Papirius Iustus: Libri XX de constitutionibus [Bilingual ed.] 8891322857, 9788891322852, 9788891322951

This volume investigates Papirius Iustus, a jurist figure who until now has remained substantially in the shadows of Rom

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Italian, Latin Pages 266 [267] Year 2021

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Table of contents :
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Papirius Iustus: Libri XX de constitutionibus [Bilingual ed.]
 8891322857, 9788891322852, 9788891322951

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Scriptores ivris Romani 10

Scriptores ivris Romani

PAPIRIVS IVSTVS

LIBRI XX DE CONSTITVTIONIBVS

direzione di Aldo Schiavone

10

PAPIRIVS IVSTVS LIBRI XX DE CONSTITVTIONIBVS Orazio Licandro, Nicola Palazzolo

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

«L’ERMA»

Schiavone scripoteres 10 NEW_DEFNEGATIVO 01_09_2021 BIS OK SCELTA.indd 1

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Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone

Volumi pubblicati: 1. Quintus Mucius Scaevola. Opera Jean-Louis Ferrary, Aldo Schiavone, Emanuele Stolfi (2018) 2. Iulius Paulus. Ad edictum libri I-III Giovanni Luchetti, Antonio L. de Petris, Fabiana Mattioli, Ivano Pontoriero (2018) 3. Antiquissima iuris sapientia. Saec. VI-III a.C. Anna Bottiglieri, Annamaria Manzo, Fara Nasti, Gloria Viarengo. Praefatores Valerio Marotta, Emanuele Stolfi (2019) 4. Aelius Marcianus. Institutionum libri I-V Domenico Dursi (2019) 5. Callistratus. Opera Salvatore Puliatti (2020) 6. Iulius Paulus. Decretorum libri tres. Imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum libri sex Massimo Brutti (2020) 7. Aemilius Macer. De officio praesidis. Ad legem XX hereditatium. De re militari. De appellationibus Sergio Alessandrì (2020) 8. Cnaeus Domitius Ulpianus. Institutiones. De censibus Jean-Louis Ferrary, Valerio Marotta, Aldo Schiavone (2021) 9. Herennius Modestinus. Libri VI excusationum Alberto Maffi, Bernard H. Stolte, Gloria Viarengo (2021) 10. Papirius Iustus. Libri XX de constitutionibus Orazio Licandro, Nicola Palazzolo (2021)

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Scriptores ivris Romani direzione di Aldo Schiavone 10

PAPIRIVS IVSTVS LIBRI XX DE CONSTITVTIONIBVS Orazio Licandro, Nicola Palazzolo

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Roma - Bristol

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European Research Council Advanced Grant 2014 / 670436

Scriptores iuris Romani Principal Investigator Aldo Schiavone, Sapienza - Università di Roma Host Institution Sapienza - Università di Roma, Dipartimento di Scienze giuridiche Senior Staff / Comitato editoriale Oliviero Diliberto, Sapienza - Università di Roma Andrea Di Porto, Sapienza - Università di Roma Valerio Marotta, Università di Pavia Fara Nasti, Università della Calabria Emanuele Stolfi, Università di Siena Direzione della collana Aldo Schiavone Coordinamento editoriale e della redazione Fara Nasti Redazione del volume Sergio Castagnetti, Alessia Spina Volume sottoposto a doppia peer review © Copyright «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER® 2021 Via Marianna Dionigi 57 00193, Roma - Italy www.lerma.it

70 Enterprise Drive, Suite 2 Bristol, Ct 06010 - USA [email protected]

Sistemi di garanzia della qualità UNI EN ISO 9001:2015 Sistemi di gestione ambientale ISO 14001:2015

Scriptores iuris Romani.10. -1(2021) Roma: «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2021. -v.; 24 cm. ISBN CARTACEO: 978-88-913-2285-2 ISBN DIGITALE: 978-88-913-2295-1 ISSN: 2612-503X CDD 349.37 1. Diritto romano

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INDICE

Attribuzioni

VII

I PAPIRIO GIUSTO: UN GIURISTA DA SCOPRIRE 1. Un autore sconosciuto 2. Il contesto: l’impero e gli Antonini 3. I documenti 4. L’origine orientale 5. Papirio Giusto e l’ordo equester 6. Potere e morte

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II TESTIMONIA I. EPIGRAFI II. TRADIZIONE MANOSCRITTA

31 33

III LIBRI XX DE CONSTITUTIONIBUS I. L’OPERA. PROFILI E TEMI 1. La datazione 2. Il titolo 3. I rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero nell’opera di Papirio 4. I giuristi e la conoscenza delle costituzioni imperiali

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5. Gli archivi imperiali al tempo di Marco Aurelio 6. Il metodo di lavoro 7. La cosiddetta ‘massimazione’ delle costituzioni imperiali 8. I libri de constitutionibus di Papirio e le raccolte tardoantiche 9. La struttura dell’opera

II. UNA RACCOLTA DI DIRITTO IMPERIALE TRA ARCHIVI UFFICIALI E NUOVE FORME LIBRARIE. PER UN’ARCHEOLOGIA DEL CODEX 1. Papirio Giusto e i Semenstria di Marco Aurelio 2. La forma libraria dei Semenstria 3. Il codex come nuova forma libraria nel I secolo d.C. 4. L’idea del libro-raccolta di materiale normativo imperiale 5. Qualche conclusione

FRAGMENTA

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IV COMMENTO AI TESTI I. I LIBRI XX DE CONSTITUTIONIBUS Libro I Libro II Libro VIII

II. PALINGENESI

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1. L’impossibile palingenesi 2. I ‘grappoli’ del Libro I 3. I ‘grappoli’ del Libro II 4. L’ordine di Lenel 5. Un nuovo ordine

APPARATI E INDICI Bibliografia Abbreviazioni Fonti antiche

201 235 237

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ATTRIBUZIONI

Le parti che compongono il volume sono così attribuite: Orazio Licandro: Papirio Giusto: un giurista da scoprire; Testimonia; Libri XX de constitutionibus, II, Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie. Per un’archeologia del codex. Nicola Palazzolo: Libri XX de constitutionibus, I, L’opera, Profili e temi. Commento ai testi: F. 1-6, 11, 13 e 18 Orazio Licandro; F. 7-10, 12, 14-17 Nicola Palazzolo. Orazio Licandro e Nicola Palazzolo: Fragmenta; Palingenesi; Apparati e Indici.

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I PAPIRIO GIUSTO: UN GIURISTA DA SCOPRIRE

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I PAPIRIO GIUSTO: UN GIURISTA DA SCOPRIRE

1. Un autore sconosciuto Se nell’antologia giustinianea vi è un giurista dal ‘volto’ immerso in una così fitta oscurità e, tuttavia, al tempo stesso capace di esercitare una forte attrazione, questo è Papirio Giusto1. L’assenza di notizie sufficienti ha reso sinora ogni tentativo di abbozzarne un profilo un’impresa ardua e al tempo stesso azzardata, di cui è specchio la scarnissima letteratura2. A parte la notizia contenuta dall’Index Florentinus del suo inserimento tra i giuristi selezionati per la compilazione dei Digesta, notizia come vedremo già di per sé problematica, e salvo alcune iscrizioni dal contenuto vago e incerto utilizzate da Fritz Schulz per proporne una controversa identificazione, di Papirio Giusto non si sa nulla. Non si conosce la sua provenienza, e a prima vista non aiuta neppure l’onomastica, poiché sebbene Papirius fosse un nome assai diffuso in Occidente la presenza di Papirii è attestata epigraficamente anche nei territori orientali3. Non essendone nota l’attività, sul tappeto è rimasta una gamma così ampia di ipotesi da coprire ogni possibile versante: burocrate, giurista, giurista-burocrate, giurista-bibliotecario (ma sarebbe meglio dire archivista), giurista-insegnante, giurista-avvocato. Non solo, dunque, della vita e del suo impegno professionale non si conosce pressoché niente, ma l’incertezza regna

1 Queste note biografiche dedicate al giurista sono già apparse in veste autonoma con il titolo Papirio Giusto. Un giurista sconosciuto interprete di un impero che cambia, in «BIDR» 114 (2020) 187 ss., presentando qui qualche integrazione e un aggiornamento bibliografico. 2 Che si risolve in qualche succinta voce enciclopedica, rapide menzioni e pochi e contenuti contributi specifici: Mommsen 1889a, 345; PIR 1898, III, 11 nr. 87; Krüger 1930, 336; Berger 1949, 1059 ss.; Berger 1980, 617; Scarlata Fazio 1939a, 414 ss.; Schulz 1961, 179-180 nt. 3 (= Schulz 1968, 268 s. nt. 8); Orestano 1957, 366; Pflaum 19601961, I, 472; Volterra 1968, 216 ss. (= Volterra 1993b, 165 ss.); Volterra 1971, 961 ss. (= Volterra 1994, 143 ss.); Franciosi 1972, 149 ss.; Franciosi 1998, 229 ss.; Gaudemet 1979, 45; Sperandio 2005, 47 ss.; De Giovanni 2007a, 691 ss. 3 Vedi infra, §§ 3-4.

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Orazio Licandro sovrana pure sull’unica opera selezionata o a lui attribuita, dai commissari di Giustiniano, cioè una singolare raccolta, si ritiene, di rescritti di Marco Aurelio e di Lucio Vero. Che l’opera del giurista sia pure singolare rispetto ai clichés letterari tradizionali della giurisiprudenza classica è cosa nota e immediatamente comprensibile. Ma persino sul titolo non c’è pace in ragione della coesistenza di due varianti nella stessa Littera Florentina. Infatti, degli scarsi frammenti sopravvissuti (in tutto 18)4, la maggioranza, ben 13, recano l’inscriptio con il titolo libri XX de constitutionibus, mentre soltanto nelle inscriptiones di 3 frammenti5 ricorre l’altra variante libri XX constitutionum, né ci si può affidare all’Index per la sua evidente approssimazione, il che, almeno per il conforto dei numeri, rende più affidabile la prima lectio6. Insomma, una disarmante assenza di informazioni, con la quale bisogna comunque fare i conti, sebbene sia onesto dirlo si tratti di un problema non riguardante solo Papirio Giusto, ma esteso ancorché in proporzioni differenti ad altri giuristi. Basti pensare a quanto poco si sappia anche di giuristi dalla fortuna immensa, e dalla ben più cospicua documentazione disponibile, come Gaio o come colui che costituì uno dei riferimenti principali dei compilatori, cioè Domizio Ulpiano, oppure ancora Giulio Paolo7. Ecco perché, a proposito di Papirio Giusto, sarà ancor più insopprimibile esigenza, nel tracciarne i vari segmenti del profilo e dell’opera, la contestualizzazione nella storia politica e giuridica dell’impero romano. Altrimenti, sarà semplicemente un illusorio esercizio ginnico intellettuale provare a cogliere la cifra del giurista e soprattutto la portata di quella strana raccolta sopravvissuta grazie ai 18 frammenti setacciati dalla mirabile squadra di Triboniano. 2. Il contesto: l’impero e gli Antonini Vissuto certamente durante il principato di Marco Aurelio e negli anni di regno di Commodo, senza però escludere una sua presenza attiva già dalla fine di quello di Antonino Pio, a dispetto di quanto si sia sinora creduto, Papirio Giusto fu una figura rilevante della stagione imperiale degli Antonini. Un’età felice e di pace, anzi l’età d’oro della storia imperiale di Roma, secondo l’apologetico giudizio di Edward Gibbon8. Un giudizio, quello di Gibbon, in effetti eccessivo nella sua enfasi ma del tutto funzionale al paradigma espositivo della degenerazione e del crollo dell’impero, tanto da influenzare profondamente larga parte della storiografia mo-

4 D. 2.14.37 (= L. 13); D. 8.2.14 (= L. 1); D. 8.3.17 (= L. 2); D. 39.4.7 (= L. 9); D. 42.5.30 (= L. 5); D. 42.7.4 (= L. 6); D. 48.12.3 (= L. 4); D. 48.16.18 (= L. 7); D. 49.1.21 (= L. 8); D. 50.1.38 (= L. 11); D. 50.2.13 (= L. 12); D. 50.8.11 (= L. 14); D. 50.8.12 (= L. 15); D. 50.8.13 (= L. 16); D. 50.12.13 (= L. 17). 5 D. 2.14.60 (= L. 18); D. 18.1.71 (= L. 3); D. 42.1.35 (= L. 10). 6 Vedi Liebs 1976, 345; ma cfr. Liebs 1971, 85 ss.; Reinoso-Barbero 2010, 117. 7 Pontoriero 2019, 3 ss. Ma lo stesso può dirsi di Marciano, su cui vedi Dursi 2019, 3 ss. 8 Gibbon 1987, I, 11: “nel II secolo dell’era cristiana, l’impero romano comprendeva la parte più bella e civile della terra. Il valore, la disciplina e l’antica rinomanza difendevano le frontiere di quella vasta monarchia. Il dolce ma potente influsso delle leggi e dei costumi aveva a poco a poco cementato l’unione delle province, i cui abitanti godevano e abusavano dei benefici della ricchezza e del lusso. Si conservava con venerazione l’immagine di una libera costituzione e la sovranità era in apparenza esercitata dal senato che delegava agli imperatori tutti i poteri dello stato. Per un periodo felice di oltre ottant’anni il governo fu tenuto dalla virtù e dall’abilità di Nerva, Traiano, Adriano e dei due Antonini”.

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire derna. Senza nulla togliere a un secolo, il II d.C., segnato dal governo di imperatori “filosofiscienziati e di umanisti come Adriano e Marco Aurelio”9, a Gibbon non sfuggiva certo lo stridore delle ferree contraddizioni di quella fase della storia dell’impero. Per quanto la rappresentazione gibboniana esaltasse le suggestioni di un’opinione pubblica, di una classe dirigente diffusa sul gigantesco territorio dell’impero, cui il giovane retore Elio Aristide10 seppe dar voce intorno al 148 d.C., magnificando un impero senza precedenti nella storia, superiore persino a quello di Alessandro Magno, essa era strettamente saldata con la narrazione di Cassio Dione, storiografo/senatore/funzionario imperiale, del volto oscuro e brutale del potere che vedeva in Commodo il responsabile della precipitazione di Roma in anni “di ferro e ruggine”11. Gibbon faceva propria la visione dionea, del resto pienamente funzionale alla sua ricostruzione, tanto da farne datare con assoluta precisione proprio dall’ascesa di Commodo l’avvio della decadenza dell’impero. Già negli anni Cinquanta del secolo scorso, in limpide pagine di un libro fondamentale, Giuseppe Giarrizzo12 sottolineava l’aporia gibboniana: in quell’esaltata grandezza, nella felice prosperità, Gibbon stesso non poteva non vedere la maturazione del “principio di decadenza”, tanto da dire che “le cause di distruzione si moltiplicarono con l’estendersi della conquista; e non appena il tempo o un accidente ebbe rimosso gli artificiali puntelli, il meraviglioso edificio cedette alla pressione del suo peso”. Comunque sia, l’impronta profonda di Gibbon ha finito per lasciare in ombra sino a tempi recenti tratti assai più aspri della realtà sociale, politica e istituzionale dell’impero romano del II secolo d.C.13, certamente non ascrivibili al solo Commodo ma già presenti da tempo14. Se la mitizzazione della ‘pace imperiale romana’ raggiunta nel II secolo d.C. è un abbaglio moderno almeno da attenuare15, perché in gran parte frutto di una visione unilaterale delle classi dirigenti, dei benestanti, dei ricchi, degli intellettuali cui veniva assicurata da sovrani illuminati e tolleranti la libertà d’opinione, ma non lo era affatto per le classi inferiori, forse ancor più discriminate che nel passato, altro bisogna aggiungere. In quest’epoca si approfondisce, infatti, la distinzione tra honestiores e humiliores nella repressione penale16 e, volgendo lo sguardo al mutamento degli equilibri del potere, agli assestamenti istituzionali, alle torsioni autoritarie, alla progressiva e inarrestabile ingerenza degli eserciti nella vita politica registratisi nella lunga stagione degli Antonini, a cui corrispondeva nelle periferie dell’impero e, cosa

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Così Mazzarino 1988, I, 320. Sul retore si rinvia a Elio Aristide, A Roma (v. Biliografia, Edizioni e strumenti); e i saggi del volume collettaneo, AA.VV. 2013. 11 Cass. Dio 71(72).36.4. 12 Giarrizzo 1954, 227 ss. 13 Importanti spunti in Capogrossi Colognesi 2009, 421 ss.; Lo Cascio 2017, 327 ss. 14 Come sottolinea Brutti 2020a, 22 s., della situazione reale v’è traccia nel disincanto di Marco Aurelio. De Giovanni 2007b, 39 ss., definisce il II secolo d.C. con efficacia suggestiva “un secolo tormentato tra continuità e rottura”. 15 Dal mito dell’età felice non si distacca, nel suo recentissimo libro, Carandini 2020. 16 De Martino 1974, IV.1, 390 ss.; Licandro, Palazzolo 2019, 237. Anche nel monumentale, e ancora valido, lavoro di Jones 1973, I, 19 ss., si tratteggia un quadro segnato da luci e molte ombre. Del resto, proprio sotto i principes umanistici si scorgono i prodromi di quel quadro normativo che più avanti, in età severiana e tardoantica, caratterizzato da un dualistico sistema repressivo dei crimina tra honestiores e humiliores. Sulla tematica vedi Marotta 1988, 209 ss.; Ruggiero 2017, passim. 10

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Orazio Licandro ancor più grave, persino nelle poleis del dinamico e ricco Oriente ellenistico il manifestarsi dei segni di un’incipiente crisi economico-finanziaria a cui si provava a mettere rimedio ricorrendo alla “potenza finanziaria del fiscalismo”17 che con l’aggressione alle ricchezze private dei ceti più abbienti produceva la devastante riluttanza, se non la fuga, dei decuriones dalle responsabilità di governo delle proprie comunità, ecco, tenendo conto di tutto ciò, si delinea un quadro persino più fosco di quanto si possa pensare, in cui si prefiguravano già quei tratti che ben presto sarebbero stati peculiari dell’impero tardoantico. Molto stava mutando anche nell’ambito della produzione normativa, in cui sino ad allora il riverbero del rapporto tra prudentes e princeps non si era tradotto in scossoni particolari. Tuttavia, in quei decenni centrali del II secolo d.C., e più accentuatamente nella seconda metà, il crescente protagonismo politico e istituzionale del princeps inevitabilmente finì per stridere con canoni, consuetudini, approcci del plurisecolare tradizionalismo giuridico. Il consolidato paradigma della scienza giuridica, buono per una città-stato e capace sino ad allora di individuare modelli, prassi, visioni, in un impero globale era divenuto improvvisamente insufficiente, inadeguato, non riusciva più a selezionare i conflitti per garantire soluzioni ragionevoli e assecondare l’esperienza del duttile pragmatismo del governo romano. E così si frantumava dinanzi alle trasformazioni e alle deformazioni di ruoli istituzionali e sociali dall’asimmetria già percepibile nelle opere della giurisprudenza del tempo. Nel tentativo di giustificare la cifra istituzionale dell’accentramento del potere di normazione in capo al principe, i prudentes severiani, sia pure con un certo imbarazzo teorico, come traspare dalle scarne scritture sopravvissute in proposito, ricorsero alla concezione della delega popolare18. Uno scarto ideologico, invero molto abile, ma a favorirne l’esito furono le radici profonde sviluppate durante il recente passato degli Antonini, tanto che a leggere Gaio – osserva Aldo Schiavone – “si respira un’aria già da tardoantico”19. *** Sin dall’incipit di questo ‘complicato’ tentativo di identificazione, si è detto dell’inesistenza di notizie dirette o indirette sulla figura di Papirio Giusto: nessun documento, storico, letterario, giuridico, epigrafico, papiraceo, ci dice direttamente ed esplicitamente qualcosa sulla sua vita e personalità, ad eccezione dell’indicazione dell’Index Florentinus: Ἰούστου βιβλία con-

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Giustamente Brutti 2020a, 22. La lex rimase la fonte di legittimazione del potere imperiale sia in relazione alla lex de imperio sia alle teorizzazioni giurisprudenziali; è esplicito Gai. 1.5, ma soprattutto Ulp. 1 inst., D. 1.4.1pr.: Quod principi placuit, legis habet vigorem: utpote cum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem conferat. Non è un caso che sia considerato epilogo coerente, in un giurista come Ulpiano, ricondurre la legittimità della volontà normativa del principe alla matrice popolare: era, infatti, pur sempre mediante lex (curiata de imperio) che il popolo delegava l’imperium al princeps (sebbene il populus del III secolo fosse ben altra cosa dal populus del I secolo a.C. – I secolo d.C.). Marotta 2000, I, 75, giustamente, ricorda che “mai il popolo, durante il principato, è stato spogliato di tutte le sue competenze legislative, benché le ultime tracce della legge pubblica si perdano, al più tardi, nei primi anni del regno adrianeo”. Ma vedi ancora Marotta 2016, 187 ss. Sul rapporto tra la sovranità popolare fonte di legittimità dei poteri imperiali e il più ampio tema della teologia imperiale già tracciato da Augusto torna senza novità, ma con eccessive semplificazioni, Costabile 2019, 96 ss. 19 Schiavone 2017, 369. 18

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire stitutionon εἴκοσι. Per pura pignoleria si potrebbe osservare che neppure nell’Index il nome è completo così come appare nelle inscriptiones dei frammenti dell’opera, ma non vi è alcun dubbio sulla corrispondenza e sul fatto che i commissari giustinianei non esitarono a considerare Papirio Giusto un giurista. E questa in astratto, e a scatola chiusa, potrebbe essere considerata prova di per sé sufficiente. Eppure, è noto il dibattito ravvivato dalle idee di Giovanni Rotondi suscitatrici di riflessioni, di conferme e anche di perplessità tuttora serpeggianti, dopo oltre un secolo di confronti sulle incongruenze dell’Index Florentinus20. A prescindere dalla controversa questione della sua cronologia, in questo groviglio di problemi e opinioni sull’Index Florentinus, ancora lì sul tappeto ma impossibile oltre che inopportuno affrontarli in questa sede, è rimasto in qualche misura imbrigliato pure Papirio Giusto. Ancora di recente Gian Luigi Falchi, sulla scia dell’impianto bluhmiano, ha ritenuto che Papirio apparterrebbe a quel nucleo di giuristi non presenti nella versione originale dell’Index, cioè di autori e/o opere che, per essere contenuti nell’Appendix, per il mancato rispetto dell’ordine cronologico imposto dall’autorità imperiale21, e per la prevalente collocazione nelle Partes VI e VII, sono da considerarsi estranei alla struttura primigenia della raccolta, e procacciati e inseriti dai compilatori in un momento successivo all’avvio dei lavori. Ma potrebbe anche sostenersi, seguendo le obiezioni mosse da Dario Mantovani, che ai Giustinianei quei giuristi fossero ben presenti e che le relative opere stessero sui tavoli di lavoro ma che soltanto il loro inserimento avvenne “in un momento avanzato”22. Da questa prospettiva, era facile che gli occhi dei moderni si velassero persino del dubbio di una diretta utilizzazione dei libri XX de constitutionibus facendone discendere, di conseguenza, l’ulteriore scuro, negativo riverbero sull’importanza del giurista nel complessivo impianto dei Digesta23. Tuttavia, nonostante questi aspetti in qualche misura giochino ancora sulla percezione generale di Papirio Giusto e della sua opera, possiamo evitare di dar loro soverchio peso, sia perché esterni alle questioni principali da affrontare sia per il loro valore assai controverso nell’ambito degli studi più recenti. All’ipotesi di diverse stesure dell’Index, per esempio, non è mancato chi abbia espresso più volte forti riserve24, mentre, oltre alle restanti obiezioni, v’è da ricordare come l’ordine cronologico dell’Index fosse solo esito di un’approssimazione non limitata in via d’eccezione all’autorevolezza di Giuliano e Papiniano e invece relativa anche ad altri giuristi25. Comunque sia, al netto dei problemi generali dell’Index Florentinus, per non tralasciar alcun elemento o per non dar nulla di scontato resta da ammettere che l’appellativo Ἰοῦστος, indicante qualità morali, di per sé non costituirebbe un identificativo sicuro. Tuttavia, poiché nei Digesta appaiono 18 frammenti di un’opera intitolata libri XX constitutionum o, come già accennato, più spesso libri XX de constitutionibus nelle cui inscriptiones l’autore è menzionato come Papirius Iustus, non residuano dubbi sulla corrispondenza, non restando conseguentemente nel desolante quadro di testimonianze altro che afferrare saldamente questo dato e,

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Fondamentale Rotondi 1922b, 298 ss. Ma si tengano anche in conto le obiezioni di Mantovani 1987, 109 ss. Falchi 1989, 135 ss. Tuttavia, vedi Mantovani 1987, 135 ss. Mantovani 1987, 116. Falchi 1989, 153, motivo già presente in Hofmann 1900, 23 ss. Mantovani 1987, 136. Mantovani 1987, 135 ss.

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Orazio Licandro quasi come fosse un relitto, aggrapparsi a esso per sgravare da ogni dubbio l’idea di un Papirio Giusto giurista, o almeno tale per i commissari giustinianei. A indebolire questo pur fragile dato, d’altro canto, non serve additare l’assenza di sue citazioni da parte di altri giuristi. Nonostante la questione sia stata rilevata e sia oggettiva, quello di Papirio Giusto non sarebbe l’unico caso, né costituirebbe, per le ragioni che vedremo, un problema rilevante, comunque non tale da giustificare interpretazioni assertorie e liquidatorie. Lo si può pure considerare un giurista modesto, quasi incolore, privo di originalità, ma i 18 frammenti accolti nell’antologia giustinianea, e la menzione nell’Index al ventitreesimo posto tra l’altrettanto controverso Tertulliano e il grande Ulpiano, dimostrano inconfutabilmente sia il riconoscimento anche a lunga distanza temporale della sua appartenenza al ceto dei prudentes sia la circolazione di copie della sua opera, di cui dobbiamo presumerne una certamente presente nella magnifica biblioteca di Costantinopoli o in quella assai ricca, quantunque privata, di Triboniano. Attraversata la soglia dell’Index Florentinus, si entra nel cuore del problema dell’attività giurista avvolta da un buio ancor più fitto, tanto da far considerare la questione un autentico rompicapo storiografico: come si accennava prima, Papirio era un giurista-burocrate, un giurista-avvocato oppure un giurista-professore o addirittura un semplice e mediocre funzionario per restare a un ingeneroso e improbabile giudizio26? Ci si è divisi molto sul punto e alla massima cautela di alcuni, basti pensare alla lapidaria voce enciclopedica di Riccardo Orestano, ove manca qualunque opzione di merito sulla questione, ha fatto da contrappunto la variegata gamma con le argomentazioni a sostegno di ciascuna delle possibili soluzioni27. Tuttavia, ciò che sorge dalla lettura delle opinioni, per quanto autorevoli comunque datate, su Papirio Giusto è innanzitutto la forte esigenza di sottrarsi a “una troppo schematica contrapposizione tra le due figure”28, di giurista e di funzionario, quasi fossero poli incompatibili, come opportunamente ha manifestato Gennaro Franciosi, a cui si devono i contributi più attenti e originali su Papirio Giusto. Nonostante tale condivisibile presupposto, a cui corrisponde la tensione a compiere qualche passo in più rispetto alle posizioni storiografiche del passato, a ben vedere nei suoi scritti quell’esigenza purtroppo è più enunciata che soddisfatta. Se, da un lato, Franciosi ha esaminato l’opera sotto una luce diversa, aprendo indubbie e feconde prospettive di indagine di cui discuteremo ampiamente nelle prossime pagine, dall’altro lato, dovendo appunto fare i conti con l’estrema penuria delle testimonianze, pur nel riconoscimento della qualità di giurista di Papirio Giusto, un eccesso di prudenza ha indebolito l’obiettivo di rigettare la ricorrente schematizzazione dell’alterità del funzionariato imperiale29, quasi

26 Così Sargenti 2011, 897, che sembra riprendere l’infondato quanto incomprensibile e astratto argomentare di Scarlata Fazio 1939a, 419: “dovette essere non un giurista (ne fanno fede i sunti delle costituzioni spesso malfatti e la totale assenza di osservazioni proprie che non sarebbero state fuori luogo in un’opera di tal genere) ma un funzionario della corte imperiale, che come tale potè avere la possibilità di adoperare, per la composizione della sua opera, le raccolte di costituzioni depositate nella cancelleria imperiale”. 27 Orestano 1957, 366. 28 Franciosi 1972, 175 s. 29 Si pensi all’analogo dibattito che ha investito l’autore del Codex Gregorianus, sin dall’editio gotofrediana da Ritter 1736, CCIX nt. (f ), identificato con un funzionario sotto il regno di Valente e Graziano, e successivamente da Huschke 1867, 288, arretrato al dominato dioclezianeo; dibattito in Sperandio 2005, 211 ss.

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire che non si potesse essere l’uno e l’altro. Franciosi, limitandosi alla generica ammissione di “una personalità formatasi a stretto contatto con la burocrazia centrale e con gli archivi imperiali”30, ha inconsciamente rinunciato a filtrare da tale formulazione una residua punta di ambiguità, quasi di contraddizione. Come arrestatosi su di una ‘linea di confine’, quasi paralizzato dallo spingersi oltre e rompere un singolare ‘tabù’ tralatizio in virtù del quale difficilmente di un giurista, se fosse stato un vero giurista, i successivi prudentes avrebbero taciuto sulle opere31, l’assunto di Franciosi recherebbe in sé la paradossale estraneità di Papirio Giusto alla macchina imperiale. È vero che di solito i giuristi citavano altri32, ed è vero pure che nessuna citazione di Papirio Giusto ci è pervenuta, ma ciò non giustifica un simile pregiudizio, la cui apparente verosimiglianza si fonda soltanto sulla obliterazione dell’inconfutabile presupposto della peculiarità dell’opera del giurista antonino, cioè una raccolta di costituzioni imperiali priva di commento (a differenza di altre come i libri tres decretorum di Giulio Paolo)33, per cui secondo mentalità e metodi invalsi i prudentes severiani avrebbero potuto utilizzare i libri XX de constitutionibus (senza citare l’opera o l’autore) come semplice repertorio per la ricerca di materiale normativo imperiale di loro interesse o, in alternativa, effettuare ricerche e consultazioni presso gli archivi imperiali. Difficile è dire, anche, con quanta consapevolezza Franciosi abbia davvero voluto esprimere un giudizio liquidatorio del personaggio, sebbene più lieve di quello espresso da Mario Talamanca che, bollando il giurista come un mero “raccoglitore di constitutiones”34, lo ha ridotto al più al rango di un giurista privato, di un avvocato, di un comune insegnante, comunque di un modesto operatore giuridico. E tuttavia, è lo stesso Franciosi, ‘ostaggio’ di un’incerta oscillazione, come a tradire una punta di irresolutezza, nell’inquadrare Papirio Giusto e la sua attività organica all’interno di un livello centrale dell’apparato burocratico imperiale, pur senza attribuirgli un ruolo significativo, anzi escludendo seccamente, nel silenzio delle fonti, l’appartenenza al consilium principis di Marco Aurelio35. Ma, in verità, difficilmente un semplice funzionario di un ramo di cancelleria, avrebbe pensato di redigere un’opera simile. Forse si sarebbe limitato a raccogliere materiali del proprio segretariato, mentre l’opera di Papirio denota invece una consapevolezza assai più matura, e al passo coi tempi, del tema delle fonti di produzione normativa e del centro politico di emanazione, cioè il princeps con la sua struttura burocratica centrale e periferica, tanto da potersi pienamente

30 Franciosi 1972, 176. Dell’agevole accesso di Papirio Giusto agli archivi imperiali è convinto pure Gaudemet 1979, 41. 31 Franciosi 1972, 175 e nt. 90, per la verità, giustamente osserva come ciò non implichi “che l’opera di Papirio non sia stata utilizzata dai giuristi posteriori”, invitando a riflettere sulla forte somiglianza testuale tra un provvedimento citato da Papirio (Pap. Iust. 1 de const., D. 48.12.3pr. = L. 4) e presente nei libri de iudiciis publicis di Marciano (Marcian. 1 de iud. publ., D. 50.1.8). La sua difesa però appare timida e, a volte, contraddittoria. 32 Come osserva Gualandi 2012, II, 13 ss., in molti casi i giuristi traevano le citazioni di costituzioni imperiali da giuristi anteriori, ma questo argomento indirettamente utilizzabile non vale nel caso di Papirio Giusto, perché minima era la distanza temporale rispetto ai maestri severiani che avrebbero potuto ricavare i materiali normativi agevolmente dagli archivi imperiali. 33 Su cui resta fondamentale Sanfilippo 1938; e ora Brutti 2020a; Brutti 2020b. 34 Talamanca 1977, 212 nt. 28. 35 Franciosi 1972, 176.

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Orazio Licandro condividere nelle pagine che seguiranno il giudizio acuto di Edoardo Volterra: “L’ouvrage que nous venons d’examiner se révèle une source très importante pour l’histoire de la législation impériale et surtout pour nous faire comprendre le rôle que les rescrits ont jouè dans le développement et dans la formation du droit”36. 3. I documenti Se la tradizione manoscritta apparentemente sembra non offrire elementi e spunti significativi per ricostruire la figura di Papirio Giusto, qualche interessante indizio giunge dalla documentazione epigrafica e papiracea. E, infatti, non sono mancati tentativi di trarre elementi prosopografici da alcune iscrizioni. Ma a ben vedere neppure la prosopografia riesce a soccorrerci più di tanto, se non dietro una lettura attenta, sistematica e non frammentaria della documentazione, perché l’unica iscrizione in cui ricorre esattamente Papirius Iustus è di natura funeraria: CIL VIII.4971: Q. ENNIUS PAPIR(I)US IUSTUS P(IUS) V(IXIT) AN(NOS) XVIII.

Al di là dell’omonimia, cosa in sé stessa priva di rilevante significato, data la diffusione del nome Papirio in tutto nell’impero, sia a Occidente sia a Oriente, l’epigrafe rinvenuta in Numidia37 è sostanzialmente inutilizzabile a schiarire i nostri problemi: Quinto Ennio Papirio Giusto Pio fu un giovane la cui precoce morte ad appena 18 anni impedisce di pensare che si trattasse del nostro Papirio38. La giovane età soprattutto ma anche il marginale contesto geografico in cui il giovane condusse la sua breve esistenza non permettono di azzardare neppure un’apprezzabile carriera tale da vederlo in un ruolo di un qualche rilievo nell’apparato burocratico imperiale, né tantomeno sollecitano a scorgere un nesso con i libri XX de constitutionibus. Alibi eccellente, dunque, quello offerto da CIL VIII.4971 per chiudere la questione e abbandonare frettolosamente ogni tentativo di disseppellire l’identità del giurista. Eppure, assai più ricco è il terreno epigrafico e papiraceo ove si rinvengono disseminati qua e là indizi interessanti, per la verità, non sconosciuti e già parzialmente rilevati e alla base di un’intuizione di Fritz Schulz, tanto felice quanto svilita, messa nero su bianco in un rapido passaggio, e in particolare in una appena più densa e feconda nota, della sua Geschichte der Römischen Rechtswissenschaft dedicato all’opera di Papirio Giusto39. Sotto l’autorevole obiezione mossa da Wolfgang Kunkel40 di aver forzato la lettura prosopografica di alcune testimonianze epigrafiche, il tentativo ancorché indiziario di Fritz Schulz è stato avvolto da uno spesso e ingiustificato velame di scetticismo da cui non si è più liberato. Al contrario, come vedremo nelle prossime pagine, partiremo proprio da Schulz per tentare di accendere qualche

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Volterra 1993b, 173. Dal villaggio di Khamisa della Numidia Proconsularis. Kunkel 1967 (rist. 2001), 216 s. nt. 418, 374. Schulz 1961, 179-180 nt. 3 (= Schulz 1968, 268 s. nt. 8). Kunkel 1967, 216 nt. 418, 374.

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire luce sulla figura di Papirio Giusto attraverso un riesame più distaccato, approfondito e coordinato di tutti i documenti disponibili. *** Secondo Fritz Schulz, Papirio Giusto fu un “Archivbeamter”, un funzionario degli archivi imperiali, da identificarsi con M. Aurelius Papirius Dionysius41, attivo nei rami a libellis e a cognitionibus della cancelleria imperiale sotto il principato di Marco Aurelio e qualificato come iurisperitus da una iscrizione anziate a lui dedicata. Ripercorriamo, allora, lo stretto sentiero indicato da Schulz, a cominciare proprio da quella mutila iscrizione intesa come pubblico omaggio a Papirio Giusto per la carriera pubblica sino ad allora percorsa e la sua perizia nella scientia iuris: CIL X.6662 (= ILS 1445): […] | PII FELICIS AUG(USTI) DUCENARIO | PRAEF(ECTO) VEHICUL(ORUM) A COPIS AUG(USTI) | PER VIAM FLAMINIAM | CENTENARIO CONSILIARIO | AUG(USTI) SACERDOTI CONFARREATI|ONUM ET DIFFAREATIONUM | ADSUMPTO IN CONSILIUM AD S(ESTERTIUM) LX M(ILIA) N(UMMUM) | IURISPERITO ANTIATES PUBLI(CE).

A leggere la purtroppo anonima iscrizione, le perplessità sorgono inevitabilmente. Non solo non è sopravvissuta la menzione del dedicatario ma neppure dell’imperatore sotto cui egli prestò i suoi officia, sebbene chiunque si sia occupato del documento convenga nel considerare Pii Felicis Augusti elemento sufficiente per scorgervi Commodo e così perimetrare cronologicamente il documento. Ma prima di provare a ricostruire identità e carriera del personaggio onorato, è giusto soffermarsi su una precisa e importante informazione, e cioè l’attestazione dell’indubbia preparazione giuridica che, a prescindere dall’esplicito e diretto riconoscimento pubblico (iurisperito Antiates publice), si evince anche dalla carica di sacerdote addetto alla confarreatio e alla diffarreatio. Già la sola menzione del particolare sacerdozio, fa di questa iscrizione un esemplare assai prezioso, anzi unico in quanto non attestato ulteriormente per via epigrafica42. Come è noto, infatti, esiste un dibattito sulla diffarreatio, istituto diretto a estinguere gli effetti dell’unione matrimoniale chiusa mediante l’antico rito della confarreatio e perciò finalizzato a una dissolutio tra marito e moglie43; si discute pure se sia stato introdotto soltanto in età tarda, e secondo un’opinione forse ai tempi di Domiziano,

41 Letteratura: PIR 1897, I, 212, nr. 1283 (PIR2 A, nr. 1567, si ritiene però trattarsi di altra persona da M. Aurelius Verianus = PIR2 A, nr. 1629 a, su cui vedi infra); Stein 1950, 102 s.; Whittaker 1964, 348 ss.; Bastianini 1975, 302; Pavis D’Escurac 1976, 352 ss.; Thomasson 1984, 352 nr. 76; Bastianini 1988, 511; Faoro 2011, 204; Magioncalda 2009, 568 nt. 57; Faoro 2016, 127 s. 42 Vedi De Ruggiero 1900, 598. 43 Gai. 1.112: Farreo in manum conveniunt per quoddam genus sacrificii, quod Iovi Farreo fit; in quo farreus panis adhibetur, unde etiam confarreatio dicitur: complura praeterea huius iuris ordinandi gratia cum certis et sollemnibus verbis praesentibus decem testibus aguntur et fiunt. Quod ius etiam nostris temporibus in usu est; nam flamines maiores, id est Diales, Martiales, Quirinales, item reges sacrorum nisi ex farreatis nati non leguntur; ac ne ipsi quidem sine confarreatione sacerdotium habere possunt. Su confarreatio e diffarreatio per tutti vedi Volterra 1940, 1 ss. (= Volterra 1991a, 3 ss.); Volterra 1966, 251 ss. (= Volterra 1991b, 3 ss.); Volterra 1975, 726 ss. (= Volterra 1991c, 223 ss.); Scherillo 1959, 1 ss.; Cantarella 1963, 181 ss. (= Cantarella 2011, 465 ss.); Knütel 1971, 68 s.; Linderski 1989, 212 s.; Fayer 2005, II, 239 ss.

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Orazio Licandro oppure in vigore già durante il principato augusteo44. Questo aspetto, tuttavia, è secondario ai nostri fini e, chiudendone la parentesi, è più rilevante il fatto che nella seconda metà del II secolo d.C. ancora potesse accadere di ricorrere a un sacerdos confarreationum et diffarreationum ma soprattutto prendere atto che, per le delicate implicazioni tecnico-giuridiche, e tenendo anche in debito conto la congrua osservazione di Ettore De Ruggiero circa il carattere eccezionale della nomina attestata da CIL X.6662, fosse naturale affidare l’incarico a un giurista45. Allora, primo dato acquisito è che l’anonimo di CIL X.6662 era un giurista esperto anche di ius sacrum. Torniamo, adesso, agli altri traguardi della carriera pubblica: sotto Commodo fu consiliarius all’inizio sessagenario, quindi centenario e ducenario, praefectus vehiculorum46, preposto ai rifornimenti militari lungo la via Flaminia: in definitiva, il profilo che ne vien fuori è quello di un giurista-funzionario stipendiato dallo Stato con una solida carriera, membro del consilium principis, e ancora attivo sotto Commodo. Non ne possediamo ancora la certezza, ma i presupposti per non trascurare la proposta di identificazione (Papirio Giusto = Marco Aurelio Papirio Dionisio) avanzata da Schulz ci sono tutti. Oltretutto, Schulz non mancava di sottolineare come la carriera pubblica di M. Aurelio Papirio Dionisio non si fosse affatto esaurita sotto Marco Aurelio ma continuò, come vedremo tra breve, durante il regno di Commodo, da cui a un certo momento fu fatto uccidere, guadagnandosi forse proprio per la disgraziata sorte l’appellativo di Iustus. Ciononostante, per il tono eccessivamente assertorio, soprattutto a fronte della frammentarietà e dell’indubbia insufficienza delle informazioni, e per il carattere comunque assai congetturale, come ebbe a osservare Wolfgang Kunkel47, l’idea di Schulz fu purtroppo accantonata e sino ad oggi dimenticata. Probabilmente una più distesa dimostrazione avrebbe assicurato una maggior fortuna, ma in fin dei conti Papirio Giusto restava ai margini dell’interesse scientifico di Schulz: al giurista, figura di secondo o persino di terz’ordine nella storia della grande giurisprudenza romana cristallizzata dai giustinianei, che il maestro tedesco andava pezzo dopo pezzo costruendo, fu tributata una menzione soltanto per la peculiarità della sua opera di raccolta di constitutiones principum, in qualche misura anticipatrice della concezione codificatrice imperiale tardoantica. Perciò, nel tentativo ‘pro Schultio’ praticato in queste pagine, è essenziale rileggere tutti gli altri documenti, anche quelli apparentemente insignificanti o distanti, per riunire quante più tessere sparse di un possibile mosaico, per la cui completezza, prima ancora di uno sguardo d’insieme, sono i dettagli a esigere particolare attenzione. Prendiamo, così, le mosse da un’importante iscrizione greca in cui si attesterebbe la presenza di un M. Aurelio Papirio Dionisio praefectus Aegypti sotto Commodo nell’anno 188/189 d.C.: CIG 5895 (= IG XIV.1072 = IGRR I.135 = IGUR I.59): Μ(άρκον) | Αὐρήλιον Παπείριον | Διονύσιον τὸν κράτιστον | καὶ ἐνδοξότατον ἔπαρχον Αἰγυπτο[υ] | καὶ ἔπαρχον εὐϑενιας ἐπὶ βιβλειδίω[ν] | καὶ

44 Fest. s.v. “Diffarreatio” (ed. Lindsay, 65): Diffarreatio genus erat sacrificii, quo inter virum et mulierem fiebat dissolutio. Dicta diffarreatio, quia fiebat farreo libo adhibito. Cfr. Plut. quaest. Rom. 50. 45 In tal senso pure Pflaum 1960-1961, I, 473 s. 46 Per un inquadramento della carica Eck 1999, 95 ss. 47 Kunkel 1967, 216 s. nt. 418, 222-224, 374; a cui sembra accodarsi agnosticamente Franciosi 1972, 174.

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire διαγνώσεων τοῦ Σεβαστοῦ ἔπαρχ[ον] | ὀχημάτων καὶ δουκηνάριον ταχ[ϑέντα] | καὶ περὶ τὴν Φλαμινίαν ΕΠΙΤΗ [- - -] | συμβουλόν τε τοῦ Σεβαστοῦ [- - - | - - -]ον ΛΕ vel ΔΕ.

[Marco Aurelio Papirio | Dionisio l’eccellente | e illustrissimo prefetto d’Egitto | e praefectus annonae, preposto ai libelli | e ai decreti dell’Augusto, praefectus | vehiculorum e ducenarius designato | e a copis per viam Flaminiam | e consiliarius dell’Augusto].

Il valore di questa iscrizione è evidente per diverse ragioni. Innanzitutto, perché abbiamo l’identità del personaggio: Marco Aurelio Papirio Dionisio; e poi perché sollecita l’affiancamento alla precedente per una lettura integrata, cosa che non sfuggì affatto a Schulz. Questi, a dire il vero, approfittando sul punto di un rapido passaggio di Otto Hirschfeld48, ne oscurò il merito di aver per primo avanzato la supposizione dell’identità del giurista-funzionario menzionato in CIL X.6662 e CIG 5895. Ora, la lettura combinata delle due iscrizioni (CIL X.6662 e CIG 5895) consente, in effetti, reciproche e assai interessanti integrazioni: da un lato, dal documento greco affiora la notizia del conferimento dell’incarico a βιβλείδια e a διαγνώσεις che permette di restituire la lacuna iniziale dell’iscrizione anziate con il segretariato a libellis e a cognitionibus; dall’altro lato, l’epigrafe latina, grazie all’indicazione della funzione di consiliarius sessagenario quale inizio della carriera pubblica di Papirio, ha archiviato tra le possibili integrazioni quella di tribuno angusticlavio di legione (χειλίαρχον λεγεῶνος), congetturata dai primi editori dell’iscrizione (A. Boeck, J. Kaibel e R. Cagnat), per preferire quella di κεντηνάριος del resto coincidente con la funzione di consiliarius centenarius di CIL X.6662, chiaramente indicativa di un funzionariato civile e non militare, in piena coerenza con la politica di favore praticata dagli Antonini, e da Marco Aurelio in particolare, a sostegno di questo ramo burocratico. Inoltre, il salto da segretario dei rami della cancelleria alle prefetture operative, in particolare a quella Aegypti, non era fatto inconsueto: ad esempio, nel 160 d.C., il segretario ab epistulis Cornelio Repentino otteneva la prefettura del pretorio. Sicché le due iscrizioni si integrerebbero per consegnare la carriera completa di Papirio Giusto: CIL X.6662 (= ILS 1445): [A LIBELLIS ET COGNITIONIBUS IMP(ERATORIS) COMMODI] | PII FELICIS AUG(USTI) DUCENARIO | PRAEF(ECTO) VEHICUL(ORUM) A COPIS AUG(USTI) | PER VIAM FLAMINIAM | CENTENARIO CONSILIARIO | AUG(USTI) SACERDOTI CONFARREATI|ONUM ET DIFFARREATIONUM | ADSUMPTO IN CONSILIUM AD S(ESTERTIUM) LX M(ILIA) N(UMMUM) | IURISPERITO ANTIATES PUBLI(CE).

CIG 5895 (= IG XIV.1072 = IGRR I.135 = IGUR I.59): Μ(άρκον) | Αὐρήλιον Παπείριον | Διονύσιον τὸν κράτιστον | καὶ ἐνδοξότατον ἔπαρχον Αἰγυπτο[υ] | καὶ ἔπαρχον εὐϑενιας ἐπὶ βιβλειδίω[ν] | καὶ διαγνώσεων τοῦ Σεβαστοῦ ἔπαρχ[ον] | ὀχημάτων καὶ δουκηνάριον ταχ[ϑέντα] | καὶ περὶ τὴν Φλαμινίαν ΕΠΙΤΗ [- - -] | συμβουλόν τε τοῦ Σεβαστοῦ [κεντηνάρι]ον.

Dinanzi a tanta evidenza della sinossi, c’è da chiedersi davvero cosa abbia mai impedito di individuare in M. Aurelio Papirio Dionisio il Papirio Giusto dei Digesta. In fin dei conti, nulla

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Hirschfeld 1905, 101 nt. 1.

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Orazio Licandro se non un’apparente difformità onomastica che però ha più il sapore del preconcetto che quello di un’opinione rigorosamente fondata. Infatti, può una semplice variante onomastica risultante da documenti differenti essere interpretata così come lo è stata senza una contestualizzazione e una lettura comparata degli stessi? Per rispondere non resta che continuare a raccogliere e ad accostare tutte le notizie intorno a M. Aurelio Papirio Dionisio. Che la mancanza di uniformità o, se si preferisce l’esistenza di una varietà onomastica, relativa a una medesima persona non fosse fatto inconsueto è abbastanza noto; e lo fu anche per il nostro personaggio, come risulterebbe da un papiro ossirinchite in tema di dichiarazioni censitarie proveniente da Antinoopolis in cui compare, sempre sotto Commodo, un Aurelio Papirio Dionisio, e il cui passaggio per noi fondamentale è riportato così da Mario Segre49: P. Oxy. VIII.1110: ὑπὸ Αὐρηλ[ίου Παπιρίου | Διονυσίου τοῦ χρατίσ]του ἡγεμόνος εἰς τὴν [πρὸς τὸ ἐ]νεστὸς κη (ἔτος) Αὐρηλίου Κ[ομμόδου Ἀντω|νίνου Καίσαρος],

le cui lacune, tuttavia, sono oggi così integrate P. Oxy. VIII.1110: ἀπογράφομαι τα κατὰ | τὰ κελευσϑέντα ὑπὸ Αὐρηλ[ίου Οὐηριανοῦ | τοῦ λαμπροτάτου χρατίσ]του ἡγεμόνος εἰς τὴν [πρὸς τὸ ἐ]νεστὸς κη (ἔτος) Αὐρηλίου Κ[ομμόδου Ἀντω|νίνου Καίσαρος],

alla luce della pubblicazione, nel 1938, dello stesso Segre di una bella epigrafe, coeva di P. Oxy. VIII.1110, (187-188 d.C.) recante una dedica a Commodo, fortuitamente scampata alla damnatio memoriae, incisa su una tavola di marmo bianco e conservata nel Museo di Alessandria (inv. n. 25078)50 che per completezza riportiamo: AÉ 1938, nr. 60 (= SB V.8269): Αὐτοκράτορα Καίσαρα Μᾶρκον | Αὐρήλιον Κόμμοδον Ἀντωνίνον | Εὐσβὴν Εὐτυχὴν Σεβαστὸν | Ἀρμενιακὸν Μηδικὸν Παρϑικὸν | Σαρματικὸν Γερμανικὸν μέγιστον | Βρεταννικὸν | ἐπὶ Μάρκωι Αὐρηλίωι Οὐηριανῶι ἐπάρχῶ | Αἰγύπτου | ἐπιστρατηγού[ντος Φλ]αουίυ | Ἡροδιανο[ῦ στρατηγοῦ]ντος | [Ἡρακλεί]δου τοῦ καὶ Νεμεσιανοῦ | [ἡ π]όλις ἔτους κη Τυβί ιγ διὰ | [Αἰσχ ?]ρίωνος τοῦ κ(αὶ) Σαραπίωνος γυμνασιάρχο[υ] | [Σ]αραπίωνος Πτολεμ(αίου) ἐξηγητ(οῦ).

Entrambi i documenti, P. Oxy. VIII.1110 e AÉ 1938, nr. 60, attestano per l’anno 27 del principato di Commodo insediato al governo d’Egitto un Aurelius Verianus o Marcus Aurelius Verianus. La varietà onomastica ha indotto, con eccessiva e ingiustificabile semplificazione, a maturare l’idea di trovarsi dinanzi a un personaggio diverso da Marcus Aurelius Papirius Dionysius. In realtà, come vedremo, la fonte papiracea non aggiungerebbe e non toglierebbe nulla alla ricostruzione sin qui proposta, anzi metterebbe a nudo i limiti di una lettura sino ad oggi poco coordinata dei documenti disponibili. Vediamo perché. Dal complesso delle informazioni sinora raccolte emergerebbero un Marco Aurelio Papirio Dionisio e un Marco Aurelio Veriano, a cui bisognerebbe aggiungere il Papirio Giusto

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Opportunamente richiamato da Segre 1938, 139. Segre 1938, 138 ss.; anche in AÉ 1938, nr. 60 [ma pubbl. 1939].

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire dei Digesta e, qualora si trattasse di una quarta diversa persona, l’anonimo di CIL X.6662. A seguire questo ragionamento, essi sarebbero stranamente tutti attivi in seno alla burocrazia imperiale, addirittura con sovrapposizioni di cariche, e tutti in un medesimo ristretto arco cronologico. Proprio, muovendo dall’apparente anomalia di un identificativo così ricco di elementi in capo alla stessa persona (Marco Aurelio Veriano Papirio Dionisio Giusto), implicitamente si è desunto che le fonti ‘parlassero’ di soggetti diversi. Ma se, da un lato, e forse del tutto infondatamente, ci si è insospettiti da un’onomastica ‘tanto ricca’, da un altro lato, stupisce come, invece, proprio una tale contestuale concentrazione di omonimi funzionari imperiali non abbia destato dubbi perfino più gravi. In effetti, la normalità di un’onomastica complessa, contrassegnata da una pluralità di cognomi distintivi soprattutto negli ambienti senatori di provenienza provinciale, è fenomeno ben rilevato dagli studi prosopografici dedicati a questo periodo. Insomma, uno dei presupposti più radicati a ostacolo dell’identificazione di Papirio Giusto cadrebbe subito attraverso una rapida analisi onomastica delle élites orientali, questione su cui non è necessario soffermarsi oltremodo salvo l’opportunità di richiamare, a mero scopo esemplificativo, il limpido caso dei Vedii Antonini di Efeso. Grazie ai rinvenimenti epigrafici conseguiti agli inizi del XX secolo, si è potuto ben ricostruire la forte ascesa del gruppo familiare dei Vedii da potente gruppo dell’aristocrazia locale a classe dirigente centrale sotto Antonino Pio. Di questi, è emblematica l’onomastica del senatore M. Claudius Publius Vedius Antoninus Phaedrus Sabinus, spesso invece menzionato nella forma ridotta come P. Vedius Antoninus. Simmetricamente, è utile accostare il caso (occidentale) ancor più illustre ed emblematico di Celso figlio, così noto nelle fonti giuridiche e e nelle altre di tradizione manoscritta ma in realtà dalla complessa polionimia (P. Iuventius P. f. Vel. Celsus T. Aufidius Hoenius Severianus) ricostruita, puntualmente da Giuseppe Camodeca51 grazie a un’epigrafe con il cursus honorum del giurista rinvenuta nel 1976. Ma come non richiamare, poi, la completa nomenclatura del successore di Adriano, Tito Aurelio Fulvo Boionio Arrio Antonino, meglio noto semplicemente come Antonino Pio? Anzi, a tal proposito possiamo osservare la rarità dei due cognomina – Pius e Iustus – attribuiti per particolari riconoscimenti comunque dopo la morte. Dinanzi a casi simili, tutt’altro che eccezionali, in cui sono documentate le diverse forme onomastiche52, naturalmente a seconda del documento in questione, non si vede perché sorprendersi dell’onomastica completa del nostro Papirio Dionisio, tanto da doversi immaginare persone diverse53. Semmai, è proprio questa variante onomastica Marcus Aurelius Verianus del praefectus Aegypti di P. Oxy. VIII.1110 e AÉ 1938, nr. 60 a costringere a un’ulteriore riflessione sul punto, tornando sulla sequenza sinora messa a punto dei prefetti d’Egitto tra il 188 e il

51 AÉ 1978, nr. 292: [P. IV]VENTIO P. F. | [V]EL(INA) CELSO | [T. AVF]IDIO HOENIO | [SEVERIA]NO COS. SODALI TI|[TIAL(I) LEG]ATO PRO{C} PR(AETORE) IMP(ERATORIS) CAE|[SARIS N]ERVAE TRAIANI OP[TI]|[MI AVG. GERM.] D[AC(ICI) PROV.] | [THRACIAE - - - - - -]; su cui Camodeca 2011, 85 ss. 52 Fontani 1996, 227 ss. Mutando la latitudine si veda, per esempio, il caso del legatus Augusti pro praetore Caius Memmius Fidus lulius Albius, di Bulla Regia (Africa), menzionato in una dedica del 191 d.C. al Genio della legione II Italica (consul designatus) (CIL III.15208; cfr. CIL VIII.12442). 53 Vedi i Papirii (Aurelii) Socrates (PIR2 A, nr. 1568) e i rapporti con M. Aurelio Dionisio (SEG XLIV.1211), su cui Migliorati 2014, 440 nt. 116.

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Orazio Licandro 190 d.C. Scorrendo gli elenchi compilati negli studi dedicati ai prefetti d’Egitto, o se ne identifica soltanto uno, cioè Marco Aurelio Veriano, come nelle liste di Reinmuth54 e di Stein55, oppure se ne identificano addirittura in stretta sequenza due, uno dopo l’altro, cioè Marco Aurelio Veriano e Marco Aurelio Papirio Dionisio, come accade in quelle più recenti di Bastianini56 e di Faoro57. A ben guardare, però non c’è unanimità di vedute neppure tra chi, come nel caso degli ultimi due studiosi citati, individua almeno due prefetti, la cui vicinanza temporale rende oltremodo sospetta la sostanziale omonimia. E in effetti, ragionando su di un piano squisitamente cronologico, è singolare pensare alla coincidenza, solo per pochi mesi a cavallo degli anni 188-189 d.C., dell’avvicendamento di due distinte persone sostanzialmente omonime (Marco Aurelio Papirio Dionisio e Marco Aurelio Veriano) nella carica di praefecti Aegypti. Non a caso le spiegazioni tra Bastianini e Faoro divergono. Se il primo si è limitato a rilevare l’assenza di dati epigrafici e papiracei relativi alla prefettura di Marco Aurelio Papirio Dionisio, immaginando una destituzione dello stesso prima ancora di giungere in Egitto58, a diverse conclusioni è approdato Davide Faoro. Questi, assai più legato al racconto di Cassio Dione relativo al clima di sospetto e terrore che avvelenò gli anni di regno di Commodo, ha interpretato l’elevato numero di prefetti d’Egitto (10 in 12 anni) come una scelta del princeps di conferire brevi mandati, perché ciò “avrebbe evitato, almeno in parte, la possibilità materiale di tramare un’usurpazione, nonché assicurato un maggiore controllo da parte dell’imperatore sull’attività nella provincia”59. È difficile condividere la tesi di Faoro recentemente ribadita60, secondo cui M. Aurelius Papirius Dionysius probabilmente rivestiva la prefettura dell’annona al momento della sua elevazione alla prefettura egiziana, ma non raggiunse mai la Terra dei Faraoni per un ripensamento di Commodo. La conclusione, per la verità formulata in un precedente lavoro in maniera più problematica che assertoria, è che l’Egitto abbia visto avvicendarsi nella carica prefettizia due persone distinte per brevissimi scorci temporali: M. Aurelius Verianus per il 188-189 d.C. e M. Aurelius Papirius Dionysius per il 189 d.C., ma di fatto senza neppure insediarvisi. Ora, non si può escludere che Commodo fosse rimasto impressionato dalla congiura di Avidio Cassio ai danni del padre, congiura resa ancora più insidiosa appunto dal tradimento del praefectus Aegypti del tempo, C. Calvisio Staziano, prontamente schieratosi con il governatore della Syria.61

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Reinmuth 1935, 102. Stein 1939, 102. 56 Bastianini 1975, 302. 57 Faoro 2011, 204. 58 Bastianini 1975, 302 nt. 2: “Finora la prefettura di Papyrius Dionysius non è attestata, in Egitto, da nessuna fonte papirologica o epigrafica (può darsi anche che Dionysius, calunniato da Cleandro, sia stato destituito ancora prima che raggiungesse Alessandria; […] Il suo nome può ugualmente rimanere a questo punto nella lista, a patto che la morte di Cleandro e quella di Dionysius, di poco posteriori alla nomina di Dionysius stesso come prefetto d’Egitto, siano effettivamente avvenute nel 190”. La ricostruzione di Bastianini si fonda sull’incerta restituzione di Papirio Dionisio in P. Harris 71; cfr. Alföldy 1989, 119 s. 59 Faoro 2011, 204. 60 Faoro 2016, 127 s. 61 Vedi P. Amsterdam inv. nr. 22 (= SB XIII.10991) contenente l’annuncio di Calvisio Staziano dell’accessione al trono di Avidio Cassio; Sijpesteijn 1971, 188 ss.; Purpura 1992a, 635. 55

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire Ma non al punto da utilizzare l’elemento psicologico dell’ossessione di Commodo come dato probante di scelte istituzionali per avvalorare la tesi di due distinte persone avvicendatesi nella carica prefettizia in un arco temporale di pochi mesi. Non solo l’ipotesi è indebolita dall’omonimia dei personaggi, ma appare ancor meno plausibile l’idea di un conferimento della carica prefettizia di vertice della carriera equestre a M. Aurelius Papirius Dionysius (prefetto dell’annona in carica) nomina, poi, prontamente revocata, per un repentino ripensamento, da Commodo prima ancora che il neoprefetto subito destituito partisse per l’Egitto e a cui però il princeps concedeva la reintegrazione nella prefettura dell’annona. Una ricostruzione tortuosa e, credo, da abbandonare, mettendo in successione logica i documenti sparsi. Pur sommando il tempo della carica dei due (presunti) prefetti e attribuitone il risultato alla prefettura di un solo M. Aurelius Verianus Dionysius, il lasso di tempo è sempre così breve da restare compatibile con il dato oggettivo dell’inconsueto alto numero di prefetti d’Egitto dai brevi mandati, sotto Commodo. Altri papiri ossirinchiti (P. Oxy. XXXVI, 2762 e XXXVI, 2800)62 relativi a operazioni di censo disposte da Tenio Demetrio prefetto d’Egitto (dal 189/190 d.C.) e dal suo predecessore Aurelio Veriano (sino al 188/189 d.C.) e, infine, la menzione del prefettura d’Egitto prima di quella dell’annona confermata da una notizia della Suda63 aiutano a semplificare il quadro verso la conclusione che ci si trovi sempre dinanzi alla medesima persona, cioè Marco Aurelio Veriano Papirio Dionisio, tra l’altro già membro del consilium di Marco Aurelio, in seguito, sotto Commodo, abile a scalare la gerarchia divenendo capo della cancelleria imperiale (a libellis e a cognitionibus), e infine praefectus Aegypti e annonae. E proprio dall’esposizione dei fatti di Cassio Dione si trarrebbero ulteriori tasselli chiarificatori: Cass. Dio 72(73).13.2: ἐγένετο μὲν γὰρ καὶ ἄλλως ἰσχυρὰ σιτοδεία, ἐπὶ πλεῖστον δ᾽ αὐτὴν Παπίριος Διονύσιος ἐπὶ τοῦ σίτου τεταγμένος ἐπηύξησεν, ἵν᾽ ὡς αἰτιώτατον αὐτῆς τὸν Κλέανδρον ἀπὸ κλεμμάτων ὄντα καὶ μισήσωσιν οἱ Ῥομαῖοι καὶ διαφϑείρωσι.

Il senatore e storiografo di Bitinia, nel racconto degli eccessi e delle ruberie di Cleandro, arrogante e corrotto liberto imperiale di Commodo, non solo nominato cubiculario ma in seguito elevato persino alla carica di praefectus praetorio, cita un praefectus annonae dal nome Παπίριον Διονύσιον. Questi, su cui gravava il compito degli approvvigionamenti durante una grave carestia che metteva pericolosamente in subbuglio la popolazione, rivestì anche un ruolo essenziale nell’organizzare la drammatica fine di Cleandro. Il Papirio Dionisio di Cassio Dione non può che essere M. Aurelio Papirio Dionisio, prefetto d’Egitto richiamato a Roma anzitempo per fronteggiare l’emergenza annonaria.

62 The Oxyrhynchus Papyri, vol. XXXVI. Edited with translations and notes by R.A. Coles, D. Foraboschi, A.H. Soliman el-Mosallamy, J.R. Rea, U. Schlag, with contributions by G.M. Browne, D. Jordan, A.H.R.E. Paap, D. Rokeah, A. Swiderek, London 1970; cfr. P. Harris 71, il cui dibattito sulla restituzione alla linea 6 di Papirio Dionisio o di Aurelio Veriano ai fini di questa ricostruzione non è rilevante. 63 Suda, E 916 (Adler): ὁ δὲ Κλέανδρος ἐλοιδόρησε τὸν ὕπατον τῆς ἐν Αἰγύπτῳ ἀρχῆς Κωμωδῶν, καὶ παραλύει αὐτὸν τῆς ἀρχῆς οὐδὲν ἀδικοῦντα.

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Orazio Licandro Questa lettura del passo dioneo, peraltro, offre anche il destro per credere che alla base della decisione di Commodo di richiamare a Roma Papirio Dionisio, piuttosto che la paura di una congiura, ci fosse la stima verso il funzionario dalle indubbie capacità per affrontare la carestia e le forti tensioni sociali innescate. Anche l’idea di un declassamento64 di Marco Aurelio Papirio Dionisio risponde più a un pregiudizio che alla reale importanza politica della carica prefettizia da valutare nel contesto della pericolosa congiuntura che vedeva Roma e, dobbiamo presumere, anche una larga parte dell’Italia afflitte dalla grave carestia65. Peraltro, un’iscrizione ostiense dà significativamente atto dell’intenso e importante lavoro di Papirio Dionisio nella qualità di praefectus annonae: AÉ 1996, nr. 309: CORPUS | PISTORUM | LOCUS ADSIGNATUS A PAPIRIO DIONYSIO TUNC PRAEF(ECTO) ANN(ONAE) | DECURIONUMQUE CONCES]SU. L’epigrafe, in cui si ricorda l’assegnazione di un luogo al corpus pistorum66 decisa da Papirio Dionisio di concerto con l’ordo decurionum, in qualche misura irrobustisce il quadro indiziario sin qui delineato e contribuisce a fornire meglio l’idea della rilevanza politica della prefettura dell’annona67 e, nella fattispecie, anche dell’autorevolezza e della popolarità di Papirio Dionisio, capace di interloquire con gli operatori del settore68 e con l’élite cittadina di Ostia tanto da riceverne onori pubblici. Anche in questa circostanza, i fatti narrati nella pagina dionea ci portano in quel torno d’anni e precisamente al 190 d.C. con la presenza di un personaggio pubblico dall’onomastica ormai familiare: Papirio Dionisio. Ora, poiché sarebbe eccessivo aggiungere coincidenza a coincidenza e immaginare addirittura un terzo Papirio Dionisio circolante nei più alti ambienti imperiali, non c’è alcun dubbio che si tratti ancora una volta della stessa persona. Marco Aurelio Papirio Dionisio, lasciata quindi presto la carica di praefectus Aegypti69, assunta nel 188 d.C., richiamato intorno alla seconda metà del 189 d.C. a Roma da Commodo, probabilmente

64 Non riveste particolare importanza indagare sulle ragioni del richiamo del prefetto d’Egitto a Roma. Secondo alcuni, che poggiano su di un frammento della Varia Historia di Eliano (frg. 115) sebbene non si menzioni il nome del prefetto d’Egitto in questione, Commodo sarebbe stato indotto da Cleandro a sostituire Papirio Dionisio, da qui l’astio dell’ex prefetto contro il potente liberto imperiale (in questo senso da ultimo Migliorati 2014, 442). Questa tesi ha il limite di considerare il richiamo di Papirio Dionisio a Roma come una destituzione e la sua nomina a praefectus annonae come una retrocessione. Valutazione profondamente errata se soltanto confrontata all’analoga carriera di L. Volusio Meciano (vedi infra), che chiuse il suo brillante cursus appunto con la praefectura Aerarii Saturni. 65 Pavis D’Escurac 1976, 352 ss.; De Martino 1974, IV.1, 652 ss. 66 Su cui vedi CIL XIV.101; XIV.374; XIV.4234: Waltzing 1900, IV, 39 nr. 120. 67 Non deve escludersi neppure che il richiamo a Roma per assumere la prefettura dell’annona può aver giocato anche la maturata esperienza di Papirio in Egitto nel coordinamento delle attività dei procuratori competenti in materia di approvvigionamento granario (sul tema vedi ora Alessandrì 2018, passim). 68 Sull’iscrizione si rinvia a Nuzzo 1996, 90 s.; Sirks 1999, 106 nt. 33; Lo Cascio 2002, 105 nt. 78. Da segnalare è che l’importanza dell’attestazione del ‘privilegio’ accordato alla corporazione risiedeva nel fatto che si trattava di un luogo pubblico (sul regime relativo alla fruizione privata di un luogo pubblico, vedi Santini 2016). A proposito di una partecipazione di collegia alle trame contro Cleandro cfr. Whittaker 1964, 358 s. 69 Gli subentra già intorno al 28 agosto del 190 d.C. Tineius Demetrius: Bastianini 1975, 303; Faoro 2011, 204. Cfr. Stein 1939, 223; Brunt 1975, 146 nr. 68.

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire alla fine dell’anno o tutt’al più nei primi mesi del 190 d.C., entrava in carica come prefetto dell’annona proprio nel momento in cui per la difficile situazione alimentare erano in corso forti tensioni sociali e i torbidi prima accennati70. La narrazione dionea si chiude con il vile e pilatesco ordine di Commodo di eliminare sia il suo praefectus praetorio sia Papirio Dionisio71 per scansare la rabbia popolare già montata a causa della carestia e accresciuta dai suoi soprusi, tragico epilogo della precipitazione della corte imperiale in un clima di folle sospetto che il principe sfogava in continue epurazioni. Un omicidio, dunque, quello di Papirio Dionisio, considerato atroce e insensato dall’opinione pubblica e perciò forse all’origine dell’attribuzione al praefectus annonae di quell’appellativo postumo di Iustus, di cui però mai ci sarebbe stata un’attestazione epigrafica. Riassumendo, dalla documentazione passata in rassegna si evince una carriera solida e importante di Papirio Giusto, “un grand fonctionnaire” per dirla con Pflaum72: praefectus vehiculorum preposto all’approvvigionamento militare, segretario a libellis e a cognitionibus, praefectus Aegypti, praefectus annonae, giurista, membro del consilium principis di Marco Aurelio e di quello di Commodo in salda continuità con quello del padre73 (consiliarius sexagenarius, centenarius, ducenarius). Dinanzi a tutti questi dati allora, se è possibile avanzare un’obiezione a Schulz, questa dovrebbe andare in senso esattamente contrario a quanto contestatogli da Kunkel, e cioè semmai di un’eccessiva prudenza nell’utilizzazione della documentazione esistente. 4. L’origine orientale C’è però un altro aspetto meritevole di attenzione. Secondo Paul Collinet, Papirio Giusto fu un giurista provinciale, e più precisamente un “professeur ou conservateur du dépôt”, un professore di diritto oppure un conservatore dell’archivio imperiale di Berito, ove grazie al facile, consueto accesso74 al materiale documentale depositato aveva l’opportunità di disporre di tutto il materiale per comporre i libri XX de constitutionibus. Su questa ipotesi certamente di un certo fascino non sembra convergere Franciosi, che non manca di sottolineare la grave svista in cui incorse Collinet a proposito dei destinatari dei rescritti75. Probabilmente, infervorato dall’immagine della splendida Berito, sicuramente illustre centro di biblioteche, archivi e depositi librari, Collinet ha poggiato la sua ricostruzione su Papirio Giusto sul fatto che di tutti i rescritti raccolti soltanto uno recasse il nome del destinatario, cioè Avidio Cassio, legatus Augusti propraetore in Syria (Pap. Iust. 8 de const., D. 2.14.60 = L. 18), sino al 175 d.C. quando,

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Sulla vicenda cfr. Whittaker 1964, 369; De Ranieri 1997, 139 ss. Cass. Dio 72(73).13-14; SHA vita Comm. 7; Herod. 1.12-13 (che però tace del tutto su Papirio Dionisio); Millar 1964, 130 s. 72 Pflaum 1960-1961, I, 473. 73 In questo senso anche Marotta 1988, 39, che però considera M. Aurelius Papirius Dionysius consiliarius attivo sotto Commodo. Morabito 1983-1984, 332, sottolinea la presenza di un “iuris peritus de Marc-Aurèle, un oriental de rang équestre”, però senza spingersi oltre. 74 Collinet 1924, 371. 75 Franciosi 1972, 175 nt. 92. 71

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Orazio Licandro messa in atto una cospirazione, si autoproclamò imperatore ma venne presto giustiziato da due suoi ufficiali: “Le nom d’un destinataire ne paraît que dans la constitution unique de Marc-Aurèle seul”76. In effetti, sorvolare sull’errore di Collinet non è possibile, anche perché nel trascurare gli altri due rescritti recanti i nomi dei rispettivi destinatari, uno inviato a un non meglio identificato Sestio Vero (Pap. Iust. 1 de const., D. 18.1.71 = L. 3), e un secondo indirizzato a Giulio Vero altro legatus Augusti propraetore in Syria dal 163/164 al 166 d.C. (Pap. Iust. 1 de const., D. 48.16.18 = L. 7), Collinet, invece di rafforzare la tesi, ha finito con evidente paradosso per minarne l’intero ragionamento a danno di un nocciolo di probabilità utile per guardare all’oriente ellenistico come serbatoio per il reclutamento di classi dirigenti, funzionari, giuristi. Che i due rescritti ‘siriani’ non costituiscano affatto una prova né un indizio a favore dell’origine beritense di Papirio Giusto non ha bisogno, infatti, di ulteriori commenti, perché davvero niente obbliga a ritenere che Papirio Giusto avesse dovuto necessariamente trarli dagli archivi istituzionali della città piuttosto che da quelli di Roma. Un noto scambio epistolare tra Plinio, governatore della Bitinia, e Traiano è un’utile testimonianza dell’esistenza del fenomeno di apocrifia dei rescritti imperiali allegati in sede processuale, e dimostra conseguentemente che almeno già alla fine del I secolo d.C. gli originali dei rescritti, o loro copie autentiche, se inviati, venivano conservati negli archivi imperiali centrali77.

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Collinet 1924, 371. Sulla congiura vedi Baldini 1978, 634 ss.; Fündling 2009, 177 ss.; Cenerini 2017, 101 ss. Plin. epist. 10.65.1-3: C. Plinius Traiano imperatori. Magna, domine, et ad totam provinciam pertinens quaestio est de condicione et alimentis eorum, quos vocant ϑρεπούς. [2] In qua ego auditis constitutionibus principum quia nihil inveniebam aut proprium aut universale, quod ad Bithynos ferretur, consulendum te existimavi, quid observari velles; neque enim putavi posse me in eo, quod auctoritatem tuam posceret, exemplis esse contentum. [3] Recitabatur autem apud me edictum, quod dicebatur divi Augusti, ad Andaniam pertinens; recitatae et epistulae divi Vespasiani ad Lacedaemonios et divi Titi ad eosdem et Achaeos, et Domitiani ad Avidium Nigrinum et Armenium Brocchum proconsules, item ad Lacedaemonios. Quae ideo tibi non misi, qia et parum emendata et quaedam non certae fidei videbantur, et quia vera et emendata in scriniis tuis esse credebam; Plin. epist. 10.66.1-2: Traianus Plinio. Quaestio ista, quae pertinet ad eos, qui liberi nati expositi, deinde sublati a quibusdam et in servitute educati sunt, saepe tractata est, nec quicquam invenitur in commentariis eorum principum, qui ante me fuerunt, [2] quod ad omnes provincias sit constitutum. Epistulae sane sunt Domitiani ad Avidium Nigrinum et Armenium Brocchum, quae fortasse debeant observari; sed inter eas provincias, de quibus rescripsit, non est Bithynia. Et ideo nec adsertionem denegandam his, qui ex eius modi causa in libertatem vindicabuntur, puto, neque ipsam libertatem redimendam pretio alimentorum. I passi, relativi alla disciplina degli esposti, sono stati oggetto di interesse di Volterra 1939, 451 ss. (= Volterra 1993a, 391 ss.), limitato però all’efficacia delle costituzioni imperiali. Non è però questo il profilo di nostro maggior interesse quanto piuttosto il valore dell’attestazione delle due epistulae del carteggio pliniano dell’insorgenza già in età traianea di certezza circa l’autenticità del materiale normativo ‘recitato’ nei tribunali sparsi nei territori dell’impero. In particolare, Plinio, dovendo affrontare il caso dei ϑρεποί, cioè degli orfani abbandonati e poi raccolti da estranei, lamentava al princeps di non aver trovato alcuna norma al riguardo nonostante il grande impegno di studio delle costituzioni imperiali dei predecessori, e lo informava della recitatio dinanzi a lui di un editto di Augusto e di ben sei epistulae imperiali (una di Vespasiano, due di Tito e tre di Domiziano). Plinio però chiariva di non essersela sentita di giudicare in base agli exempla recitatigli di cui sospettava l’apocrifia e aveva preferito, prudentemente, rivolgersi all’auctoritas del principe, confidando di rinvenire gli originali o copie autentiche negli archivi imperiali (et quia vera et emendata in scriniis tuis esse credebam). Traiano, da canto suo, confermava di aver trovato diverso materiale presso i commentari di quei principi, ma nessun atto normativo relativo alla Bitinia. È evidente dunque, già a cavallo tra I e II secolo d.C., l’utilizzazione diretta in sede giurisdizionale degli atti normativi del principe (siamo agli albori della cosiddetta Rezitationspraxis), per i quali si attingeva o agli archivi centrali o, nel caso di processi dinanzi ai governatori provinciali, agli archivi ufficiali locali (vedi infra parte III.2). Sul tema è oggi fondamentale il punto di vista di Marotta 2012, 357 ss.; cfr. Sherwin-White 1985, 650 ss. 77

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire Invece, al netto dell’errore78, nell’intuizione dello studioso francese balena qualche luce che spinge alla prudenza e a non escludere affatto un rapporto tra Papirio Giusto e alcuni territori dell’oriente ellenistico imperiale. Il che, sia bene inteso, non implica necessariamente un’origo siriaca di Papirio, oppure la sua intera permanenza in un ambiente provinciale, ma piuttosto riconoscerne almeno la plausibilità della formazione o del perfezionamento negli studi giuridici in un centro culturalmente vivace e assai rinomato come fu Berito e senza neppure escluderne una provenienza magari da altre regioni orientali. Berito, pulcherrima civitas e legum nutrix, secondo l’elogio giustinianeo ammessa accanto a Costantinopoli e Roma nel novero delle uniche sedi ufficiali ove impartire insegnamento delle Institutiones79, fu sempre un rinomato centro di auditoria legum, come recitava nella metà del IV secolo d.C. un Anonimo: Totius Mundi Descriptio 25: Berytus, civitas valde deliciosa et auditoria legum habens per quam omnia iudicia Romanorum . Inde enim viri docti in omnem orbem terrarum adsident iudicibus et scientes leges custodiunt provincias, quibus mittuntur legum ordinationes80.

Non desta stupore, anzi, il fatto che un cavaliere provenisse da territori orientali e che, prima del grande salto verso la capitale, si fosse formato a Berito oppure in Antiochia, capitale della provincia di Syria, ricordata come metropoli multitudinem populorum undique accipiens81. A indurci a non allontanarci troppo dall’area mediorientale è un’iscrizione anatolica, e precisamente proveniente da Salagassos (l’odierna Aglasun) città della Pisidia. Pubblicata nel 1892, l’epigrafe arricchisce ulteriormente le nostre informazioni su Marco Aurelio Papirio: [Μ]άρκον Αὐρήλιον Παπερίον Διονύσιον τὸν ἑαυτοῦ εὐεργέτην82.

Per quanto scarna, l’informazione epigrafica è assai preziosa. In primo luogo, perché aggiungiamo, a quelle già passate in rassegna, un’altra menzione di un Marco Aurelio Papirio Dio-

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Ma vedi la prudenza di Sperandio 2005, 65, sulla ricostruzione di Paul Collinet. Co. Omnem 7: Haec autem tria volumina a nobis composita tradi eis tam in regiis urbibus quam in Berytiensium pulcherrima civitate, quam et legum nutricem bene quis appellet, tantummodo volumus [...] quia audivimus etiam in Alexandrina splendidissima civitate et in Caesariensium et in aliis quosdam imperitos homines devagare et doctrinam discipulis adulterinam tradere: quos sub hac interminatione ab hoc conamine repellimus, ut, si ausi fuerint in posterum hoc perpetrare et extra urbes regias et Berytiensium metropolim hoc facere, denarum librarum auri poena plectantur et reiciantur ab ea civitate, in qua non leges docent, sed in leges committunt. Schemmel 1923, 236 ss.; Jones 1973, II, 732 s., 1004; III, 1447, 1457; De Giovanni 2004, 53 s.; Jones Hall 2004, 195 ss.; De Giovanni 2007b, 168; Schuol 2010, 161 ss.; Matino 2012, 16 s.; De Giovanni 2015, 67. A proposito delle scuole di diritto vedi il classico e sempre prezioso Collinet 1925, passim; Chorus 1993, 195 ss.; a cui adde Giomaro 2011. 80 Il brano è tratto da un’edizione comparata e integrata delle due distinte versioni in traduzione latina (Expositio Totius Mundi et Gentium e Totius Mundi Descriptio) dell’originale greca purtroppo perduta, a cura di U. Livadiotti e con traduzione di M. Di Branco (Anonimo del IV secolo, Descrizione del mondo e delle sue genti, Roma 2005). Sul testo vedi Collinet 1925, 162 ss.; De Marini Avonzo 1999, 277. 81 Totius Mundi Descriptio 23: Est ergo Antiochia prima, civitas regalis et bona in omnibus, ubi et dominus orbis terrarum sedet, civitas splendida et operibus eminens, et multitudinem populorum accipiens, omnes sustinet; abundans omnibus bonis; cfr. Lib. or. 11.164. 82 La dedica si trova nella parte superiore della base di una statua presso la grande porta della città: Niemann, Petersen, Lanckoronski 1893, II, 139, 240 nr. 207; Pflaum 1960-1961, I, 473. 79

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Orazio Licandro nisio, che non può che essere, ancora una volta, il medesimo personaggio. In secondo luogo, perché la celebrazione da parte dei Sagalesseni dell’evergetismo di Marco Aurelio Papirio Dionisio, la cui statua era posta all’ingresso della grande porta della città, laddove in seguito venne collocata anche la statua dell’imperatore Zenone, fornisce eloquentemente la cifra dell’intenso legame con la comunità cittadina, il cui grande onore tributatogli era conforme a un canone relazionale in voga presso le élites locali proiettate sul proscenio imperiale centrale. L’iscrizione, in definitiva, non solo giunge in qualche misura a dar manforte all’intuizione di Collinet sulla provenienza orientale del nostro funzionario, ma offre pure il destro per osservare che l’indicazione di Papirio Giusto e della sua opera nell’Index Florentinus – Ἰούστου βιβλία constitutionon είκοσι – potrebbe assumere un’altra luce, e apparire, per quello che probabilmente fu, un preciso indizio della conservazione di un ricordo di un giurista, e di una relativa tradizione manoscritta, di marca orientale83. In definitiva, per quanto non del tutto nitido, non è affatto azzardato vedere in Papirio Giusto un cavaliere dai solidi contatti con alcuni territori orientali dell’impero e localizzarne la provenienza orientale dalle province anatoliche e iscriverne il reclutamento nei gangli più importanti dell’apparato burocratico imperiale nel più generale processo di integrazione e di inclusione delle élites orientali, in un intrecciarsi di gruppi dirigenti romani centrali con quelli provinciali sia delle civitates Romanae sia di quelle di status straniero di cui evidenti tracce e riflessi si sono conservati nelle riflessioni e negli scritti dei prudentes severiani84. L’attenzione verso alcuni territori orientali strategici come la Syria, del resto, era già presente in Antonino Pio: a lui si deve l’istituzione della procuratela per i conti delle civitates siriane e la dislocazione di contingenti militari per dissuadere i Parti da intenzioni bellicose. Abbiamo anche preso atto epigraficamente di quelle di Salagassos, di cui la prima adlectio in senatus di un loro esponente documentata con certezza risalirebbe al principato di Antonino Pio85, mentre il dato onomastico consiglierebbe di non escludere neppure l’idea che fu Marco Aurelio a concedere la cittadinanza romana alla famiglia di Papirio Dionisio86. 5. Papirio Giusto e l’ordo equester Forse nell’origine provinciale o magari soltanto nella solida conoscenza dei territori lontani da Roma di Papirio Giusto, possiamo cercare e trovare il retroterra della sensibilità politica e culturale di un giurista-funzionario che, nonostante la sottovalutazione dei contemporanei e dei moderni, aveva cominciato ad avvertire l’incipiente primato delle costituzioni imperiali87. Dinanzi al nuovo e impetuoso ‘vento’, forse aveva fatto subito tesoro dell’insegnamento di Cornelio Frontone, di cui si è conservata memoria e traccia scritta: rivolgendosi ad Antonino Pio ricordava, quasi a guisa di ammonimento, il valore di exemplum vincolante della parola

83 A proposito della lingua dell’Index Florentinus, Mantovani 1987, 136, lascia aperta l’alternativa tra una versione latina grecizzata e una greca latinizzata. 84 Imprescindibile approfondimento in Talamanca 1976, 95 ss. 85 Pavis D’Escurac 1976, 353 s.; Devijver 1996, 105 ss.; Whittaker 1964, 348 ss.; Migliorati 2014, 440. 86 Vedi pure PIR 1898, A 1568; Migliorati 2014, 440; cfr. Whittaker 1964, 368 nt. 158. 87 Bretone 1987, 363.

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire del princeps (tu ubi quid in singulos decernis, ibi universos adstringis)88, privo di limiti di tempo e di spazio. Difficilmente, bisognerebbe ammetterlo, un semplice funzionario, addirittura formatosi nelle militiae equestri89, lontano dal palazzo imperiale e privo di preparazione giuridica, avrebbe concepito una raccolta come i libri XX de constitutionibus. A quale scopo? Mentre non sorprenderebbe affatto se pensata e realizzata da chi proveniva da un percorso diverso, di selezione di personale politico civile in cui spazio particolare era sempre più riservato ai giuristi. In questo caso saremmo dinanzi a un esponente equestre, di compiuta romanizzazione, formatosi presso le più rinomate scuole orientali di diritto e voglioso di farsi largo nei ranghi della burocrazia imperiale in una dinamica fase di riordinamento. Un giurista-funzionario, dunque, un brillante uomo d’azione ma anche munito di buona cultura giuridica e soprattutto a un certo momento trovatosi nelle migliori condizioni immaginabili – sia per la consuetudine con i più alti ambienti di produzione normativa sia per il facile accesso ad archivi ufficiali e depositi librari a ciò dedicati – per concepire e realizzare una raccolta come i libri XX de constitutionibus. Carriere come quelle di Marco Aurelio Papirio Dionisio (più tardi detto Giusto) non erano affatto eccezionali, in una certa misura possiamo dire che, nella stagione degli Antonini, rientrassero nella norma. E del resto, se ne potrebbero richiamare decine. Per restare al principato di Marco Aurelio è sufficiente ricordare il caso di C. Calvisio Staziano, un membro dell’ordo equester originario di Verona, dapprima segretario dell’ufficio ab epistulis e dopo praefectus Aegypti nel 175 d.C. sodale dell’usurpatore Avidio Cassio e perciò condannato da Marco Aurelio alla relegatio ad insulam90. E non deve sorprendere che Papirio Giusto, oltre che un alto funzionario, fosse anche un giurista, magari più versato sul piano pratico del governo, dell’amministrazione piuttosto che su quello speculativo, dell’elaborazione scientifica e della produzione letteraria; insomma, un giurista, un homo novus, proveniente non dalle militiae equestri ma dalla società civile, che riuscì a sedere nel consilium di Marco Aurelio. Se servisse ancora sgombrare del tutto il campo da un insensato pregiudizio, basterebbe riflettere sulla straordinaria simmetria tra la carriera, così come l’abbiamo ricostruita del nostro Papirio Giusto, e quella di un suo contemporaneo che nessuno si sogna di espungere dal novero dei prudentes, cioè Volusio Meciano. Questi, illustre esponente dell’ordine equestre, fu prefetto

88 Fronto epist. ad Marcum Caes. 1.6.2-3: In iis rebus et causis quae a privatis iudicibus iudicantur, nullum inest periculum, quia sententiae eorum intra causarum demum terminos valent; tuis autem decretis, imp., exempla publice valitura in perpetuum sanciuntur. Tanto maior vis et potestas quam fatis adtributa est: fata quid singulis nostrum eveniat statuunt; tu, ubi quid in singulos decernis, ibi universos exemplo adstringis. [3] Quare si hoc decretum tibi proc. placuerit, formam dederis omnibus omnium provinciarum magistratibus, quid in eius modi causis decernant. Quid igitur eveniet? Illud, scilicet, ut testamenta omnia ex longinquis transmarinisque provinciis Romam ad cognitionem tuam deferantur […]. Il caso riguardava un proconsole che, a proposito di una contestazione di eredità, ne aveva deferito la soluzione all’imperatore. Per l’ampiezza della letteratura stratificatasi sul testo, si rinvia ai lavori più recenti ove risalire a ulteriore bibliografia: Marotta 1988, 35 nt. 122, 226 s. nt. 58; Spagnuolo Vigorita, Marotta 1992, 110 ss. nt. 132; Rizzi 2012, 15 ss.; e da ultimo Centola 2017, 59 ss. Resta aperta la questione se l’essenza del passaggio dell’oratio di Frontone possa estendersi all’intera tipologia delle constitutiones principum oppure se strettamente ancorata alla figura del decretum; vedi Rizzi 2012, 43 s. nt. 86; Schiavone 2017, 360 s.; Centola 2017, 60 ss. nt. 76. 89 Devijver 1976-2001, A, 157. 90 Cass. Dio. 71(72).28.3.

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Orazio Licandro dell’annona, prefetto d’Egitto, e infine prefetto dell’Erario di Saturno, console, membro del consilium di Antonino Pio e precettore di Marco Aurelio91. Se si accetta, però, questa angolazione, a mio avviso assai utile per restituire ulteriore profondità alla vicenda storica e istituzionale di Papirio Giusto, allora dobbiamo guardare, e ivi collocarla, al più generale contesto del II secolo d.C. e precisamente quando a partire dagli Antonini si avviò una profonda, ancorché fluida, ristrutturazione del potere imperiale sia a livello centrale sia nelle periferie. La svolta accentratrice di Adriano – giustamente delineata da Nicola Palazzolo, in un suo libro fortunato, come “il periodo chiave nella storia del Principato, un periodo che ufficialmente si pone all’insegna della continuità con il periodo precedente” – produsse “una modificazione radicale rispetto alla struttura sociale dello Stato augusteo, ed una concezione radicalmente nuova del potere imperiale”92, in cui l’equilibrio politico e sociale finì per stabilizzarsi principalmente su due cardini: il principe vertice dell’amministrazione e una gerarchia burocratica equestre, in un rinnovato rapporto “non più di inferiorità ma di diversità rispetto all’ordine senatorio”93. Il nuovo assestamento istituzionale, perseguito attraverso le riforme adrianee, fu accettato e continuato, da Antonino Pio94 e con vigore approfondito, in certi casi rivisto, ‘aggiustato’ da Marco Aurelio, come a proposito degli iuridici che presero il posto dei consulares soppressi da Antonino Pio95. Ma dell’ampio disegno riformatore di Marco Aurelio, nel quale non vi fu settore in cui non se ne registrò un intervento (diverse centinaia sono le costituzioni imperiali di cui si sono serbate tracce96, un numero che rende nient’affatto apologetico ma persino riduttivo il racconto dell’Historia Augusta sulla cura prestata dal principe alla sfera giuridica97), merita di essere ricordata la strategia di rimodulazione del governo dei territori e delle città mediante l’impiego diretto dei senatori, inviati in massa come curatores rei publicae o civitatum98. L’insorgenza di una pressante necessità di un controllo amministrativo centrale, con un connesso potere di intervento, delle condizioni finanziarie delle città dell’impero, in un quadro di latente crisi economica, prospettava un orizzonte di interventi normativi e regolatori meno saltuari del passato e con gli Antonini, ma soprattutto con Marco Aurelio, si fece una decisa scelta in tale direzione coniugandola appunto con un investimento politico altrettanto preciso di omaggio all’ordo senatorius. Di questa linea di politica normativa e di costruzione di quadri dirigenti condotta con determinazione da Marco Aurelio ebbe piena consapevolezza la classe dirigente centrale e al contempo fu chiara pure alle élites locali

91 Fonti su L. Volusio Meciano e sulla sua carriera in Marotta 1988, 54 ss.; Liebs 1997, 130 ss.; Magioncalda 2006, 467 ss.; Migliorati 2014, 417 ss. A Volusio Meciano è dedicato un agile, per la verità non molto approfondito, libro di Ruggiero 1983, ma su quella ricostruzione della carriera del giurista dubita fortemente Marotta; vedi anche Fiorucci 2011, 250 ss., e ora Minale 2020, 3 ss. 92 Palazzolo 1974, 21 ss. 93 Così giustamente Palazzolo 1974, 23. 94 Su cui Marotta 1988, passim. 95 SHA vita Marci 11, su cui Simshäuser 1973, passim; Camodeca 1976a, 86 ss.; Lemosse 1990, 5 ss.; Palazzolo 1991, 86 ss.; Eck 1999, 253 ss.; Beggio 2013, 1 ss.; De Falco 2014 [on line]. 96 Un utile censimento in Arcaria 2003, 1 ss. 97 SHA vita Marci 10-11. 98 Sui curatores sono fondamentali le ricerche di Camodeca 1979, 225 ss.; Camodeca 1980, 453 ss.; Camodeca 2008, 507 ss.; cfr. Palma 1980; Sartori 1989, 5 ss.; Eck 1999, 195 ss.

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire dell’impero, e spiega il gran numero di provvedimenti imperiali99 in tema di competenze municipali e finanza locale100, materie che trovarono non casualmente ampio spazio in un segmento nell’opera di Papirio Giusto101. Papirio Giusto visse appunto la felice stagione, dal suo punto di vista, della riorganizzazione dell’apparato burocratico imperiale già avviata da Adriano, segnata da un’attenta redistribuzione delle competenze con cui si favorì la potente emersione dell’ordo equester che, sempre più consapevole del proprio ruolo, divenne capace di fornire alla macchina imperiale personalità non solo di origine italica ma anche provinciale, provenienti da ogni angolo dell’impero, in grado di assolvere a importanti incarichi amministrativi. Questo consistente processo di mobilità sociale, già in atto certamente con Antonino Pio, si accentuò ulteriormente con le politiche di favore condotte da Marco Aurelio verso le élites del Medioriente e della Cappadocia in particolare102. E d’altronde, in questo dinamico quadro di mobilità si inscrive il processo più profondo di integrazione e di eguagliamento dell’Italia con le province103 in cui appariva chiaro a tutti, allora come oggi, il protagonismo della classe equestre divenuta “l’anima dell’organismo imperiale”104. Senatores, praefecti (Aegypti, praetorio, annonae), curatores, prudentes, i cavalieri consolidarono una presenza così essenziale nei gangli vitali dell’impero sino al punto da tradursi presto in un largo trionfo, la cui eco dovette risuonare a lungo e ovunque, come apprendiamo dalla Tabula Banasitana, a proposito del consilium di Marco Aurelio a partecipazione mista senatoria ed equestre paritaria (6 senatori e 6 cavalieri)105, chiaro

99 Per quanto coerente con la tesi sostenuta, non mi pare condivisibile l’assunto di Sargenti 2011, 899, secondo cui si trattava di istruzioni e pertanto più che pensare a rescritti gli interventi imperiali raccolti da Papirio Giusto rientrerebbero nella tipologia del mandatum. 100 SHA vita Marci 11.2. Errato vedere alla base del forte incremento dei curatores mere esigenze amministrative, come sostiene Cassarino 1947-1948, 342 nt. 23, mentre è assai più conducente ricercarne le ragioni nella “politica di classe” dice Eck 1999, 202, o meglio ancora nei disegni di allargamento del consenso e della classe dirigente intermedia perseguiti da Marco Aurelio. 101 Soprattutto nel libro II. Il numero, certamente, molto rilevante di interventi imperiali in materia di curatores rei publicae, da un lato, ha spinto alcuni a intravedere in questa fase la genesi della provincializzazione dell’Italia, da un altro lato, ha invece indotto altri a puntare più sull’esigenza dei principes di assicurare un’oculata ed efficiente gestione delle finanze e, in generale, del patrimonio cittadino attraverso ricorso a questi funzionari imperiali, i quali proprio per l’incremento massiccio della loro presenza nelle città spesso entravano in conflitto con le autorità locali o avevano bisogno di continue istruzioni sull’esercizio delle loro competenze; cfr. Eck 1999, 209 ss.; Sargenti 2011, 891 ss. 102 Importante il saggio di Salmeri 1999, 211 ss., che colloca le radici di tale mobilità, e dell’ingresso nel senato romano, dei notabili greci d’Asia Minore in epoca più antica, riconoscendo a Vespasiano e a Traiano il merito della sua consolidazione: “dopo secoli passati ad amministrare le loro poleis e dopo aver rivestito a volte per generazioni la carica di gran sacerdote del culto imperiale, essi venivano a portare il loro contributo che diventerà di estrema importanza con Adriano e i suoi successori” (p. 217). 103 Mazzarino 1988, I, 355. 104 Così Mazzarino 1988, I, 365. 105 Tab. Banasitana ll. 39-53 (AÉ 1961, nr. 142): Actum eodem die, ibi, isdem co(n)s(ulibus) | Asclepiodotus lib(ertus), recognovi. Signaverunt M(arcus) Gavius M(arci) f(ilius) Pob(lilia tribu) Squilla Gallicanus M(arcus) Acilius M(arci) f(ilius) Gal(eria tribu) Glabrio T(itus) Sextius T(iti) f(ilius) Vot(uria tribu) Lateranus C(aius) Septimius C(aii) f(ilius) Qui(rina tribu) Severus

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Orazio Licandro indice della conclusione del processo costitutivo dell’uterque ordo, fucina di una nuova burocrazia preparata e cosmopolita. Era già ampiamente profilata l’alleanza con quel ceto di specialisti dello ius capaci di assicurare al principe, in stretta coniugio, scienza giuridica e visione politica e di governo. Non vi è dubbio, poi, che spinte, sollecitazioni, progetti, visioni giungevano al principe dai giuristi di sua frequentazione106. In quei decenni si strinse ferreamente un’alleanza, potremmo dirla assorbente, anzi totalizzante, il cui manifesto ideologico sarebbe stato presto stilato da Papiniano e affidato a pochi righi iniziali di un suo responso: “I nostri ottimi e massimi principi hanno stabilito che i giureconsulti i quali, dopo aver iniziato a esercitare una tutela, siano stati assunti nel consilium imperiale, devono essere dispensati, poiché devono operare al loro fianco e tale onorevole carica pubblica loro concessa non ammette limiti di tempo e di luogo”107. Finem certi temporis ac loci non haberet: Ancora una volta, ci imbattiamo in un riferimento all’assenza di limiti di tempo e di spazio che appare simmetrico a quello rivolto da Frontone agli atti normativi del princeps. Chiamato a governare un impero, il giurista avrebbe dovuto profondere ogni energia nel nuovo incarico, e perciò bisognava dispensarlo da altri oneri pubblici, evitargli ogni distrazione, ogni affanno che potessero distorglierlo da ciò che richiedeva la straordinaria opportunità di essere membro del consilium imperiale. 6. Potere e morte Ancora un’ultima notazione, anzi più che altro una suggestione. Secondo la versione dei fatti narrata da Cassio Dione nel 190 d.C., Commodo, prigioniero dell’oscura ossessione delle congiure, dei tradimenti, fece uccidere, tra gli altri, anche Marco Aurelio Papirio Dionisio. Evidentemente l’opinione pubblica restò impressionata dall’ennesimo ingiustificato omicidio politico, tanto da aggiungere in seguito al nome della vittima l’appellativo di Giusto108, il cui

P(ublius) Iulius C(aii) f(ilius) Ser(gia tribu) Scapula Tertullus T(itus) Varius T(iti) f(ilius) Cla(udia tribu) Clemens M(arcus) Bassaeus M(arci) f(ilius) Stel(latina tribu) Rufus P(ublius) Taruttienus P(ubli) f(ilius) Pob(lilia tribu) Paternus [………. Tigidius …………………………………………. Perennis] Q(uintus) Cervidius Q(uinti) f(ilius) Arn(ensi tribu) Scaevola Q(uintus) Larcius Q(uinti) f(ilius) Qui(rina tribu) Euripianus T(itus) Fl(avius) T(iti) f(ilius) Pal(atina tribu) Piso. Gallicano fu console nel 150 d.C.; Glabrione nel 152 d.C.; Laterano nel 154 d.C.; Severo nel 160 d.C.; Scapula Tertullo nel 160/6 d.C.; Vario Clemente ex ab epistulis; Basseo Rufo ex-prefetto del pretorio; Taruttieno Paterno prefetto del pretorio prima del 179 d.C., sino al 182 d.C.; Tigidio Perenne, prefetto del pretorio dal 180/1 d.C., sino al 185 d.C.; Q. Cervidio Scevola, giurista e prefetto dei vigili nel 175 d.C., di Q. Larcio Euripiano non si conosce la carica, mentre Fl. Pisone fu prefetto dell’annona nel 179 d.C. Così Purpura 2012, I, 635 s. nt. 26; cfr. Seston, M. Euzennat 1971, 486 ss.; Seston 1980, 103 ss.; sul documento essenziali Oliver 1972, 336 ss.; SherwinWhite 1973, 86 ss.; Volterra 1974, 407 ss. (= Volterra 1991d, 309 ss.); Marotta 2016, 474 ss. 106 A proposito di giuristi e di Cervidio Scevola, a titolo di esempio, si legga SHA vita Marci 11.10. 107 Bretone 1987, 217. Pap. 5 ad resp., D. 27.1.30pr.: Iuris peritos qui tutelam gerere coeperunt, in consilium principum adsumptos optimi maximique principes nostri constituerunt excusandos, quoniam circa latus eorum agerent et honor delatus finem certi temporis ac loci non haberet. 108 Ragione che potrebbe spiegare la mancanza di documentazione con un’onomastica recante anche l’appellativo di Iustus.

