il muro a secco) e caratterizzati da un certo grado di variabilità semantica nell’area (con termini del tipo gravìëro si indicano qui terreni poveri nei pressi del torrente – Bobbio Pellice, lì il greto di pietrisco – Massello). Nel questionario II si sono pertanto inserite le diverse accezioni raccolte durante il primo ciclo di interviste, con l’obiettivo di verificarne la pertinenza e l’eventuale diffusione (cfr. Allegato 2). Si sono inoltre aggiunte alcune precisazioni volte a indagare la possibile incidenza delle dimensioni delle pietre nella denominazione della ‘pietraia’, tratto che è stato inserito anche nel questionario dell’ALJA23, che distingue tra Un perrier (tas de grosses pierres) e Un clapier (tas d’enormes blocs) (cfr. Tuaillon 1972-1973). I diversi termini formati con la radice cas- sembrano essere tra loro in rapporto di (geo)sinonimia, e tutti sembrano indicare una pietraia di origine naturale. Le definizioni degli informatori di Bobbio Pellice e di Ostana aggiungono al tratto /+NATURALE/ i tratti /+DI GRANDI ROCCE/ e /+ESTESA/ (tratto, quest’ultimo, richiamato anche da un’informatrice di Massello), che non sono emersi nelle altre località, e che non trovano se non un parziale24 riscontro nei dizionari dell’area: Sappé (2012: 32), per Angrogna,

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L’inserimento di tale distinzione è particolarmente significativo in questa sede, alla luce del fatto che il Questionnaire dell’ALJA è stato compilato sulla base della una lunga esperienza d’inchiesta in area alpina dell’autore (cfr. Tuaillon 1985 e Canobbio 2011). Tale parzialità non è necessariamente legata alla non pertinenza dei tratti: molti dizionari locali, più che una descrizione, offrono la traduzione italiana del termine, con tutti i limiti che questo comporta per un’analisi semantica.

ANALISI SEMANTICA descrive infatti il casàs come un «ampio ammasso di pietrame», ma è l’unico25 a sottolineare l’aspetto della dimensione, che potrebbe essere considerato pertinente soltanto, per quanto riguarda le Alpi Cozie, in un’area che comprende le Valli Valdesi e la Valle del Po. Si noti che questo lessotipo presenta una diffusione areale piuttosto ridotta (non è attestato né dai principali dizionari occitani d’oltralpe né dal REP), e sembra avere il suo centro di diffusione proprio nelle Alpi Cozie: Bessat/Germi (2001: 122) individuano «l’aire dialectale de casse “éboulis” […] dans les massifs alpins de la Haute-Maurienne à l’Ubaye». Altrove forme del tipo caso sono attestate, ma si tratta di omonimi26 (alcuni dei quali presenti anche in area alpina, cfr. →caso). Diffusione più ampia, maggior polisemia nelle singole località e maggiori differenze semantiche a livello areale presentano invece i termini formati a partire dalla radice clap27. Il termine clapier è ben attestato oltralpe, dove è sostenuto dalla presenza del termine nella lingua tetto: la parola è polisemica anche in francese, dove indica sia i «trous creusés (exprès) dans une garenne où les lapins se retirent» sia, regionalmente, l’«amoncellement de débris rocheux au pied d’une paroi; éboulis, tas de pierres» (TLFi, s.v.). Tale polisemia è attestata anche in linguadociano, Laux (2001, s.v. clapièr) riporta infatti «1. tas de pierres, amas de cailloux 2. clapier de lapins, garenne»28 e in occitano alpino, Faure (2009), s.v. cage à lapins riporta infatti clapier. In Italia, dove il termine è ampiamente attestato con il significato di ‘pietraia’ sia in area piemontese (REP: 399) sia in area galloromanza (cfr. AIS 427a) l’accezione (che secondo il TLFi e Bessat/Germi 2001: 116 è posteriore) di ‘conigliera’ non trova invece riscontri in lessicografia. Per analizzare la polisemia e la variazione semantica in diatopia del termine clapìe si veda la carta I29, costruita a partire dai dati del Lessico (→clapìe) integrati con le definizioni attestate in lessicografia (segnalate con un asterisco), che sono riportate nella tabella I. carta I. Carta semasiologica clapìe → si veda in coda alla sezione tabella I. Attestazione lessicografiche del tipo clapìe FONTE PAG. S.V. DEFINIZIONE Genta/ 174 quiapèi pietraia Santacroce Aa Vv s.v. clapìe mucchio disordinato di pietre, pietraia (Giaglione) 25

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NOTE

Pur non trattandosi di un dizionario, è importante dar conto anche della definizione di Rivoira (2006/2007: 81), per la Val Pellice, che va nella stessa direzione: «ganda, pietraia composta da massi di grosse dimensioni. Si distingue dal quiapî (v. oltre), poiché quest’ultimo si riferisce a una pietraia composta da sassi di dimensioni più piccole e può riferirsi ad accumuli pietrosi di origine artificiale, per esempio derivanti dall’azione di spietramento dei campi». La voce in esame deriva, secondo il FEW (VI: 942) dal latino QUASSUS, ‘rotto, spezzato’ (perfetto di QUATĔRE). Per una discussione dell’etimologia della radice, si veda Rivoira (2012a: 64-65). Tale attestazione non era però presente in Alibert (1966: 224), che traduceva clapièr semplicemente come «tas de pierres». Una versione leggermente modificata di questa carta sarà presto disponibile anche in Pons (2017), dove si accennano alcune questioni che qui vengono sviluppate compiutamente.

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CAPITOLO IV FONTE

PAG. S.V.

