Paradossi
 8843051121, 9788843051120

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QUALITY PAPERBACKS Libri informativi, aggiornati e chiari, per rispondere alle esigenze e alle curiosità culturali di chi studia e di chi ritiene che nella vita non si smetta mai di imparare.

Un paradosso è una contraddizione che non riusciamo a eliminare: un uomo risulta essere vivo e morto, un oggetto sembra esistere e non esistere, una proposizione è vera e falsa contemporaneamente, e non c'è modo di risolvere il problema e prendere una decisione. Che cosa dobbiamo fare di fronte a evidenze di questo tipo? l'autrice suggerisce una risposta, esplorando Le più recenti teorie filosofiche sull'argomento e compiendo una ricognizione ragionata nel territorio dei paradossi oggi più frequentemente studiati. la Lettura non richiede specifiche conoscenze di Logica: ogni formalizzazione è immediatamente tradotta in termini informali e comprensibili per chiunque. Franca D'Agostini insegna Filosofia della scienza al Politecnico

Analitici e continentali (Milano 1997), Breve storia della filosofia nel Novecento (Torino 1999), Logica del nichilismo (Roma-Bari 2000), Disawenture della verità (Torino 2002), Le ali al pensiero. Corso di logica elementare (Torino 2003). Con Carocci editore ha pubblicato Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza. Dieci lezioni sulla filosofia contemporanea (2005).

di Torino. Tra i suoi Libri,

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ISBN 978-88-430-5112-0

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293

Nella stessa collana Le parole della filosofia contemporanea a cura di Luciano Floridi e Gian Paolo Terravecchia Dario Palladino Claudia Palladino

Logiche non classiche. Un'introduzione Achille C. Varzi

Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica Barbara Giolito

Intelligenza artificiale. Una guida filosofica

l lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Ca rocci editore Corso Vittorio Emanuele Il, 229 00186 Roma, telefono 06 42 81 84 17, fax 06 42 74 79 31

Siamo su: http:/ /www.carocci.it

http:/ /www.facebook.com l caroccieditore

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Franca D'Agostini

PARADOSSI

Carocci editore

3• ristampa, maggio 2014 1• edizione, settembre 2009 ©copyright 2009 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari ISBN

978-88-430-5112-0

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione

II

Simboli e altre convenzioni

I3

Parte prima Premesse r.

Che cosa è un paradosso?

19

r.r.

Due definizioni La definizione qui adottata

19 21

2.

Che cosa è una contraddizione?

27

2.r.

Esempi Precisazioni su contrarietà, inconsistenze, autocontraddizioni

27

Contraddizioni irriducibili

33

Neutralizzare le contraddizioni

33

Due tipi di paradossi

37

r.2.

2.2.

3· p. p.

r.2.r.

p.r.

3.2.r.

Esempi l 1.2.2. Una classificazione

Dissoluzione l 3.1.2. Riduzione

Affinità tra le due forme l p.2. Ricapitolazione

29

Parte seconda Quasi-paradossi 4·

Paradossi falsidici

45

4.1.

Paradossi veridici e falsidici

45 7

PARADOSSI

Dalle fallacie ai paradossi Oggetti impossibili?

46 50



Condizionali difettosi

57

p.

5 . 2. H·

La bottega del barbiere e altre illusioni cognitive Le ragioni degli errori Logica e pensiero comune

57 6o 62

6.

Probabilità

67

6.r. 6. 2. 6.3.

I taxi di New York Due tre e tre due La Bella Addormentata

67 69 72



Domande che vincolano la risposta e regole che obbligano a disobbedire

79

{.2. 4-3·

4·3·!. Raffigurare contraddizioni l 4.3.2. Percepire contraddizioni

6.p. Ricostruzione l 6.3.2. Sinossi

7· !. 7.2. 7-3· 7+

Il paradosso della domanda La domanda migliore Domande autoreferenziali e materiali Unexpected hanging

79

8.

Dilemmi

89

8.r. 8. 2.

Forma e origine dei dilemmi La soluzione dei dilemmi e i paradossi

89 93



Prigionieri

99

9·!. 9.2. 9 · 3· 9+

Il dilemma di Newcomb Il dilemma del prigioniero Altri dilemmi dell'azione sociale Dalla morale alla metafisica 8

8o 82 85

99 IO! 104 107

INDICE

IO.

Evidenze paradossali

III

IO.I. I0.2.

La verità e altri concetti Il paradosso della conoscibilità

III II6

Onniscienza e onnificienza Che cosa prova la prova di Fitch?

I20 I22

I0-3IO+

ro. 2.r.

La prova di Fitch-Church l 10.2.2. Strategie

Parte terza Mentitori e soriti II.

Mentitori

127

II.I. II.2. II.3. I1.4.

Varianti Come è fatto il mentitore Dinamica Mentitori senza negazione e senza autoriferimento

129 I3I I33 I37

I2.

Soluzioni

I43

I2.I. I2.2.

La soluzione gerarchica Truth value gap

I43 I46

12.3.

11.4.r. Il paradosso di Curry l 11.4.2. Il paradosso di Yablo l Cattura e rilascio

12.2.r.

Vendette l 12.2.2. Lo schema

T

Truth value glut

n.J.r.

1!.4-3-

Dialeteismo l 12.3.2. Esplosione

l 12-3-3-

151 Il dialeteismo e la

verità 12-4.

Quante contraddizioni?

13.

Soriti

13.1.

Forma e genesi del sorite

13.2.

13-I.I.

13.2.r.

13-3-

Parti e proprietà discrete l IJ. I.2. Il paradosso di Wang

Generalizzazione del problema Tutto è vago? l 13. 2.2. Diagnosi

Supervalutazionismo e logica fuzzy 9

1 68

PARADOSSI

14.

L'importanza pubblica della vaghezza

!77

14.!. 14.2.

Il dualismo oggetti-proprietà Perché è importante il problema della vaghezza

!77 179

Conclusioni

183

Elenco dei paradossi e quasi-paradossi trattati

189

Note

191

Riferimenti bibliografici

197

IO

Introduzione

Nell' analisi dei paradossi la filosofia ha fatto di recente molti passi in avanti. Buona parte della letteratura relativa però è poco nota al largo pubblico e agli studiosi di discipline che non siano strettamente interes­ sate al tema. Lo scopo di questo libro è offrire una ricognizione ragiona­ ta nel territorio dei paradossi oggi più frequentemente studiati, cercando di evidenziare che cosa, nei diversi casi, sia rilevante da un punto di vista filosofico generale, ossia comprensibile e interessante per chiunque. TI libro non prevede specifiche conoscenze di logica (e di epistemologia, di metafisica, di analisi del linguaggio) : ogni tipo di formalizzazione è im­ mediatamente tradotta in termini informali e normalmente comprensibili; i riferimenti a tesi tipiche della filosofia analitica sono resi il più possibile tra­ sparenti. Nelle pp. 13-6 vengono presentati in sintesi i simboli e le conven­ zioni terminologiche utilizzati nel seguito, in modo che chi dimenticasse il significato di un termine o un simbolo possa ritrovarlo rapidamente. Ecco in breve i contenuti del libro. La prima parte (CAPP. 1-3) è de­ dicata ai preliminari teorici generali, utili per orientarsi nei capitoli suc­ cessivi. Viene suggerita una definizione di "paradosso " , come contrad­ dizione resistente, ossia difficile da eliminare. Di fronte a un paradosso mi trovo a dover pensare o dire che un oggetto esiste e non esiste, ha e non ha una certa proprietà, o a dover compiere l'azione a e anche l'a­ zione � . ma non poter compiere l'una e l'altra, oppure mi trovo a dover credere che la proposizione p sia vera e che nello stesso tempo sia vera non-p, e non sembra esserci modo di scegliere o di aggirare il problema. Si esplorano quindi le tecniche comunemente usate per neutralizzare le contraddizioni e le forme in cui si presentano le contraddizioni irriduci­ bili, ossia i "veri" paradossi. È evidenziata una distinzione molto gene­ rale tra i paradossi che generano la forma "p se e solo se non-p " , ossia: " se p è vera allora è falsa, e se è falsa è vera" (il mentitore, e in generale le antinomie) e paradossi in cui tanto da una proposizione p quanto dal­ la sua negazione si deriva una certa conclusione q, che è una contraddi­ zione, o è falsa, ossia contraddice quel che sappiamo per certo (sono ri­ conducibili a questa forma gli argomenti noti come soriti) . II

PARADOSSI

Nella seconda parte, che comprende i capitoli dal 4 al w, inizia pro­ priamente il lavoro di ricognizione e vengono presi in esame argomenti e situazioni quasi-paradossali, ossia casi in cui la contraddizione "resiste" , m a solo fino a un certo punto: fino a quando non s i è capito e dimostrato che il conflitto è solo apparente, per esempio perché si deve a un errore preliminare di valutazione, o è basato su un uso discutibile delle parole, o sull'esistenza di diversi parametri che possono convivere, o più semplice­ mente perché uno solo dei due termini contraddittori sussiste o è vero. L'ultima parte (CAPP. n-14) riguarda i paradossi più difficili da risol­ vere: il mentitore e le sue varianti; il sorite e altri casi analoghi. Vedremo la struttura dei due tipi di paradossi e le soluzioni (e interpretazioni) pro­ poste per entrambi. Si vedrà inoltre che le due forme hanno affinità, ma i problemi in gioco sono diversi: nel caso del mentitore e di altre anti­ nomie siamo di fronte a problemi di chiusura, o di materialità (il lin­ guaggio parla di sé stesso) ; nel caso delle contraddizioni del tipo del so­ rite siamo di fronte a un problema di confini, o di limiti (il punto in cui una cosa cessa di essere o inizia a essere quel che è; inizia ad avere o smet­ te di avere una certa proprietà) . Un libro di questo tipo si estende in ampiezza più che in profondità. Per ciascun tema trattato in ciascun capitolo si potrebbe scrivere una mo­ nografia. Lo scopo del volume in effetti è offrire una visione generale, che fornisca il punto di avvio per studi ulteriori. Ciò non toglie che in alcuni casi (quelli che reputo più importanti) l' analisi si sviluppi in modo leg­ germente più approfondito. Inoltre, i paradossi trattati non sono tutti quelli che sarebbe possibile esaminare: mancano per esempio, tra i casi più classici, i paradossi della conferma ( di Hempel e di Goodman), e manca una trattazione specifica sui paradossi dell'infinito. Questi e altri paradossi (o quasi tali) di cui non si parla nel libro sono stati però ogget­ to di ampie analisi in anni recenti; dunque un lettore di normali compe­ tenze non avrà difficoltà a trovare risorse per informarsi ulteriormente. Le conclusioni collocano l'intero discorso all'interno di un quadro culturale più ampio, che riguarda il senso e l'utilità delle teorie sui para­ dossi negli ultimi decenni. Riconsiderano inoltre i principali risultati del percorso compiuto, cercando di riflettere più in generale su ciò che i pa­ radossi propriamente "insegnano" . Ringrazio Achille Varzi e l' Istituto di Scienze Umane di Firenze che mi hanno accompagnato e sostenuto in una fase decisiva del lavoro. Sono grata a France­ sco Berta, Davide Fassio, Elena Ficara ed Elisa Paganini che hanno commenta­ to parti e versioni diverse del libro. Un ringraziamento particolare va ai miei stu­ denti del Politecnico di Torino, che hanno discusso con me tutti i paradossi e quasi-paradossi qui citati (e altri) . n libro è dedicato a mia sorella, Alessandra D' Agostini, in memoria. !2

Simboli e altre convenzioni

Enunciatz!proposizionz!credenzelstati di cose

Le lettere p , q, p, a e altre simili stanno per enunciati, come "il gatto è sul divano" o "Dio esiste". Un enunciato è una formulazione linguistica dotata di senso compiuto e che può essere vera o falsa. Nel testo "enunciato" e "proposizione" vengono usati come equiva­ lenti (salvo in casi di possibile equivocazione), tenendo conto però che una proposizio­ ne è il contenuto di un enunciato (ossia ciò che propriamente è vero o falso): "it rains" e "piove" sono due enunciati, con una sola proposizione. Si presuppone che un enuncia­ to esprima una credenza relativa a uno stato di cose. Uno stato di cose è ciò che rende ve­ ra una proposizione. Dunque a volte parleremo della "credenza a" e dello "stato di co­ se a". Per esempio se dico "Dio esiste" esprimo la mia credenza che Dio esista, mentre è l'esistenza eventuale di Dio che rende vera la mia proposizione. Ragionamentz!argomentz; validità/correttezza

Un ragionamento è la derivazione (o inferenza) di enunciati-conclusioni da enunciati-pre­ messe. Un argomento è in senso stretto la versione pubblica, intersoggettiva, di un ragio­ namento, o anche: un ragionamento rivolto a un interlocutore e destinato a convincerlo della verità della tesi-conclusione. Nel testo i due termini vengono usati come equivalenti. Un argomento o ragionamento è valido se rispetta le regole logiche, è corretto(sound) se oltre a essere valido ha anche premesse vere rispetto al nostro mondo. Per esempio: "Ro­ ma è la capitale d'Italia, dunque:il tuo aereo non può atterrare a Roma senza atterrare in Italia" e "Mosca è la capitale degli Stati Uniti, dunque: il tuo aereo non può atterrare a Mo­ sca senza atterrare negli Stati Uniti" sono entrambi validi, ma solo il primo è corretto. Operatori enunciativi A: congiunzione (es. p 1\ q= "il gatto è sul divano e Dio esiste") v: disgiunzione (es. p v q= "il gatto è sul divano o Dio esiste") �: condizionale (es. p� q= "se il gatto è sul divano allora Dio esiste") H: bicondizionale (es. p H q= "il gatto è sul divano se e solo se Dio esiste") -.: negazione (es. -,p= "il gatto non è sul divano") in un condizionale p� q l'enunciato p è detto antecedente e q è detto conseguente;

un bi­ condizionale equivale a due condizionali con antecedente e conseguente invertiti: p H q

=(p�q)A(q�p) �: segno di inferenza (es. p, q�p

1\ q= da p, q consegue o deriva che p 1\ q) : :indicatore di conclusione (come "dunque") .

13

PARADOSSI

Regole di inferenza

MP: modus ponens(p� q, p �q) MT: modus tollens (p� q, -q� -.p) SI: sillogismo ipotetico(p �q, q� r�p � r) so: sillogismo disgiuntivo (p v q, -.p �q) Agg. oppure !A: regola di aggiunzione, o introduzione di A (p , q�p A q) EA:

eliminazione di A(p A q�p)

Iv: introduzione di v (p�p v q) DeM: regole di De Morgan (-,(p

A q)�-.p

v -.q e -.(p v q) �-.p A -.q)

Nomi e predicati

Le lettere a, b, m, n stanno per nomi, indicanti oggetti(qualsiasi cosa che possa avere pro­ prietà, ossia possa essere caratterizzato, dunque: cose, persone, proprietà, relazioni, pro­ posizioni, eventi, entità astratte ecc.). Es. m = Maria, a = la bambina della terza fila P, Q, R stanno per predicati, indicanti proprietà di oggetti Es. P= piangere, Q= essere biondo Pm= Maria piange Qa= la bambina della terza fila è bionda Quanti/icatori x, y, A.: variabili indicanti oggetti \;/: quanti/icatore universale= "tutti i..." ::3: quanti/icatore esistenziale= " qualche ... ", o "c'è almeno un. . . " Es. (tutti) gli uomini sono mortali= \lx(Ux�Mx) (per qualsiasi oggetto x, se x è un uo­ mo, allora x è mortale) qualche gatto sorride=:lx (Gx A Sx) (c'è qualche oggetto x che è un gatto e sorride) nessun uomo è mortale= \lx(Ux� ---.Mx ) (per qualsiasi oggetto x, se x è un uomo, allo­ ra x non è mortale) qualche gatto non sorride=:lx (Gx A ---.5x) (c'è qualche oggetto x che è un gatto e non

sorride)

EV: regola di eliminazione di\;/ ( dato \lx (Ux �Mx) posso inferire: Ua �Ma) (dato Ga posso inferire: :lx Gx)

B: regola di introduzione di :l

(jl, = variabili indicanti proposizioni indicanti predicati Es. qualche proposizione è vera=:lqlV(jl; ogni proposizione è vera=VqlVql; se qualche pro­ posizione è vera, allora qualche proposizione non è vera= ::lql Vql� ::3---. V

, 'P =variabili

Leggi logiche

LNC: legge di non-contraddizione= -.(a A -.a) TE: legge del terzo escluso= a v -.a (bivalenza: Va v fa) Schema T

V "p " H p = la proposizione espressa da "p" è vera se e solo se p (es. "il gatto è sul diva­ no" è vero se e solo se il gatto è sul divano). Per comodità nel testo le virgolette sono eli­ minate: ma si intenda che il predicato Vx (x è vero) indica una proprietà di proposizioni o credenze, espresse da enunciati (e non una proprietà di stati di cose) . 14

SIMBOLI E ALTRE CONVENZIONI

Operatori modali ed epistemici op

=è necessario che p (in tutti i mondi possibili sussiste lo stato di cose p) è possibile che p (in alcuni mondi possibili sussiste lo stato di cose p) Kp =so che p oppure: l'agente epistemico sa che p Pp=l'agente epistemico pensa che p Cp =l'agente epistemico crede che p Ap =l'agente epistemico si aspetta che p Op =

Probabilità

P( a): la probabilità che si verifichi l'evento (stato di cose) a; la probabilità che la creden­ za-proposizione a sia vera. La P(a) (probabilità di a) è data da un numero tra o e I, estremi inclusi, che esprime il rapporto tra la frequenza di a e la totalità dei casi possibili, e conseguentemente la probabilità che la proposizione a sia vera. Se P( a)= o,8 allora a è molto probabilmente vera; se P( a)= 0,2, a è molto probabilmente falsa. P( a A�)= P( a) x P(�) (per eventi incompatibili) P( a v�) =P( a) +P(�) (per eventi indipendenti) P(-,a) =I- P( a), da cui il principio di complementazione P( a) +P(-,a) =I (la probabilità di a + la probabilità di -.a ha valore I) Autocontraddizioni e auto/ondazioni Un'autocontraddizione è un argomento che da a deriva -.a; un'auto/ondazione è un ar­ gomento che da -,a deriva a CM consequentia mirabilis: (a� -.a) �-.a (se a implica -.a, allora a è falsa) ha� a) � a (se -.a implica a, allora a è vera) -

Riduzioni all'assurdo (RAA)

a� (� 1\ --,�) �-.a (riduzione normale) a� -.a� -.a (riduzione per autocon/utazione) Frecce per indicare in/erenze

A volte la relazione di inferenza è espressa con frecce. Es. : -.a

1\ \1

Parte prima Premesse

I

Che cosa è

un

paradosso?

I. I

Due definizioni

Il termine "paradosso" si usa genericamente per indicare una tesi, una opinione o una teoria, contraria alla doxa, ossia quel che (a torto o a ra­ gione) è ritenuto vero. Da questo punto di vista è un paradosso qualsia­ si evidenza contro-intuitiva, qualsiasi teoria bizzarra o insolita. Inten­ dendo il termine in un senso un po' più tecnico, sono isolabili nella let­ teratura due principali definizioni di paradosso: un paradosso è un argomento apparentemente corretto (sound) con una con­ clusione inaccettabile; un paradosso è una domanda con due (o più) risposte, o un problema con due (o più) soluzioni.

