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Italian Pages 388 [376] Year 2013
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O per e · i . Saggi M A R CO M A R IA O L I V ET T I
PISA · ROMA FA B R I Z I O S E R R A E D ITORE MMX I I I
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SOMMARIO Stefano Semplici, Presentazione
9 saggi
Riforma cattolica e filosofia moderna nel pensiero di Augusto Del Noce (1969) Error e Kairós. La funzione periodizzativa dell’idea di cristianesimo e la storia della filosofia (1971) Témoignage et apologétique (1972) Il problema della secolarizzazione inesauribile (1976) Enrico Castelli: un Maestro (1977) Il senso «comune» tra colloquio e paradosso. Linee per una interpretazione del pensiero e dell’opera di Enrico Castelli (1978) Introduzione alla Religione di Kant (1980) Varisco e il teismo (1985) Über J.-L. Marions Beitrag zur neueren Religionsphilosophie (1986) Enrico Castelli (1900-1977) (1990) Il problema religioso nel pensiero di Franco Lombardi (1993) Filosofia della religione (1995) Il corpo che siamo e l’ambiguità delle categorie ontologiche : l’alimentazione dell’altro (1996) Circa la compatibilità della professione di filosofo con la professione di fede cristiana (1996) La persona come debito ontologico (1996) Comment on J. Hintikka, Contemporary Philosophy and the Problem of Truth (1996) Analogie du sujet, universalité des droits, exceptionnalité du devoir (1996) Teologia e analogia subjecti (1998) Introduzione al Saggio di una critica di ogni rivelazione di J. G. Fichte (1998) Incarnation of the Ought (1999) Compassione o teodicea. L’appropriazione religiosa del problema del male nella filosofia contemporanea (1999) Cristianesimo e filosofia nell’università statale di Roma nel ’900 (2002) ‘Via’ dalla ‘religione’ ? (2003) La comunità delle menti come problema della filosofia moderna (2005) Universalità e molteplicità personale (2006)
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PRESENTAZIONE
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l 24 maggio 2013 Marco Maria Olivetti avrebbe compiuto 70 anni. Lo vogliamo ricordare offrendo la possibilità di continuare a lavorare sul suo pensiero a tutti coloro che nella pratica filosofica continuano a sforzarsi di pensare l’umano, di immaginarne l’essenza, seguendo la tesi enunciata nell’attacco di Analogia del soggetto, la sua opera probabilmente più importante. Una possibilità che è anche un invito a tornare su testi che hanno tracciato linee di penetrazione in luoghi cruciali della filosofia moderna e contemporanea, imponendosi tanto per la loro originalità quanto per il loro ineccepibile rigore metodologico. Al volume dei Saggi, già pubblicato nell’« Archivio di Filosofia » e che comprende i contributi più significativi e utili per ripercorrere una storia esemplare di ricerca e insegnamento lunga quaranta anni, si aggiungono in questa edizione delle Opere i due volumi che ripropongono le monografie di Olivetti, restituendo così nella sua complessità e organicità la sua straordinaria capacità di combinare la cura per l’indagine storiografica con la preoccupazione per la ‘natura’ e il ‘destino’ della filosofia, interpretata a partire dalla filosofia della religione, dai suoi temi e dai suoi protagonisti. I testi proposti nei Saggi sono stati ordinati cronologicamente e selezionati con l’intento di non tralasciare nessuno degli snodi fondamentali della sua attività di ricerca1, offrendo uno spaccato il più ampio possibile della vastità dei suoi interessi. Per quanto riguarda le monografie, invece, si è preferito privilegiare la continuità tematica e di temperie culturale fra lo studio sulla filosofia del linguaggio di Jacobi e Filosofia della religione come problema storico. I lettori troveranno di conseguenza Il tempio simbolo cosmico, la cui prima edizione è del 1967, nel terzo e ultimo volume di queste Opere. Dalla ricchezza di queste prospettive emerge il tratto fondamentale di uno stile di pensiero e di vita. Olivetti applicava e insegnava ad applicare prima di tutto a se stessi uno sguardo sempre curioso fino all’ironia, che ha dato un’impronta inconfondibile all’esperienza dei Colloqui Castelli e ha accompagnato diverse generazioni di giovani a coltivare la pazienza di un esercizio difficile : ‘fare filosofia’ senza essere gli studiosi di un solo autore e i discepoli di una sola scuola. Questo impegno non si riduce all’esplorazione dei percorsi possibili una volta andato fuori corso il vocabolario dell’ontologia e consumata la crisi del cogito. Sempre in Analogia del soggetto, Olivetti invitava a considerare la fine della metafisica rappresentativa come un incessante « finire in una antropologia dell’intervallo », nella quale « risuona la voce dell’imperativo che costituisce nell’essere come responsabili ». È intorno a questo inter-esse come responsabilità che continuiamo a filosofare.
Stefano Semplici 1 Per l’elenco completo delle opere cfr. Bibliografia, a cura di S. Bancalari, in Marco Maria Olivetti. Un filosofo della religione, « Archivio di filosofia », lxxvi, 3, 2008, pp. 273-286.
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saggi
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RIFORMA CATTOLICA E FILOSOFIA MODERNA* I. Filosofia della storia e « status deviationis »
1. Ateismo e problematizzazione della storia della filosofia
A
ll a attuale sensibilità culturale il rifiuto della filosofia della storia – e dei suoi esiti sociologistici – appare cosa certamente difficile. Allorché tuttavia ad esso si voglia dar luogo, l’unica strada che possa essere intrapresa è quella di respingere ogni discorso in termini di significati filosofici, affermando viceversa le essenze filosofiche e la necessità delle essenze filosofiche. È precisamente questa posizione radicale che caratterizza il pensiero di Augusto Del Noce. La problematizzazione della storia della filosofia e della visione ordinaria della storia della filosofia è per Del Noce il compito fondamentale che l’«attualità storica» pone al filosofo ; ed è precisamente il compito a cui tutto il suo pensiero intende far fronte. Naturalmente è lecito chiedersi le ragioni per le quali tale problematizzazione appare come compito fondamentale ; la risposta a questa richiesta non costituisce la sostanza del discorso filosofico che l’attualità storica impone, tuttavia essa è preliminare in quanto rende ragione e dà senso al discorso medesimo. Diremmo perciò che opportunamente Il problema dell’ateismo ha preceduto, nella pubblicazione dei lavori di Del Noce, l’opera Riforma cattolica e filosofia moderna : 1 è il tema dell’ateismo che, rilevato come costitutivo dell’attuale realtà antropologica, impone la problematizzazione della visione ordinaria della storia della filosofia ; sono tuttavia i risultati della revisione storica condotta sulla base di tale problematizzazione l’essenza del discorso che oggi s’impone. Discorso non solo storico (una storia della filosofia), bensì filosofico ; (una filosofia « attraverso la storia » per usare l’espressione di Del Noce). Il modo di prospettare la storia della filosofia infatti « condiziona oggi praticamente – anche tutto il modo di intendere e di concepire la filosofia » ; che, se « la storia della filosofia sorse, nel suo primo grande modello, come controprova storica della filosofia hegeliana, la sua funzione si è oggi rovesciata, dopo lo storicismo e la critica delle evidenze ; il criterio della validità storica di una filosofia riducendosi oggi a quello di oltrepassare e integrare, spiegandone la genesi, le precedenti posizioni di pensiero ». 2 Tematizzazione dell’ateismo e problematizzazione della storia della filosofia non sono separabili ; la seconda, vale a dire, non è una possibile conseguenza della presa in considerazione del fenomeno dell’ateismo, bensì una sua necessaria richiesta. Da un lato infatti l’ateismo, come meglio vedremo, si presenta sotto forma postulatoria, quindi per definizione problematica da un punto di vista teoretico ; d’altro lato esso si è ormai chiarito inequivocabilmente alla consapevolezza filosofica come l’esito estremo
* «Archivio di Filosofia», xxxvii, 1, 1969, pp. 153-187. 1 Augusto Del Noce, Il problema dell’ateismo. Il concetto di ateismo e la storia della filosofia come problema, Bologna, Il Mulino, 1964 ; Riforma cattolica e filosofia moderna, vol. I Cartesio, ivi, 1965. La precedenza nella pubblicazione va intesa con riguardo alla presentazione unitaria delle opere ; alcune loro parti erano state già precedentemente pubblicate, essendo le due opere state scritte attraverso un lungo periodo di elaborazione filosofica. Per Del Noce infatti la meditazione sull’attualità storica e la teoresi sulla storia della filosofia costituiscono un reciproco motivo di comprensione e di verifica. Queste due opere maggiori saranno qui appresso indicate rispettivamente con le sigle PA e RCFM. 2 PA, p. x. La sottolineatura è di Del Noce.
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del razionalismo (termine che troverà una sua precisazione nel corso di questo lavoro). Sicché la problematicità della assunzione ateistica come assunzione postulatoria comporta la problematicità di quella direttiva storica che all’ateismo conduce. Per Del Noce si tratta infatti di una direttiva storica ; la visione dell’intera storia della filosofia moderna come razionalismo è per lui tutt’uno con l’assunzione postulatoria dell’ateismo. Carattere postulatorio di una filosofia adducente all’ateismo significa opzione iniziale gratuita : per designare la quale si può opportunamente usare il termine pascaliano di pari. Opportunamente, in quanto tale opzione comporta una grossa «posta» costituita dall’esistenza medesima dell’individuo (il senso che questa assume di fronte a se stessa), ma soprattutto in quanto Pascal può essere visto, con riguardo al pensiero di Del Noce, come l’alternativa a quella direzione filosofica per la quale il cammino del pensiero sarebbe un processo verso la radicale immanenza. Questa apertura verso la possibile conclusione del discorso andrà ripresa ed approfondita, per l’appunto, al termine di queste note. Ma per intanto, il rilievo del rapporto di causa-effetto in cui, nel pensiero di Del Noce, si pongono razionalismo ed ateismo rende possibile che di essi venga data una definizione unica come affermazione della assoluta immanenza. Dal momento però che ateismo è termine etimologicamente e semanticamente negativo, non sarà inutile darne una definizione in termini negativi, anche e soprattutto perché è questa che maggiormente caratterizza l’atteggiamento di Del Noce in rapporto all’intera problematica razionalistica, dalle sue premesse filosofiche alle sue catastrofiche conseguenze storiche (la storia attuale è infatti sempre « storia filosofica », 1 come avremo modo di ricordare ancora ; il che costituisce insieme una conseguenza ed una conferma della comprensione, propria a Del Noce, del marxismo quale aspetto fondamentale dell’ateismo). 2 Esclusione di ogni trascendenza quindi, meglio che affermazione di una totale immanenza. Vogliamo noi stessi riportare il passo di Laporte citato integralmente da Del Noce all’inizio del Problema dell’ateismo, sia perché Del Noce afferma apertamente essere il senso in cui egli intende il termine « razionalismo » nient’altro che quello a cui giunge il Laporte nelle pagine introduttive al Rationalisme de Descartes, sia perché l’opera del Laporte donde la definizione è tratta è un’opera cartesiana : e Cartesio rappresenta il pernio del discorso che qui intendiamo svolgere intorno al tema «riforma cattolica e filosofia moderna». Circa le caratteristiche qualificanti il razionalismo, dunque, « decisiva [...] è la posizione assunta nei riguardi della religione. Il razionalista accetta la religione, purché si tratti di una religione razionale, traducente in un linguaggio simbolico le affermazioni della ragione, o limitantesi alla coscienza stessa che noi abbiamo della ragione, in quanto principio di comunione universale fra gli uomini. Egli rifiuta ogni trascendenza. Egli si chiude nell’immanenza, perché pensa che la ragione, la nostra ragione, non si appoggia su nulla di altro, che essa non ha bisogno di completarsi con nulla di altro, che essa non ha dunque a curarsi di alcun al di là. Egli si accomoderà a rigore con l’inconoscibile. Egli non tollererà mai il soprannaturale ». 3
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Si può vedere, ad es., per delle considerazioni tematiche PA, pp. cxxxi-cxxxiv e 65-74. È indicativa – quantunque non condivisibile – la domanda retorica che si pone Cesare Vasoli in uno dei saggi migliori che siano stati scritti sul problema dell’ateismo in Del Noce : Gli intellettuali cattolici, l’ateismo e il marxismo, in « Il ponte », ottobre 1966, pp. 1205-1227 ; egli si chiede infatti se la comprensione del marxismo che Del Noce manifesta in PA non sviluppi in verità una delle illustrazioni più convincenti di quell’orientamento filosofico. 3 Jean Laporte, Le rationalisme de Descartes, Paris, P.U.F., 1945, p. xix. 2
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È il caso di rilevare la singolare coincidenza, che traspare nella scelta della citazione e che caratterizza l’intero pensiero di Del Noce, fra trascendenza, soprannaturale e religione, con religione dovendosi intendere peraltro il cristianesimo. Ora, si può anche essere d’accordo su questa identificazione (si potrà intendere anzi come proprio essa sia un risultato della radicalizzazione pascaliana del discorso di Del Noce che viene proposta con queste note) ; ma ciò che è veramente peculiare dell’atteggiamento filosofico di Del Noce è che questa identificazione non viene problematizzata, bensì costituisce un sottinteso scontato. Di fatto la religione e il soprannaturale di cui Del Noce parla sono quelli cristiani. Il pari alla origine del discorso umano non è quindi configurabile semplicemente come una scommessa fra la assoluta immanenza e la trascendenza ; questa alternativa infatti si precisa come l’accettazione o il rifiuto del racconto biblico positivo della caduta d’origine, cioè l’accettazione o il rifiuto di uno status naturae lapsae caratterizzante l’esistenza. Ci pare che l’attegg iamento di fondo, e quindi implicito, del pensiero di Del Noce possa essere così identificato ed esplicitato : l’affermazione dell’assoluta immanenza esaurisce la (e quindi si identifica con) l’affermazione della naturalità (cioè il non essere decaduta) dell’esistenza umana. Pertanto : è possibile parlare di una soprannatura solo sulla base di una previa accettazione dello status naturae lapsae. Pertanto : l’affermazione della non naturalità dell’esistenza umana esaurisce la (e quindi si identifica con) l’affermazione della trascendenza. Il rifiuto di una positiva teologia della storia – quella biblica con il riferimento alla caduta d’origine – comporta necessariamente la filosofia della storia e quindi l’affermazione razionalistica dell’immanenza assoluta : riteniamo che questa tesi risponda all’intenzionalità del discorso filosofico di Del Noce, globalmente considerato. 1 Si tratta però di conside
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Se così è, si può intendere la « simpatia », nel senso etimologico del termine, che, nonostante le profonde e, a nostro avviso, incolmabili differenze teoretiche, lega il pensiero di Del Noce a quello di Léon Chestov e a quello di Enrico Castelli. Se le affinità si intendono da quanto si è detto nel testo, le differenze potranno intendersi solo alla fine di questo lavoro. Sul tema status naturae lapsae si possono vedere le pagine, per cosi dire, « programmatiche » dedicate nell’introduzione a PA al motivo della caduta d’origine e al razionalismo come « rifiuto senza prove » dello status naturae lapsae (pp. xxiv-xxvii). Il razionalista però potrebbe, e ben a ragione, osservare che le prove (positive) andrebbero addotte dall’affermatore dello stato di natura decaduta, e non da lui ! Quella che infatti Del Noce pretenderebbe è una prova negativa (una prova « che non ») ; quella prova che in termini giuridici si chiama probatio diabolica : termine che in questo caso useremmo volentieri anche noi, seppure in un diversissimo senso ; nel senso cioè che Del Noce scende letteralmente sul terreno dell’avversario razionalista e probatore. Il fatto è che in questa impostazione del « rifiuto senza prove » Del Noce cerca di fondere i due atteggiamenti di fondo che, come avremo modo di rilevare in tutto il saggio, non trovano composizione nel suo pensiero : il pari, da un lato, e, dall’altro, la scelta critica della trascendenza come posizione razionalmente preferibile a quella dell’immanenza, che conduce a risultati nichilistici. La fusione dei due motivi però non può avvenire, per l’appunto, che in termini puramente negativi. Già da questo si intendono alcuni degli elementi per cui il pensiero di Del Noce differisce sostanzialmente da quello di Castelli e da quello di Chestov. In Chestov infatti il pari è puro e assoluto : o Atene o Gerusalemme (lo stesso Kierkegaard infatti è per Chestov in una posizione di compromesso : si veda Leon Chestov, Kierkegaard et la philosophie existentielle. Vox clamantis in deserto, Paris, Vrin, 1936). In Castelli invece si accetta ili ricorrere alla prova, ma si tratta di una prova positiva dello stato di natura decaduta. Anche se, naturalmente, ciò comporta una non facile impresa, mancando il termine di confronto in rapporto al quale si può giudicare della deteriorità dello stato attuale. Onde il singolarissimo procedimento di Castelli, che assume a termine di confronto casi di alienazione mentale, come alienazione di uno stato alienato, rivelativa della innaturalità di questo ultimo : una « rivelazione per trauma », cioè attraverso la « frattura della frattura » (v. Enrico Castelli, I presupposti di una teologia della storia, Padova, Cedam, 19682). Oltre al tema della prova, poi, nel pensiero di Castelli c’è l’affermazione del senso comune come facoltà conoscitiva immediata, residuo di uno stato edenico precedente alla tentazione del serpente che introdusse i frutti dell’albero della scienza e della mediazione. Con il che si rivela, per un verso, un contatto
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rare in primo luogo, seppur schematicamente, la generale concezione della storia della filosofia che informa il suo pensiero, e quindi, in modo ben più esteso, i “contenuti” di storia della filosofia che egli ritiene di dover proporre, in particolare quello cartesiano, per vedere se e come essi siano inquadrabili in una tesi del genere. 2. La visione essenzialista della storia della filosofia In Riforma cattolica e filosofia moderna Del Noce dedica un certo numero di pagine alla concezione del Gouhier sui rapporti tra filosofia e storia. 1 È in queste pagine probabilmente che Del Noce formula nei termini più espliciti e perspicui la propria concezione della storia della filosofia. Inoltre, dal momento che tale concezione si precisa nel dibattito con la visione bergsoniana del Gouhier, tutto quello che Del Noce aveva detto nel Problema dell’ateismo sulla storia della filosofia in opposizione alla visione razionalistico–marxista acquista una configurazione, se possibile, ancora più netta per l’opposizione, o quanto meno, per il distacco da una visione della storia della filosofia che alla razionalistico–marxista sembrerebbe antitetica. Nel vedere in ogni filosofo un « creatore » di un pensiero sostanzialmente nuovo, il Gouhier conduce all’estremo limite il bergsonismo. Se si pensa al saggio di Bergson Le possible et le réel, per il quale la concezione del possibile avanti al reale nella considerazione delle posizioni filosofiche (uno spinozismo possibile, ad esempio, che attendeva Spinoza per diventare reale) è la considerazione del reale come un possibile diventato attuale, e cioè il frutto di un’illusione retrospettiva, l’eredità bergsoniana del Gouhier appare evidente. Naturalmente, una simile posizione comporta che lo storico del pensiero filosofico abbia sempre a che fare con le filosofie, sia pure nella loro tensione verso la filosofia, e mai con la filosofia. Senonché proprio l’affermazione delle filosofie – le filosofie come « visioni del mondo » – comporta che all’« io » rischi di sostituirsi il « noi ». Gouhier stesso afferma che l’ambiente sociale, culturale, economico non sono qualcosa di esterno al filosofo ; infatti la Weltanschauung designa piuttosto « quel che diventa questo ambiente quando, a sua volta, ha per ambiente la filosofia » di un determinato filosofo. 2 E Del Noce osserva come non a caso il Gouhier sia quello fra gli autori non marxisti a cui soprattutto si richiama il Goldmann. 3 È ben vero quindi che anche il bergsonismo ha condotto una polemica contro la filosofia della storia in quanto tale ; questa polemica però rischia di cedere proprio di fronte al tipo più radicale di filosofia della storia, cioè il marxismo. 4 L’affermazione delle essenze filosofiche operata da Del Noce
con Chestov (pensiero = peccato), ma, per un altro verso, un contatto con Del Noce, in quanto si ammette tuttavia l’esistenza di un mondo umano di conoscere non peccaminoso : quanto salva la probatio castelliana dall’inficiamento razionalistico. Su Castelli Del Noce scrisse un breve, ma denso saggio, che costituisce una delle interpretazioni migliori e più sensibili del pensiero castelliano : Senso comune e teologia della storia nel pensiero di E. Castelli, Torino, Ed. di « Filosofia », 1954 (interessanti, in ordine al nostro problema, le notazioni finali, che confrontano il pensiero di Castelli con quello di Chestov). Su Chestov si veda l’introduzione di Del Noce alla traduzione italiana di Leon Chestov, Il sapere e la libertà, Milano, Bocca, 1943 e di Concupiscentia irresistibilis, Milano, Bocca, 1946. 1 RCFM, pp. 259-278. 2 3 Henry Gouhier, L’histoire et sa philosophie, Paris, Vrin, 1952, p. 148. PA, p. 267. 4 Il fatto è che la filosofia della storia « in quanto tale » è per il bergsonismo quella di tipo comtiano, il bergsonismo rappresentando l’autocritica del comtismo. Per la ragione che vedremo subito appresso, riteniamo assai interessante riportare il seguente passo : « In quanto a Comte, non si vuol certo negare che il suo sforzo sia stato di realizzare un uomo senza traccia di Dio. Di più. il suo caso sembrerebbe contraddire l’idea delle origini dell’ateismo nel razionalismo metafisico. Ma altro è proporsi un programma e altro è
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appare pertanto veramente il tentativo teoretico più radicale e più rigoroso di evitare il coinvolgimento nella filosofia della storia e nello storicismo. 1 realizzarlo. E qui potrebbe sorgere la domanda se la conclusione del positivismo francese non debba vedersi in Bergson : il cui processo di pensiero, partito dalla critica di Spencer, conclude proprio nella critica di quel tipo di ‘religione chiusa’ di cui Comte era stato il teorico. In un processo che si svolge completamente all’interno del positivismo come la sua autocritica, e che riesce difficile a intendere e a situare storicamente proprio nella misura in cui sono inizialmente ignorate le altre direzioni di pensiero (i filosofi classici sono, se mai raggiunti). Bergson giunge alla critica della originaria fondazione comtiana » (PA, p. xxxiii). Sicché si ha qui agio di osservare il caso, teoreticamente di estremo interesse, che proprio quella direzione di pensiero – la comtiana – la quale sembrerebbe contraddire la tesi delle origini dell’ateismo nel razionalismo, in verità è predisposta ad essere riassorbita – nella forma che essa assume attraverso un processo di autocritica – nelle posizioni che del razionalismo rappresentano l’esito estremo (il cedimento del bergsonismo di fronte alla filosofia della storia marxista). Quanto diciamo trascende il puro discorso storico e viene addotto ad esemplificazione concreta di un discordo teoretico intorno ad essenze filosofiche : discorso che per la sua portata generale sarà il caso di esplicitare, sia pur schematicamente. La definizione del razionalismo come rifiuto della trascendenza chiarisce, per Del Noce la natura dell’empirismo. È infatti in quest’ultima posizione che rientra il comtismo. Tre significati sono distinguibili infatti nell’empirismo. Nel primo esso designa una linea filosofica « subordinata al razionalismo nell’opposizione » e cioè l’empirismo come scetticismo (una interessantissima esemplificazione di questa posizione generale è costituita dalla figura di Rensi, nella interpretazione che di essa da Del Noce : si veda Giuseppe Rensi tra Leopardi e Pascal ; ovvero l’autocritica dell’ateismo negativo in Giuseppe Rensi, in « Atti della giornata rensiana », Milano, Marzorati, 1967, pp. 60-140). Nel secondo senso, quello più diffuso e caratterizzante la società borghese, l’empirismo vuole riaffermarsi oltre il razionalismo, ma dopo averne accettate le negazioni ; « e allora il termine più conveniente per designarlo è quello di positivismo (scienza contro teologia e metafisica) ». Nel terzo significato, come empirismo successivo alla critica del razionalismo, esso assume il significato dell’affermazione della pluralità e della irriducibilità dei piani dell’esperienza, e può pertanto benissimo reincontrare l’ontologismo come filosofia dell’esperienza metafisica (si veda PA, p. xix-xx). La sostanziale non autonomia del discorso empiristico in rapporto alle altre due posizioni di pensiero possibili, cioè il razionalismo e l’ontologismo religioso (ma questo termine si dovrà chiarire nel complesso del discorso) ha come significato ultimo che la « partita » definitiva vada « giocata » fra queste due posizioni, senza potersi illudere di rifiutare la filosofia della storia (nel senso latissimo che abbiamo dato a questo termine, comprendendovi storicismo e sociologismo, visti come suoi esiti) mediante il ricorso a posizioni diverse, le quali in verità sono destinate ad essere riassorbite nell’una o nell’altra di quelle due. Non per nulla la critica di Del Noce a Gouhier e più in generale alla visione bergsoniana della storia della filosofia si configura nei termini di una negazione della identificabilità della tesi della discontinuità delle filosofie con l’idea di « creazione » delle filosofie ; Del Noce accetta la prima tesi, ma rifiuta e dichiara incomprensibile la seconda. A nostro avviso però è proprio l’affermazione della discontinuità delle filosofie come creazione delle medesime quanto accomuna questa tesi, come una particolare « specie », al « genere » razionalismo, cioè a quella visione ove da ultimo è inevitabile il sostituirsi della praxis alla theorìa (nella specie : la creazione di determinate filosofie alla contemplazione-conoscimento di essenze date). 1 Vedremo in seguito l’importanza del problema del periodizzamento nel pensiero di Del Noce. Di fronte a questo fatto, ci si può chiedere se la filosofia della storia non si reintroduca surrettiziamente nel suo pensiero. Riteniamo perciò utile riportare questo interessantissimo passo : « L’importanza conferita al problema del periodizzamento significa dunque porre, come problema oggi centrale, quello della filosofia della storia ? Personalmente non avrei alcuna difficoltà ad ammetterlo. Ma so bene come il termine possa suonar male : nel linguaggio corrente filosofia della storia ed escatologismo si trovano associati. Mi si può dunque opporre che appunto la liberazione dall’escatologismo caratterizza il pensiero storiografico filosofico avvertito ; e che l’unica sentenza in cui tutti oggi si trovano d’accordo è quella che riconosce nella filosofia della storia una traduzione laica della teologia della storia valida in un contesto teologico che si richiama alla Rivelazione, ma non fuori di questi limiti [...] Ma, vediamo : l’abbandono, nel filosofo laico, delle verità definitive ed eterne porta alla affermazione che ‘tutta la realtà è storia’. Ora una tale definizione abolisce certamente l’idea della definitività come pienezza ; non abolisce affatto l’idea della definitività come esclusione. Da che cosa ? Dal naturalismo e dal suo rovesciamento scettico ; e per altro verso, dalla interpretazione soprannaturalistica della reale distinzione dell’uomo e della natura. In breve, dalla trascendenza naturalistica e dalla trascendenza religiosa ; ma, una volta posto questo, il periodizzare diventa necessario ». (RCFM, pp. 681-682).
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Bisogna sottolineare però che la visione essenzialistica non esclude affatto in Del Noce la positiva presenza della storia al proprio interno. In caso contrario ci si troverebbe di fronte ad una posizione « che subisce l’avversario nell’opposizione » (usiamo con ciò una espressione e, ancor più, uno schema interpretativo che è tipico del pensiero essenzialistico di Del Noce) : in questo la successiva analisi cartesiana sarà illuminante. Anzi, non solo una storia della filosofia per Del Noce è possibile, ma oggi non è possibile fare filosofia altrimenti che attraverso e sulla storia. Come Del Noce attui questa sua filosofia sulla storia avremo modo di vederlo attraverso la considerazione del pensiero cartesiano (del resto, indicativa in questo senso è quella stessa considerazione dell’ateismo e dell’intera storia contemporanea come storia filosofica che, per l’appunto, impone la problematizzazione della storia della filosofia a partire da Cartesio). Quanto in questo momento però vogliamo porre in evidenza non è come in pratica si attui ed operi una certa visione, bensì l’essenza teoretica in cui questa consiste. È ovvio che affermare la filosofia sulla e attraverso la storia, se è cosa ben diversa dalla filosofia della storia, comporta tuttavia la possibilità di una storia della filosofia, e cioè di una continuità del discorso filosofico attraverso la storia. È ben vero che Del Noce condivide l’opinione del Gouhier, secondo la quale nessun filosofo parte da una filosofia precedente al fine di svilupparne gli aspetti «possibili» : ogni filosofo parte con la sua filosofia che, naturalmente, vuol essere la filosofia ; ciò non toglie però che egli «incontri» (è questa un’altra delle espressioni più significative del pensiero essenzialistico di Del Noce) determinate filosofie precedenti, ed anzi le possa comprendere nel loro significato filosofico unicamente sulla base di questo processo : «Ci si può accorgere del carattere filosofico di una tesi soltanto se lo si riscopre, e non si può riscoprirlo che in un processo filosofico. Prima di queste ricerche le opere filosofiche sono scritture di un particolare genere letterario ; possono perciò essere oggetto di indagini filologiche. Non sono però filosofie in senso proprio». 1 Quella degli incontri e delle opposizioni è però una continuità superficiale, che anzi sarebbe una continuità in senso improprio, se non si inscrivesse in una continuità più profonda, per cui si può parlare di storia della filosofia in senso autentico : la continuità all’interno delle essenze. « Vi è una storia di ognuna di esse, come una ricerca del loro affinamento e della loro purezza, nel senso della rimozione di quegli elementi che potevano dar luogo a rovesciamento [altro termine significativo del lessico di Del Noce] in altre essenze ». 2 Lo storico della filosofia che cerca di definire questa continuità interna compie un lavoro di filosofia sulla storia che è del tutto diverso da quello del filosofo della storia, in quanto questi commisura le filosofie ad una filosofia storicamente ultima, anche se non pensata come assolutamente definitiva. Filosofia sulla storia, dunque, come fondamento dell’autonomia della storia della filosofia rispetto alla filosofia. «Ma, anche, funzione filosofica della filosofia sulla storia : nel senso che può dar ragione del perché certe essenze siano ormai logorate e concluse. Quella che oggi è conclusa è il razionalismo ; lo è anche la filosofia cristiana in senso trascendente, in modo che l’avvenire appaia aperto soltanto all’empirismo ?». 3 Qui però, prima ancora di prendere in considerazione questa concreta domanda, ci sembra sia necessario rilevare un’aporia : fino a che punto infatti è lecito parlare di «logoramento di essenze» ? L’affermazione delle essenze, come s’è visto, non è esclusiva della storia – e su ciò si può essere d’accordo ; ma questa storia resta e deve restare una storia all’interno delle essenze ; altrimenti,
1
RCFM, pp. 272-273.
RCFM, p. 275.
2
3
RCFM, p. 276.
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se, vale a dire, è una storia all’esterno di esse (onde si può parlare di logoramento), si ricade immediatamente nella filosofia della storia e nello storicismo. 1 Del resto è Del Noce stesso che più di una volta dà forma al suo rifiuto della filosofia della storia mediante una energica polemica contro l’atteggiamento che egli chiama dell’«ormai non è più possibile». 2 A chiarimento di questa problematica conviene portare l’attenzione sul concetto del « Moderno ». Da un lato infatti questo può rinviare al «non è più possibile», e quindi ad una implicita filosofia della storia (ed in questo senso il fine fondamentale che il pensiero di Del Noce si propone è la dissoluzione del concetto di Moderno) ; dall’altro esso necessariamente riconnette il discorso al problema del periodizzamento e quindi a quella rilettura della storia della filosofia moderna, che consegue al rifiuto della filosofia della storia, cioè del razionalismo e, quindi, della visione della storia della filosofia come processo verso l’immanenza (in questo senso, come solo al termine dello studio si potrà intendere, il Moderno è essenziale al pensiero di Del Noce). Si determina così, senza soluzione di continuità, il passaggio alla successiva par
1 Non sarà inutile a questo punto cercare di enucleare il significato – o i significati – che il termine « essenza filosofica » possiede nel discorso di Del Noce. Bisogna intendere con « essenze » soltanto le posizioni ultime del pensiero filosofico, quelle cioè in rapporto alle quali si esercita il pari – il razionalismo e la filosofia religiosa, e magari anche l’empirismo (della cui non autonomia rispetto alle due figure estreme si è già fatto cenno) ? O vi sono delle essenze più specifiche, quantunque inquadrargli in quei generi sommi ? La risposta sembra debba essere data nel senso della seconda alternativa ; avvertendo però che tali specificazioni possono consistere sia in figure storiche (infatti l’uso che di queste fa Del Noce – malebranchismo, vichismo ecc. – è concepibile solo per delle essenze : « incontri », « rovesciamenti », « subordinazioni nell’opposizione » e così via), sia in figure teoretiche (gnoseologismo, scetticismo ecc.). È Del Noce stesso poi che pone esplicitamente un’altra distinzione (la quale solo parzialmente può essere fatta coincidere con quella precedente) : essenze come inglobanti ed essenze come tipi (v. RCFM, p. 276-277), dovendosi intendere per inglobante l’orizzonte storico–teoretico non problematizzato all’interno del quale si configura e si articola il pensiero di un filosofo. Vedremo subito quanto questo concetto sia rilevante con riguardo al pensiero cartesiano ; è esso infatti che, con-sentendo di cogliere la struttura significativa del cartesianismo, dà modo di intendere anche la storia della filosofia moderna, vista come problematizzazione (non importa quanto consapevole) di questa struttura significativa. Le varie direttrici della filosofia moderna rappresentano le linee evolutive dei diversi tipi di critica alla struttura significativa del cartesianismo ; necessariamente infatti la problematizzazione dell’inglobante comporta l’abbandono di uno o dell’altro di quei motivi inconciliabili, che possono coesistere solo, diremmo, negativamente, come orizzonte. Negativamente, nel senso che l’orizzonte storico–teoretico è certamente un Discriminante, e quindi un Qualificante di contenuti positivi ; ma proprio per questo esso è il ‘limite’ della tematizzazione, e, considerato come contenuto, ne resta al di là. 2 « Vogliamo riportare, perché bene illustrano, sotto due diversi aspetti, la portata teoretica di questo atteggiamento, i seguenti due brani : « 1) ogni posizione immanentistica è legata sempre all’argomento dello “ormai non è più possibile” [Del Noce commenta un passo di Marcel]. 2) C’è una connessione necessaria tra questo argomento e la negazione dell’individualità (se mai, all’individualità del singolo, si sostituirà l’individualità dell’opera). 3) La riaffermazione della metafisica è così legata al problema del riconoscimento effettivo dell’individualità del singolo (il che implica l’abbandono della tesi, tipica dei metafisici del vecchio tipo, del punto di partenza obbligato e necessario della filosofia cercato in una evidenza prima). E alla critica dell’ormai non è più possibile e quindi della storia della filosofia come processo di laicizzazione. Detto questo, pare si sia autorizzati a vedere nella critica del ‘moderno’ il problema filosofico che oggi si pone come primo ». (PA, p. lxxi). « Separare la storia della filosofia dalla filosofia della storia è poi compito tanto facile ? Lo sarebbe se la filosofia della storia si presentasse come tale nelle sue formulazioni ottocentesche tipiche : un particolare presente, lo stato del mondo successivo alla Rivoluzione francese, permette di decifrare il passato e di intendere l’avvenire nella sua necessità : la storia, nella sua totalità si è fatta presente al momento della Rivoluzione-Rivelazione. Sono di certo rari gli storici che oggi asseriscano questo ; e, tuttavia, la filosofia della storia non è passata senza lasciar traccia, perché almeno altrettanto rari sono gli storici che non ammettono la presenza di certe linee di fatto tali di permettere di concludere all’“ormai non è più possibile”. Una volta introdotta questa figura, ne viene una storia del progresso della coscienza ; e di nuovo al presente del filosofo viene sostituito il “suo significato storico” ». (RCFM, pp. 260-261).
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te del discorso : l’analisi dei contenuti della storia della filosofia nella visione che di essa ha Del Noce. Infatti sia il concetto di Moderno, sia il problema del periodizzamento a cui esso rinvia, possono essere affrontati, nella visione di Del Noce, soltanto sulla base di una analisi del pensiero di Cartesio, 1 in quanto tale pensiero, per le sue caratteristiche costitutive si pone all’inizio della storia della filosofia moderna. Anzi, la questione che vorremmo porre ed approfondire è proprio in che senso e con quali conseguenze si possa parlare del Moderno come essenza della filosofia cartesiana.
II. « Cristiano » e « moderno » nel cartesianismo
3. Il Moderno come essenza di Cartesio nell’interpretazione di Del Noce Moderno, Cartesio lo è non solo nel senso che afferma il proprio totale distacco dal pensiero precedente, bensì anche – e ciò è ben più fondamentale – nel senso che egli dà inizio alla filosofia moderna. Ogni filosofia, a partire da Cartesio non può non fare riferimento al cartesianismo, sviluppando l’uno o l’altro degli aspetti in esso presenti. Bisogna infatti distinguere – e in ciò Del Noce è completamente in accordo col Gouhier 2 – fra Moderno come rottura e Moderno come rinnovamento (il Moderno cioè che non nega, come il primo, ma modernizza). Dopo il « moderno » Cartesio, che rompe con la tradizione precedente negandola, il Moderno non è più possibile che come rinnovamento : rinnovamento di alcuni temi cartesiani a scapito di altri, ma anche rinnovamento di motivi precedenti Cartesio e quindi definizione di una continuità, dopo la rottura cartesiana, con la tradizione precedente. « È perciò che ogni filosofia post–cartesiana è inscindibilmente una storia della filosofia. Non sarebbe questa, una caratterizzazione della filosofia moderna, assai migliore di quella, ormai così logora, del processo verso l’immanenza ? ». 3 Ancora : « Prima di Cartesio non c’è storia della filosofia perché mancano i termini del periodizzamento. La filosofia è esaurita nelle sue forme antiche. La domanda è se esse siano utilizzabili e trasvalutabili dalle teologie cristiane, o se invece questa trasvalutazione falsi il loro senso genuino. Dopo Cartesio è necessario introdurre, per situare la sua filosofia, il termine di “filosofia moderna”. Il carattere di incompiutezza, essenziale alla sua filosofia, porta al problema del “rinnovamento”, della “modernizzazione” di posizioni anteriori. Il ‘Moderno’ di Cartesio non è più pensabile come “la filosofia”, nessun filosofo dei tempi nuovi può fermarsi alla semplice “rottura” cartesiana, pur non potendo escludere il cartesianismo dalla filosofia ; si impone l’idea di “fasi storiche” della filosofia e con ciò del render conto della genesi della altre filosofie ». 4 V’è dunque una inizialità della filosofia cartesiana, per il fatto che essa si pone come assoluta rottura col passato ; ciò però non esaurisce il senso della inizialità medesima, in quanto questa fa tutt’uno con la totale incompiutezza della filosofia cartesiana e con la sua « singolarità senza analoghi ». Si tratta di tre aspetti coincidenti ma non identificabili, che riteniamo importante articolare, in quanto proprio la loro coin
1 Questo significato di Cartesio in rapporto al periodizzamento della storia della filosofia moderna si trova già affermato in modo tematico nel saggio Problemi del periodizzamento storico : l’inizio della filosofia moderna, in La filosofia della storia della filosofia, quaderno dell’« Archivio di filosofia », 1954, pp. 187-210. 2 In PA (pp. 321 ss.) Del Noce richiama l’attenzione a questo proposito su un breve, ma densissimo ed estremamente interessante scritto di Gouhier che, apparso in una rivista di scarsa diffusione e diretta soprattutto ai cultori di studi letterari, rischia di passare ignoto agli studiosi di filosofia : Les philosophes du xviie Siècle devant l’histoire de la philosophie, in « xvii Siècle », n. 54-55, 1962. 3 4 RCFM, pp. 329-330. RCFM, p. 366.
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cidenza comporta che, a nostro avviso, il Moderno possa essere ritenuto l’essenza della filosofia cartesiana. Essa infatti si determina come moderna sia da un punto di vista formale (rottura col passato e inizio della filosofia moderna), sia da un punto di vista di contenuto, e ciò ancora, sia da un punto di vista positivo – ciò che tale contenuto è : onde, sua singolarità –, sia da un punto di vista negativo – ciò che esso non è, vale a dire non porta a compimento. Inoltre, ci sembra importante tenere presenti questi diversi, seppur coincidenti aspetti, perché tale articolazione della inizialità elimina all’origine, per la sua stessa natura, la possibilità di un grave equivoco, consistente in una compren sione della inizialità cartesiana come inizio di una « genealogia » (comprensione che sarebbe valida in una prospettiva di filosofia della storia o, almeno, in una visione della storia della filosofia moderna come processo verso la radicale immanenza) ; tale inizialità va intesa invece per Del Noce come il riferimento inerente all’orizzonte storico di ogni filosofia moderna, un orizzonte storico essendo essenziale, come si è visto, nella concezione di Del Noce, ad ogni filosofia. 1
4. L’ateismo libertino come avversario condizionante l’« inglobante » cartesiano
Al fine di vedere in rapporto a quali contenuti di pensiero le successive filosofie moderne si configurino, dobbiamo ora prendere in esame quell’« inglobante » cartesiano che, come orizzonte non problematizzato del cartesianismo, costituisce l’ambito di emergenza e di qualificazione di tutti i contenuti concreti presentati dal pensiero di Cartesio. Ci troviamo così di fronte ad un paradosso. Infatti per Del Noce l’« anistoricità » costituisce (insieme alla continuità fra metafisica e scienza) l’inglobante cartesiano. È paradossale, si vuol dire, che la filosofia che ha dato inizio alla storia della filosofia sia assolutamente estranea alla storicità. Per Cartesio di storia della filosofia si può parlare
1 Riprendendo e sviluppando uno spunto leibniziano, Del Noce mette in luce la coincidenza del processo di disgregazione del cartesianismo col processo di formazione delle filosofie nazionali : « ...poco dopo la morte di Cartesio, abbiamo un’accettazione generale “ad modum recipientis”, per cui alla rottura si sostituisce la modernizzazione. In questa modernizzazione del passato, ognuno dei momenti del pensiero cartesiano riceve uno sviluppo a sé, separato dagli altri. Qui ci troviamo dinanzi ad un problema già avvertito da Leibniz, e poi generalmente trascurato : il processo della disgregazione del pensiero cartesiano coincide con la rottura dell’unità spirituale europea, o meglio si inserisce in questa rottura come momento decisivo. Sorgono nell’orizzonte cartesiano le filosofie nazionali, e possiamo dire che quel che caratterizza il momento attuale è che la loro rottura è giunta al punto massimo. Ciò che caratterizza infatti la filosofia francese è che essa si è formata, in riferimento a Cartesio, per un processo di detrazione : da una parte la filosofia che salda riflessione introspettiva e metafisica (filosofia dell’interiorità e della libertà), dall’altra il positivismo comtiano ; o, se si vuol dir così, secondo un uso ormai abbastanza corrente, positivismo spiritualistico e positivismo scientista [...] Ciò che caratterizza la filosofia inglese è l’applicazione al cartesianismo del rasoio di Occam, vale a dire della critica della distinctio rationis. La filosofia tedesca si situa nella continuazione dell’oltrepassamento spinoziano-leibniziano, incontrando il Rinascimento dopo la Riforma. La grande tradizione della filosofia cattolica italiana, da Vico a Rosmini, svolge il motivo umanistico–teocentrico del pensiero cartesiano, dopo che l’incontro malebranchiano di agostinismo e di cartesianismo aveva permesso un certo ritorno al platonismo ». (RCFM pp. 419-420). È chiaro come la problematizzazione della storia della filosofia moderna che Del Noce si propone significhi precisamente lo sforzo di riassumere una visione unitaria di questo processo storico di frazionamento, mediante una riconduzione delle varie direttive all’unità problematica dell’inizio cartesiano. A parte ciò, la ripresa dello spunto leibniziano ci sembra importante in rapporto alla problematica religiosa attuale, per ciò che riconnette l’atteggiamento politico-religioso tollerante ed ecumenico di Leibniz con i motivi del suo pensiero filosofico. Si tratta di due cose che la storiografia filosofica ordinaria è consueta trattare in modo del tutto indipendente : ed è chiaro come ciò sia una mera manifestazione di un più generale atteggiamento (storicamente indicativo, ma storiograficamente inadeguato), del quale il proposito di parlare di « riforma cattolica e filosofia moderna » costituisce la consapevole antitesi.
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solo come di una storia dell’errore. 1 Se però l’anistoricità, come inglobante, è un’orizzonte non problematizzato da Cartesio, allo storico della filosofia è lecito interrogarsi sulle ragioni storiche che questo orizzonte hanno dischiuso al Filosofo. L’avversario contro il quale l’interpretazione di Del Noce ritiene essersi costituita la filosofia cartesiana è il pensiero libertino. Nel libertinage erudit infatti la storia acquista il valore di dissacrazione della tradizione : « Si inverte [...] la prospettiva del secolo precedente : umanesimo, filosofia della saggezza e dell’uomo ; averroismo, filosofia della scienza e delle opere. L’irreligione trova la sua forza nella considerazione del mondo umano, invade quel campo della saggezza in cui l’umanesimo si era difeso dalla scienza averroista, mentre una linea di resistenza appare possibile nel campo della nuova scienza. Momento di questa generale inversione il cambiamento di senso dello scetticismo : alleato alla fede nel ’500 contro la metafisica naturalistica, mentre ora si va costituendo quella unione di scetticismo, materialismo e ateismo, in antitesi a cui si formerà, in varie forme, da Cartesio sino a Berkeley, l’idealismo moderno ; e dello scetticismo il libertinismo umanistico segna veramente la fine ». 2 Dunque : anistoricità in quanto la storia rappresenta, per la prima volta nel libertinismo, il campo e il mezzo per l’affermazione dell’ateismo. 3 Il rovesciamento del significato dello scetticismo, conseguente alla visione libertina, comporta che al dubbio libertino venga contrapposto da parte di Cartesio un affatto diverso tipo di dubbio, attraverso il quale si arriva a cogliere lo stretto nesso intercorrente nel pensiero cartesiano fra anistoricità ed antinaturalismo. Il dubbio cartesiano rappresenta il segno della non naturalità dell’uomo, in quanto consente a costui di staccarsi dalla natura con un atto di volontà : esso pertanto è un atto di assoluta libertà. L’esperienza della libertà come potere di negatività (potere di dubitare), come rottura di contatto col mondo ; la coincidenza della prima verità con l’affermazione della sua trascendenza al mondo la quale si esprime nella capacità di negarlo ; il non essere
1 Ci sembra che in ciò sia implicita la possibilità di una estensione (naturalmente mediante una critica della struttura significativa anistorica) della cartesiana concezione dell’infanzia come « prima e principale causa dei nostri errori » dal livello, per così dire, ontogenetico a quello filogenetico ; e quindi la possibilità di giungere ad una concezione di tipo vichiano, o quasi, indipendentemente da quella mediazione occasionalista di cui si dirà dopo. L’approfondimento di questo discorso potrebbe essere di grande importanza. 2 RCFM, pp. 434-435. 3 Si tratta però di ateismo negativo. In PA Del Noce nega decisamente che si possa parlare di un processo di sviluppo dall’ateismo negativo all’ateismo positivo. Ciò anche in Interpretazione filosofica del surrealismo, (in « Rivista di estetica », 1965, n. i, pp. 22-54) ; o scacco dell’ateismo negativo, anzi, è segnato proprio dal fallimento del tentativo, che il surrealismo aveva intrapreso, di inglobare la « rivolta » nella « rivoluzione ». Ora che storicamente ateismo negativo e ateismo positivo siano due essenze affatto distinte, è fuor di dubbio ; più perplessi ci lascia però la tesi della impossibilità teoretica della loro fusione. Si pensi ad esempio a Marcuse : il suo pensiero si presenta precisamente come una coincidenza dell’ateismo positivo – elemento hegeliano-marxista – con l’ateismo negativo (la contestazione globale) ed estetico – elemento freudiano. Infatti Freud va visto, in riferimento alla nostra problematica, proprio come un continuatore di quella linea ateistica negativa che parte dai libertini e passa per Sade e d’Holbach. Per uno sviluppo di questo problema ci sembra che sarebbe interessante indagare sulla connessione essenziale, che sembra esistere al fondo, fra ateismo negativo ed ateismo estetico, in quanto ciò si può riconnettere precisamente al tema della caduta d’origine. Il riferimento al surrealismo e al decadentismo francese ci sembra utilissimo : la ricerca del tempo perduto come ricerca di un Eden, immanentizzato nella misura in cui si riconquista nel ricordo ; le violente espressioni di Bréton contro la concezione del peccato d’origine (e in ciò si pensi, appunto, all’influsso freudiano) ; « la vraie civilization [...] n’est pas dans le gaz, ni dans la vapeur, ni dans les tables tournantes. Elle est dans la diminution des traces du péché originel. » (Baudelaire, Mon coeur mis a nu).
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parte della natura come condizione perché ci si possa pronunciare in termini di verità : sono questi motivi essenziali che rendono conto, per Del Noce, di una interpretazione del pensiero cartesiano nei termini non tanto di una filosofia sulla libertà, quanto di una filosofia della libertà. 1 La singolare convivenza, nel pensiero cartesiano di due motivi che potrebbero sembrare antitetici, come quello della libertà e quello del matematismo, trova quindi una spiegazione nell’antistoricismo che è al loro fondamento, mentre resterebbe del tutto incomprensibile in una visione cartesiana, che pure è tradizionale, per cui il matematismo è all’origine dell’antistoricismo e non viceversa. I dati prefilosofici condizionanti il processo del pensiero di Cartesio – cioè l’inglobante cartesiano – possono pertanto essere così riassunti : 1) rifiuto del razionalismo, nel senso di una legislatività della ragione sulla fede ; 2) rifiuto della storia «che deve essere ricompresa nel rifiuto del razionalismo ; senza di che ogni filosofia, in quanto parte dal reale esterno, deve concludere nello scetticismo, di cui la storia della filosofia, come esposizione di una pluralità di dottrine senza necessità », è appunto la scuola ; priorità della teoria della libertà : perché vi sia verità occorre che la nostra volontà si trovi interamente determinata a dare il suo assenso ; 2 a questi motivi, e in gran parte come una loro conseguenza, va aggiunta la continuità fra metafisica e scienza, di cui però più opportunamente potremo parlare in seguito.
5. Contro-Rinascimento e Riforma Cattolica Questa messa in evidenza dell’inglobante cartesiano porta ad intendere la fondamentale tesi di Del Noce, per la quale il cartesianismo rappresenta la crisi della Controriforma, ma in senso ben diverso da quello tradizionale, riassumentesi nella tesi di un conflitto inevitabile fra Controriforma e nuova cultura. Piuttosto : il cartesianismo nasce all’interno dell’orizzonte della Controriforma nel senso che « fa proprie tutte le negazioni, così della Riforma Protestante, come degli esiti paganeggianti del Rinascimento » ; pertanto « quella che a Cartesio appariva [...] come la riforma culturale correlativa alla Riforma Cattolica, manifesta invece la crisi della Riforma Cattolica, nel suo aspetto di Controriforma ». È chiaro quindi come ci si trovi di fronte ad una tesi esattamente opposta a quella tradizionale della inconciliabilità di Controriforma e nuova cultura, in quanto la tesi di Del Noce afferma che la filosofia moderna non nasce dalla Riforma Protestante, né dal Rinascimento, bensì dalla Riforma Cattolica : « la semplice analisi interna della filosofia di Cartesio importa così l’introduzione del concetto di Contro Rinascimento, come l’abbandono del concetto negativo di Controriforma : e anzi il possibile pensiero che la filosofia moderna non possa essere il superamento della crisi che allora si apre, proprio perché prodotto della crisi ». 3 Mentre la scolastica suareziana rappresenta la filosofia volta contro l’avversario esterno della Riforma Cattolica – il protestantesimo, vale a dire – la filosofia cartesiana è intesa contro l’avversario interno, che la prima non aveva previsto : l’umanesimo liberti
1 Aver messo in evidenza questo, che Del Noce ritiene un dato ormai acquisito della storiografia cartesiana (tanto che sulla sua base egli ha impostato la voce Cartesio dell’Enciclopedia Filosofica), è per Del Noce il grandissimo merito di Laporte. Dell’importanza che il pensiero di Laporte ha per Del Noce e, ancor più, della valorizzazione che tale pensiero riceve dalla lettura fattane da Del Noce, avremo modo di renderci conto ancora in seguito. 2 3 RCFM, pp. 410-411. RCFM, pp. 386-388.
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no, come si è detto, quale contrapposto dell’umanesimo cristiano. 1 Ma a questo punto il discorso di Del Noce diviene estremamente complesso e ci sforzeremo di darne una schematizzazione interpretativa. Infatti, a loro volta, « Riforma protestante e Riforma Cattolica devono essere viste non come posizioni opposte, ma come posizioni alternative rispetto a uno stesso avversario : il rinascimentalismo, visto nel suo senso letterale, di riaffermazione dello antico dopo il cristianesimo ; visto, starei per dire, nel suo carattere di eresia dell’Umanesimo, totalmente diversa perciò dalle eresie medievali, di sfondo manicheo e cataro ». 2 Ora, il problema ci sembra essere questo : fino a che punto il libertinismo erudito è distinguibile dal rinascimentalismo ? Non è esso stesso interpretabile come un aspetto o un esito del rinascimentalismo nel senso che Del Noce propone di dare a questo termine ? Se così è, e non mancano i passi ove Del Noce mostra di essere di questo avviso, ci troviamo di fronte ad una singolare situazione, per cui quello che in un primo momento rappresenta l’avversario nei confronti del quale Riforma Cattolica e Riforma Protestante si costituiscono; in un secondo momento è visto, in uno dei suoi esiti, come avversario interno alla Riforma Cattolica. Questo a nostro avviso è un motivo che meriterebbe di essere indagato, perché dal suo chiarimento potrebbero derivare conseguenze di non scarso rilievo in ordine al periodizzamento della filosofia moderna. Ciò ben si comprende allorché si pensi come una visione del cartesianismo quale filosofia della Riforma Cattolica indirizzata contro il libertinismo aggiunge una ragione di più o, meglio, specifica ulteriormente la ragione per cui esso rappresenta il punto iniziale della filosofia moderna : se infatti, come si era visto del tutto all’inizio, quanto caratterizza l’attualità storica odierna e impone una rilettura radicalmente nuova della storia della filosofia è il problema dell’ateismo, è ovvio che la prima filosofia costituitasi nei riguardi dell’ateismo, cioè la filosofia cartesiana, sia il termine a quo per il periodizzamento della filosofia moderna. Una ragione essenziale per la quale l’ateismo si reinserisce, nella forma libertina, all’interno della Riforma Cattolica, va probabilmente trovata nel motivo umanistico che, per Del Noce, costituisce la caratterizzazione prima della Riforma Cattolica. La fondamentale intuizione della Riforma Cattolica consiste infatti, secondo Del Noce, nella convinzione che la negazione protestante dell’uomo conduce alla negazione di Dio, e cioè nella convinzione che per l’affermazione di Dio sia indispensabile l’affermazione dell’uomo. La filosofia cartesiana si inscrive nella Riforma Cattolica proprio per il fatto che partecipa di questa intuizione di fondo : 3 ciò che, prima ancora che da concreti contenuti, è indicato dalla intenzione di Cartesio di elaborare una filosofia e di dar luogo ad un radicale rinnova
1 Queste tesi si trovano esposte per la prima volta in un saggio del 1956, che costituisce lo schema iniziale di KCFM, e che per tale sua schematicità di trattazione riesce particolarmente nitido ed efficace : La crisi del molinismo in Descartes, in Metafisica ed esperienza religiosa, quaderno dell’« Archivio di filosofia », 1956, pp. 2 RCFM, p. 622. 39-77. 3 « Direi [...] che proprio con Cartesio prende inizio la presentazione della filosofia cristiana, in termini di umanesimo teocentrico. Perché consideriamo il significato di questo termine : affermazione che io non posso realizzarmi come uomo senza affermare l’esistenza di Dio e l’apertura al soprannaturale. Certamente si può esporre il tomismo nella forma di umanesimo teocentrico ; se anche vi si può ravvisare la sua forma più rigorosa, resta tuttavia sempre che si tratta della espressione di una sua ‘virtualità’ in quel senso forte, newmaniano, del termine che abbiamo detto. Il problema preciso di S. Tommaso nei suoi termini storici è quello della giustificazione dei valori culturali e razionali ; come degli altri scolastici, del resto, e non è un caso che ogni libro su un filosofo scolastico debba cominciare con un capitolo sui rapporti tra ragione e fede. Il problema dell’umanesimo teocentrico in senso proprio non poteva apparire che dopo l’affermazione della Riforma Cattolica che la negazione dell’uomo è l’inizio di un processo che porta alla negazione di Dio e dopo l’apparizione libertina dell’ateismo ». (RCFM, p. 356).
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mento culturale. Certo, questa filosofia rappresenta anche la crisi della Riforma Cattolica, proprio in quanto in verità nei suoi contenuti sono presenti, come vedremo, i germi della perdita del motivo umanistico (« si spiega così, in riferimento a questa perdita, anche la genesi dell’interpretazione della [...] natura pratica » della Riforma Cattolica, vista come Controriforma). 1 Ciò però non toglie nulla al significato intenzionale del pensiero cartesiano, la questione vertendo semmai sull’adeguatezza dei mezzi in rapporto al fine che Cartesio si proponeva. È questa intenzione umanistica di proporre una «filosofia» relativa alla visione religiosa della Riforma Cattolica – quindi : una sorta di «continuità » tra filosofia e teologia – che rende ragione di come si sia potuto parlare, da tante autorevoli parti, di Cartesio come rinnovatore della Scolastica. Ma questa tesi è rifiutata da Del Noce. Invero, è possibile specificare con riguardo al pensiero cartesiano il termine di «continuità» fra teologia e filosofia in un modo diverso da quello puramente negativo, sopra ricordato, del rifiuto della legislatività della ragione in materia di fede e della convinzione della non contraddittorietà tra fede e ragione ? Poiché evidentemente la risposta non può essere affermativa, bisogna constatare la sostanziale diversità fra la posizione tomista e quella cartesiana, senza lasciarsi fuorviare dalla continuità tra metafisica e fisica. Infatti nel tomismo tale continuità aveva luogo all’interno della visione teologica ed anzi era da questa fondata ; nel cartesianismo invece la «continuità» fra teologia da un lato e metafisica e fisica dall’altro si precisa come un accordo fra le due parti del discorso, nella reciproca assoluta autonomia ; la concezione del Dio buono che garantisce l’intera struttura unitaria metafisica-fisica è nel pensiero cartesiano una concezione che non rileva della teologia in senso positivo ; essa è piuttosto un punto iniziale del discorso filosofico, un suo presupposto non problematizzato. Se di continuità quindi si vuole parlare, nei riguardi di Cartesio, fra teologia e filosofia questa è da intendersi, come si è detto, in senso puramente negativo ; tradotta in termini positivi essa significa né più né meno che autonomia delle due discipline : l’esatta antitesi quindi del tomismo e della Scolastica in senso tomista. Del Noce è a questo proposito, se possibile, ancor più radicale : « Ci accorgiamo della distanza estrema tra la posizione tomista e quella cartesiana al tempo stesso che ci rendiamo conto del significato della critica anticartesiana di Pascal : in Cartesio c’è coincidenza tra l’abbandono dell’idea di teologia scolastica e l’affermazione della metafisica come scienza ». 2 Invece – sulla scorta del secondo Gilson : « La teologia scolastica incontra la filosofia sul fondamento del principio che Dio conoscendosi, conosce tutto ciò di cui può essere causa ; la teologia è dunque l’analogo della scienza divina ; perciò deve essere capace di includere nella sua conoscenza di Dio quella della totalità dell’essere finito in quanto dipende da Dio. Perciò è al sommo della gerarchia delle scienze, in una maniera analoga a quella in cui Dio è al sommo dell’essere ; perciò contiene tutto il sapere umano per modo di eminenza ». 3
6. Il molinismo come sfondo controriformistico della «riforma» cartesiana La tesi di Del Noce è che la concezione cartesiana della filosofia sia di derivazione, anziché tomista, molinista. Infatti «il Dio cosmologico della metafisica tradizionale e il Dio ontologico cartesiano si differenziano come quello raggiunto attraverso la considerazione di una realtà in cui io sono come soggetto possibile di errore e quello attraverso la considerazione di me come soggetto certo di verità». 4 Il sottofondo molinistico di Cartesio 1
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RCFM, p. 626. RCFM, p. 375.
RCFM, p. 376. RCFM. p. 614.
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risulta, vale a dire, precisamente nel fatto che il dubbio, il quale libera l’uomo dalla storia, è in grado di condurlo alla verità. Si può quindi dire che nell’interpretazione di Del Noce l’anistoricità del dubbio cartesiano vada intesa in un duplice senso : da un lato, come negazione dello «storicismo» libertino, ma dall’altro anche, ed in certa misura per conseguenza, come abbandono della visione teologica della storia e del riferimento alla caduta d’origine. È in questo senso che si può parlare di un sfondo molinistico del pensiero cartesiano, la filosofia autonoma e il dubbio come capacità di trascendimento della natura da parte dell’uomo essendo il segno dell’assoluta naturalità dello stato umano (onde, potremmo rilevare, l’interessante equazione fra antinaturalismo e affermazione della naturalità, cioè dello stato integro, della natura umana : ci sembra che il tema meriterebbe di essere approfondito per le importanti indicazioni che sarebbe in grado di fornire in ordine alla intera storia del pensiero moderno). È ben vero che – ed in questo consiste il proseguimento della sopra ricordata tesi di Del Noce – il cartesianismo segna anche la crisi del molinismo. A nostro avviso ciò non toglie tuttavia che una considerazione importante vada fatta : se il molinismo è lo sfondo sul quale il carsesianismo si configura, il problema sopra ricordato della nascita della filosofia moderna dalla Riforma Cattolica si complica ulteriormente : perché, se sopra notavamo come sia Riforma Cattolica sia Riforma Protestante avessero il loro avversario nel rinascimentalismo, ritrovato poi da Cartesio come avversario interno della Riforma Cattolica (la Riforma Protestante essendo divenuta avversario esterno), qui dobbiamo di nuovo rilevare una subordinazione della Riforma Cattolica a quella Protestante, proprio in ciò che la filosofia ponentesi contro l’avversario interno della prima è costituita però sullo sfondo del suo momento controriformistico. In questo senso la considerazione giansenistica che, ritenendo il molinismo un attegg iamento del tutto non cattolico e dissimulatore del teismo, concordava con l’idea protestante del carattere pratico e politico della Controriforma (cioè : una riduzione della Riforma Cattolica a Controriforma) può essere messa da parte forse meno facilmente di quanto non sembri ritenere il Del Noce. 1 Non ci sembra che il problema venga mutato dalla considerazione dell’attrito tra il presupposto molinistico entro cui Cartesio ha pensato la sua filosofia – bontà divina da un lato, libertà umana dall’altro : onde il separatismo – è la sostanza antimolinistica del suo pensiero. Vediamo, in primo luogo, come si precisa questo attrito nel pensiero di Del Noce. Il molinismo è per Del Noce la riscoperta per ragioni teologiche di un tomismo che nella polemica contro gli aspetti agostiniani della Riforma accentua all’estremo l’aspetto aristotelico ; è quindi il rappresentante estremo del naturalismo cristiano ; « inoltre, o
1 Comunque l’importanza della questione, in quanto essa, al di là della semplice curiosità storica, corrisponde ad una domanda essenziale del pensiero cattolico contemporaneo, è evidente. Già nel 1956, nel saggio sulla Crisi del molinismo in Descartes, cit., Del Noce manifestava la piena coscienza di ciò : « Qual è il tema fondamentale del pensiero cattolico contemporaneo, ritrovato in circostanze storiche di cui è troppo facile vedere l’analogia con quelle di allora, se non di nuovo questa correlazione [scil. di negazione dell’uomo, operata dal protestantesimo, e negazione di Dio], nella sua forma rovesciata, che la negazione di Dio è al tempo stesso negazione della libertà umana, nel suo significato storico ? » (p. 47). Se una simile identificazione del problema era di viva attualità quando Del Noce scriveva nel 1956, oggi, dopo il Concilio Vaticano ii, essa è addirittura di una attualità bruciante. Ci si potrebbe infatti chiedere (anche se Del Noce, probabilmente, non avrebbe in gran simpatia la domanda), se il Vaticano ii non rappresenta il fatto storico che porta a coerenza la Riforma Cattolica, identificata nella sua essenza come intuizione della correlatività fra negazione di Dio e negazione dell’uomo ; e se anzi esso non la porta a coerenza anche per il fatto che, mediante il motivo ecumenistico, abbandona quell’aspetto controriformistico che del primo momento della Riforma cattolica aveva rappresentato l’aspetto di crisi.
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di conseguenza, la sua considerazione del male è di tipo essenzialmente giustificativo. Si tratta di rispondere al problema : che cosa dobbiamo pensare perché Dio venga riconosciuto come suprema bontà ». Il cartesianismo invece è la riscoperta (ovviamente inconsapevole, almeno all’inizio) per ragioni filosofiche di un agostinismo troncato da ogni sviluppo che possa in qualche modo conciliarlo col tomismo ; « è il punto limite dell’antinaturalismo : perciò la sua considerazione del male, incontrato nella forma dell’errore (ma è stato giustamente osservato come egli estenda all’errore ciò che la tradizione teologica diceva del peccato) è tipicamente agonistica ». 1 Orbene, nonostante il fatto che per Del Noce Cartesio segni la crisi del molinismo, resta che il presupposto entro cui questo pensiero si è formato è tale da condizionarlo anche e proprio in quello sviluppo agostiniano che nei confronti del presupposto è più contrastante. Il Del Noce parla infatti continuamente per il pensiero cartesiano di agostinismo sommato a pelagianismo. L’ossimoro è così forte da far sorgere a tutta prima dei dubbi sulla opportunità di usare, sia pure in una visione di storia della filosofia come storia delle essenze, un termine come agostinismo, associandolo in un modo che riesce del tutto paradossale con l’«essenza» che storicamente dell’agostinismo ha costituito l’avversario. Ma una ragione di questo ossimoro esiste : Del Noce è indotto a parlare di agostinismo per sottolineare l’opposizione assoluta del cartesianismo al tomismo : quella stessa opposizione in forza della quale, diversamente dalla rifiutata tesi del Gouhier, egli ha riconosciuto nel molinismo e non nel tomismo lo sfondo sul quale il pensiero cartesiano si delinea. Cioè : ancora una volta, nell’uso di determinati termini storico-essenziali è latente la particolare visione dell’intera storia della filosofia e della sua struttura : a nostro avviso è ancora una concezione per cui non si può non parlare del Moderno come essenza di Cartesio quanto soggiace ad una considerazione di questo tipo. Non è infatti che Del Noce non veda le differenze profonde fra la visione agostiniana e quella cartesiana ; 2 se egli tuttavia parla di agostinismo è perché in sostanza ha sempre presente di fronte a sé il problema del periodizzamento della storia della filosofia moderna. Vediamo di spiegare questa nostra interpretazione.
7. La reduplicazione del Cristiano in Cristiano-Moderno Nella storia del pensiero occidentale, alla distinzione prima di ogni periodizzamento (Antico-Moderno) si sovrappone un terzo termine cioè il « Cristiano ». Il termine, come è ovvio, possiede solo in una piccola misura una natura cronologica ; ma sarebbe fraintendere l’intero pensiero essenzialistico di Del Noce se gli stessi termini fondamentali del periodizzamento, Antico e Moderno, venissero intesi in senso cronologistico : è per questo infatti che abbiamo ritenuto di poter parlare di Moderno come essenza del pensiero cartesiano e, anzi, abbiamo ritenuto di poterlo fare dopo aver ravvisato come una delle intenzioni profonde del pensiero di Del Noce la volontà di dissoluzione del concetto di Moderno : volontà di dissoluzione nella misura in cui questo concetto sia inteso in senso meramente cronologistico, implicante l’idea di un progresso o di un processo, quindi implicante una concezione di filosofia della storia. È chiaro che il Moderno inteso in senso essenzialistico può trasformarsi in punto di riferimento per una considerazione storica : ed abbiamo visto che tale è stato per l’appunto il paradossale
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La crisi del molinismo in Descartes, cit., pp. 57-58. Si vedano, ad esempio, le interessantissime pp. 491-496 di RCFM.
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destino di Cartesio. Questa però è una conseguenza di quella fondamentale “ambiguità” del pensiero cartesiano (che non è qui possibile illustrare in tutte le manifestazioni puntualizzate da Del Noce), per la quale « possiamo [...] stabilire questo criterio, che per qualsiasi interpretazione della filosofia di Cartesio c’è un segno infallibile da cui si può misurare la sua inadeguatezza, l’attenuazione dell’ambiguità ». 1 Se gli aspetti dell’ambiguità cartesiana sono molteplici, dovrebbe tuttavia essere possibile, in una visione essenzialistica come quella di Del Noce, ritrovarne la radice essenziale. Noi riteniamo che, posta l’interpretazione di Del Noce, tale matrice possa essere individuata proprio nel singolarissimo rapporto che nell’essenza del pensiero cartesiano si instaura fra Moderno e Cristiano. L’essenza Moderno è ordinata per Cartesio alla difesa del cristianesimo contro l’ateismo dei libertini. Anzi, proprio perché tale ateismo sorgeva da uno scetticismo di tipo «storicistico» esso si caratterizzava come anistorico. Onde potremmo rilevare le seguenti connessioni : Antico-storico-scetticismo-ateismo nel libertinismo e, con cammino inverso, perché si tratta di posizioni maturate nell’opposizione, Cristiano-certezza-anistoricità-Moderno in Cartesio. 2 È così che si chiarisce, con riguardo a Cartesio, la questione del Cristiano come terzo termine fra i due termini fondamentali del periodizzamento (sia pure in senso essenzialistico), Antico e Moderno : questione che ci era sembrato necessario affrontare per intendere il valore che il termine di « agostinismo » – e di « agostinismo dissociato da platonismo », in forza della concezione della creazione delle verità eterne – acquista nel discorso cartesiano di Del Noce. Dopo quanto si è detto nulla ci sembra possa essere più significativo del seguente brano, che è il caso di riportare per intero : « Se il nome antico che designa nella storia del pensiero religioso la correlazione tra l’esaltazione della libertà umana e l’attenuazione (o, al limite) il congedo dei temi del peccato e dell’Incarnazione è quello di pelagianismo, la prima problematica storica che Cartesio incontra, dopo la rottura con la tradizione, all’interno del suo pensiero, e con inconsapevolezza pressoché completa dell’antecedente è la controversia di Agostino e di Pelagio, col rovesciamento del suo esito. Se dalla vittoria di S. Agostino sull’ultima trincea del razionalismo antico si suol datare l’inizio del pensiero medievale, la filosofia moderna, per un richiamo che è tanto più interessante per ciò che è inconsapevole, sembra prendere inizio con la contestazione di questa vittoria. Il periodizzamento storico consueto troverebbe quindi la sua ragione nel fatto che pensiero medioevale e pensiero moderno avrebbero a punto di partenza la diversa soluzione dello stesso problema». 3 La giustificazione del termine « agostinismo » va pertanto ritrovata in questa volontà di ricondurre l’opposizione Moderno-Antico a quella Cristiano-Antico, dopo però l’affermazione del superamento del tomismo e in genere il pensiero medievale, che di
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RCFM, p. 635. È utile sottolineare, anche in relazione a quanto riterremo di dover annotare in seguito, che per Del Noce affermare la primarietà del motivo antilibertino nella genesi della filosofia di Cartesio non significa affatto porre al centro dell’opera di Cartesio un interesse essenzialmente apologetico. In realtà Cartesio « fu in primo luogo sensibile all’aspetto per cui il libertinismo era scetticismo teoretico ; e la sua filosofia gli parve acquistare oggettivamente un significato apologetico, per la correlazione tra la critica dello scetticismo e quella del materialismo e dell’ateismo » (PA, 219-220). Questa definizione dell’atteggiamento generalissimo di Cartesio come atteggiamento teoretico che è oggettivamente apologetico ci sembra essere in verità la migliore definizione dell’atteggiamento di Del Noce. Più che di una proiezione di motivi propri sulla figura storica di Cartesio, si tratta di un rispecchiamento in Cartesio e di una definizione della propria posizione attraverso la mediazione cartesiana. È opportuno collegare ciò con quanto diremo subi3 RCFM, p. 631. to appresso, nel testo, alla fine di questo paragrafo. 2
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fronte all’Antico si era per l’appunto costituito come cristiano in senso periodizzativo. Pensiamo che da questa reduplicazione del termine di periodizzamento (Antico-Cristiano e poi Antico-Cristiano come Moderno) nascano in ultima analisi tutte le ambiguità del pensiero cartesiano e, potremmo dire (ma ciò si chiarirà in seguito) del pensiero stesso di Del Noce, il quale in ciò mostrando la validità metodologica della propria impostazione di filosofia attraverso la storia, illumina attraverso l’analisi della filosofia cartesiana il significato del proprio stesso pensiero. Ma di questo in sede conclusiva. 8. La libera creazione delle verità eterne e il separatismo La libera creazione delle verità eterne è, come Del Noce stesso afferma il mezzo, ed anzi l’unico mezzo mediante il quale può essere negata la continuità dell’Antico e del Cristiano dopo la dissoluzione dell’orizzonte del pensiero medievale, cioè in una visione di filosofia autonoma dalla teologia. Per Del Noce appunto – qui ci sembra venga verificata l’esattezza della nostra precedente interpretazione – non solo la tesi della libera creazione divina delle essenze « concorda pienamente con la radicalità della rottura tra l’Antico e il Moderno », ma di più « significa l’interpretazione cristiana di questa rottura ». 1 L’abbandono dell’orizzonte teologico e l’affermazione della filosofia autonoma però da cosa dipendono, se non dal fatto che un nuovo avversario si è presentato sulla scena storica e cioè l’ateismo ? « Le filosofie del Medioevo potevano essere teologie, perché il problema della filosofia autonoma non si poneva in ragione del fatto che l’ateismo non esisteva. Sembra invece che soltanto sul piano della pura ragione una critica rigorosa dell’ateismo possa venire condotta ». 2 Siamo così in grado di identificare la prima della serie di figure «ambigue» cui la matrice essenziale dell’ambiguità cartesiana, in quanto è l’affermazione del Cristiano come Moderno, dà luogo : essa è la coesistenza della tesi delle verità create eterne con l’argomento ontologico : coesistenza mai prima, né successivamente proposta : ed invero, quantunque essa sia essenziale al pensiero cartesiano, male si vede come i due momenti possano coesistere. Il mantenimento dei due momenti (cioè, in sostanza, il mantenimento del Cristiano come Moderno) può avvenire solo nei termini di un separatismo che, per l’appunto, anche nella visione di Del Noce caratterizza essenzialmente il cartesianismo. Se così è, l’interpretazione cartesiana di Laberthonnière diviene un termine di
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RCFM, p. 618. RCFM, p. 627. Vogliamo però ricordare che a questo punto Del Noce rinvia ad una nota a piè di pagina, che così suona : « Ma è possibile per una filosofia puramente autonoma, non orientata da un atto di fede antecedente, arrivare alle prove dell’esistenza di Dio ? » (ivi). E, a precisazione di un problema che abbiamo impostato fin dall’inizio, riportiamo anche queste parole tratte da La crisi del molinismo in Descartes : « Il Laporte ha inteso sostanzialmente il razionalismo nel senso di una dottrina filosofica che porti al rifiuto del soprannaturale ; e molto giustamente è stato portato a concludere che non vi è alcun principio cartesiano che, né in sé né nel suo sviluppo logico, porti a questo. Ci si può però domandare se la definizione da cui è partito sia realmente sufficiente. Indubbiamente valida nei riguardi della filosofia intesa come dottrina, lo è altresì per la filosofia intesa come atteggiamento ? Non ci si può domandare se il germe iniziale del razionalismo non si debba invece ravvisare proprio nell’idea che il filosofo possa prescindere nella sua ricerca dallo status naturae lapsae ? Ossia, se una filosofia religiosa che parta da questa posizione non si trovi costretta o a procedere verso un essenzialismo prossimo a rovesciarsi in astrattismo (in una ontologia «sterilizzata») ; o, se si presenta invece come ricerca di esistenze, a svolgere in se stessa un momento razionalista » (p. 55). Questa acuta disamina centra il problema ; non convince però affatto nella misura in cui essa vuol presentare, implicitamente, una soluzione. Ciò che infatti non si vede come possa resistere, da un punto di vista speculativo, è quella distinzione fra dottrina e atteggiamento, che invece è quanto consente a Del Noce di mantenere, nelle intenzioni, due posizioni, a nostro avviso, inconciliabili. Ma di ciò in seguito. 2
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riferimento particolarmente importante. In effetti, il Del Noce, che dedica i primi due lunghissimi capitoli della sua opera (due libri nel libro) alle interpretazioni cartesiane di Laporte e di Gouhier (trattando a questo proposito, evidentemente, anche Gilson), 1 fa altresì frequente riferimento implicito o esplicito al Laberthonnière. Invero il Laberthonnière fu il primo a cercare nella filosofia di Cartesio il segno di un’esperienza vissuta e condizionante. Da questo punto di vista, anzi, la fondamentale opera cartesiana di Del Noce potrebbe essere considerata come un rifacimento di Laberthonnière dopo Gilson, Gouhier e Laporte. Ma, a parte questa considerazione, quanto a noi sembra di poter rilevare è un incontro di Del Noce con Laberthonnière sul fondamentale motivo del separatismo. È soprattutto a proposito di questo tema infatti, che hanno luogo i riferimenti di Del Noce a quel filosofo. Poco importa che tali riferimenti siano condotti in termini piuttosto critici ; resta il fatto che, come Del Noce stesso afferma, « la definizione esatta del separatismo cartesiano è il problema centrale del pensiero cattolico contemporaneo : direi anzi il problema fondamentale, sotto l’aspetto storico, perché coinvolge quello delle origini del principio di immanenza ». 2 Basti dire, per sottolineare l’importanza della affermazione, che Del Noce così si esprime in conclusione della prima parte del suo libro : quella parte che, dedicata per l’appunto alle interpretazioni religiose di Cartesio attraverso l’analisi critica delle interpretazioni di Laporte, Gilson e Gouhier, conduce a mettere in evidenza la necessità di affrontare l’essenziale ambiguità religiosa del pensiero cartesiano (tema al quale è dedicata la seconda parte dell’opera). Sicché, in certo senso l’intera seconda parte del volume assume il significato di una illustrazione delle citate parole sul separatismo come problema centrale del pensiero cattolico contemporaneo. Parole che Del Noce così precisa : « Il separatismo generalmente è stato inteso come se dipendesse da una volontà di affermare l’autonomia del soggetto umano, riducendo Dio a semplice garante per costituire una scienza fisica, al profitto della vita presente (è chiaro cioè che Del Noce pensa a Laberthonnière), o comunque legato ad una interpretazione di tipo fisicista. Invece il mettere in rapporto il separatismo che consegue all’esperienza della libertà e la separazione del soggetto e dell’oggetto, e della filosofia e della teologia, è essenziale per definire l’attitudine cartesiana e per mostrare in quale contesto prende origine il principio di immanenza ; e anche per eliminare dall’interpretazione cattolica quell’aspetto, a mio avviso ingiustificato, che vede già all’inizio della filosofia moderna un’affermazione di orgoglio umano e di hybris ». 3 Diremmo quindi che il rifiuto della visione di Laberthonnière non è il rifiuto di una tesi sbagliata, ma il rifiuto di una tesi non sufficientemente radicale in rapporto alla giustezza e alla fondamentalità del motivo che la ispira. Data la tanto maggiore estensione in cui Del Noce usa il termine di separatismo nei confronti di Laberthonnière si potrebbe parlare di mera coincidenza verbale, laddove in verità vengono designate due essenze filosofiche sostanzialmente differenti ; ma così non è, perché in entrambi i casi il separatismo rinvia ad un fattore comune di importanza fondamentale : la concezione del Dio garante. È nell’analisi di questo tema che potremo intendere appieno il problema della mantenibilità dei due motivi fondamentali del pensiero cartesiano come pensiero «essenzialmente» ambiguo : argomento ontologico e libera creazione delle verità da parte di Dio. Che, se il motivo della libera creazione delle verità eterne è quello dei due destinato a cedere, allora l’individuazione, oberata nonostante tale cedimento, di una con
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Le ragioni della scelta di questi autori si intenderanno in seguito. 3 RCFM, p. 427. RCFM, pp. 427-429.
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tinuità religiosa nella filosofia moderna a partire da Cartesio (disegno ultimo di Del Noce, filosofo attraverso la storia e contestatore radicale della visione della filosofia moderna come necessario processo verso l’immanenza) non potrà non assumere delle caratteristiche affatto particolari, che andranno messe in evidenza. III. Sviluppo ontologistico e sviluppo fideistico del cartesianismo 9. L’abbandono delle verità create eterne nell’occasionalismo malebranchiano In sostanza, quando si parla del cartesianismo come incontro simultaneo di agostinismo e pelagianismo, la strada per l’immanentizzazione del Dio garante come inveramento della concezione separatistica è già tracciata. La assoluta naturalità della ragione umana, come suo essere in stato di autosufficienza, è il presupposto della dimostrazione di Dio : la dimostrazione cartesiana significa quell’inversione del movimento scolastico, per la quale non si parte dal mondo per andare a Dio, ma da Dio per andare al mondo ; « inversione per cui si passa facilmente alla posizione per cui Dio viene essenzialmente sentito come il garante dei valori naturali ». Del Noce aggiunge subito, naturalmente, che Dio non è stato sentito da Cartesio esclusivamente come garante : « ciò a cui egli ha consapevolmente inteso è di giungere a un’idea di Dio liberata da ogni naturalismo » ; tuttavia il risultato è stato che « nella sua filosofia si è generata, per un processo necessario e senza sua chiara consapevolezza la figura del Dio garante ». 1 Con ciò si vede chiaramente quanto radicalizzata sia quella visione separatistico-garantistica che Laberthonnière per primo aveva presentato. Non è senza significato che proprio nel Problema dell’ateismo Del Noce abbia dedicato delle pagine penetranti e importanti alla visione del separatismo cartesiano in Laberthonniòre e Maritain, insistendo particolarmente sul significato garantistico che tale separatismo possiede. La visione di Laberthonnière è trattata a proposito di uno dei temi più fondamentali dell’ateismo contemporaneo : l’irrelig iosità comportata dalla tecnica, e dall’antropologia in essa implicita ; 2 la visione di Maritain (filosofo di cui in gioventù Del Noce subì fortemente l’influenza, nell’unità dei motivi antimoderni ed ultramoderni del suo pensiero) è trattata a proposito di un tema per lo meno altrettanto fondamentale : il passaggio, in Maritain, dalla tradizionale critica neotomista della filosofia moderna come soggettivismo alla critica della filosofia moderna come separatismo e garantismo (il Dio filosofico separato dal Dio religioso), questo passaggio essendo necessario nella misura in cui, di fronte alla realtà storica che si imponeva agli occhi del Maritain all’epoca dei fascismi europei, si imponeva l’esigenza di considerare il soggetto, e quindi la sua scoperta, come un valore positivo. 3 Infine, è sempre il Del Noce che più volte sottolinea come la comprensione del motivo del Dio garante quale prima, germinale fase dell’umanesimo antropocentrico sia comune anche a scrittori marxisti (in particolare al Goldmann), cioè proprio agli scrittori che pensano nell’area della manifestazione estrema dell’ateismo. In modo particolare, però, a noi interessa sottolineare la importanza che Del Noce attribuisce al pensiero di Carabellese come a quello che mostra la immanentizzazione finale e definitiva dell’ontologismo, 4 cioè di quella soluzione, mediante la quale Malebranche aveva tentato di evitare il separatismo garantistico cartesiano. Vediamo la rag ione di questo nostro interesse. Del Noce è convinto che nel cartesianismo religioso non c’è alternativa tra il razio
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2 RCFM, pp. 594-595. PA, pp. 96-100. Si vedano le pp. 340-343 di RCFM e passim.
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PA, pp. 315-319.
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nalismo teologico e il processo per cui il Dio di Cartesio si rovescia nel Dio garante ; il tentativo di eliminare il Dio garante operato da Malebranche « porta da Scilla a Cariddi, ossia al razionalismo teologico ». 1 Ma – la filosofia di Carabellese insegna – è poi possibile distinguere veramente, come cose alternative, fra razionalismo e garantismo, nel momento in cui si scorge che l’immanentizzazione del razionalismo ontologico riconduce ad una forma garantistica ? Cosa mai è infatti, ci chiediamo, l’idea di Dio in Carabellese se non la «garanzia» ultima della conoscenza e della realtà ? Naturalmente qui il discorso si farebbe assai lungo ed esulerebbe dall’economia di queste note. 2 Ma quanto qui si è voluto dire è che, se l’alternativa, che a Del Noce sembra essenziale al cartesianismo religioso, fra razionalismo e Dio garante, si risolve storicamente in un garantismo immanentizzato eliminatore dell’alternativa stessa, ciò che sembra destinato a dissolversi è proprio il cartesianismo religioso, cioè il momento religioso del cartesianismo. Ora, poiché l’aspetto del cartesianismo col quale il malebranchismo si rivelò incompatibile fu proprio quell’aspetto delle verità create eterne che permetteva l’affermazione del Cristiano come Moderno, ci sembra comprovata la validità della nostra impostazione del discorso per cui avevamo identificato in quella reduplicazione la radice dell’ambiguità cartesiana. Infatti se, per un lato, nell’abbandono della tesi delle verità create eterne si può scorgere il primo passo di quel processo destinato a giungere ad un garantismo immanentizzato e quindi ateo, per altro lato questo abbandono ha anche e contemporaneamente come conseguenza la perdita del Moderno (è chiaro che il Moderno che viene perso è quello in senso essenzialistico, non quello in senso cronologico, cioè storicistico...). Che Malebranche perda l’essenza cartesiana del Moderno ed incontri il platonismo è lo stesso Del Noce a rilevarlo. Egli infatti dopo aver affermato che l’unico tratto comune di tutte le forme in cui la libera creazione divina delle essenze si è affermata è la negazione della continuità dello Antico e del Cristiano, osserva : « Ciò è tanto vero che il filosofo nelle intenzioni più contrario all’Antico, Malebranche, non può non incontrare dopo la sua critica al volontarismo teologico il platonismo » ; 3 ed invero è proprio come collegamento tra il cartesianismo e il platonismo umanistico che la filosofia di Malebranche ebbe fortuna in Italia nell’ultimo scorcio del ’600 e ai primi del ’700. Non sembra però che a questo punto si possa ulteriormente parlare del separatismo cartesiano come del problema fondamentale del pensiero cattolico in
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RCFM, p. 504. Bisognerebbe infatti giustificare il presupposto che ci consente di svolgere un discorso del genere : tale presupposto essendo, chiaramente, quello di una continuità, se non direttamente storica, certo teoretica dell’ontologismo. E tale giustificazione non è qui possibile darla che «tra le righe» del discorso che si va svolgendo. È chiaro però che ci troviamo di fronte ad una comprensione esattamente opposta a quella di Del Noce, per la quale ontologismo malebranchiano e ontologismo di Carabellese sono due «essenze» affatto diverse : «il tratto comune delle due essenziali forme di ontologismo è dunque di essere entrambe una difesa della metafisica entro l’idealismo moderno [...] È altresì loro presupposto l’equazione di criticità e di idealismo : quell’equazione che oggi così il pensiero religioso come quello laicista sono portati, in senso opposto ad abbandonare. Se [è quanto Del Noce ha cercato precedentemente di mostrare] l’ontologismo è la forma necessaria che l’idealismo moderno deve assumere quando intenda conservare l’idea della filosofia come metafisica ed evitare un rovesciamento in cui è pure portato a negarsi come idealismo, non è meraviglia che non si possa parlare per la successione delle sue forme di uno sviluppo storico interno. Così Malebranche è in rapporto di effettiva continuità col pensiero di Cartesio, non con S. Agostino e S. Bonaventura, e non può far propri i temi agostiniani se non trasvalutandoli ; e il pensiero di Carabellese non è in correlazione diretta né con Malebranche o con Gioberti, ma nasce dalla meditazione dei problemi kantiani» (Ontologismo, voce 3 RCFM, p. 618. dell’Enciclopedia Filosofica, redatta da Del Noce). 2
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quanto coinvolge le origini del principio di immanenza, lasciando però in sospeso la questione se all’inizio della filosofia moderna si debba vedere un atto di hybris, ed anzi lasciando intendere che tale concezione è ingiustificata. Potremmo dire invece che la hybris ha la sua radice nella reduplicazione periodizzativa messa in luce. Prima però di trarre definitivamente questa conclusione sarà opportuno chiedersi se, a proposito di «mantenibilità», non sia per caso prospettabile, contrariamente a quanto finora si è detto, il mantenimento del momento religioso del pensiero cartesiano e l’abbandono di quello laico. La domanda non solo ha una sua giustificazione teoretica e storica, ma dà anche modo di considerare la posizione dell’altro filosofo cartesiano che, insieme a Malebranche, maggiormente interessa Del Noce, è cioè Pascal. 10. Pascal, estensore del dubbio cartesiano Per quanto riguarda Pascal vorremmo fare un’osservazione in via del tutto preliminare : sia pure in una visione «cartesiana » di Pascal, quale quella di Del Noce, l’aspetto per cui Pascal invera, diciamo così, il momento religioso del cartesianismo è anch’esso connesso con l’abbandono del motivo della libera creazione delle verità eterne : « certamente bisogna guardarsi da un errore in cui facilmente cadono coloro che intendono accostare Cartesio a Pascal : il Dio religioso di Pascal non è certamente il Dio creatore delle essenze di Cartesio, perché questa è ancora una nozione filosofica di Dio. Il passaggio da Cartesio a Pascal è quello da una filosofia dei limiti della ragione a una critica del razionalismo ». 1 A noi sembra che una constatazione del genere sia veramente decisiva in ordine alla non mantenibilità di quel momento che pretenderebbe di qualificare il cartesianismo come filosofia religiosa ; ed anzi, proprio il fatto che il cartesianismo costituisca nella visione di Del Noce la base a partire dalla quale Pascal può giungere alla critica del razionalismo mostra inequivocabilmente non tanto la irraggiungibilità mediante il razionalismo di un Dio che sia altro dal Dio filosofico, quanto l’impossibilità teoretica (e in questo si rivela l’importanza dell’inevitabile fattore razionalistico di partenza) della coesistenza del Dio della religione con il Dio del divertissement. Ma il fatto è che l’interpretazione pascaliana di Del Noce non si arresta all’affermazione generale sopra riportata, ed è assai più complessa, perché assai più complesso è il suo pensiero : il quale, vorremmo dire, possiede una ambiguità per molti aspetti analoga a quella del pensiero di Cartesio. Se il punto d’origine (in senso teoretico, non storico) del pensiero di Del Noce è, come si è visto, la considerazione dello status naturae lapsae e il chiarimento dell’ateismo come dissoluzione del tema della caduta d’origine, in verità quella che sembra essere la proposta ultima della filosofia di Del Noce ha le caratteristiche di un ontologismo «pelagiano», nel senso che non si intende chiaramente quale incidenza e quale presenza abbia il tema della caduta d’origine nella sua gnoseologia delle essenze filosofiche. L’interpretazione che egli dà di Pascal è indicativa. Secondo Del Noce cartesianismo e anticartesianismo non sono in contraddizione bensì coesistono nel pensiero di Pascal. Di Cartesio Pascal conserva tutte le tesi, salvo naturalmente l’ordine delle ragioni, e tutte le negazioni che ha pronunciato ; « per cui la critica di Cartesio diventa la critica della filosofia ». 2 Non v’è però per Del Noce una critica diretta di Pascal a Cartesio : è l’ampliamento dello stesso dubbio cartesiano che colpisce il Dio filosofico e porta all’abbandono del molinismo presupposto in cui la novità di Cartesio si trovava inserita. Ciò, naturalmente, comporta l’abbandono dell’aspetto
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RCFM, pp. 642-643.
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RCFM, p. 643.
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umanistico del cartesianismo : onde la domanda sulla possibilità di una «utilizzazione» pascaliana dopo che la dialettica ha fatto propri i temi della miseria dell’uomo quale individuo, mostrando come ciò non comporti tuttavia l’abbandono dell’umanesimo. Ma – ed è qui, a nostro avviso, che bisogna parlare di ambiguità – l’abbandono del molinismo è conseguente ad una, diciamo così, autonoma estensione del dubbio cartesiano, o l’estensione radicale del dubbio non dipende piuttosto da un iniziale pari per la caduta d’origine ? Del Noce accetta che ormai sia stato dimostrato 1 che per Pascal l’impossibilità di provare l’esistenza di Dio e più in generale l’impossibilità della metafisica come scienza consegua all’impossibilità di uno stato di pura natura. In questo senso si può anche parlare di cartesianismo di Pascal, ma come di un cartesianismo incontrato a partire dal portorealismo, o comunque da una opzione iniziale per la natura lapsa. Qui sarà utile fare riferimento ad un importantissimo saggio pascaliano contenuto nel Problema dell’ateismo (Il problema Pascal e l’ateismo contemporaneo). 2 Questo saggio traccia in modo assai sintetico una sorta di piano generale della grande opera storico-filosofica cui il Del Noce intendeva accingersi (e di cui col volume cartesiano è stato realizzato il primo tempo), e insieme – il che ci sembra di grande interesse – polemizza contro l’interpretazione pascaliana di Goldmann, generalizzando la questione nei termini essenziali dell’intera opera in cui il saggio si trova inserito : il pari fra ateismo marxista e, diciamo così, esistenzialismo religioso. La struttura del saggio ci sembra significativa, in quanto pare riassumere la struttura del pensiero stesso di Del Noce, ove l’alternativa fra ateismo e filosofia religiosa si colorisce insieme dell’aspetto del pari pascaliano in rapporto al tema della caduta – pari del tutto iniziale – e dell’aspetto di revisione della storia della filosofia in termini puramente razionalistici ; aspetto per il quale si può anche arrivare a incontrare il tema della caduta d’origine, ma sulla base del rilievo della nichilistica assurdità cui conduce il razionalismo. 3 Ma nella misura in cui il programma filosofico di Del Noce si va realizzando l’aspetto del parier sembra venga lasciato cadere : ciò che del resto è inevitabile allorché si ritenga possibile una lettura della storia della filosofia moderna in termini diversi da quelli di un processo verso la radicale immanenza. Il Pascal di Riforma Cattolica e filosofia moderna è così esclusivamente il segno di un incontro col portorealismo a partire dal cartesianismo. Nel ricordato saggio pascaliano contenuto nel Problema dell’ateismo Del Noce afferma che quanto intende mostrare è « come l’idea della laicità della filosofia moderna, in qualunque modo essa venga proposta (o idealistica, o marxista, o positivistica, o illuministica, o anche neotomista) contenga una serie di punti obbligati. Essi sono : 1) l’inizio cartesiano della filosofia moderna ; 2) l’opposizione fra Cartesio e Pascal ; 3) il fallimento di una nuova scolastica costituita sull’accordo tra pensiero cristiano e cartesianismo, in Malebranche ; 4) inconsapevolezza, in Vico, della sua reale posizione storica, per cui la sua filosofia esemplificherebbe, nel modo più perfetto, la sua teoria dell’eterogenesi
1
Egli ritiene infatti definitivo su questo punto il libro di Jeanne Russier, La foi selon Pascal, Paris, P.U.F., 1949. Si vedano in proposito particolarmente le pp. 415-423 e, più in generale, l’intero ultimo cap. (« Pascal au délà de Port-Royal ; Les preuves de Dieu »), in cui viene messa in luce la differenza fra Pascal e Arnauld e Nicole, i quali mantenevano ancora il valore delle prove razionali dell’esistenza di Dio. 2 PA, pp. 165-299. 3 È chiaro come ciò, insieme a quanto si è detto alle note 38 e 41, costituisca la precisazione di quel discorso iniziale sul diversificarsi della posizione di Del Noce in confronto a quella degli altri rappresentanti contemporanei (Chestov o Castelli) di un atteggiamento di pensiero che trova nella tematizzazione dello status deviationis –, una linea di difesa contro l’irreligione dell’età della tecnica.
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dei fini». Ciò che, a contrario, formula l’intero programma del pensiero di Del Noce : il primo punto è condiviso anche da lui come « necessariamente obbligato per ogni costruzione della filosofia moderna », gli altri tre invece sarebbero propri della prospettiva laica. Ma è precisamente nell’accettazione del primo punto come non elidente la possibilità di un diverso sviluppo dei punti successivi (cioè di un loro sviluppo in senso religioso) che anche in Del Noce si verifica quella reduplicazione Cristiano-Moderno, che ab biamo visto essere la radice prima dell’ambiguità cartesiana e che ci sembra di poter rintracciare come radice prima dell’ambiguità di Del Noce. Data questa premessa, necessariamente nella sua opera cartesiana successiva il rifiuto dell’opposizione fra Pascal e Cartesio si precisa esclusivamente nel senso di un incontro del portorealismo a partire dal cartesianismo. 1
IV. Lineamenti di una revisione storico-filosofica 11. L’ambiguità di un ontologismo cristiano Abbiamo con ciò voluto accennare come, data una certa interpretazione cartesiana, le filosofie di Malebranche e di Pascal divengano momenti «essenziali» dello sviluppo del problema rappresentato dal cartesianismo. Ciò si è accennato esclusivamente con riguardo al tema status naturae lapsae, in quanto riteniamo che questo costituisca una prospettiva assai fruttuosa per la comprensione del pensiero di Del Noce ; non si è affatto preteso di avere, nonché riassunto, nemmeno accennato all’intera interpretazione pascaliana e malebranchiana di Del Noce, che sono cosa assai complessa e, a cominciare dal punto di vista dell’erudizione, di una ricchezza fuori del comune. D’altro canto per Malebranche siamo ancora in attesa dell’opera di Del Noce che lumeggi in modo dettagliato il significato del pensiero malebranchiano in rapporto all’intero contesto culturale « europeo in cui esso si inscriveva. L’opera Riforma Cattolica e filosofia moderna si articola infatti nelle intenzioni di Del Noce in tre volumi, dei quali per il momento solo il primo dedicato a Cartesio ha visto la luce. Il progettato secondo volume dell’opera, Del Noce intenderebbe dedicarlo agli anni fra il 1680 e il 1715 della grande crisi culturale europea, studiando le contrapposte filosofie di Malebranche e di Bayle. Solo dopo l’illustrazione del cedimento del cartesianismo religioso di fronte alla critica bayliana, il terzo volume potrà essere dedicato alla messa in evidenza della posizione europea del pensiero di Vico. Tutto ciò risponde al proposito ultimo del pensiero di Del Noce : mostrare come nella filosofia moderna (quindi sempre a partire da Cartesio) possa esservi oltre alla continuità immanentistica una continuità del pensiero religioso. Sicché, in contrapposizione a quei tre punti che, come sopra abbiamo ricordato, vengono ritenuti propri ad ogni visione della filosofia moderna come filosofia necessariamente laica, la visione-revisione della storia della filosofia proposta da Del Noce individua nella linea Pascal-Malebranche-Vico il processo di purificazione (come rimozione degli elementi razionalistici) del cartesianismo religioso : Pascal comincia « esattamente dove Pascal finisce », Malebranche comincia « esattamente dove Pascal finisce » e « Vico comincia dove Malebranche finisce ». 2
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PA, p. 190. RCFM, p. 694 e passim. L’individuazione di questa linea storica rappresenta per Del Noce una revisione dello schema periodizzativo, oggi consueto, costituitosi all’interno dell’orizzonte storico leibniziano. Risale infatti a Leibniz la visione di Spinoza come di colui che porta a coerenza il cartesianismo. Si comprende da ciò la grandissima importanza storica che Del Noce attribuisce all’opera di Laporte : affinchè quello 2
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Ciò era necessario dire perché è il rapporto Malebranche-Bayle, ed anzi il rovesciamento del malebranchismo come coerenza del cartesianismo nella critica di Bayle 1 che reintroduce, nella visione di Del Noce la necessità di un riferimento alla caduta d’origine, ma in una particolarissima forma che, ancora una volta, si configura in relazione al tema della storia. È a questo proposito che il pensiero di Vico vuol essere preso in considerazione da Del Noce. Infatti il « Vico possibile » che egli si propone di svolgere in modo approfondito è quello che, mediante la tematizzazione della storia, reintroduce nel cartesianismo quell’elemento, la cui assenza costituiva la causa prima della perdita del senso dello status naturae lapsae (si è visto : l’anistoricità come pelagianismo). Mediante l’introduzione della natura lapsa o, che è la stessa cosa, la ripresa del tema della storia, l’occasionalismo è in grado di superare l’avversario che non aveva previsto, impedendo la critica-rovesciamento di Bayle (e, potremmo aggiungere, prevenendo l’introduzione del tema «futuro» proprio a quell’illuminismo di cui, per tanti aspetti, Bayle può essere considerato precursore). Diciamo «l’occasionalismo», perché questa è la particolarissima interpretazione che Del Noce dà di Vico : una interpretazione occasionalistica che, superando le tradizionali visioni immanentistiche, mostra come il pensiero vichiano rappresenti un momento ulteriore nello sviluppo della ripresa malebranchiana dell’ontologismo, questa ulteriorità esprimendosi nella critica della struttura significativa del cartesianismo, entro cui Malebranche aveva configurato la riaffermazione dell’ontologismo (onde i successivi sviluppi immanentistici e razionalistici del suo pensiero). 2
schema potesse essere criticato era infatti necessario riconoscere nella filosofia cartesiana una filosofia della libertà e della finitezza (teoria dell’intuito). Del Noce critica però radicalmente, e in modo del tutto convincente, il tentativo di Laporte di ravvisare una continuità Cartesio-Pascal-Hume (v. RCFM, pp. 247 ss.). È stato il chiarirsi dell’impossibilità della linea di continuità Cartesio-Hume proposta da Laporte che ha portato il Gouhier a mettere in luce la solitudine di Cartesio nella sua posizione del moderno come rottura (ed è così che il problema si è ampliato al problema, ben più generale, della revisione della concezione consueta della storia della filosofia, come si è visto all’inizio). Si intende così anche come la visione di Del Noce si ponga su quella linea evolutiva Laberthonnière-Laporte-Gilson-Gouhier sopra ricordata. L’importanza delle visioni di Laporte e di Gilson-Gouhier dipende poi, oltre che dalle tesi sostenute, dall’avversario che essi combattono. Le linee che l’interpretazione religiosa di Cartesio si è trovata ad affrontare sono state infatti l’interpretazione fisico-positivistica e l’idealistica. La prima è stata « l’avversario dialettico che ha continuamente indotto la direzione Gilson-Gouhier a rettificare le sue posizioni : si consideri la successione Espinas-Gilson-Gouhier – Gilson dopo Gouhier – Gouhier dopo Gilson » (RCFM, p. 355). Viceversa è stata l’interpretazione di Brunschvicg che il Laporte è pervenuto ad incontrare come propria avversaria. 1 Il significato che Del Noce intende attribuire al pensiero di Bayle è tale che, se verrà convincentemente illustrato nell’opera a tal fine prevista, potrà veramente mettere in crisi una serie di visioni storiche consuete : « Si è [...] visto come la filosofia di Malebranche, considerata da lui, e non a torto, come coerenza del cartesianismo metafisico, renda possibile la critica di Bayle, vero rovesciamento del malebranchismo ; e come essa debba considerarsi autocritica del cartesianismo religioso, nel senso che vuole essere la coerenza estrema di ciò che oppone Malebranche a Spinoza e lo separa da Leibniz. È un fatto che la distruzione della vecchia idea che vedeva in Spinoza il cartesianismo completo coincide con l’importanza che deve assumere nella storia della filosofia il problema Bayle. Siamo da ciò portati a dire che la critica bayliana segna la definitiva sconfitta del tentativo di accordo tra Riforma cattolica e filosofia moderna ? » (RCFM, p. 651). Le conseguenze vanno forse oltre quella che è la visione di Del Noce : pensiamo, per esempio, all’incidenza che una revisione del genere potrebbe avere sulla comprensione di quel periodo del pensiero filosofico tedesco, compreso all’incirca fra il 1780 e il 1815, che registra il passaggio dall’illuminismo all’idealismo nei termini quasi esclusivi di un dibattito di filosofia della religione e che ha il suo punto d’avvio nello “Spinozismusstreit”. A questo proposito un’analisi del pensiero di Jacobi (un Pascal dopo Hume ?) come filosofo della libertà, ma assolutamente all’interno di quell’orizzonte storico leibniziano, che vede la coerenza del cartesianismo in Spinoza, sarebbe di grande interesse teoretico oltre che storico. 2 Per un abbozzo di questa visione occasionalistica di Vico si vedano le pp. 269-295 di PA, eccezional
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Naturalmente questa critica comportava un rovesciamento nei confronti di Malebranche, per cui « al primato dell’essenza si sostituisse quello dell’esistente » ; 1 eppure, anche mettendo in evidenza questo ci pare che nell’interpretazione di Del Noce una effettiva continuità si determini, per dirla in senso regressivo, tra Vico, Malebranche, e Cartesio – una continuità, se vogliamo, «ontologistica» – ; chi invece non trova un posto in questa evoluzione problematica lineare è, diciamo così, l’«esistenzialista» Pascal. È ben vero che egli comincia dove finisce Cartesio, in quanto porta a coerenza il momento religioso del cartesianismo ; ma – ed è questo che interessa – in quale senso si può dire che Malebranche a sua volta comincia dove finisce Pascal ? Nel senso che se Pascal era arrivato dalla ragione alla fede, Malebranche parte da una posizione di fede per arrivare alla ragione. Ora è chiaro che questa non può dirsi una linea di sviluppo ; si tratta semplicemente di due posizioni, se vogliamo, reciproche e, a parte la comunanza dei termini, un ben diverso valore ha l’espressione che Vico a sua volta comincia dove Malebranche finisce : qui infatti, come si è visto, una autentica continuità nella visione storica di Del Noce esiste. Bisognerà allora dire che Pascal segna, più che una continuità, una rottura ? Così non è, nell’interpretazione di Del Noce, perché, come egli stesso si esprime, «Pascal rappresenta lo svolgimento della tesi cartesiana dopo l’accettazione ante litteram della critica di Malebranche a Cartesio», per la quale si sostituisce alla idea di Dio la presenza di Dio. 2 Ma è evidente che il vichismo e la reintroduzione del tema natura lapsa non è prospettabile come una pascalizzazione del malebranchismo, proprio nella misura in cui, per la caratteristica visione di Del Noce, il pensiero di Vico va interpretato in termini occasionalistici. Pertanto anche a parte post (quelle considerazioni non cronologiche che la comprensione della storia della filosofia come storia delle essenze permette) non è possibile vedere Pascal che come una rottura e, diciamo così, l’«esistenzialismo religioso» come qualcosa il cui rapporto con l’ontologismo attende ancora di essere precisato. Non è questa l’ultima delle prospettive da cui il pensiero di Del Noce si presenta di tanto interesse. Ci sembra infatti che la sua volontà di riaffermazione dell’ontologismo abbia sempre presente nel fondo, in modo più o meno latente, il senso della problematicità di tale rapporto. È ancora nei programmi di Del Noce, infatti, il disegno di mettere in luce quale valore possa avere oggi l’essenza «ontologismo», mediante un’opera che definisca lo scacco subito dall’attualismo nel suo tentativo di oltrepassare l’ontologismo di Gioberti e Rosmini in una riforma della dialettica hegeliana. 3 D’altro lato però Del Noce afferma – e, come si è detto, il problema si «sen
mente interessanti. Esse tra l’altro chiariscono una questione preliminare, e cioè la presenza, già nell’occasionalismo del motivo del verum factum. La forma generale, infatti, che assume il principio occasionalista – «impossibile est ut is faciat qui nescit quomodo fiat» – coincide con la tesi stessa del verum factum, enunciata in termini negativi. Il passaggio dalla forma negativa a quella positiva implica la critica del matematismo cartesiano. 1 2 PA, p. 289. Si vedano le pp. 244-248 di PA. 3 Per Del Noce il riconoscimento dell’impossibilità di presentare l’ateismo come forma di pensiero oltrepassata nel razionalismo del divino immanente (attualismo), porta a problematizzare la veduta storica della storia della filosofia come processo verso l’immanenza : l’attualismo infatti è la forma che l’hegelismo deve necessariamente assumere per tentare di riaffermarsi quale filosofia dell’immanenza del divino, così dopo il marxismo come dopo l’ontologismo, « realizzando la coincidenza singolarissima tra il marxismo dissociato dal materialismo e la filosofia della presenza del divino dissociata da ogni riferimento trascendente. Il fatto che Gentile cominci la sua attività di scrittore con un libro su Marx e uno su Rosmini e Gioberti, stesi pressocché contemporaneamente, assume a questo riguardo un significato simbolico, che non so se sia mai stato sinora notato » (PA, p. 299). Vogliamo notare a questo proposito come l’importanza data da Del Noce al pensiero di Laporte dipenda
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te» anche laddove mancano affermazioni esplicite – che « il tentativo di riaffermazione dell’umanesimo dopo la critica pascaliana definisce [...] la storia dell’ontologismo cristiano moderno ». 1 Con ciò il problema Pascal viene posto teoreticamente oltre l’ontologismo, nel senso che non è superato da questo, ma costituisce un termine al quale esso necessariamente deve commisurarsi e in rapporto al quale deve qualificarsi. Si tratta di vedere se questa storia – «la storia dell’ontologismo cristiano moderno» – è una storia che può concludersi, o se la storia del pensiero quale storia del frutto della caduta non è destinata a svolgersi indefinitamente finché non si riconosca come tale : finché, vale a dire, la ragione si riconosca come fonte dello status deviationis. Di questo attegg iamento la reduplicazione del Cristiano in Cristiano–Moderno costituisce l’unico opposto veramente irriducibile.
oltre che dall’illustrato significato storico della sua opera, dal significato teoretico che egli vi riconosce. I processi di pensiero di Gentile e di Laporte si presentano infatti a Del Noce come assolutamente opposti : « a partire dalla critica dell’intuito, Gentile arriva a una riforma del trascendentalismo kantiano che conclude nell’immanentizzazione del Dio cartesiano ; ed è chiaro che per l’attualismo libertà non può significare libero arbitrio, nel senso umano, come potestas ad opposita, dato che il soggetto non presuppone alcuna realtà davanti a sé ; ma l’atto della scelta coinciderà con l’atto autocreativo, appunto come per il Dio cartesiano. A partire invece dalla considerazione della teoria cartesiana della libertà divina, attraverso l’esposizione esatta e la rivalutazione della dottrina del libero arbitrio, il Laporte è arrivato a riscoprire la teoria dell’intuito » (RCFM, p. 193). La ricerca di Laporte pertanto porta a definire, per Del Noce, in termini assolutamente rigorosi la situazione storica dell’attualismo, permettendo di risalire all’individuazione delle origini prime di quelle che sono le ragioni del suo scacco. 1 PA, p. 258.
error e kairós la funzione periodizzativa dell’idea di cristianesimo e la storia della filosofia*
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n qual misura l’idea di Cristianesimo rechi in sé una prospettiva storiografica rispetto alla vicenda filosofica ; in qual misura il termine « cristiano » abbia assunto, nel corso della storia del pensiero, una funzione periodizzativa rispetto alla storia della filosofia, e come tale assunzione abbia variamente condizionato la comprensione della stessa storia della filosofia : questo è il problema che qui si vuole impostare, ed articolare nelle direttrici di ricerca che sembrano esserne costitutive. Non intendiamo dunque dare una risposta, bensì fare una proposta. Né dicendo ciò vengono conferiti al discorso dei limiti tranquillizzanti : esso rappresenta, infatti, una delle prime questioni critiche che si pongono ad una cultura la quale « non può non dirsi cristiana » o, secondo più recenti mode, « postcristiana ». È opportuno precisare fin dall’inizio che il problema proposto non ha nulla a vedere con quello, ampiamente dibattuto, in ispecie nell’ambito della cultura francese, della « filosofia cristiana ». 1 La precisazione si rende estremamente opportuna non soltanto al fine di rendere conto della necessità di tematizzare il problema, ma anche, e soprattutto, al fine di individuare sin dall’inizio, per via di un confronto, le linee peculiari in cui si configura storicamente e teoreticamente la questione proposta. Qui non si tratta infatti di vedere se e come si dia una « filosofia cristiana », vale a dire una filosofia che possa essere qualificata con un certo aggettivo in funzione dei suoi contenuti particolari ; piuttosto, e al contrario, si tratta di vedere se e come l’idea di Cristianesimo abbia condizionato la filosofia in quel suo aspetto specifico che è rappresentato dalla comprensione che la filosofia ha della propria storia. Questo è indubbiamente un aspetto specifico – una specificazione – ma non certo un aspetto particolare o un settore, per così dire, della riflessione filosofica, se, come non sembra discutibile, la comprensione che la filosofia ha della propria storia non è distinta dalla comprensione che la filo sofia ha di se medesima, e cioè non è distinta dal suo costituirsi in filosofia ; infatti quella comprensione rappresenta precisamente un modo di specificarsi, di concretarsi e, in ultima analisi, di costituirsi della stessa filosofia in quanto tale. Si potrebbe dire, dunque, che nel caso di quel problema, dal quale intendiamo differenziare il nostro, si
* La teologia della storia. Rivelazione e storia, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di filosofia », xxxix, 2, 1971, pp. 87-105. 1 Intendiamo riferirci a quella discussione, il cui testo più significativo può essere considerato E. Gilson, L’esprit de la philosophie médiévale, Paris, Vrin, 1948 (con, in appendice, delle « notes bibliographiques pour servir a l’histoire de la notion de philosophie chrétienne », pp. 413-440, che hanno variamente stimolato la prosecuzione anche filologica del discorso gilsoniano : v., ad es., J. Leclerq, Pour l’histoire de l’expression « philosophie chrétienne », « Mélanges de Sciences religieuses », 1952, pp. 221-226). Ultimamente è stata pubblicata in Italia un’opera (intesa a riassumere i termini in cui si è svolto il dibattito sulla « filosofia cristiana »), il cui stesso titolo ci sembra assai significativo in rapporto a quanto diremo subito nel testo : A. Livi, Il cristianesimo nella filosofia, L’Aquila, Japadre, 1970 ; va dato atto all’Autore di mostrare consapevolezza, con l’impostazione che lo stesso titolo esprime sinteticamente, di quale sia l’effettivo problema storico esprimentesi nel tragelaphos teoretico « filosofia cristiana ».
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possiede, più o meno consapevolmente, un concetto aprioristico o, comunque, previo della filosofia ; presupposto il quale, la questione effettiva verte intorno ad un particolare contenuto storico – cioè il cristianesimo – e precisamente intorno alla possibilità o meno di rivendicare a questo contenuto, in primo luogo, una sua validità filosofica e, successivamente (ma è questo il fine autentico di una problematica siffatta), una sua originalità filosofica : tale, magari, da rappresentare la condizione per il progresso dello stesso pensiero filosofico, altrimenti giunto ad una impasse insuperabile. Nel caso del problema che qui si vuole proporre, si tratta, al contrario, di prendere atto a posteriori del contenuto storico dell’idea di Cristianesimo, o per lo meno di quella sua parte, di quella sua struttura che storicamente è stata rilevante rispetto alla comprensione della filosofia e della sua storia. Per modo che l’intento ultimo della questione prospettata sarebbe piuttosto quello di conseguire, attraverso l’esame dei condizionamenti storici, una più chiara visione teoretica del problema rappresentato dalla filosofia in quanto tale e, più precisamente, dal suo vario costituirsi in quanto tale attraverso le differenti comprensioni che essa consegue della propria storia. 1 È chiaro come i due termini teoretici essenziali di un discorso siffatto siano la storia della filosofia e la filosofia della storia ; la precisazione dei rapporti intercorrenti fra questi due termini è, infatti, imprenscindibile per il costituirsi della filosofia attraverso il problema rappresentato dalla propria storia. Orbene, è proprio tale precisazione che riceve un apporto sostanziale e, di più, può essere impostata correttamente solo attraverso l’esame dell’uso periodizzativo che è stato fatto del termine « cristiano » e attraverso l’analisi della struttura storiografica che è implicita nell’idea di Cristianesimo. Un’analisi di questo genere, anzi, è tale da portare alla revisione di più di una tesi generalizzata e consolidata nell’interpretazione della vicenda del pensiero filosofico occidentale « dopo Cristo ». In particolare, la prospettiva problematica che qui proponiamo sembra mettere in crisi la veduta tradizionale della filosofia della storia – nel senso hegeliano di philosophische Weltgeschichte 2 – come secolarizzazione della teologia della
1 Una volta che tutto questo sia stato chiaramente precisato, si può anche osservare senza timore di generare equivoci – ed anzi è opportuno osservare onde dissolvere la possibile impressione di un certo rigido schematismo nella impostazione del problema – che la nozione di « filosofia cristiana », così come essa è stata precisata da Gilson, può costituire, in quanto storicamente data, materiale di riflessione e di concreta documentazione rispetto al nostro problema ; essa rappresenta, infatti, un modo tra i tanti in cui l’idea di Cristianesimo ha condizionato la comprensione della filosofia e della sua storia. È chiaro però che, considerata sotto tale rispetto, la nozione di « filosofia cristiana » viene assunta in termini completamente diversi da quelli per cui essa stessa costituisce un oggetto di riflessione teoretica. Da questo punto di vista, un riferimento storico per il problema che qui si vuoi proporre può essere ritrovato semmai, molto più adeguatamente che non nella problematica della « filosofia cristiana », in quella problematica, elaborata soprattutto in seno alla cultura tedesca da Hegel a Troeltsch, la quale, dalla identificazione filosofica del cristianesimo con la absolute Religion, giunge a problematizzare storicamente la Absolutheit des Christentums. 2 La precisazione è importante, al fine di evitare equivoci e nebulosità ; sarà bene, anzi, sottolinearla con una precisazione di Hegel stesso, all‘inizio delle sue lezioni sulla filosofia della storia : « Der Gegenstand dieser Vorlesung ist die philosophische Weltgeschichte, das heisst, es sind nicht allgemeine Reflexionen über dieselbe, welche wir aus ihr gezogen hätten, und aus ihrem Inhalte, als dem Beispiele erläutern wollten, sondern es ist die Weltgeschichte selbst » (Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, Jubiläumsausgabe, vol. xi, p. 25). Questa precisazione rappresenta, in realtà, una definizione di cosa sia per Hegel la filosofia della storia : essa è una storia universale filosofica, e dunque non è una filosofia della storia nel senso di una riflessione, per così dire, trascendentale sulla storicità quale orizzonte del disvolgersi della storia concreta (cioè quale orizzonte in cui si svolgono gli effettivi contenuti storici), né una filosofia della storia come mera storia universale, possibile in funzione del rilevamento di una unitarietà effettiva che caratterizza il senso degli avvenimenti storici concreti ; essa è, invece, una storia universale che nasce dalla riflessione filosofica. Ogni
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storia cristiana (o, più precisamente, agostiniana) ; essa infatti mette in luce come fra teologia della storia e filosofia della storia non vi sia una derivabilità diretta, ponendosi fra i due termini, quale termine medio e quale passaggio obbligato, il problema della storia della filosofia. Tale problema rappresenta un passaggio obbligato non solo teoreticamente, ma, di fatto, lo ha rappresentato anche storicamente. Lasciando ad un più ampio lavoro, al quale chi scrive si sta dedicando, la discussione storica dell’affermata precedenza del problema della storia della filosofia su quello della filosofia della storia, 2 indichiamo esclusivamente, in questa relazione, i punti fondamentali e, per così dire, strutturali del discorso che si intende proporre, considerando il significato che rispetto ad essi viene ad assumere l’idea di Cristianesimo. 1
considerazione unitaria della storia la quale tragga origine dalla considerazione degli avvenimenti storici è, pertanto, insufficiente a dar luogo ad una filosofia della storia in senso hegeliano ; altrettanto insufficiente però è una riflessione trascendentale sulla storicità ; è ben vero che Hegel osserva : « Die Frage, was die Bestimmung der Vernunft in ihr selbst sey, fällt, insofern die Vernunft in Beziehung auf der Welt genommen wird, mit der Frage zusammen, was der Endzweck der Welt sey » (ivi, p. 43) ; questa osservazione potrebbe far pensare alla possibilità di una riflessione trascendentale sulla storicità, nella misura in cui il testo hegeliano stesso non pone come necessario il collegamento della riflessione intorno alla Bestimmung della ragione con la riflessione intorno al mondo ; ma le cose stanno diversamente, perché, come Hegel aveva già prece dentemente chiarito : « Der einzige Gedanke, den die Philosophie mitbringt, ist aber der einfache Gedanke der Vernunft, dass die Vernunft die Welt beherrsche, dass es also auch in der Weltgeschichte vernunftig zugegangen sey. Diese Uberzeugung und Einsicht ist eine Voraussetzung in Ansehung der Geschichte als solcher überhaupt ; in der Philosophie selbst ist diess keine Voraussetzung » (ivi, pp. 34-35). Queste precisazioni, dicevamo, sono della massima importanza, e non solo da un punto di vista di interpretazione hegeliana. Avviene, infatti che le varie discussioni intorno alla filosofia della storia e ai suoi rapporti con la teologia della storia siano viziate da una estrema equivocità e polivalenza dei termini : questi oscillano, attraverso varie gradazioni, fra le due accezioni estreme di « riflessione filosofica intorno alla storicità » e di « storia universale » (col relativo problema storiografico ; nel qual senso ci sembra indicativo l’acuto, seppure in alcuni punti incongruente saggio dello storico E. Ragionieri, La polemica sulla Weltgeschichte, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1951). Questa oscillazione si verifica anche nel campo delle interpretazioni di Hegel : è significativo che, mentre l’edizione Lasson intitola le lezioni hegeliane sulla storia, nel modo più preciso, Philosophie der Weltgeschichte (voll. viii e ix), la Jubiläumsausgabe le intitola, assai più equivocamente, Philosophie der Geschichte : ciò che può far pensare, appunto, ad una riflessione di tipo, come l’abbiamo chiamato, trascendentale. Se non si tenesse presente l’accezione precisa in cui usiamo il termine di « filosofia della storia » – e cioè come philosophische Weltgeschichte – gran parte delle nostre tesi risulterebbe inintelligibile. 1 Non sarà inutile osservare (quantunque il nostro discorso sia di diverso tipo, e cioè filosofico) che anche la tesi del giudeo-cristianesimo come apportatore del senso della storia è entrata ampiamente in crisi. Per un verso, infatti, è stato mostrato in modo veramente magistrale ed insuperabile come il senso della storia non fosse assente nel pensiero classico : si veda S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari, Laterza, voll. 3, 1965-66 ; per altro verso, è stato ormai da più parti messo in evidenza come il giudaismo avesse una nozione così limitata e insufficiente del tempo e della temporalità (financo dal punto di vista linguistico), da far fortemente dubitare che esso possa essere considerato apportatore del senso della storia : si veda, ad es., J. Barr, The semantics of biblical language, London, Oxford University Press, 1961, e si consideri la concezione biblica della storia messa in evidenza dai saggi di J. Jeremias, L’attente de la fin prochaine dans les paroles de Jésus, in L’infaìllibilité. Son aspect philosophique et théologique, Paris, Aubier, 1970, pp. 185-199, e Les paroles des trois jours dans les Evangiles, nel primo volume degli Atti di questo stesso Colloquio, Herméneutique et eschatologie, Paris, Aubier, 1971, pp. 187-195 ; per quanto riguarda il cristianesimo, poi, si vedano le documentate pagine della citata opera di Mazzarino ove, sulla base della considerazione di materiale epigrafico, viene messo in evidenza come nemmeno i cristiani di Mauritania (che più di altri gruppi cristiani avrebbero dovuto, per varie ragioni, essere ricettivi nei confronti del preteso senso della storia implicito nell’evento dell’Incarnazione) avessero assunto l’era cristiana quale sistema di cronologia (si veda tutta la fondamentale nota « L’intuizione del tempo nella storiografia classica. Cronologia », in op. cit., vol. iii, pp. 412-461). 2 Ma basti pensare all’esempio centrale e privilegiato costituito da Kant e dai due ultimi capitoli della « Dottrina trascendentale del metodo », cioè l’« Architettonica della ragion pura » e quella « Storia della ragion pura » con cui, in modo assai significativo, si conclude la prima Critica kantiana.
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Il problema del periodizzamento è indubbiamente la questione-chiave che bisogna affrontare per definire il rapporto intercorrente fra storia della filosofia e filosofia della storia come « storia universale filosofica ». 1 È però opportuno, per ragioni di chiarezza, distinguere qui due diversi tipi di periodizzamento possibili. In un primo tipo, che potremmo chiamare descrittivo, non v’è infatti alcuna connessione problematica con la filosofia della storia ; intendiamo, con la denominazione di periodizzamento descrittivo, quel periodizzamento che trova la ragione dell’unificazione di certi contenuti storici nel periodo in una omogeneità interna ai contenuti stessi presi in esame (ad es. : Umanesimo, Rinascimento). Tale periodizzamento non ha di per sé alcuna connessione problematica con una storia universale filosofica, proprio per il fatto che la ragione della unificazione è rinvenibile all’interno degli stessi contenuti esaminati ; una connessione problematica verrebbe a crearsi solo nel caso che un rapporto progressivo e necessario fosse posto tra i vari periodi che sono stati individuati ; per tal maniera, infatti, essi verrebbero a configurarsi come i momenti dello svolgimento di un processo che, in quanto unico, è poi solo questione verbale definire ed intendere come il processo dello svolgimento dello « Spirito ». Ma, allorché un simile rapporto progressivo e necessario sia posto, ci si trova di fronte ad un periodizzamento di diverso tipo che, seppure possa avere delle apparenze descrittive, possiede fondamentalmente una diversa natura : esso rientrerebbe, invero, in quel secondo tipo di periodizzamento che, per intenderci, chiameremo teoretico o valutativo, e la cui natura consiste nel fatto che l’unificazione dei contenuti nel periodo viene operata in funzione di un criterio esterno, al quale vengono commisurati i contenuti compresi nel periodo, e in funzione del quale soltanto essi rivelano (o ... conseguono) la loro omogeneità. Orbene, è proprio in questa seconda maniera che si è esercitata la funzione storiografica dell’idea di Cristianesimo, il termine « cristiano » essendo stato fatto oggetto di una utilizzazione in senso periodizzativo. Vediamo dunque più da vicino come possa configurarsi il periodizzamento valutativo e come esso, attraverso le sue possibili configurazioni, determini variamente la connessione problematica fra storia della filosofia e filosofia della storia : che questa connessione si arricchisca, nella realtà di quella che è stata la concreta vicenda del pensiero occidentale, di un terzo termine rappresentato dalla teologia della storia, dipende dunque dal fatto che, concretamente, il periodizzamento valutativo del pensiero filosofico occidentale è stato operato attraverso la prospettiva condizionante costituita dall’idea di Cristianesimo. La connessione problematica fra storia della filosofia e filosofia della storia si determina diversamente a seconda che il periodizzamento teoretico, o valutativo, si costituisca sulla base di uno schema di tipo « errore-verità » o di tipo « vecchio-nuovo » (o, se si preferisce, « antico-moderno »). Questi due schemi mostrano di essere alla radice di ogni periodizzamento teoretico : invero, il loro secondo termine (verità, novità), come che esso si concreti nei suoi contenuti effettivi presso il singolo pensatore, rappresenta, per l’appunto, il parametro e il criterio valutativo posseduto presentemente dall’osservatore (e dunque esterno, per così dire, ai contenuti unificati), in funzione del quale criterio i contenuti rivelano o conseguono una loro omogeneità ed un loro significato unitario.
1 Cfr., in G. W. F. Hegel, Vorlesungen tiber die Geschichte der Philosophie, il primo paragrafo della sezione C dell‘introduzione (sezione dedicata a « Eintheilung, Quellen, Abhandlungsweise der Geschichte der Philosophie ») : esso, pubblicato con il titolo « Eintheilung der Geschichte der Philosophie », si apre con le significative parole : « Indem wir wissenschaftlich zu Werke gehen, muss diese Eintheilung selbst sich als nothwendig darstellen » ( Jubiläumsaus., vol. xviii, p. 135).
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Molti dubbi potrebbero però sorgere intorno all’asserita capacità, che lo schema errore-verità possiederebbe, di dar luogo ad una forma di periodizzamento in senso proprio. Si potrebbe infatti osservare che tale schema non comporta l’elemento storico-cronologico che al periodizzamento appartiene per la sua stessa natura. Ad una eventuale obiezione in questo senso non vale opporre una visione della verità quale può averla guadagnata la cultura, diciamo genericamente, posthegeliana, per la quale la verità non è astorica, bensì vivente nella storia e della storia : si tratterebbe infatti di una opposizione inadeguata, perché simili concezioni della verità non lasciano la possibilità di pensare il concetto di errore, e quindi non sono riconducibili allo schema in questione. Di fronte all’obiezione che escluda la funzione periodizzativa dello schema errore-verità, sarà invece opportuno riconoscere francamente che una veduta filosofica la quale si costituisca sulla sua base – poniamo la filosofia di Cartesio – è necessariamente astorica. 1 Ma in quale senso essa è tale ? Nel senso che assume che la verità, in quanto verità, non possa avere storia ; sicché della filosofia, intesa come dottrina vera o, ancor più, come dottrina della verità, non può darsi storia. Altrettanto però non si può dire dell’altro termine, senza del quale una simile concezione, per essenza astorica, non può essere nemmeno pensata : e cioè l’errore. Errare (errare, irre gehen) è qualcosa che per la sua stessa essenza comporta un andare – un andar errando – e dunque una storia. Certo, l’errare è quel tipico modo di andare che non ha una direzione lineare e irreversibile : ma a cosa mai se non alla filosofia della storia si deve questa trasposizione di un’immagine spaziale, quale quella della direzione lineare e irreversibile, nella concettualità riguardante il tempo e la storia ? Né si vede come, qualora si prescinda – come si deve, nel considerare le filosofie astoriche – dalla filosofia della storia, possa negarsi la dimensione storica all’errore : la verità è una, e di essa non si dà storia, ma gli errori, anche indipendentemente dal suggestivo etimo che richiama l’idea di un particolare tipo di andare, gli errori, dicevamo, seppure siano fisse falsità, danno luogo, in quanto falsità molteplici, ad una storia degli errori (e quindi alla possibilità di una loro storiografia, sia pure nella forma di dossografia). Che tale storia non venga intellettualmente costruita, poniamo, da Cartesio, dipende dal fatto che in una veduta filosofica impostata sullo schema errore-verità il primo termine viene destituito di ogni importanza, la storia degli errori venendo identificata con lo stesso errore della storia. Ma con ciò abbiamo raggiunto precisamente la determinazione di come lo schema errore-verità possa dar luogo ad un periodizzamento teoretico o valutativo. L’unificazione dell’errore nasce dalla sua commisurazione alla verità ; si tratta indubbiamente di una unificazione in funzione di un parametro esterno, ma l’omogeneità che i contenuti del periodo conseguono è proprio quell’omogeneità dei contenuti fra loro, la quale soltanto dà luogo al periodo. Tale omogeneità è appunto quella che può essere definita come l’errore della storia, l’elemento temporale essendo, insieme con l’omogeneità dei contenuti, l’altro aspetto senza di cui un « periodo » non può essere costituito. 2
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Quantunque la discussione storica non rientri nei limiti che ci siamo proposti in questo lavoro, vogliamo tuttavia menzionare, perché estremamente significativo, attraverso la contrapposizione a Kant, della veduta di « storia della filosofia » propria a Cartesio, il saggio di H. Lübbe, Philosophiegeschichte als Philosophie, in Einsichten. Gerhard Krüger zum 60. Geburtstag, a cura di K. Oehler e R. Schaeffler, Frankfurt a. M., Vittorio Klostermann, 1962, pp. 204-229. 2 In questo senso, la tesi di Enrico Castelli sulla indatabilità del male ci sembra estremamente suggestiva rispetto alla storia della filosofia (v. Herméneutique et Kairos, nel primo volume degli atti di questo Colloquio, cit., pp. 16-17) ; per vedute filosofiche del tipo di quella in discussione si può a ragione parlare, parafrasando un’espressione dell’introduzione al Colloquio, di « indatabilità dell’errore per la sua continua storicità ».
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Nella concreta realtà storica rappresentata dalla vicenda del pensiero filosofico occidentale « dopo Cristo », un discorso di questo genere, svolto fin qui su di un piano concettuale, trova, in funzione dell’idea di Cristianesimo, un’amplissima esemplificazione : una parte notevole del pensiero patristico può essere considerata come l’apologia della verità del cristianesimo di contro all’errore della sapienza gentile. Se prendiamo, ad esempio, il caso di Agostino (indubbiamente il più significativo, anche per le ragioni che vedremo in seguito) possiamo notare come egli contrapponga il cristianesimo, inteso come vera philosophia, alla philosophia gentium. 1 Indubbiamente qui ci si trova di fronte all’adozione di uno schema del tipo errore-verità : tanto la lettera quanto lo spirito di testi siffatti sono chiarissimi in questo senso. Nessuno, anzi, ebbe come Agostino, per esperienza di vita e teoretica, il senso dell’errar e della inerrante verità : l’errore, l’andare errando alla ricerca della verità, è lo stesso orizzonte in cui la verità si annuncia. « Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato » : paradossalmente, ma forse nel modo più adeguato e preciso, bisognerebbe dire che l’errore è la verità dell’uomo, l’unica verità a parte hominis. Il rapporto fra errore e verità si precisa pertanto come quello che potremmo chiamare il rapporto fra error e kairòs : la verità è l’attimo, il tempo debito, che si contrappone alla storia e conclude l’errare ; vale a dire : atemporale di per sé, la verità riceve una connotazione temporale per il fatto di annunciarsi nell’orizzonte dell’errore ; per converso essa unifica l’errore, concludendolo ed illuminandolo come storia. La non immanenza della verità alla storia è tuttavia un aspetto fondamentale : lo schema errore-verità non dà luogo in nessun modo alla filosofia della storia (nel senso di philosophische Weltgeschichte), questa è solo possibile sulla base di quell’affermazione dell’immanenza della verità alla storia, che destituisce di senso l’errore, sia dal punto di vista logico (inesistenza del falso), sia dal punto di vista esistenziale (la storia non è andare errando, ma processo in una direzione e sviluppo). 2 L’immanenza della verità alla storia implica la demitizzazione della colpa d’origine come di ciò che, nell’idea di Cristianesimo, è, appunto, all’orig ine della storia, determinandola quale error ; una volta posta l’immanenza della verità alla storia, la colpa – la « scissione » – diviene infatti lo stesso presupposto dialettico della redenzione – della « riconciliazione ». 3
E tuttavia, nonostante tutte le precisazioni che si sono fatte, la semplice riconduzione della veduta del cristianesimo come vera philosophia allo schema periodizzativo erroreverità resta insoddisfacente. È ben vero che la trascendenza della verità alla storia come 1 Si consideri, ad esempio : « Obsecro te, non sit honestior philosophia gentium, quam nostra Christiana, quae una est vera philosophia, quandoquidem studium vel amor sapientiae significatur hoc nomine » (Contra Julianum haeresis pelagianae defensorem, iv, 14, 72). Si veda anche De civitate Dei, x, 32, ove la filosofia cristiana è presentata, contro Porfirio, come « philosophia verissima » perché « universalem continet viam animae liberandae ». 2 Per questo ci è sembrato opportuno usare il termine di kairós, che sottolinea la trascendenza della verità alla storia e, quindi, la gratuità del suo evenire nella storia. 3 L’esegesi hegeliana del racconto della caduta d’origine è davvero significativa ; Hegel, infatti, a sottolineare la giustezza del consiglio luciferino, polemizza contro l’esegesi tradizionale la quale tace intorno al fatto che nel Genesi Dio esclama : « Ecco, l’uomo è divenuto come uno di noi » (Gen. 3, 22) : si vedano le pagine, altamente significative, dedicate alla interpretazione della caduta d’origine nelle Vorlesungen über die Philosophie der Religion, ed. Lasson, vol. xiv, pp. 121-129. Ma dove questa demitizzazione hegeliana riesce più significativa, stante il contesto in cui viene introdotta, è nelle Vorlesungen uber die Geschichte der Philosophie : qui, infatti, l’esegesi hegeliana viene presentata proprio nelle pagine introduttive a quella filosofia medievale, sul cui significato, in rapporto alla problematica che ci interessa, avremo modo, in seguito, di fare qualche notazione ( Jubiläumsausgabe, vol. xix, pp. 105-106).
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errore mostra l’eterogeneità fra la veduta agostiniana e quella di una storia universale filosofica ; ma, d’altro canto, non si può fare a meno di osservare, hegelianamente, che il cristianesimo fornisce ad Agostino, insieme con la nozione della vera filosofia, ed anzi nella stessa nozione della vera filosofia, quel concetto stesso di filosofia in virtù del quale l’errore può apparire falsa filosofia, ma pur sempre filosofia. 1 Nel caso in esame, vale a dire, ci troviamo di fronte ad uno degli esempi più significativi di come la stessa concezione unitaria dell’oggetto di cui si vuole fare storia (storia della filosofia) possa essere fornita dall’idea di Cristianesimo. 2 Ma non bisognerà allora ritenere che proprio per questa ragione la veduta del cristianesimo come vera philosophia debba essere ricondotta, piuttosto che allo schema errore-verità, all’altro tipo di periodizzamento teoretico o valutativo, quello che si costituisce sullo schema vecchio-nuovo ? Da questo punto di vista il rapporto fra l’era precristiana e quella cristiana, si presenterebbe piuttosto come un rapporto, non fra errore e verità, bensì fra vecchio e nuovo, fra preannuncio e compimento ; la negatività del « vecchio » non sarebbe quella dell’errore, bensì quella di un « non ancora » che, proprio mediante la sua mancanza, attesta e preannuncia la verità della novità. 3 In effetti, nessuno oserebbe negare l’importanza fondamentale che la nozione di novitas occupa nell’idea di Cristianesimo, considerata nella sua funzione, come l’abbiamo chiamata, storiografica. Ciò non tanto in considerazione del fatto storico costituito dal sistema di datazione secondo l’era cristiana (prima e dopo Cristo) ; questo rappresenta, ovviamente, un fatto di grande importanza nel determinare una comprensione dell’idea di Cristianesimo come termine periodizzativo : sia in Hegel, sia in Nietzsche ciò è straordinariamente evidente. 4 Tuttavia è altrettanto evidente che questo fatto rap
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Infatti, se si considerano le citazioni precedentemente riportate, si vedrà come Agostino stesso dia la sua definizione di filosofia : « studium vel amor sapientiae », ciò che « universalem continet viam animae liberandae ». 2 Questa osservazione torna utile per mettere in evidenza come, nella questione che si intende proporre con la presente relazione, non si ignori certo il problema teoretico della possibilità della « storia della filosofia » ; problema che proprio nell’ambito della cultura italiana è stato discusso assai ampiamente ed a un livello di alta qualità, dopoché è entrata in crisi la neoidealistica veduta del « circolo filosofia-storia della filosofia ». Ma il fatto è che nel caso della nostra questione tale problema non si pone direttamente, in quanto sia il senso in cui viene preso il termine « filosofia », sia la possibilità di unificare vari fenomeni culturali sotto questo unico termine, vengono implicitamente od esplicitamente decisi dalla stessa idea di Cristianesimo propria al pensatore che si prende in esame. 3 Agostino, ad esempio, considera i profeti di Israele come essi stessi veri filosofi : « Ipsi eis erant philosophi, hoc est amatores sapientiae » (De civitate Dei, xviii, 42, 3). Il discorso dei profeti si trova dunque, rispetto a quello cristiano, nel rapporto del vecchio al nuovo e non in quello dell’errore alla verità. Tuttavia, è chiaro il nostro intento di non identificare la teologia della storia con la storia sacra, cioè con la storia delle manifestazioni divine nella storia umana ; questo non solo e non tanto perché così si corrisponde assai meglio allo spirito di quella visione agostiniana di teologia della storia, nella quale la città terrena ha, per cosi dire, una sua autonomia rispetto alla città di Dio ; quanto e soprattutto per il fatto che, come più chiaramente diremo in seguito, la storia umana è la condizione di possibilità della storia sacra, e non viceversa. Pertanto tutto il nostro discorso sulla teologia della storia verte non sulla storia di Israele e sulla storia della Chiesa, bensì sull’orizzonte umano di questa stessa storia ; senza di che, si apre la strada agli equivoci in cui cadono, come diremo, le teologie della storia attuali. 4 Per Hegel l’intera storia della filosofia può essere divisa in due periodi : la filosofia dell’idea propria alla grecità, e la filosofia dello spirito, cioè la filosofia del periodo cristiano-germanico : « Im Allgemeinen haben wir eigentlich nur zwei Epochen der Geschichte der Philosophie zu unterscheiden, die griechische und germanische Philosophie, wie antike und moderne Kunst. Die germanische Philosophie ist die Philosophie innerhalb des Christentums » (Vorles. über d. Gesch. d. Phil., cit., p. 135). Sintomatica la data che Nietzsche aveva apposto al suo Ecce nomo : « primo giorno dell’anno uno (30
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presenta una conseguenza (ed invero, l’uso dell’era cristiana per la datazione diviene un fatto generalizzato solo nell’xi secolo ; i primi esempi di tale uso – isolati e quindi scarsamente significativi da un punto di vista di storia delle idee – si hanno nel secolo vi) ; una conseguenza di qualcosa che va considerato come sua origine e che va tenuto in tanto maggior conto, quanto più importante la sua conseguenza è stata per la nostra civiltà. In effetti, la nozione di novitas è essenziale all’idea di Cristianesimo fin dalle origini ; in questo senso è significativa tutta la presentazione che Cristo fa di se stesso, così come essa è desumibile da quelle scritture « canoniche » alle quali è affidato il « nuovo testamento » (esso stesso « nuovo » rispetto all’« antico ») ; la stessa predicazione preannunciatrice di Giovanni il Battista è tutta imperniata sull’idea del « pentirsi », che si prolunga nell’idea di « metanoia » del cristianesimo primitivo ; tutto il contributo paolino, da questo punto di vista, va considerato nei termini di una affermazione del nuovo, condensata in modo emblematico nella contrapposizione dell’« uomo nuovo » all’« uomo vecchio ». Ma una volta accertata questa compresenza delle due nozioni di veritas e novitas nell’idea di Cristianesimo, il problema che si pone è proprio quello della possibilità di una loro identificazione ; ed è qui che il problema della storia della filosofia appare in tutta la sua fondamentale importanza. Si è già visto come, da un punto di vista rigorosamente ed esclusivamente teoretico, il periodizzamento della storia della filosofia sulla base dello schema errore-verità escluda la filosofia della storia come philosophische Weltgeschichte : la verità, si diceva, è astorica, e storia si dà soltanto come errore. Non ci interessa punto, in questo momento, considerare se una simile veduta sia sostenibile (qualche cenno in proposito sarà fatto in seguito) : quel che importa è sottolineare come essa sia l’esatto opposto della filosofia della storia intesa quale storia universale filosofica. Quest’ultima, infatti, nasce sulla base di una visione della storia della filosofia, ove di « errore » propriamente non si può parlare, in quanto ciò che si vorrebbe qualificare così rappresenta, invece, il presupposto indispensabile per il costituirsi della verità ; la storia qui non è error, dunque l’opposto dell’astorica verità, bensì è il processo stesso del costituirsi della verità come essere « in sé e per sé ». Il periodizzamento della storia della filosofia, in siffatta veduta, contrappone l’attualità, che è sempre novità (soprattutto nella misura in cui si guarda indietro), al passato, che è superato, « vecchio », ma tanto poco falso, da essere « inverato » in quella novità di cui esso stesso è all’origine. Se però le cose stanno così, il problema della identificabilità delle nozioni di veritas e novitas non può essere risolto considerando le due nozioni di per sé, indipendentemen
settembre della falsa cronologia) » (riprendiamo la notizia da K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, trad. dal tedesco di F. Tedeschi Negri, Milano, Comunità, 1963, p. 282). Considerata da questo punto di vista, la tesi « da Hegel a Nietzsche », proposta da Löwith, riesce assai significativa ; pur con tutte le riserve che suscita, nella sua opera, l’individuazione dei passaggi intermedi fra i due estremi storici del discorso. A parte ciò, la citazione hegeliana che abbiamo fatto, ci fornisce l’occasione per una osservazione assai importante : qualcuno potrebbe ritenere insufficiente la nozione, qui utilizzata, di « schema periodizzativo », considerandola o riduzionistica rispetto alla molteplicità dei periodi in cui può essere suddivisa la storia, o non suscettibile di essere considerata come generativa della gran quantità di periodi in cui si ritenga di dividere la storia. Un’obiezione di questo genere, in particolare, si rivolgerebbe non tanto contro lo schema errore-verità (dato che in una visione del genere una sola unificazione teoretica dell’errore è possibile, e cioè quella per cui lo si ritiene l’errore della storia), quanto contro lo schema vecchio-nuovo : l’esempio hegeliano vale a dissolvere una eventuale obiezione in questi termini, attestando la consapevolezza che Hegel stesso ebbe del valore fondante e generativo dello schema vecchio-nuovo rispetto ai molteplici periodizzamenti a cui egli diede forma.
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te da quella che si può chiamare la loro determinazione negativa, cioè senza porle in connessione, rispettivamente, con la nozione di « errore » e con quella di « vecchio » ; proprio considerate in tale connessione, esse rivelano la loro assoluta inconciliabilità. Una volta, dunque, che si sia accertata la compresenza delle due nozioni di veritas e di novitas nell’idea di Cristianesimo, per decidere intorno alla loro identificabilità bisognerà interrogarsi circa la possibilità di lasciar cadere il concetto di errore. Nella filosofia della storia verità e novità coincidono proprio perché, come si è visto, l’error viene destituito di senso sia da un punto di vista logico, sia da un punto di vista esistenziale. Ma nell’idea di Cristianesimo la nozione di errore era destinata a restare del tutto valida proprio come opposto storico della verità astorica e come qualcosa che, per quanto possa costituire l’orizzonte in cui la verità si annuncia, le è assolutamente eterogeneo. Infatti, certamente la verità che salva dall’errore è la novità di Cristo ; ma, data la natura eterogenea dell’errore e della storia rispetto alla verità, nella misura in cui l’eschaton atteso come imminente si differiva in un futuro sempre più lontano, diveniva sempre più necessario riaffermare la concezione di una verità come astorico opposto dell’errore ; sempre più diveniva necessario riaffermare la concezione di una veritas come termine distinto da quella novitas, che per un verso si era già realizzata con l’Incarnazione, ma per altro verso non aveva ancora concluso la storia. 1 In altre parole, lo schema verità-errore come distinto da quello vecchio-nuovo era destinato a diventare costitutivo dell’idea di Cristianesimo nella misura in cui il prolungamento della storia comportava la configurazione del cristianesimo in una dottrina che rimaneva vera attraverso il fluire della storia, contrapponendosi alle dottrine false : tutta la storia della definizione dogmatica del cristianesimo attraverso i concili, così come tutta quella che potremmo chiamare la storia intellettuale del cristianesimo, volta contra haereticos o contra gentes, rappresenta il delinearsi di questo fatto fondamentale. Già in Agostino, ad esempio, il parlare del cristianesimo come « vera filosofia » o come « vera religione » è qualcosa che presuppone decisamente e chiaramente la visione errore-verità come distinta da quella vecchio-nuovo. Si prenda, per addurre l’esempio forse più significativo, il libro xii della Civitas Dei, cioè proprio uno dei punti in cui il problema discusso da Agostino è più tematicamente ed esplicitamente quello della storia, venendo qui contrapposta la visione cristiana della teologia della storia, imperniata tutta sull’idea della novitas, a quella neoplatonica, imperniata sull’idea di ritorno al punto di partenza : per Agostino, nuovo è lo stato dopo la caduta e nuovo, rispetto non solo allo stato decaduto, ma anche al primitivo stato integro, è lo stato della restaurazione nella perfezione e nella felicità. Orbene, proprio questa polemica avviene nei termini di una contrapposizione di dottrina a dottrina, di verità ad errore, di verità astorica ad error.
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L’imminenza dell’eschaton come autentico sfondo del messaggio di Gesù viene sempre maggiormente evidenziata dai moderni studi che si van conducendo sui sinottici ; al punto che la presenza dell’urgenza escatologica è stata assunta come la nota tipica che consentirebbe, secondo il metodo e i criteri esegetici della Überlieferungsgeschichte, di rintracciare, all’interno della narrazione evangelica, l’elemento originale della predicazione di Gesù, al di là delle sedimentazioni e delle trasformazioni dovute alla tradizione (si veda in proposito, I. de la Potterie S. I., Come impostare oggi il problema del Gesù storico ?, in Costituzione conciliare « Dei Verbum ». Atti della xx settimana biblica, Brescia, Paideia, 1970 » pp. 413-432 ; il saggio contiene anche numerosi riferimenti bibliografici alle più recenti ricerche sul tema escatologico). Persino la parabola del seminatore, che più indurrebbe a pensare ad un intervallo di tempo intercorrente fra la predicazione di Gesù e l’avvento del regno, descriverebbe, nel suo senso primitivo, « la pienezza escatologica di Dio, che sopravanza ogni misura » ( J. Jeremias, Le parabole di Gesù, Brescia, Paideia, 1967, p. 179 ; ma altri contributi esegetici esistono in questo senso).
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Sarà bene insistere sul fatto che la prosecuzione della storia dopo l’evento della novitas, la non immediata conclusività della novitas rispetto all’errore della storia, comporta necessariamente l’assunzione di una concezione dello schema errore-verità come distinto da quello vecchio-nuovo. Si tratta infatti di una necessità di natura teoretica, rispetto alla quale bisogna osservare, in primo luogo, che essa non viene in nulla modificata dal fatto di assumere una o un’altra concezione di teologia della storia rispetto alla vicenda Incarnazione-Parusia ; una necessità, si vuol dire, che non viene minimamente elusa per il fatto di assumere, come si suoi dire oggigiorno, una veduta di teologia della storia « incarnazionistica » anziché « escatologistica ». E, in secondo luogo, parlare di necessità teoretica significa respingere la visione semplificatrice, per cui la permanenza di quella concezione della verità nel cristianesimo, sarebbe dovuta unicamente ad una resistenza ad introdurre il concetto di novitas, e quindi lo schema vecchio-nuovo, nel campo più propriamente riguardante il pensiero, essendosi invece limitata l’applicazione dell’idea di novitas al campo morale. 1 Sia rispetto alla prima obiezione, che cerca di eludere il problema negandolo teoreticamente, sia rispetto alla seconda, che cerca di eluderlo riconducendolo ad un mero dato di fatto, storicamente comprensibile, ma teoreticamente irrilevante, bisogna invece osservare che la necessità di una assunzione dello schema errore-verità come distinto dallo schema vecchio-nuovo, nasce proprio sul terreno teoretico nel momento in cui la novitas non conclude la storia. Riservandoci ora di discutere questa affermazione, vogliamo però fin d’ora, sulla base della sua enunciazione, completare la tesi fin qui sostenuta, e cioè che la filosofia della storia non possa essere considerata come direttamente derivabile dalla teologia della storia, proponendo, sia pure in via ipotetica, quanto segue : non è tanto la filosofia della storia che rappresenta la secolarizzazione della teologia della storia cristiana medievale ; sono piuttosto le attuali teologie della storia che rappresentano la teologizzazione della filosofia della storia, e ciò nella misura in cui esse perdono il senso dell’errore, e più precisamente lo schema errore-verità come distinto dallo schema vecchionuovo. Ciò premesso, vediamo dunque di precisare cosa si intende dire affermando che la necessità di assumere lo schema errore-verità come distinto da quello vecchio-nuovo, nasca proprio sul terreno teoretico in conseguenza del differimento dell’eschaton e del conseguente costituirsi di quello che chiameremo uno « spazio del sapere ». Parlare di una teoresi ove l’assunzione di quello schema si rende necessaria, significa, in primo luogo, affermare che la stessa teoresi si rende necessaria nella misura in cui la « vera filosofia » rappresentata dal cristianesimo, non ha costituito immediatamente la conclusione della storia, e quindi non ha sottratto l’uomo alla sua condizione di sapere (e di non sapere) intorno alla verità come condizione distinta dall’essere nella verità ed essere verità : questo, infatti, sarebbe potuto accadere solo se la storia, mediante la verità-novità del cristianesimo, si fosse conclusa, e quindi il cristiano avesse potuto ritenersi nella verità di Cristo e, conseguentemente, avesse potuto ritenersi verità tout court : cioè se fosse stato non più errante, bensì giustificato. L’insoddisfazione che si prova di fronte all’espressione « ritenersi verità » nasce proprio dal fatto che il nostro linguaggio non può non riflettere quella che, invece, è (tuttora, fino a prova contraria) la condizione effettiva dell’uomo, il quale, per il fatto di non essere totalmente nella veri
1 Così anche E. De Negri, in un saggio che, peraltro, vogliamo ricordare, data la sua grande importanza relativamente ai problemi storici che il discorso qui svolto porta ad affrontare : L’elaborazione hegeliana di temi agostiniani, in « Revue internationale de Philosophie », 1952, pp. 62-78.
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tà, ritiene, sa o non sa qualcosa intorno alla verità, rimanendo però fondamentalmente distinto da essa ; sicché la verità necessariamente si presenta come un oggetto del nostro sapere, se non altro nella forma negativa che è comportata dalla stessa affermazione di una non oggettivabilità, di una irraggiungibilità della verità per il nostro sapere. Invero – vorremmo osservare a questo proposito – tutta la problematica della teologia e della filosofia della storia guadagnerebbe parecchio in chiarezza e in contenuto se finalmente si prendesse sul serio il negativo e tutte le conseguenze e le determinazioni che questo comporta. Uno dei massimi motivi del potere di attrazione esercitato da Hegel sul pensiero posteriore, dipende certamente dal fatto che Hegel ha preso sul serio il negativo, diversamente da chi, per il fatto stesso di ritenerlo errore, ha pensato con ciò di poterlo destituire di ogni significato e di ogni rilevanza per il procedere della storia. È precisamente contro un atteggiamento di questo genere che ci sembra necessario reagire, mettendo in luce la storia come error ; il che, se rappresenta una opposizione totale rispetto alla filosofia della storia nel senso hegeliano, proprio in funzione di un rifiuto della immanentizzazione della caduta d’origine, rappresenta però anche e soprattutto una opposizione previa ad un altro tipo di veduta, data la quale il ribaltamento nella filosofia della storia hegeliana si presenta come inevitabile. Intendiamo la veduta per cui la teologia della storia è tale in quanto rappresenta una considerazione della storia in funzione del disegno di Dio o come disegno di Dio tout court, dimenticando che la storia non è la storia di Dio, ma la storia dell’uomo. Se la storia fosse la storia di Dio, non sarebbe pensabile altra veduta che quella hegeliana : e quanto le sono simili le attuali teologie della storia ! Ma se la storia è la storia dell’uomo, allora non si può perdere di vista che una teologia della storia deve porre in primo piano quel fatto umano che da luogo alla storia medesima, e quindi alla stessa possibilità che essa venga, per così dire, presa in mano da Dio e resa historia salutis : vogliamo dire la caduta d’origine. È ben vero che il senso (nella duplice accezione di direzione e di significato) dell’error, il senso all’andare errando viene dato da Dio. Ma la fine non si intende senza il principio, la salvezza non ha, appunto, senso senza la caduta. Né ciò significa sostituire alla teologia della storia una sia pur singolare antropologia della storia : la colpa è tale perché è colpa di fronte a Dio, la storia iniziata dalla colpa è error perché è storia di fronte a Dio. Vien fatto di pensare alla kierkegaardiana visione della storia come possibilità (come error, vorremmo interpretare), contrapposta alla necessità hegeliana, sintesi di possibile e di reale ; 1 e tornano alla mente, come fondamento di questa visione, la comprensione del peccato come position anziché come négation, 2 e il convincimento che l’« edificante » in quanto tale è presente « nel pensiero che di fronte a Dio noi abbiamo sempre torto ». 3 Sia ben chiaro, però, che qui non s’intende affatto proporre una veduta di tipo barthiano (per quanto quest’ultima possa essere debitrice al pensiero di Kierkegaard) ; il discorso, infatti, tende proprio a sottolineare l’importanza della storia e la sua imprescindibilità precisamente in quanto error : il peccato, ripetiamo, usando il termine kierkegaar
1 Cfr. in S. Kierkegaard, Philosophische Brocken. De omnibus dubitandum est, trad. ted. di E. Kirsch, Gesammelte Werke, Düsseldorf-Köln, Eugen Diderich, vol. x, l’« intermezzo » : « Hat das Vergangene grössere Notwendigkeit als das Zukünftige oder, ist das Mögliche damit, dass er geworden ist, notwendiger geworden als es gewesen ist ? » (pp. 68-82). 2 Così i termini in danese ; cfr. Die Krankheit zum Tode, trad. di E. Hirsch, Ge. We., cit., vol. xxiv-xxv, pp. 96-100. 3 Cfr., in Entweder-oder, p. ii, trad. di E. Hirsch, Ge. We., cit., vol. ii-iii, il paragrafo « Das Erbauliche, welches in dem Gedanke liegt, dass wir Gott gegenüber allezeit Unrecht haben » (pp. 361-377).
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diano, è position. Vogliamo ora mettere il più chiaramente possibile in evidenza – a sottolineare il significato della nostra questione – come la storia più significativa, in questo senso, la storia che è la storia stessa dell’errore, sia appunto la storia della filosofia come storia del « sapere » (il sapere è sapere intorno alla verità, e non ad una verità). Simul iustus ac peccator, il cristiano, in quanto giusto è in possesso di uno schema periodizzativo vecchio-nuovo, in quanto peccatore è in possesso del diverso schema periodizzativo errore-verità. L’escogitazione di nuove e diverse teologie della storia non può eliminare in alcun modo questo secondo schema che, ben a ragione, vede nella storia l’errore della storia : il giusto è verità, ma il peccatore sa o non sa intorno alla verità. Non sapere la verità, dicevamo introducendo il discorso sulla « positività » del negativo, è sempre una forma di obiettivazione della verità ; una obiettivazione negativa, certamente, ma non perciò meno significativa riguardo alla distanza che separa l’error dalla verità. Bisogna dire, però, che essa non è neanche più significativa, al riguardo, dell’obiettivazione positiva, di quella, cioè, per cui la verità è saputa : il sapere è comunque l’opposto dell’essere, se la storia non è quella dello Spirito che realizza se stesso. Il sapere è il peccato (« l’albero del sapere ») e lo stato del peccato ; sapere la verità non è meno « peccato » del non saperla : l’error è l’orizzonte del kairòs, l’orizzonte in cui la verità si annuncia. Nella misura in cui l’eschaton si è differito, al cristianesimo come novitas, per cui l’uomo è reso giusto, si è affiancato il cristianesimo come veritas, come astorico opposto dell’errore, dello stato di storicità proprio al peccatore. La vicenda del cristianesimo è stata quella di una progressiva – e, ripetiamo, necessaria – estensione del sapere, concomitante, vorremmo dire direttamente proporzionale, al differimento dell’eschaton : la storia, infatti, in quanto storia, è storia del sapere (o del non sapere, che è lo stesso). Il periodo che si suole comodamente considerare, nonostante le ormai ampiamente condotte revisioni critiche e filologiche, come l’unitario periodo della « filosofia cristiana », il Medioevo, non è in verità che la vicenda del progressivo affermarsi del sapere in funzione del differimento dell’eschaton (cioè dell’essere che conclude la storia) ; i vari credo ut intelligam e intelligo ut credam sono, nella reciprocità della loro formulazione, univocamente significativi in questo senso, e la veduta tomistica della filosofia ancella preambolare della teologia è ben a ragione divenuta il paradigma di quello che è stato chiamato lo « spirito della filosofia medievale ». Si noti però – e ribadiamo così quello che, a nostro avviso, è il senso della problematica del credo ut intelligam e del suo reciproco – che la teologia non è meno « sapere » della filosofia, neppure in quel suo aspetto di « credere » che è a monte della scienza da essa costituita. Il credere è sempre una forma di obiettivazione, un modo di sapere la verità. La funzione ancillare e preambolare della filosofia, in ultima analisi, non ha senso che contra gentiles, i quali non sanno la verità ; una volta saputa la verità, della filosofia si potrebbe anche fare a meno, e se ciò, in realtà, non è possibile (se il sapere permane distinto dall’essere), la stessa teologia essendo articolata « scientificamente », dipende dal fatto che nello stesso credente è costantemente presente il Gentile : simul iustus ac peccator. Dunque parlare contra gentes è, nel senso più profondo, parlare pro gentes : non, pertanto, nel senso banale e « pietoso » di un discorso che si fa a fini di convincimento, di conversione e di bene altrui, ma, appunto, nel senso profondo che la condizione del cristiano non è diversa, in quanto costui parla, da quella del Gentile ; il cristiano sa, il Gentile non sa, ma la condizione di entrambi è quella del sapere come stato opposto all’essere. Qual è, però, il contenuto saputo (creduto, che è lo stesso) dal cristiano ? Quale la
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veritas che sa il cristiano ? Egli sa che in Cristo è fatto salvo ; la novitas del iustus è la veritas saputa dal peccator (iustus ex fide vivit). La « teologia della storia » intesa nel senso pregnante sopra indicato, e cioè intesa, in primo luogo, come storia dell’uomo, l’inizio della quale è rappresentato dalla colpa iniziale, è la condizione di coesistenza e insieme di non identificabilità dei due schemi periodizzativi errore-verità e vecchio-nuovo. Al di fuori della cornice costituita dalla teologia della storia così intesa, i due schemi si trovano necessariamente in posizione antinomica e per essenza dialettica, tale che l’uno tende ad assorbire e ad identificare in sé l’altro, tale cioè che lo schema vecchio-nuovo tende ad assorbire e ad inverare in sé lo schema errore-verità. Ora, però, la vicenda del pensiero occidentale registra, a un certo punto, proprio la perdita del presupposto che rendeva possibile la coesistenza ed insieme la non identificabilità dei due schemi periodizzativi in rapporto alla storia come storia del sapere : cioè la perdita del tema della caduta d’origine. Conseguentemente si è assistito alla utilizzazione, prima, solo dell’uno e, poi, solo dell’altro di quei due schemi periodizzativi, che erano invece assolutamente ineliminabili ed entrambi indispensabili per la configurazione di quell’idea di Cristianesimo che si era costituita con il differimento dell’eschaton. Si noti, però, che questa dissoluzione dell’idea di Cristianesimo avviene non solo mediante l’utilizzazione di elementi ad essa propri (gli schemi periodizzativi), ma spesso anche con intenti consapevolmente « cristiani », cioè finalizzati al cristianesimo. Non rientra, come si è detto all’inizio, nell’intento del presente lavoro sviluppare tale discorso. Tuttavia a questo punto una domanda ultima si pone, che esige la radicalizzazione della questione. Bisogna cioè chiedersi se, avendo il cristianesimo offerto, oltre che gli elementi, anche il fine per l’elaborazione delle nuove vedute di storia della filosofia, non si debba ritenere che quell’idea di Cristianesimo recasse in sé la causa della propria dissoluzione. Solo se affrontato in questi termini radicali, il problema del rapporto intercorrente fra teologia della storia e filosofia della storia può ritenersi correttamente impostato, e la tesi della funzione mediatrice svolta dal problema della storia della filosofia nella derivazione del secondo termine dal primo, cioè la tesi della inderivabilità diretta della filosofia della storia dalla teologia della storia, può riuscire convincente. In effetti, se una considerazione storica e teoretica rigorosa conducesse a ravvisare nell’idea di Cristianesimo la causa della propria dissoluzione, questa tesi sarebbe assai meno significativa. Sia ben chiaro che l’affermazione della posizione media occupata dal problema della storia della filosofia fra quello della teologia e quello della filosofia della storia non sarebbe perciò minimamente destituita della propria validità ; la funzione fondante del problema della storia della filosofia rispetto alla filosofia della storia come philosophische Weltgeschichte è chiaramente emersa in funzione dei problemi affrontati, sì da doversi ritenere valida, da un punto di vista storico e teoretico, indipendentemente da ogni considerazione del problema della teologia della storia. Tuttavia, se l’idea di Cristianesimo recasse in sé la causa del passaggio alla storia della filosofia come storia che prescinde dalla caduta d’origine, la nostra tesi di fondo sarebbe, come abbiamo detto, assai meno significativa, in quanto, pur non potendosi negare la inderivabilità diretta della filosofia della storia dalla teologia della storia, resterebbe affermata tuttavia la necessità del passaggio da un termine all’altro, sia pure attraverso la mediazione della storia della filosofia : mediazione, peraltro, che è costitutiva, appunto, della filosofia della storia, e quindi mediazione che, insieme col superamento, dà luogo al mantenimento, all’inveramento dei termini precedenti nella novitas rappresentata dall’ultimo di essi.