REP

399 ciapél/chapé

DOc

241 71

Faure

97 352 448

Domenge

42

Baccon Bouvet

30

Masset

28

Breuza Baret

x 306

Pons

56

Pons/Genre

74

Sappé

33

Bernard

342

Rabo Bruna Rosso Dao Conte

207

74

DEFINIZIONE

NOTE

ciaplé pietraia, mucchio di pietre G; lastra di (pietraia pietra BR GR) clap clapier pietraia (ciotola, coccio) cage à lapins clapier clapier (tas de pierres clapier au bord des champs) pierraille clapier tas de clapier pierres tas de pierres amoncelées lou clapier (Bo, R, BT, I, St-E, St-D, par Ma, Il) – la cas, l’acas, la clapiero (St-E) l’homme A la Bolline “En acas”: petit tas de (provenant grosses pierres dans un pré (plus petit de qu’un clapièr) épierrement, de mise en culture) grosso mucchio di pietre presente clapī talvolta al margine del campo; casa diroccata mucchio di pietre tra campo e campo, clapiē nella zona di Rochemolles x x clapìe pietraia mucchio disordinato di pietre ai clapìe margini dei campi, pietraia mucchio disordinato di pietre ai clapìe margini dei campi, pietraia chapé pietraia, mucchi di pietra mucchio di pietre composto in modo ordinato, specie quando il materiale è quiapier destinato a costruzione. Meno curato il quiapier che si forma pulendo i prati pietra mucchio di pietre (chiapìe)

x

x

x

x 43

x pietraia

x quiapìer

ANALISI SEMANTICA FONTE Cesana Ghiberti Artusio

PAG. S.V.

DEFINIZIONE

42 x 36

pietraia x chapée

chapé x muretto a secco

Giordano

52

quiapée

muretto di pietra a secco

Aa Vv (Limone)

14

chaper

muretto

NOTE

quiapera (pietraia) chapera (pietraia)

Le accezioni individuate per il termine clapìe, nell’area delle Alpi Cozie, sono dunque quattro: ‘pietraia’ (intesa in senso generico), ‘spietramento’ (ovvero accumulo di pietre lentamente costruito dall’uomo per liberare campi e prati dalle pietre), ‘stoccaggio’ (cumulo ordinato di pietre da costruzione) e ‘rudere’ (macerie originate dal crollo di un fabbricato). Nell’area limitrofa, sono inoltre attestate le accezioni di ‘muro a secco’30 (in Valle Vermenagna, dove il significato di ‘pietraia’ è legato alla forma femminile quiapera/chapera31) e di ‘conigliera’ (oltralpe, cfr. sopra). L’accezione più generica di ‘pietraia’, che in qualche modo racchiude le altre, è anche la più difficile da definire compiutamente: per quanto riguarda i dati raccolti con il questionario semasiologico, è doveroso segnalare che non necessariamente affermare che «il termine può anche indicare la pietraia di origine naturale» significa che «tutte le pietraie possono essere indicate con questo termine»; per quanto riguarda i dati estrapolati dai vari dizionari, non possiamo escludere che la definizione di ‘pietraia’ rispondesse anche a un’esigenza di sintesi o di corrispondenza con l’italiano. Pur con le necessarie cautele, emerge tuttavia la presenza di un’area, corrispondente all’incirca a quella delle Valli Valdesi, in cui la definizione più generica affianca sistematicamente (o, in alcuni casi, sostituisce) le accezioni più specifiche. Si noti che l’area in cui il tratto /+/ARTIFICIALE/ non sembra pertinente nella definizione del significato di clapìe (che può dunque indicare sia una ‘pietraia naturale’ sia una ‘pietraia da spietramento’) è anche quella in cui la caso viene distinta dal primo termine (anche) in base ai tratti /+DI GRANDI ROCCE/ e /+ESTESA/, e non soltanto per il suo essere stata originata da cause naturali32. L’accezione ‘pietraia da spietramento’ è la più diffusa nell’area, sia sulla base dei risultati dell’inchiesta semasiologica (in tutte le località il termine indica anche le ‘pietraie da spietramento’) sia sulla base delle attestazioni lessicografiche (che, in questo caso, sono indizio sicuro della pertinenza del tratto /+ARTIFICIALE/ nella definizione del significato del termine). L’importanza della pratica dello spietramento nell’ambiente alpino è testimoniata anche dalle espressioni fraseologiche sui clapìe, che sembrano spesso far riferimento proprio a quest’accezione del termine: tant ëd pro tant ëd clapìa, “tanti prati tante pietraie” (Prag. RG-M-51), dunque per avere un prato bisogna aver radunato le pietre in una pietraia; touttâ lâ péira van â clapìe, “tutte le pietre vanno alla 30 31 32

Si noti che quest’accezione era stata elicitata anche ad Argentera (cfr. sopra) durante il primo ciclo di inchieste, ma non ha trovato conferme durante la II fase, e non è dunque stata inserita nel Lessico. Il legame fra specializzazione semantica (‘pietraia artificiale’ / ‘pietraia naturale’) e alternanza morfologica è messo in luce, sempre a proposito del tipo clapier/clapière, anche da Bessat/Germi (2001: 117). Va segnalato che in toponomastica «les toponymes clapier/clape/clapasse s’appliquent essentiellement à des formations naturelles (pentes pierreuse, amas de blocs résultant d’éboulements)» (Bessat/Germi 2001: 117).