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Papirio Giusto: un giurista da scoprire oblio trova la spiegazione in una diversa pagina dello stesso Cassio Dione dove, nel chiudere il libro dedicato a Marco Aurelio e nell’annunciare la narrazione del principato di Commodo, così scriveva: “di costui, ora dobbiamo parlare, dato che alle vicende dei Romani di quell’epoca accadde quello che avviene oggi alla nostra storia, decaduta da un regno aureo a uno di ferro e ruggine”109. Nella temperie commodiana, che inaugurava il “secolo dell’angoscia” per dirla con Eric Dodds110, eloquentemente descritta dalle aspre, dure parole dionee, in una spirale di cieca violenza si consumò la vicenda politica e umana di Papirio Giusto. Nel suo tragico epilogo troviamo quasi il segno di un comune, violento destino, per cui spesso le vite dei giuristi-uomini pubblici venivano recise dalla mano impietosa del potere111. Era accaduto nel passato per il grande Quinto Mucio Scevola112, ma nei successivi, non facili, decenni della dinastia severiana medesima sorte sarebbe toccata pure ad alcune delle più luminose figure di giuristi dell’intera esperienza romana (Papiniano, Ulpiano). È vero, si è avvertito dei rischi derivanti dall’accostamento di oggettive ‘ripetizioni’ di medesimi elementi (politica, pensiero giuridico, scontro per il potere), in vicende per la verità assai diverse tra loro. Eppure, nella grande diversità di condizioni e di statura dei personaggi in gioco, anche sulla sorte di Papirio Giusto non può non cedersi a una simile tentazione: la soppressione violenta di un giurista-funzionario protagonista anche sulla scena politica che, almeno stando ai pochi e scarni frammenti dell’unica sua opera menzionata, aveva avvertito la sostanza nuova del potere imperiale e anticipato, lo si può ben dire a posteriori, l’esigenza di raccogliere le manifestazioni normative senza commento113, quasi a prevedere l’incipiente primato della norma imperiale114 e forse anche nella specifica emergente morfologia (codices)115, mentre l’attività speculativa e la relativa letteratura giurisprudenziale, per quanto dall’incommensurabile qualità scientifica rispetto ai libri XX de constitutionibus, seguivano una ben diversa direzione nel segno di tradizionali e consolidati modelli espositivi116. Chi proveniva dalle periferie sapeva bene, infatti, come l’applicazione del diritto romano nei tribunali dei governatori provinciali si tramutasse spesso in una prassi assai primitiva117, acquistando prima di altri la consapevolezza della nuova dimensione della produzione normativa: “più che nel suo aspetto giurisprudenziale, il diritto romano le si presentava nella rigida forma della norma astratta, posta o garantita dal potere centrale”118. Pur nella sua pur embrionale concezione, è difficile negare a Papirio Giusto, grazie a tale raccolta di constitutiones principum, la connotazione di precoce interprete della nuova ideologia burocratica che sottende nell’età antonina il governo dell’impero. Se vogliamo forse anche il

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Cass. Dio 71(72).36. Dodds 1970, giustamente ripreso da Canfora 2017, xiv s., e Brutti 2020a, 21 s. 111 Medesima sorte toccò a Tarrutieno Paterno, già membro del consilium di Marco Aurelio e prefetto del pretorio dal 179 al 182 d.C. Per avere un’idea della consapevolezza già presso gli antichi della cesura tra Marco Aurelio e Commodo è istruttiva la lettura della visione di Herod. 1.6-8. 112 Schiavone 2018, 56 ss. 113 Sottolinea questo primato anche Riccobono 1938, 27. 114 Bretone 1987, 363. 115 Sulla questione particolarmente dibattuta vedi infra parte III.2. 116 Importanti le pagine conclusive del ponderoso saggio di Talamanca 1976, 232 ss. Sulle tensioni e contraddizioni della stagione, vedi Schiavone 2002, 11 ss.; Stolfi 2011, 7 ss. Sulle peculiarità dell’enchiridion di Pomponio, altra opera che si discostava dalle tradizionali opere giurisprudenziali, vedi Schiavone 2017, 373; Nasti 2013, 1 ss. 117 Kunkel 1967, 369 ss. 118 Bretone 1987, 327. 110

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Orazio Licandro titolo dell’opera riferito alle constitutiones principum – titolo assai diverso per esempio dai decretorum libri tres e gli imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum libri sex di Paolo – lungi dal costituire un generico riferimento appare invece assai indicativo di una nuova e diversa attenzione con cui i giuristi/funzionari guardavano agli atti normativi del principe, scorgendovene già sia pure in embrione un’essenza unitaria. Quella che sino a un certo punto era stata, comunque, una libera alleanza tra princeps e giuristi, in un gioco dialettico che aveva visto in passato il paradigma di un Labeone nel ruolo del giurista indipendente, insofferente ai vincoli dell’appartenenza politica, contrapposto a un Ateio Capitone a cui si schiudevano le ‘stanze del potere’ nel mettere la sua scientia iuris al servizio della ragion di Stato del princeps, quella libera alleanza, dicevo, trasfigurava sempre più in un rapporto gerarchico-burocratico dalla solidità assicurata anche da un sinallagmatico trattamento economico secondo una gerarchia di rango scandita da classi stipendiarie (ducenarii, centenarii, sexagenarii). Si può dire anche a proposito di Papirio Giusto, e forse per lui più di alcuni altri, della consapevolezza “di trovarsi nel punto di snodo di un’intera civiltà: il luogo in cui la potenza – la potenza di un impero che aveva unificato il mondo – si fa ordine, regola, disciplina; la linea di scorrimento che trasforma la forza in consenso, e la giustifica. L’intersezione, appunto, dove la forza diventa forma”119. E, indubbiamente, “nel travaglio dell’epoca di Marco, c’è già, in potenza, la tarda romanità”. La tarda romanità in potenza: sta racchiusa in questa suggestiva espressione la sintesi scarnificata dell’analisi dei decenni degli Antonini che dobbiamo alla mente fervida versata dalla penna elegante di Santo Mazzarino nel suo, ancora per molti tratti insuperato, trattato sull’impero romano120. Non sappiamo se Papirio Giusto scrisse altro, né possiamo immaginare quale ulteriore contributo avrebbe potuto aggiungere alla magnifica storia della giurisprudenza romana, soprattutto a quella più alta, quella sostenuta dalla nuova alleanza con i giuristi ricercata e rinsaldata da Settimio Severo dopo la frattura di quella antoniniana operata da Commodo. Non si sbaglia infatti nell’ascrivere Papirio Giusto a quella generazione di giuristi con suggestione considerati come degli “intellettuali burocratici di tipo quasi hegeliano, chiamati a gestire in prima persona un governo mondiale insidiato da contraddizioni, minacce, pericoli, e divorato da un’intrinseca vocazione autocratica”121. Papirio Giusto cadde in quella frattura, fu drammaticamente risucchiato dalla terribile spirale di cieca violenza di un principe che, ossessionato dal tradimento, affidava la soluzione degli affanni e dei problemi della politica al filo sottile della lama di un gladio. Senza dubbio, però, il suo assassinio fece scendere su di lui un’immeritata coltre di oblio, appena sollevata secoli dopo dalla selezione del sapere giuridico compiuta dai commissari engagés nella compilazione della grande antologia di Giustiniano. Grazie a loro, selezionatori di quei 18 frammenti, davvero poche linee di scrittura rispetto alle 150.000 conteggiate da Triboniano122, ancora oggi è possibile discutere di Papirio Giusto e della sua ‘singolare raccolta’ di costituzioni imperiali.

119

Schiavone 2019, 11 s. Vedi anche Schiavone 2017, 380 ss. Mazzarino 1988, I, 369. 121 Schiavone 2017, 380. 122 Co. Tanta 1: [...] Nomenque libris inposuimus digestorum seu pandectarum, quia omnes disputationes et decisiones in se habent legitimas et quod undique fuit collectum, hoc in sinus suos receperunt, in centum quinquaginta paene milia versuum totum opus consummantes [...]. 120

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II TESTIMONIA

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EPIGRAFI

1. – CIL X.6662 (= ILS 1445): […] |

PII FELICIS

AVG(VSTI)

DUCENARIO

|

PRAEF(ECTO)

VEHICVL(ORVM) A COPIS AVG(VSTI) | PER VIAM FLAMINIAM | CENTENARIO CONSILIARIO | AVG(VSTI) SACERDOTI CONFARREATI|ONVM ET DIFFAREATIONVM | ADSVMPTO IN CONSILIVM AD S(ESTERTIVM) LX M(ILIA) N(VMMVM) | IVRISPERITO ANTIATES PVBLI(CE).

2. – CIG 5895 (= IG XIV.1072 = IGRR I.135 = IGUR I.59): Μ(άρκον) | Αὐρήλιον Παπείριον | Διονύσιον τὸν κράτιστον | καὶ ἐνδοξότατον ἔπαρχον Αἰγυπτο[υ] | καὶ ἔπαρχον εὐϑενιας ἐπὶ βιβλειδίω[ν] | καὶ διαγνώσεων τοῦ Σεβαστοῦ ἔπαρχ[ον] | ὀχημάτων καὶ δουκηνάριον ταχ[ϑέντα] | καὶ περὶ τὴν Φλαμινίαν ΕΠΙΤΗ [- - -] | συμβουλόν τε τοῦ Σεβαστοῦ [κεντηνάρι]ον.

Dalla lettura combinata delle due iscrizioni si ricostruirebbe l’intera carriera di Papirio Giusto: 1. – CIL X.6662 (= ILS 1445): [A LIBELLIS ET COGNITIONIBVS IMP(ERATORIS) COMMODI] | PII FELICIS AVG(VSTI) DUCENARIO | PRAEF(ECTO) VEHICVL(ORVM) A COPIS AVG(VSTI) | PER VIAM FLAMINIAM | CENTENARIO CONSILIARIO | AVG(VSTI) SACERDOTI CONFARREATI|ONVM ET DIFFARREATIONVM | ADSVMPTO IN CONSILIVM AD S(ESTERTIVM) LX M(ILIA) N(VMMVM) | IVRISPERITO ANTIATES PVBLI(CE).

2. – CIG 5895 (= IG XIV.1072 = IGRR I.135 = IGUR I.59): Μ(άρκον) | Αὐρήλιον Παπείριον |

Διονύσιον τὸν κράτιστον | καὶ ἐνδοξότατον ἔπαρχον Αἰγυπτο[υ] | καὶ ἔπαρχον εὐϑενιας ἐπὶ βιβλειδίω[ν] | καὶ διαγνώσεων τοῦ Σεβαστοῦ ἔπαρχ[ον] | ὀχημάτων καὶ δουκηνάριον ταχ[ϑέντα] | καὶ περὶ τὴν Φλαμινίαν ΕΠΙΤΗ [- - -] | συμβουλόν τε τοῦ Σεβαστοῦ [κεντηνάρι]ον.

segretario a libellis e a cognitionibus dell’imperatore Commodo | Pio Felice Augusto ducenario | praefectus vehiculorum e a copis per viam Flaminiam | centenario consiliario | sacerdote della confarreatio e della diffarreatio | ammesso in consilium con (stipendio) di 60.000 mila sesterzi | giurista. Gli Anziati pubblicamente].

Marco Aurelio Papirio | Dionisio l’eccellente | e illustrissimo prefetto d’Egitto | e praefectus annonae, preposto ai libelli | e ai decreti dell’Augusto, praefectus | vehiculorum e ducenarius designato | e a copis per viam Flaminiam | e consiliarius dell’Augusto.

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3. – AÉ 1996, nr. 309: CORPUS | PISTORUM | LOCUS ADSIGNATUS PRAEF(ECTO) ANN(ONAE) | DECURIONUMQUE CONCES]SU.

A

PAPIRIO DIONYSIO

TUNC

La corporazione dei panettieri. Luogo (pubblico) assegnato da Papirio Dionisio allora prefetto dell’annona su concessione dei decurioni.

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TRADIZIONE MANOSCRITTA

4. – Cass. Dio 72(73).13.2: ἐγένετο μὲν γὰρ καὶ ἄλλως ἰσχυρὰ σιτοδεία, ἐπὶ πλεῖστον δ᾽αὐτὴν Παπίριος Διονύσιος ἐπὶ τοῦ σίτου τεταγμένος ἐπηύξησεν, ἵν᾽ ὡς αἰτιώτατον αὐτῆς τὸν Κλέανδρον ἀπὸ κλεμμάτων ὄντα καὶ μισήσωσιν οἱ Ῥομαῖοι καὶ διαφϑείρωσι.

Si era infatti diffusa una carestia piuttosto grave, che Papirio Dionisio, il prefetto dell’annona, lasciò propagare per indurre i Romani a odiare e a uccidere Cleandro, considerato molto più che responsabile delle semplici ruberie. 5. – Cass. Dio 72(73).14.3: ἀνῃρέϑη δὲ καὶ Διονύσιος πρὸς τοῦ Κομόδου, ὁ ἐπὶ τοῦ σίτου ταχϑείς. Infine, per ordine di Commodo fu ucciso anche Dionisio, il prefetto dell’annona. 6. – INDEX FLORENTINUS: Ἰούστου βιβλία constitutionon εἴκοσι. I XX libri di costituzioni di Giusto.

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III LIBRI XX DE CONSTITUTIONIBUS

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I L’OPERA. PROFILI E TEMI

1. La datazione Circa la data di composizione dell’opera di Papirio Giusto c’è grande incertezza in dottrina1, anche perché tutte le ipotesi si basano più su indizi che su dati documentati. L’unico dato certo è che la raccolta contiene rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero o del solo Marco Aurelio, e che in entrambi i casi gli imperatori vengono indicati col nome di Imperatores o di Imperatores Augusti, mentre non si incontrano mai gli appellativi di divi, o di divi fratres, così frequenti nelle opere dei giuristi successivi. Ed è noto come, secondo una tesi di Theodor Mommsen, oggi accolta in grande misura dalla dottrina, sarebbe stata consuetudine dello stile di citazione dei giuristi chiamare col nome di imperator l’imperatore vivente e di divus l’imperatore defunto2. Ciò farebbe propendere per un periodo in cui almeno Marco Aurelio era ancora vivo, e cioè gli anni tra il 169 (anno della morte di Lucio Vero) e il 180, ma probabilmente prima del 176, anno in cui inizia la corregenza con Commodo, dato che un unico rescritto (Pap. Iust. 8 de const., D. 2.14.60 = L. 18), contenuto nell’ottavo libro3, si riferisce al solo Marco Aurelio. Alla tesi del Mommsen sono state avanzate varie critiche, sia di carattere generale4, sia in relazione alla datazione di singole opere giurisprudenziali. Queste critiche tuttavia sono state ampiamente confutate in tempi più recenti da Alvaro D’Ors, il quale, rivalutando l’opinione di Mommsen, ha ribadito l’idea che fosse usuale chiamare imperator l’imperatore ancora vivente e divus l’imperatore già defunto.

1 Un’ampia disamina della letteratura sul problema in Franciosi 1972, 173 nt. 81, cui adde Franciosi 1998, 238 s. 2 Su questa tesi vi sono però contrasti: vedi in proposito Franciosi 1972, 173 nt. 81 e le osservazioni equilibrate di Gualandi 1963, 92. 3 Si vedrà poi come l’indicazione come destinatario della costituzione di Avidio Cassio restringe ancora di più l’arco di anni in cui essa può essere stata emanata. 4 Fitting 1908, 9 ss.

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Nicola Palazzolo Al contrario Mariano Scarlata Fazio5, condizionato probabilmente dall’idea di un ordine cronologico delle costituzioni nell’opera di Papirio6, ha ritenuto invece che la compilazione sia stata compiuta solo dopo la morte di Marco Aurelio, sotto il principato di Commodo, dal momento che solo dopo la morte di Marco Aurelio gli sarebbe venuta l’idea di raccogliere, anno per anno, e per i venti anni del suo regno, tutte le costituzioni di questi. L’idea dell’ordine cronologico – come si vedrà tra poco – è stata seguita pressoché pedissequamente da una buona parte della dottrina, e con essa quella della collocazione cronologica dell’opera sotto il principato di Commodo. In tempi molto più vicini tuttavia la tesi di Scarlata Fazio relativa all’ordine cronologico dei rescritti nell’opera di Papirio Giusto è stata sottoposta ad una stringente critica, pressoché in contemporanea, da Gennaro Franciosi e da Edoardo Volterra, per cui di fatto è caduto anche l’argomento principale sul quale si reggeva la tesi della confezione dell’opera nell’età di Commodo. Una tesi intermedia, che oggi è generalmente accettata, afferma che “la maggior parte dell’opera”7, cioè quella relativa ai primi due libri, sarebbe stata redatta sotto la correggenza dei divi fratres, e che poi i successivi libri sarebbero stati completati in epoca successiva, sotto Commodo. Cominciamo allora dai pochi elementi di cui disponiamo, senza lasciarci influenzare da pregiudizi vari. C’è certamente da prendere in considerazione anzitutto, quanto meno come linea di tendenza, la preferenza dei giuristi nell’indicare come imperator gli imperatori viventi e divus gli imperatori defunti. Come rilevava Gualandi8, quello suggerito da Theodor Mommsen è solo un criterio di massima, che non può certo valere come regola rigida e assoluta, specie in opere di grande mole. Ed anzi, a pensarci bene, se è abbastanza pacifico che quando un imperatore viene indicato come divus deve trattarsi di un imperatore defunto, non è altrettanto vero il contrario, che cioè un imperatore indicato solo come imperator debba essere vivo al momento in cui il giurista scrive, o addirittura quando l’opera viene pubblicata. È però questo un criterio che, proprio per l’età di Marco Aurelio, viene seguito appunto dai giuristi di quell’epoca: Cervidio Scevola indica nelle sue opere i divi fratres come Imperatores Antoninus et Verus (Scaev. 1 dig., D. 2.15.3pr.; Scaev. 9 dig., D. 22.3.29pr.; Scaev. 2 dig., D. 50.1.24), e Ulpio Marcello indica Marco Aurelio come Imperator Antoninus (Marcell. 29 dig., D. 28.4.3; Marcell. 50 dig., D. 35.1.48; Marcell. 9 dig., D. 37.8.3)9, mentre non ci sono testimonianze provenienti da altri giuristi della stessa epoca (Venuleio Saturnino, Volusio Meciano, Florentino, Taruttieno Paterno). Al contrario, i giuristi della generazione successiva (Ulpiano, Paolo, Marciano e Callistrato) indicano sempre Marco e Vero come divi fratres e Marco Aurelio come divus Marcus10.

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Scarlata Fazio 1939a, 419. In questo senso, tra gli altri Karlowa 1885, 731. Più incerti Krüger 1912, 215; Berger 1949, 1061. 7 Così Franciosi 1998, 242. 8 Gualandi 1963, II, 92 9 Cfr. Dell’Oro 1968, 40, con l’importante precisazione che il titolo di imperatore viene attribuito dai giuristi antoniniani al titolare della carica “al momento in cui provvede”. Questo elemento potrebbe forse portare a qualche considerazione in più sulla cronologia relativa ai due giuristi antoniniani. 10 Fa eccezione, tra i giuristi severiani, il caso di Papiniano, il quale, come si vedrà più oltre, è l’unico che, in opere diverse, cita Marco Aurelio e Lucio Vero come imperatores, anziché divi, e Marco Aurelio da solo come imperator. 6

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L’opera. Profili e temi Con riferimento ai libri ex constitutionibus di Papirio Giusto11, non è affatto detto che tutta l’opera, che appunto era di grande ampiezza, sia stata completata seguendo rigorosamente l’ordine progressivo dei libri: Papirio cioè può aver composto i primi due libri sotto Marco Aurelio (quando era segretario dell’ufficio a libellis e a cognitionibus), ed aver poi completato l’opera più tardi, quando Marco Aurelio era già morto, senza per questo dover modificare l’indicazione imperator con divus. In favore di questa congettura sta il fatto che – come si è visto – la carriera di Papirio Giusto è molto ricca di eventi che lo hanno portato per lunghi periodi fuori di Roma, per cui è presumibile che l’opera sia stata completata in diversi momenti della sua vita. Ma c’è anche una seconda ipotesi, che non si deve trascurare: che cioè Papirio possa aver composto tutta l’opera più tardi (sotto Commodo), ma che abbia lasciato le costituzioni così come lui le ha trovate nell’archivio12. Quest’ipotesi è avvalorata dal fatto che, come si è visto, dopo una lunga carriera lontano da Roma, Papirio viene richiamato a Roma nel 189, dove rimane quale praefectus annonae di Commodo. E conferma quest’ipotesi proprio la natura dell’opera di Papirio. A differenza di altre opere giurisprudenziali, lo scopo di Papirio non era quello di avvalorare una sua tesi con il supporto di una o più costituzioni imperiali, ma semplicemente quello di raccogliere con un certo ordine la produzione legislativa imperiale: a lui interessava riportare il più fedelmente possibile quanto trovava negli archivi, non valutare criticamente la produzione normativa imperiale. E c’è infine un’ultima ipotesi, che mi convince forse più delle altre, che cioè i libri ex constitutionibus di Papirio Giusto contenessero non solo le costituzioni di Marco Aurelio e Lucio Vero e quelle del solo Marco Aurelio, bensì anche quelle degli anni successivi, degli anni cioè in cui Marco Aurelio regnò insieme al figlio Commodo, e di quelli dello stesso Commodo13, fino a quando, entrato in disgrazia dell’imperatore, fu fatto uccidere da lui14. È pur vero che a favore di questa ipotesi non vi sono indizi documentali di sorta. C’è però il fatto innegabile che i compilatori giustinianei, che pur riportano in tutti i 18 frammenti la provenienza dai venti libri dell’opera di Papirio Giusto, non ne riferiscono alcuno proveniente dai libri dal nono al ventesimo. E poiché d’altra parte è noto15 che l’imperatore Commodo, a causa dei suoi misfatti, subì una damnatio memoriae, non è improprio pensare che, a causa di questa, e della conseguente rescissio actorum, siano scomparsi dall’archivio imperiale tutti (o quasi) i riferimenti che facevano capo a quell’imperatore, e che probabilmente gli stessi giuristi della

11 Su cui Dell’Oro 1968, 38 s., per il quale, tuttavia, il fatto che Papirio indicasse Marco Aurelio come imperator non significa che fosse questa la vera titolatura ufficiale del principe. È significativo in tal senso, secondo Dell’Oro, che Papirio Giusto, quando indicava con parole proprie la carica stessa e non il suo titolare attuale, preferisse usare il termine princeps. 12 È questa la tesi sostenuta da Dell’Oro 1968, 39, ma già prima da Berger 1949, 1061 s. 13 Sull’età di Commodo come simbolo di rottura di quel mondo ideale costruito dalla dinastia antoniniana vedi De Giovanni 2007b, 39 ss. 14 È questo infatti l’argomento addotto da Franciosi 1972, 161 nt. 50, per il quale tuttavia non ci sono indizi che farebbero pensare all’inserimento nella raccolta di costituzioni di Commodo. Più favorevoli invece a questa congettura già Berger 1949, 1061, e Karlowa 1885, 730 s. Per altri riferimenti bibliografici Franciosi 1972, 161 nt. 50. 15 Cfr. Williams 1976a, 82; da ultimo Varvaro 2006, in particolare 29 e ntt. 124 (dell’estratto). Sulla damnatio memoriae Gizewski 1997, 299.

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Nicola Palazzolo sua epoca vi si siano adeguati. Non è certo un caso che, a fronte delle 363 citazioni di provvedimenti imperiali riferite a Marco Aurelio (da solo o in corregenza con Lucio Vero o Commodo), di Commodo ci siano pervenuti appena 7 frammenti da opere giurisprudenziali, e mai di suoi contemporanei, ma di giuristi della generazione successiva (Papiniano, Modestino, Callistrato, Marciano). E ciò con riferimento ad un periodo non certo breve, durato ben dodici anni (180-192 d. C.). Se si accetta quest’ipotesi (che, come già detto, è solo indiziaria perché non supportata da documenti di sorta) si può pensare allora che la raccolta di Papirio Giusto sia stata compilata in più tempi: la prima parte durante il principato dei divi fratres, probabilmente nel periodo in cui Papirio era consiliarius e responsabile degli uffici a libellis e a cognitionibus, la seconda (cui appartiene Pap. Iust. 8 de const., D. 2.14.60 = L. 18) negli anni della coreggenza con Commodo, e un’ultima parte, di cui non abbiamo alcuna traccia, sotto gli anni del solo Commodo, fino alla tragica scomparsa di Papirio. E d’altra parte non si può pensare che un’opera di così grande portata come quella concepita da Papirio Giusto venisse messa a disposizione di coloro per i quali era stata composta solo alla fine, quando cioè tutte le parti fossero state completate: al contrario le esigenze della pratica forense richiedevano che il materiale raccolto fosse immediatamente utilizzabile, fatte salve integrazioni successive, motivate da nuovi interventi imperiali sugli stessi argomenti. 2. Il titolo Nell’inscriptio dei 18 frammenti escerpiti dai giustinianei sotto il nome di Papirius Iustus compare tre volte l’indicazione libri constitutionum (D. 2.14.60 = L. 18; D. 18.1.71 = L. 3; D. 42.1.35 = L. 10), mentre in tutti gli altri l’indicazione è libri de constitutionibus. L’Index Florentinus del Digesto indica l’autore e l’opera come Ioustou constitutionon Biblia eikosi16 e il Bluhme pone l’opera nella massa edittale. Dunque: libri constitutionum o libri de constitutionibus. La cosa in sé non fa meraviglia. È a tutti noto che il termine constitutiones è quello usato da Gaio per definire i provvedimenti imperiali (Gai.1.5: Constitutio principis est quod imperator decreto vel edicto vel epistula constituit), e che lo troviamo già in Giuliano (Iul. 30 dig., D. 1.3.11: Et ideo de his, quae primo constituuntur, aut interpretatione aut constitutione optimi principis certius statuendum est)17. Ma il termine generico e onnicomprensivo lo troviamo addirittura già nell’epistola 10.65 di Plinio il giovane diretta a Traiano, ove il legatus propraetor della Bitinia, per indicare complessivamente le norme emanate in varie forme dall’imperatore le menziona con il termine di constitutiones principum. Ciò significa18 che all’epoca di Papirio Giusto il termine constitutio era “entrato nel linguaggio giuridico quale parola tecnica per designare complessivamente le norme emanate in varie forme dall’imperatore”.

16

Nell’ordine dell’Index Florentinus l’opera di Papirio Giusto figura al nr. XXIII, tra Tertulliano ed Ulpiano. Gaio usa ancora questo termine in: Gai. 30 ad ed. prov., D. 12.2.31; Gai. 1 inst., D. 1.6.1.2; Gai. 14 ad leg. Iul. et Pap., D. 31.56; Gai. 1.23; Gai. 1.56; Gai. 2.195; Gai. 3.73; Gai. 3 ad ed. prov., D. 3.4.1pr.; ed ancora Aburnio Valente, in Val. 5 fideicomm., D. 49.14.42.1; e Pomponio in Pomp. lib. sing. ench., D. 1.2.2.11 e Pomp. lib. sing. ench., D. 1.2.2.12, mentre gli altri sono tutti di epoca successiva. 18 Volterra 1971, 848 s. [= Volterra 1994, 30 s.]. 17

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L’opera. Profili e temi E tuttavia sorge spontanea una prima domanda: se cioè nell’Index Florentinus o nelle inscriptiones dei frammenti del Digesto compaia qualche altra opera che si chiama così. La risposta è certamente negativa, nel senso che non c’è nessun’altra opera di giuristi dell’età del Principato che indichi genericamente una raccolta di provvedimenti imperiali come constitutiones. Saranno solo i compilatori teodosiani e poi i giustinianei che, sia nei Codici che nel Digesto, ne faranno una apposita rubrica: CTh. 1.1: De constitutionibus principum et edictis C. 1.14: De legibus et constitutionibus principum et edictis D. 1.4: De constitutionibus principum

Eppure la distinzione tra i vari tipi era già nota in età adrianea, e forse prima. Si è già citato il brano di Gaio 1.5, che enumera tra le constitutiones principum i decreti, gli editti e le epistulae, ma già in vari brani dell’editto pretorio i vari tipi19 vengono espressamente menzionati: Ulp. 6 ad ed., D. 3.1.1.8: Ait praetor: ‘Qui lege, plebiscito, senatus consulto, edicto, decreto principum nisi pro certis personis postulare prohibetnur [...]’. Ulp. 4 ad ed., D. 2.14.7.7: Ait praetor: ‘Pacta conventa, quae neque dolo malo, neque adversus leges plebis scita senatus consulta decreta edicta principum, neque quo fraus cui eorum fiat, facta erunt, servabo’. Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.1.1: Verba autem edicti talia sunt: ‘...item si qua alia mihi iusta causa esse videbitur, in integrum restituam, quod eius per leges plebis scita senatus consulta edicta decreta principum licebit’. Ulp. 12 ad ed., D. 4.6.28.2: ‘Quod eius’ inquit praetor ‘per leges plebis scita senatus consulta edicta decreta principum licebit’. Ulp. 68 ad ed., D. 43.8.2pr.: Praetor ait: ‘Ne quid in loco publico facias, inve eum locum immittas, qua ex re quid illi damni detur, praeterquam quod lege senatus consulto edicto decretove principum tibi concessum est. De eo quod factum erit interdictum non dabo’.

Il fatto che i vari tipi di costituzioni imperiali non emergano nel titolo dell’opera di Papirio potrebbe spiegarsi nel senso che sia già presente nell’opera di Papirio, e non solo nel titolo, quella categoria unica che si esprime poi nei codici tardoantichi e giustinia-

19 Osservava Volterra 1971, 848 [= Volterra 1994, 30], che la menzione dei soli edicta et decreta principum da parte del pretore “è presumibilmente legata al ricordo della funzione dell’edicere e del decrenere spettante ai magistrati della repubblica” e che “non è credibile che il pretore limitasse l’equiparazione alle sole manifestazioni di volontà imperiale espresse nella forma dell’edictum e del decretum, ma è da ritenersi che usasse tali parole per indicare complessivamente le norme emanate anche in altra forma dall’imperatore”. Ma probabilmente c’è stata un’evoluzione storica, la quale ha fatto sì che le costituzioni casistiche imperiali (epistulae e subscriptiones) entrassero più tardi nel novero dei provvedimenti normativi imperiali, dopo cioè la cosiddetta “svolta adrianea”.

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Nicola Palazzolo neo20, e cioè che l’opera comprendesse non solo rescritti, come indicherebbero i frammenti che ci sono rimasti, ma anche altri atti imperiali, come editti, mandati, ecc.21; ciò forse potrebbe spiegare lo scarto tra la grande ampiezza che doveva avere l’opera (ben 20 libri!) e il piccolo numero di rescritti riportati nel Digesto, tratti quasi tutti dai soli due primi libri22. Senonché essa costituirebbe un unicum in tutta la giurisprudenza del Principato, e occorrerebbe spiegarsene il perché, anche con riferimento al fatto che nella compilazione giustinianea sono presenti vari brani di altri giuristi che riportano, indicandone espressamente il nome tecnico, altri tipi di atti imperiali (edicta, decreta, mandata, orationes principis), e non si vede perché si sarebbero dovuti sopprimere tutti i riferimenti a questi nell’opera di Papirio. Non si può negare tuttavia che viene alla mente spontanea un’altra alternativa, che cioè in realtà il nome dato alla raccolta sia stato apposto non da Papirio Giusto, ma dai compilatori giustinianei. Potrebbero far propendere per questo tipo di attribuzione tutti gli elementi che abbiamo finora preso in considerazione: a) l’incertezza delle inscriptiones dei frammenti di Papirio Giusto (libri constitutionum o libri de constitutionibus); b) l’ambiguità della menzione nell’Index Florentinus, dove il giurista è indicato solo come Iustus senza il nomen Papirius; c) il fatto che le costituzioni contenute nell’opera siano indicate tutte (o quasi23) come rescritti, senza alcun riferimento esplicito ad altri tipi di constitutiones. I compilatori avrebbero cioè indicato la raccolta di Papirio Giusto col nome generico che essi stessi avevano dato al titolo 1.4 del Digesto, appunto de constitutionibus principum. 3. I rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero nell’opera di Papirio Nei 18 frammenti del Digesto che vanno sotto il nome di Papirio Giusto sono contenuti 45 rescritti24: di questi 19 portano l’indicazione Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt, altri 21 l’indicazione Item rescripserunt, 3 portano Idem rescripserunt, mentre un solo rescritto viene riferito al solo Marco Aurelio con l’indicazione Imperator Antoninus rescripsit ed uno non ha alcuna indicazione relativa alla tipologia di costituzione, tanto da poter far pensare, almeno in astratto, come vedremo tra poco, che possa trattarsi di altro tipo di costituzione. Secondo una classificazione rigorosa, i rescritti costituirebbero le risposte imperiali indirizzate a privati dalla cancelleria a libellis in calce alla domanda del richiedente; e si distinguerebbero perciò dagli altri atti imperiali, come le epistulae (risposte date a magistrati o funzionari in forma di lettera, sottoscritte dall’imperatore e rimesse al richiedente dalla cancelleria ab epistulis) o i

20 In termini più generali (non con specifico riferimento all’opera di Papirio Giusto) è quello che sostiene Volterra 1971, 822 [= Volterra 1994, 4], il quale mette in luce come i romanisti, influenzati dal fatto che nei codici le varie costituzioni sono raccolte insieme, senza distinzione, abbiano considerato le constitutiones principum come una categoria unitaria, mentre c’erano tanti tipi con valore giuridico diverso. 21 Rimane dubbio, e discusso in dottrina, se mandata e orationes principum possano farsi rientrare nel concetto più vasto di constitutiones principum. Sul punto vedi l’ampia analisi compiuta da Marotta 1988, 8 ss. 22 Volterra 1968, 218 [= Volterra 1993b, 168] ritiene che l’esclusione dalla collezione di Papirio degli altri tipi di constitutiones costituisce un argomento decisivo contro la tesi di Scarlata Fazio. 23 Come si vedrà più oltre (vedi infra, parte IV, F. 8), almeno Pap. Iust. 1 de const., D. 49.1.21.2 (= L. 8) riferisce una costituzione che riesce ben difficile individuare come rescritto, ma piuttosto fa pensare ad un editto, mentre un’epistula sembra essere quella riferita in Pap. Iust. 2 de const., D. 2.14.37 (= L. 13) vedi infra, parte IV, F. 13.

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L’opera. Profili e temi decreta (sentenze emesse dal principe pro tribunali)25. Senonché – come è stato messo in luce ormai da tempo – è frequente incontrare la parola rescriptum, o il verbo rescribere in vari modi coniugato, anche in riferimento ad atti che sono certamente epistulae o decreta, quando non addirittura edicta o mandata26. Non è raro trovare addirittura nello stesso testo, e con riferimento allo stesso provvedimento imperiale, due espressioni diverse (ad esempio, Callistr. 4 de cogn., D. 22.5.3.1: Ideoque divus Hadrianus Vibio Varo legato provinciae Ciliciae rescripsit [...] verba epistulae haec sunt [...]; Ulp. 15 ad ed., D. 5.3.25.16: Divus Marcus [...] decrevit [...] exemplo rescripti divi Marci [...]). Se per il periodo anteriore ad Adriano la confusione terminologica è comprensibile, non essendo ancora distinte le competenze delle cancellerie, ab epistulis, a libellis e a cognitionibus27, per il periodo successivo bisogna necessariamente ammettere che il verbo rescribere, al di là del suo significato tecnico, venisse usato dai giuristi del Principato per designare, in genere, il rispondere “per iscritto”; a ciò si aggiunga il fatto, già segnalato dal De Francisci28, che, nei casi di risposta ai funzionari, era in uso la prassi di accompagnare il rescriptum con un’epistula. Ed epistulae erano infatti precisamente almeno due29 delle constitutiones riportate da Papirio. La prima ha come destinatario Giulio Vero30, che sappiamo essere stato legato di Siria negli anni fra il 163 e il 166 d C.31: Pap. Iust. 1 de const., D. 48.16.18pr. (= L. 7): Imperatores Antoninus et Verus Augusti Iulio Vero rescripserunt, cum satis vero diu litem traxisse dicetur, invito adversario non posse eum abolitionem accipere.

L’altra costituzione è quella destinata ad Avidio Cassio, notissimo personaggio dell’età di Marco Aurelio32, legato della Siria dal 167, cioè subito dopo Giulio Vero, fino al 175, anno in cui, a seguito della rivolta contro Marco Aurelio, del quale diffuse la falsa notizia della morte, fu ucciso dai suoi stessi pretoriani:

24 Volterra 1968, 219 [= Volterra 1993b, 169], ne indica erroneamente il numero complessivo di 43, omettendo tuttavia due rescritti (contenuti rispettivamente in Pap. Iust. 1 de const., D. 8.3.17 = L. 2, e Pap. Iust. 1 de const., D. 48.12.3.2 = L. 4) che, a differenza di tutti gli altri, non sono individuati nell’editio maior del Mommsen come paragrafi del frammento papiriano. 25 Cfr. Wilcken 1920, 1 ss.; Palazzolo 1974, 43 ss.; Marotta 1988, 19 ss. Arcaria 2000, 3 ss., tende ad accentuare le differenze tra rescripta ed epistulae (specie in ordine alla loro utilizzabilità nel processo), pur riconoscendo che il nome tecnico dei primi sarebbe quello di subscriptiones, ma vedi le critiche su questo punto di Spagnuolo Vigorita 2001, 242 e 246; cfr. anche Merola 2018, 356 ss. 26 Cfr. sul punto Dell’Oro 1960b, 98 s. Altra bibliografia in Palazzolo 1974, 43 nt. 66. 27 Vedi sul punto specialmente D’Ors 1965, 161, e Samper 1978, 465 ss. 28 De Francisci 1967, 206. 29 C’è in realtà un terzo rescritto, Pap. Iust. 1 de const., D. 18.1.71 (= L. 3) che reca il nome del destinatario (Sestio Vero), ma essendo questi un personaggio totalmente sconosciuto alle fonti, non possiamo dire se trattasi di un’epistula o di una subscriptio. Al contrario, sembra invece trattarsi di una epistula quella, indicata da Papirio come rescriptum, in Pap. Iust. 2 de const., D. 2.14.37 (= L. 13), nella quale gli imperatori ordinano di revocare ai Filippensi la remissione delle somme da loro dovute. 30 Di lui parlano alcuni testi epigrafici: cfr. per tutti Franciosi 1972, 157. 31 Già questo solo fatto porta ad escludere quello che sostiene Scarlata Fazio, che ci sia una coincidenza numerica tra l’opera di Papirio e i semenstria: se fosse vera la sua tesi il primo libro dovrebbe contenere solo rescritti del 161; in questo senso già Franciosi 1972, 158, e Volterra 1968, 218 [= Volterra 1993b, 168]. 32 Avidio Cassio, tra l’altro, è l’unico tra i non imperatori ad avere una sua biografia, scritta da Vulcacio Gallicano, nell’Historia Augusta. Sui particolari della vicenda cfr. Franciosi 1972, 158 nt. 37-38.

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Nicola Palazzolo Pap. Iust. 8 de const., D. 2.14.60 (= L. 18): Imperator Antoninus Avidio Cassio rescripsit, si creditores parati sint partem ex bonis licet ab extraneo consequi, rationem habendam prius necessariarum personarum, si idoneae sint.

Di una costituzione invece non si riesce a determinare se si tratti di una subscriptio, o di una epistula, se non addirittura di un diverso tipo di costituzione imperiale. Si tratta di: Pap. Iust. 1 de const., D. 49.1.21.2 (= L. 8): Si magistratus creatus appellaverit, collegam eius interim utriusque officium sustinere debere: si uterque appellaverit, alium interim in locum eorum creandum: et eum, qui non iuste appellaverit, damnum adgniturum, si quod res publica passa sit: si vero iusta sit appellatio et hoc pronuntietur, eos aestimaturos, cui hoc adscribendum sit. in locum autem curatoris, qui annonam administraturus est, alium interim adsumendum, quoad usque appellatio pendeat.

Il testo è stato ampiamente discusso33, anche se l’ipotesi che possa trattarsi di un tipo diverso di costituzione non è stata avanzata da nessuno degli autori che se ne sono occupati, così come viene espressamente esclusa la possibilità che si tratti di un’interpretazione giurisprudenziale dello stesso Papirio34, la quale (come tra poco vedremo) costituirebbe un unicum in tutta l’opera papiriana. Con ogni probabilità la distinzione tra i paragrafi 1 e 2 è stata artificiosamente creata, e la cesura tra le due ipotesi è da attribuire solo ai giustinianei35 (se non alle edizioni moderne), mentre il testo di Papirio Giusto non è che la continuazione del discorso precedente: basterebbe a dimostrarlo il fatto che la costruzione è sempre quella di una proposizione oggettiva, dipendente dal verbo rescripserunt del paragrafo precedente36. Rimane solo il dubbio se anche il paragrafo 2 facesse parte dello stesso rescritto di cui al paragrafo 137, o se trattasi piuttosto di un’altra costituzione dei divi fratres38. Al di là di quello formale relativo al nome dell’opera, il problema sostanziale che si pone all’attenzione degli studiosi è se si tratti davvero della prima raccolta di costituzioni imperiali da parte di un giurista. A parte la raccolta delle lettere indirizzate da Traiano a Plinio, che certamente non aveva scopo giuridico39, deve essere ricordata a questo fine l’operetta pseudo-dositheana Divi Hadriani Sententiae et Epistulae40, la quale, pur essendo secondo la dottrina unanime solo un’esercitazione a scopo scolastico, dimostrerebbe tuttavia che l’uso

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Cfr. Arcaria 2003, 133 ss. Così Franciosi 1972, 163 s.; Franciosi 1998, 240; Arcaria 2003, 133. 35 Secondo Franciosi 1998, 241, “l’opera di Papirio Giusto è stata quella di accostare questi rescritti, quella dei compilatori probabilmente di spezzarli, per la lunghezza del testo, senza per questo seguire necessariamente la distinzione dei rescritti originari”. 36 Così già. Arcaria 2003, 134. 37 Come ritiene Volterra 1968, 220 [= Volterra 1993b, 170]. 38 In questo senso Arcaria 2003, 134, il quale lo argomenta dal fatto che si tratta di un caso diverso da quello del rescritto precedente. 39 Un’ampia analisi è dedicata a quest’opera da Volterra 1971, 861 ss. con riferimento alla struttura dei rescritti imperiali (in questo caso si tratta di epistulae). 40 Per la bibliografia più antica vedi Schulz 1968, 268 nt. 4. Per una più ampia descrizione, con opportuni riferimenti bibliografici, Palazzolo 1974, 239 nt. 74. 34

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L’opera. Profili e temi di raccogliere testi di singoli imperatori vigeva già sin dai primi secoli dell’impero41. E si trattava in questo caso di testi integrali, anche se alterati talora in modo molto maldestro, in cui veniva fatta espressa menzione della petitio o del libellus rivolto all’imperatore, e talvolta anche delle domande che l’imperatore rivolgeva alla parte e delle risposte di questa42. Segno questo che esisteva una raccolta delle costituzioni originali da cui l’ignoto autore poteva trascriverli. Le nostre fonti parlano invece di una collezione di costituzioni imperiali chiamata “semenstria”, che vengono così definiti dalla Glossa torinese ad Inst. 1.25.143: Semenstria sunt codex, in quo legislationes per sex menses prolatae in unum redigebantur.

Di questi semenstria abbiamo diverse testimonianze relative a costituzioni di Marco Aurelio provenienti da essi (Scaev. 7 dig., D. 18.7.10; Tryph. 2 disp., D. 2.14.46; Inst. 1.25.1, forse C. 4.57.344), ma non risulta provato che essi esistano solo per il periodo di Marco Aurelio45; anzi per Commodo c’è una frase di Modestino da cui sembra potersi desumere una raccolta di costituzioni di questo imperatore: Mod. 2 de excus., D. 27.1.6.8: Ἔστιν δὲ καὶ ἐν ταῖς τοῦ βασιλέως Κομμόδου διατάξεσιν ἐγγεγραμμένον κεφάλαιον ἐξ ἐπιστολῆς Ἀντωνίνου τοῦ Εῷσεβοῦς [...]; (trad. lat. Mommsen: Est autem in constitutiones imperatoris Commodi relatum caput ex epistula Antonini Pii [...]);

mentre per Alessandro Severo viene addotta una fonte papiracea46 che usa la stessa espressione (ϑειαι διατάξεσιν). Ma specialmente non risulta che queste raccolte47 siano state fatte da un giurista privato. Al contrario sembra ci si riferisca piuttosto a raccolte ufficiali, quali potevano trovarsi negli archivi imperiali che il giurista andava consultando48.

41 Così Volterra 1971, 871, sulla base della data del 207 che si legge in uno dei brani dell’opera. Che Papirio Giusto conoscesse l’operetta pseudo-dositheana non è possibile dimostrarlo. Un indizio, per quanto labile, potremmo tuttavia trovarlo proprio in un frammento di Papirio Giusto, Pap. Iust. 2 de const., D. 50.8.12.3 (= L. 15), in cui esiste un preciso richiamo a litterae di Adriano, dove l’uso del plurale potrebbe far pensare ad una raccolta di litterae di Adriano che il giurista era in grado di consultare: Item rescripserunt sitonas indemnes esse oportere, qui non segniter officio suo functi sunt, secundum litteras Hadriani. 42 Vedi ancora Volterra 1971, 871 [= Volterra 1994, 53]. 43 Ampi riferimenti bibliografici in Sperandio 2005, 34 nt. 75. 44 Se si accetta l’integrazione proposta da Krüger 1895, ad h. l. 45 Certamente parla di un rescritto conservato nei semenstria, ma non attribuito espressamente a Marco Aurelio: Ulp. 11 ad ed., D. 29.2.12: [...] et est in semenstribus Vibiis Soteri et Victorino rescriptum. Gualandi 1963, II, 193, sulla base dell’indicazione dei semenstria, tende ad attribuirlo a Marco Aurelio, mentre al contrario già Pernice 1885, 14 nt. 3 lo attribuiva a Settimio Severo. Una ricerca prosopografica sui destinatari del rescritto non dà risultati attendibili. D’altra parte, l’esistenza di semenstria per l’età di Settimio Severo era stata già ipotizzata da Wenger 1953, 439 s. e nt. 142. 46 Brunet de Presle 1865, nr. 69; cfr. von Premerstein 1900, 738. 47 Sulla possibile esistenza di semenstria anche per Settimio Severo, cfr. Wenger 1953, 439 e nt. 142. Nel senso dell’esistenza di un ordinamento semestrale degli archivi anche dopo Marco Aurelio, Coriat 1990, 231 s. 48 Così espressamente, Bresslau 1885, 247 ss. e von Premerstein 1900, 738.

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Nicola Palazzolo È stato solo in tempi recenti che, sulla base di un’ipotesi di Huschke49, Mariano Scarlata Fazio50 ha sostenuto che proprio l’opera di Papirio Giusto non sarebbe altro che la riproduzione, in gran parte sunteggiata da parte del suo autore, dei materiali contenuti nei semenstria di Marco Aurelio. L’ipotesi, che sembrerebbe essere stata ormai definitivamente confutata dalla dottrina unanime51, merita comunque di essere approfondita, perché a mio avviso il rapporto tra i semenstria di Marco Aurelio (o anche dei suoi successori?) e l’opera di Papirio Giusto presenta qualche aspetto che non va trascurato. La tesi dello Scarlata Fazio si fondava, a detta dei suoi stessi critici, su un “argomento veramente suggestivo”52, cioè sulla coincidenza tra il numero dei libri dell’opera di Papirio Giusto (venti) e quello complessivo degli anni di regno di Marco Aurelio: Papirio Giusto non avrebbe fatto altro che fondere in ogni libro le costituzioni di due semenstria, così come egli le trovava negli archivi. È stato alquanto facile sia al Franciosi53 che al Volterra54 argomentare che ciò avrebbe comportato la necessità che la legislazione di ogni anno di regno (e quindi di due semenstria) fosse di entità tale da riempire, né più né meno, un libro, e questo sembra incredibile se si tiene conto dei tumultuosi anni in cui si svolse il regno di Marco Aurelio (da solo o in correggenza prima con Lucio Vero e poi con Commodo), specialmente trattandosi da un lato di anni nei quali Marco Aurelio fu assente da Roma per parecchi mesi (quelli tra la fine del 166 e l’inizio del 169)55, e dall’altro di anni (161-166) nei quali invece, rimanendo a lungo a Roma, avrebbe potuto dedicarsi maggiormente alla cura dello Stato56. Argomentazione debole, in verità, perché non è affatto detto che ogni liber dovesse contenere un numero determinato di fogli: liber è, com’è noto, espressione generica il cui significato letterale può indicare o un insieme di fogli uniti assieme (pochi o molti che siano), o anche la parte di uno scritto dedicata ad un determinato argomento, ed è noto altresì57 che, nella forma del codex membranaceo58, poteva contenere un numero di fogli più o meno ampio, rispetto a quella del volumen, che per ragioni pratiche di facilità di lettura poteva invece contenere solo un numero ridotto di fogli incollati tra loro. Ma specialmente la produzione di Marco Aurelio e Lucio Vero è così abbondante, come risulta da ciò che ci è stato tramandato dalla compilazione giustinianea nonché da fonti letterarie ed epigrafiche59, che Papirio avrebbe potuto

49 Huschke 1867, 327ss. Huschke addirittura proponeva un titolo che menzionasse i semenstria: Imp. M. Antonini constitiones per semenstria digestae. Ma vedi contro Krüger 1912, 119 s. e nt. 130. 50 Scarlata Fazio 1939a, 414 ss. 51 In senso nettamente contrario già Karlowa 1885, 654 nt. 1 e Wenger 1953, 440 nt. 144. In dubbio Krüger 1912, 119, e ora Sperandio 2005, 90. L’ipotesi è ritenuta “priva di ogni sia pur labile indizio” da Franciosi 1972, 155. 52 Franciosi 1998, 236. 53 Franciosi 1972, 154 ss.; Franciosi 1998, 236 s. 54 Volterra 1971, 960 nt. 2. [= Volterra 1994, 142 nt. 2]. 55 Franciosi 1998, 237. 56 Franciosi 1972, 156 s. 57 Cavallo 1989a, 699. 58 In realtà non sappiamo se la forma dell’opera di Papirio Giusto sia quella del volumen o piuttosto quella del codex: sul punto, e più in generale sui rapporti tra i semenstria e l’emersione della forma libraria del codex, vedi, più oltre, a quanto scritto nella parte III.2. 59 I dati quantitativi, raccolti meticolosamente da Arcaria 2003, 1 s., presentano un quadro assolutamente rilevante: 363 costituzioni, di cui 159 risalenti alla correggenza con Lucio Vero, 163 al solo Marco Aurelio, 31 alla correggenza con Commodo, oltre a 10 di incerta paternità ma sicuramente attribuibili all’età di Marco Aurelio.

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L’opera. Profili e temi concentrare in un libro molte o poche costituzioni60, secondo quello che egli trovava nei semenstria e che gli sembrava meritevole di conservazione. E tuttavia la tesi dello Scarlata Fazio non convince ugualmente. Basti considerare il fatto che dei 18 frammenti presenti nel Digesto la gran parte è tratta dai primi due libri dell’opera di Papirio (8 frammenti tratti dal primo libro e 9 dal secondo), il che dovrebbe significare – secondo la ricostruzione di Scarlata Fazio – che sarebbero tutti relativi ai primi due anni del regno di Marco Aurelio e Lucio Vero (160 e 161). Ma ciò non può essere vero almeno per Pap. Iust. 1 de const., D. 48.16.18pr. (= L. 7), proveniente dal libro I, un’epistula, come si è visto, indirizzata a Giulio Vero, che fu legato di Siria solo più tardi, dal 163 al 166 d.C. Quanto poi all’altro frammento di cui conosciamo il destinatario, è anch’esso un’epistula, e proviene dall’ottavo libro, ma riferisce una costituzione del solo Marco Aurelio, quindi relativa agli anni in cui, dopo la morte di Lucio Vero, Marco Aurelio regnò da solo (dal 170 al 176), prima della corregenza con Commodo (dal 176 al 180), anni peraltro in cui Marco Aurelio venne trattenuto a lungo fuori Roma per operazioni militari: Pap. Iust. 8 de const., D. 2.14.60 (= L. 18): Imperator Antoninus Avidio Cassio rescripsit, si creditores parati sint partem ex bonis licet ab extraneo consequi, rationem habendam prius necessariarum personarum, si idoneae sint.

Ma anche qui la cronologia non aiuta certo la tesi di Scarlata Fazio: essendo destinatario della costituzione Avidio Cassio, che sappiamo essere stato governatore di Siria negli anni dal 167 al 175 (anno della sua morte), l’arco di anni cui si riferisce il rescritto si restringe ancora (dal 170 al 175)61. Il che porta ad escludere che possa esserci alcuna coincidenza, se non del tutto casuale, tra il numero degli anni di regno di Marco Aurelio e quello dei libri di Papirio Giusto: non è pensabile che per un numero di anni molto ristretto (e per di più così travagliato) ci fossero tante costituzioni da riempire ben dodici libri, mentre a tutti gli anni precedenti al 170, e ben più ricchi di produzione normativa, sarebbero stati dedicati solo i primi 7 libri. In conclusione, mentre appare per più versi escluso alcun rapporto, fondato sulla coincidenza numerica, tra i libri dell’opera di Papirio e i venti anni di regno di Marco Aurelio62, non mi sembra vi siano elementi per escludere che, in tutto o in parte, i materiali raccolti prove-

60 Da questo punto di vista acquista forza l’ipotesi che nel caso dei libri de constitutionibus di Papirio Giusto si tratti di un codex piuttosto che di un volumen: vedi sul punto infra. 61 Rudorff 1857, 274 e Krüger 1912, 215, attribuiscono il rescritto al 175, l’anno stesso della morte di Avidio Cassio. Ma appare francamente incredibile che, nel momento stesso della massima tensione tra l’imperatore e il suo governatore, questi gli si rivolgesse per sottoporgli un quesito giuridico. D’altra parte, non è credibile neppure quanto sostenuto da Scarlata Fazio 1939b, 165, secondo il quale il rescritto potrebbe essere stato emanato dal solo Marco Aurelio già alcuni anni prima, in un periodo in cui Lucio Vero era lontano da Roma, un modo di citare questo non certo usuale per il nostro giurista, che, invece, viene contraddetto dall’estrema e costante precisione con la quale Papirio Giusto usava citare le costituzioni imperiali. 62 Volterra 1968, 218 [= Volterra 1993b, 168], porta un altro argomento contro l’ipotesi di Scarlata Fazio: non è possibile pensare che Papirio si fosse limitato a raccogliere per ciascun anno i soli rescritti entro tutta la produzione, assai vasta ma composta anche da altri tipi di constitutiones, di Marco Aurelio e Lucio Vero, mentre egli mostra di conoscere bene le varie tipologie di atti (vedi Pap. Iust. 2 de const., D. 50.8.12.3 = L. 15).

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Nicola Palazzolo nissero dai semenstria. D’altra parte, la circostanza che non vi sono nel Digesto frammenti dell’opera di Papirio escerpiti dai libri dal nono al ventesimo rende lecito pensare che in questi libri Papirio raccogliesse le costituzioni di altri imperatori oltre Marco Aurelio63 (almeno di parte del principato di Commodo, che regnò ben 12 anni, dal 180 al 192), senza poter escludere neppure che contenesse costituzioni di imperatori precedenti, come Antonino Pio o Adriano. Se non si trovano tracce – a parte i semenstria – di raccolte di rescritti degli imperatori, viceversa ci sono testimonianze relative a collezioni di decisioni giudiziarie imperiali. Per l’età precedente a Marco Aurelio, l’unica testimonianza sono i cosiddetti Decreta Frontiniana di Aristone64, ricordati da Pomponio: Pomp. 1 sen. cons., D. 29.2.99: Aristo in decretis Frontinianis65 ita refert. Cum duae filiae [...].

L’esempio più tipico è però offerto, per un periodo più tardo, dai Libri sex imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum di Paolo, e dall’altra opera, sempre di Paolo, decretorum libri tres. Si tratta, come è stato messo in luce dal Sanfilippo66, di due diverse opere, probabilmente di due diverse edizioni della sua raccolta di decreta imperiali, composte in tempi diversi, di cui la seconda, più breve, potrebbe essere solo un’epitome della prima67. E c’è uno specifico punto di contatto con l’opera di Papirio Giusto nel fatto che, a differenza di altre opere della giurisprudenza del Principato, alle quali è stata talora avvicinata, ma che hanno un’impostazione tematica (ad esempio i libri excusationum di Modestino)68, qui vengono raccolte espressamente costituzioni imperiali (decreta principum). Ma, al di là della struttura delle due opere di Paolo, la vera differenza rispetto a quella di Papirio Giusto è che in Paolo – come ha ben messo in luce Franciosi – c’è una attitudine al racconto del caso concreto e dello svolgimento del processo, con gli esiti dei gradi precedenti e talvolta con i pareri dei componenti del consilium principis, mentre al contrario in Papirio – come si vedrà tra poco – non c’è niente di tutto ciò, e invece il rescritto è riferito, quasi sempre con parole del giurista, talvolta anche con le frasi testuali dell’imperatore, nella sua essenzialità, senza alcun riferimento al caso concreto, proprio come poi accadrà nelle costituzioni pervenute attraverso i codici dell’età successiva69. A me sembra, in definitiva, che non vi siano, fino all’età di Marco Aurelio, opere giurisprudenziali, né tanto meno raccolte ufficiali, che abbiano come obiettivo la riproduzione, integrale o sunteggiata, dei provvedimenti imperiali, e che perciò giustamente quella di Papirio Giusto viene considerata la prima raccolta di costituzioni imperiali precedente al Codice

63 La possibilità era stata in qualche modo evocata, sia pure di sfuggita, da Volterra 1968, 218 [= Volterra 1993b, 168]. 64 Su cui Pomponio in Pomp. 1 sen. cons., D. 29.2.99. Cfr. Schulz 1968, 270 e nt. 4 (con bibliografia). Guarino 1998, 493, ritiene che si tratti di decreta di un console (forse Cornelio Frontone). Al contrario De Francisci 1944, 423, ritiene (seguendo Mommsen e Karlowa) che si tratti di una collezione di sentenze d’appello del tribunale imperiale. 65 Così corregge Mommsen 1895, ad h. l. La littera Florentina reca Frontianis. 66 Sanfilippo 1938, 2 s. In senso pienamente adesivo Volterra 1971, 979 ss. [= Volterra 1994, 161 ss.]; cfr. pure Brutti 2020b, 43 ss. 67 Sulla raccolta di Paolo cfr. Volterra 1971, 979 ss. [= Volterra 1994, 161 ss.], con ricco apparato bibliografico. Altra bibliografia in Franciosi 1972, 171 nt. 76. 68 Ad es. Volterra 1971, 966 ss. [= Volterra 1994, 148 ss.]. 69 Vedi ampiamente Franciosi 1972,172.

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L’opera. Profili e temi Gregoriano70. Il che, ovviamente, lascia aperto il problema di un eventuale rapporto tra l’opera di Papirio e i due Codici Gregoriano ed Ermogeniano, dei rispettivi elementi di somiglianza e di novità71, dei quali ci si occuperà tra poco. 4. I giuristi e la conoscenza delle costituzioni imperiali Messo in chiaro che non esistono, prima dell’età di Marco Aurelio, opere di giuristi che raccolgano collezioni di rescritti imperiali, occorre chiedersi da quando i giuristi cominciano a citare costituzioni imperiali, e qual era il livello di conoscenza che essi ne avevano. Solo così potremo sforzarci di capire quale sia l’apporto di Papirio Giusto alla questione, e il modo in cui egli si rapporta alla fonte di diritto imperiale. Colui che si è occupato a fondo del problema, sia pure in termini generali, dando un contributo notevole alle varie questioni che suscita il rapporto tra legislazione imperiale e giurisprudenza, è stato Giovanni Gualandi72, il quale – sulla base di un’analisi completa di tutte le citazioni giurisprudenziali – ha potuto verificare come già in età traianea e adrianea giuristi come Nerazio (Nerat. 5 reg., D. 41.3.40), Celso (Cels. 30 dig., D. 22.3.13; Cels. 33 dig., D. 50.17.191), Giuliano (Iul. 64 dig., D. 4.2.18) e Alburno Valente (Val. 5 fideicomm., D. 49.14.42pr.) citassero rescritti imperiali, ma come però si tratti in quest’epoca solo di pochissimi riferimenti, che appaiono del tutto eccezionali, specie tenendo conto del grandissimo numero di frammenti contenenti citazioni, dirette o indirette, delle opere di questi giuristi73, che ci sono stati trasmessi dai Digesta o dalle raccolte di età precedente. Al contrario, già con Pomponio, che cita vari rescritti di Antonino Pio74, e poi con i suoi contemporanei Venuleio Saturnino75, Volusio Meciano76 e Giunio Mauriciano77 le citazioni di costituzioni non sono più occasionali, ma si vanno sempre più intensificando, fino all’epoca severiana, in cui il riferimento alla legislazione imperiale è un dato costante. Al di là delle considerazioni del Gualandi, ritengo che il problema vada approfondito. Si tratta infatti di costituzioni (non sempre rescritti) nelle quali talvolta l’intervento del principe è citato in maniera generica, senza alcun riferimento alla fattispecie di cui si tratta (vedi, ad esempio, Ven. Saturn. 1 de off. proc., D. 40.14.2: divus Hadrianus constituit; Ven. Sat. 2 de iud.

70 Così Berger 1949, 1059; Krüger 1912, 193; Wenger 1953, 510; Archi 1987, 42 nt. 66; Franciosi 1972, 176 s.; Schiavone 1992, 973. 71 Sul problema vedi ora in particolare Sperandio 2005; 91 ss. 72 Gualandi 1963. 73 Gualandi 1963, II, 15 e nt. 13, ha rilevato come, per merito specialmente della Palingenesia leneliana, vi sia specialmente per Salvio Giuliano un’enorme sproporzione tra le poche citazioni di costituzioni imperiali, e il numero davvero imponente (ben 928) dei riferimenti, diretti o indiretti, al sommo giurista adrianeo. 74 Pomp. 2 ad Q. Muc., D. 32.85, da attribuire sicuramente ad Antonino Pio; indirettamente anche Ulp. 14 ad ed., D. 2.8.7pr., sui quali vedi Gualandi 1963, II, 16 s. 75 Autore di 6 libri de interdictis, di 10 libri de actionibus, di 19 libri de stipulationibus, di due libri de officio proconsulis e di tre libri de iudiciis publicis. 76 Membro del consilium di Antonino Pio, fu maestro di Marco Aurelio (cui dedicò un manuale sulla “assis distributio”, cioè sulla contabilità e sulle misurazioni rapportate all’unità-base dell’asse, su cui Guarino 1998, 497), compose 16 libri di quaestiones de fideicommissis, 14 libri de iudiciis publicis ed un’operetta in greco ex lege Rhodia. 77 Autore di 6 libri ad legem Iuliam et Papiam e di due libri de poenis.

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Nicola Palazzolo publ., D. 48.2.12.1: secundum epistulam divi Hadriani; Ven. Sat. 1 de off. proc., D. 48.19.15: divus Hadrianus prohibuit), così da potersi ritenere anche non trattarsi di una conoscenza diretta da parte del giurista; talaltra invece la citazione è più precisa, con riferimento ad una specifica fattispecie, che viene riferita in tutte le sue sfumature e le sue varianti, così da far pensare che il giurista conoscesse direttamente la disposizione imperiale: Maec. 7 fideicomm., D. 40.5.42: Antoninus Augustus Pius noster, quo militum suorum per omnia rata esset voluntas suprema, cum et institutus et substitutus in continenti, priusquam adirent hereditatem, decessissent, eos, quibus ab his et libertas et hereditas a milite per fideicommissum data esset, perinde liberos et heredes esse iussit, ac si utrum directo accepissent. Eorum autem, qui a pagano libertatem et hereditatem per fideicommissum acceperant, cum aeque in continenti et institutus et substitutus decessissent, satis habuit libertatem confirmare.

In altri casi, infine, si ha la citazione testuale della disposizione imperiale. Si veda ad esempio questo frammento di Venuleio Saturnino (in questo caso si tratta di uno o più mandati): Ven. Sat. 2 de off. proc., D. 48.3.10: Ne quis receptam custodiam sine causa dimittat, mandatis ita cavetur: ‘Si quos ex his, qui in civitatibus sunt, celeriter et sine causa solutos a magistratibus cognoveris, vinciri iubebis et his, qui solverint, multam dices. nam cum scierint sibi quoque molestiae futurum magistratus, si facile solverint vinctos, non indifferenter de cetero facient’;

o quest’altro, tratto dall’opera in greco di Volusio Meciano ex lege Rhodia: Volus. Maec. ex lege Rhodia, D. 14.2.9: ᾽Αξίωσις Εὐδαίμονος Νικομηδέως πρὸς ᾽Αντωνῖνον βασιλέα· Κύριε βασιλεῦ ᾽Αντωνῖνε, ναυφράγιον ποιήσαντες ἐν τῇ ᾽Ιταλίᾳ διηρπάγημεν ὑπὸ τῶν δημοσίων τῶν τὰς Κυκλάδας νήσους οἰκούντων. ᾽Αντωνῖνος εἶπεν Εὐδαίμονι· ἐγὼ μὲν τοῦ κόσμου κύριος, ὁ δὲ νόμος τῆς ϑαλάσσης. τῷ νόμῳ τῶν ῾Ροδίων κρινέσϑω τῷ ναυτικῷ, ἐν οἷς μήτις τῶν ἡμετέρων αὐτῷ νόμος ἐναντιοῦται. τοῦτο δὲ αὐτὸ καὶ ὁ ϑειότατος Αὔγουστος ἔκρινεν.

(trad. latina Mommsen): Petitio Eudaemonis Nicomedensis ad imperatorem Antoninum. Domine imperator Antonine, cum naufragium fecissemus in Italia, direpti sumus a publicanis qui in Cycladibus insulis habitant. Antoninus dicit Eudaemoni. Ego orbis terrarum dominus sum, lex autem maris. Lege Rhodia de re nautica res iudicetur, quatenus nulla lex ex nostris ei contraria est. Idem etiam divus Augustus iudicavit.

In questi casi certamente il giurista doveva aver davanti agli occhi la costituzione imperiale, o nell’originale, che poteva trovarsi in un archivio, o quanto meno in una copia, in qualunque modo posseduta, per esempio riferita testualmente da un giurista precedente78. Un esempio per tutti di questo tipo è dato da Paul. 15 ad Plaut., D. 8.3.35, nel quale il giurista riferisce testualmente un rescritto79 dichiarando di averlo preso da Atilicino:

78 È noto che i giuristi spesso citano giuristi più antichi (e i riferimenti fatti da questi) senza aver l’originale sotto mano. Sul punto vedi in particolare Gualandi 1963, II, 26 ss. 79 Non è dato di capire a quale imperatore facesse riferimento Atilicino (cfr. pure Gualandi 1963, II, 190).

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L’opera. Profili e temi Paul. 15 ad Plaut., D. 8.3.35: et Atilicinus ait Caesarem Statilio Tauro rescripsisse in haec verba: ‘Hi, qui ex fundo Sutrino aquam ducere soliti sunt, adierunt me proposueruntque aquam, qua per aliquot annos usi sunt ex fonte, qui est in fundo Sutrino, ducere non potuisse, quod fons exaruisset, et postea ex eo fonte aquam fluere coepisse: petieruntque a me, ut quod ius non neglegentia aut culpa sua amiserant, sed quia ducere non poterant, his restitueretur. quorum mihi postulatio cum non iniqua visa sit, succurrendum his putavi. itaque quod ius habuerunt tunc, cum primum ea aqua pervenire ad eos non potuit, id eis restitui placet’.

E c’è poi il frammento D. 23.2.57a, in cui Marciano nota che Papiniano ha dimenticato di riferire un rescritto dei divi fratres che egli trascrive per intero: In libro secundo de adulteriis Papiniani Marcianus notat, D. 23.2.57a: Divus Marcus et Lucius imperatores Flaviae Tertullae per mensorem libertum ita rescripserunt: ‘Movemur et temporis diuturnitate, quo ignara iuris in matrimonio avunculi tui fuisti, et quod ab avia tua collocata es, et numero liberorum vestrorum: idcircoque cum haec omnia in unum concurrunt, confirmamus statum liberorum vestrorum in eo matrimonio quaesitorum, quod ante annos quadraginta contractum est, perinde atque si legitime concepti fuissent’.

Tutto ciò significa che, anche a distanza di molto tempo, i giuristi avevano la possibilità di conoscere il testo delle costituzioni, e che perciò, quando non lo ricavavano dalle opere di giuristi precedenti, c’era un luogo ove poterle ritrovare80 e riferire nelle loro opere. D’altra parte, che il testo delle costituzioni imperiali circolasse, in originale o in copia, tra i giuristi (e non solo), e che quindi fosse possibile riferirlo, è noto. Basti pensare, già per il tempo di Traiano, alla testimonianza di Plinio il Giovane, epist. 10.65, che, come si vedrà tra poco, scrive a Traiano di un processo, in cui gli venivano recitatae diverse costituzioni di cui lui, in provincia, non conosceva il testo esatto, per il quale chiedeva lumi all’imperatore, che a suo avviso avrebbe potuto trovarli nei suoi scrinia. 5. Gli archivi imperiali al tempo di Marco Aurelio A questo punto, allo scopo di capire in che modo Papirio Giusto prendesse cognizione del testo dei rescritti che lui cita, e se egli avesse conoscenza diretta di quel testo o invece lo copiasse da una fonte precedente, si impone una riflessione sul funzionamento degli archivi imperiali81 nel principato più maturo, e specialmente nell’età di Marco Aurelio82.

80 Certamente doveva esistere un archivio centrale a Roma, ma anche archivi locali nelle sedi delle varie provincie dell’impero, come è attestato dalle lettere di Plinio (epist. 10.65 e 10.66). Quale fosse questo luogo è un problema di cui si sono occupati archeologi e epigrafisti vari. Sul punto vedi infra nt. 143. 81 Ampia bibliografia sugli archivi imperiali in Sperandio 2005, 33 s. nt. 74, ma vedi anche, per un quadro generale, Marotta 1988, 58 ss. Da ultimo ha dedicato un articolato studio sul tema Varvaro 2006. 82 Volterra 1971, 832 [= Volterra 1994, 14], rileva come sinora siano mancate nel campo romanistico ricerche sistematiche intorno all’organizzazione della cancelleria imperiale, volte a stabilire, tra l’altro, quali manifestazioni della volontà imperiale venivano conservate nelle varie epoche.

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Nicola Palazzolo I riferimenti più antichi83 sull’esistenza di archivi nei quali venivano conservati gli atti del princeps li troviamo già – con riferimento agli atti del dictator Giulio Cesare – in Dione Cassio (44.53), e poi specialmente in Appiano e in Velleio Patercolo, che ne fanno menzione mediante il nome che poi diventerà usuale in tutto il periodo imperiale con riferimento agli atti del princeps (ὑπομνήματα84 e commentarii85, rispettivamente in greco e in latino): App. bell. civ. 3.5: [...] τὰ ὑπομνήματα τῶν βεβουλευμένων ὁ Ἀντώνιος ἔχων καὶ τὸν γραμματέα τοῦ Καίσαρος Φαβέριον ἐς πάντα οἱ πειθόμενον, διότι καὶ ὁ Καῖσαρ τὰ τοιάδε αἰτήματα ἐς τὸν Ἀντώνιον ἐξιὼν ἀνετίθετο, πολλὰ ἐς πολλῶν χάριν προσετίθει καὶ ἐδωρεῖτο πόλεσι καὶ δυνάσταις καὶ τοῖσδε τοῖς ἑαυτοῦ φρουροῖς· καὶ ἐπεγράφετο μὲν πᾶσι τὰ Καίσαρος ὑπομνήματα, τὴν δὲ χάριν οἱ λαβόντες ᾔδεσαν Ἀντωνίῳ. τῷ δὲ αὐτῷ τρόπῳ καὶ ἐς τὸ βουλευτήριον πολλοὺς κατέλεγε καὶ ἄλλα τῇ βουλῇ δι’ ἀρεσκείας ἔπρασσεν, ἵνα μὴ φθονοῖεν ἔτι τῆς φρουρᾶς.

Vell. Pat. hist. rom. 2.60: [...] Aperte deinde Antonii ac Dolabellae consulum ad nefandam dominationem erupit furor. HS, septies milies, depositum a C. Caesare ad aedem Opis, occupatum ab Antonio, actorum eiusdem inseris falsis, civitatibusque corruptis commentariis [...].

L’episodio, cui accennano pure Cicerone (Phil. 5.4.11) e Livio (perioch. 117), è noto: alla morte di Cesare nel 44 a.C. Lepido era a Roma con una legione, fatto che lo poneva in una situazione di netto vantaggio potendo minacciare vendetta nei confronti dei cesaricidi. Appoggiò e sostenne Marco Antonio che, con un procedimento irregolare di acclamazione, gli conferì la più alta carica religiosa lasciata vacante dall’assassinio di Cesare, quella di pontifex maximus. Con l’arrivo a Roma dell’erede di Cesare, Ottaviano, si tentò di far trasferire a lui il titolo in base ad una supposta decisione degli acta di Giulio Cesare86, che vengono espressamente menzionati come ὑπομνήματα e commentarii. A partire da queste prime testimonianze gli episodi si moltiplicano per tutto il corso del I secolo. Di Augusto Svetonio (Aug. 64.2) ricorda come egli avesse proibito alla figlia e alle ni-

83 Amplissima è la bibliografia sui commentarii: vedi anzitutto Bresslau 1885, 242 ss. e von Premerstein 1900, 726759; Bömer 1853, 210 ss.; Mourgues 1998, 123 ss., dai quali emerge con chiarezza la pluralità di significati che il termine comprendeva. Puntuale, anche se non sempre convincente, analisi della letteratura ora in Sperandio 2005, 51 ss. 84 Di ὑπομνήματα parlava pure Siculo Flacco, de condicionibus agrorum (ed. Lachmann, Berolini 1848, p. 154.19). Cfr. Wilcken 1894, 80 ss., il quale rilevava la non perfetta sinonimia tra commentarii o ὑπομνήματα e ὑπομνήματισμόι; Sperandio 2005, 56 nt. 43. 85 Sui commentarii principis vedi in particolare Bressalau 1885, 242 ss. von Premerstein 1900, 730 s., ricorda altri tipi di commentarii: oltre quelli relativi agli affari privati, quelli dei collegi sacerdotali (commentarii pontificum, detti anche libri pontificum, commentarii augurum, o libri augurum), di cui parla Plut. Marc. 5, su cui Marquardt 1892, 400 s. Vedi anche Cic. Brut. 14.55: [...] possumus [...] suspicari disertum [...] Ti. Coruncanius, quod ex pontificum commentariis longe plurimum ingenio valuisse videatur) ed ancora i commentarii XVvirorum sacris faciundis, i commentarii magistratuum (tecnicamente le tabulae publicae): commentarii consulares, commentarii censorii, commentarii quaestorii, e quelli dei governatori provinciali, di cui parla Cic. Verr. 2.5.21.54. Sui commentarii, di vario tipo, presenti nell’età repubblicana si veda ora Mourgues 1998, 125 ss. e ntt. 6-11, con ampio apparato di fonti e bibliografia Per il periodo più tardo vengono ricordati un a commentariis e i commentarienses (su cui si veda von Premerstein 1900, 762 s.). Ai commentarii del dictator Cesare si riferisce anche Cic. Phil. 2.37.95 e 5.4.11-12. 86 Sappiamo che, dopo quest’episodio, Lepido seguì le sorti di Marco Antonio presentandosi come garante fra i due contendenti alla successione del defunto dittatore e, nell’accordo stretto a Bologna e passato alla storia come secondo triumvirato, governò la Gallia Narbonense e le due Spagne, e successivamente l’Africa settentrionale.

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L’opera. Profili e temi poti di parlare se non di quello quod in diuturnos commentarios referretur. Un riferimento ai commentarii di Tiberio lo troviamo in Svetonio, che di Domiziano ricorda come, nella sua palese e dichiarata ignoranza, si dilettasse nella lettura degli acta e dei commentarii di Tiberio: Svet. Domit. 20: Liberalia studia imperii initio neglexit, quamquam bibliothecas incendio absuntas impensissime reparare curasset, esemplaribus undique petitis, missisque Alexandream qui describerent emendaretque. Numquam tamen aut historiae carminibus noscendis operam ullam aut stilo vel necessario dedit. Praeterea commentarios et acta Tiberii Caesaris nihil lecticabat; epistulas orationesque et edicta alieno formabat ingenio [...].

Di Caligola ci dice ancora Svetonio che fece ammassare nel foro tutti i documenti che riguardavano sua madre e i suoi fratelli, e poi, dopo aver dichiarato ad alta voce, invocando la testimonianza degli dei, di non averli né toccati, né letti, li bruciò87: Svet. Calig. 15: [...] commentarios ad matris fratrumque suorum causas pertinentis, ne cui postmodum delatori aut testi maneret ullus metus, conuectos in forum, et ante clare obtestatus deos neque legisse neque attigisse quicquam, concremavit.

Dei commentarii di Claudio abbiamo notizia da Tacito, che riferisce di un processo svoltosi in età neroniana contro Suilio, al quale venivano rinfacciate varie atrocità, dalle cui accuse egli si difendeva dicendo che gli erano state ordinate da Claudio stesso, cosa che invece gli viene contestata dallo stesso Nerone, con riferimento appunto ai commentarii di suo padre88: Tac. ann. 13.43: iam equitum Romanorum agmina damnata omnem Claudii saevitiam Suilio obiectabant. Ille nihil ex his sponte susceptum, sed principi paruisse defendebat, donec eam orationem Caesar cohinuit, compertum sibi referens ex commentariis patris sui nullam cuiusquam accusationem ab eo coactam.

Ancora Tacito ci parla nelle Storie degli archivi di Vespasiano: Tac. hist. 4.40: Signo ultionis in accusatores dato, petit a Caesare89 Iunius Mauricus ut commentariorum principalium potestatem senatui faceret, per quis nosceret quem quisque accusandum poposcisset. Consulendum tali super re principem respondit.

Sino a questo momento non si parla, a proposito del contenuto dei commentarii principis, di costituzioni imperiali, nel significato che abbiamo visto divenire quello tecnico che noi conosciamo. E non vengono neppure espressamente menzionate le singole forme in cui si esprime la volontà imperiale (almeno edicta e mandata, che erano le due forme nettamente prevalenti per tutto il I secolo). La menzione dei commentarii deve intendersi perciò – almeno

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Sull’episodio vedi altre fonti e letteratura in Sperandio 2005, 55 s. nt. 42. Vedi ancora altra bibliografia in Sperandio 2005, 56 nt. 42. Si tratta di Domiziano, nominato Caesar mentre è ancora in carica Vespasiano (siamo nel 70 d.C.).

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Nicola Palazzolo per quest’epoca - in senso generale, come un unico archivio, in cui venivano raccolte, sotto la forma di diario giornaliero, tutte le notizie relative all’attività amministrativa imperiale90, con funzione specialmente di aiuto alla memoria91, specie nella ricerca dei precedenti. Appunto in questo stava la differenza dei commentarii rispetto agli acta principis92: come ritiene la gran parte degli autori, questi infatti avevano un maggiore carattere di ufficialità, in quanto erano destinati alla registrazione formale degli atti imperiali di particolare significato per la vita dello Stato93. È solo con Adriano, come è stato messo in luce ormai in modo definitivo dalla dottrina unanime, che si avrà una stabile e chiara distinzione tra i vari rami della cancelleria: fino a Traiano, infatti, anche in considerazione dello scarso numero di costituzioni dirette a privati94, non pare che la preparazione e la conservazione dei vari tipi di costituzioni imperiali venisse affidata ad uffici diversi, quali poi saranno gli scrinia ab epistulis, a libellis e a cognitionibus. Probabilmente perciò, fino all’età precedente ad Adriano, l’ufficio deputato ad emettere e poi a conservare i provvedimenti imperiali era unico, come è testimoniato proprio dalla corrispondenza pliniana, cui si faceva cenno sopra, dalla quale emerge come nei commentarii di Traiano trovassero posto sia edicta che epistulae (in questo caso trattasi di concessione di benefici più che risposte a quesiti giuridici)95, ma probabilmente anche atti diversi, come i decreta o le orationes in senatu habitae: Plin. epist. 10.65: [...] Recitabatur autem apud me edictum, quod dicebatur divi Augusti, ad Asiam pertinentes; recitatae et epistulae divi Vespasiani ad Lacedaemonios et divi Pii ad Achaeos et Domitiani ad Avidium Nigrinum et Armenium Brocchum proconsules, item ad Lacedaemonios. Quae ideo tibi non misi, quia et parum emendata et quaedam non certae fidei videbantur, et quia vera et emendata in scriniis tuis esse credebam.

90 von Premerstein 1900, 785. Cfr. pure Bresslau 1885, 244. Per Wilcken 1894, 117, sono “eine Mischung von Hof- und Geschaftsjournal”. Secondo von Premerstein 1900, 785, anche rispetto ai commentarii dei principes occore fare una distinzione tra una sorta di diario privato, un diario di tipo militare, quello riguardante la trattazione degli affari pubblici, e infine i commentarii delle costituzioni imperiali. 91 In questo senso è significativo quanto scrive Traiano a Plinio in Plin. epist. 10.66.1, in risposta a Plin. epist. 10.65.3. Cfr., nel senso appunto di “aide-memoire” dei commentarii, Mourgues 1998, 128. 92 Sulla distinzione tra commentarii e acta principis vedi von Premerstein 1900, 735 e letteratura ivi citata; Palazzolo 1977, 46 s.; Varvaro 2006, 4 nt. 8. 93 Cfr. Humbert 1877, 50 ss.; sugli acta senatus et poluli Romani in età repubblicana vedi Bats 1994, 19 ss. Sulla tenuta degli acta senatus e dei commentarii magistratuali in età repubblicana ed imperiale vedi Coudry 1994, 65 ss. 94 È nota la testimonianza della Historia Augusta (SHA vita Macrini 13.1) che, in relazione a Macrino, dice fuit in iure non incallidus, adeo ut statuisset omnia rescripta veterum principum tollere, ut iure, non rescriptis ageretur, nefas esse dicens leges videri Commodi et Caracalli et hominum imperitorum voluntates, cum Traianus numquam libellis responderit, ne ad alias causas factas proferrentur, quae ad gratiam composita viderentur. I giuristi citano di Traiano non poche costituzioni (cfr. Gualandi 1963, I, 17 ss.), ma si tratta sempre di edicta, decreta ed epistulae, non di subscripriones. Sul punto vedi anche Marotta 1988, 5 ss. 95 von Premerstein 1900, 742, ipotizza l’esistenza di commentarii beneficiorum distinti dai commentarii epistularum e dai commentarii libellorum, ma non vi sono prove significative, almeno per tutto il periodo del Principato. La tesi dell’esistenza di archivi distinti per i benefici è stata ripresa di recente da Varvaro 2006, 27 s., ma senza argomenti significativi. Solo nell’età più tarda qualche indizio, come opina von Premerstein 1900, 742, può forse trarsi dalla Notitia dignitatum (vedi pure Hygin. Grom. de lim. const. [ed. Lachmann, I, 202], che parla di un liber beneficiorum).

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L’opera. Profili e temi Plin. epist. 10.66.1: Quaestio ita [...] saepe tractata est, nec quicquam invenitur in commentariis eorum principum, qui ante me fuerunt, quod ad omnes provincias esse constitutum. 2. Epistulae sane sunt Domitiani ad Avidium Nigrinum et Armenium Brocchum, quae fortasse debeant observari; sed inter eas provincias, de quibus rescripsit, non est Bithinia.

Di fronte al dubbio sollevato da Plinio che, da governatore della Bitinia, si era trovato a dover decidere riguardo ad edicta ed epistulae che gli venivano recitati96 in giudizio senza che egli ne conoscesse il vero contenuto, e senza perciò che egli potesse verificarne l’attendibilità97, e alla sua richiesta di reperire presso gli uffici imperiali (in scriniis tuis98) i testi “vera et emendata”99 delle costituzioni in oggetto, Traiano risponde di aver trovato nei commentarii dei suoi predecessori solo due epistulae, tra quelle citate da Plinio, ma che esse non riguardavano la Bitinia. Peraltro, non si trovano nelle fonti, almeno fino a questo momento, argomenti decisivi che dimostrino la presenza nei commentarii principis dei testi integrali delle costituzioni emanate dall’imperatore. Si ha piuttosto l’impressione che trattasi, nel caso dei commentarii preadrianei, di un riferimento sintetico, in cui il contenuto dei provvedimenti imperiali era ridotto all’essenziale, come emerge da altri due passi dell’epistolario pliniano, nei quali Traiano racconta a Plinio di aver ordinato “referri in commentarios” i provvedimenti di favore concessi a determinate persone su segnalazione dello stesso Plinio: Plin. epist. 10.95: [...] tuo tamen desiderio subscripsi et dedisse me ius trium liberorum Suetonio Tranquillo ea condicione, qua adsuevi, referri in commentarios meos iussi. Plin. epist. 10.105: [...] Iis interim, quibus nunc petisti, dedisse me ius Quiritium referri in commentarios meos iussi, idem facturos in ceteris, pro quibus petieris.

Il modo in cui si esprime Traiano (referri in commentarios meos) non fa pensare che il provvedimento imperiale venisse inserito nell’archivio per esteso; al contrario esprime chiaramente

96 Sulla recitatio, con particolare riferimento al caso segnalato nelle lettere di Plinio, vedi ora Marotta 2013, 358 s. nt. 8. 97 Dal testo di Plinio emerge anche, come si vedrà più in là, la circolazione nei tribunali di provincia di copie, e forse di raccolte, di costituzioni imperiali, di cui lo stesso governatore non era in grado di garantire l’autenticità, a differenza degli archivi centrali, nei quali veniva registrata puntualmente tutta l’attività del principe. 98 Il termine scrinium aveva originariamente il significato di ‘scrigno’ (cassetta di forma cilindrica per riporre documenti): cfr. Lécrivain 1873, 1124, poi nelle biblioteche prese la forma di volumen, anzi di vari volumina che generalmente venivano numerati. Da qui il nome scrinia (al plurale) dato a questi recipienti nei quali venivano conservati i libri. Sul punto Seeck 1921, 893 ss. In questo senso è illuminante Ulp. 24 ad Sab., D. 32.52.3: Libris autem legatis bibliothecas non contineri Sabinus scribit. Idem et Cassius: ait enim membranas quae scriptae sint contineri. Deinde adiecit neque armaria neque scrinia neque cetera, in quibus libri conduntur, deberi. 99 L’espressione vera et emendata ha fatto pensare (von Premerstein 1900, 739; Marotta 1988, 60 nt. 99) che l’inserimento degli atti imperiali nei commentarii avvenisse non attraverso copie o addirittura estratti delle varie decisioni, ma mediante l’originale stesso, autenticato dall’imperatore. Nonostante le critiche, continuo a pensare che l’espressione vera et emendata si riferisca non alla forma ma alla sostanza del provvedimento: ciò che interessa a Plinio non è avere il testo originale, ma il conoscere con sufficiente certezza se vi sono sul punto decisioni riguardanti la Bitinia. Sul punto cfr. Palazzolo 1977, 49 s.

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Nicola Palazzolo l’idea di un resoconto sommario (referri)100 di un provvedimento già avvenuto (dedisse me), e il cui testo non si trova nell’archivio101. Con Adriano, com’è noto, e com’è già stato rilevato, viene riordinata su nuove basi la cancelleria imperiale, con una più precisa ripartizione di competenze tra gli scrinia a libellis, ab epistulis e a cognitionibus. Non sappiamo da fonti dirette se ciò comportasse anche una modificazione nelle modalità di archiviazione delle costituzioni imperiali102. C’è però, un testo di provenienza epigrafica (CIL III. 411), nel quale da un lato sembra essere confermata per l’epoca di Adriano e per quella di Antonino Pio l’esistenza di ὑπομνήματα (commentarii)103, in cui venivano raccolte le sententiae104 e le constitutiones imperiali, mentre dall’altro compaiono per la prima volta indizi che possono far pensare ad una trascrizione integrale dei provvedimenti105. Il testo epigrafico, che è noto sotto il nome di Iscrizione di Smirne (rescriptum Pii ad Smyrnaeos), riporta la richiesta di un tale Sextilius Acutianus, e la successiva autorizzazione concessa da Antonino Pio, volta ad ottenere la copia (antígrapha) di un rescritto di Adriano agli abitanti di Smirne, il cui testo era conservato negli archivi imperiali. Il testo è mutilo nella prima parte: CIL III.411 (= FIRA I, n. 82): … Imp. Caes. T. Aelius Hadrianus Antoninus Augustus Pius Sextilio Acutiano. Sententiam divi patris mei, si quid pro sententia dixit, describere ibi permitto. – Rescripsi – Recog(novi) undevicesimus. Ac(tum) vi idus April., Romae, Caes(are) Antonino II e Praesente II cos.

100 Cfr. Calonghi 1957, 2341-2341: “riportare (sui registri), riferire, comunicare”. Colpisce in particolare l’analogia con l’identica espressione usata da Svet. Aug. 64.2, di cui sopra nel testo. Al contrario Varvaro 2006, 28 nt. 114, preferisce pensare che si tratti di una trascrizione integrale del decreto di concessione della cittadinanza. 101 Non si può pensare che, trattandosi di un beneficium (così come ritiene von Premerstein 1900, 741), i due frammenti di Plinio non costituiscano prova decisiva (come sostiene ora Varvaro 2006, 28), in quanto nel caso di specie il provvedimento ricercato da Plinio è diretto proprio a risolvere una questione di diritto controversa. E comunque non vi sono tracce di sezioni diverse, nello stesso archivio imperiale. Sui due frammenti di Plinio, e sul problema discusso, relativo alla condizione dei θρεπτόι vedi da ultimo Sperandio 2005, 47 e bibliografia ivi citata. 102 Non è il caso di addentrarsi nel problema, sollevato a suo tempo da Wilcken 1920, 1 ss., relativo all’eventuale pubblicazione dei rescritti (ed in particolare se a Roma, o nel luogo in cui si trovava l’imperatore, o negli archivi locali del luogo di residenza del richiedente), che esula chiaramente dal nostro discorso: per un’ampia e aggiornata analisi della questione si veda ora Varvaro 2006, 21 ss. nt. 82. Per quanto ci riguarda è sufficiente notare che tutti gli indizi conducono ad affermare che – a prescindere dall’esistenza di archivi locali – doveva certamente esistere a Roma un archivio centrale nel quale venivano conservati i testi ufficiali dei provvedimenti imperiali, e al quale accedevano gli stessi imperatori, e naturalmente anche i giuristi. Sul problema vedi altra bibliografia in Palazzolo 1977, 53 nt. 46. Sull’organizzazione della cancelleria imperiale nelle varie epoche bibliografia in Sperandio 2005, 50 e nt. 13. 103 Un riferimento ai commentarii si trova anche nell’operetta Divi Hadriani sententiae et epistulae (§ 7: Hadrianus dixit: sine videas commentarios, tu tamen cura reverti ad me), Sull’epigrafe di Smirne cfr. ora le osservazioni di Varvaro 2006, 28 s. 104 Sono ancora dell’idea, sviluppata anni fa (Palazzolo 1977, 54 nt. 49) che l’espressione sententiae dell’iscrizione di Smirne non alluda specificamente ed esclusivamente ad atti giudiziari dell’imperatore (come invece riteneva von Premerstein 1900, 738 e 742), ma piuttosto a decisioni imperiali su questioni a lui sottoposte mediante preces o libelli, e risolte oralmente o per iscritto. 105 In questo senso vedi Marotta 1988, 60 s.; Varvaro 2006, 28 s.

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L’opera. Profili e temi Seguono i signa dei testimoni e, infine, l’ordine imperiale di effettuare la trascrizione: Stasime, Dapeni106, edite ex forma sententiam vel constitutionem.

Purtroppo non ci è pervenuto il testo della costituzione di Adriano, e non possiamo perciò determinare quanto esso sia vicino all’originale. In altra occasione107 avevo ritenuto che le espressioni usate da Antonino Pio (describere tibi permitto e si quid pro sententia dixit) farebbero pensare ad un’indicazione sommaria del contenuto della decisione adrianea, più che ad una copia fedele dell’originale contenuto negli archivi. Una riconsiderazione del problema oggi entro una prospettiva più generale mi induce ad una valutazione più cauta. Probabilmente qualcosa è cambiato rispetto alle testimonianze pliniane, e non può non essere connesso alle grandi riforme adrianee, ed in particolare al riordinamento della cancelleria imperiale e all’organizzazione degli scrinia ab epistulis, a libellis e a cognitionibus. Come è stato infatti osservato di recente108, describere tibi permitto, e specialmente l’ordine dato agli scribi edite ex forma sententiam vel constitutionem sono espressioni che fanno pensare non tanto ad una indicazione sommaria del contenuto, quanto alla trascrizione testuale della sententia adrianea da parte della cancelleria di Antonino Pio. E la parola undevicesimus, posta subito dopo il verbo recognovi, indica probabilmente il numero progressivo della registrazione negli archivi109. Se così è, siamo davanti ad una significativa innovazione, che aggiunge un ulteriore tassello al complesso della riforma adrianea dell’amministrazione imperiale. La cancelleria imperiale cioè, nelle sue varie sezioni, provvedeva all’archiviazione, a fini di conservazione e di reperimento successivo per ulteriori copie, di tutti i provvedimenti imperiali, che venivano registrati con un numero progressivo e, naturalmente, col nome dell’imperatore e la data110. Sul funzionamento degli archivi imperiali non possediamo indicazioni di un qualche interesse per gli imperatori successivi. Un accenno ad essi può però vedersi – come si è già visto – nei semenstria111, ricordati più volte in testi giuridici112 con riferimento specialmente a costituzioni di Marco Aurelio:

106 Il testo riportato da tutti gli editori dice ‘Dapeni’: in realtà, come ha osservato Mommsen 1952, 907 nt. 3, deve essere un errore di trascrizione per ‘Daphni’. Ma vedi in senso contrario Wilcken 1920, 16, e Williams 1976b, 245. 107 Palazzolo 1977, 54 s. 108 Marotta 1988, 60 s.; Varvaro 2006, 28 s. Vedi anche, per altre indicazioni sui librarii cui viene dato l’ordine di transcribere la costituzione Mourgues 1998, 144 s. 109 Preisigke 1917, 20 ritiene piuttosto che si riferisca non ad un impiegato della cancelleria come si era ritenuto fin allora, ma piuttosto al numero del volume del liber rescriptorum; per Mourgues 1998, 142 s., deve probabilmente riferirsi all’undevicesimus commentarius degli archivi (e cita a questo proposito alla nt. 53 un’ipotesi di Bruns, secondo cui vi fossero 19 sezioni degli archivi imperiali). Wilcken 1920, 8 nt. 2, invece lo riferisce al numero progressivo del libellus. In questo senso pure Samonati 1942, 806. 110 L’indicazione della data alla fine della costituzione, ed il permanere di questa anche quando altri elementi formali venivano eliminati, fanno pensare che essa fosse essenziale ai fini della ricerca dell’originale negli archivi. Da qui la conseguenza che l’ordine cronologico con cui le decisioni imperiali venivano raccolte è quello da ritenere più probabile. In questo senso già Gaudemet 1979, 53; Palazzolo 1977, 47 e nt. 32; ed ora Varvaro 2006, 32. 111 Bibliografia in Sperandio 2005, 34 s. nt. 75; vedi ora Varvaro 2006, 31 e nt. 132 e133. 112 La citazione dei semenstria da parte di Trifonino, Scevola, e poi Ulpiano, prova che, almeno per quanto riguarda le costituzioni di Marco Aurelio, questo tipo di organizzazione degli archivi rimaneva, ed era consultabile dai giuristi, anche a distanza di tempo.

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Nicola Palazzolo Triph. 2 disput., D. 2.14.46: […] cum in semestribus relata est constitutio divi Marci [...]113. Scaev. 7 dig., D. 18.7.10: Claudius: Divus Marcus ex lege dicta libertatis [...] in semestribus constituit [...]. Ulp. 11 ad ed., D. 29.2.12: [...] et est in semenstribus Vibiis Soteri et Victorino rescriptum [...]. Imp. Alexander A. Fulcinio Maximo, C. 4.57.3: [...] tamen constitutioni divorum Marci et Commodi 114 locus est. Inst. 1.25.1: Divus Marcus [...] in semestribus rescripsit.

Vi sono poi, come si è visto sopra, alcune testimonianze, in verità più generiche, che non parlano di semenstria bensì soltanto di raccolte di costituzioni di imperatori successivi, come quella già richiamata di Modestino con riferimento a Commodo (Mod. 2 excus., D. 27.1.6.8)115, o quella, riprodotta da una fonte papiracea116, con riferimento ad Alessandro Severo, che usa la stessa espressione (διατάξεσιν). Va ricordato ancora il riferimento ai commentarii principis contenuto nella Tabula Banasitana117, nella quale gli imperatori Marco Aurelio e Commodo dichiarano di aver concesso la cittadinanza romana alla famiglia di un capo della tribù degli Zegrenses, ordinandone la registrazione nei commentarii; in calce al documento è poi riferita la consueta formula di registrazione, che ritroveremo nel rescriptum Gordiani ad Scaptoparenses (CIL III.12336): Tab. Banas. 22-29 (AÉ 1961, nr. 142): descriptum et recognitum ex commentario civitate romana donatorum divi Augusti et Tiberi [...], id quo infra scriptum est.

Con riferimento ai commentarii, in relazione all’importanza che essi avevano assunto in età di poco più tarda118, e come indizio che anche il nome continua ad esserne usato119, mi sembra

113 La costituzione di Marco Aurelio è quella riferita in C. 6.54.2 (Divus Marcus Stratonicae), nella quale però non c’è traccia dei semenstria. 114 Secondo l’integrazione di Krüger 1895, ad h.l. 115 Vedi però ora, in senso contrario, Varvaro 2006, 30 s. e ntt. 129 e 130 (con ampia discussione della letteratura precedente). 116 Brunet de Pressle 1865, nr. 69; cfr. von Premerstein 1900, 738. 117 Sulla Tabula Banasitana (Purpura 2012, I, 634 ss.) bibliografia in Mourgues 1998, 132 s. e Purpura 2012, I, 639 ss.; Marotta 1988, 43 nt. 25 e Sperandio 2005, 56 nt. 43. 118 Per l’età di Marco Aurelio c’è un frammento che cita appunto una costituzione di Marco Aurelio e Commodo: Ulp. lib. sing. de off. pr. tutel., FV. 222: Excusatur etiam is, qui commentarios habet praefecti, quamdiu hic commentarios habent praefecti, ut divus Marcus cum filio rescripsit. Ma si tratta non di commentarii principis, bensì di commentarii dei praefecti. 119 Non è corrispondente al vero ciò che sostiene Sperandio 2005, 54, che dopo il II secolo scompaia ogni traccia dei commentarii. Al contrario, a parte il brano dei Vaticana Fragmenta (relativo però ai commentarii dei praefecti), c’è certamente un brano di Ulpiano che riferisce un parere dato da Celso (Ulp. 20 ad Sab., D. 34.2.19.6) e varie testimonianze per l’epoca costantiniana (CTh. 8.1.2; CTh. 11.30.21) e giustinianea (C. 1.17.1.12; C. 1.17.2.21). E ci sono poi tutte le testimonianze che parlano dei commentarienses, che con tutta evidenza sono proprio gli addetti ai commentarii di cui parlano Mod. 9 reg., D. 4.6.32; Ulp. 10 de off. proc., D. 48.20.6; Paul. 5

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L’opera. Profili e temi poi utile citare un testo di Modestino, che ricorda, tra coloro che absunt rei publicae causa coloro che sono addetti al commentarium principis: Mod. 9 regularum, D. 4.6.32: Abesse rei publicae causa intellegitur et is qui ab urbe profectus est, licet nondum provinciam excesserit: sed et is qui excessit donec in urbem revertatur, et hoc ad proconsules legatosque eorum et ad eos, qui provinciis praesunt, procuratoresve principum, qui in provinciis tenentur, pertinet, et ad tribunos militum et praefectos et comites legatorum, qui ad aerarium delati aut in commentarium principis delati sunt120.

Mi sembra perciò del tutto probabile che, almeno dopo il riordino della cancelleria imperiale voluto da Adriano, esistesse a Roma121 un archivio centrale nel quale venivano raccolte e ordinate, probabilmente in ordine di data122, le costituzioni123 del principe in carica, ed a cui era

sent., D. 49.14.45.7; PS. 5.12.16), in perfetta continuità con le fonti dell’epoca successiva (CTh. 8.15.3; CTh. 8.15.5.1; CTh. 9.2.5; CTh. 9.3.6; CTh. 9.3.7; CTh. 9.4.5; C. 1.4.9pr.; C. 1.27.1.25; C. 9.4.4pr.; C. 9.4.4.1; C. 9.4.5.1; C. 9.26.1pr.). Sui commentarienses cfr. in particolare Mourgues 1998, 162. Sperandio, d’altra parte, attribuisce un’importanza a mio avviso eccessiva all’incendio del 192 d.C., che avrebbe distrutto buona parte del palazzo imperiale. Non è per nulla detto, infatti, che l’archivio imperiale contenente le costituzioni fosse collocato proprio nel palazzo imperiale (si veda a questo proposito infra e nt. 143), e comunque l’enorme numero di citazioni di costituzioni imperiali da parte dei giuristi severiani (che non possono essere ritenute, se non in minima parte, citazioni ‘di seconda mano’) conferma l’esistenza di un archivio in cui i testi (più o meno integrali) delle costituzioni potessero essere ritrovati e copiati. 120 Da una parte degli autori moderni (cfr. bibliografia in von Premerstein 1900, 741), si corregge delati in relati, con la conseguenza che il testo si riferirebbe a coloro che sono nominati nei commentarii, cioè a coloro che hanno ricevuto benefici imperiali, il che confermerebbe la registrazione nei commentarii di tutti i benefici, Ma, a parte il fatto che con relati non si collegherebbe più l’accusativo in commentarium (che andrebbe quindi a sua volta corretto in commentariis: vedi infatti von Premerstein 1900, 741) mi pare che il testo funzioni bene proprio così com’è, ed indichi proprio coloro che sono addetti ai commentarii, incarico questo che doveva essere un ufficio pubblico di rilevante importanza, mentre al contrario non tutti i benefici imperiali configuravano un ufficio pubblico, di cui si potesse dire che comportasse l’absentia rei publicae causa. 121 Varvaro 2006, nt. 7. Sull’esistenza di altri archivi fuori di Roma si veda specialmente Collinet 1924, passim. L’idea di Collinet (praecipue p. 364) è che – posto che il Gregoriano è stato composto a Berito, dove esisteva nel III secolo un’importante scuola di diritto e un centro di affissione delle costituzioni, si può pensare che anche nell’età precedente ci fosse questo archivio, e che le costituzioni del Gregoriano che appartengono a quest’epoca siano state tratte da quell’archivio. E critica Mommsen per non aver esteso anche all’epoca precedente la sua idea che il codice Gregoriano sia stato composto a Berito. Ma la critica di Collinet si estende anche a P. Krüger, che aveva sostenuto che l’autore del Gregoriano non avrebbe potuto compiere la sua opera senza consultare gli archivi imperiali di Roma. L’ipotesi di Collinet non ha riscosso molto credito: cfr. Sperandio 2005, 65; un’ampia analisi ora in Varvaro 2006, 4 nt. 7. 122 In questo senso già Krüger 1888, 19 nt. 127; Bresslau 1885, 343; Hirmschfeld 1975, 325; Rotondi 1922a, 123; Mourgues 1998, 158 nt. 94. Rotondi 1922a, 124, affermava che “convien credere che i commentari fossero tenuti in regola, coll’inserzione delle costituzioni via via che venivano emanate, sicché all’inizio dell’anno fosse completo il codex dell’anno precedente”. L’esistenza degli archivi in cui venivano depositate le costituzioni imperiali (o i loro estratti) si può dedurre anche dalla presenza delle sigle pp. d. ecc. Sul problema del significato di queste sigle e della loro importanza al fine dell’individuazione del sistema di trasmissione degli atti imperiali nelle province, già affrontato, con particolare riferimento alla tesi del Mommsen sull’iscrizione di Skaptopara, da Palazzolo 1977, 60 ss., vedi ora, con ampia documentazione bibliografica, Varvaro 2006, 19 e nt. 76. 123 L’iscrizione di Skaptopara, relativa a Gordiano, parla di un liber rescriptorum et propositorum. È possibile perciò che dopo Adriano le sezioni dell’archivio fossero divise secondo il tipo di provvedimento imperiale. In questo senso già Mourgues 1998, 139, secondo cui il commentarius civ. Rom. donatorum è certamente una sezione dei commentarii imperiali.