La prima è la definizione oggi più comunemente usata, e considerata ca­ nonica nella filosofia analitica; la ritroviamo, con qualche variazione, in Quine (1962) , in Mackie (1973), in Sainsbury (1995), nelle indagini generali e nei repertori. La seconda è meno frequente, ma è più antica, e ha domi­ nato a lungo nella tradizione. I primi paradossi erano formulati come do­ mande rivolte a un interlocutore e destinate a metterlo in difficoltà perché ammettevano due risposte contraddittorie. Diogene Laerzio nelle Vi"te dei filosofi (n, ro, ro8) ci dice espressamente che Eubulide, esponente della scuola dei Megarici, creò gli «argomenti dialettici» noti come "il mentito­ re" , "il velato" , "il calvo", "il cumulo", «presentandoli in forma di doman­ da». Chi dice di mentire sta mentendo o no? Se un uomo con tre capelli è calvo, anche un uomo con quattro capelli è calvo? E un uomo con cinque? La vittima di Eubulide non poteva rispondere né sì né no, e se rispondeva in un senso o nell'altro diceva il falso o cadeva in contraddizione. Non c'è una vera rivalità tra le due definizioni. Se esaminiamo i pa­ radossi più classici e noti ci accorgiamo che entrambe funzionano per19

PARADOSSI

fettamente. Per esempio nel caso del paradosso di Achille e la tartaruga 2 la tesi inaccettabile è: Achille non vincerà la corsa e l'argomento che la di­ fende è: Achille non vince, perché non riuscirà mai a colmare gli infini­ ti intervalli che compongono il vantaggio della tartaruga (più in genera­ le: perché chi parte prima non verrà mai raggiunto) . La domanda è in­ vece: Achille vince?, e abbiamo le due risposte: sì, perché è evidente­ mente il più veloce; no, per l' argomento di Zenone. Lo stesso vale per il paradosso del mentitore (cfr. PAR. 11.3) e per altri casi paradossali. In ge­ nerale dunque uno stesso paradosso può essere ricostruito in forma di argomento corretto con conclusione assurda o in forma di domanda in­ sidiosa, con due risposte. A volte la forma- domanda è più naturale e in­ tuitiva, altre volte lo è la forma-argomento 3• Ciascuna delle due definizioni individua inoltre un aspetto caratteri­ stico dei fenomeni di cui ci stiamo occupando. La prima ci dice che un paradosso implica l'obbligo logico di accettare qualcosa che non voglia­ mo (o non possiamo) accettare. Se un argomento sembra corretto (cioè formalmente valido, e dotato di premesse vere), secondo logica la sua conclusione deve essere accolta come vera, e se non possiamo accettarla, perché ci risulta falsa o insensata, c'è qualcosa che non va (in noi, nell' ar­ gomento, o nella logica stessa) . La seconda definizione dà conto invece di una conseguenza tipica dei fenomeni paradossali: il fatto che di fronte a un paradosso si generano sempre e quasi meccanicamente ( almeno) due vie, due risposte, due soluzioni, e siamo tipicamente indotti a dire: è co­ sì, ma anche nel modo opposto; è così, ma nello stesso tempo non è così. Abbiamo allora un eccesso epistemico: troppe risposte a una domanda, troppe soluzioni per un solo problema, e non riusciamo a deciderci. Entrambe le definizioni però sono discutibili, e sono state discusse4• Se ci limitiamo alla prima, non siamo in grado di distinguere tra para­ dossi e fallacie, ossia argomenti che contengono qualche trappola na­ scosta, e perciò sembrano corretti, ma non lo sono. Né riusciamo a di­ stinguere i paradossi dai casi in cui siamo noi a sbagliarci: la conclusio­ ne è semplicemente vera, per quanto possa sembrare falsa o insensata. Per esempio il "paradosso" del sistema copernicano sembrava tale ma non lo era realmente: erano la Chiesa, e la scienza dominante nel tempo di Galilei, a considerare le sue conclusioni inaccettabili. Come si vedrà, nel primo caso abbiamo quelli che si possono chiamare paradossi "falsi­ dici", nel secondo abbiamo i paradossi "veridici" , in base a una distin­ zione suggerita da Quine (cfr. PAR. 4.1). In entrambi i casi però l'effetto paradossale è solo transitorio e apparente. Si tratta di errori: sbaglia l' ar­ gomento o sbagliamo noi. Quanto alla seconda definizione, le domande con più risposte o i problemi con più soluzioni che ci capita di dover affrontare sono molti 20

I. CHE COSA È UN PARADOSSO?

e di diversi tipi. Per esempio: i dilemmi sono tipicamente problemi con due risposte, ma esiste (o dovrebbe esistere in linea di principio) una dif­ ferenza tra paradossi e dilemmi (cfr. CAP. 8 ) . Inoltre, quasi tutti i proble­ mi filosofici fondamentali hanno due o più soluzioni (è ciò che Kant chiamò " antitetica della ragion pura" ) . Per esempio: esistono verità pri­ me, che fondano tutte le altre e non sono fondate da nessun'altra? I.: an­ tico dibattito tra fondazionalisti e anti-fondazionalisti ci dice che le ri­ sposte alla domanda sono (o sembrano essere) più di una. Nel seguito del libro incontreremo fallacie paradossali, paradossi che sono in realtà errori, dilemmi e quasi-paradossi filosofici, e le diffe­ renze verranno chiarite analiticamente. Ma intanto è necessario misu­ rarsi con un' altra definizione, che forse individua meglio quale sia il re­ quisito specifico che rende paradossale un argomento o una domanda. 1.2 La definizione qui adottata

Chiediamoci: quando esattamente una conclusione risulta davvero inac­ cettabile? Quando avere più risposte a una domanda o più soluzioni per un problema risulta problematico ? La risposta è piuttosto semplice: quando c'è di mezzo una contraddizione. La conclusione di un argomen­ to è inaccettabile perché contraddice qualcosa che reputiamo vero, op­ pure perché è essa stessa una contraddizione; le risposte a una doman­ da, o le soluzioni di un problema, generano un autentico conflitto quan­ do sono incompatibili, cioè si escludono reciprocamente, e non ci sono altre possibilità (cfr. CAP. 2) . La definizione che tenderemo qui ad adottare è allora la seguente: un paradosso è un argomento, una domanda, una opinione, o anche una situa­ zione (è indifferente quale sia il punto di partenza) , che genera una contraddi­ zione resistente, di cui non riusciamo a disfarci.

Più brevemente: un paradosso è una contraddizione resistente.

È questa una definizione che più o meno esplicitamente ispira la lette­ ratura recente su paradossi e logiche non-classiche5• Ma più in generale, è abbastanza intuitiva l'idea che l' aspetto interessante e caratteristico dei paradossi sia il fatto imbarazzante (e sorprendente) di una contraddi­ zione che per qualche ragione risulta ineliminabile: le cose stanno così, 2!

PARADOSSI

ma anche nel modo opposto; devo agire in un certo modo, ma anche in modo completamente diverso, devo credere che p sia vera, ma devo an­ che credere che non lo sia affatto. Scrive Wittgenstein nelle Ricerche fi­ losofiche (parr. 112-3): «Ma non è cosi! diciamo. Ma deve pur essere cosi! [ . . .] Eppure è cosi! ripeto continuamente a me stesso». Questa terza definizione non esclude le precedenti, si limita a spe­ cificarle, e anzi, mette d'accordo l'una e l'altra rendendo esplicito ciò che hanno in comune. La presenza di una contraddizione è infatti l'e­ lemento più problematico (e più "paradossale" ) tanto negli argomenti insidiosi, che sembrano ineccepibili ma hanno conclusioni assurde, quanto nelle questioni insolubili, su cui non riusciamo a prendere una decisione 6•

1.2.1. ESEMPI

Nei CAPP. 2 e 3 chiariremo che cosa sia esattamente una contraddizione e in quali modi possa risultare ineliminabile o difficile da eliminare. Ma prima di procedere è utile iniziare a confrontarsi (e a confrontare le tre de­ finizioni) con alcuni esempi più e meno noti di paradossi o presunti tali. [r]

Consideriamo queste due asserzioni:

l'asserzione seguente ha lo stesso valore di verità di questa asserzione i cavalli volano Se la prima asserzione è vera, allora anche la seconda è vera, perché deve avere lo stesso valore di verità. Se la prima è falsa, devono avere valore di verità di­ verso, e perciò la seconda è vera. Dunque necessariamente, inequivocabilmen­ te: i cavalli volano.

È questa una variante del paradosso di Curry, o di Curry-Lob, di cui par­ leremo meglio più avanti (cfr. PAR. n+r ) , e si adatta benissimo a tutte e tre le definizioni. Ci troviamo di fronte alla conclusione perlomeno biz­ zarra di un argomento ineccepibile: dobbiamo riconoscere che i cavalli volano. D'altra parte, se ci chiediamo "i cavalli volano? " dobbiamo ri­ spondere no, perché sappiamo che non volano, e sì, perché l'enunciato a quanto pare deve essere vero. Ma il vero motivo per cui diciamo para­ dossale la combinazione delle due asserzioni è il fatto che la seconda è falsa, e siamo di fronte a una contraddizione: i cavalli volano, ma sap­ piamo bene che non volano affatto. Se la seconda asserzione fosse "2 + " 2 = 4 oppure "Napoleone morì a Sant'Elena" dovremmo comunque ti­ conoscerla vera, ma il farlo non ci costerebbe molto 7• 22

I. CHE COSA È UN PARADOSSO?

[2] Un anziano professore, illustre studioso ma di salute cagionevole, pro­ pone a un suo studente, ignorante ma giovane e altetico, di effettuare un tra­ pianto e scambiarsi i cervelli: il giovane avrà il suo proprio corpo ma con un brillante e dottissimo cervello; il vecchio avrà il proprio cervello, ma con un corpo giovane e in ottima salute . Chi rimarrà però con il corpo vecchio e il cer­ vello vuoto?

Questo è un quasi-paradosso molto noto, che esiste in moltissime ver­ sioni8. Non è facile vedere subito all'opera l'argomento con la conclu­ sione inaccettabile, come è previsto dalla prima definizione. È abba­ stanza evidente invece che la domanda " chi ci guadagna? " ha due ri­ sposte: se l'identità di un essere umano risiede nel corpo, cambiando cer­ vello si acquista un cervello nuovo, dunque ci guadagna lo studente; se risiede nel cervello, trasferendo il proprio cervello si acquista un nuovo corpo: ci guadagna il professore. Abbiamo allora non un argomento, ma due, apparentemente buoni, con conclusioni tra loro incompatibili, e di qui emerge la contraddizione. Naturalmente, tutto sta nel decidersi cir­ ca la natura dell'identità personale ( cfr. anche PAR. 3 .2), e se e fino a quando non è chiaro quale sia la scelta giusta, è prudente perlomeno non accettare proposte riguardanti i trapianti di cervello. [3] Ci sono tre scatole, e ciascuna contiene due monete . Sappiamo che in una scatola c'è una moneta d'oro e una d'argento, in un' altra ci sono due monete d'argento, nella terza ci sono due monete d'oro: OA

AA

00

2

3

Non si conosce il contenuto delle scatole, ma ciascuna ha due scomparti sepa­ rati per le due monete, dunque è fatta in modo tale che si possa vedere una mo­ neta senza vedere l'altra. Supponiamo di scegliere una scatola e di vedere che una delle due monete è d'oro. Quante sono le probabilità che l'altra moneta sia anche d'oro? Sembrerebbe che siano una su due: esclusa la scatola 2, la presen­ za di una moneta d'oro ci dice che abbiamo scelto r oppure 3 · Ma non è così: le probabilità che si tratti della scatola 3 sono due su tre. La moneta da noi trova­ ta infatti può essere la prima della scatola 3, o la seconda della scatola 3, o la so­ la moneta d'oro della scatola r: in un solo caso su tre dunque la scatola prescel­ ta sarà la r.

È il paradosso delle scatole di Bertrand, escogitato dal matematico J oseph Bertrand nell'Ottocento (cfr. CAP. 6). Sembra rientrare nella prima de­ finizione perché può risultare inaccettabile la conclusione; e anche nel­ la seconda, se si ammette che esistono comunque due risposte, ossia rh e 2/3 . Ma non è un vero paradosso: la conclusione finale è in verità 23

PARADOSSI

perfettamente accettabile. Il caso risulta paradossale però nella misu­ ra in cui e fino a quando la contraddizione resiste, cioè se e fino a quan­ do non si sia interamente persuasi che la risposta " due su tre" è dav­ vero quella giusta. [4] I due prigionieri X e Y non possono comunicare tra loro, però si cono­ scono molto bene e normalmente si comportano nello stesso modo. Vengono posti di fronte al seguente dilemma: se premono il pulsante A, guadagnano r. ooo euro, se premono il pulsante B, non guadagnano niente ma l'altro prigioniero guadagna 10.ooo euro. Che cosa conviene fare? Se X sceglie il pulsante A, si danno due possibilità: se Y fa lo stesso X guadagna r.ooo euro; se invece Y ha scelto diversamente X guadagna n.ooo euro (il risultato in assoluto migliore) . Se X sceglie B, se Y ha scelto A, X non guadagna niente, se Yha scelto E, X guadagna 10.ooo euro. Con­ viene scegliere A. Ma se X sceglie B, Y farà lo stesso, dunque X guadagnerà 1 0 . ooo euro; se X sceglie A, Y farà lo stesso, dunque X guadagnerà solo r . ooo euro. Conviene sce­ gliere B.

Questo è invece un dilemma ed è una variante combinata dei dilemmi di Newcomb e del prigioniero (cfr. CAP. 9), che si deve a Graham Priest (2o02) . Vediamo bene i due argomenti che portano a due conclusioni perfettamente legittime e incompatibili, e quindi la domanda con due ri­ sposte. È facile far rientrare l'esempio tanto nella prima quanto nella se­ conda definizione. Rispetto alla terza, come vedremo, i dilemmi non ri­ solvibili sono paradossi, generano cioè contraddizioni resistenti. Dun­ que il nostro caso 4 è un paradosso, che si presenta nella forma di un con­ flitto pratico. [5]

Ci sono due errori in in questa frase

Nella frase in realtà c'è un solo errore: la ripetizione di "in " . Ma se c'è un solo errore, allora ce n'è un altro, perché la frase dice invece che gli errori sono due . Dunque ci sono due errori. Ma se gli errori sono due , allora non c'è il secondo errore, perché la frase dice effettivamente che ci sono due errori: dunque l' er­ rore è uno solo.

È questo un paradosso del tipo del mentitore, ossia, come vedremo, un'antinomia (cfr. CAP. n ) . Come il mentitore e tutti i paradossi analo­ ghi, rientra perfettamente in tutte e tre le definizioni: c'è l' argomento doppio con le due conclusioni incompatibili, ed è possibile formulare la domanda: " quanti errori in definitiva ci sono ? " , a cui risponderemmo con ottime ragioni tanto " uno" quanto " due " . 24

I. CHE COSA È UN PARADOSSO?

1.2.2. UNA CLASSIFICAZIONE

Questi e molti altri paradossi o quasi-paradossi verranno esaminati det­ tagliatamente nel seguito. Per ora, tenendo conto della nostra definizio­ ne, e riflettendo su questi esempi, possiamo riconsiderare brevemente una questione antica e controversa: la classt/icazione dei paradossi. Quanti e quali tipi di paradossi esistono? C'è chi distingue i paradossi in base ai contenuti (della probabilità, dell'economia, della morale, epistemici, logici ecc.), chi li isola in base al­ le speciali funzioni che mettono in gioco (per esempio sel/-re/erential pa­ radoxes) e chi si uniforma alla distinzione classica, riconducibile a Ram­ sey (1925 ) , di paradossi "semantici " e "logici" o meglio set-theoretic. La classificazione che verrà adottata in questo libro è diversa, e si ba­ sa sull'evidenza più o meno irriducibile della contraddizione. Ci trove­ remo di fronte a un buon numero di casi semi- o quasi-paradossali, più precisamente: errori che sembrano paradossi (come il caso [3] ) ; dilem­ mi, ossia paradossi "pratici" (come il [4] ); perplessità filosofiche che ge­ nerano argomenti con conclusioni incompatibili (come l'esempio [2] ) , In ciascuno di questi casi vedremo che l a contraddizione " resiste" , ma solo fino a un certo punto: fino a quando non si è rivelato l'errore, o la trappola nascosta, o fino a quando non si sono trovate nuove informa­ zioni che permettono di eliminare il conflitto e prendere una decisione, oppure fino a quando non ci si accorge che è in gioco un uso particola­ re delle parole, o sono attivi pregiudizi filosofici non del tutto accettabi­ li; oppure (è questo il caso dei paradossi dell'infinito) quando si scopre che la contraddizione appartiene a un regime speciale, in cui quel che a condizioni normali si giudica contraddittorio non lo è realmente. I veri paradossi, che presentano contraddizioni irriducibili (o presu­ mibilmente tali), sono poi classificabili in due grandi famiglie, identifi­ cate sulla base dei modi di resistenza della contraddizione, e a cui ap­ partengono i paradossi simili al nostro esempio delle due asserzioni (il caso [I] ) e le antinomie, come il caso [5] (su questa classificazione cfr. PAR. 3.2. 2) .

25

2

Che cosa è una contraddizione?

2.1 Esempi

Ecco alcuni esempi di contraddizioni: un oggetto esiste e non esiste, c'è e non c'è, nello stesso tempo; un oggetto ha la proprietà , ma ha anche la proprietà 'f', che esclude ; una proposizione è vera e falsa (ossia: è vera, e la sua negazione è anche vera) ; un individuo sostiene che p e sostiene anche che non-p (dove p sta per un enunciato dichiarativo come " Dio esiste" o "il gatto è sul divano " ) ; devo compiere l'azione a e non posso compierla (per esempio, perché de­ vo anche compiere �, che toglie le condizioni di a); desidero À., ma non lo desidero affatto (perché non posso o non devo desi­ derarlo, oppure perché desidero anche y, che esclude À.).

Sui diversi tipi di contraddizioni, e i diversi modi di definirle, esiste una vasta letteratura. Si usa distinguere le contraddizioni antologiche, che ri­ guardano l'essere o il modo d'essere degli oggetti (l'oggetto À esiste e non esiste, o ha e non ha una stessa proprietà) , dalle contraddizioni epistemi­ che, che riguardano le conoscenze o credenze (so o ritengo che p e so o ri­ tengo anche che non-p), dalle contraddizioni logiche, nella forma sintatti­ ca (p e non-p) e semantica (p è vero ed è vero anche non-p), e da quelle pra­ tiche (devo e non devo fare l'azione a). (Sui particolari di questa distin­ zione cfr. Berto, 2006, pp. 21- 5.) Quanto alle definizioni di contraddizione, Grim (2004) ha isolato circa 250 caratterizzazioni diverse, con una stima approssimativa per difetto (cfr. anche le considerazioni di Varzi, 2004) . In generale e per tutti però l'espressione "x contraddice y" indica: una relazione tra termini (in particolare stati di cose, o proposizioni) che sono reciprocamente esclusivi, e congiuntamente esaustivi.

Due termini sono reciprocamente esclusivi quando si escludono a vi­ cenda: se uno è vero (o sussiste o si verifica) , l'altro è falso (non sussiste,

PARADOSSI

non si verifica) . Due termini sono congiuntamente esaustivi quando non c'è una terza possibilità, ossia non possono essere entrambi non-veri (o non sussistere-verificarsi entrambi) . Per esempio: una porta non può es­ sere nello stesso tempo aperta e chiusa (esclusività) , e deve essere una co­ sa o l'altra (esaustività) . Oppure: un uomo è vivo o morto, non può es­ sere entrambe le cose (esclusività) o nessuna delle due (esaustività). Da questo punto di vista possiamo vedere bene che gli enunciati se­ guenti: questa rosa è rossa questa rosa è bianca

non si contraddicono anche se si escludono a vicenda. Supponiamo che io dica «la rosa tra i capelli di Maria è rossa» e Giacomo dica «no, la ro­ sa tra i capelli di Maria è bianca», evidentemente non siamo d'accordo, ma potremmo avere torto entrambi, per esempio se Maria avesse sui ca­ pelli una rosa gialla. I contenuti dei due enunciati sono mutuamente esclusivi ma non congiuntamente esaustivi: c'è almeno una terza possi­ bilità. In questo caso si parla di contrarietà più che di contraddizione. In­ vece tra: questa rosa è rossa questa rosa non è rossa

c'è contraddizione, e se io affermo il primo e Giacomo il secondo i casi sono solo due: ho ragione io, oppure ha ragione Giacomo. (Escludiamo per il momento i casi controversi, in cui per esempio sia in gioco un ros­ so che non è decisamente rosso, per cui potremmo avere ragione en­ trambi) '. Si ha allora una contraddizione, C, quando due termini contraddit­ tori sussistono contemporaneamente, o, se si tratta di proposizioni, sono (risultano essere) entrambe vere. Una rosa è rossa e non-rossa, una por­ ta è aperta e chiusa, un uomo è vivo e morto. Vediamo subito un inte­ ressante fenomeno: la C è essa stessa un oggetto contraddittorio, perché è semplicemente la concomitanza o la simultanea presenza di due fatti o fenomeni che per natura, per principio o per definizione non possono essere concomitanti o simultaneamente presenti. Ci limitiamo qui a lavorare sulle C che riguardano proposizioni (o enunciati, o comunque portatori di verità: cfr. supra, Simboli e altre con­ venzioni, pp . 13-6), come "piove " , oppure "il gatto è sul divano " , "Dio esiste" ecc. Indicando con la lettera p una qualsiasi proposizione, una C è dunque: "p e non-p " , oppure: "p è vera e non- p è anche vera " . Dal mo-

2. CHE COSA È UNA CONTRADDIZIONE?

mento che il falso equivale alla verità della negazione, l'ultima formula­ zione equivale a: "p è vera e falsa" . 2.2 Precisazioni su contrarietà, inconsistenze, autocontraddizioni