75

CAPITOLO IV pietraia” (Mass. PG-F-39): quest’ultimo proverbio, attestato anche a Pramollo, ironizza sul fatto che quando una persona è già ricca è più facile che riceva ulteriore ricchezza, evocando il gesto di raccolta delle pietre a bordo del campo. A conferma della rilevanza paesistica delle pietraie, possiamo citare altre due espressioni fraseologiche, che sembrano potersi riferire a qualsiasi ammasso di pietre: pâ èse boun a troubâ uno péiro ënt un clapìe, “non essere capace di trovare una pietra in una pietraia, cioè essere inetto, incapace” (Pons/Genre 1997: 74); Vau mielh abeurar un clapier qu’un notari, “è più facile dissetare una pietraia piuttosto che un notaio” (Faure 2009: 5). L’accezione di ‘stoccaggio’, mucchio ordinato di pietre nei pressi di un centro abitato33, ha sicure attestazioni a Bellino (dove era anche stata testimoniata durante il primo ciclo di interviste) e a Elva, oltre a rientrare nel significato del termine a Massello e a Bobbio Pellice. Indirettamente, la pratica di usare le pietre tolte dai campi come materiale di costruzione è testimoniata anche dall’informatore di Pramollo, che nota come nei pressi delle borgate non ci fossero dei [klaˈpia], «perché le pietre venivano usate per la costruzione» (→clapìe). L’accezione di ‘rudere’, probabilmente mediata da espressioni del tipo Mac un quiapìer! “Solo un mucchio di pietre!” (Elva AG-M-44), usate per riferirsi a una catapecchia, è stata testimoniata dagli informatori di Elva e di Pragelato, e trova riscontro nel dizionario di Salbertrand (cfr. tabella I)34. La domanda semasiologica sulle crasillha non ha riscontrato termini polisemici o varianti semantiche nell’area, se si esclude la compresenza, nel significato del termine, dell’accezione ‘detriti minuti’ (dovuti alla disgregazione naturale delle rocce) e dell’accezione ‘pietraia di detriti’, che fa del termine un nome collettivo (→crasa, →crasillha). Il quesito si è però rivelato produttivo dal punto di vista onomasiologico, poiché il significato di ‘pietraia di detriti’ è presente in tutta l’area, dove però si coagula in significanti diversi: il citato [bjaˈzis] a Bobbio Pellice (→biazis), [saˈbjelo] a Bellino35 (→sabiélo) e [saveˈlier] ad Argentera (→savelìer). Come accennato nella nota 22, il termine gravìëro non è in uso (pur essendo conosciuto, cfr. →gravìëro) nelle località di Pramollo, Ostana e Argentera, mentre a Salbertrand è in uso la forma maschile gravî. Tale assenza è facilmente interpretabile alla luce del significato principale del termine, ‘greto del torrente’: in queste località (poste sul versante o alla sommità di una valle) i corsi d’acqua non hanno una portata tale da formare, lungo il loro corso, delle ampie distese di ciottoli e sabbione. Laddove il termine è presente, il suo significato si articola secondo due accezioni, l’una principale, attestata in tutte le località indagate, ‘greto del torrente’, l’altra probabilemente derivata, ‘terreno magro sito in prossimità di un corso d’acqua’, attestata a Salbertrand, Bobbio Pellice, Bellino36 ed Elva. Questa seconda accezione rende il termine periferico, all’interno del 33 34 35 36

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Questa stessa accezione, a Ostana e Argentera, viene resa con il ricorso al generico baroun (mucchio, →baroun (d’ péire)), con il determinante “di pietre”. Le parlate dell’area conoscono anche, per indicare propriamente il rudere, il termine →chazâl, rilevato anche dall’ALEPO (cfr. sopra). Il termine trova riscontro anche nel dizionario di Bernard (1996: 365), che lo definisce «ghiaione, pietraia minuta ai piedi delle pareti rocciose». Si noti che, in questa località, un’informatrice ipotizza che il termine sia riconducibile a gravaso («rabarbaro alpino o rabarbaro dei frati» Bernard 1996: 204), pianta che cresce nei luoghi umidi, fornendo l’esempio di un bel processo di paretimologia.

ANALISI SEMANTICA campo semantico: alcuni elementi della classe gravìëro, infatti, non possono essere considerati delle ‘pietraie’, essendo il termine riferito, in certe località, ad appezzamenti di terreno con un valore economico, seppur marginale. Con il significato di ‘grève’, il termine è attestato anche in Linguadoca (Laux 2001, s.v. gravièra e Alibert 1966: 439), mentra non è riportato dal REP, a meno di non ipotizzare un’affinità con la voce garavela, definita ‘calcinaccio, maceria’ e ‘rottame di fabbrica’, ma non ‘greto del torrente’. Interessante notare, a livello semantico, il passaggio referenziale dal greto ai prati limitrofi e ai terreni recuperati dopo le alluvioni tramite lo spietramento, che allontana il termine dal suo legame con le pietre, a cui è invece legata la sua etimologia (ricondotta da REW e FEW al termine gallico *GRAVA, ‘pietra’, cfr. Rivoira 2012: 103); come per clapìe ‘rudere’, anche in questo caso il passaggio di significato potrebbe essere stato favorito da un’espressione fraseologica, registrata a Massello: moun prà l’e moc uno gravìëero, “il mio prato è soltanto un ammasso di pietre e sabbia”, detto di un terreno magro e pietroso (→gravìëro). Anche per quanto riguarda il campo semantico delle ‘pietraie’, la definizione di una tassonomia presenta una serie di criticità tali da suggerire una certa cautela. Tuttavia è interessante notare come emergano qui dei tratti distintivi che non sono lessicalizzati nella lingua nazionale, e hanno bisogno, per essere espressi, di ampi sintagmi. Nel tentativo di organizzare i termini che indicano le ‘pietraie’ secondo lo schema emerso durante l’analisi, un criterio dirimente sembra essere quello dell’origine di questi accumuli rocciosi: come abbiamo visto, questi possono essere costruiti dal lavoro dell’uomo, originati dal disgregarsi delle pareti montuose o frutto dello scorrere delle acque. Naturalmente, anche lo sfaldamento dei fianchi vallivi è determinato dall’erosione, nella quale l’acqua interviene sia allo stato liquido, con il dilavamento dei versanti, sia allo stato solido, con l’azione del gelo. Tuttavia i greti dei torrenti sono caratterizzati dallo scorrere pressoché incessante dei corsi d’acqua, e questo li distingue nettamente (nelle denominazioni dei parlanti) dalle pietraie che si possono rinvenire nei canaloni che restano asciutti per larga parte dell’anno. Il campo semantico sembra articolarsi ulteriormente, nell’ambito delle pietraie originate dallo sfaldamento della montagna, in base alla dimensione e alla natura minerale delle pietre che le compongono: si possono così distinguere gli ammassi di detriti dagli ammassi di pietre e massi. Come si è evidenziato nella trattazione, il termine polisemico clapìe non si lascia classificare in modo univoco, ed è necessario farlo rientrare sia nella categoria delle ‘pietraie originate dallo sfaldamento della montagna’ > ‘formate da pietre e (massi)’ sia nella categoria delle ‘pietraie originate dal lavoro dell’uomo’. 1. sfaldamento montagna /+ DI DETRITI/ crasillha biazis sabiélo savelìer