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Nicola Palazzolo possibile accedere anche a distanza di molto tempo124, ed eventualmente ottenerne una copia125. Il problema è semmai quello di capire se quelli che vengono chiamati semenstria per Marco Aurelio, e forse per qualcuno dei suoi successori nel principato, siano la stessa cosa dei commentarii ricordati per gli altri imperatori. In mancanza di argomenti in favore di una o dell’altra tesi, si potrebbe pensare con qualche approssimazione che il nome usuale di questa raccolta fosse quello tradizionale di commentarii, che è testimoniato, come si è visto, sin dall’inizio del principato, e, per quello che ci interessa, almeno da Traiano in poi fino ai Severi, con una sempre crescente importanza nell’ambito dell’amministrazione imperiale; e che tuttavia, già durante il principato di Marco Aurelio, ma probabilmente anche dopo, al fine di una migliore organizzazione della raccolta, le costituzioni di Marco Aurelio e Lucio Vero, e forse anche di Commodo (Mod. 2 excus., D. 27.1.6.8), venissero distinte in semenstria, con riferimento alla data di pubblicazione. È però certo che del nome “semenstria” non è traccia né nel titolo né nelle singole costituzioni contenute nell’opera di Papirio Giusto. Il che porta a concludere, col Volterra126, che “non esisteva una terminologia tecnica per designare gli atti ufficiali esistenti negli archivi degli imperatori e dei funzionari”127. Ma è altrettanto certo che Papirio Giusto, così come altri giuristi del suo tempo, doveva avere libero accesso agli archivi imperiali, dove avrebbe potuto prendere visione, ed eventualmente copiare, le costituzioni che per lui presentavano interesse128. Lo prova il fatto che nella sua opera si trovano costituzioni non già sinteticamente descritte, ma riferite proprio nel testo originale, tanto da far dire al giurista che l’imperatore in haec verba rescripsit (D. 18.1.71 = L. 3; D. 48.12.3pr. = L. 4; D. 48.12.3.1 = L. 4). E nello stesso senso parrebbero deporre le tre costituzioni da lui citate, che conservano il nome del destinatario129 (D. 18.1.71 = L.

124 Interessante, come sottolinea giustamente Varvaro 2006, 10, l’uso da parte dei giuristi di età più tarda, del termine invenio, che fa pensare proprio a una ricerca negli archivi: cfr. Ulp. lib. sing. de off. pr. tutel., FV. 177; lib. sing. de off. pr. tutel., FV. 189; Ulp. 13 ad Sab., D. 38.17.2.47; Mod. 3 excus., D. 27.1.4. 125 L’esistenza di copie tratte dai commentarii è testimoniata dall’iscrizione di Smirne (su cui vedi oltre), che contiene la richiesta di Cecilio Acuziano ad Antonino Pio di ottenere copia di un rescritto di Adriano agli abitanti di Smirne. Su altre testimonianze relative all’ottenimento di copie di costituzioni vedi Varvaro 2006, 4 nt. 8. 126 Volterra 1974, 431 s. [= Volterra 1991d, 333 s.]. 127 D’altra parte, l’esistenza dello scrinium a memoria, che gran parte della dottrina fa partire già da Adriano come una duplicazione dell’originario ufficio a studiis, creato da Claudio (cfr. De Francisci 1944, 336 s.; Masi 1989, 480 s.) fa pensare che la sua competenza fosse proprio la conservazione degli atti del princeps. Sui rapporti tra il magister memoriae e il magister libellorum l’opinione dominante (Karlowa 1885, 545 s.; von Premerstein 1926a, 23) ritiene che il magister memoriae si occupasse solo di alcune preces, quelle cioè che avevano la forma di adnotatio; ma ciò può valere per il periodo tardoimperiale, non per l’età del Principato. Sul ruolo dell’a memoria in età imperiale come colui cui spetti la direzione di tutti i commentarii cfr. Mourgues 1998, 152, ma vedi anche (nt. 77) quanto egli osserva a proposito del preteso assorbimento, a partire dal principato di Adriano, dei commentarii entro le competenze dell’a memoria. 128 Così Volterra 1971, 961 [= Volterra 1994, 143]. Non appare suffragata da argomenti sufficienti la tesi, sostenuta da Mourgues 1998, 141, che i commentarii sarebbero un archivio riservato degli imperatori, cui solo l’imperatore e i suoi stretti collaboratori potessero accedere. Al contrario sono molti gli argomenti che dimostrano, se non un accesso indifferenziato per tutti i cittadini, quanto meno un accesso garantito a coloro che erano riconosciuti come giuristi. 129 Per Varvaro 2006, 9 s., tutte le volte in cui nelle opere dei giuristi non si trovano le indicazioni relative all’inscriptio e alla subscriptio occorrerebbe pensare trattarsi di citazioni indirette (cioè da altri giuristi), oppure che quelle indicazioni siano state eliminate dai compilatori giustinianei. Ma non lo credo verosimile: al contrario, se si crede all’esistenza dei commentarii, è più probabile pensare che questi riferimenti ai destinatari o alla datazione siano presi proprio da essi. In questo senso già Volterra 1971, 945 [= Volterra 1994, 127].

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L’opera. Profili e temi 3; D. 48.16.18pr. = L. 7; D. 2.14.60 = L. 18). Questo infatti era (insieme alla data e probabilmente al numero progressivo) uno degli elementi di identificazione delle costituzioni nell’archivio. Ma ci sono moltissime testimonianze di citazioni da parte di giuristi di costituzioni nel testo originale130. La meritoria raccolta del Gualandi ci offre un panorama di varie centinaia di costituzioni131 (quasi sempre individuate come rescritti, ma talvolta si tratta di epistulae dirette ai funzionari imperiali, e in qualche caso di orationes in senatu habitae) nelle quali sono riportate testualmente le parole dell’imperatore, talvolta con testi alquanto lunghi e complessi, che fanno pensare ad una fonte da cui il giurista attingeva. Per i divi fratres possediamo ben 26 citazioni di questo tipo, mentre sono notevolmente più ridotte quelle del solo Marco Aurelio (9), ed ancor di più di Marco e Commodo (3). L’ipotesi che possa trattarsi di citazioni “di seconda mano”, attinte cioè dalle opere di giuristi precedenti, se pur verificabile in qualche caso132, non regge di fronte alla quantità e alla lunghezza, ma talora anche all’estrema precisione133, delle citazioni, e specialmente al fatto che, comunque, deve esserci stato un primo giurista che ne ha preso visione direttamente. In conclusione, mi sembra perciò estremamente probabile che, a partire almeno dal riordino della cancelleria imperiale voluto da Adriano, i commentarii principis, che fino all’età di Traiano raccoglievano sinteticamente tutte le notizie relative all’attività imperiale (e quindi indifferentemente edicta, epistulae e decreta, benefici e orationes in Senatu habitae), abbiano acquistato una specificità che prima non possedevano, e siano stati integrati nell’amministrazione imperiale134 secondo la tipologia di ciascuno di quei provvedimenti, sotto la direzione di un funzionario di rango elevato135: le subscriptiones entro lo scrinium a libellis, i decreta entro lo scrinium a cognitionibus, ecc. In questi archivi venivano depositati i testi integrali degli atti dell’imperatore relativi a ciascuna tipologia, e ad essi i giuristi potevano accedere con facilità136. Come si chiamassero questi archivi e come fossero organizzati è impossibile saperlo: per l’età di Marco Aurelio – come si è visto – le costituzioni erano ordinate per semenstria; per l’epoca severiana una fonte epigrafica (si tratta del cosiddetto decretum Gordiani ad Scap-

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Volterra 1971, 953 [= Volterra 1994, 135]; cfr. anche Varvaro 2006, 6 nt. 21. Si tratta di ben 171 brani, secondo la ricostruzione di Volterra 1971, 953 s. [= Volterra 1994, 135 s.]. 132 Si veda sul punto l’ampia analisi di Gualandi 1963, II, 26 ss. 133 Cfr., ad esempio, il brano dei digesta di Marcello (Marcell. 29 dig., D. 28.4.3), in cui viene riportato l’intero verbale d’udienza del tribunale imperiale, con gli interventi delle parti e dei loro avvocati: cfr. Gualandi 1963, II, 32 e 148; Volterra 1971, 992 s. [= Volterra 1994, 174 s.]; Palazzolo 1974, 63 ss. 134 Una testimonianza della Historia Augusta (vita Marci 8.10) attesterebbe che già all’epoca di Marco Aurelio e Lucio Vero gli uffici della cancelleria imperiale fossero ‘itineranti’, così come poi avverrà stabilmente in epoca severiana: Et Verum quidem Marcus Capuam usque prosecutus amicis comitantibus a senatu ornavit additis officiorum omnium principibus; vedi bibliografia in Varvaro 2006, nt. 87. La testimonianza dell’accoglienza festosa di Vero a Capua da parte di Marco Aurelio e della sua corte non mi sembra tuttavia una prova sufficiente in questa direzione. 135 È probabile che fosse il magister memoriae (da cui dipendeva il magister libellorum e i suoi collaboratori a libellis), su cui cfr. von Premerstein 1926a, 22 s. 136 Per Varvaro 2006, 11, i giuristi vicini alla cancelleria imperiale o addirittura membri del consilium principis (per Marco Aurelio Scevola e Marcello) dovevano certamente conoscere il testo ufficiale, ma – a mio avviso – non è da escludere che lo conoscessero altri, o almeno quelli che stavano a Roma. Se poi si accetta la tesi che anche Papirio facesse parte della cancelleria e del consilium la cosa diventa più probabile. Cfr. sul punto Palazzolo 1991, 73ss.; Palazzolo 1998, 278. 131

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Nicola Palazzolo toparenos)137, ricorda un liber libellorum rescriptorum et propositorum138, la cui esistenza non possiamo escludere anche nell’età degli Antonini139. Il testo epigrafico consta di tre parti: oltre le preces dei richiedenti (i vicani Scaptopareni) e il testo del rescritto di Gordiano, esso contiene una praescriptio, con l’indicazione che si tratta di una copia tratta dal liber libellorum rescriptorum et propositorum di Gordiano: CIL III.12336: […] Bona fortuna. Fulvio Pio et Pontio Proculo cons. XVII Kal. Ian. Descriptum et recognitum factum ex libro libellorum a domino nostro imp. Caes. M. Antonio Gordiano Pio Felice Aug. et propositorum Romae in porticu thermarum Traianarum in verba quae infra scripta sunt.

Le parole descriptum et recognitum140 ricordano esattamente quelle dell’iscrizione di Smirne (rescripsi e recognovi), tanto da far concludere che anche qui trattasi di una copia, che l’iscrizione dice esser tratta dal liber libellorum rescriptorum et propositorum di Gordiano141, e che quindi anche in questo caso nell’archivio fosse conservato il testo integrale della costituzione, dal quale poi chi ne aveva interesse poteva ricavarne copia integrale o parziale. Dal modo in cui si esprime l’iscrizione di Scaptopara sembrerebbe trattarsi di un archivio particolare142, contenente soltanto i rescritti, e tra questi, in particolare, quelli affissi (propositi) nel portico delle Terme di Traiano143, un archivio di cui potrebbe costituire pendant certamente quel liber

137 Con specifico riferimento all’iscrizione cfr. Mommsen 1892, 244 ss.; Preisigke 1917, 55 s.; Dessau 1927, 205 ss.; Hallof 1994, 405 ss. Altra bibliografia in Palazzolo 1977, 58 ss., e ora in Varvaro 2006, 5 ntt. 12-13. 138 Sull’evoluzione più recente del dibattito in dottrina se la prassi della propositio dei rescritti mediante affissione, testimoniata dall’iscrizione di Skaptopara, fosse originaria, o solo a partire dall’età adrianea, rimando a Sperandio 2005, 74 ss. e a Varvaro 2006, 21 ss. nt. 82. Wilcken 1920, 36 s. sosteneva, com’è noto, che il liber rescriptorum non fosse un lungo rotolo, ma un piccolo numero di petizioni affisse, ma ciò non prova nulla contro la tesi che si tratti comunque di una raccolta di costituzioni. Spagnuolo Vigorita 2001, 246 dà per scontata la propositio di tutte le subscriptiones, ed esclude pertanto che esse vengano comunicate ai richiedenti, mentre – come è noto – questa tesi, risalente al Mommsen, è stata, ed è tuttora, oggetto di vivaci discussioni. Sul dibattito suscitato dalla tesi del Mommsen vedi pure Marotta 1988, 30 ss. Sulla propositio libellorum cfr. pure Merola 2018, 396 s. nt. 8. Per il resto, preferisco astenermi dal partecipare ad un dibattito (che pure io stesso avevo sollevato anni fa: Palazzolo 1977, praecipue 58 ss.) che non riguarda tuttavia, se non molto indirettamente, aspetti connessi all’opera di Papirio Giusto. 139 Diverso è poi il problema se il liber rescriptorum conservasse l’originale della costituzione, o se invece dovesse trattarsi di una copia, e l’originale fosse inviato al richiedente (o, secondo altri, inserito negli archivi imperiali). D’Ors, Martin 1979, 124 ss., hanno sostenuto infatti che erano le copie dei rescritti che venivano propositae (nel senso, da loro ipotizzato, che erano oggetto di consultazione) in una parete del portico delle Terme di Traiano. Sulla stessa linea si muove l’indagine di Nörr 1981 = 2005, 1327 s., secondo cui l’originale del libellus, e la relativa subscriptio, sarebbero andati all’archivio, mentre soltanto una copia formasse oggetto di propositio. Sul punto cfr. da ultimo Marotta 1988, 30 ss.; Sperandio 2005, 84 ss. 140 Su descriptum et recognitum vedi Williams 1976b, 236; Morgues 1995; Purpura 1999, 194. 141 Il liber libellorum non può essere che una specificazione dei commentarii degli imperatori precedenti: in questo senso già von Premerstein 1900, 741; von Premerstein 1926b, 42; ma vedi le osservazioni di Marotta 1992, 135 ss. 142 Per Sperandio 2005, 84 s. (ma già per Mourgues 1998, 138 ss.) dovevano esistere archivi distinti per i vari tipi di constitutiones. Questo spiegherebbe anche la diversità delle sigle: pp., d., ecc. 143 Sull’ubicazione del luogo dell’affissione vedi Forma urbis Romae 2006, 190 s., che l’identifica negli uffici della praefectura urbana, che avevano luogo, appunto, nel portico delle Terme traianee, così come il portico del Foro di Augusto era funzionale alla propositio dell’editto del pretore urbano, il cui originale doveva essere probabilmente conservato in uno degli emicicli forensi. Anche in questo caso il dato storico coinciderebbe con l’evidenza archeologica, vista la particolare configurazione architettonica dell’esedra delle terme traianee. La tesi era stata già avanzata da Mommsen 1905, 18, poi da Samonati 1942, 805 ed ora anche da Honoré 1994, 46. Sul punto cfr. anche Cavallo 1989a, 720.

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L’opera. Profili e temi mandatorum cui sembrano accennare Ulp. 45 ad ed., D. 29.1.1pr.; Marcian. 2 de iud. publ., D. 48.3.6.1; forse Pomp. 4 ad Sab., D. 48.22.1144, ma forse anche un ipotetico liber imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum, che riecheggia il titolo dell’omonima opera di Paolo (ammesso, pur senza alcuna prova, che il giurista abbia attinto anch’egli da un archivio particolare contenente solo sententiae imperiali)145. 6. Il metodo di lavoro Vediamo allora qual era il metodo seguito da Papirio Giusto per citare i rescritti che egli aveva modo di consultare. Certamente non possiamo ignorare la difficoltà derivante dal fatto che ci troviamo davanti ad appena 18 frammenti escerpiti dai giustinianei, e perciò non è dato modo di sapere se nell’opera di Papirio ne fossero contenuti molti di più. E però un indizio molto forte è dato dall’ampiezza dell’opera (20 libri), che fa pensare ad una raccolta di un considerevole numero di costituzioni. I rescritti citati, in numero di 45 (o di 44 se si accetta la tesi che D. 49.1.21.2 = L. 8 sia il seguito del rescritto precedente)146, usano tutti il riferimento iniziale imperatores Marcus et Verus rescripserunt (D. 2.14.37 = L. 13; D. 39.4.7pr. = L. 9; D. 42.1.35 = L. 10; D. 42.7.4 = L. 6; D. 49.1.21pr. = L. 8; D. 50.1.38.2 = L. 11; D. 50.1.38.6 = L. 11; D. 50.8.11pr. = L. 14; D. 50.8.12pr. = L. 15; D. 50.8.13 = L. 16; D. 50.12.13pr. = L. 17) o imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt (D. 8.2.14 = L. 1; D. 8.3.17 = L. 2; D. 18.1.71 = L. 3; D. 42.5.30 = L. 5; D. 42.7.4 = L. 6; D. 48.12.3pr. = L. 4; D. 48.16.18pr. = L. 7; D. 50.1.38pr. = L. 11; D. 50.2.13pr. = L. 12; D. 50.12.13pr. = L. 16)147, o ancora item rescripserunt148 (D. 8.3.17 = L. 2; D. 39.4.7.1 = L. 9; D. 48.12.3.2 = L. 4; D. 48.16.18.1 = L. 7; D. 48.16.18.2 = L. 7; D. 50.1.38.1 = L. 11; D. 50.1.38.3 = L. 11; D. 50.1.38.4 = L. 11; D. 50.1.38.5 = L. 11; D. 50.2.13.1 = L. 12; D. 50.2.13.2 = L. 12; D. 50.2.13.3 = L. 12; D. 50.8.11.1 = L. 14; D. 50.8.11.2 = L. 14; D. 50.8.12.1 = L. 15; D. 50.8.12.2 = L. 15; D. 50.8.12.3 = L. 15; D. 50.8.12.4 L. 15; D. 50.8.12.5 = L. 15; D. 50.8.12.6 = L. 15; D. 50.12.13.1 = L. 17) e idem rescripserunt (D. 48.12.3.1 = L. 4; D. 49.1.21.1 = L. 8; D. 49.1.21.3 = L. 8). In un caso è riportato solo il nome dell’imperatore Marco Aurelio: imperator Antoninus rescripsit (D. 2.14.60 = L. 18), mentre in un altro non c’è il nome di nessun imperatore (D. 49.1.21.2 = L. 8). Di un qualche interesse può essere il fatto149 che i nomi degli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero non vengono abbreviati nell’espressione divi fratres, con la quale generalmente

144 Secondo la ricostruzione di questo testo fatta da De Francisci 1967, 207 nt. 59. Sul liber mandatorum vedi Dell’Oro 1960b, 73 ss. il quale tuttavia tende a negare che prima di Giustiniano si possa parlare di un liber mandatorum centralizzato, ma si debba piuttosto pensare a libri in possesso dei singoli funzionari provinciali. In questo senso pure Marotta 1992, 141. In senso favorevole invece Coriat 1990, 231. 145 Ad un archivio specifico per i decreta imperiali pensava già Wenger 1953, 440 nt. 152, ed ora Coriat 1990, 231. 146 Arcaria 2003, 133 ss. 147 In Pap. Iust. 1 de const., D. 8.2.14 (= L. 1) appare erroneamente il riferimento a Severus, ma, come osserva Franciosi 1972, 152 nt. 6, non può che essere un errore dell’amanuense. 148 Il fatto che l’intestazione completa degli imperatori si trovi alternata con “item” ha fatto pensare (così già Berger 1949, 1060 s.) che i compilatori giustinianei abbiano sistemato insieme vari rescritti che originariamente dovevano essere più lunghi. 149 Già segnalato ai fini della datazione dell’opera (vedi supra, § 1).

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Nicola Palazzolo vengono indicati nelle citazioni dei giuristi150. Viceversa, nelle costituzioni raccolte nel Codex Iustinianus i nomi dei due imperatori sono, salve rare eccezioni, sempre indicati per intero (cioè col nome dell’autore della costituzione riportata preceduto da quello di imperator e seguito da quello di Augustus)151, e questo è un elemento di cui si dovrà tener conto in relazione ai rapporti con le compilazioni tardoantiche e giustinianee152. Più interessante è il fatto che, come si è già visto, in tre soli casi viene riportato il nome del destinatario della costituzione: Pap. Iust. 8 de const., D. 2.14.60 (= L. 18): Imperator Antoninus Avidio Cassio rescripsit; Pap. Iust. 1 de const., D. 18.1.71 (= L. 3): Imperatores Antoninus et Verus Augusti Sextio Vero in haec verba rescripserunt; Pap. Iust. 1 de const., D. 48.16.18pr. (= L. 7): Imperatores Antoninus et Verus Augusti Iulio Vero rescripserunt, cum satis diu litem traxisse dicetur, invito adversario non posse eum abolitionem accipere. Questa indicazione non costituisce certo una novità nella prassi delle citazioni giurisprudenziali di costituzioni imperiali153, ché anzi doveva probabilmente essere il modo più pratico (almeno sin quando non prevalse il metodo cronologico di archiviazione, in base alla data di emissione o di pubblicazione) per il reperimento dell’atto imperiale. Era questa una prassi già in uso nella cancelleria di Traiano, come possiamo rilevare da Plin. epist. 10.65.3: Recitabatur autem apud me edictum, quod dicebatur divi Augusti, ad Andaniam pertinens: recitatae et epistulae divi Vespasiani ad Lacedaemonios et divi Titi ad eosdem et Achaeos, et Domitiani ad Avidium Nigrum et Armenium Brocchum proconsules item ad Lacedaemonios [...]. Plin. epist. 10.66.2: Epistulae sane sunt Domitiani ad Avidium Nigrinum et Armenium Brocchum, quae fortasse debeant observari [...],

ma era una prassi che riguardava quasi sempre le epistulae, inviate a governatori provinciali o comunque funzionari imperiali. Fino a Traiano, infatti, anche in considerazione dello scarso numero di costituzioni dirette a privati154, le costituzioni di cui abbiamo notizia155 sono quasi

150 Vedi in questo senso Ulp. de excus., FV. 154; Ulp. de excus., FV. 168; Paul. lib. sing. de off. pr. tutel., FV. 245; Ulp. 24 ad ed., D. 25.4.1pr.; Ulp. 79 ad ed., D. 35.3.3.4; Ulp. 2 de off. cons., D. 40.12.27pr.; Ulp. 8 de off. proc., D. 48.18.1.27; Ulp. 14 ad ed., D. 49.1.14.1; Ulp. 4 app., D. 49.9.1; Ulp. 4 de off. proc., D. 50.4.6pr.; Ulp. 3 de off. cons., D. 50.12.8. Interessante è rilevare che, tra i giuristi della generazione successiva, è solo Papiniano che indica i divi fratres con l’appellativo fratres imperatores (Pap. 11 quaest., FV. 224; Pap. 36 quaest., D. 48.5.39.4-6; Pap. 2 quaest., D. 48.19.33; Marco Aurelio come imperator Marcus Antoninus (Pap. 10 resp., D. 20.2.1; Pap. 20 quaest., D. 22.1.3pr.; Pap. 19 quaest., D. 31.67.10; Pap. 19 quaest., D. 35.2.11.2; Pap. 28 quaest., D. 36.3.5.1), Marco e Commodo come imperatores Antoninus et Commodus (Tit. Ulp. 26.7; Macer 1 de publ. iud., D. 48.5.33(32)pr.; D. 48.5.39.8). 151 Cfr. Dell’Oro 1983, 203 ss. 152 Vedi infra, § 8. Sul problema vedi anche Sperandio 2005, 60 s. 153 Vedi già Volterra 1971, 939 ss. [= Volterra 1994,121 ss.]. 154 Delle varie costituzioni attribuite a Traiano (cfr. Gualandi 1963, I, 17 ss.) solo per poche è probabile che si tratti di rescritti: cfr. in tal senso già De Francisci 1967, 187 ss. L’ipotesi è confermata dalla notizia della Historia Augusta, dove, nella vita Macrini 13.1, si legge: [...] cum Traianus numquam libellis responderit, ne ad alias causas facta praeferentur quae ad gratiam composita viderentur. 155 Cfr. ancora Gualandi 1963, I, 17 ss.

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L’opera. Profili e temi sempre editti, o orationes principis, o mandati, o epistulae, mentre per pochissimi casi la costituzione è definita come rescriptum, ma trattasi quasi sempre, anche qui, di epistulae156. È solo a partire da Adriano che la fioritura di rescritti ed epistulae esplode, ed anche i giuristi, in un buon numero di casi, si preoccupano di determinare chi fosse il destinatario della costituzione157. In molti di questi casi viene specificata la carica, o comunque la qualifica (per esempio il nome della comunità) del destinatario stesso158, ed allora è facile concludere che si tratti di epistulae dirette a funzionari: sappiamo infatti che, a partire da Adriano, il quale si serviva di un’apposita cancelleria (ab epistulis, divisa nelle due sezioni ab epistulis graecis e ab epistulis latinis) era questa la forma usuale con la quale l’imperatore rispondeva alle richieste dei suoi funzionari. In altri casi invece (e per Marco Aurelio, da solo o in coreggenza, questo appare in modo assolutamente preponderante) viene indicato il nome del destinatario, ma non si riesce a determinare (a meno che dalla ricerca prosopografica non risulti che trattasi proprio di un funzionario, che ricopre una certa carica in quegli stessi anni)159, se trattasi di un funzionario o di un privato. E ciò anche perché – come si è visto – il verbo rescripsit, rescripserunt (o altra espressione equivalente) era spesso usato in modo generico, per indicare una qualunque risposta scritta. Non che sia comune, tuttavia, nelle citazioni di costituzioni da parte dei giuristi, trovare sempre il nome del destinatario160: nella maggior parte dei casi, infatti, il giurista si limitava all’indicazione di uno o più rescritti di un certo imperatore sull’argomento. Per quanto riguarda il principato di Marco Aurelio, ad esempio, su 357161 costituzioni citate nelle fonti giurisprudenziali, solo in 62162 viene indicato il destinatario, ed anche qui in vari casi si tratta non solo di epistulae ma di veri e propri decreta, o di generiche constitutiones163. Ma quando il destinatario veniva citato, egli veniva indicato quasi sempre al dativo (come nei tre casi dell’opera di Papirio Giusto) o all’accusativo preceduto da ad. Ed è questo, appunto, il modo in cui le costituzioni imperiali appaiono nelle raccolte di iura e di leges pregiustinianee e nei Co-

156 Sull’uso generalizzato del termine rescriptum e di tutte le forme del verbo rescribere vedi supra, § 3. È vero altresì che, per quanto riguarda le epistulae e i rescripta, essi, fino all’età di Traiano, presentavano un contenuto ben diverso da quello che sarà loro proprio a partire dall’epoca di Adriano. Sul punto già Volterra 1971, 845 [= Volterra 1994, 27]; Palazzolo 1974, 24 ss. 157 Dall’elenco del Gualandi rilevo trattarsi per Adriano di circa 28 costituzioni, per Antonino Pio di 56 costituzioni, per Marco Aurelio e Lucio Vero di 38 costituzioni, per Marco Aurelio da solo di 21 costituzioni, per Marco e Commodo di 3 costituzioni. 158 Per quanto può ricavarsi dal testo stesso delle costituzioni (quindi prescindendo da analisi prosopografiche, che condurrebbero certamente ad un risultato notevolmente più ampio) sembrerebbe trattarsi per Adriano di circa 16 costituzioni; per Antonino Pio di 12 costituzioni; per Marco Aurelio e Lucio Vero solo di 1 rescritto (quello al pretore urbano Valerio Prisciano, Ulp. 24 ad ed., D. 25.4.1pr.); mentre per Marco Aurelio da solo e per Marco e Commodo non si trova neppure una costituzione che conservi la carica del destinatario. 159 È quanto appunto rileva Franciosi 1972, 157 s., proprio in relazione a due rescritti contenuti nell’opera di Papirio Giusto, nei quali ricorre il nome del destinatario non seguito da nessuna carica, ma di cui è possibile ricostruire la carriera, e perciò anche la datazione della costituzione. 160 In molti casi l’indicazione potrebbe essere stata soppressa dai compilatori. 161 Il numero è tratto dallo spoglio effettuato da Arcaria 2003, 1 s. sottraendo dal numero complessivo di 363 le sei costituzioni contenute nel Codex Iustinianus. 162 Più precisamente, come si è già visto (cfr. supra nt. 157) si tratta di 38 costituzioni di Marco Aurelio e Lucio Vero, di 21 del solo Marco Aurelio, e di 3 di Marco Aurelio e Commodo. 163 Sono stati esclusi dal computo quelli che sono espressamente citati come edicta o come orationes principis.

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Nicola Palazzolo dici: al di là di piccole differenze, è costantemente indicato per esteso il nome o i nomi degli imperatori, e il nome del privato o del magistrato (o dell’ente o della popolazione) alle quali il principe si indirizza164. Ciò potrebbe far pensare, a prima vista, che proprio questo fosse il modo tipico di esprimersi dei testi originali delle costituzioni, così come emanate dalla cancelleria imperiale. Al contrario Volterra – a seguito di una ampia analisi sugli atti imperiali conosciuti fuori delle raccolte di costituzioni – ha messo in luce come risulti evidente che nella prassi non vi fosse uno schema costante e fisso per l’inizio dei vari provvedimenti imperiali, ma come anzi spesso si incontrino lunghissime e prolisse titolature del principe165, mentre in altri casi la citazione è più sintetica, ma pur sempre ben diversa dalle formule tipiche dei Codici166. In base a questa constatazione Volterra ha ritenuto che l’uniformazione delle citazioni fosse opera degli addetti agli archivi imperiali, i quali avrebbero trasformato il testo originario dell’inscriptio, riducendolo ad un modello standardizzato. A questi archivi avrebbero attinto sia i giuristi sia i compilatori dei Codici. Se adesso riportiamo quanto visto all’opera di Papirio Giusto, ci fa pensare non solo, come si è già visto, che Papirio Giusto avesse facilità di accesso all’archivio nel quale erano depositati gli atti imperiali167, ma che in questi venissero conservati, se non gli originali, quanto meno gli estratti contenenti le parti essenziali del rescritto: le cosiddette ‘formule protocollari’168 anzitutto, e cioè il nome o i nomi degli imperatori, quello dei destinatari, seguito, se si trattasse di un funzionario, dalla menzione della sua carica, e probabilmente anche la data, espressa mediante l’indicazione dei consoli, ma altresì il testo, forse integrale (ma su questo non abbiamo indizi precisi)169, della risposta imperiale al quesito propostogli. Quello che probabilmente non c’era era la richiesta che era stata formulata all’imperatore170 (il libellus del

164 Numerosissime sono le citazioni di rescritti imperiali fatte da giuristi, che riportano il nome dei destinatari: cfr. l’ampio elenco riportato da Volterra 1971, 939 ss. [= Volterra 1994, 121 ss.]. 165 Per Marco Aurelio e Lucio Vero Volterra 1971, 932 [= Volterra 1994, 114], ricorda, come esempio di prolissità, l’inscriptio di una costituzione conservata in un papiro (P. Würzburg IX.42-46). 166 Si veda per Marco Aurelio e Commodo l’inscriptio di un decreto del 176-180 (CIL VI.1016; Bruns 1909, nr. 85; FIRA 1941, nr. 83): Imp. Caesar M. Aurelius Antoninus Aug. Germanicus Sarmat. et imp. Caesar L. Aurelius Commodus Aug. Germanicus Sarmatic, su cui Volterra 1971, 932 [= Volterra 1994, 114]. 167 Così, ad esempio, Franciosi 1998, 243. Come si è cercato di dimostrare sopra (vedi supra, parte I), appare molto verosimile che Papirio Giusto sia stato magister libellorum (o comunque addetto alla cancelleria a libellis) come d’altronde altri giuristi prima o dopo Marco Aurelio (Iulius Celsus, Volusius Mecianus, Tarruntenus Paternus, e poi Papinianus, Paulus, Ulpianus, su cui vedi per tutti Schulz 1968, 191 ss.). 168 L’espressione è di Varvaro 2006, 7. 169 Dal confronto tra Ulp. 8 de off. proc., Coll. 11.7.1-5 e Ulp. 8 de off. proc., D. 47.14.1pr., si vede come il testo del rescritto, apparentemente testuale in entrambi i casi, sia stato in realtà riassunto (da Ulpiano o dai compilatori?). 170 C’è anche qui qualche eccezione: Ulp. 7 de off. proc., Coll. 1.11.1 riporta sia la consultatio che il rescriptum, mentre in Ulp. 7 de off. proc., D. 48.8.4.1 lo stesso Ulpiano riporta lo stesso rescritto in un riassunto estremamente stringato. Da ciò Gualandi 1963, II, 42 s. e Volterra 1971, 856 [= Volterra 1994, 38], argomentano che le raccolte ufficiali e gli archivi conservassero non solo le risposte degli imperatori, ma anche le consultationes dei funzionari a loro dirette, e che nel caso di risposte dirette ai privati, le domande di questi dovevano essere unite alle risposte del Principe. Sul punto anche De Francisci 1955, 185 s., a proposito degli apokrimata. Non mi pare invece che costituiscano una prova efficace i passi in cui il giurista riassume, con proprie parole, il caso proposto (vedi, ad esempio, Ulp. 4 fideicomm., D. 36.1.11.2, su cui Volterra 1971, 859 = Volterra 1994, 41).

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L’opera. Profili e temi privato o l’epistula del funzionario richiedente): il confronto tra le costituzioni pervenute al di fuori delle raccolte tardoantiche e giustinianee, nelle quali questo elemento è quasi sempre presente, e quelle pervenute attraverso i giuristi, ma anche attraverso le compilazioni tardoantiche e giustinianee, nelle quali invece è generalmente assente, potrebbe costituire una prova in tal senso. 7. La cosiddetta ‘massimazione’ delle costituzioni imperiali E veniamo al punto forse più controverso del rapporto relativo alle citazioni di costituzioni imperiali da parte dei giuristi, ed in particolare di Papirio Giusto. Edoardo Volterra, com’è noto, nel corso di svariati interventi, ma poi specialmente nell’ampio saggio sul problema del testo delle costituzioni imperiali, ha dimostrato, in maniera a mio avviso definitiva, mediante una mole ingente di documentazione, che il testo originario delle manifestazioni di volontà imperiali, nelle varie forme in cui esse si esprimevano (edicta, mandata, epistulae, rescripta, orationes principis) era ben diverso dal testo di quelle che noi chiamiamo col termine costituzioni imperiali, e che ci sono pervenute non solo attraverso i codici tardoantichi e giustinianei e le collezioni di iura e leges, ma anche attraverso le citazioni nelle opere dei giuristi. Le disposizioni originarie, infatti, dovevano essere molto più lunghe di quanto ci è stato trasmesso, perché dovevano contenere le motivazioni del provvedimento, i precedenti legislativi, e specialmente le preces degli interessati, in forma di epistula o di libellus, che dovevano far parte integrante del testo della disposizione originaria. I testi pervenutici attraverso iscrizioni o papiri presentano infatti tutti queste caratteristiche171. È in questo senso che il Volterra172 parla di un procedimento di ‘massimazione’173 operato sia dai compilatori dei codici che dai giuristi, i quali ultimi avrebbero estratto brani di varie costituzioni imperiali allo scopo di attribuire valore di norma generale o di principio giuridico a decisioni imperiali emanate per casi isolati e concreti. La tesi è stata più volte, e da vari profili criticata174, ma nella sostanza è stata fatta propria dalla gran parte della dottrina. Occorre però, a questo punto, fare un chiarimento, che proprio in riferimento a Papirio Giusto, appare risolutivo. Il termine ‘massimazione’ è in realtà ambiguo, perché, nella ricostruzione di Volterra, e poi della dottrina successiva, si riferisce a due cose ben diverse, e per nulla coincidenti né con riferimento agli autori, né all’epoca in cui sarebbe stata operata. C’è da un lato l’opera di ‘riduzione’ e di uniformazione delle inscriptiones e delle sub-

171 Importanti rilievi erano stati fatti su questo punto, già prima dell’opera principale di Volterra, da Amelotti 1960, 32 ss. 172 Volterra 1971, 854 e 1095 s. [= Volterra 1994, 36 e 277 s.]. 173 Sulla legittimità dell’uso di questo termine con riferimento alle fonti romane vedi Archi 1986, 162 s. 174 Specialmente Archi 1986, passim, ma già prima, con riferimento alle ricerche precedenti del Volterra, Amelotti 1960, 32 ss. Quanto a ciò che io stesso ho scritto in Palazzolo 1991, 111 s. (su cui ora Varvaro 2006, 33 s.), le critiche alla tesi di Edoardo Volterra si riferivano non tanto alla ‘massimazione’ in sé da parte dei giuristi (in merito alla quale si vedano le precisazioni di cui alle pagine che seguono), bensì alla tesi secondo cui i giuristi avrebbero finito per costruire “un sistema normativo unitario che si suole designare col nome di diritto e di legislazione imperiale”, il cosiddetto ius novum, che io continuo a ritenere essere solo “una creazione dottrinaria della romanistica della prima metà del nostro secolo”.

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Nicola Palazzolo scriptiones, nonché forse di eliminazione di quelle parti ritenute superflue ai fini della comprensione della fattispecie cui si applicava la disposizione imperiale. E c’è dall’altro tutto un lavoro di sunteggiatura, di riproposizione, con parole nuove, di un testo molto più lungo e complesso, allo scopo di individuarne il principio giuridico sottostante e la norma astratta di carattere generale. Si tratta di due attività ben distinte, che non possono esser messe sullo stesso piano, né relativamente agli autori di esse né all’epoca in cui sono state effettuate. La prima attività è quella di riduzione formale delle costituzioni, in modo da dar loro un carattere di uniformità, che esse all’inizio certamente non avevano. Basti pensare che – come si è visto – si trattava di atti formalmente molto diversi tra loro, come potevano essere gli edicta imperiali, o i mandata, o le epistulae a funzionari o le risposte in calce ai libelli dei privati. Per ridurre questi atti così diversi ad uno schema unico, nel quale ciascuno di essi, a qualunque tipologia appartenesse, veniva individuato mediante un’inscriptio, contenente il nome sintetico dell’imperatore e il destinatario (che poteva essere un privato, un funzionario con la carica rivestita, il popolo, o una comunità, secondo la diversa tipologia dell’atto), una subscriptio contenente la data, di emissione o di pubblicazione, del provvedimento, indicata mediante i nomi dei consoli di quell’anno, e forse anche un numero d’ordine del provvedimento, era necessaria un’attività che non possiamo a rigore definire neppure come ‘massimazione’, e che è da attribuire a coloro che ne curavano la conservazione negli archivi. Il gran numero di fonti addotto dal Volterra, che attesta come la tipologia uniforme delle inscriptiones che troviamo sia nelle raccolte tardoantiche che nei codici Gregoriano, Ermogeniano e Giustinianeo sia la stessa cui si rifanno anche le citazioni giurisprudenziali, credo dimostri in maniera inconfutabile che quest’opera di riduzione e di uniformazione veniva compiuta immediatamente, o subito dopo la pubblicazione (quando essa era necessaria), al momento della conservazione nell’archivio imperiale. Del tutto diversa è invece l’attività di sunteggiatura dei testi, di traduzione di decisioni concrete in regole astratte e principi generali applicabili in tutti i casi simili175. Questa non poteva che essere opera di giuristi176, di esperti cioè che avevano l’esigenza di motivare la bontà di un’interpretazione attraverso il richiamo di una disposizione normativa che non avevano necessità di riprodurre per esteso, ma solo nel principio giuridico da loro ricavato. È questa, d’altra parte, la funzione più nobile del giurista romano, frutto di quella ‘conquista dell’astrazione’177 che caratterizza l’interpretatio iuris in tutta la sua evoluzione da Quinto Mucio in poi. Quando veniva effettuata quest’opera di sunteggiatura da parte dei giuristi

175 Lo conferma il confronto tra i testi sunteggiati dai giuristi e il testo integrale esistente nei codici o nelle raccolte tardoantiche. La documentazione offerta al riguardo da Volterra 1971 [= Volterra 1994], è davvero imponente. 176 Secondo Volterra 1971, 924 [= Volterra 1994, 106], ma vedi già Amelotti 1960, 32 ss., probabilmente questo lavoro di massimazione veniva fatto nell’ambito della cancelleria imperiale. Io però sono convinto che qui venisse fatto solo il primo lavoro di riduzione degli elementi superflui, non il riassunto vero e proprio della disposizione normativa, tratto dal testo conservato negli archivi. Volterra 1971, 1097 [= Volterra 1994, 279] conclude la sua ricerca in maniera molto più sfumata, confessando che rimane aperto il problema se anche presso la cancelleria imperiale venisse fatta opera di riduzione e di sunteggiatura dei testi. Per parte mia ritengo, come già detto, che di riduzione si tratti, ma non di sunteggiatura. 177 La definizione è di Schiavone 2017, 190.

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L’opera. Profili e temi non è facile definire, anche perché, come è stato dimostrato, in molti casi i giuristi si rifanno nelle citazioni a modelli precedenti, ad opere cioè di altri giuristi che a loro volta avevano citato quei provvedimenti. È però chiaro che in entrambi i casi, o di citazioni dirette o di riproposizione di citazioni da altri giuristi, era questo certamente un lavoro “da giurista”, e non da addetto alla cancelleria imperiale. Se adesso riportiamo quanto accertato in termini generali ai problemi relativi ai 45 (o 44) rescritti citati da Papirio Giusto, non possiamo non rilevare come in essi siano comprovate entrambe le attività sopra individuate, da un lato i tagli e la riduzione dei testi originali, dall’altro il riassunto, con parole proprie, dei rescritti citati. Si è visto sopra come in tre costituzioni, D. 18.1.71 (L. 3), D. 48.12.3pr. e D. 48.12.3.1 (L. 4)178 Papirio Giusto riferisca in modo molto abbreviato il testo originale, il che dimostra che egli poteva accedere al deposito in cui essi venivano conservati e copiarne le parti ritenute interessanti. Naturalmente non riusciamo a sapere se il testo contenuto nel Digesto riportasse per intero quella parte del testo riferita da Papirio, o se invece sia stato ulteriormente ridotto dai compilatori giustinianei179, ma non riusciamo neppure, in mancanza di fonti dirette, a dire se, e in che misura, il testo contenuto nell’archivio, a cui Papirio attinge, sia stato da lui ridotto, o se addirittura, pur affermando di riferire le parole degli imperatori, egli in realtà non abbia fatto altro che riassumere con poche parole proprie la disposizione imperiale. In questo senso potrebbe forse deporre, insieme a vari altri, Pap. Iust. 1 de const., D. 48.12.3pr. (= L. 4): Imperatores Antoninus et Verus Augusti in haec verba rescripserunt: “Minime aequum est decuriones civibus suis frumentum vilius quam annona exigit vendere”180,

riguardo al quale potrebbe anche pensarsi che il rescritto riferito da Papirio in pochissime parole fosse niente più che un riassunto molto sintetico del testo originale, anche se la formula in haec verba rescripserunt è quella costantemente usata dai giuristi del Principato per rimarcare che essi riproducevano il testo originale del rescritto181. Sappiamo, d’altra parte, (e lo ha ben messo in luce il Gualandi)182 che vi sono moltissimi frammenti nei quali, sotto l’inscriptio di un giurista, è conservato solo il testo di una costituzione, senza che segua alcuna forma di

178 Lenel, ad h.l, a differenza delle edizioni critiche, separa il terzo dei rescritti contenuti nel frammento Pap. Iust. 1 de const., D. 48.12.3 (= L. 4), numerandolo come paragrafo 2. 179 A dimostrazione del lavoro compiuto prima dai giuristi e poi dai commissari giustinianei mi sembra interessante il confronto tra Pap. Iust. 1 de const., D. 48.12.3pr. (= L. 4), Marcian. 1 de iud. publ., D. 50.1.8 e Paul. 1 sent., D. 50.8.7(5)pr.: il primo frammento, di Papirio Giusto, riferisce testualmente (salvo quello che si dirà nella nota seguente) un rescritto dei divi fratres; il secondo, di Marciano, parla della stessa costituzione, ma con parole proprie; il terzo, di Paolo, riproduce il principio, con parole pressoché identiche, ma senza fare alcun riferimento al rescritto. Nello stesso senso va letto il confronto tra Pap. Iust. 1 de const., D. 49.1.21.1-2 (= L. 8) e la sua generalizzazione ulpianea in Ulp. 3 de off. cons., D. 49.10.1. In merito al problema se in Marcian. 1 de iud. publ., D. 50.1.8, il giurista abbia attinto da Papirio oppure da altre fonti (su cui Gualandi 1963, II, 76 s.; Volterra 1971, 962 ss. [= Volterra 1994, 144 ss.]; Franciosi 1972, 21; Varvaro 2006, 12 s.) si veda quanto si dirà più oltre. 180 Il dubbio se Papirio Giusto riporti in questo breve frammento solo un riassunto della disposizione imperiale, o se si tratti piuttosto di un estratto da una più ampia costituzione, è stato avanzato da Gualandi 1963, II, 76. 181 Vedi per tutti Volterra 1968, 216 [= Volterra 1993b, 166]. 182 Gualandi 1963, II, 61 s.

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Nicola Palazzolo commento183. Ciò accade perché i compilatori giustinianei tendono a non scorgere la differenza tra l’argomentazione del giurista e l’attività normativa imperiale cui i giuristi fanno riferimento. Gualandi cita come esempi Call. 5 de cogn., D. 4.2.13; Macer 2 publ. iud., D. 47.10.40; Paul. 9 resp., D. 26.5.24; Ulp. 1 de omn. trib., D. 1.15.4; Mod. 1 excus., D. 26.7.31, ma ve ne sono moltissimi altri. Quanti di questi testi che così si presentano siano stati amputati dai giustinianei non è dato sapere, ma questa non è che un’ulteriore conferma del modo di procedere, da giurista appunto, di Papirio Giusto. Tutti gli altri rescritti citati nella raccolta di costituzioni che va sotto il nome di Papirio Giusto sono riassunti con parole del giurista, secondo la migliore tradizione giurisprudenziale184. Papirio, in sostanza, conferisce alla decisione imperiale, emessa per un caso particolare, il valore di regola generale, anche oltre le intenzioni degli stessi imperatori. E tuttavia, se andiamo un po’ più in là nell’analisi dei testi di Papirio, ci accorgiamo che esiste una differenza di fondo tra le citazioni di Papirio Giusto e quelle degli altri giuristi. Mentre cioè nelle opere giurisprudenziali la citazione di una o più costituzioni imperiali viene fatta a sostegno di una tesi, di una interpretazione del giurista, allo scopo di dare a questa un sostegno normativo, in Papirio invece le citazioni delle costituzioni di Marco Aurelio e Lucio Vero (o del solo Marco Aurelio) si susseguono, una dopo l’altra, indipendentemente da qualunque ragionamento o argomentazione del giurista. Sembra proprio che Papirio non abbia, come gli altri giuristi, l’obiettivo di trarre un principio giuridico da una decisione particolare, ma solo quello di riferire sinteticamente le decisioni degli imperatori su un determinato argomento185. Come osserva giustamente Gennaro Franciosi186, “la volontà imperiale non si cala nella dialettica del caso concreto, ma resta da questa avulsa, e per così dire cristallizzata”. È questo probabilmente il punto più delicato (e più difficile da risolvere allo stato attuale della documentazione) in ordine alla natura dell’opera di Papirio Giusto e alla stessa qualificazione del suo autore. Ed è questa la ragione per cui, ad esempio, Eduard Huschke187 (seguito da Mariano Scarlata Fazio188) riteneva che Papirio non fosse un giurista, ma solo un funzionario addetto agli archivi imperiali. L’ipotesi è stata poi sviluppata da Fritz Schulz, il quale arrivava a dichiarare che “un giurista classico avrebbe considerato la semplice riproduzione di minute ufficiali come lavoro da subalterni”189. Al di là dell’affermazione liquidatoria di Schulz, alla quale è facile rispondere che non è affatto detto che nella stessa persona non possano integrarsi le due diverse funzioni (e questo, come si è cercato di dimostrare più su, è proprio il caso di Papirio Giusto), quello che appare dai frammenti dell’opera pervenutici è tutt’altro che una “semplice riproduzione di minute ufficiali”, quanto piuttosto quella che

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Gualandi 1963, II, 61 s. Palazzolo 1998, 281 ss. 185 Sul punto Franciosi 1972, 171 s., specie in confronto all’opera di Paolo libri decretorum 186 Franciosi 1972, 172. 187 Huschke 1867, 327. La tesi dell’Huschke era stata già messa in dubbio da Krüger 1912, 191. 188 Scarlata Fazio 1939a, 419. 189 Schulz 1968, 268 s. Per questo Schulz ritiene che Papirio Giusto sia un funzionario degli archivi, probabilmente quel Papirio Dionisio, che fu a libellis e a cognitionibus sotto Marco Aurelio, e che poi fu detto Iustus dopo essere stato giustiziato da Commodo (268 s. e nt.8). Come si è visto sopra in ordine alla biografia di Papirio Giusto (vedi supra parte I), se c’è stato un errore da parte di Schulz, questo è stato semmai nel non aver avuto il coraggio di andare fino in fondo nell’ipotesi da lui prospettata. 184

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L’opera. Profili e temi appare come la precipua attività del giurista, la capacità cioè di esprimere con parole proprie il nucleo essenziale del rescritto imperiale coordinandolo con le altre costituzioni sullo stesso argomento. Ed è questo il motivo per il quale oggi da parte di vari studiosi si tenda a vedere nell’opera di Papirio Giusto lo stesso intento che, poco più di un secolo dopo, mosse gli autori dei Codici Gregoriano ed Ermogeniano, cioè la mera raccolta di costituzioni, senza alcun apporto di tipo giurisprudenziale190. Su quest’ultimo aspetto avremo modo di ragionare tra poco. E comunque, resta il fatto, inconfutabile, che i compilatori giustinianei hanno compreso l’opera di Papirio Giusto tra gli iura, e non tra le leges, e quindi come il prodotto di un giurista, anziché una raccolta di costituzioni imperiali. 8. I libri de constitutionibus di Papirio e le raccolte tardoantiche di costituzioni imperiali Nell’analisi sin qui condotta abbiamo raccolto alcuni elementi che ci consentono adesso di affrontare il problema dei rapporti tra l’opera di Papirio Giusto e le opere tardoantiche che raccolgono brani di costituzioni imperiali (essenzialmente i Codici Gregoriano ed Ermogeniano). Vi sono infatti, come si è visto, notevoli elementi di somiglianza, insieme ad altri di diversità. Vediamoli tutti in un quadro sintetico: 1. anzitutto il titolo, constitutiones, assente in qualunque altra opera della giurisprudenza del Principato, ma del tutto simile, se non identico, a quelli costruiti dai commissari giustinianei per i Digesta (de constitutionibus principum) e per il Codex (de legibus et constitutionibus principum et edictis), ma risalenti quasi certamente ai codici pregiustinianei; 2. l’assenza di altre raccolte di costituzioni imperiali per tutto il periodo della giurisprudenza del Principato: le uniche opere che a questa sembrano avvicinarsi sono quelle di Paolo, decretorum libri tres e imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum, che, a parte altri dubbi sulla loro composizione, presentano contenuti profondamente diversi dall’opera di Papirio Giusto; 3. la standardizzazione del nome degli imperatori e del destinatario nei rescritti di Papirio Giusto che recano queste indicazioni, e la maniera assolutamente identica in cui le costituzioni imperiali sono indicate sia nei Codici che nelle raccolte di iura e di leges, che potrebbe far pensare, nell’uno e nell’altro caso, ad un prelievo da un archivio nel quale gli interventi imperiali si trovavano già sfrondati di tutti gli elementi ritenuti non indispensabili ai fini dell’individuazione della costituzione; 4. la differenza di fondo tra le citazioni di Papirio Giusto e quelle degli altri giuristi. Mentre questi hanno l’obiettivo di rafforzare le loro tesi mediante il supporto di un’interpretazione autorevole, Papirio Giusto vuole solo riferire la normativa imperiale su un dato argomento, senza alcun apporto critico personale; 5. la somiglianza formale con le citazioni presenti nei Codici Gregoriano ed Ermogeniano. Questi hanno la funzione di raccogliere provvedimenti imperiali, mentre è del tutto

190

Vedi per tutti Wenger 1953, 510; Berger 1949, 1060; Volterra 1968, 223 [= Volterra 1993b, 173].

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Nicola Palazzolo estraneo ai loro compilatori l’obiettivo di svolgere una argomentazione di tipo giurisprudenziale; 6. il differente metodo di lavoro di Papirio Giusto rispetto alle costituzioni contenute nel Codice Giustinianeo (e probabilmente quindi anche nel Gregoriano e nell’Ermogeniano). Mentre in questi le costituzioni imperiali, sia pure opportunamente tagliate, riportano comunque, magari in estratto, il testo originale, in Papirio Giusto, tranne in tre casi, viene riportato solo un riassunto della costituzione, che viene ridotta ad una “massima”; 7. la collocazione dell’opera di Papirio Giusto, da parte dei compilatori giustinianei, tra gli iura e non tra le raccolte di costituzioni. Nonostante l’imprecisione della citazione nell’Index Florentinus, riceve qui un crisma di ufficialità la natura giurisprudenziale dell’opera, mentre al contrario i codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano sono espressamente menzionati nelle costituzioni introduttive Haec quae necessario e Summa rei publicae quali fonti delle costituzioni contenute nel Codex Iustinianus. Sono tutti questi elementi che costringono gli studiosi a ripensare profondamente tutta la problematica relativa alle raccolte pregiustinianee di provvedimenti imperiali. Partiamo perciò dal rapporto che in età imperiale viene ad instaurarsi tra giuristi e constitutiones principum, e più in particolare dal modo di citare i provvedimenti imperiali da parte dei giuristi. Com’è a tutti noto191, per tutta l’età del Principato il ruolo di divulgazione delle costituzioni imperiali, sia ai fini scientifici che pratici, fu svolto dai giuristi. Erano essi che, un po’ per il facile accesso agli archivi imperiali, connesso alle funzioni burocratiche svolte, un po’ per effetto della conoscenza che ne avevano dall’uso quotidiano della pratica forense, erano divenuti dei raccoglitori attenti di costituzioni emanate per i più vari casi, che mettevano a disposizione non solo degli studiosi ma anche della pratica. Non sempre essi avevano il testo originale delle disposizioni (che pur in molti casi dovevano pur avere sottomano), né si preoccupavano di riprodurlo sempre testualmente nelle loro opere: in gran parte dei casi si limitavano generalmente a ricavarne una ‘massima’, un principio giuridico che potesse giustificare la soluzione che il giurista dava al problema. Ed in effetti, per lo scopo cui serviva la raccolta delle decisioni imperiali da parte dei giuristi, ciò era più che sufficiente: ai fini della recitatio in giudizio di brani delle costituzioni192 non era necessario esibire l’originale della costituzione; nella generalità dei casi ciò che si esibiva era proprio la citazione dell’opera di un giurista che riferiva il contenuto di una costituzione, ed il giudice ne teneva conto fintantoché si convincesse che l’autorità del giurista e la complessiva ragionevolezza della soluzione era tale da credere all’autenticità del precedente. In realtà tutto il processo dell’età del Principato, come sappiamo, sia dell’ordo che della cognitio, si basa ancora più sul principio del-

191 Vedi per tutti Palazzolo 1977, 44 ss. Sul punto la dottrina è unanime: vedi la bibliografia in Palazzolo 1977, 44 nt. 147. Schiavone 2017, 380 ss. parla a questo proposito di un “sapiente compromesso che, a partire dall’età di Labeone, i giuristi seppero stringere con il nuovo potere, scambiandosi un reciproco avallo: riconoscimento del proprio ruolo in cambio della piena accettazione del rilievo costituzionale del principe e della sua sempre più accentuata presenza di legislatore”. 192 Sulla prassi della recitatio nell’età del Principato, sia di brani di giuristi che di costituzioni imperiali vedi Williams 1974, 90 s.; Cannata 1962, 76 s.; Voci 1985, 290; Archi 1990c, 179 ss.; Marotta 2007, 1644 s.; Marotta 2012, 357 ss.

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L’opera. Profili e temi l’autorevolezza di testes e testimonia che non su quello della documentazione per alligata et probata193. Ciò spiega perché nelle opere dei giuristi del Principato molte costituzioni sono riassunte, accorciate, riunite. Non esisteva un problema di autenticità. Lo scopo del giurista era uno scopo pratico, non uno scopo codificatorio. Non si pretendeva di compilare una raccolta di decisioni imperiali il cui testo fosse certificato come autentico, ma una serie di precedenti, di exempla194, che potessero servire per gli usi della pratica, e per i quali quindi era il contenuto, non il testo a dover essere autentico. Il giurista garantiva egli stesso dell’autenticità del contenuto, faceva fede la sua parola. Se questo è il modo di operare dei giuristi sin dall’inizio del Principato, dopo il riordinamento dell’editto pretorio, ed in generale a seguito delle riforme adrianee, qualcosa comincia a cambiare. Mentre i giuristi della generazione precedente generalmente riferivano il rescritto o il decreto imperiale come una ratio decidendi, con la stessa autorità e con lo stesso valore di una massima tratta dai responsi dei giuristi, che cioè deve essere utilizzata e verificata, e per ciò stesso può anche esser messa in discussione195, a partire dalla metà del II secolo comincia ad emergere una visione dell’intervento imperiale non più come una mera interpretazione del ius, così come quelle giurisprudenziali, che sta sullo stesso piano di queste, e che, come queste, può essere anche contradetta. Il famosissimo brano di Giuliano (Iul. 90 dig., D. 1.3.11: et ideo de his, quae primo constituuntur, aut interpretatione aut constitutione optimi principis certius statuendum est) ci fornisce, se non la prova decisiva, quanto meno un indizio che interpretatio e constitutio sono due cose sostanzialmente diverse: non si tratta in entrambi i casi di un’attività interpretativa, la cui differenza sta solo nella diversa autorevolezza dell’interprete, bensì di due modi diversi attraverso i quali è possibile procedere alle eventuali integrazioni dell’ordinamento: l’uno è quello tradizionale e tipico dei giuristi, di ricavare dall’insieme del “sistema” la norma da applicare, l’altro quello di dare una soluzione autoritativa che chiude la questione discussa196. In sostanza, si tende, se non ancora ad una gerarchia delle fonti197, ad una graduazione dell’autorevolezza della soluzione: questa dipende ormai solo dall’esplicazione del potere sovrano, e non più dall’auctoritas del giurista che la fa propria198.

193 Fa fede in proposito il famoso brano di Pomponio sullo ius respondendi (Pomp. lib. sing. ench., D. 1.2.2.49: neque responsa utique signata dabant, sed plerumque iudicibus ipsi scribebant, aut testabantur qui illos consulebant). 194 Sul valore di exemplum che hanno i rescritti imperiali, e perciò sulla preferenza che in tutto il periodo del Principato gli imperatori mostravano verso questo tipo di costituzione, rispetto ad altri strumenti come gli edicta, rinvio a quanto scrivono Amelotti 1960, 29 ss. e Nörr 1981, 39 s., su cui poi Spagnuolo Vigorita 1992, 112. Sugli exempla litterarum cfr. Dell’Oro 1960b, 90 ss. e Palazzolo 1974, 220 ss. 195 Delle discussioni tra i giuristi anche nei confronti delle costituzioni imperiali vi sono molte tracce nelle fonti: si vedano Gai. 2.280; Ulp. 8 disp., D. 48.1.5; Ulp. 5 fideicomm., D. 35.1.92 (sui quali vedi in particolare Bretone 1991, 230 s.). Ma si può notare anche l’inverso: in Ulp. 10 ad leg. Iul. et Pap., D. 37.14.17pr. l’opinione di Volucio Meciano, dapprima pedissequamente fedele all’interpretazione imperiale, pur non condividendola, conduce poi l’imperatore nel consilium ad una diversa soluzione (Palazzolo 1998, 267). 196 Il frammento di Giuliano va messo in relazione con ciò che dello stesso Giuliano dice Giustiniano nella co. Tanta 18: [...] cum et ipse Iulianus legum et edicti perpetui subtilissimus conditor in suis libris hoc rettulit, ut, si quid imperfectum inveniatur, ab imperiali sanctione hoc repleatur. Vedi sul punto, con particolare riferimento alle modifiche imperiali al testo dell’Editto perpetuo, Palazzolo 1998, 269. 197 Cerami 1987a, 56 e 201 ss.; Palazzolo 1998, 272. 198 Così, ad esempio, Vacca 1989, 135.

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Nicola Palazzolo L’opera di Papirio Giusto si innesta proprio in questa fase cruciale del sistema delle fonti del diritto. C’è nella scelta di redigere una raccolta delle costituzioni imperiali degli imperatori del suo tempo una volontà di prendere le distanze dalla prassi, comune presso tutti gli altri giuristi, di partire da una problematica concreta199, ricostruendo la normativa vigente attraverso le opinioni dei giuristi precedenti e gli eventuali interventi imperiali. Al contrario c’è qui l’affermazione del primato della norma imperiale200, di cui si offre uno spaccato, non sappiamo quanto completo, ma certamente molto ampio, che potesse servire per la pratica dei tribunali. C’è insomma un completo rovesciamento di prospettiva rispetto alla prassi corrente delle opere giurisprudenziali, e di questo Papirio Giusto doveva essere ben consapevole, così come certamente lo erano i giuristi della generazione successiva, che ne trasmisero l’opera fino all’epoca giustinianea. Accanto a questo elemento di assoluta novità, che costituisce una svolta nella prassi giurisprudenziale, sta però la tecnica utilizzata da Papirio Giusto nella citazione delle disposizioni imperiali. Questa è la stessa utilizzata dai giuristi del suo tempo: tranne in pochi casi, in cui vengono riferite, in misura più o meno ampia, le stesse parole del rescritto imperiale, la tecnica utilizzata è quella di sintetizzare, con proprie parole, il contenuto della disposizione imperiale, sino a ridurla ad una ‘massima’, ad un principio giuridico utilizzabile per tutti i casi simili. E questo, come si è visto, è certamente l’elemento che definisce Papirio Giusto come giurista, e non come semplice raccoglitore della produzione imperiale, ed è l’elemento che ha fatto sì che i compilatori giustinianei collocassero l’opera di Papirio tra gli iura e non tra le leges. Era questa una tecnica che i giuristi del suo tempo (ma già dall’epoca adrianea)201 utilizzavano tutte le volte in cui non sembrava utile citare brani testuali della costituzione. Senonché, a differenza delle opere degli altri giuristi a lui contemporanei, nei quali gli interventi imperiali vengono citati a supporto di una tesi del giurista, che ricava appunto dalla costituzione imperiale la soluzione da applicare alla fattispecie trattata202, nel caso di Papirio di tutto questo non c’è traccia, e le citazioni vengono a susseguirsi in maniera del tutto indipendente da problemi pratici o teorici. Il solo scopo che appare è quello di formulare le massime giuridiche che possono trarsi da quelle203. Ciò significa che, come è stato lucidamente messo in luce204, nel modo di citare di Papirio Giusto l’aspetto più interessante è proprio quello per cui è stato finora svalutato: cioè il fatto che egli non faccia alcun commento alle costituzioni. Egli perciò acquista un posto di rilievo nella storia del passaggio dalla concezione giurisprudenziale a quella legislativa del diritto, in quella fase in cui il rescritto tende ad avvicinarsi alla lex generalis.

199 Sul metodo casistico sono fondamentali le pagine che vi hanno dedicato Horak 1969, Horak 1983, 67 ss.; e Vacca 1969, 107 ss. 200 Licandro, Palazzolo 2019, 422. 201 Le prime testimonianze di questa tecnica le troviamo in Celso (Cels. 30 dig., D. 22.3.13) e in Giuliano (Iul. 64 dig., D. 4.2.18) su cui Gualandi 1963, II, 13 ss. 202 Questo è il metodo riscontrabile anche nelle altre opere dell’età del Principato che raccolgono provvedimenti imperiali: (Modestinus de excusationibus e Pauli decretorum libri tres). Sul punto vedi Volterra 1971, 966 s. e 981 s. [= Volterra 1994, 148 s. e 163 s.]. 203 Volterra 1971, 965 [= Volterra 1994, 147]. 204 De Giovanni 2007a, 693.

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L’opera. Profili e temi In questa prospettiva, anche quello che da parte di molti studiosi è stato individuato come uno dei problemi storiografici più notevoli, cioè il fatto che l’opera di Papirio Giusto non venga menzionata da nessuno dei giuristi del periodo successivo205, riceve la più semplice delle spiegazioni: ciò accade appunto perché nelle citazioni dei rescritti di Marco Aurelio che i giuristi trovano nell’opera di Papirio non c’è alcun apporto originale del giurista, e perciò è sufficiente citare la costituzione e il suo autore, magari il destinatario quando è indicato, ed il contenuto così come Papirio lo ha espresso, mentre non avrebbe alcun senso citare il nome di un giurista che agli occhi di uno scrittore successivo non aggiunge nulla alla citazione dell’intervento imperiale. Ma il processo messo in moto dalle riforme adrianee andava già più avanti. Con i giuristi della generazione successiva comincia infatti ad affacciarsi qualcosa di diverso. In Ulpiano troviamo un’accentuazione del rapporto tra constitutio e lex206: Ulp. 1 inst., D. 1.4.1.1: Quodcumque igitur imperator per epistulam et subscriptionem statuit vel cognoscens decrevit vel de plano interlocutus est vel edicto praecepit, legem esse constat. Haec sunt quas vulgo constitutiones appellamus.

Ancora più stretto è in Papiniano (Pap. 1 def., D. 1.3.1) e in Marciano (Marcian. 1 inst., D. 1.3.2) il tentativo di affermare l’equiparazione della constitutio alla lex. Anche se l’affermazione viene fatta in un contesto di valori estranei alla tradizione giuridica207, è questo l’unico espediente attraverso il quale la concezione autocratica del potere, che in quest’epoca si affaccia, può far valere l’assimilazione concettuale, e non più solo di effetti, tra constitutio e lex. Al di là delle definizioni, non si può negare che nei giuristi dell’ultima età imperiale l’atteggiamento complessivo nei confronti delle costituzioni imperiali sia mutato rispetto a quello delle generazioni precedenti. Adesso i rescritti e i decreti vengono citati dai giuristi ad indicare lo ius che consta: hoc iure utimur; ius esse constat, per lo più senza riferire le opinioni di altri giuristi. I giuristi, in sostanza, si adeguano alla nuova realtà istituzionale, ed il loro modo di rapportarsi a questo tipo di produzione imperiale è profondamente diverso da quello in cui l’attività imperiale è meramente interpretativa. Ciò che viene messo in luce dal giurista che cita la costituzione non è più la ratio iuris che giustifica un’eventuale interpretazione estensiva della norma, ratio che il giurista fa propria e che viene ulteriormente confermata dalla costituzione imperiale. Al contrario l’innovazione è giustificata direttamente dall’autorità imperiale208. Come rilevava Callistrato (Callistr. 6 de cogn., D. 48.19.28.7), eum enim leges omnibus aequaliter securitatem tribuunt, merito visum est: la legislazione imperiale è quella che è in grado di assicurare a tutti parità di trattamento.

205 Volterra 1971, 964 [= Volterra 1994, 146], afferma che la ragione sta nel fatto che i giuristi successivi, anche quando citano gli stessi rescritti che cita Papirio, hanno conosciuto questi rescritti da altre fonti. A me sembra invece che, come spiego nel testo, essi non avevano alcun motivo di citare Papirio Giusto. 206 In realtà non c’è una vera svolta rispetto a Gaio: c’è solo un portare alle estreme conseguenze sul piano terminologico (legis habet vigorem anziché legis vicem optinet) la giustificazione di Gaio. Ma il quadro di riferimento è sempre lo stesso: anche Ulpiano parla di trahere ad exemplum, e quindi di un’efficacia soltanto come precedente autorevole delle costituzioni imperiali. Cfr. già Licandro, Palazzolo 2019, 299. 207 Sui due brani di Papiniano e di Marciano vedi ora Stolfi 2004, 441 ss. 208 Non è un caso che in queste ipotesi non venga mai citata di rincalzo l’opinione di un giurista precedente.

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Nicola Palazzolo Senonché, tra la compilazione di Papirio Giusto e quella dei due codici di età dioclezianea corre almeno un secolo, e perciò è lecito chiedersi se nelle fonti sia rimasta traccia delle altre raccolte di constitutiones che in questo lungo scorcio di tempo devono essersi succedute. Com’è noto, infatti, una parte della dottrina ha ipotizzato, non soltanto in via congetturale ma con argomentazioni fondate in particolare sulle raccolte tardoantiche di iura e di leges, che collezioni private di costituzioni, per lo più per uso forense, dovessero esistere, e che esse fossero conosciute dall’autore del Gregorianus209. Le testimonianze addotte in favore di questa tesi non appaiono tuttavia decisive210, anche se l’asserzione liquidatoria di Schulz (“Non sono note altre collezioni e probabilmente non esistevano. Fu solo dopo la completa vittoria della burocrazia sotto Diocleziano che i rescritti cominciarono ad essere codificati”)211 non appare coerente con l’evoluzione progressiva della crisi del III secolo, e specialmente con la continuità, riconosciuta ormai da gran parte della dottrina, della pratica dei rescritti imperiali e quindi dell’esigenza di un’opera di raccolta di questi ad uso dei tribunali. Questo è il clima che si respira alla fine dell’età del Principato. Ma c’è un altro elemento che bisogna prendere in considerazione allo scopo di mettere a fuoco compiutamente il periodo che è stato chiamato ‘epiclassico’, cioè quello del III secolo, che si conclude con le grandi riforme di Diocleziano. È stato messo in luce come in quest’epoca il degrado della moralità pubblica, potenziato dalla confusione legislativa e dalla legislazione caotica, che rendeva sempre più incerta la conoscenza del diritto, e dalla presenza, ormai non più costante ma sempre più sporadica, dei giuristi all’interno della macchina statale, richiedessero provvedimenti che in qualche modo tamponassero il fenomeno. Per rimanere nell’ambito di cui ci occupiamo, quello dell’amministrazione della giustizia, ci si avvede che tutto il principio su cui si basava il sistema probatorio del Principato, di poter utilizzare i rescritti imperiali come precedenti per casi analoghi, si reggeva su una circolazione diffusa di copie, o estratti, se non addirittura di massime, di questi rescritti, la cui autenticità e fedeltà all’originale nessuno poteva garantire con sicurezza212. Nel suo progetto di riorganizzazione dell’apparato statale, Diocleziano non poteva trascurare perciò quello che appariva come un fenomeno dilagante ed estremamente pericoloso: la prassi della recitatio in giudizio di copie o di estratti di rescritti imperiali aveva fatto sì che circolassero rescritti non autentici, che nelle mani di avvocati spregiudicati potevano dar luogo a giudizi falsati o comunque non conformi a certezza del diritto. La risposta di Diocleziano al preside della provincia di Fenicia dà la conferma della volontà dell’imperatore di stroncare quel fenomeno, impedendo che insinuentur in giudizio rescripta che non fossero quelli originali, sottoscritti dallo stesso imperatore:

209

Wolff 1952, 128 ss. Sulla tesi di Wolff ampia analisi di Sperandio 2005, 95 ss., con bibliografia. Si veda specialmente Purpura 1992b, 675 ss.; Sperandio 2005, 106 ss. 211 Schulz 1968, 269. 212 Già dall’epistola di Plinio a Traiano (epist. 10.65) e dalla risposta di Traiano (epist. 10.66) deduciamo che, mentre negli archivi imperiali di Roma le costituzioni erano archiviate correttamente, nelle province circolavano copie che non presentavano alcuna garanzia. E tuttavia, come osserva giustamente Nasti 2006, 155 nt. 105, “il contesto narrativo dell’epistula pliniana, benché contenga un riferimento alla produzione di editti ed epistulae di dubbia autenticità, è estraneo al problema di disciplinare il reato di falso”. Sul problema dell’autenticità delle citazioni nei processi, anche con riferimento a quanto ricaviamo da Plinio, vedi ora Marotta 2012, in particolare 358 nt. 8. 210

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L’opera. Profili e temi C. 1.23.3 (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Crispino praesidi provinciae Phoenice): Sancimus, ut authentica ipsa atque originalia rescripta et nostra manu subscripta, non exempla eorum, insinuentur (a. 292 d.C.).

Ciò non vuol dire certo che Diocleziano si proponesse col suo intervento di scoraggiare le raccolte di exempla di costituzioni imperiali, che in questo periodo dovevano avere un particolare successo. Anzi, la circolazione degli exempla constitutionum in età dioclezianea e in quella immediatamente precedente doveva essere, come si è visto, ben più vasta di quel che i pochi resti di costituzioni che portano quell’indicazione sembrano mostrarci213; C. 1.23.3, sotto questo profilo, con la sua contrapposizione tra authentica ipsa atque originalia rescripta ed exempla eorum è il segno dell’ampiezza di un fenomeno che le scarse fonti non possono occultare214. Diocleziano non voleva impedire la citazione in giudizio delle opere dei grandi giuristi del Principato e quindi delle costituzioni da loro citate, bensì di utilizzare le copie di essi come atti ufficiali introduttivi nel giudizio, quelli che nelle fonti vengono indicati con le espressioni allegare o insinuare rescriptum, in un processo del tutto nuovo, quello per rescriptum, le cui origini risalgono appunto all’epoca dioclezianea215. Ed è appunto in questo quadro che vanno collocate le raccolte di provvedimenti imperiali, che – forse anch’esse private, ma quanto meno favorite dall’istituzione imperiale – vanno sotto il nome di Gregoriano ed Ermogeniano. Al di là dell’individuazione dei rispettivi autori, che pure, a quanto pare, dovevano essere due giuristi, si trattava di “un nuovo genere di opera giurisprudenziale”, che scaturiva certamente dalla consapevolezza, presente nei giuristi tardoantichi ma chiarissima già nell’opera di Papirio Giusto, che il principe fosse ormai l’unico legislatore e interprete delle nuove leggi216. Quello che c’è di più nei due codici è semmai lo spirito della svolta della politica dioclezianea, che per la prima volta impegna i giuristi della sua epoca a raccogliere non più exempla, come finora avevano fatto, bensì testi autentici di costituzioni, tali cioè da poter essere allegati e insinuata nei processi217. Si tratta di capire allora se l’obiettivo cui è diretta la scelta di Papirio sia stato lo stesso di quello degli autori dei due codici dell’età dioclezianea. Come osservava Gian Gualberto Archi in un suo famoso saggio sul problema delle fonti del diritto nel sistema romano del IV e V secolo, “Fino ad oggi si è cercato sempre di mettere in evidenza ... quanto diversificava l’attività dei compilatori dei due codici da quella dei giuristi precedenti, autori di opere nelle quali le costituzioni trovavano ampia utilizzazione”218. Al contrario, gli argomenti addotti sia dallo stesso Archi che da Edoardo Volterra219 inducono a conclusioni, se non opposte, certamente nel senso della prevalenza di una continuità di ispirazione tra la raccolta di Papirio

213

Si sofferma sulle raccolte di exempla, in particolare su materiale papiraceo, Purpura 1992b, 687 ss. Doveva trattarsi, secondo la dottrina più accreditata, di documenti provenienti da raccolte private, fuori dai canali ufficiali, che ovviamente non davano alcuna garanzia di autenticità e di conformità agli originali: cfr. Palazzolo 1977, 44, e già prima Williams 1974, 90 ss.; Dell’Oro 1960b, 106 ss. 215 Accoglie pienamente questa interpretazione di C. 1.23.3 Purpura 1992b, 682 s. 216 Licandro, Palazzolo 2019, 422 s. 217 Palazzolo 1998, 283. 218 Archi 1970, 39 nt. 63, il quale svolge una stringente critica alla tesi sostenuta da Niedermeyer 1935, 366. In senso adesivo alla tesi di Niedermayer invece Sperandio 2005, 92. 219 Volterra 1968, 216 [= Volterra 1993b, 166]. 214

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Nicola Palazzolo Giusto e i due Codici, quella appunto di “far conoscere, per sé stessa, l’esistenza di una decisione imperiale e il suo contenuto essenziale”220, a cui si può aggiungere – come si cercherà di dimostrare tra poco – l’ulteriore tentativo di riordinare la caotica produzione imperiale entro un quadro, almeno in embrione, sistematico. C’è infine un altro profilo di continuità che occorre mettere in luce. Come è stato rilevato221, le costituzioni tratte dai due codici dioclezianei vengono sempre citate con la dicitura ex corpore Gregoriani ed ex corpore Hermogeniani, in cui perciò il riferimento è ad un corpus, come se si trattasse di un’opera giurisprudenziale; in sostanza esse vengono citate “non tanto come provenienti direttamente dall’autorità imperiale, bensì in quanto recepite nella prassi interpretativa giurisprudenziale”. Ciò non solo le avvicina moltissimo ad opere giurisprudenziali del periodo precedente (si pensi ai libri decretorum di Paolo, o agli stessi libri de constitutionibus di Papirio Giusto), ma mostra come anche nella prima epoca tardoantica si continui in qualche modo a riconoscere come centrale l’opera del giurista, come resista cioè quella mentalità tipica di tutta la romanità che vede il diritto come essenzialmente giurisprudenziale. Concezione ben diversa, questa, da quella del Codice Teodosiano, nel quale invece il valore delle costituzioni è riconfermato dall’autorità imperiale. A me sembra perciò che gli elementi da noi raccolti nei paragrafi precedenti siano sufficienti per farci concludere, al contrario di quanto sostenuto anche in scritti recenti222, che non esista tra l’opera di Papirio Giusto e i due Codici dioclezianei quella cesura, quella svolta netta nel sistema delle fonti del diritto che vi è stata vista, e che anzi i libri ex constitutionibus rappresentino una “testimonianza precoce”223 dell’attività di raccolta e di sistemazione del vastissimo corpus della legislazione imperiale che poi si svilupperà per tutto il III secolo e che sfocerà nei due codici di età dioclezianea. Da qui a supporre, come ha fatto il Collinet224, che proprio la raccolta di Papirio Giusto costituisse la fonte cui attinsero i compilatori del Codex Iustinianus per lo spoglio delle costituzioni pre-severiane, e che anzi l’autore del Gregoriano si fosse proposto l’obiettivo di completare l’opera di Papirio raccogliendo le costituzioni da Settimio Severo in poi, ne corre. Come è stato, anche di recente, obiettato225, contro questa congettura sta anzitutto il fatto che nel Codex Iustinianus sono presenti costituzioni di Adriano e Antonino Pio che non provengono certamente dall’opera di Papirio, e per le quali dovremmo supporre la provenienza da altre raccolte sconosciute; ma specialmente sta il metodo di citazione delle costituzioni da parte di Papirio, che non è certo quello con cui esse vengono presentate nei Codici: Papirio Giusto, infatti, tranne in pochissimi casi, preferisce riportare le costituzioni in sunto, come

220

Archi 1970, 39 nt. 63. Nicosia 1998, 496 s. 222 Sperandio 2005, 92 s. 223 L’espressione è di Schiavone 1993, 973. 224 Collinet 1924, 359 ss. Il Collinet fondava la sua tesi, oltre che sulla pretesa comune origine beritese della compilazione di Papirio e del Codex Gregorianus (sulla quale non vi sono argomenti testuali di alcun genere), sul fatto che le più antiche costituzioni del Codex repetitae praelectionis non provengono dal Gregoriano, bensì probabilmente dalle raccolte di rescritti dell’epoca precedente. Sulla base di queste indicazioni, egli sosteneva perciò che fosse legittimo pensare che l’autore del Gregoriano avesse avuto l’obiettivo di continuare il lavoro di Papirio Giusto introducendo nella sua compilazione le costituzioni a partire da Settimio Severo. 225 Franciosi 1972, 178 s. 221

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L’opera. Profili e temi era appunto il metodo proprio dei giuristi del suo tempo, anziché nel dettato originale come avviene nel codice giustinianeo. A parte il fatto, incontestabile, che, se così fosse stato, come sosteneva il Collinet, i compilatori ne avrebbero lasciato traccia nelle costituzioni introduttive del Codex repetitae praelectionis, nelle quali, come si è visto, sono espressamente menzionati quali fonti del nuovo codice sia il Gregoriano che l’Ermogeniano. Ma così non è stato, e invece la presenza dell’opera di Papirio nell’Index è la conferma che questa è concepita come un’opera giurisprudenziale piuttosto che una raccolta di costituzioni. 9. La struttura dell’opera Abbiamo lasciato per ultimo il problema della struttura dell’opera di Papirio Giusto, al quale sarà data compiuta risposta solo dopo l’esame delle singole costituzioni. Per il momento ci limitiamo ad affrontare il problema in termini generali, alla luce delle considerazioni svolte finora. Com’è noto, i pochi autori che si sono occupati del problema si sono divisi su due posizioni radicali: quella cronologica e quella sistematica. La prima, che ha avuto i suoi maggiori esponenti in Edoard Huschke, Otto Karlowa, Adolf Berger226 e, in Italia, Mariano Scarlata Fazio227, sosteneva che – poiché negli archivi imperiali i rescritti di Marco Aurelio avevano un ordinamento cronologico (come dimostrerebbe la menzione dei semenstria in varie fonti con riferimento proprio a Marco Aurelio) – i XX libri de constitutionibus di Papirio Giusto non potevano che avere lo stesso ordinamento; in più, aggiungeva Scarlata Fazio, la coincidenza numerica dei venti anni di regno di Marco Aurelio con i 20 libri dell’opera di Papirio rende molto verosimile un ordine cronologico nella successione dei rescritti nei vari libri dell’opera228. La seconda ipotesi ha come capofila Otto Lenel, il quale nella sua monumentale Palingenesia iuris civilis annotava a proposito dei frammenti di Papirio Giusto che non vi fosse alcun dubbio che le costituzioni di Papirio (ed in particolare quelle del secondo libro) avessero un ordine per materia, anche se tuttavia non si era in grado di determinare quale fosse229; l’ipotesi di Lenel (ed in particolare quella in ordine al secondo libro) è stata criticata da vari punti di vista, ma la tesi dell’ordine sistematico ha ricevuto nuovo vigore in tempi recenti dagli studi di Edoardo Volterra e di Gennaro Franciosi, i cui risultati sono ormai ritenuti come acquisiti dalla gran parte della romanistica230. Punto di partenza di qualunque indagine sulla composizione dell’opera di Papirio Giusto non può che essere lo stato della fonte cui egli attingeva i dati, cioè gli archivi imperiali. Come si è visto sopra, le notizie attorno ad essi sono scarsissime, ma da vari indizi sembra potersi desumere che, per poter ritrovare rapidamente le moltissime costituzioni imperiali di questo periodo, si ricorreva agli elementi formali di esse, e cioè il nome dell’imperatore emanante,

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Huschke 1867, 347 s.; Karlowa 1885, 729 s.; Berger 1949, 1061; Perrot 1907, 149 nt. 1. Scarlata Fazio 1939a, 415 ss., seguito poi da De Dominicis 1962, 365; Guarino 1963, 388, il quale però nelle successive edizioni (vedi, per esempio, Guarino 1998, 502) aderisce alla tesi di chi ritiene erronea tale conclusione. 228 Insiste sulla coincidenza numerica anche Krüger 1930, 336. 229 “Non dubium est, quin Papirius constitutiones ad ordinem quendam disposuerit, quem tamen explicare non possumus. Id quidem in aperto est, librum II totum pertinere ad ius municipale”. Sul c.d. “diritto municipale” vedi pure Grelle 2001, 320 ss. [= Grelle 2005, 474 ss.]. 230 Vedi per tutti Liebs 1976, 347; Sperandio 2005, 88 s.; in senso dubitativo Coriat 1990, 231. 227

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Nicola Palazzolo la data e i destinatari: questi infatti erano gli elementi che venivano conservati dei testi originali, una volta che venivano sfrondati da tutte le notazioni ritenute non necessarie. E tuttavia, mettendosi nell’ottica di un giurista che volesse mettere ordine in una massa di rescritti sui più vari argomenti, per offrire, ai fini della pratica forense, un prontuario cui attingere ai fini della recitatio nei processi, non avrebbe avuto alcun senso presentare una scelta di costituzioni nello stesso ordine in cui erano conservate negli archivi; per non parlare del fatto che mai i commissari giustinianei avrebbero utilizzato quelle costituzioni, qualora avessero dovuto ricercare nei venti libri di Papirio quelle poche che per loro presentavano interesse, anche perché in tutte le opere giurisprudenziali gli interventi imperiali erano presentati in relazione a singoli problemi e non all’anno cui si riferivano. Quanto poi agli argomenti specifici che andrebbero in favore dell’ordine cronologico, essi sono stati ampiamente confutati sia da Franciosi che da Volterra, e possiamo limitarci solo a richiamarli sinteticamente. Il primo, al quale, come rilevava Franciosi, solo una “mente fantasiosa” come quella di Huschke poteva pensare, sarebbe la pretesa identificazione dell’opera di Papirio Giusto con i semenstria, una identificazione tuttavia – come si è visto sopra – che non ha alcun fondamento, dal momento che né il nome né l’estensione temporale delle due raccolte forniscono alcun indizio in tal senso. E, con riferimento a quanto sostenuto da Scarlata Fazio (la coincidenza numerica tra il numero dei libri dell’opera di Papirio Giusto e quelli degli anni di regno di Marco Aurelio), è stato ampiamente dimostrato, con ragioni di ordine storico e prosopografico, che la tesi è del tutto inconsistente. Ciò non vuol dire, tuttavia, che la tesi dell’ordine sistematico dell’opera possa essere accolta supinamente. Già il Lenel, pur esprimendo un giudizio nettissimo sul libro II (totum pertinere ad ius municipale), ammetteva la difficoltà di indicare quale potesse essere la successione degli argomenti. Ed in quest’ordine di idee, anche Volterra ammette che nei 18 frammenti di Papirio gli argomenti trattati sono del tutto diversi, cosicché è ben difficile scoprirne l’ordine originario. Cominciamo dall’ipotesi di Otto Lenel, che i frammenti del secondo libro trattino lo ius municipale. Già Scarlata Fazio aveva sottoposto ad attenta critica i frammenti del II libro, rilevandone che per vari di essi il riferimento ai municipia è assai incerto (D. 50.8.11 = L. 14; D. 50.8.12 = L. 15; D. 50.12.13 = L. 17), quando non addirittura da escludere (D. 50.1.38 = L. 11; D. 2.14.37 = L. 13; D. 50.8.13 = L. 16). E tuttavia successivamente Franciosi231 ha fatto notare come gli argomenti di critica addotti contro la tesi di Lenel fossero davvero molto deboli (quello secondo cui i Philippenses di Pap. Iust. 2 de const., D. 2.14.37 [= L. 13] erano gli abitanti di una colonia e non di un municipium, o l’altro secondo il quale la pollicitatio di Pap. Iust. 2 de const., D. 50.12.13pr. [= L. 17] non sarebbe esclusiva dei municipia, o infine che il contenuto del rescritto di cui in Pap. Iust. 2 const., D. 42.1.35 [= L. 10] sarebbe procedurale, e quindi non pertinente ai municipia). Per queste ragioni egli riteneva che l’ipotesi del Lenel fosse da prendere in attenta considerazione, e comunque – anche qualora questa fosse da rifiutare – che non si potesse fare a meno di ipotizzare “un preciso ordine per materia dell’opera di Papirio, anche se non può ancora parlarsi di un vero e proprio sistema”232.

231 232

Franciosi 1972, 170; cfr. anche Franciosi 1998, 241. Franciosi 1972, 170.

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L’opera. Profili e temi Dal canto suo Edoardo Volterra233 rilevava che, nonostante la difficoltà, già constatata da Lenel, di rintracciare una linea comune tra i 18 frammenti attribuiti a Papirio Giusto, si può tuttavia intravedere, almeno nei frammenti più lunghi, lo sforzo di raggruppare i rescritti secondo le diverse materie di cui si occupano: D. 48.12.3pr.-1 (= L. 4) contiene 3 rescritti relativi all’annona; D. 48.16.18pr-2 (= L. 7) contiene 3 rescritti sull’abolitio criminis; D. 49.1.21pr.-3 (= L. 8) contiene 3 rescritti sulle appellationes; i due rescritti contenuti in D. 39.4.7pr.-1 (= L. 9) si riferiscono ai vectigalia; in D. 50.1.38pr.-6 (= L. 11) sono contenuti ben 7 rescritti tutti relativi ai munera; in D. 50.2.13.pr.-3 (= L. 12) vi sono 4 rescritti relativi alla nomina dei decurioni; i due frammenti D. 50.8.11pr.-2 (= L. 14) e D. 50.8.12pr.-6 (= L. 15)234 contengono 10 rescritti che si occupano della stessa materia, l’amministrazione dei beni appartenenti alle civitates, e più in particolare le funzioni dei curatores; ed infine in D. 50.12.13pr.-1 (= L. 17) vi stanno 2 rescritti sulle pollicitationes e le donazioni in favore delle città. C’è perciò più che un buon motivo per tornare ad occuparsi dei 45 (o 44) interventi imperiali contenuti nei 18 frammenti del Digesto. Ed anzitutto per valutare quale possa essere stato il ruolo dei compilatori giustinianei nella raccolta dei rescritti. Mariano Scarlata Fazio riteneva infatti che fosse da attribuire alla mano compilatoria l’aver messo assieme, uno accanto all’altro, quei rescritti che appaiono legati da una certa affinità235. Ma la tesi è stata scartata come inverosimile dal Volterra. Già Adolf Berger236 tuttavia, partendo dalla ripetitività delle formule introduttive dei rescritti (imperatores Marcus et Verus rescripserunt; item rescripserunt), aveva ipotizzato un pesante intervento compilatorio non tanto nel contenuto giuridico dei singoli frammenti, quanto piuttosto nell’aver sistemato negli stessi frammenti brani che nell’opera originale dovevano essere ben distinti. Ipotesi che però era stata decisamente rifiutata da Gennaro Franciosi237, il quale vedeva piuttosto nell’operazione un indizio della fusione in uno, da parte di Papirio Giusto, di più rescritti ordinati ratione materiae. Ma cerchiamo di andare un po’ più addentro al problema. Ed anzitutto: cos’è lo ius municipale? C’è qualche riferimento testuale o si tratta di un’invenzione di Lenel? Occorre dire per prima cosa che di ius municipale non c’è traccia nelle rubriche di alcuna delle compilazioni238, né nei titoli delle opere giurisprudenziali. Non solo, ma l’espressione ius municipale è del tutto assente nelle fonti giuridiche romane sia giurisprudenziali che imperiali239, mentre al contrario la si incontra frequentemente nelle fonti medievali, ma con ben altro significato. Esisteva certamente un ‘ordinamento municipale’, secondo la definizione che con linguaggio contemporaneo ne dà Francesco De Martino240, che rappresenta certamente l’elemento più caratteristico dell’ampliamento progressivo del processo di romanizzazione in tutto il terri-

233

Volterra 1968, 219 ss. [= Volterra 1993b, 169 ss.]. Volterra 1968, 221 [= Volterra 1993b, 171], fa notare che i due frammenti, che nell’edizione di Mommsen del Corpus Iuris appaiono distinti, nelle altre edizioni costituiscono un unico frammento, D. 50.8.10(11). 235 Scarlata Fazio 1939a, 419. 236 Berger 1949, 1060 s. 237 Franciosi 1998, 234 s. 238 Esiste nel Codex giustinianeo (C. 10.39) la rubrica de municipiis et originariis, e nel Digesto (D. 50.1) la rubrica ad municipalem et de incolis. 239 Una rapida ricerca su BIA 2002 dà un risultato assolutamente negativo. 240 De Martino 1975, IV.2, 703 ss. 234

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Nicola Palazzolo torio dell’impero, ma era certamente ben lontano dalla mentalità di un giurista romano del II secolo concepirlo come una istituzione unitaria. Al di là della questione nominalistica, che presenta, in verità, un interesse relativo, il problema è allora quello di vedere se i rescritti contenuti nel secondo libro dell’opera di Papirio Giusto possano in qualche modo essere ricondotti, in tutto o in parte, ai temi dell’ordinamento municipale o ad essi collegati. Da questo punto di vista, e prima ancora di approfondire il discorso sui singoli frammenti, possiamo dire che, già ad un primo sguardo, i rescritti raccolti nel II libro sembrano riguardare effettivamente materie che in qualche modo sono, o potrebbero comunque essere, connesse all’amministrazione delle civitates (comunque identificate)241: più precisamente trattasi dei curatores, D. 2.14.37 (L. 13), D. 50.8.11pr.-2 (L. 14), D. 50.8.12pr.6 (L. 15); della nomina dei decuriones, D. 50.1.38pr. (L. 11), D. 50.2.13pr.-3 (L. 12); dei vectigalia, D. 39.4.7pr.-1 (L. 9); delle pollicitationes e dei donativi in favore delle civitates, D. 50.12.13pr.-1 (L. 17), tutte materie che non sono certamente estranee ai temi delle autonomie cittadine. E certamente quello nel quale operava Papirio Giusto era un ambito temporale in cui queste tematiche dovevano essere al centro degli interessi di un sovrano come Marco Aurelio. Il buon funzionamento dell’amministrazione municipale era di fatto vitale per la prosperità dell’impero, nel senso che “una più razionale ed attenta gestione delle risorse finanziarie cittadine costituiva il punto di convergenza sia degli interessi del governo imperiale sia di quelli delle aristocrazie municipali”242: delegando a magistrati locali (i curatores) vaste responsabilità nel governo locale il regime imperiale poteva così limitare sia il numero che il costo dei suoi funzionari243. Appunto il regno di Marco Aurelio rappresentò una svolta nella utilizzazione dei curatores, che in questo periodo fu molto più ampia e diffusa244. È possibile245 che, più ancora che la tendenza alla centralizzazione burocratica246 che, da Adriano in poi, andava caratterizzando il sistema di governo imperiale, siano state le difficoltà legate alle guerre, le incipienti crisi finanziarie e di reclutamento, ad imporre questa attenzione. A questo scopo Marco Aurelio rafforzò il controllo delle finanze pubbliche delle comunità d’Italia e delle province, stabilendo numerose norme per guidare i curatores incaricati della sorveglianza di tali bilanci247. E tuttavia lo fece con mano leggera: come rilevava Howard H. Scullard, “fin tanto che le ari-

241 Le civitates, come ricorda Talamanca 1976, 106, sono un fenomeno presente sia in Italia che nelle provincie, e in queste stesse esistono tipologie diverse (civitates Romanae e civitates peregrinae); e tuttavia, come ancora osserva il Talamanca (p. 160), “la collocazione geografica dell’ente di cui la disciplina viene discussa è irrilevante: nulla emerge in rapporto ad un trattamento differenziato delle civitates Romanae, a seconda che siano su suolo italico o in provincia”. Sul punto, ed in particolare sull’atteggiamento di generale disinteresse dei giuristi severiani nei confronti degli ordinamenti provinciali, rilevato dal Talamanca, vedi però le caute riserve di Marotta 2017, 74 ss., il quale osserva che “c’è il dovere di chiedersi se i iurisconsulti tra I e III secolo abbiano mai nelle loro riflessioni davvero trasceso le istituzioni della civitas verso il riconoscimento della nuova realtà ecumenica dell’Impero”. 242 Licandro, Palazzolo 2019, 254. 243 Cary, Scullard 1975, 78. 244 Sui curatores rei publicae in Italia cfr. anzitutto Camodeca 1980, 453 ss.; quasi in contemporanea Burton 1979, 465 ss.; Eck 1999 (ma già 1979), 195ss.; Duthoy 1979, 171 ss., e subito dopo Jacques 1984. Più di recente Sartori 1989, 5 ss.; Camodeca 2008, 506 ss. 245 Clemente 1991, 631. 246 In questo senso invece De Martino 1975, IV.2, 735 s. 247 Weber 1967, 413. L’Historia Augusta (vita Marci 11.2) parla dei curatores, dicendo che Marco Aurelio avrebbe dato a molte città curatores senatorii “quo latius senatorias tenderet dignitates”. Ciò dà il segno dell’importanza che a quell’epoca le aristocrazie senatorie attribuivano alla carica di curator rei publicae: così Camodeca 2008, 510 s.

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L’opera. Profili e temi stocrazie municipali amministravano con buona o discreta efficienza le loro città, il governo imperiale fu ben lieto di lasciarle fare con autonomia e senza troppe interferenze”248. Nella stessa ottica vanno viste le norme relative ai decuriones e ai magistrati locali. L’ordo decurionum, costituito da personalità scelte nell’ambito dell’aristocrazia municipale, era nelle civitates, sia Romanae che latine, l’organo che deteneva il potere effettivo, anche nei confronti dei magistrati, che si presentavano in realtà come semplici esecutori dei decreta decurionum249. L’honor magistratuale comportava, peraltro, l’onere di versare, assumendo la carica, una somma di denaro alla cassa comunale250 come contributo per i pubblici giuochi o per il compimento di un’opera pubblica (pollicitatio). E tuttavia, a partire dalla metà del II secolo, la decadenza della vita politica locale, la fine della prosperità economica delle grandi famiglie251, quelle che in genere aspiravano a quelle cariche, la riduzione progressiva delle entrate (in gran parte costituite dai vectigalia a carico degli affittuari dei praedia municipalia) rispetto alle uscite sempre crescenti, e la crescente fuga delle classi elevate dalle cariche, e in particolare dal decurionato, diedero luogo al trasformarsi degli uffici da onori ambiti ad obblighi (munera) da cui solo a precise condizioni252 si poteva essere esentati (e l’origo in una città diversa era una di queste)253. Questo era appunto il quadro storico-sociale nel quale si inseriscono gli interventi imperiali, che si fanno sempre più fitti proprio nell’età di Marco Aurelio, di cui la Storia Augusta (vita Marci 9.7 ss.; 10.1 ss.; 11.1 ss.) ricorda il grande impegno legislativo, del quale è testimonianza l’enorme numero di costituzioni conservate. Ed appunto di questo, come si è visto sopra, si occupano i rescritti raccolti da Papirio Giusto nel secondo libro della sua opera. Da questo punto di vista, perciò, al di là della formulazione da lui usata, la ricostruzione leneliana dei frammenti di Papirio ha un suo fondamento, nel senso che – tra i vari possibili ambiti – quello di una raccolta delle norme imperiali relative alle civitates e agli organi di queste254, è certamente ipotizzabile, quanto meno per quanto riguarda i rescritti contenuti nel secondo libro. Altra cosa, ovviamente, è accettare la ricostruzione dell’ordine interno dei frammenti ipotizzata da Otto Lenel, che invece è tutta da analizzare, così come si tenterà di fare anche per i frammenti del primo libro, in ordine ai quali lo stesso Lenel non ha formulato alcuna proposta di intitolazione. Se così è, emerge in modo ancora più lampante la novità dell’operazione compiuta da Papirio Giusto: raccogliere cioè le costituzioni imperiali di Marco Aurelio e Lucio Vero (o almeno quelle che presentavano ancora un certo interesse) non in base alla data di esse ma in

248

Così Cary, Scullard 1975, 76. Talamanca 1989, 503; Licandro, Palazzolo 2019, 258. 250 Guarino 1998, 417. 251 Su questo insiste in particolare De Martino 1975, IV.2, 736, in parziale dissenso con Jones 1966, 181 ss., che invece poneva l’accento sullo “scarso interesse della politica, dipendente dal fatto che la dominazione romana aveva eliminato i moventi principali, cioè la politica estera e la leadership militare”. Altra bibliografia in De Martino 1975, IV.2, 735 nt. 199. 252 Guarino 1998, 399. 253 Licandro, Palazzolo 2019, 258. 254 Si trattava di un tema che in quegli anni doveva essere molto sentito, tanto è vero che, pochi anni dopo, già sotto Caracalla Ulpiano metteva a punto un manuale, de officio curatoris rei publicae liber singularis di cui nel Digesto esistono 6 frammenti di argomento analogo a quelli del II libro di Papirio. Grelle 2001, 323 [= Grelle 2005, 477], osserva che “Papirio Giusto aveva potuto comporre con i rescritti in materia un intero libro, il secondo, della raccolta delle costituzioni imperiali di Marco Aurelio: anch’esso un precedente, forse, della rielaborazione ulpianea, che per altro verso riflette la scomparsa della polis e lo sviluppo dei modelli uniformi di amministrazione locale”. 249

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Nicola Palazzolo base all’argomento trattato, un’operazione che mai era stata compiuta, ma che era estremamente utile alla pratica forense ai fini della recitatio, che non richiedeva (come si è visto), almeno fino a Diocleziano, l’esibizione dell’originale. Un’operazione, peraltro, che riguardava prevalentemente (se non in modo esclusivo) tematiche in ordine alle quali la legislazione imperiale era il fondamento principale, come erano appunto quelle relative all’amministrazione delle civitates, e di cui i giuristi si erano fino a quel momento poco occupati perché non rientravano nelle sistematiche tradizionali dello ius civile o dell’Editto pretorio. È noto come per tutto il II secolo, ed ancora fino all’avvento dei grandi giuristi severiani, da parte della giurisprudenza vi fosse, nella scelta dei generi letterari, una netta propensione verso quelle forme che le erano più congeniali perché frutto di una lunga tradizione, ed in qualche modo connesse con la loro attività (opere casistiche, o di commento, o di insegnamento), e comunque relative al diritto privato, mentre più raramente i giuristi romani si occuparono di quel settore del diritto che è relativo all’Impero, agli uffici pubblici e alla loro organizzazione. Tuttavia, il carattere burocratico che via via stava assumendo la giurisprudenza a partire dall’età di Adriano, ed il fatto che gli stessi giuristi cominciavano ad assumere in prima persona importanti incarichi pubblici, fece sì che si cominciasse ad attuare una prima sistemazione della normativa relativa a tali uffici, che proprio in quegli anni cresceva in maniera esponenziale dando luogo spesso ad equivoci o a malintesi normativi da parte di chi veniva chiamato, spesso senza una adeguata preparazione, a ricoprirli. È comunque questo un genere quasi del tutto sconosciuto ai giuristi sino alla fine del II secolo255, e sarà solo nell’età dei Severi che prenderà nuova linfa. Appunto l’opera di Papirio Giusto veniva così a coprire uno spazio che fino ad allora era del tutto scoperto, sia nei contenuti (la normativa di ius publicum) che nella fonte normativa (le costituzioni imperiali). E con un’opera non di carattere monografico, ma di ampio respiro, come dimostra la sua grande estensione, ma di cui riusciamo solo ad intuire alcuni dei contenuti in essa compresi. E questo può forse spiegare – ma stavolta solo in via di ipotesi – perché i compilatori del Digesto abbiano escerpito dall’opera di Papirio Giusto solo i rescritti relativi a quegli argomenti. Probabilmente infatti (ed a meno che non si debba pensare ad una perdita, fortuita o provocata256, di tutti i libri successivi all’ottavo) essi, che utilizzarono l’opera di Papirio proprio per le sue caratteristiche sistematiche, andarono a scegliere le costituzioni che, in relazione all’oggetto trattato, non trovavano presso gli altri giuristi. Voglio dire, in sostanza, ma con tutte le cautele del caso, che se i compilatori utilizzarono solo quelle costituzioni potrebbe forse dipendere dal fatto che esse riguardavano argomenti poco frequentati nelle opere degli altri giuristi257.

