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Italian Pages 288 [290] Year 2018
3 Collana di Archeologia del Rito
Volume 3 Il fegato etrusco di Piacenza
“Avendo allora, dalle due parti del cielo, aperto Grandi Porte, Vi pose solidi catenacci a sinistra e a destra. Nello stesso fegato di Tiāmat sistemò le Alte zone Celesti. Poi fece apparire Nanna (la Luna) al quale affidò la notte.”
Enûma eliš, V, 9-12
Antonio Gottarelli
3
Padānu Un’ombra tra le mani del tempo La decifrazione funzionale del fegato etrusco di Piacenza
Te.m.p.l.a. 2018
Stampato con il contributo di:
Arc.A - Monte Bibele - Aps Edizioni Te.m.p.l.a. Centro di Ricerca per le Tecnologie Multimediali Applicate all’Archeologia Dipartimento di Storia Culture Civiltà - Alma Mater Studiorum - Università di Bologna P.zza San Giovanni in Monte n. 2 - 40124 Bologna - Italy © 2018 Antonio Gottarelli I edizione - febbraio 2018 Editing e segreteria redazionale: Federica Proni Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione di testo e immagini, anche parziale, è severamente vietata. ISBN 978-88-6113-010-4
INDICE
Prefazione
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I Il Templum solare e il Fegato di Piacenza Modello analitico e sezioni informative
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1.1 La struttura analitica del Templum 1.2 La struttura analitica del Fegato di Piacenza 1.3 Il suspensorium hepatis e il sistema di orientazione
25 32 43
II La dimensione spaziale del Templum Orientazione e assi visuali del Fegato di Piacenza
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2.1 La bipartizione usils e tivs: destra, sinistra, sopra, sotto 2.2 metlumθ e leθam: gli assi cardinali del Templum 2.3 Le sedi degli dèi: la fase ascendente dell’arco solstiziale
51 59 67
III Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi Il sistema analogico di lettura dei settori
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3.1 I culti delle stagioni e le sedi del ciclo vegetativo 3.2 Le sedi della fase discendente dell’arco solstiziale 3.3 I nomi delle porte e la ruota dell’anno
78 88 95
IV Un’ombra tra le mani del Tempo La logica strumentale del modello
107
4.1 Ruote, rotismi e rapporti tra le parti 4.2 Le mani, il fegato e l’unione dei Mondi 4.3 La digitazione dei settori 4.4 Il settore “G” e il processus pyramidalis
108 115 121 130
8
Indice
4.5 L’ombra, l’“analemma” e la misura del tempo 4.6 Il sistema di computo delle porte e dei mesi 4.7 Il numero dei mesi e la codifica dell’anno solare
142 151 158
V Epatomanzia in Italia, tra VII e IV secolo a.C. Il fegato fittile di Falerii Veteres e l’Etruria “orientalizzante”
171
5.1 5.2 5.3
174 186 193
Il Vicino Oriente e i modelli epatoscopici etruschi Il Fegato di Piacenza e l’Etruria Padana Il fegato di Falerii Veteres e Nabû-Iddin, figlio di Baniya, il qĭpu
VI Manzāzu, leθam, padānu L’Etruria padana, l’Eridano e l’equatore del tempo
207
6.1 6.2 6.3
208 216 220
Manzāzu: le stazioni del Tempo di Nanna-Sin e Šamaš Padānu-leθam: l’equatore spazio-temporale L’Eridano, la caduta di Fetonte e l’equatore gnomonico
Abbreviazioni bibliografiche Abbreviazioni delle fonti Indice analitico Indice delle figure
235 251 253 277
Prefazione
N
el precedente volume l’interpretazione delle rivelazioni contenute nel testo biblico apocrifo del “Libro dell’Astronomia” di Enoc ha svelato come l’architettura del Templum solare del luogo fosse la prima struttura analitica in grado di fissare i “numeri” e la ritmica delle ruote del tempo. Fu proprio la conoscenza di questa meccanica astronomica che consentì il definitivo controllo della soglia misterica tra la dimensione cosmica della luce e quella occulta delle tenebre, trama effimera di quel grande “segreto del Cielo e del Sottosuolo” che venne trasmesso ad Enmeduranki attraverso la figura “enimmatica” del fegato1. La struttura sostanziale dei Grandi Misteri del Cosmo appariva dunque riflessa nei fondamenti iniziatici della dottrina divinatoria. L’azione rituale era così rivolta all’interrogazione dialettica dei fenomeni di transizione e trapasso lungo i confini immaginari che separano il mondo terreno dai due emisferi trascendenti, quello celeste e quello infero. ll fine ultimo, come si disse, era la predizione dei de-
1 La trasmissione a Enmeduranki dei grandi segreti “del cielo e del sottosuolo” è documentata da una importantissima tavoletta rinvenuta a Ninive e databile a prima del 1.100 a.C.; vd. LAMBERT 1967 = W. G. Lambert, “Enmeduranki and Related Material”, in “Journal of Cuneiform Studies”, vol. 21, Special Volume Honoring Professor Albrecht Goetze (1967), p. 132. La tavoletta è datata all’interno del regno di Nabucodonosor I, e quindi tra il 1125 e il 1104 a.C.; vd. KVANVIG 1988 = H. S. Kvanvig, “Roots of Apocalyptic. The Mesopotamian Background of the Enoch Figure and of the Son of Man”, Neukirchener Verlag, 1988, p. 190. Per le relazioni tra questo mito, la Tavola dei Destini e il fegato di Tiāmat, vd. GOTTARELLI 2018 = A. Gottarelli, “Cosmogonica. Il fegato di Tiāmat e la soglia misterica del Tempo. Dai miti cosmologici del Vicino Oriente antico alla decifrazione del fegato etrusco di Piacenza”, Bologna, 2018, pp. 164-167.
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Prefazione
stini futuri, così come questi furono dedotti dalla misura e dal controllo della periodicità dei cicli dei moti celesti, secondo il disegno impresso da Marduk sul fegato dell’antica Madre Tiāmat. Quello che il Libro di Enoc ci ha in ultimo restituito era il fondamento misterico di tale disegno e dunque la chiave interpretativa del modello analitico che venne utilizzato per l’osservazione del passaggio degli astri sull’orizzonte artificiale descritto dalla geometria del Templum solare del luogo. La soglia del tempo, quella che è stabilmente definita dall’alternanza di stato tra il giorno e la notte, è allora l’essenza stessa del principio su cui si fonderà l’intera costruzione cosmologica della dimensione concettuale del sacro. Ad essa corrisponderanno, in luoghi e tradizioni differenti, e declinate solo formalmente in tempi e modi diversi, tutte le teorie dottrinali sulla natura del tempo e sulla sua origine. È in questa costruzione concettuale che l’eredità degli ordinamenti religiosi delle culture mesopotamiche, si ritrova in occidente ancora espressa all’interno della religione etrusca all’epoca della stesura dei manoscritti di Qumran. Tale concezione si distingue da altre nell’assegnare un ruolo cosmologico chiave alle funzioni del fegato, in quanto mundus del corpo e “soglia” metafisica posta all’origine della vita e dell’universo stesso. Nella misura in cui i ritmi e le regole del passaggio dei grandi astri sulla soglia tra luce e tenebra costituirono la chiave per avvicinarsi alla comprensione dei Grandi Segreti del Cosmo, era logico immaginare che proprio nel fegato di Tiāmat si indicasse la sede vitale per la comprensione “empatica” di quelle leggi, e che esso venisse inteso come specchio delle configurazioni “enimmatiche” che il sistema avrebbe assunto nel suo sviluppo temporale futuro. È per queste ragioni che la divinazione basata sull’ispezione del fegato venne considerata in Mesopotamia, e poi ancora presso Greci ed Etruschi, la prima e più importante forma di interrogazione dei destini futuri. Ed è a questa più estesa costruzione cosmologica – e non ai soli e mutevoli esiti delle sentenze da essa derivate – che l’interpretazione di quel corpo dottrinale andava più correttamente ricondotta. Recenti studi di Piotr Steinkeller, al pari dei nostri, consentono oggi di avere un quadro chiaro di come ciò avvenisse2. Si è in ultimo osservato come i Babilonesi credessero che l'atto dell’extispicina fosse
Prefazione
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un evento cosmico entro cui entrambe le metà dell'universo, quella superiore e quella inferiore, venivano attivamente coinvolte3. Al centro del sistema vi era il fegato sacrificale, idealmente trapassato da quell’asse cosmico alla cui estremità superiore stava il dio Sole e altri giudici divini, e alla cui estremità inferiore stava il "Dio della notte”, la Luna. I giudici conducevano una veglia notturna sulla persona per conto della quale l’extispicio veniva eseguito, con il "Dio della notte" in veste di difensore e protettore della funzione divinatoria. La decisione veniva presa essenzialmente dal dio Sole – Šamaš – in virtù della sua capacità di vedere il futuro, perché egli era considerato la guida alla rinascita del giorno che segue l’orbita infera dell’intera volta celeste4. Il tutto si riteneva fosse empaticamente riflesso sul fegato, in quanto immagine dell’organo germinatore dell’antica Madre, e il flusso dei destini scorreva su di esso come scrittura enimmatica incisa su tavoletta5. Secondo quanto sostenuto nel precedente volume, questa scrittura fu il contenuto della “Tavola dei Destini”, quella che Marduk, nel racconto del Poema della Creazione, si affisse al collo prima della definitiva sconfitta di Tiāmat. Fu in seguito il contenuto di quella “Tavola degli Dei”, il fegato, “il segreto del Cielo e del Sottosuolo”, che Šamaš e Adad mostrarono ad Enmeduranki, dando vita alla trasmissione iniziatica dei grandi segreti. E fu ugualmente ciò che ispirò lo scritto nelle “Tavole del Cielo”, quelle che Uriele mostrerà al patriarca biblico Enoc e sulle quali furono determinati, fin dall’inizio dei tempi, i destini del mondo per tutte le generazioni future.
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STEINKELLER 2005 = P. Steinkeller, “Of Stars and Men: The Conceptual and Mythological Setup of Babylonian Extispicy”, in A. Gianto ed., “Biblical and OrientaI Essays in Memory of William L. Moran”, Biblica et Orientalia 48, Roma, 2005, pp. 11-47: ”this form of divination - or extispicy for short - was the Babylonian divinatory technique par excellence. Because of this, extispicy serves as a paradigm of what the Babylonians thought about the prediction of the future and about the nature of future”; STEINKELLER 2005, cfr. p. 12. Ibid., p. 18: “Most importantly, the universe was thought to be spherical. More specifically, it was composed of two complementary hemispheres: the upper hemisphere - or ''upper parts" (eltiti); and the lower hemisphere - or "lower parts" (sapltiti)”. Ibid., p. 20: “All of the celestial bodies (= astral deities) traverse the upper and nether skies in a circular motion passing from one hemisphere to the other through special gates. The passage into the nether world is accomplished by means of the western gate (...)”. Ibid., p. 14: “Metaphorically, the message was written down by the scribe of the divine tribunal on the entrails - primarily on the liver - as on a clay tablet. In this way, the liver became a written message or - by analogy with legal documents - an inner tablet, with the lamb taking on the function of the clay envelope in which the message was encased”.
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Prefazione
Fig. 1 – La modellizzazione dei tre sentieri del “quadro” delle stelle fisse in sezione altoazimutale di figura 32 (da PETTINATO 1998, p. 91) e la sua possibile proiezione sul sistema delle porte del circolo calendariale(vd. anche figura 41). Il sistema delle stelle “guida”, in loro prima levata o tramonto eliaci, viene a corrispondere, come descritto in figura, con gli “stipiti” delle 12 porte e con i nomi dei mesi (dis. A. Gottarelli).
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Nella tradizione babilonese era Adad, nella sua prerogativa di dio del vento, che presiedeva alla consegna dei rituali notturni ikribu, attraverso il mantenimento dell’azione motrice del vento sull’asse della rotazione celeste. Era questo l’elemento che assicurava coesione ai diversi livelli della manifestazione cosmica, garantendo il loro ritorno nelle albe e nei tramonti del quadro celeste. Si conferma così che la divinazione attraverso l’extispicio aveva luogo tra il tramonto e l’alba, quando cioè mondo supero e mondo infero si ricongiungevano idealmente sulla linea del contorno sfumato dell’orizzonte. E ciò avveniva nel preciso istante in cui Sole, Luna e quadro celeste toccavano la soglia che divide l’abisso delle tenebre con l’emisfero superiore, quello entro cui prende forma la luce del nuovo giorno6. L’importanza che venne attribuita agli istanti di transizione tra la notte e il giorno, al fine di stabilire i momenti più opportuni per interrogare la volontà divina, rendeva allora evidente in che misura il contenuto della rivelazione del Libro di Enoc riguardasse esattamente la formula del principio che veniva posto a monte della stessa pratica epatoscopica. Questo poteva così ricondurre a quanto, nella religione babilonese, veniva idealmente proiettato sulla superficie del fegato di Tiāmat. Se pure nulla, all’interno del testo enochico, facesse menzione del ruolo assunto dall’organo nei fondamenti di quella più antica tradizione cosmogonica, i diversi punti di contatto tra il Libro di Astronomia ed il compendio astronomico MUL.APIN indicavano la stretta relazione che, fin dalle origini, dovette intercorrere tra le due cose7. La trasposizione proiettiva dei tre sentieri di Enlil, Anu ed Ea, così come è stata da noi interpretata rispetto agli “angeli vigilanti” e alle “stelle guida” dell’ultimo capitolo del Libro di Enoc, è stata de-
6 STEINKELLER 2005., p. 12-13: “Very significantly, it was a nocturnal rite, which lasted from sunset to sunrise. The preliminaries began at the moment the sun disappeared on the western horizon and the stars became visible (or "occupied their stations"). At that time, the diviner performed special prayers-cumrituals (ikribu), and made prescribed offerings”. 7 Vd. HUNGER, PINGREE 1989 = H. Hunger, D. Pingree, “MUL.APIN. An astronomical compendium in cuneiform”, Horn, F. Berger & Söhne Gesellschaft, 1989; HUNGER, PINGREE 1999 = H. Hunger, D. Pingree, “Astral Sciences in Mesopotamia”, Leiden-Boston-Koln 1999. Sulle costellazioni zodiacali si veda, in ultimo, BRITTON 2010 = J. P. Britton, ”Studies in Babylonian lunar theory: part III. The introduction of the uniform zodiac”, in “Archive for History of Exact Sciences”, vol. 64, n. 6 (November 2010), pp. 617-663.
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Fig. 2 – Il computo del tempo all’interno del Templum solare descritto nel “Libro di Astronomia” di Enoc etiopico (1Enoc). Le sei “porte” ad est e le sei ad ovest, sono numerate da 1 a 6, partendo dall’inizio della fase ascendente delle ore di luce, e dunque dall’entrata del sole nella prima finestra dopo il solstizio d’inverno (ASI). I mesi, invece, sono numerati da 1 a 12, partendo dalla prima finestra entro cui leva il sole dopo l’equinozio di primavera (AEP), periodo dell’anno che segna l’inizio della nuova fase del ciclo vegetativo (dis. A. Gottarelli).
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dotta dalle tavole del MUL.APIN. Questo ha fornito la chiave interpretativa della complessa struttura analogica che legava i sentieri annuali delle levate eliache delle stelle al sistema delle 6 porte del Templum solare (vd. fig. 1). Si è inoltre osservato come l’analoga lista dei mesi e delle relative costellazioni che erano descritte nella Tavola I del MUL.APIN, venisse associata dalla Reiner al contenuto della tavoletta di Warka-Uruk, documento del periodo seleucide entro cui divinità, mesi e costellazioni, si collegavano a precisi “settori”, o “stazioni”, presenti sul fegato8. Alla luce di quanto detto sulla comune tradizione che legava Enoc alla figura di Enmeduranki – e in considerazione degli elementi di convergenza che legavano entrambi al contenuto del compendio astronomico MUL.APIN – è possibile qui cogliere il principale fattore di transitività che legava quanto venne descritto in Enoc con il contenuto della tavoletta-fegato di Warka: La "stazione" è Enlil; mese I; [Ariete]. Il "percorso" è Samas; mese II; Toro. La "bocca dolce" è Nusku; mese III; Orione. La "forza" è Uras; mese IV; Cancro, stelle Aratro. La "porta del palazzo" è Ninegal; mese V; Regolo. La "bolla" è la tempesta dio Adad; mese VI; stelle del Corvo. La cistifellea è Anu; mese VII; Lyra. Il "dito" (identificabile con il processus pyramidalis ) è Dio; mese VIII; stella Capra. Vi si documenta qui la chiara relazione che intercorreva tra le parti del fegato e la misura dell’anno, dove quest’ultima veniva scandita
8 Vd. REINER 1985 = E. Reiner, “The Uses of Astrology”, in “Journal of the American Oriental Society”, vol. 105, n. 4 ( 1985), pp. 592: ”This branch of hepatoscopy, that might be dubbed hepato- mathematics, a term that in an uncanny way also evokes Landsberger's term "livermathematics" for that branch of liver omens that resort to numerical determinism (...). REINER 1995 = E. Reiner, “Astral Magic in Babylonia”, in “American Philosophical Society”, New Series, Vol. 85, No. 4 (1995), pp. 78-79; BACHVAROVA 2012 = M.R. Bachvarova, “The Transmission of Liver Divination from East to West”, in “Studi Micenei ed Egeo-Anatolici”, vol. 54, p. 152; KOCH 2000 = U. Koch-Westenholz, “The Chapters Manzāzu, Padānu and Pān Takālti of the Babylonian Extispicy Series mainly from Aššurbanipal’s Library”, Copenhagen, 2000, pp. 24-25.
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Fig. 3 – Interpretazione del capitolo XV, LXXXII del “Libro dell’Astronomia” di Enoc etiopico. Gli “angeli vigilanti” sono le stelle “guida” la cui levata o tramonto eliaci caratterizzano l’entrata nelle diverse porte del precedente sistema. Sono codificati come “capi dei mille” i separatori delle porte: in (A), le 4 parti stagionali dell’anno; in (B) i 3 separatori solstiziali ed equinoziali; in (C), i 12 separatori dei mesi (dis. A. Gottarelli).
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dai nomi dei diversi settori dell’organo e dai nomi delle divinità che in quei settori avevano sede. Queste “stazioni” vennero a loro volta associate al mese e al nome della relativa costellazione zodiacale. Si stabilisce così una ulteriore relazione di identità tra i settori del fegato, i nomi delle divinità, i mesi e i nomi delle costellazioni. L’espressione dei mesi in numerazione ordinale, con loro inizio in Ariete e dunque all’equinozio di primavera, risulta poi dal sistema descritto nella prima parte del “Libro di Astronomia” dell’Enoc etiopico9 (vd. fig. 2), per cui si stabilisce un ulteriore parallelo di significati derivante dal fatto che alle stelle guida che cadenzano i mesi si associno anche qui nomi di angeli vigilanti, dove questi altro non sono che la trasposizione in un contesto religioso monoteistico delle divinità del precedente modello. Vi è dunque in Enoc una eguale linea di identità che lega la sede dell’angelo vigilante al numero ordinale del mese, con la differenza che, in quest’ultimo, il tutto non viene riferito a specifici settori del fegato, ma alle sezioni di arco solstiziale che formalizzano il sistema di calcolo del tempo descritto dalle sei porte del Templum solare. Nella misura in cui l’insieme delle considerazioni fin qui svolte collegava entrambe le fonti a ciò che abbiamo ipotizzato dover essere il contenuto della tavola-fegato di Enmeduranki, ne conseguiva l’ovvia conclusione secondo cui la funzione che legava i diversi settori del Fegato al Sole, alla Luna e al calcolo del tempo, doveva necessariamente essere un principio analogico di identità tra le sue parti e la geometria del sistema proiettivo descritto dal Templum solare del luogo. Tornando alle possibilità di un confronto tra questo modello e la complessa trama di informazioni presente sul bronzo piacentino, e tenendo in considerazione quanto detto al capitolo XV, LXXXII del “Libro di Astronomia”, gli stessi 16 settori che suddividono il suo perimetro potrebbero allora riferirsi, non più alla dimensione “spa-
9 Vd. SACCHI 1981 = P. Sacchi (a cura di), “Apocrifi dell'Antico Testamento”, vol. 1, UTET 1981, cap. XV, LXXXII. Per l’edizione inglese vd. CHARLESWORTH 1985 = J.H. Charlesworth, “The Old Testament Pseudepigrapha and the New Testament”, Cambridge, 1983. Per il punto sulla tradizione apocalittica del Libro di Enoc vedi; VANDERKAM 1984 = J. C. VanderKam, “Enoch and the Growth of an Apocalyptic Tradition”, The Catholic Biblical Quarterly Monograph Series, 16, Washington DC, 1984.
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Prefazione
ziale” del templum – e dunque agli assi cardinali e alle sedi divine del pantheon etrusco distribuite lungo il circolo azimutale delle 16 direzioni del cielo – ma alle stazioni con cui risultava essere suddiviso il ciclo dell’anno solare lungo l’arco solstiziale. La spiegazione del sistema di lettura delle 6 porte, rispetto alle stelle guida e alle costellazioni che ne sostituiscono la geometria, riconduce infatti al modello analitico che abbiamo descritto nel precedente volume e che riproponiamo ora in figura 2. Mentre in precedenza erano le sole aperture delle porte stesse ad essere codificate con un numero progressivo – e cioè 6 numeri per le aperture singole e 12 numeri per i doppi passaggi mensili (vd. fig. 3) – qui il soggetto della descrizione è la gerarchia delle “guide” e i nomi degli angeli vigilanti che sono assegnati sia ai divisori, sia alle aperture delle porte stesse. Se prima dunque era numerato il solo “contenuto” dell’interspazio tra gli stipiti, ora viene anche indicato il nome assegnato agli stipiti stessi, quello cioè delle 12 “guide” mensili degli “amministratori di mese” a cui si aggiungono le “guide” degli “amministratori di novantuno”, che sono coloro che stanno ad indicare le 4 parti dell’anno che seguono le 4 “stazioni”, o divisori, dell’arco solstiziale. Ne consegue che i separatori che descrivono il ciclo annuale degli astri sulle porte del Templum solare non sono, come nel caso precedente 12, ma 12+4, e dunque 16, e questo rende ora possibile ipotizzare che le regioni dell’anello perimetrale del Fegato di Piacenza possano a loro volta indicare la sequenza nominale dei 16 settori di quel modello. Il 16, dunque, non sarebbe, come da sempre sostenuto, la chiara evidenza di quel sistema di quadripartizione dello spazio che nella tradizione etrusca e latina era volto a definire le sedi celesti degli dèi collegate con le direzioni dei fulmini e dei venti10, ma sarebbe qui da riferirsi alla sfera religiosa della rappresentazione del tempo. Si spiegherebbe così l’altra chiarissima evidenza presente sul Fegato 10 PLIN. Nat. Hist., II, 119, 143. In altra sede si è dimostrato come, anche per quanto qui affermato da Plinio, il sistema di orientazione si riferisca agli assi stessi del templum solare del luogo, venendo indicate come direzioni di riferimento del cerchio azimutale le stazioni di levata e tramonto del sole agli equinozi e ai solstizi; vd. GOTTARELLI 2013, pp. 64-66. Lo stesso per la divisione del cielo in 16 settori attribuita da Plinio alla tradizione etrusca (vd. PLIN. Nat. Hist., II, 143).
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di Piacenza, quella cioè che era stata considerata dai più una vera e propria “crux esegetica” all’interpretazione dell’insieme: la presenza dei nomi Sole e Luna sul retro dei due lobi. Se questa infatti era stata per noi la traccia che ci aveva orientato sulle strade mai battute di una relazione diretta tra il nostro modello e il ruolo assunto dal Fegato di Tiāmat, la presenza sul suo retro dei due nomi tivs e usils starebbe ora ad indicare la natura temporale dell’insieme, con la rappresentazione ritmica dei tempi di levata del Sole sulle celle del lobo destro, e con quella riguardante la Luna, sulle celle del lobo sinistro. Le fasi del sorgere del Sole e della Luna sulle porte solstiziali è non a caso il fondamento del sistema calendariale descritto nel Libro di Enoc e il tutto spiegherebbe la funzione generale di tale costruzione quale summa concettuale della stessa dottrina divinatoria, intesa come predizione delle sorti future secondo il piano cosmogonico originario. Lo scopo, come già osservammo, era infatti poter descrivere sulla tavola-fegato un sistema analogico di calcolo che fosse in grado di indicare i tempi e le fasi di congiunzione dei due astri, così come indicato nell’interpolazione di significati che abbiamo in altra sede ipotizzato essere presente nel racconto del Poema della Creazione: Nello stesso fegato di Tiāmat sistemò le Alte zone Celesti. (................) (E tu Luna) seguendo questo cammino d[efinisci] i Presagi: (E voi, Sole e Luna,) Congiungetevi, (nello stesso fegato di Tiāmat,) per rendere le sentenze divinatorie. Il Sole, la Luna, le costellazioni, le 16 stazioni annuali di un calendario liturgico e le 6 porte che scandiscono il ritmo dei mesi dell’anno sull’arco solstiziale: sarebbero allora questi gli elementi chiave per intraprendere la decifrazione del contenuto del fegato piacentino? È evidente che la trama che lega tutti gli argomenti fin qui trattati alla geometria del Templum solare fa sì che la risposta possa ora giun-
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gere dal quadro di unione di tutti i passaggi logici che hanno caratterizzato il nostro precedente percorso di ricerca, riconducendo la massa dei dati raccolti all’interno di un unico sistema di relazioni analogiche che possano spiegare le evidenze oggettive del modello, nel suo insieme e in ogni sua parte. Se questo sarà l’argomento che tratteremo nel presente volume, va ricordato che nei primi passi della ricerca si disse che il procedimento analitico di scomposizione di un'evidenza complessa in parti più semplicemente rappresentabili funzionava in numerosi contesti, ma non in quelli in cui l'oggetto analizzato fosse già di per sé l'evidenza analitica di qualcos'altro. In questi casi il metodo d'indagine avrebbe richiesto di procedere con modalità inversa: partire cioè da un'ipotesi generale sulla natura dell’insieme, per poi analizzare nel dettaglio come era stata organizzata la sua descrizione all'interno del modello. Ora sappiamo che questo "qualcos'altro" è simile alla “macchina del tempo” descritta nel Libro di Astronomia di Enoc, ovvero a quella stessa architettura del Templum solare del luogo che avevamo posto come punto di partenza della nostra indagine e che avevamo collegato alla presenza dei nomi del “Sole” e della “Luna” sul retro dei due lobi. Si disse infatti che la scoperta di una ritualità collegata con la figura del Templum solare poteva essere la spia del fondamento concettuale di un più esteso corpo dottrinale che, all’interno della “etrusca disciplina”, rimandava a più antiche pratiche taumaturgiche e religiose, collegate con i riti augurali di fondazione, con la divinazione e con le stesse pratiche epatoscopiche. Si osservò, inoltre, che se fossimo giunti a dimostrare un legame diretto tra la sua geometria e l’idea che gli antichi avevano del fegato, questo avrebbe portato a definire un principio cosmologico che era da porsi a monte di quella stessa pratica, per cui, da quel momento in poi, l’epatoscopia sarebbe stata da considerarsi conseguente al particolare significato che veniva attribuito a quell'organo in relazione all'origine del mondo. Giunti così alla conclusione che il modello bronzeo di Piacenza poteva essere un modello simbolico e stilizzato dello stesso Fegato di Tiāmat, “con funzione strumentale per il calcolo delle fasi cicliche del tempo”, la sua connessione diretta con l’extispicina non poteva più essere data per scontata e cadeva la dicotomia interpretativa tra i suoi
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settori interni e i 16 settori presenti sul nastro periferico. Sciolto così ogni legame con la pratica epatoscopica, intesa come autopsia dell’organo, legame questo che aveva in qualche modo fornito una spiegazione alla presenza delle caselle inscritte sui rilievi anatomici del modello, ci eravamo in sostanza chiesti cosa sarebbe accaduto all’intero castello di congetture sulle 16 regioni del nastro periferico se, in altri contesti, si fosse arrivati a dimostrare che l’immagine ideale del Templum celeste presentasse una diversa figura e un diverso sistema d’orientazione rispetto a quanto tradizionalmente ipotizzato. La risposta era più che ovvia: l’intero castello sarebbe crollato e l’interpretazione del Fegato di Piacenza avrebbe dovuto essere interamente reimpostata su nuove basi. Sono ora queste basi il punto di arrivo del lungo percorso di ricerca che nel precedente volume ci ha permesso di collegare la geometria del Templum solare del luogo ai significati di una delle più custodite dottrine misteriche dell’antichità: quella dei grandi “segreti del Cielo e del Sottosuolo” che furono impressi sul fegato dell’antica madre Tiāmat, all’atto della rifondazione cosmogonica. E saranno proprio i meccanismi astronomici del Templum solare del luogo, così come li abbiamo trovati descritti nel Libro dell’Astronomia di Enoc, che ci forniranno ora la chiave interpretativa da cui ripartiremo per giungere alla completa decifrazione funzionale del Fegato etrusco di Piacenza.
Bologna, febbraio 2018
Antonio Gottarelli
1. Il Templum solare e il Fegato di Piacenza Modello analitico e sezioni informative
1.1 La struttura analitica del Templum La spiegazione di come quella “funzione strumentale per il calcolo delle fasi cicliche del tempo” possa funzionare all’interno del nostro modello è dunque il punto di arrivo della nostra indagine. Al momento ci interessa osservare che, se esistono precisi rapporti analogici e funzionali tra il contenuto del fegato bronzeo e la meccanica del Templum solare, questi devono necessariamente collegare i settori del nastro periferico con i restanti settori interni, per cui verificare tale relazione significherà trovare la chiave logica per giungere alla dimostrazione definitiva dell’ipotesi. In figura 4 abbiamo scomposto i modelli di figure 2 e 3 nelle loro componenti analitiche essenziali. Lo scopo è destrutturare il meccanismo del Templum solare del luogo in un modello relazionale che sia in grado di codificarne il funzionamento, consentendoci di ricondurre la sua rappresentazione grafica ad un modello descrittivo che ne spieghi le relazioni logiche tra le parti. La natura dei nomi abbreviati di divinità, presenti all’interno dei diversi settori, non sono al momento oggetto dell’analisi. Lo saranno in seguito, al fine di verificare le relazioni che andremo qui a specificare con le numerose ripetizioni di nomi che sembrano legare talune caselle del nastro
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1.1 La struttura analitica del Templum
Fig. 4 – Scomposizione del meccanismo del Templum solare del luogo nelle sue componenti analitiche essenziali. La codifica utilizza sigle alfabetiche per indicare i gruppi di identità funzionali, combinate con numeri progressivi per le identità nominali. Vengono così codificate tutte le parti che possono essere state soggette ad una sua descrizione analitica all’interno del nostro modello di fegato (dis. A. Gottarelli).
Cap. I – Il Templum solare e il Fegato di Piacenza
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periferico con quelle delle regioni interne. Evidenza, questa, di cui in passato non si è stati in grado di fornire alcuna spiegazione. Per il sistema analitico di codifica descritto in figura 4 abbiamo utilizzato sigle alfabetiche ad indicare i gruppi delle identità funzionali con cui può essere scomposto il modello (A, B, C, D, E, F). A queste sono stati combinati numeri progressivi per siglare univocamente i settori delle identità nominali che costituiscono i singoli gruppi, in modo tale da poter codificare tutte le parti che possono essere state oggetto di una loro descrizione analitica all’interno dei diversi settori del Fegato. Il primo macrogruppo riguarda la descrizione del circolo dell’osservatore, gli assi e i segni cardinali di orientamento su cui poggia l’arco solstiziale. Ne fanno parte i gruppi O, A e C, cui sono associati i seguenti possibili contenuti nominali e concettuali: ____________________________________________________________________ O) Il centro del sistema: umbilicus, mundus, decussis, polo. ____________________________________________________________________ A) Gli assi cardinali: decussis, orientazione rituale, segni cardinali; ____________________________________________________________________ A1) l’asse nord-sud: axis mundi, cardo, polo, nord, sud, orientazione rituale; A2) l’asse est-ovest: asse equinoziale, est, ovest, orientazione rituale. ____________________________________________________________________ C) I segni cardinali orientazione rituale; alba, tramonto, rotazione cosmica; _____________________________________________________________________ C1) direzione nord axis mundi, polo, innalzamento celeste, solstizio d’estate; orientazione polare, rotazione antioraria; C2) direzione sud orientazione solare, rotazione oraria, inabissamento infero, solstizio d’inverno; C3) direzione est alba, orientazione positiva, asse equinoziale, equinozio di primavera, primavera;
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1.1 La struttura analitica del Templum
C4) direzione ovest
tramonto, orientazione negativa, asse equinoziale, equinozio autunnale, autunno. ____________________________________________________________________ Il secondo macrogruppo è costituito dalle identità derivate dalla scomposizione analitica delle parti con le quali possono essere suddivise le 6 porte disposte sull’arco solstiziale, in funzione delle fasi e delle direzioni di levata del sole. Ne fanno parte i restanti gruppi B, D, E ed F, in quanto l’arco solstiziale può di fatto accogliere le seguenti quattro partizioni temporali di moto: gruppo B): individua sull’arco solstiziale le due sole identità di fase di levata del sole: quella ascendente delle ore di luce, compresa tra il solstizio d’inverno e il solstizio d’estate (B1), e quella discendente, tra il solstizio d’estate e il solstizio d’inverno (B2). La prima è considerata positiva e favorevole e la seconda negativa e sfavorevole. Gruppo D): riguarda la partizione data dai soli divisori solstiziali ed equinoziali, a suddividere i quattro trimestri corrispondenti alle 4 fasi stagionali. Gruppo E): indica il possibile sistema di codifica delle 6 porte con cui è suddiviso l’arco solstiziale. Gruppo F): relativo a quanto già abbiamo osservato in figura 3 sulla codifica dei 12 divisori mensili più i 4 separatori stagionali del gruppo D). A questi 4 gruppi abbiamo aggiunto l’ulteriore possibilità che abbiamo trovato essere indicata nell’ultimo capitolo del “Libro di Astronomia” di 1Enoc, quella che vede come ulteriore parte significativa dell’anno la fase del trimestre primaverile della rinascita del ciclo vegetativo, cui segue quella del trimestre estivo. In figura 4 questo gruppo è stato indicato con la lettera G) ed è coincidente con i 2 settori D2 e D3 del gruppo D), a loro volta corrispondenti ai 6 settori del gruppo F) (F5, F6, F7, F9, F10, F11), più i relativi “amministratori
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dei novantuno”, quelli cioè che codificano l’entrata nelle due stagioni in F4 ed F8. Ne consegue la ripartizione in gruppi e relative loro parti, o settori, dello schema seguente, dove per ciascuno sono indicate le associazioni logiche, nominali e concettuali, che le legano al ciclo temporale dell’anno: ____________________________________________________________________ B)
le 2 fasi dell’anno
ore di luce, giorno, stagioni, positività, negatività; ____________________________________________________________________ B1) fase ascendente solstizio d’inverno, inverno, equinodelle ore di luce zio di primavera, primavera, fase vegetativa; B2) fase discendente solstizio d’estate, estate, lavori agridelle ore di luce coli, equinozio autunnale, autunno. __________________________________________________________________ D) le 4 stagioni solstizio d’inverno, equinozio di primavera, solstizio d’estate, equinozio autunnale, fasi, segni cardinali; ____________________________________________________________________ D1) inverno solstizio d’inverno, inizio dell’anno solare, fase ascendente, sud. D2) primavera equinozio di primavera, inizio dell’anno calendariale, fase ascendente, asse equinoziale, est; D3) estate solstizio d’estate, fase discendente, nord; D4) autunno equinozio autunnale, fase discendente, asse equinoziale,ovest. ____________________________________________________________________ E) Le 6 porte separatori, stagioni, segni zodiacali, mesi, bimestri, fasi, segni cardinali; ____________________________________________________________________ E1) porta I inizio dell’anno solare, solstizio d’inverno, inizio inverno, fine
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1.1 La struttura analitica del Templum
autunno, 22 dicembre-20 gennaio, 23 novembre-21 dicembre, Capricorno, Sagittario, sud; E2) porta II inverno, autunno, 21 gennaio-19 febbraio, 23 ottobre-22 novembre, Acquario, Scorpione; E3) porta III fine inverno, equinozio di primavera, 20 febbraio-20 marzo, 23 settembre-22 ottobre, Pesci, Bilancia, est; E4) porta IV inizio dell’anno calendariale, inizio primavera, fine estate, equinozio di primavera, 21 marzo-20 aprile, 24 agosto-22 settembre, Ariete, Vergine, est; E5) porta V primavera, estate, 21 aprile-20 maggio, 22 luglio-23 agosto, Toro, Leone; E6) porta VI solstizio d’estate, fine primavera, inizio estate, 21 maggio-22 giugno, 23 giugno-22 luglio, Gemelli, Cancro, nord. ____________________________________________________________________ F) I 16 separatori mesi, solstizi, equinozi, segni zodiadelle porte cali; __________________________________________________________________ F1) inizio mese I 22 dicembre, solstizio d’inverno, inizio inverno, Capricorno, sud; F2) inizio mese II 21 gennaio, inverno, Acquario; F3) inizio mese III 20 febbraio, inverno, Pesci; F4) inizio mese IV 21 marzo, equinozio di primavera, primavera, asse equinoziale, est, Ariete; F5) inizio mese V 21 aprile, primavera, Toro; F6) inizio mese VI 21 maggio, primavera, Gemelli; F7) fine mese VI 21 giugno, solstizio d’estate, fine primavera, fine fase ascendente; F8) solstizio d’estate 22 giugno, solstizio d’estate, inizio estate, inizio fase discendente, nord;
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F9) F10) F11) F12)
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inizio mese VII inizio mese VIII inizio mese IX inizio mese X
22 giugno, inizio estate, Cancro; 23 luglio, estate, Leone; 24 agosto, estate, Vergine; 23 settembre, equinozio autunnale, inizio autunno, asse equinoziale, ovest, Bilancia; F13) inizio mese XI 23 ottobre, autunno, Scorpione; F14) inizio mese XII 23 novembre, autunno, Sagittario; F15) fine mese XII 22 dicembre, solstizio d’inverno, fine autunno, fine fase discendente; Capricorno. F16) solstizio d’inverno 22 dicembre, solstizio d’inverno, inizio inverno, inizio fase ascendente, sud. _____________________________________________________________________ G) fase vegetativa equinozio di primavera, primavera, del calendario solstizio d’estate, estate. agricolo ____________________________________________________________________ G1) = F4) equinozio di primavera ___________ G2) = F5) G3) = F6) = D2) G4) = F7) ___________ G5) = F8) solstizio d’estate ___________ G6) = F9) G75) = F10) = D3) G8) = F11) _____________________________________________________________________ Considerando ora le entità numeriche delle parti dei gruppi di entrambi i macrogruppi funzionali, quelli cioè relativi al cerchio orizzontale contenente la croce degli assi cardinali e quello del sistema delle porte sull’arco solstiziale, si osserva che: O) è composto da 1 parte; A) da 2; B) da 2; C) da 4; D) da 4, E) da 6, G) da 8 ed F) da 16.
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1.2 La struttura analitica del Fegato di Piacenza
Ne consegue che la destrutturazione analitica del meccanismo dei movimenti di levata del sole sulla geometria del Templum solare del luogo tenderà a generare 8 sezioni informative, rispettivamente suddivise in una sequenza numerica di settori che è 1, 2, 2, 4, 4, 6, 8 e 16. Escludendo al momento, ai fini del confronto che seguirà, il valore unitario di O) e i valori doppi in A)-B) e C)-D), ne risulta che la sequenza numerica significativa per un possibile confronto in altri contesti dovrà essere di 2, 4, 6, 8, 16. Questo significa che se si trasportasse questo modello analitico all’interno di un qualsiasi altro contesto informativo, che a sua volta ne avesse voluto rappresentare il meccanismo e il funzionamento – indicandone, in qualsivoglia forma, figurata, numerica o alfanumerica, la relazione tra le parti – dovremmo ritrovare su di esso rappresentate almeno 5 distinte sezioni informative, a loro volta suddivise in 2, 4, 6, 8 e 16 settori.
1.2 La struttura analitica del Fegato di Piacenza Passando ora al confronto con i settori che suddividono la superficie del Fegato piacentino, è necessario in prima intenzione ricordare nuovamente l’evidenza morfologico-anatomica delle parti che lo compongono. In figura 5 è rappresentato il rilievo fronte-retro del Fegato con indicate le parti anatomiche che risultano chiaramente evidenziate in rilievo sul modello. La divisione primaria è data, sul retro, dal marcato cordone a rilievo del suspensorium hepatis, che disegna la linea netta di suddivisione dei due lobi. Adiacenti a questo troviamo le incisioni dei due nomi etruschi tivs e usils – rispettivamente sul lobo destro (fig. 5, n. 41) e su quello sinistro (fig. 5, n. 42) – che sottolineano la bipartizione primaria dell’insieme, con un lobo dedicato alla Luna (tivs) e con l’altro dedicato al Sole (usils). Ribaltando il modello, la linea del suspensorium hepatis è marcata da una eguale linea di demarcazione dei lobi che è sottostante al rilievo del processus papillaris. Questa linea, che suddivide a sua volta il fronte in due parti, è rimarcata dalla sagoma del lobo destro, che stringe, in alto, su un segmento del nastro periferico ad essa parallelo e, in basso, sul solco dell’incisura umbilicalis. Il lobo destro destro – che sul retro risulta essere dedicata al Sole – comprende così i rilievi
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Processus papillaris
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Processus pyramidalis o processus caudatus
Incisura umbilicalis Vesica fellea
Linea divisoria dei lobi del suspensorium hepatis
41 42
Incisura umbilicalis
Fig. 5 – Rilievo fronte-retro del Fegato di Piacenza, con in evidenza la disamina morfologico-anatomica delle sue parti.
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1.2 La struttura analitica del Fegato di Piacenza
della vesica fellea e del processus pyramidalis, che appaiono come volumi “appoggiati” sul perfetto piano della superficie del modello. L’insieme delinea così 5 diversi settori che sono isolati o delimitati dai volumi dei rilievi stessi e che risultano a loro volta suddivisi in parti da segni o linee divisorie. Una prima ripartizione riguarda il nastro delle 16 celle periferiche, che, come vedremo, è un gruppo a sé stante che risulterà essere diviso dalla linea frontale del suspensorium hepatis in due gruppi di 8 celle. Sul lobo destro, le celle corrispondenti e i relativi nomi incisi, sono indicati con i numeri 16 e da 1 a 7 di figura 6. Un secondo settore omogeneo è compreso tra il processus pyramidalis e la vesica fellea, e riguarda una composizione a “tabella”, di forma grossomodo triangolare, costituita da 6 celle affiancate, divise in due colonne di tre, e da due celle terminali larghe quanto le colonne stesse, per un totale di 8 celle. A questo settore corrispondono i numeri, e i relativi nomi dal 17 al 24 di figura 6. Un terzo settore è dato dallo stesso volume “a goccia” della vesica fellea, che risulta essere suddiviso nelle 4 celle numerate da 25 a 28, e un quarto è compreso tra questa e la precedente linea di divisione dei lobi, dove un segmento ad essa pressoché perpendicolare divide la piccola superficie nelle due celle di cui ai numeri 29 e 30. Concludendo i settori del lobo destro, un quinto settore è infine definito dai due nomi incisi che compaiono in alto, tra i volumi del processus pyramidalis e del processus papillaris, e che sono da considerarsi un’unica unità informativa composta dai numeri 39 e 40. Alla sinistra della linea frontale del suspensorium hepatis, sul lobo che nel retro è dedicato alla Luna e interni al circuito del nastro periferico, compaiono infine due soli settori. Il primo è marcatamente inciso nella grande ruota raggiata che copre quasi per intero la superficie del lobo sinistro e che è costituita dalle 6 celle radiali indicate con i numeri dal 31 al 36. Il secondo, su cui in seguito ci soffermeremo lungamente, è dato dalla superficie compresa tra la ruota raggiata, l’incisione frontale del suspensorium e il rilievo del processus papillaris, e comprende le due importantissime unità informative costituite dai nomi metlvmθ e leθam, disposte ortogonalmente l’una con l’altra: la prima allineata con la base del processus papillaris e la seconda posta parallelamente all’incisione di divisione dei lobi (vd. fig. 6, nn. 37-38).
Cap. I – Il Templum solare e il Fegato di Piacenza
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
tin/cil/en tin/θvf tins/θne uni/mae tec/vm lvsl neθ caθ fuflu/ns selva leθns
12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22
tluscv cels cvlalp vetisl cilensl pul leθn la/sl tins/θvf θufl/θas tinsθ/neθ
23 caθa 24 fuf/lus 25 tvnθ 26 marisl/laθ 27 leta 28 neθ 29 herc 30 mar 31 selva 32 leθa 33 tlusc
35
34 lvsl/velϰ 35 satr/es 36 cilen 37 leθam 38 metlvmθ 39 mar 40 tlusc 41 tivs 42 usils
Fig. 6 – Tavola del contenuto delle 42 iscrizioni interne alle caselle, secondo la rilettura di Adriano Maggiani (da MAGGIANI 1984).
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1.2 La struttura analitica del Fegato di Piacenza
In figura 7 si riassume quanto abbiamo osservato e sono evidenziati tutti i raggruppamenti di settori che descrivono l’articolato disegno dell’intera superficie del bronzo, con indicato per ognuno il numero di parti che lo compongono e il relativo codice. Ne risultano così sette gruppi informativi, con una suddivisione in parti che è data dalla sequenza 1, 2, 2, 4, 6, 8, 16. Dunque, escludendo il valore unitario e unificando i valori doppi, vi ritroviamo l’esatta sequenza che già abbiamo indicato per il modello analitico di confronto, che era appunto di 2, 4, 6, 8 e 16 . L’evidenza oggettiva del bronzo piacentino è dunque, in prima analisi, perfettamente coerente con il modello teorico, e ben tre sezioni informative presentano lo stesso valore univoco di 6, 8, 16 unità che già abbiamo indicato nella precedente sequenzacon nei gruppi E), G) ed F). Questi settori risultano essere, nell’ordine: le 6 parti della “ruota raggiata” presente sul lobo sinistro; le 8 parti dello schema regolare presente ai piedi del pronunciato rilievo del processus pyramidalis, sul lobo destro; e infine le 16 parti dell’anello periferico che circoscrive le regioni interne. Prima di giungere ad un’analisi dettagliata dei singoli settori, questo solo principio analogico di reciproca identità porta ad una serie di considerazioni di straordinaria importanza per poter cogliere la chiave interpretativa dell’insieme. Se infatti l’ipotesi risultasse essere vera, si dovrebbe osservare che: Settore E); le 6 caselle della “ruota raggiata” che occupano quasi integralmente la superficie del lobo sinistro, dovrebbero necessariamente corrispondere ai 6 nomi delle porte, e/o delle relative divinità, che suddividono l’arco solstiziale del Templum solare nel precedente gruppo E). Settore G); le 8 caselle disposte ai piedi del processus pyramidalis, sul lobo destro, dovrebbero necessariamente corrispondere alle 6 stazioni mensili e ai 2 separatori, equinoziale e solstiziale, del precedente gruppo G), quello cioè che individua i due trimestri, primaverile ed estivo, relativi al ciclo vegetativo, da equinozio di primavera ad equinozio autunnale.
Cap. I – Il Templum solare e il Fegato di Piacenza
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Fig. 7 – Scomposizione del contenuto informativo del Fegato di Piacenza nei raggruppamenti di settori che ne compongono il disegno della superficie (dis. A. Gottarelli).
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1.2 La struttura analitica del Fegato di Piacenza
Settore F); le 16 caselle del nastro periferico dovrebbero necessariamente corrispondere alle sedici stazioni dei separatori dell’arco solstiziale del Templum solare del precedente gruppo F). In questo caso, le abbreviazioni di nomi in esse contenute dovrebbero indicare i 12 nomi dei marcatori di mese e i 4 nomi delle stazioni equinoziali e solstiziali, cui potranno essere stati associati i nomi abbreviati di divinità corrispondenti alle relative stazioni temporali che marcano il ciclo dell’anno liturgico. Detto questo, va osservato che, se l’ipotesi venisse confermata le unità nominali dei tre settori dovrebbero essere reciprocamente collegate dalle relazioni spaziali e dai vincoli funzionali d’identità che caratterizzano la figura delle sei porte del Templum solare, così come abbiamo sintetizzato in figura 4. Queste relazioni logiche sono di particolare importanza, perché sono quelle che ci consentiranno in seguito di giungere ad una dimostrazione generale dell’ipotesi andando a verificare se i medesimi vincoli risulteranno essere ugualmente presenti nelle numerose ripetizioni di nomi che legano i diversi settori. In particolare, il diagramma di figura 8, che riproduce lo schema delle 6 porte con cui è suddiviso l’arco solstiziale, mostra le relazioni di perfetta identità che riguardano i due gruppi F) e G), con: F4)=G1; F5)=G2; F6)=G3; F7)=G4; F8)=G5; F9)=G6; F10)=G7; F11=G8 Relazioni invece di sola contiguità spaziale, legano entrambi i gruppi F) e G) con il gruppo E), dove i nomi attribuiti alle aperture delle porte, da E1 a E6, potrebbero collegarsi con i rispettivi quattro vertici, marcati da F), quelli che delimitano le porte stesse. Ne conseguono le ulteriori seguenti relazioni: la porta in E1 è delimitato dai tratti separatori in F16, F1, F2, F14, F15; la porta in E2 da quelli in F2, F3, F13, F14; la porta in E3 da F3, F4, F12, F13; la porta in E4 da F4, F5, F11, F12; la porta in E5) da F5, F6, F10, F11; ed infine, la porta in E6 da F6, F7, F8, F9, F10. Questa struttura di relazioni logiche andrà confrontata con la natura dei restanti raggruppamenti, che sono, rispettivamente, il gruppo D) dei 4 settori con cui è ripartita la vesica fellea, e i due gruppi da 2, A)
Cap. I – Il Templum solare e il Fegato di Piacenza
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Fig. 8 - Relazioni d’identità, o di contiguità, dei gruppi E), F) e G), all’interno della geometria delle sei porte del Templum solare del luogo sull’arco solstiziale (dis. A. Gottarelli).
e B) che sono contigui al processus papillaris. Analizzeremo in seguito il meno rilevante gruppo da 1 che è tra il processus papillaris ed il processus pyramidalis, contenente l’iscrizione mar/tlusc1. Prendendo ora in esame il gruppo D), che è composto da 4 settori, si osserva che nel modello teorico i gruppi di 4 sono due, se non addirittura tre, se si considera che anche il gruppo F), che è di 16 caselle, è in realtà composto dai 12 separatori mensili più i 4 delle stazioni equinoziali e solstiziali indicati da F16, F4, F8 e F12. Questi 4 termini, che, come si disse, sono in più rispetto al tradizionale numero dei mesi che è 12, sono in realtà collegati nominalmente e analogicamente con tutte le identità quaternarie presenti all’interno del sistema. Queste rimandano infatti ai 4 divisori corrispondenti alle
1 Il settore accoglie in realtà i due nomi ma(isl) e tlusc(us) che vanno comunque intesi come un’unica entità informativa: “(...) poiché si tratta, come hanno concordemente ritenuto tutti i commentatori prima del Maggiani, di un’unica casella, le cui scritte mar(isl) e tlusc(us) non si ha ragione di separare, in presenza di tante coppie di nomi ospitate, come si è visto, in singole caselle”; cfr. COLONNA 1994 = G. Colonna, “A proposito degli dèi del Fegato di Piacenza”, in “Studi Etruschi”, vol. LIX, MCMXCIII, Serie III, 1994, pp. 123-127..
40
1.2 La struttura analitica del Fegato di Piacenza
principali stazioni dell’anno solare – i due solstizi e i due equinozi – e risultano così ugualmente associabili ai 4 gruppi di tre settori che seguono tali stazioni, che sono i trimestri corrispondenti alle stagioni del precedente gruppo D). Allo stesso modo possono essere collegati con le 4 direzioni cardinali del precedente gruppo C), come indicato in figura 4. I quattro limiti dell’arco solstiziale sono infatti analogicamente assimilabili a tali direzioni, in quanto i due equinozi si pongono in relazione con l’asse equinoziale A2, essendo associabili all’est di C3, l’equinozio di primavera, e all’ovest di C4, l’equinozio autunnale. Lo stesso può dirsi per il solstizio d’inverno che, ponendosi all’estremità della diagonale sud-est, si collega con il sud in C2, e così per il solstizio d’estate, che ponendosi a sua volta all’estremità della diagonale nord-est, si collega con il nord in C1. È dunque ragionevole pensare che la presenza sulla superficie del Fegato di un solo gruppo di 4 settori sia in ogni caso coerente con la possibilità che con 4 informazioni si riuniscano tutti i termini quaternari dei precedenti gruppi. Per cui, andando a riconoscere in esso la suddivisione in 4 dell’arco solstiziale del gruppo D), a questa potrebbero essere stati collegati anche i quattro termini dei restanti gruppi C) ed F). Se ne deduce così una ulteriore condizione utile alla verifica dell’ipotesi che è relativa al gruppo D, e cioè che: Settore D); le 4 caselle che suddividono la vesica fellea dovrebbero corrispondere a nomi comuni, e/o di divinità, in vario modo collegati con le quattro stagioni dell’anno, con i 4 separatori equinoziali e solstiziali, e/o con i 4 segni cardinali. Si stabilisce così una nuova serie di relazioni che estende il precedente diagramma in figura 8 a quello di figura 9, avendo che: D1) D2)
D3)
l’inverno, si dovrà porre in relazione con C2 (il solstizio d’inverno) e con i separatori del gruppo F), F16, F1, F2, F3, F4; la primavera, si dovrà porre in relazione con C3 (l’equinozio di primavera) e con i separatori dei gruppi F) e G), F4=G1, F5=G2, F6=G3 ed F7=G4; l’estate, si dovrà porre in relazione con C1 (il solstizio d’estate) e con F8=G5, F9=G6, F10=G7, F11=G8, F12;
Cap. I – Il Templum solare e il Fegato di Piacenza
D4)
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l’autunno, si dovrà porre in relazione con C4 (l’equinozio d’autunno) e con i separatori F12, F13, F14, F15.