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Il problema, pertanto, formulato nei suoi termini più rigorosi, è se fra teologia della storia e storia della filosofia vi sia un passaggio necessario, ed un passaggio tale che la storia della filosofia rappresenti il superamento e l’abbandono della teologia della storia, intesa come riferimento alla caduta d’origine. Senonché, proprio a questo interrogativo bisogna dare da un punto di vista sia storico, sia teoretico, risposta negativa. Infatti è vero che il « cristianesimo » ha sovente rappresentato il fine dell’elaborazione delle vedute filosofiche che hanno demitizzato o abbandonato il tema della caduta d’origine ; ma sarebbe grossolano errore scambiare il fine con la causa ; in altre parole : che Cartesio o Hegel, poniamo, si proponessero in vario modo un intento « cristiano » nel loro filosofare, non significa ancora, ovviamente, che l’idea di Cristianesimo, cioè la teologia della storia come è stata sopra delineata, recasse in sé la causa di quelle elaborazioni. D’altro canto, per venire all’aspetto più importante della questione, è ben vero che, come si è detto, l’estensione della sfera del « sapere » è direttamente proporzionale al differimento dell’eschaton, e, indubbiamente, su questo aspetto bisogna portare tutta l’attenzione. Non bisogna, vale a dire, cercare, come spesso si suole, di eludere o negare il problema, considerando genericamente quale causa della, diciamo così, « secolarizzazione » del cristianesimo l’affermarsi prog ressivo della scienza, intesa nel senso di sapere sperimentale e, quindi, per un verso, critico, per altro verso, pratico e realizzativo. A parte il fatto che di questa scienza più d’uno ha ritenuto di mettere in evidenza quelle che sarebbero le radici « cristiane » (per modo che il problema non verrebbe affatto eluso), una considerazione di questo genere non sarebbe in grado di dare risposta all’interrogativo che qui si pone. Si tratta infatti di una considerazione di tipo sociologistico, che resta assolutamente al di fuori del problema, il quale è di natura squisitamente teoretica ; proprio a questo livello, come si è visto, si colloca, invece, la constatazione dell’estendersi della sfera del sapere in funzione del differimento dell’eschaton, ed è dunque rispetto a tale constatazione che bisogna chiedersi se l’idea di Cristianesimo non recasse in sé i germi della propria secolarizzazione, come superamento della religione nella filosofia, nel sapere. Ma a questo proposito bisognerà osservare che, per quanto ampio possa essere lo spazio del sapere, uno iato incolmabile separa il problema della storia della filosofia, come si è presentato nel pensiero moderno, dalla teologia della storia : tra l’affermazione che del sapere non si può fare a meno e l’affermazione che bisogna sapere, v’è un salto qualitativo assoluto, definito teoreticamente dall’abbandono del tema della caduta di origine. Compiuto questo salto, necessariamente il problema della storia della filosofia come storia del sapere si trasforma nella filosofia della storia ; ma di salto si tratta, e non di passaggio. Che l’estensione dello spazio del sapere induca a compiere questo salto, è indiscutibile, e la storia lo ha mostrato ; ma ciò non adduce all’affermazione che l’idea di Cristianesimo, in quanto strutturata sui due schemi più volte ricordati, rechi in sé la ragione della propria dissoluzione : la tentazione non è una ragione, anche se la tentazione è proprio quella della ragione.
TÉMOIGNAGE ET APOLOGÉTIQUE*
L
eproblème de l’« absoluité » naȋt sur le terrain de la conscience historique : il représente le dépassement d’une vision basée sur l’opposition « vrai-faux » et le remplacement de celle-ci par une vision de type évolutif. Mais le problème de l’absoluité représente également la tentative de dépasser la conscience historique elle-même dans ses dénouements relativistes et, de ce point de vue, il peut apparaȋtre comme une survivance, comme l’extrême ligne de résistance ou la dernière offensive de la précédente mentalité a-historique. On comprend donc bien que la question de l’absoluité se présente en termes hautement significatifs par rapport, surtout, à la religion, qui se pose toujours comme un témoignage de l’absolu, et on comprend bien que la question de l’absoluité de la religion a pris, au cours de l’histoire, l’apparence d’une interrogation concernant l’absoluité du christianisme, autrement dit l’absoluité de la religion qui, de fait, caractérisait la sphère culturelle dans laquelle a pris corps la conscience historique (au point que la thèse, plus ou moins validement soutenue, des origines du sens de l’histoire dans la religion judéo-chrétienne n’a trouvé que trop de crédit). D’un point de vue historico-conceptuel, la première utilisation du terme « absoluité » à propos du christianisme semble remonter au texte de Schelling intitulé Sur le rapport de la philosophie de la nature à la philosophie en général. 1 Schelling, polémisant contre ceux qui estiment irréligieuse sa philosophie, entend montrer que, par contre, elle sauvegarde le lien avec la religion justement dans la mesure où ce qui unit l’une a l’autre n’est nullement extérieur, puisque sa philosophie est déjà religion dans son principe. Pour démontrer cette affirmation, Schelling prend pour terme de référence la religion chrétienne : il est en effet impossible – affirme-t-il dans une remarque préliminaire qu’il déclare nécessaire pour la compréhension de l’argumentation successive – de penser la religion en tant que telle sans une référence historique. En vérité, le fait que l’esprit religieux du monde nouveau soit celui du christianisme n’est pas accidentel « et s’il a son opposé dans une orientation spirituelle qui appartenait au monde parvenu à son déclin avant nous, ceci se trouve déjà tracé et écrit dans le pian général des destins du monde et dans les lois éternelles qui déterminent le cours de l’histoire humaine ». 2 Or, l’esprit du monde disparu était le paganisme, c’est a dire l’affirmation immédiate du caractère divin de la nature et, partant, la direction qui le qualifiait était celle du fini a l’infini. L’esprit du christianisme, au contraire, est mysticisme, et il est donc caractérisé par la direction opposée, procédant de l’infini au fini. Ces deux visions opposées ont un caractère absolu : « Il n’est pas de religion sans l’une ou l’autre de ces deux visions, sans l’immédiate divinisation du fini ou la vision de Dieu dans le fini. Cette opposition est la seule possible dans la religion ; partant, l’on a affaire au paganisme ou au christianisme ; en dehors de ces deux-là il n’existe rien d’autre que l’absoluité commune a chacun ». 3 Mais comme les oppositions en général cessent d’être telles dans la mesure justement où chacune est absolue en soi, ainsi il ne fait pas de doute que le christianisme est
* Le témoignage, a cura di Enrico Castelli, Paris, Aubier, 1972, pp. 389-426. 1 F. W. J. Schelling, Ueber das Verhältnis der Naturphilosophie zur Philosophie überhaupt (1802), dans Sämtliche Werke, Ière section, vol. v, Stuttgart et Augsburg, J. G. Cotta, 1859, pp. 106-124. 2 3 Op. cit., p. 117. Op. cit., p. 120.
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destiné à se transfigurer (verklären) dans la sérénité et la beauté de la religion grecque. La nouvelle religion s’annonce déjà dans des révélations isolées, et elle jaillit précisément du fait que pour les deux opposés la nature est fondement et source de l’intuition de l’infini. Comme on peut le remarquer, le discours de Schelling trouve son postulat dans une vision de philosophie de l’histoire qui, tout en obligeant a considérer les conceptions du monde dans leur incarnation historique concrète, n’en recquiert pas moins de voir dans ces incarnations une nécessité supérieure et éternelle, selon quoi tout ce qui en général devient réel dans l’histoire, de même que tout ce qui devient réel dans le cours de la nature, est précédemment déterminé : c’est cette conception de l’histoire qui permet a Schelling d’observer que la reconnaissance de l’infini dans le fini n’est possible que dans le christianisme : « cette vision n’est possible que dans cette religion ; le fait que celle orientation ait existé isolément avant même et en dehors du christianisme, démontre seulement sa généralité et nécessité ; il démontre en outre que les oppositions historiques, comme toutes les autres, se fondent seulement sur une pré-dominance (Vorherrschen) ». 1 Les termes qui, nous le verrons plus loin, sont constitutifs du problème de la religion absolue – une conscience philosophique de l’histoire, en général, et la question spécifique de l’histoire des religions – sont manifestement présents dans le problème tel que le pose Schelling ; mais il est vrai aussi qu’ils ne sont pas l’objet d’une considération thématique, et émergent seulement, de façon assez accidentelle, en fonction du problème de la philosophie de la nature et de l’accusation d’irréligiosité faite a celle-ci.
C’est décidément dans la pensée hégélienne que le problème du christianisme comme religion absolue devient thématique : il est en effet à plusieurs reprises amplement et systématiquement traité et prend une valeur spéculative exceptionnelle non seulement de par soi, mais également par rapport à la spéculation en tant que telle. Le christianisme est pour Hegel la religion absolue dans la mesure même où il réalise l’idée de la religion et s’identifie avec cette idée. En effet « la religion dans son concept n’est pas encore religion vraie. Le concept est certainement vrai en soi, mais sa vérité exige aussi qu’il se réalise ». 2 Il faut remarquer que la détermination grâce a laquelle le concept se réalise n’est point déduite par nous de l’extérieur : c’est le concept même qui tend librement vers sa détermination concrète et n’agit pas ici empiriquement comme, par exemple, lorsqu’il s’agit du droit. Les déterminations de l’histoire du droit ne surgissent pas du concept, mais viennent d’ailleurs ; l’histoire de la religion, par contre, acquiert, en vertu de la dérivation des déterminations concrètes nées du concept même, une signification particulière : chaque position particulière, chaque détermination concrète du concept de religion est la détermination ultérieure du processus de continuelle détermination (Fort-bestimmung) du concept ; de sorte que « tout le traité n’est rien d’autre que l’accomplissement de la détermination du concept ». 3 Histoire de la religion, donc, et non histoire des religions 4 (même si, par la suite,
1
Op. cit., p. 118. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, Ière Partie, dans Sämtliche Werke, éd. par G. Lasson, vol. xii, Leipzig, F. Meiner, 1925 (« Philosophische Bibliothek », vol. 59), p. 64. 3 Op. cit., p. 61. 4 « Les diverses formes et déterminations de la religion sont, d’un côté, en tant que moments du concept, moments de la religion en général, à savoir de la religion achevée : des états, des déterminations de contenu 2
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nous emploierons le terme d’histoire des religions pour distinguer, à l’intérieur de l’histoire de la religion, cette partie qui concerne l’histoire des religions ayant précédé le christianisme, autrement dit l’histoire de la religion déterminée, afin de bien mettre en évidence, par rapport a celle-ci, la particularité de l’histoire du christianisme). Mais cette précision conceptuelle peut éveiller quelque perplexité quant à l’opportunité d’une compréhension de la problématique hégélienne de la religion absolue, laquelle donne le rôle de définition de l’absoluité du christianisme au rapport du christianisme avec l’histoire de la religion déterminée. En effet, ce rapport est sans doute présent dans la considération de Hegel, mais il ne représente pas le moment génétique et fondant de la problématique hégélienne relative au christianisme comme religion absolue, il ne représente pas la motivation qui amène Hegel à l’élaboration conceptuelle de cette problématique. Il faut plutôt rechercher cette motivation dans l’exigence d’un éclaircissement définitif du rapport passant entre religion – qui dans l’expérience vécue de Hegel était la religion chrétienne, avec une particulière accentuation de l’aspect théologique « scientifique » de celle-ci – et philosophie. Tel est le niveau fondant du problème, et celui de l’histoire des religions n’est qu’un développement et complément nécessaires. 1 « A l’intérieur même des religions, observe Hegel dans L’histoire de la philosophie, sont présentes des pensées ; celles-ci, en leur qualité de pensées, sont évidentes ; enfin, dans la religion chrétienne en vient a se manifester déjà le spéculatif en tant que tel ». 2 Le double niveau du problème, ainsi que nous l’avons noté, ressort avec évidence de ces affirmations : certes, le christianisme se place au-dessus et au terme de la phénoménologie historique de la religion (rapport christianisme-religions) ; mais ceci se produit dans la mesure où il manifeste le spéculatif en tant que tel (rapport religionphilosophie comme rapport fondant de la problématique). Ceci est particulièrement significatif si l’on considère le contexte général dans lequel se place le discours que
dans les sentiments et dans la conscience de celle-ci. Mais, en second lieu, ils ont la caractéristique de se développer dans le temps et historiquement. La religion, tant qu’elle est religion déterminée et n’ayant pas encore parcouru entièrement le cycle de sa détermination – de façon qu’elle est religion finie, existente comme finie – est religion historique, et une figure particulière de la religion. Je montrerai les moments principaux du processus graduel, dans le développement de la religion, et comment ces degrés existent aussi historiquement ; ce qui donne lieu a une série de configurations, à une histoire de la religion (Geschichte der Religion). » (Op. cit., p. 72. Le soulignement est de nous). 1 Indicative à ce propos est l’absence de la problématique de l’absoluité du christianisme dans les écrits de jeunesse, à caractère pour la plupart théologique. Cette problématique, par contre, parvient a se manifester dans la mesure où l’intérêt hégélien se développe suivant sa nature la plus vraie, en devenant thématiquement philosophique. La figure du Christ en Volksreligion und Christentum était mise en opposition, dans la rigide positivité de son message, à la libre spiritualité de la figure de Socrate, qui n’a pas un nombre fixe de disciples, qui ne laisse aucun commandement d’annoncer son nom etc. (v. Theologische Jugendschriften, ed. par H. Nohl, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1907, pp. 32-35) ; mais cette figure du Christ acquiert, à mesure que l’intérêt hégélien se précise en sa nature philosophique, une valeur toujours plus grande, précisément à cause de la signification spéculative qu’elle personnifie (la Menschwerdung, comme on verra par la suite). La confrontation du Christ avec Socrate est alors considérée « irréligieuse », justement en tant que par cela on en vient à traiter le Christ comme un homme commun en faisant abstraction de son caractère théandrique (voir Vorlesungen über die Philosophie der Religion, iiième Partie, dans Sämtliche Werke, ed. par G. Lanson, vol. xiv, Leipzig, F. Meiner, 1929, pp. 154 et 169-170. (« Philosophische Bibliotek », vol. 63). À la suite de cette transformation, le christianisme, qui dans les écrits de jeunesse était considéré comme une religion parmi les autres, devient la religion absolue, celle qui réalise la vérité de la religion, mettant terme au processus de détermination du concept. 2 G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, ed. par J. Hoffmeister, dans Sämtliche Werke, vol. xv a, Leipzig, G. F. Meiner, 1940, p. 157.
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nous avons rapporté : dans ses leçons introductives, en effet, Hegel a passé en revue les rapports entre religion et philosophie et a polémisé contre l’opinion qui veut faire de la religion un ensemble d’opinions de nature purement subjective ; un point de vue qui considère aussi le développement de la doctrine chrétienne uniquement « comme une confluence d’opinions, de sorte que le but n’est pas le vrai ». 1 On peut remarquer d’ores et déjà que le doublé niveau du problème est considéré par Hegel comme concernant le christianisme même, en ce sens que si l’absoluité de ce dernier se si tue par rapport à l’histoire des religions, elle ne s’en si tue pas moins par rapport à l’histoire du christianisme. C’est justement cette situation, ainsi qu’on le comprendra, qui rend opportune une distinction des deux niveaux problématiques, malgré la reconnaissance de la valeur fondante du rapport religion-philosophie dans la définition de l’absoluité du christianisme. Sur cet aspect du problème en fonction duquel l’absoluité se situe par rapport a l’histoire même du christianisme, il nous faudra revenir par la suite, parce qu’il est clair que ce rapport paradoxal entre les deux dimensions intrinsèques du christianisme (la dimension absolue et l’autre, historique) représente le noyau central non seulement des considérations hégéliennes, mais, plus généralement, du problème théorétique même de l’absoluité que l’on veut approfondir ici dans sa signification. Toutefois, pour le moment, nous voulons continuer l’examen du niveau problématique fondant, autrement dit la présence du « spéculatif en tant que tel » dans le christianisme. Ce qu’il convient de se demander maintenant, c’est en quoi consiste ce spéculatif en tant que tel, lequel, représentant l’essence même du christianisme, en définit l’absoluité. Déjà dans la Phénoménologie, Hegel remarque que l’essence de la « religion absolue » est l’Incarnation (Menschwerdung) : « Cette Incarnation de l’essence divine, ou plus exactement le fait qu’elle ait essentiellement et immédiatement la forme de l’autoconscience, est le simple contenu de la religion absolue. Dans l’Incarnation, l’essence est sue comme esprit, autrement dit l’Incarnation est la conscience de l’esprit autour de soi, d’être esprit. En effet, l’esprit est le savoir de soi-méme dans son aliénation ; l’essence, qui est le mouvement de garder dans son être-autre l’égalité avec soi-méme ». 2 Cette explicitation de la signification spéculative de l’Incarnation, cette façon de ramener une représentation (Vorstellung) historique au concept, tout en déterminant de la manière la plus analytique le fait que l’essence du christianisme est le spéculatif en tant que tel, fait aussi comprendre que, du point de vue de la représentation, de la Vorstellung, l’essence du christianisme peut se ramener aussi au dogme trinitaire. Si, en effet, d’un point de vue historique et dogmatique, les deux représentations sont distinctes, d’un point de vue spéculatif elles sont unum et idem, a savoir le spéculatif en tant que tel (ainsi qu’il ressort clairement de l’articulation triadique selon laquelle se structure l’interprétation hégelienne de la Menschwerdung). Dans la religion chrétienne, en effet, Dieu est « d’abord Père, puissance, généralité abstraite encore non développée ; en second lieu, il est a lui-même, comme objet, un autre de soi, un qui se sépare, le Fils. Cet autre de soi est cependant, tout aussi immédiatement, lui-même ; il se sait en cela et se reconnaît en cela – et est précisément ce savoir et ce reconnaître qui font, en troisième lieu, l’Esprit même [...] Cette Trinité est ce pour quoi la religion chrétienne est au-dessus des autres religions.
1
Op. cit., p. 88. G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, dans Sämtliche Werke, ed. par G. Lasson, vol. ii, Lepzig, Meiner, 1921 (« Philosophische Bibliothek », vol. 114), p. 487. Le soulignement est de nous. 2
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Si la religion chrétienne était sans Trinité, alors il se pourrait que la pensée trouvât davantage dans d’autres religions ; la Trinité est l’élément spéculatif de la religion chrétienne et ce pour quoi même la philosophie trouve dans cette religion Videe de la raison ». 1 Comme on peut le remarquer, le doublé rapport avec les autres religions, d’une part, et avec la philosophie d’autre part, est toujours présent dans la compréhension hégélienne de l’absoluité, de même qu’est évidente la valeur fondante du second par rapport au premier. Et toutefois cette évidence dissimule une multiplicité de problèmes qui doivent être éclaircis et fouillés si l’on veut procéder à un approfondissement théorétique de la question de l’absoluité. Le niveau spéculatif est donc fondant par rapport au niveau historique, tant il est vrai que l’attestation, le témoignage de l’absoluité de la religion ne peuvent venir, pour Hegel, que de l’esprit qui habite en chacun de nous : « De cette manière se trouve éloignée toute autorité externe, toute confirmation hétérogène. Ce qui doit valoir pour moi doit avoir sa confirmation dans mon esprit ; l’impulsion peut bien venir de extérieur : mais le début externe est indifférent. Au fait que je crois appartient le témoignage de mon esprit ». 2 Le Christ lui-même, observe Hegel, condamne le témoignage des miracles, entendus comme authentique critère de vérité : « le témoignage véridique est celui de l’esprit ; il peut prendre diverses formes, il peut être indéterminé et, de façon plus générale, il peut être ce qui convient a l’esprit, ce qui suscite en lui et produit dans son intériorité une plus profonde assonance ». 3 Il existe donc certainement une multiplicité infinie de témoignages ou, mieux, on peut tirer de l’histoire une multiplicité infinie de témoignages, mais non parce qu’ils sont tels en eux-mêmes, c’est-à-dire véridiques ou absolus, mais parce que l’esprit, qui est lui-même absolu, les saisit comme tels et, donc, de quelque façon, en fait des témoignages, autrement dit reconnaît en eux sa propre absoluité. Partant, il ne faut certes pas exclure que le témoignage de la religion absolue puisse – pour quiconque se trouve dans les conditions voulues – être tire de la Bible 4 ou, pour ceux qui ont été ses contemporains, de Jésus lui-même ; mais il est clair que seul notre esprit est en mesure de conférer à des faits historiques concrets une telle valeur absolue. Il faut même bien se garder de conférer cette valeur a l’histoire, ou mieux a l’ « historique » (das Geschichtliche) qui, en tant que tel, « c’est le fluctuant et l’instable » (das Schwankende und Unstäte), comme le fait par contre le christianisme. 5 L’occasion externe, positive, est si peu fondante que, par rapport à elle, il faut lui préférer la théologie, laquelle, a première vue, semblerait trouver dans l’occasion externe la justification de ses élaborations intellectuelles. En fait, c’est précisément le contraire qui est vrai : c’est l’élaboration intellectuelle qui a une valeur, indépendamment de l’occasion historique qui l’a déterminée, et ce n’est pas cette dernière, mais l’élaboration, qui constitue le témoignage de l’esprit. « Cette considération donne lieu a une religion supérieure (ausgebildete Religion), et dans sa forme la plus évoluée (hochst ausgebildete)
1
G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte. Die Vernunft in der Geschichte, ed. par. J. Hoffmeister, dans Sämtliche Werke, vol. xviii a, Hamburg, F. Meiner, 1955 « Philosophische Bibliothek », 171 2 Vor. u. d. Ph. d. Rei., Ière Partie, cit., p. 49. a), pp. 58-59. Le soulignement est de nous. 3 Vor, u. d. Ph. d. Rel., Ière Partie, cit., p. 22. À propos du miracle comme occasion extérieure, et de l’esprit comme vrai témoignage, voir surtout op. cit., pp. 186-194. A juste titre – remarque Hegel – l’Eglise s’est opposée à la critique des miracles et de la Résurrection ; en effet cette critique présuppose que le fait que le Christ est fils de Dieu, découle de ces événements plutôt que du témoignage de l’esprit (Ibid., pp. 191 et 196). 4 5 V. op. cit., pp. 23-24. Vor. u. d. Ph. d. Rei., Ière Partie, cit., p. 290.
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elle est la théologie, la religion scientifique, ce contenu saisi de façon scientifique comme témoignage de l’esprit ». 1 Il ressort de tout ce qui précède que la forme la plus haute de témoignage est celle de la philosophie ; mais il nous importe de rendre explicites les raisons d’une telle affirmation : de la sorte la conception hégélienne du témoignage et la compréhension de sa structure s’éclairent d’une façon qui permet d’évaluer le sens du témoignage religieux, ou plus précisément, du témoignage de la religion absolue, et il apparaît plus facile de saisir la nature intime de ce double rapport – a l’histoire et a la philosophie – en fonction duquel se définit l’absoluité du christianisme. « Le témoignage de l’esprit trouve son mode le plus élevé dans la philosophie, où le concept en tant que tel développe de par soi, sans présupposé, la vérité, et tout en développant, sait et perçoit, au moyen de ce développement même, la nécessité de la vérité ». 2 En d’autres termes, la supériorité du mode philosophique du témoignage réside dans le fait que, dans sa nature dernière, le témoignage est pour Hegel témoignage de soi a soi. Il ne sera pas inutile de réfléchir au fait que les moments constitutifs du témoignage sont, en général, au nombre de deux : l’objet du témoignage et le destinataire de celuici. L’un ou l’autre des deux éléments venant a manquer, vient nécessairement a déchoir la possibilité même de témoigner, acte qui, dans son essence même, est une médiation. Mais le postulat de cet acte de médiation, où se concrétise la nature originaire du témoignage, est la distance impossible à combler qui sépare le destinataire de l’objet qui lui est témoigné ; en fonction de cette distance, le témoignage acquiert non seulement une valeur irremplaçable mais aussi, en premier lieu, la valeur d’un moment autonome et absolument irréductible aux deux autres. Nous pourrions dire que le témoignage trouve sa consistance sur l’abîme : l’abîme qui sépare les deux termes dont il est le médiateur. Or, il est évident que l’utilisation, de la part de Hegel, du terme « témoignage » n’est pas du tout casuelle et ne saurait absolument pas être expliquée par des raisons purement réthoriques ; le concept de témoignage trouve plutôt une correspondance intime avec la structure même de la pensée hégélienne. Mais il est tout aussi évident que l’aspect tout à fait particulier du sens hégélien du témoignage réside dans le fait que, Hegel ayant fait coïncider le destinataire du témoignage et l’objet de celui-ci, l’abîme, comme nous l’avons appelé ou, si l’on préfère employer un terme plus évocateur, l’Ungrund, qui sépare les deux pôles du témoignage, devient non seulement le présupposé et le Grund sur lequel le témoignage prend corps et se dessine comme moment autonome, mais devient lui-même médiation, ce en quoi consiste le témoignage. Ainsi se trouve défini de la façon... la plus absolue ce que l’on peut entendre par « absolu ». Lorsqu’on remarque que chez Hegel le témoignage est témoignage de soi à soi, il convient de prendre garde au fait que le génitif ne doit pas être pris seulement au sens objectif, mais aussi subjectif, parce que c’est précisément ce second sens qui confère une consistance ontologique a ce rien, si l’on peut dire, qu’est l’auto-conscience, en définissant, dans la coïncidence de Grund et Ungrund, le concept d’absolu. À ce propos, personne ne saurait manquer de voir combien est significative et déterminante, dans les expressions hégéliennes, la coïncidence sémantique dans le terme zeugen, des deux acceptions « témoigner » et « engendrer ». Pour Hegel, le témoignage de l’esprit « est un Zeugnis qui bezeugt (at-teste) ; celui-ci est à la fois zeugen (engendrer,
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Vor. ü. d. Ph. d. Rel., iiième Partie, i, cit., p. 24. Op. cit., p. 22 et passim dans les autres ouvrages.
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mais aussi témoigner) ». Alors que dans le terme bezeugen le proclitique rend clairement le sens hétéro-direct du verbe, dans le terme zeugen sont simultanément présentes l’acception neutre (sans aucune hétéro-direction) du témoignage et l’acception active de l’engendrer ; mais il s’agit, comme le démontre la substantivation même du verbe, d’une acception active qui coïncide parfaitement avec la neutre et la justifie même dans la mesure où l’objet engendré ici n’est autre que le soi-même. Donc, si « activité » il y a, elle se situe a l’intérieur du Zeugen même. En effet, le texte rapporté se poursuit, rendant explicite cette réflexivité : « L’esprit s’engendre lui-même (zeugt sich selbst, mais aussi pourrions-nous dire, se témoigne lui-même), et ce, originairement dans le témoignage (Zeugnis) ». Ainsi se trouvent définies l’essence et la consistance même de l’esprit : « il est seulement dans la mesure où il s’engendre (sich zeugt), s’at-teste (sich bezeugt : passage à l’acception hétéro-directe qui justifie la conclusion suivante du discours), se montre (sich zeigt : on voit l’assonance verbale avec zeugen, laquelle signifie, même phonétiquement, la coïncidence, dans l’esprit, de génération et auto-manifestation), et se manifeste ». 1 Parler de témoignage à propos de la philosophie et affirmer que la philosophie est « le mode le plus élevé du témoignage » ne représente donc certainement pas, dans le cas de Hegel, un prolongement indu, ou même injustifié d’un terme originairement religieux et théologique au bénéfice de la philosophie. Plutôt, quel que soit le contexte culturel et lexical auquel le terme a été emprunté, c’est précisément le contraire qui est vrai : c’est la religion qui voit transféré à soi, du domaine proprement philosophique, ce concept qui est un véritable symbole et paradigme de la conception hégélienne de la spéculation. En effet, le passage que nous avons cité à la fin est extrait des cours sur l’histoire de la philosophie qui, nous l’avons rappelé, traitent au préalable des rapports qui passent entre philosophie et religion, et il est introduit par l’affirmation que « le témoignage de l’esprit relatif au contenu de la religion est la religiosité même ». 2 Une affirmation de ce genre suppose au départ le point de vue du philosophe ; dans la philosophie comme témoignage absolu, comme absolue manifestation de l’esprit à soi dans la transparence de l’auto-conscience, il apparaît clairement que la religiosité est le témoignage même de l’esprit relatif au contenu de la religion en tant que telle. Mais le contenu de la religion en tant que telle n’est que le témoignage même, selon le mode de la représentation (Incarnation ou Trinité) et non selon celui du concept : la reconnaissance du christianisme comme religion absolue coïncide, partant, avec la fin du christianisme et marque l’Auf hebung de la religion dans la philosophie. La philosophie de la religion, laquelle opère cette reconnaissance, réalise la religiosité en tant que telle et dépasse le christianisme justement dans la mesure où elle représente le témoignage « selon le mode le plus élevé », celui du concept, du contenu de la religion. Il n’entre pas dans le cadre de cette étude de décider ce que Hegel même, en dernière analyse, n’a pas voulu décider, a savoir si l’Auf hebung de la religion comporte aussi la disparition historique du christianisme dans ses représentations, ou représente seulement un dépassement spéculatif, réservé au « sacerdoce isole » de la philosophie. D’ailleurs, la question revêt un intérêt fort relatif, dans la mesure où elle se place sur le pian de cette
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Selon la Jubiläumsausgabe : « Das Zeugniss des Geistes vom Inhalt der Religion ist Religiosität selbst ; es ist Zeugniss das bezeugt ; dieses ist zugleich Zeugen. Der Geist zeugt sich selbst, und erst im Zeugniss ; er ist nur, indem er sich zeugt, sich bezeugt, und sich zeigt, sich manifestirt. » (Vorlesungen über die Geschichte 2 Ibidem. der Philosophie, ed. par H. Glockner, vol. i, Stuttgart, F. Frommann, 1928, p. 105).
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Historizität externe, qui apparaît parfaitement indifférente a la pensée hégélienne. 1 Il convient plutôt maintenant de remarquer que c’est justement la considération de la fin du christianisme – considération qui jaillit de la définition de l’absoluité de celui-ci par rapport a la philosophie – qui comporte la reconnaissance de l’autre rapport, en fonction duquel le christianisme se définit comme religion absolue : le rapport avec l’histoire des religions et du christianisme même. En effet le dépassement, englobant le christianisme dans le domaine de cette historicité que le savoir absolu conclut et délimite, institue par là même un rapport entre la forme chrétienne de la religion et les autres formes historiques de celle-ci. Eu égard a celle-ci, le christianisme se présente comme la religion absolue, comme la réalisation de l’idée de religion. Nous avons déjà considéré au début que la vérité du concept de religion exige que celui-ci se réalise, en se dessinant selon des déterminations qui, à la différence d’autres phénomènes historiques, ne sont pas des déterminations empiriques, mais tirées du concept même de religion. La religion déterminée, toutefois, dans ses formes de religion de la nature et de religion de l’individuante spirituelle, ne peut, de par son essence même de religion déterminée, représenter la réalisation achevée du concept ; celle-ci est le propre de la religion absolue qui, du fait qu’elle représente le concept réalise, met un terme à l’histoire des religions, a l’histoire des déterminations de la religion, à la Fortbestimmung que la vérité du concept de religion comporte : « maintenant l’esprit est clair a soi-même ; alors qu’avant il ne pouvait s’apprendre que dans l’une de ses déterminations du concept, de façon telle qu’il restait caché à soi comme esprit, et la religion était encore voilée et n’existait pas dans sa vérité [...] Le concept de la religion est devenu dans la religion objet a soi-même [...] La religion accomplie est celle dans laquelle le concept de la religion est retourné en soi ». 2 De ce point de vue, on pourrait dire aussi que l’histoire des religions elle-même, en tant qu’histoire des déterminations de la religion, constitue l’histoire du christianisme, l’histoire qui conduit a la réalisation achevée et absolue du concept de religion. 3 Si l’on devait parler d’histoire du christianisme en ces termes, celle-ci ne constituerait pas un problème, dans la mesure où elle représenterait la conséquence évidente de là définition du christianisme comme religion absolue par rapport aux religions historiques. Mais le fait est que l’inclusion du christianisme dans le domaine de l’histoire, opérée par le dé passement de la philosophie, exige que le christianisme même, malgré son absoluité, ait une histoire et soit essentiellement historique. Il faut remarquer que la question se pose ici tout autrement que pour l’histoire de la philosophie. En effet ; on pourrait penser que la religion absolue se pose par rapport à l’histoire de la religion de même que le savoir absolu se pose par rapport à l’histoire de la philosophie. Seulement, ce qui rend tout à fait particulière la position du christianisme, c’est le fait qu’à la différence de la philosophie et en dépit de son absoluité, disons même en vertu de son absoluité, il constitue un moment dépassé dans la dialectique de l’accomplissement de l’esprit. Savoir si le christianisme est destine à disparaître du point de vue de l’accidentalité de l’Historie, c’est là une question qu’il n’est pas important de décider, mais surtout il n’y a pas de sens de la décider, étant donne qu’elle ne concerne pas le savoir au sens propre ; en effet ce n’est pas la prognose qui appartient au véritable savoir, au savoir au sens propre, c’est
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Vor. ü. d. Ph. d. Rel., iiième Partie, i, cit., p. 231. Vor. ü. d. Ph. d. Rel., ième Partie, cit., p. 74. Voir encore à ce propos la citation à la note 4 (supra, p. 54).
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à-dire à la philosophie, mais bien plutôt, pourrait-on dire, l’anagnose, la connaissance comme reconnaissance. C’est cette forme de reconnaissance qui définit proprement le savoir absolu. La question de savoir si et quand le christianisme sera vergangen, perd tout sens au moment où celui-ci, en vertu de sa reconnaissance comme religion absolue, est aufgehoben. C’est la possibilité même de penser à l’Auf hebung pour l’un ou l’autre des deux termes de la question qui marque la différence radicale entre l’absoluité de la religion et celle de la philosophie. Le dépassement opéré par la philosophie à l’égard de la religion comme religion absolue, alors qu’il définit la philosophie en tant que telle comme philosophie de la religion, confère à la religion absolue une historicité tout a fait incomparable à celle du savoir absolu. L’historicité de la religion absolue n’est pas celle, purement anagnostique et, donc, a-temporelle, du savoir absolu ; c’est une historicité qui, dans la mesure où elle appartient à la religion, tombe dans le temps ; elle se présente comme a-temporelle dans la mesure seulement où elle n’appartient plus à la religion absolue en tant que telle, mais bien à la « religiosité même », a la religion re-connue dans son absoluité par la conceptualisation de-passante du savoir absolu. Ces deux aspects de l’historicité du christianisme nécessairement présents et superposés chez qui considère le problème avec les yeux de l’oiseau de Minerve, doivent être soigneusement distingués d’un point de vue conceptuel et reconnus tous deux à l’intérieur des propositions nécessairement « équivoques » (au sens étymologique du terme) formulées à ce propos par le philosophe. Hegel remarque dans les Leçons sur la philosophie de la religion : « Seulement (erst) lorsque le temps fut venu, l’esprit est devenu manifeste a soi ; en effet le chemin par lequel il parvient enfin au but, tombe dans le temps et doit être placé en arrière (zurückgelegt) dans l’existence ». 1 Du point de vue de la religion en tant que telle, la maturité du temps pour la manifestation de la Menschwerdung est tombée à l’époque de l’empire romain, 2 dans l’existence historique de Jésus. Cette manifestation historique caractérise le christianisme comme religion révélée ou, mieux, manifestée. La religion absolue cependant « n’est pas seulement la religion manifestée (geoffenbarte) ; elle est la religion manifeste (offenbare) ». 3 Or, en tant que religion manifeste, elle est dépassée dans la philosophie, elle est philosophie de la religion et, donc, a le caractère a-temporel et anagnostique de l’historicité du savoir absolu ; mais en tant que religion manifestée, c’est-à-dire comme religion en tant que telle, son être manifeste a le caractère temporel de cette historicité que le savoir absolu conclut. 4 D’un point de vue de la religion en tant que telle, la manifestation advenue en
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Op. cit., p. 74. Philosophie der Weltgeschichte, dans Sämtliche Werke, ed. par G. Lasson, vol. ix, Leipzig, F. Meiner, 1923 (« Philosophische Bibliothek », 171 b), pp. 735-740. 3 Vor. ü. d. Ph. d. Rel., Ière Partie, cit., p. 74 ; voir aussi Phänomenologie, cit., p. 487. 4 Du point de vue de la philosophie de la religion, dans la considération du « Royaume du Fils », « il faut pourtant éloigner toute détermination de temps en général, soit de la durée que du présent, et il faut s’en tenir seulement à la pensée, la simple pensée de l’autre – [disons-nous] simplement, car l’autre est une abstraction. » (Vor. ü. d. Ph. d. Rel., iiième partie, i, cit., p. 87). Cette individuation de l’altérité en tant qu’individuation purement pensée, représente une condescendance du jugement absolu. « C’est le jugement absolu qui consiste à conférer autonomie à ce côté qui est le côté de l’autre, [c’est] la bonté qui consiste à conférer à celui-ci, dans une telle aliénation, l’idée tout entière dans la mesure où il peut la représenter et dans la façon par laquelle il peut, comme être autre, l’assumer en soi. » (Op. cit., p. 85). En réalité, le moment de l’être autre n’a, en tant que tel, aucune vérité, « mais il est seulement un moment – du point de vue du temps rien qu’un instant, ou mieux, pas même un instant – et il n’a cette sorte d’autonomie que vis-à-vis de l’esprit fini, dans la mesure où celui-ci, dans sa finitude, est précisément cette espèce et ce mode de l’autonomie. » (Op. cit., p. 86). 2
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Jésus, si elle représente l’événement décisif, doit, d’autre part, se développer : le Christ doit mourir pour devenir, comme ressuscité « à la droite de Dieu », l’esprit de la communauté. C’est seulement dans la mesure où il entre dans le coeur des hommes qu’il « est l’Esprit, l’Esprit Saint ». 1
C’est ici, à savoir dans le règne de l’Esprit, que surgit véritablement le problème de l’histoire du christianisme. 2 Et ce, dans un doublé sens : d’un premier point de vue, du point de vue évident et banal de l’histoire extérieure, le christianisme comme religion est conséquent et, partant, successif au Christ ; d’un second point de vue, plus profond, le christianisme, comme religion absolue, naît, comme on l’a vu, du témoignage de l’esprit et, partant, l’histoire du christianisme ne peut être qu’histoire de l’esprit, histoire du témoignage de l’esprit sous la forme de Vorstellung. C’est ici que jaillit alors le problème théorétique de l’histoire du christianisme, car, même si l’on peut négliger le premier point de vue, concernant la casualité de la Historie, le second est caractérisé par l’historicité propre à la forme du témoignage en tant que forme dépassée. L’histoire du christianisme, l’histoire de la religion absolue, est à la fois scandaleuse, en tant qu’histoire de la religion absolue, et nécessaire, en tant qu’histoire de la religion absolue. Une représentation claire, définitive et définissante de cette historicité exigerait une systématisation d’art, religion et philosophie en une histoire universelle philosophique qui, en ces termes décisifs (de la succession de Darstellung, Vorstellung, concept), n’a pas été fournie par Hegel. Il est évident néanmoins que, problématiquement au moins, la question tant débattue du rapport qui s’établit entre histoire et système et, plus précisément, entre philosophie de l’histoire – comme phénoménologie de l’esprit et histoire universelle philosophique – et système passe à travers le problème de l’absoluité du christianisme (c’est-à-dire à travers le problème du témoignage absolu dépassé dans sa forme) et trouve en celui-ci son argument crucial. Quoiqu’il en soit, indépendamment de ce problème qui ne concerne plus directement notre question, il est possible de tirer une première conclusion à l’égard du discours qui nous intéresse ici. L’examen de la façon qu’a Hegel de poser le problème de l’absoluité du christianisme nous a, en fait, amené à considérer qu’une définition de l’absoluité, qui trouve son élément fondant dans le rapport à la philosophie, doit conserver intégralement le contenu, l’essence du christianisme, en ramenant à lui la religion et en reconnaissant dans ce contenu, dans cette essence, la religion complètement réalisée dans sa vérité. L’affirmation absolue du contenu advient, cependant, au détriment de la forme religieuse même, parce que cette absoluité comporte, historiquement, le dépassement et la résolution de la religion dans la philosophie. Théorétiquement, par contre, elle s’ensuit (étant donné le caractère anagnostique de la spéculation) à la résolution de la religion en la philosophie : le témoignage de l’absoluité du christianisme est fourni par la philosophie. D’ailleurs, il ne pourrait pas ne pas en être ainsi, du moment que le témoignage de l’absolu « selon le mode le plus élevé » appartient toujours et exclusivement à la philosophie, laquelle est le témoignage absolu que l’esprit donne de soi à soi. Certainement, le témoignage de l’absoluité du christianisme éclaire d’un jour particulièrement énigmatique et aporétique le problème de l’historicité de la religion
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Op. cit., pp. 188-189. Voir à ce propos la iième partie des leçons sur la religion absolue, à savoir la partie concernant le « royaume de l’Esprit » (op. cit., pp. 183-189) où le rapport entre histoire et conclusion dans la religiosité absolue se présente en des termes on ne peut plus tourmentés. 2
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absolue ; mais ce caractère aporétique concerne exclusivement le caractère religieux du christianisme, sa forme, et non son contenu. Du point de vue du contenu, l’histoire du christianisme ne met pas le moins du monde en crise, en le relativisant, le contenu même dans son absoluité : ce, pour le simple fait que le contenu du christianisme – la Menschwerdung qui, en tant que représentation religieuse, appartient au « règne de l’Esprit » et coïncide donc avec la représentation trinitaire – constitue la justification et le sens même de l’histoire. Cette justification et ce sens sont obtenus en vertu de la conclusion de l’histoire qui s’instaure dans le royaume de l’esprit : c’est pourquoi, encore une fois, l’absoluité du christianisme est fonction de sa résolution dans ce savoir absolu qui représente la conclusion de l’histoire. Ce n’est pas le contenu du christianisme qui est compromis par l’histoire du christianisme, mais bien sa forme religieuse, et c’est sur cette forme que se concentrent toutes les apories conséquentes à la manquée systématisation – nécessairement manquée, on peut bien le dire – des différents modes du témoignage de l’esprit en une histoire universelle philosophique.
Mais la question de fond qui se pose à une réflexion de philosophie de la religion sur le problème qui nous occupe, est alors celle-ci : si une définition de l’absoluité par voie théorétique (c’est-à-dire par rapport à la spéculation) est en mesure de dépasser la relativisation du christianisme, en ramenant l’histoire des religions et du christianisme au sein du contenu même de celui-ci, au moyen de son identification avec la philosophie de l’histoire, à quelles conditions peut avoir lieu une définition de l’absoluité qui choisisse la voie historique, a savoir une définition qui assume comme fondant l’absoluité le rapport du christianisme avec l’histoire des religions et du christianisme même ? Et si la conséquence de la définition théorétique de l’absoluité est, comme nous l’avons vu, l’affirmation absolue du contenu et l’effective néantisation de la forme religieuse du dit contenu et de la religion tout court, à quelles conséquences nous amène une recherche de l’absoluité qui juge fondante la considération historique ? Il est évident que les deux façons de poser le problème, si toutefois aussi abstraitement formulées elles peuvent apparaître comme des alternatives, sont en réalité étroitement liées, en ce sens que la seconde prend pour point de départ les problèmes laissés non résolus par la première, et précisément l’impossibilité dans laquelle elle se trouve de rendre compte de l’histoire de la religion absolue en tant que telle, c’est-à-dire en tant que religion, abstraction faite de son dépassement dans la philosophie. L’approche de Troeltsch au problème de l’absoluité, qu’il est de notre devoir d’examiner maintenant (dans la mesure où elle constitue, d’un point de vue historico-conceptuel, l’ultérieure et ultime reprise de la problématique de l’absoluité de la religion) se caractérise justement par le refus net d’une définition de l’absoluité par voie théorétique, et par la ferme intention de poser le problème sur le plan de la recherche historique concrète. Troeltsch en effet ne part pas d’une critique spéculative faite à ce qu’il appelle « l’apologétique idéalistico-évolutionniste », c’est-à-dire à la défense de l’absoluité du contenu du christianisme par l’intermédiaire d’une philosophie de l’histoire ; mais il part d’une critique de fait à celle-ci, d’une critique qui en montre le caractère insoutenable en face des données fournies par une pure considération historique dirigée aussi bien sur le passé que sur l’actualité. « L’heure du crépuscule absolu est nécessaire pour que l’oiseau de Minerve puisse prendre son vol dans le royaume du concept réalisé en son absoluité. Mais s’il en est ainsi, comment est-il pensable que le concept puisse être élaboré avec une suffisante sûreté, du moment que sa réalisation la plus vraie se profile
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en un éloignement incalculable ? Et si le concept ne peut être élaboré avec sûreté, comment peuvent se dessiner avec sûreté les étapes à travers lesquelles jusqu’à maintenant ce concept est passe lors de son processus de réalisation, et entre lesquelles nous devons prendre notre décision ? C’est justement pour cette raison que la construction de la religion absolue, en général, ne reste pas longtemps liée a une religion historique, et qu’il lui est naturel de se transformer en construction de religion de l’avenir ». 1 On peut dire que dans les expressions rapportées ci-dessus est compris tout l’arc du discours troeltschien sur l’absoluité. On y trouve clairement exprimés le point de départ et le point d’arrivée d’une problématique que le penseur allemand a développée surtout dans une série d’écrits composés, pour la plus grande part, dans un arc de temps inférieur à une décennie, problématique que l’on peut considérer sans hésitation comme le noyau originaire et le motif inspirateur de toute la pensée philosophique de Troeltsch. Or, il s’agit de voir comment se développe concrètement ce discours, dont le point d’arrivée est la nécessaire transformation de la religion absolue en religion de l’avenir. Son point de départ est donc représenté par les indications, impossibles à éluder, en face desquelles nous place l’enquête historiographique. Pour Troeltsch, en effet, c’est l’histoire des religions, dans ses articulations historiographiques scientifiquement évidentes (en particulier comme histoire comparée des religions et comme histoire du christianisme), qui ébranle violemment, dans ses fondements mêmes, la certitude de la foi chrétienne. Troeltsch exprime cette conviction initiale, parfaitement claire, dans ce que l’on peut considérer comme son premier, encore que moins célèbre, écrit sur l’absoluité ; déjà, dans l’essai Christianisme et histoire des religions, Troeltsch remarque que le compromis entre spéculation et théologie, grâce auquel (dans les formes surtout qu’il avait pris dans la pensée de Hegel et Schleiermacher) on avait pensé pouvoir satisfaire et réduire au silence les instances critiques avancées par l’Illuminisme, a été mis en crise par l’attaque dirigée contre la spéculation par les deux « filles mêmes de l’Illuminisme : les sciences de la nature et les sciences historiques ». 2 De ce point de vue, il ne serait pas erroné d’affirmer que, malgré son ample considération accordée critiquement à l’apologétique idéalistico-évolutionniste, Troeltsch voit dans le compromis entre théologie et spéculation un épisode tout à fait provisoire, un simple point de passage entre un « avant » inévitablement dépassé à la suite du processus critique entrepris par l’Illuminisme, et un « après » qui a besoin d’être repéré dans ses contours, mais qui ne saurait faire abstraction de la nécessité de garder pour point central de ses considérations l’élément déterminant de la dissolution de l’ancien horizon religieux et théologique, à savoir l’histoire comparée des religions. 3 Examinée d’un oeil historique et comparatif, la multiplicité des religions – qui pour le christianisme surnaturaliste n’était qu’un signe de la chute originelle – met en crise le surnaturalisme même (en montrant, entre autres, que la prétention a un début privilégié est commune à un grand nombre de religions). 4 Le recours au miracle, qui caractérisait la vision religieuse généralisée jusqu’à l’Illuminisme, voilà le vrai terme antécédent irrémédiablement dépassé, remplacé par une vision tout à fait neuve ; c’est la Quasi-His
1 E. Troeltsch, L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni (1902) traduit en italien par A. Caracciolo, Napoli, Morano, 1968 (« Athenaeum », xiii), p. 69. Il faut remarquer que Troeltsch s’exprime en des termes semblables déjà dans Christentum und Religionsgeschichte de 1897 (Gesammelte Schriften, vol. ii, Zur religiösen Lage, Religionsphilosophie und Ethik, Aalen, Scientia, 1962, réimpression anastatique, pp. 328-363). 2 E. Troeltsch, Christentum und Religionsgeschichte, cit., pp. 330-331. 3 4 Op. cit., p. 333-334. Op. cit., pp. 341-342.
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torie, l’histoire a-historique qui qualifie le miracle, ce qui a été irrémédiablement effacé par l’approche moderne des sciences historiques. Comparées a ce terme antécédent, les successives visions du phénomène religieux (la rationaliste, l’idéalistico-évolutive, celle que propose Troeltsch lui-même) révèlent une unité remarquable qui devrait en favoriser l’accord « ainsi, de fait, même la différence entre les conceptions opposées de l’essence [du christianisme] n’est en rien excessive. En vérité, la différence principale reste toujours celle-ci : savoir si l’on veut reconnaître l’essence sur la base de l’autorité et du miracle, ou si on veut la reconnaître comme force spirituelle directrice, en la déduisant de l’histoire générale du développement [...] Nous devons apprendre a avoir l’autorité plus en nous que hors de nous ». 1 Seulement, le fait que l’apologétique miraculiste soit, pour Troeltsch, dépassée, fait ainsi que, de fait, l’apologétique qu’il discute et critique le plus soit précisément l’apologétique évolutionniste, laquelle apparaissait, au début, comme un compromis provisoire et un point de passage entre l’avant et l’après ; le fait que la vision miraculiste soit non seulement indiscutablement dépassée, mais aussi, de par sa nature même, hors de portée de la discussion humaine, en réalité fait ainsi que le discours critique se développe surtout autour de cette vision idéaliste qui, mettant « l’autorité plus en nous que hors de nous » et reconnaissant l’historicité des manifestations religieuses, ne devrait pas être jugée « excessivement différente » de la position même de Troeltsch. Pour ce dernier, l’absoluité, dans la mesure où elle est assumée en tant que caractéristique qualifiant le contenu de la religion, apparait inacceptable a une mentalité formée a l’école des nouvelles sciences historiques : pour une mentalité sérieusement historique, le contenu de la religion ne saurait apparaître comme absolu, mais comme relatif, produit historiquement et historiquement destine à être modifié et dépassé. Ceci, évidemment, comporte que la polémique se dirige plus particulièrement contre les tentatives de définition spéculative du contenu ; en effet, à l’exclusion de la vision miraculiste, la reconnaissance du contenu absolu ne peut advenir qu’en fonction d’une vision théorétique, à laquelle il appartiendra de rendre compte de l’histoire et du fait que celle-ci ne se ramène pas a une relativisation du contenu, mais, au contraire, représente le presupposé même de son absoluité, atteinte par voie d’évolution. A part le fait que la conscience protestante de Troeltsch se rebelle à la vision évolutive de type hégélien (dans la mesure où celle-ci contraint a voir dans l’aberration du catholicisme romain un nécessaire degré de développement de la religion absolue), 2 la détermination du contenu par voie théorétique semble impossible, aux yeux de Troeltsch, pour des raisons scientifiques ; l’essence historique du christianisme, comme celle de toute religion « est seulement l’Inbegriff des pensées religieuses fondamentales, lequel s’éclaire a soi-même à partir de ses apparences historiques, et détermine, sciemment ou non, son propre développement ; il n’est jamais achevé et conclu tant qu’il appartient de façon vitale a l’histoire ». 3 Partant, la définition de l’essence du christianisme est indépendante non seulement du canon biblique, du miracle, de l’Eglise et du dogme, mais aussi de toute définition par voie théorétique, telle que l’a tentée Schleiermacher et, plus radicalement encore, l’école hégélienne : « La détermination de l’essence est sans doute une tâche purement historique » et « elle a donc besoin en tout cas de l’histoire comparée des religions ». 4
1 E. Troeltsch, Was heisst ‘Wesen des Christentums’ ? (1903) (dans Gesammelte Schriften, vol. ii, cit., pp. 3862 Voir op. cit., pp. 403-404. 451), p. 437. 3 4 Op. cit., p. 386. Le soulignement est de nous. Op. cit., p. 397.
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Il est parfaitement évident, mais il convient de le répéter, que nier la possibilité d’une individuation théorétique de l’essence représente aussi la négation à sa racine de la possibilité d’une définition théorétique de la religion absolue. Non seulement, en effet, l’identification du contenu est le présupposé logique requis afin que l’absoluité puisse être un prédicat de ce contenu, mais, comme on a pu le constater lors du discours sur la conception hégélienne, l’absoluité définie par rapport à la spéculation ne peut être que celle qui jaillit du contenu de la religion. Du reste, il ressort très clairement des écrits de Troeltsch et de leur chronologie que leur auteur parvient à affronter le problème de l’essence en tant que telle à partir de l’interrogation concernant l’absoluité de la religion chrétienne et ne voit pas, par contre, celle-ci comme une specification de celle-là. En effet, c’est seulement en fonction de la réalisation de l’absolu ou, plus précisément, de l’absolu réalisé, que la spéculation peut avancer la prétention à l’identification, par voie théorétique, des contenus historiques ; la valeur fondante du problème de l’absoluité à l’égard de celui de l’essence, est donc non seulement et non pas tant une donnée de fait présente historiquement dans le discours de Troeltsch, qu’une donnée théorétique répondant, en premier lieu, à la nature intime de la problématique traitée, et dont Troeltsch est profondément conscient. Ces remarques nous permettent aussi de saisir la signification spéculative d’une précision terminologique devenue manifestement nécessaire dans la dernière partie de notre discours. Jusqu’ici, en effet, nous avons indifféremment employé le terme de « contenu » ou d’« essence » de la religion absolue, et ce parce que, dans la religion hégéliennément définie comme absolue en fonction de son contenu, il n’existe aucune difficulté à appeler le contenu « essence » de cette religion. Par contre, dans la mesure où l’on confère un privilège, ainsi que le fait Troeltsch, au problème historique concret, dans toutes ses implications comparatives et relativisantes, autrement dit dans la mesure où l’on révoque en doute la possibilité, pour la spéculation, de définir le contenu absolu, le problème de l’essence acquiert une signification particulière, étant donne la nécessité de discriminer à l’intérieur du contenu, voire des contenus historiquement définis, l’essence du phénomène examiné. 1 Distinguer l’essence du contenu ne fait donc qu’un avec la mise en question de l’absoluité définie théorétiquement au moyen d’une philosophie de l’histoire de type conclusif. Il est évident alors que se poser le problème de l’essence du christianisme ne signifie pas, ou du moins ne signifie pas en premier lieu, rechercher le contenu – fût-il contenu essentiel – de cette religion ; se poser le problème de l’essence du christianisme dans toute son ampleur veut dire, en premier lieu, s’interroger sur la signification que l’expression même « essence du christianisme » possède et donc aller à la recherche de la conception philosophique (de philosophie de l’histoire et de philosophie de la religion) impliquée dans le fait de se poser la question sur l’essence du christianisme. En vérité, selon Troeltsch, une question semblable ne peut surgir que dans l’horizon d’une thématisation philosophique de l’histoire ; 2 de ce point de vue, par conséquent, il ne faut
1 Ainsi, par exemple, pour ce qui regarde le christianisme, voir Was heisst ‘Wesen des Christentums’ ?, cit., p. 402. 2 Selon Troeltsch, en effet, une telle attitude ne serait à proposer ni dans une vision d’orthodoxie catholique (qui parlerait de « foi de l’Eglise » plutôt que d’essence du christianisme), ni dans une vision d’orthodoxie protestante (qui parlerait plutôt de « révélation, de la Bible »). La question ne peut être posée comme une interrogation à propos de l’essence, pas même par l’Illuminisme, ou tout au moins par un certain aspect rationaliste de l’Illuminisme, c’est-à-dire celui qui parlerait, a la manière de Locke, de caractère
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pas refuser, mais maintenir la philosophie de l’histoire propre à la vision idéaliste, « laquelle doit seulement être poursuivie par une étude toujours plus réaliste et toujours plus dépouillée de préjugés des manifestations spécifiquement religieuses, et doit être libérée du lien trop étroit, encore dominant en elles, de la religion avec des vues totales de type métaphysique et esthétique ». 1 Certainement, c’est la philosophie de l’histoire qui a conduit pour la première fois à la reconnaissance du fait que l’essence « doit être un principe spirituel qui se développe » ; ceci, souligne Troeltsch « a toujours été mis en relief, et avec raison, par les hégéliens et les libres catholiques ». 2 Néanmoins, la façon dont le concept évolutif (Entwickelungsbegriff) représenté par la notion d’essence, trouve à se préciser dans la vision de Troeltsch, s’oppose à la philosophie de l’histoire idéaliste, lorsqu’on ne l’entend pas génériquement comme thématisation philosophique de l’histoire, mais lorsqu’on l’entend en son sens spécifique d’histoire universelle philosophique. Comme on l’a déjà remarqué, en effet, la détermination de l’essence, appartient non seulement à la pure recherche historique, comme oppose de la détermination par voie théorétique, mais comporte également une attitude critique qui, sur la base des indications fournies par la recherche historique même, discrimine l’essentiel de l’inessentiel, en s’opposant ainsi ultérieurement à la vision consacrante de la philosophie de l’histoire comme histoire universelle philosophique. L’essence comme concept évolutif présuppose une notion d’essence comme abstraction et comme critique : c’est seulement en fonction de cette critique que la recherche historique peut discriminer, parmi les multiples manifestations historiques, celles qui sont portatrices de motifs féconds et destinées à d’ultérieurs développements, et celles qui sont caduques ou involutives ; 3 de plus, c’est seulement en fonction de cette critique qu’il est possible de saisir dans une manifestation historique une signification évolutive, qui peut parfois échapper à l’auto-compréhension de cette manifestation, et voire même contraster avec la compréhension qu’historiquement elle a eu de soi. En somme, c’est seulement de cette-façon qu’il est possible de reconstruire la continuité, essentielle a l’essence comme concept évolutif : « L’essence comme continuum, n’est donc jamais simplement évidente. Dans la prédication de Jésus, pour nous, ce qui est essentiel, en définitive, c’est ce qui ne l’avait pas été immédiatement pour elle ; ce qui nous est essentiel, ce n’est pas le règne imminent, mais les conditions pour l’accueil du règne et la communauté des esprits se développant dans l’accomplissement de ces conditions ». 4 Mais la continuité, qui est essentielle pour que l’on puisse parler de l’essence comme d’un concept évolutif, se prête à une critique dans un autre sens. Non seulement, en effet, il est souvent nécessaire de voir dans les manifestations historiques une signification différente de celle qui est présente dans leur auto-compréhension, mais tout aussi souvent il faut reconnaître comme appartenant à la même essence des éléments historiques qui, pris en soi, apparaissent différents et non déductibles l’un de l’autre
raisonnable du Christianisme. Cf. op. cit., pp. 391-392. Un discours semblable à été récemment reproposé par R. Schäfer, Welchen Sinn hat es, nach einem Wesen des Christentums zu sprechen ?, dans « Zeitschrift f. Theol. u. Kirche », lxv, 1968, pp. 329-347. 1 Christentum und Religionsgeschichte, cit., p. 344. Des expressions analogues on les retrouve dans le successif Ueber historische und dogmatische Methode in der Theologie (1898) dans Gesammelte Schriften, vol. ii, pp. 729-753 ; voir p. 747. 2 Was heisst ‘Wesen des Christentums’ ?, cit., p. 418. 3 4 Op. cit., p. 407. Op. cit., p. 420.
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par voie de développement : c’est ainsi, par exemple, pour nous référer encore au christianisme des origines, que se présentent la prédication de Jésus et celle de Paul. 1 Dans des cas de ce genre, la critique intervient, pourrions-nous dire, non pas négativement mais positivement, pour confirmer en principe l’intégration d’éléments nouveaux et hétérogènes qui, concrètement, se vérifie dans le développement historique de certains phénomènes. Ici néanmoins se présente la nécessité de préciser de façon plus satisfaisante en quel sens la détermination de l’essence est une tâche purement historique ou, plus exactement, comment elle peut encore se considérer comme une tâche historique au moment où elle se manifeste comme acte de critique. C’est la nécessité que Troeltsch même éprouve quand il se demande : « Selon quel paramètre, cependant, s’accomplit cette critique ? ». Sa réponse est d’abord assez nuancée, l’accent étant placé sur le fait historique plutôt que sur l’acte de critique : « C’est une critique des configurations historiques à partir de l’idéal immanent à leur tendance fondamentale. Elle est ce que l’on entend appeler une critique interne. Dans cette mesure, elle est, de fait, pensée de façon purement historique ; elle compare en effet l’historique à l’historique, (das Historische am Historischen), la configuration singulière à l’esprit du tout, saisi de façon intuitive et divinatoire ». 2 Mais cette saisie intuitive et divinatoire comporte la collaboration de considérations personnelles et non-conceptualisables qui, en définitive, obligent a reconnaître dans le concept d’essence un concept idéal (Idealbegriff). 3 La critique n’advient pas, dans la détermination de l’essence, sur la base d’un jugement causal, mais sur la base d’un jugement téléologique qui implique l’engagement personnel de celui qui juge : « Dès que l’on outrepasse l’histoire purement empirico-déductive et que l’on se risque à des choses aussi élevées que les déterminations de l’essence, alors, même le simple point de vue éthiquement indifférent de la pure compréhension des interdépendances, de la pure comparaison à une tendance de développement immanent, ne saurait être maintenu ». 4 La détermination de l’essence, comme confrontation de l’historique a l’historique, possède donc une structure bipolaire, caractérisée par la tension entre objectif et subjectif, entre causal et normatif, entre empirisme individualisant et intuition totalisante. On peut dire sans aucun doute que le concept même d’essence en tant que concept évolutif est le produit de cette bi-polarité structurale et non le contraire ; le continuum qui remplit l’espace entre le passé auquel on se réfère et l’aujourd’hui qui le considère, est le résultat de la tension qui s’établit entre les deux, et il ne saurait donc exister sans l’intervention de l’aujourd’hui qui reconnaît la continuité des manifestations historiques en sacrifiant aussi, si besoin est, leur auto-compréhension même. « Partant, la formule de l’essence –, conclut Troeltsch de façon extraordinairement anticipatrice – n’est pas simplement dualiste, car le dualisme contient en soi un véritable cercle, en vertu duquel le temps originaire doit toujours être considéré à la lumière du développement successif, mais ce dernier doit toujours être considéré à partir du temps originaire ». 5 Ceci signifie donc, en premier lieu, se poser le problème de l’essence du christianisme et, plus généralement, se poser le problème de l’essence. Mais la question qui surgit
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2 V. op. cit., pp. 415-416. Op. cit., p. 407. V. op. cit., pp 423-432, c’est-à-dire le paragraphe intitulé : « Le concept de l’essence comme concept idéal » qui peut être considéré comme une systématisation des idées déjà exprimées dans Ueber historische und dogmatische Methode in der Theologie. 4 5 Was heisst ‘Wesen des Christentums‘ ?, cit., p. 409. Op. cit., p. 423. 3
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alors tout naturellement est de savoir si le fait de rechercher cette essence particulière qu’est celle du christianisme est tout à fait indifférent ou si, au contraire, cette essence a une valeur paradigmatique par rapport au problème de l’essence en tant que tel et de la vision philosophique qu’il comporte. C’est seulement grâce à la réponse fournie à cette interrogation que le problème troeltschien de l’absoluité du christianisme peut être encadré comme il faut, et qu’il nous est permis de saisir a fond la signification de la préséance historique et théorétique qui qualifie, dans la pensée de Troeltsch, le problème de l’absoluité par rapport à celui de l’essence du christianisme. Au point où en est notre examen du discours troeltschien, on peut douter qu’une fois éclaircie en ces termes l’expression : Que signifie « Essence du christianisme ? », il reste encore la possibilité de proposer une essence à laquelle puisse être conférée une valeur absolue. La détermination de l’essence du christianisme comme toute détermination d’essence, est un acte qui exclut de par sa nature même toute validité supra-historique, dans la mesure où cet acte est tout à fait lié au présent comme histoire et à la personne historique qui opère la détermination. Certes, la détermination, dans la mesure où elle naît d’un jugement téléologique, dans la mesure où elle est essentiellement acte normatif qui statue un Idealbegriff, pose l’essence comme valeur, et par là même comme absolu. Mais ce jugement porte sur l’histoire fait lui-même partie de l’histoire. 1 L’absoluité du jugement sur l’histoire ne peut être qu’un acte de foi, au moment où, critiquement, ce jugement sait de faire partie de l’histoire. La définition de l’absoluité du christianisme à travers l’histoire n’est pas possible sinon comme acte de foi : « La construction du christianisme comme religion absolue est, du point de vue historique et avec des moyens historiques, impossible ». 2 L’objet de l’histoire est toujours l’individuel et l’unique et, d’un point de vue scientifique, il n’est pas possible de distinguer l’universel du particulier dans un phénomène historique ; en effet, l’idée de cet universel, au moment où elle surgit, est toujours vue à la lumière de conditions historiques particulières. 3 Mais le discours troeltschien ne se limite pas à la constatation de l’impossibilité de reconnaître à l’aide de moyens historiques l’absoluité du christianisme. S’il en allait ainsi, on se trouverait en face d’un simple discours relativiste, qu’il ne conviendrait point de soumettre à un examen tellement attentif. Par contre, la détermination de l’essence du christianisme opérée par Troeltsch se présente en des termes qui placent sur un pian tout à fait particulier la relativité historique de l’affirmation de l’absoluité du christianisme. On pourrait dire en effet que l’essence du christianisme en vient à prendre, dans la vision troeltschienne, les traits mêmes que Troeltsch juge constitutifs de l’opération à laquelle donne lieu la définition de l’essence d’un phénomène historique. Cette formalisation de l’essence du christianisme confère à la relativité de cette essence une valeur tout à fait particulière, qui n’est pas incompatible avec le caractère d’absoluité. Pour se rendre compte de cela, il faut partir de la considération du rapport historique qui, selon Troeltsch, passe entre la prétention à l’absoluité et la religion dont elle est issue. Aux yeux de l’historien, en vérité, la prétention a l’absoluité apparaît comme une donnée concrète, caractérisant la manifestation historique du christianisme ; c’est la raison pour laquelle Troeltsch parle de « prétention » a l’absoluité du christianisme.
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Op. cit., p. 429. L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, cit., p. 62. V. op. cit., p. 63.
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Savoir si le christianisme est la religion absolue, est un problème qui reste à décider, et c’est une question qui se pose, justement, a une mentalité historiquement formée ; la prétention à l’absoluité du christianisme, cependant, est une donnée dont, d’un point de vue historique, il n’est pas permis de douter et dont on ne saurait faire abstraction si l’on veut décider correctement la question de principe. Or, par rapport a la donnée de fait de la prétention à l’absoluité, la considération historico-comparatiste peut et doit relever des différences entre les diverses manifestations religieuses qui se sont produites dans l’histoire : « L’absoluité immédiate des petites religions polydémonistes tribales, aussi bien que celle des grandes religions polythéistes des anciens peuples civilisés, est de par sa nature même une absoluité limitée et circonscrite, conformément a la nature des divinités qui règnent sur la tribu, sur la lignée, sur le peuple [...] Ce sont les grandes religions universelles de caractère éthique et mystique qui revendiquent une absoluité illimitée dans le temps et dans l’espace ». 1 Cette différence dans la prétention à l’absoluité dépend du fait que ces religions présentent, comme objet de leur annonce, des principes cosmiques universels, auxquels sont liées des instances éthiques de caractère tout aussi universel. Comme on le voit, les différences qui apparaissent, d’un point de vue historico-comparatif, entre les diverses prétentions a l’absoluité propres aux différentes manifestations historiques des religions exigent que, par souci historique, on distingue, à l’intérieur des manifestations isolées, entre prétention à l’absoluité et contenu ou, pour reprendre le terme de Troeltsch, objet des diverses religions. Tous deux constituent des données historiquement vérifiables et tous deux concourent à qualifier dans son historicité concrète la manifestation religieuse ; néanmoins, une analyse historique plus approfondie nous montre la nécessité de placer les deux données sur des plans différents, en notant que la prétention à l’absoluité nait du contenu, de l’objet de la religion historique. C’est ce contenu, partant, qui apparaît fondant pour décider la question de la religion absolue ou, mieux, pour décider de la légitimité de la prétention à l’absoluité historiquement avancée par une religion : « ce n’est pas la prétention à l’absoluité qui est décisive, mais l’objet que reflètent le mode et l’intensité de la prétention ». 2 La distinction entre prétention a l’absoluité et objet est loin d’être évidente : c’est une distinction qui a lieu pour la première fois sur le terrain de la considération historique. Dans la réalité vécue des manifestations religieuses, en effet, la prétention à l’absoluité est immédiatement présente dans la manifestation religieuse : il s’agit, pour reprendre la terminologie de Troeltsch, d’« une absoluité ingénue », et non d’« une absoluité artificielle ». 3 Quand l’absoluité n’est plus ingénue mais artifcielle, autrement dit donne lieu a une « apologétique », alors on peut dire que la considération relativisante de l’histoire est déjà entrée dans la religion. En vérité, Troeltsch fait noter que cette transformation de l’absoluité a lieu spontanément ; 4 partant, dans la mesure où l’apologétique est une simple « amplification » de l’absoluité ingénue, elle garde le caractère immédiat de celle-ci et ne donne pas lieu à des conséquences relativisantes. 5 Toutefois il est indéniable qu’avec l’apologétique, aussi immédiatement soit-elle vécue, se trouve posée cette distinction entre contenu de la religion et prétention à l’absoluité qui, avec le temps, rend nécessaire une considération historique, capable de légitimer la prétention sur la
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2 Op. cit., p. 161. Op. cit., p. 185. « Ces absoluités ingénues ne sont pas des théorisations tendant à fonder et légitimer l’exclusivité d’une vérité, mais le reflet immédiat de l’objet de la conscience religieuse. » (Op. cit., p. 168). 4 5 V. op. cit., p. 173. V. op. cit., p. 187. 3
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base d’une comparaison des contenus propres aux différentes religions. Le passage de l’apologétique surnaturaliste à l’évolutionniste devient donc inévitable. Seulement, la philosophie de l’histoire idéaliste, valable, comme on l’a vu, dans la mesure où elle représente l’assomption décidée et définitive de l’histoire dans le phénomène religieux, mortifie cette validité en déterminant le contenu à partir de sa compréhension de l’absolu, au lieu de déterminer la nature et la légitimité de la prétention historique à l’absoluité à partir de l’analyse historique du contenu. 1 Une considération qui se veuille fidèle aux indications historiques devra par contre évaluer cette prétention et, en premier lieu, en saisir la nature spécifique à partir de l’examen du contenu de la religion. Certes, « la religion la plus haute est aussi celle qui a la prétention la plus authentique et intérieure a l’absoluité », 2 mais ce, justement en vertu du fait que cette prétention est le reflet immédiat du contenu, sur lequel, en dernière analyse, on doit porter l’attention comme sur l’élément décisif. Or, pour Troeltsch, le christianisme « est la seule religion qui, en vertu de son intime force proprement religieuse, se perçoit elle-même et se fait valoir comme vérité ayant une validité générale ». 3 Mais évidemment « la seule chose qu’on peut faire valoir pour la prétention avancée par le christianisme est le fait qu’à cette prétention singulière correspond aussi une effective singularité de son contenu et de son essence ». 4 Seul le christianisme, remarque Troeltsch, ou plus exactement le judéo-christianisme, a brisé le lien de la religion avec la nature et s’est défini comme religion de l’esprit, en posant un Dieu spirituel, distinct de la nature et créateur, et en affirmant, en même temps, l’essence spirituelle de l’homme qui, conformément à cette essence, doit remplir la tâche positive de se hisser au-dessus de la nature. Ainsi le christianisme – bien qu’il sente Dieu beaucoup plus proche de l’intériorité de l’individu et plus immédiatement opérant dans la nature que les autres religions – est totalement garanti de toute rechute dans le panthéisme et dans la mystique de la religion de la nature. Et, bien que le christianisme ne méconnaisse pas la paix et la béatitude que l’esprit humain peut trouver en Dieu, il n’en attend pas moins – convaincu du caractère transitorie de l’existence sensible – un monde plus haut, et exclut de la sorte toute fusion immanentiste en Dieu. Le christianisme se révèle être une religion sotérique plus élevée que les autres (et en particulier que le pessimisme bouddhiste et la mystique néo-platonicienne), dans la mesure où il ne libère pas seulement de la douleur, de la finitude et de la coercition de la nature, « mais surtout de l’obstination et de la mesquinerie de l’esprit humain, de sa faiblesse et de son sentiment de culpabilité et, grâce à cet apaisement de l’esprit et à la certitude d’une communion avec Dieu, communion qui a vaincu le temps, il confère force et énergie pour l’action et l’amour sur la terre ». 5 Si telle est cependant la détermination troeltschienne de l’essence du christianisme, il nous est facile de nous rendre compte de la formalisation qui la caractérise. On a vu en effet que la détermination de l’essence jaillit d’un engagement éthique et religieux. En effet, pour Troeltsch, la religion est précisément l’affirmation d’une transcendance sotérique, autrement dit l’affirmation de la valeur qui, en tant que telle, transcende la relativité de l’histoire, mais non au moyen d’un refus de celle-ci, mais bien grâce à une compréhension totalisante qui en rachète la relativité, c’est-à-dire grâce à une philosophie de l’histoire. 6 Une telle
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2 V. op. cit., p. 183. Op. cit., p. 169. Christentum und Religionsgeschichte, cit., p. 352. 4 5 Op. cit., p. 353. Op. cit., p. 355. 6 C’est Caracciolo qui a eu le mérite d’avoir mis en lumière la liaison fondamentale entre philosophie 3
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compréhension totalisante – qui a lieu dans la détermination de l’essence – comporte un engagement dans le présent, elle est elle-même acte d’engagement dans le présent. En tant que telle, elle se trouve impliquée dans l’histoire et ne peut avoir aucune valeur conclusive ; la philosophie de l’histoire de type conclusif ne saurait être maintenue en raison du privilège qu’elle accorde au présent, lequel est toujours affecté par la relativité. Mais la relativité de la décision axiologique du présent n’infirme pas l’absoluité de la valeur, dans la mesure où la patrie de celle-ci est le futur. 1 Le futur, comme ce qui n’est pas encore réalisé, est l’au-delà de l’histoire ; 2 cette dimension métahistorique ne place pas toutefois un hiatus impossible à combler entre la valeur qui lui est inhérente et l’histoire : le futur, comme ce qui doit advenir, est en effet la condition de possibilité de l’histoire ; en tant que tel il ne s’identifie pas à l’histoire et en reste toujours au-delà. La philosophie de l’histoire, la vision totalisante et valorisante de l’histoire empirique, est le produit de la religion, c’est-à-dire de l’affirmation par laquelle le particulier rachète la relativité du transitoire en se référant à un futur portateur de sens et, partant, condition transcendante de tout agir éthiquement inspiré. La religion est justement cette structure transcendantale de l’être humain,3 grâce à laquelle il se place en face de l’histoire comme passé, en lui conférant un sens par rapport au futur qui, parce que transcendant, légitime la prétention à l’absolu de la décision présente. Mais qu’est ce que l’essence du christianisme, déterminée par Troeltsch de la façon que nous avons vue, sinon la religion dans toute sa pureté transcendantale ? « En vertu de cette intime concordance entre prétention (Forderung) et essence, nous reconnaissons dans le prophétisme et dans le christianisme le point le plus haut, ou mieux, un
de l’histoire et philosophie de la religion dans la pensée de Troeltsch ; voir l’essai critique qui précède la traduction italienne : L’assolutezza del cristianesimo (cit., pp. vii-lxiv), pour une discussion duquel nous nous permettons de renvoyer a la note publiée a ce propos dans « Il Pensiero », xiv, 1969, pp. 175-179. 1 V. op. cit., pp. 95-97. 2 Pour la connexion de ce thème avec le message religieux de Jésus, voir op. cit., p. 140. 3 C’est toujours Caracciolo qui met en évidence la transcendantalité en tant que caractéristique essentielle (avec l’autonomie, l’historicité et l’ecclesialité) de la vision troeltschienne de la religion (op. cit., pp. xvi-xviii et passim). À l’auteur n’échappe pas l’aspect tourmenté et la grande incertitude qui qualifient cette caractéristique de la vision de Troeltsch : en fait, le transcendantalisme présentait le danger du formalisme et de la perte de contact avec l’histoire réelle (op. cit., p. xvi), et sur ce point Troeltsch ne pouvait pas, naturellement, ne pas être sensible. Il est pourtant indiscutable que le transcendantalisme représentait pour Troeltsch la seule solution assurée du problème du paramètre pour la détermination de l’essence. Voir à ce propos les écrits thématiques : Wesen der Religion und Religionswissenschaft (1909) dans Gesammelte Schriften, cit., pp. 452-499 (notamment pp. 452-463) ; Zur Frage des religiösen Apriori (1909) ibid., pp. 754-768 ; mais surtout (à cause de sa liaison étroite, chronologique autant que problématique, avec le problème qui nous occupe ici) Das Historische in Kants Religionsphilosophie, Zugleich ein Beitrag zu den Untersuchungen über Kants Philosophie der Geschichte dans « Kantstudien », ix, 1904, pp. 21-154. Le fait que Troeltsch, dans la période où il affronte le problème de l’absoluité, s’engage à considérer la philosophie transcendantale kantienne sous l’aspect religieux, est fortement significatif, ainsi que c’est le fait que cette considération de la philosophie de la religion transcendantale advienne dans les termes d’une thématisation du problème de l’histoire en tant que problème interne de la philosophie de la religion transcendantale. La conclusion de l’oeuvre synthétise, à travers la considération kantienne, l’attitude complexe de Troeltsch : a) négation de la QuasiHistorie du miracle en fonction de b) privilégier l’histoire concrète, qui pourtant c) révèle sa valeur effective seulement comme indice ou exemplification d’une structure transcendantale. Troeltsch remarque que la nouvelle vision de la religion représente « la rupture, de la part du monde moderne, d’avec le système scientifique catholique, fonde sur l’apologétique paléo-chrétienne. Celui qui opère cette rupture, qui abandonne la Quasi-Historie du miracle et reconnaît l’histoire réelle de la critique et de la reconstruction analogique, n’a rien d’autre a faire qu’élargir et approfondir la phrase kantienne : « l’historique (das Historische) sert seulement comme illustration, pas comme démonstration ». » (Op. cit., p. 154).
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nouveau point d’origine dans l’histoire des religions ». Ce n’est pas comme religion réalisée, mais comme religion de l’avenir que le christianisme peut avancer légitimement la prétention à l’absoluité. Ce n’est pas d’un prétendu caractère conclusif, théorisé par la philosophie de l’histoire hégélienne mais, au contraire, de la capacité de toujours se renouveler propre au christianisme comme religion de l’esprit, que jaillit la confiance dans l’absoluité de cette religion. 2 « L’élément vital et créateur de la religion consiste précisément dans le fait que sa continuité ne s’affirme que dans ce processus permanent de renouvellement des formes ». 3 La détermination de l’essence du christianisme est le paradigme de cet acte structuralement religieux qu’est la détermination de l’essence, c’est-à-dire le paradigme de cet « acte créatif » 4 qui relie l’histoire au futur en donnant lieu à une philosophie de l’histoire : « La détermination de l’essence est le couronnement et, en même temps, la Selbstauf hebung de la théologie historique ». 5 Cette Selbstauf hebung, auto-dépassement, donne lieu à une formalisation sans scories du contenu du christianisme, de sorte que celui-ci s’identifie totalement à la religion dans sa pureté transcendantale. L’absoluité du christianisme ne peut être affirmée qu’en vertu d’une telle formalisation, qui définit de façon absolue le caractère religieux du christianisme, en relativisant radicalement le contenu de ce dernier. Au terme du discours relatif a la façon hégélienne de poser le problème de la religion absolue, lorsque nous remarquions qu’une définition de l’absoluité par voie théorétique était en mesure de dépasser la relativisation historique du christianisme en ramenant l’histoire des religions et du christianisme au sein du contenu de celui-ci – identifié avec la philosophie de l’histoire – de nous nous demandions a quelles conditions pouvait avoir lieu une définition de l’absoluité par voie historique, c’est-à-dire une définition qui prît comme fondant de l’absoluité le rapport du christianisme avec l’histoire des religions (et donc du christianisme lui-même). L’examen du discours troeltschien a porté à une réponse clairement élucidatrice de cette question. La construction du christianisme comme religion absolue « est, du point de vue historique et avec des moyens historiques, impossible » ; c’est seulement grâce à la détermination de l’essence – acte éthico-religieux qui marque le passage de l’histoire à la philosophie de l’histoire – que la prétention historique du christianisme à l’absoluité peut être légitimée. La considération de l’histoire des religions et du christianisme est certainement un élément indispensable à l’affirmation de l’absoluité du christianisme et à la dotation d’un sens précis à cette affirmation ; seule une considération historique, en effet, permet de saisir, en les ramenant à leur contenu essentiel, la signification de la prétention à l’absoluité historiquement avancée par le christianisme et les autres religions. Il devient alors possible, sur cette base, de reconnaître un processus évolutif dans l’histoire des religions : celles-ci manifestent une convergence dans la religion chrétienne, qui confère une validité « éternelle et invincible » a la prétention d’absoluité de la religion chrétienne. 6 Mais la « construction » de cette convergence (et l’affirmation conséquente de l’absoluité du christianisme) si
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1 Christentum und Religionsgeschichte, cit., p. 355. V. op. cit., pp. 353 et 356. 4 Was heisst ‘Wesen des Christentums’ ?, cit., p. 440. Op. cit., pp. 428-429. 5 Op. cit., p. 433. La théologie, en tant que définition de contenus religieux, qui de par leur nature ne peuvent être posés que comme absolus, est sans doute la plus attaquée par les nouvelles sciences historiques, mais justement a cause de cela « elle pourra prétendre au privilège que la bataille décisive soit combattue sur son terrain ; cette bataille dont l’issue est décisive aussi pour toute la vie. » (Moderne Geschichtesphilosophie, 1904, dans Gesammelte Schriften, cit., pp. 673-728 ; v. p. 677) Seulement la religion, donc, peut battre le relativisme historique. Voir Christentum und Religionsgeschichte, cit., p. 169. 6 Voir L’assolutezza del cristianesimo, cit., p. 169. 3
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elle trouve dans l’histoire des religions et surtout dans celle du christianisme – c’està-dire surtout dans le fait que le christianisme a une histoire – son propre matériel, n’en a pas moins lieu, néanmoins, en vertu d’une détermination de l’essence : donc en vertu d’une vision philosophique de l’histoire qui nait exclusivement de l’engagement éthicoreligieux individuel. La philosophie de l’histoire, comme affirmation de la valeur de l’histoire et dans l’histoire, est une vision fournie seulement par la religion. On comprend donc pourquoi la philosophie de l’histoire se présente, en premier lieu, comme philosophie de l’histoire des religions. 1 Mais si la philosophie de l’histoire est aussi le produit de la religion, correspondant à un intime besoin de celle-ci de se poser comme absolu, on ne voit que trop bien l’écart qui séparé cette vision de celle qui, définissant l’absoluité par voie théorétique, reconnaît la philosophie de l’histoire dans le contenu même du christianisme. Comme on l’avait remarqué, en effet, la définition hégélienne de l’absoluité donnait lieu à l’affirmation absolue du contenu et à l’effective néantisation de la forme spécifiquement religieuse de celui-ci et de la religion tout court, moyennant l’Auf hebung de celle-ci dans la philosophie. La philosophie de l’histoire marque par contre – si l’on considère comme fondante l’histoire des religions et du christianisme – la Selbstauf hebung de la théologie historique. Hartmann, qui avait fait remarquer que la détermination de l’essence représentait l’auto-dissolution du christianisme et que le résultat de cette détermination « n’était plus le christianisme », dans la mesure où il en égarait le contenu essentiel, à savoir la christologie et la doctrine trinitaire, 2 se voyait répondre par Troeltsch : « Pour aucun connaisseur de l’histoire réelle il ne saurait exister de doute sur le fait que cette construction de l’essence [c’est-à-dire son identification avec le dogme christologique et trinitaire] est pure imagination. La signification de la christologie ne fut jamais, en réalité, celle d’une métaphysique déterminée » ; la christologie, en effet, avait toujours été « uniquement un présuppose et un moyen pour ce qui est vraiment essentiel », 3 a savoir l’affirmation de la religion dans cette pureté transcendantale que nous avons eu l’occasion de décrire. Le fait que la figure historique de Jésus nous induise encore a cette affirmation « peut suffire, et le christianisme-qui-n’est-plus aussi bien que le christianisme-qui-dureencore nous laissent indifférents ». 4 L’Auf hebung de la théologie historique est une Selbstauf hebung, en ce sens qu’elle ne donne pas lieu à un dépassement de la religion en tant que telle mais, bien au contraire, à sa réalisation comme religion : mais l’absoluité ne peut pas être affirmée sinon à l’aide de cette formalisation, laquelle définit le caractère absolu de la religion, en relativisant complètement son contenu. Au regard total impossible de l’oiseau de Minerve, se substitue le chant modulé de l’alouette, le chant pré-annonciateur et, par là même toujours de nouveau réalisateur, mais aussi réalisateur toujours nouveau de la religion de l’avenir. Il est aujourd’hui une tentative surprenante : celle de récupérer pour la réflexion religieuse une théologie de l’histoire de type hégélien, avec la petite variante d’une ouver
1 « Alors on devra reconnaître qu’aussi l’histoire des religions n’a pas simplement des parties constitutives, mais aussi une liaison spirituelle, et qu’il n’est pas si difficile de trouver cette liaison, comme le pensent certaines personnes prudentes selon lesquelles la vérité historique est accessible seulement a l’étude spécialisée (Spezialstudium). » Voir Christentum und Religionsgeschichte, pp. 362-363. 2 Was heisst ‘Wesen des Christentums’ ?, cit., pp. 440 sq. 3 4 Op. cit., p. 444. Op. cit., p. 446.
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ture sur le futur justifiée du point de vue du contenu, c’est-à-dire par une référence positive à un contenu du christianisme estimé essentiel à celui-ci : l’eschatologisme. A la vérité, cette tentative d’unir des choses inter se repugnantes trouve sa justification, non pas tant dans le privilège, que s’arroge la théologie positive, de ne pas rendre critiquement compte de ses affirmations ultimes, que dans la situation qui s’est créée dans le domaine de la réflexion religieuse, à la suite du développement particulier enregistré par la problématique laissée ouverte par la pensée troeltschienne. En effet, plutôt que diriger l’attention sur l’issue transcendantaliste de la spéculation de Troeltsch sur le problème de la religion absolue, la pensée religieuse successive a souligné l’insuffisance de ses références à l’histoire. Bultmann, par exemple, dans une oeuvre qui prend ses distances par rapport à la pensée de la théologie libérale, critiquait Troeltsch parce que, au lieu de tirer rigoureusement les conséquences relativistes liées à la considération historique, en privant celle-ci, par conséquent, de toute valeur pour ce qui est de la décision de la foi, préférait, dans un équivoque discours axiologique, donner un sens hégélien à l’histoire ; ainsi Troeltsch avait-il donne lieu à un « panthéisme historique » qui voit dans l’histoire la révélation directe de Dieu. 1 La préoccupation dominante devenait, partant, celle de mettre sur des bases tout à fait différentes la décision pour la foi chrétienne, en thématisant une historicité complètement différente de celle qu’avait mise en lumière la théologie libérale. En réalité, les théologies de l’existence parvenaient ainsi a un tel anéantissement de l’importance du Jésus historique qu’elles faisaient renaître l’exigence d’un retour a l’histoire ; ceci a eu lieu dans les termes intimement repugnantes qui caractérisent une partie non négligeable de la réflexion théologique actuelle. Il semble correct de remarquer, cependant, que, soucieuse de discuter l’aspect aporétique du discours troeltschien, la réflexion religieuse successive a laissé à l’écart cette issue transcendantale qui représentait la vraie solution de Troeltsch à l’insuffisance de la fondation historique de la religion absolue : insuffisance, voire même impossibilité dont Troeltsch, comme nous l’avons vu, était bien conscient en dépit du caractère de nécessité qu’il continuait malgré tout à attribuer à l’élément historique dans la décision concernant la vraie religion. Et l’on pourrait donc se demander si la radicale négligence de l’histoire (de la Historie) de la pari de la théologie de l’existence n’est pas née, paradoxalement, d’un souci positif beaucoup plus dominant que chez Troeltsch ; autrement dit, l’on pourrait se demander si ce n’est pas la résistance, plus ou moins consciente, à accepter la dissolution du christianisme positif dans la religion transcendantale, qui a porte au refus de la Historie. De ce point de vue, on serait tenté de formuler un jugement, sans doute un peu tranchant et simpliste, mais non dépourvu de justesse fondamentale, sur la pensée théologique post-troeltschienne, en affirmant qu’elle a représenté une longue et complexe tentative d’évasion : en partant de l’accusation d’un prétendu hégélianisme dans la vision de ce Troeltsch qui était parti précisément d’une critique à la philosophie de l’histoire de type hégélien, on est parvenu, par la réaction successive aux théologies de l’existence, à une récupération de l’histoire de type vaguement hégélien ; cette récupération devrait permettre l’affirmation de l’absoluité du christianisme dans sa positivité, non kérygmatique, mais concrètement historique. Mais de semblables tentatives, désireuses de concilier, en recourant a des expédients proleptiques, l’histoire universelle avec l’ouver
1 R. Bultmann, Die liberale Theologie und die jüngste theologische Bewegung (1924), dans Glauben und Verstehen. Gesammelte Aufsätze, Tübingen, J. C. B. Mohr, vol. i, 1933, pp. 1-25 ; v. p. 5-8.
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ture eschatologique, et désireuses d’éviter, d’une part, la réduction transcendantale du christianisme et, d’autre part l’Auf hebung de celui-ci dans la philosophie, ne peuvent pas ne pas laisser perplexe quiconque considère, comme nous l’avons tenté ici, l’intime structure et la logique interne de la vision hégélienne ainsi que la vision troeltschienne, du problème de l’absoluité du christianisme. En réalité, la philosophie de l’histoire conclusive, qui permet la vision de l’histoire universelle, et le transcendantalisme, qui permet d’éviter la relativisation de la philosophie de l’histoire ouverte sur le futur, en conférant à cette dernière une valeur structurale, semblent les deux seules positions en mesure de proposer le problème de la religion absolue. 1 Dans ses deux formes, absolument alternatives, la conclusive et la transcendantale, la philosophie de l’histoire semble la seule apologétique à laquelle la religion puisse recourir pour affirmer son absoluité, autrement dit (puisque la formulation négative est la plus authentique lorsque se présente la nécessité du recours à l’apologétique) pour affronter la crise relativisante dans laquelle la jette la conscience historique. Le renoncement à la forme religieuse du contenu absolu ou le renoncement au contenu de la religion absolue, est le prix requis par l’apologétique pour appuyer la prétention à l’absoluité historiquement avancée par le christianisme. Dans un cas comme dans l’autre, cette prétention se trouve frustrée dans un de ses moments fondamentaux ; pour être plus exact, dans un cas comme dans l’autre elle se trouve frustrée dans son aspect historiquement fondamental, lequel consiste précisément dans l’indissolubilité de ces moments qui se présentent distincts a un examen critique (religion et contenu). Le fait est que cette unité indissoluble naît de l’affirmation du caractère religieux absolu d’un événement historique concret, que la philosophie de l’histoire – n’importe comment qu’on l’entende – ne peut pas, de par sa nature même, ne pas annihiler. Remarquons que, dans ce cas, et seulement dans ce cas, l’annihilation de la signification correspond à l’annihilation même de l’événement dans son historicité : l’Incarnation, entendue comme individualisation historique de l’absolu dans un événement singulier, réside ou tombe dans son historicité en fonction de la reconnaissance de la signification absolue de l’événement même. Mais c’est justement cette reconnaissance qui est incompatible avec la philosophie de l’histoire (et elle l’est, en fait, depuis la naissance de celle-ci : que l’on pense au problème de Lessing). La recherche d’un sens dans l’histoire exclut la possibilité de reconnaître en un seul événement le sens de toute aventure historique ; pour qu’un seul événement puisse avoir une telle capacité explicative, il faudrait qu’il représentât la fin (et le but) de l’histoire ; si par contre il se trouve plongé à l’intérieur du cours même des événements, la reconnaissance de sa différence qualitative (et d’une différence qualitative comme celle qui peut exister entre le tout et la partie, entre l’absolu et le relatif et, d’une certaine façon, entre le sens et le non-sens) n’est certainement pas possible. Et ce, non de par la nature de l’événement en question, mais de par la nature de la reconnaissance, laquelle, étant un événement historique, ne peut pas ne pas se caractériser en termes relativistes. Certes, on peut remarquer que la reconnaissance de la valeur absolue de l’événement de l’Incarnation participe de l’absoluité de l’événement reconnu, en tant que produit de celui-ci, prolongement de celui-ci, etc. Mais
1 Il faut mettre au clair que nous n’entendons pas mettre en doute la validité théorétique de la thématisation du problème herméneutique, surtout dans ses récents développements tendant a souligner le rôle essentiel que joue l’interpellation de l’histoire dans le processus herméneutique. Mais, pour les raisons que nous allons exposer dans notre texte, il nous semble que la problématique de la religion absolue soit improposable à l’intérieur d’une situation herméneutique, dont la structure ultime est la circularité.
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le fait est qu’une telle auto-compréhension de la reconnaissance est rendue impossible par l’histoire des reconnaissances qui ont eu lieu à l’égard de cet événement : la contradictoire (dans le fait et le concept) histoire du christianisme, justement, la contradictoire in terminis histoire de la religion absolue. Le caractère non conclusif de l’événement absolu comporte la néantisation de l’historicité de l’événement même, dans lequel l’absoluité implique la pleine coïncidence de fait et signification. L’éloignement de l’eschaton, attendu comme imminent par le christianisme primitif, crée un espace du savoir qui se révèle fatal pour l’historicité de l’événement absolu. Dans ces conditions, l’absoluité ne peut plus concerner l’événement passe ; elle ne peut que caractériser la reconnaissance présente, laquelle se dessine elle-même comme absolue : le savoir absolu qui conclut l’histoire, ou l’engagement absolu qui naît de la référence au futur transcendant. L’événement absolu est la philosophie de l’histoire. Il est évident alors que l’actuel retour de la théologie de l’histoire a l’affirmation de la valeur absolue de l’événement de l’Incarnation, reconnue comme événement proleptique, comme anticipation de la conclusion, ne permet pas de sortir de la situation tracée. Rien ne change, en vérité, du fait que la signification absolue de l’événement absolu, en tant qu’événement proleptique est affirmée par la foi. Le témoignage de la foi, dans la mesure où il donne lieu à l’affirmation d’un contenu, est toujours le témoignage d’un savoir, quel que soit le mode de sa certitude. 1 De ce point de vue, la cohérence d’une telle vision se manifeste dans le passage que fait Hegel de la religion absolue au savoir absolu, et c’est dans cette Auf hebung que se réalise l’événement absolu. Si l’on prétend que le mode de la certitude n’est point sans importance et que, partant, il ne donne pas lieu à un savoir, car la foi est disposée à se mettre elle-même en question en se reconnaissant dans son conditionnement et sa relativité historique, 2 il convient alors de tirer les dernières conséquences de ce discours, en reconnaissant aussi l’impossibilité d’affirmer l’historicité de l’événement proleptique : la relativisation de la compréhension comporte en effet la néantisation de cet événement, absolu justement dans la mesure où coïncident en lui fait et signification. La position troeltschienne représente alors, de ce point de vue, une position beaucoup plus cohérente, car elle reconnaît l’absoluité à la foi de la religion transcendantale et voit surgir de celle-ci la philosophie de l’histoire. Troeltsch ne s’est point lassé de polémiser contre la déformation à laquelle avait donne lieu le christianisme en transformant l’absoluité de la foi de Jésus en absoluité de la foi en Jésus. Toutefois, dans un de ses importants écrits sur la signification de l’historicité de Jésus pour la foi, 3 postérieur d’une décennie environ aux écrits sur l’absoluité,
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Très indicatif, nous semble-t-il, est le fait que Pannenberg refuse toute opposition entre foi et savoir, en remarquant que le savoir de la « raison historique » est orienté autant que la foi vers la vérification eschatologique. En effet Pannenberg estime que la théologie de l’histoire doive être prolongée en une « théologie de la raison ». Cf. W. Pannenberg, Glauben und Vernunft, dans Grundfragen systematischer Theologie. Gesammelte Aufsätze, Göttingen, 1967, pp. 237-251. 2 « Nous ne savons pas encore de façon définitive ce qui est réellement advenu dans la vie et dans le destin de Jésus. Mais cette limite même appartient au caractère ultime d’un tel événement. Le caractère ultime n’est possible qu’à l’intérieur de la relativité historique du temps qui passe et de la reconnaissance reliée à ce temps ; il n’est possible que dans la mesure où la reconnaissance de la signification du destin de Jésus reste encore ouverte. » (W. Pannenberg, Ueber historische und Theologische Hermeneutik, dans Grundfragen, cit., pp. 156-157). 3 E. Troeltsch, Die Bedeutung der Geschichtlichkeit Jesu für den Glauben, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1911.
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il a mis clairement en évidence que la vision surnaturaliste avait son postulat dans la référence à la chute originelle. La question sur l’historicité de Jésus et sur sa signification pour la foi – remarque-t-il dans cette oeuvre – n’a de sens qu’à certaines conditions. Elle semblerait tout à fait dépourvue de sens pour l’ancien christianisme ecclésiastique (altkirchliches Christentum), fondé sur la conviction de la réalité de la personne historique du Christ et de son oeuvre, créatrice exclusive de l’Eglise et du salut. Cette question n’a de sens qu’à la condition « que le christianisme ne soit pas la foi en une oeuvre de salut ayant lieu dans l’institution sacrée de l’Eglise et qui réconcilie avec Dieu, en libérant des conséquences de la contamination provoquée par la faute originelle » ; autrement dit, elle suppose que le christianisme « est entendu en premier lieu comme foi vivante en Dieu, toujours renouvelée et que la rédemption est envisagée comme l’oeuvre toujours nouvelle de Dieu dans l’âme humaine, à travers l’efficacité de la foi en Dieu ». 1 Dans une telle vision « il n’est besoin d’aucune oeuvre historique de salut » (historisches Heilswerk). 2 La doctrine compromissoire de Schleiermacher-Ritschl-Hermann, qui entend affirmer le développement de la religiosité humaine et, en même temps, l’accomplissement de ce développement dans la personne historique du Christ, ne représente qu’un « affadissement » de la vieille conception du péché originel. 3 En effet, la fonction de la doctrine de la chute originelle dans le système ecclésiastique, a toujours été, depuis Paul, celle d’« éteindre toutes les lumières à côté de la foi en Jésus Christ et de nier toutes les forces à côté de celle du Christ ». Mais s’il en est ainsi, aucun compromis, aucune Mischform n’est possible entre des conceptions intrinsèquement contradictoires : « cette doctrine du péché originel comporte aussi la nécessité d’avoir le courage d’affirmer son postulat, a savoir l’originaire perfection précédant la contamination du monde par nos premiers ancêtres ; elle est en outre tenue de développer la nécessaire conséquence, qui doit consister dans une réelle rédemption et une réelle purification ». 4 La philosophie de l’histoire, qui dissout l’historicité de l’événement absolu, est le concept opposé de la chute originelle et du successif status deviationis ; l’affirmation d’un état parfait précédant les vicissitudes de l’histoire, est le contraire de l’affirmation d’une perfection atteinte (ou à atteindre) au moyen de l’histoire. Naturellement, ainsi que l’observe Troeltsch lui-même, « la tentative de bloquer tout développement de la vie religieuse vers le futur [mais, étant donne la signification que la religion revêt pour Troeltsch, on doit entendre le développement de la vie religieuse comme le développement de la vie humaine en tant que telle, le développement comme significativité de la vie humaine] en recourant à ce résidu de la faute originelle et à l’affirmation qui en découle, à savoir que la force et la certitude de la vie religieuse ne peuvent se conquérir sans qu’on se mette à l’abri par l’oeuvre efficace du Christ, est une tentative tout simplement insupportable à la pensée d’aujourd’hui ». 5 Il convient de se rendre compte que ce caractère insupportable, s’il a en fait une signification décisive, en possède une non moins décisive en principe : c’est le concept même de moderne qui apparait incompatible avec l’affirmation de la chute originelle et de l’antécédente perfection, et
1 Op. cit., p. 5. Des allusions à la chute d’origine en tant qu’élément constitutif de la vision surnaturaliste, on les trouve aussi dans les écrits de la période que nous avons pris en examen, mais c’est seulement dans cet ouvrage que l’argument est affronté thématiquement comme le fondement même de la vision surnaturaliste. 2 3 Op. cit., p. 6. Op. cit., p. 22. 4 5 Op. cit., p. 21. Le soulignement est de nous. Op. cit., pp. 22-23.
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qui suppose, du point de vue spéculatif, la philosophie de l’histoire dont il constitue, en quelque façon, le condense théorétique. L’immanentisation de la chute originelle, la reconduction du concept de péché au sein de l’aventure historique, par la negation d’un état antécédent de perfection, sont la condition de toute philosophie de l’histoire, tant de celle de type conclusif 1 que de celle de type transcendantal. 2 Nous avons vu, dans les paroles mêmes de Troeltsch, que dans la doctrine de la chute originelle, radicalisée conformément a son essence intime, l’affirmation de l’historicité de l’événement absolu (« la réelle justification » et « la réelle purification ») représente la « conséquence nécessaire » de l’affirmation de la perfection originelle. Peut-on dire alors que l’affirmation de l’historicité de l’événement absolu trouve son postulat dans l’affirmation de la chute originelle ? Tel est le vrai problème de fond. Ceci représente une affirmation tout à fait sensée historiquement parlant, c’est-à-dire comme stigmatisation de la connexion et de la dépendance qui se sont déterminées entre les deux affirmations. Mais, d’un point de vue spéculatif, elle pose des difficultés insurmontables. Comme observation historique, elle représente de par soi-méme le dépassement de la conception examinée ici en une position spéculative différente, 3 par laquelle le caractère d’absoluité se trouve reconnu comme qualifiant la foi et non l’événement : celui-ci est posé comme absolu par une compréhension historique particulière de sa nature. L’analyse historique de cette compréhension voit dans l’affirmation de la chute originelle le présupposé logique de l’affirmation de l’historicité de l’événement ; ce présupposé est cependant dépassé par la pensée moderne, c’est-à-dire par la philosophie de l’histoire, qui dissout ensemble l’historicité de l’événement absolu et le présupposé de son affirmation. Comment est-il néanmoins possible, à travers une réaffirmation de la faute originelle, de récupérer l’historicité de l’événement ? Certes, la philosophie de l’histoire dissout l’événement absolu dans son historicité ; mais l’affirmation que l’histoire n’est pas une aventure à laquelle on puisse donner un sens – une signification et une direction – mais un error – une erreur (le fruit de la faute) et une errance, peut-elle constituer le présupposé qui permette de réaffirmer l’historicité de l’événement qui a racheté de l’error mais ne l’a pas conclu ?
1 Selon Hegel, le mythe de la chute d’origine est le symbole de la vicissitude éternelle de la connaissance ; ce serait superflu de rappeler ici les nombreux passages (de la Phénoménologie, des leçons sur la philosophie de la religion, sur la philosophie de l’histoire, sur l’histoire de la philosophie, etc.) où cette conception est ouvertement exprimée. 2 Significatif à ce propos le fait que dans son écrit sur la philosophie de la religion de Kant, Troeltsch reconnaît, parmi les problèmes essentiels ouverts par la perspective transcendantale kantienne, la question du mal radical (avec celui de l’influence de l’activité divine sur la conscience, et celui de la signification de Jésus pour la religion). Indirectement significatif aussi est le fait que Troeltsch se rapporte assez souvent à la vision des courants spiritualistes de la Réforme, particulièrement a celui de Sebastian Frank (voir par exemple, Was heisst ‘Wesen des Christentums’ ?, cit., pp. 406 et 447). Et finalement, il faut tenir compte de l’interprétation, qu’on vient de rappeler, du christianisme comme religion qui libère de l’obstination et de la petitesse de l’âme humaine. Le surnaturalisme, la foi en Jésus, etc., « tout cela a été introduit par la doctrine de la faute originelle, par la doctrine du bouleversement du parfait monde originaire, à travers le péché d’Adam et Ève ou des démons et du diable. Mais de même qu’aujourd’hui nous comprenons toutes ces choses sur la base de l’intime et nécessaire constitution de la nature, de même nous comprenons cette loi socio-psychologique [la nécessité de la référence a Jésus] non pas comme conséquence de la faute originaire, mais comme une propriété de l’humanité dans son rapport énigmatique avec l’individu et la communauté. » (Die Bedeutung der Geschichtlichkeit Jesu für den Glauben, cit., p. 42). 3 En effet, tout de suite après avoir remarqué comment la doctrine de la chute d’origine soit incompatible avec la pensée moderne, Troeltsch conclut : « Il suffit seulement que survienne la recherche historicocritique des évangiles pour que toute la doctrine soit dispersée, malgré la haute signification spirituelle et religieuse de ses initiateurs. » (Op. cit., p. 23).
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En réalité, retrouver les conditions en vertu desquelles est possible l’affirmation de l’événement absolu, est encore un acte d’absoluité du savoir actuel, l’acte extrême de confiance dans le savoir, qui se nie lui-même. Kai; ta; daimovna pisteuvousin kai; frivssousin. « Maìtres de mensonge, les démons – commente Enrico Castelli – non parce qu’ils disent le contraire de ce qu’ils “savent”, mais parce qu’ils ne disent rien d’autre que ce qu’ils savent ». 1 Le refus de l’apologétique est la forme extrême de l’apologétique. « Il est bien vrai que celui qui découvrit le premier le devoir de “défendre” le christianisme dans le monde chrétien est de facto un Judas n. 2 ; lui aussi trahit avec un baiser ». 2 Témoigner seulement ? Mais le témoignage ne peut renoncer a l’apologétique, fûtce à l’apologétique dans sa forme extrême : celle qui se nie elle-même. Se confier au savoir, ce qui a lieu dans l’apologétique, est la condition indispensable pour que le témoignage ait une signification. Si le témoignage ne se traduit pas en un savoir, il n’a pas de sens. L’éloignement de l’eschaton, en créant un espace du savoir, a vraiment fait de l’événement absolu un signe de contradiction. Le témoin est apologète : simul iustus ac peccator.
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Cf. E. Castelli, Les significations du témoignage, dans ce volume, p. 29. Cf. S. Kierkegaard, La maladie mortelle.
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IL PROBLEMA DELLA SECOLARIZZAZIONE INESAURIBILE*
L
aletteratura sulla secolarizzazione è ormai amplissima ; all’interno di essa, o a fianco di essa, si è sviluppata altresì la ricerca sul termine stesso « secolarizzazione ». In pochi casi come in questo, infatti, l’indagine sul fenomeno esaminato si è reduplicata in quella sul termine con il quale si intende designare il fenomeno in esame : l’ermeneutica della secolarizzazione sembra essere, in primo luogo, l’ermeneutica del termine « secolarizzazione ». La circostanza descritta non è certamente originale in sé ; sempre – soprattutto da quando la malattia storica ha minato la coscienza – il trasferimento dell’attenzione dal fenomeno tematizzato al termine col quale lo si è individuato (creando con ciò la condizione di possibilità della sua tematizzazione), rappresenta un passo indispensabile mediante il quale le « scienze dello spirito » – poi divenute « scienze umane » – mirano a raggiungere l’ideale della scientificità. Mediante il trasferimento dell’attenzione dal fenomeno umano tematizzato al termine che ne consente la tematizzazione, le scienze dello spirito e/o umane cercano invero di avvicinarsi, da un lato, a quella chiarezza e distinzione e, d’altro lato, a quella verificabilità che storicamente (prima in modo alternativo, poi in modo congiunto) hanno rappresentato i criteri stessi della scientificità. Ma nel caso della secolarizzazione questo trasferimento ha assunto proporzioni assai vistose e, soprattutto, accelerate ; la distanza temporale fra l’individuazione del fenomeno e la problematizzazione del termine è stata talmente breve che spesso si ha l’impressione di una sovrapposizione o, persino, di una paradossale precedenza dell’interrogativo sul significato del termine « secolarizzazione » rispetto all’interrogativo sul fenomeno storico della secolarizzazione. 1 Questa situazione è tutt’altro
* Ermeneutica della secolarizzazione, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di Filosofia », xliv, 2-3, 1976, pp. 73-86. 1 Prescindendo, per le ragioni che diremo appresso nel testo, dalla letteratura di carattere sociologico, e limitandoci alle ricerche rientranti nell’ambito delle Geisteswissenschaften, possiamo ricordare le seguenti opere che si occupano tematicamente del concetto e del termine « secolarizzazione » : F. Delekat, Ueber den Begriff der Säkularisation, Heidelberg 1958 ; M. Stallman, Was ist Säkularisierung ?, Tübingen 1960 ; H. Blumenberg, « Säkularisation » : Kritik einer Kategorie historischer Illegitimität, in Die Philosophie und die Frage nach dem Fortschritt, a cura di H. Kuhn e F. Wiedmann, München 1964, pp. 240-260 ; H. Lübbe, Säkularisierung. Geschichte eines ideenpolitischen Begriffs, Freiburg-München 1965 ; la prima e la seconda parte di H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt a. M. 1966 (poi pubblicate separatamente, in edizione rielaborata ed ampliata, col titolo Säkularisierung und Selbstbehauptung, ivi 1974) ; H. Zabel, Verweltlichung/ Säkularisierung. Zur Geschichte einer Interpretationskategorie, dissertazione, Münster 1968 (un supplemento a questa ricerca è stato pubblicato dallo stesso autore in « Archiv für Begriffsgeschichte », xiv, 1970, pp. 69-85). In rapporto al fenomeno che abbiamo evidenziato appare poi assai significativo il fatto che una parte quantitativamente e qualitativamente ragguardevole delle ricerche sulla secolarizzazione sia quella che indaga la secolarizzazione stessa come un fatto linguistico ; qui, vale a dire, la ricerca terminologica sulla secolarizzazione si sviluppa, non a livello formale, come nel caso delle opere citate precedentemente, bensì a livello contenutistico ; vedasi : A. Schönes, Säkularisation als sprachbildende Kraft. Studien zur Dichtung deutscher Pfarrersöhne, Gottingen 1958 (19682) ; G. Kaiser, Pietismus und Patriotismus im literarischen Deutschland. Ein Beitrag zum Problem der Säkularisation, Frankfurt a. M. 1960 (19732) ; A. Langen, Zum Problem der sprachlichen Säkularisation in der deutschen Dichtung des 18. und 19. Jahrhunderts, in « Zeitschrift für deutsche Philologie. Sonderheft zur Tagung der deutschen Hochschulgermanisten vom 27. bis 31. Oktober 1963 in Bonn », pp. 24-42 ; W. Binder, Grundformen der Säkularisation in den Werken Goethes, Schillers und Holderlins, ibidem, pp. 42-69 ; G. E. Hübner, Kirchenliedrezeption und Rezeptionswegforschung. Zum überlieferungskritischen Verständnis einiger Gedichte von Burger, Goethe, Claudius, Tübingen 1969.
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che « naturale » ; essa presuppone, anzi, la dicotomia natura-storia e ne mostra le conseguenze estreme. Questa situazione, infatti, per un verso, rende estremamente problematico un ritorno alla natura, sia come realtà, sia come concetto (essa, vale a dire, storicizza il concetto stesso di natura) ; per altro verso, mostra come la coscienza storica approdi alla crisi della coscienza. La natura e il concetto di natura vengono storicizzati, la storia e il concetto di storia apparendo di volta in volta il frutto di una caduta, di una colpa, di una malattia. Certamente tale discorso non avrebbe significato qualora al concetto fosse possibile far corrispondere un oggetto preciso (in questo caso la natura e la storia) ; ma la malattia storica si manifesta esattamente nel venir meno della precedenza dell’oggetto rispetto al concetto (quella precedenza che conferirebbe all’oggetto la rassicurante consistenza e identità della cosa in sé) ; di più, la malattia storica si manifesta nel venir meno di quella stessa identità di concetto e oggetto, con l’affermazione della quale, mentre si pretendeva di assicurare per sempre l’identità tout-court (sì che la stessa differenza tra concetto e oggetto era tolta) si tentava in realtà di porre riparo al processo di franamento a cui aveva già dato luogo la nascita della coscienza storica. Questa identità superiore e definitiva, infatti, assumendo la precedenza del concetto sull’oggetto, metteva in moto un processo di differenziazione, al cui termine, anziché lo sperato trionfo dell’identità, ha mostrato di essere il trionfo disgregante della differenza : ormai l’in sé non consiste più, né come realtà (la cosa in sé), né come concetto. Il concetto, divenuto « parola », « termine », o che altro dire si voglia, è originariamente dotato di una esteriorità che mette radicalmente in dubbio la sua significatività nel momento stesso in cui lo costituisce come « per sé ». La precedenza del per sé sull’in sé infatti – quella precedenza per cui il concetto si trasforma in termine, in parola – porta alla vanificazione del sé, e dunque dell’identità : del Selbst, come identità dell’identità e della non-identità. La ricerca ermeneutica del significato è inesorabilmente destinata ad un processo di reduplicazione disgregante ove, dato il principio (la precedenza del per sé), non è più possibile identificare cosa propriamente si è significato nel momento in cui si è pronunziato il termine. Più il processo ermeneutico si sviluppa, più il significato sfugge proprio perché fra il significato originario e la nuova parola interpretativa si interpongono sempre nuove parole, sempre nuove esteriorità. Esteriorità, si badi, di particolare e infetta « natura » : tale esteriorità – l’esteriorità delle parole – infatti è una esteriorità che procede, o dovrebbe procedere, dall’interno : l’esteriorità di un per sé che se, per un verso, non raggiunge la realtà, la cosa in sé, per altro verso nega in partenza l’interiorità, l’in sé del sé, e se ne allontana sempre più acceleratamente, segnando così il trionfo della differenza sull’identità come Selbst. Da questo punto di vista la « storia del concetto » (Begriffsgeschichte), a cui peraltro ogni scienziato seriamente parlante non può oggi sottrarsi, è la storia di una parola : una storia dunque che rappresenta il ribaltamento, la katastrofhv, della storia del concetto nel senso hegeliano del termine ; una storia che mette definitivamente in evidenza la « natura » di quella « storia » che il tentativo idealistico aveva cercato di avviare verso l’identità dell’in sé e del per sé, per rimediare alle conseguenze « catastrofiche » (che già si potevano intuire) del trasferimento dell’in sé dalla realtà al soggetto. La testimonianza offerta dall’idealismo – quella testimonianza (Zeugnis) che lo spirito da a sé di se stesso ; quella testimonianza con cui lo spirito si genera (sich zeugt) e si mostra a se stesso (sich zeigt) 1 – è stata veramente un
1 Alludiamo ad un passo delle lezioni hegeliane sulla storia della filosofia (G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, ed. Glockner, vol. i, p. 105) ; per una analisi di tale passo ci permettiamo di
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« martirio » ; ma il sacrificio della propria vita, che lo spirito ha offerto a sé per testimoniarsi a sé, sembra non essere andato più in là della morte. « Io parlo » – ha osservato con acutezza Foucault in un saggio significativamente intitolato La pensée du dehors 1 – è il contrario di « io penso ». Invero, se il processo di interiorizzazione implicito nell’« io penso » sembrava in grado di fornire definitivamente « chiarezza e distinzione » in virtù del raggiungimento di una identità inconcussa ed autocertificantesi, il processo di este riorizzazione implicito nell’« io parlo » dà luogo ad una opacità per il cui acclaramento si tenta invano di proferire sempre nuove parole. La creazione di quegli ulteriori per sé, che sono le parole proferite, aumenta l’indistinzione ed inspessisce la massa opaca che si interpone fra il parlante e la realtà, vietando che la perdita dell’identità nel processo di esteriorizzazione sia almeno compensata dal raggiungimento di una esteriorità effettiva, di una cosa in sé che garantisca al sapere una effettiva « verifica ». Poiché il grandioso tentativo di stabilire definitivamente l’identità identificando la certezza dell’« io penso » con la certezza del « fare il vero » è crollato, su ogni scienza grava il sospetto dell’ideologia. La Ideologiekritik sostituisce alla teoria della prassi, divenuta sospetta, la prassi della teoria ; in questa, però, la nostalgia del sapere assoluto si manifesta tutte le volte che il riferimento alla totalità viene assunto come il criterio ultimo che assicura ad una teoria il carattere critico. Ma il problema, ovviamente, è proprio quello di vedere se e come sia ancora possibile un riferimento al tutto nel momento in cui la precedenza della prassi sulla teoria pone fra l’interno e l’esterno, il soggetto e la realtà, il privato e il pubblico, lo spessore opaco e sempre accrescentesi di un per sé che paradossalmente disgrega ogni in sé, vietando precisamente quel passo decisivo per la totalizzazione, che consiste nell’identificazione di in sé e per sé, nella instaurazione definitiva e definitoria dell’identità. Una riflessione sulla vicenda della secolarizzazione (del termine e della eventuale realtà che esso designa) può riuscire, al riguardo, molto istruttiva. Non è un caso che il processo di accelerazione, per cui l’interrogativo sul termine viene paradossalmente a coincidere e financo a precedere quello sul fenomeno che esso vorrebbe identificare, si riveli in modo così vistoso nel caso della secolarizzazione, superando di gran lunga, dal punto di vista di una considerazione quantitativa dei fenomeni culturali odierni, la situazione strutturalmente uguale rilevabile a proposito di altri termini/realtà. Questa circostanza, a nostro avviso, ha radici profonde e precisi motivi : per identificarli bisogna considerare innanzi tutto lo status quaestionis relativo al dibattito sulla secolarizzazione. L’abbondante letteratura a cui tale dibattito ha dato luogo può essere divisa in due tipi generalissimi : quello sociologico e quello filosoficoteologico. In entrambi i tipi (che in realtà non mancano talvolta di confondersi) l’interrogativo sul termine si accompagna sempre e si sovrappone a quello sul fenomeno indagato. Noi tuttavia faremo astrazione dalla letteratura sociologica, la quale utilizza il termine di secolarizzazione per designare alcuni fenomeni relativi alla pratica e al comportamento religioso, o, viceversa, tenta di precisare rigorosamente l’accezione del termine « secolarizzazione » mediante un’analisi della pratica e del comportamento religioso intesi come referente empirico di quel termine. Faremo invece riferimento alla letteratura filosofico-teologica, e ciò per precise ragioni che, a nostro avviso, rendono necessaria questa scelta qualora si voglia svolgere un discorso radicale. Dato ciò che si è
rinviare al nostro Testimonianza e Apologetica, in La Testimonianza. Atti del Colloquio, Roma 1972, pp. 396-397 (cfr. supra, pp. 53-80). 1 Vedasi M. Foucault, La pensé du dehors, in « Critique », 1966, pp. 523-546.
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detto fin qui, infatti, appare assai più radicale rivolgersi a quella letteratura in cui, anziché partire, come nell’indagine sociologica, dal fiducioso assunto di una corrispondenza fra la realtà storica e la sua rappresentazione discorsiva (o comunque dall’assunto di una raggiungibilità di tale corrispondenza : senza di che l’indagine sociologica non potrebbe nemmeno venire intrapresa), si prendono le mosse da una posizione che in proposito è assai più problematica. Essa, vale a dire, assume più o meno consapevolmente la problematicità del per sé come fatto linguistico che si interpone fra il parlante e la realtà in sé, rendendo impossibile l’empiria. La preclusione dell’empiria si applica, secondo quanto si è visto, allo stesso parlante in sé, il quale, se per un verso appartiene anch’egli alla realtà, per altro verso è reso irraggiungibile a sé medesimo per il fatto di potersi appropriare della sua stessa realtà solo in quel processo di disappropriazione ed esteriorizzazione che è il discorso. Proprio questa assunzione (che, come si è detto, può essere più o meno consapevole) dà luogo ad un discorso più ampio e generale rispetto a quello sociologico : un discorso che potremmo chiamare storico, non solo in quanto assume a proprio oggetto un ampio arco di tempo (un’intera vicenda storica, che può essere quella dell’« età moderna » o quella del « cristianesimo »), ma anche in quanto assume che la comprensione della storia è frutto di una autocomprensione e che, viceversa, autocomprensione si determina solo ed esclusivamente in base ad una comprensione della vicenda storica che definisce e costituisce il soggetto comprendente. La maggiore ampiezza temporale dell’oggetto tematizzato nel discorso filosofico relativo alla secolarizzazione rispetto a quello tematizzato nell’indagine sociologica è, dunque, solo apparentemente un fatto quantitativo ; in realtà questa maggiore ampiezza risponde, sia pur inadeguatamente, alla necessità di una considerazione totale, soltanto mediante la quale l’aporia del per sé potrebbe essere superata : solo un per sé totale e totalizzante potrebbe ricostituire quell’identità che la precedenza stessa del per sé mette in crisi, ma che resta nondimeno essenziale per porre fine alla proliferazione del significato. La proliferazione del significato è un processo canceroso, un novello ed esiziale cattivo infinito, se il raggiungimento dell’identità nella totalità non è possibile, e dunque se, non un significato, bensì il significato in quanto tale è distrutto nel conflitto delle interpretazioni. È chiaro come quanto andiamo dicendo rappresenti in realtà il problema della filosofia della storia (come philosophische Weltgeschichte). Orbene, la secolarizzazione è precisamente uno dei modi privilegiati in cui oggi si presenta il problema della filosofia della storia ; questo spiega perché la sovrapposizione e la precedenza dell’interrogativo intorno al significato del termine sull’interrogativo intorno al fenomeno che esso tematizza si presenti in modo così vistoso a proposito della secolarizzazione. Il nesso fra secolarizzazione e filosofia della storia è strettissimo e rilevabile a vari livelli : esso va ben oltre il fatto – peraltro non irrilevante – che quando si parla di secolarizzazione si intende comunque riferirsi ad un processo storico, ad una vicenda della cultura e della civiltà occidentale o mondiale. Volendo tipizzare, nelle posizioni emerse nel corso del dibattito sulla secolarizzazione si possono riconoscere tre tesi fondamentali, in ciascuna delle quali l’implicazione di secolarizzazione e storia è pregnante e assume di volta in volta connotati peculiari. La prima tesi sarebbe quella per cui la secolarizzazione rappresenta il prodotto storico del giudeo-cristianesimo : il pensiero giudaico-cristiano della creazione ha per la prima volta portato a vedere il mondo come dominio esclusivo dell’attività e della responsabilità umana, sottraendolo ad ogni considerazione sacralizzante. La secolarizzazione a cui si assiste nell’età moderna, dunque, lungi dal rappresentare uno snaturamento ed
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una perdita del cristianesimo, ne rappresenta il prodotto più autentico e, superando la visione sacrale – in certo senso pagana – del Medioevo, porta per la prima volta a riconoscere nel cristianesimo il « Moderno » in quanto tale. Come a rappresentante eminente di questa tesi si può pensare a Gogarten. 1 È evidente come qui la storia sia implicata nel concetto di secolarizzazione, sia in quanto con esso si fa riferimento ad una vicenda storica (e ad una vicenda storica privilegiata, perché essenzialmente periodizzativa : il cristianesimo inaugura l’era moderna), sia in quanto la secolarizzazione istituisce per la prima volta nella sua autonomia il mondo come ambito esclusivo del fare umano, della libertà e della responsabilità nelle quali la storia umana consiste e si sviluppa. Nella seconda posizione-tipo, antagonistica rispetto alla precedente, l’implicazione di secolarizzazione e storia si fa, nel contrasto, ancora più evidente. Infatti, nel comprendere la secolarizzazione come trasformazione snaturante e inconsistente della visione cristiana, la seconda posizione considera la « intuizione dell’universo come storia » (per usare un’espressione schellinghiana) essenzialmente legata al cristianesimo. L’abbandono del presupposto trascendente ed il contemporaneo mantenimento della visione dell’universo come storia, o, altrimenti detto, il passaggio dalla teologia della storia alla filosofia della storia (intesa in senso pregnante come philosophische Weltgeschichte) rappresenta un fatto morboso, o comunque un fatto che mostra finalmente con chiarezza la natura morbosa della visione dell’universo come storia. Il nesso fra secolarizzazione e storia posto da questa tesi è duplice : da un lato, la storia è un processo culturale all’interno del quale la secolarizzazione rappresenta un fenomeno particolarmente importante ; dall’altro lato, e reciprocamente, la secolarizzazione è un fenomeno culturale al cui interno si pone, come contenuto caratterizzante, la visione dell’universo come storia. Nella misura in cui la seconda posizione-tipo rifiuta la filosofia della storia idealistica, affermando il carattere patologico dell’intuizione dell’universo come storia, essa parrebbe dover negare anche la natura storica del processo di secolarizzazione. Tuttavia nel caso di Löwith – al quale va riconosciuto, per la chiarezza della formulazione e per la fortuna che la sua tesi ha avuto, un valore esemplare – la posizione non è spinta a queste conseguenze estreme : la secolarizzazione è per Löwith un processo, per l’appunto, di cui, come chiaramente documentano i singoli capitoli di Meaning in History, è possibile rintracciare le tappe nella storia del pensiero occidentale. 2 La terza posizione-tipo è, da questo punto di vista, più radicale : il tema della secolarizzazione va sottoposto a critica perché, nel suo far riferimento ad un processo culturale, implica, più o meno surrettiziamente, una visione sostanzialistica della storia. Questa visione – sostiene Blumenberg, rappresentante attualmente assai discusso della terza posizione-tipo – va smascherata ; essa infatti infirma la « legittimità dell’epoca moderna » (Die Legitimität der Neuzeit 3 suona il titolo della sua opera in proposito), inducendo a pensare, giusta il significato giuridico originario del termine « secolarizzazione », all’espropriazione illegittima di un bene culturale che il possessore originario avrebbe
1
Cfr. F. Gogarten, Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit. Die Säkularisierung als theologisches Problem, Stuttgart 1953 ; ma in generale va presa in considerazione tutta la produzione di Gogarten, sia perché essa è caratterizzata da una significativa evoluzione, sia perché ha suscitato una vasta eco, influenzando decisamente la comprensione contemporanea della secolarizzazione. 2 Cfr. K. Löwith, Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History, Chicago 1949. 3 H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, cit. ; noi citeremo dalla seconda edizione dell’opera, che è stata riveduta, ampliata e pubblicata in due volumi autonomi : Säkularisierung und Selbstbehauptung, cit., e Der Prozess der theoretischen Neugierde, Frankfurt a. M. 1973.
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posseduto a giusto titolo. Invece, secondo Blumenberg, l’epoca moderna rappresenta una Selbstbehauptung nella duplice accezione del termine : una affermazione dell’autonomia umana, ed una affermazione autonoma, indipendente dalla teologia cristiana. Se pertanto si deve parlare di illegittimità, questa non riguarda la Neuzeit emancipatrice, bensì la teologia ; invero l’epoca moderna si caratterizza precisamente per il fatto che essa è stata costretta ad affermarsi contro la teologia e le sue pretese, divenute illegittime (o, comunque, avvertite ormai come tali). Non è qui il caso di diffonderci sul modo in cui Blumenberg sostanzia questa sua tesi, rintracciando la crisi della teologia nel nominalismo tardo-medioevale, portatore di un assolutismo teologico che destituisce le cose di ogni senso immanente e sottopone l’uomo ad un insindacabile decreto divino. Qui interessa piuttosto considerare l’intento che ispira Blumenberg nella costruzione del suo discorso e che talvolta sembra dettare la sua comprensione della vicenda culturale europea, più che derivare da una lettura della medesima. Se si dimostra che la visione della storia come processo continuo, come sostanza, non è un elemento essenziale del cristianesimo, un possesso a titolo originario, bensì un elemento assunto successivamente al fine di nascondere il proprio fallimento, la continuità storica è negata non solo fra cristianesimo ed età moderna, ma anche all’interno dello stesso cristianesimo : la visione sostanzialistica, quella visione che avrebbe dovuto affermare una continuità attraverso la tesi della secolarizzazione, lungi dal rappresentare un elemento di continuità fra cristianesimo e Neuzeit – onde ogni pretesa di cristianizzare l’età moderna è illegittima – rappresenta piuttosto un elemento di discontinuità all’interno di quella stessa vicenda storica cristiana che si pretenderebbe unitaria. Ebbene, questo, secondo Blumenberg, è precisamente quanto è avvenuto ; non essendosi verificato l’annichilamento del mondo e della storia – del saeculum – che il cristianesimo primitivo attendeva, si è sviluppata una escatologia, intesa come dottrina che prospetta all’uomo uno spazio di tempo assai più ampio di quello dell’esistenza individuale : una storia per l’appunto. Dunque, non di secolarizzazione dell’escatologia si deve parlare (come era il caso della seconda posizione-tipo qui illustrata), bensì di secolarizzazione attraverso l’escatologia. 2 La teologia della storia è già una perdita dei valori religiosi originari, ed il suo presentarsi in termini cristiani rappresenta una illegittima appropriazione di elementi culturali allotrii, mediante la quale il cristianesimo ha mascherato la sua sostanziale conversione al mondo e alla storia come ambito dell’operare umano : la Chiesa medioevale pregava per il differimento della fine e non per il suo avvicinamento ; il paradiso non ha mai affascinato il cristianesimo ma ha funto solo come prospettiva consolatoria nei confronti del terrore evocato dal suo contrario : dalla prospettiva di quello stesso giudizio di condanna, per il cui differimento la Chiesa innalzava le proprie preghiere. Dall’esame di queste tre posizioni-tipo emerge dunque chiaramente non solo che il concetto di secolarizzazione implica il problema della filosofia della storia, ma anche e soprattutto che parlare di secolarizzazione ha senso solo se una filosofia della storia (nell’implicazione sostanzialistica che questo termine solitamente comporta) è possibile : difendere la validità e la capacità interpretativa dell’idea di secolarizza1
1 Più precisamente – argomenta Blumenberg – parlare di secolarizzazione avrebbe significato qualora ricorressero queste tre condizioni : 1) che fra i due poli, implicati nel processo di secolarizzazione, fosse constatabile una qualche identità ; 2) che fosse dimostrabile la legittimità del possesso originario ; 3) che si desse una espropriazione unilaterale. 2 Cfr. l’intero cap. iv della prima parte dell’opera, intitolato Verweltlichung durch Eschatologie statt Verweltlichung der Eschatologie, in Säkularisierung und Selbstbehauptung, cit., pp. 46-63.
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zione significa difendere la visione sostanzialistica della storia. Da questo punto di vista due fatti, relativi alla polemica di Blumenberg contro la secolarizzazione, appaiono eloquenti. Un primo fatto consiste nelle reazioni suscitate dalle tesi di Blumenberg. Che Gadamer abbia difeso la validità interpretativa del concetto di secolarizzazione, affermando che in esso è presente una « intera dimensione di senso nascosto », è cosa significativa 1 anche se tutt’altro che sorprendente : chi si fa sostenitore di una teoria ermeneutica la quale presuppone, prima ancora della teoria heideggeriana della differenza ontologica, quella hegeliana dello spirito oggettivo, non può per ciò stesso non presupporre, sia pure in atteggiamento critico, una visione « sostanzialistica » dell’accadere storico. Quand’anche la substantia in questione sia quella di un essere non tematizzabile e destinato a rimanere, in quanto tale, nell’oscurità comportata dalla differenza ontologica, essa garantisce un fondamento inconcusso a tutto ciò che viene alla luce nell’accadere degli enti o del linguaggio. Semmai il problema è quello se, facendo a meno di una filosofia della storia – sia pure in questa accezione estremamente critica del termine – non un’intera dimensione di senso più o meno nascosto, ma un senso, un significato in generale sia ancora possibile. Di ciò, però, dovremo occuparci in seguito. Sorprendente invece, oltre che significativa, è la presa di posizione di Löwith nei confronti dell’opera di Blumenberg. Il filosofo recentemente scomparso, il sostenitore di un ritorno alla natura come al vero orizzonte della mutevole, ma anche immutabile, vicenda umana, il radicale nemico della filosofia della storia e l’implacabile sostenitore dell’inconsistenza che caratterizza quest’ultima al di fuori dell’orizzonte teologico in cui essa sarebbe nata, ha reagito alle tesi di Blumenberg osservando che la difesa di un inizio assolutamente originario della Neuzeit, intrapresa con l’intento di affermarne definitivamente la legittimità, comporta una insostenibile visione atomistica e frammentaria dei fatti culturali.2 È chiaro come questa assunzione del principio a nihilo nihil fit comporti precisamente una visione sostanzialistica di quella particolare storia che è la storia della cultura (ma si tratta poi veramente di una storia particolare ? !) ; visione che è precisamente quanto Blumenberg intende dissolvere. Da questo punto di vista, la difesa löwithiana dell’idea di secolarizzazione non smentisce, bensì conferma la pertinenza delle osservazioni fatte dall’autore recensito. Più in generale – ed è questo che qui si voleva sottolineare – l’episodio conferma come la difesa della validità interpretativa dell’idea di secolarizzazione comporti l’assunzione – volens nolens – della filosofia della storia : che ciò avvenga proprio da parte di Löwith è certamente un fatto paradossale, degno di essere meditato. Il secondo fatto significativo in ordine a questa implicazione fra tesi della secolarizzazione e filosofia della storia è fornito dalle osservazioni linguistiche che Blumenberg svolge nell’ambito della sua opera a proposito del termine « secolarizzazione » ; più precisamente : dalle osservazioni che egli, al di là e indipendentemente dalla loro eventuale validità intrinseca, non può non svolgere nella misura in cui vuoi tener ferma la sua decisa condanna della filosofia della storia. Qui torna in discussione la questione del per sé ridotto a mero termine, vale a dire considerato come precedente ogni in sé,
1 Cfr. H. G. Gadamer, recensione a H. Blumemberg, Die Legitimität der Neuzeit in « Philosophische Rundschau », xv, 1968, pp. 201-209 ; Blumenberg ha ripreso e messo in questione l’espressione gadameriana nel ii capitolo della nuova edizione dell’opera, intitolato, per l’appunto, Eine Dimension verborgenen Sinnes ?, in op. cit., pp. 19-34. 2 Cfr. K. Löwith, recensione a H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, in « Philosophische Rundschau », xv, 1968, pp. 195-201.
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tanto quello della realtà quanto quello del concetto. Osservavamo precedentemente che quando la storia del concetto (nel senso hegeliano) diviene storia del termine (nel senso di Begriffsgeschichte), la ricerca ermeneutica del significato è inesorabilmente destinata ad un processo di reduplicazione disgregante. Non si può negare che Blumenberg, pur non essendo mosso da preoccupazioni speculative, abbia visto con lucidità la natura aporetica della Begriffsgeschichte ; il suo discorso riguarda ovviamente il termine « secolarizzazione », ma la messa in luce delle aporie che caratterizzano l’impresa di ricostruire una storia del concetto di secolarizzazione onde determinarne il significato, è generalizzabile ed è da ritenersi valida per la Begriffsgeschichte in quanto tale. Se il caso della secolarizzazione è dotato, in proposito, di particolare evidenza, non è arbitrario ritenere, dato quanto si è detto, che ciò dipenda dalla particolare implicazione di secolarizzazione e filosofia della storia. Vale a dire : la questione del significato della secolarizzazione – come termine e/o come realtà – si fa particolarmente acuta perché l’idea di secolarizzazione è connessa alla filosofia della storia come tentativo filosofico di definire le condizioni alle quali si dà o è possibile che si dia in generale il significato. Onde poter esaminare adeguatamente le osservazioni « terminologiche » di Blumenberg, sarà il caso di ricordare che dopo il lavoro di Lübbe, 1 la storia del concetto di secolarizzazione è stata intrapresa ancora una volta da H. Zabel, nell’« Archiv für Begriffsgeschichte ». 2 Zabel si è proposto nel suo lavoro di esaminare se sia giustificato comprendere il termine « secolarizzazione » in riferimento alla sua originaria accezione giuridica. Che questo sia l’orientamento oggi diffuso non sembra discutibile ; ma Zabel mostra di essere disposto ad accettare questa implicazione del procedimento giuridico nel significato dell’attuale termine « secolarizzazione » solo se riesce dimostrato e dimostrabile un rapporto di effettiva dipendenza genetica fra la denotazione dell’atto di espropriazione e la denotazione dei processi spirituali di mondanizzazione (Verweltlichung). Dal momento però che il risultato della sua ricerca è decisamente negativo in proposito, vien fatto di chiedersi se tale risultato non infirmi la stessa impresa della Begriffsgeschichte, almeno in riferimento al termine « secolarizzazione ». Se l’accezione giuridica del termine e le sue trasformazioni non sono in grado di fornire l’elemento comune ed identificante della sua storia, dovrebbe essere possibile, affinché una vera storia del termine possa essere giustificatamente ricostruita come processo unitario, trovare altrove l’accezione di fondo unificante. Ma nell’opera di Zabel la messa in evidenza delle utilizzazioni affatto eterogenee del termine « secolarizzazione » sembra escludere, paradossalmente, proprio queste possibilità. Non stupirà, allora, che Blumenberg possa criticare l’incongruenza e la contraddittorietà della Begriffsgeschichte relativa al termine « secolarizzazione ». Essa, per un verso, tende a precisare univocamente il significato del termine attraverso la storia ; per altro verso, approda alla messa in evidenza di un uso metaforico del termine nelle fasi estreme della sua utilizzazione, e cioè approda ad un risultato che smentisce la pretesa unitarietà della storia del termine e la possibilità di precisare l’accezione di questo mediante la ricostruzione storiografica. 3 In verità, « non l’uso è metaforico, bensì l’orientamento nella
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H. Lübbe, Säkularisierung. Geschichte eines ideenpolitischen Begriffs, cit. Propriamente nell’« Archiv für Begriffsgeschichte » è stato pubblicato il già citato supplemento alla dissertazione di Zabel, anch’essa citata. 3 « So scheint die begriffsgeschichtliche Forschung zu „Säkularisierung“ ein widerspruchsvolles Resultat zutage gefördert zu haben : einerseits präpariert sie einen Prozess heraus, der auf Terminologisierung im Sinne der Eindeutigkeit des Begriffsgehaltes und damit auf methodische Präzisierung tendiert, andererseits 2
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costruzione del concetto ». Assisteremmo qui a un caso di « metaforismo implicativo » o di « metaforismo di sottofondo » : secondo l’apologeta della Neuzeit, l’acutizzazione di un uso vagamente esortativo e lamentativo porta a ricordarsi del procedimento giuridico della secolarizzazione e ad includerlo nella nuova e diversa accezione del termine, onde accentuarne l’implicito carattere di condanna, di messa in evidenza dell’illegittimità che qualifica il processo storico denotato. Ma questo metaforismo implicativo non giova alla precisazione del significato del termine ; esso anzi deve essere lasciato cadere in sede definitoria, in sede di « terminologizzazione », pena l’inevitabile caduta in definizioni che non definiscono e in una reale indeterminatezza sotto le false apparenze di una precisa determinatezza (ciò che Blumenberg esemplifica brillantemente esaminando le definizioni del termine « secolarizzazione » fornite dai lessici). Queste osservazioni sono certamente giustificate e, dato quanto abbiamo detto, non possiamo non condividere la domanda retorica che Blumenberg si pone all’inizio della sua disamina terminologica : « la Begriffsgeschichte è l’unica sufficiente determinazione per lo status del concetto ? ». 2 Si tratta però di vedere se questa domanda, una volta presa sul serio, non porti a delle conseguenze che sono assai lontane dalle intenzioni di Blumenberg, riproponendo problemi che egli voleva aver tacitato una volta per tutte. La domanda infatti è retorica, e dunque perentoria e radicale nella risposta negativa che essa implica, ma non è altrettanto radicale nel modo in cui è formulata. Questo modo, infatti, evitando di affrontare la questione di principio, sembra non escludere che la storia del concetto possa costituire uno dei criteri per legittimare l’uso del termine di un determinato senso. La langue, per esprimerci saussurianamente, non spiega l’originalità della parole, ma è purtuttavia uno degli elementi che ne determina il significato ed è pur sempre la condizione negativa della sua stessa originalità : senza di essa, infatti, nemmeno il significato innovativo o dirompente della parole sarebbe possibile. Ma questo verisimilmente è già più di quanto Blumenberg sarebbe disposto ad ammettere o, meglio, dovrebbe essere disposto ad ammettere. Una visione del genere, infatti, comporta proprio quel presupposto sostanzialistico che il rifiuto radicale della filosofia della storia impone di respingere. Sarà il caso di dire allora che – posto il rifiuto della storia come sostanza – la storia del concetto non è per nessun termine, né da sola né unita ad altri criteri di riferimento, un elemento di legittimazione del significato del termine in questione o, altrimenti detto, un elemento capace di individuare, sia pur imprecisamente, il significato del termine in questione. Siffatta tesi radicale non può certo dispiacere a chi, animato da un fiero intento apologetico nei confronti della Neuzeit, mira precisamente a destituire di legittimità il termine « secolarizzazione » colpendo a morte quella filosofia della storia che esso implica in sé. Ma quali sono le conseguenze di una visione di questo genere allorché essa venga estesa – come non può non esserlo se vuole davvero presentarsi come valida – agli altri termini, alle altre parole, nei confronti della cui significatività non si voglia e non si possa assumere un atteggiamento negativo ? Quanto più l’illegittimità è trasferita dall’epoca moderna al termine « secolarizzazione », tanto più l’apologia della Neuzeit può dirsi riuscita. 3 Ma è evidente che qui il ter1
beschreibt sie die späte Phase dieses Prozesses als die eines metaphorischen Gebrauchs » (H. Blumenberg, Säkularisierung und Selbstbehauptung, cit., pp. 30-31). 1 Op. cit., p. 31. Per le precedenti ricerche, alle quali i problemi e i termini qui utilizzati fanno riferimento, vedasi H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, Bonn 1960, specie pp. 69-83. 2 Cfr. H. Blumenberg. Säkularisierung und Selbstbehauptung, cit., p. 29. 3 Säkularisierung. Kritik einer Kategorie des geschichtlichen Unrechts suona il titolo della prima parte dell’ope
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mine « legittimità » si pone in una relazione strettissima, ancorché non esplicitata, con il termine « significatività ». Se la storia della parola non « legittima » il significato secondo il quale essa è effettivamente usata, è certamente illegittimo usare la parola in funzione interpretativa della sua stessa storia. Quando però, come nel caso della secolarizzazione, il significato del termine è precisamente quello di interpretare sostanzialisticamente la storia della cultura, la distruzione della sostanzialità della storia della cultura (in generale e in quel suo specifico aspetto che è la storia del termine « secolarizzazione »), comporta la dissoluzione del preteso significato del termine e del significato in quanto tale. La secolarizzazione, in quanto implica la filosofia della storia, si riferisce alle condizioni alle quali una significatività è ultimamente possibile. Solo in un quadro di filosofia della storia può essere pensato il divenire per sé (cioè significativo) dell’in sé. Di più, solo in un quadro di filosofia della storia si può assumere che l’in sé venga finalmente (alla fine) costituito : dopo che l’in sé – prima ob-jectum e poi sub-jectum – è stato dissolto dall’affermazione della precedenza del per sé, la sua costituzione può essere pensata solo come il prodotto della totalizzazione del per sé. Tale totalizzazione, mentre costituisce per la prima volta l’inseità, la costituisce, in virtù del suo carattere totalizzante, come identità col per sé, instaurando così il regno del significato. In questo senso parlare di visione sostanzialistica della storia non è sufficiente (e per questo noi abbiamo preferito parlare di filosofia della storia, nella accezione stretta di philosophische Weltgeschichte) ; la sostanzialità, infatti, è subordinata alla condizione della totalizzazione e si dà per la prima volta soltanto in essa. Ma la secolarizzazione (la realtà e/o il termine) implica precisamente una visione sostanzialistica della storia, in cui si abbandona quel precedente riferimento teologico che – comunque lo si debba definire – funzionalmente assolveva precisamente al compito di garantire la totalizzazione. Nel momento in cui tale garanzia è abbandonata mediante l’affermazione autonomistica, il termine scavalca la realtà, facendo sorgere il dubbio sulla realtà che corrisponde al termine, il dubbio sulla « natura » della « storia » e, dunque, il dubbio sull’effettivo raggiungimento di quella totalizzazione, la quale soltanto fornisce alla storia inseità, rendendola natura. Ma un dubbio siffatto, in quanto verte sull’identità del per sé culturale (che è il per sé in quanto tale) con l’in sé, è il dubbio che verte sulla stessa possibilità del significato. La secolarizzazione implica veramente, secondo l’espressione di Gadamer, una intera dimensione di senso nascosto. Affermare ciò, da parte nostra, non rappresenta affatto un’apologia del termine « secolarizzazione » (sulla cui significatività – dato quanto si è detto sul termine stesso e, più in generale, sulla natura dell’« io parlo » – siamo appunto dubbiosi) ; con ciò, invece, intendiamo affermare che le indiscutibili aporie del termine « secolarizzazione » lasciano apparire le difficoltà in cui si dibatte il problema del significato nella nostra situazione culturale. Con ciò, però, il significato consiste almeno come problema ; se si dice che il senso della secolarizzazione è un’intera dimensione di senso nascosto, noi usiamo questa espressione in modo particolare e pregnante : l’interezza della dimensione va intesa come l’interezza del problema stesso del significato, e il nascondimento di questo va inteso come l’unico modo in cui oggi il significato, divenuto problematico, può venire alla luce. Nel mostrarsi come nascosto, il significato vive la malattia mortale di cui è affetto ; ma morire la morte è, almeno, un modo per sopravvivere, negando il valore escatologico della katastrofhv.
ra di Blumenberg (titolo che riprende, con qualche interessante variante terminologica sulla quale qui non è il caso di soffermarci, il titolo del saggio del 1964 pubblicato in Die Philosophie und die Frage nach dem Fortschritt, cit.).
Enrico Castelli : un maestro*
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N
on a tutti è dato di trovare un Maestro ; o meglio, non a tutti è dato di trovarsi grazie ad un Maestro. Perché Maestro non è chi consente all’allievo di impadronirsi di determinate tecniche, o chi impone il proprio daimon creando ripetitori più o meno fedeli. Maestro è colui che risveglia il daimon dell’allievo consentendogli di trovare se stesso ; Maestro è colui che instancabilmente tiene desto l’allievo, costringendolo a realizzare se stesso. Questo è stato per me Enrico Castelli. Questo è per me Enrico Castelli : l’assenza fisica infatti acuisce il senso della sua presenza, e il daimon di Enrico Castelli continua, con vivacità spirituale e imperitura, a vivere nell’intimo dell’allievo. L’intimo non si identifica con l’esclusivo : così ha avvertito icasticamente Castelli nella seconda edizione di Pensieri e giornate (« diario che non avrebbe significato se l’intimo si identificasse con l’esclusivo ») ; l’intimo, anzi, come insegna colui che con tutta la sua opera intellettuale ha combattuto il solipsismo, è la condizione di possibilità di quella comunicazione che, nel rispetto dell’alterità, invera l’identità di ciascuno. È per questo che, nel presentare gli Atti dell’ultimo convegno realizzato e presieduto da Enrico Castelli, mi dichiaro ancora una volta, con orgoglio immenso e con infinita umiltà, allievo di Enrico Castelli : les congrès Castelli – come la pubblicistica colta di tutto il mondo aveva preso l’abitudine di chiamarli – o i « Colloqui », come Egli, significativamente, soleva chiamarli, sono, invero, il segno più alto della sua vasta e tutt’altro che « esclusiva » opera magistrale ; una cerchia sempre più ampia di studiosi di altissimo livello ha trovato in questi Colloqui romani la sollecitazione a tener desto il proprio spirito filosofico e l’occasione, annualmente rinnovata, per una verifica dialogica del proprio pensiero. Come ho fatto presente in una lezione commemorativa tenuta all’Università di Roma da quella cattedra di Filosofia della religione che Enrico Castelli ha illustrato con trenta anni di insegnamento (1940-1970), il segno più convincente e dimostrativo, meglio : estensivo, dell’importanza di un pensatore e della vitalità del suo insegnamento, non è la commemorazione, l’anamnesi occasionale, esclusivamente celebrativa di alcunché di passato, bensì il ricordo che scaturisce dal presente, cioè dalla presenza effettiva del pensiero di un filosofo nella quotidianità abituale del dibattito culturale. Questo osservavo, commentando il significato del fatto che nel programma di « Filosofia della religione » degli studenti dell’ateneo romano è presente l’opera castelliana La critica della demitizzazione. Ma quest’opera, come i partecipanti ai Colloqui di Roma ben sanno, è insieme la matrice e il frutto di tali Colloqui. Con un singolarissimo procedimento, essa si è formata, attraverso più di un decennio, mediante le « introduzioni » che Enrico Castelli era solito inviare agli invitati al Colloquio, suscitando nel loro animo una serie di interrogativi. Nel dare risposta a tali interrogativi, nel prendere posizione sui problemi suscitati da Castelli, veniva a configurarsi e a sostanziarsi il pluralistico ed unitario contributo dei partecipanti al tema annualmente posto in discussione. E dai contributi presentati ad ogni convegno lo spirito castelliano traeva spunto a sua volta per una ulteriore problematizzazione, che veniva condensata e proposta in una serie di interrogativi incalzanti nell’introduzione al Colloquio successivo. I Colloqui dunque,
* L’ermeneutica della filosofia della religione, a cura di Enrico Castelli, « Archivio di Filosofia », xlv, 2-3, 1977, pp. xiii-xvi.
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dal primo su « Il problema della demitizzazione » (1961) fino a quello, annunziato da Castelli stesso per il 1978, su « Nuovi aspetti della demitizzazione religiosa e politica », 1 appartengono essenzialmente all’opera di Enrico Castelli. Nel dire ciò, non intendo, genericamente, che essi rientrano nell’attività culturale castelliana, ma, specificamente, che essi fanno parte dell’opera omnia in cui, affidandosi al mezzo scritto, si riassume e si perpetua la produzione intellettuale di un autore. È questo un caso unico che dovrà essere preso in considerazione – anche in vista dei problemi tecnici che esso, nella sua singolarità, comporta – allorquando si affronterà il problema dell’edizione delle « Opere complete » di Enrico Castelli. In effetti, nelle sue varie fasi – da quella teoretica e storicocritica giovanile, a quella diaristica, a quella esistenzialistica, a quella demitizzante 21– il
1 Dei Colloqui internazionali sulla demitizzazione gioverà ricordare la sequenza problematica : 1961 « Il problema della demitizzazione » ; 1962 « Demitizzazione e Immagine » ; 1963 « Ermeneutica e Tradizione » ; 1964 « Tecnica, Escatologia e Casistica » ; 1965 « Demitizzazione e Morale » ; 1966 « Mito e Fede » ; 1967 « Il mito della pena » ; 1968 « L’ermeneutica della libertà religiosa » ; 1969 « L’analisi del linguaggio teologico : il nome di Dio » ; 1970 « L’infallibilità. L’aspetto filosofico e teologico » ; 1971 « La Teologia della Storia » ; 1972 « La testimonianza » ; 1973 « Demitizzazione e Ideologia » ; 1974 « Il Sacro » ; 1975 « Temporalità e Alienazione » ; 1976 « Ermeneutica della Secolarizzazione » ; 1977 « L’ermeneutica della filosofia della religione ». Nella seduta di chiusura di questo ultimo Colloquio Enrico Castelli ha, appunto, annunziato il tema del nuovo incontro : « Nuovi aspetti della demitizzazione : religione e politica » ; ed ha aggiunto un significativo commento, che riportiamo, tratto da un suo appunto inedito, perché esso rappresenta certamente il nucleo di quella introduzione che Castelli, se avesse vissuto, avrebbe inviato ai partecipanti al futuro colloquio : « L’attualità della filosofia della religione ha un’origine precisa nel rinnovamento di una problematica già tramontata con il tramonto del modernismo, ma che la “teologia politica” ha ripresentato come un’esigenza nuova. Non si tratta di nuovi aspetti di una religione che non può sottrarsi alle polemiche sul significato dell’azione politica ; si tratta piuttosto della pressione esercitata nell’ambito della religione da considerazioni sociali che l’indagine psicologica registra e che non possono essere evitate. Se ieri in prima linea era il problema della guerra, oggi c’è quello della liceità di dare la morte in determinate circostanze (aborto, eutanasia...). Ieri il problema della proprietà individuale, oggi di quella pubblica. Ieri il problema della giustizia, oggi quello dell’ingiustizia in un mondo fondamentalmente ingiusto. Oggi il problema del significato (signification e signifié) e il problema di una possibile “partecipazione” al di là del linguaggio ». 2 Ogni periodizzazione ha, ovviamente, un valore approssimativo (e approssimante). Tuttavia la periodizzazione qui proposta relativamente all’opera castelliana è nitidamente rintracciabile in re, ed è in grado di mostrare l’articolazione unitaria del discorso svolto da Castelli attraverso l’intero sviluppo della sua attività intellettuale. Tale articolazione unitaria risulta evidente se solo si tengono presenti le opere pubblicate in ciascuna delle fasi che qui ho distinto : nel primo periodo, quello teoretico e storico-critico, compaiono : Filosofia della vita. Saggio di una critica dell’attualismo e di una teoria della pratica, Roma 1924 ; Laberthonnière, Roma 1927 ; Filosofia e apologetica, Roma 1929 ; Idealismo e solipsismo, Roma 1933. Nel secondo periodo, che ho chiamato, lato sensu, diaristico, perché in esso le opere di Castelli traggono, anche dal punto di vista della forma, le conseguenze della critica al solipsismo gnoseologistico, appaiono : Introduzione alla vita normale, Roma 1935 (con lo pseudonimo di Harry Glower) ; Introduzione alla vita delle parole, Milano 1938 (con lo pseudonimo di Dario Reiter) ; Commentario al senso comune, Milano 1940 (con lo pseudonimo di Dario Reiter) ; Preludio alla vita di un uomo qualunque, Milano 1941 (con lo pseudonimo di Dario Reiter) ; Impressioni di viaggio, Firenze 1941 ; L’esperienza comune, Milano 1942 ; Pensieri e giornate, Roma 1945 ; Il tempo esaurito, Milano-Roma 1947 ; Introduzione a una fenomenologia della nostra epoca, Milano-Roma 1948. Il periodo, per così dire, esistenzialistico, mettendo a frutto i risultati del lavoro precedente e giovandosi di una nuova temperie culturale, ormai disposta ad ascoltare un nuovo tipo di discorso filosofico, vede opere di grande originalità, come : Existentialisme théologique, Paris 1948 ; Filosofia e dramma, Firenze 1949 ; I presupposti di una teologia della storia, Milano 1952 ; Il demoniaco nell’arte, Milano-Firenze 1952 ; L’indagine quotidiana, MilanoRoma 1956 (che riprende opere del periodo diaristico). Le opere dell’ultimo periodo si collocano tutte negli ultimi anni della vita di Castelli ; ma l’intervallo fra le ultime opere del periodo precedente e la prima opera del periodo « demitizzante » (come lo abbiamo chiamato) non deve indurre a pensare ad un vuoto di operosità : i volumi apparsi da ultimo (Il tempo invertebrato, Padova 1969 ; I paradossi del senso comune, Padova 1970 ; La critica della demitizzazione, Padova 1972 ; Il tempo inqualificabile, Padova 1975) pubblicano scritti composti
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pensiero castelliano, e la produzione in cui il medesimo si è espresso, presentano una continuità ed una unitarietà assolute, in ragione del motivo antisolipsistico e della corrispettiva proposta del « senso comune », ricercato attraverso un atteggiamento sempre più marcatamente socratico. Di questo socratismo sospinto al limite, l’ultimo periodo dell’opera castelliana rappresenta il prodotto ed il lascito spirituale. In virtù di tale lascito, il daimon castelliano continuerà a vivere e ad unificare nel problema ; nel « senso comune » di chi ricerca spregiudicatamente la verità, nel con-sentire dell’ambiente culturale internazionale, creato mediante i Colloqui romani, lo spirito di Enrico Castelli continuerà la sua opera magistrale.
da Castelli anche in quell’intervallo di tempo ; in particolare, poi, La critica della demitizzazione raccoglie, come si è detto, il materiale elaborato nel corso dell’ultima grande « opera » castelliana – i convegni sulla demitizzazione, per l’appunto – avviata precisamente in quegli anni di apparente intervallo.
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IL SENSO « COMUNE » TRA COLLOQUIO E PARADOSSO LINEE PER UNA INTERPRETAZIONE DEL PENSIERO E DELL’OPERA DI ENRICO CASTELLI*
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esto è per me uno dei momenti più significativi della mia vita ; certo è il mou mento più significativo e solenne della mia vita intellettuale (dico intellettuale per intenderci, anche se il termine, in sé, è troppo restrittivo) : il momento in cui mi compete non tanto di com-memorare, di far memoria con gli altri, con voi, del mio Maestro, sibbene di esprimere, di esplicitare per mezzo di parole, funzionando in qualche modo come strumento materiale, così come il corpo esprimerebbe sensibilmente l’anima, la presenza di Enrico Castelli qui, nel suo congresso, nel suo milieu di amici, nel milieu dei suoi amici riuniti nel Colloquio annuale, che anch’esso è espressione sensibile dello spirito vivente di Castelli. Non si tratta dunque di un fatto privato se dico che questo è il momento più solenne e significativo della mia vita, perché, al contrario, in questo momento mi tocca di dare una dimensione pubblica a quel rapporto – che prima era privato – fra l’ispiratore e il discepolo, fra il Maestro e colui che, grazie all’ispirazione continua dello spirito del Maestro, è chiamato ad essere se stesso. Non commemorazione, dunque, anche se la povertà e l’inadeguata esteriorità del linguaggio ufficiale richiede che così si dica nei programmi e nei cartoncini d’invito, ma constatazione, fra noi, della presenza di Enrico Castelli e della vivente, della vivacissima, della perdurante vitalità della sua opera, delle sue iniziative, del suo Istituto di Studi filosofici. Questa constatazione che noi stiamo facendo, questa realtà di cui noi qui siamo la prova e a cui l’allievo sta prestando voce è di una evidenza esterna così luminosa, è di una forza interiore così prorompente che noi non possiamo ancora una volta, anche quest’anno, non inchinarci di fronte alla presenza magistrale di Enrico Castelli, rimanendo ammirati di fronte alla sua opera e al suo pensiero. Questo convegno che, come i precedenti, è sua opera, è ben significativo del rapporto strettissimo, o meglio dell’identità di pensiero e opera, di pensiero e attività, di pensiero e vita in Castelli. Mi spiego : già il primo volume castelliano, del 1924 (egli aveva dunque ventiquattro anni) era intitolato Filosofia della vita e recava per sottotitolo « Saggio di una critica dell’attualismo e di una teoria della pratica ». Dunque, fin dall’inizio il pensiero castelliano era alla ricerca di un modo di filosofare che, non rinnegando la vita per l’astratto pensiero, congiungesse la teoria e la pratica in un’unità più profonda e più vera di quella che pretendono di raggiungere le filosofie gnoseologistiche e accademiche. A queste filosofie Castelli rimproverò fin dall’inizio l’inevitabile esito solipsistico : la dottrina del soggetto unico – come è dato vedere in Idealismo e solipsismo del 1933 – rappresenta l’approdo inevitabile di coloro che hanno optato per l’albero della scienza a danno dell’albero della vita, approdo tanto più inevitabile in quanto proprio costoro si fanno sostenitori della stringenza logica e della consequenziarietà.