La relazione di contraddizione è espressa normalmente dalla negazione. In alcuni casi è semplice individuarla. In altri, ci possono essere delle perplessità. I. n primo caso da ricordare è la relazione tra proposizioni quanti/icate, ossia che includono espressioni come "tutti i . . . " , oppure " qualche . . . " . Per esempio, la contraddittoria di: "nessun uomo è calvo" non è "tutti gli uo­ mini sono calvi" . In effetti, entrambe le proposizioni possono essere (e di fatto sono) false. Invece c'è contraddizione tra: "nessun uomo è calvo" e " qualche uomo è calvo" . n " quadrato degli opposti" costruito dai medie­ vali a partire dal De interpretatione di Aristotele mirava appunto a chiari­ re le relazioni tra proposizioni quantificate ed era così concepito: 1.

tutti i P sono Q

2.



qualche P è Q

4- qualche P non è Q

nessun P è Q

La relazione tra I e 2 è una relazione di contrarietà: possono essere en­ trambe false. Sostituendo per esempio a P " uomo" e a Q " calvo" abbia­ mo "tutti gli uomini sono calvi" e "nessun uomo è calvo" : due proposi­ zioni in contrasto tra loro, ma che come sappiamo sono entrambe false. La relazione tra 3 e 4 fu definita sub-contrarietà, ma si vede bene che tra " qualche uomo è calvo" e " qualche uomo non è calvo" non c'è né con­ traddizione né contrarietà: sono entrambe vere. La C sussiste solo tra I e 4 e tra 2 e 3, ossia è indicata dalle frecce in diagonale. 2. Una seconda precisazione riguarda la differenza tra inconsistenza e contraddizione. I termini sono considerati a volte intercambiabili, ma più propriamente sono chiamate inconsistenze le contrarietà, le C indi­ rette (o implicite) , le C a più termini, le C in un sistema o in un insieme di enunciazioni, che emergono in speciali contesti. In tutti questi casi possiamo dire che la C "non c'è", ma volendo e a particolari condizio­ ni è derivabile. C'è contrarietà ovvero inconsistenza ma non contraddizione tra enun­ ciati reciprocamente esclusivi ma non congiuntamente esaustivi . Per 29

PARADOSSI

esempio c'è contrarietà tra: "ci sono due gatti sul balcone" e " c'è un gat­ to sul balcone" . In effetti potrebbero essere falsi entrambi: i gatti in que­ stione potrebbero essere tre. Una contrarietà però può diventare C a con­ dizioni speciali. Per esempio, nel caso dei gatti sul balcone, c'è C se i gat­ ti a disposizione sono solo due, e almeno uno deve essere presente; allo­ ra le possibilità sono: c'è un solo gatto presente/ci sono tutti e due (que­ sto è il caso del paradosso dei due errori che sono in realtà uno, e se però sono un solo errore allora sono due: è l'esempio [5] indicato nel PAR. I. 2.r ) . Inoltre, posto che io dica: Giacomo è mio amico, ma mi è antipatico

in realtà non sto realmente contraddicendomi, ma la contraddizione emerge se io ammetto la regola secondo cui " x è amico di y solo se " y non trova antipatico x . Abbiamo in questo caso una inconsistenza pre­ dicativa, che diventa C in base a certe definizioni dei predicati coinvolti. Dato poi: A è preferibile a B, B è preferibile a C e C è preferibile ad A

abbiamo una collezione di enunciati forse singolarmente accettabili, ma che se presi insieme generano inconsistenza. Qui non c'è tanto la situazione " a e non- a " , perché i termini in gioco sono più di due. An­ che in questo caso però c'è una C a due termini, ma è di secondo ordi­ ne: è tra "la relazione di preferibilità è transitiva" e "la relazione di pre­ feribilità non (sempre) è transitiva" ( cfr. il paradosso di Condorcet, CAP. 9 ) . Si usa il termine "inconsistenza" anche per indicare quelle situazio­ ni in cui non sono esplicitamente dati i termini contraddittori, ma ci so­ no le condizioni perché si produca una C. Si parla di "insiemi inconsi­ stenti di leggi" per indicare una serie di norme che non possono essere rispettate simultaneamente. Per esempio: norma r: le donne devono avere la precedenza norma 2: i più anziani devono avere la precedenza

nel caso in cui si debba stabilire la precedenza tra un uomo di 50 anni e una donna di 40 si determina un conflitto pratico : impossibile ri­ spettare e far rispettare entrambe le norme (è questo il caso dei dilem­ mi: cfr. CAP. 8) . 3· In ultimo è utile tenere conto della differenza tra contraddizioni e autocontraddizioni. Un' autocontraddizione è un argomento così fatto : 30

2. CHE COSA È UNA CONTRADDIZIONE?

a partire da p si deriva non-p

assunta una certa tesi come vera, risulta che è vera la sua negazione. Esempi classici di autocontraddizioni sono : niente è vero tutto è relativo

se "niente è vero" è vero, allora qualcosa è vero, se invece non è vero, al­ lora comunque qualcosa è vero; se "tutto è relativo " è una verità assolu­ ta, allora non è vero che tutto è relativo, se d'altra parte è una verità re­ lativa, allora comunque ci sarà qualche verità assoluta, dunque non tut­ to è relativo (cfr. PAR. ro.r ) . Le tesi autocontraddittorie non comportano propriamente contrad­ dizioni: possiamo dire che sono semplicemente false, dunque: uno dei due termini può essere eliminato senza rimpianti. Un esempio chiaro è "mai dire mai " , che Rescher ( 20or ) considera un paradosso vero e pro­ prio, ma non lo è realmente: anzi, come tutte le autocontraddizioni, è un semi-paradosso, o un' antinomia a metà (cfr. PAR. 11.4.3 ) . L a tesi "Mai dire mai " (chiamiamola M) vuoi dire: "nessuna tesi che asserisca che c'è qualcosa che non può mai verificarsi o che non si può mai fare è asseribile veridicamente " . M potrebbe forse sembrare accet­ tabile (qualcuno potrebbe dire: niente esclude che possano un domani comparire, inesplicabilmente, cose che riteniamo inconcepibili e impos­ sibili, come quadrati rotondi . . . ) , ma il punto interessante è che ammet­ tendo che M sia vera ne consegue che: [6] M è vera Una tesi vera è asseribile veridicamente M è asseribile veridicamente (per r e 2) 4 Nessuna tesi che asserisca che c'è qualcosa che non può mai verificarsi o qualcosa che non si può mai fare è asseribile veridicamente (è quanto dice M) 5 M asserisce che c'è qualcosa che non si può mai fare (segnatamente: dire mai) 6 M non è vera (per 4 e 5)

2

Ne risulta che se M è vera, non può essere vera, come è provato da r a 6. L' autocontraddizione è evidente: se M allora non-M. Ma quale necessità abbiamo di accettare la tesi M? In verità nessuna (a meno che M non vo­ glia dire qualcosa di diverso da quel che di fatto dice) . Un altro esempio interessante è il paradosso di Lycan, presentato nel 1984 da William G. Lycan su "Pacific Philosophical Quarterly" : 31

PARADOSSI

[7]

Sia dato l'enunciato G: la maggior parte delle generalizzazioni sono false

Assumiamo che G sia vero. Se così è, la probabilità di verità di G è minore di 0,5: G è infatti una generalizzazione, e se la maggior parte delle generalizzazio­ ni sono false, G è molto probabilmente falso. Ma la probabilità che un dato enunciato sia vero, dato quell'enunciato, è I .

Dato G come vero, risulta che G è molto probabilmente faJso 2• Spesso nella letteratura le autocontraddizioni sono scambiate per paradossi, e in effetti può risultare sorprendente il caso di una proposizione che im­ plica la propria negazione. Ma non c'è alcun obbligo che ci vincoli ad ac­ cettare M, o G, oppure "niente è vero" : tutte e tre le tesi possono essere scartate in quanto auto- contraddittorie, senza problemi. Nel caso in cui, invece, la tesi di partenza, anche se autocontraddittoria, sembri per qual­ che ragione e in quaJche misura innegabile, ossia non si possa scartarla, ci troviamo di fronte a una contraddizione ineliminabile, e dunque a un paradosso o più propriamente un' antinomia (cfr. PAR. 3 .2) .

32

3

Contraddizioni irriducibili

3 ·1 Neutralizzare le contraddizioni

In logica, nella scienza e nella vita, se ci si trova di fronte a situazioni in cui un oggetto À sembra esistere e non esistere nello stesso tempo, oppure sembra avere una proprietà e nello stesso tempo non aver­ la; oppure una proposizione sembra tanto vera quanto falsa; o anche: risulta che devo compiere l' azione � ma non posso compierla, e altri casi simili, la procedura normale è cercare di neutralizzare la con­ traddizione. Esistono sostanzialmente due procedure per disfarsi di una con­ traddizione, che possiamo chiamare dissoluzione e riduzione. La disso­ luzione consiste nel mostrare che la C di fronte a cui ci troviamo non è veramente una C, perché i due termini non sono davvero esclusivi, o non sono davvero esaustivi, oppure sembrano concomitanti o simultanei, ma in realtà appartengono a regimi diversi, o si presentano in tempi diversi. La riduzione invece è il sistema normalmente previsto dalla logica: po­ sto che la C sia C effettiva, evidentemente c'è qualcosa che non funzio­ na nelle premesse che l'hanno determinata, c'è un errore, un postulato difettoso, che occorre eliminare. In questo caso abbiamo la riduzione al­ l'assurdo della premessa sbagliata o difettosa. Le due procedure non sono sempre chiaramente distinte: a volte una dissoluzione può essere interpretata come una riduzione, altre volte una riduzione ha forti componenti dissolutive. Possiamo stabilire che la dif­ ferenza consiste nel fatto che con la riduzione non si agisce sulla C, ma sulle sue condizioni o premesse, con la dissoluzione si agisce invece di­ rettamente sulla C. Inoltre, la riduzione implica una rinuncia a qualcosa che consideravamo vero, mentre la dissoluzione non dovrebbe implica­ re alcuna rinuncia.

33

PARADOSSI

3.1.1. DISSOLUZIONE

Il metodo più semplice per dissolvere C è la parametrizzazione. Per esempio date le tesi " Amalia è bionda" e "Amalia non è bionda", si pos­ sono benissimo accettare entrambe, una volta stabilito che Amalia è bionda secondo il parametro A , mentre risulta non-bionda secondo il parametro B. I parametri possono essere temporali. Dire p e poi -,p può non essere una C se il tempo intercorso è ragionevolmente sufficiente perché io possa aver cambiato idea, o perché le circostanze possano es­ sere cambiate. Le asserzioni " ci sono mele sull'albero" e "non ci sono mele sull' albero " potrebbero essere entrambe vere, parlando di uno stesso albero in tempi diversi. Nella letteratura sulle logiche paraconsi­ stenti è familiare il caso dello slow talker, che dice "oggi è lunedì e og­ gi è martedì " , ma parla così lentamente che nel frattempo il giorno è cambiato. La forma forse più semplice e frequente di parametrizzazione è l'e­ liminazione dell'ambiguità. Per esempio asserisco: "Dio esiste" , e poi di­ co "no, Dio non esiste " , ma ho asserito la prima riferendomi alla defini­ zione di Maria: "Dio è il percorso della storia e dell'evoluzione che ci ha condotto a questo stadio di sviluppo " , e la seconda riferendomi alla de­ finizione di Giacomo: "Dio è un essere superiore collocato in qualche parte dell'universo, che distribuisce premi e punizioni secondo giusti­ zia" . In questo caso c'è un' ambiguità definizionale: esiste per me quel­ l'oggetto-Dio, definito in un certo modo, e non esiste l'altro (nel primo caso, osserva Lewis, 1990, sto pronunciando le parole " Dio esiste" , ma non sto dicendo che Dio esiste) . C'è poi un modo di dissolvere le C che si focalizza sul significato del­ la " congiunzione", o anche, nel caso in cui i termini della C siano even­ ti o stati di cose, sulla simultaneità. Che cosa significa "a e non-a " ? Che cosa significa che gli stati di cose indicati da a e non-a sussistono insie­ me? Potrebbe darsi il caso che sì, " stiano insieme" , ma in modo paralle­ lo, senza generare davvero quella situazione assurda che è il presentarsi simultaneo di ciò che non può mai essere simultaneamente presente. Le logiche non-aggiuntive (cfr. Berto, 2006, cap . 6) suggeriscono che per quelle che chiamiamo C si verifica questo fenomeno. Le logiche di que­ sto tipo si possono presentare come logiche paraconsistenti (o debol­ mente tali), che cioè accettano la contraddizione, ma è un trattamento delle C che può essere catalogato come dissoluzione, visto che si tratta di un espediente simile alla parametrizzazione. L'idea di base degli " approcci non- aggiuntivi" è il rifiuto del princi­ pio di aggiunzione, che definisce, in modo piuttosto intuitivo, il signifi­ cato della congiunzione: 34

3· CONTRADDIZIONI IRRIDUCIBILI

(Agg.)

a,

� �aA�

Il principio dice che se ammettiamo la proposizione a (a è vera) e am­ mettiamo la proposizione p (p è vera) , allora ammettiamo anche la loro congiunzione (a A p è vera) . È abbastanza ovvio: se è vero che Lenin non amava la musica, ed è vero che Lenin ha fondato l'Unione Sovietica, al­ lora è vero che Lenin non amava la musica e ha fondato l'Unione Sovie­ tica. Ma questo può non valere in assoluto . Per esempio (cfr. Varzi, 2004) : abbiamo un computer in cui io inserisco a e Giacomo inserisce p, il computer risponderà "sì" se interpellato su a e "sì" se interpellato su p, ma rifiuterà la congiunzione a A p, a meno che io o Giacomo non di­ chiariamo di accettare anche, rispettivamente, p e a. Ci sono dunque ca­ si in cui Agg. fallisce. Trasferendo questa intuizione al caso delle C, si può pensare che ter­ mini contraddittori possano coesistere senza problemi: ammettere a e ammettere -,a non significa di per sé ammettere a A -.a. L' approccio non- aggiuntivo vale soprattutto per le C epistemiche, che riguardano le credenze (cfr. PAR. 12.4) : è legittimo in effetti ricono­ scere che le credenze di un essere umano costituiscano un sistema aper­ to e "frammentato " , in cui possono coesistere (più o meno consapevol­ mente) termini contraddittori (cfr. Lewis, 1982) . Oppure vale per le C discussive, quelle che emergono nelle discussioni, in cui qualcuno dice a e un altro dice non-a, e un osservatore nota che entrambi sembrano aver ragione (è la situazione prevista dalla "logica discussiva" di Stani­ slaw J askowski ) . In generale gli approcci non aggiuntivi sono posti di fronte al problema di giustificare il rifiuto di Agg . : una congiunzione che non prevede Agg. potrebbe ancora dirsi una congiunzione (cfr. Var­ zi, 2004, e PAR. 12-4) ?

3.1.2. RIDUZIONE La riduzione all' assurdo (RAA) è il modo più classico e più sicuro di eli­ minare le contraddizioni. Se da qualche premessa a si ottiene p A -,p (p e non- p), ci sbarazziamo di a. I primi paradossi della tradizione, quelli escogitati da Zenone e dai Megarici, erano concepiti esattamente come riduzioni all'assurdo. Pos­ siamo ricostruire la vicenda così: Parmenide ed Eraclito avevano "sco­ perto " (o inventato? ) la nozione di essere (to o n), e subito ci si era accorti che una simile nozione entrava in collisione con altre nozioni, e in parti­ colare con quelle di "movimento" e "pluralità" . Come sappiamo Eracli35

PARADOSSI

to accettò semplicemente la contraddizione che ne derivava, mentre Par­ menide volle sbarazzarsene. Il suo discepolo Zenone escogitò a sostegno delle tesi di Parmenide i noti «argomenti dialettici» di Achille e la tarta­ ruga, dello stadio, della freccia (cfr. Salmon, 1970) . Essi servivano so­ stanzialmente a mostrare che, se si mantiene che l'essere è unico, ed è identico a sé stesso, ogni concessione fatta al movimento e alla pluralità diventa contraddizione. Per esempio: [8] Un segmento di retta si può dividere all'infinito: lo si dimezza, poi si di­ mezza la metà che si è ottenuta, e così via, senza fine. Dunque il segmento deve essere formato da un numero infinito di parti. Ma quale è la lunghezza di que­ ste parti? Se è zero, allora il segmento non ha lunghezza, dunque non esiste; se la lunghezza è superiore a zero, per quanto piccola sia, il segmento avrà una lun­ ghezza infinita, dunque non sarà un segmento. Di conseguenza: il segmento sarà inesistente , o non sarà un segmento.

La C per Zenone si eliminava, molto semplicemente, eliminando una premessa, cioè suggerendo che il segmento non ha parti, poiché l'essere è unico e indivisibile. Sembra che anche Eubulide, l'inventore dei più classici tra i paradossi della nostra tradizione, avesse gli stessi obiettivi: il suo scopo però non era mostrare che solo certi concetti, come il mo­ vimento o la pluralità, erano difettosi; si trattava invece di far vedere che tutto il linguaggio comune, espressione della doxa, doveva essere ridotto all'assurdo ' . Certo, s e non s i è d'accordo con l e conclusioni di Zenone e dei Me­ garici, se non si vuole cioè stabilire che nozioni così utili come il movi­ mento e la pluralità, o in generale tutto il nostro modo normale di lavo­ rare con il linguaggio, debbano essere eliminati, la contraddizione rima­ ne, e richiede interventi di diverso tipo. Il procedimento di riduzione all'assurdo è evidentemente essenziale per distinguere i paradossi da molti casi di C solo apparentemente resi­ stenti: se possiamo sbarazzarci di qualche premessa, o di qualche con­ vinzione pregressa, non c'è paradosso. Per esempio abbiamo visto che le autocontraddizioni (per cui da a si inferisce -,a) non sono problemati­ che, se possiamo disfarci della tesi auto-contraddittoria. Ma la decisione sul funzionamento della reductio non è sempre esente da dubbi e discussioni. Esaminiamo un caso che gli Stoici ama­ vano citare 2 : Se sai che sei morto allora sei morto, perché "sapere " implica che quel che si sa è vero Se sai che sei morto allora non sei morto, perché "sapere" implica non essere morto.

3· CONTRADDIZIONI IRRIDUCIBILI

Da una stessa tesi a = "sai che sei morto " , deriviamo prima una certa te­ si � e poi la sua negazione ---., � (ci troviamo di fronte a una circostanza opposta rispetto al nostro esempio [ I ] in cui avevamo che se a allora �. e se -,a allora di nuovo � ) . In questo caso non c'è dubbio, la C è facil­ mente eliminabile: basta sbarazzarsi di a. In effetti per un significato normale di "sapere" non è possibile sapere di essere morti. Il problema con le riduzioni all' assurdo però è che non sempre si hanno le idee chiare circa chi sia il reale responsabile dell'errore, ossia quale premessa debba essere " ridotta" . Consideriamo la storiella del­ l'uomo che credeva di essere morto: [9] Un uomo crede fermamente di essere morto e nessuno riesce a convin­ cerlo del contrario. Viene mandato da un famoso specialista, e l'illustre clinico gli chiede "i morti sanguinano? " , l'uomo risponde "no", allora il medico lo fe­ risce sul braccio con un bisturi, e il braccio si mette a sanguinare. "Fantastico ! " esclama l'uomo "non credevo che i morti potessero sanguinare" .