255 Forse con l’unica eccezione di Marcello, che scrisse dei libri de officio consulis, di cui abbiamo solo tre citazioni indirette, che tuttavia sembra si occupino essenzialmente di materie relative alle competenze extra ordinem dei consoli, e quindi ancora di diritto privato. Poco più tardi, circa alla metà del II secolo, Venuleio Saturnino scrive 4 libri de officio proconsulis, ma – come osserva Talamanca 1976, 98 s. – “si tratta di un giurista solito a percorrere strade un po’ particolari nel taglio delle opere, che si differenziano alquanto dai tipi più ricorrenti in quel periodo”. 256 Ci si riferisce all’eventuale presenza in questi libri di rescritti di Commodo, e dell’eventuale soppressione di questi a causa della sua damnatio memoriae, di cui si è parlato sopra (§ 1 e nt. 15). 257 Il che, ovviamente, è tutto da dimostrare. In contrario si potrebbero infatti addurre tutti i frammenti che sono stati raccolti dai giustinianei sotto gli stessi titoli dei frammenti di Papirio Giusto, in particolare quelli del libro 50 del Digesto.

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L’opera. Profili e temi E tuttavia anche la tesi dell’ordinamento tematico dei frammenti di Papirio si presta a dubbi consistenti. Già i legami tra i rescritti del I libro sono molto più tenui, e quasi evanescenti, rispetto a quelli del II libro, ed inoltre vi compaiono anche tematiche (come quella dei decurioni, D. 48.12.3pr.-1 = L. 4) che sono invece proprie del II libro. Ma, specialmente, come si fa a concepire un ordinamento di tipo tematico tra i rescritti quando l’unico rescritto proveniente dall’VIII libro dell’opera di Papirio Giusto tratta un argomento (la bonorum venditio) di cui si erano già occupati due rescritti inseriti nel I libro? Il dilemma appare davvero molto difficile da sciogliere, dal momento che sia l’uno che l’altro tipo di ordinamento (quello cronologico e quello sistematico) mostrano dei limiti insuperabili. Forse dobbiamo riconoscere di essere davanti ad un progetto abortito: quello cioè di dare per la prima volta un’inquadratura nuova, da giurista appunto, alla produzione imperiale, che si scontrava però con una situazione che si andava facendo, anno dopo anno, sempre più caotica, nella quale il succedersi di interventi imperiali nelle più svariate materie si scontrava con l’intenzione di Papirio di mettervi ordine. Se poi teniamo conto dei continui spostamenti di Papirio Giusto, da Roma in Siria e poi in Egitto, e infine di nuovo a Roma, si può tentare di trovare forse anche in questo elemento un fondamento di credibilità alla tesi, sopra accennata, di una compilazione dell’opera in più fasi: la prima coincidente col principato di Marco Aurelio e Lucio Vero, nella quale si comincia a delineare il disegno ordinatore di Papirio Giusto (e che corrisponde in larga misura ai rescritti dei primi due libri), una seconda, da collocare presumibilmente nel periodo della corregenza di Marco Aurelio con Commodo (alla quale potrebbe appartenere il rescritto contenuto in Pap. Iust. 8 de const., D. 2.14.60 = L. 18), e l’ultima nei dieci anni (180-190 d.C.) tra la morte di Marco Aurelio e l’uccisione di Papirio per opera di Commodo, dei quali non è rimasta traccia, forse a causa della damnatio memoriae di Commodo. Solo in questo modo, a mio avviso, si potrebbe tentare di spiegare l’anomalia di un’opera che, guardata nel suo complesso, presenta un ordinamento che non è né cronologico né tematico, ma che viene costruita per approssimazioni successive, aggiungendo ad un primo nucleo, ordinato tematicamente, i rescritti degli anni successivi, che non potevano più trovare posto nella loro sedes materiae, che ormai era stata messa a disposizione della pratica forense, ma che erano comunque meritevoli di essere citati. Una integrazione, o forse meglio una sovrapposizione, tra i due criteri, corrispondente alle varie fasi di avanzamento del lavoro. Quello che tuttora non si riesce a cogliere perfettamente è se la successione dei rescritti all’interno dei singoli frammenti sia da ricondurre allo stesso Papirio o piuttosto all’opera dei compilatori giustinianei. Si è visto sopra come sia Edoardo Volterra che Gennaro Franciosi abbiano rifiutato nettamente l’ipotesi di un intervento compilatorio. Ma probabilmente il discorso va approfondito. Dato per scontato che la divisione in paragrafi258 (e quindi la separazione tra i singoli rescritti) sia frutto delle edizioni moderne dei Digesta, e non da attribuire ai compilatori, ci si può domandare se Papirio abbia davvero compresso in poche righe il contenuto di tanti rescritti, o se questo sia stato abbreviato dai compilatori. Si è ricordato

258 Volterra, come si è visto sopra, notava addirittura che in qualche caso (quello di Pap. Iust. 2 de const., D. 50.8.11 [= L. 14] e 12 [= L. 15]) i due frammenti, che sono separati nell’edizione Mommsen, non lo sono nelle altre edizioni.

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Nicola Palazzolo come già Adolf Berger, sulla base specialmente dello strano miscuglio delle formule introduttive Imperatores Marcus et Verus Augusti rescripserunt e Item rescripserunt aveva ritenuto che un giurista non avrebbe mai mescolato le formule in tal modo259. A questo si può forse aggiungere che, in un’opera che si proponeva di elencare gli interventi imperiali in un determinato ambito, è da pensare che ciascuna costituzione dovesse presentare una sua autonomia anche nella sua veste formale, al contrario di come essa appare nei frammenti del Digesto. Tra l’altro, Papirio avrebbe avuto tutto l’interesse a conservare i ‘dati paratestuali’ (essenzialmente i destinatari) dei rescritti citati, in maniera che chiunque potesse, anche a distanza di tempo, ritrovare quei rescritti negli archivi imperiali. Tutto lascia pensare perciò che ci sia stato un intervento dei compilatori giustinianei (se non addirittura precedente) tendente a fondere insieme più interventi imperiali che nell’opera originale erano ben distinti tra loro. Ma si tratta comunque di un problema allo stato insolubile, e non è certamente un caso che, tranne poche eccezioni, nella gran parte dei casi non sono state riscontrate così gravi anomalie nel contenuto dei rescritti papiriani, da far pensare che i relativi brani siano stati interpolati. Per cui, al momento, è più prudente non assumere una posizione al riguardo.

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Berger 1949, 1060 s.

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II UNA RACCOLTA DI DIRITTO IMPERIALE TRA ARCHIVI UFFICIALI E NUOVE FORME LIBRARIE. PER UN’ARCHEOLOGIA DEL CODEX

1. Papirio Giusto e i Semenstria di Marco Aurelio Uno degli aspetti su cui si è particolarmente concentrata l’attenzione degli studiosi è il presunto rapporto tra i libri XX de constitutionibus e i Semenstria. Soprattutto è a Scarlata Fazio1 che si deve l’approfondimento di un’idea di Huschke2 a proposito di un nesso così stretto, spinto al punto da proporne l’identificazione dell’opera di Papirio Giusto nelle ‘misteriose’ raccolte imperiali semestrali. Tuttavia, abbiamo già ampiamente riscontrato, aggiungendo altre ragioni a quanto già obiettato da Franciosi e da Volterra3, l’assoluta infondatezza dell’idea che struttura e contenuto dei libri XX de constitutionibus poggiassero su di un criterio meramente cronologico. Tuttavia, poiché non vi è dubbio che un qualche rapporto dovette pur esserci stato, resta viva l’esigenza di chiarire un profilo rilevante intorno a “un’opera, per così dire paradigmatica per la ricostruzione di certi indirizzi e di certi metodi di lavoro di notevole interesse per i rapporti tra giurisprudenza e legislazione imperiale e per la storia stessa delle codificazioni”4. Per provare a centrare l’obiettivo, o avvicinarci per approssimazione alla realtà visto lo stato frammentario e pure contraddittorio delle fonti, l’unica strada è ancora quella di mutare angolo di visuale e riesaminare così ogni minimo indizio, cominciando dal tentativo di gettare qualche squarcio di luce in più sui Semenstria. Le fonti in cui compare il termine Semenstria o Semestria si contano sulle dita di una mano: Tryph. 2 disp., D. 2.14.46: Pactum inter heredem et legatarium factum, ne ab eo satis accipiatur, cum in semestribus relata est constitutio divi Marci servari in hoc quoque defuncti voluntatem, validum esse

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Scarlata Fazio 1939a, 414 ss. Huschke 1867, 327, “scrittore fantasioso” secondo Franciosi 1972, 155; ma vedi pure Karlowa 1885, 614 nt. 17; Wenger 1953, 440 nt. 144; cfr. Sperandio 2005, 87 ss. 3 Vedi supra, parti I e III. 4 Franciosi 1972, 179. 2

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Orazio Licandro constat. Nec a legatario remissa heredi satisdatio per pactionem ex paenitentia revocari debet, cum liceat sui iuris persecutionem aut spem futurae perceptionis deteriorem constituere5. Scaev. 7 dig., D. 18.7.10: […] CLAUDIUS: Divus Marcus ex lege dicta libertatis in vendendo quamvis non manumissos fore liberos in semenstribus constituit, licet in mortis tempus emptoris distulit venditor libertatem. Ulp. 11 ad ed., D. 29.2.12: Ei, qui se non miscuit hereditati paternae, sive maior sit sive minor, non esse necesse praetorem adire, sed sufficit se non miscuisse hereditati. Et est in semenstribus Vibiis Soteri et Victorino rescriptum, non esse necesse pupillis in integrum restitui ex avito contractu, quorum pater constituerat non adgnoscere hereditatem neque quicquam amoverat vel pro herede gesserat. Inst. 1.25.1: Item divus Marcus in semenstribus rescripsit eum, qui res fisci administrat, a tutela vel cura quamdiu administrat excusari posse.

A queste si possono aggiungere lo scolio dei Basilica 11.1.45.1 che, a proposito di Trifonino di D. 2.14.46, così chiude: ἔστι σεμενστρίβους ἑξαμηνιαίαις· τοσαύτας γὰρ Μάρκος ὁ ϑειότατος ἐξεφώνει διατάξεις, ὥστε κατὰ ἓξ μῆνας συναγωγὴν αὐτῶ γίνεσται. τοῦτο δέ σοι καὶ ἐν τοῖς Ἰνστιτούτοις παραδέκοται6; mentre una singolare annotazione della Glossa torinese7 a Inst.

1.25.1 recita semenstria sunt codex in quo legislationes per sex menses prolatae in unum redigebantur. Questa scarsa e frammentaria documentazione non lascia certo grandi margini a tentativi di soluzione dei problemi di struttura e di contenuto che avvolgono i libri XX de constitutionibus, se non provando l’esistenza, già ai tempi di Marco Aurelio8, di ‘raccolte’ organizzate di materiale normativo dei principes negli ambienti ufficiali della cancelleria imperiale, simmetrica all’analoga esigenza già affacciatasi più in generale nel mondo del diritto e avvertita soprat-

5 Si ritiene che il testo imperiale discusso da Trifonino sia quello di C. 6.54.2 (Divus Marcus Stratonice): Ipsis rerum experimentis cognovimus ad publicam utilitatem pertinere, ut satisdationes, quae voluntatis defunctorum tuendae gratia in legatis, item fideicommissis inductae sunt, eorundem voluntate remitti possint. Quocumque enim indicio voluntatis cautio legati seu commissi remitti potest. Le palesi differenze testuali tra le due diverse versioni della constitutio di Marco Aurelio rende evidente che i commissari giustinianei si avvalsero di una raccolta che tuttavia, a mio giudizio, non era di carattere ufficiale: in questo senso deporrebbe l’inscriptio recante Divus Marcus che, nonostante l’assenza di una nomenclatura canonizzata per l’intero II secolo d.C., appare del tutto estranea alle formule degli archivi ufficiali, sì da ritenerla pertanto attinta da una copia di seconda mano che non potrebbe neppure essere quella di Papirio Giusto che, a sua volta, mai ha usato divus Marcus o divi fratres. Vedi Volterra 1971, 928 ss. [= Volterra 1994, 110 ss.]. Diversamente, Varvaro 2007, 5774, dalla presenza di ‘formule protocollari’ trae la conclusione della registrazione delle costituzioni imperiali negli archivi secondo precise formalità. 6 = In textu est, semestribus constitutionibus: tot enim Divus Marcus constitutiones emisit, ut secundum senos menses collectio earum fieret. Hoc in Institutionibus quoque traditum sibi est. [ed. Heimbach, I, Lipsia 1833-1870, 631 = ed. Scheltema, B. 295/22-25, Groningen 1955-1988]. 7 Gl. 60 (ed. Alberti 1933, 18; ed. Krüger 1868, 55). Sulla Glossa torinese, la cui stratificazione risalirebbe all’età giustinianea, si legga pure Alberti 1934, 34 ss.; Ferrini 1884, 714 ss. [= Ferrini 1929, 41 ss.]. 8 A proposito di una constitutio di Marco Aurelio e Commodo citata in C. 4.57.3, Paul Krüger tende a seguire il Codex Berolinensis 273 che reca “in semenstribus scriptae”; il cui testo è pertanto da integrare così C. 4.57.3 (Imp. Alexander A. Fulcinio Maximo): Si Iusta Saturnino puellam nomine Firmam agentem tunc annos septem hac lege vendiderit, ut, cum haberet annos viginti quinque, libera esset, quamvis factum ab emptore praestandae libertatis pacto non sit insertum, sed ut libera esset expressum, tamen constitutioni divorum Marci et Commodi in semestribus scriptae locus est.

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie tutto dai prudentes. Anzi, proprio la relazione tra i Semenstria e Marco Aurelio, attestata dai documenti, spingerebbe ad attribuire a quest’ultimo l’idea dell’introduzione di una raccolta delle costituzioni imperiali più organizzata e strutturata di quanto sinora si fosse fatto nella prassi di archiviazione. Scartata, però, l’equazione Semenstria = libri XX de constitutionibus, possiamo prendere le mosse da un punto certo: i Semenstria erano una raccolta di atti pubblici di cui si avvalsero almeno i giuristi orbitanti a diverso titolo intorno al Palazzo imperiale. I frammenti superstiti attestano infatti che, oltre a Papirio Giusto, certamente Trifonino e Scevola per l’età antonina e Ulpiano sotto i Severi attingessero ai Semenstria: da ciò ragionevolmente ne consegue la certezza dell’esistenza e dell’aggiornamento dei Semenstria almeno per tutta l’età severiana. Inoltre, stando a Inst. 1.25.1, non si deve escludere neppure una conoscenza diretta dei Semenstria da parte dei commissari giustinianei, per quanto in questo caso si tratterebbe soltanto di una presunzione potendo, invece, essi averne avuto conoscenza indiretta attraverso le opere dei giuristi prima menzionati o da altri ancora che ebbero modo di consultarli. Fatta questa premessa, due sono gli aspetti su cui concentrare le prossime pagine, e riguardano precisamente denominazione e morfologia della raccolta. Cominciamo dal primo, cioè il termine Semenstria. Esso reca in sé la dimensione temporale della raccolta (sei mesi): ogni sei mesi la produzione del materiale normativo imperiale confluiva per aggregazione, però si ignorano i criteri seguiti negli archivi imperiali per costituire un ‘semestrale’ ufficiale a disposizione della burocrazia (e forse anche di chi facesse richiesta di averne estratti). Sugli archivi imperiali ancora oggi, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, non tutto ci è chiaro (vi era un archivio imperiale unico? O esistevano piuttosto tanti archivi diversi quanti i rami della cancelleria? Si distinguevano gli atti normativi rispetto a quelli amministrativi? Quali erano i criteri cui si uniformavano la catalogazione e la conservazione del materiale normativo e amministrativo?); di conseguenza neppure dei Semenstria sappiamo molto altro oltre alle scarne, lapidarie notizie prima richiamate. Ora, l’elemento semantico dell’arco temporale, semenster, richiama anche una vicenda istituzionale che ci riporta indietro al principato augusteo, riferita da Svetonio in un passo della biografia di Augusto9 in cui, nell’ambito del più dettagliato resoconto del metodo di lavoro e dell’approccio di Augusto verso il senato, si ricorda, sia pure succintamente, l’introduzione di un particolare consilium voluto da Augusto e composto di senatori con cui il princeps affrontava l’istruttoria delle questioni che sarebbero state formalmente deliberate dal plenum dell’assemblea dei patres. La ratio della ‘riforma’ augustea con ogni evidenza risiedeva nell’esigenza di una maggiore razionalizzazione dei lavori e di ottimizzazione dei ‘tempi’. Dalla più ricca versione di Cassio Dione, comunque coincidente nella sostanza con quella di Svetonio, traiamo altri particolari interessanti. Da non confondere con il consilium principis10, questo consilium per la sua composizione di senatori e magistrati mostrava un solido

9 Svet. Aug. 35.3: […] sibique instituit consilia sortiri semenstria, cum quibus de negotiis ad frequentem senatum referendis ante tractaret. 10 Principalmente Cicogna, 1902; Crook 1955; Kunkel 1968, 265 ss. [= Kunkel 1974, 190 ss.]; De Martino 1974, IV.1, 575 s., 671 ss.; Amarelli 1983.

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Orazio Licandro profilo istituzionale, aveva una durata semestrale e, nel rispetto di questo ciclo temporale, veniva rinnovato per sorteggio11. Dalla versione di Cassio Dione, naturalmente, è facile cogliere i diversi spunti problematici rispetto alla secca rappresentazione svetoniana; problemi che investono innanzitutto i rapporti di questo consilium semenstre con il consilium principis12 e la natura dei suoi poteri e dei relativi atti, cioè se istruttori o deliberativi13. A prescindere, però, da questi aspetti, è evidente che la scansione temporale dei lavori del consilium semenstre fosse di sei mesi e che, per conseguenti ragioni pratiche (e logiche), si andò verso una prassi di registrazione e conservazione degli atti pubblici con cadenza semestrale. Naturalmente, senza lasciarsi suggestionare da assonanze non si vuole affatto dire che i semenstria fossero queste raccolte, ma che il criterio cronologico per sex mensa, tutt’altro che estraneo agli ambienti amministrativi imperiali del II secolo d.C., costituisse la cifra di un preciso modulo temporale ab origine riferito ad attività del princeps e successivamente introiettato dalle prassi organizzative della cancelleria e di registrazione degli archivi imperiali. 2. La forma libraria dei Semenstria Il secondo aspetto riguarda lo slittamento del dato semantico la cui polisemia ci conduce a quello morfologico: secondo la Glossa torinese (a Inst. 1.25.1), semenstria sunt codex in quo legislationes per

11 Cass. Dio 53.21.4-5: τὸ δὲ δὴ πλεῖστον τούς τε ὑπάτους ἢ τὸν ὕπατον, ὁπότε καὶ αὐτὸς ὑπατεύοι, κἀκ τῶν ἄλλων ἀρχόντων ἕνα παρ᾽ ἑκάστων, ἔκ τε τοῦ λοιποῦ τῶν βουλευτῶν πλήϑους πεντεκαίδεκα τοὺς κλήρῳ λαχόντας, συμβούλους ἐς ἑξάμηνον παρελάμβανεν, ὥστε δι᾽ αὐτῶν καὶ τοῖς ἄλλοις πᾶσι κοινοῦσϑαι τρόπον τινὰ τὰ νομοϑετούμενα νομίζεσϑαι. [5] ἐσέφερε μὲν γάρ τινα καὶ ἐς πᾶσαν τὴν γερουσίαν, βέλτιον μέντοι νομίζων εἶναι τὸ μετ᾽ ὀλίγων καϑ᾽ ἡσυχίαν τά τε πλείω καὶ μείζω προσκοπεῖσϑαι, τοῦτό τε ἐποίει καὶ ἔστιν ὅτε καὶ ἐδίκαζε μετ᾽ αὐτῶν. Più tardi fu riformato nel 13 d.C. con un’estensione della composizione e della durata (su cui vedi Cass. Dio 56.28.2-3: καὶ συμβούλους ὑπὸ τοῦ γήρως, ὑφ᾽ οὗπερ ἐς τὸ βουλευτήριον ἔτι πλὴν σπανιώτατα συνεφοίτα, ετησίους ᾐτήσατο· πρότερον γὰρ καϑ᾽ ἕκμηνον πεντεκαίδεκα προσετίϑετο. καὶ προσεψηφίσϑη, πάνϑ᾽ ὅσα ἂν αὐτῷ μετά τε τοῦ Τιβερίου καὶ μετ᾽ ἐκείνων [3] τῶν τε ἀεὶ ὑπατευόντων καὶ τῶν ἐς τοῦτο ἀποδεδειγένων, τῶν τε ἐγγόνων αὐτοῦ τῶν ποιητῶν δῆλον ὅτι, τῶν τε ἄλλων ὅσους ἂν ἑκάστοτε προσπαραλάβῃ, βουλευομένῳ δόξῃ, κύρια ὡς καὶ πάσῃ τῇ γερουσίᾳ ἀρέσαντα εἶναι. τοῦτ᾽ οὖν ἐκ τοῦ δόγματος, ὅπερ που καὶ ἄλλως τῷ γε ἔργῳ εἶχε, προσϑέμενος, οὕτω τὰ πλείω καὶ κατακείμενος ἔστιν ὅτε ἐχρημάτιζεν. Sul tema vedi

letteratura e approfondimento in Licandro 2021a, [in corso di pubblicazione]). 12 Con cui convisse per esserne poi assorbito a causa della progressiva interferenza e istituzionalizzazione durante il principato adrianeo del secondo; vedi letteratura citata supra nt. 10. 13 Per quanto il punto sia ancora molto dibattuto, quel che è certo è che la commissione approntava i testi dei suoi deliberati nella forma e nella sostanza dei senatoconsulti. A voler mantenere un po’ di prudenza, e optando per la tesi minimalista che riconosce al consilium semenstre, poi annuale, soltanto poteri istruttori, si potrebbe discutere se i testi così predisposti potessero subire modifiche da parte dell’assemblea plenaria oppure se questa si limitasse a una mera ratifica. Però, la presenza di senatori e dei consoli, oltre che di un rappresentante di ogni magistratura, le tracce di interventi in altri campi, come quello della giurisdizione, fanno pensare non solo che la sfera d’azione di questo particolare consilium senatorio fosse molto ampia, estesa ad altri ambiti e materie oltre quelle tradizionalmente di competenza dell’assemblea dei patres, ma anche un perimetro di esplicazione dei poteri ben più largo di quello di una mera attività istruttoria, tanto da indurre appunto a condividere la versione di Cassio Dione che ne scorgeva un organismo deliberativo a pieno titolo. Alle menzioni sopra riportate del consilium semestrale estratto a sorte dal senato affiancato al principe negli affari più urgenti e gravi, su opinione di Kunkel 1968, 266, 315 ss., deve aggiungersi un passo di Giuseppe Flavio concernente un editto del 2 d.C. con cui Augusto ribadì le misure di favore alle comunità giudaiche in vigore dai tempi di Cesare (Ios. ant. iud. 16.162-165). Contra Santalucia 2016, 121 s. Ma sul tema rinvio anche a quanto sostenuto in Licandro 2021a, [in corso di pubblicazione].

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie sex menses prolatae in unum redigebantur. Insomma, stando a questa particolare notazione, i Semenstria erano raccolte di materiale normativo imperiale in forma di codices di carattere semestrale. Su cosa si fondava la Glossa? Esistevano nel II secolo d.C., grandi registri in cui la legislazione imperiale veniva raccolta e ordinata secondo un criterio cronologico? Verificare l’attendibilità della Glossa significa, a questo punto, aprire una porta sull’universo fascinoso della storia del libro, della sua genesi e di quel particolare prodotto librario quale fu, e ancor oggi è, il codice/libro e indagare sull’emersione embrionale del suo concetto di raccolta di norme giuridiche. Negli ultimi tempi si è assistito a un ritorno di fiamma verso la gigantesca tematica delle diverse forme librarie e del passaggio dal volumen al codex ancora considerato una delle più incisive rivoluzioni culturali della storia dell’uomo14. Per la sua profonda ampiezza, la questione investe, in molteplici e complessi aspetti, anche il mondo del diritto: l’influenza esercitata nell’affermazione più in generale della morfologia del codex sul rotolo di papiro, la coesistenza delle forme, i gusti che orientavano verso l’una o l’altra forma nella redazione delle opere giurisprudenziali, l’individuazione dell’unità libro di un’opera, le esigenze di praticità del potere politico/amministrativo, sino appunto alla nascita del codex/liber giuridico. E proprio da questa polisemia di liber e codex si trae spunto per qualche rapida osservazione che ci ricondurrà infine ai libri XX de constitutionibus di Papirio Giusto, sapendo che sono principalmente due gli interrogativi a cui rispondere: quale era la forma corrente negli archivi imperiali per raccogliere le constitutiones principum o più in generale gli atti normativi? Posto che non vi fosse alcuna identità tra Semenstria e libri XX de constitutionibus, correva un rapporto relativamente alla forma libraria? In altri termini, quanto è fondata l’annotazione della Glossa sui Semenstria, quali raccolte redatte nella forma libraria di codex? Era forse questo il nesso concettuale che, a un certo momento e a posteriori, si cominciò a scorgere tra le raccolte ufficiali custodite negli archivi e l’opera di Papirio Giusto a prescindere dalla forma libraria inizialmente adottata dal giurista? Sono cospicue le testimonianze sul significato di liber quale supporto materiale scritto, proveniente prevalentemente dal mondo vegetale, la cui accezione originaria sappiamo, anche grazie a un passo di Catone (de agri cult. 40.2), fosse altra e cioè la corteccia (più precisamente la pellicola di un albero tra la corteccia esterna e il legno), mentre codex (evoluzione del più arcaico caudex)15 era lemma largamente invalso certamente per denominare le scritture private della quotidianità nella forma delle tavolette lignee. Si pensi soprattutto alle dimensioni del fenomeno nell’ambito commerciale16 (dalla contabilità del pater familias del codex accepti et expensi alla documentazione degli argentarii), tanto da penetrare presto anche in altri ambiti privatistici, per esempio nella sfera testamentaria con quei particolari atti mortis causa, affermatisi appunto informalmente e poi ufficialmente riconosciuti, chiamati appunto codicilli17. Nella vita quotidiana i codici lignei di piccolo formato, come quelli di uso scolatisco, erano chiamati

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Cavallo 1975, 83 ss. Sen. dial. 10.13.4. 16 Gai. 2.77: Eadem ratione probatum est, quod in cartulis sive membranis meis aliquis scripserit, licet aureis litteris, meum esse, quia litterae cartulis sive membranis cedunt. Itaque si ego eos libros easve membranas petam nec inpensam scripturae solvam, per exceptionem doli mali summoveri potero. 17 Si veda il recente libro di Dursi 2020. Del tutto fantasiose le congetture, sulla base di Isid. etym. 5.24.14, la derivazione di codicilli da tal Codicellus che per primo ne fece uso (De Churruca 1975, 5 ss.; contra Guarino 1994, V, 135 ss.; cui adde Metro 1983, 451 ss.; Dursi 2020, 8 ss.), mentre è evidente la derivazione dalla forma libraria in cui venivano redatti; cfr. Ulp. 24 ad Sab., D. 32.52pr. su cui vedi infra, nt. 20 e §§ 3-4. 15

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Orazio Licandro anche pugillaria per la loro maneggevolezza, oppure se destinati alla corrispondenza si era solito chiamarli tabellae o tabulae a seconda delle dimensioni18. Insomma, la diffusione di materiali scrittori vari e di forme librarie differenti era tale da divenir causa di dibattute questioni giuridiche, come nel caso dell’esposizione di Gaio circa l’accessione della scrittura o del supporto scrittorio19, o a proposito della celebre analisi di Ulpiano sul legatum di libri e di biblioteca (Ulp. 24 ad Sab., D. 32.52pr.-9). Il giurista severiano, consapevole della poliedricità dell’oggetto, affrontava soprattutto nel principium la questione ‘libro’ sia sotto l’aspetto della forma editoriale (volumen o codex) sia sotto quello del supporto scrittorio (chartae o membranae o altro materiale ancora), e così annoverava tra i libri, accanto ai volumina (su cui non gravava alcun dubbio della loro essenza di libri), anche le scritture versate in codices20. In queste pagine, tuttavia, non è l’ambito privato della scrittura a interessarci quanto piuttosto quello pubblico. Ora, che la documentazione degli atti pubblici rivestisse la particolare forma libraria del codex è fatto largamente comprovato. Sebbene sin dall’età repubblicana l’espressione più invalsa per indicare i documenti pubblici, o le registrazioni presso archivi o commentarii pubblici, fosse quella di tabulae publicae, suo sinonimo era codex/codices: la corrispondenza, assai ricorrente nelle fonti antiche, come accade di imbattersi leggendo Cicerone21,

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Per un quadro corredato di fonti sull’uso delle tavolette nel mondo greco-romano vedi Degni 1997. Gai. 2.77. 20 Ulp. 24 ad Sab., D. 32.52pr.: Librorum appellatione continentur omnia volumina, sive in charta sive in membrana sint sive in quavis alia materia: sed et si in philyra aut in tilia (ut nonnulli conficiunt) aut in quo alio corio, idem erit dicendum. Quod si in codicibus sint membraneis vel chartaceis vel etiam eboreis vel alterius materiae vel in ceratis codicillis, an debeantur, videamus. Et Gaius Cassius scribit deberi et membranas libris legatis: consequenter igitur cetera quoque debebuntur, si non adversetur voluntas testatoris. Senza entrare nel merito della questione ereditaria, il frammento ulpianeo sostiene l’idea di una già precedente e larga diffusione della forma libraria codex (sia con fogli pergamenacei sia con fogli di carta di papiro sia in tavolette cerate o con altro materiale). È appena il caso di ricordare il sospetto di corruzione nel riferimento ai codices alimentato dapprima da Pringsheim 1920, 252 nt. 2, poi da Wenger 1953, 88 ss., e infine rafforzato dall’autorevolezza di Wieacker 1960, 95 s., 105 nt. 82. Sebbene il carattere insiticio di parti del frammento ulpianeo (si non adversetur voluntas testatoris), anche se non con la radicalità delle Textstufen wieackeriane, sia stato sostenuto da altri (Roberts, Skeat 1987, 33; Guzmán 1987, 597 nt. 3; Sperandio 2005, 39 ss.; Cascione 2010-2011, 68), tuttavia non ricorrono solide ragioni per negare l’autenticità del principium, sostanza che qui interessa, salvo che apparire funzionale all’idea (wieackeriana) di collocare in piena età tardoantica (fine del III secolo d.C. inizi del IV secolo d.C.) il passaggio dal volumen al codex. Vedi contra Archi 1961, 428 ss., praecipue 434 s.; Spallone 2008, 61 ss. (pur con evidenti limiti); Abatino 2011, 558 ss. Solitamente a Ulpiano si affianca un testo pseudopaolino (PS. 3.6.87: Libris legatis tam chartae volumina vel membranae et philyrae continentur; codices quoque debentur: librorum enim appellatione non volumina chartarum, sed scripturae modus qui certo fine concluditur aestimatur) che, al di là di alcuni dubbi, conferma lo stato dell’arte sulla coesistenza delle forme librarie certamente tra II e III secolo d.C.; e ciò anche sulla base della più generale questione della genuinità del materiale delle Pauli Sententiae e della sua attribuzione cronologica all’età severiana (vedi a tal proposito il recente volume di Ruggiero 2017, passim). Sulle apparenti differenze tra Ulpiano e Paolo, a mio avviso inesistenti, vedi ancora Krüger 1887, 76 ss., Sperandio 2005, 40 s.; Spallone 2008, 62 ss., 87; Cascione 2010-2011, 68; equilibrata la recente posizione di Cossa 2018, 87 ss., ove risalire a ulteriore letteratura. 21 Per esempio, in Cic. de domo 28.74: Scribae, qui nobiscum in rationibus monumentisque publicas versantur, non obscurum de meis in rem publicam beneficiis suum iudicium decretumque esse voluerunt; in Verr. 2.3.79.183: Est vero honestus, quod eorum hominum [scilicet scribarum] fidei tabulae publicae periculaque magistratuum committuntur; pro Sulla 15.44: […] prius etiam edituri iudicium fuerint scribae mei, si voluisses, quam in codicem rettulissent […]. 19

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie Festo 22 , Seneca 23 , soltanto per restare a qualche esempio, non può essere messa in discussione. Altri documenti offrono addirittura una conferma iconografica delle modalità di registrazione su tavole pubbliche: nella forma di codices erano le liste dei debiti dei cittadini (imposte arretrate), i syngrapha, di cui nei plutei o anaglypha di Traiano viene raffigurata una distruzione24. Ugualmente, basta osservare l’ara di Domizio Enobarbo per coglierne il ‘fotogramma’ di una registrazione pubblica, nell’ambito di una lustratio censoria, su grandi tabulae/codices.

Plutei traianei

Ara di Domizio Enobarbo

Sul piano semantico, se abbiamo prima visto la sinonimia liber/codex, è interessante osservare come sempre in ambito pubblicistico lo stesso valesse anche per liber e tabula: precise attestazioni ricorrono in Lex rep. tab. Bemb. l. 34: tabulas libros leiterasve pop[licas]; Front. aq. 100.4: tabulas chartas; Lex Irn. cap. 73: scribae, qui tabulas libros rationes communes […]. Perimetrato questo ‘primo ambito’ relativo al carattere circolare della semantica con riguardo a liber, tabula, codex, resta da restringere l’analisi sul loro uso per i testi di atti pubblici ben più rilevanti come quelli di carattere normativo25. Se ciò avveniva certamente per le leges, su cui non occorre soffermarsi ancora, è interessante invece osservare le modalità di registrazione dei senatus consulta, di cui apprendiamo preziose notizie grazie al senatus consultum de Cnaeo Pisone patre26 (SC. de Cn. Pisone Patre ll. 174-175: Ti. Caesar Aug(ustus) trib(unicia) potestate XXII manu mea scripsi: velle me h(oc) s(enatus) c(onsultum), quod | et factum IIII idus Decem(bres) Cotta et Messalla co(n)s(ulibus) referente me scriptum manu Auli q(uaestoris) meis in tabellis XIIII, referri in tabulas publicas). Nell’ultima linea di scrittura del testo epigrafico è registrata la prassi della redazione del dispositivo approvato dai patres in tabellae (nella fattispecie ben 14), tenute insieme (dunque, un codex nel suo senso primario) e poi ar-

22 Fest. s.v. “scribas” (ed. Lindsay, 446): scribas proprio nomine antiqui et librarios et poetas vocabant. At nunc dicuntur scribae et quidem librarii, qui rationes publicas scribunt in tabulis. 23 Sen. dial. 10.13.4: Claudius is fuit, Caudex ob hoc ipsum appellatus, quia plurium tabularum contextus caudex apud antiquos vocatur, unde publicae tabulae codices dicuntur 24 Torelli 1982, 89 ss. 25 Tralasciamo, per quanto aspetto scontato, che pure gli annales pontificum, nella forma di commentarii, fossero libri di tavolette lignee: Cavallo 1989a, 701. 26 Si rinvia all’edizione di Eck, Caballos Rufino, Fernández 1996.

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Orazio Licandro chiviate27. Tale prassi era assai più antica di quanto possa pensarsi e di certo largamente seguita già in età repubblicana. Fortunatamente, la documentazione epigrafica è tutt’altro che avara a tal proposito, e un’idea precisa ce la fornisce l’interessante dossier relativo a un affare risolto con l’approvazione di un senatoconsulto di età postsillana (senatus consultum de Amphiarai Oropii agris, 73 a.C.). La questione riguardò una controversia insorta tra alcune societates di |publicanorum e i cittadini di Oropos relativamente al pagamento del tributo per le terre del santuario del dio Anfiarao. Sul dossier è tornato recentemente, e con merito, Pierangelo Buongiorno28 sottolineando quanto si diceva prima sull’uso della forma codex degli acta publica attestato alle linee 57-5929. In effetti, l’espressione πραγμάτων συμβεβουλευμένων δέλτωι alluderebbe chiaramente a un codex composto da quattordici κηρώματα. E una conferma si trova nelle linee 29-31, in cui i consoli incaricati della cognitio ex sc. informavano che avrebbero riferito al senato sulla base del dossier redatto ὑπομνήματα rispetto a cui ancora una volta l’uso di δέλτως parrebbe indicare un complesso di tabulae, cioè un codex. L’abbondante documentazione epigrafica consente, allora, di comprendere meglio il cenno ai codices librariorum depositati nel tabularium del commento asconiano alla pro Milone30, come registri degli acta senatus e probabilmente a loro volta confluenti nel liber sententiarum in senatu dictarum menzionato in CIL VIII.270; CIL I Suppl 11451; CIL IV Suppl 23246 e ricordato ancora una volta da Cicerone31. Ma vi è di più. Solitamente, salvo puntuali eccezioni32, si trascura l’informazione svetoniana estremamente interessante che attribuisce a Cesare l’uso (sicuramente innovativo) di inviare epistulae al senato vergate su fogli di papiro ripiegati e tenuti insieme come libretti33. L’insolita innovazione cesariana si spiega con l’utile e maggiore comodità pratica, rispetto alle tavolette lignee, di poter scrivere su entrambe le facciate. Sempre su tabulae publicae erano redatti e conservati anche gli acta di magistrati e governatori provinciali, chiamati anch’essi codices, come è emblematico nella cosiddetta Tavola di Esterzili, che riporta la pronuncia del proconsole L. Elvio Agrippa, del 69 d.C. redatta su un codex ansatus34. Anche a proposito degli acta del pretore la ter-

27 Questione diversa è la realizzazione di tavole bronzee o di altro materiale, come l’avorio, secondo la problematica testimonianza di SHA vita Taciti 8.1-2: Ac ne quis me temere Graecorum alicui Latinorumve aestimet credidisse, habet in bibliotheca Ulpia in armario sexto librum elephantinum, in quo hoc senatusconsultum perscriptum est, cui Tacitus ipse manu sua subscripsit. 2. Nam diu haec senatusconsulta quae ad principes pertinebant in libris elephantini. Volterra 1969, 109 nt. 2 [= Volterra 1993c, 221 nt. 2]; cfr. Sperandio 2005, 35 nt. 78. 28 Buongiorno 2016, 47 ss., ove ulteriore bibliografia. Per altri spunti sulla redazione dei senatoconsulti Verrico 2017, 31 ss. 29 SC. de Amphiarai Oropii agris ll. 57-59 (FIRA I2, nr. 36): ἐν τῶι συμβουλίωι ταρῆσαν | οἱ αὐτοὶ οἱ ἐμ πραγμάτων συμβεβουλευμένων δέλτωι πρώτει | κηρώματι τεσσαρεσκαιδεκάτωι. Vedi anche Sherk 1969, n. 23. 30 Ascon. in Milon. 29 (ed. Clark, 33): Populus, duce Sex. Clodio scriba, corpus P. Clodi in curiam intulit cremavitque subselliis et tribunalibus et mensis et codicibus librariorum; su cui vedi Schubart 1921, 102. 31 Cic. ad Att. 13.33.3: [- - -] negotium dederis, reperiet ex eo libro, in quo sunt senatus consulta Cn. Cornelio L. consulibus. Talbert 1984, 303 ss.; (Bonnefond) Coudry 1994, 89 ss. Ma resta sempre una lettura di riferimento Mommsen 1907, 290 ss. Per l’età tardoantica vedi Stein 1905, 177 ss.; Atzeri 2008, 87 ss. 32 Puntuali osservazioni di Cavallo 1992, 97 ss.; Marcone 2019, 269 ss. 33 Svet. Caes. 56: Epistulae quoque eius ad senatum extant, quas primum videtur ad paginas et formam memorialis libelli convertisse, cum antea consules et duces non nisi tranversa charta scriptas mitterent. 34 CIL X.7852 (= ILS 5947): Imp. Othone Caesare Aug. cos. XV k. Apriles | Descriptum et recognitum ex codice ansato L. Helvi Agrippae procons(ulis) quem propulit (i.e. protulit) Gn. Egnatius | Fuscus scriba quaestorius in quo scriptum fuit it quod infra scriptum est tabula V c(apitibus) VIII|et VIIII et X. III idus mart. L. Helvius Acrippa proco(n)s(ul) caussa cognita pronvntiavit. Mommsen 1867, 102 ss.; De Ruggiero 1892, 350 ss., 403 ss.; Levick

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie minologia non cambiava; con tabulae e codices si indicavano tutte le registrazioni ufficiali del magistrato, a cominciare da quello che costituiva l’atto più significativo della carica, cioè l’edictum. Dalle Verrine si trae la prova inconfutabile dell’assoluta sinonimia tra tabulae publicae e codex35. La diffusa utilizzazione già nella tarda età repubblicana di tavolette per redigere decreta o edicta fu mantenuta sin dai primi tempi del principato. La prassi seguita è dimostrata da un altro documento esemplare, la Tessera Paemeiobrigensis, contenente gli edicta emanati nel 15 a.C. da Augusto nella qualità di proconsul della Transduriana provincia36 a favore della gens iberica dei Paemeiobrigenses. E non diversa fu la prassi di conservazione delle costituzioni imperiali. Non dobbiamo ritornare ora sul tema dibattutissimo degli archivi imperiali, tema già affrontato in pagine precedenti37, ma osservare come strumenti e modalità di registrazione e conservazione affermatisi in ambito pubblico si applicarono anche agli atti del princeps. L’iconografia della Notitia Dignitatum relativa al liber mandatorum depone inequivocabilmente a favore della forma libraria del codex e, per quanto tarda, non obbliga affatto a escludere che editorialmente il liber mandatorum fosse un codice membranaceo anche nei secoli precedenti. Oltre a quanto già detto prima, giustamente Marotta38 fa osservare come questa fosse la forma libraria anche dei commentarii diurni imperiali di cui dà notizia Svetonio a proposito di Augusto39 o, successivamente, di quei libri lintei in forma di codice conservati presso la bibliotheca Ulpia costituenti una sorta di diario giornaliero del palazzo imperiale40. E indubbiamente in forma di codex si presentava la corrispondenza imperiale dei codicilli, appunto piccoli codici41. 3. Il codex come nuova forma libraria nel I secolo d.C. Nel complesso, le informazioni disponibili convergono verso la conferma della prassi sin dall’età repubblicana, e sostanzialmente invariata anche nell’età imperiale, di costanti modalità di redazione

1983, 53 ss. Si veda, inoltre, Cadoni 1993, 77 ss., e Mastino 1993, 99 ss. Naturalmente, la tavola bronzea, destinata all’affissione pubblica, contiene nei capitoli 8, 9 e 10 riporta un estratto conforme, trascritto e collazionato con il documento originale versato su di un corpo di tavolette cerate o scritte con atramentum, legate insieme e munito di ‘maniglia’ per agevolarne il trasporto (perciò codex ansatus). 35 Cic. in Verr. 2.1.46.119: Itaque Lucius Piso multos codices implevit earum rerum in quibus ita intercessit, quod iste aliter atque ut edixerat decrevisset […]; Cic. in Verr. 2.3.10.26: Sic mihi persuadeo, iudices, tametsi omnia in istum hominem convenire putetis, tamen hoc vobis falsum videri. Ego enim, cum hoc tota Sicilia diceret, tamen adfirmare non auderem, si haec edicta non ex ipsius tabulis totidem verbis recitare possem, sicuti faciam. Da, quaeso, scribae, recitet ex codice professionem. Recita. EDICTVM DE PROFESSIONE. Negat me recitare totum; nam id significare nutu videtur. Quid praetero? An illud, ubi caves tamen Siculis et miseros respicis aratores? Dicis enim te in decumanum, si plus abstulerit quam debitum sit, in octuplum iudicium daturum. Nihil mihi placet praetermitti; recita hov quoque quod postulat totum. Recita. EDICTVM DE IVDICIO IN OCTOPLVM; Cavallo 1989a, 693 ss.; Mourgues 1998, 128 ss.; vedi anche Sperandio 2005, 36 nt. 80. 36 Su questo documento principalmente Licandro 2020a, 183 ss.; e Marotta 2020, 83 ss. 37 Vedi supra soprattutto parte III.1, § 5. 38 Marotta 1991, 29. 39 Svet. Aug. 64.2: Filiam et neptes ita instituit, ut etiam lanificio assuefaceret vetaretque loqui aut agere quicquam nisi propalam et quod in diuturnos commentarios referretur. 40 SHA vita Aurel. 1.7: Quae omnia ex libris linteis, in quibus ipse cotidiana sui scribi praeceperat, pro tua sedulitate condisces. Curabo autem, ut tibi ex Ulpia bibliotheca et libri lintei proferantur. 41 Per tutti, Seeck 1900, 174 ss.; in tal senso pure Marotta 1991, 37 s.; Marotta 1999, 52 s.

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Orazio Licandro e di registrazione della documentazione pubblica (si trattasse di atti normativi o amministrativi) nella forma di tabulae o codices42. Tuttavia, proprio alla prima fase del principato risalgono quelle prime notizie relative all’avvio di quella straordinaria innovazione, definita da Guglielmo Cavallo la “più grande rivoluzione nella storia del libro prima della stampa”43, cioè la penetrazione sempre più ampia, da divenire irrefrenabile, del codex quale forma libraria assai più agevole del volumen. Se prima abbiamo richiamato il passo senechiano sull’etimologia di codex da caudex, tronco di legno, forma destinata da tempi antichi alle tabulae publicae 44, che ci riporta a quel preciso ambito della registrazione delle scritture di rilevanza pubblica e, se come certo, le tabulae publicae continuarono a essere codici lignei, è anche vero che già a cavallo tra I secolo a.C. e I secolo d.C., il materiale scrittorio, già variegato per la già ampia diffusione del rotolo di papiro, si arricchiva della discreta presenza della morbida pergamena. Certo, anche per atti pubblici si continuava a ricorrere al flessibile volumen di carta di papiro, sebbene quello fosse il modello ideale di libro del tutto prevalente negli ambiti privati più altolocati, nei circoli delle élites colte ove si frequentavano opere letterarie di pregio o esemplari della letteratura scientifica destinati a un pubblico specializzato45. Ma a partire dal I secolo a.C. le fonti documentano i segni di un precoce cambiamento, che presto sarebbe divenuto inarrestabile, cioè quello della penetrazione quasi carsica della forma libraria del codex. Le informazioni sull’esistenza di codici di pergamena e di codici di carta di papiro, dà la misura dell’utilizzazione per un certo lasso di tempo, nella medesima forma libraria, dei due diversi materiali scrittori, l’uno, la carta di papiro, meno funzionale nella forma libraria del volumen per la sua fragilità, l’altra la pergamena assai più duttile. Ma che sin dall’inizio la pergamena sia stata utilizzata in una forma analoga ai pugillares o codices lignei, ne fanno fede alcuni noti versi di Marziale, che in tempi più recenti hanno suscitato maggior attenzione: Martial. epigr. 1.2-3: Qui tecum cupis esse meos ubicumque libellos / et comites longae quaeris habere viae, / hos eme, quos artat brevibus membrana tabellis: / scrinia da magnis, me manus una capit. / Ne tamen ignores ubi sim venalis et erres urbe vagus tota, me duce certus eris: / libertum docti Lucensis quaere Secundum / limina post Pacis Palladiumque forum46.

Marziale invitava i propri amici all’uso di piccoli taccuini, su cui erano riportati i suoi versi, più maneggevoli e facili da portare con sé, e anche più resistenti dei rotoli di papiro. Non vi è dubbio quindi che quando parla di tabellae o di pugillares lo fa con la consapevolezza di usare

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Per un quadro della documentazione amministrativa è fondamentale il bel libro di Nicolet 1989, praecipue 151 ss. Cavallo 1975, 83 ss. 44 Sen. dial. 10.13.4, ripreso da Isid. etym. 6.13.1: Codex […] dictus codex per translationem a caudicibus arborum. Mentre la traslitterazione greca kîdix è relativamente tarda. Ancorché significativa, ininfluente ai nostri fini perché molto più tarda è la testimonianza di Commodiano sul codex quale codex legis (Commod. carmen apolog. 11: Adgressusque fui traditus in codice legis, quid ibi rescirem; statim mihi lampada fulsit. Tunc vero agnovi deum summum in altis). Altri spunti relativi ad ambiti diversi in Mantovani 2000, 651 ss. 45 Vedi Johnson 2000, 613; Marcone 2019, 275 s. 46 Martial. epigr. 14.184: Homerus in pugillaribus membraneis. Ilias et Priami regnis inimicus Ulixes / multiplici pariter condita pelle latent; 14.186: Vergilius in membranis. Quam brevis immensum cepit membrana Maronem! / Ipsius vultus prima tabella gerit; 14.188: Cicero in membranis. Si comes ista tibi fuerit membrana, putato / carpere te longas cum Cicerone vias; 14.190: Titus Livius in membranis. Pellibus exiguis artatur Livius ingens, / quem mea non totum bibliotheca capit; 43

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie una semantica strettamente legata alla tipica forma scrittoria delle tavolette lignee (cerate o scritte con atramentum)47. Se accenniamo alle tabellae di membrana di Marziale non lo facciamo certo per proporne un’automatica estensione al ‘libro giuridico’48 e, tuttavia, quei versi non sono affatto da sottovalutare, perché offrono un’inconfutabile testimonianza della forza di penetrazione e diffusione della forma libraria del codice membranaceo sin dalla sua genesi, tutt’altro che semplicemente ristretta agli ambienti popolari e/o religiosi e letterari, come ancora autorevolmente si sostiene. L’enfasi di Marziale infatti si spiega soltanto se posta in relazione alla forma libraria più comune, cioè il libro in forma di codex ligneo. Un interessante frammento di un’orazione di Catone (ORF 3, frg. 133)49 svela che i suoi interventi erano redatti su codice di tavolette50: ciò ha fatto pensare che la produzione letteraria in prosa dell’epoca avesse già adottato tale forma libraria, e indurre Guglielmo Cavallo a spingersi addirittura più in là, non scartando affatto l’ipotesi che il fenomeno avesse investito anche la testualità scritta del ‘giuridico’, a cominciare da coloro qui fundaverunt ius civile, i quali, tra i primi, “una volta superata la fase delle consuetudini orali”, si avvalsero di tavolette per ordinare appunto la “prima sapienza del ius”51. L’osservazione di Cavallo, sostenuta anche da Oronzo Pecere, sulla diffusione della forma libraria indigena del codice di tavolette di legno, si basa del resto sul fatto inconfutabile della predominanza dei libri di contenuto religioso e giuridico nel panorama librario sin dai secoli della storia arcaica di Roma52. La sensazione, allora, è che già, al più tardi, tra I e II secolo d.C. si andassero profilando elementi di novità nell’universo giuridico relativi alla veste editoriale o che comunque si fosse innescato in tal senso un forte processo culturale. Sebbene sia impossibile, in questa sede, riesaminare funditus la questione, per la quale restano fondamentali soprattutto le Quellen di Leopold Wenger53 e le Textstufen di Franz Wieacker54, è assai utile sia pure in via cursoria ri14.192: Ovidii Metamorphosis in membranis. Haec tibi, multiplici quae structa est massa tabella, / carmina Nasonis quinque decem gerit. Vedi anche Iuv. sat. 7. 47 Per un inquadramento Blanck 2008, 92, 134 ss.; Barbier 2012, 48 ss.; Ammirati 2015, passim; Licandro 2020a, 128 ss. 48 Secondo Sperandio 2005, 37 ss., Marziale non sarebbe neppure utilizzabile perché parlerebbe di membranae senza usare il termine codex, ma si tratta di un’obiezione tutt’altro che decisiva, perché è evidente nella rappresentazione del poeta quale fosse la forma libraria delle tabellae in questione. Più in generale si leggano le pagine di Cavallo 1989b, 307 ss., in cui si raccolgono le testimonianze tardorepubblicane in materia. 49 Cato de sumptu suo 51.169 (frg. orat. ex Fronto 374-377): Iussi caudicem proferri, ubi mea oratio scripta erat de ea re, quod sponsionem feceram cum M. Cornelio. Tabulae prolatae: maiorum benefacta perlecta; deinde quae ergo pro re p. fecissem leguntur. Ubi id utrumque perlectum est, deinde scriptum erat in oratione: “Numquam ego pecuniam neque meam neque sociorum per ambitionem dilargitus sum”. Attat noli, noli scribere, inquam, istud: nolunt audire. Deinde recitavit: “Numquam ego praefectos per sociorum vestrorum oppida inposivi, qui eorum bona liberos diriperent”. Istud quoque dele, nolunt audire; recita porro. “Nunquam ego praedam neque quod de hostibus captum esset neque manubias inter pauculos amicos meos divisi, ut illis eriperem qui cepissent”. Istuc quoque dele: nihil eo minus volunt dici; non opus est recitato. “Numquam ego evectionem datavi, quo amici mei per symbolos pecunias magnas caperent”. Perge istuc quoque uti cum maxime delere. “Numquam ego argentum pro vino congiario inter apparitores atque amicos meos disdidi neque eos malo publico divites feci”. Enimvero usque istuc ad lignum dele. Vide sis quo loco res p. siet, uti quod rei p. bene fecissem, unde gratiam capiebam, nunc idem illud memorare non audeo, ne invidiae siet. Ita inductum est male facere inpoene, bene facere non inpoene licere. 50 L’uso di codici con ‘fogli’ di legno per documenti di natura molto diversa è attestato ancora nel IV secolo d.C. Un esempio ci viene dall’oasi di Dakhla in cui si registravano su codici lignei i conti di una fattoria ma si versavano pure testi letterari come l’esemplare di un’orazione di Isocrate; vedi Lawrence Sharpe III 1992, 127 ss. 51 Cavallo 1989a, 701 s. 52 Pecere 1993, 302 ss. 53 Wenger 1953, 78 ss., 523 ss. 54 Wieacker 1960, passim.

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Orazio Licandro chiamare un fatto forse degno di un’attenzione maggiore di quella sinora dedicatagli, vale a dire l’esistenza di un’opera giurisprudenziale dal singolare titolo di membranae di Nerazio Prisco, consiliarius di Adriano. Fritz Schulz, puntando più sul materiale e sul genere di scritto, precisa subito, nei pochi righi dedicati, che “l’artificioso e isolato titolo (membranae = pergamene) non indica un’opera in forma di codice pergamenaceo, ma significa semplicemente “abbozzi” – un genere comunemente scritto su pergamena”55. Non si capisce, però, se Schulz ritenga godessero di maggiore circolazione i rotoli di pergamena, e perché mai per gli ‘abbozzi’ si dovesse prediligere la più resistente pergamena invece della carta di papiro. Lungo questa scia, altri, perciò, hanno attribuito la scelta del titolo alla natura della scrittura neraziana, cioè ‘abbozzi’, ‘appunti’, ‘annotazioni’ (Notizen), e che l’opera almeno nello stato in cui è giunta nelle mani dei giustinianei non fosse altro che una riedizione sunteggiata da una mano tardoantica56. Nel cedere a un eccesso di ipercriticismo, si è addirittura pensato di non riconoscere a Nerazio neppure la paternità dell’opera, il cui titolo piuttosto sarebbe da ricondurre alla dedizione di alcuni auditores che raccolsero gli appunti del maestro57. Ma c’è anche chi, come Aldo Schiavone, collocato lungo la scia lasciata dalle Quellen di Leopold Wenger, non si è lasciato fuorviare dalla presunta ‘bizzarria’ del titolo, tanto da proporre con maggior accuratezza filologica di tradurre con “quaderni” o “fogli”, offrendo, quindi, una definizione di certo non indicativa della forma volumen58 semmai allusiva alla nuova del codex o del parchment notebook secondo un’ormai invalsa terminologia codicologica. Che membranae significasse ‘appunti’ non è niente di più di una moderna illazione tendente a far prevalere il carattere dell’opera per negarne l’evidenza della novità editoriale in cui fu confezionata da Nerazio, carattere che agli occhi dei compilatori giustinianei ormai non appariva affatto così singolare come nel I secolo d.C. In effetti, basta dare una semplice scorsa all’Index Florentinus, ove all’8° posto occupato da Nerazio Prisco, collocato tra Labeone e Giavoleno, si legge μεμβράνων βιβλία ἑπτά, per osservare l’inesistenza di altre opere nel panorama editoriale della letteratura giurisprudenziale dell’intera età classica con un titolo del genere, la cui origine quindi deve essere spiegata diversamente. Purtroppo, credo che nella comune interpretazione del titolo membranae non si siano tenuti in considerazione i chiarissimi versi prima richiamati di Marziale, un contemporaneo del giurista, e si sia rinunciato a capovolgere il ragionamento, che porterebbe al contrario a concludere che fu proprio la forma libraria dettata dalla materia del supporto scrittorio in quanto destinata a scritti agili ad aver indotto Nerazio a chiamare così la sua opera59. Difficilmente egli avrebbe dato quel titolo tanto ‘originale’ in evidente contrasto con il rotolo di papiro, se non per sottolinearne anche, forse soprattutto, il profilo della novità editoriale, agile e

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Schulz 1968, 411. Greiner 1973, 65 ss., 113; su cui vedi le riserve critiche di Honorè 1975, 225 ss.; Bona 1974, 510; Horak 1975,

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González Roldán 2017, 314 ss. Schiavone 2017, 359. 59 Non diversamente Marcone 2019, 273 s., che accentua il dato materiale. Mentre non è decisiva l’obiezione di Abatino 2011, 562 nt. 16, secondo cui le citazioni neraziane di Ulpiano Celso e Paolo ex libro membranarum (Ulp. 15 ad ed., D. 5.3.13.3; Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.7.3; Ulp. 17 ad ed., D. 8.3.3pr.; Cels. 20 dig., D. 8.6.12; Ulp. 26 ad ed., D. 12.4.3.5; Paul. ad Sab., D. 24.3.17pr.) siano un riferimento più al titolo che al parchment notebook quale vettore dell’opera. 58

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie adeguata agli incipienti cambiamenti nel mondo della cultura in generale e del diritto in particolare60. Ma vi è ancora qualcos’altro su cui riflettere. Nei frammenti delle membranae vi è una riflessione fondamentale sullo ius finitum, assunta oggi quasi come il paradigma della specifica intelligenza del giurista: il fatto che a proposito dell’interpretatio iuris Nerazio usi il verbo constituere61. È vero ci si è divisi sull’esatta interpretazione del quae constituuntur, cioè se fosse intenzione del giurista riferirlo strettamente alle costituzioni imperiali oppure più generalmente alle fonti di produzione normativa62. Forse, in mancanza di altri più stringenti elementi e argomenti, non siamo costretti a leggervi una diretta allusione alle constitutiones principum invece che a ogni constituere a prescindere dalla provenienza dai principes o dai prudentes. Ma indubbiamente il labeoniano Nerazio consegnava alle sue membranae la radicata convinzione negli assetti del II secolo d.C. della doverosità di un procedimento definitorio tale da assicurare allo ius univoca e non discutibile conoscenza63. Naturalmente, il pensiero di Nerazio guardava ai prudentes e al diritto da questi ‘creato’, nella prospettiva del rapporto tra consapevolezza della tradizione e certezza dello ius, eppure, nello scenario mutato del II secolo d.C., in cui egli visse, proprio l’inibizione scagliata contro di loro di non indagare le motivazioni della scienza giuridica, rendeva la sua visione ancor più funzionale alla saldezza della nuova fonte di produzione normativa. Del resto, a Nerazio non sfuggiva la circolarità osmotica delle relazioni tra una scienza giuridica forte, sostegno degli indirizzi di politica normativa dei principes e il continuo rifarsi di questi, attraverso la cancelleria, alle opere giurisprudenziali per irrobustirne l’autorevolezza64. Anche, grazie al consolidarsi di simili dinamiche maturava la svolta del progressivo accentramento delle fonti di produzione normativa, laddove il constituere si addensava nei luoghi delle decisioni

60 Anche in questa vicenda vi si può scorgere, da un lato, una conformità alla mentalità tipica romana, analoga al processo che portò il termine codex, dalla variegata polisemia, a divenire la denominazione per eccellenza del libro giuridico, quale raccolta di norme sia di carattere autoritativo sia di natura giurisprudenziale, come leggiamo nelle costituzioni giustinianee relative alla compilazione (co. Deo auctore 11: Ideoque iubemus duobus istis codicibus omnia gubernari, uno constitutionum, altero iuris enucleati et in futurum codicem compositi: vel si quid aliud a nobis fuerit promulgatum institutionum vicem optinens, ut rudis animus studiosi simplicibus enutritus facilius ad altioris prudemtiae redigatur scientiam). Da un altro lato, non può escludersi una riproduzione magari successiva dell’opera neraziana nella forma più consueta nei ‘tradizionalisti’ ambienti giurisprudenziali, cioè in volumen, mentre resterebbe davvero inspiegabile immaginare che l’originaria edizione fosse su rotoli di papiro (giustamente, Wenger 1953, 88 ss., 90; cfr. Mantovani 2016, 32). Sicché, in definitiva, può ammettersi sia che le membranae in generale costituissero un prodotto di concezione tipicamente romana e “diretto precedente della nuova tipologia libraria” (Migliardi Zingale 2004-2005, 355; Migliardi Zingale 2005, 234), sia che le membranae di Nerazio fossero negli ambienti giuridici un’autentica anomalia editoriale, nel senso migliore della sua forza innovativa. 61 Nerat. 6 membr., D. 1.3.21: Et ideo rationes quae constituuntur, inquiri non oportet: alioquin multa ex his quae certa sunt subvertuntur. Riecheggia forte la scrittura di Gaio, che non si capacita del capovolgimento della soluzione a proposito dell’accessione della tabula picta rispetto a quella applicata alla carta o alla pergamena scritta: cuius diversitates vix idonea ratio redditur (Gai. 2.77). Non fugano tutte le difficoltà le riflessioni di Monteverdi 2019, 103 ss. 62 A tal proposito Grelle 1972, 135 s, 164 s.; Scarano Ussani 1979, 58 ss.; Scarano Ussani 1989, 68 ss.; Scarano Ussani 1992, 72 nt. 135; Carcaterra 1984, 429 ss.; cfr. Camodeca 1976b, 36; Camodeca 2007, 291 ss.; Talamanca 1977, 302 ss. 63 In questo senso Casavola 2011, 41 ss., che differenzia l’approccio di Nerazio, a cui riconosce “maggiore consapevolezza filosofica e metodologica”, da quello di Giuliano troppo rivolto al passato, a ciò che era a maioribus constituta; cfr. Bretone 1987, 290. Schiavone 2017, 361, legge in Giuliano una rimodulazione “più morbida e meno dogmaticamente intransigente” della visione neraziana. 64 Gualandi 2012, II, 85 ss.

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Orazio Licandro imperiali. Come abbiamo visto in pagine precedenti, grazie soprattutto alla partitio gaiana65, constituere, constitutio avevano abbandonato l’antica valenza tardorepubblicana per divenire verba ormai pressoché esclusivi della sfera normativa del princeps. E vi erano luoghi e strumenti grazie ai quali si definiva il constituere e, nell’addensarsi delle pronunce imperiali, si stabilizzava: gli archivi pubblici (centrali e provinciali) e i registri che da tempo immemorabile custodivano atti nella forma del codex. Per spiegare la tendenza alla stabilizzazione del diritto, Mario Bretone racchiude il cuore del problema ricorrendo all’efficace metafora, secondo la quale “fra il codice e l’autorità, il libro e il comando, si instaura un sotterraneo legame”66. 4. L’idea del libro-raccolta di materiale normativo imperiale Questo legame, destinato a dissolvere presto la sua sotterraneità, deve essere restituito al suo momento genetico assai più antico di quanto si soglia pensare. Come dicevamo prima, i prudentes restarono a lungo legati alla classica forma libraria in rotolo di papiro (volumen). Persino i primi codices privati, pur redatti da giuristi-funzionari, non possedevano questa denominazione: a loro ci si rivolgeva come corpora, mentre soltanto con il Codex Theodosianus furono assorbiti nella ‘famiglia’ dei codices. Richiamando ancora Ulpiano (Ulp. 24 ad Sab., D. 32.52pr.), sappiamo che le opere in volumina erano certamente considerati libri, ma che tra i libri rientravano anche i codices; e prima ancora abbiamo riscontrato in ambienti pubblici, per esempio a proposito della registrazione dei senatoconsulti, l’uso come sinonimi di liber e codex. E se il lemma liber indicava pure un segmento della partizione di un’opera nella forma volumen (l’unità di rotolo)67, nella forma codex, invece, liber restava funzionale alle distinzioni tematiche: ciò sarebbe accaduto nei codices tardoantichi privati e in quelli ufficiali, ma è assai probabile, se non certo, che tale fenomeno già fosse in gestazione sin dalla seconda metà del II secolo d.C. di cui i libri XX de constitutionibus di Papirio Giusto, strutturati prevalentemente per nuclei tematici come sembra intravedersi grazie al materiale raccolto nel I e nel II libro, fossero “una testimonianza precoce”68. Il che ci obbliga a prospettare che a fronte del metodo di archiviazione ufficiale delle constitutiones imperiali, fondato sul criterio cronologico, a un certo momento dovette affacciarsi pure l’utilità del criterio ratione generis, magari in combinazione con quello cronologico. È allora importante collocare l’opera e il ruolo di Papirio Giusto in questo mutamento di paradigmi e approcci alla legislazione imperiale anche nell’ambito della letteratura giuridica. A tal proposito interessanti spunti soggiungono da due testi assai noti dell’epistolario pliniano; due testi particolarmente interessanti69, relativi alla disciplina degli esposti, sinora

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Gai. 1.2. Bretone 1987, 371. 67 Isid. etym. 6.13.1: codex multorum librorum est; liber unius voluminis; cfr. Liv. 10.31.10. Canfora 2019, 86. 68 Cfr. Schiavone 1993, 973. 69 Plin. epist. 10.65.1-3: C. Plinius Traiano imperatori. Magna, domine, et ad totam provinciam pertinens quaestio est de condicione et alimentis eorum, quos vocant ϑρεπούς. 2. In qua ego auditis constitutionibus principum quia nihil inveniebam aut proprium aut universale, quod ad Bithynos ferretur, consulendum te existimavi, quid observari velles; neque enim putavi posse me in eo, quod auctoritatem tuam posceret, exemplis esse contentum. 3. Recitabatur autem apud me edictum, quod di66

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie oggetto di una finissima esegesi di Edoardo Volterra, limitata però all’efficacia delle costituzioni imperiali70. Naturalmente, non è questo il profilo di nostro maggior interesse quanto piuttosto quello del valore dell’attestazione delle due epistulae del carteggio pliniano dell’insorgenza già in età traianea di un’esigenza di certezza circa l’autenticità del materiale normativo ‘recitato’ nei tribunali sparsi nei territori dell’impero. In particolare, Plinio, dovendo affrontare il caso dei ϑρεποί, cioè degli orfani abbandonati e poi raccolti da estranei, lamentava al princeps di non aver trovato alcuna norma al riguardo nonostante il grande impegno di ricerca e studio delle costituzioni imperiali dei predecessori, e lo informava altresì della recitatio dinanzi a lui di un editto di Augusto e di ben sei epistulae imperiali (una di Vespasiano, due di Tito e tre di Domiziano). Plinio però chiariva di non essersela sentita di giudicare in base agli exempla recitatigli di cui sospettava l’apocrifia e aveva preferito, prudentemente, rimettersi all’auctoritas del principe, confidando nel rinvenimento degli originali o di copie autentiche negli archivi imperiali centrali (et quia vera et emendata in scriniis tuis esse credebam). Traiano, dal canto suo, confermava di aver trovato diverso materiale presso i commentari dei principi menzionati, ma nessun atto normativo relativo alla Bitinia. È evidente, dunque, il quadro che si ricava. Primo: già a cavallo tra I e II secolo d.C., è invalsa l’utilizzazione diretta in sede giurisdizionale degli atti normativi del principe (siamo agli albori della cosiddetta Rezitationspraxis)71, per i quali si attingeva o agli archivi centrali o, nel caso di processi dinanzi ai governatori provinciali, agli archivi ufficiali locali72, al netto del problema dell’esatta corrispondenza del materiale depositato in sede centrale e periferica. Secondo: le costituzioni imperiali erano catalogate almeno per cronologia, per semestre o anno, mentre è più incerto che lo fossero già pure per materia, o blocchi tematici. Certamente, però, la conservazione integrale degli atti imperiali e dell’istruttoria, muniti quindi anche delle consultationes dei funzionari o dei libelli dei privati, si desume dalla loro utilizzazione da parte dei prudentes sin dalla fine del I secolo d.C., perché non si spiegherebbe altrimenti come avrebbero potuto possedere quei dati. Ma la deduzione logica è sorretta da conferme testuali come quella offerta, per esempio, da un escerto del de officio proconsulis ulpianeo contenuto nella Collatio, il che significa che anche i prudentes severiani nel selezionare le costituzioni imperiali tendevano a riportarne tutti,

cebatur divi Augusti, ad Andaniam pertinens; recitatae et epistulae divi Vespasiani ad Lacedaemonios et divi Titi ad eosdem et Achaeos, et Domitiani ad Avidium Nigrinum et Armenium Brocchum proconsules, item ad Lacedaemonios. Quae ideo tibi non misi, qia et parum emendata et quaedam non certae fidei videbantur, et quia vera et emendata in scriniis tuis esse credebam; epist. 10.66.1-2: Traianus Plinio. Quaestio ista, quae pertinet ad eos, qui liberi nati expositi, deinde sublati a quibusdam et in servitute educati sunt, saepe tractata est, nec quicquam invenitur in commentariis eorum principum, qui ante me fuerunt, 2 quod ad omnes provincias sit constitutum. Epistulae sane sunt Domitiani ad Avidium Nigrinum et Armenium Brocchum, quae fortasse debeant observari; sed inter eas provincias, de quibus rescripsit, non est Bithynia. Et ideo nec adsertionem denegandam his, qui ex eius modi causa in libertatem vindicabuntur, puto, neque ipsam libertatem redimendam pretio alimentorum. 70 Volterra 1939, 451 ss. [= Volterra 1993a, 391 ss.]. 71 Sul tema è oggi fondamentale il punto di vista di Marotta 2012, 357 ss.; cfr. Sherwin-White 1985, 650 ss. 72 Mi sembra infondata l’opinione di Sherwin-White 1966, 650 ss., secondo cui il passo pliniano dimostrerebbe la mancanza di archivi in Bithynia. Al contrario, se ne desume semmai l’inadeguatezza di raccolte sommarie, tanto da dar adito alla spregiudicatezza forense di ricorrere alla recitatio di testi imperiali non autentici. Sugli archivi dei governatori locali altri spunti in Haensch 2013, 333 ss.

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Orazio Licandro o quasi, gli elementi paratestuali identificativi73, esigenza ancor più impellente nella prassi giudiziaria74. Non solo. Stando a ciò che scrive Plinio, erano in circolazione evidentemente anche rudimentali corpora confezionati localmente ma di dubbia provenienza e privi di alcun affidamento circa l’autenticità del materiale raccolto anche agli occhi degli stessi governatori provinciali; mentre la risposta di Traiano, nel confermare il reperimento in sede centrale delle epistulae di Domiziano ai due proconsules Avidio Nigrino e Armenio Brocco, prive però di riferimenti alla provincia della Bitinia, testimonia l’esistenza di grandi registri in cui gli interventi imperiali venivano raccolti e ordinati cronologicamente tenendo conto dell’imperatore emanante. Tuttavia, non è mancato chi ha scorto in un frammento dell’epistula di Antonino Pio al koinón della provincia d’Asia, citata nel de excusationibus di Modestino, opera redatta in greco e secondo un metodo simile a quello di Papirio Giusto75 e forse già persino su codex76, un indizio, per quanto tenue e nonostante i sospetti di alterazione testuale del frammento,

73 Ulp. 7 de off. proc., Coll. 1.11.1-4: Cum quidam per lasciviam causam mortis praebuisset, conprobatum est factum Taurini Egnati proconsulis Baeticae a divo Hadriano, quod eum in quinquennium relegasset. [2] Verba consultationis et rescripti ita se habent: “Inter Claudium, optime imperator, et Evaristum cognovi, quod Claudius Lupi in convivio, dum sago iactatur, culpa Mari Evaristi ita male acceptus fuerit, ut post diem quintum moreretur. Atque adparebat nullam inimicitiam cum Evaristo ei fuisse. Tamen cupididatis culpa coercendum credidi ut ceteri eiusdem aetatis iuvenes emendarentur. Ideoque Mario Evaristo urbe Italia provincia Baetica in quinquennium interdixi et decrevi, ut impendi causa duo milia patri eius persolveret Evaristus, quod manifesta eius fuerat paupertas”. [3] Verba rescripti: “Poenam Mari Evaristi recte, Taurine, moderatus es ad modum culpae: refert enim et in maioribus delictis, consulto aliquid admittatur an casu”. [4] Et sane in omnibus criminibus distinctio haec poenam aut iustam provocare debet aut temperamentum admittere; di palmare evidenza se messo a confronto con il rimaneggiamento subito in Ulp. 7 de off. proc., D. 48.8.4.1: Cum quidam per lasciviam causam mortis praebuisset, comprobatum est factum Ignatii Taurini proconsulis Baeticae a divo Hadriano, quod eum in quinquennium relegasset. A tal proposito, vedi Volterra 1971, 855 ss. [= Volterra, 1994, 37 ss.], il quale supera ogni dubbio sulla provenienza del frammento della Collatio dal de officio proconsulis sulla base del confronto con Coll. 11.7.1-5/D. 47.14.1pr.; Coll. 8.7.1-2/D. 48.10.9pr.-4; Coll. 3.3.16.1-6/D. 1.6.2. Volterra, inoltre, parla di un “raffazzonatore” del testo ulpianeo, eppure è difficile stabilire se il rescritto sia stato ‘massimato’ da una mano tardoantica o dai giustinianei. Cfr. De Dominicis 1950, 207; Gualandi 2012, II, 27 s. Ancora, come messo ben in luce da Gualandi 2012, II, 48 ss., in alcuni rescritti, conservati fortunatamente in duplice veste (con una maggiore estensione del testo o con un breve sunto), si può pienamente cogliere il lavoro di rimaneggiamento dello stile enfatico e solenne impresso dalla cancelleria ab epistulis ai testi imperiali nella loro originale stesura: questo è il caso di Macer. 2 de iud. publ., D. 1.18.14: Divus Marcus et Commodus Scapulae Tertullo rescripserunt in haec verba: “Si tibi liquido compertum est Aelium Priscum in eo furore esse, ut continua mentis alienatione omni intellectu careat, nec subest ulla suspicio matrem ab eo simulatione dementiae occisam: potes de modo poenae eius dissimulare, cum satis furore ipso puniatur. et tamen diligentius custodiendus erit ac, si putabis, etiam vinculo coercendus, quoniam tam ad poenam quam ad tutelam eius et securitatem proximorum pertinebit. si vero, ut plerumque adsolet, intervallis quibusdam sensu saniore, non forte eo momento scelus admiserit nec morbo eius danda est venia, diligenter explorabis et si quid tale compereris, consules nos, ut aestimemus, an per immanitatem facinoris, si, cum posset videri sentire, commiserit, supplicio adficiendus sit. cum autem ex litteris tuis cognoverimus tali eum loco atque ordine esse, ut a suis vel etiam in propria villa custodiatur: recte facturus nobis videris, si eos, a quibus illo tempore observatus esset, vocaveris et causam tantae neglegentiae excusseris et in unumquemque eorum, prout tibi levari vel onerari culpa eius videbitur, constitueris. nam custodes furiosis non ad hoc solum adhibentur, ne quid perniciosius ipsi in se moliantur, sed ne aliis quoque exitio sint: quod si committatur, non immerito culpae eorum adscribendum est, qui neglegentiores in officio suo fuerint”; e di Modest. 12 pandect., D. 48.9.9.2: Sane si per furorem aliquis parentem occiderit, inpunitus erit, ut divi fratres rescripserunt super eo, qui per furorem matrem necaverat: nam sufficere furore ipso eum puniri, diligentiusque custodiendum esse aut etiam vinculis coercendum. Utile pure Townend 1961, 375 ss. 74 De Francisci 1955, 185 s. 75 Così Volterra 1993d, 312 s.; cfr. Volterra 1968, 215 ss. [= Volterra 1993b, 165 ss.]. 76 Vedi Lombardi 1964, 329 ss.; Masiello 1983, 48 s.; Marotta 1988, 65, 103 s. e nt. 35; cfr. Volterra 1993d, 305 ss.

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie dell’organizzazione del materiale normativo imperiale ratione temporis77. Come pure, non sono passati inosservati non solo il plurale διατάξεσιν riferito agli atti normativi di Commodo, ma pure l’alternarsi lungo l’intero escerto del libro II dell’opera di Modestino sia di citazioni dirette sia di citazioni indirette mediante scritti di altri prudentes di atti normativi di imperatori, segnati anche da interventi di ‘rammendo e coordinamento espositivo’ dello stesso giurista. Tutto ciò ha indotto seriamente a credere che egli avesse tra le mani gli originali o, se si preferisce, le versioni ufficiali conservate nelle raccolte degli archivi imperiali78. Che il principio razionale, a cui si ispiravano i funzionari preposti alla direzione della cancelleria imperiale nella concezione e nella organizzazione delle raccolte, fosse necessariamente e innanzitutto quello del tempo dell’emanazione dell’atto imperiale è ribadito ancora dallo stesso Modestino con l’enunciazione, sempre nel de excusationibus, del principio della prevalenza della constitutio posteriore, successivamente elevato dai giustinianei a principio generale: Αἰ μεταγενέστεραι διατάξεις ἰσχυρότεραι τῶν πρὸ αὐτῶν εἰσιν (Mod. 2 excus., D. 1.4.4)79. La notazione di Modestino lascerebbe intendere l’introduzione di novità, rispetto all’età traianea, nel sistema di archiviazione consistente nella combinazione del criterio per materia con quello tradizionale di carattere cronologico ed è logico dedurre che ciò non potette avvenire che durante il principato di Marco Aurelio e negli anni in cui Papirio Giusto fu attivo in seno al consilium principis e alla cancelleria imperiale. Henryk Kupiszewski, pur senza pronunciarsi sulla forma libraria delle prime raccolte negli archivi pubblici, ritiene certamente seguita la combinazione del criterio tematico con quello cronologico nel raggruppamento delle costituzioni imperiali. Mentre, come abbiamo riscontrato nelle pagine precedenti, appare certa, almeno sino a un certo momento, l’applicazione del criterio cronologico nel lavoro di raccolta e organizzazione del materiale normativo imperiale, l’ipotesi

77 Mod. 2 excus., D. 27.1.6.8: Ἔστιν δὲ καὶ ἐν ταῖς τοῦ βασιλέως Κομμόδου διατάξεσιν ἐγγεγραμμένον κεφάλαιον ἐξ ἐπιστολῆς Ἀντωνίνου τοῦ Εῷσεβοῦς, ἐν ᾧ δηλοῦται καὶ φιλοσόφους ἀλειτουργησίαν ἔχειν ἀπὸ ἐπιτροπῶν. ἔστιν δὲ τὰ ῥήματα ταῦτα: ῾ Ὁμοίως δὲ τούτοις ἅπασιν ὁ θειότατος πατήρ μου παρελθὼν εὐθὺς ἐπὶ τὴν ἀρχὴν διατάγματι τὰς ὑπαρχούσας τιμὰς καὶ ἀτελείας ἐβεβαίωσεν, γράψας φιλοσόφους ῥήτορας γραμματικοὺς ἰατροὺς ἀτελεῖς εἶναι γυμνασιαρχιῶν ἀγορανομιῶν ἱερωσυνῶν ἐπισταθμιῶν σιτωνίας ἐλαιωνίας καὶ μήτε κρίνειν μήτε πρεσβεύειν μήτε εἰς στρατείαν καταλέγεσθαι ἄκοντας μήτε εἰς ἄλλην αὐτοὺς ὑπηρεσίαν ἐθνικὴν ἥ τινα ἄλλην ἀναγκάζεσθαι ᾽ [Anche nelle

costituzioni dell’imperatore Commodo è stato riportato un capitolo di un’epistola di Antonino Pio, in cui si dichiara che anche i filosofi sono esonerati dalle tutele. Le parole sono esattamente queste: “Ugualmente a tutti costoro il divo mio padre, appena ha assunto il potere, ha confermato con un editto tutti gli onori e le immunità a quelli che ne godevano, scrivendo che i filosofi, i retori, i grammatici, i medici fossero esonerati dalle ginnasiarchie, dalle agoranomie, dai sacerdozi, dall’obbligo di alloggiare soldati, dall’obbligo di acquistare frumento e olio, e inoltre che non fossero obbligati né a essere giudici né a essere ambasciatori né a essere arruolati contro la loro volontà, né fossero costretti ad altro servizio in provincia o a qualsiasi diversa funzione”]. 78 Marotta 1988, 101 ss., sulla scorta di Masiello 1983, 46 ss., ha visto una dipendenza di Modestino da Paolo, muovendo da un incoerente argomentare del giurista nella successione dei brani interni, che ne rivelano a volte l’”origine glossematica”, per la verità già sottolineata da Lenel 1889, I, 711 nt. 2; ma il sospetto di genuinità vale anche per sostenere la tesi opposta; sul punto vedi anche Varvaro 2007, 5809 ss.; mentre del tutto convinto che Modestino offra una prova della raccolta su base cronologica degli atti normativi imperiali è Coriat 1990, 231. Cfr. Volterra 1971, 978 [= Volterra 1994, 160]; Gualandi 2012, II, 35. Vedi anche Volterra 1993d, 314. Non mi sembra possieda molto senso la precisazione schulziana del carattere anonimo delle raccolte di archivio (Schulz 1968, 268), o che sia tutt’al più ridondante: proprio perché atti interni alla cancelleria i Semenstria non potevano mutuare il nome da questo o da quell’altro funzionario. 79 Ma già presente in CTh. 1.1.5: […] sed ipsius etiam compositione operis validiora esse, quae sunt posteriora, monstrante […]; vedi sul punto anche Volterra 1993d, 314.

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Orazio Licandro di Kupiszewski sull’applicazione di un criterio tematico da parte dei funzionari degli archivi imperiali è invece considerata ‘azzardata’, sebbene sia ragionevole pensare, anche sulla scorta del caso pliniano, a un progressivo affinamento dei criteri di archiviazione. Oltre al frammento di Modestino, tuttavia si può addurre un dato quantitativo relativo all’opera di Papirio Giusto che impone una riflessione: 10 dei 27 provvedimenti di Marco Aurelio tratti dai compilatori giustinianei dal secondo libro riguardano il curator rei publicae. Non siamo in grado di stabilire con certezza se vi siano, come pure è stato asserito, “le linee di una vera e propria regolamentazione, organica e sistematica, delle funzioni dei curatores rei publicae e dei criteri amministrativi”80, loro imposti dal governo imperiale, ma sarebbe inspiegabile non prendere in considerazione l’ipotesi che la molla che fece scattare Papirio Giusto fosse la realizzazione di una raccolta destinata alla burocrazia imperiale, e al tempo stesso, alla prassi dei tribunali ordinata anche per materia. Ciò spiegherebbe, tra l’altro, l’assenza di citazioni di Papirio Giusto e della sua opera, quasi una spia evidente, persino forse segno di un particolare atteggiamento psicologico, quasi di un’avversione nutrita dagli ambienti dei prudentes impegnati anche nell’attività di governo, a cui Papirio Giusto stesso apparteneva, verso un’opera assai diversa e lontana dal paradigma espositivo dei vari genera letterari. A cosa sarebbe mai servita una raccolta di constitutiones principum neutra, priva di quell’essenziale strato speculativo frutto del lavoro diuturno del sacerdos della scientia iuris – immaginiamo potesse chiedersi un giurista al tempo stesso alto funzionario come Papiniano, o Ulpiano, o Paolo o Modestino – avendo libero e pieno accesso agli archivi imperiali81? La percezione di un’utilità ridotta, giustificherebbe anche la selezione complementare e marginale fattane dai commissari di Giustiniano dei libri XX de constitutionibus, che potevano disporre altrimenti di gran parte delle medesime costituzioni imperiali raccolte da Papirio Giusto attingendo a opere ben più complesse e ricche di dottrina. *** Ma detto questo, è possibile sciogliere il dubbio almeno sul fatto che già dagli inizi del II secolo d.C. il codice fosse, nella concezione burocratica degli archivi imperiali, la forma di gran lunga prevalente e preferita delle raccolte del materiale normativo dei principes; e che, conseguentemente, negli ambienti imperiali cominciasse a maturare la consapevolezza dell’utilità intrinseca di raccolte di materiale normativo senza commenti, glosse, esplicazioni, semmai sunteggiato, proprio nella nuova forma libraria. Il bisogno di avere strumenti adeguati alle esigenze della prassi dei tribunali e per il diuturno lavoro amministrativo della burocrazia (centrale e periferica) moltiplicò esponenzialmente il fenomeno della compilazione diffusa82, e ancora confusa, di materiali normativi (prevalente-

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Sargenti 2011, 898 s. È appena il caso di ricordare come i giuristi omettessero l’indicazione della sede da cui traevano le costituzioni imperiali: sul punto vedi Volterra 1974, 429 [= Volterra 1991d, 331]; Volterra 1993d, 305 ss.; Volterra 1971, 977 ss. [= Volterra 1994, 159 ss.]. 82 Fenomeno, questo, alla base dell’altrettanto grave problema della genuinità degli atti normativi imperiali utilizzati: ben prima degli interventi dioclezianeo e costantiniano la questione era assai avvertita in età severiana e deve presumersi anche in età antonina se non addirittura ancora precedente, come si è riscontrato a proposito dei falsi (o inattendibili) rescritti menzionati da Plinio a Traiano. A tal riguardo, Mod. 3 de poen., D. 48.10.33: Si 81

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie mente costituzioni imperiali) residui di raccolte di precedenti, di disposizioni eterogenee, talvolta riunite appunto in base a criteri disparati (cronologici, gerarchici o sistematici) frutto dell’impegno di privati o di funzionari. Si tratta di un fenomeno, messo in luce ancora in tempi recenti dagli studi più attenti della ricerca papirologica a cominciare da Henryk Kupiszewski83 a Livia Migliardi Zingale84, a Gianfranco Purpura85, e pienamente confermato da esemplari illustri, come lo Gnomon dell’Idios Logos (BGU V.1210), la cui confezione risale proprio al principato di Marco Aurelio, oppure gli Apokrimata di Settimio Severo (P. Col. VI.123), o il dossier severiano relativo a diversi provvedimenti di Caracalla, a partire dal più noto e discusso P. Giss. 40.I, oppure ancora altri assai meno noti testimoni86, altrettanto in circolazione presso i tribunali, gli uffici amministrativi e gli ambienti scolastici87. Ciò avveniva indifferentemente in volumen o codex, tanto che ne è provata la coesistenza delle due forme librarie, ma non vi è dubbio che il codice venisse maggiormente incontro alla radicata concezione romana dell’exemplum, sia per la maggiore capacità di contenuto sia per la più facile reperibilità e consultazione dei testi. Nell’exordium del celebre rescritto di Gordiano III ad Scaptoparenos si legge un accenno al liber libellorum rescriptorum, la cui forma, ipotesi tutt’altro da scartarsi, poteva essere quella di un codex88. Siamo nel 238 d.C., ma evidentemente, se questa strada è conducente, la formazione di un liber libellorum rescriptorum, quale raccolta di constitutiones principum ordinata cro-

qui falsis constitutionibus nullo auctore habito utitur, lege Cornelia aqua et igni ei interdicitur; PS. 1.12.1-2: Hi, qui falsa rescriptione usi fuerint, lege Cornelia de falsis puniuntur. [2] Qui falsum nesciens allegavit, falsi poena non tenetur; PS. 5.25.(10)9: Qui falsis instrumentis, actis, epistolis, rescriptis, sciens dolo malo usus fuerit, poena falsi coercetur; ideoque humiliores in metallum damnantur, honestiores in insulam deportantur [vedi Bianchi Fossati Vanzetti 1995, 139]. Archi 1990a, 122 ss., assimila all’utilizzazione in sede giurisdizionale di falsi rescritti l’assai diverso profilo del contra constitutiones iudicare; per quanto aspetti direttamente connessi (allegazione di falsi rescritti e definizione di un processo disattendendo i precetti imperiali) la problematica oscillò tra l’attrazione nella sfera del crimen falsi e quella del crimen maiestatis. Marcian. 14 inst., D. 48.10.1, 3-4: Poena legis Corneliae irrogatur ei [...]. [3] Sed et si iudex constitutiones principum neglexerit, punitur. [4] Qui in rationibus tabulis cerisve vel alia qua re sine consignatione falsum fecerint vel rem amoverint, perinde ex his causis, atque si erant falsarii, puniuntur. Sic et divus Severus lege Cornelia de falsis damnavit praefectum Aegypti, quod instrumentis suis, cum preerat provinciae, falsum fecit; PS. 5.25.4: Iudex, qui contra sacras principum constitutiones contrave ius publicum, quod apud se recitatum est, pronuntiat, in insulam deportatur, cfr. C. 9.8.1. Correttamente, Nasti 2006, 109 ss.; Centola 2017, 150 ss. 83 Kupiszewki 1990, 83 ss. [= Kupiszewski 2000, 519 ss.]. Decisamente contrario Sperandio 2001, 97 ss. 84 Migliardi Zingale 2005, 221 ss.; Migliardi Zingale 2004-2005, 347 ss.; Migliardi Zingale 2007, 423 ss.; Migliardi Zingale 2017, 146. 85 Purpura 1992b, 675 ss. 86 Da non trascurare che lo stesso Papirio Giusto citava una raccolta di litterae di Adriano in Pap. Iust. 2 de const., D. 50.8.12.3 (= L. 15): Item rescripserunt sitonas indemnes esse oportere, qui non segniter officio suo functi sunt, secundum litteras Hadriani. Per quanto probabile, non si può escludere che si tratti della medesima raccolta contenuta nel cosiddetto Fragmentum Dositheanum, su cui vedi Volterra 1971, 869 ss. [= Volterra, 1994, 51 ss.], che propende decisamente per l’autenticità delle sententiae e delle epistulae adrianee. 87 Così Migliardi Zingale 2004-2005, 356; Migliardi Zingale 2005, 235. Ma vedi già Volterra 1971, 945 [= Volterra 1994, 127], giustamente sicuro della circolazione di collezioni pubbliche e private di costituzioni imperiali già nel II secolo d.C. 88 CIL III Suppl 12336: Bona fortuna. Fulvio Pio et [P]otio Proculo cons. XVII kal. Ian. Descriptum et recognitum factum [e]x [li]bro [li]bellorum rescript[o]rum a domino n(ostro) imp. Ca[e]s. M. Antonio Gordiano Pio Felice Aug. [e]t propo[s]it[o]rum [R]oma[e] in portic[u th]ermarum Tr[a]ianarum in ve[r]ba [q(uae)] i(nfra) s(cripta) s(unt). Sul documento vedi Mommsen 1892, 244 ss. [= Mommsen 1905, II, 172 ss.]; Schwind 1940, 169 s., 173; Williams 1974, 98 ss.; Williams 1976b, 237; Palazzolo 1977, 58 ss. [= Palazzolo 2008, 194 ss.]; Nicoletti 1981, 80 s.; Marotta 1988, 62 s. Cfr. Wolf 1952, 139 ss., a proposito di raccolte di rescritti dioclezianei pregregoriane, espressione di un lungo lavoro dottrinale condotto su materiale normativo imperiale sfociato nei due codici privati.

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Orazio Licandro nologicamente dalla cancelleria imperiale nella forma libraria del codice, doveva necessariamente avere alle spalle lunghi decenni di prassi affondando le radici nel II secolo d.C. Giocarono tanti fattori nella definitiva affermazione del codex sul volumen, ma non vi è dubbio che un ruolo decisivo, e sin dall’inizio potente, si svolse nell’universo giuridico della forma libraria adottata negli ambienti istituzionali e soprattutto grazie ai giuristi-funzionari. Per il loro status e grazie all’organizzazione degli archivi imperiali erano consentite loro le più agevoli condizioni di lavoro, ne traevano linfa e al tempo stesso rafforzavano la legittimazione del potere normativo imperiale dalle multiformi esplicazioni, rispetto alle quali non dovrebbe trattarsi di una semplice coincidenza il fatto che sia Plinio sia Papirio Giusto, in sedi, tempi e con ruoli differenti, utilizzassero l’espressione generale e unificante di constitutiones principum. Già nella seconda metà del II secolo d.C. era, quindi, matura, o almeno lo era in avanzata gestazione, la consapevolezza dell’utilità di raccolte di costituzioni imperiali, ordinate per data di emanazione e per materia, secondo la prassi invalsa negli archivi imperiali, e che presto avrebbe assunto la forma più congeniale del codex e nei secoli tardoantichi anche la denominazione. Oltre un secolo fa, Rotondi89, dinanzi al materiale del codex Hermogenianus, ne spiegava l’abbondanza soltanto ammettendo il fatto che l’autore avesse avuto modo di attingere ai codices degli archivi imperiali90, in cui era raccolta e ben ordinata la legislazione degli anni 293-294 d.C. Parallelamente andava facendosi largo il fenomeno della redazione di opere giurisprudenziali dedicate a costituzioni imperiali: giustamente si indicano i decretorum libri III e i libri VI Imperialium sententiarum in cognitionibus prolatarum di Paolo, ma senza ricordare che i libri XX de constitutionibus di Papirio Giusto costituirono il primo vero precedente, a cui in qualche misura possono avvicinarsi, per forte affinità di metodo e contenuto i libri VI de excusationibus di Modestino, anch’essi probabilmente in forma di codex91. Opere diverse sia per oggetto sia per natura, come si è visto nelle pagine precedenti92, accomunate però dalla perdita di centralità del responso giurisprudenziale e dallo stagliarsi, invece, prepotente della costituzione del princeps93. Accanto alla nuova normatività cominciava quindi a correre l’idea del codice quale forma libraria più adeguata a raccogliere in maniera ordinata (o coordinata) i precetti imperiali, mutuata dai codices conservati negli archivi imperiali94, di cui abbiamo, tra la nebbia dei nostri tanti dubbi, almeno una certezza, cioè l’esistenza di una raccolta semestrale chiamata appunto Semenstria. Insomma, lungo i decenni centrali e cruciali del II secolo d.C. si erano inoculati nel pensiero politico e giuridico i germi della visione tardoantica. Non a caso i primi riferimenti alle constitutiones principum, e ai rescritti imperiali in particolare, si rinvengono in Celso, Salvio Giuliano, Nerazio Prisco95; ma ancor più significativo del nuovo e impetuoso ‘vento’ è l’atteggiamento

89 Rotondi 1922a, 123 s.; contra Wilcken 1920, 1 ss., che parla a tal proposito di un συγκολ(λήσιμον) αὐϑ(εντικῶν) ἐπιστολ(ῶν) καὶ βιβλ(ιδίων) ὑποκεκολ(λημένων); cfr. Nörr 1981, 20 ss.; Sperandio 2005, 76 ss. 90 Rotondi 1922a, 123 s., anzi osservava che la regolare trascrizione delle costituzioni imperiali anno per anno dava vita a codices autonomi. 91 Vedi Volterra 1971, 966 ss., 979 ss. [= Volterra 1994, 148 ss., 161 ss.]; cfr. supra nt. 76. 92 Vedi supra Volterra 1971, 981 ss. [= Volterra 1994, 163 ss.], che osserva puntualmente come i giuristi tenessero rigorosamente distinte le forme attraverso cui si manifestava la volontà normativa imperiale. 93 Parla di ‘bipolarismo normativo’ Varvaro 2007, 5792; cfr. Archi 1990a, 115 ss.; Gaudemet 1954, 178; Volterra 191, passim [= Volterra 1994, passim]; Gualandi 2012, II, 13. 94 Vedi supra, parte III.1. 95 Per tutti Gualandi 2012, II, 8; Archi 1990a, 116.

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie di Cornelio Frontone che, nel rivolgersi ad Antonino Pio, ricordava, quasi a guisa di ammonimento, il valore di exemplum vincolante della parola del princeps (tu ubi quid in singulos decernis, ibi universos adstringis)96, senza limiti di tempo e di spazio. Per quanto embrionale la teorizzazione del superamento del valore semplicemente e strettamente esemplare della pronuncia imperiale, in quanto enucleazione della norma giuridica da applicare in via generale e astratta, avrebbe presto trovato in età severiana una significativa e non casuale simmetria nell’ampiezza della dedizione (né limiti di tempo né di spazio) chiesta dall’imperatore ai suoi giuristi consiliarii97, perché solo una diuturna presenza avrebbe garantito sostanza giuridica e sorretto prestigio e forza vincolante alle decisioni imperiali. Erano magistrati, funzionari e, soprattutto a livello speculativo, giuristi a concretizzare l’estensione della decisione imperiale nel tempo e nello spazio98, e proprio questo spostamento del baricentro del potere normativo non poteva non comportare un altro significativo cambiamento: con una sorta di automatismo si proiettavano oltre gli stretti ambienti burocratici le modalità di registrazione e le relative forme librarie tipiche e consolidate degli archivi pubblici, con un’accelerazione dovuta alle grandi potenzialità del nuovo modello editoriale più evoluto, il libro/codice, capace di rompere forme e gusti tradizionali imponendosi già di per sé nella vita culturale generale del mondo greco-romano. 5. Qualche conclusione Tirando qualche somma, alla fine di queste brevi considerazioni si è profilato il binomio composto da codex, nel suo significato primigenio di forma libraria ma anche di documento tipico di registrazione e conservazione dei documenti pubblici, e da constitutio, quale atto di volontà normativa del princeps. Codex e constitutio costituiscono, dunque, due poli presenti già nei decenni del II secolo d.C. segnati dal dinamico assestamento del principato, del consolidamento della centralità del princeps soprattutto nel campo della produzione normativa, della burocratizzazione della giurisprudenza o, per ammodernare la visione schulziana, del nuovo patto di alleanza tra potere politico e giuristi. Quel binomio si intravede in filigrana nei libri XX de constitutionibus di Papirio Giusto. È vero che per tutta l’età severiana il principale sup-

96 Fronto epist. ad Marcum Caes. 1.6.2-3: In iis rebus et causis quae a privatis iudicibus iudicantur, nullum inest periculum, quia sententiae eorum intra causarum demum terminos valent; tuis autem decretis, imp., exempla publice valitura in perpetuum sanciuntur. Tanto maior vis et potestas quam fatis adtributa est: fata quid singulis nostrum eveniat statuunt; tu, ubi quid in singulos decernis, ibi universos exemplo adstringis. [3] Quare si hoc decretum tibi proc. placuerit, formam dederis omnibus omnium provinciarum magistratibus, quid in eius modi causis decernant. Quid igitur eveniet? Illud, scilicet, ut testamenta omnia ex longinquis transmarinisque provinciis Romam ad cognitionem tuam deferantur […]. Il caso riguardava un proconsole che a proposito di una contestazione di eredità ne aveva deferito la soluzione all’imperatore. Per l’ampiezza della letteratura stratificatasi sul testo, si rinvia ai lavori più recenti ove risalire a ulteriore bibliografia: Marotta 1988, 35 nt. 122, 226 s. nt. 58; Spagnuolo Vigorita, Marotta 1992, 110 ss. nt. 132; Rizzi 2012, 15 ss.; e da ultimo Centola 2017, 59 ss. Resta aperta la questione se l’essenza del passaggio dell’oratio di Frontone possa estendersi all’intera tipologia delle constitutiones principum oppure se strettamente ancorata alla figura del decretum; vedi Rizzi 2012, 43 s. nt. 86; Schiavone 2017, 360 s.; Centola 2017, 60 ss. nt. 76. 97 Così Papiniano, in Pap. 5 resp., D. 27.1.30pr.: Iuris peritos qui tutelam gerere coeperunt, in consilium principum adsumptos optimi maximique principes nostri constituerunt excusandos, quoniam circa latus eorum agerent et honor delatus finem certi temporis ac loci non haberet, a proposito dell’esenzione dal munus della tutela; Bretone 1987, 217; Gualandi 2012, II, 88 98 Volterra 1971, 863 [= Volterra 1994, 45]; Gualandi 2012, II, 10 ss.

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Orazio Licandro porto scrittorio restò il rotolo di papiro99, ed è altrettanto vero che la letteratura giuridica continuò a privilegiare nella forma libraria del volumen la propria veste editoriale; ma pur senza giungere alla radicalità di Sanders100, è innegabile che proprio nell’ambito pubblico (e giuridico), nelle prassi e modalità di registrazione e conservazione degli acta publica, funzionò l’incubatrice di quello che sarebbe stato il codex tardoantico, quale compiuta ‘raccolta’ di diritto autoritativo (costituzioni imperiali)101 ispirata molto probabilmente dai Semenstria imperiali di Marco Aurelio102. Dagli studi di Noailles, del resto, diretti a indagare il processo di formazione delle collezioni delle costituzioni giustinianee103, la tesi per blocchi su base cronologica ne fa emergere anche la scansione semestrale. Se Gregoriano ed Ermogeniano, non a caso dei giuristi/funzionari imperiali104, nel dare veste editoriale alle loro raccolte scelsero il codex ciò accadde sia perché ormai rappresentava la tradizionale forma libraria dominante negli archivi pubblici sia perché anche opere giurisprudenziali e corpora di materiali normativi ibridi105 sempre più venivano riprodotti in codices, senza necessariamente ipotizzare la cesura improvvisa e radicale della sparizione del rotolo di papiro. E anche se appare una forzatura, suggestiva ma pur sempre una forzatura, l’idea che il Codex Gregorianus riprendesse la raccolta delle costituzioni imperiali proprio là dove si era fermato Papirio Giusto106, o che i libri XX de constitutionibus fossero i “precedenti certi”107 dei codici Gregoriano ed Ermogeniano, infondata nella sua radicalità è la posizione di Schulz disposto ad ammettere raccolte di rescritti imperiali soltanto “dopo la completa vittoria della burocrazia sotto Diocleziano”108. Non è, invece, un’esagerazione riconoscere il debito tardoantico verso il giurista antoniniano, autore dell’apertura di una nuova strada, e considerare a tutti gli effetti i suoi libri XX de constitutionibus il primo vero corpus di costituzioni imperiali109, a prescindere dalla effettiva forma editoriale avuta, che precocemente si sottraeva al tenace “magnetismo del diritto giurisprudenziale”110. Papirio Giusto, che nella sua carriera fu a capo degli scrinia a libellis e a cognitionibus, si trovò certamente nelle condizioni ideali per disporre in qualunque momento del materiale impe-

99 Così Mommsen 1889a, 349: “Aber abgesehen davon daß […] die juristischen Schriften ohne Zweifel damals ebenfalls mehr nachgeschlagen als gelen worden sind”. Ma sulla tematica si rinvia all’importante, densa e approfondita rassegna, con ampia discussione della letteratura, condotta da Cossa 2018, 76 ss. 100 Sanders 1938, 103. 101 In questo senso, tra tutti, Birt 1882, 97 ss.; Krüger 1887, 76 ss., 81; Migliardi Zingale 1994, 53 s. nt. 31; Coriat 1997, 632 ss.; Coriat 2000, 281 ss.; più in generale vedi Purpura 1999, 99 ss.; Ammirati 2010, 55 ss.; Ammirati 2015, 23 ss. 102 Indimostrabile, allo stato delle nostre conoscenze, è l’esistenza di “un ufficio speciale incaricato della conservazione” delle “decisioni in materia giuridica” immaginato da Orestano 1962, 74. 103 Noailles 1912, 87 ss.; cfr. Purpura 1992b, 683 nt. 30; cfr. Goria 2007, 1 ss. [= Goria 2016, 433 ss.]. 104 Su Gregorianus vedi Sperandio 2005, 209 ss.; mentre su Hermogenianus si rimanda a Dovere 2005, 3 ss. 105 A tal proposito vedi Barone-Adesi 1998, passim. 106 Collinet 1924, 371: “Encore est-il permis de supposer que Gregorius n’a introduit dans sa compilation que les lois manquant aux recueils de ses prédécesseurs, qu’il s’est proposé seulement de continuer le travail de Papirius Iustus, par example (les dates de l’un et de l’autre ouvrage se correspondent). En ce cas, Gregorius a très bien pu laissier de coté des constitutions déja transcrites par celui-ci ou par d’autres, et n’avoir commencé son depouillement qu’à la date où Papirius Iustus avait arrêté le sie, pour éviter le double emploi”. Cfr. Sperandio, 2005 91 ss. 107 Così Archi 1990b, 30. 108 Schulz 1968, 269. 109 Per tutti Mommsen 1889a, 345; Berger 1949, 1059; Wenger 1953, 510; Volterra 1968, 215 ss. [= Volterra 1993b, 165 ss.]; Volterra 1971, 959 [= Volterra 1994, 141]. 110 Mutuo l’espressione da Schiavone 1994, 256.