* Religione e politica, a cura di Marco M. Olivetti, « Archivio di Filosofia », xlvi, 2-3, 1978, pp. 17-24.
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Non è qui il caso di soffermarci su eventuali ascendenze o influssi di Varisco sul pensiero castelliano (che peraltro è un pensiero assolutamente originale) ; ciò che in questo momento voglio dire, piuttosto, è che l’unità di pensiero e opera, in Castelli, si congiunge essenzialmente con il motivo anti-solipsistico e comunicativo ; onde quella sua grande opera che sono i convegni romani, in tutto il mondo giustamente noti come « Colloqui Castelli », quella sua opera che oggi Egli prosegue vitalmente e che noi proseguiamo nel suo nome, appare l’esito più coerente del suo pensiero operoso e della sua vitalità pensante. Esito coerente di un pensiero ed una pratica ove, però, la coerenza non è costrizione ed eliminazione dell’altro (per identificazione o distruzione della sua alterità), bensì ricerca infaticabile delle testimonianze altrui in tutto ciò che esse, come testimonianze, hanno di personale e irriducibile. Castelli ha sempre nutrito la convinzione che l’intesa si stabilisca non in virtù dell’identità di contenuti intellettuali, bensì in virtù dell’autenticità, cioè della buona volontà e della buona fede, che si convertono immediatamente in volontà e fede buone. Il crearsi dell’intesa non esclude dunque, ma presuppone e conserva la diversità : io credo che veramente in nessun altro caso come in quello di Castelli l’organizzazione di « Colloqui » – come egli ha sempre voluto che si chiamassero, rifiutando il nome di convegni, congressi – abbia avuto un significato filosoficamente così preciso nell’implicarsi reciproco di pensiero e azione, o meglio opera, e nel nesso essenziale che questa implicazione ha a sua volta con il motivo antisolipsistico. Ma c’è anche un altro motivo, oltre a quelli ricordati, che contribuisce a definire il significato filosofico preciso e peculiare di questa opera castelliana a cui adesso noi ci accingiamo ancora una volta, vale a dire i Colloqui, ed è il motivo che genericamente possiamo chiamare di filosofia della religione. Il fatto che l’opus magnum dei Colloqui costituisca sempre una problematizzazione filosofica di temi religiosi non è accidentale ; non si tratta della scelta di un tipo di temi fra i tanti possibili, importante finché si vuole, ma comunque fungibile, o quanto meno legato agli interessi personali e puramente soggettivi di chi di questi Colloqui si è fatto promotore. In Castelli quel superamento della tentazione solipsistica che approda, nello stretto legame di pensiero e opera, alla promozione di colloqui, è un superamento il quale necessariamente si attua nel recupero del problema religioso. Le ragioni per cui in Castelli una filosofia che non voglia essere solipsistica tende a configurarsi in termini di filosofia della religione sono molteplici, anche se strettamente collegate fra loro. Ho già utilizzato le immagini dell’albero della scienza e dell’albero della vita : vale a dire che Castelli pensa la filosofia della vita sullo sfondo del tema cristiano della caduta. Il discorso luciferino che assolutizza se stesso escludendo gli altri è la causa della caduta e, nella esclusione della caritas, è il segno dello status naturae lapsae. Ma questo riferimento al tema della caduta, che nell’opera I presupposti di una teologia della storia del 1952, trova la sua elaborazione più affascinante ed originale – originalissima per contenuti e per metodo dell’indagine, oltre che per stile, anche se si tratta di un tema che, dall’idealismo tedesco a Chestov, Castelli ha presente nelle sue diverse utilizzazioni filosofiche – questo riferimento al tema della caduta, dunque, comportando una condanna del discorso consequenziario in quanto esso si voglia assolutizzare, porta anche al recupero del mistero, del mito, del soprannaturale : cioè di tutti quei termini che Castelli considera costitutivi della dimensione religiosa. Il recupero di questa dimensione non è, o non è soltanto, gnoseologico, vale a dire non è soltanto la messa in luce di zone caratterizzate da una diversa conoscibilità, o di zone sottratte alla conoscibilità ; non per nulla ho tanto insistito sulla
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contrapposizione castelliana fra albero della conoscenza e albero della vita : il recupero di queste dimensioni implica una filosofia appassionata, una filosofia che – per riprendere i termini della polemica kierkegaardiana contro Hegel, ai quali Castelli stesso fa riferimento – vuole e deve essere edificante, una filosofia ove l’interesse per il religioso è l’interesse, non per una religione illuministicamente definita nella sua essenza ed esaurita da questa definizione concettuale, bensì interesse per le concrete esperienze religiose e per le religioni storiche, interesse apologetico anche, o quanto meno una filosofia per la quale l’apologetica rappresenta un problema non eludibile : possiamo ricordare a questo proposito altre opere del giovane Castelli, dalla monografia del 1927 su Laberthonnière – pensatore del quale Castelli pubblicò anche degli inediti, e precisamente La société spirituelle, essendo in contatto strettissimo con Canet, il depositario del lascito di Laberthonnière – agli studi blondeliani di Filosofia e apologetica del 1929. Ma non vorrei che la messa in evidenza di tutti i motivi per cui i Colloqui romani, e questo stesso a cui noi stiamo partecipando, appartengono stricto sensu agli opera omnia di Enrico Castelli – abbiamo detto : la stretta implicazione di pensiero e attività, la ricerca del senso comune al di là della tentazione solipsistica, la dimensione di filosofia della religione in cui necessariamente tutto ciò si configura – non vorrei che questa messa in evidenza, avendo fatto riferimento ai primissimi volumi di Castelli e avendo congiunto il presente che stiamo vivendo ora con un passato ormai remoto, desse l’impressione di una mancanza di evoluzione o di una staticità intellettuale. Noi tutti conosciamo troppo bene Enrico Castelli per non renderci conto che la staticità intellettuale è certamente la caratteristica che meno si attaglia alla sua genialità sempre creativa e sorprendentemente vivace. In realtà, come ho già scritto altra volta, nello sviluppo del pensiero e dell’opera castelliana si possono individuare con sufficiente precisione quattro fasi, che approfondiscono via via i temi inizialmente individuati e ne traggono le conseguenze in modo sempre più originale, tanto dal punto di vista dei contenuti quanto dal punto di vista dello stile o, più radicalmente, delle forme espressive che essi utilizzano per veicolare adeguatamente l’originalità di quei contenuti. Dopo la prima fase giovanile, che ho ormai ampiamente ricordato, Castelli trae le conseguenze dei temi affrontati in sede speculativa e storiografica, pubblicando una quantità di opere, in parte pseudonime (la critica era convinta che Dario Reiter fosse un tedesco morto prematuramente !), e tutte letterariamente molto suggestive, in cui, dal punto di vista dei contenuti, si mettono a fuoco temi come il senso comune che accomuna, per l’appunto, i soggetti plurimi al di là e prima della conoscenza ; come l’importanza dell’esperienza comune, quotidiana, banale anche ; come il valore evocativo delle parole : Castelli è sempre stato molto ironico nei confronti della pretesa inseità del concetto, e invece ha sempre insistito sulla parola e sul significato evocativo delle parole ; « il significato dell’evocazione è l’evocazione del significato », egli amava dire, con quel chiasmo che è tipico del suo modo di pensare e che per l’appunto nasce da un atteggiamento profondamente ironico o, se si vuole, scettico nei confronti della capacità identificante del pensiero logico e concettuale. Introduzione alla vita delle parole è il titolo molto eloquente di una delle opere di questo secondo periodo ; periodo che, in considerazione delle forme attraverso cui principalmente si esprime, chiamerei diaristico (la diaristica filosofica è uno dei temi prediletti di Castelli, il quale a tale tema ha dedicato anche un fascicolo monografico della rivista « Archivio di Filosofia ») ; ma è chiaro che una divisione troppo netta e artificiosa tra for
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ma e contenuti, se è sempre dubitabile, lo è in modo particolare nell’opera castelliana : la diaristica non è certo un semplice stile o vezzo letterario per un pensiero che ha fatto della critica al solipsismo logico-scientifico e dell’affermazione del senso comune uno dei suoi cavalli di battaglia. Alcuni volumi di questo periodo diaristico, dal titolo molto indicativo, sono, ad esempio, Introduzione alla vita normale, Commentario al senso comune, Preludio alla vita di un uomo qualunque, L’esperienza comune, Pensieri e giornate, Introduzione a una fenomenologia della nostra epoca e il famoso Tempo esaurito (Le temps harcelant della traduzione francese, Die versiegte Zeit della traduzione tedesca). Questo periodo che, grosso modo, va dal 1935 al 1948, prosegue e sfuma, per così dire, in quello che possiamo chiamare periodo esistenzialistico, cioè in un periodo nel quale Castelli può finalmente giovarsi di una nuova aria intellettuale che ormai si respira in Italia, dopo che il monopolio neoidealistico è stato spazzato via dalla tragedia bellica e la cultura italiana è disposta ad ascoltare un nuovo tipo di discorso filosofico e quindi ad apprezzare con rinnovata sensibilità le critiche castelliane all’idealismo nelle sue forme vecchie e nuove. Castelli, che è sempre stato uno spirito europeo, se vogliamo internazionale – ancora una volta noi stiamo qui a dimostrarlo – si inquadra perfettamente nella nuova disponibilità della cultura italiana ad uscire dalla propria esclusiva tradizione filosofica nazionale e ad ascoltare le fresche suggestioni che provengono da diverse aree culturali. Existentialisme théologique, tanto per fare un esempio, è un’opera che Castelli pubblica direttamente in Francia. D’altro canto anche all’estero la figura di Castelli è ormai affermata e, attraverso traduzioni, vengono subito internazionalmente apprezzate in tutta la loro importanza nuove opere come I presupposti di una teologia della storia e Il demoniaco nell’arte. L’approfondimento e la radicalizzazione dei temi castelliani è evidente : in tutte le opere di questo terzo periodo, testé ricordate, non solo la diaristica trapassa e si esplicita in filosofia dell’esistenza, ma viene anche esplicitato e tematizzato vigorosamente quel tema del male e dello status naturae lapsae, quella perdita dell’edenismo, quella tentazione del demoniaco e del serpentino (che è la tentazione del discorso coerente e luciferico non meno che la tentazione dello stravolto, dell’inconsistente e della maschera) i quali rappresentano i veri presupposti filosofici di una teologia della storia. Si tratta di una visione della storia tesa fra la nostalgia di un mondo perduto e l’attesa di una salvezza proveniente come gratuità assoluta e razionalmente non deducibile, semmai anticipabile o anticipata nella caritas, nell’opera approssimante a quel prossimo, che la deduzione logica e necessaria esclude. Inutile dire che questa radicalizzazione tematica ha un suo corrispettivo nella radicalizzazione espressiva. Mentre per un verso, mediante una concreta fenomenologia dell’alienazione mentale, Castelli mette in evidenza la coerenza discorsiva della follìa, per rilevare così indirettamente la follìa del discorso consequenziario e il suo necessario crollo babelico, schizofrenico, per altro verso le forme espressive non concettuali, ma artistiche o per immagini rivelano tutta la loro importanza filosofica. La pittura dei « pittori teologi », come Castelli chiama Bosch, Bruegel ecc., è dunque ben più significativa, filosoficamente, di un discorso concettuale, o preteso tale, ed è assai meglio di questo in grado di esprimere, attraverso l’immagine – l’immagine fantastica – lo status fondamentale dell’esistenza e il significato della medesima. Ma queste, si potrebbe dire, sono considerazioni che riguardano solo impropriamente la radicalizzazione espressiva, perché questi diversi modi di espressione sono ancora l’oggetto, il contenuto del discorso filosofico di Castelli, non la sua forma. Ebbene questo non è vero ; ancora una volta il come e il cosa, il pensiero e l’opera espressiva
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sono in Castelli indissolubilmente legati. Mentre dunque egli prosegue i suoi studi di filosofia dell’arte (più tardi pubblicherà Simboli e immagini), e ne cura anche l’approfondimento teorico (egli dedicherà, per esempio, un numero monografico dell’« Archivio di Filosofia » a La filosofia dell’arte ; un altro poi a Surrealismo e simbolismo), d’altro lato egli sperimenta in questo periodo nuove forme d’espressione filosofica, come quella drammatica (già nel 1949 pubblica Filosofia e dramma) e soprattutto quella filmica. Negli anni ’50-’54 infatti Castelli realizza un certo numero di filmati filosofici (noi ne vedremo alcuni stasera) ; i titoli di quelli portati a termine sono : Il demoniaco nell’arte, La Passione di Memling, Il surrealismo e il sacro, Il fiume della vita, Il Giocoliere e il Misantropo, Le maschere e la vita. Sono filmati nei quali il discorso di filosofia dell’arte, o meglio di filosofia attraverso l’ermeneutica dell’arte, si sviluppa precisamente mediante la trasposizione e la ricreazione filmica dell’immagine pittorica, e l’associazione e l’impasto della medesima con il commento parlato e il commento musicale. Io ritengo che prestare attenzione a questo costante approfondimento del modo in cui in Castelli il pensiero si fa opera e si esprime e si realizza, sia della massima importanza per un’adeguata comprensione della figura assolutamente unica e originale dello hapax che costituisce Enrico Castelli e per una corretta ricostruzione storiografica della sua opera e del suo pensiero. In questa prospettiva, infatti, l’attività congressuale, o meglio colloquiale, appare correttamente per quello che è, vale a dire l’approfondimento e la radicalizzazione estrema del modo di farsi opera da parte di un pensiero che nel venire a sé attraverso gli altri ha scoperto l’unica possibilità di consistenza, la autofondatività essendo stata riconosciuta come la maschera dell’inconsistente, e la consequenziarietà geometrica come il rovescio della medaglia dello « stravolto ». L’ultima fase dell’opera pensante di Castelli, che chiameremo la fase demitizzante – grosso modo, dal 1961 al convegno che noi stiamo ora vivendo – trova in questa radicalizzazione la ragione di tutti i suoi aspetti, anche i più paradossali. I paradossi del senso comune, in effetti, è intitolato uno dei volumi di quest’ultima fase castelliana, ove l’istanza demitizzante è fatta valere precisamente nei confronti di quella vera e propria archè mitica, edenica, che per Castelli è sempre stato il senso comune. A parte il contenuto di altre opere (Il tempo invertebrato, Il tempo inqualificabile), che fin nel titolo mostrano quale sia la prosecuzione del « tempo esaurito », quello che qui mi interessa far notare è questa nuova, stretta, paradossale connessione di senso comune e paradosso. Ne I paradossi del senso comune, secondo un genitivo che, come è ormai caso generalizzato nella fase demitizzante, è insieme oggettivo e soggettivo, il paradosso non è più soltanto quell’esplosione del pensiero consequenziario che ha luogo al momento del suo confronto col senso comune, ma il paradosso è anche interno al senso comune, diviene, paradossalmente per l’appunto, la sua stessa figura propria. Nella stretta connessione di senso comune e paradosso si avvera, dunque, a livello della stessa archè, la critica della demitizzazione, che infatti, come avverte esplicitamente Castelli stesso, è insieme la critica esercitata dalla demitizzazione e la critica di cui la demitizzazione è fatta oggetto. « Ambiguità [sottolineatura mia] e fede » è l’eloquente sottotitolo della Critica della demitizzazione, cioè di un’opera il cui risultato, come Castelli stesso ci ha più volte ripetuto qui, come se scherzasse, è il seguente : « La conclusione della demitizzazione è la demitizzazione della conclusione ». Il chiasmo delle espressioni con genitivo diviene, insieme al genitivo equivoco – contemporaneamente soggettivo e oggettivo – la figura sostanziale in cui si esprime un pensiero radicale della differenza, l’unico pensiero della differenza – in questo, secondo l’allievo, la straordinaria modernità di Castelli, e dell’ul
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timo Castelli – l’unico pensiero della differenza il quale, nella connessione di ambiguità e fede, e nel porsi sotto il segno del paradosso, sub signo contradictionis, si realizza come pensiero radicalmente cristiano. Il segno di contraddizione, il paradosso della Croce diviene – mi sia consentito immedesimarmi nel modo di esprimersi e di pensare castelliano – il paradosso della Croce diviene, per il pensiero del credente Castelli, la croce del paradosso, che sempre di nuovo uccide e sacrifica il suo pensiero, lasciando che solo attraverso il pensiero degli altri, del quale esso si fa promotore e suscitatore, al quale fa totalmente luogo, esso possa tornare a sé e a vivere come pensiero. La stessa Critica della demitizzazione è un libro, un’opera nel senso classico del termine, assolutamente incomprensibile se non si tiene presente questo significato di suscitazione del pensiero altrui, di far posto all’altrui discorso, e in questo totale cedere il posto all’altro porre le condizioni per il proprio ritrovamento. Come noi tutti sappiamo, infatti, la Critica della demitizzazione è insieme la matrice e il frutto dei nostri Colloqui : come ho fatto notare altra volta, con un singolarissimo procedimento essa si è formata essenzialmente attraverso le « introduzioni » che Enrico Castelli era solito inviare agli invitati al Colloquio, suscitando nel loro animo una serie di interrogativi ; e dalle risposte, dai contributi presentati ad ogni Colloquio, lo spirito castelliano, in un socratismo spinto al limite, traeva spunto per una ulteriore problematizzazione, che veniva condensata e proposta in una serie di interrogativi incalzanti nell’introduzione al Colloquio successivo. E l’« Archivio di Filosofia », che a partire da un certo momento (dal 1945) diviene monografico, cos’altro rappresenta, con le problematicissime introduzioni di Castelli sull’argomento in questione e i contributi di specialisti che intorno ad esse si condensano, se non un ulteriore farsi opera, il medesimo peculiare modo di farsi opera da parte di questo pensiero della differenza ? È per questo, per l’imponenza quantitativa e qualitativa della sua opera culturale e per la stessa intima struttura « paradossale », cioè antisolipsistica, del suo pensiero, che Enrico Castelli mi appare, al di là della mia vicenda personale, Maestro : non come fondatore di una scuola e formatore di ripetitori, ma maieuta, Maestro della filosofia nuova, forse il primo maestro nel senso in cui può pensare un maestro la nuova età filosofica che si è liberata dall’abbraccio mortale e pagano dell’identità pensata. Ecco perché in questo Colloquio che ci riunisce, Enrico Castelli è presente, ecco perché noi non commemoriamo, ma constatiamo la presenza viva e vitale del suo pensiero che si è fatto opera.
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el febbraio del 1792 Kant inviò a Biester, direttore della « Berlinische Monatsschrift », il saggio Sul male radicale nella natura umana, con la preghiera di sottoporlo, prima della pubblicazione sulla rivista, all’esame dell’autorità censoria di Berlino. 1 Era questo il primo atto della complessa vicenda che avrebbe portato alla pubblicazione della Religione entro i limiti della sola ragione ; quel sagg io, infatti, avrebbe più tardi costituito la prima parte dell’opera. La rivista a cui Kant offriva il suo scritto rappresentava il foro più significativo dell’illuminismo tedesco, giunto alla sua ultima e più alta fase ; tra l’altro, essa aveva raccolto gli atti di quel grande dibattito sulla natura dell’illuminismo, a cui avevano preso parte numerosi esponenti dell’Auf klärung tedesca, e che aveva costituito l’espressione più rilevante della coscienza riflessiva essenziale al « rischiaramento ». 2 Kant stesso era intervenuto nel dibattito con un saggio il cui titolo ripeteva esplicitamente la domanda epimeteico-prometeica in cui si esprimeva la natura riflessiva della coscienza tardoilluministica (Risposta alla domanda : Cos’è illuminismo ?, 1784). Come è noto, la risposta kantiana a tale domanda trovava, nel saggio, la sua massima applicazione pratica proprio sul terreno religioso : 3 Kant affermava il diritto al libero esame della religione nell’ambito dell’« uso pubblico della ragione » e limitava la legittimità del controllo statale al solo « uso privato » della medesima. Uso « pubblico », per Kant, era quello che diffondeva nel pubblico – e principalmente attraverso pubblicazioni – il frutto della propria indagine razionale ; « privato », invece, egli chiamava, paradossalmente, l’uso della ragione da parte del funzionario statale nell’esercizio del proprio ufficio. Non c’è dubbio che siffatta visione rivelasse una autocomprensione riflessivamente non ancora rischiarata dell’illuminismo. Ma, al momento in cui Kant scriveva, le condizioni vigenti nella Prussia fridericiana potevano anche impedire di scorgere il carattere insoddisfacente, se non contraddittorio, di quella disgiunzione fra pubblico e privato e del suo preteso progressismo. 4 La libertà nell’uso pubblico della ragione, che Kant teorizzava, era infatti già ampiamente praticata da Federico il Grande (esaltato oltremodo nel saggio kantiano) ; basterà ricordare, a mo’ di esempio, che sotto il suo regno
* Introduzione del Curatore in Immanuel Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, a cura di Marco M. Olivetti, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. v-xlv. 1 La lettera di Kant a Biester è andata perduta. Cfr. però la lettera di Kant a Stäudlin del 4 maggio 1793 in Akademie-Ausgabe (d’ora in poi AA ; per tutti i volumi dell’Akademie ci riferiremo alla prima edizione), vol. xi, p. 415. 2 Vedasi ora la ristampa anastatica di tutti gli articoli in Was ist Auf klärung ? Beiträge aus der Berlinischen Monatsschrift, a c. di N. Hinske (collab. M. Albrecht), Darmstadt 1973. 3 Lo riconosce Kant stesso concludendo il suo saggio : « Ho posto il punto principale dell’illuminismo (...) principalmente in cose di religione » (AA, viii, p. 41). 4 Fa riflettere il fatto che a scorgere per primo e a criticare con rigore (e sarcasmo) il carattere irrazionale e reazionario di questa visione kantiana sia stato proprio Hamann : cfr. la sua lettera del 18 dicembre 1784 a Ch. J. Kraus in J. G. Hamann, Briefwechsel, a c. di W. Ziesemer e A. Henkel, vol. v, Frankfurt a. M. 1965, pp. 282-92.
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avevano potuto essere pubblicati, senza intervento della censura (pure previsto da un editto del 1749), i demitizzanti frammenti di Reimarus. In condizioni siffatte, ammettere la legittimità del controllo statale nell’uso « privato » della ragione poteva apparire un minimo di garanzia proprio per il caso in cui si fosse abusato della fiducia del sovrano, perciò stesso ostacolando quella promozione dei lumi alla quale egli era preposto, e alla quale attendeva anche per il tramite dei propri funzionari. Ma con la successione di Federico II a Federico il Grande (morto il 17 agosto 1786) la temperie politica e culturale cambiò radicalmente ; il nuovo ministro dell’educazione, J. Ch. Wollner promulgò il 9 luglio 1788 un editto religioso che ingiungeva : « Non si ardisca risuscitare ancora i miseri e da tempo confutati errori dei sociniani, dei deisti, dei naturalisti e di altre sette e diffonderli nel popolo con molta audacia e spudoratezza grazie al nome estremamente abusato di illuminismo » ; agli « ecclesiastici, predicatori o insegnanti della religione protestante nelle scuole », i quali si fossero resi responsabili, nell’esercizio del loro ufficio, di contravvenzione a tale disposto, l’editto comminava l’immediata destituzione, minacciando eventuali pene maggiori. 1 Questo provvedimento, come si vede, non andava, nella lettera, al di là dei limiti che Kant stesso, nel suo saggio sull’illuminismo, aveva riconosciuto come legittimi per l’intervento dello Stato in materia religiosa : si trattava infatti di un intervento che riguardava esclusivamente gli uffici pubblici, ovvero l’« uso privato » della ragione in materia religiosa. Ma come lo spirito del provvedimento fosse ben altro, e quanto labili fossero i confini teorici che Kant – esercitando un’attività prediletta ! – aveva tentato di tracciare fra uso pubblico e uso « privato », sarebbe stato mostrato dallo svilupparsi degli eventi a seguito dell’editto di Wöllner. Il 19 dicembre 1788 seguiva infatti il nuovo « Editto di censura per gli Stati prussiani » e, infine, il 14 maggio 1791 veniva istituita la « Commissione per l’esame immediato », nella competenza della quale veniva fatto rientrare, il 19 ottobre, anche l’esame di « mensili, periodici e scritti aperiodici ». 2 Gli editti antiilluministici di Wöllner non erano rimasti senza conseguenze sulla vita di quella « Berlinische Monatsschrift » alla quale Kant offriva lo scritto sul male (con l’intento di farle pubblicare, successivamente e separatamente, anche gli altri tre saggi che, insieme, erano destinati a formare l’opera su La religione 3). La rivista che aveva pubblicato gli atti del dibattito sull’illuminismo, e intorno ai cui direttori si era raccolta financo una « Società degli amici dell’Auf klärung », fu infatti particolarmente toccata dai nuovi provvedimenti : sarà sufficiente ricordare che all’inizio del 1791 Gedike si ritirò dalla redazione e che con l’inizio del 1792 la rivista non fu più stampata in territorio prussiano, trasportandosi da Berlino a Jena (dal 1793, poi, a Dessau). 4 In tal modo essa veniva a sot
1 Cfr. M. Lehmann, Preussen und die katholische Kirche seit 1640. Nach den Acten des Geheimen Staatsarchives. Teil 6. Von 1786 bis 1792 (« Publicationen aus den K. Preussischen Staatsarchiven », vol. 53), Leipzig 1893, pp. 253-4. 2 Cfr. F. Kapp, Aktenstücke zur Geschichte der preussischen Censur und Press-Verhältnisse unter dem Minister Wöllner, « Archiv für Geschichte des Deutschen Buchhandels », vol. iv, Leipzig 1879, pp. 149-50. 3 Cfr. la citata lettera a Stäudlin del 4 maggio 1793, AA, xi, p. 415. 4 Si vedano le prudenti e legalistiche spiegazioni che Biester dà di questo trasferimento allo stesso Kant in una lettera del 6 marzo 1792, AA, xi, pp. 315-6. Ma ben più liberamente e sinceramente si esprimeva Biester quindici anni più tardi nella sua autobiografia, ove riferiva apertamente della dichiarata ostilità di Wöllner e Hillmer alla Rivista : cfr, Bildnisse und Selbstbiographien jetzt lebender Berliner Gelehrten mit ihren Selbstbiographien, a c. di M. S. Löwe, Berlin-Leipzig 1806-1807, vol. iii, pp. 26-7. Anche l’altra grande rivista illuministica, l’« Allgemeine Deutsche Bibliothek » di Nicolai, fu trasferita e venne stampata a Kiel con il titolo modificato di « Neue Deutsche Allgemeine Bibliothek ».
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trarsi, almeno teoricamente, all’ambito territoriale di competenza della commissione censoria voluta da Wöllner. Kant, dunque, inviando il suo saggio sul male, non avrebbe avuto bisogno di sottoporlo all’esame della censura ; secondo le sue stesse parole, però, la richiesta a Biester di procedere in questo senso nasceva dal desiderio « di non avere nemmeno la parvenza di colui che mette in opera un raggiro letterario (literarischer Schleichweg) ed esprime opinioni cosiddette ardite solo scansando intenzionalmente la severa censura berlinese ». 1 In queste parole è possibile scorgere una allusione alle disposizioni wöllneriane, che prevedevano pene per chi avesse « ottenuto con raggiri » (erschlichen) il permesso di stampa. 2 Comunque, fossero prudenza e cautela, o fossero coraggio e dignità a motivare la richiesta di Kant (né le due ipotesi si elidono), il consigliere Hillmer, a cui spettava l’esame degli scritti « di contenuto morale », dette l’imprimatur al saggio kantiano. Interessante era la motivazione decisamente antiilluministica di questo parere favorevole : Hillmer, « dopo attenta lettura », aveva trovato che « questo scritto, come gli altri di Kant », fosse « destinato non a tutti i lettori in generale, ma soltanto a dotti capaci di riflessione, di ricerca e di distinzioni, ed era solo per costoro fruibile ». 3 Il saggio apparve nel fascicolo di aprile della Rivista. Diversamente andarono le cose per la seconda parte del lavoro (intitolato, nella Religione, « Della lotta del principio buono con il cattivo per il dominio sull’uomo »), che Biester ricevette da Kant nel giugno del 1792 e che sottopose immediatamente alla censura. Hillmer, avendo trovato che questa volta lo scritto « ricadeva completamente nel campo della teologia biblica », chiese la collaborazione del collega Hermes, cioè del membro della commissione censoria competente per la materia. Hermes rifiutò l’imprimatur, e Hillmer si associò. In una lettera a Biester, Hermes disse genericamente che nel decidere in senso negativo aveva seguito come norma l’editto relig ioso di Wöllner e che « in proposito non era in grado di dare ulteriori spiegazioni ». 4 Biester, sdegnato, non esitò, nonostante la sua posizione di funzionario regio (era bibliotecario), ad inoltrare un immediato ricorso al re, chiedendo, per provocare una decisione di principio, che il ricorso venisse esaminato dal plenum dei ministri di Stato (20 giugno). Ma il momento non era certo favorevole : il 21 febbraio il Consiglio dei ministri aveva ricevuto un irritato ordine del regio gabinetto per aver osato esprimere ogni sorta di dubbi riguardo alla severa conduzione della censura che l’imperatore stesso aveva raccomandato agli Stati dell’impero in considerazione degli eventi rivoluzionari di Francia. Su quella raccomandazione il Consiglio si era diviso e i moderati avevano avuto partita vinta ; conseguentemente il rescritto regio aveva rimproverato i ministri di « parlare in favore dei cosiddetti illuministi » e, richiamando i ministri all’unità, li aveva ammoniti partico
1 Per l‘autenticità di queste espressioni, riportate dal biografo L. E. Borowski, cfr. AA, vi, p. 498 e E. Arnoldt, Beiträge zu dem Material der Geschichte von Kants Leben und Schriftstellersthätigkeit in Bezug auf seine Religionslehre und seinen Conflict mit der Preussiscben Regierung, in « Altpreussische Monatsschrift », xxxiv (1898), p. 346. 2 L’ipotesi è di Dilthey : cfr. Der Streit Kants mit der Zensur über das Recht freier Religionsforschung, in W. Dilthey, Gesammelte Schriften, vol. iv, Leipzig-Berlin 1925, p. 290. Si tratta di una ipotesi molto plausibile : infatti, al di là dell’assonanza verbale a cui Dilthey fa riferimento, la diffusione del timore di apparire colpevole di « raggiro » appare chiaramente confrontando le parole legalistiche di Kant con quelle altrettanto legalistiche, anzi casuistiche, con le quali, in quel periodo di rigore censorio, Biester illustrava proprio a Kant la decisione di stampare altrove la « Berlinische Monatsschrift », cercando di farla apparire una misura del tutto insospettabile (cfr. supra, nota 8). 3 Cfr. quanto Biester riferisce, tra virgolette, nella sua lettera a Kant del 6 marzo 1792, AA, xi, p. 316. 4 Cfr. quanto viene riferito, sempre tra virgolette, nella lettera di Biester a Kant del 18 giugno 1792, AA, xi, pp. 329-30.
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larmente a conservare la religione positiva e, per mezzo di essa, l’ordine dello Stato. 1 Il Consiglio, dunque, non osò perseverare nel suo atteggiamento ; il ricorso di Biester fu dichiarato infondato e il diniego dell’imprimatur fu confermato. Non è inutile osservare che, in effetti, il contenuto del secondo saggio kantiano aveva caratteristiche piuttosto differenti dal primo, e soprattutto ne precisava il significato in un senso che non poteva essere gradito agli organi esecutivi preoccupati di applicare l’editto di Wöllner e le esortazioni antiilluministiche. È lecito infatti pensare che la vera questione per i censori non fosse tanto, o soltanto, quella di una maggiore o minore implicazione di problemi di teologia biblica da parte delle tesi che Kant veniva svolgendo, 2 quanto, o più ampiamente, quella di una maggiore o minore consonanza di tali tesi con lo spirito dell’illuminismo che ora veniva messo sotto accusa. Ebbene, nessun tema era, per sua natura, più antiilluministico di quello trattato dal primo saggio kantiano : di contro all’ottimismo illuministico, la teorizzazione kantiana del male radicale affermava la perversione del « fondamento di tutte le massime » ; 3 di contro all’istanza emancipatrice e, almeno potenzialmente, autoemancipatrice dell’illuminismo (se ne ricordi la stessa definizione data da Kant all’inizio del saggio del 1784 : « illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato minorile in cui egli si trova per sua colpa » 4), la teorizzazione del male radicale aveva una implicita portata reazionaria, potendo legittimare il nuovo corso della politica prussiana. Che queste non fossero le intenzioni di Kant – come i successivi capitoli dell’opera avrebbero indubitabilmente chiarito, 5 e come già poteva faticosamente ricavarsi dal primo saggio – non toglie che agli occhi degli organi di controllo lo scritto kantiano non dovesse riuscire sgradito. A ciò si aggiunga che – sebbene anche questo non trovasse rispondenza nella realtà storica e negli intenti teorici del saggio di Kant – l’accento posto sul male radicale poteva bene apparire, ad una lettura men che attenta e filologica, consonante con l’ortodossia religiosa luterana. In effetti non è senza significato che alcuni fra i più alti ingegni dell’epoca, da Goethe a Schiller a Herder – che pure non avevano formali competenze politiche, e che pure basavano il loro giudizio anche sulle altre parti dell’opera kantiana, ormai pubblicata in volume – ravvisassero nella teoria del male radicale una concessione al cristianesimo ecclesiastico o, comunque, un tradimento dello spirito umanistico e liberale che aveva caratterizzato la clamorosa fioritura culturale del diciottesimo secolo tedesco. 6 Ma la seconda parte dell’opera, che alla commissione censoria giungeva separatamente, non lasciava dubbi sui reali intendimenti di Kant ; sebbene non abbandonasse il pessimismo di fatto, questi affermava ora il doveroso ottimismo onde, in punto di diritto, il « buon principio » deve essere ritenuto futuro trionfatore nella lotta che l’uomo
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Apud Dilthey, op. cit., p. 291. Kant stesso, raccontando come Hillmer avesse ritenuto che il secondo saggio sconfinasse nell’area della teologia biblica, annotava fra parentesi : « cosa questa che il primo saggio, non so per quali ragioni, non gli era sembrato fare » (a Stäudlin, 4 maggio 1793, AA, xi, p. 415). 3 4 Cfr. I. Kant, La religione, cit., p. 38. AA, viii, p. 35. 5 Non è solo terminologica la corrispondenza fra la tesi, che Kant sostiene nella Religione, circa la necessità di correggere da noi, senza affidarci all’aiuto soprannaturale, l’imperfezione morale di cui noi stessi siamo colpevoli (selbstverschuldeter Mangel : cfr. ad es., Religione, p. 219) e la definizione dell’illuminismo come « stato minorile in cui l’uomo si trova per propria colpa » (selbstverschuldeten Unmündigkeit). 6 Cfr. lettera di Goethe a Herder del 7 giugno 1793 in Goethes Briefe, a c. di P. Stein, vol. iv, Berlin 1903, p. 23 ; lettera di Schiller a G. Körner del 28 febbraio 1793, in Schillers Briefe, a c. di F. Jonas, vol. iii, Berlin 1893, p. 289 ; Herder, Von Religion, Lehrmeinungen und Gebräuchen (1798), in Sämtlicbe Werke, a c. di B. Suphan, vol. xx, Berlin 1880, pp. 138, 220, 222. 2
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conduce contro il male. Anzi, tale trionfo era ritenuto possibile solo ove l’uomo non si fosse affidato, come a mezzo per raggiungerlo, alle pratiche cultuali istituzionalizzate e all’interpretazione coattiva e legalizzata della Scrittura : « il saggio maestro – concludeva Kant, riferendosi a Gesù con un appellativo consueto nella Religione e ben significativo delle sue intenzioni – disse ai suoi discepoli, riferendosi a qualcuno che percorreva la propria strada particolare, per la quale tuttavia sarebbe necessariamente riuscito, infine, alla medesima meta : “Non impeditelo, perché chi non è contro di noi è per noi” ». 1 Così stando le cose, il comportamento di Kant conseguente al diniego dell’imprimatur per la seconda parte appare del tutto comprensibile anche sotto il profilo pratico, o meglio pragmatico ; esso era infatti il più idoneo a ridurre le difficoltà che la procedura censoria frapponeva alla pubblicazione. Il 30 luglio 1792 Kant chiese a Biester la restituzione del manoscritto, 2 poiché egli non intendeva « privare il pubblico delle tre trattazioni che ancora appartenevano al citato saggio sul male radicale ». Modificando dunque il primitivo progetto, egli riunì insieme tutti e quattro i saggi, decidendo di proporli all’esame di una facoltà teologica prussiana, affinché questa giudicasse se pretenderne la censura « come sconfinanti nella teologia biblica » o, invece, respingerli come « di competenza della Facoltà filosofica ». 3 Evidentemente, al punto in cui erano arrivate le cose, non avrebbe avuto senso tentare ogni volta di nuovo la strada dell’approvazione censoria per ciascuno dei saggi ancora inediti. Oltre tutto, le due ultime parti che Kant aveva approntato trasportavano il discorso dall’ambito puramente antropologico, nel quale si situavano i primi due capitoli, a quello, politicamente più rilevante e impegnativo, di una teorica e di una empirica della società. Nella terza parte, infatti, la lotta fra il principio buono e quello cattivo, già rappresentata nella parte precedente come lotta all’interno dell’uomo, veniva rappresentata come lotta all’interno della « comunità etica », cioè della « chiesa ». La quarta parte, infine, traeva le conseguenze di tale teoria ecclesiologica, discriminando razionalmente vere e false forme di culto e intervenendo pertanto in materia concer nente comunque la competenza normativa dello Stato, vuoi in forma diretta (giurisdizionalistica), vuoi in forma indiretta (mediata da accordi con le chiese istituzionalizzate o dalla recezione statale delle disposizioni di queste ultime). Le due nuove parti, dunque, in ragione delle loro implicazioni non più mediatamente, bensì immediatamente politiche, avrebbero fornito, assai più delle precedenti, motivi di preoccupazione per la commissione censoria di Berlino. Intraprendendo la strada della pubblicazione complessiva in un volume autonomo, invece, Kant si creava la possibilità di sottoporre l’opera ad una diversa e, presu mibilmente, più comprensiva autorità censoria : quella universitaria. Infatti, secondo antiche disposizioni, che i provvedimenti di Wöllner non abrogavano, le università avevano il « privilegio » della censura per le opere dei loro docenti. 4 Ma non erano solo ragioni pragmatiche a indirizzare Kant su questa strada. Al di là delle maggiori probabilità di approvazione (e anche al di là del fatto che la pub blicazione complessiva rappresentava l’ultima possibilità di recuperare, incorporandolo, il saggio vietato), il giudizio universitario ormai interessava Kant soprattutto per ragioni di principio : si trattava di vedere riconosciuto il diritto del filosofo ad occuparsi
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2 Religione, p. 91. AA, xi, p. 336. Cfr. Lettera a Stäudlin del 4 maggio 1973, AA, xi, p. 415. 4 Su questo privilegio cfr. Dilthey, op. cit., p. 288 e, più in generale, Dilthey, Das allgemeine Landsrecht, in Zur preussischen Geschichte, vol. xii delle Gesammelte Schriften, Stuttgart-Göttingen 1964, pp. 194-9. 3
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di temi religiosi, quando la trattazione dei medesimi fosse stata tenuta entro l’ambito di competenza della propria disciplina. E tale riconoscimento Kant voleva che fosse rilasciato non dallo Stato – la cui incompetenza in materia di pubblicazioni scientifiche, già teorizzata nel saggio sull’illuminismo, doveva apparirgli in modo, se possibile, ancor più vistoso dopo il diniego dell’imprimatur – bensì da un’autorità formalmente e materialmente competente. Nessuno più dell’università, con le sue antiche autonomie, con il suo essenziale carattere di istituzione scientifica, con la sua articolazione delle diverse discipline in Facoltà distinte, doveva sembrare a Kant legittimato a rilasciare il riconoscimento di principio che ormai gli premeva di ottenere. 1 La decisione della facoltà teologica di Königsberg fu nel senso delle convinzioni di Kant : la censura dell’opera fu riconosciuta di competenza delle facoltà filosofiche. Fu poi la facoltà filosofica di Jena a concedere l’imprimatur. Anche il libro fu stampato a Jena (sebbene l’editore fosse di Königsberg) ; all’inizio della fiera di Pasqua del 1793 era pubblicato. Il titolo suonava : La religione entro i limiti della sola ragione. Questo titolo era stato deciso da Kant in extremis, quando i sedicesimi dell’opera erano già tutti stampati. 2 Nella prefazione alla seconda edizione Kant si sarebbe intrattenuto su di esso, spiegandone a posteriori il significato. La religione rivelata – egli avrebbe argomentato allora – può comprendere in sé, come un’area concentrica, ma più ristretta, la religione razionale ; evidentemente il filosofo deve mantenersi all’interno dell’area della ragione, e qui egli si trova senza dubbio nel suo legittimo dominio ; è però anche legittimo che egli compari quanto è contenuto in una religione storicamente assunta come rivelata con la religione che gli è nota attraverso l’esercizio della ragione e giunga così a rilevare non solo la « compatibilità », ma anche l’« unione fra religione e Scrittura ». 3 La tardiva decisione dell’elaborato e programmatico titolo, e questa successiva spiegazione che semplifica alquanto, con l’immagine dei cerchi concentrici, la complessità ben maggiore con cui il problema dei « limiti » tra religione storica e religione razionale si pone nell’opera (avremo modo di parlarne appresso), mostra in qual misura Kant, nel dare gli ultimi tocchi al suo lavoro, si fosse sforzato di presentarlo secondo una immagine confacente alla preoccupazione di principio che ormai l’animava totalmente. Non meno significativo in questo senso è l’atteggiamento di sfida assunto da Kant nei confronti della censura governativa quando ormai l’opera era pubblicata, e quando, anche a seguito del precipitare degli eventi francesi (decapitazione del re, Terrore), la severità degli organi statali di controllo era divenuta ancora maggiore. Nel settembre del 1793 Kant pubblicava – nuovamente sulla « Berlinische Monatsschrift » – il saggio Sul detto comune : questo può essere vero nella teoria ma non vale per la pratica, ove, tra l’altro, affermava decisamente la libertà di coscienza in materia religiosa e, più in generale, la « libertà della penna » come l’« unico palladio dei diritti del popolo ». 4 Come risulta da una lettera con cui aveva inviato a Biester il saggio La fine di tutte le cose, Kant era ben
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Per i differenti tentativi kantiani di teorizzare l’università come suprema magistratura censoria si possono vedere le prefazioni alla prima e alla seconda edizione della Religione, la più volte citata lettera a Stäudlin del 4 maggio 1793 e i progetti di prefazione alla seconda edizione scoperti da Dilthey nei manoscritti kantiani di Rostock, in Dilthey, Der Streit, cit. 2 Schiller, dopo aver letto, mentre l’opera era in corso di stampa, la metà già stampata, la chiama ancora semplicemente « dottrina filosofica della religione » nella lettera a Körner sopra citata. Tale designazione si trova anche nella prima edizione, tanto nelle note dello stampatore all’inizio di ogni sedicesimo, quanto nei titoli dei quattro capitoli (« Primo – secondo, ecc. – capitolo della dottrina filosofica della relig ione »). 3 4 Religione, p. 14. AA, viii, p. 304.
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consapevole di provocare, col suo comportamento, la reazione del governo. In quello stesso saggio Kant aveva espresso perentoriamente le sue convinzioni liberali, riaffermando l’impossibilità di imporre il cristianesimo e la sua amabilità con l’odiosità del comando : con l’imposizione, infatti, « l’avversione e l’ostilità diverrebbero necessariamente l’atteggiamento dominante nell’umanità nei confronti del cristianesimo stesso ; e sarebbe l’Anticristo [...] la fine (stravolta) di tutte le cose si avvererebbe ». 2 La conseguenza fu che Kant il 1° ottobre 1794 ricevette un rescritto regio che lo accusava di avere da tempo abusato della sua filosofia « per svisare e disprezzare alcune dottrine principali e basilari della Sacra Scrittura e del Cristianesimo » 3 e gli ingiungeva di non rendersi più colpevole, per il futuro, di cose del genere. Nella sua risposta Kant si difese sostenendo che il libro su La religione non conteneva nessun « apprezzamento » del cristianesimo e perciò neanche nessun « disprezzo » del medesimo ; il libro infatti – sosteneva Kant – « contiene propriamente solo l’apprezzamento della religione naturale ». Inoltre egli non aveva affatto presentato come superflua la dottrina rivelata, « perché – argomentava ancora Kant – essa serve a completare l’insufficienza teorica della pura fede razionale, insufficienza che quest’ultima non nega, per esempio, nelle questioni relative all’origine del male, al passaggio dal male al bene, alla certezza dell’uomo di trovarsi nello stato del bene ecc. ». 4 Kant comunque concludeva la sua risposta promettendo che per l’appresso si sarebbe astenuto dal pubblicare qualunque scritto concernente la religione. In una annotazione dell’epoca spiegò così il suo atteggiamento : « Ritrattare e rinnegare la propria intima convinzione è abbietto ; ma tacere in un caso come il presente è dovere di suddito ; e se tutto ciò che uno dice deve essere vero, non perciò è anche un dovere dire pubblicamente ogni verità ». 5 Con l’avvento al trono di Federico Guglielmo III (1797) l’editto religioso di Wöllner fu abrogato. Kant, come egli stesso spiegò, non si sentì più legato all’impegno di astenersi dalle trattazioni religiose, perché tale impegno egli aveva preso come « fedelissimo suddito » bensì, ma di Federico Guglielmo II. 6 Nel 1798 pubblicò Il conflitto delle Facoltà nel quale, trattando ampiamente il problema delle competenze di ciascuna facoltà universitaria su temi di confine, e pertanto controversi, rendeva di pubblica ragione il rescritto regio che gli aveva vietato di occuparsi di cose religiose e la sua risposta al medesimo. 7 1
2. Kant, dunque, ricorda fra le questioni a proposito delle quali la ragione stessa, riconoscendo la propria limitatezza e insufficienza, può servirsi dell’integrazione offerta dalla religione rivelata, quelle « relative all’origine del male, al passaggio dal male al bene, alla certezza dell’uomo di trovarsi nello stato del bene, ecc. ». Pur tenendo conto della circostanza in cui queste espressioni furono formulate (la necessità di difendersi dall’accusa del rescritto regio di aver disprezzato la religione rivelata), esse vanno senza dubbio ritenute sincere. Le tre questioni ricordate da Kant corrispondono infatti esattamente al disegno teorico della Religione : l’itinerario male-conversione-bene, pur nella
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2 Lettera a Biester del 18 maggio 1794, in AA, xi, p. 481. AA, viii, p. 339. 4 AA, vii, p. 6. AA, vii, pp. 8-9. 5 Cfr. in proposito Dilthey, Der Streit Kants cit., p. 307 ; cfr. anche Religione, p. 212, all’inizio della nota †. 6 Cfr. AA, vii, p. 10. 7 Oltre alle fonti e alla letteratura a cui abbiamo rinviato sin qui, sulle vicende di Kant con la censura si può vedere ancora : E. Fromm, I. Kant und die preussische Zensur, Leipzig 1894. 3
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problematicità peculiare che distingue individualmente ogni singola tappa, è unitario e costituisce nel suo complesso il problema di fondo di cui si occupa l’opera. A tale itinerario corrisponde anche la struttura della Religione quale viene delineata dai titoli dei primi tre capitoli, evocanti rispettivamente « il male radicale nella natura umana », la « lotta del buon principio con il cattivo per il dominio sull’uomo », la « vittoria del buon principio e la fondazione del regno di Dio sulla terra ». Senonché il titolo del quarto ed ultimo capitolo sembra mettere nuovamente in questione il trionfo del buon principio evocato precedentemente ; qui si parla, infatti, « del vero e del falso culto sotto il dominio del buon principio » : come a dire che la fondazione del regno di Dio sulla terra non è conclusiva e la lotta col cattivo principio prosegue una storia, la fine della quale è bensì anticipata, ma non raggiunta. È questa la prima delle difficoltà sistematiche e strutturali poste dalla Religione. Non si tratta tuttavia della difficoltà maggiore : se non altro essa corrisponde ad un punto avvertito come altamente problematico da Kant stesso e come tale da lui teorizzato. Inoltre, pur pervenendovi per ragioni affatto peculiari, su questo punto la problematica kantiana viene a coincidere con la visione tradizionale, e non meno problematica, del cristianesimo, con la sua dialettica – o aporetica – di « già » e « non ancora », ovvero con la sua comprensione della chiesa come mantenimento e, insieme, incoazione dell’eschaton. Per tal maniera, quella che, in sé, costituisce una difficoltà e una rottura strutturale, poteva presentarsi a Kant sotto l’aspetto di una concordanza e di una continuità tradizionale. Ma il fatto è che, anche volendo minimizzare questa prima difficoltà strutturale, manifestata immediatamente dall’indice dell’opera, gli stessi contenuti dei primi tre capitoli non seguono affatto la prog ressione delineata dai loro titoli : la lotta fra il bene e il male è il contenuto costante di tutta l’opera e di tutti i suoi capitoli individualmente considerati. Inoltre, fra la seconda e la terza parte il passaggio contenutistico reale non è tanto quello, annunziato dal titolo, dalla lotta alla vittoria del buon principio, quanto quello – come già osservammo – dalla dimensione antropologico-individualistica alla dimensione comunitaria. Che poi il passaggio a questa dimensione rappresenti la condizione di possibi lità per teorizzare la vittoria del buon principio, può anche darsi ; ma proprio su questo punto, come vedremo, si addensano grossi problemi interpretativi. D’altro canto le incertezze e le spigolosità non armonizzate sono rivelate anche da altri aspetti formali e strutturali della Religione. Significativa, ad esempio, è la quantità, la lunghezza e l’importanza, talvolta fondamentale, delle note a piè di pagina : una questione di grande significato come quella dello schematismo, ad esempio, è trattata in una lunga nota a piè di pagina. 1 Ma soprattutto bisogna ricordare le « annotazioni generali » che Kant ha posto al termine di ciascun capitolo dell’opera. Secondo la spiegazione di Kant, queste quattro annotazioni (che trattano, a detta dell’Autore, 1) degli effetti della grazia, 2) dei miracoli, 3) dei misteri, 4) dei mezzi della grazia) costituiscono, in qualche modo, accessori, « parerga della religione nei limiti della ragione pura, perché non rientrano nella medesima, ma tuttavia vi confinano. La ragione, nella consapevolezza della sua impotenza a soddisfare alle sue esigenze morali, si estende fino a idee trascendenti, che potrebbero compensare quelle deficienze, senza che la ragione se le attribuisca come un suo più esteso possesso ». 2 Questa teoria delle annotazioni generali, però, è delineata da Kant solo nella seconda edizione (e in una lunga nota a piè di pagina). Di più : nella edizione originaria la prima di tali annotazioni generali
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Religione, pp. 68-9.
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Cfr. p. 56.
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(al cui termine, nell’edizione successiva, Kant avrebbe apposto la succitata nota a piè di pagina) non era affatto un parergon o una annotazione, bensì la quinta sezione della prima parte ; inoltre essa recava il titolo : « Del modo come l’originaria disposizione al bene si ristabilisca nella sua forza », e mostrava così di voler trattare il problema che, in prospettiva individualistica e in prospettiva comunitaria, sarebbe poi stato trattato, rispettivamente, nella seconda e nella terza parte, e che, stando ai titoli dei capitoli e alla successione dai medesimi delineata, avrebbe dovuto costituire l’oggetto esclusivo della terza parte. Trasformando la quinta sezione del primo capitolo in « annotazione generale », Kant aggiunse, a quello precedente, un altro sottotitolo (« o degli effetti della grazia »), il quale giustificava la nuova collocazione sistematica. Senonché della grazia e dei suoi effetti vi è una trattazione ben più ampia e importante nella seconda parte dell’opera, ed una trattazione che non viene considerata da Kant, né può in alcun modo essere considerata, parergon alla generale trattazione. Senza dilungarci in un elenco di tutte le sfasature, che il lettore potrà rilevare per proprio conto, ciò che si è detto è già sufficiente per cogliere chiaramente il significato e l’importanza delle medesime : è evi dente che per il loro numero e la loro natura esse non sono assolutamente ascrivibili ad una mancanza di rifinitura formale, derivando piuttosto dalla problematicità della stessa posizione kantiana delineata nella Religione. I confini all’interno dei quali dovrebbe rimanere la considerazione religiosa della ragione sono infatti altamente problematici non solo per quanto riguarda l’ampiezza dell’area che essi circoscrivono, ma anche per quanto riguarda la natura del limite che essi tracciano : spesso si ha l’impressione che essi rappresentino, oltre che un limite, una congiunzione. La teoria delle aree concentriche, lasciando aperta la possibilità dello iato e del contrasto di fatto fra storico e razionale, pone però, in linea di principio, una concordanza fra i due elementi, che sa rebbe stata esclusa solo ove fosse stata teorizzata l’eccentricità delle rispettive aree. Se un vallo separa la religione razionale dagli elementi irrazionali delle religioni storiche, un ponte unisce tutto quanto in queste ultime non sia semplicemente irrazionale alla religione della ragione ; e si tratta di un ponte che può essere percorso nei due sensi : dal razionale allo storico e viceversa. In alcuni appunti personali preparatori alla seconda edizione della Religione Kant, commentando il titolo che, come si è visto, molto ponderatamente e tardivamente aveva deciso di dare all’opera, così si esprimeva : « Sul titolo. Non deve suonare religione di sola (aus blosser) ragione ; infatti non solo questa sarebbe un mero (blosses) ideale, perché a quanto pare nessuna è sorta di là soltanto, e così io in ciò avrei avuto troppa fiducia in me e anche avrei troppo limitato il mio campo ». 1 La provvisoria sintassi dell’appunto (che abbiamo cercato di mantenere nella traduzione) rende fedelmente il carattere problematico inerente al deciso e consapevole intento kantiano di non dedurre una religione dalla sola ragione, ma di trattare la religione – anche la religione storica – all’interno della sola ragione. Altrettanto significativa è l’insistenza con cui negli appunti preparatori Kant ritorna sulla spiegazione verbale del titolo, cioè sulla preposizione « entro » (innerhalb) che non equivale alla preposizione « di » (aus) : egli vi torna perlomeno quattro volte in vari progetti di prefazione e anche nell’ambito del medesimo progetto, 2 precisando che, se il titolo fosse stato « religione della sola ragione », avrebbe dato l’impressione che « le dottrine rivelate alle quali qui ci si connette spesso vengano rese come mere dottrine razionali rivestite in una maniera particolare,
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AA, xxiii, p. 91.
2
AA, xxiii, pp. 93-6.
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e dunque che si sia voluto imporre alla Bibbia il significato di non rappresentare altro che un edificio filosofico morale ». 1 Questo insistente ritorno sul tema innerhalb-aus, negli appunti, individua – a ben considerare le due citazioni sopra riportate dai medesimi – due motivi distinti per il rifiuto della mera deduzione razionale : una cosa è dire che, di fatto, nessuna religione reale si presenta con la caratteristica della mera razionalità (altrimenti sarebbe una religione « ideale », non reale) ; altra cosa è dire che la Bibbia (cioè non qualunque religione reale, ma una precisa religione reale) non è totalmente riducibile alla religione razionale, come se fosse solo un rivestimento immaginoso di verità filosofiche. In entrambi i casi il « limite » apposto indica limitatezza della ragione ; ma il primo motivo per cui la ragione, segnando il confine, getta anche il ponte della, chiamiamola così, trasgressione (nel senso etimologico del termine, almeno) è di ordine formale e consiste nella necessità di schematizzare, cioè di tradurre in immagini, o meglio in « rappresentazioni » (Vorstellungen) – come Kant si esprime con insistenza e regolarità terminologica – ciò che, seppur postulato moralmente, è teoreticamente trascendente : ciò che, per l’appunto, è « ideale » (anche nel senso sostantivo, dunque, che questo termine ha nella Ragion pura). Il secondo motivo, invece, è di ordine contenutistico e cioè si riferisce a quelle dottrine religiose storiche, e più precisamente cristiane, che sono in grado di completare ed aiu tare la ragione nelle sue insufficienze a proposito del dramma male-conversione-bene e delle sue singole tappe, dando luogo a quella che Kant, nella ricordata nota della seconda edizione in cui teorizza il significato delle annotazioni generali colà risistemate, chiama « fede riflettente ». 2 Con questo termine mutuato dalla Critica del giudizio (il « giudizio riflettente » non permette di estendere la nostra conoscenza oggettiva) Kant intende bensì qualcosa di opposto alla « fede dogmatica » e alle sue pretese conoscitive, ma anche qualcosa che va ben oltre la fede pratica postulata dalla sola ragione. Si può ben comprendere che questo tipo di trasgressione – come l’abbiamo chiamata – dalla sfera più ristretta alla sfera più ampia sia stato apprezzato da Jaspers, il quale vi ha riconosciuto la situazione per cui « l’inglobante stesso non è accessibile che mediante la ragione, la quale si appoggia su di esso e trova in esso il proprio garante ». 3 Al di là di questa interpretazione molto personale e fortemente speculativa, si può ben comprendere come, in generale, l’apposizione del confine fra le due sfere, concentriche ma di diversa estensione, costituite dalla religione razionale e dalla religione storica, e l’attraversamento continuo del confine nei due sensi abbiano potuto costituire uno dei punti fondamentali sui quali si è misurata la letteratura kantiana, a partire da un saggio di Troeltsch che per primo portò autorevolmente l’attenzione sull’argomento. 4 Se si tiene presente il proposito kantiano di non dedurre la religione dalla sola ragione, e la duplice motivazione del medesimo (formale e contenutistica : schema e parergon),
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2 AA, xxiii, p. 93. In questo volume, p. 57. K. Jaspers, Das radikal Böse bei Kant (1935), in Rechenschaft und Ausblick. Reden und Aufsätze, München 19582, p. 129. 4 E. Troeltsch, Das Historische in Kants Religionsphilosopbie. Zugleich ein Beitrag zu den Untersuchungen über Kants Philosophie der Geschichte, in « Kant-Studien », ix, 1904, pp. 21-154. Da ultimo l‘argomento ha trovato attenzione anche in aree culturali tradizionalmente meno familiari con il pensiero kantiano : cfr. M. Despland, Kant on History and Religion, Montréal-London 1973 ; F. J. Herrero, Religión e historia en Kant, dissertazione univ. Gregoriana (Roma), Madrid 1975, e G. E. Michalson jr., The Role of History in Kant’s Religious Thought, in « Anglican Theological Review », lix, 1977, pp. 413-23. Cfr. anche A. W. Wood, Kant’s Moral Religion, Ithaca (N. Y.) 1970. 3
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si intende perché il materiale religioso al quale viene fatto esplicito riferimento lungo il corso dell’opera sia di carattere storico-empirico o, come oggi forse diremmo, aritropologico-culturale e assai meno di carattere dottrinale-teologico. La dottrina, quando viene fatta oggetto di discorso nell’opera, è trattata essa stessa come un fatto storicoistituzionale. Si può anche discutere circa le fonti teologiche di Kant e l’ampiezza delle sue conoscenze teologiche (comunque modeste) ; questo anzi è un argomento che ha attratto la letteratura fin dalle prime biografie kantiane 1 e che ha dato luogo ad uno dei prodotti più notevoli nell’ambito della storiografia sulla Religione : la monografia di Bohatec che, raccogliendo l’indicazione di Troeltsch nel saggio ricordato, è dedicata ad un analitico esame della Religione « con particolare considerazione delle sue fonti teologico-dogmatiche » (come suona il sottotitolo). 2 Prima, però, si deve prendere atto che il silenzio di Kant sulle sue fonti dottrinarie è anzitutto il frutto di una motivata scelta storico-antropolog ica, esplicitamente dichiarata negli appunti preparatori per la prefazione alla seconda edizione (e congruente, tra l’altro, con la dissoluzione della teologia razionale a cui aveva addotto la prima Critica). Altrimenti non si capirebbe nemmeno perché Kant ometta sistematicamente non solo i riferimenti alle opere teologiche (delle quali poteva avere scarsa conoscenza), ma anche i riferimenti alle ricerche filosofiche applicate alla religione ; Lessing, Locke, Shaftesbury, Leibniz, Hume, Rousseau, citati e discussi in altre opere kantiane, non vengono mai citati nella Religione, pur essendo in vario modo tenuti presenti e talvolta financo parafrasati. 3 La mancanza di rinvii espliciti, dunque, non esclude che la dottrina cristiana, tanto nella sua forma teologica, quanto nella sua forma divulgativa e catechetica, quanto, infine, come diffuso patrimonio teorico divenuto fatto generalizzato e universalmente condizionante per la cultura occidentale, sia tenuta presente da Kant. Bohatec ha evidenziato, ad esempio, l’importanza delle lezioni di teologia dogmatica di Baumgarten per la dottrina kantiana del male radicale ; 4 e fin dalla letteratura più antica è stata individuata l’importanza di un catechismo prussiano di ispirazione pietista, che Kant doveva aver conosciuto nella sua infanzia e che rilesse attentamente prima di scrivere la Religione. 5 Ma è soprattutto nell’ultima delle forme ricordate, cioè come fatto culturale diffuso e condizionante, che il cristianesimo viene, anche inconsapevolmente, presupposto da Kant nella sua teoria religiosa « entro i limiti della sola ragione » (d’altronde un fenomeno analogo, seppure di minori proporzioni, avviene in Kant anche per il diritto naturale, che egli pensa in larga misura sul modello del diritto romano).6 Que
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Cfr. i contrastanti pareri di Jachmann (Kant teologicamente prearato) e Borowski (Kant digiuno di cultura teologica) in Immanuel Kant. Sein Leben in Darstellungen der Zeitgenossen, a c. di, F. Gross (rist. anastatica dell’edizione Königsberg 1804), Darmstadt 1974. 2 J. Bohatec, Die Religionsphilosophie Kants in der « Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft ». Mit besonderer Berücksichtigung ihrer theologisch-dogmatischen Quellen, Hamburg 1938 (rist. anastatica, Hildesheim 1966). 3 Cfr. J. L. Bruch, La philosophie religieuse de Kant, Paris 1968, pp. 35-6 ; per la fonte lessinghiana cfr. particolarmente E. Arnoldt, Beiträge cit. 4 J. Bohatec, Die Religionsphilosopbie cit., pp. 269-71. 5 Cfr. G. Hollmann, Prolegomena zur Genesis der Religionsphilosophie Kants, in « Altpreussische Monatsschrift », xxxv (1899), pp. 1-73 (sull‘utilizzazione del catechismo, pp. 41-8). Nel sostenere la tesi di un profondo influsso pietistico nel pensiero religioso di Kant, Hollmann riassumeva una intera tradizione ottocentesca (Borowski, op. cit., B. Erdmann, Martin Knutzen und seine Zeit, Leipzig 1876 ; E. Feuerlein, Kant und der Pietismus, in « Philosophische Monatshefte », xix (1883), pp. 449-63). Bohatec ha fortemente ridimensionato queste tesi (op. cit., pp. 19-32). 6 Cfr. quanto su questo punto osserva Kant stesso nella prefazione alla prima edizione della Religione (pp. 10-1).
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sto vale, come vedremo ancora, per il tema del male radicale (e vale in questo senso ben più della fonte baumgarteniana) ; questo vale altresì per l’intera struttura esterna dell’opera, che, come abbiamo ricordato, si presenta, in conformità con la visione cristiana tradizionale, nei termini di una vicenda storico-universale progrediente dallo status naturae lapsae all’instaurazione redentrice del regno di Dio ; questo vale infine anche per l’atteggiamento e – è il caso di dire – la sensibilità con cui Kant si pone di fronte a quella stessa morale di cui la religione razionale è una semplice conseguenza e da cui essa è totalmente fondata. Nel quadro di una nuova temperie filosofica che si era venuta sostituendo agli orientamenti positivistici e – per quanto riguarda più specificatamente gli studi kantiani – agli approcci gnoseologistici (nel 1917 era apparso Il Sacro di R. Otto e nel 1927 Essere e tempo di Heidegger), Schmalenbach ha, per esempio, potuto sostenere la tesi che il sentimento del « rispetto della legge » e della sua maestà si apparenta strettamente a quello del sublime e reca in sé i tratti distintivi di un Erlebnis religioso.1 E tale tesi – che da Schmalenbach era applicata non alla filosofia della religione di Kant, bensì alla Religione di Kant (secondo il titolo stesso dell’opera), è stata più tardi ripresa da Noack con specifico riferimento alla filosofia della religione e, per di più, in un saggio premesso all’edizione Meiner della Religione.2 In questa nuova temperie filosofica si è potuta anche sviluppare una letteratura intesa ad individuare le componenti, se non sempre consapevolmente, almeno oggettivamente e culturalmente positive della filosofia della relig ione di Kant3 (lo stesso lavoro di Bohatec si inserisce in questo nuovo quadro). Si sono così potuti individuare con una precisione filologica maggiore i limiti in cui è accettabile la tesi emotiva e stereotipata di un Kant « filosofo del protestantesimo ». 4 In realtà, la scelta metodologica di trattare la relig ione bensì entro i limiti della ragione, ma non deducendola dalla ragione, si concreta, nella effettiva applicazione kantiana, in un costante privilegiamento del cristianesimo. Tale privilegiamento ha luogo in entrambe le forme in cui, come abbiamo visto, la religione diviene « reale », storicizzandosi : schema e parergon. 5 Il cristianesimo rappresenta per Kant, in primo luogo,
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H. Schmalenbach, Kants Religion, Berlin 1929. H. Noack, Die Religionsphilosophie im Gesamtwerk Kants, in I. Kant, Die Religion ecc., Hamburg 1961, pp. xi-cxii. 3 Da ultimo : A. Lamacchia, Le fonti teologico-positive nella filosofia della religione di Kant, in « Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia », Università di Bari, 1965, pp. 1-43 e, della stessa, La filosofia della religione in Kant, i. Dal dogmatismo teologico al teismo morale, s. 1. [Manduria] 1969 (« Università di Bari. Pubblicazioni dell’Istituto di Filosofia », n. 13), pp. 39-57 ; A. Winter, Theologische Hintergründe der Philosophìe Kants, in « Theologie und Philosophie », li (1976), pp. 1-51. 4 Per le vicende storiche di questa tesi, cfr. infra, p. 119, nota 2. 5 Il carattere equivoco della posizione kantiana è rilevato, ad esempio, dalla letteratura marxista che si è occupata della Religione. Kant avrebbe intuito, in qualche modo, nella teologia cristiana la sanzione dell’ordine feudale (ecco perché già nello scritto sull’illuminismo il punto principale è individuato « in cose di religione » ; cfr. A. Liepert, Auf klärung und Religionskritik bei Kant, in « Deutsche Zeitschrift für Phi losophie », xxii (1974), p. 362, e G. Biedermann, Bemerkungen zum Religionsbegriff bei Kant, in « Wissenschaftliche Zeitschrift der Friedrich-Schiller-Universität », xxiv (1975), p. 212), e avrebbe financo precorso la critica religiosa di Feuerbach, riconoscendo nell’immagine del Dio onnipotente il segno della disistima dell’uomo nei confronti di se stesso (E. J. Solowjow, Religiosnaja wera i nrawstwennost w filossofii Kanta, in « Nauka i religija », 1, 1971, p. 28). Tuttavia a Kant rimasero sostanzialmente estranei i tratti ateistici della critica religiosa dell’illuminismo francese e l’analisi delle cause sociali della religione ; egli mutuava invece dal dibattito religioso dell’illuminismo tedesco due temi altamente caratteristici : il problema della verità storica del cristianesimo e quello del rapporto tra « religione positiva » e « religione vera » (A. Liepert, op. cit., p. 363). Su questa base egli tornava a compromettersi con l’ideologia feudale per il fatto di dare al cristianesimo un particolare significato morale (op. cit., p. 367) e politico (G. Biedermann, op. cit., p. 209). 2
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la religione storica che ha rivelato, schematizzandola, la religione razionale nella sua interezza. 1 Parafrasando il Lessing della Educazione del genere umano, Kant afferma nella Religione che « Può una religione essere [...] quella naturale, ma nello stesso tempo essere anche rivelata, se essa è costituita in modo che gli uomini avrebbero potuto e dovuto con il semplice uso della loro ragione giungervi da se stessi, sebbene non vi sarebbero giunti così presto e con diffusione così grande come si richiede ». 2 Ma questa teoria di sapore lessinghiano non esaurisce il significato del privilegiamento kantiano del cristianesimo, anzi nella sua parzialità rischia di falsarlo. Il cristianesimo infatti non offre soltanto gli schemi atti a veicolare e fomentare la religione naturale nella sua interezza (Kant parla di fides historice elicita) ; 3 esso offre anche qualcosa di più, cioè le dottrine che integrano l’insufficienza della religione razionale. Questa insufficienza riguarda tutte le tappe del dramma male-conversione-bene, tanto individualmente considerate, quanto considerate nell’assieme della vicenda che esse descrivono. E se dal primo punto di vista – quello dello schematismo – l’antecedenza della religione storica rispetto alla religione razionale è puramente cronologica, vale a dire storica essa stessa, dal secondo punto di vista – quello dell’integrazione – l’antecedenza è anche di ordine logico, ovvero di principio. Ciò, almeno, vale per la prima tappa del dramma in cui si articola la visione religiosa kantiana, e cioè il male radicale ; per le tappe successive la restaurazione e il trionfo del buon principio può forse prescindere dal riferimento a mezzi coadiutori trascendenti, e questi rappresentano comunque una agg iunta successiva, oggetto di « fede riflettente ». Ma per quanto riguarda il punto di partenza, la trasgressione avviene dall’area esterna più ampia, verso quella interna, razionale e ristretta. In realtà, infatti, è solo il presupposto cristiano che consente a Kant di mantenere l’aporetico statuto gnoseologico – insieme empirico e universale – relativo all’affermazione del male radicale : il male radicale è sempre già là, dacché la storia è storia, senza che la ragione possa dedurne l’origine, ma anche senza che essa osi – come pure dovrebbe, trattandosi di esperienza reale, ma non necessaria – metterne in dubbio l’universalità. Poiché il male radicale è all’origine della struttura drammatica delineata dalla Religione, non sorprenderà poi che l’intera struttura si palesi problematica e registri in continuazione quella circolarità fra razionale e metarazionale, onde, come si è visto, argomenti successivamente sistemati nei parerga (di cui la seconda edizione traccia la teoria) rimangono anche, e in misura ben magg iore, nel corpo della trattazione. Così stando le cose, si spiega bene la situazione che, rispetto al male radicale, si è prodotta nella recezione dell’opera kantiana. Se, come abbiamo visto, essa suscitava, ad esempio, lo scandalo di Goethe, il quale vi scorgeva un cedimento al cristianesimo positivo, indegno per il filosofo critico, e se ancora Troeltsch, Fittbogen, Schulze potevano scorgervi il segno di un compromesso o l’immissione di un corpo estraneo nel pensiero kantiano, 4 una diversa sensibilità filosofica, non più disposta o non più in grado
1 Può sembrare paradossale, ma è proprio questa comprensione del cristianesimo che – decidendo pregiudizialmente della razionalità della religione storica – consente a Kant di pensare anche alle altre religioni storiche come a differenti schematizzazioni della religione razionale (così in Conflitto delle facoltà, in AA, vii, p. 36). Il fatto che le altre religioni storiche presentino elementi di irrazionalità non le distingue dal cristianesimo, perché, per Kant, i fatti degenerativi sono presenti anche in quest’ultimo, ove acquistano, anzi, un carattere più vistoso : cfr. il lucreziano Tantum religio potuit suadere malorum ! in Religione, p. 144. 2 Religione, p. 170 ; cfr. Lessing, Die Erziehung des Menschengeschlechts, in Gesammelte Werke, a c. di P. Rilla, 3 Cfr. Religione p. 181. vol. viii, Berlin-Weimar 1968, p. 591. 4 Cfr. E. Troeltsch, op. cit., pp. 57 e 84 ; G. Fittbogen, Kants Lehre vom radikalen Böse, in « Kant-Studien », xii (1907), p. 357 e passim ; M. Schulze, Das radikal « Böse » und die « Wiedergeburt », in I. Kant. Festschrift zur
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di condividere l’ottimismo illuministico, ha volto a questo tema la propria attenzione con vivacità e simpatia : da Jaspers a Barth fino a vari autori dei nostri giorni, il tema kantiano del male radicale, con i paradossi conoscitivi (empiria-universalità) e pratici (redenzione-autoredenzione) che esso comporta, è stato oggetto di affascinata indagine, tanto dal punto di vista teorico quanto da quello rigorosamente storiografico. 1 D’altro canto proprio la teoria del male radicale infirma più di ogni altra la possibilità di una filosofia della storia, che sola potrebbe legittimare razionalmente il privilegiamento del cristianesimo : una volta esclusa la legittimazione fideistica e positiva – come era necessario, lavorando entro i limiti della sola ragione, e come la razionalità dei lumi richiedeva – solo una filosofia della storia delle religioni avrebbe potuto render conto dell’accadimento storico della religione vera e definitiva. Questa strada era già stata intrapresa, ad esempio, da Lessing e sarebbe stata portata all’estremo limite da Hegel e dal tardo Schelling. Kant però, nella Religione, a differenza di altre sue opere, non solo non delinea una filosofia della storia (ecco perché la parafrasi lessinghiana sopra ripor tata rischia di creare fraintendimenti), ma ne teorizza financo l’impossibilità, abbozzando quella che potremmo chiamare una storia universale filosofica negativa o rove sciata : l’universalità viene paradossalmente « circoscritta » al cristianesimo, e l’« unità » all’interno della storia del cristianesimo è data, paradossalmente, dalla constatazione del continuo differire e del continuo allontanarsi della religione storica da quella razionale. 2 È significativo che questo aspetto, pressoché trascurato dalla letteratura, non sia sfuggito a Hegel, il quale proprio nelle Lezioni sulla filosofia della religione ha osservato che nella chiesa la lotta del bene e del male « è terminata, e allora si ha conoscenza che questa lotta non è simile a quella della religione dei Parsi o a quella che presenta la filosofia kantiana, in cui il male deve essere sempre soltanto vinto ». 3 Una filosofia della storia negativa o rovesciata non consente certamente di risolvere le aporie che, come abbiamo visto, si instaurano nel rapporto religione storica-religione razionale e che si riflettono nelle sfasature strutturali dell’opera. Di tali aporie, anzi, essa è piuttosto la causa. Già la prima questione che ricordammo a proposito delle spezzature e delle di
zweiten Jahrhundertsfeier seines Geburtstages, a c. dell’ Albertus-Universität in Königsberg, Leipzig 1924, p. 236. 1 Cfr. K. Jaspers, Das radikal Böse bei Kant, cit. ; K. Barth, Die protestantische Theologie im xix. Jahrhundert. Ihre Vorgeschichte und ihre Geschichte, Zollikon-Zürich 19522, pp. 236-74 ; J. Nabert, Essai sur le mal, Paris 1955 (specie pp. 159-65 ; insieme, e forse grazie, alla mediazione di P. Ricoeur quest’opera ha determinato in larga misura l’attuale interesse della letteratura francese per il tema) ; Shizuteru Ueda, Aku no Konkyo no Shozai ni tsuite [Sul fondamento del male ; con particolare considerazione del male radicale in Kant], in « MikkyōBunka » [« Buddismo esoterico e cultura »], n. 41, 1958, pp. 1-34 ; A. Riddel, Die Freiheit und das radikal Böse als intelligibles moralisches Verhältnis, dissertazione, Köln 1966 ; J. L. Bruch, La philosophie religieuse de Kant cit. (tutto questo lavoro – importante perché rappresenta una delle poche ricerche monografiche dedicate tematicamente ed esclusivamente alla Religione, e non, come il titolo potrebbe far sembrare, genericamente alla filosofia della religione di Kant – è impostato sulla tesi del significato essenziale e di rottura rispetto alle altre opere kantiane che il tema del male radicale ha per la Religione) ; O. Reboul, Kant et le problème du mal, con pref. di P. Ricoeur, Montreal 1971 e, dello stesso, Le mal, dans la philosophie religieuse et politique de Kant, in « Canadian Journal of Philosophy », iii (1973-1974), pp. 169-75 ; P. Watté, Structures pbilosophiques du péché originel. St. Augustin, St. Thomas, Kant, con introd. di P. Ricoeur, Gembloux 1974 ; J. Fontaine, Profondeur personnelle et dimensions collectives du mal et de la mensonge chez Rousseau et Kant, in « Revue philosophique de Louvain », lxxv (1977), pp. 612-22. 2 Cfr., Religione, p. 136 ; su questo punto cfr., di chi scrive, Chiesa e ideologia. Un problema di filosofia della storia, in Demitizzazione e ideologia, quaderno dell’« Archivio di filosofia », 1973, pp. 103-33. 3 Per questa « lotta perenne » (perennierender Kampf) nel pensiero religioso di Kant, cfr. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, ed. Lasson, vol. xii, p. 206.
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sarmonie rivelabili ad un esame puramente formale della struttura della Religione, mostra di essere significativa precisamente in questo senso : la smentita che l’ultima parte dell’opera rappresenta rispetto alla definitiva instaurazione del regno di Dio, delineata dalla struttura drammatica e progrediente delle prime tre parti, o almeno dei loro titoli, corrisponde infatti esattamente alla visione di filosofia della storia negativa che caratterizza e distingue la Religione. Così pure la frattura, o quanto meno il passaggio non mediato fra seconda parte, ove la lotta fra buono e cattivo principio è considerata in chiave antropologico-individualista, e terza parte, ove la stessa lotta è considerata in chiave comunitaria, trova in questa filosofia della storia rovesciata la propria ragione di fondo. La chiesa, la comunità etica che dovrebbe totalizzare la storia, instaurando il regno di Dio sulla terra, resta per Kant un ideale mai pienamente realizzato. Il suo farsi visibile, ovvero il suo realizzarsi storico serve soltanto a porre – secondo le espressioni di Kant – « la questione della differenza » 1 con l’ideale invisibile, e non già a superare questa differenza ; il « regno di Dio » – come ancora avverte Kant, polemizzando con il mito chiliastico – è « dentro di noi », 2 e dunque non è in grado di costituire effettivamente quella saldatura fra privato e pubblico, fra individuo e comunità, a cui pure, idealmente, invita. La prevalenza della dimensione comunitaria nella Religione non è da negare : il « regno dei fini » dei Fondamenti, che ancora nasceva dalla somma ideale delle singole individualità morali, si trasforma qui in comunità etica, che ha il significato di « omnitudo collettiva » (e non semplicemente « distributiva »), 3 e che qui per la prima volta diviene nella storia. Tuttavia l’identità fra l’ideale e la sua realizzazione storica non è data dal superamento della differenza fra i due, ma semplicemente dalla constatazione e dalla condanna della loro differenza. Fin dalla classica monografia sulla filosofia della relig ione di Kant che Schweitzer pubblicò alla fine del secolo scorso, i problemi scaturenti dal rapporto fra dimensione individualistica e dimensione comunitaria sono stati posti al centro della interpretazione della Religione e del suo rapporto con la filosofia della religione risultante dalle altre opere kantiane. 4 Secondo Schweitzer l’affermazione della dimensione comunitaria è da ritenersi definitiva nella Religione, e comporta pertanto, almeno in linea teorica, l’abbandono della filosofia della religione di stampo critico-idealistico che, a suo avviso, ancora nella Critica della ragion pratica confliggeva con la filosofia della religione di stampo etico ; così si spiega fra l’altro, per Schweitzer, l’abbandono del tema dell’immortalità dell’anima 5 che, se aveva ancora senso nella prospettiva individualistica della Critica della ragion pratica, non avrebbe, a suo avviso, più motivo di esistere nella prospettiva comunitaria in cui la Religione pone l’ideale etico. L’interpretazione di Schweitzer è stata messa variamente in questione dalla letteratura più recente. Essa tuttavia ha avuto il merito di sottolineare l’importanza sistematicoevolutiva della filosofia della religione di Kant in ordine ad una adeguata comprensione dell’intero sviluppo del suo pensiero. In tal maniera essa ha potuto innovare rispetto al limitato modello interpretativo ottocentesco (rappresentato esemplarmente da K.
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2 Religione, p. 136. Cfr., Religione, p. 150. Cfr., Religione, pp. 172-3. 4 A. Schweitzer, Die Religionsphilosophie Kants von der Kritik der reinen Vernunft bis zur Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunff, Freiburg i.B.-Leipzig-Tubingen 1899 (rist. anastatica, Hildesheim 1974). Recentemente, in italiano : P. Quattrocchi, Comunità religiosa e società civile nel pensiero di Kant, Firenze 1975. 5 Si veda però, Religione, p. 138 e p. 172. 3
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Fischer ), che vedeva il culmine della filosofia della religione kantiana nella Critica della ragion pratica. Per quanto riguarda il rapporto intercorrente fra la Religione e le altre opere di Kant, e la sua collocazione sistematica rispetto ad esse, si suole riferire la lettera di Kant a Stäudlin del 4 maggio 1793 : « Il mio piano, stabilito già da tempo, della elaborazione del campo della filosofia pura verteva sulla risoluzione dei tre seguenti problemi : 1. cosa posso sapere ? (metafisica) ; 2. cosa debbo fare ? (morale) ; 3. cosa posso sperare ? (religione) (...) Con l’opera allegata Religione entro i limiti ecc. ho cercato di condurre a termine la terza parte del mio piano ». 2 L’indicazione fornita da Kant sembra porre la Religione sullo stesso piano e in prosecuzione della Critica della ragion pura e della Critica della ragion pratica, a queste due opere, infatti, paiono corrispondere le prime due delle tre domande programmatiche. Senonché la Religione, non solo non è la terza Critica (che nel piano illustrato a Stäudlin resta mortificata), ma non è comunque un’opera critica, nel senso stretto che questo termine ha in Kant. Un primo chiarimento alla perplessità in cui si è indotti dalla indicazione kantiana può aversi considerando che la lettera a Stäudlin, con la quale Kant accompagnava l’invio della Religione al teologo di Gottinga, era la risposta ad una lettera con la quale costui aveva inviato a Kant le sue Idee per la critica del sistema della religione cristiana : in quest’opera Stäudlin, che era un kantiano dichiarato, sottolineava il bisogno di una « critica della religione », faceva presente che essa era già contenuta in una nuova filosofia – quella della Critica della ragion pura e della Critica della ragion pratica – e precisava che essa aveva solo bisogno di essere confrontata con il sistema religioso del cristianesimo. 3 Si può dunque pensare che lo stretto collegamento e la prosecuzione in cui la Religione viene posta da Kant, nella sua lettera, rispetto alle prime due Critiche derivi dall’impostazione che l’interlocutore aveva inizialmente dato al discorso, e dall’accezione non strettamente tecnica in cui egli utilizzava il termine « critica » (del resto anche Fichte, proprio in quel periodo, aveva pubblicato anonimo il Saggio di una critica di ogni rivelazione, che, pur non utilizzando il termine « critica » in senso stretto, aveva potuto essere scambiato per l’attesa opera kantiana sulla religione). Ma questa spiegazione, ancorché plausibile, ha una validità parziale e di secondaria importanza. Un vero chiarimento dei problemi suscitati dalle indicazioni kantiane e Stäudlin lo si ha soltanto considerando in prospettiva storico-genetica il piano di lavoro che esse illustrano. In tale prospettiva l’agganciamento della Religione alla problematica critica appare tutt’altro che occasionale e generico. Il programma che Kant dice a Stäudlin di aver realizzato era infatti un programma che egli aveva formulato già da lungo tempo e per la prima volta proprio nel « canone » della Critica della ragion pura, cioè nella parte più antica e originaria della prima Critica. 4 A quell’epoca dunque Kant riteneva compito squisitamente critico la risposta alle tre domande fondamentali e riteneva che esse dovessero trovar risposta nell’unica opera che egli pensava allora di dedicare al problema critico. Con la successiva distinzione della ragion pratica dalla ragione teoretica, la dottrina del « canone » fu sostituita da quella dei postulati ; la risposta alle tre domande, che ini1
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K. Fischer, Geschichte der neueren Philosophie, vol. iv, Heidelberg 18692. AA, xi, p. 429. 3 C. F. Stäudlin, Ideen zur Kritik des Systems der christlichen Religion, Göttingen 1791, pp. 81-6. 4 Cfr. AA, i, p. 522. 2
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zialmente non doveva eccedere l’ambito di un’unica opera critica, fu così ripartita fra la Critica della ragion pura, per la prima domanda, e la Critica della ragion pratica per le altre due (che ottenevano risposta, rispettivamente, nell’« analitica » e nella « dialettica »). È possibile pensare, allora, che con la Religione si sia ripetuto quanto già era accaduto una volta : con essa la trattazione della terza domanda sarebbe stata dissociata da quella della seconda. In effetti il programma di lavoro kantiano, a misura che veniva realizzato concretamente, era soggetto ad un processo di differenziazione crescente : la Critica del giudizio, originariamente non prevista nel piano della filosofia trascendentale, si inserisce anch’essa in tale processo. Anzi proprio la Critica del giudizio, mentre per un verso completava e concludeva il lavoro critico di Kant, per altro verso elaborava motivi atti a riproporre la terza domanda programmatica. Gli elementi comunitari dell’« eticoteologia » della terza Critica, infatti, non erano tali da far apparire il postulato individualistico dell’immortalità dell’anima una effettiva risposta alla domanda « cosa posso sperare ? ». Dunque, mentre il prog ramma critico si concludeva, una delle domande che inizialmente gli erano appartenute si riapriva. Il carattere residuale della Religione è dimostrato dal fatto che, se essa non è un’opera « critica », non è però nemmeno una vera e propria opera di « dottrina ». È vero che ancora durante la stampa – come vedemmo – Kant designava la propria opera con l’espressione « dottrina filosofica della religione ». 1 Ma la tardiva decisione del titolo, di cui ci siamo già occupati, potrebbe anche indicare che Kant non era soddisfatto di tale designazione. Inoltre la Religione non trova posto nel programma di « lavoro dottrinale » a cui Kant dichiara di volersi dedicare nella prefazione della Critica del giudizio, laddove afferma di aver concluso con questa opera il suo « lavoro critico » : 2 la Religione, infatti, precede di molto la Metafisica dei costumi (1797), di cui qui viene dato l’annunzio e in cui una dottrina della religione avrebbe dovuto trovare posto, come parte della « dottrina della virtù », qualora fossero rimaste invariate le premesse poste dalla Critica della ragion pratica ; la stessa Metafisica dei costumi, poi, si conclude con un paragrafo il quale, al ter mine della « dottrina della virtù », afferma esplicitamente e anche troppo sbrigativamente spiega che una trattazione della dottrina religiosa non può aver luogo in quella sede. 3 In effetti la dottrina delineata dalla Religione non è propriamente una « dottrina » (o anche « teoria ») filosofica « pura », dedotta dalla ragione in conformità ad un legittimo uso delle facoltà umane ; 4 in un certo senso essa è una dottrina filosofica « applicata » alla realtà storica ; 5 ma, come abbiamo visto, la Religione segue anche il cammino inverso, dalla storia alla teoria, e in questo caso l’appellativo di « dottrina » verrebbe riferito ad uno statuto epistemologico completamente diverso da quello a cui Kant suole riferire tale termine. A ben guardare, la Religione è più vicina di quanto sembri alla Critica del giudizio, rispetto alla quale occupa, dal punto di vista sistematico, una posizione in qualche modo
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2 3 Cfr. supra, p. 106, nota 2. Cfr. AA, v, p. 170. Cfr. AA, vi, pp. 486-8. Il riferimento – nella prefazione alla prima edizione della Religione (cfr. p. 11) – a una « dottrina filosofica pura », su cui lo studente di teologia biblica dovrebbe essere informato, e per cui ci si potrebbe servire dell’opera kantiana, è ambiguo e non smentisce quanto affermiamo : innanzitutto, il contesto ove quella espressione si colloca è polemico ; Kant, poi, non si esprime con decisione (il libro « potrebbe anche » essere il suo, ed esso, comunque, sarebbe solo una guida, un Leitfaden, per quella dottrina, non la dottrina stessa) ; infine l’enfasi, mediante il corsivo, cade più sulla caratteristica della filosoficità che su quella della purezza. 5 Così, riduttivamente, Kant spiega l’espressione « religione entro i limiti della sola ragione » nella Metafisica dei costumi : cfr. AA, vi, p. 488. 4
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reciproca, ma simmetrica : il modellamento del termine « fede riflettente » (ancorché esso ricorra una sola volta, ma, come abbiamo visto, in un punto di teorizzazione sistematica molto significativo) sul termine « giudizio riflettente » è illuminante. In entrambi i casi non si dà luogo a conoscenza. Solo che, mentre per la Critica del giudizio la mancanza di conoscenza deriva dalla mancanza di un oggetto esterno e di un dominio conoscitivo proprio alla facoltà del sentimento del piacere e del dispiacere, per la Religione la mancanza di conoscenza deriva dalla mancanza di una facoltà conoscitiva competente ad estendersi su quel dominio esterno alla ragione che è rappresentato dai complementi storici atti ad integrare precisamente le insufficienze conoscitive della ragione pratica e della sua attività postulatoria. In entrambi i casi una « dottrina », ovvero una « teoria », viene, in senso proprio, a mancare. Il male radicale è propriamente il non teorizzabile ; di conseguenza nemmeno la conversione (dal male al bene) è pienamente o propriamente teorizzabile. Sotto questo aspetto la Religione appare effettivamente più vicina al programma critico che a quello dottrinale ; si potrebbe dire che essa prosegua e completi il programma critico in una sorta di determinazione negativa dei suoi limiti, così come la Critica del giudizio lo aveva completato positivamente. Ecco perché Kant, quando già aveva tracciato il suo programma dottrinale, poteva ancora collegare la Religione a quel programma di indagine che inizialmente era stato previsto come critico, e che poi si era concluso lasciando al proprio esterno la terza delle domande in cui originariamente consisteva.
3. La prima edizione della Religione fu ristampata già nel 1793 (a Francoforte-Lipsia e a Neuwied). Nel 1794 Kant pubblicava una seconda edizione, aggiungendo, come abbiamo visto, un’altra prefazione e molte note, alcune delle quali di grande interesse (oltre a quelle di cui già si è parlato, va ricordata, ad esempio, anche la nota contenente la risposta alle critiche mosse da Schiller in Sulla grazia e la dignità). Anche di questa edi zione fu fatta una ristampa già nello stesso anno (Francoforte-Lipsia), e sempre nel 1794 F. Grillo pubblicava un volume di estratti dalla Religione, superando le difficoltà frapposte dal censore Hermes. 1 Un altro volume di estratti appariva, anonimo (ma pubblicato da G. L. Reiner), nel 1796. 2 Nell’anno seguente veniva pubblicato il secondo volume degli J. Kantii opera, contenente la traduzione latina della Religione a cura del Born.3 Anche solo a giudicare dal succedersi rapido di queste edizioni, l’ampia e vivace recezione che l’opera kantiana trovò presso i contemporanei risulta evidente : grandi – ad es. Goethe, Schiller, Herder – e minori non mancarono di conferire, attraverso i loro giudizi, i loro interventi e le loro opere, importanza storica alla Religione. Oltre tutto, con l’inizio degli anni ’90 si registrava il rapido affermarsi delle Critiche, che negli anni precedenti avevano trovato qualche difficoltà ad imporsi (nel 1791 l’Accademia berlinese bandiva significativamente un concorso sul tema : « Quali progressi abbia fatto la filosofia dopo
1 F. Grillo, Aphoristische Darstellung der Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft des Herrn Immanuel Kant, Rostock-Leipzig 1794 (rist. anastatica nella collana « Aetas kantiana », n. 84) ; le difficoltà frapposte da Hermes facevano dubitare i contemporanei che Grillo avrebbe portato a compimento il suo progetto (cfr. lettera di Kiesewetter a Kant del 23 novembre 1793, AA, xi, p. 451). 2 [G. L. Reiner], Kant’s Theorie der rein moralischen Religion mit Rücksicht auf das reine Christentum kurz dargestellt, Riga 1796 (rist. anastatica nella collana « Aetas kantiana », n. 210) ; su questo lavoro si veda A. Dyroff, Über eine Reiners Bearbeitung der kantischen Schrift « Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunf », 3 Leipzig 1797. in « Kant- Studien », xl (1935), pp. 270-6.
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Leibniz e Wolff ») ; sicché si può ben capire come la recezione delle Critiche agevolasse e si ripercuotesse sulla recezione della nuova opera, nella quale il criticismo veniva per la prima volta applicato all’unico patrimonio culturale che a quell’epoca fosse possesso universale, e veniva dunque per la prima volta messo alla prova sul terreno più ricco di implicazioni dottrinali e politiche. Tracciare un sintetico profilo della fortuna della Religione non è però possibile proprio perché tale fortuna non è discernibile rispetto a quella generale del kantismo e, in subordine, rispetto a quella di tutta la filosofia della religione kantiana. Per questo abbiamo ritenuto preferibile ricordare la letteratura (che senza dubbio è un momento della fortuna, anche se non la esaurisce punto) e la sua evoluzione nel corso dell’esame di singoli problemi posti dalla struttura della Religione, dal suo metodo, dalle sue fonti e dalla sua collocazione genetica e sistematica all’interno della complessiva produzione kantiana. D’altro canto un panorama della fortuna della Religione non potrebbe prescindere dall’incidenza e dalla recezione che l’opera, e più in generale la filosofia della religione kantiana e ancora più in generale il criticismo, ebbero, oltre che sul terreno filosofico, sul terreno religioso e teologico. Tale influsso fu indubbiamente amplissimo, tanto sotto il profilo dottrinario-accademico quanto sotto il profilo pastorale e catechetico. Esso cominciò ad assumere proporzioni vistose intorno agli inizi degli anni ’901 (dunque prima della Religione, e sulla base delle Critiche) e si intensificò – grazie anche alla Religione – negli anni successivi, venendo oscurato solo dalla nuova sensibilità romantica (in particolare dal pensiero religioso di Schleiermacher e dalla recezione del medesimo). Successivamente l’influsso religioso del kantismo venne pressoché cancellato dalla filosofia della religione idealistica e dai suoi tardi esiti, vuoi positivi (Spätidealismus), vuoi critici (sinistra hegeliana). Negli ultimi decenni dell’Ottocento però, proprio mentre il pensiero filosofico recepiva del kantismo soprattutto gli aspetti gnoseologici, il pensiero teologico dava luogo a teorizzazioni variamente, seppur genericamente, ispirate a Kant. Ciò avveniva non contro, bensì in consonanza con gli orientamenti culturali positivistici : dissolta la pretesa idealistica di una comprensione speculativa della religione, il modello kantiano, pur con le sue aporie (o grazie anche ad esse) consentiva di restituire la dogmatica teologica al piano storico-critico e di conservare nel medesimo tempo l’istanza religiosa, ponendola su un diverso piano, più o meno connesso a quello dell’etica (Ritschl, Herrman, Kaftan). 2 Si comprende peraltro come a tale situazione
1 Come si può ricavare anche dall’ampia documentazione riportata nel volume di M. Casula, L’illuminismo critico. Contributo allo studio dell’influsso del criticismo kantiano sul pensiero morale e religioso in Germania tra il 1783 e il 1810, Milano 1967 (« Pubblicazioni dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Genova », n. 44). 2 A. Ritschl, Die christliche Lehre von der Rechtfertigung und Versöhnung, vol. i, Bonn 1870 (specie pp. 40864) ; W. Herrmann, Die Religion im Verhältnis zum Welterkennen und zur Sittlichkeit, Halle 1879 ; J. Kaftan, Die religionsphilosophische Anschauung Kants in ihrer Bedeutung für die Apologetik, Basel 1873 e dello stesso, Die Wahrheit der christlichen Religion, ivi 1888. Questi autori sono in larga misura responsabili della diffusione della tesi stereotipata : « Kant filosofo del protestantesimo » (cfr., delle prime due opere succitate, rispettivamente le pp. 408-25 e la p. 17, e dell’ultima le pp. 210-1). Lo studio delle fonti teologiche di Kant ha contribuito a riportare su un piano critico, e poi a smorzare la letteratura in proposito ; essa comunque aveva rappresentato un vero e proprio filone (evidentemente poco toccato dal rifiuto della fede salvifica e dall’affermazione della essenzialità della retta intenzione nel compimento delle opere, su cui Kant tanto insiste nella Religione) : F. Paulsen, Kant der Philosoph des Protestantismus, in « Kant-Studien », iv (1900), pp. 1-31 ; B. Bauch, Luther und Kant, Berlin 1904 ; J. Kaftan, Kant der Philosoph des Protestantismus, Tübingen 1904 ; E. Katzer, Luther und Kant, Giessen 1910 ; B. Wehnert, Luther und Kant, Meerane 1922 ; E. Hirsch, Luthers Rechtfertigungslehre bei Kant, in « Luther-Jahrbuch », iv (1922), pp. 47-65 ; H. Rust, Kant una Kalvin,
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religiosa e teologica corrispondesse, dal punto di vista della storiografia specializzata, quella comprensione della filosofia della religione kantiana limitata alle Critiche e culminante nella Critica della ragion pratica, alla quale abbiamo precedentemente fatto riferimento. 1 Analogamente la successiva riapertura di questo modello interpretativo e la restituzione alla Religione dell’importanza che le compete (si ricordino i lavori, citati, di Schweitzer, Troeltsch ecc.) trovava corrispondenza in un generale mutamento culturale, che si andava verificando non solo negli orientamenti filosofici e filosoficoreligiosi, 2 ma anche in quelli teologici. L’acme di questo mutamento va naturalmente individuata nella teologia dialettica e nel suo kerygmatismo rigoroso che si opponeva alla visione del protestantesimo liberale : è significativo che Barth, presentando Kant come il filosofo della religione che meglio esprime i limiti del razionalismo settecentesco, si sia appoggiato per questa interpretazione principalmente alla Religione (da ciò deriva, singolarmente, un atteggiamento non del tutto negativo nei confronti di una limitatezza filosofica che a Barth sembra porre le premesse per l’autonomia della teologia dalla filosofia). 3 Mentre l’associarsi del kerygmatismo con la nuova sensibilità ermeneutica ha favorito, nell’ambito della teologia protestante, il recupero di una dimensione storicistica e, poi, di movenze hegeliane, nell’ambito della teologia cattolica quel medesimo associarsi ha favorito la riscoperta di modelli kantiani ; già determinata da altri fattori : in un cauto e riformato trascendentalismo il pensiero relig ioso cattolico ha scorto una possibilità per uscire dalla cristallizzazione tomistica senza provocare fratture con la tradizione scolastica (Rahner ; ma già Przywara e, pur nella critica e nel tentativo di superamento, Maréchal). 4
in I. Kant. Festschrift cit., Leipzig 1924, pp. 129-50 ; J. Ebbinghaus, Luther und Kant, in « Luther-Jahrbuch », ix (1927), pp. 119-55 ; H. Rust, Kant und das Erbe des Protestantismus, Gotha 1928 ; T. Siegfried, Luther und Kant. Ein geistesgeschichtlicher Vergleich im Anschluss an dem Gewissensbegriff, Giessen 1930 (« Aus der Welt der Religion », Heft 3). Più tardi è ancora apparsa un’opera di W. Schultz, con il titolo stereotipo Kant als Philosoph des Protestantismus, Hamiburg-Bergstedt 1961 (« Theologische Forschung. Wissenschaftliche Beiträge zur kirchlich-evangelischen Lehre », n. 22) ; ma il titolo inganna, perché l’autore nel corso del testo nega la legittimità di caratterizzare Kant nei termini in cui, stranamente, lo caratterizza il titolo (cfr. cap. ii). Da ultimo : P. Lotzsch, Vernunft und Religion. Lutherisches Erbe bei Immanuel Kant, Köln-Wien 1976. 1 Bisogna dire però che, nonostante questa comprensione, la scuola di Ritschl era decisamente orientata verso una interpretazione comunitaria della filosofia della religione di Kant ; e ciò proprio grazie all’in teresse confessionale-chiesastico con cui si volgeva ad essa. 2 Un capitolo a sé è rappresentato dalla filosofia della religione del neokantismo marburghese, che anch’esso legge in prospettiva decisamente comunitaria i suggerimenti religiosi kantiani e che in più di un punto si lascia ispirare dalla Religione : P. Natorp, Religion innerhalb der Grenzen der Humanität, Freiburg i.B. 1894 ; H. Cohen, Religion und Sittlichkeit, Berlin 1907, Kants Begründung der Ethik nebst ihren Anwendungen auf Recht, Religion und Geschichte, Berlin 1910. Anche nel caso di Cohen l’appartenenza etnico-religiosa contribuisce ad accentuare la dimensione comunitaria della recezione kantiana, come risulta chiaramente dal postumo Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, Leipzig 1919 : si veda l’aspro giudizio che per questa ragione fu formulato sull’opera di Cohen da un pensatore come Martinetti, che pure era anch’egli profondamente ispirato da Kant nella sua alta speculazione etica e religiosa (P. Martinetti, La religione della ragione di Hermann Cohen, 1933, ora in Saggi filosofici e religiosi, a e. di L. Pareyson, Torino 1972, pp. 153-76). 3 K. Barth, Die protestantische Theologie cit. 4 Cfr. K. Rahner, Hörer des Wortes, München 1941 ; E. Przywara, Kant heute, München-Berlin 1930 ; J. Maréchal, Le point de départ de la métaphysique, vol. iii, Bruges-Paris 1923 ; cfr. anche M. Pfaffenhuber, Die Kant-Rezeption bei Maréchal und ihr Fortwirken in der katholischen Religionsphilosopbie, dissertazione, Freiburg i.B. 1970. Da ultimo si sono anche avuti saggi di un rivolgersi del pensiero cattolico a Kant nella prospettiva di una filosofia ermeneutica (I. Mancini, Kant e la teologia, Assisi 1975) e della filosofia della speranza (R. Schaeffler, Was dürfen wir hoffen ?, Darmstadt 1979) ; ciò, però, sempre sullo sfondo e sulla base della
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Basti aver dato questi cenni per richiamare l’amplissimo orizzonte in cui si inscrive, disperdendo visi e solo talvolta riemergendo distintamente, la fortuna della Religione. La traduzione della Religione, che Alfredo Poggi condusse sul testo stabilito dalla Akademie-Ausgabe, e che qui si pubblica integralmente riveduta, 1 fu la prima traduzione italiana dell’opera (Guanda, Parma 1941 e 19672 ; ad essa seguirono quella di A. Durante, Chiantore, Torino 1945 e quella di P. Chiodi, utet, Torino 1970). Al merito della priorità l’impresa di Poggi assommava quello di un volenteroso impegno di aderenza, anche letterale, al testo. Si trattava dunque di una traduzione sanamente impostata, il cui impianto di base andava mantenuto. Lo si è mantenuto, solitamente, anche nella punteggiatura, la quale è inconsueta, ma ha il pregio di evi denziare singolarmente gli elementi in cui si articola la subordinante sintassi kantiana, in quest’opera più involuta che altrove. Gli interventi del Revisore sono stati, sostanzialmente, di tre tipi. In primo luogo ci si è preoccupati di rendere in modo quanto più possibile preciso la terminologia specializzata. Un esempio fra i tanti : Bösartigkeit è stato reso con « malvagità », per distinguerlo da Bosheit, reso con « malignità » (si veda la distinzione di Kant a p. 38) ; « perversità » e « corruzione » invece sono stati riservati esclusivamente ai loro esatti corrispondenti Verkehrtheit e Verderbtheit. Così la teoria del male radicale riguadagna, anche in traduzione, il suo rigore tecnico. Né – per fare un altro esempio – bastava tradurre jederzeit, utilizzato a proposito della teoria della conversione, con un generico « sempre » ; qui lo si è reso con « in ogni tempo », perché Kant in questo caso vuole evidenziare precisamente il carattere fenomenico, e dunque temporale, dell’azione, di contro al carattere noumenico della conversione dal male al bene. Oltre alla terminologia tecnica kantiana, si è curata in particolare la terminologia teologica, che nel caso del lessico luterano ha una sua traduzione italiana consolidata. Pertanto si è riportato Genugtuung a « soddisfazione », Zurechnung a « imputazione » ecc. Più difficile è stato rendere Stellvertretung e apparentati, con cui (al pari dei termini precedenti) Kant si riconnette a quella dottrina della soddisfazione vicaria che tanta
garanzia trascendentalistica. Peraltro una certa favorevole recezione del kantismo da parte cattolica è da rilevare anche nei primissimi tempi della sua diffusione, forse grazie all’opera di M. Reuss ; cfr. la sesta appendice della citata biografia di Borowski, dedicata alle « università cattoliche in rapporto con la filosofia kantiana », e W. Heizmann, Kants Kritik spekulativer Theologie und Begriff moralischen Vernunftsglaubens im katholischen Denken der späten Auf klärung. Ein religions-pbilosophischer Vergleich, Göttingen 1976 (« Studien zur Theologie und Geisteswissenschaften des 19. Jahrhundert », n. 21). Non va poi dimenticata l’accoglienza critica del kantismo da parte della filosofia ottocentesca italiana di ispirazione cattolica (Rosmini ecc.). Dopo l’insignificante volumetto di J. Sattel, Was soll der katholischer Lebrer von Immanuel Kant wissen ?, Kempten 1897 (« Pädagogische Vorträge und Abhandlungen », n. 18), il tema del rapporto fra kantismo e cattolicesimo venne affrontato, anche in rapporto alle tesi ricordate nella nota 79, nei primi decenni del nostro secolo : cfr. H. Bund, Kant als Philosoph des Katholizismus, Berlin 1913 ; A. Deneffe, Kant und die katholische Wahrheit, Freiburg i. B. 1922. 1 Trattandosi di una traduzione, abbiamo ritenuto opportuno conservare il costante riferimento al testo dell’Akademie. Infatti, da un lato le divergenze, rispetto a quest’ultimo, del testo stabilito da successive edizioni (ricordiamo, tra le più recenti e più pregevoli quella di W. Weischedel, nel vol. iv dei Werke, Wiesbaden e Darmstadt 1956, e quella di R. Malter, Stuttgart 1974, che, tra l’altro, tiene presente il manoscritto kantiano del i capitolo, da poco ritrovato a Praga) non avrebbero potuto nella quasi totalità dei casi (lievi variazioni stilistiche) riflettersi nella traduzione ; d’altro lato è importante per il lettore sapere a quale testo riferire costantemente la traduzione, per poterla eventualmente collazionare. Solo in pochissimi casi, tassativamente individuati dal rinvio ad una nostra nota, abbiamo ricordato differenze terminologiche sostan ziali fra prima e seconda edizione del testo kantiano non registrate dall’edizione Akademie.
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importanza (ancor oggi !) ha nel lessico culturale di impronta riformata. Non sempre infatti il contesto permetteva di rendere tale termine con « rappresentanza » (e « rappresentare » si sarebbe confuso con un altro termine altrettanto peculiare come vorstellen) ; a seconda dei casi abbiamo dunque utilizzato termini diversi o perifrasi, ma sempre con l’intento di lasciar trasparire l’implicito riferimento kantiano. In effetti smarrire il referente culturale di questa terminologia significa destoricizzare il discorso kantiano, e soprattutto perdere la valenza polemica che esso possedeva nei confronti del sola fide luterano ; in altre parole, significa non intendere il particolare significato di cui, in prospettiva teologica, si caricava la rivendicazione kantiana delle opere, ovvero dell’azione ispirata da una retta intenzione morale. È qui anche il caso di avvertire che per l’intraducibile termine Schwärmerei non solo si è lasciato « fanatismo », usato spesso da Poggi, ma si è anche uniformata in questo senso la traduzione. Cosicché incontrando il termine « fanatismo » il lettore potrà superarne la palese insufficienza riconnettendolo sempre a Schwärmerei, cioè a quella religiosità intimistica di derivazione pietista che rappresenta uno dei due poli dai quali vuoi tenersi ugualmente distante la rischiarata religione kantiana (l’altro polo è l’ortodossia oggettivistica e soprannaturalistica luterana, a cui Kant allude col termine Aberglauben, « superstizione »). In relazione a quanto siamo venuti dicendo si intenderà come un secondo tipo di intervento, connesso al precedente, sia consistito nel rendere costante e uniforme la traduzione di singoli termini particolarmente ricorrenti in quest’opera. Glaube, ad esempio, è stato sempre reso con « fede » (evitando la differenziazione tra « fede » e « cre denza », che introduceva nella traduzione valenze e valutazioni estranee al testo originale). Altro esempio : Vorstellung e apparentati è stato uniformemente reso con « rappresentazione » e apparentati, perché la frequenza e la precisione tecnica con cui Kant usa questo termine (che si connette con la dottrina dello schematismo) non consentono di sottovalutare l’importanza di tale utilizzazione in ordine alle successive vicende concettuali e terminologiche della filosofia della religione hegeliana. Il terzo tipo di intervento, infine, è consistito nella correzione degli errori di traduzione o dei refusi tipografici, che nella vecchia edizione travisavano in alcuni punti il senso del testo kantiano. Le note richiamate con asterisco * sono kantiane e appartengono alla prima edizione della Religione ; quelle richiamate con crocetta †, così come le parti di testo seguite da tale segno, sono state aggiunte da Kant nella seconda edizione. Le note con esponente numerico prog ressivo sono invece del Traduttore o del Revisore ; in quest’ultimo caso sono distinte dalla sigla [R.] posta al termine.
Varisco e il teismo*
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li incipit di due inediti di Varisco dedicati alla religione sono, nella loro reiterazione, significativi : « Cercar Dio, con i soli mezzi umani, ma senza lasciarne da parte nessuno : ecco il nostro intento » ; e ancora, in un manoscritto incompiuto, iniziato il 27 luglio 1933, cioè tre mesi prima della morte : « intorno a ciò, che secondo l’uso comune dicesi molto indeterminatamente la Divinità o il Divino, è possibile, con soli mezzi umani sapere qualcosa ? poco fin che si voglia, ma ben determinato e non revocabile in dubbio ? Rispondere a tale domanda è il fine che ci proponiamo con il presente lavoro ». 1 Questo è tutto per il 27 luglio ; lo scritto continua poi il giorno seguente, esaminando alcuni problemi che per Varisco sono impliciti in quella dichiarazione di intenti. Si direbbe dunque che la stessa scansione temporale sottolinei il carattere definitorio e definitivo dell’incipit reiterato. È plausibile l’ipotesi che questi due testi rappresentino tentativi di introduzione all’opera Dall’uomo a Dio ; in effetti essi sembrano rispondere perfettamente all’intento dell’opera progettata, al suo titolo e alla riassuntività che quel titolo possedeva rispetto all’intera evoluzione del pensiero di Varisco. Peraltro, proprio dire questo significa richiamare al significato complesso, anzi intricato, di quella reiterata dichiarazione di intenti ; la semplicità della sua formulazione cela infatti molte implicazioni consapevoli e inconsapevoli. Sarà bene dire subito, intanto, che la presenza sempre incombente e progressivamente razionalizzata del proposito teistico è pari, in Varisco, solo alla assenza pressoché totale di una filosofia della religione. Non solo – negativamente – le pagine dedicate da Varisco ad una trattazione tematica della religione sono poche e assai frettolose, ma anche – positivamente – l’esaurimento del problema filosofico della religione nel problema filosofico del teismo vale a sottrarre la religione, e particolarmente la religione storicamente vissuta da Varisco, ad ogni considerazione filosofica ; 2 per Varisco la considerazione filosofica completa e corona infatti il proprio compito con la dimostrazione di un Dio atto a rivelarsi ; vale a dire che essa utilizza tutta la forza della legittimazione razionale e critica per garantire un terreno su cui la ragione non può criticamente, ossia
* In Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, Atti del Convegno di Chiari (Brescia), 8-10 dicembre 1983, a cura di Massimo Ferrari, Chiari, Edizioni Fondazione Morcelli-Repossi, 1985, pp. 279-295. 1 Questi inediti furono consegnati a Enrico Castelli da Giulia Varisco ; con altro materiale varischiano raccolto dal Castelli essi si trovano attualmente in possesso della sua famiglia. 2 In questo senso condividerei senz’altro l’affermazione di Alliney, secondo la quale Varisco « non fu in alcun modo filosofo della religione » (Giulio Alliney, Varisco, Milano, Bocca, 1943, p. 20). Se invece il senso dell’espressione dovesse essere quello in cui sembra interpretarlo Garin, che cita il testo di Alliney, linguisticamente infelice, integrandolo con un articolo determinativo, allora mi parevi sarebbe da dissentire. Così restituisce il testo Garin : « Se il Varisco non fu in alcun modo il filosofo della religione, la radice individuale della sua filosofia nemmeno gli consentì di essere in qualche modo il filosofo della cultura del suo tempo » (Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900-1943, Bari, Laterza, 19664, p. 136, il corsivo è mio). In effetti, quali che siano le sue peculiarità, proprio nel non essere filosofo della religione Varisco fu ampiamente rappresentativo della propria epoca e, più precisamente, rappresentativo dell’atteggiamento della propria epoca nei confronti della religione storicamente dominante in Italia. In questo senso allora ha pienamente ragione Garin di dire che buona parte della produzione di Varisco dopo il 1908 appartiene alla storia del costume italiano (cfr. op. cit., p. 132).
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legittimamente, inoltrarsi. Nel 1929 la... conciliazione – intendo questa conciliazione varischiana di filosofia e religione mediante l’esaurimento del problema filosofico della religione nel problema del « teismo » – è pubblicamente celebrata, dopo che per molti anni era stata desiderata e preparata ; nella relazione presentata in quell’anno al vii Congresso nazionale di filosofia, sotto lo stesso titolo Filosofia e religione che aveva dato circa vent’anni prima ad un proprio articolo sul « Rinnovamento », Varisco afferma : « La religione fu, ed è, un potente fattore della storia e dell’incivilimento. Ma è giustificata ? Rispondere a tale domanda non è soddisfare ad una curiosità oziosa ; bensì un affare di cui è impossibile disconoscere la suprema importanza : è veramente il massimo problema ». 1 La identificazione del problema religioso con il problema teologico o, meglio, la riduzione di quello a questo non potrebbe essere formulata in termini più espliciti. Certo, già nei Massimi problemi – il cui capitolo finale era stato anticipato, appunto, sul « Rinnovamento » – Varisco aveva presentato il dilemma panteismo-teismo come « massimo problema » ; ma la evidente differenza fra questa posizione e la posizione dell’uomo Varisco ormai giunto filosoficamente a Dio è data dal fatto che nel primo caso il problema religioso non si risolveva – filosoficamente, intendo – con la risoluzione del massimo problema, cioè del problema teologico, mentre nel secondo caso sì, si risolve con e nella soluzione del problema teologico. Sarà bene notare come la precedente irrisolubilità del problema religioso mediante la soluzione del « massimo problema » non dipendesse, almeno in linea di principio, dalla natura dilemmatica e, appunto, irrisolubile teoricamente, che secondo il Varisco della fine del primo decennio del secolo caratterizzava il massimo problema ; sin qui infatti il problema religioso aveva una propria autonomia rispetto al problema filosofico-teorico, perché la facoltà che vi presiedeva era il « sentimento » e non la « ragione » ; proprio questa convinzione consentiva a Varisco di sostenere la specificità della religione di contro alle tesi idealistiche e di polemizzare con le reazioni gentiliane a tale sua presa di posizione. Questo – ripeto – in linea di principio ; di fatto è anche troppo evidente che il sentimento rappresentava, come oggi direbbe qualcuno, un surrogato funzionale della ragione, il quale le subentrava nel momento in cui quest’ultima dichiarava la propria impotenza. Dire ciò non significa lasciarsi andare a considerazioni ipotetiche o ad illazioni ; l’evidenza della funzione compensativa svolta di fatto dal sentimento (e dalla ragione in quanto affidata al sentimento) è ricavabile ed attestatale positivamente. Se si leggono le pagine su « Esperienza, religione, filosofia » nelle « Note » poste in appendice al Conosci te stesso, si rimane sbalorditi per come in pochissimo tempo (siamo nel 1912 !) Varisco è potuto passare dalla difesa della specificità della religione alla tesi che « la religione fu la prima soluzione d’un problema posto al pensiero dalla sua intrinseca esigenza » ; 2 tale esigenza essendo definita come la necessità per il pensiero di passare dalla frammentarietà e perciò dalla insufficienza della cognizione « comune » e fenomenica a quella totalità ed unità in cui i singoli fenomeni si inseriscono. Questo passaggio comportava come conseguenza il declassamento, per così dire, del sentimento a facoltà inferiore rispetto al sapere filosofico : conseguenza, questa, anch’essa esplicitamente formulata da Varisco (« Quindi : la religione, se appagava il sentimento dell’uomo primitivo non potrà parer soddisfacente a una riflessione più consapevole »). 3 Conseguenza ulteriore – nel Conosci te stesso for
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In Atti del vii Congresso Nazionale di filosofia, Bestetti & Tumminelli, Milano-Roma, s.d., p. 27. Conosci te stesso, Milano, Libreria Editrice Milanese, 1912, p. 270 ; corsivi miei. Ibidem ; corsivi miei.
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mulata ancora in modo teoricamente incerto anche se con convinzione inconcussa, anzi tanto più forte in quanto non ancora confortata da una adeguata sistemazione e legittimazione teorica – conseguenza ulteriore, dicevo, era quella di una posizione in qualche modo eccezionale del cristianesimo, onde questo non si lasciava riassorbire nella comprensione testé considerata della « religione » in quanto tale. Che quanto qui Varisco chiama « la religione » senza ulteriori determinazioni possa essere interpretato restrittivamente come termine indicante le religioni primitive, o qualcosa del genere, può anche ritenersi implicito nella trattazione ; ma il problema non è affrontato esplicitamente e consapevolmente da Varisco. La problematizzazione esplicita della questione lo avrebbe dovuto portare, ovviamente, ad un arduo ed improbabile discorso comparatistico, di cui, in effetti, nel Conosci te stesso è presente qualche cenno, inteso ad identificare l’eccellenza (o l’eccezionalità ?) del cristianesimo, e di cui il tentativo estremo e più complesso può essere considerato il discorso comparatistico vertente sulle religioni superiori, sviluppato in uno degli inediti a cui ho qui inizialmente fatto riferimento. Ma è evidente che la via preferita da Varisco sarebbe stata un’altra, e cioè quella – come si è detto – della elaborazione di una filosofia che culminasse in una teologia filosofica in cui il Dio teorizzato avesse caratteristiche tali da garantire razionalmente nel massimo grado possibile la pretesa eccezionalità del cristianesimo. Si trattava, in altre parole, non tanto di fornire, genericamente, una nozione di Dio coincidente o concordante con quella cristiana, quanto, e assai più specificamente, di fornire una nozione filosofica di Dio la quale rendesse plausibile una « rivelazione » del medesimo. Non è senza significato che nei tardi inediti a cui ho fatto riferimento emerga reiteratamente, insieme con la altrettanto reiterata ed iniziale dichiarazione di intenti, quel problema della « rivelazione primitiva » a cui certa apologetica cristiana, particolarmente cattolica, faceva ricorso per soddisfare in qualche modo ineludibili istanze comparatistiche, rimanendo tuttavia all’interno dell’orizzonte confessionale ; non è senza significato che a questa visione Varisco contrapponesse la propria « apologetica », e cioè la legittimazione filosofica della pretesa all’eccezionalità della rivelazione storica : una legittimazione filosofica possibile in virtù del carattere « divino » della necessità logica che struttura l’argomentazione filosofica. Si intende quindi come, giunto al termine del cammino dall’uomo a Dio, Varisco potesse affermare che la « giustificazione » della religione è il massimo problema, « che si deve risolvere per via di ragione, con la filosofia. Questo – egli proseguiva nella ricordata relazione al Congresso nazionale di filosofia del 1929 – anche secondo la religione stessa ». 1 È chiaro che la religione di cui si parla in questa citazione è insieme la religione in senso generale e la religione in senso antonomastico : la riduzione del problema religioso al problema teologico sembra a Varisco sufficiente per lasciar convivere, senza ulteriormente problematizzarle, queste due contrastanti nozioni di religione. « La religione infatti – egli spiega – sarà, o soprannaturalmente rivelata, o una semplice costruzione umana. In quest’ultimo caso, è discutibile al pari di qualsiasi altra costruzione umana. E per non discuterla, dovremmo essere certi che sia rivelata. Non può essere tale se Dio non esiste con certi caratteri ». 2 Che la certezza dell’esistenza di un Dio con determinati caratteri non sia ancora la certezza del carattere rivelato di una religione storica è evidente ; la prima certezza rappresenta, semmai, la condizione di possibilità per la ulteriore certezza, la quale va conseguita tuttavia per mezzo di un « assenso »
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Filosofia e religione, in Atti ecc., cit., p. 27.
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Ibidem.
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diverso da quello che scaturisce da una argomentazione razionale. Varisco non nega questa evidenza ; ma è anche vero che di tale evidenza egli si ricorda particolarmente nel momento polemico ; 1 infatti – come il passo di Filosofia e religione sopra riferito documenta esemplarmente – nel momento, diciamo così, sistematico, lo slittamento dall’una all’altra certezza, dall’uno all’altro « assenso », avviene spesso in modo non problematico e non problematizzato. La dottrina varischiana dell’assenso soffre incurabilmente della indecisione e dell’equivoco in cui essa viene a trovarsi al termine dell’itinerario dall’uomo a Dio : la necessità divina, che guida l’argomentazione logica, per un verso assorbe quella opzione sentimentale e non razionale che ancora nei Massimi problemi consentiva l’affermazione dei « valori » e del « teismo », ma per altro verso slitta in una scelta religiosa positiva in cui l’assenso non può ovviamente essere dettato da argomentazioni razionali. In proposito è significativo il modo in cui in Dall’uomo a Dio la questione dell’assenso si delinea con riferimento al problema morale : con riferimento a quel problema dei valori, dunque, che precedentemente aveva giustificato la scelta teistica. Non per nulla Juvalta, leggendo le pagine poi pubblicate in Dall’uomo a Dio, si era schermito di fronte al richiamo alla propria filosofia morale e al troppo cortese riconoscimento del debito intellettuale che Varisco pretendeva di aver contratto al riguardo con l’amico. 2 In effetti, quel mutamento del punto di vista, di cui parlava Varisco richiamandosi alla posizione juvaltiana e, insieme, differenziandosi da essa, consisteva né più né meno che nella affermazione di una raggiungibilità del consenso fra gli assensi morali dei vari individui grazie all’ordine più vasto e non superabile in cui tali assensi si inscrivono : « poiché la logica è necessaria, eterna, mentre le difficoltà psicologiche [scil. il dissenso in materia morale] derivano dall’esperienza che va continuamente variando, è impossibile che il permanere della logica non si renda sempre più manifesto attraverso al variare dell’esperienza [...]. Una via ci sta dinanzi aperta ; non abbiamo che da percorrerla ; nel percorrerla consiste il nostro vivere più intenso e più organico ». 3 Questo cammino in cui sempre ci si intrattiene, ma che anche è già sempre giunto alla meta per il fatto stesso di essere stato intrapreso, questa compresenza, per così dire, di ideale regolativo e regola costitutiva (da un lato il progresso verso la verità, dall’altro l’essere già sempre presente della verità, onde lo stesso cammino « ex veritate » può venire intrapreso) non è, in realtà, altra cosa da quel cammino « dall’uomo a Dio », che Varisco aveva già da sempre concluso per il fatto di averlo intrapreso lungo tutto il corso della propria attività filosofica. Naturalmente si potrebbe osservare come non poche siano le differenze che si determinano a seconda che l’« apriori » logico o, come anche Varisco si esprime, « l’universale divino », venga considerato con riferimento alla religione o con riferimento alla morale ; in questo ultimo caso la compresenza di aspetti costitutivi e regolativi nell’universale divino potrebbe anche presentarsi ricca di suggestioni in una filosofia che, come quella di Varisco, è filosofia della « convivenza », ove il consenso fra gli assensi morali si raggiunge, e si deve raggiungere, attraverso l’argomentazione intersoggettiva. Ma il fatto
1 « Io non scrissi mai una riga di teologia dogmatica » afferma Varisco in uno scritto sull’« apologetica », confutando le critiche del padre Balzaretti ad Enrico Castelli, e con ciò non solo fornendo un aiuto al discepolo che in quel momento veniva minacciato di essere messo all’Indice, ma anche difendendo la propria posizione, a cui quella del giovane autore di Filosofia e apologetica si ispirava profondamente. 2 Cfr. Lettere a Bernardino Varisco (1867-1931), a cura di Massimo Ferrari, Firenze, La Nuova Italia, 1982, pp. 166 e 183-184. 3 Dall’uomo a Dio, a cura di Enrico Castelli e Giulio Alliney, Padova, Cedam, 1939, p. 123.
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è che in Varisco la possibilità di distinguere i due aspetti del problema (quello religioso e quello morale) manca totalmente ; e questo avviene non solo per il carattere equivoco che la dottrina dell’assenso viene ad avere al termine dell’itinerario dall’uomo a Dio, bensì in ragione di tutte le tappe toccate da tale itinerario. La posizione dei Massimi problemi, ove scelta teistica e scelta assiologica convertuntur contenutisticamente e anche formalmente (cioè in quanto operate entrambe col sentimento), è già stata menzionata. Ma la successiva accentuazione razionale della scelta teistico-assiologica non cambia nulla in proposito ; anzi, nel Conosci te stesso la coincidenza fra religione e morale viene teorizzata esplicitamente, e ciò proprio in quelle pagine dove, in conseguenza del carattere chiaramente precipite che ormai ha acquistato la tendenza razionalizzante, la religione viene presentata come filosofia inferior. Donde la necessità, per Varisco, di riconnettere a questo proposito la considerazione della religione primitiva con quella della religione eccellente : considerazioni che, altrimenti, egli lasciava volentieri distinte. Che la religione sia « soprattutto una morale » è vero infatti – precisa Varisco – non solo per la religione primitiva, ma per « ogni religione ». 1 Fra tutte le critiche rivolte da Varisco a Spencer, quella più energica verte proprio sulla tesi che la morale non sia altro che « un prodotto supplementare » della religione storicamente vigente (« È difficile trovare, anche nello Spencer, un’opinione più radicalmente sbagliata »). 2 D’altro canto questo accomunamento-coincidenza, esplicitamente teorizzato, di religione e morale faceva sì che anche la morale, come la religione venisse assoggettata al processo di razionalizzazione crescente e venisse inscritta nel quadro di una dimensione gnoseologico-metafisica nettamente predominante. « La pratica dell’uomo è razionale ; e perciò inseparabile dalla cognizione. La cognizione d’un ordine pratico (etico) supremo è, intanto, cognizione ; rientra nell’ordine teoretico. Ed è cognizione d’un ordine che non è supremo soltanto nella pratica, ma che è supremo anche nella teoria ; e che non sarebbe supremo in quella se non fosse tale anche in questa ». 3 Queste affermazioni sono, significativamente, subito apposte da Varisco a quella tesi sulla coessenzialità di morale e religione che stavamo riferendo ; e se anche egli aggiunge, tra parentesi e brachilogicamente, « (la reciproca è vera) » (e cioè è pure vero che l’ordine supremo nella teoria è tale anche nella pratica), il discorso si conclude sottolineando il valore conoscitivo della morale, la quale delinea sempre « una metafisica (intendendo, per metafisica, la cognizione d’un ordine teoretico supremo, tale cioè, che basti a se stesso) ». 4 Come si vede, dunque, quel rinvio ad un ordine più vasto e non superabile, che nel 1926 avrebbe suscitato le riserve di Juvalta e che sarebbe stato poi riportato nel postumo Dall’uomo a Dio, è teorizzato esplicitamente e con parole precisamente corrispondenti già qui, nel Conosci te stesso. Peraltro, se approfondiamo un po’ più attentamente questa posizione possiamo vedere come, nonostante il cammino percorso in senso razionalistico dall’uomo a Dio, il passaggio ad una comprensione razionalistica della morale avvenga in misura assai minore di quella che Varisco stesso desiderava di aver teorizzato. Le « difficoltà psicologiche » di cui parla Varisco con riferimento alla morale sarebbero superabili, abbiamo visto, in virtù della valenza regolativa di quello stesso apriori divino, ovvero di quella stessa « logica », che comunque organizza e dà forma alla mutevole empiria. Quale che sia la coerenza di questa volonterosa commistione fra essere e dover essere, la « diffi
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Conosci te stesso, cit., p. 268. Ibidem.
Op. cit., p. 269. Ibidem.
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coltà psicologica » non può tuttavia essere superata, per Varisco stesso, nel caso in cui essa scaturisca non dalla mutevolezza dell’esperienza, ma da un atteggiamento che non è « ex veritate ». In questo caso, cioè in assenza di una buona volontà argomentativa, il raggiungimento del consenso negli assensi è ovviamente precluso. Le apparenze del discorso varischiano possono anche essere improntate ad un logicismo, che è tanto più vistoso in quanto nella visione ricordata il nostro ricalca posizioni che aveva delineato con la sua teoria dell’errore. 1 Ma proprio siffatta parallelizzazione tra male ed errore mostra con evidenza come, ad onta di ogni teoricismo o logicismo, la cattiva volontà possa sempre eccedere e precedere ogni divino principio che ci costituisce, con una eccedenza e precedenza che non è in alcun modo quella della mutevolezza dell’empiria rispetto alla permanenza della logica organizzatrice dell’empiria medesima. Significativamente in uno dei tardi inediti filosofico-religiosi che ho avuto occasione di ricordare, emerge ampiamente il tema del male radicale : « Ma la ragione, appunto perché serve d’istrumento a conseguire un fine qualsiasi, non è d’alcun aiuto nella determinazione del fine (così, p. es. il denaro può essere usato indifferentemente a soccorrere una povera famiglia, o a prezzolare un sicario). Sembra, che il fattore veramente pratico sia essenzialmente irrazionale, sembra cioè che un criterio fondamentale, applicabile ad ogni caso, per distinguere con certezza in modo universale il bene dal male manchi assolutamente. In questa mancanza consiste il male radicale insito nella natura umana ». E su questa battuta lo scritto termina. E si noterà come in questa battuta di conclusione, o meglio di interruzione (nel senso più forte del termine, se lo scritto, che reca il titolo « L’intento », doveva servire di introduzione a Dall’uomo a Dio : opera che a questo punto viene smentita radicalmente), 2 si noterà, dicevo, che in questa battuta di interruzione la radicalità del male non è una inspiegabile tendenza la quale corrompe una volontà per natura buona, come ad esempio nel teorico par excellence del male radicale, cioè nel russoviano Kant, e come potrebbe ancora essere secondo la teoria dell’errore delineata nel Conosci te stesso, dove l’errore è spiegato come un contrasto tra coscienza e subcoscienza determinato dalla spontaneità. 3 Qui piuttosto la radicalità del male è una smentita del principio divino costitutivo-regolativo che nel Varisco pubblico, e proprio nel Varisco del Dall’uomo a Dio, garantisce il percorrimento della via che « ci sta dinanzi aperta ». Sarebbe interessante sapere come Varisco avrebbe raccordato queste considerazioni con la considerazione svolta, mediante una delle sue consuete e significative formule preteritive, del tutto verisimilmente nello stesso torno di tempo, e cioè nello scritto su L’errore, laddove vien fatto rapidamente corrispondere il problema del vero e del falso con quello del bene e del male : « Notiamo da ultimo, che la dottrina sopra esposta – una dottrina delle valutazioni – è applicabile alla distinzione pratica del bene e del male, oltre che alla teoria del vero e del falso, alla quale ci limitiamo. E che, approfondendola, se ne ricaverebbero importanti conclusioni sui caratteri, dovuti
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L’errore veniva presentato nel Sommario di filosofia come la compresenza di un assenso e di una prova contraria ; sì che anche qui Varisco considerava volonterosamente l’errore come qualcosa che, anziché giocare in favore dello« scetticismo », favorisce piuttosto la possibilità della collaborazione : « l’errore infatti è correggibile sempre, quantunque non sempre da chi lo abbia commesso ». (Sommario di filosofia, Roma, Signorelli, 1928, p. 60). 2 Le note manoscritte della figlia Giulia dispongono la collocazione de L’intento in appendice a Dall’uomo a Dio. Tuttavia nel volume pubblicato postumo a cura di E. Castelli e G. Alliney, furono bensì posti in appendice alcuni scritti che erano stati pensati probabilmente come introduzioni a quest’opera, ma non 3 Conosci te stesso, cit., pp. 106-108. quello a cui facciamo riferimento qui.
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lasciar quasi affatto nell’ombra, dell’attività creatrice increata ». Dove, si potrà notare, alla presenza di un male non contingente, ma costitutivo della natura umana, presenza rilevata sopra a proposito dell’inedito L’intento, corrisponde qui significativamente la formulazione del problema non a livello di contingente atteggiarsi della spontaneità umana, bensì a livello della attività divina creatrice. Ma senza sopravvalutare il Varisco inedito (e, forse, pour cause, e cioè per la spezzatura, per l’interruzione del percorso dall’uomo a Dio, rappresentata da queste considerazioni) rispetto al Varisco pubblico e pubblicato, possiamo osservare come le considerazioni svolte ci portino a toccare il punto centrale del problema varischiano del « teismo ». Infatti, vuoi sotto il profilo del tema errore-verità, vuoi sotto il profilo del tema male-bene, il discorso, come si è visto, si apre a quella questione della intersoggettività e della « convivenza » e in conseguenza di ciò a quel tema dell’attività divina, ovvero del soggetto tutto coscienza, che rappresenta indubbiamente l’aspetto tematico del problema del teismo in Varisco, in quanto problema o, appunto, tema filosofico. Il tema dell’intersoggettività, o dell’«interferire », cessa, a proposito del problema dell’errore e della cattiva scelta morale, di essere un tema astratto : astratto, intendo dire, dalle stesse condizioni teoriche che ne definiscono il significato all’interno della visione complessiva del pensiero varischiano ; con riferimento al problema errore-cattiva scelta morale il tema dell’intersoggettività e dell’interferire raggiunge infatti l’orizzonte teorico dell’«interesse » – per usare un termine di Varisco medesimo – che muove tale interferire : orizzonte, confine ultimo, che distingue e connette la teoria e la pratica (« il geometra non geometrizzerebbe » senza questo fondamento pratico) 2 e che, in altro senso, distingue e connette altresì la subcoscienza e la coscienza. L’opposizione vero-falso e bene-male delinea dunque il quadro più ampio dell’indagine filosofica varischiana, che è quello delle motivazioni dell’agire, e del pensare come agire (Varisco avvertiva reiteratamente non solo della valenza pratica di ogni agire, ma anche della irrinunciabilità della considerazione degli aspetti « psicologici » del discorso dell’interlocutore accanto a quelli « logici »). Anche le motivazioni meccaniche e/o subconscie possono essere portate alla coscienza mediante l’argomentazione intersoggettiva e dunque essere fatte rientrare nell’ambito controllabile dalla spontaneità, e così il male può essere abbandonato per il bene e l’errore può essere abbandonato per la verità. Si tratta di un ampliamento soggettivo della coscienza dovuto all’interferire ovvero alla collaborazione degli altri soggetti. Nella misura in cui questo ampliamento della coscienza non dovesse riuscire ci troveremmo di fronte al male radicale della natura umana ; nella misura in cui esso riesce, ci troviamo di fronte al bene della natura umana, ovvero alla coscienza in cui tutte le coscienze sono incluse. Specifico della teoria varischiana dell’intersoggettività è infatti questo carattere di soggettività propria alla coscienza assoluta, questa « trascendenza relativa », onde anche lo sforzo solitario di raggiungere la verità e di trapassare dunque dal male al bene ovvero dal falso al vero è solo apparentemente solitario, perché in realtà esso è sempre comunicativo e intersoggettivo. Anzi, se si vuole descrivere con precisione il modello comunicativo che sottende il pensiero varischiano, bisognerà dire che esso non è mai duale, ma sempre triadico ; per un verso, solo astrattamente e provvisoriamente si può pensare una comunicazione interumana che, insieme al passaggio da elementi subconsci a elementi consci nel quale essa sempre si concreta, non
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Il pensiero vissuto, a cura di Enrico Castelli, Roma , Perrella, 1940, p. 88. Cfr. Conosci te stesso, cit, p. 269 ; passim.
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implichi anche la coscienza soggettiva assoluta come il campo in cui quel passaggio avviene e da cui è reso possibile ; ma per altro verso, solo altrettanto astrattamente e provvisoriamente si può pensare esclusivamente ad una comunicazione asimmetrica fra la singola coscienza umana e la coscienza assoluta in cui quella si inscrive ; infatti non solo la coscienza assoluta con cui io sono sempre in rapporto comunicativo include contemporaneamente tutte le altre coscienze finite, create da quella coscienza assoluta (sicché io mi trovo in tal modo, quanto meno, in rapporto comunicativo indiretto e mediato con gli altri soggetti finiti) ; ma, oltre a ciò, la stessa possibilità di affermarmi come « io » implica la presenza, o almeno il « ricordo » del « tu » ; presenza e ricordo che richiamano una temporalità la quale non si darebbe senza l’intersoggettività finita : « Il solipsista si disfà del passato, della dimenticanza e del ricordo, e quindi anche nella subcoscienza per la ragione medesima, per cui si disfà dell’altro soggetto. Per ammettere un pensiero altrui, non riducibile al proprio caratterizzato come altrui, esattamente come per ammettere un proprio passato, non riducibile al presente caratterizzato come passato, io devo ammettere, che il mio pensiero presente implica di necessità qualcosa di non mio e non presente. La tesi estemporanea e la solipsistica stanno e cadono insieme ». 1 È noto che una parte almeno della letteratura varischiana – e della migliore – aveva ritenuto di scorgere nell’ultimo Varisco – cioè nel Varisco che prende decisamente posizione teorica a favore del « teismo » – un regresso dell’istanza pluralistica che caratterizzava il periodo precedente, quasi che fra pluralità dei soggetti umani e soggettività dell’assoluto vi fosse in Varisco un rapporto di proporzionalità inversa. Più recentemente è stata sostenuta viceversa la tesi dell’« insufficienza filosofica del pluralismo che non concluda nel teismo, anche se dato in forma postulatoria ». 2 Questa tesi mi sembra, almeno con riguardo storiografico all’opera di Varisco, più aderente alla realtà degli scritti del medesimo ; anzi mi pare che essa debba essere estesa anche al teismo non postulatorio, bensì argomentato (o tale nelle intenzioni), dell’ultimo Varisco. Non per nulla ho voluto citare da ultimo, fra gli altri possibili, almeno uno dei passi di Dall’uomo a Dio in cui la preoccupazione pluralistica e antisolipsistica del nostro è chiaramente formulata. Fin da quello scritto del 1920 (Unità e molteplicità) in cui per la prima volta Varisco dichiara argomentabile il teismo e rivede così esplicitamente il suo precedente punto di vista, la teorizzazione del soggetto universale avviene non ad onta bensì mercé l’affermazione del pluralismo, ed anzi mercé una affermazione particolarmente forte e marcatamente prospettata in senso comunicativo : « Infatti per conoscere un mondo, che gli fosse in tutto e per tutto immanente, l’individuo non dovrebbe ricorrere che alla sua esperienza e al suo discorso ; mentre invece deve ricorrere alla informazione e alla discussione in contraddittorio ». 3 E la critica a Gentile, che Varisco intende formulare con questa affermazione, prosegue, concludendo lo scritto, con una considerazione di quel problema della temporalità la cui funzione antisolipsistica e, con ciò, critica dell’attualismo abbiamo già avuto modo di ricordare con riferimento al posteriore e postumo Dall’uomo a Dio. In effetti, se si vuole, prima di qualsivoglia valutazione critica, cogliere nella sua effet
1 Dall’uomo a Dio, cit, p. 36. A riprova di quello che ho chiamato modello comunicativo triadico si può leggere l’intera pagina pubblicata postuma da Enrico Castelli in introduzione alla citata raccolta Il pensiero vissuto (cfr. pp. 1-2). 2 Gaetano Calabrò, L’antropologia di Bernardino Varisco, in Figure del pensiero italiano contemporaneo ; Bonatelli, Varisco, Tredici, a cura di Romeo Crippa, Ateneo di Brescia - Accademia di Scienze Lettere ed Arti, 3 Il pensiero vissuto, cit., p. 105. Brescia 1982, p. 44.
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tiva dimensione storica il problema varischiano del teismo e il modo in cui esso si connette con quello dell’intersoggettività, non si può prescindere dal confronto costante che, a partire da un certo momento, Varisco sostenne con l’attualismo (come termine a quo si possono prendere già La conoscenza e i Paralipomeni alla conoscenza). Non v’è dubbio che la trasformazione « idealistica » del primitivo pluralismo rispondesse anche a ragioni interne alla visione che Varisco andava elaborando, fin da quando si era reso conto della necessità di considerare l’organizzazione degli « stati » psichici in centri soggettivi come il presupposto anziché come il risultato dell’atto di pensiero. Ma proprio su questa strada di una revisione critico-coscienzialistica 1 l’incontro con l’attualismo acquistava il valore di una sfida decisiva. Era a partire dal momento di questo incontro, infatti, che diveniva problematica l’affermazione – anche l’affermazione fideistica o postulatoria – di una personalità divina congiunta all’affermazione della pluralità dei soggetti, entrambe le affermazioni essendo, peraltro, irrinunciabili dal punto di vista « psicologico » per Varisco. Ed è infatti a partire da questo incontro che si assiste alla elaborazione progressiva di una teoria in cui – indipendentemente dal grado di certezza con cui le due affermazioni vengono operate e indipendentemente dalla facoltà a cui si fa ricorso per la loro affermazione (il sentimento o la ragione) – pluralismo dei soggetti e soggettività dell’assoluto vengono teorizzati con un movimento circolare, culminante in quel modello comunicativo triadico che sopra ho descritto, onde la pluralità dei soggetti rinvia alla soggettività divina e la soggettività divina rinvia alla pluralità dei soggetti. Detto con riguardo al referente polemico delle considerazioni varischiane : è a partire da quel momento che l’idealismo gentiliano viene messo in questione da Varisco dai due reciproci punti di vista, di una riduzione dell’attualismo al solipsismo (non essendo l’attualismo in grado di mantenere effettivamente la pluralità dei soggetti empirici), ovvero di una riduzione del medesimo al panteismo (non essendo l’attualismo in grado di attestarsi con rigore sulla instabile ed equivoca posizione che Varisco chiama, non senza un qualche involontario effetto umoristico, « teopanteismo » : si veda la tormentata appendice del Conosci te stesso con il moltiplicarsi dei dilemmi tra ipotesi pluralistiche e teologiche difficilmente sceverabili). Questa circolarità e reciprocità delle due affermazioni proprie di Varisco (pluralismo e teismo) e delle rispettive critiche all’idealismo, anche attualistico, sono già evidenti in La conoscenza e nei Paralipomeni : « Se l’esistenza di altri soggetti fosse indubbiamente certa, l’ipotesi di uno spirito universale, la cui coscienza tutti li includa, sopprimerebbe in qualche modo, come s’è visto, l’antinomia esplicita (secondo l’idealismo) nell’affermazione della loro esistenza ; ma perché questa ipotesi divenga credibile, perché abbia significato, bisogna che l’esistenza d’altri soggetti sia certa. E come può esserlo, se diviene intelligibile soltanto in virtù dell’ipotesi dello spirito universale, mentre questa ipotesi non ha valore e significato di sorta se non in quanto serve a conciliare con le premesse idealistiche la esistenza, sup
1 La stessa rielaborazione della psicologia di Scienza e opinioni sulla base dei rilievi avanzati dal neocriticista Tocco – rilievi ora resi accessibili dalla pubblicazione della corrispondenza inviata a Varisco – è significativa in questo senso : « Fin d’ora – scriveva Tocco – posso dirle che prima di mettere a stampa il suo lavoro, sarà bene che ritorni sulla parte psicologica, dove mi pare molto audace l’affermazione che i metodi adoperati nella costruzione meccanica del mondo, possano riuscire a darci una situazione compiuta dei fatti psichici. Se fosse vero questo, se anche l’Etica potesse tutta rientrare nel giro di quel meccanismo universale non ci sarebbe più posto per la fede, e l’ultima parte del suo lavoro sarebbe ingiustificata » (Lettere a Bernardino Varisco, cit, p. 109). Osservazione, questa, molto importante, sia per il riferimento all’etica e alle esigenze teoriche che essa avanza all’interno della visione varischiana, sia per il conto in cui l’osservazione stessa fu tenuta da Varisco nella rielaborazione della parte psicologica di Scienza e opinioni.
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posta certa, di altri soggetti particolari ? ». 1 E per altro verso : « L’idealismo abbandona questo concetto [scil. l’azione reale dei soggetti plurimi] ; risolve la causalità in leggi, cioè in pensieri divini, concentra tutta l’azione in Dio [...]. Ma se tutto quanto si pensa e si fa è pensato e fatto da Dio, nel pensiero divino le idee di virtù e di vizio devono ridursi ad unità ; e il volere divino dev’esser insieme buono e cattivo ; è quanto dire, che Dio non può aver coscienza una ; sia come pensiero sia come volere Dio sarà dunque un essere inconsapevole ». 2 Era il caso di ricorrere a citazioni da opere di questo periodo per documentare direttamente non solo la circolarità in cui, fin da allora, vengono a trovarsi questione teistica e questione pluralistica, ma anche per documentare direttamente come, a partire dall’incontro con l’idealismo attualistico – o, se si vuole, a partire dal momento in cui Varisco stesso comprende sé quale idealista – la problematicità affètti il pluralismo non meno che il teismo. L’argomento morale, o moralistico, che qui abbiamo avuto modo di toccar con mano, cioè l’indistinguibilità di virtù e vizio nella divinità, se questa è sfornita di coscienza (ovvero, reciprocamente, la impossibilità della morale senza intersoggettività : « Una vera moralità non è possibile senza ammettere che si diano più soggetti aventi tra loro delle relazioni »), 3 è una tesi che Varisco non abbandonerà mai e che tornerà, esplicitamente formulata, in tutte le tappe successive della sua evoluzione. 4 Ma va notato che, mentre a proposito del teismo l’approfondimento del tema della « necessità logica » o dell’« apriori divino » consentiva a Varisco di procedere verso una riduzione razionalistica del sentimento, sì che al termine del cammino dall’uomo a Dio, Dio poteva dirsi razionalmente dimostrato, diversamente stavano le cose a proposito del pluralismo. Per quanto riguarda il teismo, la riduzione idealistico-coscienzialistica della realtà favoriva la circolarità dell’argomento ontologico (su cui, in effetti, Varisco scrive) ; circolarità tra esistenza e pensiero che tanto più si consolida quanto più la subcoscienza viene coscienzializzata in quel soggetto universale che include le coscienze dei soggetti finiti. Ma questa circolarità idealistica, che in Dall’uomo a Dio viene affermata esplicitamente, 5 proprio per il fatto di essere conclusa e definitivamente affermata, elimina ogni possibilità di teorizzare il pluralismo facendo ricorso ad una gnoseologia di tipo realistico. Se ancora nei Massimi problemi e negli scritti di quell’epoca Varisco poteva appellarsi ad una gnoseologia a suo modo realistica per combattere il solipsismo, l’accento progressivamente si sposta a misura che il pluralismo viene approfondito come « sistema dei soggetti ». Quando poi il sistema dei soggetti viene esplicitamente incluso nella coscienza assoluta, l’affermazione del pluralismo rimane affidata proprio essa a quella considerazione morale e moralistica che aveva rappresentato, come abbiamo visto, il punto di partenza per una teorizzazione del soggetto universale. L’indistinguibilità del male dal bene – e del falso dal vero, pensati essi stessi assiologicamente – aveva rappresentato la molla per affermare, di contro all’idealismo attualistico, la soggettività dell’assoluto, senza della quale vizio e virtù, errore e verità, avrebbero, secondo Varisco, coinciso. La progressiva razionalizzazione, o gnoseologizzazione, di questa affermazione comporta che la considerazione pratica, morale-moralistica, la quale inizialmente era l’unica valida per risolvere il dilemma panteismo-teismo, rimanga l’unica in forza della quale può essere affermata quella pluralità soggettiva per la
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La conoscenza, Pavia, Bizzoni, 1905, p. 45. 3 Paralipomeni alla Conoscenza, Pavia, Bizzoni, 1905, pp. 52-53. Op. cit., p. 26. 4 Cfr. ad es, Paralipomeni alla Conoscenza, cit, p. 53 ; Conosci te stesso, cit, p. 338 ; Dall’uomo a Dio, cit., pp. 5 Cfr. ad es. p. 278. 203-210. 2
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quale Varisco non poteva più fare ricorso ad affermazioni gnoseologiche di tipo realistico. È significativo che l’appello al « sentimento » come facoltà distinta dalla ragione si presenti nell’ultimo Varisco non più per affermare il teismo, bensì per affermare l’intersoggettività : « Io amo la mia patria [...]. Prendere la vita sul serio è, per il solipsista, una assoluta inconseguenza. Opporranno : – prendere la vita sul serio significa in ultimo : associare alla considerazione oggettiva della vita un certo sentimento [...]. Rifiutando il solipsismo perché inconciliabile col pregio da voi attribuito alla vita, voi avete presentato come argomento un vostro sentimento, il che non è lecito. – Rispondo. Il sentimento è un costitutivo della vita ; quindi : una concezione che dalla vita escluda il sentimento non ha valore conoscitivo ». 1 Il cammino intrapreso dall’uomo a Dio è dunque, inestricabilmente, anche un cammino dall’uomo all’uomo. E quest’ultima espressione ha per sua natura – cioè in quanto fa riferimento al soggetto finito – un significato duplice : l’uomo in questione è, insieme, il soggetto finito filosofante – cioè, nel caso specifico, l’uomo Varisco con le sue esperienze « psicologiche » che lo spingono verso un Dio personale e creatore – ed è il soggetto finito, o sono i soggetti finiti, con cui il soggetto filosofante si trova in rapporto ed in discussione : diciamo in « interferenza ». Non v’è un rapporto di proporzionalità inversa tra « teismo » e « pluralismo », come l’intreccio inestricabile delle due istanze varischiane mostra ad abundantiam. Piuttosto il rapporto di proporzionalità inversa che allo storiografo incombe di riconoscere, è fra gnoseologia di tipo realistico e gnoseologia di tipo idealistico, e questo nonostante ogni pretesa di « ideorealismo » o « idealismo realistico ». Il costante ricorso a considerazioni di tipo morale-moralistico per soddisfare le istanze lasciate insoddisfatte, volta per volta, dall’una o dall’altra delle due gnoseologie adergentisi a metafisica conferma l’inestricabilità e l’irrinunziabilità dell’istanza pluralistica e dell’istanza teistica nell’uomo filosofante Varisco. Nello stesso tempo, certo, tale ricorso mostra la crisi della filosofia gnoseologistica e cogitativa e la sua insufficienza a soddisfare l’esigenza morale o assiologica, presentata prima come istanza teistica e poi come istanza pluralistica. Che per non rifugiarsi in un acritico e non ulteriormente indagabile « sentimento » sia necessario abbandonare il presupposto gnoseologistico e cogitativo in favore di una « filosofia critica » in cui l’apriori sia connesso alla comunicazione e al linguaggio è osservazione che esula dal compito di una ricostruzione storiografica e che potrebbe correre il rischio di considerare in modo astorico il pensiero di Varisco, mettendolo a confronto con motivi filosofici successivi. Vorrei però notare che la presenza del problema comunicativo nel pensiero varischiano è così forte da fargli spesso spezzare la coartante inquadratura gnoseologistica e cogitativa in favore di una considerazione, per così dire, linguistica, che pone in una diversa luce l’apriori, lasciando intravvedere una diversa « linea di filosofia critica », o una diversa funzione critica della filosofia. Questa valenza linguistico-comunicativa è affiorata chiaramente in più d’una delle citazioni sin qui addotte ; valga citare, a mo’ di ultimo esempio, queste parole dallo scritto sull’errore : « L’evidenza diviene forse massima in quello che diremo il principio logico [...] da molti ritenuto a priori esso stesso, immediatamente. L’uomo più rozzo respinge come pazzo un discorso che violi questo principio. Ma non sa formularlo [...]. Noi (studiosi di filosofia), riflettendo sul contegno dei parlanti, lo pensiamo distintamente, genericamente, formulando il principio, che diciamo a priori ». 2
1
Sommario di filosofia, cit., pp. 32-34.
2
Il pensiero vissuto, cit., p. 80.
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ÜBER J.-L. MARIONS BEITRAG ZUR NEUEREN RELIGIONSPHILOSOPHIE*
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as heißt « Dieu sans l’être » ? In der Vorrede – oder im « Envoi », wie Marion sie nennt – des Werkes, dem dieser Titel beigelegt wurde, 1 erklärt der Verfasser sofort, dass « sous le titre Dieu sans l’être nous n’entendons pas insinuer que Dieu ne soit pas, ni que Dieu ne soit vraiment Dieu » (DSE 10). Vielmehr – fährt er nach diesen beiden Verneinungen fort – kommt es darauf an, dem nachzudenken, was in der Anlehnung an Schelling die Freiheit Gottes hinsichtlich seines eigenen Daseins genannt werden könnte. Doch sind beide Verneinungen, die ich zitiert habe, nicht ganz eindeutig. Freilich sind sie im einleitenden Kontext, in dem sie stehen, ohne weiteres berechtigt, damit ein schweres Missverständnis von Seiten des Lesers vermieden wird, und zwar dieses, daß es sich um ein im geläufigen Sinne des Wortes atheistisches Werk handeln würde oder, noch trivialer, um ein Werk, in dem von jemandem geredet wird, der sich den Rang Gottes anmaßt, ohne dass er ihm zukommt. Dies wäre ein radikales Missverständnis eines theologischen, je eher noch religiösen als theologischen oder – um es durch den graphischen Notbehelf Marions auszudrücken – theologischen Werkes, d.h. eines Werkes, das vor allem ein Glaubensbekenntnis an Gott darstellt, dessen « seigneurie » oder « Herrlichkeit » – wie man etwa übersetzen dürfte, damit die Anwesenheit von H. Urs v. Balthasar expliziert wird – dem Sein überlegen ist, das von jener Herrlichkeit aus Überfluß und Gabe (donation) herrührt. In einem anderen Sinn aber bedeutet der Titel « Dieu sans l’être » genau das, was die beiden, wie schon gesagt nicht ganz eindeutigen anfänglichen Verneinungen auszuschließen scheinen. Marion ist ein Meister der Sprache und oft weiß er mit großer Geschicklichkeit und Spontaneität, eine Mehrheit von Bedeutungen hervorzurufen. In einem derart je anderen Sinn heißen der auf deutsch aus der französischen Formulierung unübersetzbare Titel und das unter ihn gestellte Vorhaben nun tatsächlich sowohl « Gott ohne das Sein » als « Gott, ohne es zu sein ». Ich werde also das Programm « Dieu sans l’être » nach dieser zweifachen Artikulierung erörtern.
I. « Gott ohne das Sein »
Warum also « Gott ohne das Sein » ? Weil, wenn Gott das Sein « hätte » (als Prädikat eines Subjekts), oder wenn Gott das Sein « wäre » (einer Prädikation gemäß, bei der das Prädikat das Subjekt vollständig erschöpfte : ontologisches Argument, spekulativer Satz, Ontotheologie) oder wenn Gott « wäre » (im Sinne einer keinem Prädikat gleichzustellenden Existenz, die als « bloße Position », um mit Kant zu reden, oder einen an selbständiger Bedeutung fehlenden logischen Quantor darstellte), dann wäre Gott dem Sein nicht mehr überlegen, dann wäre er nicht mehr der absolut Überlegene : er wäre
* Intersoggettività, socialità, religione, a cura di Marco M. Olivetti, «Archivio di filosofia», liv, 1-3, 1986, pp. 623-636. 1 Jean-Luc Marion, Dieu sans l’être, Paris 1982 ; in der Folge mit der Abkürzung DSE zitiert. Mit der Abkürzung ID wird ein anderes Werk Marions angeführt : L’idole et la distance, Paris 1977.
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nicht mehr im etymologischen Sinn der « Absolute ». So etwas kann nicht angenommen werden ; es wäre sowohl aus Glaubensgründen wie auch aus theoretischen Gründen unannehmbar, was auch immer das Verhältnis zwischen diese beiden Arten von Gründen, das Verhältnis vom logos tou staurou zum logos, sei. Dieses Verhältnis wird von Marion auf eine eigentümliche Art definiert. Aber noch bevor man betrachtet, dass sich der Logos dem Logos des Kreuzes nur dann entgegensetzt, wenn er vom Standpunkt der Vernunft und nicht wenn er von dem des Kreuzes berücksichtigt wird, noch bevor man betrachtet, dass der « folie de la croix » der Vernunft nach ohne jede Symmetrie noch Symmetriesierbarkeit das « affolement de la raison » von Seiten des Kreuzes entspricht, sollte es einleuchten, dass ein auf die oben erwähnte Art und Weise dem Sein untergeordneter Gott bereits für den Logos der Vernunft bzw. die Philosophie nicht akzeptabel ist. Ja, er ist nicht mehr akzeptabel weil dieser Gott nunmehr gestorben ist. Er ist ein « Idol » – das Idol –, eine Idee – die Idee –, ein Begriff – der Begriff. Das durch das « Nunmehr » definierte geschichtliche Ereignis dieses Todes soll nicht im Sinne einer Geschichtsphilosophie verstanden werden, nach der Vergangenheit, Präsenz und Zukunft bloß nacheinanderfolgen, wie noch im Fall der erstmaligen theologischen Aussprache des « schweren Wortes : Gott ist tot » (Hegel). Das dieses Ereignis definierende « Nunmehr » soll auf eine radikalere Weise verstanden werden, eine Weise, die nur für einen oberflächlichen Blick weniger radikal und endgültig als das Nacheinander und die « Auf hebung » aussehen würde. Es ist das « Nunmehr» der « Verwindung » der Metaphysik ; in einem bestimmten Sinn ist es das « Nunmehr » des « Ereignisses » selbst, ich meine das « Ereignis », das von Heidegger seit einem bestimmten Punkt seines Denkens gedacht und von Marion seinerseits mit interpretativer Originalität zutiefst aufgenommen wurde (man sehe das letzte Kapitel von L’idole et la distance). Aber auch hier meine ich : « in einem bestimmten Sinn ». Denn zwischen dem Motiv der « Verwindung » und dem Motiv des « Ereignisses » gibt es ja eine Entfernung, einen Abstand, den Heidegger durch die Entwicklung seines Denkens durchläuft und den Marion trotz seiner Aneignung des Ereignisses gerade in dem Maße, wo er sich das « Ereignis » « à distance » zu setzen vornimmt, vielleicht nicht durchlaufen kann. Ich meine, seit Zeit und Sein scheint Heidegger sein Denken dadurch zu radikalisieren, dass er sich seit diesem Moment vornimmt, das « Sein ohne Rücksicht auf die Metaphysik zu denken », denn – so sagt er – es gilt « … vom Überwinden abzulassen und die Metaphysik sich selbst zu überlassen ». 1 Nun ist solches durchaus nicht das Konzept von Marion. Trotz all dem, was er am Ende von ID über das Ereignis schreibt (und dort handelt es sich nicht nur um das materielle Ende, sondern um den systematischen Ausgang), ist der Anfang des Denkens Marions doch die Metaphysik, die Ontotheologie oder genauer der Tod Gottes als eines ontotheologischen Gottes. Als Beweis dafür könnte man sämtliche, sozusagen wohlwollenden in DSE vorkommenden Ausdrücke über das Idol anführen : nicht nur über seine Unvermeidlichkeit, sondern auch über seine Unentbehrlichkeit (vorausgesetzt, dass man es nachher sozusagen zum Tod verurteilt) ; man könnte an den neulich erschienenen Artikel mit dem bedeutungsvollsten Titel De la « mort de Dieu » aux noms divins : l’itinéraire théologique de la métaphysique erinnern ; 2 aber da dieser in etwa eine zusammenfassende Darstellung des von Marion durch die beiden vorhergehenden systematischen Werke erarbeiteten Denkens vorlegt und da aus
1 Zur Sache des Denkens, Tübingen 1969. Über diesen Punkt man sehe die wichtigen Betrachtungen von Pietro de Vitiis, Heidegger e la fine della filosofia, Firenze 1974, 225-230. 2 In « Laval théologique et philosophique », 41 (1985), 24-41.