È questo u n caso di RAA mal riuscita. Di fronte all'evidenza della con­ traddizione, l'uomo non si sbarazza della premessa "sono morto " , come era augurabile, ma dell' altra premessa: "i morti non sanguinano" (cfr. an­ che PAR. 10.4) . Questo ci dice che la riduzione richiede sempre un calco­ lo di opportunità, e non è detto che una scelta a favore della coerenza va­ da sempre nella giusta direzione: potremmo eliminare la premessa sba­ gliata. A volte sappiamo che c'è (deve pur esserci) qualche premessa di­ fettosa, ma non sappiamo, e non riusciamo a sapere, quale sia (in questo caso abbiamo quel che Stephen Schiffer, 2003, ha chiamato unhappy /aced solution dei paradossi: non c'è alcuna identificazione chiara dell'errore, e l'eliminazione di una premessa potrebbe non essere affatto risolutiva) . 3 ·2 Due tipi di paradossi

I paradossi sono situazioni o eventi o argomenti o teorie in cui si genera una C, ma nessuna delle strategie indicate nel paragrafo precedente è o sembra essere adottabile. In altre parole, data la contraddizione � A ---., � , non è possibile la parametrizzazione, non è possibile scegliere � oppure ---., � , né è possibile stabilire che � e ---., � appartengono a regimi, mondi o sistemi diversi coesistenti; non è possibile sbarazzarsi di �. né di ---., � , e neppure dell'eventuale a che ha generato la contraddizione. Quando capitano fenomeni di questo tipo? Quando e come avviene realmente che una cosa c'è e non c'è, oppure ha e non ha una proprietà, 37

PARADOSSI

o un enunciato è vero e falso, o devo fare una cosa e non posso farla, op­ pure anche: un evento è inevitabile e impossibile? Intuitivamente, mai. Se emerge una contraddizione, c'è qualcosa che non funziona da qual­ che parte, la contraddizione non può essere vera nel senso di " autenti­ ca", e pertanto va eliminata, in uno dei modi indicati. Di fatto, la que­ stione non è così ovvia, e la discussione sulla possibilità di contraddizio­ ni non "riducibili" è ancora aperta. Certamente, se e fino a quando un paradosso è tale, ossia le riduzioni e dissoluzioni falliscono o sembrano fallire, dobbiamo dire che c'è una C. Nella letteratura sulle logiche non classiche infatti sono sempre i paradossi a fare la parte del leone: ci oc­ corre una logica non classica perché ci sono i paradossi, ossia si dà il sin­ golare caso di proposizioni o argomenti o situazioni che generano con­ traddizioni irriducibili. È comunque evidente che se c'è o sembra esser­ ci una C, vuol dire che i tentativi di riduzione sono inutili, e si tratta di capire come e perché ciò avvenga. Un primo modo in cui la riduzione fallisce è quello a cui si è già ac­ cennato: non si riesce a individuare i responsabili; c'è una contraddizio­ ne � 1\ --,�, ma non sappiamo quale sia l'a difettosa. Parleremo in que­ sto caso di paradossi in una fase transitoria, o di transizione: dobbiamo ancora scoprire dove stia l'errore, e se vi sia di fatto un errore. Appartengono a questo gruppo i casi analoghi al nostro esempio [ 2] . Abbiamo due argomenti distinti: l' argomento la cui premessa è "l'identità di un essere umano risiede nel corpo " , e la cui conclusione, date le condizioni, è: " ci guadagna lo studente" ; l 'argomento la cui pre­ messa è "l'identità di un essere umano risiede nel cervello" , e la cui conclusione è " ci guadagna il professore" . Dunque si direbbe: a � 11 e � � -.YJ . A questo punto vediamo che occorre decidersi: dove sta l' er­ rore? Quale è la premessa sbagliata? La C resiste, ma solo fino a quan­ do non prendiamo una decisione, o non scopriamo quale sia la pre­ messa giusta tra a e � Invece, i paradossi i n uno stadio definitivo, che esibiscono u n chia­ ro fallimento delle riduzioni, sono di due tipi. Il primo è caratteristico dei paradossi che possiamo chiamare antinomie, a cui appartiene il pa­ radosso del mentitore, che è forse l'esempio più semplice e paradigma­ tico di "paradosso". [w]

Sia dato l'enunciato Il

1.1,

il quale dice:

è falso

Ora abbiamo che se 11 è vero, deve essere falso, perché così dice di sé stesso, ma se è falso allora è vero, perché dice per l' appunto di essere fai-

3· CONTRADDIZIONI IRRIDUCIBILI

so. Dunque: vll H Fj.l.; oppure: Il H -,Il (la prima forma è detta seman­ tica, perché coinvolge la verità, la seconda è detta sintattica) . Quel che è interessante qui è il fatto che Il esprime una tesi auto-contraddittoria, dunque a rigore dovremmo dichiararlo falso (cfr. PAR. 2.2) . Ma se lo di­ chiariamo falso, risulta che è vero: perché è precisamente quel che Il di­ ce di sé stesso. Il modo in cui la C resiste è dunque piuttosto chiaro: se cerchiamo di liberarci di IJ., salta fuori di nuovo j.l.; se d'altra parte pro­ viamo ad accettare IJ., dobbiamo riconoscere che --.IJ.. I paradossi considerati nella tradizione più tipicamente "paradossa­ li" sono strutture cognitive o verbali che producono una forma di que­ sto genere: oltre al mentitore lo sono per esempio il paradosso di Grel­ ling-Nelson o quello delle classi di Russell. Ricordiamo il paradosso di Grelling-Nelson : [n] Esistono predicati autologici, che cioè si riferiscono a sé stessi. Per esem­ pio: "italiano" è visibilmente italiano, "inanimato" è inanimato. Esistono però anche predicati eterologici, che non si riferiscono a sé stessi . Per esempio: "mo­ nosillabico" non è monosillabico, "infinito " non è infinito. Il predicato "etero­ logico" è eterologico? Se lo è, non può esserlo (perché si assegna solo a predi­ cati che non possono riferirsi a sé stessi), ma se non lo è, deve esserlo (perché è appunto un predicato che non si riferisce a sé stesso) .

Il paradosso delle classi di Russell è invece il seguente: [12] Esistono classi che sono membri di sé stesse: per esempio la classe dei concetti è un concetto. Esistono poi classi che non sono membri di sé stesse: la classe delle mucche non è una mucca. La classe di tutte le classi che non sono membri di sé stesse è un membro di sé stessa? Se lo è non può esserlo, perché è la classe delle classi che non sono membri di sé stesse. Se non lo è deve esserlo, perché è la classe di tutte le classi che non sono membri di sé stesse.

In tutti e tre i casi abbiamo la forma: a H -,a. Il secondo modo in cui le procedure di riduzione falliscono è quel­ lo che si verifica nel nostro esempio (I). C'è una certa tesi a, da cui ri­ sulta che � è vero. Ma � contraddice quel che sappiamo, dunque a rigo­ re dovremmo sbarazzarci di a: ma non è possibile farlo, perché dalla ne­ gazione di a emerge di nuovo �. La/orma dell'argomento è degna di nota: a dà origine a una conse­ guenza �; poiché sappiamo per certo che ---, � (i cavalli non volano) , non possiamo accettare � 1\ ---, � , dunque ci sbarazziamo di a, e diciamo: --.a. Ma salta fuori che se -,a, allora di nuovo � e dunque ancora ci trovia­ ' mo da capo, alle prese con � 1\ --.�. In entrambi i casi abbiamo un dop­ pio tentativo di riduzione all'assurdo, che fallisce. 39

PARADOSSI 3.2.1. AFFINITÀ TRA LE DUE FORME

Lo schema a H -,a è in qualche modo dominante. I casi più tipicamente paradossali del secondo tipo sono infatti riconducibili al primo. Consi­ deriamo per esempio le contraddizioni che riguardano i soriti. I soriti (cfr. CAP. IJ) sono tra i paradossi più antichi, e ne esistono molte versio­ ni. Vediamo l'argomento anticamente detto "il calvo " : [13] U n uomo che ha solo dieci capelli può dirsi calvo. M a allora anche quan­ do avrà undici capelli sarà calvo, e anche quando ne avrà dodici (un solo ca­ pello che differenza fa? ) . Questo vale per tutti i numeri successivi, dunque: tut­ ti sono calvi. Se però un uomo con dieci capelli non è calvo, allora nemmeno quando ne avrà nove potrà dirsi calvo (perché dovrebbe esserci una differen­ za? ) , e nemmeno quando ne avrà otto, e così via per tutti i numeri inferiori: nes­ suno è calvo.

Non è una situazione molto drammatica, apparentemente. Infatti, la so­ luzione sembra a portata di mano : occorre stabilire un numero ragione­ vole anche se convenzionale di capelli tale per cui se il signor X ha n ca­ pelli è calvo, se ne ha n + I non lo è. Eppure è abbastanza strano il fatto che dobbiamo stabilire un numero n tale per cui se qualcuno ha il valo­ re n di una certa proprietà (è n-bello, n-buono, n-simpatico, n-alto) si può dire che ha quella proprietà, e se invece ha il valore n - I (è n - I­ bello, n - I-buono ecc.) non ce l'ha, per cui Amalia è n-bionda, dunque è bionda, mentre Chiara è solo n - I-bionda, dunque non lo è. Inoltre, supponiamo che si stabilisca che tutti e solo i biondi possano godere di certi privilegi: sicuramente gli individui n - I-biondi protesteranno viva­ mente (cfr. CAP. I4) . Esistono diversi modi di procedere, come si vedrà, e se si prende sul serio il problema del sorite si può essere indotti a con­ clusioni distruttive, radicalmente nichilistiche. Si può notare che le conclusioni a cui giungiamo sono: "tutti sono calvi" e "nessuno lo è", e queste due tesi contraddicono (cfr. il quadra­ to degli opposti) un'altra tesi a cui siamo profondamente affezionati, os­ sia la premessa T] : qualcuno è calvo e qualcuno non lo è.

Da a = "il signor A, dotato di n capelli, è calvo " per successive applica­ zioni del modus ponens si giunge ad ammettere -.TJ , ossia "tutti sono cal­ vi" , e poiché non possiamo accettare -.T] , ne concludiamo che -,a, ossia: "il signor A con n capelli non è calvo " . Ma si scopre che anche -,a, in ba­ se allo stesso procedimento, implica -.T] .



CONTRADDIZIONI IRRIDUCIBILI

Indicando con frecce la relazione di inferenza, possiamo dire che nel caso del mentitore (e delle altre antinomie) abbiamo una sola proposi­ zione in gioco:

Nel caso del sorite e di molti altri paradossi (come l'esempio 1) si ha in­ vece la seguente situazione: a

__,..,

1\

11

Da a deriviamo ---,11 , e poiché ---,11 contraddice 11 (che è una premessa ine­ liminabile) , ne consegue -,a, ma da ---, 1-l di nuovo per RAA si ottiene ---,11 ·

3-2.2. RICAPITOLAZIONE

Riconsiderando i modi di sbarazzarsi delle contraddizioni, possiamo di­ re che le eventualità sono abbastanza chiare. Data una C, anzitutto pro­ viamo a dissolverla. Se ci riusciamo, avremo che la credenza (o la tesi o la proposizione) a è vera e non-a è anche vera, ma in definitiva non è proprio la stessa a che viene affermata e negata: c'è qualche ambiguità dei termini, o c'è qualche parametro nascosto; oppure a e -,a non ap­ partengono entrambe allo stesso "sottoambito" ; o infine tra a e -,a solo 41

PARADOSSI

una delle due è vera. A questo punto diciamo che il paradosso è appa­ rente (e lo si può definire veridico o falsidico: cfr. PAR. 4.1) . Se invece la dissoluzione fallisce, possiamo tentare la riduzione al­ l' assurdo di qualche premessa difettosa. In un sistema logico a rigore non ci sono ambiguità o parametri nascosti, e per questo la riduzione è la pro­ cedura logica per eccellenza. Ma abbiamo due diversi casi di RAA li pri­ mo è la reductio per auto-confutazione: elimino la tesi a perché da a con­ segue non-a (dato a � -,a, assumo -,a ) . Il secondo è la reductio nor­ male: la premessa a genera una C, dunque va negata ( dato a � ( � 1\ --,�), assumo -,a ) . La situazione paradossale si determina per fallimento della riduzio­ ne. Primo caso: la riduzione fallisce perché non sappiamo quale premes­ sa sia responsabile della C, ossia, si direbbe: ? � � 1\ --,�. Parliamo allora di paradossi transitori, o in una fase di transizione. Secondo caso: siamo in grado di stabilire la a difettosa, ma accettare -,a è imbarazzante e pro­ blematico, per esempio perché a è una regola logica fondamentale o una verità analitica, o meglio, e più precisamente, perché accettando -,a si genera di nuovo un'assurdità. Abbiamo allora i paradossi in uno stadio definitivo. Allora come si è visto le possibilità sono due, corrispondenti ai due tipi di RAA Ci risulta che a è una auto-contraddizione, ma negandola si riconferma (cfr. anche PAR. 10.1); dunque: a � -,a, ma anche: -,a � a (mentitore e in generale antinomie) . Oppure abbiamo che a genera una C, ma negando a si genera di nuovo una C (la stessa o un'altra) ; dunque: a � (� 1\ --,�), ma anche: -,a � (� 1\ --,�) (soriti e altri para­ dossi analoghi) . .

.

42

Parte seconda Quasi-paradossi

4

Paradossi falsidici

4· 1 Paradossi veridici e falsidici

Per molti casi giudicati paradossali nella letteratura possiamo dire che si tratta piuttosto di errori. Le possibilità allora sono due: l'errore è del pa­ radosso, è nascosto all'interno dell'argomento (o della domanda insi­ diosa), oppure l'errore è nostro, e consiste nel giudicare paradossale qualcosa che invece è una semplice verità, per quanto strana e apparen­ temente inaccettabile. In The Ways o/Paradox (1962) Quine chiama i due casi rispettivamente paradossi "falsidici" e "veridici" . In entrambi, par­ leremmo di paradossi apparenti: la contraddizione non è un'autentica contraddizione; uno solo dei due termini in antagonismo è vero, anche se inizialmente non sappiamo bene quale sia. Un esempio di paradosso falsi dico citato da Quine è l'enunciato "ogni numero è uguale al doppio di sé stesso " , che è una nota fallacia matematica: [14] dato un numero qualsiasi a, e posto x = a, ne consegue: X2 = ax. Sottraen­ do a2 da entrambi i termini si ottiene X2 - a2 = ax - a>, e dunque: (x + a) (x - a) = a(x - a) . Di nuovo semplificando, il risultato è: x + a = a, ossia a + a = a, da cui: 2a = a. Ma a è un qualsiasi numero: dunque ogni numero è il doppio di sé stesso.

L'errore sta nella semplificazione, ossia la divisione per x - a: poiché x è uguale ad a, è una divisione per zero, che non è legittima (prima della scoperta dello zero però, nota Bunch, 1997, a = 2a era un paradosso ge­ nuino) . L'esempio di paradosso veridico citato da Quine è l'enunciato "esiste almeno un individuo che al suo quinto compleanno ha 21 anni" . In realtà, è abbastanza facile capire che è vero: l a persona in questione è nata il 29 febbraio. Se l'enunciato sembra falso, o inaccettabile, o sor­ prendente, è perché non ricordiamo che esistono anni bisestili. Nei paradossi falsi dici l'errore è interno, è nascosto internamente al­ l' argomento o alla situazione che ci risulta paradossale. Nei paradossi ve45

PARADOSSI

ridici l'errore è esterno: deriva dalle nostre convinzioni errate. Quando l'errore del secondo tipo è sistematico, e condiviso, l' apparenza para­ dossale è in qualche modo giustificata (visto che un errore radicato e condiviso è difficile da definire come errore) . I paradossi veridici che vengono riconosciuti come tali entrano nelle teorie e cessano di essere paradossali . A volte il risultato è semplicemente una crescita di cono­ scenza, che determina modifiche e riassestamenti locali; altre volte il pro­ cesso è catastrofico, ossia implica una riduzione tanto radicale da deter­ minare una crisi della teoria'. I veri paradossi invece, come vedremo, la­ sciano l'ipotesi della catastrofe in sospeso, e per questo non sono falsi­ dici né veridici: o meglio non si sa se siano l'una cosa, o l'altra, o en­ trambe, o nessuna delle due. In questo capitolo affronteremo alcuni casi paradossali del primo gruppo, nei prossimi due affronteremo i casi più noti del secondo .

4· 2 Dalle fallacie ai paradossi

I paradossi che Quine chiama falsi dici sono anche definibili come falla­ cie. Nella storia, la teoria dei paradossi ha coinciso a lungo con la teoria delle fallacie. Il primo luogo in cui si parla di "paradossi" (paràdoxa) , usando i l termine come sostantivo, è il libro più antico dell' Organon ari­ stotelico, le Confutazioni so/istiche, che è anche il primo trattato sugli ar­ gomenti insidiosi dei Sofisti e dei Megarici (cfr. Boger, 1993). I medievali consideravano i paradossi sophìsmata particolarmente sottili e difficili da smascherare. Il rapporto tra paradossi e fallacie è stato inoltre un tema centrale nelle discussioni sui limiti e le opportunità della logica formale, tra Otto e Novecento (Pareti, De Palma, 1979). Ancora oggi alcuni auto­ ri tendono ad assimilare paradossi e fallacie, e a concepire la soluzione di un paradosso esclusivamente come scoperta dell'errore. Questo in fondo non è sbagliato: se c'è una C, di solito qualcuno sta sbagliando, e, al limi­ te, se la C c'è veramente, sbaglia chi crede che non possano esserci C. Una fallacia è un errore argomentativo nascosto (ad arte o inconsa­ pevolmente) : un argomento sembra corretto, ma in realtà non lo è. Il che vuol dire: le premesse sembrano vere ma non lo sono, e/o l 'inferenza sembra valida ma non lo è. Le fallacie si riconoscono, normalmente, fa­ cendo riferimento alla teoria che le riguarda. Diceva Aristotele: ci si in­ ganna perché non si conoscono bene le regole logiche, e quali siano i principali tipi di violazione inapparente che possono subire: dunque a rigore dovrebbe bastare conoscere i tipi di errore per evitarli. La classi-

4· PARADOSSI FALSIDICI

ficazione delle fallacie è però una materia complicata e controversa, è an­ zi forse il capitolo più discusso della teoria dell'argomentazione, e que­ sto può spiegare la facilità in cui si producono le fallacie difficili da sma­ scherare, che sono appunto i paradossi falsidici . Per orientarci, vediamo alcuni fattori strutturali che rendono facile l'equivocazione. r. La prima circostanza da considerare è che non sempre gli errori so­ no propriamente "falsidici" . Esistono errori fortunati, che producono il vero z. Un esempio caratteristico è la cosiddetta cancellazione anomala: [15] data la frazione 16/64, si semplifica togliendo il 6, e si ottiene Il4, che è il risultato corretto.

Si conoscono altri tre casi di cancellazione anomala, per numeratore e denominatore di due cifre: 98/ 49; 95h9; 65/26. Un altro errore fortuna­ to è il printer's errar: [I6] il risultato di 25 9' è esattamente 2. 592, e si ottiene anche semplicemente abbassando gli esponenti; altri due casi sono: 34 425 = 34.425; 31' 325 = 312.325.

Negli errori fortunati la C (cioè l'effetto paradossale) è data dalla disso­ nanza tra procedura e risultato: una giusta procedura dovrebbe produr­ re risultati corretti, e un risultato corretto è prodotto da una giusta pro­ cedura. Evidentemente non è sempre così: forse vale il primo asserto (dalla buona procedura al buon risultato) , ma non il secondo: non sem­ pre un buon risultato è il frutto di una procedura corretta. 2. Un secondo problema è che i metodi (e i criteri di discriminazione del vero e del falso, del giusto e dello sbagliato) non sono del tutto buo­ ni o cattivi in sé, perché molto dipende dalle circostanze di applicazio­ ne 3. In effetti le fallacie sono spesso (se non per lo più) il frutto di buo­ ne regole, usate in contesti impropri. Questo vale in particolare per le fallacie dette informali. L'esempio forse più noto è l' argomento ad vere­ cundiam, che consiste nel far riferimento al giudizio di qualche autorità per avvalorare una tesi. "Le donne non hanno anima: lo diceva san Tom­ maso" è un esempio di fallacia d'autorità: il fatto che un santo soste­ nesse questa tesi perlomeno discutibile non è una buona ragione per considerarla vera. Eppure, il procedimento dell'expertise è del tutto le­ gittimo, anche se è visibilmente una versione di argomento ad verecun­ diam: posso dire con ragionevole certezza che i buchi neri esistono, e posso dire ciò anche se non ho alcuna idea sull'argomento e semplice­ mente appellandomi all' autorità dei fisici. All o stesso modo l'argomen­ to ad hominem (il riferirsi alle qualità della persona che sostiene una te47

PARADOSSI

si) funziona benissimo quando si tratta di verificare l' attendibilità di una testimonianza. Oppure: l' argomento ad baculum (l'appello alla forza) è di essenziale importanza in una controversia sindacale (cfr. Walton, Krabbe, 1995, pp. ro8-2r ) . 3· L e fallacie formali, che cioè violano l e regole logiche, sono apparen­ temente le più sicure: se c'è un errore logico, l'argomento è comunque sbagliato perché non valido. Eppure, la questione non è così semplice. Alcune regole basilari, come le regole dei condizionali, a volte vengono violate con buone ragioni (cfr. CAP. s). Le classiche fallacie dei condizio­ nali sono l'affermazione del conseguente e la negazione dell'antecedente. La prima è per esempio: "se Juliette è francese è europea; Juliette è eu­ ropea, dunque è francese" (ma Juliette potrebbe essere tedesca) ; la se­ conda: "se Juliette è francese è europea, ma Juliette non è francese, dun­ que non è europea" (ma se Juliette fosse tedesca sarebbe comunque eu­ ropea) . Sono errori abbastanza facili da identificare, ma come si vedrà meglio nel prossimo capitolo i condizionali sono oggetti complessi e am­ bigui, per esempio "se sei incinta il test è positivo; il test è positivo, dun­ que sei incinta" sembra un' affermazione del conseguente, ma non è un'inferenza sbagliata. 4· Le fallacie verbali, basate sull'uso del linguaggio, possono essere le­ gate alle "implicature" , ossia non a ciò che si dice, ma a quel che si im­ plica nel dire. Si parla allora di fallacie "pragmatiche" , che riguardano gli effetti del discorso sull'interlocutore, più che il discorso stesso (cfr. Bianchi, 2003) . L' aspetto interessante è che un'implicatura fallace non è propria­ mente un difetto o un errore "interno " , semplicemente perché la re­ sponsabilità dell'errore non è a carico di chi parla o scrive, ma di chi ascolta o legge. Per esempio: [17] n capitano di una nave, preoccupato perché il secondo ufficiale beve troppo, prende nota sul diario di bordo, ogni giorno: " oggi il secondo è ubria­ co" . n secondo legge il diario di bordo, e scrive, una sola volta: "oggi il capita­ no non è ubriaco" .