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Una raccolta di diritto imperiale tra archivi ufficiali e nuove forme librarie riale archiviato e stendere la sua opera sulla base degli originali111, con una trattazione ordinata secondo la combinazione del criterio cronologico con quello tematico mutuato dagli archivi pubblici e arricchita dalla personale sensibilità sistematica del giurista112. Naturalmente, non si tratta di negare “l’alterità” dei libri XX de constitutionibus rispetto ai primi due codici privati113, ma riconoscere, in fin dei conti, che fu proprio questa peculiarità a rendere Papirio Giusto una sorta di extraneus rispetto ai giuristi del suo tempo e ai prudentes romani in generale, e tale da caratterizzare, almeno stando ai frammenti superstiti, la sua opera quale raccolta di costituzioni imperiali, priva di commenti114, in un’epoca in cui i pronunciamenti dei principes nella comune percezione della realtà giuridica e giurisprudenziale del tempo mostravano la forza di exempla validi per tutti e ovunque. E forse sta qui, in questo snodo cruciale della storia del principato e della sua burocrazia, anche il bivio della divaricazione tra la letteratura giuridica giurisprudenziale, in un certo senso ancora saldamente ancorata al volumen sebbene oggi si tenda ad ammettere “la circostanza che i libri dei giuristi risultino tra i primi ad adottare il formato del codex”115, e l’idea di raccolta organizzata del materiale autoritativo imperiale che si volge verso la forma codex, tradizionalmente adottata negli archivi pubblici. Di tutto ciò fu profeta, quasi per paradosso della storia, la grande giurisprudenza severiana che nel teorizzare la potestà normativa del principe fondata sulla delega popolare avrebbe irreversibilmente spinto verso il tramonto di una storia plurisecolare di libertà e creatività. L’imposizione della forma codex come veste editoriale di riferimento, inizialmente, più adeguata per le constitutiones principum in seguito per qualunque opera giuridica, anche per gli iura116, in quanto prodotto culturale, rappresentava la spia o, se si preferisce, lo strato epidermico più evidente della mutazione in atto degli equilibri politici sulle fonti di produzione normativa. L’idea, ancorché embrionale o pioneristica, di ciò che sarebbe stato oltre un secolo dopo, alla fine del III secolo d.C., un approdo pieno, definitivo, al codice tardoantico, dapprima privato e poi pubblico, e libro giuridico per eccellenza quale raccolta sistematica di costituzioni imperiali, si stagliava già all’orizzonte nell’ultimo quarto del II secolo d.C. E pure in questa precocissima intuizione, forse inconsapevole ma certamente indotta dalla sua frequentazione degli ambienti di corte e degli archivi pubblici, risiede uno dei tratti più originali di Papirio Giusto.

111 Volterra 1971, 961 s. [= Volterra 1994, 143 s.] (medesima osservazione anche in Volterra 1993d, 312 s.). Egli trova però singolare che i testi di Papirio raccolti nei Digesta siano tutti rescritti, mentre indubbiamente il giurista conosceva e ben distingueva le altre forme di manifestazione della volontà normativa del princeps come dimostra il richiamo alle litterae adrianee di Pap. Iust. 2 de const. D. 50.8.12.3 (= L. 15). In realtà, l’osservazione di Volterra, in questo caso è imprecisa, perché tra gli interventi imperiali di Marco Aurelio vi erano anche epistulae rivolte a governatori provinciali (cioè le due inviate ai governatori di Syria). 112 Punta solo sul criterio tematico Lenel 1889, I, 947 nt. 1: “non dubium est, quin Papirius constitutiones ad ordinem quendam disposuerit, quem tamen explicare non possumus. Id quidem in aperto est, librum II totum pertinere ad ius municipale”; in tal senso pure Franciosi, 1972, 153 ss.; Volterra 1968, 215 ss. [= Volterra 1993b, 165 ss.]; diversamente Liebs 1976, 347: “das Werk des Papirius Justus […] nach Materien geordnet war und nicht bloß chronologique”. 113 Innanzitutto, Liebs 1987, 134; cfr. Sperandio 2005, 93 ss. 114 Vedi Archi 1990a, passim. 115 Conforme a un canone stilistico informato alla “brièveté normative”: così Mantovani 2018, 74; vedi pure Marcone 2019, 281. 116 Secondo Wieacker 1960, 96 ss., in funzione di assimilazione: “So wird auch bei der Umschrift der Juristenschriften die damals beginnende Annäherung des Ius an das Kaiserrecht mitwirken”.

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FRAGMENTA*

Liber I

1. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 8.2.14 (L. 1) Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt in area, quae nulli servitutem debet, posse dominum vel alium voluntate eius aedificare intermisso legitimo spatio a vicina insula. Iustus om. P, U; constitutionum Hal.; Antoninus et Severus F, U; Antonius et Severus L; Severi et Ant. P; Severi et Ant. V; legi‘s’timo F.

2. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 8.3.17 (L. 2) Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt aquam de flumine publico pro modo possessionum ad irrigandos agros dividi oportere, nisi proprio iure quis plus sibi datum ostenderit. Item rescripserunt aquam ita demum permitti duci, si sine iniuria alterius id fiat. lib. I constitutionum Hal.; Severus P, V, L, U; possessionem F; iri debere ins. Hal.; ostenderi‘n’t F 2; alterus Pa.

* I testi sono riportati secondo l’ordine di Lenel. Per una proposta in parte diversa vedi più avanti 189 ss. Per le integrazioni dottrinali proposte al corpo del testo sono stati usati i simboli < >. L’apparato critico dà conto inoltre dei casi in cui il testo adottato da Mommsen nell’editio maior, che qui si segue, si allontani da quello della Littera Florentina o da altre edizioni anteriori. Si sono poi tenute presenti le proposte formulate da Lenel nella Palingenesia iuris civilis. Per le abbreviazioni e i segni diacritici, cfr. Mommsen 1870, I, lxxxxiv ss.

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FRAGMENTA

Libro I

1. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 8.2.14 (L. 1) Gli imperatori Augusti Antonino e Vero Augusti stabilirono con rescritto che nell’area non soggetta a servitù a favore di nessuno, il proprietario o un altro per sua volontà possano edificare, lasciata la distanza legale rispetto al casamento vicino.

2. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 8.3.17 (L. 2) Gli imperatori Augusti Antonino e Vero Augusti stabilirono con rescritto che, per irrigare i fondi, occorrerà dividersi l’acqua del fiume pubblico in proporzione ai fondi posseduti, a meno che taluno non avrà dimostrato che in base a un proprio diritto gliene sia stata concessa di più. Parimenti, stabilirono per rescritto che si permettesse di condurre l’acqua nel solo caso che ciò si facesse senza pregiudizio di diritti altrui.

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo 3. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 18.1.71 (L. 3) Imperatores Antoninus et Verus Augusti Sextio Vero in haec verba rescripserunt: ‘quibus mensuris aut pretiis negotiatores vina compararent, in contrahentium potestate esse: neque enim quisquam cogitur vendere, si aut pretium aut mensura displiceat, praesertim si nihil contra consuetudinem regionis fiat’. Papyrius Hal.; Severus et Ant. V; et Severus P, U; Sexto Vero Hal.; Sextilio Neroni alii apud eund.; pr‘a’etiis F2; comparent P, V; si aut F 2; praetium F; contractui F b?, P, V; contractu F a, U.

4. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 48.12.3pr.-1 (L. 4) Imperatores Antoninus et Verus Augusti in haec verba rescripserunt: ‘Minime aequum est decuriones civibus suis frumentum vilius quam annona exigit vendere *. [1] Idem scripserunt ius non esse ordini cuiusque civitatis pretium grani quod invenitur statuere. Item in haec verba rescripserunt: ‘etsi non solent hoc genus nuntiationis mulieres exercere, tamen quia demonstraturam te quae ad utilitatem annonae pertinent polliceris, praefectum annonae docere potes’. Papinianus F a; Παπιαν. B; imperatorii F; Severus et Ant. Augustus Hal.; rescripserunt V; [ius non esse ordini (ordinei F a) cuiusque civitatis pretium grani quod invenitur statuere] οὔτε δὲ αὔτοῖς ἔξεστιν ὁρίζειν τίμας τοῦ σίτου B (Anon.); invehitur F; [te] tame F a; qu a e F 2. * cfr. Marcianus, 1 de iudiciis publicis, D. 50.1.8 (Lenel, Marcianus 193): Non debere cogi decuriones vilius praestare frumentum civibus suis, quam annona exigit, divi fratres rescripserunt, et aliis quoque constitutionibus principalibus id cautum est.; Paulus, 1 sententiarum, D. 50.8.7[5]pr. (Lenel, Paulus 1952): Decuriones pretio viliori frumentum, quod annona temporalis est patriae suae, praestare non sunt cogendi). ├



5. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 42.5.30 (L. 5) Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt eos, qui bona sua negant iure venisse, praeiudicio experiri debere et frustra principem desiderare rescindi venditionem. lib. I constitutionum Hal.; et Severus f; a principe S, Hal., V, X, Y, M, O, C.

6. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 42.7.4 (L. 6) Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt bonis per curatorem ex senatus consulto distractis nullam actionem ex ante gesto fraudatori competere. lib. IX constitutionum Hal.; Παύλου B. 38.21; [bonis] quasi esset bonis senatoris, vertit Dorotheus BS. 38.12.4: ἡνίκα ἀπὸ δόγματος τῆς συγκλήτου καϑίσταται κουράτωρ τῆς μελλούσης πιπράσκεσϑαι τοῦ συγκλητικοῦ περιουσίας; at apud Anonymum B. 9.7.49 et B. 38.12.4 recte est πιπρασκομένης οὐσίας διὰ κουράτωρος videturque illud adsumptum ex D. 27.10.5; [ex ante gesto] quasi esset ex testamento, vertit Dorotheus BS. 38.12.4: μηδεμίαν ἐκ τεσταμέντου ἀγωγὴν ἁρμόζειν τῷ κουράτωρι: at veram lectionem reddidit Anonymus B. 38.12.4: οὐδεμίαν ἀγωγὴν ἐκ τῆς προηγησαμένης πράξεως ἕξει ὁ περιγράφαι ϑελήσας τοὺς δανειστάς, cuius versio tertio loco B. 9.7.49 interpolata est ad Dorotheanam sic: οὐδεμίαν ἐκ διαϑήκης Βοήϑειαν ἕξει ὁ περιγράφαι.

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Fragmenta. Libri XX de constitutionibus 3. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 18.1.71 (L. 3) Gli imperatori Augusti Antonino e Vero Augusti scrissero a Sestio Vero, con queste parole: ‘È nella facoltà dei contraenti stabilire in quale quantità e a quale prezzo i commercianti acquistino le partite di vino; nessuno, infatti, è costretto a vendere se non concorda sul prezzo e sulla quantità, soprattutto se non sia fatto nulla contro le consuetudini della regione’.

4. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 48.12.3pr.-1 (L. 4) Gli imperatori Antonino e Vero Augusti emanarono un rescritto con queste parole: ‘Non è minimamente equo che i decurioni vendano ai propri cittadini grano a un prezzo inferiore a quello fissato dall’annona’. 1. Gli stessi rescrissero che non compete all’ordine di ciascuna città stabilire il prezzo del grano che viene introdotto. Allo stesso modo, rescrissero con queste parole: ‘Sebbene le donne non siano solite avanzare denunce di tal genere, tuttavia, poiché dimostrerai che ciò è nell’interesse dell’annona, potrai rendere edotto il prefetto dell’annona’.

5. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 42.5.30 (L. 5) Gli imperatori Antonino e Vero Augusti stabilirono mediante un rescritto che coloro che negano che i loro beni siano stati venduti legittimamente, devono esperire un praeiudicium piuttosto che chiedere invano che il principe rescinda la bonorum venditio. 6. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 42.7.4 (L. 6) Gli imperatori Antonino e Vero Augusti stabilirono mediante un rescritto che a seguito di distractio bonorum condotta dal curatore stabilita per senatoconsulto non spetta al debitore insolvente alcuna azione per gli affari gestiti anteriormente.

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo 7. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 48.16.18pr.-2 (L. 7) Imperatores Antoninus et Verus Augusti Iulio Vero rescripserunt, cum satis diu litem traxisse dicetur, invito adversario non posse eum abolitionem accipere. [1] Item rescripserunt, nisi evidenter probetur consentire adversarium, abolitionem non dari. [2] Item rescripserunt, cum in crimine capitali abolitionem ut in re pecuniaria petitam esse diceret, restaurandam esse nihilo minus cognitionem, ita ut, si non probasset hoc quod proponeret, non impune eum laturum. Papinianus pro P.I. F 1, Hal., V; Παπιαν. B; Augustus F a; litem ‘eum avolitionem’ traxisse F b; Sever. Hal.; diceretur (?) Mommsen II, ad h.l.; Hal., V; [et pro ita ut Hal., V; ita ut si non probasset hoc quod proponeret non impune eum laturum] ἵνα, εἰ μὴ ἀποδείξῃ ὁ κατήγορος ὃ προέϑετο, μὴ ἀτιμώρητος μείνῃ BS.

8. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 49.1.21pr.-3 (L. 8) Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt appellationes, quae recto ad principem factae sunt omissis his, ad quos debuerunt fieri ex imo ordine, ad praesides remitti. [1] Idem rescripserunt ab iudice, quem a praeside provinciae quis acceperat, non recte imperatorem appellatum esse ideoque reverti eum ad praesidem debere. [2] Si magistratus creatus appellaverit, collegam eius interim utriusque officium sustinere debere: si uterque appellaverit, alium interim in locum eorum creandum: et eum, qui non iuste appellaverit, damnum adgniturum, si quod res publica passa sit: si vero iusta sit appellatio et hoc pronuntietur, eos aestimaturos, cui hoc adscribendum sit. in locum autem curatoris, qui annonam administraturus est, alium interim adsumendum, quoad usque appellatio pendeat. [3] Idem rescripserunt, quamvis usitatum non sit post appellationem fructus agri, de quo disceptatio sit, deponi, tamen, cum populi traherentur ab adversario, aequum sibi videri fructus apud sequestres deponi. retro V; uno V; eum aestimaturum V; depopularentur V, Gl.; popularentur Hal.; populitarentur Goth.; pupilli vexarentur B; pupillis distraherentur Röhle; ordine‘m’ ad F b; officium om. F 1, debere om. F 1; eos aestimaturos cui (cui om. F a) hoc adscribendum sit] greco B (Anon.) cfr. D. 49.10.1.37: [populi traherentur] sic (nec quicquam additum ibi vel mutatum) F, popularentur X a, Y, M, C, depopularentur O b, populitarentur T, vel apostoli trahuntur X b ?, inc. O a: interpres vertens ὅτι ἀνηβων δικασαμένων (οἱ καρπί) διασύρονται παρὰ τῶν ἀντιδίκῶναὐτῶν B (Anon.), id est cum pupillis litigantibus fructus dissipantur ab adversariis eorum, certe pro populi aut legit aut legisse sibi visus est pupilli; sequestrum V.

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Fragmenta. Libri XX de constitutionibus 7. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 48.16.18pr.-2 (L. 7) Gli imperatori Antonino e Vero Augusti risposero a Giulio Vero mediante un rescritto che qualora si dica che abbia tirato molto a lungo una lite, costui non avrebbe potuto ottenere l’abolitio contro la volontà della controparte. 1. Allo stesso modo rescrissero che l’abolitio non sia concessa qualora non sia chiaramente provato il consenso della controparte. 2. Allo stesso modo rescrissero che se in un processo criminale capitale fosse stata chiesta l’abolitio come per una questione pecuniaria, il processo dovesse essere ripreso affinché egli, qualora non avesse provato quanto affermato, non restasse impunito.

8. – Papirius Iustus, 1 de constitutionibus, D. 49.1.21pr.-3 (L. 8) Gli imperatori Antonino e Vero risposero mediante un rescritto che gli appelli, promossi dinanzi al principe, saltando quelli di grado inferiore dinanzi ai quali avrebbero dovuto svolgersi, siano rimessi ai governatori provinciali. 1. Parimenti rescrissero che contro la sentenza di un giudice delegato dal governatore provinciale non sia legittimo l’appello al principe e quindi questo deve essere rimesso al governatore provinciale. 2. Qualora un magistrato abbia proposto appello, il suo collega dovrà svolgere frattanto le funzioni di entrambi. Qualora, invece, l’appello sia stato proposto da entrambi, dovrà eleggersi un altro in loro sostituzione: ma se avrà appellato ingiustamente, sarà considerato responsabile del danno arrecato, qualora l’interesse pubblico ne abbia subìto alcuno: se, invece, l’appello sia fondato e riconosciuto tale dalla pronuncia di una sentenza, si deciderà su chi graverà il danno. Al posto poi del curator che dovrà amministrare l’annona, sarà da assumerne un altro per tutto il tempo in cui sarà pendente l’appello. 3. Allo stesso modo rescrissero che, sebbene non fosse usuale che dopo l’appello si disponesse il deposito dei frutti del fondo su cui si è dibattuto, tuttavia, essendo stati i pioppi sradicati e portati via dalla controparte, appare equo che i frutti siano depositati presso i sequestratari.

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo

Liber II

[de iure municipali] 9. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 39.4.7pr.-1 (L. 9) Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt in vectigalibus ipsa praedia, non personas conveniri et ideo possessores etiam praeteriti temporis vectigal solvere debere eoque exemplo actionem, si ignoraverint, habituros. [1] Item rescripserunt pupillo remittere se poenam commissi, si intra diem trigensimum vectigal intulisset. Papinianus Hal., V; Severus V; vectiglibus F; debere om. F 1; [eoque exemplo] non aliter videntur legisse Graeci: καὶ ἐὰν τοῦτο ἠγνόησεν, ἔχει ἀγωήν B (Syn.); eosque ex empto Cuiacius; habiturus F 1; rescripserun‘s’t F b; si F 2.

10. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 42.1.35 (L. 10) Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt, quamquam sub obtentu novorum instrumentorum restitui negotia minime oporteat, tamen in negotio publico ex causa permittere se huiusmodi instrumentis uti.

11. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.1.38pr.-6 (L. 11) Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt gratiam se facere iurisiurandi ei, qui iuraverat se ordini non interfuturum et postea duumvir creatus esset. [1] Item rescripserunt colonos praediorum fisci muneribus fungi sine damno fisci oportere, idque excutere praesidem adhibito procuratore debere. [2] Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt ad magistratus officium pertinere exactionem pecuniae legatorum, et si cessaverint, ipsos vel heredes conveneri aut, si solvendo non sint, fideiussores eorum qui pro his caverunt. [3] Item rescripserunt mulierem, quamdiu nupta est, incolam eiusdem civitatis videri, cuius maritus eius est, et ibi, unde originem trahit, non cogi muneribus fungi. [4] Item rescripserunt patris, qui consulto filium emancipaverat, ne pro magistratu eius caveret, perinde bona teneri atque si fideiussor pro eo extitisset. [5] Item rescripserunt, cum quaeritur, an municeps quis sit, ex ipsis etiam rebus probationes sumi oportere: nam solam nominis similitudinem ad confirmandam cuiusque originem satis non esse. [6] Imperatores Antoninus et Verus re116

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Fragmenta. Libri XX de constitutionibus

Libro II

[sul diritto municipale] 9. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 39.4.7pr.-1 (L. 9) Gli imperatori Antonino e Vero stabilirono mediante un rescritto che per il vectigal si deve agire nei confronti dei fondi non delle persone, perciò i possessori sono tenuti al pagamento del vectigal per il tempo pregresso e, sulla base di questo precedente, avranno l’actio ex empto se non ne fossero a conoscenza. 1. Allo stesso modo, rescrissero la remissione al pupillo della pena se avesse adempito al pagamento del vectigal entro il 30° giorno.

10. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 42.1.35 (L. 10) Gli imperatori Antonino e Vero stabilirono mediante un rescritto che sebbene sul pretesto di aver ottenuto nuovi documenti non si possano sottoporre a restitutio gli atti negoziali, tuttavia quando si tratta di un atto negoziale pubblico è permesso motivatamente di servirsi di tali documenti. 11. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.1.38pr.-6 (L. 11) Gli imperatori Antonino e Vero Augusti risposero mediante un rescritto di fare grazia del iusiurandum a chi aveva giurato che non sarebbe stato interessato all’ordine , una volta creato duumviro. 1. Parimenti rescrissero che i coloni dei fondi del fisco debbano adempiere ai munera senza danno per il fisco, e ciò doveva essere accertato dal governatore provinciale sentito il procuratore. 2. Gli imperatori Antonino e Vero stabilirono con un rescritto che l’esazione del denaro a titolo di legato rientra nella competenza dell’ufficio dei magistrati; e se non avessero adempiuto sarebbero stati convenuti loro stessi, o gli eredi o, qualora non fossero solvibili, i loro fideiussori. 3. Del pari rescrissero che una donna, finché è sposata, è incola (abitante) della città del marito e non possa essere obbligata ai munera della città donde trae l’origo. 4. Così rescrissero che i beni del padre, che consapevolmente aveva emancipato il figlio per non prestare la cau117

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo scripserunt non minus eos, qui compulsi magistratu funguntur, cavere debere, quam qui sponte officium adgnoverunt. Papiusius F 1; Severus Hal.; augusti om. T; sine ‘a’ damno F 2; ab imperatores legem incipit F; cessaveri n t F 2; originen F 1; magistratui F; praedes L.; praes? Lenel ├



12. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.2.13pr.-3 (L. 12) Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt in tempus relegatos et reversos in ordinem allegi sine permissu principis non posse. [1] Item rescripserunt relegatos non posse tempore finito in ordinem decurionum allegi, nisi eius aetatis fuerint, ut nondum decuriones creari possent, et dignitas certa spem eius honoris id faceret, ut princeps indulgere possit. [2] Item rescripserunt eum, qui in relegatione natus est, non prohiberi honore decurionatus fungi. [3] Item rescripserunt non admitti contradicere volentem, quod non recte quis sit creatus decurio, cum initio contradicere debuerit. spe? Mommsen II, ad h.l.; certam spem Hal.; et dignitas certa spes eius honoris id faciat Cuiacius; relegationi F 1.

13. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 2.14.37 (L. 13) Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt debitori rei publicae a curatore remitti pecunias non posse et, cum Philippensibus remissae essent, revocandas. lib. II constitutionum Hal.; et Severus P, U: καὶ Σεβήρου BS (Steph.); debitoribus?, Mommsen I, ad h.l.; [permitti] F, συγχωρεῖν B (Anon.) et BS (Doroth.?), παραχωρεῖν BS (Cyr.), remitti P, U, Hal., V; firmant B; revocande F 1.

14. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.8.11pr.-2 (L. 14) Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt pecuniae, quae apud curatores remansit, usuras exigendas: eius vero, quae a redemptoribus operum exigi non potest, sortis dumtaxat periculum ad curatores pertinere. [1] Item rescripserunt operum periculum etiam ad heredes curatorum pertinere. [2] Item rescripserunt agros rei publicae retrahere curatorem civitatis debere, licet a bona fide emptoribus possideantur, cum possint ad auctores suos recurrere. Papinianus V; exhibendas V; perti ne re F 2; emptori‘s’bus F b; exauctionem F. ├



15. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.8.12pr.-6 (L. 15) Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt operum exactionem sine cautione non oportere committi. [1] Item rescripserunt curatores, si neglegenter in distrahendis bonis se gesserint, in simplum 118

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Fragmenta. Libri XX de constitutionibus zione per la sua magistratura, similmente sono vincolati, come se si fosse prestato lui stesso (il padre) come fideiussore. 5. Parimenti rescrissero che quando si pone la questione se sia cittadino o meno, occorre assumere prove da ogni cosa, perché la somiglianza del nome non è sufficiente a confermarne l’origo. 6. Gli imperatori Antonino e Vero stabilirono con un rescritto che la cauzione è dovuta sia da coloro che sono costretti ad assumere la magistratura sia da coloro che volontariamente si offrono per l’ufficio. 12. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.2.13pr.-3 (L. 12) Gli imperatori Antonino e Vero Augusti risposero mediante un rescritto che i relegati per un certo tempo, una volta ritornati, non possono essere ammessi all’ordo senza autorizzazione del principe. 1. Ancora rescrissero che i relegati, trascorso il tempo fissato, non possono essere ammessi all’ordine dei decurioni, a meno che [fossero stati relegati] in un’età nella quale non potevano ancora essere eletti decurioni, e una stima comprovata faccia sì che il principe possa concedere la speranza di quell’onore. 2. Parimenti rescrissero che a colui che è nato in relegatio non è proibito esercitare il decurionato. 3. Allo stesso modo rescrissero che non è ammissibile che si voglia contestare la nomina, sulla base del fatto che qualcuno sarebbe stato creato decurione in modo non corretto, mentre si sarebbe dovuto contestarlo all’inizio. 13. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 2.14.37 (L. 13) Gli imperatori Antonino e Vero stabilirono mediante rescritto che non è possibile rimettere da parte del curatore somme di denaro a un debitore della comunità cittadina, e che la remissione delle somme dovute dai Filippesi è da revocare.

14. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.8.11pr.-2 (L. 14) Gli imperatori Antonino e Vero stabilirono mediante un rescritto che dovessero riscuotersi quelle somme di denaro rimaste presso i curatori dovessero riscuotersi gli interessi: per quello che invece non può esigersi dagli appaltatori di opere gravi sui curatori il rischio del capitale. 1. Del pari rescrissero che il rischio delle opere spetti anche agli eredi dei curatori. 2. Allo stesso modo rescrissero che il curatore della città deve recuperare i terreni pubblici, benché siano posseduti da compratori in buona fede, in modo che questi possano ricorrere contro i loro venditori. 15. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.8.12pr.-6 (L. 15) Gli imperatori Antonino e Vero stabilirono mediante un rescritto che non bisogna affidare la realizzazione di un’opera senza cauzione. 1. Del pari rescrissero 119

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo teneri, si per fraudem, in duplum: nec ad heredes eorum poenam descendere. [2] Item rescripserunt pecuniam ad annonam destinatam distractis rebus curatorem exigere debere. [3] Item rescripserunt sitonas indemnes esse oportere, qui non segniter officio suo functi sunt, secundum litteras Hadriani. [4] Item rescripserunt a curatore kalendarii cautionem exigi non debere, cum a praeside ex inquisitione eligatur. [5] Item rescripserunt curatorem etiam nomine collegae teneri, si intervenire et prohibere eum potuit. [6] Item rescripserunt nominum, quae deteriora facta sunt tempore curatoris, periculum ad ipsum pertinere: quia vero antequam curator fieret, idonea non erant, aequum videri periculum ad eum non pertinere. exauctionem F; se del. F 2; diplum F 1; oportuit Hal., V; quae Hal., V; quo F 1; erat F.

16. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.8.13 (L. 16) Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt eum, qui pecuniam publicam magistratus sui tempore et post non pauco tempore detinuerat, usuras etiam praestare debere, nisi si quid adlegare possit, qua ex causa tardius intulisset. [adlegare] F 1, allegare F 2; inutilis est F; inutulis est F 1; inutulissst (sic: voluit intulisset) inutilis est F 2.

17. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.12.13pr.-1 (L. 17) Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt opera exstruere debere eos, qui pro honore polliciti sunt, non pecunias pro his inferre cogi. [1] Item rescripserunt condiciones donationibus adpositas, quae in rem publicam fiunt, ita demum ratas esse, si utilitatis publicae interest: quod si damnosae sint, observari non debere. Et ideo non observandum, quod defunctus certa summa legata vetuit vectigal exerceri. Esse enim tolerabilia, quae vetus consuetudo comprobat. [quae] qui F 1; non debere F .?. ├



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Fragmenta. Libri XX de constitutionibus che i curatori, che nel distrarre i beni si siano comportati con negligenza, siano tenuti nella misura dello stesso valore, se invece con frode nella misura del doppio, e che la pena non si estende ai loro eredi. 2. Allo stesso modo, rescrissero che il curatore, distratte le cose, deve esigere il denaro destinato all’annona. 3. Ugualmente rescrissero che gli addetti all’approvvigionamento del grano, che hanno svolto il loro compito senza indolenza, devono essere immuni, secondo quanto disposto nelle lettere di Adriano. 4. Allo stesso modo rescrissero che non si deve esigere la cauzione del denaro dal curatore del kalendarium, se sia stato scelto dal governatore provinciale in base a una selezione. 5. Ancora rescrissero che il curatore è tenuto anche in nome del collega, se aveva il potere di intervenire e vietare. 6. Del pari rescrissero che di quei crediti che divennero peggiori durante il tempo della gestione del curatore il rischio gravi su di lui, perché invece, se non erano esigibili prima che divenisse curatore, non appare equo che il rischio gravi su di lui. 16. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.8.13 (L. 16) Gli imperatori Antonino e Vero stabilirono mediante un rescritto che colui che durante l’esercizio della magistratura e successivamente, per non poco tempo, abbia tenuto presso di sé denaro pubblico è obbligato a prestare anche gli interessi, a meno che non possa addurre per quale causa abbia versato tardivamente.

17. – Papirius Iustus, 2 de constitutionibus, D. 50.12.13pr.-1 (L. 17) Gli imperatori Antonino e Vero Augusti stabilirono mediante un rescritto che coloro che hanno promesso per un onore la costruzione di un’opera devono costruirla e non essere costretti a versare denaro per essa. 1. Allo stesso modo, rescrissero che le condizioni apposte alle donazioni, fatte per la res publica, siano valide se poste nell’interesse pubblico; perché se invece siano dannose non devono essere osservate. E quindi non deve rispettarsi il fatto che il defunto, disposta per legato una certa somma, vietò di esigere il vectigal. Infatti è più tollerabile ciò che è comprovato da un’antica consuetudine.

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo

Liber VIII

18. – Papirius Iustus, 8 de constitutionibus, D. 2.14.60 (L. 18) Imperator Antoninus Avidio Cassio rescripsit, si creditores parati sint partem ex bonis licet ab extraneo consequi, rationem habendam prius necessariarum personarum, si idoneae sint. Papinianus V, Παπιανός B; pacti V.

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Fragmenta. Libri XX de constitutionibus

Libro VIII

18. – Papirius Iustus, 8 de constitutionibus, D. 2.14.60 (L. 18) L’imperatore Antonino scrisse ad Avidio Cassio che, qualora i creditori siano pronti a ricevere una quota dai beni persino di un estraneo, si deve prima tener conto dei familiari, sempreché siano solvibili.

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IV COMMENTO AI TESTI

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I. I LIBRI XX DE CONSTITUTIONIBUS

LIBRO I

F. 1 – D. 8.2.14 (L. 1) Il rescritto raccolto da Papirio Giusto, in materia di divieto di aedificare, contiene il riconoscimento imperiale della libertà del proprietario, o di chi per lui, di elevare un edificio in un’area non gravata da alcun diritto di servitù, purché nell’osservanza delle distanze legali rispetto alla vicina insula. Secondo un orientamento in buona parte implicito in dottrina, il rescritto imperiale dimostrerebbe la vigenza della regolamentazione decemvirale in materia di distanze legali e segnatamente dell’ambitus ancora nel II secolo d.C. (XII tab. 7.1: Duodecim Tabularum interpretes ambitum parietis circuitum esse describunt)1. È certa l’esistenza di abitazioni isolate al tempo di Marco Aurelio, come attesta Festo (s.v. “insulae”: insulae dictae proprie, quae non iunguntur, communibus parietibus cum vicinis circumituque publico aut privato cinguntur), ma forse è eccessivo a proposito del rescritto imperiale parlare di perdurante vigenza del dettato decemvirale, poiché il testo fa riferimento non tanto all’ambitus quanto al legitimum spatium che a quello si sostituì in relazione all’insula2. Inoltre, la funzione dell’ambitus rischierebbe di smarrirsi al di fuori di una sua contestualizzazione urbanistica nella Roma altorepubblicana. L’ambitus, infatti, nella sua concezione originaria non si esauriva affatto nella funzione di raccolta e deflusso delle acque piovane, esso era volto anche, e forse soprattutto nei tempi più antichi,

1

Franchini 2005, 28 ss. Cfr. Möller 2018, 464 s. Gravano dei dubbi sulla genuinità dell’espressione legitimum spatium, ma non sembrano sorretti da solide ragioni. Resta, semmai, l’incertezza sulla misura di questa distanza legale che si suppone di 10 piedi (circa 2,95 m.). Probabilmente introdotto da una lex Iulia de modo aedificiorum urbis (vedi Rotondi 1912, 447 s.) e ribadito da un intervento di Nerone, il legitimum spatium nella misura dei 10 piedi restò in vigore anche in età tardoantica, notizia che dobbiamo a Symm. epist. 6.9: decem tantum pedum ultra aedificia sua permittatur adiectio. Cfr. Zaera García 2007, 487 ss.; più recentemente, Grillone 2019, 12 s. nt. 54; Procchi 2020, 53 ss. 2

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Orazio Licandro a delimitare uno spazio di rispetto attorno alla domus quale ambito spaziale della sovranità del pater familias3. Il legitimum spatium citato nel rescritto imperiale, invece, ci conduce a indagare sul mutamento di concezioni e discipline di un contesto urbanistico assai più congestionato e caotico, quale era quello della Roma imperiale. Il frammento di Papirio Giusto coerentemente trova collocazione nel titolo II del libro VIII dedicato alle servitù urbane, e in una trama normativa incentrata sulle servitù di luci e di prospetto4. Purtroppo, non si è in grado di ricostruire il caso concreto alla base del rescritto, ma appare congruo, e al tempo stesso cauto, pensare che esso si iscrivesse lungo una linea di applicazione, laddove possibile, di schemi giuridici e di normazione in materia di distanze legali per andare incontro alle esigenze pratiche di costruttori e proprietari della nuova realtà della vita economica rappresentata dal ‘mercato immobiliare’5. In particolare, i divi fratres dovettero ribadire, in un contesto urbano libero da servitù, il divieto del paries communis6, soprattutto per ragioni di sicurezza, nei casi in cui si procedeva a nuovi e consistenti interventi edilizi. Bisogna, del resto, ricordare che circa un secolo prima quel divieto era rientrato in un pacchetto di misure di sicurezza varato da Nerone, dopo il catastrofico incendio del 64 d.C.7, sebbene, come sottolineato da Brugi, ripreso da Ferrini, il divieto neroniano sia forse da intendere con valenza locale e transitoria8. Ci si può chiedere, piuttosto, quali ragioni abbiano spinto i giustinianei a selezionare questo rescritto di Marco Aurelio, e probabilmente la spiegazione va individuata nell’attualità (e bontà) della misura ancora nel VI secolo d.C., soprattutto alla luce della complessa costituzione di Zenone (C. 8.10.12; fine del V secolo d.C.), inviata ad Adamantius, praefectus urbi di Costantinopoli, contenente un dettagliato regolamento edilizio, in cui si fissava, tra l’altro, appunto in 12 piedi lo spazio minimo tra gli edifici, il divieto di elevare costruzioni anche a distanza di 100 piedi qualora fosse stata ostruita la vista del mare; e ancora, il divieto di impiego di materiale non ignifugo nelle sopraelevazioni, l’obbligo di completamento degli edifici già iniziati, ecc.; insomma, un fitto reticolo di disposizioni poi ripreso, puntualizzato ed esteso da Giustiniano a tutto l’impero9. F. 2 – D. 8.3.17 (L. 2) Il frammento concerne il diritto di utilizzazione delle risorse idriche pubbliche di un territorio a scopo irriguo: nel primo rescritto i principes sancirono il diritto all’irrigazione in misura proporzionale al fondo posseduto, alla cui base dovette esserci una controversia tra proprietari

3

Su cui Licandro 2004, 379 ss.; Licandro 2009, passim. Sul tema la letteratura è davvero cospicua, per cui mi limito a rimandare a più recenti lavori monografici di Cursi 1999, 257 ss.; e di Tuccillo 2009, 122 ss.; ove recuperare la letteratura precedente. 5 A tal proposito, merita di essere segnalato il volume di Grillone 2019, passim. Sia pur di segno diverso, è riconducibile al medesimo ambito l’ultimo lavoro monografico di Corbo 2019. 6 Vedi Rainer 1988, 488 ss. 7 Tac. ann. 15.43.4: […] iam aqua privatorum licentia intercepta quo largior et pluribus flueret, custodes; et subsiduia reprimendis ignibus in propatulo quisque haberet; nec communione parietum, sed propriis quaeque muris ambirentur. 8 Brugi 1887, 161 s.; Ferrini 1917, 457 s. 9 C. 8.10.13; Nov. 63; cfr. CTh. 15.1.4; Nov. 165; C. 3.34.14.1. Vedi Dirksen 1871 (rist. 1973), 225 ss.; Biondi 1936-37, 362 ss.; Capocci 1941, 155 ss.; Van der Wal 1973, 725 ss. Scofone 1984-1985, 150 ss.; Minieri 2006, [on line]. 4

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Commento. I libri XX de constitutionibus di fondi circa la quantità di acqua da derivare da un fiume pubblico (flumen publicus, precisa il rescritto); nel secondo invece si raccomandava che l’utilizzazione dell’acqua avvenisse senza arrecare danno ad altri. Il passo di Papirio Giusto appare interessante sotto diversi punti di vista. In via preliminare è utile dire che D. 8.3.17 (= L. 2), nel chiamare in causa i flumina publica, finisce per sfiorare la vexata quaestio della catalogazione delle res publicae e della definizione delle res communes omnium quale categoria diversa da quella res publicae10. Com’è noto, il dibattito sul tema, meritevole di un breve cenno in questa sede, è in tempi recenti, anche sotto la pressante attualità, tornato di moda molto tempo dopo la celeberrima severa archiviazione di Theodor Mommsen quale categoria “senza capo né coda”11. Certamente il passo non aggiunge particolari dati, se non di contesto e in relazione alla posizione di Marco Aurelio e dei suoi prudentes in linea con il frammento delle institutiones marcianee in cui, dopo il richiamo di un rescritto del suo predecessore relativo all’uso pubblico dei litora maris precisa sed flumina paene omnia et portus publica sunt12. La connessione tra il testo papiriano e quello marcianeo è evidenziata dall’aggettivo publicus accompagnato a flumen il cui senso è chiaro se letto alla luce della precisazione marcianea secondo cui quasi tutti, ma non tutti, i flumina erano publica. D. 8.3.17 (= L. 2) si inscrive quindi, con un’evidente continuità, nell’ambito della linea di riflessione ed elaborazione delle res accolta dal II secolo d.C. nelle opere giurisprudenziali, tematica su cui di recente Domenico Dursi è tornato e che, nel rimettere in luce il rapporto dei frammenti marcianei dei Digesta, soprattutto Marcian. 3 inst., D. 1.8.2pr. privo della menzione delle res publicae13, con il catalogo delle Istituzioni giustinianee (Inst. 2.1pr.)14, ha fatto chiaramente emergere come la categoria delle res publicae, ben presente nel pensiero del giurista severiano, fosse tenuta distinta dalle res communes omnium15. Tornando subito a Papirio, a rendere prezioso il suo frammento è il merito dei dispositivi imperiali sul regime delle acque interne, sul diritto al loro accesso, in particolare sulla libertà di

10 L’interessante e attuale problematica da qualche tempo registra un particolare interesse tra gli studiosi e tra i più recenti contributi si rinvia a Dursi 2017, passim; Dursi 2019, 156 s., e ai due volumi a cura di Garofalo 2016. Ma per diverse vedute cfr. Lobrano 2004, [on line]; Fiorentini 2003; Sini 2008, [on line]; Di Porto 2013; Saccoccio 2013, [on line]; Fiorentini 2017, 75 ss.; Fiorentini 2019, 153 ss.; Basile 2020a, 307 ss.; Basile 2020b, 119 ss.; si veda anche Vallocchia 2020, 1559 ss. 11 Mommsen 1889b, 130 ss. 12 Marcian. 3 inst., D. 1.8.4pr.-1: Nemo igitur ad litus maris accedere prohibetur piscandi causa, dum tamen villis et aedificiis et monumentis abstineatur, quia non sunt iuris gentium sicut et mare: idque et divus Pius piscatoribus Formianis et Capenatis rescripsit. [1] Sed flumina paene omnia et portus publica sunt. 13 Marcian. 3 inst., D. 1.8.2pr.-1: Quaedam naturali iure communia sunt omnium quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum, quae variis ex causis cuique adquiruntur. [1] Et quidem naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris. 14 Inst. 2.1pr.-1: Superiore libro de iure personarum exposuimus: modo videamus de rebus. Quae vel in nostro patrimonio vel extra nostrum patrimonium habentur. Quaedam enim naturali iure communia sunt omnium, quaedam publica, quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum, quae variis ex causis cuique adquiruntur, sicut ex subiectis apparebit. [1] Et quidem naturali iure communia sunt omnium haec: aer et aqua profluens et mare et per hoc litora maris; cfr. Gai. 2.1: Superiore commentario de iure personarum exposuimus; modo videamus de rebus; quae vel in nostro patrimonio sunt vel extra nostrum patrimonium habentur. 15 Di avviso contrario è un solido orientamento Ferrini 1900, 144; Bonfante 1926, 44; Talamanca 1990a, 382 s., Falcone 1998, 285 nt. 152; Luchetti 2004, 243 nt. 262; Schiavon 2011, 128. Cfr. Fiorentini 2003; Di Porto 2013.

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Orazio Licandro derivazione, le cui precisazioni di principio si giustificano con l’esigenza di perseguire la composizione equilibrata in un ambito reso sovente terreno di contenziosi, quando non di veri e propri contrasti sociali, per gli interessi in gioco e i diritti confliggenti16. Lo sforzo dei prudentes lo si coglie soprattutto in materia interdittale. Così come era possibile derogare, dietro un interesse generale, al divieto di atti o di immissioni tali da alterare il flusso del fiume, ciò non sarebbe stato consentito nel caso di danneggiamento alle coltivazioni di un fondo altrui17. Il frammento dei libri XX de constitutionibus è collocato sotto il titolo III de servitutibus praediorum rusticorum, e coerentemente in esso si afferma la partecipazione alla distribuzione dell’acqua secondo il criterio del rapporto proporzionale tra l’estensione del fondo e il relativo fabbisogno idrico (con riflesso, per quanto non menzionato, sulle spese che l’accesso alla risorsa idrica comportava) e la condizione all’utilizzazione senza danneggiamento altrui. Che nel rescritto ci si uniformasse al principio ormai generale della proporzionalità si desume da un nuovo, importante testo epigrafico: la Lex rivi Hiberiensis. Rinvenuta nel 1993 in Spagna presso il villaggio di Agón (non lontano da Saragozza), la tavola bronzea è di età adrianea e contiene una minuziosa regolamentazione dell’accesso alla risorsa idrica di un canale artificiale del flumen Hiberus18 da parte degli abitanti dei pagi circostanti19, ratificata dall’autorità di governo romana della provincia dell’Hispania Tarraconensis20. Mario Fiorentini ha visto nella lex in questione un esemplare caso di “autoregolamentazione in piena regola, non calata dall’alto ma deliberata dagli stessi utenti e solo in un secondo momento approvata dal governatore provinciale”21. Per quanto acuta, l’attribuzione di un valore particolarmente innovativo della Lex rivi Hiberiensis si attenua di molto alla luce della romanizzazione filtrante dai capita della lex. Infatti, al di là dell’effettivo grado di romanizzazione, che dobbiamo comunque presumere avanzata, si tratta prevalentemente di insediamenti paganici (alcuni, i Belsinonenses, aggregati al municipio latino di Cascantum, altri, i pagi Gallorum e dei Segardenenses, alla colonia augustea Caesar Augusta), ormai adusi a dispositivi di matrice tipicamente romana come quello leggibile sulla tavola bronzea. Ciò spiega la ratifica della lex da parte del governatore provinciale quale esito di una mediazione politica con cui si dava atto di una discreta capacità di autoregolamentazione locale in merito a una ‘materia infuocata’, in quei decenni, oggetto di riflessione giurisprudenziale e però del tutto in linea almeno con i principi dell’ordinamento giuridico romano. Infatti, come abbiamo detto, pur non trattandosi di un flumen bensì di un rivus, non sussistono dubbi sul fatto che le disposizioni del testo epigrafico fossero modellate in via stret-

16 Non a caso ‘rivale’ ha una chiara, precisa etimologia le cui tracce si rinvengono, ad esempio, in Ulp. 70 ad ed., D. 43.20.26: Si inter rivales, id est qui per eundem rivum aquam ducunt, sit contentio de aquae usu, utroque suum usum esse contendente, duplex interdictum utrique competit; Schiavon 2011, 117 s. 17 Fonti e discussione in Maganzani 2010, 175 ss. [= Maganzani 2012, 61 ss.]. 18 Sul testo epigrafico vedi principalmente Beltrán Lloris 2006, 147 ss.; Mentxaka 2006, 1 ss.; Nörr 2008, 108 ss.; Torrent 2012, 104 ss.; Torrent 2013, 437 ss.; Buzzacchi 2013, passim; Buzzacchi 2015, 53 ss.; Maganzani 2012, 171 ss.; Crawford, F. Beltrán Lloris 2013, 233; oltre ai contributi del volume collettaneo a cura di Maganzani, Buzzacchi 2014; Einheuser 2017 (su cui Rainer 2020, 509 ss.). 19 Lex riv. Hiber. III, ll. 40-41: quae lex{s} est ex conventione paga[nica]. Tuttavia, tutt’altro che chiara è la configurazione giuridica dell’atto che sembra porsi tra la lex privata e la lex rei suae dicta (Beltrán Lloris 2006, 157). 20 Lex riv. Hiber. XVI.3, ll. 44-47. 21 Fiorentini 2019, 180.

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Commento. I libri XX de constitutionibus tamente analoga a quelle esistenti per un flumen publicus. Di per sé significative sono sia la convergenza di contenuto del dispositivo epigrafico con il rescritto dei divi fratres, sia la cronologia della regolamentazione giuridica. Il regolamento emergente dalla legge epigrafica, infatti, è eloquente e sembra incardinato appunto sulla proporzionalità quale principio consolidato22. I doveri dei pagani aventi diritto all’acqua e il peso delle decisioni nelle assemblee paganiche erano stabiliti in misura corrispondente alla proporzione di acqua, e pare sufficientemente chiaro che la proporzione dell’aquae ius habere fosse determinata dall’estensione del fondo, unico elemento oggettivo per ricavare appunto il fabbisogno della risorsa idrica23. Piuttosto c’è da soffermarsi sull’espressione proprio iure a proposito del riconoscimento imperiale al proprietario di addurre prova del diritto di accedere a una maggiore quantità di acqua. Sull’intera condizione nisi proprio iure quis plus sibi datum ostenderit diversi hanno messo in dubbio l’autenticità24. Solazzi ritiene il riferimento a uno ius proprium del tutto fuorviante perché la maggiore quantità di acqua sarebbe stata riconosciuta per “un diritto proprio e superiore a quello degli altri”, cosa che potrebbe ben essere dopo la concessione “se i giuristi romani avessero concepito un ius del privato riguardo alla cosa pubblica”. La conclusione di Solazzi oscilla tra due alternative: pensare che i divi fratres e lo stesso Papirio avessero scritto nisi proprio usui quis plus sibi datum ostenderit; oppure espungere dal passo l’intera frase nisi … ostenderit25. Eppure, non c’è ragione di mutilare D. 8.3.17 (= L. 2), perché, nonostante l’autorevolezza delle obiezioni, esse non si mostrano come ostacoli insormontabili dal momento che nulla vieta di pensare che alla base dell’intervento i principes abbiano voluto tenere in conto un diritto di servitù combinato con uno ius aquae habere con il suo portato di proporzionalismo. *** D. 8.2.14 (= L. 1) e D. 8.3.17 (= L. 2), in definitiva, sembrano appartenere a un medesimo ambito, quello relativo ai rapporti di vicinato, in ogni epoca e a ogni latitudine fonte inesauribile di tensioni e conflitti26, ed entrambi mostrano un aspetto caratterizzante della relativa produzione normativa di questo periodo, in cui prevalgono rispetto a concezioni originarie

22 Lex riv. Hiber. Ia, ll. 6-8: … ex maioris par|tis paganorum sententia dum proportione quan|tum quique aquae ius habent sententiam dicant; IIb, ll. 21-26: Ad ri|vom Hiberiensem Capitonianum purgandum | reficiendumve ab summo usque ad molem i|mam quae est ad Recti centurionis omnes pa|gani pro partre (vacant 4) sua quisque praestare debe|ant; IIIb, ll. 34-38: Item si quis canalen aut pontem positum habet, | tamquam moles observabitur et eum locum is | tueri et purgare debebit et quantum ab ea re | rivus impeditus erit quominus aqua iusta per|fluat; IV.1, ll. 50-51: … in concilio adesse debebunt pro modo aqua|tionis … Vedi anche Capogrossi Colognesi 2014, 75 ss. 23 Troppo aleatorio sarebbe stato il ricorso anche ad altri diversi generici criteri, come il tipo di coltivazioni, il numero delle persone o la contribuzione alla realizzazione di opere (come, invece, suppone Buzzacchi, 2013, 53). 24 Albertario 1930, 197 ss.; Grosso 1931, 386; Lauria 1932, 248; più radicale Longo 1934, 68 ss. Però, i redattori dell’Index Interpolationum non sospettano nel passo la presenza di inquinamenti tardoantichi. 25 Solazzi 1941, 393 [= Solazzi 1963, IV, 221]. 26 Lucida testimonianza è in Cic. de off. 2.18.64: Conveniet autem cum in dando munificum esse, tum in exigendo non acerbum in omnique re contrahenda, vendundo emendo, conducendo locandovicinitatibus et confiniis aequum, facilem, multa multis de suo iure cedentem, a litibus vero, quantum liceat et nescio an paulo plus etiam quam liceat, abhorrentem. Est enim non modo liberale paulum non numquam de suo iure decedere, sed interdum etiam fructuosum.

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Orazio Licandro dell’assoluta prevalenza del diritto del proprietario altri criteri valutativi improntati all’equità e alla publica utilitas27. F. 3 – D. 18.1.71 (L. 3) È uno dei pochissimi frammenti della raccolta papiriana contenente sia il destinatario del provvedimento imperiale, cioè Sesto Vero, personaggio non identificabile28, sia una parte dei verba imperiali. I divi fratres enunciavano un principio in tema di autonomia contrattuale delle parti circa lo iustum pretium nella compravendita di vino. Il criterio socio-economico della congruità tra quantità e prezzo a cui si riferiscono i divi fratres è alieno da valutazioni etiche o moralistiche29; semmai dal tenore dei pochissimi righi di scrittura se ne può ricavare lo spirito equitativo, ma non v’è dubbio che il rescritto, nella versione riportata, si limita a ribadire il principio consolidato della libertà contrattuale, oggi diremmo, dentro le dinamiche del libero mercato o del mercato regolatore, ribadito dalla giurisprudenza severiana30. Eppure, anche nella spietata logica di ‘mercato’, come ha voluto dire Antonio Mantello, è innegabile la tensione, se non l’etica, verso un temperamento o un freno alla sordida speculazione leggibile nella filigrana dei contenuti prescrittivi imperiali. Per meglio afferrare la ‘cifra’ della costituzione imperiale relativa a privati (negotiatores) è assai utile affiancarla a quella commentata da Callistrato nel suo de iure fisci31, sempre in tema di iusta pretia relativa però alla vendita di immobili urbani o rustici appartenenti al fisco (res fiscales). Nel passo di Callistrato, la maggiore ampiezza del rescritto, per quanto rimaneggiato, offre più esplicitamente la ratio equitativa inscritta in una spiccata dimensione etica fondante la soluzione imperiale, innanzitutto, nel richiamo del procurator fisci ai valori della fides e della diligentia, e quindi in un preciso indirizzo normativo, in cui il perseguimento dell’interesse pubblico non avrebbe dovuto riversarsi a danno del privato, pur nella tutela dell’interesse dello ‘Stato’. Di questo scorcio di Callistrato per lo più si pone attenzione al caso dell’acquisto a un prezzo inferiore al valore commerciale della res e ai fini della determinazione di una responsabilità del procurator fisci come funzionario infedele32. Ma questa è una lettura parziale, perché nei

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Interessanti spunti metodologici nel libro di Giagnorio 2020, passim. Certamente siamo in presenza di un particolare anomalo, perché salvo che in tre frammenti non sono indicati i destinari dei provvedimenti imperiali, e dei tre due sono legati Augusti propraetore della Syria (Giulio Vero e Avidio Cassio): ora posto che Papirio Giusto nella sua raccolta indicava certamente gli elementi paratestuali essenziali delle costituzioni imperiali selezionate, e che un ulteriore lavoro di sfrondamento sia attribuibile ai giustinianei, perché questi avrebbero dovuto mantenere la menzione di quell’ignoto, e irrilevante destinatario del rescritto? Non può escludersi che chi lavorò alla selezione dei frammenti dei libri XX de constitutionibus si incorso in una svista e confuso Sesto Vero con Giulio Vero. 29 In questo senso, mi pare fosse abbastanza scontata la delusione di Mantello 2012, 57 s., che cita l’epistula come prova della rinuncia di Marco Aurelio a imprimere “senso precettivo ad un’etica del commercio, anche quando venissero toccati nodi in astratto sensibili”. 30 Riconfermata, al di là di mere apparenze dirigistiche in età tardoantica: sul punto vedi il recente libro di Bramante 2019, 365 ss. 31 Call. 3 de iure fisci, D. 49.14.3.5: Divi fratres rescripserunt in venditionibus fiscalibus fidem et diligentiam a procuratore exigendam et iusta pretia non ex praeterita emptione, sed ex praesenti aestimatione constitui: sicut enim diligenti cultura pretia praediorum ampliantur, ita, si neglegentius habita sint, minui ea necesse est. 32 In questo senso Puliatti 1992, 191 ss.; ora in Puliatti 2020, 376 s.; cfr. Talamanca 1955, 238; Boulvert 1982, 833. 28

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Commento. I libri XX de constitutionibus verba dei divi fratres si adduce anche l’ipotesi opposta, e cioè di un prezzo da ridurre se la gestione negligente della res ne avesse prodotto un deprezzamento33. Ecco, dunque, il criterio regolatore equitativo, vale a dire la giustezza del prezzo, il pretium sarebbe stato iustum, nel senso della sua congruità, non per una determinazione in astratto o sulla base di una stima consuetudinaria ma attuale e concreta (ex praesenti aestimatione: sicut diligenti cultura pretia praediorum ampliantur, ita, si neglegentius habita sint, minui ea necesse est)34. Il filo rosso del pretium iustum continua a segnare la trama dell’attenzione posta dal potere imperiale all’autonomia negoziale anche in età successiva. Tale criterio infatti costituisce l’embrione della regolamentazione dioclezianea (a cui si affianca l’aggettivo verum), refluita infine nel Codex Iustinianus (C. 4.44.2; C. 4.44.8), volta non tanto a pretendere una rigida fissazione dei prezzi quanto piuttosto ad assicurare una certa flessibilità del modus pretiorum in relazione alle fisiologiche oscillazioni dei mercati locali35. In questo senso, più in generale, allora deve leggersi l’interessante richiamo al rispetto della consuetudo regionis, che ci conduce peraltro nella complessa, ma in questa sede soltanto da sfiorare, questione del rapporto tra mos e consuetudo e del tema contiguo del rapporto tra diritto romano e diritti locali, verso cui non è fuori luogo considerarla un classico caso di ‘croce e delizia’ degli studi giusromanistici36. Ciò che non deve perdersi di vista in D. 18.1.71 (= L. 3) è il contesto territoriale in cui maturò e s’innestò il dettato normativo imperiale: il riferimento a una consuetudo regionis, concetto ritenuto da Mario Talamanca assai più elastico di consuetudo provinciae37, induce a pensare con ragionevole certezza a un territorio provinciale e agli inevitabili processi di contaminazione normativa tra un’enorme massa di norme e di diritto romano e di diritti locali che, continuando a sopravvivere, come fecero anche dopo e nonostante la Constitutio Antoniniana del 212 d.C., producevano incertezza e conseguentemente conflitti, di cui il governo centrale possedeva piena consapevolezza. Una consapevolezza che traspare, infatti, dal testo raccolto da Papirio Giusto, in cui è chiaro l’angolo prospettico della raccomandazione imperiale contenuta nell’epistula inviata al governatore provinciale e ove spicca la cifra assoluta di un pragmatismo orientato a comporre inevitabili conflitti, nell’ambito delle dinamiche di equilibrio e squilibrio delle assai differenti condizioni

33 In questo senso anche Maiuro 2012, 99. Sulle linee etiche della politica fiscale dei divi fratres si legga anche anche Cerami 1987b, 21 s. Sul tema ancora di recente Agudo Ruiz 2013, 1 ss.; Rinaudo 2015, 24, 53 ss.; mentre preziosi sono gli studi sulla documentazione papiracea della prassi egizia dei tre volumi di Alessandrì 2005; Alessandrì 2012; Alessandrì 2017; vedi anche Alessandrì 2015. 34 Un principio applicato da Diocleziano e Massimiano per il caso inverso di vendita dei beni del debitore del fisco è contenuto in C. 2.36.1 (284 d.C.). L’attenzione riposta da Marco Aurelio nell’evitare danni al fiscus si desume anche da un altro intervento riportato ancora da Papirio Giusto (Pap. Iust. 2 de const., D. 50.1.38.1 [= L. 11]: Item rescripserunt colonos praediorum fisci muneribus fungi sine damno fisci oportere, idque excutere praesidem adhibito procuratore debere) relativo all’obbligo dei coloni praediorum fisci di sottostare ai munera sine damno fisci, su cui vedi infra. Sul tema ora vedi anche Rinaudo 2015, passim. 35 Così correttamente Bramante 2019, 365 ss. 36 Per restare ai contributi più recenti vedi Cerami 1997, 117 ss., e i rilievi di Albanese 2000, 345 ss. [= Albanese 2006, IV, 799 ss.]; cfr. Scarano Ussani 1987, 90 ss. Ma densi di spunti sono i contributi attraverso i quali si è dispiegata una tra Filippo Gallo e Antonio Guarino (Gallo 1985, 70 ss.; Gallo 1991-1992, 1 ss.; Gallo 2000, 95 ss.; Guarino 1989, 172 ss. [= Guarino 1994, IV, 368 ss.]). Adde Gallo 1993, 180 ss.; Gallo 1999, 187 ss.; Gallo 2004-2005, 1 ss.; Gallo 2012, 27 ss. 37 Talamanca 1976, 168 s., concorde con Schmiedel 1966, 20 ss.

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Orazio Licandro dei mercati locali di un impero vastissimo, tra la libera conventio pretiorum e politica dei prezzi e ordine pubblico. Se la libertà negoziale delle parti andava salvaguardata, a maggior ragione il principio sarebbe valso in assenza di uno scarto nell’ambiente sociale, se cioè nulla fosse stato compiuto in violazione della consuetudo regionis (praesertim si nihil contra consuetudinem regionis fiat), da cui difficilmente alcun contraente avrebbe potuto lamentare danni o esiti sperequativi. Il riconoscimento romano della sua giuridicità, poggiante soprattutto sull’avverbio praesertim usato dalla cancelleria, significava anche un problematico esito opposto in caso di violazione della consuetudo regionis. In conclusione, a proposito del rapporto lex-consuetudo, il frammento di Papirio Giusto contribuisce a definire anche cosa si muovesse sul piano della politica normativa e del dibattito giurisprudenziale in materia di fonti di produzione del diritto, ambito rispetto al quale, giustamente, Filippo Gallo ha argomentato l’inesistenza della consuetudo nel catalogo delle fonti di produzione normativa, soprattutto in relazione al noto testo giulianeo. Tenuto conto dell’argomentazione di Gallo, secondo cui “al tempo di Giuliano dominava in proposito un atteggiamento di tolleranza”38, di cui faceva fede la concessione ai municipi suis moribus legibusque uti, nella oratio de Italicensibus in senatu habita39, possiamo dire che forse ancor più di questa il rescritto imperiale raccolto da Papirio Giusto, ma anche gli altri ‘recuperati’ dai commissari di Triboniano come D. 50.12.13pr.-1 (= L. 17) in cui emblematica è la chiusa esse enim tolerabilia, quae vetus consuetudo comprobat, ce ne danno limpida conferma. F. 4 – D. 48.12.3pr.-1 (L. 4) Si tratta di un gruppo di rescritti – tre se si segue Lenel, due se invece si preferisce l’editio Mommsen in cui il contenuto del paragrafo 2 è accorpato al paragrafo 1 – strettamente collegati, e coordinati quasi si trattasse di un unico e organico intervento in materia di competenze municipali sulla politica dei prezzi: a) i decuriones non possono stabilire a favore dei propri concittadini un prezzo del grano inferiore a quello determinato dall’annona; b) non rientra tra le competenze dell’ordo decurionum fissare il prezzo del grano; c) si concede alla richiedente (che si tratti di una donna si desume dal pur breve contesto) di muovere una denuncia al praefectus annonae. Vi è un interessante lettura avanzata da Jean-Michel Carrié, secondo cui ci troveremmo dinanzi a “la défense d’une sorte de libéralisme économique déliberé, exprimant un choix social et impliquant une réflexion élémentaire sur la formation du prix et sur son rôle économique: il est un niveau minimum au dessus duquel les prix doivent se tenir pour stimuler la production agricole”40. A me sembra, però, che il principio generale ribadito dai principes consistesse nel sottrarre ogni potere di intervento ai decuriones delle civitates dell’impero in materia di prezzo del grano, anche per tutelarne l’autonomia da pressioni popolari in periodi difficili e/o di carestia41, e ribadire, in omaggio invece a una visione centralizzata su di una materia in verità assai delicata, la spettanza al praefectus annonae delle scelte di politica dei prezzi.

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Gallo 1985, 85 s. Su cui cfr. Grelle 1972, 65 ss.; Talamanca 2006, 443 ss. Carrié 1975, 1096 s. In questo senso anche Höbenreich 1997, 178 ss.; Lo Cascio 2020, 122 s.

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Commento. I libri XX de constitutionibus L’intervento manipolatorio, che non significa necessariamente alterazione della genuinità dei tre rescritti, ascrivibile più ai giustinianei che a Papirio Giusto il quale probabilmente riportava una versione più ampia42, traspare dalla struttura del frammento: mentre del primo e del terzo rescritto si riportano i verba imperiali nel secondo invece la scrittura contiene un discorso indiretto43. Giustamente, è stata rilevata la sostanziale coincidenza del primo rescritto con un passo di Marciano in cui si chiamano in causa i divi fratres44: Marcian. 1 de iud. publ., D. 50.1.8: Non debere cogi decuriones vilius praestare frumentum civibus suis, quam annona exigit, divi fratres rescripserunt, et aliis quoque constitutionibus principalibus id cautum est.

a cui si suole aggiungere, non senza fondamento, anche un frammento paolino (Paul. 1 sent., D. 50.8.7[5]pr.: Decuriones pretio viliori frumentum, quod annona temporalis est patriae suae, praestare non sunt cogendi)45 in cui però non vi è alcun cenno a un rescritto imperiale, sebbene anche in questo caso non sembra possa dubitarsi che Paolo si riferisse alla medesima disposizione imperiale. Ora, lasciando da parte Paolo, l’escerto marcianeo non aggiunge testualmente molto di più alla scrittura di Papirio Giusto; ma l’accostamento dei testi dimostra la letterale corrispondenza, fatto che rende apprezzabile, pur senza attenuarne il carattere congetturale, l’idea che Marciano abbia attinto ai libri XX de constitutionibus, piuttosto che direttamente agli archivi imperiali. Il che indebolirebbe anche l’assunto contro la caratura giuridica di Papirio Giusto in quanto giurista snobbato o meglio mai citato da altri prudentes. Semmai, resta da chiedersi, vista la stringatezza del testo stesso di Papirio Giusto se lui, a sua volta, abbia rimaneggiato il dispositivo imperiale o abbia lavorato su di una versione già epitomata, o più semplicemente ci troviamo dinanzi a una manipolazione formale tardoantica o giustinianea. Dall’utilizzazione marcianea del rescritto dei divi fratres nel De iudiciis publicis e dal confronto testuale, infine si ricava: primo, i rescritti dei divi fratres non furono gli unici perché nella materia intervennero altri imperatori; secondo, il fatto che comunque Marciano abbia citato i divi fratres e alluso genericamente ad altri rescritti di altri principes può voler dire soltanto che questi ultimi si limitarono a ribadire quanto sancito da Marco Aurelio e Lucio Vero; terzo, che l’ingerenza dei decuriones nella competenza del praefectus annonae a un certo momento finì per configurare una fattispecie criminale. F. 5 – D. 42.5.30 (L. 5) I commissari giustinianei hanno collocato due frammenti relativi all’esposizione patrimoniale del debitore dopo una pronuncia giurisdizionale sotto rubriche diverse del Libro XLII dei Di-

42 Cfr. Gualandi 2012, II, 51. Del medesimo avviso Scarlata Fazio 1939a, 419; contra, sia pure dubitativamente, Volterra 1968, 219 nt. 1 [= Volterra 1993b, 169 nt. 1], che però sembra forzare il pensiero di Scarlata Fazio. 43 Cfr. Franciosi 1972, 164 s.; Gualandi 2012, II, 50 s. 44 Lenel 1889, I, 948 nt. 1; seguito da Franciosi 1972, 164 s. 45 Puntualmente Gualandi 2012, II, 51, fa notare come l’intervento di riduzione del passo di Paolo, a differenza del riassunto della disposizione dei divi fratres, sia tale da impedire di comprendere la derivazione di quel principio dalla legislazione imperiale.

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Orazio Licandro gesta: D. 42.5.30 (= L. 5) si ritrova nella rubrica del titolo V De rebus auctoritate iudicis possidendis seu vendundis, mentre D. 42.7.4 (= L. 6) sotto la brevissima rubrica VII, fatta di appena 5 frammenti, dal titolo De curatore bonis dando. Nella Palingenesia iuris civilis leneliana, i due frammenti sono posizionati in immediata sequenza [nr. 5-6], nel rispetto in questo caso della loro successione nei Digesta, avendo rilevato l’identica materia trattata nei due rescritti degli effetti delle pronunce giudiziarie sulla massa patrimoniale del debitore. E anche per questa ragione, forse, è utile esaminarli in stretta sequenza. Il rescritto imperiale contenuto in D. 42.5.30 (= L. 5) riguarda il caso di un debitore esposto a bonorum venditio a seguito di condanna in un processo per formulas, vicenda processuale inquadrata da Matteo Marrone come rei vindicatio46: il debitore soccombente aveva tentato di paralizzare la bonorum venditio, contestando la regolarità della procedura esecutiva al fine di ottenere una rescissione della vendita extra ordinem, cioè presso il tribunale imperiale. I casi di irregolarità nell’adempimento della possessio e della proscriptio non dovevano essere rari e i relativi controlli poco efficaci, se non assai sommari. Lo desumiamo non solo dal caso in esame, ma anche da altri documenti come Ulp. 59 ad ed., D. 42.4.7.3, in cui il maestro severiano commentava la clausola edittale sulla possessio dei beni di un debitore quasi latitans, che invero latitans non era47, e Gai. 3.220, in cui costituiva fattispecie di iniuria l’esecuzione ai danni di qualcuno pur nella consapevolezza di non trattarsi affatto di un debitore48. Con la laconicità con cui venne riportata, la risposta imperiale rigettava la richiesta del debitore, precisando come in tali casi sia legittimo proporre un praeiudicium, tipico strumento processuale pretorio dalla formula priva di condemnatio mediante il quale si demandava allo iudex designato an ex lege bona venerint, come possiamo leggere in Gaio49. Siamo, dunque, in presenza di un caso esemplare di ‘non ingerenza’ imperiale nei processi dell’ordo50, e di prudente mantenimento di un equilibrio tra procedura per formulas e cognitiones extra ordinem. Non è difficile, scorrendo i Digesta, imbattersi in rescritti imperiali che attestano questa precisa linea di politica giudiziaria: un esempio, tra quelli contenuti nel titolo 47.19 (Expilatae hereditatis), si trova in Marcian. 2 iud. publ., D. 47.19.3 contenente un rescritto severiano in materia di crimen expilatae hereditatis (Divus Severus et Antoninus rescripserunt electionem esse, utrum quis velit crimen expilatae hereditatis extra ordinem apud praefectum urbi vel apud praesides agere an hereditatem a possessoribus iure ordinario vindicare). Tuttavia, in questo rescritto Settimio Severo e Antonino Caracalla lasciano intatta la facoltà di optare liberamente per la via extra ordinem o per quella ordinaria. Naturalmente, è appena il caso di osservare la profonda differenza tra

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Marrone 1955, 394; Arcaria 2003, 41 ss. nt. 32. Ulp. 59 ad ed., D. 42.4.7.3: Quid sit autem latitare, videamus. Latitare est non, ut Cicero definit, turpis occultatio sui: potest enim quis latitare non turpi de causa, veluti qui tyranni crudelitatem timet aut vim hostium aut domesticas seditiones. 48 Gai. 3.220: […] sive quis bona alicuius quasi debitoris sciens eum nihil sibi debere proscripserit […]. 49 Gai. 4.44: Non tamen istae omnes partes simul inveniuntur; sed quaedam inveniunt, quaedam non inveniuntur. Certe intentio aliquando sola invenitur, sicut in praeiudicialibus formulis, quali est qua quaeritur, aliquis libertus sit, vel quanta dos sit, et aliae complures. Su cui Marrone 1955, 365 nt. 718; Marrone 1961, 121 ss. [= in Marrone 2003, I, 71 ss.]. 50 Palazzolo 1974, 82 ss.; Palazzolo 1991, 124 ss. Cfr. in tal senso pure un rescritto di Caracalla in C. 3.36.3; e un altro di Gordiano III in C. 3.36.7. 47

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Commento. I libri XX de constitutionibus rimedi giudiziari posti in alternativa: in un caso, nell’adire il praefectus urbi o i governatori provinciali la prospettiva sarebbe stata quella di un processo criminale extra ordinem; nell’altro caso, di un agere per formulas a seguito della proposizione di un’ordinaria vindicatio hereditatis contro i possessores. Ancora più rispettoso è l’atteggiamento imperiale nel rescritto raccolto da Papirio Giusto, ove i divi fratres, non solo non intervengono nel merito della questione ma si limitano a indicare lo strumento processuale ordinario, cioè una formula praeiudicialis, mediante la quale accertare la fondatezza della pretesa del debitore esecutato, che da parte sua nel contestare la regolarità della bonorum venditio puntava a caducare la missio in bona. Naturalmente, l’assenza dei destinatari impedisce di considerare l’emanazione del rescritto imperiale in seguito a un’epistula del magistrato o piuttosto come risposta a un libellus della parte privata interessata. Comunque sia, il rescritto escludeva che il debitore potesse vanificare la bonorum venditio spostando la questione sul piano extra ordinem della giurisdizione imperiale mediante la richiesta di una restitutio in integrum, perché i principes nel rigettare la pretesa del debitore lo rinviavano eventualmente al pretore51. Qui è evidente la differenza rispetto a quanto osservato a proposito dello squarcio marcianeo (Marcian. 2 iud. publ., D. 47.19.3), in cui si lasciava facoltà di scelta tra rimedi formulari e rimedi extra ordinem, perché la presa di posizione in favore del rimedio pretorio confermava la “tendenza imperiale all’economia di rimedi giudiziari extra ordinem in presenza di uno strumento ordinario efficiente”52. C’è un ultimo aspetto su cui soffermarsi, e riguarda la genuinità del testo. A Siro Solazzi non è sfuggita un’incongruenza testuale, cioè “principem”, per la verità già indicata da Mommsen e dubitativamente risolta con “a principe”53, spia di un possibile guasto in quanto i principes rispondenti erano due. In effetti la “sgrammaticatura” è evidente, e, molto probabilmente “principem” nel rescritto prese il posto di “a nobis”54. Tuttavia, l’osservazione di Solazzi non puntava a mettere in discussione la sostanza del rescritto, tanto che successivamente, in quello che può considerarsi un trattato sul concorso dei creditori55, non rinunciando a polemizzare con Scarlata Fazio (che a sua volta riproponeva l’emendamento mommseniano “a principe”)56, aggiungeva che il glossema individuato non si spiegava soltanto

51 Sul fatto che il praeiudicium o, ancora più precisamente, la formula preiudicialis si istituisse nella fase in iure dinanzi al pretore non sembrano residuare soverchi dubbi, a differenza di quanto ipotizzato da Scarlata Fazio 1939b, 139. Questi, al fine di individuare la ratio del rescritto imperiale in un’esigenza di economicità dei mezzi giudiziari, ha pensato a uno spostamento nella fase apud iudicem, attribuendo allo iudex privatus la soluzione della questione incidentale ed evitando così “la doppia dannosa conseguenza della moltiplicazione del giudizio e dell’impossibilità che l’eccezione pregiudiziale del convenuto ricevesse il doppio esame da parte del giudice prima e del giudice poi”. Ma è facile avvedersi come, proprio nel tentativo di interpretare il rispetto dei divi fratres verso il processo dell’ordo, Scarlata Fazio finisca per introdurre degli aspetti irreali. Infatti, ha avuto buon gioco a confutare tecnicamente questa singolare ricostruzione Marrone 1955, 394; Marrone 1961, 135 ss., mettendone in luce l’anomalia rispetto alla normale competenza dello iudex privatus di decidere in via incidentale su qualunque questione pregiudiziale. 52 Palazzolo 1991, 125. 53 Digesta Iustiniani Augusti, II, Berolini 1962, 554 nt. 4. 54 Solazzi 1921, 183 nt. 4 [= Solazzi 1957, II, 386 nt. 12]; vedi anche Solazzi 1955, 91 [= Solazzi 1972, V, 619]. 55 Solazzi 1940, 54 nt. 2. 56 Scarlata Fazio 1939b, 138 ss. e nt. 2.

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Orazio Licandro con la trascuratezza grammaticale ma soprattutto con il fatto che la richiesta di restitutio in integrum fosse rivolta al principe piuttosto che al pretore. A sua volta, però, pure Solazzi è suscettibile di controreplica nel non tener conto dell’evoluzione del sistema processuale in cui si appalesava sempre più la crisi della magistratura pretoria a favore di quella imperiale, soprattutto con particolare riguardo alla restitutio in integrum. Non solo. Il testo in esame dimostra la piena coerenza sostanziale, perché si tratta di un caso di richiesta rigettata di restitutio in integrum cognitoria, la cui coesistenza con quella pretoria è pienamente documentata57. Possiamo semmai osservare come il rescritto imperiale dia ragione alla prospettiva indicata da Palazzolo nel considerare la restitutio in integrum “uno dei campi in cui è più facile vedere la portata degli interventi imperiali nell’ambito stesso dell’attività pretoria, interventi che, […] lungi dal trasferire ad un sistema processuale diverso (la cognitio extra ordinem) la competenza in ordine al provvedimento di restitutio, indicano al pretore stesso la via da seguire, attuando, sempre nell’ambito della restitutio pretoria, un sostanziale allargamento delle ipotesi originariamente previste dall’Editto”58. E, in ultima analisi, è opportuno aggiungere che D. 42.5.30 (= L. 5) dimostra come non rientrasse nella prospettiva di Marco Aurelio la sclerotizzazione della restitutio in integrum pretoria59. F. 6 – D. 42.7.4 (L. 6) Assai diversi sono i problemi che sorgono dalla lettura di D. 42.7.4 (= L. 6), rescritto dei divi fratres che è stato al centro di un acceso dibattito dottrinario. La risposta imperiale si inscrive nell’ambito delle eccezioni alla normale procedura della bonorum venditio, con cui si consentiva di procedere non alla vendita in blocco ma alla spicciolata del patrimonio del debitore sino alla concorrenza del debito, evitando in tal modo sia la successione dell’acquirente nella totalità dei rapporti sia l’infamia. Nella storia del processo esecutivo romano si consolidarono due procedure derogatorie di quella ordinaria60: la bonorum distractio ex privato consilio rimessa alle valutazioni e al consenso dei creditori e la bonorum distractio ex senato consulto che invece muoveva dal particolare status del debitore (come ad esempio un senatore o la moglie di un senatore: clarae personae)61 e dall’intervento di un senatoconsulto. La complessità del frammento è aggravata dalle incertezze di inquadramento gravanti sulla bonorum distractio ex senato consulto. In particolare, si discute se questa fu introdotta una volta per tutte quale beneficium per le clarae personae da un senatoconsulto, di cui però è ignoto il nome del proponente, oppure se il senatoconsulto istitutivo abbia demandato al senato una specifica valutazione del caso in questione (se, quindi, ogni bonorum distractio avesse bisogno di un senatoconsulto autorizzativo); oppure ancora se sulla base di un precedente si sia affermata una prassi presto consolidatasi almeno per i membri dell’ordo senatorius. Tendenzialmente, credo abbia ragione chi abbia condiviso, rafforzandola, l’opinione volta a escludere un unico senatoconsulto per riconoscere all’assemblea senatoria un potere discrezionale di vaglio ai

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Palazzolo 1974, 175 ss. Cfr. Wesel 1968, 165 nt. 128; Lemosse 1988, 10 nt. 19; Lemosse 1990, 8. Palazzolo 1974, 179. 59 A tal proposito si legga Raggi 1965, 55. 60 Cosa diversa furono la publicatio bonorum e la conseguente bonorum sectio, su cui Scherillo 1953a, 197 ss.; Salerno 1990, 161 ss. Un recente inquadramento generale in Carro 2019, passim. 61 Gai. 9 ad ed. prov., D. 27.10.5, su cui vedi infra nel testo e a nt. 63. 58

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Commento. I libri XX de constitutionibus fini dell’autorizzazione della procedura derogatoria62. Si riducono sostanzialmente a due i testi sulla materia: un frammento delle Membranae di Nerazio Prisco e un escerto gaiano del commento all’editto provinciale. La loro lettura congiunta spinge a rintracciare le origini della procedura della distractio bonorum ex senatus consulto in un caso concreto, quale quello che si evince dal frammento di Nerazio Prisco63. Solazzi ha rilanciato un’acuta osservazione di Leopold Wenger64, vedendo in tale circostanza un intervento normativo tipico di “una giustizia di classe”, come spia della tendenza senatoria a introdurre politicamente benefici ‘corporativi’65. L’osservazione di Solazzi è assolutamente pertinente perché coglie un indubbio aspetto sostanziale; e potremmo anche aggiungere che già dalla genesi del principato tale fosse la tendenza con l’istituzione della cognitio senatoria per i propri membri, ma è tema che ci allontanerebbe troppo dal nostro ambito. Bisogna piuttosto osservare il limite della lettura moderna, per lo più limitata a guardare al senatore (e alla moglie, e dobbiamo presumere anche i figli) come destinatari del beneficium in questione. La menzione di costoro si trova nel commento gaiano all’editto provinciale che, però, ha soltanto valore esemplificativo e non tassativo delle clarae personae; il che significa che la distractio bonorum poteva essere autorizzata anche nei confronti di chi senatore non fosse eppure persona da considerare socialmente rilevante perché autorevole, influente, legata da una rete di relazioni ad ambienti socialmente, economicamente e politicamente significativi. Soltanto allargando il novero dei beneficiari avrebbe un senso sia il passo di Nerazio sia l’attribuzione al senato di un potere di valutazione discrezionale, dunque caso per caso e con apposita deliberazione, della concessione della distractio bonorum. Questa conclusione consente, pertanto, non solo di accogliere la ricostruzione di Scarano Ussani66 dei motivi alla base dell’introduzione della procedura derogatoria verso i componenti del senato, le dinamiche economiche dei primi decenni II secolo d.C., ecc., ma di rilevare un dato ancor più importante, quello cioè delle prime avvisaglie delle dinamiche che dai Severi in poi avrebbero determinato la dicotomia honestiores/humiliores, come esito finale di assetti

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Scarano Ussani 1976, 178 ss. [= in Scarano Ussani 1992, 105 ss.]. Nerat. 1 membr., D. 27.10.9: Cuius bonis distrahendis curatores facere senatus permisit, eius bona creditoribus vendere non permisit, quamvis creditores post id beneficium bona vendere mallent: sicut enim integra re potestas ipsorum est utrum velint eligendi, ita cum alterum elegerint, altero abstinere debent. Multoque magis id servari aequum est, si etiam factum est curator, per quem bona distraherentur, quamvis nondum explicato eo negotio decesserit. Nam et tunc ex integro alius curator faciendus est neque heres prioris curatoris onerandus, cum accidere possit, ut negotio vel propter sexus vel propter aetatis infirmitatem vel propter dignitatem maiorem minoremve, quam in priore curatore spectata erat, habilis non sit, possint etiam plures heredes ei existere neque aut per omnes id negotium administrari expediat aut quicquam dici possit, cur unus aliquis ex his potissimum onerandus sit; cfr. Gai. 9 ad ed. prov., D. 27.10.5: Curator ex senatus consulto constituitur, cum clara persona, veluti senatoris vel uxoris eius, in ea causa sit, ut eius bona venire debeant: nam ut honestius ex bonis eius quantum potest creditoribus solveretur, curator constituitur distrahendorum bonorum gratia vel a praetore vel in provinciis a praeside. 64 Wenger 1925, 230 nt. 41. 65 Solazzi 1938, II, 225. Diversamente Scarlata Fazio 1939b, 139 ss. Solazzi, inoltre, osservando il mantenimento nel regime della distractio ex edicto della missio in bona, non condivide le idee di Rotondi 1934, 124 ss., e ribadisce l’anteriorità della distractio ex senatoconsulto come ‘strappo’ al regime ordinario. Per una sintesi dello stato della critica sulle questioni più controverse, si veda il più recente contributo di Pérez Álvarez 2011, [on line]. 66 Scarano Ussani 1976, 188 ss. 63

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Orazio Licandro socio-economici con pesanti proiezioni sulla politica legislativa di un modello sociale rigidamente gerarchizzato e con un sistema binario di repressione penale67. In questo quadro va collocato il rescritto imperiale, di cui è ignoto il privato sottoscrittore del libello (ma non possiamo escludere che la risposta sia stata sollecitata da un curator), con cui i divi fratres negarono al debitore insolvente ogni azione ex ante gesto. Diversi studiosi hanno opinato, pur senza forti argomentazioni, uno stretto collegamento tra il rescritto in questione e quello di D. 42.5.30 (= L. 5)68. In particolare, non convince il suggerimento di Scarlata Fazio, sulla base del sospetto della non genuinità del rescritto, sospetto fondato semplicemente sulla sua stringatezza, di sostituire “nullam actionem ex ante gesto” con “nullum praeiudicium”: in tal modo, secondo lo studioso, D. 42.7.4 (= L. 6) riuscirebbe del tutto intellegibile e in perfetto raccordo con D. 42.5.30 (= L. 5). Tuttavia, i due interventi imperiali, ancorché entrambi relativi alla materia delle vendite all’asta, non solo riguardavano procedure diverse ma, come abbiamo constatato, anche casi talmente differenti da far apparire arbitrario lo stretto nesso rafforzato dalla collocazione leneliana come se alla disciplina generale seguisse quella derogatoria o eccezionale. Se in D. 45.2.30 (= L. 5) si interveniva per chiarire i rimedi a disposizione del debitore insolvente che lamentava vizi, irregolarità della procedura esecutiva, in D. 42.7.4 (= L. 6) invece si faceva riferimento a un comportamento illecito del decoctor: il “fraudatori” tra i verba del rescritto è illuminante perché offre la chiave di lettura del frammento69. I divi fratres, evidentemente non sollecitati dal fallito perché anche se in astratto possibile difficilmente l’autore di una condotta illecita avrebbe giocato tanto arditamente la carta dell’interrogazione all’autorità imperiale, avevano assunto alla base della denegatio actionum ex ante gesto la condotta fraudolenta del decoctor. Allora, la ratio dell’intervento imperiale si inscrive in una tendenza di contrappeso del beneficium concesso alle clarae personae; è probabile, infatti, che senatori falliti, approfittando della particolare procedura, mettessero in atto comportamenti fraudolenti nei confronti dei creditori, per esempio attraverso l’occultamento di beni così sottratti alla distractio e alla conseguente vendita. Non è difficile immaginare l’’atavico vizio’ dell’arroganza sedimentata dalla forza sociale e dalla gestione del potere per approfittare oltremodo di un beneficium. In tal modo, il rescritto andrebbe considerato del tutto coerente con la sensibilità soprattutto di Marco Aurelio, attestata dal complesso delle nostre informazioni ma anche degli altri interventi normativi, verso soluzioni tendenti a una giustizia dal volto rigoroso ma equo, nello sforzo di attenuare almeno le ulteriori storture di quella che Solazzi ha giustamente bollato come giustizia di classe. F. 7 – D. 48.16.18pr.-2 (L. 7) I tre rescritti citati nel frammento D. 48.16.18 (= L. 7), collocati dai compilatori giustinianei dentro il titolo ad Senatusconsultum Turpillianum et de abolitionibus criminis sono stati pochissimo studiati dalla dottrina romanistica, mentre a mio avviso rappresentano una svolta rilevante nella politica processuale dell’età imperiale.

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Sul tema Ruggiero 2017, passim; vedi anche Licandro 2018, 355 ss. Su cui vedi Arcaria 2003, 50 s. nt. 39; ma anche Arcaria 1992, 227 ss. nt. 182, e letteratura ivi citata. 69 Si veda pure Solazzi 1938, 145 nt. 3, 208 nt. 1; Greiner 1973, 29 ss.; Lemosse 1990, 7 nt. 7; Scarano Ussani 1976, 179 nt. 2. 68

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Commento. I libri XX de constitutionibus Com’è noto, il SC. Turpillianum, del 61 d.C., estendeva l’ambito di applicazione della calumnia, che già era punita sotto la Repubblica a seguito della lex Remnia, a numerose altre condotte criminose, quali la delatio (l’informazione confidenziale) o la praevaricatio (la collusione tra l’accusato e l’accusatore). Successive costituzioni imperiali ampliarono ulteriormente le previsioni del senatoconsulto, punendo anche la tergiversatio, cioè l’abbandono doloso dell’accusa70. Col senatoconsulto, in sostanza, come rileva Lucia Fanizza, la quale se ne è occupata specificamente, “si intese individuare rimedi contro alcune manipolazioni a cui si prestava il sistema accusatorio”, di cui la disciplina della desistenza71 costituiva uno degli oggetti principali. Esisteva, infatti, nella disciplina del processo criminale accusatorio, un obbligo dell’accusatore di proseguire nell’azione che aveva intrapreso; a quest’obbligo faceva riscontro la previsione di una sanzione pecuniaria nel caso in cui la sua desistenza fosse stata calumniae causa. Nel caso in cui, invece, la condotta dell’accusatore era considerata scusabile, aveva luogo la dichiarazione di abolitio da parte del magistrato che riceveva l’accusa. Si trattava pertanto, nel caso dell’abolitio, di una concessione magistratuale all’accusatore, a seguito della quale egli aveva solo l’obbligo di non riproporre più l’accusa72. A mio avviso, è stata proprio la collocazione giustinianea dentro le previsioni del S.C. Turpilliano che non ha fatto intendere pienamente agli interpreti moderni la portata fortemente innovativa delle tre costituzioni dei divi fratres. Al centro delle discussioni dei tre rescritti sta appunto l’istituto dell’abolitio, vale a dire l’estinzione del processo per perenzione, in pratica per abbandono da parte di colui che aveva iniziato il giudizio73. Senonché, ed è questa l’assoluta novità delle costituzioni dei divi fratres, nei tre rescritti non si parla del processo criminale (o se ne parla solo indirettamente, al paragrafo 2), ma di quello civile, in pratica dell’applicazione dell’abolitio in un processo del tutto diverso. L’anomalia era stata rilevata incidentalmente da Lucia Fanizza, la quale aveva osservato che la necessità di un accordo tra l’accusatore e l’accusato, previsto nel primo dei due rescritti, non poteva essere stato previsto dal senatoconsulto Turpilliano, ma doveva essere imputato alle disposizioni imperiali74. Ma è stato specialmente Francesco Arcaria ad accorgersi che i tre rescritti non soltanto presentano termini che mal si accordano col processo criminale, ma fanno pensare ad una estensione dell’istituto della abolitio anche al processo civile. Esaminiamo allora i singoli paragrafi. Nel principium Papirio Giusto riferisce uno dei tre rescritti che conservano ancora il nome del destinatario, Giulio Vero, che, come si è già visto, fu legato di Siria tra il 163 e il 167 d.C: “Imperatores Antoninus et Verus Augusti Iulio Vero rescripserunt, cum satis diu litem traxisse dicetur, invito adversario non posse eum abolitionem accipere”. Si fa menzione di una lis e di un adversarius, che non sono certo termini da processo criminale

70 Marcian. lib sing. ad sen. cons. Turpill., D. 48.16.1.1: Tergiversari est in universum ab accusatione desistere. Per un quadro sintetico sulle fonti relative alla tergiversatio cfr. Taubenschlag 1934, 723 s. Sui precedenti e sul clima politico in cui si affermò il SC. Turpilliano vedi Purpura 1976, 219 ss. 71 L’elenco delle fonti che trattano della desistenza nel processo criminale sta in Fanizza 1988, 57 nt. 133. 72 Sull’abolitio nel processo criminale Waldstein 1964, in particolare 124; cfr. anche Levy 1933, 211 ss. e 218 e nt. 3. Sul S.C. Turpilliano vedi anche Bohacek 1936, 358 ss. 73 Per von Beseler 1930, 46, la frase cum satis – dicetur è da ritenere interpolata, ma vedi sul punto Waldstein 1964, 109 ss. 74 Fanizza 1988, 65.

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Nicola Palazzolo (per il quale ci aspetteremmo piuttosto accusatio e reus), ma che rinviano invece ad un processo civile: se una delle parti, per ignavia o disattenzione, avesse tirato a lungo una causa, non avrebbe potuto chiedere l’autorizzazione ad abbandonare il processo senza il consenso dell’avversario75. Il concetto viene ribadito nel secondo dei rescritti riferiti da Papirio Giusto Item rescripserunt, nisi evidenter probetur consentire adversarium, abolitionem non dari: se non si prova evidenter che l’avversario è d’accordo, non può farsi luogo all’abolitio. Qui l’uso di Item, così come in tutti gli altri casi simili riferiti da Papirio Giusto, porterebbe ad affermare che si tratti di un secondo rescritto nel quale viene affermato con maggiore forza il principio già espresso nel rescritto precedente. Eppure il dubbio che possa trattarsi dello stesso rescritto, rafforzato dall’estrema stringatezza dello stesso, è senz’altro lecito. Si tratterebbe cioè di una sintesi operata in epoca giustinianea, o appena precedente; i compilatori, cioè, avrebbero estrapolato le due frasi più significative del rescritto (l’una più attenta ai presupposti obiettivi della richiesta: cum satis diu litem traxisse dicetur, l’altra alla prova dell’esplicito consenso dell’avversario: nisi evidenter probetur consentire adversarium) per presentarle come se fossero due rescritti diversi. Del tutto improbabile, invece, che a presentarli in tal modo sia stato Papirio Giusto, del quale, al contrario, si è rilevata l’estrema cura nella distinzione tra le diverse disposizioni imperiali. Nel terzo dei rescritti (paragrafo 3) si parla certo di processi criminali, ma se ne parla in maniera indiretta, applicando cioè a questi, per analogia76, le sanzioni previste per chi non riesca a provare, in un processo civile, ciò che afferma: Item rescripserunt, cum in crimine capitali abolitionem ut in re pecuniaria petitam esse diceret, restaurandam esse nihilo minus cognitionem, ita ut, si non probasset hoc quod proponeret, non impune eum laturum77. Qui la distinzione tra crimen capitale e res pecuniaria è netta, ma viene posta per ricavarne un’interpretazione analogica78: così come (ut) avviene nella res pecuniaria, anche in un crimen capitale la richiesta di abolitio non può aver seguito, cosicché il processo deve riprendere (restaurandam esse nihilo minus cognitionem), e non lasciare impunito tale comportamento (non impune eum laturum)79.

75 Come rileva Fanizza 1988, 65, l’accordo tra le parti è certamente estraneo, ancora all’epoca del S.C. Turpilliano, ai criteri che regolano il sistema accusatorio: questo infatti riconosce all’accusatore la facoltà di richiedere l’abolitio senza alcun bisogno del parere favorevole dell’accusato. 76 Che la legislazione di Marco Aurelio e Lucio Vero si servisse dell’interpretazione analogica per rendere applicabili le decisioni di un caso concreto a fattispecie, e talora a sistemi processuali, del tutto diversi era stato già rilevato da Arcaria 2003, 148. 77 Per Bohacek 1936, 367, la frase non impune eum laturum fa pensare che gli imperatori abbiano prescritto non solo che l’adversarius non deve opporsi all’abolitio, ma che, “in caso di crimen capitale, hanno persino ordinato una ricerca inquisitoria sulle originarie affermazioni dell’accusatore per infliggergli la pena nel caso che fossero false”. 78 Talamanca 1990b, 698, invita a distinguere tra il dettato originario del senatoconsulto, gli eventuali provvedimenti normativi a carattere generale, e l’ulteriore attività interpretativa dei giuristi e delle costituzioni imperiali. 79 Santalucia 1998, 265, osserva come la sanzione per la tergiversatio fosse una semplice pena pecuniaria, a differenza della calumnia, la cui pena era quella stessa stabilita per il delitto per cui era stata intentata l’accusa. Cervenca 1989, 592, ricorda che in età posclassica la tergiversatio è punita soltanto quando, a prescindere dal motivo, l’accusatore abbia lasciato trascorrere il termine di un anno entro il quale dovevano essere conclusi tutti i processi criminali.

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Commento. I libri XX de constitutionibus In definitiva, mi sembra che gli interventi imperiali, al di là dello stato in cui ci sono pervenuti i testi papiriani, rappresentino una svolta significativa nella normativa processuale80. Ignoriamo se questa svolta faccia parte di un disegno complessivo di riordinamento del processo da parte dei divi fratres e poi di Marco Aurelio81, o se si tratti di interventi isolati. Come si rilevava all’inizio, tuttavia, è certo che la collocazione giustinianea entro un titolo del Digesto dedicato tutto al processo criminale non ha consentito di dare ai rescritti in esame (e quindi al giurista che ce li ha riferiti) il giusto rilievo che essi meritano. F. 8 – D. 49.1.21pr.-3 (L. 8) I 4 rescritti contenuti nel frammento 49.1.21 (= L. 8) del Digesto costituiscono una parte significativa della normativa relativa all’appello civile82 e – più in generale – degli interventi imperiali in materia processuale. È noto, ed è stato messo in rilievo anche di recente83, come il campo del processo, sia civile che criminale, sia stato uno dei più fertili settori del diritto nel quale si sia esercitata la normativa di Marco Aurelio e Lucio Vero: numerosissime sono infatti le testimonianze, anche fuori dell’ambito strettamente tecnico-giuridico84, che provano quest’interesse85. La problematica dell’appello, sia civile che criminale, è stata, d’altra parte, al centro degli interessi della cancelleria imperiale durante tutto il principato classico, ma in particolare proprio nel II secolo d.C. Le sentenze dell’ordo iudiciorum, sia che fossero state pronunciate da un giudice unico che da un organo collegiale, erano, com’è noto, di per sé inattaccabili. C’erano, in realtà, già in età repubblicana, vari rimedi contro gli effetti di una sentenza o un atto giurisdizionale86, ma si trattava di cosa diversa dalla nozione di appello, perché presupponevano una irregolarità esteriore del procedimento, e non il riesame completo della causa, con una nuova pronunzia sull’oggetto della controversia. È invece con l’avvento del Principato che si afferma la possibilità di provocare all’imperatore anche contro gli atti giurisdizionali,

80 Sull’enorme produzione in ambito processuale di Marco Aurelio (da solo o con Lucio Vero) rimando a quanto scritto da Arcaria, il quale ha dedicato al tema un’ampia parte della sua trattazione: Arcaria 2003, 13 ss. 81 Così Arcaria 2003, passim, ed in particolare 145 ss.; ma vedi anche Palazzolo 1991, 86 ss. Non occorre dimenticare, tuttavia, che gli interventi imperiali riferiti da Papirio Giusto sono stati emanati in un periodo (quello della correggenza di Marco Aurelio e Lucio Vero) certamente anteriore a quello del solo Marco Aurelio, cui si riferirebbe il riordinamento complessivo del processo che va sotto il nome di oratio Marci. 82 Già Franciosi 1972, 163 osservava che il frammento “più che un rescritto appare quasi un trattato in materia di appello”. 83 Arcaria 2003, 17 ss. 84 Si pensi alle indicazioni che vengono da SHA vita Marci 10.1, 10.2, 10.6, 10.9, 10.11, 11.6. 85 Si citano a mo’ di esempio i provvedimenti relativi alle competenze giurisdizionali dei consoli: alimenti (C. 5.25.2; C. 5.25.3; Ulp. 2 de off. cons., D. 25.3.5.9 e 14), tutela (D. 40.12.27), pollicitatio (Ulp. 3 de off. cons., D. 50.12.8), adoptio (Ulp. 3 de off. cons., D. 1.7.39).; o ancora quelle dei governatori provinciali (Ulp. 9 de off. proc., D. 48.19.8.1; C. 8.46.1; Pap. 2 resp., D. 22.1.17pr.); dei magistrati municipali (Ulp. 36 ad ed., D. 27.8.1.2; Marcian. 9 inst., D. 26.5.29); del praetor fideicommissarius (Ulp. 6 fideicomm., D. 40.5.37; Pap. 20 quaest., D. 22.1.3pr.), del praetor urbanus e del processo formulare (D. 25.4.1pr.; Ulp. 31 ad Sab., D. 23.3.9.3; Inst. 4.6.30; C. 3.31.1; Tryph. 13 disp., D. 27.10.16pr.; Pap. 10 resp., D. 2.14.8). Per non parlare poi dei tanti provvedimenti concernenti singoli istituti processuali: contumacia, praeiudicium, transazione, ecc. Cfr. in proposito l’ampia rassegna di Arcaria 2003, 17 ss. 86 L’intercessio del collega o del tribuno della plebe contro gli atti del magistrato, l’infitiatio contro l’actio iudicati, la revocatio in duplum, la restitutio in integrum; v. sul punto Palazzolo 1991, 30 s.