Individuate così le identità che dovranno corrispondere al gruppo D), restano ora da verificare quelle dei restanti due gruppi di 2 caselle disposti presso il processus papillaris e in adiacenza alla vesica fellea. Si noti che anche qui la presenza di due gruppi composti da 2 settori è coerente con i due gruppi di 2 del modello analitico di riferimento. Questi erano le 2 unità informative di A), corrispondenti ai due assi cardinali, e le 2 di B), relative alle due fasi, ascendente e discendente, del moto solare da solstizio a solstizio. Il dato è dunque anche in questo caso perfettamente coerente con l’ipotesi generale, ma resta da stabilire a quali gruppi, tra A) e B), vadano rispettivamente assegnati i due gruppi presenti nel modello reale. Il problema, in realtà, appare di rapida soluzione se si osserva che il gruppo B) del modello teorico risulta essere direttamente collegato con il gruppo D), in quanto B1 rappresenta la fase ascendente delle
Fig. 9 – Relazioni d’identità, o di contiguità, dei gruppi D), C), E), F) e G), all’interno della geometria delle sei porte del Templum solare del luogo (dis. A. Gottarelli).
42
1.2 La struttura analitica del Fegato di Piacenza
ore di luce del giorno che avviene sui settori in D1 e D2, mentre B2 rappresenta la fase discendente che avviene sui settori D3 e D4. Dato che il gruppo D), con D1, D2, D3 e D4, dovrebbe corrispondere ai quattro settori presenti sulla vesica fellea è più che logico pensare che il gruppo di 2 caselle corrispondente a B) sia quello ad essa adiacente. La diversa disposizione delle 2 caselle all’interno dei due gruppi è inoltre particolarmente significativa, perché il settore adiacente a D) è sagomato all’interno di un perimetro precisamente marcato, che a sua volta risulta essere stato diviso in 2 da un’ulteriore incisione, quasi si volesse rendere visivamente evidente che quelle 2 parti sono la scomposizione in 2 delle 4 dell’adiacente ripartizione della vesica fellea. Se così fosse, sarebbe dunque possibile giungere ad una ulteriore conclusione che rigurda B) e cioè che: Settore B); le 2 caselle che suddividono il settore adiacente alla vesica fellea potrebbero corrispondere ai due nomi, e/o ai nomi delle divinità, che sono attribuiti alle due fasi con cui può essere diviso l’anno tra i due solstizi e tra i due equinozi, fasi che a loro volta comprenderebbero i 4 settori stagionali in D1, D2 e D3, D4. Ne conseguono le due ulteriori relazioni “a cascata” che estendono lo schema logico di figura 9 a quello di figura 10, dove al precedente diagramma si aggiungono le relazioni di B1 con D1, D2 e di B2 con D3, D4. Resta ora, in ultimo, da analizzare il rimanente settore composto di di 2 parti, quello che circonda il processus papillaris, e che dovrebbe, a questo punto, necessariamente corrispondere all’ultimo rimasto dei precedenti, e cioè ad A), gruppo che è stato da noi associato alla croce degli assi cardinali, con l’asse nord-sud in A1 e l’asse est-ovest in A2. Questa sezione, come vedremo, ha una importanza fondamentale per la comprensione del tutto, perché andrebbe collegata con il circolo dell’osservatore e con gli assi e i segni cardinali su cui poggia l’arco solstiziale, differenziandosi così dai gruppi precedenti in quanto inerente alla sola dimensione spaziale del Templum, e questo introduce il tema sostanziale della soluzione che venne adottata all’interno del modello bronzeo per consentirne la corretta orientazione, sia in termini relativi, sia assoluti.
Cap. I – Il Templum solare e il Fegato di Piacenza
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Fig. 10 – Relazioni d’identità, o di contiguità, dei gruppi B), D), C), E), F) e G), all’interno della geometria delle sei porte del Templum solare del luogo (dis. A. Gottarelli).
1.3 Il suspensorium hepatis e il sistema di orientazione La possibilità che i 2 nomi indicati all’interno del settore A) possano collegarsi con i valori nominali di A1 e A2 del modello analitico, trova anche qui un elemento decisivo nella particolare disposizione che le due entità assumono all’interno del settore. Se pure la superficie di A) non risulti essere stata ulteriormente ripartita da alcun segno divisorio, tale divisione è comunque già saldamente evidenziata dal rilievo del processus papillaris2 e, in forma ancor più esplicita, dal fatto che i due nomi che vi compaiono, metlumθ e leθam, risultano essere stati disposti esattamente come sarebbe stato logico aspettarsi ipo-
2 Vd. COLONNA 1994, p. 128.
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1.3 Il suspensorium hepatis e il sistema di orientazione
tizzando per essi una qualche relazione con i due assi cardinali, e cioè perpendicolarmente l’uno con l’altro. La cosa è tanto più straordinaria se si considera che A1 e A2, insieme con B1 e B2, sono le due entità da cui derivano a “cascata” tutte le successive diramazioni analogiche tra le parti, per cui è logico immaginare che la loro immediata identificazione all’interno della complessa griglia di settori della superficie del Fegato, dovesse essere stata, anche per un utilizzatore esperto, la prima condizione per “inizializzarne” la sequenza di lettura. Le direzioni cardinali, insieme al centro del giro d’orizzonte dell’osservatore, rappresentano infatti il sistema di riferimento spaziale assoluto su cui orientarsi per la lettura delle unità temporali descritte all’interno della figura del Templum solare del luogo, e il rapporto di analogia funzionale che doveva legare la geometria di quest’ultimo con i settori del Fegato, impone che la loro descrizione dovesse essere al suo interno intuitiva e, al tempo stesso, autosignificante del suo utilizzo. Va ricordato che, in questa concezione del Mondo, il principio di mediazione tra i diversi livelli cosmici veniva definito dal vincolo assiale che attraversava gli assi cardinali del sistema. Questo vincolo si identificava, in senso discendente, con la sequenza axis mundi-umbilicus-mundus, ed è quindi intuitivo che attraverso l'omotetia tra l‘“asse del mondo” e l’“asse ombelicale” si giungesse ad associare la figura del fegato all'immagine stessa del templum celeste, secondo un procedimento proiettivo di riflessione diretta, e dunque di “specularità”. In questa relazione “analemnica”, la prima struttura che doveva essere riflessa sulla sua superficie, e che doveva così costituire il sistema di riferimento per la codifica dello schema della dimensione temporale, era la figura dei cardini dell'ordine spaziale, quella che è espressa dai suoi principi costitutivi di “assialità”, “circolarità” e “centro”. La linea di divisione dei due lobi, sottolineata nel retro da quel suspensorium hepatis su cui vertono, sul fronte, sia il processus papillaris sia lo stesso settore A), altro non sarebbe che l’elemento costitutivo di questo primo livello, coincidendo, secondo una lettura oramai consolidata, con l’asse nord-sud, e dunque, con il cardine di rotazione della dimensione spaziale del Templum. In quanto elemento di divisione dei due lobi, il suspensorium hepatis è
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anche ciò che ancora Efestione di Tebe indicava essere la linea di separazione tra il “sopra” e il “sotto” del confine tra luce e tenebra e questo ben spiega il fatto che sul retro del nostro fegato siano stati incisi al genitivo i nomi usils e tivs – “del sole e della luna” – a voler chiaramente significare che: “l’una è la metà celeste e diurna, sede del sole; l’altra è la metà infera e notturna, sede della luna”. È per questi fondati motivi che, fin dai primi passi della ricerca, l’asse del suspensorium è stato oggetto di tesi diverse e discordanti in risposta alla domanda se esistesse o meno un sistema di orientazione del modello, e, in caso affermativo, quale questo dovesse essere3. Punto fermo per tutti restava la chiara evidenza del fatto che il contenuto epigrafico del bronzo mostrava un verso di scrittura assolutamente prevalente disponendo l’oggetto con la linea di divisione dei lobi sull’asse verticale, mantenendo cioè il processus papillaris in alto, il processus pyramidalis a destra e i sei settori della ruota raggiata a sinistra (vedi figure 5-6). Secondo la tesi sostenuta per primo da Grenier, poi ripresa da Bloch, questo verso andava rapportato con la direzione nord, per cui l’orientazione del Fegato si sarebbe ottenuta ponendo questi in alto, lungo la direzione descritta in figura 11, con l’est che andava a porsi necessariamente alla sua destra4. Si è già osservato che il problema dell’orientazione del modello ha proposto, nel tempo, uno sconcertante balletto di soluzioni il cui risultato è stato
Vd. PALLOTTINO 1956 = M. Pallottino, “Deorum Sedes”, in "Studi in onore di A. Calderini e R. Paribeni", pp. 223-234, Milano, 1956, p. 224; DEECKE 1880 = G. Deecke, “Das Templum von Piacenza”, in "Etruskische Forschungen”, IV Heft, Stuttgard, 1880; DEECKE 1882 = G. Deecke, “Nachtrag zum Templum von Piacenza”, in "Etruskische Forschungen", II Heft, Stuttgard, 1882; THULIN 1906A = C.O. Thulin, “Die Gòtter des Martianus Capella und der Bronzeleber von Piacenza”, in "Religions geschichtliche Versuche und Vorarbeiten, herausgegeben von A. Dieterich und R. Wùnsch", III Bd. - I Heft. Giessen, 1906; THULIN 1906B = C.O. Thulin, “Die Etruskische Disciplin - II Die Haruspicin”, in "Gòteborgs Hògsholas Arsschrift", 1906. Contrariamente a quanto avevano sostenuto sia Deecke sia Thulin, che indicavano nel suspensorium hepatis la linea est-ovest, “ab oriente ad occasum”, Pallottino, più opportunamente, considera la divisione dei due lobi indicativa dell’asse nord-sud, ma giunge poi, per ragioni di opportunità legate all’analisi del contenuto epigrafico, ad indicare il nord nel separatore tra cilensl e tin/cilen e dunque secondo una direzione obliqua rispetto al suspensorium hepatis. Questa ipotesi, in seguito dai più accettata, è in realtà del tutto inappropriata se viene riferita alla sola “tettonica” del fegato. Per la discussione su questo punto, si veda in particolare MAGGIANI 1984A = A. Maggiani, “Qualche osservazione sul Fegato di Piacenza”, in “Studi Etruschi”, vol. L, MCMLXXXII, Serie III, 1984, p. 58-59, nota 23. 4 Vd. GRENIER 1946 = A. Grenier, “L'orientation du foie de Plaisance”, in "Latomus", 1946, p. 295; BLOCH 1963 = R. Bloch, “Les prodiges dans l’antiquité”, Paris, 1963, p. 34 e sgg. 3
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1.3 Il suspensorium hepatis e il sistema di orientazione
Fig. 11 – Orientazione di lettura delle iscrizioni contenute nel modello di fegato. Per la maggior parte delle iscrizioni l’orientazione è quella in figura: fanno eccezione le iscrizioni contenute nei settori A1, A2, B, D, H. La lettura di leθam in A2, mar ed herc in B, neθ in D, e mar/tlusc in H, richiede di ruotare il modello di 90° in senso antiorario rispetto al verso di lettura prevalente. La lettura del solo metlumθ, in A1, richiede di ruotare il modello di 180° (dis. A. Gottarelli).
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quello di avere deviato l’attenzione degli studiosi dall’ovvietà di tale soluzione. In particolare, l’ipotesi basata sul presupposto, non dimostrato, che la sequenza dei teonimi del nastro periferico fosse da confrontarsi con la lista di Marziano Capella, portò Pallottino a sostenere la soluzione che è stata poi dai più accreditata, quella cioè che assegnerebbe il nord presso il separatare del nastro periferico tra cilensl e tin/cilens (fig. 6, n. 16 e n. 1), e dunque lungo un asse che non coinciderebbe con la linea del suspensorium hepatis e che risulterebbe anzi deviato da questo in senso orario per l’intera estensione della lunga casella di cilensl 5. In realtà, il confronto con la lista di Marziano derivava dalle prime interpretazioni sul significato delle 16 regioni del nastro periferico che vennero date da Deecke e Thulin già nei primi passi della ricerca, mentre sulla base della nostra ipotesi, tale confronto è ora da considerarsi del tutto decaduto. Gli assi descritti in figura 11 mostrano infatti chiaramente come l’assegnazione del nord in alto, in corrispondenza del divisorio tra le sedi di vetisl e di cilensl (fig. 6, n. 15 e n. 16), renda il sistema di orientazione perfettamente coerente con le direzioni ortogonali dei versi di lettura di metlumθ e leθam. Il settore A) risulterebbe infatti molto opportunamente localizzato proprio in corrispondenza dell’asse spaziale che divide i due lobi e che andrebbe così a coincidere con quell’asse nord-sud su cui, non a caso, ritroviamo incisi proprio quegli stessi nomi che andiamo ora ad assegnare ad A1 e ad A2. Se i due termini si riferissero ai 2 assi cardinali, e in considerazione della loro disposizione ortogonale e del fatto che il nord starebbe in alto, è allora anche possibile che con essi si volessero indicare le due sole direzioni del sud e dell’est. Se così fosse, i due nomi corrisponderebbero anche a C2 e C3 e alle identità degli altri gruppi che a questi sono logicamente collegati. Ponendo infatti il nord in alto, rispetto al verso prevalente delle parti iscritte, i due nomi risultano essere
5 Vd. PALLOTTINO 1956, p. 231. È evidente la consapevolezza di Pallottino della fondatezza dell’ipotesi di Grenier: “(...) non si può negare che essa soddisfi alle esigenze della geometria formale del fegato, alla distribuzione generale delle divinità favorevoli e sfavorevoli, e soprattutto alla bipartizione dello spazio indicata dalla linea del suspensorium hepatis, solare verso est, lunare verso ovest (...) Ma accogliendo l’ipotesi di Grenier ci troveremmo nella totale impossibilità di avvalerci dei dati della tradizione per confermare l’esatta posizione delle singole divinità. Tutte le serie di corrispondenze con le regioni di Marziano risulterebbero spostate.”; cfr. p. 231.
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1.3 Il suspensorium hepatis e il sistema di orientazione
stati incisi con un verso di lettura che, in forma alquanto esplicita, è rovesciato di 180° rispetto al nord, nel caso di metlumθ, e di 90° in senso antiorario nel caso di leθam. Questo fa sì che, in forma autoevidente e coerente con il significato loro attribuito, il rispettivo verso di lettura obbligasse l’osservatore a ruotare il proprio punto di vista nelle due direzioni a cui i due nomi andavano associati, consentendogli di individuare, senza ambiguità, le direzioni del sud e dell’est all’interno del sistema relativo d’orientazione che vi era descritto. Una volta che la linea mediana dei lobi fosse stata allineata con la direzione reale dell’asse meridiano del luogo6 e mantenendo il verso prevalente di lettura del fegato con il nord in alto, l’utilizzatore avrebbe potuto ottenere l’orientamento assoluto del modello in riferimento ai movimenti dei corpi celesti, dando inizio alle ulteriori fasi di consultazione di quel meccanismo di rappresentazione analogica del Templum solare che era indicato nelle diverse strutture informative presenti al suo interno. Se l’allineamento di queste strutture con il meccanismo generale di lettura del tempo sarà l’obiettivo del prossimo capitolo, vale il fatto che anche qui si confermi per il gruppo A) l’assoluta rispondenza analogica tra il modello analitico teorico e i settori informativi effettivamente presenti sulla superficie del Fegato. Vedremo, inoltre, che l’analisi dei due termini spaziali metlumθ e leθam sarà il punto di partenza per il confronto decisivo che opereremo tra le relazioni logiche fin qui delineate e quelle riscontrabili all’interno del contenuto epi-
6 Per la descrizione dell’asse meridiano del luogo vd. GOTTARELLI 2013 = A. Gottarelli, “Contemplatio. Templum solare e culti di fondazione. Sulla regola aritmogeometrica del rito di fondazione della città etrusco-italica tra VI e IV secolo a.C.”, Bologna, 2013, pp. 6061. Il metodo utilizzato compare nel primo libro del De Architectura. Qui Vitruvio indica con grande chiarezza l’unico metodo tecnicamente possibile, che è quello che utilizza uno gnomone, intorno al quale sono state disegnate una o più circonferenze, posizionato in quello che sarà il decussis della città. Si determineranno così i due istanti simmetrici in cui l’ombra tocca la circonferenza prima e dopo il mezzogiorno (VITR., De arch,. I, 7, 12). La corda che unisce i due punti sarà l’“asse equinoziale”, mentre la perpendicolare che dal suo punto mediano collega il centro della circonferenza, indicherà l’asse meridiano, ovvero la direzione dell’asse della rotazione cosmica. L’eccezionale rinvenimento del “quadrante solare di Monte Bibele”, presso l’omologa area archeologica in provincia di Bologna, dimostra che questa tecnica era comunemente in uso presso gli etruschi già agli inizi del IV secolo a.C.; per l’anteprima del quadrante di Monte Bibele vd. GOTTARELLI 2015 = A. Gottarelli (a cura di), “Archeologia nell’alta valle dell’Idice. Guida turistica, archeologico-naturalistica”, Bologna, 2015, pp. 64-68.
Cap. I – Il Templum solare e il Fegato di Piacenza
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grafico dei diversi settori del modello. Nel precedente volume, muovendo i primi passi della ricerca, avevamo anche osservato che gli stessi nomi usils e tivs, presenti sul retro del fegato, potevano suggerirci l’idea che il bronzo contenesse al suo interno le istruzioni e gli aiuti per chi avesse voluto utilizzarlo. Lo stratagemma della disposizione del verso di lettura ortogonale dei due nomi metlumθ e leθam sembrerebbe ora confermare questa intuizione, e questo, come già si disse, porterebbe nuovamente a pensare che la complessità informativa del bronzo piacentino sia tale ai nostri occhi non meno di quanto lo dovesse essere agli occhi di un antico osservatore. Ciò significa che la possibilità di spiegare l’intricata composizione delle evidenze informative ed epigrafiche che vi compaiono è insita non solo nella base razionale da cui dipendono, ma, ancor più, dalla nostra capacità di rileggerne ogni loro parte nella stessa sequenza logica con cui l’insieme venne organizzato ai fini della sua intelligibilità. E questa “intelligibilità” altro non è che la condizione su cui abbiamo fin da subito riposto ogni nostra possibile speranza di riuscita, quando in altra sede si disse che “l’occhio con cui i nostri antenati guardarono l’oggetto è il nostro stesso occhio; la mano con cui lo manipolarono è la nostra stessa mano; e la mente con cui lo ‘pensarono’, è la nostra stessa mente”.
2. La dimensione spaziale del Templum Orientazione e assi visuali del Fegato di Piacenza
La suddivisione in 2, 2, 4, 6, 8 e 16, che è interna ai sei gruppi informativi presenti sulla superficie del Fegato, risponde dunque pienamente alla eguale ripartizione che era stata prevista per il modello teorico, relativamente ai gruppi e alle relative definizioni che abbiamo indicato con A), B), D), E), G) ed F). Il contenuto epigrafico dei nomi, o delle abbreviazioni, contenute in quei settori dovranno ora mostrarsi coerenti con le relazioni analogiche, formali e di significato, che abbiamo visto dover intercorrere tra le parti derivate dalla scomposizione analitica della geometria del Templum solare del luogo. Si è detto inoltre che la configurazione generale della distribuzione dei settori dovrà essere organizzata in modo tale che l’insieme possa essere comprensibile e autoevidente a persona che, comunque precedentemente istruita sul modello concettuale che il Fegato doveva rappresentare, volesse interpretarne il contenuto. Questo implica per noi un ulteriore sforzo di immedesimazione che ci porti a comprendere quale potesse essere la sequenza razionale di inizializzazione della lettura dei diversi settori.
2.1 La bipartizione usils e tivs: destra, sinistra, sopra, sotto È ragionevole pensare che la catena delle informazioni presenti sul Fegato fosse stata impostata in modo tale da poter garantire una suc-
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2.1 La bipartizione usils e tivs: destra, sinistra, sopra, sotto
Fig. 12 – In alto, il retro del Fegato di Piacenza con in evidenza la linea marcata del suspensorium hepatis o ligamento falciforme che suddivide i due lobi. Sul lobo di sinistra vi è la scritta usils (del Sole) e su quello di destra la scritta tivs (della Luna). Capovolgendo il bronzo (in basso) risulterà così che la parte destra sarà quella celeste, solare e favorevole, mentre quella di sinistra sarà lunare, infera e sfavorevole (dis. A. Gottarelli).
Cap. II – La dimensione spaziale del Templum
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cessione di passaggi che muovesse dal dato più semplice al dato più complesso, e questo può portare a pensare che l’insieme del modello fosse stato organizzato per indirizzare una prima attenzione ai soli settori che contenevano informazioni di tipo binario. La prima macroevidenza di questa possibilità è sicuramente data dall’attenzione che è indotta nell’osservatore dalla presenza dei due soli nomi usils e tivs che si trovano scritti sul retro dei due lobi. Si è già osservato nel precedente volume che la prima chiave interpretativa dell’insieme sarebbe qui indicata dal fatto che i due nomi compaiono isolati sulla nuda convessità del retro a rimarcare i due lobi del Fegato, quasi a voler suggerire: “ricorda che su questo lobo c’è il moto del Sole e che su quest’altro c’è il moto della Luna”. Avuta ben chiara tale indicazione, risulterà altrettanto istintivo capovolgere il bronzo per cogliere il colpo d’occhio sulla figura dei settori che corrispondono sul fronte alle due indicazioni presenti sul retro. Tenendo l’oggetto tra le mani, risulterà poi naturale ruotare il bronzo secondo il verso principale della maggior parte delle iscrizioni, e dunque, come si è detto, con il lobo di usils, quello del sole, a destra, e quello di tivs, della luna, a sinistra. Questa primissima forma di orientazione consentirà, già da subito, di soddisfare i principi sacrali di positività e negatività delle direzioni spaziali a cui l’officiante doveva essere stato iniziato, e questo sulla sola base del sistema di riferimento interno che deriva dall’indicazione dei nomi dei due grandi astri incisi sul retro. La parte “solare”, corrispondente alla mano destra, in quanto luminosa e aerea, indicherà infatti la direzione fausta e favorevole: mentre la parte “lunare”, corrispondente alla mano sinistra, in quanto notturna ed infera, indicherà la direzione infausta e sfavorevole1. Alla linea del suspensorium hepatis o ligamento falciforme, marcatamente presente sul retro, verrà allora a corrispondere, sul fronte, l’asse verticale della linea visuale del “davanti” e del “dietro”, mentre l’asse longitudinale che attraversa i due lobi sarà sottolineato dalla 1 Vd. PALLOTTINO 1956, cfr. p. 225:”(..) il suspensorium hepatis nella faccia convessa del fegato rappresenta una linea di bipartizione dello spazio, i nomi incisi ai due lati della linea stessa, usils e tivs, debbono riferirsi a ciascuna delle due parti in cui lo spazio è diviso. Ovviamente usils indicherà la metà dello spazio (celeste) consacrata o comunque collegata al sole: che è quanto dire il mezzogiorno o l’oriente. E di conseguenza tivs, la luna, significherà la metà opposta, notturna e vespertina.”.
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2.1 La bipartizione usils e tivs: destra, sinistra, sopra, sotto
“mano destra” e dalla “mano sinistra” di chi sta reggendo l’oggetto. Dalla “melotesia zodiacale del fegato” di Efestione di Tebe sappiamo che la linea verticale di divisione dei lobi veniva considerata la linea di separazione tra il “sopra” e il “sotto” dei due emisferi terrestri. Egli infatti dice che: “la parte destra del viscere conviene all’emisfero sopra l’orizzonte, e la sinistra a quello che giace sotto l’orizzonte (...)2. Il concetto risulta anche qui perfettamente rispettato, perché il lobo ove ha sede il sole è quello destro e quello ove ha sede la luna è il sinistro, per cui il primo corrisponderà all’emisfero diurno del “sopra”, che è ugualmente fausto e positivo, mentre il secondo corrisponderà a quello notturno e infero del “sotto”, che è appunto negativo. Ne consegue che la linea di separazione dei due lobi andrà anche intesa come una sorta di linea equatoriale tra l’emisfero celeste e quello infero, venendo così a coincidere con la “soglia” delle porte dell’arco solstiziale rappresentata dalla linea circolare dell’orizzonte. In altra sede abbiamo chiarito come i sistemi di orientazione rituale dell’antichità andassero sempre considerati in relazione alla “positività” dell’arco d’orizzonte dove sorge il sole, rispetto alla “negatività” del suo punto opposto di tramonto. All’interno dei concetti relativi di “destra” o di “sinistra”, la positività dell’uno o dell’altro dipenderà dunque da come si è preliminarmente orientato l’officiante in senso assoluto, se cioè fronteggiando la direzione nord o se piuttosto quella sud3. Il fatto che la direzione positiva sia quella del lobo del sole sulla parte destra del Fegato, implica, senza margini di ambiguità, che in quella direzione andrà indicato l’est, per cui il nord, di conseguenza, dovrà essere in faccia all’osservatore e dunque in alto rispetto al modello. Come già si è osservato nel precedente capitolo, il nord cadrebbe
2 Cfr. BEzzA 1995 = G. Bezza, “Arcana Mundi. Antologia del pensiero astrologico antico”, voll. I-II, Milano, 1995, vol. I, p. 546; GOTTARELLI 2018, p. 171. 3 GOTTARELLI 2013, pp. 65-69; “La direzione ‘positiva’ è sempre ex oriente, perché questo è il lato della periodica rinascita del giorno e Plinio è esplicito su questo quando afferma che ‘i fulmini da sinistra sono considerati favorevoli perché l’alba avviene sul lato sinistro del cielo’ (PLIN. Nat. Hist II, 142). Disponendosi con le braccia in direzione Est-Ovest, sarà dunque sempre ‘positivo’ il lato ad Est, perché questa è la direzione dove sorge il sole, mentre sarà negativo il lato ad Ovest, che è la direzione del suo tramonto. Disponendosi invece con le braccia lungo l’asse Nord-Sud, sarà sempre ‘positiva’ la direzione Nord, che è la direzione dell’innalzamento celeste dell’asse cosmico: mentre sarà ‘negativa’ quella rivolta a Sud, perché questo è il luogo del suo inabissamento nelle profondità infere”: cfr. p. 65.
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così tra le caselle del nastro periferico di vetisl e di cilensl (n. 15 e n. 16 di fig. 6) e tale orientazione verrebbe rimarcata da quel verso di lettura dei due nomi metlumθ e leθam di cui già abbiamo trattato e su cui torneremo tra breve. Stabilito così con certezza che la direzione polare stava in alto e che quella relativa alla levata del sole stava a destra, la sola visione d’insieme del fegato doveva ora consentire di trarre considerazioni definitive sul sistema di orientazione che il modello voleva al suo interno rappresentare e su quali dovessero essere i passaggi successivi per la comprensione dell’insieme. Questo, sempre a patto che fosse preliminarmente ben chiaro all’antico osservatore che il tutto andava rapportato alla figura del Templum solare e al modello concettuale che abbiamo voluto rappresentare, in forma analitica, in figura 4. La funzione concettuale che l’asse cardinale assume all’interno di quella geometria, unita al fatto che la linea di separazione dei due lobi dovrebbe rappresentare sia l’asse nord-sud sia la linea dell’orizzonte su cui poggia l’arco solstiziale, obbliga a far sì che tale evidenza dovesse essere stata resa chiara e, al tempo stesso, rivelatrice delle relazioni che intercorrono tra quell’asse e i restanti settori. In figura 13, in alto, è sottolineato come il segmento di separazione tra vetisl e cilensl, che, come già si è detto deve corrispondere al nord in C1, abbia il suo naturale prolungamento nella linea di demarcazione di quello che abbiamo indicato essere il settore B, quello cioè che contiene i due nomi mar ed herc (nn. 30-29, fig. 6), incisi alla sinistra del rilievo della vesica fellea. Stabilito che questo asse indichi A1, e cioè l’asse nord-sud della circonferenza d’orientazione del Templum descritto in figura 13 (in basso), e al fine di consentire un’attribuzione di significato ai restanti settori, l’indicazione fondamentale che su tale linea deve chiaramente comparire è il centro del sistema in O). Questo punto, in quanto centro sacrale dell’orizzonte immaginario dell’osservatore, dovrà essere il punto d’incrocio tra A1 e quello che sarà il principale asse d’orientazione del modello, e cioè l’asse equinoziale in A2, quello su cui verteranno tutte le successive identità nominali dell’arco solstiziale. Tale centro, che abbiamo visualizzato in figura 13, è ora facilmente identificabile nel fatto che sull’asse nord-sud si trovi l’intersezione tra questo ed il segmento separatore dei due nomi mar ed herc del gruppo B), ove questo risulta
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2.1 La bipartizione usils e tivs: destra, sinistra, sopra, sotto
Fig. 13 – In alto, in A1, la linea di divisione dei due lobi, nel confronto con le identità d’orientazione del modello analitico del Templum solare, in basso. Il sistema generale di orientazione indica che questa linea corrisponde all’asse polare nord-sud di A1, con vertici in C1 e C2. Il centro del sistema (O) è indicato dal punto di intersezione del segmento ad essa ortogonale, che è il divisorio tra le caselle di mar ed herc, posto sulla sinistra del rilievo della vesica fellea, e che sottende alla direzione est di A2 (dis. A. Gottarelli).
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essere stato inciso con direzione pressoché perpendicolare a quello, e dunque con orientamento sotteso alla direzione dell’est equinoziale in A2. Prima di ritornare su questo importantissimo punto, è di ulteriore interesse osservare che la linea divisoria dei lobi, superato questo “centro”, continui diritta fino alla sua intersezione con la linea del perimetro interno del nastro delle regioni periferiche, per poi deviare verso destra, quasi ad integrarsi con esso. Si è detto che tale linea, oltre che indicare la direzione nord-sud, dovrebbe stabilire anche una precisa relazione analogica tra il “sopra” e il “sotto” della linea dell’orizzonte su cui poggia l’arco solstiziale, quella che abbiamo rappresentato in figura 13 (in basso) con la linea orizzontale che divide i settori B1 e B2. Tale linea è quella che divide l’andata e il ritorno delle levate solari del gruppo F), e cioè le 8 stazioni che seguono al solstizio d’inverno in fase acendente (B1), e le 8 stazioni che seguono al solstizio d’estate, in fase discendente (B2). I due lobi del fegato separano a loro volta i 16 settori presenti lungo il nastro periferico in due gruppi di pari entità, e ne consegue che, per coerenza interna al sistema, il disegno di quell’asse dovrebbe anch’esso cadere esattamente sulla metà di quest’ultima sequenza, dovendo ritrovarsi 8 settori alla sua destra e 8 alla sua sinistra. Si osserva però che se quell’incisione avesse proseguito diritta verso il basso sarebbe caduta presso l’incisura umbilicalis, sul divisorio che sta tra caθ e fuflu/ns (nn. 8-9, fig. 6), divisorio che risulta essere spostato di una casella rispetto al centro della sequenza. La linea dei lobi avrebbe così diviso l’anello delle regioni periferiche in modo asimmetrico, risultando 7 settori sul perimetro del lobo sinistro e 9 su quello del lobo destro. Questo fatto spiega la decisa deviazione verso destra di quella linea, perché tale deviazione sembra avere lo scopo di indicare all’osservatore che il punto sud dovrà cadere più a destra rispetto alla verticale, e in particolare su quel divisorio tra neθ e caθ (nn. 7-8, fig. 6) che è il vero punto mediano in grado di separare in due parti uguali il gruppo delle caselle che percorrono il perimetro del Fegato (vd. C2 in fig. 13). Se ne deduce così che, per coerenza interna ai principi sacrali di suddivisione dello spazio in fasi ascendenti e discendenti, positive e negative, favorevoli o sfavorevoli, le 8 caselle del nastro periferico presenti sul lobo destro, che è solare, luminoso e favorevole, do-
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2.2 metlumθ e leθam: gli assi cardinali del Templum
Fig. 14 – Sistema di orientazione interno basato sui versi di lettura di metlumθ e leθam, nel confronto con il modello analitico del Templum, sull’arco solstiziale. Si individuano gli assi cardinali A1 e A2 e le direzioni principali sud ed est, in C2 e C3. La direzione est, all’interno dell’arco solstiziale, coincide con l’asse equinoziale, intervenendo sulle identità dei gruppi A), F), G), E) e D) (dis. A. Gottarelli).
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vranno allora corrispondere alla fase positiva e ascendente delle ore di luce del settore B1: mentre le 8 del lobo sinistro, che è lunare, notturno e sfavorevole, dovranno viceversa corrispondere alla fase negativa e discendente del settore B2.
2.2 metlumθ e leθam: gli assi cardinali del Templum Se quanto detto è già di per sé indicativo dell’accuratezza logica con cui è stata composta la trama informativa della superficie del Fegato, vedremo come queste considerazioni saranno in seguito fondamentale per giungere ad un corretto allineamento del settore F) con le 16 regioni del nastro periferico. Ma, ancor più, tornando sul tema del centro del sistema di orientazione, si dimostra come questa prima fase di “inizializzazione” della sequenza di lettura rappresentasse una fase delicatissima ai fini della successiva corretta comprensione dell’insieme. La descrizione del “centro”, su cui insiste la croce delle direzioni cardinali, costituisce infatti un passaggio su cui non può essere ammesso alcun margine di ambiguità, o discrezionalità, nella interpretazione dei rispettivi significati. Si spiega così la marcata presenza sull’asse A1, dei due nomi metlumθ e leθam con versi di lettura reciprocamente ortogonali, secondo l’espediente di orientazione di cui abbiamo già trattato nel capitolo precedente. Ruotando il fegato di 180°, l’osservatore si sarebbe così trovato con la scritta metlumθ disposta ai piedi del processus papillaris, l’unica ad avere il suo corretto verso di lettura in senso ortogonale all’asse divisorio dei due lobi, quasi si volesse affermare: “ricordati che l’asse che qui vedi indicato è il methlum”. Se così fosse, al nome andrebbe assegnato un significato vicino ai concetti di axis mundi, asse polare, linea o strada cardinale in direzione nord-sud. Mentre nel caso, pure possibile, si fosse voluto invece dire “ricordati che questa è la direzione del methlum”, gli si attribuirebbe un valore più circoscritto alla sola direzione sud. È comunque evidente che la parola venne disposta in modo tale da poter essere da guida a chi ne avesse avuto ben chiaro il significato, e appare altrettanto evidente che i concetti intorno a cui ruota il les-
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2.2 metlumθ e leθam: gli assi cardinali del Templum
sema metlumθ non possono comunque discostarsi di molto dall’evidenza oggettiva che oggi qui rileviamo per quell’asse e per quella direzione. L’ipotesi sembrerebbe per altro poter conciliare quell’intorno tematico entro cui hanno di fatto ruotato tutte le interpretazioni date in passato al termine meθlum. Contrariamente a quanto si è in un primo tempo pensato, condotti in errore dalla solita tautologia secondo cui sono da considerarsi teonimi i nomi che compaiono tra i “teonimi” (sic!) del contesto epigrafico del Fegato di Piacenza4, meθlum non è un teonimo. L’analisi delle ricorrenze epigrafiche ha indicato chiaramente che non può essere un nome proprio, ma piuttosto un’entità topografica passibile di determinazione locativa5. Se questo è in parte confermato dalle occorrenze di meθlum che ritroviamo sul Fegato, sul Liber Linteus, o ancora nell’epitaffio di Laris Pulena, ancora più importante è che esso compaia in un cippo contenente l’iscrizione θval meθlumes, rinvenuto a Volsinii-Bolsena, in un contesto che lo pone in evidente relazione con l’ordinamento topografico e giuridico della città fondata6. Morandi, che dopo Colonna, si è soffermato sull’analisi del lemma, osserva come meθlum sia documentato soltanto in centri etruschi con indubbi caratteri di poleis, e spesso in associazione con spure, la cui interpretazione è “città” in termini generali. Giunge così a concludere che ad esso andrebbe attribuito uno spiccato valore astratto di istituto giuridico rituale, con sfumature semantiche verso l’aspetto operativo7. Traduce così l’occorrenza presente sul Fegato di Piacenza in una formula che richiama direttamente, anche se in forma non esplicita, al concetto stesso di asse cardinale nord-sud, esattamente come da noi indicato per la linea di demarcazione dei due lobi: “nel fegato, equivalente al Templum celeste, l’aruspice dovrà individuare, a destra e a sinistra di metlvmθ, gli
4 Vd. in particolare PALLOTTINO 1979 = M. Pallottino, “Saggi di Antichità”, vol. II, Roma, 1979, p. 778; PALLOTTINO 1984 = M. Pallottino, “Etruscologia”, Milano, 1984, p. 511. 5 Per primo COLONNA 1985 = G. Colonna, “Il lessico istituzionale etrusco e la formazione della città”, in “La Formazione della città preromana in Emilia Romagna”, Atti del Convegno di Studi, Bologna-Marzabotto, 7-8 dicembre 1985, pp. 16-24; COLONNA 1994, p. 130. 6 Per le diverse occorrenze si veda COLONNA 1985, pp. 21-23. 7 MORANDI 1988 = A. Morandi, “Nuove osservazioni sul fegato bronzeo di Piacenza”, in “Mélanges de l’Ecole Francaise de Rome”, 100, 1, 1988, pp. 290-297.
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spazi delle divinità secondo quanto la disciplina prescrive” 8. Secondo gli studi condotti sul rito di fondazione della città etrusca di Marzabotto, l’assimilazione del termine all’istituto giuridico della città ritualmente fondata può assumere una connotazione che è interna all’impianto stesso della città, e questo in relazione alla funzione simbolica che è espressa proprio dalla direzione cardinale nord-sud, quale asse della rotazione cosmica e linea su cui cade il centro sacrale della inauguratio urbana. A Marzabotto, così come già era stato documentato per il templum augurale di Bantia, il sistema di orientazione della sede augurationis, sede che è disposta sull’arce esternamente al disegno dell’impianto urbano, vedeva l’officiante rivolgersi verso il quadrante est, mentre nella sede inaugurationis, quella che veniva fissata all’incrocio degli assi cardinali, egli si rivolgeva verso sud. Si è compreso così che il doppio sistema d’orientazione rituale era volto al tracciamento ideale della geometria del Templum solare del luogo, in quanto figura da cui sarebbe stato poi derivato il disegno dello stesso impianto urbano. Dalla prima sede augurale, la mira della spectio sulla diagonale solstiziale vernale implicava di disporsi nella direzione del quadrante dell’orizzonte su cui sorge il sole, che è appunto quello rivolto ad est (sud-est): mentre la lettura del passaggio del sole sul meridiano del luogo implicava in ogni caso di doversi rivolgere verso il quadrante sud, con punto di stazione nella sede inaugurale, centro sacrale degli assi ortogonali della futura città9. Questa doppia orientazione è quanto ritroviamo ora indicato all’interno del disegno dei settori del Fegato, e se quanto detto conferma il significato da attribuire al meθlum, lo stesso può dirsi per il lessema leθam, a tutt’oggi considerato un teonimo, ma di cui si deve confessare di non sapere nulla, nonostante il posto di rilievo che gli si ritrova assegnato nelle feriae rituali della Tabula Capuana10. Anche in questo caso, ruotando il bronzo di 90° in senso antiorario
8 Cfr. MORANDI 1988, p. 297. 9 L’argomento è interamente trattato nel primo volume di questa collana; GOTTARELLI 2013, capp. 3.1.1, 4.2.2, 4.2.3 et alii. Per la determinazione degli assi cardinali utilizzando uno gnomone sulla sede inaugurationis, vd. quanto già detto a p. 50, nota 6. 10 Così COLONNA 1994, p. 130, nota 34. Per la Tabula Capuana si veda da ora CRISTOFANI 1995 = M. Cristofani, “Tabula Capuana: un calendario festivo di età arcaica”, Firenze, 1995.
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Fig. 15 – Le ricorrenze di leθam, nelle forme leta, leθn, leθa, leθns, all’interno dei 5 gruppi A), D), G), E), F) della superficie del bronzo. In basso, l’ipotesi di equivalenza con i settori del modello analogico del Templum solare di figura 9 (dis. A. Gottarelli).
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rispetto al verso di lettura delle iscrizioni dominante, leθam appare marcatamente parallelo alla linea divisoria dei lobi, venendo a cadere proprio in prossimità di quel “centro” (punto O) che abbiamo individuato con A2, all’incrocio con il segmento separatore dei due nomi mar ed herc e corrispondente all’asse cardinale ovest- est. Il suo significato sarebbe dunque il complementare di quanto già abbiamo osservato per la direzione del metlumθ, declinato, in questo caso, sull’affermazione: “ricordati che l’asse che qui vedi è il leθam”: oppure, come nel caso precedente, “ricordati che questa è la direzione del leθam”, con significati che andranno riferiti, all’asse cardinale est-ovest o asse equinoziale nel primo caso, e marcatamente rivolti alla direzione est, o direzione equinoziale, nel secondo. Se dunque leθam è effettivamente da collegarsi con l’asse equinoziale e con la direzione dell’est, esso dovrà contemporaneamente coincidere con le identità A2 e C3 di figure 14 e 15, per cui la sua traccia informativa dovrebbe essere presente anche in tutti quei settori che sono logicamente associati con quelle formule spaziali. All’est e a C3 si legano infatti tutti i concetti cardine della “cascata” di relazioni analogiche che sono presenti all’interno del sistema, essendo questa direzione immediatamente associabile a quell’asse equinoziale su cui insistono G1, F4 ed F12, e a cui sono ugualmente collegati i marker stagionali dei due equinozi: quello primaverile in D2 e quello autunnale in D3. In sostanza all’est di C3 sono da collegarsi una costellazione di significati che, all’interno del sistema d’orientazione del Templum solare, spaziano dall’asse equinoziale, alle stazioni di levata del sole sulle soglie di entrata nelle fasi primaverile e autunnale, non escludendo la possibilità che con quel termine si potessero anche indicare le due stagioni di cui l’equinozio è condizione di passaggio, e dunque la primavera stessa e l’autunno. Il lessema leθam rappresenterebbe dunque l’anello di congiunzione fra tutti i diversi settori informativi del fegato, e la sua funzione potrebbe essere stata quella di consentire all’osservatore di allineare il contenuto delle singole parti del modello al meccanismo generale dell’insieme. Si spiegherebbe così, ed è straordinario constatarlo ora, dato che di questo fatto in passato non è stata data alcuna spiegazione, la ragione per cui il lemma ricorra ben 5 volte all’interno dei
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diversi settori del fegato, e, cosa ancora più significativa, che esso compaia proprio nei 5 gruppi informativi con i quali abbiamo previsto dovesse relazionarsi, secondo il significato a lui qui attribuito (vd. fig. 15). In particolare: 1) Si è visto che il nome compare in primo luogo nel gruppo A), in quella posizione che abbiamo detto poter essere un leθam che, sulla base delle considerazioni fin qui svolte, si è ipotizzato dovesse corrispondere all’asse equinoziale in A2. 2) All’interno dell’arco solstiziale, il divisorio dell’asse equinoziale è sottolineato dalle unità nominali F4-F12, che corrispondono ai due equinozi del modello teorico (vd. fig. 15, in basso). Nel Fegato il gruppo F) dovrebbe corrispondere alle 16 caselle del nastro periferico e se leθam si collegasse effettivamente al significato attribuitogli, esso dovrebbe comparire anche in questo gruppo, essendo l’equivalente di F4 e/o F12. Il riscontro è ora pienamente confermato in quanto esso compare tra i settori del bordo, nella casella n. 11 di fig. 6, nella forma leθns. 3) Il gruppo F) e il gruppo G) hanno relazioni di identità diretta tra i rispettivi settori, ed F4, l’equinozio di primavera, deve essere l’equivalente di G1 (vd. fig. 15, in basso). Se il precedente leθns corrispondesse a F4, allora lo stesso nome dovrà anche comparire in una casella del gruppo G) e cioè tra le 8 caselle regolari presenti ai piedi del processus pyramidalis. Il dato è qui nuovamente confermato, perché tra queste, alla casella n. 18 di fig. 6, troviamo appunto leθn (vd. fig. 15). 4) Le identità tra i gruppi F) e G) riguardano la metà dell’arco solstiziale entro cui avviene il ciclo vegetativo delle fasi di G), quello compreso tra l’equinozio di primavera e l’equinozio autunnale. F e G si pongono così in relazione reciproca anche con il gruppo D), quello che indica le 4 stagioni dell’anno, e in particolare con D2 e D3, che sono rispettivamente la primavera e l’estate. Se leθn, come abbiamo visto, corrispondesse ad F4 e G1, e considerato che questi indicano l’equinozio di primavera, esso dovrà allora comparire anche nel
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gruppo D), perché l’equinozio di primavera (F4, G1) si collega nominalmente e concettualmente con la primavera stessa, che è indicata in D2. Anche in questo caso il dato è confermato, perché all’interno dei 4 nomi iscritti sulla superficie della vesica fellea, quella che abbiamo in precedenza ipotizzato dover corrispondere al gruppo D), alla casella n. 27 di fig. 6, compare appunto leta. 5) In ultimo, all’interno del gruppo E), che è relativo alle identità nominali delle 6 porte dell’arco solstiziale, abbiamo indicato una relazione di contiguità spaziale tra i suoi settori e i precedenti gruppi F) e G), essendo questi ultimi i gruppi delle identità nominali che indicano i separatori tra le diverse porte (vd. fig. 8). F4, F12 e G1 hanno una relazione di contiguità con le porte E4 ed E3, quelle che sono poste ai due lati dell’asse equinoziale, e secondo questa relazione una delle due porte potrebbe essere stata indicata con lo stesso termine dei suoi separatori. Considerando che il gruppo E) corrisponderebbe sul Fegato alla ruota raggiata presente sul suo lobo sinistro, l’ipotesi risulta essere nuovamente confermata dal fatto che in uno dei suoi 6 settori ritroviamo indicato, alla voce n. 32 di fig. 6, il nome leθa. La topografia delle ricorrenze di leθam, e l’insieme dei significati che esso può assumere all’interno dei diversi settori, costituisce dunque una straordinaria conferma dell’intero impianto analogico su cui è basata la verifica generale dell’ipotesi. La sua stessa ricorrenza all’interno di un documento come la Tabula Capuana, il cui contenuto epigrafico va riferito ad un calendario arcaico della comunità cumana databile intorno al 470 a.C., è un dato nuovamente a sostegno della eguale funzione che il termine assume all’interno del bronzo piacentino. Del tutto simile è infatti il contesto temporale, liturgico e calendariale ora attribuito ad entrambi i monumenti, e a nulla può valere il ricorso alla consueta tautologia secondo cui, se pure non se ne conosca attestazione certa in altri contesti, leθam è sicuramente un teonimo solo perché presente sul Fegato di Piacenza: “La centralità di Lethams, le cui ferie ricorrono così spesso, ad aprile, maggio e giugno, potrebbe apparire inattesa, vista la scarsa popolarità nelle dediche come nell’iconografia. Tale centralità, tuttavia, è attestata nel Fegato di Piacenza,
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2.2 metlumθ e leθam: gli assi cardinali del Templum
Fig. 16 – Orientando il modello di fegato nel verso di lettura di leθam si osserva che la distribuzione delle caselle sull’orlo del lobo destro sembra voler sottolineare all’osservatore la struttura delle porte dell’arco solstiziale. A sinistra, la lunga casella di cilensl rispecchia la distanza azimutale tra il nord e la diagonale del solstizio d’estate, mentre i sei settori corrispondenti alle 6 porte, sono disposti simmetricamente rispetto all’asse equinoziale di leθam. In basso è evidenziata la singolare figura armonica a spirale descritta dalle direzioni dei segmenti separatori dei diversi settori (dis. A. Gottarelli).
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dove il suo nome compare quattro volte, sia pure con grafia diversa (...)” 11. Sul Fegato il nome compare cinque volte e non quattro, e in ogni caso l’analogia con le ricorrenze della Tabula è ora tanto più sorprendente se si considera che la centralità di leθams, “ad aprile, maggio e giugno”, non avrebbe certo dovuto essere considerata tanto inattesa, se solo si fosse considerato che il fattore comune che lega i mesi di aprile, maggio e giugno non sono certo le ferie di una divinità del tutto sconosciuta, ma, più semplicemente, le ricorrenze della stagione di cui quei tre mesi fanno parte, e cioè la primavera stessa.
2.3 Le sedi degli dèi: la fase ascendente dell’arco solstiziale I versi di lettura di metlumθ e leθam rispondono dunque alla prima necessità di indicare gli assi della dimensione spaziale del Templum, e questo è anche ciò che a suo tempo verificammo per le direzioni sacrali del sud e dell’est all’interno della sequenza del rito di fondazione della città di Marzabotto. Ora la sola traccia della direzione equinoziale di leθam, con le sue ricorrenze all’interno di tutti i gruppi informativi presenti sulla superficie del Fegato, può essere quella che ci consentirà di ottenere la formula utilizzata per far sì che fosse possibile riconoscere l’ordine dei restanti settori nella loro espressione spazio-temporale. Come indicato in figura 16 (in alto), orientando il modello nel verso di lettura di leθam, l’osservatore avrebbe potuto guardare le caselle del nastro del lobo destro con l’asse visuale orientato secondo la linea di separazione dei due nomi mar ed herc, ai piedi del rilievo della vesica fellea. Avendo ipotizzato che questa direzione corrisponde a quella dell’asse equinoziale, e considerato che questa deve essere la linea mediana A2 delle stazioni di levata del sole sull’orizzonte, il disegno del bordo dovrà a questo punto risultare autoevidente a chi avesse avuto ben chiaro a cosa l’insieme andava riferito. Nella misura in cui questo qualcosa è lo schema dei separatori delle
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Cfr. CRISTOFANI 1995, p. 67. Si veda ora su Lethams VAN DER MEER 2014 = L.B. Van Der Meer, “Some comment on the Tabula Capuana”, in “Studi Etruschi”, LXXVII-MMXIV, 2014 [2015], p. 156.