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vielen Gründen DSE in einem bestimmten Sinne als zweiter Teil eines einzigen Werkes betrachtet werden soll, dessen erster Teil ID darstellt, ist der schlagendste Beweis, den man diesbezüglich anführen kann, jener, der am Anfang von ID steht : und ich möchte auch in diesem Fall den nicht rein materiellen sondern vielmehr systematischen Charakter dieser anfänglichen Feststellung hervorheben. Denn hier wird etwas ganz einsichtig, ausdrücklich und programmatisch anerkannt, das sich lohn, vollständig zitiert zu werden : « Quiconque prétend sauter d’un bond hors de l’onto-théologie s’expose à la répeter, à une inversion naïvement critique près. La distance ne nous deviendra inchoativement intelligible que si c’est à partir de l’onto-théologie elle même, et de son état le plus identifiable » (ID 39). Nun vereinbart sich dieses Programm oder diese Methode – wenn man sie so reduktiv nennen möchte – auf keine Weise mit dem heideggerschen « Darum gilt es, von Überwinden abzulassen und die Metaphysik sich selbst zu überlassen». Andererseits ist ein solches Verlassen der Metaphysik unentbehrlich, um dazu zu kommen, das Ereignis wirklich zu denken – tatsächlich kommt Heidegger dazu, dieses zu denken, indem er jenes Ablassen theoretisiert. Man könnte einwenden, dass die Methode « prendre de biais l’ontothéologie » oder die Strategie der « marques » (aber ich wiederhole, dass « Methode » und « Strategie » reduktive Wörter sind) mit der « Überwindung » / « Verwindung » nicht zusammenfallen. Und das kann auch stimmen (obwohl die Metaphern « biais » oder « marques » mir nicht viel helfen, das einzusehen, was angestrebt wird), aber sicher, wenn ich über die Metapher, über die bloße Methode oder Strategie hinaus an die Verwirklichung des Programms durch Marion selbst denke, so ist das mögliche Nicht-Zusammenfallen von « Überwindung » / « Verwindung » und « biais »-« marques » im Sinne einer größeren Nähe dieser letzten bzw. einer größeren Ferne der ersten Termini (Überwindung-Verwindung) hinsichtlich der Ontotheologie zu beschreiben. So, dass der abschliessende Hinweis Marions auf das Ereignis genau in dem Maße stattfindet, wo er auf den Tod Gottes hingewiesen hat. Und das, obwohl der Hinweis in tiefem Einverständnis mit dem Denken Heideggers vollzogen wird, dem ja gerade durch diesen Hinweis auf das Ereignis als Wahrheit der ontologischen Differenz (vgl. ID, S. 303) die Überlegenheit gegenüber den von Levinas und Derrida an der ontologischen Differenz geübten Kritiken zugestanden wird. Um die These zu belegen, dass der Hinweis auf das Ereignis zusammen mit dem auf den Tod Gottes stattfindet, kann man unter vielen die folgende Stelle zitieren, die auf den letzten Seiten von ID das Motiv der Überwindung und das des « Ereignisses » ausdrücklich verknüpft : « Le chrétien se met à/en distance de l’Ereignis de multiple manières par cette indifférence [Marion spricht hier, Balthasar folgend, von einer «indifférence à l’ensemble de l’être» – und schon dieses ‘Ensemble’ ist bedeutugsvoll – weil sagt er, «son jeu demeure abyssalement distinct de la distance trinitaire (et donc de la creation)»] : il éprouve d’abord que l’Ereignis n’approprie qu’en se désappropriant, et ici convient d’autant mieux avec la pensée de l’Etre ; ensuite, il réprouve la solitude [ !] de l’Etre, et en disqualifie toute prétention idolâtrique […], pour enfin, s’en soucier d’autant mieux comme d’une icône possibile de la distance. En ce sens, il ne paraît nullement indifférent d’outrepasser la métaphysique et son idole (Dieu comme causa sui), pour accéder à la difference et surtout à la pensée du donner dans l’Ereignis : il y va de la conversion de l’idole en icône » (ID 313). An dieser Stelle, wie übrigens an vielen anderen der beiden systematischen Werke, ist schon das Vorkommen einer sozusagen existentialen Analytik (indifférence, souci) bei der Erörterung der das Sein oder besser das Ereignis betreffenden Fragen bemerkenswert. Solches Vorkommen ist freilich nicht zufällig und darf nicht einmal zu einem
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intellektuellen Topos oder zu einem Ausdruckspiel reduziert werden. Denn erstens sind einige unter den reizvollsten und meisterhaftendsten Seiten Marions gerade durch diese, wie ich sie genannt habe, existentiale Analytik gekennzeichnet (ich denke zum Beispiel an « Ennui » und « Mélancholie » in DSE, also an nichts weniger als an das « envers la charité »). Zweitens wird ein solches Vorkommen bei der oben angeführten Stelle keineswegs deswegen von geringerer Bedeutung, weil in diesem Fall die Analyse den Christen betrifft ; denn die These – und zugleich das Glaubensbekenntnis Marions – ist, dass die Modalitäten des christlichen Daseins keineswegs ontische Modifizierungen sind. Ja gerade diese These legitimiert dazu, (daseinsanalytische) « Indifferenz » und (ontologische) « Differenz » zusammenspielen zu lassen. Alle diese Betrachtungen bestätigen das, was ich hervorheben will, und zwar, dass die Aneignung des Ereignismotivs von Seiten Marions voraussetzt, dass das von der « Überwindung » der Metaphysik nicht « abgelassen », sondern dass eine solche eben durch eine « Verwindung » immer wiederholt wird. Betrachten wir aber nochmals den an der oben angeführten Stelle beschriebenen Gedankengang, d.h. den Gedanken, durch den die Setzung-in-die-Ferne des Christen hinsichtlich des Ereignisses vollzogen wird, dann können solche Anmerkungen noch durch weitere Hinweise bereichert werden. Also zuerst « éprouve » (erlebt) der Christ, dass das Ereignis zueignet, nur indem es sich enteignet, und darin kommt der Christ mit dem Denken des Seins ganz überein ; sodann « réprouve » (verwirft) er die Einsamkeit des Seins und seinen idolatrischen Anspruch ; endlich trägt er für es « Sorge » als für eine mögliche Ikone der Ferne, des Abstandes. Nun das, was bei einer solchen In-dieFerne-Setzung merkwürdig ist, das ist, dass es bei ihr eine vollständige Entsprechung gibt zwischen der am Anfang der Beschreibung des Gedankenganges erwähnten indifférence vor dem Ereignis und der am Ende der Beschreibung erwähnten totalen sozusagen non-indifférence vor der Überwindung der Metaphysik (ich zitiere nochmals : « En ce sens, il ne paraît nullement indifférent d’outrepasser la métaphysique et son idole (Dieu comme causa sui), pour accéder à la différence et surtout à la pensée du donner dans l’Ereignis. ». Überwindung der Metaphysik, Denken der ontologischen Differenz und Denken des Ereignisses und seines Gebens gehen also radikal miteinander und von keinem dieser Momente kann man « ablassen », ohne dadurch nicht auch das Ablassen von den anderen zu verursachen. An diesem Punkt könnten wir zur Betrachtung der zweiten semantischen Artikulation von « Dieu sans l’être » übergehen, die ich « Gott, ohne es zu sein » übersetzt hatte. Aber bevor wir zu dieser weiteren Betrachtung übergehen, sei angemerkt, dass die Entwicklung der Erörterung uns mit der Antwort auf die Frage nach dem Grund, aus dem Gott ohne das Sein gedacht werden soll, auch zu einem letzten – wirklich letzten, extremen – Sinn von « Sein » geführt hat, und zwar zu dem nicht ontifizierten Sein, woran die ontologische Differenz erinnert. Die für einen Titel erforderliche Kürze geht in diesem Fall zu Gunsten der Klarheit und Genauigkeit dank der Ausschließung eines jeden Verbs, sei es nun mit prädikativer Funktion (das Sein haben, das Sein sein) oder mit existentieller Funktion, wozu normalerweise die Grammatik und ihre implizite oder explizite metaphysische Funktion zwingen würde. Also « Gott ohne (das) Sein », weil « au-delà de l’idolâtrie, propre à la metaphysique, travaille une autre idolâtrie, propre à la pensée de l’être en tant que tel » (DSE, 65). Wir werden hier die Erwähnungen von berühmten heideggerschen Stellen nicht wieder aufgreifen, durch die es Marion gar nicht schwer fällt, eine solche These zu untermauern (so dass in DSE
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zu den Termini Dieu und « Dieu » von ID Dieu hinzukommt, das die heideggersche Sperrung von Sein eben auf Gott übertragt). Es ist nicht einmal angebracht, in die Auseinandersetzung einzudringen, die zwei mögliche Interpretationsweisen Heideggers einander entgegensetzt, die eine, welche die Vereinbarkeit oder Verwendbarkeit des heideggerschen Denkens hinsichtlich einer christlichen Philosophie bzw. Fundamentaltheologie behauptet, und die andere, welche eine solche Möglichkeit bestreitet. Es käme vielmehr darauf an, zu sehen, ob die Behauptung der Notwendigkeit – für das christliche Denken – eines nachmetaphysischen Rahmens die so entschiedene und unumstößliche Behauptung von « Gott ohne (das) Sein » implizieren muß. Es scheint mir, dass wichtige gegenwärtige Vorschläge – z.B. B. Welte im katholischen und E. Jüngel im evangelischen Bereich – in dieser Hinsicht wohl weniger unumstößlich sind, ohne dass man diesbezüglich jedoch von « idolâtrie » sprechen dürfte. Persönlich wäre ich zu einer solchen Entschiedenheit ebenso geneigt, aber aus ganz anderen Gründen als Marion, aus Gründen, die sich nicht sosehr von Balthasar als von Levinas her ergeben, dessen Bedeutung, trotz aller Rezeption, mir von Marion nicht wirklich erfasst zu sein scheint. Das wird aber besser im Folgenden verstanden werden können. Das, was nun hervorgehoben werden muß, ist, dass im Vergleich zu anderen nachmetaphysischen Denkern Marion sich kennzeichnet : a) durch eine totale Annahme Heideggers (selbstverständlich wie er ihn versteht) und b) durch eine In-die-Ferne-Setzung desselben, deren Voraussetzung jedenfalls jene totale Annahme ist. Ich habe bereits die Gründe erwähnt, die mir diese zweifache Bewegung ein bißchen dubios erscheinen lassen (also die Zusammensetzung von « Verwindung » der Metaphysik und « Ereignis », wobei Heidegger das Ablassen von der Überwindung der Metaphysik für notwendig hält, um das Ereignis zu denken) ; ich füge hinzu, dass dieser zweifachen Bewegung die für einen Bewunderer des Dionysios, wie es Marion ist, seltsame Tatsache der Unterschätzung des neoplatonischen Denkens zuzuschreiben ist. Denn : Idolatrie = Philosophie ; In-dieFerne-Setzung = Christentum. Aber die Wichtigkeit des Christentums für die Philosophie bzw. für die In-die-Ferne-Setzung empfiehlt den Übergang zur Betrachtung der zweiten semantischen Artikulation von « Dieu sans l’être », die etwa als « Gott, ohne es zu sein » übersetzt werden könnte.
II. « Gott, ohne es zu sein »
Warum also « Gott, ohne es zu sein » ? Freilich stellt sich die Antwort auf der christologischen Ebene. Nicht nur ist Jesus kein Gott im idolatrischen Sinn der weltlichen Weisheit, die versuchen würde, sich von Tempel herunterzustürzen und die Engel zu seiner Rettung herbeikommen zu lassen oder auch sich kreuzigen zu lassen, um sich sodann von dem befreien zu lassen, als dessen Sohn man sich erklärt hat. Vielmehr ist die Menschwerdung selbst, das heißt die Annahme des Seins oder besser der Seiendheit von Seiten Gottes, Kenose und außerdem oder infolgedessen ist die Annahme der Seiendheit als Kreuz und als Tod, mortem autem crucis. Als unverbesserlicher Götzendiener neigte man dazu, sich zu fragen, ob die Freiheit Gottes hinsichtlich des Seins und seines eigenen Seins nicht darin eine Grenze habe, daß die freie Annahme der Seiendheit von Seiten Gottes doch nicht anders als Kenose, als Kreuz, geschehen könne. Diese Frage ist aber augenscheinlich götzendienerisch, idolatrisch, weil sie – um uns nochmals mit schellingschen Termini auszudrücken – die « positive » der « negativen » Philosophie unterordnet, indem man vergißt, daß die erste ohne das zweite stehen kann, nicht aber
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umgekehrt. Doch scheint das « positive Ereignis » des Kreuzes bei einer « positiven Philosophie » wie der Marions als Folge zu haben, dass die Kreuzigung, die Sperrung vom Sein zu Gott hin zurückrutscht. Die Sache ist keineswegs auf die Annahme mehr oder weniger angenehmer graphischer Notbehelfe zurückzuführen, die vielleicht vermieden werden könnten. Tatsächlich gibt Marion selbst an einem sehr wichtigen Punkt von DSE (dort, wo von der ousia geredet wird, die der verlorene Sohn für sich besitzt), als er sich fragt, welcher Namen dem anderen Terminus der Ferne zu geben sei, die folgende Antwort : « Sans doute le nommerons nous Dieu, mais en croisant Dieu de la croix qui ne le révèle que dans la disparition de sa mort et de sa résurrection » (152 f.). Das erklärt also endgültig, warum und in welchem Sinne « Dieu sans l’être » auch als « Gott, ohne es zu sein » übersetzt werden kann (« mein Gott, mein Gott, warum hast du mich verlassen ») ; denn diese Annahme des Seins von Seiten Gottes fällt mit dem Tod des frei angenommenen Seins zusammen. An diesem Punkt sind wir aber imstande, einige Anmerkungen besser zu verstehen, die sich schon früher angekündigt hatten, und uns einige abschließende Fragen zu stellen. Bei dieser christologischen Zurückschiebung der Kreuzsperre vom Sein zu Gott hin bekommen wir den klarsten graphischen Ausdruck und die klarste Bestätigung von dem, was wir früher behaupteten und zwar, dass die Methode, die die Metaphysik « de biais » aufgreift, der Ontotheologie näher liegt als die Methode, die sich ihre Überwindung-Verwindung vornimmt (und nochmals fällt mir die schellingsche Philosophie der Offenbarung ein, aber dann bereits der Schelling der Philosophie der Kunst, als er Christus als « den letzten der Götter » definiert und sich das Problem der künstlerischen Darstellbarkeit des Sohnes stellt, insofern als dieser bis zu Kreuzestod leidet). Diese größere Nähe darf so beschrieben werden : indem die heideggersche « Überwindung » der Metaphysik eine Bewegung darstellt, die dazu neigt, das Denken des Seins von dem des Seienden zu entfernen, da sie sich im Denken des Ereignisses als « Ablassen von der Überwindung der Metaphysik » vollendet, impliziert die In-die-Ferne-Setzung des Eregnisses, dass das Ereignis dem Seienden genähert wird, da es sich als Tod des Seienden in der Person des Menschgewordenen Gottes vollendet. Auch in dieser Hinsicht bietet uns der Text Marions ganz gezielte Ausdrücke. Gerade dort, wo Marion sich fragt, wie der andere Terminus der durch die ousia des verlorenen Sohnes hervorgerufenen oder angedeuteten Ferne zu nennen sei, behauptet er (bevor er positiv erklärt : « San doute le nommerons nous Dieu ») : « Sans doute ne se nommerat-il pas Être, puisque l’être ne fait qu’un avec l’étant en vertu de la différence ontologique appropriée à elle même par l’Eregnis » (DSE, 152). Selbstverständlich dürfte diese größere Nähe Marion ganz angenehm sein, der eine Ferne theoretisiert, die ihre beiden Termini um so mehr einander nähert, je mehr sie einen davon bis zu Unvereinbarkeit von dem anderen entfernt. Ich bin der Meinung, dass in einer solchen Sicht wertvolle Gedanken zu finden sind, um im technischen Zeitalter gut zu verkünden, euaggelein, aber ich bin auch der Meinung, daß das heideggersche Ereignis, um ein bedeutungsvolles Oxymoron zu verwenden, nicht unmittelbar in die Ferne gesetzt werden kann, d.h., dass es nicht als solches, wie es uns Heidegger überliefert hat, in die Ferne gesetzt und infolgedessen der Ferne analogisiert werden kann (wie in den übrigens wunderbaren, durch ein sehr hohes spekulative Niveau gekennzeichneten Seiten, die die ID beschließen). Es scheint mir, daß ein Um-Denken des Ereignisses nicht nur aus philosophischen Gründen (auf die ich schon mehrmals hingewiesen habe und womit ich meine An
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merkungen schließen werde), sondern auch aus theologischen Gründen gefordert ist. Denn, darf man das Ereignis des Kreuzes mit dem « Ereignis » zusammenfallen lassen ? Ich glaube nicht, obwohl dies die Folge der Nähe zu sein scheint, die sich aus der Indie-Ferne Setzung ergibt. Es stimmt, dass das Ereignis durch die In-die-Ferne-Setzung von Marion als solches christologisch, d.h. als Ikone, betrachtet wird (das findet in den letzten, sehr dichten Seiten von ID statt, auf die ich schon hingewiesen habe). Es ist aber offensichtlich, wie eine solche Betrachbarkeit des Ereignisses als Ikone der Antlitz Jesu voraussetzt. Das würde auf der Ebene der dogmatischen Theologie keineswegs geringzuschätzende Folgen miteinschließen, die auf folgende Weise zusammengefasst werden könnten : die Freiheit Gottes hinsichtlich des Seins und seines eigenen Seins impliziert die Notwendigkeit der Menschwerdung und der Menschwerdung als Kreuzigung nachdem die caritas sich einmal der Schöpfung hingegeben hat. Was ohnehin eine Antwort auf die Frage « Cur deus homo » sein darf (etwa in Syntonie mit jener griechischen Patristik, die Marion so sehr anregt und an der man sich heute zweifelsohne mehr inspirieren sollte) ; es handelt sich aber um eine Antwort, die eine große Bereitschaft zur dogmatischen Verarbeitung fordert, unter anderem auch hinsichtlich des Themas der Sünde (worauf in nicht sehr einsichtiger Weise gerade auf der letzten Seite von ID und auf den Seiten 157-158 von DSE angespielt wird). Man sollte auf einige Winke weiter eingehen, wie etwa auf DSE S. 175, wo einfach behauptet wird, dass die Schöpfung nur auf Grund der Menschwerdung denkbar ist, und nichts gesagt wird über die sich in diesem Denkhorizont ergebende Notwendigkeit, Menschwerdung und Kreuz als zusammenfallend zu denken. Von einem philosophischen Gesichtspunkt her scheint es mir, daß auch Marion in DSE dazu gelangt, die Fraglichkeit zu spüren, die sich aus dem zusammenhalten von Ereignis und Überwindung der Metaphysik ergibt, wie es in ID stattfindet. Das ist an dem Vorhaben festzustellen, das « affolement » der ontologischen Differenz von einem, von dem der Ikone, also von einem von dem theologischen verschiedenen Gesichtspunkt her zu versuchen (170) ; sonst – erklärt Marion – « l’analytique de l’homme comme Dasein demeurerait, pour nous, indépassable, la différence ontologique, pour nous incontournable » (160). Wodurch auch die Verweigerung zutage tritt, sich danach zu richten, das Ereignis durch das Ablassen von der Überwindung der Metaphysik zu denken. Jedenfalls, kann dieser Versuch (eines negativen affolement der ontologischen Differenz) gelingen ? Marion ist sich dessen äußerster Schwierigkeit bewusst ; dass die « fiction littéraire » (die eine andere Sache als die Dichtung ist), obwohl auf sehr feine und hoch virtuose Weise, zu Hilfe gezogen wird (man sehe die Seiten über Valérys « Teste », DSE 161-165), scheint mir viel mehr seine philosophische Unmöglichkeit als seine Möglichkeit zu beweisen. In der Tat fordert dieser Versuch, ein « entre deux » zu denken, während man aber den Gesichtspunkt des Dritten gleichzeitig ablehnen muß. Dieser Gesichtspunkt wird, unter Anrufung von E. Levinas, schon in ID abgelehnt ; tatsächlich wäre er völlig unangebracht, da er einer objektivierenden Einstellung entspricht, die von der ganze Ausführung verweigert und überholt wird. Andererseits aber, damit man philosophisch die Daseinsanalytik überwinden kann, sollte der Versuch, das « entre deux » zu denken, auch vom Gesichtspunkt Gottes absehen, also von jenem Gesichtspunkt, der, obwohl er « invisible » und « invisable » ist, uns doch vom Blick der Ikone und des Antlitzes vorgeschlagen und geschenkt wird, der uns « envisage ». Aber wie dann von einem « entre deux » sprechen ? Marion kennt die Schwierigkeit ; tatsächlich sagt er sofort, dass dieser
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Ausdruck « entre deux» unangebracht ist, und er zieht die husserlsche Einstellung zu Hilfe, die aber aus ihrer Natur selbst solipsistisch, bewußtseinshaft und egologisch ist, so daß nachher Marion dazu zurückkommt, die räumliche Matapher vom entre deux zu wiederholen. Das Unbehagen oder die Aporie wird weiter durch das « als ob » ausgedrückt : « Il voit le monde non certes comme Dieu le voit, mais comme vu par Dieu » (DSE, 184). Obwohl die Melancholie Dürers – halb Mensch, halb Engel – dieses Unbehagen und diese Aporie wohl ausdrücken kann, finden wir uns hier von etwas mehr als einer Aporie, die das Denken, das diesen Versuch wagt, in Verlegenheit bringt ? Einen Versuch, dessen hybris mehr teufelhaft als engelhaft ist ? Ja, handelt es sich nicht dabei um eine im eigentlichen Sinn luziferische hybris, d.h. eine solche, die die theologische In-die-FerneSetzung und die von dieser letzten ausgemachte Gabe voraussetzt, um sodann sie zu verneinen, als ob die Gabe nicht geschenkt worden wäre ? In DSE, der semantischen Präzisierung entsprechend, wodurch Gott Gott und « Gott » hinzugefügt wird, wird zwischen « donation » und « don » unterschieden (in DSE sind sie noch ununterschieden s.S. 394). Eine donation wäre die, dank derer das grammatikalische Subjekt des « Gebens » nicht ein « Es », sondern ein « Er » ist. Die Möglichkeit dieser grammatikalischen Ersetzung mit all dem, was sie an Denkbarem oder besser an Durchlauf barem und zugleich Unsichtbarem ausdrückt, ist von Antlitz als Ikone gegeben. Wäre dann aber das entre deux nicht der Raum der Interlokution ? Und wenn das Sein der durch die Interlokution entfaltete Schirm ist, entsteht dann nicht die Metapher aus einer Übertragung der Interlokution über den Schirm des Seins hinaus ? Metapher also im strengsten, etymologischen und zugleich… metaphorischen Sinn wegen der Verwendung einer raum-zeitlichen Vorstellung. Übertragung, die durch ursprünglich Asymmetrie und Nicht-Symmetrisierbarkeit der Interlokution gefordert ist. Ich würde nicht fürchten, all das als Behauptung des Vorranges des Seienden über das Sein zu bezeichnen : freilich des Seienden als Persona (wenigstens im etymologischen sinn dieses letzten Wortes). Marion kritisiert diesbezüglich Levinas ; man könnte anmerken, dass der von ihm kritisierte Levinas der von Totalité et Infini ist, ein Levinas also, der im Unterschied von dem von Autrement qu’être tatsächlich in der Folge überwundene ontologische Reste erscheinen lässt. Sehen wir aber davon ab. Doch geht die Seiendheit des Seienden als Person aus der Interlokution hervor ; doch wird sie durch die Interlokution konstituiert oder genauer sie wird duch die (ursprüngliche und asymmetrische) Anrede, durch die Allokution konsituiert ; durch jene Anrede, durch die dem in-fans, dem Nicht-Redenden, das Wort gegeben wird, durch die also der infans als Interlokutor, als Redender, als Subjekt bzw. Ich-Sager konstituiert wird. Dass der Vorrang der Person über das Sein als Vorrang des Seienden über das Sein erscheint, ist ganz selbstverständlich ; aber es handelt sich nur um einen Schein, einen unvermeidlichen Schein oder eine Erscheinung, die genau die des Seienden auf dem durch die Interlokution entfalteten Schirm des Seins ist. In einer in den « Archives de Philosophie » veröffentlichten ausführlichen Besprechung von ID hat Stanislas Breton das Werk als ein « ouvrage de qualité exceptionelle » definiert und gesagt, er betrachte es als « une des oeuvres majeures de notre temps ». 1 Tatsächlich dürften seine Erarbeitung des eigentlichen Themas oder Nicht-Themas der « Ferne » sowie die durch DSE entwickelte eigentümliche Phänomenologie – falls man
1
« Archives de Philosophie », 43 (1980), 152-157.
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sie so nennen darf – des Idols und der Ikone auf keine Weise vom heutigen denken übersehen werden. Ich sage nicht einfach vom religionsphilosophischen Denken, da es einleuchtet, dass hier – gerade wie bei Levinas – eine radikale Infragestellung des Denkens und zugleich eine Radikalisierung desselben gerade dank der religiösen Inspiration stattfindet. Es kommt nun darauf an, zu sehen, ob die Ikone – trotz allem noch im Sinne des levinasschen visage und der levinasschen Kritik an der ontologischen Differenz – nicht dazu nötigt, das Sein als Ereignis, als Anrede und infolgedessen schon als solches als unmöglich einsam zu denken. Dann wäre die In-die-Ferne-Setzung des Ereignisses schon von einem angebrachten denken des Ereignisses gefordert und nicht als etwas, das dazu hinzukommen kann. Das würde freilich implizieren, dass das Verhältnis zwischen dem logos und dem logos tou staurou nicht als eines der Ersetzung des ersten durch den letzten verstanden werden soll, wie es bei der Deutung, die Marion in der chronologischen Nacheinanderfolge von Areopag-Rede und Korinther-Brief liefert, der Fall zu sein scheint. Übrigens scheint ein solches sozusagen sprachpragmatisches Verständnis des Ereignisses in den beiden Beiträgen abgeschattet oder angedeutet zu werden, die verwunderlicherweise (oder provokatorisch) im Anhang von DSE unter den Titel « Hors texte » gestellt wird und besonders in dem Kapitel über die logische und zugleich sprachpragmatische Verfassung des Glaubensbekenntnisses « Jesus ist der Herr» gebraucht wird. Die Folgen, die sich aus dieser « dernière rigueur » auch hinsichtlich der analytisch orientierten Religionsphilosophie ergeben könnten, sind unübersehbar. Aber vielleicht habe ich in diese letzten Seiten zu viel Persönliches hineingebracht.
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Enrico Castelli (1900-1977)*
E
nrico Castelli Gattinara di Zubiena nacque a Torino il 20 giugno 1900 da Paolo e da Gina Arborio Mella ; è morto a Roma il 10 marzo 1977. Da varie pagine autobiografiche è possibile ricostruire l’atmosfera culturale ed emotiva che segnò indelebilmente l’animo del giovane Enrico. La nostalgia di un mondo non solo scomparso, ma anche, in qualche modo, consapevole del proprio destino di tramonto si accompagna, nelle rievocazioni castelliane, ad elementi di incubo : un incubo dal quale si vorrebbe evadere. Certamente anche in queste esperienze infantili – seppure non soltanto in esse – va rintracciata la genesi di quello che fu poi un singolarissimo carattere della fisionomia intellettuale di Castelli : la convivenza di tratti decisamente critici nei confronti della modernità con tratti altrettanto decisamente modernizzanti, la convivenza di elementi nostalgici e conservatoristici con elementi liberalizzanti e liberanti. Questi ultimi proiettano nel futuro la nostalgia, convertendola in speranza ; il futuro di tale speranza è in parte escatologico, ma in parte, anche, fiduciosamente storico. Anche per questa parte si tratta tuttavia di un futuro, la cui eventuale e incerta positività è oggetto di una fiducia e di una speranza esclusivamente religiose, capaci di superare o, comunque, di accompagnarsi pervicacemente ad un fondamentale pessimismo e ad un senso decisamente tragico dell’esistenza.
Antiche tradizioni, spirito di dovere e soprattutto religione hanno costituito il clima entro il quale si è svolta la mia infanzia. Soprattutto da parte materna, questo spirito religioso a fondo giansenistico ha dominato tutta la mia giovinezza. Ricordo che non c’era che un’alternativa : dannazione o salvezza [...] Uscendo una domenica dal Duomo, dopo aver ascoltato la Messa, mia madre mi disse : « Perché borbottavi ? » – « Perché contavo i dannati e i salvati. Sì, vedi, molti sono entrati in Chiesa dopo la lettura del Vangelo. La Messa non è più buona ; peccato mortale, dannati ! ». Dovevo avere cinque anni. Mia madre sorrise. Ricordo che passò una mano sui miei capelli, baciandomi in fronte. « Non bisogna essere così severi. La carità di Dio è infinita ». Ma di questa carità infinita io non riuscivo a formarmi un’idea. La carità è un dovere che si deve compiere, senza gioia. Questo era il sentimento intimo mio. 1
La cultura risorgimentale e progressiva si intreccia con una più antica cultura, sia da parte di padre – ufficiale di cavalleria, deceduto giovane per i postumi di una malaria contratta in guerra – sia e soprattutto da parte di madre. Castelli ricorda l’interesse con cui, fanciullo, ascoltava le conversazioni dei parenti che parlavano di Cavour e di d’Azeglio, di Cesare Balbo e di Gioberti, « persone da loro più volte avvicinate, alcune amiche di famiglia, altre, i de Maistre, legate da vincoli di parentela ». 2 Un intreccio analogo di componenti conservatrici e componenti modernizzanti, interne tuttavia ad una medesima tradizione, caratterizza anche gli aspetti più propriamente scolastici dell’ambiente del giovane Enrico (che peraltro ebbe un’istruzione prevalentemente privata e domestica, a causa della salute cagionevole) :
* L’argomento ontologico, a cura di Marco M. Olivetti, « Archivio di filosofia », lviii, 1-3, 1990, pp. 765-778. Versione leggermente ampliata del capitolo « Enrico Castelli (1900-1977) » apparso in Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrhunderts, hrsg. von Emerich Coreth, Walter M. Neid und Georg Pfligersdorsser, Band 3 : Moderne Strömungen im 20. Jahrhundert, Graz-Wien-Köln 1989, pp. 564-575. 1 Enrico Castelli, Il tempo esaurito, 2. ed., Milano-Roma, Bocca, 1954, pp. 27-28. 2 Op. cit., p. 29.
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era viva l’eco della polemica rosminiana. Cugini maggiori di me frequentavano il collegio di Domodossola, altri quello dei Gesuiti a Torino perché Domodossola era feudo dei Rosminiani. La sentenza del S. Uffizio pesava. 1
Dopo una giovinezza segnata dall’atmosfera della prima guerra mondiale (« È lecito andare volontario in guerra ? ... Mi sembrava un dovere, ma non ne ero certo. Soprattutto mi sembrava l’unico modo per non rimanere estraneo a un mondo in tormento »), 2 il giovane Castelli si iscrisse al corso di laurea in filosofia nell’università di Roma, dove si addottorò nel 1923 con Bernardino Varisco. Il rapporto intellettuale con Varisco è stato certo di grande importanza per Castelli, e avremo modo di mettere in evidenza i motivi filosofici che legano fra loro le prospettive dei due pensatori. Tuttavia questo rapporto non fu né il solo, né immediato (né forse a senso unico : più di un indizio induce a pensare che il giovane discepolo abbia contribuito, quanto meno, ad accentuare nel senso di un teismo pratico-vitalistico gli ultimi orientamenti intellettuali del vecchio maestro). In un primo tempo, infatti, Castelli fu assistente presso l’Istituto di Psicologia Sperimentale dell’Università di Roma ; di argomento psicologico fu anche la sua prima pubblicazione, la quale difendeva il valore della psicologia sperimentale di contro alla critica dell’idealismo italiano. 3 Insegnava allora psicologia Sante De Sanctis, uno dei più autorevoli pionieri della psicologia nell’università di Roma e in rapporto di amicizia e collaborazione con il penalista positivista Enrico Ferri, con Varisco stesso (mai del tutto dimentico delle sue origini positivistiche) e con la pedagogista Maria Montessori (nel 1931 Castelli diverrà segretario generale dell’Opera Nazionale Montessori). Se si tiene presente che nella scuola del De Sanctis operavano già personalità come Ferruccio Banissoni (che nel 1926 avrebbe pubblicato La psicologia della volontà) e Mario Ponzo (che avrebbe elaborato una originale « psicologia dell’azione »), ci si può fare un quadro della differenziata e tuttavia sinergica complessità degli stimoli intellettuali che concorrono a delineare il programma filosofico di Castelli, espresso emblematicamente già nel titolo del suo primo libro : Filosofia della vita. Saggio di una critica dell’attualismo e di una teoria della pratica (Roma 1924). La « filosofia della vita » proposta da Castelli è una filosofia della vita psichica individuale e della sua irriducibilità ; proprio l’affermazione di tale irriducibilità garantisce quella pluralità dei soggetti, che è invece condannata ad essere riassorbita non appena si privilegi la conoscenza (universale) rispetto alla vita (individuale). La distinzione attualistica tra soggetto empirico e soggetto trascendentale non è che un caso specifico – ancorché dominante allora nella cultura italiana – di uno gnoseologismo che, per Castelli, caratterizza tutto il pensiero moderno, condannato ad approdare inevitabilmente ad una dottrina del soggetto unico. È evidente allora come in tale programma filosofico potessero convergere sollecitazioni culturali diverse : la già ricordata indagine della vita psichica nei suoi aspetti individuali e introspettivi, particolarmente attenta alla psicologia dell’azione e della volontà ; la filosofia dell’azione blondeliana, raggiunta però soprattutto attraverso la mediazione di Laberthonnière, il cui influsso è, invece, forte e diretto ; l’istanza varischiana di un « pluralismo » dei soggetti ; un’esigenza religiosa allo stesso tempo teistica
1
2 Op. cit., p. 34. Op. cit., p. 34. Il valore della psicologia sperimentale e la critica idealistica, in « Archivio italiano di Psicologia », 2, 1923, pp. 60-65. 3
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e positiva (teistica, nella misura in cui una visione teistica preclude una risoluzione immanentistica dei soggetti plurimi nel soggetto trascendentale ; positiva, nella misura in cui la stessa visione teistica è solo derivatamente oggetto di ricostruzione teorica, trovando la sua radice e la sua validità originaria nell’esperienza vissuta, e vissuta perché ricevuta in una concreta esperienza di vita). Le opere di quello che può essere considerato il primo periodo della produzione filosofica di Castelli rappresentano altrettanti punti di condensazione dei motivi che sono stati accennati : « punti di condensazione », sia perché esse – ad eccezione della monografia su Laberthonnière, Milano 1927 – nascono in larga misura dalla raccolta di saggi (secondo quella che sarà una caratteristica frequente e non estrinseca dei libri pubblicati da Castelli, in quanto affermatore del pensiero vissuto e critico delle pretese logico-sistematiche), sia perché evidenziano volta per volta, esemplarmente, singoli motivi in cui si articola l’unitaria fisionomia filosofica di Castelli : Filosofia della vita, per l’appunto ; istanza religiosa positiva (Filosofia e apologetica, Roma 1929) ; critica del gnoseologismo e dei suoi esiti solipsistici (Idealismo e solipsismo, Roma 1933). Tutte e tre queste opere comparvero presso l’Editore Signorelli, in una collana diretta da Castelli medesimo e i cui titoli sarebbe interessante prendere in considerazione (tra gli altri volumi troviamo, ad esempio, il Principio di una logica della vita morale di Blondel, tradotto e introdotto da Castelli stesso). In effetti l’attività editoriale e, più generalmente, l’attività di organizzazione, catalizzazione e – nel senso etimologico – provocazione filosofica sarà sempre, anche in seguito, una caratteristica fondamentale di Castelli pensatore : fondamentale non solo per l’ampiezza e l’instancabilità dell’attività medesima, ma anche e prima ancora per il significato direttamente filosofico che essa possiede. Tale attività, infatti, non è solo l’espressione di un pensiero che cerca, ovviamente, le proprie corrispondenze e promuove le espressioni culturali che sente affini ; essa è anche la diretta espressione di un pensiero che afferma la pluralità dei soggetti, ma vive l’« incubo » dell’incomunicabilità in misura direttamente proporzionale a questa affermazione. Sugli aspetti teorici di tale incubo dovremo tornare ; possiamo però osservare sin d’ora come proprio le numerose e cospicue iniziative in cui si sostanzia l’attività castelliana di convocazione filosofica conferiscano alla fisionomia intellettuale di Castelli un tratto paradossale, onde colloquio e isolamento e, anche, « senso comune » e « paradosso » si nutrono reciprocamente (I paradossi del senso comune, Padova 1970, è l’ossimoro che intitola una delle ultime opere di Castelli). Dalle numerose collane filosofiche all’« Archivio di Filosofia » (che, iniziato da Castelli nel 1931, diviene, a partire dal 1946, monografico, rappresentando una sorta di permanente « tavola rotonda » di cui volta per volta il direttore decide l’argomento da porre in discussione : sì che la considerazione delle questioni via via tematizzate sarebbe anch’essa di grande significato per lo studio del pensiero castelliano), 1 dalla promozione dell’Istituto di Studi Filosofici (che fu istituito con legge nel 1939 e di cui Castelli, vincitore di un concorso a cattedra universitaria nel 1934, fu nominato direttore ; Castelli inizierà l’insegnamento universitario solo nel 1940, come professore incaricato di filosofia della religione nell’Università di Roma) 2 all’organizzazione dei colloqui internazionali
1
Cfr. il vol. di « Archivio di filosofia », 50, 1982, n. 3 (Indici 1931-1981, a c. di E. Valenziani). Va qui ricordato che Castelli istituì e presiedette anche il Centro Internazionale di Studi Umanistici, che collaborò variamente alle attività dell’Istituto di Studi Filosofici ed ebbe anche una sezione tedesca, diretta da Ernesto Grassi. 2
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sulla problematica della demitizzazione (di cui diremo in seguito), tutta l’attività di convocazione e provocazione filosofica di Castelli è il segno di un socratismo eccezionale, in cui la maieutica del daimon altrui è sempre anche evocazione del « demoniaco » dell’incomunicabilità. Come ho proposto altrove, 1 è possibile periodizzare la produzione castelliana – pur caratterizzata da profonda e radicalizzante continuità – in quattro fasi : quella giovanile, già ricordata e qualificata da una produzione di natura più tradizionalmente accademica, quella diaristica, quella esistenzialistica e l’ultima, quella demitizzante. Nel periodo diaristico Castelli perviene a forme di riflessione e di espressione altamente originali e non solo di notevole significato letterario (inconfondibile ne è lo stile arduo, abrupto e insieme suggestivo, evocativo), ma anche per la prima volta veramente intrinseche ai contenuti di pensiero – alla « filosofia della vita » – che in esse si esprime. Ricordiamo alcuni dei titoli : Introduzione alla vita normale (Roma 1935), Introduzione alla vita delle parole (Milano 1938), Commentario al senso comune (Milano 1940), Preludio alla vita di un uomo qualunque (Milano 1941), L’esperienza comune (Milano 1942), Pensieri e giornate (Roma 1945), Il tempo esaurito (Roma 1947). Come si vede già da questi titoli, è ormai costante il riferimento all’esperienza comune, quotidiana, vissuta, « qualunque », vale a dire non qualificata da una elaborazione intellettuale e universalizzante che mortifica il vissuto e smarrisce la ricchezza filosofica del quotidiano. Tale riferimento trova la propria formula filosofica più definitoria nell’affermazione del « senso comune », che già nel periodo precedente aveva avuto luogo,2 ma che a partire da questo periodo diviene definitiva e insistita. Di contro alla universalità della logica e del sapere scientifico, incontrovertibile, ma ultimamente solipsistico, Castelli fa valere un senso comune, che è anteriore alla logica ed è il solo capace di procurare l’intesa con quegli altri che il sapere incontrovertibile esclude. Già nel periodo giovanile Castelli aveva approfondito le forme di solipsismo a cui approda ogni filosofia della conoscenza che non sia precedentemente una filosofia della vita : non c’è solo un « solipsismo trascendentale », ma anche un « solipsismo empirico » e persino un « solipsismo teologico ». Il primo è quello che trova l’espressione estrema nelle filosofie dell’idealismo moderno :
Ora è evidente che il termine di « altro » non ha significato che in funzione di un concetto che ne determina la portata. In altri termini l’altro non è tale che in quanto considerato estraneo all’unità della nostra coscienza che lo considera appunto estraneo nell’atto stesso che lo include in sé come uno di quegli elementi senza dei quali non è possibile pensare. È evidente che in questo caso il concetto di alterità è immanente al problema della conoscenza. 3
Anche l’empirismo peraltro (esaminato particolarmente in Berkeley e Hume) non può in alcun modo varcare il muro del soggetto unico (« solipsismo empirico »), perché, come Castelli osserverà ancora ampiamente nel periodo esistenzialistico, il fatto che io percepisca l’altro come percipiente non toglie che l’altro sia sempre e soltanto un mio « percepito ». 4
1 Cfr. m. m. olivetti, Il senso « comune » tra colloquio e paradosso. Linee per una interpretazione del pensiero e dell’opera di Enrico Castelli, in « Archivio di Filosofia » , 46, 1978, n 2-3, pp. 17-24 [cfr. supra, pp. 95-100]. 2 Anche con il nome rosminiano di « sentimento fondamentale » ; cfr. Filosofia e apologetica e Idealismo e solipsismo, cit., passim. Castelli nel suo periodo giovanile fu sensibile al pensiero di Rosmini, delle cui opere 3 Idealismo e solipsismo, cit., p. 12. avrebbe più tardi diretto l’edizione nazionale. 4 Cfr., per il periodo giovanile, Idealismo e solipsismo, cit., pp. 22-30 e per il periodo esistenzialistico I presupposti di una teologia della storia, Milano, Fratelli Bocca, 1952, pp. 55-56.
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Ma forse è nella terza forma di solipsismo individuata da Castelli, quella del « solipsismo teologico » (anch’esso ricordato ancora nella fase esistenzialistica) 1 che si manifesta nel modo più evidente la radicalità con cui Castelli – anticipando temi che hanno larga diffusione nella meditazione filosofica contemporanea – lega il problema della trascendenza con quello dell’altro (« In ultima analisi il problema della trascendenza è quello dell’alterità »). 2 È esemplarmente in Leibniz che Castelli vede concretata questa forma teologica di solipsismo ; e ciò, oltre a evidenziare nel modo migliore la necessità di legare il teismo alla positività e alla « rivelazione », se si vogliono evitare anche in questo caso gli ineluttabili esiti solipsistici, mostra la recezione critica di quello che si potrebbe chiamare il leibnizianesimo varischiano. Castelli infatti fu particolarmente sensibile agli aspetti « pratici » dell’intesa intersoggettiva che si profilano nel pensiero dell’ultimo Varisco 3 (di cui, tra l’altro, pubblicò un’opera postuma col significativo titolo de Il pensiero vissuto). 4 È tuttavia evidente come proprio la radicalità con cui l’esito solipsistico viene puntualmente ritrovato presso tutte le forme di filosofia moderna – o almeno presso tutte le forme in cui Castelli ritiene di dover riassumere lo spirito della filosofia moderna – sia espressione di un rapporto con l’altro avvertito per tutta la vita come drammaticamente problematico. Nella ricostruzione che Castelli fa della propria infanzia in Il tempo esaurito (opera al confine tra la fase diaristica e la fase esistenzialistica) si dice :
Avevo l’impressione, troppo spesso, che gli altri fossero una serie di esseri diversi da me, esseri con i quali era difficile venire in contatto, eppure questo contatto doveva avvenire proprio perché la religione ci comanda di amare il prossimo come noi stessi ; 5
ne I presupposti di una teologia della storia – una delle opere maggiori della fase esistenzialistica – il « tema dell’incubo », riconosciuto (e anche proiettato) nella filosofia moderna, ovvero nella filosofia della certezza conoscitiva, è il tema stesso dell’altro :
È il discorso che segue al tema della certezza : io sono, gli altri sono il mio incubo ; 6
e ancora nell’ultima fase demitizzante si insiste sul carattere kerygmatico, rivelato, dell’amabilità del prossimo. 7 La sfiducia nelle possibilità umane di stabilire la comunicazione e l’intesa si radicalizza pertanto in Castelli via via che viene smascherata inesorabilmente l’effettiva natura solipsistica dei presunti mezzi umani di intesa. Non solo la ragione, ma anche il linguaggio diviene sempre più l’oggetto di una considerazione ironica e paradossale : ironica e paradossale anche nel senso tecnico di una riflessione e di una inversione, anzi di una inversione riflessiva, che si esprime nel modo più emblematico nel frequentissimo, provocatorio uso del chiasmo (« il significato dell’evocazione è l’evocazione del significato », 8 « la conclusione della demitizzazione è la demitizzazione della conclusione », 9 ecc.) e del genitivo equivoco o di quello riflessivo (la stessa Critica della demitizzazione,
1
Cfr. Idealismo e solipsismo, cit., pp. 41-45 e, poi, I presupposti ecc., cit., pp. 61-62. Idealismo e solipsismo, cit., p. 12. 3 Cfr. m. m. olivetti, Varisco e il teismo, in B. Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, 4 Roma, Perrella, 1940. a c. di M. Ferrari, Chiari, 1985, pp. 279-295 [cfr. supra, pp. 123-133]. 5 6 Op. cit., p. 33. I presupposti ecc., cit., p. 50. 7 Cfr. La critica della demitizzazione, Padova, Cedam, 1972, pp. 257 e passim. 8 I presupposti ecc., cit., p. 37. 9 Così Castelli affermava spesso nei suoi ultimi corsi romani ; cfr. La critica della demitizzazione, cit., p. 16. 2
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una delle opere più significative dell’ultima fase e non per nulla fornita del sottotitolo Ambiguità e fede, è intesa da Castelli nel senso equivoco del genitivo, come critica operata dalla demitizzazione e come critica a cui la demitizzazione va sottoposta). 1 L’ironia riflessiva che investe, oltre che il pensiero, il linguaggio giunge financo a mettere in questione l’identità psichica del parlante-pensante. Significative in questo senso sono alcune pagine, altamente suggestive, della Introduzione alla vita delle parole, in cui Castelli immagina che le parole divengano autonome e si rincorrano l’una l’altra da se stesse. 2 Così come significativo nel medesimo senso è il fatto che la stessa diaristica filosofica (alla quale Castelli dedicò un numero monografico dell’« Archivio di Filosofia »), 3 la stessa attività, dunque, che dovrebbe esprimere l’autenticità pensante della vita psichica individuale, è investita dalla reduplicazione dissolvente dell’ironia : questo, invero, sembra essere il senso profondo del fatto che non poche opere del periodo diaristico, come lo si è chiamato tentativamente – siano pseudonime. La Introduzione alla vita normale fu infatti pubblicata sotto il nome di Harry Glower ; Introduzione alla vita delle parole, Commentario al senso comune, Preludio alla vita di un uomo qualunque sotto il nome di Dario Reiter, che una nota redazionale presentava come un giovane tedesco, amico del traduttore italiano e prematuramente scomparso : Castelli assisté ironicamente divertito alle recensioni e alle discussioni sorte intorno a queste opere e al loro presunto autore. E significativo infine è il fatto che Castelli, il quale fu per tutta la vita diarista, abbia voluto lasciare inedita la maggior parte di questo suo lavoro (ben sette volumi di diari, che coprono il periodo 1923-1974 e sono ricchi di pensieri filosofici, oltre che di registrazioni, vivacissimamente commentate e giudicate, della vita culturale, religiosa, politica italiana e internazionale di quel mezzo secolo). 4 La radicalizzazione dell’analisi del solipsismo e l’ironizzazione del linguaggio rendono conto, nella loro associazione, del configurarsi della terza fase della produzione castelliana, che abbiamo chiamata esistenzialistica (Existentialisme théologique, Parigi 1948, I presupposti di una teologia della storia, citato, Il demoniaco nell’arte, Milano 1952). Ben si intende come Castelli potesse riconoscere nella filosofia esistenzialistica, e nella sua diffusione europea dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, per un verso uno stile di pensiero più adatto ad esprimere il significato filosofico e irriducibile della vita individuale, per altro verso una « filosofia della crisi » nel senso, appunto, equivoco del genitivo : come filosofia che esprimeva la crisi e come crisi della filosofia, o almeno della filosofia moderna della conoscenza e della certezza scientifica. 5 Tuttavia questo aspetto occasionale o, forse, epocale – come certamente apparve a Castelli in quegli anni – rende solo superficialmente conto della nuova fase di pensiero, che invece va considerata, come si è detto, una radicalizzazione dei motivi precedenti. Per un verso, la comprensione ironica del linguaggio, induce Castelli a prestare attenzione al significato filosofico delle forme espressive non verbali, ma iconiche, e ad elaborare egli stesso nuove forme di discorso filosofico : films sul significato filosofico dell’arte figurativa (Il demoniaco nell’arte, Il fiume della vita, Il giocoliere e il misantropo, La « Passione » di Memling, Le maschere e la vita, Il surrealismo e il sacro, tutti degli anni
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2 Op. cit., p. 14 e passim. Op. cit., pp. 10-16. Anno 27, 1959, n. 2 (« La diaristica filosofica », con contributi di Marcel, Gouhier, Prini, Semerari, Lombardi, Guitton, Paci, Grassi ecc.). 4 Mi riferisco ai sette grossi volumi dattiloscritti a cura di E. Valenziani. I taccuini manoscritti, da cui questi volumi sono stati tratti, sono in possesso della famiglia Castelli [ora in Diari (4 voll.), a cura di E. Castelli jr., Biblioteca dell’Archivio di Filosofia, Padova, Cedam, 1997-1998]. 5 Cfr. I presupposti ecc., cit., pp. 13-30. 3
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Cinquanta), libri sul medesimo argomento (Il demoniaco nell’arte, citato, e più tardi Simboli e immagini. Studi di filosofia dell’arte sacra, Roma 1966), drammi filosofici (Filosofia e dramma, Firenze 1949) ; il tutto accompagnato, ovviamente, dall’edizione di vari numeri monografici dell’« Archivio di Filosofia » su problemi affini. Per altro verso, la radicalizzazione del pensiero castelliano si palesa nei contenuti del suo discorso. Se il male, sia come male fisico, sia come male morale, aveva rappresentato fin dal primo libro del ’24 un tema incombente, esso diviene ora il tema centrale, anzi, iniziale della riflessione filosofica di Castelli. « Demoniaco » e status naturae lapsae (con la connessa insecuritas) occupano ormai tutto il suo pensiero (parallelamente Castelli fa pubblicare nelle sue collane traduzioni di Kierkegaard e di Šestov). Il demoniaco è largamente connesso da Castelli con la pretesa luciferina della logica – che peraltro si converte, come mostrano le analisi castelliane dei « pittori teologi » fiamminghi, nello « strazio » e nello stravolto 2– e il « senso comune » è insieme il residuo e la nostalgia di uno stato edenico, anteriore alla commestione del frutto dell’albero della scienza onde l’umanità ha ceduto alla tentazione luciferina dell’eritis sicut dei. 3 I « presupposti di una teologia della storia » sono tutti i segni che una fenomenologia della vita quotidiana offre nel senso di una natura lapsa (del resto, lo stesso interesse artistico di Castelli non ha nulla a vedere con un interesse estetico ; inoltre la sua attenzione si volge piuttosto alla rappresentazione del brutto e del mostruoso, oltre che del nascosto, del simbolico, anzi del criptico). Peraltro l’ironia di Castelli è troppo consapevole – o esasperata – perché egli ritenga di poter esibire direttamente lo status deviationis o di poterlo rendere oggetto di una argomentazione logica : una osservabilità diretta o una dimostrabilità logica implicherebbero infatti proprio quella sanità della ragione che egli vuole revocare in dubbio. Si tratta, invece, di mostrare, anzi di persuadere che proprio là dove lo status appare normale esso è status deviationis. Così, ad esempio, in alcune fra le pagine più caratteristiche de I presupposti di una teologia della storia Castelli applica ciò che egli chiama « una maieutica per trauma », la quale procede grazie all’indagine della « frattura di una frattura di cui si è perduto il ricordo » 4 Questo paradossale procedimento è realizzato, tra l’altro, attraverso una « fenomenologia dell’alienazione mentale », intesa appunto come « frattura di una frattura », cioè come deviazione da uno stato deviato. Non sorprenderà a questo punto sapere che la « fenomenologia » addotta da Castelli consiste, tra l’altro, in una serie di barzellette relative a casi manicomiali (alcuni dei quali autentici, nonostante il riso a cui muovono) in cui il folle applica per l’appunto una perfetta consequenziarità logica, che il « senso comune » – il residuo non deviato – eviterebbe. Si potrebbe ritenere che fra questa esasperata fase esistenzialistica e la successiva fase demitizzante vi sia una soluzione di continuità. Ma non è questo il caso. Da un lato, infatti, la forma espressiva di Castelli si fa proprio nell’ultimo periodo ardua ed enigmatica come non mai (del resto, appartengono a questa fase Il tempo invertebrato, Padova 1969, Il tempo inqualificabile, Padova 1975, e i già ricordati Paradossi del senso comune : opere, tutte, molto vicine allo stile di pensiero che prima abbiamo rapidamente esemplificato). D’altro lato, i presupposti della « critica della demitizzazione » sono già 1
1 L’occasione di questi films fu la divergenza di opinioni con Sartre a proposito della possibilità di fare filosofia con il cinema (Cfr. enrico castelli, Philosophie et cinéma. A propos d’un film de J.-P. Sartre, in « Rev. Int. De Filmologie » 1, 1948, pp. 121-130). 2 Cfr. Il demoniaco nell’arte, cit., pp. 24-26. 3 4 Cfr. specie I presupposti ecc., cit., pp. 11, passim. Op. cit., p. 100.
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nel periodo esistenzialistico. Questi presupposti, anzi, impliciti nel pensiero di Castelli fin dai suoi esordi, proprio nella fase esistenzialistica sono stati essenzializzati e radicalizzati. Si può dire che essi siano due : la decisa distinzione fra « storia sacra » e « storia naturale » (fin dai primordi della sua produzione Castelli aveva fatto valere la distinzione fra soprannaturale e naturale, valorizzando proprio su questo punto il pensiero di Laberthonnière e prendendo invece le distanze, a questo proposito, rispetto a Blondel) e la caritas come principio supremo, come unico criterio per un uso della logica che non abbandoni il « senso comune », come interprete autentico della legge, anche della legge religiosa (criterio il quale ricorda come la legge sia fatta per l’uomo e non viceversa), come unico mezzo per evitare che la tecnica e la scienza siano fonte di malinteso, anziché di intesa, adducendo ad esiti catastrofici. 1 È vero che, dissoltasi l’atmosfera cupa del dopoguerra, Castelli è disposto ad una considerazione meno sfiduciata nei confronti delle condizioni di vita della civiltà tecnologica contemporanea (e in ciò si può riassumere, in fondo, tutta la differenza tra il periodo esistenzialistico e l’ultimo periodo demitizzante). Ma proprio la fiducia e la speranza indotte dalla caritas, o comunque esigite dall’imperativo della caritas, rendono possibile, o pretendono, questo diverso atteggiamento. Abbiamo così le coordinate essenziali per considerare La critica della demitizzazione e l’attività socratica da cui essa sorge e in cui si colloca. L’opera, infatti, è quasi totalmente costituita dalle introduzioni che Castelli scriveva per convocare annualmente – a partire dal 1961 – i « colloqui » internazionali sulla problematica della demitizzazione e sull’ermeneutica. 2 Il tema di ogni colloquio era volta per volta annunciato al termine del colloquio precedente, essendo stato deciso da Castelli tenendo conto delle consultazioni che egli aveva avuto in proposito con i partecipanti al colloquio in corso ; e le introduzioni scritte via via da Castelli rappresentavano, insieme, il frutto delle sollecitazioni problematiche che egli aveva personalmente ricavato dal colloquio precedente e l’orientamento problematico che egli pensava di dover imprimere al colloquio successivo : molto spesso tali introduzioni – ovvero i capitoli della Critica della demitizzazione – si concludono con degli interrogativi, seguiti dalla decisa affermazione : « questo il problema ». In tutto ciò si può vedere sia la manifestazione estrema del singolare socratismo di Castelli, sia l’espressione del suo modo di intendere l’« ermeneutica » (sotto il titolo della quale – oltre che sotto quello della « demitizzazione » – egli poneva
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Cfr. I presupposti ecc., cit., pp. 142-144. Castelli amava anche richiamarsi a Le malentendu di Camus. A questi colloqui presero parte filosofi, storici, teologi di differente orientamento scientifico, culturale e religioso. Molti dei partecipanti divennero degli habitués dei convegni Castelli, contribuendo decisamente a delinearne la fisonomia (con almeno cinque presenze attive nei colloqui tenutisi vivente Castelli : H.W. Bartsch, H. Bouillard, S. Breton, C. Bruaire, J. Brun, S. Cotta, A. De Waelhens, G. Dorfles, J. Ellul, G. Fessard, C. Geffré, H. Gouhier, E. Grassi, K. Kerenyi, R. Lazzarini, J.-L. Leuba, E. Levinas, J. Lotz, D. MacKinnon, I. Mancini, R. Marlé, V. Mathieu, M. Nédoncelle, M.M. Olivetti, H. Ott, R. Panikkar, P. Prini, P. Ricoeur, E. Severino, J. Sperna Weiland, F. Theunis, X. Tilliette, G. Vahanian, M. Van Overbeke, A. Vergote) ; altri partecipanti intervennero ai colloqui dedicati a temi di loro particolare competenza ( J. Daniélou, U. Eco, H.-G. Gadamer, J. Jeremias, R. Klibansky, J. Lacan, W. Pannenberg, K. Rahner, J. Starobinsky, P. van Buren, G. Vattimo, V. Verra, G. Widengren ecc.). Sullo sviluppo problematico di questi colloqui e sul loro passaggio da una accentuazione kerygmatica ad una accentuazione di teologia e filosofia della storia cfr. M.M. Olivetti, I convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), in « Archivio di Filosofia » 47, 1979, n. 1 (interamente dedicato agli Indici degli attiì a e. di E. Valenziani). Gli atti di tutti i convegni furono pubblicati in edizione poliglotta nell’« Archivio di Filosofia », in edizione francese presso Aubier, Parigi ; vari volumi furono anche pubblicati in ediz. tedesca nella collana « Kerygma und Mythos » presso Reich, Amburgo, a e. di H.-W. Bartsch e poi di F. Theunis. 2
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i colloqui romani). Si tratta infatti di un’ermeneutica legata assai più all’identificazione dell’intenzionalità dell’« altro » che all’interpretazione di un testo il quale cancellerebbe in sé l’intenzionalità originaria. « Il difficile non è di ben ragionare, ma di ben capire : l’ermeneutica », si trova detto già nel 1933 con riferimento all’idealismo ; 1 che poi il generalizzarsi e l’internazionalizzarsi della problematica ermeneutica, particolarmente negli anni Sessanta e Settanta, quando i colloqui castelliani erano nel loro pieno rigoglio, potesse entrare in sinergia con la problematica proposta da Castelli, era un fatto che appariva a quest’ultimo, e non a torto – come già era stato per il diffondersi dell’esistenzialismo nella fase precedente – una conferma della validità della sua stessa impostazione problematica. Si intende così anche il rapporto in cui la comprensione castelliana della demitizzazione si pone con quella specificamente bultmanniana. Certo, anche la demitizzazione di Bultmann si configurava come un problema ermeneutico, e anche la demitizzazione di Bultmann, come quella di Castelli, trovava nella civiltà della tecnica e della scienza la condizione culturale per la demitizzazione. Tuttavia per Bultmann l’interpretazione esistenziale e demitizzante è esigita da tale condizione, mentre per Castelli la demitizzazione è un fatto : essa è la stessa civiltà tecnologica e la sua riduzione a mito di tutto l’universo dei valori tradizionali, compreso quindi il Vangelo e la storia in esso narrata. Mentre, dunque, Bultmann procede nel senso di una esistenzializzazione geschichtlich della decisione per la fede e – almeno in qualche misura – dell’evento della Croce, Castelli rifiuta nel modo più deciso ogni forma di interpretazione di tale evento che ne riduca la Historizität. Come egli osservava nel primo convegno (al quale Bultmann aveva inviato una sua relazione scritta),
In un certo senso, il torto della teologia bultmanniana demitizzante è di non aver compreso che il kerigma comporta l’essere dell’avvenimento ; e l’eventuale analisi storica dell’avvenimento non lede la Rivelazione, perché questa è la Rivelazione del messaggio e nello stesso tempo dell’avvenimento, cioè della storia. La Rivelazione (e non la storia) comporta un’evidenza, un’evidenza sui generis. 2
A tal punto qui vale la riaffermazione della distinzione fra storia sacra e storia naturale fatta valere fin dalla prima opera su Filosofia e apologetica, che Castelli ripubblica integralmente ne La critica della demitizzazione la « Nota critica sul problema del miracolo » pubblicata nell’opera del 1929. In questa nota infatti Castelli aveva distinto « l’argomento del miracolo » dal « miracolo come argomento », sottolineando il valore sui generis della testimonianza relativa al miracolo e la sua validità apologetica solo da questo punto di vista non naturalistico. Tale posizione gli aveva provocato all’epoca serie difficoltà con l’autorità ecclesiastica e Varisco stesso era intervenuto per evitare la messa all’« Indice » dell’allievo (sospetto anche per le sue simpatie nei confronti di Laberthonnière). Peraltro non aveva torto Castelli nel rifiutare l’equivoco di una sua comprensione in termini di « modernismo », poiché, come mostrava a quel tempo anche la sua polemica contro Gentile (autore tra l’altro dell’opera su Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia) 3 e come poi egli ribadisce ancora nella Critica della demitizzazione, « La tesi da me sostenuta [era] tutt’altro che modernista, anzi direi anti-modernista » 4 e, in virtù della rigorosa
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Idealismo e solipsismo, cit., p. 12. La critica della demitizzazione, cit., pp. 33-34. 4 Bari 1909. Op. cit., p. 15.
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distinzione tra ragione e fede conseguente alla grazia, altrettanto distante da Blondel che da una posizione molinistica. 1 Resta vero che Castelli è profondamente sensibile alla cultura della civiltà moderna come civiltà della scienza e alle condizioni di non-ascolto che essa, non soltanto, ma anche, sotto il profilo religioso comporta : il problema della demitizzazione
nasce dal contrasto innegabile fra il kerigma […] e le orecchie alle quali il messaggio si rivolge. È ancora la scienza che giuoca un ruolo tragico [...] sia ben chiaro che ricorrere ad una certa metafisica non significa indicare i mezzi per esorcizzare quelli che non hanno orecchie per intendere. 2
Peraltro, l’indicazione che Castelli medesimo fornisce in ordine ai mezzi per tale « esorcismo » della sordità è la stessa indicazione dell’ascolto : dell’ascolto ecumenico (« Senza preconcetti ? Si può oggi rispondere che l’ecumenismo è un “preconcetto”, perché solo la sua attuazione può chiarirne la vera concettualità »), 3 dell’ascolto anche di chi non ascolta (« È un fatto : il mondo esiste ed è impossibile ignorarlo. L’ascolto si impone »). 4
Bibliografia : Le opere maggiori di Castelli sono state menzionate nel testo. La bibliografia completa degli scritti di Castelli e su Castelli, a c. di F. Ghiacci, è in « Archivio di Filosofia » 48 (1980) n. 2-3, pp. 453-502. Tutta l’annata 1980 dell’« Archivio di Filosofia » è dedicata a scritti per Enrico Castelli, col titolo Esistenza, mito, ermeneutica (due voll.). Successivi alla bibliografia citata : H. G. Dawson, America and the West at Mid-Century : An Unpublished Santayana Essay on the Philosophy of Enrico Castelli, in « Jour. Hist. of Phil. », 17 (1979) pp. 449-454 ; M. M. Olivetti, Gli influssi della tematica teologica, dell’esistenzialismo e dell’ermeneutica, in E. Agazzi, Il pensiero cristiano nella filosofia italiana del Novecento, Lecce 1980, pp. 119-147 ; V. Verra, Esistenzialismo, fenomenologia, ermeneutica, nichilismo, in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1985, pp. 355-421 ; P. Prini, Storia dell’esistenzialismo, Roma 1989 (cap. « La filosofia del paradosso di E. Castelli », pp. 251-261). Sui convegni romani organizzati da Castelli cfr. « Archivio di Filos. » 47 (1979) n. 1 (dedicato a : Indici degli atti dei convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica, a e. di E. Valenziani, introd. di M. M. Olivetti). Sull’« Archivio di Filosofia » cfr., nella stessa rivista, anno 50 (1982) n. 1 (dedicato a Indici : 1931-1981, a e. di E. Valenziani).
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Così giustamente osservava Castelli stesso in un’autopresentazione inedita. La critica della demitizzazione, cit., pp. 17-18. 3 4 Op. cit., p. 10. Op. cit., p. 11. 2
Il problema religioso nel pensiero di Franco Lombardi*
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elle ultime pagine de Il mio testamento filosofico (titolo che mi impressionò molto quando ricevetti il libro e che, confesso, mi addolorò perché mi suonava un po’ come una anticipazione della situazione in cui effettivamente purtroppo ci troviamo ora, voglio dire senza Franco Lombardi, anche se ci incontriamo a parlare del suo pensiero e, direi, in dialogo con il suo pensiero) nelle ultime pagine, dunque, del suo Testamento filosofico Lombardi definisce reiteratamente, due volte per l’esattezza, la propria filosofia, cosi : « Una filosofia laica o semplicemente moderna o una filosofia della libertà » (pp. 158-59), e oppone la sua filosofia, questa sua filosofia laica, ad una tradizione filosofica « indirettamente “religiosa” » – come egli la chiama, ancorché ponendo il termine religiosa fra virgolette – che sarebbe ancora perdurante. E per ben due volte in questo libro – precisamente all’inizio ed alla fine del medesimo – ci si riferisce con amarezza ma, insieme, con atteggiamento fermo e di sdegnoso rifi uto al fatto che : « infine si parla di un libro perché vi si tratta di politica o di religione, o anche vi si parla di filosofia ma quando questa rientri in quella corrente o modo o movimento e direttamente o indirettamente si riallacci ai movimenti della “politica” o della “religione”. E persino si potrebbe argomentare che non ebbe fortuna, per parlare dei grandi e dei grandissimi, Aristotele, cui non fu affidata la Scuola di Platone e che morì in esilio, non ebbe fortuna se non quando ebbe corso in età alessandrina l’interpretazione o la reinterpretazione religiosa dei suoi scritti. Non ebbe forse fortuna Kant se non quando dopo di lui il movimento romantico-idealistico lo fece santo e patrono precisamente di quell’Idealismo che egli soltanto aveva badato a voler abbattere » (p. 35) ; e così si prosegue, ricordando vicende in qualche modo analoghe per quanto riguarda Croce ed il Neoidealismo ita liano. Dove è da sottolineare che la santificazione o canonizzazione non è da intendersi in senso puramente metaforico ma precisamente come una canonizzazione che ha luogo mediante l’interpretazione o reinterpretazione religiosa, come abbiamo visto, del pensiero di un filosofo. Desidero ricordare preliminarmente tutto ciò all’inizio di questa mia relazione sul problema religioso nel pensiero di Franco Lombardi affinché non si ingenerino fraintendimenti né sulle mie intenzioni né sul pensiero di Franco Lombardi, cioè quasi che adesso si trattasse di « santificarlo » in un senso che non avrebbe gradito lui e che non gradiremmo noi. Tanto più che la situazione in cui, ahimè, ci troviamo a parlare può indurre anche inavvertitamente alla retorica, diciamo così, canonizzante, secondo quella che è una inclinazione naturale e culturale costante e probabilmente definitoria dell’uomo come animale sociale : inclinazione che, dunque, Lombardi sarebbe lungi dal sottovalutare sotto il profilo del suo significato filosofico, ma che appunto va fatta oggetto di critica, di indagine critica, quale che sia il peso con cui essa grava la nostra libertà, rendendola « pesante », con un peso che, nel caso attuale, potrebbe anche essere un dolce peso ed un seducente peso. L’affermazione che la religione è un problema centrale per la filosofia di Franco
* L’esperienza e l’uomo nel pensiero di Franco Lombardi, Napoli, Istituto italiano per gli Studi filosofici, 1993, pp. 125-144.
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Lombardi è dunque per un verso un’affermazione ovvia e rispondente all’evidenza anche di una rapida ricognizione storiografica ma per altro verso è una affermazione che non può essere banalizzata o stravolta nel senso di quelle canonizzazioni ricorrenti che, abbiamo visto, sono criticate da Lombardi, e sono criticate secondo una critica – voglio sottolineare – che non risponde solo ad un atteggiamento personale e, per così dire, caratteriale, bensì che, come vedremo, risponde anche e, in qualche modo, sintetizza lo spirito della filosofia lombardiana : si tratta della sua autocomprensione come di una filosofia critica e, di più, come di una filosofia che si pone al termine di (e pone termine a) una vicenda di pensiero filosofico « religioso » per l’appunto, quale è la vicenda stessa del pensiero occidentale, a partire dalla trasformazione o deformazione platonica dell’insegnamento socratico nel senso di un oggettivismo logico-gnoseologico e nel senso di una trasposizione metafisica del problema gnoseologico. Solo tenendo presente questo quadro filosofico generale si può intendere quello che ad uno sguardo superficiale apparirebbe altrimenti come un paradosso, e cioè, per dirla con un riferimento concreto ed in qualche modo emblematico a Il mio testamento filosofico, il fatto che dopo qualche riga in cui aveva ricordato ancora in sede conclusiva come : « soltanto con la mistificazione posteriore [di Aristotele] in senso trascendente-religioso [costui] diventa il “maestro di color che sanno” (l’interesse più generale ed il successo si ha soltanto se si fanno vibrare le corde della religione e della politica !) » (p. 143), proprio qualche riga appresso, dicevo, si ricorda come l’Autore – dunque Lombardi – si sia « occupato rinnovatamente e sempre di religione » (p. 143). Proprio di contro alla tradizione filosofica dominante e più particolarmente di contro alle filosofie che fanno « dell’io del soggetto umano un Principio e Soggetto universale o del mondo, come le qualità, le quali si dicono “immanenti” o immanentistiche, e viceversa soltanto traducono e trasmutano quel soggetto umano in un Dio capovolto e stravolto ; – e si fanno pertanto empie ed eretiche » (ibidem). Delineiamo dunque con maggiore precisione, seppure rapidamente, questo quadro filosofico generale che, appunto, rende conto di questo apparente paradosso, cioè da un lato l’affermazione di una filosofia laica e dall’altro lato il costante interesse per il problema della religione. Tale quadro generale può essere riassunto in tre punti. Il primo è quello, già affrontato e generalissimo, della critica ad una intera tradizione filosofica che si fa filosofico-religiosa o torna ad essere filosoficoreligiosa per il fatto di consegnare o riconsegnare l’umano concetto a forme universali e/o ad un soggetto universale secondo un movimento di pensiero a cui siamo tanto e millenariamente abituati da non avvertire nemmeno più l’ossimoro, vorrei dire, e la contraddittorietà del concetto di un « soggetto-universale ». Beninteso, solo una indagine accurata e filigranata della comprensione lombardiana della religione e del suo rapporto con la filosofia e con la morale ci permetterà di cogliere il plesso di temi e questioni e la tensione teorica che si raccolgono in espressioni manifestamente problematiche ed aperte come quelle che qui ho usato intenzionalmente parlando di una tradizione filosofica che si fa o torna ad essere religiosa. Comunque, essa si fa o torna ad essere religiosa dando luogo a quel tipo, in ogni senso, dominante di filosofia che Lombardi chiama in molti modi, come, ad esempio – per ricordare solo alcune di queste denominazioni che più esplicitamente si riferiscono alla presunta religiosità di tale filosofia – « pensiero teologico-cosmologico », « filosofie bramaniche » (con espressione ripresa da Cattaneo), o anche « filosofie del codino » : denominazione, quest’ultima, che mi piace menzionare, perché esemplifica l’immaginosa arguzia caratteristica di tanto lessico filosofico lombardiano : filosofie del codino sono quelle che, spiega ed esplicita
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Lombardi : « rilegano e fanno sentire sicuri di sé gli individui, quanti se ne agitano e vivono e discorrono per il vasto mondo, per un “pensiero razionale” se non per un “pensiero trascendentale”, unico e solo, che fuoriesce dal cocuzzolo della testa di ciascuno, per attaccarsi e riattaccare tutti a un Soggetto e Pensiero trascendentale, a una Ragione e a un Es, e, comunque, a qualche cosa che sarebbe nell’individuo ma non sarebbe dallo o dell’individuo » (p. 136). Ma mi pare evidente come questa immagine suggerisca anche un carattere intrinsecamente reazionario, codino, per l’appunto, parruccone, e illiberale e antimoderno di queste filosofie in questo senso “religiose”, a cui si contrappone la proposta lombardiana di una filosofia che è ripetutamente detta, abbiamo visto, secondo una sequenza sinonimica, « laica », « moderna », « della libertà ». Ma come si vede nella stessa citazione che ho riportato da ultimo – dove si parla di « attaccarsi e riattaccare » ad un Soggetto trascendentale – l’iterazione, o meglio la reduplicazione con cui mi sono espresso a proposito di una filosofia che « si fa o torna a farsi » religiosa, è presente già nei testi lombardiani e trova riscontro, si potrebbe aggiungere, non solo nelle considerazioni relative alla filosofia ma anche in quelle relative alla religione, di cui si dice, ad esempio, che « essa sorgerà o risorgerà sempre che, per uno sgomento di vita, l’uomo venga condotto a impetrare il concetto di un Altro al quale si affidi » (Il mondo degli uomini, p. 86) ; oppure anche, e in un senso diverso, che mostra quanto ricco e delicato sia il motivo di questa iterazione o reduplicazione, quando, ricollegandosi al Bergson delle Deux sources, in Dopo lo storicismo si afferma che la religione « interviene nel mondo due volte. Una prima volta, in quanto si afferma come un’esperienza (o una rivelazione) nuova, che si oppone all’ordine costituito, e lo combatte e lo stermina nel nome di Dio ; una seconda volta, quando un simile rinnovamento è avvenuto e l’”ordine costituito” si presenta ormai come l’ordine voluto da Dio » (p. 173). Di questa reduplicazione ci si potrà render conto meglio per l’appresso e, vorrei dire, alla fine delle mie considerazioni ; ma intanto va sottolineato questo primo carattere generale : questo atteggiamento polemico nei confronti delle filosofie religiose e quindi questa volontà di disgiungere la religione dalle filosofie che si fanno religiose e dunque empie. Siffatto atteggiamento polemico nei confronti della tradizione filosofica da Platone in poi è intanto un primo elemento fondamentale che ci rende conto della compresenza, caratteristica del pensiero lombardiano, di filosofia laica ed interesse per la religione. C’è poi un secondo elemento che mi pare possa essere considerato (anche se si tratta di due aspetti che sono in stretta connessione fra di loro). Tale secondo elemento è il rapporto di Lombardi con l’idealismo italiano : con quella filosofia alla cui tradizione Lombardi si è sempre richiamato e che ha sempre rivendicato come la tradizione sua propria, pur dicendo però di aver dovuto « arrendersi » infine e « scoprire [...] che anche Gentile non era gentiliano » (Ricostruzione filosofica, p. 18) ; sicché lui, Lombardi riteneva di inverare e far valere mediante una critica dall’interno e mediante la teorizzazione di un particolare realismo critico le esigenze che avevano animato il neoidealismo, ma che erano state tradite dalla “lettera” di quest’ultimo. Dunque, non soltanto l’atteggiamento generale verso la tradizione filosofica platonica, ma anche l’atteggiamento nei confronti del neoidealismo italiano è in grado di spiegare compresenza di laicità ed interesse per la religione nel pensiero di Lombardi. In effetti. Lombardi rivendica costantemente ed insistentemente, lungo tutto l’arco della sua produzione, la natura pratica e non teorica della religione ; e questo, come è evidente (e come è anche ricavabile da vari testi che adesso non è il caso di citare per non appesantire il discorso), questo è un atteggiamento chiaramente critico nei
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confronti della comprensione gentiliana della religione come filosofia inferior. che è rilevabile già da L´esperienza e l´uomo, Il mondo degli uomini e, insomma, dai primi scritti a stampa di Lombardi (e, presumo, anche da uno scritto inedito dedicato a filosofia e religione di qualche anno precedente a questi scritti, che però non ho avuto modo di vedere). La rivendicazione della natura pratica della religione di contro ad una comprensione della religione come alcunché di teorico, sia pur su un piano inferiore della filosofia, è un elemento costante nel pensiero di Lombardi. Il che poi naturalmente si ricollega anche alla comprensione che il Lombardi dei primi scritti a stampa ha, già in questa epoca, del sentimento come di una sorta di autocoscienza oscura, se possiamo usare questo termine, comprensione molto importante per la critica lombardiana di una autocoscienza che sempre si accompagnerebbe alla predicazione del predicato. Siffatto avvicinamento di religione e sentimento come di alcunché di pratico e non di teorico consente, poi, che venga salvato l’individuo da quell’assorbimento e risolvimento nel soggetto trascendentale che invece aveva luogo nella filosofia idealistica e neoidealistica. L’individualità viene assicurata nel momento stesso e per il fatto stesso che la religione, nella sua natura pratica, consiste nell’affidarsi dell’individuo ad altro da sé. Già in L’esperienza e l’uomo Lombardi insiste sul fatto che la religione si sviluppa via via sotto il profilo teorico, nell’intento di dar luogo a qualche cosa di sempre più coerente (cfr. pp. 116-18) ; essa dunque non è alcunché di inferior, ma semmai è qualche cosa che si sviluppa proprio nel tentativo, inutile e disperato, di superare le proprie antinomie. In effetti, oltre alla collocazione della religione sul terreno pratico anziché su quello teorico, un secondo punto (connesso al primo) che può essere ricordato come polemica e revisione critica del neoidealismo, particolarmente gentiliano, è proprio quello della rivendicazione eli queste antinomie proprie alla religione. Tali antinomie – insiste Lombardi dall’inizio fino alla fine, fino al testamento filosofico, lungo tutto l’arco della propria produzione – tali antinomie non sono antinomie che vengano poste nella religione dalla filosofia o, ancor meno, antinomie che siano proprie a quel determinato tipo di filosofia religiosa o teologica – come egli la chiama – che è l’idealismo. Esse sono invece interne alla religione e ne costituiscono la stessa essenza. Dunque non c’è una loro trasferibilità dalla religione alla filosofia : il che accentua l’autonomia della religione – nella visione lombardiana – rispetto alla religione intesa neoidealisticamente come filosofia inferior. Anche qui potrebbero essere addotte varie citazioni a corroborare quanto detto. Tutto ciò non significa che la religione sia, in qualche modo, per Lombardi una forma o un momento dello spirito. In generale, e fin dall’inizio, Lombardi polemizza contro le forme dello spirito ipostatizzate, secondo quella che era particolarmente la visione crociana. Non ci sono delle forme o dei distinti dello spirito ; le distinzioni sono « direzioni tendenziali » (Mondo degli uomini, p. 85). Lombardi si rifiuta nel modo più assoluto di fare del sentimento, dell’arte e di che altro sia, delle forme, nel senso « ipostatico », dello spirito. Questo rifiuto è pronunziato, per quanto riguarda la religione, ancora più fortemente che per le altre pretese « forme » dello spirito ; se è possibile riferire « mediatamente o immediatamente al concetto assoluto o puro dello spirito » sentimento, arte, fare, pensare, « il concetto di religione, quale che sia la forza storica di esso e la continuità [...] sembra non si riferisca [...] a nessuna di quelle determinazioni pure o assolute in quanto tali » (op. cit., p. 76). Si vede cosi come proprio a proposito della religione abbia luogo nel pensiero lom
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bardiano il massimo di opposizione a quella visione affermatrice di forme dello spirito che caratterizzava certo neoidealismo italiano. Si vede peraltro che la religione diventa nel pensiero lombardiano soltanto alcunché de facto, qualche cosa che c’è, ma che non può essere dedotto filosoficamente. Afferma Lombardi che non è obbligo della filosofia – se questa non pretende di « ricomporre fenomenologicamente » le esperienze « nella dialettica dello spirito universale » – dedurre un momento dialettico che sarebbe quello della religione (cfr. op. cit., pp. 77-78). La religione è un mero dato di fatto. Dunque è evidente come praticità e fattualità distacchino criticamente la comprensione lombardiana della religione e anzi, mercé tale comprensione, il pensiero stesso di Lombardi dalla visione idealistica e neoidealistica. Questo non toglie che ci sia però, in qualche modo, una specificità della religione, in modo particolare di fronte alla filosofia, una specificità che Lombardi non si è mai stancato di far valere durante tutto l’arco del suo pensiero fino appunto al Testamento filosofico. Come in molte altre opere precedenti, nel Testamento filosofico si critica la « religiosità » e si usano espressioni caustiche contro questo termine fumoso con cui si pretenderebbe di esaltare e di giustificare varie e confuse cose. Nel Dio dei filosofi e Dio vivente Lombardi aveva usato una immagine molto riuscita, molto efficace contro la religiosità, opponendo religiosità a religione vera, vissuta nella sua antinomicità, affermando che la religiosità è come l’odore che rimane dell’arrosto quando l’arrosto non c’è più : questo odore non è tale da soddisfare quelli che vorrebbero l’arrosto – cioè persone religiose che vorrebbero cibarsene – e per altro verso è stucchevole e nauseabondo per coloro che invece di arrosto ne hanno più che abbastanza (ancora in una lettera che Lombardi mi scrisse qualche anno fa Lombardi ricorreva a questa efficace immagine contro i sostenitori della « religiosità »). Una simile polemica nei confronti della relig iosità è l’aspetto generale della più particolare e appuntita polemica di Lombardi nei confronti di ciò che egli chiama anche « religiosità spuria » e « empietà » : quella, vale a dire, ancora una volta delle filosofie idealistiche, delle filosofie provvidenziali, delle filosofie cristiane nel senso dell’hegeliana « religione assoluta » o nel senso del crociano e contorto « perché non possiamo non dirci cristiani » o nel senso della gentiliana « mia religione ». Questi riferimenti mi danno la possibilità di passare all’ultima annotazione che mi pare il caso di far presente per illustrare come l’interesse lombardiano per la religione sia un interesse che qualifica in modo essenziale la posizione filosofica di Lombardi rispetto al neoidealismo italiano. Contestualmente a L’esperienza e l’uomo e Il mondo degli uomini cosa pubblica Lombardi ? Pubblica il Feuerbach e poi, immediatamente dopo, il Kierkegaard. Vale a dire che sul terreno storiografico il suo interesse si rivolge precisamente a filosofi della religione : a filosofi della religione diversi e in certo senso opposti, ma certamente e significativamente a filosofi della religione. In questi autori, infatti, proprio il fare filosofia della religione – e il farla in un certo modo – ha rappresentato il modo di porsi criticamente di contro all’idealismo hegeliano. C’è insomma una sorta di corrispondenza fra l’obiettivo storiog rafico di Lombardi e la posizione in cui egli stesso si riconosce nei confronti della tradizione idealistica italiana. Anzi, se si guardano le prefazioni di queste opere è interessante considerare l’espressione che Lombardi usa a proposito di questi due pensatori, quando afferma che essi sono « ignoti » in Italia. Tale affermazione – si può ben dire – è tutto un programma. Sempre nel ‘35, in un saggio intitolato Alcune considerazioni sulla situazione presente della filosofia in Italia e in Germania, Lombardi aveva osservato come la cultura filosofica tedesca si occupasse ampiamente a tutti i livelli, da quello più propriamente scientifico a quello più scolastico delle tesi
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di dottorato, di pensatori che, come Marx, Nietzsche e Kierkegaard, in Italia si stentava anche ad annoverare fra i filosofi ; e aveva spiegato questa differenza di situazione con le connessioni ben più salde che legavano il pensiero tedesco ai problemi religiosi, sociali e, in generale, umani, laddove il pensiero italiano, dimentico ormai dell’insegnamen to dei De Sanctis e dei Labriola si avviava sempre più verso la strada di una rinnovata metafisica. Questo interesse storiografico lombardiano degli anni ’35-’36 mi sembra importante per delineare, oltre che la sua posizione nei confronti della filosofia italiana, anche la sua posizione nei confronti della filosofia tedesca. Si tratterebbe di un capitolo di grande interesse, a mio giudizio, per la storia della filosofia europea ; ma adesso a questo non ci possiamo dedicare. Vogliamo soltanto ricordare una cosa, sia per sottolineare il significato europeo dell’attività filosofica di Lombardi, sia per correggere qualcosa che ho avuto occasione di dire altra volta. In un convegno della Società filosofica italiana nel ’79 a Perugia avevo notato come il Feuerbach ed il Kierkegaard di Lombardi sembravano – la formula che avevo utilizzato era, per la verità, dubitativa – sembravano riprendere uno schema di interpretazione storiografica che già l’anno prima, nel ‘35, era stato fatto valere da Karl Löwith, quando costui aveva pubblicato sul « Giornale critico della filosofia italiana » La conclusione della Filosofia classica con Hegel e la sua dissoluzione in Marx e Kierkegaard. Ecco, debbo dire che a questo proposito Lombardi mi fece notare, con una sua lettera, che in realtà non era stato lui a riprendere Lowith, ma viceversa : l’articolo sul « Giornale critico » era stato tradotto in italiano da Lombardi medesimo, e Löwith stesso – mi ricordava ancora Lombardi – scrisse che quello schema interpretativo, che poi avrebbe avuto molta incidenza – Feuerbach e Kierkegaard come i due poli della fine della filosofia classica tedesca ovvero della filosofia hegeliana – era un paradigma interpretativo elaborato da Lombardi e di cui Lowith era venuto a conoscenza nel corso della loro frequentazione ed amicizia tedesca. Troppe cose, se si allargasse l’orizzonte a questa circolazione europea delle idee, andrebbero ancora dette ; ma adesso vorrei passare all’ultimo punto generalissimo che spiega la compresenza solo apparentemente paradossale di filosofia laica ed interesse per la religione in Lombardi. Sin qui, dunque, abbiamo evidenziato, da un lato, il suo atteggiamento critico nei confronti della tradizione filosofica occidentale in quanto tradizione platonica, platonica-cosmologico-teologica, dall’altro lato, il suo atteggia mento nei confronti del neoidealismo italiano e dell’idealismo in genere, con la teorizzazione della natura pratica e fattuale della religione e la ricostruzione storiografica del pensiero di Feuerbach e Kierkegaard. Da ultimo possiamo ricordare che la filosofia di Lombardi è una filosofia dell’individualità, una filosofia che medita sulla, e teorizza la genesi dell’uomo come individuo, Tale genesi viene spiegata via via diversamente nel corso dello svolgimento del pensiero lombardiano, per il quale tuttavia il Leitmotif è sempre costituito dall’individuarsi dell’uomo e dell’uomo come individuo. In questa filosofia che rivendica l’individualità e la responsabilità singolare dell’individuo, la religione era un punto di riferimento di particolare importanza. È significativo già il fatto che gli autori religiosi di Lombardi (religiosi, beninteso, nel senso di una filosofia della religione che è critica della filosofia teologico-religiosa di stampo idealistico) sono appunto Feuerbach e Kierkegaard, cioè due teorici dell’individualità di contro alla dissoluzione universalistica dell’idealismo : Feuerbach fin dallo scritto Per la critica della filosofia hegeliana fa valere appunto la particolarità individua del punto di partenza di fronte al logico problema del cominciamento di Hegel ; Kierkegaard, poi, è rivendi
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catore del singolo fin nelle forme del paradosso e del salto : si pensi alla solitudine del « cavaliere della fede » di contro alla generalità del cavaliere della morale, ad Abramo di contro ad Agamennone. Appunto qui sarebbe interessante prendere in considerazione, se la sede lo consentisse, la complessità del rapporto di Lombardi con le « due culture » filosofiche, cioè quella italiana e quella tedesca. Nei Taccuini di viaggio che sono riportati in Filosofia e società Lombardi osserva che in Italia l’uomo si sente sempre unito con la « bella d’erbe famiglia e d’animali » e la sua individualità non crea problemi, mentre in Germania « nell’eguale pianura e distesa del Settentrione » l’uomo « non è individuo se non in quanto si ritrova, separato o isolato dagli altri, di contro all’eternità di Dio » (p. 15). In queste espressioni c’è sicuramente una risonanza kierkegaardiana : viene in mente l’« Ultimatum » di Aut aut (intitolato « Sull’elemento edificante presente nel pensiero che di fronte a Dio noi abbiamo sempre torto ») ; vengono in mente i diari di Kierkegaard e le rievocazioni delle pianure del suo Jutland : che, se queste non sono proprio in Germania, Lombardi ha sempre rivendicato l’appartenenza di Kierkegaard alla filosofia germanica. Semplificando sarei quasi tentato di dire che all’Italia è riservata la filosofia, mentre al « principio del Nord » – come avrebbe detto Hegel stesso, in Fede e sapere – è riservata la scissione (l’episodio kierkegaardiano della maledizione nella pianura dello Jutland !) che cerca di consolarsi teologicamente ovvero idealisticamente. Certamente il ripetuto « Fermati, anche qui sono gli Dèi » con cui si conclude il Testamento filosofico, è greco, è mediterraneo. Ma lasciamo queste considerazioni di ethos filosofico, che pure, ripeto, potrebbero essere illuminanti, ancor più in quanto Lombardi stesso vi era assai incline. Torniamo al terzo motivo generalissimo che vorrei enucleare per render conto della compresenza di laicità della filosofia e interesse diuturno e approfondito di Lombardi per la religione. Nel pensiero di Lombardi c’è un legame del tema dell’individualità con quello della religione (non della religiosità, quel fenomeno spurio di cui abbiamo detto che viene messo da parte da Lombardi). L’essenza della religione, è strettamente connessa al tema dell’individualità. L’insistenza di Lombardi nel presentare la religione come fatto pratico e non teorico – quella insistenza che gli consentiva di distaccarsi dalla tradizione idealistica affermatrice eli una religione come filosofia inferior – è costantemente congiunta con la rivendicazione della dimensione « personale » o anche « personalistica » : le dico tra virgolette queste parole perché sono citate, sono ricavabili dai testi stessi di Lombardi (cfr. ad es. Il mondo degli uomini, pp. 79-80). La religione è compresa da Lombardi come affidamento ad altro da sé per salvare se stesso : ma se stesso come individuo ; per salvare il valore : ma il valore in quanto personalmente e individualmente vissuto, ovvero individuato nella persona (cfr. L’esperienza e l’uomo, pp. 236-38). Questo potrebbe essere documentato lungo tutto l’arco della produzione lombardiana, a partire dal Mondo degli uomini dove si parla della « ricompensa eterna di ciò che è valore nel mondo » (p. 238) e di salvezza nell’eterno : di contro all’assolutezza a cui aspira la filosofia che è una esigenza critica, la religione « rappresenta la realizzazione praticistica e la esigenza personalistica di tale assolutizzamento del nostro accidentale vivere » (p. 79). Potremmo andare avanti citando, per esempio, Dio dei filosofi e Dio vivente, dove il discorso mostra di essere molto legato alla religione cristiana (la salvezza dell’« individuo » come « rapporto personale » : cfr. Filosofia e società, p. 23) ; qui poi ritornano gli accenti kierkegaardiani laddove si dice : « La religione è la possibilità che resta al di là di tutto questo, al di là di ogni indagine scientifica quando è tolta ogni altra possibilità. La religione essa stessa non è, se è possibile dire, se non la “possibilità” in assoluto, la possibilità kath´exochen, l’onnipotenza del desiderio [questa è una
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risonanza feuerbachiana all’interno del tema kierkegaardiano della possibilità]. Non vi sono di contro ad essa confini che tengano, e tanto meno tengono i limiti della scienza » (Filosofia e società, p. 31). Tutto ciò viene affermato in un contesto di rivendicazione del l’individualità. È il caso de notare che nel medesimo saggio Dio dei filosofi e Dio vivente Lombardi, dopo aver affermato che « alla base del fatto religione è il bisogno di salvazione del credente », annota : « Una diversa matrice del fatto religione, senza con ciò negare la prima, l’ho messa in luce e riconosciuta più tardi : cfr. il mio Problemi della libertà, 1966, cap. iv ed i miei scritti successivi » (op. cit., p. 23). Qui naturalmente il discorso sarebbe da filigranare : a me non pare che ci sia veramente, a partire da quello scritto, la messa in evidenza di una diversa matrice. Mi pare piuttosto che a partire da quello scritto ci sia un’attenzione sempre crescente – come poi è dato vedere nel Testamento filosofico – nei confronti della dimensione sociale della religione. Ma ciò ci porta a considerare un secondo momento in cui si può constatare il nesso che lega religione ed individualità nel pensiero di Lombardi, cioè quello relativo non tanto all’essenza della religione quanto alla genesi della religione. È vero che a partire dagli anni ’60 nel pensiero di Lombardi la dimensione sociale, anzi la genesi sociale della religione acquista un rilievo sempre maggiore. Però in che senso ? Non nel senso, per esempio, di un funzionalismo sociologico alla Durkheim, ma nel senso che appunto la religione si genera per Lombardi nel momento del distacco dell’individuo rispetto a quella che nel Testamento filosofico è chiamata « l’orda primitiva », cioè nel momento della individuazione dell’individuo. Sicché si potrebbe dire che, in quest’ultimo periodo del pensiero di Lombardi, la dimensione sociale della religione ha un valore negativo. Si tenga presente, poi, che questa concezione della religione si accompagna nell’ultimo Lombardi ad una visione che in termini di funzionalismo sociologico odierno si direbbe di « differenziazione » : la separazione e l’autonomizzazione di morale, economia, politica, scienza ccc., comporta altresì per Lombardi la « caduta della civiltà cuspidale » e la fine del « valore eponimo » della relig ione, (cfr. Problemi della libertà, p. 64). Anche in tal senso, dunque, il momento sociale è tenuto presente, ma negativamente, nel senso, questa volta, della religione. Che il momento individuale sia importante anche sotto il profilo della genesi della religione, mi pare di poterlo dire anche nel senso che il distaccarsi, l’autonomizzarsi, l’individuarsi dell’individuo rispetto alla società è connesso con quel « desiderio onnipotente » che, come abbiamo visto, crea un mondo al di sopra di sé. Da ciò anzi deriva quella che per Lombardi è l’« antinomia » propria della religione : antinomia che non è per Lombardi da rimuovere dalla religione, perché la religione è essa stessa questa vissuta antinomia. Vissuta antinomia fra che cosa ? Fra l’individuo e l’universale. Lombardi articola questo tema in modi molto sottili e, vorrei dire, anche di interesse per il teologo nel senso professionale del termine ; è questo il caso per esempio, quando Lombardi puntualizza questa antinomia a proposito di quel Perfectissimum che ha trovato la sua precipitazione filosofico-teologica nell’argomento ontologico. Come può l’individuo – si chiede Lombardi – « ripetere » autonomia se si pone questo perfettissimo e, dunque, onnipotente ? Storicamente, ma anche logicamente, la soluzione a questo interrogativo è stata trovata nel tema del male : il male non può venire dal perfectissimum e dunque il male è mio e grazie a questo male io sono io nella mia individualità e libertà. Se, secondo il detto cristiano, « di nostro non c’è che il peccato », tuttavia proprio questa è posizione dell’individuo : come si vede ritorna, in questa visione lombardiana, il coram Deo paolino-luterano-kierkegaardiano. Per altro verso, l’individuo, che è posto
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grazie al peccato, vuole essere salvato : questa antinomia non è alcunché di accidentale ma è l’essenza stessa della religione. Questa antinomia dovrebbe essere invece superata dalla filosofia come pensiero critico. Dovrebbe essere superata : perché, se è e rimane davvero filosofia, non si trasforma o deforma in filosofia relig iosa. Per altro la religione, proprio nella sua antinomicità, vale per Lombardi come potente correttivo nei confronti delle filosofie teologiche, cioè nei confronti dell’intera tradizione platonica. Questa simpatia – se non altro nel senso etimologico del termine di un pathos che è la stessa capacità di sentire umana – questa simpatia che Lombardi prova per la religione come fenomeno umano autentico (non come religiosità !), in quanto la religione esercita un correttivo rispetto alle pretese teologiche della filosofia, è una simpatia costante, dal Mondo degli uomini al Testamento filosofico attraverso una quantità di scritti. La religione rimoralizza le filosofie teologiche che sono – dice Lombardi – colpevoli di « empietà contro il principio stesso dell’umanità » (Filosofia e società, p. 20), in quanto finiscono per giustificare tutto, per deresponsabilizzare l’uomo ed eliminare la libertà. Di contro a queste filosofie la religione ha quindi un valore morale e non soltanto teoretico, certamente essa ha un valore anche teoretico, perché, come abbiamo visto, la religione, di contro alle pretese filosofie teologiche, pone un essere distinto dal pensiero. Da questo punto di vista la religione si avvicina alla morale ; e tuttavia essa, cosi come non è riducibile alla filosofia, non è nemmeno riducibile alla morale perché, come ricorda frequentemente Lombardi, da ultimo nel Testamento filosofico, la morale a partire da Kant è autonoma. Sicché la religione viene a configurarsi nel pensiero lombardiano come una grandezza tra filosofia e morale. Della morale essa ha il carattere pratico ed ha la capacità di ricondurre le presunzioni teologiche della filosofia alla responsabilità individuale ; d’altro canto però la religione non è morale perché la mo rale si interessa a risolvere responsabilmente il caso concreto, che viene affrontato con la « pesantezza » della nostra libertà, laddove la religione avrebbe intenzione di risolvere non un problema « contingente e pratico », ma, proprio come la filosofia, « un problema universale », « il problema della vita » (cfr. Mondo degli uomini, p. 85). Peraltro, abbiamo visto, la religione, a differenza della filosofia, rimane insuperabilmente di natura pratica. Di modo che Lombardi, quando nota acutamente e ripetutamente (e particolarmente nell’ultimo periodo, dopo gli anni ‘60, fino al Testamento filosofico) che la cultura teologica della nostra epoca « diventa sempre più una cultura teologico-pratica, e sempre meno teologico-ontologica », può aggiungere però che questo porta al pelagianesimo, dunque alla perdita del motivo del peccato come scissione dell’individuo dall’universale ; e questa è la fine della religione (cfr. ad es. Il problema delle libertà, p. 63). Qui la domanda sarebbe se veramente la religione sia soltanto individualità o non anche comunità, nel senso in cui Kant parla della « comunità etica » come « regno di Dio » nella Religione entro i limiti della sola ragione. Ci si potrebbe chiedere vale a dire se la dimensione della speranza non possa essere mantenuta oltre che nel senso feuerbachiano di un sogno teogonico, anche nel senso di un Kant che ritiene la domanda « cosa posso sperare ? » costitutiva dell’uomo e definitoria della religione, dando da ultimo (appunto nello scritto La religione entro i limiti ecc.) a questa domanda una risposta accentuata non tanto nel senso di una vita eterna di tipo individuale, quanto nel senso della realizzazione della comunità etica. La morale veramente è alternativa rispetto ad una dimensione della speranza ? Questa sarebbe una domanda che avrei amato porre a Franco Lombardi se fosse stato ancora fra di noi e che invece è ormai assegnata al mio rimuginamento personale.
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FILOSOFIA DELLA RELIGIONE*
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1. Religione e cultura
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l termine « religione » è di uso comune nella lingua italiana, e termini corrispondenti, derivati anch’essi dalla parola latina religio, si trovano usati comunemente in alcune altre lingue naturali viventi : non molte per la verità, anzi, pochissime, se comparate al numero complessivo delle lingue vive (migliaia), ma decisamente dominanti ; si tratta di alcune lingue occidentali o, come si usa dire a causa della stessa loro dominanza, « delle » lingue occidentali. In queste lingue, dunque, il termine « religione », similmente ad altre parole che caratterizzano in modo essenziale la cultura dell’Occidente – « scienza », « arte » ecc. – è dotato di una certa immediata comprensibilità. Tuttavia, come spesso avviene, anche nel caso di « religione » la comprensibilità immediata del termine si accompagna a una notevole vaghezza semantica. Il linguaggio comune infatti vive di questo paradosso per cui la comprensibilità immediata di certe parole non è inversamente proporzionale alla loro vaghezza semantica – come forse ci si aspetterebbe – bensì direttamente proporzionale alla medesima. Ciò avviene particolarmente quando si tratta di termini che, come nel caso di « religione », denominano un fenomeno culturale, o almeno qualcosa che è anche fenomeno culturale. In questi casi infatti è arduo il ricorso alla referenza empirica di tipo estensivo, vale a dire al massimo e più agevole criterio di univocazione per le lingue naturali nel loro uso quotidiano. Inoltre, poiché la cultura è per definizione l’ambito del valutativo, i termini che designano fenomeni culturali sono spesso usati in modo, appunto, valutativo, cioè nel modo che, particolarmente in caso di ardua o impossibile riferibilità estensiva, rende più difficile l’accordo sul significato di un termine e dunque la sua univocazione. Si noti che nei termini relativi a fenomeni culturali l’uso valutativo è primario, perché è quello in cui si esprime l’autocomprensione della cultura che si avvale comunemente del termine in questione, laddove l’uso puramente e depuratamente descrittivo è successivo, comportando distacco e richiedendo di mettersi in qualche modo all’esterno della cultura descritta e oggettivata. Se queste considerazioni valgono in genere per i termini che designano fenomeni culturali, esse acquistano però un significato del tutto particolare nel caso del termine « religione » ; al punto che soffermarsi su di esse come stiamo facendo non significa in questo caso intrattenersi su aspetti generici, bensì svolgere già considerazioni che, in un determinato senso, sono affatto specifiche. « Religione » inclina infatti spesso e talvolta irresistibilmente a estendere i propri confini semantici fino a designare non tanto un singolo fenomeno culturale, bensì la cultura stessa nel suo concreto apparire e darsi storico. Sicché il plurale « religioni » designa, al limite di tale processo di estensione, la stessa pluralità delle culture. La storia e la cronaca mostrano come una comprensione così ampia di « religione », e dunque della religione, sia tutt’altro che immotivata : oggi come nei millenni trascorsi
* P. Rossi (a cura di), La filosofia, Torino, utet, 1995, vol. i, pp.137-220.
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si assiste a scontri tra popoli che sono scontri tra religioni, e oggi come ieri la convivenza multirazziale dà luogo al pantheon. Né queste affermazioni vanno intese in senso puramente metaforico. Non sarebbe difficile addurre esempi che mostrano come esse vadano prese anche in senso letterale. Tuttavia, insistere sull’aspetto letterale, ricordando, ad esempio, le stanze o cappelle interreligiose facilmente reperibili oggigiorno negli aeroporti, all’onu e, insomma, nei punti che concretano e istituzionalizzano attualmente la comunicazione tra le persone e i popoli, potrebbe apparire assai tenue, se non stravagante, e comunque qualcosa di incomparabilmente meno importante della ben più ampia realtà da cui questi stessi fenomeni derivano e di cui rappresentano un mero simbolo. O se – per esemplificare ancora – si notasse come la compresenza di edifici di culto di diverse religioni in alcune metropoli contemporanee presenti evidenti analogie con quella che caratterizzava alcune metropoli antiche, da Selinunte a Roma, questo fenomeno « religioso » in senso tradizionale e letterale apparirebbe simbolo obsoleto, sineddoche retorica del carattere multiculturale delle metropoli, di quelle contemporanee non meno che di quelle antiche. In realtà tutti gli esempi di scontro o coesistenza culturale che si possono addurre riescono insufficienti e riduttivi : se presentano gli incontri e gli scontri di culture come incontri e scontri religiosi appaiono puramente metaforici ; se presentano incontri e scontri letteralmente religiosi come incontri e scontri di culture, appaiono meramente simbolici. Ma tale insufficienza e riduttività è preziosa e va preservata dalla ingenua tentazione di sbarazzarsene isolando alcuni canonici esempi di guerre e paci religiose –crociate o sante alleanze – e circoscrivendo ad essi ogni legittimità del discorso su religione e cultura. La cultura infatti è per essenza simbolica, è in quanto tale evento e processo di simbolizzazione. Sicché il rapporto di sineddoche – cioè di parte per il tutto – che intercorre fra simbolizzazione religiosa e cultura nel suo complesso non può essere considerato mera figura retorica ; né la tendenza all’ampliamento semantico del termine « religione » dalla specie (uno specifico fenomeno culturale) al genere (una cultura nel suo complesso) può essere messa in conto della vaghezza semantica del termine nel suo uso comune. L’ampliamento semantico del termine dalla specie al genere non caratterizza infatti soltanto un certo uso, significativo ma incontrollato, del linguaggio ordinario, bensì anche il linguaggio specializzato di non trascurabili interpretazioni teorico-scientifiche della religione. Se Hegel – il quale per primo tenne corsi universitari ufficiali di « Filosofia della religione » (1821 ss. ; cfr. Hegel, 1983-1985) – poteva identificare, negli scritti giovanili così come nella tarda introduzione ai corsi di filosofia della storia (1822-1823 ss. ; cfr. Hegel, 1955), religione ed ethos ; se un padre fondatore dell’antropologia culturale come Frazer poteva sottotitolare la prima edizione di The Golden Bough (1890, Il ramo d’oro) « Uno studio di religione comparata » ; se un padre fondatore della sociologia come Durkheim poteva vedere nella religione la stessa norma funzionale che integra la società (Durkheim, 1912) ; se Freud, padre fondatore della psicoanalisi, istituendo un parallelo fra ontogenesi e filogenesi, poteva vedere nella totemizzazione da parte dell’orda primitiva l’inizio di quella illusione culturalmente istitutiva che è appunto la religione (Freud, 1913) ; se, insomma, studiosi che hanno avuto un ruolo particolarmente significativo nella istituzionalizzazione delle rispettive discipline hanno potuto accreditare una comprensione contemporaneamente specifica e generica della religione, ossia un rapporto di circolarità e di identificazione fra religione e culturale presumibile che ciò non sia senza ragioni profonde.
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Tali ragioni possono senz’altro essere riportate al peso del linguaggio comune come di quello che è all’origine del linguaggio scientifico e continua a rimanere il metalinguaggio pragmatico del linguaggio scientifico ; ma è evidente che quanto maggior peso si ritiene di dare a questo tipo di spiegazioni, tanto più si rende problematica l’assunzione di una realtà extralinguistica. Proprio la considerazione linguistica, quindi, lungi dal poter rappresentare una forma di disimpegno, pone nel massimo grado di fronte alla necessità di approfondire la questione del rapporto fra simbolizzazione culturale e religione.
2. Circolarità e linearità In qualche misura la posizione in cui viene a trovarsi il fenomeno religioso in rapporto alla cultura non è dissimile da quella di altri fenomeni culturali. Si potrebbe dire, ad esempio, che l’« arte » è altrettanto espressiva dell’essenza di una cultura storicamente data ; e così si potrebbe dire della « scienza ». Tuttavia anche solo i nomi dei pensatori che abbiamo menzionato sopra sono sufficienti a mostrare come il rapporto tra religione e cultura abbia potuto essere inteso da più teorie scientifiche e da diverse prospettive disciplinari non semplicemente come espressivo dell’essenza di una cultura, ma come questa sua essenza stessa. Appunto da ciò deriva quella circolarità fra specie e genere, fra tutto e parte, che caratterizza tante teorie e discipline della religione. Se la circolarità, lo scambio, l’identificazione, la sineddoche non fanno problema, ciò dipende dal fatto che si presentano generalmente in forma processuale e generativa : da un certo punto di vista, la religione costituisce, per così dire, il codice genetico o il programma informatico della cultura ; da un altro punto di vista, reciproco del primo, la cultura genera la religione e si simbolizza riassuntivamente in essa. Anche questa circolarità in forma genetica riuscirebbe però viziosa e manifesterebbe la sua inettitudine esplicativa o interpretativa se il rinvio da uovo a gallina fosse infinito e non si inquadrasse da ultimo in una cornice storica (o di filosofia della storia) di tipo lineare. Se vogliamo fare riferimento ai nomi antologicamente ricordati poc’anzi, non è difficile verificare questo status quaestionis interpretativo-esplicativo. Per quanto riguarda Hegel, la convivenza faticosa di circolarità e linearità è la stessa laboriosa fatica del concetto e potrebbe riassumere il senso di tutta la filosofia hegeliana. Tuttavia questo è particolarmente vero per la filosofia della religione di Hegel, a proposito della quale egli reduplica e moltiplica gli scambi circolari di inizio e fine, in un quadro complessivamente apocalittico, nel senso etimologico di questo termine, cioè nel senso di una rivelazione e manifestazione che è il fine e la fine della religione : « il sale è diventato sciapo », osserva egli al termine di un suo corso di filosofia della religione, riecheggiando a suo modo un’espressione evangelica (Matteo, 5, 13), appunto con riferimento alla religione, « tolta » nella filosofia (Hegel, 1984 : 95). Ma se Hegel, in virtù della sua particolare visione filosofica, non è inconsapevole degli elementi di circolarità, anzi li pregia e, in ampia misura, li padroneggia, gli scienziati empirici non sembra possano concedersi siffatte arditezze. I padri fondatori delle scienze umane hanno dunque inclinato ad accentuare piuttosto la linearità, misconoscendo gli elementi di circolarità presenti in quella sineddoche di religione e cultura, che pure essi accreditavano con le loro ricerche. Ora, questa accentuazione della linearità ha certamente avuto il significato di evidenziare il carattere di arché, di principio, che la
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religione possiede rispetto alla cultura (ciò spiegava e legittimava la sineddoche), ma con questa stessa messa in evidenza si è venuto anche a suggerire l’idea del carattere arcaico, appunto, della religione e della fine della medesima. Ciò tanto più, in quanto lo sguardo delle scienze umane nella fase della loro prima istituzionalizzazione è stato rivolto prevalentemente alle società primitive. Sicché il modello lineare si è tradotto facilmente nell’idea del superamento della religione. Non è difficile scorgere la concordanza e la concomitanza di siffatti orientamenti teorici – impliciti o espliciti – con la realtà culturale del mondo industrializzato, a proposito della quale si è soliti usare il termine di « secolarizzazione ». Ciò peraltro non deve sorprendere ; ci si dovrebbe piuttosto stupire del contrario, vale a dire di una eventuale divergenza tra le configurazioni del sapere teorico e la realtà storica in cui esse prendono forma. Sebbene tutt’altro che sorprendenti, la concordanza e la concomitanza fra cultura e sapere presenta però una forma di circolarità fra questi due termini che sembra smentire la posizione del tutto particolare che, come sopra ricordavamo, le scienze umane hanno riconosciuto alla religione rispetto alla cultura, differenziando tale posizione di arché da quella di altri fenomeni culturali. Di contro a ciò bisogna notare che l’assunzione del modello lineare, con la religione in posizione iniziale e arcaica, ha comportato sempre e precisamente l’idea della sostituzione della religione (la quale sarebbe fabulatoria, acritica, proiettiva) con la scienza (la quale sarebbe oggettiva e critica) ; salvo a ritrovare nello stato o stadio scientifico elementi che denunciano la circolarità rimossa. Il caso più illustre di questa concezione assai diffusa non solo tra i filosofi di professione, ma anche a livello non professionale, è forse quello di Comte : egli, come è noto, nella storia vedeva susseguirsi a cascata religione, metafisica e scienza, ricostituendo però al punto di arrivo del tragitto – quello che dovrebbe elaborare una scienza « positiva » della società o « sociologia » – una « religione dell’umanità » (cfr. ad es. Catéchisme positiviste, 1852 ; né questa asserzione era soltanto retorica se, come è noto, esiste tutt’oggi una chiesa comtiana, i cui templi sono particolarmente diffusi in Brasile). In effetti la secolarizzazione rappresenta – come vedremo più oltre – una questione teorica di grande rilievo e altamente problematica. La teoria della società e la sociologia attuali danno considerevoli segni di aver abbandonato il modello esclusivamente lineare e la semplicistica visione della storia che tanto più ingenuamente lo sosteneva quanto più riteneva di fare riferimento a dati « positivi » ed empirici. Con l’abbandono della linearità ingenua viene ritrovata precisamente la circolarità. Così accade, ad esempio, per Luckmann e Berger (1966 ; e Berger, 1967), che elaborano una teoria sociologica della religione la quale è tutt’uno con una sociologia della conoscenza (e si dovrebbe’anche ricordare l’influsso di Feuerbach su questa teoria della religione – cfr. Feuerbach, 1841 – e dunque, indirettamente, di Hegel) ; e così avviene per Luhmann : già il Luhmann di Funktion der Religion (1977, Funzione della religione), ma ancor più vistosamente e tematicamente il Luhmann che, avendo fatto propria la teoria dei sistemi autopoietici, considera la religione una forma di deparadossalizzazione, con cui viene bloccata la generazione di paradossi da parte della circolarità autoosservativa (Luhmann, 1985 e 1986). Alla luce di questi modelli teorici più raffinati e più adeguati a render conto della realtà delle società complesse, la secolarizzazione appare qualcosa di non descrivibile semplicemente in termini di superamento o dissoluzione, come se a una società semplice e indifferenziata succedesse, per curiosa sostituzione, una società anch’essa semplice e indifferenziata.
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Tuttavia sarebbe altrettanto semplificatorio non tenere conto anche del modello lineare, e ciò almeno per due distinte ragioni : in primo luogo perché nella nostra cultura la temporalità storica è pensata appunto linearmente, con cronologie che sono, in senso letterale, cronometrie e cioè identificano le unità temporali come successioni lineari ; in secondo luogo perché la cultura della società secolarizzata tende a porsi come universale e, in questo senso, a comprendersi come metaculturale : il superamento della religione, o almeno delle religioni storiche positive, si inscrive appunto nel quadro di questa autocomprensione in termini lineari, anzi in termini di « progresso ». Possiamo chiamare tale autocomprensione « illuministica » in senso tipologico, ma, come vedremo, anche in un preciso e filologico senso storico. Non può sfuggire comunque la funzione definitoria che proprio l’idea di superamento esercita nei confronti di ciò a cui ritiene di porre termine e che, in tal modo, letteralmente determina e definisce. Più ampiamente ed articolatamente : la categorizzazione moderna della religione e l’uso teorico specializzato del termine « religione » hanno storicamente avuto luogo nella identificazione di un’essenza della religione, da far valere o come denominatore comune e pacificante per le religioni storiche, o come contrapposto critico nei confronti della usurpazione rappresentata dalle religioni storiche, o come oggetto di superamento storico tout court. L’articolazione disgiuntiva di queste tre possibilità presenta tre momenti effettivi, e in larga misura successivi l’uno all’altro, della storia del pensiero europeo – « occidentale » – moderno.
3. « Relegere » e « religare »
Questa determinazione dell’ambito storico in cui il problema della « relig ione » – e della « filosofia della religione » – acquista un senso scientifico preciso (come abbiamo detto : la storia del pensiero europeo ed occidentale moderno) va sottolineata. Infatti, anche rimanendo all’interno del cosiddetto Occidente, cioè all’interno di quella storia culturale in cui la « filosofia » è a casa propria, è evidente come sarebbe difficile trovare nel greco classico un termine corrispondente a « religione ». Quantunque si parli comunemente e si sia parlato anche in testi e contesti specializzati di « religione dei Greci » (nota e influente l’opera in più volumi pubblicata con questo titolo da O. Kern, 1926-1938), il mondo greco non conosce un concetto equivalente e non ha il termine per esprimerlo. Eusebeia corrisponde piuttosto al latino pietas ; nomos (legge, ma anche costume normativo a carattere religioso) è certamente più vicino a religio (che comunque, come vedremo subito, non è il moderno « religione »), ma ha un’ampiezza semantica assai maggiore e implicazioni concettuali assai diverse ; similmente dicasi per altri termini (latreia, threskeia, ecc.). Qualora si spostasse lo sguardo storico e geografico procedendo verso Oriente, non si avrebbero minori difficoltà a trovare in sanscrito soddisfacenti corrispettivi a quel « religione » con cui, pure, noi denominiamo, per l’appunto le « religioni » dell’India : Bhakti (devozione, fiducia, ecc.), Śruti (la tradizione udita), Dharma (modo d’essere, equilibrio e armonia, ecc.) ? Quest’ultimo termine, in effetti, è usato correntemente per tradurre l’inglese religion ; valga tuttavia come esempio della inaccettabilità scientifica di tale traduzione il titolo di una rivista di studi religiosi pubblicata in lingua inglese in India : « The Journal of Dharma ». Ciò che qui è il caso soprattutto di far presente è come il latino religio non sia il moderno « religione », che pure etimologicamente ne deriva. Per cogliere il significato del latino religio, nell’accezione romana, possiamo fare riferimento alla nota etimologia
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addotta da Cicerone, secondo il quale coloro « che ritornano diligentemente col pensiero e per così dire ripercorrono (diligenter retractarent et tamquam relegerent) tutto ciò che concerne il culto degli dei sono detti religiosi da legendo, così come gli elegantes da eligendo, da diligendo i diligenti, da intelligendo gli intelligenti » (De natura deorum, ii, 72). Per quanto dubitabile sotto il profilo linguistico sia l’etimologia che in questo passo Cicerone intende ricostruire e accreditare, la definizione o quanto meno la descrizione che essa fornisce di religio è perfettamente rispondente alla comprensione romana di questo termine e dell’esperienza che esso denomina : si tratta della scrupolosità costante e ripetuta nell’esecuzione di un certo tipo di azioni, e prima ancora si tratta delle azioni o delle pratiche stesse in quanto rispettano e ripetono (retractare e relegere) e dunque sono ruoli ovvero doveri (officia) e tradizioni ovvero culti (cultus). Cicerone stesso usa talvolta il termine religio senza connotazioni che noi chiameremmo appunto « religiose », e dunque per indicare semplicemente scrupolo e coscienziosità in ciò che si fa, o a cui si adempie ; analogamente Plauto aveva detto, a proposito di un invito a pranzo, che era stata religio accettarlo (Curculio, 350). Beninteso, l’uso latino prevalente è nel senso che anche noi saremmo inclini a chiamare « religioso », in quanto l’osservanza scrupolosa che con esso si vuole connotare è sostanzialmente l’osservanza delle indicazioni fornite dai numina. Ma allo stesso modo in cui l’aspetto oggettivo, comportamentale, per così dire, dell’azione compiuta prevale su quello del sentimento soggettivo (sempre per così dire, cioè parlando con una terminologia moderna) con cui essa è compiuta e ne è semanticamente all’origine, altrettanto i numina a cui l’azione corrisponde scrupolosamente non sono, o sono solo derivatamente e in un momento cronologicamente successivo, dèi, entità, figure (effigiate in immagini visive o narrate in miti), e sono invece originariamente solo potenze di prescrizione. Tutto ciò potrebbe anche apparire molto consonante con una comprensione freudiana della religione in termini di coazione a ripetere, e portare così a chiedersi se in realtà i numina non siano, piuttosto che causa dell’osservanza (come pure appare a una prima considerazione), prodotto della medesima. Così però verrebbe trascurato l’elemento consistente nella scrupolosità dell’osservazione – prima ancora che dell’osservanza – dei segni predittivi (Cicerone stesso fa presente la tripartizione di omnis populi Romani religio in auspicia e in ammonimenti desunti, praedictionis causa, dai portenti della Sibilla, oltre che in sacra : De natura deorum, iii, 1). Il che può certo essere a sua volta recuperato ad una interpretazione psicoanalitica o essere fatto oggetto di qualsivoglia altra interpretazione corrispondente alla contemporanea sensibilità cognitiva. Ma piuttosto che cedere alla tentazione di simili cortocircuiti, è il caso di misurare tutta la distanza storica che separa l’uso moderno del termine « religione » da quello latino-romano di religio. In questo senso può riuscire altamente significativo ricordare l’altra e altrettanto nota etimologia a cui si suole fare riferimento per fornire una definizione o descrizione di religio, quella fornita dal cristiano Lattanzio circa tre secoli e mezzo dopo Cicerone : « Infatti – scrive Lattanzio – noi siamo generati a questa condizione : di mostrare giusta e dovuta obbedienza al Dio che ci genera, di riconoscere solo lui e di seguirlo. Noi siamo stretti e legati (religati) a Dio da questo vincolo della pietà. Da qui ha ottenuto il suo nome la religione stessa e non, come interpretava Cicerone, da relegendo » (Divinae institutiones, iv, 28). Anche se, come è verisimile, Lattanzio derivava da qualche altra fonte la sua etimologia, ciò che qui interessa notare è la trasformazione semantica a
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cui il termine religio va incontro con il cristianesimo. Di tale trasformazione semantica l’etimologia che viene ora accreditata in significativa polemica con quella ciceroniana è l’indice più eloquente : la parola ora si è caricata di un aspetto decisamente ontologico, nel senso che essa implica assunzioni circa la realtà e, in particolare, implica l’esistenza di Dio (creatore) come di colui a cui la religione religat, e senza del quale dunque non si può pensare nemmeno il concetto di religione. Questo aspetto ontologico e cognitivo è rinvenibile anche presso Agostino, il quale non solo riprende espressamente la nuova etimologia (religantes animas nostras), dichiarando di preferirla a quella da relegere proposta da « scrittori latini » (Retractationes, i, 13, 9), ma anche fornisce una teoria del cristianesimo come « vera religione » con l’opera intitolata, appunto, De vera religione. Peraltro già le Institutiones di Lattanzio avevano un capitolo, il primo, intitolato De falsa religione deorum : il che conferma e contrario come la nuova accezione ontologica di religio fosse percepita come strettamente connessa con la dimensione conoscitiva esprimentesi nell’alternativa vero-falso. Non meno significativo è il fatto che il cristianesimo venga chiamato da Agostino anche vera philosophia ; sebbene la « filosofia » che egli intende, in sintonia con il neoplatonismo, non sia, ovviamente, una scienza in senso moderno, ma piuttosto sapienza, è pur sempre, o ancor più, una dimensione teorica quella che è essenzialmente in gioco. E questa visione continuerà nell’agostinismo medievale : « Cos’è trattare di filosofia – si chiederà Scoto Eriugena – se non esporre le regole della vera religione, per la quale la somma e principale causa di tutte le cose, Dio, viene sia adorata umilmente, sia investigata razionalmente ? Se ne conclude che la vera filosofia è la vera religione e che viceversa la vera religione è la vera filosofia » (De divina praedestinatione, i, 1).
4. Cesure, continuità, complessità nell’ecumene tardo-romana Potremmo dire così di aver evocato gli elementi essenziali che entrano in gioco nelle comprensioni successive del termine « religione », combinandosi, tutti o alcuni di essi, in varia misura nel configurare ciò che volta per volta viene detto appunto, in latino o con termine neolatino da esso derivato, religio : a) in primo luogo l’elemento cultuale, la pratica sociale, ovvero l’azione visibile e pubblica ; b) in conseguenza di questo primo aspetto, l’elemento personale ovvero, con termine storicamente più appropriato, la virtù (l’osservanza, la coscienziosità ecc.) ; c) indi, l’elemento entitativo o ontologico (l’esistenza di determinati enti e di determinati rapporti intercorrenti fra di essi) ; d) infine l’elemento conoscitivo corrispondente (anche nel senso stretto che tale conoscenza corrisponde a, rispecchia, adegua l’elemento ontologico). Beninteso, un elenco di questo genere va preso con la necessaria ironia, e a tal fine abbiamo preferito enfatizzare, piuttosto che attenuare o occultare, il carattere di « lista degli ingredienti » possibili, o necessari, o sufficienti (a seconda delle varie comprensioni storiche). Inoltre, abbiamo accentuato il discorso su religio romana e religio cristiana, per far risaltare le differenze semantiche che si annidano nella continuità linguistica del termine stesso che è in questione in questa nostra trattazione. Ma ciò non significa, ovviamente, che si possa ridurre solo alla componente romana e a quella cristiana l’apporto culturale e semantico veicolato dal termine latino religio, né che quelle o altre componenti esistano o siano esistite allo stato puro, quasi che si trattasse di elementi chimici e non di complessi universi culturali e interculturali in sta
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to di continua evoluzione, intersezione e differenziazione. Soprattutto quando si parla del cristianesimo non si può non tenere presente l’eccezionale crogiolo di innumerevoli culture rappresentato dall’età ellenistica, nella quale appunto il cristianesimo si diffuse, si istituzionalizzò e si configurò dottrinariamente. Agostino, di cui sopra abbiamo stilizzato la comprensione di religio in modo da sottolineare le novità apportate dal cristianesimo, costituisce anche un esempio eloquente della complessità culturale dell’epoca che egli incarna (nativo dell’Africa romana, vi compie gli studi, diviene seguace del manicheismo, cioè di una religione iranica diffusasi in Africa settentrionale, poi va a Roma e Milano, si converte al cristianesimo, studia la Scrittura, Plotino e Porfirio...). Per quanto poi riguarda in particolare quella sua identificazione di religio e philosophia che ebbe fortuna nell’agostinismo medievale, essa riprendeva una identificazione da lungo tempo acquisita in età ellenistica, del tutto indipendentemente dal cristianesimo. Sicché l’elemento rilevante nel passaggio dal relegere al religare è meno la novità (basti pensare allo stoicismo e alla sua influenza già su Cicerone) che l’autocomprensione cristiana in termini di novità. In effetti se riferendoci ad Agostino, oltre che a Lattanzio, abbiamo potuto illustrare in modo esemplare e stilizzato la trasformazione semantica del termine religio, si può per altro verso notare come Agostino fornisca un esempio altrettanto istruttivo della riconfigurazione e riappropriazione del passato resa possibile da quella stessa trasformazione ; infatti proprio di contro all’accusa che il cristianesimo fosse responsabile della caduta dell’impero romano – un’accusa cioè molto significativa dal punto di vista della questione che stiamo trattando, in quanto pone in alternativa romanità e cristianesimo – nel De civitate Dei (x, 1) Agostino sostiene apologeticamente che tanto la religione romana quanto quella cristiana significano « culto di Dio, grecamente threskeia ». Se volessimo continuare sulla strada delle precisazioni, non sarebbe difficile cogliere l’occasione offerta dal ricorso al termine greco in quest’ultima emblematica citazione agostiniana per risalire ulteriormente lungo alcuni almeno dei moltissimi fili che si intrecciano e si fondono nell’ecumene tardo-romana (e il termine « ecumene » deve essere inteso nel senso di allora, dunque più nel senso del moderno melting pot che nel senso del moderno « ecumenismo » : quest’ultimo presuppone la differenziazione sociale della religione, mentre la realtà di allora si caratterizzava prevalentemente nella direzione opposta). Si potrebbe allora ricordare come il termine threskeia sia tutt’altro che caratterizzante per la grecità classica, essendo attestato solo raramente e sporadicamente, mentre esso viene usato per la prima volta in modo frequente – forse su influsso del latino religio – nell’età ellenistica da due ebrei : Filone Alessandrino e Flavio Giuseppe. Se il Nuovo Testamento e i Padri usano threskeia solo talvolta, la Vulgata – la traduzione latina del Nuovo Testamento approntata proprio ai tempi di Agostino – lo restituisce a sua volta al latino religio : insomma, l’accordo culturale e la media semantica erano ormai una realtà alla fine del v secolo dopo Cristo (del secolo – si noti bene – che noi identifichiamo così ; infatti all’epoca non era ancora in uso la cronologia cristiana, la quale sincronizza la civiltà della tecnica, essendo falliti i propositi politici e/o intellettuali anche in senso letterale « rivoluzionari », cioè i propositi di sostituire una nuova cronologia e un nuovo inizio ; Nietzsche, ad esempio, datava l’inizio del suo Ecce homo « giorno primo dell’anno uno [30 settembre 1888 della falsa cronologia] » ; ma gli standards « tecnici » esigono che da noi questa sua opera venga ricordata appunto come scritta nel 1888 d.C.).
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5. La costituzione della « religione » e della relativa « scienza »
Con i rapidi riferimenti che si sono fatti alla complessità delle dinamiche storiche in età tardoromana vorremmo evitare che l’elencazione schematica data all’inizio del paragrafo precedente relativamente alle principali componenti semantiche sedimentate nell’uso cristiano di religio venga interpretata come definizione di una astorica essenza di ciò che « è » religione. Chiarito ciò, tuttavia, si deve senz’altro dire – e lo si può dire nel giusto senso – che con la diffusione del cristianesimo una tappa essenziale si delinea nel percorso storico, non già della religione, bensì della parola « religione » è del suo concetto. Che poi questa parola e il concetto che essa connota abbiano, rispettivamente, riferimento e esemplificazione nella realtà è la convinzione normale di chi utilizza il termine nel linguaggio ordinario e – ciò che qui più interessa – il presupposto di chi si dedica ad un sapere specializzato della religione. Peraltro, simili convinzioni del sapere ordinario e simili presupposizioni del sapere specializzato non trovano luogo solo nel caso della religione, giacché si tratta di normali e vitali (in questo senso sane) convinzioni e presupposizioni realistiche. Ogni sapere specializzato, vale a dire ogni scienza, si costituisce come tale costituendo in oggetto ciò a cui si riferisce la convinzione realistica ordinaria e mettendolo in questione. Ciò a cui il linguaggio ordinario intende riferirsi viene così trasformato in mero presupposto, e reso oggetto nella esatta misura in cui è reso problematico : le discipline scientifiche e i loro oggetti si costituiscono in un solo atto. Se il movimento dalla convinzione al presupposto – o più esattamente dalla convinzione alla sua trasformazione in presupposto mediante la messa in questione – caratterizza ogni sapere specializzato, il quale altrimenti non si costituirebbe come tale e rimarrebbe sapere ordinario, bisogna dire che quelle che noi chiamiamo « scienze religiose » hanno avuto nel cristianesimo il terreno di coltura, anzi il seme stesso donde esse hanno potuto scaturire. Nel dire ciò, si manifesta tutto il significato e l’effettiva portata del fatto ricordato poco sopra, quando osservavamo come con la diffusione del cristianesimo una tappa essenziale si sia delineata nel percorso storico, non già della religione, bensì della parola « religione » e del suo concetto. L’osservazione poteva forse sembrare puntigliosamente nominalistica e di importanza secondaria o derivata. A tal punto invece la questione è di importanza primaria e originaria, che a partire da quella comprensione di « religione » si è resa possibile la costituzione della religione come oggetto del relativo sapere scientifico, ovvero si è reso possibile il sapere scientifico della religione e dunque la costituzione del relativo oggetto. In questo senso si può senz’altro affermare che la religione è un prodotto del cristianesimo. L’affermazione è meno paradossale e, tutto sommato, anche meno significativa di quanto potrebbe sembrare a prima vista ; è appena il caso di notare, infatti, che « cristianesimo » è appunto il nome per un fatto storico di lunga durata in cui rientra anche (sebbene non solo) la costituzione della religione come oggetto di scienza. Tale costituzione peraltro non è immediata, bensì è il frutto di un lungo cammino, che rappresenta precisamente il cammino del cristianesimo come fatto storico, ovvero la storia del cristianesimo (la quale comprende anche, ovviamente, la critica al cristianesimo, così come l’eventuale reazione alla critica). Solo in epoca moderna si determina
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una vera e propria categorizzazione della religione, vale a dire una costituzione della religione come oggetto di sapere che si assume possibile e necessario acquisire indipendentemente dagli eventuali atteggiamenti valutativi nei confronti della religione in generale, o di suoi aspetti, o di alcune religioni positive quali esempi storici del concetto generale di religione : una categorizzazione, dunque che corrisponde all’idea di scienza nel senso esso stesso moderno. Non sorprenderà infatti che la categorizzazione della « religione » sia un fatto che definisce la modernità al pari della « scienza ». Non ogni sapere specializzato è infatti scienza in questo senso ovvio per la comprensione oggi ordinaria ; ad esempio, anche la gnosi è un sapere specializzato, anche la qabbalah lo è, eppure né per questi, né per moltissimi altri esempi che potrebbero essere addotti potrebbe usarsi il termine di « scienza » e di « scienza religiosa » nel senso sopra ricordato. Può un tale concetto essere usato per il sapere specializzato che il cristianesimo ha elaborato di sé medesimo ? La risposta non è certo immediatamente positiva ; ma nemmeno immediatamente negativa. Proprio ai nostri giorni, alla luce dello sviluppo di quella disciplina scientifica di secondo grado che è la teoria della scienza o « epistemologia », è stata ripresa autorevolmente e ampiamente la questione relativa alla scientificità della « teologia », nel senso cristiano-positivo e istituzionalizzato di questo termine (Casper, Hemmerle-Hunermann, 1970, Pannenberg, 1973, Sauter, 1973, Schaeffler, 1980 ecc.), cioè nei senso di una disciplina coltivata oggi da una propria comunità di ricercatori e avente in « facoltà » confessionali di « università » ecclesiastiche o statali, la sede istituzionale privilegiata della ricerca e della trasmissione del sapere specializzato che tale disciplina rappresenta. Ma evidentemente la questione non è né di oggi soltanto, né di importanza circoscritta alla sola « teologia », o al solo « conflitto delle facoltà », per dirla con il titolo dello scritto kantiano del 1798 : titolo che ci riconduce a un periodo storico in cui è dato vedere con la maggior evidenza come la portata della questione investa né più né meno che la stessa cultura occidentale come cultura cristiana, in rapporto di sinonimia, di sineddoche e di circolarità tra religione e società : quel rapporto, appunto, di cui si è parlato all’inizio delle nostre considerazioni. Anche la sola menzione del titolo kantiano sopra ricordato può essere sufficiente ad evocare questioni come quella del rapporto fra chiesa e stato, del carattere confessionale o laico dello stato, del diritto e/o del dovere di censura da parte dello stato nei confronti almeno di una disciplina – appunto la teologia – dopoché in Europa la Riforma aveva portato all’esistenza stati che, a differenza della chiesa di Roma, erano bensì disposti a riconoscere l’autonomia della scienza (nel nuovo senso di quest’ultima, e in conseguenza del nuovo senso che ormai quest’ultima aveva conseguito) dalla religione (e dunque dall’autorità istituzionalmente competente in proposito, statale o ecclesiastica), ma non erano ancora disposti – e la cosa dopo tutto è comprensibile – a riconoscere l’indipendenza della religione dalla religione : della religione come oggetto di sapere specializzato dalla religione come soggetto istituzionalmente competente. Sicché la religione come oggetto di sapere specializzato subiva un processo di polarizzazione e non semplicemente di differenziazione – fra sapere religioso specializzato in senso, per così dire, oggettivo, cioè scientifico moderno, e sapere religioso specializzato in senso, per così dire, soggettivo, cioè scientifico arcaico, definito dunque in relazione al carattere religioso del soggetto che lo elabora e lo trasmette. La posta in gioco era, insomma, il rapporto tra sapere e potere, la questione quella relativa al potere del sapere : il genitivo di questa espressione era (ed è) quant’altri mai
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equivoco, cioè soggettivo ed oggettivo ad un tempo, ma non solo dal punto di vista grammaticale. Detto in altro modo, e in modo a cui siamo assuefatti storicamente : la questione era quella dell’« illuminismo ». L’assuefazione impedisce spesso di cogliere il senso delle cose, ma di contro a questi effetti gioverà ricordare come non per nulla Kant, nella sua Risposta alla domanda : Cosa è illuminismo ?, concludesse : « Ho posto principalmente in questioni di religione il punto capitale dell’illuminismo, ossia dell’uscita degli uomini da quello stato minorile che va addebitato a loro stessi » (Beantwortung der Frage : Was ist Auf klàrung ?, 1783 : 492). Comunque la polarizzazione tra sapere religioso specializzato in senso soggettivo e sapere religioso specializzato in senso oggettivo, più che risolvere il problema, lo manifestava in tutta la sua tensione. Lungo la linea di tensione fra i due poli si collocavano infiniti punti intermedi, ossia le più svariate, consapevoli o inconsapevoli, mescolanze fra i due aspetti polarmente differenziati. È questa, complessivamente, la situazione storica che ha generato la filosofia della religione.
6. Differenza tra Medioevo ed età moderna a proposito di « religione » e cognitività
Si tratta di una situazione profondamente diversa da quella medievale. Anche nel Medioevo, come è noto, si pose vivacemente, a un certo punto, l’interrogativo circa il carattere scientifico della teologia (cfr. Chenu, 1969, ecc.) ; ma la misura dell’intervallo che separa le due epoche è data, ancor prima di ogni risposta, già dal differente significato che l’interrogativo riveste prima e dopo la modernità. Potremmo formulare sinteticamente la differenza in questo modo : la discussione medievale sulla scientificità della teologia presuppone la veduta della vera religio, mentre la modernità o, se si vuole, l’illuminismo presuppone la dissoluzione di quella veduta. Le apparenze – e particolarmente le apparenze verbali – non debbono ingannare : nell’età moderna, infatti, si parla molto di « religione », mentre nel Medioevo la stessa utilizzazione del termine religio è assai meno frequente e sembra, anzi, essere regredita anche rispetto alla tarda antichità : probabilmente si tratta di un regresso d’uso in generale, sicuramente però di un regresso dell’uso in senso, per così dire, agostiniano di religio, cioè in un senso in cui entra a far parte, e parte importante, del contenuto semantico del termine l’ingrediente conoscitivo-teorico. Nonostante quanto abbiamo già ricordato citando Scoto Eriugena, nell’uso medievale prevalente religio torna a prendere piuttosto il senso comportamentale e istituzionale, per un verso, e, per altro verso, personale e aretologico a cui rinviava emblematicamente l’etimologia ciceroniana del relegere. L’uso statisticamente normale di religio nel Medioevo è infatti, ancor più che per denotare il culto, per denotare gli ordini religiosi (religiones), i cui adepti seguono una « regola ». Inoltre il termine viene usato anche per indicare una « virtù » : una virtù la quale ha a che vedere – conformemente appunto a quanto già Cicerone aveva sostenuto – con la « giustizia » e, anzi, ne rappresenta ora la specie eccelsa, in quanto consiste nel dare a Dio il culto che gli è dovuto (Tommaso d’Aquino dedica precisamente in questo senso una quaestio della sua Summa theologica alla religione ; cfr. iia-iiae, 9, lxxxi). Il cristianesimo in quanto tale non è dunque, nell’orizzonte medievale, « religione », bensì fides e, se considerato, per così dire, comparatisticamente, secta a fronte delle altre sectae che allora venivano in questione, particolarmente l’ebraismo e l’Islam, ma anche, ad esempio, l’« epicureismo ». È evidente infatti che il termine latino secta veniva
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inteso nel senso etimologico, il quale deriva da sector e comporta qualsivoglia « sequela » (mentre il termine non deriva da seco né comporta « sezione », come taluno è indotto a pensare grossolanamente, percependo il termine nell’accezione contemporanea, religiosa per l’appunto). Tuttavia sarebbe errato vedere in questa regressione medievale nell’uso di religio l’interruzione di un processo ; si potrebbe anzi dire il contrario, nel senso che proprio la definitiva affermazione del cristianesimo rendeva ormai superflua la reinterpretazione del passato a fini di apologetica e di riappropriazione ; la sopravvivenza della vecchia semantica poteva dunque tranquillamente protrarsi in un quadro generale cristiano che non aveva più alternative. Ma l’importanza data dal cristianesimo nella propria autocomprensione agli aspetti cognitivi e teorici permane e, anzi, si accentua, dando luogo a una enorme elaborazione dogmatica e dottrinaria di tipo cognitivo. A tale elaborazione si accompagna la parallela messa a punto dei dispositivi istituzionali deputati sia alla elaborazione cognitiva medesima, sia al controllo dell’osservanza dei relativi elaborati, in quanto l’appartenenza viene misurata meno sulle opere che sulla adesione a un complesso dottrinale (le opere sono largamente sostituite dal « sacramento » e dalle azioni simboliche dei « sacramenti », la cui efficacia è, a seconda dei casi, parzialmente o totalmente indipendente dall’azione del singolo destinatario). Per quanto concerne in particolare la quaestio medievale relativa alla scientificità della teologia (utrum theologia sit scientia), essa non rappresenta in nessun modo, a differenza della questione moderna, la messa in dubbio del contenuto cognitivo e del valore cognitivo del cristianesimo, e anzi presuppone tutta la ricordata esaltazione della dimensione conoscitiva, ponendosi solo il problema di eventuali diversi tipi di conoscenza e del loro rapporto. La questione si pone infatti nel momento in cui, di contro alla perdurante visione platonico-agostiniana di una identità di « religione » e « filosofia », si ritrovano modelli di sapere diversi e non religiosi, almeno nel senso che non sono di per sé religiosi, anche se poi si può intraprenderne l’armonizzazione con il sapere religioso o, più esattamente, cristiano. Siffatto ampliamento d’orizzonte fu dovuto sostanzialmente al vario e molteplice recupero di Aristotele e, più in generale, all’irruzione della scienza greca e araba (cfr. Gregory, 1992 : 1-59), e la sua conseguenza consistette non già nel rifiutare carattere cognitivo al sapere specializzato che il cristianesimo elaborava di sé medesimo, ovvero della propria verità, bensì – come nel caso, ad esempio, di Tommaso d’Aquino – nel distinguere la « filosofia » dalla « teologia » (cosa priva di senso per la tradizione agostiniana), subordinando la prima alla seconda. Che i cosiddetti « averroisti » sostenessero veramente la teoria della « doppia verità », o che la sostenessero per convenienza, o che fossero solo accusati di sostenerla da parte dei loro avversari, sono tutte ipotesi, queste, le quali in ogni caso confermano la situazione culturale, ovvero religiosa, che abbiamo ricordato. Il problema sorge invece proprio quando si torna a parlare ampiamente di « religione ». Questo infatti è l’indizio di una situazione culturale in cui l’assorbimento senza residui della religione nel cristianesimo in quanto « vera religione » – quell’assorbimento onde lo stesso termine religio era stato in qualche misura esautorato – non ha più luogo e, anzi, è sostituito da un movimento contrario il quale porta a distinguere i due termini – la « religione » e la fides christiana – e a confrontarli fra di loro. Da tale confronto potevano essere tratte volta per volta conclusioni diverse, anche – ma non solo – a seconda del modo in cui i concetti confrontati volta per volta si configuravano agli
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occhi di chi li confrontava ; ma il fatto storico fondamentale era appunto la recuperata distinzione che rendeva possibile quella comparazione e quella commisurazione di cristianesimo e « religione ».
7. Conflitto e irenismo Questo fatto storico fondamentale accade nell’età moderna : in un’età che, ovviamente, non esiste già predeterminata e cronologizzata prima dei suoi contenuti, sì che poi si possa rinvenire al suo interno, come in un contenitore, tra gli altri contenuti, anche l’evento storico che stiamo descrivendo. Al contrario : il modo per identificare la modernità – e conseguentemente di approssimarla anche secondo una cronologia – è quello di rilevare il verificarsi di una serie di eventi, fra i quali quello a cui ci stiamo riferendo è della massima importanza e dell’importanza maggiormente definitoria. L’età moderna, potremmo dunque dire, si presenta – dal punto di vista donde la stiamo considerando – come quella in cui si distinguono e si differenziano religio e fides christiana. Ciò equivale a dire in altro modo quanto abbiamo affermato già precedentemente quando dicevamo che l’epoca moderna è quella in cui ha luogo la categorizzazione della religione insieme con la costituzione del relativo sapere specializzato. Le due formulazioni sono equivalenti, perché sulla base della veduta della vera religio e dell’assorbimento che essa determinava della religione nel cristianesimo non c’era spazio per un distinto sapere specializzato della « religione » e per un sapere « oggettivo » tanto di questa quanto della fides christiana. Questo riferimento alla messa in questione della veduta della vera religio potrebbe indurre a pensare che la modernità rappresenti il frutto di una opposizione polemica nei confronti del cristianesimo. Ciò è senz’altro vero, ma è parziale e limitarsi ad affermare ciò rappresenterebbe, più che una semplificazione, un errore storiografico. Infatti, il processo di distinzione tra religione e fides christiana nell’epoca moderna è anche interno al cristianesimo, e lo è non solo in funzione apologetica (che indubbiamente presuppone la polemica dell’avversante), ma anche in funzione irenica. L’esempio di Niccolò Cusano è in proposito, oltre che esemplificativo, esemplare : nel De pace fidei (Cusano, 1453) il termine religio viene utilizzato più volte, giacché l’opera si pone il problema della « concordanza delle religioni » (i, 1, 2-3) dopo gli orrori causati dalla battaglia di Costantinopoli. E se l’intento irenico è evidente in quest’opera, altrettanto evidente in essa è il sisma concettuale che si sta verificando : un sisma il quale mostra chiaramente, statu nascenti, la categorizzazione della religione, in un violento oscillare tra singolare (religio) e plurale (religiones), tra sensi assolutamente nuovi e sensi antichi, ma radicalmente rinnovati per il fatto di venir sciolti da millenarie connessioni semantiche e da tradizionali associazioni di idee, per ricombinarli e associarli con i sensi nuovi. Se la verità ineffabile dell’unico Dio comporta che « ogni diversità delle religioni verrà ricondotta ad unam fidem orthodoxam » (iii, 8, 5-6) – dove il plurale « religioni » significa evidentemente la diversità dei riti, ma non la virtù dell’osservanza dei doveri nei confronti di Dio – per altro verso il prelato da Cusa parla anche al singolare (un singolare non solo grammaticale, ma anche e dichiaratamente concettuale) di religio una in rituum varietate (i, 6, 10-11) : dove, quindi, « religione » è altro da certe azioni e tradizioni pubbliche e si avvicina piuttosto alla una fides orthodoxa. Tutto questo terremoto concettuale è comunque causato nella mente del Cusano dai lamenti che vengono elevati a Dio per il fatto che « molti ob religionem volgono le
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armi gli uni contro gli altri » (i, 2, 12-14), mentre al contrario – secondo l’intuizione che nell’introduzione all’opera il Cusano narra di aver avuto – si tratta di ricondurre all’unità, grazie all’esperienza di un piccolo numero di sapienti, tutte le diversità « che sulla terra sono oggetto di osservanza in religionibus » facendo sì che, grazie a tale unità, « venga istituita una pace eterna in religione » (i, 1,4). Non è possibile quindi semplificare la storia delle idee ascrivendo la distinzione moderna fra « religione » e fides christiana esclusivamente a una critica mossa dall’esterno alla fides christiana. Ma dopo l’esempio che abbiamo addotto del Cusano si rende più che mai opportuna anche un’altra precisazione e messa in guardia : se, come abbiamo visto ora, non si può semplificare la realtà storica ignorando che gli intenti irenici contribuiscono non meno di quelli polemici a distinguere religio e fides christiana, nemmeno si deve cadere in un ulteriore semplicismo, ovvero in una semplificazione altrettanto facile e fallace, ritenendo che nella vicenda moderna in esame dimensione polemica e dimensione irenica possano essere identificate rispettivamente con dimensione anticristiana e dimensione cristiana. Nella modernità infatti il polemos è non solo condotto nei confronti del cristianesimo dall’esterno – come polemica e critica prevalentemente intellettuale – ma è anche interno al cristianesimo : e in questo caso il polemos è da intendersi oltre che nel senso della polemica intellettuale intracristiana anche, e in parte conseguentemente, nel senso letterale della guerra guerreggiata. Ci riferiamo, ovviamente a quelle che già al loro tempo furono chiamate « guerre di religione », conseguenti alle polemiche dell’età della Riforma : polemiche ancora una volta largamente dottrinali, cognitive, « teologiche » (anche laddove l’oggetto del contendere fosse pratico o morale), anzi teologico-filosofiche nella misura in cui l’agostinismo e l’antiaristotelismo erano una componente essenziale delle idee fatte valere dalla Riforma.
8. Stato e « religione »
Il principio cuius regio eius et religio (su cui v. Heckel, 1968), elaborato nel periodo tra la pace di Augusta e quella pace di Westfalia che poneva termine alle « guerre di religione » intracristiane, può essere considerato esso stesso come un chiaro sintomo della categorizzazione di religio in atto nella modernità e, insieme, come un significativo contributo a tale processo di categorizzazione. Con la clausola del Cuius regio, la religio – che palesemente non coincideva più con la fides christiana, o meglio non era più assorbita ed esaurita in essa e da essa – diveniva competenza dello stato, come noi oggi ci esprimeremmo ; ma, in realtà, era piuttosto l’acquisizione di tale competenza a delineare, per la sua parte, la fisionomia di quell’istituto politico moderno a cui si è dato il nome di « stato » e a cui conviene la « sovranità » o « competenza delle competenze ». Fra tali competenze non poteva non esservi quella religiosa, almeno nella misura in cui e fintantoché la « religione » venisse ritenuta di rilevanza « pubblica ». Che questo fosse il caso e lo fosse nella massima misura sono appunto le guerre di religione a dimostrarlo e, più in generale, la tendenza variamente configurata, ma univoca, dell’età della Riforma a dar luogo a « chiese di stato » : l’esempio della riforma anglicana è in proposito solo quello più facilmente leggibile, ma anche il riferimento alla regio come criterio vincolante per la religio andava nella medesima direzione. Che poi il caso di ritenere di rilevanza pubblica la religione, e dunque di rivendicare allo stato la competenza in materia, si desse storicamente nella massima
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misura si capisce ponendo mente al fatto che lo « stato sovrano » non poteva costituirsi come tale che sottraendosi, nella propria regio e mediante la delimitazione di una regio propria, all’autorità e alla universalità rivendicata dalla « chiesa » (il territorio è ritenuto ancora dalla dottrina giuridica contemporanea un elemento essenziale affinché si dia « stato »). Questa considerazione può valere più di molte altre a illustrare come l’incremento dell’uso del termine religio in età moderna non significhi necessariamente un incremento della presenza del referente denominato con tale termine nella realtà culturale della medesima età : la stessa rivendicazione della competenza religiosa da parte dello stato rappresenta piuttosto un segno di « secolarizzazione », anzi un segno della massima importanza in questo senso. In effetti, che l’assunzione della competenza religiosa fosse necessaria di fatto allo stato moderno per costituirsi è evidente, per la ragione che abbiamo appena detto ; ma che tale assunzione fosse necessaria in linea di fatto e/o di principio allo stato per mantenersi è molto meno evidente, ed era molto meno evidente già all’epoca stessa in cui l’assunzione della competenza religiosa da parte dello stato aveva luogo. Non ci si lasci ingannare dal fatto che lo stato moderno continuò a lungo a rivendicare la legittimazione religiosa del proprio potere (il che peraltro è cosa diversa dalla rivendicazione della competenza in materia religiosa, pur essendosi dati storicamente, e comprensibilmente, molteplici legami fra le due rivendicazioni). Affermando che già all’epoca della formazione dello stato moderno risultava assai poco evidente la necessità di mantenere la competenza religiosa ai fini del mantenimento dello stato non intendiamo riferirci nemmeno al diffondersi delle teorie che, all’opposto, criticavano la religione smascherandone la natura politica. Certamente l’elaborazione di queste teorie – da quella machiavellico-libertina dell’« inganno dei preti » fino a quella marxiana dell’« oppio dei popoli » e oltre – è un fenomeno caratteristico dell’età moderna : la millenaria consapevolezza del fatto che la religione vale come instrumentum regni si trasformava ora in teoria specializzata che intendeva definire l’essenza della « religione », spiegandone causalmente la genesi. È questo appunto uno dei modi in cui la religione nella modernità viene categorizzata e resa oggetto di sapere scientifico. Tuttavia il diffondersi delle teorie politiche della religione – che rappresentano solo il rovescio della medaglia delle teorie rivendicanti la legittimazione religiosa del potere – non illustra adeguatamente la scarsa evidenza con cui già all’epoca l’assunzione della competenza religiosa da parte dello stato appariva necessaria, non alla costituzione, bensì al mantenimento di quest’ultimo. Ancora una volta si tratta di evitare una semplificazione che si tradurrebbe in un semplicismo fallace : tale infatti sarebbe la riduzione del problema « religioso » creatosi con la nascita dello stato moderno all’alternativa chiasmatica tra un’affermazione arcaica dell’origine religiosa del potere politico e un’affermazione moderna dell’origine politica della religione. In realtà, se, come abbiamo detto, il polemos guerreggiato era intracristiano, esso non riguardava solo il conflitto fra stati (ovvero fra sovrani), ma anche il conflitto fra stato e cittadino dissenziente (ovvero fra sovrano e suddito dissenziente). Se il primo tipo di conflitto, quello fra stati, si lasciava pacificare mediante lo strumento classico della « pace » come trattato internazionale (per usare la terminologia giuridica contemporanea), il secondo tipo di conflitto, quello fra stato e cittadino, era assai più difficile da pacificare, anzi propriamente non poteva essere pacificato, giacché tra stato e cittadino (o tra sovrano e suddito) non intercorre per definizione un rapporto simmetrico, e in
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quanto tale assestabile in modo pattizio. Anche se, in alternativa alle teorie dell’origine divina del potere, veniva immaginato un « contratto sociale » originario, tale origine non era comunque più revocabile. Sicché il conflitto tra stato e singolo cittadino o non insorgeva, o, se insorgeva, poteva concludersi solo con il soccombimento dell’insubordinato, o in caso contrario con la delegittimazione del sovrano. La storia dell’Europa moderna è in misura quantitativamente e qualitativamente rilevante la storia di questo polemos intracristiano e interno allo stato : storia, dunque, di rivoluzioni (più o meno « gloriose »), di esecuzioni e di esili. Più che di storia dell’Europa, anzi, si deve parlare di storia dell’Occidente, giacché la stessa colonizzazione dell’America settentrionale, con tutto ciò che ne è conseguito, fu non poco caratterizzata da questo polemos (si pensi ai « padri pellegrini » e a tutto il simbolismo culturale connesso). Ma uno stato che si mantiene solo sulla soppressione del dissenso è uno stato che si mantiene difficilmente e, anzi, si autoconsuma ; senza contare che il dissenso religioso, data la diffusa convinzione – o pretesa – relativa alla legittimazione religiosa del potere, significava immediatamente dissidenza politica e quindi pericolo che si instaurasse un diverso potere e una diversa legittimità. I divieti di accesso alle cariche pubbliche per chi non condivideva la religione di stato abbondavano ; ma l’esclusione non sempre immunizza dal dissenso o lo estingue, anzi può attizzarlo. Si sarebbe trattato, dunque, di raccogliere il consenso. Ma uno stato che si costituiva rivendicando la propria sovranità politica come originaria e derivando da questa la competenza religiosa non poteva ovviamente creare consenso religioso, bensì solo imporlo, con maggiore o minore efficacia. Peraltro, di fronte a una insufficiente efficacia dell’imposizione, lo stato nemmeno poteva semplicemente rinunciare alla competenza religiosa, dato che la rivendicazione di quest’ultima, vuoi nei confronti della « chiesa », cioè dell’autorità che si intendeva religiosa a titolo originario (e politica solo a titolo derivativo), vuoi nei confronti degli altri stati, rappresentava la condizione di fatto (sebbene non di principio) per costituirsi come sovrano. Sicché il polemos con i sudditi era in materia non solo molto frequente di fatto, ma sempre latente in linea di principio, giacché il dissenziente religioso rifiutava allo stato precisamente la competenza religiosa a titolo derivativo, appellandosi a una autorità e legittimazione religiosa originarie, superiori o indipendenti dall’autorità politica. L’unica, paradossale, via di uscita da questa complicata ma ferrea impasse era di associare alla rivendicazione della competenza religiosa – rivendicazione necessaria di fatto per il costituirsi dello stato – la rinuncia all’esercizio di tale competenza : rinuncia necessaria, come sempre meglio si andava chiarendo, al mantenimento dello stato. A questa via di uscita venne dato storicamente il nome di « tolleranza ». Proprio nel medesimo torno di tempo della pace di Westfalia l’elaborazione filosofica dell’idea di tolleranza in materia religiosa raggiungeva la sua acme.
9. Conflitto esterno e conflitto interno alle istituzioni Con la « tolleranza » si dava rimedio sul piano interno ai problemi posti da quella rilevanza pubblica (in senso sociale) e pubblicistica (in senso giuridico) della religione che la stessa pace di Westfalia riconosceva e sanciva internazionalmente. Non meno del nesso coattivo fra regio e religio, e non meno dello strumento con cui si poneva termine al conflitto cristiano fra stati (il trattato di « pace »), lo strumento con cui si poneva
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termine al conflitto cristiano all’interno dello stato – la « tolleranza » – poneva anche termine alla identificazione istituzionale di religio e fides christiana. E non meno della regionalizzazione (vogliamo dire il vincolo della regio), la diffusione della « tolleranza » dava luogo a un processo di secolarizzazione e di privatizzazione della religione. Su alcuni aspetti teorici e concettuali della secolarizzazione e della privatizzazione religiosa dovremo intrattenerci, considerandone la concomitanza, concordanza e, in qualche modo, coincidenza con alcuni tratti essenziali della filosofia moderna, ossia di ciò che nella modernità si è inteso come « filosofia ». Se così stanno le cose, si intravvede già ora che la « filosofia » della « religione » o – come appunto dirà la modernità – la « filosofia della religione » non è episodica, ma semmai – come si usa dire oggi – epocale. Tuttavia, oltre che fra i modi in cui veniva posto termine al conflitto intracristiano nel suo aspetto, rispettivamente, internazionale ed interno, la convergenza nel dar luogo a secolarizzazione e privatizzazione religiosa si verificava anche fra questi stessi modi e la polemica anticristiana. Di fronte a tanta convergenza originata dal polemos e dalle cure che esso impone, sarà bene perciò fare una precisazione. Il fatto che qui venga messo in evidenza dapprima e in primo luogo il significato del conflitto intracristiano in ordine alla distinzione moderna di religione e cristianesimo non significa che si intenda sottovalutare il ruolo svolto nella medesima direzione dal conflitto anticristiano o, per così dire, extracristiano, cioè dalla polemica intellettuale che la modernità ha condotto così ampiamente contro il cristianesimo (tanto contro la sua pretesa di essere la vera religio, quanto contro il cristianesimo come caso storico di « religione »). Oltre tutto, una distinzione così netta tra conflitto interno e conflitto esterno è chiaramente pragmatica e didascalica ; la dinamica delle idee non si lascia infatti costringere definitivamente in confini che essa stessa traccia, rivede, cancella e, comunque, varca. Questo vale tanto più nel caso del cristianesimo e della sua storia, ovverossia della storia in cui il cristianesimo consiste. Se infatti si tiene presente l’importanza incomparabile data dal cristianesimo nella propria autocomprensione alla dimensione conoscitiva – in ciò mostrandosi esso molto più erede di Atene che di Gerusalemme – si può facilmente intendere come l’interiorità e l’esteriorità al cristianesimo – definite in relazione tanto alle idee, quanto ai loro supporti materiali e istituzionali – siano state dimensioni tutt’altro che reciprocamente impermeabili (del resto, neanche Atene e Gerusalemme possono essere allegati come topoi impermeabili e adiabatici in questa storia : senza parlare del cristianesimo delle origini, basti in proposito l’esempio che, a cristianesimo pienamente istituzionalizzato, è rappresentato dalle mediazioni ebraiche dell’aristotelismo mediato dagli arabi, così importante per il cristianesimo). E tuttavia distinguere, con riguardo all’età moderna, tra polemos interno ed esterno al cristianesimo significa operare una distinzione che, per quanto pragmatica e didascalica, non è fittizia. La sua concreta realtà storica è né più né meno che la realtà delle istituzioni, da un lato, e di ciò che è escluso dalle istituzioni, dall’altro. Il polemos intracristiano è guerra guerreggiata perché è crisi e conflitto di istituzioni, laddove il polemos rivolto contro il cristianesimo è polemica intellettuale – e individuale – non solo per gusto e per stile elitario dei « liberi pensatori » (aspetto meno rilevante in questa sede) ma anche e in primo luogo per essenza, e cioè – come si potrebbe dire – per necessità analitica. La polemica contro il cristianesimo non è pubblica non perché privata, bensì perché censurata ; è polemica esterna non perché condotta altrove, bensì
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perché clandestina. Il « libero pensiero », che nella modernità percorre tutta l’Europa (e di cui oggi si vanno pubblicando in tutta Europa gli scritti allora clandestini), si dice « libero » e « libertino » non tanto perché spregiudicato, anche nel senso etimologico di quest’ultimo termine, ossia libero da legami culturali (che anzi la cultura libertina trova forza proprio nel recupero e nella riutilizzazione di precisi motivi « irreligiosi » e « atei » dell’antichità), quanto perché sottratto o animato dal proposito di essere sottratto alla cogenza delle istituzioni. Dovrebbe dunque essere evidente che, se evidenziarne in primo luogo il significato del conflitto intracristiano, ciò non significa ripetere acriticamente quella distinzione di intra ed extra con cui le istituzioni si istituiscono, appunto, e si identificano e si mantengono, bensì, al contrario, tornare criticamente su quella distinzione evidenziando l’interiorità del polemos. Non per nulla l’epoca moderna inventa il termine « rivoluzione » e non per nulla una parte non insignificante della storia delle idee che qui stiamo ripercorrendo è – come vedremo ancora – una storia che pensa le rivoluzioni dell’età moderna esattamente in chiave di « religione ». Peraltro, quanto più il discorso si svolge, tanto più risulta necessario tornare criticamente non solo sulla distinzione di una dimensione interna ed una esterna ma anche sulle distinzioni individuate da altre, consuete diadi oppositive e particolarmente sulla distinzione religione-secolarizzazione e su quella, diversa ma connessa, pubblicità-privatezza della religione. Questo ritorno critico si produce del tutto naturalmente considerando quell’idea di « tolleranza » con cui l’età moderna si proponeva di neutralizzare il conflitto religioso interno allo stato : conflitto che, per le ragioni esaminate, era esiziale – non importa se di fatto, ma certo in linea di principio – al mantenimento dello stato, e che tuttavia conseguiva necessariamente – sempre in linea di principio – alla assunzione della competenza religiosa da parte dello stato.