È un buon esempio di come s i possa veicolare il falso dicendo l a verità. La fallacia si deve all'uso eccettuativo di " oggi" , per cui interpretiamo: oggi non è ubriaco, tutti gli altri giorni sì. Ma la vera insidia consiste nel fatto che dell'errore (della falsità) non è responsabile il secondo ufficia­ le, il quale ha scritto il vero, ma solo chi legge, che ha inteso il falso. Il paradosso del ricatto fa vedere bene come il contesto abbia funzio­ ni specifiche per determinare tanto la fallacia quanto la sua inafferrabi­ lità, spostando la responsabilità dell'errore. Eccone una versione:



PARADOSSI FALSIDICI

[18] Maria sa che Giacomo ha rubato, e gli dice: «so che hai rubato, e inten­ do denunciarti». Poco dopo aggiunge: «ho bisogno di soldi». Giacomo le dà 2.ooo euro, ma Maria dopo qualche giorno lo denuncia. Maria è colpevole di ri­ catto? Forse no, ma allora di che cosa è colpevole?

Non c'è niente di illegale né di per sé scorretto nel chiedere soldi. Non c'è niente di illegale nel denunciare un crimine: anzi è un gesto di cor­ rettezza civile. D'altra parte, non sembra sleale il gesto di avvertire un colpevole che si sta per denunciare il suo crimine. Sembra che l'unico colpevole sia Giacomo. Eppure il comportamento di Maria è tutt'altro che esente da critiche. 5· Una "buona" fallacia in molti casi non è davvero un errore, ma piut­ tosto l'esibizione di una/ragilità/iloso/ica della regola che si suppone vio­ lata. Quasi tutte le forme fallaci (e come vedremo gli errori sistematici) hanno alla loro base problemi logico-filosofici irrisolti: per questo anche i paradossi falsidici sono importanti in logica e in filosofia. Potremmo fa­ re molti esempi, ma consideriamo in particolare la fallacia ad ignorantiam. Si tratta dell'argomento che a partire dall'ignoranza di p deduce non-p, o dall'ignoranza di non-p deduce p: "non abbiamo prove che Dio esista, dunque Dio non esiste" ; "non abbiamo prove che Dio non esista, dunque Dio esiste". L'errore sembra abbastanza facile da smascherare, ma alme­ no in alcuni casi è quasi inevitabile compierlo. Per esempio: "non ci sono prove del fatto che gli OGM siano dannosi, dunque gli OGM non sono dan­ nosi" . Forse la conclusione è vera, ma la tesi che usiamo per dimostrarla a rigore non dovrebbe essere rilevante. Come potremmo però decidere in un senso o nell'altro? Le due direzioni dell'argomento sono sempre pos­ sibili ( ''non ci sono prove del fatto che gli OGM non siano dannosi, dun­ que sono dannosi" ) , e la controversia è destinata a rimanere attiva. Nella pervasività della fallacia ad ignorantiam si esprimono un certo numero di problemi filosofici, tutti più o meno riferibili alla difficoltà di muoversi ai limiti della conoscenza, quando non conosciamo con esat­ tezza qualcosa, e in fondo non conosciamo neppure i limiti e l'entità del­ la nostra ignoranza (cfr. Williamson, 2ooob) . Un primo punto di riferi­ mento utile può essere il problema che David Lewis ha definito elusività della conoscenza (Lewis, 1996) . In breve, l'elusività epistemica può esse­ re così descritta. Per ogni cosa che so (o credo di sapere) , c'è un gran nu­ mero di cose che non so, e che potrebbero farmi cambiare idea. Per esem­ pio: so con certezza che berrò un mojito questa sera, ma non so che un enorme meteorite sta precipitando a tutta velocità sulla terra, e dunque oggi non ci sarà sera, né mojito, né ci sarò io. Si possono scegliere molti altri esempi, anche meno sensazionali, per mostrare che molte proposi­ zioni per cui ho ottime ragioni giustificative potrebbero essere clamoro49

PARADOSSI

samente false, perché circostanze a me ignote fornirebbero ragioni deci­ samente migliori a favore della loro negazione (cfr. Hawthorne, 2004; Fumerton, 2006) . Esistono metodi per ovviare alla difficoltà, ma quello che qui interessa notare è che il successo della fallacia dipende da una per­ plessità filosofica, una specie di super-premessa che giustifica l'errore 4• Tutto questo non significa che le regole logiche, argomentative, me­ todologiche siano inefficaci, dal momento che le loro violazioni sareb­ bero inafferrabili, o giustificate dai limiti delle facoltà umane, o addirit­ tura potenzialmente destinate ad avere successo ("fortunate" ) . Cattani Ù995) ha suggerito un'immagine chiarificante: ci sono "vizi di forma" e "vizi d'uso " ; nel primo caso abbiamo a che fare con una struttura difet­ tosa, come una scala mezza rotta, e perciò instabile, nel secondo si ha a che fare con buoni strumenti, ma usati in contesti impropri, come una buona solida scala appoggiata a un terreno cedevole. Tra i vizi di forma (o strutturali) c'è sicuramente il fatto che la violazione è giustificata dal­ l' esistenza latente di un vero paradosso, ossia da perplessità logiche, epi­ stemiche, metafisiche che non hanno (o non hanno ancora) trovato so­ luzione e che perciò generano situazioni contraddittorie difficili da " ri­ durre " . n fatto di conoscere la difficoltà è però, precisamente, il punto di partenza per provvedere miglioramenti (umanamente possibili) delle regole ed evitare il dogmatismo metodologico 5•

4· 3 Oggetti impossibili?

L'uso di includere nei repertori di paradossi immagini di oggetti "im­ possibili " è stato inaugurato da Hughues e Brecht (1975), seguiti poi da P alletta (1983 ) , e Odifreddi (2001 ) . La maggior parte dei paradossi di que­ sto tipo (forse tutti) sono illusioni e fallacie visive. I giochi figurali di Escher o di Istvàn Orosz (che è oggi il suo più conseguente erede) non rappresentano vere (effettive) C. Le scale su cui uomini nella stessa di­ rezione scendono e salgono, oppure le finestre spalancate che in realtà sono chiuse, le colonne che sostengono un soffitto e ne sono sostenute e altri casi analoghi, sembrano contraddizioni reali (de re) : ma sono per lo più figure contraddittorie, non raffigurazioni di contraddizioni. Dunque le C "oggettuali" o "figurali" sono normalmente paradossi falsidici, se­ condo la terminologia di Quine, e secondo la nostra terminologia: vei­ colano solo l'apparenza di C. In qualche caso l' apparenza è difficile da sconfiggere. Un esempio abbastanza sorprendente è il paradosso detto della ruota di Aristotele



PARADOSSI FALSIDICI

perché compare in un'opera greca dal titolo Meccanica erroneamente at­ tribuita ad Aristotele. Consiste nella " dimostrazione" che una ruota ha una circonferenza identica a quella di una ruota che ha il diametro esat­ tamente della metà. [19] La dimostrazione si ottiene collocando una ruota sullo stesso asse dell' altra e facendole ruotare.

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Quando la ruota più grande avrà compiuto un tratto di percorso pari alla sua circonferenza, anche la più piccola avrà compiuto lo stesso percorso: i due rag­ gi infatti ruoteranno esattamente nello stesso modo. Dunque: le ruote hanno la stessa circonferenza, pur avendo l'una un diametro doppio dell'altra.

In realtà la ruota più piccola non compie lo stesso percorso della ruota più grande, ma un percorso doppio. L'illusione deriva dall'adozione in­ tuitiva della procedura di confronto punto per punto, ossia verificando la corrispondenza dei punti stÙ raggio tra le due circonferenze. È un buon metodo, in molti casi, e non è facile capire perché non debba funzionare. Il caso più celebre di paradosso oggettuale è la striscia di Mobius. Si ottiene così: [20] Prendete una striscia di carta lunga circa 50 cm. La striscia ha due lati distinti: infatti è impossibile tracciare una linea continua che passi da un lato al­ l' altro senza sollevare la matita dal foglio. Ora congiungete i due capi, ma aven­ do cura di rovesciare la striscia, in modo che il punto B risulti coincidente con C, il punto D con A: A c

�------�

B D

Potete ora disegnare sulla striscia una linea continua. Esterno e interno coincido­ no e non esistono più i due lati: la linea li percorre entrambi senza interruzioni.

La striscia è davvero un oggetto contradditorio? Oppure evidenzia sol­ tanto una nostra contraddizione nel descrivere le strisce ad anello in ter­ mini di "interno" ed " esterno" ? Non è facile rispondere: la striscia in tut­ ta apparenza veicola una C, ma non è chiaro se la C dipenda dall'ogget­ to stesso o dal nostro modo di parlarne 6. 51

PARADOSSI

In effetti, la domanda " esistono oggetti contraddittori? " deve fare i conti con tre questioni: la raffigurazione di C, la percezione di C, l'esi­ stenza effettiva di C. Parleremo più in dettaglio dell'esistenza di con­ traddizioni (cfr. CAP. 12) ; per adesso consideriamo brevemente le altre due questioni.

4·3-I· RAFFIGURARE CONTRADDIZIONI In un articolo del 2003 dal titolo The Art o/ the Impossible R. A. Soren­ sen ha offerto un premio di roo dollari per chi gli mostrasse la raffigura­ zione (in fotografia, disegno o pittura) di una impossibilità logica, ossia di una reale C (cfr. Sorensen, 2003b) . Il premio non è granché, perché chi lo propone non esclude che sia possibile. Si tratterebbe quindi di di­ segnare, dipingere o fotografare una cosa che c'è e non c'è, e che ha o non ha una certa proprietà. Sorensen fissa alcuni requisiti perché la raf­ figurazione proposta possa vincere il premio: r. L'immagine deve essere sufficientemente dettagliata da trasmettere la natura dell'impossibilità. Per esempio non vale un'immagine così: che intenda raffigurare un quadrato rotondo visto dall'alto. 2. Non vale il riferimento a sistemi anomali, per esempio geometrie in cui i quadrati sono rotondi, ma occorre un genuino contrasto con la logica. 3· Non vale una figura che sia logicamente impossibile, ma la figura di una autentica impossibilità logica; andrebbe bene per esempio l'imma­ gine di tutte e solo le immagini che non raffigurano sé stesse. 4· L'inconsistenza deve essere percepibile, non può essere basata su una stipulazione arbitraria (per esempio uno scarabocchio: questa è mia ma­ dre), o sulla contraddizione tra sistemi diversi: per esempio tra figura e parole, come nel quadro di Magritte: «questa non è una pipa» (cfr. il quadro dal titolo Ma/intitolato, PAR. n.r ) . 5 · L'inconsistenza non deve essere de dieta: un testimone alla polizia dà un resoconto pieno di contraddizioni, ma non dice di essere stato pre­ sente e non presente nello stesso tempo nello stesso luogo. Si può de­ scrivere/raffigurare uno stato di cose consistente con descrizione/raffi­ gurazione inconsistente, ma la figurazione sarebbe contraddittoria, non lo stato di cose. 6. L'inconsistenza non deve essere apparente, ovvero solo relativa al­ la percezione; per esempio su una banconota da r dollaro il volto di George Washington sembra grigio ma è composto di linee nere su fon52



PARADOSSI FALSIDICI

do bianco, dunque bianco-nero, ma la contraddizione è solo interna al sistema percettivo. 7· Infine, l'ambiguità non è sufficiente; la coerenza delle figure ambi­ gue è "negoziabile", per esempio la striscia di Mobius presenta una con­ traddizione che si può risolvere dando adeguate definizioni di "interno " ed "esterno" . L'obiettivo di Sorensen è cercare di portare ragioni all'intuizione che le contraddizioni non sono mai reali, relative alle cose, ma solo epistemi­ che, relative ai nostri sistemi di descrizione- comprensione della realtà. Per lui l'esperienza è sistematicamente (e necessariamente) inconsistente, ma non può dirsi che lo sia la realtà (cfr. Sorensen, 2001). In questo sen­ so la proposta di Sorensen si presenta in polemica con Graham Priest, che ritiene vi siano cose e stati di cose contraddittori (cfr. CAP. 12) .

4-3.2. PERCEPIRE CONTRADDIZIONI Priest (20o5a, pp. 125-33 ) racconta il ritrovamento della "scatola di Syl­ van " (ossia di Richard Routley, suo maestro e amico, che a un certo pun­ to aveva cambiato nome in Sylvan) . La storia è più o meno così: mentre sta controllando gli scritti inediti di Routley (morto improvvisamente nel 1996) insieme al suo esecutore testamentario, Priest trova una scatola di legno con la scritta "oggetto impossibile" . Aprendola, vede inequivoca­ bilmente che «la scatola era assolutamente vuota, ma conteneva qualco­ sa» (ivi, p. 128 ) . Si trattava in altri termini di una "vuotezza piena". Con­ traddizione. Evidentemente, nota Priest, chi ascolta questa storia avrà ragionevoli dubbi e penserà che la sua percezione fosse fallace: ma po­ sto che effettivamente non ci fosse errore percettivo («i miei sensi fun­ zionavano perfettamente, sembravo del tutto normale») , ci troveremmo nella situazione di dover spiegare a un cieco nato la natura del colore ros­ so. Potrebbe darsi il caso di un tipo di percezione che non abbiamo mai avuto né allo stato d sembra di poter avere? Se sì, allora forse la perce­ zione di contraddizioni è di questo tipo. Fenomenologicamente, è pos­ sibile percepire la stationary motion, ossia il movimento di ciò che è fer­ mo. L'esempio classico è l'effetto cascata: fissate una cascata sufficiente­ mente a lungo, poi spostate lo sguardo sulla riva, e vedrete le rocce e la montagna muoversi e stare ferme nello stesso tempo. Più difficile sem­ bra però percepire la vuotezza del pieno 7. In realtà questa scatola non esiste: o meglio esiste come finzione, e non come realtà, il che significa: c'è, ma non esiste. La prospettiva se­ condo cui ci sono cose che non esistono è tradizionalmente ascritta ad Alexius von Meinong. La variante di meinongismo sostenuta da Routley 53

PARADOSSI

e Priest è detta noneism (nientismo o noneismo) , ed è il tipo di metafisi­ ca che si ritiene sia adattabile all'idea dell'esistenza di "vere" C. Si tor­ nerà sulla questione nel CAP. 12, ma per il momento è utile considerare il punto cruciale nel rendiconto di Priest, ossia la percezione di C. La do­ manda è allora: possiamo percepire contraddizioni, ossia una cosa che è quadrata e rotonda nello stesso tempo, oppure è sferica ma è anche qua­ drangolare? La risposta di Priest (wo6, pp. 57-64) è semplice: no, le C non si percepiscono. In particolare ciò che non è percepibile della C è la simultaneità, la concomitanza effettiva delle percezioni relative ai due stati di cose con­ traddittori. Priest fa una serie di esempi. Anzitutto, consideriamo qual­ cuno che attraversi la soglia di una stanza: c'è sicuramente un istante in cui la persona si trova al tempo stesso dentro la camera, e fuori, ma que­ sto momento è un istante infinitesimo, e perciò non è percepibile. Inol­ tre, ci sono certamente illusioni di C, per esempio le cosiddette figure ambigue, come la "griglia di Hermann" : un gruppo di sedici quadrati neri su fondo bianco che può essere anche vista come un reticolo di sei sbarre bianche che si incrociano su uno sfondo nero . Ma non vediamo simultaneamente il reticolo e i quadrati. Un caso forse più disorientante è la figura di Schuster: [21]

Guardando a sinistra si vedono distintamente i tre tubi, mentre a destra l'immagine muta. La figura è coerente ogni volta che ci focalizziamo su un lato. Nota Priest: «non si vede mai una situazione contraddittoria. Si possono vedere parti della situazione, ciascuna delle quali è coerente» (2006, p. 59) . Un caso diverso, in cui effettivamente sembra di vedere una situa­ zione contraddittoria secondo Priest è la scala di Penrose: 54



PARADOSSI FALSIDICI

[22]

Se si sceglie un qualsiasi gradino, poniamo il più vicino, e si inizia a " sa­ lire", ci si troverà alla fine sullo stesso gradino (il meccanismo è esatta­ mente quello delle scale di Escher) . Questo significa che ci troviamo in una situazione contraddittoria, perché "salire" non può significare tro­ varsi in un punto che è uguale o più basso di quello da cui si è partiti (cfr. le inconsistenze predicative: PAR. 2.2) . Un'obiezione che si può rivolgere alla tesi secondo cui la scala di Penrose sarebbe un caso di contraddizione oggettuale percepibile è le­ gata alla differenza tra l'azione fisica del salire e la visualizzazione o l'im­ maginazione di tale azione. In effetti non possiamo fisicamente "salire" su una scala di Escher o di Penrose: possiamo visualizzare o immaginare la procedura, ma non compierla effettivamente ( questo ci conferma che una scala di Escher è un'illusione di C, o se volete "c'è" ma non esiste) . Almeno per ora e limitatamente ai casi a noi noti dunque: non esi­ stono percezioni di C, non esistono (in senso stretto) paradossi della per­ cezione. Abbiamo se mai contenuti percettivi contraddittori, oppure il­ lusioni di contraddizioni (l'effetto cascata o le percezioni distorte dal­ l'alcol ) . Forse, suggerisce Priest, in futuro la scienza scoprirà C percepì­ bili e non illusorie. Non è escluso. Scoprirà casi di scatole che non sol­ tanto sono piene e vuote, ma si possono effettivamente percepire come tali. «La scienza è una strana cosa», scrive Priest, «ma per il momento al­ meno c'è buona ragione di supporre che il mondo percepibile sia consi­ stente» ( 2oo6, p. 64) . 55

5

Condizionali difettosi

p

La bottega del barbiere e altre illusioni cognitive

Il paradosso della bottega del barbiere è stato presentato da Lewis C arroli su "Mind" nel 1894, in un articolo dal titolo A Logica! Paradox (cfr. Car­ roll, 1894) : [23] A, B e F gestiscono una bottega da barbiere. In negozio deve sempre es­ serci qualcuno, dunque se F esce, allora se esce anche A, B dovrà stare in negozio: (a) F � (A � -,B) (che significa: se F esce, allora se esce A, B non esce) . D'altra parte però A si ri­ fiuta di uscire senza B, dunque: (b) A � B Che cosa ne consegue? Apparentemente, date le condizioni, F non può mai usci­ re. Infatti: se F esce, in base alla regola (a ) si determina una certa condizione: che se anche A esce, B non può uscire, e deve stare in negozio; questa condizione però non può mai darsi: non si dà il caso che A esca senza B, dunque: F non può uscire. Il ragionamento però è sbagliato. In base alle condizioni stabilite, solo due eventualità non si verificano: che tutti e tre i personaggi escano, oppure che B resti da solo in negozio. Dunque: quando B è in negozio, che F sia presente o meno, c'è anche A. F è perfettamente libero di uscire.

È un paradosso veridico: la conclusione "F può uscire" è vera, anche se può non essere immediatamente evidente. La contraddizione però " re­ siste" fino a quando non si sia convinti della soluzione finale. Il caso è stato in effetti al centro di una discussione iniziata già nello stesso nu­ mero di "Mind" e ripresa una decina di anni dopo. La soluzione, che proponeva lo stesso Carroll, non è stata comunemente accettata che nel 1905, dopo un intervento di Russell '. Il problema coinvolto nel paradosso è l'interpretazione dei condi­ zionali: una questione centrale in logica. La struttura " se a allora W' , os­ sia " a � W' (se piove non esco, se Juliette è francese allora è europea, se 57

PARADOSSI

un numero è maggiore di ro allora è maggiore di 5) esprime il fenomeno per cui la verità di certe proposizioni implica la verità di altre, e dunque a certe condizioni esibisce la struttura stessa delle inferenze in generale, ossia del processo per cui da qualche premessa a deriviamo una conclu­ sione �- Non per nulla la nozione di validità in logica si modella sul si­ gnificato dell'operatore � : l'espressione " se a allora W' significa: non si può dare il caso che a e non � dunque dato a, inferiamo: allora � (data ' la verità delle premesse, la conclusione è vera). C'è evidentemente una differenza tra l'implicazione a � � ( che in definitiva è un enunciato, benché composto) e il ragionamento o argomento a � �; ma consideran­ do il processo logico necessario per "trarre" conclusioni (in logica e nel pensiero ordinario) la differenza non è molto decisiva. In effetti da que­ sto punto di vista possiamo dire che le fallacie condizionali sono gli er­ rori fondamentali della deduzione, ossia del ragionamento in cui il lega­ me tra premesse e conclusione è necessario. Il paradosso di Carroll ha molti elementi di similarità con un certo numero di errori sistematici che riguardano i condizionali e che hanno fatto discutere linguisti, scienziati cognitivi, filosofi del linguaggio in an­ ni molto più recenti 2 • Il capostipite di questi quasi-paradossi è un famo­ so test predisposto da Peter C. Wason (r966) per controllare la compe­ tenza logica, il cosiddetto /our cards selection task: [24]

Date le seguenti quattro carte:

e dato l'enunciato (W') "se c'è un A su un lato di una carta, allora sull' altro lato c'è un 3 " s i chiede: quali carte è sufficiente voltare per verificare la verità d i ( W') ?