/+ DI PIETRE E MASSI/ caso clapie

/ORIGINE 1, 2, 3/ 2. scorrere delle acque gravìero

3. lavoro dell’uomo clapìe

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CAPITOLO IV IV.2.3. LE FRANE Dopo aver individuato nell’origine delle pietraie il criterio dirimente per la loro classificazione, passiamo a trattare degli eventi naturali che hanno prodotto alcuni di questi accumuli di materiale: le frane. L’interesse di questo campo semantico a livello lessicale emerge dalla ricchezza di tipi raccolti nelle due voci dell’ALEPO a queste dedicate; alla voce frana di pietre, accanto ai termini coetimologici del francese ruine e dell’italiano frana, si sono riscontrati: [vaˈlɛŋɡ] e [vaˈlaŋɡa] (Rocca Canavese e Bibiana), [ˈdrydːza] (Campiglia), [ɡəzəŋˈʧeʎ] (Novalesa), [ʧaˈpra] (Val della Torre), [eʧaˈrɛi̯na] (Mattie), [kuˈla] (‘colata’, Coazze), [ei̯kaˈjas] (Perrero), [vɛl] (Argentera), [sˈkwitˑɛ] e [ratamuˈliŋ] (Entracque), [ˈbui̯ra] e [ˈbyra] (Limone Piemonte e Frabosa Soprana) [ˈʒliʤa] (Briga Alta) e [baraŋˈkuŋ] (Pamparato). La maggior parte di questi tipi ricorrono anche alla voce frana di terra. In considerazione della ricchezza onomasiologica delle voci, si è scelto, nel primo questionario, di inserire soltanto tre termini, un paio dei quali molto diffusi, ruìno e frano (noto anche per influsso dell’italiano) e l’altro più localizzato (eicaias) che sembrava indicare più propriamente uno smottamento, una frana di scivolamento che si realizza in presenza di terreni poco coerenti e molto imbevuti d’acqua. Le definizioni emerse durante la prima fase dell’inchiesta (alcune delle quali vengono presentate di seguito, sotto forma di note o di etnotesti) non lasciano intravedere una tassonomia condivisa, e confermano l’ampia diffusione dei primi due termini (riconosciuti in tutte le località, con l’eccezione di Salbertrand per ruìno) di contro alle attestazioni localizzate nelle Valli Valdesi del terzo: frano «[ˈfroːna li po ˈese d ˈpei̯rə d tɛr u d neu̯ ˈaŋke lu klei̯ˈzuŋ a maˈʎa diˈzeŋ l a tut fraˈna]» “[nella] frana ci possono essere pietre, terra o neve; anche [se] il Chisone ha mangiato [gli argini] diciamo che è tutto franato” (Prag. AB-F-27); «è più grande di un [ei̯kaˈjas]; dovesse cadere un terrazzamento, si dice comunque [l a fraˈna]» (Mass. ET-F-45). ruino «[laz aˈrwina] sono più piccole delle frane» (Prag. AB-F-27); «[la ˈkuːlə əm pjaˈlet d tɛr [...] pøi̯ u b l raˈteːl d ˈprimːə uz akloˈtovi]» “scivola un pezzetto di terra […] poi con in rastrello in primavera lo si appiattisce” (Prag. IL-F-42); «è quando frana della terra più che delle pietre» (Mass. ET-F-45); «è una frana, di terra e pietre» (Bobb. AC-M-48); «[la ˈdryno] a volte c’è della roccia, ma non sempre, non è tanto grande, oggi si dice [ˈfrano]» (Ost. OL-M-43); «è una frana che parte dal Pelvo e arriva fino al Varaita» (Bell. GAR-M-49); «è la grossa frana, di solito parte dai [saveˈlier] quando piove molto» (Arg. PR-M-46). eicaias «è una slavina di neve più piccola di una valanga; [l a ei̯kajaˈsa] si dice anche della terra. Quando a cadere sono delle pietre si dice piuttosto che [l a fraˈna]» (Mass. ETF-45); «è una piccola frana, di neve o di terra» (Pram. RS-M-28).