10. « Tolleranza » : dal pubblico al privato
È evidente come teorizzare la « tolleranza » e promulgare « atti » o « editti di tolleranza » rispetto a opinioni e pratiche religiose diverse da quelle fatte proprie dallo stato implichi, per definizione, il più forte riconoscimento della rilevanza pubblica e pubblicistica della « religione ». Ma è altrettanto evidente come la tolleranza dia luogo di fatto a quella che in termini sociologici si chiamerebbe « privatizzazione » della religione. L’utilizzazione di categorie sociologiche è in proposito del tutto pertinente ; ma è sotto il profilo giuridico che meglio si può apprezzare la distinzione tra dimensione pubblica e dimensione privata, così come la fluidità che peraltro dinamizza tale distinzione nel momento stesso in cui essa viene posta mediante la statuizione formale della tolleranza ; tale statuizione infatti dischiude un ambito privato e privatistico alla « religione » (sotto forma di « altre » religioni) nel momento stesso e per il fatto stesso di sancirne la rilevanza pubblica e di fornire rilievo pubblicistico a una religione. Gioverà aggiungere che l’utilizzazione della famiglia terminologica derivata dalla diade « pubblico »-« privato » è tutt’altro che estrinseca e non rappresenta semplicemente una –inevitabile e sino ad un certo punto legittima – sovrapposizione interpretativa di categorie odierne alla realtà di allora. Sono infatti la stessa categorizzazione moderna della religione e il lessico elaborato dal relativo sapere specializzato che avvengono largamente in questi termini concettuali e verbali. In proposito basti pensare, a puro
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titolo di esempio, a Johann Salomon Semler, il quale distingue « religione pubblica » e « religione privata » (donde la sua teoria della perfettibilità del cristianesimo), o al Kant del già ricordato saggio sull’illuminismo, il quale – in modo diverso da Semler, ma impegnato in analoga fatica – distingue tra uso « privato » e uso « pubblico » della ragione in quell’illuminismo che, come abbiamo visto, egli pone « principalmente in questioni di religione » (per Kant si tratta rispettivamente dell’uso della ragione da parte dell’opinione pubblica cólta e di quello da parte del pubblico funzionario : uso privato, quest’ultimo, in quanto privato della libertà di pubblica critica che compete agli intellettuali). L’uso linguistico, che manifesta l’esistenza di un preciso quadro concettuale già in quell’epoca, conferma dunque il carattere tutt’altro che estrinseco di una considerazione della tolleranza in termini di privatizzazione. Ma non meno significativo in proposito, e altrettanto illuminante circa i tratti effettivi in cui si configura la categoria moderna di « religione », riesce l’esame delle ragioni teoriche elaborate nella modernità a favore della tolleranza. Infatti, dopo un primo momento in cui viene addotta prevalentemente la ragione per cui persecuzione e violenza contrasterebbero con la carità che il cristianesimo insegna (è la tesi di Erasmo da Rotterdam e di Lefèvre d’Etaples, ma ancora di Locke nella Epistola de tolerantia, 1689), vengono elaborate ulteriori ragioni di ordine cognitivo, di ordine politico o direttamente di teoria della religione, le quali tutte orientano nel senso della privatizzazione della religione. Da un lato, si osserva che la certezza soggettiva e personale raggiungibile in materia religiosa non è comunque comparabile ed omogenea a quella, diciamo così, intersoggettiva e universale delle scienze. Di questo tipo di argomentazione, che adduce ragioni di ordine cognitivo, si può trovare esempio in Locke, particolarmente nella Tertia epistola pro tolerantia, del 1692 (notoriamente Locke si dedicò a più riprese al tema della tolleranza, con un’insistenza significativa del rilievo teorico e « filosofico » posseduto dalla questione ; per questo, fra i tanti esempi adducibili, ci riferiamo particolarmente a lui ; peraltro nelle sue opere sono sostanzialmente rinvenibili, sia pur con peculiare intonazione, tutti i molteplici e diversi tipi di argomentazione che l’età moderna ha elaborato per teorizzare la tolleranza, tutti importanti in ordine ad una comprensione sufficientemente precisa della categoria « religione »). D’altro lato vien fatto valere a favore della tolleranza un argomento che, pur essendo profondamente diverso, in linea di principio, da quello relativo al differente grado o tipo di certezza cognitiva che caratterizza rispettivamente la scienza e la religione, viene facilmente confuso con esso : si tratta dell’argomento che, da Spinoza a Bayle a tanti moderni, fra cui, appunto, Locke, fa valere il carattere personale della scelta religiosa, la cui sede propria è la coscienza di ciascuno, inviolabile da parte del potere pubblico. Nonostante vada fatta presente la differenza concettuale fra questo argomento e quello cognitivo, essi sono in effetti del tutto convergenti sotto il profilo delle conseguenze privatizzanti rispetto alla « religione » ; e questo comune approdo rende non poco ragione, a posteriori, della indistinzione concettuale con cui all’epoca furono spesso considerati i due argomenti. Ancora diverse in linea di principio, e tuttavia convergenti nell’effetto privatizzante, sono le argomentazioni di ordine politico : come Locke osservava già nell’Essay concerning toleration (1667, Saggio sulla tolleranza), la persecuzione riesce di danno allo stato, in quanto trasforma il dissenso religioso in opposizione politica, trasponendo sul piano della rilevanza pubblica ciò che altrimenti rimarrebbe sul piano di una rilevanza puramente privata.
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Peraltro – e questo è un ulteriore tipo di considerazione – se l’assunzione dell’esistenza di Dio e della legge naturale a lui riconducibile sono – come Locke argomenta nella Epistola de tolerantia – la base della res publica, quest’ultima per sua natura deve limitarsi ai bona temporalia. Le questioni religiose debbono di conseguenza rimanere affare privato : non tollerabile è solo la negazione di quanto costituisce il presupposto stesso della res publica. Come si vede, anche questa è un’argomentazione politica, e tuttavia non politico-pratica come la precedente, bensì politico-teorica. Ma anche in presenza della più netta e consapevole distinzione concettuale (peraltro non sempre rinvenibile negli scritti dell’epoca), la convergenza in senso privatizzante rispetto a ciò che si intende con « religione » è ancora una volta evidente ; così come evidente è, in questo caso, il paradossale rapporto di proporzionalità diretta – e non, come forse ci si aspetterebbe, di proporzionalità inversa – che lega l’affermazione della dimensione privata della « religione » con l’affermazione della dimensione pubblica. Si potrebbe dire che in questo tipo di argomentazione – il quale sottende tutta l’Epistola – la dimensione pubblica della « religione », proprio perché fondativa, rimane poi fuori campo, atematica rispetto all’ambito che essa stessa dischiude e fonda. Per venire, infine, specificamente al cristianesimo, l’idea moderna di tolleranza mostra di essere insieme causa ed effetto della sua riduzione ad alcune poche verità essenziali, e dunque pubblicamente rilevanti ; i punti oscuri, controversi, opinabili della « religione » cristiana vengono per ciò stesso intesi come opinioni inessenziali e da non far valere pubblicamente, anzi da tenere positivamente confinate nell’ambito privato. Questo argomento, proprio di « latitudinari », « sociniani », ecc. trova però concordi anche orientamenti assai meno radicali o decisamente apologetici nei confronti del cristianesimo tradizionale e istituzionalizzato, come, appunto, si può esemplificare allegando il caso di Locke e di quella sua opera, strettamente connessa all’Epistola de tolerantia, che è The Reasonableness of Christianity as Delivered in the Scriptures (1695, La ragionevolezza del cristianesimo come consegnato nelle Scritture). opera assai ambivalente nel suo essere tesa e contesa fra religione positiva e religione razionale, tra rivelazione storica e lume della ragione, e non a caso utilizzata durante il xviii secolo tanto dai deisti quanto dai rappresentanti dell’ortodossia ecclesiastica.
11. Ambiguità dell’idea di tolleranza In effetti, l’ambivalenza ricordata riguarda non solo l’opera di un singolo autore, ma l’intero processo di riduzione all’essenziale intrapreso dalla modernità a proposito della « religione » e delle religioni. Sintantoché l’elaborazione delle filosofie della storia non porterà – a partire dalla fine del xviii secolo – a tematizzare diversamente il rapporto tra l’essenza e le peculiarità stori-che, il processo di essenzializzazione (cioè di categorizzazione) si presenta fondamentalmente come un processo di riduzione quantitativa che abbandona, mette in non cale, confina nel privato ciò che è, appunto, inessenziale, accidentale, contingente e, in questo senso, storico. Per una filosofia della storia che veda nelle religioni storiche i momenti necessari per la realizzazione del concetto di religione (sarà questo il caso, ad esempio, del pensiero hegeliano) non avrebbe senso lasciar cadere momenti o elementi di quel processo ; per essa si tratta infatti di momenti e elementi certamente caduchi, transeunti, storici appunto, ma anche necessari affinché il concetto di religione si realizzi divenendo infine religione « compiuta », ovvero, in senso etimologico, « perfetta » (vollkommene Religion,
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secondo l’espressione di Hegel). Corrispondentemente non avrebbe senso, per una veduta siffatta, parlare di tolleranza religiosa ; in questo caso infatti la religione appare totalmente e per essenza pubblica ; sicché senza il suo compimento, ovvero perfezionamento, « il vero principio dello Stato non sarà pervenuto alla sua realtà », come osserva Hegel nel § 552 della Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften (18303, Enciclopedia delle scienze filosofiche). Ma per una veduta sprovvista di filosofia della storia le ambivalenze della riduzione all’essenza e, corrispondentemente, le ambivalenze del concetto di tolleranza sono inevitabili e molteplici. Del primo tipo di ambivalenze potremo meglio renderci conto più avanti, considerando la crisi della « religione naturale » e il nesso che storicamente si è instaurato tra « filosofia della religione » e « filosofia della storia ». Ma a queste considerazioni la messa in luce dell’ambiguità dell’idea di tolleranza può introdurre nel modo più concreto. Poiché, come abbiamo visto, l’affermazione della tolleranza comportava, in un solo gesto, rilevanza pubblica della religione ma, insieme, sua privatizzazione, privilegio di una religione storica ma, insieme, riduzione all’essenza astorica della religione, non sorprenderà che l’ambivalenza sia constatabile storicamente anche sotto il profilo più radicale dell’intra e dell’extra istituzionali (quel profilo che prima ricordavamo nella sua ironica pragmaticità, ma anche nella sua tragica effettività storica). Infatti l’idea di tolleranza poteva bensì essere fatta valere apologeticamente, a favore del cristianesimo e/o come rimedio al conflitto intracristiano (lo abbiamo visto con l’esempio di Locke), ma anche polemicamente, contro il cristianesimo nella sua storicità e istituzionalità. Quest’ultimo sarà ancora il caso del Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas di Voltaire (pubblicato anonimo nel 1763), che vale la pena di ricordare a mo’ di esempio per vedere come nell’uso polemico l’idea di tolleranza mostri non minori e non meno costitutive ambivalenze che nell’uso apologetico. L’occasione immediata dell’appassionata polemica voltairiana contro le forze dell’« oscurantismo » (termine che rappresenta, palesemente, l’opposto dei « lumi ») è l’esecuzione a Tolosa di un calvinista accusato dai cattolici ; ma il discorso si allarga storicamente e filosoficamente presentando la tolleranza come un principio fondamentale del « diritto naturale », già raggiunto in Grecia, a Roma e nel giudaismo ; neanche nel Nuovo Testamento però si troverebbe appiglio per il « fanatismo » successivo ; tale fanatismo e la « superstizione popolare » sono l’unica cosa che non si deve tollerare, in quanto ostacolano il progresso della « ragione che lentamente, ma infallibilmente illumina gli uomini » (cap. v). In conclusione, Voltaire perora una religione della virtù, che lasci spazio alla libertà di coscienza e di opinione. Siamo di fronte a motivi e ambiguità largamente diffusi nel tardo illuminismo europeo : il tema della coscienza privata e virtuosa si coniuga con l’aspettativa e il proposito che questa medesima coscienza acquisti una dimensione pubblica, diffondendo i suoi benefici effetti ; la stessa idea di tolleranza tende ad assumere i connotati più di un atteggiamento virtuoso personale che di una linea politica o di un principio di diritto costituzionale, la dimensione pubblica dovendo piuttosto derivare dal diffondersi pubblico dei lumi di cui l’intellettuale è portatore che viceversa ; a sua volta però la fiducia nella ragione si coniuga con un certo compiaciuto scetticismo ed una certa superiore ironia che nell’illuminismo maturo venano ormai l’idea di tolleranza. L’appello al progresso della ragione manifesta l’urgere della filosofia della storia come dimensione teorica in cui tutte queste ambiguità e gli opposti qui richiamantisi ambi
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guamente si dovrebbero sciogliere. Di lì a poco la rivoluzione francese si incaricherà di mostrare nei fatti come il progresso della ragione non sia sempre lineare, comportando, oltre all’evoluzione, momenti, appunto, di « rivoluzione ». Per parte sua, la teoria « apprenderà nel pensiero » – secondo la nota definizione hegeliana della filosofia – come la mediazione degli opposti possa essere dirompente, e metterà in crisi sia la coscienza privata e virtuosa – l’« anima bella » – sia la religione « naturale » che in essa avrebbe dovuto avere la sede ove mantenersi pura dalle scorie pubbliche, visibili, storiche, « positive ». Ma per intanto, la stessa evocazione della filosofia della storia da parte del tardo illuminismo rappresenta l’amalgama ambiguo di cognitività e scetticismo, di certezza e rinvio : di un rinvio alla certezza che è, insieme ed equivocamente, rinvio della certezza. Forse nessuno meglio di Lessing illustra la labilità del confine che separa la fiducia nel progresso dall’ironia. L’autore della Erziehung des Menschengeschlechts (1780, Educazione del genere umano) – opera in cui la storia delle religioni rappresenta la pedagogia divina che conduce infine alla verità – è anche l’autore di quella apologia della tolleranza che è Nathan der Weise (1778, Nathan il saggio). Qui Lessing riprende l’antica parabola dei tre anelli (raccolta già da Boccaccio) : dei tre anelli lasciati ai propri tre figli da un padre morente, uno, quello autentico, avrebbe avuto la virtù, a differenza delle rimanenti due copie, di rendere il possessore grato a Dio. Il conflitto che si determina tra i fratelli a causa della pretesa avanzata da ciascuno di essere il possessore dell’anello vero conduce alla sentenza per cui gli anelli debbono essere falsi tutti, giacché il possessore dell’anello vero dovrebbe proprio perciò trovarsi, almeno lui, in rapporto pacifico con gli altri fratelli. Forse, nota ironicamente Lessing, l’originale era andato smarrito. Poiché i tre anelli simbolizzano le tre religioni ebraica, maomettana e cristiana, l’anello vero, l’originale probabilmente assente, dovrebbe rappresentare la religione « naturale » o « razionale » ; già precedentemente, infatti, Lessing aveva affermato che le religioni rivelate sono tutte « ugualmente vere, poiché ovunque si è presentata la pari necessità di mettersi d’accordo su cose diverse per produrre uniformità e omogeneità nella religione pubblica », ma rispetto alla religione « naturale » sono anche tutte « ugualmente false, poiché gli elementi su cui ci si è accordati, invece di coesistere con la componente essenziale, la indeboliscono e rimuovono » (cfr. il frammento postumo Über die Entstehung der geoffenbarten Religion, verosimilmente del 1763 ; Sulla genesi della religione rivelata : 40-41). Gli elementi che rendono pubblica la religione vengono quindi ad avere, rispetto alla sua essenza, un carattere non tanto accessorio e accidentale quanto concorrenziale e alternativo. In effetti la parabola lessinghiana dei tre anelli è una versione bonaria e, appunto, tollerante, del Tractatus de tribus impostoribus (opera che circola in modo caratterizzante e leggendario nella cultura dell’Europa moderna e ne ispira ampiamente gli orientamenti ostili alla religione in base alla tesi che i tre fondatori religiosi, Mosè, Gesù, Maometto, avrebbero perseguito con l’impostura solo scopi politici). In questo senso non è di scarso significato il fatto che Lessing si fosse reso editore di quei Wolfenbüttler Fragmente eines Unbekannten (1774-1778, Frammenti di un anonimo di Wolfenbüttel. l’anonimo era H. S. Reimarus) in cui, oltre a propugnarsi la tolleranza, Gesù e i suoi discepoli vengono presentati come personaggi che avevano perseguito finalità politiche.
12. Differenziazione sociale Ma perché poi scopi politici e scopi religiosi sarebbero così ovviamente diversi ? Questa stessa convinzione fa parte della categorizzazione della religione operata dalla moder
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nità e implica appunto quei processi di privatizzazione della religione e di secolarizzazione sui quali ci stiamo intrattenendo. Una delle più importanti teorie della secolarizzazione, anzi, definisce e spiega quest’ultima proprio in termini di differenziazione, e precisamente di « differenziazione funzionale » della società. Secondo questa teoria, la società secolarizzata sarebbe non tanto quella in cui la religione scompare, bensì quella in cui la funzione sociale esercitata dalla religione si differenzia rispetto ad altre funzioni sociali : « politica », appunto, e « scienza » – per ricordare le categorie a cui abbiamo fatto più frequentemente riferimento sin qui – ma anche « morale », « arte », « economia » ecc. : la lista è aperta per definizione. Tutti questi àmbiti differenziati rappresenterebbero quindi dei subsistemi in cui si articola e vive la società come « sistema di senso ». Ci si può chiedere quale sarebbe la funzione della religione in questa visione sistemico-funzionale, di cui Luhmann è senza dubbio il teorico più significativo. La domanda è meno ovvia di quanto appare ; essa possiede un rilievo teorico particolare sia per quanto concerne le ragioni donde scaturisce, sia per quanto concerne le conseguenze della risposta, o delle risposte, che ha ottenuto. In effetti, con la secolarizzazione, ovvero con il passaggio dalla società stratificata a quella segmentata o differenziata funzionalmente, viene meno la possibilità di pensare la « funzione » della religione nel modo proprio al funzionalismo classico, cioè come norma fondamentale che integra la società. Se la società stratificata è « arcaica » e, anzi, « gerarchica » (nel senso particolare ed etimologico che già all’inizio avevamo dato a questi termini, cioè nel senso di un principio sommo, di una arché, che è sacra, hierà, in quanto sovraordinata e, insieme, datrice di ordine), la differenziazione funzionale dovrebbe rappresentare semplicemente la fine della religione, della cosmopoiesi sacra. E invero la differenziazione sembra l’opposto dell’identificazione : dell’identificazione – in questo caso – tra religione e sistema culturale, che sin dall’inizio avevamo notato caratterizzare il modello circolare funzionalista (mentre il modello lineare è piuttosto a carattere sostanzialistico). La differenziazione rappresenterebbe dunque, alla lettera, la fine del principio, fosse pure nella forma dell’allontanamento senza fine dal principio. Senonché la teoria della differenziazione sociale a cui ci stiamo riferendo è per essenza e per definizione una teoria funzionalista. Di conseguenza, la fine del principio, o l’allontanamento dal principio, non possono essere intesi nel senso di un processo lineare. Assumere semplicemente il cessare della religione o l’allontanamento senza fine da una essenza determinabile come « religione » rivelerebbe la persistenza di un sostanziammo residuo, inconciliabile con l’assunto funzionalistico. La domanda circa la funzione della religione nella società differenziata funzionalmente si impone dunque non meno di quanto si impone il contrasto tra stratificazione e differenziazione segmentata, ovvero orizzontale. Ci si trova così di fronte a una vera sfida per la teoria. È a questo punto che riesce istruttivo considerare le risposte date da Luhmann alla domanda circa la funzione della religione nella società differenziata funzionalmente. Esse mostrano come – coerentemente, peraltro, con la situazione teorica che abbiamo ora puntualizzato – anche nel funzionalismo sistemico la religione mantenga la singolare caratteristica di una funzione-limite, di un non plus ultra che concerne direttamente i confini della società : della società – si badi – in quanto tale, come sistema totale, anche se la funzione è assolta da un subsistema. Questo vale sia nel caso della prima definizione fornita da Luhmann circa la funzione della religione (« messa in cifra » della « complessità indeterminata e indeterminabile » : cfr. Luhmann, 1977), sia nel caso
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della situazione teorica che si delinea dopo l’acquisizione luhmanniana della teoria dei sistemi autopoietici, quando la funzione della religione appare prevalentemente quella della « deparadossalizzazione », cioè quella di arrestare la circolarità e il regresso all’infinito dell’autoosservazione (Luhmann, 1986). Abbiamo detto che anche nel funzionalismo sistemico la funzione della religione mantiene la caratteristica della liminarità, perché tale caratteristica è propria di moltissime, forse di tutte le prospettive teoriche relative alla religione (si pensi al limite tra « sacro » e « profano », tra « trascendenza » e « immanenza », tra « natura » e « sovrannatura », e così via). Va notato anzi che la caratteristica della liminarità è propria così delle prospettive sostanzialistiche come di quelle funzionalistiche. Tuttavia nel funzionalismo il carattere liminare della religione possiede una rilevanza teorica maggiore proprio nella misura in cui il limite evocato dalla « religione », essendo sfornito del supporto sostanziale, implica che la società si costituisca e si autodefinisca in conseguenza del tracciamento del limite medesimo, ovvero del fungere della funzione-limite. Palesemente, questa considerazione dice ancora una volta la circolarità di religione e cultura nel funzionalismo. Orbene, il mantenimento del carattere liminare nella comprensione della religione da parte della teoria sistemica della società, il fatto che in tale teoria la religione continui a concernere direttamente e, per così dire, tematicamente la definizione dei confini della società (totale) in quanto tali, mette in luce come circolarità e differenziazione funzionale non siano in contrasto, o meglio non siano semplicemente in contrasto. Infatti anche tra circolarità e differenziazione intercorre un rapporto insieme di allontanamento e di ricongiungimento : un rapporto riflessivo, o di secondo grado, di differenziazione appunto e, circolarmente, di identificazione. Queste osservazioni possono apparire eccessivamente astratte ; ma la conferma più eloquente di quanto esse siano giustificate è fornita dall’attenzione che la contemporanea ricerca di teoria sociale dedica al problema dei limiti della differenziazione e dall’attenzione che sempre più frequentemente l’indagine sociologica empirica dedica ai fenomeni di « de-differenziazione » (Tiryakian, 1985). Non sorprenderà quindi che in questo quadro si assista anche alla revoca in dubbio della secolarizzazione e all’utilizzazione di singolari espressioni e concetti come « desecolarizzazione » (usato in senso descrittivo di un processo in atto, e non in senso normativo-confessionale, come avveniva tra le due guerre : cfr. in proposito Lübbe, 1965 : 97-101) e « secolarizzazione della secolarizzazione » (Martelli, 1993). Macroscopici e non di rado drammatici fenomeni caratterizzanti la scena mondiale di questi decenni – dal risveglio dei fondamentalismi alla proliferazione di nuove religioni e di sette sembrano motivare a sufficienza il ricorso a simili nozioni ; ma se esse sono motivate sul piano descrittivo dalla considerazione storica o sociologica empirica, è solo sul piano della teoria che acquistano un significato esplicativo. E si tratta indubbiamente di una teoria ardua, la quale deve fare i conti meno con la contraddizione che con l’equivoco (nel senso etimologico di questo termine), ovvero con l’ambiguità.
13. « Religione » e secolarizzazione
Tale ambiguità, dunque, è quella onde, nello stesso momento in cui si categorizza la religione e la si costituisce in oggetto di sapere scientifico (per dirla con riferimento all’aspetto epistemico), nello stesso momento in cui si prende a parlare frequentemente
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di « religione » per connotare la categoria che va definendosi e consolidandosi (aspetto semantico), nello stesso momento in cui la religione si costituisce come subsistema differenziato rispetto ad altri subsistemi (aspetto sociale), in quello stesso momento e con ciò stesso, cioè con la stessa costituzione della « religione », si attua la « secolarizzazione ». Ancora : tale ambiguità è quella onde, nello stesso momento in cui si avvia il processo di secolarizzazione – il processo di allontanamento, che pone fine alla tautologia e alla circolarità di religione e cultura – in quello stesso momento si avvia il processo di ritorno, di « desecolarizzazione », di « secolarizzazione della secolarizzazione ». Questo momento – oppure questo processo – è l’« epoca moderna ». Si può dire allora che la secolarizzazione è la vicenda storica della religione. Così dicendo, si richiama, con tutta evidenza, una problematica di filosofia della storia. In effetti, in sede strettamente filosofica, di secolarizzazione si è sempre parlato in chiave di filosofia della storia, a partire dalla tesi di Löwith in Meaning in History (1949, Significato e fine della storia), per cui la filosofia della storia hegeliana è secolarizzazione della teologia della storia, alla successiva rivendicazione della « legittimità dell’epoca moderna » da parte di Blumenberg che, per contro, ha ravvisato in tale epoca un inizio capace di affermarsi da sé (Die Legitimität der Neuzeit, 1966 ; La legittimità dell’età moderna), al « problema della secolarizzazione inesauribile » (cfr. Olivetti, 1976), alle vedute di significativa filosofia italiana dei nostri giorni, che di « secolarizzazione » parla nel quadro di una problematizzazione del tempo e della sua vettorialità (Marramao, 1983) e nel senso di una storia dell’essere di ascendenza heideggeriana (Vattimo, 1987). Ma se affermare che la secolarizzazione è la vicenda storica della religione significa richiamare un quadro di filosofia della storia, questo richiamo avviene in un senso ben preciso : in quanto richiamo, esso chiama, sì, nuovamente, ma epochizzando, vale a dire riconducendo la filosofia della storia a un’epoca – quella « moderna » per l’appunto – e con ciò anche mettendola, in qualche modo, in epoché, mettendola in mora. Si potrebbero senza dubbio usare espressioni meno ironiche ed allusivamente ambivalenti di « richiamo », di « epochizzazione » e di « messa in mora », espressioni apparentemente più univoche e – anche in senso etimologico – perentorie. Ma è evidente il rischio che si correrebbe in questo caso, e cioè quello di proseguire ingenuamente la veduta di filosofia della storia nell’atto stesso di proclamarne la fine. Altrettanto evidente è come le espressioni utilizzate corrispondano a quella costitutiva ambiguità della secolarizzazione che si è ritenuto di mettere in luce analizzandone la dinamica in termini di teoria della società. Del resto, pur nelle loro diversità, e talora opposizione (come nel caso della tesi di Blumenberg rispetto a quella di Löwith), le tesi filosofiche sulla secolarizzazione sopra rapidamente ricordate sono tutte, in un modo o in un altro, indicative nel senso della epochizzazione della filosofia della storia. E per quanto l’inclusione della storia in un’epoca possa apparire paradossale, si deve ricordare che la questione si era già posta in modo vistoso nelle grandi elaborazioni di filosofia della storia romantiche e idealistiche, le quali contrapponevano l’« antichità » (« classica ») alla « modernità » (« cristiana »). In tale contrapposizione, infatti, l’« epoca moderna », ovverossia il « cristianesimo », appariva per certi aspetti un’epoca della storia e per altri l’epoca della storia. Sicché il cristianesimo stesso per certi aspetti era religione storica come « religione positiva » e « posta » nella storia, per altri aspetti era religione storica come « religione assoluta » e come posizione della storia (cfr. Olivetti, 1972).
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La considerazione dell’« epoca moderna » come epoca della secolarizzazione e della sua ambiguità, per quanto sia una considerazione fortemente speculativa, trova dunque un riscontro storico-filologico di grandezza assolutamente impreteribile. Inoltre, dato il carattere fortemente speculativo delle considerazioni svolte da ultimo, sarà opportuno osservare anche a proposito di « secolarizzazione » quanto abbiamo osservato precedentemente circa la terminologia « privato »-« pubblico », e cioè che l’utilizzazione del termine in questione – « secolarizzazione » – non rappresenta una proiezione anacronistica e arbitraria di una categoria interpretativa attuale su di una realtà sostanzialmente estranea. « Secolarizzazione » infatti fu usato per la prima volta proprio nel corso delle trattative di quella pace di Westfalia (Stallmann, 1960), della cui importanza rispetto alla religione in Europa e alla categorizzazione della religione abbiamo già detto. In quella circostanza era oggetto di trattative il passaggio della proprietà di beni delle istituzioni ecclesiastiche (abbazie e diocesi) alle istituzioni politiche (che anche con tale passaggio si identificavano, anzi si differenziavano come tali) ; a tale passaggio ci si riferì appunto col termine « secolarizzazione ». È vero che solo attraverso un lungo cammino il significato del termine è passato da quello originario di un istituto politico-giuridico a quello traslato di un evento o un processo di trasformazione culturale. Tuttavia sarebbe improprio ritenere semplicemente una metafora il significato finale del termine. Se di metafora si tratta, essa non lo è tuttavia nel senso di un salto o di una eterogeneità rispetto al significato letterale, ma piuttosto nel senso di una messa in luce dello « spirito » animatore della « lettera », del « significato del significato » o, come anche si suoi dire, del « significato storico » del fenomeno politico-giuridico denotato originariamente con il termine « secolarizzazione ». Non a caso una delle interpretazioni recenti della secolarizzazione (intesa appunto come fatto culturale) ha potuto vederne l’origine storica proprio nella situazione venutasi a creare alla fine delle guerre di religione con la pace di Westfalia (Pannenberg, 1988). In effetti, il ricordo dei conflitti confessionali e lo spettacolo di quella frammentazione della religio che aveva costituito il prezzo della pace, facevano sì che la « religione », o almeno la religione nella sua positività e istituzionalità storica (a proposito della quale, precedentemente si sarebbe parlato di fides e di secta), cessasse di venir percepita come elemento di integrazione sociale. Accezione filologica e accezione traslata si corroborano, dunque, reciprocamente nella vicenda della secolarizzazione e del suo nesso con la religione. Nemmeno la costitutiva ambiguità della secolarizzazione è priva di riscontro storico-filologico. In quanto istituto politico-giuridico, infatti, la secolarizzazione poteva avere una connotazione negativa agli occhi dell’istituzione ecclesiastica che ne rimaneva vittima, ma poteva anche averne una senz’altro positiva e, comunque, riferirsi ad una procedura positivamente promossa e voluta dalla stessa istituzione ecclesiastica (come, ad esempio, nel caso della secolarizzazione che nella stessa città della pace di Westfalia – Münster – ma più di un secolo dopo, consentì di rilevare, con approvazione papale, un chiostro benedettino per farvi l’università. Si potrebbe poi ricordare il caso della saecularisatio come istituto di diritto canonico). È notevole come « secolarizzazione » conservi questa caratteristica di essere oggetto di valutazioni opposte da parte del cristianesimo anche quando il termine ha acquisito ormai senso traslato. A valutazioni di condanna e di resistenza nei confronti della secolarizzazione si contrappongono infatti valutazioni di approvazione e di promozione,
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come si può facilmente constatare in uno sguardo d’assieme sulla teologia e, più in generale, su tutta la letteratura cristiana contemporanea. L’approvazione e la promozione è motivata sostanzialmente dall’idea che la secolarizzazione non sia contraria all’annunzio cristiano o, comunque, biblico (includendo dunque anche il messaggio di quello che il cristianesimo ha chiamato « Antico Testamento »), ma anzi ne costituisca il tratto specifico, che distingue tale messaggio dalle altre « religioni » o – all’estremo – dalla « religione » tout court. In complesso, anche senza arrivare a questo estremo che contrappone « religione » ed « Evangelo » – sulla linea di Barth (1947), Bonhoeffer (postumo 1951), sino alle correnti di « teologia radicale » contemporanea : Vahanian (1961), Robinson (1963) ecc. – gli atteggiamenti positivi da parte cristiana nei confronti della secolarizzazione si riscontrano particolarmente nell’ambito della teologia e della cultura protestante : non senza ragione, anzi con significativa corrispondenza tra spirito e lettera, se si pensa ancora una volta a Westfalia. Ma più in generale si può dire che ciò avvenga non senza ragione e anzi con significativa corrispondenza, se si tengono presenti i nessi che storicamente intercorrono fra ciò che l’analisi sociologica indaga come modernizzazione, razionalizzazione, industrializzazione ecc. – insomma i grandi fattori sociali della secolarizzazione – e ciò che si può complessivamente chiamare, in senso storico-geografico, « mondo protestante ». Le note tesi di Weber (cfr., ad es., Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1905 ; L’etica protestante e lo spirito del capitalismo), non sono che un esempio, fra i tanti che si potrebbero ricordare, di autoconsapevolezza culturale in questo senso.
14. Secolarizzazione e chiese Come i riferimenti che abbiamo fatto alle valutazioni positive della secolarizzazione da parte cristiana lasciano intendere, la secolarizzazione investe non soltanto il rapporto chiesa-stato, ma la chiesa stessa. Dal punto di vista degli eventi storici ciò si potrebbe illustrare con una gran quantità di fatti e di dottrine, particolarmente a partire dall’età della Riforma : si pensi alla destituzione dei sacramenti e della loro efficacia dal rango ontologico, in corrispondenza con l’affermazione del valore salvifico della sola fede ; si pensi agli stili – anche estetici – del culto, almeno nella misura in cui il culto esterno, pubblico e visibile viene ancora ritenuto, a partire dall’età della Riforma, parte essenziale della religione e/o del cristianesimo e non, invece, accessorio o persine alternativo ad essi ; si pensi alle dottrine del sacerdozio universale e del sola scrittura, complementari alla dottrina del sola fide, in quanto si ritiene che la parola duina non debba più essere amministrata da un sacerdozio come sacramento « ordinato », separato e gerarchico (nel senso etimologico di quest’ultimo termine, precedentemente più volte precisato) ; si pensi alle connessioni di queste dottrine con la cultura materiale e con le rivoluzioni tecniche, in primo luogo quella della stampa, che rende materialmente possibile una diffusione universale del Libro e dà senso concreto alla versione della Scrittura in lingue volgari ; versione che a sua volta da e riceve senso alla/dalla diffusione dell’alfabetizzazione, l’« alfabeto » essendo, per così dire, secolarizzazione del « geroglifico », nel senso etimologico di hieros glyphos, di segno « sacro », a cui dunque accedono direttamente solo gli interpreti autorizzati, forniti delle necessarie cognizioni – anche linguistiche – per fungere poi da mediatori. Tutti questi fatti e dottrine – di cui fare una lista completa sarebbe impossibile, e
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anche inutile, giacché si tratta evidentemente di riferimenti storici connessi fra di loro – non mostrano solo come la secolarizzazione sia all’opera all’interno stesso della chiesa, cioè della comunità religiosa dei cristiani : essi mostrano anche come la secolarizzazione sia qui all’opera precisamente quale istanza religiosa e/o cristiana, vale a dire quale istanza di « conversione » all’« Evangelo » (sia che si ritenga che quest’ultimo rappresenti « religione », sia che si ritenga che esso rappresenti la contestazione della « religione » e l’iconoclasma delle istituzioni cristiane divenute « religiose »). Ancora una volta, dunque, ci troviamo di fronte a una considerazione della dimensione interna. Le osservazioni che precedentemente siamo venuti svolgendo circa la differenziazione funzionale della società rendono le designazioni « interno » ed « esterno » più determinate sotto il profilo teorico e meno affidate alla comprensione in termini di linguaggio ordinario, ossia meno ingenuamente « rappresentative » ; l’interiorità del sistema è quella che definisce il sistema operazionalmente, senza bisogno di riferimenti sostanzialistici, distinguendolo dall’ambiente esterno, ovvero differenziandolo rispetto ad altri sistemi, con i quali esso viene a trovarsi, appunto, in rapporto reciprocamente ambientale. Ma l’osservazione che la secolarizzazione opera all’interno della chiesa pone dei problemi particolari. Essa non si lascia esaurire nella considerazione che il sistema sociale « religione » nella società complessa occidentale-cristiana si differenzia rispetto ad altri sistemi, in particolare rispetto al sistema « politica », ma anche, come abbiamo visto parlando dell’illuminismo, rispetto al sistema « scienza » e agli altri che potrebbero essere identificati, come « economia », « arte » ecc. : insomma le categorizzazioni della cultura moderna. Piuttosto, la secolarizzazione che opera all’interno della chiesa crea un conflitto e un rapporto di reciproca esclusione all’interno stesso della chiesa, nel senso che ogni parte, ogni « chiesa », giudica l’altra al di fuori della comunità e della comunione, ex-communicata. All’esteriorità di siffatta esclusione conviene meno un nome neutro e descrittivo come « ambiente » che un nome valutativo come ad esempio, nell’ambito della tradizione religiosa cristiana in esame, « mondo » ; non perché il « mondo » non sia ambiente e non possa essere oggetto di descrizione, ma perché la sua descrivibilità è conseguente alla, o inseparabile dalla, valutazione escludente. Il giudizio delle parti in causa è reciproco ; ciascuna è insieme parte e giudice – sebbene ciascuna ritenga di essere iudex non tanto in causa sua, quanto in causa Dei, come ci si esprimeva ancora nel xviii secolo – e il giudizio è reciprocamente di condanna della mondanizzazione a cui è stata soggetta la parte che si esclude dalla chiesa ; la chiesa secolarizzata è proprio in quanto tale mondanizzata agli occhi di quella non secolarizzata ; la chiesa non secolarizzata, non purificata nella sua essenza religiosa e/o cristiana dalla secolarizzazione, è proprio perciò mondana agli occhi della chiesa che si è riformata. Beninteso, molti conflitti all’interno delle entità collettive o, come anche vengono chiamate, persone collettive si configurano secondo questa dinamica di giudizio e di esclusione reciproci ; ciò accade quando i conflitti concernono il mantenimento della stessa identità « personale » delle collettività in questione. E d’altro canto, anche all’interno della chiesa esclusioni e scismi sono già precedenti l’epoca moderna. Ma la specificità e il rilievo – teorico oltre che pratico, vale a dire socio-culturale – della secolarizzazione come fenomeno della modernità sono costituiti dal fatto che il conflitto interno e l’esclusione reciproca delle chiese si coniugano con la differenziazione funzionale della società.
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Questa considerazione consente di esplicitare il rapporto – e la questione del rapporto – tra privatizzazione e secolarizzazione. In effetti, più volte in quanto siamo venuti dicendo i termini « secolarizzazione » e « privatizzazione » sono ricorsi insieme. Ciò può essere apparso del tutto naturale, giacché la comprensione della secolarizzazione come privatizzazione della religione è una veduta teorica corrente. Tuttavia non va affatto da sé che una teoria della secolarizzazione come privatizzazione e una teoria della secolarizzazione come differenziazione funzionale siano articolabili fra loro ; la teoria della privatizzazione riguarda infatti la dimensione individuale ovvero soggettiva mentre quella della differenziazione riguarda la dimensione sociale. Un soggettivismo rigoroso – la storia della filosofia moderna insegna – può voler essere, o dover essere nonostante le intenzioni, monadico o solipsisti co ; a sua volta, una teoria sistemica della società esclude la considerazione del soggetto, poiché quest’ultimo è, semmai, « ambiente » rispetto al « sistema », e il « sistema » è appunto quanto, per definizione, viene preso in considerazione. La vicenda della religione e della sua moderna storia contribuisce come forse nessun’altra alla ricostruzione storico-teorica dei termini della questione : questione di importanza decisiva per la filosofia e la cultura occidentale, e questione di importanza decisiva per la filosofia della religione. La sua ricostruzione storico-teorica getta infatti luce su quel passaggio – all’« interno » dell’epoca moderna – da una comprensione astorica della religione a una comprensione filosofico-storica che più volte si è annunziato nelle nostre considerazioni. Inoltre, tale ricostruzione storico-teorica chiarisce il rapporto pubblicità-privatezza nel suo senso non sociologico o di filosofia politica, ma decisamente metafisico : si tratta, infatti, del rapporto tra « soggetto » e « società », e tra questi due termini e « Dio », il concetto corrispondente a quest’ultimo termine venendo determinato in modo essenziale, nella sua configurazione, dal rapporto fra i primi due. Vediamo.
15. Privatizzazione Una volta che la società passa dalla struttura « gerarchica » a quella differenziata, la società « religiosa » – società ormai parziale – si definisce in riferimento a criteri specifici, che non sono quelli dell’ordine sociale totale, con cui essa non coincide più. Uno fra tali criteri specifici può essere proprio quello dell’universalità (è questo il caso per il cristianesimo e per la sua autocomprensione). Ma il riferimento a siffatta universalità da parte della società « religiosa », in quanto società differenziata, comporta un ordine distinto da quello che organizza gli altri sistemi sociali, in particolare da quello che organizza il sistema « politica ». Anche qualora la « gerarchia » permanga, essa muta radicalmente di significato (o ritrova un significato proprio, non confondibile con quello della società gerarchica come società totale) : non ordine di « questo mondo » (il kosmos touto paolino), ma piuttosto « simbolo » o « segno » di un « altro mondo » (con il rinvio che al segno appartiene costitutivamente e con il superamento a cui il segno è destinato proprio nella misura in cui esso rinvia « efficacemente »). Le trasformazioni della teoria ecclesiologica cattolico-romana – che sono tutt’oggi in atto e che potrebbero essere sintetizzate nel passaggio dall’ecclesiologia della societas perfecta a quella del « popolo di Dio » – sono significative. Ma sia che si mantenga la « gerarchia », sia che la si rifiuti come « mondana » – secondo il conflitto interno alla chiesa sopra descritto – nella situazione di differenziazione
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sociale il riferimento all’universalità come criterio specifico della società religiosa comporta comunque, in misura maggiore o minore, la privatizzazione. La privatizzazione, nell’aspetto che ora viene in esame, si manifesta non tanto come venir meno della rilevanza pubblica e politica dell’appartenenza o professione religiosa (aspetto che abbiamo considerato precedentemente), quanto come un’enfasi sul soggetto, sull’individuo, sulla coscienza, sull’interiorità da parte della società religiosa stessa : dunque, ancora una volta, all’interno della chiesa. Si può anzi dire che la facile concessione alla chiesa di stato o alla competenza religiosa dello stato da parte di tanto cristianesimo riformato è proprio un sintomo dell’abbandono della dimensione pubblica e istituzionale a favore di quella interiore. Ma se ciò è evidente per quella parte della chiesa che afferma la giustificazione per sola fede e rifiuta la mediazione e amministrazione istituzionale della salvezza, altrettanto evidente è come anche la chiesa « gerarchica », contestualmente al mutamento di significato a cui va incontro l’idea di gerarchia a seguito della differenziazione sociale, faccia spazio al soggetto, all’individuo, alla coscienza, in una misura precedentemente sconosciuta. Già la storia della spiritualità e della teologia nell’età della cosiddetta Controriforma, per non parlare poi dei tempi recenti, potrebbe fornire molti eloquenti esempi in questo senso (dagli « esercizi spirituali », alla « confessione auricolare », all’importanza data alla « coscienza » e alla sua esaminabilità, alle varie pratiche di preghiera e devozione privata). Da un lato, dunque, l’enfasi sul soggetto e sull’individuo è direttamente proporzionale all’abbandono – più o meno rapido e consapevole – di una comprensione della « gerarchia » come principio di organizzazione della società totale. D’altro lato, la privatizzazione della religione – come privatizzazione all’interno della chiesa stessa – non avviene ad onta o contro l’universalità assunta come criterio di riferimento della societas christiana divenuta società particolare, bensì in ordine a, e a favore di, tale universalità : il soggetto è il criterio di riferimento non simbolico per una universalità deistituzionalizzata, non di questo mondo (ed eventualmente simbolizzata da una gerarchia dal rinnovato significato). Che poi il soggetto, l’individuo, la coscienza ecc. siano a loro volta istituzioni storiche, ciò può essere senz’altro affermato, almeno nel senso che per negarlo bisognerebbe poter uscire fuori dal linguaggio e raggiungere in modo extralinguistico il referente reale o l’idea a cui questi nomi rinviano. La storia moderna della filosofia e, più in generale, delle idee è in larga misura la storia della istituzionalizzazione di queste realtà, almeno nel senso che, per il fatto di parlarne, vi si riferisce. Si può anzi notare più di una continuità, di una intersezione, di una analogia fra gli eventi qui ricordati relativamente alla storia della « religione » nell’« epoca moderna » (occidentale-cristiana) e altri eventi della storia della filosofia e delle idee.
16. Soggettivismo e universalizzazione Proprio una prospettiva storica più ampia di quella che metta a fuoco unicamente le idee religiose conferma il nesso non episodico, bensì epocale tra riferimento al « soggetto » – e alla intera costellazione di termini in cui questo termine moderno si inscrive – e universalizzazione. Il passaggio diretto dal soggetto all’universalità, escludendo la mediazione – cioè l’esteriorità e la visibilità – rende però problematica la comunicazione. Il soggettivismo moderno è ricco di figure dell’universalità dei soggetti, le quali manifestano nel con
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tempo la difficoltà di concepire la comunicazione fra i medesimi : dalla problematica comunicazione delle sostanze spirituali fra di loro nell’occasionalismo, alla « città di Dio » o « monarchia veramente universale » della Monadologie leibniziana (Leibniz, 1720), fino al tormento di Kant a proposito del problema della « comunità ». Si tratta di figure in cui l’aporia è sempre risolta tramite il deus ex machina, come è il caso di esprimersi in senso non del tutto metaforico, giacché il deus in questione è appunto « Dio ». E sebbene, per altro verso, nulla possa apparire più improprio della utilizzazione di una immagine macchinistica, estesa e teatrale – anche in senso etimologico, cioè visiva – a proposito del « regno degli spiriti » liberi, inestesi, invisibili, è pur vero che la mediazione divina è un « miracolo », nel senso – anche etimologico – che si lascia solo rappresentare visivamente e spazialmente, ma non si può concepire, né in fondo si deve concepire, se il soggetto è in rapporto immediato con l’universalità. Dal miracolismo del teatro dei gesuiti al miracolismo dell’architettura sacra barocca e rococò, la storia della rappresentazione spaziale e visiva potrebbe molto dire in proposito, così come, sul versante del rifiuto della mirabilità – e in conseguenza di tale rifiuto – molto potrebbe dire, per converso, il frammentarsi della « comunità » (Gemeinde) in « conventicole » (Gemeindchen, per riprendere il termine di Hegel in Fede e sapere, 1802, Glauben und Wissen). Ma sul piano più verificabile della esplicita storia delle idee, nessuno forse meglio di Kant può illustrare la natura del problema in questione. Nei Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik (1766, Sogni di un visionario, chiariti con sogni della metafisica), Kant aveva affermato (riprendendo un detto aristotelico o, per la verità, eracliteo) che « quando siamo svegli abbiamo un mondo in comune (gemeinschaftlich), quando dormiamo ognuno ha il suo proprio mondo » (Kant, 1766 : 342). Se con ciò il problema della comunicazione era chiaramente posto e la critica della metafisica avviata, il criticismo della Kritik der reinen Vernunft (1781 e 1787, Critica della ragion pura) portava però a un risultato ben più radicale, a seguito del quale il mondo comune, almeno per quanto riguarda i soggetti, diveniva impensabile o un sogno metafisico esso stesso. La « comunità » infatti (si ricorderà che Gemeinschaft nella Ragion pura è la terza categoria di relazione) « non si può in nessun modo concepire con la sola ragione, e perciò non è possibile considerare la realtà oggettiva di questo concetto senza intuizione, e precisamente senza l’intuizione esterna nello spazio » (Kant, 1787 : 293). Perciò – proseguiva Kant – Leibniz, quando « attribuiva la comunità » alle monadi, aveva bisogno di « una divinità per la mediazione ; infatti, sulla base della sua sola esistenza questa comunità gli sembrava a ragione inconcepibile » (ibidem). Ebbene, proprio a siffatta mediazione, che in vari sensi potrebbe dirsi miracolosa, sarebbe ricorso Kant stesso quando – avendo fornito la risposta alle domande « cosa posso sapere ? » e « cosa debbo fare ? » e avendo portato a compimento l’edificio critico – si sarebbe dedicato tematicamente alla terza domanda del suo programma – « cosa mi è lecito sperare ? » – cioè alla domanda che, a suo giudizio, esprimeva l’interrogativo proprio della « religione ». La risposta data a questa domanda in Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (1793, La religione entro i limiti della sola ragione) è la « comunità etica », nella quale le leggi puramente intelligibili della virtù diventano per così dire (con una analogia sensibile che rende concepibile l’inconcepibile) visibili e pubbliche, rappresentando « una bandiera » (cfr. Kant, 1793 : 129) sotto la quale siffatta comunità si raccoglie. Ma il legislatore di questa comunità deve essere « un altro che il popolo » (Kant, 1793 : 138), poiché il popolo può darsi solo leggi relative al comportamento esterno e visibile. Un altro deve essere l’esecutore che manda a effetto una simile comunità,
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poiché essa è fuori di ogni potere umano (ancorché sia dovere, al quale però non consegue un « dunque puoi » : il che è del tutto eccezionale per il pensiero kantiano ; ma si tratta di un « dovere per natura e principio diverso da tutti gli altri » – Kant, 1793 : 135 –, in quanto non del singolo, ma del genere umano verso se stesso). Un altro deve essere il giudice, che deve poter vedere l’invisibile, ovvero essere secondo l’espressione biblica ripresa da Kant – « scrutatore dei cuori ». Anche Kant si serve del nome « Dio » per designare o connotare questo « altro » ; sicché – egli argomenta – la « comunità etica » può essere pensata solo come « popolo di Dio », ovverossia come « chiesa », e precisamente « chiesa invisibile ». Questo approdo kantiano riesce esemplificativo ed esemplare in ordine a un punto di importanza assolutamente centrale, un punto che d’ora in avanti ci si mostrerà con chiarezza sempre maggiore : il legame storico tra filosofia della religione e metafisica, o più precisamente il legame tra crisi della metafisica e costituirsi della filosofia della religione. In effetti le molteplici figure moderne dell’universalità dei soggetti e della universalizzazione a partire dal soggetto non sono immediatamente « religiose », bensì « metafisiche », e metafisiche in senso stretto (cioè nel senso in cui appunto la modernità ha inteso la « metafisica »), anche se la « metafisica » ha poi un significato « religioso », stante l’importanza incomparabile che, come ricordavamo a suo luogo, il cristianesimo ha dato al momento cognitivo in ordine alla religione. A seguito della crisi della metafisica tali figure diventano direttamente « religiose » – diventano « filosofia della religione » – come è appunto il caso dell’esempio kantiano che abbiamo ricordato. L’esempio è tanto più significativo in quanto l’ecclesiologia filosofica di Kant non scaturisce dalla crisi di un oggetto della metaphysica specialis o anche di tutti e tre i suoi oggetti (l’anima, il mondo e Dio, secondo la sistemazione istituzionale operata in epoca moderna e ripresa da Kant stesso nella « Dialettica » della Ragion pura), bensì scaturisce dalla crisi della stessa concezione moderna della metafisica in generale : una metaphysica generalis come metafisica della soggettività, come metafisica che identifica non tanto nell’essere e nell’ente l’oggetto delle proprie « meditazioni di filosofia prima » e il fondamento della verità, della certezza e della validità universale della conoscenza, quanto nel soggetto stesso o, meglio, nella sua riflessione sulla propria ricerca di fondamento cognitivo. In siffatto quadro di una soggettività avente valore universale, univoco e unificante il rapporto con la soggettività altrui è per un verso postulato e preteso, ma per altro verso reso assai difficilmente pensabile, se non del tutto contraddittorio. L’ecclesiologia filosofica di Kant è dunque il tentativo di pensare né più né meno che la comunità intelligibile : pensiero affatto preliminare per ogni pensiero di « un mondo comune » che non sia mero sogno. Eppure, anche se tale ecclesiologia filosofica ha un significato metafisico generale, essa è un pezzo di filosofia della religione (o di « dottrina filosofica della religione », secondo che si esprimeva Kant), e non di « metafisica ». Il rapporto, vale a dire, si è invertito : se prima i filosofemi metafisici erano rilevanti per la « religione », ora sono i filosofemi relativi alla « religione » ad essere rilevanti in ordine a una metafisica a cui non si può più accedere direttamente e cognitivamente.
17. Filosofia dello stato ed ecclesiologia filosofica Sul problema del rapporto tra costituirsi storico della « filosofia della religione » e crisi della « metafisica » dovremo tornare, considerandone gli aspetti relativi alla crisi della « metafisica speciale » e, in particolare, della « teologia razionale ». In effetti, a seguito
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della Critica della ragion pura e della sua immensa recezione, anche scolastica, sono questi ultimi aspetti quelli che più comunemente si suole considerare a proposito della messa in questione della metafisica e del suo carattere cognitivo. Ma, come era evidente a Hegel e, in genere, all’idealismo postkantiano, la crisi della « teologia razionale » va compresa nel quadro più ampio dei problemi della metafisica della soggettività. Semmai, la questione che si pone è se la metafisica della soggettività sia o no riconducibile a un’unica storia o epoca metafisica che – heideggerianamente – sarebbe pur sempre storia o epoca dell’essere. Già l’enunciazione di siffatti problemi lascia intendere l’ampiezza di significato che riveste il costituirsi storico della « filosofia della religione ». Ma tale ampiezza non deve far perdere il senso della specificità della disciplina, perché i due aspetti storicamente vanno insieme, sono le due facce di un medesimo evento. Alla specificità della filosofia della religione appartiene in modo essenziale che il materiale per la riflessione filosofica e il ripensamento dei problemi metafisici venga attinto dalle manifestazioni storiche di ciò che la modernità interpreta come « religione » ; nel delineare la specificità della disciplina questo attingimento ha importanza non minore della categorizzazione della « religione » (categorizzazione che, peraltro, esplicita, spesso con atteggiamenti normativi e valutativi, quanto è appunto implicito nella comprensione di determinati fenomeni come religiosi). Grazie a siffatto attingimento, la relativizzazione storica di cui è fatto oggetto il cristianesimo in quanto considerato come un caso di religione fra altri possibili è, per così dire, compensata da una corrispondente generalizzazione, nel senso che fenomeni e dimensioni del cristianesimo storico vengono assunti come tratti costitutivi della categoria « religione ». È questo appunto, fra gli altri, il caso della « chiesa » : termine, concetto e fenomeno tipicamente cristiano, che (come si rende esemplarmente evidente nella stessa generalizzazione filosofica operatane da Kant) non può essere in alcun modo ridotto a sinonimo di « comunità religiosa » (sotto il quale concetto non si saprebbe sussumere ad esempio l’Islam). In larga misura anzi è vero esattamente il contrario, e cioè che la possibilità di pensare a un fenomeno presuntamente neutro come quello di comunità religiosa presuppone la « chiesa » con le sue vicende, la sua pretesa di sovraordinazione rispetto all’autorità politica temporale, il suo differenziarsi dalla comunità politica in concomitanza con una categorizzazione della religione che pone termine all’assorbimento della religio nella fides christiana ecc. Non stupirà quindi che nella vicenda filosofica definita dal nesso problematico universalizzazione-privatizzazione l’ecclesiologia filosofica abbia importanza teorica almeno pari alla filosofia dello stato (per entrambe il materiale terminologico, fenomenologico e concettuale venendo ripreso dall’esperienza storica dell’Europa cristiana). Anzi, il differenziarsi di queste due dimensioni filosofiche – quella di filosofia della religione nel suo aspetto specifico di ecclesiologia filosofica e quella di filosofia del diritto nel suo aspetto specifico di filosofia del diritto pubblico e dello stato – è esso stesso significativo in ordine ai problemi che si pongono al pensiero moderno e al suo orientamento verso una soggettività che si rapporta senza mediazione all’universalità (o almeno senza mediazione esterna e visibile, casomai altre forme di mediazione fossero davvero pensabili). La filosofia dello stato è fondamentalmente quella del luogo della mediazione e della pubblicità, laddove l’ecclesiologia filosofica è fondamentalmente quella dell’universalità immediata, interiore, invisibile. Ciò almeno fintantoché il sopravvenire della
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filosofia della storia – come Weltgeschichte, come storia mondiale – non ritrova tutta la visibilità (artistica, cultuale, storico-mondiale) della « chiesa », senza peraltro riuscire veramente a comporre nel quadro di una coerenza sistematica la dimensione ecclesiologica con quella statuale : si pensi in proposito all’intero percorso filosofico di Hegel, dai cosiddetti « scritti teologici giovanili » (Hegel, 1907) ai corsi berlinesi di « filosofia della storia » e di « filosofia della religione » ; si pensi all’intero percorso filosofico di Schelling, dalle speculazioni della Philosophie der Kunst (1802-1805, Filosofia dell’arte) alle lezioni finali dei corsi di « filosofia della rivelazione » tenuti sino all’anno della morte (1854), per non citare che alcuni fra i casi più noti. Ma prima che ciò avvenga – anzi, a presupposto di ciò – il tema della « chiesa invisibile » e dell’interiorità del « regno di Dio » è un topos ricorrente nel pensiero moderno. A partire dall’età della Riforma, infatti, la teoria agostiniana della chiesa come corpus permixtum viene ripresa con insistenza e facilmente trasformata nella teoria di « due chiese » (così Lutero), quella visibile e quella invisibile appunto. Nella polemica, Lutero giunge a identificare « chiesa visibile » – chiamata anche « esteriore », « carnale » e, in opposizione a quella « naturale » (sic !), « fattizia » – con « chiesa romana », affermando che, proprio in quanto visibile, questa chiesa non è oggetto di fede e, dunque, non è la « vera chiesa » ; infatti « nessuno vede chi è santo e credente » (Von dem Papsthum zu Rom wider den hocbberühmten Romanisten zu Leipzig, 1520 : 296-297 e 300 ; Del papato di Roma, contro i famosi romanisti di Lipsia), si possono confrontare con queste espressioni quelle kantiane che contrappongono l’invisibilità della religione alla visibilità delle credenze di chiesa, onde di queste ultime è possibile, a differenza della prima, delineare una storia : cfr. Kant, 1793, e vi si può confrontare la stessa scissione della trattazione ecclesiologica kantiana in una « esposizione filosofica » e una « esposizione storica »). Da Zwingli (che, secondo Ritschl, sarebbe stato il primo ad usare l’espressione « chiesa invisibile ») a Calvino (per il quale però la visibilità è condizione necessaria, seppur non sufficiente, di appartenenza all’invisibilità della chiesa) a Sebastian Frank (per il quale bisogna intendere sempre il contrario, il paradoxon, di ciò che si vede : Paradoxa è il titolo di una sua opera maggiore, pubblicata nel 1534), il tema della « chiesa invisibile » percorre e scuote l’Europa cristiana. Nella misura in cui diviene un topos, il tema viene fatto oggetto di svariate declinazioni, sempre però differenziato rispetto alla visibilità della politica e dello stato (che, come visibilità tout court, tende a sostituire quella della « chiesa visibile »), e spesso coniugato con forme di socialità – non solo « religiosa », ma anche intellettuale e morale – privata e d’elezione (come, ad esempio, nella cultura del pietismo) e anche esoterica (come, ad esempio, nel caso del pensiero e della filosofia di ispirazione massonica). Naturalmente gli invisibili eletti sono pochi rispetto ai molti pubblicamente chiamati e la ecclesia electorum ha dimensioni minori rispetto all’ecclesia vocatorum ; questo aristocratismo sembra dunque configgere con l’universalità che, « paradossalmente », dovrebbe competere alla chiesa di minori dimensioni. La filosofia della storia si farà carico di risolvere questo problema, recuperando la visibilità e redimendo la carne. Tuttavia questo problema non è il problema maggiore, né è in primo luogo questo problema che la filosofia della storia tenta di risolvere, né questo problema può essere risolto solo in chiave di filosofia della storia. Esso infatti ammette anche altre soluzioni – o tentativi di soluzione – di tipo metafisico-ontologico, come, appunto, nel caso sopra ricordato della Monadologia leibniziana e, per altri aspetti, anche degli Essais de théodicée leibniziani (1710). Se Kant dichiara il « fallimento di tutti i tentativi filosofici di teodicea »
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(secondo il titolo del saggio del 1791, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Theodizee), in realtà – come si può esplicitamente vedere laddove, nell’opera sulla Religione del 1793, egli riecheggia e riformula in termini morali l’idea leibniziana di « migliore dei mondi possibili » – la commisurazione di felicità e merito è per Kant la vera teodicea dopo la messa in questione della metafisica ontologica. Notoriamente Hegel chiamerà così (« vera teodicea ») la filosofia della storia ; ma anche il « sommo bene derivativo » di Kant, con la implicazione di persone intelligibili persistenti (per poter essere adeguatamente e differenziatamente retribuite), è un modo per ritrovare, ad onta appunto di ogni differenza individuale, anzi grazie ad essa, la connessione soggetto-universalità. Il conflitto dunque è meno quello quantitativo (molti-pochi) o spaziale (comunità di dimensioni maggiori-comunità di dimensioni minori) che quello qualitativo o intelligibile tra universalità collettiva e universalità distributiva. Rispetto al primo conflitto (o al primo aspetto del conflitto) si può forse ancora far valere un carattere analogico dell’intuizione « esterna, nello spazio » in ordine al concepimento della comunità intelligibile ; invece il conflitto fra universalità collettiva e universalità distributiva, il conflitto che si verifica nel tentativo di pensare una comunità intelligibile, che conserva l’« interiorità » dei soggetti nello stesso momento in cui essi si rapportano direttamente, senza mediazione e senza esteriorità, all’universalità, è un conflitto assai più arduo da risolvere e, appunto, da mediare. E questa è l’aporia profonda che la filosofia della storia tenta di risolvere, quale che sia la plausibilità delle sue proposte.
18. « Filosofia della religione » : due fasi e due tipi
In effetti la filosofia della storia è storicamente connessa alla filosofia della religione per più aspetti (cfr. Olivetti, 1972). Tale connessione non solo scandisce una precisa fase storica della filosofia della religione – quella in cui « filosofia della religione » diviene il nome istituzionalizzato per una disciplina specifica – ma anche identifica un tipo ideale della filosofia della religione ; infatti le due fasi storielle di quest’ultima, scandite, rispettivamente e successivamente, dall’assenza e dalla presenza della filosofia della storia, si sono cristallizzate nel concreto esercizio della teoria e rappresentano tutt’oggi i due generi sommi, per così dire, in cui si configura la filosofia della religione : quello non storico (e sostanzialmente prosecutore della « teologia naturale », di cui è talora sinonimo) prevalente nella filosofia angloamericana di stile analitico-empiristico e, pur con tutte le differenze, nella filosofia delle università ecclesiastiche cattoliche, e quello storico ed ermeneutico prevalente nella filosofia di tradizione europeo-continentale. Anche il riferimento alle prime attestazioni dell’uso del termine « filosofia della religione » corrobora questa periodizzazione e questa identificazione di tipi ideali. Beninteso, il criterio del riferimento alle prime attestazioni di un termine non va mai sopravvalutato : da opportuna consapevolezza della storicità delle parole e dei concetti, esso rischia di ribaltarsi nel suo contrario, impedendo di vedere un concetto, o almeno una complessa realtà ideale e culturale, là dove manchi l’indicatore rappresentato da una determinata parola, o viceversa impedendo di scorgere la diversità delle situazioni semantiche a cui un medesimo nome può riferirsi quando sia usato in contesti diversi. Un ulteriore motivo per non sopravvalutare un criterio di questo genere consiste nella insuperabile provvisorietà dei dati : il vaglio delle fonti, quand’anche fosse esauribile, non sarebbe comunque esauriente, in quanto esso considera solo il linguaggio scritto, che « rimane », e non il linguaggio delle parole parlate, che « volano via ».
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Ma in presenza di un più ampio panorama di risultanze storiografiche, il reperimento delle prime attestazioni dell’utilizzazione di una determinata espressione può valere da conferma e, sotto il profilo espositivo, può ben essere utilizzato per introdurre in modo emblematico, con un nome, in qualche modo, proprio, il panorama in questione. Orbene, per quanto riguarda il nome « filosofia della religione », la prima attestazione che è stata, a oggi, reperita è nell’ambito culturale inglese : Ralph Cudworth, platonico di Cambridge, ricorre a tale espressione nella sua opera The True Intellectual System of the Universe (1678, Il vero sistema intellettuale dell’universo), scritta per oppugnare il materialismo « fatalistico » e « ateo », diffusosi in Europa particolarmente mediante il pensiero di Hobbes e di Gassendi. L’opera troverà in seguito ampia recezione europea (secondo una circolazione intellettuale che successivamente andrà in larga misura perduta : con l’effetto che anche la consapevolezza storica di tale circolazione è spesso assente) ; essa rappresenterà il punto di avvio della polemica tra Leclerc, Bayle e Leibniz sul concetto di sostanza e sul monadismo e verrà anche tradotta in latino in Germania ( Jena, 1733). Per la verità, sebbene Cudworth si riferisca alla philosophy of religion nell’introduzione all’opera come alla « cosa principale a cui il libro mira » e la distingua dall’erudizione storica (philology) – alla quale ultima, seppur ampiamente presente nell’opera, egli non ritiene evidentemente di accordare la medesima importanza (Cudworth, 1968 : 13 n. n.) – l’espressione « filosofia della religione » si fa notare qui più come solecismo (in un’opera di oltre novecento pagine !) che come termine tecnico. Tuttavia la letteratura di lingua inglese non ha mancato di rilevare questa prima attestazione e di ipotizzarla come prima utilizzazione (Muirhead, 1931 : 28-29 ; cfr. poi Micheletti, 1976). La letteratura di lingua tedesca, invece, mostra di ritenere che la prima utilizzazione del termine sia successiva di circa un secolo. In effetti, nel 1772 il gesuita Sigmund von Storchenau pubblica anonima un’opera con questo titolo ; prolungata poi per dodici volumi complessivi (Die Philosophie der Religion, 1772-1789), l’opera godrà di un’ampia recezione, raggiungendo presto la nona edizione. Due anni dopo l’espressione « filosofia della religione » è attestata anche in Francia (F. Para du Phanjas, Les principes de la saine philosophie conciliés avec ceux de la religion : ou la philosophie de la religion, Parigi 1774), dove peraltro rimane sporadica. In Germania invece l’uso dell’espressione si diffonde rapidamente, divenendo per qualche anno anche parte del titolo di una rivista, accompagnandosi ad espressioni simili (tra cui quel « dottrina filosofica della religione », philosophische Religionslehre, con cui Kant indicava la sua opera sulla Religione del 1793) ed istituzionalizzandosi come disciplina dell’enciclopedia filosofica e come argomento di corso universitario (abbiamo già ricordato i corsi che Hegel tenne in proposito a più riprese, dal 1824 sino all’anno della sua morte). Dicevamo che queste distinte utilizzazioni storiche possono essere assunte a nomi propri per un primo orientamento nella mappa storico-teorica della filosofia della religione. La stessa separatezza reciproca della letteratura concernente le due rispettive aree culturali e prodotta all’interno di ciascuna di esse possiede un suo significato in proposito. La prima attestazione – quella inglese, tardo-secentesca – può essere assunta ad emblema di una prima fase in cui l’epoca moderna categorizza la religione, identificandone un’essenza universale, « naturale », al di qua o al di sopra delle differenze storiche. Proprio per questa ragione e proprio in questo senso preciso l’identificazione si autocomprende come « filosofica ». La successiva utilizzazione – quella tedesca, tardo-settecentesca – può essere assunta
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ad emblema di una fase in cui il problema diviene esattamente quello delle differenze storiche e, comunque, degli elementi « positivi » e non « naturali » della religione ; contestualmente il problema diviene anche quello di una comprensione della « filosofia » in termini che la abilitino ad entrare in merito a siffatte questioni. Si tratta dunque di una fase in cui non solo e non tanto si categorizza la religione per via « filosofica », quanto e soprattutto di una fase riflessa, o di metalivello, in cui la stessa determinabilità e determinazione dell’essenza della religione per via filosofica entra a far parte della storia della filosofia e della storicità della filosofia (così come, più in generale, della storicità delle autocomprensioni culturali). Naturalmente questa scansione in due fasi e questa bipartizione in due tipi generalissimi è una stilizzazione che consente di vedere la foresta (o meglio, in questo caso, due foreste) proprio perché non fissa isolatamente i singoli alberi. In particolare la stilizzazione astrae da almeno un paio di aspetti che è il caso di far presenti esplicitamente.
19. Precisazioni sulle due fasi e i due tipi Un primo aspetto su cui richiamare l’attenzione è il seguente : la determinazione dell’essenza della religione riesce astorica solo nella misura in cui, sotto il profilo valutativo, essa è fatta oggetto di apprezzamento positivo e possiede tratti più o meno consapevolmente normativi. A questo proposito non ci si deve lasciar ingannare da una presunta neutralità teorica : siffatta neutralità non risponderebbe né alla realtà storica, né alla natura della teoria. L’autocomprensione culturale – come dicevamo sin dalle prime righe di questo lavoro – è strutturalmente valutativa, e identificare la religione quale costituente della natura umana (come avviene, ad esempio, nel platonismo di Cambridge) significa elaborare una teoria a carattere tanto più fortemente normativo quanto più la teoria medesima ritiene di esprimere la propria irresistibilità presentandosi in termini descrittivi. La cosiddetta « legge di Hume », ovvero il divieto di passare dall’« essere » al « dover essere », va considerata in questo quadro storico, se si vuole coglierne la forza polemica e la vastità delle implicazioni critiche. Ma la determinazione che si pretende descrittiva dell’essenza della religione può veicolare, anziché un apprezzamento positivo, un apprezzamento negativo, tanto presupponendolo, come matrice della descrizione, quanto suscitandolo, come conseguenza di essa (ricordiamo incidentalmente che il lessico specializzato tedesco possiede per questo caso il termine e il concetto « critica della religione » – Religionskritik – come distinto da « filosofia della religione »). Orbene, in questo caso di un apprezzamento negativo, la determinazione dell’essenza della religione ha sempre e in vari modi caratteri storici. Infatti, da un lato, l’identificazione di un’essenza « fattizia » e non « naturale » dell’illusione religiosa la riconduce alla storia e ne suggerisce l’evitabilità ; d’altro lato, come è ben visibile nel caso della cultura del libero pensiero, proprio l’erudizione storica aiuta nell’identificazione di questa essenza fattizia della religione, smascherando la pretesa naturalità e assolutezza con cui vengono in buona o cattiva coscienza presentate determinate dottrine religiose. Inoltre, come si potrebbe mostrare con l’esempio illustre, ma tutt’altro che isolato, di Hume, è anche possibile che la messa in crisi di una religione e di una teologia che si pretendono « naturali » (cfr. i Dialogues Concerning Natural Religion, pubblicati postumi nel 1779, Dialoghi sulla religione naturale) dia luogo ad una « storia naturale della religione » (così suona il titolo di The Natural History of Religion, 1757, Storia naturale della reli
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gione) : una « storia » certamente non storicistica, ma che supera tuttavia culturalmente, ovverossia storicamente l’essenza che descrive, e la supera per il fatto stesso di ricostruirne naturalisticamente la genesi. Su un secondo aspetto relativizzante bisogna poi richiamare l’attenzione : la stilizzazione delle due distinte fasi della « filosofia della religione » oscura il fatto che le prime utilizzazioni tedesche di « filosofia della religione » usano il termine in continuità, se non in sinonimia, con « teologia naturale », cioè – come vedremo fra poco – con una teoria o disciplina che si autocomprende in termini costitutivamente astorici, indipendenti da variazioni e condizionamenti « culturali » non meno che da eventi rivelativi « soprannaturali ». Valga ad esempio di tale continuità proprio l’opera di Storchenau sopra ricordata : non solo essa conserva vari elementi di quella che precedentemente soleva essere chiamata « teologia naturale », ma è anche probabile che l’autore sia stato influenzato nella scelta del titolo La filosofia della religione da un’opera di poco precedente, a cui l’autore, A. E Ruckersfelder (futuro confutatore dell’« Anonimo di Wolffenbüttel »), aveva dato un titolo che merita di essere riportato per intero : Philosophia de religione naturali libri duo seu theologiae naturalis pars theoretica de Deo eiusque operibus et pars practica de hominis officio (1770). Il titolo documenta verbatim il graduale slittamento onomastico dalla « teologia naturale » ad altre e nuove espressioni ; talché proprio l’esigenza di ricorrere a nomi di nuovo conio riesce indizio di una trasformazione in atto, nonostante la pretesa o il desiderio di sinonimia. I due ordini di precisazioni relativizzanti che abbiamo fatto presenti ora concernono dunque sia il contenuto delle due fasi e dei due tipi generalissimi in cui si scandisce la filosofia della religione (astorica o storica), sia la stessa struttura formale della scansione (discontinuità o, piuttosto, continuità). E tuttavia la distinzione in fasi (oltre che in tipi teorici) va tenuta ferma, non solo per ragioni didascaliche, ma proprio perché – per così dire – più vera e più rispondente alla realtà di altri pur possibili modi di strutturare la ricostruzione della vicenda della « filosofia della religione ». La scansione in fasi evoca senza dubbio un modello lineare, che nella nostra cultura riesce così naturale da imporsi anche inconsapevolmente ; lo stesso dilemma continuità-discontinuità, con il relativo soppesamento delle ragioni filologiche in favore dell’uno o dell’altro corno, viene normalmente pensato secondo questo modello. Ma tale modello non tiene conto del carattere riflesso – o di metalivello – della fase caratterizzata dalla presenza della filosofia della storia : tale fase non si costituisce semplicemente con un passaggio lineare o, per così dire, orizzontale, da un punto a un altro, bensì con la ripresa riflessa di quanto precede, non si costituisce con il suo abbandono, bensì con una critica che implica la costitutività del ricordo e – diciamo – F interiorizzazione di ciò che viene superato. Continuando ad esprimersi in temini spaziali, si potrebbe parlare di qualcosa come un passaggio circolare o ascendente ; e tali immagini non sarebbero più approssimative o metaforiche di quella della linearità, che pur ci riesce tanto naturale e ci appare tanto reale. Lungi dall’essere astratte, queste considerazioni toccano il cuore della « filosofia della religione ». Solo così infatti si intende ciò che altrimenti riuscirebbe un mero paradosso : i Ruckersfelder e gli Storchenau, che intendono prolungare senza soluzione di continuità la « teologia naturale » in « filosofia della religione », contribuiscono alla crisi della prima e alla sua sostituzione con la nuova disciplina ; Hegel, il quale contrapporrà la « filosofia della religione », in tutta la sua storicità, alla « astrattezza » della passata « teologia naturale », riprenderà però le massime esigenze di quest’ultima, ritenendo di dar loro per la prima volta vera soddisfazione.
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Più realista del re, Hegel non solo vuole restituire nel massimo grado cognitività alla religione, ma vuole restituire alla religione ne più né meno che « Dio », affermandone l’essenzialità in ordine alla religione e legandone la realtà stessa – l’esistenza stessa di « Dio » – alla cognitività della religione. Che la cognitività – dopo che la fides christiana era stata tanto cognitivizzata e dogmatizzata ! – e « Dio » stesso abbiano potuto divenir bisognosi di restituzione alla religione può forse riuscire sorprendente. Per intendere non solo come ciò abbia potuto accadere, ma come, paradossalmente, proprio la religione, categorizzata dalla modernità, abbia prodotto questo risultato, dobbiamo intrattenerci su due tratti salienti della sua prima categorizzazione per via filosofica, ossia su due tratti salienti – distinti e connessi – della prima fase, astorica, della « filosofia della religione ». Potremmo chiamare questi due tratti, rispettivamente, la naturalizzazione e la moralizzazione della religione ; ma con una avvertenza : se disporre di nomi per indicare sinteticamente complesse realtà culturali è opportuno, i due termini a cui qui non senza ragioni abbiamo fatto ricorso – « naturalizzazione » e « moralizzazione » – non possono essere intesi appropriatamente facendo affidamento su una comprensione di linguaggio ordinario ; il loro senso peculiare può essere colto solo considerando più dettagliatamente la realtà di storia delle idee a cui si riferiscono.
20. Naturalizzazione Come è apparso a più riprese, l’identificazione di un’essenza della religione che valesse come denominatore comune e strumento di comunicazione per un’Europa dilaniata al proprio interno dai conflitti relativi alla fides christiana, e sempre più confrontata con culture esterne a seguito dell’espansione mercantile e coloniale, si è concretata in età moderna nell’idea di una « religione naturale ». Con questo termine si intenderebbe una religione costitutiva dell’essere umano, anzi del soggetto, interna, invisibile, razionale, universale e astorica. La « religione naturale » sarebbe astorica sia nel senso di essere indipendente dalla religione esterna e visibile (civile, pubblica, politica ecc.) sia nel senso di essere indipendente da eventi storici « rivelativi », di carattere, appunto, non « naturale », bensì « sovrannaturale ». A seconda dei pensatori e dei contesti, l’indipendenza della religione naturale rispetto alla storia (intesa sia in senso culturale, sia in senso sovrannaturale) ha potuto configurarsi in modi diversi : precedenza, contrasto, indifferenza ecc. Bisogna dire però che tale immagine consueta, tale sorta di descrizione media dell’idea di religione naturale vale per il xviii secolo ; è solo in quest’epoca che la stessa espressione « religione naturale » diviene corrente e quasi una parola d’ordine, tra l’emotivo e il razionale (anche l’espressione « religione razionale » diviene di uso comune in questo periodo, venendo spesso usata in modo interscambiabile con « religione naturale », che però, non a caso, ricorre assai più frequentemente). In effetti, le vicende dell’idea della naturalità della religione nei tre secoli precedenti sono lungi dal lasciarsi unificare o armonizzare in questa sorta di media intellettuale e di precipitato culturale dell’illuminismo maturo. Per intendere in che senso poco sopra parlassimo di naturalizzazione della « religione » come di un tratto saliente della prima fase della filosofia della religione, le divergenze, le irriducibilità e la complessità delle vicende dell’idea di religione naturale sono altrettanto importanti della sua configurazione consolidata ed astratta.
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Nonostante la tripartizione stoica della theologia in tre generi – naturale (physikon), mitico e civile – tripartizione nota anche ad Agostino attraverso Cicerone – ancora per lungo tempo in età moderna l’idea che l’uomo fosse « naturalmente » religioso non comportava affatto che vi fosse una religione « naturale » come distinta da quella « rivelata ». Se l’« anima » – termine molto importante in proposito – era detta naturaliter christiana, prima che tale naturalità venisse trasposta alla « religione » come a qualcosa di distinto dalla fides christiana (in quanto essenza e verità di quest’ultima, o in quanto più generale rispetto ad essa, o in quanto qualcosa di diverso e magari opposto alla fides christiana), il processo di categorizzazione della « religione » doveva essere notevolmente inoltrato e consolidato. Ad esempio, citando Lutero, abbiamo visto sopra come egli potesse ancora considerare « naturale » la chiesa invisibile dei santi giustificati dalla fede in Cristo e « fattizia » la chiesa visibile. Del resto, la generalizzata e secolare metafora dei due « libri » che parlano di Dio, quello della « Scrittura » e quello, appunto, della « natura » può apparire tale, cioè una metafora, solo retrospettivamente. Essa, vale a dire, può apparire una trasposizione di senso da un uso letterale e referenziale (il libro della Scrittura) ad un uso poietico e poetico (il libro della natura) solo a partire, da un lato, da un’immagine della natura di tipo ormai quantitativo e og-gettivo e, dall’altro, da un’immagine della scrittura che ha dimenticato ormai la stretta parentela della scrittura con l’immagine visiva e il suo aspetto calligrafico : a questo proposito, l’invenzione della stampa e la possibilità di sostituire la biblia pauperum con la moltiplicazione degli esemplari della Scrittura tradotta in lingua per il volgo non sono di importanza minore della nuova scienza. (I molteplici modi in cui successivamente è stata messa e viene tutt’ora messa in questione la relazione scientifico-cognitiva soggetto-oggetto e, d’altro lato, la moltiplicazione di mezzi tecnici di conservazione, produzione e trasmissione di immagini e parole cambia certamente la situazione culturale ; ma non è detto che questo rappresenti un abbandono della modernità. Ciò non solo perché nella storia della cultura, esattamente come in quella della natura, le sopravvivenze sono lunghe, dando luogo, oltre e più frequentemente che a nicchie ecologiche, a stratificazioni e simbiosi ; in aggiunta a questa ragione v’è anche una ragione teorica, per così dire interna : l’opposizione di vecchio e nuovo, di anciens e modernes, è comunque storicizzante, anche quando sia ancora inconsapevole e implicita, ossia anche quando l’opposizione si presenti come recupero di ciò che è « classico » o come ritrovamento di ciò che è « naturale » rispetto allo smarrimento e all’erramento da cui si è immediatamente preceduti). Ancora un secolo dopo Lutero, Herbert di Cherbury, platonico di Cambridge al quale si suole fare riferimento come a un teorico esemplare della « religione naturale » – e ben a ragione, se si pensa ai contenuti del suo pensiero e alla sua incidenza culturale – non usa tuttavia questa espressione, anzi, per essere più precisi, la cancella, prima della stampa, nell’unico passo manoscritto che ne testimonia l’uso da parte sua (Herbert of Cherbury, De Veritate, 1645 : xlii) ; sarà in seguito C. Kortholt, nella sua ripresa del De tribus impostoribus, a notare che Herbert non tanto consolida la religio naturalis, quanto scuote la revelata religio, esplicitando così una netta distinzione fra i due termini nel pensiero herbertiano (Kortholt, 1680 : 59). D’altro canto, se Herbert non parla di « religione naturale », come pure ci si potrebbe aspettare in base alla semantica consolidata successivamente, in quello stesso torno di tempo Campanella ne parla (nell’apologia in cui si difende, tra le altre cose, dall’accusa di essere l’autore del De tribus impostoribus), intendendo però con questa espres
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sione non una religione costitutiva dell’essere umano, bensì la gloria che le creature inanimate rendono a Dio ; Campanella distingue perciò tale religio naturalis dalle altre forme (animalis, rationalis, supernaturalis) che corrispondono alla gloria cantata rispettivamente dagli altri ordini del creato (Atheismus triumphatus, Parigi 1636 : 95 ss.). Si tratta dunque di una visione, diciamo così, non umanistica della religione « naturale » (e forse della « religione » in generale, proprio per la molteplicità cosmica delle sue forme : anche in questo caso, come in altri, l’ambiguità su cosa sia triumphatus e cosa trionfi nell’apologia campanelliana permane). In effetti, gli esempi che abbiamo addotto di Herbert di Cherbury e di Campanella riescono esemplari in ordine a due possibilità tipiche di intendere la « religione naturale » e il suo problema : da un lato, la possibilità umanistica (ecco perché l’importanza dell’immortalità dell’anima va ben oltre la derivazione platonica del tema, intrecciandosi con il soggettivismo moderno), possibilità che ha infine prevalso, tanto come idea, quanto semanticamente ; dall’altro, la possibilità naturalistica, che è stata occultata, ma non cancellata, sia dalla nuova scienza fisica, sia da quella sorta di chiasmo culturale che si può simbolizzare con i titoli precedentemente ricordati delle due opere in proposito di Hume (non a caso dissolutore dell’identità personale) : dalla critica svolta nei Dialoghi sulla religione naturale alla ricostruzione di una Storia naturale della religione. I due tipi di « religione naturale » non sono solo possibilità teoriche o astrazioni rispetto alla realtà storica, anzi essi rispondono in primo luogo alla realtà storica che li ha configurati. La rivendicazione umanistica è costitutiva del platonismo moderno (di quello rinascimentale italiano ancor prima di quello cantabrigense : si pensi alla Theologia platonica de immortaliate animorum di Ficino, 1482, e al De hominis dignitate di Pico, 1486) e in nome di Platone ci si oppone ai cosiddetti – o maledetti – athei (altro termine che a partire dal Cinquecento diviene moneta corrente, spesa con l’autorità del ciceroniano De natura deorum). La stilizzazione delle auctoritates è essa stessa un fatto storico ed è in rapporto, insieme, di causa e di effetto con la tipizzazione teorica : da un lato un Platone patristico (cfr. Garin, 1938), dall’altro lato un Aristotele averroistico, prima, e alessandrista, poi ; da un lato, la « religione » carattere distintivo dell’uomo e della sua libertà, dall’altro, l’enarratio gloriae Dei da parte dei cicli e degli astri e la « religione » dei « bruti » (che, come il gallo o l’elefante, attestano comportamenti particolari nei confronti del sole o della luna : cfr. Micheletti, 1984 : 60 ; le teorie etologiche contemporanee della religione ignorano questi dibattutissimi precedenti). Tuttavia ogni tipizzazione, anche storicamente attestata, ha carattere vettoriale, e lo ha in massimo grado la tipizzazione di genere oppositivo e polarizzante : l’intera realtà delle idee e delle fonti si trova fra i due poli d’attrazione ideali e può essere orientata volta per volta più verso l’uno o l’altro dei due (quanto platonismo nel naturalismo tardo-rinascimentale e quanto antiaristotelismo nella rivendicazione della natura iuxta propria principia !). Ma il fatto più importante storicamente, e sovraordinato teoricamente, è che, anche considerando la tipizzazione nei suoi aspetti più oppositivi e polarizzati, in un tipo e nell’altro – in quello umanistico non meno che in quello naturalistico – la « religione » viene comunque naturalizzata e ricondotta a un’essenza in grado di neutralizzare le differenze storiche. Questo vale anche per la forma estrema e negativa che identifica nell’inganno o nella strumentalità la genesi della religione : forma estrema che è storica bensì sotto il profilo
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contenutistico, ma non sotto quello formale (proprio perciò essa appare scientificamente esplicativa e proprio perciò la storicità è considerata meramente come inganno o strumento) ; forma che, significativamente, si presenta sempre, di fatto, in continuità con le altre forme di naturalizzazione ed essenzializzazione (non per nulla Aristotele e Averroè diventano eponimi anche per la teoria « politica » o « machiavellica » della « religione » e Averroè viene considerato ispiratore del trattato sui « tre impostori » : si veda, sempre ad esempio, la citata apologia di Campanella ; e cfr. Ernst, 1991).
21. Perdita di cognitività Una relazione di opposizione è necessariamente interna a un ambito categoriale condiviso dai termini opposti ; senza una siffatta condivisione categoriale, gli opposti non potrebbero nemmeno opporsi e costituirsi in quanto opposti. In questo senso, che il termine « religione naturale » abbia potuto storicamente semantizzarsi in modo, alla lettera, equivoco, cioè opposto e polarizzato, non è sorprendente ; la polarizzazione semantica, lungi dal contraddire l’univocità profonda di quella che abbiamo chiamato naturalizzazione della religione, ne rappresenta piuttosto un indizio. Ma al di là delle parole, che hanno pur sempre risonanze molteplici, nella vicenda culturale in questione sono « le cose stesse » a mostrare un senso univoco. Infatti la conseguenza della naturalizzazione, comunque operata, della religione è stata in ogni caso la perdita di cognitività. Che alla accezione naturalistica della « religione naturale » corrisponda una comprensione non cognitiva della religione può riuscire abbastanza intuitivo. Merita tuttavia che ci si soffermi almeno sul caso di Spinoza, anche perché, oltre a giganteggiare per altezza teorica e per ampiezza di trattazione specifica dedicata a problemi di filosofia della religione, il pensiero spinoziano ha avuto una recezione che, a un certo punto, ha sconvolto la tipizzazione in senso ateistico a cui era stato sottoposto. Al Deus sive natura spinoziano fa riscontro la riduzione etico-politica della religione nel Tractatus theologico-politicus (1670) : una riduzione risultante, peraltro, non dal rifiuto preconcetto della Scrittura, ma dal proposito di ricavare la conoscenza di quanto in essa è contenuto « esclusivamente dalla Scrittura stessa », considerandola, per così dire, iuxta propria principia (a cominciare dalla lingua in cui è stata scritta : Spinoza fu anche autore di una grammatica della lingua ebraica). Si tratta dunque di un metodo che, come Spinoza stesso precisa, « non differisce in nulla dal metodo di interpretazione della natura, ma concorda in tutto con questo » (cap. 7). Si potrebbe osservare che la comprensione spinoziana del contenuto della Scrittura in termini di legge e legislazione è anche frutto di tale intento metodologico, implicando un risalimento interpretativo da religione a torah (qualcosa di simile, pur con le debite differenze, si potrebbe dire, per la stessa epoca, a proposito di Uriel Acosta). In ogni caso, l’opposizione di Spinoza alle superfetazioni interpretative dei « teologi » ha un significato esplicito, di grande importanza per documentare la destituzione di cognitività della « religione » (termine e idea a cui Spinoza, scrivendo e parlando e pensando nella propria epoca, non può comunque non ricorrere). Sotto il profilo gnoseologico, la facoltà a cui fa appello la « religione » non è la « ragione » – donde scaturisce la conoscenza « adeguata » e la filosofia – bensì l’« immaginazione », determinata dagli « affetti » ; sotto il profilo pratico, e di conseguenza, la religione è connessa all’« obbedienza », ed è perciò di competenza dell’autorità civile, dovendo essere sottratta all’autorità religiosa, che invece ne fa questione proprio di conoscenza e di ortodossia : la libertà
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rivendicata da Spinoza non è affatto la libertà religiosa, bensì la libertas philosophandi (e quindi anche quella di filosofare sulla « religione ») ; la libertà della conoscenza non attenta infatti alla salute dello stato, anzi – come spiega il sottotitolo stesso del Tractatus – non può essere sottratta senza nuocerle. Di fatto poi, e con una sorta di chiasmo, la rivendicazione della natura non conoscitiva ed obbedenziale della religione si traduceva in Spinoza in un appoggio alla tolleranza religiosa delle autorità repubblicane olandesi, particolarmente di contro all’intransigenza, dell’ortodossia calvinista e alle sue implicazioni politiche. Ma ciò non incrina minimamente la natura obbedenziale, non conoscitiva della religione, che intatti concerne la « fortuna », ossia ciò che, secondo la terminologia di derivazione machiavellica, non è in potere dell’uomo, e non la « virtù ». Spinoza conferma nel massimo grado tale natura non conoscitiva proprio quando si spinge a parlare di un Dei internus cultus, opponendolo all’externus Religionis cultus anche in questa interiorità, la « religione universale che è massimamente naturale » (religio catholica quae maxime naturalis est : 403 s.) è obbedienza – a Dio – e ha natura pratica ; essa consiste nella « semplicità e veracità dell’animo », che dispone alla charitas e all’aequitas ; ed essa può così ben disporre, proprio in quanto sia liberata da dogmi e speculazioni filosofiche e sia separata dalla ragione, a differenza di quanto avviene nella religio sfigurata dai suoi falsari, la quale porta all’odio e al sospetto. La messa in evidenza dell’interiorità della « religione universale che è massimamente naturale » non deve far pensare a un umanesimo di Spinoza : si tenga presente che, agli occhi di Spinoza, il massimo strumento di potere dei « teologi », contro i quali è diretta la rivendicazione della libertas philosophandi nel Tractatus, consiste nel timore delle pene eterne e nella speranza dell’eterno premio che retribuirebbero quelle presunte sostanze (al plurale) spirituali che sarebbero le anime degli esseri umani. E in effetti Spinoza non riuscì a liberarsi dall’accusa di ateismo, come pure si era proposto nello scrivere il Tractatus ; Benedictus fu maledetto, l’Esprit de Spinoza fu associato al De tribus impostoribus, e ancora un secolo dopo l’umanista e platonico Jacobi (lettore, tra l’altro, di Cudworth), alla richiesta di Lessing di esprimere quale fosse a suo avviso « lo spirito » dello spinozismo, avrebbe richiamato l’intero corteggio tipologico del cosiddetto « ateismo » : a nihilo nihil fit aristotelico, « fatalismo » musulmano, « cabbalismo » (cfr. Jacobi, 1785). Il fatto che la condanna di Jacobi (peraltro affascinato da Spinoza) sia divenuta la chiave che ha aperto le porte all’esaltazione spinoziana del romanticismo e dell’idealismo non può essere qui oggetto di adeguata considerazione. Se, in parte, questa fortuna (come si è soliti esprimersi in italiano) è proprio da ricondurre alla « fortuna » nel senso machiavellico e spinoziano sopra richiamato, sarebbe arduo escludere del tutto da essa una intrinseca « virtù » del pensiero spinoziano stesso, anche e forse soprattutto laddove esso riesce ambiguo e aporetico. In particolare, proprio le aporie dell’« interiorità » e dell’« eternità » della mente considerata come idea del corpo « in Dio » potevano confortare le istanze idealistiche e il loro orientamento verso una riappropriazione filosofica dell’esteriorità storica in una comunità spirituale e divina non più opposta o parallela a quella visibile. Queste considerazioni – sulle quali non ci soffermeremo – potrebbero relativizzare opportunamente l’opposizione naturalismo-umanismo (e richiamare i problemi della metafisica moderna come metafisica della soggettività). Resta tuttavia che, prima di ogni ardua considerazione in questo senso, andrebbe prestata attenzione al fatto che
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dove Spinoza riesce più esiziale per l’umanesimo dei « teologi », ovverossia per l’umanesimo dell’anima sostanza individuale e immortale, è proprio là dove egli potrebbe forse sembrare dona ferens : ad esempio, nell’enfasi sull’homo homini Deus, nella tesi della coincidenza, per così dire autoretributiva, di virtù e beatitudine, nella dichiarazione, a doppio taglio, che « anche se non sapessimo che la nostra mente è eterna, daremmo tuttavia il primo posto alla pietà e alla religione » (Ethica, postumo, 1677 : R v, prop. 41).
22. Moralizzazione Il riferimento a Spinoza esemplifica un tratto generale della prima categorizzazione della religione intrapresa dalla modernità : non solo la religione viene destituita di cognitività, ma tale destituzione avviene nei termini generali di una riduzione pratica della religione ; nella misura, poi, in cui la religione viene considerata non nel suo aspetto « civile », « esteriore » e, eventualmente, di « impostura » politica (in questo caso con differenze di qualche significato tra xvii e xviii secolo : cfr. Canziani, 1994), ma in quello « naturale », « interiore » e « universale », la riduzione pratica avviene nei termini specifici di una moralizzazione. Nell’Encyclopédie (1751-1781), alla voce « Religione », la « religione naturale » viene presentata come sinonimo di « morale » o « etica » (on l’appelle aussi morale ou éthique : p. 78) ; ma quale che sia il significato simbolico dell’Encyclopédie edita da Diderot e d’Alembert (Diderot fu autore anche di uno scritto De la suffisance de la religion naturelle, scritto nel 1747 e pubblicato nel 1770), si può senz’altro dire che tutto il xviii secolo europeo e già una parte significativa del xvii sono decisamente orientati in questo senso. Riferirsi a tale orientamento, diffuso fino alla generalizzazione, può essere un modo per sintetizzare non troppo riduttivamente il senso di quel fenomeno assai complesso e vario che è l’« illuminismo » ; « religione » – in quanto « naturale » e « razionale », ovvero in quanto opposta a « superstizione » e in quanto opposizione alla « superstizione » – non dice più una virtù, bensì « la virtù ». Ciò, più che una trasformazione, rappresenta un ribaltamento radicale, in grado di segnare, appunto, quel che si dice un’« epoca ». Si ricorderà il significato originariamente rituale, comportamentale, oggettivo della religio romana, rispetto al quale il significato soggettivo (nel senso, comunque, della scrupolosità osservante) era solo un derivato semantico, anche cronologicamente posteriore. Si ricorderà altresì che nella trasformazione successiva, largamente, sebbene non esclusivamente cristiana, al significato pratico si sovrappone e si sovraordina un significato teorico, anch’esso, tuttavia, in primo luogo realistico, metafisico e, per così dire, oggettivo ; solo di conseguenza l’aspetto reale (l’esistenza di Dio) può essere adeguato conoscitivamente, con l’affermazione dell’esistenza di Dio. Da questa conoscenza, desunta dall’esistenza, derivano poi in terzo luogo, a loro volta oggettivamente, dei « doveri », la cui osservanza soggettiva, in quarto luogo e da ultimo, è virtuosa. Questo intero climax, edificato e configurato bensì attraverso complesse vicende, sincretismi e andirivieni storici tutt’altro che lineari, ma nel suo risultato complessivo e nella media semantica assolutamente consolidato e istituzionalizzato (cioè concretato nelle istituzioni), viene sconvolto e ribaltato in ogni punto del suo ordine dalla categorizzazione moderna della religione : il significato « soggettivo » prevale e diviene sovraordinato rispetto a quello « oggettivo » (ora questi termini possono essere utilizzati in senso assai più proprio e preciso) e, ancora, il significato morale (soggettivo e interiore) prevale e diviene sovraordinato rispetto a quello conoscitivo. Quella che era mera conseguenza di una fondazione teorica diviene adesso fondamento (pratico). Anche senza
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giungere alla riduzione della religione alla virtù tout court – come, ad esempio, nel caso dell’Encyclopédie o in quello, che anche abbiamo avuto modo di ricordare a suo tempo, di Voltaire – il rapporto iniziale si ribalta comunque, nel senso di una derivazione della religione, ovvero dell’affermazione dell’esistenza e degli attributi di Dio, dalla virtù. È questo il caso di Kant, troppo noto perché lo si debba anche solo sintetizzare ; caso esemplare ed eccelso, ma nient’affatto isolato culturalmente. Tutte le discussioni, divampate poco prima di tali esiti tardoilluministici, circa la possibilità che si dia l’« ateo virtuoso » sono il segno della consapevolezza storica del ribaltamento in corso e della polemica, o meglio della scambievole accusa che esso doveva (nel senso della inevitabilità, ma anche nel senso della doverosità morale e religiosa) comportare. Da un certo punto di vista la cosa è ovvia : siffatte opposizioni, siffatti vortici, son proprio quanto ci si aspetta di osservare alla soglia di quel che si dice un’« epoca ». Anche i cristiani avevano potuto esser detti atheoi nella Roma imperiale in quanto rifiutavano il riconoscimento agli dèi istituzionalizzati, ovvero alle istituzioni deificate ; analogamente ora l’accusa di ateismo grava su chi è renitente alle istituzioni, che ripetono la loro legittimità da un’idea, essa stessa istituzionale, di « Dio ». Ma se questo valore civile della polemica è già di per sé sufficiente a spiegare la messa in relazione della questione religiosa con quella morale, l’ovvietà e la sufficienza della spiegazione rischiano entrambe di oscurare quello che costituisce l’aspetto storicamente specifico, e in certo senso paradossale, della questione : il ribaltamento avviene – come abbiamo visto – all’interno del processo di categorizzazione della « religione » e come conseguenza di questo processo « religioso ». Una certa paradossalità consiste nel fatto che il processo è « religioso » non solo sotto il profilo contenutistico delle idee in oggetto, ma, di norma almeno, anche sotto il profilo dell’autocomprensione soggettiva. Normalmente, infatti, ciò che viene fatto oggetto di polemica è considerato non « religione », ma appunto « superstizione », alla cui costitutiva intolleranza viene ascritta l’accusa di ateismo subita da chi si ritiene invece, se non « teista » (secondo il termine usato per primo da Cudworth), almeno « deista », e comunque affermatore della « religione » e della « virtù ». Lungi, di norma, dall’essere irreligiose o « atee », le intenzioni di coloro che contribuiscono al processo di categorizzazione della religione, sono non di rado persino apologetiche. Analogamente a quanto era avvenuto in età tardo-antica con l’uso cristiano di religio, il nuovo uso di « religione » si riappropria interpretativamente del passato nel momento stesso in cui, più o meno consapevolmente, se ne distacca. Al di là delle intenzioni e della maggiore o minore consapevolezza, l’esito del processo di categorizzazione della religione sarà davvero – come ancora vedremo – quello della messa in crisi e della dissoluzione del concetto istituzionalizzato di « Dio » (ente, ente esistente, ente esistente e agente, ente esistente e agente onnipotentemente, ente esistente e agente onnipotentemente secondo fini buoni ecc. ), in conseguenza sia della perdita di cognitività e della moralizzazione della « religione », sia, e reciprocamente, del ricorso alla religione – naturalizzata e moralizzata – per corroborare la considerazione di teologia filosofica : che prima ancora della messa in questione kantiana della cognitività della metafisica uno Storchenau – a suo luogo ricordato – ritenesse opportuno questo supporto antropologico alla trattazione filosofica – anche quantitativamente e comparativamente ridotta – dell’idea di Dio è significativo ; così come è significativo che un Ruckersfelder – anch’egli ricordato a suo luogo – desse tanto spazio nella sua
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trattazione di « teologia naturale »-« filosofia della religione naturale » alla parte « pratica », de hominis officio (si pensi che per Wolff la teologia razionale non comportava parti pratiche). Polemica e apologetica mostrano una volta di più di essere due facce della stessa medaglia. Ma questa affermazione richiede ulteriore argomentazione per riuscire plausibile ; essa potrebbe infatti apparire eccessivamente generalizzante, prima ancora che per quanto riguarda l’esito « ateo », già per quanto riguarda la perdita di cognitività da parte dell’apologetica e della sua categorizzazione di « religione ». Se per quanto riguarda l’esito « ateo » si può addurre a riprova lo « spinozismo » del giovane Fichte e del giovane Schleiermacher, ovvero l’Atheismusstreit – la « disputa sull’ateismo », 1798 ss. – suscitato dalla identificazione fichtiana di « Dio » con l’ordine morale del mondo e l’affermazione schleiermacheriana, nei discorsi Über die Religion (1799, Sulla religione), della compatibilità di « religione » e « ateismo », non si può evitare invece un discorso più articolato per quanto riguarda la perdita di cognitività da parte dell’apologetica.
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In effetti, l’apologetica si configura nelle forme più svariate, e ciò non solo in relazione al modo in cui viene elaborata, ma anche in relazione al contenuto di idee che effettivamente si ritiene di dover difendere : vi sono differenze enormi tra – diciamo ad esempio – le Pensées di Pascal (postume, 1670) ; il Christianity not mysterious di Toland (1696, Cristianesimo senza misteri), l’Alciphron di Berkeley (1732) e la trattatistica o manualistica cattolica che, a partire dal xvii secolo, viene detta, appunto, di « apologetica ». Con questo termine si identifica, nell’ambito della teologia cattolica, una disciplina teologica specifica (a partire dal secolo successivo detta anche « teologia fondamentale »), che via via viene strutturandosi secondo una tripartizione principale : demonstratio religiosa (talora suddivisa a sua volta in due trattati, De religione e De revelatione), demonstratio christiana, demonstratio catholica. Le tre parti sono intese a mostrare i motivi razionali per affermare, rispettivamente e in progressione, l’esistenza di un ente (« Dio ») caratterizzato da determinati attributi (tra cui quello di potersi « rivelare »), la credibilità della rivelazione consistente in Gesù e nel suo messaggio, la credibilità della chiesa cattolica romana come annunciatrice della rivelazione, sua interprete autentica, e – insieme e circolarmente – parte del messaggio annunciato. Questa tripartizione maggiore registra varianti locali, differenziandosi in un tipo tedesco e un tipo romano, il quale ultimo – significativamente – lascia da parte proprio il trattato De religione della prima demonstratio, conservando solo il successivo trattato De revelatione (v., ad esempio, Kolping, 1968 : 71-72). Di fronte a questa articolata architettura disciplinare dell’apologetica cattolica, ma particolarmente di fronte alla iniziale demonstratio religiosa, può apparire implausibile l’affermazione generalizzante di una destituzione di cognitività che caratterizzerebbe la categorizzazione moderna di « religione » anche da parte apologetica. La questione è di importanza decisiva ; ciò non perché qui si sopravvaluti un’esperienza culturale come quella del cattolicesimo romano – la quale peraltro non è precisamente irrilevante nella vicenda della cultura occidentale – ma perché si tratta della stessa questione della « teologia naturale » (così, in effetti, viene anche chiamata, in ambito romano, la demonstratio religiosa, la quale successivamente nello stesso ambiente culturale verrà detta altresì « filosofia della religione », con un senso della continuità capace davvero di metabolizzare ogni cesura). Più in generale, poi, si tratta della stessa
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questione della « metafisica speciale », giacché gli altri due capitoli di quest’ultima – la « psicologia » e la « cosmologia » – sono organicamente connessi alla « teologia » (« naturale » ovvero « razionale ») e ne dipendono per più aspetti. Va detto, anzi, che nel sapere specializzato elaborato dal cristianesimo cattolico romano, particolarmente dopo la Riforma protestante, proprio l’articolata ma unitaria architettura disciplinare dell’« apologetica », inserita in una ratio studiorum accademica unitariamente finalizzata, coordinata e fortemente controllata, fa sì che la « teologia naturale » sia tenuta ancora nel quadro di una fides christiana la quale è cognitiva nel suo complesso. Ecco perché appare significativo che il tipo romano di apologetica cominci direttamente dal trattato De revelatione, aggiungendo, per contro, alle tre Demonstrationes un quarto trattato – De locis theologicis – il quale si occupa delle fonti della teologia cristiana e costituisce, così, il passaggio, senza soluzione di continuità, alla « teologia dogmatica » e alla « teologia morale » (questo trattato è invece tralasciato dal tipo tedesco di apologetica, che include, per contro e altrettanto significativamente, l’iniziale De religione). Per quanto ciò possa apparire controintuitivo a uno sguardo di superficie, l’indebolimento cognitivo ha luogo proprio quando e nella misura in cui si elabora una « teologia naturale » indipendente dal complesso della theologia revelata, fino all’estremo della naturalizzazione della « rivelazione », resa « antica quanto la creazione » o « non misteriosa » (secondo il programma dichiarato dai titoli di opere famose di Tindal, 1730, e del già ricordato Toland) ; e corrispondentemente, quando e nella misura in cui si pone una theologia revelata indipendente da quella « naturale », fino all’estremo dell’assolutizzazione – almeno in senso etimologico – della « rivelazione » rispetto alle premesse « naturali », considerate financo espressione di empietà e di hybris nella loro pretesa di dettare condizioni alla rivelazione. Queste due possibilità – di una teologia « naturale » indipendente da quella « rivelata », e viceversa – si corrispondono simmetricamente nella dinamica delle idee religiose dell’età moderna ; sicché potremmo anche dire : l’indebolimento cognitivo ha luogo quando e nella misura in cui si pone uno iato fra quel « regno della natura » e quel « regno della grazia » che Leibniz cercava ancora di mantenere in continuità : ottenendo, peraltro, scarso successo o, meglio, sortendo ormai l’effetto contrario, se si pensa a come quello che sarà detto da Kierkegaard nella Afsluttende unvidenskabelig Efterskrift til de philosophiske Smuler (1846, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia) « il problema di Lessing » – e cioè come verità « eterne » potrebbero mai essere dimostrate mediante verità « storiche » – abbia origine proprio nella distinzione leibniziana. Ma la messa in luce della corrispondenza e della simmetria caratterizzanti le tesi dell’indipendenza, rispettivamente, di teologia « naturale » e « rivelata » non è sufficiente per dissolvere ogni aspetto controintuitivo nell’asserzione che l’autonomia della « teologia naturale » segna un indebolimento di cognitività. Tale aspetto controintuitivo dipende infatti principalmente dal fatto che la teologia naturale assume di essere razionale. Sin dalle prime attestazioni del termine e dell’impresa intellettuale che esso denomina in età moderna (impresa apologetica, almeno inizialmente), « teologia naturale » dice – di norma – questo assunto conoscitivo, vuoi in senso razionalistico deduttivo, vuoi in senso empiristico induttivo (nel qual caso « naturale » viene a riferirsi anche alla dimensione fisica e cosmologica, fornendo così una qualche contiguità fra l’accezione di « teologia naturale » che ha prevalso semanticamente e una accezione diversa – anche attestata, ma non sopravvissuta – per la quale essa si distingue dalla « teologia sopran
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naturale », a cui competerebbe la trattazione di creature angeliche e, in genere, delle sostanze incorporee) ; ancora Kant non è costante nell’uso dei due termini « teologia naturale » e « teologia razionale » : egli li scambia in varie circostanze (così come, peraltro, avviene con « religione naturale » e « religione razionale »), ferma e netta restando tuttavia la distinzione dalla theologia revelata. E tuttavia, nonostante l’assunto di razionalità, la « teologia naturale », o « razionale », rappresenta una diminuzione di conoscenza in primo luogo sotto il profilo quantitativo : con la sua elaborazione, infatti, si alleggerisce l’assieme cognitivo della fides christiana di tutto ciò che è più arduo a sostenersi razionalmente, in termini di condivisione virtualmente universale, ottenibile mediante argomentazioni che non sarebbero rifiutabili da enti dotati di ragione, e ci si assesta su di un terreno ristretto, ma solido, tale da poter fornire un minimo incontrovertibile, donde chi intendesse farlo potrebbe poi prendere le mosse per una apologia di ciò che è più dubitabile. Ma è soprattutto sotto il profilo qualitativo che la destituzione di cognitività mostra di essere strettamente connessa all’impresa della « teologia naturale ». Nella misura in cui tale impresa mira a definire il contenuto della « religione naturale » (e questo è di norma uno degli scopi che la teologia naturale si prefigge), essa persegue non solo una finalità di riduzione quantitativa e di essenzializzazione della dottrina da professare (recentemente si è parlato in proposito di « credo minimo » : cfr. Lagrée, 1991), ma anche di semplificazione intellettuale. La religio laici di cui si parla ricorrentemente in età moderna (ad es. da parte di Herbert di Cherbury, già ricordato, e di Ch. Blount, autore di una Religio laici, 1683), va intesa nel senso di una religione per tutti, non complicata da costruzioni intellettuali specialistiche e accademiche (l’accezione laicistica di religio laici rappresenta solo una conseguenza semantica cronologicamente posteriore, e la declericalizzazione una conseguenza mediata dell’approccio adottato) ; come ancora dirà Diderot, i vantaggi della religione naturale, che si limita a fondamentali precetti morali e non include complicate dottrine, consistono, oltre che nella sua « universalità » e « immutabilità » anche nel fatto che essa è « la più facile da seguire » (De la suffisance de la religion naturelle, cit. : 268). È chiaro come, all’estremo della moralizzazione semplificatrice e della « laicizzazione » della religio, la « teologia naturale » finisca per apparire, anziché alleata, nemica della « religione naturale » e per rappresentare un obiettivo polemico, in quanto disciplina specialistica intesa a identificare in modo dottrinario, scolastico e impositivo ciò che invece andrebbe affidato alla buona spontaneità naturale, ovvero preculturale. Ma se questo estremo teorico trova di fatto molti rappresentanti, altrettanto attestato è il rapporto di congruenza o persine di sinonimia fra « teologia naturale » e « religione naturale », tanto nel caso che si sia scettici sulle capacità cognitive delle medesime (come è il caso di Bayle in una nota alla voce « Acosta » del suo Dictionnaire del 1697, e di Hume che, come abbiamo visto, mette in questione la teologia naturale con i Dialoghi « sulla religione naturale »), quanto nel caso che si sia fidenti nel loro carattere cognitivo (ad esempio : negli Elementa, theologiae naturalis dogmaticae a priori methodo scientifica adornata, del 1742, J. Carpov considera la teologia naturale come scientia de religione naturali, e, come già abbiamo visto, Ruckersfelder considera sinonimi theologia naturalis e philosophia de religione naturali). Il fatto è che, ancora una volta, tra l’estremo di una moralizzazione assolutamente non cognitiva e l’altro estremo di una elaborazione della teologia naturale come disciplina scientifica specialistica, la continuità che lega tra loro i due poli (attestata
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storicamente da tutta una serie di posizioni intermedie) è assai più significativa della loro opposizione, frutto della comune appartenenza ad un unico fenomeno culturale. Si tratta di un fenomeno che è in se stesso costitutivamente ambiguo : per un verso, la teologia naturale, configurandosi come disciplina autonoma, risponde alle esigenze scientifiche della modernità ; ma per altro verso la naturalezza a cui la teologia naturale fa riferimento come a ciò che dovrebbe qualificarla essenzialmente la lega in modo indissolubile al sapere comune.
24. Logos e sacro Tra specializzazione e sapere comune non si determina contraddizione solo a condizione che venga assunto un modello conoscitivo verticale, gerarchico ed arcaico nel senso etimologico che già abbiamo dato a questi termini ; solo a questa condizione infatti la cognitività non viene annullata nella tensione fra esigenze epistemiche opposte e conflittuali. Ma l’autonomizzarsi delle discipline scientifiche nell’età moderna – al quale la teologia naturale tenta di corrispondere – non è semplicemente il prodursi di una specializzazione del sapere (ovvero – come dicemmo – di una messa in questione delle convinzioni del sapere comune, espresse in linguaggio ordinario, mediante la loro trasformazione in presupposto). La specializzazione come autonomizzazione, quale ha luogo nel sapere moderno, costituisce e categorizza il suo oggetto in relazione al punto di vista disciplinare assunto e, per converso, definisce il punto di vista disciplinare in relazione alla diversità dell’oggetto, ossia alla diversa categorizzazione che costituisce quest’ultimo (di conseguenza la specializzazione moderna comporta anche l’impossibilità di risalire dal linguaggio specializzato al linguaggio ordinario, sottraendo così quest’ultimo a una comprensione meramente strumentale). La segmentazione delle discipline scientifiche riflette infatti, sul piano della conoscenza, il processo di differenziazione che caratterizza la società moderna (ma la società non è altro che sistema culturale, ovvero sistema riflessivo di senso). Nel confronto con l’abbandono dell’arché rappresentato dal modello orizzontale, segmentato, del sapere (onde il sapere comune è uno fra i saperi in reciproca interazione) si evidenzia il nesso profondo – ancorché, in superficie, paradossale – che intercorre tra l’asserita universalità delle koinai ennoiai, ossia delle notiones commiines, o innatae, alle quali ancora ed essenzialmente fa riferimento la teologia naturale, e la riserva di sapere sacro, alla quale possono accedere solo coloro che sono istituzionalmente addetti ai lavori. In effetti, l’iniziazione ai misteri (con i riti connessi) non è meno o diversamente legiferante (istituente) del logos che, per quanto, anzi, in quanto universale e univertente, separa il chaos dal cosmos, tracciando « un vallo sugli abissi » e imponendo così « una legge certa » (Siracide, 8, 27). L’accesso del consacrato, al « santuario » così sancito non è trasgressione (salvo in senso etimologico), perché esso non infrange la legge, ma ripete la stessa istituzione della legge, ovvero la stessa istituzione come legge (andrebbe peraltro osservato che il rito ripete non tanto perché – come appare in superficie – l’origine dell’istituzione sia passata, quanto – e più in profondità – perché l’origine non si dà se non come ripetizione, ovvero come istituzione). Tuttavia la vera trasgressione, la vera profanazione (si pensi sempre all’etimo di questi termini) non è nemmeno l’accesso illegittimo (il trasgressore Remo – significativamente un gemello – viene ucciso da Romolo e l’equilibrio « cosmico » viene confermato dalla pena). La vera trasgressione e
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profanazione – ove mai fosse possibile – sarebbe non l’accesso – legittimo o illegittimo – bensì l’eccesso : l’eccesso – necessariamente, tautologicamente eslege – dal « vallo » universale del logos (che, in quanto universale, si converte continuamente in centro univertente), la dismisura illogica, la « follia » encomiabile solo ironicamente, non « sancibile », irrecuperabile al « santo » come sancito, ovvero come « sacro ». L’« illuminismo » è messa in luce dell’« oscurantismo » perché chiarisce – diciamo con un ossimoro – « finalmente » il carattere deuteronomico e istituzionale della sanzione – o santificazione, o canonizzazione – del limite tra « sacro » e « profano ». Ma l’« illuminismo » anche ripete la sanzione nell’atto di dissolverla con il rischiaramento delle tenebre (e la contestualità, ovvero coincidenza, dei due aspetti rinvia alla questione della « secolarizzazione »). Siffatta ripetizione della sanzione – siffatta ripetizione istituente dell’origine – ha luogo perché la messa in luce sospinge infinitamente al limite il « vallo », rendendolo senza fine con-fine « universale ». Se nel logos limite e centro si convertono l’uno nell’altro, nulla di meno o di diverso vale nel caso del sacro : il « tempio », il temenos che separa il « sacro » dal « profano » (etimologicamente, ciò che è dinanzi al tempio), è anche axis mundi e simbolo cosmico (Olivetti, 1967 e 1975). La cesura tra sacro e profano risponde certamente a importanti esperienze storiche del sacro, ma non può essere assolutizzata, come invece ha preteso la scienza o fenomenologia della religione in un determinato e fortunato momento della sua angosciosa ricerca di definizione del proprio oggetto. In un certo senso, anzi, la onnipervasività del sacro è il carattere proprio delle culture arcaiche o gerarchiche (o meglio, delle culture in quanto arcaiche e gerarchiche) : certa recente scienza della religione e cerca recente fenomenologia della religione o, più radicalmente, fenomenologia tout court cominciano ormai a render conto di ciò (per la fenomenologia cfr. ad es., in modi anche assai diversi tra loro, Levinas, 1982, Marion, 1977, 1982, 1988, Casper, 1981a e 1981b, Janicaud, 1991, Courtine, 1992, Conci, 1991, Casper-Sparn, 1992, Olivetti, 1992b e 1994 ; per la « scienza » cfr. Tenbruck, 1993). In realtà, la corrispondenza tra logos e sacro in questa conversione di centro e limite dipende dal fatto che il rapporto di conversione vicendevole intercorre in primo luogo – pur nella varietà delle figure storiche – tra logos e sacro essi stessi. In questo senso è significativo che alla separazione e alla autonomizzazione reciproca di teologia naturale e theologia revelata corrisponda storicamente la contestuale messa in crisi tanto della prima quanto della seconda, tanto della conoscenza naturale – resa autonoma – di Dio quanto delle fonti sacre e di quei miracoli, che pure originariamente erano intesi proprio come semeia, ossia prove o, come oggi si direbbe con termine inglese, evidences (Hume è un eloquente esempio della contestualità delle due imprese critiche, con le sue ricordate opere di filosofia della religione, da un lato, e con il capitolo sui miracoli della Enquiry Concerning Human Understanding, 1748 – Indagine sull’intelletto umano – dall’altro).
25. « Filosofia della religione » e « filosofia della rivelazione »
Il conflitto fra autonomizzazione disciplinare e sapere comune è ragione di crisi non solo per la cognitività della teologia naturale o razionale, ma anche e più in generale per tutta la metafisica moderna. Ciò può, in un primo periodo, non mostrarsi con evidenza sul versante della filosofia razionalistica di tipo riflessivo ; infatti, a differenza dell’empirismo, il razionalismo riflessivo intraprende con energia e su nuova base (cioè in base al ricordato e aporetico nesso soggettività-universalizzazione) la propria meditazione de
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prima philosophia, conservando il modello epistemico gerarchico, o arcaico, e considerando la metafisica alla radice dell’arbor scientiarum. Ciò nonostante, l’accomunamento tra razionalismo riflessivo ed empirismo in età moderna si mostra con evidenza ove si consideri come entrambi si congedino dal sapere comune, ritenuto da entrambi non più criterio di verità, bensì causa di errore : le notiones communes cominciano ormai ad essere intese, anziché come fondamento, come idola o pregiudizi, e il consensus gentium comincia ad essere considerato come un pregiudizio esso stesso, sempre più chiarito in questa sua natura pregiudiziale dall’ampliarsi dello sguardo comparatistico. Nel ricordare idee come quelle delle notiones communes e del consensus gentium poniamo intenzionalmente l’accento sui termini che evidenziano in modo emblematico la continuità tra teologia naturale e metafisica generale, nonché il significato di acme che la prima possiede rispetto alla seconda. Ciò da un lato ; d’altro lato, poniamo l’accento su termini che evidenziano anche, e in modo altrettanto emblematico, la continuità storica e teorica tra metafisica ontologica e metafisica della soggettività (qui infatti non è possibile se non un richiamo emblematico a questa duplice continuità, o meglio a questo duplice aspetto di un’unica fondamentale continuità ; un esame analitico richiederebbe di affrontare questioni come quella dei rapporti che intercorrono storicamente tra univocazione dell’ente e metafisica della soggettività, e quella della modalizzazione, de dicto e de re, delle proposizioni esistenziali, sino alla dissoluzione della comprensione dell’esistenza come predicato o « perfezione »). Che la notio sia communis poco importa ormai (in linea di principio) ; quanto rileva sono le caratteristiche di evidenza (detto cartesianamente : « chiarezza » e « distinzione ») con cui essa – soprattutto se deve valere come idea « innata » – si dà all’interno della coscienza soggettiva. Anche in questo caso, insomma, si assiste a una divaricazione fra l’interiorità e l’esteriorità dell’eventuale, più o meno ampio consensus gentium (che rimane appunto esteriore, ovvero parziale, impedendo la totalizzazione-universalizzazione dei soggetti). I due aspetti, interno ed esterno, sono ricongiungibili ormai solo mediante una filosofia della storia. Questa rappresenterebbe altresì la ricong iunzione al sapere comune e all’« arcaico » consensus gentium dopo la differenziazione del sapere « scientifico » e grazie ad essa, secondo un modello non verticale, e nemmeno orizzontale, bensì circolare (onde il ricongiungimento sarebbe anche la prima realizzazione). In effetti, ancor prima delle grandi costruzioni di filosofia della storia intraprese dall’idealismo, già il Settecento offre vari saggi in direzione filosofico-storica. Ed è significativo che le diversissime vie che vengono tentate già in questo secolo facciano tutte riferimento alla questione dell’acquisizione storica o della perdita storica dell’idea di « Dio » come alla questione strutturante per lo stesso tentativo di disegnare una filosofia della storia. Per altro verso, tuttavia, è evidente come l’assunzione del punto di vista filosofico-storico comporti lo spostamento dell’attenzione dall’idea di « Dio » al rapporto che l’uomo ha con essa, e cioè alla « religione ». Questa ambivalenza e costitutiva instabilità della filosofia della storia non toglie comunque che essa, proprio nello sforzo di tenere insieme « Dio » e « religione », rappresenti oggettivamente (cioè indipendentemente dalle eventuali intenzioni in questo senso) una forma di apologetica : un’apologetica svolta non in termini di preliminare e presuntamente condivisa, o condivisibile, naturalità, ma in termini di divisione e positività e opposizione. Divisione, positività e opposizione sono bensì superate nell’assoluto, ma l’assoluto si produce attraverso di esse, ed è detto e pensato come assoluto solo in quanto si produce attraverso di esse, superandole.
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Nella sua forma circolare, di ricongiungimento compiuto e teorizzato dopo e grazie alla differenziazione, la filosofia della storia non solo rappresenta il recupero della filosofia della religione alla teologia (superando la scissione tra « naturale », « razionale », « interiore », « invisibile », « privato » ecc. , da un lato, e « rivelato », « storico », « esteriore », « visibile », « pubblico », « civile » ecc. , dall’altro lato), ma anche, e molto più, rappresenta la realizzazione della teologia come filosofia della religione. La quale ultima perciò diviene, a sua volta, filosofia della rivelazione : si pensi, esemplificativamente, non solo a Schelling e a Hegel, ma già – almeno per certi aspetti – allo Schleiermacher dei « Discorsi » Sulla religione, il quale è il vero trait d’union tra la filosofia della storia negativa, conclusa solo idealmente, che Kant delinea nella Religione entro i limiti della sola ragione, e la filosofia della storia positiva, conclusa realmente (pensata come conclusa realmente), dell’idealismo.
26. Nichilismo e ontoteologia Nella sua forma circolare, di ricongiungimento compiuto e teorizzato dopo e grazie alla differenziazione, la filosofia della storia trasforma altresì l’idea di « ateismo » della prima modernità nel pensiero della « morte di Dio ». Ma ovviamente, se il cerchio non si chiude, la « morte di Dio » letteralmente non vale la pena : nel senso, appunto letterale, che si scioglie quel nesso – ovvero quella polarizzazione – tra « male » e « valore » onde la filosofia della storia rappresenta « la vera teodicea » (secondo la già ricordata espressione di Hegel nella sua introduzione al corso di filosofia della storia, intitolata La ragione nella storia), se il cerchio non si chiude, la « morte di Dio » è solo la cancellazione del vallo tracciato sugli abissi, l’annunzio – indifferentemente buono e non buono – del « folle » (Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, 1882 : La gaia scienza), a cui non è lasciata l’ironia. Per questo è importante richiamare l’attenzione su quella sorta di – vorremmo dire – « proposizione speculativa » che si è intravvista quando abbiamo parlato di una filosofia della storia positiva « conclusa realmente (pensata come conclusa realmente) ». « Pensare la storia come conclusa realmente » è un’espressione ambigua ; anzi, si può senz’altro dire – con un ossimoro – che essa è oggettivamente ironica. L’infinito (grammaticale) « pensare » esplicita l’ambiguità tra l’aspetto personale e soggettivo (ciò che la filosofia analitica contemporanea chiamerebbe un « atteggiamento proposizionale » : « io penso che » ; « x pensa che », ecc.) e l’aspetto in cui la scissione « scientifica » tra soggetto e oggetto è superata appunto nel pensiero, nella « comprensione » del « concetto » (si pensi a questi due termini nella loro valenza etimologica). Se il secondo aspetto è quello che definisce quanto si suole esprimere con la metafora idealistica della assoluta « trasparenza », il primo è quello che la filosofia analitica esprime con la metafora (divenuta termine tecnico) della « opacità » di contesto. L’opacità di contesto rende impossibile la verifica del contenuto proposizionale e apre all’ermeneutica. Ciò avviene oggi anche nell’ambito della filosofia analitica, rendendosi così evidente che trasparenza semantica referenziale e trasparenza semantica intenzionale (intersoggettiva e comunicativa) sono le due facce di una medesima medaglia, di un medesimo « pio desiderio », come si può dire in modo non proprio metaforico. Questa ambiguità e costitutiva instabilità del pensiero filosofico della storia è mortale per il logos ; ma il logos, o ragione, che si sottrae a essa è solo impostura (impostura dominante, ovviamente umanistica, ovviamente illuministica). Solo non sottraendosi all’affrontamento mortale fra logos e nichilismo – solo non sottraendosi alla crisi
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dell’ontoteologia – si evita l’impostura, rendendo altresì possibile pensare a quell’eccesso irrecuperabile al sacro – sancibile solo ironicamente – di cui parlavamo sopra. È significativo come la qualifica di appartenenza all’epoca onto-teo-logica si sposti via via su tutti i pensatori che hanno concluso e definito l’epoca precedente, spingendo lo sguardo, o tendendo l’orecchio, oltre la linea della medesima : così, « metafisico » diviene Hegel, « metafisico » diviene Nietzsche e, secondo le letture radicali contemporanee, ancora « metafisico » diviene Heidegger. Non pretendere di andare « oltre la linea » dell’epoca, ma pazientarvi, patire la crisi a cui sottopone il discrimine insuperabile (e si tratta di crisi umanistica), diviene il segno non di minore, bensì di maggiore radicalità di pensiero. Si può trasformare, nel pensiero, la « storia » in « epoca », come abbiamo ricordato a suo luogo parlando della filosofia della religione romantica ; ma ciò non significa che si possa uscire dall’epoca di questa trasformazione. La « teodicea » che non vanifica nell’impostura quanto, riecheggiando Hegel, potrebbe essere detto il « venerdì santo » nichilistico è quella che ne vive la morte, una « teodicea del sabato santo » – per riprendere una felice espressione (Labbé, 1980) – ovvero, sempre citando, e riprendendo ancora una volta il titolo dello scritto kantiano del 1791 – quella che accerta Il fallimento di ogni tentativo filosofico di teodicea.
Nota bibliografica Testi In questa sezione della bibliografia vengono riportate tutte e soltanto le fonti a cui si è fatto esplicito riferimento nel corso della trattazione. A. Augustinus, De vera religione ; De civitate Dei ; Retractationes, in Opera, Corpus christianorum series latina, voll. 32, 47-48, 57 ; tradd. itt. : De vera religione, a cura di C. Marzioli, Firenze, Le Monnier, 1937, 2a ed. ; La città di Dio, a cura di L. Alici, Milano, Rusconi, 1984. K. Barth, Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert (1947) ; trad. it. La teologia protestante nel xix secolo, a cura di G. Boff, 2 voll., Milano, Jaca Book, 1979-1980. P. Bayle, Dictionnaire historique et critique (1697) ; trad. it. Dizionario storico-critico, a cura di G. Carabelli, Roma-Bari, Laterza, 1976. G. Berkeley, Alciphron, or the Minute Philosopher. In Seven Dialogues. Containing an Apology for the Christian Religion, Against Those, who Are Called Free-thinkers (1732) ; trad. it. Alcifrone, a cura di A. e C. Guzzo, Bologna, Zanichelli, 1963. C. Blount, Religio laici. Written in a Letter to John Dryden Esq., London, 1683. D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung (postumo, 1951) ; trad. it. Resistenza e resa, a cura di S. Bologna, Milano, Bompiani, 1969. T. Campanella, Atheismus triumphatus, seu contra antichristianismus ecc., Parisiis, Tussanum Dubray, 1636. J. Carpov, Elementa theologiae naturalis dogmaticae a priori methodo scientifica adornata, Jenae, C. H. Cuno, 1742. M. T. cicero, De natura deorum, a cura di M. van den Bruwaene, 4 voli., Bruxelles, Latomus,1978-1986 ; trad. it. Sulla natura degli dei, a cura di A. Zuccoli, Milano, Notari, 1929. A. Comte, Catéchisme positiviste (1852), in Oeuvres, a cura di S. Perignon, rist. an. Paris, Anthropos, 1971, vol. xi. R. Cudworth, The True Intellectual System of the Universe. The First Part ; wherein All the Reason and Philosophy of Atheism is Confuted and its Impossibility Demonstrated (1678), rist. an. Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann, 1964. R. Descartes, Discours de la méthode pour bien conduire sa raison, et chercher la vérité dans les sciences (1637) ; trad. it. in Opere filosofiche, a cura di E. Galli e E. e M. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1986, vol. i.
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Studi Questa sezione della bibliografia contiene, in primo luogo, tutti gli studi a cui si fa esplicito riferimento nel testo e – limitatamente agli ultimi due decenni – opere a carattere generale, con riguardo particolare alle pubblicazioni in lingua italiana. Le opere su singoli argomenti (compreso « Dio ») sono riportate solo nella misura in cui siano attinenti alla nostra trattazione, e comunque
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in modo selettivo. Non sono riportati in nessun caso studi su singoli pensatori : la letteratura secondaria viene infatti ricordata solo se concernente interi periodi storici, e solo in relazione a quanto viene trattato nel nostro lavoro.
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IL CORPO CHE SIAMO E L’AMBIGUITÀ DELLE CATEGORIE ONTOLOGICHE : L’ALIMENTAZIONE DELL’ALTRO*
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1.
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arlare di « alimentazione dell’altro » significa utilizzare un genitivo equivoco – come si dice in termini grammaticali – cioè un genitivo che – come anche si dice – è insieme soggettivo ed oggettivo : l’« altro » menzionato può essere sia colui che dà alimento, sia colui che viene alimentato. I tradizionali appellativi grammaticali corrispondono felicemente a quanto voglio dire ; essi esprimono infatti uno scambio inarrestabile tra soggettività ed oggettività quando si ha a che fare con l’alimentazione umana ; inoltre essi esprimono uno scambio che concerne il linguaggio, anzi la voce, il linguaggio parlato : l’aequivocatio non è da ricercarsi in primo luogo e originariamente nel fatto che il nome pronunziato si riferisce contemporaneamente e confusamente a due referenti diversi, bensì, come si intenderà appresso, nel fatto che l’appello stesso – la vocazione della voce – è contemporaneo e confuso, semplice e molteplice nello stesso tempo. Di più : il genitivo equivoco è generatio aequivoca ; l’appello della voce mette al mondo, e siffatta generazione non è mai univoca ma – in termini che andranno precisati – reciproca e corresponsiva. La vocazione della voce è una vocazione generante e moltiplicante, ancorché la moltiplicazione non debba essere pensata come ripetizione e reiterazione di unità identiche, bensì come comunione, comunicazione e con-divisione della voce. Queste considerazioni che – con allusioni e giochi di parole – traspongono su un piano in certo senso metafisico termini grammaticali e logici, danno forse l’impressione di una arbitraria grammatica speculativa. Ma esse potranno apparire più giustificate e soprattutto più intelligibili in seguito, dopo che avremo svolto le considerazioni relative al nesso alimentazione-alterità, al nesso alimentazione-linguaggio e a quello alimentazione-generazione. In realtà, il rapporto alimentazione-alterità non è semplicemente metafisico (e magari in un senso dispregiativo del termine « metafisico », che alcuni sarebbero inclini ad usare come sinonimo di « inverificabile », « insensato » ecc.). Si tratta invece di un rapporto che ha una incomparabile e originaria evidenza empirica, sebbene questa evidenza empirica sia di natura tale da non consentire in alcun modo di arrestarsi all’empiria ; tale evidenza infatti mette in questione l’empiria stessa per il fatto di mettere in questione le grandi categorie sulle quali ogni empiria si basa e all’interno delle quali ogni empiria si inquadra, si organizza e diviene significativa : l’identico e il diverso, l’uno e i molti, l’interno e l’esterno, ecc. L’evidenza empirica incomparabile e originaria posseduta dal rapporto alimentazione-alterità consiste nel fatto che non ci si alimenta di sé medesimi. L’autofagia non è
* Il desiderio di essere. L’itinerario filosofico di Pietro Prini, a cura di Dario Antiseri e Domenico Conci, Roma, Studium, 1996, pp. 173-184.
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alimentazione, ma autoestinzione ; la riflessività – in questo caso, o almeno in questo caso – è possibile come autoeliminazione, ma non come automantenimento. Se mai la riflessività fosse condizione sufficiente dello stabilimento e della stabilità dell’identità del sé – del se stesso –, ciò potrebbe valere nel caso di un sé che non si alimentasse, nemmeno abbeverandosi ad uno spumeggiante calice come quello dello hegeliano « regno degli spiriti ». La causa sui non si alimenta di sé, e nemmeno di altro : semplicemente non si alimenta : essa basta a sé ed è da sempre e per sempre sazia, satis sibi. Se poi la causa sui possa dirsi vivente è questione che per essere posta – ancor prima che per ricevere una risposta – esige comunque di intendere analogicamente il concetto di « vita ». Qualora invece la riflessività come presunta condizione sufficiente per il mantenimento dell’identità vivente dovesse essere intesa con riferimento non tanto ad una causalità efficiente – come nella causa sui della tradizione ontologica – bensì ad una causalità finale, allora bisognerebbe osservare che l’autofinalizzazione dell’organismo vivente, la sua Zweckmäßigkeit ohne Zwecke, per dirla kantianamente, implica con ciò stesso l’alterità dell’alimento, senza la quale la riflessività sarebbe quella del suicidio ; l’identità del sé balenerebbe allora, paradossalmente, anzi contraddittoriamente, solo nell’attimo atemporale dell’autocancellazione dell’identità stessa. Se dunque l’autofinalizzazione dell’organismo vivente dovesse intendersi come veramente assoluta, questa comprensione potrebbe aver luogo non nel senso di un assolversi totale da ogni legame da parte dell’organismo vivente, bensì nel senso di una totale strumentalizzazione dell’alterità, ossia di una totale riduzione dell’alterità a cibo. Il nesso tra cibo ed alterità ha dunque un’evidenza empirica originaria e incomparabile : originaria e incomparabile nel senso che ogni empiria ed ogni evidenza presuppongono sempre già l’evidenza empirica dell’alterità del cibo ; finché il bambino non distingue il proprio pollice dal seno materno, non c’è evidenza e non c’è, propriamente parlando, nemmeno empiria. Tuttavia proprio l’evidenza empirica del nesso tra cibo e alterità impone qualche distinzione e precisazione nel linguaggio ordinario con cui ci stiamo esprimendo ; le indispensabili precisazioni e distinzioni riguardano sia il termine « identità » sia il termine « alterità ».
2. L’identità in questione è l’identità del vivente. Cibandosi, il vivente si mantiene in quanto tale, nella sua identità, ossia soddisfa il conatus in suo esse perseverandi. Si dovrebbe osservare che l’espressione spinoziana conatus in suo esse perseverandi nasce da una commistione – molto significativa storicamente e teoreticamente – tra un concetto vitalistico come quello di conatus ed un concetto fisico-meccanico come quello di perseveranza, in quanto perseveranza nella quiete o nel moto da parte dei corpi inanimati : inanimati, e non viventi, appunto perché perseverano nel loro stato, salvo interventi modificativi dall’« esterno », laddove gli enti animati e viventi sono semoventi, cioè in grado di modificare dal loro « interno » il proprio stato di quiete o di moto. Commistioni o fusioni di questo genere, per significative che possano essere dal punto di vista storico e dal punto di vista teorico, richiedono tuttavia di essere rigorizzate eliminando ogni amalgama ed ogni eterogeneità concettuale, vale a dire riconducendo l’identità del vivente a quella dell’inanimato, e viceversa ; non è senza significato che la
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storia dello spinozismo sia l’intreccio fra interpretazioni meccanicistiche e interpretazioni – diciamo così – animalistiche di Spinoza. In effetti l’identità del vivente si distingue profondamente da quella del non vivente. Il vivente si conserva in quanto tale, nella sua identità, mediante il cambiamento e mediante o metabolismo, cioè mediante l’assimilazione del nutrimento, la sua trasformazione e l’escrezione di ciò che – ove non venisse espulso – sarebbe mortale in quanto impedirebbe l’ulteriore « assimilazione » dell’alterità, ovvero l’interiorizzazione dell’esteriorità. Al contrario l’inanimato permane nella propria identità solo in quanto non muti ; proprio per questo si suol dire che le mutazioni dell’inanimato sono prodotte da agenti « esterni » : si tratta, più precisamente, di agenti che sono esterni e rimangono tali, in quanto non vengono – come nell’alimentazione – « assimilati », vale a dire trasformati nell’identità del vivente e resi questa identità medesima, resi « interni ». L’interazione del non-vivente con l’esterno da luogo ad un’altra identità : un’identità cosi « altra » e cosi « esterna » da essere, appunto, alternativa rispetto all’identità posseduta dall’inanimato prima del mutamento. Naturalmente non pretendo con queste poche e rapide osservazioni di aver esaurito tutte le determinazioni necessarie a distinguere con sufficiente precisione le diverse accezioni in cui il termine equivoco « identità » viene utilizzato a seconda che venga riferito al vivente e al non vivente. Bisognerebbe aggiungere, ad esempio, che se il mutamento è necessario al vivente affinché esso conservi la sua identità, non ogni mutamento è tale da conservare il vivente, ma solo, appunto, quello del « sano » metabolismo (e la storia della comprensione della salute e della malattia, e in particolare l’abbandono da parte di Hegel della comprensione della malattia come accidentale ed esterna rispetto all’organismo andrebbero meditati). Bisognerebbe poi aggiungere che la connessione essenziale di identità e mutamento nel vivente è altrettanto essenzialmente « a termine », cioè ha un inizio e una fine ; sicché il nodo vita-temporalità è ancor più stretto di quanto potrebbe risultare qualora si dicesse semplicemente che l’identità del vivente è tale da mantenersi solo mediante il mutamento. Ancora ; il diverso rapporto in cui l’identità si pone rispetto al mutamento a seconda che si tratti di identità del vivente o dell’inanimato, rappresenta una questione che si sovrappone o si interseca con la questione dell’identità del semplice e del composto. In un determinato senso, anche negli enti inanimati il mutamento può non configgere con l’identità o persino essere necessario per il mantenimento dell’identità : il problema della nave di Teseo potrebbe presentarsi al giorno d’oggi in versioni ben più acuite, con riferimento alle identità dei composti non più « tecnici » » bensì « tecnologici ». Proprio questa intersezione del problema dell’identità del vivente con il problema dell’identità del composto ha fatto sì che nella storia delle idee lo spirito, il soffio vitale, l’anima o, insomma, quello che volta per volta è stato considerato il principio vitale del vivente sia stato ritenuto semplice e perciò, da un lato, indivisibile e incorruttibile, ma d’altro lato anche, e abbastanza paradossalmente, separabile da quel corpo mortale che, pure, esso – pro tempore è ben il caso di dire – vivificava, identificava, unificava, entrando con il corpo in una composizione ben più strana di quella dell’organismo corporeo stesso. Sì che per evitare la stranezza si rese necessario teorizzare il parallelismo psicofisico, magari ricorrendo al miracolo occasionalistico (correntemente, però, la composizione del corpo non appariva ai cartesiani diversa da quella del composto inanimato).
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L’intersezione del problema dell’identità vivente/non vivente con quello dell’identità semplice/composta si articola ulteriormente quando si prenda in considerazione il problema dell’identità delle cosiddette persone collettive (ad esempio quella di un popolo). Ma ad onta di ogni intersezione dei problemi dell’identità, mi pare si debba dire che la discriminante tra l’identità del vivente e quella dell’inanimato è data dal diverso rapporto interno-esterno, ovvero identico-diverso : a differenza del non vivente, il vivente si nutre dell’altro, assimilandolo, identificandolo a sé, distruggendone l’identità e l’alterità e l’esteriorità e, per altro verso, negando la propria identità al residuo metabolico che viene esteriorizzato. Ci troviamo, dunque, di fronte a due diversi concetti di identità : l’identità inanimata si dà solo se non c’è cambiamento, l’identità vivente si dà solo se c’è cambiamento ; la prima sfida il tempo, la seconda ringrazia il tempo ; la prima trova perfetta espressione nella logica formale e nel calcolo dei predicati, la seconda ha difficoltà a lasciarsi formalizzare dalla logica (nonostante i tentativi contemporanei di logica temporale e di fusione della logica temporale con quella modale) e, semmai, trova espressione nella dialettica. La propensione del « sano intelletto » (almeno del sano intelletto occidentale medio) è indubbiamente quella di vedere nei due diversi concetti di identità che abbiamo distinto due specie di un solo e più comprensivo genere che avrebbe la propria referenza o, comunque, il proprio ancoraggio nell’ontologia (sia il vivente, sia il non vivente sono degli enti) e/o nella gnoseologia (l’identità come identificazione ovvero, kantianamente, come unificazione del molteplice nell’oggetto, vivente o non vivente che questo sia). Ma non riesco a vedere quali ragioni militino a favore di questa scelta, che non siano riconducibili a contesti storico-linguistico-culturali. Perché l’essere (o « essere ») sarebbe più comprensivo o più generico della vita (o di « vita ») ? Quanto qui andremo dicendo potrebbe, ad esempio, orientare verso una precedenza ed una maggiore comprensività della vita rispetto all’essere. Se si tengono distinti i due concetti di identità del vivente e di identità del non vivente, può anche apparire opportuno chiamarli con nomi diversi. Si potrebbe, ad esempio, chiamare « medesimezza » l’identità del non vivente e « ipseità » l’identità del vivente. Ci si avvarrebbe così di due termini che oggigiorno trovano utilizzazione sempre più frequente (e che, tra l’altro, hanno recentemente trovato una argomentata ed articolata teorizzazione da parte di Paul Ricoeur). Bisogna però anche notare che il ricorso odierno a questa terminologia va nel senso di intendere con il termine « ipseità » ciò che si suole anche chiamare « identità personale ». Ora, non c’è dubbio che l’identità personale sia una specie dell’identità del vivente e, più precisamente, una specie dell’identità del vivente per la quale sembra essenziale o, comunque, rilevante, qualcosa come l’autocoscienza, o la coscienza, o lo spirito, o la mente, ecc. Ma identità del vivente è anche quella di un protozoo, e se si vuole fare ricorso al termine di « ipseità » bisogna essere pronti ad intenderlo in questo senso più ampio, che prescinde da eventuali aspetti coscienziali (con ciò, ovviamente, non intendo affermare nulla relativamente al problema che oggigiorno si suole chiamare mind-body, e in particolare non intendo in alcun modo suggerire una maggior plausibilità della cosiddetta tesi riduzionistica). Comunque, se anche in determinate circostanze può apparire opportuno fare ricorso a nomi distinti per i due diversi concetti di identità, è necessario non fare questo
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passo senza ironia. L’ironia non è forse già nelle cose stesse ? È significativo – voglio dire – che ad essere equivoca sia la stessa identità. E poi, dove sarebbero qui « le cose stesse » ? nell’identità delle cose, nel concetto di identità, nella parola « identità »... ? Questa ironia, dopo tutto, è nell’alimentazione stessa, in quanto essa non solo trasforma l’esterno in interno, l’altro nello stesso e, ai termine del processo metabolico, l’interno in esterno, lo stesso in altro, ma trasforma anche l’inanimato in vivente e il vivente in inanimato. Che siffatto scambio avvenga in certi casi immediatamente (ad esempio nel caso dei vegetali), in altri mediatamente (ad esempio nel caso di animali erbivori), in altri ancora sia immediatamente sia mediatamente (nel caso degli onnivori) e, soprattutto, che siffatto scambio avvenga sempre in casi i quali sono soltanto momenti di ciò che la biologia e l’ecologia contemporanee sogliono ormai chiamare « catena ecologica » è un fatto il quale evidenzia l’ironia estrema dell’alimentazione e la stessa relativizzazione, che nell’alimentazione ha luogo, dell’identità vivente/non vivente : cosa è bios, cosa è oikos ? Cosa è l’abitante, chi è l’abitato ? Chi è il dio, chi è il tempio ?
3. Il metabolismo dell’identità vivente è dunque l’ironia, onde lo scambio dell’altro con lo stesso giunge al punto di scambiare vita e non-vita. Sarà allora opportuno disporsi all’ironia anche per quanto riguarda eventuali distinzioni a proposito del concetto di alterità ? È la domanda che ora dobbiamo prendere in considerazione. La distinzione allos/heteros o alius/alter è forse ancora più presente e più ampiamente elaborata nella filosofia – già nella filosofìa greca – della distinzione tra identità vivente e identità inanimata. Anzi, avuto riguardo a questa consolidata situazione storica, lo spostamento tematico, che nelle precedenti considerazioni ha avuto luogo, dall’alimentazione dell’altro (come alter) al nesso cibo-alterità può apparire, in vari sensi, una metabasis eis allo ghenos : una metabasis – qualcuno potrebbe obiettare – spiegabile bensì, ma non legittimabile, con il fatto che nelle lingue occidentali moderne la distinzione terminologica propria alle lingue occidentali classiche si è persa (in tedesco si può ritrovare la distinzione, ma non senza significativo spostamento semantico, distinguendo tra Anderheit e Andersheit). Il genitivo equivoco nell’espressione « alimentazione dell’altro » – si potrebbe ancora obiettare – è bensì un genitivo insieme soggettivo ed oggettivo, come notavamo all’inizio ; tuttavia questo scambio inizialmente sottolineato concerneva pur sempre l’alimentazione di due « soggetti » : due esseri appartenenti allo stesso ghenos – quello umano presumibilmente – e proprio perciò in grado di essere considerati, con un’unica espressione, rispettivamente, o anche reciprocamente, datore e ricettore di alimento. La stessa enfasi iniziale sulla voce, sull’equivocazione e sulla unità-divisionecondivisione-comunicazione come vocazione della voce sottolineava questa valenza presumibilmente umanistica, e comunque questa omogeneità. Obiezioni plausibili. A meno che l’alimento sia l’altro : intendo alter, l’ altro essere umano. Non penso a forme di antropofagia (quantunque le valenze simboliche dell’antropofagia reale e le forme reali di antropofagia simbolica nelle varie culture non possano essere sottovalutate) ; penso piuttosto al nostro pane quotidiano, al nostro mangiare di tutti i giorni, che consente di soddisfare il conatus in suo esse perseverandi e di mantenere la propria identità per tutti i giorni della propria vita e di mantenerla come propria. Per intendere come il cibo umano in quanto tale sia alimentazione dell’altro – non
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solo alimentazione data dall’altro, ma anche alimentazione che consiste in questo stesso altro – bisogna in primo luogo e molto empiricamente pensare alla suzione dell’infante durante l’allattamento. È vero che in questa forma alimentativa originaria, o meglio quasi-originaria, c’è da parte dell’infante tanta poca coscienza dell’alterità della madre quanta, all’incirca, ce n’è nello stadio prenatale, quando fra i due ( ?) organismi e fra identità vivente e cibo non c’è ancora propriamente un rapporto interno-esterno. Detto altrimenti : nel lattante non c’è inizialmente ( ?) coscienza dell’alterità della madre né nel senso di alter, né nel senso di aliud, né nel senso soggettivo, né nel senso oggettivo ; proprio in questo stadio quasi-originario infatti l’infante non distingue – non identifica – il seno materno, il biberon, il proprio pollice. Peraltro una rigorosa distinzione tra adulto e infante in questo stadio non c’è nemmeno da parte dell’adulto che si prende cura dell’infante : l’adulto, inconsciamente, assai più che coscientemente, partecipa la sua coscienza all’infante, con-divide con lui la sua coscienza, considerando « come » cosciente l’infante che cosciente non « è ». Paradossalmente, proprio siffatta identificazione coscienziale fa sì che la coscienza infantile si differenzi rispetto a quella dell’adulto e venga ad « essere », si costituisca. Questa identificazione « alterante », ovvero questa « alterazione » identificante, avviene nell’alimentazione come comunicazione originaria e prosegue poi nella comunicazione linguistica. La comunicazione linguistica non è che la prosecuzione temporale e matura della comunicazione alimentare originaria. E questo non tanto perché il linguaggio (letteralmente : il movimento della lingua) sia in larga misura orale – almeno negli esemplari statisticamente normali della specie umana – quanto perché attraverso la comunicazione linguistica avviene ciò che avviene nel contatto alimentare originario, o meglio prosegue nel tempo quell’evento – radicalmente temporale – che è l’« alimentazione dell’altro ». La vocazione della voce è aequi-vocatio proprio in questo senso. Simmetria e asimmetria sono – equivocamente ! – entrambe presenti nella equivocazione ; ma non deve, ovviamente, sfuggire il fatto che la « presenza » nella equivocazione è, appunto in quanto compresenza, radicale diacronia. Sarebbe una comprensione volgare della temporalità quella secondo la quale prima ci sarebbe l’asimmetria (il rapporto adulto-infante) e poi la simmetria (il rapporto fra due adulti) ; la comunicazione genera l’uno e l’altro ad ogni istante perché scambia, alimenta ad ogni istante l’uno e l’altro ed è com-unione dell’uno e dell’altro. Dico « ad ogni istante », appunto, per così dire ; propriamente, infatti, non c’è istante e non ci sono istanti propri : nella temporalità originaria e originante, l’istante, il nunc stans c’è, si dà, solo nella di-stanza della alimentazione, della comunione, della comunicazione. A questo punto si può allora intendere come nella generatio aequivoca dell’alimentazione dell’altro, generazione e alimentazione siano la stessa cosa (con tutta l’ironia di chiamare « la stessa cosa » la radicale diacronia e di identificarla chiamandola). La generazione è tempo, e non perché secondo la temporalità volgare ci vogliano nove mesi per generare. L’alimentazione è tempo, e non perché ci sia il Mtttagessen e l’Abendessen, o almeno ci sia quando c’è da mangiare, quando l’altro dà da mangiare e con ciò si dà da mangiare, istituendosi nella cancellazione di sé (su ciò torneremo). La generazione e l’alimentazione si distinguono fra loro empiricamente solo perché, in quanto sono, cioè in quanto vengono ad essere, si dispiegano nel tempo, sviluppando la diacronia.
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4. Si affaccia cosà la trasformazione e l’assimilazione non di aliud in ipse (come nell’alimentazione dell’adulto che ha oggettivato il cibo, cioè nell’alimentazione dell’adulto considerato solipsisticamente, facendo astrazione dal fatto che egli è stato generato, dal fatto che l’alimentazione è la stessa temporalità della generazione, dal fatto che l’adulto parla) ovvero di ipse in aliud (al termine del metabolismo : vuoi al termine provvisorio, come escrezione, vuoi al termine definitivo, come morte e come decomposizione dell’identità vivente), bensì di alter in ipse. La generazione è appunto riproduzione (riprodursi) di ipse che dà luogo ad alter ipse. La mossa « antropofagica » ha impresso – come sempre avviene – una svolta umanistica al discorso. In effetti, la riduzione, o meglio riconduzione, del nostro pane quotidiano da aliud ad alter non può essere confusa con una semplice considerazione dell’omofagia – per la quale « il pesce grosso mangia il pesce piccolo » – e nemmeno con una semplice considerazione dell’ alimentazione propria agli animali mammiferi. Tuttavia, considerazione umanistica non significa considerazione spiritualistica, perché la considerazione dell’alimentazione, come – equivocamente – « alimentazione dell’altro », radicalizza il significato della corporeità in modo insuperabile. La questione che avevamo sollevato – se l’ironia del metabolismo si applichi alla distinzione tra i due tipi di alterità cosi come si applicava alla distinzione tra identità vivente e non vivente – ha pertanto ricevuto risposta. A differenza dello scambio tra identità vivente e identità non vivente, la riconduzione « antropofagica » del cibo da aliud rispetto al vivente ad alter, cioè all’altro vivente, è definitiva, non ulteriormente rovesciabile, anzi senza ritorno. L’alterazione di se stesso è, alla lettera, un « addio ». Ma non è la morte, anche se la vittoria della vita non è nostalgia, Odissea, ritorno della riflessività al se stesso. La vittoria della vita passa definitivamente attraverso la morte, L’addio non è un arrivederci. Per questo la vita attraversa definitivamente la morte. Cosa è oikos, cosa è bios ? Chi è l’abitato, cosa è l’abitante ? Chi è il tempio, chi è il dio ? Le domande ironiche poste dal metabolismo dell’identità trovano una risposta radicalmente seria alla luce dell’alterazione di se stesso. Anzi, nella luce alterante, il susseguirsi delle domande appare un climax (ma sull’alterazione di Dio in questa luce ci sarebbe da dire sempre ulteriormente). La casa è l’altro, dal cui grembo il se stesso umano è generato. Continuando a generare il se stesso secondo la diacronia essenziale ed essenziante della generazione, cioè alimentandolo e così incorporandosi nel generato, alter rende a sua volta ipse casa e alimento, fino al congedo da se stesso, fino alla morte, attraverso la morte, attraversandola. Ma questa serietà – che potremmo chiamare etica – non è separabile dall’ironia, che potremmo chiamare ontologica. Le due « sono » uno e senza siffatto equivoco la serietà non « sarebbe ». Senza equivoco la vocazione della voce non risuonerebbe, non risuonerebbe l’imperativo originario e originante che istituisce il sé come altro, alla seconda persona (du sollst). L’imperativo è un modo del verbo (del verbum dello Zeit-wort) che non ha prima persona, almeno nelle poche lingue a me note (anche se, non conoscendo altre lingue, inclino a pensare che l’impossibilità di un imperativo alla prima persona sia un’impossibilità logica). A tal punto l’ironia ontologica è seria/deve essere presa sul serio, che il genere umano
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può estinguersi. È arduo immaginare quali potrebbero essere le conseguenze di tale estinzione nell’ecosistema, ovvero nella « catena ecologica » ; ma che le specie animali si estinguano non è l’eccezione, bensì la regola. Peraltro questa connessione di serietà ed ironia, di etica ed ontologia, di dover essere ed essere trova il suo preciso riscontro su entrambi i versanti dell’equivoco ; da un lato si può ricordare come gli etologi abbiano scorto molto chiaramente come la morale sia il mezzo per la conservazione della specie ; d’altro lato si può ricordare come Kant, il teorico del « tu devi » avesse infine (nella Religionssschrift) parlato stranamente – ma non sorprendentemente – di un dovere di natura particolare, cioè di un dovere del genere umano verso se stesso, questo dovere essendo il raggiungimento della comunità etica. Ma questo genere umano è una specie empirica o è ancora una volta un « genere sommo » ontoteologico, anzi, ancora una volta un trascendentale, un interiore-trascendentale, un altro-trascendentale ? La risposta è equivoca » Per un verso il genetico – la generazione – è l’opposto del trascendentale, per altro verso – come ho avuto occasione di argomentare altrove – il suicidio sociale (non l’ estinzione della specie umana, che sarebbe altra cosa, anche qualora avvenisse per colpa umana) non è pensabile e quindi ci troveremmo di fronte ad una sorta di rovesciamento, di katastrophé del trascendentalismo. La katastrophé che ha luogo quando al trascendentale si sostituisce il segno, ciò che è in quanto si cancella rinviando ad altro. E qualcuno ha già detto che l’uomo è un segno. Anzi è il segno-trascendentale in quanto riconosce l’altro come suo simile, cioè in quanto si riproduce alterandosi.
Circa la compatibilità della professione di filosofo con la professione di fede cristiana*
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i è stato richiesto di fare riferimento, nei nostri interventi, all’esperienza personale che ciascuno di noi ha avuto ed ha dei termini della questione. Mi sembra un’idea felice proprio in linea di principio, indipendentemente dalla maggiore o minore significatività della vicenda che a ciascuno è stato dato di vivere e che ciascuno per la sua parte ha contribuito a configurare. Si è indotti così a storicizzare opportunamente il discorso, non solo rendendosi meglio conto della realtà concreta in cui si opera, ma anche, e proprio come conseguenza di questa maggiore consapevolezza storica, evitando di assolutizzare la propria esperienza : si tratta di una tentazione – o di una ingenuità – a cui si è molto facilmente esposti quando si parla di termini così generali e così totalmente coinvolgenti come « filosofia » e « cristianesimo ». La mia prima esperienza, da studente universitario (nei primi anni Sessanta), fu quella di una alternativa assoluta tra filosofia e cristianesimo, sia sul piano teorico, sia sul piano dei fatti, ossia delle istituzioni e delle persone che in esse svolgevano il loro ruolo. La filosofia del corso di laurea in filosofia dell’università di Roma (« La Sapienza », come la si chiamava non ufficialmente, essendo ancora l’unica università statale con sede a Roma) era allora totalmente « laica », almeno a livello di insegnamenti fondamentali o, comunque, forniti di un posto di ruolo. La ragione per cui dico fra virgolette l’aggettivo « laica » è che tale aggettivo è usato in un senso del tutto peculiare, come ben intende, e spontaneamente intende chiunque abbia una qualche frequentazione delle cose filosofiche nell’università italiana. Anzi, poiché qui siamo un po’ tutti in questa condizione di comprensione spontanea, sarà il caso di sottolineare la peculiarità dell’uso di questo termine, giacché a chi vi è avvezzo rischia di sfuggire non tanto il senso in cui esso è usato in questo contesto, quanto, all’opposto, il carattere non-normale di tale uso semantico. Personalmente non ritenevo ingiusta questa alternativa di fronte alla quale veniva, di fatto, posto lo studente, anche se, professandomi cattolico, la mia posizione ne riusciva tutt’altro che agevole. Come si poteva pretendere infatti – pensavo – che uno scienziato non si opponesse, anzi non avesse il dovere di opporsi a ciò che egli riteneva erroneo dal punto di vista della propria scienza ? ! E come si poteva pretendere che un filosofo fosse indifferente rispetto a problemi assolutamente essenziali per la propria vocazione di filosofo e per la propria etica professionale ? (dove, beninteso, dire « proprio » non significa fare riferimento a una dimensione egoistica, ma a una dimensione culturale, civile, etica che il filosofo ha il dovere di difendere per il bene altrui, quand’anche ciò dovesse costargli, personalmente, la vita). Né il conflitto tra filosofia (beninteso, e come vedremo appresso : una certa comprensione della filosofia) e religione (in realtà il cattolicesimo) era rappresentabile come un conflitto tra diverse argomentazioni filosofiche o scientifiche in competizione : il « laico » infatti poteva e – in linea di principio – doveva essere pronto a
* In Ragione filosofica e fede cristiana nella realtà universitaria romana, a cura di Lorenzo Leuzzi, Messina, Rubbettino, 1996, pp. 65-71.