L a risposta corretta è "A e i ' , ossia: s i controlla s e dato A su u n lato c'è 3 sull' altro lato, e si controlla se dato non-3 si ha non-A . Le due opera­ zioni corrispondono alle regole-base dei condizionali: il modus ponens (MP) e il modus tollens (MT) . Dato "se a allora W' , avviene che dato a, consegue � (MP) , e dato non-�, consegue non-a (MT) . I risultati variano in base al tipo di popolazione esaminata, ma Wason calcolò che in una popolazione di studenti universitari occidentali è normale aspettarsi una risposta corretta in meno del ro per cento dei soggetti interpellati. Dal 1966, quando è stato presentato per la prima volta, il test ha ri­ cevuto una quantità di elaborazioni diverse. Al posto delle carte sono

5.

CONDIZIONALI DIFETTOSI

state presentate altre situazioni, in cui si trattava di pagare una multa, di minorenni che bevono alcolici o di francobolli su lettere aperte o chiuse. Si è riscontrato con chiarezza che in alcune versioni, specie quel­ le che mettono in gioco circostanze della vita quotidiana, l'errore ha una frequenza decisamente minore: sembra cioè che il ragionamento ordi­ nario non sia indifferente al contenuto, come spiega bene Frixione (2007, p. 29) . Il problema per quel che qui ci interessa è però capire s e errori di questo tipo siano dovuti a carenze di competenza logica o alla varietà e contestualità delle inferenze naturali, oppure ancora rivelino qualche co­ sa di caratteristico circa i condizionali e i paradossi che li riguardano. L'e­ sempio che segue si deve a Philip N. Johnson-Laird. [25] Si supponga che in un gioco a carte uno dei giocatori, X, formuli a proposito delle carte che ha in mano le seguenti asserzioni: Tr: se tra le mie carte c'è un Re, allora c'è un Asso (R � A) T2: c'è un Re (R) T3: se non c'è un Re, allora c'è un Asso (-,R � A ) . Sappiamo che T2 è vera: X h a u n Re; poi sappiamo che Tr e T 3 non pos­ sono essere simultaneamente vere, ossia: se Tr è vera, allora T3 deve essere fal­ sa, e viceversa, e una delle due deve essere vera. Si è portati a concludere che X ha un Asso: ma ciò non può essere vero, per­ ché se vale quel che sappiamo, si è obbligati ad ammettere che non ci può esse­ re alcun asso tra le carte del giocatore X.

Le affinità con il paradosso di Carroll sono evidenti: anche in questo ca­ so si tende semplicemente a pensare che R � A e -R. � A siano non compatibili, dunque si cancella l'ipotesi T3 e si lavora solo con Tr e T2, da cui per modus ponens (dato R, consegue A) si deduce A. Dal punto di vista logico questo però è sbagliato. Un condizionale del tipo " o; � W' è falso solo in un caso: se a è vero e p è falso. Ciò è abbastanza intui­ tivo: se dico "se a allora P" intendo dire che non si dà il caso che a e al tempo stesso non-p. Applicando il significato di � al test di Johnson­ Laird abbiamo che R � A e -R. � A , dato A , sono entrambe vere, mentre, dato -A, è vera solo T3 . Poiché non possono essere entrambe vere, è vera solo T3, ed è vero -A . Per capire l'errore possiamo considerare l e situazioni i n cui Tr e T3 possono essere vere, ed escludere quelle compatibili (visto che Tr e T3 si escludono reciprocamente) . Dato Tr, ossia "se X ha un Re ha un Asso " , l e situazioni possibili sono: r. X h a u n Re e un Asso; 2 . non h a R e non ha A; 3· non ha R e ha A. Dato T3, cioè " se X non ha un Re ha un Asso " , l e situazioni possibili sono: 4· non-R e A; 5· R e non-A; 6 . A e R. Ora T2, che sappiamo essere vera, ci dice che c'è un Re, dunque eliminiamo le 59

PARADOSSI

situazioni 2, 3 e 4, che sicuramente non sussistono, e ci restano solo tre possibilità: I, 5, 6. Ma sappiamo che TI e T3 non possono essere entram­ be vere, perciò dobbiamo eliminare anche I e 6, che sono identiche. Re­ sta accettabile solo la 5: X ha un Re e non ha un Asso.

5·2 Le ragioni degli errori

Perché ci si sbaglia così frequentemente, riguardo ai condizionali? Gli psicologi del ragionamento hanno fornito diverse ipotesi esplicative (cfr. Evans, Over, 2004) . Una prima spiegazione è che il condizionale ha nel nostro pensiero una natura " camaleontica" , per cui in casi di incertezza tende facilmente a essere sostituito con un doppio condizionale. Il pen­ siero comune è abituato a questo genere di rapide correzioni. Ciò spie­ ga l'errore del paradosso di C arroli in un modo interessante: si interpre­ tano F � (A � --,]3) e A � B come bicondizionali, e si conclude che F non può uscire visto che esce solo se A esce senza B, ma A e B escono sempre insieme 3• Un' altra spiegazione fa appello alla differenza tra forme di pensie­ ro primitive o evolute. Dal punto di vista evolutivo la forma " se p allo­ " ra q appare tardivamente. I bambini più piccoli a quanto sembra ten­ " dono in modo sistematico a interpretarla come "p e q , mentre i più grandi decisamente la traducono in p H q. Si può supporre che un re­ siduo di questa visione primitiva della condizionalità sopravviva nella valutazione ingenua del paradosso di Carroll. Il condizionale " se esce A allora non esce B" viene interpretato come " esce A e non esce B" e " se A allora B " come "A e B " . Da cui consegue (come nel caso pre­ cedente e per le stesse ragioni) che la condizione F non si può mai da­ re: F non esce. L'interpretazione primitiva dei condizionali però non sembra esse­ re del tutto arbitraria, se si considera la teoria dei condizionali supposi­ zionali, definiti anche semi-proposizionali o restrittivi4. In base a questa teoria, normalmente il condizionale ordinario ( quello con il verbo al­ l'indicativo, del tipo: "se è primavera le piante fioriscono " ) esprime an­ zitutto la verità dell' antecedente. Quando dico "se p allora q " intendo che si dà anzitutto la condizione p e che q ne consegue in qualche mo­ do. Dunque, nei casi sopra citati non c'è di mezzo realmente un errore, ma piuttosto una particolare interpretazione della struttura p � q. La teoria spiega piuttosto bene il caso apparentemente inesplicabile degli Indios del Sud America, a cui un intervistatore sottopone la seguente 6o

5.

CONDIZIONALI DIFETTOSI

domanda elementare: "se un cacciatore uccide sei orsi al giorno, è vero che ne uccide 42 in una settimana? " . Gli Indios rispondono senza esi­ tazioni: "no " , pur essendo perfettamente in grado di compiere il calco­ lo 6 x 7 = 42. Molto semplicemente, perché non si possono uccidere sei orsi al giorno. I condizionali supposizionali equivalgono a situazioni epistemiche in cui stabiliamo per ipotesi che p sia vero e valutiamo che, se così è, ne consegue che q; evidentemente, se sappiamo che p non è ve­ ro, ci si chiede che senso avrebbe l'intero ragionamento . Nel caso del test di J ohnson-Laird si giustifica allora l'eliminazione rapida dell'ipo­ tesi ---,R � A , dato R. Ciò rimanda a quel che possiamo chiamare "il pri­ mato dell'antecedente" nel pensiero comune: in molti casi in un condi­ " zionale "se p allora q l' antecedente, cioè p, è considerato "più impor­ tante " . Per il significato logico di p � q non è propriamente così : anzi la falsità dell'antecedente è garanzia della verità del condizionale (se a non è vero, � può essere vero o falso, indifferentemente, e il condizio­ nale a � � resta vero) . Secondo i teorici dei "modelli mentali" 5, il problema nei casi analo­ ghi al paradosso di Carroll consisterebbe nella difficoltà, da parte della nostra memoria di lavoro (la memoria a breve termine che usiamo per compiere operazioni logiche immediate) , di tenere a mente tutte le "si­ tuazioni" possibili individuate dai condizionali e valutarne le relazioni. Nell'ascoltare un enunciato ci formiamo il modello mentale della situa­ zione di cui l'enunciato dà conto, ma è quasi impossibile formarsi un mo­ dello mentale di enunciati complessi, come F � (A � --B) . Inoltre gli enunciati negativi sono difficili da simbolizzare: se il modello di "p e q " è una struttura semplice in cui figurano p e q congiuntamente, il model­ lo di non-p non sembra avere equivalenti figurali. Secondo Evans e Over (2004) la radice degli errori sarebbe da im­ putarsi piuttosto a una complessità intuitiva della relazione anteceden­ te-conseguente, di cui i dibattiti filosofici sui condizionali hanno sempre dato conto. Come dire: il concetto di condizionalità ha esso stesso una natura variegata e complessa. Per questo si usa anche dire che il "se . . . al­ lora" in verità non è un operatore, ma una intera famiglia di operatori concettuali. Inoltre, Evans e Over notano che nell'uso e nella compren­ sione dei condizionali, e dunque nella scelta del tipo di operatore da ap­ plicare, agiscono due sistemi separati. Il primo, il sistema r, è istintivo e pragmatico, e per così dire costruisce il quadro concettuale preliminare, isolando le possibilità rilevanti, il secondo, il sistema 2, elabora il condi­ zionale vero e proprio, ossia la struttura antecedente-conseguente. Tan­ to nell'elaborazione quanto nella valutazione dei condizionali i due si­ stemi operano congiuntamente, e a volte uno dei due agisce in modo dis­ sonante rispetto all'altro. 6r

PARADOSSI

5·3 Logica e pensiero comune

Esistono certamente difformità tra logica e ragionamento naturale6• Ciò non significa necessariamente che la logica (la teoria formale del ragio­ namento) vada in una direzione e la comprensione intuitiva del mondo vada in una direzione completamente diversa; a volte anzi la consonan­ za è perfetta. Un buon esempio è il caso del cane ragionatore: [26] Un cane fiuta una pista. Procede speditamente, finché arriva a un bivio. Prende una delle due vie, e con il naso a terra controlla se la preda ha preso quel­ la direzione. Poi all'improvviso si ferma, torna sui suoi passi, e prende l'altra strada, senza preoccuparsi di controllare la continuità della traccia.

Difficile non vedere nel procedimento del cane il sillogismo disgiuntivo, " ossia la forma logica "p oppure q, ma non-p, dunque q (che tra l'altro equivale al modus ponens, una regola basilare e intuitiva) . Se questo va­ le per un cane a maggior ragione dovrebbe valere per il ragionamento umano : i processi mentali ordinari dunque fanno uso (possono far uso) di qualcosa di simile a una logica, anche a livelli molto elementari. Ma proprio questo accordo di massima è fonte di confusione, per­ ché non sempre funziona. A volte, l'accordo fallisce a causa di errori del senso comune: i paradossi veridici di Carroll e di Johnson-Laird sono ca­ si in cui il ragionamento ordinario ha torto e la logica ha ragione. Ma ci sono anche casi in cui è la logica ad avere torto, o meglio: la logica (clas­ sica) non riesce a catturare tutti i modi in cui il concetto di condiziona­ lità trova applicazione nelle circostanze della vita ordinaria. Questa difficoltà, che era già nota ai tempi delle discussioni antiche, dei Megarici e degli Stoici, ha aspetti diversi, ed è alla base delle diverse interpretazioni e dei diversi tipi di analisi dei condizionali elaborate dal­ la logica moderna, proprio sulla base del riscontro di alcune circostanze paradossali 7. Un primo esempio è la distinzione tra il condizionale detto indicati­ vo, per esempio: " se prendi un aereo arrivi a Roma in poche ore" e quel­ lo contro/attuale: "se il ladro fosse entrato dalla finestra ci sarebbero del­ le impronte nell' aiuola" . L'operatore � è usato per indicare entrambi, e in molti casi la differenza non è logicamente rilevante. Per esempio: "se prendi un aereo arrivi a Roma in poche ore" equivale a: " se prendessi un aereo arriveresti a Roma in poche ore " , se è vero il primo è vero anche il secondo. Ma non è sempre così. Per esempio : "se Oswald non ha ucci­ so Kennedy, l'ha fatto qualcun altro" non ha le stesse condizioni di ve­ rità di: "se Oswald non avesse ucciso Kennedy, l'avrebbe fatto qualcun



CONDIZIONALI DIFETTOSI

altro" . Il primo enunciato è vero, il secondo non lo è ( almeno allo stato delle nostre informazioni) . L a struttura a � �, che significa: "non si d à il caso che a sia vero senza che � sia vero " , è perfettamente adeguata in molti casi: per esem­ pio, non si può essere francesi senza essere europei, perciò, "se J uliette è francese allora è europea" è vero. Ma l'applicazione incondizionata di questa stessa struttura genera conseguenze problematiche. Per esempio: qualsiasi condizionale "se a allora W' in cui a sia falso è vero, dunque " se Napoleone era giapponese io so volare" è vero, ed è vero "se i cavalli vo­ lano allora 2 + 2 = 4" . La conseguenza più nota di tutto ciò sono i para­ dossi dell'implicazione materiale.

Le due derivazioni sono perfettamente valide. La prima ci dice che se una pro­ posizione è vera, è implicata da qualsiasi altra proposizione; la seconda ci dice che una proposizione falsa implica qualsiasi proposizione.

Altri casi quasi-paradossali rivelano altri aspetti problematici della con­ figurazione a � � 8 • Primo esempio - L a regola detta del rafforzamento dell'antecedente è l a seguente:

È questa una derivazione valida: sta a significare sostanzialmente che, " dato " se p allora q , per qualsiasi proposizione aggiunta a p consegue sempre q. Perché dovrebbe esserci una differenza? Per esempio : dato " se un numero è maggiore di IO è maggiore di 5 " , vale anche: " se un nu­ mero è maggiore di IO e minore di IOO è maggiore di 5 " . Ma supponiamo che p = "la pena di morte viene abolita"; q = "sono felice" ; r = "la Terra viene distrutta dai Marziani", abbiamo allora: se la pena di morte viene abolita sono felice; dunque: se la pena di morte viene abolita e la Terra viene distrutta dai Marziani sono felice.

Secondo esempio - La regola di concatenazione (o di transitività, o sillo­ gismo ipotetico) è del tutto accettabile: se p implica q e q implica r, allo­ ra p implica r. Dunque la derivazione: -.p � q, r � -.p, � r � q

PARADOSSI

è perfettamente valida. Eppure dato p = "John vince le elezioni" , q . . "]oh n s1 d'a al b usmess , , e r = "] o hn muore , , abb'1amo:

=

se John non vince le elezioni si dà al business; se John muore non vince le ele­ zioni; dunque: se John muore si dà al business.

Terzo esempio - La negazione di un condizionale equivale all'afferma­ zione dell' antecedente e negazione del conseguente. Dunque:

La derivazione è valida e il suo significato è del tutto ragionevole. Con­ siderando che a � B vuol dire: "non si dà il caso che a e non-W' , ne con­ segue che negare a � B vuol dire "si dà il caso che a e non-W' . Di qui deriva però una nota prova (fallace) dell'esistenza di Dio. [28]

Il seguente enunciato: ( 1' ) Se Dio esiste, allora c'è dolore inutile nel mondo

sembra controintuitivo, e dunque non c'è difficoltà a sostenere che ('') non sia vero. Dunque: --, (Dio esiste � c'è dolore inutile nel mondo) Noi sappiamo però che un condizionale classico significa: non si dà il caso che e non-�. Per cui abbiamo:

a

--, (-,(Dio esiste

1\

non c'è dolore inutile nel mondo) )

Togliendo la doppia negazione: Dio esiste e non c'è dolore inutile nel mondo

La conclusione è rassicurante, ma l' argomento non convince affatto. Si no­ ti che lo stesso risultato si può ottenere con qualsiasi altro enunciato come conseguente, per esempio: "se Dio esiste allora Parigi è una bella città" . Tutti e tre gli esempi ci parlano d i una inadeguatezza di � rispetto a quel che intendiamo con termini come " condizionale" o "implicazione" 9• In particolare il primo e il secondo fanno vedere che nell'isolare la rela­ zione antecedente-conseguente "nel mondo" (per usare la terminologia di Evans e Over: nel mettere in opera il sistema I) dobbiamo tenere con­ to di co-condizioni che possono costituire anti-condizioni: se capita il fat­ to a sono felice, ma se a capita insieme allo sgradevolissimo fatto B, non lo sono affatto; se capita a allora capita anche B, ma non se insieme ad a si verifica un certo fatto y che toglie le condizioni per B. Naturalmente la

5.

CONDIZIONALI DIFETTOSI

lista delle condizioni concomitanti è aperta e infinita, come ci dice il prin­ cipio dell'elusività della conoscenza, che si è visto nel precedente capito­ lo (cfr. PAR. 4.2.2) . Dunque ogni enunciato del tipo "se si verifica a allora si verifica (verificherà) W' è virtualmente falso? In realtà può non essere così. La soluzione si ottiene inserendo nel­ la logica dei condizionali di questo tipo la clausola ceteris paribus, ossia: " se a, e se ogni altra rilevante circostanza resta invariata, allora W' . Per cui avremo : "se John non vince le elezioni, a parità di condizioni, si dà al business"; " se la pena di morte viene abolita, ceteris paribus, sono feli­ ce" . Queste considerazioni sono alla base della "logica condizionale" , sviluppata d a Robert Stalnaker e David Lewis 10• Per quel che riguarda poi il terzo esempio, è evidente che l'implica­ zione che neghiamo nel negare ( �' ) non è del tipo che prevede l' equivalen­ za tra -, (p � q) e p 1\ -.q. Equivale piuttosto a una implicazione stretta, o a una implicazione rilevante. Un condizionale stretto esprime una relazio­ ne tra antecedente e conseguente più forte di quella espressa da � ed equivale a "è necessario che se p allora q". Ossia: in tutti i mondi o situa­ zioni in cui si dà il caso che p, si dà anche il caso che q. Quando neghia­ mo ( �' ) intendiamo dire che ci possono essere situazioni e mondi in cui Dio esiste ed esiste il dolore inutile, ma ciò non ci autorizza a determi­ nare nulla di categorico. In altri termini: "non è necessario che (p � q) " significa: è possibile che p e non-q, è possibile che qualcosa chiamato Dio esista e non ci sia dolore, è possibile che Dio esista e Parigi non sia una città particolarmente bella. L'implicazione stretta in verità non elimina tutti i problemi, perché possono verificarsi i paradossi dell'implicazione stretta, che lasciano vedere che se a è impossibile, allora implica stretta­ mente qualsiasi p; se a è necessario, allora è implicato da qualsiasi p. La nozione di implicazione rilevante mette in gioco una strategia di­ versa, focalizzata più strettamente sulla natura della relazione tra ante­ cedente e conseguente. Per i logici della rilevanza 11, dire che a implica p equivale a dire che c'è qualcosa in a che è condiviso da p, c'è un legame specifico e rilevante tra a e p, dovuto alla costituzione dell'uno e dell'al­ tro. Da questo punto di vista, tanto i paradossi dell'implicazione mate­ riale classica quanto quelli dell'implicazione stretta sono scongiurati. E in particolare risulta che se nego e') , o un qualsiasi altro enunciato del­ la forma: "Dio esiste �

ux (nx , cy ) = 4 ux ( cx , ny ) = I > ux (nx , ny ) = 2 Se y confessa, a x conviene confessare (altrimenti dovrà scontare quattro anni) ; se y non confessa, a x conviene comunque confessare (perché co­ sì sconta solo un anno) . C'è quindi una semplice ed evidente soluzione del dilemma: confes­ sare. È il cosiddetto "punto di equilibrio di Nash " : per entrambi i gio­ catori la soluzione " confessare" è la scelta migliore. Si direbbe dunque che il dilemma del prigioniero non è un vero dilemma, visto che c'è una soluzione. In realtà la questione non è così semplice. In una società in cui gli individui si muovono tutti in base all'utilità attesa personale si ottiene l'equilibrio di Nash : tutti confessano e tutti scontano tre anni. Però va notato che in questo modo le soluzioni migliori, ossia un anno e due anni, vengono a priori scartate. Infatti l'equilibrio di Nash non è un ot­ timo paretiano, ossia tale da sfruttare tutte le risorse a disposizione. L' ottimo pareti ano si raggiunge in una società quando non è più pos­ sibile un maggiore guadagno di una parte sociale senza perdita corri­ spettiva di un'altra parte: ciò vuol dire, in altri termini, che non esisto!02