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ANALISI SEMANTICA Nel prosieguo dell’indagine si è lasciato da parte il termine frano, il cui significato è parso ovunque sovrapponibile a quello italiano, per concentrare la ricerca su ruìno e eicaias. Di quest’ultimo termine, che sembrava indicare il piccolo smottamento, si è indagata la composizione (di terra e/o di neve) e si sono ricercati i geosinomini; per quanto riguarda invece il termine ruìno si è cercato di inserire un ampio ventaglio di possibili accezioni, nella speranza di riuscire meglio a definirne il significato: è un piccolo smottamento di terra (Pragelato)? è una grande frana? è una frana di terra? è una frana di pietre?

I risultati della seconda inchiesta (cfr. tabella II) sembrano indicare che, nella definizione del significato di ruìno, la qualità del materiale che frana non è rilevante: in tutte le località il termine può essere usato sia con il senso di ‘frana di terra’, sia con il senso di ‘frana di pietre’ (sia, come hanno spesso precisato gli informatori, con il significato di ‘frana di terra e pietre’). In due località (Salbertrand37 e Ceillac) il tipo lessicale non è attestato con il significato di frana, bensì con il significato di ‘rovina, rudere’ (→ruìno), che corrisponde anche al francese ruine38 e all’italiano rovina39. Meno uniformi sono invece i giudizi di accettabilità per quanto riguarda le accezioni di ‘piccolo smottamento di terra’ e di ‘grande frana’: se quest’ultimo senso è escluso soltanto dal significato del termine a Pragelato (cfr. sopra), il senso di ‘smottamento’ è stato ritenuto inaccettabile da almeno un informatore a Massello, Bobbio Pellice, Ostana40, Bellino ed Elva. tabella II. Le accezioni del termine ruìno nelle diverse località LOCALITÀ Salbertrand Pragelato Massello Pramollo Bobbio Pellice Ostana Ceillac Bellino Elva Argentera

37 38 39 40 41

PICCOLO SMOTTAMENTO DI TERRA

GRANDE FRANA

FRANA DI TERRA

FRANA DI PIETRE

+ +/-41 + +/-

+ + + +

+ + + + +

+ + + + +

+/+/+

+ + +

+ + +

+ + +

Si noti che Baccon Bouvet (2009: 260) definisce il termine rünä come «la “rovina” causata dallo straripamento», definizione probabilmente motivata dal toponimo la Runa (cfr. ATPM 20: 168) che indica dei terreni alluvionali. Il tipo è attestato con questo significato anche in vivaro-alpino (Grange 2008, s.v. ruina). Il DELI segnala che, già in epoca classica, il plurale di RUĪNA(M) era attestato con il senso di ‘edifici rovinati’. La forma registrata a Ostana, [əndryˈno], è stata trattata insieme alle forme del tipo ruìno per la probabile affinità, ma nel Lessico è lemmatizzata s.v. ëndrunò. La compresenza dei segni + e – indica un disaccordo fra i diversi informatori della località sull’accettabilità del senso per il tipo ruìno.

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CAPITOLO IV Tale oscillazione può essere imputata all’etimologia di ruìno, che potrebbe far pensare a una frana che scende rotolando più che allo scivolamento del terreno intriso d’acqua, e/o essere correlata alla sovrapposizione, per la seconda accezione, con il termine eicaias e i suoi numerosi geosinonimi. Quest’ultimo lessotipo, attestato nella forma proposta soltanto a Massello e a Pramollo (con il significato polisemico di ‘piccolo smottamento di terra, piccola slavina’), ha fra i suoi geosinonimi le forme femminili [kajaˈrɛlːa], attestata a Bobbio Pellice come ‘piccolo smottamento di terra’ e [kaˈjasːo], attestata a Ceillac come ‘piccola slavina, frana di pietrisco’, probabilmente da ricondurre, come eicaias, al verbo caiar, “cagare” (DOc 2008: 235). Si noti in tal senso che il sostantivo èicaiàs è definito nel dizionario di Giaglione come «sterco degli uccelli e volatili da cortile» (Aa Vv 2011, s.v.). Alla luce di questa metafora, che testimonia il passaggio di significato dall’azione del defecare allo smottamento del terreno, è interessante il geosinomo elicitato a Bellino, [ˈfui̯ro] (→fouiro), che oltre allo smottamento indica anche la diarrea42 (cfr. anche Bernard 1996: 176). Il significato di ‘smottamento di terra’, oltre a poter essere indicato quasi ovunque con il tipo ruìno, sembra disporre di un significante dedicato in tutte le località d’inchiesta, con l’eccezione di Elva, sebbene vi sia una grande varietà onomasiologica, come emerge dalla tabella III. tabella III. I termini per indicare lo ‘smottamento di terra’ LOCALITÀ SIGNIFICANTE SIGNIFICATO Salbertrand [ei̯puˈla, ipuˈla] ‘smottamento di terra’ Pragelato [vaˈke, vaˈki] ‘smottamento di terra’ Massello [ei̯kaˈjas] ‘piccola slavina, (piccolo smottamento di terra)43’ Pramollo [ei̯kaˈjas] ‘piccola slavina, piccolo smottamento di terra’ Bobbio Pellice [kajaˈrɛlːa] ‘piccolo smottamento di terra’ [ˈbutːa] Ostana [ˈbabi] ‘rospo, piccolo smottamento di terra’ Ceillac [kaˈjasːo] ‘piccola slavina, piccolo smottamento di [ˈmolo] pietrisco’ ‘smottamento di terra’ Bellino [ˈfui̯ro] ‘diarrea, piccolo smottamento di terra’ Elva Argentera [vɛl] ‘vitello, piccolo smottamento di terra’ Sembra possibile individuare ulteriori spostamenti di significato: il termine babi, che in tutto il Piemonte e in ampie zone del nord ovest d’Italia indica il rospo (cfr. AIS, carta 455), così come nell’area orientale del dominio occitano (cfr. Lebre, E./Martin, 42 43

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Si noti che alcune fra le forme elicitate dall’ALEPO (e riportate in apertura del paragrafo) potrebbero avere, fra le diverse accezioni, anche quella di “deiezione, sterco”. La seconda accezione è posta fra parentesi perché è stata valutata come accettabile durante il primo ciclo di interviste, ma non durante il secondo, quando entrambi gli informatori hanno sostenuto che il termine significasse soltanto ‘piccola slavina’.