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2.3 Le sedi degli Dèi: la fase ascendente dell’arco solstiziale
6 porte che sono idealmente disposte sull’arco solstiziale, dovremmo qui trovare indicate esattamente 7 tacche a delimitare quei 6 settori, e questi, a loro volta, dovranno risultare separati in due gruppi di tre dall’asse visuale di leθam. In questo modo, i nomi abbreviati che vi compaiono corrisponderebbero alle divinità tutelari delle fasi dell’anno liturgico del periodo ascendente B1 (vd. fig. 13), quello cioè compreso tra il solstizio d’inverno e il solstizio d’estate. Va ricordato che la nostra attenzione non deve cadere, come sempre è stato fatto in passato, sullo spazio interno ai settori, ma piuttosto sulle tacche che li delimitano. Per cui i nomi che troviamo incisi sul bordo del Fegato non dovranno essere associati al contenuto stesso delle celle, ma andranno piuttosto allineati ai segmenti separatori tra l’una e l’altra, così come descritto nello schema analitico precedentemente esposto alle figure 8, 9, 10. Se si escludono le due tacche che sono sull’asse divisorio dei due lobi, rispettivamente quelle tra vetisl e cilens (C1=nord) e tra neθ e caθ (C2=sud), che starebbero ad indicare l’asse nord-sud, si osserva così che i segmenti divisori del perimetro del lobo destro del Fegato risultano essere effettivamente 7, a delimitare i sei settori indicati in figura 16. In questo modo, la linea visuale equinoziale di leθam risulta opportunamente centrata sul tratto separatore tra uni/mae e tins/θne che è il mediano tra i sette, per cui ne risulteranno tre segmenti alla sua destra e altri tre alla sua sinistra, la qual cosa è esattamente quanto avremmo dovuto aspettarci per l’evidenza degli stipiti delle sei porte del Templum solare. Tale ipotesi rende inoltre immediatamente comprensibile la ragione per cui, partendo dal separatore della direzione nord e muovendosi in senso orario, il primo settore che incontriamo, che è quello con la scritta cilensl, sia spropositatamente ampio rispetto a tutte le restanti caselle. Questa macroevidenza è stata in passato interpretata come un effetto dell’approssimazione con cui il perimetro stesso del Fegato venne suddiviso in parti, per cui, ipotizzando un suo inizio dal separatore qui attribuito a tin/cil/en, si è pensato che l’estensore dell’epigrafe non avesse ben calcolato il modulo delle successive ripartizioni, giungendo così a determinare la lunghezza della casella di cilensl come ultimo resto della divisione: “cominciando con il delimitare la serie completa di destra 8-1, dovette passare poi al lobo sinistro, adottando
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per le caselle un modulo lievemente più ampio del precedente per compensare l’eccesso di spazio che si era creato dopo l’operazione iniziale. Per un errato calcolo però, l’ultima casella della seconda serie venne comunque a disporre di uno spazio assolutamente eccessivo”.12 In realtà, se consideriamo ora che il divisorio tra cilensl e tin/cil/en è il primo tra quelli che suddividono le porte dell’arco solstiziale, e che, come risulta evidente in figura 16 (in alto), la divisione del bordo del lobo vuole indicare all’osservatore l’ampiezza delle due diagonali solstiziali con le sue ripartizioni interne, allora la lunga casella di cilensl altro non sarebbe che la sottolineatura dell’ampio arco azimutale che, nella geometria del Templum solare, separa la direzione del nord dal punto di levata del sole al solstizio d’estate (vd. fig. 16). Il nome cilensl coinciderebbe allora con l’identità F8=G5, quella che appunto abbiamo indicato dover corrispondere al massimo punto di levata del sole a nord-est, il solstizio d’estate, cui segue l’inversione della sua direzione di moto da nord verso sud. Guardando ora il Fegato secondo il verso prevalente di scrittura delle epigrafi, i nomi presenti all’interno dei settori perimetrali andranno quindi allineati al tratto separatore che segue il nome stesso, partendo dal basso e muovendosi con movimento antiorario da neθ a tin/cil/en secondo il moto naturale di levata del sole che segue al solstizio d’inverno. La sequenza risultante, come descritto in figura 16, dovrà allora identificare le stazioni del sole di fase ascendente, corrispondenti a F1, F2, F3, F4, F5, F6, ed F7 dei diagrammi di figure 8, 9 e 10, da cui una loro possibile attribuzione alle definizioni che già abbiamo dato al gruppo F), secondo il seguente ordine: neθ
= F1);
entrata nella porta I; inizio inverno; da calendario gregoriano dopo il 22 dicembre; costellazione attuale Capricorno.
12 Cfr. MAGGIANI 1984a, p. 57; PALLOTTINO 1956, p. 231. Maggiani concorda con Pallottino, ma indica qui una diversa partenza delle serie presso l’incisura umbilicalis: “Da questa sistemazione si può ragionevolmente inferire il procedimento seguito dall’incisore, che dovette iniziare il computo degli spazi a partire dall’incisura umbilicalis, cominciando con il delimitare la serie completa di destra 8-1; dovette passare poi al lobo sinistro, adottando per le caselle un modulo lievemente più ampio del precedente per compensare l’eccesso di spazio che si era creato dopo l’operazione iniziale. Per un errato calcolo però, l’ultima casella della seconda serie venne comunque a disporre di uno spazio assolutamente eccessivo”.
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2.3 Le sedi degli Dèi: la fase ascendente dell’arco solstiziale
Fig. 17 – Disposizione dei teonimi delle stazioni della fase ascendente delle levate solari, da solstizio d’inverno a solstizio d’estate. La sequenza riproduce la progressione ascendente dalla sede inferiore di neθ (sud) a quella celeste e polare di cilensl (nord polare). Nel settore nordest, in quanto somma delle due direzioni fauste (summa felicitas), si trovano i tre Tinia, a loro volta dedicati alle sedi dei tre livelli cosmici discendenti, che vanno appunto dalla sede di cilensl (tin cilen) a quella di neθ (tinθ neθ) (dis. A. Gottarelli).
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lvsl
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= F2);
entrata nella porta II; inverno; da calendario gregoriano il 21 gennaio; costellazione attuale Aquario. tec/um = F3); entrata nella porta III; inverno; da calendario gregoriano il 20 febbraio; costellazione attuale Pesci. uni/mae = F4); entrata nella porta IV; equinozio di primavera; inizio dell’anno liturgico, inizio primavera; da calendario gregoriano il 21 marzo; costellazione attuale Ariete. tins/θne = F5); entrata nella porta V; primavera; da calendario gregoriano il 21 aprile; costellazione attuale Toro. tin/θvf = F6); entrata nella porta VI; primavera; da calendario gregoriano il 21 maggio; costellazione attuale Gemelli. tin/cilen = F7); sosta all’estremità della porta VI; fine primavera in fase ascendente; da calendario gregoriano il 21 giugno; passaggio da Gemelli a Cancro. cilensl = F8); solstizio d’estate; giorno del passaggio dalla fase ascendente a quella discendente delle ore di luce; da calendario gregoriano il 21 giugno. Ne risulta una progressione dei teonimi che sembra muovere in senso ascendente dal livello sub-soglia a quello aereo, e cioè da una sede sicuramente infera e sub-acquea, che è quella di neθ, neθ(unsl) =Neptunus, posta a sud-est subito dopo il solstizio d’inverno, ad una notturna ma polare celeste e fausta, posta a nord-est, che è quella di cilensl (vd. fig. 17). L’identificazione di quest’ultimo teonimo con il Nocturnus solare dell’accezione plautiana, o con il Nocturnus delle sedi fauste a lui attribuite da Marziano Capella13, non a caso la prima e la sedicesima, preciserebbe la natura notturna, ma fausta di tale divinità. Il Nocturnus menzionato da Plauto nella commedia Amphitruo14 rimanda all’aspetto notturno di Libero, il Dioniso portatore di luce del dramma greco. In Macrobio ad esso si fa riferimento in quanto doppio del
13 Per l’identificazione di cilensl con il Nocturnus di Marziano Capella, vd. PALLOTTINO 1956, p. 225; MAGGIANI 1984a, p. 60, nota 34. 14 PLAU., Amph., 272.
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2.3 Le sedi degli Dèi: la fase ascendente dell’arco solstiziale
Sole, personificazione di quest’ultimo durante il suo percorso infero del ciclo giornaliero15. In questo caso il cilensl-nocturnus del Fegato potrebbe indicare la valenza celeste e polare attribuita al nord e all’asse della rotazione cosmica, in quanto motore dell’andata e del ritorno del ciclo della luce, e questo ben spiegherebbe un suo posizionamento nella sede solstiziale16. L’ipotesi appare dunque coerente con quanto già si è osservato sul fatto che la linea delle porte dell’arco solstiziale siano da considerarsi una sorta di linea equatoriale tra l’emisfero celeste e quello infero, per cui la progressione dei teonimi, tra la sede solstiziale vernale e quella estiva, riprodurrebbe la “scala” ascendente delle sedi divine che attraversano le tre dimensioni cosmiche sull’asse polare: dal sud, che è sede dell’inabissamento dell’asse cosmico, al nord, che è sede del suo innalzamento aereo e celeste. Ben si spiega allora la presenza delle tre sedi di Tinia sui limiti delle tre porte del settore nord-est, dove il dio supremo risulterebbe ugualmente assegnato alle valenze ternarie del modello cosmologico. Qui Tinia compare nella triplice formula tins/θne, tin/θvf e tin/cil/en, con sedi che muovono da est verso nord, e la sua coabitazione con gli stessi neθ(unsl) e cilensl attribuisce alla prima divinità del pantheon etrusco un valore ternario che riflette lo stesso ordine e posizione di ognuna delle divinità che presiedono all’inizio e alla fine dell’intera sequenza. Tali prerogative sono peraltro analoghe agli attributi che ancora troviamo essere assegnati a zeus nella costruzione cosmologica di ascendenza platonica. Proclo afferma che “(Zeus) è Re di tutte le cose, delle prime, delle mediane e delle ultime (...)” e “(...) amministra un terzo dell’universo, in virtù del fatto che “l’universo è diviso in tre porzioni (...)”: il primo, il più elevato, “(...) è chiamato con un appellativo unitario Zeus.
15 MACR., Sat., I, 18, 7-8. 16 Sugli aspetti solari di Nocturnus vd. BUONOPANE 2016 = A. Buonopane, “Nocturnus e i suoi molteplici aspetti”, in “Testo, metodo, elaborazione elettronica. Miti, credenze e religioni in area mediterranea e ispano-americana”, Atti del X Convegno Internazionale Interdisciplinare, Catania, 2016, pp. 47-57; RADIF 2003 = L. Radif, “Il doppio notturno del Sole. L’eclissi di Giove in Amph. 272”, in «Latomus», 62, 2003, pp. 789-793. Per neθuns e cilensl si veda anche RIX 1998 = H. Rix, “Teonimi etruschi e teonimi italici”, in “Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina”, vol. V, atti dei convegni IV e V “Etrusca Disciplina. I culti stranieri in Etruria”, 1987-1988. pp. 209, 213.
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Il secondo, invece, è chiamato con due appellativi, Zeus marino e Posidone. Il terzo è chiamato con tre appellativi, Zeus sotterraneo e Plutone e Ade (...)”.17 Nel nostro caso, è inoltre significativo che l’associazione fra Tinia e il Nettuno-Poseidone etrusco premetta l’uso del locativo formato sul genitivo della forma tins/θne, da svolgere, secondo Colonna, in tinsθ ne(θunsl), ad indicare un “Nettuno nella casa di Tinia” 18. Formula questa che, più marcatamente della sola coabitazione con le altre due divinità, sembra indicare che ne(θunsl) è qui in una sede non propria, in quanto fausta e celeste, e non infera come invece accade per il primo neθ(unsl) della sequenza. In altra sede si è inoltre osservato come, all’interno di questa concezione religiosa dello spazio, le direzioni favorevoli fossero appunto rapportate all’asse della rotazione cosmica e al corso del moto solare, risultando sempre impostate sulle direzioni positive dell’est e del nord: con l’est che è sempre positivo, in quanto sede della rinascita giornaliera del sole, e con la direzione nord che, se pure polare e notturna, è anch’essa positiva in quanto collegata con l’innalzamento celeste dell’asse cosmico19. Rispetto al centro della figura del Templum solare, la fascia nord-est risulta così essere la sede della summa felicitas20, in quanto risultante delle due direzioni fauste, e se questo ben spiega la distribuzione dei Tinia sul nastro del nostro Fegato è anche quanto è risultato essere chiaramente documentato per via archeologica dalla rilevanza del settore nord-est nella disposizione delle aree di culto della città etrusca di Kainua (Marzabotto). Qui, si è osservato come la presenza di un tempio dedicato a Tinia, a nord-
17 PROC., Lez. Crat., 148; ROMANO 1989 = F. Romano, “Lezioni sul Cratilo di Platone”, Roma, 1989, pp. 83-84. Il valore ternario delle sedi di Giove nelle prime tre regioni del cielo è inoltre documentato da Marziano Capella e dallo pseudo-Acrone, a conferma della persistenza di questa tradizione religiosa in età tarda: MART. CAP., De nuptiis, I, 4547; ps. Acro, ORAT., Carm. I, 12, 19; vd. già THULIN 1906a, p. 24; MAGGIANI 1984a, p. 60. 18 Vd. COLONNA 1994, p. 128. 19 GOTTARELLI 2013, pp. 66-69; DION. HALIC., Rom. Arch. II, 5: “(...) Per coloro dunque che guardano a oriente le regioni celesti che volgono a settentrione si trovano a sinistra, a destra invece quelle che portano a meridione. Di queste, le prime sono per natura più rilevanti; infatti è dalle regioni settentrionali che si leva il polo dell’asse, attorno al quale avviene la rotazione celeste (...). 20 Per la regione della “summa felicitas” a nord-est e sulla complessa problematica dell’interpretazione delle regioni del pantheon etrusco, vedi MAGGIANI 1984, pp. 58-64; GOTTARELLI 2013, pp. 132-134.
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2.3 Le sedi degli Dèi: la fase ascendente dell’arco solstiziale
est del centro inaugurale dell’impianto, si ponesse significativamente in diretta connessione con le due sedi rituali del procedimento di fondazione della città21. Rispetto infatti alla sede augurale, coincidente con il podio “D” sull’arce, il tempio si localizza esattamente lungo l’asse visuale che guarda da questo punto in direzione est, allineandosi secondo una direzione fausta. Allo stesso modo, essendo a nord dell’incrocio degli assi cardinali, risulta nuovamente disposto in posizione favorevole rispetto al suo centro geometrico, che è la sede inaugurationis (vd. fig. 18). Inoltre, tali considerazioni trovano oggi una ulteriore conferma nella recente riscoperta, in quell’area, di un secondo edificio templare dedicato a Uni, affiancato al precedente e forse da ascriversi alla fase fondativa della città22. Anche in questo caso, il dato archeologico di Kainua è coerente con il dato distributivo della sequenza dei teonimi qui analizzati, in quanto lo stesso teonimo Uni compare sul Fegato subito prima dei tre settori dedicati a Tinia, in una sede che, nel nostro caso, viene a cadere sul divisorio dell’asse equinoziale (vd. fig. 17). Questa posizione pone per altro Uni in diretta connessione con l’inizio della primavera, e dunque in una fase temporale che lo collega ai significati prima attribuiti a leθam e che è ora esattamente coerente con quanto è a sua volta disposto nelle prescrizioni della Tabula Capuana. La presenza di Uni sul Fegato in corrispondenza di quello che, nell’ipotesi, sarebbe il separatore di entrata nella quarta porta, assegnerebbe infatti la cadenza liturgica di entrambi allo
21 GOTTARELLI 2005 = A. Gottarelli, “Templum solare e città fondata. La connessione astronomica della forma urbana della città etrusca di Marzabotto - (III)”, in “Culti, forma urbana e artigianato a Marzabotto, Nuove prospettive di ricerca”, Atti del convegno (3-4 giugno 2003), pp. 101-138, Bologna, 2005; GOTTARELLI 2013, pp. 133-134, fig. 48. Per l’inquadramento delle nuove scoperte a Marzabotto si vedano; SASSATELLI, GOVI 2005B = G. Sassatelli, E. Govi, “Il tempio di Tina in area urbana”, in SASSATELLI, GOVI 2005a, pp. 9-62; SASSATELLI 2009 = G. Sassatelli, “Il Tempio di Tina a Marzabotto e i culti della città etrusca”, in “Altnoi. Il santuario altinate: strutture del sacro a confronto e i luoghi di culto lungo la via Annia”, Atti del Convegno, Venezia 4-6 dicembre 2006, Roma, 2009, pp. 325-344; SASSATELLI, GOVI 2010 = G. Sassatelli, E. Govi, “Cults and foundation rites in the Etruscan city of Marzabotto”, in “Material aspects of Etruscan religion”. Proceedings of the International Colloquium (Leiden 2008), Leuven, 2010, pp. 27-37. 22 Per i dati preliminari della scoperta di questo secondo tempio vd. GARAGNANI, GAUCCI, GOVI 2016 = S. Garagnani, A. Gaucci, E. Govi, “ArchaeoBIM: dallo scavo al Building Information Modeling di una struttura sepolta. Il caso del tempio etrusco di Uni a Marzabotto”, in “Archeologia e Calcolatori”, n. 27, 2016, pp. 251-270.
Cap. II – La dimensione spaziale del Templum
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Fig. 18 – Città etrusca di Kainua-Marzabotto: relazioni d’orientazione del tempio di Tinia (E) rispetto al podio “D” dell’acropoli, sede augurationis (TSE), e rispetto al centro geometrico della città e sede inaugurationis (DE) (dis A. Gottarelli).
stesso periodo dell’anno che è dedicato alle due divinità nel calendario capuano, e cioè tra il 21 marzo ed il 21 aprile. Qui, infatti, il rito di leθams ha inizio all’entrata di marzo e il suo compimento avviene al termine del mese. Seguono nuovamente le sue feriae alle idi di aprile, e nel suo giorno detto “celuta”, troviamo appunto indicato “il rito di Uni nel santuario di Uni”. Nuove feriae di leθams cadono poi nel giorno “giovio” di maggio, e il ciclo entro cui il nome ricorre così frequentemente, si conclude con il giorno “aperta” di giugno23, ponendo leθams in diretta correlazione con il trimestre che sul Fegato è dedicato a Uni e a Tinia e con quella parte dell’anno che è appunto corrispondente alla primavera stessa. 23 Vd. CRISTOFANI 1995, pp. 85, 118.
3. Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi Il sistema analogico di lettura dei settori
Ciò che emerge dal contenuto della Tabula Capuana è dunque, secondo Cristofani, “(...) la prevalenza del culto di leθams, soprattutto nei primi mesi dell’anno (marzo, idi di aprile, il giorno ‘giovio’ di maggio, il giorno ‘aperta’, posteriore alle idi di giugno)”, quasi che l’impianto stesso delle sue prescrizioni “fosse appositamente riservato a registrare forme liturgiche rivolte a questa divinità (...)” 1. In realtà, ciò che osserviamo ora è che tra i nomi presenti sul nastro del lobo destro, quelli che nell’ipotesi cadenzano il calendario liturgico dei due trimestri invernale e primaverile, leθam non compare e dunque, come già dicemmo, leθam non sembra poter essere un teonimo. Abbiamo inoltre dimostrato che il suo significato andrebbe associato all’asse di osservazione che è ortogonale al suo verso di lettura e che è mediano alle 8 sedi del lobo destro. Queste cadenzano l’arco solstiziale guardando verso est e dunque leθam stesso e il suo asse visuale sarebbero effettivamente da collegarsi a significati che ruotano intorno al concetto di “asse equinoziale”, e dunque all’“equinozio di primavera”, o, in forma correlata rispetto a quanto è documentato dalla Tabula Capuana, alla “primavera” stessa. Si è inoltre ipotizzato che il lessema leθam, le cui varianti ricorrono all’interno di tutti i settori, poteva costituire la chiave dei legami analogici trasversali che intercorrono tra le diverse sezioni informative
1 Cfr. CRISTOFANI 1995, p. 119.
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3.1 I culti delle stagioni e le sedi del ciclo vegetativo
e la sua funzione poteva essere stata quella di consentire all’osservatore di formulare la giusta sequenza di lettura delle parti, in aiuto alla comprensione del meccanismo d’insieme.
3.1 I culti delle stagioni e le sedi del ciclo vegetativo Ritornando dunque al verso di lettura che ha ci ha permesso di distinguere le sei celle di fase ascendente, presenti sul bordo del Fegato da F1 a F8, (vd. fig. 16), l’osservatore avrà ora sotto gli occhi i restanti settori che sono interni al lobo destro, quelli con cadenza 2, 4, 8 che in precedenza abbiamo codificato con B), D) e G). È utile tornare a ricordare i significati che abbiamo attribuito a tali settori: B) codifica le 2 parti dell’anno che sull’arco solsiziale distinguono i versi di levata, di andata e ritorno, del ciclo annuale: con B1 = D1,D2, da solstizio d’inverno a solstizio d’estate in fase ascendente delle ore di luce; e B2 = D3,D4 da solstizio d’estate a solstizio d’inverno in loro fase discendente; D) codifica i settori di levata del sole nei 4 trimestri del ciclo delle stagioni; con D1 che è l’inverno, da solstizio d’inverno ad equinozio di primavera; D2 la primavera, da equinozio di primavera a solstizio d’estate; D3 l’estate, da solstizio d’estate ad equinozio d’autunno; e D4 l’autunno, da equinozio d’autunno a solstizio d’inverno. G) codifica gli 8 divisori dei mesi del solo ciclo vegetativo, quelli cioè che indicano i due trimestri della primavera e dell’autunno; G1,G4=D2 da equinozio di primavera a solstizio d’estate; e G5,G8 = D3, da solstizio d’estate ad equinozio d’autunno. Ricordato il loro significato, queste sezioni potrebbero ora consentire a chi guarda di essere informato sui teonimi, o semplici nomi, che sulla superficie del Fegato sono assegnati alle rispettive parti dell’anno. Quale verifica dell’ipotesi, le eventuali ricorrenze dei nomi tra i diversi settori dovranno risultare coerenti con i legami logici che abbiamo già indicato in precedenza dover tra loro intercorrere.
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli dèi
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Per quanto sopra detto, in D) dovremmo innanzitutto ritrovare leθam o nome simile, ad indicare la primavera in D2. Inoltre, in G) dovranno essere presenti gli stessi nomi che abbiamo già letto sul bordo in F4, F5, F6, F7, F8 e che ora dovranno ricomparire in G1, G2, G3, G4 e G5 (vd. fig. 15, in basso). Procedendo per gradi, e partendo dal settore B), si noti che i due teonimi mar ed herc, Marte ed Ercole, che sono disposti alla sinistra e alla destra dell’asse visuale di leθam, vi compaiono con lo stesso suo verso di lettura e questo sembra poter chiaramente indicare, a chi sta guardando, che ai due siano da assegnarsi i due periodi dell’anno alla sinistra e alla destra dell’asse equinoziale. Contrariamente a quanto avevamo in precedenza ipotizzato per questo settore, cui avevamo attribuito le due fasi “orizzontali”, ascendente e discendente, da solstizio d’inverno a solstizio d’estate e ritorno, sembra che qui sia invece indicata una bipartizione di tipo “verticale”, impostata cioè sulle due parti dell’anno che sono divise dall’asse equinoziale. I due non corrisponderebbero dunque a B) così come è stato da noi definito, con B1 = D1,D2 e B2 = D3,D4, ma ad un’altra suddivisione che accorpa D2 con D3 e D4 con D1. A mar (Marte) andrebbero infatti opportunamente assegnati i due trimestri della primavera e della estate, da equinozio di primavera ad equinozio autunnale, la qual cosa è del tutto coerente con talune sue particolari prerogative di protettore dei lavori agricoli2. Mentre ugualmente ad herc (Ercole) andrebbero i due trimestri autunnale e vernale, da equinozio autunnale ad equinozio di primavera (vd. fig 19), periodi dell’anno che sottendono ad una rinascita dopo la discesa infera dell’orbita solare.
2 L’attribuzione a Marte di questo periodo dell’anno è ovviamente sottolineata dal mese di marzo, a lui dedicato, entro cui si determina l’entrata nel trimestre primaverile. Si è osservato che alle prerogative del ver sacrum, che connotano tale passaggio stagionale in senso propriamente guerriero, si associno in seguito culti e riti che sottolineano il suo ruolo di protettore dei lavori agricoli e che caratterizzano l’intero ciclo vegetativo dei due trimestri, da equinozio primaverile ad equinozio autunnale, allo scopo di “sacralizzare le primizie della messe futura e mobilitare le forze che dovevano proteggerla”; cfr. BAyET 1957 = J. Bayet, “Histoire politique et psychologique de la religion romaine”, Paris, 1957, trad. it. “La religione romana. Storia politica e psicologica”, Torino, 1992, p. 148. “Culti agrari e guerrieri si basano su valori analoghi nell’evocare attraversio le danze, le corse, il rapido calpestio le forze sotterranee generatrici”; cfr. BUTTITTA 2006 = I.E. Buttitta, “I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa”, Roma, 2006, p. 195; cita BAyET 1957, p. 148; vd. anche DEL PONTE 1992 = R. Del Ponte, “La religione dei romani: la religione e il sacro in Roma antica”, Milano, 1992, p. 164.
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3.1 I culti delle stagioni e le sedi del ciclo vegetativo
H1=G
H2
D1
D2 D3
D4
Fig. 19 – I nomi mar ed herc hanno lo stesso verso di lettura di leθam e disponendosi alla destra e alla sinistra dell’asse equinoziale, sembrano indicare le due parti dell’anno dell’arco solstiziale alla destra e alla sinistra di quello stesso asse: l’autunno e l’inverno alla destra, e la primavera e l’estate, a sinistra (dis. A. Gottarelli).
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
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A mar ed herc assegneremo allora un nuovo settore H), con H1, che copre D2 e D3 e che dunque coincide di fatto con G); e con H2 che coprende D4 e D1 (vd. fig. 19). La cosa, in realtà, poteva essere da subito spiegata nel fatto che le due fasi di levata ascendente e discendente, da solstizio a solstizio, risultavano essere già state indicate da quella bipartizione dei lobi che divideva la sequenza dei teonimi del nastro periferico, dove si è visto che l’una e l’altra fase erano già state codificate dai due nomi usils e tivs incisi sul retro (vd. fig 13). Mar ed herc indicherebbero dunque la suddivisione dell’anno sui due cicli fondamentali del calendario agricolo, quello cioè del periodo vegetativo e quello della sua stasi. Sarebbe allora logico e intuitivo, per chi avesse osservato la superficie del Fegato orientadolo come in figura 19, poter qui cogliere anche l’ulteriore informazione relativa ai nomi, o teonimi, attribuiti alle quattro stagioni dell’anno (D), dato che queste sono le 4 parti che suddividono ulteriormente le due fasi attribuite a mar e ad herc, e che appunto 4 sono i nomi con cui risulta essere suddivisa la regione della vesica fellea, ad essi antistante. A queste caselle avevamo già effettivamente attribuito le funzioni del gruppo D), quello cioè delle unità informative di nomi o teonimi indicanti le quattro stagioni dell’anno, e ora questa ipotesi dovrà essere confermata dal fatto che tra questi dovrà necessariamente ricomparire leθam, o nome simile derivato, in una posizione che lo colleghi esplicitamente alla primavera stessa. Ebbene, si è già osservato (vd. pp. 66-67), che all’interno dei settori della vesica fellea, il secondo nome partendo da sinistra risulta essere leta, variante lessicale del tutto riconducibile a leθam. Se questo è già di per sé un dato estremamente significativo a sostegno dell’intero impianto probatorio, va ulteriormente osservato che se leta indicasse effettivamente la primavera, allora il nome che lo precede, seguendo la progressione naturale delle stagioni del ciclo solare, dovrebbe essere il nome, o teonimo, che viene qui attribuito all’inverno, e questo dovrebbe in qualche modo collegarsi con i tre teonimi che abbiamo visto poter cadenzare il trimestre invernale sui separatori del nastro periferico. Per rendere il procedimento autoevidente, la cosa più logica sarebbe stata quella di seguire la regola secondo cui è attribuito al trimestre lo stesso nome assegnato al separatore che ne sancisce l’inizio, così
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3.1 I culti delle stagioni e le sedi del ciclo vegetativo
D
D1
D2 D3 D4
Fig. 20 – I 4 nomi iscritti sulla vesica fellea si porrebbero in relazione con il settore D) delle 4 stagioni dell’anno, nella sequenza, da sinistra a destra, inverno, neθ (D1); primavera, leta (D2); estate, marisl/laθ (D3); e autunno, t[. ]nθ (D4). Il neθ sulla vesica fellea ha infatti un suo omologo in quel neθ dell’arco solstiziale che stabilisce l’inizio dell’inverno in F1. Leta sulla vesica fellea segue neθ e questo è coerente con il fatto che l’omologo leθam indicherebbe l’asse equinoziale e la primavera stessa (dis. A. Gottarelli).
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
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come abbiamo trovato essere indicato nel Libro di Enoc per la posizione e ruolo dei 4 “capi dei mille”, che sono gli angeli “amministratori di novantuno” che nominano, guidano e cadenzano i cicli stagionali. A riprova di ciò, lo stesso leta risponderebbe a questa regola, perché leθam, come si è detto, sembra poter essere il nome attribuito all’asse equinoziale, e questo asse, nell’attraversare le porte dell’arco solstiziale, coincide appunto con lo stipite F4 di entrata nel trimestre primaverile, per cui si spiegherebbe il fatto che la sua variante leta possa ora anche indicare il nome della primavera stessa. Ma se leθam indica il separatore equinoziale, e leta è il nome della primavera, allora all’inverno dovrà essere a sua volta assegnato un nome collegato con il separatore di entrata nel trimestre invernale. Rispetto a quelli che abbiamo indicato essere allineati ai divisori del nastro periferico (vd. figura 16), questo nome deve dunque essere F1, il primo della sequenza partendo da destra, quello cioè che cade sull’estrema levata del sole al solstizio d’inverno, e questo nome risulta essere inequivocabilmente neθ. Il meccanismo di lettura dell’insieme trova così uno straordinario nuovo elemento di conferma nel fatto che il primo nome che ritroviamo sulla vesica fellea, alla sinistra di leta, sia effettivamente neθ, e tale circostanza rende esplicita l’esatta sequenza, da sinistra a destra, dei nomi o teonimi che andranno attribuiti alle relative stagioni: con neθ assegnato all’inverno; leta alla primavera (vd. fig. 20); il nome sulla terza casella, marisl/laθ, assegnato all’estate, dove marisl è collegabile con il precedente mar cui è dedicato l’intero doppio trimestre della primavera e dell’estate; e con, in ultimo, l’indecifrabile t[. ]nθ cui andrà assegnato l’autunno. Significativo è inoltre il fatto che il neθ presente sulla vesica fellea, così come indicato in figura 20, mantenga lo stesso verso di lettura dei precedenti leθam, mar ed herc (vd. anche figura 5) al fine di consentire all’osservatore di cogliere il colpo d’occhio dell’albero gerarchico degli sdoppiamenti, da 2 a 4, dei nomi attribuiti ai principali periodi dell’anno, secondo la sequenza naturale del moto solare che ha inizio con il solstizio d’inverno. Allo stesso tempo la divisione dell’arco solstiziale in due parti in senso verticale, e cioè a destra e sinistra dell’asse equinoziale, e non orizzontale, come sarebbe stato considerando le due fasi ascendente e discendente delle ore di luce, si
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3.1 I culti delle stagioni e le sedi del ciclo vegetativo
spiegherebbe nel fatto che tale sdoppiamento si riferisce ad un calendario liturgico che ha inizio non al solstizio d’inverno, ma all’equinozio di primavera, per cui l’albero gerarchico di sdoppiamento delle 4 stagioni corrisponderà, in ultima analisi, alla seguente tabella temporale: leta = D2) Primavera: dal 21 marzo, equinozio di primavera, al 22 giugno, solstizio d’estate. mar = primavera-estate marisl/laθ = D3) Estate: dal 22 giugno, solstizio d’estate, al 23 settembre, equinozio d’autunno. _________________________________ _________________________________ t[ .]nθ = D4) Autunno: dal 23 settembre, equinozio d’autunno, al 22 dicembre, solstizio d’inverno. herc = autunno-inverno neθ = D1) Inverno: dal 22 dicembre, solstizio d’inverno, al 21 marzo, equinozio di primavera. Definita così la prima suddivisione dell’anno attraverso le 2 e 4 fasi stagionali che caratterizzano le tappe del periodo vegetativo, è logico ora pensare che fosse utile indicare all’osservatore il dettaglio delle divinità attribuite ai due trimestri della primavera e dell’estate, periodo che è stato da noi assegnato al gruppo G) del modello teorico. Risulta ora nuovamente significativo che tale gruppo sia antistante ai quattro settori stagionali della vesica fellea, quasi a voler sottolineare l’evoluzione dell’albero gerarchico di ripartizione dell’anno in 2, 4 e 8, a cui sembra essere stato destinato l’intero schema delle ripartizioni interne del lobo destro del Fegato. L’analisi di questo settore è per noi decisiva, perché, secondo l’ipotesi generale, in G) dovranno ora essere presenti gli stessi nomi di fase ascendente che abbiamo già letto sul bordo destro in F4, F5, F6, F7, F8, oltre che parte di quelli che tra breve assegneremo alla fase di-
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
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Fig. 21 – Disegno tabellare delle celle del settore G), ai piedi del processus pyramidalis, con i relativi nomi abbreviati iscritti. I nomi vanno riferiti ai segni separatori alla loro destra. G5 corrisponde alla linea incisa ai piedi della piramide (dis. A. Gottarelli).
scendente in F9, F10, F11, F12, dove i primi dovranno ora ricomparire in G1, G2, G3, G4 e G5 (vd. fig. 21). Analizzando ora la struttura del settore G), si evidenzia come le sue caselle siano disposte secondo uno schema tabellare che sembra riprodurre esattamente la geometria dei 6 settori mensili del ciclo di levata del sole che è compreso tra l’equinozio di primavera e l’equinozio autunnale (fig. 22). Lo schema che ritroviamo alla destra del processus pyramidalis, in diretto contatto con le caselle del nastro periferico, è descritto da due ordini di tre celle tra loro affiancate, cui segue una casella terminale che ne copre l’ampiezza (vd. G1 in fig. 21) e un’ultima triangolare che appare sagomata sul resto delle precedenti divisioni. Il tutto risulta così composto da 7 celle, da 4 linee separatrici nella direzione equinoziale e da una superficie di risulta, contenente il nome pul o tul, confinante con l’anello perimetrale.
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3.1 I culti delle stagioni e le sedi del ciclo vegetativo
Fig. 22 – Corrispondenza delle celle disposte ai piedi del processus pyramidalis (settore G) con i settori del Templum solare relativi ai due trimestri della primavera e dell’estate (settore F, F4-F12) (dis. A. Gottarelli).
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Se ora consideriamo che i nomi contenuti nelle celle, come nel caso dei precedenti nomi presenti sul bordo, possono essere associati ai separatori immediatamente ad essi successivi, con movimento da sinistra a destra, lo schema risulterà composto, nell’ordine: da 6 nomi relativi ai 6 separatori mensili (da G2 a G8); da un nome indicante il separatore comune (G1) e da un nome ad indicare ciò che è “oltre” il separatore comune (pul, tul). Il separatore comune (G1), nell’ipotesi, dovrebbe essere il nome dell’asse equinoziale, perché solo l’asse equinoziale è comune ai due cicli, essendo il limite di entrata nella primavera, a metà della fase ascendente, e quello di entrata nell’autunno, a metà della fase discendente. Il nome della casella triangolare immediatamente oltre, dovrebbe invece esprimere il concetto generale di “limite” o “confine”, ad indicare genericamente ciò che sta oltre il precedente schema. Per quanto già abbiamo accertato per le divinità di fase ascendente, il primo trimestre dell’anno, quello primaverile, avrebbe inizio da uni/mae, corrispondente all’equinozio di primavera in F4, e questo separatore cade comunque sull’asse equinoziale, il cui nome, come si è detto, è leθam. Uni e mae sono dunque le divinità assegnate all’entrata nel primo mese dell’anno, mentre leθam è il nome attribuito a tutto il separatore equinoziale, per cui lo si dovrà ritrovare ad indicare sia l’entrata nella primavera (all’equinozio di primavera), sia l’entrata nell’autunno (all’equinozio autunnale). Si è inoltre visto che il ciclo di levata del sole verso nord segue la sequenza di stazioni che muove dall’equinozio di primavera, che è uni/mae su leθam in F4, a tins/θne in F5, tin/θvf in F6 e tin/cilen in F7, giungendo così al solstizio d’estate che è cilensl in F8. Superata la stazione solstiziale, inizia così la sequenza di ritorno verso sud, con stazioni in F9, F10 ed F11, giungendo infine in F12, che è il punto di levata che viene a cadere nuovamente sull’asse equinoziale e dunque in leθam. Se ne deduce allora che se vi fosse, come ipotizzato, perfetta corrispondenza tra queste fasi e le 7 celle del gruppo G), allora la casella del gruppo che è posta alla loro estremità (G1), e che è comune alle 3 stazioni ascendenti e alle 3 discendenti, dovrà anch’essa necessariamente contenere il nome leθam, perché in questo modo verrebbe indicato all’osservatore che il ciclo dell’anno che si viene qui a rappresentare, inizia da leθam, muove in senso antiorario sulle tre celle successive, gira sulle
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3.2 Le sedi della fase discendente dell’arco solstiziale
tre adiacenti e torna indietro, raggiungendo nuovamente leθam. I nomi contenuti nelle rispettive celle dovranno inoltre essere coerenti con il principio d’identità tra i diversi settori, in quanto in G1 dovremmo trovare leθam, in G2 tins/θne (F5), in G3 tin/θvf (F6) e in G4 tin/cilen (F7). Seguirà poi il giro di ritorno in G5, che è il comune cilensl (F9) della casella alla sinistra del processus pyramidalis (vd. fig. 22), cui seguiranno i nomi presenti in G6, G7, G8 e nuovamente in G1, nomi questi che dovranno ora ricomparire identitici e nello stesso ordine tra gli 8 presenti sul nastro periferico del lobo sinistro, ad indicare le 8 stazioni della fase discendente.
3.2 Le sedi della fase discendente dell’arco solstiziale Procedendo alla verifica di tali concordanze, osserviamo che i nomi che troviamo sul ciclo di andata in G1, G2, G3 e G4 risultano essere, rispettivamente, leθn, tins/θvf, θvfl/θas e tinsθ/neθ. Allineando questi con le caselle equivalenti del gruppo F ne consegue la seguente tabella delle corrispondenze: G1 = leθn G2 = tins/θvf G3 = θvfl/θas G4 = tinsθ/neθ
F4 = (uni/mae) leθam F5 = tins/θne F6 = tin/θvf F7 = tin/cilen
Risulta più che evidente che tra le due sequenze intercorre un preciso rapporto di identità per nulla casuale: con leθn in G1 che viene a confermare pienamente quanto avevamo previsto rispetto al suo significato generale e all’andamento della sequenza, e con i precisi rapporti di identità che legano tins/θvf e θvfl/θas, in G2 e G3, con tin/θvf in F6, e tinsθ/neθ in G4 con tins/θne in F5. Risulta però altrettanto evidente che le due serie mostrano un palese disallineamento derivante dall’inversione di posizione di tinsθ/neθ in G4, la cui perfetta identità con tins/θne lo avrebbe dovuto porre in G2, mentre tins/θvf in G2 avrebbe dovuto in realtà cadere in G3, la qual cosa lo avrebbe allineato con l’identico tin/θvf in F6. Ma l’ovvietà delle corrispondenze che si instaurano tra i nomi delle due serie, e, in parti-
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
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colare, la comune presenza di leθam al loro inizio e fine, la ricorrenza su entrambe di due termini su tre pressoché identici, e il fatto che questi confermino la prevalenza di tinia all’interno dei rispettivi settori, rende plausibile che lo scambio di posizione dei due nomi sia da imputarsi ad un errore materiale del compilatore, punto, questo, su cui torneremo in seguito. La coerenza di quanto ipotizzato con i dati di fatto rilevabili è infatti resa ulteriormente evidente dall’analisi della sequenza dei nomi delle restanti celle in G6, G7 e G8 che, come detto, dovrebbero a loro volta coincidere con F9, F10 ed F11, in quanto stazioni della fase discendente, da solstizio d’estate a solstizio d’inverno, e che dovremmo ora ritrovare sulla sequenza di celle del nastro periferico presenti sul lobo sinistro. È anzi opportuno ricordare, che il significato dello schema doveva essere quello di fornire all’osservatore indicazioni chiare, e non contraddittorie, su come dovevano essere lette, secondo verso e sequenza, le 8 stazioni che seguono alle 8 già nominate di fase ascendente, consentendogli di cogliere l’ordinamento generale del ciclo annuale sulle sei porte del Templum solare. Leθam, come si disse, è l’elemento chiave, presente in tutti i settori, cui è destinata la funzione di allineare lo schema di tutte le parti al modello d’insieme, e non è un caso che anche qui sia proprio leθn il termine comune sui cui converge la sequenza delle tre celle in F9, F10 ed F11. Tale limite, oltre il quale inizia la sequenza delle stazioni del ciclo di stasi vegetativa dell’autunno e dell’inverno, verrebbe inoltre sottolineato dal nome presente sulla cella di estremità che segue leθn in G1, alla cui rilettura di Colonna in tul, rispetto alla precedente di Maggiani in pul, con possibile nuova traduzione in tul(ar), corrisponderebbe esattamente il valore di limite o confine indicante ciò “che sta oltre” quella sequenza3. Il passaggio è ora di straordinaria importanza perché i nomi o teonimi in F9, F10, F11, cui segue nuovamente G1, che è leθn, dovranno necessariamente ricomparire sul nastro del lobo sinistro in F9, F10,
3 Per pul vd. MAGGIANI 1984, p. 56, nota 15, pp. 79-81. Già MORANDI 1988 = A. Morandi, “Nuove osservazioni sul fegato bronzeo di Piacenza”, in “Mélanges de l’Ecole Francaise de Rome”, 100, 1, 1988, pp. 283-297, aveva corretto in tul; vd. pp. 287-288. In ultimo COLONNA 1994, vi legge tul, da tul(aras) a sottolineare l’aspetto più elevato di Selvans quale tutor finium di una dedica votiva proveniente da Volsini; vd. p. 131, nota 36.
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3.2 Le sedi della fase discendente dell’arco solstiziale
Fig. 23 – Corrispondenza delle celle G6, G7, G8 e G1 del settore disposto ai piedi del processus pyramidalis con le celle del nastro periferico in F9, F10, F11 e F12 del settore F (dis. A. Gottarelli).
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
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F11 ed F12 (=G1=leθn), con nomi uguali o simili, e disposti nella stessa identica sequenza. In sostanza, considerando che tali nomi risultano essere caθa in G6, fuf/lus in G7 e la/sl in G8, cui appunto segue leθn in G1, vi è da verificare se questi stessi nomi ricompaiono in eguale sequenza tra i teonimi delle celle del nastro periferico del lobo sinistro, e se così fosse, l’ipotesi generale sarebbe definitivamente provata e avremo acquisito la chiave di lettura della sequenza di lettura delle 16 stazioni del tempo dell’arco solstiziale rappresentate sull’intero bordo del Fegato. Ebbene in figura 23 sono indicate le celle del nastro periferico che rispondono esattamente a tale sequenza confermando nuovamente quanto detto, risultando, caθ in F9, fuflu/ns in F10, selva in F11 e leθns in F12. Ne consegue la sottostante tabella comparativa con i nomi precedentemente indicati da G6 a G1: G6 = caθa G7 = fuf/lus G8 = la/sl G1 = leθn
F9 = caθ F10 = fuflu/ns F11 = selva F12 = leθns
La pressoché totale coincidenza delle due sequenze rivela che il corretto verso di lettura delle 8 caselle del nastro periferico da riferirsi alla fase discendente, da solstizio d’estate a solstizio d’inverno, muove a partire dalla cella d’inizio della precedente serie in neθ (vd. F1, fig. 23), ma seguendo una progressione di verso contrario. La cosa, a ben guardare, ha una sua precisa logica, perché se il verso di levata del sole da solstizio d’inverno a solstizio d’estate, per chi guarda ad est, è da destra verso sinistra seguendo quindi un giro antiorario così come è risultato essere il verso delle precedenti 8 stazioni da neθ in F1 a tin/cilen in F7, ora il verso delle levate del sole, da solstizio d’estate a solstizio d’inverno, muoverà in senso contrario, con verso orario, così come appunto risulta svolgersi la sequenza delle celle da caθ in F9 a leθns in F12. Come descritto in figura 24, le stazioni dell’intera fase discendente del moto solare sull’arco solstiziale, risulteranno così fissate dalla sequenza dei nomi/teonimi delle 8 celle del nastro periferico presenti sul lobo sinistro, da caθ in F9 a vetisl in F16, secondo il seguente ordine temporale:
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3.2 Le sedi della fase discendente dell’arco solstiziale
Fig. 24 – Codifica generale delle 16 regioni del nastro periferico rispetto alle stazioni annuali del Templum solare. La fase ascendente delle ore di luce, con verso antiorario, è da F1 a F8, con in quest’ultimo il solstizio d’estate. Quella discendente, con verso orario, è da F9 a F16, con in quest’ultimo il solstizio d’inverno. L’equinozio di primavera è in F4 e quello autunnale in F12 (dis. A. Gottarelli).
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
caθ
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= F9);
passaggio alla fase discendente; rientro nella porta VI; inizio estate; da calendario gregoriano il 22 giugno; costellazione attuale Cancro. fuflu/ns = F10); entrata nella porta V; estate; da calendario gregoriano il 23 luglio; costellazione attuale Leone. selva = F11); entrata nella porta IV; estate; da calendario gregoriano il 24 agosto; costellazione attuale Vergine. leθns = F12); entrata nella porta III; equinozio autunnale; inizio autunno; da calendario gregoriano il 23 settembre; costellazione attuale Bilancia. tluscv = F13); entrata nella porta II; autunno; da calendario gregoriano il 23 ottobre; costellazione attuale Scorpione. cels = F14); entrata nella porta I; autunno; da calendario gregoriano il 23 novembre; costellazione attuale Sagittario. cvlalp = F15); sosta all’estremità della porta I; fine autunno in fase discendente; da calendario gregoriano il 21 dicembre; passaggio da Sagittario a Capricorno. vetisl = F16); solstizio d’inverno; da calendario gregoriano il 22 dicembre, giorno del passaggio dalla fase discendente a quella ascendente delle ore di luce. Come per i teonimi di fase ascendente, ma con verso contrario, la serie sembra anche qui disporsi per entità di natura celeste, terrestre e infera coerentemente con la successione delle stazioni che caratterizzano la fase discendente delle ore di luce, quella cioè che muove dall’estremità solstiziale estiva, che coincide con la culminazione positiva delle ore del giorno, a quella infera e negativa, entro cui si ha il progressivo prevalere delle ore notturne fino al limite inferiore del solstizio vernale. In F9, al passaggio solstiziale dell’estrema levata nord del sole, troviamo infatti assegnato il positivo e celeste caθ, opportunamente riconducibile a quel Cavtha, Cautha, Cath che è teonimo attribuito al Sole e a cui, non a caso, sono associate iconografie riferibili al percorso celeste ed infero dell’astro ed ai suoi estremi solstiziali, così come indicato dall’unicum iconografico dello specchio di Orbetello
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3.2 Le sedi della fase discendente dell’arco solstiziale
o dalla straordinaria raffigurazione di quegli estremi contenuta nello specchio di Minneapolis4. Seguono poi, a fine luglio e fine agosto, in F10 ed F11, fuflu/ns e selva /selva(ns), entrambi in posizione appropriata rispetto ad una loro possibile identificazione con divinità che presiedono alla fertilità della terra e alla culminazione del ciclo vegetativo: con il primo che è assimilabile al Dionysos dei Greci, qui in veste preminente di “dio della vegetazione”, e con il secondo che è associato alle prerogative del Silvanus latino, in qualità di “signore del bosco”5. Altrettanto significativo è poi il successivo allineamento di leθns con la stazione equinoziale di entrata nella stagione autunnale in F12, a conferma dei significati che già abbiamo più volte ad esso attribuiti, relativamente alla direzione est e ad entrambi i marcatori equinoziali. Ugualmente coerente è poi la posizione delle divinità telluriche e terrene tluscv e cels6, in F13 ed F14, poste all’entrata dei mesi che vedono la totale stasi delle forze germinative della terra, e altrettanto significativo è che a queste seguano, in posizione consona ad indicare il culmine solstiziale inferiore, divinità propriamente infere. Proprio sul separatore di svolta del periodo discendente, troviamo
4 Per caθ vedi COLONNA 1994, p. 134. Per lo specchio di Orbetello con iscrizione caθesan, vd. PFIFFIG 1975 = A.J. Pfiffig, “Religio etrusca”, Graz 1975, pp. 241-243, fig. 106. Per lo specchio di Minneapolis e sulla derivazione orientale, in particolare neo-assira, dei canoni iconografici della rappresentazione solare dell’arte etrusca vd. KRAUSKOPF 1991 = I. Krauskopf, “Ex Oriente Sol, Zu den orientalischen Wurzeln der etruskischen Sonneni- konographie”, Archeologia Classica, 43, 1991, (Miscellanea etrusca e italica in onore di Massimo Pallottino) 1261-3; GOTTARELLI 2013, p. 148. Per la possibile associazione con catha vd. CRISTOFANI 1984 = M. Cristofani (a cura di), “Etruschi. Una nuova immagine”, Firenze, 1984, p. 162, alla voce Cavtha / Cautha / Cath. Sulla connotazione sessuale di tale divinità si veda MARAS 2007 = D. Maras, “Divinità etrusche e iconografia greca: la connotazione sessuale delle divinità solari ed astrali”, in “Polifemo - Rivista di Storia delle Religioni e Storia antica”, VII, 2007, pp. 102-109. 5 Per entrambi i teonimi, si veda in particolare RIX 1998 = H. Rix, “Teonimi etruschi e teonimi italici”, in “Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina”, vol. V, atti dei convegni IV e V “Etrusca Disciplina. I culti stranieri in Etruria”, 1987-198,. pp. 207-229. Per fufluns, dalla forma originale foflons, probabilmente dall’umbro-sabellico, con il significato di “ciò che fiorisce, germina cresce, la vegetazione o meglio qualcosa di più concreto: l’albero, l’edera o simile, e foflon(o)s ‘il signore della vegetazione, degli alberi, dell’edera’”; vd. RIX 1998, p. 214; per selvans, è appunto data l’origine italica da Silvanus, “signore del bosco (silva)”; vd. RIX 1998, p. 210. 6 Per la traduzione Tluscv(al)-Tlusc(val) vd. in ultimo COLONNA 2012 = G. Colonna, “I santuari comunitari e il culto delle divinità catactonie in Etruria”, in “Annali della Fondazione per il Museo ‘Claudio Faina’”, vol. XIX, Roma, 2012, pp. 208-209. In generale su Cel, vd. CRISTOFANI 1984, p. 162, alla voce.
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cvlalp in F15, nome che riconduce al Cvl/Cvlśans, guardiano della “porta”, che presenta le stesse prerogative assegnate ai passaggi soltiziali dell’equivalente latino Ianus 7. Mentre ad indicare il solstizio vernale, e dunque alla culminazione inferiore e notturna delle ore di luce, troviamo vetisl in F16, i cui confronti rimandano al doppio latino Veiovis-Vedius, che designa, appunto, la massima divinità del sottosuolo e dunque lo stesso “dio degli inferi” 8, che è qui opposto al celeste cilensl-Nocturnus, cui è assegnata l’estremità polare superiore dell’asse della rotazione cosmica.
3.3 I nomi delle porte e la ruota dell’anno Le 8 caselle del nastro periferico del lobo sinistro completano così il sistema di lettura delle sedi, o stazioni divine, dell’intero arco solstiziale, confermando l’insieme delle relazioni analogiche che dovevano intercorrere tra i settori A), B), D), G) ed F) all’interno del modello teorico. La lettura del lobo sinistro, che è dedicato alla luna, si completa ora con il settore E), che è la ruota a sei raggi il cui disegno copre l’intera superficie interna del lobo, e nei cui settori troviamo incisi i nomi/teonimi cilen, selva, leθa, tlusc, lvsl/velc e satr/es. Questo settore non aveva posto in partenza alcuna ambiguità interpretativa, dovendo necessariamente corrispondere ai nomi attribuiti alle 6 porte dell’arco solstiziale, essendo l’unico settore del Fegato che esprime tale numero di ripartizioni. Inoltre la radialità delle celle, e la rappresentazione a ruota raggiata, si spiegherebbe nel fatto che con essa, al pari della “ruota” della sequenza del nastro periferico, si volesse rappresentare la rotazione perpetua dello sviluppo temporale che è determinato dai cicli di levata e tramonto del sole e
7 Per cvlalp del Fegato e i suoi rapporti con cvlśanś, vd. COLONNA 1994, pp. 132-133. Per cvlśans, “dio della porta”, vd. RIX 1986 = H. Rix, “Vjesnik Archeološkog Muzeja u Zagrebu”, 3.s, vol. XIX, zagreb, 1986, pp. 19-27; SIMON 1989 = E. Simon, “Culsù, Culśanś e Ianus”, in “Atti del II Congresso Internazionale etrusco, Firenze, 1985”, III, Roma, 1989, pp. 1271-1281; RIX 1998, p. 212. 8 Per la coppia veive-vetis nel confronto con il doppione latino Veiovis-Vedius, “dio degli inferi”, vd. RIX 1998, pp. 216-218.
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3.3 I nomi delle porte e la ruota dell’anno
Fig. 25 – Relazione di corrispondenza tra i nomi del settore F e cinque dei nomi della ruota raggiata interna al lobo sinistro, ad indicare che questi sono i nomi attribuiti alle porte dell’arco solstiziale nel settore E (dis. A. Gottarelli).