9 . PRIGIONIERI

no risorse non sfruttate. Ma così non è nel caso dei nostri prigionieri: le risorse 2 anni e 1 anno restano inutilizzate. Si presentano allora nuo­ ve condizioni di analisi : forse la strategia mirante all'equilibrio di Na­ sh non è davvero la migliore strategia. Se si calcola il guadagno medio in termini di utilità attesa per la col­ lettività e non per gli individui, il risultato è singolarmente difforme: il guadagno migliore si ha quando entrambi i prigionieri scelgono di non confessare. Considerando l'ordine di preferenza per X in base al van­ taggio individuale abbiamo: I - (cx , ny ) � I anno 2 - ( n , n ) � 2 anni 3 - (cx� cy ) � 3 anni 4 - ( nx , c) � 4 anni

Considerando invece l'ordine di preferenza in base al vantaggio collettivo: I - ( nx , ny ) � 2 + 2 = 4 anni 2 - (cx , ny ) � I + 4 = 5 anni 2 - ( nx , c) � 4 + I = 5 anni 3 - (cx , cy ) � 3 + 3 = 6 anni

Il massimo vantaggio collettivo coincide con la soluzione "non confes­ sare", mentre il risultato collettivamente peggiore coincide con " confes­ sare". Dal punto di vista dell'utile collettivo conviene non confessare. In questo modo il dilemma si trasforma da "gioco non- cooperativo" a " gio­ co cooperativo" (cfr. Axelrod, 1984) . Nella prospettiva della cooperazio­ ne, l'equilibrio di Nash non è preferibile. A questo punto emerge però una conseguenza interessante e in qual­ che misura più problematica. Una società in cui tutti operano per il pro­ prio vantaggio non è una società ottima dal punto di vista economico, e supponiamo che ciò diventi socialmente evidente. La soluzione "non confessare" viene pubblicamente riconosciuta come preferibile, tutti di­ ventano consapevoli dei maggiori vantaggi relativi alla scelta solidale. Si produce allora una rivoluzione culturale: gli individui del corpo sociale rinunciano alla soluzione " confessare" e tutti scontano solo due anni. Si potrà chiamare questa società benevola, o dei benevoli. Una società così strutturata però sarà sistematicamente fragile. In­ fatti se ciascuno sa che tutti gli altri confessano ciascuno sa anche che l'opportunità del massimo vantaggio personale è a portata di mano. Qualche pirata inizierà allora a violare la regola e a confessare, ottenen­ do il risultato migliore. Si produrrà l'altro tipo di ottimo, e avremo la so103

PARADOSSI

cietà dei pirati, divisa in perdenti e vincenti. I pirati trarranno profitto dalla situazione di benevolenza generalizzata per produrre facilmente la soluzione r + 4, in cui il vantaggio di una parte sociale coincide con la perdita correlativa di un'altra parte sociale. Una terapia prevedibile a questo punto potrebbe essere il ritorno all' equilibrio di N ash : tutti confessano, tutti scontano tre anni e si adat ­ tano a una condizione d i riequilibrata mediocrità. S i determina allora un circolo o meglio un ciclo: dalle società equilibrate a quelle benevo­ le, da queste alle società di pirati, per tornare all'equilibrio . Abbiamo dunque: società equilibrata ::::} società dei benevoli ::::} società dei pirati ::::} società equilibrata

Da questo punto di vista, il dilemma del prigioniero funziona come un paradigma tragico per le scienze storico-sociali e politiche: lascia vedere molto bene che l'equilibrio è povero e mediocre, la benevolenza è ri­ schiosa, la pirateria è socialmente distruttiva. Il principio della solida­ rietà sociale è virtualmente vincente, ma in pratica estremamente fragi­ le: per funzionare, deve essere sostenuto da una complessa rete di nor­ mative che proteggano le società benevole dal rischio della pirateria, e forse da una svolta culturale più radicale e profonda di quella generica­ mente orientata a favorire l'utile collettivo. In altri termini: c'è un pri­ mato pratico ed economico del bene, ma può trionfare socialmente solo se i benevoli vengono socialmente protetti.

9· 3 Altri dilemmi dell'azione sociale

L'analogia tra il dilemma del prigioniero e quello di Newcomb è stata esplorata da diversi autori ( cfr. anzitutto Lewis, 1979 ) . Il dilemma di Priest ( 2002) , citato nel PAR. r.2 r, è appunto una combinazione tra i due: .

[4] X e Y sono amici, si conoscono molto bene e si assomigliano, tanto che di regola fanno le stesse scelte . Sono prigionieri, in due stanze separate, di fron­ te a due pulsanti: se un prigioniero preme il pulsante a riceve ro euro, se preme il pulsante � non riceve nulla, ma il compagno riceve roo euro.

Il doppio argomento è questo: r. Se X preme il pulsante a ottiene ro + quel che avrà scelto Y (ossia o oppure roo), se preme � ottiene o + quel che avrà scelto Y (ossia = o op­ pure roo ) . Conviene scegliere a. 104

9 . PRIGIONIERI

2. Se X sceglie a , anche Y sceglierà a, dunque entrambi riceveranno solo ro euro; se X sceglie � anche Y l'avrà scelto, dunque otterranno en­ trambi roo euro. Conviene scegliere f3. I principi in conflitto sono: A = guadagno diretto; B = affinità per­ sonale. In base al guardagno diretto si preferisce il ragionamento I , in ba­ se all' affinità tra i prigionieri si preferisce 2. Ma esattamente come nel ca­ so precedente, se X ragiona sulla base dell' affinità con Y si espone all'e­ ventualità che Y invece, ragionando in base al guadagno diretto, svolga il ragionamento I, e quindi ottenga il massimo possibile: no euro. Non è escluso che Y, conoscendo bene X, e dunque potendo prevedere la sua scelta, ragioni di conseguenza, ma poiché X conosce Y, e fa le stesse scel­ te, ciò non potrà mai darsi. Ma se ciò non potrà mai darsi, e X e Y ne so­ no consapevoli, allora . . . Il dilemma del prigioniero nelle diverse varianti suggerisce che l'a­ zione sociale è sottoposta (o può essere sottoposta) al principio di una morale mereologica (da meros, parte) , che cioè stabilisce relazioni etica­ mente oltre che economicamente rilevanti tra le proprietà della parte e le proprietà del tutto. Volendo, suggerisce che nell'ambito sociale il tut­ to ha un primato razionale, ossia in caso di incertezza il suo vantaggio è preferibile, tanto in termini di eticità quanto in termini di utilità attesa, a quello della parte. Si consideri ora il caso degli onesti predoni: [45] C'è una tribù di indigeni pacifici e vegetariani. Ogni giorno si siedono a pranzo intorno a un unico grande tavolo, che raccoglie i cento membri della tribù, e nelle ciotole ciascuno ha esattamente cento chicchi di riso. Un drappel­ lo di cento predoni armati e affamati giunge nella regione. I predoni fanno ir­ ruzione nel campo degli indigeni, si accorgono che non c'è molto da prendere, ma con la minaccia delle armi tolgono a ciascun indigeno la sua ciotola, e man­ giano ciascun pranzo. Nella notte il capo dei predoni ha uno scrupolo morale : hanno agito in mo­ do riprovevole. Decide allora che il giorno successivo ciascuno dei predoni to­ glierà a ciascuno degli indigeni solo uno dei chicchi di riso; nessuno dei suoi uo­ mini avrà la colpa di privare un indigeno della totalità del suo cibo, ma solo di un centesimo: un danno trascurabile.

Se il dilemma del prigioniero mette in questione il rapporto tra interes­ se collettivo e individuale, questo caso coinvolge il rapporto tra respon­ sabilità individuale e responsabilità globale o collettiva, suggerendo che una trasgressione tollerabile individualmente può essere intollerabile se estesa alla collettività. La somma di danni tollerabili compiuti dalle par­ ti determina un danno intollerabile.

PARADOSSI

Le proprietà delle parti di una collettività possono non essere coe­ renti con le proprietà dell'intera collettività: una collettività P potrebbe essere composta di individui --, p e viceversa. In alcuni casi i due valori possono essere inversamente proporzionali: quanto più P è il tutto, tan­ to meno P sono gli individui. John Elster (1986) ricorda che una giuria incerta può essere composta di individui certissimi delle proprie opi­ nioni (e normalmente lo è) . Gli individui del gruppo hanno ciascuno in alto grado la proprietà " essere certi delle proprie opinioni" ; proprio per­ ciò il gruppo nel suo complesso ha in alto grado la proprietà "non esse­ re certi delle proprie opinioni" . Una variante classica di contraddizione tra proprietà collettive e pro­ prietà individuali è il paradosso di Condorcet, isolato da J e an-Antoine-N i­ colas de Caritat, marchese di Condorcet, all'interno del sistema di voto a doppio turno da lui escogitato (Kenneth Arrow ha generalizzato il ri­ sultato a tutti i sistemi di voto democratico: per questo si parla anche di "paradosso della democrazia" in senso proprio). [46] Supponiamo che i tre gruppi di cittadini X , Y, Z abbiano le seguenti preferenze: Seconda scelta Prima scelta Terza scelta x

y z

partito A partito B partito C

partito B partito C partito A

partito C partito A partito B

Se ci fosse una votazione a queste condizioni i tre partiti otterrebbero un iden­ tico numero di voti. Si può notare che individualmente non c'è ciclicità: X pre­ ferisce A a B e B a C, ma non certo C ad A . Se s i sceglie una votazione a doppio turno, per cui X, Y e Z scelgono prima tra B e C, e chi riceve meno voti si confronta con A, il risultato è paradossale. x

y z

votazione BIC

votazione A/C

votazione BIA

B B c

c c A

A A B

B>C

C>A

A>B

N ella p rim a votazion e , B ottie n e d u e voti su tre , e vin c e , quindi viene escluso dalla votazione successiva, che si svolge tra C e A. O ra si verifica facilmente che C risulta avere un vantaggio di 2 a 1 su A, mentre nella votazione ulteriore , tra A e B, B risulterà perdente .

In altri termini, viene violata la transitività: B è preferito a C e C ad A , m a A è preferito a B. L'ordine d i preferenza non è ciclico nel caso degli individui, ma lo diviene collettivamente. 106

9 . PRIGIONIERI

9· 4 Dalla morale alla metafisica

Nelle circostanze della vita pratica la scelta è in linea di massima possibi­ le ( cfr. PAR. 8 . 2 ) , a meno che non si sia alle prese con qualche perplessità fondamentale, di tipo logico o metafisica, e cioè con qualche paradosso. Ciò è particolarmente evidente nei dilemmi morali. In questa prospetti­ va possiamo esaminare la serie di dilemmi proposti da Philippa Foot in un classico della filosofia morale: Killing and Letting Die (Foot, 1985 ) . [47] Poniamo che in un paese del Terzo mondo tutta la popolazione stia mo­ rendo di fame. Esiste una differenza moralmente rilevante tra non fare nulla, e lasciare che muoiano di fame, e mandare del cibo avariato, che li farà morire avvelenati?

lntuitivamente si direbbe che la prima condotta sia in qualche misura ri­ provevole, anche se non condannabile, la seconda è lodevole ma con­ dannabile. Chi ha scelto la seconda via (presumibilmente per sbaglio) è responsabile della morte della popolazione del paese, anche se ha agito moralmente per il meglio . Alcuni autori hanno sostenuto che non c'è nessuna differenza: in definitiva tanto l' azione (sventurata) quanto la non-azione hanno l'identico effetto. Uccidere - spiega invece Foot - si­ gnifica essere l'agente diretto o indiretto di un delitto mortale, ossia dare inizio alla "sequenza fatale" (SF) che si conclude con la morte di un indi­ viduo. Mandando cibo avvelenato mi inserisco nella SF, per cui gli abitan­ ti del paese stanno morendo (la fame) , e creo un percorso alternativo, una specifica SF di cui sono responsabile (l'avvelenamento) . Devo dunque ri­ spondere della mia azione, anche se le mie intenzioni erano buone. La nozione di SF è un ottimo filo conduttore per esaminare e chiari­ re altri dilemmi morali. Per esempio: dispongo di sole cinque dosi di una medicina. Cinque persone ammalate potrebbero guarire, se prendessero ciascuna una delle dosi. Una persona avrebbe bisogno invece di tutte e cinque le dosi per poter sopravvivere. Che cosa devo fare? La scelta è piuttosto semplice: lascio morire la persona che avrebbe bisogno delle cinque dosi e somministro la medicina agli altri cinque. "Lasciar morire" non è qui una colpa: io non mi colloco all'inizio della SF che conduce quel­ la persona alla morte, mentre mi colloco invece all'origine della sequenza salvi/t'ca, che conduce i cinque alla guarigione. L'esempio più noto è il co­ siddetto esperimento mentale del trolley o del treno: [48] Un treno procede su un tratto di ferrovia ad alta velocità; poco più avan­ ti c'è uno scambio, il treno potrebbe prendere due direzioni: sul binario di sini-

PARADOSSI

stra ci sono, intrappolati sulle rotaie, cinque bambini; sul binario di destra c'è un solo bambino. Il treno è indirizzato a sinistra, dunque certamente ucciderà i cinque bambini. Non sono in grado di togliere i bambini dalle rotaie, ma mi tro­ vo all'altezza dello scambio, posso dunque modificare la direzione del treno. Che cosa devo fare?

Qui la scelta è più difficile: l'azione ucciderebbe un bambino anche se ne salverebbe cinque. In base al principio della SF non dovrei deviare il percorso del treno . Si può difendere la scelta a favore della non- azione proponendo il seguente caso. Cinque bambini sono malati e destinati a morire. Sarebbe necessario effettuare dei trapianti: di reni, di cuore, di fegato, di midollo spinale, di pancreas. Non c'è il tempo materiale di tro­ vare i cinque organi. C'è però un bambino, un solo bambino in perfetta salute, che potrebbe fornire a ciascuno degli altri ciò di cui ha bisogno per vivere. lo, medico, dovrei usare i suoi organi? La scelta è facile: nes­ suno sceglierebbe di provocare la morte di un bambino sano per curar­ ne cinque malati. Foot suggerisce di tenere conto dei due scenari seguenti, che chia­ ma Rescue I e Rescue II: [ 4 9] Rescue I - Sono un ingegnere e mi trovo in viaggio a tutta velocità su una jeep per salvare cento persone che stanno per essere travolte dal crollo di una diga. A un certo punto, vedo una persona che è in pericolo di vita (per esempio sta per precipitare da un burrone) : la persona invoca il mio aiuto. Ma se doves­ si interrompere il mio viaggio e intraprendere il salvataggio, la marea sommer­ gerà le cento persone che devo salvare. Che fare? Rescue II - Mi trovo sempre sulla stessa jeep, nella stessa situazione , solo che questa volta la persona in difficoltà si trova legata a terra, in una posizione in cui se io procedessi, la dovrei uccidere. D'altra parte, fermandomi, perderei tempo prezioso, e le persone verrebbero travolte dalle acque. Che cosa devo fare?

Nel primo scenario non dovrei avere esitazioni e dovrei procedere nel mio viaggio, nel secondo invece dovrei fermarmi, rischiando di non sal­ vare le cento persone in procinto di essere travolte dalle acque, ma evi­ tando di collocarmi all'inizio della SF che porta alla morte della persona legata a terra. Quali sono le regole in conflitto nei due scenari del salvataggio? La risposta è abbastanza semplice. li precetto A = "occorre salvare il mag­ gior numero di persone" entra in conflitto con il precetto B = "non si può uccidere" , ossia, nei termini di Foot: "non ci si può collocare vo­ lontariamente all'origine di una SF " . Secondo l'opinione di Foot, B ha una certa priorità. Questo vale anche nel caso dell'eutanasia o dell'a­ borto . In particolare, per quel che riguarda l'eutanasia, scrive Foot: «non 108

9 . PRIGIONIERI

toglierei al malato terminale che vuole uccidersi il veleno che intende usare, ma non glielo restituirei se lo perdesse». Posso legittimamente evi­ tare di togliere il veleno al malato perché posso invocare il mio "diritto di non interferenza" in una SF già avviata, o che so essere in procinto di awiarsi, ma non posso restituirglielo, perché questo mi collocherebbe all'origine della stessa SF, e dunque violerei la regola. Restituire il veleno sarebbe come reindirizzare una freccia che stava uccidendo qualcuno e che è stata deviata. Un' applicazione tipicamente controversa del principio della SF si ha in relazione all'aborto in casi di violenza carnale. n famosissimo esperi­ mento mentale escogitato da J udith Jarvis Thompson (1971) è più o me­ no questo: [5o] Una donna viene rapita e narcotizzata. Si sveglia in un letto di ospedale, con gli organi collegati a quelli di un grande violinista, gravemente malato, e che può essere mantenuto in vita solo grazie al suo sangue. È libera di scegliere: se de­ cide di scollegarsi, il violinista morirà, e lei avrà la responsabilità di averlo priva­ to della vita, se decide di non scollegarsi, dovrà rimanere legata al violinista, e dun­ que sarà sottoposta a una limitazione delle proprie condizioni di vita.

L'esperimento servirebbe a spiegare le ragioni per cui il corpo di una don­ na non può essere messo al servizio di un feto non desiderato. n feto non può avere il diritto di usare il corpo della madre, e il diritto di vivere del­ la madre, specie nel caso in cui la gravidanza rappresenti per lei un rischio, sarebbe prioritario rispetto al diritto del feto (qualunque sia il suo stato). Foot nota però che l'analogia con il violinista non è appropriata: se la don­ na si slegasse, il violinista morirebbe forse, ma non per una SF iniziata dal­ la donna stessa, bensì per un processo iniziato in una fase precedente; nel caso del feto, invece, la madre dovrebbe consapevolmente collocarsi al­ l' origine di una SF. La discussione non si è fermata qui, ma certamente l'o­ biezione di Foot discute l' argomento di Thompson alla radice. Ci si può chiedere però se non ci siano ragioni per discutere anche nello stesso modo l'interpretazione di Foot . Si può notare che l'aborto (in casi di violenza carnale) nell'interpretazione di Foot viene a essere equivalente al caso della tortura morale ( due prigionieri, uno dei quali è obbligato a uccidere l'altro). Si tratta in entrambi i casi di trovarsi - per responsabilità altrui - all'inizio possibile di una SF. L'ipotesi di Foot è che la scelta sia relativamente libera, anche se il principio SF dovrebbe esse­ re prioritario. Ma chiediamoci: è dawero la stessa situazione? In effetti, l'assassinio nel caso della tortura morale ci sembra realmente un assassi­ nio, mentre nel caso dell' aborto lo sembra meno. In che cosa consiste la differenza?

PARADOSSI

Una prima risposta semplice e intuitiva è che il compagno di prigio­ nia è un essere umano autonomo, mentre il feto è (allo stato) una parte del corpo della madre. Ciò non vuol dire che non sia in nessun senso un individuo; vuol dire semplicemente che la relazione è diversa: si tratta di una sequenza vitale interna a un'altra sequenza vitale. Ciò comporta si­ curamente condizioni diverse, sul piano antologico, a prescindere da co­ me si voglia interpretare la questione sul piano morale (si tornerà sul­ l' argomento nel CAP. 14) .