ANALISI SEMANTICA G./Moulin, B. 2004 e Faure 2009, s.v.) a Ostana è passato a indicare (anche) lo smottamento di terra; un altro termine il cui significato rimanda al campo semantico degli animali, particolarmente fecondo per gli spostamenti di significato44, è vèl, che indica il vitello in tutto il Piemonte alpino (cfr. AIS, carta 1046) e che è passato a indicare lo smottamento ad Argentera e a Saint Etienne de Tinée, dove lou vièl vale sia ‘la coulée de terre, l’éboulemenet, le terrain glissant’ sia ‘le veau’ (Domenge 2014: 42 e 265). Un’ulteriore prova del passaggio di significato (che potrebbe escludere che si tratti di un caso di omonimia) ci viene dall’attestazione, sempre ad Argentera, del verbo veilar, ‘partorire un vitello’45, nel senso di ‘franare’. Il passaggio di significato dal (parto del) vitello alla frana è documentato anche dall’ALEPO, non solo per il punto di Argentera ma anche, probabilmente, per il punto di Bardonecchia, dove alla voce frana di terra è attestata la forma [iɱ veːˈla]46. Resta da chiedersi se le forme vaqué, vaquì elicitate a Pragelato provengano da un analogo passaggio di significato: sebbene l’assonanza con la parola vacca sia evidente, bisogna infatti considerare che nella parlata del luogo si registra l’affricazione di [-k-], che porta alla forma [ˈvatːsə] per indicare il bovino. Mentre è possibile cogliere una certa analogia fra lo sgravarsi della vacca e lo smottamento, meno chiare sono le motivazioni che potrebbero aver portato il termine babi a indicare anche la piccola frana di terra, a meno di non voler ricercare l’analogia nel fatto che entrambi tendono a uscire con le grandi piogge, nel passaggio attraverso il sostantivo derivato bâbiâ, «panciata, urto conseguente a caduta» (Pons/Genre 1997: 24) o, invece, in una qualche somiglianza morfologica fra gli smottamenti e i panciuti anfibi47... Non si trovano facili riscontri per le forme di Bobbio Pellice (→boutta), che potrebbe corrispondere alla forma in uso a Villar Perosa per indicare la placenta della vacca, di Salbertand48 (→ipulà) e di Ceillac (→molo), sebbene quest’ultimo termine si presti a un collegamento con l’aggettivo mòl, -a, attestato da Faure (2009) s.v. ‘veule’49. Al termine della carrellata dei geosinonimi indicanti propriamente il piccolo smottamento, si possono avanzare alcune considerazioni conclusive sulla strutturazione di questo campo semantico. L’impressione è quella di essere di fronte a un genericismo, ruìna, che può riferirsi a qualsiasi distacco di materiale dal pendio, nonché all’accumulo di materiale stesso, una volta che la sua rovina si sia arrestata. Tale genericismo è affiancato in molte località dall’italianismo frano che, sostituendosi spesso al primo nell’uso, contribuisce probabilmente ai dubbi sul significato di ruìno emersi dalla tabella 44 45 46 47

48 49

Questo fenomeno è stato spesso interpretato in chiave totemica: per un primo approfondimento del tema, si può far riferimento a Caprini (2014) e alla relativa bibliografia. Si veda per esempio Bernard (1996: 443), s.v. veilar, «sgravarsi del vitello. “Aver mal da veilar”: detto di bovina che ha le doglie». La forma non è attestata con questo significato da Masset (1997), ma si ritrova il tipo lessicale, s.v. vḗlâ, «partorire il vitello». Interessante notare, per inciso, come nel dizionario di Rochemolles compaia un ulteriore tipo lessicale per indicare lo ‘smottamento’: eṟoutà, eṟoutàou. Può essere interessante confrontare le denominazioni rilevate per le frane con lo studio di Benozzo (2011) sui nomi totemici del paesaggio, nel quale si ipotizza una motivazione tabuistica all’origine delle denominazioni della valanga, arrivando a concludere che «l’antenata totemica divent[a] e ridivent[a] frana e slavina, e continu[a] a manifestarsi nei paesaggi attraverso le parole con cui li nominiamo» (ivi, 15). Il termine trova regolarmente riscontro nel dizionario di Baccon Bouvet (2009: 55). Per l’area italiana, si veda ad esempio Pons/Genre (1997: 209), s.v. mol, -llo: «1. molle, umido. 2. floscio, moscio».