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
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della luna su quelle 6 porte, dove, in questo caso, ogni singola rotazione corrisponderebbe ad un semestre. Possiamo ora nuovamente immaginare che la presenza dei nomi o teonimi all’interno della sequenza, oltre che il disegno generale della ruota, abbiano avuto lo scopo di rendere autoevidente all’osservatore a quale finestra dell’arco solstiziale andasse a corrispondere ogni sezione raggiata, seguendo una modalità di rappresentazione che ne indicasse, senza ambiguità interpretative, l’esatto ordine. Nella misura in cui l’osservatore fosse giunto come noi a riconoscere l’esatto allineamento dei teonimi del nastro periferico sui 16 separatori dell’arco solstiziale, è ora logico pensare che alcuni di questi teonimi fossero qui nuovamente ripetuti, al fine di consentire l’allineamento tra i nomi/teonimi presenti sui separatori del nastro perimetrale e quelli assegnati ad ogni singola porta. Non meraviglia dunque che su un totale di 6 nomi qui presenti, ben 5 risultino essere una ripetizione dei 16 del nastro perimetrale, e che tra questi ritorni leθam, l’elemento che abbiamo considerato dover essere comune a tutti i settori, e la cui funzione è appunto quella di consentire il reciproco loro allineamento rispetto al modello analitico generale. Considerando ora tali ricorrenze, e seguendo il verso orario dei settori di figura 25, ne risulta la seguente tabella di identità tra E) ed F): E6 = cilen E5 = selva E4 = leθa E3 = tlusc E2 = lvsl/velc E1 = satr/es
= = = = = ?
tin/cilen, cilensl selva leθns tluscv lvsl ?
in F7-F8 in F11 in F12 in F13 in F2
Anche in questo caso le ripetizioni dei teonimi confermano quanto ipotizzato per F), ma va anche ricordato che nel capitolo precedente (vd. fig. 8) avevamo sottolineato come tra i settori E) ed F) dovesse anche intercorrere una relazione di contiguità spaziale che poteva legare i nomi, o sedi, eventualmente attribuiti alle porte del Templum solare con i nomi dei rispettivi quattro separatori del gruppo F. In sostanza si ritenne possibile che i nomi o le divinità assegnati alle porte potessero corrispondere a quelli assegnati ai suoi stipiti, e da
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3.3 I nomi delle porte e la ruota dell’anno
questo era derivata la serie di possibili correlazioni tra il gruppo E ed il gruppo F che qui riassumiamo: I II III IV V VI
porta in E1) porta in E2) porta in E3) porta in E4) porta in E5) porta in E6)
stipiti che la delimitano: F16, F1, F2, F14, F15; stipiti che la delimitano: F2, F3, F13, F14; stipiti che la delimitano: F3, F4, F12, F13; stipiti che la delimitano: F4, F5, F11, F12; stipiti che la delimitano: F5, F6, F10, F11; stipiti che la delimitano: F6, F7, F8, F9, F10.
Se ora confrontiamo queste relazioni con quelle della tabella precedente, ne risulta che tra le due vi è perfetta concordanza ai fini della corretta attribuzione dei 6 nomi della ruota raggiata alle relative porte, secondo il loro ordine naturale di rotazione. Partendo dal settore raggiato contenente il nome cilen si osserva che le sue ricorrenze sui teonimi del bordo sono con tin/cilen in F7 e cilensl in F8. Rispetto alle relazioni sopra ipotizzate, F7 ed F8 sono sullo stipite solstiziale che delimita, senza ambiguità, la sola VI porta (E6), e dunque ne consegue che il settore raggiato contenente cilen dovrà necessariamente corrispondere alla porta in E6 (vd. fig. 25). Dopo cilen, seguendo il verso orario della ruota, troviamo selva che è lo stesso teonimo che compare sul bordo esterno in F11, dopo fuflu/ns in F10. Dalle relazioni in tabella, F11 marca lo stipite comune tra la V e la IV porta e dunque potrebbe ugualmente riferirsi ad E5 o a E4. Conseguendo però selva a cilen, e coincidendo quest’ultimo con E6, la soluzione per selva è attribuirgli il valore certo di E5. Seguendo il medesimo procedimento logico, il settore raggiato che segue selva contiene leθa, e questo ha un suo corrispondente nel leθns in F12. Anche questo stipite è comune con le porte E4 ed E3, ma seguendo leθa a selva, ed essendo quest’ultimo la porta F5, a leθa andrà attribuita la porta E4, che è, non a caso, proprio di quella porta che, in fase ascendente, sancisce l’inizio dell’anno liturgico e l’entrata nella primavera, stagione a sua volta corrispondente all’equivalente leta sui 4 settori della vesica fellea. A leθa segue così tlusc, che già abbiamo trovato nel tluscv che è in F13, stipite che in tabella riconduce alla III o II porta, e che ora andrà assegnato alla III in E3. A questa segue l’enigmatico lvsl/velc, in parte
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equivalente al lvsl in F2, che appunto riconduce allo stipite della II porta in E2. Infine, nell’ultimo settore raggiato troviamo satr/es, nome che non ha confronti in altri settori del bordo, ma la cui assegnazione certa alla prima porta avviene per esclusione e per consequenzialità con le altre. Seguendo così l’ordine naturale della successione delle porte che muove dal solstizio d’inverno, se ne conclude che l’anno solare ha inizio con satr/es in E1, continuando il giro antiorario per lvsl/velc in E2, tlusc in E3, leθa in E4, selva in E5, per chiudere infine sulla porta di cilen in E6. Si compie così il semestre di fase ascendente fino allo stipite solstiziale estivo, da cui prenderà ora le mosse il secondo semestre di fase discendente. Questo muoverà nuovamente da cilen in E6 e, seguendo questa volta un verso orario, tornerà su selva in E5, leθa in E4, tlusc in E3, lvsl/velc in E2, chiudendo infine su satr/es in E1 (vd. fig. 25). Si dimostra così la perfetta coerenza del settore con l’intero procedimento logico da noi adottato, ma resta da spiegare come tali evidenze avessero potuto far risultare autoevidente all’antico utilizzatore quanto abbiamo fin qui osservato. In sostanza, c’è da chiedersi, come avrebbe potuto egli giungere alle medesime nostre conclusioni basandosi sulla sola valutazione autoptica dei nomi presenti sui settori della ruota, considerando che se su di essa è resa autoevidente la loro sequenza, non altrettanto autoevidente è il loro ordine di lettura all’interno delle porte dell’arco solstiziale. Una possibile prima indicazione potrebbe derivare dal settore che avevamo lasciato con un punto di sospensione in figura 7 (in basso), quello cioè compreso tra il processus pyramidalis e l’estremità della vesica fellea, contenente le iscrizioni tlusc e mar. Queste erano state da noi inserite tra quelle il cui scopo era quello di indurre ad una orientazione del bronzo sull’asse visuale di leθa, così come osservammo in figura 11. Riproponendo ora in figura 26 questa stessa orientazione, si nota che tlusc e mar presentano un verso di lettura che è parallelo al piede di una della facce della piramide, risultando sensibilmente inclinato in senso orario rispetto al verso di lettura di leθam. Avendo supposto che la linea visuale di quest’ultimo indicasse l’est, e dunque il separatore equinoziale dell’arco solstiziale, ne risulterebbe che l’inclina-
100
3.3 I nomi delle porte e la ruota dell’anno
Fig. 26 – Orientando il Fegato con l’asse di leθam verso est, così come già precedentemente descritto in figura 16, si nota che le iscrizioni tlusc e mar, disposte tra il processus pyramidalis e la vesica fellea, presentano un verso di lettura che risulta essere inclinato alla destra di tale asse. Avendo fatto coincidere la direzione di leθam con il divisorio equinoziale dell’arco solstiziale, tale verso di lettura potrebbe indicare all’osservatore che la porta E3, dedicata a tlusc, è quella immediatamente alla destra di tale divisorio in F4 (dis. A. Gottarelli).
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
101
zione data al verso di lettura di tlusc potrebbe avere avuto la funzione di indicare all’osservatore la direzione della porta immediatamente alla destra di quel separatore, quasi a voler dire: “ricorda che la porta di tlusc è la prima alla destra di leθam”. Questa stessa porta è effettivamente quella che ora abbiamo ipotizzato essere stata a lui dedicata, e l’abbinamento tra tlusc e mar (Marte) potrebbe essere conseguente al fatto che durante la fase ascendente delle levate solari che segue al solstizio d’inverno, la porta dedicata a tlusc sarà l’ultima attaversata prima dell’inizio del nuovo anno liturgico. Tale inizio coincide con l’equinozio di primavera e sancisce così l’entrata in quel semestre primavarile ed estivo che già abbiamo indicato dover essere dedicato a mar (vd. fig. 20). L’associazione tlusc/mar potrebbe in sostanza voler dire che il passaggio in tlusc sulla porta E3 prelude ad un nuovo inizio in mar. Se questo potrebbe dunque rivelarsi un utile stratagemma per consentire all’osservatore di ottenere un primo allineamento dei nomi della successione della ruota raggiata con la sequenza delle porte sull’arco soltiziale, resta comunque il fatto che per esplicarne la corretta successione spazio-temporale sarebbe stato comunque necessario un non così semplice ed immediato confronto con gli identici nomi presenti sulle celle del nastro periferico. In questo caso, l’unica possibile soluzione sarebbe stata quella di rendere evidenti i rapporti analogici intercorrenti tra i due settori, utilizzando un principio di contiguità, del tipo uno a uno, all’interno del disegno delle rispettive celle, in modo tale da renderne graficamente esplicite le relazioni spaziali. Ebbene, in figura 27 è riprodotta la graficizzazione dello straordinario sistema adottato dall’ideatore delle partizioni del modello bronzeo, con in evidenza gli otto nomi che compaiono sulle celle del nastro periferico da F9 a F15. Si nota che questi avvolgono significativamente l’intero disegno del settore della ruota raggiata, ma l’attenzione va posta al rapporto che intercorre tra le estremità dei raggi della ruota, da noi evidenziate con una freccia, e i contigui tratti separatori delle partizioni dell’anello esterno. Partendo dal raggio che sta sotto a cilen, si osserva che la sua estremità, che è da vedersi come una sorta di lancetta di orologio, viene a cadere tra i separatori dell’anello esterno corrispondenti ad F9=caθ
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3.3 I nomi delle porte e la ruota dell’anno
Fig. 27 – Relazione di coerenza spaziale tra i settori della ruota raggiata del lobo sinistro e le relative partizioni del nastro periferico. I raggi, a cui va attribuito il nome ad essi successivo rispetto al verso di rotazione orario, indicano le 6 porte dell’arco solstiziale. Le estremità dei raggi (su cui abbiamo posto una freccia) cadono sul nastro periferico tra i due tratti separatori che corrispondono esattamente agli stipiti che delimitano ogni rispettiva porta sull’arco solstiziale (dis. A. Gottarelli).
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
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e F10=fuflu/ns. F9 ed F10 corrispondono ai due stipiti della VI porta (E6), quella che abbiamo appunto in precedenza assegnato a cilen, per cui, attribuendo quel raggio a cilen stesso, si avrebbe una possibile lettura di tale evidenza grafica del tipo: “io cilen sono la porta compresa tra caθ e fuflu/ns”. Passando al raggio del settore seguente, dedicato a selva, notiamo, allo stesso modo, che questo cade tra i separatori F10=fuflu/ns ed F11=selva, e questi sono appunto i due che delimitano la V porta (E5), quasi a voler indicare: “io selva sono la porta compresa tra fuflu/ns e selva”, condizione che è esattamente coerente con quanto già avevamo dimostrato dover essere. Proseguendo, il sistema conferma quanto in precedenza osservato, mostrando l’ingegnosità della soluzione adottata e l’alto grado di complessità che caratterizza la sua composizione, nell’insieme e in ogni sua parte. Si passa così al raggio di leθa, che cade tra F11=selva e F12=leθns, stipiti appunto della IV porta (E4); a quello di tlusc che è tra F12=leθns e F13=tluscv, separatori appunto della III (E3); a quello di lvsl/velc, che è quasi coincidente con F14=cels, ma che cade di fatto tra questo e il precedente F13=tluscv, stipiti della II porta (E2). Infine, il ciclo si chiude sul raggio di satr/es, l’unico che non cade su alcuna parte del nastro periferico non essendo ad esso adiacente, condizione, questa, che comunque sottolinea la sua specificità di settore attribuito a quella prima porta che è di inizio e fine della rotazione dei cicli che determinano la conclusione dell’anno solare. La straordinaria evidenza oggettiva di questa soluzione chiude dunque il cerchio di tutte le considerazioni fin qui svolte sulla corrispondenza di quanto è stato descritto sul Fegato di Piacenza con il modello analitico di confronto, confermandolo. L’estrema articolazione del suo contenuto informativo, a tutt’oggi uno dei più complessi di tutta la letteratura archeologica, ci ha obbligati ad un procedimento di decifrazione che è stato impostato su una sorta di dimostrazione logico-analitica dei rapporti numerici ed alfabetici presenti al suo interno, e tale procedimento può essere risultato, ai più, di non facile lettura né di immediata comprensione. Concludiamo questo capitolo con la tavola sinottica di figura 28, entro cui il lettore può trovare riassunte tutte le relazioni analogiche esistenti tra le parti del modello bronzeo e lo schema logico-geome-
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3.3 I nomi delle porte e la ruota dell’anno
trico del Templum. Se anche qui risultasse non immediata la comprensione dell’insieme, valga il fatto che la struttura logica di queste concordanze costituisce la più convincente testimonianza di come la complessa trama delle partizioni del bronzo, il suo disegno generale e la sua stessa forma, fossero state progettate per descrivere un vero e proprio mezzo analogico per il calcolo dei ritmi liturgici del tempo, con finalità di utilizzo che, giunti a questo punto, è possibile immaginare possano avere avuto una funzione anche di tipo strumentale. La verifica di questo, e cioè l’analisi del suo uso in termini pratici e funzionali, è dunque parte sostanziale della decifrazione dell’oggetto, perché se esso avesse effettivamente svolto una funzione di tipo pratico, spiegarne le modalità di utilizzo sarebbe già di per sé un modo utile per renderne comprensibile l’ordine compositivo delle parti, anche da parte di chi, di quell’ordine, non ne avesse fin qui compreso appieno le reciproche relazioni di tipo analogico e funzionale. Giungere a questa conclusione restituirebbe inoltre molto più del già importante obiettivo di decifrarne il contenuto in via definitiva. Perché se il Fegato di Piacenza rappresentasse uno strumento, se pure imperfetto e connotato da forti simbolismi di carattere religioso, sarebbe, al momento, il primo e più antico strumento di computazione analogica dei moti celesti mai rinvenuto, e i suoi meccanismi svelerebbero il punto di svolta di una delle più complesse teorie cosmologiche dell’antichità: il fondamento aritmogeometrico della meccanica del Tempo.
Cap. III – Le stazioni del Tempo e le sedi degli Dèi
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Fig. 28 – Tavola sinottica generale dell’insieme delle relazioni esistenti tra il modello analitico del Templum solare e i settori del Fegato di Piacenza (dis. A. Gottarelli).
4. Un’ombra tra le mani del Tempo La logica strumentale del modello
L’aver compreso i meccanismi che legano il contenuto informativo del Fegato con la meccanica astronomica del Templum solare del luogo, fa sì che le stesse premesse che ci hanno condotto a tale risultato forniscano ora l’immediata spiegazione di cosa realmente l’oggetto volesse in ultimo rappresentare e quale fosse il suo reale funzionamento. Fin dai primi passi di questa ricerca, la presenza sul retro dei due lobi dei nomi del Sole e della Luna è stata infatti la chiave interpretativa che ci ha portato a riflettere su quanto venne disposto sul fegato di Tiāmat nel racconto dell’epica della Creazione babilonese. Da questo siamo poi giunti al contenuto misterico della Tavola dei Destini e a ciò che venne segretamente rivelato ad Enmeduranki, fino ai passaggi rivelatori contenuti nel Libro di Enoc. La soglia misterica del Tempo, e i significati che in essa assumono i ritmi di passaggio dell’astro del giorno, il Sole, e di quello della notte, la Luna, sono dunque l’essenza di quanto rappresentato al suo interno, e questo significa che la descrizione della geometria del Templum solare non è il fine per cui l’oggetto è stato ideato, ma ne è il mezzo. Vedremo come ciò che fino ad ora abbiamo dimostrato dover legare tra loro i diversi settori altro non è che la base informativa di un meccanismo di descrizione analogica del tempo il cui vero scopo è la predizione di quelle configurazioni astrali future entro cui le fasi del sole e quelle della luna, i numeri del giorno e quelli della notte, i
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4.1 Ruote, rotismi e rapporti tra le parti
regni della luce e quelli delle tenebre, torneranno nuovamente a ricongiungersi sul fegato dell’antica Madre, così come avvenne durante l’azione creatrice delle origini, e così come nuovamente sarà, nel giorno e nel luogo entro cui verrà stabilito l’avvento in terra di un nuovo inizio. Il collegamento concettuale tra il fegato e le congiunzioni di fase dei moti del Sole e della Luna, quale fondamento dell’azione divinatoria, è di fatto il principio cosmologico che ci ha condotti fin da subito alla domanda se non fosse stato proprio il “disegno” delle “ruote del Tempo” ciò che Marduk aveva idealmente proiettato sul fegato dell’antica madre. Il Tempo, si disse, è il “motore” delle sorti e dei destini di ciò che prende vita all’interno del Creato, e sia il Tempo, sia la divinazione, sono parti inscindibili di un’unica causa: l’eterno moto delle “ruote” celesti da cui la misura del Tempo ha avuto origine. La struttura analitica che è alla base dell’articolata sequenza informativa presente sulla superficie del bronzo indicherebbe il solo sistema di riferimento statico utilizzato per la misura della ritmica di quelle “ruote”, per cui è ora necessario chiedersi in che forma, e secondo quale struttura “intelligibile”, i moti del Sole e della Luna e i loro periodi di congiunzione, possano essere stati disegnati sulla sua superficie seguendo un espediente che ne potesse anche rappresentare il relativo sviluppo cinematico.
4.1 Ruote, rotismi e rapporti tra le parti Di fatto, il disegno dell’intera superficie piana del lobo sinistro, la cui iscrizione sul retro dichiara dover essere dedicato alla Luna, altro non è che una ruota a sei raggi entro cui si esprime la “rotazione” dei moti di levata dei corpi celesti sulle 6 “porte” dell’arco solstiziale, secondo il sistema che già abbiamo visto in 1Enoc essere funzionale alla misura dei numeri del Tempo. Da quanto abbiamo dedotto al termine del capitolo precedente, i settori di questa “ruota” si ingranano tra i segmenti del nastro periferico secondo l’ingegnoso stratagemma che vede i suoi raggi cadere tra i due tratti separatori del bordo, ove questi corrispondono esattamente ai nomi degli stipiti delle relative porte (vd. fig. 27). Questa so-
Cap. IV – La logica strumentale del modello
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luzione sembra ora poter suggerire l’idea che la successione delle celle che cadenzano il perimetro del bronzo potesse essere stata a sua volta considerata una sorta di grande “ruota” entro cui, come in un ingranaggio a ruote dentate, andava ad inserirsi la ruota del lobo sinistro, quasi che la catena delle 16 stazioni annuali del moto solare venisse trascinato dalla piccola ruota dentata delle 6 porte dell’arco solstiziale. Un rotismo di questo tipo costituirebbe, già di per sé, un semplice strumento analogico in grado di figurare in modo intuitivo la complessa serie di relazioni che abbiamo in precedenza trattato e che intercorrono tra la ciclicità delle diverse suddivisioni temporali dell’anno: la fase ascendente e discendente del moto solare, le fasi stagionali, i mesi e le rispettive stazioni con le divinità loro assegnate.1 In realtà, per quanto fin qui osservato, il nostro caso appare diverso e l’immagine di due o più ruote collegate l’una con l’altra non sembra poter rappresentare la reale “meccanica” del passaggio degli astri sul Templum solare. Se infatti lo scorrere delle 16 stazioni che cadenzano i separatori dei 12 mesi può benissimo essere rappresentato da un circolo su cui è possibile imprimere un moto di rotazione continuo, le fasi delle levate solari sulle 6 porte dell’arco solstiziale sono scandite da un movimento non circolare, ma oscillatorio, quello cioè che è unicamente decrivibile da un moto armonico semplice che è proiezione dei punti del precedente circolo (vd. fig. 29). Il meccanismo è descritto in figura 30, ed è la trasposizione sul nostro modello del sistema proiettivo di cui già abbiamo trattato al capitolo 6.5 del precedente volume, relativamente ai passi XIII e XVI della
1 Meccanismi concettuali di questo tipo sono già stati documentati dalla letteratura archeologica, in contesti culturali vicini al nostro, e sempre relativi a forme di rappresentazione del tempo di tipo liturgico rituale. Il meccanismo di Antikythera, conservato al museo Archeologico di Atene, dimostra che l’uso di ruote dentate e sofisticati rotismi, in grado appunto di calcolare il sorgere del sole, le fasi lunari, i movimenti dei cinque pianeti allora conosciuti, gli equinozi, i mesi e i giorni della settimana, erano in uso in ambito greco e/o magno greco già a partire dal III-II secolo a.C.: vd. DE SOLLA PRICE 1974 = D. de Solla Price, "Gears from the Greeks. The Antikythera Mechanism: A Calendar Computer from ca. 80 B.C.", in “Transactions of the American Philosophical Society New Series”, 64 (7), pp. 1–70. Per la datazione, vd. in particolare il recente CARMAN, EVANS 2014 = C.C. Carman, J. Evans, “On the epoch of the Antikythera mechanism and its eclipse predictor”, in “Archive for History of Exact Sciences”, vol. 68, nº 6, 15 novembre 2014, pp. 693–774.
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4.1 Ruote, rotismi e rapporti tra le parti
Fig. 29 – La velocità di levata del sole nei diversi periodi dell’anno è rappresentabile da un moto armonico semplice. Per ottenere i mesi di eguali giorni, le 6 porte dovranno avere ampiezza variabile secondo la proiezione armonica sul diametro ASE-ASI di 12 punti con cui è stata suddivisa, in archi uguali, la circonferenza in alto. Nel modello del Templum solare la stessa cosa si ottiene con una proiezione centrale dell’oscillazione armonica, sui rispettivi diametri, dei 12 punti con cui sono state suddivise due circonferenze disposte ad est e ovest dell’osservatore (dis. A. Gottarelli).
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Fig. 30 - Rappresentazione analogica dei rapporti intercorrenti tra i 16 settori della “ruota” del tempo descritta sul nastro periferico del Fegato di Piacenza e le 6 porte dell’arco solstiziale. I numeri romani nei settori del cerchio indicano la numerazione dei 12 mesi del calendario liturgico, con inizio all’equinozio di primavera. I numeri romani che cadenzano le porte, indicano la numerazione dei mesi del calendario solare, con inizio al solstizio d’inverno (dis. A. Gottarelli).
versione paleoslava di 2Enoc che riproponiamo in figura 29. In figura 30 la corona del cerchio è suddivisa nei 16 settori presenti sul bordo del Fegato. Se poniamo in rotazione la corona, la proiezione sul diametro N-S di un punto qualsiasi della circonferenza descriverà il moto armonico oscillatorio delle levate annuali dell’astro solare sulle 6 porte dell’arco solstiziale. A sistema fermo, con gli estremi solstiziali cilensl e vetisl allineati con gli estremi del diametro N-S, la figura può assolvere alla funzione strumentale di essere un comparatore analogico tra i nomi delle stazioni del calendario litur-
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4.1 Ruote, rotismi e rapporti tra le parti
gico, che ha inizio all’equinozio di primavera (numeri romani sulla corona) e le stazioni mensili dell’anno solare che hanno invece inizio al solstizio d’inverno (numeri sulle porte). In questo caso è ben visibile la ragione per cui i 16 settori perimetrali corrispondano in realtà ai 12 mesi dell’oscillazione delle stazioni solari sul diametro, in quanto i 2 settori compresi tra tin/cil/en, cilensl e caθ, alla sinistra, e i due compresi tra neθ, vetisl e cvalp, alla destra, non proiettano alcun passaggio temporale sul diametro, venendo unicamente ad indicare la sosta del Sole sui due stipiti solstiziali che sono all’estremità. Tenendo dunque la ruota ferma in questa posizione, le porte dell’arco solstiziale risultano essere descritte dalle corde dei tratti separatori delle regioni del cerchio che sono simmetrici rispetto al diametro N-S, e questo riproduce quella stessa possibilità di collegare i nomi delle aperture con i nomi dei relativi stipiti che, in altra forma, abbiamo trovato espressa sul Fegato nel rapporto di contiguità tra le 6 sezioni raggiate della ruota e le 8 caselle del nastro periferico che sono incise sul lobo sinistro. Dunque, il meccanismo concettuale che può portare a collegare analogicamente il contenuto delle due “ruote”, quella a passo 6 sul lobo sinistro e quella a passo 16 su tutto il perimetro, è reso evidente dalla semplice geometria proiettiva di figura 30, ma quello che risulta qui altrettanto evidente è che ciò che troviamo essere stato disegnato sul nostro bronzo dovrà rispondere ad un principio del tutto differente. Se è infatti vero che, nei due casi, è ugualmente simile il modo di rappresentare le 16 stazioni solari sulla corona del cerchio periferico, resta comunque inconciliabile il fatto che la cinematica del moto luni-solare sulle 6 porte sia qui rappresentato da una sorta di ruota, quando nella realtà il passaggio dall’una all’altra deve essere espresso da un moto armonico semplice di tipo lineare. Ciò che è necessario chiedersi è allora secondo quale logica queste due parti sono state descritte come una sorta di rotismo a ruote interne del tutto statico e inerte, quando questa soluzione non può avere alcun riscontro di tipo cinematico rispetto alla dinamica dei moti reali. La risposta implica evidentemente di doversi porre una diversa domanda su come potesse essere stato concepito un principio di tipo meccanico-analogico che coniugasse idee che oggi diamo per scontate, ma che all’epoca non lo erano affatto: quelle cioè in
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qualche modo collegate con i concetti stessi di azione cinematica strumentale, di doppia trasmissione del moto, di computo e di misura di tale trasmissione. Posto in questi termini, il quesito rende subito evidente che la staticità degli schemi presenti sul modello implica che una qualsivoglia azione cinematica che ne colleghi le parti potrà avvenire solo per azione di qualche cosa di esterno che si muova su di esse. Risulterà allora altrettanto evidente che se due sono le “ruote” staticamente disegnate sul Fegato, due dovranno anche essere le parti mobili che dovranno intervenire sulla sua superficie, e questo, a ben guardare, altro non fa che riproporre quanto già avevamo colto sulla sequenza delle azioni che l’osservatore avrebbe dovuto mettere in atto per comprenderne il funzionamento. Osservammo infatti che tutte le parti sembravano essere state ispirate da un unico principio: l’autoevidenza dei versi di scrittura di talune iscrizioni che, attraverso la manipolazione dell’oggetto e la sua rotazione, avrebbe consentito all’osservatore di coglierne i versi d’orientamento, quelli cioè che ne avrebbero svelato la sequenza informativa e le connessioni logiche tra le parti. L’approccio istintivo del manipolare l’oggetto secondo i versi di scrittura dei nomi e secondo le direzioni delle linee del suo disegno è di fatto la principale evidenza che, fino ad ora, ne ha suggerito le funzioni, per cui la risposta al quesito sembra in realtà poter già essere insita nella natura stessa della domanda che ci siamo posti. Se infatti ci chiedessimo cosa possono mai essere queste parti in movimento che devono potersi sovrapporre alle partizioni del bronzo, che sono due, che devono essere legate cinematicamente l’una con l’altra e che possono essere usate come strumento analogico di calcolo dei suoi settori, la risposta appare più che ovvia: queste “due cose” altro non possono essere che le mani stesse, primi attori funzionali della vicenda umana delle possibilità di interazione cinematica e di computo analogico tra l’oggetto osservato e l’osservatore. La manipolazione non è, in questo caso, un’azione che va qui intesa nell’accezione razionale e banalizzante con cui ne troviamo spesso descritta la funzione strumentale. Queste sono “mani” la cui azione congiunta muove la ritmica binaria di un pensiero simbolico cui è destinato il compito di modellizzare lo spazio e il tempo all’interno
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4.1 Ruote, rotismi e rapporti tra le parti
di una realtà immaginata che si concretizza nell’atto stesso del costruire e riprodurre oggetti, di cui le mani stesse costituiscono forma e rappresentazione: “(...) i movimenti della mano sono una ripetizione produttiva delle cose del mondo a disposizione. Le si può chiamare ‘imitazioni’, ‘riproduzioni’, ‘adesioni alla realtà’. In ognuno di questi casi, l’oggetto che viene imitato o ripetuto o a cui la mano aderisce viene prodotto per la prima volta per mezzo del mondo creato mimeticamente dall’uso stesso della mano: diviene un oggetto dipendente dalla mano e dai suoi movimenti” 2. La manipolazione non è, in questo caso, parte della funzione cui l’oggetto è destinato, ma ne rappresenta l’essenza costitutiva all’atto stesso della sua creazione: “La prima caratteristica della mano è la sua apertura nei confronti del Mondo, il suo interesse per gli oggetti e la sua dipendenza da essi; la seconda è la sua mediazione tra le cose e il corpo, di cui essa è una parte. È un ponte o un passaggio dal corpo al mondo circostante. La sua terza caratteristica è l’autoriferimento. Allo stesso modo in cui esplora gli oggetti, essa si rivolge verso se stessa. Si produce usando se stessa. È l’organo del relazionamento con le cose, con se stessi e con gli altri, attraverso un processo di stratificazione che si intensifica via via nel corso dello sviluppo individuale” 3. È questo, dunque, lo straordinario passaggio logico che mancava alla completa decifrazione del Fegato piacentino: arrivare cioè a comprendere che tutto ciò che in esso vi è rappresentato è stato realizzato da mani esperte a misura e forma delle mani stesse, per cui la sua figura e dimensione, oltre che l’intero disegno e conformazione dei suoi settori, rispondono alle possibilità cinematiche che le articolazioni delle mani hanno di percorrerne la superficie. Non sorprenda che a tale apparentemente semplice soluzione, che ci porterà diritti alla piena comprensione dell’oggetto, si sia giunti solo ora dopo più di un secolo di tentativi di decifrazione. La storia insegna che la soluzione ai grandi quesiti del passato non è mai il frutto della ostinata e perdurante ricerca di una giusta risposta ad un quesito errato, ma è spesso l’esito improvviso dell’immediata ovvietà di una più giusta domanda.
2 GEBAUER 2002 = G. Gebauer, “Mano”, in Wulf 2002, pp. 484-494, cfr. p. 488. 3 Ibid., cfr. p. 484.
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4.2 Le mani, il fegato e l’unione dei Mondi La percezione emozionale ed estetica di ciò che il Fegato di Piacenza doveva rappresentare nel suo insieme e in ogni sua parte, è esattamente il punto da cui eravamo partiti nell’intraprendere il lungo e tortuoso percorso di ricerca che ci ha fin qui nuovamente ricondotti. In premessa si era osservato che nell'immagine del Templum, spazio e tempo, ordine e caos, sono criptati in un linguaggio simbolico entro cui significato e significante, osservatore ed osservato, si invertono e si confondono, e questo risulta immediatamente comprensibile ad una analisi estetica dell'oggetto, prima ancora che razionale. Era come se l'oggetto parlasse una lingua che ci colpiva nel profondo, per cui emotivamente sapevamo che era qualche cosa che ci riguardava, qualcosa di conosciuto, ma non sapevamo ricordare cosa. Non riuscivamo cioè a far riemergere questa memoria fino al nostro livello percettivo conscio e razionale. Tale stato d’animo aveva inoltre notevolmente influito sulla mancata possibilità di giungere ad una sua completa decifrazione, e tutti coloro che ne avevano provato ad indagare il contenuto erano stati colti da quella medesima sensazione: la percezione istintiva dell’esistenza di un ordine che regolava le relazioni tra le parti, unita alla percezione razionale di una loro insondabile complessità. La diversa prospettiva d’indagine da noi adottata è stata dunque quella di indagare il reperto non per singole parti, sia tematiche che funzionali, ma sulla base di un’ipotesi d’insieme che ne spiegasse per prima l’essenza concettuale. Tale essenza è ora resa esplicita da quello che semplicemente l’oggetto è, nel suo aspetto estetico, compositivo e dimensionale. Il bronzo non è dunque la rappresentazione anatomica di un fegato reale, ma è uno strumento palmare entro cui vi è stata composta una rappresentazione concettuale dell’ordine cosmico, così come venne impresso sul Fegato di Tiāmat all’inizio dei tempi, e secondo quanto prescritto nella più antica tradizione iniziatica sulla rivelazione dei grandi misteri. Forma, funzione e rappresentazione sono dunque fuse insieme in un’unica figura biomorfa, bipolare e sinuosa, che coglie nell’anatomia del Fegato e in quella delle mani che lo sorreggono, l’estetica di
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4.2 Le mani, il Fegato e l’unione dei Mondi
A
B
C
Fig. 31 – I tre passaggi della gestualità dell’“orante”, a figurare l’unione delle dimensioni spaziali della destra e della sinistra, fino al loro raccoglimento in una figura del tutto simile, per contorno e dimensione, a quella del Fegato di Piacenza. Tale contorno anatomico è cadenzato dalle linee delle 14 articolazioni del profilo delle due mani e dalle 4 estremità di pollici e indici che si congiungono (dis. A. Gottarelli).
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una sorta di paesaggio in rilievo, etereo ed immobile, che si erge su una pianura costellata di geometrie “enimmatiche”, il cui orizzonte concettuale delinea i ritmi di passaggio degli astri sulla soglia misterica del Tempo. La linea di frattura, o di ricongiungimento, della soglia tra luce e tenebra è allora sottolineata dalla natura stessa dei due lobi e dalla figura sinuosa che li contiene, ed è ad essi che sono dedicati i due grandi astri che, con il loro alternarsi tra il giorno e la notte, governano il passaggio giornaliero ai due regni della volta celeste. Dunque, non la rappresentazione di un fegato reale, ma, come si disse, una figura che ne esprime la funzione ontologica di mundus del corpo, luogo entro cui si compie empaticamente la comunione dei Mondi. Il principio di tale funzione sembra allora poter essere esplicitamente indicato dal ricongiungimento di ciò che, fin dalle prime fasi del concepimento, l’asse del corpo ha ineluttabilmente diviso in una parte destra e in una parte sinistra, quale naturale estensione della bipartizione dei lobi del fegato, biotipo da cui si riteneva che gli esseri viventi fossero stati originati. L’azione rituale che esprime tale ricongiungimento si compie allora nell’atto stesso dell’unione delle due mani e in quella rappresentazione figurata del mundus che si concretizza nella figura bilobata che è confinata al loro interno nel momento in cui si articoli il gesto della “ruota”. L’azione per giungere ad una immediata verifica di questo, può essere espressa dai tre passaggi che connotano la metafora gestuale del rito della contemplazione nell’atto della preghiera: dalla “posizione dell’orante” a mani allargate (fig. 31, A); alla loro congiunzione nell’atto liturgico della preghiera (fig. 31, B), espressione dell’unione di ciò che è stato diviso; fino alla figura che è confinata tra le mani, quando queste, mantenendo le estremità delle dita unite, si raccolgono a circolo (fig. 31, C). L’aspetto straordinario di tale sequenza gestuale è che in quest’ultima posizione le mani descrivono un contorno bilobato che è esattamente compatibile, per forma e dimensione, con la sagoma del nostro Fegato. In figura 31-C è evidenziato come una mano adulta di media grandezza offra una dimensione longitudinale di massimo ingombro che è compresa tra i 12o ed i 13o mm, esattamente compa-
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4.2 Le mani, il Fegato e l’unione dei Mondi
tibile con i 127 mm della massima dimensione del nostro bronzo. A riprova di ciò, in figura 32 è reso evidente come il contorno interno delle due mani descriva una sorta di corona che viene cadenzata da 12 tratti radiali corrispondenti alle 12 linee articolari delle dita. Se a questi aggiungiamo le doppie estremità dell’indice e del pollice, ne ricaviamo una sagoma che è cadenzata dagli stessi 16 tratti delimitatori da cui sembra essere stata ricalcata la figura delle ripartizioni in settori del nastro periferico. Si comprende allora cosa rendesse tale contorno istintivamente a noi così familiare, senza che di questo riuscissimo a trovare una spiegazione razionale. Il contorno del lobo sinistro corrisponde infatti esattamente al contorno interno della mano su cui è stato disegnato e le partizioni del nastro perimetrale di sinistra sono pressoché coincidenti con le linee articolari dell’arco palmare. Il passaggio centrale per giungere ad una completa decifrazione funzionale del bronzo era dunque costantemente sotto i nostri occhi, essendo parte della nostra esperienza sensoriale quotidiana. Ma la natura dell’atto percettivo della visione implica che gli occhi vedano solo ciò che appartiene a categorie cognitive note, e ciò che il cervello non può pensare l’occhio non vede, tanto più se ci si trova ad affrontare casi in cui la capacità percettiva di una funzione strumentale sconosciuta non trova il supporto visivo di una esperienza tattile diretta4. In questo caso, tale percezione risulta del tutto confusa e offuscata dall’impossibilità di ricondurre l’idea stessa della funzione ad altre e più consuete categorie cognitive, che siano ugualmente fondate su processi d’interazione di tipo visivo e tattile. Ciò che risulta ora del tutto evidente è che il profilo sinistro del modello disegna una curva ergonomica che è perfettamente coerente con il profilo palmare della mano sinistra, attuando, in particolare,
4 “Il controllo non è sicuramente l’unica né la più importante funzione del senso della vista nella cooperazione con la mano. Anche nei livelli successivi dell’evoluzione il senso della vista deve assicurare che il tatto confermi le percezioni degli occhi, quindi assicurare la certezza di ciò che viene percepito, o che le mani consegnino ulteriori informazioni sulla forma, la struttura e la natura degli oggetti”: cfr. GEBAUER 2002, cfr. p. 484. La non disponibilità, della maggior parte dei Musei a consentire un contatto tattile con copie degli oggetti archeologici esposti, è spesso una limitazione sostanziale alla possibilità dei ricercatori di comprenderne le funzioni, tanto più nel caso di categorie funzionali desuete, di cui si è persa totalmente ogni forma di conoscenza.
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la presa tra dito pollice e dito medio (vedi fig. 32). Si nota che l’estremità del pollice cade, in questo caso, sul tratto separatore in C2, che è il divisorio dei due lobi (vd. fig. 32, C2) e punto di “start” di entrambe le sequenze di lettura dei settori di fase ascendente (lobo destro, verso antiorario) e di fase discendente (lobo sinistro, verso orario). La sua sagoma aderisce perfettamente alla sinuosa concavità tra i tratti F10 e C2, e l’intero arco palmare delinea l’esatta sagoma della parte sinistra del bronzo, con l’estremità del dito medio che viene a cadere sul secondo tratto divisorio dei lobi in F16 = C1, tratto che è a sua volta di chiusura della sequenza di lettura dei relativi settori perimetrali (vd. fig. 32, C1). Risulta inoltre evidente che le spaziature delle partizioni e l’orientamento radiale dei relativi tratti separatori, da F15 a F10, sono stati
Fig. 32 – Si evidenzia in figura, la perfetta coincidenza ergonomica tra la forma del lobo sinistro del Fegato di Piacenza e la sagoma della mano sinistra in posizione di presa tra dito pollice e dito medio. I tratti separatori del nastro periferico del bronzo corrispondono quasi esattamente, per posizione e radialità, alle linee articolari del profilo della mano (dis. A. Gottarelli).
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4.2 Le mani, il Fegato e l’unione dei Mondi
disegnati sul bordo nei punti di contatto delle linee articolari del profilo della mano, seguendone espressamente le direzioni. E questo conferma quanto già abbiamo osservato sull’esistenza di una possibile relazione diretta tra le 16 linee articolari e di estremità delle due mani congiunte (vedi fig. 31-C) e l’ordine concettuale delle 16 parti del nastro periferico. La misura della mano è allora la misura su cui si rapporta l’intera percezione ritmica di quanto è rappresentato sulla sua superficie, e la cinematica articolare del contatto è azione a cui è strettamente collegata quella facoltà del “contare” che è a sua volta all’origine del concetto stesso di “numero”. Se il “numero”, come già si disse, poteva essere la chiave razionale per l’interpretazione ritmica delle fasi dei cicli temporali che sono scanditi dal passaggio dei corpi celesti sulla “soglia” dell’orizzonte, e il Fegato, di quei cicli, ne poteva essere lo “specchio” sub-soglia, è allora chiaro che il mezzo strumentale utilizzato per coglierne la misura cinematica sarà il movimento stesso delle due mani, unita alla loro capacità di rappresentarne l’ordine spaziale di ricorsività tra le parti: “che si cominci a contare con tutta la mano o con un dito, da sinistra o da destra, quali dita si usino e in quale odine, quali designazioni vengano scelte, tutto questo si basa su convenzioni, ma non è assolutamente negoziabile. (...) Il contare è ancor più socialmente determinato del ‘misurare’ o del ‘dare un nome’ alle cose, nel senso che per il contare non solo i movimenti e i numeri sono invariabili, ma anche la ritmica del movimento e la velocità sono controllate. (...) Da tali prestazioni costruttive nasce un primo mondo dei numeri, un ordine ricorsivo edificato, che non appartiene più al movimento, ma rappresenta un ordine ideale pensato. Un’idealizzazione si produce anche con l’ordinamento spaziale, mediante cui compagini unitarie vengono ripartite secondo principi astratti” 5. Le geometrie incise sul bronzo, le sequenze informative dei settori che sono tra loro collegati e le stesse espressioni verbali dei nomi in essi contenute, dovranno allora rispondere, per numero, distribuzione, dimensione e forma, ad un criterio di loro accessibilità alla ritmica della cognizione tattile e lo stesso varrà per i cicli delle due “ruote” a passo 6 e a passo 16 che abbiamo prima considerate.
5 Cfr. GEBAUER 2002, cfr. p. 489.
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4.3 La digitazione dei settori Questa straordinaria chiave di lettura svela così quale sia la meccanica strumentale del bronzo in relazione all’articolazione del movimento delle dita e alla conseguente distribuzione ergonomica dei suoi settori. La perfetta coincidenza ergonomica del lobo sinistro del Fegato con l’arco palmare della mano porta ora ad osservare come la ruota che è presente sul lobo sinistro risulti essere esattamente configurata sulle posizioni che l’estensione articolare del pollice può assumere, una volta che questo, resosi libero dalla presa, attui un movimento rotatorio volto alla ricognizione dei suoi 6 settori (vd. fig. 33). Il disegno statico della “ruota” accoglie in sostanza la possibilità che il pollice funga da parte in movimento che ne simuli la rotazione, secondo una geometria che, dal punto di vista dei vincoli ergonomici imposti dal movimento articolare, risulta essere pressoché obbligata. La successione delle posizioni del dito consente così il computo dei passaggi sulle sei porte, attuando un movimento rotatorio che ha inizio al solstizio d’inverno relativamente alla fase ascendente, e dunque su satr/es, muovendo poi in senso antiorario sui settori di lvsl/velc, tlusc, leθa, selva e cilen (vd. fig. 33, A). Giunti su cilen il movimento si dovrà fermare, in quanto, come si è detto, le fasi di levata di sole e luna sulle porte non sono esprimibili da una rotazione continua, ma piuttosto da un moto oscillatorio armonico di tipo lineare. In cilen si torna così sui propri passi con verso di rotazione contrario e la fase discendente riprenderà con il pollice che muove nuovamente sui settori di selva, leθa, tlusc e lvsl/velc, concludendo il giro su satr/es, porta di chiusura e di nuovo inizio dell’anno solare (vd. fig. 33, B). Oltre alla digitazione delle sei porte sull’arco solstiziale, ma limitatamente alle 8 stazioni di fase discendente presenti sul lobo sinistro, le posizioni del pollice permettono anche di rapportare il raggio che è corrispondente ad ognuna delle 6 porte con i due settori del bordo che, sottostando al pollice stesso, ne indicano gli stipiti, così come abbiamo già indicato in figura 27. In figura 34 è a sua volta descritto il movimento di ritorno del pollice
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4.3 La digitazione dei settori
Fig. 33 – La ruota raggiata del lobo sinistro accoglie il movimento rotatorio del pollice al fine di consentire il computo della sequenza delle porte dell’arco solstiziale. La fase ascendente A, con verso antiorario, è data dalla partenza del pollice in satres (n. 1) e dal suo arrivo in cilen (n. 6). La fase discendente B riprende da cilen e muove, con verso orario, nuovamente fino a satres (dis. A. Gottarelli).
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Fig. 34 – Movimento orario del pollice sulla ruota raggiata, a descrivere la fase discendente delle levate solari, da solstizio d’estate a solstizio d’inverno (vd. fig. 33, B). Indicando il raggio corrispondente alla singola porta, il pollice cade anche sui due settori del nastro periferico che ne individuano le stazioni corrispondenti ai due stipiti (dis. A. Gottarelli).
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4.3 La digitazione dei settori
Fig. 35 – Movimento antiorario del pollice sulla ruota raggiata, a descrivere la fase ascendente delle levate solari, da solstizio d’inverno a solstizio d’estate (vd. fig. 33, A). Con movimento coordinato delle due mani, al raggio corrispondente alla singola porta indicato dal pollice sinistro si fa corrispondere il movimento del pollice della mano destra che scorre sui settori del nastro periferico a partire dall’inizio della sequenza in neθ. Le coppie di nomi che sono a cavallo dei segni separatori indicano gli stipiti delle porte sull’arco solstiziale (dis. A. Gottarelli).
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da cilen nuovamente verso selva, leθa e tlusc, nelle posizioni 8, 9 e 10, con in evidenza i settori del nastro periferico che vengono “digitati” insieme ai relativi raggi della ruota, settori che corrispondono appunto ai nomi delle stazioni solari di entrata ed uscita dalla porta stessa. In questo caso il sistema di incardinamento dei segmenti della ruota dell’anello esterno con la ruota raggiata a passo 6, si spiega nell’ingegnoso espediente che consente di rapportare analogicamente i due livelli informativi con il moto circolare dell’articolazione di una sola mano (fig. 34), mentre diverso sarà il sistema di computo, e confronto tra le parti, della fase ascendente che è presente sul lobo destro (fig. 35). Qui, al movimento del pollice che muove sulla ruota di sinistra da satres con verso antiorario, dovrà attuarsi l’intervento contemporaneo della seconda mano a digitare i settori corrispondenti agli stipiti delle relative porte sull’anello del lobo destro. In figura 35 è evidenziato il movimento coordinato dei pollici delle due mani che procedono con eguale moto orario sui due lobi: il sinistro ruota sui settori della ruota raggiata, partendo da satres, mentre il destro muove dall’inizio della sequenza del nastro periferico che è sul tratto separatore tra neθ e lvsl, immediatamente sottostante il rilievo della vesica fellea (vd. fig. 35, n. 1). Ad ogni passaggio del pollice sinistro su un nuovo settore, l’altro pollice muove sul segmento separatore successivo del bordo destro, fornendo la lettura dei due nomi che sono sopra e sotto il separatore stesso e che corrispondono alle due stazioni solari di entrata ed uscita dalla relativa porta sull’arco solstiziale. Il sistema di computo digitale prevede dunque che al movimento rotatorio alternato del pollice sulla ruota di sinistra, da satres fino a cilen con rotazione antioraria, e da cilen di nuovo verso satres con rotazione oraria, corrispondano sui settori del bordo due moti alternati equivalenti: l’uno di fase ascendente sul lobo destro, che muove con verso antiorario dal tratto separatore tra neθ e lvsl fino tratto separatore tin/θvf e tin/cilen; l’altro di fase discendente sul lobo sinistro, che muove in senso orario dal tratto separatore tra caθ e fufl/uns fino a quello tra cels e cvlalp. La sesta porta, e cioè cilen, è la chiave di volta dell’intero meccanismo, perché su di essa avviene il passaggio solstiziale estivo entro cui finisce la fase di levata solare ascendente da sud a nord, e inizia quella discendente da nord a sud, da cui l’inversione del moto di rotazione
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4.3 La digitazione dei settori
Fig. 36 – La disposizione dei tre fori presenti sul bordo e sul retro del bronzo mostra che, nel corso della digitazione, la loro funzione è indicare gli esatti tratti separatori delle due sequenze, ascendente e discendente, che corrispondono agli stipiti della porta cilen, che è di inversione del moto di levata del sole e istante del solstizio d’estate in cilensl. Questo espediente tattile suggerisce all’utilizzatore che alla cella cilen, presente sulla ruota raggiata di sinistra, ci si deve fermare, per tornare poi a muovere il pollice in verso contrario, a ritroso nuovamente verso satr/es (dis. A. Gottarelli).
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del pollice sulla ruota raggiata. In quanto porta entro cui convergono le due serie del bordo, sarebbe dunque fondamentale, per un corretto utilizzo dello strumento, che l’operatore potesse avere ben chiaro quali fossero i tratti separatori delle due sequenze che indicano gli stipiti che delimitano cilen, perché è questo che consentirà di riconoscere esattamente il tratto di fine sequenza dei settori di fase ascendente del lobo destro da quello di inizio di fase discendente del lobo sinistro. In figura 36 è indicato lo straordinario stratagemma utilizzato per far sì che, durante le fasi di digitazione a due mani, questi due punti dei settori del bordo fossero facilmente distinguibili. È logico pensare, infatti, che durante la computazione digitale tale percezione potesse essere affidata a elementi che fossero stati opportunamente disposti sul bordo e che risultassero chiaramente percettibili al tatto, la qual cosa si può ottenere disponendo su di essi punti in rilievo, concavità, o fori. Ebbene, in figura 36, in alto, sono indicati tre fori che sono presenti sul retro e sul fianco del bronzo6: il primo risulta essere stato disposto sotto l’orlo del bordo al centro della casella con indicato cilensl (fig. 36, foro 1); il secondo è presente sul retro del lobo destro, in corrispondenza del tratto separatore che è tra tin/cilen e cilensl (fig. 36, foro 2); il terzo sottolinea l’estremità inferiore dell’incisura umbilicalis, a marcare il tratto separatore tra le caselle caθ e fufl/uns (fig. 36, foro 3). È ora evidente, per quanto detto, che la funzione del secondo e del terzo foro è esattamente quella di marcare la percezione tattile dei punti del bordo di estremità delle due serie: in particolare, la fine della sequenza di fase ascendente nel caso del foro n. 2, che è appunto su tin/cilen (fig. 36, A), e l’inizio di quella discendente per il foro n. 3, che è tra caθ e fufl/uns (fig. 36, B).
6 Nel corso di un restauro effettuato nel 1999, è stato chiarito che la tecnica fusoria utilizzata per la realizzazione del bronzo è quella dell’unico getto con il metodo diretto della cera persa. L’interno è risultato parzialmente vuoto e suddiviso in due camere separate. Nella fase di preparazione della matrice vennero inseriti direttamente nella cera quattro perni distanziatori, la cui funzione fu anche quella di ottenere, già in fusione, i fori di accesso e uscita delle “vene” di iniezione. La localizzazione dei canali di adduzione e di sfiato della fusione non è riconoscibile neanche in radiografia, per cui è escluso che i fori qui considerati siano da collegarsi a tale funzione; vd. FORMIGLI, MICCIO, PECCHIOLI 1999 = E. Formigli, M. Miccio, R. Pecchioli, “Il restauro del ‘Fegato di Piacenza’”, in “Archeologia dell’Emilia Romagna”, 1999 - III, Firenze, 2001, pp. 346-348.