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Nicola Palazzolo in virtù di quella auctoritas che gli è stata conferita, in pratica del prestigio personale e politico di cui godevano Augusto e i suoi successori. È perciò un istituto del tutto estraneo al sistema processuale dell’ordo iudiciorum, sia privatorum che publicorum, che Augusto provvide a riordinare con le sue leges Iuliae iudiciorum, e che poi i suoi successori proseguirono a sistematizzare. L’intervento del principe avviene extra ordinem, cioè appunto fuori del sistema dell’ordo87. Gli imperatori, già nel I secolo, avevano rivendicato a sé il diritto di intervenire, su richiesta della parte soccombente, per riesaminare il caso e dare una nuova decisione: sono infatti molte le testimonianze che riferiscono circa questi interventi. E costituiva certamente un motivo di interesse per i cittadini il sapere che, in ogni caso rimaneva sempre la possibilità di rivolgersi al principe in seconda istanza88. Naturalmente, col passare del tempo, ed in particolare nel II secolo, l’appello al principe si istituzionalizza, e gli imperatori sono costretti, a causa del moltiplicarsi del numero degli appelli, a delegare la decisione a propri funzionari (il praefectus urbi o il governatore della provincia), o addirittura ad istituire una scala gerarchica, che facesse da filtro alle numerosissime richieste di appello, in modo che, prima di rivolgersi all’imperatore, i cittadini si rivolgessero a funzionari di rango meno elevato. Ed è proprio durante il principato di Marco Aurelio e Lucio Vero che, come ha rilevato Riccardo Orestano89, l’istituto dell’appello assume le sue caratteristiche fondamentali. I due primi rescritti del frammento di Papirio Giusto prendono in esame appunto il principio dell’ordine gerarchico degli appelli, in relazione all’eventuale errore delle parti nel proporre appello90 al principe, anziché al giudice che sarebbe stato competente: nel primo rescritto (principim) si stabilisce che gli appelli proposti direttamente al principe saltando le cariche inferiori a ciò deputate vengano rimessi ai praesides della rispettiva provincia (“appellationes, quae recto ad principem factae sunt omissis his, ad quos debuerunt fieri ex imo ordine, ad praesides remitti”)91; nel secondo (paragrafo 1) che chi intenda proporre appello contro la sentenza di un giudice delegato dal praeses provinciae non possa rivolgersi direttamente all’imperatore, ma deve prima adire lo stesso praeses che ha nominato il giudice (ab iudice, quem a praeside provinciae quis acceperat, non recte imperatorem appellatum esse ideoque reverti eum ad praesidem debere)92. Certamente la menzione in entrambi del praeses provinciae ci indica che si tratta di processo provinciale, mentre non sappiamo se trattasi di processo civile o criminale: probabilmente nel primo viene adombrato un processo criminale, mentre nel secondo un processo civile extra ordinem; più precisamente, riguardo al primo problema si afferma l’ordine

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Cfr. Orestano 1966, 216 ss.; Palazzolo 1991, 31 ss.; Arcaria 2003, 125 ss. Sul punto cfr. Bleicken 1962, 135. 89 Orestano 1966, 217. 90 Questa dell’errore nel proporre appello ad un giudice incompetente doveva certo essere, come rileva Arcaria 2003, 129 ss., assai frequente: è noto un famoso rescritto nel quale i divi fratres affermano il principio che l’eventuale errore non impedisce la riproposizione dell’appello al giudice competente (Ulp. 1 de app., D. 49.1.1-3). 91 Si ritiene generalmente in dottrina che la fissazione di un ordine gerarchico degli appelli risalga proprio a Marco Aurelio e Lucio Vero (così Orestano 1966, 219 s. nt. 3; Litewski 1972, 123 e nt. 37; Scapini 1978, 59, nt. 159) o, al più presto ad Antonino Pio (così Perrot 1907, 148 ss.). Sul punto vedi anche Nasti 2006, 48 s. 92 La motivazione è certamente la volontà di limitare, per quanto possible, gli appelli diretti al principe: vedi sul punto Kelly 1957, 98: “Hier sehen wir die Divi Fratres bei dem Versuch, sich die Entscheidung von Appellationen aus den Provinzen zu ersparen, indem sie darauf bestehen dass der praeses provinciae nicht durch eine direkte Berufung an dem Princeps umgangen werden soll”. 88

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Commento. I libri XX de constitutionibus gerarchico93 con il quale devono essere effettuati gli appelli nella provincia, nel secondo il principio, che era già nella procedura dell’ordo, secondo cui le eventuali lagnanze contro la sententia del giudice devono essere rivolte anzitutto a colui che lo ha nominato (un magistrato urbano o il praeses provinciae). Nonostante l’estrema stringatezza, si tratta di due rescritti distinti94, perché – come si è visto – le ipotesi previste sono profondamente diverse. E, come al solito, non sappiamo quale sia stato l’apporto di Papirio Giusto e quello dei compilatori. Il paragrafo 2 del frammento si presenta come una massima di carattere generale, tanto da poter far pensare, piuttosto che ad un rescritto imperiale, ad una riflessione da parte del giurista; ciò sembrerebbe avvalorato dal fatto che sono messe a confronto due ipotesi diverse, quella dell’appello proposto da un magistrato, e quella dell’appello proposto da entrambi, ed a ciascuna viene data la sua soluzione (Si magistratus creatus appellaverit, collegam eius interim utriusque officium sustinere debere: si uterque appellaverit, alium interim in locum eorum creandum); inoltre viene affermato che bisogna distinguere secondo che l’appello sia fondato oppure no, giacché in quest’ultimo caso egli dovrà rispondere dell’eventuale danno, mentre nel caso contrario si dovrà vedere chi sarà tenuto al risarcimento (et eum, qui non iuste appellaverit, damnum adgniturum, si quod res publica passa sit: si vero iusta sit appellatio et hoc pronuntietur, eos aestimaturos, cui hoc adscribendum sit)95; ed infine si pone il caso in cui a proporre appello sia il curator annonae, che essendo una carica senza collega, richiederà la nomina di un sostituto finché sarà pendente l’appello (in locum autem curatoris, qui annonam administraturus est, alium interim adsumendum, quoad usque appellatio pendeat)96. In sostanza sembra proprio che venga utilizzata, come in tanti altri casi, la tecnica tipica che ha reso famosa la giurisprudenza romana, l’arte cioè della diairesis97, della distinzione tra le varie ipotesi, e le rispettive soluzioni. Senonché, più ancora che ragioni sistematiche98, vi sono precisi elementi testuali che fanno propendere per l’attribuzione a Marco Aurelio e Lucio Vero, anziché a Papirio Giusto, delle innovazioni, e della stessa inquadratura normativa generale del fenomeno, che sembrerebbe essere molto diffuso a quell’epoca, degli appelli proposti dagli stessi funzionari o magistrati. C’è anzitutto l’uso dell’infinito debere, che è palesemente collegato al debere finale del paragrafo precedente, e che chiaramente dipende dall’idem rescripseunt iniziale99. E c’è poi la costruzione delle frasi successive, tutte all’accusativo e all’infinito (creandum, adgniturum, aestimaturos, adsumendum), che inducono a pensare che il giurista (o chi per lui) abbia voluto attribuire ai divi fratres tutto il complesso della normativa in questione. E tuttavia il dubbio rimane: come è possibile che in un solo rescritto, che normalmente è rivolto alla soluzione

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Vedi Arcaria 2003, 128 nt. 233. Alcuni autori (così von Beseler 1925, 487, seguito da Solazzi 1927, 5) avevano ritenuto che fossero i giustinianei a separare le due ipotesi: sul punto cfr. Scarlata Fazio 1939b, 148, e Arcaria 2003, 128 nt. 252. 95 Arcaria 2003, 134 nt. 273. 96 Arcaria 2003, 135, attribuisce “particolare importanza” alla congiunzione autem, ma l’argomentazione mi sembra molto debole. 97 Si leggano in propsosito le belle parole che ha dedicato al tema Bretone 1982, 107 ss. Ma si veda anche quanto, a proposito del metodo di Quinto Mucio, scrive Schiavone 2005, 163 ss. 98 Franciosi 1972, 163 s.; Franciosi 1998, 240. 99 Cfr. in questo senso già Arcaria 2003, 134. 94

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Nicola Palazzolo di un caso concreto, gli imperatori abbiano messo tanta carne al fuoco, costruendo tutto un sistema normativo che si sarebbe adattato meglio ad un tipo diverso di costituzione, un editto o un mandato? Come è possibile che nello stesso rescritto siano discussi sia il caso dell’appello proposto da uno o da entrambi i magistrati, sia quello dell’appello proposto dal curator annonae, che, come si è visto più su, non è né un magistrato né un funzionario, ma qualcuno che è stato gravato da un munus nei confronti della civitas100? Uscire da questo dubbio mi sembra impresa ardua. Molto probabilmente la costituzione citata da Papirio Giusto nel par. 2 non era un rescritto, bensì un atto di portata generale (un editto?) che dettava una normativa articolata per tutte le ipotesi di appello proposto da magistrati o funzionari, o da coloro che fossero gravati da un munus, e le relative conseguenze in termini di responsabilità101. È pur vero che non vi sono prove dirette che suffragano questa affermazione, e tuttavia mi sembra questa l’ipotesi più probabile sulla base degli elementi di ordine generale già accennati in precedenza. Ciò a meno di non voler vedere, anche qui, un pesante intervento compilatorio, che ha fuso in un unico testo più costituzioni di Marco Aurelio e Lucio Vero, riferite puntualmente da Papirio Giusto. La lettura del paragrafo 3, se si accetta la lezione della littera Florentina102, risulta abbastanza chiara. Essa si collega agli altri rescritti riferiti nel frammento da Papirio Giusto per il fatto che la questione discussa è relativa ad un caso di appello. In particolare il problema rivolto agli imperatori è se, in caso di appello nella controversia relativa ad un campo, i fructus agri debbano sempre rimanere nella disponibilità del possessore, come avviene di solito103, o se invece (quamvis usitatum non sit) in qualche caso (come quello che sembra essere stato sottoposto agli imperatori), in cui il possessore non si fosse limitato a percepire i frutti, ma avesse addirittura tagliato gli alberi del campo, in tal modo appropriandosene illecitamente (populi detraherentur), si debba invece provvedere al deposito degli alberi estirpati presso un sequestratario. La risposta positiva degli imperatori si definisce ispirata a motivi di equità (aequum est videri fructus apud sequester deponi). Si tratta certamente di una decisione innovativa degli imperatori di fronte ad un caso nuovo, che essi ritengono meritevole di tutela, anche allontanandosi dai criteri con i quali si usava decidere le controversie di tal genere. La novità della fattispecie – come è stato giustamente rilevato – stava nel fatto che il possessore del fondo non si era limitato, durante la pendenza dell’appello, a percepire i frutti del campo, ma aveva addirittura tagliato alla radice i pioppi104,

100 La previsione viene poi estesa a tutti coloro che ad munera publica nominati appellaverint da Ulpiano in Ulp. 3 de off. cons., D. 49.10.1: sul punto cfr. Grelle 1961, 326 e nt. 61 [= Grelle 2005, 60 e nt. 61]. 101 Arcaria 2003, 135 ss., avvicina a questa ipotesi l’epistula generalis, questa volta di Marco e Commodo, che viene ricordata in un noto passo di Ulpiano (Ulp. 1 ad ed., D. 11.4.1.2), nel quale tuttavia l’aggettivo generalis viene comunemente ritenuto indizio di interpolazione. 102 Per altre letture, tutte però oggi non accolte dalla dottrina quasi unanime (cfr. specialmente l’ampia analisi del passo di Orestano 1966, 405 s.), si rinvia all’ottima rassegna compiuta da Arcaria 2003, 54 ss. nt. 42. In particolare, sviluppando un’intuizione del Mommsen, Röhle 1981, 159 ss., aveva arbitrariamente corretto la frase in pupillis litigantibus distraherentur, alterando così del tutto il significato della frase in oggetto, mentre Scarlata Fazio 1939b, 149, seguendo la lezione della Vulgata, leggeva depopularentur al posto di populi traherentur. 103 Si veda, ad esempio, Ulp. 31 ad Sab., D. 24.3.7.12, relativamente al caso del fondo dotale. 104 Orestano 1966, 405 s. Il significato di traherentur è qui quello ‘forte’ di strappare e trascinar via, cosa che si ha appunto quando una pianta non viene normalmente potata ma tagliata alla radice.

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Commento. I libri XX de constitutionibus cosa che in condizioni normali sarebbe consentita, purché entro i normali criteri di un razionale sfruttamento del fondo105. La risposta imperiale si rende conto della novità del caso e della soluzione suggerita (quamvis usitatum non sit), ma ritiene comunque che in questo caso vi siano ragioni equitative che fanno propendere per la soluzione drastica del deposito presso il sequestratario. Ancora una volta, non si riesce a determinare se l’aver messo questo rescritto accanto ad altri con i quali aveva in comune solo l’aspetto, in verità assai marginale106, dell’appello, sia da attribuire a Papirio Giusto oppure ai compilatori giustinianei. Forse, l’unico elemento che potrebbe indurre a ritenere che sia Papirio l’autore è che, se fossero stati i giustinianei, non si spiegherebbe perché mai abbiano messo il nostro paragrafo sotto il titolo 49.1 del Digesto (de appellationibus) e non in uno degli altri titoli che si occupano specificamente dei frutti del campo.

LIBRO II

F. 9 – D. 39.4.7pr.-1 (L. 9) Il frammento si occupa specificamente del pagamento del vectigal da parte dei possessori di agri vectigales. Come è noto107, soltanto con il Principato, ed in particolare a partire dalla dinastia flavia, la disciplina degli agri vectigales comincia ad assumere una precisa fisionomia, molto diversa dalle locazioni censorie dell’età repubblicana, cui contribuì in misura notevole la riflessione dei giuristi. Al centro dell’operazione imperiale stava l’esigenza di risanamento dei bilanci pubblici, cui la dinastia flavia si dedicò con particolare impegno, che portò ad una profonda revisione catastale e a nuove forme di concessione di suolo pubblico ai privati. È Ulpiano che, in un brano tratto dal suo liber singularis de officio curatoris rei publicae108, chiarisce le motivazioni di tale scelta, quelle appunto di garantire alla collettività una rendita sicura e perpetua:

105 Le fonti in proposito sono chiare: Pomp. 5 ad Sab., D. 7.1.10; Paul. 2 epit. Alf. dig., D. 7.1.11; Ulp. 17 ad Sab., D. 7.1.12pr.; Ulp. 31 ad Sab., D. 34.3.7.12. Mentre tagliare gli arbores ceduae o il sottobosco, dal quale trarre legna da ardere, rientrava nella nozione corrente di fructus, estirpare i pioppi non può certo essere ricompreso nella normale manutenzione del fondo. In questo senso vedi anche Campolunghi 1972, 213 nt. 91. 106 In realtà, secondo il tenore del rescritto che ci è stato tramandato, non si trattava di una questione processuale relativa all’appello, bensì in riferimento al problema su cosa debba intendersi per fructus agri. 107 Vedi specialmente, da ultimo, Maganzani 2011, 165 ss. (con ampia bibliografia). 108 L’opera di Ulpiano, conosciuta soltanto attraverso 7 frammenti contenuti nel Digesto, presenta vari punti di contatto con alcuni dei frammenti di Papirio Giusto, tanto da far pensare – anche se non c’è alcuna documentazione in proposito – ad un possibile rapporto tra le due opere, quanto meno dal punto di vista dei commissari giustinianei, che potrebbero aver integrato i dati dell’opera di Ulpiano con la citazione dei rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero, che ritrovavano nei libri constitutionum di Papirio.

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Nicola Palazzolo Ulp. lib. sing. de off. cur. rei publ., D. 50.10.5.1: Fines publicos a privatis detineri non oportet. Curabit igitur praeses provinciae, si qui publici sunt, a privatis separare et publicos potius reditus augere: si qua loca publica vel aedificia in usus privatorum invenerit, aestimare, utrumne vindicanda in publicum sint an vectigal eis satius sit imponi, et id, quod utilius rei publicae intellexerit, sequi.

La scelta se sottoporre questi fondi ad una vindicatio in publicum o lasciarli ai possessores dietro il pagamento di un vectigal era lasciata alla valutazione di opportunità del praeses provinciae109. La concessione era perpetua (si parla così, specie in riferimento alle comunità locali, di locatio in perpetuum)110, almeno finché il concessionario avesse pagato il vectigal. Non appena si fosse verificato un inadempimento nel pagamento, si procedeva immediatamente al commissum111, cioè alla confisca del fondo al concessionario da parte dell’ente concedente112. Appunto di questo parla il frammento di Papirio Giusto, il quale ricorda che in vectigalibus ipsa praedia, non personas conveniri, in sostanza che la pretesa per la riscossione del vectigal aveva carattere reale e non personale113, e che perciò bisognava agire non contro colui che era titolare della concessione al momento dell’inadempimento, bensì contro il possessore attuale, il quale sarebbe stato responsabile anche per il mancato pagamento di quote arretrate da parte dei precedenti possessori, e che, nell’ipotesi in cui avesse comprato il fondo ignaro del debito (e dell’inadempimento) avrebbe potuto agire ex empto contro il venditore114. L’espressione usata nel rescritto, secondo la quale per il vectigal si deve agire nei confronti dei fondi e non delle persone, ha suscitato interminabili discussioni in dottrina. A parte la

109 Sul problema se l’indicazione praeses anziché curator sia interpolata vedi Cerami 1973, 319 nt. 70; Maganzani 2011, 168 nt. 1. L’introduzione del curator rei publicae, all’inizio del II secolo, dovette anch’essa essere funzionale al risanamento dei bilanci cittadini (così Camodeca 1980, 453 ss.; Maganzani 2011, 167 nt. 9). Colpisce in realtà il fatto che i frammenti tratti dal liber singularis curatoris rei publicae di Ulpiano non nominino mai il curator da cui l’opera stessa prende il nome. Ciò non significa tuttavia, come nota Talamanca 1976, 143 nt. 141, che ci sia stata un’interpolazione sistematica di tutti i frammenti di quest’opera, perché in altre opere questa figura continua ad essere nominata. 110 Bonfante 1972, 161, ricorda che già al tempo dei giuristi classici si discuteva se la locatio degli agri vectigales fosse una vera e propria locazione o non piuttosto una vendita, giacché, mentre la prestazione annuale del vectigal la faceva sembrare una vera e propria locazione, d’altra parte la sua perpetuità la rendeva simile alla vendita. 111 Sull’istituto del commissum cfr. su tutti Klingenberg 1977. 112 Klingenberg 1977, 107, osserva in proposito che, essendo ormai divenuta trasmissibile la locatio degli agri vectigales, sarebbe stato comunque più facile per l’ente concedente perseguire l’attuale possessore del fondo anziché ricercare il debitore inadempiente, il quale lo aveva ormai trasferito. 113 Così Marrone 1970, 116. Giustamente Grelle 1963, 86, rilevava tuttavia che la decisione imperiale costituisce comunque una deroga al regime contrattualistico delle concessioni vettigaliste. 114 La qualificazione come locatio o come venditio del rapporto conferma la natura convenzionale della concessione: vedi sul punto Albanese 1985, 79 e ntt. 261 ss. D’altra parte già Gaio (3.145), parlando appunto della locatio perpetua degli agri dei municipia, definisce questi praedia quae ea lege locantur, ut quamdiu vectigal praestetur, neque ipsi conductori neque heredi eius praedium auferatur, e conclude che sed magis placuit locationem conductionemque esse”. L’interscambiabilità tra locatio ed emptio è dimostrata anche da Hyg. de cond. agr. (ed. Lachmann, I, 116): alii per annos, alii vero mancipibus ementibus, id est conducentibus. E tuttavia Bove 1960, 74 ss., riteneva che Gaio avesse “attinto la tesi della vendita da ambienti giuridicamente non qualificati”, mentre al contrario un giurista avrebbe sempre visto nella concessione degli agri vectigales sempre una locazione.

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Commento. I libri XX de constitutionibus diagnosi di radicali interpolazioni dell’intera frase115, c’è stato chi ha pensato che siamo dinanzi ad un caso di obligatio rei116, in cui “la garanzia del debitum è affidata a una cosa, che viene posta a discrezione del creditore” cosicché l’inadempimento non portava all’esecuzione forzata sul patrimonio del debitore inadempiente, ma alla confisca del bene oggetto dell’obligatio. Al contrario, e a mio avviso più correttamente, altri autori117 hanno ritenuto che la frase in oggetto non riguardi la natura del rapporto, e che essa documenti soltanto “l’ampio potere di soddisfacimento riconosciuto all’ente impositore”. In ogni caso nella frase di Papirio non si può parlare di obligatio propter rem (impropriamente chiamata anche “onere reale”), quell’obbligazione per cui l’obligatio si considera immediatamente inerente al fondo anziché alla persona del titolare118. Se invece il vectigal veniva pagato regolarmente, il concessionario aveva la garanzia che il fondo non poteva essere sottratto né a lui né ai suoi eredi e aventi causa. Tra i vari testi che ce ne parlano è significativo Paul. 21 ad ed., D. 6.3.1pr.-1, nel quale Paolo ricorda che al concessionario spetti un’actio in rem contro chiunque si fosse impossessato dell’ager vectigalis, fossero anche gli stessi municipes: Paul. 21 ad ed., D. 6.3.1pr.-1: Agri civitatium alii vectigales vocantur, alii non. Vectigales vocantur qui in perpetuum locantur, id est hac lege, ut tamdiu pro his vectigal pendatur, quamdiu neque ipsis, qui conduxerint, neque his, qui in locum eorum successerunt, auferri eos liceat: non vectigales sunt, qui ita colendi dantur, ut privatim agros nostros colendos dare solemus. [1] Qui in perpetuum fundum fruendum conduxerunt a municipibus, quamvis non efficiantur domini, tamen placuit competere eis in rem actionem adversus quemvis possessorem, sed et adversus ipsos municipes.

Collegato al rescritto di cui al principium è il paragrafo 1 di Pap. Iust. 2 de const., D. 39.4.7 (= L. 9), nel quale Papirio Giusto ricorda anche che gli stessi imperatori statuirono con rescritto la remissione della poena commissi a favore del pupillo moroso, qualora adempisse entro il trentesimo giorno dalla scadenza119. Non c’è altro da aggiungere, se non quanto già osservato sopra: probabilmente la citazione nell’opera di Papirio era più lunga, e riportava almeno il nome del destinatario; altrimenti non si vede come si sarebbe potuto controllare l’esatto tenore del rescritto. I compilatori avrebbero abbreviato il tutto attaccando la citazione al rescritto precedente. F. 10 – D. 42.1.35 (L. 10) Il rescritto detta una disciplina particolare per gli atti negoziali delle amministrazioni citta-

115 Così, ad esempio, Perozzi 1947, 800 nt. 1 e Scarlata Fazio 1939b, 103 s., ritengono interpolata la frase et ideo - habituros. von Beseler 1925, 478, inserisce vectigalium praediorum al posto di in vectigalibus ipsa praedia non personas conveniri, et ideo: ipotesi questa che è definita “non infondata” ora da Cerami 1973, 304 ss. 116 In tal senso Karlowa 1885, 574. Ampia discussione sul passo in Cerami 1973, 304 ss.; vedi anche Maganzani 2011, 169. Sull’obligatio rei cfr. Lanfranchi 1940; Biscardi 1991, 37. 117 Cerami 1986, 49 s., in senso adesivo Maganzani 2011, 169. 118 Così Maganzani 2011, 169. Sulle obligationes propter rem, dette anche impropriamente ‘oneri reali’ vedi per tutti Guarino 1992, 797 s. (e bibliografia ivi citata); Talamanca 1990a, 68. 119 Scarlata Fazio 1939b, 93, ipotizza che il funzionamento di questa possibilità consentita al pupillo fosse quello di pagare il vectigal senza bisogno di ricorrere all’auctoritas del tutore.

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Nicola Palazzolo dine120. Il passo di Papirio121 è stato inserito dai compilatori nel titolo de re iudicata, ma in realtà parla di un negozio pubblico, e presumibilmente doveva essere inquadrato in un complesso di costituzioni relative alla gestione degli affari delle amministrazioni locali122. È stato messo definitivamente in luce, ormai da molti anni123, che nell’età del Principato la restitutio in integrum, da rimedio eccezionale concesso dal magistrato (praetor o governatore provinciale) sul presupposto di considerare non avvenuto un determinato atto, si sia trasformato in generale strumento processuale di gravame, e che alla tipica restitutio pretoria si sia andata dapprima affiancando e poi sostituendo una restitutio cognitoria nelle mani del principe, la quale tuttavia, piuttosto che costituire un sistema del tutto distinto e separato rispetto al sistema pretorio, interferisce su questo, attuando un sostanziale allargamento delle ipotesi originariamente previste dall’editto. Il rescritto dei divi fratres va visto proprio in questa prospettiva. Esso da un lato, come è stato giustamente rilevato124, riconferma il principio, che sembrerebbe preesistente, dell’impossibilità di sottoporre a restitutio in integrum gli atti negoziali sulla base del ritrovamento di nuovi documenti; afferma che tuttavia, quando si tratti di atti negoziali di carattere pubblico125, il divieto non sussista e si possa tener conto anche di documenti successivi. Cerchiamo perciò di capire quale fosse il principio preesistente e in quale ambito viene a collocarsi il rescritto. Esaminiamo anzitutto un frammento di Nerazio, che è stato citato a tale proposito: Nerat. 7 membr., D. 44.2.27: Cum de hoc, an eadem res est, quaeritur, haec spectanda sunt: personae, id ipsum de quo agitur, causa proxima actionis. nec iam interest, qua ratione quis eam causam actionis competere sibi existimasset, perinde ac si quis, posteaquam contra eum iudicatum esset, nova instrumenta causae suae repperisset.

Già Mariano Scarlata Fazio126 aveva scartato come poco rilevante il testo di Nerazio, affermando che esso si riferisce al problema della riproponibilità del giudizio. Al contrario Fran-

120 L’espressione negotium publicum la troviamo proprio con riferimento all’attività dei municipia in Ulp. 10 ad ed., D. 4.7.3pr.: Sicut municipum nomine actionem praetor dedit, ita et adversus eos iustissime edicendum putavit. sed et legato, qui in negotium publicum sumptum fecit, puto dandam actionem in municipes, e in Ulp. 4 opin., D. 3.3.74: Nec civitatis actor negotium publicum per procuratorem agere potest. Al plurale (negotia publica) l’espressione è presente solo in una costituzione di Caracalla del 205 d.C., C. 2.11.9: Neminem sequitur infamia ob defensa negotia publica patriae suae. 121 Impropriamente Arcaria 2003, 120, afferma che Papirio avrebbe trattato il problema dell’ammissibilità o meno della revoca della sentenza in seguito all’emergere di nuove prove documentali. In effetti Papirio Giusto non trattava alcun problema: egli, come si è visto, si limitava a pubblicare le costituzioni imperiali, senza alcun commento personale. 122 Scarlata Fazio 1939a, 415, assumeva il brano di Papirio come prova dell’inconsistenza della tesi del Lenel 1889, I, 949, secondo il quale le costituzioni del libro II parlerebbero di ius municipale, sostenendo che poiché si sarebbe trattato di una norma processuale, essa sarebbe comunque estranea ai municipia. Al contrario Franciosi 1972, 169 s. (ma vedi anche Franciosi 1998, 241 s.) osservava che anche in materia di diritto municipale venivano emanate norme processuali, e che comunque materie extraedittali attinenti al processo, sopratutto in materia di appellatio, venivano trattate promiscuamente ancora nel Codex Theodosianus. 123 Cfr. per tutti Raggi 1965, passim; Cervenca 1965, 61 ss.; Palazzolo 1974, 175 ss. 124 Scarlata Fazio 1939a, 138; Arcaria 2003, 120 e nt. 234. 125 Sulla portata dell’espressione negotia publica, che riguarderebbe anche tutte le questioni di natura criminale o assimilate cfr. Scarlata Fazio 1939b, 137. 126 Scarlata Fazio 1939b, 138.

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Commento. I libri XX de constitutionibus cesco Arcaria127 ha ritenuto di recente che proprio dal frammento di Nerazio possa ricavarsi la preesistenza del principio secondo il quale non sarebbe possibile addurre documenti successivi qualora il processo sia stato concluso in maniera definitiva. In effetti, il testo di Nerazio non parla affatto di una restitutio in integrum: esso si riferisce tuttavia a ciò che possa definirsi come eadem res ai fini della riproponibilità di un giudizio, ed a questo fine porta l’esempio di colui che, dopo una sentenza passata in giudicato, adduca nuovi documenti utili alla sua difesa, affermando che non importa la ragione addotta quando si è in presenza di un iudicatum. Si tratta pertanto dell’affermazione del principio generale del ne bis in idem nel processo privato formulare. Piuttosto mi sembra invece che sia pertinente il richiamo di un altro frammento, questa volta di Callistrato, che cita proprio due rescritti dei divi fratres, e che sembra allargare il discorso ad una prospettiva più ampia: Callistr. 5 de cognit., D. 48.19.27pr.: Divi fratres Arruntio Siloni rescripserunt non solere praesides provinciarum ea quae pronuntiaverunt ipsos rescindere. Vetinae quoque Italicensi rescripserunt suam mutare sententiam neminem posse idque insolitum esse fieri. Si tamen de se quis mentitus fuerit vel, cum non haberet probationum instrumenta, quae postea reppererit, poena adflictus sit, nonnullis extant principalia rescripta, quibus vel poena eorum minuta est vel in integrum restitutio concessa. Sed id dumtaxat a principibus fieri potest.

I due rescritti affermano il principio generale che né i praesides provinciae né nessun altro può mutare una pronuncia giudiziaria, e che questo sarebbe insolito. E tuttavia, continua il giurista (o lo stesso rescritto?), se qualcuno si sia ingannato o non abbia avuto con sé i documenti per provare la sua innocenza, e poi li abbia ritrovati, ma nel frattempo sia stato condannato, vi sono molti rescritti che affermano che possa essere concessa una restitutio in integrum, ma che questa è riservata agli imperatori. Il principio generale viene poi confermato da un rescritto di Gordiano: C. 7.52.4 (Imp. Gordianus A. Antonino): Sub specie novorum instrumentorum postea repertorum res iudicatas restaurari exemplo gravi est.

Siamo in presenza, pertanto, di un uso, da parte degli imperatori, della restitutio in integrum come mezzo di gravame eccezionale contro atti definitivi (giudiziari o negoziali), in presenza non solo di circostanze particolari (come nel caso nostro il ritrovamento di documenti prima irreperibili), ma di atti relativi o al processo criminale (Call. 1 de cogn., D. 48.19.27pr.) o a negozi di carattere pubblico (D. 42.1.35 = L. 10). Gli imperatori cioè, in una serie di rescritti (come ci ricorda Callistrato: nonnullis extant principalia rescripta), affermano da un lato il principio che non può essere rimesso in discussione ciò che è stato deciso, ma, quando si tratti di processi criminali o a questi assimilati128 o di negozi di rilevanza pubblicistica, aprono alla

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Arcaria 2003, 120. Secondo Scarlata Fazio 1939b, 138, ai giudizi criminali sarebbero accomunati quelli in dipendenza della lex Plaetoria e della lex Cornelia de iniuriis o quelli relativi agli interessi usurari. Sul testo di Callistrato vedi pure Arcaria 2003, 88 ss., ed ora Puliatti 2020, 269 s. 128

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Nicola Palazzolo possibilità che, in presenza di particolari circostanze (e quella del ritrovamento di nuovi documenti sembra rilevi sia nei primi che nei secondi), gli imperatori possano concedere la restitutio in integrum129. Mi sembra allora di un certo interesse valutare da un lato il rapporto tra la costituzione di Gordiano e quella dei divi fratres citata da Papirio Giusto, e dall’altro vedere se possa vedersi un nesso tra questa e le altre costituzioni dei divi fratres citate da Callistrato. Per quanto riguarda la costituzione di Gordiano, è certamente possibile che la cancelleria di quell’imperatore tenesse presente, nel ribadire il principio, il rescritto dei divi fratres130, ma non abbiamo alcun elemento testuale che ci faccia pensare a questo. Relativamente ai due rescritti degli stessi imperatori segnalati da Callistrato, c’è certamente qualcosa di più di una generica somiglianza. È intanto da segnalare il fatto che, sia nel rescritto ad Arrunzio Silone sia in quello a Vetina Italicense si afferma il principio generale che non è permesso né al preside della provincia né ad altri mutare una decisione già presa, ma lo si dice in entrambi i casi con espressioni che lasciano spazio ad interpretazioni estensive da parte degli stessi imperatori o dei giuristi: non solere [...] rescindere, idque insolitum est, espressioni, peraltro, da cui non è lontana quell’altra usata nel rescritto citato da Papirio Giusto, restitui negotia minime oporteat, una valutazione di opportunità pertanto, più che un fermo divieto, quasi a voler dire che il divieto esiste, ma che non è poi così rigido, nel senso che ammette qualche eccezione. E l’eccezione (o una delle possibili) è quella del reperimento successivo di qualche documento difensivo, purché però si tratti di un processo criminale (come si afferma nel testo di Callistrato) o di un negotium publicum (come nel brano di Papirio). La seconda, netta, somiglianza tra il brano di Papirio Giusto e quello di Callistrato sta nell’identico strumento processuale utilizzato dagli imperatori nei due casi: esso è la restitutio in integrum, divenuta ormai nella prassi ordinario strumento di gravame, riservato agli imperatori (come si rileva da Callistrato: sed id dumtaxat a principibus fieri postest), quando non era possibile ricorrere né all’appello (perché c’era un giudicato) né alla nullità (perché l’atto, negoziale o processuale, era perfettamente valido)131. C’è allora certamente un legame tra il rescritto citato da Papirio Giusto e i due rescritti riferiti da Callistrato. Ancora una volta, rispondere al quesito se Callistrato conoscesse l’opera di Papirio Giusto è impresa ardua, e conviene perciò lasciarla nel dubbio. Certamente, da parte dei compilatori giustinianei, la scelta del rescritto dall’opera di Papirio risponde alla mancanza di esso in altre opere giurisprudenziali (ed in particolare in quella di Callistrato), dovuta alla particolarità dell’eccezione in essa considerata, quella appunto che trattasi di un negotium publicum. Ciò che conferma l’ipotesi che il II libro di Papirio si

129 Raggi 1965, 155 nt. 59, ritiene determinante, ai fini dell’acquisizione di nuovi mezzi di prova che potrebbero essere determinanti per una nuova decisione giudiziale, il fatto che sia l’appello che la nullità siano preclusi, ma – a mio avviso – sottovaluta il fatto, messo in rilievo dal rescritto, che trattasi di un affare di interesse pubblico. L’espressione ex causa, come osserva Solazzi 1965, 691 nt., non può essere intesa in senso generale (cioè riferibile ad uno dei motivi edittali di restitutio) perché ciò vorrebbe dire estendere a qualunque tipo di negozio il criterio sopra enunciato, cosa che è espressamente negata nel rescritto. 130 In questo senso già Schwalbach 1886, 124 e nt. 1; Levy 1951, 369; Raggi 1965, 155 nt. 59. 131 Raggi 1965, 155 nt. 59.

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Commento. I libri XX de constitutionibus riferisca ad argomenti pubblicistici, ed in particolare ai vari aspetti dell’ordinamento delle civitates. F. 11 – D. 50.1.38pr.-6 (L. 11) Il passo contiene un ‘grappolo’, esattamente sette, di rescritti imperiali. Per la verità, è doveroso avvertire quanto sia incerto persino questo dato, giacché non può affatto escludersi che si tratti di risposte imperiali di natura diversa, cioè epistulae e rescripta, i cui casi appaiono cuciti in una sequenza ai nostri occhi un po’ disordinata, tanto da suscitare l’impressione non tanto di un testo organico, come qualcuno ha con eccessiva benevolenza affermato, sul decurionato quanto assai più di un rappezzo, magari già di una mano tardoantica ma non necessariamente giustinianea, di questioni rilevanti sotto il profilo finanziario. Di essi può subito rilevarsi quanto siano assai differenti gli aspetti disciplinati: il principium concerne un caso particolare di accesso al decurionato; il paragrafo 1 verte in materia di munera dei coloni; nel paragrafo 2 si affrontano profili della responsabilità dei magistrati locali; il paragrafo 3 attiene alla determinazione dello status di incola della donna sposata ai fini della determinazione della città verso cui si debbano prestare i munera; il paragrafo 4 dispone le garanzie che il pater familias del figlio titolare di una carica municipale è obbligato a prestare; nel paragrafo 5 si danno indicazione sugli elementi probatori nei casi di accertamento dello status di municeps; infine, il paragrafo 6 prescrive l’obbligo della cauzione per la gestione di una magistratura sia nel caso di costrizione sia nel caso di assunzione volontaria. Nonostante l’evidente eterogeneità, come già accennato, tutti i casi raccolti sono legati dall’unico filo rosso della materia finanziaria delle città. Semmai c’è da porsi un differente quesito: la sequenza che leggiamo corrispondeva a quella stabilita da Papirio Giusto oppure è riconducibile alle scelte dei commissari giustinianei? Inevitabilmente, allo stato, la questione resta priva di una soluzione certa, ma chiunque legga il lungo passo non potrebbe non accorgersi di una sequenza alquanto confusa. Nel commentare i frammenti proveremo, quindi, a ricollocarli secondo una più coerente successione, e la sensazione finale, come si vedrà, è che l’ordine dei rescritti imperiali del passo non costituisca affatto quello impresso dal giurista, tanto da rafforzare l’idea che i giustinianei abbiano attinto, solo in un secondo momento e in via residuale, ai libri XX de constitutionibus. *** Gruppo a). Dei sette interventi imperiali quattro riguardano l’ordo decurionum e le magistrature cittadine sotto il profilo della responsabilità inerente all’esercizio delle cariche verso la res publica. Gli altri tre invece concernono il dovere della prestazione dei munera dei cittadini verso la propria comunità di appartenenza. Cominciamo dal primo gruppo, e dal principium di D. 50.1.38, contenente un singolare rescritto in materia di adlectio dei decuriones, per lo più ignorato, considerato “exceptional” da Ernst Levy132. Il dispositivo imperiale era volto a superare la particolare empasse che si poteva determinare nel caso in cui un cittadino, o chi per lui, oppostosi alla designazione all’ordo

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Levy 1945, 16.

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Orazio Licandro decurionum, avesse prestato a tal fine uno specifico iusiurandum133 e successivamente fosse stato eletto (o creatus) duumvir, carica che presupponeva l’appartenenza all’ordo decurionum o che il conseguimento ne permetteva l’ingresso nel senato locale. La norma introdotta dagli imperatori tendeva a obliterare, pertanto, la contraddizione tra due atti riconducibili a due manifestazioni contrastanti di volontà in capo alla medesima persona, e a ‘sciogliere’ così dal vincolo dello ius iurandum il neo duumvir che in quanto tale avrebbe avuto automatico accesso all’ordo decurionum. Per afferrare la ratio del provvedimento imperiale bisogna perciò tener conto della varietà delle modalità di ingresso nei senati locali, perché se la lectio senatus era di regola rimessa ai magistrati maggiori, andò via via affermandosi parallelamente la prassi di nomine effettuate direttamente dal governatore provinciale e persino dall’imperatore. Non mancavano neppure i casi di cooptatio da parte dell’ordo stesso134. Dinanzi a simili forme ‘coattive’ allora non deve destare stupore che in determinati casi il ‘malcapitato’ si opponesse alla nomina o, nel caso di designazione caduta su di un filius, a essa si opponesse invece il pater familias, il cui consenso, come vedremo nell’esame dei brani successivi, era fondamentale per far scattare in capo a quest’ultimo obblighi in solido. L’accrescimento delle modalità di nomina coattiva all’ordo decurionum, in definitiva, potrebbe aver indotto il governo imperiale a introdurre particolari misure, come quella voluta da Marco Aurelio, dirette a facilitare l’accesso alle curie proprio in un momento in cui pericolosamente si stagliava all’orizzonte il fenomeno della disaffezione politica135. Al principium facciamo seguire l’analisi del paragrafo 2, contenente un rescritto in materia di responsabilità dei magistrati locali per l’esazione dei legati pecuniari. Il caso affrontato dagli imperatori costituisce una proiezione concreta della concezione del munus magistratuale che, per quanto inquadrato come unus magistratus nel senso di officium individuum (già così definito da Antonino Pio) nella sistemazione della giurisprudenza severiana136, implicava un

133 È appena il caso di precisare che lo iusiurandum in questione, del tutto eventuale, non ha nulla a che vedere con la prestazione del giuramento degli eletti alle magistrature locali, come prevedeva, ad esempio, Lex Irn. cap. 59: [R] DE IURE IURANDO EORUM, QUI MAIOREM PARTEM NUMERI CURIARUM EXPLEVERIT. Qui ea comitia habebit, uti quisque eorum, qui duumviratum aedilitatem quaesturamve petet, maiorem partem numeri curiarum expleverit, [eu]m factum creatumque renuntiet, ius adig[i]to in contione palam per Iovem et divom Augustum et divom Claudium et divom Vesp(asianum) Aug(ustum) et divom T(itum) Aug(ustum) et genium imp(eratoris) Caesaris Domitiani Aug(usti) [de]osque Penates eum quae ex hac lege facere oportebit facturum, neque adversus h(anc) l(egem) fecisse aut facturum es[s]e scientem dolo malo; vedi Lamberti 1993, 312 ss. ntt. 74-76. Sullo ius iurandum in legem e in leges si legga Luzzatto 1955, 23 ss.; intensa l’attività di ricerca sull’istituto di Milazzo 2000, 183 ss.; Milazzo 2002, 511 ss.; Milazzo 2004, 23 ss.; Milazzo 2007, 427 ss.; Milazzo 2012, 75 ss. 134 Per tutti vedi De Martino 1974, IV.1, 642. 135 Sono inequivocabili le tracce del fenomeno già nella seconda metà del II secolo d.C.: non solo Pap. Iust 2 de const., D. 50.1.38.6, ma anche Ulp. 4 de off. proc., D. 50.4.6pr.; Paul. 1 quaest., D. 50.1.18. A tal proposito, Langhammer 1973, 227 ss.; Lo Cascio 2006, 689 ss., ma vedi anche infra. Deve, però, ricordarsi come negli statuti municipali (per esempio, nella lex Malacitana di età domizianea) esistesse già il presupposto normativo per il caso eccezionale dell’assunzione coatta dei decurioni; vedi Lamberti 1993 80; De Martino 1963, 56 ss. [= De Martino 1979, 407 ss. = De Martino 1996, 147 ss.]; Rouveyrol 2006, 135 s. nt. 5. 136 Ulp. 1 ad ed. praet., D. 50.1.25: Magistratus municipales cum unum magistratum administrent, etiam unius hominis vicem sustinent. Et hoc plerumque quidem lege municipali eis datur: verum et si non sit datum, dummodo non denegatum, moribus competit.

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Commento. I libri XX de constitutionibus periculum commune. Da qui la responsabilità solidale, trasmissibile agli eredi e, nel caso di loro insolvenza, la responsabilità sussidiaria dei loro fideiussori137. Certo, vi era un preciso ordine di escussione138, ma in buona sostanza, il rescritto dei divi fratres si collocava in piena continuità, come appena detto, sulla scia lasciata da un intervento normativo di Antonino Pio e di cui dà conto Pap. 2 quaest., D. 50.1.11pr.: Imperator Titus Antoninus Lentulo Vero rescripsit magistratuum officium individuum ac periculum esse commune. Quod sic intellegi oportet, ut ita demum collegae periculum adscribatur, si neque ab ipso qui gessit neque ab his, qui pro eo intervenerunt, res servari possit et solvendo non fuit honore deposito. Alioquin si persona vel cautio sit idonea, vel solvendo fuit quo tempore conveniri potuit, unusquisque in id quod administravit tenebitur. Dentro il tema generale dell’obbligo della prestazione della cauzione da parte dei magistrati municipali al momento dell’assunzione della carica, si inquadrano i due interventi normativi concernenti il primo (il paragrafo 4) il profilo della responsabilità patrimoniale del pater familias appunto per la cauzione da versare dal figlio magistrato, e ratione materiae il secondo (il paragrafo 6) un’ulteriore precisazione imperiale. Il riconoscimento della responsabilità oggettiva e in solido del pater familias verso l’attività pubblica del figlio magistratus municipale139 si sostanziava nell’esposizione del patrimonio del pater attraverso la prestazione di una cautio rem publicam salvam fore: Paul. 1 ad ed., D. 50.8.9(7): Si filius familias volente patre magistratum gesserit, Iulianus existimavit in solidum patrem teneri in id, quod eius nomine rei publicae abesset.

La responsabilità solidale nei limiti del danno arrecato (id quod rei publicae abest) tra il pater e il filius magistratus era sostanzialmente ricondotta all’opinio di Salvio Giuliano, il quale nel far leva sulla voluntas del primo inaugurava una linea interpretativa sulla questione mai più messa in discussione. Ulpiano, in un frammento cardine (v. nt. 139), precisava gli effetti della nomina a decurione di un filius dietro l’assenso del pater: Ulp. 1 disp., D. 50.1.2pr.: Quotiens flius familias voluntate patris decurio creatur, universis muneribus, quae decurioni filio iniunguntur, obstrictus est pater quasi fideiussor pro filio. Consensisse autem pater decurionatui filii videtur, si praesens nominationi non contradixit. Proinde quidquid in re publica filius gessit, pater ut fideiussor praestabit.

137 Santalucia 1971, II, 171 ss.; Lamberti 1993, 249 s., nonché, ampiamente, Voci 1970, 71 ss. [= Voci 1973, 1305 ss.; e in Voci 1985, I, 481 ss.]; da ultimo Rampazzo 2011, 357 ss. Per l’età successiva Grelle 1960, 216 ss. [= Grelle 2005, 25 ss.]. 138 Pap. 2 quaest., D. 50.1.11-13. 139 In un frammento ulpianeo si elenca la casistica relativa alla responsabilità del pater, coobbligato universis muneribus (pro magistratu), per gli effetti degli atti magistratuali posti in essere dal filius; Ulp. 1 disp., D. 50.1.2pr.: Quotiens filius familias voluntate patris decurio creatur, universis muneribus, quae decurioni filio iniunguntur, obstrictus est pater quasi fideiussor pro filio. Consensisse autem pater decurionatui filii videtur, si praesens nominationi non contradixit. Proinde quidquid in re publica filius gessit, pater ut fideiussor praestabit. […] 2. Sed et si curatores operum vel cuius alterius rei publicae creavit, tenebitur. 3. Sed et si successorem sibi nominavit, patrem obstringit. […] 5. Sed si filius tutores dare non curaverit vel minus idoneos elegerit nec satis exegerit vel non idoneum acceperit, ipse quidem quin sit obstrictus, nulla dubitatio est: pater vero ita demum obligatur, si et fideiussores solent hoc nomine obligari. sed non solent hoc enim et relatum et rescriptum est), quia fideiussores rem publicam salvam fore promittunt, rei publicae autem nihil, quod ad rem pecuniariam attinet, interest pupillis tutores dari.

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Orazio Licandro La voluntas del pater favorevole all’assunzione della carica pubblica del filius comportava inesorabile l’imputazione a lui della responsabilità patrimoniale per gli universa munera gravanti sul filius decurione140. Tale presupposto è confermato da Papiniano, citato in un passo conclusivo di un lungo frammento ulpianeo: Ulp. 29 ad ed., D. 15.1.3.13: Si filius familias duumvir pupillo rem salvam fore caveri non curavit, Papinianus libro nono quaestionum de peculio actionem competere ait. Nec quicquam mutare arbitror, an voluntate patris decurio factus sit, quoniam rem publicam salvam fore pater obstrictus est. Consensisse autem pater decurionatui filii videtur, si praesens nominationi non contradixit. Proinde quidquid in re publica filius gessit, pater ut fideiussor praestabit.

La necessità del consensus del pater per l’imputazione della responsabilità è esplicitamente chiarita nel frammento di Ulpiano. La legittimazione a esperire l’actio de peculio et in rem verso contro il pater familias per il damnum arrecato dalla negligenza del filius duumvir, che nella nomina di un tutore pupillare non si era curato della prestazione della relativa cautio, non era infatti in discussione nel caso del filius factus decurio voluntate patris. Monica De Simone141, che ha affrontato con prudenza la tematica, si è chiesta se al pater fosse imposta la prestazione della cautio rem publicam salvam fore. Credo che la risposta debba essere positiva proprio sulla base del rescritto riportato da Papirio Giusto, con cui gli imperatori colpivano il comportamento doloso del pater, il quale ricorreva a un atto in sé legittimo, cioè l’emancipazione del filius142, per evitare giustappunto la cautio. Questo gruppo di rescritti sui doveri dei titolari di funzioni pubbliche si conclude con la prescrizione dell’obbligo della cauzione per i magistrati cittadini, sia che assumessero la carica per costrizione sia che l’assumessero liberamente, riportato nel paragrafo 6. Non vi è molto da commentare, perché l’intervento imperiale è uno dei tanti segni eloquenti del malessere delle élites locali; potremmo anche dire che è chiara testimonianza dell’avvio di un pericoloso fenomeno di disaffezione dagli impegni istituzionali anche locali a causa degli oneri finanziari gravanti sulle carriere politiche, fenomeno, questo, incipiente già sotto Traiano ed esploso con virulenza con Marco Aurelio e Commodo. Il rescritto dei divi fratres, con l’estensione dell’obbligatorietà della summa honoraria da prestare prima dell’esercizio della magistratura municipale anche nel caso di assunzione coatta, è l’indice dell’aggravamento della situazione delle

140 Discusso è il caso del valore da attribuire al silenzio del pater che non esercita opposizione alla nomina del figlio. Levy 1945, 19 s., e Donatuti 1976-1977, 408 ss., ritengono il passo spurio da consensisse a praestabit, ma credo che sia centrata la difesa di Lovato 2003, 138 ss. Nel caso, invece, di una nomina pubblica invito patre, nessuna responsabilità ricadeva su questo; Paul. 1 resp., D. 50.1.21pr.: Lucius Titius cum esset in patris potestate, a magistratibus inter ceteros frumento comparando invito patre curator constitutus est: cui rei Lucius Titius neque consensit neque pecuniam accepit neque in eam cavit aut se comparationibus cum ceteris miscuit: et post mortem patris in reliqua collegarum interpellari coepit. Quaeritur, an ex ea causa teneri possit. Paulus respondit eum, qui iniunctum munus a magistratibus suscipere supersedit, posse conveniri eo nomine propter damnum rei publicae, quamvis eo tempore, quo creatus est, in aliena fuerit potestate. 141 De Simone 2017, 315. 142 Come pure il trovarsi in mancipio o l’essere adottato non incideva sui diritti politici del filius: Paul. 11 ad ed., D. 4.5.5.2; Paul. ad Sab., D. 1.7.3; Paul. 4 ad Sab., D. 1.14.2; Cristaldi 2019, 167 ss.

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Commento. I libri XX de constitutionibus classi dirigenti locali, dei fermenti e delle tensioni in atto tra potere centrale e articolazioni periferiche; e di sicuro costituisce la prova documentale del progressivo ridursi sia della disponibilità dei ceti abbienti a mettersi al servizio della propria comunità sia, soprattutto, del numero di decuriones in grado di far fronte finanziariamente all’esercizio delle cariche pubbliche143. Complementare a questo primo gruppo di D. 50.1.38 (= L. 11) è il contenuto di D. 50.2.13 (= L. 12) i cui rescritti concernono un’articolata serie di disposizioni per il caso del relegatus144. *** Gruppo b). Passiamo adesso ai rescritti relativi all’obbligo dei cittadini di prestare i munera verso la propria comunità di appartenenza. Il primo intervento imperiale, nel paragrafo 1, con ogni probabilità fu dettato da un conflitto tra un colono di un fondo appartenente al fisco imperiale e il fisco stesso. Evidentemente, accadeva diffusamente che il peso eccessivo frutto del cumulo dei munera cittadini145 con i doveri verso il fisco rendesse insostenibile la situazione patrimoniale dei coloni delle terre imperiali. Il dispositivo dei divi fratres chiarisce la situazione, fissando anche le competenze in materia: fermo restando l’obbligo del colonus di un praedium fisci alla prestazione dei munera cittadini senza danni per il fisco stesso, a dirimere le eventuali contestazioni sarebbe stato investito il governatore provinciale dopo l’audizione del procurator fisci. Il caso è illuminante della concezione della proprietà imperiale soprattutto preoccupata di garantire un adeguato gettito fiscale e normalmente viene inteso come la concessione di un privilegio ai coloni Caesaris146. A leggerlo meglio, il testo di Papirio Giusto, pur nella sua stringatezza, si presta a una lettura diversa. Non si è, infatti, dinanzi a un privilegio, ma alla fissazione di una gerarchia di priorità tra le esigenze del fisco imperiale e quelle finanziarie della città cui apparteneva il colonus, il quale, pur obbligato ai propri munera civilia, innanzitutto doveva preoccuparsi che le prestazioni non si risolvessero in danno per il fisco. D. 50.1.38.1, del resto, si inscrive lungo una linea di politica normativa, di cui abbiamo già avuto un saggio nel discutere di Pap. Iust. 1 de const. D. 18.1.71 (= L. 3), da cui filtra l’evidente preoccupazione del governo centrale verso le necessità finanziarie del fisco. Piuttosto ci sarebbe da capire meglio il rapporto intercorrente con un frammento del Libro I del de cognitionibus di Callistrato (D. 50.6.6[5].10-11: Conductore etiam vectigalium fisci

143 Un altro rescritto dei divi fratres è contenuto in Ulp. 4 de off. proc., D. 50.4.6pr.: Rescripto divorum fratrum ad Rutilium Lupum ita declaratur: ‘constitutio, qua cautum est, prout quisque decurio creatus est, ut ita et magistratum apiscatur, totiens servari debet, quotiens idoneos et sufficientes omnes contingit. Ceterum si ita quidam tenues et exhausti sunt, ut non modo publicis honoribus pares non sint, sed et vix de suo victum sustinere possint: et minus utile et nequaquam honestum est talibus mandari magistratum, praesertim cum sint qui convenienter ei et suae fortunae et splendori publico possint creari. Sciant igitur locupletiores non debere se hoc praetextu legis uti et de tempore, quo quisque in curiam allectus sit, inter eos demum esse quaerendum, qui pro substantia sua capiant honoris dignitatem’. Cfr. il rescritto severiano in Paul. 1 quaest., D. 50.1.18: Divus Severus rescripsit intervalla temporum in continuandis oneribus invitis, non etiam volentibus concessa, dum ne quis continuet honorem. Per un quadro generale Lo Cascio 2006, 673 ss., praecipue 686 ss. 144 Vedi infra. 145 Grelle 1961, 308 ss. [= Grelle 2005, 39 ss.]; Grelle 1999, 137 ss. [= Grelle 2005, 443 ss.]; Pereira-Menaut 2004, 169 ss. 146 Così Rosafio 2002, 140, che tuttavia ammette al riguardo il carattere funzionale della tutela del colonus verso gli interessi del fisco. Cfr. Johne, Köhn, Weber 2012, 183 nt. 134.

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Orazio Licandro necessitate subeundorum municipalium munerum non obstringuntur: idque ita observandum divi fratres rescripserunt. Ex quo principali rescripto intellegi potest non honori conductorum datum, ne compellantur ad munera municipalia, sed ne extenuentur facultates eorum, quae subsignatae sint fisco. Unde subsisti potest, an prohibendi sint a praeside vel procuratore Caesaris etiam si ultro se offerant municipalibus muneribus: quod proprius est defendere, nisi si paria fisco fecisse dicantur. [11] Coloni quoque Caesaris a muneribus fiscalibus habeantur), in cui sembrerebbe che ai coloni Caesaris fosse concessa l’immunitas dall’obbligo dei munera (muneribus liberantur). Dal contrasto tra D. 50.1.38.1 e D. 50.6.6(5).11 e da altri rilievi testuali, alcuni infatti hanno tratto ragioni per credere a un Callistrato guasto147. A ben guardare, però è difficile dimostrare la presenza di alterazioni testuali, ma soprattutto non si scorge alcuna contraddizione o conflitto tra gli interventi imperiali riportati da Papirio Giusto e Callistrato. Anzi credo che la lettura congiunta degli escerti dei due giuristi contribuiscano a chiarire reciprocamente le disposizioni di Marco Aurelio: mentre nella scrittura del primo si riporta il secco dispositivo imperiale, in Callistrato, invece, trova spazio il commento del giurista, o meglio l’esplicazione di ciò che indirettamente era già desumibile da Papirio Giusto, cioè l’eventuale dispensa dell’obbligo dei munera dietro l’attività istruttoria del praeses provinciae di concerto con il procurator fisci148. L’inesistenza di una dispensa generale dai munera civilia per i coloni sembra, peraltro, confermata da una costituzione di Severo Alessandro del 225 d.C., riportata in C. 5.62.8 (Imp. Alexander A. Maximo): Coloni (id est conductores) praediorum ad fiscum pertinentium hoc nomine excusationem a muneribus civilibus non habent ideoque iniunctae tutelae munere fungi debent. La ratio del provvedimento imperiale, in una lettura combinata con i testi precedenti, mi sembra abbastanza chiara, perché disporre che i coloni dei fondi del fisco restavano costretti al munus della tutela149 significava escludere un’esenzione automatica, e semmai ammetterla di volta in volta qualora la situazione patrimoniale del colono non comportasse un danno per il fisco150; danno anche potenziale, perché la preoccupazione sottostante al rescritto imperiale a cui allude Callistrato era l’assottigliamento delle “res subsignatae fisco” (ne extenuentur facultates eorum, quae subsignatae sint fisco)151.

147 Convinti assertori dell’inquinamento di Callistrato sono von Beseler 1934, 31 s.; Kübler 1935, 509. Più dubitativo Masi 1971, 41 s.; cfr. Bonini 1964, 47 s. nt. 58, che non ravvisa nella presenza di extenuare una ragione per sospetti interpolazionistici; Liebs 1977, 318 ss.; ancora, più recentemente, non rileva rimaneggiamenti Puliatti 1992, 19, 49 nt. 106. 148 Vi è una tendenza a forzare l’interpretazione di questi testi per attribuire natura giurisdizionale all’attività istruttoria del praeses provinciae e del procurator fisci (vedi in tal senso Arcaria 2003, 86 e nt. 131, e gli studiosi ivi elencati); mentre appare più prudente non escludere il carattere di mero accertamento amministrativo delle stesse presupposto di un possibile processo fiscale; vedi in tal senso pure Spagnuolo Vigorita 1978, 129. 149 Viarengo 2015, 192. 150 Solitamente viene invocato un passo dei libri opinionum di Ulpiano (Ulp. 2 opin., D. 50.5.1.2: Qui in fraudem ordinis in honoribus gerendis, cum inter eos ad primos honores creari possint qui in civitate munerabantur, evitandorum maiorum onerum gratia ad colonos praediorum se transtulerunt, ut minoribus subiciantur, hanc excusationem sibi non paraverunt), in cui si affronta per analogia il caso dei senatori che per sottrarsi al rischio di essere nominati ad primos honores si rifugiavano nelle campagne, sperando in un carico più alleggerito: vano sotterfugio, spiega il giurista, perché l’obbligo dei munera esiste innanzitutto verso la città della propria origo; sul testo Santalucia 1971, I, 32, 216; II, 135 s.; Gagliardi 2006, 670. 151 Puliatti 2020, 41 nt. 54.

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Commento. I libri XX de constitutionibus A questo rescritto ne seguono altri due che però attengono alla questione preliminare della determinazione dell’origo di un cittadino ai fini della individuazione della città verso cui si imputa il dovere di prestazione dei munera. Nel paragrafo 3, leggiamo il pronunciamento imperiale con cui si riconobbe alla donna sposata lo status di incola della città del marito. In base a un principio invalso in materia di domicilium di incola, la donna in conseguenza del matrimonio subiva un mutamento del proprio originario domicilium152, sicché l’obbligo di prestare i munera avrebbe subito il medesimo ‘trasferimento’. Il passo di Papirio Giusto, tuttavia, può essere letto con maggior ampiezza se accostato a un testo di Callistrato del tutto affine: Callistr. 1 de cogn., D. 50.1.37.2: Mulieres, quae in matrimonium se dederint non legitimum, non ibi muneribus fungendas, unde mariti earum sunt, sciendum est, sed unde ipsae ortae sunt: idque divi fratres rescripserunt153.

Anche Callistrato riporta un rescritto dei divi fratres relativo all’obbligo dei munera della donna che se coniugata con un matrimonium non legitimum lo avrebbe mantenuto verso la propria città d’origine, invece che verso quella del marito. Nel passo di Papirio Giusto non vi è alcun riferimento al matrimonium o alle iustae nuptiae, dandosi però per implicite queste ultime, Ora, in effetti, la forte somiglianza tra i due brani non può negarsi, così, di conseguenza, non possono liquidarsi frettolosamente i dubbi di Giovanni Gualandi sulla possibilità di affrontare una lettura integrata dei due brani contenenti due differenti versioni del medesimo rescritto imperiale154. Giustamente Gualandi osserva che “ad una prima e superficiale lettura potrebbe sembrare che i due giuristi riferiscano, in termini opposti e contrari, la medesima disposizione”, ma in realtà, sostiene Gualandi, la contraddittorietà è soltanto apparente e cadrebbe a una lettura più attenta; eppure, conclude con una propensione “a sostenere, invece, che i due giuristi riassumendo lo stesso rescritto – che doveva risolvere il problema relativo al luogo, in cui la donna coniugata era tenuta ad adempiere ai munera, gravanti su di essa, con un’ampia e dettagliata formulazione dei varî principî da applicare – si siano soffermati l’uno e l’altro su ipotesi diverse previste dalla norma imperiale”. Possibile, ma continuo a nutrire qualche dubbio sull’idea che Papirio Giusto e Callistrato abbiano riportato il medesimo re-

152 Di contrario avviso De Ruggiero 1921, 182, che riteneva che la donna sposata con matrimonium non legitimum non seguisse “né la patria né il domicilio del marito”: opzione singolare quella di una donna coniugata, sia pure non con iustae nuptiae, con un domicilium diverso da quello del coniuge. 153 Cfr. C. 10.39.5 (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Maximo): Si in patria uxoris tuae vel in qualibet alia domicilium defixisti, incolatus iure ultro te eiusdem civitatis muneribus obligasti; CTh. 12.1.12. Imp. Constantinus A. ad Maximum vic(arium) orient(is). Si quis vel ex maiore vel ex minore civitate origine ducit, si eandem evitare studens ad alienam se civitatem incolatus occasione contulerit et super hoc vel preces dare temptaverit vel qualibet fraude niti, ut originem propriae civitatis eludat, duarum civitatum decurionatus onera sustineat, in una voluntatis, in una originis gratia. INTERPRETATIO. Si quicumque curialis de ea, in qua natus est, civitate ad aliam transire voluerit, condicionem curiae debitam nullatenus possit evadere, nec si hoc ipsum mereri interposita supplicatione temptaverit, nec ullo argumento necessitates aut servitia civitatis suae pro eo, quo habitationem mutare voluit, possit evadere. Nam quicumque hoc fecerit et se in aliam civitatem transtulerit, hoc iubet, ut in utraque serviat civitate, id est in una pro condicione nascendi et in alia pro habitandi voluntate deserviat [a. 325 d.C]. 154 Gualandi 2012, II, 69 s.; vedi pure Licandro 2004, 350; Gagliardi 2006, 460 s.

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Orazio Licandro scritto, mentre resta in piedi l’ipotesi di due diversi rescritti. Non vi è solo il dato testuale appena sottolineato, ma resta anche poco comprensibile la ragione del ricorso dei giustinianei a due frammenti di due diversi giuristi per dar conto per parti separate di prescrizioni complementari introdotte dal medesimo rescritto. Al contrario, qualche pagina addietro, abbiamo rilevato un metodo diverso a proposito di D. 48.12.3pr. e D. 50.1.8, in cui sia pure in versioni diverse la sostanza del rescritto era assai coincidente anche sul piano letterale. Per accettare la soluzione prospettata da Gualandi bisognerebbe, invece, pensare a una riduzione del rescritto imperiale da parte di entrambi i giuristi talmente stringata e differente da dover costringere i compilatori a inserire appunto entrambi i diversi frammenti, quali segmenti di un unico provvedimento imperiale: uno relativo alla donna coniugata con iustae nuptiae (Papirio Giusto) e l’altro concernente la donna unita con matrimonium non legitimum (Callistrato). Possibile, ripeto, ma non certo, sia perché è improbabile che Papirio Giusto abbia inserito quei pochi righi di scrittura su un rescritto molto importante per la determinazione dei criteri di determinazione dei munera sia perché, in generale, la notevole quantità di interventi imperiali in materia induce a ritenere che assai difficilmente i divi fratres intervennero con un rescritto organico in materia di nesso origo/incolatus/munera155. Affine al precedente è il contenuto dell’intervento imperiale del paragrafo 5, il cui carattere complementare si desume dall’identità tematica trattando della determinazione dello status di municipes di una persona in relazione all’origo da definire. A tal proposito, Antonio Carcaterra156 ha tratto spunti interessanti per condurre un’indagine su semiotica e linguistica quali elementi del metodo dei prudentes romani. L’affermazione generale dei principes è che non ci si fermasse al semplice nomen o, meglio ancora, neppure alla somiglianza del nomen (non solam nominis similitudinem […])157, per determinare l’origo di un individuo, e che invece occorressero ben altri elementi fattuali (ex ipsis etiam rebus probationes sumi oportere) atti a dimostrare un effettivo legame con un territorio, un municipium in particolare: per esempio, la nascita da un genitore municeps, il rispetto degli usi locali, e quanto altro ancora sul piano indiziario e fattuale potesse sorreggere l’intellegere e l’interpretari. Se volessimo trovare un indizio forte del ‘mestiere di giurista’ di Papirio Giusto158, credo che D. 50.1.38.5 sia in questo senso esemplare. Il rescritto, a tal proposito, calza perfettamente: non contiene citazioni dirette del provvedimento imperiale, come tanti altri segue il discorso indiretto da cui desumiamo la cifra del lavoro squisitamente tecnico e non burocratico di riduzione o, continuando a preferirsi la semantica volterriana, di massimazione eseguito dal giurista. Papirio Giusto in scarni righi di scrittura spiegava le ragioni della ratio del rescritto imperiale: nel prescrivere un procedimento induttivo, gli imperatori implicitamente alludevano all’experientia, al quod plerumque accidit, al quod fieri solet attraverso cui attuare il sumere ex ipsis rebus159. Nel caso in questione

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Così, invece, Gualandi 2012, II, 69 s. Carcaterra 1985, 152 ss. 157 Cfr. von Beseler 1933, 49. 158 Tutt’altro che quel mero raccoglitore di costituzioni imperiali, visto da Talamanca 1977, 212 nt. 28. 159 Ulp. 40 ad Sab., D. 47.2.19pr.: In actione furti sufficit rem demonstrari, ut possit intellegi; Paul. 9 ad ed., D. 50.17.114: In obscuris inspici solere, quod verisimilius est aut quod plerumque fieri solet; Paul. 1 lib. sing. artic. lib. caus., D. 40.12.41pr.: Si in obscuro sit, in quo fuerit statu is, qui pro libertate sua litigat, prior audiendus est probare volens se ipsum in libertatis esse possessionem. 156

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Commento. I libri XX de constitutionibus sono noti e studiati i casi di usurpatio civitatis, e a proposito dei municipes romani vi è uno straordinario caso attestato epigraficamente nella cosiddetta Tabula Clesiana al municipio di Trento risolto da Claudio con una sanatoria generale mediante un editto160. Si trattò di un caso eclatante e assai complesso, anche per le dimensioni di massa, di usurpatio civitatis da parte di tribù di popolazioni alpine, dallo status di peregrini, eppure l’integrazione con i municipes veri e propri era così profonda persino nei ranghi dell’aristocrazia e l’usurpatio civitatis così difficile da accertare alla luce della falsificazione anche dei nomina degli individui nelle liste censuali municipali e della generale collusione fraudolenta. Il caso della Tabula Clesiana allora, macroesempio del fenomeno in questione, serve a spiegare bene il senso della raccomandazione degli imperatori nell’andare a fondo nella ricostruzione degli status personali attraverso la necessaria applicazione del procedimento induttivo al fine di trarre elementi di prova da fatti reali161. *** Per concludere l’analisi di questo interessante grappolo di rescritti, è utile osservarne la quantità e la rilevanza, non solo di Marco Aurelio, che da tempo il governo imperiale prestava alla tematica. Abbiamo avuto modo di incrociare costituzioni imperiali di altri principes, a dimostrazione della rilevanza tutt’altro che secondaria attribuita ai temi pubblicistici. In particolare, l’emersione di esigenze ordinamentali di un ambito complesso e delicato relativo alle realtà cittadine dell’impero si ebbe ben prima di quanto si sia soliti pensare162. Quelle esigenze si erano già precocemente manifestate e le testimonianze sopravvissute dimostrano quanto fossero già state colte con lucidità dalle menti più avvertite della giurisprudenza romana, come Salvio Giuliano di cui abbiamo detto qualcosa nelle pagine precedenti. La messe imponente di interventi normativi – desumibile non solo dalla pur striminzita selezione per i Digesta giustinianea degli interventi imperiali tratti dai libri XX de constitutionibus di Papirio Giusto, ma anche dalla più generale letteratura della giurisprudenza severiana – manifesta una visione attenta, scrupolosa spia di una solida linea di politica normativa non più sporadica né occasionale, a cui non mancava da tempo il sostegno della riflessione giurisprudenziale. Qualche bagliore indurrebbe a volgere lo sguardo indietro addirittura alla giurisprudenza preantonina, se non si vuole disconoscere la rilevanza di un significativo testo di Giavoleno Prisco. Probabilmente sollecitato dal precoce fenomeno di disaffezione, e di diserzione, verso i compiti civici, in un passo del suo ex Cassio, il che potrebbe addirittura farci compiere un ulteriore salto cronologico a ritroso, il giurista si faceva deciso assertore

160 CIL V.5050, ll. 22-37 = ILS 206 = FIRA I2, nr. 71. Per un approfondimento per tutti vedi ora Licandro 2020b, 22 ss. e letteratura ivi citata. 161 Esclusivamente adesivo a Carcaterra è il punto di vista di Arcaria 2003, 49 s. nt. 38, la cui lettura è però del tutto schiacciata sul versante processuale, rischia di lasciare in ombra il versante squisitamente amministrativo, non per questo meno rilevante. Infatti, non c’è ragione di immaginare che il presupposto del rescritto imperiale fosse necessariamente un procedimento giurisdizionale in atto, mentre si deve innanzitutto prendere in considerazione un’esigenza di chiarimento nell’ambito di un procedimento di accertamento amministrativo. 162 Tendenzialmente si guarda al periodo severiano, vedi Lovato 2003, passim.

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Orazio Licandro di un modello ideologico delle magistrature cittadine particolarmente qualificato dal nesso tra honor e munus163, un nesso talmente indissolubile da fondare un’obbligatorietà insuscettibile di esenzioni. Della crucialità della materia per un buon funzionamento dell’impero e dell’omogeneità politica/amministrativa tra centro e periferia ebbe piena consapevolezza Marco Aurelio, sebbene sull’alluvionale produzione di principi e regole, ormai sedimentata, soltanto a cavallo di II e III secolo d.C. si sviluppò un intenso lavoro, se non di sistemazione, certamente di serrato coordinamento. Come abbiamo osservato, profondo fu il segno lasciato dalla grande giurisprudenza severiana (Papiniano, Ulpiano, Paolo, Callistrato, Marciano, Modestino)164, preparatrice di un “canone di una compostezza definitiva” che sarebbe stata accolta dalla statualità tardoantica165, ma non è da sottovalutare quanto affiora dalla letteratura della giurisprudenza precedente, a cominciare da Gaio che, come ben osservato da Renato Quadrato166, mostra una particolare sensibilità verso gli ordinamenti stranieri e, in qualche misura, si fa portatore di una diversa attenta sensibilità verso il pluralismo dell’impero di per sé fonte di istanze sovrannazionali, se non universalistiche167. E in quella costellazione (o federazione) di poleis168, vero volto assunto dall’impero romano, la necessità di una sistematizzazione di status e discipline delle civitates era già precocemente apparsa nella seconda metà del II secolo d.C. per divenire ancor più impellente dopo il 212 d.C., quando la concessione generale della cittadinanza romana169, nonostante il persistente polimorfismo isti-

163 Iavol. 6 ex Cassio, D. 50.4.12: Cui muneris publici vacatio datur, non remittitur ei, ne magistratus fiat, quia id ad honorem magis quam ad munera pertinet. Cetera omnia, quae ad tempus extra ordinem exiguntur, veluti munitio viarum, ab huiusmodi persona exigenda non sunt. Nel testo di Giavoleno non vi è accenno ai munera derivanti da magistrature, ma è a questi che si riferisce essendo cosa assai diversa dal semplice munus gravante sul privato e neppure portatore di dignitas, che invece costituisce riflessione presente nella scrittura del liber singularis Enchiridii di Pomponio (Pomp. lib. sing. ench., D. 50.16.239.3: ‘Munus publicum’ est officium privati hominis, ex quo commodum ad singulos universosque cives remque eorum imperio magistratus extraordinarium pervenit). Mentre la linea di pensiero di Giavoleno si ritrova nella configurazione dell’honor elaborata da Callistrato nel de cognitionibus (Call. 1 de cogn., D. 50.4.14.1). Sul tema fondamentale Grelle 1961, 316 ss. [= Grelle 2005, 51 ss.]; Grelle 1999, 137 ss. [= Grelle 2005, 448 ss.]; cfr. Jacques 1984, 372 s. 164 Un altro segno forte dell’attenzione verso da dimensione istituzionale delle civitates sia in ordine alla organizzazione interna sia per quanto concerneva i rapporti con il governo centrale, che inevitabilmente spingeva verso un agglutinamento sempre più organico e unitario della relativa normativa, è la pubblicazione di varie opere: principalmente il liber singularis de officio curatoris rei publicae di Ulpiano, senza trascurare i libri de officio proconsulis; e analogamente deve dirsi per Giulio Paolo, a cominciare dal suo liber singularis ad municipalem, noto soltanto attraverso Paul. lib. sing. ad munic., FV. 237 e 243 e sospettato perciò di apocrifia (vedi Schulz 1968, 350 s.; cfr. Wieacker 1960, 422; Cossa 2018, 114 nt. 80, 279 nt. 440), sino ai libri duo de officio proconsulis, nella trattazione della materia accostato con buon fondamento all’omonima opera ulpianea da Grelle 2003, 46 ss. e nt. 48 [= Grelle 2005, 532 ss. e nt. 48]. 165 Così la valutazione di Schiavone 2017, 398, con riferimento a Ulpiano, ma estensibile quale cifra peculiare all’intera giurisprudenza severiana. 166 Quadrato 2006, 1097 ss. 167 In questa prospettiva anche Goria 1981, 235 ss. 168 Spagnuolo Vigorita 1996, 97 ss.; vedi anche Spagnuolo Vigorita 1993, 5 ss.; da ultimo, Marotta 2017, 61 ss.; cfr. Capogrossi Colognesi 2004, 243 ss. [= Capogrossi Colognesi, 2010, II, 939 ss.]. 169 Sono sempre più propenso a ritenere che non si trattò di una concessione universale ma generale sulla base del paradigma della città o dell’”urbanitas”, e da cui restarono escluse le grandi masse rurali: Licandro 2020c, 467 ss. Sul paradigma urbano insiste anche Cardilli 2020, 353 ss.

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Commento. I libri XX de constitutionibus tuzionale delle strutture cittadine, avrebbe comportato per meccanicistica ricaduta una più compiuta omogeneizzazione170. C’è un’ultima, non meno importante, questione, che muove da un interrogativo: nel raccogliere la produzione normativa imperiale e organizzarla, Papirio Giusto seguiva lo schema dell’Editto del pretore? Muovendo da due fatti oggettivi, uno offerto dalle opere giurisprudenziali di commento edittale in cui la trattazione delle tematiche municipali trovano accoglienza nei primi libri, e l’altro dal fatto che i materiali papiriani appaiono prevalentemente concentrati nel secondo libro, si potrebbe essere tentati di guardare in questa direzione. Tuttavia, non sappiamo quasi nulla degli altri restanti libri, ignorati dai giustinianei, per trarne conclusioni sufficientemente affidanti e definitive. Un dato, però, appare inoppugnabile della raccolta di Papirio Giusto, o almeno sulla scorta dei rescritti del secondo libro, cioè un paradigma espositivo incentrato su due solidi assi portanti, honores e munera. Allora, anche da questo angolo di visuale, cioè quello del rapporto tra impero e città, perimetro di un ambito vasto fatto di honores, munera e finanze, i libri XX de constitutionibus di Papirio Giusto aiutano esemplarmente a scorgere già nella seconda metà del II secolo d.C. quegli incipienti tratti di tardoantico che troverà in età dioclezianea un’articolata sistemazione nell’unica specifica monografia dedicata al tema, il liber

170 In un denso contributo, più una vera e propria monografia che un articolo, Talamanca 1976, 95 ss., ha analizzato la produzione giurisprudenziale, in particolare, il genere de officio, sostenendo che l’ottica della prima generazione dei grandi maestri severiani fosse quella rigorosamente orientata verso Roma e la realtà municipale delle civitates Romanae. Soltanto successivamente, lo sguardo fu rivolto ed esteso alle civitates peregrinae, soprattutto a quelle dei territori orientali, divenute anch’esse civitates Romanae dopo il 212 d.C. Ma, per la verità, la critica condotta da Talamanca verso i non molti documenti (per esempio, Ulp. 2 ad ed., D. 50.1.1.12; Ulp. 3 de off. proc., D. 50.2.3.2; Ulp. 3 de off. proc., D. 50.3.1pr.; Ulp. 4 de off. proc., D. 50.6.3; Gai. 6 lex Iul. et Pap., D. 50.15.7; Pap. 10 resp., D. 42.5.37), in cui il dato testuale sembrerebbe chiaramente deporre a favore di un’attenzione verso le civitates peregrinae orientali, è prevalentemente apodittica, perché resta indimostrato che i grandi maestri severiani non abbiano guardato alla sostanza municipale includendo anche le città non romane rispetto alle quali le province fungevano da elementi istituzionali di mediazione appunto fra le città stesse e l’attenzione dei giuristi romani (come sostenuto dallo stesso Talamanca 1976, 159), secondo un approccio funzionale a ‘tradurre’ normativamente lo spirito ecumenico della dinastia. In quest’ultimo senso, e sostanzialmente contrario alla visione di Talamanca, Nörr 1963, 566 ss.; Nörr 1966, passim; e più recentemente Marotta 2017, 61 ss., che contesta la visione di un impero come Stato territoriale formulata da Talamanca (vedi però anche le riflessioni in Talamanca 2001, 76 ss.). Non trascurabile, peraltro, la redazione in greco del de excusationibus di Modestino (su cui vedi Altmann 1955, 68 ss.; Talamanca 1976, 199 ss.; Masiello 1983, passim): senza dimenticare quanto il greco fosse essenziale anche in Occidente, basti pensare alle città dell’Italia meridionale, il de excusationibus segnava indubbiamente una fase nuova, e costituisce, per noi, la spia inequivocabile della necessità di produrre, più che nel passato, opere in greco per materie relative alla regolamentazione della vita delle nuove città romane e, conseguentemente, dei novi cives. Al tempo stesso appariva opportuno esplicitare nella letteratura giurisprudenziale la sparizione tra le strutture cittadine di ogni elemento di differenziazione e la tendenza irreversibile verso un livellamento connotato anche dal dato più formale che sostanziale dell’estensione e dell’uniformazione della terminologia istituzionale (civitates, res publicae; decuriones, munera), poiché non aveva più senso, se non nell’uso quotidiano e popolare, la vecchia nomenclatura ellenistica. Sull’intimo nesso tra constitutio Antoniniana e de excusationibus spinge molto Liberati 1968, 119 s.; invece, molto più cauto, se non persino perplesso, Talamanca 1976, 197 s. nt. 277. È in re ipsa, poi, che l’esigenza dell’uniformazione si estendesse al diritto sostanziale; in tale contesto era fondamentale il lavoro sulle corrispondenze terminologiche delle due lingue condotto dai giuristi e in questo senso è istruttivo, e ne costituisce un limpido esemplare, il lungo frammento dei libri pandectarum di Modestino (Mod. 12 pand., D. 38.10.4.6), contenente una sorta di glossario in materia di parentela e affinità; sul testo di recente Viarengo 2007, 2776 ss.; Viarengo 2012, 20 ss.; D’Alessio 2013, 119 ss.; Musumeci 2020, 295 ss.

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Orazio Licandro singularis de muneribus civilibus di Aurelio Arcadio Carisio171. E spingendoci ancora un po’, è possibile davvero individuare, per quanto sottile ma non sfibrato, quel filo di continuità tra la raccolta di Papirio Giusto e il Codex Gregorianus172, infine sfociante nel Codex Iustinianus (titoli 32-78 del decimo libro e titoli 30-46 dell’undicesimo libro)173, e nell’organica e compatta trattazione nei primi 15 titoli del cinquantesimo libro dei Digesta. F. 12 – D. 50.2.13pr.-3 (L. 12) I quattro rescritti raccolti nel frammento 13 sono tutti relativi alla nomina dei decurioni, e, più in particolare, alle condizioni di ammissibilità per la nomina (aetas, dignitas, non essere stato relegatus). Com’è noto, l’ordo decurionum costituiva, nelle civitates, l’organo preminente rispetto agli altri organi (magistrati e comizi)174, quello attraverso il quale si manifestava la volontà della cittadinanza. La lectio dei decuriones175, che veniva fatta ogni cinque anni dai duoviri (che appunto per questo prendevano il nome di quinquennales) richiedeva la presenza di alcune condizioni necessarie: anzitutto l’età (non meno di 25 e non più di 55 anni176), un patrimonio sufficiente, l’ingenuità, l’assenza di condanne penali. Tra queste, era molto frequente, per le classi superiori (honestiores) la relegatio177, consistente nel confinamento in un’isola o in una determinata città o regione, che poteva essere anche temporanea, e che comunque non faceva perdere né la cittadinanza né i beni. I rescritti tendono tutti a creare una serie di eccezioni all’applicazione del principio rigido secondo il quale chi era stato relegatus (o i suoi familiari) non potessero più aspirare a alla carica di decurione178, se non trascorso un tempo analogo a quello che avevano trascorso nella relegatio179.

171 L’impianto sistematico di Arcadio Carisio è sostanzialmente ricondotto a Ulpiano da Grelle 1986, 37 ss. [= Grelle 2005, 221 ss.]; Grelle 1987, 63 ss. [= Grelle 2005, 257 ss.]; Felici 2006, 153 ss.; Piacente 2012, 59 ss. Sui profili economici sempre relativi ai secoli tardoantichi, si rivia a Jones 1984, 47 ss. 172 Spunti in Liebs 2017a, 279 ss. [= Liebs 2017b, 409 ss.]. 173 Diversa l’organizzazione e la collocazione della materia municipale nel Codex Theodosianus, dalla trattazione frammentata in una serie più corposa di libri (V-VII-X-XI-XII-XIII-XIV-XV); a tal proposito vedi Rotondi 1922a, 146 ss.; su cui però gravano le puntuali e condivisibili obiezioni di Grelle 2001, 320 ss. [= Grelle 2005, 477 ss.]. 174 De Martino 1975, IV.2, 726. 175 De Francisci 1944, 369, ed ora Lovato 1990, 197 ss. 176 Per l’età minima vedi Ulp. 11 ad ed., D. 50.4.8: Ad rem publicam administrandam ante vicensimum quintum annum, vel ad munera quae non patrimonii sunt vel honores, admitti minores non oportet. Denique nec decuriones creantur vel creati suffragium ferunt [...]. 177 Per gli appartenenti all’ordo decurionum la pena della relegatio era stata stabilita proprio da un rescritto dei divi fratres, come ci racconta Ulp. 9 de off. proc., D. 48.22.6.2: Decuriones civitatium propter capitalia crimina deportandos vel relegandos divi fratres rescripserunt [...]. 178 Il principio è affermato espressamente per chi aveva già fatto parte dell’ordo decurionum in Ulp. 1 disp., D. 50.2.2pr.: Qui ad tempus relegatus sit, desinit esse decurio [...]. Il suo posto nel senato cittadino poteva quindi essere attribuito ad altri. Diversamente, continua Ulpiano, quando invece si trattava non di una condanna alla relegatio, bensì di una rimozione temporanea dal seggio senatoriale: in tal caso il decurio non avrebbe perduto il suo status, ma solo gli honores connessi con la carica. Più in generale, sull’ammissione alla candidatura di imputati a pene capitali si veda Pap. 1 resp., D. 50.1.17.12: In quaestionibus nominatos capitalium criminum, ad novos honores ante causam finitam admitti non oportet. Sull’ampiezza del potere discrezionale del magistrato nel periodo repubblicano di accogliere o respingere una candidatura a seguito di incriminazione cfr. Licandro 1997, 447 ss. 179 Pap. 1 resp., D. 50.1.15pr.: Ordine decurionum ad tempus motus et in ordine regressus ad honorem, exemplo relegati, tanto tempore non admittitur, quanto dignitate caruit.

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Commento. I libri XX de constitutionibus Evidentemente il problema sorgeva (siamo ormai oltre la metà del II secolo) in quanto la crisi economica aveva prodotto, tra le varie conseguenze, anche il fatto che l’essere nominato decurione non era più un onore ambito, bensì un onere cui si cercava di sfuggire, con la conseguenza che non si riuscisse facilmente a coprire i posti di decurione180; cosicché, essendo comunque una posizione che conferiva a sé e alla propria famiglia onori e privilegi, a maggior ragione vi ambivano anche coloro che avevano subìto una pena, quasi come una forma di riscatto sociale181. Il primo dei rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero risponde al quesito se potesse essere ammesso tra i decurioni chi, dopo aver scontato la pena della relegatio, fosse tornato in città. La risposta è affermativa, ma soltanto permissu principis, in sostanza che occorre un’autorizzazione imperiale, in mancanza della quale costui non può essere ammesso all’ordo decurionum182. Il secondo dei rescritti riferiti da Papirio Giusto (paragrafo 1), dopo aver ribadito il principio generale, afferma che, qualora si fosse stati condannati alla relegatio prima del raggiungimento della maggiore età, in un’età quindi nella quale non era possibile essere ammesso al decurionato, e sempreché fossero presenti le altre condizioni (una provata dignitas, che cioè la speranza di quell’onore risulti ben fondata), il principe avrebbe potuto accordare quel beneficio183. Lo stesso orientamento di benevolenza imperiale si ritrova nel terzo dei rescritti (paragrafo 2), nel quale si afferma che il figlio di colui che è stato relegatus, nato durante la relegatio del padre, può essere ammesso al decurionato184. Si tratta certamente di un’eccezione al principio secondo cui nella valutazione complessiva dei criteri per l’ammissione al decurionato era considerata anche l’assenza in famiglia di precedenti condanne giudiziarie. Ma è un’eccezione che, negli anni successivi, tenderà ad allargarsi, per cui in età severiana, anche i figli di coloro che siano stati riconosciuti colpevoli di un delitto (Ulpianus, D. 50.2.2.7) o di un crimen (Hermogenianus, D. 50.4.3.9) vengono ammessi, senza più limiti, al decurionato o ad altri honores. Il quarto ed ultimo dei rescritti su questo argomento (paragrafo 3), è certamente il più controverso. C’è anzitutto un problema di traduzione del testo latino, che ne condiziona la successiva interpretazione. Già Vignali185 traduceva la frase non admitti contradicere volentem,

180 Sul punto la dottrina è ampiamente d’accordo, sulla base delle testimonianze della lex Malacitana e della lex Irnitana: cfr. già Ormanni 1960, 64 nt. 26; De Martino 1963, 56 ss.; Wolff 1987, 726 s.; Lamberti 1993, 80. La dottrina prevalente ritiene che a partire dall’età dei Severi il reclutamento dei decurioni diventa pressoché obbligatorio, per ovviare alle carenze di candidati. Contro questa tesi si è scagliato di recente, con una ponderosa opera, Jacques 1984, su cui le recensioni di Béranger 1986, 659 ss., di Serrano Delgado 1987, 176, di Galsterer 1987, 200. La tesi tradizionale è stata poi riaffermata, con buoni argomenti, da Rouveyrol 2006, 147. 181 La pena della relegatio comportava comunque una diminuzione della existimatio, come si legge in Call. 1 de cogn., D. 50.13.5.2: Minuitur existimatio, quotiens manente libertate circa statum dignitatis poena plectimur: sicuti cum relegatur quis [...], su cui Bonini 1964, 35 ss. con ampia letteratura. 182 Il principio generale è espresso da Ulp. 3 de off. proc., D. 50.2.3pr.: Generaliter id erit defendendum, ut qui clementiorem sententiam passus est ob hoc, quod ad tempus relagatur boni consulere debeat humanitatis sententiae nec decurionatum recipiat. 183 Stranamente Lovato 1990, 210 s. nt.50, afferma che “il § 1 regola invece l’ammissibilità all’ordo decurionum dei relegati ad tempus che non ne avevano mai fatto parte, una volta scontata la pena”. 184 Il testo va collegato ad altri che trattano problemi simili: Ulp. 1 disp., D. 5.2.2.4-5 e Ulp. 3 de off. proc., D. 5.2.3.2. 185 Vignali 1859, 991.

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Nicola Palazzolo quod non recte quis sit creatus decurio, cum initio contradicere debuerit con “non ammettersi colui che vuole contraddire, perché non rettamente è creato decurione colui che avrebbe dovuto contraddire all’inizio”, ma la frase, come giustamente è stato osservato186, così non avrebbe alcun senso: sarebbe del tutto illogico escludere dalla carica qualcuno che volesse fare opposizione, perché non l’ha fatta sin dall’inizio. Più coerente la traduzione francese di Hulot e altri187, secondo cui l’opposizione sarebbe stata fatta tardivamente non dallo stesso aspirante alla nomina, bensì da qualcuno che all’inizio avrebbe acconsentito alla nomina, un’opposizione quindi da parte di un terzo, ma un terzo qualificato, di cui però non è traccia nel testo. La più corretta mi sembra la traduzione, molto più recente, di Alan Watson188, il quale, più semplicemente, intende la frase nel senso che se un terzo avesse voluto dichiarare che un uomo non era stato correttamente eletto decurione, il suo motivo non sarebbe stato accettabile, dal momento che egli avrebbe dovuto dichiararlo all’inizio189. La conseguenza di questa lettura è che vanno scartate tutte le interpretazioni che vorrebbero concentrare l’attenzione sulla necessità che la nomina venisse accettata dal designato190, e che per questa ragione non vi sarebbe motivo di pensare, per questa fase del Principato, ad una imposizione di fatto obbligatoria dell’incarico191. Al di là dell’obbligatorietà o meno della nomina192, che non è in questione nel testo, è l’ammissibilità dell’opposizione a questa da parte di un terzo che viene discussa193. Come si è visto, il decurionato offriva all’onorato e alla sua famiglia innegabili vantaggi e apriva le porte per l’accesso alle magistrature. Si comprende perciò come, almeno in questa fase del Principato, facesse sogere varie rivalità e spesso accuse, vere o infondate che fossero, che avevano comunque l’effetto di sporcare l’immagine (dignitas) di un candidato, o peggio, di colui che già copriva quell’incarico194. Naturalmente, potevano esservi anche seri motivi per i quali la nomina potesse dirsi non effettuata correttamente195, il che poteva avvenire o per un vizio nella procedura di nomina, o per ragioni di merito, perché il candidato non risultasse idoneo alla nomina, o non adempisse all’obbligo iniziale del versamento dell’honorarium necessario per accedere alla nomina196. Ma per evitare

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Rouveyrol 2006, 139 nt. 16. Hulot 1979, 537: “celui qui, après avoir consenti à ce que quelqu’un fût nommé décurion, vaudrait ensuite faire quelque contestation sur la validité de sa nomination, ne devait pas etre écouté parce que il devait faire cette objection par le principe”. 188 Watson 1985, 910. 189 Il principio secondo cui l’eventuale opposizione alla nomina deve essere preventiva si trova già nella Lex Irn. cap. 31: eisque qui ut de ea re referetur postulaverint priusquam sententias interrogare incipiant dicendi item si quis contradicere volet dicendi (si noti in particolare il contradicere volet, le stesse parole usate da Papirio Giusto). 190 Sui vari possibili significati del verbo velle usato da Papirio (contradicere volentem) cfr. Rouveyrol 2006, 150 nt. 54. 191 Così per esempio Jacques 1984, 375, sulla base specialmente di varie altre costituzioni dei divi fratres, su cui Rouveyrol 2006, 139 nt. 17. 192 Su cui si veda l’ampia discussione, con ricca bibliografia, di De Martino 1975, IV.2, 738 nt. 208. 193 In questo senso vedi ora Rouveyrol 2006, 146 nt. 41. 194 Su questa prassi, già frequente nell’ultimo periodo repubblicano, vedi Licandro 1997, 447 ss. 195 Sull’espressione non recte quis sit creatus decurio si sofferma particolarmente Rouveyrol 2006, 141 nt. 26, che esamina, alla luce delle categorie proposte da Berger 1953, 669, e dei dati raccolti mediante l’archivio informatico BIA, tutte le fonti che usano il termine recte e i vari significati attribuibili ad esso. 196 Lovato 1990, 198 nt. 5, precisa tuttavia che quest’obbligo non era sistematico, e che talora si poteva accedere al decurionato a titolo gratuito: vedi in particolare CIL II.5232. 187

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Commento. I libri XX de constitutionibus eventuali speculazioni gli imperatori mettevano regole procedurali che avrebbero dovuto impedire che eventuali opposizioni finissero per ostacolare e rimandare la nomina. Tra tutti i possibili motivi di impugnazione della nomina, mi sembra, anche alla luce dei rescritti citati nei precedenti paragrafi del testo, che il motivo per cui, nel caso concreto sottoposto agli imperatori, c’era stata la contestazione della nomina potesse essere proprio quello per cui, trattandosi di qualcuno che era stato relegatus, il candidato non presentava più quella irreprensibilità che ancora era richiesta per diventare decurione. È la spiegazione più semplice, che evidentemente non esclude tutte le altre, ma di cui, nello stato attuale del testo, dobbiamo accontentarci. Nel complesso i quattro rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero si presentano perciò come una trattazione unitaria dei problemi sorti in ordine all’ammissibilità al decurionato di qualcuno che fosse stato relegatus. Ciò ci fa capire, come si è già detto sopra, che coloro che avevano i titoli per aspirare a quell’honor non dovessero essere poi così tanti, se gli imperatori dovessero porsi il problema di trovare il modo di sfuggire, attraverso tanti espedienti, alla rigidità di un divieto. Ed infatti le deroghe imperiali ai rigidi principi previsti per la nomina si moltiplicano man mano che questa nomina diventa sempre più difficile per mancanza di candidati; gli interventi dei Severi in questa direzione sono davvero illuminanti197. Ma l’insieme dei quattro rescritti fa sorgere, riguardo all’opera di Papirio Giusto, un altro problema: dando per scontato che – come si è già avuto modo di chiarire – i rescritti dovessero essere nell’opera originaria ben individuabili e perciò contenere almeno l’indicazione dei destinatari, in modo da poterli ricercare negli archivi, ci si può domandare perché mai, in una trattazione complessiva dei problemi della nomina dei decurioni non fossero presenti altri rescritti degli stessi imperatori, di cui conosciamo il contenuto dalle opere di altri giuristi. Parlo ad esempio di Ulp. 3 de off. proc., D. 50.2.3.2: Spurios posse in ordinem adlegi nulla dubitatio est: sed habeat competitorem legitime quaesitum, praeferri eum oportet divi fratres Lolliano Avito Bithtniae praesidi rescripserunt [...], o di Ulp. 4 de off. proc., D. 50.4.6pr.: Rescripto divorum fratrum ad Rutilium Lupum ita declaratur: Constitutio, qua cautum est, prout quisque decurio creatus est, ut ita et magistratum apiscatur, totiens servari debet, quotiens idoneos et sufficientes omnes contingit, o ancora di quellla serie di rescritti segnalati da Ulpiano nella lunga trattazione dedicata alla relegatio nei libri nono e decimo del suo de officio proconsulis (D. 48.22.6-7). È da pensare infatti che tutti questi rescritti trovassero posto nell’opera di Papirio, ma che sono stati esclusi dai commissari giustinianei proprio perché questi erano citati dagli altri giuristi, ed in un contesto più generale, inseriti cioè in un discorso completo ed organico relativo alla nomina dei decurioni. In sostanza, viene da pensare (ma si tratta di una conclusione provvisoria) che i rescritti riferiti da Papirio Giusto costituissero per i commissari giustinianei una fonte “residuale”, cui attingere quando di essi non si trovava traccia nelle trattazioni organiche dedicate dagli altri giuristi all’argomento in questione. F. 13 – D. 2.14.37 (L. 13) Pur nella sua stringatezza, siamo dinanzi a un passo di particolare interesse per i diversi profili che si prospettano a una semplice lettura. Nonostante non sia esplicitato, è probabile che

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Si veda l’ampio elenco in Rouveyrol 2006, 144 s. nt. 30.

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Orazio Licandro l’intervento imperiale sia stato innescato da una controversia in materia di prestito feneratizio, e in particolare relativa alla restituzione di pecunia publica data in prestito da una città a privati cittadini: difficile pensare che l’intervento del curator riguardasse qualunque posizione debitoria dei cittadini verso la città. Pur nella sua versione ‘massimata’, la conservazione nel frammento dell’incidentale cum Philippensibus remissae essent offre elementi che consentono la ricostruzione del concreto contesto. A seguito di mutui prestati a cittadini di Filippi, città divenuta colonia romana in età augustea con il nome di Iulia Augusta Philippensis, il curator (molto probabilmente rei publicae) ne dispose la rimessione. I divi fratres intervennero stigmatizzando la decisione del curator disponendone la revoca, sebbene la laconicità impedisca una più ampia conoscenza del caso a cominciare, per esempio, dal fatto se la rimessione riguardò il debito oppure fu soltanto circoscritta alle usurae198. Ad ogni modo, se così è, come pare indubbio, possiamo qualificare con maggior precisione il tipo di costituzione imperiale non come rescriptum bensì come epistula, mentre l’incertezza continuerebbe a gravare sul suo destinatario199. Si potrebbe pensare a un intervento generale dei principes indirizzato ai municipes, vale a dire i Philippenses, quale comunità interessata dalla vicenda, ai quali sarebbe stata riconosciuta dal governo imperiale la legittimazione ad agire; oppure, più plausibilmente, l’epistula fu inviata al governatore provinciale per la sua sovraordinata competenza, in quanto delegato del princeps, al controllo delle finanze delle città ricadenti sotto la sua giurisdizione. Sulla figura del curator, se rei publicae o cittadino, gravano dei dubbi. Werner Eck non crede che fosse quello rei publicae200, ma una figura minore con incarico limitato a un preciso munus, tuttavia non offre prove incontrovertibili. L’intervento dei principes (se si fosse trattato di quello cittadino probabilmente sarebbe stato sufficiente l’intervento del governatore provinciale) e la particolare delicatezza della materia spingono ad attribuire al caso una portata più elevata tale da rientrare nella sfera del controllo imperiale delle tipiche funzioni economico-finanziarie demandate ai curatores rei publicae. Che le civitates potessero compiere negozi giuridici con privati, e in particolare erogare prestiti è cosa risaputa grazie alla copiosa letteratura giuridica severiana201: le testimonianze di Gaio, Papiniano, Ulpiano, Paolo sono sufficientemente esplicite e ne denotano una forte sensibilità per la materia, evidente riverbero della particolare attenzione posta dai principes202, e su cui non occorre andare alla ricerca di altri dati, se non richiamare un noto ed esemplare scambio epistolare tra Plinio e Traiano:

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Sui termini usura e faenus si legga Vallocchia 2016a, 19 ss. Molto cauto, Sargenti 2011, 895. 200 Eck 1999, 223 s. ntt. 107 e 109. Non analizza il caso Camodeca 1980. Per un approfondimento si rinvia a Licandro 2021b [in corso di pubblicazione]. 201 Che si trattasse di pecunia publica, da non lasciare improduttiva nei bilanci municipali, è evidente (si veda quanto osservato in proposito da Gabrielli 2006, 384 ss.). Ma il discorso vale anche per donazioni o disposizioni testamentarie disposte da privati in favore di città attestate da una cospicua documentazione epigrafica, su cui Magioncalda 1999, 175 ss., con ricco apparato bibliografico. 202 Mrozek 2001, 93; Gai. 13 ad ed. prov., D. 39.4.13.1: Praeterea et si quis vectigal conductum a re publica cuiusdam municipii habet, hoc edictum locum habet; Pap. 1 resp., D. 50.8.5.1: In eum, qui administrationis tempore creditoribus rei publicae novatione facta pecuniam cavit, post depositum officium actionem denegari non oportet. Diversa causa est eius, qui solvi constituit: similis etenim videtur ei, qui publice vendidit aut locavit; Paul. 25 quaest., D. 22.1.11pr.-1: Gaius Seius qui rem publicam gerebat faeneravit pecuniam publicam sub usuris solitis: fuit autem consuetudo, ut intra certa tempora non inlatis usuris graviores infligerentur: quidam debitores cessaverunt in solvendis usuris, quidam plus intulerunt et sic 199

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Commento. I libri XX de constitutionibus Plin. epist. 10.54.1-2: Pecuniae publicae, domine, providentia tua et ministerio nostro et iam exactae sunt et exiguntur; quae vereor ne otiosae iaceant. Nam et praediorum comparandorum aut nulla aut rarissima occasio est, nec inveniuntur, qui velint debere rei publicae, praesertim duodenis assibus, quanti a privatis mutuantur. [2] Dispice ergo, domine, numquid minuendam usuram ac per hoc idoneos debitores invitandos putes, et, si nec sic reperientur, distribuendam inter decuriones pecuniam, ita ut recte rei publicae caveant; quod quamquam invitis et recusantibus minus acerbum erit leviore usura constituta. Plin. epist. 10.55: Et ipse non aliud remedium dispicio, mi Secunde carissime, quam ut quantitas usurarum minuantur, quo facilius pecuniae publicae collocentur. Modum eius ex copia eorum, qui mutuabuntur, tu constitues. Invitos ad accipiendum compellere, quod fortassis ipsis otiosum futurum sit, non est ex iustitia nostrorum temporum.

Il confronto tra Traiano e il suo governatore della provincia di Bitinia dimostra gli ampi margini di azione del secondo sulle finanze cittadine, i poteri di intervento volti a disporre strategie di investimento, addirittura, seguendo il ventaglio delle proposte pliniane, tali da giungere alla facoltà di forzare decuriones e ceti possidenti a prendere in prestito denaro pubblico. La risposta di Traiano a Plinio ne dimostra la prudenza e l’equilibrio volti a moderare l’intraprendenza del governatore per investire e rendere fruttifere le risorse finanziare dei bilanci cittadini attivi, obiettivo legittimo e meritevole203. Una pressione eccessiva, pur nell’interesse generale, nella stipulazione di mutui feneratizi con un tasso di interessi assai elevato quantunque legale (12% annuo)204 cozzava con il sentimento traianeo di iustitia (invitos ad accipiendum compellere, quod fortassis ipsis otiosum futurum sit, non est ex iustitia nostrorum temporum). Dunque, i governatori provinciali avevano un notevole potere di ingerenza certificato da Plinio e da Traiano, ma normalmente i poteri di controllo in materia, per tali ragioni, erano affidati alla gestione di cura-

effectum est, ut omne quod usurarum nomine competebat etiam pro his, qui cessaverant in usuris, suppleatur. Quaesitum est, an illud, quod amplius ex consuetudine poenae nomine a quibusdam exactum est, ipsi Seio proficere deberet an rei publicae lucro cederet. Respondi, si Gaius Seius a debitoribus usuras stipulatus esset, eas solas rei publicae praestari oportere, quae secundum formam ab is exigi solent, etiamsi non omnia nomina idonea sint. [1] Quid si servus publicus obligationem usurarum rei publicae adquisiit? Aequum est, quamvis ipso iure usurae rei publicae debeantur, tamen pro defectis nominibus compensationem maiorum usurarum fieri, si non sit parata res publica universorum debitorum fortunam suscipere. Eadem fere in tutoribus Marcellus refert; Ulp. lib. sing. de off. cur. rei publ., D. 22.1.33pr.: Si bene collocatae sunt pecuniae publicae, in sortem inquietari debitores non debent et maxime, si parient usuras: si non parient, prospiciere rei publicae securitati debet praeses provinciae, dummodo non acerbum se exactorem nec contumeliosum praebeat, sed moderatum et cum efficacia benignum et cum instantia humanum: nam inter insolentiam incuriosam et diligentiam non ambitiosam multum interest. [1] Praeterea prospiciere debet, ne pecuniae publicae credantur sine pignoribus idoneis vel hypothecis. 203 Si pensi anche ad attestazioni epigrafiche come quelle relative ai rescritti di Vardagate (AÉ 1947, nr. 44), suscitatori di un vivace dibattito conclusosi, almeno parrebbe, con l’attribuzione della loro paternità a Nerva: Arangio-Ruiz, Vogliano 1942, 1 ss.; Harris 1981, 338 ss.; Spagnuolo Vigorita, Marotta 1992, 400 s.; Gabba 2000, 457 ss.; Lo Cascio 2006, 686 s. 204 Comprensibile il pronunciamento di Traiano sull’esosità del tasso legale del 12%, soprattutto se dinanzi all’esigenza o opportunità di ‘piazzare’ e rendere fruttifere risorse finanziarie apprendiamo che i tassi praticati dal fiscus imperiale, secondo un principio di favor debitoris, erano assai più bassi, intorno al 6%, grazie a un frammento paolino (Paul. lib. sing. usur., D. 22.1.17.6: Si debitores, qui minores semessibus praestabant usuras, fisci esse coeperunt, postquam ad fiscum transierunt, semisses cogendi sint praestare), a sua volta perfettamente in linea con una consolidata moderazione riconducibile almeno al principato traianeo.