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CAPITOLO IV II. Tali dubbi si concentrano soprattutto sull’accezione ‘piccolo smottamento di terra’, anche per la concorrenza dei molti termini specifici per indicare quest’ultimo. In questo caso, i rapporti fra il genericismo e i molti geosinonimi indicanti lo smottamento potrebbero essere rappresentati come quelli fra due insiemi:

ruìno ‘smottamento’

Se è vero che per la maggior parte degli smottamenti si può parlare anche di ruìno (ma non dappertutto), non è invece vero che ogni ruìno può essere indifferentemente chiamata anche eicaias, vèl, fouiro, a seconda delle località. IV.2.4. LA ROCCIA COMPATTA Il lessico geografico è ricco di termini per indicare le frane e gli accumuli di detriti ma, nella descrizione dello spazio alpino, anche le pareti di roccia compatta hanno le loro (diverse) denominazioni. Dalla lettura della voce ALEPO V-I-41 parete rocciosa sembra emergere una scarsa lessicalizzazione del concetto, che spesso viene reso ricalcando il sintagma italiano: questo dato va forse collegato al fatto che, prima dell’avvento dell’alpinismo50, le pareti rocciose dovevano essere considerate ambienti ostili e poco frequentati. Tuttavia, non mancano attestazioni di termini che indicano propriamente la ‘parete’, come [ruˈʦia] a Sestriere, [ruˈʧiːe] a Perrero e [rukaˈɹai̯] a Pamparato. Fra i vari termini che sembrano rinviare a un significato diverso da quello di “parete” (come ‘altura’ e ‘cengia’) rivestono un particolare interesse le attestazioni di Ribordone, Novalesa, Oncino e Limone Piemonte, dove ricorre il tipo laouzìëro, che indica dei lastroni di roccia inclinata e compatta. Quest’ultimo termine è stato inserito nel questionario I, insieme alle diverse parole formate sulla base roc- (cfr. sopra, § IV.2.1). Fra queste ultime citiamo [ruˈʧie], attestato a Massello come ‘roccia enorme, una parete’ e [ruˈʧas], attestato a Elva come ‘parete di roccia accidentata’. Di seguito, riporto alcune definizioni dei termini del tipo laouzìëro raccolte durante il primo ciclo di interviste (i cui risultati, ricordo, non sono integrati nel Lessico). laouzìëro «[la luˈzjera] è un posto in cui si cavavano le lose» (Salb. CB-F-30);

50

82

Cfr., sul mutare della visione della montagna con la cartografia e con l’alpinismo, Fantoni et alii (a cura di 2016).

ANALISI SEMANTICA «è un posto pericoloso da attraversare, è una roccia liscia, senza appigli, non ha una pendenza eccessiva, altrimenti si parla di precipizi» (Mass. ET-F-45). «Ce n’è una nel torrente, che impedisce alle trote si risalire la corrente. È dove si andavano a togliere le lose. È una pietra liscia» (Bobb. AC-M-48); «la lau̯ˈzjero es əŋ tok də la part də munˈtaɲo pa ˈdreʧo ma py pjaˈnestro nte pos ʧamiˈna sys ... na ˈlau̯zo ... na ˈroʧo» “la laouziéro è un pezzo del versante della montagna non scosceso ma più pianeggiante, sul quale si può camminare … una lastra di pietra, una roccia” (Bell. GAR-M-49); «la [lau̯ˈzjero] è la cava di roccia, la [lau̯ziˈrolo] è la parete inclinata, su cui si scivola» (Elva FB-M-48).

Da queste prime spiegazioni emergono chiaramente, oltre ad alcune esitazioni sulla transitabilità o meno di queste zone, due accezioni: l’una che rimanda alla ‘cava di lose’, l’altra che rimanda a dei ‘lastroni di roccia inclinata’. Prima di proseguire con la trattazione, è bene definire il regionalismo ‘losa’: il termine, presente in spagnolo51 con (anche) il significato di «piedra llana y de poco grueso, casi siempre labrada, que sirve para solar y otros usos» (DLE, s.v. losa) e in francese regionale, «pierre plate détachée par lits et utilisée comme dalle ou pour couvrir les bâtiments» (TLFi, s.v. lause), deriva da una base prelatina LAUSIAE ‘lastra di pietra’ (REW 4946), e ha continuatori, con uguale significato, anche nelle parlate occitane esaminate (→laouzo). Ritornando al tipo laouzìëro, lo troviamo attestato in tutti i punti d’inchiesta, ad eccezione di Pragelato (dove «le lose arrivano dalla bassa valle», →laouzìëro); in alcune località è registrata soltanto l’accezione ‘cava di lose’ (Ostana e Ceillac), in altre soltanto l’accezione ‘lastroni di roccia inclinata’ (Pramollo, Bobbio Pellice, Bellino e Argentera), in altre ancora entrambe (Salbertrand, Massello, Elva). Le attestazioni lessicografiche del tipo sono modeste, in particolare il termine non risulta attestato in nessuno dei dizionari che lemmatizzano soltanto l’italiano: quest’assenza è probabilmente da imputare, più che a una mancanza della parola, alla difficoltà di trovare un corrispettivo sintetico nella lingua nazionale. Dalla carta II emerge come le località in cui le due accezioni sono compresenti siano una minoranza: per lo più, i termini del tipo laouzìëro indicano l’una o l’altra (senza una evidente coerenza areale). Da notare, nei punti di Elva e di Bellino, come alle due accezioni corrispondano due diverse suffissazioni della base laouzo: -

-

51

a Bellino, secondo Bernard (1996), loouziero vale ‘lastrone di roccia affiorante dal terreno’, mentre loouzier (al maschile) vale ‘deposito di laouzes’: coerentemente, gli informatori della località sostengono che il tipo proposto durante l’inchiesta abbia la sola accezione di ‘lastroni di roccia inclinata’; a Elva, secondo Bruna Rosso (1980), lausiero vale ‘banco di rocce dove si estraggono lose’, mentre lausirolo (sempre al femminile, ma con suffisso diminutivo) vale ‘roccia liscia e disposta a lastroni’: tale distribuzione dei significati è confermata dall’informatore FB-M-48, mentre l’informatrice CBR-F-33 ammette entrambe le

L’attuale distribuzione del termine ha spinto alcuni (come Meyer-Lubke o Alessio) a considerarlo di origine iberica (per una rassegna, cfr. Bronzat 1982).