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rivedere le proprie posizioni qualora gli argomenti addotti da chi non la pensava come lui gli fossero apparsi validi ; per il credente, invece, essere disposto ad abbandonare la fede qualora gli fosse stato presentato un argomento accettabile, significava già aver accettato la possibilità che la propria fede fosse falsa, e cioè significava già non credere, o almeno già aver peccato (la questione – come si vede – non aveva nulla a che vedere con la validità o meno delle argomentazioni filosofiche elaborate da filosofi credenti come compatibili col cristianesimo, o accreditate e raccomandate dall’autorità ecclesiastica, o magari configurabili come « filosofia cristiana »). E poiché non era possibile non ragionare e non filosofare, questo significava che si era già sempre peccato : la filosofia e la ragione erano il peccato originale, il seguito della commestione del frutto dell’albero della scienza. Si capisce come sulla base di questa posizione potessi incontrarmi col pensiero e l’insegnamento di Enrico Castelli, teorico dello status naturae lapsae, e come, d’altro lato, potessi incontrare il sorriso ironico, ma benevolo e, nell’opposizione, filosoficamente consenziente di Ugo Spirito. Né queste vicende, presentate in termini di « amarcord » e di autobiografico singularis modestiae, erano poi così singolari o provinciali in quel momento storico, pur essendo – questo sì – del tutto minoritarie ed esterne ad ogni istituzionalizzazione. La Kierkegaard-Renaissance era ormai vivacissima anche in Italia e – non senza una certa paradossalità – anche presso alcuni dei filosofi cattolici, sostenitori della filosofia cattolica più « ortodossa » o, meglio, più ufficiale e istituzionale. Dovrò forse menzionare esplicitamente il fatto che Kierkegaard era l’autore non tanto e non solo di opere come Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale – cioè di opere in cui si teorizza il peccato originale – ma anche, e in certo senso direi soprattutto, di Timore e tremore, vale a dire di un’opera in cui il « cavaliere della fede » si trova drammaticamente a confronto con la « sospensione dell’etica » ? L’albero della scienza – pensavo mentre leggevo l’opera per sostenere l’esame di Filosofia della religione con Enrico Castelli – era ben l’albero della scienza del bene e del male ! Sempre in quegli anni aveva luogo anche in Italia la recezione di Šestov ; e per il caso che si fosse da taluno dimenticato « chi era costui », ricorderò i titoli di due sue opere, titoli che sono un programma – come suol dirsi – e lo sono particolarmente rispetto ai problemi che sto cercando di evocare, o quanto meno rievocare : Atene e Gerusalemme, Concupiscentia irresistibilis. Enrico Castelli per parte sua si faceva diffusore in Italia, mediante le collane da lui dirette, tanto di Kierkegaard quanto di Šestov, ed invitava ai convegni sulla « demitizzazione » Paul Ricoeur, il quale era autore, tra l’altro, di una Symbolique du mal (ed era ancora lungi dalla rinomanza che avrebbe raggiunto in seguito con altre opere). A Enrico Castelli, pour cause, Augusto Del Noce dedicava il suo Il problema dell’ateismo (edito dalla casa editrice il Mulino di Bologna) nel quale tutta la lunghissima introduzione (una sorta di libro nel libro, finalizzato a tenere insieme i saggi da cui il libro medesimo nasceva e a mostrarne il senso unitario) verteva sullo status naturae lapsae come su ciò dal cui rifiuto « senza prove » sarebbe originato l’ateismo moderno, chiamato pertanto « ateismo postulatorio » (come poi questa rivendicazione dello status deviationis fosse compatibile con la rivendicazione delnociana di un essenzialismo filosofico classico, è problema che, analogamente al kierkegaardismo di Cornelio Fabro, nulla toglie, anzi aggiunge alla significatività storica dei fenomeni che sto ricordando). Ma quanto qui mi preme sottolineare, nel quadro della concezione di questo convegno che ci ha richiesto di fare riferimento alla propria esperienza personale, è che, per quanto mi riguarda, tutti questi autori io li incontrai a partire dal nesso filosofia-peccato originale, e non – viceversa – incontrai questo a partire dalla loro lettura o frequenta
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zione personale. Voglio dire che doveva pur esservi qualcosa di diffuso, di atmosferico, insomma doveva pur esservi un’intera situazione culturale se uno studente di allora veniva indotto a farsi determinate idee prima di sapere – in una, spero perdonabile, ignoranza giovanile – che queste erano già state pensate variamente. Questa situazione complessiva e atmosferica può senza dubbio essere ricondotta e ridotta alla condizione intellettuale e psicologica in cui veniva posto lo studente credente che frequentava quel « laico » Istituto di Filosofia ; ma dare ancora una volta la colpa – o il merito – « a Voltaire » sarebbe perdere di vista quello che a me pare l’aspetto più originario della questione, e cioè una determinata comprensione della filosofia. Dico « determinata » non nel senso di un aggettivo indefinito – come mi pare si dica in grammatica – ma nel senso proprio del termine, per quanto arduo poi possa essere descrivere con una qualche esaustività i tratti di questa comprensione molto determinata. Si tratta, per un verso, di una comprensione che, tanto per intenderci, chiamerò « cognitivistica » della filosofia e, per altro verso, di una concezione della medesima che chiamerò « volontaristica ». Mi provo a spiegare cosa intendo con queste espressioni, e forse il modo migliore per farlo è di mettere in luce come i due aspetti che secondo il senso comune vanno distinti – quello cognitivo e quello concernente la volontà – in realtà sono le due facce di una medesima medaglia. Con comprensione « cognitivistica » voglio infatti indicare non tanto una comprensione per cui la filosofia avrebbe capacità di conoscenza sconfinate o sarebbe in grado di conoscere, se non tutto, almeno ( !) il tutto o anche solo qualche suo carattere ; sotto la qualificazione di « cognitivistica » farei rientrare infatti anche una comprensione critica, finitista e magari fallibilista o falsificazionista della filosofia, vale a dire una comprensione per cui fare filosofia comporterebbe la disponibilità a rivedere le proprie posizioni, qualora gli argomenti addotti da altri o elaborati in proprio dovessero richiedere siffatta revisione. È qui che si può scorgere come « volontarismo » e « cognitivismo » siano due aspetti di una medesima comprensione filosofica : essi sono due facce di una medesima medaglia nella misura in cui si ritiene che si possa essere o non essere disposti a rivedere le proprie posizioni, quasiché la revisione di una visione non sia semplicemente una visione e la disposizione non sia essa stessa una posizione. Dietro lo sdoppiamento suggerito da clichés del nostro linguaggio ordinario quali quello del « rivedere le proprie posizioni » e simili sta insomma una visione per cui la filosofia e, in genere, il sapere sarebbero autotrasparenti, non avrebbero punti di vista e presupposti, o quanto meno sarebbero in grado di chiarire i propri presupposti in circostanze favorevoli, che vanno promosse volenterosamente, e realizzate le quali il punto di vista verrebbe meno. La comprensione media e, per così dire, atmosferica che oggi si ha della filosofia non è più, mi pare, quella dei tempi che rievocavo. Personalmente non amo molto la parola « ermeneutica », perché spesso è usata come una maionese con cui coprire veri e propri pasticci. Tuttavia in questo caso si può senz’altro ricorrere al termine « ermeneutica » per connotare una temperie culturale in cui l’assunto di non avere punto di vista o di poterlo eventualmente abbandonare in favore di una visione senza punto di vista non è più un assunto tanto diffuso. Da questo punto di vista (appunto !), l’alternativa fra orientamento « laico » e orientamento religioso (nel senso di legato ad una religione positiva) sfuma e diventa incerta. Certo, la volontà di non abbandonare la propria fede può essere chiamata ancora « fanatismo » dai nipotini dell’illuminismo, ma i veri eredi dell’illuminismo, i veri non-fanatici, sono coloro che fanno i conti con l’essenzialità del punto di vista al fine di vedere.
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Certo, rispetto al « laico », nel senso andato del termine, rimane la discriminante costituita dal fatto che il credente non è disposto – almeno in linea di principio, cioè per definizione – ad abbandonare la propria fede, mentre il non credente è disposto – almeno in linea di principio, per definizione – ad abbandonare la propria visione. Questa rimane una discriminante assoluta, e come credente aggiungerei : deve rimanerlo. Ma questa discriminante assoluta è anche assolutamente formale, perché il consenso e il dissenso si stabiliscono in relazione al significato delle proposizioni che si tengono per vere e questo significato non è mai esaurito. Anzi, proprio se ci si ferma al livello puramente formale (e « cognitivistico » e « volontaristico »), prescindendo dalla vita del significato, cioè dalla necessità di una continua metanoia per comprenderlo, incarnarlo, farlo vivere e non falsarlo, ovvero ucciderlo, proprio dunque se ci si ferma a un livello puramente formale la distinzione fra la volontà del credente di rimanere nella fede e la disposizione del « laico » a cambiare posizione diventano indistinguibili, essendo entrambe, nella loro pura formalità, volontà di verità. Accedere al piano della significazione, dell’interpretazione significante, è dunque il presupposto per non vanificare le posizioni – la fede e la non credenza – e non renderle un gioco degli specchi in cui ognuna è l’immagine dell’altra. In una temperie ermeneutica, in una situazione in cui la storia della filosofia diviene una storia delle idee nella quale, prima di un affrettato giudizio teorico di approvazione o di condanna, si cerca di comprendere le idee e le parole in cui esse sono espresse (magari in altre lingue e in altri contesti), e si cerca di comprenderle con meditazione, charity e mai sufficiente lavoro di ricostruzione storico-filologica, si può, se del caso, parlare in corsi universitari di filosofia tenuti in università di stato non solo di « Dio », ma anche di « Incarnazione », di « Trinità », di « Rivelazione » ecc., cioè non solo del « Dio dei filosofi », ma anche del « Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe », purché se ne parli nel modo dovuto. Ora, chi concludesse che il modo dovuto è un modo confessionale, a mio avviso prenderebbe una grossa cantonata, e comunque avrebbe frainteso del tutto il mio discorso. La cattedra non è il pulpito ; non si può barare al gioco di cui si sono accettate le regole. Quanto ho detto circa la necessità per il credente di non vanificare la propria fede attestandosi su un formalismo che da luogo a un vano gioco degli specchi non autorizza in nessun modo a voler convertire gli infedeli ; semmai si tratta di convertire se stessi, di metanoein e di morire a se stessi, mettendo fidentemente in gioco il proprio universo di significati. Fidentemente vale a dire con fede : la fede che non si affonderà se si ardisce avventurarsi sulle acque (in questo caso della ricerca scientifica), mentre proprio non avventurarsi è segno di poca fede ; la fede che chi vuoi salvare la propria vita (in questo caso scientifica, filosofica, istituzionale) la perderà, mentre si salverà chi accetterà di perderla ; la fede che mettere in gioco il proprio universo di significati, misurandosi con le istanze critiche (filologiche, scientifiche, filosofiche) del proprio tempo, autentica la fede e la depura dagli aspetti idolatrici. Grazie a questa metanoia sempre da rinnovare nel confronto con la critica (che in quanto critica è e deve essere « laica »), grazie a questa metanoia sempre da rinnovare nel continuo confronto con lo stato del sapere (la scienza vive, la filosofia vive, grazie a Dio !), la fede del filosofo credente è viva ed egli ne coglie, in quanto filosofo, dal punto di vista del filosofo, il vero significato, ossia l’inesauribile significato di verità.
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La persona come debito ontologico*
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acomprensione della persona che intendo presentare nella mia relazione e che è riassunta – forse enigmaticamente – dal titolo « la persona come debito ontologico » si armonizza perfettamente mi pare – con la visione presentata da Sergio Rostagno nella introduzione al Convegno. Da questa visione essa si differenzia prevalentemente per il fatto di assumere una prospettiva filosofica invece che teologica. Tuttavia, distinzioni come quelle tra una disciplina « filosofia » e una disciplina « teologia », ancorché istituzionalizzate, sono lungi dall’essere ovvie : basti considerare come la relazione « teologica » introduttiva scritta da Rostagno sia ricchissima di sostanza e di dimensioni « filosofiche » ; per converso, è possibile che le considerazioni che mi accingo a svolgere, pur essendo esclusivamente « filosofiche », e proponendosi di essere esclusivamente tali, riescano in un qualche modo significative per la « teologia », nel senso anche positivo di questo termine (cioè nel senso di una teologia non filosofica, o non solo filosofica, ma anche revelata). Queste osservazioni iniziali, opportune al fine di precisare la natura del discorso che mi propongo di svolgere, richiederebbero tuttavia una troppo articolata trattazione per essere adeguatamente chiarite nella loro legittimità e nelle loro notevoli conseguenze sul piano delle discipline « scientifiche » o « accademiche » che l’epoca moderna ha istituzionalizzato. Spero solo che quanto dirò nel merito del mio tema possa valere a mostrare in concreto ciò che non è possibile qui argomentare in generale. Parlare di « persona come debito ontologico » – pur nella iniziale enigmaticità dell’espressione, certamente bisognosa di chiarimento – può comunque suonare letterario e edificante. Quanto alla possibilità di una risonanza edificante, debbo dire che sarei incline a seguire l’avvertimento hegeliano circa la necessità che la filosofia si guardi dall’essere edificante, piuttosto che a seguire la controproposta kierkegaardiana secondo cui l’edificazione è assolutamente necessaria quando si scrive del e per l’essere umano. Ciò posto però, non mi preoccuperei affatto se un discorso rigorosamente filosofico – o che tale si propone di essere – dovesse poi sortire, non per suo proposito, conseguenze edificanti. Nutrire preoccupazioni del genere significherebbe infatti porsi in atteggiamento non dissimile, seppur con segno mutato, da quello di chi intende fare opera di edificazione. Anche in questo caso, come in quello a cui accennavo sopra, dell’eventuale significato teologico, il discorso ha un suo proposito, che persegue indipendentemente dagli eventuali effetti, per così dire, collaterali. Quanto all’altra possibile risonanza iniziale del titolo e cioè quanto alla eventuale risonanza letteraria dell’espressione « la persona come debito ontologico », me ne difenderei invece molto energicamente. Si può anche dire che il termine « debito » è una metafora ; anzi lo è certamente (così come, peraltro, lo è il termine « fondamento », richiamato nel titolo del nostro convegno e giustamente evidenziato nella introduzione di Rostagno in questo suo carattere metaforico). Ma riconoscere e affermare ciò non significa in alcun modo sminuire il significato per così dire realistico, referenziale e, appunto, ontologico del termine « debito », come utilizzato qui, in definizione della
* « Protestantesimo », li, 1996, pp. 174-192.
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persona : la metafora intrattiene con il linguaggio referenziale un rapporto originario, in certo senso anteriore alla stessa estensione. Inoltre è il caso di far presente che « debito », come termine filosofico, non è sfornito di precedenti ; ciò dovrebbe ridurne l’eventuale suggestione retorica, facendolo piuttosto apparire come terminus technicus. Il linguaggio filosofico contemporaneo è ormai ricorso ripetutamente e significativamente alla nozione di debito : basterebbe pensare in proposito al Bruaire di L’être et l’esprit, al Levinas dei convegni « Castelli » e allo stesso Heidegger del § 58 di Sein und Zeit (« das Dasein ist als solches schuldig »). Nel quale ultimo caso è evidente che l’aggettivo tedesco schuldig sovrappone semantica della colpa e semantica del debito ; ma questa non è certo una novità, né filosofica, né religiosa ; semmai è una reminiscenza che richiama al compito di definire il giusto rapporto teorico tra il motivo della colpevolezza e quello della debitorietà. Già questi brevi cenni mostrano la necessità di determinare con la maggior possibile precisione in che senso qui si parli della persona come « debito ontologico ». Con maggior determinatezza si può dire : la persona è debito ontologico ; e si può aggiungere : in quanto è, dacché è, finché è, la persona è debito ontologico. Non si tratta di suggerire semplicemente che la persona è mortale (« finché è ») o natale (« dacché è »), secondo una temporalità semplice e volgare. Né dicendo « in quanto è » si tratta di suggerire un doppio regime della persona, una sorta di spaziale « dentro e fuori l’essere », o di temporale « durante e dopo l’essere » ; anche questo doppio regime sarebbe volgarmente rappresentativo, sarebbe semplice, nonostante la duplicità a cui vorrebbe riferirsi : semplice di una semplicità che non è in grado di cogliere la complessità della persona e riduce a semplice presenza la sua temporalità, oggettivando la persona rappresentativamente. La rappresentazione non è in grado di cogliere la complessità della persona ; la rappresentazione infatti riduce la presenza della persona a semplice presenza e non sa pensare la complessità della presenza e della persona. Siffatta complessità è strettamente connessa con ciò che, ricorrendo a un termine classico della fenomenologia, potrebbe impropriamente dirsi « intersoggettività », ma che più propriamente potrebbe dirsi « interlocutività » della persona. Come la semplicità rappresentativa non contrasta con la divisibilità della persona e anzi vi si congiunge fatalmente (si pensi alle diadi anima-corpo, forma-materia, al di là-al di qua, ecc.), così la complessità della persona non contrasta con la sua indivisibilità e individualità (essendo invece connessa con la con-divisione della com-unione). Sebbene il mio proposito qui non sia quello di argomentare analiticamente la complessità della presenza e l’interlocutività della persona, almeno una cosa è evidente : l’affermazione « la persona è debito ontologico » definisce un’essenza impersonale, alla « terza persona », come si conviene al linguaggio proposizionale che prescinde – e deve prescindere – da « atteggiamenti proposizionali », garantendo la « trasparenza di contesto » (come sul dirsi nel lessico della filosofia analitica). Questo contrasto tra contenuto personale e forma impersonale nella proposizione « la persona è debito ontologico » evoca il paradosso e genera un senso di disagio non dissimile da quello che si prova di fronte al discorso di Epimenide il cretese. Negare l’importanza del linguaggio alla « terza persona » sarebbe ridicolo e pericoloso (tra l’altro, moralmente pericoloso). Proprio questo linguaggio ci consente di parlare della persona – così come, peraltro, di qualunque argomento – confidando senza arroganza nella intelligibilità universale delle proposizioni formulate in proposito e nella « calcolabilità » logica del loro « valore di verità ». Tuttavia il discorso non può essere
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soltanto impersonale ; anzi la « terza persona » del linguaggio proposizionale deve essere pensata anche, e in primo luogo, come personale essa stessa : come « il terzo », che non deve rimanere escluso se davvero la persona è debito ontologico. Se si fa torto al terzo non c’è diritto. Se si fa torto al terzo non c’è nemmeno il diritto di avanzare pretese di validità del proprio discorso. Pur con le migliori intenzioni – vale a dire pur perseguendo l’universalizzabilità, la pubblicità e l’illuminismo – proprio la filosofia moderna della soggettività ha di fatto operato la spersonalizzazione del discorso. La filosofia moderna ha infatti considerato il « soggetto » come punto di partenza – come subjectum, « sostanza », « fondamento » – anziché come telos e punto d’arrivo : punto d’arrivo solo asintoticamente raggiunto attraverso un processo di analogazione soggettiva che ha nella persona – nella sua complessità irriducibile di « prima », « seconda » e « terza persona » – la condizione di possibilità, il punto di partenza e di approssimazione. Il cogito non ha prossimo ; la sostantivazione e sostanzializzazione del pronome di prima persona nel pensiero moderno – l’interlocutivo e interlocutorio « io » trasformato ne « l’io » – prelude, di lontano, alla spersonalizzazione del ça parle o del die Sprache spricht. L’approssimazione – un’analogia : analogia subjecti più che analogia entis – ha luogo – e tempo – nel deponente loquor, in quella inter-locutività e interlocutorietà per cui « io » non direi e non sarei « io » – semplicemente non sarei – se non fossi già stato, alla lettera, interpellato. Solo l’appello dispiega l’intervallo, solo l’allocuzione dispiega l’interlocuzione, ossia quella scena spazio-temporale che la filosofia suole nominare con il verbo « essere ». « Io » non sarei (persona), non persònerei – se così potessi esprimermi, utilizzando l’etimo del termine « persona » per sottolinearne l’aspetto acustico e locutivo – non direi « Io », se non fossi prima stato alloquito da chi riconosco poi come persona, se non fossi già stato riconosciuto come persona da chi mi si è rivolto e, volgendomi il suo volto, analogandomi – a sua immagine e somiglianza – mi ha messo al mondo, mi ha dato l’essere come mio. Così, sono stato messo in condizione di rivolgermi a mia volta, di dispiegare ulteriormente la scena dell’interlocuzione, di dare l’essere all’altro, ovvero di metterlo al mondo e dargli l’essere, consegnandogli il mio essere, consegnandogli l’essere come suo, a mie spese, spendendomi, approssimandomi. « Io » non è la prima parola, e io non sono prima parola, bensì risposta. La persona è chiamala all’essere e ad essere con una vocazione a cui e di cui la persona risponde ; in prima persona. Questa responsività-responsabilità è la persona, l’essanza della persona (come vorrei dire, per evitare il termine « essenza », fatalmente disgiunto nella nostra tradizione filosofica dall’esistenza, e per ciò stesso termine spersonalizzante ; la storia dell’« argomento ontologico » nella filosofia moderna è significativa del tentativo di sfuggire a questo fato di separazione fra essenza ed esistenza, senza tuttavia che il tentativo giunga a recuperare la dimensione persona-le). Come è noto, alcuni significativi approcci contemporanei al problema della soggettività dopo la crisi del cogito cercano di salvare l’identità personale – che quella crisi sembra compromettere irrimediabilmente – facendo ricorso precisamente al fenomeno del « mantenere la propria parola ». Ebbene, la propria parola, la promessa nel cui mantenimento la persona si salva, non è prima parola, ma è appunto risposta, è promessa di rimando – secondo il significativo etimo latino di respondere – è corresponsione alla promessa, alla sponsio, al patto istituente. Come dice il proverbio italiano, « ogni promessa è
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debito » : da un punto di vista filosofico una tale sentenza può essere fatta valere in senso peculiare, più forte di quello che sembra essere implicato dalla sapienza banalizzata del « si dice » proverbiale. Se quest’ultimo sembra sottolineare come non mai l’originarietà dell’impegno personale, a uno sguardo filosofico questo impegno appare corresponsione alla sponsio istituente : reciprocità seconda, simmetria nell’asimmetria, stare al patto come solo modo per stare, ovvero come solo modo per essere. La persona è come debito : debito di quell’essere che le è dato con la parola impegnativa, con l’allocuzione istituente ; debito di quell’essere che è solo come debito della persona. Questo genitivo – « debito della persona » – è radicalmente e etimologicamente « genitivo equivoco » : l’essere è solo come intervallo della aequivocatio, cioè come scena dell’interlocuzione, come debito d’essere. Non è insomma possibile isolare la persona – l’« essenza » della persona – mortificandone l’essanza, ovvero semplificando il plesso di prima, seconda, terza persona. Da un punto di vista empirico, ogni persona, ogni « io », è contemporaneamente seconda e terza persona per le altre persone : seconda persona rispetto agli interlocutori presenti, e terza persona in quanto assente da determinati processi interlocutivi. Ciò suggerisce l’idea della reciprocità e della simmetria universale. In effetti ogni universalizzazione e universalizzabilità, quella del sapere scientifico così come quella della « massima » dell’azione (che, kantianamente, deve poter essere elevata a legge universale), ogni universio, dunque, è simmetria e reciprocità e rimpiazzabilità (mettersi al posto dell’altro) e fungibilità. Tuttavia sarebbe non tanto insufficiente quanto falsante considerare la complessità della persona solo in questi termini empirici. La complessità della persona allude a una diacronia radicale che non può essere ridotta all’interno di quella sincronia, o simmetria che pure consente di dirla, e soltanto nella quale può essere detta. La simmetria va corretta con l’asimmetria ; la simmetria regge, e governa, grazie a questa correzione. Ogni interlocuzione presuppone l’allocuzione, vale a dire il rivolgersi istituente, il « tu devi » anteriore ad ogni « io », anteriore a ogni prima persona e a ogni protologia, vuoi antologica, vuoi etica. La conoscenza retta dall’appercezione trascendentale presuppone la, ed è corretta dalla, riconoscenza : si riconosce l’altro come persona, come alter ego prima di conoscerlo, se ne ha riguardo prima di ogni sguardo teorico e conoscitivo. Il dovere in termini di universalità e di universalizzabilità presuppone il dovere in termini di eccezione : per dirla ancora con la sapienza banalizzata dei modi di dire, presuppone l’« eccezione che fonda la regola », o meglio – per riscoprire anche in questo caso il senso profondo nascosto nel banale, dal quale tuttavia è veicolato come da nient’altro – presuppone l’eccezione anteriore al « fondamento », anteriore alla legge come fondamento : senza che perciò il fondamento non sia, senza che perciò la legge sia deuteronomica. Anteriorità ad ogni protologia ed universio, compresenza diacronica, simmetria « corretta » dalla asimmetria, complessità interlocutiva dell’individualità : tutto questo disdire per dire, ovvero tutto questo dire disdicendo, non è mera contraddizione. Ove si considerasse la questione sotto il profilo logico, si ravviserebbero piuttosto i tratti di quella figura qualificata – e logicamente rilevante – della contraddizione che è il paradosso. Ove si considerasse la questione con occhio storico, si riconoscerebbe facilmente quella via negationis che la filosofia ha sempre di nuovo intrapreso quando ha tentato di pensare l’abisso (non il fondamento) : sempre di nuovo, perché su una via
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che smarrisce e che per definizione è inconcludente, avviarsi nuovamente rappresenta l’unico modo per ritrovarsi. Considerando, infine, la questione da un punto di vista teoretico, vi si ravvisa il retaggio problematico della fenomenologia e, più in generale, della filosofia della soggettività trascendentale, in quanto impossibilitata per principio a risolvere l’aporia dell’« intersoggettività » (come la fenomenologia l’ha chiamata, con un traghelafo significativamente tormentato, oggigiorno troppo e troppo incoscientemente utilizzato come ovvio). Da questo ultimo punto di vista, un modo particolarmente importante per esprimere il paradosso in questione è il « comandamento dell’amore » : quell’imperativo che pour cause Kant, rappresentante insigne della filosofia moderna della soggettività trascendentale, rigettava come semplicemente contraddittorio. Paradossale questo comandamento lo è senz’altro, ma non semplicemente contraddittorio. Semplicemente contraddittorio è piuttosto richiedere l’universalizzazione della massima soggettiva dell’azione mentre si privatizza assolutamente la legge morale e si rende teoreticamente impossibile il pensiero della « comunità intelligibile » : espressione questa che, in termini kantiani, dice lo stesso traghelafo di « intersoggettività » (Kant avvertì da ultimo il problema, come dimostra il tentativo di teorizzare la pubblicità della legge morale e la « comunità etica » ne La religione entro i limiti della sola ragione). In realtà il comandamento dell’amore esprime, con la forza e la debolezza del paradosso, proprio la compresenza di simmetria e asimmetria, ovvero la complessità e la diacronia della presenza, la compresenza di universalità ed eccezione nel « tu devi ». Soltanto grazie a tale com-presenza e diacronia l’universalizzazione non diviene fungibilità impersonale del soggetto. Nella chiamata personalmente istitutiva del « tu devi », l’universalizzante mettersi al posto degli altri si presenta – e si presenta per la prima volta – come mettermi al posto degli altri ; istituito dal « tu » imperativo, « io » debbo mettere me – soltanto me, e non altri – al posto degli altri. Io debbo rimpiazzare gli altri, sostituire me vicariamente agli altri : in vece loro, invece di loro. E così – ma solo di conseguenza, sebbene di una conseguenza che non può essere rappresentata in termini di temporalità volgare e di causalità empirica, ossia di una conseguenza che non può semplicemente essere rappresentata – così, di conseguenza, porto alla soggettivazione delle altre persone e dunque alla universalità e fungibilità – o trascendentalità – del soggetto conoscitivo. È in questo senso che la persona è debito ontologico. Vocazione personale, hapax legomenon, debito insostituibile di sostituirmi a tutti. Debito, dunque, letteralmente insolvibile : « non puoi dunque devi » (e questa formula non suoni irriverenza nei confronti di Kant, bensì, appunto, « correzione » del simmetrizzante ed universalizzante « devi dunque puoi », correzione della libertà come fondamento, autonomia, autosussistenza, Selbständigkeit del soggetto, anzi proprio della « persona », secondo la comprensione kantiana di questo termine, onde la « persona » è pensata appunto come « soggetto »). Debito inestinguibile proprio perché porta all’estinzione della morte nella sostituzione infinita a tutti : nel compimento del mors mea vita tua, la persona si estingue – decede – sempre prima che il debito possa essere assolto compiutamente. Debito in cui il « dovere » (questa parola così caratteristica della filosofia moderna della soggettività sostanziale e selbständig) non si distingue, né si può, né si deve distinguere dalla « supererogazione » : quasiché si potesse dare più del debito, quasiché si potesse « compiere » o « adempiere » il « proprio dovere » (completum, perfectum), anziché
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consumarsi (consummatum) nell’estinzione del debito altrui (il dovuto agli altri-dagli altri). Quasiché, insomma, la persona, il debito ontologico, fosse estinguibile ; vale a dire : quasiché la persona potesse sopravvivere dopo il saldo e magari dare graziosamente di più ; quasiché la persona potesse vivere senza decedere. Debito anteriore allo scambio e alla reciprocità : già sempre anteriore e ancor sempre residuante, irreversibile, senza ritorno, senza rientro di commercio con l’altro, senza resa. Svuotamento della vita, fino alla mortificazione di chi serve, e serve con un servizio disconosciuto perché non riconosciuto e quindi non conosciuto : non conosciuto nemmeno da chi lo « rende », perché, sebbene non vi sia conoscenza senza riconoscimento, non vale la reciproca. Il metaforismo delle espressioni utilizzate da ultimo, più che disturbare per un’eventuale parvenza retorica, dovrebbe richiamare certe vicende della fenomenologia contemporanea che ha tematizzato il dono, o meglio la questione del dono : il problema, infatti, è precisamente se il dono possa, fenomenologicamente, essere messo a tema. Che la questione sia di importanza capitale, finale, per la fenomenologia, si intende immediatamente sol che si pensi come per il discorso fenomenologico sia costitutivo il metaforismo del « darsi », del « dare » e, insomma, di tutta una famiglia semantica, dalla Selbstgegebenheit husserliana alla Gabe heideggeriana e oltre (se mai vi fosse bisogno di convincersi del carattere – come prima lo chiamavo – realistico e referenziale della metafora, basterebbe pensare appunto al « dato »). Gli episodi più recenti di queste vicende hanno evidenziato le aporie della nozione di dono, utilizzandole per criticare la metafisica come metafisica della presenza. In questo quadro è anche stato operato, con grande intelligenza, il tentativo di volgere la sconfitta teoretica della nozione di dono in vittoria e in indicazione a favore di una « fenomenologia dell’invisibile ». A me pare tuttavia che, ferma rimanendo la messa in questione della metafisica della presenza, sia piuttosto il caso di accettare la sconfitta come tale e di riconoscere l’indisgiungibilità della nozione di dono da quel tipo di metafisica. Al dono si può pensare invece a partire da una radicalizzazione della nozione di debito, radicalizzazione grazie alla quale il debito è pensato né più né meno che come debito ontologico. Non dico – si badi – che il dono si può pensare, bensì – evitando espressioni tematizzanti – che al dono si può pensare a partire da questa nozione radicalizzata e spinta al limite. Ma si tratta di limite invalicabile, sicché la stessa espressione « a partire » non può e non deve essere pensata positivamente, ovvero rappresentativamente. Qui – giunti a questo limite – si tratta piuttosto della crisi del tematico e del rappresentativo. L’unica possibilità di manifestazione – di rappresentazione, di evidenza – della crisi del rappresentativo è il paradosso : il paradosso infatti è limite non perché consenta di rappresentarsi contemporaneamente l’oltre di ciò che è delimitato, bensì perché « rappresenta » un non plus ultra, vale a dire non perché « fondi » (metaforismo – questo della fondazione – tipicamente rappresentativo) bensì perché pone in crisi ciò che limita e configura delimitando. Ed è questo quanto « manifesta » il pensiero del debito ontologico, in cui, come abbiamo visto, convergono e coincidono tutta una serie di opposti : scambio-irreciprocabilità, estinzione-inestinguibilità, sostituzione-insostituibilità, simmetria-asimmetria, essere-dover essere. Questa ultima diade – essere-dover essere – riprendendo il lessico caratteristico della filosofia moderna e della sua intima scissione (la « legge di Hume ») fa risaltare ancora una volta come la comprensione della persona come debito ontologico non sia quella
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della metafisica della soggettività (esposta alla – o travolta dalla – messa in questione dell’« umanesimo ») : « debito ontologico » non dice (semplicemente) « dover essere » ; « debito » non dice (semplicemente) « dovere ». Ovviamente la semantica di una lingua naturale – in questo caso dell’italiano – non coincide verbatim con quella di altre lingue naturali. Ciò pone problemi di traduzione (e il problema filosofico della traduzione) : « debito » non coincide con dette, con Schuld, ecc. Ma proprio l’attenzione a questa condizione di fatto consente di individuare meglio ed esplicitare essenziali tratti concettuali veicolati dalla semantica di una determinata lingua naturale. L’italiano « debito » non è « dovere » : come participio passato, il termine esprime bene il fatto che il « debito » è sempre già contratto. Esso infatti è contratto con l’essere stesso della persona ; e poiché la persona non è considerabile solipsisticamente, essendo « complicata », essendo solo in quanto è in interlocuzione, ciò vale a dire che il debito è contratto con l’essere stesso, con il dispiegamento stesso della scena dell’interlocuzione. L’essere è debito ontologico ; l’essere è personale come il debito perché « è » solo nell’essanza della persona. Il dispiegamento della scena interlocutiva, non essendo semplice presenza, non è semplicemente rappresentabile come un intervallo spaziale fra enti osservati dall’esterno ; l’intervallo è temporale altrettanto che spaziale e non può essere sincronizzato da nessuna sinossi o rappresentazione ; il dispiegamento della scena non è senza la complicazione della presenza in quanto compresenza, ossia senza la complicazione personale (se si vuole, ipostatica) del « tu » antecedente, del « me » presente – presente all’appello, ovverossia reso presente, reso « io » dall’appello – e del terzo incluso : non semplicemente assente, ma sempre compresente, presente in quella modalità della presenza che è l’assenza. Nel dire che il debito è « sempre già » contratto risuona un familiare avverbio temporale del lessico trascendentale. Ma si tratta di un avverbio paradossale ; la familiarità ottunde il paradosso, estenuandone la temporalità e facendolo riposare sul « sempre » quale « fondamento », ovvero quale subjectum. Al di là della filosofia del soggetto e della fondatività, si tratta invece di far risuonare nel « sempre già » la diacronia non sincronizzabile, facendo cadere l’accento, semmai, sul « già » più che sul « sempre ». Questo non significa ridurre il trascendentale al dato, bensì ricondurlo al debito.
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COMMENT ON J. HINTIKKA, CONTEMPORARY PHILOSOPHY AND THE PROBLEM OF TRUTH*
P
rofessor Hintikka presented us with a paper in which some distinct results of his recent research link up organically with each other in a wide-ranging outlook regarding the issue of our ‘Entretiens’. Thus in my comment I am going to consider and reconstruct the overall systematic structure of the paper and to particularly stress the theoretical connections among the novelties it illustrates, although it could also be possible in principle to discuss each of them in itself. The paper announces a remarkable change in contemporary philosophy. Such change should be remarkable because of various reasons, among which I mention three main ones. First of all, the paper gives a novel outline of the map of twentieth century philosophy, suggesting a more important distinction than the customary one between analytical and hermeneutical tradition, a different understanding of this customary distinction and some precise forecast with regard to its near future. Second, to the surprise of those sharing a most diffused Tarskian and also common sense conception, the paper announces the possibility of defining (semantical) truth without having recourse to a metalanguage, i.e. the possibility of defining in one’s own working language « truth, the whole truth and nothing but the truth », as metaphorically, but very precisely from a technical point of view, the title of a recent work by Professor Hintikka referred to in the footnotes of the paper sounds. 1 Third, the paper announces a new logic, arguing that such logic is more elementary and more basic than the first-order one. As I already stated, these three main novelties are conceptually distinct from one another, but also linking up because of various reasons. The order according to which I listed them corresponds somewhat to the expounding order followed by Professor Hintikka ; the connection linking the three novelties can to a large extent be regarded as a causal one, going back from the predictable effect (i.e. the change in the contemporary philosophical scene) to its cause (i.e. the complete truth definition without metalinguistical recourse), which in turn is the consequence rendered possible by the original novelty (i.e. the finding out of IF logic as the true elementary logic and as logic being most close to our natural language). Of course there are many other strictly related aspects in the paper, and they are very interesting from a theoretical point of view (e.g. some hints on compositionality and on game theoretical semantics) as well as from a historical one (e.g. the new appraisal of some aspects of Tarski’s and Gödel’s thinking). But here I shall limit myself to the three main novelties I listed above, or better to some few aspects of them.
* S. Knuuttila e I. Niiniluoto (a cura di), Methods of Philosophy and the History of Philosophy, Helsinki, Philosophical Society of Finland, 1996, pp. 388-394. 1 J. Hintikka, Defining Truth, the Whole Truth and Nothing but the Truth, Reports from the Department of Philosophy, University of Helsinki, n. 2. 1991.
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As it is clear, the structure of the paper fits perfectly the issue of our ‘Entretiens’ on Methods in philosophy and the history of philosophy ; actually it is on the consequences of the above mentioned novelties on the problem of history of philosophy and on the actual history of contemporary philosophy as divided into analytical and hermeneutical (or Continental) that I am going to conclude my comment and to present some criticism or at least to put some questions. But before that I wish to say at least some words on the two other aspects of the three mentioned at the beginning, i.e. IF logic and truth definition. IF logic. i) The notational aspect of IF logic suggested by Professor Hintikka is important not only for the logical and metalogical results it allows, but even before, as it were, for it makes easier detecting the tacit and unjustified presuppositions of the ordinary notation. Although the paper necessarily keeps short on this, it is not difficult to understand how a slash notation allows to do justice to important independence relations between quantifiers that by means of the ordinary notation simply could not be noted. ii) If the standard look of the notational aspect did not scandalize, this relied on the tacit and arbitrary presupposition that the scopes of two different quantifiers are always ordered, namely that the scope of one quantifier is included in the scope of its other or else that they are exclusive. This is the logically substantial aspect of the question, which amounts to the ruling out of every only partial overlapping of the scopes of two quantifiers. If the responsibility for such state of affairs is to be ascribed mainly to Frege, as Professor Hintikka asserts, might be issue for historical investigation. But, so far I can see, IF logic (proposed by the one who many years ago invented the technique of the distributive normal forms) represents – negatively – the liberation from an arbitrary restriction and – positively – a significant step forward. But such liberation and such step forward do not possess only a logical aspect, but also a metalogical one, which ties the novelty of IF logic with the second novelty, the one concerning the possibility of truth definition. Defining truth. In the case of this metalogical aspect the liberation should be from the Tarskian concept of semantical truth and, more generally, from the very diffused belief that a theory of truth for one’s own working language can be only formulated in a stronger metalanguage. One might wonder why I am speaking also in this case of liberation. There are at least two distinct and linked reasons for talking in this way. The first one is that IF logic makes it possible to define truth in the same language the definition applies to, without being compelled to have recourse to a stronger semantics. The second one is that the truth definition would not concern in a restrictive way only formal languages – the formalisierten Sprachen of Tarski’s famous title 1 – but could approximate our natural language. By passing, we could notice that all this should dissolve the temptation of supporting antirealism by the results of formal semantics. It should also reduce the significance of the coherence theory of truth ; in fact there should be no need to search for the truth conditions of a sentence in its coherence with others if one can say in his or her own language when it is true.
1 A. Tarski, Der Wahrheitsbegriff in den formalisierten Sprachen (1993), in : K. Berka, L. Kreiser (edd.), Logik-Texte, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1983.
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By the way, it might also be useful to notice that all this does not involve a theory of reference ; rather, as Professor Hintikka lets us catch a glimpse of, IF logic conjugates itself with game-theoretical semantics, which works from outside in and refuses compositionality, i.e. context independence, codifying the ways we actually verify and falsify sentences and using the usual System of references of the given IF language, without theorizing or mentioning them. But let us come back to the two connected aspects of liberation we mentioned above, namely the possibility of defining truth in an informative way in one’s own language (informativity of truth has been Professor Hintikka’s care ever since) and the closeness of IF logic to our natural language. In front of these two aspects one could say – with an expression very usual in Italian – « too beautiful for it to be true ». Actually, the spectre that both aspects evoke is that of the liar’s paradox. But I would like to recall that in the above mentioned essay on Defining truth, the whole truth and nothing but the truth Professor Hintikka confronted explicitly the question and resolved it, as it seems to me, convincingly, by drawing attention on negation and on the failure of the law of excluded middle in IF logic, and by defining truth in an IF second-order language, then reflexivizing it back into a first-order one. Nevertheless, since Professor Hintikka did not intend to illustrate here these aspects, I shall respect this choice, which is manifestly dictated by the fact that in this session the aspect coming in the foreground is that of the relation between Methods in philosophy and the history of philosophy, as the title of our conference sounds, with a conjunction echoed also by the title of Professor Hintikka’s paper (Contemporary philosophy and the problem of truth). This is the aspect I would like now to turn to, scrutinizing briefly the third novelty presented by the paper, i.e. the new aspect twentieth century philosophy shows up if related to the solution of some methodological problems. Contemporary philosophy. It seems to me that this aspect is the one to which the paper intended to mainly devote its attention. This is certainly true from a quantitative point of view, if one only compares the number of pages and of remarks devoted to twentieth century philosophy with those devoted to truth definition and to IF logic. As I already remarked, it is by the problem of the contemporary philosophical scene, of its twentieth century past and of its predictable future that the paper starts : only afterwards, at about its middle, it begins to consider the problem of truth (as « special case » of, but also as « deep reason » for the universalist assumption : Professor Hintikka states both, see p. 29 and 28) and only at its end the paper introduces IF logic. There are reasons for such expounding order and such proportioning of the remarks ; not only they correspond in the best way to the issue of the conference, but it seems to me that they also correspond to the real concern Professor Hintikka wants to state here, i.e. the possibility and in some sense the necessity of considering the contemporary philosophical scene in terms differing from, and more important than the widespread distinction between analytical and hermeneutical or, as it is usual to say, Continental philosophy. Sometimes Continental philosophy is also named phenomenological philosophy, but the question is far to be settled, since many analytical philosophers want to rescue Husserlian phenomenology and to put it in some theoretical and/or historical connection with their philosophical interests. Already such terminological and conceptual oscillations show that the customary distinction, although historically and sociologically justified, is nevertheless very vague and elusive.
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Professor Hintikka’s proposal – which he took up in the present paper too and which inspired also the book by Kusch he referred to here 1 – is to take in account rather than the customary distinction, a conceptually much more precise and theoretically much more significant partition, i.e. the one between effability and ineffability thesis concerning semantics or, in other words, between an understanding of language as calculus and a universalistic understanding of language. It must be acknowledged that this partition has really surprising effects as the landscape it lets appear to those who observe the twentieth century philosophical scene from its vantage point. To me at least it has been rather surprising to see Heidegger and Russell on the same side. It is not quite unusual to put together Heidegger and Wittgenstein, but I must confess that seeing Russell and Heidegger associated shocked me, and I suspect that it would have been shocking also for both of them ; but it cannot be denied that the argument performing this strange couple is quite convincing. Actually the partition between universalists and, say, calculators is suitable for mapping out the contemporary philosophical scene. It is not a repetition, or merely a repetition of the contrast between « critique », in the Kantian sense, and « metacritique », in the universalistic-linguistical sense in which Hamann and Herder used this term criticizing the Kantian proposal. Indeed, if an interpretation of the « transcendental logic » of the Critique of pure reason in semantical terms is not impossible (nowadays we have examples of it), 2 the Kantian self-understanding of the critique is still on this side of the linguistic turn and of that association of truth and meaning that Professor Hintikka fulfils for his part (as well as – one could add – he criticized elsewhere the Kantian privilege of perception, i.e. the privilege deriving to perception from assuming it not to be intentional and not to express itself in an intentional attitude). Thus the distinction language as universal medium vs. language as calculus proves to be a key fitting the novelty characterizing contemporary philosophy with respect to ‘modern’ philosophy (as it is called by handbooks of history of philosophy), namely the encompassing role of the problem of language. Nonetheless, Professor Hintikka’s outlook shares a fundamental character with ‘modern’ philosophy, standing definitely on its same ground : reliance on method. Under this respect Professor Hintikka takes up the very same inspiration and aspiration of Bacon, Galilei, Descartes and whatever Discours de la méthode else, namely the idea that a fit methodological blow may radically modify the philosophical scene, rendering it historical, but in a very precise sense of this word, i.e. in the sense of assigning to the past errors and prejudices swept away by method. Ironically enough, but in a very telling way, Professor Hintikka speaks insistingly in his paper of hermeneutical « method » and « methodology », even when he states that his truth-definability result « means a most severe blow to the entire hermeneutical methodology » (p. 37). The proposal of assigning error and prejudice to the past and of closing them is by no means a pretension, but a rational claim, absolutely essential to, and constitutive for the methodological standpoint ; but this is precisely the sense in which hermeneutics and methodology are inversely proportional.
1
M. Kusch, Language as Calculus vs. Language as Universal Medium. A Study in Husserl, Heidegger and Gadamer, Dordrecht – Boston – London, Kluwer, 1989. 2 See particularly W. Hogrebe, Kant und das Problem einer transzendentalen Semantik, Freiburg i.B., Alber, 1974.
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To me it would make some difficulty to speak of method with regard to hermeneutical philosophy. I understand that it is not without any reason that someone (among whom Kusch himself ) argued that the binomial « truth and method » such as used by Gadamer cannot be understood only in a disjunctive sense (which anyway is the prevailing one) ; I understand that « deconstruction » (at least in the first works by Derrida, those more concerned with Husserl) keeps some methodological reminiscences and that in a sense it is negatively methodical, namely in the sense that deconstruction understands itself as parasitic with respect to methodically built views (by the way, this is why it cannot understand itself as being able to reconstruct). Nevertheless speaking of « hermeneutical method », the more with regard to Heidegger, referred to as exemplary representative of the hermeneutical way of philosophizing, seems to me very much... interpretive indeed. I have some difficulty in really making sense of repeated statements such as « This refutation of the hermeneutical methodology does not affect [...] specific views of hermeneutical philosophers, in so far as they are not tied to their methodology » (p. 37). On the contrary, I perfectly understand what immediately follows this statement, and I understand it to be of utmost importance : « my result to all practical purposes puts an end to all claims of universalists of doing justice to the logic of our actual language. Conversely, the definability of truth in IF first-order languages is in effect a proof that the ineffability thesis is wrong and that one can in fact discuss the semantics of a language in that language itself » (p. 37). Not only I understand this, but, so far I can see, it is right. One could say that this is what really matters and that in consideration of this we could let aside the interpretational question of there being or not a methodology for that kind of philosophy we refer to globally when speaking of « hermeneutical philosophy ». But from the vantage point of such philosophy also saying this would look as an overevaluation of method and of the problem of method. Actually it would amount to saying that since the concept of truth of this philosophy was attained through a way (« method », in the strict etymological sense of this word) which afterwards turned out to be wrong, the result too must be rejected. The distinction, first, and then the connection of way and goal is definitely the methodological ideal. It is not even always the case that the universalistic assumption be at the origin of hermeneutical philosophers’ understanding of truth ; such is to a great extent the case for Heidegger’s disclosedness, but it is already dubious that it is the case for the aesthetical experience of truth as described by Gadamer in the first and often overlooked part of his Truth and Method. But even if it were always the case that the universalistic assumption is at the origin of the hermeneutical understanding of truth, once such understanding or concept of truth is attained it stays by itself and/or may determine on its turn a different understanding of language. Professor Hintikka himself admits at a certain point of his paper that « sometimes [Heidegger] includes within language much more than I [i.e. Hintikka] am doing here » (p. 31). Much more could be said in this sense with regard to Gadamer, Levinas and others. But it seems to me that Professor Hintikka is perfectly right in estimating the significance of his results with respect to universalism in so far as it is considered on the side of the analytical tradition. The main reason for this is that this tradition does not include within language more than the semantics whose effability Professor Hintikka proved by showing the definability of truth.
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Of course it might well be that his result is going to bave consequences also on the side of hermeneutical or Continental philosophy. Such consequences may take place in so far as this kind of philosophy attains its understanding of truth as a result of a universalistic linguistical assumption (and not the other way around). They might take place even beside this measure, since consequences in philosophical traditions are a question of sociology of philosophy not less than of arguments. But to be sure what Professor Hintikka’s result does render or should render from now on impossible is appealing to Gödel (and/or Tarski, as he rightly pointed out) in order to justify a hermeneutical way of philosophizing. Hermeneutical philosophy is immune by its very nature to any assumption of semantical context independence, namely to one of the main assumption on which relies the analytical claim for the ineffability of semantics. On the contrary, not only Derrida, as recalled by Professor Hintikka, but a plenty of philosophers in the hermeneutical tradition appeal with more or less technical precision to Gödel for supporting or exhornating their views. It is absolutely right to remind all of them that, as Professor Hintikka forcefully stated, « who lives by Tarski’s and Gödel’s results dies by them » (p. 38).
ANALOGIE DU SUJET, UNIVERSALITÉ DES DROITS, EXCEPTIONNALITÉ DU DEVOIR* 1
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’énonce tout de suite la thèse que je voudrais développer : ce qui rend compatibles la pluralité des cultures et l’universalité des droits est l’exceptionnalité du devoir. L’expression ‘exceptionnalité du devoir’ ne peut pas être comprise ici dans un sens de langage ordinaire. Surtout elle ne doit pas être comprise en un sens prométhéen ou romantique. Par ‘exceptionnalité du devoir’ on voudrait dire plutôt que le devoir concerne un sujet seulement, ou mieux qu’il concerne moi et moi seulement : il ‘me’ concerne, en ‘première personne’ ; en première personne, bien sûr, mais, pour ainsi dire, a l’accusatif. En effet le devoir n’est pas ce que le ‘je’ – à la Fichte – pose et se propose afin de se réaliser, mais ce qui ‘me’ crée, ce qui m’institue dans mon identité personnelle en s’adressant a moi par le ‘tu dois’ et en m’instituant par là dans l’être : en m’instituant comme réponse et responsabilité par rapport à la vocation instituante, à l’appel sur la scène de l’être, au vocatif ‘tu’. Vocatif tellement asymétrique qu’il est instituant, vocatif faisant être ce qu’il appelle à être, en le faisant être comme ‘obéissance’ (à la lettre, au sens étymologique de ob-audire) ; vocatif instituant comme sujet en tant qu’‘assu-jéti’, en tant qu’appelé a la subjectivité par le ‘tu’ adressé. Cette adressé n’est pas archaïque, voire protologique ; elle [est] antérieure à toute protologie car elle déploie la scène de l’être, par rapport à laquelle pareille adresse est toujours déjà passée. Je me rends compte que le terme ‘exceptionnalité’ est un peu rhétorique et par là susceptible d’être interprété émotivement, avec des réactions psychologiques – de gêne, d’édification, etc. – allant au désavantage de la rigueur logico-métaphysique – en réalité ana-logique – qui le suggère. En outre, comme je le disais, le terme ‘exceptionnalité’ peut être mésentendu en un sens de langage ordinaire, comme exception a la règle (et ce n’est absolument pas cela ce que je veux dire), ou comme exception qui – d’après un proverbe italien – confirmerait la règle. En un certain sens on pourrait dire qu’il s’agit d’une exception fondant la règle ; mais le métaphorisme de la ‘fondation’ est lui-même impropre, puisqu’il est très protologique, ontologique, voire onto-théologique. On pourrait peut-être parler de ‘singularité’ du devoir ; mais ce terme entraînerait immédiatement, par contraste, la pensée d’un pluriel d’une pluralisation, d’une pluralité. Par l’expression plus ou moins satisfaisante d’‘exceptionnalité du devoir’ j’entends, par contre, un appel n’étant d’aucune façon itérable ou multipliable. On objectera qu’il y a maints ‘tu dois’, c’est-à-dire maints sujets auxquels s’adresse le ‘tu dois’. Sic et non. La suspension représentée par une réplique pareille – sic et non, oui et non –requiert quelque réflexion. Après tout elle ne dépend pas tellement du fait que –comme on le pourrait facilement et même justement dire – les sujets ne sont pas ‘là’, dans l’être, de sorte que après on leur adresse, plus ou moins accessoirement et successivement, un vocatif, car – pourrait-on continuer – ils sont institués pour la première fois justement par cette allocution impérative. A pareille juste réplique on pourrait en effet objecter a
* «Acta Institutionis Philosophiae et Aestheticae», vol. 14, Tokyo, Centre International pour l’Etude Comparée de Philosophie et d’Esthétique, 1996, pp. 147-153.
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nouveau qu’il y a plusieurs vocations et donc plusieurs sujets : justement plusieurs ‘tu dois’. C’est ici par contre qu’il me paraît qu’il faille dire ‘oui et non’. Si l’on perd de vue que le ‘non’ (exceptionnalité du devoir) s’associe d’une façon non contradictoire avec le ‘oui’ (pluralité des sujets), les intentions théoriques les meilleures risquent la faillite. C’est ce qui arrive tant que le principe de l’universalisabilité de la maxime de l’action (au sens kantien) reste confiné dans le domaine privé et imperscrutable de la conscience subjective, en rendant fìctive et purement rhétorique la formule ‘tu dois’ avec son caractère essentiellement linguistique et allocutif. En effet Kant lui-même sentait l’exigence de donner caractère publique a une morale dans laquelle l’universalité est, assez paradoxalement, directement reliée à la privatitude et à l’incommunicabilité du sujet : cela peut être montré en rappelant la tardive et bouleversante élaboration kantienne d’une théorie de la ‘communauté éthique’. D’après cette théorie – proposée, comme on le sait, dans l’œuvre La religion à l’intérieur des limites de la simple raison – la loi morale doit devenir principe d’agrégation publique, ‘drapeau’ – comme Kant le dit – donc insigne visible et publique autour de laquelle se réunit la république morale. Il serait aussi intéressant de remarquer que, à la différance de la ‘communauté politique’ (avec laquelle Kant institue un parallèle), la ‘communauté éthique’ ne peut pas avoir un législateur dans l’homme lui-même, mais exige comme législateur ‘un autre’, cet autre (que Kant appelle aussi ‘Dieu’) étant le seul pouvant donner caractère publique à une lois morale qui autrement serait absolument et irrémédiablement privée. Mais nous ne pouvons pas ici examiner en détail ces aspects de la publicité de la loi morale chez Kant, aspects qui, entre autre, seraient à même de restituer au ‘tu dois’ tout son caractère vraiment allocutif. Qu’il suffise d’avoir illustré les deux aspects du ‘oui et non’ par rapport à la pluralité des sujets : la souhaitable, voire exigeable universalisation par symétrie ne peut pas avoir lieu au prix de ce que j’appellerais l’univocation du sujet, c’est-à-dire au prix de la réduction à pure métaphore de la voix et du caractère allocutif du ‘tu dois’. Afin d’éviter le rapport paradoxal de proportionnalité directe entre universalité et privatisation il faut s’évader du cercle égologique tel qu’il a été tracé par la philosophie moderne de la subjectivité (subjectivité univoque, à une seule voix, voire aphone), il faut relativiser et relationner l’activité du cogito en faisant les comptes avec la déponance du loquor, avec le caractère publique de l’allocution et l’analogia subjecti que l’allocution mobilise. Mais il y a encore un aspect du ‘oui et non’ qui mérite d’être illustré par rapport à Kant. Comme on le sait une autre formulation symétrisante de l’impératif catégorique, outre à celle demandant d’universaliser la maxime (sans pourtant fournir les moyens pour sortir d’une privatitude indépassable) est celle exigeant de considérer l’‘humanité’, en ‘soi-même’ autant que ‘dans les autres’, toujours comme fin et jamais comme moyen. Pareille formulation, exigeant l’assimilation, dans la symétrie, de l’identité du soi et de l’altérité de l’autre, utilise donc, afin de jeter un pont entre ces deux opposés, le concept d’‘humanité’. Il ne s’agit pas du tout d’un concept aisé et autoévident ; en tout cas ce concept ne peut absolument pas être défini, soit en général soit par rapport à Kant, d’une manière naturaliste, c’est-à-dire comme appartenance à une espèce animale faite de telle et telle façon. Mais il s’agit surtout – et heureusement – d’un concept qui n’est pas du tout univoque, mais plutôt ‘approximatif ’. Le concept d’humanité est un concept approximatif en premier lieu parce qu’il ap
analogie du sujet, universalité des droits, exceptionnalité du devoir 257 proche l’‘autre’, le rend prochain grâce au respect dont il considère digne son altérité. En outre le concept d’humanité est un concept approximatif parce qu’il approche au ‘règne des fins’ : mais enfin ce concept est approximatif aussi dans le sens ordinaire du terme ‘approximatif ’ : c’est-à-dire qu’il n’est pas précis et exhaustif, il n’épuise pas – en général et chez Kant – le règne de la finalité libre, le règne de la finalité qui, en tant qu’elle est libre, est fin a soi-même. Il est vrai que, d’après Kant, parmi les êtres pensables comme êtres rationnels et libres, et donc parmi les êtres pensables comme constituant des fins en soi, nous connaissons, en réalité, seulement les êtres humains. Mais cet exclusif ‘connaître’ n’exclut pas cependant qu’on puisse ‘penser’ des autres êtres capables d’agir selon une causalité finale et de se causer librement dans la poursuite de la fin. Cela amène à deux conséquences – reliées entre elles – qui sont assez ironiques par rapport au subjectivisme ‘univoque’ de la philosophie moderne. D’un côté nous nous trouvons face à une sorte d’inversion du rapport entre devoir et pouvoir : si pour Kant le ‘tu dois’ est ratio cognoscendi du ‘tu peux’, dans ce cas le fait de pouvoir penser d’autres êtres rationnels oblige moralement à les inclure dans la considération concernant l’universalisabilité de la maxime. D’autre côté nous nous trouvons face à la reproposition d’une circularité qui rappelle très de près celle de l’‘argument ontologique’ (comme Kant l’avait baptisé, en mettant en question la validité cognitive de ce que déjà Kant lui-même appelait ‘onto-théologie’) et le rapport que dans cet argument on a cru reconnaître entre essence et existence : but final, fin en soi, est en effet seulement le point de départ, c’est-à-dire ce qui se détermine librement, selon la fin. Comment un étant pareil se pluralise, ou mieux puisse se pluraliser, est un mystère auquel l’univocation du sujet de la philosophie moderne peut répondre autant peu que l’univocation de l’être dans le concept onto-théologique de causa sui. ‘Humanité’ est donc, dans la formulation de l’impératif catégorique, un terme approximatif et non-exhaustif en tant que synecdoque d’‘être rationnel’. A part le corps, l’être humain est un être rationnel, et c’est justement ça qui le rend objet de respect et sujet de devoir. Cependant c’est justement le corps, le phénomène, qui nous permet de ‘connaître’ l’humanité, à la différence de tous les autres êtres rationnels que, selon Kant, nous pouvons seulement ‘penser’. De sorte que l’‘humanité’ est encore plus qu’un concept approximatif un concept analogique, nous permettant de remonter rationnellement (ana-logon) à ce que nous pouvons et devons penser, même si nous ne pouvons pas le connaître. L’humanité donne corps, image, figure à ce que nous ne pouvons pas connaître et devons penser. Évidemment, le « schématisme de l’analogie » ne doit d’aucune manière être confus avec le « schématisme de la détermination objective ». Kant rappelle cela dans une longue note de la Religion où il met en garde par rapport au danger de l’anthropomorphisme relié a la nécessaire représentation humaine du « Fils de Dieu » : image a laquelle, compte tenu de la faiblesse de la raison humaine, aussi la Bible « s’abaisse », puisque autrement nous ne pourrions nous faire aucune idée de comment « un être qui se suffit totalement » (encore et toujours la causa sui !) puisse se soumettre aux douleurs les plus grandes pour le bien d’autres êtres, d’autant plus que ces derniers sont indignes et coupables. Mais qu’est-ce qui est l’image de quoi ? En réalité ‘humanité’ est un concept analogique aussi par rapport à l’humanité ellemême. Si nous ‘connaissons’ et nous ne ‘pensons’ pas simplement l’humanité, cela se
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doit au corps qui la phénoménise et la rend objet d’expérience pour nous : exactement ce corps que selon Kant doit être mis de côté lorsqu’on cherche l’élément commun entre l’être humain réel et les autre êtres rationnels possibles, ce corps qui, en étant phénomène et en apparaissant sensiblement, représente pour Kant le siège de toutes les inclinations sensibles et méchaniques qui contrastent l’autodétermination libre et l’autofinalisalion rationnelle (en posant curieusement par là le phénomène sur le même plan du noumène). La subjectivité d’autrui on la reconnaît du corps et on ne la connaît pas. Le fait que notre prochain se présente à nous en chair et en os nous permet seulement de connaître l’appartenance de celle chair, ou des os qui restent, à un certain genre animal – même si ceci était homo sapientissimus – mais elle ne nous permet pas de remonter à sa subjectivité, puisque cette remontée est seulement ana-logon. Dans pareille analogie, dans pareille remontée rationnelle, la médiation de la chair joue même, pour ainsi dire, deux fois (comme après tout c’est juste qu’il arrive dans la véritable analogie). En effet la remontée du corps à la subjectivité d’autrui implique – comme nous l’avons appris de Husserl et comme la phénoménologie ne cesse d’approfondir, en mettant en crise soi-même et toute notion simple de ‘phénomène’ – la analogische Paarung du corps propre avec celui d’autrui ; et ceci est un premier niveau du jeu de l’analogie. D’autre part –deuxième niveau – la Paarung a lieu elle-même nonobstant le fait que le corps propre apparaisse non pas différant, mais de manière tout a fait différante de celui d’autrui. La subjectivité d’autrui, donc, on la reconnaît sans la connaître. On la connaît sans l’avoir d’abord connue. Elle doit être reconnue sans la connaitre. Seulement en la reconnaissant on la connaît (par analogie). Naturellement affirmer cela signifie passer du principe du cogito a celui du loquor, du sujet uni-voque à l’analogie subjective et à la communication entre parlants, et entre parlants plusieurs langues, appartenant donc a plusieurs cultures ; il signifie passer a la communion-condivision de la chair, c’est-à-dire passer de l’autosuffisance de la causa sui a l’insuffisance-don de la génération. Risu incipit cognoscere matrem. L’analogie qui joue dans la reconnaissance avant la connaissance, dans le devoir avant l’être (antériorité de l’éthique a toute protologie ontologique qui cependant lui donne forme et corps et chair) cette analogie est analogie dans les sens les plus institutionnalisés et scholasticisés de la tradition philosophique ; et cela me paraît en principe très important pour notre problématique éco-éthique. Elle est d’abord analogie dans le sens inférentiel de la tradition empiriste (je vois un être humain et j’en infère la subjectivité ; mais aussi j’entends le miaulement d’un chat et j’en infère la souffrance). Elle est en outre analogie dans le sens attributif (à l’animal j’attribue normalement moins de ‘subjectivité’ et moins de ‘valeur’ qu’à l’être humain ; et probablement, en étant ‘rationnel’, j’attribuerais à des êtres ‘spirituels’, ‘angéliques’ etc. plus de subjectivité et de valeur dans ce climax onto-axiologique que, par contre, selon la tradition chrétienne, la ‘folie de la Croix’ ne se serait pas souciée de respecter). Elle est enfin analogie dans le sens proportionnel (au moment où l’on interrompe la continuité du climax ontologique et on pense à une antériorité par rapport a la protologie). De l’analogation subjective jaillit aussi la reconnaissance des droits et leur universalisation selon une ‘règle d’or (positive ou négative, ordonnant un facere ou un non facere) qui semble symétriser les ‘autres’ et le destinataire du ‘tu dois’. En effet, l’universalité des droits est le fruit d’une assimilation des autres entre eux a
analogie du sujet, universalité des droits, exceptionnalité du devoir 259 partir de moi : de cette manière sont assimilés le blanc et le noir, l’homme et la femme, le citoyen et le barbare, l’exemplaire plus proche de la norme spécifique de l’espèce humaine et celui plus loin de la norme, ‘anormal’, etc. etc. (pour mentionner seulement des cas concernant le genre humain, pour lequel vaut la symétrie et l’universalisation par le biais de la symétrisation). Cette universalité des droits jaillit donc de l’égalisation ou assimilation des autres (sujets) comme êtres capables d’autodétermination à l’instar de moi-même : capables réellement ou potentiellement (où toutefois la potentialité se définit par rapport a l’appartenance à l’espèce, pouvant être tout à fait exclue dans le cas de l’individu particulier). Les autres sont ainsi assimilés comme sujets de devoirs (propres) correspondant aux droits (d’autrui), ou bien – de manière justement symétrique – comme sujets de droits (propres) correspondant aux devoirs (d’autrui). Mais cette symétrie universalisante ou universalisation par symétrie est le point d’arrivée d’un processus d’analogation à l’origine duquel se trouve l’exceptionnalité institutive et inassimilable du ‘tu dois’ adressé à moi. La réciprocité et la symétrie des droits et des devoirs concerne tous les sujets analogués et, par là, subjectivés, ‘assujétis’, mais non pas, originairement, moi, institué par l’impératif ‘tu dois’. Ici il y a une dissymétrie absolue : moi, je suis devoir, les autres ont tous les droits. Les autres sont des ‘fins en soi’ parce que moi je suis ‘devoir en moi’ ou ‘moyen en moi’ pour la satisfaction de la finalité d’autrui : bien entendu non pas pour la satisfaction des fins des autres, mais des autres comme fins. Ces affirmations s’exposent – comme je le disait déjà au début – a un malentendu en sens édifiant, qui pourrait déterminer l’acceptation ou le refus en termes acritiques, indépendamment du crible critique des argumentations qui les rendent valides. En dernière analyse, le malentendu serait celui d’estimer que l’affirmation ‘moi je suis moyen en moi’, de par son contenu et, encore plus, sa formulation en première personne ait une signification surtout émotive, fruit d’un état psychique analysable peut-être en termes de psychologie analytique mais non pas responsablement soutenable et partant irresponsable au moment même où l’on théorise rhétoriquement l’institution du sujet, voire de ‘moi’, comme responsabilité. En effet la science – celle que l’époque moderne a entendu et pratiqué comme science – se formule dans le langage ‘en troisième personne’, puisque – comme les philosophes analyticiens nous ont appris – la ‘première personne’ rend le contexte ‘opaque’ et par là rend les propositions formulées dans ce langage non susceptibles d’analyse ‘vraifonctionnelle’. En effet la science – la science moderne du langage univoque et du sujet aphone, à savoir substituable, soit dans l’expérimentation, soit dans la catégorisation – en effet, donc, la science n’utilise même pas la ‘deuxième personne’, qui non seulement est interlocutive et interlocutoire, c’est-à-dire context-dependent, mais ne jouit même pas du présumé ‘accès privilégié’ à ses propres ‘attitudes propositionnelles’ et à ses propres ‘états mentaux’. En effet la science s’exprime à l’indicatif et peut peut-être oser d’utiliser d’autres modes verbaux, mais non pas assurément l’impératif (qui en effet possède seulement la ‘deuxième personne’ ; je ne répète pas ici ce que j’ai déjà eu l’occasion de dire aux Taniguchi-Symposia il y a quelque année à propos d’un certain relativisme linguistique, de la nécessité duquel je suis non seulement tout à fait conscient, mais à l’éclaircissement duquel mon discours sur l’universalité des droits et l’exceptionnalité du devoir voudrait justement, a sa manière, contribuer). En effet la science s’entend comme science exactement parce qu’elle a cessé de dire ‘Sésame ouvre-toi !’. En effet la science ne connaît pas de passage entre ‘être’ et ‘devoir-être’, d’ailleurs exprimés
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pudiquement, dans pareille défense de passage, a l’infini impersonnel (dans certaines des langues naturelles dans lesquelles a parlé la science moderne) ou a la ‘troisième personne’ (comme dans la langue de la ‘loi de Hume’ : is et ought). Mais ‘tu dois’ n’est pas ‘Sésame ouvre-toi’, surtout si du ‘tu dois’ on ne tire pas simplement ‘donc tu peux’. ‘Tu dois’ n’est pas ‘Sésame ouvre-toi’, que la science a effacé, et ‘moi je suis moyen en moi’ signifie de la manière extrême calcul responsable et même calcul scientifique, à la troisième personne. Moi je suis moyen afin que, moyennant l’analogation subjective à partir de moi, je puisse procéder à une comparaison des droits des autres entre eux : je veux dire des droits de la deuxième personne et de la troisième personne, sans faire tort au tiers exclu pour satisfaire le droit du ‘toi’ inclus par le fait de m’adresser à lui ou de s’adresser à moi. Moi je suis moyen et non pas fin : mon droit n’est pas originaire et exceptionnel comme mon devoir ; il est radicalement asymétrique par rapport à mon devoir. Mon droit n’est pas fin et terme final, mais il est moyen et terme moyen pour la comparaison responsable et calculante des droits des autres entre eux et donc pour la symétrisation de droits et devoirs. Mon droit est moyen pour l’universalisation des droits des autres. Il s’agit, bien entendu, d’une universalisation nécessairement symétrisante et par là entraînant moi aussi, justement à partir de l’analogation exigée par la règle d’or : quelle sorte d’universalisation serait-elle jamais celle qui n’était pas universelle ? ! Et pourtant cette universalisation n’exclut pas l’exceptionnalité de mon ‘tu dois’ irrépétable ; bien au contraire, elle la présuppose et en jaillit.
TEOLOGIA E ANALOGIA SUBJECTI*
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a tesi che vorrei presentare è che il problema di Dio è tutt’uno con il problema dell’intersoggettività. La tesi potrebbe essere formulata anche così : per poter pensare filosoficamente a Dio bisogna pensare all’intersoggettività e, viceversa, per poter pensare all’intersoggettività bisogna pensare a Dio. Il senso di questa tesi si preciserà, ovviamente, solo con le argomentazioni che la rendono plausibile e nelle quali essa, dopo tutto, consiste. Ma la secchezza con cui è stata formulata rende opportune fin dall’inizio almeno due avvertenze, una di tipo storico, ed una di tipo linguistico (in realtà si potrebbe anche dire : una che concerne il linguaggio specializzato e una che concerne il linguaggio ordinario). Dal punto di vista storico : usando il termine « intersoggettività », faccio riferimento ad un preciso problema che si è posto nella filosofia occidentale moderna e che non può configurarsi che in un quadro teorico come quello delineato dalla filosofia occidentale moderna. Dal punto di vista linguistico : di proposito ho usato l’espressione indiretta e non tecnica « pensare a » (« pensare all’intersoggetività, pensare a Dio ») e non quella diretta, tecnica, in cui il verbo « pensare » è costruito con il complemento oggetto (« pensare l’intersoggettività, pensare Dio ») : modo di esprimersi, quest’ultimo, che sembrerebbe più confacente ad un discorso, appunto, oggettivo e scientifico. Ma con ciò siamo già nel cuore del problema. L’oggettività è sicuramente il correlato di quella soggettività che il pensiero occidentale moderno ha teorizzato fino al punto, non dirò di inventare la parola « soggetto », ma certo fino al punto di risemantizzarla radicalmente, facendole perdere la connotazione che le derivava dalla sua stessa etimologia ; fino al punto che la sostanzialità stessa del sub-jectum è divenuta inessenziale – almeno teoreticamente – rispetto alla funzionalità dell’appercezione trascendentale ; fino al punto che la sostanzialità è apparsa criticabile mortuum, rispetto a cui far valere la vita spumeggiarne del Geisterreich. Ma su questa vita che nonostante tutto (cioè anche in questa forma idealistica, evocata dalla citazione) passa attraverso la corporeità, avremo modo di dire qualcosa in seguito, via via che si preciserà il senso dell’analogia subjecti e del genitivo equivoco che essa dice. Soffermiamoci per ora sulla soggettività dell’appercezione trascendentale, sulla soggettività come cogito, come soggetto che pensa e in quanto pensa, come « io » in quanto « penso » e solo in quanto penso : dove l’« in quanto » è ben più importante di ogni ergo onto-logico che eventualmente derivi da cogito, per immediata che sia la derivazione, per intuitiva che sia la soggettività (un’« intuizione intellettuale »). Questo « in quanto » egoico-pensante, ego-logico – « io » in quanto « penso » – precede, infatti, e fonda ogni ergo onto-logico, che, al più, può coincidere con esso. Mentre non vale la reciproca, non vale sum ergo cogito. Nel soggetto, dunque, l’identità espressa dall’« in quanto » è assai più forte dell’ergo che essa fonda : non cogitare, ma cogito ; e non vi sarebbe – non si darebbe – cogitatio, res pensante, senza la Jemeinigkeit dell’« io penso ». Ebbene il soggetto, che è in quanto pensa, pensa direttamente e oggettivamnente :
* Colloquium Philosophicum, Annali del Dipartimento di Filosofia iii, Anno accademico 1996/1997, Università di Roma Tre, Firenze, L. S. Olschki, 1998, pp. 275-283.
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ego cogito cogitata. Come il re Mida che rendeva oro tutto ciò che toccava, il soggetto pensante – il soggetto moderno, il « soggetto » appunto – tematizza, oggettiva – « pensa », appunto – tutto ciò a cui pensa. Si può in effetti, modernamente, pensare senza intenzionare direttamente l’idea, senza afferrarla nella presa del concetto ? Eppure, se vi sono dei cogitata che sfuggono, che non si lasciano prendere nel pensiero e dal pensiero come « io penso », questi sono proprio l’intersoggettività e Dio. L’intersoggettività e Dio non si lasciano prendere non solo e non tanto perché sono pensati come imprendibili : questa è solo una conseguenza, una « misera » conseguenza. Solo una misera conseguenza, perché la ricchezza non è nell’ousia, nelle sostanze, cioè, che si possiedono – come dice il singolare collettivo greco – né nella sostanzialità che appunto si dice « propria » ; la ricchezza è nel non-possesso di ciò da cui si è attratti, nell’attraente sfuggire di quest’ultimo alla presa essenziante e alla pretesa essenziante del pensiero : epekeina tes ousias. Il pensare-a non raggiunge ciò che lo attrae, non lo costituisce intenzionandolo, ma è costituito dalla attrazione da parte di ciò che lo trascende. E infatti ciò che attrae e trascende il pensare-a non è, propriamente, « ciò che », ma « chi » lo attrae e trascende, non risponde alla domanda « cosa ? » (il metafisico ti esti), e in certo senso non risponde, ma chiama e pro-voca la domanda « chi ? ». Si dovrebbe forse dire : tis eis, « chi sei ? ». A questo proposito, due precisazioni, una relativa alla voce del verbo « essere », che risuona in questa domanda in ogni senso eventuale, e una relativa alla « seconda persona » che sembrerebbe risuonare come questa stessa voce. La voce del verbo « essere », usata nell’eventuarsi della domanda « chi ? », non va sopravvalutata. A differenza del metafisico ti esti, ciò che vale in questa domanda nonmetafisica – in questa domanda che risponde all’appello – non è il verbo – il Zeit-wort – « essere », ma il pronome interrogativo « chi ? » : un pro-nome il cui stare al posto del nome non va in primo luogo interpretato come una richiesta di informazione relativa all’essenza, un bisogno curioso o una voglia di designazione e di raddoppiamento della res mediante il nomen ; nel pro-nome « chi ? » lo stare in luogo del nome è interrogativo : un non-stare, una instabilità, un non avere ubi consistam, e va interpretato innanzitutto o, meglio, anteriormente – anteriormente ad ogni protologia – come una richiesta di essenza. Si tratta di un bisogno non curioso, ma di un bisogno, alla lettera, alimentare (sembra in effetti che il re Mida avesse dei problemi alimentari). Si tratta di un bisogno di « alimentazione » nel senso ordinario del cibo e nel senso del passivo ali, del « venir sostentati » e « fatti crescere » e sostentati in quanto si è accresciuti. Senso però, quest’ultimo, che non è diverso da quello del pane quotidiano e del latte materno (un « cosa ? » o un « chi ? », il latte materno ? !), né più astratto di essi, ma unicamente più generale. O meglio : è il senso « pieno », che vivifica il senso « letterale » e fa sì che il senso letterale non sia esso « astratto » e, con ciò, morto, anzi ucciso : non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esca dalla bocca di... chi ? La domanda, come si vede, non risponde ad una pura curiosità : è impellente, ne va della vita. La domanda « chi ? » non esprime una curiosità, è pre-teoretica, è anteriore al thaumazein e alla protologia. Non esprime – in « primo » luogo – un bisogno di informazione, ma – anteriormente – un bisogno di autorizzazione ; in ogni senso : nel senso ordinario di « essere autorizzati da... », di « essere autorizzati a... », di « essere autorizzati presso... » ; ma, appunto, nel senso pieno, vitale, non solo letterale, ovvero essenzialisticamente ucciso : bisogno di autorizzazione come autorizzazione della propria stessa esistenza,
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bisogno di autorizzazione dell’esistenza come stessa e come propria, esistenza come bisogno e carenza, ovvero bisogno di augeri, di essere accresciuti da una auctoritas in quanto si è legittimati da essa ; e si è legittimati ad esistere in quanto si riceve legge dall’auctoritas, che è auctoritas in quanto dètta legge ; e comanda, dà mandato, in quanto manda, manda ad altri : ad aumentare gli altri e ad alimentare gli altri ; manda come alimento degli altri. L’essere, dunque, ovverosia la voce del verbo « essere » vale solo in quanto personalizzata, e vorrei dire ‘personata’, cioè fatta risuonare nell’interlocuzione, dispiegata dall’inter-locuzione, ovverosia piegata in questo inter, in questo framezzo. Infatti, nonostante ogni parvenza e ogni transzendentales Schein di tipo visivo-teoretico-sinottico-rappresentativo, l’intervallo dell’interlocuzione è un interim : una diacronia, un intervallo non spazializzabile-rappresentabile-sincronizzabile-afferrabile da parte di uno sguardo che l’inevitabile illusione trascendentale e l’inevitabile illusione del trascendentale fanno apparire lanciato da « nessun luogo ». Così come, dunque, non vi sarebbe e non si darebbe res cogitans se non in prima persona – in quanto cogito – allo stesso modo non vi sarebbe e non si darebbe « chi ? » se non in persona e – oso dire – nella ‘personazione’ della voce. La voce del verbo « essere » che risuona nell’eventuarsi della domanda « chi ? » non va sopravvalutata, perché quello che veramente vale, vale in verità – vale la « pena » ed è fragwürdig – è « chi ? » (ed è ben possibile che gli addetti ai lavori abbiano ritenuto di scorgere nel discorso svolto sin qui un condannabile déjà vu nichilistico ; sebbene a me non sembri affatto che questo sia il caso). Ma se « chi ? » si dà solo in persona – nella domanda e alla domanda in cui si eventua e per la « prima » volta viene all’essere – dobbiamo tornare a chiederci in quale persona risuonerà – risuonerà « in verità » – la voce del verbo « essere » nella domanda eventuale ; forse – dicevamo – la « seconda persona » : (« chi sei ? ») ? Non così semplicemente : la questione è senza dubbio più complicata. Una volta passati o, se si vuole, regrediti dal cogito al loquor – dal principio del cogito al fatto del loquor – la presenza non appare più quella presuntamente semplice dei cogitata al cogito, e del cogito a se stesso come sum. Nel fatto di parlare la presenza è essenzialmente diacronica. La presenza è essenzialmente diacronica – di una diacronia non sincronizzabile – anche e soprattutto nell’istante dell’evento, vale a dire nell’istante della domanda « chi ? », della richiesta di alimentazione ed autorizzazione. « Istante », dunque, per antifrasi, e istante come antifrasi ; istante che propriamente non sta e non sta propriamente, in proprio, ma si volge e si volge ad altro. Certo, la domanda « chi ? » si volge ad altro – aliud – come all’altro – alter : alter ego, alter loquens – e questo proprio in quanto si volge a sua volta, si rivolge e risponde. Ma ciò non significa la stabilità di una identità personale, non significa una somiglianza successiva all’identità propria e all’identità come propria : identità iniziale e protologica che consentirebbe di speculare guardando in faccia alter ego, vedendo sé nell’idea, ovvero l’idea di sé. Tanto meno il volgersi della domanda « chi ? » all’altro significa la stabilità di due identità personali, diverse eppure assimilate tra loro dallo sguardo sincronizzante gettato da nessun luogo. In quanto risposta, « chi ? » è un bisogno di sponsio il quale, alla lettera, « prende corpo » come domanda : una domanda rispondente alla sponsio, all’alleanza obbligante annodata dall’appello. Nel fatto di parlare, dunque, si dà una complicazione e coimplicazione di persone
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che è « essenzialmente » e « letteralmente » in-esplicabile, vale a dire non sem-plificabile, perché nella complicazione le persone si essenziano, e in tale complicazione si dispiega, ovvero si implica, la stessa scena dell’essere, ovvero dell’interlocuzione. Certo, « grammaticalmente », la persona che dà voce alla domanda e impersona la domanda si indirizza a « chi ? » come a seconda persona. Ma questa essenziale grammaticalità segnala, appunto, la secondarietà della questione dell’essere. « Essenziale grammaticalità » significa, ovviamente, non grammatica speculativa, bensì grammatica ironica, sebbene in un senso peculiare, che non esclude la serietà, anzi esige l’estrema, l’unica serietà : la serietà vera, la serietà della verità. « Essenziale grammaticalità » significa il carattere deuteronomico, già sempre grammaticale ed obbediente, dell’essenza (« sta scritto »). La rispondente, ovvero obbediente domanda « chi ? », non è un semplice ed impertinente « chi sei ? », « chi sei tu ? ». Questa domanda iniziale, senza obbligazione non sarebbe una risposta : non risponderebbe a nessuno e sarebbe irresponsabile ; sarebbe ancora una volta la domanda protologica, la domanda teoretica, in cui l’« io » che domanda si rispecchia : una domanda supponente che, supponendo la stabilità dell’io, magari pensa, ma non parla perché non ha bisogno, ovvero non ha bisogno di parlare. La domanda obbediente, invece, è una risposta. Dunque essa « stessa » è complicata e implicata, non è semplice nella sua « stessa » identità : nella sua medesimezza e nella sua ipseità. Solo in siffatta coimplicazione « chi ? » è, ovvero si essenzia : domanda e risposta allo stesso tempo, in una complicazione che, appunto, è la diacronia della presenza, dello stesso tempo. Vera risposta, ovverosia risposta che « in verità » dà ascolto all’appello, non sarebbe quella che subordinasse l’ubbidienza all’esibizione di credenziali ontologicamente sufficienti e soddisfacenti – sazianti ; satis – ovvero che pretendesse di ubbidire a condizione che, prima, l’appello ubbidisse all’impertinenza e alla supponenza della domanda ontologica e protologica « chi sei ? ». La risposta in verità è una resa incondizionata all’appello, è restituzione senza resto di quello che l’appello dà, cioè di « chi ? » istituito mediante l’obbligazione e come obbligazione dal darsi della sponsio. Nell’obbedienza all’obbligazione istituita dal dono, nel dare ascolto, volgendosi all’altro, « chi ? » si essenzia e consiste per la prima volta : è alleato – potremmo dire complice – della sponsio istituente ; sta in quanto si dispone totalmente, nella sua stessa persona, personata dall’appello, rispondendo con seconda parola ed essendo in verità solo come questa risposta e resa incondizionata. Ma se la resa è incondizionata – « eccomi ! » (Ex. 3, 4), e non : « chi sei ? » – donde il carattere interrogativo di ciò che « veramente » vale ed è « in verità » fragwürdig ? Perché mai la risposta che dà ascolto all’appello sarebbe una domanda, se tale responsio si essenzia come resa incondizionata, e dunque non è interrogativa né riguardo al rispondente, che si mette a disposizione, né riguardo all’auctoritas, che dà disposizione ? Se la complicazione della presenza fosse solo l’intervallo fra due persone, la risposta non potrebbe essere domanda nello stesso tempo. E lo « stesso tempo » non sarebbe veramente diacronia, verità della presenza, ma sarebbe solo, anzi « semplicemente » la compresenza oggettiva di due « io » allo sguardo sincronico gettato da nessun luogo. « Chi ? » è fragwürdig e vale la pena, ovvero la risposta è nello stesso tempo domanda, perché il terzo è sempre presente nell’interim dell’interlocuzione, interim, dunque, che non è Zwiefalt ma, per così dire, Dreifaltigkeit. Il terzo a cui l’appello autorevole manda è presente come assente, è « essenzialmente » presente come assente.
teologia e analogia subjecti
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Un differente ergo è implicato nel fatto del loquor. Si tratta di una implicazione non semplicemente diversa da quella egoico-ontologica del sum, sincronicarnente coincidente col cogito, ma di una implicazione anche diacronicamente differente : differimento e differenza che, in verità, è coimplicazione della presenza e coimplicazione di tre persone. Tale coimplicazione è anteriore all’essere che essa differisce, anteriore alla grammatica che, alla lettera, si inscrive in essa : sum ?-praees-abest. La domanda « chi ? » si impersona come risposta al mandato che manda al terzo, e per questo la risposta è domanda : la messa a disposizione « eccomi » è nello stesso tempo « chi sono io ? » (cfr. Ex. 3, 11 : « Chi sono io per andare dal faraone e trarre i figli di Israele dall’Egitto ? »). Non « chi sei tu ? » e quali credenziali ontologiche esibisci al supponente e supposto « io », ma « chi sono io ? ». Chi sono io per essere ? chi sono io per dire parole di verità alla terza persona (chi è ? chi sono gli assenti ?) ? chi sono io per rendermi prossimo a « chi ? », giungendo fino alla terza persona, alimentandola, dandole l’essere ? La temporalizzazione si impone : chi sono io per poter dire « sarò » ? La temporalizzazione si impone : l’appello anteriore – anteriore all’essere, immemorabilmente anteriore all’essere, epekeina tes ousias – mi chiama all’essere mandandomi. L’autorità della mia parola (genitivo oggettivo), il sostentamento che la rende presente al terzo facendola perseverare – perseverare in essere e verità : perseverare dunque, ma come alimento, e tuttavia alimento che non finisce, alimento della terza persona, cibo di vita eterna – questa autorità, dunque, non è in me – chi sono io ? – ma fuori di me, nell’esteriorità o anteriorità radicale donde proviene la chiamata all’essere, l’appello anteriore, al quale rispondo « presente ». Fuori di me, prima di me, eppure presso me : « Io sarò con te » (Es., 3, 12). La temporalizzazione si impone. La sponsio anteriore si dà : si dà come garanzia e promessa alla risposta-domanda che essa stessa provoca. Il comandamento che manda al terzo è un’alleanza. Non : « chi sei tu ? », dunque, ma : « chi sono io ? ». Similmente, non : « chi è il terzo ? », ma : « cosa risponderò al terzo quando il terzo mi chiederà chi mi manda ? » (cfr. Ex. 3, 13). Non : « chi è il terzo ? ». Certo, il terzo è assente e non so chi sia. Né posso convocare il terzo sulla scena dell’interlocuzione : convocare « chi ? ». Né posso rendere presente il terzo chiamandolo all’essere : chi sono io per avere questo potere ? Posso guardare in faccia il terzo (e rispecchiarmici) così poco come posso guardare in faccia l’anteriorità donde proviene l’appello. In ciò il terzo a cui sono mandato è simile al comando ; e in effetti il terzo è il contenuto del comando (del resto, come si darebbe, o ci sarebbe, un comando senza contenuto ? !). La somiglianza non è quella di un volto che si vede (come nella sincronia oggettivante o nel rispecchiarsi teorico di ego in alter) ; la somiglianza – la vera somiglianza, la verisimiglianza, la simiglianza come verità – è proprio in questa impossibilità di vedere il volto. Come la domanda obbediente – la domanda che è risposta e messa a disposizione – non chiede « chi sei tu ? », ma « chi sono io ? », similmente la domanda obbediente non chiede « chi è il terzo ? » ma « cosa risponderò al terzo ? ». L’anticipazione temporalizzante di me come risposta è ancora domanda : « cosa risponderò ? ». Questa domanda anticipante, peraltro, non è anticipazione di una mia domanda, ma è anticipazione della domanda del terzo. È cura per il terzo, è domanda obbediente al comando. Ciò che è in questione (« cosa risponderò ? ») è ancora una volta
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la mia autorizzazione : « cosa risponderò quando il terzo mi chiederà il nome di chi mi manda ? ». Un « cosa ? » o un « chi ? », la richiesta del terzo così interrogativamente anticipata ? ! La richiesta è richiesta del nome autorevole : non nome che raddoppia la cosa, ma nome come essere ed essenza del mandante, mandante anticipato come terzo nella scena in cui il terzo è anticipato come interlocutore (perfetta e compiuta somiglianza tra forma e contenuto del comando). Se la resa all’appello non è condizionata all’esibizione di credenziali ontologiche da parte della chiamata imperativa, certamente però l’esibizione di credenziali ontologiche è condizione per avere l’autorità di parlare alla terza persona, ovvero per alimentare la terza persona, cioè per essere (essere=alimento). L’eventuarsi di « Chi ? » non è né « chi sei ? », né « chi è ? », e nemmeno « chi sono io ? », se questa domanda deve essere intesa nel senso di una precedenza o priorità dell’essere rispetto alla persona alla quale l’essere darebbe essenza. Nemmeno « chi sono io ? » (in questo senso) giacché io sarò soltanto ; anzi, sarò se sarò : sarò, infatti, a condizione che io mi renda senza condizioni, a condizione che io mi dis-ponga in cibo. Sarò se lascerò la mia vita. Se « io sarò con te » è la risposta alla domanda « chi sono io ? » – risposta che ripete la sponsio dell’appello, dandosi come promessa – similmente la risposta alla domanda che anticipa la richiesta del terzo – « cosa rispondere ? » – ripete la sponsio, dandola come nome, ovvero dandola per il terzo. Il nome infatti non è – « essenzialmente » non è – per me e per te che ci parliamo e ci guardiamo in faccia. Essenzialmente – per essenza – il nome è per il terzo ed è del terzo, che non interloquisce, eppure è sempre presente come assente (come si parlerebbe senza nomi ? !). Il nome è per il terzo affinchè possa chiamare ; è del terzo, affinchè possa essere chiamato. La ripetizione della sponsio come promessa per il terzo e promessa del terzo (genitivo oggettivo), si dà come nome, si dà come essenza. Immersione nell’essere, battesimo in spirito e verità. Il darsi di « Chi ? » come nome – « Io sono chi sono », o comunque si debba tradurre – non è spekulativer Satz : è alla prima persona ed è nome, anzi nome proprio. Il nome proprio è promessa per il terzo e promessa del terzo (genitivo equivoco) : è darsi come essenza, è farsi prossimo all’assente, è alimento del terzo, è scrittura.
INTRODUZIONE AL SAGGIO DI UNA CRITICA DI OGNI RIVELAZIONE DI J. G. FICHTE* 1.
I
l Saggio di una critica di ogni rivelazione apparve anonimo alla Fiera di Pasqua di Lipsia del 1792 per i tipi dell’editore Hartung di Königsberg. Secondo una notizia contenuta nell’autobiografia di un contemporaneo, Theodor von Schön, l’editore aveva fatto stampare un doppio frontespizio : « sul frontespizio delle copie che venivano vendute a Königsberg era dato come autore Fichte ; sulle copie che venivano vendute a Lipsia il nome dell’autore era omesso ». 1 In effetti, è stato accertato che la prima edizione dell’opera uscì in quattro varianti, di cui tre anonime, e fra queste, in base ad inoppugnabili osservazioni di bibliografia materiale, è stata individuata la variante originale. 2 Se la notizia circa la diversa distribuzione delle varianti nelle diverse città potesse essere confermata con la stessa sicurezza materiale con cui è stato possibile identificare la variante originale, ciò consentirebbe di valutare meglio una situazione intricata che – come vedremo – si venne a produrre con la prima pubblicazione del libro ; in particolare, si renderebbe possibile interpretare con maggior sicurezza l’atteggiamento di Fichte medesimo nei confronti della propria opera. La veste anonima in cui il Saggio fu presentato alla Fiera di Pasqua ebbe infatti come conseguenza che l’opera fosse attribuita, in un primo momento, a Kant. Un’opera di questi sulla religione era annunziata ; del resto, fin dalla Critica della ragion pura il problema religioso erastato presentato da Kant come la terza questione in cui avrebbe dovuto articolarsi il programma di una filosofia critica : tale questione – nella forma della domanda « cosa ci è lecito sperare ? » – avrebbe dovuto essere affrontata, secondo Kant, dopo aver dato risposta alle due domande su cosa ci è possibile sapere e su cosa dobbiamo fare. 3 Certo, siffatto programma della filosofia critica aveva registrato, in corso di realizzazione, qualche imprevista messa a punto da parte di Kant : da ultimo, la stessa redazione della terza Critica (1790). La Critica del giudizio non affrontava infatti la terza domanda, anzi abbandonava la domanda oggettiva sul « cosa ? », per dedicarsi al « giudizio riflettente ». Ma proprio questa sorta di fuori-programma non smentiva il programma tracciato per l’impresa critica, e piuttosto ne radicalizzava il movimento riflettente ; inoltre l’opera si concludeva precisamente con una rinnovata proposizione della questione teologica. Sicché, sia l’argomento religioso del Saggio, sia il fatto che esso inalberasse il titolo
* Introduzione, in Johann Gottlieb Fichte, Saggio di una critica di ogni rivelazione, introduzione (pp. v-lx), traduzione e note a cura di Marco M. Olivetti, Roma-Bari, Laterza, 1998. 1 Aus den Papieren des Ministers und Burggrafen von Marienburg Theodor von Schön, i parte, Halle a.S. 1875, p. 10. 2 Cfr. il Vorwort al vol. i, 1 di Fichte, Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften (d’ora in poi GA), a cura di R. Lauth e H. Jacob, con la collaborazione di M. Zahn e R. Schottky, p. 3. 3 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Akademie-Ausgabe, i, p. 522 (e poi ancora nelle lezioni di logica e nella lettera a Stäudlin del 4 maggio 1793).
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di « Critica », sia la città in cui esso vedeva la luce, potevano ben indurre a ritenere che l’autore fosse il Maestro di Königsberg, tenuto conto dell’amplissima presenza di concetti, argomenti e termini kantiani che caratterizzavano il contenuto dell’opera. È vero che il titolo non suonava tout court « Critica », bensì « Saggio di una critica ». Ma a questo proposito vanno svolte alcune considerazioni. In primo luogo, una certa modestia del termine « Saggio » poteva apparire riconducibile a ragioni di rispetto, e anche di prudenza, stante la sacralità istituzionalizzata dell’argomento (la « rivelazione ») al quale l’opera intendeva applicare la critica. Infatti, all’epoca non meno che oggi, il termine « critica », usato in ambito filosofico, evocava, oltre che il significato tecnico kantiano, anche quello ordinario di argomentazione intesa a negare la validità dell’oggetto al quale la critica stessa si riferiva ; né tra il significato tecnico kantiano e quello ordinario vi era, nella comprensione linguistica media, soluzione di continuità, se proprio il Kant critico aveva potuto apparire, con la sua negazione della validità cognitiva della metafisica (e dunque della teologia razionale), uno « che stritolava tutto » ; né, infine, il fatto che l’utilizzazione del termine « Saggio » rendesse opportuno – in tedesco – introdurre il seguente complemento di specificazione mediante l’articolo indeterminativo (« di una critica ») induceva a una comprensione, appunto, determinata, ovvero univoca, della critica di cui si voleva offrire un saggio. 2 Per contro, una certa attenuazione che la parola « Saggio » comportava rispetto al senso corrosivo del polisemico termine « critica » era ampiamente compensata dall’ambizione, dichiarata nel titolo medesimo, che la critica sviluppata nel saggio dovesse applicarsi ad « ogni » rivelazione : tale programma conteneva, dunque, la doppia provocazione di avanzare una pretesa all’universalità, e di ricondurre con ciò su un piano comune le rivendicazioni di eccezionalità avanzate dalle rivelazioni storicamente date (dunque anche dal cristianesimo) ciascuna in proprio favore. Questa duplice provocazione faceva sì che il titolo dell’opera fichtiana suonasse ben più radicale e ambizioso di titoli consimili, ma più scolastici e di maniera, con cui erano pur apparse in quegli anni altre opere. 3 Di tutto ciò doveva essersi ben reso conto l’editore nei suoi calcoli relativi alla risonanza che la pubblicazione poteva avere. Del resto, che il termine « Saggio » andasse interpretato come espressione di modestia, poteva intendersi con sicurezza solo leggendo la prefazione dell’opera, ove l’autore esplicitava questo significato. Ma nella prima edizione dell’opera, presentata alla Fiera di Pasqua, oltre al nome dell’autore, era stata omessa anche questa prefazione. Ciò non solo significava lasciar cadere l’esplicitazione del senso specifico da attribuire al termine « Saggio » (non immediatamente e necessariamente significativo in questo senso), ma anche e soprattutto significava omettere l’unico punto del libro in cui veniva dichiarato trattarsi di opera prima di un giovane autore, il quale proprio perciò faceva dichiarazione di modestia. Alla luce di queste considerazioni ben si intende come l’opera anonima potesse venir attribuita a Kant. Ciò avvenne puntualmente ; l’opera fu ritenuta di Kant anche da parte di persone le quali, pure, del pensiero del filosofo di Königsberg erano del tutto esperte
1
1 Secondo Fichte stesso, l’editore Hartung aveva acquistato la sua opera per pubblicarla « perché – penso – è anche una Critica » (lettera a Weißhuhn dell’11 ottobre 1791 ; GA, iii, 1, p. 268). 2 Per la questione del significato da attribuire effettivamente alla concezione di « critica » che Fichte riteneva di avere messo in opera, v. più avanti alla nota 26. 3 J. H. Tieftrunk, Versuch einer Kritik der Religion und aller religiösen Dogmatik, Berlin 1790 ; C. F. Stäudlin, Ideen zur Kritik des Systems der christlichen Religion, Göttingen 1791.
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 269 (come Karl Leonhard Reinhold, autore di ben note Lettere sulla filosofia kantiana e massimo conoscitore del pensiero kantiano in quel tempo). 1 Le prime recensioni furono positive e, a tratti, entusiastiche. Solo quando Kant intervenne pubblicamente, dichiarando chi era il vero autore, vi fu un aggiustamento del tiro (ma ormai la notorietà era raggiunta per l’opera e, conseguentemente, per il suo vero autore). La rettifica di Kant era oltremodo circostanziata, minuziosa, financo puntigliosa ; insieme al nome del vero autore e a una quantità di dati per identificarlo nel più sicuro dei modi, essa forniva anche indicazioni circa il viaggio a Königsberg fatto da Fichte l’anno prima, circa il catalogo dell’editore Hartung e circa l’assoluta mancanza della « pur minima partecipazione, per iscritto o a voce » alla elaborazione dello scritto del « valent’uomo » da parte di Kant medesimo. 2 Perché questa dovizia di indicazioni e, particolarmente, a qual fine l’indicazione circa il viaggio di Fichte a Königsberg (indicazione dalla quale, per le ragioni che si intenderanno appresso, le precisazioni circa il catalogo dell’editore Hartung e circa la mancanza di qualsivoglia partecipazione « scritta o orale » all’elaborazione dell’opera fichtiana dipendono palesemente) ? Tutto, insomma, converge nel delineare un quadro, stante il quale riesce veramente difficile pensare a una svista dell’editore – piuttosto che ad un astuto calcolo – nell’omissione congiunta del nome dell’autore sul frontespizio dell’opera e della prefazione dell’autore medesimo nella pagina immediatamente seguente il frontespizio : congiunzione essa stessa non spiegabile in base a ragioni di tecnica tipografica. Osservavamo all’inizio che probabilmente è impossibile raggiungere una prova materiale per quanto riguarda la notizia di una distribuzione differenziata delle varianti del libro, tale da evitare, per le copie anonime, la città di Kant, Königsberg ; ma alla luce delle considerazioni sulle quali ci siamo intrattenuti la questione piuttosto si ribalta, nel senso che, nel quadro delineato, l’esistenza di una notizia di questo genere, fornita da un contemporaneo, diviene essa stessa, più che qualcosa che abbisogna di conferma, una conferma ulteriore di un quadro indiziario già molto univoco. Non a caso von Schön si premurava di annotare che la distribuzione differenziata dell’opera era avvenuta « del tutto contro le intenzioni di Fichte ». 3 Queste considerazioni, lungi dal rappresentare un pettegolezzo erudito, lasciano vedere un momento particolarmente significativo della recezione del pensiero kantiano ancor vivente Kant : una recezione caratterizzata da incertezze e genericità interpretative non meno che da entusiasmo ; una recezione caratterizzata da rapporti fra pensatori che non è possibile esaurire in rapporti fra pensieri ; una recezione caratterizzata da un
1 « L’idea, il piano e la più gran parte dell’effettivo svolgimento sono sicuramente di lui, il grande unico » scriveva Reinhold a Baggesen il 22 giugno 1792 (v. Fichte im Gespräch. Berichte der Zeitgenossen, vol. i, Stuttgart-Bad Cannstatt 1978, p. 35). A Hufeland Fichte scriveva : « Una persona che doveva sapere cosa è kantiano, se mai qualcuno deve saperlo, disse a un suo amico, già molto tempo prima della stampa del mio manoscritto, che egli prevedeva la possibilità di un tale scambio di attribuzione » (lettera del 28 marzo 1793 ; GA, iii, 1, p. 379 ; la persona a cui fa riferimento Fichte è Johann Schulz). Per la primissima recezione dell’opera fichtiana v. M. Kessler, Kritik aller Offenbarung. Untersuchung zu einem Forschungsprogramm Johann Gottlieb Fichtes und zur Entstehung und Wirkung seines « Versuchs » von 1792, Mainz 1986, e H. Winter, Die theologische und philosophische Auseinandersetzung im Protestantismus mit J.G. Fichtes Schrift « Versuch einer Kritik aller Offenbarung ». Kritische Rezeption und zeitgenössische Kontroverse als Vorphase zum sogenannten Atheismusstreit, Frankfurt a.M. 1996. 2 La rettifica di Kant apparve nell’Intelligenzblatt n. 102 della « Allgemeine Literatur-Zeitung » (22 agosto 1792), cioè della rivista che per prima (30 giugno) aveva dato annuncio della presentazione alla Fiera di Pasqua « di un’opera della massima importanza », di cui « chiunque avesse letto anche piccoli scritti » di Kant 3 Op. cit., p. 10. avrebbe riconosciuto come autore « il filosofo di Königsberg ».
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vivissimo e, in qualche misura, prevalente interesse per le conseguenze che il criticismo comportava sul terreno religioso. Né ciò significa che le considerazioni svolte lascino a margine l’interesse diretto per l’opera di Fichte. A parte il fatto che esse – come dicevamo – vanno tenute in conto in sede di valutazione dell’atteggiamento nei confronti della propria opera manifestato da Fichte ai suoi corrispondenti, quanto innanzitutto va tenuto presente è che il Saggio trova nella partecipazione alla storia della recezione del pensiero kantiano vivente Kant una sua dimensione essenziale. Questo è vero già per la genesi intellettuale e materiale del Saggio : dunque già prima che – anche a seguito, o forse del tutto a seguito di quella genesi – all’opera toccasse in sorte di rappresentare, per lo spazio di tempo di alcune settimane, l’oggetto di una errata, seppure storicamente assai significativa attribuzione. Il kantismo è determinante sia nella genesi intellettuale, sia nella genesi materiale del Saggio, e intreccia le due in misura eccezionale. In proposito ricorderemo brevemente che il giovane Fichte, poco prima di scrivere il Saggio, aveva studiato intensamente le tre Critiche. L’occasione materiale di questo studio era stata una richiesta di insegnamento privato della filosofia kantiana da parte di uno studente di Lipsia, richiesta prontamente accettata da Fichte che si trovava in ristrettezze economiche. Ma l’entusiasmo suscitato in Fichte da questo studio fu così intenso, che egli ne trasse non solo nutrimento intellettuale, ma anche (come risulta ripetutamente dalle sue lettere scritte fra l’agosto 1790 e il marzo 1791) 1 motivo di rasserenamento e di saldezza d’animo in un momento per lui così difficile a causa della mancanza di impiego e di denaro. Se vana doveva rivelarsi la speranza di sovvenire a queste ristrettezze mediante la pubblicazione degli estratti commentati della Critica della ragion pura e della Critica del giudizio preparati da Fichte, tutt’altro che vano riuscì sotto il profilo intellettuale lo studio delle Critiche. Infatti esso diede un potentissimo impulso e, in certo senso, un nuovissimo orientamento all’attività intellettuale del giovane studioso (tra l’altro, rendendolo per la prima volta filosofo in senso stretto, e non più genericamente scrittore di cose religiose). Fallito il tentativo di un impiego a Varsavia, Fichte si recò di là a Königsberg per conoscere Kant personalmente. Gli fece visita una prima volta (4 luglio 1791), senza esser ricevuto da Kant « in modo particolare », 2 e frequentò alcune sue lezioni. Avrebbe voluto visitare « in maniera più seria » Kant, ma non riusciva a trovare « alcun mezzo » per far ciò. « Alla fine – narra Fichte – mi venne l’idea di elaborare una critica di ogni rivelazione e di dedicargliela. La cominciai all’incirca il 13 [luglio 1791] e da qual momento vi lavorai sempre ininterrottamente [...] Il 18 [agosto] mandai il mio lavoro ormai ultimato a Kant e il 23 andai ad apprendere il suo giudizio. Mi ricevette molto benevolmente e sembrava davvero molto soddisfatto ». 3 In un primo momento Fichte si era proposto di chiedere a Kant, durante la visita, aiuto per un impiego ; avendo però esaurito tutto il denaro a disposizione, fu costretto, all’ultimo momento, a richiedere, invece, un prestito. Ma Kant esitò e qualche tempo dopo propose a Fichte una diversa soluzione : quella di vendere lo scritto sulla rivelazione all’editore Hartung ; a tal fine Fichte avrebbe potuto ricorrere alla mediazione del cognato di questi, il parroco Borowski, per il quale Kant scrisse una lettera di raccomandazione, specificando che Fichte aveva bisogno di un onorario : « in realtà, di un onorario alla consegna dell’opera, dunque pagato subito ». 4 Immediata
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Cfr. GA, iii, 1. Come racconta Fichte stesso nel Diario del mio viaggio di Pasqua (v. GA, ii, 1, p. 415). 3 Ibid. 4 Lettera del 16 settembre 1791, Akademie-Ausgabe, xi, p. 284. 2
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 271 mente dopo tale richiesta, Kant proseguiva scrivendo che personalmente egli non aveva avuto il tempo di leggere oltre la pagina 8 del manoscritto, ma che fino al punto in cui egli era arrivato lo trovava « ben elaborato e ben adatto all’attuale temperie di ricerca in questioni religiose », e che meglio avrebbe potuto giudicare « Sua Signoria », se si fosse dato la pena di leggere l’opera interamente. Fichte era al corrente dell’incompleta e minima lettura del suo lavoro da parte di Kant : a Weißhuhn scriveva che Kant aveva letto « all’incirca fino al § 3 » (si trattava dunque solo dei due primi paragrafi e, tutto sommato, delle pagine più kantiane dell’opera : quelle in cui dai principi della ragione pratica veniva derivata una teologia filosofica, e da questa la religione « in generale »). 1 Ancora nel maggio del 1793, ad opera pubblicata, Kant scriverà a Fichte ribadendo che sino a quel momento egli aveva letto il lavoro solo parzialmente, e con interruzioni causate da affari sopravvenienti ; « per poterne dare un giudizio – proseguiva Kant – dovrei percorrerlo interamente, sì che quanto ho letto mi rimanga permanentemente presente, per comparargli quanto segue ; a tal fine però non ho sin qui avuto né il tempo né la disposizione ; la quale disposizione da qualche settimana non è favorevole ai miei lavori intellettuali ». 2 Queste espressioni, usate da Kant due anni dopo, lasciano intravvedere un perdurante interesse di Fichte ad ottenere il parere del grande filosofo e un’insistenza nel richiedere tale parere che andranno anch’essi tenuti presenti in sede di valutazione dell’atteggiamento pubblicamente palesato da Fichte nei confronti del proprio Saggio. Tale interesse persistente e insistente sarebbe infatti inspiegabile se l’opera con la quale Fichte si presentava a Kant non fosse stata molto a cuore al suo autore, o se egli non l’avesse ritenuta una base adatta a ottenere da Kant un giudizio positivo sulle proprie attitudini, o se, infine, egli non avesse ritenuto che il Saggio diceva qualcosa di importante per la filosofia critica. Ed è evidente come le tre spiegazioni non si escludano affatto vicendevolmente. L’accettazione dell’opera da parte dell’editore richiese del tempo (frattanto però Fichte era stato sollevato dalle sue difficoltà economiche grazie ad un posto di precettore a Krockow, ottenuto su presentazione di Kant). Poi fu la censura a ritardare la pubblicazione : a Fichte fu raccomandata « una piccola revisione di alcuni punti troppo vistosi ». 3 Anche in questo caso Fichte si rivolse a Kant, chiedendogli consiglio e scrivendogli di non vedere cosa nel suo scritto desse « ad una facoltà teologica » il diritto
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GA, iii, 1, p. 67. La parte letta da Kant – proseguiva Fichte – ne aveva ottenuto l’approvazione, nonostante non fosse « il meglio della trattazione » e avesse in seguito subito « molti cambiamenti ». Quanto a Borowski – affermava Fichte –quest’ultimo aveva letto « pressoché per intero » l’opera, onorandola della sua approvazione, ma Fichte, per parte sua, non riteneva Borowski sufficientemente capace di giudicarla ». 2 Lettera del 12 maggio 1793 (GA, iii, 1, p. 408) ; Kant proseguiva (e questa prosecuzione andrà tenuta presente in seguito, quando parleremo del rapporto tra Saggio e Religione entro i limiti della sola ragione) : « Come i miei pensieri coincidano con i suoi su questo punto, oppure se ne allontanino, Lei potrà forse vederlo nel modo più facile comparando il Suo lavoro con la mia nuova trattazione intitolata “Religione entro, ecc.” ». Questa era dunque la risposta di Kant all’insistenza massima con cui Fichte gli aveva ancora richiesto il suo giudizio (« A mia istruzione e a mia guida nel mio ulteriore cammino ho desiderato il giudizio sul mio scritto da parte dell’uomo che fra tutti più venero. Coroni tutte le Sue azioni di benefattore nei miei confronti scrivendomelo ! » : lettera di Fichte a Kant del 2 aprile 1793 ; GA, iii, 1, p. 389). 3 Così la lettera di J. F. Schultz a Fichte del 18 gennaio 1792 (GA, iii, 1, p. 285). Come si ricava dalla lettera di Fichte a Kant del 23 gennaio 1792, si trattava principalmente della questione relativa alla possibilità di fondare razionalmente la fede in una data rivelazione sulla fede in miracoli e della questione relativa alla possibilità che una rivelazione estenda le nostre conoscenze teoretiche e morali sotto il profilo della materia delle medesime : vedasi GA, iii, 1, pp. 286-287.
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di occuparsi della censura del medesimo. 1 Secondo il « Nuovo editto di censura per gli stati prussiani » del ministro Wöllner (1788), le opere a carattere teologico dovevano in effetti ricevere l’imprimatur di un organo di controllo, che per opere provenienti dall’ambiente universitario poteva essere la facoltà teologica del luogo di stampa. Ma cosa dovesse ritenersi di carattere teologico erano appunto le stesse facoltà teologiche a deciderlo ; simmetricamente, peraltro, da parte degli autori controllati si tendeva spesso a rivendicare la legittimità delle proprie idee non tanto affermando la conformità delle medesime con gli orientamenti dell’autorità censoria (ciò che comportava la disposizione a lasciarsi guidare nel cammino del pensiero), quanto negando che quelle rientrassero nell’ambito della competenza di quest’ultima. Sarà il caso di notare che la questione – lungi dall’esaurirsi nella storia degli espedienti e dei conflitti amministrativi a cui, pure, dava luogo – manifestava il problema stesso dell’« illuminismo » (l’editto di Wöllner era stato emesso, dopo la morte del sovrano illuminato Federico il Grande, proprio per contrastare gli effetti corrosivi dell’illuminismo sulle istituzioni). È chiaro che, sotto il profilo amministrativo, tutto si concretava in un « conflitto delle facoltà » (per esprimersi con il titolo dell’opera kantiana del 1798), cioè in una discussione circa quanto fosse di pertinenza, rispettivamente, della « teologia » e della « filosofia » come discipline istituzionalizzate e, perciò, coltivate in facoltà universitarie istituzionalmente competenti (è altresì chiaro che le dinamiche in esame influivano, a loro volta, sulla istituzionalizzazione delle discipline : la disciplina accademica « filosofia della religione » ha la sua origine proprio in queste vicende dell’illuminismo). Ma gli aspetti amministrativi e accademici non debbono far perdere di vista come in gioco fosse la stessa Auf klärung. Basti ricordare come, anni addietro, Kant, nel suo saggio Risposta alla domanda : « Cosa è illuminismo ? » (1784), avesse sostenuto che l’illuminismo – « l’uscita dell’uomo dallo stato minorile in cui egli si trova per propria colpa », 2 secondo la famosa definizione kantiana – andava « posto essenzialmente in cose di religione », giacché – spiegava Kant – in questa materia, a differenza che in materia di « scienza », i sovrani potevano avere interesse a non lasciare ai sudditi piena libertà. 3 Kant, comunque, aveva saputo già prima di Fichte delle difficoltà sollevate dalla censura a proposito del Saggio fichtiano (e pare che perciò avesse suggerito all’editore di rinviare la pubblicazione). Agli interrogativi su come comportarsi in proposito, che Fichte rivolgeva a lui come a « giudice massimamente competente », 4 Kant (che di lì a poco avrebbe avuto egli stesso difficoltà con la censura per l’opera di filosofia della religione a cui stava lavorando e avrebbe anch’egli negato il diritto della facoltà teologica di dare parere negativo) rispose sconsigliando decisamente di apportare modifiche che, oltre tutto, non sarebbero valse a nulla, data la severità con cui ormai funzionava la censura. 5 Qualche mese appresso, essendo cambiato il decano della facoltà teologica dell’uni
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Lettera del 23 gennaio 1792 (GA, iii, 1, p. 287). 3 Akademie-Ausgabe, viii, 35. Ivi, p. 49. 4 Lettera del 23 gennaio 1792 (GA, iii, 1, p 287). Sarà il caso di ricordare che Fichte aveva preso le difese dell’editto di Wöllner fino a poco tempo prima di incappare egli stesso nei suoi rigori. I tre frammenti da lui scritti in proposito erano stati pubblicati già da X. Leon nella sua monografia, rimasta classica, Fichte et son temps, 2 voll., Paris 1922 (ristampa 1954-1959). Da ultimo, l’atteggiamento di Fichte nei confronti della censura è stato opportunamente considerato da G. Landolfi Petrone nel quadro del dibattito dell’epoca, dibattito che culmina nello Streit der Fakultäten kantiano (L’ancella della ragione. Le origini di « Der Streit der Fakultäten » di Kant, Napoli 1997, passim). 5 Lettera di Kant a Fichte del 2 febbraio 1792 (GA, iii, 1, pp. 288-289). 2
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 273 versità di Halle (la città dove l’editore aveva mandato l’opera per la stampa), il Saggio ricevette l’imprimatur senza aver subito modifica alcuna. In proposito merita di essere ricordato il commento di Fichte in una lettera a von Schön : « Auguro buona fortuna al Censore per il suo comprendonio, ma – tra di noi ! – gli auguro ancora più fortuna se questa questione si svolge senza procurargli guai [...] infatti i risultati [del Saggio] non si possono proprio far concordare con il sistema W[ollneriano] ». 1 Ciò che va notato in questo commento non è tanto il sarcasmo di fronte a un cambiamento repentino dei comportamenti censori a seguito di eventi affatto estrinseci e contingenti (in situazioni siffatte sempre auspicati, o anche sapientemente sfruttati : quest’ultimo sarebbe stato il caso di Kant per la propria opera di filosofia della religione), quanto il cambiamento di atteggiamento di Fichte stesso, che prima aveva negato il diritto della facoltà teologica a censurare e ora irrideva la scempiaggine di chi non si rendeva conto che effettivamente lo scritto avrebbe dovuto incontrare il rigore previsto dalla normativa vigente (esempio eloquente, questo – se mai ve ne fosse bisogno – della natura storicamente strategica della « filosofia della religione » e del suo rappresentare un modo per affermare la libertà di occuparsi di certi argomenti di fronte a riserve di competenza, come nelle circostanze che stiamo esaminando, ma anche di fronte a divieti e censure culturali, come in diverse e successive circostanze). Alla luce delle vicende in cui si era articolata la genesi dell’opera la smentita di Kant – della quale dicevamo sopra – può essere letta in filigrana. Essa appare intesa non solo a rettificare un errore di attribuzione, ma anche a disinnescare qualsiasi speculazione, possibile o reale, basata sull’interessamento che effettivamente Kant aveva avuto per la situazione personale del giovane Fichte. Dunque : menzione dichiarata del viaggio di costui a Königsberg ed enfasi sulla sua transitorietà – « passato qui (herübergekommen) a Königsberg per breve tempo (kürze Zeit) l’anno scorso » 2 – affinché la notizia della frequentazione königsberghese, giungendo da altra fonte, non potesse essere tradotta in una corresponsabilizzazione di Kant nell’opera (« come vi fa allusione l’IntelI[igenz-] Bl[att della A[llgemeine] L[iteratur-]Z[eitung] n. 82 »). Della paternità fichtiana dell’opera – proseguiva la rettifica – « ci si può convincere con i propri occhi vedendo il catalogo della Fiera di Pasqua del suo editore, il sig. Hartung, pubblicato quest’anno » : come a dire che, nonostante la mancanza del nome dell’autore nelle copie presentate alla Fiera di Pasqua, la contestuale presenza del catalogo di Hartung toglieva ogni possibilità di illazione, non tanto su chi fosse il vero autore – che questo Kant l’aveva già detto dettagliatamente – quanto sul carattere intenzionale dell’omissione da parte dell’editore. Ma alla luce delle vicende in cui si era articolata la genesi del Saggio è soprattutto possibile valutare in modo più adeguato l’atteggiamento manifestato da Fichte stesso nei confronti della propria opera. L’orientamento della letteratura secondaria è stato, prevalentemente, quello di far coincidere la Selbsteinschätzung (l’« autovalutazione ») fichtiana relativamente al Saggio con le espressioni di insoddisfazione che ripetutamente – prima della pubblicazione, a pubblicazione avvenuta e, infine, ancora molti anni dopo – Fichte usò nei confronti della propria opera. La questione è importante perché trascina con sé quella del posto che al Saggio compete nel quadro complessivo del pensiero fichtiano e del significato che esso riveste nella – e per la – evoluzione di tale pensiero. Trovando conforto in quelle espressioni, la gran parte degli interpreti ha infatti
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Lettera del 21 maggio 1792 (GA, iii, 1, p. 310). « Allgemeine Literatur-Zeitung », 22 agosto 1792, n. 102 (cfr. GA, i, 1, p. 11) ; corsivi nostri.
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considerato l’opera come un lavoro, tutto sommato, isolato nel quadro complessivo della produzione fichtiana ; solo in tempi recenti, grazie a una maggiore disposizione filologica e, conseguentemente, all’approntamento di migliori strumenti di accesso alle fonti (primo fra tutti l’edizione critica delle opere di Fichte), 1 questo tipo di considerazione ha potuto trovare la necessaria correzione. 2 Non è possibile semplificare il significato delle dichiarazioni di insoddisfazione a proposito del Saggio – ripetutamente rese per iscritto da Fichte ai suoi corrispondenti – quasiché tali dichiarazioni rappresentassero un ripudio – mai veramente avvenuto – della
1 Cfr. supra, nota 2, p. 273. Un grande significato per la comprensione della produzione iniziale di Fichte – e dunque, indirettamente, per l’inserimento del Saggio in un quadro evolutivo organico – ha avuto il lavoro di R. Preul, Reflexion und Gefühl. Die Theologie Fichtes in seiner vorkantischen Zeit, Berlin 1969. 2 In ambito di lingua tedesca questo è soprattutto il caso di H. J. Verweyen (cfr. Einleitung alla nuova edizione, a sua cura, del Versuch einer Kritik aller Offenbarung, Hamburg 1983, la quale ha sostituito nella classica « Philosophische Bibliothek » dell’editore Meiner l’edizione curata a suo tempo da F. Medicus ; v. inoltre dello stesso : Offenbarung und autonome Vernunft nach J.G. Fichte, in Erneuerung der Transzendentalphilosophie im Anschluß an Kant und Fichte, a cura di K. Hammacher e A. Mues, Stuttgart-Bad Cannstatt 1979, pp. 436-455) e Fichtes Religionsphilosophie. Versuch eines Gesamtüberblicks, in « Fichte-Studien », vol. 8, 1995) ; significativi, in questo senso, anche R. Stalder, Der neue Gottesgedanke Fichtes. Eine Studie zum Atheismusstreit, in « Theologie und Philosophie », 54 (1979), pp. 481-541 ; M. Seckler, Auf klärung und Offenbarung, in Christlicher Glaube in moderner Gesellschaft, a cura di F. Böckle e altri, vol. 21, Freiburg 1980, pp. 8-78 ; J. Widmann, Johann Gottlieb Fichte. Einführung in seine Philosophie, Berlin-New York 1982 ; Kessler, op. cit. ; Winter, op. cit. ; F. Wittekind, Von der Religionsphilosophie zur Wissenschaftslehre. Die Religionsbegründung in Paragraph 2 der zweiten Auflage von Fichtes Versuch einer Kritik aller Offenbarung, in Anfänge und Ursprünge zur Vorgeschichte der jenaer Wissenschaftslehre, a cura di W. H. Schrader, Amsterdam-Atlanta 1997, pp. 101-115 (« Fichte-Studien », vol. 9). In ambito di lingua francese v. J. C. Goddard, Introduction a Essai d’une critique de toute révélation (1792-1793), Paris 1988 (questa traduzione francese prende a base la seconda edizione del Saggio, riportando in appendice i passaggi soppressi della prima edizione : il che lascia intendere come il Curatore privilegi la seconda edizione anche nel quadro dell’interpetazione complessiva del pensiero fichtiano) ; dello stesso, Christianisme et philosophie dans la première philosophie de Fichte, in « Archives de Philosophie », 55 (1992), pp. 199-220. Per quanto riguarda i contributi italiani : fra i molti lavori di C. Cesa che contribuiscono, direttamente o indirettamente, a una più adeguata valutazione del Saggio e della sua collocazione storica, si vedano almeno Morale e religione tra Kant e Fichte, in « Teoria », 1 (1982), pp. 3-20 (poi in J. G. Fichte e l’idealismo trascendentale, Bologna 1992, pp. 59-80) ; Der Begriff « Trieb » in den Frühschriften von J. G. Fichte (1792-1794), in Kant und sein Jahrhundert, a cura di C. Cesa e N. Hinske, in collaborazione con S. Carboncini, Frankfurt a.M. 1993, pp. 165-186 ; Introduzione a Fichte, Roma-Bari 1994 (specie pp. 156-173) ; inoltre, di rilievo rispetto al problema in questione : G. Rotta, Il « Saggio di una critica di ogni rivelazione » di J. G. Fichte e la filosofia pratica di Kant, in « Studi kantiani », 3 (1990), pp. 63-89 e, della stessa, La « idea Dio ». Il pensiero religioso di Fichte fino all’« Atheismusstreit », Genova 1995 ; M. Barale, Il Dio ragionevole. Percorsi etici e ontoteologici del primo idealismo tedesco, Pisa 1992 (pp. 95-168) ; M. Ivaldo, Libertà e ragione. L’etica di Fichte, Milano 1992 e, dello stesso, La filosofia della religione fra Kant e Fichte. Sul « Versuch einer Kritik aller Offenbarung », in Kant e la filosofia della religione, a cura di N. Pirillo, Brescia 1996, vol. 2, pp. 483-517. Non è questa la sede per interrogarsi sui complessi motivi per cui in generale – al di là, dunque, di singoli autori e dell’influenza del loro insegnamento – negli ultimi decenni i contributi italiani rilevanti in ordine a una più adeguata comprensione del Saggio e, più in generale, di Fichte risultano decisivi ; certo è che, da questo punto di vista, quella che Cesa ha chiamato la recezione « disarticolata » del pensiero tedesco (La première réception de Fichte et Schelling en Italie [1804-1862], in « Revue de métaphysique et de morale », 1994, pp. 9-17), disarticolando – appunto – Fichte (e Schelling) da Hegel, si è ribaltata paradossalmente in un fattore di vantaggio per la storiografia a carattere filologico, successiva alla crisi dell’hegelianizzante neoidealismo italiano. Molto significativo dei nuovi orientamenti storiografico-filologici è il volume a collaborazione internazionale Anfänge und Ursprünge. Zur Vorgeschichte der Jenaer Wissenschaftslehre, a cura di W. H. Schrader, cit. Nella letteratura anteriore alla revisione filologico-storiografica qui ricordata, elementi correttivi rispetto all’orientamento generalizzato, che considerava il Saggio come un’opera isolata, erano presenti in Leon, Fichte et son temps, cit. ; H. Heimsoeth, Fichte, München 1923 (rist. Nendeln-Liechtenstein 1973) ; M. Wundt, Johann Gottlieb Fichte, Stuttgart 1927 (rist. Stuttgart 1976) e Fichte-Forschungen, Stuttgart 1929 (rist. Stuttgart 1976).
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 275 propria opera o, comunque, autorizzassero a considerarla un episodio, e magari un episodio isolabile, nell’arco dell’attività fichtiana. Abbiamo visto infatti quanto Fichte tenesse a un giudizio di Kant sul proprio lavoro. La ragione di ciò poteva essere sia che Fichte riteneva il Saggio atto a ben figurare agli occhi di Kant, sia (anche o invece) che egli riteneva di aver toccato con l’opera questioni le quali, per contenuto o per modo di filosofare (per esempio, la stessa idea di « critica », 1 richiamata già nel titolo), erano rilevanti per la filosofia critica. Quali che fossero le ragioni per cui il giudizio di Kant stava a cuore a Fichte, certo tale parere gli stava a cuore indipendentemente dalla pubblicazione, e infatti, come abbiamo visto, fu inseguito da Fichte anche a pubblicazione avvenuta. Di più, non lui, ma Kant aveva pensato di fare dello scritto oggetto di pubblicazione e – cosa che a Fichte doveva bruciare – vi aveva pensato come alternativa, o almeno in alternativa, a un prestito personale in denaro. La pubblicazione, poi, aveva dato luogo a una situazione, per un verso, altamente lusinghiera per Fichte, il quale vedeva il proprio scritto anonimo considerato all’altezza di un Kant dalle recensioni dei maggiori studiosi e delle più importanti riviste (oggi si parlerebbe forse di referees...) ; ma per altro verso la situazione era altamente imbarazzante, nella misura in cui poteva far sorgere il sospetto che Fichte fosse a parte di un’eventuale malizia dell’editore ; comunque la situazione prodottasi era tale da lasciare insoddisfatta la legittima ambizione ad un riconoscimento meritato dall’opera di per se stessa, e non grazie ad effetti di trascinamento da parte del nome già illustre dell’autore presunto. Le vicende della pubblicazione debbono dunque aver pesato nel determinare l’insoddisfazione di Fichte (e, ancor più, le sue dichiarazioni in tal senso). Ciò appare evidente soprattutto se tali dichiarazioni – anziché venir considerate in modo indifferenziato, come per solito accade – vengono esaminate diacronicamente, tenendo conto del contesto e dello stadio evolutivo del pensiero fichtiano nel momento in cui vengono rese. Diviene allora possibile sceverare in qualche misura l’insoddisfazione relativa alle vicende editoriali (e, sotto questo riguardo, intuire possibili aspetti apologetici o strategici nelle dichiarazioni rese) dall’effettiva insoddisfazione per l’opera. Sotto quest’ultimo riguardo, però, l’insoddisfazione fichtiana rappresenta, in larga misura, l’aspetto negativo dell’inesausto pungolo che muove il pensiero di Fichte verso – diremmo – la sua Bestimmung ; 2 considerata in positivo, essa è una manifestazione dell’ambizione teoretica, ovvero dell’afflato etico-intellettuale che muove tutta l’attività di Fichte dal momento in cui egli diviene filosofo (vale a dire dal momento dell’incontro con il pensiero di Kant) e che, tra l’altro, lo porterà a riscrivere sempre di nuovo la « dottrina della scienza » : ambizione e afflato – Streben – che dunque non vanno affatto ridotti in senso psicologistico, giacché hanno un preciso riscontro nei contenuti teorici e – a partire dalla prima idea della « dottrina della scienza » – nello stesso impianto sistematico del pensiero fichtiano. È significativo il fatto che, quando Fichte è ormai assai inoltrato nel cammino della « dottrina della scienza », i toni di autocritica retrospettiva si inseriscano
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Per diverse interpretazioni della concezione della « critica » messa in opera dal Saggio cfr. Goddard, Introduction a Essai, cit., pp. 12-13, che ritiene trattarsi di una concezione rigorosamente kantiana ; Barale, Il Dio ragionevole, cit., pp. 150-161, che sottolinea in particolare il diverso modo di concepire la « deduzione » all’interno della concezione critica ; Ivaldo, La filosofia della religione, cit., pp. 486-487, il quale ritiene che, rispetto alla concezione kantiana, quella di Fichte sia una concezione peculiare, che porta a prendere in considerazione il rapporto tra vita e filosofia. 2 Per il significato di questo termine nell’epoca v. G. Moretto, « Entsagung » e « Bestimmung des Menschen » nell’età di Goethe, in « Archivio di filosofia », 59 (1991), pp. 141-171. Inoltre si vedano, più avanti, la nota 3, p. 290 della presente « Introduzione » e la nota 3 alla traduzione del testo.
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vieppiù nel quadro di una critica alle filosofie e agli orientamenti culturali che la « dottrina della scienza » aveva superato : in questo quadro stesso sfumano e sembrano risolversi i motivi di insoddisfazione nei confronti della propria opera giovanile ; e questa autocritica che si risolve in critica diviene sempre più un modo per dire la validità delle posizioni successivamente e progressivamente guadagnate. 1
1 A documentazione di quanto si è detto, qui non è possibile fornire se non qualche esempio, relativo a differenti momenti della vita di Fichte. Quando il libro era già consegnato all’editore per la stampa, Fichte dichiara a un corrispondente : « Se per caso [il libro] dovesse cadere nelle Sue mani, stia sicuro che conoscevo prima di tutti e meglio di chiunque tutte le insufficienze che chiunque vi scoprirà e che solo l’approvazione di un Kant, al quale l’avevo sottoposto in manoscritto, ha potuto rendermi così temerario da farlo apparire a firma del mio nome (unter meines Namens Unterschrift) » (lettera del 15 gennaio 1792 [a J. F. Pietzsch ?] ; GA, iii, 1, pp. 280-281) : consapevolezza dei limiti del proprio lavoro o consapevolezza di sé che porta a prevenire le critiche altrui ? o modo di enfatizzane la sovraeminenza dell’approvazione di Kant ? Non si tratta, ovviamente, di alternative ; e, sapendo come le cose sarebbero andate di lì a poco, colpisce l’espressione insistita « a firma del mio nome ». Dopo la pubblicazione e le recensioni favorevoli, Fichte scrive alla fidanzata : « Perché bisognava che come scrittore avessi un colpo di fortuna così singolare, straordinario e sino ad allora mai sentito ? Altri che non debuttarono certo con meno talento furono affogati nella massa e dovettero combattere la metà della vita per essere solo notati. Io fui elevato sin dalla mia prima apparizione al favore di un evento imprevedibile e incalcolabile » (lettera [di fine aprile-inizio maggio 1793] a M. J. Rahn ; GA, iii, 1, pp. 403-404) : modestia o ambizione insoddisfatta per una attribuzione erronea che rendeva dubitabile il successo ? o imbarazzo di fronte alla situazione prodottasi, rispetto alla quale, comunque, nulla meglio dell’esibizione di siffatto tormento poteva fugare sospetti di aver avuto nozione di quanto si preparava ? Ancora una volta non si tratta di alternative, così come non avrebbe senso distinguere l’ambizione personale dall’ambizione teoretica. Da quest’ultimo punto di vista, un esempio ancora più esplicito è fornito dalle seguenti espressioni rivolte a Weißhuhn quasi due anni dopo, quando i turbamenti della malintesa attribuzione si erano ormai calmati e Fichte, oltre ad aver pubblicato la seconda edizione modificata del Saggio, era ormai all’opera su terreni teoretici ulteriori : « Lei dice che la mia Critica della rivelazione è andata ancora oltre ciò che Lei si aspettava da me. Allora Lei da me non si aspettava granché. Le dirò per il momento fra di noi – finché a suo tempo lo potrò dire al mondo intero – che la Critica della rivelazione mi sembrò molto mediocre (mittelmäßig) quando l’ebbi scritta e che vi fu veramente bisogno dell’incoraggiamento (Zureden) di Kant e della mia mancanza di denaro per rendermi possibile di darla alle stampe. Da quel tempo credo di essere andato avanti un bel po’ » (lettera del 4 giugno 1974 ; GA, iii, 2, p. 280) : ormai – in quel torno di tempo Fichte aveva elaborato i primi progetti di « dottrina della scienza » – il ruolo di Kant è ricordato in associazione allo stato di necessità materiale ed è ricondotto ad « incoraggiamento », piuttosto che ad una approvazione filosofica avente – nonostante ogni insoddisfazione dell’autore nei confronti del proprio lavoro – valore di istanza ultima e di criterio di verità. Così, invece, era stato anni prima, quando allo stesso Weißhuhn Fichte aveva scritto (l’11 ottobre 1791) chiedendogli un giudizio sull’opera che doveva vedere la luce (circostanza da non sottovalutare nel considerare l’atteggiamento autocritico e preveniente manifestato dall’autore, il quale richiedeva espressamente un giudizio di cui poter tenere conto per ulteriori interventi sul manoscritto prima della stampa) : « Personalmente – non è modestia ipocrita da parte dell’autore – sono proprio insoddisfatto. La prova un’altra volta, giacché per il momento mi guarderò bene dallo sbranare il mio proprio parto con truce brama di sangue. Per parte mia avrebbe potuto tranquillamente marcire tra altri esercizi [...] I risultati [del Saggio] sono conformi all’opinione di Kant, come so in base a conversazioni che ho avuto con lui. Ma non dico questo quasi a intimidirLa. Non è nulla di nuovo giungere a risultati giusti per mezzo di premesse non giuste » (GA, iii, 1, p. 269 ; si noti l’equazione, qui ancora solida, tra conformità all’opinione di Kant e giustezza di un risultato). Per quanto riguarda, poi, il periodo più tardo, in cui l’autocritica confluisce nella critica, si vedano queste espressioni, eloquenti per quanto riguarda il kantismo : « In occasione dell’influenza del potente spirito del Nord si è mancato molteplicemente. Non ho scritto anche io la mia Critica della rivelazione, che solo il riguardo per alcuni uomini meritevoli che l’hanno lodata mi ha trattenuto dal qualificare con gli stessi e con ancor più duri predicati. Già allora, quando venne stampata, conoscevo sin troppo bene il suo significato, proprio a Kant la trasmisi con un’autorecensione priva di riguardi e, come io ritengo, dai miei trent’anni mi sono anche migliorato » (lettera a L. H. Jacob del 4 marzo 1799 ; GA, iii, 3, p. 207 ; per la menzionata « autorecensione » cfr. più avanti, alla nota 29) ; e per quanto riguarda l’illuminismo si veda la satira Friedrich Nicolai’s Leben und sonderbare Meinungen, dove Fichte, nel quadro della sua ormai violenta polemica antilluministica, schernisce sarcasticamente i suoi recensori : « Dopo che egli [Fichte stesso] ebbe scritto un cattivo libro, già
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 277 Lungi dal confortare un’interpretazione che rende il Saggio un episodio isolato, le espressioni fichtiane di insoddisfazione, con il loro perdurare e, insieme, il loro differente configurarsi in relazione all’evoluzione dell’attività del filosofo, lasciano intendere piuttosto come l’opera possegga un significato in relazione a tale attività nel suo complesso, e mostrano come agli occhi di Fichte stesso l’opera non abbia mai cessato di apparire il punto a partire dal quale andava misurato il progresso compiuto dal proprio pensiero. In effetti, il Saggio di una critica di ogni rivelazione non solo rappresenta – come abbiamo già detto – lo scritto con cui Fichte diviene filosofo, ma è anche un’opera che – come dobbiamo vedere – individua alcuni motivi essenziali del pensiero successivo e, comunque, funge da anello di congiunzione fra gli interessi religiosi giovanili e la nuova visione filosofica nel cui crogiolo questi ultimi si fondono e si riconfigurano totalmente. Ancora (ma si tratta di aspetti strettamente congiunti), l’opera rappresenta il punto di approdo della giovanile formazione illuministica e, insieme, il punto di partenza della nuova visione idealistico-trascendentale. Il catalizzatore di questo passaggio è l’ispirazione kantiana del trentenne Fichte : nel peculiare e tormentato kantismo dell’opera i due versanti culturali menzionati non solo collimano, ma in qualche misura coincidono indistinguibilmente. Una così singolare fisionomia dell’opera si capisce meglio se si tiene presente che, nonostante i tempi brevissimi di composizione del Saggio dal momento in cui a Fichte « venne l’idea » di scriverlo fino all’approntamento del testo per l’invio a Kant – tempi dovuti all’urgenza delle circostanze materiali –, la redazione del lavoro si è prolungata in realtà su un tempo assai più lungo e, in un certo senso, non è mai stata completata. Un’ulteriore ragione dell’insoddisfazione fichtiana per il Saggio è da ravvisare proprio nel fatto che l’urgere delle circostanze non ha mai consentito all’autore di presentare un prodotto che lui – non altri – ritenesse finito. 1 Esagerando e semplificando, si potrebbe dire che del Saggio esistono tre versioni successive – la minuta manoscritta, che a sua volta documenta varie fasi di intervento, 2 la prima edizione e la seconda edizione
allora da lui riconosciuto per tale, e che per contro fu energicamente lodato in una famosa rivista e, subito di seguito, invitato a collaborare a questa rivista, ehi – pensò – questo è tutto ? ! » (GA i, 7, p. 450). 1 Come risulta dal diario di Fichte, egli avrebbe voluto rivedere il manoscritto ancor prima dell’invio a Kant. Ma la revisione non era ancora avvenuta il 18 agosto 1791, quando il manoscritto fu inviato con una lettera d’accompagno in cui Fichte diceva a Kant di inviare il lavoro per presentarsi a lui, ma di essere tuttavia cosciente che esso era « cattivo » e di sperare che ciò potesse essere scusato in ragione del breve tempo che era trascorso dacché egli era divenuto discepolo del criticismo e in ragione delle minacciose condizioni di vita in cui si trovava ; Kant – concludeva – avrebbe potuto giudicare se egli avrebbe mai potuto produrre qualcosa di meglio (GA, iii, 1, p. 254 ; a proposito della qual lettera va osservato che, se non v’è ragione di dubitare della sincerità di Fichte quando dice di ritenere cattivo il proprio lavoro, non si può nemmeno dimenticare che egli, sconosciuto dottorando, si stava rivolgendo alla benevolenza del grande Kant). In data 28 agosto 1791 Fichte scrive nel suo diario di viaggio : « Ancora ier sera cominciai a rivedere la mia Critica e pervenni a pensieri davvero buoni e profondi, i quali purtroppo mi convinsero che la prima elaborazione è profondamente superficiale » (GA, ii, 1, p. 416). Ma la rielaborazione non gli fu resa possibile da preoccupazioni materiali e già il 6 settembre Kant gli propose di pubblicare il manoscritto ; quando Fichte ebbe occasione di parlargli della sua intenzione di rielaborare ancora lo scritto, Kant lo indusse a lasciar cadere il proposito (« quando gli parlai di rielaborazione disse di ritenere che fosse ben scritto. E vero questo ? Eppure lo dice Kant » : GA, ii, 1, p. 418). Ma come abbiamo visto (cfr. nota 28), ancora in ottobre Fichte manifestava a Weißhuhn l’intenzione di rivedere l’opera ; ciò mentre, a causa delle difficoltà censorie, a Fichte, come anche abbiamo ricordato, si poneva il problema di revisioni dovute a ragioni esterne. 2 La minuta manoscritta è pubblicata nel vol. ii, 1 della GA a cura di Hans Jacob. Essa rappresenta una fase redazionale anteriore a quella dell’opera pubblicata in prima edizione, ma successiva al testo che Fichte
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del 1793 – e che esso non fu mai veramente concluso. Qui di seguito forniremo, dunque, alcune indicazioni sulla storia redazionale del Saggio, portando l’attenzione su quelle varianti che documentano nel modo più evidente il significato dell’opera in rapporto all’evoluzione del pensiero fichtiano. 2. Nella dimostrazione dell’esistenza di Dio svolta nel secondo paragrafo della minuta manoscritta, 1 Fichte poneva ancora esplicitamente tra parentesi, quale pensiero incidentale, il passo che considera l’affermazione dell’esistenza di un essere nel quale la somma perfezione morale è unita alla somma beatitudine « del tutto identica alla proposizione “lo scopo finale della legge morale è possibile” ». 2 Si tratta di una dimostrazione dell’esistenza di Dio in cui Dio, ovvero lo scopo finale, è pensato senza alcun « collegamento funzionale » 3 con il mondo degli esseri morali finiti. Ciò è tanto vero che Fichte stesso, dopo aver affermato la piena identità di ente sommo (sommamente morale e sommamente beato) e possibilità della legge morale, prosegue passando, bensì, alla considerazione degli esseri morali finiti, ma, appunto, passandovi come a considerazione del tutto distinta sotto il profilo espositivo e, soprattutto, evidenziando il distacco dall’argomento precedente sotto il profilo contenutistico. Il contenuto della nuova considerazione infatti consiste precisamente nell’affermazione dell’impossibilità, per noi, di pensare in cosa consista e come sia possibile la beatitudine di un ente siffatto : « in tal modo la determinazione del suo concetto [di tale ente] non avanza minimamente. Per poterla fare avanzare, dobbiamo prendere in considerazione gli altri esseri morali che noi conosciamo, e questi siamo noi stessi ». 4 Il collegamento che da questa considerazione viene stabilito tra Dio come scopo finale e noi è, quindi, di tipo esclusivamente conoscitivo, e per di più negativo, risultante, vale a dire, dalla assoluta trascendenza conoscitiva della somma beatitudine. Ora, questa teologia filosofica che identifica tout court la possibilità dello scopo finale della legge morale con l’esistenza dell’ente sommo, prima e indipendentemente dalla sua relazione con gli enti razionali finiti – questa teologia così aseica e, con ciò stesso, così ontologica, anzi ontoteologica, nonostante l’apparente quadro di riferimento morale – è un pensiero piuttosto curioso da un punto di vista kantiano. Si potrebbe pensare che proprio per questa ragione Fichte, nella minuta manoscritta, più vicina al testo inviato a Kant, ne abbia evidenziato
aveva inviato a Kant. Non possediamo quest’ultimo testo, che però, come risulta da varie indicazioni nella corrispondenza e negli appunti di Fichte, doveva avere un’ampiezza sensibilmente inferiore a quella della minuta manoscritta (essa stessa meno ampia del testo a stampa). Anche in questa minuta, e più precisamente nei fogli intitolati « Aggiunte e correzioni », abbondano le espressioni di insoddisfazione e le autocorrezioni di Fichte rispetto al lavoro compiuto precedentemente e inviato a Kant ; citiamo solo le seguenti : « Mi riesce doloroso, dopo aver riletto completamente questo saggio, trovare che in complesso esso, per il quale avrei così tante ragioni di desiderare che potesse essere quanto di meglio era nelle mie capacità, è uno dei lavori più mediocri che abbia mai fatto [...] Avevo così poco rispetto nei confronti del grande uomo a cui lo avevo destinato, e nei miei stessi confronti, da voler presentare un lavoro da strimpellatore ? » (GA, ii, 1, pp. 113 e 115). 1 Per un’analisi dettagliata delle differenze fra minuta manoscritta e prima edizione cfr. Verweyen, Einleitung all’edizione Meiner del Versuch, cit., pp. xviii-xl. 2 Cfr. p. 7 del Saggio di una critica di ogni rivelazione, cit. 3 L’espressione « collegamento funzionale » è di Verweyen (op. cit., p. xx) e merita di essere ricordata ; la lettura fichtiana di questo interprete si caratterizza complessivamente per la messa in evidenza del superamento di una teologia filosofica « funzionalistica » nell’evoluzione del pensiero di Fichte. 4 Vedasi pp. 7-8 del Saggio..., cit.
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 279 il carattere incidentale con le parentesi, poi lasciate cadere nella redazione a stampa. Ma più probabilmente, o ancor più che ciò, la teologia filosofica e i termini kantianeggianti in cui essa variamente si esprime nel corso delle esitazioni fichtiane sono proprio uno dei punti sui quali Fichte è, in questi anni, massimamente incerto. In effetti questo argomento aseico verrà abbandonato da Fichte nella seconda edizione e sostituito – come vedremo – con un argomento per l’esistenza di Dio totalmente diverso. Sempre nel secondo paragrafo della prima edizione v’è anche un altro punto in cui quest’ultima differisce dalla minuta manoscritta : quello in cui Fichte ritiene di poter dedurre un primo concetto di religione in base a una considerazione dell’idea di « giusto » (recht) come scopo finale. Già nella minuta – molto kantianamente, ma con un concetto di recht (e Recht) che è tipicamente fichtiano 1 e darà luogo a una quantità di sviluppi nelle differenti redazioni del Saggio e oltre – Fichte aveva affermato che la ragione « comanda assolutamente, senza considerare Dio, e il giusto non è giusto perché Dio lo comanda, bensì Dio lo comanda perché è giusto ». 2 Nella prima edizione – con una riflessione che colloca diversamente, rielaborandole, argomentazioni dell’inizio del paragrafo 7 del manoscritto – Fichte aggiunge che se questa idea del giusto viene considerata in sé, « senza riguardo alla facoltà appetitiva determinata dalla medesima », essa rappresenta « un concetto dato dalla ragione alla nostra capacità di giudizio per riflettere su certe cose nella natura, per considerarle ancora da un altro punto di vista che quello del loro essere e cioè quello del loro dover essere ». 3 Ci troviamo qui di fronte a una concezione che, nonostante le apparenze, e pur lavorando anch’essa sull’idea di fine ultimo, è, in un certo senso e per un certo aspetto, opposta a quella di cui si diceva sopra e che abbiamo chiamato onto-teologica. Si tratta di una concezione che va oltre Kant – quanto meno il Kant della Ragion pratica – utilizzando la Critica del giudizio in una direzione che, come è stato giustamente notato, 4 annuncia la prospettiva della « dottrina della scienza » e il bando della « cosa in sé » dalla filosofia trascendentale. Il modo in cui Fichte corrobora le sue considerazioni non è meno significativo in questa direzione : « l’esperienza – egli prosegue infatti – conferma altrettanto universalmente che noi necessariamente applichiamo questo concetto [del dovere, del Sollen] a certi oggetti e incessantemente esigiamo il loro accordo con esso ». 5 È vero che questa prospettiva, inizialmente perentoria, si attenua cammin facendo : gli esempi che Fichte adduce relativamente all’asserita conferma universale da parte dell’esperienza sono tratti, di fatto, dal modo in cui noi ci rapportiamo al « mondo delle creazioni poetiche » (ciò che rivela, ancora una volta, l’influsso della Critica del giudizio] ed equiparano ad esso il nostro rapportarci al mondo reale ; poi, procedendo ancora, Fichte ritrova l’ontologia (e vorremmo ancora dire, in certo senso, l’ontoteologia) della Ragion pratica quando, riprendendo l’elaborazione del tormentato concetto di recht e distinguendo ora il « giusto in noi » e il « giusto fuori di noi », afferma che riguardo a quest’ultimo « la legge morale non può proprio pretendere » che noi si eserciti una causalità, come invece la esercitiamo riguardo al primo ; infatti – egli spiega, in qualche modo regredendo rispetto alle precedenti considerazioni sul concetto del dovere in sé e la asserita conferma universale dell’esperienza per quanto concerne la sua necessaria applicazione – « non siamo in grado di considerare il giusto fuori di noi come immediatamente dipendente da noi ». 6
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Per il significato di recht e Recht v. la nota di Fichte alla p. 12 del Saggio..., cit. 3 GA, ii, 2,p. 33. Cfr. Saggio..., cit., p. 13. 4 5 Verweyen, Einleitung a Versuch, cit., p. xxiii. Cfr. Saggio..., cit., p. 14. 6 Cfr. Saggio..., cit., p. 15. 2
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Resta comunque il fatto che, nonostante tutte le incertezze del kantismo fichtiano, il segnale del suo oltrepassamento per mezzo della radicalizzazione della prospettiva trascendentale è stato dato chiaramente. Si può dire, anzi, che tali incertezze sono rivelative meno di una insicura interpretazione di Kant che della impossibilità per Fichte di acquietarsi all’interno della prospettiva kantiana. In effetti, seppure in modi opposti, i due punti innovativi rispetto al manoscritto sin qui menzionati indicano entrambi nel senso di una radicalizzazione, incapace di contentarsi di un kantismo inteso come compromissoria via di mezzo. Peraltro, nella loro polarizzazione – aseità ontoteologica, da un lato, e religione dedotta da una meditazione sul finalismo che dissolve la cosa in sé, dall’altro – questi due punti innovativi della prima edizione rischiano di mettere in crisi l’implicazione diretta di teologia filosofica e religione (e conseguentemente, potremmo aggiungere, di teologia filosofica e filosofia della religione) : 1 implicazione che, pure, fornisce al paragrafo la sua stessa struttura (la domanda « come, dunque, dalla teologia sorge la religione ? » 2 vi funge, infatti, da cerniera). Che si trattasse di qualcosa di più di un rischio lo avrebbe dimostrato, di lì a qualche anno, la « polemica sull’ateismo » : delle posizioni enunciate negli scritti fichtiani intorno ai quali si addensò la polemica il Saggio contiene più di un prodromo. 3 Anche l’intenzione di mettere in luce l’implicazione immediata di teologia e religione è del tutto conforme alle indicazioni della Critica del giudizio ; nondimeno, anche in questo caso il modo in cui effettivamente Fichte ritiene di mettere in luce tale implicazione oltrepassa Kant. Nella terza Critica infatti Kant aveva bensì affermato : « una teologia conduce anche immediatamente alla religione » ; ma la ragione di questa implicazione immediata era una comprensione della religione come « conoscenza dei nostri doveri in quanto ordini divini ». 4 Ora, nel secondo paragrafo del Saggio viene effettivamente presentato, tra l’altro, un concetto di religione risultante dalla considerazione di Dio come legislatore morale ; tale concetto, anzi, viene presentato con ampiezza e da luogo a quella nota definizione della religione come « alienazione di ciò che è nostro » (Entäußerung des unsrigen) 5 che ha indotto più di un interprete a scorgervi anticipazioni feuerbachiane. Tuttavia questo è uno dei due concetti di religione che Fichte elabora in risposta alla domanda « come, dunque, dalla teologia sorge la religione ? » ; l’altro con
1 Qui, ovviamente, parliamo di filosofia della religione non in senso generale – come quando precedentemente ne evidenziavamo la natura storicamente strategica – bensì in senso stretto, come considerazione filosofica dell’oggetto o della categoria « religione », comunque poi vengano definiti gli eventuali rapporti di questo oggetto o categoria con « Dio ». 2 Cfr. nel Saggio..., cit., p. 11. Del rapporto tra teologia, filosofia e religione Fichte si era già occupato negli Aforismi del 1790 ; allora però le due grandezze gli apparivano ancora in rapporto di contrasto reciproco (cfr. GA, ii, 1, p. 287). 3 Di Cesa è del tutto condivisibile non solo l’affermazione secondo la quale a Fichte importava assai più definire la religione che definire Dio (Introduzione, cit., p. 157), ma anche la tesi secondo la quale nel Saggio, « per approssimazioni successive » (Morale e religione, cit., p. 9), avviene il ribaltamento – destinato poi a durare in Fichte – del rapporto kantiano morale-religione : « da supplementum la religione diviene la forza etica traente » (p. 20). Nel nuovo quadro storiografico di cui facevamo cenno alla nota 25, la periodizzazione che inserisce il Saggio in un ambito temporale esteso sino alla polemica sull’ateismo ha trovato applicazione nella monografia di Rotta, La « idea Dio », cit., e in Winter, Die theologische und philosophische Auseinanderset4 Cfr. Akademie-Ausgabe, v, p. 481. zung, cit. 5 Nella presente traduzione p. 23 (e cfr. ivi la relativa nota del Curatore). Sui vari sensi che il « trasferimento » (Übertragung) comportato da questa « alienazione » verrà ad acquistare nel prosieguo della produzione fichtiana cfr. Cesa, J. G. Fichte e l’idealismo trascendentale, cit., pp. 213-215.
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 281 cetto, manifestamente diverso, che Fichte elabora, presentandolo subito, come prima risposta alla domanda che egli ha posto, è appunto quello illustrato poc’anzi, basato sulla considerazione del finalismo come legge di riflessione dataci dalla ragione, cioè basato sulla considerazione che – almeno inizialmente, secondo quanto dicevamo – presenta affermazioni le quali vanno oltre la stessa Critica del giudizio e anticipano le prospettive fichtiane della dottrina della scienza. 1 Le due linee argomentative e i due distinti concetti di religione a cui esse adducono erano assenti nella minuta manoscritta, trovandosi qui, in vece loro, solo una rapida fondazione della « religione razionale pura » : questa sarebbe consistita nel vedere in Dio il legislatore morale e avrebbe corrisposto al « più puro bisogno della nostra natura morale ». 2 Siffatta religione razionale pura, pur avvicinandosi – almeno nel suo contenuto, se non nelle non meglio precisate ragioni della sua insorgenza – alla religione della seconda linea argomentativa della prima edizione, era comunque una religione qualificata ; la soppressione della sua menzione esacerbava pertanto i problemi di armonizzazione che si pongono nel momento in cui questa religione qualificata, della quale rimanevano espliciti e non soppressi residui nel resto dell’opera a stampa (nel paragrafo 6, che distingue « religione razionale pura » e « religione naturale »), venga rapportata alla religione non qualificata (qual è, appunto quella dedotta, secondo le due diverse linee argomentative, nel secondo paragrafo della prima edizione) e alla religione « in generale » del paragrafo 3 (suddivisa in « naturale » e « rivelata »). Tutte le incertezze palesate dalle differenze fra minuta manoscritta e prima edizione per quanto riguarda il secondo paragrafo spiegano ad abundantiam come nella seconda edizione dell’opera Fichte abbia inserito un nuovo secondo paragrafo (intitolato « Teoria della volontà come preparazione a una deduzione della religione in generale »). Il nuovo paragrafo viene così a precedere – come « preparazione », appunto, secondo la giustificazione sistematizzante fornita dal suo stesso titolo – 3 il vecchio secondo paragrafo (« Deduzione della religione in generale »), ora rinumerato come paragrafo 3 e parzialmente modificato. Naturalmente, vi sono ragioni occasionali specifiche – riconosciute dalla letteratura secondaria – che hanno condotto Fichte alla redazione di questo nuovo paragrafo ; tra queste, di massima importanza è la meditazione, da parte di Fichte, in questi mesi tra prima e seconda edizione, del pensiero di Reinhold, e particolarmente dell’interpretazione della filosofia morale kantiana offerta da questi. 4 Ma gli aspetti occasionali si spiegano essi stessi in funzione dell’insoddisfazione di fondo che Fichte provava nei confronti del vecchio secondo paragrafo e delle soluzioni
1 Per questo concetto di religione cfr. nel Saggio..., cit., pp. 11-19, cioè la parte che inizia dalla domanda sul rapporto teologia-religione e si conclude con la eloquente frase « Qui dunque vi è già religione, fondata sull’idea di Dio come determinatore della natura secondo fini morali » ; per l’altro concetto di religione si vedano le argomentazioni che seguono immediatamente – proseguendo sino alla fine del paragrafo – e che altrettanto eloquentemente si aprono con le espressioni « Ora, però, l’universale valere della volontà divina per noi come esseri passivi ci consente di concludere altresì alla validità universale della medesima per noi anche come esseri attivi » (p. 19) : come si vede Fichte stesso distingue nettamente i due concetti di 2 GA, ii, 1, pp. 32-34. cui parliamo nel testo. 3 È significativo che anche l’altro paragrafo aggiunto ex novo da Fichte nella seconda edizione rechi nel titolo l’espressione giustificativa e sistematizzante « come preparazione » : cfr. nell’Appendice al Saggio il paragrafo 5 della seconda edizione, intitolato « Esposizione formale del concetto di rivelazione, come preparazione ad una esposizione materiale del medesimo ». 4 A questo proposito la trattazione più analitica e completa è quella di Rotta in La « idea Dio », cit., pp. 109-121.
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varie e incerte che esso, sulla scorta di Kant, era andato prospettando ai grandi problemi di quella che potremmo chiamare la metafisica critica : in questo paragrafo infatti, in questo vero e proprio punto di partenza e di fondazione (il brevissimo primo paragrafo è solo una molto generica enunciazione di propositi), si condensava – e si consumava per i suoi aspetti veramente essenziali e decisivi – tutto l’incontro e il confronto di Fichte con Kant, quale esso era rappresentato nell’opera. L’intervento fichtiano per risolvere il vero punctum dolens del Saggio in un certo senso era davvero radicale. Per un verso, il nuovo secondo paragrafo introduceva infatti una prospettiva decisamente innovante rispetto alla prima edizione, ricorrendo alla nozione di « impulso » (Trieb) 1 come medio determinabile, da un lato, dalla legge concepita come oggetto di una rappresentazione determinante e, dall’altro, dall’attività spontanea del soggetto. Non ci intratterremo qui su come questa nozione si inserisse nel solco della tradizione leibniziana e del suo tentativo di dar soluzione al problema determinismo-libertà : problema che aveva animato il dibattito filosofico dell’epoca (si pensi alle Lettere sulla dottrina di Spinoza di Jacobi) e che aveva angosciato Fichte fin dalla gioventù. Osserveremo solo come la nozione di Trieb elaborata nel nuovo secondo paragrafo rappresentasse una netta smentita alla visione kantiana della determinazione immediata della volontà da parte della legge morale ; il sentimento di rispetto per la legge qui non era infatti, come per Kant, l’effetto di tale determinazione immediata, ma la mediazione necessaria per questa determinazione. Due anni appresso, in una lettera a Reinhold, Fichte avrebbe dato questa ben nota schematizzazione della sua posizione e dei suoi intenti : « Sono del tutto d’accordo con Lei di subordinare [le tre facoltà kantiane teorica, pratica e del giudizio] ad un principio superiore, ma sono in disaccordo sul fatto che questo principio possa essere quello della facoltà teorica ; e in ciò sono d’accordo con Kant ; in disaccordo con lui sul fatto che quelle facoltà non debbano in linea di principio essere subordinate. Io le subordino al principio della soggettività in generale ». 2 Si può ben dire allora che il nuovo secondo paragrafo del Saggio – non per nulla scritto da Fichte nel corso delle sue rimeditazioni reinholdiane – prefigurasse questa posizione e questi intenti, trasponendo sul piano pratico il principio reinholdiano della rappresentazione come generata dal rapporto tra soggetto e oggetto, e fornendone su questo piano la deduzione trascendentale. 3
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Su questi problemi, cfr. Cesa, Der Begriff « Trieb », cit. GA, iii, 2, pp. 314-315, lettera del 28 aprile 1795. Tenendo presente questa acquisizione e trasformazione del principio reinholdiano della rappresentazione, si può intendere come il nuovo secondo paragrafo potesse riuscire innovativo e preannunziante anche dal punto di vista del metodo. Come è stato messo in luce in modo, a nostro avviso, del tutto convincente da Goddard, il nuovo secondo paragrafo rappresentava la prima applicazione della sintesi quintupla, che avrebbe trovato in seguito applicazione nel Fondamento di tutta la dottrina della scienza e nella Iniziazione alla vita beata. Una prima quintuplicità – ricostruisce Goddard – segue la forma degli sviluppi minori del Fondamento (i-iii-v-iv-ii) ; il rapporto i-iii-v è sviluppato nella parte prima del paragrafo, come attività spontanea in una coscienza di sé empirica, e il rapporto ii-iv-v nella parte seconda del medesimo, come attività spontanea in una coscienza di sé pura ; la quintuplicità viene chiarificata infine sotto forma di triplicità (« il rapporto della quintuplicità con la triplicità essendo nella simbolica massonica – alla quale va riferita questa scelta metodologica – quello dell’iniziazione al sapere » ; Goddard, Introduction a Essai, cit., p. 31). Tenendo presente che la volontà è inizialmente definita come la sede in cui si oppongono un polo oggettivo (il soggetto è determinato dall’oggetto della rappresentazione a produrre la rappresentazione stessa) e uno soggettivo (coscienza dell’attività spontanea), si rendono, dunque, possibili le seguenti sintesi, che svolgono la prima quintuplicità : del soggettivo e dell’oggettivo dal punto di vista dell’oggettivo, quando la materia della rappresentazione è data nella sensazione (facoltà appetitiva inferiore) ; dell’oggettivo e del soggettivo dal punto di vista del soggettivo, quando la materia della rappresentazione è prodotta dall’attività sponta
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introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 283 Per altro verso, sarebbe errato pensare a questi elementi innovativi come a sintomi di frattura, anziché di sistemazione di tendenze e motivi già presenti nel pensiero fichtiano e sino a quel momento rimasti insoddisfatti dal punto di vista della loro deduzione. La sintesi di libertà e natura nell’impulso morale ben si armonizzava con la tendenza già manifestata nei manoscritti giovanili a pensare la religione come religione del cuore : è significativo che l’utilizzazione dell’espressione tipicamente pietistica « anime buone » ricorra così nel frammento giovanile sulle Intenzioni della morte di Gesù come nel nuovo secondo paragrafo, in contesti che, mutatis mutandis, hanno fra loro più d’una affinità, e che riescono altamente significativi anche per l’evoluzione segnalata da quanto nel frattempo è mutato. Nelle Intenzioni si parla della « delicata inclinazione » dei discepoli, stimolata dal fondatore di quella « religione di anime buone » che è il cristianesimo ; 1 nel nuovo secondo paragrafo Fichte, avendo ricordato come la « scintilla divina » che è in noi faccia sì che si provi piacere nel sacrificarsi per la legge morale, fa presente, molto significativamente, come questa considerazione sia in grado di eliminare « l’oscurità che – particolarmente ad anime buone, consapevoli dell’interesse massimamente impellente per l’assolutamente giusto – ancor sempre ha reso difficile la comprensione della dura sentenza della Critica, secondo cui bisognerebbe che il bene non venisse affatto connesso con la nostra felicità ». 2 Questa menzione dell’« interesse per il giusto » – nozione che rappresenta una vera epitome del kantismo fichtiano : kantismo conservato, inverato e trasformato – ci fornisce poi l’occasione per osservare come anche il motivo del « giusto » del nuovo secondo paragrafo sia un elemento di continuità, oltre che di innovazione e di anticipazione. Riprendendo e sviluppando in modo nuovo e ipertrofico il concetto di Recht (e recht dell’abbozzo e del secondo paragrafo della prima edizione, viene ora elaborata una deduzione giusnaturalistica dei diritti che preannun
nea (facoltà appetitiva superiore). Poiché, però, la semplice facoltà non è sufficiente a pensare la realtà della volontà, per la quale è altresì necessario l’impulso, la prima sintesi viene superata e realizzata nella terza (l’impulso sensibile determinabile immediatamente dalla materia della rappresentazione e mediatamente dalla spontaneità assoluta), e la seconda sintesi è superata e realizzata dalla quarta (l’impulso morale, prodotto dalla spontaneità assoluta della legge morale e determinabile dall’attività spontanea in una coscienza empirica). Infine – quinta sintesi, della necessità e della libertà nella ragione pratica – la determinazione per mezzo dell’impulso richiede a sua volta l’esistenza del libero arbitrio come facoltà – fondata sulla libertà trascendentale – di sospendere la determinazione. Una seconda quintuplicità è lineare (da i a v, del tipo di quella secondo la quale si incateneranno i cinque punti di vista sulla realtà nella Iniziazione alla vita beata) ; i suoi primi due termini rinviano alle prime due parti del paragrafo (deduzione dell’impulso alla felicità e deduzione della legge morale) ; la terza parte del medesimo sviluppa le loro sintesi successive : sintesi negativa di legge morale e impulso alla felicità (felicità permessa o diritto) ; sintesi positiva di legge e impulso (felicità meritata) ; infine beatitudine come sintesi superiore di felicità permessa e felicità meritata (ivi, pp. 30-32). Cfr. anche Ivaldo, Libertà e ragione, cit., pp. 35-42. Recentemente F. Wittekind, in op. cit., ha sostenuto che l’evoluzione dalla prima alla seconda edizione del Saggio anticipa la dottrina della scienza e la prova della sua realtà, fondando la nozione di una coscienza reale che si sa determinata in modo contemporaneamente puro ed empirico, e dunque fondando l’applicabilità della legge morale alla natura. 1 GA, ii, 1, p. 76. Sulla possibile influenza di Reinhard e del suo scritto Versuch über den Plan, welchen der Stifter der Christlichen Religion zum Besten der Menschen Entwarf in questo frammento giovanile fichtiano v. C. Cesa, Fichte critico di Reimarus ? A proposito di uno scritto giovanile di J. G. Fichte, in Studi di storia medievale e moderna per Ernesto Sestan, Firenze 1980, pp. 865-883 (poi in J. G. Fichte e l’idealismo trascendentale, cit., pp. 59-80). 2 Cfr. Saggio, pp. 139-140. Sul collegamento del motivo della « scintilla divina » con la « sintesi del mondo degli spiriti » a partire da questo anno 1793 e, poi, per il prosieguo del pensiero fichtiano cfr. G. Moretto, Introduzione a J. G. Fichte, La dottrina della religione, Napoli 1989, p. 16.