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Orazio Licandro tores rei publicae205, la cui prima sicura attestazione, almeno epigraficamente, riguarda appunto il principato traianeo. Il riferimento cronologico del tema anche nel dibattito giurisprudenziale appare confermato da un testo di Giavoleno tratto dal quindicesimo dei libri ex Cassio. Nel brano si menziona lo stato di insolvenza delle civitates, la possibilità di rivalersi sui debitori della stessa e la responsabilità dei relativi amministratori206, insomma uno squarcio interessante in cui si vuole vedere già in età traianea il tentativo di correggere l’approccio frammentario e dispersivo tra leggi municipali, interventi imperiali e prudentes. Passando alla natura del contratto, chi si è occupato ancora di recente della materia non ha mancato di sottolineare le peculiarità del mutuum di cui almeno una delle parti fosse un soggetto pubblico, appunto una città, attraverso un suo gerente, un curatore, per evidenziarne l’impossibilità di una riconduzione del rapporto contrattuale in ambito squisitamente privatistico207. La particolare e sostanziale differenza tra le parti stipulanti il mutuo, i diversi piani degli interessi in gioco (interesse generale e interesse privato), infatti, avevano condotto all’introduzione di sensibili eccezioni o deroghe all’ordinaria disciplina privatistica. L’esempio più evidente riguardava l’affermazione della legittimità delle usurae contratte non mediante apposita (e accessoria) stipulatio, ma con un nudo patto. È il segno evidente del favor civitatis in deroga a un saldo principio giuridico generale secondo la lapidaria attestazione di Paolo208, non a caso posto in immediata sequenza a completare un escerto delle institutiones marcianee sul principio dell’illegittimità (quod illicite adiectum est […]) della stipulazione di usurae superiori al limite legale o, addirittura, di usurarum usurae (vale a dire interessi sugli interessi)209. Il rescritto imperiale, singolarmente trascurato o sfuggito all’attenzione degli studiosi, si aggiunge e contribuisce a illuminare ancor più la tendenza normativa e giurisprudenziale in materia, spingendoci verso una valutazione più radicale di quella sinora affermatasi nei nostri studi. Non sfugge a nessuno come la sostanza di D. 2.14.37 sia stata inserita in un segmento diverso dei Digesta, cioè nel titolo XIV de pactis del libro II, piuttosto che nel titolo I de usuris

205 Secondo Sirks 1998, 380 ss., ritiene inizialmente la competenza fosse dei curatores kalendarii. La questione è assai controversia anche per un’apparente contraddittorietà delle fonti che attestano un’ambigua coesistenza temporale di curatores rei publicae e curatores kalendarii. Eck 1999, 229 s. e nt. 155, in maniera assai problematica propende per un’autonomia del curator kalendarii da quello rei publicae. Tuttavia, vi è da dubitare fortemente che le strategie su investimenti e in generale sulle finanze cittadine fossero affidate a figure minori, e per altro di umile estrazione sociale, come i curatores kalendarii (su cui vedi Giliberti, 1983, 5 s. nt. 7; ma pure Japella Contardi 1977, 75 ss.), ai quali era certamente demandata la tenuta del registro delle scadenze (kalendarium) e di tutti gli atti istruttori e di ordinaria amministrazione, oltre le quali però il complesso delle testimonianze a nostra disposizione chiama in causa i principes, i governatori provinciali e, soprattutto, i curatores rei publicae. Tendenzialmente escluderei anche la compresenza di un curator rei publicae e di uno kalendarii nella medesima città, la cui nomina poteva anche provenire dal praeses provinciae, come dimostra anche Pap. Iust. 20 de const., D. 50.8.12.4 (= L. 15); cfr. Mancini 1910, 1345 ss.; Langhammer 1973, 169 ss. Altra letteratura in Cossa 2018, 378 nt. 188; e Bricchi 2006, 335 ss. 206 Iav. 15 ex Cassio, D. 3.4.8: Civitates si per eos qui res earum administrant non defenduntur nec quicquam est corporale rei publicae quod possideatur, per actiones debitorum civitatis agentibus satisfieri oportet; Grelle 2001, 317 ss. [= Grelle 2005, 473 ss.]. 207 Così, giustamente, Cossa 2018, 370 ss.; Trisciuoglio 2015, 84 ss.; ulteriori spunti in Bricchi 2006, 335 ss. 208 Paul. lib. sing. reg., D. 22.1.30: Etiam ex nudo pacto debentur civitatibus usurae creditarum ab eis pecuniarum. 209 Marcian. 14 inst., D. 22.1.29: Placuit, sive supra statutum modum quis usuras stipulatus fuerit sive usurarum usuras, quod illicite adiectum est pro non adiecto haberi et licitas peti posse. Cervenca 1971, 291; Gröschler 1998, 398 ss.; Solidoro Maruotti 1997, 555 ss.; più recentemente Cherchi 2012, 103 ss.; Arnese 2013, passim. Convinto dell’inesistenza di un divieto degli interessi sugli interessi legali è Fasolino 2006, 46 ss.

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Commento. I libri XX de constitutionibus et fructibus et causis et omnibus accessionibus et mora del libro XXII, ove i compilatori dei Digesta collocarono la materia del mutuum tra civitates e privati. Naturalmente, la scelta rispecchia almeno la visione dei commissari giustinianei, convinti dell’assoluta peculiarità del tema da ricondurre interamente nell’ambito dello ius publicum, come denota la semplice, ma fondamentale, appiccicatura a D. 2.14.37 della massima papinianea ius publicum privatorum pactis mutari non potest (Pap. 2 quaest., D. 2.14.38)210. Quello scarno rigo di scrittura del maestro severiano, di cui però è difficile cogliere i contorni del caso da lui esaminato, è del tutto decontestualizzato per la chiara funzione, ben oltre ogni evidenza, di fornire il fondamento della decisione imperiale di revoca della remissione delle somme dovute alla città disposta dal curator rei publicae. Probabilmente i commissari di Triboniano non trovarono la motivazione, almeno non nella versione del rescritto riportata da Papirio, e non trovarono di meglio che ricorrere a Papiniano per giustificare la decisione imperiale. Ma se la politica normativa di favore verso le civitates era certamente ben presente e perseguita con determinazione dai Severi (e questa è di per sé anche una ragione della particolare sensibilità riscontrata nella letteratura giurisprudenziale severiana), il frammento di Papirio Giusto ci induce però a farla risalire ai decenni precedenti, almeno della seconda metà del II secolo d.C., in cui si scorgono tracce evidenti di frequenti interventi normativi in materia di civitates, curatores rei publicae, decuriones, tanto da aver indotto Otto Lenel ad azzardare, a proposito del secondo libro della raccolta di Papirio Giusto, già l’esistenza di un nucleo normativo omogeneo da poter essere definito ius municipale211. Se questo, ripeto, è un azzardo da non seguire, bisogna invece riconoscere verso Papirio il nostro debito di conoscenza della linea di politica normativa seguita da Marco Aurelio. I divi fratres, addentrandosi nelle problematicità della materia, nel sancire l’illegittimità della revoca delle remissioni dei debiti decisa dal funzionario accentuarono significativamente il favor civitatis in coerenza con la visione ‘repubblicana’ del princeps, in cui le città, pur nella loro autonomia, dovevano essere sostenute dal potere centrale, seguite e rafforzate nel perseguimento dell’interesse generale dai curatores rei publicae; costoro, da canto loro, avrebbero dovuto evitare ogni nocumento alla res publica affidata, assicurando una buona e attiva gestione, perché le civitates restavano appunto gli insostituibili vivai dei ceti dirigenti locali e

210 Ciò non significa che il regime giuridico per il mutuum tra privati subisse uno stravolgimento, tanto che il dispositivo del Senatoconsulto Macedoniano restava applicabile, come si legge in un frammento di Marciano dal tono particolarmente perentorio relativo a un rescritto severiano; Marcian. 14 inst., D. 14.6.15: Nihil interest, quis filio familias crediderit, utrum privatus an civitas: nam in civitate quoque senatus consultum locum habere divi Severus et Antoninus rescripserunt. Ampio il dibattito e cospicua la relativa letteratura in materia di partizione ius publicum/ius privatum, per cui si rinvia ai seguenti scritti: Nocera 1946; Torrent 1982; Ankum 1983, 523 ss.; Aricò Anselmo 1983, 447 ss.; Kaser 1986, 6 ss.; Nocera 1989; Stein 1995, 499 ss.; Marotta 2000, I, 153 ss.; Nocera 2002, 1 ss.; Falcone 2006, 1167 ss.; Vallocchia 2016b, 415 ss. 211 Lenel 1889, I, 947 ss. nt. 1: “Non dubium est, quin Papirius constitutiones ad ordinem quendam disposuerit, que tamen explicare non possumus. Id quidem in aperto est, librum II totum pertinere ad ius municipale”; seguito da Santalucia 1971, I, 28 nt. 31, che vede “un tentativo, per quanto parziale ed approssimativo, di sistemazione organica delle norme di diritto municipale”; più recentemente sia pure in maniera più sfumata ed elastica Grelle 2001, 320 [= Grelle 2005, 475], che giustamente vi scorge un approccio “frantumato e dispersivo” probabile riflesso di “un diffuso limite ideologico, la resistenza a cogliere la specificità della condizione municipale e la tendenza a ricondurla nei limiti di una dislocazione delle competenze giurisdizionali, non ostante le opposte indicazioni implicite negli statuti municipali”; ma sulla questione vedi anche supra.

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Orazio Licandro centrali su cui si imperniava la politica imperiale di costruzione del consenso. Pertanto, in caso di mutui di civitates con privati, nell’interesse generale, non solo si derogava al principio generale della nullità dei nudi patti ma anche si sanciva la valenza pubblicistica del rapporto contrattuale sottratto quindi alla disponibilità dei privati. Aspetto diverso, e ulteriore rispetto al perimetro letterale dell’epistula, concerne invece la responsabilità del curator rei publicae autore della rimessione dei debiti212. Nel frammento di Papirio il profilo è implicito e lo si potrebbe ammettere quasi come una conseguenza della decisione imperiale che colpiva il comportamento azzardato, e forse non disinteressato, del funzionario. In questo senso il caso affrontato da Paolo in D. 22.1.11 dissolve ogni dubbio. Naturalmente, si tratta del differente caso del curator rei publicae che ha stipulato usurae secondo il tasso ordinario e in caso di ritardo pagamento un tasso di mora sugli interessi ordinari un tasso superiore: nel caso che alcuni non avessero pagato mentre altri pagato interessi al tasso maggiore, potevano queste somme addursi alla res publica come compensazione? La risposta del giurista era positiva ed escludeva che il curator potesse trattenerle per sé, nella sua qualità di agente intermediario213. In definitiva, la lettura di D. 2.14.37, pur nella combinazione con D. 2.14.38 proposta dai giustinianei, nel gettare nuova luce sulla genesi dell’attrazione pubblicistica del contratto di mutuum con civitates innanzitutto ci dice come questa non appartenesse squisitamente né ai giustinianei né ai prudentes severiani ma alla riflessione giurisprudenziale che sorreggeva la politica normativa degli antonini, e poi permette addirittura di aggiungere che quell’attrazione nella sfera dello ius publicum, dietro la spinta convergente di prudentes e principes, fosse già maturata al tempo della redazione dei libri XX de constitutionibus di Papirio Giusto. F. 14 – D. 50.8.11pr.-2 (L. 14) I tre frammenti (11, 12 e 13) del titolo 50.8 del Digesto costituiscono un unico discorso nel quale Papirio Giusto raccoglie 11 rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero relativi all’amministrazione delle civitates, che le edizioni precedenti a quella maior del Mommsen, sulla base della littera Florentina (nella quale costituiscono un unico frammento sotto l’inscriptio “Papirius Iustus libro secundo de constitutionibus”) presentavano unitariamente, ma che il Mommsen ha diviso in tre diversi frammenti. I rescritti si occupano di alcuni aspetti relativi alle competenze dei curatores (e nel frammento 13 dei magistrati), e ai limiti di queste. Il primo problema che occorre risolvere è allora di quali curatores parlassero i rescritti raccolti da Papirio. Com’è noto, infatti, e come è stato messo in luce anche di recente, occorre tener distinti in questa fase del Principato, anche se non sempre è facile214, i curatores municipales dai curatores rei publicae. Entrambi operano nelle civitates (dell’Italia o delle provinciae), ma profondamente diversi erano il procedimento di nomina, l’estrazione sociale e le competenze degli uni e degli altri. Per quanto riguarda i curatores municipali le risultanze epigrafiche hanno messo in luce che si trattava di funzionari locali, generalmente

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Mantovani 2006, 276 ss. Sul frammento paolino vedi Houdoy 1876, 535 ss.; Eliachevitch 1942, 139 s.; Solazzi 1950, 218 ss.; Mrozek 2001, 84 nt. 279; Bricchi 2006, 377 ss. 214 Jaschke 2006, 202. Un quadro d’insieme complessivo sulla figura dei curatores rei publicae in Sartori 1989, 5 ss. 213

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Commento. I libri XX de constitutionibus nominati dall’ordo decurionum215 nell’ambito della nobilitas cittadina, destinati a sgravare i magistrati municipali di alcuni compiti che si andavano facendo più gravosi, quali la cura annonae, la cura viarum, la cura muneris gladiatorii, la cura pecuniae publicae, la cura operum publicorum; questi incarichi erano cioè dei munera216, più che degli honores217, ed appunto in quanto munera non erano cariche cittadine, e perciò non erano soggette ai limiti di queste (collegialità, elettività, cumulabilità), ma per converso costituivano, per chi le ricopriva (che continuava ad essere un homo privatus)218 un obbligo cittadino, dal quale, salvo eccezioni, non si poteva essere esentati. A differenza delle magistrature ordinarie, la durata di questi incarichi non era annuale, ma finché lo stato di emergenza non fosse terminato. L’iterazione, quando c’è, non è mai per lo stesso incarico, ma per un’altra opera pubblica, segno cioè che il curator aveva dato buona prova, e che possedeva mezzi economici sufficienti per impegnarsi una seconda volta219. Al contrario, i curatores rei publicae220 erano funzionari imperiali, nominati dall’imperatore, ed in gran parte appartenenti alla classe senatoria221, quasi sempre su richiesta delle città che si trovavano in difficoltà amministrative o finanziarie; il loro compito (tranne in casi straordinari) non era certo quello di sostituirsi ai magistrati locali222, ma quello di risolvere le difficoltà dell’amministrazione cittadina223, e nel contempo controllare che l’amministrazione ordinaria si svolgesse ordinatamente, senza danno al patrimonio immobiliare e finanziario

215 Anche se in qualche caso risultano nominati dall’imperatore, come nel caso dei curatores kalendarii: cfr. Camodeca 2017, 23 nt. 39; vedi anche Jaschke 2006, 191: la nomina imperiale si spiega quando si tratti di costruire opere pubbliche finanziate dall’imperatore. 216 Gregori 2017, 62; Jaschke 2006, 183. Si tratta di munera personalia, che secondo Arcadio Carisio (Arc. Char. lib. sing. de mun. civ., D. 50.4.18.1), richiedono l’impegno della capacità lavorativa del corpo e della mente; si trasformano in munera mixta quando, per la crisi economica, i curatores devono ricorrere ai propri fondi per l’espletamento della carica. 217 La distinzione tra munus e honor si fa sempre più tenue nell’età del Principato, quando anche l’honos comincia a diventare più un peso: cfr. Jaschke 2006, 184 nt. 4 con altra bibliografia 218 Jaschke 2006, 184 nota 8. Sul punto vedi anche Grelle 1961, 308 ss. [= Grelle 2005, 39 ss.]. 219 Buonocore 2017, 97. 220 Sull’istituzione dei curatores rei publicae vedi Eck 1999, 196 nt.5 (con ricca bibliografia). Il primo che ha dedicato un ampio saggio ai curatores rei publicae è stato Cassarino 1948, 338 ss., il quale pensava dovessero essere presenti già all’epoca della Lex Iulia municipalis, contro cui già Dell’Oro 1960a, 221 nt. 450. Una messa a punto completa sui problemi relativi ai curatores rei publicae è quella di Camodeca 1980, 453 ss. Sui curatores civitatis vedi pure Jacques 1983; Burton 2004, 311 ss. Altra bibliografia in Santalucia 1971, I, 29 nt. 32. 221 Camodeca 2008, 510: fino ad Antonino Pio c’è una minore percentuale di curatele senatorie, da Marco Aurelio in poi questo rapporto si inverte, come è confermato dalla frase della vita Marci 11.2: [...] curatores multis civitatibus, quo latius senatorias tenderet dignitates, a senatu dedit; vedi anche Eck 1999, 201 e nt. 24. Era questo un titolo di riguardo nei confronti della classe senatoria (così ad esempio Jaschke 2006, 200), ma anche nei confronti della città: essi non sono mai imposti alla città, ma concordati. Cfr. anche Duthoy 1979, 171 ss.; Sartori 1989, 5 ss. Per tutta la bibliografia precedente cfr. Camodeca 1980, 526 s. 222 Drastico in questo senso Camodeca 2008, 517, ma, come nel caso richiamato nell’epistula ai Filippesi (Pap. Iust. 2 de const., D. 2.14.37 = L. 13), ci sono certamente circostanze nelle quali i curatores civitatis intervengono direttamente; e d’altra parte, lo stesso potere di procedere alla refectio degli edifici danneggiati o pericolanti in caso di inerzia dei proprietari (richiamato dallo stesso Camodeca 2008, 514) depone in senso contrario. 223 Una delle caratteristiche peculiari dei curatores rei publicae era quella che si trattava di persone non appartenenti alla città dove esercitavano la curatela (Gregori 2017, 57 nt. 8). Accade talora che le capacità dimostrate dai curatores municipali valgano la nomina a curator rei publicae in una città vicina: è il caso, segnalato da Gregori 2017, 54, di P. Vegellius Primus, che svolse la cura annonae ad Anagni e poi fu nominato curator rei publicae nella piccola Trebi (Trevi).

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Nicola Palazzolo cittadino224. Era certamente questa una delle conseguenze dell’accentramento di potere nelle mani dell’imperatore e dei suoi organi, che progressivamente si va accentuando a partire da Adriano fino ai Severi, e che ha il suo punto di svolta proprio durante il principato di Marco Aurelio e Lucio Vero, relativamente al quale dall’analisi dei ritrovati epigrafici possiamo osservare il maggior numero di curatores rei publicae225. I rescritti riferiti da Papirio Giusto parlano sia degli uni che degli altri, senza distinzione tra i due tipi di incarichi pubblici226, che invece sappiamo essere stati ben distinti nell’età dei divi fratres. E già questo può far pensare al notevole peso che dovette avere la mano compilatoria, dal momento che è noto come, a partire dall’età del basso Impero, molte delle competenze dei magistrati municipali vennero attribuite ai curatores rei publicae, il che comportò da un lato una diminuzione d’importanza delle cariche magistratuali locali, e dall’altro una “localizzazione” dei curatores rei publicae, che nel IV secolo erano divenuti il più importante organo dell’amministrazione cittadina. I compilatori giustinianei, allora, nel loro lavoro di cernita dei rescritti ancora significativi nell’opera di Papirio Giusto (probabilmente, come si è già visto, perché quei rescritti non si trovavano nelle opere degli altri giuristi), finirono perciò per presentare in un unico discorso quei rescritti che nell’opera di Papirio Giusto dovevano essere invece nettamente separati, ma che all’epoca della compilazione erano ormai tutti relativi all’amministrazione delle civitates. Il primo dei rescritti segnalati da Papirio Giusto si occupa del pagamento delle usurae per il denaro pubblico da parte dei curatores operum publicorum227: Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt pecuniae, quae apud curatores remansit, usuras exigendas: eius vero, quae a redemptoribus operum exigi non potest, sortis dumtaxat periculum ad curatores pertinere. Si tratta di curatores municipali, nominati228 con il compito di stipulare i contratti di appalto necessari per la realizzazione di opere pubbliche229, sorvegliarne i lavori, e poi procedere al pagamento degli stessi. Il rescritto dei divi fratres interviene per precisare che del denaro che sia rimasto presso i curatores la città debba richiedere a lui gli interessi; di quelle somme invece relative ad opere che non si sono potute realizzare, ai curatori spetti solo il rischio della perdita del capitale. Su quest’ultimo punto insiste il rescritto di cui al paragrafo 1: Item rescripserunt operum periculum etiam ad heredes curatorum pertinere. È giusto infatti che il rischio che gravava sul curator operum publicorum si trasferisca al suo erede. Il principio affermato dai divi fratres è ripreso, poi, con ulteriori precisazioni, da Ulpiano nei suoi libri opinionum: Ulp. 2 opin., D. 50.10.1pr.: Curator operum creatus preaescriptione motus ab excusatione perferenda sicuti cessationis nomine, in qua quoad vixit moratus est, heredes suos obligatos reliquit, ita temporis, quod post mortem eius cessit, nullo onere eos obstrinxit.

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Così Camodeca 2008, 511 e 517 s. Eck 1999, 195 nt.4. 226 Franciosi 1972, 166 s. parla di “congerie di norme affastellate nei tre passi”. 227 Erroneamente Cassarino 1948, 348 nt.58 e Sargenti 1974, 410, individuano nel testo un curator civitatis. Vedi invece Eck 1999, 220. 228 Talvolta erano nominati dall’imperatore, pur essendo magistrati municipali: v. Camodeca 2017, 23 nt. 39. Ciò accadeva quando si trattava di un’opera pubblica finanziata dall’imperatore, il quale preferiva mettervi un funzionario di sua fiducia. 229 Cfr. Ulp. 3 opin., D. 50.10.2.1: Curatores operum cum redemptoribus negotium habent [...]. 225

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Commento. I libri XX de constitutionibus Il curatore dell’opera che per qualche ragione abbia omesso di provvedere all’esecuzione dei lavori affidatigli, lascia i suoi eredi obbligati, con l’ulteriore precisazione che tuttavia il rischio non riguarda ciò che sia avvenuto dopo la morte del curator230. Il rescritto successivo (paragrafo 2) si riferisce invece al curator civitatis231, una carica che, come si è visto, niente ha a che fare con quello di cui si era parlato sino a quel momento. Il rescritto afferma che il curator civitatis (sinonimo di curator rei publicae) debba sequestrare i fondi pubblici illecitamente concessi, anche quando si tratti di un terzo acquirente il quale li abbia acquistati in buona fede, sempreché però gli acquirenti possano ricorrere contro i venditori232: Item rescripserunt agros rei publicae retrahere curatorem civitatis debere, licet a bona fide emptoribus possideantur, cum possint ad auctores suos recurrere233. Fino a che il vettigalista adempiva il suo obbligo di pagare il vectigal, il curator non aveva il potere di revocare le locazioni degli agri publici; bastava però che egli non pagasse perché sorgesse l’obbligo per il curator di recuperare i terreni pubblici posseduti illegittimamente dai privati234. E quella di riuscire a recuperare alla civitas i fondi pubblici che gli amministratori cittadini avevano per troppo tempo trascurato era proprio una delle ragioni per le quali venivano nominati questi curatores. Va indagato piuttosto il rapporto tra questa disposizione dei divi fratres e l’altra – commentata più su – contenuta in D. 39.4.7pr.: Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt in vectigalibus ipsa praedia, non personas conveniri et ideo possessores etiam praeteriti temporis vectigal solvere debere eoque exemplo actionem, si ignoraverint, habituros. Entrambi i rescritti sono riportati nell’opera di Papirio Giusto, ed entrambi tratti dal secondo libro della sua opera. I compilatori del Digesto hanno collocato il primo dei due sotto il titolo de publicanis et vectigalibus et commissis, e il secondo sotto il titolo de administratione rerum ad civitatem pertinentium. Ed è pur vero che nel primo dei due si sottolinea che obbligati a versare il vectigal sono gli attuali possessori, mentre nel secondo l’attenzione è piuttosto rivolta all’obbligo del curator di versare le usurae delle eventuali somme rimaste dopo l’esecuzione delle opere. Ma non si può negare l’impressione che le due disposizioni siano strettamente connesse, e che perciò possa esserci stato un intervento compilatorio che abbia scisso i due aspetti di uno stesso rescritto dando ad essi la parvenza di due rescritti diversi. A mio avviso si tratta tuttavia solo di un’impressione (che però andrà valutata entro un quadro palingenetico di tutta l’opera papiriana), giacché nei due re-

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Sul punto Santalucia 1971, I, 39 nt. 59; II, 138. Eck 1999, 221; Camodeca 2008, 516. 232 Scarlata Fazio 1939b, 105 s., ritiene interpolata tutta la frase licet – recurrere sulla base di un preteso errore dei compilatori giustinianei, i quali, non comprendendo che qui si parlava di beni patrimoniali appartendenti alla res publica, avrebbero ritenuto che il testo si riferisse al caso di una vendita di una res publica extra commercium. Sulla corretta lettura del passo di Papirio e sui sospetti di interpolazione da vari studiosi avanzati cfr. Camodeca 1980, 465 s. e nt. 53-55. Bove 1960, 165 nt. 84, interpreta la frase come una limitazione al potere del curatore. 233 Il principio è poi esplicitato espressamente da Ulp. lib. sing. de off. cur. rei publ., D. 50.10.5.1, nel quale tuttavia si ritrova l’espressione praeses provinciae e non quella che ci si attenderebbe di curator rei publicae. Sui problemi suscitati in dottrina dall’opera di Ulpiano (in particolare sulla pretesa interpolazione di praeses provinciae al posto di curator rei publicae) cfr. specialmente Camodeca 2008, 456 ss. 234 Camodeca 1980, 466, adduce quale testimonianza di questa attività del curator CIL XI.5182 (Vettona): . . . re]i publi[cae . . . agros [et pascua quae oc[cupata a privatis fu[erant municipio [Vettonensium resti[tuit per . . .]cium [. . . cu]rato[rem rei publicae. Rileva però opportunamente Camodeca 2008, 512, che da Paul. 5 sent., D. 39.4.11.1 si può dedurre che questa facoltà di revoca delle locazioni perpetue da parte del curator rei publicae era ammessa qualora il principe lo avesse esplicitamente incaricato anche di questo. 231

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Nicola Palazzolo scritti si parla quasi sicuramente di due figure diverse di curatores: nel primo (D. 39.4.7pr. = L. 9) quasi sicuramente si parla di un curatore municipale (probabilmente di un curator operum publicorum), nel secondo (D. 50.8.11.2 = L. 14) si parla invece certamente di un curator rei publicae, che ha il compito di recuperare il fondo anche qualora gli attuali possessori siano in buona fede. Ma, come detto sopra, solo un tentativo complessivo di palingenesi dell’opera papiriana potrà dare, come speriamo, una risposta più completa a questa prima impressione. F. 15 – D. 50.8.12pr.-6 (L. 15) Il rescritto di cui al principium del frammento si riferisce ancora una volta al curator operum publicorum, di cui si parlava nel frammento precedente (principium e paragrafo 1), ed afferma il principio che questi non debba appaltare un’opera pubblica senza esigere che il redemptor faccia cauzione. L’obbligo della cauzione per i funzionari municipali era in vigore già dalla fine della Repubblica235, e non presenta quindi carattere di eccezionalità. Al contrario, esso non era previsto per i curatores rei publicae236, e questo perciò sembra un ulteriore motivo per affermare che il rescritto si riferisca al curator operum publicorum. Al paragrafo 1237 si afferma che i curatores saranno tenuti al simplum se non hanno usato l’opportuna diligenza nell’utilizzazione delle risorse pubbliche, ma saranno soggetti alla pena in duplum se avranno operato fraudolentemente. Il principio può applicarsi a tutti i curatori municipali, ma non certo al curator rei publicae, dato che – com’è stato opportunamente rilevato – l’uso del plurale curatores sembra non essere generico ma piuttosto riferirsi specificamente al fatto che i curatores erano più d’uno238. Certamente va riferito invece al curator annonae (o curator frumenti239) il paragrafo 2, Item rescripserunt pecuniam ad annonam destinatam distractis rebus curatorem exigere debere. Il curator annonae municipale doveva quindi esigere le somme destinate all’annona anche arrivando alla vendita dei beni appartenenti ai debitori. E, come ricorda Camodeca240, il debito della pecunia frumentaria era molto più gravoso rispetto a qualunque altro debito, tanto che il debitore non poteva invocare la compensazione con eventuali suoi crediti verso la città, o che le somme dovute non potevano essere stornate per altri fini pubblici, come per esempio per l’esecuzione di un’opera pubblica. Ed il curatore era sempre responsabile per ogni omissione, fino al punto che contro queste sentenze non era consentito appello, neppure quando il curator fosse assente per una giusta causa: ciò appunto perché si voleva evitare qualunque impedimento re-

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Eck 1999, 223 nt. 117. Vedi pure Garnsey 1974, 233 ss. Eck 1999, 223, lo argomenta dal fatto che anche i curatores kalendarii, nominati anch’essi dal principe, non avevano l’obbligo di cauzione (Pap. Iust. 2 de const., D. 50.8.12.4 = L. 15). 237 Per Rampazzo 2011, 4 e nt. 7, il rescritto (e così pure l’altro di cui a Pap. Iust. 2 de const., D. 50.8.12.5 = L. 15) si riferirebbe al curator rei publicae, ma è indubbio che invece – come si rileva nel testo – esso è relativo ad uno dei curatores municipali. 238 Così Eck 1999, 222. 239 Jaschke 2006, 185 nt. 14, ricorda che il curator annonae talora nelle iscrizioni viene indicato con nomi diversi: oltre che curator annonae, curator frumenti, curator frumenti publici, curator annonae frumentariae, curator rei frumentariae, curator pecuniae ad annonam, ecc. 240 Camodeca 2017, 26. Alcuni attribuiscono questo rescritto ai curatores rei publicae: sul punto, con bibliografia, Eck 1999, 222 e nt. 111, che nega decisamente questa identificazione. Ma vedi anche Camodeca 2008, 473 nt. 88, secondo cui “il riferimento di questo passo al c.r.p. è molto dubbio”. 236

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Commento. I libri XX de constitutionibus lativo agli acquisti di grano, come dice Ulp. 3 opin., D. 50.8.2.3, necessaria enim omnibus rebus publicis pecuniam moram solutionis accipere non debet241. Il paragrafo 3 si occupa dei sitonae ed è chiaramente connesso al tema del paragrafo precedente: Item rescripserunt sitonas indemnes esse oportere, qui non segniter officio suo functi sunt, secundum litteras Hadriani. Il munus sitonae (dal greco σιτώνα) era un officium personale che aveva per oggetto l’approvvigionamento di grano e olio per la civitas242, ed in virtù del quale si era tenuti a provvedere, a spese della città, all’acquisto di partite di frumento o di olio, ma anche alla custodia di queste nei pubblici magazzini. Ce lo chiarisce Arcadio Carisio in: Arcad. Char. lib. sing. de mun. civ., D. 50.4.18.5: Cura quoque emendi frumenti olei (nam harum specierum curatores, quos σιτώνας et ἐλαιώνας appellant, creari moris est) inter personalia munera in quibusdam civitatibus numerantur: et calefactio publici balinei, si ex reditibus alicuius civitatis curatori pecunia subministratur243.

Il rescritto, rifacendosi a delle litterae di Adriano244, stabilisce che i sitonae che abbiano adempiuto correttamente al loro compito, indemnes esse oportere. Il che, come chiarisce Ulpiano in un altro paragrafo del suo terzo libro opinionum, non significa che non debbano render conto del loro operato e restituire le somme rimaste con gli interessi, ma che il loro debito non possa aumentare a causa di un calcolo eccessivo e illegittimo degli interessi245: Ulp. 3 opin., D. 50.8.2.5: Si indemnitas debiti frumentariae pecuniae cum suis usuris fit, immodicae et illicitae computationis modus non adhibetur: id est ne commodorum commoda et usurae usurarum incrementum faciant.

Il paragrafo 4 si occupa del curator kalendarii246 Così come i curatores rei publicae, questi, pur essendo funzionari cittadini, venivano scelti quasi sempre direttamente dall’imperatore247, come risulta da un gran numero di iscrizioni248. Come i curatores rei publicae essi non erano

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Santalucia 1971, II, 167 e ntt. 48, 49 e 50. In questo senso anche Eck 1999, 222. Santalucia 1971, I, 88 nt. 28. 243 Ancora ce ne parla Ulp. 3 opin., D. 50.5.2pr. Letteratura in Santalucia 1971, II, 122 nt. 100. 244 Si tratta probabilmente di una o più epistulae dell’imperatore Adriano: l’uso del termine litterae non è noto per questo periodo, ed è probabilmente connesso al fatto che in epoca adrianea ancora non sono ben distinti i vari rami della cancelleria e le rispettive produzioni di atti imperiali. Stranamente Dell’Oro 1960b, 82, afferma che “la voce litterae relativa ad atti imperiali appare già nella letteratura giuridica dell’epoca dei Severi”, e cita a questo proposito C. 9.8.6 (Severus et Antoninus), Pap. 10 resp., D. 40.1.20 (divus Marcus) e C. 4.65.4 (Alexander Severus), ma omette di citare il passo di Papirio Giusto, che è certamente precedente. Vedi peraltro supra, parte III.1, § 3, nt. 41. 245 Il concetto è ancora meglio esplicitato in Ulp. lib. sing. de off. cur. rei publ., D. 22.1.33, su cui Santalucia 1971, II, 166 ss. 246 Sul curator kalendarii cfr. Japella Contardi 1977, 71 ss. 247 Eck 1999, 230, ritiene che la nomina imperiale fosse il procedimento normale, visto che non vi sono testimonianze epigrafiche che provino il contrario. Esiste solo qualche testimonianza, come quella del brano di Papirio Giusto, dalla quale risulta che talvolta può essere nominato dal praeses provinciae (su delega imperiale?): sul punto Zuddas 2017, 134 nt. 2. 248 Cfr. Eck 1999, 230, il quale precisa che finora si era ritenuto che questa prassi fosse eccezionale, e che la carica costituisse un munus personale alla stragua delle altre cariche cittadine. 242

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Nicola Palazzolo originari della città nella quale esercitavano la loro cura, ma di una città del vicinato, ed in generale non erano appartenenti al rango senatorio, ma al ceto dirigente dei municipi. La loro attività era relativa al kalendarium, cioè al registro dei crediti della città. Essi sorvegliavano perciò la riscossione della gran parte delle entrate cittadine, mentre al curator rei publicae, quando veniva nominato, era riservato il controllo sulle entrate di maggior rilievo. Quello che ancora, dalle testimonianze epigrafiche, non si è riusciti a determinare è il rapporto tra le due cariche: secondo alcuni i curatores kalendarii erano normalmente inviati nelle città dell’Italia, e solo eccezionalmente si provvedeva ad inviare in queste un curator rei publicae, mentre secondo altri entrambe le cariche potevano essere attive contemporaneamente nella stessa città249. Quel che è certo è che i curatores kalendarii erano di rango inferiore rispetto ai curatores rei publicae, e perciò, se si ammette la contemporaneità, erano a loro subordinati. Il rescritto dei divi fratres (“Item rescripserunt a curatore kalendarii cautionem exigi non debere, cum a praeside ex inquisitione eligatur”) afferma che non si debba esigere dal curator kalendarii alcuna cautio qualora questi fosse stato nominato dal praeses provinciae (anziché dall’imperatore), e sempreché la nomina fosse stata effettuata in base ad una selezione. In pratica, la nomina da parte del praeses, fatta in modo non discrezionale, metteva il curator nella stessa posizione in cui si sarebbe trovato se fosse stato nominato direttamente dall’imperatore250. Al paragrafo 5 è inserito un rescritto che si riferisce ad un curatore che viene chiamato in giudizio per l’inefficienza del suo collega: Item rescripserunt curatorem etiam nomine collegae teneri, si intervenire et prohibere eum potuit. Non si dice di quale curatore si tratti, ma è da escludere che possa trattarsi di un curator rei publicae, dato che, in base alle testimonianze epigrafiche, oltre che alle ricostruzioni giurisprudenziali, non esiste alcun elemento in base al quale si possa in qualche modo desumere un qualche regime di collegialità per i curatores rei publicae251. Trattasi invece certamente di uno dei curatores municipali, ed il caso è quello di un’amministrazione disgiunta tra i colleghi252: ciascuno cioè sarà responsabile del proprio operato, a meno che il collega non abbia impedito un danno che avrebbe potuto impedire; in sostanza viene punita solo una eventuale culpa in vigilando da parte del collega. Infine, il paragrafo 6 torna sul problema del rischio della perdita del denaro pubblico da parte di un curatore, di cui si era già parlato in D. 50.8.11.1. Mentre però in quel rescritto si parlava certamente di un curator operum publicorum, qui più genericamente si parla di un curator, sul quale ricade il rischio della perdita, o della diminuzione di valore, dei debiti: Item rescripserunt nominum, quae deteriora facta sunt tempore curatoris, periculum ad ipsum pertinere: quia

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Eck 1999, 230 nt. 155 con letteratura. È così da intendere quanto afferma Eck 1999, 223. L’obbligo di prestare la cautio relativa alla restituzione delle somme rimaste a seguito dell’esecuzione dell’opera publica (e delle relative usurae) era stabilito sia a carico dei magistrati che dei loro fideiussori, come è confermato da una costituzione di Marco Aurelio e Lucio Vero contenuta nei digesta di Scevola: Scaev. 2 dig., D. 50.1.24: [...] et ita imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt his verbis: ‘Humanum est reliquorum usuras neque ab ipso, qui ex administratione honoris reliquatus est, neque a fideiussore eius, et multo minus a magistratibus, qui cautionem acceperint, exigi.’ cui consequens est, ut ne in futurum a forma observata discedatur. 251 Su questo punto vedi Eck 1999, 222 nt. 114. Al contrario per Rampazzo 2011, 4, nt. 7, è curator civitatis ma l’attribuzione è dubbia. 252 Così Voci 1970, 131. Il Voci argomenta dal fatto che, se si fosse trattato di amministrazione congiunta, il problema di una limitazione di responsabilità del collega non si sarebbe posto. 250

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Commento. I libri XX de constitutionibus vero antequam curator fieret, idonea non erant, aequum videri periculum ad eum non pertinere. Il rescritto afferma che il curatore risponderà del deterioramento dei debiti che si sia verificato durante la sua gestione, ma non di quanto sia accaduto prima dell’inizio del suo incarico. Non si riesce a determinare di quale curatore si tratti: teoricamente potrebbe essere sia il curator rei publicae253, sia un qualunque curator municipale (operum publicorum, annonae, ecc.) che abbia delle somme da rendicontare nei confronti della civitas. F. 16 – D. 50.8.13 (L. 16) Il rescritto tratta, con riferimento ai magistrati, il tema della prestazione delle usurae per le somme da loro detenute sia durante l’esercizio dell’incarico che trascorso non poco tempo dalla fine di questo, affermando che le usurae sono dovute, a meno che l’interessato non fornisca adeguati motivi circa il ritardo nella restituzione delle somme. Il tema era stato già trattato in un precedente rescritto, sempre riferito da Papirio Giusto (D. 50.8.11pr.), ma con riferimento ai curatores operum publicorum. Non è escluso tuttavia (anche se non c’è nessun indizio che ce lo faccia pensare) che possa trattarsi dello stesso rescritto, nel quale i divi fratres avrebbero affrontato in generale il problema, distinguendo tuttavia tra le diverse figure di incaricati di pubbliche funzioni cittadine (magistrati o funzionari). C’è però un altro rescritto dei divi fratres, questa volta riportato dal giurista Scevola, che ha fatto pensare – visto l’argomento molto simile – che possa esservi un qualche nesso tra le due citazioni. Si tratta di: Scaev. 2 digest., D. 50.1.24: Constitutionibus principum continetur, ut pecuniae, quae ex detrimento solvitur, usurae non praestentur: et ita imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt his verbis: ‘Humanum est reliquorum usuras neque ab ipso, qui ex administratione honoris reliquatus est, neque a fideiussore eius, et multo minus a magistratibus, qui cautionem acceperint, exigi.’ Cui consequens est, ut ne in futurum a forma observata discedatur.

Edoardo Volterra, pur non sbilanciandosi più di tanto, ha fatto notare che non possa del tutto escludersi che i due testi riferissero il medesimo rescritto, l’uno citando la norma generale (quella secondo cui la prestazione degli interessi è dovuta), l’altro riferendosi ad un caso di specie (quello relativo ai magistrati che avessero ricevuto la cautio). Ovviamente tutto è possibile: ma non si comprende perché mai i compilatori, anziché riferire il rescritto per intero, visto che certamente lo avevano nella raccolta di Papirio Giusto, avrebbero dovuto spezzarlo in due, attribuendo fra l’altro al brano di Scevola una portata generale che invece non sembra dovesse avere. Al contrario, il frammento di Scevola sembra voler aggiungere una limitazione, forse successiva, al principio generale affermato nel brano papiriano, e cioè che esistono varie constitutiones principum che stabiliscono in quali casi è consentito non prestare le usurae. In conclusione, mi sembra che la varietà delle cariche di cui si parla negli 11 rescritti affastellati nei tre frammenti di Papirio Giusto confermi quanto si diceva all’inizio, che cioè un pesante intervento compilatorio (che operava, beninteso, non sulla sostanza delle decisioni, che sembrano tutte genuine, ma piuttosto sulla forma delle stesse) abbia fatto sì che non si riesca

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Un indizio potrebbe essere il fatto che, a differenza degli altri casi, qui si parli di un curator al singolare.

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Nicola Palazzolo più a riconoscere la trama originaria della raccolta papiriana, nella quale i singoli interventi dovevano essere riprodotti non solo ciascuno col suo destinatario, onde poterli ritrovare negli archivi, ma specialmente distinguendo tra le costituzioni quelle che che riguardavano i magistrati, da quelle che concernevano i curatores, e tra questi i rescritti relativi ai curatores rei publicae o ai curatores kalendarii (entrambi funzionari imperiali nominati dal princeps) e quelli relativi ai munera cittadini (curatores operum publicorum o curatores annonae o sitonae), cariche che, almeno all’età dei divi fratres, dovevano essere profondamente diverse, e che solo a partire dalla metà del III secolo cominciano ad essere tutte accomunate dal comune carattere di cariche municipali. Ciò non toglie che, tuttavia, l’insieme dei tre frammenti rappresenti il tentativo di fornire un quadro, in qualche modo unitario, anche se largamente incompleto254, della legislazione di Marco Aurelio e Lucio Vero in materia di responsabilità di magistrati e funzionari cittadini. F. 17 – D. 50.12.13pr.-1 (L. 17) Si tratta di due rescritti tratti dal tit. 50.12 del Digesto (de pollicitationibus), che si apre con un frammento di Ulpiano de officio curatoris rei publicae255. I due rescritti trattano problemi diversi, ma comunque entrambi relativi alle pollicitationes256 in favore della civitas. Il primo riguarda i magistrati, o comunque coloro che, pro honore257, ab-

254 Vi sono diversi rescritti di Marco e Vero sugli stessi argomenti: a parte quello appena citato, tratto dal secondo libro dei digesta di Scevola (D. 50.1.24), si possono ricordare i due rescritti citati da Ulpiano nel quarto libro de officio proconsulis (D. 50.4.6pr.-1), relativi alla responsabilità dei magistrati municipali, ed ancora quello citato da Callistrato nel primo libro de cognitionibus (D. 50.6.6.10) sui munera municipalia, e quello di cui parla Ulpiano nel terzo libro de officio consulis (D. 50.12.8), in materia di pollicitationes in civitatem factae. Ma non bisogna dimenticare almeno altri quattro rescritti dei divi fratres, tra quelli riferiti da Papirio Giusto, che riguardano i curatores, ma collocati nel primo anziché nel secondo dei libri dell’opera papiriana (D. 42.7.4 = L. 6 e D. 48.12.3pr. = L. 4), nonché quello dello stesso Papirio Giusto (Pap. Iust. 2 de const., D. 2.14.37 = L. 13), e sempre tratto dal suo secondo libro, ma collocato dai giustinianei in un titolo diverso (de pactis) rispetto a quello da cui provengono gli altri rescritti or ora commentati: il titolo 50.8, de administratione rerum ad civitates pertinentium (su cui vedi supra nel relativo commento). 255 Sull’opera di Ulpiano e sui problemi suscitati dal fatto che non venga mai citato il curator bensì il praeses provinciae vedi supra nt. 233. Cfr. anche Camodeca 1980, 456. 256 Sulle differenti accezioni dei termini polliceri, pollicitatio, nonché della locuzione rei publice polliceri vedi Lepore 2012, 7 ss. 257 Roussier 1953, 52 ss., ha ritenuto che la formula pro honore usata da Papirio Giusto costituisca un chiaro riferimento ad un tipo di impegno del tutto diverso rispetto a quello rappresentato dalla consueta formula ob honorem: essa invece, come sarebbe dimostrato dalla preposizione pro al posto di ob, si riferirebbe ad una promessa effettuata ‘al posto di’, ‘in luogo di’, e pertanto di una promessa sostitutiva dell’onere facente capo agli aspiranti magistrati o funzionari, ed effettuata allo scopo di sottrarsi all’adempimento dell’obbligo. Il rescritto sarebbe pertanto molto simile a quanto affermato in Paul. 1 sent., D. 50.4.16.1, secondo cui chi ha promesso al fine di sottrarsi al conferimento di un honor sarà tenuto a dare esecuzione alla prestazione stessa e non potrà limitarsi a pagare la summa honoraria (cioè la sooma che l’onorato era tenuto a versare al momento di prendere possesso di una carica pubblica). Secondo Roussier, peraltro, il rescritto di Marco Aurelio e Lucio Vero riferito da Papirio Giusto sarebbe sovrapponibile a quello riferito da Modestino (Mod. 11 pand., D. 50.12.12.1) attribuito a Caracalla, ma che egli sostiene essere lo stesso rescritto di Marco Aurelio e Lucio Vero di cui parla Papirio Giusto. Contro questa affermazione, Lepore 2009, 629 ss., ha dimostrato, sulla base di apprezzabili testimonianze epigrafiche (in particolare AÉ 1916, nr. 35 e AÉ 1916, nr. 36), come le due espressioni ob honorem e pro honore siano del tutto equivalenti e interscambiabili; vedi anche, più ampiamente, lo stesso Lepore 2012, 234 ss. (con ampia nota bibliografica a p. 250 nt. 178). E tuttavia, nel caso di specie, anche ad ammettere che si tratti di una pollicitatio non ob honorem (su cui vedi anche nota successiva), non cambia la soluzione data dagli imperatori: il promittente si è impegnato a costruire un’opera, e solo questa può essere reclamata dalla civitas, non il suo equivalente in denaro: in questo senso mi pare si orienti già Sitzia 1988, 29. Per ulteriore bibliografia cfr. Lepore 2009, 629 ss.

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Commento. I libri XX de constitutionibus biano promesso (polliciti sunt) di realizzare un’opera pubblica. Com’è noto, la pollicitatio era la promessa che chi aspirava ad una carica magistratuale o sacerdotale era tenuto a fare nei confronti della civitas258, impegnandosi a realizzare un’opera pubblica o a versare alle casse cittadine una somma di denaro (summa honoraria)259. Alla base del riconoscimento dell’obbligo e della sua perseguibilità extra ordinem260 stava pertanto l’interesse pubblico al soddisfacimento della promessa fatta. Il caso posto dal rescritto261 è quello di chi, dopo aver promesso la costruzione di un’opera pubblica, non abbia adempiuto all’obbligo assunto. I divi fratres rispondono262 che occorre che l’opera sia costruita263, e che non si può imporre264 al promittente di versare una somma corrispondente al posto di quella. Non sappiamo, come nella gran parte dei rescritti riferiti da Papirio Giusto, chi sia il destinatario della costituzione, né come il principio generale ivi affermato sia stato poi specificato in un ordine dato dagli imperatori ai giudici che avrebbero dovuto decidere la questione. C’è però un frammento, tratto dal terzo libro de officio consulis di Ulpiano, nel quale viene affrontata una questione molto simile, e nel quale viene citata proprio una costituzione dei divi fratres sull’argomento: Ulp. 3 de off. cons., D. 50.12.8265: De pollicitationibus in civitatem factis [iudicum] 266 cognitionem esse divi fratres Flavio Celso in haec verba rescripserunt: “Probe faciet Statius Rufinus, si opus proscaeni, quod se Gabinis exstructurum promisit, quod tandem adgressus fuerat, perficiat. nam etsi adversa fortuna usus in triennio a praefecto urbis relegatus esset, tamen gratiam muneris, quod sponte optulit, minuere non debet, cum et absens per amicum perficere opus istud possit. quod si detrectat,

258 Si usa distinguere da alcuni autori una pollicitatio ob honorem, che avviene in relazione all’ingresso in una carica magistratuale o sacerdotale, ed una pollicitatio ob casum, che è indipendente da questa. Quest’ultima sarebbe stata soggetta ai divieti ex lege Cincia, mentre per l’altra l’honor sarebbe stato considerato una sufficente controprestazione. Sul punto cfr. Talamanca 1990a, 614; Lepore 2012, 364 e nt.24. 259 Sulla pollicitatio in generale, e sulla casistica delle prestazioni oggetto di essa vedi Lepore 2012, in particolare 282 ss. 260 La pollicitatio era perseguita attraverso un processo extra ordinem davanti ai consoli: cfr. per tutti Palazzolo 1974, 259 ss. 261 È notevole il peso dell’intervento imperiale nella determinazione della normativa sulla pollicitatio. Rileva Lepore 2012, 67 ss., che tutti i giuristi che se ne sono occupati (da Pomponio in poi fino a Modestino) abbiano sempre citato costituzioni imperiali, e che, in particolare riguardo al titolo 50.12 del Digesto, che è ritenuto la sedes materiae dell’istituto, sono ben 10 le costituzioni che vengono citate. 262 Probabilmente si tratta di un’epistula diretta agli organi della civitas che reclamavano l’adempimento dell’opera. 263 Si ribadisce pertanto il principio già affermato da Traiano, e riportato da Sesto Pomponio (Pomp. 6 epist., D. 50.12.14), che secondo la dominante dottrina è all’origine dell’obbligatorietà del vincolo assunto. 264 Scarlata Fazio 1939b, 108 ss., sostituisce il cogi con admittendos, capovolgendo quindi il senso del rescritto, che anziché vietare di imporre un pagamento in denaro al posto dell’opera pubblica, vieta semplicemente che il committente possa compiere una datio in solutum al posto dell’opera pubblica cui si era obbligato. 265 L’edizione fiorentina del Digesto porta Idem al posto dell’autore del frammento, cosicché, stando a ciò, si dovrebbe ritenere che il frammento appartenga a Paolo, di cui è il frammento precedente. Ma si ritiene comunemente che trattasi di un errore dei compilatori, non essendovi nell’Index Florentinus alcuna opera di Paolo de officio consulis. Sul problema cfr. Dell’Oro 1960a, 14 e 29; Palazzolo 1974, 216 s. nt. 30. 266 Iudices è stato sistematicamente sostituito dai giustinianei a consules in tutti i frammenti relativi alle cognitiones extra ordinem dei consoli: cfr. sul punto Palazzolo 1974, 217 nt. 31 e 34 e bibliografia ivi citata.

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Nicola Palazzolo actores constituti, qui legitime pro civitate agere possint, nomine publico adire adversus eum [iudices] poterunt: qui cum primum potuerint, priusquam in exilium proficiscatur, cognoscent et, si opus perfici ab eo debere constituerint, oboedire eum rei publicae ob hanc causam iubebunt, aut prohibebunt distrahi fundum, quem in territorio Gabiniorum habet”.

Il caso è quello di Stazio Rufino, il quale ha promesso alla città dei Gabinii di rifare un proscenio, ma poi, a causa di una adversa fortuna, per la quale era stato relegatus per un triennio dal praefectus urbi, aveva offerto alla città una somma di denaro al posto dell’opera da realizzare. Gli imperatori267 scrivono a Flavio Celso268 che sarebbe opportuno che Stazio Rufino adempia alla promessa fatta portando a termine l’opera iniziata, dato che avrebbe potuto comunque farlo attraverso un amico; e che invece, qualora egli si fosse rifiutato, i legittimi rappresentanti della città avrebbero potuto adire i consoli, i quali, quanto prima possibile, prima che egli parta per l’esilio, instaurino una cognitio269, e se stabiliranno che l’opera debba essere completata, lo obblighino ad obbedire, o in mancanza emettano gli opportuni provvedimenti conservativi, tra cui gli imperatori suggeriscono la possibilità di vietare l’alienazione di un fondo situato nel territorio della città270. A parte qualche piccola differenza (la più importante delle quali è quella che nel rescritto riportato da Ulpiano si tratta di un’opera già iniziata e da completare, mentre in quello riferito da Papirio è sembrato che si tratti di un’opera non ancora iniziata)271 è innegabile la somiglianza sia del caso che della soluzione prospettata dagli imperatori, sì da far pensare272 che

267 Il riconoscimento come obbligo giuridico delle pollicitationes fatte dagli aspiranti magistrati o sacerdoti nei confronti delle civitates, già di fatto conosciute nella prassi dell’età repubblicana (vedi per tutti Archi 1933, 595 ss. [= Archi 1981, II, 1317 ss.]), appartiene al principato più maturo, probabilmente all’età di Traiano, come riferisce Pomp. 6 epist., D. 50.12.14: Si quis sui alienive honoris causa opus facturum se in aliqua civitate promiserit, ad perficiendum tam ipse quam heres eius ex constitutione divi Traiani obligatus est. 268 Non sappiamo chi fosse, forse un magistrato della città. In ogni caso, trattasi di un’epistula e non di una subscriptio. 269 Che si tratti di una vera cognitio extra ordinem e non di un procedimento amministrativo risulta chiaramente dal testo, dove è detto che qui legitime pro civitate agere possint si costituiscano actores. Sul punto vedi Palazzolo 1974, 218 nt. 35, ed ora Lepore 2012, 361 nt. 19 con ulteriore bibliografia. 270 Sul testo cfr. ora, con ampia bibliografia, Lepore 2012, 357 ss. e nt. 15, ma vedi già Scarlata Fazio 1939b, 106 ss. 271 Varvaro 2006, 14 nt. 43 ritiene che un motivo di dubbio sull’identità o l’alterità dei due rescritti stia nel fatto che nel passo di Papirio Giusto si fa riferimento ad un’opera da effettuare pro honore, mentre in quello di Ulpiano si parla di un’opera già iniziata, ipotesi che sono nettamente distinte dai giustinianei (Ulp. 4 disp., D. 50.12.3pr.). In effetti non mi sembra che dal testo riferito da Papirio Giusto possa ricavarsi che, come afferma Varvaro, l’opera non sia stata ancora iniziata. Quello che è stato effettuato è certamente la pollicitatio (polliciti sunt), ma non si afferma certo che l’opera da exstruere non sia stata iniziata. Lepore 2012, 357 nt. 13, ritiene invece che sia nell’uno che nell’altro passo l’ipotesi trattata sia quella di una pollicitatio non ob honorem, assimilando perciò di fatto i due passi. Una seconda differenza potrebbe sussistere nel cogi del rescritto di Papirio. In effetti sembra strano che gli imperatori abbiano usato quel termine per negare una facoltà del promittente, e cioè quella di fare una donazione in denaro al posto dell’opera pubblica che si era impegnato a costruire. È per questa ragione che Scarlata Fazio 1939b, 108 ss. ha proposto di sostituire cogi con admittendos. Ma questa sostituzione, del tutto ingiustificata, come si è già visto, finirebbe per alterare lo scopo dell’intervento imperiale. A mio avviso, invece, col rescritto si vuole affermare che l’obbligo assunto riguarda l’esecuzione dell’opera pubblica, e che perciò la civitas, mentre può obbligare il promittente ad adempiere a quest’obbligo, non può invece pretendere da lui la sostituzione con una somma di denaro. 272 Volterra 1971, 964 nt. 13 [= Volterra 1994, 146]; Varvaro 2006, 13 s. nt. 43.

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Commento. I libri XX de constitutionibus quello riferito da Ulpiano contenesse almeno parte del testo riferito in uno stringatissimo sunto da Papirio. In particolare, appare di rilievo il punto secondo cui, in entrambi i brani, si afferma che non è possibile che la civitas pretenda una somma di denaro al posto dell’opera pubblica che si era promessa. In ogni caso, come varie volte ci è stata occasione di segnalare, l’estrema sintesi del testo papiriano non ci permette di individuare se la frase da lui riportata costituisse l’affermazione del principio generale, definito poi nei suoi particolari nel più ampio testo di Ulpiano273. Sta di fatto che, certamente, si può pensare sia a due rescritti diversi, uno dei quali Papirio Giusto avrebbe riportato sinteticamente nella forma di una ‘massima’274, e così sarebbe stato riprodotto dai compilatori, e l’altro riportato testualmente da Ulpiano; come pure che Ulpiano avesse davanti agli occhi lo stesso rescritto, consultato attraverso una fonte diversa da Papirio, dalla quale ha attinto il testo originale. L’una e l’altra congettura sono entrambe ammissibili. Così come lo è una terza, che in realtà mi sembra la più convincente: che cioè i compilatori abbiano trovato lo stesso rescritto sia nell’opera di Papirio che in quella di Ulpiano, e che abbiano fortemente rimaneggiato il brano papiriano, riducendolo all’affermazione del principio generale, ed abbiano invece mantenuto quasi nella sua interezza il testo riferito da Ulpiano, con tutte le norme relative all’iter processuale. Il secondo dei rescritti contenuti nel frammento 13 è collegato al primo ratione materiae, giacché si occupa di quelle che vengono definite nel testo come donazioni fatte a favore della civitas, affermando in linea di principio che esse vengono accettate solo se sono conformi all’interesse pubblico, non nel caso contrario. Nel caso concreto, che poi era certamente quello sottoposto agli imperatori, gli organi della civitas non devono dar seguito alla condicio apposta ad un legato di non perseguire il vectigal che egli avrebbe dovuto versare: Item rescripserunt condiciones donationibus adpositas, quae in rem publicam fiunt, ita demum ratas esse, si utilitatis publicae interest: quod si damnosae sint, observari non debere. Et ideo non observandum, quod defunctus certa summa legata vetuit vectigal exerceri. Esse enim tolerabilia, quae vetus consuetudo comprobat. Gli autori che si sono occupati del frammento di Papirio Giusto hanno ritenuto generalmente che con l’espressione condiciones donationibus adpositas gli imperatori abbiano usato il termine condiciones in senso atecnico, intendendo cioè riferirsi ad una donazione modale275, una donazione cioè nella quale si imponeva alla civitas donataria di rinunciare al vectigal che gravava sul donante. Altri autori276 hanno invece negato con decisione che ci sia mai stata da parte della giurisprudenza classica la tendenza a classificare entro la categoria della donatio l’istituto della pollicitatio in rem publicam, affermando che, invece, la riflessione imperiale e poi la giurisprudenza tardoclassica hanno sempre valutato i presupposti di validità e di effi-

273 Varvaro 2006, 15 nt. 44 ha formulato l’ipotesi che il principio generale riferito da Papirio Giusto possa aver trovato posto nella parte finale del rescritto, ma non mi pare che esistano indizi in proposito. 274 Così Volterra 1971, 964 s. nt. 13 [= Volterra 1994, 146 s. nt. 13], che – pur presentando l’ipotesi in maniera problematica – ritiene che comunque ci sia stata un’opera di riduzione e di sunteggiatura da parte di Papirio Giusto. 275 Giuffrè 1965, 351 ss.; Voci 1967, 802 nt. 49; Di Salvo 1973, 172 nt. 241; Cancelli 1966, ed altri (su cui vedi Lepore 2012, 351 nt. 1). Sui sospetti di interpolazione giustinianea dell’intera frase condiciones – et ideo, sollevati specialmente da Pringsheim 1933, 673 ma anche altri in nt. 2, vedi Navarra 2002, 83 nt. 66; Lepore 20122, 351 nt. 1. 276 Roussier 1953, 32 ss., ma già Biondi 1965, 677 ss. Per altra bibliografia vedi Lepore 2012, 354 s. nt. 7.

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Nicola Palazzolo cacia della pollicitatio al di fuori di qualunque collegamento col sistema instaurato dalla lex Cincia per le donazioni277. Al di là della discussione sull’inquadramento teorico dell’istituto, il problema concreto è duplice: da un lato quello di capire quale sia la motivazione del principio secondo cui la pollicitatio in rem publicam sottoposta a modus è valida solo nel caso in cui essa risponda all’interesse pubblico, giacché in caso contrario essa non deve essere adempiuta; e dall’altro quale sia il rapporto tra il principio ora formulato e il caso sottoposto agli imperatori, di un legato alla civitas con l’onere di rinuncia al vectigal cui il legante era obbligato nei confronti della stessa civitas. Sul primo punto c’è ampio accordo in dottrina sul fatto che l’invalidità della pollicitatio contenente un modus di tale portata non sia motivata dalla impossibilita della prestazione né tanto meno dalla sua illiceità, bensì da motivazioni economico-sociali278, che impedivano alla civitas di accettare vincoli che non rispondessero all’interesse pubblico279. L’applicazione del principio fa sì che la pollicitatio fosse valida ma che il modus ivi apposto non avesse efficacia280 nei confronti della civitas. Il secondo dei problemi riguarda l’applicazione del principio ad un caso diverso, ma a cui gli imperatori decidono di applicare per analogia lo stesso principio: il caso è quello di un defunto che ha stabilito un legato a favore della civitas, col modus che questa rinunci nei confronti degli eredi alla pretesa al vectigal che il testatore era tenuto a compiere verso la civitas. Gli imperatori, rispondendo alla richiesta da parte degli amministratori (o piuttosto del curator rei publicae?) di sapere se il legato fosse valido e se i governanti fossero obbligati a rinunciare al vectigal, rispondono che la pretesa posta dal legante che la civitas rinunci al vectigal non si debba osservare, ma che tuttavia il legato resti integro281. Si tratta di un’interpretazione analogica del principio generale affermato poco prima in relazione alle pollicitationes, secondo cui gli atti di liberalità in favore della res publica vanno osservati se rispondono ad un interesse pubblico. La frase finale del testo (Esse enim tolerabilia, quae vetus consuetudo comprobat) non appare congrua col rescritto: è una affermazione talmente generale da far pensare che sia stata appiccicata lì da qualcuno282. Se si trattasse dell’opera di un altro giurista si potrebbe forse pensare che sia il commento del giurista al rescritto riferito. Ma trattandosi di Papirio Giusto, e del fatto, assolutamente comprovato, che manca sempre nella sua raccolta di costituzioni un

277 Tra gli altri argomenti addotti il fatto che, mentre in ordine all’applicazione della lex Cincia si usassero rimedi relativi al ius honorarium, la protezione del reipublicae polliceri era affidata (come traspare da Ulp. 3 de off. cons., D. 50.12.8) alla cognitio extra ordinem. Sul punto cfr. Palazzolo 1974, 259 ss. e altra bibliografia in Lepore 2012, 356 s. nt. 10. 278 Così Giuffrè 1965, 355 nt. 32 e Di Salvo 1973, 404 s. nt. 264. Contro Voci 1963, 802 nt. 49. 279 Su utilitatis publicae interest cfr. Navarra 2002, 83 nt. 66, la quale ricorda come l’utilitas publica fosse uno dei motivi ricorrenti nei Ricordi di Marco Aurelio. Sull’utilitas publica si vedano anche: Steinwenter 1939, 92 (il quale ha ritenuto interpolata la frase condiciones odservari non debere), Gaudemet 1951, 475; Longo 1972, 39 s., e altra bibliografia citata in Navarra 2002, 83 nt. 66. Per la genuinità del passo papiriano vedi invece Honsell 1978, 119. 280 Vedi per tutti Grosso 1962, 471. 281 Anche se non è detto espressamente nel rescritto è facilmente desumibile: così Grosso 1962, 59 nt.5. 282 Per Gallo 1971, 189 nt. 1, trattasi probabilmente di una glossa scolastica. L’unico elemento che potrebbe far intendere la frase come contenuta nel rescritto è l’uso dell’infinito (esse), quasi una continuazione del discorso indiretto di cui alla frase precedente.

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Commento. I libri XX de constitutionibus suo commento, non resta da pensare che si tratti di una frase buttata lì dai compilatori giustinianei (o da raffazzonatori tardoimperiali dell’opera di Papirio Giusto)283, a mo’ di conclusione di un discorso che non sappiamo quanto potesse essere lungo e articolato.

LIBRO VIII

F. 18 – D. 2.14.60 (L. 18) Anche questo frammento rientra nell’ambito della bonorum venditio, com’è noto, procedura esecutiva, costruita come una figura di successione, nei confronti di un debitore insolvente284 e relativa a un patrimonio insufficiente a soddisfare interamente la massa creditizia. In particolare, nell’epistula imperiale Marco Aurelio afferma il diritto di prelazione sulla substantia debitoris da parte delle personae necessariae, cioè dei familiari del debitore esecutato, purché ne fosse accertata la solvibilità. La ratio dell’intervento imperiale sembra muoversi, pertanto, su basi equitative puntando a rendere più duttile la preferenza degli aggiudicatari una volta avviata la vendita della massa patrimoniale. Grazie a un frammento del commento di Gaio all’editto provinciale285, sappiamo grosso modo che i criteri consolidatisi per via onoraria accordavano a parità di offerte la prelazione ai creditori e tra questi quelli che vantavano i crediti maggiori, quindi i cognati secondo l’ordine di prossimità286. Il commento gaiano quindi ci sposta coerentemente nell’ambito delle prescrizioni edittali provinciali e in questo ambito l’intervento di Marco Aurelio, appunto a seguito di una consultazione di un governatore pro-

283 Non è un caso che l’espressione vetus consuetudo la si trovi soltanto in tre costituzioni imperiali del periodo in questione, una di Valentiniano del 365/368 (CTh. 12.6.9), e due di Arcadio e Onorio del 399 (C. 7.5.1 e C. 12.38.1.1). 284 Scherillo 1953a, 205 ss. (vedi anche Scherillo 1953b, 197 ss.). Gai. 3.77-78: Videamus autem et de ea successione, quae nobis ex emptione bonorum competit. Bona autem veneunt aut virorum aut mortuorum. [78] Vivorum, velut eorum, qui fraudationis causa latitant nec absentes defenduntur; item eorum, qui ex lege Iulia bonis cedunt; item iudicatorum post tempus, quod eis partim lege XII tabularum, partim edicto praetoris ad expediendam pecuniam tribuitur. Mortuorum bona veneunt velut eorum, quibus certum est neque heredes neque bonorum possessores neque ullum alium iustum successorem existere; cfr. Inst. 3.12pr.: Erant ante praedictam successionem olim et aliae per universitatem successiones. Qualis fuerat bonorum emptio, quae de bonis debitoris vendendis per multas ambages fuerat introducta et tunc locum habebat, quando iudicia ordinaria in usu fuerunt: sed cum extraordinariis iudiciis posteritas usa est, ideo cum ipsis ordinariis iudiciis etiam bonorum venditiones exspiraverunt et tantummodo creditoribus datur officio iudicis bona possidere et prout eis utile visum fuerit ea disponere, quod ex latioribus digestorum libris perfectius apparebit. 285 Gai. 24 ad ed. prov., D. 42.5.16: Cum bona veneunt debitoris, in comparatione extranei et eius, qui creditor cognatusve sit, potior habetur creditor cognatusve, magis tamen creditor quam cognatus, et inter creditores potior is, cui maior pecunia debebitur. 286 Rotondi 1934, 112 e nt. 46, che considera “altri probabili criteri”, sulla scorta di Lenel 1927, 426 s., le distinzioni presenti in Ulp. 62 ad ed., D. 1.9.1 e in Ulp. 62 ad ed., D. 50.16.56.1; evidentemente, secondo l’a., questi criteri sarebbero da integrare con quanto indicato da Gaio in D. 42.5.16 (vedi nt. precedente), ma si tratta, a mio avviso, di mera congettura, non altrimenti suffragata. Si veda pure Franciosi 1965, 202.

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Orazio Licandro vinciale (Avidio Cassio, legatus imperiale della provincia di Syria), imprime una novità a una prassi consolidata, stabilendo che i creditori disponibili a veder soddisfatte quote dei loro crediti da un estraneo (il bonorum emptor) del debitore insolvente a fortiori avrebbero dovuto accettare il pagamento da parte delle personae necessariae, normalmente postergate nella lista ai creditori secondo i criteri edittali. L’atteggiamento imperiale di favore rispetto ai familiari del debitore insolvente, introduttivo di elementi di equità in materia di bonorum venditio, si spiega con l’inusitata durezza della procedura esecutiva, tra cui va ricordata l’infamia287. Una volta colpito inesorabilmente il ‘fallito’, messo nelle condizioni di non nuocere più negli ambienti commerciali con le sue condotte sconsiderate, il principe considerò oltremodo aspro e iniquo non permettere alla cerchia familiare di entrare in possesso dei beni del parente esecutato si idoneae sint, cioè purché fossero capaci di soddisfare i creditori nella misura del valore del patrimonio messo all’asta. Che l’aequitas fosse il cardine su cui ruotava la decisione imperiale induce a crederlo una testimonianza ciceroniana allusiva a una inveterata consuetudo volta ad assicurare migliori condizioni all’esecutato288. In questo senso, allora, non deve sorprendere che l’imperatore abbia tenuto in debito conto quella consuetudo e voluto disporre una qualche tutela pure nel caso opposto di esposizione dei debitori ai rapaci tentativi speculativi in occasione delle bonorum emptiones condotte solitamente dagli argentarii289. A parte gli aspetti privatistici, il frammento è stato oggetto di particolare attenzione perché reca, insieme agli altri due precedentemente esaminati, il destinatario (Avidio Cassio), elemento prezioso per il tentativo di datazione dei libri XX de constitutionibus. Avidio Cassio fu personaggio notevole, tanto da essere l’unico non imperatore ad avere il ‘privilegio’ di una biografia, seppure brevissima, di Volcacio Gallicano nella Historia Augusti. Dapprima intimo amicus di Marco Aurelio, cadde rovinosamente in disgrazia per essersi reso protagonista di un’infelice congiura durante il suo governatorato in Syria. Ora, poiché si tratta dell’unico frammento di Papirio in cui l’intervento imperiale, in questo caso un’epistula, viene attribuito a un solo imperatore, cioè Marco Aurelio, il termine ne ante quem si collocherebbe nel 169 d.C., anno di morte di Lucio Vero, mentre il termine ne post quem fisserebbe l’emanazione dell’epistula al 175 d.C., posto che la documentazione disponibile attesta univocamente in quell’anno il tentativo insurrezionale e la morte dello stesso Avidio Cassio290. Non è mancato chi, invece, scartando ogni margine di prudenza, ha individuato un anno preciso. Ai due poli dell’arco cronologico troviamo Scarlata Fazio, secondo cui l’emanazione dell’epistula imperiale risalirebbe al 168 d.C., anno in cui Lucio Vero fu lontano da Roma perché impegnato nella campagna germanica291. Dell’opinione di Scarlata Fazio, tuttavia, è apparsa subito la fragilità del presupposto di subordinare l’attribuzione di un intervento

287 In questo senso va anche il frammento relativo alla distractio bonorum ex senato consulto Pap. Iust. 1 de const., D. 42.7.4 (= L. 6), su cui vedi supra. Sulla storia ed evoluzione della bonorum venditio, fondamentali pagine in Giuffrè 1993, 317 ss.; vedi anche Peppe 1981. 288 Cic. in Verr. 2.1.54.142: […] Ubi illa consuetudo in bonis praedibus praediisque vendundis omnium consulum, censorum, praetorum, quaestorum denique, ut optima condicione sit is cuia res sit, cuium periculum? 289 Sul tema si rinvia per tutti a Petrucci 2002, 36 ss. 290 In tal senso Franciosi 1972, 158 ss.; Volterra 1971, 960 nt. 2 [= Volterra 1994, 142 nt. 2]; Gualandi 2012, II, 123. 291 Scarlata Fazio 1939a, 418 s.

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Commento. I libri XX de constitutionibus imperiale ad entrambi gli Augusti alla loro contestuale presenza, cosa che certamente accadeva ma di rado. Peraltro, un particolare peso ha avuto l’obiezione di Hermann Fitting292, poi ripresa da Franciosi, circa l’oculato, preciso modus citandi delle costituzioni imperiali applicato da Papirio Giusto293. Dalla parte opposta, invece, Adolf Friedrich Rudorff e Paul Krüger294 hanno fissato nel 175 d.C. la data di emanazione dell’epistula. Bisogna fare un certo sforzo per immaginare che, proprio nel momento della irrimediabile rottura tra Marco Aurelio e il legato di Syria, il secondo pensasse a chiedere lumi giuridici al principe, salvo scorgere in tale comportamento del governatore provinciale una strumentalità volta a dissimulare relazioni serene in un clima politico invece particolamente turbolento. Resta quindi preferibile, in assenza di altri elementi, ritenere che la paternità dell’epistula vada riconosciuta al solo Marco Aurelio restando, tuttavia, incerto l’anno pur ricompreso nell’arco cronologico tra la morte di Lucio Vero (169 d.C.) e l’esecuzione di Avidio Cassio (175 d.C.). Ciò che invece è certo è l’impossibilità di utilizzare questo dato ai fini di una più precisa datazione dei libri XX de constitutionibus. Anzi, D. 2.14.60 (L. 18) da solo è sufficiente a seppellire l’idea della mera scansione cronologica della raccolta come immaginato da Scarlata Fazio. Anche spingendo quanto più avanti possibile la data dell’epistula in questione, infatti, arriveremmo al 175 d.C.: cioè avremmo gli ultimi 5 anni di vita di Marco Aurelio a cui potremmo aggiungere gli anni di regno di Commodo vissuti da Papirio Giusto, e anche immaginando che la raccolta sia stata redatta nell’ultimo scorcio di vita del giurista, resterebbe davvero difficile ritenere il materiale normativo nel frattempo prodotto quantitativamente sufficiente per ‘riempire’ i restanti 12 libri successivi a quello da cui i commissari giustinianei escerpirono l’epistula.

292 293 294

Fitting 1908, 62. Franciosi 1972, 159. Rudorff 1857, I, 274; Krüger 1912, 214 s.

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II PALINGENESI

1. L’impossibile palingenesi Parlare di Palingenesi a proposito dei 18 frammenti dei libri XX de constitutionibus di Papirio Giusto è forse un’esagerazione. Con ciò non si vuole affatto deprezzare il prezioso lavoro di Otto Lenel, ma semplicemente dare alla questione dei contorni più prudenti, e meglio verificabili, stando a quanto ci è giunto dell’opera del giurista nell’antologia giustinianea. A ben guardare, Lenel si limita a mettere in successione i frammenti di Papirio Giusto secondo l’ordine che essi presentano nella Littera Florentina, articolandoli secondo la scansione originale dell’opera in libri. Sostanzialmente, abbiamo due grossi nuclei di frammenti: quelli tratti dal Libro I e gli altri, appena più numerosi, che provengono dal Libro II. Sotto il profilo quantitativo, ma anche contenutistico nulla può trarsi dal rescritto del Libro VIII. A proposito degli altri due libri invece può osservarsi che, mentre sul primo Lenel non dice nulla, sul secondo aggiunge la rubrica ius municipale. Abbiamo avuto modo di avvertire dell’artificiosità della questione1, perché di uno ius municipale, al di là delle suggestioni modernizzanti, non vi è traccia nelle fonti, non vi è un appiglio per sostenere l’emersione della, diciamo così, branca, neppure in Arcadio Carisio, certamente il giurista tardoantico che più di tutti si sforzò di dare un ordine a una legislazione caotica, magmatica, oggetto incessante di riflessione giurisprudenziale appunto dei maestri severiani. Altra piccola obiezione all’assemblaggio leneliano sta nell’evidente rinuncia ad andare oltre la soglia per entrare più in profondità nel contenuto dei frammenti e delle 45 costituzioni imperiali. Lo si desume, fondamentalmente, dall’accettazione, quasi acritica, dell’articolazione dei frammenti data da Mommsen. Al netto dei problemi relativi alla conformità del

1

Cfr. supra, parte III.1, § 9; IV.1.

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo codice all’originale2, basta una semplice scorsa della Littera Florentina per accorgersi che la scansione dei frammenti di Papirio Giusto non corrisponde affatto a quella proposta da Lenel e derivata dall’editio maior mommseniana. Ma vi è una considerazione ancor più generale. Da quanto visto nelle pagine precedenti, l’utilizzazione dei libri XX de constitutionibus di Papirio Giusto da parte dei commissari giustinianei fu davvero marginale. Oltre agli argomenti relativi al dibattito, richiamato in via cursoria nel libro, sulle opere pervenute sui tavoli di lavoro dei commissari giustinianei ormai alla fine dei lavori, v’è un dato quantitativo inoppugnabile, quello cioè che 24 su 45 costituzioni imperiali sono inserite tutte nel Libro 50 dei Digesta. Il tema della ‘quantità’ non è secondario, perché è assodato che il principato di Marco Aurelio si caratterizzò anche per una intensa produzione normativa, e di questa infatti v’è ampia documentazione sia nei Digesta sia nel Codex sia nelle Institutiones e, basterebbe scorrere le centinaia di costituzioni imperiali attribuite al solo Marco Aurelio o ai divi fratres per avere un quadro dell’ampiezza delle materie privatistiche affrontate, o degli istituti processuali riformati. Ebbene, ciò che colpisce è che, a parte un solo frammento (D. 48.12.3pr.) che sembra richiamare espressamente il medesimo intervento normativo citato in un testo di Marciano (D. 50.1.8), non vi è altra sovrapposizione tra le costituzioni imperiali riportate da Papirio Giusto e quelle richiamate e commentate dai maestri severiani e selezionate dai commissari per i Digesta o per il Codex. Fatto singolare, soltanto a pensare al fenomeno delle constitutiones geminatae3, che contribuisce, per quanto su di un piano indiziario, a irrobustire la tesi dell’impiego residuale e tardivo dell’opera di Papirio Giusto. Ora, poiché è inverosimile ipotizzare che Papirio Giusto non abbia raccolto anche le costituzioni di contenuto privatistico, e del resto alcuni interventi normativi di carattere prettamente privatistico residuano nel Libro I, come D. 8.2.14 relativo al rispetto delle distanze legali tra edifici e D. 42.5.30 concernente la bonorum venditio, materia che ritorna nel Libro VIII con D. 2.14.604, non c’è altra strada che spiegare tutto con la selezione fatta dai giustinianei. Furono i commissari guidati da Triboniano a decidere in limine di attingere ai libri XX de constitutionibus e soltanto per trarne quegli atti normativi non presenti negli scritti dei giuristi severiani o, per una qualche ragione, non conservatisi negli archivi e, tuttavia, meritevoli di essere inseriti perché opportuni per introdurre delle precisazioni o colmare delle lacune. Nel mettere mano pertanto a un tentativo di ricostruzione ipotetica del possibile ordinamento dei frammenti rimasti dell’opera di Papirio Giusto, non possiamo non rilevare anzitutto come sia estremamente difficile poter anche soltanto ipotizzare un ordine sistematico, o se il giurista ne seguì alcuno. Dallo scarno materiale, invece, può certamente rilevarsi l’esistenza di grappoli di materie, e per i primi due libri (perché a quelli appartengono i frammenti ad eccezione dell’unico proveniente dal Libro VIII), può dirsi con un buon margine di sicurezza che almeno essi contenevano materie di diritto pubblico o di spiccata rilevanza pubblicistica. Infatti, quell’interesse verso i temi pubblicistici che Lenel vedeva solo in quelli del

2 3 4

Baldi 2010, 99 ss. Più recentemente Rodaro 2010, 939 ss. Vedi García Garrido 2005, 463 ss. Cfr. supra, F. 18.

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Commento. Palingenesi Libro II (cui attribuiva addirittura la rubrica “de iure municipii”)5, è invece presente pure nei testi del Libro I. Se questa, del privilegiare i temi pubblicistici, sia stata una scelta di Papirio Giusto, o piuttosto, come a noi appare più credibile, una scelta dei commissari giustinianei, è tuttavia materia che è bene lasciare alla discussione tra gli studiosi. 2. I ‘grappoli’ del Libro I Al centro dell’attenzione del Libro I stanno alcuni problemi che dovevano incontrare ogni giorno gli amministratori cittadini (magistrati, decuriones, curatores). Si trattava di problemi certamente non nuovi in ambito privatistico, ma che probabilmente si affacciavano per la prima volta in una realtà che fino a quel momento era stata poco o male regolamentata, come quella delle civitates. Un primo ‘grappolo’ di rescritti si occupa della regolamentazione dei prezzi delle derrate alimentari. Che si tratti dell’amministrazione cittadina, e non dell’Urbs, è dimostrato dal fatto che i destinatari della normativa sono i decuriones, considerati ovviamente sia come organo collegiale (il senato locale), che come magistrati della civitas. In un periodo di crisi economica come doveva essere per molte delle civitates quello che coincide con la seconda metà del II secolo, si comprende come quello dell’approvvigionamento alimentare e dei relativi prezzi costituisse un tema assillante per gli amministratori locali, e come sempre più spesso si ricorresse agli imperatori per chiedere delucidazioni in merito. Così, in ordine al prezzo di vendita del vino, un’epistula dei divi fratres diretta ad un magistrato cittadino (o a un funzionario imperiale), che chiedeva se intervenire in caso di prezzo non adeguato, la risposta è un richiamo alla consuetudo regionis, cioè alla prassi locale (D. 18.1.71)6. Con riferimento al prezzo del grano gli interventi sono più numerosi e precisi, a ulteriore dimostrazione della gravità della crisi: si stabilisce che i decuriones non possono stabilire a favore dei propri concittadini un prezzo del grano inferiore a quello determinato dall’annona (D. 48.12.3pr.), che non rientra tra le competenze dell’ordo decurionum fissare il prezzo del grano (D. 48.12.3.1), e che in questa materia è concesso alle donne di muovere una denuncia al praefectus annonae (D. 48.12.3.2). In sostanza, si toglie di mezzo la possibilità per i decuriones di intervenire riguardo al prezzo del grano, riservando questo potere al solo praefectus annonae7. Un secondo, e importante, gruppo di rescritti è relativo a temi processuali, che certamente rientravano nelle competenze dei magistrati cittadini (e la cui collocazione quindi è del tutto giustificata), ma che, nel loro insieme, rispecchiano, tuttavia, la doppia dialettica, che carat-

5 A consolidare il convincimento di Lenel probabilmente hanno giocato da un lato il titolo del Libro L dei Digesta – Ad municipalem et de incolis – da un altro lato soprattutto alcune opere giurisprudenziali, come il liber singularis ad municipalem di Paolo, oppure ancora il titolo dall’identico tenore – Ad municipalem – del primo dei responsorum libri XXIII del medesimo giurista. Ma, naturalmente, è abbastanza evidente che sia i giuristi severiani sia i compilatori giustinianei guardassero a status o a singole figure istituzionali mentre restava loro estranea la concezione dell’esistenza un nucleo normativo ben circoscritto, quasi autonomo oggi diremmo di diritto amministrativo, definito come ius municipale. 6 Cfr. supra, F. 3. 7 Cfr. supra, F. 6.

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo terizza tutto il II secolo, da un lato tra processo civile e processo criminale (per i quali si cominciano a elaborare alcune regole comuni), e dall’altro tra procedura ordinaria e interventi extra ordinem del principe, che sempre più spesso venivano richiesti. Così, in D. 42.5.30 si rifiuta l’intervento imperiale extra ordinem in presenza di uno strumento già previsto dall’ordo iudiciorum (il praeiudicium)8, mentre in D. 42.7.4 si nega che possa beneficiare della procedura derogatoria stabilita per le clarae personae (e quindi anche per le aristocrazie cittadine) chi abbia messo in atto comportamenti fraudolenti (e quindi penalmente rilevanti) nei confronti dei creditori9. Nei tre rescritti riferiti in D. 48.16.18 si disciplina l’istituto dell’abolitio, nato all’interno della procedura criminale accusatoria, ma adesso, probabilmente per la prima volta, applicato anche nell’ambito del processo civile10. Infine, nei 4 rescritti contenuti in D. 49.1.21 vengono affrontati alcuni problemi relativi all’appello al principe, sia in materia civile che criminale, prendendo in esame da un lato la necessità di un ordine gerarchico negli appelli (principium e paragrafo 1), e dall’altro alcune ipotesi molto particolari, probabilmente finora mai verificatesi, nei confronti delle quali gli imperatori adottano disposizioni ispirate sostanzialmente a principi di equità (paragrafi 2 e 3)11. Si tratta, come ben si vede, di interventi isolati (e probabilmente di interesse marginale, così da non essere riferiti da nessun altro giurista oltre Papirio Giusto), ma che rivelano comunque un particolare impegno della legislazione di Marco Aurelio e Lucio Vero verso i temi del processo, che è testimoniato comunque, come si è avuto modo di rilevare, dalla grande quantità di interventi in materia processuale riferiti ai divi fratres, di cui si ha notizia attraverso fonti sia giuridiche che letterarie. Infine, toccano certamente temi relativi all’amministrazione cittadina il rescritto contenuto in D. 8.2.14, in materia di divieto di aedificare12, e i due riferiti in D. 8.3.17, concernenti il diritto di utilizzazione delle risorse idriche pubbliche di un territorio a scopo irriguo13. 3. I ‘grappoli’ del Libro II Si tratta del libro a cui appartengono gran parte delle costituzioni imperiali selezionate dai commissari di Giustiniano, ed è indubbia la maggiore organicità dei testi. Al centro della vita municipale stava, com’è noto, l’ordo decurionum, il senato locale, formato dall’aristocrazia municipale, ed alla cui appartenenza erano legati, almeno in teoria, una serie di privilegi, che tuttavia già a metà del II secolo tendevano a sfumare, così da configurare la carica non più così ambita come lo era stato in precedenza14. I rescritti, come si è visto, pongono svariate questioni connesse all’ammissione all’ordo decurionum, introducendo (ed è certamente un segno dei tempi) una serie di eccezioni ai principi molto rigidi che ne regolavano l’ammissione (D. 50.2.13pr.; D. 50.2.13.1; D. 50.2.13.2; D. 50.2.13.3; D. 50.1.38pr.).

8 9 10 11 12 13 14

Cfr. supra, F. 4. Cfr. supra, F. 5. Cfr. supra, F. 7. Cfr. supra, F. 8. Cfr. supra, F. 1. Cfr. supra, F. 2. Cfr. supra, F. 13.

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Commento. Palingenesi Una parte notevole dei rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero tramandati attraverso l’opera di Papirio Giusto riguarda poi l’attività dei magistrati municipali e dei loro collaboratori, i loro compiti, i rapporti con la civitas in cui operavano, e l’eventuale responsabilità. La legislazione imperiale tende a rafforzare con rigorose prescrizioni la responsabilità personale e patrimoniale dei magistrati municipali (D. 50.8.13)15, nonché dei notabili locali, spesso personaggi benestanti e stimati, membri della élite municipale e perciò conosciuti, che avevano assunto gravosi oneri nei confronti della civitas. Una delle funzioni precipue dei magistrati municipali era quella della riscossione del vectigal: al pagamento di questo tributo erano infatti subordinate le concessioni perpetue di agri publici, che facevano acquistare al vettigalista poteri e facoltà analoghi a quelli di un vero proprietario. In caso di mancato pagamento la città aveva il potere di revocare la concessione: un paio di rescritti si occupano appunto di quest’ipotesi, stabilendo da un lato che il commissum (cioè la revoca della concessione) vada fatta nei confronti dell’attuale possessore del fondo (D. 39.4.7pr.), e dall’altro che nel caso di un pupillo il commissum poteva essere evitato qualora egli avesse pagato il dovuto entro 30 giorni (D. 39.4.7.1)16. Ma i compiti dei magistrati municipali non si fermavano certo alla riscossione del vectigal: c’era certamente tutto il campo dei negotia publica (D. 42.1.35), delle pollicitationes (D. 50.12.13pr.), delle donazioni all’ente pubblico (D. 50.12.13.1). Sono solo alcune delle funzioni attribuite ai magistrati municipali (ben più ampie sono infatti quelle ricavabili da fonti diverse), ma sono le uniche riferite da ciò che è rimasto dell’opera di Papirio Giusto. Per il corretto espletamento di tutti questi compiti erano stabilite pesanti responsabilità dei magistrati municipali, e su questo la legislazione imperiale si mostra molto attenta, con interventi relativi a vari aspetti connessi ad esse (D. 50.1.38.2; D. 50.8.13; D. 50.1.38.6; D. 50.1.38.4)17. La problematica dei munera publica è affrontata in tre rescritti riferiti da Papirio Giusto sempre nel secondo libro della sua opera. Viene intanto ribadito l’obbligo dei cittadini di prestare i munera verso la propria comunità di appartenenza, e che l’adempimento di quest’obbligo tuttavia non deve creare danni al fisco (D. 50.1.38.3); si stabilisce poi che, qualora sia in dubbio l’appartenenza ad una civitas occorra indagare a fondo, giacché la somiglianza del nome non è sufficiente a confermarne l’origo (D. 50.1.38.5), ed infine, sempre a questo proposito, un terzo rescritto chiarisce che una donna, finché è sposata, è residente nella città del marito, e non può essere costretta a prestare i munera nella sua città di origine (D. 50.1.38.3)18. Maggiore approfondimento meritano i rescritti relativi ai curatores19. Com’è noto – e come è stato già rilevato nel commento ai singoli rescritti – nell’età di Marco Aurelio e Lucio Vero esisteva nelle civitates dell’impero, ma specialmente in Italia, una grande varietà di incarichi pubblici, conferiti dall’ordo decurionum, o direttamente dai magistrati municipali, con l’obiettivo di coadiuvare, o di sgravare, i magistrati nell’adempimento di compiti particolarmente delicati e gravosi, ma spesso allo scopo di stimolare l’evergetismo di coloro che venivano nominati. Questi incarichi, che comportavano talora anche pesanti responsabilità verso la città,

15 16 17 18 19

Cfr. supra, F. 16. Cfr. supra, F. 10. Cfr. supra, F. 12. Cfr. supra, F. 12. Cfr. supra, F. 14.

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo erano in sostanza dei munera, dai quali gli interessati non potevano esimersi, salvo casi particolarissimi espressamente previsti. C’erano poi, sempre in questo periodo del principato, altri incarichi conferiti direttamente dall’imperatore, spesso su richiesta delle stesse aristocrazie cittadine, con funzioni di sostegno, qualora i funzionari cittadini non fossero stati in grado di tutelare gli interessi della res publica, ma più spesso con compiti sostanzialmente di controllo da parte del potere centrale: ciò accadeva particolarmente nelle città italiche, dato che qui mancava quel rappresentante del potere centrale che nelle province era costituito dal praeses. Questi funzionari imperiali venivano chiamati anch’essi curatores, ma con la specificazione curatores rei publicae, a sottolineare l’ampiezza dei compiti che erano loro assegnati. Essi non si sostituivano ai magistrati municipali, né tanto meno si vari curatores locali, non avevano cioè compiti operativi, ma solo lo scopo di garantire un ordinato svolgimento delle funzioni cittadine e di tutelare il patrimonio pubblico della civitas. In qualche modo simile è poi l’incarico di curator kalendarii, conferito quasi sempre anch’esso dall’imperatore, che aveva un compito più limitato, quello del controllo del bilancio pubblico (kalendarium) delle città, laddove la situazione finanziaria era tale da richiederlo (D. 50.8.12.4)20. In ordine alle curae cittadine si è creata nelle fonti (giuridiche ed epigrafiche) una certa confusione, che ha in gran parte influenzato la dottrina relativa. Ciò è dovuto al fatto che manca in proposito una normativa di riferimento, che avrebbe dovuto trovarsi negli statuti municipali; cosicché l’unica fonte normativa sono i provvedimenti imperiali, con i quali venivano nominati i singoli curatores (rei publicae o kalendarii), o venivano regolamentati singoli aspetti che riguardavano l’attività dei curatores cittadini. Da qui si spiega anche l’estrema varietà nella titolatura di questi munera, che – al di là dei nomi – si riducono in realtà a poche tipologie. I rescritti di Marco Aurelio e Lucio Vero riferiti da Papirio Giusto in ordine ai curatores sono appena 11, ed è estremamente difficile ricostruirne un possibile ordine originario. Si può solo ipotizzare che l’ordine espositivo prevedesse anzitutto i curatores locali, i quali, essendo sostanzialmente dei collaboratori dei magistrati cittadini, in qualche modo erano a loro vicini nella regolamentazione dei loro compiti: si parla anzitutto, e in generale, del problema della responsabilità dei curatores cittadini (D. 50.8.12.1; D. 50.8.12.5; D. 50.8.12.6), dopo di che si comincia a trattare i temi relativi a specifici curatores: il curator operum publicorum, del quale, sempre con riferimento al problema della responsabilità, si discute del periculum (D. 50.8.11.1), della cauzione a lui richiesta (D. 50.8.12pr.), e della riscossione delle usurae (D. 50.8.11pr.); e il curator annonae (chiamato talvolta con nomi diversi, come curator frumenti o rei frumentariae, oppure, con nome di origine greca, sitona), del quale, sempre con riferimento alla responsabilità, si discute dell’obbligo di questi di esigere comunque il denaro destinato all’annona (D. 50.8.12.2), e dell’esenzione da responsabilità nel caso in cui non vi sia stata ignavia (D. 50.8.12.3)21. Distintamente dai curatores municipali Papirio Giusto doveva invece affrontare i problemi dei funzionari imperiali (curatores rei publicae e curatores kalendarii) che nell’epoca in cui egli raccoglieva il materiale erano certamente ben distinti dagli altri curatores. L’unico rescritto sicuramente attribuibile al curator rei publicae riguarda l’obbligo di retrahere i fondi pubblici

20 21

Cfr. supra, F. 15. Cfr. supra, F. 14 e F. 15.

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Commento. Palingenesi abusivamente posseduti (D. 50.8.11.2)22, mentre è assai probabile – come si è visto in sede di commento ai testi23 – che si riferisca anche a lui il caso della remissione di un debito di pecunia publica fatta da un curator a privati (D. 2.14.37). In ordine al curator kalendarii, che – come si è visto – era un funzionario di rango certamente inferiore al curator rei publicae, si torna a parlare dell’obbligo di prestare la cauzione, obbligo da cui egli era esentato qualora fosse stato nominato dal praeses provinciae sulla base di una selezione (D. 50.8.12.4)24. 4. L’ordine di Lenel Liber I 1. distanze legali tra gli edifici 2. utilizzazione risorse idriche pubbliche 3. utilizzazione risorse idriche pubbliche 4. iustum pretium nella vendita di vino – consuetudo regionis 5. decurioni – prezzo del grano 6. decurioni – prezzo del grano 7. decurioni – prezzo del grano 8. bonorum venditio – praeiudicium 9. bonorum venditio ex senatus consulto – curator 10. abolitio – processo civile 11. abolitio – processo civile 12. abolitio – processo civile 13. appello – processo provinciale 14. appello – processo provinciale 15. appello – magistrati municipali 16. appello – provvedimenti cautelari

D. 8.2.14 D. 8.3.17 D. 8.3.17 D. 18.1.71 D. 48.12.3pr. D. 48.12.3.1 D. 48.12.3.2 D. 42.5.30 D. 42.7.4 D. 48.16.18pr. D. 48.16.18.1 D. 48.16.18.2 D. 49.1.21pr. D. 49.1.21.1 D. 49.1.21.2 D. 49.1.21.3

Liber II (de iure municipali) 17. vectigal – legittimazione passiva 18. vectigal – remissione del commissum 19. negotia publica – restitutio in integrum 20. ordo decurionum – designazione 21. obbligo di prestare i munera 22. responsabilità dei magistrati municipali 23. determinazione dell’origo ai fini della prestazione dei munera 24. cauzione per la magistratura – responsabilità del pater familias 25. determinazione dello stato di municipes di una persona: origo

D. 39.4.7pr. D. 39.4.7.1 D. 42.1.35 D. 50.1.38pr. D. 50.1.38.1 D. 50.1.38.2 D. 50.1.38.3 D. 50.1.38.4 D. 50.1.38.5

22 23 24

Cfr. supra, F. 14. Cfr. supra, F. 13. Cfr. supra, F. 15.