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4.3 La digitazione dei settori
Il foro n. 1 sembra allora poter essere la sottolineatura del fatto che la casella cilensl, che coincide con il solstizio d’estate, è il punto d’inversione del moto delle levate solari che si compie sulla sesta porta, quella appunto che è dedicata a cilen sulla ruota raggiata del lobo sinistro. In figura 36 in basso, si evidenzia come trasportando la posizione dei tre fori sul modello analitico di confronto delle 6 porte del Templum solare, questi si dispongano ad indicare precisamente la porta cilen e i suoi quattro limiti separatori, quelli appunto che sono di entrata e di uscita dalla porta stessa nelle due fasi di andata e di ritorno del moto solare. Questo straordinario sistema di computo è ora in grado di dimostrare la funzione di una ulteriore evidenza, quella dei tre fori, di cui in passato non si era potuta trovare alcuna spiegazione plausibile. Si dimostra così che la natura stessa del modello è quella di essere un regolo calcolatore palmare, il cui fine è la modellizzazione analogica dei rapporti intercorrenti tra le 6 porte delle levate luni-solari e le 12+4 stazioni che ne codificano il moto nel corso dell’anno solare. È inoltre evidente che la doppia lettura dei 16 settori del bordo risulta essere finalizzata alla codifica delle ferie liturgiche di entrata e uscita del sole nelle 12 fasi mensili e nelle 4 posizioni solstiziali ed equinoziali, e dunque la “ruota” che essi rappresentano va qui intesa esclusivamente come sequenza indicativa del solo “tempo” solare. La ruota a 6 raggi confinata sul lobo di sinistra, esprime invece unicamente un ordine di tipo spaziale che è quello della griglia analitica di base dietro la quale i luoghi di levata e tramonto del Sole e della Luna vengono codificati e reciprocamente comparati. Non meraviglia dunque che il lobo di sinistra sia riferito al solo moto di quest’ultima, perché il suo movimento non è riconducibile ad altre partizioni dell’arco solstiziale che non siano appunto le porte stesse, essendo un moto di levata e tramonto non continuo e non altrimenti codificabile. Il meccanismo digitale di messa in fase delle partizioni della “ruota lunare” rispetto ai 16 settori del bordo, resta dunque al momento unicamente funzionale alla descrizione analitica del Templum solare e nulla è stato ancora chiarito su una sua eventuale possibilità di utilizzo per il computo dei ritorni di fase dei moti della luna: problema, questo, che, fin dai primi passi della nostra indagine abbiamo indi-
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cato dover essere centrale per la completa decifrazione del bronzo. Il disallineamento, sull’orizzonte dell’osservatore, dei moti lunari rispetto all’arco descritto dalle levate solari, è un tema che abbiamo già brevemente trattato al capitolo 3.5 del precedente volume (vd. fig. 18) in relazione ad un confuso passo del libro di Astronomia di Enoc che avevamo in precedenza volutamente saltato, per riproporlo ora. L’oggetto è ciò che Uriele mostra ad Enoc dopo avergli indicato le leggi che regolano i movimenti di levata e tramonto de Sole, ed è relativo alla seconda legge del cielo che descrive appunto i passaggi della luna sull’arco solstiziale: 1Enoc, XIV, LXXIII [1] E dopo questa legge vidi, vidi l’altra legge, per la luce minore chiamata luna. [2] La sua orbita era come quella del cielo e (su)l suo carro, sul quale saliva, soffiava il vento e, con misura, le veniva data la luce. E in tutto il mese, il suo luogo di uscita e di rientro mutava ed i suoi giorni erano come quelli del sole e, quando si misurava l’essenza della sua luce, la sua luce era la settima parte della luce del sole (...)” 7. Segue la descrizione delle fasi che connotano il mese lunare nel suo rincorrersi con il sole, misurate, come si conviene, in settimi e quattordicesimi del fattore di illuminazione del suo disco8. Di particolare interesse, per noi, è la successiva descrizione della discontinuità dei movimenti di levata della luna sulle porte dell’arco solstiziale, descrizione che è in premessa al problema centrale dell’intercalazione dei giorni tra anno solare e anno lunare: 1Enoc, XIV, LXXIV [4] In alcuni mesi modificava il tramonto e, in alcuni mesi, il suo corso procedeva distinto. [5] E, in due mesi, tramontava col sole, in quelle due porte che (sono) al centro: nella terza e nella quarta. [6] Usciva per sette giorni, girava e ritornava di nuovo nella porta da cui usciva il sole. Ed in quella
7 “Libro dell’Astronomia”, XIV, LXXIII, 1-3; SACCHI 1993, vol. I, p. 168. 8 Vd. SACCHI 1993, vol. I, p. 168-169, versetti 4-8.
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4.4 Il settore “G” e il processus pyramidalis
completava tutta la sua luce, si allontanava dal sole e rientrava per otto giorni nella sesta porta da cui usciva il sole. [7] E quando il sole usciva dalla quarta porta, usciva per sette giorni quando usciva dalla quinta e, di nuovo, ritornava per sette giorni nella quarta porta e completava tutta la sua luce e si allontanava ed entrava nella prima porta per otto giorni. [8] E, di nuovo, ritornava per sette gioni nella quarta porta da cui usciva il sole” 9. Risulta qui evidente l’impossibilità di poter codificare una ritmica coerente dei moti delle levate luni-solari che fosse basata sulla sola registrazione dei loro passaggi sulle porte, e appare altrettanto evidente che il problema di riconoscere una legge sul ritorno di fase tra i punti di levata del sole e quelli della luna è problema alquanto complesso, la cui soluzione è parte integrante della storia della scienza astronomica, fin dai suoi primi passi. Resta comunque il fatto che una possibile soluzione empirica che si approssimi al vero, richiede quantomeno di apprestare un sistema di codifica delle porte simile a quello che risulta essere stato impostato nel Libro di Enoc, e a questo potrebbe in qualche modo riferirsi il sistema di loro rappresentazione che abbiamo riconosciuto nella ruota raggiata presente sul lobo sinistro del Fegato, per cui si spiegherebbe la sua specifica attribuzione al solo moto della Luna.
4.4 il settore “G” e il processus pyramidalis Per cercare di comprendere le ulteriori relazioni strumentali che possono legare le due “ruote” a passo 6 e 16, vale in ogni caso quanto si disse sul fatto che il bronzo dovesse anche contenere al suo interno le indicazioni utili a ricordarne il funzionamento. Se ora riconsideriamo questo possibile livello informativo in relazione al problema del computo delle fasi dei moti del sole e della luna, appare ancor più evidente che le due scritte usils e tivs – “del sole” e “della luna” – che sottolineano sul retro le distinte funzioni dei settori incisi sul fronte, ne costituiscono la principale evidenza.
9 “Libro dell’Astronomia”, XIV, LXXIV, 4-8; SACCHI 1993, vol. I, p. 168.
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Secondo le conclusioni cui siamo giunti, le 16 partizioni del bordo del Fegato corrispondono alle 12+4 stazioni che codificano le fasi del moto di levata del sole nel suo ciclo annuale, per cui è logico osservare che se la loro sequenza è riferita unicamente a quel moto, e questo si sviluppa lungo tutto il contorno del modello attraversando così sia il lobo destro sia quello sinistro, allora le due indicazioni usils e tivs presenti sul retro non sono collegabili con il contenuto informativo del bordo stesso, ma sottintendono piuttosto le funzioni di ciò che, in un lobo e nell’altro, vi è rappresentato al loro interno. La ruota raggiata delle 6 porte solstiziali, per quanto fin qui osservato, può essere coerente con il fatto che essa risulti, sul retro, opportunamente dedicata alla sola luna e al possibile computo dei suoi passaggi su quelle porte. Sarebbe allora ugualmente logico supporre che lo stesso possa valere per quanto è inciso sulla superficie interna del lobo destro, al cui disegno andrebbe assegnata una funzione simile a quella della “ruota” che è sul sinistro, ma questa volta unicamente riferita ai movimenti del sole. Se così fosse, è necessario interrogarsi su cosa di così marcatamente collegato con il moto solare caratterizzi la formazione tabellare che è ai piedi del processus pyramidalis, formazione che è stata da noi indicata come settore G) e la cui lettura è risultata essere fondamentale per la decifrazione della corretta sequenza dei settori del bordo, rappresentandone la successione delle stazioni del Templum solare nei due trimestri della primavera e dell’estate (vd. cap. 3.1). Di fatto, è anche qui da comprendere come possa una figura statica restituire un’informazione di tipo dinamico e cinematico sui movimenti di levata del sole sulle porte e come queste possano collegarsi con i settori della ruota lunare che sono sul lobo di sinistra. Anche in questo caso, valgono considerazioni analoghe a quelle espresse in precedenza su cosa possa restituire tale movimento sulla sua superficie, considerando che è esclusa una qualsivoglia forma di digitazione, non compatibile con la ristrettezza delle caselle, e che il movimento sulla sua superficie non può essere di tipo rotatorio, ma piuttosto di tipo oscillatorio e lineare, con un moto di andata e ritorno sulla comune casella leθn (vd, fig. 22, G1). Ebbene, si noterà che l’aver posto nuovamente nel giusto ordine l’insieme dei quesiti, propone, di fatto, una possibile soluzione. In pre-
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4.4 Il settore “G” e il processus pyramidalis
Fig. 37 – La composizione dei rilievi anatomici rappresentati sulla superficie del bronzo piacentino, con in evidenza l’alto rilievo del processus pyramidalis.
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cedenza ci eravamo domandati in che misura le due ruote a passo 6 e 16 avessero potuto rappresentare un moto armonico lineare, come quello che caratterizza i passaggi del sole sulle stazioni dell’arco solstiziale (vd. fig. 30). Ora, la risposta giunge inaspettatamente da questo terzo settore che, non a caso, è proprio quello che ci aveva fornito la chiave di lettura dei due versi, ascendente e discendente, delle celle del nastro periferico, indicando l’accoppiamento tra G2, G3, e G4, del lobo destro, e G6, G7 e G8 del lobo sinistro (vd. fig. 22). Tale accoppiamento aveva inoltre svelato la natura delle relazioni esistenti tra la “ruota” delle 16 stazioni del bordo e la “ruota” delle 6 caselle radiali del lobo sinistro, per cui, oltre al sistema di digitazione già rilevato, le due sequenze potrebbero in sostanza far parte di un unico meccanismo di computo, entro cui il settore G) svolgerebbe la funzione di restituire al loro “rotismo” la cinematica del moto lineare di levata del Sole sulle 6 porte, fornendone i tempi e le fasi calcolate su base reale. Comprendere questo meccanismo significa, in sostanza, cogliere il passaggio finale per la completa decifrazione funzionale del Fegato. Il tutto rimanda alla necessità di dare una risposta all’ovvia domanda che è rimasta poc’anzi in sospeso e che può essere ora così riformulata: quale cosa, che non sono le mani, già occupate dalla precedente digitazione, può sovrapporsi dinamicamente al disegno tabellare del lobo destro? E in che modo questa può esprimere un moto lineare di tipo oscillatorio collegato con i movimenti del sole, rappresentandone la posizione reale in un determinato istante? La risposta non si fa attendere per chi abbia una minima base di conoscenze sull’evoluzione delle tecniche di misura del tempo. Ciò che esprime un moto lineare oscillatorio collegato con i movimenti del sole altro non può essere che l’ombra stessa che il sole proietta sulla superficie di un piano su cui sia stato predisposto un rilievo verticale, tipicamente uno stilo o una cuspide di piramide. E questo è ciò che, da sempre, è sotto gli occhi di tutti, poiché il settore tabellare da noi indicato come G) si localizza esattamente ai piedi dell’unica evidenza della superficie del bronzo che quell’ombra avrebbe potuto generare: e cioè l’alto rilievo della piramide che abbiamo fin qui nominato processus pyramidalis. In figura 37 risulta evidente che lo spiccato verticalismo del solido
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4.4 Il settore “G” e il processus pyramidalis
piramidale – con base triangolare equilatera e spigoli arcuati – che si erge su quella sorta di pianura perfettamente orizzontale che caratterizza la superficie del modello bronzeo, non sembra proprio avere più nulla a che fare con uno scrupolo di rispondenza anatomica con quel “processo caudato” o “piramidale” che è parte di un fegato reale. Più che una chiara evidenza anatomica, la piramide appare piuttosto come la parte eminente di tre rilievi che, pur costituendo una stilizzazione concettuale di parti distinguibili dell’organo, sembrano disporsi su quella pianura in una solitaria composizione scultorea dal forte potere evocativo. Una sorta di antico e immobile paesaggio megalitico, entro cui, nel chiaroscuro dell’eterno intrecciarsi di luci e ombre, sembra fissarsi la spazialità della dimensione del tempo. Anche in questo caso, questa spazialità è parte essenziale di quella percezione estetica ed emotiva, prima ancora che razionale, che da sempre ha accompagnato ogni tentativo di decifrazione del bronzo, condizionandone l’esito. In premessa al precedente volume si osservò come l’introduzione da parte di Thulin dell’ipotesi collegata con le sedici regioni di Marziano Capella avesse fortemente deviato l’attenzione degli studiosi da altre strade che erano state fin da subito prospettate e che avrebbero condotto gli studi su vie più percorribili per giungere ad una completa decifrazione dell’oggetto. La prima idea di Deecke, che la complessa morfologia dell’oggetto fosse da interpretarsi in senso propriamente astronomico, venne presto abbandonata. Lo stesso dicasi ora per un’evidente analogia che da subito venne riconosciuta tra il fegato piacentino e i primi esemplari rinvenuti di fegati fittili babilonesi, proprio in relazione con quel marcato processus pyramidalis a cui venne immediatamente attribuito un significato simbolico direttamente collegato con il moto solare. Nel 1905, anno della pubblicazione del “Die Bronzeleber von Piacenza” di Körte, Adriano Milani, in un suo noto saggio pubblicato su “Studi e Materiali di Archeologia e Numismatica”, rivista da lui fondata nel 1899, lancia quelle che per l’epoca verranno giudicate “arditissime ipotesi” su l’“Arte e la Religione preellenica alla luce dei bronzi dell'antro ideo cretese e dei monumenti hetei”, ipotesi entro cui già si potevano cogliere alcuni tratti sostanziali di quanto andiamo argomentando. Affermava Milani: “Riguardo ai mundi augurali in forma di fegato dei
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Fig. 38 – Le fotografie del fegato fittile caldeo del British Museum nel confronto con il Fegato di Piacenza, in una tavola di Adriano Milani da “L’arte e la religione preellenica alla luce dei bronzi dell’antro ideo - cretese e dei monumenti Hetei”, del 1905.
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4.4 Il settore “G” e il processus pyramidalis
Caldei e degli Etruschi, importa per il nostro scopo notare che al lobus o processus pyramidalis, del iecur-templum (figg. 308-308a), corrisponde la piramide del iecur-templum di Piacenza (fig. 309) sulla cui sommità è inciso il disco del sole, indice della sua latente essenza. Inoltre nella parte sottostante (fig. 309a) vi è pure il nome del Sole (Usil) e quello della Terra (Tiv) separati da una linea a rilievo che divide il mundus in due regioni: la luminosa e la tenebrosa. D’altra parte è noto che, come ha dimostrato lo Schiaparelli, la piramide sepolcrale in Egitto è l’espressione radiale del sole, e, per dirla più esattamente, della potenza radiale del sole sulla terra orientata” 9. Il “disco del sole” non è ovviamente qui da intendersi sulla sommità della piramide, ma è da riferirsi alla ruota raggiata che è sulla superficie nel lobo sinistro. E Tiv, come verrà presto inteso, non è termine etrusco che designa la Terra, ma la Luna. Resta in ogni caso sorprendente la portata dell’intuizione generale di Milani relativamente ai significati escatologici e religiosi attribuiti a tali manufatti, che egli qui riconosce essere “mundi augurali in forma di fegato”, o “iecur-templa”, da collegarsi con elementi di quella cosmografia babilonese che egli, con grande anticipo sui tempi, riconduce alla figura del “sovrano assiro eroizzato Marduk” 10. Per altro, ciò che lega quest’ultima figura al fegato di Tiāmat e ai moti del sole e della luna, non era all’epoca materia di studio conclamata, e abbiamo visto come solo nel 1902 venisse pubblicata la prima edizione critica di tutte e sette le tavolette dell’Enûma eliš, da parte di Leonard W. King. È dunque più che plausibile che Milani, come fu per Deecke e Thulin, non avesse ancora potuto attingere ad una delle più importanti fonti a sostegno delle
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Cfr. MILANI 1905 = L.A. Milani, “L’arte e la religione preellenica alla luce dei bronzi dell’antro ideo-cretese e dei monumenti Hetei”, in “Studi e materiali di Archeologia e Numismatica”, vol. III, p. 10. Per il riferimento a Schiaparelli, vd. SCHIAPARELLI 1884 = E. Schiaparelli, “Il significato simbolico delle piramidi egiziane”, Roma, 1884. Qui lo studioso aveva esplicitamente indicato nel moto solare di levata e tramonto l’essenza stessa del simbolo della piramide egizia: “La piramide fu adunque per gli Egiziani il simbolo del sole raggiante e, indirettamente e in senso più largo, del concetto solare in genere: ma oltre a questo significato esteso e generico, ne ebbe anche un altro più ristretto e meglio definito, che ha una speciale importanza per le nostre ricerche, quello di simbolo del sole nascente”; cfr. SCHIAPARELLI 1884, p. 129. 10 MILANI 1905, pp. 7-9. Qui egli opera un confronto con la “stele del giuramento di Marduk-idin-akhi” e con le raffigurazioni di quella che definisce la “sfera uranografica e cosmogonica dei Caldei”.
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proprie tesi, potendosi unicamente riferire ai racconti caldei della creazione che la tradizione storiografica assegnava a Berosso. La mancata immediatezza di un confronto diretto con il testo cuneiforme del “Poema della Creazione” babilonese e la radicalizzazione dei suoi convincimenti sull’origine orientale degli Etruschi – cosa che egli esporrà nella relazione “Italici ed Etruschi”, presentata al “II Congresso della Società italiana per il progresso delle scienze” di Roma del 190911– sono tra i motivi della sostanziale marginalizzazione del tema di un possibile confronto tra il reperto piacentino e i modelli orientali, marginalizzazione che venne operata dagli etruscologi e dagli storici delle religioni nel ventennio successivo. Con la comunicazione di Giuseppe Furlani, “Epatoscopìa babilonese ed epatoscopìa etrusca”, tenutasi al “1 Congresso internazionale etrusco” del 1928 (Firenze-Bologna, 27 aprile - 5 maggio), si affermerà la tesi, poi dominante, secondo cui all’idea di una poligenesi della dottrina epatoscopica fosse da intendersi un eguale fenomeno che avrebbe determinato i caratteri morfologici dei modelli di fegato. Per cui la possibilità di un confronto diretto tra l’epatoscopìa etrusca e quella babilonese non poteva essere in ogni caso intesa nel senso di ammettere una provenienza più o meno vicina della prima dalla seconda12. Né, da quel momento in poi, fino alla fine del secolo, il tema delle affinità morfologiche tra i reperti verrà in qualche modo utilizzato per provare a decifrare i significati e le funzioni dei rilievi anatomici del bronzo piacentino.
11 Milani 1909 = L. A. Milani, “Italici ed Etruschi e Rendiconto della sezione di archeologia e paletnologia del II Congresso della Societa italiana per il progresso delle scienze”, Roma, 1909. 12 Vd. FURLANI 1928 = G. Furlani, “Epatoscopia babilonese ed etrusca e altri saggi sulla religione etrusca”, in "Studi e materiali di Storia delle religioni", vol. IV (1928), fasc. 3° e 4°. Nel corso del dibattito congressuale Raffaele Pettazzoni rappresenterà una posizione di mediazione che sarà fatta propria dalla maggior parte degli studiosi nel secondo dopoguerra: Pettazzoni “riconosce che la presenza nel mondo etrusco di un monumento come il Fegato di Piacenza non può costituire, da solo, un argomento a sostenere la provenienza degli Etruschi dall’Asia Minore, ma ritiene che, nonostante le differenze nei particolari fra i fegati babilonesi e hittiti e il Fegato di Piacenza, la somiglianza sia tale da escludere una formazione indipendente, mentre è ovvio far rientrare il Fegato di Piacenza in quel movimento di irradiazione dell’epatoscopia babilonese nel mondo mediterraneo che è ammesso dallo stesso Furlani”; cfr. GANDINI 2000 = M. Gandini, “Raffaele Pettazzoni negli anni 1928-1929. Materiali per una biografia”, in “Strada maestra. Quaderni della Biblioteca comunale ‘G.C. Croce’ di San Giovanni in Persiceto”, 48 (1° semestre 2000), pp. 102-103.
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4.4 Il settore “G” e il processus pyramidalis
Fig. 39 – La composizione dei rilievi anatomici rappresentati sulla superficie del bronzo piacentino, con in evidenza l’alto rilievo del processus pyramidalis. Si nota che l’orientamento dell’asse divisorio del settore G), che è ai piedi della piramide, risulta essere lo stesso dell’orientamento generale del Fegato sull’asse nord-sud. Il ribaltamento dell’altezza della piramide (A) sullo schema sottostante, ricade poi esattamente sul punto ideale d’intersezione tra quell’asse e il solco che delimita il bordo.
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Anche in questo caso, dunque, come accaduto per l’ipotesi astronomica di Deecke, l’idea che il fegato etrusco fosse la rappresentazione di un mundus cosmogonico, direttamente collegato con la religione babilonese, e tanto più quella secondo cui la sua piramide potesse indicare la “potenza radiale del sole sulla terra orientata”, saranno temi non più affrontati negli studi successivi. Diversamente, si sarebbe potuti giungere, molto prima di oggi, a considerare la possibilità che la piramide avesse potuto svolgere una funzione di tipo strumentale, e questo avrebbe portato immediatamente ad osservare, come osserviamo noi ora, l’esistenza di precise evidenze oggettive che dimostrano una relazione di omologia diretta tra la forma della sua ombra e il disegno dei settori riprodotti sul piano sottostante. La prima di queste evidenze è quella che vede l’asse divisorio delle 6 caselle, disposte ai suoi piedi, essere esattamente parallelo alla linea divisoria dei due lobi. Nella misura in cui a questa veniva assegnata la direzione nord-sud, per quell’asse divisorio si sarebbe potuta sospettare la funzione di linea meridiana collegata con l’ombra che la piramide avrebbe potuto proiettare sulla sua superficie (vd. fig. 39, in basso). Una seconda osservazione, conseguente a questa, riguarda il tipo di ombra che il particolare profilo delle sue facce, con spigoli non rettilinei ma arcuati, avrebbe potuto restituire su quel piano. In figura 40, in alto, è evidenziato come lo stesso profilo del solco del lobo destro, quello che delimita il bordo dai settori interni, sembri essere stato disegnato sul ribaltamento della faccia della piramide, riproducendone la curvatura dello spigolo. Tale ribaltamento sembra avvenire nella direzione di quello stesso asse meridiano che suddivide le celle sottostanti, e questo porta a pensare che l’intera sagoma del lobo destro fosse stata disegnata sul contorno che quell’ombra assume quando i raggi solari hanno un angolo incidente prossimo ai 45 gradi (vd. fig. 40). Inoltre, se questo fosse effettivamente l’angolo significativo, il disegno ai piedi del processus pyramidalis, oltre a conformarsi alla sagoma della sua faccia, avrebbe dovuto presentare una estensione in lunghezza pari alla sua altezza, e questo è esattamente ciò che accade per la dimensione A indicata in figura 39. Una simulazione al vero, operata su una copia del modello reale, ha così potuto confermare che, illuminando il modello con una sor-
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4.4 Il settore “G” e il processus pyramidalis
Fig. 40 – In alto, si osserva che il profilo del lobo destro ricalca il ribaltamento della faccia a spigoli arcuati del processus pyramidalis. In basso, simulazione delle ombre descritte su una copia del modello reale, impostando una inclinazione dei raggi solari di 45°. Si nota come l’ombra della piramide abbia il bordo destro che coincide esattamente con il solco divisorio del bordo dell’anello del lobo destro, mentre la lunghezza dell’ombra cade sull’ultimo divisorio del settore G, corrispondente a leθn.
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gente luminosa posta a circa 45° di altezza rispetto al piano su cui giace la piramide, l’ombra generata è esattamente sagomata come il profilo della incisura che delimita il nastro del bordo, e la sua lunghezza raggiunge l’estremità della comune casella del settore G) dedicata a leθn (vedi fig. 40, in basso). Si comprende allora che, se il lobo di sinistra è stato conformato a misura e forma dell’arco palmare della mano sinistra – per consentire la digitazione dei settori in esso contenuti – il lobo di destra risulta essere stato sagomato sulla massima estensione che l’ombra della piramide poteva assumere quando il sole passava al meridiano del luogo rispetto a due precisi momenti dell’anno, quelli cioè che abbiamo visto dover essere indicati dalla comune casella di leθn: l’equinozio di primavera, che stabilisce l’inizio dell’anno liturgico e l’inizio del trimestre primaverile, e l’equinozio autunnale, termine del trimestre estivo e inizio della fase di stasi vegetativa autunnale che prelude all’inverno. Se ne deduce che il disegno del settore G), ai piedi della piramide, con tre celle affiancate alla destra e alla sinistra di quell’asse meridiano e con una cella in comune che è alla sua estremità, oltre che poter rappresentare lo schema delle stazioni solari da equinozio di primavera a equinozio autunnale (vd. cap. 3.1, pp. 88-90), potrebbe anche svolgere la funzione strumentale di indicare il movimento su quegli stessi punti di stazione attraverso la lettura delle diverse lunghezze che l’ombra può assumere al suo interno. Il tracciamento della linea meridiana del luogo, e il necessario orientamento dell’oggetto su di essa, svolgerebbero allora la funzione di fissare la variazione di lunghezza dell’ombra in un istante temporale determinato, e questo istante è appunto quello in cui il sole passa al meridiano del luogo alla sua massima altezza giornaliera. Prima di procedere oltre, è importante soffermarci sul fatto che, in questa fase di utilizzo, il bronzo dovrà essere ruotato di 180° rispetto a quello che abbiamo stabilito dover essere il suo orientamento prevalente, lungo l’asse visuale di meθlum. Il nord nelle fasi precedenti, era da porsi dalla parte del processus pyramidalis, mentre ora, per consentire la lettura dell’ombra sul settore G), la piramide dovrà essere necessariamente orientata in direzione opposta, e cioè verso sud, con l’ombra che si muoverà sul settore G) in direzione nord. Questo im-
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4.5 L’ombra e la misura del tempo
plica che i versi dei due assi paralleli, quelli cioè corrispondenti alla linea meridiana di G) e alla linea divisoria dei lobi, così come descritto in figura 39, dovranno risultare invertiti in rapporto alla fase di utilizzo strumentale dell’oggetto. Se questo potrebbe sembrare in contraddizione con il sistema di orientazione generale del modello, in realtà così non è, perché se in passato è stato da tutti sostenuto che il bronzo doveva esprimere un unico orientamento assoluto rispetto all’anello delle 16 regioni celesti, è anche vero che questa ipotesi si è rivelata non supportata dai fatti e per nulla necessaria, e le ragioni che seguono forniranno la prova che la doppia orientazione non contraddice affatto, ed anzi conferma, l’impianto delle relazioni analogiche che legano il suo contenuto con le stazioni del Templum solare.
4.5 L’ombra, l’“analemma” e la misura del tempo Si è detto che la variazione di lunghezza dell’ombra sul settore G) andrà calcolata in un istante temporale determinato, che è appunto quello in cui il sole passa al meridiano del luogo alla sua massima altezza giornaliera. A questa altezza corrisponde una lunghezza dell’ombra proiettata che è ad essa inversamente proporzionale, e tale lunghezza è ovviamente collegata con la diversa inclinazione che i piani delle orbite solari assumono, da luogo a luogo, al variare della latitudine. A sua volta, tale diversa inclinazione determina l’ampiezza dell’arco solstiziale entro cui oscillano i suoi punti di levata nel corso dell’anno e vi è dunque una relazione diretta tra l’oscillazione in lunghezza dell’ombra meridiana del sole e il moto ascendente e discendente in azimut delle stazioni di sua levata sull’orizzonte. Quando l’astro è al suo estremo punto di levata a nordest, e cioè al solstizio d’estate, avremo una sua massima altezza meridiana, una minima ombra proiettata e le massime ore di luce giornaliere; quando invece è al suo punto estremo di levata a sudest, e cioè al solstizio d’inverno, avremo una sua minima altezza, una massima ombra proiettata e le minime ore di luce. In figura 41 sono indicate le relazioni geometriche che mettono in rapporto analogico i piani dell’orbita apparente del moto solare nel corso dell’anno con le stazioni di sua levata sull’arco solstiziale. La
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A B C
Fig. 41 – La figura dei sentieri di Enlil, Anu ed Ea di figura 1 è qui posta come piano ortogonale al cerchio dell’orizzonte dell’osservatore. Ad est e ad ovest di questo vi sono i due archi solstiziali sottesi all’angolo alfa (a). In questa visualizzazione è ben visibile come l’angolo alfa (a) sia in funzione dell’inclinazione dei tre “sentieri” solari A, B e C rispetto al piano orizzontale dell’osservatore e dunque alla latitudine del luogo. Sulla base di questa relazione proiettiva, le stelle che muovono all’interno dei tre sentieri di Enlil, Anu ed Ea (A, B, C) avranno, nei diversi periodi dell’anno, punti di levata e tramonto sempre interni ai due archi solstiziali del precedente circolo calendariale. Un lungo lavoro di registrazione e mappature dei gruppi di stelle che hanno la loro prima levata o tramonto eliaci in corrispondenza degli “stipiti” delle precedenti porte, consentirà nel tempo l’eliminazione del circolo calendariale stesso. L’entrata in un certo mese sarà infatti resa evidente, non più dalla posizione di levata del sole in una certa porta, ma dalla cinematica del primo sorgere o tramontare eliaci delle costellazioni, o loro stelle di particolare magnitudine, che alle diverse porte erano state associate. Le costellazioni così codificate saranno quelle che entreranno a far parte del circolo zodiacale, perché suddivideranno idealmente il circolo dell’eclittica (il piano dell’orbita solare), in 12 settori di 30 gradi ciascuno, corrispondenti ai precedenti 12 mesi di 30 giorni (dis. A. Gottarelli).
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4.5 L’ombra e la misura del tempo
Fig. 42 – In alto, il sistema proiettivo delle relazioni geometriche che intercorrono tra le massime altezze del sole al passaggio al meridiano del luogo (S-N) e i relativi punti di levata sull’arco solstiziale, nei giorni del solstizio d’inverno (MSI), degli equinozi (MEP, MEA) e del solstizio d’estate (MSE). L’inclinazione dei piani delle orbite solari è data dall’angolo complementare della latitudine (LAT), e da questo si determina l’angolo a che è compreso tra le due diagonali solstiziali. In basso, relativamente ai soli due trimestri primaverile ed estivo compresi tra i due equinozi, sono descritte le relazioni di omotetia che intercorrono tra le stazioni delle levate solari sull’arco solstiziale e la figura che può essere descritta sull’asse meridiano dalla proiezione dei raggi solari rispetto al vertice della piramide (dis. A. Gottarelli).
Cap. IV – La logica strumentale del modello
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figura richiama quanto già abbiamo osservato nel precedente volume al capitolo 6.6, alle figure 33, 34 e 35, relativamente al sistema proiettivo, riferito all’orizzonte dell’osservatore, che accoglieva i tre sentieri di Enlil, Anu ed Ea. I tre sentieri, la cui ampiezza sul piano orizzontale corrispondeva all’arco solstiziale, furono le guide entro cui venne codificata la levata eliaca di quelle configurazioni stellari le cui prime apparizioni sull’orizzonte poterono, in una certa fase delle conoscenze astronomiche, sostituire l’evoluzione cinematica del passaggio del sole tra le porte dell’arco solstiziale stesso. In maniera analoga, i tre “sentieri” di figura 42 (in alto, nn. 1, 2, 3) sono qui rappresentati dalla sezione delle orbite solari al loro passaggio al meridiano del luogo (S-N) nei tre giorni dell’anno di massima, media e minima culminazione: e cioè al solstizio d’estate (MSE), ai due equinozi (MEP, MEA) e al solstizio d’inverno (MSI). L’inclinazione dei piani orbitali è data dall’angolo complementare alla latitudine che è sotteso all’asse polare (LAT), e l’estensione della loro intersezione sul cerchio orizzontale dell’osservatore, indicata in ASE, AEPAEA e ASI, determina l’angolo a delle due diagonali solstiziali. In figura 42, in basso, è indicato il passaggio dal precedente modello proiettivo al sistema di lettura lungo l’asse meridiano delle diverse altezze solari, per mezzo di un diagramma che è del tutto simile al settore G) disposto ai piedi della piramide. La figura tabellare a doppie celle ha l’evidente scopo di rilevare l’oscillazione della lunghezza dell’ombra che viene proiettata sul piano all’andata e al ritorno, dalla posizione n. 2 alla n. 3, rispettivamente dall’equinozio di primavera al solstizio d’estate, e dalla n. 3 alla n. 2, con movimento di ritorno sull’equinozio autunnale. Tale oscillazione rileva così l’equivalente delle posizioni di levata sull’arco solstiziale per le stazioni che muovono da F4 a F12, nei passaggi significativi di sua entrata nei mesi che vanno dal primo al sesto del calendario liturgico. Risultano quindi confermate le relazioni tra i settori F) e G) di cui avevamo trattato al capitolo 3.2, e si ha inoltre prova che la diversa orientazione che il bronzo deve assumere in questa particolare fase strumentale, non contraddice affatto quell’orientamento generale del modello che è stato dettato da tutte le nostre precedenti considerazioni. La raggiunta consapevolezza dell’esistenza di una relazione geometrica che lega gli azimut dei punti di levata del sole sull’orizzonte con
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4.5 L’ombra e la misura del tempo
Fig. 43 – Il procedimento costruttivo della geometria dell’“analemma” descritto nel “De Architectura” di Vitruvio. A) Si imposta la latitudine del luogo utilizzando il rapporto tra l’altezza dello gnomone e l’ombra meridiana equinoziale (1-8/9 latitudine di Roma). Si traccia la circonferenza con centro il vertice dello gnomone e si disegna il raggio equinoziale. B) Si impostano i due piani orbitali solstiziali a distanza angolare di 1/15 di circonferenza dal piano equinoziale (24°). Si tracciano i raggi intersecanti il vertice dello gnomone fino al piano orizzontale. C) Si disegna il manaeus, o cerchio dei mesi, inscritto ai piani orbitali, e si proiettano le sue dodici parti con rette parallele agli stessi, ottenendo così le orbite mensili intermedie a distanza armonica. A sinistra, il fascio dei relativi raggi proiettivi descrive sull’asse meridiano l’oscillazione dell’ombra dello gnomone nel corso dell’anno (dis. A. Gottarelli).
Cap. IV – La logica strumentale del modello
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le sue diverse altezze di culminazione sull’asse meridiano, è la ragione per cui, in una fase decisiva dell’evoluzione delle conoscenze astronomiche, che andrà collegata con la raggiunta capacità di modellizzare concettualmente tale principio proiettivo, il precedente sistema di calcolo del Tempo venne progressivamente sostituito da strategie di lettura del movimento dell’ombra che, in vario modo, costituiranno il fondamento della scienza gnomonica13. Tale disciplina raggiunge una sua fase matura già a partire dal IV secolo a.C. e il fondamentale primo enunciato teorico di geometria gnomonica, che ne costituisce il punto di arrivo, si trova citato al capitolo VII del IX libro del “De Architectura” di Vitruvio14. Tale enunciato altro non è che la generalizzazione di quanto descritto in figura 42, essendo un metodo geometrico di proiezione ortografica del cammino del sole sul piano meridiano, entro cui è indicato il meccanismo di calcolo dell’incidenza dei raggi solari in ogni stagione dell’anno e ad ogni latitudine. In figura 43 (a destra), è sinteticamente esemplificato il procedimento geometrico di costruzione della figura descritto in Vitruvio, con sulla sinistra, lo schema del precedente sistema proiettivo. I passaggi principali riguardano l’inserimento dei due parametri da cui consegue tutta la restante figura: la latitudine del luogo, che è espressa in via indiretta dall’inclinaziome dei piani orbitali del sole sull’orizzonte e il valore di loro distanza angolare ai solstizi, che deve essere pari al doppio dell’inclinazione dell’asse terrestre sull’eclittica. Lo scopo del primo passo in A è l’inserimento del dato che caratterizza la geometria dell’“analemma” rispetto alla latitudine del luogo, e consiste nel fissare l’inclinazione dei piani orbitali del moto solare e dell’intera figura rispetto al piano dell’orizzonte. L’angolo di latitudine (LAT) è infatti il loro complementare (vd. fig. 42) e l’inclinazione dei piani è data dal raggio solare alla sua culminazione meridiana equi-
13 La disciplina definita “gnomonica” è fatta risalire da Plinio alla metà del VI secolo a.C., ed è da lui attribuita ad Anassimene milesio, allievo di Anassimandro: PLIN., Nat. Hist., II, 187, 78. In generale si veda SEVERINO 2001 = N. Severino, “Storia della Gnomonica. La storia degli orologi solari dall’antichità alla rinascenza”, Roccasecca, 2001. 14 Vd. MIGOTTO 1990 = L. Migotto (curatore), “MarcoVitruvio Pollione. De Architectura Libri X”, Pordenone, 1990, pp. 445-455. Al capitolo precedente Vitruvio traccia un quadro esauriente sulle applicazioni della scienza gnomonica e sui tipi di orologi solari allora conosciuti.
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4.5 L’ombra e la misura del tempo
noziale, coincidente con l’ipotenusa del triangolo rettangolo che ha per cateti l’altezza dello gnomone e la lunghezza della sua ombra in quel dato istante. Il parametro di partenza, collegato con la latitudine, deve dunque essere già stato acquisito in relazione ad ogni singolo luogo e riguarda la registrazione del rapporto frazionario che intercorre tra l’altezza dello gnomone e la lunghezza della sua ombra meridiana agli equinozi. Si legge in Vitruvio: “allorché il sole nella fase dell’equinozio si trova nella costellazione dell’Ariete o della Bilancia, segna alla latitudine di Roma un’ombra pari a 8/9 della lunghezza dello gnomone. E così pure, ad Atene l’ombra segnata è 3/4, dello gnomone; a Rodi 5/7; a Taranto i 9/11; [ad Alessandria] i 3/5 e dappertutto, passando da una zona all’altra l’ombra dello gnomone nella fase dell’equinozio segna valori diversi a seconda della latitudine” 15. Dal conseguente tracciamento del raggio equinoziale sull’ipotenusa, si passa così alla determinazione dei due piani orbitali solstiziali ad esso paralleli. Questi vengono tracciati ad una distanza angolare dal piano equinoziale che è calcolata su un quindicesimo di arco di circonferenza, valore questo che approssima ai 24° i 23,5° dell’inclinazione dell’asse terrestre sull’eclittica (vd. fig. 43, B)16. In ultimo, si disegna il manaeus, o “cerchio dei mesi”, inscritto ai piani orbitali, e si proiettano le dodici parti con cui è diviso con rette parallele a quelli, ottenendo così le restanti orbite mensili disposte a distanza armonica l’una dall’altra (vd. fig. 42, C a destra). Dall’intersezione di questi con l’arco meridiano superiore, sarà così possibile tracciare i fasci dei raggi che attraversano il vertice dello gnomone e che proiettano sul piano orizzontale i valori di oscillazione della lunghezza dell’ombra nel corso dell’intero anno (vd. fig. 42, C a sinistra). Il disegno dell’“Analemma” di Vitruvio è dunque un passaggio sostanziale per meglio comprendere il semplice principio strumentale che è espresso dall’ombra che il processus pyramidalis proietta sul sottostante settore G), in quanto anch’esso risulta essere stato impostato su una proiezione ortografica del cammino del sole sul piano meridiano che ha, come evidente e manifesta sua origine, la stessa lunghezza dell’ombra equinoziale.
15 VITR., De arch., IX, VII, 1; MIGOTTO 1990, pp. 439-440. 16 Ibid., IX, VII, 4-6; MIGOTTO 1990, p. 441-443.
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Abbiamo visto che sulla sagoma di questa ombra risulta essere stata modellata la parte destra del bronzo e abbiamo inoltre osservato come l’ombra della piramide descriva questo contorno quando raggiunge la sua massima estensione ammissibile rispetto al disegno di G) (vd. fig. 40). Non vi è per altro alcun dubbio sul fatt0 che questa ombra corrisponda effettivamente all’ombra equinoziale, dato che il nome della cella terminale di G), che è corrispondente al tratto separatore che sottolinea questa massima estensione, è appunto leθn, che è proprio il lemma a cui abbiamo, per altre vie, già collegato il concetto stesso di “equinozio” o di “asse equinoziale”. Questa doppia evidenza oggettiva porta così a coniugare un aspetto morfologico sostanziale del lobo destro con un’altrettanto chiara indicazione di carattere epigrafico, e l’insieme delle due cose si confronta con quanto già abbiamo osservato sulla equivalenza tra la lunghezza della linea meridiana di G) e l’altezza della piramide (vd. fig. 39, A). Se infatti la massima lunghezza della linea meridiana è espressione della lunghezza dell’ombra equinoziale, e tale lunghezza risulta essere pari all’altezza della piramide stessa, ne consegue che il luogo su cui è stato calcolato l’“analemma” del bronzo piacentino doveva esprimere un rapporto tra l’altezza dello gnomone e la lunghezza dell’ombra pari a 1/1, da cui se ne deduce nuovamente che la latitudine entro cui l’oggetto venne progettato doveva essere prossima ai 45 gradi. Stabilito questo valore, il dato generale può ora essere ulteriormente confrontato con il fatto che, all’interno del disegno dell’“analemma”, la diversa inclinazione dei piani solari implica una diversa cadenza armonica dei tratti che sulla linea meridiana indicano le diverse lunghezze dell’ombra all’entrata in ogni mese, dove queste risulteranno via via più accentuate all’aumentare della latitudine. Ciò significa che la cadenza dei segni separatori delle celle del settore G) dovrà a sua volta esprimere una configurazione proiettiva dei raggi solari che è univoca rispetto alla latitudine entro cui la figura è stata calcolata. La riprova di quanto osservato è allora contenuta in figura 44, dove si nota che il sistema proiettivo dell’analemma che è impostata sui 45 gradi di latitudine, se sovrapposto alla proiezione ortogonale del bronzo, porta a far coincidere quasi esattamente le estremità del fascio proiettivo dei suoi raggi con i tratti divisori della figura di G). Si intende che tale evidenza va comunque presa con le dovute cautele,
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4.5 L’ombra e la misura del tempo
Fig. 44 – In evidenza la coincidenza della figura delle linee separatrici delle celle del settore G) rispetto alla minima e massima lunghezza dell’ombra della piramide per i mesi dei due trimestri della primavera e dell’estate, da equinozio a equinozio. Il fascio proiettivo è dato dalla geometria dell’“analemma” di Vitruvio impostato su un’angolo di latitudine di 45° (dis. A. Gottarelli).
Cap. IV – La logica strumentale del modello
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in quanto manca all’incisione del disegno quella precisione strumentale che sarebbe necessaria a definire un valore di latitudine certo. Resta comunque il fatto che ciò non smentisce l’insieme delle considerazioni fin qui svolte, e che queste, se sommate tra loro in termini sia qualitativi che quantitativi, costituiscono un quadro indiziario sufficiente a far convergere ogni evidenza su quel valore. Vedremo al capitolo conclusivo come il valore esatto dei 45 gradi di latitudine ci porterà a dover ammettere, su basi che non erano mai state considerate prima, l’esistenza di un fattore di straordinaria non casualità che lega il contenuto informativo del bronzo piacentino con il suo luogo di rinvenimento. Questo ci porterà a conclusioni sorprendenti sui veri significati religiosi e rituali che, al di là dell’aspetto puramente strumentale di quanto vi è rappresentato, ad esso andranno attribuiti.
4.6 Il sistema di computo delle porte e dei mesi Concludendo le osservazioni di natura funzionale, risulta evidente che il fascio proiettivo dei raggi solari descritto in figura 44 presenta una sostanziale coerenza con le stazioni prima attribuite ai diversi settori di G), e questo in rapporto alle identità nominali che legano quelle stazioni con i settori F) ed E). In figura 45 sono evidenziate le relazione tra i settori di G) e le diverse lunghezze assunte dall’ombra nell’arco dell’anno. Quando il sole raggiunge l’estrema levata a sud-est è il giorno del solstizio d’inverno e la lunghezza dell’ombra è massima, corrispondendo alla posizione n. 1 di figura 44. Da qui l’ombra comincia ad accorciarsi pur restando per tutto l’inverno esterna alla superficie del modello e vi entra solo pochi giorni prima dell’equinozio, attraversando la cella terminale con iscritto pul o tul (vedi cap. 3.1, p. 89), il cui significato, se qui si leggesse tul, sarebbe quello di “limite” o “confine” oltre il quale non vi è lettura. Il punto saliente è raggiunto quando l’ombra tocca la linea indicata con G1-F4-F12 (vd. fig. 45), perché questo è l’inizio dell’anno liturgico che corrisponde all’equinozio di primavera, così come indicato dal nome leθn che vi compare alla sinistra (G1). Il sole entra così nella porta dell’arco solstiziale che risulta essere dedicata a leθa (E4), con divinità tutelari di entrata e uscita dal primo mese, che sono F4 e F5 dei settori del bordo del Fegato, e dunque uni/mae e tins/θne,
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4.6 Il sistema di computo dei mesi e delle porte
Fig. 45 – In evidenza i settori di G che vengono attraversati dall’ombra della piramide da equinozio di primavera a equinozio autunnale, in rapporto alle stazioni del settore F: da F4 a F7, in fase dell’ombra discendente, e da F9 a F12 in fase dell’ombra ascendente. Il separatore F7-F9 coincide con la minima ombra meridiana al solstizio d’estate (dis. A. Gottarelli).
Cap. IV – La logica strumentale del modello
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deducibili dal procedimento di digitazione indicato alla figura 35 in posizione n. 4. In uscita da leθn (G1), l’ombra raggiunge il tratto separatore G2-F5, il cui nome in G2, se fosse confermato quanto detto sopra, dovrebbe essere l’equivalente di tins/θne. Così non è, perché ciò che qui troviamo è tins/θvf, invece dei corrispondenti tinsθ/neθ che sono comunque presenti in G), ma traslato in G4=F7. Abbiamo già osservato (cap. 3.2, pp. 90-91), e ne abbiamo ora qui una ulteriore conferma, che vi è una evidente inversione di posizione dei nomi che è imputabile ad un errore del compilatore. Risulta infatti che le tre celle da G2 (F5) a G4 (F7) mostrano un palese disallineamento derivante dall’inversione di posizione di tinsθ/neθ da G2 a G4, per cui tins/θvf è posto in G2 quando avrebbe dovuto in realtà cadere in G3, la qual cosa lo avrebbe allineato con l’identico tin/θvf in F6. Le posizioni corrette sono dunque da ritenersi quelle ora indicate in figura 45, con tinsθ/neθ in G2, tins/θvf in G3 e θufl/θas in G4, che risultano corrispondenti alle stazioni della stagione primaverile che seguono a E4 in leθn, e dunque alle due porte E5 ed E6. L’ombra decresce quindi fino alla sua minima lunghezza, lambendo il tratto G4-F7, con il sole che è alla sua culminazione meridiana del solstizio d’estate, al termine della fase ascendente del suo ciclo annuale di levata a nord-est sull’orizzonte. Tornando a risalire con moto contrario, l’ombra muove ora da G6F9, che è caθa, ripercorrendo l’equivalente della porta di levata E6, fino al tratto separatore G7-F10 che è fuf/lus, entrambi appunto corrispondenti a caθ e fuflu/ns che sono F9 ed F10 dei settori del nastro periferico. Da qui l’ombra giunge poi in G8-F11, la/sl-selva, per entrare nuovamente nella porta di levata E4 che è leθa, fino a toccare nuovamente G1-F12 in leθn, che è il giorno dell’equinozio autunnale. Percorre poi la cella terminale pul-tul, fino a superare il limite fisico del bordo del Fegato che è “il confine” a cui potrebbe appunto essere associato il nome che qui vi compare, se letto tul=tular. Risulta così provato che lo scopo del settore G) è quello di accogliere l’oscillazione dell’ombra del processus pyramidalis sulla base dell’osservazione del sole in un dato istante temporale, e questo al fine di indicare i nomi delle divinità tutelari di entrata e uscita dai mesi dei semestri primaverile ed estivo. Individuati i nomi della corrispondente fase, il meccanismo di digitazione prima esposto può allora porre in relazione le omologhe sedi
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4.6 Il sistema di computo dei mesi e delle porte
del nastro periferico (F) con le 6 sezioni della ruota raggiata (E), consentendo all’osservatore di ricavare tutte le informazioni utili a ricomporre le sezioni del calendario liturgico che riguardano i restanti mesi e, nel caso particolare, i nomi delle 6 porte e quelli di tutte le divinità che cadenzano le fasi mensili dell’anno. In figura 46 è esemplificato il funzionamento del meccanismo strumentale che lega il settore G) con i processi di digitazione già descritti nel capitolo precedente. Il caso è quello della lettura dell’ombra immediatamente dopo il solstizio d’estate e dunque con il sole che leva sull’orizzonte rientrando nella porta di cilen (E6), corrispondente al quarto mese. 1) Il primo passo è la lettura su G) del nome che sta immediatamente sopra al tratto separatore che è stato superato dall’ombra. In questo caso il tratto è il G6-F9 della precedente figura e il teonimo associato risulta essere caθa. A questo segue fuf/lus in G7, che indica il tratto verso cui muove l’ombra: per cui la lettura è “siamo nel mese che inizia in caθa e che termina in fuf/lus” (vd. fig. 46, n. 1). 2) Nel secondo passo si cerca caθa tra i nomi presenti sul nastro periferico del bronzo (settore F), trovandolo nel nome caθ che è alla casella F9 e che sta in basso, presso l’incisura umbilicalis. A questa casella segue in senso orario il nome fuflu/ns in F10, che è appunto il corrispondente di G7, per cui viene qui data l’indicazione che le susseguenti stazioni solari muoveranno sul bordo con verso orario, rendendo possibile il sistema di digitazione che abbiamo già descritto in figura 34 (vd. fig. 46, n. 2). 3) Al terzo passo si considera la sezione della ruota raggiata, interna al lobo sinistro, che confina sul bordo con caθa (F9) e con fuflu/ns (F10), individuandola in quella che divide cilen da satr/es. Considerando che l’assegnazione del nome al relativo raggio segue un verso di lettura orario, la scelta ricadrà su cilen. La lettura porterà così a correlare tra loro diverse informazioni, e in particolare: che il sole è rientrato nella porta dedicata a cilen; che questa è la terza porta partendo da leθa; e infine che, in fase discendente, a questa porta corrisponde il mese che ha in entrata la sede di caθa e in uscita la sede di fuflu/ns (vd. fig. 46, n. 3). Da tutto ciò l’osservatore avrebbe potuto dedurre che il mese qui in-
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Fig. 46 – Sequenza di funzionamento del Fegato di Piacenza: 1) lettura della lunghezza dell’ombra sul disegno del settore G; 2) lettura dei nomi di G) raggiunti dall’ombra sui nomi del settore F del bordo; 3) lettura del settore raggiato di E) che è contiguo ai precedenti settori del bordo (dis. A. Gottarelli).
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4.6 Il sistema di computo dei mesi e delle porte
dicato era certamente il quarto, perché se il primo mese del calendario liturgico è chiaramente sottolineato dalla prima cella di G) che è toccata dall’ombra, e cioè da leθa, quattro risultano essere i tratti separatori su G) che si contano da leθn a caθ, così come quattro sono anche le posizioni che il pollice assume contando i settori della ruota raggiata da leθa a cilen (vd. fig. 47). Concludendo l’esempio di questo straordinario sistema di computo, va ricordato che in precedenza avevamo considerato un sistema di numerazione dei mesi che era riferito al calendario solare con inizio al solstizio d’inverno, partendo cioè da satr/es. Ora, invece, il conteggio dei mesi dovrà essere impostato con inizio all’equinozio di primavera, e dunque partendo da leθa, per cui diverso dovrà anche essere il movimento di digitazione dei settori. In figura 47 è descritto come il numero dei mesi debba essere, in questo caso, calcolato partendo dalla lunetta contenente leθa, per poi muovere il pollice con rotazione antioraria fino al punto di stop e di inversione della rotazione, che è quello sulla cella di cilen, subito prima di satr/es. Gli step partendo da leθa seguono così la sequenza dei mesi secondo il seguente ordine (vd. fig. 47, in alto): I mese in leθa, II mese in selva, III mese in cilen. Stop su cilen e inversione del moto di rotazione con ripartenza del conteggio rimanendo su cilen: IV mese in cilen, V mese in selva, VI mese in leθa, VII mese in tlusc, VIII mese in lvsl/velc, IX mese in satr/es (vd. fig. 47, in basso). Nuovo stop con inversione del moto ricontando su satr/es, e dunque con X mese in satr/es, XI mese in lvsl/velc, e chiusura dell’anno al XII mese in tlusc. Si noti ora che i 12 mesi del computo della ciclicità dell’anno sono qui derivati dal doppio conteggio sui punti di stop corrispondenti alle porte estreme cilen e satr/es, mentre se si contasse omettendo questa doppia sosta, e cioè muovendo immediatamente sulla cella che li precede, i mesi sarebbero non 12 ma 10. L’effetto di tale scelta è, in sostanza, quanto già avevamo osservato al capitolo 6.3 del precedente volume, rispetto alla suddivisione dei mesi sull’arco solstiziale che descrivemmo in figura 29 e che riproponiamo ora in figura 48. Il numero dei mesi riguarda un argomento di grande portata che richiama ad un tema insoluto della storiografia antiquaria latina, quello appunto del passaggio dal calendario romuleo di 10 mesi a quello numano di 12. Nella misura in cui il meccanismo di rappresentazione del tempo che è inciso sul bronzo piacentino documenta, per la prima volta per via archeologica, un sistema calendariale com-
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Fig. 47 – Movimento del pollice sulla ruota raggiata (settore E) per il conteggio dei mesi del calendario liturgico. In alto, semestre primaverile-estivo: leθa, mese I; selva, mese II; cilen, mese III; cilen, mese IV; selva, mese V; leθa, mese VI. In basso, semestre autunnale-invernale: tlusc, mese VII; lvsl/velc, mese VIII; satr/es, mese IX; satr/es, mese X, lvsl/velc, mese XI; tlusc, mese XII. (dis. A. Gottarelli).
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4.7 Il numero dei mesi e la codifica dell’anno solare
posto da 12 mesi, in qualche modo imparentato con l’elenco delle feriae rituali della Tabula Capuana, ma ad esso posteriore, il principio su cui si fonda può a sua volta costituire una straordinaria nuova chiave di lettura per comprendere aspetti insoluti dell’evoluzione dei sistemi di computo del tempo che sono all’origine delle rappresentazioni calendariali in ambito italico.