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zia gli interessi che diverranno centrali tre anni dopo. 1 È vero che nel Diritto naturale tali interessi troveranno espressione – giusta il titolo dell’opera – secondo i principi della dottrina della scienza, cioè non più in dipendenza dalla morale e non più in conformità all’individualismo teorico che, kantianamente, è ancora presupposto da Fichte nel 1793 ; 2 tuttavia, come vedremo meglio appresso, proprio nel Saggio – nell’idea stessa di rivelazione e in quella della possibilità del dato empirico dalla medesima presupposto – tale individualismo trova il germe del suo superamento. Ma nonostante le anticipazioni, nonostante la sistemazione fornita alle esigenze alle quali Fichte sino a quel momento non era riuscito a dare adeguata formulazione teorica, e soprattutto nonostante il tentativo di dare soluzione, mediante una fondazione più originaria, alle incertezze palesate dal secondo paragrafo della prima edizione, il nuovo secondo paragrafo si rivelava incapace sia di dare respiro agli spunti più radicali e originali della prima edizione, sia di rendere l’opera compiuta e armonica. Infatti l’esigenza di raccordare la vecchia « deduzione della religione in generale » con la pretesa « preparazione » alla medesima che il nuovo paragrafo introduceva faceva sì che Fichte espungesse di sana pianta l’inizio del secondo paragrafo della prima edizione, e cioè espungesse proprio quella teologia che considerava l’affermazione della possibilità dello scopo finale della legge morale « del tutto identica » con l’affermazione dell’esistenza dell’ente sommamente morale e sommamente beato. Per coerenza con la prospettiva, diciamo così, etico-giusnaturalistica elaborata nel nuovo secondo paragrafo – fortemente eudemonistica e argomentante a parte hominis – la teologia dello scopo finale aseico veniva sostituita ora con un diverso argomento per l’esistenza di Dio, risultante da una singolare combinazione della nuova prospettiva con quella della Critica della ragion pratica : l’esistenza di Dio veniva postulata ora per evitare la « contraddizione formale della legge [morale] con se stessa » 3 che insorgerebbe tutte le volte che la legge morale si riprende i diritti che aveva attribuito in precedenza (per esempio il diritto alla vita, che talvolta deve essere sacrificato per ragioni morali) ; tale contraddizione infatti – argomentava Fichte – insorgerebbe qualora non venisse ammessa l’esistenza di un essere divino, garante della soddisfazione finale del diritto fenomenicamente negato. 4 Tuttavia, neanche in questo modo la coerenza ricercata veniva raggiunta : nonostante l’espunzione della teologia filosofica finalistico-aseica, il nuovo argomento per l’esistenza di Dio e, più in generale, la prospettiva del nuovo secondo paragrafo strideva, comunque, fortemente con buona parte della vecchia « Deduzione della religione in generale » che, nonostante l’espunzione ricordata, rimaneva sostanzialmente in piedi ; più precisamente, essa strideva con la tutt’altro che eudemonistica deduzione della religione in base al finalismo quale « legge di riflessione » dataci dalla ragione. Non v’è da sorprendersi che Fichte, nonostante tutto, mantenesse in piedi questa comprensione della religione. Ai suoi occhi di appassionato lettore della Critica del giudizio la « riflessione » rappresentava, infatti, l’orizzonte ultimo all’interno del quale poteva trovare compimento l’opera intrapresa col Saggio. E proprio per questa ragione dicevamo che, nonostante le diverse redazioni dell’opera, questa, in un certo senso,
1 In proposito si veda H. J. Verweyen, Recht und Sittlichkeit in J. G. Fichtes Gesellschaftslehre, FreiburgMünchen 1975, pp. 54-61. 2 In proposito vedasi, con particolare riferimento ai Contributi alla rettifica del giudizio del pubblico sulla rivoluzione francese (1793-1794), A. Philonenko, Théorie et praxis dans la pensée morale et politique de Kant et de 3 Cfr. nel Saggio..., cit., p. 145. Fichte en 1793, Paris 1968. 4 Cfr. nel Saggio..., cit., il testo fichtiano della seconda edizione, riportato alla nota 4 (pp. 8-9).
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 285 non era mai stata conclusa : in apertura della prefazione alla seconda edizione Fichte, esplicitando ancora una volta il significato di modestia e di tentativo che andava attribuito al termine Versuch, affermava : « Anche dopo questa seconda edizione, il presente scritto rimane ancor sempre un saggio [...] Per quanto, a mio giudizio, la critica della rivelazione stia ancora solidamente sul terreno della filosofia pratica, come singolo edificio accessorio, tuttavia essa giunge a collegarsi con l’edificio intero, e ad unirvisi inseparabilmente, solo mediante un’indagine critica dell’intera famiglia a cui appartiene concetto, e che io chiamerei la famiglia delle idee di riflessione ». 1 Queste parole, che a più d’uno sono apparse vaghe o comunque di incerta interpretazione, forniscono in realtà alcuni elementi espliciti chiarissimi e altamente significativi : a) la completezza del disegno fichtiano è raggiunta solo nel collegamento della filosofia pratica alla filosofia della « riflessione » ; b) l’« unione inseparabile » fra le due dimensioni, che l’indagine critica sull’idea di rivelazione mette in luce, esige che l’indagine si amplii alle altre « idee di riflessione » alle quali l’idea di rivelazione è apparentata ; e) senza siffatto prolungamento l’edificio non solo è incompleto, ma di esso manca l’essenziale, rispetto a cui la critica della rivelazione è solo una parte accessoria. È evidente che la « riflessione » va intesa qui in un senso specifico (quello per cui essa è all’origine di determinate « idee ») e non in quello generico (per cui tutta la filosofia critico-trascendentale potrebbe dirsi riflessiva) ; nulla meglio dell’idea di provvidenza – con il suo contenuto di finalismo esaltato sino all’estremo dello scopo finale – è in grado di indicare inequivocabilmente almeno in quale direzione pensare questo senso specifico, e cioè nel senso di quel « giudizio riflettente » della Critica del giudizio dal quale kantianamente deriva ogni visione finalistica, ma soprattutto il suo compimento etico-teologico. Il materiale documentario relativo alla storia redazionale dell’opera fornisce significative conferme alle indicazioni contenute nelle citate dichiarazioni della prefazione alla seconda edizione. In una lettera a Hufeland del 28 marzo 1793 Fichte esplicitava quali fossero le idee di riflessione – « provvidenza, miracolo, rivelazione » – nello stesso tempo in cui ribadiva la sua intenzione di dire la parola definitiva per l’opera intrapresa ; dalle espressioni fichtiane di questa lettera si capisce anche come le metafore dell’edificio accessorio e dell’edificio intero, e la divisione di terreni filosofici nella prefazione alla seconda edizione andassero considerate come una dichiarazione di effettiva incompiutezza, seppur presentata in quelle vesti di una qualche articolazione sistematica che erano rese opportune quanto meno dal rispetto per il lettore, stante il fatto che il Versuch (« saggio » o « tentativo ») veniva pubblicato per la seconda volta nella forma esteriore di opera compiuta. 2 Altri importanti luoghi della corrispondenza di Fichte documentano la maggiore ampiezza del disegno fichtiano e il suo apparire, agli occhi di Fichte, unitario ed unico in tutta questa sua ampiezza, in modo affatto indipendente dalle vicende esterne delle pubblicazioni di cui nel frattempo era fatta oggetto l’opera. Per esempio, qualche mese prima tanto della lettera a Hufeland citata da ultimo, quanto della seconda edizione, Fichte aveva scritto a Eisenstuk che « al posto » del Saggio pensava di porre « un’opera ampliata ». 3 Ancor più significativo, sia della indipendenza dalle
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Cfr. nel Saggio, cit., p. 125. Se possibile alla Fiera di S. Michele, ma sicuramente alla Fiera di Pasqua del 1794 pubblicherò una critica delle idee di riflessione (dei concetti di provvi denza, miracolo, rivelazione) scritta con rigore espositivo matematico, della quale desidererei poter dire : la parola debbono lasciarla stare, e non han da ringraziare » (GA, iii, 1, p. 379). 3 Lettera del 27 settembre 1792 (GA, iii, 1, p. 341) ; corsivo nostro. 2
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vicende editoriali esterne, sia dell’unitarietà del disegno che Fichte perseguiva è poi il fatto che già in una lettera a Weißhuhn dell’11 ottobre 1791 – anteriormente, dunque, alla pubblicazione della prima edizione – Fichte avesse detto che pensava di proseguire la sua impresa in una « critica del concetto di provvidenza ». 1 Questa menzione reiterata dell’idea di provvidenza, questa sua presenza nel programma di lavoro di Fichte fin dalle sue prime fasi di attuazione, rappresenta un’indicazione che non può essere ignorata, né sottovalutata. Si tratta, in sostanza, del rapporto tra legge morale e quella che nel Saggio stesso è chiamata « legislazione superiore », 2 legislazione che noi pensiamo, a sua volta, in virtù di una « legge di riflessione » la quale ci è data essa stessa dalla ragione. Il proposito di indagare l’idea di provvidenza in relazione ai « fondamenti razionali nella conduzione della vita » non è dunque altro che il proposito di interrogarsi Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo, come avrebbe suonato il titolo del saggio del 1798 che avrebbe scatenato la « polemica sull’ateismo ». 3 Se anche l’elenco che Fichte fa delle idee di riflessione nella citata lettera a Hufeland dovesse essere interpetato come una lista chiusa – e non piuttosto come una menzione esemplificativa di un intero plesso problematico – è evidente come le idee di « rivelazione » e « miracolo » (peraltro fra loro variamente interferenti e in più d’un aspetto sovrapponentisi) siano, da questo punto di vista, subordinate all’idea di « provvidenza ». Il paragrafo dedicato alla « Possibilità fisica di una rivelazione » – il settimo secondo la numerazione della prima edizione, ove, dato il tema, Fichte stesso affronta congiuntamente il problema della rivelazione e quello di una sua eventuale miracolosità – è in effetti il medesimo in cui egli introduce la nozione di « legislazione superiore ». Questa, osserva Fichte, « per noi è totalmente inaccessibile » ; però noi, secondo quanto egli afferma poco oltre, « dalla nostra ragione siamo costretti a derivare ultimamente l’intero sistema dei fenomeni – l’intero mondo sensibile – da una causalità mediante libertà secondo leggi di ragione ». 4 In queste due ultime affermazioni, opposte e complementari – recto e verso di una stessa medaglia – non è difficile scorgere il medesimo paradigma soggiacente alle due opposte e complementari affermazioni del vecchio secondo paragrafo, considerate sopra (la teologica e la religiosa, ovvero l’ontoteologica e la morale-antropologica) : ritorna qui la tesi della inaccessibilità teoretica del sommo, e ritorna la tesi relativa all’approdo riflessivo della per noi razionalmente cogente considerazione della natura anche sotto l’aspetto del dover essere. Vi sono ovviamente anche differenze ragguar
1 GA, iii, 1, p. 269. Si noti che si tratta della stessa lettera a Weißhuhn, precedentemente citata (cfr. nota 28), nella quale Fichte, dichiarando la sua insoddisfazione per il manoscritto che Kant aveva presentato all’editore, chiedeva all’interlocutore un giudizio sul Saggio al fine di poter rivedere l’opera prima della stampa. Anche nell’« Annotazione finale » del Saggio provvidenza e rivelazione vengono, significativamente, menzionate insieme : « Ogni fede di cui sin qui si è sviluppato l’esame si fonda su una determinazione della facoltà appetitiva (nel caso dell’esistenza di Dio e dell’immortalità delle anime, su una determinazione della facoltà appetitiva superiore ; nel caso del concetto di provvidenza e di rivelazione su una determinazione di quella inferiore, prodotta dalla superiore), e a sua volta facilita, reciprocamente, questa determinazione » (Saggio..., cit., p. 117). 2 « Non è possibile pensare la possibilità di questa concordanza di due legislazioni totalmente indipendenti l’una dall’altra [scil. quella teoretica e quella pratica] altrimenti che per mezzo della loro comune dipendenza da una legislazione superiore, che sta a fondamento di entrambe, ma che per noi è totalmente inaccessibile » (cfr. nel Saggio..., cit., p. 65). 3 Il saggio è stato pubblicato in traduzione italiana insieme agli altri scritti fichtiani relativi all’Atheismusstreit e alla Iniziazione alla vita beata a cura di G. Moretto nel volume dal titolo editoriale La dottrina della 4 Cfr. nel Saggio..., cit., pp. 65-66. religione, cit.
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 287 devoli : nel vecchio secondo paragrafo l’inconoscibile sommo si presentava come ente massimamente morale (dunque come persona) e massimamente felice, come « sommo bene originario », potremmo anche dire con la terminologia kantiana, tuttavia a se, senza rapporto funzionale con gli altri enti morali ; nel paragrafo 7 l’inconoscibile sommo è presentato invece in modo affatto relazionale – anzi come rapporto fra legislazioni – fino all’estremo della totale funzionalizzazione (e dunque spersonalizzazione : Fichte usa qui il termine « legislazione », e non « legislatore »). Ma l’oscillazione fra questi due poli – il polo della sostanza e quello della funzione, verrebbe fatto di dire – non è che il segno del carattere riflessivo dell’idea etico-teologica del sommo e del suo presentarsi instabilmente una volta come contenuto e una volta come forma, stante la mancanza dell’intuizione corrispondente. Senza la « subordinazione » delle facoltà al « principio unificatore » della soggettività, reso, esso, Tathandlung (un « fatto » bensì, ma il fatto stesso dell’azione) e reso, esso, oggetto di intuizione (intellettuale), 1 l’insoddisfazione teorica di Fichte non avrebbe avuto la possibilità di essere acquietata. L’idea di provvidenza era, insomma, la stessa idea etico-teologica, ma enfatizzata, anzi, esplicitata in quel suo aspetto di esigenza conoscitiva che l’approccio riflessivo di tipo kantiano non poteva – per definizione – che lasciare insoddisfatta. Già qualche mese dopo la seconda edizione del Saggio Fichte aveva redatto i primi abbozzi di dottrina della scienza e già nel 1794 venivano pubblicati Sul concetto della dottrina della scienza e buona parte del Fondamento di tutta la dottrina della scienza. La vicinanza cronologica immediata di questi scritti con la seconda edizione del Saggio e con le dichiarazioni fichtiane relative all’incompiutezza dell’opera con esso intrapresa mostrano come Fichte fosse impegnato in un solo grande sforzo teorico. La stessa incompiutezza dell’impresa in direzione riflessiva di tipo kantiano suggeriva che non l’« ampliamento », bensì l’inversione dell’approccio fosse in grado di dare finalmente soddisfazione allo sforzo teorico intrapreso ; tra l’insoddisfazione per il « saggio », o « tentativo », avvertito da Fichte come mai veramente concluso, e la maturazione del nuovo punto di vista il rapporto era di proporzionalità diretta. Nella Seconda introduzione alla dottrina della scienza (1797) Fichte riferisce di aver manifestato a Schultz la propria « idea ancora indeterminata di edificare tutta la filosofia sull’io puro molto tempo prima di averla chiara in mente ». 2 E Baggesen, nella sua corrispondenza con Reinhold e nel suo diario, riferisce come nei suoi incontri con Fichte alla fine del 1793 i due si fossero incontrati nell’idea che l’io potesse rappresentare un principio più radicale di quello reinholdiano di coscienza, e come Fichte gli avesse parlato con entusiasmo di questa sua « scoperta ». 3
3. Le considerazioni che abbiamo svolto sulla storia redazionale del testo e sull’inserimento organico del Saggio nell’evoluzione del pensiero fichtiano (in quanto tale inserimento è documentato dalla storia redazionale con i suoi stessi pentimenti ed esitazioni) sono 1 Sul complesso problema dell’intuizione intellettuale in Fichte nei suoi rapporti con la discussione dell’epoca in proposito v. X. Tilliette, Recherches sur l’intuition intellectuelle de Kant à Hegel, Paris 1995 ; v. anche A. Philonenko, Die intellektuelle Anschauung bei Fichte, in Der transzendentale Gedanke. Die gegenwärtige Darstellung der Philosophie Fichtes, a cura di K. Hammacher, Hamburg 1891, pp. 91-106, e G. Di Tommaso, Dottrina della scienza e genesi della filosofia della storia nel primo Fichte, L’Aquila 1986, pp. 26-62. 2 GA, i, 4, p. 225. 3 Cfr. A. Iacovacci, Jacobi e Baggesen. I primi passi dell’interpretazione jacobiana di Fichte, in « Archivio di filosofia », 57 (1989), pp. 649-668 (cfr. p. 652), e Cesa, Introduzione, cit., p. 14.
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state condotte, lo si sarà notato, facendo riferimento soprattutto al secondo paragrafo della prima edizione e rapportando ai problemi di questo paragrafo anche la considerazione di altre varianti o punti del testo. Si sarà altresì notato che nelle considerazioni svolte a proposito della storia redazionale del Saggio e dell’evoluzione del pensiero fichtiano si è parlato, fin qui, assai poco di quello che, pure, è il tema al quale l’opera è dedicata e al quale si applica la « critica » che Fichte aveva inteso intraprendere, vale a dire la rivelazione. Una ovvia spiegazione di tutto ciò è, da un lato, che il secondo paragrafo della prima edizione è quello che ha dato luogo agli interventi più significativi nel corso delle vicende redazionali del Saggio, e che, d’altro lato, in esso non si parla di rivelazione, così come non se ne parla nel nuovo paragrafo che nell’edizione del 1793 viene introdotto come preparatorio alla « deduzione della religione in generale » ; solo dopo tale deduzione (secondo paragrafo dell’edizione 1792 e terzo dell’edizione 1793) il discorso diviene infatti tematico, affrontando la « Divisione della religione in generale in religione naturale e rivelata ». Ma questa spiegazione è largamente tautologica e, ancor più, rischia di essere riduttiva. Essa tace, o non esplicita, il fatto che le questioni trattate nel secondo paragrafo sono comprese da Fichte come fondative rispetto al resto della trattazione. Il discorso « critico » svolto dall’opera segue infatti questa linea sistematica : teologia razionale (argomentazione per l’esistenza di Dio) ; filosofia della religione (risposta alla domanda « come, dunque, dalla teologia sorge la religione ? ») ; filosofia della rivelazione. Le prime due parti della deduzione sono appunto contenute nel secondo paragrafo, da cui pertanto tutta la filosofia critica della rivelazione dipende (il paragrafo 3 è di raccordo in quanto, come abbiamo già detto, specifica il concetto generale di religione e, dunque, identifica il concetto di religione rivelata ; dal paragrafo 4 comincia la filosofia della rivelazione vera e propria, articolata a sua volta in due momenti : deduzione del concetto di rivelazione e, a partire dal paragrafo 8, criteriologia per giudicare se, in base al concetto di rivelazione che è stato dedotto, un determinato fenomeno possa – non debba ! – essere accolto come rivelazione). Seguendo questa linea sistematica, il Fichte degli anni 1791-92 mostrava di conformarsi a una visione che può riuscire così ovvia ai nostri occhi da impedire di scorgerne la storicità e il carattere di precisa opzione teorica. Si trattava di una opzione che può esser detta, in più d’un senso, scolastica, e che scolasticizza anche Kant. Fichte ritiene di recepire l’insegnamento kantiano non solo nel fatto di assumerlo e riassumerlo nel secondo paragrafo, ma anche nel fatto di porre tale insegnamento alla base di una filosofia critica della rivelazione, quasiché questa rappresentasse una esplicitazione o una applicazione del criticismo kantiano ; se entrambi questi fatti rappresentano, distintamente e congiuntamente, una scolasticizzazione del pensiero di Kant, il secondo riconduce il kantismo nell’ambito dell’opzione teorica di cui si diceva sopra e su cui dovremo tornare fra poco. Evidentemente Fichte, nell’intraprendere, sotto l’urgenza dell’entusiasmo intellettuale per Kant e delle disperate condizioni economiche, una « critica di ogni rivelazione » non misurava ancora quanto proprio il tema al quale egli intendeva applicare il suo tentativo – la rivelazione – comportasse la necessità di una reimpostazione radicale della prospettiva kantiana. In primo luogo, infatti, il proposito fichtiano di fornire una critica del concetto di rivelazione comportava, per definizione, di condurre la critica sul terreno dell’intersoggettività e della comunicazione (come potremmo dire utilizzando una terminologia filosofica storicamente – e pour cause – posteriore). Le espressioni con cui si apre il
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 289 Saggio sono, nella loro generalità e vaghezza, significative e univoche in questo senso : « È un fenomeno quanto meno degno di nota per l’osservatore il fatto che presso tutte le nazioni [...] si trovino idee circa una comunicazione reciproca fra esseri superiori e uomini ». 1 Ora, questo terreno dell’intersoggettività – come lo abbiamo chiamato – è un terreno estraneo alla filosofia critica, almeno inizialmente, cioè in quello che è il punto di partenza della medesima. Ciò per almeno due ragioni fondamentali : perché la critica non è una metafisica (mentre una dottrina dell’intersoggettività lo è), e perché, sia sotto il profilo di una teoria della conoscenza, sia sotto il profilo di una teoria della pratica e della normatività pratica, la critica ritiene di rappresentare la soluzione, o meglio la dissoluzione, di ogni problema di comunicabilità fra esseri « razionali » ; tali esseri razionali vengono infatti presupposti in base al realismo del senso comune, senza che – grazie proprio alla soluzione-dissoluzione fornita dalla critica – questa presupposizione abbia poi bisogno di passare al livello di una problematizzazione dottrinaria. Non certo questo era stato il caso del pensiero metafisico dell’età moderna, dove il problema del commercium animae et corporis, con le sue varie soluzioni (influssismo, occasionalismo, prestabilismo ecc.) esprimeva in larga misura (e in qualche misura anche mascherava) il problema della comunicazione delle sostanze spirituali fra di loro ; problema che, comunque, era fatto oggetto di ampia tematizzazione anche direttamente, in quanto tale e indipendentemente dalla problematica mediazione da parte della res extensa. Ma, appunto, la critica riteneva di risalire alle spalle di questi problemi metafisici, ragguagliando i sogni della metafisica ai sogni di una comunicazione fra gli spiriti quali li hanno i visionari ; e i sognatori – aveva ammonito Kant in un’opera precritica, che però dell’impresa critica aveva rappresentato un presupposto : Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica (1766) – non hanno « un mondo in comune » – comunicabile, dunque, e intersoggettivo – che invece si ha solo se si è ben « desti ». Ebbene, Fichte, col suo saggio, osava portare la critica proprio sul terreno di simili idee di comunicazione soprannaturale, reperibili presso « tutte le nazioni ». Diciamo « osava », perché il suo saggio o tentativo non era quello di un insipiente, ma quello di un discepolo ben accorto : l’intento, infatti, era di mostrare non la realtà, bensì la possibilità di rivelazioni mediante la deduzione critica del concetto di rivelazione, come concetto a priori. Il tentativo, per quanto giovanilmente azzardato, era ben accorto anche per un’altra e più importante ragione, che toccava il nervo dell’impresa critica e che rendeva il Saggio un vero Terminus o Giano bifronte : lavoro scolastico, vale a dire, eppure opera che dischiudeva nuovi territori e nuovi orizzonti. Infatti, se il problema dell’intersoggettività e della comunicazione era estraneo all’impresa critica in partenza, non lo era in arrivo ; qui esso si ripresentava inopinatamente come problema per la critica e all’interno della critica dispiegata in tutta la sua ampiezza : si ripresentava come problema di comunità estetica, per un verso (e cioè per quanto è oggetto di intuizione senza concetto corrispondente), e come problema di comunità etica, per altro verso (la quale è oggetto di concetto senza intuizione corrispondente, nonostante ogni « schematismo », esso stesso, a questo proposito, di natura assai problematica). Riguardo al primo di questi due aspetti, Fichte aveva potuto prenderne nota direttamente presso Kant, avendo studiato la Critica del giudizio ; riguardo al secondo aspetto, il documento maggiore, anzi il primo vero documento kantiano in merito, doveva comparire solo l’anno successivo alla prima edizione del Saggio : si trattava de La religione en
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Cfr. Saggio, p. 5.
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tro i limiti della sola ragione, la cui pubblicazione forse Kant accelerò per dissipare anche nei contenuti filosofici l’equivoco che le posizioni del Saggio fichtiano fossero espressione, sia pur indiretta, del proprio pensiero. In partenza, nella Critica della ragion pura, Kant aveva sostenuto che non era possibile rappresentarsi la categoria di « comunità » senza una corrispondente intuizione sensibile nel mondo esterno ; per questa ragione – egli aveva osservato, non senza qualche inflessione di critica – Leibniz aveva dovuto ricorrere a « una divinità per la mediazione » quando aveva attribuito la « comunità alle monadi ». 1 Giunto, più di vent’anni appresso, alla Religione, Kant stesso si sarebbe trovato dinnanzi proprio il problema della comunità intelligibile, ed egli stesso lo avrebbe risolto proprio configurando tale comunità come « regno di Dio » : la Religione infatti faceva ricorso alla legislazione superiore di Dio per prospettare come possibile la realizzazione della comunità etica, realizzazione che veniva detta rappresentare un « dovere di una specie particolare » (in quanto non è del singolo, ma del « genere umano verso se stesso », e in quanto è un dovere da cui non discende un potere). 2 Questi approdi kantiani ritrovavano dunque sul terreno della ragione pratica il problema della comunità intelligibile, definita nel fatto che la legge morale diviene legge pubblica. Tuttavia, se, dato tale carattere definitorio, si può ben parlare di intersoggettività e di comunicazione, questi approdi kantiani non erano in alcun modo legati a una rivelazione come evento « soprannaturale ». Nonostante il ricorso teologico, ovvero nonostante lo sperato soccorso divino per l’altrettanto sperato raggiungimento della propria destinazione da parte del genere umano, Kant non faceva riferimento alla rivelazione : sulla realtà o la possibilità di una rivelazione, dopo tutto, la Religione non si pronunzia, e in particolare non si pronunzia sulla realtà o la possibilità di una rivelazione come soccorso divino ai fini del raggiungimento della comunità etica. Insomma, se nella Religione la « destinazione » (Bestimmung) del « genere umano » (Menschengeschlecht) è nelle mani provvidenziali della superiore legislazione che unifica causalità secondo natura e causalità secondo libertà, 3 non è detto in alcun modo che tale unificazione passi attraverso una rivelazione intesa come « notifica » che « ci dovrebbe comunicare una conoscenza » (secondo l’espressione del quinto paragrafo aggiunto alla seconda edizione del Saggio fichtiano), 4 o intesa anche solo come pedagogico attiramento dell’« attenzione » (secondo quanto Fichte diceva già nella prima edizione), 5 il quale consenta la rieducazione del genere umano. In realtà, il proposito di Fichte era un proposito se non contrario, quanto meno reciproco rispetto a quello di Kant. Il Saggio, infatti, intendeva fondare un concetto critico e formale di rivelazione, vagliando la possibilità a priori di un tale concetto, indagando
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Kritik der reinen Vernunft, B 293. I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, trad. it. a cura di M. M. Olivetti, Roma-Bari 1994, 3a ed., pp. 100 e 103-105. 3 I due termini tedeschi sopra ricordati sono utilizzati da Kant stesso : cfr., per Bestimmung, il primo paragrafo del primo capitolo, dove si parla della disposizione dell’uomo al bene (La religione, cit., p. 24) ; per Menschengeschlecht, l’esordio del terzo capitolo, dove si parla della comunità etica come dovere di natura particolare (ivi, p. 103 e passim). L’ambigua semantica dei due termini tedeschi – che hanno contemporaneamente valore naturalistico e moralistico – sembrava compiacere e facilitare la veduta dell’unificazione dei due tipi di causalità. 4 Cfr. nel Saggio..., cit., p. 154. Già nelle Absichten des Todes Jesu Fichte, affermando che la morte di Gesù era necessaria affinchè costui potesse realizzare le sue intenzioni, aveva detto : « Bisognava che egli [Gesù] apparisse nel mondo, bisognava che sollecitasse l’attenzione degli uomini » (GA, ii, 1, p. 89). 5 Cfr. nel Saggio..., cit., p. 56 e passim. 2
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 291 quale condizione empirica è logicamente necessaria affinché quel concetto sia possibile e, infine, articolando i criteri ai quali presunte rivelazioni debbono rispondere per avere la possibilità di essere assunte per ciò che si pretende che siano, ovvero i criteri negativi che impediscono di assumere come rivelazioni reali i fenomeni che a tali criteri non rispondono. Il proposito di Kant invece seguiva la direzione esattamente inversa, come era enunziato programmaticamente fin dal titolo della sua opera di filosofia della religione : 1 in accordo con il suo meditato ed elaborato titolo, La religione entro i limiti della sola ragione si occupava dei contenuti, o di alcuni essenziali contenuti di una rivelazione data – storicamente ritenuta tale – cioè del cristianesimo, e se ne occupava solo nella misura in cui tali contenuti erano riconducibili all’interno della ragione e della sola ragione ; il resto era lasciato a una non ulteriormente definita fede « riflettente », giacché Kant non si pronunciava, né, ciò che più conta, riteneva che la ragione si potesse pronunciare sulla validità della presunzione di rivelazione, e nemmeno – dopo tutto – sulla possibilità o impossibilità della sua validità. 2 Si chiarisce così come la scolasticizzazione di Kant nel Saggio riconduca la versione fichtiana del criticismo nel quadro di una precisa opzione teorica, che in più ampio e diverso senso può dirsi scolastica : sebbene la teologia razionale del Saggio, avendo fatto propria la lezione critica, fosse di tipo morale-« postulatorio » e non di tipo ontologico-« dogmatico », l’intento e l’impianto dell’opera erano tuttavia esattamente quelli per cui nella filosofia e teologia di scuola la « teologia naturale » veniva considerata come propedeutica alla theologia revelata. Questo impianto valeva tanto per una parte cospicua della teologia accademica evangelica dell’epoca (ancor sempre tesa in quella polarizzazione fra ispirazione immediata e mediazione filosofica che si era delineata in modo tipico fin dalle origini, con la subitanea e paradossale scolasticizzazione di Lutero da parte di Melantone), quanto per la totalità della teologia accademica cattolica (che si abbeverava anch’essa abbondantemente alla teologia naturale di Wolff, e che da più di un secolo aveva ormai elaborato una specifica disciplina a base teologico-naturale dal nome curricolare di « apologetica »). 3 In effetti, anche se, come abbiamo osservato, il Saggio contiene spunti che anticipano gli scritti fatti oggetto della « polemica sull’ateismo », e anche se questa polemica comincia, in un certo senso, con la prima recezione del Saggio negli ambienti della teologia
1 Interessanti confronti tra Religione kantiana e Saggio fichtiano (ma in termini abbastanza diversi da quelli che qui si rendeva necessario far presenti) sono svolti da Goddard, Introduction a Essai, cit., pp. 22-26, e da Ivaldo, La filosofia della religione fra Kant e Fichte. Sul « Versuch einer Kritik aller Offenbarung », in Kant e la filosofia della religione, a cura di N. Pirillo, cit. ; questa raccolta contiene almeno altri due saggi che, al di là del confronto tematico fra le due opere, forniscono indicazioni di rilievo sul rapporto tra filosofia della religione kantiana e fichtiana nel periodo fino alla « disputa sull’ateismo » : C. Cesa, L’influenza della « Religione », pp. 461-481 e G. Rotta, La recezione di Kant nella disputa sull’ateismo del 1788-89, pp. 519-542. Molto più vasta è, ovviamente, la letteratura sul rapporto Fichte-Kant in questi anni. 2 È significativa, per esempio, la seguente formulazione negativa e modalizzata a più livelli e personalizzata : « nessuno può negare ad un libro, che, per il suo contenuto pratico, contiene cose puramente divine, la possibilità di essere considerato realmente anche (per quello cioè che contiene di storico) come una rivelazione divina » (La religione entro i limiti, cit., p. 145). 3 Non sorprende allora che ai nostri giorni, dopo Maréchal e Rahner, e nel clima determinatosi con l’enorme indebolimento accademico della neoscolastica, alcuni dei contributi più rilevanti allo studio del Saggio fichtiano siano stati forniti da studiosi i quali operano istituzionalmente nell’ambito disciplinare che la teologia accademica cattolica odierna chiama « teologia fondamentale » : nuovo nome per quella che in altri tempi era chiamata « apologetica » (Verweyen, Seckler, Kessler, dei quali abbiamo citato a suo luogo le opere). Anche Goddard, pur operando nell’ambito istituzionale della filosofia, ha messo in evidenza, nei suoi contributi citati, gli intenti apologetici del Saggio.
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protestante, l’opera di Fichte nella sua sostanza e nei suoi intenti è nettamente apologetica. Proprio dallo studio di Kant Fichte aveva ritenuto di poter trarre gli strumenti per fornire dal punto di vista filosofico, formale e fondativo quella apologetica che dal punto di vista contenutistico, storico e religioso aveva fornito precedentemente nelle Intenzioni della morte di Gesù. 2 È plausibile l’ipotesi che questo esercizio giovanile si riferisse al Saggio sul piano che il fondatore della religione cristiana progettò per il miglior bene degli uomini di Reinhard e non fosse, dunque, una reazione apologetica diretta alla critica radicale del cristianesimo operata da Reimarus, particolarmente nel frammento Dello scopo di Gesù e dei suoi discepoli. 3 Ma con l’opera ricordata Reinhard si opponeva egli stesso con intenzioni apologetiche a Reimarus, e comunque – ed è questa l’affermazione di carattere generale che qui si vuoi far valere – tutta la produzione dell’epoca che mirava a identificare le « intenzioni » di Gesù era una produzione in cui tanto la critica quanto l’apologetica venivano condotte dal punto di vista storico. In proposito non è rilevante la maggiore o minore adeguatezza della strumentazione storica messa volta per volta in opera dal singolo autore ; Fichte stesso, nonostante reclamasse uno studio del cristianesimo che fosse, insieme, e « storico » e « filosofia) », 4 si mostrava assai debole dal primo dei due punti di vista nel lavoro in cui aveva inteso principalmente metterlo in opera, e cioè appunto nelle Intenzioni. Ma era il fatto stesso di riferirsi alle « intenzioni », al « piano », allo « scopo » degli attori degli eventi storici quanto caratterizzava in senso storico-critico le opere che a ciò si dedicavano (in questo senso, l’affermazione delle Intenzioni, secondo la quale Gesù doveva morire se il cristianesimo doveva essere una religione inferiore, del cuore, e non esteriore, della memoria, non contraddice il carattere storico dello scritto, ma anzi lo presuppone). L’avanzamento della critica storica e la sottrazione dell’esegesi delle Scritture cristiane a una interpretazione privilegiata e qualitativamente distinta dall’interpretazione ordinaria erano eventi « illuministici » nel senso più ampio del termine. Era naturale che la loro utilizzazione antireligiosa suscitasse una reazione apologetica sullo stesso terreno e con gli stessi strumenti. E a prima vista si era indotti a ritenere che proprio siffatta omogeneità rendesse adeguata la risposta. Ma a uno sguardo più attento, in un’epoca che aveva fatto propria la distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto, l’inadeguatezza di questa risposta non poteva, invece, non apparire evidente. La distin1
1 Cfr. Winter, Die theologische und philosophische Auseinandersetzung im Protestantismus mit J. G. Fichtes Schrift, cit. 2 In questo senso anche Goddard, Introduction a Essai, cit., pp. 17 e 22. Del resto, si può ricordare qui come, rispondendo a fine gennaio 1795 a una lettera con cui Schelling aveva lamentato l’abuso del kantismo in favore della teologia dogmatica nell’università di Tubinga, Hegel avesse attribuito la responsabilità di ciò a Fichte : « All’abuso di cui mi scrivi [...] Fichte ha indubbiamente aperto le porte con la sua Critica di ogni rivelazione. Lui stesso ne ha fatto un uso moderato, ma una volta che i suoi principi sono stati fermamente annessi, non è più possibile porre alcun limite o argine alla logica teologica. Fichte ragiona partendo dalla santità di Dio, costruendovi sopra tutto ciò che Dio deve fare in virtù della sua natura puramente morale ecc., e finisce così col reintrodurre nella dogmatica il vecchio genere di prove » (G. W. F. Hegel, Lettere, a cura di P. Manganaro, Bari 1972, pp. 9-10). Si tenga presente, comunque, la distinzione fra due diversi sensi del termine « dogmatico » : il senso filosofico, relativo al razionalismo deduttivo settecentesco (senso al quale ci riferiamo nel testo), e quello teologico, relativo ai dogmi della fede cristiana (senso al quale si riferisce qui Hegel). Solo la consapevolezza della distinzione consente di riconoscere gli appropriati rapporti storici 3 Cfr. Cesa, Fichte critico di Reimarus ?, cit. fra le due dimensioni. 4 « La critica della religione cristiana ha due parti, una storica, che ricerca cosa insegna la religione cristiana, e una filosofica, che ricerca come essa abbia ragione di far ciò : una parte, vale a dire, che commisura la sua dottrina alla pietra di paragone dei criteri » (lettera a Eisenstuk del 27 settembre 1792 ; GA, iii, 1, p. 342).
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 293 zione tra verità di ragione e verità di fatto rischiava infatti di riuscire fatale per l’idea stessa di rivelazione nella misura in cui le verità che si riteneva fossero annunziate da quest’ultima erano intese come verità razionali tout court : in questo caso (che in buona misura era già il caso di Leibniz, ma caratterizzava in modo definitorio e definitivo la mentalità illuministica) il risalimento dalla verità di fatto alla verità di ragione diventava impossibile, anche se il fatto accertato come vero fosse stato prodotto con mezzi straordinari e « soprannaturali ». Era il problema che era stato messo in luce dal massimo esponente dell’illuminismo tedesco, Lessing, il quale, ponendo quello che sarebbe rimasto noto appunto come « il problema di Lessing » (e cioè : in qual modo verità di fatto potessero mai dimostrare verità di ragione), nello scritto Sulla dimostrazione dello spirito e della forza aveva parlato a questo proposito del « brutto, largo fossato » che separava i due ordini di verità. 1 Il risalimento dalle verità di fatto alle verità di ragione, o anche solo la possibilità di tale risalimento, era da cercare pertanto su un altro terreno che non quello della critica storica e dell’accertamento empirico dei fatti (fosse pure di quei fatti piuttosto particolari che sarebbero le intenzioni secondo le quali si fa). E anche di questo si era mostrato acutamente consapevole Lessing. Nello stesso momento in cui pubblicava, anonimi e con la finzione di averli trovati nella biblioteca ducale di Wolfenbüttel (ciò che consentiva il privilegio di libertà dalla censura), i frammenti dell’Apologia degli adoratori razionali di Dio di Reimarus, 2 Lessing vi aggiungeva commenti e postille ; in particolare, al frammento I libri dell’Antico Testamento non furono scritti per rivelare una religione egli aggiungeva, a commento e illustrazione dei problemi lasciati aperti dalla critica storica del Frammentista, la prima redazione di uno scritto destinato ad avere enorme influenza culturale nell’illuminismo tedesco e anche negli orientamenti culturali successivi (e critici nei confronti dell’illuminismo) : L’educazione del genere umano. In quest’opera la mediazione tra storia e ragione, la saldatura tra rivelazioni storiche ed « evangelo eterno », il ponte sul « brutto, largo fossato » erano forniti da una visione provvidenziale che considerava la rivelazione come pedagogia divina : la rivelazione forniva un provvido aiuto educativo all’umanità nel suo cammino verso l’« evangelo eterno » della ragione. Non era chiarissimo nell’opera di Lessing se questo pedagogico aiuto semplicemente accelerasse il raggiungimento di mete che la ragione umana avrebbe comunque raggiunto, seppur più lentamente (secondo la nota tesi del paragrafo 4 dell’Educazione), o se invece consentisse di giungere a conoscenze migliori di quelle che la ragione umana avrebbe potuto raggiungere di per sé (secondo quanto affermato nel paragrafo 77) ; ma il passaggio dalle verità di fatto a quelle di ragione era comunque tentato, ed era tentato sulla base di un visione filosofica (più precisamente, di filosofia della storia). Fichte aveva ben recepito le idee lessinghiane (in effetti, sia della Dimostrazione dello spirito e della forza, sia dell’Educazione il Saggio reca evidenti tracce). Da un lato, anche per Fichte la storia era in grado di dare soltanto una conoscenza del verisimile e non della « piena evidenza », quale è in grado di darci invece l’indagine che si svolge a livello di verità di ragione, ossia l’indagine filosofica. 3 D’altro lato, dedicandosi a una
1 Vedi il saggio di G. E. Lessing nella raccolta La religione dell’umanità, a cura di N. Merker, Roma-Bari 1991, pp. 65-71. 2 Se ne veda la traduzione italiana col titolo I frammenti dell’Anonimo di Wolfenbüttel pubblicati da G. E. Lessing, a cura di F. Parente, Napoli 1977. 3 Così nella lettera del settembre 1792 citata alla nota 81 : « Tutte queste domande, in quanto sono storiche, non possono ottenere una risposta pienamente evidente [...] Ma poiché i fondamenti della verisi
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deduzione e legittimazione filosofica dell’idea di rivelazione dopo essersi dedicato agli aspetti storici della rivelazione cristiana, anche Fichte, seppur con intenti apologetici, andava alla ricerca della saldatura fra verità storica e verità filosofica, nella convinzione che solo quest’ultima potesse consentire la saldatura ricercata. E, si può aggiungere, anche in Fichte la rivelazione veniva compresa in termini di un aiuto pedagogico fornito all’umanità ; solo che la possibilità di questo aiuto veniva rigorosamente dedotta, e non lasciata in uno statuto ambiguamente sospeso tra dispensabilità e indispensabilità : appunto ai fini di tale deducibilità apriori, il concetto fichtiano di rivelazione richiedeva che si pensasse come storicamente dato uno stato di fatto. Si trattava di uno stato di decadimento morale dell’umanità così generalizzato, da rendere impossibile il ritrovamento della religione e della morale senza un aiuto divino che risvegliasse provvidamente l’attenzione dell’umanità corrotta. In questo senso non era propriamente in questione l’educazione del genere umano, bensì – come sopra ci eravamo espressi allusivamente – la sua rieducazione. Sembrerebbe che nel teorizzare un decadimento così profondo e generalizzato il Saggio fichtiano anticipasse in modo sorprendente l’opera kantiana dell’anno dopo ; la Religione infatti sarebbe stata tutta basata sul tema del « male radicale ». Vi sono tuttavia delle differenze profonde fra le due visioni del male generalizzato elaborate rispettivamente dal giovane Fichte e dal vecchio Kant ; non è qui il caso di analizzarle tutte e analiticamente, ma si può dire che in larga misura esse vanno ancora una volta ricondotte alla direzione inversa delle due opere : Fichte non afferma la realtà dello stato di male generalizzato dell’umanità, bensì teorizza come necessario il pensiero di questo stato reale ai fini della pensabilità a priori del concetto di rivelazione. Kant invece afferma di fatto la realtà del male radicale, ma non la teorizza, e anzi teorizza l’inspiegabilità e l’imperscrutabilità di questo stato di fatto dalla diffusione a carattere universale (paradossale per uno stato di fatto contingente, da un punto di vista kantiano). Proprio per questo il tema kantiano del male radicale rappresenta una considerazione all’interno dei limiti della sola ragione di ciò che può essere solo narrato inverificabilmente all’inizio della storia e come inizio della storia di tutti e di ciascuno (il biblico « peccato originale »). La generalizzazione del male nel Saggio di Fichte, invece, non è universalizzazione ; anche se non sembra alieno da una visione universalizzante a proposito del male, Fichte ha ragioni di principio per insistere sul carattere storicamente localizzato della generalizzazione del male : si tratta di male affettante popolazioni intere, bensì, ma isolate nello spazio e nel tempo l’una dall’altra e tutte possibili destinatane delle rivelazioni specifiche che il Dio provvidente volesse inviare loro. L’universalità del male si affaccia – è vero – ambiguamente qua e là anche nel Saggio ; ma allora essa va intesa non come una caduta all’inizio della storia, bensì come una iniziale rozzezza dell’umanità : veduta, questa, che, per un verso, si riavvicina all’idea lessinghiana di educazione del genere umano, ma che, per altro verso, implica una naturalizzazione del male contrastante con la sua comprensione in termini kantiani, come colpa, cioè, di esseri originariamente disposti al bene ; comprensione peraltro assolutamente essenziale per il Saggio e per la sua idea stessa. Beninteso, anche Kant, come abbiamo ricordato, riteneva indispensabile l’intervento divino – comunque, non necessariamente in termini di rivelazione – affinché il gene
miglianza non posseggono una validità universale, e invece ripetono la loro validità dal modo di pensare soggettivo di chi giudica, qui rimane sempre lo spazio per un diverso modo di pensare » (GA, iii, 1, p. 343).
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 295 re umano raggiungesse la comunità etica (indisgiungibilmente e indistinguibilmente « destinazione » e « scopo finale »). Ma questo aiuto era solo per il genere e non per il singolo, era per la omnitudo collectiva e non per la omnitudo distributiva, per ciascuno dei singoli valendo incondizionatamente il « devi, dunque puoi ». Fichte invece, nel teorizzare esplicitamente un male così diffuso da rendere impossibile la rieducazione e l’insegnamento da parte di altri uomini rimasti incorrotti, non distingue così nettamente e qualitativamente metafisica individuale e metafisica collettiva (per lui si tratta infatti di una questione puramente ed empiricamente quantitativa) ; il che anticipa gli ulteriori sviluppi della sua dottrina dell’intersoggettività e il ritrovamento dell’idea lessinghiana di « educazione » del genere umano. In proposito basterà ricordare quanto Fichte affermerà nel Diritto naturale, legando rivelazione a « invito » (Aufforderung) : « L’invito alla libera attività spontanea è ciò che si chiama educazione. Tutti gli individui debbono essere educati, senza di che non diverrebbero uomini [...] Un uomo non poteva educare [i primi uomini], se essi dovevano essere i primi uomini. Dunque è necessario che li abbia educati un altro essere razionale che non era un uomo [...] Uno spirito si prese cura di essi, proprio come ne da rappresentazione un antico venerabile documento ». 1 A sua volta, però, Kant è vicino a Lessing (almeno al Lessing del famoso paragrafo 4 dell’Educazione, che Kant persine parafrasa in proposito) nel ritenere – e nell’affermare esplicitamente – che la eventuale rivelazione acceleri il corso della storia umana verso il suo scopo finale, ma non dia nulla che l’umanità non potrebbe, seppur faticosamente, raggiungere da se stessa 2 (e questo nella Religione non è che un modo per ribadire l’inindagabilità del concetto formale di rivelazione) ; mentre il Fichte del Saggio, pur ritenendo che una vera rivelazione non insegni nulla « a cui la nostra ragione non avrebbe potuto e dovuto pervenire senza di essa », 3 è del tutto lontano da Lessing – e ancor più da Kant – nel ritenere che, in linea di fatto, senza l’intervento divino il ristabilimento della disposizione morale dell’umanità non sarebbe possibile. Non v’è da meravigliarsi, insomma, che la tensione fra kantismo e motivi estranei al kantismo dia luogo, alla fine, alla contraddittoria affermazione secondo la quale un « desiderio » (Wunsch), ancorché massimamente criteriato, sarebbe alla base dell’accoglimento di un determinato fenomeno come rivelazione (così Fichte argomenta nel paragrafo 12, in sede di elaborazione della criteriologia), dopo che come presupposto per la possibilità del concetto di rivelazione era stato teorizzato un decadimento tale da togliere ogni desiderio morale all’umanità alla quale la rivelazione è destinata. 4
1 GA, i, 3, p. 347. Con diverse modulazioni, questa idea è presente anche in altre opere del periodo della dottrina della scienza. Per un male identificabile, nel Saggio, con l’iniziale rozzezza cfr. per es. nella presente traduzione p. 50. 2 Cfr., per es., « Può una religione esser perciò quella naturale, ma nello stesso tempo essere anche rivelata, se essa è costituita in modo che gli uomini avrebbero potuto e dovuto, col semplice uso della loro ragione, giungervi da se stessi, sebbene non vi sarebbero giunti così presto e con una diffusione così grande, come si richiede » (La religione, cit., p. 170). A me pare, però, che le pagine iniziali della quarta parte della Religione (dalle quali sono tratte queste espressioni) rivelino una presa di posizione di Kant nei confronti del Saggio fichtiano : ciò vale nonsolo per la ripresa di idee lessinghiane testé citata, ma anche per il modo in cui Kant ritiene di precisare in cosa consista la distinzione fra religione « rivelata » e religione « naturale », così come per la distinzione kantiana fra l’« origine » di una religione – ovvero la sua « possibilità intrinseca » – e la sua « comunicabilità » (sotto il quale aspetto, la qualifica di una religione come « naturale » vale a distinguerla da quelle « dotte » : cfr. op. cit., pp. 169-170). Kant dunque non doveva aver letto troppo distrattamente i primi 3 Cfr. nel Saggio, cit., p. 77. tre paragrafi del Saggio. 4 Questa contraddizione è rilevata anche da Verweyen, Offenbarung und autonome Vernunft nach J. G. Fichte, cit., p. 442.
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Ma, infine, anche questo modo di presentarsi della contraddizione mette in luce la differente comprensione e precomprensione del male da parte di Kant e Fichte nelle rispettive opere di filosofia della religione. La Religione applica esplicitamente al male morale la concezione del negativo elaborata da Kant già ai tempi del suo saggio sulle grandezze negative : 1 il male morale è una grandezza reale, effettivamente operante, e non è leibnizianamente riducibile al niente in base al principio puramente logico di non contraddizione. 2 Nonostante il suo kantismo, invece, Fichte nella concezione del male rimane assai più legato a Leibniz e all’idea che il male si connetta in qualche modo alla limitazione metafisica degli esseri morali finiti, a una loro minore ricettività alla ragione. 3 Inutile dire come questo implicasse anche una diversa comprensione della comunità intelligibile nel suo rapporto con quella visibile : non a caso la rottura di Fichte con Kant si concreterà – nei Contributi destinati a rettificare il giudizio del pubblico sulla rivoluzione francese – in un energico rifiuto dell’ecclesiologia kantiana della Religione. Ma con ciò ritorniamo a quei problemi di intersoggettività di cui dicevamo e che, sviluppati nel Diritto naturale, nel Sistema della dottrina morale e in varie redazioni della Dottrina della scienza, legheranno elementi leibniziani di prestabilismo monadologico (dunque, l’aspetto di Leibniz che Kant aveva criticato a proposito della categoria di « comunità ») con elementi lessinghiani di naturalizzazione del male, i quali – come abbiamo visto – ritrovano integralmente l’idea di « educazione » del genere umano. Almeno al confronto con questi ulteriori sviluppi, la visione del male elaborata nel Saggio, vale a dire la visione del male come dato empirico presupposto nel concetto a priori di rivelazione può legittimamente apparire ancora legata a Kant.
4. Filosofia della storia, comunità intelligibile, problema del male e della teodicea : questa la costellazione di temi che è venuta configurandosi nella presentazione del problema filosofico della rivelazione così come esso è affrontato nel Saggio. Questa costellazione, se richiama, come abbiamo visto, questioni essenziali della filosofia moderna e del pensiero illuministico, evoca anche motivi strutturali del grande pensiero idealistico, il quale può essere considerato nel suo assieme – ma senza per questo dar luogo ad alcuna semplificazione – come una grande « filosofia della rivelazione ». Il configurarsi della costellazione tematica menzionata potrebbe dunque far pensare a un’ampia recezione
1 Cfr. la nota che Kant dedica all’argomento nella parte introduttiva al primo capitolo della Religione (trad. it. cit., p. 21). 2 Tra le conseguenze di questa visione antileibniziana del male morale vi è il fatto che Kant non solo rifiuta, negli stessi anni della Religione, l’idea leibniziana di teodicea (si pensi al saggio Sul fallimento di ogni tentativo filosofico di teodicea), ma anche capovolge radicalmente ed in modo esplicitamente polemico questa idea leibniziana in senso antropologico-morale, vale a dire in una vera e propria antropodicea. Nella prefazione alla prima edizione della Religione si legge infatti : « Supponete un uomo pieno di rispetto per la legge morale, al quale venga l’idea di domandarsi (ciò che egli difficilmente può evitare) quale mondo egli creerebbe, sotto la direzione della legge morale, se fosse in suo potere di farlo ed anzi in modo che egli stesso potesse farne parte come membro ; vedreste che egli, lasciato libero della scelta, non solo lo sceglierebbe esattamente quale lo esige l’idea morale del bene supremo, ma vorrebbe anche che un mondo qualsiasi esistesse, perché la legge morale esige che il più gran bene, possibile per opera nostra, sia attuato. Egli lo vorrebbe anche se, in seguito a questa idea, corresse il rischio di perdervi personalmente molto in felicità, perché è possibile che egli forse non avesse modo d’essere adeguato all’esigenza di una felicità condizionata dalla ragione » (trad. it. cit., p. 6). 3 Cfr. in questo senso Goddard, Introduction a Essai, cit., p. 25.
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 297 filosofica del Saggio. Ma le cose non stanno affatto in questi termini, e per ragioni intrinseche, che dovrebbero riuscire evidenti dopo quanto si è detto : agli occhi di Fichte stesso il Saggio, o « tentativo », aveva avuto la funzione di mettere in luce la necessità di un nuovo approccio filosofia) piuttosto che la praticabilità dell’approccio kantiano al fine di dare soddisfazione alle esigenze filosofiche che si condensavano nel problema della « rivelazione ». È significativo che l’aspetto più rilevante della recezione del Saggio sia rappresentato dalla sua presenza nello Hegel dei cosiddetti « scritti teologici giovanili », 1 cioè : a) di uno Hegel che anch’egli fa i conti col kantismo, compiendo gli estremi tentativi di vedere se mai esso non fosse praticabile per trovare la saldatura fra spontaneità e rigorismo, fra bella esteriorità e bella interiorità, fra pubblico e privato, fra positività storica e razionalità ; ma anche b) di uno Hegel che, al pari di Fichte, non intraprende questi esperimenti di laboratorio intellettuale in vista della pubblicazione, e anzi, considerato il loro esito insoddisfacente, li lascia inediti – a differenza di un Fichte, trasportato dagli eventi, contro le sue intenzioni – e reimposta radicalmente la questione della « rivelazione ». Sicché della recezione o fortuna del Saggio si è già ricordato l’aspetto più caratteristico e storicamente significativo nel momento in cui, in apertura di questa Introduzione, sono stati rievocati gli equivoci di un successo ampiamente legato alla erronea attribuzione dell’opera a Kant : attribuzione erronea in ogni senso, cioè dal punto dei vista dei contenuti, oltre che da quello dell’autore reale, e per questo tanto più significativa storicamente (intendiamo soprattutto dire dal punto di vista di storia della filosofia e delle idee). Non è questa la sede per ricostruire nei dettagli le vicende di questa primissima recezione, 2 che culmina e nello stesso tempo si conclude con la « polemica sull’ateismo » : conclusione anche biografica e in qualche modo simbolica, giacché la « polemica sull’ateismo » sortì l’effetto di far perdere a Fichte quella cattedra all’università di Jena il cui ottenimento, nel 1794, era stato in larga misura una conseguenza dell’ambiguo successo avuto dal Saggio. Le vicende ulteriori della recezione del pensiero fichtiano saranno legate alle opere del periodo della dottrina della scienza ; a parte un grande, ma breve successo tra i romantici, sin dagli anni immediatamente successivi alla « polemica » queste vicende saranno durevolmente ipotecate dal confronto critico che con l’idealismo fichtiano instaureranno i più giovani – e più longevi – Schelling e Hegel. 3 Delle vicende recenti che, ritrovando un interesse più filologico e più autonomo per il pensiero fichtiano, hanno rivisto il paradigma « dinastico » della storiografia filosofica relativa all’idealismo tedesco e, dunque, hanno ritrovato l’interesse per la fase del pensiero fichtiano anteriore al periodo della dottrina della scienza si è già data più volte l’occasione e la necessità di dire qualcosa nel corso della presente Introduzione. A proposito delle riedizioni e delle traduzioni dell’opera – che sono uno dei documenti di questo diverso e recente interesse – bisogna ancora ricordare, oltre alla edizione critica della Gesamtausgabe, alla nuova edizione Meiner curata da Verweyen, alla traduzione francese di Goddard – tutte ripetutamente menzionate in questa Introduzione –, la traduzione inglese di Green (che, stanti anche le peculiarità dei ter
1 Cfr. in proposito C. Lacorte, Il primo Hegel, Firenze 1959, pp. 217-235 ; e P. Kondylis, Die Entstehung der Dialektik, Stuttgart 1979, pp. 106-109. 2 In proposito si possono vedere le opere di Kessler e Winter ricordate alla nota 7. 3 Cfr. in proposito le osservazioni di V. Verra, Il secondo centenario della « Dottrina della scienza » di Fichte, in « Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei », cl. Scienze Morali, 1995, alle pp. 441-443.
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mini a disposizione nella lingua inglese, rende decisamente Versuch con « tentativo », attempt). 1 La presente traduzione è stata condotta sul testo dell’edizione critica della Gesamtausgabe. Nella misura del possibile e del tollerabile abbiamo cercato di mantenere il ritmo e la strutturazione del pensiero di Fichte, i quali sono certamente legati alla, e determinati dalla, lingua in cui il Filosofo si esprime, ma altrettanto certamente non lasciano esaurire la propria parole nella langue. Per il resto, dobbiamo far presenti alcune questioni di traduzione di termini affatto specifiche, in quanto strettamente legate ai problemi teorici presentati nel, e rappresentati dal, Saggio fichtiano. 1) Molto spesso l’avverbio überhaupt è stato reso con « in linea di principio », anziché con « in generale » o con « in quanto tale ». Queste due ultime traduzioni del termine, usato in modo così caratteristico dal linguaggio dottrinario tedesco (tanto caratteristico da dar luogo a qualche divertente barzelletta che circola nella comunità scientifica internazionale), sono notoriamente delle traduzioni standard ; qui sono state conservate solo nei casi in cui esse rendevano con precisione l’intento semantico di Fichte. In molti altri casi, però, uniformarsi allo standard avrebbe fatto passare inosservato, sotto la facile movenza di maniera, un effettivo errore o, quanto meno, svuotamento di senso. Come pochi altri termini usati nel Saggio, infatti, il termine apparentemente ovvio überhaupt esprime la specificità della paradossale « critica » tentata dall’opera fichtiana : una critica che si propone di fornire alla pretesa di verità e/o di validità avanzata da determinati fatti storici in virtù della loro fattualità – assunta per ciò stesso come straordinaria – una legittimazione formale, « in linea di principio », e tuttavia solo in linea di principio, senza, appunto, fornire in proposito alcuna convalida razionale di fatto. 2) Un grosso problema è stato costituito dalla traduzione dei verbi darstellen e vorstellen e dei sostantivi etimologicamente (non sempre semanticamente) corrispondenti, Darstellung e Vorstellung. È noto quanto questi termini siano importanti e ricchi di vicende nel lessico filosofico tedesco, dal criticismo all’idealismo. La soluzione più adottata nelle traduzioni italiane di testi filosofici di questo periodo è quella di rendere Vorstellung con « rappresentazione » e Darstellung con « esibizione », facendo ricorso alle indicazioni di Kant nella Critica del giudizio (dove egli fa corrispondere Darstellung a exhibitio) e percorrendo un cammino in qualche modo inverso – illusoriamente inverso – dal tedesco a una lingua romanza, anziché dal latino al tedesco. Adottare questa diffusa soluzione nel caso del Saggio avrebbe non solo reso indigeribile la traduzione italiana, data la grande frequenza con cui Darstellung-darstellen ricorre nel testo fichtiano, ma avrebbe comportato anche due gravi perdite : quella di gran parte delle molteplici sfumature semantiche della forma verbale darstellen e quella dell’intreccio semantico dei due termini Darstellung-Vorstellung ; tale intreccio, che giunge talora fino alla confusione semantica, se non alla fusione, caratterizza, invece, la sostanza teorica più profonda della « critica » di ogni rivelazione e del concetto di rivelazione fornita da Fichte. Per quanto riguarda la prima perdita : nel tedesco (odierno, così come in quello degli anni del Saggio) darstellen è un termine di linguaggio ordinario il cui spettro semantico corrisponde pressoché totalmente al « rappresentare » dell’italiano ordinario e va, dunque, da « esporre »-« esibire » ad « avere il significato di... »-« costituire », anche nel senso più essenzialistico di quest’ultimo termine : senso estremo il quale ritrova l’« espo
1 G. Fichte, Attempt at a Critique of All Revelation, a cura di G. Green, Cambridge 1978. Su questa traduzione vedasi la significativa recensione di E. Harris in « Philosophical Books », 21 (1980), pp. 80-81.
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 299 sizione » come messa in esistenza di qualcosa che, altrimenti, rimarrebbe puramente astratto e mentale. Fichte nel 1794, nei primi abbozzi di dottrina della scienza, giungerà ad usare, a questo proposito, i termini Darsetzung-darsetzen. 1 Ma questo bisogno di specializzazione lessicale, nel quadro di una progressiva specializzazione della visione teorica di Fichte, indica anch’esso come da Fichte medesimo Darstellung e, soprattutto, la forma verbale darstellen fossero avvertiti nella loro continuità tra uso ordinario e uso tecnico. Tradurre « esibire »-« esibizione » avrebbe dunque significato recidere il cordone ombelicale tra questi due usi, laddove Fichte non lo ha reciso (mentre proprio quello contrario è il caso della Critica del giudizio, perché Kant fornisce tra parentesi il corrispettivo latino di un termine tedesco quando vuole che questo sia inteso come terminus technicus). Per quanto poi riguarda la seconda perdita che avrebbe comportato l’adozione della traduzione italiana più diffusa, e cioè la perdita di un intreccio che talora giunge fino alla confusione o fusione semantica dei due termini Vorstellung e Darstellung nel Saggio, dicevamo che tale intreccio caratterizza la sostanza teorica più profonda della « critica » tentata da Fichte. Semplificando : secondo la teologia filosofica diffusa e prevalente nel Saggio (non solo, dunque, quella che in esso è trattata tematicamente, e nonostante certe anticipazioni della posizione del 1798, aggredita dalla « polemica sull’ateismo »), noi abbiamo una Vorstellung di Dio come di un ente che ha Vorstellungen ; assumere un fenomeno dato come rivelazione significa « rappresentarsi » (sich vorstellen, o anche sich denken) che quel fenomeno sia una Darstellung non solo, o non necessariamente, di Dio in generale, come ente soggettivo – che ha Vorstellungen e agisce intenzionalmente in loro conformità – ma anche o, comunque, necessariamente di una precisa e specifica Vorstellung posseduta, fra altre, dal soggetto Dio. Naturalmente, e come potrà vedere il lettore, questo schema soggettivo semplificato, nel quale la Darstellung è pensata come il luogo della comunicazione intersoggettiva, si complica di ulteriori importanti elementi : dalla parte del soggetto umano entra in gioco la « fantasia » o « capacità di immaginazione » (Einbildungskraft) che dà alla Vorstellung una sorta di realizzazione, simile a quella che compete alla Darstellung, 2 e, comunque, una reale capacità di influire sulla volontà ; da parte del soggetto divino, la legge morale stelli l’essenza stessa di Dio dar, prima di ogni eventuale rivelazione. E si potrebbe dire che questa ultima Darstellung sia il vero e originario luogo della comunicazione : non solo di quella tra soggetto divino e soggetti umani, ma anche di quella dei soggetti umani tra di loro, che anche questa comunicazione è ripetutamente presa in considerazione da Fichte (a proposito dell’insegnamento, e più precisamente dell’insegnamento religioso, e ancor più precisamente dell’insegnamento religioso che si avvale della Darstellung-Vorstellung della rivelazione ; ma è chiaro che questo insegnamento, apparentemente così particolare, evoca il problema dell’« educazione » per cui gli uomini divengono uomini). Fermiamo qui la ricostruzione dell’intreccio dei termini e della loro semantica (ricostruzione ancora schematica e suscettibile di ulteriori determinazioni), e concludiamo dicendo che, in considerazione di tutto ciò, abbiamo reso sia Darstellung sia Vorstellung con « rappresentazione », dando tra parentesi il termine tedesco effettivamente usato da Fichte, quando si tratta della prima volta in cui esso è utilizzato nel passo in questione, e non ripetendolo finché, usando Fichte l’altro termine, anch’esso viene, per la prima volta di quel contesto, fornito tra parentesi. Solo qualche volta, per ragioni di accetta
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Cfr. GA, 11,3, pp. 89-90.
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Cfr. nel Saggio..., cit., pp. 62-63.
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bilità di italiano e/o di precisione semantica, abbiamo reso darstellen con « presentare », ma sempre fornendo, in questi pochi casi, il termine tedesco tra parentesi. Va ricordato, infine, che con « rappresentare »-« rappresentanza » abbiamo reso Stellvertretung-stellvertreten ; questa terminologia interviene anch’essa, in un punto del testo, 1 nella complicazione Darstellung-Vorstellung : e non a caso, se si pensa alla cristologia dogmatica, alla quale pensa, appunto, Fichte, e nella quale l’Incarnazione « rivela » sia un rapporto Figlio-Padre che è in vari sensi di Darstellung, sia un rapporto Figlio dell’uomo-uomini che è pensato in termini di « rappresentanza », sino al punto della teoria della « soddisfazione vicaria ». 3) Nonostante la traduzione consolidata in italiano (e anche in francese), che rende Begehrungsvermögen con « facoltà di desiderare », abbiamo sempre reso tale termine con « facoltà appetitiva », e Begierde con « appetito » (in qualche caso, in cui il contesto della traduzione italiana avrebbe potuto ridicolizzare quest’ultimo termine, facendolo risuonare nella sua accezione esclusivamente alimentare, propria del linguaggio ordinario attuale, abbiamo usato « appetizione »). Pur consapevoli dei problemi che si creano andando contro traduzioni di termini tecnici ormai largamente consolidate, soprattutto quando si tratta di termini tecnicamente così importanti, non ci è sembrato possibile conservare una tradizione (leggasi « tradizione ») così imprecisa e, nel caso del Saggio, decisamente errata, per un termine che, invece, è del tutto strutturale per il Saggio, per la sua teoria della religione, per la sua teoria della rivelazione. Si tratta di una traduzione tradizionale imprecisa : Kant – anche dal quale Fichte riprende il termine e la distinzione tra « facoltà appetitiva superiore » e « inferiore » 2 – fornisce egli stesso, in un contesto in cui usa Begierde, il corrispettivo termine latino (appetitio) 3 come suole fare allorché usa qualche termine come termine tecnico. Ma Kant, usando questi termini, fa ricorso egli stesso a una concettualità e a un lessico diffusi nella filosofia tedesca dell’epoca – dalla Psychologia empirica di Baumgarten alle Anmerckungen uber die vernünftigen Gedancken von Gott di Wolff, alla traduzione tedesca della Metaphysica di Baumgarten da parte di Meier – e per i quali la corrispondenza con la terminologia scolastica latina è ovviamente e incontestabilmente attestata. 4 Del resto, la stessa traduzione in latino delle opere di Kant, fatta qualche anno appresso da Born, avrebbe a sua volta ricondotto il Begehrungsvermögen alla facultas appetendi, nella sua bipartizione di inferior e superior. 5 Ma di fronte alla forza della tradizione, si potrebbe ancora esitare a cambiare la traduzione di un termine tecnico divenuta essa stessa tecnica per via del consolidamento. Sennonché nel caso del Saggio essa riesce decisamente errata, impedendo di cogliere una precisa, strutturale ed esplicita distinzione che Fichte fa tra Begierde e Wunsch : distinzione non del tutto coincidente con quella kantiana (che, pure, ne è la fonte). Di Wunsch, usato in forma qualificata, Fichte fornisce anche tra parentesi la traduzione latina : müßiger Wunsch come pium desiderium. 6 Questa traduzione fornita a proposito del « desiderio » qualificato come « pio » è significativa, giacché il rapporto tra
1
Cfr. nel Saggio..., cit., p. 90. Ma sulle differenze di Fichte da Kant in proposito (seppure con riferimento principalmente al Sistema della dottrina morale) cfr., da ultimo, C. Amadio, Morale e politica nella « Sittenlehre » di].G. Fichte (1798), Milano 3 Akademie-Ausgabe, vii, p. 251. 1991, pp. 177-198. 4 Per avere alcuni esempi di quanto affermato si può vedere l’Onomasticon philosophicum latinoteutonicum et teutonicolatinum, a cura di K. Aso, M. Kurosaki, T. Otabe e S. Yamauchi, Tokyo 1989, ad voces. Ringrazio la dottoressa Marta Vascotto per avermelo fornito. 5 Cfr. Immanuelis Kantii, Critica rationis practicae, in Opera ad philosophiam criticam, a cura di F. C. Born, 6 Cfr. nel Saggio..., cit., p. 14. Lipsiae 1797, vol. iii, p. 9. 2
introduzione al saggio di una critica di ogni rivelazione di fichte 301 desiderio e facoltà appetitiva è quello di fondato a fondamento, e non viceversa, come è detto chiaramente proprio nelle pagine che trattano del desiderio come di ciò che porta ad assumere un dato fenomeno come rivelazione ; e si tratta di pagine che esplicitano il diverso rapporto che si instaura tra desiderio e realtà del desiderato, a seconda che il desiderio si fondi sulla facoltà appetitiva inferiore o superiore ; il che è del tutto decisivo per la questione della rivelazione, così come la teorizza Fichte, giacché solo il desiderio ingenerato dalla facoltà appetitiva superiore ha quale conseguenza l’assumibilità del desiderato come realmente esistente. 1 4) Trieb è un termine la cui importanza si è potuta intravvedere nel corso di questa Introduzione. Scartato « tendenza », che, pur rendendo bene le ascendenze leibniziane di questo motivo fichtiano, avrebbe interferito con troppi altri termini non tecnici, abbiamo adottato « impulso ». Da un lato, infatti, questa è la traduzione più consueta per il Trieb fichtiano ; d’altro lato « pulsione », in italiano, è ormai pregiudicato in senso psicoanalitico, essendo stato a suo tempo utilizzato da Musatti per rendere il Trieb di Freud ; ma la conseguenza di questa nostra scelta è stata che, speso il termine composto (« impulso ») per Trieb, abbiamo dovuto rendere il termine composto tedesco Antrieb con « stimolo ». 5) Abbiamo cercato di riservare il verbo « dovere » a sollen, e particolarmente alla sua accezione morale, ricorrendo a perifrasi, sia per rendere la sua accezione di pretesa e di dubbio su quanto viene riferito, sia per tradurre müßen e rendere la necessità logica o quella reale che tale verbo connota (« bisogna che », « è necessario che » ecc). Abbiamo fatto ciò tutte le volte che è stato possibile e soprattutto abbiamo cercato di farlo quando il contesto poteva rendere equivoco l’italiano « dovere ». Analogamente, abbiamo sempre reso la differenza tra la liceità significata da dürfen e la possibilità fisica significata da können. 6) Questioni particolari di traduzione sono state brevemente puntualizzate in note ad hoc al testo. Le note al testo richiamate con asterischi sono di Fichte, quelle richiamate con numeri arabi del Curatore. In nota abbiamo riportato tutte le varianti della seconda edizione che conservavano un senso in traduzione italiana. La prefazione alla seconda edizione ed i paragrafi aggiunti ex novo nella seconda edizione sono stati riportati nell’Appendice. Non sarà inutile far presente al lettore che ai fini di una adeguata comprensione di quei passi della seconda edizione, riportati in nota, che sono successivi ai paragrafi riportati in Appendice, la lettura di questi ultimi va presupposta.
1
Cfr. nel Saggio..., cit., p. 103.
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INCARNATION OF THE OUGHT*
1
«
L
ife » is a fascinating issue for contemporary philosophical discussion. Ecoethics triggers new questions and lets classical questions appear in totally new ways. Can we speak of « rights » with regard both to humans and to other living beings ? If so, should human rights and biorights be conceived as two different kinds of rights, or should human rights be conceived as a sub-set of the more general category « biorights » since human beings are themselves living beings ? In any case does the mention of such rights suggest that non-living beings are excluded from having rights ? These should be crucial questions for ecoethics. I maintain that non-living beings also have rights, but that such rights are derivative from and directed towards life. I also maintain that among the rights of the various living beings there are relationships of subordination and that at least in principle it can be decided which of them should yield in the case of a conflict of rights. However these contentions depend upon another major contention : I maintain that human rights are not as such superior to the rights of other living beings, since human dignity does not originally coincide with human rights. If in the scale of rights of living beings human rights are superior, this is not by their intrinsic virtue ; rather, it derives from something from which human rights themselves derive. In this paper I shall argue for this main contention. There is at least one fundamental concept which must be explicitly mentioned when one speaks of « rights » : that of « ought ». It makes sense to speak of rights if and only if there is an agent (namely a free agent) who should respect them by doing something or by refraining from doing something. « Right » (or « having a right ») is a relational concept. It appeals to some being other than the one who possesses the right. And it appeals to this other being as at least possibly, if not really, existing. Hence the concept of right differs from other concepts like « value », for example, which can be thought of independently from any relation and which are in that sense absolute, i.e., non-relative. The being or beings entailed in the concept of right should therefore be, or at least should possibly be, in a real relation with the possessor of the right. Moreover, the being or beings possibly related to the possessor of the right should on their own be capable of entering into at least two different kinds of relation with that possessor, i.e., they should be able to choose by self-determination the action that relates the two sides. Already on the basis of these brief remarks it is clear that there is no reciprocity, let alone symmetry, implied by the concept of right. Relationality does not imply reversibility. That one being has a right implies that another has a duty, and nothing else. Specifically, the fact of bearing a right does not imply that the possessor of the right is in his or her turn bound by a duty towards the being who has the duty to respect the right of the former ; nor does it imply that the obliged agent has some right towards the recipient of her/his duty.
* Incarnazione, a cura di Marco M. Olivetti, «Archivio di filosofia», lxvii, 1-3, 1999, pp. 171-179.
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marco m. olivetti The modern philosophy of subjectivity : from « cogito » to « du sollst »
Although this is obvious and even trivial, it has been the idea of modern philosophy, and more precisely of that main trend of modern philosophy that has worked out the very concept of subjectivity, that there is a basic reciprocity and symmetry between rights and duties. In fact, the reciprocity of duties and rights might be an unusual but neither inappropriate nor vague way to characterize the specific difference of the philosophy of subjectivity. This last expression (« philosophy of subjectivity ») may evoke the Continental scene in modern philosophy. I will not try to dodge this evocation, but as we shall soon see, the English Channel does not prevent modern Anglo-Saxon philosophy from being so characterized also. The Cartesian cogito is, to be sure, one of the most prominent formulations of the modern idea of subjectivity ; due to its strength and impact we may consider it the inauguration of the philosophy of subjectivity. Descartes strove mightily to demonstrate the existence of the cogito, the « I think », and to show it in its immediacy so that doubt would not have the room to insinuate itself. Hence his paradoxically immediate-mediate « ergo », or « therefore », that arrived at the existence or rather the substantiality of the cogito, i.e., subjectivity in the new, modern sense of the word « subjectum ». From the Cartesian « I think therefore I am » (cogito ergo sum) to the Kantian « You ought therefore you can » (du sollst also du kannst) there is a remarkable continuity as well as a remarkable transformation. The paradoxical immediate-mediate inference expressed by the « therefore » remains, but the content of this very same argumentative form shifts from the theoretical to the practical realm of knowledge, from the first person to the second person, and from the indicative to the imperative. The adoption of the critical transcendental standpoint forces any attempt of « rational psychology », i.e., any assumption of the substantiality of the self, to founder in the « transcendental dialectic », or, as Kant says, in the waves of that « stormy ocean » that metaphysics represents for knowledge longing – just as in Descartes – for cognitive certainty. Now the « I think » (ich denke ; cogito) is by no means to be thought of as being, as res cogitans ; it is not substance, but pure function ; it represents the supreme unity of the a priori cognitive functions. To it no right can thus inhere. But the dream of the philosophy of subjectivity is tougher than any substance. For substance is now appearance, phainomenon. Freedom on the contrary is noumenal and real ; or rather, it is more than real since « real » is still a category of our intellectual knowledge. Not the cogito, but the cogitatum (Greek : noumenon) is now doubtless and certain. Or again, it is more than certain, since certainty is the attribute of scientific, i.e., phenomenal knowledge. It is remarkable that this new and deeper certainty comes from outside, as it were, addressing the subject in the second person and in the imperative mode (du sollst). The subject that cannot experience itself as being, i.e., as « I am » (sum), is certain of itself indirectly, or more exactly, trough the direct address of the moral law ordering it personally, uniquely, and irreplaceably as « you ». It is equally remarkable that the exteriority, as it were, of the « ought » addressing the person as « you » is connected with the pluralization of persons. If I am originally
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305
a « you » and my certainty concerning myself comes only from my being noumenally addressed as a « you », i.e., as an other, it is at least not surprising that there are other persons beside myself and that the « first person », the « I », is not alone, or at least not « first ». Once more this is not a matter of experience, but an implication of what I called figuratively the « exteriority » of the moral imperative. Actually the Kantian formulations of the categorical imperative always make the noumenal plurality of persons entailed in the original « you ought » explicit. Indeed this is the very meaning of that formulation of the categorical imperative requiring that the subjective criterion – the « maxim », as Kant calls it – of one’s own action should be universalizable, as well as of that formulation of the categorical imperative requiring that humanity should be always considered, « in yourself as well as in others », as end and never merely as means. Asking whether such a commanded « you » is or ought to be, i.e., whether it represents a being or an ought, would be asking not only a commonsensical question, but also one satisfying the « great division » of Hume’s so-called law that there is no transition from « is » to « ought » (and vice versa, for those claiming that the « reverse law » is also correct). But the subject as personalized freedom, i.e., freedom as always, analytically personal, is not a concept that can be located within the realm in which this law applies.
The generating ought and the others right Ethics and law organize human life, which is in essence living-together ; they organize it through prescription, i.e., by attributing duties and corresponding rights, not by description. The attribution of duties and rights structures human life both provisionally and permanently : provisionally not only with regard to the content of duties and rights, but also and above all with regard to the identity and identifiability of the possessors of such and such rights and duties. On the other hand, ethics and law structure human life permanently, since the subject is as such constituted as addressee of the ought. The subject is commanded. It is as ought. It is constituted by the prescription itself. It is constituted as responsible, i.e., as being able to respond positively or negatively to the duty of respecting the rights of others. Of course the prescription may command one to respect oneself, i.e., to respect one’s own inalienable rights. But even in this case, the ought is original for the subject and originates it. Right is always originally the right of the other, be it that of the prescription itself pretending to have the right to be respected. Only insofar as there is an original right of the other who originates the subject as « you » and as ought may any possible right of the addressee towards her/himself derive. In this sense neither the Cartesian principle (« I am ») nor the Kantian principle (« you ought ») entails symmetry or reciprocity. They not only agree with the merely descriptive analysis of the concept of right sketched at the beginning of this paper. They are asymmetric in principle, as the unique principle of the philosophy of subjectivity, which historically underwent a reversal with respect to this constitutive asymmetry. But if so why did modernity not fully draw the consequences of the shift from the « I am » to the « you ought » ? Why did modernity cultivate instead the project of ethical and juridical symmetry ? Answering this question requires some care.
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marco m. olivetti Why modernity was not radical enough
In a sense it is obvious that the first beings appearing to have rights are our fellow human beings, about whom the « you » addressed by the ought assumes that they themselves are in turn addressed by an ought, assimilating them to her/himself and with that establishing symmetry and reciprocity. But this cannot be the answer to our question. Instead this « answer » begs the question, presupposing what must be explained and showing itself to be bogged down at the halfway point, unable to see fully the consequences of the deeper asymmetry founding any symmetry among responsible beings. That such beings be individuals of the human species seems obvious to us moderns. But it is not necessarily so, and different epochs and individual orientations have regarded things otherwise : we frequently consider our pets responsible, and Xerxes had the sea whipped since by its waves the departure of his fleet was prevented. On the other hand, not to recognize the rights of other human beings does not entail that one does not consider them responsible, i.e., to be free agents. Considering somebody one addresses with « you » as a possessor of duties alone and not of rights is to consider her or him a slave, in the philosophical or essential meaning of this word. Nevertheless, the slave is viewed as able to satisfy or not to satisfy her or his duty, i.e., as being free, even if not permitted to use her/his freedom to evade this duty. A better answer to the question of why modernity did not completely draw the consequences of the reversal of the asymmetry entailed in the principle of subjectivity would refer to cultural viscosity. Due to this viscosity, the ontological and epistemic privilege of the « first person » established by the cogito remained even after the reversal introduced by the « you ought ». Fichte’s theory of the transcendental « I », which considers such an « I » as positing the ought by itself and to itself, exemplifies this continued privilege. Sometimes Fichte even explicitly asserted that being is second and derivative with respect to the transcendental « I ». But just this example, which I will not examine further here, shows how insufficient cultural viscosity is for fully explaining the problem. Modernity did not completely draw the consequences of the asymmetry entailed by subjectivity not simply because of cultural viscosity, nor simply because of a lack of radicality, as if reciprocity were a point of equilibrium midway through the transition or rather the reversal from the « I am » to the « you ought ». If symmetry, i.e., reciprocity of duties and rights among rational agents, is not the last step of the new vista opened up by the philosophy of subjectivity, it is nonetheless a necessary step, and one which cannot and must not be given up in favor of asymmetry. Thus the real question is about the coexistence, without contradiction, of symmetry and asymmetry in the relation between subjects. As we will soon see, only on the basis of this coexistence can a reason be found for asserting biorights which are different from human rights, and to which human rights cannot be reduced.
« You ought therefore you are »
That symmetry and asymmetry can and should coexist can be argued by referring to the principle pacta sunt servanda, « pacts ought to be maintained », i.e., the principle underlying any theory of an original social contract (be it assumed as real or virtual).
incarnation of the ought
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Such a principle is a principle of subjectivity : not or not necessarily a theoretical and ontological one, but necessarily and more originally a practical and moral one, one effecting an ascription through its prescription, namely that of subjectivity to those to whom it is assumed to be addressed. Now, such a principle of subjectivity is symmetrical and reciprocal if considered by a third person outside the contract or even by one of the contracting parties insofar as this party impartially, i.e., counterfactually imagines himself or herself as an other, i.e., as an observer and not as party to the contract. But the principle is asymmetrical if considered by the party as such. In this case the contract is a promise, even if a conditioned one (the promise to do or not do something under the condition that the other parties make and keep their own promises in turn). As promise the contract is analytically asymmetrical. If metaphysical substantialism is abandoned (as is the case after Hume, for the most part), this is all the more true. For the subject cannot maintain itself in its personal identity except in imagining itself maintaining (or not maintaining) its promise towards the other who has the right to claim that the promise be maintained. To put it in a more radical formulation : the subject cannot maintain itself and its identity except through assuming the otherness of the ought. « You ought therefore you are » : this is humanism. Humanism does not derive from belonging to the human species. Human dignity is always personal, it is always and each time irreplaceably mine – jemeinig, to take up a Heideggerian term, though in a quite different and even opposed theoretical context. For this discussion takes place in connection with humanism, and in connection with a philosophy of subjectivity that is completed by drawing the consequences of the ethical asymmetry present in and presupposed by any assumption of symmetry, namely, the consequence that the « first person » is second and secondary. Other human beings come first. They come first even if they are still to come. In fact their rights, for which I have responsibility, are the rights due to somebody assumed to be in her/his turn responsible. They ought to be because they ought, i.e., other humans beings ought to exist because they too are commanded by the ought.
Responsibility for responsibility This somewhat ironical statement – « they ought to be because they ought » – has two implications. On the one hand this statement indicates the superiority of human rights in comparison with the rights of other living beings and of non-living beings. It states this notwithstanding or rather precisely because human rights are derivative. Indeed, responsibility is above all responsibility for responsibility, i.e., the responsibility to maintain responsibility even beyond the limits of one’s own life and personal identity. Would we say that somebody is « moral » and « responsible » if she/he does not care about how things will be after her/his death ? The irony of the statement asserting that other human beings ought to be because they ought is not the irony of a rhetorical sentence. Irony is entailed in life itself, and only the ethical maintenance of responsibility makes it serious. It makes it serious – I mean moral – insofar as responsibility overcomes the limits of individual life and is prolonged after death. Not less than generation, death in a peculiar sense « alter-nates »
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life, i.e., it makes possible the responsible prolongation of responsible life in other subjects. Let us move on to consider the second implication of our statement « they ought to be because they ought ». This consideration is also required by the peculiar use I have made of the word « alter-nate », with which I wish to suggest that we bear in it the etymological sense along with the everyday sense, viz., that we think rendering something an « other » (alter). Life is alteration of identity. It originates the other, alter. In this sense life is ironical. When we speak of « identity » in ordinary language, we use the word in two different ways, depending on whether we are referring to non-living beings or to living beings. The identity of non-living beings excludes change, whereas the identity of living beings includes it. Of course, not all change is consonant with life, but only that kind of change we may qualify as « healthy » ; change that is not good for life makes it unwell or ill. If such change is not overcome it brings an end to the living being and its identity. But death comes anyway for life both well and unwell. The identity of living beings is temporal : it constitutionally has a deadline, just as it constitutionally has a date of birth. Life thanks time whereas non-life challenges time. Something similar can be said with respect to space (I use these terms – « time » and « space » – in the ordinary meanings given them by everyday language). The identity of non-living beings leaves outside what is not included inside such beings. The identity of living beings constitutionally entails transit and transformation from outside to inside and vice versa, i.e., it entails generation and nutrition (or anabolism, metabolism and catabolism, in technical language). This is the irony of life : its constitutional changing of the other into the same, of the different into the identical, and of the identical into the different. The irony is radical : the transformation operated by life involves the transformation of non-life into life and vice versa. Hence this irony goes so far as to transform the two kinds of identity I distinguished above into each other.
Some-body : Incarnation of the ought
But if this is so, is there any reason for saying that it is life that operates the transformation, and not to say that it is non-life that operates it ? Or would it be more correct simply to say that a transformation takes place ? From an intuitive point of view one could argue in favor of the statement that it is life that synthesizes itself from non-life by means of nutrition, and that it is again life that transforms itself into non-life by means of excretion. But this intuitive point of view becomes dubious when we consider two possibilities. On the one hand, life possibly originated from non-life « once upon a time » ; on the other hand, life could also cease in the future. It could be destroyed either by non-life or by itself. The self-destruction of life could even occur as a consequence of our transforming the conditions of life, externally or internally. Maybe one day we will know exactly how life originated. Perhaps then we will be capable of producing life not by generation but by repeating, artificially, its origination from non-life. Such knowledge might even be imminent. It will be much more difficult to know if and because of what kind of alteration life will end. That life ends is a logical
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and real possibility. That species die out and become extinct, though, is not only possible but the only real case we know of until now. So it is quite difficult as well to predict whether Homo sapiens will be an exception. But insofar as belonging to the human species is assumed to be necessary and/or sufficient for assuming that somebody else is her/himself the addressee of an ought, and hence for addressing her/him as « you », the ought that addresses me personally and irreplaceably and constitutes me as subject commands me to do whatever I can to maintain the species. The human species ought to be preserved and continued, since in this preservation my responsibility can be prolonged through alternation, i.e., through the incarnation of the ought in other persons. The human species thus has rights in itself (at least the right of being preserved and prolonged), since it makes possible the incarnation of the ought beyond my personal life. On the other hand, individuals themselves have rights in addition to their rights as members of the human species, i.e., as living instances of the species that would cease to exist without such specific individuals. They have rights, in themselves since responsibility is always and irreplaceably personal. As members of the species they have rights originally ; personally, as subjects, they have rights derivatively, i.e., as the possible continuation of responsibility, taken to the end – to my end – as responsibility for responsibility, as continuation of my personal responsibility beyond myself. Only this alternation renders serious the irony of life. There is no difference between being actual and being possible, between being present and being future, when we consider somebody as ought. Nonetheless « incarnation » of the ought needs somebody. It entails some body : not this or that body, but a living body which as such alters itself, and in this sense is indefinite : somebody. That the body be my body is only a consequence of the ought constituting me as « you ».
Eating well As with all other living bodies, my body not only was born, but also eats until its death. That living bodies eat is neither right nor wrong ; it is just their being. They are not responsible for this mode of being. That non-life is subordinated to life, i.e., that it is a means for life, that life is the end of such means, and that life ends non-life, is neither right nor wrong. That some living beings eat other living beings and that this can occur even as homophagy, is neither right nor wrong. Life is an end in itself, and whatever ends up in it lets it be until its own possible end. But that I eat is either right or wrong. It is either right or wrong because in this case the eating body is mine, and this property does not mean anything else than my being addressed as « you » by the ought. Since eating is literally the assimilation of the other – thus the elimination of it as other – it can hardly be asserted that my eating respects the other and whatever rights it may possess. Nonetheless, my eating is not necessarily wrong. It is right, i.e., I have the right to eat, and to eat right, so far as the nutrition of my body, and that specific kind of nutrition of my body, is necessary for satisfying the ought. Asserting this entails that my response to the ought always requires a comparison with the rights of others – of non-living, living, and human beings – in order to decide
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which should prevail and to what extent it should prevail. Responsibility is first of all a comparison of rights, and this is but another way of formulating the assertion I previously made to the effect that responsibility is first of all responsibility for responsibility. The ultimately prevailing right is that of the other being who might prolong my responsibility for life as an end in itself.
COMPASSIONE O TEODICEA. L’APPROPRIAZIONE RELIGIOSA DEL PROBLEMA DEL MALE NELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA*
I
n questo saggio intendo presentare quattro tesi fra loro connesse. La prima è che oggi assistiamo a un fenomeno di notevole importanza per la storia del pensiero : l’appropriazione religiosa del problema del « male » (le ragioni per le quali pongo tra virgolette la parola « male » verranno dette in seguito). La seconda è che tale appropriazione religiosa del problema del « male » dissolve l’impresa filosofica che, da Leibniz in poi, si suole chiamare « teodicea », 1 o almeno la cambia radicalmente. La terza tesi è che siffatta appropriazione religiosa del « male », la quale dissolve o cambia radicalmente la teodicea, si configura sulla scena di una trasformazione epocale per la storia della filosofia – sebbene non solo per essa – e contribuisce a sua volta, e per la sua parte, a configurare questa scena complessiva, caratterizzata dalla destituzione dell’ontologia, anzi dell’ontoteologia, dal rango di filosofia prima e dalla sua subordinazione all’etica. Che in tal modo l’etica venga posta nel ruolo di filosofia prima potrebbe difficilmente venir affermato ; infatti la destituzione dell’ontoteologia rappresenta l’impossibilità di continuare a pensare in modo protologico : si tratta precisamente di una precedenza dell’etica che non può essere inglobata, ossia di una precedenza che è anteriorità già sempre anteriore, anterior quam cogitari possit. Infine la quarta tesi : l’appropriazione religiosa del « male », la quale dissolve la teodicea e si delinea nel più ampio quadro di una destituzione dell’ontoteologia da parte dell’etica che già sempre la precede, si articola come pensiero dell’intersoggettività. Usiamo qui un termine – « intersoggettività » – che, peraltro, riusciva altamente problematico già nel caso della sua utilizzazione originaria da parte di Husserl. Il carattere altamente problematico di questo termine e del concetto che esso connota si accresce nella misura in cui l’intersoggettività si presenta come problema della compassione, ovvero del con-patire. Ma va notato che questo problema della compassione non rappresenta in alcun modo una deformazione o uno sfiguramento della originaria questione dell’intersoggettività, bensì lascia apparire nel modo migliore la natura fin dall’inizio problematica di tale questione, richiedendo proprio con ciò l’abbandono della pretesa protologica.
* Bene, male, libertà, «Seconda navigazione. Annuario di filosofia», Milano, Mondadori, 1999, pp. 219-238. 1 Il senso in cui qui viene usato il termine « teodicea » risulterà dall’intero saggio. Si tratta di un senso molto ampio e insieme, ritengo, molto preciso. Sottolineando fin dall’inizio l’origine leibniziana del termine, intendo dire che il senso ampio e preciso in cui uso il termine stesso non sottovaluta né la specificità della configurazione moderna del problema per cui Leibniz coniò quel nome (specificità a cui farò riferimento esplicito alla fine di questo saggio e che è stata messa in luce dalla recente monografia di S. Lorenz, De mundo optimo. Studien zu Leibniz’ Theodizee und ihre Rezeption in Deutschland (1710-1791), Stuttgart, Steiner, 1997), né la distinzione contemporanea fra « teodicea » – come teorizzazione delle ragioni per cui Dio permette il male – e « difesa » del teismo nei confronti dell’« argomento dal male » (cfr., per es., A. Plantinga, The Nature of Necessity, Oxford, Clarendon Press, 1974, p. 192).
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Si potrebbe quindi riassumere in forma di paradigma quanto questo scritto vorrebbe far emergere : a) appropriazione religiosa del « male » ; b) dissoluzione della teodicea classica ; c) anteriorità dell’etica che destituisce l’ontologia dal rango protologico ; d) compassione come formulazione più propria della questione dell’intersoggettività. Un paradigma di questo genere consente una rapida veduta d’assieme ; tuttavia esso rischia di cancellare quanto mi sono sforzato di far apparire già in prima enunciazione, e cioè che le quattro tesi rappresentano propriamente quattro momenti di un unico complesso, richiamandosi e spiegandosi a vicenda. Da un punto di vista teoretico si potrebbe financo prendere le mosse da uno qualsiasi di questi momenti, per poi elaborare l’intero complesso. Il percorso che ho scelto ai fini di questo saggio è appunto quello di prendere le mosse dall’odierna appropriazione religiosa del problema del « male », e precisamente di chiarire in primo luogo cosa intendo con questa espressione, per poi corroborare e illustrare mediante alcuni esempi esemplari l’affermazione che oggi abbia luogo un siffatto fenomeno culturale. Nell’esposizione di tali esempi dovrebbe venire alla luce con tutta evidenza la coimplicazione degli altri tre momenti. Per quali ragioni, dunque, ho sin qui posto tra virgolette la parola « male » ? Perché con questo artificio grafico ho inteso evidenziare la trasformazione della polisemia, che il termine « male » possiede come parola di linguaggio ordinario, in una caratteristica di terminus technicus. Tale polisemia è riscontrabile nelle lingue romanze – e nel latino, ovviamente – ma anche in molte altre lingue naturali classiche e moderne. Essa però non si dà in altre lingue, come, per esempio, in una lingua significativa per la storia della filosofia moderna quale il tedesco, il quale distingue Übel da Böse, ovverossia « male fisico » da « male morale » (come noi diciamo in italiano, con una versione necessariamente non innocua che, riprendendo la distinzione e la terminologia consolidata da Agostino a Leibniz, riconduce i due termini tedeschi a un unico genere, di cui l’aggettivazione esprimerebbe differenze specifiche). L’artificio grafico che abbiamo adottato sin qui – e che ora, dopo averne esplicitato il senso ripeteremo ancora solo una volta per non appesantire il discorso – vuole dunque assumere consapevolmente tutta la ricchezza semantica, se non l’equivocità, del termine di linguaggio ordinario « male ». Si tratta in effetti di un continuum semantico, ai cui estremi appaiono chiaramente distinti due significati, i quali però sono congiunti fra di loro da molteplici connessioni e vicendevoli prosecuzioni e in primo luogo, ovviamente, dalla comune valutazione negativa che viene associata normalmente tanto all’esperienza dell’Übel, del male fisico, quanto all’esperienza del Böse, del male morale. È chiaro che siffatto continuum semantico è stato da sempre un tema centrale del pensiero religioso (e dell’agire religioso) ; i numerosi rappresentanti di una comprensione della religione come « padroneggiamento della contingenza » (Kontingenzbewältigung, secondo il lessico dei teorici tedeschi contemporanei ; ma si pensi già allo Hume della Storia naturale della religione) direbbero, per esempio, che senza male non esisterebbe in generale religione. Ma quando parlo di appropriazione religiosa del problema del male, intendo qualcosa di specifico e di non generalizzabile, che differenzia la situazione culturale odierna da quella che aveva potuto dar luogo a un’impresa come la teodicea filosofica. Infatti è cambiata la valutazione negativa del male. Dire che l’appropriazione religiosa del male significhi una valutazione positiva del medesimo sarebbe troppo rozzo : l’affermazione, a causa di un deficit di appropriati
compassione o teodicea
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strumenti analitici e di concettualità tecnica, riuscirebbe falsante o priva di senso. Ma certo la negatività del male non viene più intesa in modo semplicemente privativo e – al termine di questa via privativa – in ultima analisi in modo dissolvente. Proprio questa era stata la strategia intellettuale di Agostino quando, al fine di neutralizzare le conseguenze irreligiose del classico « Si Deus est unde malum ? », aveva affermato che, a essere ragionevoli, ancor prima della domanda « unde malum ? » bisognava porsi la domanda « quid malum ? ». 1 E la risposta alla domanda sull’essenza suonava notoriamente : « privatio boni ». Al contrario, il male oggi non viene più compreso in modo privativo, bensì viene compreso come grandezza negativa. In prima battuta, pertanto, la situazione odierna può esser fatta risaltare per contrasto : non più malum privatio boni, secondo il paradigma classico della teodicea, fondamentalmente perdurato da Agostino a Tommaso a Leibniz almeno : 2 un paradigma che ha approfondito e irrigidito l’idea di creatio ex nihilo in maniera vieppiù ontoteologica. Non più malum privatio boni, ma anche non più perfectio seu realitas, nel senso, per esempio, di uno Spinoza che negava la tesi creazionistica, ma condivideva con i suoi avversari la tesi della bontà dell’essere, ovvero della sostanza. Qui non va preso in esame in ragione di quali esigenze tecniche di storia della filosofia e – più in generale – in ragione di quali eventi storici si sia verificato siffatto « non più » (la Shoah incombe al pensiero). Come conseguenza di tale interruzione – di tale « non più » – molti pensatori originariamente religiosi hanno infine scelto e intrapreso il cammino alternativo : se il male è così incomparabilmente prevalente, allora non c’è Dio (o tutt’al più c’è un Dio, per così dire, diminuito). 3 Ma questa reazione non può evidentemente rappresentare ciò che ho chiamato « appropriazione religiosa del male » e, seppure il male che ha causato questa reazione è incomparabile, la reazione stessa non è così nuova e inaudita. Infatti essa ripete piuttosto a suo modo – in modo più o meno inasprito – proprio la scelta filosofica contro la quale
1 Cfr., tra i vari passi agostiniani citabili in proposito, De moribus Ecclesiae Catholicae et de moribus Manichaeorum, ii 2, 2 : « Percunctamini me unde sit malum ; at ego vicissim percunctor vos quid sit malum. Cujus est iustior inquisitio ? Eorumne qui quaerunt unde sit, quod quid sit ignorant ; an ejus qui prius putat esse quaerendum quid sit, ut non ignotae rei (quod absurdissimum est) origo quaeratur ? » (Migne, Patrologia Latina, vol. 32, col. 1345). 2 Ovviamente questa affermazione concerne le grandi linee che danno fisionomia a una civiltà ; nel dettaglio le precisazioni potrebbero essere numerose, a cominciare da Agostino medesimo (nel cui pensiero si trova, tra le altre, anche una considerazione della sofferenza come pungolo al bene) fino allo stesso Leibniz, che riprende, tra le altre, anche una considerazione estetica del male, quale circolava nell’epoca (il male come l’ombra che giova alla bellezza d’assieme di una pittura). Ma le precisazioni che richiederebbe una descrizione dettagliata non sono solo quelle relative agli aspetti interni al pensiero dei maggiori esponenti della visione dominante, bensì anche quelle relative a singoli pensatori che non si lasciano ricondurre in alcun modo a questa visione, pur avendo avuto grande importanza per la tradizione culturale che l’ha espressa, da Böhme – così significativo per la lignée schellinghiana che verrà in discorso qui appresso – a Malebranche, che riconosceva senza eufemismi e razionalizzazioni la positiva, ontologica esistenza del male, pur essendo stato egli così importante proprio per la configurazione tecnica della teodicea moderna. A quest’ultimo proposito voglio segnalare il recente saggio di D. Moreau, Malebranche, le désordre et le mal physique. Et noluit consolari, in La légèreté de l’être. Etudes sur Malebranche, a cura di B. Pinchard, Paris, Vrin, 1998, pp. 147-72, proprio perché insiste contemporaneamente sulla peculiarità della teodicea malebranchiana a fronte di quella agostiniano-tomistico-leibniziana considerata come fondamentalmente unitaria. Sull’abbandono odierno della concezione privativa del male vedasi anche il volume, testé uscito, Die Wirklichkeit des Bösen, a cura di E. Hermanni e P. Koslowski, München, Fink, 1998. 3 Dell’ampia letteratura esistente in proposito si veda soprattutto I. Kajon, Fede ebraica e ateismo dopo Auschwitz, Perugia, Benucci, 1993.
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la teodicea era apologeticamente diretta, e cioè : se il male, allora niente Dio (ovvero : un Dio che manca di determinati attributi). Per contro, il cambiamento radicale e filosoficamente assai significativo al quale faccio riferimento può essere detto epocale perché considera religiosamente il male in quanto tale, e ciò proprio nel momento in cui non interpreta più il male stesso in modo privativo ; in altre parole, il male non viene considerato più come qualcosa che debba essere cancellato mediante particolari strategie intellettuali al fine di poter pensare religiosamente, anzi teisticamente, ma al contrario viene considerato come qualcosa che richiede in alta misura una teologia filosofica o una theologia revelata a vantaggio della filosofia. E su questa strada può accadere – adesso possiamo dirlo senza, con ciò, essere troppo rozzi e approssimativi – che il male venga persino compreso o valutato in termini, in qualche modo, positivi. Come può accadere qualcosa del genere senza che ciò rappresenti il delinearsi di una visione meramente contraddittoria ? La risposta affatto univoca a questo interrogativo, fornita da tutti i segni che indicano in direzione della nuova comprensione religiosa del male, va individuata nel motivo dell’intersoggettività, e più precisamente nella « alterazione » a cui il male va soggetto nel rapporto intersoggettivo (uso, ovviamente, il termine « alterazione » in un senso particolare, nel quale intendo far risuonare la sua valenza etimologica e suggerire così un cambiamento – un divenire altro, aliud – che si determina nella relazione con l’altro come alter. Peraltro si tratta di un rapporto che non si aggiunge al male, né al soggetto, ma è originario tanto per il male stesso quanto per il soggetto che lo fa o lo patisce. Dal momento però che qui sto avanzando la pretesa di fornire una descrizione e una interpretazione della situazione filosofica e culturale contemporanea, tutto ciò che ho affermato sino a questo momento non può essere fatto oggetto di ulteriore elaborazione senza riferirsi a una concreta documentazione che giustifichi e, anzi, renda ineludibili affermazioni siffatte. Qui di seguito, pertanto, addurrò e rifletterò su tre esempi che mi paiono esemplari, e che sceglierò, tra i tanti possibili, non solo in ragione del loro alto livello filosofico, ma anche perché essi rappresentano prospettive filosofiche affatto differenti – metafisica, fenomenologia ed empirismo, per dirla rapidamente – mostrando nondimeno una sorprendente convergenza nel delineare la scena filosofica che ho abbozzato mediante l’iniziale formulazione delle mie quattro tesi. Sarebbe anche interessante considerare come e quanto la teologia contemporanea offra indicazioni, peculiari certo, e tuttavia straordinariamente convergenti con la scena filosofica che intendiamo mettere in luce. Ma qui mi limiterò solo alla filosofia. E anche rispetto a quest’ultima è ovvio che la documentazione potrebbe essere molto più ampia ; ognuno potrebbe aspettarsi di vedere menzionati altri nomi, oltre ai tre che qui troveranno spazio. Nondimeno ritengo che agli scopi del presente scritto la via di un’esemplificazione esemplare – come l’ho chiamata – possa riuscire più efficace e chiara della via di un’ampia, ma necessariamente incompleta documentazione : nel limitato spazio di un saggio questa risulterebbe, allo stesso tempo, troppo e troppo poco. Al fine di enfatizzare sia l’esemplificatività sia l’esemplarità delle diverse e pur convergenti prospettive filosofiche discusse qui appresso, ho scelto, anzi, di fare riferimento solo allo scritto degli autori esaminati che ritengo più significativo in ordine ai problemi in discussione. È comunque degno di nota che per tutti e tre gli autori che verranno esaminati tale scritto più significativo rappresenti una sorta di approdo, o comunque si collochi nella fase ultima dell’evoluzione del loro pensiero.
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Il primo esempio sarà, dunque, quello di Pareyson. Nel riferirmi a tale esempio non mi tratterrò sul « pensiero temerario » – come egli stesso lo chiama – del male in Dio ; tema che ha già fatto molto discutere e che, sebbene svolto in modo personalissimo, riecheggia quello Schelling delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana al quale non per nulla Pareyson, a partire da un certo punto della sua attività di pensiero, ha dedicato tanta attenzione. È noto infatti che la tarda « ontologia della libertà » pareysoniana pensa Dio come originaria scelta del bene da sempre avvenuta e con ciò annientante – o meglio : istituente nello stesso annientamento della scelta esclusa – quel male che, come possibilità non scelta, giace in Dio stesso. Ciò su cui invece mi tratterrò qui, riferendomi agli scritti pareysoniani più recentemente pubblicati, 1 è su come il male rappresenti per Pareyson l’accesso stesso al pensiero religioso di Dio. Potrebbe sembrare che l’affermazione di un simile accesso contraddica l’idea, appena ricordata, di Dio come scelta del bene la quale annulla il male. Ma così non è, perché Pareyson, in modo del tutto conforme alla tradizione, pensa il male come originato dalla libertà finita e creata. Tuttavia, nonostante questa tesi classica, Pareyson non vuole in alcun modo ripetere il paradigma della vecchia teodicea e il modo in cui essa accettava l’alternativa tra Dio e il male (ossia : o l’affermazione di Dio mediante la negazione del male, o la negazione di Dio in ragione del riconoscimento della positiva esistenza del male). Di contro a tale alternativa, Pareyson ritiene invece che « non c’è indizio più sicuro della divinità che la realtà stessa del male » (p. 158). Infatti « Dio è impensabile senza il male, perché è il principio dell’espiazione e del riscatto di cui esso ha bisogno » (ibid.). Ovviamente un tale Dio non è il preteso Dio dei filosofi e della teodicea, bensì il Dio della « coscienza religiosa » : un Dio capace di ira, di misericordia e di compassione e che in conseguenza di ciò rimane « vittima di quella stessa rivolta, di cui la sua divinità è stata tentazione » (ibid.). Per il « pensiero tragico » infatti – così Pareyson stesso chiama la sua filosofia ultima – Dio non « riesce a prestare aiuto all’uomo senza condividere con lui il suo destino di espiazione e di morte » (ibid.). Il « nichilismo classico », rappresentato ancora da Nietzsche e dall’Ivan Karamazov dostoevskiano, sarebbe legato, secondo Pareyson, all’orizzonte della teodicea e alla sua alternativa tra Dio e il male, e ne costituirebbe il rovescio della medaglia, vale a dire la negazione di Dio e l’affermazione della realtà del male. Ma Pareyson ritiene che oggi si sia diffuso « un nuovo e forse più coerente nichilismo che nega tanto Dio quanto il male e che vede nell’ateismo la soppressione della colpa e del dolore » (p. 159). Si tratterebbe di un « ateismo consolatorio », contro il quale andrebbe fatta valere la serietà del pensiero tragico. Se un tempo l’ateo veniva considerato come esprit fort e l’uomo religioso, invece, come « anima bella », i nuovi esprits forts sarebbero – afferma Pareyson – coloro che non si vogliono accomodare alla consolazione dell’ateismo e non vogliono illudersi circa gli aspetti negativi della vita, bensì soffrono consapevolmente « per aver contribuito alla realtà del male nel mondo coinvolgendovi la divinità stessa » e « vedono in Dio una presenza scomoda e assillante » (p. 160). Questo sarebbe dunque il primo esempio che dovrebbe corroborare la tesi dell’odierna appropriazione religiosa del male e le altre tre tesi a essa connesse.
1
L. Pareyson, Essere, libertà, ambiguità, a cura di F. Tomatis, Milano, Mursia, 1998. Lo scritto al quale farò riferimento, fra quelli raccolti in questo primo volume delle opere complete pareysoniane, è l’inedito Rovesciamento dell’ateismo (pp. 157-60 ; l’indicazione delle pagine tra parentesi, al termine delle citazioni nel testo, farà riferimento a questa edizione).
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In questa tragica ontologia pareysoniana della libertà il male rappresenta bensì l’accesso al pensiero di Dio, ma – come si è visto – esso conserva la caratteristica negativa della colpa, e quantunque al male come espiazione venga attribuita – in modo affatto classico – una connotazione morale positiva, tale connotazione positiva viene sopravanzata da quella negativa, consistente nel fatto che l’espiazione ha coinvolto anche Dio e niente di meno che Dio. Con il che – si potrebbe commentare – la positività morale della con-passione viene in qualche modo diminuita (data la colpa umana, per Dio non poteva andare diversamente, stante la sua scelta originaria), mentre la grandezza della colpa umana (che fa patire Dio) ne risulta in qualche modo aumentata. Se questi commentari colgono nel segno, allora il secondo esempio che intendo addurre in favore della tesi dell’odierna appropriazione religiosa del male così come delle altre tesi connesse appare sotto certi aspetti ancor più radicale, nonostante i pensatori chiamati in causa intendano entrambi esplicitamente mettere in luce come le loro riflessioni filosofiche marchino il passaggio a una nuova epoca. Infatti in Lévinas – al quale ora, come ci si poteva aspettare, farò riferimento – il male viene paradossalmente considerato come segno della « trascendenza ». Discutendo il libro di Philippe Nemo Giobbe e l’eccesso del male, 1 accettandone le tesi e completandole – con un completamento che, persino al di là delle intenzioni, rende la stessa accettazione una trasformazione e una critica – Lévinas afferma che il male non è una negazione. Stante la peculiarità del linguaggio levinasiano, citerò parecchio. « Il male conduce al di là : altrove che all’essere, certo, ma [sic] altrove che al niente, ad un al di là che né la negazione, né l’angoscia dei filosofi dell’esistenza concepiscono ; il male non è né un modo, né una specie, né un completamento qualsivoglia della negazione [...]. Nella sua malignità il male è eccesso. Mentre l’idea di eccesso evoca immediatamente l’idea quantitativa di intensità, del suo grado che oltrepassa la misura, il male è eccesso nella sua quiddità stessa [...]. La rottura con il normale e il normativo, con l’ordine, con la sintesi, con il mondo costituisce già la sua essenza qualitativa ». 2 Questa è la prima caratterizzazione del male, in conformità a quanto intendevano mostrare anche le analisi di Nemo. Ma c’è un passo ulteriore e una seconda caratterizzazione. Infatti « il contenuto del male non può considerarsi esaurito con la nozione di eccesso. Guidati dall’esegesi [scil. del libro di Giobbe] – ma avanzando la pretesa a un significato intrinseco – l’analisi, in un secondo momento, vi scopre un’“intenzione” [nonostante le virgolette, questa “intenzione” va intesa solo parzialmente nel senso di Nemo, al quale le virgolette levinasiane rinviano] : il male mi raggiunge come se mi cercasse, il male mi colpisce come se vi fosse una presa di mira dietro la mala sorte che mi perseguita, “come se qualcuno si accanisse contro di me” » (p. 200). Questo motivo di un accanimento nel fare del male nei confronti di una determinata persona rappresenta per Lévinas ciò che egli caratterizza come « deneutralizzazione » dell’essere, ovvero come « al di là » dell’essere. Infatti « la differenza ontologica è preceduta dalla differenza del bene e del male. La differenza è quest’ultima, è essa l’origine del sensato [...]. Il senso comincia dunque nella relazione dell’anima a Dio e a partire
1
P. Nemo, Job et l’excès du mal, Paris, Grasset, 1976. E. Lévinas, De Dieu qui vient à l’idée, Paris, Vrin, 1982, p. 197. Lo scritto a cui farò specificamente riferimento, fra quelli raccolti in questo volume delle opere complete pareysoniane, è l’inedito Rovesciamento dell’ateismo (pp. 157-60 ; l’indicazione delle pagine tra parentesi, al termine delle citazioni nel testo, farà riferimento a questa edizione). 2
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dal suo risveglio mediante il male. Dio mi fa male per strapparmi al mondo in quanto unico ed eccezionale : in quanto anima » (p. 201). Il primo passo, dunque, era : il male come « eccesso » ; la seconda caratterizzazione era : il male come intenzione, come esser presi di mira ; ma poi – terzo passo – la descrizione fenomenologica si completa nel momento in cui si considera « il male come odio del male ». Proprio in questo apparentemente paradossale completamento diviene evidente ed esplicito ciò che si poteva intuire sin dall’inizio di una siffatta fenomenologia del male, e cioè che il male non può essere considerato in se stesso e di per se stesso – in modo, per così dire, chiuso – ma deve essere descritto sempre in modo relazionale, anzi intersoggettivo (per utilizzare questa parola – « intersoggettivo » – che certo avrebbe bisogno di molte sfumature e correzioni, ma esprime il nocciolo della questione in modo breve e acuto ; e ciò anche dal punto di vista storico, se si pensa alla provenienza husserliana di Lévinas). A questo punto si verifica un rovesciamento paradossale, o meglio diviene infine evidente il rovesciamento paradossale grazie a cui il male, sebbene rimanga tale, e anzi si raddoppi e si accresca come male di secondo grado, rivela contemporaneamente il bene. « Il male mi colpisce nel mio orrore del male [si tratta dunque di una affezione cattiva di secondo grado, come dicevo] e così rivela – o è già [ ! ! !]– la mia associazione con il Bene. » (p. 203). Nonostante ciò, Lévinas ritiene che l’orrore per il male non debba essere compreso come se vi fosse un passaggio dal male al bene finale, escatologico : « Quest’orrore del male nel quale paradossalmente il bene si da è esso stesso il bene ? Qui non può trattarsi di un passaggio dal Male al Bene per attrazione dei contrari. Questa sarebbe una teodicea in più » (p. 203). La teodicea viene rifiutata da Lévinas non tanto per il fatto che essa si arroga in modo blasfemo la giustificazione di Dio, quanto perché essa rende male e bene allo stesso tempo troppo lontani e troppo vicini : « Il Bene che viene atteso [...] non intrattiene una relazione meno lontana con il male che lo suggerisce, pur differendo da questo di una differenza più differente dell’opposizione ? » (pp. 204-5). Tale congedo dalla teodicea ha luogo in una trasformazione in termini, appunto, intersoggettivi, alla quale Lévinas sottopone il motivo – ripreso da Nemo –del raddoppiamento del male in orrore per il male. Infatti la sofferenza provocata da questo orrore, anzi la sofferenza che questo orrore stesso rappresenta, per Lévinas è la sofferenza di fronte alla sofferenza dell’altro (genitivo soggettivo, in prima battuta ; ma, a ben guardare, genitivo quant’altri mai intersoggettivamente equivoco). Questa – dice Lévinas – è « La teofania. La rivelazione. L’orrore del male che mi prende di mira facendosi l’orrore del male nell’altro uomo. Irruzione del Bene che non è una semplice inversione del Male [ciò criticamente nei confronti di Nemo e ancora una volta contro ogni teodicea], ma una elevazione. Bene che non è piacevole, che comanda e prescrive » (p. 206). Se ora passiamo al terzo esempio che avevamo annunziato a documentazione della contemporanea appropriazione religiosa del male e a legittimazione delle tesi connesse al rilevamento di questo fenomeno, ci troviamo di fronte a una prospettiva filosofica in tutti i sensi opposta, o meglio : opposta in tutti i sensi, eccetto che in un punto, il quale mi sembra, però, essere molto significativo e meritevole di una attenta riflessione. Swinburne – al quale ora volgerò la mia attenzione – è notoriamente il difensore e il teorico di un teismo che viene pensato programmaticamente e rigorosamente nel qua
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dro di una filosofia empiristica : un teismo che rinnova e prosegue, mediante argomenti e tecniche argomentative affatto moderne, quella « teologia sperimentale » – come la si chiamava in Inghilterra nel xviii secolo – che era stata posta in questione all’interno della filosofia empiristica stessa, particolarmente dai Dialoghi sulla religione naturale di Hume. La critica humeana alla teologia razionale che procede a priori viene pertanto presupposta e la sfida a cui deve far fronte una teologia razionale che procede induttivamente viene accettata fino all’assunzione radicale dell’argomentazione meramente probabilistica. Quanto però abbisogna in massima misura di precondizioni logiche è la risposta all’obiezione che l’esistenza del male rappresenta nei confronti di ogni teologia induttiva : una questione di teodicea, insomma, nel senso più classico della parola. E in effetti Swinburne intraprende senza riserve e coraggiosamente l’apologetica filosofica della teodicea (non solo una teodicea come apologetica, ma anche un’apologia della teodicea). Vi sono, pertanto, alcune condizioni affatto precise che, secondo Swinburne, debbono venire soddisfatte affinchè una teodicea possa darsi con successo (che Dio permetta il male come condizione logicamente necessaria per un bene che non potrebbe essere realizzato in nessun altro modo logicamente accettabile ; che, se il male permesso si realizza, il bene si realizzi anch’esso ; che Dio abbia moralmente il diritto di dare questo permesso ; che vi sia una determinata proporzione fra il male e il bene prodotto dal male) ; 1 e Swinburne adduce argomenti per provare che tutte queste condizioni possono venir soddisfatte. Ora, nonostante questo complesso argomentativo – del quale qui si è dato un rapido cenno solo al fine di mostrare quanto sia classico l’atteggiamento di Swinburne rispetto alla teodicea – rappresenti l’insieme della sua impresa apologetica di fronte all’obiezione rappresentata dal male, vi è una singola e pervasiva affermazione che riesce sorprendente, vale a dire l’affermazione secondo la quale la sofferenza di un essere umano, la quale rende possibile un bene per altri esseri umani, rappresenterebbe un grande bene per lo stesso uomo che la patisce. 2 Qui non può essere nostro compito ricercare le ragioni che potrebbero eventualmente legittimare un’affermazione siffatta e discutere in qual misura tali ragioni siano derivabili dalla prospettiva empiristica (a cui rinvia l’evidente ascendenza humeana del termine sympathy, ripetutamente usato da Swinburne e senz’altro traducibile con « compassione », stante il fatto che esso viene sempre riferito al sentimento che si prova di fronte alla sofferenza dell’altro), o se, invece, quelle ragioni non discendano da un altro tipo di prospettiva. Quanto mi sembra che qui debba essere notato è piuttosto che una tesi del genere – la quale sottende l’intero complesso argomentativo – cambia completamente, e persino rovescia il significato presuntamente classico della teodicea di Swinburne.
1 Lo scritto a cui farò riferimento è : R. Swinburne, Theodicy, Our Well-being, and God’s Rights, in « International Journal for Philosophy of Religion », 38, 1995, pp. 75-91. Quando questo mio saggio era già redatto è uscita, già annunciata nel saggio a cui faccio riferimento, l’opera più ampia di Swinburne, Providence and the Problem of Evil, Oxford, Oxford University Press, 1998. L’opera non modifica sostanzialmente, quanto alle questioni di cui qui mi occupo, le posizioni presentate nel saggio del 1995 e ribadite da Swinburne nella sessione su « God and Evil » tenuta da lui stesso, in discussione con Michael Levine e Howart Wettstein, al xx Congresso mondiale di filosofia (Boston, 10-16 agosto 1998). 2 Cfr. R. Swinburne, Theodicy…, cit., pp. 79 sgg. È significativo che le pagine dedicate da Swinburne a questo tema siano più numerose di quelle dedicate allo svolgimento delle quattro condizioni a cui esso è sotteso.
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Infatti qui non si afferma che la sofferenza di un essere umano per gli altri sia una delle innumerevoli limitazioni che la compossibilità porta con sé in base a una necessità di tipo logico, bensì si afferma che la sofferenza è un bene in sé. Se poi si precisa ulteriormente questa tesi scandalosa ed esplosiva nel quadro di una teodicea classica, allora, come abbiamo visto, essa suona così : la sofferenza per gli altri è un bene per la persona che la deve patire, anzi è un « grandissimo bene », come ripetutamente Swinburne afferma. Questa precisazione ulteriore mette in luce una dimensione di fondo intersoggettiva (o interpersonale), che lascia intravvedere nel filosofo cristiano Swinburne un atteggiamento simile a quello del filosofo ebreo Lévinas, e fa affiorare in entrambi l’incidenza del motivo – diversamente configurantesi nelle due tradizioni religiose – dell’elezione come sostituzione che comporta patimento. La sofferenza patita, dunque, è bensì dolore, ma non si può semplicemente e semplicisticamente dire che il patire sia male, o anche solo « male fisico », Übel, sventura, disgrazia. In primo luogo, infatti, patire la sofferenza, in questa prospettiva elettiva e sostitutiva, è – potremmo dire – grazia, passione per cui si può e si deve rendere – di ritorno, intersoggettivamente – azione di grazie. In secondo luogo, la sofferenza può bensì essere qualcosa che capita a qualcuno, ma oltre a ciò può essere qualcosa che viene accettato o persino che viene scelto, o dovrebbe venire scelto (nel senso, per così dire, di un intersoggettivo « Sia fatta la tua volontà »). A questo proposito non si può fare ricorso allo stilema del counting as – del « cos’è che vale come qualcosa » (cosa vale come male, bene ecc.) – il quale si presenta non infrequentemente nella filosofia, per così dire, non-continentale. Comunque si voglia intendere l’espressione counting as – nel senso, vale a dire, di una interpretazione fenomenologico-ermeneutica di un accadimento o di un vissuto, o invece nel senso di una reale esemplificazione (instantiation) di un concetto identico che potrebbe essere diversa per culture diverse o per diverse persone singole – qui non ci troviamo di fronte a un caso che consenta di introdurre lo sdoppiamento del « come » (far valere qualcosa come qualcos’altro). Nel caso in questione infatti – vale a dire nel caso rappresentato dalle affermazioni di Swinburne – la sofferenza è bene. Si tratta dunque di una affermazione metafisica ; se poi si tratti di una metafisica morale o di una metafisica ontologica, è questione che qui non si può più decidere o, meglio, è distinzione che qui non si può più fare (ma sicuramente il termine « è » nell’affermazione « la sofferenza è bene » non introduce una predicazione puramente empirica). L’unico sdoppiamento, per così chiamarlo, che ha luogo in questa affermazione metafisica è lo sdoppiamento intersoggettivo. Tale sdoppiamento è logicamente e metafisicamente necessario affinché la sofferenza di un soggetto sia un bene ; infatti essa lo è nella misura in cui un soggetto patisce a favore di un altro soggetto, e precisamente per un bene altrui che può e deve esserle commisurato affinché si possa dire che quel bene altrui è proporzionato al male che la sofferenza potrebbe rappresentare controfattualmente, qualora non fosse rapportata al bene altrui (e qualora, poi, in questo rapporto essa non fosse proporzionata al bene a cui dà luogo). Naturalmente il proporzionamento fra male permesso e bene che si realizza grazie a esso deve esistere anche nel caso in cui male e bene riguardino un unico e medesimo soggetto. In tal caso, anzi, si può senz’altro parlare di « male », e non semplicemente di
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sofferenza ; infatti, anche se si dà il proporzionamento fra negativo e positivo, può darsi il caso che questo negativo sia tale moralmente, oltre che fisicamente, o sia tale anche soltanto moralmente. Questa possibilità dipende dal fatto che un « grande bene » che viene realizzato da Dio mediante il permesso dell’accadimento del male è la libertà. Sicché rispetto al singolo agente la possibile o reale cattiva azione morale si accompagna sempre per necessità logica, anzi analitica, alla realtà del bene « libertà ». Ma proprio questo bene – con la possibilità che esso analiticamente comporta di un male irriducibile a semplice e strumentale sofferenza, cioè di un male che è anche, o soltanto, morale – rinvia a una intersoggettività presupposta (fosse pure solo quella del soggetto agente, da un lato, e del soggetto divino che lo ha creato, dall’altro). Ed è proprio nel rapporto intersoggettivo che la cattiva azione libera dà luogo alla sofferenza innocente dell’altro. Lo sdoppiamento intersoggettivo – come l’ho chiamato – è, a mio giudizio, il vero fondamento degli altri due sdoppiamenti ravvisabili nella visione di Swinburne. Uno di questi è che, quando è soddisfatta la condizione logica per cui un male m, che si realizza, realizza anche un bene b proporzionato, m realizza contemporaneamente – secondo Swinburne – un secondo bene b’ quello di « essere utili » : being-of-use è appunto il « grandissimo bene » di cui parlavamo sopra. È per lo meno evidente come lo sdoppiamento b-b’ presupponga l’intersoggettività, giacché b è il bene di colui a cui si è utili, mentre b’ è il bene di chi soffre a favore degli altri. Un altro sdoppiamento, poi, è quello modale tra possibilità e realtà. Esso dà luogo a una serie di casi piuttosto articolata, che qui non è il caso di ricostruire. Diciamo soltanto che il male logicamente necessario per la realtà di un bene può essere un male reale, ma può essere anche soltanto un male possibile. E quest’ultimo è il caso in cui il bene realizzato è la libertà, del cui presupposto intersoggettivo si è già detto. La modalizzazione rende particolarmente complicato il calcolo del proporzionamento. Anche se l’interesse di Swinburne non è di individuare come il proporzionamento debba avvenire – giacché quello che veramente conta per l’impianto del suo discorso è la condizione logica che il proporzionamento debba avvenire – la modalizzazione rende complessa la stessa formulazione della condizione logica. 1 Ovviamente bisogna che da ultimo – escatologicamente – il bene realizzato superi il male realizzato, se il Dio creatore dev’essere un Dio saggio, benevolo e giusto. A questo proposito però vanno fatte due precisazioni. Esse si rendono opportune non solo al fine di restituire con la maggior precisione possibile, nonostante la necessaria brevità, il pensiero di Swinburne sul problema della teodicea, ma anche al fine di mostrare sino a che punto anche questo esempio comprovi le tesi dell’appropriazione religiosa del male, della fine – o della radicale trasformazione – della teodicea classica, della prevalenza dell’etica sull’ontologia, e della conpassione come chiave di tutto ciò
1 Si consideri per esempio la seguente formulazione : « Bisogna che un qualche tipo di condizione comparativa sia soddisfatto. Essa non può essere così forte come la condizione che b sia un bene almeno altrettanto buono di quanto m è cattivo. Giacché, ovviamente, noi siamo spesso giustificati se, al fine di assicurare la realizzazione di un bene importante, rischiamo che si realizzi un male più grande. Bisogna però che la condizione sia che se Dio realmente produce m allo scopo di b, b deve essere un bene almeno così buono come m è cattivo. E se Dio permette m (per es. facendo sì che il caso o qualche agente libero determinino se m accade), allora quanto più è probabile che in queste circostanze m avvenga, tanto più bisogna che m sia vicino a comportare un male non peggiore di quanto b è buono » (p. 76). Per quanto riguarda la complessità del come, è possibile che, in concreto, debba aver luogo il calcolo del proporzionamento, basti dire che Swinburne stesso ipotizza alcune modalità alternative, prendendo anche in considerazione principi di maximin.
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e formulazione estrema, nei termini di un’etica già sempre anteriore, del problema dell’intersoggettività. Prima precisazione : la compassione (sympathy) per la sofferenza altrui è considerata da Swinburne come essa stessa un bene, e dunque va fatta rientrare nel calcolo del proporzionamento. Pertanto, sommando sofferenza giustificata dal bene della compassione a sofferenza giustificata dal bene della libertà, non ci si può vietare di intravvedere la giustificazione di una quantità di male davvero enorme. Seconda precisazione : Swinburne accoglie l’esegesi neotestamentaria che afferma la compresenza di due escatologie nel messaggio evangelico, una escatologia realizzata e una escatologia ancora da realizzare. In conto della prima escatologia va posto il fatto che, per Swinburne, azioni buone e cattive sono premio e punizione a se stesse. Se si sommano, infine, le implicazioni della prima e della seconda precisazione fra loro, dobbiamo proprio dire che è possibile che Dio non debba fare ancora molto affinchè, complessivamente, il bene superi il male per ciascun singolo. A questo punto delle mie considerazioni e dei miei commentari si pongono manifestamente tutte le questioni che pone il concetto di libertà, prima fra tutte quella circa l’interazione – o « azione reciproca », Wechselwirkung – tra libertà infinita e libertà finita, tra una realtà assoluta, che ha già da sempre deciso circa la sua possibilità (un po’ nel senso di una ontologia della libertà alla Pareyson) e una realtà libera finita, che contiene solo possibilità determinate e finite, e sceglie tra queste. Allora però, e in modo immediatamente conseguente, si porrebbero altre questioni, e cioè : quella relativa al rapporto – per così dire – tra singolare e plurale, ossia – in termini kantiani – tra omnitudo distributiva e omnitudo collectiva all’interno della realtà libera finita ; e quella di come Dio debba calcolare nella commisurazione di minore sofferenza di soggetti singoli o collettivi e maggior bene di altri soggetti singoli o collettivi ; detto altrimenti : se il singolo possa essere sacrificato anche ultimamente, ovvero escatologicamente. Io ritengo che simili questioni siano state poste seriamente per l’ultima volta da Kant e dal giovane Fichte kantianeggiante, per poi venire trattate ulteriormente fino a tutto il dibattito sull’immortalità dell’anima nella scuola hegeliana e nello Spätidealismus, senza che le aporie che Kant aveva lasciato in eredità fossero superate. A tal fine si rende manifestamente necessaria una considerazione filosofica di soggettività e intersoggettività che renda giustizia alla limitazione kantiana della metafisica teoretico-ontologica e radicalizzi il primato della ragione pratico-morale, invece di cercare di assolutizzare reattivamente, di fronte a tale limitazione, l’ontoteologia, ovvero la logica come metafisica. In proposito, lavorare intorno al tema scandaloso della compassione potrebbe essere più produttivo e più appropriato delle razionalizzazioni teoretiche (anche nel senso psicoanalitico del termine « razionalizzazioni »). Infatti teoreticamente scandaloso è già il problema dell’intersoggettività, il cui scandalo si manifesta in modo culminante nel problema della con-passione. La teodicea (in modo particolare e manifesto nella forma in cui l’ha elaborata l’età moderna) è precisamente una razionalizzazione della con-passione provata di fronte ai mali del mondo ; una razionalizzazione che si mostra come tale già nel fatto di ritenere di ragionare in modo neutrale, oggettivo, sul male e di dissolverne imparzialmente lo scandalo, come se siffatta considerazione presuntamente spassionata non fosse la considerazione di un logos ferito a morte, che soffre della sofferenza, ossia conpatisce.
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Ma al fine di una siffatta filosofia della compassione sarebbe necessario fare riferimento a una soggettività diversa da quella che ha caratterizzato la modernità : una soggettività, quest’ultima, che in fondo era solipsistica e nel migliore dei casi poteva giungere solo a una inter-soggettività monadologica, anzi contraddittoria. Bisognerebbe pensare a una soggettività divisa fra, e condivisa da, più persone : una intersoggettività in cui la relazione io-tu non potrebbe essere nemmeno pensata o rappresentata senza l’assenza massimamente presente del terzo. Ma ciò richiederebbe un discorso a sé stante.
CRISTIANESIMO E FILOSOFIA NELL’UNIVERSITÀ STATALE DI ROMA NEL ’900*
I
l titolo di questa mia relazione può apparire complicato e, forse, anche inteso a ritagliare artificiosamente una limitata porzione di una realtà storica più ampia ed organica. Il primo compito che mi incombe, dunque, è di rendere conto della tematizzazione operata da tale titolo e di esplicitare le ragioni che ne hanno motivato la precisa formulazione. Cominciamo dall’endiadi « cristianesimo e filosofia », che ho utilizzato evitando di ricorrere all’espressione « filosofia cristiana ». Svolgere un discorso sulla « filosofia cristiana » avrebbe comportato un pesante e continuo ricorso a criteri valutativi per individuare ad ogni passo quali pensieri ed orientamenti intellettuali storicamente configuratisi in una determinata realtà meritino di fregiarsi di un appellativo siffatto. Anche volendo affrontare un discorso così arduo, poi, il ricorso all’espressione « filosofia cristiana » si rendeva inopportuno per ragioni storiche ; come è noto, infatti, nel dibattito filosofico novecentesco tale espressione è stata assunta a termine tecnico per individuare una precisa questione che ha caratterizzato il dibattito filosofico francese, con una celebre controversia tra Bréhier e Gilson, 1 la quale però non ha trovato grande eco nella realtà filosofica romana. Proporsi di parlare di « filosofia e cristianesimo » significa invece assumere una prospettiva che guarda oltre la storia delle teorie filosofiche, ricollegando queste ultime alla storia delle persone che hanno pensato e delle istituzioni che hanno rappresentato la sede per l’elaborazione e la presentazione pubblica di determinati pensamenti. In una storia siffatta le idee filosofiche nascono anche dal cristianesimo –personale, isti tuzionale, ambientale – e a loro volta influiscono sul cristianesimo – persone, istituzioni, ambiente – in un modo che si caratterizza particolarmente come, direi, istitutivo di comunità, tanto nella dimensione sincronica, quanto in quella diacronica (si pensi alla successione degli « allievi » sulle cattedre dei « maestri »). Bisogna subito dire tuttavia che il proposito di identificare un carattere in qualche modo unitario nell’attività filosofica professionale e professorale svolta a Roma in quest’ultimo secolo sarebbe vano. Nonostante Franco Lombardi – come qualcuno ricorderà – amasse parlare di una « scuola romana » con riferimento alla filosofia professata alla « Sapienza » negli anni ’60, e nonostante una Storia della filosofia romana fosse stata pubblicata da Adolfo Levi già nel 1949, 2 non sembra possibile ricondurre la filosofia professata a Roma nell’università di stato ad un denominatore comune, al modo in cui si suole parlare, ad esempio, di « scuola di Francoforte » per designare una realtà intellettuale che, seppure assai variegata e anche, in certa misura, eterogenea, non è illegit timo considerare in alcuni essenziali tratti d’assieme. Un carattere assai più di « scuola » e scolastico – nei molteplici sensi di questo termine – è semmai possibile trovarlo, a Roma, nelle università pontificie, e non in quella di stato.
* La comunità cristiana di Roma, vol. iii: La sua vita e la sua cultura tra età moderna e età contemporanea, a cura di Mario Belardinelli e Pietro Stella, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002, pp. 365-393. 1 In proposito vedasi, da ultimo, G. Forni Rosa, Il dibattito sul modernismo religioso, Roma-Bari 2000, pp. 2 A. Levi, Storia della filosofia romana, Firenze 1949. 137-174.
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Ma questa osservazione ci introduce a considerare il carattere peculiare e il significato non estrinseco della localizzazione messa a tema dal nostro titolo, vale a dire : cristianesimo e filosofia a « Roma », sì, ma « nell’università statale ». Nel momento in cui viene riferita a Roma, quest’ultima precisazione acquista infatti il senso di distinguere la realtà accademica di cui ci si propone di parlare non tanto da quella, poniamo, delle università private (le quali peraltro, almeno come università legalmente riconosciute, sono una realtà che, a Roma, caratterizza solo lo scorcio del ventesimo secolo), quanto da quella delle università ecclesiastiche. Una distinzione così netta tra queste due realtà universitarie romane non è il frutto di una scelta tematica soggettiva ; essa si impone, invece, per correttezza storiografica. Essa si impone – bisogna aggiungere –anche con riferimento all’attualità : per quanto opportuni e mentori siano gli sforzi dedicati ai nostri giorni al superamento di una distinzione fra le due realtà universitarie che ha le caratteristiche di una vera e propria separazione, tale separazione è stata voluta e perseguita storicamente da entrambe le parti, esprimendo, paradossalmente, altrettanto l’ostilità reciproca (in un primo periodo) che la conciliazione (in un periodo successivo). La Conciliazione del ‘29, infatti, ribadiva in modo assoluto quella riserva di competenza degli studi teologici alle università pontificie che già aveva trovato concordi – nell’ostilità – stato e chiesa allorquando nel 1873 le facoltà di teologia erano state abolite dal regno d’Italia. Questi luoghi infettati « di giansenismo e di regalismo » – come li chiamava La civiltà cattolica in occasione della discussione delle leggi Correnti che abolivano le facoltà teologiche statali 1 – erano infatti, e comprensibilmente, altrettanto sgraditi all’ambiente ecclesiastico che a quello laico e laicista. La separazione, prima ostile e poi conciliata e concordata, riguardava, beninteso, gli studi teologici. Ma sarebbe ingenuo o capzioso affermare che essa riuscisse ininfluente rispetto agli studi filosofici. Ininfluente essa non era non solo per ragioni di fatto, ma anche e in primo luogo per ragioni di principio, vale a dire per il posto che la « teologia » cattolica tradizionalmente riconosce alla « filosofia » nell’itinerario del sapere verso Dio (ho usato le virgolette per indicare discipline che non esistono di per sé in qualche platonico e metastorico chorismòs, ma che sono realtà storiche e frutto di una ben ricostruibile istituzionalizzazione disciplinare, 2 la quale, come è noto, riguarda in modo essenziale e fin dagli inizi le vicende di quella istituzione storica a cui è stato dato il nome di « università ») ; se, poniamo, si dovesse parlare del cristianesimo luterano, non v’è dubbio che, di fatto, certi suoi aspetti storici potrebbero mostrare simiglianze per quanto riguarda il rapporto accademico « filosofia » – « teologia » (fin dai tempi di Melantone !), ma non v’è nemmeno dubbio che in linea di principio il rapporto tra le due dimensioni « filosofica » e « teologica » sarebbe da prospettare in termini radicalmente diversi. Da queste precisazioni il peculiare rapporto fra una dimensione universale – « cattolica », appunto, anche nel senso etimologico del termine – e una dimensione loca
1 Le cronache della rivista si esprimevano nei termini su ricordati, riferendosi all’attività di quei parlamentari italiani che « volevano a vero dire mantenere queste facoltà per motivo politico, paventando che, se l’insegnamento teologico fosse interamente lasciato alla Chiesa e all’Episcopato, senza veruna ingerenza del Governo, dovesse riuscire immune da quella infezione di giansenismo e di regalismo, che lo Stato si studiò sempre di infondere nelle Facoltà teologiche universitarie » (« La Civiltà Cattolica », xxiii, 1872, s. viii, vol. vi, p. 627). 2 Cf., ad es., G. R. Evans, Old arts and new theology. The beginnings of theology as an academic discipline, Oxford 1980.
cristianesimo e filosofia nell ’ università statale di roma nel ’ 900 325 le, quando si parli di filosofia a Roma, viene posta in luce in termini che ne evidenziano la irripetibilità. Non meno peculiari sono le implicazioni che la localizzazione romana della nostra messa a tema comporta anche rispetto alla filosofia dell’università di stato. L’essere da breve tempo Roma capitale del nuovo stato unitario comportava, nei primi decenni del Novecento, che l’università statale di Roma rappresentasse – come si diceva nel gergo accademico ancora in tempi molto recenti, che pure appaiono assai lontani – « un punto di arrivo » per i docenti che vi venivano chiamati. Oltre che in senso metaforico – allusivo ad una sorta di coronamento del cursus honorum accademico – questa espressione andava infatti intesa anche in senso del tutto letterale, con la conseguenza che il « luminare » chiamato nello Studium Urbis spesso non era un romano e non aveva un radicamento biografico nella realtà cittadina. L’inurbamento che caratterizza tutta la cultura (in senso antropologico) della città di Roma divenuta capitale del nuovo stato – e la caratterizza sia in positivo, con tratti burocratici e ministeriali, sia in negativo, come mancanza di cultura omogenea e condivisa – caratterizza dunque anche l’università statale. I modi in cui tale carattere generale si specifica in quest’ultimo caso sono, in negativo, la mancanza di un orientamento filosofico unitario o di scuola, e in positivo il configurarsi del professore universitario romano come figura istituzionale rappresentativa e come homo publicus. Nel caso delle discipline filosofiche quest’ultimo aspetto poteva indifferentemente riflettersi o non riflettersi in una enfatizzazione del significato civile della filosofia da parte del singolo professore : Gentile e Varisco, che in proposito rappresentavano visioni molto diverse, erano comunque entrambi senatori del Regno. È superfluo sottolineare quanto l’attuale realtà di fine secolo sia cambiata rispetto a quella che abbiamo richiamato, di inizio secolo : i nuovi sistemi concorsuali, favorevoli alla « provincializzazione » della docenza (il cosiddetto ius loci), la moltiplicazione delle università statali a Roma, il passaggio da un sistema universitario nazionale pressoché esclusivamente statale ad un sistema misto (con la moltiplicazione, anche a Roma, delle università private legalmente riconosciute, nelle quali la filosofia occupa un posto sotto molteplici rispetti e in diversi modi significativo), l’avvio di nuovi ordinamenti universitari che prevedono istituzionalmente anche all’interno dell’università statale l’osmosi tra pubblico e privato, e tra università e società civile, e tanti altri aspetti universitari di questo ultimo scorcio del Novecento sui quali non è qui il caso di soffermarci segnano decisamente la fine di un periodo storico e l’inizio di un periodo nuovo. Nello scenario accademico molto diverso che si profila, anche per i rapporti tra le discipline « filosofia » e « teologia » sono prevedibili mutamenti. Ma le considerazioni svolte da ultimo lasciano intendere che anche la periodizzazione proposta dal nostro titolo (« Cristianesimo e filosofia nell’università statale di Roma nel ’900 ») è – non meno della localizzazione da esso proposta e di cui sin qui abbiamo discusso – tutt’altro che estrinseca. Più precisamente, i pochi cenni che abbiamo dato da ultimo inducono per ragioni sostanziali a ravvisare nello scorcio del secolo xx un termine ad quem e l’inizio di un nuovo periodo ; ora dobbiamo mettere in luce come anche l’inizio di tale secolo vada individuato quale termine a quo non per la mera comodità di fare ricorso alla scansione centennale, ma per ragioni altrettanto sostanziali. In generale, dal punto di vista della storia della filosofia, l’inizio del secolo presenta segni evidenti di una nuova età. Il positivismo entra in crisi e nuovi orientamenti si delineano : pragmatismo, neoidealismo (La critica di Croce inizia le pubblicazioni nel 1903) e, sotto il profilo di un pensiero filosofico più direttamente interessato al cristianesimo,
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modernismo (L’Action di Blondel, che fornisce supporto a tanto pensiero religioso italiano, desideroso di nuova ispirazione filosofica, è del 1893 ; del 1904 è Réalisme chrétien et idéalisme grec, scritto da quel Laberthonnière a cui, come vedremo, fu così attento il giovane Castelli ; nel 1905 iniziano la pubblicazione le Annales de philosophie chrétienne, dirette dallo stesso Laberthonnière). È il caso di ricordare anche che nel 1907 appariva sul Leonardo di Papini la prima traduzione italiana di un testo di Kierkegaard (Il più infelice), ad opera di Giuseppe Gangale, 1 inquieto calvinista italiano. Nel quadro di questa temperie complessiva passiamo a considerare la specificità della situazione relativa al rapporto filosofia –cristianesimo nell’università statale romana. Il modo migliore per apprezzare adeguatamente tale specificità è senza dubbio una considerazione comparativa, anzi contrastiva, che metta a confronto la situazione romana con quella milanese. Si potrebbe dire che, con una sorta di spartizione di competenze, il cattolicesimo filosofico italiano e, più precisamente, il cattolicesimo filosofico italiano in quanto italiano abbia trovato la sua sede istituzionale a Milano, lasciando a Roma, sede istituzionale dell’universalità del cattolicesimo, la competenza relativa ad una filosofia cattolica da far valere oltre i confini delle singole aree nazionali. Ma ciò significa ovviamente e, si potrebbe quasi dire, per implicazione logica che quest’ultima competenza veniva lasciata in modo non accidentale alle università pontificie (e comunque agli ambienti accademici ecclesiastici). Del ruolo di Milano l’istituzione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore nel 1919 rappresenta di certo l’evento più appariscente e più istituzionale. Tuttavia, per un verso, in questo stesso evento la specificità della filosofia e il suo ruolo fondativo – sia come radice teorica dell’arbor scientiarum, sia come motivazione della personale sollecitudine per le scienze da parte del fondatore dell’Università cattolica, Agostino Gemelli – rischia di non apparire a sufficienza, stemperandosi in un quadro complessivo, di universitas studiorum per l’appunto. Per altro verso, e soprattutto, va ricordato che già nel 1909 aveva cominciato ad apparire – coagulando un’attività filosofica a sua volta già in atto – quella Rivista di filosofia neoscolastica che aveva come cofondatore lo stesso Gemelli e che successivamente sarebbe divenuta, per l’appunto, l’organo della facoltà di Filosofia dell’Università Cattolica milanese. La vitalità e l’innovatività teoretica della neoscolastica milanese è assolutamente incomparabile rispetto alle manifestazioni romane del medesimo orientamento filosofico. 2 Non solo la neoscolastica milanese aveva una sua precisa, seppur varia connotazio
1 Gangale fu, tra l’altro, autore di opere come La rivoluzione protestante, Torino 1925, e Calvino, Roma 1927, e direttore del settimanale Conscientia (che uscì dal 1922 al 1927), rivista del rinnovamento teologico e filosofico del protestantesimo italiano, la quale ospitò, tra gli altri, anche scritti di Gobetti e Banfi (sulla rivista vedasi da ultimo Una resistenza spirituale. Conscientia 1922-1927, a cura di D. Dalmas e A. Strumia, Torino 2000). Per la significativa vicenda della ricezione di Kierkegaard in Italia – ricezione dapprima protestante e laica (l’opera di Franco Lombardi su Kierkegaard è del 1936), e cattolica solo dopo, a partire dal momento in cui fu vigorosamente promossa dalla attività di traduzione e di diffusione del padre Cornelio Fabro – cf. Franca Castagnino, Gli studi italiani su Kierkegaard. 1906-1966, Roma 1972, e di chi scrive, Gli influssi della tematica teologica, dell’esistenzialismo e dell’ermeneutica sul pensiero cristiano, in Ii pensiero cristiano nella filosofia italiana del Novecento, a cura di E. Agazzi, Lecce 1980, p. 119-147. 2 Un segno esterno, ma non insignificante, della spartizione di competenze che abbiamo sottolineato può essere fornito dal fatto che i rappresentanti più significativi delle prime due generazioni della filosofia neoscolastica italiana siano tutti nati nel nord d’Italia : Gemelli a Milano, Olgiati a Busto Arsizio, Masnovo a Parma, Chiocchetti a Trento, Zamboni a Verona ; e poi Bontadini a Milano, Vanni Rovighi a Bologna, Giacon a Padova ; lo stesso Fabro – che pure diresse l’Istituto Universitario di Magistero Maria SS. Assunta a Roma, che a Roma risiedette negli ultimi decenni della sua vita e che nell’università di stato fu attivo a
cristianesimo e filosofia nell ’ università statale di roma nel ’ 900 327 ne (che, senza entrare qui nel merito dei problemi teoretici, potremmo rapidamente definire di non pregiudiziale ostilità e anche di apertura al pensiero moderno postcartesiano) ; non solo essa aveva una connotazione teoretica che la identificava come italiana, differenziandola rispetto alle posizioni di Mercier e, più in generale, rispetto alla neoscolastica lovaniese (la quale seguiva e discuteva le posizioni filosofiche di Milano con attenzione non minore di quella con cui i milanesi seguivano e discutevano quelle di Lovanio) ; ma essa seguiva anche con assoluto interesse e totale partecipazione, anzi compartecipazione, il dibattito filosofico italiano, e il dibattito filosofico italiano in quanto italiano : si pensi alle affermazioni di Gemelli al convegno di Napoli in occasione del vii centenario della canonizzazione di Tommaso d’Aquino ; 1 si pensi all’attenzione prestata al neoidealismo italiano – ad esempio e per fermarci alla prima generazione – da Olgiati e da Chiocchetti (del quale ultimo Papini potè sarcasticamente dire che era rimasto « l’ultimo discepolo del Croce » ; 2 Chiocchetti fu, peraltro, molto sensibile anche alla prospettiva filosofica di Rosmini, 3 e ciò è anche un notevole segno di apertura al moderno, come si potrà apprezzare meglio appresso, considerando ulteriormente avversari e amici di questa prospettiva filosofica, che cadeva ancora sotto la condanna dell’Indice). Se si considera ora la realtà neoscolastica romana, il contrasto riesce così evidente che rischia financo di non far scorgere la complemetarità tra la situazione del cattolicesimo filosofico romano e quella del cattolicesimo filosofico milanese, oscurando – o meglio nascondendo per l’abbaglio del contrasto – quella sorta di ripartizione di competenze tra le due situazioni, della quale parlavo sopra. Nel modo più acuto e più emblematico il contrasto può essere colto facendo riferimento alle note xxiv tesi con cui nel 1914, venendo incontro a quanto nello stesso anno aveva raccomandato il motu proprio di Pio X « Doctoris Angelici », la filosofia di S. Tommaso era stata riassunta ai fini di un sicuro insegnamento. Le ventiquattro formulazioni, che avevano ricevuto l’approvazione ufficiale della Congregazione dei Seminari e delle Università (« tutae normae directivae ») ed erano state pubblicate negli Acta Apostolicae Sedis, erano state redatte in realtà, su incarico dello stesso Pio X, dal padre Guido Mattiussi S.J. Allievo, da giovane, del critico di Rosmini Giovanni Cornoldi S.J. 4 e autore, tra l’altro, di opere come Il veleno kantiano 5 e Il giuramento antimodernista, 6 il Mattiussi era tornato professore alla Pontificia Università Gregoriana – dopo esserlo già stato in precedenza – per succedere
Perugia – era nato vicino a Udine e aveva insegnato per un certo tempo alla Cattolica di Milano. Dopo la seconda guerra mondiale, l’istituzione del Centro di Studi Filosofici di Gallarate all’« Aloisianum » della cittadina vicino Milano per iniziativa di Carlo Giacon (il quale come professore, era di ruolo nell’università di Padova), sarà una significativa conseguenza della situazione descritta. 1 « Pare cioè a noi che lo stesso principio della razionalità della storia vieti di tagliare il corso storico della cultura in due parti e di condannarne una. Come è inconcepibile che la storia si sia svolta razionalmente solo sino al secolo xiii, così è inammissibile che la razionalità si inizi con Descartes o con la Rinascenza italiana. Nella sua evoluzione perenne, la storia ha un’unità dinamica, la quale è un altare su cui nulla si sacrifica alla morte, ma dove tutto si coordina armonicamente nell’organicità del reale e nella continuità dello sviluppo » (A. Gemelli, Il mio contributo alla filosofia neoscolastica, Milano 19322, p. 8). 2 Cf. in proposito P. Prini, La filosofia cattolica italiana del Novecento, Roma-Bari 1996, p. 55. 3 Cf., in proposito, S. Pietroforte, Il ruolo della filosofia rosminiana nel sintetismo di Emilio Chiocchetti, in « Annali dell’Istituto di Studi Storici Benedetto Croce », xvii, 2000, pp. 819-880. 4 Vedasi, ad esempio, G. Cornoldi S.J., Il rosminianesimo sintesi dell’ontologismo e del panteismo, Roma 5 Bergamo 1909. 1881. 6 Monza 1907 ; significativamente, la seconda edizione dell’opera fu pubblicata a Roma nello stesso anno delle xxiv tesi.
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nell’insegnamento di Teologia dogmatica al Billot, divenuto cardinale : 1 se mai vi fosse bisogno di corroborare l’affermazione del nesso inscindibile esistente, dal punto di vista del cattolicesimo, tra « teologia » e « filosofia » come discipline accademiche (nesso ribadito, peraltro, recentemente con un’enciclica pontificia, la Fides et ratio), l’attività universitaria del padre Mattiussi e la sua stessa produzione scientifica potrebbero rappresentare un punto di riferimento esemplare. 2 Non è questa la sede per indagare ulteriormente gli effetti prodotti sul terreno accademico-ecclesiastico romano dalle condanne antimoderniste della Pascendi e dalla sua identificazione dell’antidoto al modernismo in un rinnovato studio o, meglio, in una perennizzazione metatemporale della filosofia tomista (le xxiv tesi rappresentavano, secondo la S. Congregazione dei Seminari e delle Università, germanam s. Thomae doctrinam). Piuttosto va ricordato che, come a proposito dell’espunzione della facoltà di teologia dalle università statali, anche a questo proposito una discordia concors si veniva ad instaurare tra la filosofia italiana laico-laicista ed i fenomeni accademico-ecclesiastici « romani » che abbiamo testé ricordato (peraltro il ripetersi di manifestazioni di discordia concors non deve sorprendere, giacché le manifestazioni ricordate da ultimo e quelle ricordate precedentemente a proposito dei destini delle facoltà teologiche erano espressione di un unico problema su piani diversi : rispettivamente il piano dottrinale e quello istituzionale). È ben nota la vera e propria apologia che Gentile fece della Pascendi : « una magistrale esposizione e una critica magnifica dei principi filosofici di tutto il modernismo » definiva l’enciclica il filosofo neoidealista, 3 dopo aver sentenziato che « il Cattolicesimo è veramente la religione più perfetta, come la filosofia europea moderna è la perfetta filosofia : sono insieme le più alte creazioni dello spirito ariano ». 4 L’autorevole riconoscimento gentiliano, che giungeva dalle pagine della Critica di Croce, poteva sedurre e indurre facilmente a non temere il Danaum dona ferentem, sottovalutando quell’avverbio « insieme » che rispolverava la visione hegeliana del cristianesimo come « religione perfetta », della storia della filosofia come processo dello spirito che si conclude nella modernità, e della filosofia stessa come forma dello « spirito assoluto » che toglie in sé la religione proprio in quanto « perfetta », vollkommen, ovverossia compiuta (la rispolverata visione veniva peraltro aggiustata, come si è visto nella citazione addotta, sul « cattolicesimo » e sullo « spirito ariano » ! ! !). Analogamente, Croce – è il caso di dire – pontificava, impartendo i suoi Insegnamenti cattolici di un non cattolico, 5 e l’occasione per molto cattolicesimo ufficiale era troppo seducente per non profittarne, rovesciando il discorso in un gioco di specchi : « Dice bene il Croce razionalista, col buon senso dell’antico cattolico – faceva eco, da parte sua e
1 Sul pensiero di Guido Mattiussi S.J. ha scritto pagine significative Paolo Dezza SJ. : se ne veda Alle origini del neotomismo, Milano 1940, pp. 131-142. 2 Gli scritti teologici di Mattiussi annoverano, oltre ai classici trattati di Teologia dogmatica ad uso accademico (De Verbo incarnato, De Deo uno et trino, De sacramentis) anche l’opera L’Assunzione della Beata Vergine Maria nel dogma, Milano 1924, che preludeva alla definizione dogmatica dell’Assunzione del 1950. Per quanto riguarda le xxiv tesi, Mattiussi stesso ne curò un commento in un suo volume, Le xxiv tesi della filosofia di S. Tommaso, Roma 1917, ristampato più volte e tradotto anche in francese. 3 G. Gentile, Il modernismo e l’Enciclica « Pascendi », in « La critica », vi, 1908, poi in Il modernismo e i rapporti 4 Ivi, p. 44. tra religione e filosofia, Firenze 1923, p. 49. 5 B. Croce, Insegnamenti cattolici di un non cattolico. Benedetto Croce a Salvatore Ranocchi, in « Giornale d’Italia », 13 ottobre 1907, poi in Pagine sparse, Bari 1960, pp. 383-387 : « O andare innanzi – affermava Croce – o tornare indietro. Ossia, o ricongiungersi, ritardatari, alla schiera dei pensatori non confessionali ; o, dopo essersi dibattuti vanamente per qualche tempo, ricadere nel cattolicesimo tradizionale ».
cristianesimo e filosofia nell ’ università statale di roma nel ’ 900 329 chiasmaticamente, la Civiltà cattolica – un dogma tradotto in altra forma metafisica non è più lo stesso dogma ». 1 Alla luce di questa situazione italiana e cattolico-romana – e di conseguenza « romana » in senso universitario-ecclesiastico – le vicende del rapporto cristianesimo-filosofia nell’ambiente universitario statale romano possono essere colte nel loro significato più ampio, al di là di un apprezzamento interno alle teorie e agli aspetti dottrinali. In tali vicende tre sono le figure che appaiono di maggior rilievo : Buonaiuti, Varisco e Castelli. Da un punto di vista strettamente cronologico bisognerebbe menzionare prima Varisco che Buonaiuti, giacché Varisco, nato nel 1850, era più anziano di Buonaiuti di ben trentadue anni ed era divenuto professore alla « Sapienza » nel 1905, quindi dieci anni prima di Buonaiuti. Ma soprattutto, rispetto a quest’ultimo, Varisco veniva filosoficamente più di lontano, per così dire, e cioè da un’atmosfera ancora positivistica, ancor ché sui generis. Tuttavia scegliamo di soffermarci dapprima, seppur con la brevità qui necessaria, su Buonaiuti, perché la sua figura si lega direttamente alle vicende del modernismo, di cui abbiamo da ultimo fatto discorso, laddove alla figura di Varisco si lega direttamente quella del giovane Castelli, che del tardo Varisco fu allievo prediletto. Peraltro il fatto che, come vedremo ancora, il giovane Castelli abbia potuto essere sospettato, a ragione o a torto, di modernismo (ma siamo ormai nella seconda metà degli anni Venti) è un fatto che già qui va menzionato, al fine di evidenziare l’intreccio d’assieme. La chiamata di Buonaiuti alla « Sapienza » avvenne nel 1915, vale a dire dopo la chiusura delle riviste da lui dirette (la Rivista storico-critica di scienze teologiche, durata dal 1905 al 1910, e Nova et velera, uscita solo nel 1908) e dopo la pubblicazione del suo Programma dei modernisti (1907), così come di quelle sue Lettere di un prete modernista (1908) che gli avrebbero procurato una prima scomunica. La cattedra di cui Buonaiuti era riuscito vincitore era una cattedra di Storia del cristianesimo, e Buonaiuti non appartenne mai alla corporazione accademica dei filosofi, né si comprese egli stesso come un filosofo, almeno nel senso professionale del termine. Tuttavia bisogna tener presente che un carattere qualificante del modernismo fu precisamente quello di dare un grande spazio alla riflessione filosofica nell’ambito degli interessi teologici, apologetici, esegetici e, in genere, religiosi : lo stesso rilievo dato alla categoria del « religioso », o della « religione », era caratteristico, il modernismo ponendosi con ciò in una linea di acquisizione e di continuità rispetto a quel fenomeno dell’età moderna che era consistito, appunto, nella categorizzazione della « religione » come oggetto di studio scientifico e, in primo luogo, filosofico (anche la storia delle relig ioni si delineò originariamente come un momento della ricerca filosofica). 2 Giova insistere sul fatto che questo rilievo teorico–scientifico dato alla religione è da considerare tutt’altro che ovvio (vuoi con riferimento all’età moderna, vuoi con riferimento al modernismo, che così dell’età moderna ripeteva, a suo modo, una caratteristica definitoria) perché forse oggi ciò non appare più così evidente, la costituzione della « relig ione » in oggetto di ricerca scientifica essendo un fatto culturale ormai acquisito. In età moderna la categorizzazione della religione era andata di pari passo con la messa in questione del carattere scientifico-cognitivo della metafisica ontologica, se
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Le contraddizioni di due avvocati del modernismo, in « La civiltà cattolica », 1908, p. 331. Sia consentito rinviare a questo proposito a un lavoro di chi scrive : Filosofia della religione, in La filosofia, a cura di P. Rossi, Torino 1995, vol. i, pp. 137-220 [cfr. supra, pp. 165-227]. 2
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gnando uno spostamento di accento dalla teologia (come teologia razionale) all’antropologia (tanto come antropologia metafisica, quanto come antropologia empirica), quando non una vera e propria sostituzione della seconda alla prima. Tale spostamento d’accento comportava ripercussioni e attriti sia nelle interne articolazioni epistemiche delle discipline « filosofia » e « teologia », sia nei rapporti delle due discipline fra loro, con i conseguenti « conflitti di facoltà » (per esprimerci con il titolo della celebre opera di Kant, Der Streit der Fakultäten, che era nata a seguito di tali ripercussioni e attriti). Analogamente, nel modernismo l’attenzione teorica alla religione era connessa con la messa in questione di quella metafisica ontologica scolastica (che non a caso la Pascendi voleva riproporre) e dunque era tutt’uno con la ricerca di nuove prospettive filosofiche. Esattamente in questi termini si configurò anche la ricerca filosofica di Buonaiuti, pur nelle sue oscillazioni teoriche e nella sua costante mancanza di tecnicismo (mancanza, in qualche misura, anche intenzionale e significativa essa stessa di un atteggiamento critico nei confronti della filosofia di scuola). Dal saggio del periodo modernista su La religiosità secondo il pragmatismo (apparso sul Rinnovamento del 1908), ad un certo, ritrovato apprezzamento per gli aspetti trascendentistici del tomismo – apprezzamento che si accompagnava alla critica dell’immanentismo idealista, 1 ma era comunque interno ad una enfatizzazione del significato sociale della religione e della sua natura arazionale o prerazionale : 2 donde la traduzione italiana de Il sacro di Rudolf Otto 3 – fino all’inte resse per Aristotele e S. Anselmo nell’ultima opera pubblicata in vita 4 e alle sostanziose revisioni del postumo La vita dello spirito, 5 gli interessi filosofici di Buonaiuti (anzi, gli interessi filosofico–religiosi, nel preciso senso del nesso moderno fra i due termini, sopra ricordato) percorrono l’intero arco della sua produzione e, oltre che negli scritti tematici, sono presenti, in modo indefinito, ma pervasivo, in tutte le sue opere. Privato della cattedra nel 1931 in seguito al rifiuto di prestare il giuramento fascista, Buonaiuti ritornò alla « Sapienza » per breve tempo prima della sua morte (avvenuta nel 1946), dopo avere insegnato anche per alcuni anni nella Facoltà di teologia protestante dell’università di Losanna. Quanto alla rilevanza per la filosofia dell’attività romana di Buonaiuti, è il caso di ricordare che alla riunione di S. Donato, dove egli aveva riunito nel 1924 un gruppo di intellettuali, 6 prese parte anche Renato Lazzarini. Questi, che era stato allievo di Aliotta a Napoli, era filosofo nel senso professionale del termine (sarebbe poi divenuto ordinario di filosofia teoretica nell’università Cagliari). Quando, l’anno successivo, Buonaiuti iniziò la pubblicazione della rivista Ricerche religiose, Lazzarini prese a collaborarvi, facendovi apparire alcuni scritti molto significativi di quello che sarebbe rimasto anche per il futuro il suo orientamento filosofico : Il problema della salvezza nell’apologetica dell’azione e Soteriologia e gnoseologia. 7 L’interesse per l’apologetica blondeliana, il
1 Basti ricordare il saggio Immanentismo idealistico ed esperienza religiosa, in « Rivista trimestrale di studi filosofici religiosi », 1920, pp. 77-86. 2 Si veda ad esempio L’essenza del cristianesimo, Roma 1922 ; Apologia del cattolicismo, Roma 1923 ; Misticismo medievale, Pinerolo 1928. 3 R. Otto, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al naturale, trad. it. di E. Buonaiuti, Bologna 1926. Non è senza significato che questa traduzione italiana (così come quella del Römerbrief barthiano a cura del teologo valdese Giovanni Miegge) sia stata pubblicata poi, dopo la guerra, dalla « laica » casa editrice Feltrinelli. 4 5 I maestri della tradizione mediterranea, Roma 1945. Roma 1948. 6 Cfr. Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, a cura di M. Niccoli, Bari 1964, p. 217. 7 Sostanzialmente confluiti, poi, nel Saggio di una filosofia della salvezza, Roma 1926. Nelle stesse Ricerche
cristianesimo e filosofia nell ’ università statale di roma nel ’ 900 331 rifiuto di un approccio gnoseologistico e dimostrativo al problema di Dio (che sarebbe problema soteriologico, e non cosmologico), l’acuta sensibilità per il tema del male e della caduta d’origine erano tutti motivi di sostanziale affinità tra l’orientamento filosofico-religioso di Lazzarini e quello di Buonaiuti, il quale proprio in quegli anni aveva enfatizzato il tema del peccato originale nel quadro della sua comprensione sociale e soteriologica della religione. Ma questi stessi motivi teoretici, che davano luogo all’affinità elettiva di Lazzarini nei confronti di Buonaiuti, erano, e sarebbero stati in seguito, anche i motivi caratterizzanti del pensiero filosofico di Enrico Castelli (lo erano già negli anni Venti, per quanto riguarda l’interesse castelliano per il problema dell’apologetica e l’atteggiamento antignoseologistico, e lo sarebbero stati successivamente, specie a partire dagli anni della guerra, per quanto riguarda un antignoseologismo vieppiù radicalizzato e, anche in conseguenza di tale radicalizzazione, l’enfasi sul tema dello status deviationis). Nondimeno, con Buonaiuti e con Lazzarini Castelli cominciò ad intrattenere rapporti accademici solo nell’immediato dopoguerra. Con Lazzarini – che pure Castelli aveva conosciuto già nel 1926, 1 senza che a seguito dell’incontro fra i due sorgessero rapporti (che, altrimenti, i diari castelliani li avrebbero sicuramente registrati) – il Castelli esistenzialista, il quale aveva ormai maturato un’acuta sensibilità per lo status naturae lapsae, ebbe rapporti signficativi. Dopo gli incontri fra i due ai primi congressi annuali del Centro di studi filosofici di Gallarate (a partire dal 1946), in occasione dei quali Castelli potè rendersi conto dell’affinità intellettuale con il collega, e dopo una iniziale diffidenza di carattere politico – o anche di carattere politico – nei suoi confronti, 2 Castelli cooptò Lazzarini nelle sue iniziative filosofiche, invitandolo frequentemente a collaborare alla rivista da lui diretta – l’Archivio di filosofia – pubblicandogli nella collana dell’Istituto di Studi filosofici, anche da lui diretto, il volume Intenzionalità e istanza metafisica 3 e, infine (siamo negli anni Sessanta), invitandolo più volte a quei suoi convegni romani sulla demitizzazione, dei quali avremo occasione di parlare in seguito. Invece gli sporadici contatti che Castelli ebbe con Buonaiuti, per ragioni accademiche, a partire dal momento in cui Buonaiuti fu reinserito nell’università statale di Roma (1944), dove Castelli stesso insegnava ormai da quattro anni, per incarico, Filosofia della religione, non furono in alcun modo significativi. Le annotazioni diaristiche di Castelli documentano in proposito un atteggiamento che, senza mai entrare nella discussione delle idee filosofiche o religiose di Buonaiuti, è sostanzialmente negativo e si conclude con un giudizio assai severo sulle caratteristiche d’assieme della sua personalità. 4 È probabile che su questo attegg iamento castelliano continuasse a pesare il ricordo di un atteggiamento ostile che lo stesso Buonaiuti doveva aver assunto nei confronti del pensiero e/o della personalità di Castelli. Infatti, proprio nel momento delle maggiori religiose appariva in seguito (iii, 1927, pp. 521-526) un saggio di F. Michelini, La filosofia della salvezza, di discussione delle tesi di Lazzarini. 1 Cf. E. Castelli, Diari, Padova 1997, vol. i, p. 11. 2 Cf. nei Diari : « 26 febbraio 1946 [...] Ore 9. R. Lazzarini. Dubbi e incertezze. Ritengo più opportuna la sua permanenza a Bologna. Milita nelle file dei socialisti e rappresenta la corrente cattolica in seno al socialismo. R. Lazzarini : “Sai, pensavo di fare un giro per i Conventi della Sardegna e predicare a quella povera gente un pensiero troppo dimenticato, intendo dire il pensiero di S. Bonaventura...”. Ingenuo » (op. cit., vol. 3 Roma 1956. ii, p. 164). 4 In proposito vedasi l’annotazione castelliana del 20 aprile 1946 in Diari, cit., vol. ii, 185.