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo 26. obbligo di cauzione per i magistrati municipali 27. ammissione del relegatus all’ordo decurionum 28. ammissione all’ordo decurionum 29. ammissione all’ordo decurionum 30. ammissione all’ordo decurionum 31. prestito di pecunia publica da una città a dei privati 32. curatores operum publicorum – riscossione delle usurae 33. curator operum publicorum – periculum 34. curator civitatis – obbligo di retrahere i fondi abusivamente posseduti 35. curator operum publicorum – cauzione 36. curatores municipali – responsabilità 37. curator annonae – obbligo di esigere il denaro 38. sitonae – esenzione da responsabilità 39. curator kalendarii – cauzione 40. curatores municipali – responsabilità del collega 41. curatores (municipali?) – periculum 42. responsabilità dei magistrati municipali 43. pollicitationes 44. donazioni all’ente pubblico – condizioni di validità Liber VIII 45. bonorum venditio

D. 50.1.38.6 D. 50.2.13pr. D. 50.2.13.1 D. 50.2.13.2 D. 50.2.13.3 D. 2.14.37 D. 50.8.11pr. D. 50.8.11.1 D. 50.8.11.2 D. 50.8.12pr. D. 50.8.12.1 D. 50.8.12.2 D. 50.8.12.3 D. 50.8.12.4 D. 50.8.12.5 D. 50.8.12.6 D. 50.8.13 D. 50.12.13pr. D. 50.12.13.1 D. 2.14.60

5. Un nuovo ordine Liber I regolamentazione dei prezzi delle derrate alimentari 1. prezzo del vino 2. prezzo del grano 3. prezzo del grano 4. prezzo del grano problemi dell’amministrazione della giustizia 5. bonorum venditio: praeiudicium e intervento imperiale 6. bonorum distractio: deroghe ex senatusconsulto e comportamenti fraudatorii 7. abolitio – processo civile 8. abolitio – processo civile 9. abolitio – processo civile 10. appello – processo provinciale 11. appello – processo provinciale 12. appello – magistrati municipali 13. appello – provvedimenti cautelari problemi di diritto pubblico relativi all’amministrazione cittadina 14. distanze legali tra gli edifici 196

D. 18.1.71 D. 48.12.3pr. D. 48.12.3.1 D. 48.12.3.2 D. 42.5.30 D. 42.7.4 D. 48.16.18pr. D. 48.16.18.1 D. 48.16.18.2 D. 49.1.21pr. D. 49.1.21.1 D. 49.1.21.2 D. 49.1.21.3 D. 8.2.14

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Commento. Palingenesi 15. utilizzazione risorse idriche pubbliche 16. utilizzazione risorse idriche pubbliche Liber II decuriones 17. ordo decurionum – designazione 18. ammissione del relegatus all’ordo decurionum 19. ammissione all’ordo decurionum del relegatus 20. ammissione all’ordo decurionum 21. ammissione all’ordo decurionum magistrati municipali 22. vectigal – legittimazione passiva 23. vectigal – remissione del commissum 24. negotia publica 25. pollicitationes 26. donazioni all’ente pubblico 27. responsabilità dei magistrati municipali 28. responsabilità dei magistrati municipali 29. cauzione per i magistrati municipali 30. cauzione per i magistrati municipali – responsabilità del pater familias munera publica 31. coloni dei fondi del fisco 32. mulier 33. determinazione dello stato di municipes di una persona: origo curatores 34. curator municipale – responsabilità 35. curator municipale – responsabilità del collega 36. curator municipale (?) – periculum 37. curator operum publicorum 38. curator operum publicorum – cauzione 39. curator operum publicorum – riscossione delle usurae 40. curator annonae – obbligo di esigere il denaro 41. sitonae – esenzione da responsabilità 42. curator rei publicae – obbligo di retrahere i fondi abusivamente posseduti 43. curator rei publicae (o municipale?) – remissione del debito di pecunia publica 44. curator kalendarii – cauzione Liber VIII bonorum venditio 45. ammissibilità delle necessariae personae del debitore alla bonorum venditio

197

D. 8.3.17 D. 8.3.17

D. 50.1.38pr. D. 50.2.13pr. D. 50.2.13.1 D. 50.2.13.2 D. 50.2.13.3 D. 39.4.7pr. D. 39.4.7.1 D. 42.1.35 D. 50.12.13pr. D. 50.12.13.1 D. 50.1.38.2 D. 50.8.13 D. 50.1.38.6 D. 50.1.38.4 D. 50.1.38.1 D. 50.1.38.3 D. 50.1.38.5 D. 50.8.12.1 D. 50.8.12.5 D. 50.8.12.6 D. 50.8.11.1 D. 50.8.12pr. D. 50.8.11pr. D. 50.8.12.2 D. 50.8.12.3 D. 50.8.11.2 D. 2.14.37 D. 50.8.12.4

D. 2.14.60

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APPARATI E INDICI

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Bibliografia Arcaria 2003 Archi 1933 – 1961 – 1970 – 1986 – 1987 – 1990a – 1990b – 1990c

Aricò Anselmo 1983 Arnese 2013 Atzeri 2008 Baldi 2010 Baldini 1978 Barbier 2012 Barone-Adesi 1998 Basile 2020a – 2020b Bastianini 1975

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Bastianini 1988

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Bibliografia (Bonnefond) Coudry 1994

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Camodeca 1976b – 1979 – 1980 – 2007 – 2008

– 2011 – 2017 Campolunghi 1972 Cancelli 1966 Canfora 2017 – 2019 Cannata 1962 Cantarella 1963

Capocci 1941 Capogrossi Colognesi 2004 – 2009 – 2014

Carandini 2020 Carcaterra 1984

G. Camodeca, La carriera del giurista L. Neratius Priscus, in «ANA» 87 (1976) 19 ss. G. Camodeca, Curatores rei publicae I, in «ZPE» 35 (1979) 225 ss. G. Camodeca, Ricerche sui curatores rei publicae, in «ANRW» II.13, Berlin-New York 1980, 453 ss. G. Camodeca, Il giurista L. Neratius Priscus cos. suff. 97. Nuovi dati su carriera e famiglia, in «SDHI» 73 (2007) 291 ss. G. Camodeca, I curatores rei publicae in Italia: note di aggiornamento, in AA.VV., Le Quotidien municipal dans l’Occident romain (éds. C. Berendonner, M. Cébeillac, L. Lamoine), Clermond Ferrand 2008, 506 ss. G. Camodeca, Sulla biografia e la carriera di P. Iuventius P. f. Vel. Celsus T. Aufidius Hoenius Severianus, in «QL» 1 (2011) 85 ss. G. Camodeca, Le curae municipali nella Regio I Campania, in Le curae cittadine nell’Italia romana. Atti del convegno Siena 18-19 aprile 2016 (a cura di M. G. Granino Cecere), Roma 2017, 13 ss. M. Campolunghi, Gli effetti sospensivi dell’appello in materia penale. A proposito di Scaev. D.26.7.57.1, in «BIDR» 75 (1972) 151 ss. F. Cancelli, Voce “Pollicitatio”, in «NNDI» XII, Torino 1966, 256 ss. L. Canfora, Prefazione a Erodiano. Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio (a cura di F. Cassola), Torino 2017, vii ss. L. Canfora, Il copista come autore, Palermo 2019. C.A. Cannata, Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, Torino 19622. E. Cantarella, Sui rapporti tra matrimonio e «conventio in manum», in «RISG» 10 (1963) 181 ss. = in Ead., Diritto e società in Grecia e a Roma. Scritti scelti (a cura di A. Maffi e L. Gagliardi), Milano 2011, 465 ss. V. Capocci, Note per la storia del testo della costituzione περί καινοτομιῶν dell’imperatore Zenone, in «SDHI» 7 (1941) 155 ss. L. Capogrossi Colognesi, La genesi dell’impero municipale, in «Roma e America. Diritto romano comune» 18 (2004) 243 ss. = in Id., Scritti scelti, II, Napoli 2010, 939 ss. L. Capogrossi Colognesi, A Provocation, in «RSE» 25 (2009) 421 ss. L. Capogrossi Colognesi, La lex rivi Hiberiensis e gli schemi delle servitù d’acqua in diritto romano, in AA.VV., Lex rivi Hiberiensis, diritto e tecnica in una comunità di irrigazione della Spagna romana. Giornate di studio in onore di Giorgio Luraschi, Milano 2-3 luglio 2013 (a cura di L. Maganzani, C. Buzzacchi), Napoli 2014, 75 ss. A. Carandini, Antonino Pio e Marco Aurelio. Maestro e allievo all’apice dell’impero, Milano 2020. A. Carcaterra, «Ius finitum» e «facti interpretatio» nella epistemologia di Nerazio Prisco (D. 22.6.2), in Studi in onore di A. Biscardi, V, Milano 1984, 405 ss. 206

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Bibliografia Carcaterra 1985 Cardilli, Porcelli Carrié 1975 Carro 2019 Cary, Scullard 1975 Casavola 2011 Cascione 2010-2011

Cassarino 1947-1948 Cavallo 1975 – 1989a – 1989b – 1992

Cenerini 2017 Centola 2017 Cerami 1973 – 1986 – 1987a – 1987b – 1997 Cervenca 1965 – 1971

A. Carcaterra, Semiotica e linguistica dei giuristi romani (esame di testi), in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, VI, Milano 1985, 152 ss. R. Cardilli, S. Porcelli, Introduzione al diritto cinese, Torino 2020. J.-M. Carrié, Les Distributions alimentaires dans les cités de l’Empire romain tardif, in «MEFRA» 87 (1975) 992 ss. V. Carro, Autorità pubblica e garanzie nel processo esecutivo romano, Torino 20192. M. Cary, H.H. Scullard, Storia di Roma. III. Il Principato e la crisi dell’Impero, Bologna 1975. F. Casavola, Giuristi adrianei, Roma 2011. C. Cascione, «De nuptiis philologiae et iuris». La storiografia wieackeriana dalle «Textstufen» al rapporto tra diritto romano e «Nachbardisziplinen der Altertumswissenschaft», in «SCDR» 23-24 (2010-2011) 59 ss. S. Cassarino, Il curator rei publicae nella storia dell’impero romano, in «Annali Catania» 2 (1947-1948) 338 ss. G. Cavallo, Libri, editori e pubblico nel mondo antico, Bari 1975. G. Cavallo, Libro e cultura scritta, in AA.VV., Storia di Roma. 4. Caratteri e morfologie, Torino 1989, 693 ss. G. Cavallo, Testo, libro, lettura, in AA.VV., Lo spazio letterario di Roma antica. II. La circolazione del testo (dir. G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina), Roma 1989, 307 ss. G. Cavallo, Le tavolette come supporto della scrittura: qualche testimonianza indiretta, in AA.VV., Les tablettes à écrire, de l’antiquité à l’époque moderne. Actes du colloque international du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris, Institut de France 10-11 octobre 1990 (éd. E. Lalou), Paris 1992, 97 ss. F. Cenerini, Faustina Minore, Avidio Cassio, Marco Aurelio, in AA.VV., La storiografia tardoantica. Bilanci e prospettive (a cura di V. Neri e B. Girotti), Milano 2017, 101 ss. D.A. Centola, Contra constitutiones iudicare. Alle origini di una dialettica nell’età dei Severi, Napoli 2017. P. Cerami, Contrahere cum fisco, in «AUPA» 34 (1973) 277 ss. P. Cerami, Il rapporto giuridico d’imposta, in «IVRA» 37 (1986) 34 ss. P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, Torino 19872. P. Cerami, In integrum restitutio adversus fiscum, in «IVRA» 37 (1987) 5 ss. P. Cerami, Breviter su Iul. 1.3.22 (Riflessioni sul trinomio lex, mos, consuetudo), in Nozione formazione e interpretazione del diritto. Ricerche dedicate a Filippo Gallo, I, Napoli 1997, 117 ss. G. Cervenca, Studi vari sulla restitutio in integrum, Milano 1965. G. Cervenca, Sul divieto delle cd. «usurae supra duplum», in «Index» 2 (1971) 291 ss. 207

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Cervenca 1989

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Bibliografia De Churruca 1975 De Dominicis 1950 – 1962 De Falco De Francisci 1944 – 1955 – 1967 De Giovanni 2004 – 2007a

– 2007b – 2015 Degni 1997 Dell’Oro 1960a – 1960b – 1968 – 1983 De Marini Avonzo 1999 De Martino 1963

– 1974 – 1975 De Ranieri 1997 De Rohden, Dessau 1898

J. De Churruca, Las instituciones de Gayo en San Isidoro de Sevilla, Bilbao 1975. M.A. De Dominicis, I destinatari dei rescritti imperiali da Claudio a Numeriano, in «AUFE» 8 (1950) 201 ss. M.A. De Dominicis, Lezioni di storia del diritto romano, II, Trieste 1962. I. De Falco, Iuridicus. Una ipotesi sul lemma, in «TSDP» 7 (2014) (on line). P. De Francisci, Storia del diritto romano, II.1, Milano 1944. P. De Francisci, rec. di W.L. Westermann, A.A. Schiller, Apokrimata. Decisions of Septimius Severus on Legal Matters, New York 1954, in «IVRA» 6 (1955) 184 ss. P. De Francisci, Per la storia della legislazione imperiale durante il principato, in «BIDR» 70 (1967) 187 ss. L. De Giovanni, Dai Severi a Giustiniano. Linee di storia giuridica tardoantica, Napoli 2004. L. De Giovanni, Gli scritti di Gennaro Franciosi su Papirio Giusto. Note minime di lettura, in φιλία. Scritti per Gennaro Franciosi (a cura di F.M. d’Ippolito), I, Napoli 2007, 691 ss. L. De Giovanni, Istituzioni scienza giuridica codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007. L. De Giovanni, Diritto e storia. La tarda antichità, Napoli 2015. P. Degni, Usi delle tavolette lignee e cerate nel mondo greco e romano, Messina 1997. A. Dell’Oro, I “libri de officio” nella giurisprudenza romana, Milano 1960. A. Dell’Oro, Mandata e litterae, Bologna 1960. A. Dell’Oro, Il titolo della suprema carica nella letteratura giuridica romana, Milano 1968. A. Dell’Oro, Divus nelle inscriptiones del codice giustinianeo, in Studi in onore di C. Sanfilippo, IV, Milano 1983, 201 ss. F. De Marini Avonzo, Lezioni di storia del diritto romano, Padova 1999. F. De Martino, Nota storica sui decurioni, in «RDN» 29 (1963) 56 ss. = in Id., Diritto e società nell’antica Roma, Roma 1979, 407 ss. = in Id., Diritto economia e società nel mondo romano. II. Diritto pubblico (con una nota di lettura di F. D’Ippolito), Napoli 1996, 147 ss. F. De Martino, Storia della costituzione romana, IV.1, Napoli 19742. F. De Martino, Storia della costituzione romana, IV.2; V, Napoli 19752. C. De Ranieri, Retroscena politici e lotte dinastiche sullo sfondo della vicenda di Cleandro, in «RSA» 27 (1997) 139 ss. P. De Rohden P., H. Dessau (hrsg.), Prosopographia Imperii Romani (saec. I-III). Pars III, Berolini 1898. 209

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo De Ruggiero 1892 – 1900 – 1921 De Simone 2017 Dessau 1927 Devijver 1996 – 1976-2001 Di Porto 2013 Dirksen 1871 Di Salvo 1973 Dodds 1970 Donatuti 1976-1977 D’Ors 1965 D’Ors, Martin 1979 Dovere 2005 Dursi 2017 – 2019 – 2020 Duthoy 1979 Eck 1999 Eck, Caballos Rufino, Fernández 1996

E. De Ruggiero, L’arbitrato pubblico presso i Romani, in «BIDR» 5 (1892) 350 ss. E. De Ruggiero, s.v. «Confarreatio», in «DE» II.1, Roma 1900, 598. E. De Ruggiero, La patria nel diritto pubblico romano, Roma 1921. M. De Simone, Studi sulla patria potestas. Il filius familias ‘designatus rei publicae civis’, Torino 2017. H. Dessau, Zur Inschrift von Skaptopara, in «Hermes» 62 (1927) 205 ss. H. Devijver, Local élite, Equestrians and Senators. A Social History of Roman Sagalassos, in «AS» 27 (1996) 105 ss. H. Devijver, Prosopographia Militiarum Equestrium, Louvain 1976-2001. A. Di Porto, Res in usu publico e ‘beni comuni’. Il nodo della tutela, Torino 2013. H.E. Dirksen, Das Polizei-Gesetz des Kaiser über die bauliche Anlage der Privathäuser in Constantinopel, in Hinterlassene Schriften, II, Leipzig 1871 (rist. 1973). S. Di Salvo, Il legato modale in diritto romano, Napoli 1973. E. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, Firenze 1970. G. Donatuti, Il silenzio come manifestazione di volontà, in Id., Studi di diritto romano, I, Milano 1976-1977, 408 ss. A. D’Ors, La signification de l’oevre d’Hadrien dans l’histoire du droit romain, in Les Empereurs romains d’Espagne, Paris 1965, 147 ss. A. D’Ors, F. Martin, Propositio libellorum, in «AJPh» 100 (1979) 124 ss. E. Dovere, De iure. L’esordio delle Epitomi di Ermogeniano, Napoli 2005. D. Dursi, Res communes omnium. Dalle necessità economiche alla disciplina giuridica, Napoli 2017. D. Dursi, 2019, Aelius Marcianus. Institutionum libri I-V, Roma 2019, 3 ss. D. Dursi, Studi sui codicilli. Tra elaborazione casistica e repressione penale, Napoli 2020. R. Duthoy, Curatores rei publicae en Occident durant le Principat. Recherches préliminaires sur l’apport des sources épigraphiques, in «AS» 10 (1979) 171 ss. W. Eck, L’Italia nell’impero romano. Stato e amministrazione in epoca imperiale, Bari 1999 (trad. ital. dell’ed. München 1979). W. Eck, A. Caballos Rufino, F. Fernández, Das senatus consultum de Cn. Pisone patre, München 1996. 210

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Bibliografia Einheuser 2017 Eliachevitch 1950 Falchi 1989 Falcone 1998 – 2006

Fanizza 1988 Faoro 2011 – 2016 Fasolino 2006 Fayer 2005 Felici 2006 Ferrini 1884 – 1901 – 1917 – 1929 Fiorentini 2003 – 2017 – 2019 Fiorucci 2011 Fitting 1908 Fontani 1996

V. Einheuser, Studien zur lex rivi Hiberiensis. Zur Rechtsdurchsetzung innerhalb einer Bewässerungsgemeinschaft im 2. Jh. n. Chr., Wiesbaden 2017. B. Eliachevitch, La personnalité juridique en droit privé romain, Paris 1942. G.L. Falchi, Sulla codificazione del diritto romano nel V e VI secolo, Romae 1989. G. Falcone, Il metodo di compilazione delle Institutiones di Giustiniano, «AUPA» 45 (1998) 221 ss. G. Falcone, Un’ipotesi sulla nozione ulpianea di ius publicum, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione. «Cinquant’anni della Corte Costituzionale della Repubblica italiana» (dir. L. Labruna, a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), II, Napoli 2006, 1167 ss. L. Fanizza, Delatori e accusatori: l’iniziativa nei processi di età imperiale, Roma 1988. D. Faoro, Praefectus, procurator, praeses. Genesi delle cariche presidiali equestri nell’Alto Impero Romano, Milano 2011. D. Faoro, I prefetti d’Egitto da Augusto a Commodo, Rastignano (BO) 2016. F. Fasolino, Studi sulle usurae, Salerno 2006. C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici e antiquari. Sponsalia matrimonio dote. Parte seconda, Roma 2005. M. Felici, Riflessioni sui munera civilia di Arcadio Carisio, in AA.VV., Gli Statuti Municipali (a cura di L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba), Pavia 2006, 153 ss. C. Ferrini, La Glossa torinese delle Istituzioni e la Parafrasi dello Pseudo-Teofilo, in «RIL» 17 (1884) 714 ss. C. Ferrini, Sulle fonti delle «Istituzioni» di Giustiniano, in «BIDR» 13 (1900) 101 ss. C. Ferrini, Manuale di Pandette, Milano 19173. C. Ferrini, Opere. I. Scritti di diritto romano e bizantino, Milano 1929, 41 ss. M. Fiorentini, Fiumi e mari nell’esperienza giuridica romana. Profili di tutela processuale e di inquadramento sistematico, Milano 2003. M. Fiorentini, Spunti volanti in margine al problema dei beni comuni, in «BIDR» 111 (2017) 75 ss. M. Fiorentini, Res communes omnium e commons. Contro un equivoco, in «BIDR» 113 (2019) 153 ss. F. Fiorucci, Il prologo della Assis Distributio e l’inizio della carriera di Volusio Meciano, in «Prometheus» 37 (2011) 250 ss. H. Fitting, Alter und Folge der Schriften römischer Juristen von Hadrian bis Alexander, Halle a. S. 19082. E. Fontani, I Vedii di Efeso nel II secolo d.C., in «ZPE» 110 (1996) 227 ss. 211

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Franchini 2005 Franciosi 1965 – 1972 – 1998 Fündling 2009 Gabba 2000

Gabrielli 2006

Gagliardi 2006 Gallo 1971 – 1985 – 1991-1992 – 1993 – 1999 – 2000 – 2004-2005 – 2012 Galsterer 1987 García Garrido 2005

L. Franchini, La desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano 2005. G. Franciosi, Usucapio pro herede. Contributo allo studio dell’antica hereditas, Napoli 1965. G. Franciosi, I «Libri Viginti Constitutionum» di Papirio Giusto, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, V, Torino 1972, 149 ss. G. Franciosi, Papirio Giusto, in AA.VV., La codificazione dall’antico al moderno. Incontri di studio, Napoli, gennaio-novembre 1996. Atti, Napoli 1998, 229 ss. J. Fündling, Marco Aurelio, Roma 2009. E. Gabba, Aspetti sociali del rescritto imperiale di Vardagate, in AA.VV., Les élites municipales de l’Italie péninsulaire de la mort de César à la mort de Domitien entre continuité et rupture. Classes sociales dirigeantes et pouvoir central (dir. M. Cébeillac-Gervasoni), Rome 2000, 457 ss. C. Gabrielli, Pecuniae publicae ... ne otiosae iacent (Plin. epist. 10.54). Strategie finanziarie nell’amministrazione provinciale, in AA.VV., Gli Statuti municipali (a cura di L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba), Pavia 2006, 383 ss. L. Gagliardi, Mobilità e integrazione delle persone nei centri cittadini romani. Aspetti giuridici. I. La classificazione degli incolae, Milano 2006. F. Gallo, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto, Torino 1971. F. Gallo, Produzione del diritto e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1. 3. 32), in «IVRA» 36 (1985) 70 ss. F. Gallo, La sovranità popolare quale fondamento della produzione del diritto in D. 1, 3, 32: teoria giulianea o manipolazione postclassica, in «BIDR» 94-95 (1991-1992) 1 ss. F. Gallo, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto. Lezioni di diritto romano, Torino 1993. F. Gallo, La consuetudine nel diritto romano, in Opuscula selecta, Pavia 1999, 187 ss. F. Gallo, Precisazioni su «ius moribus receptum», «responsa prudentium», «consuetudo», in «Labeo» 46 (2000) 95 ss. F. Gallo, La recezione moribus nell’esperienza romana: una prospettiva da recuperare, in «IVRA» 55 (2004-2005) 1 ss. F. Gallo, Consuetudine e nuovi contratti. Contributo al recupero dell’artificialità del diritto, Torino 2012. H. Galsterer, rec. di F. Jacques, Le privilège de liberté, Rome 1984, in «JRS» 77 (1987) 200 ss. M.J. García Garrido, Similitudines codicum (las geminaciones y similitudes textuales en el Código Teodosiano y las coincidencias con el Código de Justiniano), in «AARC» 15 (2005) 463 ss. 212

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Bibliografia Garnsey 1974 Gaudemet 1951 – 1954 – 1979 Giagnorio 2020 Giarrizzo 1954 Gibbon 1987 Giliberti 1983 Giomaro 2011 Giuffrè 1965 – 1993 Gizewski 1997 González Roldán 2017 Goria 1981

– 2007

Gregori 2017

Greiner 1973 Grelle 1960 – 1961 – 1963

P. Garnsey, Aspects of the Decline of the Urban Aristocracy in the Empire, in «ANRW» II.1, Berlin- New York 1974 229 ss. J. Gaudemet, Utilitas publica, in «RHD/TR» 29 (1951) 465 ss. J. Gaudemet, L’empereur, interprète du droit, in Festschrift für E. Rabel. II. Geschichte der antiken Recht und allgmeine Rechtslehre, Tübingen 1954. J. Gaudemet, La formation du droit séculier et du droit de l’église aux IVe et Ve siècles, Paris 19792. M. Giagnorio, Cittadini e sistemi fognari nell’esperienza giuridica romana, Bari 2020. G. Giarrizzo, Edward Gibbon e la cultura europea del Settecento, Napoli 1954. E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, I, Torino 1987. G. Giliberti, “Legatum kalendarii”. Mutuo feneratizio e struttura contabile del patrimonio nell’età del principato, Napoli 1983. A.M. Giomaro, Sulla presenza delle scuole di diritto e la formazione giuridica nel tardoantico, Soveria Mannelli (CZ) 2011. V. Giuffrè, L’utilizzazione degli atti giuridici mediante “conversione” in diritto romano, Napoli 1965. V. Giuffrè, Sull’origine della «bonorum venditio» come esecuzione patrimoniale, in «Labeo» 39 (1993) 317 ss. Ch. Gizewski, s.v. «Damnatio memoriae», in «DNP» 3 (1997) 299 s. Y. González Roldán, Problemi di diritto ereditario nei VII Libri Membranarum di Nerazio, in «Glossae» 14 (2017) 314 ss. F. Goria, Osservazioni sulle prospettive comparatistiche nelle Istituzioni di Gaio, in AA.VV., Il modello di Gaio nella formazione del giurista. Atti del convegno torinese (4-5 maggio), in onore del prof. S. Romano, Milano 1981, 211 ss. F. Goria, Le raccolte delle novelle giustinianee e la collezione greca delle 168 novelle, in «DS» 6 (2007) 1 ss. = in Id., Diritto romano d’Oriente. Scritti scelti di Fausto Goria (a cura di P. Garbarino, A. Trisciuoglio, E. Sciandrello), Alessandria 2016, 433 ss. G.L. Gregori, Le curae municipali nelle comunità del Latium adiectum, in Le cure cittadine nell’Italia romana. Atti del convegno Siena 18-19 aprile 2016 (a cura di M.G. Granino Cecere), Roma 2017, 53 ss. R. Greiner, Opera Neratii. Drei Textgeschichten, Karlsruhe 1973. F. Grelle, Datio tutoris e organi cittadini nel basso impero, in «Labeo» 6 (1960) 216 ss. = in Id., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma 2005, 25 ss. F. Grelle, ‘Munus publicum’ Terminologia e sistematiche, in «Labeo» 7 (1961) 308 ss. = in Id., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma 2005, 39 ss. F. Grelle, Stipendium vel tributum, Napoli 1963. 213

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Grelle 1972 – 1986

– 1987

– 1999

– 2001

– 2003 Grillone 2019 Gröschler 1998 Grosso 1930-1931 – 1962 Gualandi 1963 Guarino 1963 – 1989 – 1992 – 1994 – 1998 Guzmán 1987

F. Grelle, L’autonomia cittadina fra Traiano e Adriano. Teoria e prassi dell’organizzazione municipale, Napoli 1972. F. Grelle, Le categorie dell’amministrazione tardoantica. Officia, munera, honores, in AA.VV., Società romana e impero tardoantico. I. Istituzioni, ceti, economie, a cura di A. Giardina, Roma-Bari 1986, 37 ss. = in Id., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma 2005, 221 ss. F. Grelle, Arcadio Carisio, l’officium del prefetto del pretorio e i munera civilia, in «Index» 15 (1987) 63 ss. = in Id., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma 2005, 257 ss. F. Grelle, I munera civilia e le finanze cittadine, in AA.VV., Il capitolo delle entrate nelle finanze municipali in Occidente e in Oriente. Actes de la Xe rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain, Roma 1999, 137 ss. = in Id., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma 2005, 443 ss. F. Grelle, I giuristi, il diritto municipale e il Codex Gregorianus, in Iuris Vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, IV, Napoli 2001, 317 ss. = in Id., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma 2005, 473 ss. F. Grelle, Ad municipalem, in «Labeo» 49 (2003) 46 ss. e nt. 48 = in Id., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma 2005, 532 ss. e nt. 48. A. Grillone, La gestione immobiliare urbana tra la tarda repubblica e l’età dei Severi. Profili giuridici, Torino 2019. P. Gröschler, Banchieri e limite delle usurae, in «AARC» 12 (1998) 398 ss. G. Grosso, Appunti sulle derivazioni dai fiumi pubblici nel diritto romano. A proposito di uno studio di E. Albertario, in «AAST» 66 (1930-1931) 369 ss. G. Grosso, I legati nel diritto romano. Parte generale, Torino 1962. G. Gualandi, Legislazione imperiale e giurisprudenza, I-II, Milano 1963 = Id., Legislazione imperiale e giurisprudenza (rist. a cura di G. Santucci e N. Sarti), I-II, Bologna 2012. A. Guarino, Storia del diritto romano, Milano 19633. Antonio Guarino, Giuliano e la consuetudine, in «Labeo» 35 (1989) 172 ss. = in Id., Pagine di Diritto romano, IV, Napoli 1994, 368 ss. A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli 19929. A. Guarino, Trebazio, Labeone e i codicilli, in Id., Pagine di diritto romano, V, Napoli 1994, 135 ss. A. Guarino, Storia del diritto romano, Napoli 199812. A. Guzmán, «Codex», in Estudios de derecho romano en honor de Alvaro d’Ors, II, Pamplona 1987, 591 ss. 214

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Bibliografia Haensch 2013

Hallof 1994 Harris 1981 Hirschfeld 1905 Höbenreich 1997 Hofmann 1900 Honoré 1975 – 1994 Honsell 1978 Horak 1969 – 1975 – 1983 Houdoy 1876 Hulot, Berthelot, Tissot, Berenger fils 1979 Humbert 1877 Huschke 1867 Jacques 1983 – 1984 Japella Contardi 1977 Jaschke 2006

Johne, Köhn, Weber 2012

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Johnson 2000 Jones 1966 – 1973 – 1984 Jones Hall 2004 Karlowa 1885 Kaser 1986 Kelly 1957 Klingenberg 1977 Knütel 1971 Krüger 1930 Krüger 1887 – 1888 – 1912 Kübler 1935 Kunkel 1967 – 1968 – 1974 Kupiszewki 1990 Lamberti 1993 Lanfranchi 1940 Langhammer 1973

W. Johnson, Toward a Sociology of Reading in Classical Antiquity, in «AJPh» 121 (2000) 593 ss. A.H.M. Jones, The Greek City from Alexander to Justinian, Oxford 1966. A.H.M. Jones, Il tardo impero romano (284-602 d.C.), I-III, Milano 1973. A.H.M. Jones, La vita economica delle città dell’Impero romano, in Id., L’economia romana. Studi di storia economica e amministrativa antica, Torino 1984, 47 ss. L. Jones Hall, Roman Berytus. Beirut in Late Antiquity, LondonNew York 2004. O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, I, Leipzig 1885. M. Kaser, «Ius publicum» und «ius privatum», in «ZSS» 103 (1986) 6 ss. J. M. Kelly, Princeps iudex, Weimar 1957. G. Klingenberg, Commissum. Der Verfall nichtdeklarierter Sachen in römischen Zollrecht, Graz 1977. R. Knütel, Zum Prinzip der formalen Korrespondenz im römischen Recht, in «ZSS» 88 (1971) 67 ss. H. Krüger, Römische Juristen und ihre Werke, in Studi in onore di Pietro Bonfante, II, Milano 1930, 301 ss. P. Krüger, Über die Verwendung von Papyrus und Pergament für die juristische Litteratur der Römer, in «ZSS» (1887) 76 ss. P. Krüger, Geschichte der Quellen und Literatur des römischen Rechts, Leipzig 1888. P. Krüger, Geschichte der Quellen und Literatur des römischen Rechts, München-Leipzig 19122. B. Kübler, Bemerkungen über die Bedeutung der Insolvenz für die Gestaltung von Rechtsverhältnissen, in Studi in memoria di Aldo Albertoni, I, Pisa 1935, 491 ss. W. Kunkel, Die Römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung, Köln-Wien 19672 (rist. 2001, con una premessa di D. Liebs). W. Kunkel, Die Funktion des Konsiliums in der magistratischen Strafjustiz und im Kaisergericht (II), in «ZSS» 85 (1968) 265 ss. W. Kunkel, Kleine Schriften, Weimar 1974. H. Kupiszewki, Dal codice-libro al codice-raccolta di precetti giuridici, in «JJP» 20 (1990) 83 ss. = in Id., Scritti minori, Napoli 2000, 519 ss. F. Lamberti, «Tabulae Irnitanae». Municipalità e «ius Romanorum», Napoli 1993. F. Lanfranchi, Studi sugli agri vectigales I-III, Faenza, Ravenna, Napoli, Trieste 1938-1940. W. Langhammer, Die rechtliche und soziale Stellung der Magistratus municipales und der Decuriones in der Übergangsphase der Städte von sich selbstverwaltenden Gemeinden zu Vollzugsorganen des spätantiken Zwangsstaates (2.-4. Jahrhundert der römischen Kaiserzeit), Wiesbaden 1973. 216

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Bibliografia Lauria 1932 Lawrence Sharpe III 1992

Lécrivain 1873 Lemosse 1988 – 1990 Lenel 1889 – 1927 Lepore 2009 – 2012 Levick 1983 Levy 1933 – 1945 – 1951 Liberati 1968 Licandro 1997 – 2004 – 2009 – 2018 – 2020a – 2020b

M. Lauria, Le derivazioni di acque pubbliche, in «Annali Macerata» 8 (1932) 243 ss. J. Lawrence Sharpe III, The Dakhleh tablets and some codicological considerations, in Les tablettes à écrire de l’antiquité á l’époque moderne. Actes du Colloque intern. de CNRS (Paris 1990), Turnhout 1992, 127 ss. Ch. Lécrivain, s.v. «scriniarius, scrinium», in «DAGR» IV, Paris 1873, 1124 ss. M. Lemosse, Les questions incidentes dans le procès romain classique, in «RHDFE» 66 (1988) 5 ss. M. Lemosse, Les réformes procèdurales de Marc-Aurèle, in «Labeo» 36 (1990) 5 ss. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I-II, Lepizig 1889 (rist. anast. Roma 2000). O. Lenel, Das Edictum Perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung, Leipzig 19273. P. Lepore, Sul significato della locuzione “pro honore” in ambito epigrafico, in Scritti in onore di G. Melillo, II, Napoli 2009, 629 ss. P. Lepore, Rei publice polliceri. Un’indagine giuridico-epigrafica, Milano 20122. B. Levick, The Government of the Roman Empire. A Source Book, London-Sydney 1983. E. Levy, Von den römischen Anklägevergehen, in «ZSS» 53 (1933) 151 ss. E. Levy, Pauli Sententiae. A Palingenesia of the Opening Titles as a Specimen of Research in West Roman Vulgar Law, New York 1945. E. Levy, Zur nachklassischen “in integrum restitutio”, in «ZSS» 68 (1951) 360 ss. = in Id., Gesammelte Schriften, I, Köln-Graz 1963, 446 ss. G. Liberati, ‘Munera’ ed ‘honores’ in Erennio Modestino, in «BIDR» 71 (1968) 117 ss. O. Licandro, Candidature e accusa criminale: strumenti giuridici e lotta politica nella tarda repubblica, in «Index» 25 (1997) 447 ss. O. Licandro, Domicilium habere. Persona e territorio nella disciplina del domicilio romano, Torino 2004. O. Licandro, Domicilium. Il principio dell’inviolabilità dalle XII Tavole all’età tardoantica. Lezioni di esegesi, Torino 2009. O. Licandro, Pauli Sententiae. Storia controversa di un testo illustre tra autenticità, apocrifia e appunti di scuola, in «SDHI» 84 (2018) 355 ss. O. Licandro, IVS SCRIPTVM. Lineamenti di Epigrafia e Papirologia, Roma 2020. O. Licandro, Forme istituzionali e politiche di inclusione delle élites nell’età giulio-claudia. Note su vecchi e nuovi documenti epigrafici, in «Codex» 1 (2020) 10 ss. 217

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Licandro 2020c – 2021a – 2021b

Licandro, Palazzolo 2019 Liebs 1971 – 1976 – 1977 – 1987 – 1997

– 2017a – 2017b

Linderski 1989

Litewski 1972 Lobrano 2004 Lo Cascio 2002 – 2006 – 2007

O. Licandro, La Constitutio antoniniana del 212 d.C. e il paradigma dell’urbanitas. Una “diversa” lettura di P. Giessen 40.I, in «SAIA» 98 (2020) 467 ss. O. Licandro, Gli ἄριστοι e il βασιλεύς. Il governo temperato di Vat. gr. 1298 e il Cicerone perduto (in corso di pubblicazione). O. Licandro, Mutui delle civitates tra ius privatum e ius publicum. Finanza cittadina, autonomia locale e controllo centrale dagli Antonini ai Severi (a proposito di Papirius Iustus 2 de constitutionibus D. 2.14.37), in «QL» 11 (2021) (in corso di pubblicazione). O. Licandro, N. Palazzolo, Roma e le sue istituzioni dalle origini a Giustiniano, Torino 2019. D. Liebs, Variae lectiones (Zwei Juristenschriften), in Studi in onore di Edoardo Volterra, V, Milano 1971, 85 ss. Die Römische Provinzialjurisprudenz, in «ANRW» II.15, BerlinNew York 1976, 288 ss. D. Liebs, Privilegien und Ständezwang in den Gesetzen Konstantins, in «RIDA» 26 (1977) 318 ss. D. Liebs, Die Jurisprudenz im spätantiken Italien (260 - 640 n. Chr.), Berlin 1987. D. Liebs, L. Volusius Maecianus, in Handbuch der lateinischen Literatur der Antike. IV. Die Literatur des Umbruchs von der römischen zur christlichen Literatur 117-284 n.Chr. (hrsg. K. Sallmann), München 1997, 130 ss. D. Liebs, Das Codexsystem. Neuordnung des römischen Rechts in nachklassischer Zeit, in «ZSS» 134 (2017) 409 ss. D. Liebs, Il Codexsystem. L’aggiornamento della sistemazione del diritto romano in età tardoantica, in AA.VV., Giuristi romani e storiografia moderna. Dalla Palingenesia iuris civilis agli Scriptores iuris Romani (a cura di A. Schiavone), Torino 2017, 279 ss. J. Linderski, Heliogabalus, Alexander Severus and the ius confarreationis: A Note on the Historia Augusta, in Historia Testis. Mélanges d’epigraphie, d’histoire ancienne et de philologie offerts à Tadeusz Zawadzki, Fribourg 1989, 207 ss. W. Litewski, Il significato del termine “remedium” in Cons. 5.6, in «IVRA» 23 (1972) 115 ss. G. Lobrano, Uso dell’acqua e diritto nel Mediterraneo, in «DR» 3 (2004) (on line). E. Lo Cascio, Ancora sugli “Ostia’s Service to Rome”. Collegi e corporazioni annonarie a Ostia, in «MEFRA» 114 (2002) 87 ss. E. Lo Cascio, La dimensione finanziaria, in AA.VV., Gli Statuti Municipali (a cura di L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba), Pavia 2006, 673 ss. E. Lo Cascio, L’economia imperiale e la svolta augustea, in AA.VV., Augusto e la costruzione del principato. Atti del Convegno (Roma, 4-5 dicembre 2014), Roma 2017, 327 ss. 218

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Bibliografia Lo Cascio 2020

Lombardi 1964 Longo 1934 – 1972 Lovato 1990 – 2003 Luchetti 2004 Luzzatto 1955 Maganzani 2010

– 2011 – 2012 Magioncalda 1999

– 2006 – 2009 Maiuro 2012 Mancini 1910 Mantello 2012

Mantovani 1987

E. Lo Cascio, Setting the Rules of the Game. The Market and Its Working in the Roman Empire, in AA.VV., Roman Law and Economics. I. Institutions and Organizations (ed. G. Dari-Mattiacci, D.P. Kehoe), Oxford 2020, 111 ss. L. Lombardi, Un appunto per la critica del testo giurisprudenziale romano, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, 324 ss. G. Longo, Sull’uso delle acque pubbliche in diritto romano, in Studi in memoria di U. Ratti, Milano 1934, 55 ss. G. Longo, Utilitas publica, in «Labeo» 18 (1972) 7 ss. A. Lovato, Sull’honor decurionatus nel I libro delle disputationes ulpianee, in «SDHI» 56 (1990) 197 ss. A. Lovato, Studi sulle Disputationes di Ulpiano, Bari 2003. G. Luchetti, Nuove ricerche sulle Istituzioni di Giustiniano, Milano 2004. G.I. Luzzatto, Sul «iusiurandum in legem» dei magistrati e senatori, in Scritti in memoria di Ugo Borsi, Padova 1955, 23 ss. L. Maganzani, «Ripae fluminis» e dissesti idrogeologici a Roma: fra indagine geomorfologica e riflessione giurisprudenziale, in «JUS» 12 (2010) 175 ss. = Ead., in AA.VV., Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA). Studi preparatori. I. Leges (a cura di G. Purpura), Torino 2012, 61 ss. L. Maganzani, Agri publici vectigalibus subiecti, in «IAH» 3 (2011) 165 ss. L. Maganzani, Lex rivi Hiberiensis, in AA.VV., Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA). Studi preparatori. I. Leges (a cura di G. Purpura), Torino 2012, 171 ss. A. Magioncalda, Donazioni private a fini perpetui destinate alla città. Esempi dalla documentazione latina in età imperiale, in AA.VV., Il capitolo delle entrate nelle finanze municipali in Occidente ed in Oriente. Actes de la Xe Rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain (Rome, 27-29 mai 1996), Rome 1999, 175 ss. A. Magioncalda, Osservazioni sulla carriera di L. Volusio Meciano, in «Materiali» 36 (2006) 467 ss. A. Magioncalda, L’anonimo di CIL VI 1628 (41294) e il giurista Erennio Modestino, in Studi in onore di Remo Martini, II, Milano 2009, 555 ss. M. Maiuro, Res Caesaris. Ricerche sulla proprietà imperiale nel Principato, Bari 2012. G. Mancini, s.v. «Curator rei publicae o civitatis», in «DE» II.2, Roma 1910, 1345 ss. A. Mantello, Etica e mercato tra filosofia e giurisprudenza, in AA.VV., Affari, finanza e diritto nei primi due secoli dell’impero. Atti del Convegno internazionale di diritto romano, Copanello 5-8 giugno 2004 (a cura di F. Milazzo), Milano 2012, 17 ss. D. Mantovani, Digesto e masse bluhmiane, Milano 1987. 219

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Mantovani 2000 – 2006 – 2016

– 2018 Marcone 2019 Marotta 1988 – 1991 – 1999 – 2000 – 2007 – 2012

– 2016 – 2017

– 2020 Marquardt 1892 Marrone 1955 – 1961

Masi 1971

D. Mantovani, Aspetti documentali del processo criminale nella repubblica, in «MEFRA» 112 (2000) 651 ss. D. Mantovani, Il iudicium pecuniae communis, in AA.VV., Gli Statuti Municipali (a cura di L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba), Pavia 2006, 276 ss. D. Mantovani, More than Codes. Roman Ways of Organising and Giving Access to Legal Information, in AA.VV., The Oxford Handbook of Roman Law and Society (edd. P.J. Du Plessis, C. Ando, K. Tuori), Oxford 2016, 23 ss. D. Mantovani, Les juristes écrivains de la Rome antique. Les œuvres des juristes comme littérature, Paris 2018. A. Marcone, L’evoluzione della circolazione libraria in età imperiale: la letteratura giuridica e cristiana, in «SHHA» 37 (2019) 269 ss. V. Marotta, Multa de iure sanxit. Aspetti della politica del diritto di Antonino Pio, Milano 1988. V. Marotta, Mandata principum, Torino 1991. V. Marotta, Liturgia del potere. Documenti di nomina e cerimonie di investitura fra principato e tardo impero romano, Napoli 1999 (estr. da «Ostraka» 8 [1999] 1 ss.). V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000. V. Marotta, La recitatio degli scritti giurisprudenziali fra III e IV secolo, in Φιλία. Scritti per G. Franciosi, III, Napoli 2007, 1643 ss. V. Marotta, La recitatio degli scritti giurisprudenziali: premesse repubblicane e altoimperiali di una prassi tardoantica, in AA.VV., Ius controversum e processo fra tarda repubblica ed età dei Severi. Atti del Convegno (Firenze, 21-23 ottobre 2010), (a cura di E. Stolfi), Roma 2012, 357 ss. V. Marotta, Doppia cittadinanza e pluralità degli ordinamenti cittadini. La Tabula Banasitana e le linee 7-9 del Papiro di Giessen 40 col. I, in «AG» 236 (2016) 474 ss. V. Marotta, I giuristi e l’impero: tra storia e interpretazione, in «Koinonia» 41 (2017) 61 ss. = Id., in AA.VV., Giuristi romani e storiografia moderna. Dalla Palingenesia iuris civilis agli Scriptores iuris Romani (a cura di A. Schiavone), Torino 2017, 213 ss. V. Marotta, Proconsolato e proconsulare imperium tra I e III secolo d.C. Una breve ricognizione delle fonti, in «MEP» 23 (2020) 83 ss. J.L. Marquardt, L’administration romaine, Paris 1892. M. Marrone, L’efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile romano, in «AUPA» 24 (1955) 1 ss. M. Marrone, Sulla funzione delle «formulae praeiudiciales», in Scritti giuridici in onore di G. Salemi, Milano 1961, 121 ss. = in Id., Scritti giuridici. I (a cura di G. Falcone, Palermo 2003) 71 ss. A. Masi, Ricerche sulla ‘res privata’ del ‘princeps’, Milano 1971. 220

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Bibliografia Masi 1989 Masiello 1983 Mastino 1993

Matino 2012 Mazzarino 1988 Mentxaka 2006 Merola 2018 Metro 1983 Migliardi Zingale 1994 – 2004-2005 – 2005 – 2007 – 2017 Migliorati 2014 Milazzo 1999 – 2000 – 2002 – 2004 – 2007 – 2012 Millar 1964

A. Masi, in AA.VV., Lineamenti di storia del diritto romano, sotto la direzione di M. Talamanca, Milano 19892. T. Masiello, I libri excusationum di Erennio Modestino, Napoli 1983. A. Mastino, Tabularium principis e tabularia provinciali nel processo contro i Galillenses nella Barbaria sarda, in AA.VV., La Tavola di Esterzili: il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda. Convegno di studi, Esterzili 13 giugno 1992, Sassari 1993, 99 ss. G. Matino, Lex et scientia iuris. Aspetti della letteratura giuridica in lingua greca, Napoli 2012. S. Mazzarino, L’Impero romano, I, Roma-Bari 1988. R. Mentxaka, Lex rivi Hiberiensis, derecho de asociación y gobernador provincial, in «RIDRom» 6 (2006) 1 ss. G.D. Merola, La corrispondenza imperiale con le città greche, in «Historika» 8 (2018) 355 ss. A. Metro, Ancora su Isid., Etym. 5.24.14, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, III, Milano 1983, 451 ss. L. Migliardi Zingale, Introduzione allo studio della papirologia giuridica, Torino 19942. L. Migliardi Zingale, Sui libri di diritto romano conservati nelle fonti papirologiche: alcune riflessioni, in «MEP» 9-10 (2004-2005) 347 ss L. Migliardi Zingale, Libri di dottrina romana e fonti papirologiche: riflessioni in margine ad alcune recenti acquisizioni, in «AARC» 15 (2005) 221 ss. L. Migliardi Zingale, Catene di costituzioni imperiali nelle fonti papirologiche: brevi riflessioni, in «AARC» 16 (2007) 423 ss. L. Migliardi Zingale, rec. di M. Cursi, Le forme del libro. Dalla tavoletta cerata all’e-book, Bologna 2016, in «IAH» 9 (2017) 139 ss. G. Migliorati, Iscrizioni per la ricostruzione storica dell’impero romano: da Marco Aurelio a Commodo, Milano 2014. F. Milazzo, Giurare sulle leggi. Parte prima, Catania 1999. F. Milazzo, In legem non iurare. Indagine su Cic. p. Cluentio 91, 92, 96, in Quaestiones iuris. Festschrift für Joseph Georg Wolf zum 70. Geburtstag, Berlin 2000, 183 ss. F. Milazzo, Iurare in leges e altri giuramenti magistratuali nel Panegirico pliniano, in Iurisprudentia universalis. Festschrift für Theo Mayer-Maly z. 70. Geburtstag, Köln-Weimar-Wien 2002, 511 ss. F. Milazzo, Iurare in leges in due Scholia Pseudasconii?, in Panta rei. Studi in onore di Manlio Bellomo, IV, Roma 2004, 23 ss. F. Milazzo, Giurare “in legem” e “legi parere” nel de inventione, in Studi per Giovanni Nicosia, V, Milano 2007, 427 ss. F. Milazzo, Cic. de fin. 2.17.55: tanti problemi e un giuramento, in «IVRA» 60 (2012) 75 ss. F. Millar, A Study of Cassius Dio, Oxford 1964. 221

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Minale 2020 Minieri 2006 Möller 2018 Mommsen 1867 – 1889a – 1889b – 1892 – 1905 – 1907 – 1952 Monteverdi 2019 Morabito 1983-1984 Morgues 1995 – 1998 Mrozeck 2001 Musumeci 2020 Nasti 2006 – 2013 Navarra 2002 Nicolet 1989 Nicoletti 1981

V.M. Minale, La materia fedecommissaria tra giurisprudenza e legislazione. Un percorso attraverso l’opera di Volusio Meciano, Napoli 2020. L. Minieri, Un “altro” caso di normativa antincendio in diritto romano postclassico, in «DS» 5 (2006) (on line). C. Möller, Il regolamento di confini, in AA.VV., XII Tabulae. Testo e commento (a cura di M.F. Cursi), II, Napoli 2018, 449 ss. Th. Mommsen, Decret des Proconsuls von Sardinien L. Helvius Agrippa vom J. 68 n. Chr., in «Hermes» 2 (1867) 102 ss. Th. Mommsen, Die Benennungen der Constitutionensammlungen, in «ZSS» 10 (1889) 345 ss. Th. Mommsen, Sopra una iscrizione in Frigia, in «BIDR» 2 (1889) 130 ss. Th. Mommsen, Gordians Decret von Skaptoparene, in «ZSS» 12 (1892) 244 ss. = in Id., Gesammelte Schriften, II, Berlin 1905, 172 ss. Th. Mommsen, Gesammelte Schriften, II, Berlin 1905. Th. Mommen, Sui modi usati da’ Romani nel conservare e pubblicare le leggi ed i senatoconsulti, in Id., Gesammelte Schriften, III, Berlin 1907, 290 ss. Th. Mommsen, Römische Staatsrecht, II.2, rist. Basel 1952. D. Monteverdi, «Tabula picta», in «Index» 47 (2019) 103 ss. M. Morabito, Étude sur la composition du Conseil impérial d’Antonin le Pieux à Commode (138-193), in «Index» 12 (1983-1984) 316 ss. J.L. Morgues, Les formules “rescripsi” “recognovi” et les étapes de la rédaction des souscriptions impériales sous le Haut-empire romain, in «MEFRA» 107.1 (1995) 255 ss. J.L. Morgues, Forme diplomatique et pratique institutionnelle des commentari Augustorum, in AA.VV., La mémoire perdue. Recherches sur l’administration romaine, Roma 1998, 123 ss. S. Mrozek, Faenus. Studien zu Zinsproblemen zur Zeit des Prinzipats, Stuttgart 2001. F. Musumeci, Sugli ἀπόλιδες menzionati in due frammenti dei Digesta, in «AUPA» 63 (2020) 295 ss. F. Nasti, L’attività normativa di Severo Alessandro. I. Politica di governo. Riforme amministrative e giudiziarie, Napoli 2006. F. Nasti, La memoria della prima giurisprudenza nell’Enchiridion di Pomponio (D. 1.2.2.35-38), in Ead., Studi sulla tradizione giurisprudenziale romana. Età degli Antonini e dei Severi, Napoli 2013, 1 ss. L. Navarra, Ricerche sull’utilitas nel pensiero dei giuristi romani, Torino 2002. Cl. Nicolet, L’inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell’impero romano, Roma-Bari 1989. A. Nicoletti, Sulla politica legislativa di Gordiano III. Studi, Napoli 1981. 222

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Bibliografia Nicosia 1998

Niemann, Petersen, Lanckoronski 1893 Noailles 1912 Nocera 1946 – 1989 – 2002 Nörr 1963 – 1966 – 1981 = 2005 – 2008 Nuzzo 1996 Oliver 1972 Orestano 1957

– 1962 – 1966 Ormanni 1960 Palazzolo 1974 – 1977

G. Nicosia, Concezione giurisprudenziale del diritto e compilazioni postclassiche, in Id., Silloge, II, Catania 1998, 495 ss. = in AA.VV., La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana. Atti Convegno Pavia 1985, Padova 1987, 203 ss. G. Niemann, E. Petersen, C, Lanckoronski, Les villes de la Pamphylie et de la Pisidie. II. La Pisidie, Paris 1893. P. Noailles, Les collections de Novelles de l’empereur Justinien. I. Origine et formation sous Justinien, Paris 1912. G. Nocera, «Jus publicum»: (D. 2.14.38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle «Regulae iuris», Roma 1946. G. Nocera, Il binomio pubblico-privato nella storia del diritto, Napoli 1989. G. Nocera, Ius publicum e ius privatum secondo l’esegesi di Max Kaser, in «SDHI» 68 (2002) 1 ss. D. Nörr, Origo. Studien zur Orts-, Stadt- und Reichszugehörigkeit in der Antike, in «RHD/TR» 31 (1963) 566 ss. D. Nörr, Imperium und Polis in der hohen Prinzipatszeit, München 1966 D. Nörr, Zur Reskriptenpraxis in der hohen Prinzipatszeit, in «ZSS» 98 (1981) 1 ss. = in Id., Historiae iuris Antiqui. Gesammelte Schriften, III, Goldbach 2005, 1501 ss. D. Nörr, Prozessuales (und mehr) in der Lex rivi Hiberiensis, in «ZSS» 125 (2008) 108 ss. D. Nuzzo, Impiego e reimpiego di materiale epigrafico nella basilica cristiana di Pianabella (Ostia), in «VetChr» 33 (1996) 85 ss. J.H. Oliver, Text of the Tabula Banasitana, A.D. 177, in «AJPh» 93 (1972) 336 ss. R. Orestano, s.v. «Papirio Giusto (Papirius Iustus)», in «NNDI» XII, Torino 1957, 366 = in Id., Scritti. V. Sezione seconda. Voci enciclopediche (con una nota di lettura di A. Mantello), Napoli 2000, 48. R. Orestano, Il potere normativo degli imperatori e le costituzioni imperiali. Contributo alla teoria delle fonti del diritto nel periodo romano classico, Torino 1962. R. Orestano, L’appello civile in diritto romano, Torino 19662. A. Ormanni, s.v. «Curia, curiali», in «NNDI» V, Torino 1960, 56 ss. N. Palazzolo, Potere imperiale ed organi giurisdizionali nel II secolo d.C. L’efficacia processuale dei rescritti imperiali da Adriano ai Severi, Milano 1974. N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province (II-III sec. d.C.), in «IVRA» 28 (1977) 40 ss. = in Id., IVS e TEXNH. Dal diritto romano all’informatica giuridica. Scritti di N. Palazzolo. I. Diritto romano, Torino 2008, 194 ss. 223

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Palazzolo 1991 – 1998

Palma 1980 Pavis d’Escurac 1976 Pecere 1993 Peppe 1981 Pereira-Menaut 2004 Pernice 1885 Perozzi 1947 Perrot 1907 Petrucci 2002 Pflaum 1960-1961 Piacente 2012 Pontoriero 2019 Preisigke 1917 Pringsheim 1920 – 1933 Procchi 2020 Puliatti 1992 – 2020 Purpura 1976

N. Palazzolo, Processo civile e politica giudiziaria nel principato. Lezioni di diritto romano (seconda ed. riveduta ed aggiornata), Torino 1991. N. Palazzolo, L’attività normativa del principe nelle sistematiche dei giuristi classici, in AA.VV., La codificazione del diritto dall’antico al moderno. Incontri di studio – Napoli, gennaio-novembre 1996. Atti, Napoli 1998, 263 ss. A. Palma, Le ‘curae’ pubbliche. Studi sulle strutture amministrative romane, Napoli 1980. H. Pavis d’Escurac, La préfecture de l’annone. Service administratif impérial d’Auguste à Costantin, Rome 1976. O. Pecere, I meccanismi della tradizione testuale, in AA.VV., Lo spazio letterario di Roma antica. III. La ricezione del testo (dir. G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina), Roma 1993, 302 ss. L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale. I. Debiti e debitori nei primi due secoli della repubblica romana, Milano 1981. G. Pereira-Menaut, Che cos’è un munus?, in «Athenaeum» 92 (2004) 169 ss. A. Pernice, Ulpian als Schriftsteller, Urbana-Champaign 1885. S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, I, Milano 19472. E. Perrot, L’appel dans la procedure de l’ordo iudiciorum, Paris 1907. A. Petrucci, Profili giuridici delle attività e dell’organizzazione delle banche romane, Torino 2002. H.G. Pflaum, Les carrières procuratoriennes équestres sous le HautEmpire romain, I, Paris 1960-1961. D.V. Piacente, Aurelio Arcadio Carisio. Un giurista tardoantico, Bari 2012. I. Pontoriero, Iulius Paulus. Ad edictum libri I-III (a cura di G. Luchetti, A.L. de Petris, F. Mattioli, I. Pontoriero), Roma 2019, 3 ss. F. Preisigke, Die Inschrift von Skaptoparene in ihrer Beziehung zur kaiserliche Kanzlei in Rom, in «SWGS» 30 (1917) 55 ss. F. Pringsheim, Subsidiarität und Insolvenz, in «ZSS» 41 (1920) 252 ss. F. Pringsheim, Liberalitas, in Studi in memoria di E. Albertario, I, Milano 1933, 661 ss. F. Procchi, Profili giuridici delle insulae a Roma antica. I. Contesto urbano, esigenze abitative ed investimenti immobiliari tra tarda repubblica e alto impero, Torino 2020. S. Puliatti, Il «De iure fisci» di Callistrato e il processo fiscale in età severiana, Milano 1992. Callistratus. Opera, Roma 2020. G. Purpura, Il papiro BGU. 611 e la genesi del SC. Turpilliano, in «AUPA» 36 (1976) 228 ss. 224

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Bibliografia Purpura 1992a – 1992b – 1999 – 2012

Quadrato 2006

Raggi 1965 Rainer 1988 – 2020

Rampazzo 2011 Reinmuth 1935 Reinoso-Barbero 2010 Riccobono 1938 Rinaudo 2015 Ritter 1736 Rizzi 2012 Roberts, Skeat 1987 Rodaro 2010

G. Purpura, Gli editti dei prefetti d’Egitto. I sec. a.C. – I sec. d.C., in «AUPA» 42 (1992) 487 ss. G. Purpura, Dalle raccolte di precedenti alle codificazioni postclassiche: alcune testimonianze papiracee, in «AUPA» 42 (1992) 675 ss. G. Purpura, Diritto, papiri e scrittura, Torino 19992. G. Purpura, Tabula Banasitana de viritana civitate, in AA.VV., Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA). Studi preparatori. I. Leges (a cura di G. Purpura), Torino 2012, 625 ss. R. Quadrato, Province e provinciali: il cosmopolitismo di Gaio, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione. «Cinquant’anni della Corte Costituzionale della Repubblica italiana» (dir. L. Labruna, a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), II, Napoli 2006, 1097 ss. = in Id., Gaius dixit. La voce di un giurista di frontiera, Bari 2010, 265 ss. L. Raggi, La restitutio in integrum nella cognitio extra ordinem. Contributo allo studio dei rapporti tra diritto pretorio e diritto imperiale in età classica, Milano 1965. J.M. Rainer, Der Paries communis im klassischen römischen Recht, in «ZSS» 105 (1988) 488 ss. J.M. Rainer, rec. di V. Einheuser, Studien zur lex rivi Hiberiensis. Zur Rechtsdurchsetzung innerhalb einer Bewässerungsgemeinschaft im 2. Jh. n. Chr., Wiesbaden 2017, in «IVRA» 68 (2020) 509 ss. N. Rampazzo, La «nominatio» e la responsabilità dei magistrati municipali, in «Index» 39 (2011) 357 ss. O.W. Reinmuth, The Praefects of Egypt from Augustus to Diocletian, Leipzig 1935. F. Reinoso-Barbero, Entropía en las obras jurisprudenciales de Digesto, in «IVRA» 58 (2010) 101 ss. S. Riccobono, s.v. «Jurisprudentia», in «NDI» VII, 1938, 1 ss. (estr.). A. Rinaudo, Il prezzo nelle vendite fiscali tra I e III secolo d.C. Profili giuridici ed economici, Napoli 2015. J.D. Ritter, Prolegomena ad Codicem Theodosianum, in I. Gothofredus, Codex Theodosianus cum perpetuis commentariis, I, Lipsia 1736. M. Rizzi, Imperator cognoscens decrevit. Profili e contenuti dell’attività giudiziaria imperiale in età classica, Milano 2012. C.H. Roberts, T.C. Skeat, The Birth of the Codex, Oxford 1987. S. Rodaro, Le costituzioni geminae (o costituzioni geminatae) nel Codex Repetitae Praelectionis di Giustiniano, in «AARC» 17 (2010) II, 939 ss. 225

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Röhle 1981 Rosafio 2002 Rotondi 1912 – 1922a – 1922b – 1934

Roussier 1953 Rouveyrol 2006

Rudorff 1857 Ruggiero 1983 Ruggiero 2017 Saccoccio 2013 Salerno 1990 Salmeri 1999 Samonati 1942 Samper 1978 Sanders 1938 Sanfilippo 1938 Santalucia 1971 – 1998 – 2016

R. Röhle, D.49.1.21.3: populi traherentur?, in « RHD/TR» 49 (1981) 159 ss. P. Rosafio, Studi sul colonato, Bari 2002. G. Rotondi, Leges publicae populi romani, Milano 1912. G. Rotondi, Studi sulle fonti del codice giustinianeo, in Id., Scritti giuridici. I. Studii sulla storia delle fonti e sul diritto pubblico romano, Milano 1922, 110 ss. G. Rotondi, L’Indice fiorentino delle Pandette e l’ipotesi del Bluhme, in Id., Scritti Giuridici. I. Studii sulla storia delle fonti e sul diritto pubblico romano, Milano 1922, 298 ss. G. Rotondi, Bonorum venditio (Lineamenti), in Per il XIV Centenario della Codificazione giustinianea. Studi di diritto pubblicati dalla Facoltà di Giurisprudenza di Pavia (a cura di P. Ciapessoni), Pavia 1934, 95 ss. J. Roussier, La pollicitatio pecuniae, in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz nel XLV anno del suo insegnamento, II, Napoli 1952, 31 ss. M.O. Rouveyrol, L’intégration à l’ordo decurionum, une doctrine fondée sur des sources ambiguës, in AA.VV., Gli statuti municipali (a cura di L. Capogrossi Colognesi ed E. Gabba), Pavia 2006, 133 ss. A.F. Rudorff, Römische Rechtsgeschichte, I, Leipzig 1857. A. Ruggiero, L. Volusio Meciano tra giurisprudenza e burocrazia, Napoli 1983. I. Ruggiero, Ricerche sulle Pauli Sententiae, Milano 2017. A. Saccoccio, La tutela dei beni comuni. Per un recupero delle azioni popolari romane come mezzo di difesa delle «res communes omnium» e delle «res in usu publico», in «DS» 11 (2013) (on line). F. Salerno, Dalla consecratio alla publicatio bonorum, Milano 1990. G. Salmeri, La vita politica in Asia Minore sotto l’impero romano nei discorsi di Dione di Prusa, in «SCO» 12 (1999) 211 ss. G. Samonati, s.v. «Libellus», in «DEAR» IV, fasc. 1, Roma 1942, 801 ss. F. Samper, Rescriptos preadrianeos, in Estudios jurídicos en homenaje al profesor U. Álvarez Suárez, Madrid 1978, 465 ss. H.A. Sanders, The Beginnings of the Modern Books, in «MQR» 44 (1938) 95 ss. C. Sanfilippo, Pauli decretorum libri tres, Milano 1938. B. Santalucia, I «libri opinionum» di Ulpiano, I-II, Milano 1971. B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 19982. B. Santalucia, Consilium semenstre, in AA.VV., Studi su Augusto. In occasione del XX centenario della morte (a cura di G. Negri e A. Valvo), Torino 2016, 115 ss. 226

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Bibliografia Santini 2016 Sargenti 2011 Sartori 1989 Scapini 1978 Scarano Ussani 1976

– 1979 – 1987 – 1989 – 1992 Scarlata Fazio 1939a – 1939b – 1964 Schemmel 1923 Scherillo 1953a – 1953b – 1959 Schiavon 2011

Schiavone 1993

– 1994

P. Santini, «De loco publico fruendo». Sulle tracce di un interdetto, Napoli 2016. M. Sargenti, Problemi di vita municipale nella normativa imperiale da Traiano ai Severi, in Id., Scritti di Manlio Sargenti (1947-2006), Napoli 2011, 891 ss. M. Sartori, Osservazioni sul ruolo del curator rei publicae, in «Athenaeum» 67 (1989) 5 ss. N. Scapini, Il ius novorum nell’appello civile romano, in «SP» 21 (1978) 3 ss. V. Scarano Ussani, Diritto e politica nell’origine della «bonorum distractio ex senatus consulto», in «Labeo» 22 (1976) 178 ss. = in Id., Le forme del privilegio. Beneficia e privilegia tra Cesare e gli Antonini, Napoli 1992, 105 ss. V. Scarano Ussani, Valori e storia nella cultura giuridica fra Nerva e Adriano. Studi su Nerazio e Celso, Napoli 1979. V. Scarano Ussani, L’utilità e la certezza. Compiti e modelli del sapere giuridico in Salvio Giuliano, Milano 1987. V. Scarano Ussani, Empiria e dogmi. La scuola proculiana fra Nerva e Adriano, Torino 1989. V. Scarano Ussani, Le forme del privilegio. Beneficia e privilegia tra Cesare e gli Antonini, Napoli 1992. M. Scarlata Fazio, Brevi osservazioni sull’opera di Papirio Giusto “Constitutionum l. XX”, in «SDHI» 5 (1939) 414 ss. M. Scarlata Fazio, Principii vecchi e nuovi di diritto privato nell’attività giurisdizionale dei «Divi Fratres», Catania 1939. M. Scarlata Fazio, s.v. «Distanze legali (diritto romano)», in «ED» XIII, Milano 1964, 279 ss. F. Schemmel, Die Schule von Berytus, in «PhilolWochenschr» 43 (1923) 236 ss. G. Scherillo, La «bonorum venditio» come figura di «successio», in «IVRA» 4 (1953) 205 ss. G. Scherillo, Appunti sulla «sectio bonorum», in «IVRA» 4 (1953) 197 ss. G. Scherillo, s.v. «Confarreatio», in «NNDI» IV, Torino 1959, 1 ss. A. Schiavon, Acqua e diritto romano: invenzione di un modello?, in AA.VV., L’acqua e il diritto. Atti del convegno tenutosi presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento (2 febbraio 2011), Trento 2011. A. Schiavone, Dai giuristi ai codici. Letteratura giuridica e legislazione nel mondo tardoantico, in AA.VV., Storia di Roma. 3. L’età tardoantica. II. I luoghi e le culture (dir. A. Schiavone), Torino 1993, 963 ss. A. Schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994. 227

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Schiavone 2002 – 2017 – 2018 – 2019

Schmiedel 1966 Schubart 1921 Schulz 1961 Schuol 2010

Schwalbach 1886 Schwind 1940 Scofone 1984-1985 Seeck 1900 – 1921 Segre 1938 Serrano Delgado 1987 Seston, Euzennat 1971 Sherk 1969 Sherwin-White 1973 – 1985 Sijpesteijn 1971

A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Roma-Bari 20022. A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 20172. A. Schiavone, Astrarre, distinguere, regolare. Forme giuridiche e ordine teologico, in J.-L. Ferrary, A. Schiavone, E. Stolfi, Quintus Mucius Scevola. Opera, «SIR» 1, Roma 2018, 56 ss. A. Schiavone, I giuristi romani nel laboratorio del diritto moderno, in AA.VV., Pensiero giuridico occidentale e giuristi romani. Eredità e genealogie (a cura di P. Bonin, N. Hakim, F. Nasti, A. Schiavone), Torino 2019, 1 ss. B. Schmiedel, Consuetudo im klassischen und nachklassischen römischen Recht, Graz-Köln 1966. W. Schubart, Das Buch bei den Griechen und Römern, Berlin 19212. F. Schulz, Geschichte der Römischen Rechtswissenschaft, Weimar 1961 = Id., Storia della giurisprudenza romana, trad. it. G. Nocera, Firenze 1968. M. Schuol, Die Rechtsschule in Berytus: römische Jurisprudenz im Vorderem Orient, in AA.VV., Interkulturalität in der alten Welt. Vorderasien, Hellas, Ägypten und die vielfältigen Ebenen des Kontakts (hrsg. R. Rollinger, B. Gufler, M. Langer, I. Madreiter), Wiesbaden 2010, 161 ss. T. Schwalbach, Über ungultige Urtheile und die consumirende Wirkung der Litiscontestation, in «ZSS» 7.1 (1886) 113 ss. F. Schwind, Zur Frage der Publikation im römischen Recht, München 1940. C. Scofone, Abusi edilizi nella Costantinopoli di Giustiniano: a proposito di Nov. 63, in «AUGE» 20 (1984-1985) 150 ss. O. Seeck, s.v. «Codicilli», in «PWRE» IV.1, Stuttgart 1900, c. 174 ss. O. Seeck, s.v. «Scrinium», in «PWRE» II.A1, Stuttgart 1921, c. 893 ss. M. Segre, Una dedica a Commodo, in «BSRAA» 32 (1938) 138 ss. J.M. Serrano Delgado, rec. di F. Jacques, Le privilège de liberté, Rome 1984, in «Emerita» 55 (1987) 176 ss. W. Seston, M. Euzennat, Un dossier de la Cancellerie romaine: la Tabula Banasitana. Étude de diplomatique, Paris 1971, 486 ss. = in Id., Scripta varia, Roma 1980, 103 ss. R.K. Sherk, Roman Documents from the Greek East, London 1969. A.N. Sherwin-White, The «Tabula» of «Banasa» and the «Constitutio Antoniniana», in «JRS» 63 (1973) 86 ss. A.N. Sherwin-White, The Letters of Pliny. A Historical and social Commentary, reissued with corrections, Oxford 1985. P.J. Sijpesteijn, Edict of C. Calvisius Statianus. P. Amsterdam Inv. 22, in «ZPE» 8 (1971) 188 ss. 228

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Bibliografia Simshäuser 1973 Sini 2008 Sirks 1998 – 1999

Sitzia 1988 Solazzi 1905 – 1921 – 1927 – 1938 – 1940 – 1941 – 1950 – 1955 Solidoro Maruotti 1997 Spagnuolo Vigorita 1978 – 1993 – 1996 Spagnuolo Vigorita, Marotta 1992

Spallone 2008

W. Simshäuser, Iuridici und Munizipalgerichtsbarkeit in Italien, München 1973. F. Sini, Persone e cose: «res communes omnium». Prospettive sistematiche tra diritto romano e tradizione romanistica, in «DS» 7 (2008) (on line). B. Sirks, The Management of Public Loans of Towns (the cura kalendarii) and of their finances in general, in «AARC» XII, Napoli 1998, 380 ss. B. Sirks, On the Emperor’s Service. The corpus pistorum of Ostia and Portus Uterque from the Juridical Perspective, in AA.VV., The Mills-Bakeries of Ostia. Description and Interpretation, Amsterdam 1999, 101 ss. F. Sitzia, s.v. «Promessa unilaterale», in «ED» XXXVII, Milano 1988, 23 ss. S. Solazzi, L’editto de fructu praediorum vendendo locandove, in Studi in onore di V. Scialoja, I, Milano 1905, 663 ss. S. Solazzi, Appunti critici su testi di diritto romano, in «RIL» 54 (1921) 179 ss. = in Id., Scritti di diritto romano. II. (1913-1924), Napoli 1957, 383 ss. S. Solazzi, Studi sulla tutela, II, Modena 1926. S. Solazzi, Il concorso dei creditori nel diritto romano, II, Napoli 1938. S. Solazzi, Il concorso dei creditori, III, Napoli 1940. S. Solazzi, «Usus proprius», in «SDHI» 7 (1941) 373 ss. = in Id., Scritti di diritto romano. IV. (1938-1947), Napoli 1963, 205 ss. S. Solazzi, La compensazione nel diritto romano, Napoli 1950. S. Solazzi, «In tema di bonorum venditio», in «IVRA» 6 (1955) 78 ss. = in Id., Scritti di diritto romano. V. (1947-1956), Napoli 1972, 609 ss. L. Solidoro Maruotti, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale, in «Index» 25 (1997) 555 ss. T. Spagnuolo Vigorita, Secta temporum meorum. Rinnovamento politico e legislazione fiscale agli inizi del principato di Gordiano III, Palermo 1978. T. Spagnuolo Vigorita, Cittadini e sudditi tra II e III secolo, in AA.VV., Storia di Roma. 3. L’età tardoantica. I. Crisi e trasformazioni (dir. A. Schiavone), Torino 1993, 5 ss. T. Spagnuolo Vigorita, Città e impero. Un seminario sul pluralismo cittadino nell’impero romano, Napoli 1996. T. Spagnuolo Vigorita, V. Marotta, La legislazione imperiale. Forme e orientamenti, in AA.VV., Storia di Roma. 2. L’impero mediterraneo. III. La cultura e l’impero (dir. A. Schiavone), Torino 1992, 85 ss. M. Spallone, Giurisprudenza romana e storia del libro, Roma 2008. 229

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Sperandio 2001 – 2005 Stein 1905 – 1939 – 1950 Stein 1995 Steinwenter 1939 Stolfi 2004 – 2011

Talamanca 1955 – 1976

– 1977 – 1989 – 1990a – 1990b – 2001

– 2006

Talbert 1984

M.U. Sperandio, Il Codex delle leggi imperiali, in Iuris Vincula. Scritti in onore di M. Talamanca, VIII, Napoli 2001, 97 ss. M.U. Sperandio, Codex Gregorianus. Origini e vicende, Napoli 2005. A. Stein, Die Stenographie im römischen Senat, in «ArchSten» 56 (1905) 177 ss. A. Stein, Die Präfekten von Ägypten unter Commodus, in «Aegyptus» 19 (1939) 215 ss. A. Stein, Die Präfekten von Ägypten in der römischen Kaiserzeit, Bern 1950. P. Stein, Ulpian and the Distinction between ius publicum and ius privatum, in Collatio Iuris Romani. Études dédiées à H. Ankum, II, Amsterdam 1995, 499 ss. A. Steinwenter, Utilitas publica-utilitas singulorum, in Festschrift für P. Koschaker zum 60. Geburtstag, I, Weimar 1939, 84 ss. E. Stolfi, Lex est ...virorum prudentium consultum ... Osservazioni su (Pap. 1 defin.) D. 1.3.1, in «SDHI» 70 (2004) 441 ss. E. Stolfi, Immagini di ‘officia’ e compiti magistratuali nell’elaborazione della giurisprudenza antoniniana, in AA.VV., Giuristi e officium. L’elaborazione giurisprudenziale di regole per l’esercizio del potere fra II e III secolo d.C. (a cura di E. Stolfi), Napoli 2011, 7 ss. M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico, in «Atti Acc. Naz. Lincei, cl. sc. morali. Memorie», ser. VIII, vol. VI, f. 2, Roma 1955, 35 ss. M. Talamanca, Gli ordinamenti provinciali nella prospettiva dei giuristi tardoclassici, in AA.VV., Istituzioni giuridiche e realtà politiche nel tardo impero (III-V sec. d.C.). Atti di un incontro tra storici e giuristi, Firenze, 2-4 maggio 1974 (a cura di G.G. Archi), Milano 1976, 95 ss. M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in «BIDR» 80 (1977) 302 ss. M. Talamanca, in Storia del diritto romano (sotto la direzione di), Milano 1989². M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990. M. Talamanca, rec. di L. Fanizza, Delatori e accusatori, Roma 1988, in «BIDR» 92-93 (1989-90) 696 ss. M. Talamanca, Particolarismo normativo ed unità della cultura giuridica nell’esperienza romana, in AA.VV., Diritto generale e diritti particolari nell’esperienza storica. Atti del Congresso Intern. della Società Italiana di Storia del Diritto (Torino, 19-21 novembre 1998), Roma 2001, 76 ss. M. Talamanca, Aulo Gellio ed i ‘municipes’. Per un’esegesi di ‘noctes Atticae’ 16.3, in AA.VV., Gli Statuti Municipali (a cura di L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba), Pavia 2006, 443 ss. R.J.A. Talbert, The Senate of Imperial Rome, Princeton 1984. 230

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Bibliografia Taubenschlag 1934 Thomasson 1984 Torelli 1982 Torrent 1982 – 2012 – 2013 Townend 1961 Trisciuoglio 2015 Tuccillo 2009 Vacca 1989 Vallocchia 2016a – 2016b – 2020 Van der Wal 1973

Varvaro 2007 Verrico 2017 Viarengo 2012 – 2015 Vignali 1859 Voci 1963 – 1967 – 1970

R. Taubenschlag, s.v. «Tergiversatio», in «PWRE» V.A1, Stuttgart 1934, c. 723 s. B.E. Thomasson, Laterculi praesidum, Ghotenburg 1984. M. Torelli, Typology and Structure of Roman Historical Relief, Ann Arbor 1982. A. Torrent, Derecho romano y sistema de fuentes, Barcelona 1982. A. Torrent, Las acciones populares en la lex rivi Hiberiensis, in «RIDRom» 9 (2012) 104 ss. A. Torrent, Lex rivi Hiberiensis: desde el proceso formulario a la cognitio extra ordinem, in «Index» 41 (2013) 437 ss. G.B. Townend, The Post of ab epistulis in the Second Century, in «Historia» 10 (1961) 375 ss. A. Trisciuoglio, Actividad bancaria de las ciudades en la época clásica (siglos I-III), in «RIDRom» 14 (2015) 84 ss. F. Tuccillo, Studi su costituzione ed estinzione delle servitù nel diritto romano. Usus, scientia, patientia, Napoli 2009. L. Vacca, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, Torino 1989. F. Vallocchia, Un manoscritto inedito di Emilio Albertario sulle ‘usurae’ nel diritto romano (a cura di F. Vallocchia), Napoli 2016. F. Vallocchia, Qualche riflessione su publicum-privatum in diritto romano, in «RISG» n.s. 7 (2016) 415 ss. F. Vallocchia, Città e risorse tra attività economiche e pubblica utilità, in «Koinonia» 44/II (2020) 1559 ss. N. Van der Wal, La constitution de Zénon περί καινοτομιῶν et sa place dans le Code de Justinien, in Xenion. Festschrift für P.J. Zepos, I, Athenai-Köln 1973, 725 ss. M. Varvaro, Note sugli archivi imperiali nell’età del principato, in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di L. Labruna, VIII, Napoli 2007, 5767 ss. = Id., in «AUPA» 51 (2006) 381 ss. F. Verrico, Le commissioni di redazione dei senatoconsulti (qui scribundo adfuerunt): i segni della crisi e le riforme di Augusto, in «CCG» 28 (2017) 31 ss. G. Viarengo, Studi su Erennio Modestino. Metodologie e opere per l’insegnamento del diritto, Torino 2012. G. Viarengo, Studi sulla tutela dei minori, Torino 2015. G. Vignali, Corpo del diritto, VI, Napoli 1859. P. Voci, Diritto ereditario romano. Parte speciale, II, Milano 19632. P. Voci, Diritto ereditario romano. Parte generale, I, Milano 19672. P. Voci, La responsabilità dei contutori e degli amministratori cittadini. Contributo allo studio della mutua garanzia, in «IVRA» 21 (1970) 71 ss. = Id., in Studi in memoria di G. Donatuti, III, Milano 1973, 1305 ss.; e in Id., Studi di diritto romano, I, Padova 1985, 481 ss. 231

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Voci 1985 Volterra 1991a – 1991b

– 1991c – 1991d

– 1993a

– 1993b

– 1993c – 1993d – 1994

von Beseler 1925 – 1930 – 1933 – 1934 von Premerstein 1900

P. Voci, Note sull’efficacia delle costituzioni imperiali 1. Dal Principato alla fine del IV secolo, in Id., Studi di diritto romano, II, Padova 1985, 351 ss. E. Volterra, La conception du mariage d’après les juristes romains, Padova 1940, 1 ss. = in Id., Scritti giuridici. II. Famiglia e successioni (con una nota di M. Talamanca), Napoli 1991, 3 ss. E. Volterra, Nuove ricerche sulla «conventio in manum», in «Atti Accademia dei Lincei» 12, fasc. 4 (1966) 251 ss. = in Id., Scritti giuridici. III. Famiglia e successioni (con una nota di M. Talamanca), Napoli 1991, 3 ss. E. Volterra, s.v. «Matrimonio (diritto romano)», in «ED» XXV, Milano 1975, 726 ss. = in Id., Scritti giuridici. III. Famiglia e successioni (con una nota di M. Talamanca), Napoli 1991, 223 ss. E. Volterra, La Tabula Banasitana. A proposito di una recente pubblicazione, in «BIDR» 77 (1974) 407 ss. = in Id., Scritti giuridici. III. Famiglia e successioni (con una nota di M. Talamanca), Napoli 1991, 309 ss. E. Volterra, L’efficacia delle costituzioni imperiali emanate per le provincie e l’istituto dell’expositio, in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta per il XL anno del suo insegnamento, I, Milano 1939, 451 ss. = in Id., Scritti giuridici. IV. Le fonti (con una nota di M. Talamanca), Napoli 1993, 391 ss. E. Volterra, L’ouvrage de Papirius Justus Constitutionum libri XX, in Symbolae iuridicae et historicae Martino David dedicatae (éds. J.A. Ankum, R. Feenstra, W.F. Leemans), I, Leiden 1968, 216 ss. = in Id., Scritti giuridici. V. Le fonti (con una nota di M. Talamanca), Napoli 1993, 165 ss. E. Volterra, s.v. «Senatusconsulta», in «NNDI» XVI, Torino 1969, 1047 ss. = in Id., Scritti giuridici. V. Le fonti (con una nota di M. Talamanca), Napoli 1993, 193 ss. E. Volterra, L’opera di Erennio Modestino De excusationibus, in Id., Scritti giuridici. V. Le fonti (con una nota di M. Talamanca), Napoli 1993, 305 ss. E. Volterra, Il problema del testo delle costituzioni imperiali, in Atti del II Congresso internazionale della Società italiana di storia del diritto, Venezia, 18-22 settembre 1967, Firenze 1971, 961 ss. = in Id., Scritti giuridici. VI. Le fonti (con una nota di M. Talamanca), Napoli 1994, 143 ss. G. von Beseler, Et (atque) ideo, et (atque) idcirco, ideoque, idcircoque, in «ZSS» 45 (1925) 456 ss. G. von Beseler, Romanistische Studien, in «ZSS» 50 (1930) 30 ss. G. von Beseler, Textkritische Studien, in «ZSS» 53 (1933) 1 ss. G. von Beseler, Romanistische Studien, in «ZSS» 54 (1934) 1 ss. A. von Premerstein, s.v. «Commentarii», in «PWRE» IV, Stuttgart 1900, c. 726 ss. 232

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Bibliografia von Premerstein 1926a – 1926b Waldstein 1964 Waltzing 1900 Watson 1985 Weber 1967 Wenger 1925 – 1953 Wesel 1968 Whittaker 1964 Wieacker 1960 Wilcken 1894 – 1920 Williams 1974 – 1976a – 1976b Wolff 1952 – 1987 Zaera García 2007 Zuddas 2017

A. von Premerstein, s.v. «a libellis», in «PWRE» XIII, Stuttgart 1926, c. 22 ss. A. von Premerstein, s.v. «Libellus», in «PWRE» XIII, Stuttgart 1926, c. 26 ss. W. Waldstein, Untersuchungen zur römischen Begnädigungsrecht: abolitio, indulgentia, venia, Innsbruck 1964. J.P. Waltzing, Étude historique sur le corporations professionnelles chez les Romains depuis les origines jusqu’à la chute de l’empire d’Occident, IV, Louvain 1900. A. Watson, The Digest of Justinian IV, Philadelphia 1985. W. Weber, Gli Antonini, in «CAH» XI.1, Milano 1967, 363 ss. L. Wenger, Institutionen des römischen Zivilprozessrechts, München 1925. L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953. U. Wesel, Zur dinglichen Wirkung der Rücktrittsvorbehalte des römischen Kaufs, in «ZSS» 85 (1968) 94 ss. C.R. Whittaker, The Revolt of Papirius Dionysius AD 190, in «Historia» 13 (1964) 348 ss. F. Wieacker, Textstufen klassischer Juristen, Göttingen 1960. U. Wilcken, ὑπομνήματισμόι, in «Philologus» 53 (1894) 80 ss. U. Wilcken, Zu den Kaiserresckripten, in «Hermes» 55 (1920) 1 ss. W. Williams, The Libellus Procedure and the Severan Papyri, in «JRS» 64 (1974) 86 ss. W. Williams, Individuality in the Imperial Constitutions: Hadrian and the Antonines, in «JRS» 66 (1976) 67 ss. W. Williams, Two Imperial Pronouncements Reclassified, in «ZPE» 22 (1976) 235 ss. H.J. Wolff, Vorgregorianische Reskriptensammlungen, in «ZSS» 69 (1952) 128 ss. H.J. Wolff, rec. di Th. Spitzl, Lex municipii Malacitani, München 1985, in «ZSS» 117 (1987) 723 ss. A. Zaera García, Sobre el ambitus aedium en la experiencia jurídica romana, in Studi per Giovanni Nicosia, VIII, Milano 2007, 487 ss. E. Zuddas, Curae municipali da Ameria e dall’Umbria, in Le Curae cittadine nell’Italia romana. Atti del convegno, Siena 18-19 aprile 2016 (a cura di M.G. Granino Cecere), Roma 2017, 133 ss.

233

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ABBREVIAZIONI

«AARC» «AAST» «AÉ» «AG» «AHDE» «AJPh» «ANA» «ANRW» «ArchSten.» «AS» «ASGC» «AUFE» «AUGE» «AUPA» «BIA» «BIDR» «BSRAA» «CAH» «CCG» «DAGR» «DEAR» «DNP» «DS» «ED» «IAH» «JJP» «JRS» «MEFRA» «MEP» «MQR» «Materiali» «NDI» «NNDI»

Atti Accademia Romanistica Costantiniana Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino Année Épigraphique Archivio Giuridico F. Serafini Anuario de Historia de Derecho Español American Journal of Philology Atti dell’Accademia delle Scienze morali e politiche di Napoli Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt Archive für Stenopgraphie Ancient Society Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Catania Annali dell’Università di Ferrara Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Genova Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo Bibliotheca Iuris Antiqui. Sistema informativo integrato sui diritti dell’Antichità Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano “Vittorio Scialoja” Bulletin de la Société Royale d’Archéologie d’Alexandrie The Cambridge Ancient History Cahiers du Centre Gustave Glotz Daremberg-Saglio, Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines Dizionario epigrafico di Antichità Romane Der Neue Pauly Diritto@Storia Enciclopedia del diritto Iuris Antiqui Historia The Journal of Juristic Papyrology Journal of Roman Studies Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité Minima Epigraphica et Papirologica Michigan Alumnus Quarterly Review Materiali per una storia della cultura giuridica Nuovo Digesto Italiano Novissimo Digesto Italiano 235

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«PIR» «PWRE» «QL» «RDN» «RGDR» «RHD/TR» «RIDRom» «RIL» «RISG» «RSA» «RSDI» «RSE» «SAIA» «SCO» «SCDR» «SDHI» «SHHA» «SP» «STest» «SWGS» «TSDP» «VetChr» «ZPE» «ZRG» «ZSS»

Prosopographia Imperii Romani Pauly-Wissowa Realencyclopädie Quaderni Lupiensi Rivista di Diritto della Navigazione Revista General de Derecho Romano Revue Historique du Droit français et Étranger/Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis Revista Internacional de Derecho Romano Rendiconto dell’Istituto Lombardo Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche Rivista Storica dell’Antichità Rivista di Storia del Diritto Italiano Rivista Scienze Economiche Scuola Archeologica Italiana di Atene Studi Classici e Orientali Seminarios Complutenses de Derecho romano Studia et Documenta Historiae et Iuris Studia Historica Historia Antigua Studi Parmensi Segno e Testo Schriften der Wissenschaftlichen Gesellschaft in Strassburg Teoria e Storia del diritto privato Vetera Christianorum Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Zeitschrift für Rechtsgeschichte Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte – Romanistische Abteilung

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FONTI ANTICHE

TRADIZIONE MANOSCRITTA

Aelianus Varia historia 115

18.64

Appianus Bella civilia 3.5

52

Asconius In Milonianam 29 (ed. Clark 33)

94.30

Basilica 9.7.49 38.12.4

112 112

Basilicorum Scholia 11.1.45.1 (Heimbach I, 631; Scheltema B, 295/22-25) 38.12.4

88 112

237

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Cassius Dio Historiae Romanae 44.53 53.21.4-5 56.28.2-3 71(72).28.3 71(72).36 71(72).36.4 72(73).13-14 72(73).13.2 72 (73).14.3

[T. 4] [T. 5]

52 90.11 90.11 23.88 27.109 5.11 19.71 17; 33 33

Cato De agri cultura 40.2

91

De sumptu suo (ORF3, frg. 133) 51.169

97; 97.49

Cicero I. Orationes De domo sua 28.74

92.21

In Verrem 2.1.46.119 2.1.54.142 2.3.10.26 2.3.79.183 2.5.21.54

95.35 186.288 95.35 92.21 52.85

Philippicae 2.37.95 5.4.11 5.4.11-12

52.85 52 52.85

Pro Sulla 15.44

92.21

238

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Fonti antiche II. Epistulae Ad Atticum 13.33.3

94.31

III. Opera rhetorica Brutus 14.55

52.85

De officiis 2.18.64

131.26

Codex Theodosianus 1.1rubr. 1.1.5 8.1.2 8.15.3 8.15.5.1 9.2.5 9.3.6 9.3.7 9.4.5 11.30.21 12.1.2 12.6.9 15.1.4

41 103.79 58.119 59.119 59.119 59.119 59.119 59.119 59.119 58.119 159.153 185.283 128.9

Collatio legum Mosaicarum et Romanarum 1.11.1 1.11.1-4 3.3.16.1-6 8.7.1-2 11.7.1-5

66.170 102.73 102.73 102.73 102.73

Commodianus Carmen apologeticum 11

96.44

239

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Corpus iuris civilis Institutiones constitutio Omnem §7

21.79

1.25.1 2.1pr. 2.1.1 3.12pr. 4.6.30

45; 58; 88; 89 129.14 129.14 185.284 143.85

Digesta constitutio Deo auctore § 11

99.60

constitutio Tanta §1 § 18

28.122 73.196

Index Florentinus 8 23

[T. 6]

1.2.2.11 1.2.2.12 1.2.2.49 1.3.1 1.3.2 1.3.11 1.3.21 1.4 rubr. 1.4.1pr. 1.4.1.1 1.4.4 1.6.1.2 1.6.2 1.7.3 1.7.39 1.8.2pr. 1-8-2.1 1.8.4pr.-1 1.9.1 1.14.2 1.15.4

98 6-8; 22; 33; 40.16 40.17 40.17 73.193 75 75 40; 73 99.61 41 6.18 75 103 40.17 102.73 156.142 143.85 129; 129.13 129.13 129.12 185.286 156.142 70

240

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Fonti antiche 1.18.14 2.8.7pr. 2.14.7.7 2.14.8 2.14.37

[F. 13]

2.14.38 2.14.46 2.14.60

[F. 18]

2.15.3pr. 3.1.1.8 3.3.74 3.4.1pr. 3.4.8 4.2.13 4.2.18 4.5.5.2 4.6.1.1 4.6.28.2 4.6.32 4.7.3pr. 5.2.2.4-5 5.2.3.2 5.3.13.3 5.3.25.16 6.3.1pr.-1 7.1.7.3 7.1.10 7.1.11 7.1.12 8.2.14

[F. 1]

8.3.3pr. 8.3.17

[F. 2]

8.3.35 8.6.12 11.4.1.2 12.2.31 12.4.3.5 14.2.9 241

102.73 49.74 41 143.85 4.4; 42.23; 43.29; 63; 80; 82; 118; 167; 170; 171; 172; 173.222; 180.254; 195; 196; 197 171; 172 45; 58; 87; 88 4.5; 19; 37; 40; 44; 47; 61; 63; 64; 85; 122; 185; 187; 190; 196; 197 38 41 150.120 40.17 170.206 70 49; 74.201 156.142 41 41 58.119; 59 150.120 165.184 165.184 98.59 43 149 98.59 147.105 147.105 147.105 4.4; 63.147; 110; 127; 131; 190; 192; 195; 196 98.59 4.4; 43.24; 63; 110; 128; 129; 131; 192; 195; 197 50; 51 98.59 146.101 40.17 98.59 50

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo 14.6.15 15.1.3.13 18.1.71

[F. 3]

18.7.10 20.2.1 22.1.3pr. 22.1.11 22.1.11pr. 22.1.11.1 22.1.17pr. 22.1.17.6 22.1.29 22.1.30 22.1.33 22.1.33pr. 22.1.33.1 22.3.13 22.3.29pr. 22.3.57a 22.5.3.1 23.3.9.3 24.3.7.12 24.3.17pr. 25.3.5.9 25.3.5.14 25.4.1pr. 26.5.24 26.5.29 26.7.31 27.1.4 27.1.6.8 27.1.30pr. 27.8.1.2 27.10.5 27.10.9 27.10.16pr. 28.4.3 29.1.1pr. 29.2.12 29.2.99 31.56 31.67.10 32.52 242

171.210 156 4.5; 20; 40; 43.29; 60; 63; 64; 69; 112; 132; 133; 157; 191; 195; 196 45; 58; 88 64.150 64.150; 143.85 172 168.202 168.202; 169.202 143.85 169.204 170.209 170.208 169.202; 177.245 169.202 169.202 49; 74.201 38 51 43 143.85 146.101; 146.103 98.59 143.85 143.85 64.150; 65.158; 143.85 70 143.85 70 60.124 45; 58; 60; 103.77 26.107; 107.97 143.85 112; 138.61; 139.63 139.63 143.85 38; 62.133 63 45.45; 58; 88 48; 48.64 40.17 64.150 92.20

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Fonti antiche 32.52pr. 32.52.3 32.85 34.2.19.6 35.1.48 35.1.92 35.2.11.2 35.3.3.4 36.1.11.2 36.3.5.1 37.8.3 37.14.17pr. 38.10.4.6 38.17.2.47 39.4.7 39.4.7pr.

[F. 9]

39.4.7.1 39.4.11.1 39.4.13.1 40.1.20 40.5.37 40.5.42 40.12.27pr. 40.12.41pr. 40.14.2 41.3.40 42.1.35

[F. 10]

42.4.7.3 42.5.16 42.5.30

[F. 5]

42.5.37 42.7.4

[F. 6]

43.8.2pr. 43.20.26 44.2.27 47.2.19pr. 47.10.40 47.14.1pr. 47.19.3 48.1.5 243

91.17; 100 55.98 49.74 58.119 38 73.195 64.150 64.150 66.170 64.150 38 73.195 163.170 60.124 4.4; 116; 149 63; 81; 82; 147; 175; 176; 193; 195; 197 63; 81; 82; 193; 195; 197 175.234 168.202 177.244 143.85 50 64.150; 143.85 160.159 49 49 4.5; 40; 63; 80; 116; 149; 151; 193; 195; 197 136; 136.47 185.285; 185.286 4.4; 63; 112; 135; 136; 138; 140; 190; 192; 195; 196 163.170 4.4; 63; 112; 138; 140; 180.254; 186.287; 192; 195; 196 41 130.16 150 160.159 70 102.73 136; 137 73.195

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Orazio Licandro, Nicola Palazzolo 48.2.12.1 48.3.6.1 48.3.10 48.5.33pr. 48.5.39.4-6 48.5.39.8 48.8.4.1 48.9.9.2 48.10.1.3-4 48.10.9pr.-4 48.10.33 48.12.3 48.12.3pr.

[F. 4]

48.12.3.1 48.12.3.2 48.16.1.1 48.16.18 48.16.18pr. 48.16.18.1 48.16.18.2 48.18.1.27 48.19.8.1 48.19.15 48.19.27pr. 48.19.28.7 48.19.33 48.20.6 48.22.1 48.22.6 48.22.6.2 48.22.7 49.1.1.3 49.1.14.1 49.1.21 49.1.21pr. 49.1.21.1 49.1.21.2

[F. 7]

[F. 8]

49.1.21.3 49.9.1 49.10.1 49.14.3.5 244

50 63 50 64.150 64.150 64.150 66.170; 102.73 102.73 105.82 102.73 105.82 4.4; 69.178; 112; 134;190 9.31; 60; 63; 69; 69.179; 81; 85; 160; 180.254; 191; 195; 196 60; 63; 69; 81; 85; 191; 195; 196 43.24; 63; 191; 195; 196 141.70 4.4; 20; 64; 114; 140; 192 43; 47; 61; 63; 81; 195;196 63; 81; 195;196 63; 81; 195;196 64.150 143.85 50 151 75 64.150 58.119 63 167 164.177 167 144.90 64.150 4.4; 114; 143; 192 63; 81; 144; 192; 195; 196 81; 144; 192; 195; 196 42.23; 44; 63; 69.179; 81; 145; 192; 195; 196 63; 81; 146; 192; 195; 196 64.150 69.179; 114; 146.100 132.31

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 245

Fonti antiche 49.14.42pr. 49.14.42.1 49.14.45.7 50.1rubr. 50.1.1.1-2 50.1.2pr. 50.1.2.2-3 50.1.2.5 50.1.8 50.1.11pr. 50.1.11-13 50.1.15pr. 50.1.17.12 50.1.18 50.1.21pr. 50.1.24 50.1.25 50.1.37.2 50.1.38 50.1.38pr.

[F. 11]

50.1.38.1 50.1.38.2 50.1.38.3 50.1.38.4 50.1.38.5 50.1.38.6 50.2.2pr. 50.2.2.7 50.2.3pr. 50.2.3.2 50.2.13 50.2.13pr.

[F. 12]

50.2.13.1 50.2.13.2 50.2.13.3 50.3.1pr. 50.4.3.9 245

49 40.17 59.119 191.5 163.170 155; 155.139 155.139 155.139 9.31; 69.179; 112; 135; 160; 190 155 155.138 164.179 164.178 154.135; 157 156.140 38; 178.250; 179; 180.254 154.136 159 4.4; 80; 116; 153; 157 63; 81; 82; 153; 192; 195; 197 63; 81; 133.34; 157; 158; 195; 197 63; 81; 154; 193; 195; 197 63; 81; 159; 193; 195; 197 63; 81; 193; 195; 197 63; 81; 193; 197 63; 81; 154.135; 156; 193; 196; 197 164; 178 165 165.182 163.170; 167 4.4; 118; 157; 164 63; 81; 82; 165; 192; 196; 197 63; 81; 82; 165; 192; 196; 197 63; 81; 82; 165; 192; 196; 197 63; 81; 82; 165; 192; 196; 197 163.170 165

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 246

Orazio Licandro, Nicola Palazzolo 50.4.6pr. 50.4.6.1 50.4.8 50.4.12 50.4.14.1 50.4.16.1 50.4.18,1 50.4.18.5 50.5.1.2 50.5.2pr. 50.6.3 50.6.6.10 50.6.6.11 50.8 50.8.2.3 50.8.2.5 50.8.5.1 50.8.7pr. 50.8.9 50.8.11

[F. 14]

50.8.11pr. 50.8.11.1 50.8.11.2 50.8.12 50.8.12pr.

[F. 15]

50.8.12.1 50.8.12.2 50.8.12.3 50.8.12.4 50.8.12.5 50.8.12.6 50.8.13

[F. 16]

246

64.150; 154.135; 157; 167; 180.254 180.254 164.176 162.163 162.163 180.257 173.216 177 158.150 177.243 163.170 157; 180.254 157; 158 180.254 177 177 168.202 69.179; 112; 135 155 4.4; 80; 81.234; 85.258; 118; 172 63; 81; 82; 174; 179; 194; 196; 197 63; 81; 82; 174; 178; 194; 196; 197 63; 81; 82; 175; 176; 195; 196; 197 4.4; 85.258; 118; 172; 176 63; 81; 82; 176; 194; 196; 197 63; 81; 82; 176; 194; 196; 197 63; 81; 82; 176; 196; 197 45.41; 47.62; 63; 81; 82; 105.86; 109.111; 177; 196; 197 63; 81; 82; 170.205; 176.237; 177; 178; 194; 195; 196; 197 63; 81; 82; 176.237; 178; 194; 196; 197 63; 81; 82; 178; 194; 196; 197 4.4; 63; 80; 120; 172; 179; 193; 196; 197

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 247

Fonti antiche 50.10.1pr. 50.10.2.1 50.10.5.1 50.12 50.12.3pr. 50.12.8

50.12.14 50.13.5.2 50.15.7 50.16.56.1 50.16.239.3 50.17.114 50.17.191

174 174.229 148; 175.233 181.261 182.271 64.150; 143.85; 180.254; 181; 184.277 180.257 4.4; 80; 134; 180 63; 81; 82; 193; 196; 197 63; 81; 82; 183; 193; 196; 197 181.263; 182.267 165.181 163.170 185.286 162.163 160.159 49

Codex Iustinianus 1.4.9pr. 1.14rubr. 1.17.1.12 1.17.2.21 1.23.3 1.27.1.25 2.11.9 2.36.1 3.31.1 3.34.14.1 3.36.3 4.44.2 4.44.8 4.57.3 4.65.4 5.25.2 5.25.3 5.62.8 6.54.2 7.5.1 7.52.4 8.10.12 8.10.13 8.46.1

59.119 41 58.119 58.119 77 59.119 150.120 133.34 143.85 128.9 136.50 133 133 45; 58; 88.8 177.244 143.85 143.85 158 58.113; 88.5 185.283 151 128 128.9 143.85

50.12.12.1 50.12.13 50.12.13pr. 50.12.13.1

[F. 17]

247

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 01/09/21 15:14 Pagina 248

Orazio Licandro, Nicola Palazzolo 9.4.4pr. 9.4.4.1 9.4.5.1 9.8.1 9.8.6 9.26.1pr. 10.39rubr. 10.39.5 12.38.1.1

59.119 59.119 59.119 105.82 177.244 59.119 81.238 159.153 185.283

Novellae 63 165

128.9 128.9

Festus De verborum significatu cum Pauli epitome (Lindsay) s.v. diffarreatio (L. 65) s.v. scribas (L. 446)

12.44 93.22

Fragmenta Vaticana 154 168 177 189 222 224 237 243 245

64.150 64.150 60.124 60.124 58.118 64.150 162.164 162.164 64.150

Frontinus De aquaeductu urbis Romae 100.4

93

Fronto Epistulae ad Marcum Caesarem 1.6.2-3

23.88; 107.96

248

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 249

Fonti antiche Gaius Institutiones 1.2 1.5 1.23 1.56 1.112 2.1 2.77 2.195 2.280 3.73 3.77 3.78 3.145 3.220 4.44

100.65 6.18; 40; 41 40.17 40.17 11.43 129.14 91.16; 92.19; 99.61 40.17 73.195 40.17 185.284 185.284 148.114 136.48 136.49

Glossa torinese ad Institutiones (Ms. D.III.13 B.N. Torino) gl. 60 ad 1.25.1

45; 88

Herodianus Ab excessu divi Marci 1.6-8 1.12-13

27.111 19.71

Hyginus De condicionibus agrorum (ed. Lachmann, I, 116)

148.114

Hyginus Gromaticus De limitibus constituendis (ed. Lachmann, I, 202) 1.202.17

249

54.95

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 250

Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Iosephus Flavius Antiquitates Iudaicae 16.162-165

90.13

Isidorus Hispalensis Etymologiae sive Origines 5.24.14 6.13.1

91.17 96.44; 100.67

Iuvenalis Saturae 7

97.46

Lex duodecim tabularum VII.1

127

Libanius Orationes 11.164

21.81

Livius Ab Urbe condita 10.31.10

100.67

Periochae 117

52

Martialis Epigrammata 1.2-3 14.184 14.186 14.188

96 96.46 96.46 96.46 250

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 251

Fonti antiche 14.190 14.192

96.46 97.46

Pauli Sententiae 1.12.1-2 3.6.87 5.12.16 5.25.4 5.25.9

105.82 92.20 59.119 105.82 105.82

Plinius minor Epistulae 10.54.1-2 10.55 10.65

169 169 20.77; 40; 51; 51.80; 54; 76.212 100.69 100.69 54.91; 64; 100.69 20.77; 51.80; 76.212 54.91; 55; 101.69 55; 64; 101.69 55 55

10.65.1 10.65.2 10.65.3 10.66 10.66.1 10.66.2 10.95 10.105 Plutarchus Vitae parallelae Marcellus 5

52.85

Quaestiones Romanae 50

12.44

Pseudo-Dositheus Divi Hadriani sententiae et epistulae 7

56.101

251

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 252

Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Scriptores Historiae Augustae Vita Marci 8.10 9.7 ss. 10.1 ss. 10.1 10.2 10.6 10.9 10.11 11 11.2 11.6 11.10

61.134 83 24.97; 83 143.84 143.84 143.84 143.84 143.84 24.95; 24.97 25.100; 82.247; 173.221 143.84 26.106

Vita Commodi 7

19.71

Vita Macrini 13.1

54.94; 64.154

Vita Aureliani 1.7

95.40

Vita Taciti 8.1-2

94.27

Seneca philosophus Dialogi (De brevitate vitae) 10.13.4

91.15; 93.23; 96.44

Siculus Flaccus de condicionibus agrorum (ed. Lachmann, I, 154) 19

52.84

Suida (Suda) Lexicon E 916 (ed. Adler)

17.63

252

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 253

Fonti antiche Svetonius De vita Caesarum Divus Iulius 56

94.33

Augustus 35.3 64.2

89.9 52; 56.100; 95.39

Caligula 15

53

Domitianus 20

53

Symmachus orator Epistulae 6.9

127.2

Tacitus Annales 13.43 15.43.4

53 128.7

Historiae 4.40

53

Tituli ex corpore Ulpiani 26.7

64.150

Totius mundi descriptio 23 25

21.81 21

253

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 254

Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Velleius Paterculus Historia Romana 2.60

52

EPIGRAFI

AÉ = Année Épigraphique 1916, nr. 35 1916, nr. 36 1938, nr. 60 (= SB V.8269) 1947, nr. 44 1961, nr. 142 1978, nr. 292 1996, nr. 309 2012, nr. 1082

[T. 3]

180.257 180.257 14; 14.50; 15 169.203 25.105; 58 15.51 18; 32 161.160

CIG = Corpus Inscriptionum Graecarum 5895 (= IG XIV.1072 = IGRR I.135 = IGUR I.59) [T. 2]

12; 13; 31

CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum I Suppl. 11451 II.5232 III.411 III.12336 III.15208 IV Suppl. 23246 V.5050.22-37 (= ILS 206 = FIRA I2, nr. 71) VI.1016 (= Bruns VII.85 = FIRA I², nr. 83) VIII.270 VIII.4971 VIII.12442 X.6662 (= ILS 1445) [T. 1] X.7852 (= ILS 5947) XI.5182 XIV.101

94 166.196 56; 57 58; 62; 105.88 15.52 94 161.160 66.166 94 10 15.52 11; 12; 13; 15; 31 94.34 175.234 18.66

254

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 31/08/21 09:42 Pagina 255

Fonti antiche XIV.374 XIV.4234

18.66 18.66

FIRA = Fontes Iuris Romani Anteiustiniani, I2 nr. 36 nr. 71 (= CIL V.5050.22-37 = ILS 206) nr. 82 (= CIL III.411) nr. 83 (= CIL VI.1016)

94; 94.29 161.160 56; 57 66.166

IG = Inscriptiones Graecae XIV.1072

12; 13

IGRR = Inscriptiones Graecae ad res Romanas pertinentes I.135

12; 13

IGUR = Inscriptiones Graecae Urbis Romae I.59

12; 13

ILS = Inscriptiones Latinae Selectae 206 (= CIL V.5050.22.-37 = FIRA I2, nr. 71) 1445 (= CIL X.6652) [T. 2] 5947 (= CIL X.7852)

161.160 11; 13; 31 94.34

Iscrizione di Salagassos (Niemann, Petersen, Lanckoronski 1893) _ 21; 21.82 Lex Irnitana 31 59 73

166.189 154.133 93

Lex de repetundis Tabulae Bembinae 34

93

Lex rivi Hiberiensis _

130 255

SIR_X_05_Apparati_Biblio.qxp_Layout 1 01/09/21 15:16 Pagina 256

Orazio Licandro, Nicola Palazzolo Ia.6-8 IIb.21-26 III.40-41 IIIb.34-38 IV.1.50-51 XVI.3.44-47

131.22 131.22 130.19 131.22 131.22 130.20

Rescripta di Vardagate (AÉ 1947, nr. 44)

169.203

SEG = Supplementum Epigraphicum Graecum XLIV.1211

15.53

SC. de Amphiarai Oropii agris (FIRA I², nr. 36) 29-31 57-59

94 94; 94.29

SC. de Cnaeo Pisone patre 174-175

93

Tabula Banasitana (AÉ 1961, nr. 142; FIRA, rev. e integr., Purpura, I, 2012, 625-641) 22-29 58 39-53 25.105 Tabula Clesiana (AÉ 2012 nr. 1082) _

161.160

Tessera Paemeiobrigensis _

95

PAPIRI

Apokrimata (P. Col. VI.123) _

105 256

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Fonti antiche BGU = Aegyptische Urkunden aus den Königlichen (Staatlichen) Museen zu Berlin V.1210 105 Gnomon Idiologi (BGU V.1210) _

105

P. Amsterdam inv. nr. 22 (= SB XIII.10991)

16.61

P. Columbia VI.123

105

P. Giessen 40.I

105

Papyrus grecs du musée du Louvre et de la Biliothèque impériale (Brunet de Presle, Egger 1865) nr. 69 45.46; 58.116

P. Harris 71

16.58; 17.62

P. Oxyrhynchus VIII.1110 XXXVI.2762 XXXVI.2800

14; 15 17 17

P. Würzburg IX.42-46

66.165

SB = Sammelbuch griechischer Urkunden aus Ägypten V.8269 (AÉ 1938, nr. 60) XIII.10991

14 16.61

257

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Finito di stampare nel mese di settembre 2021 per conto de «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER Tipografia CSC Grafica s.r.l. via A. Meucci, 28 00012 - Guidonia - Roma