4.7 Il numero dei mesi e la codifica dell’anno solare Il non avere mai considerato lo schema concettuale delle 6 porte del Templum solare come origine di ogni forma di codifica dell’anno che fosse basata sui ritmi stagionali delle levate solari, ha infatti impedito di intendere l’evoluzione, o la viariabilità, dei sistemi calendariali nell’ottica della diversa interpretazione che all’interno di quello schema si poteva dare al concetto stesso di “mese naturale”, lunare o solare, rispetto al concetto di “mese civile”17. Considerando il principio su cui già ci siamo soffermati nel precedente volume, secondo cui il mese viene definito dal periodo di permanenza del sorgere del sole in una determinata porta, i sistemi calendariali possono accogliere la duplice variante di interpretare il “mese” come presenza del sole in una data porta, indipendentemente dal suo verso di levata, oppure di collegarlo al verificarsi della somma delle due condizioni (vd. fig. 48). Le porte interessate a tale possibilità sono unicamente la prima e la sesta, corrispondenti appunto ai nostri satr/es e cilen, perché queste vengono percorse due volte consecutivamente, all’andata e al ritorno, dai moti di levata del sole che avvengono prima e dopo gli estremi solstiziali. Sulle quattro porte intermedie, invece, non vi è ambiguità di scelta, perché queste restano univocamente scandite da un distinguibile doppio passaggio che avviene con verso opposto in tempi diversi. Il risultato è che nei sistemi luni-solari più arcaici, quelli cioè ancora 17 La distinzione è ben chiara, nel III secolo d.C., al grammatico Censorino: “Ci sono due tipi di mesi: uno naturale, l'altro civile. I mesi naturali sono divisi in solare e lunare: il mese solare è il tempo che il sole usa per attraversare ogni segno dello zodiaco; il mese lunare è il momento che separa una luna dall'altra. I mesi di calendario sono certe serie di giorni osservate da ciascuna città secondo le sue istituzioni: così, tra i romani, è quello che va da calende a calende. I mesi naturali sono più vecchi e comuni a tutte le nazioni. I mesi di calendario sono di un'istituzione più recente e particolarmente per ogni città”; CENS., De die nat., XII, 2-3.
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Fig. 48 – Suddividendo in sei settori (porte) l’arco di orizzonte compreso tra l’alba del solstizio d’inverno (ASI) e l’alba del solstizio d’estate (ASE), il concetto di “mese” è individuato dalla permanenza del sole in una certa porta, sia per l’andata ASI-ASE, sia per il ritorno ASE-ASI. Se si considera tale principio senza considerare il verso di levata, i mesi totali dell’anno saranno 10, in quanto il sole leva nelle porte laterali per due fasi consecutive (caso A). Se invece si considera discriminante anche il verso di levata, le porte laterali risulteranno suddivise in due mesi ciascuna, per un totale di 12 mesi a copertura dell’intero ciclo (caso B) (dis. A. Gottarelli).
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4.7 Il numero dei mesi e la codifica dell’anno solare
impostati sulla rilevanza autoptica dell’osservazione diretta del sorgere del sole sull’orizzonte, il “mese solare” viene sovente inteso nella sola permanenza dell’astro in una determinata porta, senza considerarne cioè il verso di levata, per cui l’anno sarà composto non da 12 mesi ma da 10, in quanto le due porte estreme corrisponderanno a 2 mesi di durata doppia, e non ai 4 mesi del caso successivo. Ne consegue che la ruota raggiata del Fegato piacentino, riferendosi in valore assoluto alle soglie solstiziali, descrive un sistema di computo dei mesi che assume un carattere di generalità che può accogliere entrambi i sistemi, per cui ciò che cambierà, nei due casi, sarà unicamente una diversa strategia di digitazione dei settori. Tale generalità è inoltre sottolineata dalla capacità che il modello ha di restituire un determinato istante temporale nella lettura dell’ombra proiettata dal processus pyramidalis, e dunque su base oggettiva, per cui l’insieme si pone come un vero e proprio strumento analogico di confronto tra i diversi sistemi calendariali, essendo basato su un principio che costituisce una possibile nuova chiave interpretativa della loro evoluzione. Se così fosse, l’arbitrarietà che è insita in una diversa definizione del concetto di “mese”, rispetto ai transiti delle levate solari che avvengono nelle porte, comporta anche una possibile eguale arbitrarietà nella determinazione del giorno d’inizio dell’anno liturgico. I meccanismi di trasformazione tra i due sistemi calendariali di 10 0 12 mesi e la alterna possibilità di assegnare l’inizio dell’anno civile al solstizio d’inverno, all’equinozio o ad altro giorno18, risulteranno allora comprensibili solo se ricondotti al principio assoluto che è sotteso ad entrambi, dove l’inizio e la fine del ciclo naturale dell’anno solare era in ogni caso impostato sul giorno del solstizio d’inverno, quale massimo punto di levata del sole sulla diagonale sud-est dell’arco solstiziale. Abbiamo visto che nel Libro di Enoc etiopico il sistema del Templum solare del luogo conserva ancora un conteggio dei mesi e delle porte che è dato dalla sovrapposizione tra il computo dei “mesi solari”, che vanno da 1 a 12 con inizio all’equinozio di primavera, e la numera-
18 Sul tema del calendario composto di 10 mesi si vedano: SAMUEL 1972 = A.E. Samuel, “Greek and Roman Chronology”, Munchen, 1972, pp. 162 sgg.: RADKE 1990 = G. Radke, “Fasti Romani”, Munster, 1990, pp. 35 sgg.: BRIND’AMOUR 1983 = P. Brind’Amour, “Le calendrier romain. Recherches chronologiques”, Ottawa, 1983, pp. 225 sgg.
Cap. IV – La logica strumentale del modello
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zione naturale delle 6 porte che muove da 1 a , a partire dal solstizio d’inverno (vd. fig. 2). Il sistema, in sostanza, continua ad ammettere entrambi i principi anche quando il “capodanno” viene fatto arbitrariamente cadere all’equinozio di primavera, restando comunque sottinteso dalla numerazione delle porte che è il solstizio d’inverno il giorno a cui assegnare il punto “naturale” di inizio e fine del ciclo annuale. Lo stesso sembra ora essere rappresentato sulle 6 sezioni della ruota raggiata del bronzo piacentino, ed è lecito pensare che anche nei più antichi sistemi calendariali della tradizione italica, il ciclo dell’anno, indipendentemente dal fatto che fosse ripartito in 10 o in 12 mesi e da quale fosse il giorno entro cui lo si facesse cominciare19, dovesse comunque riferirsi ad una suddivisione concettuale dell’arco solstiziale in 6 settori, con naturale ripartenza delle levate solari sull’estremo solstiziale vernale. Le fonti latine sono peraltro concordi su questo punto e Varrone ricorda che per tradizione si chiama “anno” “l’intervallo di tempo che il sole impiega per tornare da bruma a bruma” 20, mentre Ovidio è ancora più esplicito nell’affermare che “il solstizio d’inverno è il primo giorno del nuovo sole e l’ultimo del vecchio”, ed è dunque solo in quel preciso istante che “iniziano contemporaneamente sole e anno” 21. Ai commentatori della prima età imperiale è inoltre altrettanto chiara l’arbitrarietà introdotta dai sistemi calendariali nell’assegnazione di un giorno di inizio dell’anno diverso rispetto al riferimento assoluto che è dato dall’osservazione astronomica diretta delle fasi di levata, ascendente e discendente, del moto solare. Plutarco, commentando appunto il passaggio dal calendario romuleo a quello numano, afferma che: “(...) non esiste per natura né una fine né un inizio del ciclo dei moti celesti, ma a seconda delle consuetudini alcuni adottano un inizio del conto del tempo, altri un altro. Il migliore di tutti è quello di chi lo colloca dopo il solstizio d’inverno, quando
19 In generale, sul problema delle festività e dei sistemi di computo del tempo in ambito etrusco e latino reinterpretati su base astronomica, si veda l’ampia trattatistica del lavoro di Leonardo Magini, e in particolare: MAGINI 2003 = L. Magini, “Astronomia etrusco-romana”, Roma, 2003; MAGINI 1996 = L. Magini, “Le feste di Venere. Fertilità femminile e configurazioni astrali nel calendario di Roma antica”, Roma, 1996; MAGINI 2002 = L. Magini, “Il calendario romuleo e i suoi rapporti con i fenomeni astronomici”, in “Atti del II°convegno della Società Italiana di Archeoastronomia”, 27-8 sett. 2002, pp. 77-81 20 VAR., De ling. lat., 6.8. 21 OVID., Fasti, 1.163-4.
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4.7 Il numero dei mesi e la codifica dell’anno solare
il sole finisce di muoversi in un senso e inizia a voltarsi di nuovo verso di noi. Un tale inizio dell’anno è in qualche modo conforme alla natura di noi uomini, visto che aumenta per noi il tempo della luce e diminuisce quello del buio (...)” 22 Il calendario romuleo di 10 mesi potrebbe dunque riferirsi anch’esso a quello schema concettuale delle 6 porte sull’arco solstiziale che ci ha permesso di decifrare il Fegato piacentino, ma in una variante che considera i due versi di levata del sole, sulle porte di estremità, come un unico mese. L’inizio del ciclo sarebbe allora anche qui indicato dallo stipite del solstizio d’inverno, ma il primo mese andrebbe traslato all’inizio della seconda porta, essendo questa la prima entro cui si osserva un moto di levata univocamente ascendente. Per meglio intendere tale principio, in figura 49 abbiamo sovrapposto i mesi romulei, con relativo nome e loro durata, allo schema delle 6 porte del Templum solare. Questi nomi hanno una importanza particolare perché la maggior parte di essi è ancora presente nell’attuale calendario gregoriano e in essi sembra esservi indicata una derivazione da un precedente sistema, entro cui – come già abbiamo trovato essere descritto nell’Enoc etiopico al capitolo 6.4 del precedente volume – i mesi prendono il nome dal rispettivo numero ordinale. Censorino precisa che questo primo calendario di 10 mesi ricalcava quello dei popoli Albani, e ci informa che i mesi erano Martius di 31 giorni, Aprilis di 30, Maius di 31 e Iunius di 30; cui seguivano Quintilis di 31, Sextilis di 30, September di 30, October di 31, November di 30 e infine December di 30, per un improbabile ciclo annuale composto di soli 304 giorni23. Riferisce inoltre che questi nomi sarebbero stati imposti dallo stesso
22 PLUT, Rom., 19. Sul problema dell’interpretazione dell’inizio dell’anno nei diversi calendari, si veda in particolare MAGINI 2002 e MAGINI 2010 = L. Magini, “Il passaggio dall’anno romuleo all’anno numano e lo slittamento del solstizio d’inverno”, in atti “SIA Società Italiana di Archeoastronomia”, X Convegno Annuale, Trinitapoli, Parco Archeologico degli Ipogei, 22-23 ottobre 2010, pp. 1-3. 23 CENS., De die nat., XX-XXII. Riferisce inoltre di una tradizione che assegnava 12 mesi anche a questo calendario: “Licinius Macer e, dopo di lui, Fenestella scrisse che l'anno naturale dei Romani era all'inizio di dodici mesi; ma è meglio riferirsi a Junius Gracchanus, Fulvius, Varro, Suetonius e altri autori, che pensano che sia solo dieci mesi (...)”. Per le altre fonti si vedano: OVID., Fasti, I, 27 - 28; III, 99 - 134; PLUT., rom., 19; MACR., Sat., I, 12; SOLI., Coll., I, 8. In generale sulla complessa problematica dell’interpretazione delle fonti si veda PEDRONI 1998 = L. Pedroni, “Ipotesi Sull'evoluzione del calendario arcaico di Roma”, in “Papers of the British School at Rome”, vol. 66 (1998), pp. 39-55.
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Romolo, e che Martius sarebbe stato indicato come primo mese per sottolineare la bellicosità della neonata città. I primi quattro nomi, quelli che connotano la fase positiva e ascendente delle ore di luce, sarebbero presumibilmente derivati da teonimi, mentre i quattro della fase negativa e discendente, a cui si aggiungono i due mesi doppi, sarebbero quelli il cui nome conserva ancora l’originaria posizione ordinale. Seguendo la sequenza delle porte, il primo mese dell’anno, Martius, avrebbe dovuto essere naturalmente posizionato subito dopo il punto di levata del sole al solstizio d’inverno e dunque sulla prima porta. Ma poiché, nell’ipotesi, a questa non sono assegnati due mesi ma uno solo, con verso di levata doppio, il primo stipite di divisione del mese di fase ascendente, che s’incontra dopo il giorno del solstizio d’inverno, può essere solo quello che determina l’entrata nella seconda porta. Ipotizzando allora che il primo mese Martius fosse posto su quest’ultima, ne consegue la sequenza indicata in figura 49, con Martius al I mese sulla seconda porta, Aprilis al II sulla terza, Maius al III sulla quarta, Iunius al IV sulla quinta e con Quintilis che indicherebbe il mese doppio sulla sesta porta. Il solstizio d’estate ca-
Fig. 49 – Sovrapposizione dei dati relativi al calendario romuleo sul modello delle 6 porte dell’arco solstiziale. Le due porte laterali corrisponderebbero a due mesi invece che a quattro e l’inizio dell’anno sarebbe traslato sul primo stipite di fase ascendente che viene dopo il solstizio d’inverno, che è quello di entrata nella seconda porta (dis. A. Gottarelli).
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4.7 Il numero dei mesi e la codifica dell’anno solare
drebbe così a cavallo di Quintilis e i mesi seguenti, quelli della fase discendente, sarebbero Sextilis, September, October e November, con l’ultimo mese December, che cadrebbe sul secondo mese doppio indicato dalla prima porta. Si noti ora che, disposti in questo modo, i mesi con nome contenente il numerale, da Quintilis a December, assumerebbero una posizione che sarebbe coerente con il numero ordinale che essi esprimono, e tale posizione risulterebbe inalterata rispetto all’attuale ordinamento del calendario gregoriano, dato che ancora oggi l’equinozio autunnale oscilla tra il 20 e il 23 September e il solstizio d’inverno tra il 20 e il 22 December. Ma si noti anche che, contrariamente a quanto accade per la disposizione dei mesi di fase discendente, in fase ascendente l’equinozio di primavera cadrebbe traslato di un mese in avanti, rispetto sia al calendario numano sia al gregoriano, risultando così non alla fine di Martius, ma alla fine di Aprilis e dunque, astronomicamente, al 21 Aprile. La cosa implica una conseguenza di grande portata, perché verrebbe dimostrato che il giorno a cui è assegnata, per tradizione, la fondazione di Roma – il 21 Aprile – altro non sarebbe che il primo giorno del calendario liturgico del sistema di computo dei mesi del calendario romuleo, coincidente con l’equinozio di primavera e con l’inizio del ciclo vegetativo del Ver Sacrum. Si osserva inoltre che i 304 giorni del ciclo annuale, numero che ha da sempre sconcertato tutti i commentatori antichi e moderni, potrebbero trovare una spiegazione rispetto a quanto già abbiamo osservato nel precedente volume per il calendario enochico descritto in figura 31 al capitolo 6.4, dove ai 12 mesi di 30 giorni ciascuno, il cui prodotto dava 360 giorni, erano aggiunti i 4 giorni cosiddetti paguemē, corrispondenti ai giorni “speciali” del passaggio del sole ai due solstizi e ai due equinozi (vd. ora fig. 50). Nel nostro caso il numero 304 potrebbe essere derivato dal prodotto tra i 10 mesi di 30 giorni ciascuno, e dunque da 300 giorni, più i 4 giorni paguemē che seguono alle stazioni solstiziali ed equinoziali, che sono appunto Maius, Quintilis e October, con l’eccezione di Martius che vedrebbe traslato su di sé il giorno solstiziale da attribuire a December. La fonte avrebbe tramandato un computo matematico che deriverebbe dai 30 giorni dei 10 mesi più i 4 giorni speciali, per un totale di 304 giorni, non comprendendo che nel computo andavano anche considerati i 60 giorni dei mesi doppi. Per cui si sarebbe considerato (30 x 10) + 4=304, quando invece il risultato corretto avrebbe dovuto essere di consi-
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Fig. 50 – Il calendario del Templum solare del Libro di Enoc etiopico. L’anno è composto di 12 mesi di 30 giorni ciascuno, con 4 giorni, corrispondenti ai due solstizi e ai due equinozi, che vengono aggiunti ai mesi III (ASE), VI (AEA), IX (ASI) e XII (AEP). Questi risultano così di 30+1 giorni ciascuno, per cui il totale dei giorni del ciclo annuale risulta essere di 364 giorni. Agli stipiti delle diverse porte, in fase ascendente e discendente del percorso di levata, sono assegnati (in alto) i valori del rapporto tra ore del giorno e ore della notte, espresso in diciottesimi (dis. A. Gottarelli).
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4.7 Il numero dei mesi e la codifica dell’anno solare
Fig. 51 – L’interpretazione dei passaggi dal calendario romuleo a quello numano e giuliano in rapporto al modello del Templum solare. L’introduzione da parte di Numa dei due mesi Januarius e Februarius porta a suddividere le due porte laterali in due mesi ciascuna, per cui i mesi passano da 10 a 12. Avendo aggiunto i due nuovi mesi all’inizio del ciclo, partendo cioè dal solstizio d’inverno, questi diventano il primo ed il secondo mese dell’anno, per cui Martius, Aprilis Maius e Iunius vengono scalati di una posizione in avanti, assumendo l’ordine e la posizione attuale. A seguito della riforma giuliana i nomi Quintilis e Sextilis vengono poi sostituiti con Julius e Augustus, in onore di Giulio Cesare e di Cesare Augusto, determinando l’assetto definitivo dei nomi dei mesi che ritroviamo nell’attuale calendario gregoriano (dis. A. Gottarelli).
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derare gli 8 mesi di 30 giorni, più i 2 mesi di 60, più i 4 giorni speciali, e dunque (8 x 30)+(2 x 60) + 4 = 364. La singolare rispondenza del calendario romuleo con quanto descritto in Enoc è dunque quella di comporre l’anno in multipli mensili di 30 giorni, a cui andrebbero aggiunti i 4 giorni paguemē, e questo sarebbe nuovamente dimostrato dal fatto che entrambi rispondono ad un più antico criterio che vedeva attribuire ai nomi dei mesi il numerale corrispondente alla loro successione. Inoltre, in entrambi i casi, a tale nome verranno in seguito sovrapposti termini legati o a divinità tutelari, come nel caso del romuleo, o a nomi di angeli vigilanti come nel caso di Enoc, o ancora nomi di grandi riformatori, come avverrà nel caso del calendario giuliano. Considerando ora le varianti successive introdotte dalla riforma numana e, in seguito, da quella giuliana, il comune modello di confronto descritto dal Templum solare può dunque suggerire una ipotesi generale sulla dinamica evolutiva dei nomi e delle posizioni dei mesi, in una prospettiva temporale che va dalla metà dell’VIII secolo a.C. del romuleo, fino al 4 ottobre 1582, il giorno antecedente la vigenza dell’attuale calendario gregoriano. In figura 51 abbiamo sinteticamente confrontato la struttura del calendario romuleo, così come ipotizzata in figura 49, con le configurazioni risultanti dalle riforme numana e giuliana, sovrapponendoli al modello analitico delle 6 porte del Templum solare. Per quanto detto in precedenza, il passaggio dai 10 mesi ai 12 implica di considerare ognuna delle due porte estreme dell’arco solstiziale non più come un solo mese (vd. “Romuleo”, fig. 51), ma come due mesi distinti, in quanto si considera discriminante il verso di levata del sole prima e dopo le due culminazioni solstiziali. Nell’evoluzione dal romuleo al numano, Numa introduce due nuovi mesi, Januarius e Februarius, ponendoli entrambi all’inizio dell’anno solare e dunque immediatamente dopo il solstizio d’inverno, in quella prima e seconda posizione dell’arco solstiziale dove si trovano tuttora (vd. “Numano”, fig. 51). La prima porta, che prima era interamente occupata dal mese di December, viene così suddivisa in due mesi, con quest’ultimo che resterà ad indicare la fase discendente, e con il nuovo mese di Januarius che verrà a coprire la sola fase ascendente. I precedenti Martius, Aprilis, Maius e Iunius verrebbero così a loro volta scalati di una posizione in avanti, coprendo le attuali posizioni che hanno all’interno del ca-
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4.7 Il numero dei mesi e la codifica dell’anno solare
lendario gregoriano, rispettivamente al III, IV, V e VI mese. Iunius diviene allora il mese che divide in due la sesta finestra fino alla soglia del solstizio d’estate, e Quintilis resta nella stessa posizione in cui si trovava, ad indicare la sola fase discendente. Quintilis e December, prima attribuiti alle due porte estreme, a seguito della divisione di queste in due mesi ciascuna, diventano così il VII e il XII mese, per cui l’intera sequenza dei numerali risulta scalata all’indietro di due posizioni rispetto alla nuova numerazione dei mesi, ma non rispetto al modello generale di riferimento, dato che la loro posizione sulle porte solstiziali ed equinoziali non ha subito variazioni. I cardini del sistema, al di là della complessa vicenda dei processi di intercalazione luni-solare relativi ai giorni poi assegnati ai mesi e agli anni, che caratterizzeranno l’evoluzione di questi calendari, resteranno così saldamente fissati sui passaggi naturali che cadenzano il movimento del sole sull’orizzonte, per cui l’ordinamento nominale dei mesi non subirà, di lì in poi, sostanziali variazioni. L’ultimo passaggio sarà unicamente conseguente alla riforma post giuliana e comporterà la sostituzione di Quintilis e Sextilis con Julius e Augustus (vd. “Giuliano”, fig. 51), a perenne memoria di Giulio Cesare e di Cesare Augusto, e a conclusione di un assetto complessivo del sistema di codifica dei nomi dei mesi che non subirà modifiche nel corso della riforma gregoriana, giungendo fino ai giorni nostri.
5. Epatomanzia in Italia, tra VII e IV secolo a.C. Il fegato fittile di Falerii Veteres e l’Etruria “orientalizzante”
Rispetto all’evoluzione dei sistemi calendariali in ambito etruscoitalico, il bronzo costituisce dunque una nuova fonte di importantissime informazioni sulla loro possibile genesi, formulandone un modello di confronto che sappiamo oggi avere avuto origine da elementi certi di un sistema di computo del tempo di matrice orientale. Analizzandone gli aspetti strumentali, siamo inoltre giunti a comprendere che la sua funzione generale è quella di essere un computatore analogico digitale delle 12 stazioni mensili dello schema arcaico delle 6 porte dell’arco solstiziale, quelle entro cui si muovono le levate solari nell’arco dell’anno, dove già però vi è in embrione di sostituirne l’impianto con la lettura su base gnomonica delle diverse culminazioni meridiane. In termini cronologici, il confronto con l’evoluzione dei diversi sistemi calendariali etrusco-italici porrebbe la sua costruzione concettuale all’interno di un orizzonte cronologico che ha come primo terminus post quem il passaggio dai 10 ai 12 mesi del calendario numano e dunque la fine dell’VIII secolo a.C. Più prossimo e circostanziato sarebbe il dato che lo porrebbe a sua volta posteriore alle feriae stativae del calendario di 10 mesi della Tabula Capuana, con il quale il Fegato condivide l’eccezionale rilevanza data alle ricorrenze delle feriae di Letham. La datazione della Tabula al 470 a.C. porrebbe in questo caso la formazione del calendario rappresentato sul bronzo piacentino oltre la fine del V secolo, terminus che sarebbe per altro coerente con la prima formalizzazione dei principi di geometria gno-
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5.1 Un calendario liturgico, tra VII e IV secolo a.C.
monica del secolo successivo1. Ugualmente convergenti sugli anni a cavallo del secolo, e in parallelo con l’evoluzione calendariale in ambiente italico, sono le ipotesi di datazione delle parti più antiche della stratificata redazione dei due principali libri dell’Enoc etiopico da noi analizzati nel precedente volume: il Libro di Astronomia e il Libro dei Vigilanti. Milik fa conseguire il secondo al primo, per l’importanza che la soluzione del problema astronomico del calendario avrebbe avuto per questa corrente apocalittica del giudaismo, e indica il III secolo a.C. come termine ultimo cui assegnare gli scritti del Libro di Astronomia, datazione questa che si porrebbe in linea con le parti più antiche dei manoscritti di Qumran. Di diversa opinione è Paolo Sacchi, che anticipa tale termine di più di un secolo, ritendo probabile una loro redazione in età anteriore al 400 a.C2. Se il confronto con il Libro di En0c sembra indirizzarci nuovamente su una sua elaborazione strumentale non di molto anteriore al IV secolo a.C., resta il fatto che tali considerazioni sarebbero in ogni caso fuorvianti se non si riconducesse il significato generale del suo contenuto al contesto storico entro cui si inquadra la più antica matrice concettuale che è alla base della sua funzione. In quanto unicum, che non presenta confronti materiali in nessun altro contesto, né geografico né culturale, la sua elaborazione teorica ha radici profondissime nel contenuto della tavola-fegato della tradizione sapienzale di Enmeduranki, quale modello simbolico e stilizzato dello stesso fegato di Tiāmat, ed è su questa matrice concettuale che vi troviamo sovrapposte, in forma del tutto accessoria e strumentale, le funzioni per il calcolo delle fasi cicliche del tempo. La straordinarietà degli elementi dedotti dalla sua decifrazione è inoltre nella chiara
1 Per la datazione della Tabula Capuana al 470 a.C. si vedano le considerazioni in CRISTOFANI 1995, pp. 102-118. 2 Per la discussione sulla datazione dell’Enoc etiopico si veda SACCHI 1993, vol. I, pp. 26-29. Nella sezione più antica del Libro dei Vigilanti egli osserva l’influsso di una tradizione Jahvista non ancora fusa con il sacerdotale: “Poiché la redazione finale delle fonti avvenne in Babilonia, da dove venne importata in Palestina solo da Ezra (circa 400 a.C.) , ne consegue che il 400 a.C. deve essere considerato un terminus ante quem, almeno per LV1”: cfr. SACCHI 1993, vol. I, p. 28. Si anticipa qui il terminus prima assegnato da Milik al III secolo a.C. per coerenza con la datazione alta di parti dei testi qumranici: MILIK 1976, P. 8; MILIK 1978 = J.T. Milik, “Ecrits préesseniens de Qumran: d’Hénoch à Amram”, in “Qumrân, sa piété, sa théologie et son milieu”, Parigi, 1978, pp. 91-106. Al Libro di Astronomia andrebbe attribuita una redazione ancora anteriore e questo sarebbe coerente con la totale assenza nel testo di riferimenti alla gnomonica.
Cap. V – Epatomanzia in Italia, tra VII e IV secolo a.C.
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relazione che si viene ora a stabilire tra le parti del Fegato e la misura dell’anno, dove questa viene scandita da nomi di divinità e dai settori entro cui essi hanno sede. Il principale possibile suo confronto resta dunque l’elenco della frammentaria tavoletta del periodo seleucide di Warka-Uruk, la cui compilazione è posteriore al 312 a.C., ma il cui contenuto rimanda all’analoga lista dei mesi e delle relative costellazioni descritta nella Tavola I del MUL.APIN. In quel documento le parti del fegato venivano associate al mese e al nome della relativa costellazione zodiacale e questo potrebbe far pensare che le doppie abbreviazioni in lingua etrusca, che sono contenute nei diversi settori del nostro modello, possano in parte riferirsi ad un principio descrittivo del tutto simile. Inoltre l’espressione dei mesi in numerazione ordinale, con inizio dell’anno in Ariete e dunque all’equinozio di primavera, la ritroviamo nel MUL.APIN ed è la stessa che abbiamo visto essere descritta dal sistema di codifica dei mesi della prima parte del Libro dell’Astronomia di Enoc (vd. fig. 2). Un sistema del tutto simile è ora ugualmente indicato per i nomi dei mesi del più antico substrato dei calendari italici e questo è documentato da quella memoria dei numeri ordinali che è già contenuta nei mesi di Quintilis, Sextilis, September, October, November e December del calendario romuleo. L’insieme di queste considerazioni rimanda, in sostanza, a quanto già avevamo ipotizzato dover essere il contenuto della tavola-fegato della tradizione sapienzale di Enmeduranki. Da questo consegue che, al di là degli aspetti puramente strumentali che riconducono al calcolo di un calendario liturgico rituale e alla sua possibile datazione, la vera funzione che lega i diversi settori del Fegato al Sole, alla Luna e alla misura del tempo, resta la necessità di tradurre in forma sintetica e coniugata alla lingua etrusca una summa dottrinale direttamente derivata dai miti cosmogonici della più antica tradizione religiosa mesopotamica sull’origine del Mondo. Dunque, per quanto detto, si tratterebbe di una copia immaginaria di quella “Tavoletta degli Dèi” che fu il mezzo per la trasmissione iniziatica delle leggi che governano i Grandi Misteri del Cosmo, concettualmente ben lontana dagli sviluppi di età ellenistica dell’epato-apotelesmatika, disciplina, questa, entro cui si studiano le configurazioni celesti che influiscono sullo stato fisico dell’organo. Come si disse, i due procedimenti sono da considerarsi l’uno l’opposto dell’altro e mentre nel-
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5.1 Il Vicino Oriente e i modelli epatoscopici etruschi
l’epato-apotelesmatika siamo in presenza di una commistione tra dottrina epatoscopica e credo astrologico – ancora orientata all’autopsia di un fegato reale così come veniva estratto dalla vittima sacrificale – nel nostro caso tutto porta a pensare che ci si debba riferire ad una riproduzione del fegato non di tipo anatomico, ma concettuale, ovvero ad un modello simbolico e stilizzato dello stesso fegato di Tiāmat.
5.1 Il Vicino Oriente e i modelli epatoscopici etruschi Se dunque il problema del calendario rimanda a nuove e straordinarie prospettive di ricerca che dovranno comunque essere oggetto in futuro di ulteriori e specifici approfondimenti, i temi trattati – che vanno dalla datazione del bronzo piacentino, al suo luogo di rinvenimento fino alla chiave interpretativa che lo collega alla mitologia profonda della religione babilonese – trovano la loro quadratura nella risposta che, in conclusione, è necessario dare alla più ovvia delle domande. Per quali ragioni una riproduzione concettuale del fegato di Tiāmat, che non ha eguali riscontri in alcun altro luogo del Vicino Oriente antico, è stata concepita e realizzata proprio in Italia e qui tradotta nella lingua etrusca? La domanda ha evidentemente implicazioni rilevanti su un’ampio spettro di problematiche, che intervengono nell’annoso dibattito del presunto apporto diretto che le tradizioni religiose del Vicino Oriente avrebbero avuto nella composizione stessa di quelle prime manifestazioni ideologiche e religiose, che hanno caratterizzato la formazione dell’ethnos etrusco di fase “orientalizzante”. Rispetto a tutta una serie di convinzioni oramai consolidate su questo tema, ora sappiamo che buona parte di queste, e in particolare quelle relative ai fondamenti concettuali della religione etrusca, poggiavano su una errata interpretazione del contenuto del nostro modello, avendo dimostrato che ciò che in esso vi è rappresentato nulla ha a che fare con la dottrina epatoscopica intesa in senso tradizionale, né tantomeno con l’interpretazione comunemente accettata che al suo interno vi fossero indicate le 16 regioni del cielo del Templum fulgurale descritto nel trattato di Marziano Capella.
Cap. V – Epatomanzia in Italia, tra VII e IV secolo a.C.
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Si è inoltre osservato come una preconcetta impostazione degli studi avesse fin da subito condizionato la possibilità di giungere ad una più precisa attribuzione del Fegato piacentino ad un contesto ideologico di diretta ascendenza orientale, e da tale errato presupposto è derivata una sostanziale sua marginalizzazione rispetto agli studi sul fenomeno dell’“orientalizzante” in area tirrenica e padana3. Ciò che risulta invece ora dalla sua decifrazione è che i presupposti che ne sembrano avere ispirato l’ideazione sono fattori che nell’interpretazione di quel fenomeno potrebbero rivelarsi elementi fondanti e sostanziali. Tanto sostanziali da mettere in dubbio che la realizzazione di un oggetto di tale portata concettuale possa essere frettolosamente archiviata sull’idea di una fase etrusca “orientalizzante” quale fenomeno di costume unicamente veicolato da àristoi locali e concretizzato dall’arrivo di artisti e artigiani orientali4. La composizione di un manufatto di tale significato e stratificata complessità dottrinale, soggetto per altro a rigide prescrizioni di natura iniziatica, non può essere stato concepito né tradotto nella lingua etrusca dall’intelletto di un semplice artigiano, ma piuttosto dall’esercizio sacerdotale di un aruspice o barū, figlio di barū, presente e attivo sul suolo italico. Il richiamo è dunque alle numerose ipotesi che nel corso del ‘900 hanno marcato la discussione sull’etnogenesi della cultura “etrusca”, tema che nel secondo dopoguerra ha progressivamente radicalizzato l’orientamento degli studi italiani di Antichità Italiche su una tesi di totale autocnonia che ha di fatto portato ad una sottostima della palmare evidenza di talune testimonianze archeologiche che avrebbero potuto indicare soluzioni del tutto diverse. La tesi di un’evoluzione locale dell’ethnos etrusco, permeata da ampi e perduranti contatti con le culture della Grecia e del Vicino Oriente, non può infatti oggi escludere la possibilità che nel corso del IX-VIII
3 Significativa è la mancanza di ogni riferimento al Fegato di Piacenza all’interno della prima mostra sull’”orientalizzante” nell’Etruria tirrenica e padana tenutasi a Bologna nel 2000. Lo stesso dicasi per l’assenza di un inquadramento sulle relazioni tra epatoscopia etrusca, greca e orientale all’interno dei testi presenti nel relativo catalogo “Principi Etruschi tra Mediterraneo ed Europa”, Venezia, 2000. 4 Vedi lo stato dell’arte su tale ipotesi in COLONNA 2000 = G. Colonna, “La cultura orientalizzante in Etruria”, in “Principi Etruschi tra Mediterraneo ed Europa”, Venezia, 2000, pp. 55-65.
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5.1 Il Vicino Oriente e i modelli epatoscopici etruschi
secolo a.C. tale contatto si sia concretizzato in un vero e proprio esodo sulle coste medio tirreniche e sui territori del basso corso del Tevere, afferenti ai centri di Tarquinia e di Cerveteri, di famiglie di alto rango e di personalità di spicco di provenienza orientale. Questi avrebbero introdotto una radicale trasformazione nelle consuetudini di vita delle popolazioni locali5 e i dati archeologici indicano che tali trasformazioni non si sarebbero limitate alle sole manifestazioni di status derivate dal possesso di beni materiali6, ma incisero profondamente su quel corpus dottrinale che caratterizzò le manifestazioni cultuali e religiose di Etruschi e Latini7. La nuova interpretazione data ora al contenuto del Fegato di Piacenza fa sì che il tema dell’introduzione in Etruria di tecniche divinatorie legate all’antica disciplina orientale dell’extispicina non possa più essere inquadrato sul solo esercizio materiale della dottrina epatoscopica, ma debba riferirsi ad una più complessa costruzione ideologica e concettuale sulla natura del Tempo. È dunque materia che rimanda a quel complesso corpo di evidenze archeologiche che trovano ora, nell’introduzione in Etruria dell’epatomanzia, la prova di un diretto contatto dei popoli italici con le dottrine religiose del Vicino Oriente, e non, come più cautamente venne sostenuto in passato, quale conseguenza indiretta di un “movimento
5 Si vedano, tra tutte, le considerazioni di MAGNESS 2001 = J. Magness, “A Near Eastern Ethnic Element Among the Etruscan Elite?”, in “Etruscan Studies - Journal of the Etruscan Foundation”, vol. 8, article 4, pp. 79-117. 6 “The archaeological evidence indicates that during the seventh century, small groups of Near Eastern immigrants (perhaps from different parts of the Near East) settled in southern Etruria and were assimilated with the local population. These immigrants should not be confused with Near Eastern craftspeople who probably also immigrated to Etruria at this time. In contrast to the Near Eastern craftspeople, these immigrants became members of the elite in Etruria, as attested by certain features of seventh century tombs and burial customs”, cfr. MAGNESS 2001, p. 80. 7 Significative, in tal senso, le considerazioni di Ingrid Krauskopf sulla genesi dell’iconografia del dio solare nell’Etruria arcaica, in cui l’immagine antropomorfa di Usil, alato e radiato, appare mutuata proprio dall’iconografia neoassira del dio solare Šamas; vd. KRAUSKOPF 1991 = I. Krauskopf, “Ex Oriente Sol, Zu den orientalischen Wurzeln der etruskischen Sonnenikonographie”, Archeologia Classica 43, 1991, (Miscellanea etrusca e italica in onore di Massimo Pallottino), 1261-3; KRAUSKOPF 1997 = I. Krauskopf, "Influences grecques et orientales sur les representations de dieux etrusques", in “Les Etrusques, lesplus religieux des hommes: etat de la recherche sur la religion etrusque”, Actes du colloque international Grand Palais 17-19. 11.1992, Paris, 1997, pp. 25-36; SANNIBALE 2008 = M. Sannibale, “La raccolta Giacinto Guglielmi - Parte II. Bronzi e materiali vari”, Roma, 2008.
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di irradiazione dell’epatoscopia babilonese nel mondo mediterraneo” 8. Lo stesso Maggiani, trattando del Fegato piacentino, lamentava il pericolo, da parte di chi ne aveva tentata la decifrazione, di un insufficiente e cauto accostamento tra le due tradizioni, sottolineando l’importanza di un approccio più diretto con le evidenze oggettive del monumento: “Alla ricerca di esatte corrispondenze tra dottrina Etrusca riflessa nel fegato e dottrina babilonese, si è spesso trascurato l’approfondimento dell’osservazione del monumento originale; pertanto fino ad oggi è sfuggito quello che mi pare l’elemento di maggiore importanza nella precisazione dei rapporti di affinità o parentela tra i due sistemi” 9. Egli si riferiva alle importanti osservazioni che Jean Nougayrol aveva rivolto ad un modello fittile di fegato proveniente da Falerii Veteres, modello che egli aveva visto per la prima volta esposto alla mostra etrusca di Parigi del 1955, insieme al più conosciuto Fegato di Piacenza. Sulla superficie di questo straordinario reperto, unica altra rappresentazione di un fegato divinatorio rinvenuta in Italia, lo studioso aveva riconosciuto sul lobo sinistro due segni ortogonali che egli agevolmente confrontò con gli eguali segni che risultavano essere sempre attestati sui fegati divinatori assiro-babilonesi: il processus reticularis e l’impressio abomasalis, rispettivamente indicati, nella nomenclatura tecnica in lingua accadica, con i termini di manzāzu e padānu10 (vedi fig. 52, A-B, in alto). Nougayrol non si era però reso conto del fatto che gli stessi segni erano presenti anche, in posizione del tutto analoga, sul lobo sinistro del bronzo piacentino: il primo nella piccola lunula cerchiata che stava al centro della ruota raggiata (vedi fig. 52, A, in basso) e il secondo all’estremità del settore della ruota che conteneva il nome leθa (vedi fig. 52, B, in basso). Nessuno dei commentatori precedenti ne aveva allo stesso modo riconosciuto l’esistenza, perché i due segni risultavano confusi all’interno della complessa trama di iscrizioni presenti sulla sua superficie e lo stesso segno del padānu era stato assimilato ad un segno alfabetico terminale della parola leθa, e dunque
8 Cfr. FURLANI 1928, p. 244; GANDINI 2000, pp. 102-103. 9 MAGGIANI 1984, p. 74. 10 NOUGAyROL 1955 = M. J. Nougayrol, “Les rapports des haruspicines étrusque et assyro-babilonienne, et le foie d'argille de Falerii Veteres (Villa Giulia 3786)", in "Comptes Rendus de l'Académie des Inscriptions et belles Lettres", Paris, 1955, pp. 509-519.
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A
B
A
B
Fig. 52 – In alto, il modello fittile di fegato proveniente da Falerii Veteris. In evidenza i due segni ortogonali del manzāzu (A) e del padānu (B). In basso, il confronto con i due analoghi segni presenti sulla superficie del Fegato di Piacenza: il manzāzu (A), al centro della ruota raggiata, ed il padānu (B) all’interno della casella contrassegnata dalla parola letha.
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ad una consolidata traduzione in leθms. Solo la rilettura del leθms della ruota raggiata in leθa, che era conseguente alla rivisitazione del contenuto epigrafico operata da Maggiani nel 1984, consentiva ora, per la prima volta, di riconoscere due evidenze grafiche che non appartenevano in alcun modo alla lingua etrusca, ma che risultavano essere sempre presenti nei fegati divinatori di area orientale: “Con la nuova lettura che della parola abbiamo proposto (leθa), appare ora con palmare evidenza la possibilità di un confronto diretto, puntuale e perciò tanto più interessante e decisivo, con il modello di Falerii. Evidente infatti appare il segno arcuato, inciso con tratto più profondo parallelamente al contorno del lobo sinistro, da identificare perciò con il padānu dei fegati orientali (...) per cui acquista nuovo significato anche la lunula incisa entro il cerchiello che marca il centro della figura a forma di ruota. Perfetta è la coincidenza con il fegato di Falerii e ancora una volta con quelli orientali (...) e puntuale l’identificazione con il manzāzu” 11. Se dunque poco o nulla di definitivo era stato ipotizzato, fino a quel momento, sulla enigmatica presenza sul retro del fegato piacentino dei nomi del Sole e della Luna – ed anzi, come abbiamo visto, la cosa era stata per lo più sottaciuta – ora il riconoscimento sulla sua superficie di questi due segni avrebbe potuto indicare una via interpretativa del bronzo del tutto diversa rispetto alle strade che erano state precedentemente percorse. Ma se “nemmeno dopo l’articolo di Nougayrol, che aveva dimostrato come il contatto tra le due tradizioni potesse essere avvenuto in qualunque momento nel corso del primo millennio, questo fondamentale riconoscimento fu opportunamente valorizzato” 12, lo stesso sarà per la sottostima che nei trent’anni successivi caratterizzerà l’opinione degli etruscologi rispetto a queste importantissime evidenze, la cui presenza avrebbe potuto dimostrare la diretta discendenza di entrambi gli esemplari dagli omologhi modelli della tradizione religiosa del Vicino Oriente13.
11 Cfr. MAGGIANI 1984, p. 74-75. 12 Ibid., p. 74. 13 Primo fra tutti ad essere contrario alla possibilità di un confronto VAN DER MEER 1987 = L.B. Van Der Meer, “The Bronze Liver of Piacenza, Analysis of Polytheistic Structure”, Amsterdam, 1987, p. 153, pp. 163-164.
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Diversa è ovviamente la prospettiva che si apre ora rispetto alle conclusioni cui siamo giunti, perché la presenza all’interno del bronzo piacentino del manzāzu e del padānu, se coniugata con quanto abbiamo dimostrato dover essere il substrato concettuale che ne ha ispirato l’elaborazione, avrà ricadute straordinarie sulla possibilità di comprenderne il significato che, già in antico, venne loro attribuito. Se su questo importantissimo punto torneremo nel capitolo conclusivo, preme qui sottolineare come l’osservazione di Jean Nougayrol avesse palesato la possibilità di operare un primo confronto tra i modelli di fegato italiani e i modelli simili elaborati all’interno di quella comune tradizione dottrinale che si era sviluppata in area mesopotamica nel corso di più un millennio. L’analisi del contesto archeologico e geografico che ne delinea la diffusione su ampia scala, costituisce, già di per sé, un elemento decisivo che permette di inquadrare una facies culturale di loro elaborazione sul suolo italico che porta ad escludere categoricamente ogni possibile ipotesi di mediazione culturale con il mondo greco14. Ancora nel 2012, Mary Bachvarova ha osservato che nella casistica archeologica di tutte le riproduzioni epatiche fino ad oggi rinvenute, solo le due italiane provengono dall’area mediterranea, mentre nessuna dalla Grecia15. La realizzazione in bronzo del più recente modello di Piacenza resta un unicum, mentre fegati in terracotta, come quello di Falerii Veteres, provengono da almeno quattordici siti del Vicino Oriente, concentrati soprattutto nella Siria settentrionale e nella capitale ittita Hattusa. I 32 modelli trovati a Mari16, sono i più antichi (Età del Bronzo Medio, circa il 1875 a.C.) e sono iscritti con singoli responsi oracolari relativi a particolari avvenimenti, dove l’aspetto del presagio e del pronostico è sottolineato, di caso in caso, per mezzo di una formula significativa. Altri esemplari, provenienti da Babilonia, si datano al primo millen-
14 L’influenza greco ellenistica sul presunto contenuto di natura astrologica del Fegato di Piacenza è stata sostenuta dai più, non ultimo MAGGIANI 1984, p. 87, che concorda con Weinstock. In generale vd. BLOCH 1986. 15 BACHVAROVA 2012 = M.R. Bachvarova, “The Transmission of Liver Divination from East to West”, in “Studi Micenei ed Egeo-Anatolici”, vol. 54, vd. pp. 148-149. 16 Per i modelli di Mari si veda in particolare: MEyER 1987 = J.W. Meyer, “Untersuchungen zu den Tonlebermodellen aus dem Alten Orient”, in “Alter Orient und Altes Testament”, 39. Kevelaer and Neukirchen-Vluyn, pp. 190-210.
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nio, e sono grandi fegati d’argilla che si presentano come veri e propri atlanti della geografia epatoscopica, in cui ogni parte è delimitata e commentata nel suo valore di predizione. Così è per il cosiddetto "fegato di orientazione" babilonese BM 5049417, diviso in molte piccole zone e completamente coperto di iscrizioni, e così è per KAR 444 da Assur, non precisamente un modello di fegato, ma un suo disegno con iscrizioni su un lato della tavoletta e con il disegno di un polmone sull'altro lato. Per quanto riguarda invece i modelli di fegato non iscritti, ma con segni che ne evidenziano talune parti ominose, come è appunto il caso del modello di Falerii, questi si datano all'età del bronzo e provengono per lo più da Ebla, Hazor, Megiddo, Mumbaqat, Tell el-Hajj e Ugarit18. In assenza di una più approfondita disamina del problema da parte degli studiosi di antichità italiche, a più riprese gli specialisti del Vicino Oriente antico si sono dunque spinti a formulare ipotesi sui possibili momenti di contatto tra la più antica e documentata tradizione epatoscopica orientale e quella greca ed etrusca, sempre e comunque sottolinendone la comune origine. Per primo Burkert ha sostenuto la diretta influenza di individui carismatici, o “divinatori itineranti”19 che dalla Mesopotamia avrebbero introdotto tecniche rituali e pratiche magico-religiose legate all’extispicina sulle coste greche del Mediterraneo nel periodo orientalizzante (750-650 a.C.). Per il caso del fegato bronzeo rinvenuto in Italia, non essendo per
17 Vd. NOUGAyROL 1968 = M.J. Nougayrol, "Le foie «d'orientation» BM 50494", in “Revue d'Assyriologie”, n. 62, pp. 31-50. 18 Per una disamina sulla casistica generale dei rinvenimenti si veda ora RUTz 2014 = M. Rutz, “The Archaeology of Mesopotamian Extispicy: Modeling Divination in the Old Babylonian Period”, in “Archaeologies of Text - Archaeology, Technology and Ethics”, Oxford and Philadelphia, 2014, pp. 97-119. 19 BURKERT 1983 = W. Burkert, "Itinerant diviners and magicians: A neglected element in cultural contacts" , in “The Greek Renaissance of the Eighth Century B.C.: Tradition and Innovation”, Proceedings of the Second International Symposium at the Swedish Institute in Athens, 5 June, 1981, 4°, 30, Stockholm, 1983, pp. 115-119: "The spread of hepatoscopy is one of the clearest examples of cultural contact in the orientalizing period. It must have been a case of East-West understanding on a relatively high, technical level. The mobility of migrant charismatics is the natural prerequisite for this diffusion, the international role of soughl-afler specialists, who were, as far as their art was concerned, nevertheless bound to their father-teachers. We cannot expect to find many archaeologically identifiable traces of such people, other than some exceptional instances"; cfr. BURKERT 1992 = W. Burkert, “The Orientalizing Revolution. Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Period”, Cambridge Harvard University Press, 1992, p. 51.
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altro venuto a conoscenza dell’esistenza del modello fittile di Falerii Veteres, ne ipotizza un collegamento diretto con i modelli mesopotamici del secondo millennio. Diversamente, Meyer, allineandosi con le conclusioni di Maggiani, attribuisce al bronzo piacentino una stratificazione dottrinale da assegnarsi all’età tardo ellenistica, spostando al contrario sul fegato di Falerii la datazione più antica, in quanto più simile ai modelli non iscritti di area siriaca20. In ultimo, la Bachvarova, riprendendo le osservazioni di Meyer, ipotizza tre distinti percorsi di trasmissione dall’oriente verso occidente, uno per la Grecia e due per l'Italia. Del più antico sarebbe testimonianza il modello di Falerii, e riguarderebbe la massiccia migrazione dall’Anatolia all'Italia menzionata da Erodoto, da attribuirsi alla fine del secondo millennio a.C. Un secondo percorso avrebbe raggiunto la Grecia tra il 750 e il 530 a.C., attraverso l'Anatolia sud-orientale e/o Cipro, probabilmente per mezzo di un contatto militare. Infine in un terzo passaggio, l'epatoscopia etrusca, già ibridata da influssi greci, sarebbe stata nuovamente influenzata in età ellenistica dalle pratiche dei veggenti caldei e a questa fase andrebbe attribuita la stratificazione dottrinaria del modello bronzeo rinvenuto a Piacenza21. La stessa Bachvarova ammette però, in conclusione, la difficoltà di formulare ipotesi credibili sulla base dei soli elementi di confronto tipologico tra i reperti, in quanto le diverse tradizioni epatoscopiche si sarebbero poi ibridate su percorsi evolutivi localmente differenziati. Si tratta in tutti i casi di analisi che appaiono alquanto astratte rispetto ai dati che caratterizzano il contesto archeologico di rinvenimento dei due esemplari italiani, da cui ne è derivata una certa tendenza a sovrastimare l’antichità del modello di Falerii sulla datazione dei modelli orientali, e, al contempo, ad allineare verso l’alto
20 Vd. MEyER 1985 = J.W. Meyer, "Zur Herkunft der etruskischen Lebermodelle", in “Studia Phoenicia”, n.3, pp. 105-120; MEyER 1985, pp. 107-110. 21 “I will argue instead that we can distinguish three routes of transmission, one to Greece, two to Italy, for the practice of liver divination, each with a different mechanism. One possibly extended from Anatolia to Italy at the turn of the second millennium BCE, as part of a migratory event. This one lies behind the Falerii liver model. Another reached Greece between 750 and 530 BCE via southeast Anatolia and/or Cyprus, probably through military contact. In a third phase during the Hellenistic period, Etruscan hepatoscopy was influenced by the practices of Chaldean seers, as shown by the Piacenza model”; cfr. BACHVAROVA 2012, pp. 143-144.
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la datazione dell’unicum piacentino sulle ipotetiche conclusioni cui erano giunti gli etruscologi sulla base delle sole risultanze di natura paleografica22. Più attenta ai contesti archeologici entro cui si manifestava un’influenza diretta di esclusiva matrice vicino-orientale, presso i centri tirrenici dell’Alto Lazio e del basso corso del Tevere, Jodi Magness riprende le ipotesi sostenute in ultimo da Burkert e circoscrive più opportunamente a tale areale, e a non prima dell’VIII secolo a.C., l’eventualità di un contatto diretto con una “scuola di epatoscopia babilonese”23. A sostegno di questa ipotesi, va osservato che l’intero corpo delle evidenze archeologiche che testimoniano l’avvenuta introduzione in Etruria di culti misterico-catactonici riferibili alla pratica dell’aruspicina, è documentata, oltre che dai nostri due esemplari di fegato e da quello riprodotto sull’urna volterrana di Aule Lecu, dai contesti iconografici che ruotano intorno ai tre specchi provenienti da Vulci, Tuscania e Orvieto, di cui già abbiamo trattato nel precedente volume (cap. 2.2, pp. 57-62). La loro datazione non si abbassa oltre il IV secolo a.C., ma resta indicativo che l’areale di loro diffusione risulti ancora circoscritto a centri dell’entroterra alto-laziale su cui è riconosciuta una progres-
22 La datazione del Fegato di Piacenza oggi comunemente accettata, se pure non certa, è quella sostenuta in ultimo da Maggiani, MAGGIANI 1984, p. 81-84. Considerazioni generali sulla paleografia dei nomi condurrebbero, secondo lo studioso, alla seconda metà del III secolo a.C., ma la presenza di alcune specificità tarde, tra cui la m in forma semplificata e l’uso della sola s per le sibilanti, lo inducono, in ultimo, a spostare tale datazione alla fine del II o alla prima metà del I secolo a.C. 23 “Evidence for Near Eastern ethnic presence in Etruria is most strongly suggested by certain cultural features. For example, the Etruscan system of divination has clear affinities with ancient Mesopotamian religious practices. The Etruscans, like many Near Eastern peoples, such as the Babylonians, interpreted the livers of sacrificed animals and the omens of thunder and lightening. Parallels to Etruscan terracotta liver models come from Mesopotamia, Anatolia, Syria, Palestine, and Cyprus. Although the earliest Etruscan liver models discovered to date are Hellenistic (third to second centuries), Burkert has demonstrated that the internal tradition of the disciplinae Etruscae must go back to the seventh century. According to Burkert, the remarkably close similarities between Etruscan and Near Eastern hepatoscopy or haruspicina (liver inspection) “can best be explained as the transmission of a ‘school’ from Babylon to Etruria.” These similarities include the fact that both the Assyrian and Etruscan liver models diverge from nature in a similar way, which means they are derived not directly from observation but from a common tradition. Burkert concluded that, “The spread of hepatoscopy is one of the clearest examples of cultural contact in the orientalizing period,” and he attributed this diffusion to “migrant charismatics.” He also noted that Greek divination has a more visual-associative basis, whereas the “almost scholarly ballast” of the disciplinae Etruscae preserves more of its eastern origins”; cfr. MAGNESS 2001, p. 81.