110

IO

Evidenze paradossali

IO . I

La verità e altri concetti

Esistono "paradossi" che non sono propriamente falsidici, né veridici, e non presentano neppure vere e proprie contraddizioni, ma sono piutto­ sto stranezze logiche o epistemiche filosoficamente rilevanti. È anche dubbio che si possano chiamare paradossi. Sono piuttosto risultati sor­ prendenti, che però sono legati ai significati di alcune parole di comune uso: se si vuole ridurre o eliminare la stranezza, occorre cambiare o pre­ cisare la definizione delle parole coinvolte. Ma non è facile intervenire su significati consolidati dall'uso (specie quando si tratti di parole filo­ sofiche) . Abbiamo già visto due casi di questo tipo: il paradosso della do­ manda [31] , e l'unexpected hanging [33] . Questo genere di argomenti o situazioni epistemiche si possono chiamare "evidenze paradossali" (EP) perché presentano una sorta di forzatura o di obbligo che proviene dal linguaggio, e che ha dunque l'urto di un'evidenza oggettiva, benché si sia riluttanti ad ammettere le conclusioni che vengono imposte. Le EP hanno una particolare importanza nell'analisi dei paradossi. Contengono infatti, come vedremo , alcuni p articolari concetti il cui comportamento semantico (le relazioni di significato che intrattengono con altri concetti) è problematico, e che costituiscono i tipici generatori di C irriducibili. L'idea che i paradossi abbiano origine dal comporta­ mento anomalo di alcuni concetti, dotati di caratteristiche speciali, si af­ faccia molto presto nella tradizione filosofica, ed è sempre stata una co­ stante nell'analisi dei paradossi. Il primo scopritore (o inventore) di pa­ radossi per la tradizione è Zenone, e i suoi "ragionamenti dialettici" era­ no basati sulla C che viene a crearsi quando usiamo il concetto di "esse­ re" in rapporto ad altri concetti, come "movimento" e "pluralità" . Pla­ tone era ben consapevole del fatto che le idee o forme generano con­ traddizioni (e questa intuizione era alla base della sua teoria della dia­ lettica concettuale, esposta nel Parmenide o nel So/ista) . Gli stessi megaIII

PARADOSSI

rici, a quanto sembra, crearono i loro argomenti insidiosi allo scopo di dimostrare che gli universali (l'essenza o idea " uomo" , o " cavallo" , o "bellezza" ) , calati nel linguaggio comune, determinano C di ogni gene­ re. Aristotele era convinto che i paradossi avessero origine dalla manca­ ta conoscenza del funzionamento delle categorie e dovessero essere cor­ retti con adeguate definizioni delle determinazioni concettuali, come "potenza" e " atto", o "sostanziale" e " accidentale" . Anche Kant e Hegel erano della stessa opinione, erano cioè consapevoli del fatto che i para­ dossi nascono quando si usano in un modo particolare «concetti puri», come "possibile" e "impossibile" , " vero " e "falso " , " quantità" , " qua­ lità" , "identico " , " differente" , " totale" ecc. Ai nostri tempi, Russell e Tarski ci dicono che i paradossi si generano «per la presenza di qualche parola sistematicamente ambigua rispetto al tipo, come verità,/alsità,/un­ zione, proprietà, classe, relazione, numero, nome, definizione» (Russell, Whitehead, 1910-13, p. 130) , o a causa di parole che indicano «concetti se­ mantici», come «verità, designa, significa, soddisfa» (Tarski, 1944, pp. 120-1) . Gupta e Belnap (1993) identificano il problema nell'esistenza di nozioni «definizionalmente circolari», altri parlano di «predicati parziali» o di «concetti difettivi». Infine, per citare un autore tra i più noti del dibatti­ to attuale, Hartry Field centra la sua analisi (Field, 2008) sul tentativo di irreggimentare in modo nuovo le «proprietà concettuali» che produco­ no anomalie. Ma quali sono i concetti anomali, o difettosi? Che cosa, nel loro si­ gnificato, genera contraddizione? Non c'è un'unica risposta a queste do­ mande. Gli stessi concetti in questione sono chiamati in molti modi di­ versi: categorie, concetti formali, conceptual properties o anche Ober-Be­ grz/fe, super- concetti. Le loro proprietà problematiche sono identificate in vario modo: l'iterabilità, la generalizzabilità, la materialità (il fatto che possano essere usati per parlare di parole, cioè di linguaggio) . Forse la loro caratteristica più interessante è la loro inaggirabilità, ossia il fatto che sono strutture di cui ci serviamo necessariamente (non possiamo non servirei) quando ragioniamo, argomentiamo e ci confrontiamo pubbli­ camente su temi di interesse comune. In altri termini: è impossibile di­ sfarsi di questi concetti nella scienza, in filosofia, in generale nella vita condivisa (questo ci dice tra l' altro che i paradossi sono fenomeni im­ portanti, di cui occorre comunque tenere conto). Il primo e il principale concetto di questo genere è quello di verità, che è alla base del mentitore standard e di molti altri paradossi correlati, detti epistemici o semantici o aletici (cfr. CAP. n ) . Il concetto di verità è ti­ picamente produttore di C; anzi, nel significato più tradizionale e intuiti­ va, come corrispondenza tra il mondo e quel che si dice del mondo, sem­ bra essere esso stesso contraddittorio: stabilisce una relazione di confor112

IO. EVIDE:-..: ZE PARADOSSALI

mità tra termini irriducibilmente eterogenei (la realtà e il linguaggio) , uno dei quali (la realtà) è o sembra essere inafferrabile o addirittura inesistente "in sé" . Eppure è impossibile disfarsi del concetto di verità: perché se si dice per esempio "la verità è un concetto inutile" questo enunciato per avere una qualche utilità sul piano argomentativo deve essere vero. Dun­ que ci ritroviamo alle prese con la verità: la verità è comunque utile a ga­ rantire l'accettabilità dell'enunciato che asserisce l'inutilità della verità. L'esistenza di proposizioni vere e di proposizioni false è in effetti una verità analitica. Questo vuol dire che la proposizione " qualche proposi­ zione è vera" è vera, non tanto in base a come è fatto il mondo, ma in ba­ se al significato stesso della parola "verità" . Ecco dunque l'EP che ri­ guarda la verità: "la verità esiste" è una proposizione che possiamo con­ siderare, allo stato delle nostre intuizioni circa il vero e il falso, innega­ bile o ipergiustt/icata, nel senso che negandola ci si contraddice (cioè la si afferma) . Abbiamo già visto (PAR. 2.2 ) la confutazione del nichilismo, os­ sia della tesi "niente è vero " ; ora conviene rivedere l' argomento insieme al suo correlato, che dimostra che anche il trivialismo, ossia la tesi "tut­ to è vero " , non è asseribile senza C. [51]

Confutazione del nichilismo (CN) : niente è vero (nichilismo) è vero che niente è vero dunque: qualcosa è vero I

2

Confutazione del trivialismo (CT) : tutto è vero (trivialismo) è vero anche che qualcosa non è vero dunque: qualcosa non è vero. I

2

Le due confutazioni ' ci dicono che le tesi " qualcosa è vero " e " qual­ cosa non è vero " sono innegabili: se nego che qualcosa è vero, mi tro­ vo a dover ammettere che in realtà non è così, perché c'è almeno una proposizione vera (la mia) ; se nego che qualcosa sia non-vero, o anche falso (in questa sede non è rilevante la differenza) , mi trovo a dover ri­ conos cere che neppure " qualcosa è falso" è falso. I due argomenti esi­ biscono la forma -,a � a. Ci troviamo dunque di fronte all' esatto complementare delle autocontraddizioni viste nel PAR . 2. 2, ossia gli ar­ gomenti della forma a � -,a. Le prove del tipo di CT e CN si possono in effetti chiamare ( come suggeris ce Galvan, 1997) " autofondazioni" (AF) . Come un' AC esibisce una tesi necessariamente falsa, così un' AF esibisce una tesi necessariamente vera. Abbiamo dunque i due schemi: ( a � -,a) � -,a e ( -,a � a) � a . Sono due formulazioni, rispettiva113

PARADOSSI

mente negativa e positiva, della regola detta consequentia mirabilis ( cfr. Bellissima, P agli, 1996) . Ora è facile notare che alle origini di questo risultato, se non "mira­ bile" comunque abbastanza sorprendente, c'è il comportamento se­ mantico della parola "verità" , e più specificamente il fatto che la verità è ubiqua e dispensabile al tempo stesso. Consideriamo la più comune in­ tuizione riguardante la parola "verità" , quella fissata da Tarski (1933) nel cosiddetto "schema T" : Vp H p

Ossia: una proposizione p è vera se e solo se p 2• Lo schema esprime in modo semplice e immediato quel che succede quando usiamo "vero" . Quando diciamo "p è vera" intendiamo dire che le cose stanno proprio così come p dice, dunque se diciamo che "la neve è bianca" è vero, in­ tendiamo dire che la neve è bianca (e viceversa) . Il bicondizionale Vp H p è oggi anche detto "schema di equivalenza" o "bicondizionale tarskia­ no" , o "regola di intersostitutività". La maggior parte delle teorie della verità sono d' accordo con Tarski nel dire che una buona definizione di verità (e anche in generale l'uso della parola "vero" ) deve tenere conto dello schema, e non funzionerebbe se comportasse qualche violazione di questa semplice condizione di partenza. Notiamo che lo schema T esprime il comportamento semantico di "vero " , fissando i meccanismi della cattura e del rilascio ( cfr. Beali , 2007a) : p � Vp (capture) Vp � p (release)

E ciò è perfettamente fedele all'uso di "vero" . Se dico che il gatto è sul divano, intendo dire che la proposizione (o il pensiero) che il gatto è sul divano è vera: cattura. Se dico d'altra parte che tale proposizione è vera, voglio semplicemente dire che il gatto è sul divano: rilascio. La verità, per così dire, afferra qualsiasi enunciato io proferisca con pretese assertive e lascia andare libero ogni enunciato a cui io premetta "è vero che . . . " . Ora vediamo molto bene che le due confutazioni di cui sopra fun­ zionano grazie precisamente ai meccanismi del rilascio e della cattura: CN 1 niente è vero 2 è vero che niente è vero (cattura) : qualcosa è vero .

II4

I O . EVIDE:-..: Z E PARADOSSALI

CT I tutto è vero 2 " qualcosa non è vero" è vero :. qualcosa non è vero (rilascio)

Più precisamente, e in formule: I

--,:::l > cfr. Floridi (r996). 6. Sulle situazioni fallaci o quasi paradossali relative a superfici, buchi, "interno " ed "esterno" cfr. Casati, Varzi (1994) e Stroll (r988). La striscia di Miibius è forse l'unico pa­ radosso oggettuale di cui disponiamo, e senz'altro il più studiato. Nel secolo scorso Jean­ François Lyotard ha costruito un intero sistema metafisica basandolo sulla striscia di Mii­ bius (cfr. Lyotard, 1974). 7- In ogni caso, se si accetta una teoria causale della percezione, il vuoto (come in ge­ nerale ogni fatto negativo, ogni privazione) non è percepibile: cfr. Sorensen (20o8 ).

5 Condizionali difettosi 1. Cfr. Pozzi (1982), che riferisce e commenta tutta la polemica. 2. Più in generale il problema dell'errore tra logica e senso comune ha ricevuto par­ ticolare attenzione, cfr. Castellani, Montecucco (1998); Greco (1998); Benzi (2005). Per una rassegna di "illusioni cognitive" cfr. Piattelli Palmarini (1993). 3· Cfr. anche il quasi-paradosso suggerito in Varzi (20o5a). 4· Visconti (20oo) ne offre un'analisi approfondita in italiano e in inglese. I condi­ zionali supposizionali sono al centro di un test noto come "test di Ramsey'' ; cfr. per un'a­ nalisi sintattica Lycan (20or, in particolare pp. 167-8).

NOTE

5· Cfr. Johnson-Laird (1983) e Johnson-Laird, Byrne ( 2002) ; cfr. anche Girotta (2005). 6. Per un'analisi breve ma esaustiva cfr. Frixione (2007, pp. 25 ss. ). Per una conside­ razione generale del problema dei condizionali cfr. Sanford (2003). 7· In generale tutte le logiche non classiche, oltre che i progressi nella logica, hanno alle loro radici la scoperta di qualche paradosso: cfr. Palladino, Palladino (2007, p. 67). 8. Cfr. Priest (2001, cap. r), che presenta molti esempi di questo tipo. Cfr. anche Pal­ ladino, Palladino (2007, capp. 9 e ro). 9· Se si vuole: dimostrano che l'operatore "se ... allora" è intensionale, o semi-inten­ sionale, ossia non si adatta del tutto al principio della verofunzionalità, o anche è "sensi­ bile al contenuto" . ro. Stalnaker (r968) ha posto l e basi della teoria, Lewis (r973) l'ha sviluppata i n par­ ticolare per i condizionali controfattuali. rr. Cfr. Anderson, Belnap (1975) e Anderson, Belnap, Dunn (1982). Su logiche e del­ la rilevanza e contraddizioni cfr. Berta (2006, cap. 9).

6 Probabilità r. Tversky, Kahneman (1981). Per una analisi dettagliata cfr. Hacking (2oor). Una ver­ sione dello stesso problema è nota come "paradosso dello xenofobo": cfr. Olin (2003) e Clark (2002). L'analisi di questo genere di paradossi-errori può mettere in gioco la nozio­ ne di bias, ossia di pregiudizio: ci si sbaglia perché le convinzioni radica te spingono nella direzione dell'errore. 2. Tutti e quattro i casi mettono in questione la probabilità condizionale: la pro­ babilità che accada un certo evento p , data una certa evidenza E. Questo si esprime con P(p i E ) . Trattiamo qui i quattro casi in modo intuitivo, per altri dettagli cfr. Hacking (20or) . 3· Cfr. anche White (20o6).

7 Domande che vincolano la risposta e regole che obbligano a disobbedire r. In realtà qualsiasi domanda della forma " quale è il. . . . ? " può avere esiti fallimen­ tari, se nella risposta si usa una descrizione definita non specificante. Per esempio alla domanda: «quale è la proposizione vera che sarebbe per noi più proficuo venire a conoscere?» l'angelo potrebbe rispondere «la proposizione (o la congiunzione di proposizioni) che spiega come si possa risolvere il problema della povertà>>. 2. Varzi (2oora) cita il principio di Belnap e Steel (1976): «ask a foolish question and you get a foolish answer>>. 3· Il paradosso di Berry è basato su questo espediente. Si usa anche parlare di "one­ stà" e "disonestà" dei numeri, precisamente con riferimento a questo fenomeno: la pro­ prietà "essere di nove sillabe" è di nove sillabe, e dunque è onesta; tre è onesto perché è di tre lettere, mentre quattro è disonesto, e sei e dieci sono semi -disonesti.

193

PARADOSSI

4· Una completa interpretazione del paradosso nella chiave della teoria delle pro­ prietà (cfr. PAR. 14-1) potrebbe allora suggerire che i livelli massimali di una proprietà han­ no (o possono avere) comportamenti particolari rispetto alle sotto-proprietà: il massimo di proprietà potrebbe non coincidere con i livelli massimali di tutte o di alcune delle sottoproprietà di . 5· Come si vedrà meglio (CAP. 12), le C epistemiche (che cioè riguardano appunto de­ terminazioni come sapere o aspettarsi) non sono "vere" C. 6. Su razionalità e paradossi pragmatici cfr. Koons (1992).

8 Dilemmi r. Sull a discussa questione della forma dei dilemmi cfr. Bagnoli (20o6). In generale i dilemmi si dovrebbero trattare con una logica " deontica" , ossia che riguarda gli operato­ ri "è obbligatorio" , "è permesso" (anche: "è vietato" , "è indifferente " ) , ma questo tratta­ mento è discusso, per una serie di difficoltà, tra cui i paradossi della logica deontica (cfr. Palladino, Palladino, 2007, pp. 67-71). Qui ci limitiamo a considerare la forma del ragio­ namento dilemmatico, cercando di trarne considerazioni sulla struttura dei dilemmi, sui modi possibili di risolverli e sulla loro affinità con i paradossi. 2. La forza degli enunciati è data dalle loro pretese informative: "Roma ha 1.2oo.ooo abitanti" è un enunciato forte, "Roma ha più di 1 milione di abitanti" è un enunciato più debole. La forza dei ragionamenti induttivi cresce con il crescere della forza delle pre­ messe e della debolezza della conclusione (cfr. Varzi et al. , 2004).

9 Prigionieri r. Cfr. anche il paradosso della lotteria (PAR. 12.4), che è un paradosso veridico: la con­ dotta apparentemente irrazionale risulta essere epistemicamente consistente. 2. Cfr. Hacking (2001, trad. it. pp. 152-3); cfr. anche Watkins (1997).

IO Evidenze paradossali r. La confutazione del nichilismo avviene anche per generalizzazione: se niente è ve­ ro, allora non è vero neppure che niente è vero. Su queste diverse forme dell'elenchos del­ la verità cfr. D' Agostini (2002, 2003). 2. La formtÙazione esatta prevede le virgolette: V "p " H p , per indicare che la pri­ ma p è l'enunciazione. Le virgolette si intendono qui sottintese. Inoltre l'interpretazione che diamo dello schema è realistica: la seconda p indica lo stato di cose, o "come le cose stanno" . Ma lo schema non ha necessariamente questa implicazione: cfr. in particolare Horwich (1996).

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NOTE

3· Sulla vasta applicabilità delle prove dette elenctiche cfr. Tarca (!993). 4· Per una esposizione dettagliata del dibattito cfr. Brogaard, Salerno (2004).

II Menti tori r. Cfr. per esempio Goldstein (20oo, 2oo6b); Field (2007, 2oo8) ; Priest (2007). 2. È da notare che a condizioni normali (se vale la logica classica) lo schema f.! H -.f.! equivale a f.! A -.f.! (cfr. CAP. 12). 3· Questo procedimento di traduzione del mentitore in termini predicativi è detto da Hofstadter (1979) " quinificazione" . Per tutte le varianti del procedimento cfr. Smullyan (1994). 4· Anche se il predicato di verità è ovunque presupposto, dato che, per cattura, per ogni a si ha Va. 5· Un'esplorazione sistematica di tutti i modi in cui si manifesta questo risultato si trova in un classico della letteratura sui paradossi, Hofstadter (1979); cfr. anche Barwise, Moss (1996). 6. C'è un altro modo di dimostrare il paradosso, ed è basato sulla regola detta di con­ trazione o di assorbimento: cfr. Berta (2006, pp. ro6-7).

12 Soluzioni r. Poiché la verità è sempre presupposta ( cfr. PAR. ro.1), le soluzioni di questo gene­ re si intendono valide anche per le antinomie che non coinvolgono direttamente ed espli­ citamente la verità. 2. Cfr. Tarski (1933). Cfr. anche per quel che segue Tarski (1944). 3· Secondo Church (1976, p. 3or), la soluzione di Russell può essere vista come un ca­ so speciale di quella di Tarski. Ciò può essere confermato notando che Russell concentra l'attenzione sull' autoriferimento, mentre Tarski prende in considerazione la chiusura in generale. 4· La soluzione di Tarski è identificata da Schiffer (2003) come una happy /aced solu­ tzon, perché non soltanto identifica il fattore problematico, ma spiega anche, in tale fat­ tore, che cosa non funziona. 5· Cfr. in particolare Goldstein (20oo, 2003, 20o6a, 2oo6b). 6. Per questa critica cfr. Marconi (2007). È bene ricordare (cfr. nota 2, CAP. 10) che l'interpretazione "realistica" dello schema T non è condivisa da tutti. 7· Anche il "supermentitore" , l'enunciato Sf.! che dice "Sf.! è solo falso" , non sembra suscitare problemi: cfr. Priest (1987, p. 287). La questione però è ancora discussa: cfr. Ber­ ta (20o8b). 8. Alcuni distinguono tra strong paraconsistency e dialetheism: nel primo caso le C so­ no reali, ma in qualche mondo possibile; nel secondo le C sono reali, nel mondo attuale: cfr. Berta, Priest (20o8). 9· Cfr. Berta (2oo7b), che spiega anche alcuni problemi relativi a questa teoria. ro. Cfr. Priest (20o6, pp. 103-12, in cui si specificano le eccezioni); cfr. anche Berta (20o7b, 20o8b).

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PARADOSSI

13 So riti r.

Per uno sguardo più ravvicinato in italiano cfr. Paganini (20o8 ). 2. Cfr. anche Varzi (2oo5b). 3· Cfr. per esempio Shapiro (20o6), che specifica: la vaghezza è un fenomeno lingui­ stico, ma emerge come tale in quanto cerchiamo di parlare del mondo e di come è fatto, in quanto noi stessi siamo "fatti" in un certo modo. 4- Un terzo modo è la verità probabilistica, a cui abbiamo già accennato (cfr. PAR. 12.4) e su cui cfr. Paganini (20o8, pp. 54 ss. ). Le diverse logiche proposte dipendono na­ turalmente dal tipo di interpretazione della vaghezza, ma si adattano anche a tipi di va­ ghezza diversi. 5· Non per nulla la logica fuzzy è preferita nel trattamento della vaghezza da quegli autori (cfr. Priest, 2003) che privilegiano il tvglut, mentre il supervalutazionismo o la lo­ gica probabilistica sono in genere favoriti dai sostenitori del tvgap.

14 L'importanza pubblica della vaghezza r.

Per "proprietà" intendiamo tanto proprietà monadiche quanto relazioni. 2. Cfr. per una presentazione generale Armstrong (1989) e Mellor, Oliver (1997).

Conclusioni r. Il risultato d'incompletezza di Godei viene spesso utilizzato come un argomento a favore di questa diagnosi: per un esame completo della questione cfr. Berto (20o8 ). 2. Cfr. l'analisi critica di Woods (2003) sul rapporto paradossi-postmodernismo. 3· In particolare sulla soluzione dei problemi cfr. Watzlawick, Weakland, Fisch (!973). 4· Ammettendo che gli enunciati esprimano stati di cose, ciò significa che due stati di cose contraddittori sussistono entrambi.

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