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difficoltà del giovane Castelli con gli ambienti ecclesiastici per le tesi che egli aveva sostenuto in Filosofia e apologetica ? 1 i diari castelliani registrano un « Anche Buonaiuti mi attacca ! Inaudito ! ». 2 Questa scandalizzata annotazione mostra che Castelli si sarebbe aspettato un atteggiamento quanto meno non ostile da parte di Buonaiuti. Per un verso, tale aspettativa non stupisce, se si pensa alle tesi e all’argomento stesso di Filosofia e apologetica, all’attenzione e alla profonda simpatia intellettuale che con le sue opere il giovane Castelli aveva già in precedenza e reiteratamente mostrato per Blondel e Laberthonnière (oltre che per Rosmini), all’orientamento filosofico-religioso volontaristico e antignoseologistico di tali opere, insistentemente critico nei confronti di quel neoidealismo attualistico,3 le cui posizioni nei confronti della nuova apologetica cattolica abbiamo già avuto modo di ricordare. E tuttavia, per altro verso, bisogna riconoscere che sarebbe impossibile ricondurre semplicemente le posizioni castelliane nell’ambito pur ampio e dai contorni sfumati che si suole identificare con il nome di « modernismo ». Difficilmente inquadrabile in quest’ambito è, ad esempio, la messa in non cale del metodo storico-critico in ordine all’accertamento degli eventi storici rilevanti per la fede cristiana, messa in non cale conseguente alla distinzione tra « l’argomento del miracolo » e « il miracolo come argomento ». Questa distinzione – riferendosi alla quale, come abbiamo visto, il Castelli diarista si era indotto a menzionare gli attacchi di Buonaiuti – rappresentava il punto essenziale della « Nota critica sul problema del miracolo », uno dei saggi più significativi di Filosofia e apologetica ? 4 E il caso di ricordare che più di quarantanni dopo Castelli avrebbe ristampato questo saggio – riproponendolo come ancora attuale, e anzi come anticipatore – nella sua Critica della demitizzazione ?5 Questa opera raccoglieva le introduzioni dei convegni internazionali sulla demitizzazione, che Castelli organizzò alla « Sapienza », a partire dal 1961, annualmente fino alla sua morte (avvenuta nel 1977), fin dal primo convegno facendo valere nei confronti di Bultmann una distinzione fra « storia sacra » intangibile dal metodo storico-critico – e « storia del sacro » ricostruita dalla storiografia filologica e oggettivante – la quale distinzione aveva più di un nesso con la distinzione proposta a suo tempo a proposito del miracolo. Insomma, anche l’ultimo Castelli – che
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Filosofia e apologetica, Saggi critici di filosofia della religione, Roma 1929 (ma l’opera raccoglieva, oltre a saggi nuovi, anche scritti pubblicati negli anni precedenti). 2 Questo il contesto dell’annotazione dell’8 agosto 1929 : « Per la mia Filosofia e apologetica spira aria cattiva. Desclée ha creduto opportuno ritirare le copie dalla mostra [...] Sento l’ambiente ecclesiastico ostile ogni giorno di più. Il problema del miracolo è la chiave di volta dell’apologetica ; la mia impostazione del problema spaventa i teologi intransigenti che non riescono ad afferrare il significato pedagogico della distinzione dell’argomento del miracolo dal miracolo come argomento. Anche Buonaiuti mi attacca ! Inaudito ! » (op. cit., vol. i, p. 73). 3 Tra i lavori castelliani di questo periodo giovanile ricordiamo, oltre alla traduzione italiana di M. Blondel, Principi di una logica della vita morale, Roma, s.d. (ma 1924), Filosofia della vita. Saggio di una critica dell’attualismo e di una teoria della pratica, Roma 1924, e Laberthonnière, Milano 1927 (trad. francese, Parigi 1931). Il traduttore francese di quest’ultima opera, Louis Canet, divenne alla morte di Laberthonnière, nel 1933, curatore del suo lascito, particolarmente ricco di scritti perché Laberthonnière, dopo la condanna delle Annales de philosophie chrétienne da parte del S. Uffizio (1913), aveva obbedito al divieto di pubblicare altre opere, continuando però a scrivere con intensità. Immediatamente dopo la morte di Laberthonnière, Canet affidò due significativi scritti del lascito a Castelli per la pubblicazione nell’« Archivio di filosofia », che da qualche anno usciva a Roma sotto la sua direzione, come organo della Società Filosofica Italiana : Dieu d’Aristote, Dieu de l’École, Dieu des Chrétiens (1933, n. 2, pp. 3-36) e La société spirituale (1933, n. 3, pp. 10-71). 4 Op. cit., pp. 49-59. 5 La critica della demitizzazione. Ambiguità e fede, Padova 1972.
cristianesimo e filosofia nell ’ università statale di roma nel ’ 900 333 organizzava bensì convegni sulla demitizzazione, ma notava che nell’espressione Critica della demitizzazione il genitivo era allo stesso tempo soggettivo e oggettivo (il che spiega il sottotitolo dell’opera, « Ambiguità e fede ») – rappresentava, esattamente come il Castelli degli inizi, una paradossale figura di confine tra modernismo e tradizionalismo. E torniamo, corroborati da questa notazione, al Castelli degli inizi. Da un lato, dunque, Fautore di filosofia e apologetica aveva meno motivo di sorprendersi dell’atteggiamento critico di Buonaiuti nei suoi confronti di quanto mostrava di ritenere nei suoi diari ; d’altro lato però nemmeno i sospetti di modernismo, dai quali il giovane Castelli dovette difendersi, 1 erano del tutto ingiustificati. Tra l’altro, tali sospetti fecero correre a Filosofia e apologetica il pericolo della messa all’Indice : secondo quanto più di una volta Castelli medesimo, in età avanzata, raccontò a chi scrive, il pericolo fu scongiurato solo grazie all’intervento di Varisco. Questi era ormai influente homo publicus e sostenitore di un teismo a carattere dimostrativo, ancorché a suo tempo egli stesso avesse collaborato a Il Rinnovamento con un paio di significativi articoli sull’esperienza religiosa che criticavano a loro volta le critiche di Croce e Gentile alla filosofia della religione modernista. 2 È dunque giunto il momento di soffermarci sulla figura di Varisco. Si tratta di una figura molto significativa, e molto significativa per varie ragioni : per il livello qualitativo del suo pensiero filosofico, per il posto singolare che tale pensiero occupa nella storia della filosofia italiana di questo secolo, per l’influsso ragguardevole che il pensiero varischiano, nonostante una sua certa intempestività, ha avuto su tale storia, per i risultati dell’attività svolta da Varisco in ambito accademico e, in senso lato, di politica culturale. Laureato in ingegneria, insegnante di matematica e dotato di una solida preparazione in fisica, Varisco giunse alla filosofia solo in un secondo momento. Anche al cattolicesimo egli giunse solo in un secondo momento. Sia sull’approdo cattolico, sia su quello filosofico pesò la sua provenienza familiare. Nipote del filosofo spiritualista Francesco Bonatelli (1830-1911), che era un cattolico, Varisco risentì l’influsso del suo pensiero in misura forse maggiore di quanto si soglia riconoscere. Anche se la cultura dominante nella gioventù di Varisco era stata il positivismo e anche se la formazione varischiana era stata di carattere scientifico, nell’attenzione in certo senso esclusiva che fin dai suoi primordi filosofici Varisco ebbe per la coscienza, i tratti che in prima approssimazione potremmo chiamare spiritualistici furono certamente non minori dei tratti positivistici, empirici, psicologici (nel senso della allora neonata psicologia scientifica). Parlare di « tratti spiritualistici » è, peraltro, assai generico, e potrebbe persino riuscire fuorviante nella misura in cui ciò evocasse una contrapposizione estrinseca tra positivismo e spiritualismo. La distinzione tra « stati » ed « atti » per Varisco è essa stessa
1 Nel giudizio del concorso a cattedra di Storia della filosofia moderna bandito nel 1930 dall’Università cattolica di Milano (concorso a proposito della cui istruzione Castelli aveva annotato nei suoi diari « Il ministro ha cancellato Varisco dalla presidenza della commissione [...] ! Un’altra vittoria di Gentile : la mia causa è perduta » ; Diari, cit., vol. i, p. 134), il commissario Gemelli faceva riferimento all’« intonazione modernista » delle opere di Castelli, e questi, che in quel periodo era tra l’altro fortemente impegnato, anche negli ambienti politici ed ecclesiastici, per l’istituzione di un Ente Nazionale per l’Educazione morale e religiosa, commentava : « Gemelli cerca di colpirmi : nella relazione si legge tra l’altro quanto segue : “le pubblicazioni del prof. Enrico Castelli sono di carattere teoretico indirizzate nel campo della filosofia della religione con intonazione modernista”... » (cfr. ivi, p. 141). 2 Filosofia e religione, in « Il Rinnovamento », ii, 1908, i, pp. 68-80 ; Opinione, cognizione, fede, ii, 1908, pp. 75-98.
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interna alla coscienza, e anzi costitutiva della coscienza. Se gli « stati » vanno colti empiricamente, gli « atti » non sono avvicinabili alla stessa maniera, giacché sono proprio essi che rendono bipolare la coscienza e la organizzano gradatamente fino alla pienezza logica. Ritengo che in questa visione – presente, almeno in nuce, fin dai primissimi scritti filosofici di Varisco – più che l’affinità di superficie con il positivismo (al quale Varisco si richiama, esaltando i « dati puri », che sono, nondimeno, dati puri della coscienza), si debba cogliere l’affinità con la visione ed i problemi di certo pensiero tedesco del secondo Ottocento non più legato alla fisica qualitativa e speculativa dell’idealismo, anzi, profondamente nutrito di studi scientifici matematici, empirici e quantitativi, e tuttavia intento a ricondurre questi studi all’interno di un orizzonte coscienzialistico e spiritualistico. Massimo rappresentante di questo orientamento era stato Rudolph Lotze, non a caso allievo del « teista speculativo » Christian Weisse, ma anche del fisico (poi psicologo e filosofo) Gustav Fechner. Proprio con Lotze (oltre che con l’europeo Rosmini, fornito di conoscenza di prima mano della filosofia classica tedesca, come era meno arduo per chi era stato suddito italiano dell’impero austriaco) si sentì profondamente affine Bonatelli, che ne aveva tradotto in italiano il primo volume di una delle opere più significative ; 1 e il nipote Varisco, dal canto suo, fu estremamente attento a questa linea di pensiero (oltre che al rosminianesimo). Non è difficile capire come, risalendo ancora più indietro nella storia di un problema squisitamente moderno come quello della coscienza che è sede della scienza e perciò stesso non è considerabile semplicemente e unicamente in termini oggettivistici, Varisco potesse poi ritrovare anche Leibniz. Dovendo qualificare con un grande nome tipizzato il coscienzialismo di Varisco e i problemi con i quali tale coscienzialismo si misurò nell’arco della sua lunga evoluzione, proprio quello di Leibniz appare il più appropriato. L’attenzione alla logica, la necessità logica vista come associata e, per così dire, interna alla spontaneità della coscienza (che secondo tale necessità organizza, mediante i suoi « atti », gli « stati »), il problema che da ciò scaturisce di conseguenza, e cioè quello di come possa darsi una pluralità di centri di coscienza « interferenti » fra loro, e non invece una coscienza unica : tutti questi aspetti essenziali e definitori del pensiero di Varisco sono aspetti che in senso storico-tipico possono e debbono essere detti leibniziani. In particolare, da La necessità logica 2 a Scienza e opinioni 3 a I massimi problemi 4 al postumo Dall’uomo a Dio 5 il « massimo problema » della pluralità di centri di coscienza interferenti fra di loro – problema in cui, appunto leibnizianamente, le difficoltà concernono allo stesso tempo e reciprocamente sia il « pluralismo », sia l’« interferenza » – rappresenta il motore di tutta l’evoluzione del pensiero varischiano. Nell’approdo ad un peculiare teismo logico-metafisico che caratterizza l’ultima fase del suo pensiero 6 Varisco ritenne di trovare la soluzione a questo « massimo problema ». Coloro fra i contemporanei che considerarono il pensiero varischiano con l’attenzione che esso meritava ritennero che questa soluzione – ancora una volta alquanto leibniziana – fosse essa stessa carica di problemi. Ma anche le discussioni e gli stimoli ad ulteriori elaborazioni cui questa problematica soluzione diede luogo sono un docu
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Microcosmo, Pavia 1911. In « Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli », xxvii, 1894-1895, pp. 1-168. 3 4 Roma 1901. Milano 1910. 5 A cura di E. Castelli con la collaboraz. di G. Alliney, Padova 1939. 6 In proposito vedasi M. M. Olivetti, Varisco e il teismo, in Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, a cura di M. Ferrari, Chiari 1985, pp. 279-295. 2
cristianesimo e filosofia nell ’ università statale di roma nel ’ 900 335 mento del fatto che l’influsso di Varisco sul pensiero italiano in termini di ciò che noi oggi – a seguito della maggior fortuna del pensiero di Husserl – siamo soliti chiamare « problema dell’intersoggettività » è stato notevole e rappresenta un punto che necessita tuttora di adeguata ricostruzione storiografica. Non parleremo qui di Gentile, con le cui critiche Varisco, particolarmente ne I massimi problemi, si misurò, entrando in una discussione intensa e probabilmente non priva di conseguenze su Gentile medesimo, come sembra potersi ravvisare in certi aspetti della postuma opera gentiliana Genesi e struttura della società. 1 Basterà limitarci a ricordare che gli stessi due maggiori allievi di Varisco, Carabellese e Castelli, entrambi docenti alla Sapienza romana, divergevano significativamente, oltre che sotto molti altri aspetti, proprio nella ricezione dell’insegnamento teistico del maestro. Carabellese – che si era laureato in filosofia nel 1905 con una tesi su La teoria della percezione intellettiva in Rosmini 2 – negò radicalmente il teismo : negazione teoretica e sistematica che risulta tanto più significativa se si tiene presente il costante e radicale interesse di Carabellese (fin nelle sue ultime lezioni romane) 3 per quello che con il titolo di una della sue opere più significative possiamo chiamare « Il problema teolog ico come filosofia ». 4 Ma proprio la radicalità di questo interesse sem brava a Carabellese esigere l’abbandono di ogni aspetto soggettivo, personale, trascendente ed esistenziale (nel senso di un ente esistente) con riguardo all’Oggetto assoluto o, se si vuole, con riguardo a Dio. L’essere-di-coscienza, l’essere come coscienza, è per Carabellese la « qualità » dei « quanti », ossia dei soggetti molteplici, e non può pertanto essere ridotto ad esistenza, quantità, soggettività. A fronte di questa linea di sviluppo della problematica varischiana spicca per contrasto la linea di sviluppo intrapresa dall’altro discepolo di Varisco, Castelli. Costui (nato nel 1900) era in realtà assai più giovane di Carabellese (nato nel 1877), anche se le vicende biografiche fecero sì che l’inizio dell’attività di insegnamento dei due all’ateneo statale romano fosse meno notevolmente distanziato (l’inizio fu nel 1930 per Carabellese, come professore di ruolo proveniente dall’università di Palermo, e nel 1939 per Castelli, come professore incaricato, in quanto egli era di ruolo, contemporaneamente, quale direttore dell’Istituto di Studi Filosofici). Forse anche il diverso e distante momento in cui i due discepoli ebbero occasione di formarsi al pensiero del maestro Varisco può contribuire – insieme alle differenze profonde di personalità – a rendere ragione della radicale diversità tra le prospettive teoretiche dei due pensatori. La frequentazione intellettuale del tardo pensiero varischiano poneva il giovane Castelli di fronte al riemergere di istanze di « pensiero vissuto » che in qualche modo riattivavano, mutatis mutandis, l’iniziale e positivistica opposizione di « scienza » e « opinioni », opposizione che nella fase del pensiero varischiano frequentata da Carabellese era stata, invece, riassorbita o, comunque, oscurata dal prevalere di una speculazione più accentuatamente sistematico-metafisica. Di fronte a queste tarde istanze di « pensiero vissuto », il recupero castelliano di certi aspetti positivistici, e più precisamente psicologici, del primo Varisco (relativi all’« accadere psichico » e al determinismo che la psicologia scientifica sembrava comportare) rappresenta, a ben riflettere, tutt’altro che un paradosso. Ciò contribuisce a spiegare quella che potremmo chiamare la complementarità di dimensioni radicalmente volon
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2 Firenze 1946. Poi pubblicata : Bari 1907. Il problema di Dio, a cura di G. Savio e T. Gregory, Roma 1949. 4 Il problema teologico come filosofia, Firenze 1931. 3
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taristiche e di dimensioni psicologico-scientifiche nel giovane Castelli (il quale fu per breve tempo anche assistente di Psicologia con Sante De Sanctis, primo titolare della cattedra istituita presso la facoltà di Medicina della Sapienza e amico di Varisco). Si può anche pensare ad una interazione intellettuale tra il giovane allievo e l’anziano maestro : se non altro, le ultime opere di Varisco – il Sommario di filosofia 1 e i postumi Dall’uomo a Dio 2 e Il pensiero vissuto 3 – furono edite a cura dell’allievo (sarebbe anche interessante accertare il ruolo del curatore rispetto al titolo delle due opere postume). Sta di fatto che, per quanto riguarda il teismo varischiano, la sua ricezione da parte di Castelli fu nettamente antignoseologistica e antimetafisica, volontaristica ed esperienziale ; inoltre – ma in stretta connessione con questi orientamenti – tale ricezione fu caratterizzata da una radicalizzazione del problema della comunicazione intersoggettiva tale da giungere ad individuare nel leibnizianesimo una specifica forma di solipsismo : il solipsismo « teologico ». Insieme al solipsismo « empirico » e al solipsismo « trascendentale », il solipsismo « teologico » rappresenterà sempre per Castelli un modo di configurarsi della storia della filosofia moderna quale inarrestabile corsa gnoseologistica verso la solitudine del « Soggetto unico ». Una delle formulazioni più suggestive di questi temi si avrà ne I presupposti di una teologia della storia ? 4 opera massimamente rappresentativa del Castelli esistenzialista, passato attraverso l’esperienza della guerra e divenuto ipersensibile ai temi del demoniaco e dello status deviationis : temi che egli ormai connetteva strettamente e quasi identificava con il solipsismo della filosofia moderna e con la « tentazione dell’incontrovertibile ». Peraltro, come è comprensibile in base a quanto siamo venuti dicendo da ultimo, l’incontro con l’esistenzialismo non fu per Castelli estrinseco. Dopo Idealismo e solipsismo 5 – già prima della guerra dunque – la produzione filosofica castelliana aveva cominciato a sperimentare forme nuove : diaristiche, letterarie, poco accademiche e intese a corrispondere meglio, anche sul piano formale appunto, al « pensiero vissuto » e alla teorizzata opposizione scienza–esistenza. 6 Parallelamente, l’attenzione a Rosmini, che Castelli aveva anche mutuato dal maestro, si era andata in lui stemperando in quanto attenzione teoretica, volta ad una fonte di ispirazione per il proprio stesso pensiero ; essa si tradusse invece in una attività istituzionale, quale la promozione e la direzione dell’edizione nazionale delle opere del roveretano, a cui ben presto Castelli affiancò la promozione e la direzione dell’edizione nazionale delle opere di Gioberti (e, più tardi, quella dei « Classici del pensiero italiano »), inserendo il tutto nel quadro delle attività istituzionali dell’Istituto di Studi Filosofici. 7 Sicché quando nel suo insegnamento universitario di Filosofia della religione alla Sapienza e nelle sue molteplici iniziative del primo dopoguerra l’orientamento esistenzialistico di Castelli apparve evidente, ciò fu dovuto non ad una trasformazione della sua prospettiva e del suo stile filosofico – trasformazione ormai già avvenuta, e avvenuta in assoluta coerenza e continuità con gli orientamenti teorici di partenza – bensì al cambiamento del contesto storico, ossia
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Roma 1928. 3 A cura, come detto, di E. Castelli e G. Alliney, Padova 1939. Roma 1940. 4 5 Padova 1952. Roma 1933. 6 Ricordiamo Introduzione alla vita normale. Dialoghi (con lo pseudonimo di Harry Glower), Roma 1935 ; Introduzione alla vita delle parole. Frammenti di un diario (con lo pseudonimo di Dario Reiter), Roma 1938. 7 Sul significato di questa attività editoriale di Castelli cfr. di chi scrive L’edizione nazionale giobertiana e l’attività culturale di Enrico Castelli, in Giornata giobertiana, a cura di G. Riconda e G. Cuozzo, Torino 2000, pp. 89–106. 2
cristianesimo e filosofia nell ’ università statale di roma nel ’ 900 337 all’immane senso di frattura prodotto dalla guerra e al corrispondente clima culturale, in cui il termine « esistenzialismo » veniva ampiamente e genericamente utilizzato. Ma a distanza, ormai, da questo clima, lo sguardo storiografico non può non constatare come anche in Italia – analogamente a quanto era accaduto altrove in Europa – ciò che dopo la guerra venne chiamato senz’altro e complessivamente « esistenzialismo » avesse avuto una sua genesi, e anche maturazione, già fra le due guerre. Peculiare dell’Italia è stato semmai il fatto che questa genesi si fosse determinata ampiamente – sebbene nient’affatto esclusivamente – in discussione critica con il neoidealismo : discussione che potè muovere dall’esterno di esso, come nel caso di Castelli, ma anche dal suo interno, vale a dire quale sua elaborazione critica, come nel caso, ad esempio, del neoidealista cattolico Armando Carlini (successore di Gentile a Pisa quando Gentile fu chiamato alla Sapienza e primo traduttore di Heidegger in Italia), 1 il quale non a caso incontrò un notevole interesse teoretico da parte del gentiliano Vito Antonio Bellezza (giunto in cattedra alla Sapienza negli anni Settanta, dopo avervi operato per lunghi anni come libero docente e assi–tente di Ugo Spirito). 2 In effetti, una delle conseguenze della guerra sulla situazione filosofica italiana successiva è stata senza dubbio l’abbandono pressocché immediato non tanto del neoidealismo (il quale, persino nella sua forma attualistica, ossia quella più legata al contesto politico che la guerra aveva travolto, continuò a vivere una sua vicenda, per così dire, fisiologica), quanto della tradizione filosofica nazionale (quella tradizione che il neoidealismo italiano aveva consacrato in una visione di filosofia della storia della filosofia). 3 L’improvviso privilegiamento delle filosofie di lingua non italiana da parte delle nuove generazioni accademiche non meno che da parte di molti di coloro che avevano autorevolmente filosofato già prima della guerra, ebbe come conseguenze, tutt’oggi perduranti, che si smarrisse in ampia misura la coscienza dei tratti, a loro peculiare modo, europei del pensiero filosofia) italiano tra le due guerre, e si smarrisse altresì, in proporzionale misura, la coscienza di quanto l’appartenenza a quella tradizione continuasse a determinare, appunto inconsapevolmente, la filosofia di lingua italiana, anche là dove essa riteneva di volgersi ormai esclusivamente all’esterno. Con riguardo alla filosofia professata alla Sapienza romana queste osservazioni generali assumono un rilievo specifico. Per un verso, infatti, come dicevamo poc’anzi, l’« esistenzialismo » castelliano si delinea prima della guerra (prima, dunque, di quell’Existen
1 Non è neanche senza significato che l’opera heideggeriana tradotta fosse Che cosa è metafisica ?, in appendice all’opera di Carlini medesimo Il mito del realsimo, Firenze 1936. 2 Autore de L’esistenzialismo positivo di G. Gentile, Firenze 1954, collaboratore del castelliano « Archivio di filosofia » con scritti relativi all’esistenzialismo e a Kierkegaard (tra i quali ricordiamo Il singolo e la comunità nel pensiero di Kierkegaard, in « Archivio di filosofia », 1953, n.2, pp. 133-189, scritto che precorre la cura, da parte di Bellezza, di Genesi e struttura della società nell’edizione delle Opere complete di Gentile, Firenze 1959). Bellezza scrisse, tra l’altro, un significativo saggio su Il concetto gentiliano di « Dio » e la critica di Armando Carlini, in « Giornale critico della filosofia italiana », lvi, 1977, pp. 60-100. 3 Peraltro, il permanere – fino alla seconda Guerra mondiale – di una diffusa e convinta coscienza della tradizione filosofica nazionale non è da caratterizzare esclusivamente in senso neoidealistico : Carabellese e Castelli sono rappresentanti significativi – rispettivamente in senso « laico » e in senso « cattolico » – di una coscienza siffatta. A questo proposito vedasi, relativamente a Carabellese, il capitolo « La filosofia italiana come “fatto” e la filosofia italiana come “antefatto” della “propria” filosofia » in F. Ottonello, L’ontocoscienzialismo e l’inclusione adialettica dell’alterila. Note critiche sul primo corso di filosofia teoretica tenuto a Roma da P. Carabellese nell’anno accademico 1943-44, Napoli 2000, pp. 25-30 ; relativamente a Castelli, v., di chi scrive, il saggio citato alla nota 7, p. 336.
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tialtsme théologique che subito dopo la guerra Castelli medesimo pubblicò in Francia, 1 riprendendo peraltro saggi pubblicati precedentemente, in italiano o in francese, a partire dal 1930). Per altro verso, l’altra e opposta linea di sviluppo dell’insegnamento di Varisco, l’ontocoscienzialismo carabellesiano, costituisce una radicale critica dell’« ontoteologia » perlomeno contemporanea alla heideggeriana Verwindung della metafisica, giacché con gli anni tra la Critica del concreto 2 e Il problema teologico come filosofia, dunque con il decennio tra il 1920 e il 1930, il pensiero di Carabellese si definisce completamente. Naturalmente si trattava di linee di sviluppo opposte anche con riguardo al cristianesimo (seppure l’ontologismo di Carabellese potè a sua volta registrare un ribaltamento in senso teistico e, si potrebbe dire, anselmiano nel pensiero di Teodorico Moretti Costanzi, divenuto poi professore all’università di Bologna). Ma questa considerazione sincronica delle due linee di sviluppo dell’insegnamento varischiano, intesa a mettere in luce il loro inserimento nel panorama filosofico europeo, non deve far perdere di vista che sotto il profilo locale della filosofia professata alla Sapienza l’affiancamento dell’insegnamento del più giovane discepolo di Varisco (peraltro in materia « complementare », qual’era secondo lo statuto dell’epoca la disciplina Filosofia della religione) a quello del discepolo più anziano (che dopo aver insegnato la disciplina « fondamentale » Storia della filosofia successe al defunto Gentile sulla cattedra di Filosofia teoretica) non durò nemmeno un decennio. Nel 1947 infatti Carabellese dovette lasciare l’insegnamento per raggiunti limiti d’età. L’« incarico » di Castelli durò invece ancora più di vent’anni. Sino ad allora l’insegnamento di Castelli continuò a rappresentare una forma fideistica di esistenzialimo cristiano, particolarmente ricca di riferimenti al pensiero francese del dopoguerra e alle sue forme espressive meno tradizionali ed accademiche (teatrali, filmiche, letterarie). Si trattava di un orientamento filosofico ed ideale decisamente isolato nel quadro dei pur diversi e difficilmente unificabili orientamenti filosofici presenti nella Facoltà di lettere e filosofia della Sapienza. Quella del nuovo titolare della cattedra di Filosofia teoretica, Ugo Spirito – che pure aveva dato l’eloquente sottotitolo Tramonto della civiltà cristiana ad una delle sue opere più significative, La vita come amore 3 – rappresentava nonostante tutto la posizione teoretica meno incomunicabile con quella di Castelli : la tesi del tramonto del cristianesimo e la condanna degli atteggiamenti giudicanti che il cristianesimo aveva storicamente assunto – in contraddizione, per Spirito, con il suo stesso principio d’amore ed il suo nolite indicare – palesavano comunque un interesse teoretico, non semplicemente storiografico, per il cristianesimo (tra l’altro, Spirito prese più volte parte come « osservatore » ai convegni del centro di Gallarate) ; il carattere agnostico del suo « problematicismo » – di cui l’opera ricordata rappresenta forse il documento maggiore – non era, almeno in un certo senso, incompatibile con il volontarismo fideistico di Castelli ; l’attualismo, donde il problematicismo di Spirito proveniva e in cui a suo modo permaneva, era stato, come si è visto, un punto di rife rimento polemico privilegiato per l’autodefinizione del pensiero di Castelli ; persino i persistenti tratti delle giovanili esperienze positivistiche – per quanto problematica fosse la loro composizione con gli altrettanto persistenti tratti attualistici del pensiero spiritiano – non erano estranei ai ricordati inizi psicologici dell’antico discepolo di Varisco.
1 Parigi 1948. L’edizione italiana dell’opera apparve solo molto dopo (Esistenzialismo teologico, Roma 2 3 Pistoia 1921. Firenze 1953. 1966).
cristianesimo e filosofia nell ’ università statale di roma nel ’ 900 339 In effetti Spirito, solo di qualche anno più anziano di Castelli, era in rapporti personali amichevoli con quest’ultimo, il quale non infrequentemente organizzava incontri domenicali di discussione con lui e con i più giovani colleghi filosofi Paolo Filiasi Carcano e Pietro Prini (Prini, chiamato all’università di Roma nel 1965, qualche anno dopo Filiasi, andò ad abitare nello stesso palazzo del quartiere Flaminio in cui abitava Spirito). Qualcuno chiamava scherzosamente la piccola compagnia « i quattro cavalieri dell’Apocalisse ». Riferisco questi particolari biografici perché sono significativi di una più generale situazione che nell’ultimo periodo dell’insegnamento di Castelli venne a caratterizzare, in rapporto al cristianesimo, la situazione della filosofia professata alla Sapienza. L’esistenzialismo e il cristianesimo, i quali rendevano entrambi, singolarmente e nella loro congiunzione, piuttosto isolato l’orientamento di Castelli all’interno dell’Istituto di filosofia della Facoltà di Lettere e Filosofia, trovavano rispondenza solo all’esterno, in altre Facoltà dell’ateneo, e in primo luogo nella facoltà di Magistero, dove appunto erano ordinari Filiasi e Prini. Filiasi, che veniva da studi di matematica e aveva interessi per i problemi posti dal pensiero neopositivistico,1 rivendicava però criticamente nei confronti di quest’ultimo la possibilità di un’esperienza metafisica, la cui indagine era appunto merito della filosofia dell’esistenza, secondo Filiasi, aver intrapreso. Particolarmente in Problematica della filosofia odierna 2 (apparso nella stessa collana diretta da Castelli in cui, come abbiamo visto a suo luogo, apparve anche Intenzionalità e istanza metafisica di Lazzarini) Filiasi sottolineava come il tema filosofico-cristiano della creatio ex nihilo, desacralizzando il mondo, radicalizzasse la responsabilità dell’uomo di fronte a Dio e desse alla civiltà della scienza i tratti angosciosi dello sradicamento piuttosto che quelli esaltanti, teorizzati da un positivismo ingenuo. Psicologicamente diversa, anzi opposta, l’intonazione del pensiero di Prini : pensiero non angosciato, ma fiduciosamente inteso ad affrontare le sfide dell’età della tecnica,3 pur con la messa in guardia nei confronti di un’esaltazione di homo faber che facesse smarrire la dimensione teoretica, meditativa e sapienziale della filosofia. Sotto il profilo psicologico questa intonazione era forse più consonante con il fiducioso attegiamento di Spirito nei confronti della civiltà della scienza che con quello angosciato di Castelli (col quale ultimo, invece, era assai più consonante l’atteggiamento di Filiasi) ; ma sotto il profilo teoretico questa consonanza si dissolveva. Prini – studioso di Rosmini e di Marcel – si autocomprendeva come esistenzialista, e all’esistenzialismo dedicò più opere (fra queste una Storia dell’esistenzialismo 4 nella cui seconda edizione un significativo capitolo è riservato a Castelli). 5 Tratti esistenzialistici assumeva in quegli anni anche il pensiero di un altro filosofo, esterno alla Facoltà di lettere e filosofia, e amico di Castelli, Sergio Cotta (come Prini chiamato alla Sapienza nel 1965). 6 L’Istituto di Filosofia del diritto, che Cotta dirigeva
1 Vedasi, ad esempio, il suo La metodologia nel rinnovarsi del pensiero contemporaneo, Napoli 1958, e Introdu2 Roma 1953. zione alla lettura del « Tractatus » di Wittgenstein, Roma 1966. 3 Opere particolarmente significative in questo senso sono Umanesimo programmatico, Roma 1965, Il paradosso di Icaro, Roma 1976, e ancora recentemente, con particolare riferimento allas ituazione contempora4 Roma 1971. nea del cristianesimo, Lo scisma sommerso, Milano 1999. 5 Roma 1989. Altrettanto significativo è il posto che Prini riserva a Castelli in La filosofia cattolica italiana del Novecento, cit. 6 Si veda La sfida tecnologica, Bologna 1968 e Itinerari esistenziali del diritto, Napoli, 1972.
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nella facoltà di Giurisprudenza, ospitò regolarmente quei convegni internazionali sulla demitizzazione che da qualche anno Castelli aveva preso ad indire con cadenza annuale (continuando a convocarli fino alla sua morte) e che, anche fisicamente, non avevano sufficiente spazio nella facoltà di Lettere e Filosofia. In effetti sarebbe – più che insufficiente – storiograficamente errato, ridurre l’attività di Castelli nell’ateneo statale romano, e il rilievo di tale attività in ordine al tema « filosofia e cristianesimo » che qui dobbiamo considerare, all’attività di insegnamento della disciplina Filosofia della religione (insegnamento cessato, peraltro, nel 1970 per raggiunti limiti di età) Una parte notevole e quantitativamente maggioritaria della propria attività venne infatti svolta da Castelli fino al 1977, anno della sua morte, nella veste di direttore dell’Istituto di Studi filosofici. Un provvedimento del ministro Bottai emesso poco dopo l’istituzione di questo ente nazionale (deputato dalla legge istitutiva del 1939 alla promozione degli studi filosofici in Italia) aveva disposto a suo tempo che la sede dell’Istituto fosse presso l’Università di Roma. E anche a questo titolo Castelli svolgeva la sua attività presso l’ateneo romano, nei ridotti spazi di cui a questo titolo l’Istituto di Studi filosofici disponeva nella facoltà di Lettere e Filosofia. I convegni organizzati da Castelli, peraltro, erano a carattere non solo filosofico, ma anche teologico : da questo punto di vista, essi riuscivano estranei alla competenza scientifica che l’università di stato riconosceva come propria, e in qualche misura anche estranei a ciò che essa riteneva, in generale, essere di competenza scientifica. D’altro canto, e corrispondentemente, il fatto che in questa sede venissero trattati anche argomenti di teologia (nel senso disciplinare istituzionalizzato di questo termine) sembrava mettere quanto meno tra parentesi anche la riserva di competenza teologica rivendicata per principio – e rivendicata di fatto, storicamente, come ricordavamo all’inizio con riferimento all’università del nuovo stato italiano – da parte della chiesa cattolica. Il fatto che l’inizio della serie dei convegni castelliani fosse coinciso all’incirca con la convocazione del Concilio Vaticano ii appare significativo, agli occhi dello storiografo, del clima di fervida e, di fatto, liberalizzata discussione religiosa che caratterizzò quel momento storico. Per quanto riguarda le università romane, non solo professori di università pontificie, ma anche professori della Facoltà Teologica Valdese di Roma venivano invitati regolarmente da Castelli a questi convegni, il cui orizzonte era, comunque, affatto internazionale. Come documentano gli atti dei convegni, tradotti anche in Fran cia e in Germania, i lavori dei « colloqui Castelli » furono illustrati da filosofi e teologi (di varie confessioni, e anche agnostici o atei) tra i massimi del panorama internazionale. 1 Ma i profondi mutamenti e gli eventi mondiali che caratterizzarono il decennio fra il 1960 e il 1970 non lasciarono immutata, come è noto, né la storia della filosofia, né la storia dell’università, nemmeno dell’università italiana e, in particolare, della Sapienza. Ricordo quando, con contrasto che oggi scorgo essere del tutto apparente, durante i lavori dotti e pensosi dei convegni castelliani – che pure per tradizione si svolgevano all’inizio dell’anno, quando l’università avrebbe dovuto essere deserta per le festività natalizie – si udivano invece provenire dall’esterno gli slogans urlati ritmicamente dal movimento studentesco. Nella nuova temperie, la parola « esistenzialismo » passava alla storia, anche come
1 Sulla vicenda intellettuale dei convegni Castelli si veda il quaderno dell’« Archivio di filosofia » xlvii, 1979, n. 1, dedicato a Indici dei convegni dei colloqui romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), a cura di E. Valenziani, con introd. di M. M. Olivetti.
cristianesimo e filosofia nell ’ università statale di roma nel ’ 900 341 indicatore culturale atmosferico. Tra l’altro, essa cessava di fungere come una sorta di denominatore comune sotto cui ricondurre la filosofia di ispirazione cristiana professata alla Sapienza. Gli stessi convegni castelliani trovavano ormai nella parola « ermeneutica » un indicatore più appropriato per i propri problemi di demitizzazione. Non sorprende che a questi convegni non mettesse mai piede, nonostante i ripetuti inviti da parte dell’organizzatore, Augusto Del Noce, che con negli anni Settanta era stato chiamato alla Sapienza per insegnare Filosofia politica alla facoltà di Scienze Politiche, 1 e che pure con Castelli era legato da rapporti di amicizia, stretti al tempo in cui Del Noce aveva contratto un significativo debito intellettuale nei confronti del Castelli esistenzialista e teorico dello status deviationis (non a caso Del Noce aveva dedicato a Castelli una delle sue opere più significative e fortunate : quel Problema dell’ateismo 2 la cui tesi-quadro era che la storia della filosofia moderna, nel suo prevalente orientamento immanentistico, si basasse sul « rifiuto senza prove » dello status deviationis). Anche le chiamate alla Facoltà di Magistero segnavano il passaggio ad un diverso clima filosofico. Nel 1968 era stato chiamato infatti Valerio Verra, e ormai negli anni Settanta venne chiamato Armando Rigobello. Verra, autorevole storico della filosofia, riconosciuto anche dai « laici » (che dell’atteggiamento filologico e storiografico avevano fatto un simbolo del carattere scientifico, non confessionale, appunto laico, della ricerca filosofica), sarebbe divenuto uno dei docenti illustri della nuova facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Roma Tre, facoltà nata nel 1992 con lo scorporo e la trasformazione della facoltà di Magistero della antica Sapienza. Rigobello, fine teoreta e indagatore dell’« estraneità interiore » a cui conducono una radicalizzazione del trascendentale kantiano e una rimeditazione della riduzione fenomenologica, era passato già prima alla nuova facoltà di Lettere dell’università di Roma Tor Vergata. Abbiamo così raggiunto quella nuova situazione, carica di futuro e – vorrei dire con un ossimoro che mi pare significativo – « multiuniversitaria », di cui parlavamo all’inizio delle nostre considerazioni.
1 Peraltro tale collocazione accademica e disciplinare non riusciva del tutto estrinseca per Del Noce, che pure proveniva da facoltà umanistiche. Nell’ultimo periodo della sua attività e della sua produzione filosofica, infatti, Del Noce aveva ritrovato, con segno opposto, gli interessi di filosofia politica che lo avevano animato nelle giovanili esperienze della Sinistra cristiana. Egli elaborava pertanto una « interpretazione transpolitica » della storia contemporanea, onde quest’ultima veniva ricondotta direttamente all’interno della storia della filosofia e interpretata come inevitabile inveramento pratico e prassistico della opzione immanentista operata dal pensiero moderno. Oltre a ciò, è da fare presente che la facoltà di Scienze politiche della Sapienza aveva già visto il significativo insegnamento filosofico-giuridico del cattolico Giuseppe Capograssi. 2 Bologna 1964 ; 3a ed. 1970. È significativo, tra l’altro, che da giovane Del Noce avesse prefato, per una collana diretta da Castelli presso Bocca, la traduzione italiana di due opere di L. Chestov : Il sapere e la libertà, Milano 1943, e Concupiscentia irresistibilis, Milano 1946.
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‘VIA’ DALLA ‘RELIGIONE’ ?*
Partendo da una messa in questione della categoria ‘religione’ e dalla sua collocazione all’interno dell’orizzonte ‘cultura’, si individua nell’età moderna il costituirsi della semantica attuale del termine ‘religione’, così come la sua aporeticità ed equivocità. I fenomeni che nel linguaggio ordinario e scientifico vengono chiamati ‘religioni’ non sono infatti caratterizzati da una identità di essenza, bensì da ‘somiglianze di famiglia’ : la categorizzazione della religione è un significativo esempio della ‘dipartimentalizzazione’ della realtà culturale.
V
iene riportato frequentemente il bon mot einsteiniano secondo il quale « la natura non è divisa in dipartimenti, come invece lo sono le università ». Il saggio ed ironico ammonimento vale per la cultura non meno che per la natura. Anzi, in molti casi esso potrebbe opportunamente essere fatto valere nei confronti della stessa distinzione tra natura e cultura. La consapevolezza di ciò dovrebbe essere non minore che altrove in quello che potremmo chiamare il dipartimento ‘religione’, stante il valore cognitivo ed esplicativo che le religioni storiche hanno molto frequentemente rivendicato nei confronti della natura e della realtà ; d’altro lato – e reciprocamente – non mancano oggigiorno ricerche etologiche intese ad individuare comportamenti religiosi in certe specie di animali. 1 Tuttavia in questo scritto assumerò la ‘cultura’ come ambito al cui interno applicare un certo scetticismo e pragmatismo relativamente alla ‘dipartimentalizzazione’. E assumerò tale ambito – esso stesso pragmatico e provvisorio – non per attenuare la radicalità dell’indagine, ma per porre in questione con più radicalità alcune categorie e alcune distinzioni richiamate dai problemi su cui il presente numero di « Paradigmi » e la importante introduzione-convocazione di Mario Miegge ci invitano a riflettere. In primo luogo infatti qui si tratta di mettere in questione proprio la categoria ‘religione’. Per far ciò conviene lasciar valere l’ambito ‘cultura’ come orizzonte, giacché tra ‘religione’ e ‘cultura’ esiste un rapporto di implicazione reciproca che talora giunge sino alla sinonimia, talora si configura come sineddoche, in cui la pars pro toto rappresentata dalla religione costituisce comunque – come nella sociologia funzionalista classica 2 – la parte centrale, generativa o riassuntiva del cosmos sociale. La semantica attuale del termine ‘religione’ come termine di linguaggio ordinario si è costituita in età moderna, e quantunque media e vaga, come accade in ogni termine di linguaggio ordinario, tale semantica si connette assai più direttamente all’uso che del termine fanno le scienze religiose – esse stesse prodotto caratterizzante della modernità – che agli usi dei tempi premoderni, in cui pure affonda variamente le sue radici.
* « Paradigmi », lxi, 2003, pp. 21-31. 1 Ricerche meno unprecedented di quanto qualcuno potrebbe ritenere, se solo si pensa ai secenteschi propositi di individuare comportamenti religiosi nel canto del gallo o nel barrito dell’elefante (sulla religione dei ‘bruti’ cfr., ad es., M. Micheletti, Animal capax religionis. Da Benjamin Whichcote a Shaftesbury, Perugia, Benucci, 1984). 2 Assai più complicato e in parte diverso il caso della teoria funzionalista della religione di Luhmann, soprattutto quella prima maniera di Theorie der Religion, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1977 ; negli scritti di Luhmann successivi alla adozione della prospettiva dei sistemi autopoietici, invece, la attribuzione alla religione di una funzione deparadossalizzante riavvicina la prospettiva luhmanniana a quella del funzionalismo classico, à la Durkheim.
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Né la corrispondenza e la continuità tra uso ordinario e uso scientifico del termine può riuscire sorprendente ; l’epoca che chiamiamo ‘moderna’ si configura, appunto, come un’epoca per una serie di eventi che, tra l’altro, inducono la categorizzazione della ‘religione’ e dunque la costituzione delle scienze le quali si occupano specialisticamente di questo oggetto, contribuendo così, a loro volta, a precisare la semantica del termine che lo denota. 1 La ‘filosofia della religione’ è sicuramente – come nome e come disciplina accademica designata da quel nome – la prima manifestazione storica di siffatto fenomeno moderno, che prosegue e si radicalizza mediante la differenziazione nelle varie scienze religiose. A chi questa vicenda storica risulti con chiarezza, l’uso del termine ‘religione’ non può riuscire né facile né spontaneo (ma la difficoltà non è oggettivamente diminuita dall’uso di qualche parafrasi, che avrebbe comunque la medesima estensione che il termine ‘religione’ ordinariamente possiede nei manuali di storia delle religioni : ad esempio ‘vie di salvezza’, o anche semplicemente ‘vie’ – con una sorta di sorprendente pluralizzazione del tao –, prescindendo, dunque, dalla qualificazione della meta di tali vie ; qualificazione peraltro nient’affatto innocente, se solo si pensa alla tipizzazione contrastiva ‘salvezza’-’liberazione’, utilizzata frequentemente nelle scienze religiose contemporanee per caratterizzare rispettivamente religione/i occidentale/i e religione/i orientale/i ; né la situazione cambia qualora si lasci in sospeso l’esistenza stessa di una meta, come in certa misura sembra suggerire la convocazione-introduzione di Mario Miegge, là dove il termine ‘via’ pare indicare piuttosto – avverbialmente – il distacco che – sostantivamente – il tragitto : e ciò mi ha suggerito il titolo di questo contributo, titolo etimologicamente ‘aporetico’ ed ‘equivoco’). Problematica appare, tra l’altro, l’applicazione del termine ‘religione’ – da cima a fondo occidentale – alle cosiddette ‘religioni orientali’ : le differenze di queste ultime tra loro, ma anche le differenze tra i fenomeni inventariati nel loro assieme sotto la rubrica ‘religioni orientali’ e quelli (o quello ?) inventariati sotto la rubrica ‘religioni occidentali’ (o religione occidentale ?) sono tali da indurre a chiedersi se gli aspetti eterogenei non sopravanzino, quantitativamente e soprattutto in ordine di importanza, gli aspetti unificanti che legittimerebbero un denominatore comune. Faccio un solo, concretissimo esempio : un fenomeno ricco di importanza e significato come la cerimonia del té in Giappone – anche nel Giappone dei nostri giorni ! – è cerimonia ‘religiosa’ ? È cerimonia ‘laica’ ? È cerimonia ‘pubblica’ o ‘privata’ ? È ‘cerimonia’ o è ‘far cerimonie’ ? È ‘far cerimonie’ o è tecnica di ‘igiene mentale’ ? Dire che l’uso del termine ‘religione’ non può riuscire né facile né spontaneo a chi
1 L’opera in più volumi di E. Feil, Religio. Die Geschichte eines neuzeitlichen Grundbegriffs, Göttingen, Vandenhoek u. Ruprecht, 3 voll., 1986-2001, è di importanza difficilmente sopravvalutabile, oltre che per la ricchezza della documentazione, per il contributo decisivo che ne deriva alla consapevolezza della storicità di quanto è denotato col termine ‘religione’. Tale contributo va ben oltre quello fornito ad vocem e per opera dello stesso Feil dalla nuova edizione dello Historisches Wörterbuch der Philosophie soprattutto il contributo è più decisivo, non per ragioni di maggiore ampiezza, ma per il ben diverso significato che riveste trattare il termine ‘religione’ in chiave di storia concettuale mediante una monografia tematica piuttosto che in un dizionario, nel quale la scelta di metodo è generale e indipendente dall’argomento trattato nelle diverse voci. Detto ciò, tuttavia, non si può non osservare come l’attenzione prestata da Feil alle singole occorrenze del termine ‘religione’ e, per così dire, ai singoli alberi rischi di far scomparire il profilo stesso della foresta, ovverossia il fatto più macroscopico ed importante (sul quale mi sono intrattenuto altrove), rappresentato da quella che chiamo appunto ‘categorizzazione’ della religione in età ; moderna e dalla sua corrispondente costituzione in oggetto di sapere scientifico.
345 ‘ via ’ dalla ‘ religione ’ ? ne colga la connotazione da cima a fondo moderna e occidentale, non significa però paralizzare il discorso e mettere nell’impossibilità di affrontare i problemi reali che purtuttavia nelle parole urgono e trovano espressione. Alcune indicazioni possono essere tratte da queste considerazioni. Quelle che nel linguaggio ordinario e scientifico chiamiamo ‘religioni’ sono fenomeni che presentano tra loro non identità di essenza, bensì somiglianze di famiglia : rituali, miti, tradizioni, carismi, affermazioni ontologiche, affermazioni assiologiche o statuizioni deontologiche, esistenza di sacerdoti, istituzione di comunità, raggiungimento di stati personali ecc. ecc. ecc. sono tratti che possono essere presenti in varie ‘religioni’ e così dar luogo a somiglianze tra di loro. Riguardo a ciascuno di questi tratti – di cui la ‘fenomenologia della religione’ fornisce una lista più o meno ampia ed una descrizione più o meno (per la verità assai poco) governata dal metodo fenomenologico della ‘riduzione’ – si ripropone ovviamente la questione semantico-ermeneutica (cosa si intenda con ‘mito’, ‘rito’, ‘sacro’ ecc. ; si pensi ad esempio alla sorprendente utilizzazione weberiana di ‘profezia’ nella distinzioneclassificazione ‘profezia esemplare’-’profezia di missione’) e rispetto a ciascuno di essi vale, altrettanto ovviamente, il criterio della somiglianza piuttosto che quello dell’essenza. Ma soprattutto nessuno di questi tratti è essenziale affinché si possa parlare di ‘religione’ ; quanti di essi e con quale rilievo debbano essere presenti affinché si possa plausibilmente parlare di ‘religione’ anche nel senso di un oggetto di indagine scientifica è questione di giudizio riflettente – per così dire – piuttosto che di giudizio determinante. A meno che si voglia dare un concetto non descrittivo, bensì normativo di ‘religione’ (ma allora si è al di fuori – può darsi anche nobilmente al di fuori – della logica scientifica). Beninteso, la tesi antiessenzialista è una tesi di portata generale e il criterio delle somiglianze di famiglia può essere fatto valere a proposito di altre categorizzazioni e classificazioni, soprattutto quando le prospettive disciplinari istituzionalizzate (gli einsteiniani ‘dipartimenti’ universitari di cui si diceva all’inizio) vengano inconsapevolmente o arrogantemente scambiate con la realtà culturale a cui esse guardano nel modo loro proprio. Tuttavia, il fatto di soffermarci qui sulla ‘religione’ non è motivato soltanto da ragioni contingenti (il tema di questo numero di « Paradigmi », le competenze di chi scrive, ecc.), ma anche da una ragione sostanziale : la categorizzazione moderna della ‘religione’, a partire dalle prime teorie sotto il nome di ‘filosofia della religione’, costituisce infatti un caso incomparabilmente significativo di sostituzione di un ‘dipartimento’ alla realtà. Le ragioni di questa incomparabile significatività sono molteplici e non è certo il caso qui di esaminarle analiticamente. Menzionerò in proposito solo due fatti, distinti e connessi, e mi limiterò a menzionarli, senza ulteriori commenti, anche perché mi sembrano piuttosto eloquenti. Primo fatto : la filosofia della religione è nata come diretta conseguenza della moderna messa in questione del carattere cognitivo della metafisica, pretesa radice dello stesso arbor scientiarum (che, tra l’altro, consentiva la costruzione di una teologia razionale). Secondo fatto : l’elaborazione di una filosofia della religione, vuoi in veste apologetica e di ‘apologetica’ (come disciplina accademica), vuoi in veste polemica (come ‘critica della religione’, secondo l’espressione usata in ambito germanico), vuoi infine – e soprattutto ! – in veste neutrale, avalutativa, ha occasionato quello che, riecheggiando
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non solo metaforicamente un titolo ed una vicenda kantiani, chiamerò un ‘conflitto delle Facoltà’. Il confl itto, lungi, questa volta, dall’esaurirsi in una questione di dipartimenti universitari (come pure le circostanze concrete potevano richiedere a Kant di presentarlo) costituiva il sintomo e, anzi, un momento a suo modo tutt’altro che inefficace di una vera e propria rivoluzione, nel senso del sostituirsi di un nuovo principio di ordine politico ad un principio di ordine politico per certi aspetti plurimillenario (non a caso, come è noto, Kant poneva definitoriamente l’« illuminismo » in relazione a « questioni di religione » 1). Se la tesi delle somiglianze di famiglia è plausibile, allora essa riguarda non solo i fenomeni che istituzionalmente i dipartimenti e i manuali considerano ‘religioni’, ma si estende ad una quantità indefinita di fenomeni, più o meno dotati di somiglianze con essi. Uno stadio ricolmo di ‘tifosi’ può rappresentare un fenomeno altrettanto o più ‘religioso’ di fenomeni tradizionalmente definiti con questo aggettivo. Ben si sono accorte di questo carattere religioso – o, dal punto di vista di certe visioni normative, parareligioso o pseudoreligioso – dello sport nella società contemporanea persone confessionalmente e pastoralmente preoccupate. 2 Del resto, nella discutibile e discussa misura in cui si può parlare di ‘religione dei Greci’ (per riechegg iare il titolo della celebre opera di Kern 3), e nella discutibile misura in cui si può – in base al criterio delle somiglianze di famiglia – avvicinare lo sport contemporaneo ad analoghi fenomeni della Grecia antica, si impone la domanda retorica : non erano già eventi religiosi – o anche religiosi – i gio chi olimpici, istmici ecc. ? Comunque, la lista dei fenomeni ‘religiosi’ in età contemporanea è una lista aperta : che dire della celebrazione, più che della messa in scena, di certo teatro contemporaneo (analogabile o meno che esso sia con la altrettanto relig iosa celebrazione della tragedia greca, o con fenomeni ancora contemporanei come il teatro Nō giapponese, certe rappresentazioni mitico-drammatiche nei santuari scintoisti, certe danze di Bali ecc.) ? Sul carattere religioso di significative manifestazioni dell’arte contemporanea è poi inutile intrattenersi, stante ciò che da sempre, ma particolarmente da parte della filosofia romantico-idealistica, si è scritto sulla religione dell’arte (genitivo equivoco). E qui mi potrei fermare con l’esemplificazione (come ho detto, infatti, la lista è una lista aperta), se non fosse che con questi ultimi esempi temo di aver addotto esempi troppo elitari. Esiste una vasta letteratura, anche seria e da considerare seriamente, sul nesso TV-religione, Internet-religione, mercato-religione. La ‘globalizzazione’ e la ‘glocalizzazione’ presentano senza dubbio con tratti inediti il nesso mercato-religione : non solo nel senso, caro alla sociologia della religione statunitense, di considerare le religioni come prodotti a disposizione di una scelta del consumatore ; non solo nel senso che le relig ioni vecchie e nuove si avvalgono ampiamente, oggi, degli stessi strumenti che consentono a tutti gli altri prodotti di avere o incrementare il loro successo sul mercato ; ma anche nel preciso senso del mercato stesso come religione. Ma per inediti che siano i tratti della scena contemporanea, va anche
1 « Ich habe den Hauptpunkt der Auf klärung, die des Ausgangs der Menschen aus ihrer selbst verschuldeten Unmündigkeit, vorzüglich in Religionssachen gesetzt » I. Kant, Beantwortung der Frage : Was ist Aufklärung ?, in Werke, hrgs. von W. Weischedel, vol. ix, Wiesbaden, Insel, 1964, p. 60 (trad. it., N. Merker (a cura di), Che cos’è illuminismo, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 54). 2 Si veda ad esempio l’interessante articolo dedicato recentemente alla questione da « La civiltà cattolica », 153, 2002, ii, pp. 26-40 : A. Koch S.J., Lo sport come religione laica. 3 O. Kern, Die Religion der Griechen, 3 voll., Berlino, Weidmann, 1926-1938.
347 ‘ via ’ dalla ‘ religione ’ ? detto che da sempre – in Occidente come in Oriente – dove c’è il tempio c’è il mercato, e viceversa : si tratta di una costante culturale, se mai il termine ‘cultura’, in senso antropologico, ha un senso. Naturalmente si possono cacciare i mercanti dal tempio ; ma ricondurre questo gesto alla ‘relig ione’ – ricorrendo magari alla nozione di ‘carisma’ – significa ricondurlo alla dimensione culturale, e dunque al nesso tempio-mercato. La difficoltà e la mancanza di spontaneità nell’uso del termine ‘religione’, derivanti dalla consapevolezza della vicenda storica moderna a cui mi sono riferito (o forse dalla ‘malattia storica’, come la giudicheranno molti, non certo nietzscheani, ad onta dell’espressione che ho usato !) non rende il termine inservibile ; non ne vieta l’uso, ma ne raccomanda un uso prudente. Come la padronanza della lingua materna è punto di partenza e condizione di possibilità di ogni traduzione e di ogni apprendimento di altre lingue, così avvicinarsi ad altri fenomeni considerandoli religioni può rappresentare per un occidentale un modo e, in certi casi e sotto certi aspetti, anche il modo migliore per comprendere e familiarizzarsi con importanti fenomeni estranei alla propria humus di cultura. Chiaramente, il discorso si muove qui su due livelli : quello della realtà culturale e quello del linguaggio che la designa. Sicché dire ‘come ... così’, al modo in cui abbiamo fatto testé riferendoci alla lingua materna, significa qui due cose distinte, ma indisgiungibilmente connesse : da un lato l’uso linguistico di un termine, dall’altro la comprensione di un fenomeno culturale. Sotto il primo profilo, l’espressione ‘come ... così’ riferita alla lingua materna esprime un esempio (ossia un caso concreto di una situazione generale che riguarda tutto ciò che con la lingua materna si può dire ; il caso concreto è qui la parola ‘religione’) ; sotto il secondo profilo, l’espressione esprime una analogia (tra linguaggio e cultura/religione ; ed è chiaro che qui si tratta di una vera e propria ‘analogia di attribuzione’, se mai ve ne è stata una). Ma come, una volta che qualcuno abbia ben imparato una lingua a partire dalla lingua materna non ha più bisogno di tradurre la lingua appresa nella lingua di partenza, così la raggiunta comprensione di un fenomeno culturale non richiede di passare per la mediazione di fenomeni appartenenti ad altre humus. La misura della familiarità acquisita nei confronti di una lingua appresa è data proprio dalla maggiore o minore scomparsa di processi di traduzione personale, anche mentale e rapida ; inoltre la misura della familiarità effettivamente conseguita nei confronti di una lingua appresa è data dalla comprensione di quanto di intraducibile – in termini di parole e di movenze del discorso – vi sarebbe nella eventuale traduzione dalla lingua appresa alla lingua di partenza. La difficoltà e la mancanza di spontaneità conseguenti alla consapevolezza storica raccomandano dunque un uso prudente del termine ‘religione’ (peraltro la stessa raccomandazione vale nei confronti di qualsivoglia altro termine che abbia la stessa estensione denotativa, ovvero la stessa intensione connotativa : dicendo ciò non intendo negare che in certi casi possa essere bene ricorrere a diverse espressioni con la medesima intensione, o quanto meno con la medesima estensione ; ma, come vedremo ancora riferendoci proprio alla semantizzazione moderna di religione, il valore di sostituzioni siffatte è da ricercare sul piano morale o, comunque, sul piano di quella che oggi si ama chiamare political correctness). Raccomandare prudenza nell’uso del termine ‘religione’ – prudenza in quel difficile senso che esclude per ragioni teoriche la possibilità di una ricetta e affida invece a qualcosa come la phronesis o il giudizio riflettente – non significa in alcun modo dire che il termine ‘religione’ sia inservibile. In certi casi ricorrervi può essere da utile a indispensabile. Fornisco qui di seguito tre esempi-tipo.
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Da utile a indispensabile – a seconda dei casi concreti – tale ricorso può essere quando si tratti di garantire diritti di libertà, e dunque tutte le volte che tali diritti corrono il rischio di essere conculcati sotto il nome di ‘religione’ o di una ‘religione’, e tutte le volte che la rivendicazione di diritti di libertà da parte di determinati soggetti o gruppi può ottenere più facilmente successo rubricando tali diritti sotto il termine ‘religione’. Ad esempio, che il confucianesimo sia una religione è dubbio persino per i fidenti manuali istituzionali di storia delle religioni (troppi tratti che essi, ciascuno a suo modo, definiscono come pertinenti all’essenza ‘religione’ sono infatti assenti nel confucianesimo) ; tuttavia può essere utile considerarlo tale se ciò può garantire diritti di libertà a coloro che sono, sono ritenuti, si ritengono o desiderano essere confuciani. Da utile a indispensabile – a seconda dei concreti casi storici – può altresì essere il ricorso al termine ‘religione’ e alle persone e organizzazioni che si riconoscono, sono identificate o accettano di essere identificate sotto questo nome (o anche sotto questo nome) se questo ricorso può contribuire a mantenere o a ristabilire la pace. Semplificando molto, si può dire che mentre il caso precedente riguardava il rapporto dello stato con individui, questo secondo caso riguarda il rapporto degli stati fra di loro. A misura che, e nella misura in cui, il processo di differenziazione del sistema sociale (particolarmente quello occidentale, quello, vale a dire, che non a caso ha visto la formazione storica di ciò che chiamiamo ‘stato’) ha portato a distinguere il sistema (o sottosistema) ‘religione’ dal sistema (o sottosistema) ‘stato’ (o comunque dal sottosistema ‘organizzazione politica’), l’attività delle religioni per la pace può rappresentare e spesso rappresenta una risorsa esterna, che proprio grazie alla sua esternità e nella misura, volta per volta diversa, della sua esternità può mediare, sollecitare, migliorare rapporti internazionali difficoltosi. Infine, da utile a indispensabile il ricorso al termine ‘religione’ e a qualche sua concreta denotazione storica può essere, oltre che per indurre accettabili rapporti tra individuo e collettività e tra collettività diverse (rispettivamente i due casi menzionati testé), anche per indurre condizioni esistenziali accettabili per la singola persona, o per rendere accettabili le condizioni esistenziali della singola persona allorquando la realtà vissuta da costei – ovvero la realtà come vissuta da costei : quando si parla di Erlebnis le due espressioni tendono a coincidere – riesca poco o punto tollerabile alla persona medesima. Ma è evidente come tutto ciò si possa rovesciare, dando luogo letteralmente ad una katastrophé : sotto il nome di ‘religione’ e di ‘libertà religiosa’ i singoli possono inceppare la vita della collettività o farla esplodere come collettività, minandone i valori condivisi che la strutturano in quanto tale ; sotto il nome di ‘religione’ e in nome della ‘religione’ si possono muovere guerre e spingere le faglie culturali fino al clash fra di loro ; sotto il nome di ‘religione’ si possono nevrotizzare e drogare le persone (oltre che i popoli). Beninteso, la risemantizzazione moderna del termine ‘religione’ è stata in larga misura frutto di buone intenzioni, così come frutto di buone intenzioni è stato lo stesso recupero del termine ‘religione’ da parte dell’età moderna : in effetti, una volta riuscita l’operazione apologetica onde il cristianesimo era stato presentato come vera religio, il medioevo cristiano aveva parlato solo di fìdes e certo non più di religio. Le buone intenzioni che hanno determinato il recupero e la risemantizzazione di ‘religione’ erano intenzioni ireniche e intenzioni morali. Possiamo ricordare, ad esempio, uno dei primi e più impressionanti documenti dei propositi irenici, il De pace fidei (nota bene : ancora fìdei, non religionis) di Niccolò Cusano : gli orrori della battaglia di Co
349 ‘ via ’ dalla ‘ religione ’ ? stantinopoli, a cui il Cusano aveva assistito, lo inducono ad elaborare, attraverso inedite analisi concettuali e tormentate innovazioni semantiche, uno straordinario sforzo teorico e pratico di identificazione e perseguimento della religio una in rituum varietate. 1 Se questo esempio può riuscire particolarmente suggestivo nel quadro di una riflessione sul rapporto tra l’Occidente e le altre realtà culturali, come quella che è sollecitata dal presente numero di « Paradigmi », un secondo esempio – e, soprattutto, un secondo tipo di esempio, in quanto interno, questa volta, all’Occidente e sua interna lacerazione – può essere ricordato per documentare le buone intenzioni ireniche che hanno animato la categorizzazione moderna della ‘religione’ : uno dei contributi più efficaci in que sto senso è stato infatti il principio giuridico che tra pace di Augusta e pace di Westfalia si è venuto elaborando sotto il nome cuius regio eius religio. 2 L’uso politico-giuridico del termine religio è non meno importante per la categorizzazione della ‘religione’ dell’uso teorico-scientifico, con il quale peraltro si trova talora in rapporto. Questa ultima osservazione introduce al terzo tipo di esempio che va addotto per illustrare le buone intenzioni che hanno animato la moderna elaborazione della categoria ‘religione’. Le intenzioni in questo caso non sono necessariamente ireniche, anzi spesso sono dichiaratamente critiche e polemiche ; ma si tratta comunque di intenzioni in ogni senso morali e moralistiche : l’Encyclopédie fa seguire alla voce ‘Religione’, graficamente evidenziata come per tutti i termini esponenti, l’aggettivo ‘naturale’ e si premura di far seguire immediatamente, come si conviene ad un dizionario enciclopedico, i sinonimi : « on l’appelle aussi morale ou éthique ». 3 In effetti, sotto il profilo delle buone intenzioni non c’è soluzione di continuità, nella categorizzazione moderna della religione, tra gli sforzi teorici intesi a trovare un’essenza ‘religione’ valida ancor prima delle sue concrete forme storiche, o solo indipendentemente dalle aggiunte storiche, e quelli intesi a trovarne un’essenza psico-sociale, ovvero storico-naturale (‘Storia naturale della religione’ è un titolo ricorrente nella modernità, da Hume a Trenchard) da cui liberarsi. Salvezza mediante la religione o sal vezza dalla religione ? Liberazione mediante la religione o liberazione dalla religione ? Ma qui – in conclusione, anche in conclusione – prescindo (in un certo senso) dalla questione ‘salvezza’-’liberazione’ (ovvero ‘Occidente’-’Oriente’) ; l’alternativa infatti concerne la religione, e la questione salvezza-liberazione solo qualifica ulteriormente tale alternativa, quando i giochi sono fatti e l’alternativa medesima è posta (per questo ho dato al mio contributo un titolo aporetico, equivoco e forse irritante, ma che non sta al gioco). L’alternativa invece è meno accettabile di quanto possa apparire, e in qualche modo è una apparenza, sebbene tale apparenza, tale Schein, sia il modo concretissimo e talora sanguinoso in cui si manifestano le buone intenzioni. L’alternativa, in effetti, più che radicale, è speculare e i Menaechmi sono animati dall’identica intenzione : dalle buone intenzioni. Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno. Questa tuttavia non è in nessun senso una ‘buona’ ragione per non nutrire buone intenzioni ; dove però ‘nutrirle’ signi
1 Nicolaus Cusanus, De pace fìdei (1453), in Opera omnia, a cura di R. Klibansky e H. Bascour, Hamburg, Meiner, 1970, vol. vii. 2 Cfr. M. Heckel, Staat und Kirche nach den Lehren der evangelischen Juristen Deutschlands in den ersten Hälfte des 17. Jahrhunderts, München, Claudius, 1968. 3 Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des arts et des métiers (1765), rist. an. Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1967, ad vocem (la voce è redatta dallo stesso Diderot).
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fica, in primo luogo (con qualche ossimoro, ma tutto sommato non troppo controintuitivamente) vagliarle criticamente e – ancora una volta apparentemente – senza pietà. I modi, le tecniche, i metodi, ovvero le ‘vie’ di questo vaglio apparentemente sfornito di pietà sono forse infinite, come si dice che siano le vie del Signore (né sono in primo luogo teoriche), né è da escludere che il vaglio, apparendo contrario alla pietà, provochi l’indignazione di chi esclama ‘non c’è più religione !’. Dopo tutto la storia, ancor più che calpestamento di fiori innocenti – secondo l’immagine hegeliana – è disconoscimento ed esecuzione di giusti. Affinché il giusto non venga giustiziato, le vie del vaglio critico vanno intraprese sempre di nuovo. In quanto tali vie siano vie teoriche (vale a dire frutto di quella particolare pratica che è la teoria), esse sono di competenza di qualcosa come la ‘filosofia morale’ o l’‘etica’, e non della ‘filosofia della religione’. Per quanto forti possano essere le ragioni che in linea di fatto inducono a parlare di un’ ‘etica laica’, che si contrapporrebbe dunque ad un’‘etica religiosa’, in linea di principio una distinzione siffatta non rende giustizia all’etica.
LA COMUNITÀ DELLE MENTI COME PROBLEMA DELLA FILOSOFIA MODERNA* 1
Alla memoria di Patrizia Armandi, che mi fece l’onore di assistere a questo seminario. Confidando nella comunità delle menti.
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L
a questione che intendo affrontare in questo scritto e che è enunciata nel titolo rappresenta una medaglia analizzabile solo guardando in modo alternante all’una o all’altra delle sue due facce : la storia delle parole, da un lato, e la storia delle idee o dei concetti, dall’altro. Ciò dicendo, non faccio differenza tra « storia delle idee » o « dei concetti », perché, utilizzando in apertura di discorso tali espressioni, non mi riferisco tanto alle discipline a cui storicamente sono stati dati nomi siffatti (originariamente e rispettivamente history of ideas e Begriffsgeschichte), quanto, e più semplicemente, alla necessità che l’attenzione venga portata, alternativamente, sul significante – vale a dire le parole e la loro storia – o sul significato, vale a dire le idee, o i concetti, e la loro storia. Pur essendo le due storie indissolubilmente connesse, la storia delle idee, o dei concetti, non coincide con la storia delle parole mediante cui tali idee o concetti vengono significati ; infatti la medesima parola può permanere nel tempo, epperò cambiare la sua intensione semantica, e per converso il medesimo concetto può permanere nel tempo, venendo però connotato da parole diverse. Non sarebbe stato il caso di fare queste sommarie ed ovvie osservazioni introduttive – tanto più nella cornice dell’iliesi, con i suoi tanti anni di elaborazione teorica e metodologica e con la stessa denominazione dell’Istituto, la quale anche nel nome esplicita, ormai, e l’uno e l’altro aspetto dell’unica medaglia : lessico e idee – se non fosse che, per quanto riguarda la questione della comunità delle menti, la doppia faccia della medaglia possiede un significato davvero introduttivo alla sostanza teorica della questione e al contesto storico in cui siffatta sostanza teorica ha potuto configurarsi. Infatti la comunità delle menti – se l’inusitata espressione italiana « comunità delle menti » ha un qualche significato di linguaggio ordinario – è una ‘comunità’ in cui i soggetti che la compongono ‘comunicano’, sì, tra loro (senza di che in italiano non parleremmo di « comunità ») e tuttavia, essendo menti, e non corpi, dovrebbero comunicare per mera trasmissione di idee, o meglio per mera visione di idee (« idea » etimologicamente essendo ciò che appunto si vede con gli occhi della mente), senza aver bisogno di ricorrere al medium linguistico come veicolo delle idee incarnate nelle corrispondenti parole (ma forse anche senza la possibilità di nascondere le idee dietro il silenzio o dietro parole ingannatrici ; di questo però non tratterò qui se non per cenni e tra parentesi). Come si vede, il problema della comunità delle menti è un problema essenzialmente moderno, giacché implica la costituzione di quella che con Hegel chiamerò la « filosofia
* Per una storia del concetto di mente, a cura di Eugenio Canone, Firenze, Olschki, 2005, pp. 343-61.
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della soggettività finita » – o « filosofia della riflessione della soggettività » – e la conseguente configurazione del problema dell’intersoggettività. È noto quanto nel Medioevo si sia teorizzato sulle lingue degli angeli. 1 In un certo senso, più che nel Medioevo, si potrebbe dire da San Paolo 2 a Hamann 3 almeno ; tuttavia vale la pena di nominare qualcosa come un iato e un intervallo – un Evo di mezzo – affinché risultino evidenziate la natura e la nascita « moderne » della questione che qui intendo discutere e che potremmo collocare nell’ambito semantico del termine « intersoggettività », cioè in un ambito che presuppone la risemantizzazione del termine subjectum in senso moderno. Il termine « intersoggettività » appartiene originariamente al lessico husserliano, anche se successivamente tale termine è divenuto moneta corrente e inflazionata. Tanto la sua insorgenza come termine tecnico, quanto la sua inflazione e il suo passaggio ad un uso di linguaggio ordinario sono sintomi dei problemi creati dalla filosofia della soggettività finita : non a caso Husserl comincia a parlare di « intersoggettività » e a porsi il problema connotato da questo termine a seguito della nuova comprensione e riformulazione del proprio programma fenomenologico in termini di filosofia « trascendentale » ; del pari, non a caso la prima tematizzazione pubblica del problema dell’intersoggettività da parte di Husserl ha luogo allorquando le circostanze lo inducono ad esplicitare l’appartenenza e l’ascendenza storica del progetto fenomenologico riformulato in senso trascendentale (comunque si debba intendere il rapporto tra cartesianismo e trascendentalismo nella fenomenologia husserliana), vale a dire in quelle conferenze che meno occasionalmente di quanto spesso si creda sono state intitolate Meditazioni cartesiane. Non è questa la sede per ripercorrere le vicende che, dal cogito pensato come sostanza qua nihil facilius a me percipi potest (come mi verrebbe fatto di chiosare), alla leibniziana aperception, alla desostanzializzazione dell’« io penso » nella transzendentale Apperception e oltre, hanno caratterizzato la filosofia moderna della soggettività finita ; ma è certo che la separazione cartesiana tra res cogitans declinata alla prima persona e res extensa ha dato luogo a seri problemi, per non dire a vere e proprie aporie di comunicazione tra le singole e personali res cogitantes; aporie miracolosamente evitate solo grazie a quella straordinaria comunicazione a senso unico, onde a titolo originario il Dio cartesiano provvede dell’idea stessa dell’infinito le res cogitantes; finite. Di tali problemi ed aporie – che l’occasionalismo ha affrontato con severità ed ostinazione oggi largamente dimenticate 4 – ancora la filosofia contemporanea cerca di venire a capo. Si può dire, anzi, che il proposito di venire a capo di questi problemi rappresenti in larga misura lo stesso programma qualificante della filosofia contemporanea, sia che
1 Da ultimo se ne è occupata egregiamente T. Suarez-Nani, Connaissance et langage des anges, Paris 2003 ; ma per gli aspetti teorici che caratterizzano la comunicazione linguistica in e tra diversi sistemi ontologici (Dio, angeli, uomini) è il caso di ricordare H. Parrei, La voix humaine, ‘vox quae scribi potest’, in Religione, Parola, Scrittura, a cura di Marco M. Olivetti, Padova 1992, pp. 37-48. 2 (I Cor. 13,1). 3 « Reden ist übersetzen, aus einer Engelsprache in eine Menschensprache, das heist, Gedanken in Worte – Sachen in Namen, – Bilder in Zeichen », Aesthetica in nuce, in Joh. G. Hamann, Sämtliche Werke, hrsg. von J. Nadler, Wien 1949-1957 ; Wuppertal 1999, Bd. 2, p. 199. 4 Poiché in questo lavoro toccherò in apicibus il paradigma Descartes–Leibniz–Kant, non mi soffermerò, oltre che su una quantità di altri autori, neanche su Malebranche, il cui rilievo teorico e storico (anche rispetto al Leibniz che prenderemo in considerazione) non può tuttavia non essere ricordato. Per tutto l’occasionalismo mi limito a rinviare agli importanti lavori di R. Specht (ad es. Commercium mentis et corporis. Über kausale Vorstellungen im Cartesiamsmus, Stuttgart-Bad Cannstatt 1966).
la comunità delle menti come problema della filosofia moderna 353 l’attuazione del proposito venga intrapresa con la convinzione e l’intento di portare a compimento la modernità filosofica – ovvero ciò che in senso filosofico può essere legittimamente e tecnicamente qualificato come « moderno » – sia che l’attuazione del proposito venga intrapresa in termini che ormai si suole chiamare « postmoderni ». Dell’una e dell’altra direzione di sviluppo dei tentativi contemporanei di superamento delle aporie comunicative della filosofia ‘moderna’ come filosofia della soggettività finita possono costituire un esempio esemplare, rispettivamente, la Transformation der Philosophie che secondo K.-O. Apel andrebbe attuata mediante una rigenerazione della kantiana « sintesi dell’appercezione » in una, peraltro non meno trascendentale, « sintesi della comunicazione », 1 da un lato, e dall’altro lato il « rovesciamento dell’appercezione trascendentale », che secondo Levinas si imporrebbe a partire dall’« epifania » (anziché dal fenomeno) dell’altro. 2 Inutile dire che tanto l’una quanto l’altra direzione tematizzano, ciascuna a suo modo, la dimensione del linguaggio come quella in cui si incarna – è ben il caso di dire – il superamento delle aporie della filosofia della soggettività finita. E ciò dovrebbe richiamarci a quanto osservavo in apertura circa il significato peculiare, in qualche modo reduplicato, che la questione parole-idee, con relative storie, mostra di avere quando venga riferita alla questione della comunità delle menti (dischiudendo, torno a dire tra parentesi, il problema delle condizioni di pensabilità della deceptio o, come oggi i teorici dell’etica comunicativa amano dire, dell’« agire strategico ». Per tenerci agli esempi sopra menzionati : è significativo che un pensatore assolutamente ‘secolare’ come Apel abbia sin dall’inizio dato rilievo alla figura teorica del diavolo, asserendo la necessaria presupposizione della verità alla menzogna e la subordinazione logica della seconda alla prima ; 3 così come è significativo che un postfenomenologo come Levinas abbia ripetutamente fatto riferimento alla figura di Gige, il veggente non visto. 4 Non è un caso che la questione del deceptor nescio quis e della possibile natura di tale deceptor sia anch’essa all’origine della moderna filosofia della soggettività finita. Dovrebbe inoltre costituire motivo di seria riflessione il fatto che il tema della deceptio sia fin dall’inizio associato a quello del sonno/veglia : « quamvis sempre dormiam, quamvis etiam is, qui me creavit, me deludat » ; 5 infatti, come vedremo, il problema della comunicazione con le menti viene posto da Kant fin dall’inizio in termini di veglia/sonno. Anche qui, poi, è possibile trovare una continuità tematica e una derivazione storica in Levinas : il suo rovesciamento dell’appercezione trascendentale nell’epifania dell’altro sì traduce infatti in una ripresa del tema cartesiano della veglia, riformulato tuttavia in termini di éveil trascendente-intersoggettivo di una coscienza altrimenti « ebbra »). 6 Avendo evocato due macroscopici orientamenti che caratterizzano oggi lo scenario filosofico internazionale, mi sia consentito infine di aggiungere a questo scenario introduttivo il ricordo di un filone poco conosciuto e riconosciuto della riflessione con
1
Fin dai saggi raccolti in Transformation der Philosophie, 2 voll. Frankfurt a.M. 1973. Per una trattazione più analitica di tale rovesciamento sia consentito rinviare al mio Analogia del sogget3 Transformation der Philosophie, cit., passim. to, Roma-Bari 1992, pp. 73-97. 4 Totalité et infini, La Haye 1961, p. 148 e passim. 5 AT vii 28-29 24-2 (AT = (Oeuvres de Descartes, publiées par Ch. Adam et P. Tannery, rist. Paris 1996, 11 voll.). Sulla pensabilità della deceptio nel quadro della potentia Dei absoluta cfr. T. Gregory, Dio ingannatore e genio maligno. Note in margine alle ‘Meditationes’ di Descartes, « Giornale critico della filosofia italiana », liii (lv), 1974, pp. 477-516 e Id., La tromperie divine, « Studi medievali », xxiii, 1982, pp. 517–527. 6 Si vedano, ad es. i saggi De la conscience a la veille e Dieu et la philosopbie in De Dieu qui vient a l’idèe, Paris 1982, pp. 34-61 e 93-127. 2
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temporanea sull’intersoggettività e sulla comunicazione intersoggettiva quali problemi conseguenti alla moderna filosofia della soggettività finita : quello che in Italia, attraverso la ricezione del leibnizianesimo di Lotze da parte di Bonatelli (si ricorderà la sua traduzione di Microcosmo), 1 passa per Varisco (sotto il nome di « interferenza » nel « plu ralismo » dei soggetti) 2 e giunge sino a Castelli, con la sua comprensione della filosofia moderna come corsa precipite verso il solipsismo (incluso quello che per Castelli è il « solipsismo teologico » di Leibniz) 3 e con la sua comprensione ironica del linguaggio nel rapporto di quest’ultimo col pensiero. 4
2. Con l’espressione « comunità delle menti » – non rinvenibile, per quanto mi risulta, nei testi della tradizione filosofica moderna scritti o tradotti in italiano – intendo richiamare una famiglia di nomi i cui esemplari popolano il lessico della filosofia moderna : si va – per ricordare solo qualche esempio – dall’assemblage de tous les esprits della Monadologia leibniziana all’ethische gemeine Wesen della Religione kantiana, al Geisterreich schilleriano e hegeliano fino alla société spirituelle di Laberthonnière o – ben più notoriamente – alla monadologische Intersubjektivität husserliana. Parlo di una ‘famiglia’ di espressioni perché mi sembra più corretto ricondurre la generalizzazione operata con il sintagma « comunità delle menti » alla ormai classica idea wittgensteiniana delle « somiglianze di famiglia » – oltre tutto evocando così generazione, rigenerazione e traduzione – piuttosto che ad una aristotelizzante idea di astrazione dalle « differenze specifiche », incapace di rendere giustizia alla dinamica storica delle idee e delle parole che le significano. Come vedremo appresso parlando di Leibniz e di Kant, non solo in uno stesso autore, ma in una stessa opera del medesimo autore e a distanza di poche righe fioriscono espressioni e immagini diverse per connotare questo concetto che, a quanto pare, è linguisticamente assai ispirante : « città », « società », « comunità », « popolo », « monarchia », « regno », « repubblica », « chiesa » ecc. Le specificazioni del sostantivo volta per volta usato esplicitano spesso ciò che nel caso dell’ultimo termine ora ricordato – « chiesa » – è già detto a livello di sostantivo, e cioè una connotazione decisamente relig iosa di cui tende a caricarsi il concetto che così si vuole esprimere. In effetti, non poche delle immagini ed espressioni ricordate possono essere ricondotte a quelle « metamorfosi della città di Dio » su cui Gilson scrisse un libro ; 5 per quanto riguarda specificamente la cosiddetta «filosofia classica tedesca» – che questo concetto ha nutrito, vagheggiato e teorizzato all’estremo, con l’intento di concludere e superare la « filosofia della soggettività finita » – non poco, oltre a quanto già è stato scritto, vi sarebbe ancora da indagare
1 Pavia, 1911. Bonatelli tradusse il primo volume dell’opera. Il secondo fu poi tradotto da G. Capone Braga, ivi 1916. 2 Cfr. M. M. Olivetti, Varisco e il teismo, in Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, a cura di M. Ferrari, Chiari 1985, pp. 279-285. 3 Già in Idealismo e solipsismo, Roma 1933 e poi ancora in I presupposti di una teologia della storia, Milano 1952. 4 Per evitare che il linguaggio si faccia giocare dal pensiero, Castelli dà luogo non solo a giochi di parole e chiasmi ironici, ma anche ad una filosofia in stile letterario che giunge, in Introduzione alla vita delle parole (con lo pseudonimo di D. Reiter), Milano 1938, a immaginare le parole stesse come soggetti indipendenti che si parlano e si richiamano fra loro. 5 E. Gilson, Les métamorphoses de la cité de Dieu, Louvain-Paris, 1952.
la comunità delle menti come problema della filosofia moderna 355 a proposito di Fichte, in particolare il Fichte della dottrina della scienza nova methodo e il Fichte delle lezioni sulla filosofia della massoneria, opere che per ragioni diverse sono rimaste ampiamente fuori circolo nella pur amplissima ricezione della filosofia classica tedesca. Qui però non intendo soffermarmi direttamente sulle espressioni religiose che, attingendo prevalentemente al lessico biblico e cristiano, vengono utilizzate dalla filosofia moderna per esprimere il concetto che io ho espresso con il sintagma « comunità delle menti » (da « popolo di Dio » fino a « corpo mistico » : entrambe queste espressioni sono utilizzate, ad esempio, da Kant stesso), 1 né intendo affrontare l’interrogativo se queste utilizzazioni rappresentino, volta per volta o complessivamente, una professione di appartenenza o un residuo abitudinale o una ‘secolarizzazione’ linguistica (come si è ritenuto di poter dire in casi analoghi). 2 Piuttosto suggerisco di rovesciare il problema, chiedendosi come si semantizzi e volta per volta si ri-semantizzi – in termini piani : che significa, che vuol dire – la parola « Dio » (o qualsivoglia altra parola o espressione del lessico normalmente qualificato come « religioso ») e di conseguenza quale « definizione » del termine o « descrizione » del concetto da esso connotato vada data nel contesto delle esigenze teoriche poste dalla filosofia della soggettività finita e, specificamente, dal problema della comunità delle menti. Quanto vedremo tra poco a proposito di Leibniz e Kant potrà fornire ampia occasione per riflessioni del genere. Ma prima debbo ancora rendere ragione della scelta dell’espressione « comunità delle menti » come denominatore comune dell’intera famiglia di espressioni della filosofia moderna sopra evocata. Non credo che il primo termine del sintagma – « comunità » – susciti particolari difficoltà. Anzi, la scelta può apparire anche più ovvia di quanto non sia. Non ho nessuna intenzione di differenziare qui la semantica di « comunità » da quella di « società » (come accade nella anche troppo for tunata diade Gemeinschaft-Gesellschaft di Tönnies), dacché gli autori in questione, come già abbiamo visto, non fanno tale distinzione ; ho scelto invece di privilegiare il termine « comunità » non solo in ragione dell’ampio riferimento a Kant che sostanzierà e concluderà la successiva parte delle mie considerazioni, ma anche perché considero una risorsa, sia sotto il profilo storico, sia sotto quello teorico, il fatto che al termine romanzo « comunità » corrisponda nei testi kantiani, a seconda dei casi, tanto Gemeinschaft quan to gemernes Wesen : il primo termine con valenze categoriali (vedremo la sua ulteriore corrispondenza con Wechselwirkung, da un lato, e con l’unità dell’appercezione dall’altro), il secondo con valenze, diciamo così, politiche (che non escludono però né quelle categoriali, né quelle noumeniche e, anzi, le presuppongono). A questo proposito va ancora notato che il kantiano gemeine Wesen è il calco tedesco del latino res publica : calco sicuramente consapevole e intenzionale da parte di Kant (come è dimostrato ad esempio dal fatto che nel tardo Conflitto delle facoltà egli fa esplicitamente corrispondere tra parentesi il termine tecnico respublica noumenon a das gemeine Wesen « concepito come ideale platonico »). 3 Su questo aspetto lessicale non mi sembra si sia riflettuto, mentre esso è di fondamentale rilievo, sia storico (ad esempio, rispetto alla monarchie véritablement universelle della Monadologia), sia teorico (si consideri, ad esempio, la differenza tra
1 Rispettivamente : Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, cap. iii e Kritik der reinen Vernunft, B 836, A 808 (A e B, seguite dal numero di pagina, indicano la prima e la seconda edizione degli scritti di Kant cui si fa riferimento). 2 A. Schöne, Säkularisation als sprachbildende Kraft. Studien zur Dichtung deutscher Pfarrersöhne, Göttingen 3 Der Streil der Fakultäten in drei Abschnitten, A 156. 1958.
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la sopra menzionata respublica noumenon e lo ethische gemeine Wesen, che Kant distingue dal politische gemeine Wesen). Se dunque l’utilizzazione del temine « comunità » può sembrare anche troppo ovvia, qualche osservazione in più si richiede per rendere conto del termine « menti » quale suo complemento di specificazione. Non v’è dubbio che il tema della serie di seminarii organizzata dall’ILIESI abbia rappresentato per me la causa occasionalis della scelta del termine, così come l’ha rappresentata per la scelta dell’argomento storico al quale dedicare qui la mia attenzione. Ma così come l’argomento non è, né per me né in sé, un argomento d’occasione, rappresentando invece uno dei massimi problemi posti e lasciati aperti dalla filosofia moderna, altrettanto il termine scelto – « mente » – sta all’origine di decisive vicende lessicali della moderna filosofia della soggettività. In proposito possiede un valore emblematico la ii Meditazione di Cartesio De natura mentis humanae : quod ipsa sit notior quam corpus. Se già i corpi vengono percepiti non perché si tocchino o si vedano, ma solo perché intelligantur mercé la solius mentis inspectio, nulla – afferma Cartesio – « facilius aut evidentius mea mente po[test] a me percipi ». 1 Come è noto, in questo contesto il termine mens compare, in una lunga serie metonimica, come la prima delle equivalenze per res cogitans : « res cogitans, id est, mens, siue animus, siue intellectus, siue ratio, voces mihi prius significationis ignotae ». 2 Lasciando da parte in larga misura intellectus e del tutto ratio che avranno loro proprie vicende, due osservazioni vanno fatte su queste equivalenze semantiche. Prima osservazione : Cartesio stesso abbandona animus-anima in favore di mens nelle Rationes aggiunte alle risposte alle seconde Obiezioni e così motiva la sostituzione terminologica in una lettera a Mersenne del 1641 : « Anima en bon latin signifie aérem, siue oris alitum : d’où je crois qu’il a été transféré ad significandam Mentem et c’est pour cela que fai dit que saepe sumitur prò re corporea ». 3 La seconda osservazione riguarda l’equivalenza mens-esprit riscontrabile già nella traduzione francese delle Meditazioni. In proposito scelgo un passo della iii Meditazione : « Sed mihi persuasi nihil piane esse in mundo, nullum coelum, nullam terram, nullas mentes, nulla corpora », 4 che in francese suona : « je me suis persuade qu’il n’y avoit rien du tout dans le monde, qu’il n’y avoit aucun ciel, aucune terre, aucuns esprits, ny aucuns corps ». 5 Scelgo di citare da questa Meditazione perché essa, estendendo per la prima volta anche alle menti il dubbio iperbolico, rende esplicito il carattere problematico della loro comunicazione e della loro comunità, con una minaccia solipsistica che, grazie a Dio (ossia alla soggettività infinita), viene poi scongiurata : « si realitas objectiva alicujus ex meis ideis sit tanta ut certus sim eandem nec formaliter nec eminenter in me esse, nec proinde me ipsum ejus ideae causam esse posse, hinc necessario sequi, non me solum esse in mundo, sed aliquam aliam rem, quae istius ideae est causa, existere ». 6 Le due osservazioni valgono, sia sotto il profilo della storia del lessico sia sotto il
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2 AT vii 34 3-6. AT vii 27 13-15. AT iii 362. In uno scritto Sul concetto spinoziano di mens, apparso in uno dei primi volumi pubblicati nella collana del « Lessico Intellettuale Europeo », E. Giancotti Boscherini notava in proposito : « mentre Descartes preferisce ai termine di anima quello di mens per sottolineare l’incorporeità di tale principio e per dimostrarne la separabilità dal corpo ; Spinoza, d’accordo sull’incorporeità della mens, ne sottolinea al contrario l’inseparabilità di essa dal corpo » (G. Crapulli, E. Giancotti boscherini, Ricerche lessicali su 4 AT vii 25 2-4. opere di Descartes e Spinoza, Roma 1969, p. 157). 5 6 AT xi-1 19. AT vii 42 18-24. 3
la comunità delle menti come problema della filosofia moderna 357 profilo della storia delle idee (concetti e teorie), a legittimare l’utilizzazione del sintagma « comunità delle menti » come nome per il problema posto e lasciato aperto dalla moderna filosofia della soggettività finita. Il prosieguo delle vicende storiche corrobora sotto i due profili l’unità del problema. Concentro lo sguardo su Leibniz e Kant perché tale concentrazione permette di mostrare la continuità e la compattezza storica del problema in questione. Compattezza e continuità che non sono attenuate, bensì, come vedremo subito, esaltate dalle discontinuità teoriche e dalle prese di distanza critica con cui pensatori fortemente caratterizzati si rapportano ai propri predecessori.
3. « Entre autres differences qu’il y a entre les Âmes ordinaires et les Esprits il y a encore celle-ci : que les Âmes en général sont des miroirs vivans ou images de l’univers des creatures, mais que les Esprits sont encore des images de la Divinité même ». 1 Questa citazione dal § 83 della Monadologia possiede un valore emblematico in relazione alla questione che stiamo qui trattando. Nel passo citato sono infatti compresenti vari, importanti aspetti. In primo luogo, esso documenta una differenziazione semantica ormai fortemente consolidata di âme e esprit : differenziazione tanto più significativa in quanto essa rimane ferma nonostante la critica leibniziana a Cartesio e ai cartesiani per la loro comprensione di « ce qu’on appelle ‘perception’, qu’on doit distinguer de l’apperception ou de la conscience [...]. C’est aussi ce qui les a fait croire que les seuls Esprits etoient des Monades ». 2 Anzi, come si vede, non solo la differenziazione rimane ferma, ma la distinzione risulta rinforzata dai nuovi e diversi contenuti concettuali e teorici di cui viene caricata la semantica di âme, esplicitati appunto dalle critiche ai cartesiani rimasti nel « prejugé scholastique des âmes entièrement separées » e così responsabili di aver « même confirmé les esprits mal tournés dans l’opinion de la mortalité des âmes ». 3 Quanto le vicende semantiche e teoriche di âme abbiano contribuito, direttamente e mediatamente, alla messa in questione della psicologia razionale e alla trascendentalizzazione dell’appercezione da parte di Kant non può essere qui oggetto di indagine. Ma certo, se mai dovesse essere addotto un documento della connessione e dell’intreccio, epperò anche della non specularità tra le reciproche variazioni di storia delle parole e storia dei concetti, le vicende a cui qui faccio riferimento riuscirebbero massimamente significative. Anche solo ciò che abbiamo potuto vedere qui confrontando Cartesio e Leibniz (rafforzamento della differenziazione semantica, non ad onta, bensì grazie al sostituirsi di una teoria metafisica continuista ad una teoria metafisica dualista) e quanto ancora avremo modo di vedere confrontando Leibniz e Kant costituisce in merito una documentazione di rara eloquenza. Ma prima di considerare tematicamente l’aspetto concettuale della comunità delle menti in Leibniz – di cui la citazione emblematica del § 83 della Monadologia fornisce il presupposto – e prima di vedere il modo in cui Kant si confronta con Leibniz in proposito, va rilevato ancora un secondo aspetto di natura lessicale, anche del quale la
1 Per le ragioni di comparazione lessicale che intessono queste mie considerazioni sulla storia di un problema nella quale è impossibile trattare esclusivamente o della trama concettuale o dell’ordito linguistico, citerò la Monadologia nell’edizione A. Lamarra, R. Palaia, P. Pimpinella, Le prime edizioni della ‘Monadologie’ di Leibniz (1720-1721). Introduzione storico-critica, sinossi dei testi, concordanze contrastive, Firenze 2001 ; il testo citato è a p. 184 di questa edizione. 2 3 Mon. § 14 ; nell’ed. cit., p. 150. Ed. cit., pp. 150-151.
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citazione in esame è documento : intendo il consolidarsi dell’uso di esprits in ragione dell’assenza di una prosecuzione di mens nel francese, lingua volgare veicolare per la cultura di quel tempo. Al pari del francese, 1 il tedesco non possiede un calco del latino mens. Sicché le mentes, già divenute esprits, non potevano divenire altro, nella ricezione tedesca del pensiero leibniziano, che Geister. Non solo però col risultato che questo accade, ad esempio e del tutto ovviamente, nella traduzione tedesca della Monadologia del 1720 a cura di H. Köhler, 2 ma anche con il risultato che nella traduzione della Monadologia dal volgare al latino (traduzione anonima del 1721 che il citato volume dell’ILIESI consente di ricondurre a Chr. Wolff ) 3 Esprits/Geister diventa ormai non più mentes, bensì spiritus (ad esempio, così suona l’originario § 83, divenuto § 86 nella traduzione latina : « Inter alias differentias, quae inter animas ordinarias et spiritus intercedunt »). 4 Se si tiene presente che il testo originale in francese della Monadologia fu pubblicato solo nel 1840 (negli Opera omnia curati da J. E. Erdmann),5 si può capire come Geister e spiritus siano i termini acquisiti e rilanciati dalla cosiddetta ‘filosofia classica tedesca’ e dalle sue influenti riconfigurazioni della leibniziana Cité de Dieu composta dall’assemblage de tous les Esprits (ovvero, secondo le traduzioni allora circolanti, Zusammennehmung aller Geister e omnes spiritus simul sumptos). 6 Della quale Cité de Dieu la distinzione concettuale espressa con la differenziazione di esprit da âme rappresenta, come dicevo, il presupposto stesso. Se infatti « les esprits sont capables d’entrer dans une Manière de Société avec Dieu », ciò dipende – spiega Leibniz – dal fatto che gli spiriti, oltre che specchi viventi dell’universo delle creature, come le anime, sono immag ini della divinità stessa. Da ciò tutta una serie di conclusioni ben note che – si può davvero dire, anche in senso tecnico – ‘chiudono in gloria’ la Monadologia e che, come vedremo ora brevemente, rappresenteranno, una per una e nel loro assieme sistematico, altrettanti punti di ripresa, di ripensamento, di continuo e tormentato confronto critico da parte di Kant : mondo naturale e mondo morale (rappresentato appunto dalla comunità delle menti : « Cette cité de Dieu [...] est un Monde Moral dans le Monde Naturel [...] et c’est en lui que consiste veritablement la gioire de Dieu »), 7 e dunque cause efficienti e cause finali, e dunque Dio come architetto e Dio come leg islatore, e dunque questione della teodicea e della retribuzione – felicità e pene – in relazione agli attributi divini, particolarmente a quelli morali. In effetti, se la conclusione gloriosa e culminante della Monadologia è come non mai rappresentativa del continuismo metafisico e sistematico del pensiero di Leibniz – e se la Monadologia stessa rappresenta in qualche modo la conclusione unificante, ascendente e riassuntiva di un pensiero sparpagliato in una quantità di scritti prospettici : un po’
1 E diversamente dall’inglese, in cui infatti col titolo di Phenomenology of Mind verrà tradotta da B. Baillie (London 1910) l’opera hegeliana che si conclude con la visione della coppa di spumante Geisterreich. (Geisterreich peraltro cancellato terminologicamente dalla traduzione dei versi finali : « This chalice of God’s plenitude / yields foaming his infìnitude » ; così invece nella successiva traduzione inglese dell’opera hegeliana, col titolo di Phenomenology of Spirit, a cura di A. V. Miller, Oxford, 1977 : « from the chalice of this realm of spirits / foams forth for him his own infinitude », con la perdita solo della valenza politica del termine Reich, la quale, invece, come si vedrà ancora, fa parte del problema). 2 Apparsa in una raccolta di scritti leibniziani intitolata Lehr-Sätze über die Monadologie, ingleichen von Gott ecc. ; il testo della Monadologia è riportato nella edizione citata. 3 Vedasi nell’edizione citata il premesso studio di A. Lamarra, Le traduzioni settecentesche della Monado4 Ed. cit., p. 184. logie. Christian Wolff e la prima ricezione di Leibniz, pp. 1-117. 5 6 Berlino, 1840, rist. anast. Aalen 1959. Ed. cit., p. 185. 7 Mon. § 86 ; ed. cit., pp. 185-186.
la comunità delle menti come problema della filosofia moderna 359 come Dio e le monadi ; né questa è mera metafora – essa Monadologia può essere anche considerata come un discorso unitario che, invece, nel riscontro e nel riecheggiamento da parte di Kant si diffrange e si disarticola, tanto tematicamente, quanto sistematicamente, quanto, infine, geneticamente, ovvero eundo. Ho sostenuto altrove la tesi di un processo di differenziazione progressiva del programma critico-trascendentale di Kant nelle opere in cui via via esso si è realizzato : opere fuori programma, non previste come opere a sé o non previste del tutto dal Canone della Critica della ragion pura. 1 Di tale programma critico–trascendentale la comunità delle menti – la comunità intelligibile, l’« insieme sistematico » (systematische Verbindung) dei membri del « mondo intelligibile » (Verstandeswelt, intellektuelle Welt, intelligibele Welt, ma anche – ciò che qui risulta interessante ed interpretativo delle precedenti espressioni – Welt der Intelligenzen) 2 di questo programma critico-trascendentale, dicevo, la comunità intelligibile – « regno dei fini » o « comunità etica » – rappresenta à la Leibniz il culmine. E tuttavia, a sofferta differenza da Leibniz, questo culmine si articola, o si infrange, in varie discontinuità : tra mondo naturale e mondo morale, tra fenomeno e noumeno, tra certezza (conoscitiva e/o morale) e fede-speranza di ragione. 3 Sicché la stessa unificazione di mondo naturale e mondo morale è solo oggetto di speranza, proiettata nella dimensione della terza domanda in cui si articola il programma critico kantiano, was darf ich hoffen ? (« cosa mi è lecito sperare ? », ma anche « cosa non posso non sperare ? »). 4 Di conseguenza anche la funzione di Dio nella comunità delle menti o, come sarebbe più corretto dire, la maniera in cui si semantizza il termine « Dio » nel contesto concettuale della comunità delle menti è almeno tanto diversa da quella del capo della città spirituale leibniziana (nonostante la ripresa da parte di Kant di tutta una serie di attributi del Dio leibniziano e della corrispettiva terminologia : in particolare, come vedremo, législateur/Gesetzgeber) quanto la funzione teorica di quest’ultimo lo è da quella del Dio cartesiano (o almeno di quello della iii Meditazione, a funzione antisolipsistica e certo meno a rischio di solipsismo di quanto lo sia, paradossalmente, il sovrano della società degli spiriti leibniziana).
1 Cfr. la Introduzione alla traduzione italiana di I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, RomaBari, 2004 [cfr., supra, pp. 101-122]. 2 Tutte queste denominazioni, che insieme ad altre ancora, ricorrono nelle opere di Kant sono riscontrabili nelle pagine della Grundlegung der Metaphysik der Sitten in cui Kant parla del Reich der Zwecke. 3 Se non altro per formazione giovanile, Kant ben conosceva le epistole paoline, e ne da prova nelle ripetute citazioni che egli ne fornisce nella Religione entro i limiti della sola ragione. Difficilmente si capirà il rapporto tra Vernunflglaube e speranza critico-trascendentale quale è de finita dalla domanda Was darf ich hoffen ? finché non si terrà presente la riconduzione « all’interno dei limiti della sola ragione » di Heb. 11, 1 : « Estin dev pivsti~ elpixomevnwn upovstasi~, pragmavtwn evlegxo~ ouv blepomevnwn » (nella precisa traduzione di Dante quando passa gli esami nel Paradiso : « sostanza di cose sperate e argomento delle non parventi »). 4 Non fornirei anche questa valenza che il dürfen tedesco possiede da Lutero fino almeno a tutto il xviii secolo e di cui anche in Kant vi sono esempi, se non fosse per il costante ricorrere di avverbi come unumgänglich e unausweichlich, con cui, particolarmente nella Religione, Kant modalizza il passaggio dal Was soll ich tun ? al Was darf ich hoffen ?, ovverossia dalla morale alla religione : non la mera necessità – che è logica o fisica – ma l’impossibilità-che-non, che è antropologica e consente di riassumere e completare le tre domande in cui si articola il programma critico nell’unica domanda Was ist der Mensch ?. Estendo cosi alla terza domanda critica una osservazione fatta da Thomas Hünefeldt – che qui ringrazio – relativamente alla traduzione italiana del seguente passo della Religione nell’edizione da me curata : « Unter einem Hange (propensio) verstehe ich den subjektiven Grund der Möglichkeit einer Neigung [...] sofern sich für die Menschheit uberhaupt zufällig ist. Er unterscheidet sich darin von einer Anlage, daß er zwar angeboren sein kann, aber doch nicht als solcher vorgestellt werden darf » (Religion, A 18, B 20).
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Ma la funzione teorica del Dio kantiano, almeno in quanto legislatore della comunità intelligibile, può essere colta in tutta la problematicità sua propria, e dello stesso quadro teorico comunitario–intelligibile in cui ha da fungere, solo se non si identificano i due filosofemi in cui si configura la ripresa e la riformulazione kantiana del « mondo morale » leibniziano : intendo il Reich der Zwecke della Fondazione e lo ethische gemeine Wesen della Religione. Di fatto, la differenza tra queste due figure kantiane della comunità delle menti non è mai stata adeguatamente tematizzata e assai frequentemente viene del tutto misconosciuta, giacché ci si limita a ritenere l’ecclesiologia filosofica della Religione una riedizione del « regno dei fini » della Fondazione. Sfugge così come il problema della comunicazione sia ancora una volta, anche in Kant, il vero problema della « filosofia della soggettività finita ».
4. Nella Terza analogia dell’esperienza Kant distingue due significati del termine tedesco Gemeinschaft che – egli precisa – in tedesco può significare communio, ma anche commercium. 1 La prima accezione è appropriata quando ci si riferisce all’appercezione e alla sua sintesi : nella nostra mente tutti i fenomeni, in quanto contenuti in una possibile esperienza « müssen in Gemeinschaft (communio) der Apperzeption stehen » ; ma se si vuole che questa subjektive Gemeinschaft abbia un fondamento oggettivo, è necessario un reciproco influsso, « d.i. eine reale Gemeinschaft (commercium) der Substanzen », senza di cui non potrebbe darsi il rapporto empirico del Zugleich-sein. 2 Kant dichiara di servirsi appunto di questa seconda accezione ; il che parrebbe abbastanza ovvio, se non tautologico, giacché la Terza analogia dell’esperienza, così come è formulata con maggior precisione nella seconda edizione della Critica, suona « Alle Substanzen, so fern sie im Raume als zugleich wahrgenommen werden können, sind in durchgängiger Wechselwirkung ». 3 Ma nella prima edizione la formulazione della Terza analogia era significativamente più generica, o pericolosamente più generale, giacché non veniva menzionata la percezione nello spazio : « Alle Substanzen, sofern sie zugleich sind, stehen in durchgangiger Gemeinschaft (d.i. Wechselwirkung unter einander) ». 4 Esplicitando nella formulazione della seconda edizione il riferimento alla forma esterna dell’intuizione empirica, Kant palesa le medesime preoccupazioni che lo inducono ad introdurre la celebre « Confutazione dell’idealismo » (la quale infatti è inserita nel paragrafo immediatamente seguente) e ad aggiungere, al termine di questo stesso paragrafo una conclusiva « Annotazione generale al sistema dei principi ». Nell’ambito di siffatta esplicitazione antiidealistica dell’importanza della forma spaziale dell’intuizione si inquadra anche un’asciutta notazione critica nei confronti di Leibniz, formulata in questa Annotazione generale. È qualcosa di assai notevole (sehr Bemerkungswürdiges), osserva Kant, « daß wir die Möglichkeit keines Dinges nach der bloßen Katgorie einsehen können, sondern immer eine Anschauung bei der Hand haben müssen, um an derselben die objektive Realität des reinen Verstandesbegriffs darzulegen » ; 5 ma ancora più notevole (o « più curioso », « più strano » : merkwürdiger) è « daß wir, um die Möglichkeit der Dinge, zu Folge der Kategorien, zu verstehen, und also die objektive Realität der letzteren darzutun, nicht bloß Anschauungen, sondern
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Kritik der reinen Vernunft, B 260, A 213. 4 Ivi, B 257. Ivi, A 211.
Ivi, B 261, A 214. Ivi, B 288, A 235.
la comunità delle menti come problema della filosofia moderna 361 sogar immer äußere Anschauungen bedürfen ». 1 Ed è applicando questa affermazione, valida per tutte le categorie, alla categoria di Gemeinschaft che il caso di Leibniz si rivela per Kant significativo :
Denn wie will man sich die Möglichkeit denken, daß, wenn mehrere Substanzen existieren, aus der Existenz der einen auf die Existenz der anderen wechselseitig. etwas (als Wirkung) folgen könne, und also, weil in der ersteren etwas ist, darum auch in der anderen etwas sein müsse, was aus der Existenz der letzteren allein nicht verstanden werden kann ? denn dieses wird zur Gemeinschaft erfordert, ist aber unter Dingen, die ein jedes durch seine Subsistenz völlig isolieren, gar nicht begreiflich. Daher Leibniz, indem er den Substanzen der Welt, nur, wie sie der Verstand allein denkt, eine Gemeinschaft beilegte, eine Gottheit zur Vermittlung brauchte. 2
Ebbene, nella Religione, al termine di un lungo e tormentato percorso, anche Kant, che pure aveva criticato in tal maniera Leibniz, ricorrerà proprio a questa divina Vermittlung per la comunità etica, ossia per dar luogo alla comunità tra le menti : ricorrerà a questo deus ex machina, verrebbe fatto di dire, ancorché qui si tratti non di res exstensae, bensì proprio, paradossalmente, della comunità di Intelligenzen libere. Come è noto, fin dai Sogni di uno che vede gli spiriti Kant aveva affrontato il problema della Gemeinschaft mit der Geisterwelt. E fin da quest’opera l’allievo di Knutzen, che già nella Nova dilucidatio aveva sostenuto il carattere reale del nexus externus di azione e reazione, aveva tematizzato il problema dello spazio in un modo che, pur precritico, mostrava la distanza che lo separava dai sogni della metafisica leibniziana. Quando si sogna, ognuno ha il suo proprio mondo, ma se si è svegli si ha un mondo in comune (gemeischaftlich : vale a dire « che implica comunità ») : così aveva avvertito Kant adducendo ciò che Aristotele « dice da qualche parte », 3 ma in realtà riprendendo quel motivo della veglia e del sonno che era all’origine della ricerca moderna di una certificazione antisolipsistica e, circolarmente, della affermazione dell’esistenza di altre menti come criterio di certificazione. (Stante il ricordato nesso storico e teorico tra motivo del sonno/veglia e quello della deceptio ci si può chiedere – ancora una volta tra parentesi – se l’orrore di Kant per la menzogna, da lui compresa in ogni senso come prwton yeudo~ morale, non derivi dalla affermazione dell’autonomia morale e, dunque, della mancanza di un fondamento ‘esterno’ per la verità-veracità ; o, per converso, ci si può chiedere se l’entusiasmo kantiano per la dimensione pubblica connaturata all’Auf klärung non nasconda il terrore per una privatezza della mente che non riesce a farsi pubblica : come vedremo ben presto, proprio il passaggio dalla privatezza del Vernunftwesen come essere morale alla pubblicità della comunità etica e della sua legislazione è l’oggetto di una speranza che, per non essere ‘sogno’, deve ricorrere alla Vermittlung del legislatore morale). Ma nonostante l’importanza del nesso instaurato da Kant tra sonno-privatezza, da un lato, e veglia-comunitarietà, dall’altro, non va dimenticato che i Sogni sono un’opera complessa e talora criptica nelle intenzioni, come dimostra il corrispondersi – che direi anticipatore della dialettica trascendentale – tra il « Frammento della filosofia segreta (geheime Philosophie) per dischiudere la comunità con il mondo degli spiriti » e il succes
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2 Ivi, B 292. Ivi, B 293. Il corsivo dell’ultima frase della citazione è mio. In realtà si tratta del frammento 89 di Eraclito (oJ ÔHravkleitov~ fhsi toi`~ ejgrhgorovsin e{na kai; koino;n kovsmon ei\nai tw`n de; koimwmevnwn e{kaston eij~ i[dion ajpostrevfesqai ; Diels-Kranz, 22, B, 89, 171). Lo stesso frammento sarà commentato (in modo non privo di interesse per il nostro problema) da parte di Heidegger con riferimento al concetto di kovsmo~/Welt in Vom Wesen des Grundes (poi in Wegmarken, Frankfurt a.M. 1976). 3
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sivo « Anticabbala ; frammento della filosofia comune (gemeine Philosophie) per superare la comunità con il mondo degli spiriti ». In effetti la citazione aristotelica sopra ricordata, che troppo facilmente si suole ritenere espressiva tout court della posizione di Kant medesimo (confortati dal fatto che il titolo generale dell’opera espone esso stesso il termine « sogni »), apre l’« Anticabbala », cioè la parte di gemeine Philosophie dialetticamente contrapposta al « Frammento » di geheime Philosophie. Se Kant richiede massima cautela nei confronti di concetti come quello degli spiriti – che non essendo concetti di esperienza (Erfahrungsbegriffe) potrebbero essere surrettizi (erschlichen) – avverte anche – in modo che è già del tutto critico – come sia illegittimo passare dall’impossibilità dell’esperienza all’affermazione dell’impossibilità reale ; « conoscere » (erkennen) è infatti diverso da « pensare » (begreifen). 1 E se questa distinzione è a fondamento della oggettiva contrapposizione, che ho chiamato dialettica, tra geheime e gemeine Philosophie, lo è altrettanto della soggettiva possibilità di formulare « ipotesi » e fictiones heuristicae, alla quale Kant si richiama, rispondendo allo sconcerto manifestato da Mendelssohn nei confronti della strana opera 2 e anticipando così, significativamente, quanto dirà nella Critica del giudizio a proposito del ricorso al finalismo nella considerazione conoscitiva della natura. Tenuto conto di ciò, acquista tutta la sua forza di ipotesi euristica la descrizione che Kant fa della lotta tra le due forze che muovono il cuore umano, quella « intima », che considera tutto come « mezzo » per il proprio « bisogno privato » e quella che opera in noi « quasi come fosse una volontà esterna » e fa sì che non solo noi si cerchi l’approvazione altrui – il che diviene un mezzo per procurare al Ganz der denkenden Wesen una certa Vernunfteinheit 3 – ma anche che si debba riconoscere « fuori di noi », nella « volontà degli altri », il punto di convergenza verso il quale si indirizzano i nostri desideri : « Dadurch sehen wir in den geheimsten Beweggründen abhängig von der Regel des allgemeinen Willens, und es entspringt daraus in der Welt aller denkenden Naturen eine moralische Einheit und systematische Verfassung nach bloßen geistigen Gesetzen ». 4 Questa descrizione di una Wechselwirkung – come Kant medesimo la chiama – tra « mondo degli uomini » e « mondo degli spiriti », la quale « scaturisce dal fondamento della moralità », 5 anticipa certamente il Reich der Zwecke della Fondazione – come è stato sempre e a ragione riconosciuto – ma in misura ancora maggiore lascia vedere come tale « regno dei fini » sia una tappa provvisoria e riduttiva di un più lungo cammino teorico richiesto dalle esigenze dell’ipotesi euristica formulata nella geheime Philosophie. Il richiamo a una « regola della volontà generale » (o « universale » : allgemein) da cui, come si è visto, dipenderemmo nei geheimsten Beweggründen, oltre ad avere una forte risonanza rousseauiana, prelude infatti ad un problema di legislazone pubblica e di reale commercium : un commercium così reale e comunicante da portare Kant a porre in analogia con la gravitazione di Newton (e con la sua spazialità !) tanto la dipendenza della
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Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik, A 15. Cfr. lettera a Mendelssohn dell’8 aprile 1766, in Kant‘s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften (und Nachfolgern), Berlin, 1900 sgg., Bd. x, p. 68. 3 Träume eines Geistersehers, A 42. 4 Ibid. Il corsivo è mio, per evidenziare come l’aggettivo geheim nell’espressione geheime Philosophie sia da considerare in senso tutt’altro che ironico, e come tale aggettivo, tanto terminologicamente (per il suo riecheggiare gemein), quanto strutturalmente (per l’evidenziata architettura dialettica del discorso kantiano) abbia un significato proprio e intrinseco, ben maggiore di quello che potrebbe consistere nel possibile e, comunque, occasionale riecheggiamento degli Arcana coelestia di Swedenborg, spesso ricordati in letteratu5 Träume eines Geistersehers, A 43-45. ra. 2
la comunità delle menti come problema della filosofia moderna 363 « volontà privata » dalla « volontà generale » nelle nature spirituali, quanto la allgemeine Wechselwirkung mediante cui il mondo immateriale « consegue la propria unità etica ». 1 Rispetto a queste esigenze, il « regno dei fini » della Fondazione, come « connessione sistematica mediante leggi comunitarie » (gemeinschaftlich), 2 rappresenta una doppia, intenzionale riduzione da parte di Kant, se considerato come punto di arrivo dell’itinerario filosofia) fin lì percorso, oppure la soddisfazione di una prima parte delle esigenze di « unità etica » per il « mondo immateriale » prospettata nei Sogni, se considerato, col ‘senno di poi’, come una tappa di un itinerario intellettuale che trova il proprio com pimento nella Religione. Doppia, intenzionale riduzione, dicevo. Una prima riduzione si ha nel fatto che il regno dei fini « astrae totalmente » dal « contenuto dei fini privati » e solo a questa condizione può essere concepito come « totalità di tutti i fini » in « connessione sistematica ». 3 Corrispondentemente e specularmente la totalità morale così delineata è un sistema che sorge dalla sommatoria di isolati agenti razionali che non sono in alcun commercium fra di loro, bensì si considerano tutti e ciascuno istituenti una legislazione universale mediante la massima della propria azione. Non a caso la figura di Dio è richiamata a proposito del regno dei fini solo come una figura teorica che non ha una vera e propria funzione nel regno, 4 ma piuttosto serve a mettere in luce, per contrasto, la condizione di « membro » (Glied) di tale regno, in quanto distinta da quella di « capo supremo » (Oberhaupt) : non meno del capo supremo, il membro è « legislatore » (Gesetzgeber) nel regno dei fini « possibile » mediante la libertà del volere ; solo che, mentre il « capo supremo » è « senza bisogni », il membro è un essere razionale bisognevole. 5 E se anche il capo supremo unificasse sotto di sé regno della natura e regno dei fini, e così quest’ultimo ottenesse « realtà vera », ciò – avverte Kant – non rappresenterebbe un incremento del « valore intrinseco » del regno dei fini, perché questo « legislatore unico e senza limitazioni » dovrebbe comunque giudicare gli esseri razionali secondo la condotta che essi hanno tenuto proprio « a partire da quell’idea » in quanto idea. Ed è questa la seconda, intenzionale riduzione : l’insistenza sul fatto che il regno dei fini è « possibile » mediante la libertà del volere e che ciò basta a dargli realtà oggettiva come idea pratica. In questo senso la Fondazione non modifica in nulla, piuttosto rafforza, la netta separazione tra teoretico e pratico, tra « regno della natura » e « regno della grazia » già posta da Kant, con richiamo a Leibniz, nella prima Critica ? 6 dopo aver parlato di corpus mysticum degli esseri razionali : la « unità sistematica » di questo corpo è un « mondo intelligibile » come « mera idea ». 7 Entrambe queste riduzioni della Inondazione mostrano per contro la loro provvisorietà – dovesse pur trattarsi di una provvisorietà definitiva – e il loro carattere di tappa in un cammino di pensiero che si evolve, se commisurate alla speranza critica fondata sulla « fede razionale » della Religione. La « comunità etica » teorizzata in quest’opera è uno « stato civile etico » che si contrappone allo « stato di natura etico », nel quale ultimo
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2 3 Ibid. Grundlegung der Metaphysik der Sitten, BA 75. Ibid. Dissento quindi su questo punto da A. Pirni, Il regno dei fini in Kant, Genova 2000, p. 82 sgg. ; questo eccellente lavoro, peraltro, si distingue nel panorama della letteratura sull’argomento, insieme al saggio di L. Alici, Regno della grazia e regno dei fini. Da Leibniz a Kant, in A. Rigobello (a cura di), Il ‘regno dei fini’ in Kant, Roma 1996, pp. 53-84. Meno persuasive A. Habichler, Reich Gottes als Thema des Denkens bei Kant. Enlwicklungsgeschichtliche und systematische Studie zur kantischen Reich-Gottes-ldee, Mainz 1991. 5 Grundlegung der Metaphysik der Sitten, BA 76. 6 7 Kritik der reinen Vernunft, A 813, B 841. Ivi, A 808, B 836. 4
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ciascuno « si da la legge da se stesso ». 1 Un esplicito riecheggiamento hobbesiano subentra a quello della volontà generale rousseauiana : « Der Mensch soll aus dem ethischen Naturzustande herausgehen, um ein Glied eines ethischen gemeinen Wesen zu werden ». Così suona il titolo stesso del secondo paragrafo del capitolo di ecclesiologia filosofica nella Religione. L’accento viene insistentemente posto da Kant sulla necessità che la legislazione della comunità etica debba essere « pubblica » e che una « autorità esterna » debba essere legislatrice se dallo stato di natura etico, al pari che dallo stato di natura giuridico, si vuol passare ad uno stato civile. Ma, a radicale differenza dal regno dei fini, se il gemeine Wesen deve essere etico, il popolo non può essere considerato esso stesso « come legiferante », perché le leggi pubbliche umane non possono concernere che la « legalità esterna » del comportamento, e non la loro « moralità interna ». « Es muß also ein Anderer, als das Volk sein, der für ein ethisches gemeines Wesen als offentlich gesetzgebend angegeben werden könnte ». 2 Questo il ritorno della göttliche Vermittlung – a suo tempo criticata in Leibniz – affinchè gli esseri razionali possano comunicare fra di loro in quanto esseri razionali. Quanto sia rilevante questa affermazione che « un altro » debba essere « addotto come pubblicamente legiferante » è misurato dal fatto che, a differenza del « tu devi » della Fondazione che consente di inferire immediatamente « dunque tu puoi », la comunità etica configura per Kant un dovere sui generis (eigener Art), un dovere « del genere umano verso se stesso » che non è in nostro potere. Inutile dire chi « deve essere addotto » per mandarlo ad effetto. Dissociando, a differenza di Leibniz, la figura del « padre » da quella del « monarca », Kant nega che si debba pensare il « popolo di Dio » come una « monarchia » e afferma che esso va posto in analogia solo con una società familiare (padre, figlio e fratelli spiritualmente uniti in comunità). Non si può non notare, tuttavia, come in questo « stato civile etico » l’« altro » assommi in sé unitrinitariamente ogni potere : legislativo (è il costituente), esecutivo (manda ad effetto), giudiziario (perscruta i cuori).
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Religion, A 123, B 131.
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Ivi, A 130, B 138 ; corsivi miei.
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UNIVERSALITÀ E MOLTEPLICITÀ PERSONALE*
I
ntendo considerare come il problema dell’universalità (dei valori e della morale) sia connesso al problema della persona (cosa è persona, chi è persona). Come sempre, anche in questo caso il linguaggio pregiudica la questione che nel linguaggio e, in qualche modo, dal linguaggio è posta al giudizio : nella questione ‘che cosa è persona, chi è persona’ la voce del verbo ‘essere’ nel suo uso predicativo e i pronomi interrogativi ‘che cosa’ e ‘chi’ delineano tratti decisivi della metafisica implicita in quella determinata lingua naturale che è l’italiano (invero, implicita in moltissime lingue naturali). Riconosciuto ciò preliminarmente, è bene però notare anche che una ‘metafisica descrittiva’ – vale a dire l’individuazione metalinguistica degli assunti metafisici impliciti nella lingua naturale – non sembra legittimare quella precedenza del ‘cosa’ sul ‘chi’, che pure fa parte del senso comune ; non sembra legittimare, dunque, la precedenza della fatale questione ti esti – la questione relativa all’essenza dell’ente – sulla questione relativa al tis, al ‘chi’ del parlante, ossia alla persona che pone la questione : quasi che chi parla fosse un ente – detto più specificatamente e mediante il genere prossimo : uno zoon – che parla. Il linguaggio ordinario non condiziona al ti esti la sensatezza della domanda ‘chi parla ?’. Affermare che le ascrizioni personali sono predicati aggiuntivi rispetto a quelli che competono comunque ai ‘particolari di base’, ovvero agli ‘enti’, ovvero alle ‘cose’, significa ignorare troppi aspetti sia del linguaggio considerato come sistema, sia dell’acquisizione linguistica da parte dell’infans che progressivamente diviene parlante (la recente ‘linguistica cognitiva’ conforta in ciò meno recenti considerazioni filosofiche). Infante o fante (o magari embrione), uomo o altro che uomo, ‘persona’ comunque è ‘chi’ parla. Detto etimologicamente : persona personat. ‘Chi’ parla. Che poi ‘chi’, per parlare, debba dire come prima parola ‘pronto ! chi parla ?’, questa è una considerazione tele-fonica di significato etico universale – se mai questo si dà – che, come dovremo vedere, implica la molteplicità personale. Ovviamente chi parla è hypostasis, hypocheimenon, substantia e soggetto di molti altri attributi essenziali, oltre a quello di parlare ; ma poiché si tratta di attributi essenziali, la presenza dell’uno implica la presenza degli altri, e l’assenza dell’uno implica l’assenza della hypostasis. Il trascorrere – negli apoftegmi che sto formulando – dal piano linguistico al piano della realtà, dal piano de dicto al piano de re, dal ‘che cosa significa’ al ‘che cosa è’, e viceversa, dipende meno dalla convinzione che il linguaggio rispecchi la realtà, che dalla già formulata tesi secondo la quale tutto ciò che è in questione, fosse pure l’esistenza della realtà extralinguistica, è sempre posto (in questione) dal e nel linguaggio. Ha luogo, dunque, una circolarità persona-linguaggio : per un verso persona è chi parla, ma per altro verso il linguaggio, nella sua stessa grammatica, non meno che nella sua acquisizione da parte del singolo esemplare della specie homo sapiens, pregiudica la questione della persona.
* In Universalismo ed etica pubblica, a cura di Francesco Botturi e Franco Totaro, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 23-34.
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Questa circolarità dischiude l’ambito in cui il gioco linguistico e la regola del gioco e la posta in gioco e la sua aggiudicazione hanno luogo, ovvero accadono, evengono. Non avrebbe completamente torto chi vedesse nell’affermazione che tutto ciò che è in questione, compresa l’esistenza della realtà extralinguistica, è sempre posto (in questione) dal e nel linguaggio, un riprodursi speculare e rovesciato delle husserliane ‘trascendenze immanenti’ (le quali sono trascendenti bensì, ma pur sempre nell’immanenza della coscienza trascendentale). In effetti, già altre volte fu notata la simmetria tra teoria dei giochi linguistici e teoria fenomenologica della regionalità della coscienza, sicché entrambe le teorie – quella coscienzialistica e quella linguistica – configurerebbero una sorta di ‘argomento ontologico’. Tuttavia qui non si tratta precisamente di giochi linguistici e di coscienza regionale ; piuttosto, con riferimento a quanto è ora in questione, una diversa simmetria va rilevata : se nel coscienzialismo trascendentale di Husserl l’esclusione della dimensione linguistica comporta che l’intersoggettività costituisca una vera e propria pietra di inciampo e un’aporia tormentosa, l’approccio immediatamente linguistico e la stessa teoria della pubblicità del gioco linguistico in Wittgenstein, lungi dal fornire una veduta intersoggettiva, comporta l’esclusione del soggetto dalla considerabilità filosofica (confermando quanto, in un quadro teorico differente, ma pur sempre linguistico, anzi in qualche modo linguistico-trascendentale, era stato teorizzato già nel Tractatus). La persona dice – e ‘persona’ dice – l’uscita dalle aporie che tanto l’approccio coscienziale quanto quello linguistico, ciascuno a suo modo, condividono. La persona esce dalle aporie dell’intersoggettività e dal recinto coscienziale dicendo. Ma anche : la persona è istituita nella sua interiorità dall’esterno, dalla parola rivolta. La persona non preesiste alla parola rivolta(le), ma è e-vocata dalla parola che la chiama all’esistenza rivolgendolesi e costituendola nella sua interiorità. L’interiorità non preesiste alla parola ; piuttosto, la parola è pre-esistente. E questa espressione va intesa in senso radicale, nel senso cioè che la parola fa essere l’essere. La parola è prima dell’essere e della sua essanza in ciò che esiste (mi permetterò di dire ripetutamente ‘essanza’ per distinguere l’atto d’essere dell’essere dall’‘essenza’ come ti esti). L’asserzione relativa alla pre-esistenza dell’esteriorità e al rapporto tra interiorità ed esteriorità rappresenta la descrizione non tanto di uno stato di cose quanto di un accadere di chi. Per questo essa fa un uso inusuale (un-gewöhnlich, vorrei dire con allusione heideggeriana) ed etimologicamente eccezionale della terminologia temporale e spaziale (‘preesistenza’, ‘interiorità’, ‘esteriorità’). Questo uso lascia intra-vedere, ovvero im-plica, un intervallo spaziale e temporale irriducibile, inintenzionabile, inconcettualizzabile nella prensione del concetto, o meglio nella prensione della coscienza comprendente e cattivante ; una diastasi il cui dispiegamento non è pensabile e dicibile se non, contemporaneamente, implicando una piegatura : una piegatura molteplice e moltiplicante. Non solo nel monologo interiore chi parla parla a se stesso. Chi parla parla sempre anche a se stesso : un po’ come la kantiana appercezione trascendentale – « coscienza del soggetto che sempre si accompagna alla conoscenza dell’oggetto » – l’autofonia sempre si accompagna al rivolgere la parola. Nondimeno chi parla implica l’intervallo, ossia la preesistenza della parola rivolta a chi parla, il precedente e – per quanto riguarda la persona che parla – istituente, evocante dispiegamento dell’interlocuzione. Inoltre, a differenza dell’appercezione trascendentale, chi parla, talora non sa che
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cosa dice ; anzi, sempre il significato del dire non è padroneggiato, o non è solo padroneggiato, dalla coscienza e dalla intenzionalità cosciente. Ancora : a differenza della coscienza trascendentale, chi parla non sempre sa a chi parla ; anzi, chi parla non padroneggia mai nella conoscenza il ti esti del destinatario del dire. Solo la ‘sapienza’, e non il sapere, dispiega la piegatura, apre e colma l’intervallo, evitando che la persona si pieghi su di sé – renda il sé incurvatus, come diceva Lutero – evitando, dunque, che la molteplicità della piegatura personale divenga ‘legione’. Dicevamo : fante o infante (o magari embrione), uomo o altro che uomo, persona è chi parla. Ma parla forse l’in-fans ? Parla chi (ancora) non è ? Parla chi non è (più) ? Nel caso di questa ultima domanda lo scandalo del buon senso comune è forse minore : il ‘morto che parla’ è classico nelle culture più svariate, a vari livelli, da quello dell’intima convinzione, a quello delle grandi letterature, a quello della sapienza popolare, simbolizzata da certa numerologia. E se il morto non parla, della parola dei trapassati resta almeno l’eco. E se poi nemmeno una traccia resta, si può sempre versare una lacrima per i cancellati, e aggiungerne magari una seconda per il fatto stesso della loro cancellazione, a risarcimento della mancata registrazione negli archivi della memoria. Ma riconoscere (come persona) i venturi che non si conoscono e che nemmeno si sa se verranno all’esistenza (quali venturi ? quali generazioni e quali singole persone venture ? chi ?) è certo più arduo che riconoscere i trapassati, ignoti bensì nella loro stragrande magg ioranza, ma di certo e irrevocabilmente venuti all’esistenza. Nel caso dei venturi lo scandalo del buon senso comune sembra insuperabile. Tuttavia, il buon senso comune non sempre è buono (anche nell’accezione morale del termine ‘buono’), non sempre è accomunante (e ciò si connette all’ascrivibilità del predicato ‘buono’) e non sempre è sensato (del problema del senso diremo ancora). Quando si parla di essere o non essere, di non essere ancora e di non essere più, insomma quando si parla dell’essanza dell’essere, la temporalità è ipso facto posta in questione. Per considerare la radicale messa in questione della temporalità giova ripetere, anzitutto, che le persone non sono cose – o enti – dotate di predicati che competono alle cose genericamente e, in aggiunta, di predicati specifici e via via di ulteriori predicati, fino alla penultima determinazione, la quale porta alla massima prossimità rispetto a questa persona qui. Beninteso, individuum est ineffabile, vale a dire : l’ultima determinazione non è dicibile (anche se, ‘in verità’, è l’unica che dice qualcosa). Ma il buon senso comune si accontenta della massima approssimazione sopra descritta : approssimazione massima e tuttavia incapace di dare risposta alla domanda ‘chi ?’, che proprio per questo il buon senso che si accontenta solleva sempre di nuovo : ‘chi è il mio prossimo ?’. Si noti che in questa domanda si tratta di sussumere il particolare sotto l’universale della legge data. Almeno, così si suol dire a scuola. In questi termini si suol dire persino la saggezza del giudizio riflettente kantiano (saggezza che non è ancora sapienza, anche se non è più scienza). Ma, ‘in verità’, nella dottrina del giudizio bisognerebbe parlare di sussunzione, non del particolare, bensì del singolare sotto l’universale, dato o non dato che sia quest’ultimo. Peraltro, neanche così la ‘verità’ sarebbe detta definitivamente. Il reale sussunto infatti – realmente o problematicamente sussunto – subisce. Subisce una riduzione. Subisce una riconduzione della sua ineffabilità e libertà sotto il giogo di un ‘universale’, il cui senso, invece, come vedremo, è in questione : vale a dire che in questione è il darsi del senso.
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Il buon senso comune che si accontenta solleva sempre di nuovo la domanda ‘chi è il mio prossimo ?’ (homo sapiens ? le foche e le balene ? le foreste e il legname ? il carbone e il petrolio e ‘sorella acqua’ ?). Il buon senso comune solleva sempre di nuovo la domanda, come se la domanda precedesse la risposta alla parola, e non viceversa : ‘pronto !’, e solo poi ‘chi parla ?’. ‘Pronto’, me voici, secondo l’espressione con cui Lévinas ha fatto valere in filosofia il biblico hinnéni. In effetti la parola pre-esistente, la parola e-vocante, a cui hinnéni è la risposta ‘giusta’, è un imperativo. L’imperativo non è presente nel senso della temporalità volgare, ma solo come eterno (eterno-presente, eterno-passato, eterno-futuro). L’imperativo istituisce la temporalità dell’essere, ovvero l’essere come temporalità e come essanza e come evenire. Non si può considerare l’imperativo alla stregua dell’indicativo, non si può considerare il ‘dovere’ – anzi il ‘tu (devi)’ – alla stregua dell’‘essere’, non si può considerare la parola alla stregua della descrizione della parola. La descrizione è successiva, mentre la parola è, per così dire, originaria. La riserva contenuta nell’espressione ‘per così dire’ – a proposito della parola ‘per così dire originaria’ – è la riserva con cui un uso avvertito del linguaggio ormai metalinguisticamente descrivibile e oggettivato vorrebbe evitare la fine del re Mida. In questa fine incorre chi, nel dire così e così, pretende di ricondurre e ridurre il significato alla descrizione oggettivante, che invece ne è mossa e animata. Dire che la parola è originaria è un modo di dire e per dire, il quale, in quanto detto, coordina e sottopone alla comune misura del prima e del poi tanto l’originario come il successivo, misurando il primo con il metron del secondo. Il darsi della parola è così tradito con un bacio. La riserva del ‘per così dire’ confessa questo tradimento e sconfessa l’illusione trascendentale di ridurre ed esaurire sul piano della temporalità volgare – la temporalità delle cose, ovvero degli enti – la riserva onde il dire significa, vale a dire la parola che alimenta e nutre il dire, il quale ultimo assimila la parola e l’assimila a sé nella propria temporalità, e può dire così per così dire. Varie lingue naturali conoscono l’imperativo futuro, oltre a quello presente (beninteso ci sono lingue che non hanno il ‘tempo’ dei verbi ; tuttavia ciò non toglie che il tempo sia fornito dal contesto linguistico in cui il verbo occorre). Ma le lingue naturali non conoscono l’imperativo passato. È infantile comandare al passato : factum infectum fieri nequit, afferma un noto detto. Ma il detto, in quanto detto, misura il fiat imperativo della parola originaria con il metro del prima e del poi. Comandare al passato è infantile per il fante, il quale ha assimilato a sé la parola cosiddetta originaria. Ma la signoria dell’imperativo fa « nuove tutte le cose ». « Io faccio nuove tutte le cose » : la parola profetica, la parola che dice lo straordinario nel linguaggio ordinario, esprime la signoria della parola sul tempo come sostituzione del nuovo al vecchio, per così dire ; come ossa che, al soffio della parola del profeta, si animano e tornano a rivestirsi di carne (Ez 37, 1-14), per così dire ; come vittoria del futuro sul passato, per così dire ; come terra promessa, per così dire ; ecc. E tuttavia nemo propheta in patria. Nella terra propria, nella stanza appropriata del linguaggio usitato ed abitato (ge-wöhnlich), il richiamo profetico all’imperativo, ossia la ripetizione temporalizzata della parola, appare contraddire il cosiddetto originario. La chiamata appare contraddire la legge, il singolare l’universale, l’amore il comandamento. Detta nel linguaggio ordinario, la parola evocante dispone : dispone di lasciare la
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terra patria, dispone di abbandonare l’abitazione – l’ethos – del linguaggio, fino alla contraddizione (e fino alla taciturnità nello stare, anzi, restare disposti, nell’avviarsi ancora una volta, dopo aver lasciato la terra dei padri, per privarsi anche del figlio, sacrificandolo – a differenza di Agamennone – senza plausibilità alcuna da parte della patria e dell’ethos). L’esodo della risposta è inoltrarsi ob-audienti nell’intervallo dischiuso dall’imperativo che si dona al linguaggio, è morire all’uomo vecchio, è corrispondere testamentario. La parola evocante, de-stanziando e de-stituendo la persona, espropria del nome con cui si è chiamati dal e nel linguaggio come istituzione. Il nome proprio – che appropria al singolare un universale, ossia un concetto, ed esprime l’essenza dicendo ‘che cosa è’ ‘chi’ – è mutato e rinnovato dalla parola evocante : ad esempio, non più ‘Padre esaltato’ (Abràm), ma ‘Padre di una moltitudine’ (Abraham). La parola rende la persona che essa evoca « padre di una moltitudine di popoli » (Gn 17, 5). Questione personale. Messa in questione della persona. Persona come questione (Agostino : factus sum mihi quaestio magna). Ma tale questione, personale come nessun’altra, come nessun’altra è connessa alla questione dell’universalità, al dispiegamento della piegatura personale in « moltitudine di popoli » nell’obbedienza alla parola evocante. In relazione alla questione personale il termine ‘universalità’ acquista un’ampiezza di connotazioni che rappresenta il vero e proprio non plus ultra per il concetto di universalità : la questione personale investe l’esistenza di tutti e ciascuno, investe l’esistenza tanto della omnitudo distributiva, quanto della omnitudo collettiva, investe il venire della omnitudo all’esistenza, investe l’esistenza come evento della molteplicità personale nella sua universalità. Universalità che è sua non solo o non tanto perché rappresenta l’insieme di tutte le persone – un insieme che starebbe accanto ad altri insiemi –, quanto perché rappresenta la raccolta – o meglio la chiamata a raccolta, etimologicamente l’ek-klesia – senza della quale non si dà logos, o quanto meno il logos non si dà, non si dona e, dunque, il tutto, ovvero l’esistenza, non esiste. L’esistenza non esiste senza la chiamata della persona/delle persone, senza la parola e-vocante (ek-kalousa). Si tratta di una chiamata moltiplicante, e tuttavia di una chiamata a raccolta : un universale raccogliere – leghein – che non è altro dalla parola moltiplicante, ma è il suo stesso pleroma, il suo stesso senso, il suo stesso esser logos. Ed è il darsi (essere) del senso. Wishful saying ? Si potrebbe rispondere : ‘perché no ? !’. Ma la risposta, assolutamente pertinente – stante il nesso tra dire e desiderare – potrebbe apparire impertinente, maleducata, e desiderosa solo di mettere la testa sotto la sabbia. Infantile. In effetti, la contraddizione appare percorrere da cima a fondo il concetto di universalità descritto nell’ampiezza delle connotazioni che esso acquista in relazione alla questione personale. Contraddizione tra moltiplicazione e raccolta : dalla coppa che raccoglie il regno degli spiriti la schiuma dell’infinità non è raccolta, ma trabocca (il verso schilleriano con cui Hegel chiude la Fenomenologia potrebbe essere letta come una citazione da Sloterdijk). Contraddizione tra omnitudo distributiva e omnitudo collectiva (riprendo ovviamente questi termini dalla trattazione kantiana dell’ethische Gemeinwesen come ‘popolo di Dio’, ovvero ‘chiesa’, nella Religione entro i limiti della sola ragione). Queste contraddizioni si aggiungono, o meglio ripetono la contraddizione tra co
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mandamento e amore, tra legge e chiamata, tra universale e singolare (magari neutralizzato come particolare e indefinitamente iterato), tra linguaggio e parola, tra istituzione ed e-vocazione (ek-klesis), tra universalità ed elezione, tra vecchio e nuovo, tra : progenie derivante dal flusso temporale, e dunque mia, e dunque universalizzata nella genitura con cui homo sapiens si possiede, si fa e si progetta ; e progenie non mia, darsi del senso che interrompe il tempo come flusso e disdice l’appropriazione del tempo ; ecc. Il darsi del senso è farsi segno, di contraddizione (ben lo sapeva Nietzsche quando citava « la più seria parodia » che egli avesse mai udito : Am Anfang war der Unsinn ecc.). Ma l’apparire della contraddizione è dovuto alla comprensione inevitabilmente linguistica, anzi grammaticale della parola evocante e dell’intervallo della personazione che essa dispiega : grammaticalità come gramma, lettera, carattere sempre già scritto del linguaggio, ovvero dell’essere e della sua essanza negli enti. Letteralmente, ossia grammaticalmente, secondo il gramma, la stessa piegatura personale si spiega e si comprende : qui non ha luogo alcuna Erklären/Verstehen Kontroverse (con presumibile soddisfazione dei volonterosi grammatici che teorizzano il « gioco linguistico trascendentale della comunità illimitata di comunicazione » quale fondamento dell’etica universale del discorso). Tuttavia la piegatura, spiegata e compresa grammaticalmente, non per questo viene dispiegata : fatta salva la buona volontà (la quale salva e dispiega anche una spiegazione grammaticale universale), quia nominor leo è un eccellente argomento, anzi è l’‘unico argomento possibile’ per l’argomentazione dell’argomentazione in quanto tale, tenuto conto che nominor è un passivo e il nome è fornito dal consenso della comunità di discorso. La piegatura personale si spiega e si comprende grammaticalmente : ‘prima’, ‘seconda’ e ‘terza persona’ sono – dal grammatico Dionisio Trace in poi – identificate tradizionalmente come indicatori linguistici della prospettiva del discorso. La spiegazione grammaticale della triplice piega concerne la singolare persona non meno che le plurali persone ; l’interiorità non meno che l’esteriorità. Concerne ciò che abbiamo imparato a considerare la ‘sistemazione dinamica della personalità’ – Es-IoSuper-io – non meno che il rapporto con altre persone : rapporto integrante o disintegrante (‘legione’). O anche rapporto reintegrante con altre persone, le quali, a tal fine, riducono a terza persona (consaputa) il tu pre-esistente (sempre di riduzione si tratta). Ma anche se si considera esclusivamente la coscienza : la spiegazione grammaticale della piegatura personale concerne la ‘coscienza interna del tempo’, con le sue tre ecstasi, non meno che la temporalità esterna, comune e gewöhnlich bensì, ma accomunante nei ritmi degli erga kai hemerai che organizzano il vivere sociale. Il vivere sociale ricorda la storia che lo fonda e opera responsabilmente per i figli, e i figli dei figli ; anzi, opera prevedendo e programmando se e quanti e quali figli per meglio stare sulla terra, per perseverare nell’essere e meglio abitare l’essere, per meglio appropriarsi del tempo. Nell’interiorità così come nell’esteriorità, la spiegazione grammaticale che consente di comprendere la plica del tempo si complica poi e si fa complice della piegatura modale : il necessario, che non potrebbe infectum fieri (penso alla polemica kierkegaardiana contro la filosofia della storia di Hegel nell’‘Intermezzo’ della Postilla conclusiva non scientifica) ; il reale, dove stiamo, dove sta la nostra stanza, la nostra stanza di governo ; il possibile che – per quanto possibile – va governato e programmato. La grammatica è lo strumento di ogni governo, previsione e programmazione.
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Ma il futuro è incerto e il possibile si sottrae alla previsione : non si sa infatti se sarà o non sarà. Se sarà o non sarà – intendo – non la battaglia navale di aristotelica memoria (con il suo intreccio di logica temporale e modale), ma il possibile stesso, in quanto tale. Del possibile non si sa se cesserà, in tal modo saldandosi con l’impossibilità quale suo negativo ; o se invece continuerà, in tal modo mantenendo la possibilità della distinzione tra possibilità logica e possibilità reale e, più in generale, tra modalità de dicto e de re. Perché della possibilità logica complicata temporalmente col futuro si deve dire – mutatis mutandis – quanto, a proposito del necessarium, Kant osservava nell’Unico argomento possibile. Peraltro i mutamenti da apportare nel passaggio dalla considerazione della necessità a quella della possibilità non sono di poco momento. Nel caso di Kant l’esistenza forniva comunque la solida terra su cui stare logicamente, e tutto si limitava ad invertire il rapporto fondato-fondamento intercorrente tra logica ed esistenza (rifiuto dell’‘argomento ontologico’ ? secundum quid !). Nel caso del possibile, invece, la possibilità che cessi l’essanza stessa dell’essere rivela il vero, angosciato senso della domanda leibniziana, ancora temporalizzata al presente e modalizzata al reale : « perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla ? ». Ancora modalizzata al reale e temporalizzata al presente perché la domanda leibniziana persegue il sapere. Come osservava Derrida, nel sapere il presente permane, è presente, anche in mia assenza, e perseguire il sapere implica rapportarsi alla morte. Ma il nesso possibilità-impossibilità va ben al di là di quello che sarebbe il gioco chiasmatico del loro genitivo nel ‘precorrimento’ autenticante-appropriante della morte (precorrimento che, come è stato osservato da un attento interprete, riprende, nel mutato contesto della analitica esistenziale heideggeriana, la funzione della riduzione fenomenologica ; 1 e la riduzione è ciò contro cui naufraga l’istanza intersoggettiva). Il nesso possibilità-impossibilità e il loro genitivo equivoco alludono alla cessazione stessa dell’essanza. La terza persona è quella che apparentemente non rivolge la parola e alla quale certamente la parola non è rivolta ; la terza persona è solo detta (o non detta). Nella molteplicità della piegatura personale, la terza persona non è semplicemente presente, come è invece la cosiddetta prima persona (che però, ‘in verità’, è successiva e non certo presente semplicemente, sine plica). La terza persona non è nemmeno presente come preesistente, come la cosiddetta seconda persona (che però, ‘in verità’, è pre-esi-stente, anteriore di un’anteriorità non riducibile all’essere). Nella molteplicità personale la terza persona è presente come assente ; ‘in verità’ la terza persona non è semplicemente assente, ma è assente per così dire. Assente per così dire, assente apparentemente, perché l’assenza, pur essendo implicata nella presenza non semplice, ma complicata, tuttavia non appare. O meglio, l’assenza non appare proprio in quanto è im-plicata nella presenza come com-presenza. Proprio questa apparente – in quanto non apparente – assenza (con l’apparire del non apparire ogni fenomenologia ed ogni trascendentalismo dovrebbero fare i conti) spiega la apparente – ma manifesta – contraddizione tra omnitudo distributiva e omnitudo collettiva, tra legge e chiamata, tra comandamento e amore ecc.
1 Mi riferisco a S. Bancalari, L’altro e l’esserci. Il problema del Mitsein nel pensiero di Heidegger, Padova, cedam, 1999, pp. 200-211.
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In questa apparente assenza si manifesta ogni conflitto morale e di valori : all’interno della persona, tra persona e società, tra culture e culture, ovvero società e società. E si manifesta con tutta la realtà dell’essanza dell’essere. Si manifesta nel modo più concreto, sanguinoso e – come si dice – crudo : non sempre la perseveranza nell’essere ‘ha’ il tempo per cuocere e coltivare l’alimento proprio, l’alimento che è proprio. In quest’apparente assenza si manifesta la scissione grammaticale tra persone e cose : le cose non parlano, non personano (neanche se sono degli schiavi, o degli embrioni). La scissione grammaticale si manifesta fin nella communio sanctorum, con le polemiche su questo detto, comparso intorno al iv secolo (vuoi dire – si son chiesti i grammatici – la comunione dei sancta o la comunione dei sancti ?). Tuttavia, si tratta di polemiche grammaticali. « In verità » tutta l’essanza, nella « speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione » (phthora : corruzione fino alla sua fine, fino alla sua stessa impossibilità), aspira alla « libertà della gloria dei figli di Dio » (Rm 18, 21). E, per altro verso, anche noi stessi, che pure abbiamo « la primizia dello spirito, gemiamo in noi, aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo » (Rm 18, 23). Questa libertà non sussunta, questa libertà libera, questa libertà ‘vera’ dei figli di Dio è un nome diverso per ‘universalità’ (o communio sanctorum, o pleroma ecc.). Il giudizio di valore, il giudizio morale, è un giudizio profetico : universale bensì, come può esserlo solo la communio sanctorum cui aspira e a cui si ispira ; e tuttavia non determinante, e nemmeno riflettente (per aiutarsi con la terminologia kantiana). Non determinante, perché l’assenza massimamente presente della terza persona, assenza quant’altre mai telefonica, dispone di rispondere prima di sapere chi ‘è’ persona. Non riflettente, perché il giudizio profetico non fa stare bene in se stessi, in pace con se stessi e in armonia con le proprie facoltà. E talora non fa stare in pace nemmeno con gli altri, con l’ethos e con gli altri ethoi, con la legge e le leggi come grammatiche deprivate di spirito, anzi della primizia incoativa (aparchen) dello spirito. La parola interior intimo meo, ovvero così lontana da evocarmi, da una certezza diversa da quella delle idee chiare e distinte, diversa da quella raggiunta attraverso l’esercizio del dubbio praticato come metodo di conoscenza e presto dismesso, come la scala a pioli di cui ci si è serviti. Non è facile mettersi una mano sulla coscienza (Gewissen) per cattivarne con certezza (Gewissheit) la voce. La prontezza della risposta (‘pronto !’) genera, piuttosto, il dubbio conoscitivo (‘chi parla ?’). La persona evocata, lungi dall’essere in buona coscienza, in pace con la ‘propria’ e cattivata coscienza, è posta in questione. Wishful saying : « un solo corpo, un solo spirito, siete stati chiamati in una sola speranza della vostra chiamata » (Ef 4, 4). Le traduzioni di questo testo sogliono ottundere la singolare duplicazione della chiamata nella speranza della nostra chiamata. Ma il giudizio profetico trova in una riflessione filosofica sulla speranza il proprio quadro critico : ‘che cosa mi è lecito sperare’, come si suole tradurre, ma anche ‘che cosa non posso non sperare’, come pure è possibile e opportuno tradurre. La risposta kantiana alla domanda, che inizialmente era il ‘sommo bene’ (‘derivativo’), si precisò poi come ‘comunità etica’, ossia ‘popolo di Dio’.
co m p osto in ca r atte re da n te monotype dalla fa b rizio se rr a e dito re, pisa · roma. sta m pato e ril e gato nella t i p o g r a fia di ag na n o, ag nano pisano (pisa).
* Maggio 2013 (c z 2 · f g 1 3 )
Biblioteca dell’«Archivio di filosofia» Fondata da Marco M. Olivetti 1. Stefano Semplici, Socrate e Gesù. Hegel dall’ideale della grecità al problema dell’Uomo-Dio, 1987, pp. 160. 2. Francesco Paolo Ciglia, Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, 1988, pp. 236. 3. Irene Kajon, Ebraismo e sistema di filosofia in Hermann Cohen, 1989, pp. 192. 4. La recezione italiana di Heidegger, a cura di M. M. Olivetti, 1989, pp. viii-604. 5. L’argomento ontologico, a cura di M. M. Olivetti, 1990, pp. 766. 6. Stefano Semplici, Dalla teodicea al male radicale. Kant e la dottrina illuminista della «giustizia di Dio», 1990, pp. 320. 7. Alberto Iacovacci, Idealismo e Nichilismo. La «lettera» di Jacobi a Fichte, 1992, pp. 176. 8. Religione, Parola, Scrittura, a cura di M. M. Olivetti, 1992, pp. 560. 9. La storia della filosofia ebraica, a cura di I. Kajon, 1993, pp. xvi-548. 10. Pierluigi Valenza, Reinhold e Hegel. Ragione storica e inizio asso luto della filosofia, 1994, pp. 312. 11. Filosofia della rivelazione, a cura di M. M. Olivetti, 1994, pp. 994. 12. Trascendenza Trascendentale Esperienza, a cura di G. Derossi, M. M. Olivetti, A. Poma, G. Riconda, 1995, pp. 600. 13. Irene Kajon, Profezia e filosofia nel Kuzari e nella Stella della redenzione. L’influenza di Yehudah Ha-Lewi su Franz Rosenzweig, 1996, pp. 152. 14. Philosophie de la religion entre éthique et ontologie, a cura di M. M. Olivetti, 1996, pp. 832.
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Archivio di FilosoFIa la rivista dal 1945 si pubblica in numeri monografici La crisi dei valori, 1945, pp. 176. L’esistenzialismo, 1946, pp. 240. Il problema dell’immortalità, 1946, pp. 184. Leibniz, 1947, pp. 108. Umanesimo e machiavellismo, 1949, pp. 208. Esistenzialismo cristiano, 1949, pp. 160. Filosofia e linguaggio, 1950, pp. 132. Il Solipsismo. Alterità e comunicazione, 1950, pp. 148. Testi umanistici inediti sul «De Anima», 1951, pp. 228. Fenomenologia e sociologia, 1951, pp. 144. Il compito della metafisica, 1952, pp. 130. Filosofia e psicopatologia, 1952, pp. 190. Filosofia dell’arte, 1953, pp. 246. Kierkegaard e Nietzsche, 1953, pp. 282. Testi umanistici su la retorica, 1953, pp. 160. La filosofia della storia della filosofia, 1954, pp. 276. Apocalisse e Insecuritas, 1954, pp. 186. Testi umanistici sull’ermetismo, 1955, pp. 164. Studi di filosofia della religione, 1955, pp. 240. Semantica, 1955, pp. 436. Metafisica ed esperienza religiosa, 1956, pp. 300. Filosofia e simbolismo, 1956, pp. 310, tav. fuori testo i. Il compito della fenomenologia, 1957, pp. 278. La filosofia dell’arte sacra, 1957, pp. 212. Il tempo, 1958, pp. 252. Umanesimo e simbolismo, 1958, pp. 320, tavv. fuori testo xxxii. Tempo e eternità, 1959, pp. 200. La diaristica filosofica, 1959, pp. 256. Husserliana. Tempo e intenzionalità, 1960, pp. 204. Umanesimo e esoterismo, 1960, pp. 448, tavv. fuori testo xxiii. Il problema della demitizzazione, 1961, pp. 336. Filosofia della alienazione e analisi esistenziale, 1961, pp. 250. Demitizzazione e immagine, 1962, pp. 352. Pascal e Nietzsche, 1962, pp. 218. Ermeneutica e tradizione, 1963, pp. 450. Umanesimo e ermeneutica, 1963, pp. 164.
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