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Piacenza
Adria
Mantova
6
Sant’Ilario d’Enza Rubiera Bologna
Spina
Marzabotto Prato Pisa
5 Volterra
Orvieto
4 Vulci
Tuscania
3 2
Tarquinia Cerveteri
Civita
1 Castellana Roma
Fig. 53 – Distribuzione delle evidenze archeologiche ed iconografiche che documentano la pratica dell’epatoscopia in Italia. Con circoletto i tre specchi contenenti scene di extispicio provenienti dai territori di Vulci (n.3), Tuscania (n.2) ed Orvieto (n.4). Con triangolo, i tre modelli epatoscopici da Civita Castellana (n.1), Volterra (n.5) e Piacenza (n.6). I luoghi indicati sono solo quelli citati nel testo.
Cap. V – Epatomanzia in Italia, tra VII e IV secolo a.C.
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siva influenza dei caratteri del primo “orientalizzante” di matrice vicino-orientale che, sul finire dell’VIII secolo a.C. è espressione della vertiginosa ascesa dei centri di Tarquinia e Cerveteri. È forse in ragione del luogo entro cui può essere avvenuto un primo contatto con i culti misterici del Vicino Oriente, che Tarquinia è resa sede mitografica del racconto sulla rivelazione dei grandi segreti dell’aruspicina da parte di Tagete, Genio fuoriuscito dalla terra al cui cospetto una consolidata tradizione pone lo stesso Tarconte, eponimo fondatore della città24. Intorno al contenuto dottrinale dei Libri Tagetici, da lui dettato ai dodici lucumoni accorsi in quel luogo25, si comporrà l’ethnos dei popoli della nascente federazione a cui le fonti classiche attribuiranno la nascita stessa della “nazione” etrusca26. È su queste basi che il ristretto areale di diffusione di scene di extispicio su specchio sembra ricondurre ad un fenomeno di trasmissione mitografica del racconto di Tagete in luoghi che furono attraversati da vie di collegamento tra i centri di Tarquinia e di Orvieto (vd. fig. 53, nn. 3, 2, 4), ove, non a caso, in quest’ultimo si è oggi portati a riconoscere la sede del Fanum Voltumnae, santuario federale delle lucumonie etrusche27. Acquista così un più esplicito significato il contenuto dello specchio di Tuscania, ove alla scena di extispicio si trovano associati appunto i nomi di Tarchunus e di Vertumnus, figura, quest’ultima, che di quel
24 LIDO, De ost., II ss; STRAB, Geo., v, II, 219. Su Tarquinia-Tarconte e sulla tesi di un diretto contatto tra l’extispicina etrusca e le dottrine epatoscopiche del Vicino Oriente, si veda PALMUCCI 2001 = A. Palmucci, “La figura di Tarconte: un ponte mitostorico fra Tarquinia e Troia”, in “Anatolisch und Indogermanisch”, Acten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft, Pavia 22-25 Settembre 1998, Innsbruck, 2001, pp. 341-353; PALMUCCI 2010 = A. Palmucci, ”Aruspicina etrusca ed orientale”, Roma, 2010. 25 “Tages nomine Genii filius, nepos Iovis, puer dicitur disciplinam aruspicii dedisse duodecim populis Etruriae”, cfr. VER. FLAC., De verborum significatione, s.v. Tages. 26 CIC., De Div., II, 50; OVID., Metam., XV, 553-559; COLUM., De rust., X, 344-347; CENS., De die nat., IV, 13; ARN., Adv., II, 69; AMM., Rerum gest., XVII, 10,2, VIII, 9; 34-45. 27 Sull’attribuzione del santuario di Campo della Fiera di Orvieto al Fanum Voltumnae si veda DELLA FINA 2012 = G.M. Della Fina, “Il Fanum Voltumnae e i santuari comunitari dell'Italia antica”, Annali della Fondazione per il Museo “Claudio Faina”, vol. XIX, Orvieto, 2012. Sui collegamenti con Bolsena e con l’agro tarquinense vd. DELLA FINA 2003 = G. Della Fina (a cura di), “Tra Orvieto e Vulci”, Atti X Conv. Int. di Studi sulla Storia e l’Arch. dell’Etruria, Anna Faina, X, 2003; DELLA FINA, PELLEGRINI 2013 = G.M. Della Fina, M. Pellegrini (a cura di), “Da Orvieto a Bolsena: un percorso tra etruschi e romani”, Pisa, 2013.
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santuario fu divinità tutelare28. Rispetto al canone iconografico dell’extipicio, entro cui si compongono contesti figurativi volti ad una rappresentazione dell’epatoscopia intesa in senso tradizionale, il più concreto, anche se ugualmente esiguo, contesto materiale dei nostri due modelli di fegato è dunque il solo che può fornire indicazioni utili sui tempi e sui luoghi entro cui può essere avvenuto un diretto contatto con le dottrine dell’epatomanzia orientale, oltre che sugli eventuali sviluppi autonomi che tale disciplina può avere avuto sul suolo italico.
5.2 Il Fegato di Piacenza e l’Etruria padana L’areale interessato presenta, in questo caso, una dinamica distributiva del tutto diversa, distendendosi sulla massima espansione verso nord dell’influenza etrusca sulla penisola: dall’area medio-alto tirrenica fino alle sponde nord adriatiche della padana; dal basso corso del Tevere fino alle rive del Po. Il dato, se pure non numericamente rappresentativo e del tutto parziale, è comunque sottolineato dal sostanziale diacronismo in senso sud-nord della loro localizzazione, che sembra muoversi da un più antico centro di emanazione in agro falisco, indicato appunto dal più elementare modello anatomico di Falerii, (fig. 53, n. 1), fino all’estremità alto padana del più evoluto modello iscritto del bronzo piacentino (fig. 53, n. 6), passando per quell’unico altro esemplare che compare a Volterra sull’urna dell’aruspice Aule Lecu (fig. 53, n. 5). Se per quest’ultimo il II secolo a.C. si pone come terminus ante quem della copia di fegato che è rappresentata tra le sue mani, le datazioni fino ad oggi attribuite agli altri due modelli inquadrerebbero l’estensione temporale di una loro possibile diffusione da sud a nord, che muoverebbe dalla fine del IV secolo a.C. del fegato di Falerii, ai primi anni del I secolo a.C. del Fegato di Piacenza, con una forbice che ap-
28 CRISTOFANI 1985 = M. Cristofani, “Il cosidetto specchio di Tarchon: un recupero e una nuova lettura”, in "Prospettiva", n. 41, 1985. Per la figura di Vertumnus vd. VAR., De ling. lat., V, 46; PROP., Eleg., IV, 2; OVID., Metam., XIV, 643, OVID., Fasti, VI, 410. Su Tarchunus e Vertumnus dello specchio di Tuscania vd. PALMUCCI 2010, pp. 63-64.
Cap. V – Epatomanzia in Italia, tra VII e IV secolo a.C.
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pare traslata di più di tre secoli rispetto alle fasi culminanti dell’espansione etrusca in area padana, avvenuta tra la fine dell’VII e la metà del VI secolo a.C. In realtà sull’esito di tali termini cronologici sembra avere inciso fortemente l’assenza, per entrambi i reperti, di un gruppo tipologico di confronto e i non chiari contesti archeologici che ne hanno segnato i rispettivi rinvenimenti. Questo ha condizionato in particolar modo la datazione attribuita al bronzo piacentino, dove la conclamata estraneità del suo luogo di provenienza rispetto a quella che in passato si riteneva poter essere la massima estensione settentrionale dell’Etruria Padana, ne ha determinato un’ipotesi di datazione sempre più schiacciata sulle alterne vicende della presenza romana in questo settore, conseguenti alla fondazione di Placentia e dunque posteriori alla fine del III secolo a.C. L’intensificarsi delle scoperte archeologiche, avvenute negli ultimi trent’anni nel settore dell’Emilia nord-occidentale, ha in realtà portato ad una diversa percezione di dove il limite settentrionale della sfera d’influenza dell’Etruria Padana andasse realmente posto. Oggi si tende a riconoscere che l’espansione dei centri dell’Etruria tirrenica sulla pianura Padana, di cui si hanno tracce non marcate già a partire dal IX secolo a.C., subisce una chiara accelerazione a partire dalla fine dell’VII secolo. È di questa fase la messa a punto di un piano razionale e preordinato di rapido trasferimento di risorse dalle sponde tirreniche a quelle adriatiche, attuando una strategia di utilizzo di rotte marittime, di percorsi terrestri e di vie d’acqua interne, principalmente orientata a stabilire un veloce collegamento tra le aree minerarie medio-tirreniche e le sponde alto-adriatiche degli empori di Spina e Adria29. La scoperta dell’importante emporio etrusco di Gonfienti30, presso Prato, dimostra che questo asse di collegamento poteva seguire in
29 La rapidità con cui si poteva raggiungere Spina da Pisa, attraverso questo percorso è, come noto, sottolineata dallo storico greco Scilàce di Cariànda (V sec. a.C.), che ne parla nel suo Periplo di Scilace; SCIL., 1, 17 (Pseudo Scyliax). 30 Vd. POGGESSI, DONATI, BOCCI, MILENUCCI, PAGNINI, PALLECCHI 2005 = G. Poggesi, L. Donati, E. Bocci, G. Milenucci, L. Pagnini, P. Pallecchi, “Prato-Gonfienti: un nuovo centro etrusco sulla via di Marzabotto”, in “Culti, forma urbana e artigianato a Marzabotto, Nuove prospettive di ricerca”, Atti del convegno (3-4 giugno 2003), pp. 267-300, Bologna, 2005.
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5.2 Il Fegato di Piacenza e l’Etruria Padana
un primo tempo il corso fluviale dell’Arno tra Pisa e Gonfienti stessa31, per poi valicare l’Appennino via terra fino a Marzabotto e di qui, utilizzando ancora una via fluviale lungo il corso navigabile del Reno, seguire oltre Felsina per i meandri fluviali di pianura, confluendo infine sull’antico ramo spinetico del Po. Da Felsina, fulcro dell’Etruria Padana e sede delle principali manifestazioni dell’”orientalizzante” a nord degli Appennini32, un’altra direttrice per Modena e Rubiera doveva muovere per l’area padana settentrionale, giungendo all’oltre Po di Forcello e Mantova, seguendo poi verso nord sull’asse del Mincio (vd. fig. 53). Un terzo percorso, pedeappenninico e più nord-occidentale, doveva infine muovere ancora da Felsina verso Sant’Ilario d’Enza, seguendo una direttrice che verrà ripresa quattro secoli dopo dalla via Emilia e che sottende ad un possibile arrivo sulla linea del Po in quel settore piacentino dove, a tutt’oggi, l’unica testimonianza di una qualche presenza etrusca è data appunto dal nostro modello di fegato iscritto. Si osserva in sostanza che il contesto archeologico che, a grandi linee, delinea l’area di massima influenza dell’etruria “orientalizzante” sulla pianura Padana, non sembra poter giustificare quella marginalizzazione del luogo di rinvenimento del fegato piacentino che ha portato a doverne ammettere una collocazione cronologica per forza di cose posteriore alla fondazione romana di Placentia. Presupposto, questo, che aveva di fatto portato ad escludere a priori l’ipotesi che al reperto potesse essere assegnato un suo valore intrinseco di elemento di prova della stessa presenza su quei territori di
31 Per tracce di viabilità etrusca tra Pisa e Gonfienti vd. CIAMPOLTRINI 2006 = G. Ciampoltrini (a cura di), “Glarea Stratae. Vie etrusche e romane della piana di Lucca”, Firenze, 2006. 32 Per un inquadramento generale di Felsina in età orientalizzante vd. SASSATELLI 1990 = G. Sassatelli, “La situazione in Etruria Padana”, in “Crise et transformation des sociétés archaïques de l'Italie antique au Ve siècle av. JC.”, Actes de la table ronde de Rome (1921 novembre 1987) Rome, 1990, pp. 51-100; SASSATELLI, GOVI 2013 = G. Sassatelli, E. Govi, “Etruria on the Po and the Adriatic Sea”, in “The etruscan world”, London and New york, 2013, pp. 281-300. Per l’assetto territoriale e insediativo regionale che prelude alla formazione di Felsina, tra il Bronzo Recente e la prima Età del Ferro, si veda ora SANTOCCHINI GERG 2015 = S. Santocchini Gerg, “Felsina villanoviana: ‘città visibile’. Strategie insediative tra Bronzo Finale e Primo Ferro”, in “Le città visibili. Archeologia dei processi di formazione urbana”, Atti del Seminario Internazionale, Alghero 31/01-01/02/2014, Roma, 2015, pp. 13-58.
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una componente etrusca in età anteriore33. La datazione alquanto alta data al Fegato per via paleografica sembra dunque essere stata fortemente influenzata da tali premesse, potendo altrimenti essere disattesa dal fatto che l’uso semplificato della m e del solo segno s per le sibilanti sono espedienti che potrebbero comunque costituire una singolarità nata per ovviare alla ristrettezza delle caselle entro cui compaiono i diversi nomi, in una forma, per altro, che già aveva richiesto la scrittura al loro interno di formule abbreviate scomposte su più linee34. Se consideriamo inoltre che le osservazioni fatte sull’uso strumentale dell’oggetto rendono oggi possibile considerare la non casualità del suo luogo di rinvenimento rispetto alla sua funzione, l’ipotesi di datazione agli inizi del I secolo a.C. su base epigrafica è un’eccezione che andrebbe quantomeno giustificata, in quanto osserva Malnati che “le ultime iscrizioni etrusche in val Padana risalgono all’inizio del III secolo (a Spina e a Monterenzio), mentre nell’area emiliana occidentale è ben attestato già nel II secolo a.C. l’uso del latino, anche nel caso di iscrizioni di carattere sacro” 35. L’idea che il modello piacentino non sia estraneo all’ambito padano si confronta inoltre con gli elementi del tutto nuovi che sono emersi dal suo contenuto simbolico e concettuale. Si è infatti dimostrato come alla base del suo disegno vi sia una concezione religiosa della limitatio spazio-temporale che è impostata sulla figura del Templum
33 Così HEURGON 1965 = J. Heurgon, “Note sur la lettre L dans les inscriptions etrusques”, in "Studi in onore di L.Banti", Roma, 1965, p. 184, che pensa ad una connessione dell’oggetto con le vicende militari che coinvolsero truppe sillane contro il console Papirius Carbo nell’82 a.C.; e così VAN DER MEER 1987, che pensa allo smarrimento dell’oggetto durante una delle tante circostanze militari che videro coinvolto il territorio piacentino, tra cui la disfatta del console Papirio Carbone da parte del generale Marco Emilio Lucullo dell’82 a.C., la spedizione di Pompeo contro Marco Emilio Lepido del 77 a.C., e l'ammutinamento delle legioni di Giulio Cesare stanziate a Piacenza nel 49 a.C. COLONNA 1974, p. 7, nota 19, pensa a “nuclei etruschi sopravvissuti all’occupazione gallica e integrati forse nella colonia di Piacenza”. In generale si veda MAGGIANI 1984, p. 87, nota 136. 34 Si veda MAGGIANI 1984, p. 81-84. Considerazioni generali sulla forma semplificata del segno m orienta verso la seconda metà del III secolo a.C. per l’introduzione di questa variante in area chiusina. Ma il testo presenta anche due caratteristiche grafiche singolari: il largo uso di v in luogo di u e l’uso generalizzato del solo segno s per esprimere la sibilante. Questi caratteri portano in ultimo Maggiani ad un confronto con i tipi grafici in uso sulle iscrizioni delle tombe di Asciano e ad una ipotesi di datazione alquanto alta, compresa tra la fine del II secolo a.C e la prima metà del I. 35 Cfr. MALNATI 2008 = L. Malnati, “Gli Etruschi e le stelle: il cielo degli aruspici”, in “Gli occhi della notte. Celti, Etruschi, Italici e la volta celeste”, Milano, 2008, p. 78.
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solare del luogo e questa concezione è stato dimostrato essere alla base di quel rito della contemplatio che ha ispirato la forma urbana ad assi ortogonali di una delle più importanti fondazioni dell’Etruria tirrenica a nord degli Appennini, quella cioè di Marzabotto. La recente attribuzione del suo nome etrusco in Kainua36, oggi tradotto in “città nuova”, sembra inoltre poter sottolineare un collegamento stretto del suo disegno con un nuovo ordine d’impianto dato alle rifondazioni coloniali etrusche di area campana e padana. Significativi confronti sono stati ipotizzati tra la limitatio rituale che è descritta dai cippi interrati agli incroci stradali dell’impianto di Marzabotto e i cippi omologhi che sono stati rinvenuti presso gli incroci dell’insediamento di Spina, ed eguale confronto riguarderebbe il loro schema distributivo, che, come a Kainua-Marzabotto, è riconducibile al più tardo templum augurale di Bantia e a quello analogo di IV secolo a.C. presente nel santuario di Meggiaro di Este37. Si potrebbe in sostanza ipotizzare l’esistenza di un collegamento stretto tra il rituale che venne attuato per la fondazione delle nuove città a nord degli Appennini e l’aspetto concettuale di organo che esprime i confini delle dimensioni cosmiche che è espresso dal nostro Fegato. Se questa relazione fosse confermata, la sua localizzazione sul quel margine padano settentrionale che è naturalmente disegnato dal corso del fiume Po, potrebbe allora essere posta in relazione con un rito di limitatio territoriale attuato sull’estremo confine nord della dodecapoli padana e sarebbe significativo, in tal senso, il rinvenimento, lungo la stessa direttrice pedemontana che verte su Piacenza, dei due cippi orientalizzanti di Rubiera, ai quali non è escluso poter attribuire anche una funzione di segnacoli di confine del limite raggiunto dall’Etruria Padana alla fine del VII secolo a.C.: “Anche nel caso in cui i cippi di Rubiera appartenessero effetti-
36 Una sintesi su Kainua in SASSATELLI, GOVI 2010 = G. Sassatelli, E. Govi, “Cults and foundation rites in the Etruscan city of Marzabotto”, in “Material aspects of Etruscan religion”. Proceedings of the International Colloquium (Leiden 2008), Leuven, 2010, p. 34. 37 Per la limitatio rituale del disegno urbanistico di Marzabotto vd. in particolare GOTTARELLI 2003a, pp. 135-149. Per i cippi rinvenuti agli incroci delle strade dell’impianto di Spina vd. in ultimo CORNELIO CASSAI, GIANNINI, MALNATI 2017 = C. Cornelio Cassai, S. Giannini, L. Malnati, “Spina. Scavi nell’abitato della città etrusca. 2007-2009”, Firenze, 2017, p. 8. Per lo schema distributivo dei cippi di Marzabotto nel confronto con il templum augurale di Bantia e con quello analogo presente nel santuario di Meggiaro di Este vd. GOTTARELLI 2010, pp. 53-74.
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vamente a sepolture, il loro messaggio potrebbe essere comunque letto in funzione di segnalare un confine, nel luogo dove gli Etruschi giunsero in quest'area a nord degli Appennini” 38. Sulle straordinarie motivazioni che sembrano poter sostenere questa nuova ipotesi, tratteremo tra breve nelle conclusioni di questo volume, prospettandone gli sviluppi futuri. Al momento, valga il fatto che sussistono fondate ragioni per ritenere che la forbice cronologica che separa il bronzo piacentino dal modello di Falerii Veteres potrebbe risultare traslata verso il basso su termini cronologici coerenti con l’espansione etrusca, dalle prime sedi medio-tirreniche al settore alto-padano, con un’evoluzione che sembra ugualmente muoversi da un più antico centro di emanazione in agro falisco, indicato dal più elementare modello anatomico di Falerii, fino al limite settentrionale del più evoluto modello iscritto rappresentato dal bronzo piacentino. I riferimenti presenti sul Fegato di Piacenza ad un calendario liturgico distribuito su 12 mesi e non su 10, e la contemporanea attestazione al suo interno di funzioni strumentali collegate con principi di geometria gnomonica, i cui sviluppi sono attestati nel corso del IV-III secolo a.C., sono tutti elementi che potrebbero indicare la fine del V e gli inizi del IV come possibile terminus post quem per l’elaborazione del suo contenuto concettuale. Tale termine non sarebbe dunque lontano da quel limite superiore che, nel caso si ammettesse una prima gacitura dell’oggetto coerente con il luogo di rinvenimento, verrebbe indicato dalle ultime attestazioni d’uso della lingua etrusca in valle Padana, e queste, come abbiamo visto, non sembrano superare gli inizi del III secolo a.C. Un’attribuzione generica del contenuto del bronzo al IV secolo a.C. assegnerebbe così la sua elaborazione all’ultima fase espansiva dell’Etruria Padana verso nord, quella che prelude alla contrazione territoriale indotta dalle invasioni celtiche. Al tempo stesso, si sposterebbe decisamente verso il
38 Cfr. BAGNASCO GIANNI 2003 = G. Bagnasco Gianni, “Iscrizioni etrusche esposte: il caso dei cippi di Rubiera”, Atti del 1 ° incontro di Dipartimento sull'epigrafia (28 ottobre 2002), in “Annali della Facoltà di Lcttere e Filosofia dell"Università degli Studi di Milano”, vol. LVI, fascicolo I, Milano, 2003, p. 61. Per la presenza etrusca su questa direttrice si veda NERI 2012 = D. Neri, “Gli Etruschi tra VIII e VII secolo a.C. nel territorio di Castelfranco Emilia (Mo)”, Firenze, 2012.
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Fig. 54 – Planimetria e sezione degli scavi del tempio in località “Lo Scasato” di Civita Castellana (Falerii Veteres), effettuati tra il 1887 e il 1888 preso gli orti Morelli, Orazi e Baroni, da COZZA 1888. Il modello fittile di fegato venne rinvenuto insieme ad altri “ex voto anatomici”, nella vasca rettangolare indicata con F, adiacente al tempio.
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basso la datazione oggi attribuita al fegato di Falerii, in quanto la presenza su entrambi dei segni del manzāzu e del padānu legittima l’idea che il bronzo piacentino ne rappresenti una significativa evoluzione, sia per processo di simbolizzazione concettuale, sia per complessità compositiva e strumentale.
5.3 Il fegato di Falerii Veteres e Nabû-Iddin, figlio di Baniya, il qīpu La datazione del fegato fittile di Falerii al IV secolo a.C. non sembra per altro basarsi su alcun dato di fatto certo, essendo stata attribuita per generica coerenza con un contesto archeologico che, fin dai primi scavi, risultò essere già in antico fortemente compromesso. Per comprendere l’aleatorietà della datazione attribuita al modello è utile soffermarsi brevemente sui dati che ne hanno caratterizzato il rinvenimento. La scoperta era avvenuta nel corso delle ricognizioni archeologiche intraprese tra il 1887 e il 1888 nel punto più alto del pianoro su cui sorge Civita Castellana, in località detta “Lo Scasato”. Di questi scavi si ebbe una pronta documentazione nelle relazioni di Pasqui e di Cozza che furono pubblicate nelle medesime annate di Notizie degli Scavi di Antichità39. In un terreno di proprietà dell’ospedale e all’interno degli orti Morelli, Orazi e Baroni, vennero rinvenuti scarsissimi resti di mura in blocchi di tufo, direttamente poggianti sulla roccia e pertinenti ad un tempio orientato in direzione Est-Ovest, la cui larghezza risultò essere di circa 17 metri (vd. fig. 54). Davanti al tempio, e parallelo ad esso, correva un cunicolo di drenaggio che riceveva le acque da pozzetti e chiusini ad esso adiacenti, scaricandole poi nel contiguo precipizio (vd. fig. 54, D). Allineata col suo lato Sud era una grande cavità quadrata di 13 metri di lato, scavata nel tufo e riempita di blocchi tufacei e rocchi di colonne appartenenti alla costruzione stessa (vd. fig. 54, C). Tra il tempio e il cunicolo di drenaggio si intercettò una piccola vasca rettangolare scavata nel tufo (m. 1,30 x 0,60),
39 Vd. PASQUI 1887 = A. Pasqui, “Civita Castellana (antica Faleria). Avanzi di un tempio etrusco scoperti in contrada ‘lo Scasato’“, in “Notizie degli Scavi di Antichità”, 1887, pp. 137-139. COzzA 1888 = A. Cozza, “Civita Castellana (antica Faleria). Avanzi di antico tempio in contrada lo Scasato”, in “Notizie degli Scavi di Antichità”, 1888, pp. 414-433.
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5.3 Il fegato di Falerii Veteres e Nabû-Iddin, figlio di Baniya
al cui interno vennero rinvenuti alcuni ex voto anatomici, e, tra questi, il nostro modello fittile di fegato (vd. fig. 54, F). Si deduce che nessun elemento di fatto collegava la vasca alla struttura del tempio e l’unica possibilità interpretativa era quella di pensare ad un deposito votivo da porsi in qualche modo in relazione con i riti che si svolgevano al suo interno. Trattandosi però di reperti non disposti in giacitura primaria e non stratigraficamente associabili ad alcuna fase delle restanti strutture, risultava impossibile una loro datazione certa, tanto più che il nostro modello di fegato sappiamo oggi con certezza non essere un ex voto, per cui la sua giacitura doveva risultare, già in antico, del tutto decontestualizzata rispetto alle funzioni del deposito. La fase più antica del complesso poteva in sostanza fissare un generico momento di suo riutilizzo, in un contesto comunque non significativo del suo precedente uso come modello epatoscopico. Gli innumerevoli frammenti di terrecotte architettoniche provenienti dall’area, documentavano inoltre diversi interventi di ricostruzione di uno o più edifici di culto. Andrén ne riconobbe quattro gruppi principali, relativi a quattro fasi di rifacimento delle strutture templari40. La prima fase doveva collegarsi con un edificio minore, costruito intorno alla fine del IV e l’inizio del III sec. a.C.; la seconda ad un altro edificio, o ad un parziale rifacimento del primo, assegnabile alla stessa epoca; la terza ad una ristrutturazione avvenuta nella seconda metà del III sec. a.C.; la quarta, infine, ad un ulteriore rifacimento databile alla fine del II e gli inizi del I sec. a.C. Lo scavo dimostrava, in ultimo, che il livellamento del pianoro ebbe luogo all’inizio dell’età imperiale, in una fase in cui l’antico sito della città di Falerii era già stato abbandonato per essere rifondato più a valle, e tale livellamento era stato ottenuto riempiendo in un primo tempo la grande buca con i materiali edilizi di risulta e, in un secondo momento, pareggiando il tutto con l’aggiunta di terreno di riporto. Da tutto ciò risulta dunque evidente che la datazione al IV secolo a.C. che è stata comunemente attribuita al fegato, è derivata da una generica sua assegnazione alla più antica fase di frequentazione di
40 Vd. ANDRéN 1940 = A. Andrén, “Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples”, in “Skrifter utgivna av Svenka Institutet i Rom”, 40, 6, 1940
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quest’area, ma che il contesto di rinvenimento non autorizzava in alcun modo a considerare tale termine significativo rispetto all’età entro cui il modello venne realizzato. La forbice cronologica che lo separerebbe dal IV secolo del Fegato di Piacenza potrebbe allora essere effettivamente spostata verso il basso e questo riconduce di fatto alle ipotesi di Burkert e di Jodi Magness che la presenza di un modello come quello di Falerii, così morfologicamente vicino ai modelli epatoscopici del Vicino Oriente, fosse dovuta ad un contatto diretto con una “scuola di epatoscopia babilonese” attiva, nel primo orientalizzante, presso i centri marittimi dell’Etruria medio tirrenica41. Se così fosse, il suo luogo di rinvenimento porterebbe a considerare la possibilità che in età immediatamente posteriore una figura di spicco di questa scuola potesse avere operato in agro falisco, su territori dell’entroterra del basso corso del Tevere che furono più soggetti alla progressiva sfera d’influenza del centro costiero di Cerveteri. Dimostrare questo sarebbe dunque fondamentale per inquadrare il periodo entro cui avvenne l’introduzione della dottrina epatoscopica in Etruria e per poter fissare il tipo di evoluzione interna che avrebbe poi portato alla complessa elaborazione del bronzo piacentino. Ma cosa può fornire la prova archeologica della presenza a Falerii di una tale figura? O meglio, come già si era domandato Hoffman nel 1997 commentando il fenomeno dell’“orientalizzante” in Grecia e in Etruria: “what evidence is required to establish the residence of foreigners as distinguished from the transient visits of traders?” 42.
41 Di questa opinione anche ANNUS 2010 = A. Annus, “On the beginnings and continuities of omen sciences in the ancient world”, in “Divination and interpretation of signs in the ancient world”, Chicago, 2010, pp. 1-18: “The Etruscan discipline of taking omens from liver inspection or hepatoscopy (haruspicina in Latin) shows remarkably close correspondence to the same form of divination developed in mesopotamia. This can best be explained as the transmission of a “school” from Babylon to Etruria. The system of the slaughter of sheep, models of sheep livers of clay or metal, and the custom of providing them with inscriptions for the sake of explanation are peculiar things found precisely along the corridor from the Euphrates via syria and Cyprus to Etruria.”; cfr., p. 11. 42 Cfr. HOFFMAN 1997 = G.L. Hoffman, “Imports and Immigrants, Near Eastern Contacts with Iron Age Crete”, Ann Arbor, 1997, p. 5. “Although scholars readily acknowledge Near Eastern influence on the Etruscans, it has been attributed either to trading contacts or to immigrant craftspeople (individuals or small groups) working in Etruria. Why is it legitimate to attribute this influence to trading contacts or the occasional immigrant craftsperson, but not to immigrants who became members of the local elite?”; cfr. MAGNESS 2001, p. 93.
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La risposta fu, in quel caso, che molto difficilmente tale prova si sarebbe potuta trovare, dovendo essere contenuta nella remota possibilità che proprio il territorio di Falerii Veteres avesse potuto restituire le spoglie di almeno un individuo di cui fosse possibile dimostrare non solo una diretta provenienza orientale, ma anche un’attività in vita coerente con le qualifiche richieste al ruolo ipotizzato. Inoltre, secondo le tesi correnti, tale prova si sarebbe dovuta legare al verificarsi di una catena di condizioni alquanto singolari ed improbabili. Il contesto “orientalizzante” dei beni materiali del corredo non poteva infatti da solo costituire un elemento di prova, dato che numerose altre testimonianze di questo tipo erano state interpretate in passato come l’evidenza di soli scambi commerciali e non come prova della presenza fisica di individui che non fossero artigiani immigrati, autori dell’esecuzione stessa di quei beni. L’idea acclarata è stata quella secondo cui tutto ciò che di orientale aveva popolato le manifestazioni culturali dell’Agro Falisco e dell’Etruria “orientalizzante” doveva essere relativo a soli beni materiali e mai a persone, perché i beni si muovono e le persone no. Dunque, a voler chiedere troppo, se pure ci fossimo trovati in presenza di un contesto funerario idoneo e coerente, esso avrebbe dovuto quantomeno documentare il nome del defunto, meglio se accompagnato dal nome del padre, e per entrambi gli individui sarebbe stato necessario avere prova certa che tale nome fosse di sicura provenienza orientale. A scanso di equivoci, i nomi di padre e figlio avrebbero dovuto essere preferibilmente espressi in scrittura cuneiforme, a riprova del fatto che in famiglia si parlasse la lingua accadica e, se non bastasse, sarebbe stato auspicabile che fosse noto anche il luogo esatto di loro provenienza, meglio tra tutti se questo luogo fosse stata Babilonia stessa. Ma pur ammettendo il verificarsi di questa sorprendente serie di congiunzioni favorevoli, il tutto non sarebbe comunque bastato a costituire una prova certa e definitiva di quanto ipotizzato. Perché, oltre a quanto premesso, l’attività in vita dell’individuo doveva essere nota e in qualche modo collegata con un ruolo compatibile con le conoscenze necessarie ad esercitare la pratica dell’epatomanzia, essendo questa la vera condizione necessaria per dare corpo concettuale all’insegnamento di quella disciplina attraverso la realizzazione di un modello di fegato come quello
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rinvenuto a Falerii. Ebbene, l’aspetto sorprendente di questa storia è che, se quanto detto ha l’evidente sapore di una sorta di elenco di precondizioni talmente improbabili ed inverosimili dal voler dissuadere chiunque dall’intraprendere un qualsivoglia tentativo di verifica, questo elenco altro non è che la descrizione di quanto risulta agli atti della storia degli studi archeologici di quell’area. Questo perché, l’individuazione di un contesto funerario che rispettava tutte quelle condizioni era già avvenuto contemporaneamente allo scavo de “Lo Scasato” e negli stessi dintorni di Falerii Veteres. Già abbiamo visto come il riconoscimento dell’importanza del modello fittile di fegato qui rinvenuto, fosse avvenuto tardivamente, solo settant’anni dopo quello scavo, grazie a quelle osservazioni di Jean Nougayrol che sono state poi riprese da Adriano Maggiani nel 1984. Ma una sorte del tutto simile aveva riguardato anche un secondo oggetto di straordinario interesse, che era stato rinvenuto a Falerii, nel 1889, in circostanze solo in parte documentabili, da colui che si rivela essere l’uomo chiave del nostro racconto. Il reperto era stato recuperato ed acquisito da quello stesso Adriano Milani che aveva per primo compreso la vera natura concettuale del Fegato di Piacenza e che, in quella circostanza e in forma del tutto inconsapevole, si era trovato tra le mani la prova delle sue e delle nostre intuizioni. Egli, nell’ambito delle campagne di acquisto di antichità che erano in premessa alla costituzione delle collezioni del nascente Museo Centrale dell’Etruria di Firenze, aveva acquistato, tra gli altri, un frammento di lamina bronzea contenente strane incisioni. Si sapeva solo che era parte del corredo di una sepoltura proveniente dalla necropoli di Montarano di Civita Castellana, l’antica Falerii 43, e sebbene il luogo esatto del ritrovamento non fosse documentabile, era stato riferito che apparteneva ad una “tomba antichissima a cassone oppure a fossa”44 del sito di Montarano, luogo “particolarmente antico, con sepolture dell’età del ferro” 45.
43 Vd. MILANI 1898 = L.A. Milani, “Museo Topografico dell’Etruria”, Firenze, 1898, p. 80. MILANI 1923 = L.A. Milani, “Il Museo Archeologico di Firenze”, Firenze, 1923, pp. 171, 261. 44 Cfr. Archivio Soprintendenza Antichità d’Etruria, anno 1889, Posizione A/9, prot. 17. 45 Cfr. F. Bernabei, “Monumenti Antichi - Accademia Nazionale dei Lincei”, vol. IV, 1894, c. 18 sg.
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Il corredo venne archiviato, ma non ulteriormente indagato né esposto nelle sale del museo, restando dimenticato per quasi un secolo. Fino a che, nell’ottobre del 1970, in occasione di una campagna estensiva di restauro dei reperti presenti nei magazzini e nel corso di un primo restauro di uno dei frammenti bronzei che erano catalogati al suo interno, non vengono osservati strani segni sulla sua superficie. La direzione del Museo sollecita la richiesta di un parere da parte di un etruscologo e Mauro Cristofani, dopo aver visionato il reperto, così riferirà: “iniziandosi il restauro di un recipiente di bronzo frammentario, proveniente da un corredo tombale di Falerii, fui interpellato sulla natura di certi segni che si vedevano sul collo di un vaso e, con mia gran sorpresa, dovetti constatare che essi erano dei caratteri cuneiformi. Col dr. Guglielmo Maetzke, Soprintendente alle Antichità d’Etruria, decidemmo di chiedere notizie più precise al prof. Pelio Fronzaroli, dell’Università di Firenze, che confermò le nostre impressioni e che acconsentì, con una premura di cui lo ringraziamo vivamente, a studiare l’iscrizione” 46. La gran sorpresa era più che motivata, perché mai in Italia era stata rinvenuta una iscrizione in caratteri cuneiformi, tanto più che essa risulta a tutt’oggi essere l’unica presente nella penisola, la più occidentale e alla latitudine più settentrionale mai rinvenuta in tutto il bacino del Mediterraneo47. Ma come per il caso del mancato approfondimento di quanto osservato per i segni del manzāzu e del padānu, presenti su entrambi i modelli di fegato italiani, anche in questa circostanza a tale straordinaria testimonianza non verrà dato alcun seguito. In particolare, a nessuno verrà in mente di mettere in relazione il modello fittile di fegato con l’iscrizione cuneiforme, entrambi provenienti da Falerii, e questo appare alquanto strano dato che anche nel primo caso si trattava di una testimonianza materiale che risultava essere, dopo il modello bronzeo di Piacenza, l’unica in Italia in
46 Cfr. CRISTOFANI, FRONzAROLI 1971 = M. Cristofani, P. Fronzaroli, “Un’iscrizione cuneiforme su un vaso bronzeo da una tomba di Faleri”, in “Studi Etruschi”, vol. XXXIX, 1971, pp. 313-331, tavv. LXII-LIX, p. 313. 47 Un manufatto in agata frammentario con iscrizione cuneiforme è stato rinvenuto a Malta nel 2010, durante gli scavi condotti a Tas-Silg dalla missione archeologica dell’Università La Sapienza. Contrariamente a quanto sostenuto nell’immediatezza della scoperta, l’iscrizione in cuneiforme da Falerii Veteres è la più occidentale mai rinvenuta, essendo localizzata a circa 180 km più ad ovest di Malta, e risulta essere in assoluto la più settentrionale.
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terracotta, la più occidentale e la più settentrionale mai rinvenuta oltre i confini medio-orientali. Sarebbe stato logico pensare che l’unica circostanza che poteva giustificare il verificarsi di due eventi alquanto rari, la cui probabilità di accadere nello stesso momento e in uno stesso luogo era prossima allo zero, è che fossero la conseguenza del manifestarsi di una stessa causa. Ma pur volendo comunque negare l’evidenza di un qualche nesso di casualità tra le due cose, decisiva sarebbe dovuta risultare la lettura del testo cuneiforme traslitterato in: ŠÁ
md
PA.MU A mBA.NI.IÁ
1u
KI.BU
da leggersi: šá
md
Nabû-iddin(/nādin) măr mBa-ni-iá 1uqīpu
e da tradursi in: “Di Nabû-Iddin, figlio di Baniya, il qīpu” 48 Il fatto che tale iscrizione comparisse su un frammento di labbro di un recipiente bronzeo con conservata parte della vasca49, e l’analisi della sua tipologia e funzione rispetto al supporto stesso su cui era incisa, non sembravano lasciare dubbi sul fatto che si trattasse di un marchio di proprietà dell’oggetto stesso50. Il contenuto rivelava quindi il nome dell’individuo possessore (Nabû-Iddin), il nome del padre (Baniya), e la specifica dell’attività in vita del possesore, che era contenuta nell’epiteto qīpu. Fronzaroli osservò che questo termine connotava genericamente un ruolo amministrativo, ma che nelle iscrizioni inizianti con šá, datate tra il II millennio e l’inizio dell’VIII secolo a.C., l’epiteto veniva sempre attribuito a funzionari reali di alto grado e mai a semplici subordinati. In particolare, a par-
48 Cfr. CRISTOFANI, FRONzAROLI 1971, pp. 326-327. 49 Vd. SCIACCA 2005 = F. Sciacca, “Patere baccellate in bronzo: Oriente, Grecia, Italia in età orientalizzante”, Roma, 2005, pp. 406-407. 50 Cfr. CRISTOFANI, FRONzAROLI 1971, pp. 330: “Sembrerebbe dunque accertato che la nostra formula, di per sé, rappresenti semplicemente un marchio di proprietà”.
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5.3 Il fegato di Falerii Veteres e Nabû-Iddin, figlio di Baniya
tire dalla metà dell’VII secolo, il termine qīpu compare ad indicare personalità che si pongono ai vertici dell’amministrazione templare babilonese, trovandosi in seguito associati a ruoli di alti funzionari reali incaricati dell’amministrazione delle città51. L’analisi dell’epigrafe basata su un più ampio spettro di altre considerazioni di natura paleografica, portava inoltre a considerarne più probabile un’origine babilonese, piuttosto che assira52, e ad ipotizzare che la sua realizzazione fosse da datarsi a non prima della seconda metà del VII secolo a.C. Risultato, questo, che si mostrava compatibile con la datazione che già era stata suggerita alla sepoltura da Cristofani sulla base dell’analisi tipologica dei restanti oggetti del corredo53. Ciò che risultava certo era dunque che a Falerii Veteres era documentata una tomba che conteneva un oggetto del corredo di proprietà di tale Nabû-Iddin, alto funzionario reale, amministratore di tempio o di città, forse proveniente da Babilonia, figlio di Baniya. La conclusione più ovvia che si sarebbe dovuta trarre, seguendo il metodo interpretativo normalmente applicato se il nome fosse stato espresso in falisco o in etrusco, è che l’individuo deposto in quella sepoltura era colui che si dichiarava possessore del vaso, e dunque Nabû-Iddin stesso. Ma la teoria comunemente accettata sul fenomeno dell“orientalizzante”, come si è detto, è che mai si spostano le persone, ma solo gli oggetti, per cui Cristofani è indotto a concludere che: “Se questo oggetto abbia percorso una strada commerciale ‘continentale’ o ‘marittima’ nell’Asia è problema non solubile, quello che maggiormente ci interessa è aver fornito un documento non artistico che dà un’inequivocabile consistenza al problema delle importazioni e delle correnti asiatico-continentali in Grecia e in Etruria” 54. L’affermazione del fatto che il vaso con l’iscrizione cuneiforme è “documento non artistico” sottolinea un qualche tentennamento che lo stesso Cristofani aveva avuto nel constatare elementi oggettivi che
51 CRISTOFANI, FRONzAROLI 1971, pp. 328-329. Vedi in particolare BRINKMAN, CIVIL, GELB, OPPENHEIM, REINER 1995 = J.A. Brinkman, M. Civil, I.J. Gelb, A.L. Oppenheim, E. Reiner, “The Assyrian Dictionary of the Oriental Institute of the University of Chicago”, vol. 13, Q, Chicago, 1995, alla voce qīpu, pp. 262-268. 52 CRISTOFANI, FRONzAROLI 1971, pp. 327-328. 53 Ibid., pp. 322-323. 54 Ibid., pp. 323.
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contrastavano con l’ovvietà delle conclusioni cui sarebbe giunto: “La presenza del vaso con iscrizione cuneiforme nel contesto che abbiamo esaminato desta un interesse che va anche oltre il dato specifico della scoperta. (...) la consistenza della lamina, più che la sua composizione, ne denunciano una fabbricazione non etrusca. Il vaso in sé è abbastanza umile e non ha il valore degli oggetti di lusso rinvenuti nelle tombe orientalizzanti del periodo “principesco’, pressoché contemporaneo al complesso di Montarano” 55. L’ovvietà sarebbe stata, a quel punto, provare a chiedersi per quale motivo un oggetto non di fabbricazione etrusca, di scarso valore artistico e commerciale e contenente una scrittura non comunemente leggibile da un etrusco, avrebbe dovuto percorrere migliaia di chilometri, per terra e per mare, per essere poi acquistato da un abitante di Falerii. Non sarebbe stato più ovvio pensare che quell’oggetto si trovava in quel luogo perché aveva semplicemente seguito le sorti del suo possessore? In realtà nessuno in seguito aveva voluto approfondire l’argomento, per cui l’unico intervento che ne segnerà il destino sarà la scheda n. 83 del catalogo della mostra di Bologna del 2000 “Principi etruschi: tra Mediterraneo ed Europa”, dove Filippo Delpino dichiarerà per certa cosa che non lo è, e cioè che il corredo entro cui venne rinvenuto il vaso era “pertinente a un guerriero”, affermazione questa che porterebbe ad escludere categoricamente, sulla base di un dato non confermato, che la sepoltura potesse essere del qīpu Nabû-Iddin, che guerriero certamente non era56. Ai fini della ricerca, più che applicarsi su tesi statiche e precostituite, la vera domanda a cui sarebbe stato importante provare a dare una risposta era piuttosto chi potesse mai essere questo Nabû-Iddin, figlio di Baniya e, in caso di riscontro, sapere da dove provenisse, dato che
55 Cfr. CRISTOFANI, FRONzAROLI 1971, pp. 323. 56 Vd. F. Delpino in “Principi Etruschi tra Mediterraneo ed Europa”, Venezia, 2000, pp. 131132, scheda n. 83. L’affermazione che la sepoltura sia pertinente ad un guerriero non è sostenuta da Cristofani, che si limita ad osservare, in forma del tutto dubitativa, come i frammenti di bronzo nn. 27-28, provenienti dal corredo, “potrebbero rappresentare le parti di attacco di un manico di scudo”, mentre il n. 30 “è il manico di una piccola spada del tipo ad antenne”: cfr. CRISTOFANI, FRONzAROLI 1971, p. 323. Se la presenza di un manico di scudo non è per nulla certa, allo stesso modo il manico di una “piccola spada” non basta ad attribuire l’intera sepoltura ad un guerriero, tanto che lo stesso Cristofani non giunge a tale conclusione.
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5.3 Il fegato di Falerii Veteres e Nabû-Iddin, figlio di Baniya
questo avrebbe avuto ricadute importanti sulla stessa datazione del contesto di provenienza dell’iscrizione. L’indagine prosopografica sui testi cuneiformi è peraltro materia di studio che, fin da subito, ha caratterizzato l’intera disciplina, dando vita ad ampi repertori, ancora in corso di elaborazione. Pur in presenza di una mole considerevole di informazioni, il tentativo poteva sembrare anche qui talmente difficile ed improbabile da dissuadere chiunque dall’intraprenderlo. Ma anche in questo caso una verifica era stata da subito tentata e aveva dato, sorprendentemente, immediato esito positivo. Un Nabû-Iddin, figlio di Baniya era documentato in una tavoletta proveniente proprio da Babilonia e già edita fin dal 1889, ma la completa sottostima dell’importanza del dato di partenza aveva deviato dalle naturali conclusioni a cui si poteva giungere. Per cui il confronto era stato da subito archiviato da Fronzaroli come non significativo, sul presupposto, non verificato, che l’immediato riscontro fosse indicativo di una “larga distribuzione cronologica di quei nomi”57. Ancora una volta, quella che possiamo oggi considerare una incredibile serie di circostanze favorevoli che si erano composte nel solo 1889, anno della scoperta del fegato fittile di “Lo Scasato” e del contemporaneo recupero da parte di Milani del corredo della tomba di Montarano, veniva negata, oscurando dati che avrebbero potuto portare ad una definitiva soluzione del caso. La scoperta del deposito votivo di “Lo Scasato” era infatti avvenuta a Falerii in quello stesso 1889 entro cui Milani veniva in possesso della lamina di Nabû-Iddin, figlio di Baniya, e sempre nel 1889 veniva stampata a Leipzig l’opera di Strassmaier “Inschriften von Nabonidus, König von Babylon”, una delle prime rassegne di testi cuneiformi utili per gli studi di prosopografia babilonese, entro cui già compariva la ricorrenza dei due nomi58. È sorprendente constatare come ci siano
57 Fronzaroli è evidentemente portato a tale giudizio dall’immediatezza del riscontro. Ma passati 46 anni da tale affermazione, e ampliato enormemente il repertorio degli studi di prosopografia assiro-babilonese, questa presunta larga distribuzione cronologica non è stata affatto confermata: cfr. CRISTOFANI, FRONzAROLI 1971, p. 329, nota 92. 58 STRASSMAIER 1889 = J. N. Strassmaier, “Inschriften von Nabonidus, König von Babylon Von den Thontafeln des Britischen Museums copirt und Autographirt”, Leipzig, 1889,
Cap. V – Epatomanzia in Italia, tra VII e IV secolo a.C.
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voluti ben 128 anni per giungere a collegare tra loro tre importantissime informazioni che erano da sempre nella disponibilità di tutti e che solo un diverso approccio multidisciplinare allinea ora sulla stessa prospettiva d’indagine. Devo a Gianni Marchesi, mio collega dell’Università di Bologna, e a Ran zadok, dell’Iranian and Judaic Studies Istitute of Archaeology dell’Università di Tel Aviv, l’interessamento che ha portato a segnalarmi l’edizione della tavoletta 529. Nbn. 11.6.2 di quel volume. Trattasi di un documento di natura economica che al rigo 6 contiene il nome del debitore: da traslitterarsi in: md
AK-MU A-šú šá
m
ba-ni-ia
da leggersi: Nabû-Iddin(a) mārīšu ša Bāniya e da tradursi in: “Nabû-Iddin(a), suo figlio di Baniya” 59 La formula “suo figlio di Baniya” è l’equivalente di “figlio di Baniya”, e non compare qui alcun riferimento al fatto che questo Nabû-Iddin(a) potesse anche essere un qīpu. Se così fosse stato, la prova di trovarsi in presenza dello stesso individuo della tomba di Falerii sarebbe stata pressoché certa, ma resta il fatto che la semplice ricorrenza dei due nomi e del corrispondente grado di parentela restituisce un fattore di probabilità che, a tutt’oggi, resta comunque elevato, dato che, contrariamente a quanto presupposto da Fronzaroli sulla “larga distribuzione cronologica dei nomi”, tale associazione resta dopo 46 anni dalle sue osservazioni l’unica all’interno di un vastissimo repertorio di attestazioni. La rispondenza dei due nomi con quelli dell’iscrizione cuneiforme di Falerii non può dunque essere né esclusa né confermata, ma è co-
59 STRASSMAIER 1889, p. 314, 529. Nbn. 11. 6. 2, Rigo 6.
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5.3 Il fegato di Falerii Veteres e Nabû-Iddin, figlio di Baniya
munque interessante notare che l’ambito cronologico entro cui si pone la datazione di questa tavoletta porrebbe Nabû-Iddin(a) sotto il regno dell’ultimo re caldeo di Babilonia, Nabonedo, e dunque in anni compresi tra il 555 e il 539 a.C. Nell’ipotesi di un suo possibile trasferimento in agro falisco, questo sarebbe allora avvenuto a cavallo di questi anni o in anni immediatamente successivi, e la cosa discorderebbe con la datazione di un secolo anteriore che è stata attribuita alla sepoltura da parte sia di Cristofani sia di Fronzaroli. La cosa curiosa è però che la metà del VII secolo è stata da entrambi indicata come un generico terminus post quem, in evidente contraddizione con un’analisi del corredo che aveva evidenziato che il termine più tardo era dato da una tazza in bucchero la cui comune datazione indicava la seconda metà del VI secolo a.C. Cristofani, nelle sue conclusioni, era stato obbligato ad ammettere che “la tazza di bucchero è l’oggetto più tardo, e potrebbe scendere, come si è visto, fino al VI secolo a. C.”, ma applicando un principio metodologico alquanto discutibile, aveva in ultimo aggiunto che: “essendo l’unico elemento che porta piuttosto in basso la cronologia del corredo, per il resto abbastanza omogeneo, non esiterei ad escluderlo dall’associazione, data la mancanza di dati più precisi circa il ritrovamento” 60. Se consideriamo ora che lo stesso Fronzaroli aveva osservato che “i caratteri paleografici nel loro complesso tendono a datare l’iscrizione, pur con tutte le riserve già dette, piuttosto verso la metà del VII secolo a.C., o successivamente, che non nella prima metà di esso”, e che egli poi conclude che “questa data è compatibile con quella proposta dal prof. Cristofani per il corredo della tomba”, risulta evidente che entrambi hanno operato un reciproco aggiustamento verso il basso dei dati in loro possesso, considerando possibile che alla fine del VII secolo si potessero datare sia la maggior parte degli elementi del corredo sia la forma paleografica dell’iscrizione, ma che più verosimilmente alla metà del VI secolo a.C. fosse da assegnarsi il momento entro cui era avvenuta la sepoltura. Anche in questo caso, dunque, i termini temporali comunemente at-
60 Cfr. CRISTOFANI, FRONzAROLI 1971, pp. 322-323. È evidente che l’incertezza circa la datazione degli elementi del corredo non può essere applicata a piacimento ammettendo o escludendo sue parti che non risultino compatibili con l’interpretazione data.