83

CAPITOLO IV accezioni per il primo termine, e AG-M-44 addirittura le inverte, dando per valida per il termine laouziéro soltanto l’accezione ‘lastroni di roccia inclinata’. Questa situazione, se da un lato ci testimonia la pertinenza della distinzione fra un affioramento di roccia naturale e una località sfruttata dall’uomo per l’estrazione di lastre di pietra da costruzione (che a uno sguardo esterno potrebbe sembrare non dirimente, trattandosi in definitiva di composizioni minerali simili se non identiche), dall’altra ci restituisce anche le difficoltà metalinguistiche in cui incorrono gli informatori nel dover circoscrivere il significato di un termine, specialmente quando questo non è (più) di uso comune: nessun informatore, infatti, ha più esperienza in materia di estrazione di lose. carta . II Carta semasiologica laouzìëro → si veda in coda alla sezione tabella IV. Attestazione lessicografiche del tipo laouzìëro FONTE PAG. S.V. DEFINIZIONE Genta/Santacroce 146 louzéri cava da cui si estraggono le lozeus Aa Vv (Giaglione) x x x REP x x x DOc 290 lausiera lastrone 29 ardoisière lausiera Faure carrière 77 lausiera (de dalles) Domenge x x x Baccon Bouvet x x x Masset x x x Breuza x x x Baret x x x roccia liscia ed unita a lastroni che si Pons 152 louzìëro sfaldano facilmente roccia liscia e unita a lastroni che si Pons/Genre 183 laouzìëro sfaldano facilmente roccia liscia e unita a lastroni che si sfalda Sappé 52 laouzìra facilmente deposito di “laouzes”. Queste, per evitare 241 loouzier rotture, vengono sempre sistemate Bernard verticalmente, una contro l'altra lastrone di roccia affiorante dal terreno. 2. 241 loouziero soprannome di una famiglia dei Peyrache. Rabo 44 lauzièro cava di tegole di pietra 103 lausiero banco di rocce dove si estraggono lose Bruna Rosso si dice di roccia liscia e disposta a lastroni 103 lausirolo e che perciò si può facilmente sfaldare Dao x x x Conte x x x Cesana x x x 84

ANALISI SEMANTICA FONTE Ghiberti

PAG.

x

S .V. x

Giordano

35

lausera

Artusio Aa Vv (Limone)

x x

x x

DEFINIZIONE

x cava di ardesia, zona rocciosa formata da ardesia x x

Se per la roccia compatta inclinata non si sono rilevati geosinonimi52, diverso è il caso della parete verticale, che, a fronte di un significato meno definito, presenta una maggior varietà di significanti. Il concetto di “parete” è polisemico anche in italiano: con l’aggiunta dell’aggettivo ‘rocciosa’ si intendono escludere dalla trattazione i sensi più comuni del termine per concentrarsi sull’accezione che il vocabolario Treccani definisce ‘alpinistica’; si intende dunque «fianco di roccia o di ghiaccio, assai ripido, di una montagna» (sebbene, per le Alpi Cozie, sia possibile escludere il fianco di ghiaccio, non essendovi nella catena montuosa dei ghiacciai perenni di rilievo). Di seguito, nella tabella V, si riportano i diversi termini elicitati nell’area d’indagine con (anche) il significato di ‘parete rocciosa’. tabella V. I termini per indicare la ‘parete rocciosa’ LOCALITÀ SIGNIFICANTE SIGNIFICATO Salbertrand [ruʃaˈsjɛra] ‘parete rocciosa’ [paˈreŋ] ‘parete verticale’ Pragelato ‘parete rocciosa, località in cui sono raccolti [ruˈʧia] molti massi’ Massello [ruˈʧie] ‘parete rocciosa, grosso masso isolato’ Pramollo ‘parete rocciosa, località in cui sono raccolti [ruˈʧia] molti massi’ Bobbio Pellice [barˈsaja, barˈsaʎa] ‘parete rocciosa’ [ˈbarma] ‘parete rocciosa strapiombante’ Ostana [ruˈʧaθ] ‘grossa roccia, masso, parete rocciosa’ [ˈbarmo] ‘parete rocciosa strapiombante’ Ceillac [ruˈʧas] ‘grossa roccia, masso, parete rocciosa’ [ˈbalmo] ‘parete rocciosa strapiombante’ Bellino [balˈsajes] (pl.) ‘parete rocciosa’ [paˈrei̯] ‘parete verticale’ Elva [barˈsajo] ‘parete rocciosa’ Argentera [ˈbalma] ‘parete rocciosa strapiombante’ I termini formati sulla base rouch-, con l’eccezione dell’attestazione di Salbertrand53 (→rouchas), risultano essere polisemici:

52 53

Se si eccettua, forse, il termine dalo elicitato a Ceillac (→laouzo, E1), probabilmente adattamento fonetico del francese dalle, «plaque rocheuse assez lisse» (TLFi, s.v.), che non trova facili riscontri nei dizionari occitani transalpini. L’attestazione trova riscontro in Baccon Bouvet (2009: 82), s.v. ruchasiéȓa, ‘roccaglia’ [?].

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CAPITOLO IV -

il tipo rouchas, accrescitivo di roccho, a Ostana e Ceillac ha due accezioni: ‘grossa roccia, masso’ e ‘parete rocciosa’; il tipo rouchìe, formato con il suffisso, piuttosto produttivo, -ìe(r) (