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tribuiti a questo contesto archeologico mostrano margini di aprossimazione tali da non poter escludere che tale sepoltura fosse effettivamente da attribuirsi al babilonese Nabû-Iddin, il qīpu, vissuto sotto il regno di Nabonedo a cavallo del VI secolo a.C. Studi mirati futuri potranno confermare o smentitire tale ipotesi, ma resta comunque al momento altamente significativo il singolare rapporto che legherebbe la funzione in vita di tale personalità alla disciplina epatoscopica. La possibile presenza di un qīpu a Falerii e la realizzazione di un modello di fegato fittile come quello rinvenuto presso il tempio de “Lo Scasato”, potrebbero infatti spiegarsi non solo nel ruolo di alto funzionario reale da lui rappresentato, ma anche nelle peculiarità che tale ruolo potrebbe avere avuto sotto il regno di Nabonedo, l’ultimo dei re, colui che, più di ogni altro, fu il testimone consapevole della fine dei tempi dell’antica religione di Babilonia e colui che operò in vita per tramandarne gli antichi precetti.
6. Manzāzu, letham, padānu L’Etruria Padana, il Po e l’equatore del tempo
Le relazioni che sono documentate dalla tavoletta di Uruk tra le parti del fegato, i dodici mesi dell’anno, le divinità e le configurazioni celesti che a questi sono collegati, sono dunque testimonianza del processo che fissa al IV secolo a.C. il già deciso affermarsi del nascente credo astrologico sulla dottrina epatoscopica, in una fase in cui, ad una rapida evoluzione delle conoscenze astronomiche ancora si accompagnavano elementi delle radici ideologiche più profonde dei miti cosmogonici delle origini. Queste radici sono appunto quelle che l’ultimo re di Babilonia, Nabonedo, volle riscoprire nel corso del VI secolo e riconducono al ruolo cosmogonico assunto dall’immagine del fegato nella più antica tradizione religiosa babilonese. Questo recupero delle tradizioni e il tentativo operato da Nabonedo di una loro salvaguardia, attraverso un occultamento rituale o una delocalizzazione territoriale delle fonti primarie che ne garantissero il perpetuarsi della memoria, è per noi la chiave di lettura che conclude il nostro percorso di ricerca. Questo perché tale traccia ci offre l’opportunità di comprendere in che misura, e sotto quali auspici, la dottrina epatoscopica sia stata importata in Etruria e su quali principi possa avere seguito uno sviluppo analogo e parallello a quello in atto nell’ultima fase del regno di Babilonia. Nabonedo fu consapevole che la fine del suo regno avrebbe coinciso
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6.1 Manzāzu: le stazioni del tempo di Nanna-Sin e Šamaš
con la fine dei tempi dei grandi Dèi dell’antica tradizione mesopotamica, e il recupero, la raccolta e la conservazione a futura memoria dei principi fondanti l’antica cosmogonia dei grandi misteri del Cielo e del Sottosuolo è il tema che maggiormente inquadra l’intera vicenda umana del suo regno.
6.1 Manzāzu: le stazioni del tempo di Nanna-Sin e Šamaš Definito da Peter Schaudig “the archaeologist on the throne” 1, egli operò scavi sistematici a Ur, in ragione del fatto che questa era l’antica sede dei culti mesopotamici del dio della luna Nanna-Sin, di cui era una sacerdotessa la madre Adagupi-Adad, e a cui egli stesso era particolarmente devoto. Nel secondo anno del suo regno consacrò la figlia all’alto sacerdozio di Sin, ripristinando un’istituzione del secondo millennio oramai caduta nell’oblio e operò in seguito la ricostruzione del tempio di Harran dedicato a quel dio, distrutto dai Medi nel 610 a.C.2 Gli scavi e la ristrutturazione di questo tempio e dei due di Sippar, dedicati alla dea guerriera Anunitu e al dio Šamaš, vennero descritti, insieme ad antiche formule rituali di fondazione, in un lungo testo cuneiforme su cilindro che egli fece sotterrare presso quest’ultimo tempio. Altri tre cilindri, con iscrizioni identiche, vennero fatti seppellire a Ur, nelle fondazioni dello ziggurat chiamato E-lugal-galgasisa, appartenente allo stesso tempio di Sin3. Il contenuto delle preghiere e delle formule augurali di questo testo richiama significativamente ad un sincretismo religioso che riconduce la divinazione, la dottrina dei grandi misteri del Cielo e del Sottosuolo e gli stessi culti di fondazione delle città, ai cicli di levata e tramonto degli astri sulle porte del tempo, secondo formule rituali
1 Vd. SHAUDIG 2003 = H.P. Shaudig, “Nabonid, der ‘Archäologe auf dem Königsthron’: Zum Geschichtsbild des ausgehenden neubabylonischen Reiches”, in “Festschrift für Burkhart Kienast”, Münster, 2003, pp. 447-497. 2 Sul tema generale dell’interesse antiquario nell’antica mesopotamia e per l’attività di Nabonide, in particolare vd. BEAULIEU 2013 = P.A. Beaulieu, “Mesopotamian Antiquarianism from Sumer to Babylon”, in “World Antiquarianism: Comparative Perspectives”, Los Angeles, 2013, pp. 132-134. 3 Sui cilindri e su il regno di Nabonide in generale vd. BEAULIEU 1989 = P.A. Beaulieu,”The Reign of Nabonidus, King of Babylon: 556-539 BC”, New Haven, 1989.
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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che risultano a noi del tutto comprensibili rispetto ai significati cosmogonici che ci hanno portato alla decifrazione del fegato piacentino. Anche qui, come per gli attributi assegnati ai due lobi del nostro bronzo, è nella ritmica del sorgere e del tramontare dei due grandi astri, Nanna-Sin, la Luna, e suo figlio Šamaš, il Sole, che si manifestano i segni del presagio. Sin è “il re degli dèi del cielo e degli inferi”, colui che governa l’intero ciclo sulle porte del tempo, e l’invocazione che vi è contenuta è che esso,“ogni mese, alzandosi e tramontando”, trasformi i segni infausti in favorevoli: “O Sin, re degli dèi del cielo e degli inferi, senza il quale nessuna città o paese può essere fondata, né essere restaurata, quando entri a Ehulul, la dimora della tua pienezza, possano essere buone raccomandazioni per questa città e quel tempio sia posto sulle tue labbra. Possano gli dèi che dimorano nel cielo e negli inferi lodare costantemente il tempio di Sin, il padre, il loro creatore. Quanto a me, Nabonedo re di Babilonia, che ha completato quel tempio, Sin, il re degli dèi del cielo e degli inferi, getta con gioia il suo sguardo favorevole su di me e ogni mese, alzandosi e tramontando, rendi i miei segni infausti favorevoli. Possa egli allungare i miei giorni, prolungare i miei anni, consolidare il mio regno, conquistare i miei nemici, annientare quelli ostili a me, distruggere i miei nemici” 4. Eguale preghiera è poi rivolta a Šamaš, in quanto “grande signore del cielo e degli inferi”, e l’invocazione è, in questo caso, che tali auspici favorevoli non siano dati “ogni mese” come per Sin, ma “ogni giorno, all'alba e al tramonto, nei cieli e sulla terra”: “O Šamaš, grande signore del cielo e degli inferi, luce degli dèi, progenie dei tuoi padri Sin e Ningal, quando entri a Ebabbar, il tuo amato tempio, quando ti stabilisci nella tua eterna dimora, guarda con gioia su di me, Nabonedo, re di Babilonia, il principe tuo custode, colui che ti piace e che ha costruito la tua augusta cappella, e sulle mie buone azioni, e ogni giorno all'alba e al tramonto, nei cieli e sulla terra, fai i miei auspici favorevoli,
4 Testo del cilindro di Nabonedo di Sippar, II.26-43a, traduzione italiana da BEAULIEU 1989, pp. 234-35.
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6.1 Manzāzu: le stazioni del tempo di Nanna-Sin e Šamaš
accogli le mie suppliche e accogli le mie preghiere. Con lo scettro e la verga legittima che ho nelle mie mani possa io governare per sempre”.5 Lo strettissimo rapporto che qui si instaura tra l’interrogazione della volontà divina, la pratica dell’epatomanzia e la predizione dei cicli del Sole e della Luna, è deducibile da un altro testo che riguarda la richiesta da parte di Nabonedo di interpellare Šamaš e Adad per avere un responso sulla predizione di un’eclissi lunare su base epatoscopica6. Qui si dimostra la predominanza che ancora veniva data a questa dottrina nell’ultima fase della storia di Babilonia, ma vi è anche documentato come l’epatomanzia fosse oramai decisamente veicolata sulla predittività degli eventi astronomici, e, in particolare, sulla previsione delle congiunzioni dei moti dei due grandi astri del Tempo, tema, questo, su cui già ci siamo ampiamente soffermati per giungere alla decifrazione del Fegato piacentino. È noto, inoltre, come sia proprio sotto il regno di Nabonedo che i due distinti percorsi seguiti dall’epatomanzia e dall’astrologia inizino ad incrociarsi e a rendersi complementari, integrandosi a vicenda; mentre è dei due secoli successivi il mutamento che porterà ad una definitiva prevalenza della stessa astrologia su tutte le altre tecniche divinatorie7. È proprio in ragione di tale evoluzione, che le più antiche pratiche di analisi autoptica delle mutazioni anatomiche del fegato evolveranno su fattori di predittività derivanti dalle conoscenze astrono-
5 Testo del cilindro di Nabonedo di Sippar, III.11-21, traduzione da BEAULIEU 1989, pp. 234-35. 6 “As for me, Nabonidus, the shepherd who reveres his divine majesty, I reverently heeded his reliable order / so that i became concerned about this request for a high priestess./ I sought out the sanctuaries of Šamaš and Adad, the patrons of extispicy, / and Šamaš and Adad, as usual, answered me a reliable yes, wrote a favorable omen in my extispicy, / the omen pertaining to the request for priestesses, the request of the gods to man”; vd. REINER 1995 , p. 76; PARPOLA 1972 = S. Parpola, “A letter from Samas-sumu-ukin to Esarhaddon”, in “Irak”, n. 34, (1972), pp. 21-34. 7 “While as late as the reign of Nabonidus the two divination techniques went hand-in-hand or complement one another, there must have begun even then or shortly thereafter the process that culminated in the prevalence of astrology. The establishment of correlations between the features of the liver and stars or costellation, and their assignment to gods and to the twelve months of the year, must have been one of the steps in this development, a step for wich we have some evidence from a late Uruk text.”; cfr. REINER 1995 = E. Reiner, “Astral Magic in Babylonia”, in “American Philosophical Society”, New Series, Vol. 85, No. 4 (1995), p. 77.
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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miche, e questo condurrà, a sua volta, ad un processo di sua virtualizzazione simbolica che farà perdere alla rappresentazione dell’organo lo scrupolo di ogni preciso riscontro anatomico che fosse utile alla sua lettura. È in considerazione di tale evoluzione che assume allora un’importanza particolare quella comune traccia informativa che è presente sui nostri due modelli e cioè la presenza, su entrambi, dei segni incisi del manzāzu e del padānu, sul cui reale significato nessuno in realtà si è mai interrogato, se non per una loro generica attribuzione alla terminologia tecnica dell’extispicium babilonese e greco8. La decifrazione del Fegato piacentino pone anche su questo punto il problema in termini del tutto differenti rispetto al passato, perché la sua estraneità rispetto ai contenuti della dottrina epatoscopica, oltre che il suo specifico legame con i cicli astronomici del Sole e della Luna, portano ora a poter assegnare ai due termini significati non strettamente dedicati all’anatomia dell’organo, ma piuttosto collegati alla rappresentazione cosmologica da cui è derivato il suo impianto concettuale. Vedremo tra breve come il termine padānu, “sentiero”, “cammino”, sia un elemento di straordinario interesse rispetto alla possibilità di collegarne i significati con l’interpretazione da noi data al termine etrusco leθa, con cui condivide un settore della ruota raggiata del bronzo piacentino. Ma ancora più significativo è osservare, da subito, come al segno del manzāzu, presente sul fegato, si possa ora associare lo stesso identico termine accadico utilizzato nell’Enûma Eliš, a denotare il significato astronomico di “stazione”, ove al rigo 1 della tavoletta V da noi commentata nel precedente volume, si dice che Marduk, fissando sul corpo di Tiāmat il nuovo ordine cosmico, “vi sistemò le Stazioni per i Grandi dèi”: Tav. V.1 ubaššim manzāza an(a) ilāni(DINGIR.DINGIR) rabiūtim
8 Vd. MAGGIANI 1984, p. 74, che riprende BLECHER 1905, p. 201, FURLANI 1928, p. 244 e, in particolare, NOUGAyROL 1955, p. 509 e sgg. In generale per la nomenclatura dell’epatoscopia babilonese vd. PALMUCCI 2010, pp. 26-36. Questi confronti si sono limitati ad osservare le identità tra il manzāzu accadico, tradotto in “presenza divina”, e il greco Theos = ”Dio”, e tra il padānu = ”Sentiero” e l’equivalente greco Keleythos.
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6.1 Manzāzu: le stazioni del tempo di Nanna-Sin e Šamaš
Lo stesso dicasi al rigo 8, ove si dice che “stabilì, accanto alla suddetta Polare, le Stazioni di Enlil e Ea”: Tav. V.8
manzāz dEnlil(EN.LIL2) u dEa(E2.A) ukīn ittī-šu
Il termine accadico manzāzu è appunto da interpretarsi come “stazione” o “posizione di un corpo celeste ossevato alla sua levata eliaca” 9, e non è un caso che, in altri contesti, a questo si associno significati che riconducono ai sostegni o zoccoli delle stele, alle soglie o agli stipiti delle porte10, tutti concetti che insieme a quelli di “posizione” e di “levata eliaca”, sembrano ruotare intorno a principi astronomici a noi ben noti, in quanto collegati con il passaggio degli astri sulle porte dell’arco solstiziale. L’accezione del termine tecnico alla nomenclatura epatoscopica in “presenza divina” 11, sembra inoltre essere del tutto mutuata dallo stesso racconto nell’Enûma Eliš, perché se ai righi 1 e 8 si dice appunto che Marduk sistemò sulla volta celeste i manzāza “per i Grandi dèi”, oltre che il manzāz di Enlil e Ea, subito dopo, al rigo 11, si afferma che egli “nello stesso fegato di Tiāmat sistemò le Alte zone Celesti”, per cui è logico pensare che su quel fegato proiettò gli stessi manzāza dei “Grandi dèi” e dunque la loro stessa “presenza divina”. Ma questa “presenza” sarebbe comunque veicolata sul concetto di “stazione”, o sede, attribuita alle singole divinità e questo è esattamente quanto abbiamo trovato essere indicato nelle 6 sedi divine della ruota raggiata che è disegnata sul lobo sinistro del nostro modello. Qui il segno del manzāzu è inciso esattamente sul centro della ruota (vd. fig. 52), e i raggi che la compongono sono appunto le 6 porte dell’arco solstiziale che rappresentano le “stazioni” su cui si fissano le ritmiche dei corpi celesti. 9 Vd. CIVIL, GELB, OPPENHEIM, REINER 1977 = M. Civil, I.J. Gelb, A.L. Oppenheim, E. Reiner, “The Assyrian Dictionary of the Oriental Institute of the University of Chicago”, vol. 10, “M”, Chicago, 1977, pp. 234-239, alla voce manzāzu: “station, position (observed at sunset) of celestial bodies”, p. 237, 238, a: “he (Marduk) fashioned the stations for the great gods (positioned the stars which correspond to them)”, p. 238, a. 10 Vd. CIVIL, GELB, OPPENHEIM, REINER 1977, p. 235, 1; “emplacement, stand, socle (of a stela), perching place, socket (of a door), floor of a chariot of wagon”, 11 Vd. CIVIL, GELB, OPPENHEIM, REINER 1977, p. 238, 7;“presence of a deity or a demon signifying an omen and the feature on the liver that is associated with it”.
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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Dal contenuto della preghiera dei cilindri di Nabonedo si comprende inoltre la ragione per cui quella ruota venga, sul retro, dedicata alla Luna, in quanto a Nanna-Sin è attribuita la prerogativa di essere il “re degli dèi del cielo e degli inferi”, ed è appunto sul disegno di quelle porte solstiziali che la Luna, “alzandosi e tramontando”, rende evidenti i segni dei presagi. Questi segni sono i cicli temporali che portano Sin e Šamaš a rincorrersi tra le porte, fino ai punti in cui i loro moti si ricongiungono nelle fasi topiche di opposizione o congiunzione. Sono dunque quei segni che, di volta in volta, in tempi e modi diversi, riconducono ad un nuovo inizio dei cicli stessi: sia quando la piccola ruota del mese, al plenilunio, restituisce alla notte il crepuscolo del giorno, sia quando, nella grande ruota dei tempi, la luce del giorno, nei pochi terribili istanti di una eclisse solare, viene sopraffatta dall’oscurità della notte. È allora forse questo il senso che si può cogliere nella possibilità di giungere su base epatoscopica alla predizione di un’eclissi lunare, come è appunto documentato sotto il regno Nabonedo, in quanto si può pensare che già in questa fase si fosse avviato quel processo di simbolizzazione dei moti astronomici sull’immagine dell’organo che caratterizzerà gli sviluppi successivi del credo astrologico. Jim Tester, trattando del termine manzāzu, osserva come questo venga in seguito associato al principio stesso delle case planetarie del thema mundi dell’astrologia genetliaca: “Marduk uccise Tiāmat il dragone, simbolo delle acque dell’oceano, dividendola in due parti ‘come un’ostrica’. Quindi con una delle due metà fece la terra e con l’altra il cielo soprastante. Poi costruì le ‘stazioni dei grandi dèi; ‘stazioni’ sono indicate dal termine manzāzu, che significa anche i nodi lunari e in seguito verrà adoperato per denotare le esaltazioni planetarie” 12. Il credo astrologico della tarda antichità, basato sull’“Oroscopo del Mondo”, o “carta natale” della Creazione, è infatti ancora costellato di figure familiari all’Epica della Creazione Babilonese e Tiāmat sarà raffigurata come il Dragone che si allunga nei cieli, con la testa e la coda su due punti opposti dell’equatore: “caput e cauda draconis ac-
12 TESTER 1987 = S.J. Tester, “A History of Wester Astrology”, Suffolk, 1987, trad. it. “Storia dell’Astrologia Occidentale. Dalle origini alla rivoluzione scientifica”, trad. it. M. Ortelio, Genova 1999, p. 173.
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6.1 Manzāzu: le stazioni del tempo di Nanna-Sin e Šamaš
quistano una grande importanza nell’astrologia successiva, ottenendo un posto fra i pianeti e simboli propri: ☊☋. Questi simboli astronomici individuano il nodo lunare ascendente e il nodo lunare discendente. Si tratta dei due punti in cui la Luna, a causa della propria orbita inclinata, incrocia l’eclittica, da sud a nord e viceversa. Il nodo ascendente, o settentrionale, era definito caput draconis, quello discendente, o meridionale, cauda draconis” 13. Con tali nomi, e in associazione con il termine manzāzu, sono dunque ancora da identificarsi per i secoli successivi il nodo lunare ascendente e quello discendente, ovvero i due punti in cui l’orbita apparente della luna interseca l’orbita apparente del sole. E sono appunto questi gli istanti in cui le due dimensioni cosmiche della luce e delle tenebre, divise durante l’atto cosmogonico nella soglia delle due dimensioni trascendenti del “sopra” e del “sotto”, possono nuovamente tornare a ricongiungersi: “la loro importanza dal punto di vista astronomico ne giustifica l’importanza nell’immaginario collettivo: solo se la congiunzione tra i due astri avviene in prossimità dei nodi si verifica l’eclissi, e quando si verifica l’eclissi è il drago disteso lungo l’eclittica, con la Testa posta sul nodo ascendente e la Coda su quello discendente, che sta divorando di volta in volta o luna o sole” 14. I 6 settori della ruota raggiata, che compaiono sul lobo sinistro del fegato piacentino, corrispondono dunque effettivamente ai manzāza, ovvero alle “stazioni” che sono indicate dalle 6 porte che sono disposte idealmente sull’arco solstiziale. E questo è chiaramente ora dimostrato dal fatto che la lunula del segno del manzāzu sia stata incisa esattamente nel cerchietto che è al centro di quella ruota (vd. figg. 52, 55), ad indicare che, se i manzāza sono le porte stesse, allora il manzāzu in quanto tale, è il centro della rotazione dei corpi celesti che muovono su di esse, essendo così anche la “Stazione” a cui tutti i moti comunque riconducono, quella cioè che è assegnata al vertice
13 Cfr. TESTER 1987, p. 174. 14 Cfr. MAGINI 1996 = L. Magini, “Le feste di Venere. Fertilità femminile e configurazioni astrali nel calendario di Roma antica”, Roma, 1996, p. 23. Sulla tesi di una sostanziale influenza orientale sulle conoscenze astronomiche di etruschi e latini si veda l’ampia trattatistica di Leonardo Magini; MAGINI 2002 = L. Magini, “Il calendario romuleo e i suoi rapporti con i fenomeni astronomici”, in “Atti del II°convegno della Società Italiana di Archeoastronomia”, 27-8 sett. 2002, pp. 77-81; MAGINI 2003 = L. Magini, “Astronomia etrusco-romana”, Roma, 2003.
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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E2 E1
E3 E4
E6
E5
manzāzu = metlumθ padānu = leθa E6 E5 E4
E3
E2 E1
m
am
θ
m
lu
et
leθ
Fig. 55 – In evidenza, in alto, la posizione dei due segni del manzāzu e del padānu sul set-
tore della ruota raggiata. La lunula del manzāzu è posta all’interno del cerchiello che descrive il centro della ruota, mentre il padānu è all’interno del settore E4 della ruota stessa, contenente leθa. Manzāzu, indica così il centro della rotazione sui settori da E1 a E6, che sono le corrispondenti porte sull’arco solstiziale (in basso), identificando l’asse del movimento di levata degli astri sulle porte stesse e dunque l’asse A1. Padānu, a sua volta, essendo nella cella che contiene leθa, ed essendo questo l’asse equinoziale, indica a sua volta l’asse estovest, corrispondente ad A2 (dis. A. Gottarelli)
216
6.2 Padānu-leθam: l’equatore spazio-temporale
dell’asse polare, da identificarsi con l’asse cardinale nord-sud. In figura 55 questo concetto è chiaramente espresso dalla relazione che intercorre tra i settori della ruota raggiata, da E1 a E6 (in alto), e la figura del modello analitico che abbiamo in precedenza codificato sui settori dell’arco solstiziale (in basso). Se i manzāza sono le “stazioni” di passaggio degli astri sulle diverse porte (fig. 55, in basso, E1E6), l’insieme dei movimenti di levata degli astri su queste “stazioni” segue un’oscillazione lineare che va da sud a nord, fino al solstizio d’estate (E1-E6), e da nord a sud fino al solstizio d’inverno (E6-E1). La “rotazione” ideale dei settori della ruota raggiata esprime dunque un movimento che sull’arco solstiziale avviene, di fatto, lungo l’asse cardinale nord-sud, quello che in precedenza, avevamo appunto associato al termine metlumθ, da noi codificato con A1. Il manzāzu espresso dal simbolo al centro della ruota raggiata indicherebbe quindi il principio della rotazione polare che governa i transiti sulle porte da E1 a E6, ma andrebbe anche posto in relazione con quello stesso asse A1 che abbiamo indicato in metlumθ e che descrive l’oscillazione dei versi di levata degli astri su quelle stesse porte.
6.2 Padānu-leθam: l’equatore spazio-temporale Se dunque il segno del manzāzu può corrispondere ai significati attribuiti al termine etrusco metlumθ, a cui abbiamo assegnato l’asse cardinale d’orientazione del modello in senso nord-sud, il rapporto di complementarietà assiale che intercorre tra metlumθ e l’asse equinoziale est-ovest rappresentato da leθam, può portare a considerare una eguale relazione d’identità che dovrebbe a sua volta collegare i significati di leθam con quelli di padānu. In sostanza, operando un semplice procedimento logico tra la coppia di termini binari, con manzāzu collegato con padānu e metlumθ con leθam, risulta evidente che, se manzāzu è uguale a metlumθ in A1, allora padānu dovrà essere uguale a leθam in A2, identificandosi così con l’asse equinoziale estovest. I due segni sarebbero dunque la traduzione dei significati assegnati ai due nomi etruschi che, utilizzando l’ortogonalità dei loro versi di lettura, permettevano il corretto orientamento del modello, ed è forse altrettanto indicativo, che, come già osservò Nougayrol per il
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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modello di Falerii, sui modelli epatoscopici del Vicino Oriente manzāzu e padānu si trovino sempre rappresentati da due linee tra loro ortogonali15. Lasciando ad altri l’eventuale approfondimento di questo aspetto, i rapporti di identità esistenti tra manzāzu e metlumθ e tra padānu e leθam sono ora comunque resi evidenti dal fatto che il segno del padānu compare proprio all’interno della ruota raggiata in quella stessa casella E4 dove è appunto inciso leθa (vd. fig. 55, E4), quasi che il compilatore avesse voluto dirci, senza margini di ambiguità: “ricorda che leθa e padānu sono la stessa cosa”. Il dato è dunque di straordinaria importanza, perché la decifrazione del Fegato piacentino offre ora la possibilità di vedere il segno del padānu per la prima volta declinato ad una dimensione che non è unicamente veicolata sulla nomenclatura tecnica dell’epatoscopia, ma su una precisa coordinata spaziale. Nel suo comune significato di “via” o “percorso”, esso viene associato alla parte anatomica del fegato corrispondente all’impressio abomasalis16, mentre abbiamo visto che manzāzu, pur indicando in taluni testi quel processus reticularis che è ugualmente presente sull’organo, conserva in altre circostanze il significato astronomico di “stazione” o “posizione di un corpo celeste ossevato alla sua levata eliaca”. Il legame concettuale tra i due segni, oltre al significato comune di “via” o “percorso” che è attribuito al termine padānu, potevano in qualche modo fare sospettare un possibile collegamento di quest’ultimo con concetti collegati con l’orbita celeste di un corpo i cui “nodi” o “stazioni” di transito fossero espressi dal termine manzāzu, nell’idea che padānu indicasse a sua volta i “sentieri” o “tracciati” che univano le “stazioni” (manzāzu) di quelle stesse orbite. Ma le sue ricorrenze nei testi cuneiformi non ri-
15 NOUGAyROL 1955: “D’ailleurs, ces ‘incision’ perpediculairement disposées au centre di lobe gauche, tout assyriologue un peu versé dans la bârûtu les reconnait et les nomme aussitot: ce sont le manzāzu ‘présence’ (divine), et le padānu ‘chemin’, éléments fondamenteux du ‘tableau hépatoscopique’”, cfr. p. 516. Vd. RASMUSSEN 2003 = S.W. Rasmussen, “Public Portents in Republican Rome”, Roma, 2003, pp. 135-137. 16 Vd. BIGGS, BRINKMAN, CIVIL, FARBER, GELB, OPPENHEIM, REINER, ROTH, STOLPER 2005 = R.D. Biggs, J.A. Brinkman, M. Civil, W. Farber, I.J. Gelb, A. L. Oppenheim, E. Reiner, M.T. Roth, M.W. Stolper, The Assyrian Dictionary of the Oriental Institute of the University of Chicago”, vol. 13, “P”, Chicago, 2005, pp. 2-5; alla voce Padānu, 1), “path”, “way”, pp. 3-4; 2) “a crease on the sheep’s livers”, pp. 4-5. Per le ricorrenze di manzāzu e padānu si veda KOCH 2000; per manzāzu, pp. 51-53, 79-153; per padānu pp. 184-266.
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6.2 Padānu-leθam: l’equatore spazio-temporale
conducevano mai a documenti di carattere astronomico, e i “sentieri” con cui si indicavano le traiettorie degli astri erano sempre ricondotti al termine ḫarranu, con significati in parte equivalenti17. Se dunque mai lo si era riconosciuto in un ambito che lo collegasse all’osservazione dei moti celesti, tanto più importante è ora trovarlo doppiamente coniugato su significati che sono in un caso a noi noti, in quanto presenti insieme al segno del manzāzu sul nostro modello di fegato, ma in un’altro e per la prima volta, in una forma mai riconosciuta prima, essendo associato a quell’asse equinoziale che è indicato dal termine etrusco leθam e che lo legherebbe ad una coordinata fondamentale del templum spaziale. Il dato mostra inoltre una sua coerenza interna, perché se manzāzu esprime le “stazioni” dei punti di levata degli astri, e dunque, al pari di metlumθ, l’asse nord-sud, direzione lungo la quale essi traslano nel corso dell’ann0, padānu, allo stesso modo, esprimerebbe la “via” o il “percorso” orbitale che collega quei punti, e dunque la stessa direzione est-ovest che è espressa da leθn, in quanto asse equinoziale. Si osserva inoltre che, se ora trasliamo questa concordanza sul settore G), e dunque sul fatto che il limite equinoziale dell’ombra, proiettata dal processus pyramidalis sulla tabella ai suoi piedi, è ugualmente sottolineata dalla casella contenente leθn, l’uguaglianza leθn = padānu connoterebbe quest’ultimo come una sorta di equatore spazio-temporale che rimanderebbe a tutte le ossevazioni fin qui svolte sulla localizzazione del luogo di rinvenimento del Fegato piacentino e sull’evoluzione che il suo contenuto ha rappresentato rispetto al modello anatomico di Falerii. La traduzione dei primitivi segni del manzāzu e del padānu nella lingua etrusca, implica, in sostanza, l’esplicita rivelazione di quale fosse il loro vero significato, e costituisce dunque la definitiva chiave interpretativa dell’intero processo che ha portato all’elaborazione del nostro modello. Al di là del possibile ruolo eventualmente assunto dal qīpu NabûIddin, supposto che questi fosse mai effettivamente vissuto a Falerii
17 Vd. GELB, JACOBSEN, LANDSBERGER, OPPENHEIM 1995 = I.J. Gelb, T. Jacobsen, B. Landsberger, A.L. Oppenheim, The Assyrian Dictionary of the Oriental Institute of the University of Chicago”, vol. 6, “Ḫ”, Chicago, 1995, pp. 106-113; p. 107-109, alla voce ḫarranu, 1) “higway”, “road”, “path”.
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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Veteres, la forbice cronologica che porrebbe la datazione del modello di Falerii al VI secolo a.C. e quella del bronzo piacentino al IV, sembra indicare una evoluzione del credo epatoscopico, che sarebbe avvenuta in Italia parallelamente alle vicende del Vicino Oriente, in forma non del tutto autonoma e comunque veicolata su quegli stessi principi. Tra i due secoli, ciò che sembra per primo caratterizzare l’aspetto evolutivo dei due modelli è il passaggio dalla morfologia del primo, che è ancora impostata su una corretta rappresentazione anatomica dell’organo, alla simbolizzazione della sua forma del secondo, dove l’aspetto morfologico risponde ad una schematizzazione analogica operata su esigenze ergonomiche e strumentali di calcolo dei cicli astronomici. Il modello di Falerii inoltre, non essendo iscritto, resta uno strumento di conoscenza in sé muto e dunque ancora basato su un procedimento iniziatico che doveva essere accompagnato dalla parola di un aruspice o di un barū. Quello rappresentato invece sul Fegato di Piacenza è una summa dottrinale dell’ultima fase di passaggio dall’antica dottrina cosmogonica, da cui l’epatomanzia era derivata, alla sua definitiva traduzione in un meccanismo di descrizione razionale della dimensione del tempo, entro cui la rappresentazione simbolica dell’organo ne diviene metafora parlante. Il procedimento richiama, in questo caso, non più alla mediazione di un iniziato, ma è fissato per sempre nell’essenza stessa della sua composizione plastica, del suo contenuto figurativo, testuale e strumentale. È dunque destinato non all’iniziato stesso, ma a colui che saprà rendersi tale giungendo alla comprensione degli arcani significati che in esso sono contenuti. Dunque, un modello analogico e concettuale che, attraverso la rivelazione dell’identità leθn = padānu, contiene in sé la possibilità di comprenderlo e che necessita così di essere tradotto e declinato alla lingua di colui che avrebbe potuto interrogarsi sul suo significato. Di fatto, il nostro modello sarebbe una sorta di embrione di quella prima essenza concettuale del tempo che all’eternità stessa del tempo doveva essere per sempre restituito. E dunque fissato e inciso non più sulla fragile argilla, ma per la prima volta, e una volta per tutte, sulla durevole superficie del bronzo. Una sorta di “arca” della fine dei tempi, che dinnanzi ad un diluvio annunciato, sembra affi-
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6.3 L’Eridano, la caduta di Fetonte e l’equatore gnomonico
dare alla decifrazione del suo arcano contenuto, e alla mutevolezza dei destini del mondo, la speranza futura di un nuovo inizio.
6.3 L’Eridano, la caduta di Fetonte e l’equatore gnomonico L’interpretazione che vede assegnare al contenuto del Fegato piacentino il fondamento cosmogonico dei grandi misteri della tradizione mesopotamica, quale modello concettuale di quella Tavola-Fegato su cui, per mano dello stesso Šamaš, il dio Sole, vennero scritti “i segreti del Cielo e del Sottosuolo”, è dunque argomento che ha ricadute straordinarie sulla stessa possibilità di comprendere la ragione per cui sul mito di Tagete e sulla rivelazione dei segreti dell’aruspicina, si veicoli la nascita di quel composito corpo dottrinale di ordinamenti sacri che verrà poi definito dai latini con il nome generico di “etrusca disciplina”18. La dimensione del Tempo e la spazialità dei ritmi di passaggio sulla soglia misterica che separa le dimensioni ultraterrene del cielo e del sottosuolo, se declinati in tutte le possibili forme, metafisiche ed esistenziali, con cui tali concetti possono essere stati variamente interpretati, costituiscono di quella disciplina la base comune e il comune filo conduttore. L’interpretazione dei portenta che si manifestavano tra le dimensioni del sottosuolo, della terra e del cielo, era la disciplina finalizzata alla predizione delle sorti future e faceva parte di quelle prescrizioni dei libri tagetici che erano contenute nei libri haruspicini e nei libri fulgurales. I culti di passaggio sulla soglia esistenziale del tempo, nel trapasso tra la vita e la morte, erano ugualmente oggetto del contenuto dei libri acheruntici, così come il tema dei riti inerenti alla dimensione spazio-temporale dell’esistenza, era svolto dai libri rituales, ove questi comprendevano i riti di fondazione delle città, quelli relativi ai templi e alle case, alle loro porte e confinazioni, oltre alle regole dell’organizzazione politico-sacrale del popolo e del18 CIC., De div., II, 50-51: “Allora Tagete parlò lungamente dinanzi alla folla di coloro che lo ascoltavano. Questi stettero a sentire con attenzione ogni sua parola e la misero per iscritto. Inoltre, l'intero discorso fu quello in cui venne contenuta la scienza dell'aruspicina. Essa poi si accrebbe con nuove conoscenze da ricondurre a quei princìpi. Abbiamo appreso queste cose dagli stessi Etruschi. Essi conservano questi scritti, e li considerano fonte della loro disciplina”.
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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l’esercito, nonché le norme sulle guerre e sui trattati di pace. Allo stesso modo, del tutto analogo alle prescrizioni della “Tavola dei Destini” doveva essere il contenuto dei libri fatales, riguardando la dottrina della ciclicità del Tempo, le norme sui ritmi di vita degli uomini e delle nazioni, le regole per prolungarla, i saecula e i portenta che ne avrebbero indicata la fine19. Ben si comprende allora la ragione per cui Tarconte, iniziato per primo ai segreti dell’aruspicina e già eponimo fondatore di Tarquinia, risulti anche essere il veicolo mitografico delle prescrizioni sacre per la fondazione delle città, assumendo in seguito quel ruolo attivo nel processo di formazione dell’Etruria Padana che le fonti antiquarie gli attribuiranno con le fondazioni di Pisa e Mantova20. Ne consegue l’idea che l’aruspicina e l’epatomanzia fossero dottrine che svolgevano funzioni strettamente collegate con la disciplina della limitatio spaziale del terrae ius Etruriae21, e questo rende possibile che gli attribuiti sacrali di controllo della soglia misterica dello Spazio e del Tempo, che sono propri del contenuto del bronzo piacentino, ne giustifichino l’estrema localizzazione a nord degli appenini, per l’attuazione di un rituale fondativo di limitatio territoriale che, in una fase di massima espansione dell’Etruria Padana, avrebbe in ultimo esteso e consacrato i suoi confini settentrionali alle rive del Po. Il luogo di rinvenimento del bronzo e la declinazione del suo contenuto epigrafico all’“ethnos” linguistico etrusco, che tanto ha contribuito a deviare la ricerca sulle sole strade percorribili dai temi tradizionali dell’etruscologia, non possono dunque che soggiacere all’evidenza di un’influenza diretta sull’oggetto di quel conclamato e comune denominatore che è presente nel trasporto della dottrina epatoscopica – e diremo ora delle stesse più antiche tradizioni cosmogoniche da cui questa fu derivata – dal cuore della Mesopotamia alle coste mediterranee occidentali, dai lidi tirrenici dell’Etruria fino alle coste Adriatiche e, ancora oltre, attraverso la grande pianura del
19 CIC, De div., I, 72; II, 42; II, 49. 20 Per la fondazione di Pisa vd. CAT. SERV., Ad Aen., x, 179; per quella di Mantova vd. SERV., Ad Aen., x, 198. 21 Per una definizione del concetto di terrae ius Etruriae si veda ancora MAzzARINO 1974 = S. Mazzarino, “Il basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana”, vol. 2, Bari, 1974-1980 (II edizione 2003), pp. 273-276.
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6.3 L’Eridano, la caduta di Fetonte e l’equatore gnomonico
nord, fino alle sponde del fiume che ne ha custodito le spoglie. Abbiamo visto che la massima lunghezza della linea meridiana del settore G), marcata dall’identità leθn = padānu, è espressione della lunghezza dell’ombra equinoziale e che tale lunghezza risulta essere pari all’altezza del processus pyramidalis che quell’ombra proietta. Ne consegue, come si disse, che il luogo su cui è stato calcolato l’”analemma” del bronzo piacentino doveva esprimere un rapporto tra l’altezza dello gnomone e la lunghezza dell’ombra pari a 1/1, da cui ne consegue nuovamente che la latitudine entro cui l’oggetto venne progettato doveva essere prossima ai 45 gradi. Questo significa che il valore dei 45° di latitudine, a cui riconduce l’intero disegno del lobo destro, porta ora a dover ammettere, su basi che non erano mai state in alcun modo considerate prima, l’esistenza di un fattore di evidente non casualità che lega il Fegato di Piacenza al suo luogo di rinvenimento. Il 45° parallelo passa infatti a sud del capoluogo, esattamente per Gossolengo, e il luogo dove venne rinvenuto il nostro modello di fegato si localizza poco più a sud, nei campi tra Ciavernasco e la frazione di Caratta, ad una latitudine che è di circa 44°58’, con una variazione rispetto ai 45° del tutto impercettibile se calcolata sulla precisione strumentale dell’oggetto. Il Fegato sembra, in sostanza, essere stato rinvenuto nel luogo esatto dove avrebbe dovuto essere, e tale straordinaria conclusione si confronta ora non solo con i rapporti di natura astronomica che lo caratterizzano, ma, ancor più, con quei significati ideologici e religiosi che lo collegavano alla soglia misterica del Tempo, quale organo mediatore delle opposte dimensioni cosmiche. Il 45° parallelo, in quanto “equatore gnomonico”, è infatti quella linea immaginaria entro cui ogni discontinuità di fase delle ruote del Tempo trova un suo punto di equilibrio, in un principio di uguaglianza e simmetria tra la dimensione della luce e quella delle tenebre. Se l’istante del transito del Sole sul meridiano locale è l’istante che, in ogni luogo della Terra, divide la durata del giorno in un eguale numero di ore, e l’asse equinoziale è ugualmente una sorta di linea “meridiana” dell’anno, che ne divide la durata in un eguale numero di giorni, allo stesso modo i giorni dei due equinozi sono quelli entro cui le ore di luce si eguagliano con quelle della notte, così come solo ai 45° di latitudine la lunghezza dell’ombra al mezzogiorno equinoziale eguaglia l’altezza dello gnomone.
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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Il luogo di rinvenimento del bronzo piacentino non è dunque un luogo qualsiasi rispetto a quanto in esso vi è rappresentato. Gli stessi suoi parametri di lettura, dalla chiave interpretativa dei settori che è data dalla persistenza del termine equinoziale leθam, alla stessa formalizzazione analogica di ciò che il Templum solare viene a rappresentare, fino al parametro astronomico che ora ne fissa la localizzazione, altro non sono che l’espressione di quell’unico principio universale intorno a cui abbiamo visto dover ruotare l’intero corpo della dimensione religiosa e rituale della rievocazione cosmogonica degli inizi. La ripetizione di quell’atto di comunione dei Mondi, che è evocazione dei tempi e dei luoghi entro cui la figura del disordine indotto dalla divisione delle opposte dimensioni cosmiche raggiunge il suo limite di massima simmetria, medietà ed equilibrio. Rispetto alle fasi del tempo che, in ogni luogo, indicano i momenti entro cui si raggiunge l’equilibrio tra le fasi ascendenti e discendenti dei tempi della luce e di quelli delle tenebre, l’“equatore gnomonico” si pone dunque come unica vera linea equatoriale di ciò che sulla Terra è manifestazione della naturale opposizione e discontinuità di quanto ebbe origine dalla separazione delle dimensioni ultraterrene. Rappresenta dunque la linea immaginaria entro cui la soglia che divide il regno della luce da quello delle tenebre si ricongiunge agli istanti effimeri di ciò che fu prima di ogni inizio. Il mito greco assegnerà non a caso alla linea tortuosa del grande fiume del nord Italia che interseca questa latitudine, l’Eridano appunto, dai più identificato con il fiume Po22, il luogo della caduta di Fetonte, colui che guidò la folle corsa che devierà per sempre l’antica traiettoria celeste del carro solare. Nelle “Metamorfosi” di Ovidio, egli è fatto cadere su quella che è da intendersi come la traccia in Terra dell’antico suo corso, prima del definitivo sconvolgimento dell’ordine celeste che precedette la deviazione dell’asse del Mondo. Prima che ciò accadesse, il trono di Apollo-Helios ancora divideva le ruote del tempo in parti simmetricamente uguali, “alla sua destra e alla sua sinistra, a uguale distanza
22 POL., Sto., II, 16; VIRG., Georg., IV, 366-373; IGIN., Fab., 154; ISID., Etim., XIII, xxi, 26. VD. FERRARI 2011 = A. Ferrari, “Dizionario dei luoghi del mito: Geografia reale e immaginaria del mondo classico”, alla voce “Eridano”, Milano, 2011.
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6.3 L’Eridano, la caduta di Fetonte e l’equatore gnomonico
l’una dall’altra”, nella totale fissità latitudinale delle stagioni: “Il Sole sedeva, avvolto in un manto purpureo, su un trono scintillante di fulgidi smeraldi. A destra e a sinistra stavano il Giorno e il Mese e l’Anno, e i Secoli, e le Ore disposte a uguale distanza l’una dall’altra; stava la Primavera incoronata di fiori, stava l’Estate, nuda, che portava ghirlande e spighe, e stava l’Autunno imbrattato di mosto, e l’Inverno gelido, con i bianchi capelli increspati.” 23 Questa “uguale distanza a destra e a sinistra” è dunque l’immagine poetica di quella “Età dell’oro” che fu governata dalla perfetta armonia della meccanica celeste, quando l’asse cosmico era perpendicolare all’eclittica e la Terra ancora non conosceva la variabilità stagionale di ogni suo luogo, quella che sarà indotta dalla deviazione di quell’asse e dalla conseguente oscillazione dei punti di levata di Sole e Luna sull’arco solstiziale24. Nei versi di Ovidio, la conseguenza dell’uscita del carro solare dalla via stabilita è esattamente la spaventosa oscillazione, sulle spalle di Atlante, dell’asse che governa la rotazione dei cieli: “Guarda come, l’universo stesso cadrà in polvere i tuoi cieli sono in fiamme dall’uno all’altro polo. Se il fuoco li consuma, l’universo stesso cadrà in fiamme. Sofferente, angustiato, Atlante quasi non riesce a bilanciare l’asse incandescente del Mondo sulle sue spalle” 25 . E il poeta greco Nonno, da cui Ovidio coglie questo passaggio, era stato ancora più esplicito nell’affermare che: “vi fu un tumulto nel cielo che scosse i cardini dell’universo immobile e si piegò perfino l’asse che passa per il centro dei cieli ruotanti. A stento il libico Atlante, puntellato sulle ginocchia, il dorso curvo sotto il maggior carico, potè sostenere il firmamento delle stelle che si rivolgevano a lui” 26.
23 OVID., Metam., II, 23-30. 24 Nell’Età dell’Oro la variabilità stagionale è così fissata, per Ovidio, su fasce climatiche latitudinalmente stabili: “Così come il cielo è diviso in due zone a sinistra/ e altrettante a destra, con una più torrida al centro,/la divinità ne distinse la materia interna/ in modo uguale e sulla terra sono impresse fasce identiche./Quella mediana è inabitabile per la calura;/due oppresse dalla neve; e altrettante ne collocò in mezzo/che rese temperate mescolando fuoco e gelo”; OVID., Metam., I, 45-51. 25 Ibid., II, 294-297. 26 NONNO, Dion., XXXVIII.
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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Alla luce delle nostre precedenti argomentazioni, il mito di Fetonte sembra inoltre richiamare al tema delle “Regole della buona marcia” ed a una nuova rottura di quell’antico ordine che Marduk aveva stabilito sconfiggendo Tiāmat e “ingabbiando” le forze animali del caos sulle “porte dell’Apsû”. L’avere spostato nei cieli il circolo zodiacale, l’antico anello di pietre su cui quelle forze erano state incatenate nel ventre della Terra, è l’esatta ragione per cui il carro solare di Fetonte perderà ogni controllo della sua folle corsa. Secondo Ovidio, è proprio la spaventosa vista degli animali dello zodiaco che ne farà imbizzarire i cavalli ed è da questo pericolo, e dalla vorticosa rotazione del circolo che muove in senso contrario al moto del carro solare, che egli era stato, non a caso, messo in guardia dal padre Helios: “Immagina di avere il cocchio: che farai? saprai opporti al rotare dei poli, senza che il flusso del cielo ti sommerga? Pensi forse che lì ci siano boschi sacri, città di dei o sacrari ricchi di offerte? Attraverso insidie e visioni di mostri avviene il tuo viaggio, e per quanto tu segua la via giusta senza mai sbagliare, dovrai pure avventurarti tra le corna del Toro che hai di fronte, contro l'arciere di Emonia, tra le fauci violente del Leone, contro lo Scorpione che inarca in un gran cerchio le sue chele velenose e il Cancro che in altra direzione le richiude” 27 Sarà infatti proprio alla vista dell’orrida costellazione dello Scorpione, quello che nella mitologia babilonese fu l’antico guardiano delle porte di accesso al Mondo infero, che Fetonte stesso, paralizzato dal terrore, lascerà cadere le redini del carro, perdendone definitivamente il controllo28. Il mito della caduta di Fetonte richiama dunque all’archetipo, pre-
27 OVID., Metam., II, 74-83. 28 Ibid., II, 191-196: “Incapace a decidere, resta di pietra, non lascia le redini / e non ha la forza di tirarle, i nomi stessi ignora dei cavalli. / In più, dispersi nel cielo screziato, in ogni luogo vede / prodigi e, inorridito, fantasmi di animali mostruosi. / V'è un punto dove lo Scorpione incurva le sue chele / in due archi e dalla coda alle branche, strette a fòrcipe, / stende le sue membra nello spazio di due costellazioni. / Quando il ragazzo lo vede che, asperso tutto di nero veleno, / minaccia di colpirlo con la punta dell'aculeo, / sconvolto dal gelo del terrore lascia andare le briglie”.
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6.3 L’Eridano, la caduta di Fetonte e l’equatore gnomonico
sente in tutte le culture dell’antichità, di una immane catastrofe che segna l’uscita dall’Età dell’Oro e che sempre ha, come ultimo suo effetto, la deviazione dell’asse del Mondo e la trasgressione ad un più antico ordine celeste. Nel Timeo, Platone stesso fa dire ad un sacerdote egizio che parla con Solone di come questo mito greco avesse l’aria di una favola riferita ad una cosa reale, e questa cosa era “una deviazione dei corpi che ruotano in cielo attorno alla Terra, e una distruzione che avviene a lunghi intervalli di tempo, delle cose sulla terra in una grande conflagrazione” 29. La successiva caduta di Fetonte sulla linea dell’Eridano, il fiume Po, sembrerebbe a sua volta collegarsi con antiche credenze secondo cui l’asse del fiume veniva inteso come la proiezione in terra dell’antico corso celeste del Sole, prima della sua deviazione30. L’equivalente in cielo di questa antica orbita sarebbe stata la Via Lattea, il tracciato luminoso della volta celeste a cui gli antenati attribuivano l’evidenza visiva di quell’antico transito. Secondo le opinioni attribuite da Aristotele ai circoli pitagorici, la Via Lattea era “il percorso seguito da una delle stelle ai tempi della leggendaria caduta di Fetonte”, mentre “altri affermano trattarsi del circolo nel quale si muoveva una volta il sole”, e “questa zona sarebbe stata bruciata, o in altro simile modo segnata, in seguito al passaggio di questi corpi” 31. A conferma di questo, alcuni hanno osservato come il nome Eridano venisse contestualmente attribuito dai greci sia al fiume Po sia alla stessa Via Lattea32, per cui si instaurerebbe una stringente connessione logica tra l’antica traiettoria celeste del Sole, la linea del fiume Eridano-Po su cui cadde Fetonte, la “Via” luminosa del cielo che, secondo gli antichi, di quell’antica traiettoria ancora conservava memoria visiva, e l’eguale nome Eridano che i Greci assegnarono ad entrambi. L’aspetto straordinario che la nostra indagine aggiunge a questa significativa serie di concordanze, è che ora constatiamo come lo stesso corso del fiume Po intersechi il 45° parallelo, quello stesso che
29 PLAT., Timeo, 22, c-e. 30 Vd. SANTILLANA, DECHEND 1983 = G. De Santillana, H. Von Dechend, “Il Mulino d'Amleto”, trad. it. di A. Passi, Milano 1983, pp. 303-313. 31 ARIST., Met., I, 8, 345 A. 32 Vd. SANTILLANA, DECHEND 1983, P. 308; in particolare ALLEN 1963 = R.H. Allen, “Star Names”, Dover, 1963, alla voce “Galaxy”, pp. 474-475.
Cap. VI – Manzāzu, letham, padānu
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abbiamo visto esprimere il massimo asse di simmetria della dimensione spazio-temporale e dunque una linea che gli antichi osservatori avrebbero potuto effettivamente considerare la proiezione in terra dell’antica traiettoria del carro solare di Fetonte, prima della sua caduta. Ma la cosa ancora più sorprendente, è che abbiamo già osservato come la linea dell‘“equatore gnomonico”, e cioè il parallelo posto ai 45 gradi di latitudine entro cui il bronzo è stato rinvenuto, sia indicato sul Fegato dal termine etrusco leθn, a cui risulta ora associato il segno del corrisponde termine accadico padānu. Nella misura in cui quest’ultimo assume il significato generico di “via” o “percorso”, e considerato che il rapporto con il manzāzu lo può connotare in termini propriamente astronomici, risulta che padānu potrebbe esprimere un concetto di “via” o “percorso” che andrebbe associato a qualche cosa che, pur non essendo pertinente ad alcuna traiettoria di un oggetto astronomico in movimento, indicherebbe un tracciato staticamente visibile sulla volta celeste. In tal caso, non vi sarebbe dubbio sul fatto che questo tracciato, detto “Via”, altro non potrebbe essere che l’evidenza luminosa della stessa “Via Lattea”. Se così fosse, alla linea dell’“equatore gnomonico” che è proiezione in terra della “Via” del cielo e che conserva la memoria dell’antico percorso del carro di Helios, sarebbe stato attribuito, consecutivamente, il nome greco e accadico che a quella “Via” venne associato, ed entrambi i due termini – Eridano e Padānu – sarebbero stati poi assunti a nominare, in modi e tempi diversi, il fiume e la grande pianura che da quello stesso ”equatore” venivano attraversati. Lo straordinario scenario che si apre è dunque di tale ampiezza da condurci ben oltre il tema che abbiamo fin qui trattato. Se in parte vi si anticipano gli sviluppi che affronteremo nel prossimo volume, resta il fatto che, se pure non vi sia attualmente alcuna prova di un simile significato attribuito al termine accadico padānu, vi sono al contrario sufficienti indizi dell’esistenza di uno stretto legame che la tradizione astronomica babilonese stabiliva tra la Via Lattea, l’asse equinoziale e l’immagine stessa di Tiāmat, nella sua primitiva accezione di tīamtu, ovvero “mare primordiale”. Werner Padke, ha osservato come la figura di Tiāmat si trovi collegata ad un attributo della costellazione KAK-SI-SA2 (“Freccia”) che è enunciato in un testo religioso tardo-babilonese (ABRT 1, 1-2, 3), assumendo che la parola Tiāmat corrisponda a una forma legata di tâmtum